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DIRITTO DEL LAVORO

- michel.martone@uniroma1.it

Il diritto del lavoro è quel ramo del diritto privato che disciplina il rapporto di lavoro e che tutela l’interesse
economico, la libertà, la dignità e la personalità del lavoratore. La funzione del diritto del lavoro è sempre
stata quella di assicurare la produzione con la pace sociale. Per ottenere una disciplina abbiamo dovuto
aspettare la fine dell’800, prima infatti vi era la schiavitù e la condizione di schiavo era determinata dalla
nascita o dalla forza. La società in relazione agli status venne poi travolta con la Rivoluzione americana del
1775 e successivamente con la Rivoluzione francese del 1789, che pose tutti gli uomini sullo stesso piano
affermando il principio di uguaglianza formale, secondo cui tutti sono uguali di fronte alla legge (“la mia
libertà finisce dove inizia quella altrui”) e il principio di uguaglianza sostanziale, secondo cui tutti hanno pari
dignità. Il diritto del lavoro è stato costruito proprio nella prospettiva di cercare di riuscire a riequilibrare la
disparità contrattuale che il mercato inevitabilmente pone da sempre tra datore di lavoro e lavoratore,
disparità determinata dal fatto che mentre tutti i contratti previsti dal nostro diritto civile hanno natura
patrimoniale, quindi riguardano l’avere, il contratto di lavoro per il lavoratore riguarda anche l’essere: la
sfida del diritto del lavoro è sempre stata quella di cercare di assicurare, in un contratto che prevede la
subordinazione del lavoratore al datore di lavoro, una subordinazione che non sia lesiva della persona.
Ci si rese conto che l’emancipazione del lavoratore si poteva realizzare unendosi con gli altri lavoratori in un
sindacato, in grado di acquisire il monopolio dell’offerta della manodopera e di determinare
autonomamente le condizioni di mercato, sottoscrivendo un contratto collettivo con il datore di lavoro,
richiedendo una retribuzione giusta (i contratti collettivi in origine si chiamavano, infatti, concordati di
tariffa). Se la Rivoluzione francese, da una parte, mise gli uomini tutti sullo stesso piano, dall’altra, sancì,
con la legge “Le Chapelier”, il divieto di coalizioni operaie, poiché queste avrebbero potuto turbare il
normale dispiegarsi delle leggi di mercato: tutto questo perché la Rivoluzione francese era una rivoluzione
borghese, che era stata condotta dalla borghesia contro l’aristocrazia, che di fatto voleva evitare che i
lavoratori, mediante il sindacato, potessero costituire un monopolio e dettare le condizioni lavorative.
D’altro canto, la Rivoluzione francese sciolse i lavoratori dal rapporto feudale, li rese liberi di circolare e di
cambiare lavoro: sostanzialmente li sciolse dalle corporazioni. Nel corso dell’800 in Inghilterra avvenne la
Rivoluzione industriale, si scoprì come utilizzare il vapore e il carbone e, di colpo, si riuscì a tramutare la
combustione di questi elementi in energia motrice, si iniziarono a costruire le prime fabbriche e tutti i
lavoratori iniziarono a spostarsi dalle campagne alle grandi città e cominciarono a vivere intorno alle grandi
fabbriche, dove nacquero i grandi quartieri operai. Nelle grandi città vi era però disoccupazione strutturale,
dunque la retribuzione si andava a situare al minimo necessario per la sopravvivenza e i lavoratori erano
costretti a lavorare anche 18 ore al giorno. Se la disoccupazione strutturale viene lasciata libera tende a
espandere al massimo i poteri del datore di lavoro e a ridurre al minimo i diritti dei lavoratori perché tra di
essi si sviluppa la concorrenza al ribasso. Le prime forme di rivolta sindacale non furono degli scioperi, che
erano vietati, ma degli atti violenti, il cosiddetto luddismo, che prese il nome da Ned Ludd, un lavoratore
che nel 1812 a Londra, davanti alla morte di due colleghi in fabbrica, iniziò a distruggere la macchina con cui
lavorava, altri lavoratori lo seguirono, la polizia intervenne e uccise sia Ned che altri 10 dipendenti. Nel
1848 a Parigi si riunì l’internazionale del partito comunista e venne chiamato a parlare Karl Marx, autore de
“Il Capitale”, il cosiddetto manifesto del partito comunista. In quest’epoca, iniziarono a nascere i primi
sindacati in clandestinità, chiamati massoni in Italia e il primo grande sindacalista che partecipò
all’internazionale comunista fu Giuseppe Mazzini, esponente del movimento dei lavoratori. Le prime
associazioni sindacali presero il nome di società di mutuo soccorso, diverse dai sindacati, con cui i
lavoratori decisero di versare una somma minima in un fondo, che poi veniva utilizzato in caso di infortuni
del lavoratore, a cui seguiva immediatamente il licenziamento. Fu così che nacque la previdenza, originaria
dunque non di un fenomeno statale, bensì di un fenomeno di organizzazione dei lavoratori.
Marx sosteneva che ci fosse uno spettro che si aggirasse per l’Europa, lo spettro del proletariato, dello
scontro tra le classi, da sempre esistito (patrizi contro plebei, servi della gleba contro signorotti locali): con il
manifesto del partito comunista egli cercò di far capire ai lavoratori che i datori di lavoro, impadronendosi
del plusvalore, sono destinati ad essere sempre più ricchi, mentre i poveri sono destinati ad essere sempre
più poveri. Questa condizione, secondo Marx, andrà avanti finché un giorno i lavoratori faranno la
rivoluzione, alla quale seguirà la dittatura del proletariato, che instaurerà un nuovo regime nel quale la
proprietà privata verrà abolita e il possesso dei mezzi di produzione non spetterà più ai capitalisti, ma allo
Stato, legittimato a detenere il plusvalore per equidistribuirlo a tutti in egual misura. La storia ha poi
dimostrato che i lavoratori sono riusciti a conquistarsi retribuzioni più alte, orari di lavoro più bassi,
maggiori diritti e maggiori tutele grazie all’unione sindacale. Prima in Inghilterra, poi in Francia e infine in
Italia vennero eliminate le leggi contro i sindacati, lo sciopero non era più reato, ma una libertà, si
affermarono il principio della libertà di lavorare e di non lavorare (presidio ultimo della libertà), dunque di
scioperare, lo sciopero non era più un problema di ordine pubblico, quindi non era più soggetto al
necessario intervento della polizia. D’altro canto però, venne riconosciuta al datore di lavoro la possibilità
del licenziamento, tuttavia, se un’intera fabbrica decide di scioperare l’unica cosa che il datore di lavoro
può fare è scendere ad un compromesso, mediante un CONTRATTO COLLETTIVO, cioè un contratto in
grado di individuare a quali condizioni i lavoratori sono liberi di lavorare con la pace sociale (“nessun
privato può essere obbligato a fare qualcosa contro la propria volontà”). L’Italia conobbe il suo primo
grande sviluppo economico nel periodo liberale quando il Presidente del Consiglio era Giovanni Giolitti:
durante quegli anni il paese crebbe, le fabbriche divennero sempre più grandi, si cominciarono ad elaborare
le prime leggi del diritto del lavoro, nel 1886 ci fu infatti la prima riforma del lavoro, con cui si stabilì che i
fanciulli all’interno delle miniere non potevano lavorare più di 10 ore al giorno, i lavoratori iniziarono a
guadagnarsi da soli i propri diritti, con il Codice Zanardelli poi venne riconosciuta la libertà del lavoro,
vennero aboliti i reati di sciopero e di associazione sindacale (non si riconobbe ancora il diritto, ma nel 1889
lo sciopero venne riconosciuto in Italia come libertà di astensione dal lavoro) e nacquero i primi sindacati in
Italia, organizzazioni di due o più persone con il fine di ottenere migliori condizioni di lavoro (essi nacquero
nelle aziende, nei luoghi di lavoro, lì dove vi era il bisogno di tutelarsi). I sindacati iniziarono ad unirsi
diventando sempre più grandi, dopo i sindacati aziendali nacquero i sindacati territoriali a livello comunale,
che presero il nome di Camere del lavoro, la più importante fu quella di Milano, e, infine, tutti i sindacati
aziendali e territoriali, nel 1906, decisero di unirsi in un grande sindacato nazionale, la CGdL
(Confederazione Generale del Lavoro) con potere di proclamare lo sciopero generale, in grado di bloccare il
funzionamento del capitalismo. La lotta sindacale cominciò ben presto a mostrare le prime debolezze,
accadde che alcuni datori di lavoro sottoscrivevano contratti collettivi senza poi contravvenire ai propri
obblighi e per non far precipitare la situazione Giolitti istituì i Tribunali dei Probiviri, cioè dei giudici
speciali selezionati, eletti in pari numero tra i rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori, incaricati
della mediazione giuridica tra le parti. La giurisprudenza dei Probiviri contribuì a formulare una serie di
principi e regole a tutela del lavoro in fabbrica (es. obbligo di preavviso in caso di licenziamento e relativa
indennità, minimi di tariffa individuati nei concordati, assenza di indennità per dimissioni o colpa grave del
lavoratore etc…). Se nel vecchio ordinamento, il lavoratore che si infortunava sul posto di lavoro veniva
licenziato poiché considerato inabile al lavoro, con i Probiviri questo principio venne ribaltato, infatti questi
sostenevano che la responsabilità per l’infortunio sul luogo di lavoro fosse del datore, in quanto l’infortunio
avvenisse a seguito della produzione di un risultato nell’interesse del datore stesso, dunque era compito di
quest’ultimo preservare la salute del lavoratore: questo portò alla nascita del primo sistema di
assicurazione obbligatoria sugli infortuni di lavoro. Dunque, fu proprio grazie ai Probiviri che il contratto
collettivo cominciò a produrre i propri effetti ultra-partes. Dopo la Prima guerra mondiale, l’Italia entrò in
una fase di recessione economica, a seguito dell’aumento degli scioperi, della riduzione della produzione
all’interno delle fabbriche e dell’idea di rivoluzione che si andava ad affermare sempre di più, anche grazie
al Partito Comunista Italiano di Gramsci e Togliatti, sulla scia di quella intentata dai soviet nel 1917 in
Russia, con l’obiettivo di realizzare la dittatura del proletariato e il comunismo, abolendo la proprietà
privata e promuovendo l’economia pubblica nazionalizzando le imprese. Mussolini si pose portatore
dell’ordine e fondò lo Stato corporativo, basato sul lavoro, quello che lo Stato liberale non voleva
riconoscere. Nel 1927, insieme ad Alfredo Rocco, Mussolini emanò la Carta del lavoro, uno dei documenti
fondamentali del fascismo, con cui espresse i suoi principi sociali, la dottrina del corporativismo, l’etica del
sindacalismo fascista e la politica economica fascista: egli decise di porre il lavoro come architrave
dell’ordinamento giuridico, estendendo a tutti i lavoratori i diritti per cui tanto avevano lottato, infatti
introdusse la durata massima dell’orario di lavoro ad otto ore, il riposo settimanale, il riposo festivo e creò il
sistema di previdenza sociale, questo per impedire ai cittadini di ricorrere alle armi (“ne cives ad arma
veniant”) e di fare la rivoluzione. La disciplina del rapporto di lavoro non era più scritta nei contratti
collettivi, ma cominciò ad essere scritta nelle leggi, nacque il diritto del lavoro e per la prima volta
nell’ordinamento italiano si fece strada il principio paternalistico, secondo cui i diritti venivano calati
dall’alto e garantiti dal Duce, che basò la sua intera politica sul corporativismo e sul produttivismo.
L’economia venne divisa in 8 categorie produttive (corporazioni), dotate di un unico CONTRATTO
COLLETTIVO CORPORATIVO e di soli due sindacati per categoria, uno dei produttori e l’altro dei lavoratori
e, nel 1925, venne siglato il patto di palazzo Vidoni, per mezzo del quale il regime fascista eliminò il
sindacato libero sostituendolo con un’organizzazione sindacale per i datori di lavoro, che prese il nome di
Confindustria, un’organizzazione sindacale per i lavoratori, ovvero il sindacato fascista, e una
Confederazione delle corporazioni fasciste, che si andò a sostituire alla CGdL; inoltre, lo sciopero divenne
reato perché considerato attentato alla produzione nazionale. Se nel periodo liberale il sindacato era libero
e autonomo, durante il fascismo questo divenne libero ma non autonomo, infatti il sindacato non era più
espressione dei lavoratori, in questo senso perse valore, venne meno la libertà di scegliere e, nonostante ai
lavoratori vennero riconosciuti una serie di diritti, vi era comunque un solo partito, un solo sindacato, un
solo Duce. Bisogna chiarire e definire due concetti fondamentali: autonomia e libertà. La libertà negativa è
la libertà da ingerenze esterne e dipende dagli altri, mentre la libertà positiva o autonomia è la libertà di
regolare i propri interessi, implica l’assunzione delle proprie responsabilità e dipende da sé stessi: la libertà
può farsi poi autonomia attraverso l’esercizio della volontà di realizzare i propri interessi, meritevoli di
tutela, sanciti con la Rivoluzione francese. Il fascismo fornisce le basi anche per il grande cambiamento
economico del ‘900, in cui si affermano la produzione di massa e la società capitalistica poggiante sulla
proprietà privata e sul contratto. In America prende piede un nuovo modello produttivo, il Taylor-fordismo,
ovvero l’organizzazione scientifica del lavoro, dal quale si genererà l’idea di due figure di uomo all’opposto:
l’uomo artigiano e l’uomo operaio. Prima di allora, i lavoratori si muovevano attorno alla macchina, erano
artigiani e non erano specializzati, svolgevano sempre la stessa mansione e l’obiettivo era quello di
efficientare il sistema produttivo (più lavoro nel minor tempo possibile): il lavoro divenne così ripetitivo e
nacque la catena di montaggio. L’unica cosa che interessava al datore di lavoro era che il lavoratore si
inserisse all’interno dell’organizzazione produttiva e svolgesse la propria prestazione, senza arrestare
l’intera catena, provocando un danno per tutti, motivo per il quale lo sciopero era vietato. Ford capì che
doveva motivare i propri lavoratori e istituì un metodo di pagamento a cottimo (tanti pezzi produci e tanto
verrai pagato) o a tempo, da qui nacque la fabbrica moderna. Di colpo, il contratto collettivo comincia ad
estendere la propria efficacia con effetti ultra partes e vengono così elaborati i principi alla base del diritto
del lavoro. All’origine dell’ordinamento giuridico vi è l’esigenza di assicurare la pacifica convivenza tra i
cittadini affinché essi vivano civilmente e per far sì che ciò accada bisogna fissare delle regole: la prima
regola è che nessun privato può costringere qualcun altro a fare qualcosa contro la propria volontà (la mia
libertà finisce lì dove inizia quella altrui, questo rende me uguale agli altri), la seconda regola si basa, invece,
sul principio del rispetto dell’altro. Il CONTRATTO DI LAVORO è un contratto sinallagmatico a prestazioni
corrispettive che gravita attorno a due obbligazioni fondamentali, quella del datore di lavoro di
corrispondere al lavoratore una retribuzione, con cui possa assicurarsi un’esistenza libera e dignitosa e
quella del lavoratore di prestare la propria attività lavorativa in maniera subordinata, fedele e diligente.
Per la stipulazione del contratto individuale di lavoro, le parti devono essere in possesso della capacità
giuridica, dunque dell’attitudine a prestare il proprio lavoro, che si acquisisce a 16 anni e la capacità di
agire, che si acquisisce invece a 18 anni. Il contratto di lavoro, come contratto di organizzazione, è quel tipo
di contratto mediante il quale l’imprenditore acquisisce il diritto di organizzare un’attività lavorativa
gerarchicamente ordinata e di appropriarsi del risultato dell’attività lavorativa stessa, quello che Marx
chiamava plusvalore (principio dell’alienità dei risultati), ma sono gli stessi lavoratori che quando firmano
un contratto di lavoro accettano di assoggettarsi all’esercizio del potere direttivo, di controllo e disciplinare
del datore di lavoro, in virtù dello scambio tra lavoro subordinato e retribuzione. Attorno a queste due
obbligazioni ve ne sono tante altre accessorie che assicurano l’integrità fisica e morale del lavoratore e il
rapporto duraturo, in particolare, tutto il diritto del lavoro ruota attorno alla tutela e alla libertà del
lavoratore, coinvolto in un rapporto che, tra tutti i rapporti aventi natura patrimoniale, è l’unico a porre una
persona alle dipendenze di un’altra, infatti l’obiettivo è quello di verificare che libertà e integrità fisica e
morale del lavoratore non vengano lese. Mentre tutti gli altri contratti si basano sul principio
dell’autonomia contrattuale, secondo cui le parti sono libere di determinare il contenuto del contratto
stesso, qualora questo non sia già determinato dalla legge, il contratto di lavoro vede il solo potere
unilaterale di modificare l’oggetto del contratto a carico del datore di lavoro. Il padre del diritto del lavoro è
considerato Ludovico Barassi, il quale ritiene che il CONTRATTO DI LAVORO SUBORDINATO sia il contratto
mediante il quale l’imprenditore ponga in essere un’organizzazione di beni o persone per produrre beni e
servizi da rivendere sul mercato per ottenere un profitto: questo si ha ogni volta che vi è eterodirezione,
ossia ogni qualvolta l’imprenditore ha il potere di dirigere la prestazione dei lavoratori. Secondo l’art.2094
c.c., che di fatto descrive il contratto, “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante
retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze
e sotto la direzione dell'imprenditore", secondo l’art.2095 “i prestatori di lavoro subordinato si distinguono
in dirigenti, impiegati ed operai”, i primi, alter ego dell’imprenditore, hanno funzione direttiva, i secondi
svolgono attività d’ordine, in base alle direttive dell’imprenditore o del dirigente e i terzi svolgono
un’attività puramente esecutiva e manuale, secondo l’art.2103 “il lavoratore deve essere adibito alle
mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia
successivamente acquisito, inoltre, in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali, lo stesso può
essere assegnato a mansioni appartenenti all’inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima
categoria legale”, secondo l’art. 2104 c.c. "il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla
natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa e da quello superiore della produzione
nazionale. Deve, inoltre, osservare le disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite
dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende" e, infine, secondo
l’art.2105 “il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con
l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa o
farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”. Ciò che rileva nel contratto di lavoro subordinato è
la fiducia nelle parti, pertanto la prestazione di lavoro deve essere svolta personalmente, non è possibile
una sostituzione dell’adempimento della propria prestazione lavorativa (unica eccezione è data dalla
tipologia di contratto di lavoro ripartito o job sharing). L'imprenditore ha il potere di determinare, al
momento della costituzione del rapporto, e di modificare, unilateralmente nel corso del rapporto, le
modalità di esecuzione della prestazione di lavoro subordinato affinché la collaborazione del lavoratore sia
idonea a soddisfare l'interesse dell’imprenditore: distinguiamo la subordinazione in senso tecnico, secondo
cui l’imprenditore ha il potere di determinare le modalità di prestazione del contratto, impartendo le
direttive che ritiene necessarie e la subordinazione in senso funzionale, secondo cui la prestazione del
lavoratore viene coordinata per un fine comune. Il contratto di lavoro subordinato è, dunque, strettamente
collegato all'impresa, essendo che svolge non solo la funzione di scambio, ma anche quella organizzativa, in
quanto consente all'imprenditore di pianificare e coordinare, attraverso l'esercizio del potere direttivo, la
prestazione di lavoro dedotta in contratto. Il coordinamento di più contratti di lavoro consente poi
all'imprenditore di realizzare il risultato produttivo.
Il LAVORO AUTONOMO, al contrario, consiste nel compimento di un’opera o di un servizio, con lavoro
prevalentemente proprio che il lavoratore svolge senza alcun vincolo di subordinazione, verso un
corrispettivo, nei confronti di un committente. Il lavoro autonomo si pone in linea di principio agli antipodi
del lavoro subordinato perché non sempre è facile differenziare le due fattispecie e la normativa non è
d’aiuto, infatti l’art.2222 definisce il lavoro autonomo semplicemente come quell’attività lavorativa svolta
senza alcun vincolo di subordinazione, ecco perché sono stati individuati degli indici della subordinazione,
che, se riscontrati nello svolgimento del rapporto di lavoro, ne rilevano la natura subordinata. Tra questi
indici, che permettono di identificare la subordinazione sulla base della prestazione svolta e non sul
rapporto tra le parti, vi è l'obbligo di osservanza dell'orario di lavoro, da parte del prestatore di lavoro
subordinato, il quale deve necessariamente rispettare l'orario di lavoro individuato e fissato dal datore di
lavoro, rispettando i limiti di legge e di contratto collettivo, l’obbligo di avvisare in caso di assenza dal lavoro
e di chiedere preventivamente la possibilità di astenersi dalla prestazione di lavoro per ferie (diritto
irrinunciabile, art.36 Costituzione), affinché il lavoratore possa recuperare un benessere fisico e psichico,
che può recuperare anche in momenti nell'arco della giornata lavorativa chiedendo l'intervallo lavorativo
(diritto costituzionalmente protetto). Nel nostro ordinamento giuridico, non tutti i rapporti con dipendenza
socioeconomia sono subordinati, ad esempio le collaborazioni continuative e coordinate (co.co.co.),
introdotte a seguito della riforma del 1973 del processo del lavoro, in cui rileva non l'inferiorità ma
la continuità, la coordinazione ed il carattere prevalentemente personale, sono parasubordinate, cioè a
metà strada tra il lavoro subordinato e il lavoro autonomo (es. amministrazione di condominio, rapporti di
consulenza professionale, rapporti di mandato e alcune attività artistiche o artigianali). I collaboratori
coordinati e continuativi o lavoratori parasubordinati lavorano, infatti, in piena autonomia operativa,
escluso ogni vincolo di subordinazione, ma nel quadro di un rapporto unitario e continuativo con il
committente del lavoro, che offre loro i mezzi lavorativi. Sono pertanto funzionalmente inseriti
nell’organizzazione aziendale e possono operare all’interno del ciclo produttivo del committente, al quale
viene riconosciuto un potere di coordinamento dell’attività del lavoratore con le esigenze
dell’organizzazione aziendale. Spesso lo strumento delle co.co.co. è stato utilizzato per eludere la
normativa sul lavoro subordinato. Per evitare questo fenomeno, il legislatore con il D.lgs.276/2003 ha
introdotto il lavoro a progetto, un contratto di natura autonoma, entro cui devono essere ricondotti i
rapporti di collaborazione con un datore di lavoro, diversi dalla subordinazione, che devono essere
riconducibili ad uno o più specifici progetti e programmi di lavoro o fasi di esso, determinati dal
committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, indipendentemente dal
tempo impiegato per l’esecuzione della prestazione. È infatti previsto che nel caso in cui non sussista un
progetto o un programma, il rapporto si presume di natura subordinata e a tempo indeterminato sin dal
momento in cui esso ha avuto inizio. Il contratto di lavoro a progetto deve essere stipulato in forma scritta e
deve indicare il progetto o il programma di lavoro, le modalità del coordinamento, la durata della
prestazione, il corrispettivo e le eventuali misure per la tutela della salute e della sicurezza del lavoratore.
Inoltre, il collaboratore a progetto non è vincolato da obblighi di esclusiva e ha il diritto di essere
riconosciuto autore dell’invenzione. Il contratto a progetto si risolve al momento della realizzazione del
progetto o del programma e il recesso, prima della scadenza, è ammesso solo per giusta causa. Sono esclusi
dal campo di applicazione del lavoro a progetto l’esercizio di professioni intellettuali, per le quali è
necessaria l’iscrizione all’albo, i rapporti e le attività di co.co.co. in favore di associazioni e società sportive
dilettantistiche, i rapporti di co.co.co. stipulati con la Pubblica Amministrazione e le collaborazioni
occasionali di tipo accessorio, le cosiddette mini co.co.co. Queste ultime sono quei tipi di rapporti di
collaborazione che prevedono una continuità lavorativa di un massimo di 30 giorni durante l’anno ed una
retribuzione di massimo 5.000,00€ sempre nello stesso anno e comprendono i lavori domestici, i lavori di
giardinaggio, l’insegnamento privato supplementare ed altri. Il lavoro accessorio si instaura senza alcun tipo
di assunzione o formalizzazione contrattuale, chi vuole farsi eseguire i lavori sopra indicati, deve provvedere
ad acquistare da appositi concessionari dei carnet di buoni da consegnare al lavoratore come compenso per
la prestazione resa e il lavoratore, una volta ricevuti i buoni, deve recarsi dal concessionario del servizio per
il pagamento. Inizialmente, l’attività di lavoro veniva inquadrata nella locazione, che si distingueva in locatio
operarum e locatio operis: con il contratto di locazione d'opera (art.1570), una delle parti si obbliga a fare
per l'altra una cosa mediante la pattuita mercede e l’interesse del committente viene soddisfatto soltanto
nel momento in cui l'opera viene completata e gli viene consegnata, diversamente, con il contratto di
locazione d’industria, il prestatore mette a disposizione del datore di lavoro le proprie energie, che possono
consistere tanto nello svolgimento di un lavoro quanto nello stare a disposizione dello stesso. Tali forme
di locazione erano alla base dei rapporti di lavoro, con la locatio operarum le persone obbligavano la
propria opera all’altrui servizio, mentre con la locatio operis gli imprenditori realizzavano un’opera ad
appalto o a cottimo. Verso la fine dell’800, con la nascita della grande industria in Italia, la tutela assicurata
dal Codice Civile al lavoro degli operai in fabbrica, con il contratto di locazione d’opera, risultò
progressivamente inadeguata ed insufficiente. Nel 1901 poi Barassi individuò nella subordinazione del
lavoratore rispetto al datore il tratto identificativo della locatio operarum, dunque, il vincolo di dipendenza
non era più personale, ma funzionale all'esecuzione del lavoro, dunque la locazione non venne più
considerata adatta perché assimilava il lavoratore ad un oggetto e non ad un soggetto nel contratto.
L’art.1325 tratta gli elementi essenziali del contratto individuale di lavoro : accordo, causa, oggetto e forma.
L’accordo è la manifestazione della volontà dei contraenti di stipulare il contratto a determinate condizioni
e libero da vizi, affinché non si incorra nella cosiddetta simulazione, che può essere assoluta, quando le
parti fingono di voler costituire un rapporto di lavoro subordinato per ragioni fiscali o previdenziali oppure
relativa, se le parti fingono l’esistenza di un contratto diverso da quello voluto e realmente svolto: il
risultato è che il contratto non produce effetti tra le parti. La causa è lo scambio tra prestazione di lavoro e
retribuzione, che deve essere proporzionata alla qualità e alla quantità del lavoro prestato. Il prestatore di
lavoro si subordina al datore di lavoro e affinché la sua prestazione sia utile all'impresa deve essere
condotta in maniera subordinata, fedele e diligente e la diligenza richiesta è qualificata, ovvero cambia a
seconda della natura dall'attività (es. la diligenza richiesta ad un medico chirurgo è diversa dalla diligenza
richiesta ad un operaio). Il lavoratore, inoltre, non può svolgere la prestazione in concorrenza con l'impresa
e non può divulgare informazioni sulla produzione (es. se lavoro da Gucci non posso lavorare anche per
Fendi). L’oggetto riguarda il luogo di adempimento della prestazione, l’orario di lavoro e le mansioni svolte
dal lavoratore, secondo cui il datore di lavoro comunica le mansioni, l'imprenditore poi, detenendo lo ius
variandi, cioè il diritto di modificare le mansioni, che è parte del suo potere direttivo, può modificarle
verticalmente (art.2103), prevedendo mansioni equivalenti, consentendo al prestatore di utilizzare le
proprie conoscenze, senza necessitarne di nuove e prevedendo una retribuzione equivalente, oppure
mansioni superiori, con retribuzione maggiore, per le quali serve però il consenso del lavoratore, che
potrebbe non volere maggiori responsabilità e maggiori rischi. È vietato far passare i lavoratori a mansioni
inferiori, per le quali è prevista una minore retribuzione e un minor bagaglio di competenze, salvo alcuni
casi dettati dalla giurisprudenza, come per le lavoratrici in gravidanza, per i licenziamenti collettivi e ogni
volta che l’alternativa è la perdita del posto di lavoro. La disciplina prevista per le mansioni è stata
modificata nel 2015 dal governo Renzi con il Jobs Act, dunque ad oggi la disciplina delle mansioni è la
seguente: il datore di lavoro può adibire il lavoratore, senza il suo consenso, a mansioni equivalenti, in caso
di un nuovo assetto organizzativo, e ad una mansione inferiore purché quest’ultima rientri nella stessa
categoria legale. Attualmente per mansione equivalente, oltre allo stesso livello di retribuzione e all’utilizzo
delle stesse competenze professionali, si intende quella riconducibile allo stesso livello e alla stessa
categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. Il datore di lavoro deve però
provvedere all’assolvimento dell’obbligo formativo qualora adibisca il lavoratore a mansioni che richiedono
un diverso bagaglio di competenze, comunicare in forma scritta, a pena di nullità, il cambio di mansione per
il lavoratore e far sì che lo stesso continui a percepire la stessa retribuzione della precedente mansione.
Se il datore di lavoro, anche senza una promozione formale, fa svolgere una mansione superiore al
lavoratore, quest’ultimo dopo 6 mesi ha diritto a quell’inquadramento e alla promozione automatica (non
prevista per i dipendenti pubblici), salvo diversa volontà del lavoratore e salvo che l’adibizione non abbia
avuto luogo per ragioni sostitutive di un altro lavoratore in servizio.
Oltre alle mansioni, che sono l’oggetto specifico dell’obbligazione lavorativa, ossia le attività concretamente
svolte dal lavoratore, vi sono le qualifiche, che esprimono il tipo ed il livello di una figura professionale e
consentono di determinare la posizione del lavoratore nella struttura organizzativa dell’impresa e il
trattamento economico normativo e previdenziale. La determinazione delle qualifiche del personale spetta
al datore di lavoro, entro limiti ben precisi, infatti le qualifiche vanno individuate secondo criteri legali e
contrattuali di classificazione delle mansioni. Ai sensi dell’art.1346, l’oggetto del contratto deve essere
possibile, lecito, determinato o determinabile, dunque deve garantire al lavoratore la possibilità di poter
svolgere il lavoro senza sforzi esorbitanti, non deve essere contrario a norme imperative, all’ordine
pubblico e al buon costume e vanno specificate, nella lettera d’assunzione, le mansioni del lavoratore,
oggetto della prestazione che egli andrà a svolgere nell’azienda. Ultimo elemento è la forma, nel diritto
privato vige il principio della libertà di forma, nel diritto del lavoro anche, sia per quello individuale che
collettivo, e può essere concluso anche oralmente, tuttavia ci sono delle eccezioni, previste per i contratti a
termine, i contratti part time, i contratti intermittenti, i contratti ripartiti, i contratti in somministrazione, i
patti di prova e i patti di non concorrenza: ciò che accomuna questi ultimi contratti è la deviazione dal
lavoro subordinato standard, essi devono essere fatti per iscritto per tutelare il lavoratore. Oltre agli
elementi essenziali del contratto che abbiamo appena trattato, esistono anche gli elementi accidentali del
contratto, che si sostanziano in clausole accessorie, rimesse alla volontà delle parti e quindi non essenziali ai
fini della validità del contratto. Tra questi, abbiamo il patto di prova, previsto dall’art.2096, con cui le parti
