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POLITICA ECONOMICA

Email: giuseppe.croce@uniroma1.it

Libri: Politica economica e strategie aziendali, Acocella – Politica economica temi scelti, Franzini-Milone

Cap.1-2: politica economica e fallimenti microeconomici del mercato


Politica economica e ruolo del mercato e dello Stato
L’economia politica spiega come funzionano i mercati (microeconomia) e i sistemi economici
(macroeconomia), analizzando le decisioni individuali o aggregate degli operatori privati in materia di
produzione, scambio e consumo, la politica economica invece completa l’analisi condotta dall’economia
politica, chiedendosi se i risultati raggiunti siano soddisfacenti o meno, in particolare studia l’azione
economica pubblica, indagando sulle preferenze della collettività (scelte sociali), sulla scelta delle istituzioni
e sulle scelte correnti dell’ente pubblico. La politica economica parte da due istituzioni, cioè due modi
diversi di prendere decisioni economiche: mercato (funzionamento dell’economia dove ogni operatore
prende delle decisioni – sistema decentrato) e Stato (funzionamento dell’economia dove alcune autorità, i
policy makers, prendono decisioni vincolanti per tutti gli operatori – sistema accentrato). Tutto è volto alla
ricerca del benessere sociale, dunque di un’economia efficiente, ottenendo il massimo con il minimo, ed
equa, dove i risultati dell’economia, cioè i redditi, si distribuiscono in modo uguale a tutta la collettività. Il
fallimento del mercato si ha quando il mercato non riesce a raggiungere una situazione efficiente.

Domande fondamentali: Mercato o Stato? Il mercato è in grado di raggiungere un risultato efficiente ed


equo? Se sì è sufficiente, se no allora potrebbe essere giustificato l’intervento pubblico (l’intervento
pubblico è giustificato quando la teoria economica e i dati empirici suggeriscono che è in grado di
migliorare l’efficienza e/o l’equità).

Criterio paretiano, primo e secondo teorema dell’economia del benessere


Per stabilire se i risultati del funzionamento dei mercati sono soddisfacenti e per decidere se è auspicabile
un intervento pubblico abbiamo bisogno di un “criterio” per valutare i diversi “stati del mondo” e ordinarli
secondo un ordine di preferenza. È un’operazione analoga a quella che compie il consumatore che valuta e
ordina secondo le sue preferenze i diversi panieri di beni. Tuttavia, a differenza del problema di scelta del
consumatore, gli “stati del mondo” non riguardano un solo individuo, ma la collettività; inoltre si vuole che
il giudizio sugli stati del mondo non rifletta le preferenze di un solo individuo (dittatore) o una norma
«esterna», ma le preferenze individuali dei membri della collettività (principio liberaldemocratico o
individualismo etico). Tramite il criterio paretiano possiamo individuare una situazione efficiente che
individua un miglioramento: confrontando una situazione A e una situazione B, secondo questo criterio B è
migliore di A se almeno un soggetto in B sta meglio che in A e nessuno sta peggio; basta un solo soggetto
per far sì che A e B siano incomparabili (limite del criterio paretiano). Il criterio paretiano si occupa dunque
di efficienza, non di equità: questa aumenta quando una collettività realizza più di qualcosa senza avere
meno di qualcos’altro, date le risorse a disposizione. Questo criterio fa proprio l’individualismo etico, dove
ognuno è il miglior giudice di sé stesso, cioè delle proprie soddisfazioni individuali che sono ritenute non
confrontabili. L’ottimo paretiano si ha nel punto in cui si ha una situazione efficiente e se, comunque ci si
sposti da essa, non è possibile migliorare la soddisfazione di qualcuno senza peggiorare la soddisfazione di
almeno un altro membro della collettività (ricorda che ottimo ed efficiente sono la stessa cosa, ottimo e
migliore invece no). Possiamo pensare all’ottimo paretiano come alla situazione che sarebbe imposta
all’economia da un ipotetico “dittatore benevolente”, che abbia l’obiettivo di massimizzare il benessere
della collettività secondo il criterio paretiano e disponga del potere per attuare le misure necessarie a
realizzarlo. L’equilibrio di un mercato in concorrenza perfetta assicura l’efficienza: è un ottimo paretiano.
Un’economia composta da tanti mercati in concorrenza perfetta realizza le condizioni dell’ottimo paretiano,
dunque è efficiente, quindi valgono le seguenti condizioni:

- l’ottimo nel consumo dei beni, cioè la situazione in cui tutti i possibili scambi mutuamente vantaggiosi
sono realizzati, che richiede che i saggi marginali di sostituzione dei consumatori siano uguali (curve di
indifferenza dei consumatori tangenti tra loro);

- l’ottimo nella produzione, cioè l’efficiente allocazione degli inputs produttivi, che richiede che i saggi
marginali di sostituzione tecnica delle imprese siano uguali;

- l’ottimo generale nel consumo e nella produzione, che richiede che il saggio marginale di sostituzione dei
consumatori sia uguale al saggio marginale di trasformazione.

Da qui, ricaviamo il Primo teorema dell’economia del benessere: “In un sistema economico di concorrenza
perfetta, nel quale vi sia un insieme completo di mercati, un equilibrio concorrenziale, se esiste, è sempre
un ottimo paretiano”.

Questo teorema spiega in termini analitici che il mercato di concorrenza funziona come una “mano
invisibile”, Adam Smith: “Il singolo agente economico mira solo al proprio guadagno ed è condotto da una
mano invisibile, in questo come in molti altri casi, a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni.
Il fatto che tale fine non rientri nelle sue intenzioni non è sempre un danno per la società: perseguendo il
proprio interesse, egli spesso persegue quello della società in modo molto più efficace di quanto intende
effettivamente perseguirlo”. Questo primo teorema è valido solo se i mercati sono in concorrenza perfetta
(quindi se i beni sono omogenei, gli operatori sono numerosi, le intese e gli accordi sono assenti, le entrate
e le uscite dal mercato sono libere e se vi è perfetta informazione) e se i mercati sono completi (quindi se
esiste un mercato per ogni bene e servizio al presente e nei periodi nei quali si estende l’orizzonte della
scelta e se le esternalità, i beni pubblici, i costi di transazione e le asimmetrie informative sono assenti).
Tutto questo è davvero difficile da realizzare, quasi astratto e irreale: il fallimento del mercato si ha infatti
quando i mercati non sono concorrenziali e non sono completi, dunque quando vengono meno tutti i
requisiti detti prima. I requisiti della concorrenza perfetta assicurano che gli operatori considerino nelle loro
scelte il prezzo come dato (comportamento price-taking); inoltre, la perfetta informazione assicura la
trasparenza dei mercati. La molteplicità di operatori garantisce l’inesistenza di rendimenti crescenti di scala,
infatti questi ultimi comporterebbero la continua riduzione del costo medio totale di lungo periodo e ciò
impedirebbe la presenza di una molteplicità di imprese sul mercato, in quanto ogni impresa troverebbe
conveniente accrescere la sua dimensione fino a saturare il mercato. Ogni impresa raggiunge il suo punto di
equilibrio per una quantità relativamente piccola, ne consegue che la curva dei costi è dapprima
decrescente e poi crescente o costante: questo sarebbe impossibile nel caso di rendimenti di scala
crescenti, visto che implicherebbero costi medi continuamente decrescenti.

Secondo teorema dell’economia del benessere: “In concorrenza perfetta e in un insieme completo di
mercati, ogni posizione di ottimo paretiano può essere ottenuta come equilibrio di mercato (dove ognuno
sceglie per sé), previa opportuna redistribuzione delle risorse iniziali tra gli individui”.
La conseguenza pratica che ne deriva è il fatto che il mercato ci permette di raggiungere una posizione di
equilibrio, di per sé efficiente, ma anche una qualsiasi posizione di ottimo, a patto sempre che ci sia una
previa redistribuzione iniziale delle risorse (se ne occupa lo Stato attraverso politiche di trasferimento del
reddito oppure offrendo servizi). Lo Stato si occupa dunque dell’equità, tramite la redistribuzione iniziale,
mentre il mercato dell’efficienza, tramite l’allocazione delle risorse mediante l’equilibrio concorrenziale.
Efficienza
Abbiamo definito l’efficienza come il criterio tramite il quale ottenere il massimo con il minimo dello sforzo,
del tempo, della spesa etc… Possiamo distinguere un’efficienza statica e una dinamica, dove ciò che è
importante è il tempo, che nella prima efficienza non viene considerato (si arriva istantaneamente ad un
equilibrio che varrà per sempre, salvo cambiamenti lungo le curve di domanda e di offerta), nella seconda
invece è rilevante: nella prima rientrano le definizioni di efficienza paretiana o allocativa (quella definita
dalle condizioni di ottimo paretiano) e di efficienza x (capacità di scegliere i programmi di produzione
tecnicamente efficienti; riguarda anche la capacità di organizzare la produzione in grado di massimizzare
l’output, dati gli input di lavoro e capitale), nella seconda rientrano l’efficienza adattiva (capacità di
apprendimento graduale dei problemi e delle soluzioni corrette, che si ottiene per tentativi ed errori e si
sviluppa nel tempo; può essere sviluppata da una piccola impresa) e l’efficienza innovativa (capacità di
introdurre innovazioni di processo o di prodotto, che creano inevitabilmente shock; solitamente questa
efficienza è propria delle grandi imprese, solitamente monopolistiche, questo è un dilemma perché da una
parte il monopolio è un fallimento del mercato con equilibrio inefficiente, dall’altra sono proprio le grandi
imprese a dare una spinta all’economia, tramite innovazioni). Dunque, la legislazione antimonopolistica che
punta a combattere i monopoli, aumentando l’efficienza paretiana statica, potrebbe ottenere l’effetto
collaterale dannoso di ridurre la capacità di innovazione delle imprese, quindi il benessere sociale, dunque
essa deve tener conto di questo dilemma di evitare concentrazioni (massima efficienza allocativa) e
ammettere concentrazioni (possibile efficienza innovativa): deve essere risolto caso per caso dalle autorità
indipendenti. In generale, la concorrenza perfetta può realizzare l’ottimo paretiano, cioè l’efficienza
allocativa, ma non è detto che realizzi anche l’efficienza dinamica, che dipende dalla capacità innovativa. Il
monopolio può favorire il raggiungimento dell’efficienza dinamica, cioè favorire l’innovazione, poiché può
finanziare la ricerca mediante gli extraprofitti; inoltre l’impresa monopolista è incentivata a innovare dalla
possibilità di appropriarsi degli extraprofitti che ne derivano. Quindi l’intervento pubblico deve tendere a
realizzare il migliore compromesso tra efficienza allocativa (p = CM) e efficienza dinamica.

SCHEMA IMPORTANTE:

- CONCORRENZA PERFETTA: le imprese producono un bene identico, che viene venduto allo stesso prezzo
considerato come dato (imprese price-taker), il profitto viene massimizzato se P=CM e CM è crescente, e in
corrispondenza di P=CM si ha un ottimo paretiano, dunque efficienza, inoltre RM=P;

- MONOPOLIO: una singola impresa produce un bene che non ha stretti sostituti, che viene venduto ad un
prezzo scelto dal monopolista che, essendo vincolato dalla domanda inclinata negativamente, dovrà
accettare una riduzione del prezzo se vorrà aumentare la quantità da vendere, il profitto viene
massimizzato se RM=CM, dunque non si ha l’ottimo paretiano, infatti il monopolista punta alla
massimizzazione del profitto, non al benessere dei consumatori;

- MONOPOLIO NATURALE: questo mercato funziona come il monopolio, quello che cambia è la tecnologia,
caratterizzata da rendimenti di scala crescenti, cioè da costi medi decrescenti, questo significa che maggiore
è la scala prodotta (volume di produzione), minore è il costo medio di produzione della singola quantità,
minore è il prezzo di vendita, dunque più l’impresa produce, più riesce a ridurre i costi di produzione,
dunque a vendere a costi minori. Essendo che più produce, più diventa grande, alla fine finisce per far fuori
le altre e rimanere da sola sul mercato, infatti riuscendo a vendere a costi minori, riesce anche ad
aumentare la quantità di domanda e la scala di produzione dell’impresa. I monopoli naturali sono settori
strategici, detti settori public utilities o servizi a rete, come i servizi della distribuzione dell’acqua, del gas,
ferroviari, in cui i costi fissi sono molto alti e i costi marginali invece sono molto bassi;

- OLIGOPOLIO: nel mercato sono presenti imprese in numero limitato e tra di esse si verifica interazione
strategica (no price-taking).
Il monopolista non realizza l’ottimo paretiano perché sfrutta il suo potere di mercato a danno dei
consumatori per fissare un prezzo maggiore di quello di concorrenza perfetta e una quantità offerta minore
(in monopolio p>CM e p>RM). Egli punta alla massimizzazione del profitto, che realizza quando RM=CM, e
non al benessere sociale, perseguito invece dalla concorrenza perfetta, che massimizza il profitto in
corrispondenza di P=CM. L’equilibrio della concorrenza perfetta è dunque un ottimo paretiano (first best),
mentre l’equilibrio del monopolista è fallimentare, ma lo Stato può intervenire permettendo comunque al
monopolista di realizzare l’ottimo paretiano tramite un controllo diretto, imponendo al privato un
determinato comportamento, o indiretto, fornendo incentivi al privato affinché esso realizzi un certo
comportamento. Se il costo unitario si trova al di sopra del costo marginale si avrà una perdita, qui lo Stato
ha 3 possibilità: fornire un sussidio all’impresa, nazionalizzarla, dunque renderla pubblica acquisendone la
proprietà, oppure concederle un Second Best, cioè un quasi ottimo che si avvicina all’ottimo paretiano
(sostanzialmente si permette all’impresa di vendere ad un prezzo pari al costo medio o unitario).

Le esternalità e il Teorema di Coase


Quando un mercato è incompleto significa che include beni per i quali non c’è il mercato, quindi il mercato
si autodistrugge: include quindi le esternalità, che sono un vantaggio o un danno che un operatore causa
nei confronti di un altro operatore senza che riceva il pagamento o paghi un prezzo. Questi vantaggi e danni
non entrano nel bilancio privato dell’operatore che li causa, tuttavia sono importanti per il benessere della
collettività.

Esse possono essere:

- negative, se reco un danno (diseconomie esterne): costo marginale privato (che include i costi di
produzione dell’impresa) < costo marginale sociale (che include i costi di produzione dell’impresa + i costi
dell’inquinamento). Esempi sono l’inquinamento e il traffico. Se ho esternalità negative si consuma o si
produce troppo di quel bene rispetto all’efficienza paretiana, rispetto al beneficio della collettività, quindi il
beneficio marginale sociale è inferiore del beneficio privato (eccesso di consumo o di produzione): si deve
convincere l’impresa a produrre o consumare di meno;

- positive, se reco un vantaggio (economie esterne): costo marginale privato > costo marginale sociale.
Esempi sono l’istruzione e il vaccino anti-Covid. Se ho esternalità positive si consuma o si produce troppo
poco di quel bene rispetto all’efficienza paretiana, rispetto al beneficio della collettività, quindi il beneficio
marginale privato è inferiore del beneficio sociale (deficit di consumo o di produzione): si deve convincere
l’impresa a produrre o consumare di più.

La condizione di efficienza paretiana nel consumo (i saggi marginali di sostituzione dei consumatori devono
essere uguali tra loro e al rapporto tra i prezzi) non è più valida perché questa condizione, in presenza di
esternalità, non garantisce l’efficienza, infatti richiede che il saggio marginale di sostituzione del soggetto
che causa esternalità negativa deve essere maggiore del rapporto tra i prezzi, infatti egli deve ridurre il
consumo del bene che causa esternalità negativa (il contrario nel caso di esternalità positiva).

Tra le cause di queste esternalità vi sono:

- l’inesistenza dei diritti di proprietà su alcuni beni, il cui rischio è l’eccessivo sfruttamento da parte di alcuni
soggetti del bene stesso (es: l’aria non è di proprietà di nessuno);

- l’attività di produzione o consumo congiunto, che insieme generano beni o mali per altri operatori.

Assegnando i diritti di proprietà si risolverebbe il problema delle esternalità, secondo Coase, da cui deriva il
Teorema che prende il suo nome:

- se sono assegnati i diritti di proprietà e non ci sono costi di transazione, gli operatori risolvono il problema
dell’esternalità mediante accordi mutuamente vantaggiosi, in questo modo raggiungono l’allocazione che
realizza il massimo benessere sociale: dunque, si forma il mercato, i diritti vengono scambiati e si crea una
situazione di benessere sociale, si raggiunge dunque l’ottimo paretiano;

- se vi sono i costi di transazione, affinché venga raggiunta l’allocazione di massimo benessere è necessario
che i diritti di proprietà vengano preventivamente assegnati in modo opportuno: dunque, per ottenere il
benessere sociale e raggiungere l’ottimo paretiano è necessaria la previa assegnazione dei diritti di
proprietà.

Tutte le esternalità sono un fallimento del mercato, anche quelle positive: se c’è esternalità non si paga il
prezzo per il vantaggio o per il danno, quindi non c’è mercato, dunque l’impresa che inquina non è tenuta a
risarcire coloro che subiscono il danno, la conseguenza è che utilizzerà l’aria come un bene gratis e troverà
conveniente spingere la sua attività a limiti eccessivi.

Le esternalità si possono eliminare tramite alcune politiche:

- tasse e sussidi: tramite le tasse (dette pigouviane) le esternalità vengono reinternalizzate nel bilancio
dell’impresa (ricorda che con le esternalità gli operatori causano vantaggi o benefici senza che questi ultimi
entrino nel loro bilancio e in un’economia di mercato si pretende che tutte le relazioni tra gli operatori
passino attraverso i mercati e quindi attraverso il pagamento di un prezzo), dunque se l’impresa è costretta
a pagare una tassa, di conseguenza ridurrà le esternalità, invece tramite sussidi si premia l’impresa che
riesce a ridurre l’esternalità. Per concludere, per eliminare le esternalità negative si disincentiva la
produzione o il consumo mediante una tassa, mentre per eliminare le esternalità positive si incentiva la
produzione o il consumo mediante un sussidio;

- assegnazione dei diritti negoziabili (scambiabili) su beni che non hanno diritti di proprietà: si creerà così un
mercato in cui si scambiano questi permessi ad un prezzo pari al danno causato dall’esternalità. Questa
assegnazione ha effetti non solo sull’efficienza (eliminazione delle esternalità), ma anche sull’equità
(distribuzione del reddito). L’autorità predetermina il livello ottimale di produzione e vende all’asta i
corrispondenti diritti a produrre: l’impresa troverà conveniente acquistare i diritti a produrre (l’acquisto dei
diritti sposta verso l’alto la curva del costo marginale) fino alla quantità per la quale il prezzo di vendita del
prodotto è pari al costo marginale più il prezzo di acquisto del diritto, infatti per un prezzo del diritto pari al
valore dell’esternalità l’impresa produce la quantità ottimale. L’UE, che ha fissato l’obiettivo di ridurre in
modo sostanziale le emissioni entro il 2030 fino a raggiungere zero emissioni nette entro il 2050, nel 2005
ha messo in piedi un sistema di assegnazione di diritti negoziabili, che si chiama “sistema di scambio delle
emissioni”, con cui viene dato un volume massimo di emissioni annue di CO2, progressivamente ridotto nel
tempo (è ovvio che ridurre a zero le emissioni di anidride carbonica richiede tempo, non si può chiedere
alle imprese di non produrre più CO2 da un momento all’altro). I diritti ad emettere CO2, quindi ad
inquinare, vengono venduti all’asta (chi inquina paga) al prezzo determinato dall’equilibrio di domanda e di
offerta (assai variabile, nel periodo Covid era bassissimo, ad aprile di quest’anno è schizzato, il triplo
dell’anno prima, 1 tonnellata di inquinamento costa 47€: questo ha frenato l’inquinamento). Le imprese
che inquinano meno del massimo possono vendere all’asta i loro permessi in eccesso alle imprese che
intendono inquinare oltre il massimo; alcune quote sono state date gratuitamente, per evitare che in alcuni
settori le imprese si trasferissero in paesi con meno restrizioni ambientali. La regola del “chi inquina paga”
condurrà dunque le imprese a investire in impianti che producono meno e ad ampliare le loro attività di
ricerca e sviluppo;

- regolamentazione: tipo di politica che produce norme che vietano o impongono un limite massimo al
comportamento che determina l’esternalità negativa (si vieta di fumare in luoghi pubblici), oppure
impongono obblighi o comportamenti nel caso delle esternalità positive (si obbliga a fare la raccolta
differenziata o ad andare a scuola fino ai 15 anni: entrambi creano un vantaggio per la collettività).
Come si fa a scegliere tra queste tre? Basta scegliere quella più consona, più efficiente, tenendo conto che:

- i costi di amministrazione sono più bassi per la regolamentazione;

- regolamentazione e diritti sono preferibili se c’è incertezza sulla reazione delle imprese;

- gli effetti di incentivo a ridurre l’inquinamento sono più forti in caso di imposte e diritti negoziabili.

Beni pubblici
I beni pubblici sono concetti tipicamente economici, definiti dai giuristi come i beni forniti dal settore
pubblico e dagli economisti come quei beni che godono di due caratteristiche particolari:

1. non escludibilità: per ragioni tecniche o per la natura del bene nessuno può essere escluso dal
consumo di quel bene, quindi a nessuno può essere imposto un prezzo per quel bene; la
conseguenza grave di questa caratteristica è che nessun’impresa privata troverà convenienza a
offrire quel bene, dunque non si forma il mercato;
2. non rivalità: rende ancora più grave questa situazione, perché il consumo di quel bene da parte di
un soggetto non riduce la quantità disponibile per il consumo da parte di altri soggetti, dunque
un’unità aggiuntiva del bene non implica alcun costo (il costo marginale è pari a zero).

Queste due caratteristiche, messe insieme, costituiscono un grave fallimento del mercato, una grande
inefficienza, infatti nessuno è in grado di soddisfare una domanda infinita a costo zero. Esempi di questi
beni pubblici sono l’illuminazione stradale, la difesa nazionale, l’emissione di segnali da parte di un faro, la
conoscenza: il godimento di questi beni da parte di un individuo non comporta alcun aumento di costo
rispetto al costo sostenuto per il primo individuo, ossia CM=0.
Il bene pubblico genera un comportamento opportunistico o di free riding: dal punto di vista dell’analisi
economica il soggetto è perfettamente razionale, ma quando ognuno produce il meglio per sé, non produce
l’ottimo per la collettività (contrario di quello che sosteneva Smith). Per capire il free riding si usa il dilemma
del prigioniero: due criminali vengono accusati di aver commesso un reato, gli investigatori arrestano
entrambi e li chiudono in due celle diverse, impedendo loro di comunicare e ad ognuno vengono date due
scelte, collaborare o non collaborare. Viene inoltre spiegato loro che:

- se solo uno dei due collabora accusando l'altro, chi ha collaborato evita la pena, ma l'altro viene
condannato a 7 anni di carcere;

- se entrambi accusano l'altro, vengono entrambi condannati a 6 anni;

- se nessuno dei due collabora, entrambi vengono condannati a 1 anno, perché comunque già colpevoli di
reato.

Il risultato migliore per i due, cioè l’ottimo paretiano, è naturalmente di non collaborare (1 anno di carcere,
invece di 6), ma questo non è un equilibrio. Supponiamo che i due si siano promessi di non collaborare in
caso di arresto: sono ora rinchiusi in due celle diverse e si domandano se la promessa sarà mantenuta
dall'altro, infatti se un prigioniero non rispetta la promessa e l'altro sì, il primo è allora liberato. C'è dunque
un dilemma: collaborare o non collaborare. La teoria dei giochi ci dice che c'è un solo equilibrio (collabora;
collabora). Entrambi alla fine sceglieranno il meglio per loro, ma di fatto il peggio per entrambi.

Ogni privato preferisce fare il free riding, date le caratteristiche sconvenienti dei beni pubblici, ma egli sa
che per raggiungere l’ottimo paretiano bisogna accordarsi; il raggiungimento di quest’ultimo necessita
dunque di strategie cooperative, che possono essere facilitate dall’autorità pubblica e sono 3:

- facilitare o imporre accordi cooperativi tra i privati;

- facilitare o imporre determinati comportamenti ai privati;


- intervenire pubblicamente per produrre o finanziare il bene, impiegando risorse raccolte tramite tasse.

Possiamo notare una somiglianza tra il bene pubblico e l’esternalità positiva, infatti entrambi offrono un
vantaggio senza avere un ritorno economico: in questo senso il bene pubblico è un caso particolare di
esternalità.

Costi di transazione
I costi di transazione sono i costi per l’organizzazione e il funzionamento dei mercati e i costi che le parti
devono sostenere per realizzare scambi, accordi, trattative, per scrivere contratti e applicarli; possono
essere aggravati dall’incertezza su eventi futuri e da asimmetrie informative. Quando essi sono molto alti il
mercato non si crea, dunque il primo teorema dell’economia del benessere non vale, infatti gli acquirenti
sarebbero disposti a pagare un prezzo maggiore di quello richiesto dai venditori: in questa situazione c’è
una grande inefficienza, il Governo può però intervenire e ridurre questi ostacoli, soprattutto se di natura
legale, consentendo la realizzazione degli scambi e il funzionamento concorrenziale dei mercati.
Un’altra soluzione, che non richiede l’intervento pubblico, è l’innovazione tecnologica: ad esempio
l’introduzione dell’euro ha eliminato i costi di transazione derivanti dal cambio delle valute per la
realizzazione di qualsiasi scambio tra residenti in diversi paesi europei, tramite invece nuove piattaforme
digitali (sharing economy) si sono creati nuovi mercati, ad esempio quello degli abiti usati tramite l’app
Vinted o quello degli alimenti tramite le app Glovo, Deliveroo etc…

Asimmetria informativa
La perfetta informazione, dunque la trasparenza, è requisito fondamentale della concorrenza perfetta: in
questa situazione tutti i soggetti del mercato hanno tutte le informazioni necessarie per compiere le loro
scelte. Nei mercati semplici vi è una buona informazione, ma quando essi diventano complessi,
l’informazione risulta essere scarsa, dunque gli agenti economici potrebbero non avere alcune informazioni
importanti per concludere gli scambi. Ci sono delle relazioni che richiedono molta informazione e quando
essa viene meno si parla di informazione imperfetta; si parla invece di informazione asimmetrica quando
siamo lontani dalla concorrenza perfetta e il mercato si estingue. Ogni scambio che si realizza nel mercato
volontario è mutuamente vantaggioso, dunque rappresenta un ottimo paretiano, ma quando nel mercato
vi è informazione asimmetrica ne consegue una perdita di efficienza, proprio perché le due parti interessate
ad una transazione non dispongono della stessa informazione: la parte che ha tutta l’informazione, cioè
l’agente o delegato, ha potere di mercato, mentre la parte che non ce l’ha, cioè il principale o delegante,
deve affidare alla controparte la realizzazione dell’obiettivo (es. relazione avvocato-cliente: il cliente è colui
che ha meno informazione e deve affidarsi all’avvocato che invece conosce il Codice Civile e il
funzionamento della giurisprudenza, oppure i rapporti tra datore di lavoro-lavoratore, azionisti-manager,
cliente-banca, oppure il mercato delle auto usate, il mercato dei viaggi turistici o il mercato delle
assicurazioni).

L’informazione asimmetrica può dar luogo a due diverse situazioni:

- selezione avversa: il principale non osserva le caratteristiche esogene o connaturate (che non dipendono
dal comportamento del soggetto in quanto preesistenti) rilevanti dell’agente o del bene;

- rischio morale (o azzardo morale): il principale non osserva il comportamento dell’agente successivo alla
decisione di effettuare una transazione.
Possiamo fare alcuni esempi per capire meglio il concetto:

- esempi sulla selezione avversa: mercato delle automobili usate, da sempre conosciuto per essere un
mercato con notevoli asimmetrie informative, vede una asimmetria di informazioni tra il principale, cioè
colui che deve acquistare una macchina, e l’agente, cioè colui che deve vendere la macchina e che ha più
informazioni rispetto al principale, in quanto è stato lui stesso ad utilizzare la macchina che adesso si ritrova
a vendere. Solitamente esiste un certo standard di auto usate con più o meno le stesse caratteristiche che
vengono vendute più o meno allo stesso prezzo, quindi quando l’agente proverà a vendere la sua macchina
dovrà adeguare il suo prezzo al prezzo già esistente nel mercato e la maggior parte delle volte si ritroverà
ad abbassare il prezzo: questo fa sì che si arrivi ad un mercato di soli “bidoni”, anzi a volte si arriva
addirittura alla scomparsa del mercato stesso. È chiaro che questa è una situazione inefficiente in senso
paretiano perché gli scambi non sono mutuamente vantaggiosi. Un altro esempio è quello dell’offerta dei
crediti da parte delle banche, che non distinguono il grado di rischio dei progetti di investimento da
finanziare quindi applicano a tutte le imprese un tasso di interesse uniforme, comprensivo di un premio per
il rischio di insolvenza. Le imprese con progetti meno rischiosi non troveranno profittevole pagare questo
tasso e quindi rinunceranno al prestito: rimarranno solo i progetti più rischiosi. Di conseguenza le banche
adeguano il premio per il rischio di insolvenza e aumentano il tasso di interesse. L’aumento del tasso
avrebbe un effetto perverso, che le banche potrebbero evitare sottoponendo ad un esame più scrupoloso
le condizioni economiche e patrimoniali della clientela e razionando in questo modo il credito concesso:
questa soluzione eviterebbe l’aumento del prezzo del credito stesso e renderebbe convenevole anche a
coloro che detengono un progetto meno rischioso rivolgersi a questa banca;

- esempi sul rischio morale: situazione in cui il datore di lavoro non può osservare l’impegno dei suoi
dipendenti, quindi non è in grado di distinguere tra chi si impegna e gli «scansafatiche». Egli potrebbe però
decidere di aumentare i salari, di modo tale che anche lo scansafatiche troverà convenevole impegnarsi per
non perdere il vantaggio del salario alto; in questa situazione però vengono assunti meno lavoratori e la
conseguenza è dunque la disoccupazione. Anche nel settore della sanità possono sorgere problemi notevoli
di azzardo morale e di selezione avversa. A questi si aggiungono problemi di equità se non tutta la
popolazione è in grado di pagare le spese mediche. La selezione avversa si verifica perché le assicurazioni
che si impegnano a pagare le spese mediche a chi si ammala non sono in grado di distinguere gli individui in
buona salute da quelli in peggiori condizioni. In molti paesi europei la soluzione adottata consiste in un
sistema sanitario pubblico, in cui i servizi medici sono finanziati dal bilancio pubblico (quindi attraverso le
entrate fiscali) a vantaggio di tutta la popolazione. Negli USA vige tradizionalmente un sistema misto: gli
anziani e i poveri sono coperti dalla sanità pubblica, mentre la gran parte della popolazione paga
un’assicurazione privata per prevenire il rischio di future spese mediche, ma il 15% della popolazione non
ha alcuna copertura. Questo mercato presenta anche un’elevata concentrazione di potere di mercato
poiché è dominato da poche grandi assicurazioni. Il presidente Obama ha varato una riforma, la cosiddetta
Obamacare, che prevede l’obbligo individuale di assicurazione sanitaria (come quella per chi guida le
automobili), e impone alle assicurazioni private di fornire polizze più facilmente accessibili alle fasce di
popolazione escluse. Dunque le conseguenze dell’asimmetria informativa sono la non realizzazione di
scambi vantaggiosi, la scomparsa del mercato e in generale distorsioni dello stesso.

