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CAPITOLO 1
3 significati della Costituzione Economica:
- formula riassuntiva delle norme della Costituzione in senso formale sui rapporti economici.
Per quanto riguarda la Costituzione italiana, ci riferiamo agli artt. 41 e 43 (relativi all’impresa), 42
e 44 (relativi alla proprietà), nonché alle norme speciali relative alla cooperazione o al risparmio,
come per esempio artt. 45 e 47. Inoltre indica, oltre alle disposizioni strettamente costituzionali,
anche norme contenute in leggi ordinarie che sono di rilevanza costituzionale (legge antitrust,
legge per la privatizzazione delle maggiori imprese pubbliche.
-insieme di istituti che, pur facendo parte del diritto, non appartengono necessariamente alla
Costituzione scritta. Non si deve tener conto solo delle analisi delle norme costituzionali e delle
leggi, ma anche delle analisi dei mutamenti dell’opinione pubblica.
-L’ultima accezione allarga lo sguardo anche agli aspetti amministrativi. Il suo significato non
abbraccia soltanto le norme costituzionali (primo significato), le leggi e l’opinione pubblica
(secondo significato), ma anche un cerchio più ampio, il “diritto vivente” (law in action).
L’espressione non si deve fermare ad abbracciare principalmente istituti, norme e prassi relativi ai
rapporti economici e alle imprese. Essa deve tener conto anche di altri aspetti, come quelli sociali
e culturali (ad es. l’assistenza sanitaria e l’istruzione scolastica, in quanto comportano spese).
Metodi di studio della Costituzione Economica:
1. Il primo è quello tradizionale, è un approccio giuridico classico che studia le relazioni tra Stato
e privati. Studia gli atti amministrativi e legislativi che incidono sulla proprietà e sull’impresa.
(metodo diffuso in Francia e Germania)
2. Metodo delle analisi delle politiche di settore, proprio degli studiosi che mirano a verificare le
caratteristiche dell’azione statale settore per settore. 3. Metodo generale, che considera il governo
degli aggregati, ovvero le politiche generali, le “quantità globali”(risparmio, reddito, spesa).
Tradizionalmente il diritto pubblico dell’economia nasce come disciplina giuridica volta a studiare
l’intervento dello Stato in campo economico.
• DIRITTO: naturale e primordiale tendenza dell’uomo a darsi regole di comportamento per
vivere pacificamente all’interno della comunità
• ECONOMIA: naturale e primordiale tendenza dell’uomo di ricercare beni per soddisfare i
propri bisogni e quelli dei suoi familiari
Nelle attuali società complesse, in cui i rapporti sono molto articolati, le regole giuridiche sono
principalmente raccolte in testi scritti; il potere di creare norme valide per tutti, farle applicare,
punire chi non le osserva è affidato a diversi ORGANI dello STATO (legislativo,
esecutivo, giudiziario). Attraverso le regole giuridiche si stabilisce: - quali interessi far prevalere in
caso di conflitto, - quali comportamenti regolare quali no, - quali sanzioni prevedere in caso di
trasgressione.
L’ampliarsi delle risorse disponibili, l’evoluzione tecnologica e l’invenzione di nuove strumenti di
produzione, l’ampio uso della moneta e l’estendersi dei rapporti commerciali su scala
internazionale,l’economia si è costituita come SCIENZA e TEORIA per spiegare il
comportamento economico del singolo e della collettività: come teoria, l’economia si occupa di
analizzare mezzi e strumenti dell’uomo per perseguire i suoi interessi e dei possibili effetti delle
sue scelte e le principali sono: quelle individuali e collettive.
L’insieme di ciò che le persone fanno e dei rapporti che stabiliscono fra loro a tale scopo
costituisce il sistema economico di un paese. Inizialmente, i rapporti economici erano molto
semplici: l’economia era di sussistenza e ciascuno produce per sé ciò di cui necessita per
soddisfare i bisogni primari; con l’avvento dell’agricoltura e dei commerci, nacque la divisione del
lavoro: ciascuno usava ciò che produceva (grano, ecc.) ma lo cedeva anche ad altri e nacque, così,
lo scambio prima come baratto e poi attraverso la moneta. Progressivamente nacquero le
macchine, riunite in un solo luogo (fabbrica) e chi le gestiva assumeva la forma di impresa e chi
deteneva il controllo delle macchine, controllava anche la forza-lavoro. Solo a partire da questo
momento, lo Stato iniziò ad acquisire un ruolo attivo
nella gestione dell’economia, attese le ricadute che i rapporti economici erano suscettibili di avere
sul benessere individuale e collettivo.
Il sistema economico è quindi l’insieme di istituti, norme, consuetudini, strutture sociali e prassi
inerenti all’organizzazione della produzione, esistenti in un determinato territorio e in un dato
periodo di tempo. Negli anni si sono susseguiti diversi sistemi economici:
• Sistema feudale: Si tratta di un’economia fondata sull’agricoltura di sussistenza e sulla
relazione «padrone-servo»; le terre sono di proprietà del regno, che il re distribuisce ai feudatari e
ai
nobili, i feudatari e nobili concedono ai servi di coltivare la terra, ottenendo in cambio parte del
raccolto, una casa e alcuni servizi economici e politici. Non esiste il diritto di proprietà, perché la
terra è del sovrano, gran parte della produzione agricola viene restituita al feudatario e ai servi
resta solo la parte sufficiente per soddisfare il bisogno alimentare
della famiglia.
• Sistema mercantile: Si afferma con la fine del Medioevo, alla fine del secolo XV, con l’ascesa
degli Stati nazionali, l’umanesimo, la riforma protestante, le grandi scoperte geografiche. In
questo periodo si avvia l’opera di colonizzazione e lo sfruttamento di nuovi continenti e si ha un
forte sviluppo del commercio internazionale. Lo scambio commerciale portò all’utilizzo sempre
più diffuso della moneta e alla sua circolazione.
(Attraverso questi fondamentali PASSAGGI, la civiltà occidentale entrò nella fase
dell’industrializzazione)
Il sistema economico mercantile si basava sul COMMERCIO su grandi distanze e
sull’acquisizione di PROFITTI MONOPOLISTICI
Il sistema mercantile si basava:
- MONETA: la ricchezza di una nazione era assicurata dalla quantità di metalli preziosi da essa
posseduti. I privati consegnavano alla ZECCA il metallo prezioso in loro possesso e ottenevano
in cambio l’equivalente in monete (dedotte le spese e il signoraggio)
- INTERVENTO STATALE: in tutti i settori dell’economia con dazi, controlli doganali
- ESPORTAZIONI: potenza dello Stato derivava da una politica volta al potenziamento delle
esportazioni che sarebbero state pagate in metalli preziosi.
• Sistema capitalistico: La sua origine va individuata nella rivoluzione industriale inglese e in
quella francese di fine XVIII secolo. È un sistema caratterizzato da:
• A) formazione e impiego produttivo di CAPITALE
• B) Divisione del LAVORO
• C) Impresa
• D) Proprietà privata dei mezzi di produzione
• E) Economia di mercato
• F) Proprietà privata
Il sistema capitalistico rappresenta il contesto economico prevalente nei paesi occidentali e la sua
condizione fondamentale è la libera concorrenza tra soggetti che operano all’interno del mercato
per la compravendita di beni e servizi.
Le figure umane principali del capitalismo sono gli imprenditori: questi reperiscono un capitale,
proprio o altrui, e lo investono in un’impresa con l’intento di recuperare quanto investito con
l’aggiunta di un profitto. Nella loro azione, gli imprenditori sono soggetti a un rischio
di impresa. L’imprenditore ha come fine l’ottenimento di un profitto (plusvalore)
L’accumulazione del capitale e il rischio di impresa consentono di ampliare i processi produttivi,
quindi si tratta di un’economia monetaria dove gli scambi passano attraverso il mercato.
PRIMA FASE DEL CAPITALISMO (1760-1820) = la fase nascente del capitalismo in Gran
Bretagna, Olanda, Belgio, Francia, Germania e Danimarca
In questo periodo, nasce il capitalismo industriale delle fabbriche e del liberismo, caratterizzato
dal lavoro SALARIATO, divisione del lavoro, sfruttamento, disponibilità illimitata di
manodopera, urbanizzazione; inoltre ci sono stati grandi cambiamenti sociali come la nascita
della classe operaia e del proletariato urbano e la coesistenza di borghesia e proletariato.
SECONDA FASE= La seconda rivoluzione industriale viene fatta partire dal 1830, con
l’introduzione dell’elettricità e dei prodotti chimici e del petrolio. Questa è la fase di
consolidamento che si protrae sino allo scoppio della prima guerra mondiale e che si caratterizza
per l’affermarsi degli USA come fornitore di materie prime e potenza industriale.
Il sistema bancario e del credito cambiò profondamente e alla fine di questa fase si affermò il
capitalismo dei grandi monopoli e oligopoli. Negli USA, il capitalismo monopolistico fu
caratterizzato anche dalla nascita della legislazione antitrust.
CAPITALISMO E LIBERALISMO= Il capitalismo si fonda su un sistema economico fondato
sulla proprietà privata e implica l’esistenza di un sistema sociale e politico noto come
LIBERALISMO o LIBERISMO. Il capitalismo è un sistema economico idealmente
caratterizzato dalla libertà o dal laissez-faire. È un sistema in cui il mercato non è governato dallo
stato mentre il liberismo si lega all’opera di Adam Smith, il quale nel suo studio Inchiesta sopra
la natura e le cause della ricchezza delle nazioni.
La «teoria della mano invisibile» è il concetto di Adam Smith più noto: ogni uomo, cercando di
seguire i propri interessi, è accompagnato come da una mano invisibile del mercato, a operare per
il benessere comune, agendo sul singolo. L’egoismo del singolo genera una situazione di
efficienza collettiva: gli individui sono in grado di servire l’interesse della collettività perseguendo
il proprio interesse personale.
• «Non dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro
benessere, ma dalla considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro
umanità, ma al loro egoismo, e parliamo dei loro vantaggi, mai delle nostre necessità»
Questo è il «miracolo del mercato» che per sua natura tende all’equilibrio, ciò richiede però che i
produttori siano liberi di spostarsi da un settore all’altro, cioè che l’attività economica sia aperta
all’ingresso di nuovi operatori, in grado di entrare in concorrenza con i vecchi operatori già
stabiliti nel mercato
LIBERALISMO POLITICO= Se la massima utilità generale è garantita della libera
competizione, allora l’imprenditore (borghesia), per operare in un contesto libero e competitivo,
ha bisogno di un sostrato politico altrettanto libero.