subordinano l’assunzione definitiva all’esito positivo di un periodo di prova. La sua funzione è quella di
verificare, nell’interesse reciproco, l’utilità della prosecuzione del lavoro. Il patto di prova, deve risultare da
atto scritto con indicazione della durata, che non è prorogabile e normalmente non supera i 6 mesi, inoltre,
durante tale periodo il datore può in ogni momento recedere dal contatto senza obbligo di preavviso.
Compiuto il periodo di prova, ove nessuna delle parti receda, il rapporto diventa definitivo. Altro elemento
accidentale può coincidere con l’apposizione di un termine finale alla durata del contratto, che trasforma il
rapporto di lavoro subordinato in un rapporto di lavoro a tempo determinato, cioè sottoposto ad una
scadenza. Questo contratto può essere stipulato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo,
organizzativo o sostitutivo, anche riferibili all’ordinaria attività del datore di lavoro. L’apposizione del
termine al contratto di lavoro deve avvenire in forma scritta con espressa indicazione della ragione posta a
base dell’assunzione a tempo determinato e del termine, che può essere una data precisa o determinata
indirettamente facendo riferimento ad un evento futuro di cui non si conosce con precisione il verificarsi.
In mancanza di forma scritta, l’apposizione è priva di effetto e il lavoratore si intende assunto a tempo
indeterminato. È vietato il ricorso ad assunzioni a tempo determinato per sostituzioni di lavoratori in
sciopero, presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione
degli orari e da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi sulla sicurezza sul
lavoro. La legge, inoltre, non prevede alcun limite numerico alle assunzioni a termine, ma attribuisce questa
facoltà alla contrattazione collettiva. Il recesso prima della scadenza è ammesso solo per giusta causa ed è
ammessa la proroga del termine purché il lavoratore acconsenta, la durata massima complessiva del
contratto non superi i 3 anni e si verifichi solo una volta e dinanzi ragioni oggettive. La legge, inoltre,
prevede un diritto di precedenza, che consiste nella possibilità per i lavoratori che hanno prestato attività
lavorativa con contratto a tempo determinato, di essere preferiti ad altri lavoratori nel caso l’azienda
proceda a nuove assunzioni a tempo indeterminato. Questo diritto viene riconosciuto per 1 anno, a tutti i
lavoratori, anche stagionali, assunti a termine che abbiamo prestato attività lavorativa per un periodo
superiore a 6 mesi. Ultima precisazione deve essere fatta sul tema del trasferimento: come per le mansioni,
può accadere che il lavoratore venga trasferito in un’altra sede dell’azienda, il diritto del lavoro prevede che
si può trasferire solo per esigenze tecnico-organizzative e il lavoratore, in questo caso, non serve che dia il
suo consenso, se rifiuta e il trasferimento è legittimo il datore ha il diritto di licenziarlo.
Mussolini, dopo la marcia su Roma del 1922, sentì la necessità di andare oltre il Codice Napoleonico o Code
de Commerce del 1807 e di scrivere un nuovo Codice Civile, in grado di disciplinare l’esercizio
dell’autonomia dei cittadini all’interno della società: il Codice del 1942 fu un codice conservatore, ma non
delle ideologie fasciste, bensì dei valori liberali, specialmente del concetto di autonomia dei lavoratori.
Tra gli articoli più importanti del Codice Civile, tuttora vigenti, troviamo, oltre a quelli già analizzati in tema
di subordinazione lavorativa, l’art.2060, che contiene le regole giuridiche che disciplinano i rapporti tra
datore di lavoro e lavoratore, secondo cui “il lavoro è tutelato in tutte le sue forme organizzative ed
esecutive, intellettuali, tecniche e manuali“, l’art.2082, secondo cui ”è imprenditore chi esercita
professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o
servizi”, l’art.2086, secondo cui “l’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i
suoi collaboratori, egli ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato
alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi
d’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi, senza indugio, per l’adozione e
l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero
della continuità aziendale” e, infine, l’art.2087, secondo cui “l’imprenditore è tenuto ad adottare,
nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono
necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Nei primi di luglio del
1943 gli alleati sbarcarono in Sicilia e l’Italia divenne un luogo di guerra e, da un punto di vista politico,
questo evento favorì la destituzione di Benito Mussolini, la caduta del fascismo e il successivo armistizio di
Cassibile, con cui l'Italia proclamò la resa incondizionata agli Alleati. Il generale Badoglio fu incaricato di
creare un nuovo governo, i leader dei partiti di opposizione che erano andati all'estero rientrarono in Italia
e fondarono il cosiddetto Comitato di Liberazione Nazionale, che rappresentava le principali forze
partigiane (cattolici, repubblicani e comunisti). Dall'altra parte, Mussolini fondò la Repubblica di Salò nel
Nord Italia, voluta da Hitler e guidata da Mussolini, al fine di governare parte dei territori italiani. II
comando tedesco in Italia preparò un piano di difesa per rallentare l'avanzata degli anglo-americani dal sud
verso il nord, punti di forza del piano erano due linee fortificate, la Gustav e la Verde, più nota con il suo
nome originario di linea Gotica (lunga 320km), tra La Spezia e Massa Carrara. Nei primi d'agosto del 1944, il
comando alleato decise di attuare l'Operazione Olive, il cui obiettivo era lo sfondamento della linea Gotica,
il Re abbandonò l'Italia e molti imprenditori si trasferirono all'estero, furono i lavoratori che, con senso di
responsabilità, cominciarono ad auto organizzarsi per far continuare l'attività produttiva. L'Italia venne
liberata e i lavoratori tornarono ad esprimersi attraverso i sindacati, venne emanato il decreto Badoglio, nel
quale le norme dell'ordinamento corporativo vennero soppresse, di conseguenza, vennero meno i contratti
collettivi corporativi, le norme della Carta del lavoro e la disciplina della legge Rocco, e, il Codice Civile, che
già conteneva il concetto di autonomia privata, garanzia di una società libera, rimase l'unica impalcatura
giuridica. A quel punto gli imprenditori pretesero di ritornare a gestire le loro attività, così i lavoratori,
facendo valere il fatto che, in un periodo delicato, furono gli unici a rimanere in Italia e a mandare avanti il
lavoro nelle fabbriche, fecero sottoscrivere il contratto collettivo che avrebbe dettato le condizioni di
lavoro, scelte dai lavoratori stessi. Il contratto collettivo non era più quello corporativo, ma prese il nome di
CONTRATTO COLLETTIVO DI DIRITTO COMUNE, simile ai contratti del periodo liberale. All’interno delle
fabbriche nacquero nuovi sindacati e venne ricostituita la CGL, all’interno della quale pulsavano 3 anime:
cattolica, comunista e socialista. Badoglio sostituì il sindacato fascista con la CGL e gli conferì tutto il
patrimonio del precedente sindacato per mantenere la pace sociale e far sì che i lavoratori, sentendosi
rappresentati, non scioperassero più: la CGL concluse 196 contratti collettivi nazionali che disciplinavano
vari settori produttivi e introdusse l’indicizzazione automatica dei salari all’inflazione, la cosiddetta scala
mobile, ovvero un meccanismo che considera un paniere di beni, misurandolo da un anno all’altro e
confrontandolo con l’aumento dell’inflazione, aumentando rispetto a quest’ultima la retribuzione, cioè
adeguando automaticamente la retribuzione all’inflazione, questo per proteggere il potere d’acquisto dei
lavoratori e per assicurare la pace sociale.
I lavoratori cominciarono a pretendere dai datori di lavoro una disciplina contro il licenziamento, per far sì
che i datori di lavoro non si approfittassero più della loro paura, vennero dettati i primi accordi
interconfederali che cominciarono ad introdurre il principio della motivazione del licenziamento, secondo
cui “il lavoratore non può essere licenziato se non per giusta causa o giustificato motivo e, in mancanza di
essi, egli ha diritto a un’indennità economica”; inoltre, si aprì la via per il sindacato del giudice sull’atto di
licenziamento e, quest’ultimo, non fu più un atto discrezionale del datore di lavoro, bensì un atto motivato.
Nell'immediato secondo dopoguerra, l'Italia, con il nuovo equilibrio appena raggiunto, dovette decidere se
rimanere una monarchia o diventare una Repubblica: nel 1946 si arrivò al referendum istituzionale, in cui
per la prima volta votarono anche le donne, e con grande sorpresa, l’Italia divenne una Repubblica.
Nel frattempo vennero consegnate anche le schede per eleggere i membri dell'Assemblea Costituente, con
il compito di scrivere una Costituzione, in grado di assicurare a tutti i cittadini un'esistenza libera e
dignitosa. Si cercò di scrivere una Costituzione di pesi e contrappesi, trovando dei punti in comune tra i due
partiti più importanti dell'epoca, il Partito Comunista che guardava al Patto di Varsavia e la Democrazia
Cristiana che guardava al Patto Atlantico: il primo patto era un puro accordo di “amicizia, collaborazione e
aiuto reciproco” in caso di attacco armato in Europa ad uno o più stati membri, il secondo affermava,
invece, il desiderio di vivere in pace con gli altri stati, popoli e governi, salvaguardando la libertà e la civiltà e
promuovendo il benessere e la stabilità dei Paesi membri, da quest’ultimo patto nacque, infatti, una vera e
propria struttura militare, cioè la NATO. L'unico punto di contatto fu proprio il lavoro, concetto espresso
nell’art.1 della Costituzione, che racchiude i principi democratico e laburista, secondo cui "L'Italia è una
Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità spetta al popolo, che la esercita nelle forme e nei
limiti della Costituzione”. A differenza del passato, nel quale l’uomo era considerato solo come singolo
individuo, la nostra Costituzione definisce la dimensione dell’uomo come persona: l’individuo risponde al
proprio interesse individuale e agisce per sé stesso, la persona, invece, decide di far parte di una comunità
e accetta il principio della convivenza civile. L’art.2 della Costituzione introduce proprio questo principio,
secondo cui “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di
solidarietà politica, economica e sociale”. I diritti inviolabili sono quelle posizioni giuridiche da ritenersi
essenziali per qualsiasi forma di convivenza associata, esse sono insite nella stessa natura umana e vengono
tutelate a prescindere da qualsiasi legge, costituzionale o meno e, per poter essere qualificate come tali,
non possono essere oggetto di revisione costituzionale, sono dunque imprescindibili. I soggetti collettivi,
cioè le formazioni sociali, come partiti, sindacati e associazioni, di cui la famiglia è la più importante,
nascono dal basso proprio perché sono le persone a decidere se realizzarsi come singoli o nella sfera
collettiva. L’art.3 della Costituzione afferma che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali
davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politiche, di
condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e
sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e
sociale del Paese”. Il primo comma riguarda il principio dell’uguaglianza formale, mentre il secondo comma
riguarda il principio dell’uguaglianza sostanziale. Bisogna sottolineare un’importante differenza per
comprendere a pieno questo articolo: la Repubblica americana pone le basi affinché ogni cittadino possa
ricercare la propria felicità, ma di fatto è poi compito del cittadino crearsi la strada per ricercarla, al
contrario, la Repubblica italiana sostiene che è compito dello Stato rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale per far sì che il cittadino possa perseguire la strada della felicità. Ai sensi dell’art.4
“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo
questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta,
un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Con questo
articolo, il lavoro viene riconosciuto come strumento in grado di assicurare un’esistenza libera e dignitosa a
tutti i cittadini. La Costituzione italiana, per riuscire a ricomporre il paese, aveva un compito, quello di
ricostruire la convivenza e lo strumento in grado di assicurarla fu proprio il lavoro.
Gli art. 32 - 34 - 35 - 36 - 37 - 38, ma anche gli art. 1 - 2 - 3 - 4 ci descrivono il cammino promesso ai cittadini
e realizzato per garantire loro un’esistenza libera e dignitosa, il punto debole era però il fatto che tutto
questo sistema si basasse sull’idea che ognuno trovasse un lavoro, che il lavoro fosse un diritto e anche un
dovere, dunque non teneva conto della disoccupazione ed è qui la promessa infranta dalla nostra
Costituzione, infatti, dove non c’è lavoro per tutti, la legge di mercato tende inevitabilmente a riportare la
retribuzione del costo del lavoro al minimo necessario per la sopravvivenza. Altro problema è inerente al
fatto che per garantire effettivamente il godimento del diritto si necessita di soldi per garantirlo, che a loro
volta necessitano di lavoro, che necessita di imprese che permettano la generazione di risorse economiche
che confluiscano nella disponibilità dello Stato, sicché esso possa mettere in atto tutte le operazioni
necessarie per assicurare il godimento dei diritti (se non c’è impresa non c’è lavoro, se non c’è lavoro non
c’è esistenza libera e dignitosa). Ai sensi dell’art.35 “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed
applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi
e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro. Riconosce la libertà di
migrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale, e tutela il lavoro italiano
all’estero”. Questo articolo garantisce, di fatto, la massima libertà, almeno in via formale,
all’autodeterminazione nella sfera lavorativa. Ai sensi dell’art.36 “Il lavoratore ha diritto ad una
retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare
a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita
dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite e non può rinunziarvi”.
La retribuzione diventa, quindi, lo strumento attraverso il quale un individuo può dar vita alla sua famiglia.
Ai sensi dell’art.30 “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli anche se nati fuori
del matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede che siano assolti i loro compiti. La
legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale compatibile con i diritti dei
membri della famiglia legittima. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità”. L’istruzione
si rivela essere il motore per la libertà dell’individuo, per la possibilità che egli si realizzi consapevolmente,
che inevitabilmente si ricollega al lavoro, quale strumento di autonomia e libertà. Ai sensi dell’art.32
“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e
garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento
sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal
rispetto della persona umana”. Ai sensi dell’art.38 “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi
necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano
preveduti ed assicurati i mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità,
vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili e i minori hanno diritto all’educazione e all’avviamento
professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati
dallo Stato. L’assistenza privata è libera”. Il sistema di previdenza italiano, prima della Costituzione, era
previsto nelle società di mutuo soccorso, la Costituzione rese poi obbligatorio per tutti il pagamento dei
contributi. Nacque la distinzione tra tasse e contributi, idonei ad assicurare l’assistenza e la previdenza:
l’assistenza è qualcosa che viene fornito dallo Stato, indipendentemente dal contributo che l’individuo
apporta e si distingue dalla previdenza sociale, che ruota attorno al concetto di accantonamento di parte
della propria retribuzione al fine di prevenire e potersi prendere cura degli eventi che rendono impossibile
l’attività lavorativa e, di conseguenza, ledono il libero e dignitoso vivere. Con tale articolo si introduce un
obbligo di prevenzione e nasce il concetto di cuneo fiscale (differenza tra lo stipendio lordo versato dal
datore di lavoro e la busta paga netta ricevuta dal lavoratore). Ai sensi dell’art.34 “La scuola è aperta a tutti.
L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche
se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo
questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite
per concorso”.
Nel dopoguerra l’America promise all’Italia il piano Marshall, proposto dal segretario di Stato statunitense
George Marshall il 5 giugno 1947 all'Università di Harvard, con l’obiettivo di ricostruire l'Europa dopo la
Seconda guerra mondiale con 12,7 miliardi di dollari, a patto che questa aderisse al Patto Atlantico. I 12
paesi firmatari furono: USA, Canada, UK, Italia, Francia, Portogallo, Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi,
Danimarca, Islanda e Norvegia. L’Italia scelse la libertà di iniziativa economica e di rimanere all’interno della
NATO, infatti, l’art.41 sancisce che “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto
con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla
dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica
e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali”. L’iniziativa economica prevede,
dunque, un compito di indirizzo adoperato dallo Stato. Il potere di licenziare un lavoratore rientra nella
libertà di iniziativa economica, tuttavia, nel periodo covid il governo ha disposto il blocco dei licenziamenti
ponendo di fatto un limite alla libertà di iniziativa economica privata dell’imprenditore, rendendo il blocco
dei licenziamenti legittimo, appellandosi al secondo comma, secondo cui l’iniziativa economica “non può
svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità
umana”. Ai sensi dell’art.42 “La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad
enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di
acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.
La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di
interesse generale. La legge stabilisce le norme e i limiti della successione legittima e testamentaria e i
diritti dello Stato sulle eredità”. Con i precedenti due articoli si riconosce che l’Italia cerca di creare
un’economia sociale di mercato, con il riconoscimento dei limiti entro cui confinare questo ed in genere
tutti i principi di portata generale che altrimenti potrebbero sfociare in manifestazioni devianti.
Ai sensi dell’art.46 “Ai fini dell’elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della
produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle
leggi, alla gestione delle aziende”. Questo articolo esprime il principio che descrive l’idea di un’impresa
come luogo di partecipazione tra classi allo sviluppo della stessa e del tessuto economico. Nella realtà dei
fatti ciò non è avvenuto, configurando un contesto aziendale che è più imperniato sulla contrapposizione
tra attori che sulla collaborazione. Analizziamo ora 3 articoli molto importanti: artt.18-39-49.
L’art.18 sancisce che “I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che
non sono vietati ai singoli dalla legge penale. Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono,
anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare”, mentre l’art.39 afferma
che “L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro
registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che
gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno
personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare
contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il
contratto si riferisce”: la differenza importante è che l’art.18 tutela il diritto di ogni cittadino di associarsi
liberamente, mentre l’art.39 tutela il diritto dell’organizzazione di associarsi liberamente, quindi il sindacato
stesso. La parola semanticamente più ampia tra associazione e organizzazione è sicuramente
organizzazione, mentre la norma più ampia è chiaramente quella espressa dall’art.39.
L’art.49 sancisce che “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con
metodo democratico a determinare la politica nazionale”: se i partiti esprimono una visione particolare
dell’interesse generale, le associazioni sindacali perseguono gli interessi collettivi specifici e privati, comuni
soltanto agli iscritti. Il diritto di associazione è tutelato dalla Costituzione in quanto espressione della libertà
personale e del diritto fondamentale che i singoli hanno di esplicare la propria personalità nelle formazioni
sociali. Rispetto alla libertà di associazione, la libertà sancita dall’art.39 assume una sua specificità, non
tanto nel senso che l’organizzazione sindacale costituisce un’integrazione della libertà di associazione, ma
piuttosto nel senso che il fine sindacale è tipizzato come lecito e che pertanto la libertà sindacale è, sotto
questo aspetto, assoluta.
La Costituzione riconosce, dunque, la legittimità del fine sindacale, tant’è che il sindacato è la formazione
associativa più tutelata ed è l'unica organizzazione che la Costituzione tutela esplicitamente, oltre alla
famiglia e, inoltre, non può essere sciolto se non modificando la Costituzione, che da sempre tutela sia
l’importanza del considerare l’individuo come persona, in quanto è la persona stessa che si realizza nelle
formazioni sociali, sia il pluralismo, secondo cui possono esistere un’infinità di sindacati, di associazioni e di
partiti (il problema degli ultimi anni è stato proprio il crescente individualismo); al contrario, per proibire o
vietare un’associazione è sufficienza modificare il Codice Penale. I padri costituenti scelsero di attribuire
piena libertà ai sindacati in considerazione del loro ruolo di difesa dei lavoratori e in opposizione a quanto
accadde sotto il regime fascista, quando vi era un unico sindacato, oggetto di forti controlli da parte dello
Stato (il sindacato oggi è un soggetto privato che persegue l’interesse dei singoli, durante il fascismo era un
soggetto pubblico che perseguiva l’interesse generale). Ad oggi, il diritto sindacale è senza norme, infatti le
uniche disposizioni che lo regolano sono l’art.39 e 40 della Costituzione. Ai sensi dell’art.40 “Il diritto di
sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”. La differenza tra sciopero come diritto, libertà o
reato è la seguente: se lo sciopero è un reato, lo Stato lo reprime mediante le forze di polizia, se lo sciopero
è qualificato come una libertà, lo Stato non può intervenire, ma il datore di lavoro, essendo che lo sciopero
non è tutelato come diritto, può sanzionare il lavoratore inadempiente, infine, se lo sciopero è un diritto
costituzionale non può essere represso né dallo Stato né dal datore di lavoro. La Costituzione ha dunque
voluto marcare l’importanza e la tutela dell’organizzazione sindacale per far sì che i cittadini potessero
migliorare le loro condizioni lavorative. Il contrasto che si è venuto a creare è stato quello tra pluralismo ed
esigenza di riconoscere il diritto alla retribuzione: ogni volta che il contratto ha efficacia erga omnes
implicitamente si riconosce che c’è un unico contratto collettivo, dunque il lavoratore non può dire di
essere libero di scegliere il contratto collettivo, ecco perché i padri costituenti introducono l’art.39, con lo
scopo di assicurare il pluralismo e garantire la libertà sindacale, sancendo un CONTRATTO COLLETTIVO
COSTITUZIONALE, secondo cui chi ha la maggioranza fa un unico contratto collettivo che si applica all’intera
categoria. Unica condizione che il legislatore può imporre al sindacato è che al suo interno l’organizzazione
abbia una base democratica e che il contratto venga sottoscritto con il principio maggioritario, in grado di
rappresentare più lavoratori possibili. La CGdL è stata l’organizzazione sindacale fondata a Milano nel 1906,
con il fascismo la sua esistenza cessò e continuò nella clandestinità per poi rinascere nel 1944 nella CGIL
Unitaria, che nel 1950, attraverso le sue scissioni, darà vita alle attuali confederazioni sindacali italiane CGIL,
CISL e UIL, ognuna con i propri beni e patrimoni, ma tutte e 3 legate da un patto di unità d’azione, secondo
cui firmano contratti collettivi e proclamano scioperi unitamente. Perché CGIL (ispirazione comunista -
45/50%), CISL (ispirazione cattolica - 30/35%) e UIL (ispirazione socialista - 15/20%) avessero il potere di
estendere a tutti l’efficacia del contratto, dovevano accettare il riconoscimento e quindi il controllo da parte
dello Stato, infatti è vero che ai sindacati venne riconosciuto il potere legislativo, ma questi dovevano pur
sempre accettare il potere politico, quindi il controllo pubblico. Il problema era che nessuno dei sindacati
voleva cessare di esistere, cosa che sarebbe successa con il contratto collettivo costituzionale che
prevedeva un sindacato di maggioranza per poter stipulare contratti collettivi erga omnes, infatti nessun
lavoratore si sarebbe mai iscritto ad un sindacato che non avesse dato la possibilità di stipulare un contratto
collettivo con efficacia generale, dunque al rischio di sparire, i sindacati preferirono mantenere la propria
libertà, non chiedendo il riconoscimento e non registrandosi, perdendo però la possibilità di fare contratti
erga omnes, da qui la mancata attuazione dell’art.39 e il dualismo tra contratto collettivo costituzionale,
preferito dai pubblicisti, e contratto collettivo di diritto comune, preferito dai privatisti. Le ragioni storiche
che hanno portato alla mancata attuazione dell’art.39 sono state sicuramente la forte competizione tra i
sindacati e la non tolleranza del controllo pubblico da parte del legislatore, infatti anche solo il ricordo del
forte controllo che nel regime corporativo fascista era molto presente ha indotto le organizzazioni sindacali
dell’epoca a preferire la libertà, anche a costo di non poter stipulare contratti collettivi con efficacia erga
omnes, continuando a stipulare contratti collettivi di diritto comune, con cui di fatto riuscirono ad ottenere
un effetto simile a quello dell’art.39, infatti avendo la maggior rappresentatività potevano comunque
estendere il contratto a tutti i lavoratori della categoria.
Ricorda: il contratto collettivo di diritto comune nasce dal basso, cioè dalla volontà e dall’esigenza degli
iscritti al sindacato di organizzarsi per ottenere migliori condizioni lavorative, evitando la concorrenza al
ribasso tra i lavoratori, mentre il contratto collettivo costituzionale necessita di una legge di attuazione che
proviene dall’alto. Il contratto individuale non può derogare al contratto collettivo costituzionale perché
quest’ultimo è inderogabile. L’art.39 afferma “… efficacia obbligatoria per tutti i lavoratori della categoria”,
quindi la deroga fatta a livello individuale al contratto collettivo costituzionale risulterebbe nulla per via del
contrasto con la suddetta norma imperativa. Di fatto, il problema si pose con il contratto collettivo di diritto
comune, che traeva la sua legittimità dalla volontà dei lavoratori di agire insieme, ma che di fatto
presentava due grandi limiti rispetto al contratto costituzionale, infatti non era efficace erga omnes, dunque
si applicava solo agli iscritti, ed era derogabile a livello individuale, ne risultava che il contratto individuale
era ritenuto legittimo perché il lavoratore era libero di derogare nella dimensione individuale quanto
stabilito nella dimensione collettiva. Francesco Santoro Passarelli ha successivamente inquadrato
giuridicamente il contratto collettivo di diritto comune, affermando che quest’ultimo è inderogabile perché
a un contratto di diritto si applica l’art.1726, secondo cui “se il mandato è stato conferito da più persone
con unico atto e per un affare di interesse comune, la revoca non ha effetto qualora non sia fatta da tutti i
mandanti, salvo che ricorra una giusta causa”. Santoro in Cassazione affermò che, essendo l’interesse
collettivo sintesi e non somma degli interessi individuali, è necessario applicare al sindacato e al contratto
collettivo la stessa regola prevista per il mandato collettivo, essendo il principio lo stesso. Inoltre, egli
affermò che il contratto collettivo di diritto comune è espressione della libertà sindacale e quest’ultima per
essere tale deve essere autonomia, dunque il sindacato per essere libero e autonomo non deve avere
soltanto la libertà di esistere, ma anche la libertà di stipulare un contratto collettivo in grado di vincolare i
lavoratori aderenti e per realizzare questo interesse decide di applicare al contratto collettivo di diritto
comune la regola dell’inderogabilità, sancita dall’art.2070 per i contratti collettivi corporativi, secondo cui
“l’appartenenza alla categoria professionale, ai fini dell’applicazione del contratto collettivo, si determina
secondo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore”. Riflettendoci, di fatto, viene riconosciuta
l’autonomia sindacale, affermando che i lavoratori non possono derogare nella dimensione individuale, ma
lo si fa in maniera tecnicamente scorretta poiché viene applicata la stessa regola prevista per i contratti
collettivi corporativi vigenti nel periodo fascista. Considerando il buono, di fatto, grazie a questa sentenza, il
contratto collettivo di diritto comune, che prima era esposto al rischio che ciascun lavoratore aderente,
sotto la pressione del datore di lavoro, accettasse condizioni lavorative inferiori derogando nella
dimensione individuale, di colpo stabilisce che se il lavoratore è iscritto al sindacato non può accettare
condizioni di lavoro diverse da quelle previste nel contratto stabilito dal sindacato, in questo senso il
contratto collettivo ha il corpo del contratto, ma l'anima della legge. L’art.2113, inoltre, stabilisce che
“Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni
inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'articolo 409 del
codice di procedura civile, non sono valide”, dunque una volta che il lavoratore si iscrive ad un sindacato
può rendere annullabili le rinunce ai diritti sanciti dai contratti collettivi (es. se il datore di lavoro mi chiede
di lavorare un’ora in più e di rinunciare agli straordinari io posso firmare la rinuncia e poi denunciarlo,
rendendo annullabile quanto firmato). A questo punto, l’interesse per il contratto collettivo costituzionale
diminuì, infatti, divenendo il contratto collettivo di diritto comune inderogabile, di fatto, venne considerato
efficace per tutti, in grado di assicurare la pace sociale e, inoltre, il grande vantaggio deriva dal fatto che il
sindacato in questo modo potesse ritenersi libero, non dovendo quindi accettare e rispettare le regole di
approvazione dello statuto, né tantomeno rendere conto dei propri bilanci e dell’utilizzo del proprio
patrimonio. Ultima precisazione da fare è a proposito dell’art.36: la retribuzione proporzionale e sufficiente
si poteva assicurare ai lavoratori mediante il contratto collettivo costituzionale efficace erga omnes
descritto nell'art.39, ma questo come sappiamo non è stato attuato, tuttavia possiamo affermare che il
contratto collettivo di diritto comune inizia ad avere efficacia erga omnes limitatamente alla retribuzione,
questo perché l'art.36 ha un'efficacia immediatamente precettiva (una norma è precettiva se contiene un
obbligo giuridico), quindi non ha bisogno di una legge di attuazione per essere applicata nei rapporti tra i
privati. Questo articolo è stato quindi considerato norma direttamente applicabile nei rapporti individuali
quale precetto inderogabile e, per opera della giurisprudenza, le tariffe salariali previste dai contratti
collettivi nazionali nei diversi settori sono diventate parametro della retribuzione proporzionata e
sufficiente ai sensi dell'art.36, quindi la retribuzione proporzionale e sufficiente è quella prevista dal
contratto collettivo di un lavoratore che svolge la stessa mansione, in questo senso il contratto collettivo
diventa un parametro e assume efficacia erga omnes.