Possono però essere adottate delle soluzioni:

- soluzioni privatistiche: garanzie, certificazioni della qualità, codici deontologici (codici di comportamento
che chi svolge alcune professioni, come quella del medico, devono accettare e che vincolano il loro
operato), reputazione (essa fornisce informazioni importanti alla clientela); queste soluzioni sono più facili
quando le interazioni tra le parti si ripetono nel lungo periodo;

- soluzioni pubbliche: regolamentazione (ad esempio l’autorità pubblica potrebbe imporre alle imprese di
non vendere auto che hanno oltre 20 anni) e imprese pubbliche.
Teorema del Second Best
Secondo il Primo Teorema dell’Economia del Benessere, quando sono rispettate tutte le condizioni, un
equilibrio di concorrenza perfetta assicura l’ottimo paretiano (first best). Queste condizioni riguardano la
concorrenza perfetta e la completezza dei mercati: è evidente che se tali condizioni vengono meno, ci si
allontana dall’ottimo paretiano e si raggiungono risultati inferiori rispetto ad esso.
Il teorema del secondo ottimo afferma che, se una o più delle condizioni previste non sono soddisfatte, non
è vero che maggiore è il numero delle condizioni soddisfatte e più «vicini» si è alle condizioni di ottimo.
Quindi potrebbe essere preferibile, per approssimare la situazione di ottimo, avere un numero maggiore,
anziché inferiore, di condizioni non soddisfatte. In particolare, potrebbe essere giustificato un intervento
pubblico, che di per sé è causa di ulteriori allontanamenti dalle condizioni di ottimo, ma che in realtà nella
situazione specifica potrebbe consentire di avvicinarsi all’ottimo e ottenere un risultato quasi ottimo
(second best) superiore a quello altrimenti ottenibile senza l’intervento; dunque la regola “meno distorsioni
ci sono più ci avviciniamo all’ottimo paretiano” non è sempre vera, infatti in questo caso una seconda
distorsione migliora la prima. In alternativa, l’intervento pubblico potrebbe essere finalizzato a rimuovere,
ove possibile, le cause di allontanamento dalle condizioni di concorrenza e completezza dei mercati
richieste dal Primo Teorema dell’Economia del Benessere.
Facciamo un esempio di questo teorema: ipotizziamo che il settore dei trasporti è in monopolio e quindi
che il prezzo dei servizi di trasporto è eccessivamente alto. Questo danneggia altri settori dell’economia, ad
esempio le imprese che producono pane in concorrenza perfetta devono pagare questo prezzo alto ai
trasportatori che aumenta il loro costo marginale. Quindi la quantità di pane prodotta (alla condizione
prezzo = costo marginale) è minore di quella efficiente che si sarebbe prodotta se i trasporti fossero stati in
concorrenza perfetta. Cosa può fare il policy maker? Può adottare politiche antimonopolistiche nel settore
dei trasporti oppure spingere i produttori di pane a produrre una quantità efficiente (maggiore di quella di
equilibrio) pagando loro un sussidio (per evitare che facciano perdite): quest’ultima politica aggiunge
un’ulteriore distorsione nel mercato, ma in realtà avvicina all’ottimo paretiano.

Equità
Tra i fallimenti microeconomici del mercato che possono verificarsi anche in condizioni di ottimo paretiano
troviamo i beni meritori e l’equità; quest’ultima ha a che fare con la distribuzione dei redditi, quindi delle
risorse. Equità ed efficienza sono i criteri fondamentali per valutare il benessere di una collettività, in
particolar modo l’efficienza è un concetto sostanzialmente economico, mentre quello di equità è
multidisciplinare: lo Stato si occupa dell’equità, tramite la redistribuzione iniziale, mentre il mercato
dell’efficienza, tramite l’allocazione delle risorse mediante l’equilibrio concorrenziale. Lo Stato, nel
momento in cui distribuisce le risorse, non pregiudica l’efficienza, infatti la redistribuzione delle risorse
lascia comunque la possibilità al mercato di raggiungere l’ottimo paretiano, si postula quindi
un’indipendenza reciproca tra efficienza ed equità: si dice che l’efficienza non ha alcun costo in termini di
equità. Prima di procedere alla definizione di equità, è bene sottolineare che l’ottimo paretiano non
garantisce l’equità, infatti potrebbero esserci delle situazioni di ottimo in cui alcuni soggetti muoiono di
fame o non godono di alcuni diritti.

Ci sono due diverse concezioni:

- dottrina liberale ⇒ uguaglianza delle opportunità (posizioni di partenza);

- dottrina socialista ⇒ uguaglianza dei risultati (posizioni di arrivo).

Le relazioni tra equità ed efficienza sono:

- separabilità: equità ed efficienza sono del tutto indipendenti, come nel secondo teorema dell’economia
del benessere;
- trade-off: maggiore equità “costa” una perdita di efficienza, per costi amministrativi e disincentivi
all’offerta di lavoro e al risparmio (si dice che la redistribuzione avviene per mezzo di un secchio bucato,
metafora usata per intendere che il PIL sarà minore in una società in cui vengono applicate politiche
redistributive);

- complementarietà: migliore è l’equità e migliore è l’efficienza (opposto della teoria del trade-off), infatti
migliori sono le condizioni di vita e migliore sono la salute e la produttività dei più poveri; inoltre, l’equità
rafforza la coesione sociale e la vitalità economica.

Il fatto che la redistribuzione possa “disturbare” l’efficienza, insieme ai costi amministrativi della
redistribuzione stessa, costituisce in sostanza il fondamento dell’affermazione secondo la quale l’equità può
essere raggiunta soltanto a scapito dell’efficienza; tuttavia, anche in questo caso possiamo affermare
l’opposto, infatti un miglioramento dell’equità può anche accrescere l’efficienza, ad esempio eliminando la
malnutrizione o permettendo ai paesi poveri di avere i vaccini si può aumentare il prodotto sociale e il tasso
di crescita dell’economia, infatti permettere ai paesi poveri di vaccinarsi significa aumentare la capacità dei
paesi ricchi di difendersi dal virus stesso. Tutte queste teorie, seppur opposte, vengono sostenute dagli
economisti, questo perché l’economia è una scienza sociale, che contiene tante variabili, ecco perché è
possibile ad esempio nel caso della definizione dell’equità accettare tre definizioni opposte tra loro.

L’azione pubblica di redistribuzione può essere attuata attraverso:

- trasferimenti a persone o imprese (spesa pubblica): esempi sono i redditi di cittadinanza, le pensioni
sociali, i sussidi di disoccupazione;

- progressività delle imposte (tassazione): un sistema fiscale è progressivo quando ha aliquote crescenti, che
aumentano man mano che si arriva a fasce di reddito più alte: questo significa che le imposte aumentano in
modo più che proporzionale rispetto al reddito;

- prezzi minimi e prezzi massimi (politica dei prezzi): con questa politica vengono fissati dei prezzi con lo
scopo di favorire i produttori.

Beni meritori
Secondo il principio dell’individualismo etico, alla base del criterio paretiano, ogni individuo è il miglior
giudice di sé stesso. Questo postulato non è valido se gli individui soffrono di un deficit di informazione o di
un deficit di razionalità (individui di questo tipo sono ad esempio i bambini). Allora la scelta individuale può
essere sostituita da una scelta dello Stato (in questo senso si dice che lo Stato è paternalista) mediante
obblighi e divieti, allo scopo di tutelare i bisogni meritori dell’individuo (salute, istruzione, etc..).
L’intervento paternalistico può essere giustificato in una prospettiva liberale se è finalizzato a proteggere
l’individuo da comportamenti che ne pregiudicherebbero la sua libertà di scelta futura (esempi: obbligo di
casco in moto, obbligo scolastico, divieto di consumo di droghe o alcool, tassazione delle bevande
zuccherate).
Cap.3: fallimenti macroeconomici del mercato
Tra questi fallimenti connessi all’instabilità delle economie di mercato, abbiamo:

- la disoccupazione involontaria, che si ha quando le persone, seppur disposte a lavorare al livello dei salari
offerti dalle imprese, non trovano occasione di lavoro, mentre la disoccupazione volontaria si ha quando le
persone non sono disposte a lavorare al livello dei salari offerti dalle imprese e non trovano comunque
occasione di lavoro. Anche la disoccupazione deve essere osservata guardando l’intera economia;

- l’inflazione, che consiste in un aumento sostenuto e persistente nel tempo del livello generale dei prezzi,
che statisticamente è la media ponderata di tutti i beni e i servizi. L’andamento del prezzo di un bene può
essere osservato guardando il singolo mercato, ma l’andamento dell’inflazione deve essere osservato
guardando l’intera economia;

- sottosviluppo o mancanza di crescita economica;

- squilibri della bilancia dei pagamenti.

Modelli macroeconomici
Modello IS-LM: in questo modello i prezzi sono fissi, dunque a qualsiasi livello di domanda aggregata
corrisponde un livello di offerta aggregata, senza necessità di variazioni dei prezzi, ecco perché in questo
modello non ci può essere inflazione (sono possibili solo variazioni esogene dei prezzi). Con questo modello
rappresentiamo l’equilibrio macroeconomico in economia chiusa (che studia un sistema economico
trattandolo come se fosse l’unico al mondo, ma sostanzialmente è una sorta di finzione, perché in realtà ci
troviamo di fronte un’economia aperta, in cui concorrono più sistemi economici) e determiniamo Y, cioè il
reddito prodotto nell’economia, dunque il PIL. Tutte le altre variabili sono legate al livello complessivo del
reddito, variabile da cui dipende il benessere della collettività. Secondo questo modello, il livello di
produzione Y viene determinato a partire dal livello della domanda aggregata di beni e servizi: la domanda
di beni e servizi da parte dei consumatori rappresenta i consumi, la domanda di beni e servizi da parte delle
imprese rappresenta gli investimenti, la domanda di beni e servizi da parte dello Stato rappresenta la spesa
pubblica. Queste ultime tre sono le componenti della domanda aggregata (Y=C+I+G):

- i consumi aumentano all’aumentare del reddito, da cui C=Co+cY, dove Co è la componente autonoma, c,
compreso tra 0 e 1, è la propensione marginale al consumo e Y è il reddito;

- gli investimenti sono decrescenti rispetto al tasso d’interesse, da cui I=Io-ai, dove “i” è il tasso d’interesse
e “a” è il coefficiente che misura la sensibilità dell’investimento al tasso d’interesse: maggiore è il tasso
d’interesse (ricompensa all’abbandono della liquidità per un certo periodo di tempo) che l’impresa deve
pagare e minore è l’investimento ad essa conveniente;

- la spesa pubblica G=Go è una variabile esogena che dipende dalle scelte governative, al contrario dei
consumi e degli investimenti che sono endogeni e dipendono da Y e da i.

Queste tre componenti sommate formano la domanda aggregata, che a sua volta determina l’offerta IS:

Y = 1/1-c (Co + Io + G – ai)

All’aumentare del tasso d’interesse diminuisce la domanda aggregata dell’impresa essendo “Io” sua
componente (relazione inversa tra i e Y). Tutti i punti lungo la retta decrescente che rappresenta il grafico
della IS-LM sono punti di equilibrio del mercato dei beni e dei servizi, quindi tutte le combinazioni del livello
del reddito e del tasso d’interesse lungo la curva del mercato dei beni (IS) sono in equilibrio; lungo la IS però
i punti sono infiniti, quindi sono infinite anche le combinazioni possibili, dunque per trovare l’equilibrio
macroeconomico dobbiamo considerare qualcos’altro, cioè la curva LM.
La curva del mercato della moneta (LM) ha questa forma: Ls/P (offerta reale di moneta) = kY + Lo – vi
(domanda reale di moneta), meglio espressa così i = 1/v(kY + Lo – Ls/P), con Ls offerta nominale di moneta
messa in circolazione, P livello generale dei prezzi, Y livello del reddito nell’economia (maggiore è l’attività
economica, maggiore è la quantità di moneta richiesta – domanda di moneta a scopo transattivo), Lo
componente fissa, i tasso d’interesse (maggiore è il tasso d’interesse, minore è la quantità di moneta
domandata – domanda di moneta a scopo speculativo; inoltre, in questa situazione è maggiore il costo
opportunità, è minore la convenienza a trattenere moneta ed è maggiore la quantità di titoli detenuti).
Finché domanda e offerta non si equivalgono verranno effettuati degli aggiustamenti, che modificano il
tasso d’interesse: quando si arriva al tasso d’interesse che rende la domanda esattamente pari all’offerta di
moneta, allora si potrà parlare di equilibrio macroeconomico in economia chiusa (intersezione tra IS e LM).
Il tasso d’interesse è dunque un prezzo particolare che si determina attraverso il confronto tra domanda e
offerta di moneta (solitamente di titoli), dunque nel cosiddetto mercato della moneta. Quando c’è un
eccesso di offerta di moneta si acquistano titoli e l’aumento di domanda dei titoli comporta un aumento del
prezzo degli stessi e una diminuzione del tasso d’interesse: ecco perché il mercato della moneta e quello
dei titoli sono strettamente collegati. Data l’offerta di moneta, all’aumentare della domanda aggregata Y
deve aumentare il tasso d’interesse i, dunque se aumenta la domanda transattiva bisogna vendere titoli per
avere in cambio moneta (retta crescente LM), se invece aumenta la domanda speculativa bisogna
1
Y=
acquistare titoli per liberarsi della moneta. L’equazione ak [Co + Io + G + a/v(Ls/P – Lo]
1−c+
v
rappresenta il livello di equilibrio della domanda aggregata come intersezione tra IS e LM e ci aiuta a capire
in che modo è possibile variare Y, dunque il livello di domanda aggregata, intervenendo sulle variabili a
destra; dà, inoltre, la possibilità al policy maker di decidere che tipo di politica fiscale o monetaria adottare
o che tipo di manovra monetaria effettuare, di osservare come varia ΔY al variare della spesa pubblica G.

Dall’equazione di equilibrio Y si ricavano le equazioni delle variazioni (mediante le derivate prime):

1
- ΔY = ak ΔG (moltiplicatore della spesa pubblica, che ci dice di quanti euro varia Y al variare di un
1−c +
v
euro di G);

a/ v
- ΔY = ak ΔLs/P (per ogni euro in più di offerta nominale di moneta ottengo ΔY euro in più di
1−c +
v
reddito).

Il termine ak/v è il coefficiente di retroazione monetaria, con a coefficiente nell’equazione degli


investimenti, k e v coefficienti nella domanda di moneta.

Vedere come si modifica l’equilibrio, tenendo ferme tutte le variabili e facendone variare una soltanto,
significa condurre un’analisi di statica comparata:
- se aumenta G, il nuovo punto
d’equilibrio è B, quindi i e Y
aumentano;

- se diminuisce G, il nuovo punto


d’equilibrio è C, quindi i e Y
diminuiscono;

- se aumenta Ls, il nuovo punto


d’equilibrio è D;

- se diminuisce Ls, il nuovo punto


d’equilibrio è E.

Il livello del reddito prodotto è una variabile molto importante perché è indice di benessere, infatti al
variare di Y, varia l’occupazione, quindi la quantità di persone che lavorano: se cresce Y cresce
l’occupazione e diminuisce la disoccupazione. Raggiungere il livello di piena occupazione è uno degli
obiettivi principali della politica fiscale. La BCE presiede la politica monetaria, che negli ultimi anni ha
adottato politiche monetarie espansive, per contrastare la recessione della Y, spostando la LM verso destra,
abbassando così i tassi d’interesse e aumentando la circolazione della moneta acquistando titoli, cioè
attività finanziarie, dunque obbligazioni (il pagamento viene fatto con moneta, in questo senso la BCE
rimette in circolazione moneta nuova). Negli ultimi anni la BCE ha acquistato miliardi di titoli, inondando
l’economia con grandi quantità di moneta, con la speranza che essa spinga le famiglie a spendere nei
consumi, le imprese a spendere in investimenti etc… Gradualmente questi titoli vengono poi rivenduti,
riducendo la quantità di moneta Ls: questo provoca uno spostamento della LM a sinistra, fa aumentare il
tasso d’interesse e diminuire il livello della domanda aggregata Y. La domanda determina il livello del
reddito: all’aumentare del livello della domanda aggregata aumenta anche il livello di beni e servizi, dunque
di Y, senza variazioni di prezzi, il livello dei prezzi rimane invariato, dunque nel modello LM non c’è
inflazione! Ovviamente tutto questo è irreale. Guardare l’economia attraverso il modello IS-LM significa
guardare l’economia keynesianamente, dove quello che conta è la domanda aggregata, l’offerta segue: è
un modello incompleto però, proprio perché non vengono considerate né la variazione dei prezzi né
l’offerta aggregata, fondamentali nell’economia.

Modello AD-AS: in questo modello si introduce la possibilità di variazioni endogene dei prezzi, in particolare
se aumenta il livello generale dei prezzi P, l’offerta reale di moneta Ls diminuisce, dunque c’è un eccesso di
domanda di moneta, all’impresa non resta quindi che vendere titoli ottenendo così moneta; così i prezzi dei
titoli diminuiscono, il tasso d’interesse aumenta e questo provoca un effetto anche nel mercato reale dei
beni e dei servizi, infatti fa diminuire la spesa degli investimenti, che nel complesso comporta una
diminuzione della domanda aggregata. La relazione tra prezzi (P) e domanda aggregata (Y) è inversa,
motivo per il quale il grafico rappresenta una curva AD inclinata negativamente. L’offerta aggregata invece,
che guarda alle imprese, indica la relazione diretta tra Y e P, infatti la curva AS è inclinata positivamente.
Un’impresa in concorrenza perfetta considera il prezzo come dato, mentre in concorrenza imperfetta, dato
il costo, l’impresa fissa un prezzo che copre il costo, maggiorato di un certo margine di profitto: più
l’impresa è monopolista, più il margine sarà alto.

Il principio in base al quale l’impresa fissa il prezzo è il principio del costo pieno:

- p = w/ π (1+g), con p = prezzo unitario, w = salario nominale, π = Y/N = produttività media del lavoro, Y =
quantità di prodotto di una singola impresa, N = occupazione e g = margine lordo di profitto o mark-up.
Se questi valori riguardano l’intera economia, posso usare questa formula per ricavare il lato dell’offerta
aggregata, dunque il livello generale dei prezzi. Quando nell’economia aumenta la produzione Y, P aumenta
e N cresce più che proporzionalmente rispetto a Y per i rendimenti marginali decrescenti: questo significa
che all’aumentare della produzione Y c’è bisogno di un incremento più che proporzionale dei lavoratori (la
produzione si riduce ai livelli di efficienza); inoltre, la produttività media del lavoro π è decrescente
all’aumentare del livello di produzione Y. Le imprese sono quindi disposte ad aumentare la produzione solo
se il livello generale dei prezzi aumenta, dunque l’equilibrio AD-AS individua il livello generale P dei prezzi e
il livello del reddito Y prodotto nell’economia, al contrario dell’equilibrio IS-LM, in cui potevamo trovare
qualsiasi livello di reddito Y, ma il livello P dei prezzi rimaneva costante.

- politica fiscale espansiva: se aumenta la


spesa pubblica G, aumenta AD, aumentano i
beni e i servizi richiesti, dunque l’offerta,
aumenta la produzione Y richiesta e
aumentano quindi anche i prezzi: il nuovo
punto di equilibrio è B e la curva AD si sposta
verso l’alto, quindi a destra;

- politica fiscale restrittiva: se aumentano i


salari, aumentano i costi e aumentano anche
i prezzi, ma Y diminuisce: la curva AS si
sposta verso il basso, quindi a sinistra, e il
nuovo punto d’equilibrio è C.

Disoccupazione
Uno degli obiettivi fondamentali della macroeconomia è la piena occupazione, cioè quella situazione in cui
la disoccupazione è pari a 0. La principale fonte di reddito nella nostra economia è il reddito da lavoro: si
parla di disoccupazione involontaria quando le persone, seppur disposte a lavorare al livello dei salari
offerti dalle imprese, non trovano occasione di lavoro (l’offerta di lavoro risulterà razionata), e di
disoccupazione volontaria quando le persone non sono disposte a lavorare al livello dei salari offerti dalle
imprese e non trovano comunque occasione di lavoro.

Tra le conseguenze della disoccupazione troviamo:

- perdita di efficienza statica (che non considera il passare del tempo): il disoccupato sarebbe disposto a
lavorare per un salario inferiore a quello che le imprese sarebbero disposte a pagargli, questo comporta
inefficienza paretiana, perdita di output e mancato utilizzo delle risorse;

- perdita di efficienza dinamica: più a lungo dura lo stato di disoccupazione maggiore è la perdita di capitale
umano, infatti con il passare del tempo la capacità lavorativa diminuisce;

- diseguaglianza nella distribuzione di reddito: conduce alla povertà;

- costi non economici: emarginazione economica e sociale, costi psicologici, criminalità, instabilità politica.

Lo Stato può intervenire pubblicamente per risolvere la disoccupazione tramite:

- indennità di disoccupazione: sussidio, con una certa durata, che ottiene il disoccupato per mantenere il
suo reddito;
- cassa integrazione guadagni: in Italia nella fase iniziale del Covid, a differenza di altri paesi, non sono stati
concessi tanti sussidi di disoccupazione, piuttosto si è ricorsi alla cassa integrazione. La differenza
fondamentale è che per avere il sussidio di disoccupazione bisogna essere licenziati, mentre la cassa
integrazione viene concessa alle persone che rimangono formalmente dipendenti dall’impresa, ma a cui
vengono ridotte o azzerate le ore lavorative; in Italia, infatti, durante il periodo Covid, sono crollate le ore
lavorative, ma non i tassi di disoccupazione;

- politiche microeconomiche: formazione, sussidi alle assunzioni, servizi alle persone in cerca di impiego;

- politiche macroeconomiche: politiche fiscali e politiche monetarie.

A questi interventi troviamo però dei limiti: la disoccupazione frizionale e l’inflazione (curva di Phillips).

Inflazione
L’inflazione consiste in un aumento sostenuto e persistente nel tempo del livello generale dei prezzi, che
statisticamente è la media ponderata di tutti i beni e i servizi, con conseguente perdita di valore della
moneta, che crea un’instabilità monetaria poiché valore nominale e valore reale della moneta non
coincidono più (ricorda che l’aumento di prezzo di un singolo bene o di qualche bene non implica
inflazione). L’andamento del prezzo di un bene può essere osservato guardando il singolo mercato, ma
l’andamento dell’inflazione deve essere osservato guardando l’intera economia.
Se il livello generale dei prezzi diminuisce si parla invece di deflazione: a livello macroeconomico essa
aumenta il valore reale della moneta, dunque un debito in termini reali varrebbe di più, quindi per le
imprese significherebbe accettare di vendere beni a prezzi decrescenti, ecco perché la deflazione
causerebbe il fallimento delle imprese. L’obiettivo della BCE è quello di scongiurare la deflazione e tenere
un’inflazione leggermente sotto il 2%.

Ci sono vari tipi di inflazione, a seconda della causa:

- inflazione da domanda, che deriva dalla pressione della stessa, che tende ad espandersi al di là dell’offerta
disponibile in prossimità della piena occupazione delle risorse fisiche e umane;

- inflazione finanziaria o creditizia, innescata o da crescita della spesa pubblica finanziata in deficit in
condizioni di prossimità al pieno impiego o da eccessiva creazione di credito da parte del sistema bancario;

- inflazione da offerta, che si verifica per effetto di shocks che portano a ridurre l’offerta, come calamità
naturali, guerre;

- inflazione da costi, che consiste nel trasferimento sui prezzi dell’aumento dei costi dell’impresa, in
particolare dei costi variabili, come salari, materie prime, energia;

- inflazione da profitti, connessa con l’aumento del margine di profitto reso possibile dall’esistenza di forme
di mercato diverse dalla concorrenza perfetta;

- inflazione importata, connessa con un prolungato aumento delle esportazioni del paese considerato,
stimolate da un eccesso di domanda dal paese estero (es: aumento del prezzo del petrolio negli anni ’70
che, a causa di una crisi orientale, causò in Italia un’inflazione del 20%).

Invece, tra i tipi di inflazione, a secondo del ritmo di aumento dei prezzi, abbiamo:

- inflazione strisciante (2-3% annuo);

- inflazione moderata (<10% annuo);

- inflazione galoppante (>10% annuo);


- iperinflazione (>300% annuo).

Nell’immediato dopo guerra, l’inflazione ha avuto normalmente carattere strisciante fino alle crisi
petrolifere del 1973 e 1979. Negli anni successivi si è raggiunta un’inflazione piuttosto moderata.
Anteriormente alla Seconda guerra mondiale si erano avuti invece numerosi casi di inflazione galoppante;
inoltre, era frequente il succedersi di fasi inflazionistiche a periodi di deflazione, manifestandosi così un
ciclo di tipo classico nel quale i prezzi tendevano a crescere nelle fasi di espansione, decrescendo, poi, in
quelle di recessione. Nel secondo dopo guerra non soltanto la riduzione dei prezzi non comportò la
recessione (fenomeno raro), ma addirittura si sono verificate situazioni nelle quali erano compresenti
stagnazione della domanda e inflazione, da cui il termine stagflazione.

Quando l’inflazione è altissima, la moneta perde totalmente valore e si ritorna al baratto: un’economia di
baratto a livello di efficienza è un disastro, che crea un blocco nell’economia (ci fu in Germania dopo la
Prima guerra mondiale, nel periodo nazista, in cui il tasso di inflazione mensile superò il 1000%).
Nell’economia di baratto vale la legge di Say, secondo la quale l’offerta crea la propria domanda, dunque
chi risparmia compie un atto di investimento e assicura così l’equilibrio del mercato dei beni.

Il tasso d’inflazione misura la variazione percentuale del livello generale dei prezzi in un periodo e può
essere determinato riprendendo la formula del principio del costo pieno, secondo cui in concorrenza
imperfetta il prezzo è fissato aggiungendo ai costi variabili unitari un margine di profitto lordo (mark-up)
che copre i costi fissi e assicura un profitto netto.

In termini statici: p = w/ π (1+g), con p = prezzo unitario, w = salario nominale, π = Y/N = produttività media
del lavoro, Y = livello del prodotto, N = occupazione e g = margine lordo di profitto.

Svolgendo il logaritmo di questa espressione otteniamo ln(p) = ln(w) – ln(π) + ln(1+g), da cui, facendo le
derivate prime, si ricava il tasso di variazione del livello generale dei prezzi, dunque il tasso d’inflazione che,
in termini dinamici è: Ṗ = ẇ - π + (1+g) ⇒ equazione del costo pieno o del mark-up: tanto più alto è il tasso
d’inflazione quanto più alto è ẇ (tasso di variazione dei salari), tanto più basso è il tasso d’inflazione quanto
più alto è π (tasso di variazione della produttività media del lavoro), tanto più alto è il tasso d’inflazione
quanto più alto è 1+g (tasso di variazione del mark-up). In termini economici, w è un costo per l’impresa,
quindi se aumentano i costi aumentano anche i prezzi, se invece aumenta la produttività media del lavoro π
grazie all’innovazione tecnologica (molto bassa in Italia), significa che i dipendenti dell’impresa diventano
più produttivi, quindi ogni unità del prodotto costa meno per l’azienda (i costi unitari diminuiscono). Se i
costi non variano e la produttività rimane costante nel tempo, l’impresa che vuole aumentare i suoi profitti,
non essendo in concorrenza perfetta, può aumentare g trasferendolo sui prezzi, infatti a parità di costi e
produttività l’impresa realizzerà profitti aumentando i prezzi.

Alla base dell’inflazione c’è un conflitto distributivo tra lavoratori e imprese che si devono spartire il valore
della produzione: i lavoratori chiedono un salario maggiore, ma le imprese non vogliono accettare di avere
meno profitti, ecco perché si arriva a contrattare tramite i sindacati. Alle imprese che si trovano a pagare
salari più alti non resta che aumentare i prezzi, così da riuscire a mantenere il loro margine di profitto, ma
se i prezzi aumentano i salari reali diminuiscono, allora ai lavoratori non resta che chiedere un nuovo
aumento dei salari reali, che porterà nuovamente ad un calo del margine di profitto delle imprese, che
cercheranno nuovamente di alzare i prezzi.

Le conseguenze dell’inflazione sono:

- perdita di valore della moneta;

- redistribuzione del reddito tramite una variazione dei prezzi relativi: se c’è un’inflazione del 5%, in media i
prezzi aumentano del 5% (sappiamo però che potrebbero esserci dei prezzi che aumentano del 10% e altri
che rimangono costanti – è ovvio che il primo ci guadagna); essa non è necessariamente voluta;
- redistribuzione della ricchezza: l’inflazione cambia il valore reale dei debiti, che diminuisce (il debitore è
svantaggiato, il creditore avvantaggiato, al contrario della deflazione in cui il valore reale del debito
aumenta);

- costi di adeguamento dei listini, cioè dei cartellini dei prezzi (menu costs).

La misura della redistribuzione del reddito e della ricchezza dipende da numerose circostanze e al fine di
essere tutelati nei confronti di imprevisti aumenti del livello generale dei prezzi, alcuni operatori riescono a
introdurre meccanismi di indicizzazione, che legano il loro compenso alle variazioni del livello generale dei
prezzi; il caso più noto in Italia fu quello della scala mobile, in vigore nel dopo guerra fino al 1991, con cui il
salario dei lavoratori veniva parzialmente adeguato alle variazioni dei prezzi. Oggi, l’inflazione prevista, cioè
quella al di sotto del 2%, tende a mantenere invariata la distribuzione del reddito e della ricchezza.
L’obiettivo della riduzione dell’inflazione è importante per la politica economica perché un’inflazione
sostenuta causa conflitti sociali, cioè continue rivendicazioni di aumento degli stipendi attraverso scioperi
(armi estreme con cui i sindacati chiedono l’aumento dei salari dei lavoratori) e per il timore che possa
innescarsi un fenomeno incontrollabile di iperinflazione, i cui costi sociali sono abbastanza rilevanti.