Le Dichiarazioni dei diritti americana (1776) e francese (1789) si pongono al vertice di un
processo storico che porta al riconoscimento della libertà di parola, di associazione; principio di
eguaglianza dinanzi alla legge, diritto di proprietà
La borghesia, con queste rivoluzioni, diviene soggetto centrale dell’assetto della forma di stato
monoclasse e capitalista; la legge ha una funzione di garanzia per la borghesia; garanzia che si
sviluppa nel ruolo di preminenza del Parlamento (organo rappresentativo dell’interesse borghese,
grazie al sistema elettorale censitario)
CONTRADDIZIONI CAPITALISMO E LIBERALISMO= Il liberismo è la pretesa che il
sistema economico si autoregoli, ovvero che non abbia bisogno di interventi correttivi da
autorità “superiori” ai mercati economici. Ma, di lì a poco, l’esperienza dimostrò che non vi era
nessuna evidenza, non solamente pratica, ma neppure teorica, che i sistemi economici si
autoregolassero.
Per meglio dire, non vi fu nessuna evidenza che la “autoregolazione” procedesse sempre
compatibilmente con il bene della collettività, anzi fu subito evidente che il liberismo conducesse
ad un arricchimento di chi già ricco era fattore di ulteriore impoverimento dei meno abbienti.
Il capitalismo rende l’essere umano sacrificabile, perché lo riconduce ad un semplice
fattore tra gli altri nelle forze di produzione, che può essere spietatamente lasciato
andare nel momento in cui i costi salgono o si possono ottenere dei risparmi attraverso
la tecnologia.
Karl Marx, CRITICA AL CAPITALISMO= A partire dalla metà del XIX secolo alcuni
studiosi evidenziarono i molti problemi che il capitalismo non era riuscito a risolvere, e in
particolare la miseria in cui vivevano larghi strati della popolazione.
L’economia di mercato e il non interventismo dello Stato furono radicalmente messi in
discussione da Karl Marx, che credeva che i capitalisti riducessero gli stipendi dei lavoratori
quanto più possibile al fine di ottenere un ampio margine di profitto.
Mentre i capitalisti vedono il profitto come una ricompensa per l’ingenuità e il talento
tecnologico, Marx puntava il dito sul profitto, vedendolo semplicemente come un furto, e ciò che
viene rubato è il talento e il duro lavoro della tua forza lavorativa.
Per Marx il capitalismo si riduce a pagare un certo prezzo a un lavoratore per fare qualcosa e poi
venderla a un prezzo molto più alto. In pratica per Marx il profitto è un termine elegante per
‘sfruttamento‘.
Marx propose che i sistemi capitalistici fossero strutturati per avere delle crisi in serie periodiche,
infatti per lui le crisi sono endemiche nel capitalismo e sono causate dal fatto che siamo in grado
di produrre troppo – molto più di quanto abbiamo bisogno di consumare.
Le crisi capitalistiche sono crisi di abbondanza, piuttosto che – come nel passato – crisi di
scarsità, proprio per questo per Marx è sufficiente che pochi lavorino, perché l’economia
moderna è molto produttiva. Ma questa mancanza di bisogno di lavorare viene descritta col
termine spregiativo di “disoccupazione”, anziché chiamarla -come Marx suggerisce- “libertà”.
A questo punto secondo Marx si deve rendere ammirabile lo svago e ridistribuire la ricchezza
delle grandi corporazioni, che ricavano così tanto denaro in eccesso, e darla a tutti.
(Duecento anni dopo la sua nascita, l’evoluzione della robotica e dell’Intelligenza Artificiale,
fanno ipotizzare che la visione di Marx possa tornare in auge.)
In una società capitalistica, la maggior parte delle persone crede a cose che non sono altro che
giudizi sul valore che derivano dal sistema economico. ( Ad esempio, che una persona che non
lavora non valga nulla, che l’ozio (protratto per più di un paio di settimane l’anno) sia
peccaminoso, che più averi ci rendano più felici e che le cose (e le persone) di valore faranno
invariabilmente soldi.)
In breve, uno dei mali maggiori del capitalismo non è che ci siano persone corrotte al vertice,
questo vale per qualsiasi gerarchia umana, ma che le idee capitalistiche insegnino a noi tutti ad
essere ansiosi, competitivi, conformisti e politicamente compiacenti.
Fine del capitalismo per Marx:
La società si polarizza in due sole classi antagonistiche, laddove i proletari tendono a crescere
mentre i capitalisti a diminuire, finché la contraddizione tra le forze di produzione sempre più
sociali ed il carattere privatistico dei rapporti di produzione determina la fine del sistema
capitalistico stesso.
-Per aumentare il plus-valore occorre aumentare la produttività del lavoro, introducendo nuovi e
più efficaci metodi e strumenti di lavoro: NASCITA DELL’INDUSTRIA MECCANIZZATA->
la macchina aumenta la quantità di merce prodotta nello stesso tempo dal medesimo numero di
operai; tutto questo porta alle crisi di SOVRAPPRODUZIONE, che sono la disoccupazione e la
distruzione capitalistica dei beni.
-Caduta del saggio di profitto, dato dal rapporto fra plus-valore, capitale variabile (capitale mobile
investito in salari) e capitale costante (capitale investito nelle macchine e in tutto ciò che serve alla
fabbrica per funzionare).
La situazione finale del capitalismo sarà la seguente: da una parte una minoranza industriale con
una ricchezza ed un potere immensi, dall’altra una maggioranza proletaria sfruttata (i piccoli
capitalisti, per la legge della concorrenza, verranno espropriati dai grandi magnati dell’industria e
andranno ad ingrossare le fila del proletariato)
Le contraddizioni del capitalismo costituiscono la base oggettiva della rivoluzione del
proletariato, che svolgerà la missione storico-universale di attuare il passaggio dal capitalismo al
comunismo.
• Obiettivo della rivoluzione (pacifica o violenta che sia): abbattere lo Stato borghese e le sue
forme istituzionali, in quanto lo Stato moderno è visto come sovrastruttura di una società civile
prestatale dominata dagli interessi di classe della borghesia.
«Lo Stato è la forma in cui gli individui di una classe dominante fanno valere i loro interessi
comuni» (Ideologia tedesca, 1845-46); «il potere politico è il potere di una classe organizzata per
opprimere un’altra» (Manifesto, 1848).
«Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione
rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico di transizione, il
cui stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato»
(Critica del Programma di Gotha, 1875)
DITTATURA DEL PROLETARIATO: dittatura di una maggioranza di oppressi su di una
minoranza di (ex-)oppressori, destinata a scomparire. «Il proletariato si servirà del suo dominio
politico per togliere via via alla borghesia tutto il capitale, per concentrare nelle mani dello stato
tutti gli strumenti della produzione, ossia nelle mani del proletariato organizzato come classe
dominante, e per aumentare con la massima velocità possibile le forze produttive»
Il proletariato, unendosi di necessità in classe nella lotta contro la borghesia, facendosi classe
dominante attraverso una rivoluzione, ed abolendo con la forza, come classe dominante, gli
antichi rapporti di produzione, abolisce insieme a quei rapporti di produzione le condizioni di
esistenza dell'antagonismo di classe, cioè abolisce le condizioni d'esistenza delle classi in
genere, e così anche il suo proprio dominio in quanto classe.
Alla vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi fra le classi subentra
un'associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti».
(Manifesto del partito comunista, 1848)
COMUNISMO= A) Il primo passo verso il comunismo prevede che il proletariato si elevi a
classe dominante; B) Il secondo passo, il proletariato utilizzerà il dominio politico per strappare
alla borghesia tutto il capitale e per accentrare tutti gli strumenti di produzione nello Stato (anche
mediante l’uso della forza); C) La dittatura del proletariato servirà per instaurare la società
comunista; D) il «silenzio» di Marx sui caratteri del comunismo (superamento della proprietà
privata, abolizione dello Stato e delle classi sociali).
«Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni»
Nella società comunista gli uomini non sono obbligati al lavoro, ma possono realizzarsi secondo
le proprie capacità e attitudini e il godimento dei beni non è soggetto alle restrizioni privatistiche,
ma avviene ciascuno per le proprie esigenze.
• Sistema collettivistico
Il comunismo è retto da un sistema economico di tipo collettivistico, in cui il mercato viene
sostituito con la pianificazione centrale da parte dello Stato. L’allocazione e la distribuzione delle
risorse è decisa direttamente dallo Stato, la proprietà delle imprese e delle risorse è collettiva
(Stato), il potere politico è concentrato nel partito comunista:
I principi sono:
• La soddisfazione dei bisogni collettivi deve prevalere sugli interessi individuali
• I mezzi di produzione devono essere di proprietà dello Stato
• Scomparsa del lavoratore e scomparsa dell’imprenditore privato
• Società senza classi
• (Cina, Corea del nord, Cuba, Laos, Vietnam)
(Storicamente, è difficile rintracciare esempi di sistemi puri, poiché in ciascuno di essi sono
presenti elementi di altri)
CAPITOLO 2
Dall’Unità d’Italia alla Costituzione repubblicana
Dal 1861 alla fine del XIX secolo (stato liberista); dalla fine del XIX secolo agli anni Venti (prima
industrializzazione); dagli anni Venti agli anni Cinquanta (economia mista); dagli anni Cinquanta
all’integrazione europea (WELFARE STATE); integrazione europea e modello economico
ordo-liberista e/o neo-liberista.
1 periodo: LO STATO LIBERISTA: Dall’unità d’Italia alla fine del XIX secolo
-1861: costruzione di un embrionale mercato nazionale attraverso l’unificazione legislativa:
1) adozione dei codici (civile – 1865; di commercio – 1865 e 1882): affermazione del diritto di
proprietà, ma carenza della disciplina dell’impresa.
2) Estensione dello Statuto Albertino e della legislazione piemontese a tutto il Regno, nonostante
i divari socio-economici tra le varie parti della Penisola.
• Presupposto: l’adozione di leggi moderne avrebbe “automaticamente” prodotto lo sviluppo
economico. In questo caso è fondamentale la difesa del mercato interno mediante il
protezionismo doganale:
• In un periodo di scarso sviluppo industriale, con un’economia agricola e stagnante, la creazione
di un mercato unico (che coincide con i confini nazionali) viene preservato attraverso una “rete
protettiva: le tariffe doganali (1878 e 1887) a difesa dei prodotti nazionali.
