La sociologia in senso di disciplina dotata di un proprio statuto autonomo risulta essere una
costruzione intellettuale del mondo moderno, la cui data di inizio viene fatta generalmente
risalire alla scoperta dell’America del 1492, assunta come momento di divisione tra quella fase
in cui il mondo era percepito come chiuso e statico e la successiva, in cui il mondo cominciò ad
apparire come illimitato, ed ebbe inizio un’era di conquiste, di commerci, di sviluppi economici
e scoperte scientifiche.
Tuttavia, nella prospettiva sociologica l’inizio della modernità viene fatta risalire alla prima
rivoluzione industriale (essenzialmente economica e tecnologica), che si sviluppò in Inghilterra
dalla seconda metà del 1700 e alla Rivoluzione francese (essenzialmente politica e
istituzionale). Entrambe hanno in comune il denominatore di poter essere considerate come
punti culminanti di processi che hanno radici nei secoli precedenti e che incontrano i loro
corrispettivi in paesi diversi dall’Inghilterra e dalla Francia, prestandosi comunque bene a
spiegare tutti quei processi attraverso i quali è sorta la modernità, concepite dalle stesse
persone che la vivevano come un mutamento radicale.
La società inizia quindi a cambiare in modo inarrestabile e iniziano ad essere studiate tutti
quegli aspetti soprattutto a partire dal momento in cui essa non può più essere data per
scontata.
Un altro processo fondamentale, infine, per comprendere l’epoca moderna è quello dello
sviluppo del concetto di scienza, termine con il quale si va ad intendere un insieme di strategie
conoscitive in cui l’osservazione metodica, unita all’applicazione di procedimenti logici di tipo
razionale, mira alla scoperta di regolarità universali che riguardano i fenomeni studiati.
Comunque, i passaggi fondamentali attraverso cui inizia l’epoca moderna possono essere
quindi ricondotti alla Rivoluzione industriale; alla Rivoluzione francese; l’Illuminismo;
l’empirismo inglese.
2. Sociologia e positivismo.
La storia della prima metà dell’Ottocento è senza dubbio una storia ricca di avvenimenti ed
esperienze che non fanno sì che sia possibile riassumerla in poche righe, e proprio la sociologia
nasce cioè sulle orme di un mondo che stava cambiando in maniera radicale.
Politicamente sono qui gli stessi paesi che conoscono il massimo livello di espansione
economica che conoscono anche nuove forme di conflitti sociali al loro interno e, dopo le
guerre napoleoniche, si assiste ad una fase di restaurazione monarchica. Tuttavia, le
monarchie assolute diventano progressivamente monarchie costituzionali sotto la pressione di
forti conflitti e, più avanti nel tempo, sulla cartina geografica appaiono nuovi Stati, a seguito di
rivendicazioni nazionalistiche. Allo stesso tempo la comparsa di alcune lotte di classe pone su
basi del tutto inedite il problema dell’ordine e dell’armonia interna alle società.
Da un pdv bellico, per l’Europa questo è un periodo di pace, caratterizzato (dopo la fine delle
guerre napoleoniche) dall’assenza di conflitti internazionali di grande rilievo.
Contemporaneamente però, non si possono dimenticare le forti rivoluzioni interne del 1821 o
del 1848, o quella successiva della Comune di Parigi.
Dal lato culturale, non si può non far riferimento al positivismo, pensiero dominante
dell’epoca, costituito da un atteggiamento fortemente scientista, prevalentemente laico e
orientato al progresso, che si identifica con il portato della scienza e le applicazioni
tecnologiche. Nonostante sia erede dall’Illuminismo, si allontana da quest’ultimo per un
abbandono delle istanze critiche che animavano il primo: l’aggettivo positivo indica infatti da
un lato la volontà di aderire all’osservazione dei fatti (contrapponendosi a quanto è irreale),
dall’altro indica il desiderio di superare la dimensione esclusivamente critica e negativa propria
dell’illuminismo. Il positivismo è dunque un movimento culturale organizzato
all’organizzazione sistematica delle conoscenze e alla loro valorizzazione in vista del bene
comune, che ricerca e riordina i fatti che ritiene di poter cogliere con un’oggettività scientifica,
e sulla base della conoscenza oggettiva dei fatti ritiene di poter contribuire a rifondare la
società.
La parola sociologia in questo contesto viene utilizzata per la prima volta da Auguste Comte
che, nei suoi lavori, esprime due questioni dominanti: da un lato l’esigenza di fare i conti con il
cambiamento, dall’altro quella di contribuire a restaurare l’ordine compromesso dall’epoca
napoleonica e poi rimesso in discussione dai lunghi movimenti rivoluzionari.
Comte iniziò la sua carriera intellettuale come segretario privato di Saint-Simon, figura di
spicco che segna il passaggio dalle istanze emancipative dell’Illuminismo a quelle tecnocratiche
del positivismo, contribuendo allo stesso tempo a fondare una corrente di pensiero utopico
che andrà poi a confluire nei movimenti di stampo socialista. À
Saint-Simon fu indubbiamente uno tra i primi intellettuali a riconoscere che la società che
andava prendendo forma (sul degradarsi del mondo feudale) altro non era che una società
fondata sulla produzione industriale e sul sapere ad esso collegato, e il progresso nella sua
visione doveva comportare una radicale riorganizzazione della società. Questo progresso,
tuttavia, avrebbe preso una direzione non scontata: il futuro era indubbiamente dell’industria,
ma Saint-Simon accosta comunque il suo pensiero vicino ai progetti di fabbriche-comunità di
Robert Owen, facendo sì che i nomi di entrambi (assieme a quello di Fourier) vengano
identificati da Marx all’interno dei cosiddetti socialisti utopisti.
Per quanto riguarda Comte invece, egli ha un atteggiamento diverso, ponendosi come
l’annunciatore di un’epoca che gli sembra affermarsi sempre più con forza.
La sua idea principale è che la conoscenza umana si svolga attraverso tre stadi:
1. Stadio teologico: la spiegazione dei fenomeni è quei perseguita dagli uomini attraverso
il ricorso dapprima a nozioni magiche, e in seguito a nozioni religiose;
2. Stadio metafisico: le spiegazioni vengono ricercate mediante l’uso di concetti astratti e
cioè attraverso la speculazione filosofica;
3. Stadio positivo: la conoscenza viene a delinearsi come sapere scientifico, basato sulla
ricerca di fatti.
La successione da uno stadio all’altra viene intesa da Comte come una vera e propria legge
naturale, ossia essa stessa una speculazione metafisica, e andando con il concetto ad
esprimere un atteggiamento che si sarebbe poi diffuso nella cultura del suo tempo, ossia la
considerazione della sociologia come fisica sociale, cioè come scienza modellata sui tratti delle
scienze naturali, intesa a rilevare fatti e riconoscere leggi. Ultima a delinearsi all’interno dello
stadio positivo della storia, viene per questo definita come la più complessa tra tutte le
scienze.
Comte distingue inoltre due branche all’interno della disciplina: da un lato quella della statica
sociale, area della sociologia che si occupa delle modalità attraverso cui le società si
autoregolano, dall’altro quello della dinamica sociale, quella branca che invece studia il
mutamento delle società stesse. Inoltre, propone il positivismo come idea politica,
affermando che la vera libertà non può consistere che in una sottomissione razionale alla sola
supremazia delle leggi fondamentali della natura. Ed è proprio la natura umana che,
equiparata a quella studiata dalle scienze naturali, è in realtà la più complessa e, mediante il
dispiegamento del positivismo, si avrà l’età in cui ci sarà la sottomissione razionali degli uomini
alle leggi della natura, facendo sì che gli scienziati e i tecnici diventino i protagonisti dominanti.
Risulta interessante come, durante la fase finale del suo pensiero, Comte torni sulla questione
della religione, effettuandone una rivalutazione: non la considera più come un elemento di
uno stadio primitivo dell’umanità, ma al contrario come elemento fondamentale
dell’integrazione della società, proponendosi come sacerdote di una religione positiva,
fondata sul culto dell’umanità, scontrandosi cioè con un problema di grande rilevanza, posto
dal fatto che la scienza in se stessa (sul cui valore si appoggia in ultima analisi il positivismo),
non consente una fondazione dei valori ultimi in cui gli uomini credono e non garantisce una
legittimazione adeguata del mondo sociale che va a creare. Era questo un problema che era già
stato intravisto da alcuni oppositori della Rivoluzione francese, interessati alla difesa delle
tradizioni (non perché con ciò si difendeva il potere dei nobili), ma soprattutto perché
riconoscevano alle tradizioni il potere di essere l’unico rimedio contro il caos. C’è da dire che
porre questo problema non significa necessariamente essere conservatori, né sostenere il fatto
che una società non possa esistere senza l’esistenza di una religione, ma significa porre la
questione del nesso tra l’ordine e la sua legittimazione, e domandarsi cioè esplicitamente su
cosa tenga insieme una società e quale sia il fondamento delle regole del vivere insieme.
Tocqueville fu un autore che non si collocò né tra gli oppositori né tra i fautori del progresso,
ponendosi come capace di cogliere la molteplicità dei significati che i vari mutamenti della
prima metà del secolo XIX potevano assumere. Nonostante non si fosse mai definito come un
sociologo, la sociologia gli deve sicuramente il merito per alcune tra le moltissime
considerazioni svolte.
Tocqueville si è da subito interessato alla novità rappresentata dalla democrazia, della quale,
descrivendone le caratteristiche, ne mostra quello che gli appare come un processo storico
ineluttabile che tende all’uguaglianza delle opportunità, dal momento in cui gli uomini in
democrazia, sono inseriti in un sistema legale in cui i diritti sono definiti in modo tale da
permettere un’ampia mobilità sociale; ossia, tutti possono avere accesso a qualsiasi rango o
posto di lavoro, e ponendosi in ciò la differenza principale con il regime feudale. Tocqueville
percepì così qualcosa che Weber affermerà in seguito (M.W: la modernità corrisponde al
pasasggio da un mondo del destino ad un mondo della scelta), e cioè che gli individui nella
modernità diventano sempre più liberi di forgiare autonomamente la propria sorte,
all’interno di un sistema di leggi che garantisce l’uguaglianza di tutti.
L’autore, ne La democrazia in America, riconosce negli Stati Uniti il luogo dove il processo si è
sviluppato più di tutti, mettendo tuttavia in evidenza uno dei rischi maggiori della democrazia
stessa, dato dalla dittatura della maggioranza, corrispondente cioè alla subordinazione di tutte
le minoranze al volere del gruppo dei più numerosi.
Scrisse inoltre L’antico regime e la rivoluzione, uno studio sulla Francia di prima e dopo la
rivoluzione, accompagnato da frequenti confronti tra questa e i paesi vicini; in entrambi
combinò una larga messe di osservazioni e di studi in archivio con un atteggiamento
comparativo, facendo sì che l’autore venga giustamente considerato come il primo ad aver
utilizzato in modo sistematico la comparazione nelle scienze sociali.
Nonostante come Comte pensi alla società come un organismo, utilizza per le sue speculazioni
un approccio evoluzionista, essendo stato fortemente influenzato dal trattato di Darwin
L’origine delle specie, la cui idea principale era quella di un processo di trasformazione e
differenziazione evolutiva delle specie animali attraverso un meccanismo di adattamento
all’ambiente, di competizione per la sopravvivenza e di eredità genetica. Spencer prova così ad
applicare queste teorie anche allo studio delle formazioni sociali, facendo sì che nasca quella
corrente che prenderà il nome di darwinismo sociale; la storia appare così a Spencer come la
traccia di un cammino evolutivo nel corso del quale gli uomini adatterebbero le forme della
loro convivenza a quelle dell’ambiente, passando da forme di organizzazione più semplici sino
ad arrivare alle più complesse. Evoluzione e progresso vengono qui utilizzate come sinonimi.
Ciò che Spencer fece cioè fu riformulare idee più o meno darwiniane nel credo individualista
della sopravvivenza del più adatto e in un’apologia del liberalismo economico e della libera
concorrenza.
Poco prima della sua morte l’autore inoltre pubblicò degli scritti sugli argomenti più diversi, tra
cui i Principi di sociologia. La sua sociologia si basa su una vasta raccolta di informazioni sui
diversi tipi di società organizzati secondo una doppia tipologia: da un lato, distinguendo le
società in base al grado di complessità della loro differenziazione interna, dall’altro
distinguendo tra società militari e società industriali (in quest’ultimo caso l’idea è quella di
rendere conto dei diversi modi in cui una società è integrata al suo interno nelle società
militari l’ordine sarebbe garantito in modo essenzialmente coercitivo; nelle industriali
deriverebbe dalla libera scelta degli individui).
L’idea principale di Spencer è che la storia delle società umane comporti, allo stesso modo
della storia naturale, una serie di passaggi lineari dal più semplice al più complesso e,
crescendo di dimensioni, esse sviluppino una rete di organi e di funzioni sempre più
specializzate e differenti.
Sarà questo concetto di differenziazione che avrà un ruolo molto importante nella storia delle
scienze sociali, utilizzato in futuro da Durkheim, Simmel, Weber e Parsons.
2.4. Statistiche morali ed inchieste sociali.
Nonostante in autori quali Comte e Spencer la sociologia trovò le sue prime formulazioni
teoriche, non si può non affermare come la disciplina sia formata anche da un insieme di
pratiche di ricerca. In questo senso, le sue origini si rintracciano anche nella raccolta di dati
statistici e nelle prime inchieste dell’Ottocento.
Lo sviluppo della statistica ha a che fare con le esigenze amministrative degli Stati nazionali: se
prima si tratta soprattutto di esigenze militari e fiscali, le crescenti necessità burocratiche
connesse all’amministrazione unitaria di ampi territori provocano nel corso dell’Ottocento la
domanda di informazioni sempre più precise, complete e frequenti su aspetti diverse della vita
sociale, includendo anche la cosiddetta statistica morale, ossia quelle raccolte di dati
quantitativi riguardanti la criminalità, l’istruzione, le abitazioni e le condizioni di vita delle
popolazioni.
La statistica inizia così a proporsi come uno strumento necessario a conoscere le esatte
condizioni della nazione e la possibilità di trattare matematicamente dati quantitativi appare
molto promettente per tutti coloro che si sforzano di dare argomenti concreti alle proprie
preoccupazioni sociali.
3. Karl Marx.
Il lavoro di Karl Marx è sicuramente tra quelli che ha segnato di più la storia moderna, e che
rintraccia la sua opera principale all’interno del Capitale, il cui primo lavoro venne pubblicato
nel 1867, il secondo e il terzo uscirono postumi a cura di Engels, rispettivamente nel 1885 e nel
1894.
All’inizio della sua vita Marx è essenzialmente un filosofo hegeliano, influenza che è
estremamente avvertibile nella sua opera e che fa sì che egli sia in un certo senso estraneo al
clima positivista del suo tempo; inoltre, il proseguimento della sua opera è inteso da Marx
come un superamento della filosofia.
Nonostante abbia influenzato fortemente la sociologia, Marx non si sarebbe mai definito un
sociologo, dal momento in cui qualsiasi distinzione accademica gli sarebbe sembrata un modo
che, generalizzando il pensiero, avrebbe fatto di perdere di vista l’insieme.
Il suo principale oggetto di riflessione è quello del movimento generale della società sorta con
la rivoluzione industriale, ritenendo che il cuore dell’analisi di questo movimento stesse nella
critica dell’economia politica.
__
Un concetto che ricorre frequentemente nella sua formazione filosofica e che dipende da
Hegel è quello della dialettica, che tanto per Hegel che per Marx è un movimento del pensiero
o della realtà che, attraverso la negazione di una precedente affermazione, conduce sintesi che
è il superamento di entrambe. In tedesco, il verbo superare è un verbo che intende un
processo che comporta l’insieme di tre momenti, e che comporta il conservare, far
scomparire, e portare ad un livello superiore. Difatti quando Marx parla di un superamento
della società capitalistica, intenderà che essa dispiegandosi produce al suo interno delle
contraddizioni che conducono necessariamente ad un livello superiore, e cioè a qualcosa che
conserva gli sviluppi della società capitalistica (come suoi presupposti), ma li fa poi scomparire
e li supera sintetizzandoli. In questo senso il comunismo rappresenta il superamento del
capitalismo.