La Costituzione italiana viene spesso definita una Costituzione lavorista, ciò in quanto, già a partire
dall’art.1, viene affermato con chiarezza che il lavoro è il fondamento dell’intera Repubblica. La
Costituzione si muove dal presupposto che il lavoro è quell’attività umana che consente al singolo di
elevare la propria personalità, di affermarsi nella società, di avere le risorse necessarie a vivere con dignità
e, da un punto di vista pubblico, il lavoro del singolo contribuisce anche al progresso dell’intera nazione.
Pertanto, la Costituzione prevede una serie di diritti a tutela dei lavoratori tra cui:

- diritto al lavoro (art.4);

- tutela del lavoro in ogni forma ed espressione (art.35);

- diritto ad una giusta retribuzione (art.36)

- diritto alla previdenza sociale (art.38);

- libertà sindacale (art.39);

- diritto di sciopero (art.40).

La Costituzione fissa un chiaro indirizzo al quale devono attenersi tutte le istituzioni statali: la tutela del
lavoro e dei lavoratori. Ne deriva una legislazione che ha attuato la gran parte delle norme costituzionali in
materia di lavoro, tra cui spicca lo Statuto dei lavoratori. Prima di introdurlo, conduciamo come sempre un
ritaglio storico: negli anni ‘50 l’Italia conosce un periodo di grande stabilità grazie alla Costituzione, i
contratti collettivi di diritto comune assicurano la pace sociale, le fabbriche producono sempre di più e gli
italiani iniziano ad avere beni di lusso, l’Italia incontra il boom economico, raggiungendo un tasso di
disoccupazione quasi nullo (circa 2%). Le fabbriche erano però basate sulla catena di montaggio, propria del
Taylor-fordismo, e sul pagamento a cottimo, introdotto per incentivare la produttività e, l’emergere del
consumismo, basato sull’illusione di poter trasformare la classe proletaria in classe media, non fece altro
che brutalizzare ancora di più lo sfruttamento dei lavoratori, che cominciarono a non essere più soddisfatti
delle loro retribuzioni, nonostante fossero aumentate grazie al pagamento a cottimo. I lavoratori si resero
conto che la Costituzione sembrava non poter “varcare i cancelli delle fabbriche dove i lavoratori vedevano
lesi i propri diritti”, dunque cominciarono di nuovo a reclamare maggiori diritti e migliori condizioni
lavorative attraverso gli scioperi (essendo il sistema basato sulla catena di montaggio, lo sciopero di uno
creava un danno esponenziale per tutti) fino a raggiungere il culmine nel 1968, anno in cui vennero
approvate varie riforme, come la Riforma del sistema sanitario, la Riforma della previdenza sociale e la
Legge Brodolini per le pensioni, che introdusse le pensioni di anzianità, secondo cui il lavoratore non
andava più in pensione in base all’età anagrafica, ma in base agli anni di servizio prestati in fabbrica, da cui
si generarono quelle che oggi chiamiamo “baby pensioni” e un sistema retributivo per il calcolo della
pensione, oggi sostituito con il sistema contributivo, secondo cui la pensione veniva calcolata in base alla
media degli stipendi degli ultimi due anni di lavoro. Questa legge pose le basi per l’aumento esponenziale
del debito pubblico, al tempo venne varata perché in Italia vi era una demografia positiva, circa tre figli ogni
famiglia. Nelle fabbriche si iniziò ad eleggere un delegato per ogni reparto, si iniziò a capire come attuare
sistematicamente uno sciopero per creare un danno pervasivo ai datori di lavoro, il movimento dei delegati
di reparto iniziò ad essere sempre più grande, le fabbriche divennero ingovernabili e i datori di lavoro
iniziarono a capire che bisognava garantire ai lavoratori, oltre alla retribuzione, maggiori tutele.
Dopo un anno di discussione tra professori di diritto del lavoro e datori di lavoro, nel 1970 si arrivò
all’emanazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori, che ha segnato un salto di qualità, riconoscendo che
il contratto di lavoro non è solo sinallagmatico, ma in esso si svolge anche la personalità del lavoratore
(l’individuo diventa persona). Lo Statuto dei lavoratori si compone di 6 titoli, per un totale di 41 articoli:
il titolo primo disciplina la libertà e l’identità dei lavoratori, il titolo secondo disciplina la libertà sindacale, il
titolo terzo disciplina l’agire dell’organizzazione sindacale all’interno dell’impresa, il titolo quarto elenca
disposizioni varie e generali, il titolo quinto elenca le norme sul collocamento e il titolo sesto cita le
disposizioni finali e penali. Uno dei primi obiettivi dello Statuto, secondo la storica intuizione di Di vittorio,
è stato quello di portare la Costituzione all’interno delle fabbriche, tutelando la libertà e la dignità dei
lavoratori, che sono persone e non macchine, assicurando l’attività e la libertà sindacale nei luoghi di
lavoro, portando di fatto il sindacato all’interno della fabbrica e introducendo la possibilità che un giudice
possa intervenire per rendere effettivo il godimento dei diritti individuali e sindacali. Lo Statuto si applica
alle imprese con più di 15 dipendenti, originariamente è stato voluto dal partito socialista e, di fatto, quello
che si è cercato di realizzare è stata la procedimentalizzazione dell’esercizio dei poteri del datore di lavoro
(potere direttivo, di controllo e disciplinare), ponendo dei limiti, al fine di renderli compatibili con la libertà
del lavoratore.

TITOLO I:

Art.1: “Tutti i lavoratori senza alcuna distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa hanno
diritto nel luogo in cui prestano la loro opera di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei
principi della Costituzione”. Da questo articolo si evince che il lavoratore, prima di un dipendente, è una
persona titolare di ragione e parola, portatrice della propria opinione, dunque questo articolo riconosce a
pieno la personalità del lavoratore. Tuttavia, è necessario porre comunque dei limiti affinché i lavoratori
possano manifestare il proprio pensiero, infatti deve essere rispettato il principio di continenza (non
bisogna strafare). Al lavoratore viene riconosciuta la libertà di parola, dunque il datore può pretendere la
sua prestazione, ma non gli può imporre un’opinione.

Art.2: “Il datore di lavoro può impiegare le guardie giurate solo per tutelare il patrimonio aziendale, dunque
queste non possono contestare fatti o azioni ai lavoratori che non attengono al patrimonio aziendale. È
fatto divieto al datore di lavoro di adibire alla vigilanza sull'attività lavorativa le guardie di cui al primo
comma, le quali non possono accedere nei locali dove si svolge tale attività, durante lo svolgimento della
stessa, se non eccezionalmente per specifiche e motivate esigenze attinenti ai compiti di cui al primo
comma. In caso di inosservanza da parte di una guardia giurata delle disposizioni di cui al presente articolo,
l'Ispettorato del lavoro ne promuove presso il questore la sospensione dal servizio, salvo il provvedimento
di revoca della licenza da parte del prefetto nei casi più gravi”. Anche questo articolo di fatto tutela la
dignità del lavoratore.