• Effetto: accentuazione degli squilibri nazionali.
Privatizzazione e liberismo
Vi è l’assenza di una macchina di governo dell’economia: il primo Ministero (unico per
agricoltura, industria e commercio) è del 1878 e ha poche competenze e i primi Governi
nazionali sposarono pienamente il modello capitalistico-liberale, con l’assunto che il mercato
sarebbe stato auto-sufficiente: quindi lo Stato crea e disciplina, ma non è attore del mercato.
2 periodo: la prima industrializzazione (primo ventennio del XX secolo)
Dopo la crisi economica degli ultimi anni del XIX secolo (che avevano avuto, tra le
altre, come conseguenza l'aumento della conflittualità sociale), agli albori del '900 l'Italia conobbe
una prima fase di industrializzazione, soprattutto per quanto riguarda il comparto siderurgico e
quello idroelettrico.
I limiti e gli squilibri dell'industrializzazione italiana di quegli anni vennero fuori solamente
durante la crisi economica del 1907: eccessiva concentrazione, carenza della classe
imprenditoriale, arretratezza dell'agricoltura e ristrettezza del mercato interno.
Differenziazione legislativa: in questo caso viene abbandonata l’uniformità legislativa, in seguito
vennero approvate leggi speciali per Napoli (1885 e 1904), la Calabria (1906), la Basilicata
(1908), con l’obiettivo di potenziare interventi infrastrutturali nelle aree meno sviluppate,
introducendo procedure speciali ed istituendo organi speciali.
Lo Stato interviene nel campo economico attraverso un forte incremento degli investimenti
infrastrutturali; nel 1905 venne fondata l’Azienda delle Ferrovie dello Stato e l’incremento degli
investimenti nei lavori pubblici assume una notevole rilevanza in un paese prevalentemente
agricolo. I lavori pubblici comportano l’aumento dei contratti stipulati con privati per
l’esecuzione delle opere, con immissione di denaro pubblico nell’economia privata.
In seguito vengono costituite numerose imprese pubbliche come: le Ferrovie dello Stato (1905),
l’Impresa per la telefonia inter-urbana (1907), l’ Istituto Nazionale delle Assicurazioni- INA
(1913), la Banca Nazionale del Lavoro (1914) e il Consorzio di Credito per le opere pubbliche
(1919). Tutto ciò porta alla crescita dell’intervento dello Stato che diventa gestore diretto delle
imprese.
3 periodo: L’economia mista: dagli anni Venti alla metà del XX secolo
Durante il fascismo, il rapporto tra poteri pubblici e mercato si sposta verso il controllo statale di
interi settori dell’economia, destinata a sfociare nel regime corporativo.
Proprio in questo periodo si sviluppa il regime del MONOPOLIO STATALE: 1922 = trasporto
marittimo e servizio di telefonia; 1923 = trasporto aereo; 1927 = radiodiffusione; 1933 = acque.
Però lo Stato esclude i privati e assume la gestione o in via diretta o in via indiretta, tramite
concessione.
Il modello dirigista è caratterizzato dal primato dello Stato sul mercato e a livello istituzionale, il
modello si traduce in: pianificazione e programmazione statale, monopoli pubblici e imprese di
Stato.
La crisi economica del 1929 e la «terza via» Keynesiana (sistema misto)
Negli anni successivi alla Grande guerra gli Stati Uniti conobbero un vero e proprio boom grazie
alla fiorente industria automobilistica e all’alta produttività, dovuta anche alla razionalizzazione
dei processi produttivi attraverso l’adozione di un’organizzazione del lavoro scientifica (il
cosiddetto Taylorismo), che permetteva di mantenere inalterati prezzi e salari, favorendo
investimenti e quindi di conseguenza produttività.
L’esistenza di risparmi cumulati e l’assenza di limiti alle attività speculative crearono le condizioni
per un ampio ricorso al credito da parte degli investitori e spinsero questi ultimi, insieme alle
banche, alla speculazione in Borsa.
Bolla agricola: La speculazione non fu comunque l’unica causa del grande crollo, che invece parte
anche dalla caduta dei prezzi dei prodotti agricoli avvenuta in conseguenza dell’enorme
accumulazione delle scorte rimaste invendute a seguito del miglioramento della produzione
agricola dei paesi europei; per cui si videro tonnellate di grano e di caffè rovesciate in mare o date
alle fiamme nel tentativo di far risalire i prezzi.
L’accumulo delle scorte che impedì agli agricoltori, fortemente indebitati, di corrispondere alle
banche gli interessi per le somme avute in prestito e la speculazione furono dunque tra le cause
che portarono allo scoppio della crisi.
(La Grande Depressione del 1929 fu la maggiore crisi nella storia degli Stati Uniti, ma colpì
praticamente tutto il mondo industrializzato; essa cominciò nel 1929, e durò circa dieci anni. La
crisi dell'economia americana iniziò nel 1928 con la caduta dei prezzi agricoli e esplose il 29
ottobre del 1929 quando affondò la Borsa di New York.)
Nel 1936 l’economista inglese J.M. Keynes pubblicò «Occupazione , interesse e moneta. Teoria
generale», aprendo così un capitolo nuovo nella scienza economica. K. confuta alcune
proposizioni della teoria economica classica fra cui quelle secondo cui il mercato tenderebbe
spontaneamente a produrre l’equilibrio tra la domanda e l’offerta e a raggiunger la piena
occupazione delle unità di lavoro disponibili. Attribuì allo Stato il compito di accrescere il volume
della domanda.
La spesa pubblica poteva essere finanziata anche con il ricorso al deficit di bilancio e con
l’aumento della quantità di moneta in circolazione. In seguito, con il rilancio dell’economia
sarebbero cresciute anche le entrate e il disavanzo sarebbe stato ridotto.
Occorreva imporre una tassazione progressiva che incidesse maggiormente sui ceti più abbienti
e meno sugli strati sociali più deboli, abbassare i tassi d’interesse, in modo che consumatori ed
aziende avessero più facile accesso al denaro e avviare un vasto programma di opere pubbliche
che assorbisse parte della manodopera disoccupata.
Modello: depressione-> intervento pubblico-> aumento dei salari -> più consumo -> più
investimenti -> diminuzione della disoccupazione -> ripresa economica
USA, NEW DEAL: La ripresa negli USA avvenne nel 1933 con l’elezione di Roosevelt e
l’adozione di un modello economico ispirato alla dottrina keynesiana. Venne abbandonato il
dogma liberista secondo cui il mercato ha la capacità di riequilibrare spontaneamente, senza
interventi esterni, le situazioni di crisi e si scelse una politica di intervento da parte dello stato,
mirante ad innalzare il reddito pro capite, a rafforzare la domanda e a ridurre le sperequazioni
sociali: queste erano le linee essenziali del New deal, il Nuovo corso che Roosevelt voleva
realizzare.
ITALIA: La crisi della Borsa americana del 1929 non poteva non ripercuotersi anche
sull’economia italiana, ma il suo impatto fu sicuramente inferiore che in altri paesi, a causa della
situazione di arretratezza economica in cui versava il Paese.
Vengono costruiti numerosi enti pubblici: nei settori della seta, del cotone, del riso, dei
fertilizzanti, dei trasporti, dell’artigianato, dello zolfo, della carta, del turismo e furono istituiti enti
con forma di società per azioni con partecipazione statale (AGIP, ROMSA).
Iri, Istituto per la Ricostruzione Industriale: Ente pubblico nato nel 1933 per salvare dal
fallimento le principali banche italiane (Commerciale, Credito Italiano, Banco di Roma) che
avevano pesantemente risentito della crisi economica mondiale del 1929. Per evitare il fallimento,
il governo le acquistò, e con esse acquista la proprietà delle numerose imprese industriali
controllate da queste tre banche. In questo modo l’IRI, e quindi lo Stato, divenne proprietario di
oltre il 20% dell'intero capitale azionario nazionale e di fatto il maggiore imprenditore: dalla
cantieristica al settore automobilistico - con l' Alfa Romeo - e bancario.
4 periodo: Lo Stato del Benessere (Welfare State) del secondo dopoguerra
Dopo la caduta del fascismo e nel secondo dopoguerra muta la percezione del ruolo delle
istituzioni pubbliche in campo economico; lo Stato protagonista è chiamato ad intervenire
per fornire beni e servizi che, altrimenti, il mercato non offrirebbe in quanto non idonei a
produrre profitto.
Se muta il ruolo dello Stato, allora cambia anche la sensibilità delle costituzioni rispetto al fattore
economico: una costituzione «pesante» per uno Stato altrettanto «pesante».
Con l’avvento della costituzione repubblicana vengono approvate le carte che sono ricche di
disposizioni che riguardano direttamente o condizionano il sistema economico.
In particolare, la nostra Costituzione si occupa del fattore economico:
- l’art. 1 fonda sul lavoro la democratica Repubblica italiana;
- l’art. 2 esige anche l’adempimento dei doveri di solidarietà economica;
- l’art. 3 impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico che, di fatto,
impediscono il pieno sviluppo della personalità e l’effettiva partecipazione dei lavoratori alla vita
comunitaria;
- l’art. 4 definisce il lavoro come diritto/dovere per concorrere anche al progresso materiale;
- il Titolo III della parte I è intitolato “Rapporti economici”: in esso sono presenti sia norme sul
lavoro (artt. 35-40), sull’impresa (artt. 41 e 43), sulla proprietà (art. 42), e su altri
profili rilevanti dal punto di vista economico (artt. 44-47).
Dal punto di vista formale, si definisce «Costituzione economica» quell’insieme di norme
raggruppate sotto il titolo III «Rapporti economici» che vanno dall’art. 35 al 47, qui sono regolati
i diritti dei lavoratori, dei proprietari, degli imprenditori e dei risparmiatori.
Dal punto di vista sostanziale, la Costituzione economica è però qualcosa in più: la si può
definire.
Il programma ideale che esplicita quale modello di società volevano creare i nostri costituenti,
quali priorità essi avevano in mente e quali finalità il nostro Stato è tenuto a perseguire per non
tradire lo spirito della Costituzione.