Da Hegel viene inoltre un altro concetto, quello dell’alienazione, considerato da Hegel stesso
un aspetto dell’oggettivazione. È quando gli uomini lavoravano o praticano qualsiasi attività
fisica che essi producono degli oggetti, e questi sono risultato dell’azione del soggetto, ma
anche qualcosa di altro dal soggetto stesso, ossia un oggetto. L’alienazione è dunque l’aspetto
del processo per cui l’oggettivazione è un farsi altro del soggetto; si potrebbe anche dire che
l’oggetto è una negazione del soggetto, il suo contrario. Tuttavia, questa negazione può essere
superata, in particolare attraverso l’autocoscienza dell’uomo, che ne riconosce l’oggetti come
proprio prodotto, provocandone in questo modo una riappropriazione.
Partendo dall’analisi delle condizioni materiali degli uomini, Marx arriva al materialismo
storico, analizzando la storia dell’umanità, e in particolare la storia dei modi in cui gli uomini si
sono organizzati insieme per produrre e cioè per rapportarsi alla natura al fine di garantirsi la
sopravvivenza. Gioca qui un ruolo fondamentale la divisione del lavoro che, fino ad oggi,
sembra essere sempre stata ineguale. (vedi l’antica Roma dove gli schiavi ed i plebei
lavoravano per i patrizi).
Ora, questi modi concreti in cui il lavoro viene diviso, insieme ai modi in cui viene suddivisa la
proprietà e alle tecniche di produzione che di volta in volta sono disponibili, formano la base
materiale di una società, chiamata da Marx struttura, ossia quella parte che, in ultima istanza
determina le forme della sovrastruttura (ossia tutto il resto). All’interno delle istituzioni
sovrastrutturali rintracciamo gli ambiti delle istituzioni religiose, della morale e della stessa
filosofia, ossia istituzioni non dotate di una propria storia, ma che dipendono nel loro svolgersi
dalle modificazioni della struttura cui appartengono.
Ulteriore concetto fondamentale nel pensiero di Marx è quello di ideologia, che nell’uso
marxiano si distacca da quello attuale (per cui si intende un insieme di assunzioni teoriche e di
orientamenti di valore che un individuo, o un gruppo di individui, adotta e difende con delle
argomentazioni), intendendo cioè una rappresentazione del mondo che descrive e insieme
occulta le sue condizioni reali. Il modo più tipico con cui funziona l’ideologia, per Marx,
consiste nello scambiare le condizioni sociali attuai come condizioni eterne, e con ciò
giustificarle, giustificando cioè l’esistente, occultando le contraddizioni, nascondendo i conflitti
e immobilizzando la storia. È tipica forma di pensiero delle classi dominanti di una società, il cui
interesse è quello di occultare i conflitti interni che vi si producono, conflitti propri delle
contraddizioni che costituiscono il movimento negativo della forma sociale data. Tuttavia,
anche i dominati possono condividere l’ideologia dei dominatori, ad esempio per
incomprensione dei propri interessi, e in questo caso secondo Marx si parlerebbe di falsa
coscienza.
Con l’espressione critica dell’economia politica non si indica solo un concetto, ma anche il
sottotitolo del Capitale, il cui scopo principale è quello di indagare il modo capitalistico di
produzione e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono.
Per capitale Marx intende l’insieme di “materie prime, di strumenti di lavoro e di mezzi di
sussistenza di ogni genere, che vengono impiegati per la produzione di nuove materie prime, di
nuovi strumenti di lavoro, di nuovi mezzi di sussistenza. È lavoro accumulato che serve come
mezzo per una nuova produzione”.
Ma cosa rende effettivamente il lavoro accumulato capitale? Marx incontra la risposta nel fatto
che il capitale è lavoro accumulato all’interno di una certa situazione dei rapporti sociali,
rapporti che devono avere determinate caratteristiche:
Devono entrare in relazione da una parte i proprietari dei mezzi di produzione, ossia i
capitalisti, e dall’altra parte altri uomini che non possiedono i mezzi, ma che sono
proprietari della propria forza lavoro, ossia i proletari;
Il rapporto tra questi due insiemi di individui deve essere mediato dal denaro, ossia la
forza lavoro dei secondi si presenta come una merce venduta ai primi ad un certo
prezzo, ossia il salario, attraverso cui i lavoratori salariati possono acquistare i beni
necessari alla propria sussistenza. I lavoratori salariati non sono comunque pagati con
una quota del loro prodotto, ma con un salario che corrisponde ad una certa quota del
loro tempo, che essi vendono. Proprio in relazione al tempo che vendono, questo è
definito dalla disciplina stabilita dal datore di lavoro. Tuttavia, al di fuori del lavoro, gli
uomini sono liberi (a differenza di quanto accadeva per esempio nel Medioevo, dove i
rapporti di tipo feudale erano permanenti) e non obbligati a prestare i loro servizi ad
altri uomini;
I beni economici prodotti all’interno di questo modo di produzione sono considerati
merci, e la produzione è cioè finalizzata alla vendita dei prodotti sul mercato. La merce,
che è dunque un bene scambiato sul mercato, ha un carattere duplice: per un verso,
ogni merce possiede un suo valore d’uso, differente per ogni tipo di merce (ad
esempio il valore d’uso degli indumenti è quello di vestirsi), ma anche un valore di
scambio, che si esprime nel prezzo della merce stesso. Quest’ultimo è qualcosa di
astratto, prescindendo dalle qualità concrete e dalle differenze sensibili delle singole
merci, per renderle tutte comparabili e dunque scambiabili fra loro sulla base dei
rapporti che esistono tra i loro prezzi;
Il lavoro accumulato si deve presentare come capitale quando viene utilizzato nella
produzione, assieme al lavoro vivo dei salariati, per ottenere un profitto da parte del
capitalista.
L’ultimo punto sottintende quindi che il capitalismo presenta un particolare tipo di scambio:
non quello di semplice scambio di merci tra di loro, ma quello di produrre, con delle merci,
altre merci che abbiano un valore maggiore di quello presente all’inizio.
Ciò che rende il capitalista un capitalista è il suo possedere all’inizio un certo ammontare di
denaro D, che investe acquistando certe merci M (ossia il lavoro accumulato: materie prime,
strumenti a disposizione etc) e forza lavoro (il lavoro vivo degli operai salariati). In questo
modo, facendo lavorare i suoi operai con le sue materie prime e con i suoi strumenti di lavoro,
egli ottiene delle merci che, una volta vendute sul mercato, si tramutano in un ammontare di
denaro superiore a quello disponibile all’inizio. È dunque questa differenza tra il denaro
ottenuto alla fine e il denaro che si possiede all’inizio che costituisce il profitto, e che muove
il capitalista.
Nella visione marxiana quindi il profitto non è il risarcimento dell’impegno del capitalista; per
capire la sua posizione è necessario ricordare che ogni merce possiede un valore d’uso ed uno
di scambio e, tra le merci che il capitalista acquista all’inizio del processo di produzione, vi è
anche la merce rappresentata dalla forza lavoro degli operai. Questa merce, che altro non è
che lavoro umano, riscontra il suo valore d’uso nella capacità di produrre valore: ossia, senza il
lavoro non si produrrebbe niente, e tutte le altre cose comprate dal capitalista non
porterebbero a nessun valore aggiunto.
Quando il capitalista acquista la forza lavorativa dei suoi operai, la paga come una merce, ossia
pagandola ad un prezzo necessario per il costo dei beni necessari per la sussistenza degli
operai stessi, ma nulla di più.
Tuttavia, il lavoro dell’operaio, quando messo all’opera del capitalista e messo in relazione con
quello degli altri operai e con le macchine, da un lato trasferisce il valore di scambio delle
materie prime e degli strumenti a disposizione nelle merci prodotte, ma dall’altro produce più
del valore di scambio corrispondente al prezzo della sua forza lavorativa. Ciò che avviene cioè
è la “creazione” di un plusvalore, ossia di un lavoro che l’operaio svolge in aggiunta a quanto
sarebbe necessario per pareggiare i conti con tutto quello che il capitalista ha speso
assumendolo.
All’interno dei rapporti di produzione capitalistici, il plusvalore diventa profitto, ossia qualcosa
che è di proprietà del capitalista e che si realizza al momento di vendere sul mercato le merci
prodotte, nascendo così dallo sfruttamento dell’operaio, pagato ad un salario che corrisponde
esclusivamente al costo di quei beni necessari alla sopravvivenza, mentre il lavoro che egli
realizza genera al capitalista un valore superiore a quello corrispondente al salario e a tutti i
mezzi di produzione impiegati.
La critica effettuata all’economia politica (marx critica soprattutto quella successiva a Ricardo)
sta proprio nel fatto che, arrestandosi all’analisi dei rapporti di scambio, ovviamente lo
sfruttamento non appare; pur essendo la forza lavoro degli operai pagata al suo prezzo, come
una merce, non appare cosa succede entro la produzione, ossia il meccanismo
dell’appropriazione capitalistica del plusvalore.
È in questo arrestarsi alla sfera della circolazione delle merci che l’economia cui Marx si
riferisce è ideologica, descrivendo qualcosa di vero, ma senza soffermarsi sull’essenziale.
Con il termine classe Marx si riferisce in generale ad un insieme di individui che si trovano nella
medesima posizione all’interno dei rapporti di produzione tipici di un modo di produzione dato.
Ogni società è sicuramente apparsa fin qui caratterizzata dalla presenza di classi, ossia individui
collocati diversamente entro i rapporti di produzione e, in base a queste diverse collocazioni, le
classi sviluppano interessi diversi, ed entrano in conflitto per la definizione del potere
all’interno della società. Difatti per Marx, la lotta fra classi è un dato ricorrente nella storia
umana.
Anche all’interno della società dominata dal modo di produzione capitalistico esistono classi,
incontrate da Marx essenzialmente nella borghesia, il cui nucleo è dato dai capitalisti, e dal
proletariato, composto dai lavoratori salariati.
Il progressivo sviluppo del modo di produzione capitalistico tende, secondo Marx, a spingere
tutte le altre classi entro o a fianco di queste due classi fondamentali, i cui interessi sono
totalmente antagonistici: l’interesse dei capitalisti è sfruttare il più liberamente possibile la
forza lavoro degli operai, mentre quello degli operai è quello di liberarsi dallo sfruttamento.
In realtà Marx sa bene che gli interessi si presentano raramente nella loro forma bruta; gli
interessi della borghesia sono cioè presentati da un’ideologia che giustifica i rapporti esistenti,
presentando il capitalismo come rappresentante degli interessi universali e come il sistema di
produzione in grado di generare un progresso i cui benefici valgano per tutti. Ulteriore
problema è che gli interessi del proletariato sono raramente chiari al proletariato stesso.
È qui fondamentale il passaggio della classe operaia da uno stato in cui per appunto è incapace
di riconoscere i propri interessi ad uno in cui li riconosce e si organizza di conseguenza,
chiamato il passaggio in cui la classe operaia acquista una propria coscienza di classepassaggio
che non si genera automaticamente ma che si produce nel corso delle lotte che gli operai
intraprendono contro i capitalisti.
Si integra così la nozione di classe, che diventa un soggetto collettivo capace di intraprendere
azioni congruenti con i propri interessi.
3.3. La teoria marxiana del mutamento.
Avendo come oggetto specifico di riflessione il movimento della società capitalistica, Marx
volge il suo interesse allo stabilire quali sono le condizioni per cui la società stessa passi ad
un’altra formazione sociale, e dunque considerando le contraddizioni che si verificano al suo
interno.
Per Marx la storia è dialettica; in ogni formazione sociale cioè si generano delle contraddizioni
tra le forze produttive e i rapporti di produzione che portano verso il suo superamento. “…
questi rapporti si convertano in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale”.
Quando Marx parla di società, egli non la definisce mai in astratto, anzi: sempre parla di
diverse forme di società caratterizzate da diverse strutture, con la considerazione
fondamentale che l’uomo è essere sociale.
Il punto di partenza marxiano è costituito dagli uomini concreti che producono difatti le
condizioni della propria sopravvivenza, creando di conseguenza l’unione di individui e società;
in questo senso, non è pensabile l’individuo isolato (ossia è pensabile solo in certe condizioni).
(quanto più risaliamo indietro nella storia tanto più l’individuo ci appare non autonomo, ma
parte di un insieme più grande).
Le modalità delle relazioni tra gli individui mutano tuttavia nel tempo: producendo ciò che è
necessario, gli uominin producono in qualche modo anche loro stessi, e in questo modo
modificano il mondo circostante, i propri strumenti, le forme della loro convivenza ed il loro
pensiero. Ciò fa capire come l’uomo sia un essere sociale e come la sua coscienza (che trova la
sua base nel linguaggio) sia prodotta dall’interazione sociale.
Nella visione marxiana si verifica però un paradosso, per cui la società nel concreto si sviluppa
quando i rapporti sociali si fanno più complessi. Per spiegarlo Marx afferma come la società
moderna sia una società dove sia molto sviluppata la divisione del lavoro, i cui prodotti si
ricongiungono nella forma del mercato. Tuttavia, il mercato è un sistema di rapporti astratti,
cioè un sistema dove gli in dividui non si scambiano in prodotti in base alle loro relazioni
personali, ma in base a leggi impersonali, rappresentati dai prezzi delle merci: ossia, davanti al
mercato ciascuno risulta isolato, e i rapporti dell’individuo con gli altri passano attraverso le
merci, che rispondono alle leggi del mercato.
Questa divisione del lavoro (che si è sviluppata con il modo di produzione capitalista) è
estremamente articolata, e ciascun individuo trova difatti un proprio ruolo in cui è confinato. In
questo confinamento si nasconde però un aspetto dell’alienazione, per cui l’uomo si allontana
dal modo di estrinsecare pienamente tutte le proprie risorse e per cui (in un mondo
totalmente dominato dall’imperativo di produrre) all’uomo diventa estraneo il fine ultimo della
vita, che viene sostituito dalla produzione continua ed inarrestabile. Viene ovviamente meno
anche la capacità di godere dei rapporti con gli altri uomini e con la natura.
Da qui la visione utopica di Marx: nonostante il suo pensiero sia molto orientato verso il
futuro, Marx parla molto raramente della società che spera di veder sorgere dal superamento
del capitalismo, ma emerge comunque l’idea di una società dove gli uomini siano almeno
parzialmente liberi dalla necessità, grazie allo sviluppo delle forze produttive e in cui abbiano
modo di dispiegare tutta la propria umanità, di appropriarsi di se stessi e di riavere relazioni
con i propri simili e con la natura.
-Alcunue osservazioni?-
Nel 1864 a Londra, Marx ed Engels formarono la prima Associazione internazionale dei
lavoratori, attraverso cui il marxismo diventò una dottrina in grado di egemonizzare la maggior
parte dei gruppi, dei partiti e dei movimenti operai di tutta Europa, facendo si che alla fine del
XX secolo il marxismo fosse consolidato come una delle principali teorie sociali disponibili.
4. DURKHEIM.
La prima importante opera di Durkheim (uno dei primi fondatori dell’Anne Sociologique, una
rivista esplicitamente dedicata alla raccolta di studi sociologici) è la Divisone del lavoro, seguita
dalle Regole del metodo sociologico e dal successivo studio Il suicidio. Solo nel 1912 che uscì
uno dei suoi lavori più importanti, Le forme elementari della vita religiosa.
Il problema di fondo del pensiero di Durkheim è quello della coesione della società e della sua
riproduzione nel tempo, con l’obiettivo fondamentale di comprendere cosa tenga insieme una
società, domanda alla quale risponde con il concetto della morale.
Il sentimento morale viene cioè visto come ciò che tiene insieme i membri di un insieme
sociale alla società stessa, consentendo la vita in comune attraverso una solidarietà dei
membri della società tra di loro.
Nonostante sul piano storico si noti l’influenza di Spencer, soprattutto per quanto concerne
l’evoluzionismo e l’organicismo proprio dell’autore, rispetto ad egli Durkheim ribalta la
prospettiva per ciò che riguarda i rapporti dei singoli con la società: se cioè per Spencer la
società si basa su una sorta di contratto stabilito tra uomini che perseguono il proprio utile
(visione difatti definita come utilitarismo), per Durkheim la società non è comprensibile
muovendo dall’analisi dei comportamenti dei singoli. Per egli cioè la società è ciò che precede
e rende possibile ogni contratto, e di conseguenza la vita collettiva precede la vita dei singoli
separati, e i contratti sono qualcosa di possibile solo tra soggetti che intendono rispettarli, che
avvertano cioè di appartenere ad una stessa società.