I fenomeni di disoccupazione e inflazione rappresentano due mali, due fenomeni da combattere, la politica
economica nasce proprio per questo. Nella macroeconomia ci sono due grandi visioni sul funzionamento
del mercato: una visione pessimista, cioè quella keynesiana, secondo cui l’economia segue un andamento
ciclico che alterna fasi di recessione e di espansione, i cui risultati sono insoddisfacenti, dovuti proprio alle
fasi di recessione, di stagnazione, in cui Y diminuisce. Secondo Keynes, economista del ‘900 e padre della
macroeconomia, la disoccupazione è la regola, non l’eccezione, è un rischio continuo, ecco perché favorisce
l’intervento discrezionale da parte del policy maker che deve decidere momento per momento quale
politica realizzare per stabilizzare l’economia e contenere l’andamento ciclico della stessa. I prezzi, secondo
Keynes, non sono perfettamente flessibili ma vischiosi, soprattutto verso il basso, quindi non variano
rispetto alla domanda e all’offerta: ridurre i prezzi comporta infatti difficoltà per i produttori. Il prezzo più
vischioso è sicuramente il salario reale, nel mercato del lavoro è difficile che esso venga ridotto (costo per
l’impresa), significherebbe ridurre il reddito dei lavoratori ed è difficile che essi lo accettino, quindi la teoria
dell’aggiustamento spontaneo del salario non viene contemplata nella teoria keynesiana, che non individua
questa come una soluzione per risolvere la disoccupazione. Per quanto riguarda gli investimenti, Keynes
sostiene che “Io” dipenda non solo dal tasso d’interesse, ma anche dalle aspettative e dagli umori degli
imprenditori (animal spirits) sull’andamento del mercato nel prossimo futuro. Nella visione ottimista o
monetarista (Friedman è l’economista fondatore del monetarismo) si cerca di limitare la discrezionalità del
policy maker, considerata inefficace, dannosa e causa di instabilità. Friedman e i monetaristi concepiscono il
sistema economico di mercato come intrinsecamente stabile e credono nella relazione causale, diretta e
proporzionale fra quantità di moneta e livello assoluto dei prezzi, postulando una costanza della velocità di
circolazione della moneta, ovvero della domanda di moneta, e delle transazioni. Secondo questa visione,
l’aumento dell’offerta di moneta non aumenta il reddito, ma aumenta l’inflazione, ecco perché le politiche
monetarie espansive non riducono la disoccupazione, ma aggravano il problema dell’inflazione. Friedman
ha introdotto la regola semplice e fissa della politica monetaria a cui il policy maker deve adeguarsi per
garantire la stabilità dei prezzi: l’offerta di moneta deve essere aumentata dal policy maker nel tempo in
linea con l’aumento di domanda di moneta (Pil reale), che a sua volta aumenta in linea con il reddito
dell’economia, quindi il policy maker non deve far altro che seguire gli accomodamenti spontanei
dell’economia. Phillips, grande economista del ‘900, scoprì l’inversa relazione tra ẇ, cioè il tasso di
variazione del salario nominale Δw/w (diverso dal salario reale = salario medio/livello generale dei prezzi =
w/P), e la disoccupazione u: se la disoccupazione è bassa i salari crescono a tassi elevati e viceversa. Se c’è
disoccupazione forte i lavoratori, così come i sindacati, non hanno molto potere di mercato, mentre se la
disoccupazione tende a zero, dunque ci avviciniamo alla piena occupazione, per le imprese potrebbe essere
difficile trovare dei lavoratori disposti a prestare lavoro, quindi si troveranno costretti ad aumentare i salari
(i tassi di variazione dei salari ẇ crescono). Quando c’è una fase di recessione nell’economia, i salari
diminuiscono, la disoccupazione aumenta e la curva di Phillips si sposta verso destra. Quest’ultima ha
formula ẇ = a – bu e può essere rappresentata come una curva convessa oppure come una retta inclinata
negativamente.

Questa curva di Phillips è importante perché fa capire al policy maker che se vuole ridurre la
disoccupazione deve accettare un aumento dei salari: egli potrebbe adottare delle politiche
macroeconomiche (fiscali o monetarie) espansive per far aumentare la domanda aggregata e il reddito
prodotto, di conseguenza aumenterebbe N, cioè l’occupazione, diminuirebbe u e la curva di Phillips si
sposterebbe verso l’alto. Nella visione keynesiana il policy maker può scegliere la combinazione tra
aumento dei salari e livello dei tassi di disoccupazione, infatti tutti i punti lungo la curva possono essere
raggiunti: minore è la disoccupazione, maggiore è il tasso di variazione dei salari, si dice che c’è un trade off
tra i due. Riprendendo l’equazione del costo pieno Ṗ = ẇ - π + (1+g), sostituendo l’equazione della curva di
Phillips ẇ = a – bu e ipotizzando che π e (1+g) siano costanti, posso riscrivere: Ṗ = a – bu, cosiddetta curva di
Phillips derivata. Questa curva ci fa capire che la politica economica ha di fronte a sé un trade off tra
disoccupazione e inflazione: se vuole ridurre la disoccupazione deve accettare un aumento dell’inflazione.
La cosa positiva è che la politica economica può scegliere la combinazione preferibile tra disoccupazione e
inflazione. Secondo l’economista Kalecki la curva della domanda di lavoro, che corrisponde al prodotto
marginale del lavoro, indica quanto l’ultimo lavoratore aggiunge al prodotto totale dell’economia ed è
inclinata negativamente: l’area sottesa, quindi l’integrale della curva della domanda di lavoro, rappresenta
il prodotto totale dell’economia, che corrisponde al pieno impiego (ci dice di quanto aumenta il prodotto
totale se aumenta un’unità di lavoro). L’area totale è formata dal reddito totale dei lavoratori (base per
altezza, quindi lavoratori per salario reale pagato ad ognuno di essi) e reddito che rimane all’impresa,
dunque il profitto. Supponiamo che ci sia una forte disoccupazione: l’impresa potrebbe decidere di ridurre il
salario, ma questo significherebbe ridurre i redditi dei lavoratori, quindi i consumi (componente della
domanda aggregata); significherebbe però aumentare i profitti, quindi gli investimenti da parte
dell’impresa, ma questo non è sempre vero, infatti le scelte d’investimento dell’impresa dipendono anche
dalle aspettative future dell’economia e nel caso in cui i profitti non vengano investiti, si finisce per ridurre
la domanda aggregata senza che la disoccupazione si riduca: si cade in una sorta di trappola, dove la
riduzione del salario reale, anziché portarci alla piena occupazione, potrebbe addirittura aggravare la
situazione.

Riprendendo il concetto della curva di Phillips, i monetaristi affermano che la politica monetaria influenza il
reddito prodotto e la disoccupazione solo nel breve periodo, infatti credono che nel lungo periodo la curva
di Phillips sia verticale e che il policy maker non possa effettuare nessuna scelta, quindi qualsiasi politica
monetaria sarebbe inefficiente: essi considerano la curva di Phillips come una visione troppo ottimista,
infatti non credono si possa scegliere la combinazione tra ẇ e u (per i monetaristi non c’è trade off tra i due,
se non nel breve periodo). Nel lungo periodo, invece, una politica fiscale espansiva (aumento della spesa
pubblica G) spiazzerebbe la spesa dei privati, quindi la spesa pubblica si sostituirebbe a quella privata,
aumenterebbero il tasso d’interesse e i prezzi, quindi il policy maker, non avendo possibilità di ridurre la
disoccupazione, ha due possibilità: continuare con la politica espansiva (che nel lungo periodo porta al
fallimento) oppure riportare il tasso di disoccupazione al livello U N , dove nel frattempo l’inflazione è
aumentata e l’offerta reale, l’occupazione e il reddito Y dell’economia sono diminuiti. La conclusione è che
la politica monetaria è efficace solo nel breve periodo, ecco perché i monetaristi cercano di limitare gli
interventi pubblici, ritenuti inefficaci e talvolta dannosi. Possiamo inoltre esprimere la curva di Phillips in
forma non lineare: ẇ = d(u) + Ṗe, con d< 0 derivata prima e Ṗe tasso di inflazione atteso; quest’ultimo
dipende da Pt-1, infatti l’aspettativa di inflazione consiste nel considerare il periodo precedente, valutando
poi le aspettative adattive. Nel grafico della curva di Phillips derivata con le aspettative sia Ṗ che ẇ sono
pari a d(u) + Ṗe e il punto UN indica il tasso di disoccupazione naturale, in cui si trova l’economia nel lungo
periodo, dove i salari e i prezzi sono costanti, dunque vi è un equilibrio tra i disoccupati e i posti vacanti.

La visione della nuova macroeconomia classica riprende e rafforza la visione monetarista (capacità
riequilibrativa intrinseca del sistema economico privato e inefficacia dell’intervento pubblico) e si compone
di due ipotesi fondamentali:

- aspettative razionali, che si sostituiscono a quelle adattive: gli operatori usano tutta l’informazione
disponibile per formulare aspettative sui valori futuri delle variabili e tali previsioni sono corrette in media;

- prezzi perfettamente flessibili, che mantengono i mercati costantemente in equilibrio (in particolare il
mercato del lavoro è sempre in equilibrio di piena occupazione).

Inoltre:

1. la disoccupazione può essere solo volontaria;


2. il sistema può aumentare il prodotto al di sopra del livello naturale solo a seguito di un aumento
imprevisto del livello generale dei prezzi;
3. soltanto una politica (fiscale e monetaria) imprevista può avere efficacia temporanea; politiche
prevedibili hanno effetti esclusivamente sul livello dei prezzi (la curva di Phillips è verticale anche
nel breve periodo);
4. la politica economica non è in grado di influenzare il reddito e la disoccupazione: è per questo che
si parla di neutralità o invarianza della politica economica.

Se una politica monetaria espansiva realizza un aumento inatteso (“a sorpresa”), ma transitorio dell’offerta
di moneta, AD, AS e Y aumentano perché ogni operatore inizialmente percepisce solo l’aumento del prezzo
del proprio prodotto. Anche i lavoratori aumentano l’offerta di lavoro perché percepiscono l’aumento del
salario monetario, ma non quello del livello generale dei prezzi; tuttavia, ogni operatore si rende conto
subito che tutti i prezzi sono aumentati e quindi riduce la quantità offerta. Se l’aumento di offerta di
moneta inatteso è permanente, quindi l’espansione di moneta è continua, aumentano le aspettative di
inflazione e la curva AS si sposta creando un nuovo equilibrio, nuovamente in Yo però, quindi in ogni caso il
reddito è ancorato al livello Yo, nonostante nel breve periodo sia cresciuto grazie all’aumento inatteso di
AD. Pertanto, ogni aumento previsto dell’offerta di moneta avrà l’unico effetto di far aumentare i prezzi.

Crescita e sviluppo
Essi sono due concetti distinti: la crescita coincide con l’aumento del reddito e della ricchezza materiale di
un paese, mentre lo sviluppo è un processo più generale che, oltre alla crescita economica, comprende
altre trasformazioni economiche e sociali e un miglioramento delle condizioni di vita. Lo sviluppo cerca di
migliorare il benessere sociale della popolazione, quindi include anche un processo di ampliamento delle
possibilità di scelta delle persone, che consistono in sostanza con le capacità delle persone di dar forma a
obiettivi, impegni, valori. Il reddito Y non può essere considerato un buon criterio di misura delle possibilità
di scelta delle persone per vari motivi: innanzitutto il reddito è un mezzo e non un fine ed è un importante
obiettivo della politica economica che consente di conseguire molti vantaggi in termini di benessere. Un
reddito elevato non assicura però un elevato sviluppo umano e il capitale umano sappiamo essere decisivo
per le prospettive di crescita; inoltre, il reddito non misura gli effetti ambientali dell’economia e il reddito
medio pro capite non informa della distribuzione del reddito.

Lo sviluppo umano può essere meglio misurato tramite alcuni indicatori relativi a:
- longevità: indicata dalla speranza di vita alla nascita, essa è tanto più alta quanto più bassa è la mortalità
infantile e tanto più alto è il tenore di vita;

- grado di conoscenza: indicato dall’alfabetizzazione degli adulti e dagli anni medi di scolarità;

- standard di vita: indicati dal reddito pro capite in dollari e dalla parità dei poteri di acquisto.

In Italia l’ISTAT e il CNEL hanno sviluppato un indicatore multidimensionale di benessere equo e


sostenibile, il cosiddetto BES, che tende a valutare il progresso di una società sul piano non soltanto
economico, ma anche sociale e ambientale, in particolare tiene conto di quantità di risorse e loro
distribuzione, longevità e salute, cultura e qualità dei servizi e sostenibilità ambientale.

Il reddito potenziale è il prodotto corrispondente al «pieno utilizzo» (che implica disoccupazione frizionale)
delle risorse fisiche e umane (soprattutto della risorsa lavoro) senza strozzature, tensioni e frizioni (l’effetto
delle strozzature è lo stop della produzione con relativo aumento di prezzi).

Questa definizione è un’estensione dinamica del concetto keynesiano di reddito di pieno impiego, che
invece è un concetto statico. Il reddito di piena occupazione è un “traguardo mobile”: la sua misura varia
nel tempo poiché le grandezze sottostanti sono costantemente soggette ad evoluzioni. L’equazione che
determina la produzione dal lato dell’offerta è: Y* = π ∙ N/FL ∙ FL/Pop ∙ Pop = πN*, con Y livello del prodotto,
π produttività media per occupato (π=Y/N), N numero di occupati, FL forze di lavoro, Pop popolazione, N/FL
complemento a 1 del tasso di disoccupazione, FL/P tasso di partecipazione o attività e 1-(N/FL) tasso di
disoccupazione. Questa equazione però è di tipo statico, infatti Y è un obiettivo modico che si sposta nel
tempo: π si modifica continuamente grazie all’innovazione tecnologica e N si modifica perché la
popolazione si modifica di anno in anno, ecco perché la politica economica deve continuamente rivedere i
suoi obiettivi in relazione con il tempo. In base all’equazione vista sopra, in termini dinamici, affinché si
abbia una riduzione della disoccupazione è necessario che il reddito Y cresca in misura superiore alla
crescita della produttività e della popolazione. È possibile stabilire una regolarità empirica (variabile nel
tempo e tra paesi): la «legge di Okun» stima che per ridurre dell’1% il tasso di disoccupazione (cioè per
aumentare di un punto il rapporto N/FL), il PIL (prodotto aggregato) deve crescere del 2,5% in aggiunta al
trend di lungo periodo di crescita del reddito (somma del tasso di crescita di π e di P).

Squilibri della Bilancia dei Pagamenti


Anche essi costituiscono fallimenti macroeconomici, tuttavia di essi ci occuperemo quando si affronteranno
le tematiche relative alla politica economica in economia aperta.

Cap.4: la teoria della politica economica


Teoria normativa 
La teoria normativa si occupa di stabilire dei criteri che il policy maker dovrebbe seguire per compiere delle
scelte razionali di politica economica, quindi può essere definita come l’analisi razionale di ciò che
l’operatore pubblico deve fare per superare i fallimenti del mercato. Essa si distingue dalla teoria
positiva della politica economica, che tende a considerare il policy maker per quello che è e non per quello
che dovrebbe essere (il policy maker nell’analisi normativa deve massimizzare il benessere sociale).
I problemi di politica economica sono simultanei e hanno natura intertemporale, quindi richiedono
coerenza temporale. Nella scelta delle politiche da utilizzare è importante la programmazione,
programmare significa adottare decisioni di politica economica coordinate e coerenti, cioè che tengono
conto dell’insieme degli obiettivi e degli strumenti.

Gli elementi fondamentali della programmazione sono:


- gli obiettivi, cioè i traguardi a cui si mira assumendo le decisioni, misurati attraverso variabili come il tasso
di inflazione, il tasso di disoccupazione, il tasso di crescita del PIL, l’equilibrio della bilancia dei pagamenti;

- gli strumenti, cioè le grandezze economiche che i policy makers sono in grado di manovrare per
raggiungere gli obiettivi, come la spesa pubblica, gli investimenti pubblici, le imposte, il tasso di cambio (es:
nel settore agrario l’output dipende sia dalle precipitazioni annue sia dal sistema di irrigazione:

le precipitazioni non sono uno strumento in quanto non manovrabili dal policy maker, mentre lo è il
sistema di irrigazione che può essere oggetto di investimenti pubblici);

- i modelli, cioè i sistemi di relazioni, rappresentati tramite sistemi di equazioni, importanti perché sono
indici della validità degli strumenti scelti.

Obiettivi 

Il policy maker che vuole massimizzare il benessere della collettività deve scegliere degli obiettivi con la
maggiore efficacia relativa, che tengano però conto di alcuni vincoli esistenti nell’economia; essi a volte
sono coerenti tra loro, altre volte sono sostituti, in questo senso si dice che esiste un trade-off tra loro.

La curva di trasformazione fornisce la massima utilità di un individuo per ogni livello di utilità dell’altro (è il
luogo dei punti di ottimo paretiano dell’economia). Al di fuori della curva ci sono punti irrealizzabili, il
massimo che si può avere è lungo la curva, che rappresenta dunque un vincolo per il policy maker che
dovrà necessariamente scegliere uno dei punti di ottimo lungo di essa. Tutti i punti lungo la curva sono
combinazioni efficienti e raggiungibili (sono ottimi paretiani), ma non equivalenti poiché implicano
situazioni molto diverse. Il punto di massima efficienza si ha nell’origine degli assi, ma non può essere
raggiunto, il policy maker infatti deve scegliere uno dei punti lungo la curva di trasformazione oppure, con
apposite politiche, spostare la curva redistribuendo le utilità. Resta comunque il fatto che il policy maker
non può limitarsi al criterio paretiano per scegliere l’ottimo efficiente, ma dovrà tenere conto anche dei
desideri e del benessere della collettività, quindi della funzione del benessere sociale (FBS), che può essere
rappresentata mediante curve di indifferenza sociali. Il modo più semplice per scegliere l’obiettivo lungo la
curva di trasformazione è il metodo degli obiettivi fissi, dove la curva di trasformazione indica il massimo (o
il minimo nel caso della curva di Phillips) valore raggiungibile di una variabile-obiettivo per ogni dato livello
dell’altra variabile-obiettivo e i valori che devono avere le variabili nel sistema sono prefissati dal policy
maker. Il problema del metodo degli obiettivi fissi è che il policy maker a volte potrebbe non conoscere
esattamente la posizione della curva di trasformazione, allora si introduce il metodo delle priorità, tramite
il quale il policy maker deve scegliere l’obiettivo prioritario e massimizzare (o minimizzare nel caso della
curva di Phillips) quello dell’altro obiettivo, il cui livello dipenderà dall’effettiva posizione del vincolo (curva
di trasformazione). L’ultimo metodo che viene analizzato è quello più utilizzato dagli economisti ed è
il metodo degli obiettivi flessibili, grazie al quale il policy maker sceglie l’obiettivo prioritario tenendo conto
delle curve di indifferenza sociali (infinite, ma mai incrociate tra di loro). L’impostazione di questo metodo è
del tutto equivalente a quella del problema del consumatore nella microeconomia, dove il consumatore,
anziché fissare in termini rigidi le quantità di beni e servizi di cui vuole dotarsi, indica in termini flessibili i
suoi obiettivi esprimendo le sue preferenze. Gli obiettivi flessibili sono determinati endogenamente, come
quei valori che, dato il vincolo, rendono massimo il benessere sociale: si parla in questo caso di approccio
ottimizzante, in contrapposizione all’approccio intermedio del metodo delle priorità e degli obiettivi fissi.
Nel grafico rappresentiamo la curva di trasformazione, cioè il vincolo, e le curve di indifferenza sociali, che
rappresentano i livelli di benessere della collettività: il punto che massimizza il benessere sociale è il punto
di tangenza tra la curva di trasformazione e la più alta delle curve di indifferenza. In questo senso, il
problema della scelta sociale può essere rappresentato come un problema di massimizzazione vincolata. La
pendenza delle curve di indifferenza sociali è il saggio marginale di sostituzione tra gli obiettivi e
rappresenta il rapporto al quale è possibile scambiare l’uno obiettivo con l’altro mantenendo costante il
livello complessivo del benessere sociale (es: un saggio marginale di sostituzione tra inflazione e
disoccupazione pari a 3 indica che il benessere sociale rimane costante se l’inflazione aumenta di 3 punti
percentuali “in cambio” di 1 punto percentuale in meno di disoccupazione). Quando il saggio marginale di
sostituzione è costante, la curva di indifferenza sociale o curva di isobenessere è lineare, quando invece il
saggio è variabile, la curva è curvilinea, in particolare se il saggio marginale è crescente le curve di
indifferenza sociali sono concave, se il saggio marginale è decrescente sono convesse.

Quindi possiamo concludere affermando che il valore degli obiettivi non è fissato a priori, ma è ricavato
mediante l’ottimizzazione (massimizzazione o la minimizzazione) di una funzione di benessere sociale,
rappresentata mediante una mappa di curve di indifferenza, dato il vincolo della curva di trasformazione.
L’indice di malessere di Okun (diverso dalla legge di Okun), dati come obiettivi il tasso di disoccupazione e
quello di inflazione, data la funzione di benessere sociale W=ap+bu e il saggio marginale di sostituzione
costante b/a, è pari alla semplice somma di inflazione e disoccupazione con a=b=1, dove a e b sono i pesi
attribuiti dai policy makers alla funzione del benessere sociale; essendo a e b uguali a 1, infatti W=p+u. 

Strumenti 

Essi sono le variabili che servono al policy maker per raggiungere gli obiettivi e devono essere controllabili,
quindi manovrabili dal Governo, efficaci, quindi devono causare un effetto sulla variabile obiettivo, e
separabili, cioè distinti dalle altre variabili strumento.

Ci sono vari tipi di strumenti: 

- politiche quantitative (modificano il valore di uno strumento), qualitative (introducono o eliminano


strumenti), di riforma (modificano aspetti del sistema economico);

- politiche di controllo diretto (impongono o vietano un comportamento, es: controllo dei prezzi, impresa
pubblica, regolamentazione) e controllo indiretto (inducono un determinato comportamento, es: politica
fiscale, monetaria e del tasso di cambio. La politica fiscale, o manovra di bilancio, concerne i livelli della
spesa pubblica e della tassazione, la politica monetaria opera sulla liquidità del sistema attraverso variazioni
della base monetaria e la politica del cambio tende a influenzare il tasso di cambio, ossia la quantità di una
moneta necessaria per acquistare un’unità di un’altra moneta);

- misure discrezionali (richiedono valutazione caso per caso, preferite dai keynesiani), regole automatiche
(entrano in funzione senza specifica valutazione, preferite dai monetaristi, es: regola semplice di Friedman);

- stabilizzatori automatici: sussidi di disoccupazione, imposizione progressiva (essi tendono a ridurre le


oscillazioni cicliche dell’economia, ponendo un limite alla caduta della domanda aggregata nelle fasi di
depressione e smorzandone l’aumento nelle fasi di espansione; inoltre essi rendono più celere l’intervento
pubblico).

Modelli 

Essi vengono dati ai policy makers dagli economisti e vengono rappresentati da un sistema di equazioni in
cui le variabili possono essere esogene o endogene, le prime comprendono strumenti e dati, le seconde
obiettivi e irrilevanti (rispetto al problema di politica economica, non di per sé).

Ci sono vari tipi di modelli: 

- modello in forma strutturale, che presenta le relazioni tra variabili che descrivono la realtà economica:
variabili endogene in funzione di variabili esogene e altre endogene;

- modello in forma ridotta, in cui si eliminano le variabili irrilevanti e si esprimono gli obiettivi (y) in
funzione delle variabili esogene (strumenti x): y1=f1(x1,x2), y2=f2(x1,x2);
- modello in forma ridotta inversa, in cui si esprimono gli strumenti (x) in funzione degli obiettivi (y):
x1=g1(y1,y2), x2=g2(y1,y2); in questo modo, assegnando un valore agli obiettivi (secondo il metodo degli
obiettivi fissi), si determina il valore degli strumenti.

Quando il modello è formato da tante equazioni quanti sono gli obiettivi e contiene tante incognite quanti
sono gli strumenti, vale la regola aurea di politica economica di Tinbergen: la soluzione di un problema di
politica economica, nel caso di obiettivi fissi, richiede tanti strumenti quanti sono gli obiettivi (sistema
determinato). Se gli strumenti sono di più degli obiettivi il sistema è sottodeterminato, il che vuol dire che ci
sono molteplici soluzioni, se invece gli strumenti sono inferiori agli obiettivi il sistema è sovradeterminato,
quindi non ci sono soluzioni: si dovrà allora o rinunciare agli obiettivi in eccesso o adottare nuovi strumenti
o passare al metodo degli obiettivi flessibili. Questo modo di intendere la politica economica in modo
fiducioso è stato radicalmente criticato dai monetaristi, in particolare da Lucas, importante esponente della
nuova macroeconomia classica, che crede fermamente che i parametri delle funzioni di comportamento
degli operatori privati non siano stabili, ma si modifichino in relazione alle decisioni pubbliche: i
comportamenti privati dipendono anche dalle aspettative degli operatori relative alle politiche pubbliche.
Gli operatori anticipano le decisioni delle autorità di politica economica e i loro effetti e questo rende
problematico l’utilizzo dei modelli come base delle decisioni delle politiche. Quindi secondo Lucas i
parametri del modello stimati sui valori passati non sono affidabili per prevedere gli effetti delle politiche
(es: il valore della propensione al consumo “c” viene stimato in base ai valori passati del consumo e del
reddito, assumendo che rimanga costante nel tempo, in realtà esso può variare in previsione di politiche
pubbliche diverse da quelle realizzate in passato: un aumento della spesa pubblica G può causare una
diminuzione della propensione “c” se gli operatori si aspettano maggiori imposte future). Egli crede, inoltre,
che l’efficacia dell’azione pubblica può essere annullata se le aspettative degli operatori inducono una
variazione molto ampia nei parametri delle funzioni di comportamento e che nei modelli classici di politica
economica gli operatori privati subiscano passivamente le politiche: nella realtà, invece, essi reagiscono
modificando i loro comportamenti, quindi si sviluppa un’interazione strategica tra operatori privati e policy
makers che può essere opportunamente analizzata mediante la teoria dei giochi, branca della matematica
dove si tiene conto del fatto che a ogni politica scelta dal policy maker corrisponde una reazione dei privati,
di conseguenza il policy maker dovrà rivedere le sue politiche adeguandole.

Cap.6-7: politiche microeconomiche in economia aperta


Politiche antimonopolistiche
L’Italia, dopo la Seconda Guerra Mondiale, adottò alcune politiche: scelse prima di tutto l’apertura
internazionale per combattere i monopoli e favorire il passaggio da un paese agricolo a un paese
industriale, poi il controllo dei prezzi e l’introduzione dell’impresa pubblica, che ha alternato periodi di
fiducia e sfiducia. Dagli anni ’90 del secolo scorso in Italia sono state adottate politiche antimonopolistiche
ed è stata creata l’autorità garante per la concorrenza e per il mercato.
Esistono varie politiche antimonopolistiche, che hanno l’obiettivo dell’efficienza: politica delle
liberalizzazioni (liberalizzare significa togliere tutti i fattori che legano il soggetto al monopolio), politica di
apertura internazionale, politica di regolamentazione, che rientra tra le più generali politiche del controllo
diretto.

La politica delle liberalizzazioni cerca di rimuovere le barriere, cioè quelle difficoltà di varia natura ad
entrare nel mercato, particolarmente quelle di carattere legale, come le norme che prevedono la
concessione di licenze, autorizzazioni e simili, e di avvicinare il mercato al regime della concorrenza
perfetta. Quando in un mercato c’è perfetta libertà di uscita e di entrata (senza alcun costo), dunque non ci
sono barriere, il mercato è contendibile, quindi anche se c’è una sola impresa in monopolio, essa può
migliorare il suo equilibrio in termini di efficienza abbassando il suo prezzo al costo unitario. Un’impresa in
un mercato contendibile è costantemente minacciata da altre imprese che potrebbero entrare e fargli
concorrenza, allora il monopolista, per difendere la sua quota di mercato, instaura una politica di ribasso
del prezzo, che si interrompe quando arriva a p=cu (né perdite né extra-profitti).

Questo mercato può essere definito apparentemente monopolistico, di fatto simile alla concorrenza
perfetta; nella realtà è molto difficile da applicare, quasi astratto, infatti entrare e uscire dal mercato
comporta necessariamente il sostenimento di costi irrecuperabili, detti sunk, cioè affondati (questi costi
annullano la perfetta contendibilità). Un monopolio naturale è un esempio di un più generale fenomeno
noto come barriere all’entrata, che sono fattori che consentono ad un’impresa già operante in un mercato
di ottenere profitti economici positivi e allo stesso tempo non rendono profittevole l’ingresso di nuove
imprese. Nell’impresa perfettamente concorrenziale non esistono barriere all’entrata: quando le imprese
operanti ottengono profitti positivi, nuove imprese sono incentivate ad entrare nel mercato (tattica del
“colpisci e fuggi”, non essendoci costi all’entrata e all’uscita), portando così i profitti ad annullarsi. Le
barriere all’entrata sono invece fondamentali per un’impresa monopolista, infatti, senza la produzione di
barriere, la presenza di profitti positivi incentiverebbe l’ingresso di potenziali entranti e la concorrenza
condurrebbe all’estinzione dei profitti dell’industria. 

La politica di apertura internazionale, da cui deriva la globalizzazione (base delle economie di oggi), rende
possibile ai consumatori di potersi rifornire da produttori di altri paesi, riducendo così i monopoli interni.
Questa politica aumenta la numerosità degli operatori e riduce il potere di mercato, ma limitatamente ai
beni e ai servizi commercializzabili tra paesi diversi, detti “tradables”, come le macchine e le materie prime,
e non ai servizi locali e all’edilizia (non tradables). Un altro limite di questo mercato è il fatto che a lungo
termine un’impresa che produce un prodotto internazionale potrebbe spianare la strada ad oligopoli su
scala internazionale.