La Costituzione italiana è il frutto della sintesi di due correnti di pensiero:
MODELLO LIBERISTA, che ha dominato sino ai primi del XIX secolo, caratterizzato
dall’autonomia, riconosciuta dallo Stato, ai soggetti economico; mancato intervento dello Stato
nella produzione,
MODELLO SOCIALISTA, che vedeva nello Stato non più un arbitro del mercato, ma il
principale concorrente attivo, con pieni poteri regolatori e repressivi, uno Stato proprietario di
imprese che gestisce il mercato, attraverso la pianificazione dell'economia e che concede il potere
al privato al fine di perseguire una distribuzione più equa della ricchezza.
La Costituzione italiana opera una sintesi fra questi due modelli estremi, costruendo un sistema
di capitalismo social-democratico che ha come base la ricerca della piena occupazione e la
partecipazione dei lavoratori alla gestione della produzione, attraverso una regolamentazione
considerata necessaria del mercato, che agisce sì liberamente, ma all’interno e con il rispetto delle
finalità poste dallo Stato all’azione economica.
In questo sistema il privato è proprietario dei mezzi di produzione e del reddito prodotto, ma le
ragioni del profitto trovano il limite della necessità dello sviluppo sociale. Lo Stato può riservarsi
alcune attività considerate strategiche ed agire comunque nel mercato per perseguire l’interesse
generale.
La sintesi più lucida la compie Aldo Moro: è effettivamente insostenibile la concezione liberale
in materia economica, in quanto vi è necessità di un controllo in funzione dell’ordinamento più
completo dell’economia mondiale, anche e soprattutto per raggiungere il maggiore benessere
possibile.
Quando si dice controllo della economia, non si intende però che lo Stato debba essere gestore
di tutte le attività economiche, ma ci si riferisce allo Stato nella complessità dei suoi poteri e
quindi in gran parte allo Stato che non esclude le iniziative individuali, ma le coordina, le
disciplina e le orienta.
Art. 41 COST.: «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con
l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all'ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla
dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività
economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».
Il primo comma garantirebbe la libertà di concorrenza, il secondo comma (non può svolgersi in
contrasto con l’utilità sociale...) conferma l’incapacità del libero gioco della concorrenza di
raggiungere quelle finalità sociali e solidaristiche poste a fondamento del sistema.
Vi sono valori ed interessi non realizzabili partendo dal mercato (dignità della persona, salute,
ambiente), è quindi necessario un bilanciamento tra interesse economico e crescita sociale al fine
di assicurare «l’utilità sociale»; ciò impone una lettura sistemica delle norme sull’iniziativa
economica.
Il terzo comma: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività
economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Esso prevede il
potere di sottoporre l’attività economica alla potestà pubblica, quando ciò sia richiesto dagli
interessi pubblici. La Costituzione ritiene necessario un governo pubblico dell’economia: il
mercato da solo non è ritenuto in grado di assicurare il pieno affermarsi dei valori costituzionali
A tal fine sono previsti due strumenti: PROGRAMMAZIONE (democratica e partecipata),
CONTROLLI (strumenti di verifica dello stato di realizzazione della programmazione).
Art. 42 COST.: «La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad
enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i
modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla
accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge, e salvo indennizzo,
espropriata per motivi d’interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della
successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità».
L’obiettivo di fondo non è eliminare l’iniziativa economica e proprietà privata ma renderle
“accessibili a tutti”. Un pensiero unitario domina la Costituzione economica: allargamento del
numero dei proprietari, difesa della funzione sociale della proprietà e dell’attività economica.
ITALIA, II DOPOGUERRA:
La situazione dell’economia italiana uscita dal conflitto era molto seria e il terreno da recuperare
era immenso, basti pensare ai danni gravissimi subiti da tutte le infrastrutture, dai ponti alla rete
ferroviaria, alla perdita della marina mercantile, alla distruzione del patrimonio edilizio, al serio
impoverimento dell’agricoltura, ai danni a molti impianti industriali.
Le materie prime fondamentali per l’approvvigionamento energetico, carbone e petrolio, erano
insufficienti e occorreva pagarle in dollari, di cui c’era grande scarsità, l’energia elettrica stenta a
far fronte al crescente fabbisogno.
In quasi tutti i paesi dell'Europa Occidentale si assistette a un processo di accresciuto intervento
dello Stato nell'economia, a sostegno della produzione e a salvaguardia della diffusa domanda di
benessere e giustizia sociale. In Italia, perno dei finanziamenti statali all’industria fu nel
dopoguerra l’intervento a favore dell’IRI, la cui ricostruzione finanziaria fu avviata con l’aumento
del fondo di dotazione; il rilancio dell’IRI con una serie di investimenti pubblici in settori
strategici non era che uno dei tanti aspetti della presenza capillare dell’amministrazione
nell’economia. Molto significativo era anche il controllo statale sull’apparato creditizio, una parte
importante del quale era in mano pubblica.
Il «miracolo economico» 1953-1963: crescita annuale del PIL tra il 4% e il 7%, aumento della
produttività annua al 4,6%, disoccupazione annua al 3,9%, crescita dei salari, assorbimento di una
imponente migrazione interna, il rapporto tra Stato e mercato viene ritoccato a favore del primo
e accrescimento dell’intervento pubblico in economia.
Nel 1953 venne istituito l’ENI di Enrico Mattei (Ente Nazionale Idrocarburi) per la gestione, in
regime esclusivo, della ricerca dei ricchi giacimenti della Pianura Padana. L’Eni, costituito in
forma di ente pubblico economico con partecipazioni in società per azioni, vennero affidate le
partecipazioni azionarie dell’AGIP, nonché le attività dell’Ente nazionale metano e in seguito
SNAM, e SAIPEM.
Questi, in qualità di commissario straordinario dell’AGIP, pare fosse stato incaricato di liquidare
l’agenzia petrolifera, come richiesto da un largo schieramento di forze politiche ed economiche,
su pressione delle majors petrolifere che speravano in tal modo di rompere il monopolio
dell’esplorazione e dell’estrazione riservato alla compagnia di Stato. Ma Mattei, colpito dalle
capacità tecniche del management dell’impresa e dalle aspettative (poi parzialmente deluse)
intorno ai giacimenti della Pianura padana, si impegnò nel rilancio dell’azienda: questa in pochi
anni si trasformò in una impresa dinamica e aggressiva, in grado di reggere la concorrenza delle
“sette sorelle” grazie a strategie innovative tanto negli accordi con i paesi produttori di grezzo,
quanto nella politica dei prezzi e delle tariffe sul mercato interno. Al momento della scomparsa
di Mattei, nel 1963, l’ENI era un gruppo fortemente integrato e coeso, che mantiene un
sufficiente grado di autonomia verso il mondo esterno (partiti politici e lobby economiche).
ENEL: La legge istitutiva dell’Enel segna una tappa fondamentale nell’intera storia dell’Italia
repubblicana, capace di produrre conseguenze che durano ancora oggi. Istituita come ente
pubblico a fine 1962, si è trasformata nel 1992 in società per azioni e nel 1999, in seguito alla
liberalizzazione del mercato dell'energia elettrica in Italia, quotata in borsa.
L'obiettivo della nazionalizzazione non è avviare la demolizione del libero mercato, di cancellare
le discriminazioni tariffarie, spesso presenti a danno del Mezzogiorno, per un bene, l'energia
elettrica, che rappresenta la prima condizione dello sviluppo industriale. L'obiettivo è erogare
l'energia non secondo la logica del profitto a vantaggio dell'erogatore, bensì secondo una logica
di programmazione e di sviluppo.
L’importanza del provvedimento in discussione non riguarda solo il profondo impatto su uno dei
settori trainanti dell’economia nazionale, con quasi 1.300 aziende interessate dalle pratiche di
cessione degli impianti, con l’entità degli indennizzi dovuti alle società espropriate e l’enorme
rebus della riallocazione di questo ingente flusso di denaro.
La legge istitutiva dell’Enel segna una tappa fondamentale nell’intera storia dell’Italia
repubblicana. Quel provvedimento rappresenta allo stesso tempo il punto di partenza di una
lunga stagione riformatrice, che si prolunga ben oltre la fine di quella formula politica per tutti gli
anni Settanta: scuola media statale (1962), legge urbanistica (1967), Università (1969), Regioni,
Statuto dei lavoratori, Referendum e divorzio (1970), obiezione di coscienza (1972),
finanziamento ai partiti (1974), nuovo diritto di famiglia (1975), tutela delle acque (1976), parità
uomo-donna (1977), servizio sanitario nazionale (1978).
STATO FINANZIATORE: Il potere pubblico può porre in essere rapporti giuridici di
finanziamento di privati; il finanziamento statale rappresenta un elemento peculiare della storia
degli anni Sessanta, durante i quali esso ha avuto uno straordinario sviluppo. La legge prevede
che, al verificarsi di certe circostanze (calamità, sotto-sviluppo) sorga un’obbligazione dello Stato,
per la quale è tenuto a erogare fondi ai privati -> 1950 = Cassa per il Mezzogiorno.
STATO PIANIFICATORE: Art. 41, c. 3, Cost.
«La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e
privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Si discusse della differenza tra
pianificazione e programmazione, la prima coercitiva, la seconda indicativa; la prima compatibile
solo con i sistemi collettivisti, la seconda anche con i regimi a economia mista.
Venne adottata una LEGGE DI PIANO, la prima ed unica dell’esperienza italiana: il piano
INA-CASA: 1949-1963 (presentato dall’allora ministro del lavoro Fanfani). Con la l. 28 febbraio
1949 nr. 43 il Parlamento italiano approvò il progetto di legge Provvedimenti per incrementare
l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori, con il quale si sarebbe
dato avvio a un piano per la realizzazione di alloggi economici, noto come piano INA-Casa.
I quattordici anni di attività del piano rappresentano una fase significativa della politica
economica del dopoguerra, ma certamente anche una delle più importanti, consistenti e diffuse
esperienze di realizzazione nel campo dell’edilizia sociale nel nostro Paese.
-le istituzioni del benessere: Si fa riferimento agli interventi pubblici nei settori dell’istruzione,
della sanità, della protezione sociale e dell’occupazione. Le tappe fondamentali della realizzazione
dello Stato del benessere (Welfare State) sono il 1962 (istituzione scuola media dell’obbligo), il
1978 (Sistema Sanitario Nazionale), 1974 (pensione sociale), 1975 (Cassa integrazione).