La morale, dunque, elemento di coesione della società, è un insieme di valori e credenze che
si esprimono in norme (ossia regole alla cui infrazione corrispondono delle sanzioni), alle quali
ciascun membro della società è vincolato. I vincoli agiscono sia dall’esterno, nel senso che
infrangere una norma provoca reazioni che puniscono chi lo fa, dall’interno nel senso che
l’individuo avverte come da dentro di sé una tendenza al rispetto delle stesse.
Il modo originario con cui le norme morali si impongono in una certa società è il loro
istituzionalizzarsi nelle forme di un insieme di credenze religiose, rese sacre dalla loro iscrizione
in un sistema di riti. Un esempio può essere dato dai Dieci Comandamenti Biblici, in cui si
esprime proprio, in forma di rivelazione divina, l’insieme di norme su cui la società ebraica
fondava il loro viere comune.
Nonostante le culture possano avere norme parzialmente diverse, ciascuna non può proprio
fare a meno di appoggiare la propria capacità di coesione su un insieme di norme che
esprimono valori e credenze comuni. Possono essere esplicite, o implicite, ma l’importante è
che Durkheim le considerava come fatti sociali.
I fatti sociali sono dunque fenomeni che non si possono spiegare ricorrendo alla solo analisi
delle azioni dei singoli o all’analisi psicologica delle loro motivazioni; sono qualcosa che si
presenta in media all’interno di ogni società. Ciò che li definisce come tali è che essi si
impongono ai singoli come qualcosa che proviene da fuori e contemporaneamente li
attraversano nei loro modi di sentire, di pensare e comportarsi. Esistono nella misura in cui
esistono gli uomini, ma contemporaneamente hanno una sorta di esistenza indipendente, che
sovrasta la volontà di ciascuno.
Poiché i fatti sociali si presentano ai singoli come indipendenti dalla loro azione o dalla loro
volontà personale, Durkheim propone di trattarli come cose, nel senso che hanno un’esistenza
che non si spiega a partire dalle coscienze e dalle azioni degli individui.
Si potrebbe fare un esempio con il linguaggio, che non è creato da nessun singolo preso
isolatamente, ma che è linguaggio proprio in quanto qualcosa di intersoggettivo. Ciascun
individuo lo trova cioè in qualche modo come già dato, come trascendente rispetto alla sua
volontà o alla sua capacità di cambiarlo arbitrariamente. È un modo di fare consolidato,
risultato dell’interazione di tantissimi uomini in un tempo lunghissimo, ossia altro non è che
realizzazione collettiva. Indubbiamente si può usare una lingua in modo scorretto, non
aderendo cioè alle regole consolidate, ma ciò fa sì che ci si scontri con delle sanzioni, che non
fosse il non farsi capire o l’esporsi a correzioni da parte degli altri. Per tutto ciò il linguaggio è
fatto sociale, che si può spiegare solo a partire dalla società, dal risultato cioè dell’interazione
umana.
La realtà per Durkheim è una realtà sui generis, superiore alla vita dei suoi membri.
Analogamente a come il corpo di un uomo non sia cioè uguale alla somma dei suoi organi, ma
sia un qualcosa in più (ossia l’insieme funzionante di questi organi come un’unità), la società,
più che essere la somma degli individui che la compongono, è un’unità di livello superiore,
dotata di una vita che non si spiega restando al livello della semplice descrizione di ciò che la
compone. Dal momento in cui si esprime in fatti sociali, la sociologia è la scienza che studia
l’insieme dei fatti sociali.
Una caratteristica rilevante del pensiero di Durkheim, seguendo questo approccio risulta quella
di sforzarsi a spiegare ogni elemento di una società, tentando di riconoscere quali funzioni tale
elemento svolga all’interno dell’insieme della società stessa.
In questo modo si comprende come il suo sia un approccio funzionalista, ossia che effettui una
spiegazione di un fenomeno sociale sulla base dell’individuazione della funzione che sso
adempie per la vita dell’insieme della società. In questo modo Durkheim non ritiene affermare
che la spiegazione funzionale sia l’unica cui lo scienziato sociale deve riferirsi; al contrario,
ritiene che questa sia possibile solo dopo che siano stati analizzati i nessi causali che, restando
al livello dei fenomeni specificatamente sociali, legano il fenomeno considerato ad latri
fenomeni precedenti nel tempo.
Un esempio tipico del modo di pensare funzionalista (che non vuol dire cioè che ogni
fenomeno sociale debba coincidere necessariamente con un qualche fine prestabilito) di
Durkheim è quello della sua trattazione della devianza, con cui si vuole intendere l’esistenza di
comportamenti che si discostano dalla norma. Tra questi comportamenti, sicuramente il
crimine; nonostante, tuttavia, questo appaia come qualcosa di ben poco funzionale (essendo
un’infrazione alle norme del vivere comune), anch’esso svolge una funzione, per la quale nel
momento in cui il crimine viene punito, attraverso la messa in opera di riti adeguati (come il
processo o l’esecuzione della pena), esso svolge la funzione di rinsaldare la coscienza
collettiva. Riunendosi così nell’atto di sanzionare il colpevole, la società riafferma le sue regole,
che non sono mai così visibile e chiare alla collettività come quando viene punito chi non vi si
conforma. Si noti dunque come la funzione non corrisponda a nessun fine prestabilito, essendo
cioè piuttosto un risultato non intenzionale di una pratica sociale.
In La divisione del lavoro sociale Durkheim sviluppa un discorso sull’evoluzione delle società
umane come un movimento da un tipo di una società all’altra.
Il primo tipo di società considerata è quello della società semplice o segmentaria, basata una
bassa divisione del lavoro, e dove cioè gli individui svolgono attività poco differenziate tra di
loro. Il secondo tipo è invece quello delle società complesse (=attuali società), dove ci si basa
su un’ampia e articolata divisione del lavoro e dove le attività dei suoi membri sono
fortemente differenziate tra di loro, ed esistono numerose istituzioni intermedie che mediano
l’appartenenza del singolo all’insieme della società.
Secondo Durkheim, l’evoluzione storica delle società umane verso una complessità crescente è
ricondotta da Durkheim alla crescita della divisione del lavoro; ma questa, a sua volta, dipende
sia dall’ampliarsi delle società nello spazio, che dall’aumento del numero e della densità
relativa dei loro membri.
Nelle società semplici si ha una solidarietà meccanica, quel tipo di solidarietà che si
presenta tra individui strettamente uniti gli uni dagli altri da vincoli quotidiani, e le cui
attività si differenziano poco. Qui, nonostante ciascuno ha sicuramente la percezione
di essere un’entità distinta rispetto ai suoi compagni, i contenuti del suo pensiero 8sia
per la scarsa diversità delle sue mansioni, che per la forza dei vincoli materiali che lo
uniscono a tutti gli altri), sono scarsamente individualizzati. Qui la coscienza collettiva
tende a ricoprire la coscienza individuale. Si tratta di un tipo di società in cui il diritto
si presenta in forma di leggi punitive: le norme tendono cioè a vincolare ogni aspetto
del comportamento e ogni infrazione viene considerata come un attacco alla coesione
del gruppo;
Nelle società complesse si ha invece una solidarietà organica, che stabilisce i legami
fra individui e gruppi di individui che hanno tra di loro grandi differenze, ma che
tuttavia devono cooperare per la vita dell’insieme sociale da cui tutti dipendono.
Qui le mansioni dei singoli si differenziano fortemente, e con ciò si danno le basi per
una diversificazione dei contenuti delle coscienze. Poiché cioè gli individui svolgono
manisioni differenziate, anche le loro opinioni sviluppano delle differenze, e diventa
possibile una individualizzazione delle coscienze. Al fine di permettere la varietà di
comportamenti necessari a questo tipo di società, il diritto si presenta nella forma di
leggi restitutive: l’infrazione del singolo è più spesso considerata nei termini di un
danno arrecato ad a altri in un ambito specifico della vita che non un attentato alla
società nel suo insieme.
Comunque, è nelle società più complesse che la tenuta delle norme si fa più problematica,
perché appunti vi sono innumerevoli individui che possono comportarsi e pensare in modo
differente (e ciò rende meno forte la tenuta di norme che valgono per tutti indistintamente),
ma allo stesso tempo la tenuta si fa più necessaria, perché attraverso l’adesione di ciascuno ad
uno stesso modo di pensare, la coesione dell’insieme sociale diventa qualcosa che va
mantenuto appositamente.
Proprio in queste società si dà il rischio massimo di anomia, con cui si indica l’assenza di norme
morali condivise, una deficienza nella capacità di una società di vincolare a se i propri i membri
e di garantire la loro adesione ad un medesimo e condiviso ordine di valori, credenze e
aspettative. La soluzione proposta a questo problema consiste per Durkehim nel
corporativismo, ossia nello sviluppo di associazioni intermedie tra i singoli e la società basate
sull’associazione professionale. In generale, la risposta si incontra cioè in un potenziamento dei
processi educativi.
Il tema della coesione sociale è dell’integrazione è decisivo anche nello studio sul suicidio
svolto da Durkheim.
Visto come qualcosa che riguarda in senso esclusivo la vita dell’individuo, viene scelto da
Durkheim per la prima dimostrazione empirica della sua impostazione della sociologia.
Tutta l’opera dell’autore tende a dimostrare che l’individuo isolato, propriamente non esiste, e
che gran parte di ciò che usualmente pensiamo come caratteristico dell’essere individuale è
riconducibile all’influenza della società.
Ciò che si incontra nel suicidio è un’evidente libertà del singolo, che sceglie di sottrarsi a tale
coesione, e ciò che Durkheim intende fare è dimostrare come anche questo gesto estremo sia
riconducibile a spiegazione di ordine sociologico.
Dimostra come i tassi di suicidio all’interno di vari paesi considerati tendano a restare costanti
nel tempo. Con questo si vuole mostrare come la regolarità di questi tassi abbia la sua ragione
di essere in un insieme di spiegazioni di ordine sociali. La tendenza suicidogena di un individuo
piuttosto che un altro è connesso a fenomeni extrasoggettivi, cioè a dei fatti sociali. In generale
cioè, il numero complessivo di suicidi presenti in un dato anno in una certa società, è sempre
in relazione con il grado di integrazione sociale che la stessa società consente.
Prima di proporre le sue spiegazioni relative agli andamenti dei tassi di suicidio, Durkheim
confuta tesi precedenti, dimostrando ad esempio come la variazione del clima non corrisponda
in modo regolare ad un aumento o a una diminuzione del numero di suicidi.
Osservando le statistiche dei diversi paesi europei, Durkheim osserva che in tutte le nazioni
considerate, i membri delle confessioni protestanti presentano al loro interno un tasso di
suicidi sempre maggiore di quello presente fra i membri di altre confessioni. Poiché anno dopo
anno, questa proporzione resta costante, si considera come il tipo di appartenenza religioso
abbia qualche connessione con le capacità dei singoli di opporsi alla tentazione del suicidio.
Durkheim arriva alla formulazione dell’ipotesi per cui la religione protestante fornisca un
grado di integrazione sociale minore di quella fornita da altre confessioni. Ciò dipende alla
peculiare importanza attribuita dalla Chiesta protestante al libero esame della propria
coscienza da parte di ciascuno dei propri membri, dove cioè ciascuno è solo e libero di fronte al
testo sacro, e dove non vi è intermediazione di una dottrina fortemente codificata e trasmessa
da una gerarchia ecclesiastica. Sicuramente ciò favorisce lo sviluppo di una personalità
individualizzata, più di quanto avvenga nell’area cattolica: il protestante è difatti meno
vincolato dal cattolico a seguire la tradizione, e non dipende dagli insegnamenti impartiti da
un’autorità ecclesiastica. Contemporaneamente, deve confrontarsi in solitudine con il proprio
Dio e trovare da sé la froza di stabilire le leggi del proprio comportamento, proteggendolo così
meno dall’inclinazione a togliersi la vita rispetto i cattolici, in cui il peso di riconoscere la
volontà di Dio resta largamente sgravato dalle spalle dei fedeli, che lo lasciano alla Chiesa.
Questo tipo di suicidio, che appare così correlato all’influenza delle condizioni religiose del
protestantesimo è denominato come suicidio egoistico, facendo con il termine riferimento al
fatto che il tipo di suicidio ha a che fare fortemente con lo sviluppo dell’ego.
Altre osservazioni svolte consolidano la correlazione del suicidio con l’integrazione del singolo
nella comunità, come il fatto che in generale il suicidio sia più frequente tra le persone non
sposate che tra quelle sposate.
Nei paesi europei, inoltre, il numero di suicidio è particolarmente alto negli anni di crisi, negli
anni in cui vi sono discrepanze tra rapide ricchezze e rapide rovine, in cui imprese falliscono ed
altre si espandono. Tuttavia, Durkheim dimostra come il numero di suicidi non cresca solo
quando la crisi vada a comportare miseria, ma anche quando la crisi è di tipo positivo,
comportando cioè bruschi rialzi di benessere. Anche qui si sviluppa un’incertezza negli individui
talmente forte da dar vita al suicidio anomico, quel tipo di suicidio spiegabile da un
allentamento nelle forme della morale collettiva, da un aumento dell’incertezza rispetto alle
norme su cui conformarsi.
In entrambi i casi, la spiegazione del fatto resta una spiegazione sociale, che non chiarisce
perché sia un certo individuo piuttosto che un altro, ma spiega la presenza maggiore o minore
di suicidi entro una certa società.
Ultimo tipo di suicidio è quello altruistico, espressione di una fortissima coesione sociale, come
il sacrificio del milite per la patria.
L’analisi del suicidio svolta da Durkheim ha un grande rilievo nella storia del pensiero
sociologico, rappresentando uno dei primi esempi di ricerca che si prova a verificare delle
ipotesi teoriche sulla base di un esame di dati empirici.
Esistono tuttavia tre critiche principali riguardo i risultati di Durkheim:
1. Controllo delle fonti dei dati: Durkheim si basa su fonti statistiche che riguardano il
numero dei suicidi registrati dalle autorità civili, che a loro volta dipendono dalle
registrazioni dei medici. Tuttavia, è possibile ipotizzare che, in certe circostanze e in
certi contesti culturali, vi siano pressioni sui medici e sulle autorità per non registrare
come tali alcuni suicidi. In questo caso, i numeri su cui Durkheim si basa sarebbero in
parte inattendibili. Quest’osservazione ci invita a tenere conto, in ogni ricerca, del
modo in cui i dati sono costruiti alla fonte;
2. la seconda critica riguarda alcune delle spiegazioni ritenute da Durkheim come
significative. Uno dei suoi allievi in particolare mostrò come, nei paesi studiati da
Durkheim, la popolazione protestante tenda a concentrarsi nelle città e quella cattolica
nelle campagne: in linea di principio sarebbe dunque possibile ipotizzare che non sia
l’appartenenza confessionale, ma il tipo di residenza (e le corrispettive condizioni di
vita ad essere influente sul tasso dei suicidi;
3. si lasciano infine in ombra le motivazioni soggettive di coloro che si spingono al
suicidio, che sarebbero accessibili sicuramente solo con metodi di ricerca diversi, ad
esempio attraverso l’esame sistematico di storie di vita e di documenti autobioografici.
Nella spiegazione del suicidio Durkheim fa ricorso a considerazioni che riguardano le religioni,
in particolare degli atteggiamenti culturali che esse diffondono. Durkheim è comunque sempre
consapevole del fatto che le società moderne tendono ad essere sempre più secolarizzate,
intendendo con il termine secolarizzazione quel processo di progressiva perdita di rilevanza
che le istituzioni, le pratiche e le credenze esplicitamente religiose attraversano nella
modernità. Tra i fattori della secolarizzazione sicuramente la forte ascesa dell’importanza
attribuita alla scienza e alle spiegazioni scientifiche, ma anche la progressiva emancipazione
della sfera della vita politica e civile dai dettami religiosi.