La politica di regolamentazione, che rientra tra le politiche microeconomiche di controllo diretto, con cui i
policy makers impongono ai privati determinati comportamenti, comprende la politica di smembramento
del monopolista, con cui l’impresa deve smembrarsi in n imprese che si fanno la concorrenza (se ci
troviamo in monopolio naturale non conviene imporre questa politica perché i costi di produzione
aumenterebbero), la vendita all’asta del diritto di essere impresa monopolista (quest’impresa dovrà
pagare una quota allo Stato per poter partecipare all’asta) e la legislazione antimonopolistica, nata negli
USA intorno all’ ‘800 e arrivata in Italia alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, con cui si stabiliscono
norme che definiscono le condotte che un’impresa in monopolio deve seguire, come la tutela della libertà
economica, in particolare quella delle piccole imprese, e la limitazione del potere economico-politico che
sorge dalle concentrazioni economiche; queste norme limitano anche il potere di mercato del monopolista,
come il divieto di accordi tra le imprese (che formerebbero un cartello, un trust), divieto di abuso di
posizione dominante (tradotto come la possibilità di presenza dell’impresa in un mercato a patto che non
sfrutti troppo la sua posizione dominante) e divieto di concentrazione (le imprese non possono fondersi e
un’impresa non può acquisirne altre senza il permesso da parte della Commissione Europea, volta a limitare
l’oligopolio e il monopolio). È bene specificare che la politica antimonopolistica europea è gestita dalla
Commissione europea, che può impedire determinati comportamenti alle imprese e anche imporre
sanzioni. La politica di regolamentazione comprende anche il controllo dei prezzi, un’altra forma di
controllo diretto potenzialmente efficace nel breve periodo, con cui l’autorità pubblica impone prezzi
minimi o massimi. Se ci sono situazioni di monopolio o di concorrenza imperfetta, che cercano di fissare il
prezzo al di sopra del costo unitario, l’autorità può controllare e stabilire i prezzi, fissando ad esempio un
prezzo minimo al fine di proteggere le categorie dei consumatori e dei venditori. Il prezzo minimo più
importante è il salario minimo (retribuzione di 1h di lavoro): in Italia non c’è il salario minimo, ma c’è la
contrattazione minima tra imprese e sindacati, che annualmente stabiliscono il prezzo minimo.
Imponendo regole e vincoli alle imprese, l’autorità effettua invece un controllo indiretto:

1. si impone un margine percentuale massimo di profitto (anche il prezzo risulterà limitato, pur
rimanendo libero): il problema è la regola della criticità, che potrebbe spingere le imprese che
vogliono massimizzare il profitto a sostenere costi eccessivi perché per ogni euro in più l’impresa
può ottenere una percentuale di profitto maggiore;
2. si impone un tasso di rendimento massimo del capitale (anche qui il prezzo risulterà limitato, il
rischio è che l’impresa per massimizzare i profitti investa troppo in capitale, visto che anche qui per
ogni euro investito in capitale l’impresa può ottenere un certo rendimento – effetto aver Johnson);
3. si limita il tasso di crescita del prezzo, cosiddetto price-cap (limite) dinamico, indicando di quanto
massimo può aumentare il prezzo in un dato periodo [se il tasso di inflazione è del 5%, il
monopolista può aumentare il prezzo fino al 5% - x (certo fattore), impedendogli così di seguire
l’inflazione e limitando così il suo potere di mercato e i suoi profitti, infatti il monopolista è
costretto a vendere a 5% - x, pur continuando ad acquistare al 5%]. La formula generale è IPC – x,
dove IPC è il tasso annuo di variazione dell’indice dei prezzi al consumo e x è una percentuale
decisa in sede di regolamentazione. Il price-cap (statico o dinamico) in Italia è stato applicato a
elettricità, canone RAI, gas, poste, medicinali etici, ferrovie e autostrade.

Impresa pubblica
Un altro modo per risolvere il monopolio è la nazionalizzazione: in questo modo l’impresa diviene pubblica
e venderà Q a P=CM, come in concorrenza perfetta. Se si chiede di produrre a P=CM ad un’impresa
normale, essa troverà più conveniente uscire dal mercato perché realizzerà una perdita, mentre per
un’impresa pubblica la perdita verrà compensata con le risorse pubbliche. È uno strumento di politica
microeconomica che consente di gestire direttamente l’impresa in modo coerente con le finalità pubbliche,
per esempio favorendo l’efficienza in presenza di monopolio naturale e promuovendo lo sviluppo di un
settore. Tra le critiche e i limiti di questi strumenti di politica economica abbiamo la relazione di
informazione asimmetrica tra il proprietario (l’azionista) di un’impresa pubblica e il management della
stessa: è difficile per il Governo proprietario dell’impresa pubblica controllare l’operato del manager.
Inoltre, si dice che le imprese pubbliche creano clientelismo, cioè delle pratiche con cui si usano risorse
pubbliche per realizzare obiettivi privati (es: manager che assume familiari nell’impresa, favorendoli); altra
criticità è il fatto che queste imprese dovrebbero perseguire molti obiettivi, assegnati dal Governo, a volte
contraddittori, ed è per questo che risulta più facile per il manager seguire obiettivi propri. Inoltre esse
favoriscono l’aumento dei costi e dei prezzi o maggiori perdite di bilancio, sono sottoposte ad una
molteplicità di fini che rendono poco controllabile e trasparente la loro gestione e realizzano poca
innovazione. Le imprese pubbliche sono spesso in perdita (che viene risanata dal bilancio pubblico, dunque
da chi paga le tasse), proprio perché manca l’azionista privato: questo perché o vi è uno spreco di risorse
oppure perché l’impresa pubblica opera in condizioni che nessun’altra impresa privata potrebbe sostenere.
Inizialmente le imprese pubbliche venivano giustificate, oggi si tende sempre più a privatizzarle, per vari
motivi tra cui le difficoltà del bilancio pubblico di sostenerne i costi, per la scarsa fiducia nei risultati
conseguibili dalle imprese pubbliche e anche perché in molti settori (es. telecomunicazioni, energia), grazie
alle innovazioni tecnologiche, sono venute meno le condizioni di monopolio naturale.

Cap.9: le politiche commerciali, liberismo e protezionismo


La politica commerciale consiste nell’orientamento e nelle scelte della politica economica di un paese per
ciò che riguarda il commercio con l’estero. Il liberismo garantisce la massima libertà di commercio con
l’estero (free trade), rimuovendo gli ostacoli a esportare e importare, al contrario, il protezionismo difende
la produzione interna dalla concorrenza estera. L’Europa viene da un grande periodo di liberismo, da un
periodo di globalizzazione, in cui c’è la massima integrazione tra le economie, anche se ultimamente stanno
tornando alcune tendenze al protezionismo, ad esempio le politiche di Trump negli USA. Storicamente ci
sono state anche fasi di autarchia, che coincide con la massima forma di protezionismo, in cui i consumatori
possono acquistare solo prodotti interni al paese, dunque c’è una chiusura dell’economia nazionale rispetto
al resto del mondo (prevale spesso con regimi autoritari). Secondo il liberismo, il commercio internazionale
è un gioco a somma positiva dove tutte le economie possono guadagnare nei mercati, secondo il
protezionismo, invece, il commercio è un gioco a somma zero dove alcuni paesi guadagnano e altri no.

L’economista David Ricardo si pose a favore del liberismo, fu lui il primo a parlare di vantaggio o costo
comparato, sostenendo che ogni paese produce beni a costi diversi ed è proprio grazie al commercio
internazionale che viene favorita la specializzazione dei paesi in quei beni nei quali hanno il maggior
vantaggio comparato o il minor costo comparato, dunque nei quali sono più efficienti: il paese esporterà il
bene in cui è specializzato e importerà i beni in cui non è specializzato a vantaggi maggiori e costi inferiori;
inoltre, il commercio internazionale riesce ad aumentare la quantità di beni disponibili per i consumatori
all’interno di un paese, indipendentemente dal paese nel quale sono state prodotti. Al contrario, in assenza
di commercio internazionale ogni economia deve produrre al suo interno tutti i beni e servizi, anche quelli
per i quali deve sopportare costi relativamente elevati. Secondo Ricardo, nel valutare la convenienza degli
scambi non bisogna considerare i costi a livello assoluto, ma i costi comparati, che ci dicono quanto vale il
rapporto tra i costi dei due beni in ciascun paese e misurano a quante unità di un bene è necessario
rinunciare per produrre un’unità di un altro bene: tra i costi comparati dei due beni vi è un margine
conveniente per entrambi i paesi, che realizza un miglioramento paretiano, infatti entrambi ottengono
un’unità maggiore di un bene e quindi stanno meglio.

Il protezionismo, invece, limita i commerci internazionali e facilita i commerci interni e può essere realizzato
in diverse forme:

 protezione tariffaria mediante imposizione di dazi, cioè delle tasse sui prodotti importati, per
scoraggiare le importazioni favorendo i produttori interni e danneggiando i consumatori interni;
 protezione non tariffaria mediante:
- contingenti, cioè intervenendo sulle quantità, prevedendo una quantità massima di un certo bene
che può essere importato;
- regolamentazioni, cioè stabilendo delle regole che inseriscano alcuni criteri/vincoli che devono
essere rispettati per importare i beni;
- sussidi e incentivi alle esportazioni, favorendole;
- svalutazione o deprezzamento del cambio, per rendere più convenienti le esportazioni.

Per quanto riguarda i dazi, la domanda complessiva del bene si riduce perché il prezzo del bene aumenta
(effetto consumo), i produttori interni aumentano la produzione a prezzi più alti (effetto produzione), le
importazioni diminuiscono (effetto importazioni), per ogni unità del bene importato il consumatore deve
pagare un dazio e il Governo ha un introito (effetto fiscale), i consumatori ci perdono, i produttori interni e
il Governo ci guadagnano, i produttori esteri invece non hanno alcun vantaggio, infatti continueranno a
vendere il loro bene allo stesso prezzo, il dazio pagato dai consumatori interni va a favore del Governo e dei
produttori interni, non esteri (effetto redistributivo). Per quanto riguarda il contingentamento, che fissa un
contingente, cioè un limite alle importazioni, dunque all’offerta totale di un bene in un certo paese, vede
aumentare il prezzo del bene ed effetti redistributivi a favore degli importatori e dei produttori interni che
godono di una rendita più alta (acquistano dall’estero ad un prezzo più basso per poi rivenderlo ad un
prezzo più alto) e a sfavore dei consumatori, che subiscono un prezzo più alto; tuttavia, il Governo non
riceve alcun introito fiscale. Per quanto riguarda il caso dell’industria nascente è importante la capacità di
produrre in maniera efficiente, infatti questo tipo di industria è caratterizzata da economie di scala
dinamiche che tengono conto del fattore tempo. Graficamente, Q indica la variazione della quantità
prodotta nel tempo e CU indica il costo unitario o costo medio di produzione di un certo bene: la curva è
decrescente, dunque i prodotti a tecnologia nascente vengono prodotti a prezzi più alti, mentre i prodotti a
tecnologia avanzata vengono prodotti a prezzi più bassi, quindi i costi di produzione diminuiscono
all’aumentare della quantità prodotta, questo perché “si impara facendo”. È necessario, dunque,
proteggere le imprese con prodotti innovativi per un certo numero di anni, aspettandosi che esse saranno
poi in grado di produrre a costi bassi prodotti innovativi: introducendo il dazio, il prodotto innovativo
inizialmente è scoraggiato, ma con il passare del tempo, questo verrà specializzato, sarà pronto per il
mercato, dunque verrà levato il dazio, il costo unitario verrà ridotto e il prodotto verrà venduto a prezzi
convenienti sul mercato. Inoltre, questo meccanismo potrebbe creare delle condizioni di vantaggio anche
per altri settori, il cosiddetto spillover, che non è nient’altro che un’esternalità positiva (fallimento
microeconomico). I liberisti, d’altro canto, sostengono che si possa investire nelle industrie nascenti anche
senza proteggerle, infatti la prospettiva di riduzione progressiva di CU e quindi di aumento dei profitti è
sufficiente ad attirare nel settore nuove imprese e a farlo sviluppare, senza bisogno di protezione; inoltre,
sostengono che non sia facile né capire dove si trovino i costi decrescenti né scegliere l’impresa da
proteggere né privare poi la stessa della protezione concessagli, infatti l’impresa e i sindacati faranno di
tutto per mantenere quel dazio. I dazi non hanno effetti solo sulle quantità importate, ma possono averne
anche sul prezzo dei beni importati (m): è possibile che l’imposizione di un dazio su un bene importato
spinga i produttori esteri a ridurre il prezzo al netto del dazio del bene (p M): essi preferiscono lasciare
immutato il prezzo finale al lordo del dazio [pM(1+d)] che i consumatori del paese che impone il dazio
devono pagare anche a costo di incassare un prezzo netto più basso.

L’introduzione di un dazio può dar luogo a due diversi casi:

- il dazio si aggiunge al prezzo netto pM: pM(1+d) > pM;


- l’introduzione del dazio spinge le imprese estere produttrici del bene a ridurre il prezzo netto da pM
a pM’ (dove pM’ < pM) allo scopo di lasciare invariato il prezzo al lordo del dazio: pM’(1+d) = pM.

Nel secondo caso, quando il prezzo netto del bene importato viene ridotto, si ha un miglioramento delle
ragioni di scambio (altro argomento a favore del protezionismo): RS = pX ּ e / pM (simile al tasso di cambio
reale, ma questo comprende i prezzi di tutti i beni potenzialmente commerciabili internazionalmente,
mentre RS comprende i prezzi dei beni effettivamente esportati e importati). Il prezzo delle importazioni
che conta nei rapporti con l’estero è quello al netto del dazio: la sua riduzione da p M a pM’ fa migliorare RS,
cioè diminuisce il prezzo pagato per le importazioni. Una riduzione del prezzo al netto del dazio è più
probabile che si verifichi quando l’elasticità della domanda è elevata (se l’elasticità del bene al prezzo è alta
significa che la quantità domandata del bene è molto reattiva al variare del prezzo dello stesso), infatti un
aumento del prezzo lordo comporterebbe per l’impresa una forte riduzione della domanda del bene, e
l’elasticità dell’offerta è bassa, infatti anche se si riduce il prezzo netto, l’impresa continua a produrre una
quantità pressoché costante. Questa riduzione si verifica anche quando il paese importatore che impone il
dazio è relativamente grande: in questo caso la riduzione della domanda del bene nel paese che applica il
dazio rappresenta anche una riduzione della domanda internazionale (poiché la sua domanda del bene è
una quota rilevante della domanda internazionale) e, di conseguenza, si riduce il prezzo internazionale.
Un’economia avanzata, normalmente caratterizzata da salari alti, può soffrire la concorrenza di economie
meno avanzate, dove i salari sono molto più bassi e la protezione dei lavoratori è minore. Il protezionismo
viene presentato come difesa del lavoro straniero a buon mercato o difesa dal dumping sociale, cioè da
una forma di concorrenza, giudicata sleale, che viene esercitata da un paese, spesso in via di sviluppo,
approfittando del fatto che il costo del lavoro al suo interno è tenuto basso per effetto della scarsa
protezione sociale dei lavoratori. Importare da paesi dove il lavoro viene pagato poco significa premiare
una concorrenza sleale perché si ottiene a danno dei lavoratori, allo stesso modo produrre a costi
ambientali elevati è dannoso: si possono dunque introdurre dei dazi per limitare quelle importazioni
derivanti da condizioni di lavoro o ambientali non adeguate. Più in generale il dumping è una concorrenza,
ritenuta sleale, che consiste nel praticare nei mercati esteri prezzi inferiori a quelli praticati nel mercato
interno. Una critica di analisi economica che viene fatta si basa sul fatto che i salari nei vari paesi tendono a
seguire la produttività: ciò che conta per la concorrenza internazionale è w/ π , cioè il rapporto tra il salario e
la produttività media del lavoro, che fornisce il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP): dove si pagano
salari più alti la produttività è maggiore e la competitività aumenta. Di conseguenza la giustificazione della
difesa dal lavoro a buon mercato non è del tutto fondata. Più che il protezionismo, un’economia avanzata
dovrebbe perseguire una riconversione e ristrutturazione produttiva che spinga le imprese verso attività a
più alta produttività e più convenienti nel commercio internazionale.

Per valutare gli effetti del protezionismo si deve tener conto anche del rischio di contromisure: con ogni
probabilità se un paese adotta una politica protezionistica, gli altri paesi faranno altrettanto nei suoi
confronti. In tal caso il risultato netto sarà inferiore di quello sperato o perfino negativo (tutti perdenti,
nessun vincitore, dunque il protezionismo diventa un gioco a somma negativa). Il protezionismo riesce,
inoltre, ad incidere sulla propensione ad importare, dunque riesce ad abbassare o innalzare il livello delle
importazioni. Quando il livello delle importazioni è elevato in corrispondenza di un reddito di non piena
occupazione, una politica espansiva tendente ad accrescere occupazione e reddito farebbe aumentare le
importazioni oltre misura e la bilancia dei pagamenti costituirebbe un vincolo alle politiche espansive,
vincolo che può essere alleviato attraverso il protezionismo. La scelta tra apertura o chiusura al commercio
internazionale (liberismo/protezionismo) è fortemente dipendente dalle condizioni strutturali di ciascuna
economia: nel caso dell’Italia (di dimensioni relativamente piccole e priva di materie prime) l’apertura
internazionale è stata una scelta obbligata per consentire lo sviluppo industriale. Da diversi anni gli USA
registrano un deficit delle partite correnti con il resto del mondo e, in particolare, verso la Cina: nel 2018 il
deficit degli USA è stato di 600 mld di $. Per limitare il deficit, e pensando di proteggere le imprese e
l’occupazione nazionale, Trump ha introdotto dazi sulle importazioni, sussidi alle imprese nazionali che
producono beni sostitutivi delle importazioni e sussidi nazionali alle imprese che esportano. La Cina ha
reagito introducendo a sua volta dazi sulle importazioni dagli USA per rappresaglia. Il risultato è stato una
riduzione del commercio internazionale: molto probabilmente senza economie vincitrici, ma tutte perdenti.

Cap.10: analisi benefici-costi


L’economia del benessere trova importanti applicazioni pratiche nell’analisi e nella definizione delle scelte
pubbliche correnti, quali la costruzione di opere pubbliche, l’introduzione di norme antinquinamento, la
formazione del personale. Le politiche pubbliche correnti consistono nel realizzare progetti pubblici, definiti
come una variazione dell’offerta netta di beni e servizi determinata dall’attività pubblica: preliminarmente il
policy maker deve decidere quale progetto è da preferire tra le varie alternative, tenendo conto dei benefici
e dei costi di ognuno.

Ci sono varie fasi nella scelta:

- individuare delle alternative, tra le quali lo status quo in cui non si fa nulla;

- precisare le conseguenze di ogni progetto in termini fisici (quantità di inputs e outputs) e per ogni periodo
futuro;

- valutare costi e ricavi in base ai prezzi di mercato di inputs e outputs;

- attualizzare costi e ricavi, anche futuri;

- calcolare il tasso di rendimento atteso.

Il progetto scelto avrà il tasso di rendimento più alto. Considerando un progetto m-esimo con benefici b tm e
costi ctm al tempo t, al tasso di sconto i e al fattore di sconto (1+i) -t, abbiamo:

- Bm = ∑t btm(1+i)-t, somma dei valori attuali dei benefici del progetto m-esimo;

- Cm = ∑t ctm(1+i)-t, somma dei valori attuali dei costi del progetto m-esimo;
- VANm = Bm - Cm , valore attuale netto VAN assoluto;

- VANrm = Bm - Cm /Cm, valore attuale netto VAN relativo.

Sono ammissibili solo i progetti con VAN > 0 e si deve preferire il progetto con il VAN più alto: il progetto
con il VAN più alto è però quello che costa di più, infatti Il VAN assoluto finisce per privilegiare i progetti
realizzati con investimenti elevati e penalizzare i progetti più piccoli, per questo si usa il VAN relativo, che
privilegia invece questi ultimi (ricorda che il VAN ci dice quanto rende ogni euro speso). Il VAN assoluto non
tiene conto della dimensione dei progetti, infatti grandi progetti avranno benefici netti che possono essere
alti in termini assoluti, ma bassi relativamente al capitale investito, ecco perché si introduce il VAN relativo,
pari al VAN assoluto rapportato ai costi attualizzati. I risultati coincidono per l’ammissibilità del progetto
perché VANrm > 0 solo se VANm > 0, ma possono essere diversi nella graduatoria perché un progetto di
piccole dimensioni ha un VAN assoluto piccolo, ma può avere un VAN relativo molto alto. Con entrambi i
criteri, il risultato della scelta dipende in modo cruciale dal tasso di interesse i (maggiore è i e minore è il
beneficio atteso futuro), infatti i progetti aventi costi sociali netti immediati e benefici sociali netti differiti
saranno tanto più convenienti quanto più basso sarà il tasso di sconto al quale si attualizzano i benefici: al
tasso di sconto zero o, in generale, a tassi di sconto relativamente bassi, il progetto è più conveniente in
termini di VAN. Un altro criterio di scelta è dato dal tasso interno di rendimento (TIR), che è quel tasso di
sconto che eguaglia la somma dei benefici attualizzati alla somma dei costi attualizzati, questo equivale a
dire che il TIR è il tasso di sconto che rende il VAN uguale a zero: in termini analitici B m - Cm = 0 vale a dire ∑t
btm(1+i)-t - ∑t ctm(1+i)-t. Se si considera i come incognita in questa uguaglianza, si può risolvere rispetto ad
essa, che rappresenta il tasso interno di rendimento. Sono ammissibili solo i progetti con TIR > tasso di
interesse di mercato e si deve preferire il progetto con il TIR più alto. A prima vista questo criterio appare
più conveniente perché non richiede di prefissare un tasso di sconto per attualizzare benefici e costi e di
calcolare, poi, il rendimento netto del progetto; tuttavia, possono sorgere vari problemi che spesso non
rendono consigliabile il ricorso al criterio del TIR. Potrebbe verificarsi che il tasso di sconto sociale sia
compreso fra la radice minima e massima del progetto: dinanzi questa situazione dovremmo affermare
contemporaneamente che il progetto è inammissibile se confrontassimo il tasso di sconto sociale con il
tasso di rendimento minimo, cioè la radice minore, e che il progetto è ammissibile se confrontassimo il
tasso di sconto sociale con il tasso di rendimento massimo, quindi la radice maggiore.

I criteri di scelta del policy maker e dell’imprenditore privato differiscono per i seguenti aspetti:

- il policy maker deve tenere conto degli effetti diretti e indiretti, in particolare delle esternalità (positive e
negative) causate dal progetto pubblico, non sempre facili da identificare;

- il policy maker deve tenere conto dei costi e benefici incommensurabili e intangibili (relativi alla qualità
della vita, della salute, dell’ambiente) per i quali non esistono prezzi di mercato (quindi non entrano nel
calcolo privato). Per valutare i costi e i benefici del progetto spesso non sono sempre affidabili i prezzi di
mercato perché possono essere influenzati dal progetto stesso se di grandi dimensioni e perché i mercati
potrebbero essere distorti (es: monopolio) e influenzati dalla distribuzione dei redditi;

- un’impresa si limita ad un’analisi finanziaria del progetto, considerando soltanto le conseguenze in termini
monetari, lo Stato invece, in aggiunta a tale analisi, considera anche tutte le conseguenze dirette e indirette
del progetto, quindi conduce anche un’analisi economica. In sede pubblica, l’analisi economica serve per
valutare la validità del progetto, mentre quella finanziaria consente di indicare le necessità di risorse
finanziarie per l’impresa pubblica, l’ente o l’organo che amministra il progetto. Quindi se il soggetto privato
parla di costi e ricavi, il soggetto pubblico parla di costi e benefici.
Cap.11: politiche macroeconomiche in economia aperta
In economia aperta, il sistema economico di un Paese si relaziona con altre economie di altri paesi.
L’apertura internazionale introduce un ulteriore obiettivo o vincolo per l’azione pubblica, cioè l’equilibrio
della bilancia dei pagamenti, cioè un documento contabile che raccoglie tutte le informazioni relative alle
transazioni che gli operatori economici del nostro paese effettuano con gli operatori economici di altri
paesi. Queste transazioni di beni e servizi vengono registrate in entrata o in uscita, a credito o a debito e
originano uno scambio di valute: a debito viene registrato l’importo degli scambi che danno luogo ad un
esborso di valuta estera (importazioni), a credito invece vengono registrati gli afflussi o introiti di valuta
estera dal paese estero verso il nostro paese (esportazioni). La bilancia dei pagamenti viene redatta
secondo i principi della partita doppia, quindi contabilmente è sempre in equilibrio, ma dal punto di vista
economico normalmente non lo è. Essa è formata da due prospetti: movimenti dei beni o partite correnti e
movimenti dei capitali o conto finanziario. Il primo comprende un conto corrente, che include esportazioni
e importazioni di beni e trasferimenti unilaterali (es: rimesse di emigrati, doni pubblici e privati), e un conto
capitale, che include transazioni di beni capitali, brevetti, diritti di autore e avviamenti commerciali (es:
aziende). Il secondo riguarda le attività finanziarie, quindi i movimenti di capitale finanziario a breve, medio
e lungo termine, tra cui investimenti diretti, tramite l’acquisto o la vendita di azioni e partecipazioni
finalizzati al controllo di imprese localizzate all’estero, e investimenti di portafoglio, tramite l’acquisto o la
vendita di azioni e partecipazioni senza controllo, cioè obbligazioni; comprende, poi, variazioni di riserve
ufficiali, cioè tutte quelle attività con le quali è possibile realizzare scambi sui mercati esteri e con cui le
autorità monetarie, cioè le banche centrali, possono fronteggiare i problemi di BP e comprendono valute
diverse dall’euro detenute nelle loro casse, oro e altre attività. Il saldo della bilancia dei pagamenti è pari
alla somma algebrica dei saldi delle tre sezioni, quindi BP contabile = saldo c. corrente + saldo c. capitale +
saldo c. finanziario = 0 perché contiene la variazione delle riserve ufficiali, che sono esattamente la voce che
porta sempre in equilibrio il saldo. Il BP economico = PC (saldo delle partite correnti, quindi saldo c.
corrente + saldo c. capitale) + MK (saldo dei movimenti dei capitali, quindi saldo c. finanziario al netto
(quindi -) delle variazioni delle riserve ufficiali). Ad ogni transazione tra paesi diversi (che non riguarda gli
stati, bensì gli operatori privati e pubblici) corrisponde uno scambio di valute estere, che genera un insieme
di prezzi, cioè di tassi di cambio nominali “e”, che indicano il prezzo di un’unità di valuta nazionale in
termini di valuta estera: e = quantità di valuta estera/1 euro. Il tasso di cambio è importante perché incide
sui prezzi degli scambi internazionali. Nel mercato delle valute, i tassi di cambio possono essere definiti con
due regimi diversi: il regime dei cambi flessibili, in cui il tasso di cambio è determinato nel mercato dei
cambi dall’incontro di domanda e offerta delle valute e fluttua liberamente nel tempo, e il regime dei
cambi fissi, in cui le autorità monetarie dei vari paesi intervengono nel mercato dei cambi per controllare i
tassi di cambio e per mantenerli costanti nel tempo, quindi ancorati ai valori stabiliti dagli accordi tra le
autorità monetarie dei rispettivi paesi: questo tasso di cambio predeterminato prende il nome di parità.
Dopo la Seconda Guerra mondiale in Europa vigeva il regime dei cambi fissi, ma nel 1971 gli USA
dichiararono di non poter più assicurare quel regime, i tassi di cambio iniziarono così a fluttuare e si passò
ad un regime di cambi flessibili e in Europa ognuno iniziò ad avere la propria valuta. Si provò poi a
ripristinare il regime dei cambi fissi tramite il progetto della massima integrazione delle valute europee,
abolendo le valute nazionali e introducendo una valuta unica, come l’euro, che può essere definito come
l’evoluzione del regime dei cambi fissi. Oggi siamo ancora in un regime di cambi flessibili, infatti i tassi di
cambio sono fluttuanti e cambiano giorno per giorno. Immaginiamo ora un sistema di economia aperta
formata da due soli paesi: Eurolandia e Stati Uniti. Supponiamo che Eurolandia venda beni e servizi agli
USA, che dovranno pagare Eurolandia in euro e che gli USA vendano merci e titoli ad Eurolandia, che dovrà
pagare gli USA in dollari: entrambi dovranno rifornirsi della rispettiva valuta estera nel mercato delle valute
estere. Alla fine dell’anno t, Eurolandia e USA danno luogo a due saldi, che sommati forniscono il BP.

Se Eurolandia registra un surplus di BP, nel mercato delle valute si verifica un eccesso di domanda di euro,
questo significa che Eurolandia ha venduto più di quanto abbia comprato dall’estero, mentre se Eurolandia
registra un deficit di BP, nel mercato delle valute si registra un eccesso di offerta di euro, quindi un eccesso
di domanda di dollari.

Grazie a questo esempio, possiamo concludere che nel regime di cambi flessibili:

- se BP > 0, nel mercato delle valute si verifica un eccesso di domanda della valuta nazionale, quindi un
eccesso di offerta di valuta estera e un introito netto di valuta estera, cioè un aumento delle riserve di
valuta estera: questo significa che nel mercato delle valute estere ci sarà un apprezzamento dell’euro, che
si rafforzerà grazie alla forte domanda di euro;

- se BP < 0, nel mercato delle valute si verifica un eccesso di offerta della valuta nazionale, quindi un
eccesso di domanda di valuta estera e un esborso netto di valuta estera, cioè una diminuzione delle riserve
di valuta estera: questo significa che nel mercato delle valute estere ci sarà un deprezzamento dell’euro,
che si indebolirà a causa della forte offerta di euro;

- se BP = 0, c’è equilibrio nel mercato delle valute estere e il tasso di cambio dell’euro è stabile.

Un accordo internazionale tra le autorità monetarie dei vari paesi stabilisce le parità, cioè i valori a cui
devono essere ancorati i tassi di cambio nominali. Le autorità monetarie intervengono nel mercato delle
valute per compensare gli eccessi di domanda e offerta e mantenere il cambio al livello della sua parità.

Quindi, nel regime dei cambi fissi:

- se BP > 0, la Banca Centrale sarà costretta a vendere valuta nazionale, acquisendo in cambio valuta estera,
per compensare l’eccesso di domanda di euro, in misura sufficiente a mantenere stabile il tasso di cambio;
questo comporterà un aumento delle riserve ufficiali di valuta estera presso la Banca Centrale;

- se BP < 0, la Banca Centrale sarà costretta ad assorbire valuta nazionale, cedendo in cambio valuta estera,
per compensare l’eccesso di offerta di euro, in misura sufficiente a mantenere stabile il tasso di cambio;
questo comporterà una diminuzione delle riserve ufficiali di valuta estera presso la Banca Centrale;

- se BP = 0, non ci sarà nessun intervento da parte delle Banche Centrali.

Se la parità diviene non sostenibile per un paese, a causa degli squilibri persistenti di BP, le autorità
monetarie possono concordare una modifica della parità:

- se BP > 0 è persistente, viene aumentata la parità, quindi c’è una rivalutazione;

- se BP < 0 è persistente, viene diminuita la parità, quindi c’è una svalutazione.

Dopo la rivalutazione o la svalutazione, le autorità riprenderanno a intervenire per mantenere il cambio al


livello della nuova parità.

L’obiettivo BP = 0 è un obiettivo a lungo termine della politica economica, mentre lo squilibro della bilancia
dei pagamenti è un fallimento macroeconomico, che si ha quando un’economia rimane a lungo in avanzo o
in disavanzo. In un regime di cambi flessibili, quando siamo in avanzo (surplus) c’è un continuo
apprezzamento dell’euro, mentre quando siamo in disavanzo (deficit) c’è un continuo deprezzamento
dell’euro, ma entrambe le situazioni sono insostenibili se persistenti nel tempo.
Sappiamo che il saldo della bilancia dei pagamenti è BP = PC + MK, cioè è pari alla somma algebrica tra il
saldo dei movimenti dei beni e il saldo dei movimenti dei capitali.