Per finanziare questi compiti fu fatta la più importante riforma tributaria della storia italiana, che
ha introdotto un'imposta progressiva sul reddito delle persone fisiche (IRPEF)
Il Wefare State, o Stato sociale o Stato del benessere, è dunque una forma di Stato in cui si
persegue la sistematica riduzione delle disuguaglianze, effettuando interventi a favore delle
categorie meno agiate o socialmente più deboli. Lo Stato sociale si basa sulla cultura della
solidarietà̀ sociale: lo Stato interviene con sovvenzioni pubbliche a favore delle categorie meno
abbienti.
Il «compromesso storico» tra capitale e lavoro
«I movimenti dei lavoratori [...] abbandonarono, o perlomeno sospesero, le loro aspirazioni a una
più̀ vasta socializzazione dell’economia.
In cambio essi ottennero il welfare state, la contrattazione collettiva, e la loro accettazione
all’interno del sistema politico. Gli imprenditori abbandonarono, o perlomeno sospesero, il
desiderio di una forza lavoro passiva e atomizzata [...] e accettarono gran parte del welfare state e
la considerevole partecipazione del governo alla gestione dell’economia. In cambio essi ottennero
l’accettazione della proprietà privata, il primato del profitto e del mercato, il rifiuto della
pianificazione e della nazionalizzazione completa, il libero scambio e una moneta forte»
( Peter Gourevitch, La politica in tempi difficili, 1986)
Istruzione
In Italia, nel 1962, fu data attuazione all’art. 34 Cost., che sancisce l’obbligatorietà e la gratuità
dell’istruzione inferiore per almeno otto anni. Si stabilisce un obbligo per il cittadino e un
obbligo di spesa per lo Stato
Welfare State
L’introduzione di un radicato sistema di tutela delle classi svantaggiate e l’accesso al reddito della
gran parte della popolazione consentì la formazione della c.d. «middle class», che ha poi
ricoperto un ruolo fondamentale nel sostegno dei consumi, realizzando quello che sosteneva
Keynes.
L'EPOCA DELLA STATALIZZAZIONE -> L’Italia diventa potenza mondiale
A partire dal secondo dopoguerra, lo Stato imprenditore aveva in carico il 16% della forza lavoro
del Paese, controllava l’80% del sistema bancario, tutta la logistica (treni, aerei, autostrade), la
telefonia, le reti delle utility (acqua, elettricità, gas), pezzi importanti della siderurgia e della
chimica, il principale editore del Paese (la Rai).
Assicurazioni, meccanica, elettromeccanica, fibre, impiantistica, vetro, pubblicità, spettacolo,
alimentare. Persino supermercati, alberghi e agenzie di viaggi.
In ambito IRI, un altro tecnico di rilievo e grande imprenditore pubblico, Oscar Sinigaglia,
contribuì a portare il settore siderurgico del paese in pochi anni al sesto posto nella produzione
mondiale di acciaio e a garantire una costante disponibilità di semi manufatti per l’industria
automobilistica, allora in rapidissima espansione.
L’originale, e forse irripetibile, combinazione di pubblico e privato che allora si realizzò – acciaio
pubblico, benzina a buon mercato, una dorsale autostradale realizzata in un tempo
inimmaginabile per gli standard odierni, motorizzazione di massa – diedero un contributo
straordinario al miracolo economico degli anni Cinquanta e Sessanta.
• ENI e IRI divennero così due importanti agenti della politica economica del paese, che
operavano in relativa autonomia, coniugando obiettivi economici e fini sociali (come
espressamente contemplato nei loro statuti), con particolare riguardo alle questioni
dell’occupazione e della crescita al Sud.
Il che significava, però, che il profitto non era l’unica e principale missione dei due enti e che si
rendevano necessarie misure straordinarie di finanziamento – i fondi di dotazione – per
controbilanciare gli oneri impropri che ne potevano derivare. Come è facile intuire, da ciò
sarebbe venuto negli anni a seguire un progressivo aggravio per lo Stato.
EFIM: Gli anni Sessanta e Settanta furono anni di continua espansione dell’apparato dell’impresa
pubblica del paese; particolare enfasi veniva posta sulla sua funzione anticiclica e sullo sforzo di
difendere l’occupazione, soprattutto al Sud e ciò portò ad altre iniziative pubbliche nel campo
dell’acciaio e dell’automobile, non sufficientemente motivate sul piano economico.
Anche l’ENI incominciò a espandersi al di fuori del suo core business, nei tessili e nella chimica,
iniziativa che sarebbe sfociata poi nella guerra per il controllo della Montedison.
Venne costituito inoltre un nuovo ente di gestione, l’EFIM, allo scopo di organizzare le industrie
meccaniche, dell’alluminio e del vetro possedute dallo Stato.
CAPITOLO 3
Le politiche infrastrutturali (solo da leggere)
L’infrastrutturazione del paese ha costituito un fattore fondamentale per l’unità d’Italia,
soprattutto tramite un’efficace politica dei lavori pubblici, i mutui di Cassa Depositi e Prestiti,
l’azione del Consorzio di credito per le opere pubbliche (CREDIOP), l’Istituto di Credito per le
imprese di pubblica utilità (ICIPU).
A seguito del II conflitto mondiale, il settore pubblico ha mantenuto un importante ruolo di
investitore infrastrutturale anche grazie al Piano Marshall. Negli anni ‘70 e ‘80, lo Stato ha avviato
l’ammodernamento delle infrastrutture (autostrade, ferrovie); a partire dagli anni ‘90, l’UE ha
imposto agli Stati membri di avviare processi di liberalizzazione dei servizi pubblici, di
privatizzazione degli enti pubblici e di regolazione dei servizi di rete (avvio delle privatizzazioni).
Allo Stato imprenditore si è affiancato lo Stato REGOLATORE, caratterizzato dall’istituzione e
dall’azione di autorità amministrative indipendenti, chiamate a regolare e vigilare e promuovere
gli investimenti degli operatori economici nei diversi mercati di riferimento.
A partire dall’inizio del XXI secolo, la crescita della produttività italiana si è progressivamente
ridotta e tale dinamica si è aggravata con la crisi economico-finanziaria globale del 2008.
La crisi globale è mutata nel 2013 in una vera e propria crisi dell’economia reale e delle finanze
pubbliche in Europa; gli Stati membri UE, compresa l’Italia, hanno effettuato una serie di
interventi pubblici di salvataggio e di sostegno dell’economia, che hanno deteriorato
ulteriormente la finanza pubblica nazionale, con riduzione degli investimenti.
Dal 2014, l’UE ha elaborato appositi piani e programmi che hanno inaugurato una nuova politica
di investimenti, con nuovi strumenti finanziari; da ultimo, la crisi da Covid-19 ha determinato
una nuova espansione dell’intervento pubblico nazionale e un rafforzamento dell’intervento
dell’UE con possibilità che la Commissione UE possa emettere prestiti obbligazionari garantiti
dal bilancio europeo.
-Modi di intervento pubblico: fino al 1994, la programmazione degli interventi infrastrutturali è
stata caratterizzata da discipline settoriali; a partire dalla legge Merloni del 1994, ciascuna
amministrazione pubblica ha elaborato un proprio programma triennale dei lavori
pubblici; agli inizi del XXI secolo, il legislatore ha introdotto ex novo una disciplina speciale –
c.d. «legge obiettivo» del 2001 – da inserire nel «Programma infrastrutture strategiche» (PIS),
allegato annualmente al DEF.
La programmazione pubblica è stata poi riformata con il Decreto Legislativo 50/2016, il Codice
dei Contratti Pubblico, si parla di finanziamento pubblico attraverso la frammentazione delle
fonti di finanziamento e scarsa qualità dei progetti; per superare tali problematiche sono stati
elaborati nuovi strumenti finanziari che prevedono il possibile coinvolgimento di soggetti privati.
Sono stati aperti fondi destinati a sostenere la qualità della progettazione degli interventi pubblici,
sia statali che locali; si fa ricorso a due strumenti che si sono evoluti in una prospettiva
promozionale: la finanza di progetto e le società a partecipazione pubblica; vi sono le
competenze e la governance istituzionale caratterizzate da un quadro complesso, con
competenze ripartite tra Stato e Regioni e infine troviamo le procedure amministrative, cioè le
misure di semplificazione e di partecipazione: l. 241/90 che ha istituito la conferenza dei servizi;
da ultimo la conferenza è stata resa permanente con DL 104/2020, la dimensione europea delle
politiche infrastrutturali – Trattato di Maastricht e reti transeuropee.
CAPITOLO 4
Mercato interno e le politiche dell’Unione Europea
Origini: Le radici affondano nel periodo che intercorre tra la fine del II conflitto mondiale e
l’inizio della “guerra fredda”; periodo in cui l’economia degli Stati appariva fortemente
compromessa e vi era il problema della ricostruzione economica degli Stati europei.
Integrazione, idee propulsive: Movimenti federalisti europei, Manifesto di Ventotene (1941),
Ricerca di una soluzione pacifica e stabile al problema tedesco, Ristabilire i rapporti diplomatici e
politici fra Francia e Germania, Evitare l’implementazione di una situazione di anarchia
internazionale, Problema dell’isolamento politico dell’Italia, Rilancio dell’economia,
Ricostruzione post-bellica e Rapporti con l’Europa dell’Est e con l’Unione Sovietica.
Fine guerra: Il 29 luglio 1946 iniziano a Parigi le trattative che condurranno l’anno dopo alla
stipulazione dei Trattati di pace; gli aiuti americani e il piano “Marshall” e gli aiuti economici
erano subordinati alla realizzazione di una forma di cooperazione tra gli Stati europei. Perché?
A) per rilanciare l’economia e ricostruire il mercato in cui esportare le merci americane
B) per allontanare il pericolo che l’URSS potesse ampliare il proprio raggio d’influenza
sull’Europa occidentale.
European Recovery Program («Piano Marshall»)
Il Piano Marshall fu il principale strumento di intervento economico messo a punto dagli USA
per la ricostruzione dei paesi europei distrutti dalla guerra, per un ammontare di circa 14 miliardi
di dollari. Gli Usa vincolarono l’invio dei contributi alla realizzazione di una forma di
cooperazione economica tra gli stati partecipanti per costruire un primo embrione di mercato in
cui esportare le proprie merci e per legare politicamente alla politica americana l’Europa
occidentale, in funzione anti-sovietica. Il 16 aprile 1948, a Parigi 16 Stati europei aderirono al
piano di aiuti americani firmando la Convenzione per la Cooperazione Economica europea.
(Non vi parteciparono i Paesi dell’Est, ormai attratti sotto l’orbita di influenza sovietica. Era
scesa quella che Churchill chiamò la “cortina di ferro”).