Lo sviluppo originario delle norme morali si ha per D. all’interno della sfera religiosa, ed è
questa un’osservazione che collega le prime opere dell’autore alle Forme elementari della vita
religiosa, le cui tesi principali sono:
C’è da dire che nonostante le forme concrete delle pratiche e delle credenze religiose
variano nel tempo, in tutte vi è qualcosa di comune. È per questo che Durkheim ritiene che
lo studio delle forme più elementari che costituiscono l’oggetto privilegiato del suo lavoro
possano aiutare a cogliere qualcosa che riguarda la natura universale della religione.
Ma i contenuti di queste credenze e di queste pratiche sono dei simboli prodotti dalla
collettività che rimandano alla collettività stessa come oggetto nascosto del culto: la
religione è cioè il sistema di simboli attraverso il quali la società prende consapevolezza di
sé.
Evidente come l’autore non condivida la spiegazione delle religioni che è fornita dai fedeli
delle stesse. Di fatto, egli le critica, mostrando che esse rappresentano una sorta di
proiezione fuori del mondo umano di qualcosa che invece è essenzialmente umano.
D’altro canto, ritiene che la società sia giustamente l’oggetto di una sacralizzazione, nella
misura in cui essa rappresenta, a fronte dei singoli, qualcosa di effettivamente
trascendente.
Il contributo di Durkheim è rilevante perché indica alla sociologia come ogni società si
fondi su delle credenze, da spiegare come nascano. All’interno delle forme elementari è
presente una teoria dell’effervescenza sociale, per cui vi sono momenti nella vita collettiva
in cui gli uomini, riuniti assieme, sviluppano un’energia e una passione che li rendono
capaci di affermare e proiettare al di fuori di sé delle credenze cui attribuiscono il carattere
di rivelazione di una potenza superiore.
L’autore constata cioè che la teoria della conoscenza proposta dai filosofi tende a
polarizzarsi in due posizioni: da un lato si ha chi cioè (come gli empiristi), ritiene che la
conoscenza si sviluppi a partire dalle sensazioni, che vengono coordinate e sistematizzate
nel corso dell’esperienza; dall’altro si ha (come Kant) ritiene che la conoscenza nasca
dall’incontro dei dati sensoriali con un apparato intellettuale che è dato a priori, con
categorie dell’intelletto innate e universali.
Le categorie del pensiero sono a priori, non nel senso che siano universali e naturali, ma
nel senso che sono sociali, costituendosi attraverso l’interazione tra gli uomini e tra gli
uomini e il loro ambiente, e vengono trasmesse attraverso la cultura.
Ciò diventa chiaro se si pensa che i concetti sono espressi in parole, e sappiamo già che il
linguaggio è un prodotto sociale. È attraverso l’acquisizione di un linguaggio che ciascuno
di noi divent membro di una società e viene a condividerne i modi di percepire il mondo.
È così che Durkheim viene ad affermare che i modi in cui conosciamo il mondo hanno
origine sociale, motivo per cui al variare della società, anche le forme del conoscere
variano.
5. Simmel e galera.
5.1. Nietzsche.
Per quanto Nietzsche non possa essere definito propriamente come sociologo, in alcuni
tratti della sua opera effettua una critica della civilizzazione occidentale che avrà
sicuramente un eco a lungo nelle scienze sociali.
La critica della civiltà occidentale è relativa al mascheramento che la stessa compie rispetto
tale volontà. In particolare, la morale cristiana sarebbe per Nietzsche la responsabile della
diffusione di una cultura di schiavi che promuove lo stato di obbedienza un ipocrita
camuffamento della realtà fondamentale e nega la vita.
Ulteriore concetto fondamentale è quello della morte di Dio, il quale coincide con la fine
dell’idea che vi sia un fondamento trascendente per i valori cui gli uomini possono ispirarsi.
Riconoscere così che tale fondamento non esiste corrisponde ad un’immensa assunzione
di responsabilità, quella di affermare i valori in assenza di criteri oggettivi, sulla base solo
della volontà e della capacità di crearli. L’uomo che si assumerà questa responsabilità,
nell’opinione di Nietzsche, è l’oltreuomo, cui l’autore intende preparare la strada.
A livello sociologico Nietzsche sarà presente soprattutto nella sua trattazione del
disincanto e del politeismo dei valori, ma anche a livello delle trattazioni del potere e della
politica. Nel pensiero di Pareto, tornerà soprattutto come invito allo smascheramento degli
impulsi inconsci che stanno dietro ai discorsi e alle azioni apparentemente tradizionali. Più
avanti, nel corso del XX secolo, Nietzsche sarà riletto più volte sotto diverse angolazioni, e
solo recentemente, la sua critica della possibilità di stabilire una verità che sia esente da
finzioni è ritornata nel pensiero di autori quali Focault o Derrida.
5.2. Tonnies.
La velocità dei mutamenti che interessarono la Germania, e in generale l’Europa, tra la fine
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, generò diverse reazioni, tra le quali una certa vena
di critica della modernità e del capitalismo, e di nostalgia per le forme sociali preesistenti.
Tra gli autori principali portatori di questo atteggiamento sicuramente ritroviamo Tonnies,
e una delle sue prime opere, Comunità e Società, all’interno della quale propone la
distinzione tra i concetti di Gemeinschaft (comunità) e Gesellschaft (società), entrambi
modelli di organizzazione sociale, che ricordano a grosso modo i concetti durkheimiani tra
tipi di società semplici e complesse.
La Gemeinschaft viene vista come un gruppo stabile nel tempo e nello spazio, radicato in
un territorio, dove gli individui hanno tra loro rapporti personali e diretti. È una forma
associativa caratterizzata da un alto grado di chiusura verso l’esterno e di staticità delle
norme. Qui gli uomini orientano le proprie azioni e i propri comportamenti sulla base di
tradizioni fortemente radicate e, nelle parole di Tonnies, essa è una forma associativa
basata su una fusione spontanea delle volontà. Difatti, la partecipazione di ciascun
membro della comunità alla vita comune è basata sui sentimenti molto più che sulla
ragione, ed è qualcosa di istintivo, non frutto di una scelta. Caso per eccellenza è infatti
quello della famiglia, membro della quale si diventa naturalmente e non perché appunto
la si sceglie. Tuttavia, l’autore, nel descriverlo immagina soprattutto un paese, un villaggio
europeo tradizionale fortemente integrato, in cui i ruoli di ciascuno sono chiaramente
definiti, la cultura è fortemente omogenea e la mobilità di ciascuno è limitata.
La Gesellschaft è al contrario una forma di associazione più vasta, al cui interno gli
individuo godono di ampie possibilità di movimento, e dove essi non hanno in generale fra
loro rapporti diretti, ma rapporti impersonali mediati dall’adesione razionale a delle regole
statuite, dalla subordinazione ad istituzioni espressamente regolate e dall’uso di mezzi di
scambio astratti (come il denaro).
Il pensiero di T si dimostra così marcato da una sorta di nostalgia per le forme associative
di tipo comunitario. Lo sviluppo della società si realizza attraverso una distruzione
progressiva delle forme di vita comunitaria, proprio fatto in cui l’autore avverte una
perdita che riguarda la ricchezza dei vincoli affettivi tra le persone e le loro certezze morali.
Simmel si ritenne essenzialmente un filosofo, ma per un lungo periodo della sua vita si
dedicò fortemente al progetto di fondare la sociologia come branca autonoma del sapere.
La sua sociologia, che ha al centro l’interazione sociale, si concentra su quello che è il ruolo
della società. Nell’opinione di Simmel, per alcuni versi la società non esiste. Difatti, se ci
guardiamo intorno, vediamo semplicemente delle persone e degli individui concrei (“non
vedi la società”). Simmel risponde a questo fatto osservando che il pensiero umano opera
sempre e comunque per astrazioni, ciascuna delle quali è corrispettiva ad un certo punto
di vista, o ad una certa distanza dall’oggetto che si sta considerando. Questa distanza ci
permette di considerare l’oggetto su cui si riflette in un modo o in un altro.
La società si configura così come un oggetto del pensiero che emerge considerando
insiemi di individui da una certa distanza. Così quando parliamo ad esempio del
movimento operario, facciamo riferimento ad un’entità collettiva costituita da individui
che, presi singolarmente, hanno grandi differenze tra di loro. Utilizzando questi concetti,
tuttavia, si vanno ad operare delle astrazioni rispetto alle qualità personali di tutti questi
individui (sti cazzi delle tue singolarità), andando piuttosto a cogliere caratteristiche li
accomunano e che rendono plausibile il concetto stesso che si usa.
Ciò comunque non vuol dire che non esista la società, ma che essa sia visibile attraverso
una prospettiva che ci permette di osservare come gli uomini stiano tra di loro in relazioni
di reciprocità.
Oggetto della sociologia sono dunque le forme delle relazioni di influenza reciproca che
sussistono tra gli uomini, e con società andiamo ad indicare il nome con cui si indica una
cerchia di individui, legati l’un l’altro da varie forme di reciprocità.
In tutte le nostre azioni reciproche (salutarsi ad esempio), sicuramente ciò che facciamo
influenza l’altro, e viceversa, ma una società in senso proprio è il risultato di una certa
sedimentazione del tempo di alcune forme di azione reciproca: la società cioè (intesa in
senso di grande sistema) altro non è che forma di reciprocità tra individui che si è protratta
nel tempo e trasformata in formazione stabile, autosufficiente e provvista di una
fisionomia ben definita.
Per Simmel così la sociologia è scienza formale, che si occupa di descrivere le forme che le
relazioni di reciprocità assumono in situazioni e in tempi diversi, che si solidificano in
grandi istituzioni e che restano effimere nelle relazioni più leggere.
Nelle sue trattazioni, Simmel dichiara più volte di volersi concentrare sulla forma delle
relazioni e dei processi sociali in un modo che vada a prescindere dai loro contenuti,
facendo riferimento al fatto che in realtà non esistono in sé cose come il potere o
l’amicizia, ma relazioni concrete la cui forma astratta può venire chiamata così.
Esistono comunque altre parti dei testi di Simmel che non sembrano riguardare le forme
dell’interazione in generale, ma riguardare le forme che le interazioni assumono all’interno
certi contesti storici e culturali.
Dunque, sia la comprensione del pensiero quotidiano, che la comprensione del mondo
prodotta dalle scienze storico sociali avvengono mediante la costruzione di forme, che
sono in quanto tali espressioni di vita ma anche una sua riduzione. Ciò che vediamo del
mondo è cioè sempre meno di quanto sarebbe possibile vedere, e di conseguenza ogni
sapere esaustivo è impossibile per definizione.
Nel 1900 Simmel pubblica la Filosofia del denaro, alcune delle quali argomentazioni
vennero sintetizzate dallo stesso autore tre anni dopo in Le metropoli e la vita dello spirito.
Il punto di vista da cui Simmel muove l’analisi è fornito dal compito di indagare le forme
dell’esperienza moderna, che coincide per l’autore con l’esperienza metropolitana, le cui
caratteristiche principali stanno nell’intensificazione della vita nervosa, prodotta dal rapido
e ininterrotto incontro di impressioni esteriori e interiori, e nell’intellettualismo della
coscienza, per uci la reazione ai fenomeni si va a spostare in quell’organo della psiche che è
il meno sensibile ed il più lontano dagli strati profondi della personalità.
Per comprendere il linguaggio di Simmel bisogna considerare che l’intelletto qui è una
facoltà logico-combinatoria, orientata alla contabilità, e non bisogna cioè considerarlo
come ragione, come principio che da ordine alle conoscenze empiriche in base a domande
che riguardano il loro senso. Nella sua accezione cioè, l’intelletto è la più superficiale e la
più adattabile delle nostre facoltà.
Come l’intelletto, anche il denaro è infatti indifferente alla qualità dei beni di cui permette
lo scambio. Ossia, due beni possono non avere nulla in comune, ma in quanto merci
possono corrispondere alla stessa quantità di denaro, diventando identici.
C’è da dire che questi processi di cui Simmel parla non sono mai intesi in senso
unidirezionale, anzi, se in certi ambiti della vita si manifestano certe tendenze, probabile è
che in altri si manifesti il contrario, come per esempio la convivenza della crescente
anonimità delle relazioni in pubblico con l’importanza crescente di rapporti fortemente
personalizzati.
Secondo Simmel, tanto più stretta, poco numerosa e indifferenziata al suo interno è una
cerchia sociale, tanto meno individualizzati sono i contenuti della coscienza di ciascuno dei
suoi membri. Quanto più la cerchia si allarga, tanto più il singolo ha la possibilità di
sviluppare il senso della propria autonomia e della propria unicità. Dunque, poiché la
metropoli è il luogo della massima concentrazione e della massima differenziazione
sociale, è la sede dell’individualità per eccellenza, dove la libertà dell’individuo in senso di
movimento ed espressione avviene al massimo.
Tuttavia, non è detto che la libertà dell’uomo si manifesti come un sentimento di benessere
nella sua vita affettiva.
un aspetto specifico della tragedia della modernità consiste per Simmel proprio nella
sproporzione tra questi due lati dello spirito: cioè, mentre le cose diventano sempre più
colte (visto l’enorme incremento della cultura oggettiva), gli uomini sono sempre meno
capaci di guadagnare dalle perfezione delle cose un perfezionamento della loro vita
soggettiva, mostrando come la società moderna disponga di un sapere che sovrasta le
capacità di elaborazione di ogni singolo individuo, ed è in ciò che sta la dissonanza
specifica della modernità.
Diversamente da Durkheim Simmel non pone la sociologia al di sopra delle altre scienze
dell’uomo, né ritiene che l’oggetto della sociologia sia intrinsecamente superiore
all’individuo.
Secondo Simmel questa tensione non si può eliminare, e si manifesta diversamente nel
corso della storia, puntualizzando come esso si realizzi in modo esplicito solo nell’epoca
moderna, dove sorge un orientamento etico che tende ad enfatizzare più che mai prima la
libertà essenziale di ciascuno, l’unicità e la responsabilità personale nella realizzazione di
se.
All’interno del saggio Simmel osserva come il concetto di individuo ha dei significati diversi.
Nella cultura europea settecentesca parlare di individuo significava soprattutto affermare il
principio dell’uguaglianza naturale di tutti gli uomini, andando a svolgere una critica della
cultura feudale, che al contrario riconosceva differenze fondamentali tra gli uomini, che
dipendevano dalle differenze di nascita.
Questo concetto di individuo, nella cultura illuministica del Settecento, è soprattutto l’idea
di una eguaglianza di diritto di tutti gli uomini fra di loro. Nel corso dell’Ottocento poi, si fa
strada un altro contenuto, per cui, nonostante tutti gli uomini siano formalmente uguali,
per quanto concerne la loro interiorità, essi siano dissimili. A tale idea si affianca poi quella
per cui il compito etico di ciascuno consista esattamente nel portare a compimento, ossia
nell’esprimere e realizzare la propria unicità.
>La moda.
Simmel si rende sicuramente conto del fatto che la densità della popolazione negli
immensi agglomerati della vita urbana moderna rende nei fatti spesso difficile agli individui
corrispondere all’altezza delle esigenze richieste. Spesso accade infatti che la ricerca
ossessiva di segni distintivi o di grandi novità sia caratteristico di un tentativo di
costruzione di una personalità, che però alla fine tende a svuotarsi di senso, riducendosi
alla mera collezione arbitraria di segni esteriori.
All’interno del Saggio sulla moda, Simmel mostra come nella moda si esprima
perfettamente la compenetrazione, nello stesso fenomeno, della distinzione da un lato, e
dell’imitazione dall’altro. La distinzione esprime così l’esigenza di esprimere la nostra
singolarità rispetto all’altro, mentre l’imitazione esprime il bisogno di affermare la nostra
partecipazione ad una cerchia sociale che riconosciamo autorevole in fatto di stile. Nella
decisione di seguire una moda, dunque, il singolo afferma la propria volontà di distinguersi
da tutti coloro che non la seguono, ma allo stesso tempo, afferma anche la volontà di
assomigliare a tutti coloro che ne sono rappresentanti.
In una società contemporanea cioè la moda consiste in un processo di mobilità sociale
apparente, in cui imitando la moda dei gruppi dotati di prestigio maggiore, chi è più in
basso nella scala della società può far mostra di appartenervi, e il maggior paradosso sta
proprio nel fatto che esprime allo stesso tempo autonomia e obbedienza, il suo essere o
non essere allo stesso tempo.