Il saldo dei movimenti dei beni PC, che in Italia è migliorato vistosamente negli anni successivi alla
svalutazione della lira, avvenuta nel settembre del 1992, dipende dal tasso di cambio nominale ed è dato
dalla differenza tra le esportazioni e le importazioni, che fornisce le esportazioni nette (PC = X – M):

- se l’euro si apprezza, le esportazioni diminuiscono e le importazioni aumentano, quindi il saldo dei


movimenti dei beni diminuisce, il prezzo in dollari dei beni europei aumenta e il prezzo in euro dei beni
esteri diminuisce ⇒ perdita della competitività;

- se l’euro si deprezza, le esportazioni aumentano e le importazioni diminuiscono, quindi il saldo dei


movimenti dei beni aumenta, il prezzo in dollari dei beni europei diminuisce e il prezzo in euro dei beni
esteri aumenta ⇒ guadagno della competitività.

Quindi PC è indicatore della competitività dei paesi e dipende dai prezzi delle rispettive valute nazionali e
dai tassi di cambio nominali. Il tasso di cambio reale bilaterale è un indicatore sintetico della competitività
ed è dato da er = p ∙ e / pw , cioè dal rapporto tra l’indice generale dei prezzi dei beni europei “p” e il tasso di
cambio nominale “e” / indice generale dei prezzi dei beni esteri “p w”: se questo rapporto è > 1 i beni
europei costano di più, quindi c’è una perdita di competitività delle merci europee (diminuisce la domanda
di beni e servizi europea), se invece è < 1 i beni americani costano di più, quindi c’è un guadagno della
competitività delle merci europee (aumenta la domanda di beni e servizi europea).
Il cambio nominale bilaterale è, dunque, il prezzo di una moneta in termini di un’altra moneta e vi sono due
modi per esprimere questo prezzo: con la quotazione incerto per certo si indica la quantità di valuta
nazionale necessaria per acquistare una data quantità di valuta estera (€/$), con la quotazione certo per
incerto si indica la quantità di valuta estera necessaria per acquistare una data quantità di valuta nazionale
($/€). Lo stesso tasso può essere espresso in forma dinamica, quindi tenendo conto del fattore temporale:
ė r = ρ̇ + ⅇ̇ - ρ̇ω ,dove ρ̇ è il tasso di variazione del tasso d’inflazione europeo, ρ̇ω è il tasso di variazione del
tasso di inflazione estero e ⅇ̇ è il tasso di variazione del tasso di cambio nominale ( ρ̇ - ρ̇ω , cioè la differenza
tra l’inflazione interna e l’inflazione esterna, è l’inflazione relativa). Se due paesi hanno la stessa valuta,
come la Germania e l’Italia, non ha senso confrontare i due tassi di cambio nominale, quindi si considerano
unicamente i prezzi: se la Germania ha un’inflazione bassa, allora ha più competitività dell’Italia.

Il saldo PC dipende dalle importazioni M e dalle esportazioni X, che a loro volta dipendono dalla
competitività di prezzo, basata sul tasso di cambio reale, dalla competitività non di prezzo, basata sulla
qualità dei prodotti, e dai fattori di domanda, cioè dal reddito:

- competitività di prezzo: p↑e↑pw↓, quindi er ↑M↑X↓PC↓;

- competitività non di prezzo: qualità dei beni e dei servizi↑PC↑;

- fattori di domanda: se Y↑M↑PC↓, se Y W↑X↑PC↑.

Quindi, il saldo dei movimenti dei beni, in termini reali, è PC = X – M = f(p -, pw+ , e -, Y -, YW+), che dipende dai
fattori di competitività di prezzo e dai fattori di domanda (i segni sopra le variabili indicano il segno della
derivata prima rispetto a PC, quindi indicano il miglioramento o il peggioramento di PC all’aumentare della
variabile stessa: se i prezzi del nostro paese aumentano PC peggiora, se i prezzi del resto del mondo
aumentano PC migliora etc…).

Il saldo dei movimenti di capitale MK dipende dal differenziale tra i tassi di interesse a lungo e breve
termine, dalle variazioni attese del cambio nominale e dai differenziali dei saggi di profitto e delle strategie
d’impresa: MK = g[i+ , iW- , ⅇ̇ ⅇ+¿ ¿]. La scelta del titolo conveniente avviene guardando molti aspetti, tra cui il
rischio e il tasso d’interesse: supponendo che il rischio sia lo stesso, il titolo più conveniente è quello con il
tasso d’interesse maggiore.

L’aumento dei tassi d’interesse del nostro paese “i” aumenta la convenienza dei nostri titoli, quindi MK
migliora, se, invece, aumentano i tassi d’interesse nel resto del mondo “i W” aumenta la convenienza dei
titoli esteri, quindi peggiora MK. L’ultima variabile, cioè la ⅇ̇ ⅇ, indica la variazione attesa del tasso di cambio
nominale, importante per effettuare scelte nei mercati finanziari internazionali.

In sintesi, il saldo della bilancia dei pagamenti dipende da:

BP = PC + MK = f(p-, pw+ , e-, Y-, YW+, i+ , iW- , ⅇ̇ ⅇ+¿ ¿), semplificando BP = h(e - , Y -, i+): questo significa che BP
peggiora se si apprezza il cambio e se aumenta il reddito dell’economia; inoltre, se il tasso d’interesse
aumenta i titoli finanziari si collocano più facilmente, quindi BP migliora.

Adesso non rimane che integrare esportazioni (domanda di beni e servizi interni richiesta dai consumatori
esterni) e importazioni (domanda di beni e servizi esterni richiesta dai consumatori interni) nella formula
del reddito dell’economia ricavata dalla IS, Y = C + I + G: in economia aperta, Y = C + I + G + (X – M), C = cY, I
= Ī - ai, X = x , M=mY. Le esportazioni X sono considerate esogene, mentre le importazioni M vengono
normalmente fatte dipendere dal livello della domanda (fattori di domanda), dove m è la propensione ad
importare (ci dice di quanto aumentano le importazioni per un dato incremento del reddito Y, o meglio per
ogni euro aggiuntivo di Y quanti centesimi vengono dirottati nell’acquisto di beni e servizi dall’estero) e Y è
il livello del reddito interno. Il fattore m viene in prima approssimazione considerato come un dato, ma in
realtà dipende da fattori strutturali e da fattori di competitività; questi ultimi, a loro volta, dipendono dalle
caratteristiche di qualità dei beni (fattori di competitività non di prezzo) e dai prezzi dei beni nazionali
(fattori di competitività di prezzo). Il reddito aggregato dell’economia nel mercato dei beni (curva IS) può
essere quindi riscritto come: Y = 1/1-c+m ∙ (Ī – ai + G + x ), dove le esportazioni X sono la nuova componente
della domanda aggregata. In economia aperta, la IS la troviamo sempre nella stessa forma, ha sempre un
andamento decrescente, in quanto rappresenta la relazione inversa tra tasso d’interesse e livello del
reddito, con l’aggiunta però delle esportazioni, che la fanno spostare verso destra (la domanda aggregata
aumenta) e la inclinano maggiormente, essendo il moltiplicatore più piccolo a causa di m, che tra l’altro
determina l’inclinazione della curva. Per avere equilibrio in economia aperta, oltre ad avere IS e LM in
equilibrio, il saldo della bilancia dei pagamenti deve essere nullo: il grafico deve avere quindi come
condizione di equilibrio BP = 0 e rappresentare tutte le combinazioni possibili tra tasso d’interesse, reddito e
saldo della bilancia dei pagamenti.

BP ricordiamo essere in funzione del tasso d’interesse (i), del reddito (Y) e del tasso di cambio nominale (e):

- che relazione c’è tra i e BP? Il tasso d’interesse è fondamentale per il saldo dei movimenti di capitale,
infatti quest’ultimo dipende da i, in particolare, maggiore è i all’interno del nostro paese, maggiore è MK
perché se aumenta il tasso d’interesse pagato sui titoli del nostro paese diventa più conveniente acquistare
nei mercati finanziari internazionali titoli emessi nel nostro paese; la vendita di titoli comporta un afflusso di
valuta estera, che si registra nella sezione a credito della bilancia dei pagamenti, quindi nella sezione dei
movimenti di capitale: maggiore è i, maggiore è la quantità di titoli del nostro paese collocati all’estero,
maggiore è il saldo MK;

- che relazione c’è tra Y e BP? Se Y aumenta, aumentano i consumi e le importazioni dall’estero e peggiora il
saldo dei movimenti dei beni PC. All’aumentare di Y, MK rimane costante, ma le M aumentano, quindi PC
peggiora, dunque BP non sarà più in equilibrio, come lo era in A, dove la somma algebrica di PC ed MK è
nulla, ma si sposterà in A’, dove sarà in deficit (BP<0), bisognerà dunque migliorare MK migliorando i,
vendendo quindi più titoli all’estero: B sarà allora un nuovo punto di equilibrio, infatti aumentando il
reddito e il tasso d’interesse, il PC negativo verrà compensato. La retta che collega A e B è crescente e
questo significa che per mantenere in equilibrio la BP, se aumentiamo Y dobbiamo necessariamente
aumentare anche i. L’inclinazione della retta crescente può essere quasi piatta o molto inclinata e questo
dipende dalla mobilità internazionale dei capitali finanziari: si parla di mobilità imperfetta dei capitali
quando ci sono barriere (costi, ritardi, procedure) all’acquisto di titoli all’estero, al contrario, quando con
molta facilità si riesce a investire o disinvestire in titoli esteri allora ci sarà mobilità perfetta, in particolare,
se la mobilità è bassa, la curva BP è più ripida, se la mobilità è alta, la curva BP è più piatta. Questo perché
se ci sono molti ostacoli per un operatore ad acquistare titoli emessi in altri paesi, egli troverà conveniente
acquistarli solo se il tasso d’interesse di questi è più alto di quello dei titoli del suo paese, quindi, dato ogni
livello del reddito, per avere in equilibrio BP, è necessario un tasso d’interesse maggiore che riesca ad
attrarre i capitali dall’estero. Se la mobilità è perfetta, il mercato finanziario funziona come un mercato di
concorrenza perfetta: se il tasso d’interesse del nostro paese aumenta anche in piccola percentuale rispetto
al tasso d’interesse del resto del mondo, ci sarà un grande afflusso istantaneo di capitali per acquistare i
titoli del nostro paese, che saranno quindi più convenienti. Questo provoca un miglioramento di MK: BP
sarà costante, quindi verrà rappresentato nel grafico con una retta parallela all’asse delle x e per ogni
aumento del reddito Y, i deve essere mantenuto costante e pari a i W, cioè al tasso d’interesse del resto del
mondo, infatti ogni deviazione provocherebbe avanzi o disavanzi di MK enormi, tendenti all’infinito e
impossibili quindi da compensare. Tutti i punti sulla retta BP garantiscono l’equilibrio, mentre tutti i punti al
di fuori provocano uno squilibrio, più precisamente tutti i punti al di sopra della retta BP corrispondono ad
un surplus, tutti i punti al di sotto corrispondono ad un deficit. Se Y rimane costante e i aumenta (punto B),
PC rimane costante, MK e BP migliorano, quindi avremo combinazioni di tasso d’interesse e di reddito in
surplus, ma sappiamo che un surplus prolungato nel tempo è insostenibile, quindi è un fallimento. Se,
invece, i diminuisce (punto C), PC rimane costante, MK e BP peggiorano, quindi avremo combinazioni di
tasso d’interesse e di reddito in deficit, anch’esso considerato un fallimento. Dunque, il punto A, lungo la
curva BP, tra i 3 punti è l’unico in grado di garantire una coppia (Y1;i1) in equilibrio;

- che relazione c’è tra e e BP? Se il tasso di cambio nominale (prezzo della nostra valuta in valute estere) si
modifica, BP si muove: se e > ⅇ , l’euro si apprezza e BP si sposta verso l’alto, infatti le M aumentano, le X
diminuiscono, PC, a parità di Y, peggiora, quindi per compensare bisogna aumentare i e quindi MK. Se e < ⅇ
, l’euro si deprezza e BP si sposta verso il basso, infatti le M diminuiscono, le X aumentano, PC, a parità di Y,
migliora, quindi per compensare bisogna diminuire i e quindi MK.

Il modello IS-LM-BP in economia aperta, detto modello Mundell-Fleming, fornisce un’unica combinazione
di tasso d’interesse e reddito in grado di tenere in equilibrio 3 mercati: mercato dei beni IS, mercato della
moneta LM e bilancia dei pagamenti BP.

Conduciamo ora un’analisi di statica comparata: se il policy maker decidesse di deprezzare l’euro, sappiamo
che BP si sposterebbe verso il basso (BP’), quindi A non si troverebbe più in equilibrio perché non sarebbe
più il punto d’incontro tra i 3 mercati. La IS si sposta verso destra (IS’), quindi, a parità di tasso d’interesse,
la domanda aggregata aumenta; anche le X aumentano e questo sposta la IS’ in B, dove però continuiamo
ad essere in avanzo, quindi in squilibrio. Supponendo di trovaci in un regime di cambi fissi, nel mercato
delle valute avremo un eccesso di domanda di euro, quindi ci sarà una tendenza a rivalutare l’euro, allora
interverranno le autorità monetarie, che andranno ad aumentare l’offerta di euro comprando valuta
straniera in euro: così facendo il tasso di cambio rimarrà costante. Se l’offerta di moneta aumenta, grazie
alla BCE che mette in circolazione moneta (l’unica in grado di crearla), la LM si sposta verso il basso, i
diminuisce, Y aumenta e nel punto C c’è equilibrio macroeconomico, essendo nuovamente in equilibrio i 3
mercati. Quindi, la svalutazione è efficace come politica espansiva del reddito? Si, perché abbassa BP, fa
crescere le esportazioni, aumenta l’offerta di moneta, fa diminuire il tasso d’interesse, aumenta la
domanda aggregata (in particolare, sono gli investimenti delle imprese ad aumentare) e aumenta Y. Ecco
perché la svalutazione della lira, attuata per compensare il deficit della BP e stimolare la domanda
aggregata, fu una mossa astuta nel 1992: in un regime dei cambi fissi, vendendo di più e comprando di
meno dall’estero, le X aumentarono, le M diminuirono e PC migliorò, di conseguenza anche BP migliorò.
Con la svalutazione, però, aumentò l’inflazione, si perse competitività e BP tornò in deficit.

Cap.12: gli obiettivi macroeconomici e la politica monetaria


La politica monetaria ha a che fare col governo della moneta e riguarda le scelte relative all’offerta di
moneta e al tasso di interesse. Il policy maker, l’unico in grado di manovrare l’offerta di moneta, cioè la
quantità di moneta in circolazione, è la Banca Centrale in Europa, la Federal Reserve negli USA, la Bank of
England in Inghilterra, tutte in grado di stampare base monetaria e di fissare il tasso di interesse di
riferimento.

La politica monetaria ha 3 obiettivi:

1. stabilità monetaria interna, con la quale si cerca di mantenere il controllo dei prezzi, quindi un
tasso d’inflazione pari a 0, anche se in realtà l’inflazione che si ricerca è quella del 2 % , infatti questa
allo 0% è “pericolosamente sul ciglio di un burrone”, espressione con cui si intende che i prezzi
sono prossimi alla deflazione, dunque al crollo; l’immediata conseguenza della deflazione è, però,
l’aumento del valore reale dei debiti, che provocherebbe il fallimento di imprese e banche, il crollo
del reddito Y dell’economia, di conseguenza anche il crollo dell’occupazione N e, quindi, una
profonda crisi dell’economia;
2. stabilità monetaria esterna, con la quale si cerca di mantenere un tasso di cambio nominale stabile
e la bilancia dei pagamenti in equilibrio;
3. reddito Y e occupazione N.

La moneta ha 3 funzioni:

1. unità di conto, cioè funge da metro che misura il valore dei beni;
2. mezzo di pagamento, quindi serve a traferire valore tra soggetti (riduce i costi di transazione);
3. riserva di valore, cioè mantiene nel tempo il suo valore nominale (la moneta perde valore se c’è
inflazione).

Come mezzi di pagamento comunemente accettati e che pertanto possono fungere da moneta abbiamo sia
la moneta legale, cioè quella emessa dalla Banca Centrale, sia il deposito bancario, che il titolare può usare
mediante bancomat o assegni per effettuare pagamenti. Negli ultimi anni, rientrano nella definizione di
moneta la raccolta bancaria pronti contro termine (vendita di titoli a pronti che vengono subito riacquistati
alla loro scadenza), i certificati di deposito (titoli di debito trasferibili) e le accettazioni bancarie (cambiali
tratte emesse da un cliente su una banca). Le due principali forme di moneta, la moneta legale e i depositi
bancari, sono legati tra loro perché la base monetaria di cui vengono a disporre le banche costituisce la
base di un processo di creazione di credito e di depositi. La capacità di creare credito in misura superiore al
deposito iniziale dipende dal fatto che, ogni volta che la banca eroga credito, la perdita di riserve che ne
deriva è molto limitata, in quanto la base monetaria trasferita al mutuatario ritorna primo poi alla banca
stessa, data la propensione del pubblico ad utilizzare la moneta bancaria, ossia i depositi, come mezzo di
pagamento. Concessioni di credito e creazione di moneta sono due attività strettamente connesse
nell’ambito dell’economia della banca: la concessione di credito si traduce nella creazione di moneta
bancaria, ossia di depositi, perché il pubblico accetta questa attestazione debitoria delle banche come
mezzo di pagamento. La moneta ha un livello di efficienza altissimo, senza di essa ci troveremo ancora in
un’economia di baratto e non nell’odierna economia monetaria, inoltre, consente di finanziare i cosiddetti
soggetti in deficit: in un sistema capitalistico, i soggetti in deficit sono le imprese e lo Stato, che si
indebitano continuamente per realizzare investimenti, mentre i soggetti in surplus sono le famiglie e i
consumatori che risparmiano. Grazie al surplus di questi soggetti, che funge da finanziamento, è possibile
finanziare i soggetti in deficit, tramite due canali: i mercati finanziari o dei capitali, preferiti dai paesi
anglosassoni, dove chi è il risparmiatore acquista titoli, quindi obbligazioni emesse dalle imprese o dallo
Stato (i BTP sono statali) prestando in questo modo soldi, ricevendo una cedola ogni quanto prestabilito e il
rimborso del denaro prestato al termine della scadenza (credito diretto) oppure gli intermediari finanziari,
preferiti dall’Europa centrale, cioè dei soggetti, tipicamente le banche o le assicurazioni, che raccolgono il
denaro dei risparmiatori per farlo affluire ai soggetti in deficit (credito indiretto). Entrambi i sistemi hanno
vantaggi e criticità: i mercati finanziari possono essere visti, nel complesso, come un sistema in grado di
accrescere l‘efficienza, selezionando le imprese che hanno buone prospettive per il futuro, ma in essi si crea
un conflitto tra breve e lungo periodo: in questi mercati, infatti, non vi operano soltanto le famiglie e i
consumatori, propri di una strategia di lungo periodo, ma anche le imprese che fanno speculazione, cioè
strategia di breve periodo, con cui comprano un titolo per rivenderlo nel breve termine e ottenere un
guadagno proficuo. Questo penalizza molto il lungo periodo, ecco perché si dice che nei mercati finanziari
prevale il breve periodo; inoltre, in questi mercati, i risparmiatori, non essendo perfettamente informati,
seguono l’opinione prevalente, dunque assumono un comportamento non razionale, definito “da gregge”.
Secondo Keynes i mercati finanziari funzionano come i concorsi di bellezza, dove i volti vengono scelti non
sulla base del proprio giudizio, ma sul giudizio medio degli altri, allo stesso modo, infatti, l’investitore
formula le sue aspettative sulla base delle aspettative altrui, che potrebbero non avere nessun fondamento,
cercando di anticipare le tendenze del mercato. Gli intermediari finanziari hanno come vantaggio il fatto di
essere grandi operatori che riescono a sfruttare le economie di scala, operando a costi ridotti, ad agevolare
la diversificazione dei rischi, riducendoli insieme al tasso d’interesse, e ad effettuare la cosiddetta
“trasformazione qualitativa del credito”, cioè a raccogliere i depositi a breve termine dei risparmiatori e ad
utilizzarli per finanziare prestiti a medio-lungo termine. Quest’ultima operazione è molto delicata, infatti
espone le banche al rischio di illiquidità, che si viene a creare quando i risparmiatori chiedono il rimborso
prima che l’impresa debitrice abbia ripagato il prestito alla banca; tuttavia, questo rischio può essere risolto
grazie ai prestiti di altre banche o della Banca Centrale. Il rischio di illiquidità è collegato al rischio di
insolvibilità della banca, quindi all’impossibilità da parte della stessa di far fronte alle richieste di rimborso:
entrambi i rischi portano al fallimento della banca. Quando si viene a scoprire che una banca si trova in una
situazione di illiquidità, la tipica reazione dei risparmiatori è la cosiddetta “fuga agli sportelli”, cioè la corsa a
ritirare i propri depositi: questo meccanismo irrazionale finisce per essere poi la vera e propria causa della
crisi di liquidità della banca (cosiddetta “crisi da panico”). Durante la storia molte banche sono fallite e
molte volte sono dovuti intervenire persino i governi, infatti la crisi di una banca, soprattutto se di grandi
dimensioni, potrebbe comportare il fallimento dell’intero sistema bancario, legato da reti di prestiti.

La Banca Centrale è titolare dei poteri di politica monetaria, quindi gestisce l’offerta di moneta, regolando
la quantità di moneta in circolazione, creando o distruggendo base monetaria BM (insieme delle passività
finanziarie usate dalle banche come riserva, che tendenzialmente coincide con la moneta legale, quindi con
le banconote). La base monetaria viene domandata sia dalle banche per costituire riserve (BMB) che dal
pubblico, cioè dagli operatori privati come famiglie e imprese, come circolante per effettuare pagamenti
(BMP). Per la politica economica sono importanti la creazione e la distruzione di moneta perché da esse
dipendono l’aumento o la riduzione della moneta, in particolare se aumenta l’offerta di moneta, la LM si
sposta verso destra, il tasso d’interesse si riduce, la domanda aggregata aumenta (in particolare sono gli
investimenti ad aumentare), di conseguenza aumentano il reddito Y e l’occupazione N: l’aumento
dell’offerta di moneta in pandemia, quindi in una fase di recessione, è stato utile per aiutare le banche a
finanziare più facilmente prestiti.

Dal lato dell’offerta della base monetaria, da cui dipende l’offerta di moneta, opera la Banca Centrale, che
può creare o distruggere base monetaria tramite 4 canali:

1. canale estero: la Banca Centrale può intervenire nei mercati delle valute estere scambiando la
propria valuta, in particolare se la banca acquista valuta estera crea base monetaria pagando euro
che vengono aggiunti alla massa di euro in circolazione, se vende valuta estera distrugge base
monetaria ricevendo euro che vengono sottratti alla massa di euro in circolazione.
Se l’economia è in un regime di cambi fissi, la Banca Centrale è obbligata a intervenire tramite
questo canale, quindi tramite operazioni di scambio tra valute, al fine di mantenere stabili i tassi di
cambio nominali;
2. canale mercato aperto: la Banca Centrale può intervenire acquistando o vendendo titoli di stato
nel mercato finanziario, che è un mercato secondario in cui si scambiano titoli già emessi. Dopo la
crisi finanziaria del 2008, la BCE ha avviato un programma straordinario di acquisto dei titoli, ancora
in corso (famoso “whatever it takes” di Mario Draghi, quando era presidente della BCE), con lo
scopo di immettere in circolazione moneta, facendo così rimanere il prezzo dei titoli alto e il tasso
d’interesse basso;
3. canale banca (credito di ultima istanza): le banche ordinarie possono chiedere prestiti, mediante
risconto di cambiali e anticipazioni su titoli, al tasso d’interesse stabilito dalla Banca Centrale,
oppure depositare liquidità presso la cosiddetta “banca delle banche”, che dovrà corrispondere un
tasso d’interesse alla banca ordinaria, per creare un canale di finanziamento ed evitare i rischi di
illiquidità e insolvibilità;
4. canale tesoro (Governo o ministero dell’economia): rapporto diretto tra la Banca Centrale e il
Governo (titolare della politica fiscale), in cui la Banca Centrale può acquistare o vendere titoli di
stato sul mercato primario al Governo, che potrà dunque attingere e finanziarsi a condizioni
vantaggiose grazie alla Banca Centrale. Il rapporto tra i due è piuttosto delicato: fino a quando c’era
la lira, la Banca Centrale era obbligata a comprare i titoli in eccesso emessi dal Governo (BOT) e a
concedergli su un c/c di Tesoreria il 14% di anticipo sulla spesa prevista dallo stesso, poi nel 1981,
con l’inflazione alle stelle, ritenendo che l’indipendenza della Banca Centrale fosse più importante
della collaborazione tra i due, c’è stato il cosiddetto “divorzio tra la Banca Centrale e lo Stato”.
Attualmente quest’ultimo canale è chiuso in Europa, infatti lo statuto della BCE garantisce la sua
indipendenza dai governi e sancisce che il vertice della BCE non può concedere finanziamenti di
favore al Governo, di fatti il finanziamento diretto della BCE ai governi è vietato; quest’ultimo può
ottenere finanziamenti solo sul mercato aperto, quindi in maniera indiretta, dove le condizioni di
mercato sono uguali per tutti, a differenza del canale tesoro in cui si parla di “signoraggio”, che
richiama le vecchie prerogative dei re di crearsi la propria moneta senza limiti. Quindi se in un
primo periodo la politica fiscale ha prevalso su quella monetaria e quindi la Banca Centrale fungeva
da supporto alla politica fiscale, dopo il 1981 si è adottato un regime di indipendenza, attualmente
in vigore, tra politica fiscale e politica monetaria.

La Banca Centrale è l’unico soggetto in grado di stampare denaro, motivo per il quale non ha bisogno di
chiederlo in prestito ed ecco perché è considerato una sorta di rete di salvataggio o come “prestatore di
ultima istanza”. Questo ruolo svolto dalla Banca Centrale crea però un problema, infatti spinge le banche, in
cerca di affari vantaggiosi, ad essere poco prudenti. Il rapporto tra una banca ordinaria e la Banca Centrale
è viziato da un’informazione asimmetrica: la seconda non ha tutte le informazioni sulle banche ordinarie
che chiedono il finanziamento, ma essa ha il dovere di sorvegliarle e imporre loro la riserva obbligatoria
(funzione di regolamentazione), cosi si cerca di risolvere il rischio di azzardo morale.
La base monetaria BM, creata dalla Banca Centrale, ha due componenti: la componente trattenuta dal
pubblico come circolante (BMP) e la componente depositata presso una banca (BMB), che viene trattenuta
dalla stessa per effettuare gli accantonamenti a riserva e per erogare crediti (sia il circolante che i depositi
sono moneta che il pubblico usa per effettuare pagamenti). Chi riceve il credito ne trattiene una parte per le
spese immediate, il resto, in attesa delle spese previste, viene depositato presso una banca: si crea così un
effetto moltiplicativo, che crea continuamente depositi e crediti. In questo modo l’offerta di moneta è
indirettamente controllata dalla Banca Centrale attraverso i 4 canali, ma in realtà dipende da tanti altri
fattori che coinvolgono altri operatori economici.
In termini analitici, BM = BMP + BMB, con BMP = hD (con h frazione dei depositi detenuta come circolante e
D massa dei depositi) e BMB = jD (con j frazione dei depositi detenuta come riserva e D massa dei depositi):
entrambe sono regole semplici di comportamento, dove h e j indicano una proporzione fissa dei depositi,
cioè la quantità che il pubblico e la banca vogliono trattenere presso di sé. Quindi BM = hD + jD = (h + j)D,
da cui D = 1/h+j (BM) = moltiplicatore dei depositi (con h e j < 1): questa equazione ci dice che i depositi
sono un multiplo della base monetaria, quindi per ogni euro di base monetaria emessa dalla Banca Centrale
avrò un multiplo di depositi creati (cosiddetto effetto moltiplicativo). Il moltiplicatore dei depositi è tanto
maggiore quanto minori sono h e j: se h è basso, la percentuale della base monetaria che affluisce al
sistema bancario è maggiore, similmente, se j è basso, l’effetto moltiplicativo è più alto. L’offerta di moneta,
cioè l’insieme dei mezzi disponibili per il pagamento in circolazione nell’economia, è dato dalla somma della
base monetaria detenuta dal pubblico come circolante e della massa dei depositi, cioè Ls = BMP + D, dove
BMP = hD e D = 1/h+j (BM), quindi Ls = hD + D, da cui Ls = 1+h/h+j (BM) = moltiplicatore monetario (con
1+h/h+j > 1): questa equazione ci dice in che modo la Banca Centrale, facendo variare la base monetaria
attraverso i 4 canali, modifica l’offerta di moneta (ricorda che Ls è una variabile endogena, BM e j sono
invece strumenti di politica economica, in particolare al crescere di BM cresce anche Ls, mentre al crescere
di j diminuisce Ls). Il finanziamento che viene concesso al pubblico si traduce in un ulteriore deposito, pari a
(1-j)BM, in quanto il pubblico non detiene base monetaria, denominato deposito derivato (dal credito
concesso dalla banca). Ciò che è effettivamente controllabile è quindi la base monetaria, non l’offerta di
moneta, anche se un aumento della base monetaria fa aumentare l’offerta di moneta, mentre una
riduzione della base monetaria fa diminuire l’offerta di moneta. Quindi il policy maker fa muovere la base
monetaria per ottenere una variazione dell’offerta di moneta, che provoca a sua volta effetti sull’economia
reale, quindi sul reddito e sul tasso d’interesse. Il controllo di BM non garantisce il controllo pieno di Ls
perché h e j non sono costanti (j è controllabile solo per la parte di riserva obbligatoria, non per la parte di
riserve libere), ma dipendono dai tassi d’interesse su depositi e crediti, che rappresentano il costo
opportunità per la banca e per il pubblico di detenere base monetaria: se si prevede un i più alto nel
prossimo futuro, gli operatori aumentano oggi h e j, quindi riducono il moltiplicatore monetario.