Il Patto Atlantico (NATO)
La tendenza all'integrazione europea assume una valenza complessiva, caricandosi di significati
politici e militari: - il 4 aprile 1949 venne sottoscritto il patto atlantico North Atlantic Treaty
Organisation (NATO) tra Canada, USA, Norvegia, Danimarca, Italia, Portogallo, Islanda, nel
1951 Grecia e Turchia, e nel 1954 la Germania occidentale.
(Attualmente, conta 30 Stati membri, 11 membri associati e 4 membri associati del Mediterraneo)
PROGETTO DI UN’EUROPA UNITA:
L’Europa occidentale, cioè quella parte del continente rimasta fuori dall’orbita sovietica, venne
ricostruita con il forte sostegno economico e politico degli USA. La costruzione di un legame tra
questa parte del continente europeo e gli USA divenne obiettivo della politica estera di
quest’ultima. Il legame doveva essere economicamente forte e militarmente efficace per
contrastare l’eventuale avanzata sovietica; per questo motivo, la costruzione di una Europa unita
è stata effettuata di pari passo con l’ampliamento e il rafforzamento della NATO
Il progetto di un mercato unico europeo era, in quel momento, essenziale per il rilancio
economico europeo e strategico e per delineare nuovamente i rapporti di forza all’interno del
continente.
La Dichiarazione “Schuman”
È il discorso tenuto a Parigi il 9 maggio 1950 da Robert Schuman, l’allora Ministro degli Esteri
del governo francese, ed è considerato il primo discorso ufficiale in cui compare il concetto di
un’Europa unita, prospettando il superamento delle rivalità storiche tra Francia e Germania.
L’obiettivo era quello di avviare un processo di integrazione economica tra gli Stati europei nel
campo del carbone e dell’acciaio, mettendone insieme la produzione e la commercializzazione e
facendo gestire tale ambito da un’amministrazione comune composta dai rappresentanti degli
Stati partecipanti che avrebbe agito non nell’interesse dei singoli, ma nell’esclusivo interesse di
tutti. (aderirono all’iniziativa: Francia, Germania, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Italia)
Costruire una Europa unita: come?
Due erano le teorie che si scontrarono su questo tema:
- la tesi FEDERALISTA, sostenuta soprattutto da Altiero Spinelli, prevedeva la costruzione di
una grande federazione europea, mediante un processo costituente che prevedesse l’abolizione
degli Stati nazionali
- la tesi FUNZIONALISTA, sostenuta da Schuman e Monet, che sosteneva la necessità di
costruire un’Europa unita mediante una politica di «piccoli passi», realizzando prima l’unione
economica e sociale e poi quella politica.
Integrazione europea e funzionalismo: Progressiva cooperazione in campo: economico, sociale e
politico dei Paesi europei e armonizzazione degli ordinamenti europei.
Il presupposto iniziale è la costruzione di un mercato unico: tesi funzionalista che implicava la
realizzazione di un’integrazione economica come presupposto per lanciare poi l’unione politica.
L’unione economica doveva basarsi su un assunto di partenza: la costruzione di un’economia
fondata sul mercato, dunque, di stampo capitalistico.
• Ma quale capitalismo? Il capitalismo liberale che richiede di lasciar funzionare l’economia
limitando l’interferenza dei governi? Il capitalismo social-democratico, su modello di quanto
delineato, ad esempio, nella Costituzione italiana, in cui l’economia di mercato veniva sottoposta
a un forte controllo da parte dello Stato, temperandone gli effetti dannosi in termini sociali grazie
al Welfare State?
«Laissez-faire» e «interventismo pubblico»
Lo scontro tra i fautori del liberismo e i sostenitori dell’interventismo pubblico in economia
iniziò immediatamente, in quanto un mero approccio liberista non avrebbe prodotto un vero e
proprio mercato unico quanto, piuttosto, un’area di libero scambio; inoltre, gli Stati che erano
impegnati nella costruzione del mercato comune avevano, nel frattempo, adottato Costituzioni
(come quella italiana) piuttosto distanti dalle politiche tipicamente liberiste. Bisognava trovare una
punto di equilibrio tra i dettami liberisti e un intervento politico che avrebbe distorto la
concorrenza, uccidendo il mercato stesso.
La «via tedesca» al liberismo: «ordo-liberismo» (Fu questa la soluzione sperimentata per
delineare il sistema economico su cui basare il nuovo mercato comune europeo)
La soluzione concettuale all'impasse politica venne dalla Germania dove, durante gli anni della
Repubblica di Weimar, un gruppo di economisti aveva sviluppato una teoria economica generale
incentrata sui concetti di costituzione economica e di economia sociale di mercato: la teoria
ordoliberale. Questo gruppo assunse il nome di Scuola di Friburgo e la filosofia che la
ispirava venne chiamata »Ordo-liberismo", dal titolo della rivista "Ordo", fondata da Eucken nel
1940. Decisamente più critici di Adam Smith rispetto alla fede in una spontanea armonia che
sarebbe dovuta scaturire dall'opera della "mano invisibile", gli ordoliberali hanno contribuito a
definire il concetto di ECONOMIA SOCIALE DI MERCATO
«Ordo-liberalismo»: caratteri -> A differenza del liberismo classico, l’ordo-liberismo non
prefigura l’ordine del mercato come un ordine spontaneo che si autocorregge nel tempo.
Esso prevede e richiede l’intervento dello Stato che crea le condizioni per la creazione e il
mantenimento di un mercato competitivo e si differenza però anche dall’idea socialista
dell’interventismo pubblico nell’economia, in quanto lo Stato deve limitarsi agli interventi
necessari a far fiorire il mercato senza però sostituirlo.
Il mercato unico è nato il primo gennaio 1993, al termine di una gestazione lunga più di
quarant’anni: - 1951 = CECA, - 1958 = CEE, -1968 = La CEE abolisce i contingenti e i diritti di
dogana per lo scambio di merci fra i sei Stati membri. Sono mantenute però le differenze non
tariffarie fra i Paesi in questione. Di fatto, questo impedisce un’autentica liberalizzazione degli
scambi, -1985 = La Commissione lancia un piano globale per la realizzazione di un vero mercato
unico senza frontiere alla fine del 1992. In quel lasso di tempo la stessa Commissione approva
280 direttive che saranno successivamente e gradualmente introdotte nelle legislazioni nazionali, -
1993= Il primo gennaio vede la luce il mercato unico, - 1993-2008 = mentre l’Europa si allargava
ulteriormente, il mercato unico è cresciuto ancora: numerosi altri ostacoli sono stati eliminati, i
commerci si sono estesi.
Alla formazione di un mercato interno si è pervenuti utilizzando tre strumenti:
A) libertà di circolazione delle merci, delle persone (lavoratori), dei
servizi e dei capitali;
B) la disciplina della concorrenza
C) la limitazione degli aiuti di Stato alle imprese
Il principale strumento che ha consentito la realizzazione del mercato unico è stato il processo di
progressivo riconoscimento delle quattro libertà di circolazione:
A) libertà di circolazione delle merci
B) libertà di circolazione delle persone (lavoratori)
C) libertà di circolazione dei servizi
D) libertà di circolazione dei capitali
Libera circolazione delle merci:
La libera circolazione delle merci è garantita attraverso l'eliminazione dei dazi doganali e delle
restrizioni quantitative e dal divieto di adottare misure di effetto equivalente.
Viene attuata la “Fusione” dei territori di diversi Stati in un unico territorio ai fini degli scambi
commerciali, è come se fra gli Stati membri UE non esistessero frontiere.
I principi fondamentali che governano la libera circolazione delle merci sono:
• un prodotto fabbricato secondo le leggi vigenti nell'ordinamento dello Stato membro di
produzione deve, di regola, poter liberamente circolare in tutti gli altri Stati membri senza
incontrare ostacoli fondati sulle normative applicabili in tali Stati (principio del "mutuo
riconoscimento");
• gli Stati membri di destinazione possono opporsi alla circolazione di tale prodotto nel proprio
territorio soltanto per comprovate ragioni di tutela della salute pubblica, di ordine pubblico e di
protezione di esigenze fondamentali e inderogabili.
Divieto misure effetto equivalente:
Per misura di effetto equivalente si intende ogni normativa commerciale degli Stati membri UE
che possa ostacolare direttamente o indirettamente gli scambi intracomunitari, determinando un
effetto pratico sul commercio in ambito UE comparabile a una restrizione quantitativa
all'importazione di merci.
La ratio della disposizione è quella di garantire la libertà di circolazione delle merci, funzionale
alla realizzazione di un compiuto mercato comune europeo. La Corte giustizia UE si è
pronunciata in materia con la nota sentenza Dassonville.
Sentenza Dasonville (1974)
Il Sig. Dassonville vuole importare whisky scozzese dalla Francia in Belgio. La normativa belga
impone che l’importatore sia in possesso del certificato di origine del prodotto rilasciato dal
produttore. La Corte di giustizia ha stabilito che imporre ai prodotti degli altri Stati membri le
norme tecniche del Paese di importazione, senza una valida giustificazione, equivale a stabilire
una misura equivalente, in quanto si penalizzano i prodotti importati. La mancanza di
armonizzazione non può giustificare questo atteggiamento, che equivale a ostacolare la libera
circolazione delle merci.
-Difficoltà nel settore agro-alimentare: il principio della libera circolazione delle merci si è
dimostrato di difficile applicazione allorquando occorre risolvere casi relativi a prodotti
alimentari dotati di caratteristiche qualitative particolari che li distingue da altri prodotti simili e
concorrenti. Vendita "yogurt", che in alcuni Paesi membri viene riservata al prodotto
contenente una elevata quantità di fermenti lattici vivi (es. Francia) mentre in altri Paesi può
essere utilizzata anche se il prodotto risulta del tutto sprovvisto di tali fermenti lattici vivi (es.
Olanda).
• DIRETTIVA = la Commissione riconosce che gli Stati membri nei quali la denominazione di
vendita "yogurt" è riservata a un prodotto contenente un'elevata quantità di fermenti lattici
vivi, possono opporsi all'impiego della denominazione yogurt quando questa fosse utilizzata
per designare un prodotto sprovvisto delle predette caratteristiche
Normative sulla qualità dei prodotti: mutuo riconoscimento
Corte di Giustizia, sentenza «Cassis de Dijon», 1979: Una società tedesca voleva importare in
Germania dalla Francia un liquore denominato «Cassis de Dijon». La Germania blocca
l’importazione in quanto il tasso alcolico della bevanda è inferiore a quella che, per il diritto
tedesco, è da considerarsi «bevanda alcolica». Il tasso deve essere non inferiore al 25%, mentre il
liquore francese aveva un tasso di 20%. La società impugna il provvedimento e il giudice tedesco
avanza questione pregiudiziale alla Corte di giustizia per chiedere se il diritto tedesco violasse il
principio del mutuo riconoscimento.