6. WEBER.
Senza ombra di dubbio, Max Weber è stato lo studioso che ha influenzato di più la sociologia
del XX secolo. All’interno delle sue elaborazioni, è sempre stata di particolare importanza
l’attenzione per gli eventi politici del suo tempo, e difatti sempre considerò l’idea di dedicarsi
all’attività politica in prima persona.
Essendo tutt’altro che facile schematizzare quelle che sono le linee fondamentali del pensiero
di Weber, si possono suddividere le sue preoccupazioni teoriche in tre campi d’indagine: quello
metodologico; quello storico-comparativo; quello sistematico. Ciò vuol dire che affermare che
l’autore in particolare si è occupato principalmente:
1. Il problema del metodo delle scienze sociali e delle relazioni tra sapere scientifico e
giudizi di valore;
2. Il problema della genesi, specificità e destino della civiltà occidentale;
3. Il problema di una definizione sistematica e coerente dei concetti della sociologia.
Quando parla di sociologia Weber intende una scienza che si propone di intendere in virtù di un
procedimento interpretativo l’agire sociale, e dunque di spiegarlo causalmente nel suo corso e
nei suoi effetti. Cioè per Weber la sociologia è prima di tutto scienza comprendente, ossia il cui
primo obiettivo è comprendere l’agire sociale, e con ciò l’autore vuole indicare l’intendere il
senso, interpretare il significato che quell’azione ha agli occhi della persona che la compie.
Diventa così centrale il concetto di senso, essendo l’agire sociale un agire dotato di senso, agire
definito da Weber come un atteggiamento umano se e in quanto l’individuo che agisce o gli
individuo che agiscono congiungono ad esso un senso soggettivo. È dunque tale se e in quanto
vi è connesso un senso, e il senso soggettivo si configura così come il significato che all’agire
stesso attribuisce chi compie l’azione.
Questo fa capire come ciò che distingue le scienze umane dalle sociali è proprio la possibilità
che ci sia comprensione, creando così una frattura rispetto all’impostazione portata avanti dai
primi illuministi fino a Durkheim, per cui il modello scientifico per eccellenza è quello delle
scienze naturali, e di conseguenza le scienze dell’uomo devono adeguarsi a questo modello.
Per Weber quest’affermazione è del tutto sbagliata: difatti, nelle scienze naturali, i fenomeni
non sono agiti da soggetti che danno loro un significato, mentre nelle scienze dell’uomo, lo
scienziato ha a che fare con fenomeni che sono agiti da soggetti i quali attribuiscono a loro un
significato. Questa posizione dell’autore dipende molto da quella di W.Dilthey e dal suo rifiuto
di utilizzare i metodi propri delle scienze naturali per le scienze dello spirito, e da quella di
H.Rickert, particolarmente sensibile all’impossibilità di applicare nozioni come quella di legge
naturale nell’ambito della storia umana.
Weber, ricollegandosi alle posizioni di figure a lui influenti, intende dire che tutte le scienze
sociali sono da considerare scienze comprendenti, aventi per oggetto l’agire come
comportamento dotato di significato. Esistono comunque delle differenze tra le diverse
discipline scientifiche: la storia, ad esempio si occupa della singolarità degli eventi¸ e dunque
della comprensione di eventi che si sono verificati una sola volta, mentre la sociologia è
orientata alla generalità, intendendo così studiare le azioni sociali degli uomini, e quanto esiste
in loro di tipico. Per fare ciò la sociologia deve astrarre da moltissime azioni singolari delle
caratteristiche comune, producendo tipologie di fenomeni.
La sociologia, dunque, si occupa dell’agire sociale, con cui Weber intende un agire riferito
all’atteggiamento di altri individui, e orientato nel suo corso in base a questo. Viene da sé non
ogni forma di agire è sociale, ma lo è quello orientato all’atteggiamento di altri, come può
essere quindi l’insegnamento scolastico, considerato come l’intenzione di insegnare ad altri,
basandosi su supposizioni che riguardano le aspettative di chi riceve l’insegnamento.
L’agire sociale può essere di diversi tipi, e in tal ambito Weber parla di idealtipi o tipi ideali,
costruzioni del pensiero e strumenti conoscitivi con cui lo scienziato sociale si dota per
comprendere il senso delle azioni. Concretamente parlando, il senso che ciascuno attribuisce
alle proprie azioni è ovviamente differente caso per caso, ma la sociologia tende a
generalizzare, proprio attraverso il tipo ideale, che viene considerato dunque come una sintesi,
un’astrazione utile per ridurre la varietà immensa dei fenomeni e, nelle parole weberiane, esso
è un quadro concettuale a cui la realtà deve essere commisurata e comparata, al fine di
illustrare determinati elementi significativi del suo contenuto empirico.
È un concetto questo che ricorre in tutta l’opera di Weber, che a un primo livello può essere
rintracciato in determinate formazioni storiche colte nella loro individualità, come il
capitalismo occidentale moderno; a un secondo livello i concetti di burocrazia, oppure i tipi di
potere carismatico, tradizionale e legal-razionale; ad un terzo livello i tipi di azione sociale, i più
generali, che corrispondono ad un tentativo di rendere interpretabile e confrontabile l’agire in
un numero elevatissimo di casi.
1. Agire razionale rispetto lo scopo, ossia quel tipo di agire in cui l’individuo agisce in
vista di un certo fine, e calcola i suoi sforzi in modo razionale per raggiungere il fine
stesso, e in cui il soggetto ha una visione chiara del suo obiettivo, e la sua azione
serve a conseguirlo, utilizzando le risorse e gli strumenti a disposizione secondo un
calcolo;
2. Agire razionale rispetto al valore, ossia quel tipo di agire orientato dalla credenza
nell’incondizionato valore in sé di un comportamento, a prescindere dalle
conseguenze di tale comportamento. Un tale valore in sé può per esempio essere
attribuito ad un comportamento etico, religioso o estetico, e l’agire può essere
comprensibile solo in riferimento al valore rilevante per il soggetto che compie
l’azione;
3. Agire affettivo, quell’agire in cui il senso è legato ad un particolare stato di animo
del soggetto, azioni cioè dettate non dal fine o dal riferimento ad un valore, ma
delle emozioni o dai sentimenti;
4. Agire tradizione, ossia quell’agire dettato da un’abitudine acquisita, in cui il
soggetto non compie l’azione in modo riflessivo o seguendo un impulso, ma
seguendo una consuetudine, come lo scambiarsi dei saluti secondo formule
stereotipate.
Si tratta qui di tipi ideali di agire, ma nella realtà non è spesso agevole distinguere se un’azione
sia di un tipo o di un altro, proprio perché vanno a mescolarsi diversi orientamenti di
significato diverso.
Questo predominio di forme di agire razionale corrisponde infine per Weber allo sviluppo di un
processo di razionalizzazione.
Uno dei temi essenziali della riflessione weberiana è quello della definizione delle
caratteristiche essenziali delle origini e del destino della civiltà occidentale moderna, che dal
pdv dell’organizzazione economica, trova il suo perno nel capitalismo, motivo per cui definirne
la specificità significa definire un aspetto fondamentale della società occidentale moderna.
All’interno del capitalismo, dunque, i soggetti agiscono per conseguire un guadagno in modo
formalmente pacifico, utilizzando le congiunture dello scambio. Classico soggetto tipo di
questo sistema è il proprietario dell’impresa capitalistica, che ha un certo capitale che mira ad
aumentare attraverso il conseguimento rinnovato di profitti che di norma sono reinvestiti per
procurare nuovo profitto.
Per quanto riguarda la società invece, essa è capitalistica quando la soddisfazione dei bisogni
dei suoi membri ha luogo soprattutto attraverso l’attività di queste imprese e il consumo di
merci prodotte da queste; nelle parole weberiane un’epoca può essere definita capitalistica se
la copertura dei fabbisogni è talmente orientata in senso capitalistico che, se venisse meno
questo tipo di organizzazione, l’intera copertura del fabbisogno crollerebbe.
Nonostante in molti punti, sia evidente la connessione con Marx, è totalmente assente qui il
concetto di sfruttamento, dal momento in cui la definizione non si basa sulle caratteristiche dei
rapporti di produzione, ma riporta sia la formazione del profitto alla sfera dello scambio, e
dall’altro definisce il capitalismo sulla base di un insieme di caratteristiche che riguardano il
senso dell’agire e le condizioni storiche in cui tale agire si dispiega. Cioè, denunciare lo
sfruttamento dei lavoratori salariati è per Weber un aspetto di una critica morale, che non ha
nulla a che vedere con la definizione scientifica del capitalismo.
Affinché si potesse sviluppare il capitalismo, sono stati necessari diversi fattori storici, tra cui:
La disponibilità di lavoro formalmente libero, dato dalla fine della schiavitù e dal
servaggio;
Lo sviluppo di mercati aperti, e dunque l’apertura progressiva delle comunità di
villaggio ad un sistema di relazioni commerciali più ampie;
La separazione tra famiglie ed imprese, e dunque tra sfera domestica e sfera del
lavoro;
Lo sviluppo di un diritto formalmente statuito, che consenta ai soggetti dell’agire
capitalistico condizioni in cui le norme date dal potere politico non siano soggette a
continui mutamenti.
Sono fattori questi che, secondo Weber, sono presenti in tutte le società, ma la cui
combinazione si è prodotta solo nell’occidente moderno, assieme ad una mentalità specifica
che permette di attribuire senso all’agire capitalistico, ossia lo spirito del capitalismo.
Una volta definito il capitalismo, si pone il problema di capire quali condizioni hanno
determinato il sorgere dello stesso. La causa principale è indicata da Weber nell’attitudine
razionalistica che caratterizza proprio la civiltà moderna; lo spirito del capitalismo è dunque
l’ethos razionale che lo alimenta, e il problema diventa quello di spiegare il particolare caso
del razionalismo occidentale e le sue origini.
Sappiamo che l’agire economico di tipo capitalistico calcola in vista del guadagno, e per fare
ciò si sviluppano negli uomini dell’Occidente moderno delle determinate forme di condotta
pratico-razionale nella vita. Per capire le origini di queste disposizioni Weber “utilizza” il saggio
l’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, in cui andrà a cercare l’origine di queste
condotte in sfere della vita specificamente culturali, in particolare nei secoli all’inizio dell’età
moderna, e cioè in forme religiose.
Fondamentale qui la data del 1517, quando Lutero rese pubbliche le sue 95 tesi che segnano
l’inizio della riforma protestante, con una dottrina che comportava il rifiuto dell’autorità del
Papa in materia di fede, riproponendo un radicale ritorno al messaggio evangelico. In generale
con il protestantesimo si andava a porre l’accento sull’individuo come interprete diretto della
parola di Dio.
Weber osserva che il protestantesimo si differenzia dal cattolicesimo per un’enfasi particolare
sulla vita mondana. Sul terreno di questa rivalutazione dei compiti mondani si instaura il
concetto di beruf, che in italiano significa allo stesso tempo professione e vocazione, e nel cui
concetto i protestanti hanno indicato il carattere sacro dei compiti professionali di ciascuno, la
dimensione religiosa dell’occuparsi di compiti connessi alla propria posizione del mondo.
Dunque, l’etica protestante, specie nella sua versione calvinistica, favorisce lo sviluppo della
mentalità capitalistica, offrendone le basi.
Essendo l’agire economico capitalistico orientato alla ricerca di un profitto, il sistema fondato
su questo tipo di agire è un agire economico che produce accumulazione, producendo
periodicamente di più di quanto viene accumulato. Nella ricerca delle origini di tale sistema
Weber rintraccia il ruolo giocato dall’etica caratterizzata dunque da un atteggiamento di ascesi
intramondana.
Per Weber è comunque da sottolineare che l’etica protestante è solo uno dei fattori che abbia
determinato il sorgere e lo sviluppo del capitalismo occidentale moderno, e che a dirla tutta
quest’etica vada a creare una situazione paradossale, favorendo (attraverso la sua enfasi sul
lavoro e sulla contemporanea rinuncia ad ogni lusso), la produzione di ricchezza che, una volta
prodotta, gioca a favore delle tentazioni e dunque a sfavore degli impulsi originari religiosi.
Difatti, lo sviluppo del capitalismo tende a perdere, nel suo corso, i propri fondamenti culturali
legati all’etica protestante, e una volta avviato, il capitalismo procede meccanicamente, quasi
per forza di inerzia. Chi nasce al suo interno vi si trova inserito come in un modo naturale, e ne
da quindi per scontati i meccanismi.
Il profitto e il successo professionale vengono così perseugiti per se stessi, o per consentire il
conseguimento di quei beni esteriori che l’etica puritana originaria fuggiva come tentazioni.
La rinuncia ad una posizione esplicitamente critica dipende in parte dal fatto che Weber
comunque non vede, nel momento storico in cui vive, alternative plausibili al capitalismo; si
mostra cioè abbastanza scettico nei confronti del socialismo, tentando anche di mantenere la
sua sociologia come avalutativa.
Con riferimento ad un valore si intende il soggettivo riferirsi nella propria condotta a certi
valori, mentre con giudizio di valore si fa riferimento a certi fenomeni verso cui si dichiara
esplicitamente se è bene o male.
Lo scienziato sociale non può comunque evitare di riferirsi ai valori, da un lato perché essi sono
parte del senso che gli attori attribuiscono al proprio agire (ed essendo la sociologia orientata
per Weber proprio a comprendere tale senso, essi sono campo di indagine proprio della
disciplina), dall’altro lo scienziato sociale vi si riferisce perché non può farne a meno, essendo
un uomo situato in un contesto storico e sociale, che vive delle passioni, si schiera con uno o
con gli altri e di conseguenza giudica la realtà in cui è immerso. Secondo Weber è proprio da
questa sua appassionata presenza nel mondo che lo scienziato deriva la propria volontà di fare
ricerca, studiando qualcosa cioè perché lo ritiene rilevante. E di conseguenza, i suoi
orientamenti personali lo spingeranno a scegliere di analizzare alcuni nessi causali piuttosto
che altri, ossia lo spingeranno a vedere certi fenomeni o nessi piuttosto che altri.
Come detto, la realtà è infinita e nessuna spiegazione può essere esaustiva; l’orientamento
basato sui propri lavori sarà quello che conduce lo scienziato a privilegiare certi elementi
piuttosto che altri.
Ciò che comunque garantisce l’oggettività del lavoro dello scienziato sociale è che, nel corso
della ricerca, egli tenti di essere consapevole dei propri orientamenti soggettivi, evitando di
emettere giudizi di valore rispetto ai fenomeni che studia; ed è proprio questa oggettività che
risulta frutta della disciplina denominata avalutatività.
Difatti, è indubbio che se uno scienziato sociale, all’interno dell’esercizio della sua disciplina
inserisse i propri giudizi di valore farebbe un pessimo servizio alla scienza, collocandosi ad
esempio in campi quali quello della politica e dell’etica. Proprio l’etica, che è la sfera dei valori,
è un oggetto della ricerca delle scienze sociali, ma il lavoro di queste stesse scienze è scientifico
solo nella misura in cui si differenzia dall’etica stessa, rinunciando a valutare nel momento in
cui si sforza di comprendere e spiegare.
In Economia e società Weber sviluppa delle categorie, oltre i già citati concetti di sociologia
comprendente, agire e agire sociale:
Relazione sociale: essa esiste quando, essendoci più attori sociali compresenti, il senso
dell’azione di ognuno si riferisce all’atteggiamento dell’altro, di modo che le azioni dei
soggetti siano reciprocamente orientate tra di loro (vedi insegnante-alunno);
Questi individui in relazione costante possono costituire comunità o società, la cui
differenza principale sta nel fatto che la comunità viene costituita se la disposizione
dell’agire sociale si basa su una comune appartenenza, che deve essere
soggettivamente sentita da parte degli individui che vi partecipano, mentre la società
(anche detta associazione) si verifica quando la disposizione dell’agire sociale poggia su
una convergenza di interessi o su un legame di interessi motivato razionalmente.
(gemeinschaft vs gesellschaft).
La comunità e la società rappresentano per Weber tipi ideali di relazioni sociali; la comunità è
cioè un tipo di relazione sociale basata su una forte dimensione affettiva, mentre la società è
fondata sulla considerazione dell’interesse degli individui a farne parte o meno.