Il controllo della base monetaria richiede che sia controllabile almeno uno dei canali di creazione di base
monetaria e che gli altri non siano soggetti a disturbi troppo forti:

- in cambi fissi, il canale estero non è controllato dalla Banca Centrale, che sarà costretta ad intervenire,
creando o distruggendo base monetaria, al fine di mantenere il tasso di cambio stabile, quindi questo
canale può rendere vano ogni tentativo di variazione della quantità di base monetaria: in particolare,
BM↑Ls↓, i↓MK↓, BP↓BM↓;

- il canale tesoro non è controllabile se la Banca Centrale è obbligata ad acquistare i titoli di Stato, come era
in Italia fino al 1981;

- il canale banche è controllato attraverso la fissazione dei tassi di interesse ai quali le banche ricevono
prestiti dalla Banca Centrale, ma una politica espansiva, che crea base monetaria e riduce i tassi d’interesse,
non sempre aumenta la domanda di prestiti da parte delle banche (si parla di asimmetria, intendendo che
le politiche restrittive, che si hanno quando si distrugge base monetaria e si aumentano i tassi d’interesse,
sono più efficaci);

- il canale mercato aperto è sempre controllabile (tra le operazioni di mercato aperto più importanti
abbiamo le operazioni di rifinanziamento bancario).
La domanda di moneta Ld= kY + Lo – vi ha due componenti, una a scopo transattivo e una a scopo
speculativo: la prima riguarda la quantità di moneta che gli operatori detengono per far fronte ai
pagamenti che si aspettano di dover sostenere e dipende dal reddito dell’economia, la seconda, invece,
riguarda la quantità di moneta che viene trattenuta dovendo scegliere tra il detenere moneta oppure
utilizzarla in modo alternativo per acquistare titoli. La ricchezza di un soggetto economico consiste in
attività reali (es. immobili, terreni) e finanziarie (es. titoli, moneta) e un modo di detenerla è la moneta, che
però non frutta alcun interesse, al contrario dei titoli. Detenere moneta ha un costo opportunità (guadagno
dato dal tasso d’interesse legato ai titoli a cui si rinuncia): se i tassi d’interesse sui titoli sono alti la domanda
di moneta speculativa è bassa (più sono alti i titoli e più è costoso detenere moneta, anziché impiegarla per
acquistare titoli), se i tassi d’interesse sui titoli sono bassi la domanda di moneta speculativa è alta. Il
mercato dei titoli comprende titoli irritenibili, che non vanno mai rimborsati, che fruttano una cedola
d’interesse e che il detentore può rivendere e titoli senza scadenza, che fruttano una cedola d’interesse
fissa il cui valore del tasso d’interesse viene determinato facendo valore della cedola/valore a cui viene
scambiato il titolo, quindi maggiore è il valore a cui i titoli vengono scambiati, minore è il tasso d’interesse.
Se il mercato dei titoli è in equilibrio, quindi il prezzo dei titoli e il tasso d’interesse sono fermi, e il policy
maker decide di attuare una politica monetaria espansiva creando base monetaria con l’obiettivo di far
crescere l’offerta di moneta si verifica un eccesso di offerta di moneta; tuttavia, la domanda transattiva non
aumenta, infatti non c’è motivo di detenere più moneta per effettuare pagamenti se il reddito non
aumenta. Con la moneta in più gli operatori acquistano titoli, guadagnando cosi tasso d’interesse e creando
un eccesso di domanda di titoli: il prezzo degli stessi aumenta e il tasso d’interesse si abbassa, finché non si
riduce al punto che gli operatori non troveranno più conveniente acquistare titoli e il mercato dei titoli
tornerà in equilibrio. Questa politica monetaria espansiva ha avuto successo perché ha ridotto il tasso
d’interesse e ha avuto efficacia sulla domanda aggregata che è aumentata insieme al reddito e
all’occupazione. Se il policy maker decidesse invece di attuare una politica monetaria restrittiva
succederebbe tutto il contrario: la base monetaria verrebbe distrutta, si verificherebbe un eccesso di
domanda di moneta, che provocherebbe la vendita di titoli da parte degli operatori e un successivo eccesso
di offerta di titoli, che a sua volta provocherebbe un ribasso del prezzo dei titoli e un aumento del tasso
d’interesse, finché gli operatori non troveranno più conveniente vendere titoli, allora il mercato degli stessi
tornerà in equilibrio.

Questa politica monetaria restrittiva ha avuto successo perché ha aumentato il tasso d’interesse e ha avuto
una ricaduta sulla domanda aggregata che è diminuita insieme al reddito e all’occupazione. Se ci troviamo
in economia aperta ci sono però ulteriori effetti da considerare: la riduzione del tasso d’interesse, che
stimola gli investimenti e quindi il reddito, provoca un peggioramento di PC e di MK e quindi di BP. Affinché
ci sia equilibrio nel mercato reale della moneta, l’offerta reale di moneta deve essere uguale alla domanda
reale di moneta), cioè Ls/P = kY + Lo – vi, meglio espressa così i = 1/v(kY + Lo – Ls/P), con Ls offerta
nominale di moneta messa in circolazione, P livello generale dei prezzi, Y livello del reddito nell’economia,
Lo componente fissa, i tasso d’interesse (più è alto il tasso d’interesse e minore è la domanda di moneta
speculativa).

Il tasso d’interesse è la variabile che tiene collegate la parte monetaria e la parte reale dell’economia, ecco
perché la politica monetaria ha un effetto anche sulla parte reale dell’economia, motivo per il quale
1
Y=
possiamo scrivere l’equazione del livello di equilibrio della domanda aggregata cosi: ak [Co + Io
1−c+
v
+ G + a/v(Ls/P – Lo] ⇒ moltiplicatore keynesiano. Questa equazione ci dice che una politica monetaria
espansiva fa aumentare il livello del reddito, al contrario una politica monetaria restrittiva lo fa ridurre,
mentre una politica fiscale espansiva (aumento di G) fa aumentare il reddito Y e una politica fiscale
restrittiva lo fa diminuire. Dall’equazione di equilibrio Y è possibile ricavare l’equazione della variazione
a/ v
(mediante le derivate prime) del reddito, cioè ΔY = ak ΔLs/P (per ogni euro in più di offerta
1−c +
v
nominale di moneta ottengo ΔY euro in più di reddito). Il termine ak/v è un termine di politica monetaria,
con a coefficiente nell’equazione degli investimenti, k coefficiente nella domanda transattiva di moneta e v
coefficiente nella domanda speculativa di moneta. A volte, si verificano dei ritardi sugli effetti della politica
monetaria, che possono essere ritardi di osservazione, come le altre politiche, ritardi amministrativi, che
sono più brevi di quelli di altre politiche, in particolare della politica fiscale, grazie all’indipendenza della
Banca Centrale, e ritardi negli effetti, che sono più lunghi di quelli di altre politiche, ma più brevi per gli
effetti sulla BP. La politica monetaria è più efficace in senso restrittivo, perché il moltiplicatore effettivo dei
depositi è più grande in caso di restrizione monetaria e perché il tasso di interesse non può essere negativo
o scendere sotto una soglia positiva se c’è la “trappola della liquidità” (cosiddetta asimmetria negli effetti).
Durante la recente crisi finanziaria sono state adottate politiche non convenzionali, tra cui le politiche
quantitative easing, con cui si è programmato l’acquisto di titoli di stato e titoli privati a lungo termine, e
politiche forward guidance, con cui la Banca Centrale ha annunciato esplicitamente le sue intenzioni per il
futuro per influenzare le aspettative degli operatori (es. mantenere bassi i tassi di interesse fin quando
l’inflazione rimanga al di sotto degli obiettivi). La domanda di credito può essere inelastica rispetto al saggio
di interesse, ma non è tanto l’inelasticità che determina effetti asimmetrici, quanto la possibile esistenza di
razionamento: una manovra restrittiva non causa aumenti del tasso di interesse sui crediti bancari, ma una
riduzione dell’offerta di credito a certi clienti che vengono, quindi razionati (l’offerta viene ridotta). Al
contrario, una manovra monetaria espansiva non causa una riduzione del tasso di interesse sui crediti
bancari, ma un aumento dell’offerta di credito alla quale non può non corrispondere una sufficiente
domanda di credito, per cui non soltanto non sussiste più razionamento della domanda, ma vi è uno
squilibrio del tutto opposto. La manovra monetaria, dunque, ha risultati asimmetrici: riduce senz’altro
l’offerta di credito in fase restrittiva e fa aumentare l’offerta in fase espansiva, ma non necessariamente al
nuovo e più alto livello dell’offerta corrisponde una pari domanda e pertanto non necessariamente il
credito concesso aumenta. L’efficacia della politica monetaria sulle variabili macroeconomiche, dunque,
dipende dal funzionamento del mercato del lavoro e dal peso relativo dato dalla Banca Centrale ai diversi
obiettivi macroeconomici, in particolare dalle sue preferenze relative tra inflazione e disoccupazione.

Cap.13: gli obiettivi macroeconomici e la politica fiscale


Attuare una politica fiscale significa manovrare il bilancio pubblico, quindi le entrate e le uscite dello stesso,
al fine di variare il reddito e l’occupazione nel breve periodo. Il policy maker, che gestisce il bilancio
pubblico, le cui entrate derivano dalle imposte che vengono usate per fornire beni pubblici alla collettività,
manovra le entrate e le uscite che hanno effetti sull’equilibrio macroeconomico, infatti il gettito delle
imposte t e la spesa pubblica G rientrano nei modelli macroeconomici che studiamo. Il saldo del bilancio è
Bs = T – G = T – (Cg + Ig + Trc + Trk + INT), dove T sono le entrate correnti (es. tributi), G la spesa pubblica
primaria, Cg i consumi pubblici (costo per il personale + spese per acquisti correnti di beni e servizi), Ig gli
investimenti pubblici, Trc i trasferimenti in conto corrente (es. contributi, includono trasferimenti alle
famiglie, alle imprese e al resto del mondo), Trk i trasferimenti in conto capitale (pagamenti effettuati
solitamente alle imprese per sostenere investimenti privati) e INT gli interessi sul debito pubblico che il
Governo paga a chi gli ha prestato denaro (i governi sono tipicamente in deficit, motivo per il quale
emettono BOT - più è alto il debito, più è alto il tasso d’interesse applicato); esso può essere in surplus o in
deficit pubblico e se eliminiamo gli interessi abbiamo il saldo primario, cioè Bs = T – (Cg + Ig + Trc + Trk),
dove le componenti delle parentesi formano la spesa pubblica primaria Gp.
Dal lato delle entrate fiscali, se aumentano le imposte la politica applicata è restrittiva e la domanda
aggregata diminuisce, se le imposte diminuiscono la politica applicata è espansiva e la domanda aggregata
aumenta. Dal lato della spesa pubblica, se G aumenta, la politica applicata è espansiva e il reddito aumenta,
se G diminuisce, la politica applicata è restrittiva e il reddito diminuisce.

Il prelievo tributario si distribuisce tra soggetti con reddito maggiore e minore ed esistono diversi sistemi
per imporlo:

- imposizione a somma fissa: l’ammontare delle imposte è fissato in valore assoluto;

- imposizione proporzionale: tutti i soggetti pagano le imposte secondo un’aliquota uguale per tutti;

- imposizione progressiva: l’aliquota del prelievo fiscale aumenta in modo più che proporzionale
all’aumentare del reddito. Nei sistemi in cui si adotta questa imposizione, vengono stabilite delle fasce di
reddito, cioè degli scaglioni, e per ognuna di esse si stabilisce un’aliquota t che cresce all’aumentare degli
scaglioni. La maggior parte dei paesi adotta un sistema progressivo per favorire la redistribuzione dei beni.

Immaginiamo di essere in economia chiusa:

- se il Governo scegliesse un’imposizione a somma fissa, le variabili del modello considerato finora
cambierebbero in questo modo:

- C = c(Y – T), dove Y – T è il reddito disponibile e c < 1;

- Y = cY + I + G – cT oppure Y = 1/1-c ∙ (I + G – cT), dove all’aumentare di T il reddito Y diminuisce;

- ΔY = 1/1-c (ΔG), con il moltiplicatore della spesa pubblica 1/1-c > 0;

- ΔY = -c/1-c (ΔT), con il moltiplicatore della tassazione -c/1-c < 0.

- se il Governo scegliesse un’imposizione proporzionale, sceglierebbe allora un’aliquota del prelievo t


costante, unica in tutta l’economia, e le variabili si modificherebbero cosi:

- C = c(Y – T) = c(1 – t)Y, con c < 1;

- Y – T = (1 – t)Y, da cui Y = c(1 – t)Y + I + G oppure Y = 1/1-c(1-t) ∙ (I + G);

ΔY = 1/1-c(1-t) ∙ (ΔG), con il moltiplicatore della spesa pubblica 1/1-c(1-t) > 0.

Dunque, il Governo può far variare il reddito Y manovrando t o G: se aumenta t, il moltiplicatore della spesa
pubblica si riduce, di conseguenza anche Y diminuisce, se invece decide di far diminuire t, il moltiplicatore
aumenta e di conseguenza anche Y cresce.

- se il Governo scegliesse un’imposizione progressiva, l’aliquota t sarebbe l’aliquota media del sistema.
Le imposte progressive comportano effetti macroeconomici, ad esempio queste imposte funzionano come
stabilizzatori automatici del reddito (ricorda che gli altri stabilizzatori automatici dell’economia sono i
sussidi di disoccupazione, cioè forme alternative di reddito in sostituzione dello stipendio), soggetto a
instabilità poiché segue un andamento ciclico, che alterna fasi di recessione e di espansione.
Il sistema delle imposte progressive, in una fase di espansione, aumenta il reddito aggregato dell’economia
Y, che provoca il passaggio degli operatori in uno scaglione superiore, cioè in una fascia di reddito più alta:
gli operatori dovranno cosi pagare più tasse, a seguito dell’aumento della t media, e il loro reddito Y si
ridurrà. Possiamo, quindi, affermare che in una fase di espansione si assiste ad una spinta alla crescita
nell’economia che però, allo stesso tempo, a seguito dell’innalzamento della t, funge da freno: si dice che la
Y cresce in maniera smorzata. In una fase di recessione, invece, gli investimenti da parte delle imprese
vengono ridotti, quindi Y diminuisce, gli stipendi dei lavoratori sono più bassi e gli operatori passano in uno
scaglione inferiore, a seguito della riduzione della t: la recessione viene dunque frenata, quindi l’economia
viene stabilizzata (in questo senso le imposte progressive sono stabilizzatori automatici dell’economia).
Un effetto collaterale che provoca problemi è il cosiddetto drenaggio fiscale, che diventa rilevante se siamo
in presenza di un’inflazione alta: in piena occupazione, se aumenta la domanda di beni e servizi non è
possibile aumentare il volume reale dei beni e servizi prodotti, quindi le imprese saranno costrette ad
aumentare i loro prezzi, l’inflazione fa aumentare Y in termini nominali, quindi in euro, gli stipendi dei
lavoratori dunque aumentano in termini nominali, come riflesso dell’aumento dei prezzi, ma in termini reali
rimangono gli stessi. L’aumento dello stipendio fa pagare al lavoratore più imposte in termini reali, senza
che l’aliquota t sia cambiata: questo è il drenaggio fiscale, in cui il Governo ci guadagna, infatti le sue
entrate in termini reali aumentano, ma i contribuenti ci perdono perché le loro imposte in termini reali
aumentano. Al fine di rimediare a questo effetto, il Governo può intervenire mediante la restituzione del
fiscal drag, concedendo un credito di imposta pari al drenaggio fiscale, oppure tramite l’indicizzazione degli
scaglioni di reddito.

Il gettito fiscale complessivo e l’efficacia perequativa delle imposte (in presenza di progressività) possono
essere gravemente indeboliti dai seguenti comportamenti:

- erosione: esenzione parziale o totale di alcuni redditi, spesso per finalità di politica industriale, regionale o
sociale, ma talvolta per privilegio di alcune categorie;

- evasione: si contravviene agli obblighi fiscali allo scopo di ridurre il carico fiscale;

- elusione: si adottano scelte e accorgimenti che consentono di ridurre il carico fiscale senza contravvenire
agli obblighi fiscali.

Un aspetto particolare della spesa pubblica G è la sua asimmetria: per un Governo, composto da politici e
non da economisti, è molto più facile aumentare la spesa pubblica, quindi soddisfare le richieste della
collettività e aumentare il consenso, piuttosto che ridurla, motivo per il quale quando si deve ridurre la
spesa pubblica si ricorre quasi sempre ad un Governo tecnico.
La spesa pubblica può essere finanziata in pareggio (T = G) con le imposte oppure in deficit (T < G) con
l’emissione di titoli del debito pubblico o con la creazione di base monetaria (politica monetaria e politica
fiscale qui si sovrappongono) attraverso il canale tesoro, attualmente chiuso in Europa: in deficit, il Governo
chiede denaro in prestito, emettendo titoli, obbligazioni che colloca sul mercato finanziario, organizzando
aste per ottenere il denaro di cui ha bisogno.

Non bisogna confondere il deficit con il debito: il deficit è una grandezza flusso, che indica la differenza tra
le entrate e le uscite di un dato anno (in Italia circa 7-10 % ), il debito invece è una grandezza stock, che
indica la sommatoria di tutti i deficit passati (in Italia circa 150 % ); l’Italia è uno tra i paesi col maggior livello
di debito pubblico calcolato in rapporto al PIL.

Dunque:

- l’aumento della spesa pubblica G finanziata mediante imposte, quindi in pareggio, è efficace perché
provoca un effetto positivo sul reddito e ce lo dimostra il Teorema del bilancio in pareggio o Teorema di
Haavelmo:

- Y = 1/1-c ∙ (I + G – cT);

- ΔY = 1/1-c ∙ (ΔG – cΔT) = effetto congiunto di spesa pubblica e tassazione.

Se ΔG = ΔT, cioè la spesa è finanziata interamente da imposte, allora ΔY = 1/1-c ∙ (ΔG – cΔT) = 1-c/1-c ∙ ΔG,
dunque il reddito cresce esattamente della stessa misura della crescita della spesa pubblica (ΔY/ΔG = 1),
quindi ogni euro in più speso dal Governo è finanziato con un euro in più di imposte e provoca l’aumento di
un euro di reddito: non c’è l’effetto moltiplicativo, bensì l’effetto espansivo;
- l’aumento della spesa pubblica G finanziata con debito pubblico, a parità di i, fa aumentare Y, quindi A non
è più un punto d’equilibrio. L’offerta di moneta non varia, ma la domanda di moneta a scopi transattivi
aumenta, quindi gli operatori hanno bisogno di più moneta, dunque venderanno titoli, allora l’offerta dei
titoli aumenterà, il prezzo dei titoli diminuirà e il tasso d’interesse aumenterà: C è il nuovo punto
d’equilibrio che vede un aumento di i lungo la LM, ma un reddito Y minore rispetto a quello in B.

Quindi, se il Governo aumenta G finanziandosi con il debito pubblico, c’è un effetto espansivo, quindi la
politica è efficace, ma c’è anche una retroazione monetaria, il cui coefficiente è ak/v (maggiore di zero),
poiché all’aumentare del tasso d’interesse gli investimenti delle imprese diminuiscono e in questo senso la
spesa pubblica implica spiazzamento finanziario, cioè fa fuori una componente della domanda aggregata.
Diverso dallo spiazzamento finanziario è lo spiazzamento reale o equivalenza ricardiana: se il governo
aumenta G, ma non le tasse, si fa prestare i soldi indebitandosi, ma gli operatori, essendo ultra razionali,
prevedono che il Governo dovrà prima o poi rimborsare il debito aumentando le tasse, quindi inizieranno a
ridurre i loro consumi, in previsione, dunque, delle maggiori imposte in futuro. Cosi la politica fiscale
espansiva diventa inefficace, infatti G spiazza il consumo privato, dunque i finanziamenti della spesa
pubblica mediante debito pubblico o imposte sono equivalenti per quanto riguarda l’effetto sul reddito (il
debito serve solo a ritardare le maggiori imposte). Spiazzamento finanziario e spiazzamento reale sono
argomenti critici per la politica fiscale, sostenuti particolarmente dai monetaristi, che mettono in luce i limiti
e le criticità delle politiche fiscali adottate dal Governo;

- l’aumento della spesa pubblica finanziata con base monetaria, quindi grazie alla BCE, fa aumentare
l’offerta di moneta (la LM si sposta verso destra) e il nuovo equilibrio sarà in C, dove c’è un aumento del
tasso d’interesse lungo la LM e un aumento del reddito, in misura inferiore però a quello che si avrebbe in
B. Politica fiscale e politica monetaria possono collaborare per ottenere il massimo risultato espansivo sul
reddito (politica monetaria accomodante), in modo tale da lasciare inalterato il tasso d’interesse (punto D).
Questa politica accomodante viene applicata sul canale tesoro, motivo per il quale in Europa non può
essere applicata, per di più, sempre in Europa, la politica fiscale e la politica monetaria non collaborano e il
Governo e la BCE sono sullo stesso piano, infatti si vuole evitare che la BCE sia messa a servizio del Governo,
creandogli base monetaria a suo piacimento per risolvere gli obiettivi fissati. Nonostante quanto appena
detto, negli ultimi anni, in Europa, è stata realizzata una politica monetaria accomodante, mediante però
l’acquisto di titoli da parte dei governi sul canale mercato aperto, quindi non sul canale tesoro.

Per capire il perché si voglia l’indipendenza della BCE bisogna pensare alla curva di Phillips (relazione
inversa tra tasso di disoccupazione e tasso d’inflazione) e collegarla con il modello IS-LM: nel momento in
cui la politica fiscale è espansiva e si passa da A a B e poi, la politica monetaria, anch’essa espansiva in
forma accomodante ci porta da B a D, si verifica un aumento del reddito, ma l’aumento di Y nella curva di
Phillips vede una riduzione del tasso di disoccupazione e un aumento del tasso d’inflazione, che con le
aspettative arriverebbe alle stelle, quindi se la politica monetaria fosse costretta a servire la politica fiscale
si rischierebbe un’inflazione altissima (perdita di valore della moneta). Con il signoraggio, causato dalla
creazione di base monetaria, con cui il Governo avrebbe un privilegio rispetto a tutti gli altri operatori
privati, l’inflazione diventa una vera e propria tassa (i redditi degli operatori privati si riducono per
finanziare la spesa pubblica). L’inflazione ha effetti redistributivi della ricchezza: il Governo, grazie ad essa,
riduce il suo debito pubblico, ma i redditi della collettività peggiorano (anche questa è una forma di
signoraggio, infatti nessuno di noi potrebbe finanziarsi in questo modo). 

Per misurare in termini relativi il debito pubblico e fare confronti nel tempo e tra diversi paesi si utilizza il
rapporto B/pY tra il valore nominale del debito pubblico e il PIL nominale. Se questo rapporto è alto e
risulta ulteriormente in crescita nel tempo, periodo dopo periodo, ci sono due possibili esiti
particolarmente gravi che potrebbero verificarsi:
- razionamento o totale cessazione del credito al Governo da parte dei finanziatori;
- dichiarazione di insolvenza da parte del Governo debitore.
Se diviene prevalente l’opinione che il Governo non sarà in grado di pagare gli interessi e rimborsare il
debito, allora il rapporto debito/PIL diventa «insostenibile», cioè non rimborsabile nel tempo.
Il rapporto B(t)/p(t)Y(t) è tutto in funzione del tempo t e prendendo i tassi di variazione di ogni variabile
rispetto a t si ottiene la versione dinamica del rapporto: Ḃ− Ṗ−¿ Ẏ > 0, con Ḃ tasso di variazione del debito
pubblico, Ṗ tasso di inflazione e Ẏ tasso di crescita reale del PIL.

Se Ḃ> Ṗ−¿ Ẏ il rapporto aumenta, se Ḃ< Ṗ−¿ Ẏ il rapporto diminuisce (nel 2020 il rapporto tra debito
pubblico e PIL è aumentato in tutti i paesi rispetto al livello del 2019, a causa dell’aumento di G).
Supponendo che non ci sia finanziamento monetario, quindi che il deficit si traduca interamente in
aumento del debito pubblico ∆B = (GP – T) + iB, con GP – T saldo primario e iB spesa per interessi, e che il
saldo primario sia nullo, allora ∆B = iB, dunque Ḃ= ∆B/B = iB/B = i, dove maggiore è i e maggiore è
l’aumento del debito. Dunque, posso riscrivere Ḃ− Ṗ−¿ Ẏ = i − Ṗ−¿ Ẏ > 0, dove i − Ṗ è il tasso d’interesse
reale. Se i − Ṗ>¿ Ẏ il rapporto aumenta, se i − Ṗ<¿ Ẏ il rapporto diminuisce (attualmente i tassi d’interesse
nominali sono tenuti molto bassi in Europa, anche l’inflazione è bassa, quindi i tassi d’interesse reali sono
bassi e l’economia sta crescendo molto, quindi il rapporto sta diminuendo). Un innalzamento imprevisto
dell’inflazione ridurrebbe il valore reale del debito pubblico italiano, infatti quando essa è imprevista va
sempre a vantaggio dei debitori e in questo senso ha effetto redistributivo.

Tra le cause della crescita del rapporto debito/PIL negli anni ’80:

• elevati disavanzi primari (tra 3% e 5% del PIL);

• spesa per interessi crescente (dal 5% all’8,5% del PIL);

• aumento dei tassi di interesse internazionali per la politica monetaria restrittiva US;

• aumento dei tassi di interesse interni verificatosi con la fine della politica monetaria accomodante in Italia
(a seguito dell’acquisizione di indipendenza della Banca d’Italia);

• debole crescita di Y per gli effetti della politica monetaria restrittiva e per il mantenimento di un tasso di
cambio forte della lira.

Tra le politiche di rientro del debito pubblico abbiamo:

- politiche del saldo primario (restrittive - agiscono sul numeratore): riducono la spesa pubblica e
aumentano le entrate, ma influiscono negativamente sul reddito, pertanto non è garantito l’effetto
finale desiderato dalla manovra, ossia la riduzione del rapporto fra debito pubblico e PIL,
specialmente se i moltiplicatori fiscali sono elevati e se simili provvedimenti vengono adottati
contemporaneamente in più paesi;
- politiche del saggio di interesse (restrittive - agiscono sul numeratore): abbassano la spesa per
interessi mediante:
emissione di titoli mediante aste a coloro che lo comprano al più basso tasso d’interesse;
creazione di un mercato secondario dei titoli di stato per aumentarne la liquidità;
allungamento delle scadenze nelle fasi di bassi tassi d’interesse;
strumenti di controllo diretto: vincoli di portafoglio che impongono alle banche di
acquistare titoli di stato;
diminuire la dipendenza dei tassi interni da quelli internazionali riducendo la mobilità dei
capitali mediante vincoli ai movimenti di capitale o mediante imposta sugli impieghi di
capitali all’estero (tassa di Tobin);
rafforzare la stabilità del cambio e la fiducia degli investitori nella solvibilità del Governo,
per ridurre i tassi interni.
- politiche di sviluppo del reddito (espansive - agiscono sul denominatore): sono tese ad un
riorientamento della spesa pubblica e dei tributi che, da un lato, accentui l’efficienza della spesa
pubblica e, dall’altro, abbia maggiori effetti di stimolo per l’attività economica privata. Tra queste
politiche rientrano le politiche monetarie espansive, le politiche di deprezzamento del cambio e le
politiche di moderazione salariale.

Cap.14: la politica dei redditi e dei prezzi


La politica dei redditi consiste in accordi tra imprese e sindacati (associazioni dei lavoratori), nei quali
interviene anche il Governo, finalizzati al controllo dell’inflazione attraverso il controllo della dinamica di
salari e profitti. Il principio del costo pieno Ṗ = ẇ - π + (1+g), con ẇ = tasso di variazione dei salari, π = Y/N =
tasso di variazione della produttività media del lavoro e (1+g) = tasso di variazione del mark-up, è il modello
teorico su cui si basa la politica dei redditi. Supponendo che i mercati dei prodotti non siano perfettamente
concorrenziali e che le imprese siano price-taker, secondo il principio del costo pieno le imprese, dato il
salario nominale, fissano i prezzi aggiungendo ai costi variabili unitari un margine di profitto lordo (mark-up)
che copre i costi fissi e assicura un profitto netto; d’altra parte i sindacati, dati i prezzi, contrattano aumenti
dei salari nominali per aumentare il salario reale (w/p) e l’aumento dei salari nominali spinge di nuovo le
imprese al rialzo dei prezzi e così via… Il risultato è che le pressioni sui prezzi e sui salari generano
inflazione, che quindi rappresenta l’esito del conflitto tra imprese e lavoratori per la distribuzione del
reddito. Dall’identità tra reddito prodotto e reddito distribuito pY = W+R, dividendo per Y e sostituendo π =
Y/N, si arriva all’equazione del markup: p = wN/Y + wNg/Y = wN/Y ּּּּ (1+g) = w/ π ּּּּ (1+g). Questo dimostra
l’esistenza del legame tra fissazione dei prezzi e distribuzione funzionale del reddito. La regola aurea per il
controllo dell’inflazione (condizione sufficiente, non necessaria) è Ṗ = 0, da cui ẇ = π e (1+g) = 0, dunque
non vi è aumento del prezzo se il saggio del salario nominale varia nella stessa misura della produttività
media del lavoro e il margine di profitto non muta; sotto questa condizione rimangono invariate le quote
distributive del reddito, in particolare la quota di reddito che va al lavoro, cioè i salari: α = w/pπ = quota del
lavoro, che date le condizioni della regola aurea risulta essere costante, infatti w - p - π = 0. Alla fine con
questi accordi nessuno ci guadagna, le imprese non si rifanno sui lavoratori e viceversa, infatti questi patti,
dal punto di vista redistributivo, sono neutrali. È opportuno, adesso, sottolineare i limiti di questo schema,
dato che abbiamo considerato un’economia con un solo bene e la presenza di un solo costo variabile,
essendo in realtà a conoscenza della molteplicità sia dei beni che dei costi variabili. Inoltre, nella realtà
esiste almeno un’altra categoria di percettori di reddito, oltre ai lavoratori e ai capitalisti, che qui non
abbiamo considerato, stiamo parlando dei percettori di rendite. Le politiche dei redditi si distinguono in
politiche dirigistiche, che sono quelle che impongono ai salariati e ai capitalisti un determinato
comportamento nella variazione del salario o del margine di profitto (es. blocco dei salari), politiche dei
redditi di mercato, che consistono nella fissazione da parte dell’ente pubblico non di regole di
comportamento, ma di un sistema di incentivi e disincentivi per orientare in senso antinflazionistico le
scelte autonome dei percettori di reddito (es. accordo tra le parti sociali che assicuri l’invarianza dei prezzi
premiato con la concessione di sgravi fiscali) e politiche istituzionali, che sono invece quelle che tendono a
trasformare in senso cooperativo le relazioni industriali, ossia le relazioni tra capitalisti e lavoratori in
materia di salario, mediante un insieme di istituzioni appropriate (es. procedure di arbitrato, patti sociali),
dunque mirano a cambiare la natura della gara tra le varie categorie di percettori di reddito.