Art.3: “I nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell'attività
lavorativa debbono essere comunicati ai lavoratori interessati”. Con questo articolo si mirò ad assicurare la
pacifica convivenza nei luoghi di lavoro.

Art.4: “Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza
dell'attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive,
per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo
accordo collettivo stipulato dai sindacati aziendali, dai sindacati territoriali oppure dall'ispettorato nazionale
del lavoro. La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per
rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze. Le
informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a
condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d'uso degli strumenti e di
effettuazione dei controlli”. Quando si parla di strumenti audiovisivi di controllo si intendono le telecamere
installate in azienda che controllano le attività del dipendente.
Il problema oggi si pone con i lavoratori da remoto, dunque del controllo del computer aziendale, del
telefono aziendale o dell’auto aziendale. Con il Jobs Act del 2015 questi vincoli si sono molto allentati, basta
leggere il comma 2, il quale dice che non si applica ciò che è scritto nel comma 1 agli strumenti utilizzati dal
lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti per registrare le presenze. Il potere di
controllo del datore deve essere esercitato nel rispetto del D.lgs.196/2003, cioè del Codice privacy.

Art.5: “Sono vietati accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o
infortunio del lavoratore dipendente. Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto
attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti (INPS), i quali sono tenuti a compierlo
quando il datore di lavoro lo richieda. Il datore di lavoro ha facoltà di far controllare l'idoneità fisica del
lavoratore da parte di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico”. Il datore di lavoro è
comunque legittimato al controllo dell’effettiva malattia del lavoratore, tramite le fasce di reperibilità,
secondo cui al lavoratore è concesso uscire solo in determinate fasce orarie per potersi sottoporre a visite
mediche. Nel caso in cui il lavoratore non si trovasse in casa nelle fasce di reperibilità, si esporrebbe a
provvedimenti disciplinari, se l'assenza è ripetuta addirittura al licenziamento.

Art.6: “Le visite personali di controllo (perquisizioni) del lavoratore sono vietate fuorché nei casi in cui siano
indispensabili ai fini della tutela del patrimonio aziendale, in relazione alla qualità degli strumenti di lavoro
o delle materie prime o dei prodotti. In tali casi le visite personali potranno essere effettuate soltanto a
condizione che siano eseguite all'uscita dei luoghi di lavoro, che siano salvaguardate la dignità e la
riservatezza del lavoratore e che avvengano con l'applicazione di sistemi di selezione automatica riferiti alla
collettività o a gruppi di lavoratori”.

Gli artt.2-3-4-5-6 sono volti a procedimentalizzare il potere di controllo del datore di lavoro.

Art.7: “Nessun provvedimento disciplinare, eccetto il rimprovero verbale, può essere irrogato prima che
siano trascorsi 5 giorni dalla contestazione per iscritto dei fatti”. Questo articolo procedimentalizza il
potere disciplinare del datore di lavoro. Nel Codice Civile, l'art.2106 sancisce un fondamentale principio
della proporzionalità che ci deve essere tra quello che il lavoratore ha commesso e la sanzione che gli viene
erogata. Innanzitutto i lavoratori devono sapere quali sono gli atteggiamenti che non devono porre in
essere e di conseguenza le sanzioni annesse, c'è perciò un principio di pubblicità del Codice (stesso principio
vale per il Codice di procedura penale). Il lavoratore deve essere a conoscenza di quello che gli viene
contestato, che deve essere inoltre contestualizzato (principio di specificità), mentre il datore deve seguire
un iter predisposto a tutela del contraente debole, mettendo per iscritto l'addebito che deve rispettare i
principi di immediatezza, immutabilità e tempestività (il datore deve contestare il fatto non appena ne
viene a conoscenza e non può sanzionare il dipendente per fatti diversi da quelli contestati) e deve
garantire al lavoratore l'esercizio del diritto di difesa, che può essere esercitato nei 5 giorni successivi alla
contestazione. Una volta che viene ricevuta la contestazione, il lavoratore può difendersi in due modi:
inviando una memoria di giustificazione (difesa scritta) oppure chiedendo di essere ascoltato
personalmente. Nell’impiego pubblico, il lavoratore può farsi assistere, oltre che da un rappresentante
sindacale, anche da un avvocato, mentre nell’impiego privato questo non è possibile. Una volta che il
datore ha ascoltato o ricevuto la difesa, deve decidere se archiviare il procedimento o irrogare la sanzione,
che può consistere in un rimprovero verbale, che è la sanzione più lieve, che rimane comunque nel
fascicolo del dipendente, in un rimprovero scritto, che è più grave di quello orale, in una multa, cioè in una
trattenuta da retribuzione, che non può essere maggiore di 4 ore, infine, in una sospensione dal lavoro e
dalla retribuzione, che non può essere maggiore di 10 giorni.

Art.8: “È fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell'assunzione, come nel corso dello svolgimento del
rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche per mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o
sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale
del lavoratore”. Anche questo articolo tutela la privacy del lavoratore, infatti le opinioni personali non
devono in alcun modo riguardare il datore di lavoro. Questo divieto si completa poi con l’art.15, il quale
vieta le discriminazioni.

Art.9: “I lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l'applicazione delle norme
per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l'elaborazione e
l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica”.

Art.10: “I lavoratori studenti, iscritti e frequentanti corsi regolari di studio in scuole, hanno diritto a turni di
lavoro che agevolino la frequenza ai corsi e la preparazione agli esami e non sono obbligati a prestazioni di
lavoro straordinario o durante i riposi settimanali. I lavoratori studenti, compresi quelli universitari, che
devono sostenere prove di esame, hanno diritto a fruire di permessi giornalieri retribuiti. Il datore di lavoro
potrà richiedere la produzione delle certificazioni necessarie all'esercizio dei diritti di cui al primo e secondo
comma”.

Art.11: “Le attività culturali, ricreative ed assistenziali promosse nell'azienda sono gestite da organismi
formati a maggioranza dai rappresentanti dei lavoratori. Le rappresentanze sindacali aziendali, costituite a
norma dell'art.19, hanno diritto di controllare la qualità del servizio di mensa secondo modalità stabilite
dalla contrattazione collettiva”.

Art.12: “Gli istituti di patronato hanno diritto di svolgere, su un piano di parità, la loro attività all'interno
dell'azienda, secondo le modalità da stabilirsi con accordi aziendali”.

Art.13: “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle
corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti
alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione”. Il seguente articolo si
sostituisce all’art.2103 del Codice Civile.

TITOLO II:

Art.14: “Il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale, è garantito a
tutti i lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro”.

Art.15: “E’ nullo qualsiasi atto o patto diretto a subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione
che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte e a licenziare un
lavoratore, discriminarlo nell’assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti
disciplinari o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua
partecipazione ad uno sciopero. Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti
diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata
sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”. Dunque, questo articolo tutela il lavoratore dalla
discriminazione di ogni genere e grado.

Art.16: “È vietata la concessione di trattamenti economici di maggior favore aventi carattere


discriminatorio a mente dell'art.15. Il pretore, su domanda dei lavoratori nei cui confronti è stata attuata la
discriminazione, accertati i fatti, condanna il datore di lavoro al pagamento, a favore del fondo
adeguamento pensioni, di una somma pari all'importo dei trattamenti economici di maggior favore
illegittimamente corrisposti nel periodo massimo di un anno”.

Art.17: “È fatto divieto ai datori di lavoro e alle associazioni di datori di lavoro di costituire o sostenere, con
mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori”. Questi sindacati sono altresì chiamati
sindacati di comodo o sindacati gialli e sono vietati in quanto comprimono la libertà sindacale e ne limitano
gli spazi per un’attività e un’organizzazione effettivamente genuina.
Art.18: “Il giudice ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro,
indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal
datore di lavoro. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il
lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui
abbia richiesto l'indennità di cui al terzo comma. Il giudice, con la sentenza di cui al primo comma,
condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di
cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione
globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto
quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la
misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto.
Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali
e assistenziali. Fermo restando il diritto al risarcimento del danno come previsto al secondo comma, al
lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di
lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta
determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale”.
Dunque, in caso di licenziamento illegittimo, il datore è obbligato a reintegrare il lavoratore nel posto di
lavoro corrispondendogli tutte le retribuzioni che sono maturate dal giorno del licenziamento fino al giorno
della reintegrazione. Questo articolo, di fatto, cerca di dare anche alle classi operaie quella stabilità e quella
sicurezza del posto di lavoro (sogno del posto fisso), cercando di metterli in una posizione tale da non avere
paura di esercitare i propri diritti, quindi gli consente di realizzare il sogno borghese per antonomasia, cioè
di aprire un mutuo per comprarsi una casa.

TITOLO III:

Art.19: “Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni
unità produttiva, nell'ambito delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative
sul piano nazionale e delle associazioni sindacali, che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro
applicati nell'unità produttiva. Nell'ambito di aziende con più unità produttive le rappresentanze sindacali
possono istituire organi di coordinamento”. Questo articolo è stato oggetto di modifiche da parte del
legislatore a seguito di un referendum del 1995, in seguito al quale non è più richiesto di essere firmatari di
contratti collettivi, bensì di essere firmatari di contratti di lavoro applicati nell’unità produttiva.

Art.20: “I lavoratori hanno diritto di riunirsi, nell’unità produttiva in cui prestano la loro opera, fuori
dell'orario di lavoro, nonché durante l'orario di lavoro, nei limiti di dieci ore annue, per le quali verrà
corrisposta la normale retribuzione. Migliori condizioni possono essere stabilite dalla contrattazione
collettiva. Le riunioni, che possono riguardare la generalità dei lavoratori o gruppi di essi, sono indette,
singolarmente o congiuntamente, dalle rappresentanze sindacali aziendali nell'unità produttiva, con ordine
del giorno su materie di interesse sindacale e del lavoro e secondo l'ordine di precedenza delle
convocazioni, comunicate al datore di lavoro. Alle riunioni possono partecipare, previo preavviso al datore
di lavoro, dirigenti esterni del sindacato che hanno costituito la rappresentanza sindacale aziendale.
Ulteriori modalità per l'esercizio del diritto di assemblea possono essere stabilite dai contratti collettivi di
lavoro, anche aziendali”.

Art.21: “Il datore di lavoro deve consentire nell'ambito aziendale lo svolgimento, fuori dell'orario di lavoro,
di referendum, sia generali che per categoria, su materie inerenti all'attività sindacale, indetti da tutte le
rappresentanze sindacali aziendali tra i lavoratori (RSA), con diritto di partecipazione di tutti i lavoratori
appartenenti all'unità produttiva e alla categoria particolarmente interessata. Ulteriori modalità per lo
svolgimento del referendum possono essere stabilite dai contratti collettivi di lavoro anche aziendali”.
Non sempre le questioni sindacali si risolvono con le assemblee, dunque, se necessario, serve indire un
referendum, che deve essere sempre svolto fuori dall’orario di lavoro e che deve riguardare questioni
sindacali. L’esito poi si applica a tutti i lavoratori, come per i referendum politici.
Un’importante differenza è che l’assemblea può essere indotta anche da una sola rappresentanza
sindacale, il referendum, invece, necessita di tutte le rappresentanze sindacali.

Art.22-23-24: “I dirigenti non possono essere trasferiti senza nulla osta delle associazioni sindacali di
appartenenza, hanno diritto a permessi retribuiti (almeno 8 ore al mese) e non retribuiti, quando in
aggiunta a quelli retribuiti devono partecipare a congressi e convegni di non meno di 8 giorni l’anno, per
consentire di esercitare la libertà sindacale”.

Art.25: “Le RSA hanno diritto di affiggere su appositi spazi decisi dal datore di lavoro pubblicazioni, testi e
comunicati inerenti alle materie di interesse sindacale. Le associazioni devono, nelle grandi aziende, avere a
propria disposizione un locale in cui esercitare attività sindacali”.

Art.26: “Per rendere effettivo il principio di libertà, i lavoratori hanno diritto di raccogliere contributi e
svolgere opera di proselitismo, senza pregiudizio della normale attività aziendale”. Il proselitismo
sindacale consiste in una forma qualificata di propaganda al fine di promuovere l'ingresso di nuovi elementi
nell'organizzazione sindacale. 

Art.27: “Il datore di lavoro, nelle unità produttive con almeno 200 dipendenti, pone permanentemente a
disposizione delle rappresentanze sindacali aziendali, per l'esercizio delle loro funzioni, un idoneo locale
comune all'interno dell’unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa”.

TITOLO IV:

Art.28: “Qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l'esercizio
della libertà e dell’attività sindacale nonché del diritto di sciopero, su ricorso degli organismi locali delle
associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, il pretore del luogo ove è posto in essere il
comportamento denunziato, nei due giorni successivi, convocate le parti ed assunte sommarie
informazioni, qualora ritenga sussistente la violazione di cui al presente comma, ordina al datore di lavoro,
con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la
rimozione degli effetti”. Dunque, questo articolo espone la condotta antisindacale del datore di lavoro, per
cui non serve la malafede, viene riconosciuto antisindacale anche un comportamento involontario da parte
dello stesso. Se il soggetto coinvolto è un’RSA, essa deve rivolgersi alla CISL territoriale a cui è affiliata, non
può fare ricorso personalmente, questo perché se ci fosse tale possibilità, ci sarebbero troppi ricorsi,
dunque deve esserci un filtro. Le RSA (Rappresentanza Sindacale Aziendale) sono una forma di
rappresentanza sindacale introdotta con la L.300/1970 che concede il diritto ai lavoratori di costituire
rappresentanze sindacali aziendali all’interno delle unità produttive, con almeno 15 dipendenti, mentre le
RSU (Rappresentanza Sindacale Unitaria) coinvolgono tutti i lavoratori di un’azienda, indipendentemente
dal fatto che siano iscritti o meno ad un sindacato. Pur essendo state sostituite in gran parte dalle RSU, le
RSA non sono state soppresse. Se gli obiettivi possono in molti casi sovrapporsi, in realtà le differenze tra
RSA e RSU sono importanti: le RSU vengono elette tramite elezioni e tutti i lavoratori in azienda possono
votare o farne parte, senza dover aderire ad un sindacato, gli eletti delle RSU non sono funzionari del
sindacato e non diventano sindacalisti di professione, la durata della carica è di 3 anni e l’obiettivo è quello
della tutela collettiva dei lavoratori, attraverso il controllo dell’applicazione del contratto. Le RSA, invece,
vengono elette esclusivamente dagli iscritti ad un particolare sindacato, tutelano quindi unicamente gli
iscritti, inoltre, per queste non è previsto un metodo di voto, che invece è previsto per le RSU, in cui devono
votare almeno il 50% + 1 degli elettori.
ANALISI DELL’ART.18:

Lo Statuto dei lavoratori toglie al datore di lavoro la signoria sul licenziamento, limitando i tre poteri del
datore di lavoro: di colpo, l’impresa si trasforma e diventa sempre più simile ad una comunità.
L’estinzione del rapporto di lavoro può avvenire in 7 casi: scadenza del termine, morte del lavoratore,
dimissioni (recesso dal contratto di lavoro del lavoratore), licenziamento (recesso dal contratto di lavoro del
datore di lavoro), accordo delle parti, cause specifiche previste per legge e per impossibilità sopravvenuta
della prestazione o per forza maggiore. Nel 1942 il lavoratore poteva essere licenziato senza troppe
giustificazioni e il recesso poteva avvenire ad nutum, cioè senza alcuna giustificazione, il datore era tenuto
solo al preavviso (art.2118) oppure per giusta causa, se il lavoratore aveva posto in essere una condotta
così grave tale da non consentire nemmeno la provvisoria continuazione del rapporto lavorativo e, in
questo caso, il datore non era tenuto nemmeno al preavviso (art.2119). Successivamente, la L.604/1966
introdusse 2 causali di licenziamento: giustificato motivo soggettivo di licenziamento, quando
l’inadempimento è notevole, ma non grave quanto la giusta causa e giustificato motivo oggettivo di
licenziamento, quado l’inadempimento è grave, dunque non può non seguire il licenziamento. Questa
legge ha introdotto, per il tema del licenziamento, il principio della giusta causa e del giustificato motivo
oggettivo (es. esigenza tecnico-organizzativa dell’imprenditore), tranne che per alcune particolari attività
lavorative, come quelle svolte dai dirigenti, dove è sufficiente una giustificatezza del licenziamento, dai
lavoratori in prova, dai lavoratori domestici e dai lavoratori che hanno raggiunto l’età pensionabile.
Nel caso in cui il datore di lavoro licenzi ingiustamente, il lavoratore può procedere, entro 60 giorni, con
un’impugnazione intermedia stragiudiziale, che quasi sempre si rivela inefficace (es. se il datore di lavoro è
convinto che io abbia rubato 100.000€, non basta una lettera di scuse per convincerlo che non sono una
ladra) oppure può richiedere, entro 180 giorni, l’intervento del giudice, che deve verificare se sussistono le
giuste causali. Prima delle Riforma Fornero, esistevano 2 tipi di tutela: la tutela obbligatoria, che sosteneva
che il lavoratore avesse diritto ad essere riassunto in azienda 3 giorni dopo la sentenza del giudice oppure
di vedersi corrisposte dalle 2,5 alle 6 mensilità (quasi mai i lavoratori rientravano in azienda) e la tutela
reale, che prevedeva che il datore di lavoro dovesse reintegrare il lavoratore nel luogo di lavoro e dovesse
corrispondergli le retribuzioni medio-tempore maturate dal giorno del licenziamento al giorno dell’effettiva
reintegrazione. Il requisito che veniva utilizzato per scegliere la tutela appropriata era quello dimensionale,
secondo cui se l’impresa era medio grande e aveva più di 15 dipendenti nell’unità produttiva o più di 60
dipendenti su tutto il territorio nazionale si applicava la tutela reale, per le imprese medio piccole, al
contrario, si applicava la tutela obbligatoria. Dopo la Riforma Fornero del 28 giugno del 2012, il quadro
normativo si complica perché vengono introdotte 4 nuove tutele. La tutela reintegratoria forte è la
migliore che il lavoratore possa ricevere in giudizio, questa introduce che in caso di licenziamento
illegittimo, il datore è obbligato a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro corrispondendogli tutte le
retribuzioni che sono maturate dal giorno del licenziamento al giorno della reintegrazione (art.18 Statuto
dei lavoratori), ma questa si applica solo in pochissimi ed individuali casi, cioè in caso di licenziamenti nulli e
discriminatori. La tutela reintegratoria debole prevede che il lavoratore ha diritto di essere reintegrato, ma
non ha diritto a tutte le retribuzioni maturate, bensì a un massimo di un anno di mensilità e viene applicata
quando si verifica l’insussistenza del fatto contestato e quando la contrattazione collettiva prevede una
sanzione conservativa (es. il contratto collettivo dice che bisogna avere un abbigliamento consono, pena la
multa di 4 ore e il datore mi licenzia per un abbigliamento che considera non consono, questa sanzione è
sproporzionata). La tutela risarcitoria forte si applica in tutti gli altri casi, quindi se non c’è nullità, se non
c’è discriminazione, fatto insussistente o sanzione conservativa prevista dal contratto collettivo. Il
legislatore sostiene che il giudice, con la sentenza con cui accerta l’illegittimità del licenziamento, dichiara
comunque risolto il rapporto di lavoro e condanna il datore a corrispondergli un risarcimento che va tra le
12 e le 24 mensilità. Con la tutela risarcitoria debole il giudice condanna, invece, in caso di vizi procedurali
e condanna il datore a corrispondere tra le 6 e le 12 mensilità.
Dunque, come si è visto, si è partiti dall’art.18 dello Statuto dei lavoratori, l’Unione Europea ha poi imposto
all’Italia una disciplina in grado di rendere più flessibile l’uscita dalle imprese, chiedendo la riforma
dell’art.18 e l’attuazione della Riforma Fornero. Il D.Lgs 23/2015 o Jobs Act ha introdotto il CONTRATTO A
TUTELE CRESCENTI, che ricalcando la disciplina contenuta nell’art.18 dello Statuto dei lavoratori si è posto a
tutela dell’illegittimità del licenziamento, applicandosi a tutti i lavoratori assunti dopo il 7 marzo del 2015:
questo prevede sempre le 2 causali del licenziamento, ma rende ancora meno scontata l’applicazione della
reintegrazione perché irrigidisce l’onere probatorio a carico del lavoratore, cioè diventa più complicato per
il lavoratore poter essere reintegrato perché deve dare lui dimostrazione in giudizio, ad esempio, della
manifesta insussistenza del fatto contestato, inoltre, riduce quel margine di discrezionalità perché impone 2
mensilità di retribuzione per ogni anno di anzianità per un massimo di 36 mesi. Il problema è che in questo
caso chi era stato assunto prima del 7 marzo si rifaceva all’art.18, mentre chi era stato assunto dal 7 marzo
in poi si rifaceva al contratto a tutele crescenti. La Corte Costituzionale affermò che ciò non rappresentava
discriminazione perché poteva accadere che un legislatore introducesse una disposizione legislativa che per
l’avvenire disciplinasse in modo diverso determinati istituti, sempre la stessa ha poi dichiarato illegittimo il
criterio dell’anzianità del servizio, affermando che bisognasse tarare il risarcimento non solo basandosi
sull'anzianità del servizio, ma anche rifacendosi ai parametri previsti dall’art.18 dello Statuto dei lavoratori.
Oggi, data la lacuna informativa, i giudici continuano ad utilizzare i criteri fissati prima del 2015.
Abbiamo accennato la disciplina dei licenziamenti collettivi, che sono quei licenziamenti disciplinati dalla
L.223/1991, che devono riguardare almeno 5 lavoratori e che prevedono un obbligo di coinvolgimento delle
organizzazioni sindacali essendo che incidono su un’ampia platea di persone e ledono l’interesse collettivo:
i 3 criteri per scegliere nel licenziamento collettivo sono l’anzianità di servizio, i carichi di famiglia e le
esigenze tecnico-organizzative. Il sindacato coinvolto verifica se effettivamente c’è bisogno di ridurre
l’organico lavorativo e come extrema ratio cerca di far demansionare il lavoratore o di proporre un part-
time piuttosto che farlo licenziare. Concludiamo ora analizzando gli effetti post introduzione dello Statuto
dei lavoratori e, in particolar modo, il problema che esso introdusse da un punto di vista economico:
l’aumento delle tutele sindacali e dei diritti dei lavoratori, ma anche la reintegrazione, provocarono una
diminuzione della produttività aziendale ed un aumento dei costi, infatti i lavoratori non avevano più paura
di essere licenziati. L’Italia era un’economia chiusa, dunque quello che si produceva si vendeva agli italiani
ed erano numerose le forme di protezionismo economico adottate, ad esempio l’Italia era protetta dalla
concorrenza internazionale grazie ai dazi sui beni importati, inoltre venivano effettuate delle svalutazioni
competitive e gli aiuti da parte dello Stato alle imprese aumentarono e con essi anche il debito pubblico e
l’inflazione. Lo Statuto dei lavoratori provocò un abbassamento del CLUP (Costo del Lavoro per Unità di
Prodotto) e un innalzamento delle retribuzioni, a seguito dell’introduzione della scala mobile, con cui la
retribuzione veniva adeguata automaticamente all’inflazione, gli imprenditori si sentivano molto deboli, al
contrario, l’azione sindacale era molto forte, dunque si aveva paura delle rivolte armate, nel 1973 Israele
fece la guerra dei 3 giorni, conquistò l’Egitto e i paesi arabi costituirono l’OPEC (Organizzazione dei Paesi
Esportatori di Petrolio), introducendo il monopolio dell’offerta del petrolio, a seguito del quale salì il prezzo
dello stesso, aumentò l’inflazione e con essa le retribuzioni. Storicamente sappiamo che la scala mobile è
un accordo su un punto unico di contingenza che mira a creare la pace sociale, molti però, intorno agli anni
’70, iniziarono a capire che in questo modo i risparmi venivano risucchiati dalla spirale inflattiva, tra i tanti,
Tarantelli sosteneva che questo accordo inseguisse l’inflazione, il risultato fu infatti che l’inflazione divenne
a due cifre, ci si rese conto che i soldi iniziarono a perdere valore, il costo del petrolio continuava a crescere
sempre di più, circa del 50%, così, anche i lavoratori, che fino a quel momento si sentivano protetti dalla
scala mobile, si resero conto che il sacrificio delle retribuzioni era troppo alto. Il sindacato si iniziò a
spaccare, CISL e UIL si trovavano d’accordo con Tarantelli, al contrario della CGIL, iniziarono le prime rivolte,
nelle fabbriche si iniziò a sparare, alcuni giudici vennero uccisi e il Presidente del Consiglio Aldo Moro venne
rapito, il paese era in preda al terrorismo e l’inflazione era fuori controllo. L’unico modo per preservare un
sistema produttivo a ritmi di produttività crescenti era vendere all’estero, aprendosi a nuovi mercati.
Sulla spinta dell’America si cominciò a parlare di globalizzazione e l’Italia, sotto il governo Craxi (1983-
1987), capì che l’unico modo per resistere alla concorrenza straniera era contenere il costo del lavoro e
iniziare ad esportare, ma al tempo vi era un grande problema di tipo storico, vi era ancora la cortina di
ferro, che separava l'Europa orientale, sotto l'influenza dell'Unione Sovietica, dall'Europa occidentale, che
ricadeva sotto quella degli Stati Uniti. Nel 1989 avvenne la caduta del muro di Berlino e in Italia si cominciò
a speculare contro la lira, si cominciarono a vendere titoli italiani, scese il loro valore, i tassi da pagare sul
debito aumentarono, la lira e i prodotti italiani si deprezzarono, dunque l’Italia entrò in una grave crisi
economica. Agli inizi degli anni ‘90 si cominciò a capire l’importanza di una moneta unica, ma per creare un
mercato unico era necessario che l’Italia abolisse i dazi doganali, contenesse il costo del lavoro, non
ponesse in atto svalutazioni della moneta stampando lire e desse atto alla riforma sulle pensioni.
Vennero individuati, dunque, dei parametri di Maastricht, detti anche criteri di convergenza e l’Italia, nel
1992, sottoscrisse il Trattato di Maastricht. La L.300/1995, nota come Legge Dini, ridusse il costo
pensionistico a carico dello Stato, rendendo le pensioni più sostenibili, introducendo un meccanismo di tipo
contributivo del calcolo della pensione, fondato sul totale dei contributi versati dal lavoratore nel corso
della propria vita lavorativa e non sulla media degli stipendi degli ultimi due anni di lavoro (sistema
retributivo della Legge Brodolini). Passarono al nuovo sistema quanti alla fine del 1995 non avessero
maturato almeno 18 anni di versamenti e chi avesse iniziato a lavorare solo nel 1996. La riforma Dini portò
considerevoli cambiamenti anche in riferimento all’età pensionabile, che venne resa flessibile e compresa,
tanto per gli uomini quanto per le donne, in una fascia racchiusa tra i 57 e i 65 anni. Oltre alla Legge Dini,
un’altra importante riforma, che venne attuata circa 20 anni prima, fu la riforma del processo del lavoro
del 1973, che portò all’introduzione delle collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co.).
Queste si basavano su rapporti di lavoro autonomi, che concernevano pochissimi diritti per i lavoratori,
soprattutto in tema di rinunzie e transazioni, e permettevano al datore di lavoro di assumere i lavoratori
non in nero, bensì a termine; inoltre, a questi contratti non si applicava lo Statuto dei lavoratori, dunque il
datore di lavoro non era tenuto a pagare i contributi. A seguito di questa riforma, iniziò ad esserci una
distinzione tra insiders, coloro i quali godevano di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e
outsiders, che concludevano contratti di lavoro a termine. Ciò che si venne a creare fu un problema di
precarietà, i sindacati iniziarono a proteggere solamente i contratti a tempo indeterminato, dunque gli
insiders, motivo per il quale gli outsiders iniziarono a smettere di iscriversi ai sindacati, che iniziarono a
spaccarsi. Sempre agli inizi degli anni ‘90 si cominciò a capire l’importanza, oltreché della moneta unica, di
aprirsi a nuovi mercati, l’unico strumento efficace sembrava essere l’abbassamento dei prezzi, ma in Italia
l’inflazione era molto alta, dunque si capì che bisognava contenere gli aumenti delle retribuzioni,
abbandonando la scala mobile, che era però il principale strumento sindacale, l’Italia ebbe il coraggio di
andare al referendum, gli italiani capirono che questo meccanismo erodeva i loro risparmi, vinse il no e per
l’Italia fu una grande svolta, essendo che da quel momento in poi i salari non dovevano più adeguarsi
all’inflazione effettiva, bensì a quella programmata. Il costo dei prodotti italiani iniziò a diminuire, così come
l’inflazione, che rese più competitivi i prodotti, gli imprenditori iniziarono ad investire in Italia, uno dei primi
fu Benetton, nacque il settore della moda made in Italy, di colpo si iniziò a vendere all’estero, si arrivò alla
globalizzazione e l’Italia tornò a crescere. Tuttavia, le riforme del lavoro cambiarono, venne chiesta più
produttività, quindi vennero concessi con sempre meno frequenza lavori a tempo indeterminato, si iniziò
ad assumere in nero, aumentarono i contratti di lavoro a termine, i contratti di lavoro part time o di job
sharing e tanti altri, dunque si aprì un nuovo mercato dei lavori e la disoccupazione aumentò, infatti, se da
una parte la globalizzazione diede maggiori opportunità, dall’altra aumentò le rinunce e i sacrifici, per non
parlare del debito pubblico, tuttora crescente.
Nozioni in più tratte dal libro “Diritto del lavoro, a cura di Persiani, Ferrari, Martone”

In generale, è esclusa l’ammissibilità del lavoro gratuito poiché l’eventuale accordo volto a eliminare
qualsiasi tipo di compenso per l’attività prestata dal lavoratore subordinato è invalido e viene
automaticamente sostituito con la previsione del diritto alla minima retribuzione prevista dal contratto
collettivo. Un accordo del genere è legittimo solo se l’attività viene svolta gratuitamente in virtù di un
vincolo di cortesia. L’esempio tipico sotto il primo aspetto è il lavoro familiare, instaurato tra soggetti che
sono legati da un vincolo di parentela o di affinità e si presume gratuito, salvo prova contraria.
Il lavoro familiare può essere prestato nell’ambito dell’impresa familiare, prevista dall’art.230 bis, in cui
collaborano, con il titolare, il coniuge, i parenti entro il 3° grado e gli affini entro il 2° grado. Un ulteriore
esempio di lavoro gratuito è l’attività di volontariato, definita come quella prestata in modo personale,
spontaneo e gratuito tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro e per fini di
solidarietà. In alcuni rapporti è rinvenibile la situazione in cui il socio o l’associato si trova ad eseguire
un’attività di lavoro: è il caso del socio d’opera nella società di persone, dell’associato nell’associazione di
partecipazione e del socio lavoratore nella cooperativa di lavoro. Il socio d’opera è colui che nella società di
persone conferisce, anziché beni, la propria opera lavorativa, obbligandosi a prestare lavoro in favore della
società, non per ricevere in cambio la retribuzione, ma perché partecipa allo scopo societario ed è titolare
degli stessi poteri di amministrazione e decisione degli altri soci, dunque la configurazione di un rapporto di
lavoro è esclusa. Nell’associazione di partecipazione, invece, l’associante attribuisce all’associato la
partecipazione agli utili dell’impresa, come corrispettivo di un certo apporto che può consistere anche nello
svolgimento di una prestazione di lavoro, che non ha però natura subordinata. Nelle società cooperative,
l’attività del socio lavoratore contribuisce al raggiungimento degli scopi sociali, motivo per il quale egli ha il
diritto di partecipare agli utili dell’impresa. Tra socio lavoratore e cooperativa si instaura un rapporto di tipo
associativo, che può assumere la forma della subordinazione o del lavoro autonomo. I contratti che
presentano delle caratteristiche particolari rispetto al lavoro subordinato vengono chiamati contratti
speciali. Questa specialità può dipendere dalla causa, come i rapporti di lavoro a contenuto formativo,
quali l’apprendistato, il contratto d’inserimento e il contratto di formazione, dalla durata o dalla
collocazione della prestazione di lavoro, come il contratto di lavoro ripartito, il contratto intermittente ed il
lavoro part-time oppure dal contesto lavorativo, come il lavoro domestico, il telelavoro, i lavoratori dello
spettacolo, il lavoro marittimo e aereo, il lavoro sportivo e la somministrazione del lavoro. Tra i più
importanti e significativi abbiamo il contratto di apprendistato, che è un contratto a contenuto formativo
per cui a fronte della prestazione lavorativa, il datore si obbliga a corrispondere all’apprendista, non solo
una controprestazione retributiva, ma anche gli insegnamenti necessari per il conseguimento o di una
qualifica professionale, rivolta a giovani e adolescenti che abbiano compiuto i 15 anni, per cui la durata del
contratto non può superare i 3 anni ed è regolamentata da regioni e province o di una qualificazione
tecnico-professionale, rivolta a giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni, per cui la durata del contratto
non può essere superiore a 6 anni ed è regolamentata dai contratti collettivi oppure di titoli di studio di
livello secondario, universitario o specializzazioni per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta
formazione, rivolta a giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni e regolamentata dalle regioni e dalle
università. Per i datori di lavoro che assumono giovani apprendisti sono previsti degli incentivi economici
che consistono nel pagamento di una ridotta contribuzione previdenziale e assicurativa. Un altro contratto
è il contratto di inserimento, diretto a realizzare, mediante un progetto individuale, l’inserimento o il
reinserimento nel mercato del lavoro di particolari categorie di persone, come i soggetti di età compresa tra
i 18 e i 29 anni, i disoccupati di lunga durata dai 29 fino ai 32 anni, i lavoratori con più di 50 anni di età privi
di un posto di lavoro, i lavoratori che non abbiano lavorato per almeno 2 anni, le donne di qualsiasi età
residenti in un’area geografica ove è più elevata la disoccupazione femminile e le persone affette da un
grave handicap fisico, mentale o psichico. Tutto questo avviene grazie ai centri per l’impiego, finalizzati a
favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e a prevenire fenomeni di disoccupazione strutturale.
Questi contratti possono essere stipulati da qualsiasi datore di lavoro, ogni contratto ha una durata non
inferiore a 9 mesi e non superiore a 18 mesi e non è rinnovabile e, anche in questo caso, per il datore di
lavoro sono previsti notevoli vantaggi economici e normativi. Il contratto di formazione è, invece, un tipo
di contratto che nasce nel 1984 con finalità di agevolare l’occupazione giovanile mediante un’esperienza di
lavoro formativa, di fatto, è molto simile al contratto di apprendistato. Nel tempo questa finalità è stata
snaturata e molto spesso questo contratto veniva usato per eludere il regime fiscale, motivo per il quale, ad
oggi, esso riveste una portata residuale e non può essere più stipulato per i lavoratori del settore privato,
ma soltanto nell’ambito delle pubbliche amministrazioni. Abbiamo poi i tirocini formativi e di
orientamento, detti anche stage, sono infatti definiti come periodi di formazione on the job e si sostanziano
in forme di inserimento temporaneo all’interno dell’azienda, senza costituire però dei rapporti di lavoro,
con l’obiettivo di consentire ai soggetti coinvolti di conoscere e di sperimentare in modo concreto la realtà
lavorativa attraverso una formazione professionale ed un addestramento pratico sul luogo di lavoro.
Questo rapporto, che non può superare i 12 mesi, è regolato da un’apposita convenzione che vede coinvolti
3 soggetti e cioè il promotore (università, scuola superiore o ente di formazione), l’azienda ospitante e il
tirocinante. La somministrazione viene definita come la fornitura professionale di manodopera,
esclusivamente a tempo determinato, dall’agenzia autorizzata. Con la somministrazione si realizza un
rapporto triangolare tra l’impresa utilizzatrice, che può appartenere a qualsiasi campo di attività, il
prestatore di lavoro e l’agenzia per il lavoro di somministrazione che fornisce i lavoratori. Essa è vietata
per la sostituzione di lavoratori in sciopero, presso unità produttive in cui nei 6 mesi precedenti si sia
proceduto a licenziamenti collettivi o nelle quali si stia operando una sostituzione dei rapporti o una
riduzione degli orari e per le imprese che non hanno effettuato la valutazione dei rischi per la sicurezza sul
lavoro. Pertanto da questa fattispecie, si desume che il lavoratore è assunto dall’impresa di
somministrazione, ma presta la sua attività presso un altro datore e sotto la direzione di quest’ultimo. Il
contratto di lavoro part-time è considerato un rapporto di lavoro speciale rispetto alla disciplina generale
del lavoro subordinato, caratterizzato da un orario di lavoro inferiore. Le tipologie di lavoro part-time sono
3: lavoro a tempo parziale di tipo orizzontale, in cui si lavora tutti i giorni, ma per un orario inferiore, lavoro
a tempo parziale di tipo verticale, in cui si lavora a tempo pieno, ma solo per alcuni giorni della settimana,
del mese o dell’anno e lavoro a tempo parziale di tipo misto, consistente in una combinazione delle
precedenti categorie. Il contratto di lavoro a tempo parziale deve essere stipulato in forma scritta ad
probationem, cioè al fine di provare la sussistenza del rapporto stesso, il lavoro prestato eccedente l’orario
di lavoro part-time può configurarsi come lavoro supplementare o straordinario, ma in generale il datore di
lavoro non può variare la collocazione temporale del lavoratore, né aumentare la durata della prestazione,
per questo motivo il part-time si presenta abbastanza rigido per il datore di lavoro, il quale, se vuole
ottenere una maggiore flessibilità deve fare ricorso a clausole flessibili della prestazione, che permettono di
variare la collocazione temporale della prestazione lavorativa, senza aumentarne la durata oppure clausole
di elasticità, che consentono al datore di lavoro di variare in aumento la durata della prestazione, senza che
le ore in più valgano come straordinario. Per l’introduzione di queste clausole è necessario il consenso del
lavoratore. Il trattamento economico e normativo del lavoratore part-time è regolato dall’applicazione dei
seguenti principi: principio di non discriminazione, in base al quale il lavoratore deve beneficiare degli
stessi diritti di quello a tempo pieno per quanto riguarda, ad esempio, la retribuzione, la durata e le ferie e
principio di proporzionalità, in base al quale il trattamento del lavoratore deve essere composto in
proporzione alla ridotta entità della prestazione lavorativa. Anche in questo istituto, il lavoratore ha il
diritto di precedenza, nel senso che deve essere favorito in caso il datore di lavoro proceda a nuove
assunzioni a tempo pieno all’interno dell’azienda. Il D.lgs.276/2003 ha introdotto anche il lavoro a
chiamata o intermittente, in cui la prestazione non viene effettuata con continuità, ma solo su richiesta del
datore di lavoro, infatti il datore ha la facoltà di chiamare il lavoratore una o più volte per lo svolgimento
della prestazione, nel rispetto di un termine di preavviso non inferiore ad un giorno lavorativo.
Questo tipo di contratto deve essere stipulato in forma scritta ad probationem e deve indicare durata e
ragioni del lavoro intermittente, luogo e modalità dell’eventuale disponibilità e preavviso di chiamata,
trattamento economico e normativo, modalità di chiamata ed eventuali misure di sicurezza specifiche. Si
può ricorrere al lavoro intermittente per lo svolgimento di prestazioni a carattere discontinuo, per periodi
predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno ed in via sperimentale per prestazioni rese
da soggetti in stato di disoccupazione con meno di 25 anni o con più di 45 anni. Il contratto di
lavoro ripartito o job sharing, è uno speciale contratto di lavoro subordinato caratterizzato dal fatto che la
controparte del datore di lavoro è rappresentata da due lavoratori, i quali assumono in solido
l’adempimento di un’unica e identica obbligazione lavorativa. Gli elementi caratterizzanti della fattispecie
sono certamente l’elasticità della prestazione e il vincolo di solidarietà tra i due lavoratori. I lavoratori
hanno facoltà di determinare discrezionalmente e in qualsiasi momento sostituzioni tra di loro, nonché di
modificare consensualmente l’orario di lavoro, inoltre, ogni lavoratore è personalmente e direttamente
responsabile dell’adempimento dell’intera obbligazione lavorativa e il datore può esigere l’esatto
adempimento della prestazione da ciascun lavoratore. L’adempimento di entrambi i lavoratori comporta la
risoluzione del contratto, le dimissioni o il licenziamento di uno dei lavoratori coobbligati comportano
l’estinzione del rapporto di lavoro anche nei confronti dell’altro, eccetto che su richiesta del datore di
lavoro. Il job sharing non va confuso con il job splitting, caratterizzato dalla suddivisione di un unico posto
di lavoro a tempo pieno in due posti di lavoro a tempo parziale.