Comunità e associazioni sono entrambe forme di agire sociale dove ci si sofferma in particolare
sull’integrazione dei membri del gruppo, pur essendo possibile che vi siano relazioni di tipo
opposta come la lotta, concetto così importante nella teoria weberiana che l’approccio
dell’autore viene definito a volte conflittualistico.
Infine, le relazioni sociali possono essere aperte, quando la partecipazione all’agire sociale
reciproco che le costituisce è possibile per chiunque, chiuse, se vi sono degli ordinamenti che
limitano l’accesso solo a chi possiede certi requisiti, facendo in questo caso parlare di
raggruppamento sociale.
Nelle riflessioni di Weber, ciò che rende o no legittimo un potere è la validità dell’autorità che
la impone. Nel senso più generale possibile, con il termine potere si indica la capacità di un
soggetto di produrre degli effetti, intervenendo così concretamente sulla realtà.
Quando questo potere ha per oggetto altri esseri umani si parla di potere sociale, dunque la
capacità di produrre effetti su altri, e proprio all’interno di esso si rintraccia il potere politico,
che coincide con il potere di governo all’interno di un certo raggruppamento politico (per
Weber questo si verifica quando il raggruppamento definisce se stesso se esso ha
l’occupazione di un territorio, se ha la nozione della propria continuità nel tempo, e se nella
sua organizzazione è presente la possibilità di minacciare il ricorso alla forza fisica per imporre
certe regole per disciplinare la vita in comune). È un potere quest’ultimo che può basarsi
interamente sulla forza, caso in cui il governo si risolve nell’imposizione di regole che
convengono agli interessi o alle convinzioni di alcuni (a prescindere dalle opinioni di altri),
oppure invocare qualche principio di legittimità, in cui le regole si basano sul criterio condiviso
e sono appunto ritenute legittime.
A partire da questa distinzione, Weber inizia il suo discorso sul concetto di potere legittimo,
distinguendo innanzitutto il concetto di Match (“potenza”), con cui designa qualsiasi possibilità
di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte ad un’opposizione, la propria volontà,
da quello di Herrschaft (“potere”) con cui si intende la possibilità che un comando, che abbia
determinati contenuti, trovi obbedienza presso certe persone. Viene di conseguenza che nel
caso della potenza, chi la subisce è in qualche modo costretto a seguire la volontà dell’altro,
mentre nel caso del potere chi obbedisce lo fa perché riconosce come legittimo il potere da cui
il comando emana.
Il problema di Weber è ora quello di comprendere come un comando politico (all’interno di un
raggruppamento sociale) possa essere considerato legittimo. In termini di legittimazione del
potere Weber distingue:
Legittimità del potere di tipo tradizionale: poggia sulla credenza del carattere sacro di
tradizione che sono ritenute valide da sempre, come nei confronti della figura del
padre in una famiglia patriarcale. Il potere di chi comanda riceve qui la sua legittimità
dal fatto di provenire dal passato;
Legittimità del potere di tipo carismatico: si verifica quando poggia sulla dedizione
straordinaria al carattere sacro o alla forza eroica o al valore esemplare di una
persona. È un potere con una grande potenzialità di produrre mutamento (basti
pensare alla figura carismatica di un profeta); Weber considera difatti il carisma come
la più grande forza rivoluzionaria potenziale della storia, legato tuttavia ad una
persona particolare, e per questo il problema si pone alla morte di questa, legato alla
difficoltà nel conservare gli ordinamenti o i messaggi che ha lasciato (=routinizzazione
del carisma);
Legittimità del potere di tipo razional-legale: poggia sulla credenza nella legalità di
ordinamenti statuiti, e nel diritto di chi è chiamato (in base ad essi) ad esercitare il
potere.
È questa la forma di legittimazione del potere più tipica delle società moderne, che favorisce
senza dubbio un mutamento sociale continuo e regolato; essendo le leggi razionalmente
stabilite dagli uomini e prevedono regole per la modifica, il mutamento è sempre possibile, ma
anche sempre controllato, in vista dell’esistenza di tali regole.
Tuttavia, l’esistenza di un potere legittimo non significa che il ricorso alla forza scompaia, ma
significa solo che la forza è monopolizzata dal potere in virtù della sua legittimazione, e che
può quindi essere utilizzata in via legittima dal potere stesso contro coloro che si oppongono
alle regole istituite. Nel momento in cui il numero o la forza degli oppositori supera quello di
coloro che sostengono la legittimità del potere, emergono nuovi conflitti dai quali può
scaturire un nuovo potere, che potrà o assumere i caratteri di imposizione, o ispirarsi a nuovi
criteri di legittimità.
6.8. La burocrazia.
Quando inoltre la burocrazia si presente nella sua forma pura, le funzioni che l’apparato deve
svolgere sono stabilite con i criteri della razionalità strumentale; ad esempio, l’accesso di
individui alle funzioni amministrative avviene in base a procedure regolate per legge che
definiscono la loro competenza a svolgere le mansioni richieste.
Nonostante Weber descriva la burocrazia in modo specifico in riferimento alla discussione del
potere razional-legale e alle sue forme di amministrazione, in molti passi il termine si sgancia
dalla sfera amministrativa e va ad indicare, più in generale, ogni forma di organizzazione
razionale del lavoro.
Risulta inoltre evidente che la burocrazia, intesa come sistema di amministrazione, è più
efficiente di altri sistemi quando si tratta di amministrare società ampie e complesse, come si
nota nei confronti del sistema amministrativo tipico delle società basate sulla forma di
legittimazione del potere tradizionale, ossia il patrimonialismo (?).
Dall’altro lato, la burocrazia ha anche degli svantaggi; difatti, basata sulla spersonalizzazione,
favorisce la deresponsabilizzazione dei singoli funzionari e, in quanto fondata sul rispetto di
procedure standardizzate, in qualche modo sfavorisce l’innovazione.
Con il conetto di stratificazione sociale in sociologia si intende il modo in cui in una società gli
individui e i raggruppamenti di individui sono differenziati e ordinati gerarchicamente,
alludendo così alle disuguaglianze che riguardano le risorse cui ciascuno può accedere.
Per la visione weberiana in ogni società umana corrispondono più ordinamenti, che
corrispondono così a diversi pdv da cui la società può essere considerata, distinguendo in
particolare un ordinamento economico; un ordinamento culturale; un ordinamento politico.
All’interno di ognuno di questi ordinamenti la stratificazione si presenta secondo criteri diversi.
Dal pdv economico è fondamentale la nozione di classe, che per Weber è data da un insieme
di individui che condivide possibilità analoghe di procurarsi dei beni economici, ossia beni e
servizi finalizzarti alla soddisfazione dei bisogni relativi a prestazioni di utilità. Nella società
moderna la classe si definisce in relazione al mercato e appartengono cioè alla stessa classe
tutti coloro che hanno le stesse possibilità sul mercato e interessi economici simili.
Tuttavia, è necessario introdurre anche ola nozione di ceto, sino a coprire la gamma delle
diverse possibilità di stratificazione interne alle società umane. W. Definisce la situazione di
ceto come un effetto privilegio positivo p negativo su9lla considerazione sociale, che può
essere fondato sul modo della condotta della vita, sul prestigio derivante dalla nascita,
sull’appartenenza o meno ad un gruppo. Il ceto si definisce cioè come un insieme di individui
che condividono un certo status riconosciuto sostanzialmente, senza cioè che esso coincida con
la posizione economica.
Lo sviluppo di questa fiducia altro non fa che sviluppare un disincanto nel mondo, nel senso
che provoca un progressivo allontanamento degli uomini dal riferimento a spiegazioni e a
comportamenti magici, animistici o religiosi. Nella modernità ci si aspetta cioè che tutta possa
esser spiegato razionalmente, sostenendo anche uno straordinario sviluppo delle sue capacità
tecniche e sostituendo all’antico senso del mistero e della complicità uomo-natura, un
atteggiamento esclusivamente strumentale verso la natura.
Tuttavia, il paradosso della modernità si verifica vista l’idea per cui la ragione possa dominare
ogni cosa in realtà è essa stessa una fiducia non giustificata.
Si verifica inoltre una scissione tra la razionalità e i valori; difatti, la scienza risponde a
domande che riguardano il come dominare tecnicamente il mondo, ma non dice se sia giusto o
meno farlo; questa divisione comporta l’individuazione della dimensione della responsabilità
personale come fondamento dell’etica.
Osservazioni.
A partire dall’ultimo decennio del XIX secolo la sociologia è insegnata regolarmente nelle
università degli USA, e trai nomi dei primi esponenti ricordiamo Ward, Small, Sunner, Cooley,
Veblen, la cui sociologia dipende soprattutto dall’evoluzionismo di Spencer, non mancando
tuttavia l’elaborazione di formulazioni peculiari, tra cui: l’etnocentrismo di Sunner, il concetto
di consumo vistoso di Veblen, la nozione del sé specchio e la distinzione tra gruppo primario e
secondario di Cooley.
Fino alla crisi del 1929 il capitalismo americano fu caratterizzato da un grandissimo dinamismo,
unito tuttavia ad una grande capacità di produrre diseguaglianze, che comunque
(diversamente dall’Europa), non diedero luogo ad una consistente lotta di classe, soprattutto a
causa della difficoltà di consolidare una solidarietà duratura tra lavoratori di diversa
provenienza e classe sociale.
Tra gli autori che più di tutti contribuirono allo sviluppo della prima rivista americana di
sociologia (American Journal of Sociology), incontriamo il nome di William Thomas, la cui opera
fondamentale è Il contadino polacco in Europa e in America. Il lavoro riguarda le condizioni
degli immigrati polacchi a Chicago, con l’assunto che il comportamento degli immigrati non è
comprensibile senza far riferimento alla loro storia, al paese da cui provengono e alle
motivazioni che stanno dietro l’emigrazione.
Con quest’opera Thomas diede inizio a quelli che saranno chiamati poi i metodi qualitativi
della ricerca sociologica, che nel Contadino polacco in Europa e America corrisponde allo
studio sistematico della corrispondenza degli immigrati polacchi a Chicago e della ricostruzione
della storia di vita di alcuni di loro. Thomas ritiene che la sociologia non possa fare a meno di
tener conto del significato che gli attori attribuiscono al proprio comportamento, e alle
situazioni in cui si trovano, dal momento in cui se gli uomini definiscono reale una situazione,
essa è reale nelle sue conseguenze.
Il punto fondamentale è che è essenziale la definizione di una situazione fornita dagli attori, di
modo che si possa procedere alla comprensione della loro condotta. Tuttavia, la definizione
della situazione non può essere considerata accessibile attraverso metodi quantitativi, motivo
per cui il sociologo deve attrezzarsi per comprendere le differenze qualitativi dei modi con cui
le persone attribuiscono significato a ciò che vivono.
Dopo Thomas, fui Robert Park ad assumere il dipartimento di sociologia, sotto la cui guida si
formò una vera e propria scuola, composta da un gruppo di insegnati e ricercatori interessati ai
problemi sociali ed uniti dall’uso di metodi di ricerca comuni, e in forte collaborazione tra di
loro. La scuola di Chicago è da subito caratterizzata da una fortissima propensione alla ricerca
empirica, con studi che utilizzavano una combinazione di diversi metodi di ricerca; tra questi, il
più peculiare fu quello dell’osservazione partecipante, con cui il ricercatore si immergeva
parzialmente per un lungo periodo di tempo nella vita del gruppo studiato.
Ciò che unifica questi gruppi è la città, e il loro approccio viene infatti spesso detto ecologico,
sia nel senso che concepisce il comportamento dei gruppi nella città sulla base di un modello
naturalistico (cioè allo stesso modo di un ambiente naturale dove coesistono diverse specie
animali e vegetali che competono e cooperano tra di loro), sia nel senso che presta forte
attenzione ai contesti fisici in cui si esplicano i comportamenti degli attori.
Oltre ad essere interessato teoricamente ai dettagli della vita urbana, ai processi comunicativi
e al ruolo della stampa quotidiana, Park resta affascinato dallo strumento del giornale in
quanto fonte di notizie, in cui frammenti di informazione sulla vita sociale si combinano con le
esperienze con cui il lettore si confronta, costruendo la sua immagine del mondo. In questo
senso la teoria sociologica appare come il tentativo di individuare i processi che sottostanno a
ciò di cui l’individuo ha notizia e che rendono conto del suo manifestarsi.
In realtà la teoria sociologica non deve essere considerata come un sistema, ma piuttosto
come un insieme di concetti operativi utili ad orientare la ricerca e a mettere ordine fra i
risultati.
7.2. La città.
Per intendere a pieno l’essenza della città moderna si utilizza la nozione chiave di mobilità che,
nella scuola di Chicago e nella terminologia di Park indica sia lo spostamento geografico o
sociale, che la vivacità spirituale che consegue all’esposizione a stimoli numerosi e vari,
indicando anche l’esposizione a qualcosa di nuovo e una conseguenza apertura, per cui più si è
mobili più si è inclini al mutamento.
Difatti la città è frutto della mobilità, perché senza la quale non si sarebbe potuto costruire
concentrazione su un territorio, ed è la massima fonte di mobilità poiché la densità di
popolazione moltiplica gli stimoli, gli incontri, le variazioni, le possibilità di porsi nuovi obiettivi
e di appartenere a nuovi gruppi. Si ha di qui un esito ambivalente: si può avere sia un maggiore
sviluppo delle facoltà individuale che una maggiore disorganizzazione sociale, il cui affermarsi
corrisponde a qualcosa di simile all’anomia durkheimiana e, nei termini di Park, a
un’incapacità dell’ambiente sociale di fornire agli individui risorse per soddisfare
efficientemente i propri bisogni.
Altro concetto fondamentale è quello della distanza sociale, ossia il sentimento dei membri di
un gruppo di essere distinti ed estranei rispetto ai membri di un altro. È questo un sentimento
che può esprimersi anche in distanza territoriale; sul territorio di una città cioè i gruppi
tendono a collocarsi in aree distinte, ed è ciò che darà vita alla teoria delle aree naturali, ossia
di quelle aree in cui la popolazione di una città tende a distribuirsi.
secondo Park ogni città moderna tendini effetti a svilupparsi secondo uno schema generale per
cui vi è una tendenza di qualsiasi città ad espandersi radialmente a partire dal quartiere
commerciale centrato indicato come centro, intorno al quale si trova normalmente un'area di
transizione che viene occupata da imprese commerciali e da piccole industrie, seguito da una
zona residenziale operaia, abitata dagli operai dell'industria che sono sfuggiti dall'area di
deterioramento ma che desiderano abitare a breve distanza dal luogo di lavoro. Oltre a questa
zona vi è l'area residenziale occupata da difficili con appartamenti di lusso o da quartieri
privilegiati e chiusi con abitazioni monofamiliari. Al di là dei confini della città vi è la zona dei
lavoratori pendolari costituita da aree suburbane o città satelliti, situata a mezz'ora o un'ora di
viaggio dal quartiere centrale.
È questo un modello che risente dell’esperienza americana e lo stesso Park ammette che
nessuna città vi corrisponda concretamente; tuttavia, resta valida l’idea che lo spazio di ogni
città tenda a suddividersi in aree socialmente e funzionalmente dissimili, come lo è quella
secondo cui le diverse zone possono essere sviluppate da gruppi diversi, in un’ottica in cui
individui e famiglie si spostano periodicamente nel tentativo di soddisfare al meglio i propri
bisogni.
7.3. George Mead.
Chiamato il padre dell’interazionismo simbolico, Mead colloca al centro delle sue ricerche
sociologiche la formazione del sé, inteso non nei termini di spirito o anima, ma nel senso di
essere qualcosa che emerge e si realizza nel corso dell’interazione sociale.
Il sé è il soggetto umano nella misura in cui diventa oggetto a sé stesso, in cui si offre cioè ad
un’attività autoriflessiva, attività specifica solo dell’essere umano, che dispone inoltre di
un’altra caratteristica fondamentale, quella di disporre del linguaggio, un insieme strutturato
di segni, ai quali per convezione è assegnato un significato. Questo significato è condiviso da
più soggetti, e fa cioè sì che una certa parola, in un certo contesto, evochi un significato che è
più o meno lo stesso per tutti coloro che appartengono alla stessa comunità linguistica.