Non sussiste alcun valido motivo per impedire che bevande alcoliche, a condizione che esse
siano legalmente prodotte e poste in vendita in uno degli Stati membri, vengano introdotte in
qualsiasi altro Stato membro senza che possa essere opposto un divieto legale di porre in
vendita bevande con gradazione alcolica inferiore al limite determinato dalla normativa
nazionale.
Ostacoli alla libera circolazione delle merci derivanti da disparità delle legislazioni nazionali
devono essere accettati qualora tali prescrizioni sono finalizzate a tutelare esigenze imperative
(es., efficacia dei controlli fiscali, tutela della salute, difesa dei consumatori, ecc.).
• Legislazione italiana che vieta lo smercio di pane con un grado di umidità superiore ad una
certa percentuale (CG 16/3/97, causa C-358/95, Morellato).
• Legislazione belga che vieta lo smercio di pane il cui tenore di sale eccede un limite massimo
(CG 14/7/94m causa C-17/93, van der Veldt).
•Legislazione tedesca che vieta lo smercio con la denominazione “bier” di birre legalmente
prodotte in altri SM senza determinate materie prime (CG 12/3/97, causa 178/84, Commissione
c. Italia).
Privatizzazioni in Italia:
Il modello di Stato-imprenditore era incompatibile con il funzionamento del mercato interno
europeo, proprio per questo la sottoscrizione del T. di Maastricht e l’adozione dell’Euro richiese
altresì agli Stati un esteso programma di contenimento del debito pubblico, in Italia aumentato in
maniera esponenziale durante gli anni Ottanta.
I Governi tecnici che guidarono, in Italia, il processo di adesione all’Euro ritennero essenziale
privatizzare gran parte dell’apparato economico in mano allo Stato anche allo scopo di abbassare
il debito pubblico (valutazione rivelatasi poi errata....)
Dal liberismo al neoliberismo:
Negli anni ‘80 si affermano le teorie neoliberiste, sulla scia della Scuola di Chicago e
dell’economista Milton Friedman; le teorie neoliberiste si consolidano nuovamente attorno ai
dogmi di: – riduzione intervento dello stato nell’ economia; – stabilita’ dei prezzi; – indipendenza
della banca centrale. Gli strumenti di intervento del neoliberismo sono basati su: –
privatizzazioni; – smantellamento dello stato sociale; – abbassamento delle tasse.
Art. 3 TFUE
1. L'Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli
2. L'Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere
interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per
quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l'asilo, l'immigrazione, la prevenzione della
criminalità e la lotta contro quest'ultima.
3. L'Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa,
basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un'economia sociale di
mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un
elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente. Essa promuove il progresso
scientifico e tecnologico.
La «privatizzazione» della moneta: Per l’Italia, il processo di privatizzazione inizia molto prima di
Maastricht; nel 1981 avviene il c.d. «divorzio» tra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia, dal 1975
la Banca d’Italia garantiva che i Titoli di Stato collocati ed invenduti sul mercato primario
venissero dalla stessa acquistati. In questo modo i tassi d’interesse rimanevano stabili e controllati
dal Tesoro: Si chiamava ‘’ base monetaria creata dal canale del tesoro’’: si trattava di una semplice
operazione contabile fittizia. Anche Luigi Spaventa nel 1984 sottolineava: ‘’Lo stock di base
monetaria creato dal Tesoro può essere considerato un debito solo convenzionalmente’’.
A partire dal «divorzio», deciso mediante un semplice scambio di lettera tra l’allora Governatore
Ciampi e il Ministro del Tesoro Andreatta, la Banca d’ Italia non è più obbligata ad acquistare i
TDS invenduti sul mercato primario; può solo intervenire in via facoltativa.
Il pretesto è l’alta inflazione attribuita alla spesa pubblica (dovuta in realtà ai due shock petroliferi
del ‘74 e del ‘79), ma il vero motivo e’ che l’italia doveva adeguare il proprio tasso di cambio all’
ecu essendo entrata nel sistema monetario europeo o sme.
Dopo il 1981 il potere monetario è praticamente fuori dal controllo dello stato.
Il T. di Maastricht 1/11/1993: vieta completamente scoperti di conto a enti ed imprese pubblici,
viene abolita la possibilita’ di ottenere scoperti da parte della bce sul c/c di tesoreria, è vietato l’
acquisto diretto di tds da bce (banca centrale europea) e bce (banche centrali) nazionali, viene
imposto un tetto massimo al deficit annuo del 3% rispetto al pil, al debito pubblico del 60%, all’
inflazione del 2%, il liberismo si dota definitivamente di una struttura giuridica che assegna alla
politica monetaria obiettivi precisi e infine vi sono stabilita’ dei prezzi, forte competitivita’ e
indipendenza della banca centrale.
Dall’avvento della costituzione repubblicana fino agli inizi degli anni ‘80, la regolazione del
patrimonio statale ha risposto ad una finalità di carattere pubblicistico e sociali, miranti al
sostegno del welfare ma con scarsi obiettivi economici.
A partire dall’avvento del neoliberismo e del processo di smantellamento dello stato
dall’economia, gli stati europei e l’UE iniziano a perseguire finalità di carattere
economico-produttivo attraverso un’imponente privatizzazione di enti ed aziende pubbliche e i
mercati finanziari che si sono sostituiti allo stato.
Un impulso deciso arriva dall’UE con la sottoscrizione del T. di Maastricht e la decisione di
riduzione del debito pubblico
• 1993 = Accordo «Savona – van Miert» (ministro dell’industria e commissario alla concorrenza)
prevedeva che l’UE accordava la ricapitalizzazione dell’industria siderurgica italiana solo se veniva
simultaneamente avviata la sua privatizzazione
• 1993 = Accordo «Andreatta – van Miert» prevedeva che il Governo doveva impegnarsi a
ridurre l’indebitamento delle imprese pubbliche fino a livelli accettabili per gli investitori privati.
Avvio delle privatizzazioni
È a partire dal 1990 con la costituzione di una Commissione Ministeriale (Commissione
Scognamiglio), seguita poi da altri programmi di governo che si è dato l’avvio a una serie di
interventi legislativi atti a delineare un programma di privatizzazione delle imprese pubbliche.
Con la legge del 1992 n. 35 erano state previste due fasi
A) nella prima si attuava la trasformazione delle Aziende Autonome e degli Enti pubblici in
società per azioni
B) nella seconda fase invece si procedeva alla vendita delle azioni pubbliche.
• Privatizzazione formale: la semplice trasformazione dello status giuridico di un ente o di una
impresa di proprietà pubblica in una società di diritto privato. Spesso in questo caso la
privatizzazione non è totale, ma lo Stato mantiene la maggioranza delle azioni mantenendo il
controllo direttivo della società oppure rimane comunque tra gli azionisti di maggioranza.
• Privatizzazione sostanziale: nel caso in cui la gestione dell’impresa viene assunta totalmente dai
privati, ossia si attua un trasferimento della proprietà dell’azienda pubblica al settore privato. In
questo caso, il privato diviene a tutti gli effetti titolare della proprietà. Lo Stato si limita a regolare
il funzionamento del settore.
Le fasi principali
Il processo di privatizzazione italiano ricostruibile sulla base dei dati del PB può essere suddiviso
in cinque fasi:
• (i) lo stadio preliminare, che abbraccia gli anni ’80 fino al 1991
• (ii) lo stadio di lancio, dal 1992 al 1995
• (iii) la fase di accelerazione, dal 1996 al 2000, durante la quale sono avvenute le transazioni
maggiori;
• iv) la fase di consolidamento, cominciato dopo la crisi mondiale del 2001 ed arrivato fino al
2005
• (v) la fase attuale, di declino e di incertezza, in cui l’unica grande privatizzazione è stata la
vendita, nel 2008, di alcuni asset della compagnia aerea Alitalia alla società CAI appositamente
costituita.
Il lancio (1992-1995): Il primum movens del grande programma di privatizzazione su larga
imponeva la trasformazione in società per azioni dei conglomerati pubblici e l’immediato
trasferimento di tutte le azioni al Tesoro. Ebbe così avvio la prima fase, la c.d. «privatizzazione
formale o privatizzazione fredda», consistente nella privatizzazione del solo assetto giuridico del
soggetto oggetto di privatizzazione e non nella privatizzazione dell’assetto proprietario.
Fondamentali, nel processo di privatizzazione formale delle società pubbliche, furono, due testi
normativi:
A) la delibera del CIPE del 30 dicembre 1992, contenente le “Direttive concernenti le modalità e
le procedure di cessione delle partecipazioni dello Stato nelle società per azioni derivanti dalla
trasformazione degli enti pubblici economici e delle aziende autonome”
B) il decreto legge 31 maggio 1994, n. 332, convertito in legge 30 luglio 1994, n. 474, contenente
“Norme per l'accelerazione delle procedure di dismissione di partecipazioni dello Stato e degli
enti pubblici in società per azioni”.
La delibera del CIPE del 1992 dettava e disciplinava, per la prima volta, le modalità con cui
operare la dismissione delle partecipazioni azionarie pubbliche, individuando, in particolare, tre
possibili ed alternative procedure:
• A) offerta pubblica di vendita
• B) asta pubblica vera e propria
• C) trattativa diretta con alcuni soggetti preselezionati dall’azionista pubblico
La legge 474/94, considerata il vero caposaldo delle privatizzazioni formali in Italia, stabiliva (e,
in parte stabilisce ancora, seppur più volte modificata ed integrata) i principi generali alla base
delle alienazioni delle partecipazioni pubbliche.
In particolare, vi è da evidenziare come, con tale disposizione normativa, il legislatore abbia
affermato il principio dell’assoluta preferenza per l’utilizzo del procedimento di offerta pubblica
di vendita per l’alienazione delle partecipazioni pubbliche, mantenendo, invece, la trattativa
privata come procedura residuale, da utilizzarsi solamente in casi particolari e qualora l’offerta
pubblica di acquisto non fosse concretamente attuabile.