I poteri specifici del datore di lavoro sono 3: potere direttivo, potere di vigilanza e controllo e potere
disciplinare. A tutela dei lavoratori, la legge pone al datore di lavoro ben precisi limiti all’esercizio dei poteri
a lui spettanti, che si pongono accanto al generale divieto di discriminazione previsto dall’art.15, secondo
cui sono nulli tutti i patti e gli atti diretti a ledere in qualsiasi modo la posizione del lavoratore per motivi
sindacali, politici, religiosi, etnici, di sesso, di lingua, di razza e handicap, nonché basati sull’orientamento
sessuale o sulle convinzioni personali. La norma impone al datore di lavoro il dovere di esercitare in modo
non arbitrario, ma imparziale i propri poteri. Il potere direttivo (art.2104) compendia una serie di facoltà e
poteri, tutti finalizzati ad assicurare l’esecuzione del lavoro in modo conforme alle direttive del datore e dei
suoi collaboratori diretti e, precisamente, si divide in potere gerarchico, che designa la posizione di
supremazia del datore di lavoro quale capo dell’impresa dal quale dipendono gerarchicamente i suoi
collaboratori, potere conformativo, secondo cui il datore determina le mansioni dei lavoratori,
determinando concretamente la modalità di esecuzione del lavoro e potere direttivo in senso stretto, che
consiste nell’emanazione delle disposizioni concernenti l’organizzazione del lavoro (es. orari, turni).
Le norme dello Statuto dei Lavoratori, dirette a salvaguardare la personalità fisica e morale del dipendente,
pongono una serie di divieti e limitazioni all’esercizio del potere direttivo, tra le norme fondamentali ci sono
l’art.1 che riconosce il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, l’art.8 che vieta al datore di
effettuare indagini sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, l’art.2 che fa assoluto divieto
di servirsi di guardie giurate per il controllo dell’attività lavorativa, utilizzabili solo per la tutela del
patrimonio aziendale, l’art.5 che vieta al datore di effettuare accertamenti sulle infermità del lavoratore e
tanti altri. Il potere di vigilanza e controllo è strettamente connesso al potere direttivo, è diretto a
verificare che l’esecuzione dell’attività lavorativa venga effettuata secondo le modalità stabilite dal datore
di lavoro e deve essere esercitato nel rispetto del Codice della privacy. Infine, il potere disciplinare
(art.2106 e art.7) indica le facoltà del datore di lavoro di irrogare sanzioni al lavoratore che venga meno ai
suoi doveri contrattuali e, in generale, agli obblighi di diligenza, obbedienza e fedeltà. Tale potere è,
comunque, sottoposto a ben precisi limiti volti a preservare la libertà e la dignità del lavoratore, più
precisamente la legge fissa i presupposti per l’esercizio del potere disciplinare, la cui mancanza può
determinare la nullità della sanzione irrogata. I presupposti sostanziali per il legittimo esercizio del potere
disciplinare sono la sussistenza e l’imputabilità del fatto, l’adeguatezza della sanzione, che richiede
proporzionalità tra infrazione e sanzione e, inoltre, deve essere fissato un limite alla rilevanza della recidiva,
in base al quale non si può tenere conto delle sanzioni disciplinari decorsi i 2 anni dalla loro applicazione.
Le sanzioni previste sono di tipo conservativo e possono consistere in un richiamo verbale, in
un’ammonizione scritta, in una multa (max 4 ore), nella sospensione dal lavoro e dalla retribuzione (max 10
giorni) e, in casi di più grave ed estrema ipotesi, nel licenziamento legittimo. L’art.7 introduce dei veri e
propri presupposti formali e procedimentali per la legittimità delle sanzioni, infatti prevede la
predeterminazione del codice disciplinare, cioè un regolamento interno all’azienda, la pubblicità dello
stesso, la contestazione dell’addebito, che deve essere specifica ed immediata e il diritto di difesa del
lavoratore, egli ha infatti il diritto di difendersi e di essere ascoltato. Il lavoratore che intende contestare la
sanzione può, inoltre, fare ricorso all’autorità giudiziaria o avvalersi di una procedura arbitrale.
La prestazione di lavoro va eseguita nel luogo stabilito dalle parti nel contratto, dunque presso l’unità
produttiva specificata. Il datore di lavoro ha il potere di modificare unilateralmente il luogo della
prestazione, tale potere trova però dei limiti nell’art.2103, che subordina il trasferimento del lavoratore da
un’unità produttiva all’altra sulla sussistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, ciò
per evitare che il datore usi questo potere come strumento persecutorio per i lavoratori. Ulteriori limiti,
poi, sono stabiliti dallo Statuto dei Lavoratori, che sancisce la nullità di qualsiasi atto o fatto volto a
discriminare il lavoratore. Tutto ciò non è da confondere con la trasferta che si ha quando vi è uno
spostamento provvisorio e temporaneo dal luogo stabilito per la prestazione lavorativa ad un altro.
L’orario di lavoro è un elemento fondamentale del contratto di lavoro, in quanto serve a calcolare la
retribuzione spettante al lavoratore, commisurata appunto al tempo di lavoro, inoltre, questo costituisce
un limite alla durata giornaliera e settimanale della prestazione lavorativa, evitando l’eccessivo
logoramento delle energie psico-fisiche del lavoratore, tutelando in un certo senso la sua salute.
Esso è unilateralmente stabilito dal datore di lavoro osservando le disposizioni di legge e i contratti
collettivi. L’orario è determinabile su base settimanale e, in particolare, l’orario normale di lavoro stabilito
dalla legge è di 40 ore settimanali, tuttavia, questo può essere stabilito dal contratto collettivo in misura
inferiore rispetto alla durata legale, ad esempio introducendo la settimana lavorativa di 36 o 38 ore, in
questo caso le ore eccedenti fino alla quarantesima vengono chiamate supplementari. Inoltre, l’orario
settimanale può essere fissato dalla contrattazione collettiva come durata media delle prestazioni di lavoro
in un periodo non superiore all’anno e con la possibilità di compensare orari settimanali differenti nel
periodo prescelto (es. nella prima settimana 50 ore, nella seconda 30 ore, nella terza 44 ore, nella quarta 36
ore, in totale vengono rispettate le 40 ore previste): questo è il cosiddetto orario multi periodale.
Il D.lgs.66/2003 stabilisce che la durata massima settimanale del lavoro, comprendendo sia il lavoro
ordinario che straordinario, non può superare le 48 ore ogni 7 giorni e per un periodo non superiore a 4
mesi. Un ulteriore elemento importante da considerare nell’orario di lavoro è l’obbligo di osservare il
riposo settimanale, infatti il lavoratore ha diritto ogni 7 giorni a un periodo di riposo di almeno 24 ore
consecutive, di regola in coincidenza con la domenica, da cumulare con le ore di riposo giornaliero.
Il lavoro straordinario, invece, è il lavoro prestato oltre la quarantesima ora, che non può superare le 48
ore settimanali e le 13 ore consecutive giornaliere. Per la maggior fatica che esso comporta, deve essere
computato a parte e compensato con le maggiorazioni retributive previste dai contratti collettivi.
Il lavoro notturno viene frequentemente utilizzato nelle grandi imprese dove vi è un ciclo di lavorazione
continuo ed è una tipologia di lavoro che comporta maggiore affaticamento psicofisico e sacrifici alla vita
affettiva, familiare e di relazione del lavoratore. Si ha lavoro notturno quando l’attività è svolta nel corso di
un periodo di almeno 7 ore consecutive comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e le ore 5 del mattino
ed è considerato lavoratore notturno colui che durante il periodo notturno svolga, in via non eccezionale,
almeno 3 ore del tempo giornaliero o una parte del suo orario normale come previsto dai contratti
collettivi. L’orario di lavoro notturno non può superare le 8 ore in media nelle 24 ore, salva indicazione
diversa dei contratti collettivi, che possono altresì stabilire una maggiorazione della retribuzione. Inoltre,
c’è l’obbligo per il datore di lavoro di accertare lo stato di salute dei lavoratori notturni attraverso controlli
periodici. La posizione giuridica del datore di lavoro risulta costituita, oltre che da poteri, anche da una serie
di doveri, che possono così individuarsi: obbligo di corrispondere la retribuzione e il TFR, obbligo di tutela
delle condizioni di lavoro e dell’integrità fisica del lavoratore, obbligo di tutela assicurativa e previdenziale
al lavoratore come previsto dalla legge, obbligo di assicurare i dipendenti contro il rischio di responsabilità
civile verso i terzi, conseguente allo svolgimento delle loro mansioni, obbligo di informazione nei confronti
del lavoratore, al quale devono essere comunicati qualifica, mansioni, periodi di ferie e prospetto paga e
obbligo di procedere ad accertamenti sanitari prima dell’assunzione. Oltre a quelli sopracitati c’è anche un
altro dovere del datore di lavoro, cioè l’obbligo di sicurezza, si tratta di un obbligo primario a tutela del
diritto alla salute, garantito dall’art.32. L’art.2087, a sua volta, dispone che l’imprenditore è tenuto ad
adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la
tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore. Dall’altra parte
della medaglia, rispetto ai poteri del datore di lavoro, ci sono i principali diritti del lavoratore, tra cui il
diritto ad un’adeguata retribuzione, il diritto alla sicurezza e il diritto ad un orario di lavoro adeguato.
L’obbligazione principale del lavoratore è lo svolgimento della prestazione lavorativa. La legge pone a
carico del lavoratore ulteriori obblighi integrativi, che concorrono a definire la prestazione lavorativa, tra cui
l’obbligo di diligenza, l’obbligo di obbedienza e l’obbligo di fedeltà, secondo cui il prestatore di lavoro è
tenuto a rispettare un complesso di cautele, cure e attenzioni per l’esecuzione della prestazione,
nell’interesse dell’impresa e della produzione nazionale, deve, inoltre, osservare le disposizioni per
l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali
gerarchicamente dipende, nonché tenere un comportamento leale verso il datore di lavoro, tutelandone gli
interessi. Quest’ultimo obbligo pone a carico del lavoratore il divieto di concorrenza, secondo cui egli non
deve trattare affari per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore e un obbligo di
riservatezza, secondo cui non deve divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione
dell’impresa. I diritti del lavoratore costituiscono le situazioni giuridiche attive, riferibili alla prestazione
lavorativa, che si esprimono nelle facoltà, libertà e prerogative riconosciute al lavoratore. I diritti del
lavoratore vengono classificati in diritti patrimoniali, tra cui sono compresi il diritto alla retribuzione, il
diritto al TFR e a diverse indennità speciali, diritti personali, ossia il complesso di diritti e valori inerenti alla
personalità dell’individuo, costituzionalmente garantiti, che comprendono il diritto all’integrità fisica e alla
salute, alla libertà di opinione e alla protezione della riservatezza, il diritto allo studio e alla tutela delle
attività culturali e, infine, diritti sindacali, che comprendono le espressioni tipiche dell’attività sindacale
riconosciuta ai lavoratori. Oltre a questi diritti c’è anche il diritto relativo alle proprie invenzioni e opere
d’ingegno, infatti l’art.2590 stabilisce che il prestatore di lavoro ha diritto di essere riconosciuto autore
dell’invenzione fatta nello svolgimento del rapporto di lavoro, mentre i diritti patrimoniali che ne
discendono possono appartenere al datore di lavoro in modo diverso a seconda del tipo di invenzione
realizzata dal lavoratore. Il lavoratore ha il diritto a ferie annuali retribuite, affinché possa recuperare le
energie psico-fisiche usurate dal lavoro. Il diritto alle ferie, sancito dall’art.36, è irrinunciabile ed ogni
accordo contrario è nullo. Il periodo di riposo annuale deve essere congruo, possibilmente fruito in maniera
continuativa, retribuito ed effettivo. Il diritto al riposo annuale spetta a tutti i lavoratori subordinati,
indipendentemente dalla tipologia contrattuale e dalla qualifica rivestita e qualunque sia l’anzianità di
servizio. Attualmente, il D.lgs.66/2003 quantifica direttamente il periodo minimo di ferie, stabilendo che il
prestatore di lavoro ha diritto a un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a 4 settimane (28 giorni
di calendario) e ha introdotto il divieto di monetizzazione delle ferie, con cui non è ammissibile che il
lavoratore rinunci a fruire delle stesse ottenendo in cambio il controvalore della giornata lavorativa a titolo
di maggiorazione e il principio dell’effettività del loro godimento, che implica che le ferie siano fruite
effettivamente nell’anno di maturazione, usufruendo di un periodo minimo di ferie di 2 settimane, stabilito
dalla legge e dai contratti collettivi, tuttavia il lavoratore può decidere di usufruire delle restanti 2 settimane
di ferie nei 18 mesi successivi al termine dell’anno di maturazione. Inoltre, la giurisprudenza ha riconosciuto
il diritto alla sospensione del decorso delle ferie per malattia sopravvenuta durante la fruizione delle ferie,
quando sussiste una specifica incompatibilità con l’essenziale funzione di riposo e recupero delle energie
psicofisiche del lavoratore. Oltre al riposo giornaliero, settimanale e annuale spetta al lavoratore la
sospensione del lavoro in occasione delle festività nazionali civili e religiose previste dalla legge.
Durante le festività è dovuta ai lavoratori la normale retribuzione giornaliera, compreso ogni elemento
accessorio, inoltre, ai lavoratori che eccezionalmente prestino la loro opera durante le giornate festive,
spetta oltre la normale retribuzione giornaliera, anche una retribuzione maggiorata per il lavoro espletato
nel periodo festivo. Il lavoratore ha poi diritto alla retribuzione, che costituisce la prestazione
fondamentale cui è obbligato il datore di lavoro nei confronti del lavoratore, pertanto, indica il corrispettivo
del lavoro prestato. L’art.36 sancisce che la retribuzione deve essere proporzionata alla quantità e alla
qualità del lavoro prestato, nonché in ogni caso sufficiente a garantire al lavoratore e alla sua famiglia
un’esistenza libera e dignitosa. La norma è immediatamente precettiva, nel senso che è vincolante per i
privati ed ogni patto contrario è nullo. Alla retribuzione viene attribuito il carattere della corrispettività, in
quanto la retribuzione dovuta dal datore di lavoro dipende dalla prestazione lavorativa effettuata dal
lavoratore, ma in alcune ipotesi il datore è tenuto al pagamento della retribuzione anche in assenza di
prestazione lavorativa, ad esempio in caso di malattia o di infortunio. La retribuzione ha una struttura
complessa, può essere determinata a tempo, in cui la somma di denaro viene stabilita in rapporto al tempo
di lavoro, a cottimo, in cui si tiene conto non solo del tempo impiegato, ma anche del risultato, quindi del
rendimento fornito dal lavoratore, con partecipazione agli utili o ai prodotti, in cui il compenso è legato al
risultato dell’impresa in quanto viene commisurato agli utili netti, con provvigione, in cui si percepisce una
percentuale sugli affari conclusi dal lavoratore nei casi in cui l’oggetto della prestazione sia la trattazione di
affari in nome e per conto del datore di lavoro e, infine, in natura, in cui al lavoratore vengono forniti
determinati beni o servizi, come, ad esempio, vitto e alloggio, in cambio della prestazione lavorativa.
Di regola, la retribuzione a cottimo si combina con la retribuzione a tempo ed in tal caso si parla di cottimo
misto, comunque in generale la principale forma di cottimo si ha nel lavoro a domicilio, in cui il lavoro non si
svolge nell’impresa e di conseguenza non può essere controllato il tempo impiegato per lo svolgimento
dell’attività, ma al contrario si può valutare soltanto il risultato raggiunto, in questo caso infatti il cottimo è
obbligatorio. Secondo l’art.2100, il cottimo è obbligatorio quando è vincolato all’osservanza di un
determinato ritmo produttivo e quando non è possibile misurare il tempo del lavoro impiegato, al contrario
il cottimo è vietato nell’apprendistato, allo scopo di evitare che il giovane sia spinto a lavorare di più per
incentivare il periodo di lavoro. Per determinare la tariffa del cottimo, devono essere osservati i principi
generali fissati dall’art.2101, secondo cui il datore di lavoro deve, in primo luogo, comunicare la cosiddetta
bolla di cottimo al lavoratore, cioè gli elementi costitutivi della tariffa, le lavorazioni da eseguire ed il
relativo compenso, nonché i dati relativi alla quantità di lavoro eseguito e al tempo impiegato, il datore può
poi sostituire o modificare tali elementi solo se si verificano mutamenti oggettivi delle condizioni di lavoro e
la tariffa di cottimo diviene definitiva solo dopo il periodo di sperimentazione previsto dai contratti
collettivi.
A CHE PREZZO, a cura di Michel Martone

La regolamentazione del rapporto di lavoro si svolge in 3 fasi:

- accordi interconfederali: disciplinano diritti e doveri dei lavoratori, a prescindere dal settore di
appartenenza;

- livello nazionale di categoria: i contratti collettivi nazionali di lavoro stabiliscono gli aspetti normativi e
retributivi per i lavoratori di un determinato settore;

- livello decentrato: riguarda i contratti individuali di lavoro stipulati tra il datore e il dipendente.

Il rapporto di lavoro tra datore e dipendente è regolato dal contratto collettivo nazionale di categoria
(CCNL), stipulato tra le organizzazioni sindacali e le associazioni dei datori di lavoro, con lo scopo di stabilire
le norme e i trattamenti economici validi per tutti coloro che sono impiegati in un determinato settore. I
contratti collettivi regolamentano a livello nazionale tutti gli aspetti del lavoro, quali la retribuzione minima,
le ferie, i permessi, gli straordinari, le trasferte, il preavviso di licenziamento etc… Una sezione è dedicata
all’inquadramento dei lavoratori e associa ogni mansione al livello contrattuale corrispondente, inoltre, vi
sono anche le tabelle retributive, che indicano lo stipendio lordo minimo a cui ha diritto ogni lavoratore in
base al proprio livello di inquadramento e all’orario di lavoro.

I contratti collettivi si articolano su 2 livelli:

 contrattazione di primo livello: il CCNL stabilisce gli aspetti normativi ed economici validi per i
lavoratori di un determinato settore e la contrattazione viene stipulata tra associazioni datoriali e
sindacati, che lavorano in sinergia per raggiungere un accordo che soddisfi entrambe le parti;
 contrattazione di secondo livello: riguarda contratti aziendali o territoriali che hanno la funzione di
integrare il CCNL di riferimento per rispondere alle esigenze specifiche dell’azienda e la contrattazione
viene siglata tra il datore di lavoro e i firmatari del CCNL, ad esempio nel contratto aziendale le parti
firmatarie sono costituite dal datore di lavoro e dalle RSA o RSU.

Gli accordi di secondo livello presentano numerosi vantaggi perché permettono di cucire un contratto su
misura in base alle esigenze specifiche dell’azienda e dei suoi dipendenti, aggiungendo al CCNL delle norme
specifiche in base alle attività effettivamente svolte. Grazie alla contrattazione di secondo livello, due
aziende possono applicare lo stesso contratto collettivo adottando provvedimenti diversi, modellati in base
alle loro specifiche necessità, che possono riguardare la gestione degli orari di lavoro, la tipologia
contrattuale, l’ambiente di lavoro, la sicurezza sul lavoro etc…

CAP.1

Il sindacalismo democratico risorge dalle ceneri di quello corporativo, infatti da una parte cerca di rifondare
la contrattazione collettiva a partire dal principio della libertà sindacale, dall’altra ne mantiene la
strutturazione in relazione all’attività d’impresa effettivamente svolta, secondo lo schema dell’art.2070 c.c.
Sulla base di questi principi, i contratti collettivi nazionali di categoria prendono il posto di quelli corporativi,
di cui di fatto mantengono il perimetro, o meglio la categoria, per promuovere politiche retributive
uniformi per tutti i lavoratori del settore e così assicurare la pace sociale. Nel 1945 la scala mobile viene
estesa anche all’industria, così i contratti collettivi nazionali di categoria individuano i minimi retributivi per
qualifica professionale da applicare a tutte le imprese che svolgono la medesima attività, mentre un
automatismo retributivo li protegge dall’aumento del costo della vita. La retribuzione minima individuata
dalla contrattazione collettiva rappresenta il miglior parametro per individuare la giusta retribuzione perché
esprime l’ottimo paretiano che consente di coniugare retribuzione e pace sociale.
Come sappiamo, ben presto, in nome del contenimento dell’inflazione, la scala mobile come automatismo
retributivo venne abolita, introducendo l’indicizzazione dei salari non più all’inflazione effettiva, bensì a
quella programmata, che deve essere negoziata, secondo il Protocollo Scotti del 1983, tra Governo e parti
sociali.

CAP.2

Con la crisi economica e la globalizzazione dei mercati muta il contesto politico, economico e culturale e si
afferma una nuova interpretazione del principio della giusta retribuzione, che si converte in “retribuzione
possibile”, ovvero quella che i lavoratori riescono ad ottenere attraverso la contrattazione collettiva
all’interno di un sistema produttivo in crescente difficoltà. Solo verso la fine degli anni ‘50 i sindacati
cominciano ad essere più favorevoli al decentramento contrattuale e solo a partire dagli anni ‘80 è stata
riconosciuta pari dignità ai diversi contratti collettivi di diverso livello. Il decentramento contrattuale si
afferma come una necessità di politica economica e diventa necessario ristrutturare la contrattazione
collettiva per contenere, con i contratti collettivi nazionali, l’inflazione e promuovere, con quelli di secondo
livello, la produttività, soprattutto a seguito dell’introduzione del Trattato di Maastricht. Alla contrattazione
collettiva di secondo livello viene assegnata la funzione di migliorare l’efficienza aziendale e i risultati di
gestione delle imprese, anche attraverso la previsione di premi di produttività, infatti, verso la fine degli
anni ‘90 diviene evidente che la vera emergenza è la bassa produttività delle imprese. Per migliorare il
rapporto tra costo del lavoro e unità di prodotto, dunque la produttività, si suggerisce di promuovere,
attraverso il decentramento contrattuale, nuove flessibilità salariali. Il problema fu che la nuova politica
retributiva divenne sconveniente tanto per i datori di lavoro quanto per le organizzazioni sindacali, così le
imprese finirono per praticare un dumping salariale e ad utilizzare la flessibilità salariale non per
promuovere la produttività, bensì per contrastare situazioni di crisi, anche dovute al fatto che agli
imprenditori si concesse il potere di contenere il costo del lavoro scegliendo liberamente di applicare il
contratto collettivo nazionale di categoria più conveniente a prescindere dall’attività economica
effettivamente svolta. La L.148/2011 intervenne poi affermando la possibilità che il contratto collettivo
aziendale deroghi a quello nazionale, seppur nel rispetto di precise condizioni, tuttavia non concesse la
derogabilità diretta dei minimi tabellari. Successivamente, il Jobs Act del 2015 intervenne agendo
indirettamente sul cuneo fiscale attraverso la politica degli 80€, introdotta con lo scopo di aumentare il
potere di acquisto delle retribuzioni più basse, prevedendo un bonus di 80€ in busta paga per coloro aventi
un reddito fino ai 24600€, prevedendo poi un salario minimo legale nei settori non coperti dalla
contrattazione collettiva (inattuato), destinando con il pacchetto industria 4.0 ingenti risorse agli
investimenti in innovazione tecnologica, sostituendo i premi di produttività con quelli di risultato e
cercando di porre sullo stesso piano la contrattazione collettiva nazionale e quella decentrata, prevedendo
che per contratti collettivi si intendesse sia i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati dalle
associazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale, sia i contratti collettivi aziendali stipulati dalle
rappresentanze sindacali aziendali o unitarie. Sebbene tutti gli interventi citati esprimono la necessità che si
sviluppi la contrattazione collettiva di secondo livello, allo stesso tempo differiscono profondamente sul
ruolo da assegnarle, infatti l’ordinamento intersindacale continua a considerare la contrattazione collettiva
di secondo livello un completamento migliorativo del più ampio processo di negoziazione salariale che
avviene a livello nazionale, al contrario l’ordinamento statale sembra volerle assegnare un ruolo autonomo
nella disciplina della flessibilità salariale per consentirle di promuovere un CLUP più competitivo.

CAP.3

Nel contesto analizzato, è molto importante la vicenda del recupero dell'IPCA (Indice dei Prezzi Al
Consumo), cioè di quegli adeguamenti automatici che erano stati corrisposti in anticipo dalle imprese ai
lavoratori sulla base del tasso di inflazione programmato al fine di proteggere le retribuzioni da un aumento
del costo della vita che però non si è mai verificato perché è arrivata la deflazione.
Nel 2016, le imprese cominciarono a pretendere “il recupero del recupero dell'inflazione”, con il
conseguente assorbimento di gran parte delle risorse economiche e negoziali, che ancora una volta non
furono destinate né al welfare aziendale né ai premi di produttività. Si è arrivati a capire che rinviare al
contratto collettivo sottoscritto dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative non bastava se
non si risolveva prima la questione della categoria o comunque del perimetro di efficacia contrattuale,
molte volte infatti venivano a crearsi casi di sovrapposizione di contratti collettivi.