Per riflettere su noi stessi è necessario capire come guardarsi da fuori, e riflettendo, io mi
sdoppio, sono insieme il soggetto dell’azione riflettere e il suo complemento oggetto. È questa
la distinzione fondamentale tra io e me, entrambi due poli del sé: se l’io è soggetto, in quanto
fonte dell’azione, il me è il medesimo soggetto nel momento in cui diventa oggetto a sé stesso.
Ciò significa che la condizione per cui il sé emerga è sociale; Mead effettua così una
riformulazione del rapporto individuo/società, per cui l’individuo è sociale nella misura in cui
ha un sé, la cui forma è resa possibile dalla sua immersione in un linguaggio comune.
Si potrebbe cioè dire che un soggetto diventa davvero individuo nella misura in cui è capace di
confrontare le definizioni e aspettative degli altri con i desideri dell’Io, facendo sì che,
attraverso il discorso dell’altro generalizzato (cioè la somma di tutti gli altri che parlano di me),
il soggetto possa giungere a quello della personalità organizzata attorno alla propria
singolarità.
In Italia la sociologia inizia a svilupparsi negli ultimi decenni dell’Ottocento, come conseguenza
del pensiero positivista e delle inchieste sociali, tra cui quella sulla Sicilia compiuta da Sonnino
e Franchetti nel 1877; per quanto riguarda il positivismo, il suo esponente maggiore fu Cesare
Lombroso.
Nel 1896 venne fondata la prima Rivista italiana di sociologia a testimonianza di un interesse
che accumunava la cultura italiana alle tendenze europee, e le pubblicazioni continuarono fino
al 1922. Negli anni venti infatti, la sociologia italiana conobbe una battuta d’arresto, tra le cui
cause ricordiamo la posizione assunta da Benedetto Croce che, oltre ad essere ostile al
fascismo, era ostile anche alla sociologia, che considerava pseudoscienza e riteneva che si
trattasse di un tentativo intellettuale infondato di negare l’essenziale storicità dell’essere
umano attraverso l’applicazione di supposte regolarità della vita sociale.
Pareto, nato a Parigi, iniziò la sua formazione nel campo dell’ingegneria, per poi dedicarsi alla
cattedra di economia politica all’Università di Losanna.
Nonostante le sue prime opere siano dunque di economia, nel 1912 smette di insegnare la
materia per iniziare ad occuparsi di sociologia, pubblicando il Trattato di sociologia generale,
che sarà immediatamente tradotto in francese, scrivendo allo stesso tempo diversi articoli
politici.
All’interno del Trattato Pareto invita all’osservazione e al perseguimento della verità anche
quando questa sia scomoda, e a prescindere della sua utilità, tuttavia senza realizzare alcuna
ricerca empirica, ma basandosi sulla sua conoscenza del mondo.
Ciò che Pareto scorge di fondamentale nell’uomo sono i residui, intendendo con il termine ciò
che rimane una volta che si sia scomposto il comportamento degli uomini nelle sue
componenti elementari, e di cui l’autore ne riconosce sei tipi diversi: l’istinto alla
combinazione; la persistenza degli aggregati; il bisogno di manifestare i sentimenti; la socialità;
l’integrità della persona; il residuo della sessualità. I residui rappresentano così il fondamento
non logico del comportamento, e sono presenti in modo più o meno consapevole, in tutti gli
uomini.
Tuttavia, gli uomini tendono ad auto ingannarsi, ed hanno una tendenza spiccatissima a dare
una ver4nice logica alle proprie azioni, vernice che consiste nella produzione di giustificazioni
pseudorazionali dei comportamenti, ossia nelle derivazioni, sistemi di rappresentazioni
mentali che occultano gli impulsi fondamentali proponendo una legittimazione del
comportamento in termini che appaiono logici.
Sintetizzando le idee di autori quali Gaetano Mosca, Pareto o Roberto Michels, si potrebbe dire
che la teoria delle elite è sostanzialmente una critica del funzionamento reale della
democrazia; bisogna sottolineare che gli autori qui non si oppongono alla democrazia in nome
dei principi tradizionali dell’aristocrazia, intendendo piuttosto demistificare il funzionamento
concreto delle democrazie rappresentative, mostrando come alla fine governino solo piccole
minoranze.
Il problema teorico che consegue è capire come si producano e riproducano le elite; seppur
per gli elitisti la risposta sta nel fatto che le minoranze di governo sono costituite da chi, in
quella situazione storica data, è più atto a governare, si tratta proprio di individuare gli
elementi di cui questa attitudine è fatta e, nei modi di risolvere questo problema risiedono le
principali differenze tra gli autori in questione. Comunque, tutti mettono in evidenza il
problema del ricambio delle elite: visto il ruolo cruciale di queste ultime, è importante che la
società sia in grado di collocare ai posti di comando, di volta in volta, gli individui e i gruppi più
adatti a governare, e i cui interessi siano più consoni per realizzare il bene collettivo.
8.3. Il fascismo.
Negli anni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento iniziano a verificarsi delle problematiche,
suscitate dall’emergere delle masse sulla scena politica e sociale.
Oltre le spiegazioni, ciò che è vero è che si riconosce l’esistenza di un nuovo panorama sociale:
da un lato l’agglomerarsi nelle città di una folla di persone relativamente anonime le une
rispetto le altre, dall’altro la possibilità che queste folle si organizzino in manifestazioni
collettive indipendenti. Sono generalmente i lavoratori che si riuniscono, spesso sotto la guida
di partiti riformisti o rivoluzionari, premendo per la soddisfazione di nuovi diritti.
Per coloro che si ispirano a Marx il problema è quello dell’organizzazione delle masse in forze
compatte e autoconsapevoli, mentre per i riformisti si tratta di promuovere gradualmente una
completa partecipazione dei lavoratori ai meccanismi della democrazia (condividendo inoltre i
vantaggi derivanti dallo sviluppo industriale); comunque, per entrambi il richiamo alle masse
ha valore positivo, facendo si che le lotte per l’accesso universale e obbligatorio all’istruzione si
affiancano a quelle per la riduzione dell’orario del lavoro e così via.
È comunque vero che anche solo il termine massa rispetto al termine folla rimanda all’idea di
un insieme di persone confuso, dove i singoli sembrano privi di legami comunitari, di tradizioni
proprie e di capacità di giudizio.
Fascismo?: Nato come movimento di stampo nazionalista dopo la fine della prima Guerra
Mondiale, il fascismo giunse al potere nel 1922 e nel 1925 diede luogo ad un regime che
abrogò la democrazia, mettendo fuori legge i partiti di associazione, vietando la libertà di
stampa e di associazione, e costituendosi più in generale come una dittatura. Caratteristica
delle dittature moderne non è solo quella di fondarsi unicamente sulla violenza, ma anche di
basarsi su un consenso popolare, ricercato soprattutto attraverso l’instaurazione di un
rapporto privilegiato tra leader e masse, sia con l’uso di mezzi di propaganda efficaci, che con
la disponibilità dei soggetti a proiettare sul leader una forte carica affettiva. Ciò accade
comunque solo se gli individui rinunciano effettivamente tanto alla propria individualità e al
valore dei propri legami con gli altri. allo stesso tempo, i singoli si trasformano in una massa
anonima, legata solo dall’identificazione con il capo.
l’esperienza fascista non è comunque solo confinata all’Italia; nel periodo tra prima e Seconda
guerra mondiale movimenti e partiti di stampo fascista sono stati attivi in molti paesi europei,
tra cui l’Austria, l’Ungheria, la Spagna e la Germania, dove il fascismo assunse con il nazional-
socialismo di Hitler le sue forme più radicali.
Gli elementi comuni che permettono di riunificare sul piano analitico tutti questi fenomeni
possono essere rintracciati nell’ostilità congiunta ai principi liberali da un lato e nell’utilizzo
sistematico della violenza nei confronti delle opposizioni e nell’appello del leader alle masse
nel nome di una rigenerazione nazionale.
Una delle figure più opposte al fascismo è Antonio Gramsci, ispiratore e teorico della maggiore
insurrezione operaia in Italia, quella dei consigli operai di Torino del 1920. Sei anni dopo, il
fascismo mise fuori legge le opposizioni ed egli venne arrestato, e passò il resto della vita in
carcere, dove scrisse i Quaderni del carcere, opera considerata oggi come una delle più
importanti nella storia della sociologia, nonostante Gramsci non fosse un sociologo. L’opera è
rilevante in quanto fa un’interessante rielaborazione del marxismo in chiave antidomgmatica e
antideterministica, e soprattutto perché al suo interno appaiono le definizioni di diversi
concetti, tra cui:
Tutto ciò comporta per Gramsci delle modifiche importanti nel modo di produzione, che fanno
si che il processo produttivo venga controllato più strettamente, che il lavoro diventi più
produttivo e che la produzione delle merci cresca e allo stesso tempo si standardizzi,
rivolgendosi a un pubblico nuovo di consumatori. Accedendo anche all’aumento dei salari, gli
operai partecipano così all’aumento di benessere che lo sviluppo delle forze produttive gli
consente, e ciò fa sì che la loro disposizione rivoluzionaria venga attenuata.
La capacità di diffondere all’interno della società una cultura che coincida con i propri valori e
interessi significa costruire un’egemonia sulla società, concetto che pretende in qualche modo
rivalutare l’importanza e la relativa autonomia della sfera di cultura. All’interno della società
capitalistica le classi dominanti non esercitano il proprio potere solo con la coercizione, ma
egemonizzando gli atteggiamenti delle classi subalterne, imponendo cioè i propri valori e le
proprie logiche come elementi dominanti della cultura diffusa; di conseguenza rovesciare il
potere altro non significa che sostituire a quest’egemonia un’egemonia alternativa.
Questa lotta si svolge all’interno della società civile, che era già stata definita da Hegel come la
sfera della vita sociale che si situa tra famiglia e Stato, i cui contenuti sono determinati
soprattutto dal libero gioco delle forze economiche e degli individui che cercano di realizzare
sé stessi, comprendendo anche quelle istituzioni che inibiscono e regolano il gioco, quali
possono essere le istituzioni religiose, i circoli cittadini etc.
Marx aveva poi ristretto il concetto, riducendolo a sinonimo della sfera della proprietà privata
e delle relazioni economiche, e successivamente Gramsci (pur mantenendo un’ottica marxista)
torna ad Hegel, adattando il concetto alle necessità analitiche della società civile, essendo
questa così composta da chiese, scuole, sindacati, associazioni di imprenditori e di associazioni
culturali, attraverso cui, sia le classi dominanti esercitano la loro egemonia, sia quelle in cui la
stessa egemonia può essere contrastato.
Allo stesso modo di molti marxisti Gramsci era piuttosto ostile alla sociologia in senso stretto
chiamando la sua teoria di filosofia della prassi. Usa così una scienza della società molto simile
a quella che oggi viene intesa come sociologia dell’azione, dove cioè alla disciplina è
riconosciuto un ruolo cruciale al soggetto storico. Senza ombra di dubbio Gramsci ha svolto
un’analisi della realtà estremamente accurata, rivolgendosi essenzialmente ai militanti e
intellettuali di sinistra, invitando tra l’altro ad analizzare, studiare e comprendere il mondo
cattolico.
9. Vienna e dintorni.
In realtà la cultura aveva già cominciato a cambiare prima dello scoppio della guerra, e per
confermarlo bastava dare uno sguardo alla storia della letteratura, della pittura,
dell’architettura o della musica.
Per quanto riguarda la filosofia e le scienze sociali, la trasformazione si notò soprattutto nei
paesi di lingua tedesca, dove l’avvento del nazismo portò ad una brusca interruzione agli
sviluppi culturali, e a partire al 1923 difatti emigreranno un numero enorme di intellettuali.
Vienna, nonostante Berlino e Praga siano considerate centri culturali di enorme rilievo, viene
considerata la capitale per eccellenza, al cui interno si manifestano alcune tra le esperienze più
significative del tempo, e dove si elaborano alcune delle teorie che influenzeranno ancora più
fortemente il secolo successivo.
Per esprimere al meglio questa crisi che si stava passando, si può affermare come stia venendo
meno la certezza del nesso tra le parole e le cose, venendo meno la plausibilità dell’idea di
poter definire la realtà in modo univoco.
Sono questi gli anni in cui Einstein sta celebrando la legge sulla relatività, e in cui, poco più
tardi, Heisenberg arriverà alla legge dell’indeterminazioni. Sono anni in cui le scienze naturali
diventano consapevoli del fatto che la realtà può essere descritta attraverso teorie diverse
non necessariamente compatibili tra di loro. Le teorie si configurano come modelli, che
permettono cioè di muoversi nell’area di studio.
Allo stesso tempo, diventa chiaro che non esiste alcun luogo neutrale da cui i fenomeni
possono essere osservati; è cioè difficile immaginare un pdv che permette un’oggettività
assoluta. Ogni osservatore è cioè situato in un modo o l’altro e la realtà è sempre la
percezione della realtà.
Per quanto concerne invece le scienze storico-sociali, esse risentono sia degli effetti dello
stoicismo, che dell’accumularsi dei dati etnografici, e ci si inizia a porre il problema del
relativismo. Ossia, se si accetta di pensare che le concezioni del mondo sono relative ai diversi
periodi della storia e alle diverse configurazioni che assumono le società, è ancora possibile
credere che vi sia un punto di vista assoluto da cui giudicare la realtà?
A tutto ciò si aggiunge la consapevolezza crescente del fatto che l’essere umano non è
trasparente a se stesso e da ciò, personaggi come Ludwig von Miza traggono l’idea per cui ogni
pianificazione ragionale dell’agire è illusoria: nell’ambito economico, il mercato è il sistema di
regolazione ideale, non dipendendo da una pianificazione cosciente, ed essendo al contrario
un meccanismo incosciente che produce la razionalità dell’insieme a partire dai
comportamenti dei soggetti la cui razionalità è limitata. Il punto è chiedersi è con quali
categorie sia possibile comprendere il comportamento dell’uomo e in quali forme porsi il
problema della gestione della società che non possono più affidarsi al potere vincolante di
tradizioni date per certe.
In questo quadro rivestono un ruolo fondamentale (nello sviluppo futuro delle scienze
sociologiche) le opere di alcuni autori, tra cui Freud, che era un medico. La sua psicoanalisi
sorge prima di tutto come una pratica clinica finalizzata a liberare i pazienti da sintomi di
carattere nevrotico, questo attraverso la scoperta delle loro cause. Nell’elaborazione dei
principi del proprio metodo terapeutico Freud sviluppò poi un congiunto di teorie molto più
elaborate, che rappresenta il primo tentativo del pensiero occidentale di dar conto dei
rapporti tra coscienza ed inconscio.
Tra i suoi concetti fondamentali, risulta quello di rimozione. Studiando una serie di casi di
isteria, e analizzando in seguito diversi processi della vita quotidiana, tra cui i sogni e i lapsus,
Freud giunse all’ipotesi per cui l’apparato psichico di ciascuno di noi ha la facoltà di
rimuovere (=allontanare) gli effetti e gli eventi che costituiscono dei traumi, la cui presneza
nella coscienza sarebbe in grado di generare un conflitto che il soggetto non è in grado di
affrontare nella vita cosciente. C’è da sottolineare però che ciò che è rimosso non scompare,
ma rimane nell’ombra e agisce attraverso dei sintomi, i più importanti dei quali si ritrovano nei
sintomi delle nevrosi.
Secondo Freud infatti, non esiste nulla, nel nostro mondo interiore, che scompaia
definitivamente, ed ogni adulto convive con il bambino che è stato; allo stesso modo,
l’umanità nel suo complesso non dimentica mai le fasi precedenti attraversate, facendo si che
in ogni uomo civile vivano ancora, più o meno sepolti, gli impulsi, le fantasie e le paure che
accompagnavano l’uomo delle età primitive.
La rimozione provoca un oblio che, per quanto paradossale possa sembrare, è una forma di
memoria, che però sfugge alla consapevolezza della coscienza. Il nucleo delle pratiche
terapeutiche della psicoanalisi nasce così nel contesto di questa scoperta, che permette di
riportare alla luce almeno una parte di ciò che è stato rimosso, e mette il soggetto a confronto
con ciò che non era stato precedentemente in grado di affrontare.