Cap.15: le politiche della bilancia dei pagamenti


L’equilibro della bilancia dei pagamenti è un obiettivo di lungo periodo della politica economica, che si ha
quando il saldo della bilancia dei pagamenti (BP = PC + MK) è nullo nella media di un certo numero di anni.
In cambi fissi, se la bilancia dei pagamenti è in deficit (BP<0), nel mercato delle valute estere c’è un eccesso
di offerta di moneta, il cambio si deprezza, allora le autorità intervengono domandando valuta per
mantenere il cambio costante, le banche centrali attingeranno quindi alle loro riserve, finché non avranno
più valute estere disponibili per sostenere il deficit: possiamo concludere che il disavanzo in cambi fissi nel
lungo periodo non è sostenibile. Se ci troviamo in avanzo (BP>0) nel mercato delle valute estere c’è un
eccesso di domanda di moneta, il cambio si apprezza, allora le autorità intervengono offrendo valuta per
mantenere il cambio costante, quindi viene creata base monetaria nel canale estero e la quantità di valuta
in circolazione aumenta; questa, se eccessiva, finisce per aumentare i prezzi, quindi il tasso d’inflazione,
dunque possiamo concludere che anche l’avanzo in cambi fissi nel lungo periodo non è sostenibile se
persistente, infatti allontana la politica economica dal suo obiettivo di mantenere il tasso di cambio
costante. In cambi flessibili non c’è alcun intervento da parte delle autorità monetarie: anche in questo sia il
disavanzo (il deprezzamento andrebbe avanti all’infinito, BP si troverebbe continuamente in deficit e il
livello generale dei prezzi aumenterebbe) che l’avanzo (l’apprezzamento andrebbe avanti all’infinito, BP si
troverebbe continuamente in surplus, ma le importazioni aumenterebbero, le esportazioni diminuirebbero,
PC peggiorerebbe e si perderebbe competitività) della bilancia dei pagamenti non possono essere sostenuti
nel lungo periodo. Ci sono alcuni meccanismi automatici di riequilibrio, in grado di riportare BP in
equilibrio automaticamente, quindi senza l’intervento de policy maker: questi sono le variazioni del cambio
in cambi flessibili e le variazioni dei prezzi e dei redditi in cambi fissi.

Per quanto riguarda le variazioni del cambio, in cambi flessibili, iniziamo col ridefinire il tasso di cambio
reale, che è un indicatore della competitività nazionale delle merci di un paese ed è pari a e r = p ּ e/pW:

- se BP > 0, e↑er↑PC↓ BP↓ ⇒ BP = 0 (il sistema torna in equilibrio da solo perché anche al termine
del ciclo ci sarà ancora un eccesso di domanda di euro, quindi l’euro continuerà ad apprezzarsi e si
continuerà a perdere competitività: tutto questo termina nel momento in cui torna l’equilibrio del
mercato delle valute e il tasso di cambio torna costante ⇒ riequilibrio automatico);
- se BP < 0, e↓er↓PC↑ BP↑ ⇒ BP = 0 (il sistema torna in equilibrio da solo perché anche al termine
del ciclo ci sarà ancora un eccesso di offerta di euro, quindi l’euro continuerà a deprezzarsi e si
continuerà ad aumentare competitività: tutto questo termina nel momento in cui torna l’equilibrio
del mercato delle valute e il tasso di cambio torna costante ⇒ riequilibrio automatico);

Il problema intrinseco di questo meccanismo risiede proprio nella variazione del cambio: se le oscillazioni
diventano ampie a causa del cambio flessibile potrebbero creare instabilità nell’economia di un paese,
infatti le imprese potrebbero non prevedere questi cambiamenti imprevisti.

Per quanto riguarda le variazioni dei prezzi, in cambi fissi, è importante ricordare che all’aumentare
dell’offerta di moneta in circolazione, gli operatori spenderanno di più e i prezzi aumenteranno, quindi
l’inflazione tenderà a crescere. Tenendo presente la relazione inversa:

- se BP > 0, BM↑P↑er↑PC↓ BP↓ ⇒ BP = 0 (il sistema torna in equilibrio da solo perché al termine
del ciclo ci sarà ancora una spinta verso l’apprezzamento dell’euro, quindi le autorità
continueranno ad offrire valuta, cioè ad espandere la base monetaria: tutto questo termina nel
momento in cui torna l’equilibrio del mercato delle valute e il tasso di cambio torna costante ⇒
riequilibrio automatico);
- se BP < 0, BM↓P↓er↓PC↑BP↑ ⇒ BP = 0 (il sistema torna in equilibrio da solo perché al termine
del ciclo ci sarà ancora una spinta verso il deprezzamento dell’euro, quindi le autorità
continueranno a domandare valuta, cioè a ridurre la base monetaria: tutto questo termina nel
momento in cui torna l’equilibrio del mercato delle valute e il tasso di cambio torna costante ⇒
riequilibrio automatico).

Anche in questo caso c’è un effetto collaterale, dato dalle variazioni dei prezzi: ridurre i prezzi è
un’operazione complicata, più dell’aumentare i prezzi, infatti ridurre i prezzi implica delle perdite per le
imprese, che dovranno ridurre i costi, quindi ad esempio gli stipendi. Non sempre però la riduzione dei
prezzi ha effetto, infatti nel mercato sussistono molte resistenze e la maggior parte delle volte si finisce per
creare un blocco (imperfetta flessibilità dei prezzi).
Per quanto riguarda le variazioni dei redditi, in cambi fissi, è importante ricordare la relazione che lega Y al
saldo PC, legato a sua volta a esportazioni e importazioni: ∆Y = 1/1-c+m ּ (∆X), dove se si riducono le
esportazioni si riduce il livello della domanda aggregata, invece M = mY, dove all’aumentare del reddito
aumentano le importazioni.

- inizialmente PC = 0, se X↑ PC > 0 BP↑ ⇒ Y↑M↑PC↓;


- inizialmente PC = 0, se X↓ PC < 0 BP↓ ⇒ Y↓M↓PC↑.

Qui è molto difficile che si arrivi ad un riequilibrio perfetto, a differenza dei due meccanismi analizzati
sopra, ma il problema grave è che per riequilibrare PC, nel secondo caso, bisogna diminuire il reddito
prodotto, quindi accettare una recessione, dove le imprese non assumono più, dove si distruggono posti di
lavoro, dove la disoccupazione è elevata… quindi per migliorare il saldo BP si finisce per distruggere un altro
obiettivo importante della politica economica: migliorare il reddito e l’occupazione. Spetta al policy maker
risolvere il trade off degli obiettivi, trovando gli strumenti adeguati alle varie situazioni. Dunque, possiamo
concludere affermando che nessuno di questi automatismi è in grado di risolvere i problemi senza causare
danni collaterali più o meno gravi, quindi essi risultano essere imperfetti e limitati; inoltre, l’aggiustamento
può essere troppo lento, incompleto o «costoso» in quanto compromette il raggiungimento di altri
obiettivi, motivo per il quale sono necessari interventi pubblici per il riequilibrio della BP. Dunque, esistono
delle vere e proprie politiche per il riequilibrio della bilancia dei pagamenti, che può essere riequilibrato
tramite MK, mediante la politica monetaria, quindi agendo sul tasso d’interesse interno, oppure tramite PC,
mediante politiche monetarie o fiscali o mediante politiche che modificano la competitività, quindi agendo
sul tasso di cambio reale:

il saldo dei movimenti di capitale MK = g[i+ , iW- , ⅇ̇ ⅇ+¿ ¿], che dipende dal differenziale tra i tassi di
interesse a lungo e breve termine, dalle variazioni attese del cambio nominale e dai differenziali dei
saggi di profitto e delle strategie d’impresa, è in equilibrio, cioè MK = 0, quando c’è un’equivalenza
tra titoli esteri e titoli nazionali, quindi tra tasso d’interesse estero e tasso d’interesse interno
(vengono acquistati tanti titoli esteri quanti sono i titoli interni venduti all’estero).
La condizione di parità scoperta iW = i + ⅇ̇ ⅇ assicura l’equilibrio di MK e ci invita a tener conto anche
delle attese di variazione del tasso di cambio nominale per valutare la convenienza di un titolo
denominato in valuta estera, dunque a tener conto dell’apprezzamento o del deprezzamento della
valuta estera prima di effettuare l’acquisto: se la valuta si deprezza, l’operatore dovrebbe
considerare una perdita, quindi troverà conveniente l’investimento solo nel caso in cui il tasso
d’interesse sia particolarmente alto da compensare la perdita.

L’unica variabile su cui si può agire è il tasso d’interesse:

- se MK < 0, i↑, quindi l’acquisto di titoli nazionali è più conveniente, quindi MK↑BP↑;
- se MK > 0, i↓, quindi l’acquisto di titoli nazionali è sconveniente, quindi MK↓BP↓.
il saldo dei movimenti dei beni, in termini reali corrisponde a PC = X – M = f(p -, pw+ , e -, Y -, YW+) ed è
dato dalla differenza tra le esportazioni e le importazioni (se si equivalgono PC = 0), che fornisce le
esportazioni nette, e dipende dalla competitività di prezzo, dal tasso di cambio nominale e dalla
domanda aggregata; in particolare, se l’euro si apprezza, le esportazioni diminuiscono e le
importazioni aumentano, quindi il saldo dei movimenti dei beni diminuisce, il prezzo in dollari dei
beni europei aumenta e il prezzo in euro dei beni esteri diminuisce (perdita della competitività), se
l’euro si deprezza, le esportazioni aumentano e le importazioni diminuiscono, quindi il saldo dei
movimenti dei beni aumenta, il prezzo in dollari dei beni europei diminuisce e il prezzo in euro dei
beni esteri aumenta (guadagno della competitività), se invece e r = 1 c’è arbitraggio internazionale.

La politica del nostro paese non può modificare il livello generale dei prezzi nel resto del mondo, dunque si
può agire:
- sul tasso di cambio nominale, deprezzando la valuta, aumentando la competitività, stimolando le
esportazioni e aumentando quindi PC;
- sul livello generale dei prezzi, riducendo i prezzi interni, favorendo le esportazioni e aumentando
quindi PC. Sul livello generale dei prezzi intervengono le politiche antimonopolistiche, in particolare
le politiche del controllo dei prezzi, che aumentano la competitività di un paese, le politiche di
aumento dei redditi, che servono a controllare l’inflazione e ad aumentare la competitività delle
merci nazionali, le politiche dei dazi, che rientrano tra le politiche protezionistiche, mirate ad
ottenere effetti sulle partite correnti (il dazio è una tassa che viene aggiunta al prezzo di un bene
importato, che scoraggia quindi le importazioni dall’estero, favorendo i produttori nazionali e la
competitività delle merci nazionali, migliora PC e quindi BP – in Europa queste politiche non
possono essere applicate, così come non possono essere effettuate manovre sul cambio, a seguito
dell’abolizione delle valute nazionali e al fine di creare il cosiddetto mercato unico);
- sul livello della domanda aggregata, in particolare:
 se BP > 0, PC > 0, Y↑M↑PC↓ ¿le politiche fiscali e monetarie espansive fanno aumentare il
reddito aggregato dell’economia di un paese – più accettabile – c’è coerenza tra obiettivo
esterno (BP=0) e obiettivo interno (crescita di Y)¿;
 se BP < 0, PC < 0, Y↓M↓PC↑ (le politiche fiscali e monetarie restrittive fanno diminuire il
reddito aggregato dell’economia di un paese – meno accettabile - c’è trade off tra obiettivo
esterno e obiettivo interno).

Concentriamoci sul deprezzamento del tasso di cambio o svalutazione: se PC < 0, le importazioni sono
scoraggiate e le esportazioni sono favorite, dunque e↓PC↑: sembrerebbe una politica efficace, ma non è
affatto detto, infatti X e M non sono le quantità di beni esportati e importati, ma sono i valori monetari
delle esportazioni e delle importazioni, dati dalle formule X = (p X ּ e)qX, M = pM ּ qM, dunque PC monetario =
(pX ּ e)qX - pM ּ qM (prezzo in valuta nazionale per tasso di cambio nominale per quantità esportata – prezzo in
valuta estera per quantità importata). A seguito di una svalutazione, il prezzo in valuta estera dei beni che
importo aumenta, quindi le quantità importate si riducono, il tasso di cambio certo per incerto diminuisce e
le esportazioni diminuiscono, dunque PC↓ e BP↓, allora esiste una condizione di Marshall-Lerner che ci
dice a quale condizione la svalutazione migliora il saldo delle partite correnti: |εx| + |εm| > 1, dove ε è
l’elasticità della domanda rispetto al prezzo, pari a ∆Q/Q / ∆P/P, che mi dice di quanto aumenta la quantità
domandata al variare di un punto percentuale del prezzo, in particolare εx = elasticità delle esportazioni al
cambio = ∆qX/qX / ∆e/e e εm = elasticità delle importazioni al cambio = ∆qM/qM / ∆e/e; affinché prevalga un
miglioramento di PC è necessario che siano sufficientemente forti l’aumento delle quantità esportate e la
riduzione delle quantità importate, cioè deve esserci una sufficiente elasticità delle quantità al prezzo.
Graficamente l’effetto della svalutazione può essere indicato con uno spostamento verso destra della curva
di offerta del bene considerato. A parità di quantità importate ed esportate, la svalutazione peggiora il
saldo PC, ma con il passare del tempo, se vengono rispettate le condizioni di Marshall-Lerner, potrebbe
esserci un miglioramento, detto effetto J perché la curva di variazione di PC nel tempo somiglia ad una J,
che vede una fase decrescente (peggioramento) e una fase crescente (miglioramento). Gli effetti della
svalutazione possono influenzare anche il tasso di cambio atteso e quindi i movimenti di capitale: in
generale la svalutazione è adatta a situazioni di perdita di competitività. Possiamo concludere affermando
che ci sono alcune politiche che migliorano la BP interna di un paese danneggiando quella di altri paesi e
politiche che non provocano alcun danno: la svalutazione rientra nelle prime politiche, infatti svalutare
significa rendere più competitive le merci nazionali di un paese (le esportazioni migliorano, quindi
aumentano anche PC, BP, Y ed N del paese) e meno competitive le merci di altri paesi (le importazioni di
prodotti da altri paesi si riducono, quindi i paesi esteri vendono di meno, dunque PC↓BP↓), ma un paese A
che decide di applicare una svalutazione per danneggiare il paese B, di contro vedrà il paese B applicare la
stessa politica, quindi alla fine si finisce in situazioni inefficienti, in cui tutti stanno peggio e nessuno sta
meglio, quindi non possono essere considerate politiche efficienti (anche le politiche dei dazi, e in generale
quelle protezionistiche, rientrano tra le prime politiche). Le politiche che stimolano, invece, la domanda
aggregata interna fanno aumentare le importazioni interne di un paese e quindi anche le esportazioni del
resto del mondo, dunque queste politiche non solo non provocano danni ai paesi esteri, ma hanno anche
riflessi positivi sulle economie del resto del mondo.

Cap.16: sistemi monetari e regimi di cambio


Un sistema monetario è un insieme di regole che disciplinano gli aspetti monetari interni e internazionali
dell’economia di un paese, in particolare le norme devono definire l’unità monetaria utilizzata nel sistema
economico, regolare l’emissione della moneta e definire i rapporti con le monete estere in termini di
valore, circolazione e convertibilità. Alla fine della Seconda Guerra mondiale venne stabilito un regime di
cambi fissi, durato dal 1944 al 1971, il mercato delle valute estere venne ristretto a causa dei sistemi
totalitaristici e Y crebbe in maniera strepitosa, infatti l’Italia passò da paese agricolo a paese industriale
(cosiddetta golden age). In quel periodo venne creato il sistema a cambio aureo, tramite gli accordi di
Bretton Woods, cioè un sistema ancorato all’oro mediante i dollari con il quale si instaurò un regime di
cambi fissi e si stabilì che le valute potessero essere convertite in dollari ad un valore prefissato e costante,
detto parità, dunque il dollaro divenne la valuta centrale del sistema monetario; tuttavia, il dollaro poteva
essere convertito in oro (1,13 dollari per grammo d’oro) e ogni paese fu costretto a dichiarare il
corrispettivo valore della propria valuta in termini aurei. Tutti i paesi furono costretti a detenere una riserva
in dollari, ma nessun paese fu costretto a detenere una riserva in oro, che doveva invece essere
obbligatoriamente detenuta dal paese centrale (in quei tempi gli USA).

I vantaggi di questo sistema sono:

- il regime di cambi fissi stesso, che permette un ordine tra i rapporti delle monete e una stabilità dei
tassi di cambio, che facilitano gli scambi (i tassi di cambio potevano oscillare intorno alla parità e
non potevano scostarsi oltre l’1% );
- il valore delle monete indirettamente ancorato all’oro, infatti solo il paese centrale deve costituire
riserve in oro: questo economizza l’uso dell’oro che potrebbe risultare scarso;
- le riserve in dollari detenute da tutti gli altri paesi, che sono fruttifere di interessi, al contrario
dell’oro che non frutta alcun interesse.

Un limite di questo sistema è il fatto che deve esserci un buon equilibrio tra la quantità di moneta di riserva
(dollari) e le riserve in oro: potrebbe succedere però che la quantità di moneta di riserva cresca nel tempo
senza che le riserve in oro crescano allo stesso tempo, dunque si potrebbe iniziare a diffondere il timore
che i dollari detenuti non possano essere convertiti in oro e le banche centrali di tutti i paesi potrebbero
rivolgersi alla banca centrale americana chiedendo il corrispettivo aureo dei dollari tenuti a riserva e la
banca centrale americana potrebbe non essere in grado di convertire tutti i dollari in oro (simile alla corsa
agli sportelli, tipica dei risparmiatori) ⇒ rischio di instabilità. Il meccanismo delle riserve non prevede che
per ogni euro di dollaro in circolazione ci sia un corrispondente valore in oro, la riserva infatti è sempre una
quota rispetto alla moneta in circolazione, che è un multiplo della riserva. In particolare, solo le banche
centrali potevano richiedere la conversione in oro dei dollari alla banca centrale americana, mentre la
conversione delle valute nazionali in dollari poteva essere richiesta solo se finalizzata a scambi con l’estero.
Con gli accordi di Bretton Woods, si creò, inoltre, un fondo monetario internazionale, ancora esistente,
cioè una specie di banca dei paesi aderenti agli accordi, per aiutarli a combattere i deficit della BP,
insostenibili se persistenti poiché i paesi finirebbero per esaurire le loro riserve in dollari, quindi verrebbero
tagliati fuori dai mercati (simile alla funzione della BCE come prestatore di ultima istanza – ricorda però il
rischio di azzardo morale, cioè il rischio che le banche centrali si comportino irrazionalmente, effettuando
investimenti rischiosi, approfittandosi dei prestiti da parte della BCE).
Anche il fondo monetario internazionale, così come la BCE, ha il dovere di controllare le politiche
economiche dei paesi aderenti (funzione di sorveglianza), infatti se lo squilibrio della bilancia dei pagamenti
di un paese persiste vuol dire che la parità scelta per quel paese non è adeguata, dunque va riadeguata,
modificando il suo tasso di cambio, svalutandolo o rivalutandolo (questa modifica può essere effettuata in
un regime di cambi fissi, dunque attualmente non è possibile effettuarla). La convertibilità tra le monete
facilitò i commerci internazionali e sviluppò un multilateralismo, cioè un sistema in cui ogni moneta poteva
essere convertita in dollari, a patto che BP = 0, per evitare l’accumulo o l’esaurimento delle riserve. In un
sistema caratterizzato dal bilateralismo, in cui la valuta centrale, che funge da valuta di riserva, non esiste,
affinché un paese possa effettuare scambi con l’estero ha bisogno di detenere riserve di tutte le valute,
quindi deve detenere BPIJ = 0, cioè la bilancia dei pagamenti di un paese i deve avere un equilibrio della
bilancia dei pagamenti con ciascuno degli altri j paesi. È chiaro che con una valuta centrale il commercio tra
paesi è reso più semplice e che una bilancia dei pagamenti complessiva pari a zero sia più facile da
raggiungere rispetto ad una bilancia dei pagamenti bilaterale pari a zero. Il bilateralismo è un sistema di
scambi rigido e inefficiente, che aveva caratterizzato le relazioni economiche internazionali nel periodo tra
le due guerre mondiali. Il sistema a cambio aureo stabilito con gli accordi di Bretton Woods voleva superare
il bilateralismo e favorire lo sviluppo degli scambi commerciali tra paesi. Dagli anni 40 agli anni 60 il
commercio internazionale crebbe molto, ma al crescere degli scambi doveva corrispondere più disponibilità
di valuta centrale, quindi la quantità di dollari in circolazione doveva aumentare in relazione al commercio
internazionale; quest’ultima però aumentava se il paese centrale fosse in deficit (BP < 0, cioè se pagasse più
dollari di quanti gliene entrassero) e i deficit molto alti degli USA, a quel tempo, dovuti anche agli elevati
costi della guerra del Vietnam, fecero sì che all’aumento dei dollari in circolazione, dovuti agli elevati
pagamenti verso l’estero, non corrispose più un aumento delle riserve in oro, infatti nel 1971 gli USA
dichiararono che la conversione in oro del dollaro non fosse più garantita, quindi il sistema a cambi fissi
venne meno e si passò ad un regime di cambi flessibili. Se BP > 0, vuol dire
Vantaggi dei cambi flessibili: che gli USA stanno ricevendo pagamenti in dollari, quindi la
Svantaggi dei due
consentono il riequilibrio quantità di dollari in circolazione negli altri paesi
regimi: il primo rende
automatico di BP attraverso diminuisce, non c’è timore della convertibilità, ma sarà più
i tassi di cambio
oscillazioni del cambio e, di difficile fare scambi internazionali, al contrario, se BP < 0, la
incerti, il secondo
conseguenza, di BP, dunque si quantità di dollari in circolazione negli altri paesi aumenta,
rende la politica
eliminano le necessità di sarà quindi più facile fare scambi internazionali, ma ci sarà
monetaria meno
interventi pubblici e la dinamica timore della convertibilità: questo è il cosiddetto dilemma
efficace e causa
del cambio viene affidata di Triffin, secondo cui deve esserci abbastanza moneta di
incertezza sul prezzo
esclusivamente al libero operare riserva in circolazione affinché un sistema a cambio aureo
delle valute estere,
delle forze di mercato, che nella funzioni ed effettui scambi con l’estero.
che ostacola gli
realtà porta alla fluttuazione scambi di merci e di
Vantaggi dei cambi fissi: rendono i tassi di cambio certi,
sporca o manovrata dei cambi; capitali a
infatti in questo regime il tasso di cambio nominale
inoltre, fanno sì che non ci sia medio/lungo termine.
rimane costante (ⅇ̇=0), dunque ė r = ρ̇ ≤ ρ̇ω (ricorda che
possibilità di speculazione sui
cambi (gli speculatori un paese nel lungo periodo deve realizzare questa
scommettono sulla svalutazione condizione se vuole guadagnare competitività: ė r = ρ̇ +
di una moneta, che venderanno ⅇ̇−¿ ρ̇ω ≤ 0): questo significa che il paese per rimanere
in anticipo in grande quantità competitivo deve avere un’inflazione interna inferiore o
guadagnandoci, così facendo la uguale all’inflazione del resto del mondo, quindi le
moneta perderà valore e dovrà imprese non possono innalzare i prezzi dei loro prodotti
necessariamente essere più dei prezzi applicati nel resto del mondo, dunque
svalutata). questa relazione spinge le imprese a moderare i prezzi e i
policy maker a fare delle politiche a favore della
competitività per mantenere bassa l’inflazione [grazie alla
formula Ṗ = ẇ - π + (1+g), sappiamo che l’inflazione
dipende da quanto crescono i salari nominali, la
produttività media del lavoro e il mark-up; inoltre,
quest’ultimo cresce se le imprese sono in monopolio.
L’inflazione può essere ridotta aumentando la
Cap.2: le politiche redistributive e stato sociale
Le politiche sociali occupano un’area molto vasta d’intervento pubblico che implica la spesa pubblica,
quindi per certi versi rientrano nelle politiche fiscali: il problema che si pone è quello di scegliere come
finanziare questa spesa, dunque di scegliere come e quanto prelevare dal bilancio pubblico per finanziarla.
Ogni politica, indipendentemente dai suoi obiettivi specifici, può determinare effetti redistributivi in quanto
avvantaggia alcuni soggetti e ne danneggia altri, ad esempio un’imposta sui carburanti più inquinanti serve
a correggere un’esternalità negativa, ma causa costi per alcune categorie, come i proprietari di auto
inquinanti, i produttori e i distributori di carburante oppure, un altro esempio, una politica
antimonopolistica che serve a migliorare l’efficienza e a ridurre i prezzi dei beni avvantaggia i consumatori,
ma danneggia gli azionisti delle imprese monopolistiche e i loro dipendenti. Per stato sociale o welfare
state si intende un ampio insieme di politiche che attraverso la spesa pubblica, in particolare la spesa
sociale, perseguono in modo esplicito e prioritario finalità redistributive, cioè obiettivi di equità, ad esempio
un salario minimo serve ad aumentare il reddito dei lavoratori a basso salario oppure un assegno di
invalidità ha lo scopo di aumentare il reddito di chi ha un’invalidità. Le politiche sociali si sono sviluppate nei
paesi occidentali parallelamente allo sviluppo industriale per far fronte ad esigenze e rischi tipici del nuovo
modello di economia e di società che con esso si andava affermando, in vari ambiti quali pensioni, sanità,
istruzione e formazione professionale, disoccupazione, invalidità, infortuni sul lavoro. Con lo sviluppo
industriale (‘900), infatti, le economie e le società divennero industriali e gli equilibri cambiarono: il
benessere sociale aumentò, ma nacquero anche nuovi rischi, infatti si passò dal lavorare liberamente la
terra al lavorare nelle fabbriche, assoggettandosi ad un datore di lavoro. Tra questi rischi troviamo il rischio
di disoccupazione o di licenziamento e le politiche sociali possiamo dire che sono nate proprio come
protezione da questi rischi: esse si presentano come una forma di assicurazione collettiva che ripartisce
l’onere del rischio tra tutta la popolazione. Il bisogno di proteggere alcuni individui da questi rischi deriva
proprio dal fatto che questi sono miopi (es. il giovane non riuscirebbe da solo a costituirsi una pensione) e
che non godono di perfetta informazione, dunque tali politiche trovano giustificazione economica proprio
nei fallimenti microeconomici del mercato, in particolare bisogni meritori, esternalità, informazione
asimmetrica o economie di scala e possono avere anche effetti macroeconomici di stabilizzazione della
domanda aggregata o di supporto alla crescita. In un mondo di informazione perfetta non ci sarebbe
bisogno di assicurazioni sociali poiché non si creerebbero problemi di informazione asimmetrica (azzardo
morale e selezione avversa) e le persone risparmierebbero volontariamente per far fronte alla vecchiaia e
alle altre cause di rischio, ma nel mondo reale, i problemi di informazione imperfetta rendono efficiente
predisporre politiche sociali con finalità assicurative: queste politiche impongono l’obbligo per tutti di
pagare imposte e contributi per finanziare le pensioni, la sanità, i sussidi di disoccupazione, eliminando così
i problemi di selezione avversa, effettuando una redistribuzione a vantaggio delle categorie maggiormente
esposte a tali rischi. Tra le assicurazioni sociali e le assicurazioni private ci sono delle differenze: anzitutto,
l’obbligatorietà, infatti i lavoratori e i datori di lavoro sono obbligati a pagare dei contributi che vanno a
finire nel cuneo fiscale, cioè nella somma dei contributi e delle imposte prelevati sul reddito dei lavoratori
calcolati in percentuale del costo del lavoro, che va poi a finanziare vari fondi, quali ad esempio quello dei
sussidi di disoccupazione. In questo modo si risolve la selezione avversa, infatti non c’è scelta, tutti pagano
e c’è redistribuzione. Dunque, la spesa per le assicurazioni sociali non è a carico del bilancio pubblico, bensì
del fondo stesso finanziato dai lavoratori e dai datori di lavoro, che assicurano loro stessi da rischi futuri.

Nel corso del Novecento, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale e fino agli anni ’80, c’era una
visione keynesiana favorevole all’intervento dello Stato e la spesa sociale crebbe in misura molto rilevante
in tutti i paesi avanzati, per le seguenti ragioni:

1. la produzione di beni e servizi sociali (es. sanità, istruzione) è per sua natura poco idonea a usufruire dei
miglioramenti indotti dallo sviluppo tecnologico, quindi i loro costi rimangono relativamente elevati;
2. l’aumento dei redditi prodotto dalla crescita economica fa aumentare la quota di reddito spesa in beni e
servizi sociali;

3. più di recente, l’invecchiamento demografico fa aumentare la spesa previdenziale e sanitaria.

In tutti i paesi dagli anni ’80, ci fu un cambio di visione, si passò infatti a quella monetarista, che aveva
sfiducia nell’intervento pubblico e prese avvio una fase di contrazione della spesa sociale come
conseguenza di diversi fattori:

1. la crescita economica rallentò e si crearono problemi di finanziamento della spesa sociale;

2. l’elevata inflazione (shock petroliferi) spinse ad adottare politiche deflazionistiche poco espansive;

3. si rafforzarono le posizioni politiche critiche verso l’intervento pubblico e si diede maggiore importanza ai
fallimenti dello stato (comportamenti opportunistici di politici e burocrati), si iniziò infatti a credere che un
eccesso di intervento pubblico nei servizi sociali potesse causare una deresponsabilizzazione delle persone;

4. si rafforzò la teoria del trade-off tra equità ed efficienza, secondo cui le politiche redistributive e sociali (+
equità) disincentivavano il risparmio delle famiglie e l’offerta di lavoro e questo rallentò la crescita
economica (- efficienza);

5. si considerò che la spesa sociale imponesse dei costi alle imprese che facevano perdere competitività di
prezzo sui mercati internazionali.

Sussistono due modelli differenziati di welfare state:

A. impostazione universalistica (modello liberale anglosassone di Beveridge), secondo cui i destinatari delle
politiche sociali sono i cittadini e il finanziamento di tali prestazioni è a carico generale (l’importo delle
prestazioni è ridotto);

B. impostazione laburistica (modello tedesco di Bismark), secondo cui i destinatari delle politiche sociali
sono i lavoratori e le loro famiglie e il finanziamento è a carico degli stessi (l’importo delle prestazioni è
commisurato al contributo del singolo).

Un altro modello di welfare state è quello mediterraneo, proprio del nostro paese e in generale dell’Europa,
dove ha grande importanza il ruolo della famiglia.

Tra le categorie di politiche sociali rientra quella dei trasferimenti del reddito (es. reddito di cittadinanza),
che possono avvenire in cash o in kind (in natura). Si deve innanzitutto specificare chi ha diritto a ricevere il
trasferimento, che può essere universale puro, secondo cui chiunque ha diritto ad un trasferimento (il caso
estremo è quello del reddito di base, secondo cui si riceve un sussidio solo per il fatto di essere nati,
sperimentato in Alaska), o assistenziale-means tested o prova dei mezzi, secondo cui per avere accesso a
certe prestazioni bisogna eseguire dei test di reddito o di patrimonio individuale o familiare (in Italia ad
esempio la dichiarazione dell’Isee). I trasferimenti assistenziali come copertura di ultima istanza vengono
effettuati a tutti quei soggetti che si trovano ancora sotto la soglia di povertà dopo aver ricevuto un
trasferimento assicurativo, a quei soggetti che non hanno il diritto al trasferimento assicurativo a causa dei
contributi insufficienti o a causa della scadenza dell’erogazione (disoccupati di lungo periodo) e a tutti quei
soggetti non coperti per nulla, come i genitori single o i giovani in cerca di prima occupazione.