La necessità di una ristrutturazione del sistema retributivo venne riconosciuta tramite due accordi
interconfederali:

Accordo sottoscritto tra Confcommercio, CGIL, CISL e UIL nel 2016, con cui è stata prevista la
possibilità che intese aziendali o territoriali derogassero agli istituti retributivi disciplinati dal
contratto collettivo nazionale ed è stato richiesto un intervento legislativo in grado di garantire il
rispetto delle condizioni minime individuate dai contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle
organizzazioni datoriali e sindacali più rappresentative;
Accordo sottoscritto tra Confindustria, CGIL, CISL e UIL nel 2018, il cosiddetto Patto della fabbrica,
con cui è stato richiesto il recupero del modello a suo tempo tracciato dall’art.2070, al fine di
scongiurare i fenomeni di dumping salariale e garantire una più stretta correlazione tra contratti
collettivi nazionali e reale attività d’impresa, impedendo così a determinate organizzazioni sindacali
di forzare i perimetri e gli ambiti di applicazione dei contratti collettivi di categoria, richiedendo tra
l’altro l’intervento del CNEL, intervento particolarmente difficile e delicato, in quanto le imprese e
le organizzazioni sindacali dissenzienti possono sempre contestare i perimetri definiti da
quest’ultimo appellandosi al principio della libertà sindacale. Inoltre, l’accordo ridisegna la struttura
della retribuzione, distinguendo tra minimi contrattuali individuati nel trattamento economico
minimo (TEM), che deve essere rivalutato in relazione all’inflazione e nel trattamento economico
complessivo (TEC), che può essere disciplinato liberamente dalle categorie. Si è cercato di fornire
un criterio chiaro e leggibile di quali istituti retributivi possono essere assunti a riferimento della
giusta retribuzione, al fine di rendere più agevole per il giudice la comparazione tra i diversi
contratti collettivi (l’art.2099 affida al giudice il compito di determinare la retribuzione, in assenza
di accordo tra le parti, tenendo conto del parere delle organizzazioni sindacali), lasciando poi alle
categorie la libertà nella scelta di destinare gli aumenti retributivi al TEM o al TEC e, quindi,
permettere alle categorie di contenere il TEM e aumentare il TEC per destinare maggiori risorse alla
produttività del lavoro o al welfare aziendale.

Quest’ultimo accordo assume i caratteri di un’ultima chiamata all’autoriforma della contrattazione


collettiva, quasi un “canto del cigno” per scongiurare interventi legislativi sul salario minimo legale.
Con il Patto della fabbrica, la Confindustria e le principali organizzazioni sindacali rendono manifesta la loro
contrarietà a tutti quei disegni di legge che propongono di introdurre un salario minimo legale, ritenendo
che questo priverebbe la contrattazione collettiva della sua funzione genetica.

CAP.4

L’esperienza post costituzionale insegna che la strategia rivelatasi più efficace è quella del sostegno
legislativo al sindacato più rappresentativo, che in genere è anche il più responsabile. Questo perché
prevedere interventi legislativi in materia, come quello del salario minimo legale, senza il supporto sociale
finirebbe per veicolare nel sistema più problemi che soluzioni. Il disegno di legge n.658/2018 della Catalfo
propose una modifica dell’art.2070, facendo riferimento all’attività svolta dai lavoratori e non più
dall’impresa e una retribuzione complessiva non inferiore al trattamento economico complessivo (TEC)
individuato dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni datoriali e sindacali più rappresentative,
comunque non inferiore a 9,00€ lordi l’ora.
Ad oggi, è chiaro a tutti che non è più possibile fare a meno di una perimetrazione degli ambiti di efficacia
dei contratti collettivi nazionali, compito che è stato lasciato all’autonomia delle organizzazioni sindacali.
La mancata disciplina legislativa in materia ha provocato l’inserimento di nuovi sindacati autonomi pronti a
sottoscrivere contratti collettivi al ribasso pur di trovare nuovi ambiti di rappresentanza. Nell’esperienza
italiana, sappiamo che solamente il regime corporativo è riuscito a portare a termine quest’opera di
perimetrazione legislativa dei settori, tuttavia finché il sistema produttivo, grazie alla moneta e ai dazi
doganali, è stato a riparo dalla concorrenza internazionale e poteva contare sul sostegno statale a carico del
debito pubblico ha permesso che quei perimetri reggessero, poi quando i mercati si sono fatti globali e i
governi sono stati costretti a contenere il debito pubblico le organizzazioni sindacali sono entrate in crisi e i
perimetri hanno cominciato a cedere, fin quando non sono crollati con l’arrivo della grande recessione
economica, come dimostra, su tutti, la moltiplicazione esponenziale dei contratti collettivi nazionali, ad oggi
circa 900. Una concorrenza al ribasso che si è ormai fatta talmente forte da ridurre persino le organizzazioni
sindacali più rappresentative ad accettare dei minimi tabellari talmente bassi da costringere il Tribunale di
Torino nel 2019 a denunciare l’inadeguatezza rispetto al principio di proporzionalità e di sufficienza sancito
dall’art.36 della Costituzione. Persino le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, con il
Patto della fabbrica hanno riconosciuto l’importanza di una perimetrazione degli ambiti di efficacia della
contrattazione collettiva, sostenendo che la libertà sindacale, per quanto rappresenti un valore
irrinunciabile, non deve necessariamente essere assoluta. Un altro disegno di legge che ha tentato di
riformare il sistema retributivo è stato il n.1132/2019, che si è mosso sostenendo che la giusta retribuzione
fosse quella individuata dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle associazioni più rappresentative e
disponendo che il trattamento minimo tabellare si applicasse a tutti i lavoratori del settore ovunque
impiegati nel territorio nazionale. Inoltre, per arginare le tensioni al ribasso, ha previsto un salario minimo
di garanzia da applicare negli ambiti delle attività non coperte dai contratti collettivi stipulati ai sensi del
comma 1 e ha istituito una commissione, che radica presso il CNEL e della quale fanno parte i
rappresentanti delle organizzazioni sindacali e datoriali, con il compito di definire i criteri di maggiore
rappresentatività delle associazioni sindacali nonché degli ambiti e dell’efficacia dei contratti collettivi.
Dunque, la possibile riforma del sistema retributivo che si mira a raggiungere deve essere in grado di
assumere il trattamento economico minimo previsto dal contratto collettivo più rappresentativo a
parametro della giusta retribuzione per tutto il settore, di perimetrare i settori di efficacia della
contrattazione collettiva nazionale, di recuperare il modello disciplinato dall’art.2070, di strutturare la
contrattazione collettiva potenziando quella di secondo livello, al fine di evitare tensioni al ribasso sul costo
del lavoro, di introdurre un salario minimo orario, attorno ai 9,00€ lordi l’ora, di prevedere che tale soglia
sia derogabile in determinati settori economici e, infine, di ridurre il cuneo fiscale che grava sulle
retribuzioni. A settant’anni di distanza è ancora questo il nodo irrisolto del nostro diritto sindacale, il
principale ostacolo per una riforma del sistema retributivo: convincere le organizzazioni sindacali che non è
più possibile agire in ordine sparso secondo la logica “si salvi chi può”, è invece necessario che la
contrattazione collettiva si svolga all’interno di un sistema di regole che imponga anche alle imprese di agire
sul terreno dell’innovazione di processo e di prodotto, piuttosto che su quello della riduzione del costo del
lavoro.

Speriamo che i tempi siano maturi, molto spesso in tema di riforme è solo una questione di tempo.
MACRO CONCETTI PER EVENTUALI TEMI
1) ISOLA – DISOCCUPAZIONE STRUTTURALE – SINDACATO – CONTRATTO COLLETTIVO – SCIOPERO

Nel corso dell’800 in Inghilterra avvenne la Rivoluzione industriale, si scoprì come utilizzare il vapore e il
carbone e, di colpo, si riuscì a tramutare la combustione di questi elementi in energia motrice, si iniziarono
a costruire le prime fabbriche e tutti i lavoratori iniziarono a spostarsi dalle campagne alle grandi città e
cominciarono a vivere intorno alle grandi fabbriche, dove nacquero i grandi quartieri operai. Nelle grandi
città vi era però disoccupazione strutturale, dunque la retribuzione si andava a situare al minimo
necessario per la sopravvivenza e i lavoratori erano costretti a lavorare anche 18 ore al giorno. Un esempio
che ci aiuta meglio a capire quanto appena detto è l’esempio dell’isola: supponiamo che Giuseppe
naufraghi su un’isola, trovi un pozzo d’acqua e decida di costruirci attorno un fortino. Dopo un anno, cento
persone naufragano sull’isola e il loro obiettivo primario è sicuramente quello di sopravvivere, dunque di
trovare dell’acqua con cui dissetarsi. Se nell’isola vi fosse un sistema civile, Giuseppe rispetterebbe il
bisogno altrui e condividerebbe l’acqua, ma essendo insito nella natura umana un forte bisogno di
soddisfare i propri interessi, Giuseppe finirà per mantenere la propria posizione di potere, offrendo l’acqua
soltanto alle prime cinque persone disposte a lavorare per lui. La prima cosa ragionevole che viene in
mente alle cento persone è di fare una rivoluzione, dunque di conquistare con la forza l’acqua del pozzo,
mirando a sostituire un ordine (quello di Giuseppe) con un altro (quello comune). Supponendo che queste
persone non vi riescano, ogni naufrago assetato si offrirà di lavorare a meno litri d’acqua possibili pur di
acquisire quel bene scarso necessario alla sopravvivenza e il risultato sarebbe il peggiore di tutti: ogni
persona finirebbe per chiedere sempre meno finché la retribuzione non si andrà a posizionare al minimo
necessario per la sopravvivenza. Come volevasi dimostrare, in un sistema in cui la disoccupazione è
strutturale, cioè ripetuta nel tempo, la retribuzione, che costituisce il prezzo del lavoro, se lasciata alle leggi
del libero mercato inevitabilmente tende a posizionarsi al minimo per la sussistenza. Questo perché se la
disoccupazione strutturale viene lasciata libera tende ad espandere al massimo i poteri del datore di lavoro
e a ridurre al minimo i diritti dei lavoratori perché tra di essi si sviluppa la cosiddetta concorrenza al ribasso.
Quello che pone i lavoratori in questa condizione di debolezza è la necessità e l’unico modo per eliminare la
concorrenza al ribasso è costituire un’organizzazione e fissare un accordo in base al quale tutti si
impegnano indistintamente a non accettare di lavorare ad un salario inferiore a quello individuato
dall’organizzazione nell’interesse di tutti. In questo modo, la soddisfazione dell’interesse individuale viene
subordinata all’interesse collettivo (acqua necessaria alla sopravvivenza di tutti) e i naufraghi, unendosi,
creano un monopolio nell’offerta della manodopera e un sindacato, cioè un’organizzazione di due o più
persone con il fine di ottenere migliori condizioni lavorative, che trae la sua forza giuridica non dalla legge,
bensì dalla volontà di ciascuno dei naufraghi di agire e di rispettare l’interesse collettivo, che è la sintesi e
non la somma degli interessi individuali. Volendo fare un riferimento cinematografico, il film “Triangle of
Sadness” si è servito proprio della scena di un naufragio di uno yatch di lusso per dimostrare l’inversione
degli equilibri di potere in condizioni di necessità: chi sa cacciare e pescare diventa il re, chi è ricco e “sa
fare solo soldi” diventa un suddito. Il naufragio costringe i sopravvissuti a ripararsi su un’isola ed è qui che
vediamo il modello Carl e la fidanzata influencer Yaya porsi alle dipendenze di Abigail, una donna delle
pulizie dell’equipaggio, essendo l’unica in grado di pescare, cucinare e accendere un fuoco. Cosa ha
determinato quest’inversione di potere? La necessità di sopravvivere, la stessa che ha portato i lavoratori a
conquistarsi i diritti dal basso. Tornando all’esempio dell’isola, nel momento in cui Giuseppe si rende conto
che nessuno è disposto a lavorare per lui, si trova costretto a trovare un punto d’incontro con il
rappresentante dell’organizzazione sindacale dei naufraghi e a firmare un contratto collettivo, in grado di
individuare a quali condizioni i lavoratori sono liberi di lavorare con la pace sociale. In un’isola in cui non vi è
la legge e non vi è lo Stato, il rispetto del contratto collettivo è assicurato dal fatto che se il datore di lavoro
non lo rispetta i lavoratori dichiarano lo sciopero, dunque si astengono collettivamente dal lavoro per
ottenere migliori condizioni lavorative.
In questo senso i lavoratori si sono conquistati le prime tutele non grazie alla legge, ma dal basso,
attraverso l’azione sindacale, dunque grazie alla loro capacità di agire insieme. Da una parte, il diritto
sindacale studia i modi e le forme mediante le quali i lavoratori sono riusciti a conquistarsi i propri diritti
attraverso i contratti collettivi e ad assicurarne il rispetto attraverso lo sciopero, dall’altra il diritto del lavoro
studia le leggi che gradualmente hanno riconosciuto e recepito i diritti contenuti proprio in quei contratti
collettivi per espanderli a tutti. Il diritto del lavoro è stato costruito proprio nella prospettiva di cercare di
riuscire a riequilibrare la disparità contrattuale che il mercato inevitabilmente pone da sempre tra datore di
lavoro e lavoratore, disparità determinata dal fatto che mentre tutti i contratti previsti dal nostro diritto
civile hanno natura patrimoniale, quindi riguardano l’avere, il contratto di lavoro per il lavoratore riguarda
anche l’essere: la sfida del diritto del lavoro è sempre stata quella di cercare di assicurare, in un contratto
che prevede la subordinazione del lavoratore al datore di lavoro, una subordinazione che non sia lesiva
della persona.

2) RETRIBUZIONE GIUSTA – SALARIO MINIMO LEGALE – RIDER

Nel corso dell’800 in Inghilterra avvenne la Rivoluzione industriale, si scoprì come utilizzare il vapore e il
carbone e, di colpo, si riuscì a tramutare la combustione di questi elementi in energia motrice, si iniziarono
a costruire le prime fabbriche e tutti i lavoratori iniziarono a spostarsi dalle campagne alle grandi città e
cominciarono a vivere intorno alle grandi fabbriche, dove nacquero i grandi quartieri operai. Nelle grandi
città vi era però disoccupazione strutturale e in un sistema in cui la disoccupazione è ripetuta nel tempo, la
retribuzione, che costituisce il prezzo del lavoro, se lasciata alle leggi del libero mercato inevitabilmente
tende a posizionarsi al minimo per la sopravvivenza. Questo perché se la disoccupazione strutturale viene
lasciata libera tende ad espandere al massimo i poteri del datore di lavoro e a ridurre al minimo i diritti dei
lavoratori perché tra di essi si sviluppa la cosiddetta concorrenza al ribasso. Quello che pone i lavoratori in
questa condizione di debolezza è la necessità e l’unico modo per eliminare la concorrenza al ribasso è
costituire un’organizzazione e fissare un accordo in base al quale tutti si impegnano indistintamente a non
accettare di lavorare ad un salario inferiore a quello individuato dall’organizzazione nell’interesse di tutti.
In questo modo, la soddisfazione dell’interesse individuale viene subordinata all’interesse collettivo e gli
individui, unendosi, creano un monopolio nell’offerta della manodopera e un sindacato, cioè
un’organizzazione di due o più persone con il fine di ottenere migliori condizioni lavorative, che trae la sua
forza giuridica non dalla legge, bensì dalla volontà di ciascuno individuo di agire e di rispettare l’interesse
collettivo, che è la sintesi e non la somma degli interessi individuali. In origine, i contratti collettivi con cui i
lavoratori richiedevano una retribuzione giusta ai datori di lavoro prendevano il nome di concordati di
tariffa, oggi il contratto di lavoro è un contratto sinallagmatico a prestazioni corrispettive che gravita
attorno a due obbligazioni fondamentali, quella del datore di lavoro di corrispondere al lavoratore una
retribuzione, con cui possa assicurarsi un’esistenza libera e dignitosa e quella del lavoratore di prestare la
propria attività lavorativa in maniera subordinata, fedele e diligente. Tramite il contratto di lavoro
l’imprenditore acquisisce il diritto di organizzare un’attività lavorativa gerarchicamente ordinata e di
appropriarsi del risultato dell’attività lavorativa stessa, quello che Marx chiamava plusvalore (principio
dell’alienità dei risultati), ma sono gli stessi lavoratori che quando firmano un contratto di lavoro accettano
di assoggettarsi all’esercizio del potere direttivo, di controllo e disciplinare del datore di lavoro, in virtù
dello scambio tra lavoro subordinato e retribuzione. Attorno a queste due obbligazioni ve ne sono tante
altre accessorie che assicurano l’integrità fisica e morale del lavoratore e il rapporto duraturo, in
particolare, tutto il diritto del lavoro ruota attorno alla tutela e alla libertà del lavoratore, coinvolto in un
rapporto che, tra tutti i rapporti aventi natura patrimoniale, è l’unico a porre una persona alle dipendenze
di un’altra, infatti l’obiettivo è quello di verificare che libertà e integrità fisica e morale del lavoratore non
vengano lese. Ai sensi dell’art.2094 c.c. “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante
retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze
e sotto la direzione dell'imprenditore", mentre ai sensi dell’art.36 “Il lavoratore ha diritto ad una
retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare
a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita
dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite e non può rinunziarvi”.
La retribuzione diventa, quindi, lo strumento attraverso il quale un individuo può dar vita alla sua famiglia e
assicurarsi un’esistenza libera e dignitosa. Ci sono anche altre disposizioni del Codice Civile che trattano la
retribuzione, ad esempio, il legislatore dice che questa può essere data a tempo o a cottimo: a cottimo
dipende dai risultati raggiunti, a prescindere dal tempo impiegato, a tempo prevede un pagamento tramite
busta paga a fine mese, normalmente il 27 e, ad oggi, è la modalità più utilizzata. La retribuzione si
compone di varie voci: la busta paga, cioè la paga base, la tredicesima mensilità, cioè un mese di paga in più
che spetta a chi, dopo un anno, ha offerto un servizio ininterrottamente, l'indennità di maneggio denaro,
che serve a compensare chi di mestiere maneggia denaro correndo un rischio, come ad esempio chi lavora
alle poste o in banca, l’indennità di rischio, che spetta a chi svolge un lavoro disagiato, come ad esempio i
vigili o la polizia. Il lavoratore può essere pagato in parte anche in natura o con la partecipazione agli utili,
basti pensare al lavoro agricolo, secondo cui è lecito che i lavoratori percepiscano, ad esempio, un 10%
della produzione del raccolto, oppure se si pensa ad un socio è giusto che egli, apportando denaro e
correndo un rischio, oltre alla retribuzione, abbia diritto anche ad una parte degli utili della società. Il terzo
ed ultimo diritto del lavoratore è quello di svolgere la propria attività lavorativa potendo conciliare la stessa
con quella familiare, garantendosi un ripristino delle energie psicofisiche attraverso le ferie, ma anche
attraverso l’intervallo lavorativo durante l’arco della giornata. Nella maggior parte dei Paesi occidentali, per
evitare che la retribuzione venga determinata dalle leggi del libero mercato, quindi dalla contrattazione
individuale, è stato introdotto il salario minimo legale. Attualmente solo sei Paesi non hanno una legge sul
salario minimo legale e tra questi c’è l’Italia, in cui i compensi si basano sui livelli stabiliti
dalla contrattazione collettiva (è la contrattazione che dà il booster alla retribuzione dei lavoratori, Andrea
Mandelli), per di più, nel nostro Paese ci sono gli stipendi più bassi d'Europa. L’Unione Europea ha di
recente posto al centro del dibattito due questioni fondamentali per i lavoratori e i loro diritti: il salario
minimo e l’inquadramento dei lavoratori della gig economy (“economia dei lavoretti”), in particolare i
rider occupati presso piattaforme online per la consegna di cibo a domicilio. La Commissione Europea,
infatti, ha proposto l’adozione di una direttiva per riconoscere i rider e i lavoratori delle piattaforme digitali
come subordinati. Oggi, il settore del food delivery è ancora caratterizzato da un basso tasso di
sindacalizzazione, tuttavia il 15 settembre 2020 il CCNL, che regola l’attività di consegna di beni per conto
altrui, sulla base di un contratto con una o più piattaforme, da parte di lavoratori autonomi, ha previsto un
compenso per i rider equivalente a 10,00 euro lordi l’ora. Di fatto, la remunerazione dei ciclofattorini è a
cottimo, infatti la loro remunerazione segue ancora le leggi del libero mercato, motivo per il quale
nell’epoca del lockdown i rider prendevano anche 3 euro l’ora, inoltre, alcune disposizioni in materia
parametrano ancora la remunerazione ai minuti stimati per le consegne effettuate. Il tema dei rider è stato
a lungo dibattuto e lo è tuttora, nell’ultimo anno, in piena emergenza pandemica, l’UE sembra aver
riscoperto la categoria dei lavoratori autonomi, dunque ad oggi, seppur in maniera sperimentale, sono
numerosi i progetti che ambiscono a garantire protezione sociale anche ai lavoratori non subordinati.