Accanto a tali alternative, il legislatore aveva previsto anche la possibilità di alienazione delle
partecipazioni mediante il ricorso alla procedura c.d. mista tra offerta pubblica di acquisto e
trattativa privata, nonché la facoltà, per l’ente competente, di scegliere di volta in volta anche
ulteriori e differenti modalità di vendita da applicarsi alla fattispecie concreta.
STATO REGOLATORE: il legislatore ha introdotto l’obbligo di far precedere la privatizzazione
delle società pubbliche esercenti pubblici servizi dalla costituzione di appositi organismi di
vigilanza destinati alla fissazione delle tariffe e al controllo della qualità che tali società, una volta
privatizzate, avrebbero dovuto mantenere nei confronti dell’utenza.
•Perché enti regolatori? Le imprese privatizzate erano chiamate a esercitare attività di interesse
generale; per garantire accesso a tutti i cittadini a parità di condizioni di mercato era necessario
una qualche forma di controllo da parte dell’apparato pubblico.
Privatizzazione degli istituti di credito pubblici e la nascita delle fondazioni bancarie
I primi provvedimenti normativi di rilievo furono le c.d. leggi Amato, ovvero la legge 30 luglio
1990, n. 2018 e il decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 356
Con tali disposizioni il legislatore disciplina una generale ristrutturazione delle banche e degli
istituti di credito, detenuti da enti pubblici. Con la legge Amato, venne elaborato un complesso
procedimento volto a dividere l’attività bancaria dall’attività pubblicistica, attraverso il
conferimento della prima in apposite società per azioni, nonché il mantenimento della seconda
attività in soggetti di diritto pubblico, ovvero nelle c.d. fondazioni bancarie.
Il processo di trasformazione era previsto come facoltativo, ma l’allettante obiettivo di sottoporre
il settore bancario alla disciplina privatistica fece decollare l’operazione.
La legge attribuiva alle fondazioni bancarie compiti differenti rispetto a quelli tipicamente
bancari, ovvero il perseguimento di scopi di interesse pubblico e di utilità sociale nei settori della
ricerca scientifica, dell'istruzione, dell’arte e della sanità.
La deregolamentazione del sistema bancario ha portato all’azzeramento del controllo pubblico
sulla finanza (l’Italia controllava il 75% del sistema bancario agli inizi degli anni ‘90, dopo la
privatizzazione e la riforma del sistema bancario il processo di concentrazione è andato
peggiorando lasciando nelle mani di 5 gruppi bancari il 50% del capitale totale)
La Cassa Depositi e Prestiti che dovrebbe funzionare come ente regolatore pubblico è
controllata dalle fondazioni delle principali banche private e l’obiettivo di privatizzare il sistema
bancario per renderlo più competitivo è stato totalmente mancato. Al contrario, l’unico
rafforzamento ottenuto è stato quello del mercato borsistico e finanziario, frutto non della scelta
del consumatore, ma principalmente attraverso l’ingresso massiccio di investitori esteri che
hanno sottoscritto i titoli di stato e comprato azioni delle società privatizzate (Vivendi)
La privatizzazione degli enti pubblici economici
Con il decreto legge n. 386/1991, il legislatore italiano previde la possibilità di trasformare gli
enti di gestione (ENI, IRI), in società per azioni; l’operazione impiegò tempo per decollare
definitivamente e per questa ragione, con un successivo decreto legge (n. 359/1992) venne
disposta la trasformazione automatica ex lege di alcuni tra i più importanti enti pubblici
economici esistenti (IRI, ENI, INA, ENEL).
In attuazione di detta norma, furono prontamente trasformati in società per azioni altri due
rilevanti enti pubblici economici (Ferrovie dello Stato e Poste Italiane).
Con legge n. 59/1997 (legge Bassanini) fu avviata anche la privatizzazione formale degli enti
pubblici nazionali non economici operanti in settori diversi dall’assistenza e dalla previdenza
(Istituto Poligrafico dello Stato, Ente Autonomo Acquedotto pugliese).
Legge n. 127/1997 procedura di privatizzazione delle aziende autonome degli enti locali (aziende
municipalizzate).
L’accelerazione (1996-2000)
Durante il periodo 1996-2000, il processo di privatizzazione italiano, come quello di molti
altri paesi, raggiunse il suo picco massimo. I proventi derivanti dalle vendite raggiunsero un
ammontare ragguardevole, pari a 80 miliardi di euro, corrispondenti a circa i due terzi dei ricavi
complessivi da privatizzazione del Paese. In questo caso progredì la privatizzazione dell’ENI e
nell’ottobre del 1997, dopo un lungo processo 30 di riorganizzazione delle imprese pubbliche nel
settore delle telecomunicazioni, si realizzò la fusione della società STET del gruppo IRI e
Telecom Italia (TI); la newco fu successivamente privatizzata, raccogliendo 11,9 miliardi di euro.
(Ci furono anche problematiche legate alla privatizzazione della TELECOM e della rete
nazionale delle telecomunicazioni)
Nel 1997 e 1998 si concretizza la privatizzazione del settore dei trasporti e anche la
privatizzazione del settore bancario ha continuato il percorso cominciato nei primi anni ’90.
Furono vendute ulteriori partecipazioni nella Banca di Roma (anch’essa parte del gruppo IRI),
dell'Istituto Mobiliare Italiano, in BNL e nella Banca Monte dei Paschi di Siena (MPS), in linea
con l’obiettivo di dismettere in toto il settore bancario.
La più importante privatizzazione durante questa ondata è stata però la quotazione in borsa di
ENEL.
a cosa serviva l’enel?
L’’ENEL in qualità di ente pubblico nasce nel 1962 attraverso la nazionalizzazione di quasi 1.300
aziende elettriche di natura privata. Il fine istituzionale è quello di operare in regime di
monopolio e concessione con lo specifico mandato istituzionale di garantire una disponibilità di
energia elettrica che debba essere sempre adeguata per quantità e prezzo alle modalità di uno
sviluppo economico equilibrato dell’Italia, mantenendo nel contempo minimi costi di gestione,
elettrificando la totalità del Paese e assicurando un servizio pubblico, cioè a costi contenuti e
differenziati anche attraverso la tariffazione sociale.
la privatizzazione enel
La legge n. 359 dell’agosto 1992 ha disposto la trasformazione dell’ENEL in società per azioni
suggerendo per la collocazione sul mercato il modello della public company in quanto questo
schema è considerato il più adatto a consentire un avvicinamento dei piccoli risparmiatori
(orientati da sempre verso i titoli di Stato) alla proprietà azionaria. Tale legge, inoltre, ha conferito
al Ministero del Tesoro l’incarico di elaborare un programma di riordino anche in merito al
collocamento della proprietà azionaria sul mercato.
Il riordino del settore elettrico si sta svolgendo secondo due processi separati che però si
intrecciano intimamente: la liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica e la privatizzazione
dell’ENEL.
Per quanto concerne l’operazione di privatizzazione in senso stretto dell’ENEL, il settore
elettrico è altamente strategico in tutte le strutture economiche e in particolare per il nostro Paese
che è fortemente dipendente dall’estero per quanto attiene le materie prime e i prodotti
energetici.
Il principale problema che bisogna porsi è quello di verificare se è possibile conciliare l’esigenza
di un buon livello di economicità con quella di pubblico servizio. La privatizzazione, infatti,
imponendo una logica che persegue esclusivamente il profitto tende a privilegiare nettamente
l’economicità a scapito dell’utilità del servizio pubblico.
Il processo di privatizzazione comporta necessariamente dinamiche di concentrazione aziendale
che fanno sì che i presidi nelle zone a “bassa convenienza” devono essere eliminati per esigenze
puramente finanziarie, affossando la logica del sistema a rete. Basti pensare che mentre prima
anche le città piccole avevano comunque sedi operative, amministrative e commerciali
dell’ENEL,si è ora avviato un processo di smantellamento.
• Un esempio: in Basilicata e in Molise la struttura locale dell’ENEL in pratica non esiste più; i
processi di concentrazione della presenza aziendale ha chiaramente penalizzato oltre ai lavoratori
anche i cittadini, come si può notare in gran parte nel Meridione.
Bilancio sulle privatizzazioni: imprese e contribuenti
Il punto di vista comunemente accettato sulle privatizzazioni è che in generale sono desiderabili
perché́ le imprese pubbliche sono inefficienti. L’inefficienza delle imprese pubbliche a sua volta
deriverebbe da vari fattori: un eccesso di obiettivi, anche contraddittori, loro assegnati dai
governi; la cattura del management da parte dei sindacati dei lavoratori o da altri soggetti sociali
non interessati all’efficienza; la corruzione dei manager e quindi del processo decisionale in
imprese usate come strumento clientelare; lo spreco di denaro pubblico.
Le imprese sono state collocate in borsa a prezzi inferiori al loro potenziale valore di mercato,
per forzarne il collocamento. Uno studio approfondito del caso britannico, che è stato l’archetipo
delle privatizzazioni in Europa, conduce ad escludere che il contribuente abbia tratto beneficio
dalle privatizzazioni e vi è semmai evidenza in senso opposto.
I settori maggiormente colpiti dalle privatizzazioni: 1. Settore industriale; 2. settore bancario; 3.
settore infrastrutture; 4. Settore telecomunicazioni e servizi .
Il bilancio è particolarmente critico non tanto in relazione a questioni ideologiche, quanto dal
punto di vista degli esiti economico-finanziari che dalla pessima gestione delle privatizzazioni
sono derivati al sistema economico nazionale.
A distanza di qualche decennio dal secondo giro di grandi privatizzazioni non è un azzardo dire
che è stato un errore cedere ai privati l'intera azienda delle telecomunicazioni, rete di trasmissione
compresa, e la principale concessionaria autostradale. Intanto c' è il problema dei monopoli
naturali: in un bilancio sulle privatizzazioni pubblicato nel 2010, la Corte dei Conti notava che le
principali criticità per il sistema produttivo italiano e per i consumatori si erano viste nei settori
delle banche, dell' energia e delle strade.
A cosa sono servite le privatizzazioni? Non sono servite per abbattere il debito pubblico ma solo per
ripagare i Titoli di Stato in scadenza e i suoi introiti non sono utilizzati per la spesa sociale.
L’obiettivo sembra essere stato quello di favorire un modello economico fondato sul mercato e
fortemente competitivo, cui il modello proposto dai costituenti si pone in netta antitesi.