Dagli anni ‘90 del secolo scorso nei vari paesi sono state attuate importanti riforme per ridurre il costo dei
servizi sociali e per rimediare ai problemi che erano emersi fino ad allora, ma che a loro volta hanno
evidenziato dei limiti:

 creazione di «mercati interni» nella sanità: si è cercato di sottrarre i servizi sanitari al mercato,
poiché fortemente regolamentati, finanziati ed erogati dalle istituzioni pubbliche (in Italia ad
esempio c’è il servizio sanitario nazionale). I vari servizi pubblici sono stati organizzati come centri
autonomi gestiti secondo una logica aziendale e in concorrenza tra loro per limitare i fallimenti
dello stato;
 voucher: buoni-acquisto distribuiti e finanziati dagli enti pubblici, che attribuiscono ai destinatari un
potere di acquisto e di scelta nel mercato di specifiche categorie di beni e servizi (sanitari, educativi,
formativi);
 welfare to work: alcune prestazioni (es. sussidi di disoccupazione) vengono condizionate alla
ricerca attiva del lavoro e all’accettazione di un eventuale posto di lavoro;
 fondi pensione privati: si introducono fondi pensione privati finanziati mediante capitalizzazione
(la pensione maturata dipende dai versamenti contributivi del lavoratore e dal loro rendimento nei
mercati finanziari) in aggiunta o in sostituzione dei fondi pensione pubblici finanziati mediante
ripartizione (le pensioni sono pagate dai lavoratori attivi e dipendono, in ultima analisi, dalla
crescita del PIL; in vigore in Italia fino a qualche decennio fa);
 flexicurity: modello di welfare che cerca di combinare la flessibilità sul lavoro (si rende possibile
per le imprese di licenziare i lavoratori per poter far fronte agli andamenti ciclici della domanda,
alle necessità di ristrutturazione, di una gestione flessibile della forza lavoro) con più efficaci
politiche di protezione (ammortizzatori sociali, come sussidi di disoccupazione) e con politiche
attive del lavoro (interventi che aiutano il disoccupato a trovare una nuova occupazione).

Le politiche sociali considerano anche i temi delle disuguaglianze e delle povertà accettabili rispetto al
funzionamento dell’economia che negli ultimi anni sono cresciuti. Una persona è considerata «a rischio di
povertà» se ha un reddito inferiore al 60% della mediana del reddito disponibile equivalente nazionale
(definizione Eurostat). Oggi circa il 17% della popolazione nell’Unione Europea è a rischio povertà. Una
persona è in «povertà assoluta» se il suo reddito è al di sotto di un certo valore-soglia che corrisponde ad
un tenore di vita minimo accettabile. Nei decenni più recenti sono aumentate le disuguaglianze dei redditi e
della ricchezza, in particolare è molto aumentata la quota di reddito totale che va ai percettori dei redditi
alti: questo è in parte spiegato dal forte aumento delle remunerazioni dei manager di alto rango (negli Stati
Uniti negli ultimi trenta anni i redditi degli alti manager sono aumentati fino a 40 volte). Il welfare state,
aumentando la sicurezza economica, può essere un elemento che facilita l’innovazione, dunque la crescita
economica. Secondo il circolo virtuoso, l’alta innovazione nelle imprese comporta competitività, crescita e
possibilità di finanziamento delle politiche sociali, mentre secondo il circolo vizioso o «corsa al ribasso» una
scarsa innovazione nelle imprese comporta competitività di prezzo e spesa sociale come costo da ridurre,
ma ridurre i prezzi comporta profitti, investimenti e salari più bassi, dunque meno innovazione (l’Italia è in
questo secondo circolo).

Cap.3: regole e discrezionalità nella politica economica


Se si ritiene che i mercati sono instabili e che gli interventi pubblici sono in grado di influenzare
positivamente i risultati dell’economia è preferibile la discrezionalità, se invece si ritiene che i mercati sono
stabili e giungono spontaneamente a risultati soddisfacenti e che gli interventi pubblici sono causa di
instabilità e possono peggiorare i risultati, sono preferibili le regole (es. la regola semplice di politica
monetaria di Friedman: per mantenere i prezzi costanti ( Ṗ=0) l’offerta di moneta deve crescere allo stesso
tasso di crescita del PIL reale). Il dibattito sull’incoerenza temporale avviato, oltre trent’anni fa, da un noto
articolo di Kydland e Prescott, e raffinato poi da Barro e Gordon, analizza proprio il fatto che per il Governo
è conveniente seguire un comportamento diverso da quello annunciato proprio quando tale
comportamento è ritenuto credibile dagli agenti. Quando il Governo dichiara che seguirà una determinata
linea di condotta, gli agenti sceglieranno la propria azione basandosi su questa dichiarazione, ma essendo
loro razionali e prevedendo tutto ciò, sceglieranno le proprie azioni assumendo che il Governo non
rispetterà il proprio impegno: da questo scaturiranno risultati subottimali; se il Governo fosse però
vincolato da una regola fissa questo non potrebbe accadere (visione monetarista).
Facciamo un esempio: la crescita delle economie moderne si basa sulla capacità delle imprese di creare
innovazione e una politica importante è quella della “garanzia del brevetto”, che permette all’impresa di
vedersi garantito un certo profitto derivante dalla sua innovazione, che non potrà essere usata da
nessun’altra impresa. Così le imprese saranno spinte a creare innovazioni, dunque la politica risulterebbe
efficace, ma si arriverebbe ad un punto in cui queste innovazioni, garantite da brevetto, bloccherebbero la
crescita dell’economia, così il Governo si troverebbe costretto a diminuire i brevetti. Le imprese, però,
essendo razionali, già sanno come si comporterà il Governo, perciò il risultato è il peggiore di tutti: non c’è
nessuno stimolo alla crescita. Quanto appena detto è la cosiddetta incoerenza temporale, che si ha,
dunque, quando un Governo facilita la promozione di una politica, ma il successo della stessa porta il
Governo a tradirla. Il policy maker, che prevede la sua incoerenza temporale, preferisce vincolarsi, così
come fece Ulisse che preferì farsi legare all’albero della sua barca e mettere dei tappi nelle orecchie dei suoi
compagni per evitare di farsi incantare dal canto delle sirene: è un esempio perfetto per far comprendere la
rinuncia da parte del Governo alla sua sovranità in vista di politiche più efficaci (es. “whatever it takes” di
Mario Draghi per salvare l’euro). Si pone un problema molto importante, cioè quello di disegnare una
modalità d’intervento che, da un lato, limiti l’incoerenza temporale del policy maker e, dall’altro, lasci un
certo margine di discrezionalità da utilizzare opportunamente in presenza di shock imprevisti. La soluzione
potrebbe consistere nell’affidare il compito di controllare l’inflazione ad un organo che abbia una forte
preferenza per l’inflazione, cioè la Banca Centrale che, agendo in modo indipendente dal Governo, si occupi
esclusivamente di questo obiettivo, non preoccupandosi dell’occupazione o di altro (in questo senso la
Banca Centrale è conservatrice). Questa preferenza per l’inflazione è graficamente data da curve di
indifferenza piatte, dove il livello di benessere sociale è sempre lo stesso e dipende solo dall’inflazione e
non dal tasso di disoccupazione. Abbiamo dunque dimostrato il rischio dell’incoerenza temporale e la
necessità di porre dei vincoli alla discrezionalità del policy maker e di avere una Banca Centrale
conservatrice che dia peso solo all’inflazione. 

Cap.4: integrazione finanziaria internazionale


Il processo di globalizzazione in atto riflette la crescente interdipendenza delle economie nazionali. Alla
base di tale fenomeno vi sono sia la progressiva apertura agli scambi di merci e servizi (integrazione
economica) che l’accresciuta mobilità internazionale dei capitali (integrazione finanziaria). Quest’ultima è
avvenuta grazie alle innovazioni tecnologiche, che hanno ridotto i costi di transazione, e alle politiche di
liberalizzazione dei movimenti di capitale. All’interno dei flussi di capitale sono cresciute le quote di
investimenti diretti esteri (IDE), finalizzati ad acquisire il controllo di imprese e tipicamente realizzati da
imprese multinazionali, e di investimenti di portafoglio per sottoscrizione di capitale azionario, che hanno
registrato un aumento nell’area dei paesi a reddito elevato; solitamente gli investimenti diretti sono di
lungo periodo e sono tendenzialmente più stabili degli investimenti di portafoglio.

La mobilità dei capitali favorisce la crescita economica tramite:

- l’efficiente allocazione degli investimenti a livello globale, a favore delle aree dove è più alta la
produttività, soprattutto nei paesi arretrati che soffrono di scarsità di capitali;
- il commercio intertemporale come rete di salvataggio: nelle fasi cicliche di calo del reddito interno,
l’indebitamento con l’estero (MK>0) consente a imprese e famiglie di mantenere i livelli di
investimenti e consumi, di sostenere la domanda aggregata e di compensare l’eventuale deficit
PC<0. I paesi indebitati, infatti, possono emettere obbligazioni che possono a loro volta essere
acquistate non solo dai risparmiatori interni, ma anche dai risparmiatori esteri. Il debito con l’estero
potrà poi essere restituito nelle fasi di crescita del reddito;
- maggior diversificazione di portafoglio: si riduce il rischio relativo al singolo paese, aumenta il
rendimento atteso e si stimola l’accumulazione di capitale, infatti avere azioni di altre economie
aiuta i paesi a diversificare i rischi e a non avere perdite concentrate;
- gli investimenti diretti esteri, che favoriscono il travaso di tecnologie da paesi avanzati a paesi
arretrati (esternalità positive);
- maggior concorrenza nei mercati finanziari, con ingresso di operatori esteri che favoriscono lo
sviluppo del sistema finanziario;
- maggior disciplina dei governi nazionali: l’afflusso di capitali richiede stabilità macroeconomica e
istituzioni efficienti e trasparenti che effettuino vigilanza del sistema bancario, trasparenza, lotta
alla corruzione etc…;
- l’aumento della libertà economica dei risparmiatori e degli operatori economici, in particolare nelle
loro decisioni di investimento.

Nei mercati finanziari tuttavia c’è informazione asimmetrica e incompleta che causa instabilità nei mercati
e provoca alcuni fallimenti microeconomici già analizzati, come il rischio di azzardo morale, che porta gli
intermediari finanziari ad assumere rischi eccessivi, soprattutto se vi sono garanzie pubbliche che li
proteggono, o l’effetto gregge, che si ha quando i soggetti a cui manca l’informazione si lasciano guidare da
un soggetto pilota più informato, ma che in realtà può commettere errori. I movimenti di capitale, a
differenza dei mercati di beni qualsiasi, dipendono strettamente dalle attese sul futuro, questo spiega la
loro volatilità, cioè i forti e improvvisi afflussi e deflussi da e verso un paese (la volatilità è maggiore per i
flussi di capitale a breve termine). La mobilità internazionale dei capitali espone i paesi, in particolare quelli
arretrati con bassa qualità delle politiche macroeconomiche e delle istituzioni, al rischio di crisi finanziarie,
con costi sociali a carico soprattutto delle categorie sociali più deboli nel momento in cui la crisi finanziaria
dà luogo a recessione, fallimenti di imprese e disoccupazione. Differenze tra i paesi nei regimi di tassazione,
nelle politiche antitrust o di difesa ambientale rendono subottimale l’allocazione dei capitali: questi si
dirigono dove i costi sono minori anziché dove la produttività degli investimenti è maggiore.
Dunque, i paesi che partecipano all’integrazione finanziaria sono esposti al rischio di instabilità e a crisi
finanziarie che diventano causa di crisi economica, dunque di recessione (se in un paese vengono meno
repentinamente i finanziamenti dall’estero potrebbero verificarsi un calo della domanda aggregata e
problemi di insolvibilità).
Consideriamo un’economia aperta in
cui i capitali possono circolare
liberamente: si ha una triade
impossibile o trilemma, costituita da
una politica monetaria autonoma, un
regime di cambi fissi e una libera
circolazione dei capitali. Questi tre
elementi, dal punto di vista economico,
non sono coerenti insieme, dunque la
politica economica non può mantenere
simultaneamente più di due delle
seguenti tre condizioni.

Nel sistema di cambi fissi di Bretton Woods erano ammessi controlli sui movimenti dei capitali, quindi
vennero prediletti i cambi fissi e la politica monetaria autonoma: un sistema di cambi fissi, che richiede
l’intervento della Banca centrale nel mercato delle valute, è sostenibile solo con BP in equilibrio (e nel lungo
periodo anche MK in equilibrio), quindi se si vuole preservare una perfetta mobilità dei capitali l’equilibrio
di MK implica che si accetti i = iW, cioè che il tasso di interesse interno debba seguire quello internazionale,
dunque la politica monetaria del paese non può essere autonoma. Infatti, se il tasso interno è vincolato a
quello prevalente nel resto del mondo non è possibile realizzare una politica monetaria espansiva per
ridurre e stimolare la domanda aggregata (modello IS-LM-BP).

Se, invece, si vuole mantenere l’autonomia della politica monetaria del paese da quella prevalente nel resto
del mondo, così che sia possibile i < iW, allora è necessario limitare la mobilità dei capitali. Nel sistema di
Bretton Woods è stato considerato prioritario garantire cambi fissi e lasciare ai singoli paesi un margine di
autonomia nella politica monetaria, di conseguenza, è stato necessario imporre dei controlli sui movimenti
dei capitali. Secondo Keynes, ad eccezione del caso in cui l’ammontare del deflusso di capitali verso l’estero,
programmato dagli operatori economici, corrisponda ad un equivalente avanzo della bilancia commerciale,
se non si ponessero dei limiti alla mobilità internazionale dei capitali si perderebbe il controllo del tasso di
interesse all’interno del paese. Dunque, secondo egli, la libera circolazione dei capitali indebolisce la
sovranità economica nazionale ed è vero che porta ad un efficiente impiego delle risorse e quindi ad un
maggior benessere sociale, ma solo nell’ipotesi astratta di assenza di qualsiasi distorsione nel mercato dei
beni e nel mercato dei capitali. Benefici e problemi della mobilità internazionale dei capitali variano a
seconda delle circostanze e dei paesi considerati: dal loro confronto discende l’orientamento più o meno
favorevole alla libera circolazione dei capitali o, al contrario, all’introduzione di vincoli su di essa.
In generale, le restrizioni sui movimenti di capitali non costituiscono una soluzione di first best, infatti, in
condizioni ideali l’integrazione finanziaria è un first best, cioè una situazione di ottimo che permette alle
economie di crescere e di allocare efficientemente i capitali, tuttavia questo ottimo è astratto, dunque la
politica economica deve ricercare un second best, cioè un ottimo più concreto, che corregga, almeno in
parte, le distorsioni nell’economia.

Cap.5: fallimenti dello Stato


Mercato e Stato sono due istituzioni che si confrontano in termini di opposizione e cooperazione: secondo
il Primo Teorema del benessere il mercato è una mano invisibile, lo Stato una mano visibile, ma entrambe
sono incapaci di garantire il miglior risultato desiderato. I fallimenti dello Stato sono tutte quelle situazioni
in cui l’intervento pubblico non realizza il massimo benessere della collettività perché si assumono politiche
che o non producono effetti o peggiorano addirittura le condizioni. La teoria normativa della politica
economica assume che i policy makers abbiano l’obiettivo di raggiungere il massimo benessere sociale e
che siano razionali, in quanto assumono coerentemente le scelte e i comportamenti che assicurano il
raggiungimento di questo obiettivo. Il policy maker però non sempre segue questo obiettivo, ad esempio
quando applica imposte pigouviane che non rimuovono le esternalità negative perché applicate male, in
modo distorto o per finalità diverse, quando applica politiche di regolazione per la concorrenza che
avvantaggiano alcune imprese oppure quando realizza politiche macroeconomiche che accentuano
l’instabilità ciclica (ciclo politico-economico di Nordhaus). Il policy maker qui comprende gli organi pubblici
e il personale che contribuisce a definire e attuare le politiche, quindi sia i politici, scelti periodicamente
tramite elezioni, che decidono gli obiettivi e le politiche e i burocrati, che svolgono una carriera interna alla
pubblica amministrazione, che attuano obiettivi e politiche scelti dai politici. I rapporti tra i due potrebbero
essere conflittuali o collaborativi, infatti i burocrati potrebbero ostacolare l’attuazione delle politiche scelte
oppure collaborare, ma la collaborazione può degenerare in collusione, situazione che si ha quando due
parti collaborano per spartirsi i risultati dell’accordo che non sempre coincidono con il benessere sociale.
Il sistema delle spoglie facilita la collaborazione tra burocrati e politici, infatti un nuovo Governo può
cambiare gli alti dirigenti della pubblica amministrazione al fine di instaurare una collaborazione tra loro,
ma potrebbe anche favorirne la collusione. Tra i due c’è informazione asimmetrica, che ricordiamo essere
un fallimento del mercato, perché il politico può realizzare un obiettivo soltanto affidandosi al burocrate,
che riesce a tradurre una decisione politica in un provvedimento.

Tra le cause abbiamo:

- informazioni incomplete: politici e burocrati non hanno tutte le informazioni sulle variabili rilevanti,
necessarie a definire e realizzare un intervento pubblico utile ed efficace;

- opportunismo: politici e burocrati mettono in atto comportamenti opportunistici, cioè finalizzati a


ottenere vantaggi per sé anziché perseguire l’interesse collettivo (l’opportunismo lo troviamo anche nei
fallimenti del mercato tra i beni pubblici - free riding);

- ricerca della rendita: poiché politici e burocrati esercitano un potere discrezionale ci possono essere
agenti economici (imprese, gruppi organizzati, ecc.) che tentano di influenzare le loro decisioni a proprio
vantaggio, attraverso attività di lobbying (influenza) o, nei casi estremi, di corruzione.
Politici e burocrati opportunisti cercano di ottenere vantaggi per sé anche se in contrasto con le norme
morali o di legge e anche a costo di addossarne i costi sulla collettività o provocando svantaggi per il
benessere sociale: i burocrati potrebbero essere collusi con i politici opportunisti e, essendo da essi
nominati, potrebbero beneficiare indirettamente dei vantaggi di cui essi godono, ma i burocrati potrebbero
anche essere opportunisti, ma non collusi con i politici e potrebbero quindi approfittarsene di alcuni
vantaggi informativi di cui godono nei loro confronti (ricorda l’asimmetria informativa tra i due).
La presenza di comportamenti opportunistici da parte di politici e burocrati può dipendere da vari fattori,
come la concentrazione nel settore pubblico di persone inclini a cercare il proprio vantaggio perché la
politica e il settore pubblico attraggono i «peggiori» e perché le elezioni e le carriere nella pubblica
amministrazione non riescono a escludere gli opportunisti, la mancanza di regole e istituzioni efficaci nel
sanzionare e scoraggiare tali comportamenti e premiare invece i burocrati inclini al perseguimento del
benessere sociale: c’è quindi un problema di selezione all’ingresso e delle regole fissate.

Al contrario, nel mercato la concorrenza funziona da meccanismo che punisce chi tenta di ottenere
vantaggi in modo improprio, anche se in realtà, problemi analoghi di opportunismo possono insorgere nel
pubblico come nel settore privato.

Tra le conseguenze dell’opportunismo abbiamo:

- opportunismo legittimo (modello del ciclo politico-economico Nordhaus) date le 4 ipotesi:

1. obiettivo dei politici in democrazia è essere rieletti, utilizzando politiche fiscali e monetarie;

2. gli elettori sono più interessati al reddito (Y), quindi all’andamento positivo dell’economia, e alla
disoccupazione (u) piuttosto che all’inflazione;

3. la relazione tra inflazione e disoccupazione è descritta dalla curva di Phillips inclinata negativamente con
aspettative adattive (il tasso d’inflazione atteso riflette l’ultimo periodo), quindi l’economia è influenzata
dalla politica;

4. gli elettori sono «miopi» (hanno la «memoria corta», sono incapaci di vedere il periodo futuro ⇒ forma
di irrazionalità), quindi votano in base alla situazione presente nell’economia e tendono a dimenticare
l’andamento di lungo periodo.

Date queste ipotesi, le conseguenze sono che i politici, poco prima delle elezioni, finiranno per attuare
politiche espansive al fine di vincere le elezioni, aumentando il reddito e facendo diminuire la
disoccupazione: questo provocherà uno spostamento della curva di Phillips in alto a sinistra; dopo le
elezioni, a parità di disoccupazione, il tasso d’inflazione atteso crescerà, quindi il Governo sarà costretto a
ridurre l’inflazione lungo la nuova curva di Phillips inclinata negativamente tramite politiche restrittive, ma
la disoccupazione così aumenterà nuovamente e il reddito verrà rallentato ⇒ ciclo politico-economico
causato dall’instabilità della politica economica ⇒ fallimento dello Stato;

- opportunismo illegittimo, che comporta corruzione, che si ha quando al policy maker (politico o
burocrate) viene pagata una «tangente» allo scopo di ottenere una decisione favorevole. Le conseguenze
economiche della corruzione sono che la tangente rappresenta un costo per chi la paga, ma, soprattutto,
ostacola la crescita economica poiché ostacola la nascita di nuove imprese, scoraggia gli investimenti esteri
(i paesi più corrotti perdono capitali) e penalizza l’innovazione (se per ottenere un brevetto vi è il rischio di
dover pagare tangenti); inoltre, impone dei costi necessari a svolgere attività di pressione nei confronti dei
politici o dei burocrati. In termini di efficienza la corruzione ha effetti negativi, distorce il funzionamento del
mercato, quindi peggiora l’economia.

Tra i possibili rimedi abbiamo:

1. ridurre la discrezionalità di politici e burocrati, imponendo loro dei criteri, dei limiti;
2. definire un sistema elettorale efficace e regole interne al settore pubblico in grado di sanzionare (le
sanzioni, per essere efficaci, devono essere certe e costose) i politici responsabili di fallimenti dello
Stato e selezionare quelli più capaci e meno propensi all’opportunismo, che hanno motivazioni
intrinseche;
3. definire criteri di retribuzione dei burocrati per incentivarli a comportamenti corretti (es: legare la
retribuzione ai risultati); non è però sempre facile definire e misurare i risultati da perseguire.

Si può, quindi, trarre una conclusione di carattere generale: misure efficaci che si possono applicare in
modo generalizzato non sono disponibili. Quello che occorre fare è esaminare attentamente i singoli casi di
fallimento e individuare per ciascuno di essi la misura di intervento più idonea.

Cap.6: cooperazione economica internazionale


L’interdipendenza economica internazionale è una situazione di fatto nella quale perturbazioni (shock
positivi o negativi) di varia natura si trasmettono tra paesi, dunque le politiche e le economie di ciascun
paese ne risultano influenzate.

Esempi:

- se il paese A è un produttore di petrolio e sospende l’estrazione per un periodo, si determina un


aumento del prezzo internazionale del petrolio, che può causare un peggioramento della BP di altri
paesi importatori;
- se il paese A, sufficientemente grande, entra in una fase di rapida espansione economica, aumenta
le importazioni di materie prime con conseguente aumento del loro prezzo internazionale, a
svantaggio degli altri paesi importatori;
- se il Governo del paese A riduce le imposte sulle imprese o riduce i vincoli ambientali, attrae
investimenti diretti esteri a svantaggio di altri paesi.

Altri esempi di interdipendenza particolarmente rilevanti sono i flussi migratori, la sicurezza, il terrorismo
internazionale, il cambiamento climatico, le pandemie e le vaccinazioni. Le interdipendenze tra paesi
implicano spillover (ripercussioni, «travasi»), che rappresentano esternalità positive o negative tra paesi: le
scelte di politica economica assunte da un paese in un’ottica strettamente nazionale generano effetti
esterni su altri paesi e portano a risultati subottimali per l’economia mondiale complessiva.
L’unica soluzione è la cooperazione internazionale, termine con cui si intendono varie forme di
collaborazione tra gli stati che vanno dalla semplice consultazione tra governi al coordinamento delle
politiche nazionali, che implica a sua volta il coordinamento internazionale, con cui si intendono vari
accordi tra paesi diretti a modificare le rispettive politiche al fine di tener conto degli spillover e conseguire
mutui benefici resi possibili dall’interdipendenza. Dunque, le interdipendenze sono le situazioni di fatto, le
esternalità sono la malattia e la cooperazione è il rimedio, infatti non esiste una sovranità sovranazionale,
ma può essa essere creata tramite accordi internazionali.

Tra le cause dell’interdipendenza come integrazione economica internazionale abbiamo:

- innovazione tecnologica nei trasporti, comunicazione e informazione;


- accresciuta mobilità dei fattori, sia di capitali che di lavoro, favorite anche da mutamenti politici
(fine della chiusura delle economie dell’est europeo) e scelte di politica economica;
- sviluppo degli scambi commerciali.

Tra le conseguenze dell’interdipendenza abbiamo:

- trasmissione degli shock macroeconomici;


- minore efficacia di politiche macroeconomiche nazionali;
- fallimenti del mercato con dimensione internazionale (esternalità, beni pubblici, asimmetrie
informative);
- possibili tensioni e conflitti d’interesse tra paesi.

Tra le implicazioni «politiche» dell’interdipendenza abbiamo:

- drastico ridimensionamento della sovranità nazionale;


- la cooperazione internazionale diventa necessaria e vantaggiosa;
- allargamento dei campi di interventi internazionali.

Le politiche sociali e fiscali dei vari paesi sono interdipendenti e la sovranità degli stati nazionali è ridotta,
infatti cooperare significa che lo Stato deve assoggettarsi ad una regola comune e rinunciare ad una quota
della propria sovranità.

Un altro fallimento micro che deriva dalle esternalità è quello dei beni pubblici: oggi si parla di beni pubblici
globali, per intendere tutti quei beni caratterizzati da non rivalità (non si esauriscono, dunque ogni paese
può goderne senza nulla togliere al godimento degli altri paesi) e non escludibilità (tutti li possono
consumare gratis, dunque non è possibile imporre il pagamento di un prezzo ai paesi che ne godono): in
queste condizioni ogni paese trova convenienza a comportarsi da free rider, cioè a non rispettare le regole
prefissate per l’utilizzo di quel bene e ad aspettare che sia qualcun altro a sostenere i costi legati al bene
stesso (es. il cambiamento climatico è un bene pubblico globale, dove il costo enorme è quello di bloccare
le emissioni di CO2, che comporta per un’impresa la riconversione degli investimenti, la distruzione di posti
di lavoro etc…, dunque tutti i paesi troveranno convenienza nell’agire da free rider, aspettando che sia un
altro paese a ridurre le emissioni e a sostenere quei costi: in questo modo però si determina un equilibrio
subottimale in cui nessun paese difende l’ambiente e tutti i paesi ne subiscono i danni). La
soluzione per evitare questo risultato consiste nel coordinamento tra paesi (strategia cooperativa),
mediante il quale i paesi si impegnano reciprocamente e in modo vincolante a difendere l’ambiente.
Simili considerazioni possono essere fatte per il commercio internazionale, dove la scelta è tra il libero
scambio e il protezionismo. Assumiamo, in base al principio dei costi comparati, che il libero scambio generi
un risultato efficiente per l’insieme dei paesi che vi prendano parte, infatti permette di sfruttare
pienamente le economie di scala, rende disponibile una più ampia varietà di beni per i consumatori e i
produttori all’interno dei singoli paesi, accresce la contendibilità dei mercati nazionali da parte delle
imprese estere, assicurando un’elevata concorrenza nel sistema economico. Rispetto ad una situazione di
libero scambio, il Governo di un singolo paese potrebbe tentare di ottenere dei vantaggi per la propria
economia con una politica protezionistica, imponendo un dazio sui beni importati per migliorare la sua
ragione di scambio (il dazio si traduce in una riduzione del prezzo netto dei beni importati rispetto a quelli
esportati). Tuttavia, è probabile che tutti i paesi ritengano vantaggioso applicare una politica
protezionistica: il risultato è che nelle relazioni internazionali il libero scambio viene sostituito da politiche
protezionistiche. Il sistema di libero scambio rappresenta un bene pubblico a livello internazionale: ogni
paese si comporta come free rider (preferisce applicare i dazi), ma così facendo viene meno il libero
scambio e i risultati dei paesi peggiorano.

Per instaurare una situazione duratura di libero scambio è necessario il coordinamento tra tutti i paesi, che
dovranno accordarsi su un sistema vincolante di regole che impedisca di adottare politiche protezionistiche.
La scelta del coordinamento è più probabile nei casi in cui la scelta non sia una tantum, ma i paesi si trovino
ripetutamente, periodo dopo periodo, a dover interagire tra loro e a compiere scelte in un determinato
campo. In questo contesto ogni paese valuta le conseguenze di lungo periodo delle varie opzioni e ha la
possibilità di attuare ritorsioni (se il paese B tradisce gli impegni assunti e applica un dazio anche A farà lo
stesso e viceversa). La probabilità che i paesi scelgano di cooperare è maggiore se l’orizzonte temporale è
sufficientemente lungo e se i policy maker danno sufficiente importanza ai periodi futuri (rendono il tasso di
sconto al quale attualizzano i valori futuri non troppo alto): in questo caso si impegneranno a non applicare
dazi perché questi causano un guadagno nel breve periodo minore delle perdite di lungo periodo che
sarebbero amplificate dalle ritorsioni. Nella vita reale i giochi sono ripetuti, dunque la necessità di scegliere
tra tagliare le emissioni oppure meno, tra applicare i dazi oppure no, si presenta continuamente e rende più
facile la scelta di una posizione efficiente, perché a forza di giocare e sbagliare i giocatori, se sono razionali,
imparano. Sappiamo però che i governi sono miopi, cioè sono interessati agli obiettivi di breve periodo,
ecco perché finiscono per trascurare la lotta al cambiamento climatico che è un obiettivo di lungo periodo,
e che, per loro convenienza, non sono sempre propensi a cedere sovranità. Inoltre, è necessario che tutti i
paesi abbiano la stessa visione affinché possa esserci un miglioramento e la maggior parte delle volte i
policy maker dei vari paesi hanno obiettivi divergenti. Bisogna poi considerare gli elevati costi di transazione
degli accordi tra paesi (es. tempi delle trattative, ricerca del compromesso) e gli effetti distributivi dei costi,
cioè il dover scegliere tra chi deve tagliare le emissioni e chi no, tra chi può applicare i dazi e chi no (es. Cina
e India ritengono che, essendo ancora paesi in via di sviluppo, abbiano più difficoltà nel ridurre le emissioni
rispetto ai paesi avanzati). Dunque, la soluzione a tutto questo è il coordinamento, che può essere di tipo
episodico, se non ambisce a durare a lungo, o permanente, cioè durevole nel tempo, mediante la creazione
di un regime (insieme di regole e procedure che vincolano i comportamenti dei paesi aderenti) o di
un’organizzazione internazionale. Le organizzazioni sono un supporto importante al coordinamento, infatti
riducono i costi di transazione di gestione degli accordi, svolgono con maggiore efficacia il monitoraggio del
rispetto degli accordi e gestiscono in modo efficace e neutrale le sanzioni nei confronti dei paesi che non
rispettano gli accordi. Esempi di organizzazioni internazionali sono il Fondo Monetario Internazionale (FMI),
creato con gli accordi di Bretton Woods (1944), l’Organizzazione Mondiale del commercio (WTO) e
l’Organizzazione Mondiale della sanità (OMS).

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