3) CONTRATTO COLLETTIVO: CORPORATIVO – DI DIRITTO COMUNE – COSTITUZIONALE

L’Italia conobbe il suo primo grande sviluppo economico nel periodo liberale quando il Presidente del
Consiglio era Giovanni Giolitti: durante quegli anni il paese crebbe, le fabbriche divennero sempre più
grandi, si cominciarono ad elaborare le prime leggi del diritto del lavoro, nel 1886 ci fu infatti la prima
riforma del lavoro, con cui si stabilì che i fanciulli all’interno delle miniere non potevano lavorare più di 10
ore al giorno, i lavoratori iniziarono a guadagnarsi da soli i propri diritti e con il Codice Zanardelli venne poi
riconosciuta la libertà del lavoro, vennero aboliti i reati di sciopero e di associazione sindacale e nacquero i
primi sindacati in Italia, cioè organizzazioni di due o più persone con il fine di ottenere migliori condizioni di
lavoro. Nel 1889 lo sciopero non era più reato e non era più un problema di ordine pubblico, quindi non era
più soggetto al necessario intervento della polizia, venne riconosciuto come libertà di astensione dal lavoro
e si affermarono il principio della libertà di lavorare e di non lavorare, dunque di scioperare.
D’altro canto però, venne riconosciuta al datore di lavoro la possibilità del licenziamento, tuttavia, se
un’intera fabbrica decide di scioperare l’unica cosa che il datore di lavoro può fare è scendere ad un
compromesso, mediante un contratto collettivo, cioè un contratto in grado di individuare a quali condizioni
i lavoratori sono liberi di lavorare con la pace sociale (“nessun privato può essere obbligato a fare qualcosa
contro la propria volontà”). Nel 1927, insieme ad Alfredo Rocco, Benito Mussolini emanò la Carta del
lavoro, uno dei documenti fondamentali del fascismo, con cui espresse i suoi principi sociali, la dottrina del
corporativismo, l’etica del sindacalismo fascista e la politica economica fascista: egli decise di porre il lavoro
come architrave dell’ordinamento giuridico, estendendo a tutti i lavoratori i diritti per cui tanto avevano
lottato, infatti introdusse la durata massima dell’orario di lavoro ad otto ore, il riposo settimanale, il riposo
festivo e creò il sistema di previdenza sociale, questo per impedire ai cittadini di ricorrere alle armi (“ne
cives ad arma veniant”) e di fare la rivoluzione. La disciplina del rapporto di lavoro non era più scritta nei
contratti collettivi, ma cominciò ad essere scritta nelle leggi, nacque il diritto del lavoro e per la prima volta
nell’ordinamento italiano si fece strada il principio paternalistico, secondo cui i diritti venivano calati
dall’alto e garantiti dal Duce, che basò la sua intera politica sul corporativismo e sul produttivismo.
L’economia venne divisa in 8 categorie produttive (corporazioni), dotate di un unico contratto collettivo
corporativo e di soli due sindacati per categoria, uno dei produttori e l’altro dei lavoratori e, nel 1925,
venne siglato il patto di palazzo Vidoni, per mezzo del quale il regime fascista eliminò il sindacato libero
sostituendolo con un’organizzazione sindacale per i datori di lavoro, che prese il nome di Confindustria,
un’organizzazione sindacale per i lavoratori, ovvero il sindacato fascista, e una Confederazione delle
corporazioni fasciste, che si andò a sostituire al sindacato nazionale fondato nel periodo liberale, cioè la
CGdL (Confederazione Generale del Lavoro); inoltre, lo sciopero divenne reato perché considerato
attentato alla produzione nazionale. Nei primi di luglio del 1943 gli alleati sbarcarono in Sicilia e l’Italia
divenne un luogo di guerra e, da un punto di vista politico, questo evento favorì la destituzione di Benito
Mussolini, la caduta del fascismo e il successivo armistizio di Cassibile, con cui l'Italia proclamò la resa
incondizionata agli Alleati. Nei primi d'agosto del 1944, il comando alleato decise di attuare l'Operazione
Olive, il cui obiettivo era lo sfondamento della linea Gotica, il Re abbandonò l'Italia e molti imprenditori si
trasferirono all'estero, furono i lavoratori che, con senso di responsabilità, cominciarono ad auto
organizzarsi per far continuare l'attività produttiva. L'Italia venne liberata e i lavoratori tornarono ad
esprimersi attraverso i sindacati, venne emanato il decreto Badoglio, nel quale le norme dell'ordinamento
corporativo vennero soppresse, di conseguenza, vennero meno i contratti collettivi corporativi, le norme
della Carta del lavoro e la disciplina della legge Rocco, e, il Codice Civile, che già conteneva il concetto di
autonomia privata, garanzia di una società libera, rimase l'unica impalcatura giuridica. A quel punto gli
imprenditori pretesero di ritornare a gestire le loro attività, così i lavoratori, facendo valere il fatto che, in
un periodo delicato, furono gli unici a rimanere in Italia e a mandare avanti il lavoro nelle fabbriche, fecero
sottoscrivere il contratto collettivo che avrebbe dettato le condizioni di lavoro, scelte dai lavoratori stessi.
Il contratto collettivo non era più quello corporativo, ma prese il nome di contratto collettivo di diritto
comune, simile ai contratti del periodo liberale, con cui i lavoratori cominciarono a pretendere dai datori di
lavoro maggiori tutele, come, ad esempio, una disciplina contro il licenziamento: vennero dettati i primi
accordi interconfederali che cominciarono ad introdurre il principio della motivazione del licenziamento,
secondo cui “il lavoratore non può essere licenziato se non per giusta causa o giustificato motivo e, in
mancanza di essi, egli ha diritto a un’indennità economica”. Nell'immediato secondo dopoguerra, l'Italia,
con il nuovo equilibrio appena raggiunto, dovette decidere se rimanere una monarchia o diventare una
Repubblica: nel 1946 si arrivò al referendum istituzionale, in cui per la prima volta votarono anche le
donne, e con grande sorpresa, l’Italia divenne una Repubblica. Nel frattempo vennero consegnate anche le
schede per eleggere i membri dell'Assemblea Costituente, con il compito di scrivere una Costituzione, in
grado di assicurare a tutti i cittadini un'esistenza libera e dignitosa. La Costituzione riconobbe la legittimità
del fine sindacale, tant’è che il sindacato, ad oggi, è la formazione associativa più tutelata ed è l'unica
organizzazione che la Costituzione tutela esplicitamente, oltre alla famiglia e, inoltre, non può essere sciolto
se non modificando la Costituzione, che da sempre tutela sia l’importanza del considerare l’individuo come
persona, in quanto è la persona stessa che si realizza nelle formazioni sociali, sia il pluralismo, secondo cui
possono esistere un’infinità di sindacati, di associazioni e di partiti. Il contrasto che si è venuto a creare è
stato quello tra pluralismo ed esigenza di riconoscere il diritto alla retribuzione: ogni volta che il contratto
ha efficacia erga omnes implicitamente si riconosce che c’è un unico contratto collettivo, dunque il
lavoratore non può dire di essere libero di scegliere il contratto collettivo, ecco perché i padri costituenti
introducono l’art.39, con lo scopo di assicurare il pluralismo e garantire la libertà sindacale, sancendo un
contratto collettivo costituzionale, secondo cui chi ha la maggioranza fa un unico contratto collettivo che si
applica all’intera categoria. Unica condizione che il legislatore può imporre al sindacato è che al suo interno
l’organizzazione abbia una base democratica e che il contratto venga sottoscritto con il principio
maggioritario, in grado di rappresentare più lavoratori possibili. Il problema era che nessuno dei sindacati
voleva cessare di esistere, cosa che sarebbe successa con il contratto collettivo costituzionale che
prevedeva un sindacato di maggioranza per poter stipulare contratti collettivi erga omnes, infatti nessun
lavoratore si sarebbe mai iscritto ad un sindacato che non avesse dato la possibilità di stipulare un contratto
collettivo con efficacia generale, dunque al rischio di sparire, i sindacati preferirono mantenere la propria
libertà, non chiedendo il riconoscimento e non registrandosi, perdendo però la possibilità di fare contratti
erga omnes, da qui la mancata attuazione dell’art.39 e il dualismo tra contratto collettivo costituzionale,
preferito dai pubblicisti, e contratto collettivo di diritto comune, preferito dai privatisti. Le ragioni
storiche che hanno portato alla mancata attuazione dell’art.39 sono state sicuramente la forte
competizione tra i sindacati e la non tolleranza del controllo pubblico da parte del legislatore, infatti anche
solo il ricordo del forte controllo che nel regime corporativo fascista era molto presente ha indotto le
organizzazioni sindacali dell’epoca a preferire la libertà, anche a costo di non poter stipulare contratti
collettivi con efficacia erga omnes, continuando a stipulare contratti collettivi di diritto comune, con cui di
fatto riuscirono ad ottenere un effetto simile a quello dell’art.39, infatti avendo la maggior rappresentatività
potevano comunque estendere il contratto a tutti i lavoratori della categoria. Il problema che si venne a
creare fu che il contratto collettivo di diritto comune, che traeva la sua legittimità dalla volontà dei
lavoratori di agire insieme, presentava due grandi limiti rispetto al contratto costituzionale, infatti non era
efficace erga omnes, dunque si applicava solo agli iscritti, ed era derogabile a livello individuale, ne risultava
che il contratto individuale era ritenuto legittimo perché il lavoratore era libero di derogare nella
dimensione individuale quanto stabilito nella dimensione collettiva. Francesco Santoro Passarelli ha
successivamente inquadrato giuridicamente il contratto collettivo di diritto comune, affermando che
quest’ultimo è inderogabile perché a un contratto di diritto si applica l’art.1726 c.c., secondo cui “se il
mandato è stato conferito da più persone con unico atto e per un affare di interesse comune, la revoca non
ha effetto qualora non sia fatta da tutti i mandanti, salvo che ricorra una giusta causa”, di fatto, quello che
Santoro ci tenne a sottolineare fu il principio secondo cui l’interesse collettivo è sintesi e non somma degli
interessi individuali. Inoltre, egli affermò che il sindacato per essere libero e autonomo non deve avere
soltanto la libertà di esistere, ma anche la libertà di stipulare un contratto collettivo in grado di vincolare i
lavoratori aderenti e per realizzare questo interesse decide di applicare al contratto collettivo di diritto
comune la regola dell’inderogabilità, sancita dall’art.2070 per i contratti collettivi corporativi, secondo cui
“l’appartenenza alla categoria professionale, ai fini dell’applicazione del contratto collettivo, si determina
secondo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore”. Riflettendoci, di fatto, viene riconosciuta
l’autonomia sindacale, affermando che i lavoratori non possono derogare nella dimensione individuale, ma
lo si fa in maniera tecnicamente scorretta poiché viene applicata la stessa regola prevista per i contratti
collettivi corporativi vigenti nel periodo fascista. Considerando il buono, grazie a questa sentenza, il
contratto collettivo di diritto comune, che prima era esposto al rischio che ciascun lavoratore aderente,
sotto la pressione del datore di lavoro, accettasse condizioni lavorative inferiori derogando nella
dimensione individuale, di colpo stabilisce che se il lavoratore è iscritto al sindacato non può accettare
condizioni di lavoro diverse da quelle previste nel contratto stabilito dal sindacato, in questo senso il
contratto collettivo ha il corpo del contratto, ma l'anima della legge.
A questo punto, l’interesse per il contratto collettivo costituzionale diminuì, infatti, divenendo il contratto
collettivo di diritto comune inderogabile, di fatto, venne considerato efficace per tutti, in grado di assicurare
la pace sociale e, inoltre, il grande vantaggio deriva dal fatto che il sindacato in questo modo potesse
ritenersi libero, non dovendo quindi accettare e rispettare le regole di approvazione dello statuto, né
tantomeno rendere conto dei propri bilanci e dell’utilizzo del proprio patrimonio.

4) EVOLUZIONE DEL SINDACATO – SCIOPERO

I lavoratori, sin dai primi tempi, si resero conto che la loro emancipazione si poteva realizzare unendosi con
gli altri in un sindacato, cioè in un’organizzazione di due o più persone con il fine di ottenere migliori
condizioni lavorative, in grado di acquisire il monopolio dell’offerta della manodopera e di determinare
autonomamente le condizioni di mercato, facendo sottoscrivere un contratto collettivo al datore di lavoro e
richiedendo una retribuzione giusta, infatti i contratti collettivi, in origine, prendevano il nome di concordati
di tariffa. Le prime associazioni nacquero in Inghilterra, a seguito della Rivoluzione industriale, nella
seconda metà dell'800, con il nome di “trade unions” e si diffusero successivamente in Italia con il nome di
“società di mutuo soccorso”. Queste ultime nacquero però in clandestinità perché se la Rivoluzione
francese, da una parte, mise gli uomini tutti sullo stesso piano, introducendo i principi dell’uguaglianza
formale e sostanziale, dall’altra, sancì, con la legge “Le Chapelier”, il divieto di coalizioni operaie, poiché
queste avrebbero potuto turbare il normale dispiegarsi delle leggi di mercato. Le società di mutuo soccorso,
diverse dai sindacati, che in Italia al tempo prendevano il nome di massoni, vennero costituite dai lavoratori
con l’obiettivo di versare una somma minima della loro retribuzione in un fondo, che poi veniva utilizzato in
caso di infortuni sul luogo di lavoro, a cui seguiva immediatamente il licenziamento, essendo che il
lavoratore veniva dichiarato inabile al lavoro: fu così che nacque la previdenza, originaria dunque non di un
fenomeno statale, bensì di un fenomeno di organizzazione dei lavoratori. L’Italia conobbe il suo primo
grande sviluppo economico nel periodo liberale quando il Presidente del Consiglio era Giovanni Giolitti:
durante quegli anni il paese crebbe, le fabbriche divennero sempre più grandi, si cominciarono ad elaborare
le prime leggi del diritto del lavoro, nel 1886 ci fu infatti la prima riforma del lavoro, con cui si stabilì che i
fanciulli all’interno delle miniere non potevano lavorare più di 10 ore al giorno, i lavoratori iniziarono a
guadagnarsi da soli i propri diritti e con il Codice Zanardelli venne poi riconosciuta la libertà del lavoro,
vennero aboliti i reati di sciopero e di associazione sindacale e nacquero i primi sindacati in Italia.
Lo sciopero, dunque, non era più un problema di ordine pubblico, quindi non era più soggetto al necessario
intervento della polizia, ma venne riconosciuto come libertà di astensione dal lavoro e si affermarono il
principio della libertà di lavorare e di non lavorare, dunque di scioperare. I sindacati iniziarono ad unirsi
diventando sempre più grandi, dopo i sindacati aziendali nacquero i sindacati territoriali a livello comunale,
che presero il nome di Camere del lavoro, la più importante fu quella di Milano, e, infine, tutti i sindacati
aziendali e territoriali, nel 1906, decisero di unirsi in un grande sindacato nazionale, la CGdL
(Confederazione Generale del Lavoro) con potere di proclamare lo sciopero generale, in grado di bloccare il
funzionamento del capitalismo. Dopo la Prima guerra mondiale, l’Italia entrò in una fase di recessione
economica, a seguito dell’aumento degli scioperi, della riduzione della produzione all’interno delle
fabbriche e dell’idea di rivoluzione che si andava ad affermare sempre di più, Mussolini si pose portatore
dell’ordine e fondò lo Stato corporativo, basato sul lavoro, quello che lo Stato liberale non voleva
riconoscere. L’economia venne divisa in 8 categorie produttive (corporazioni), dotate di un unico contratto
collettivo corporativo e di soli due sindacati per categoria, uno dei produttori e l’altro dei lavoratori e, nel
1925, venne siglato il patto di palazzo Vidoni, per mezzo del quale il regime fascista eliminò il sindacato
libero sostituendolo con un’organizzazione sindacale per i datori di lavoro, che prese il nome di
Confindustria, un’organizzazione sindacale per i lavoratori, ovvero il sindacato fascista e una
Confederazione delle corporazioni fasciste, che si andò a sostituire alla CGdL; inoltre, lo sciopero divenne
reato perché considerato attentato alla produzione nazionale. Se nel periodo liberale il sindacato era libero
e autonomo, durante il fascismo questo divenne libero ma non autonomo, infatti il sindacato non era più
espressione dei lavoratori, in questo senso perse valore, venne meno la libertà di scegliere e, nonostante ai
lavoratori vennero riconosciuti una serie di diritti, vi era comunque un solo partito, un solo sindacato, un
solo Duce. Nei primi di luglio del 1943 gli alleati sbarcarono in Sicilia e l’Italia divenne un luogo di guerra e,
da un punto di vista politico, questo evento favorì la destituzione di Benito Mussolini, la caduta del fascismo
e il successivo armistizio di Cassibile, con cui l'Italia proclamò la resa incondizionata agli Alleati. Il generale
Badoglio fu incaricato di creare un nuovo governo, egli soppresse le norme dell'ordinamento corporativo, di
conseguenza, vennero meno i contratti collettivi corporativi, le norme della Carta del lavoro e la disciplina
della legge Rocco, e, il Codice Civile, che già conteneva il concetto di autonomia privata, garanzia di una
società libera, rimase l'unica impalcatura giuridica. All’interno delle fabbriche nacquero nuovi sindacati e
nel 1944 venne ricostituita la CGL, all’interno della quale pulsavano 3 anime: cattolica, comunista e
socialista. Badoglio sostituì il sindacato fascista con la CGL e gli conferì tutto il patrimonio del precedente
sindacato per mantenere la pace sociale e far sì che i lavoratori, sentendosi rappresentati, non
scioperassero più: la CGL concluse 196 contratti collettivi nazionali che disciplinavano vari settori produttivi
e introdusse l’indicizzazione automatica dei salari all’inflazione, la cosiddetta scala mobile. Nel 1950,
attraverso le sue scissioni, la CGL darà vita alle attuali confederazioni sindacali italiane CGIL (ispirazione
comunista - 45/50%), CISL (ispirazione cattolica - 30/35%) e UIL (ispirazione socialista - 15/20%), ognuna
con i propri beni e patrimoni, ma tutte e 3 legate da un patto di unità d’azione, secondo cui firmano
contratti collettivi e proclamano scioperi unitamente. Se durante il fascismo il sindacato era un soggetto
pubblico che perseguiva l’interesse generale, oggi il sindacato è un soggetto privato che persegue
l’interesse dei singoli. La Costituzione riconosce la legittimità del fine sindacale, tant’è che il sindacato è la
formazione associativa più tutelata ed è l'unica organizzazione che la Costituzione tutela esplicitamente,
oltre alla famiglia e, inoltre, non può essere sciolto se non modificando la Costituzione, che da sempre
tutela sia l’importanza del considerare l’individuo come persona, in quanto è la persona stessa che si
realizza nelle formazioni sociali, sia il pluralismo, secondo cui possono esistere un’infinità di sindacati, di
associazioni e di partiti. L’art.18 sancisce che “I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza
autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale. Sono proibite le associazioni
segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere
militare”, mentre l’art.39 afferma che “L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere
imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È
condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base
democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in
proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli
appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”: la differenza importante è che l’art.18 tutela il
diritto di ogni cittadino di associarsi liberamente, mentre l’art.39 tutela il diritto dell’organizzazione di
associarsi liberamente, quindi il sindacato stesso. L’art.49 sancisce che “Tutti i cittadini hanno diritto di
associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica
nazionale”: se i partiti esprimono una visione particolare dell’interesse generale, le associazioni sindacali
perseguono gli interessi collettivi specifici e privati, comuni soltanto agli iscritti. Dunque, il diritto di
associazione è tutelato dalla Costituzione in quanto espressione della libertà personale e del diritto
fondamentale che i singoli hanno di esplicare la propria personalità nelle formazioni sociali, così come lo
sciopero viene tutelato dalla Costituzione all’art.40, secondo cui “Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito
delle leggi che lo regolano”, in quanto espressione della libertà di astensione dal lavoro. Per concludere,
esplicitiamo l’importante differenza tra sciopero come diritto, libertà o reato: se lo sciopero è un reato, lo
Stato lo reprime mediante le forze di polizia, se lo sciopero è qualificato come una libertà, lo Stato non può
intervenire, ma il datore di lavoro, essendo che lo sciopero non è tutelato come diritto, può sanzionare il
lavoratore inadempiente, infine, se lo sciopero è un diritto costituzionale non può essere represso né dallo
Stato né dal datore di lavoro. La Costituzione ha dunque voluto marcare l’importanza e la tutela
dell’organizzazione sindacale per far sì che i cittadini potessero migliorare le loro condizioni lavorative.
5) LIBERTA’ E AUTONOMIA

I concetti di autonomia e libertà sono da sempre alla base del diritto del lavoro. Distinguiamo la libertà
negativa, che è la libertà da ingerenze esterne e dipende dagli altri, dalla libertà positiva o autonomia, che
è la libertà di regolare i propri interessi, implica l’assunzione delle proprie responsabilità e dipende da sé
stessi: la libertà può farsi poi autonomia attraverso l’esercizio della volontà di realizzare i propri interessi,
meritevoli di tutela, sanciti con la Rivoluzione francese, secondo cui tutti sono uguali di fronte alla legge
(principio di uguaglianza formale) e tutti hanno pari dignità (principio di uguaglianza sostanziale). Tutto il
diritto del lavoro ruota attorno alla tutela e alla libertà del lavoratore, coinvolto in un rapporto che, tra tutti
i rapporti aventi natura patrimoniale, è l’unico a porre una persona alle dipendenze di un’altra, infatti
l’obiettivo è quello di verificare che libertà e integrità fisica e morale del lavoratore non vengano lese.
L’art.3 della Costituzione afferma che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla
legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politiche, di condizioni personali
e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di
fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Come
possiamo notare, il primo comma riguarda il principio dell’uguaglianza formale, mentre il secondo comma
riguarda il principio dell’uguaglianza sostanziale. Bisogna sottolineare però un’importante differenza per
comprendere a pieno questo articolo: la Repubblica americana pone le basi affinché ogni cittadino possa
ricercare la propria felicità, ma di fatto è poi compito del cittadino crearsi la strada per ricercarla, al
contrario, la Repubblica italiana sostiene che è compito dello Stato rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale per far sì che il cittadino possa perseguire la strada della felicità. Ai sensi
dell’art.35 “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e
l’elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali
intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro. Riconosce la libertà di migrazione, salvo gli obblighi stabiliti
dalla legge nell’interesse generale, e tutela il lavoro italiano all’estero”: questo articolo garantisce, di fatto,
la massima libertà, almeno in via formale, all’autodeterminazione nella sfera lavorativa. Ai sensi dell’art.30
“È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli anche se nati fuori del matrimonio. Nei
casi di incapacità dei genitori, la legge provvede che siano assolti i loro compiti. La legge assicura ai figli nati
fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale compatibile con i diritti dei membri della famiglia
legittima. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità”: l’istruzione si rivela essere,
dunque, il motore per la libertà dell’individuo, per la possibilità che egli si realizzi consapevolmente, che
inevitabilmente si ricollega al lavoro, quale strumento di autonomia e libertà. Facendo un cenno storico,
possiamo individuare la nascita del concetto di libertà nel periodo liberale, quando Giolitti, con il Codice
Zanardelli, riconosce la libertà del lavoro e abolisce i reati di sciopero e di associazione sindacale,
riconoscendo lo sciopero come libertà di astensione dal lavoro. Il diritto di associazione è oggi tutelato dalla
Costituzione in quanto espressione della libertà personale e del diritto fondamentale che i singoli hanno di
esplicare la propria personalità nelle formazioni sociali. A differenza del passato, nel quale l’uomo era
considerato solo come singolo individuo, la nostra Costituzione definisce la dimensione dell’uomo come
persona: l’individuo risponde al proprio interesse individuale e agisce per sé stesso, la persona, invece,
decide di far parte di una comunità e accetta il principio della convivenza civile. L’art.2 della Costituzione
introduce proprio questo principio, secondo cui “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede
l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. I diritti inviolabili sono
quelle posizioni giuridiche da ritenersi essenziali per qualsiasi forma di convivenza associata, esse sono
insite nella stessa natura umana e vengono tutelate a prescindere da qualsiasi legge, costituzionale o meno
e, per poter essere qualificate come tali, non possono essere oggetto di revisione costituzionale, sono
dunque imprescindibili.

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