Ciò che viene rimosso ed è difficile affrontare è il desiderio, (la libido), ossia l’espressione
dell’energia pulsionale che si agita in ciascuno di noi. Ciò che Freud identifica con le pulsioni è
la sessualità, intesa però in senso ampio come l’insieme delle pulsazi9oni erotiche che
spingono ciascuno di noi verso delle mete attraverso il cui raggiungimento la pulsione si
appaga.
Le pulsioni hanno infatti vari modi di essere soddisfatte. Quando la loro meta è inibita (in
particolare riguardo freni opposti dagli statuti morali della società), esse hanno facoltà di
trovare altre vie. Il processo della sublimazione è qui il processo attraverso cui l’energia
pulsionale viene appagata nell’estrinsecazione di attività culturali ed artistiche.
Nelle opere post-guerra Freud, tuttavia, affianca alle pulsioni erotiche il concetto di pulsione di
morte, pulsioni distruttive che permettono di comprendere come ogni organismo si
muoverebbe in quest’ottica tra due spinte contrastanti e confuse, da un lato verso la
soddisfazione del proprio piacere, dall’altro verso uno stato di quiete finale. Tuttavia, va
osservato che anche le pulsioni di tipo erotico comportano aspetti di violenza, di aggressività
che Freud non manca di riconoscere; difatti il mondo delle pulsioni non conosce distinzioni tra
bene e male, essendo in contrasto con le esigenze morali necessarie alla vita sociale.
All’interno del saggio Considerazioni attuali sulla guerra e sula morte Freud presenta le idee
fondamentali per cui lo sviluppo della città (e allo stesso tempo lo sviluppo di ogni individuo
dall’infanzia all’età adulta) comporta una coercizione relativa al controllo e alla negazione degli
impulsi istintivi, e dall’altro che questi impulsi restino latenti e minaccino costantemente di
riemergere. In quest’ottica la guerra, pur essendo generata da fattori oggettivi extrapsichici,
consiste in una situazione in cui gli impulsi primordiali dell’uomo hanno la facoltà di
riemergere. In questi impulsi, secondo Freud, la violenza e l’assassinio si confondono con il
piacere, e si verifica una parziale sospensione delle norme morali che fa emergere i fantasmi di
un’umanità primitiva.
Ciò che infine più caratterizza la psicoanalisi è la nozione di inconscio, nozione che si configura
nel pensiero di Freud come una sorta di luogo al cui interno vanno collocati sia i pensieri e i
sentimenti rimossi che i meccanismi stessi che a questa rimozione presiedono e le pulsioni
stesse.
In una prima fase, Freud disegnò una sorta di topografia della psiche distinguendo i sistemi
conscio, regno della nostra conoscenza, preconscio, quello di ciò che, pur non essendo
presente ala nostra attenzione in un momento dato, resta tuttavia accessibile, inconscio, il
regno oscuro di ciò che la coscienza volontariamente non è in grado di raggiungere.
L’Es, consistente nell’insieme delle pulsioni che mirano alla propria soddisfazione,
indifferenti tanto alle condizioni della realtà esterna alla psiche, quanto ad ogni
morale;
L’Io corrisponde a sua volta alla coscienza che pensa e riflette, conoscendo il principio
della realtà, l’istanza dell’apparato psichico che presiede all’esperienza del mondo, alla
consapevolezza e all’apprendimento;
Il Super-Io, consistente nell’istanza delle norme morali, che rappresenta
l’interiorizzazione in ciascuno di noi delle regole e dei valori dell’autorità sociale.
I valori tra queste tre istanze sono intrinsecamente conflittuali, e l’Io si trova costantemente
nella posizione di dover mediare tra la pressione delle pulsioni e le norme morali, tentando
contemporaneamente di tener conto della realtà.
Il progetto si può dire coincidesse con quello sviluppato dal Circolo di Vienna, che
presupponeva la possibilità di una corrispondenza univoca tra ogni espressione linguistica e il
suo referente nella realtà, di modo che le espressioni sarebbero raffigurazioni della realtà
stessa. È proprio questo presupposto che tuttavia entra in crisi nel pensiero di Wittengstein
successivo al trattato; difatti, nel linguaggio ordinario le parole hanno diversi significati, che
dipendono dal contesto in cui vengono usate. Di conseguenza, il tentativo di ridurre ogni
parola ad uno e unico significato può aver senso all’interno di un linguaggio scientifico
artificiale, ma si tratterebbe di un procedimento convenzionale ed inapplicabile nella lingua
corrente. In quest’ultima, infatti, il significato delle parole è definito dal loro uso in situazioni
e cerchie sociali concrete: essendo però molte e diverse le cerchie e le situazioni che possiamo
incontrare, sono molti anche i significati delle parole e comprendere significa proprio
conoscere le regole che, nel gioco in cui ci troviamo, ne determinano l’uso. Queste regole sono
pratiche e il linguaggio stesso è una pratica, un’attività che svolgiamo in quanto esseri umani,
intrecciata con tutte le altre che pratichiamo. Quest’insieme di attività che pratichiamo è
forma di vita, concetto di cui dunque fa parte anche il linguaggio.
Con il termine gioco linguistico si va così ad intendere che, quando parliamo, seguiamo delle
regole allo stesso modo in cui le seguiamo quando facciamo un gioco con altri individui, regole
che dunque possono anche essere sospese. Inoltre, ciò che ha senso in un sistema di regole
può non avere necessariamente lo stesso senso in un altro, e sul piano del linguaggio ciò
significa trasferire ciò che si può dire entro un determinato gioco linguistico all’interno di un
gioco diverso.
Il semplice problema che si pone quando si tenta di tradurre un pensiero da una lingua all’altra
diventa qui infatti molto più rilevante. Il punto è cioè che anche all’interno della stessa
comunità linguistica le parole possono essere utilizzate in giochi linguistici diversi, ma anche
impermeabili uno all’altro (come due professionisti di due materie diverse).
Per le scienze sociali, le conseguenze di questo tipo di pensieri sono essenzialmente due:
1. Il ruolo del linguaggio viene in primo piano, e non potrà più esistere una descrizione
del mondo sociale che non sia una descrizione di ciò che le persone interpretano come
il loro mondo. La lingua viene così a prefigurarsi come lo strumento attraverso cui gli
uomini si intendono tra loro in relazione alle attività in cui sono coinvolti, e nello stesso
momento in cui si esprime la loro forma di vita è il mezzo con cui la interpretano;
2. Alcune tematiche, come la comparazione tra società dotate di culture diverse,
diventano estremamente problematiche. Infatti, non è del tutto scontato che gli stessi
concetti che hanno senso all’interno di una cultura siano adeguati a comprenderne
un’altra, e solo chi è all’interno di un gioco linguistico è in grado di cogliere il senso
delle azioni che fa chi lo gioca, mentre chi non ne conosce le regole, giudica il gioco
come un assurdo.
Il risultato cui porta questa conseguenza del pensiero di Wittgenstein porta ad un relativismo
radicale, per cui ogni gioco linguistico, e a maggior ragione ogni cultura, è incomparabile con
ogni altro. In forma più debole, si potrebbe intendere tutto ciò come un invito a rivendicare la
pari dignità di ogni gioco linguistico e di ogni cultura, e non credere di poter trattare
immediatamente le credenze di una certa società con gli stessi metodi e parametri con cui se
ne studia una differente.
9.3. Mannheim e il problema del relativismo.
Il posto di Mannheim all’interno della storia della sociologia è soprattutto legato alla sua
formulazione di una sociologia della conoscenza, termine che era stato introdotto da Max
Scheler in una serie di opere degli anni Venti per intendere un’analisi dei rapporti che
sussistono tra i vari tipi di conoscenza e i fattori sociali che determinano la situazione
esistenziale degli uomini. Mannheim dunque sistematizza quest’analisi, e la sua opera più nota
è Ideologia ed utopia.
Il problema analizzato dall’autore è quello del relativismo (controlla parte libro) e in particolare, il
primo oggetto della riflessione è proprio la compresenza nella stessa società di visioni
politiche concorrenti tra di loro. Era questo un concetto che Marx aveva già collegato agli
interessi delle classi in conflitto e, attraverso il concetto di ideologia, aveva mostrato in
particolare come le classi dominanti tendono a descrivere il mondo occupandone le
contraddizioni. A questo concetto marxiano Mannhein affianca quello di utopia, con cui vuole
intendere la visione del mondo tipica di coloro che, impegnati nella lotta per rovesciare i
rapporti esistenti, non riescono a scorgere nella realtà nient’altro che gli elementi che vogliono
negare. Così, sia utopia che ideologia, si propongono dome parziali deformazioni della realtà,
pur essendo di segno opposto.
I passi successivi dell’autore stanno nell’abbandono nella nozione marxiana del termine
ideologia, con l’uso del temine per intendere che ogni individuo, in quanto appartenente ad un
gruppo sociale determinato, tende a concepire la realtà secondo un punto di vista che esprime
gli interessi, la cultura, la sensibilità, e le peculiari capacità del gruppo stesso. Di conseguenza il
modo in cui ciascuno vede la realtà è fortemente connesso alla nostra situazione
esistenziale.
Dal problema del relativismo Mannhein arriva così alla proposta teorica di un relazionismo;
dunque, un concetto che indica la relazione originaria che lega ogni prodotto della cultura
all’esistenza concreta e determinata in cui sono posti i soggetti. L’affermazione del
relazionismo non significa affermare che non ci sia più alcuna verità; anzi, quest’ultima diventa,
più che una certezza da possedere, un limite cui tendere. L’approssimazione a questo limite
risulta maggiore quanto più si è capaci di prendere atto delle diverse prospettive esistenti e di
controllare quelle che sono le tendenze ideologizzanti dentro ciascuno di noi. Ed in questa
prospettiva, nelle società moderne sono fondamentali gli intellettuali, che costituiscono un
gruppo relativamente svincolato dalle appartenenze sociali. Difatti, con la loro formazione ed
orientamento avalutativo favorirebbero il loro impegno per un confronto disinteressato tra le
parti, da cui emergerebbero idee concorrenti.
Con la sociologia della conoscenza di Mannheim la sociologia si presta a diventare una scienza
autoriflessiva, alla cui indagine cioè non sfuggirà neanche l’immagine di se stessa che indaga.
La scuola di Francoforte rappresenta una delle imprese collettive più importanti del pensiero
sociale del XX secolo, il cui nome proviene dall’Istituto per la Ricerca sociale che venne fondato
a Francoforte nel 1923 (Germania della Repubblica di Weimar), i cui membri più noti sono M.
Horkheimer, T. Adorno H. Marcuse e W. Benjamin, senza dimenticare inoltre la presenza di
partecipanti quali Pollock e Lowenthal.
La loro formazione non fu sicuramente omogenea; in quella di Marcuse, ad esempio, fu
rilevante l’influenza della fenomenologia di Husserl, mentre in personaggi quali Fromm
l’interesse era dato principalmente dalla psicoanalisi. Tuttavia, quello che li unì fu innanzitutto
l’intento di promuovere un rinnovamento della ricerca sociale marxista: si sentiva difatti la
necessità di rendersi conto delle trasformazioni più recenti del capitalismo e delle nuove
contraddizioni che ne derivavano il riferimento qui era quello di un marxismo antidogmatico e
non determinista, da cui derivò una teoria della critica della società che aveva dei caratteri
abbastanza peculiari.
Dopo che i nazionalsocialisti prenderono il potere in Germania nel ’33, l’Istituto venne chiuso
per tendenze ostili allo Stato; tuttavia, già in previsione di ciò o suoi membri avevano già
trasferito i fondi all’estero ed aperto una sede in Ginevra. Poco dopo emigrarono negli USA,
dove allargarono i loro interessi allo studio della società di massa e dell’industria culturale, fino
a quando, nel 1950, l’istituto venne riaperto a Francoforte.
A quel punto era già stato stabilito che i testi della scuola non potevano circolare all’interno
della Germania nazista, ma la loro fama stava iniziando a crescere, con la teoria critica che
diventava uno dei principali riferimenti intellettuali per tutti coloro che non riconoscevano al
marxismo sovietico lo statuto di unico rappresentante di un’alternativa al sistema capitalistico,
ma che neanche si riconoscevano nei caratteri principali di questo. Tra l’altro, il loro stesso
insegnamento fu una delle fonti di ispirazione die movimenti studenteschi del 1968.
Si può affermare come la teoria critica sia caratterizzata da un forte intreccio di ricerca sociale,
psicoanalisi e filosofia, non potendo essere considerata né sociologia in senso stretto, né come
mera osservazione della realtà: deve essere cioè intesa sia come ricostruzione della genesi
storica dei fenomeni sociali, che come esplicitazione delle possibilità di emancipazione di
volta in volta contenute.
All’interno di Minima Moralia, Adorno fa un’introduzione in cui dimostra come nella società
attuata dal modo di produzione capitalistico, il fine dell’esistenza degli uomini diventa
produrre, e la vita si riduce così alla mera erogazione di forza lavoro e al consumo dei beni
prodotti, il cui scopo altro non è che permettere di continuare a produrre.
Significa cioè conservare il fulcro dei pensieri di Marx che, dalla scuola di Francoforte, viene
letto fin dall’inizio in chiave ortodossa, con il centro del discorso che fa riferimento alla
relazione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti sociali, rendendo esplicite le
possibilità rivoluzionarie che si aprono nella fase contemporanea del capitalismo. Il problema
qui è dato dal fatto che le possibilità risultano latenti, cosa visibile attraverso l’attenuazione
dei conflitti sociali nei paesi europei, conseguenza della rinuncia della classe operaia a quella
vocazione rivoluzionaria che il marxismo le attribuiva.
Capire le motivazioni di ciò, faceva sì che fosse necessario un rinnovamento della teoria
marxiana, che sarà compiuto in parte appoggiandosi sulla psicoanalisi freudiana.
Comunque, gli autori della scuola di Francoforte si poterono in ciò appoggiare innanzitutto
negli scritti di Lukacs e Korsh che, all’inizio degli anni Venti, avevano proposto una lettura di
Marx fortemente in chiave hegeliana.
Il punto fondamentale per autori quali Marcuse o Horkheimer risiedeva nel fatto che la
rivoluzione che Marx idealizzava, non poteva essere solo politica o riguardare solo la sfera
della produzione, ma doveva essere una rivoluzione totale. Nella ricerca del soggetto
adeguato a guidare questa rivoluzione, la fiducia dei membri della scuola di Francoforte verso
la classe operaia si riduce drasticamente, sino ad arrivare a diventare una critica senza
soggetto che, allontanandosi sempre di più dal marxismo, si propone come un richiamo
costante alle possibilità di emancipazione delle varie classi.
Nella rivista che l’Istituto pubblicò tra il 1933 e il 1941, Horkheimer dimostrò la necessità di
integrare il marxismo con una teoria che fosse capace di rendersi conto dei meccanismi della
psiche, e cioè di comprendere come si realizzano i meccanismi psichici per cui è possibile che
restino allo stato latente quelle tensioni sociali che la situazione economica spingerebbe al
conflitto. Ciò significa capire l’integrazione della classe operaia nel capitalismo e capire come
la coscienza si formasse.
La prima integrazione del pensiero di Freud con quello di Marx avviene ad opera di Fromm,
che andò a focalizzarsi, all’interno degli Studi sull’autorità e la famiglia, alla spiegazione dei
processi di socializzazione dell’individuo. La famiglia viene qui considerata come quel filo che
collega la struttura sociale con la coscienza del singolo, e dove cioè egli impara ad adattarsi.
Tuttavia, la famiglia è un qualcosa che cambia nel tempo, e viene valutato qui come, nel
passaggio dalla borghesia classica all’epoca del tardo capitalismo, essa tenda ad indebolire la
capacità di formare individui autoresponsabili, mentre favorisce la formazione di persone che
abbiano un carattere autoritario, tipico di chi, reprimendo in se la tensione a soddisfare i propri
impulsi libidici e non riuscendo però a darsene ragione, scarica in maniera aggressiva questa
frustrazione sugli altri; inoltre, è incapace di sviluppare un Io che sia in grado di assumersi la
responsabilità di se stesso, ed è particolarmente incline ad affidarsi irrazionalmente all’autorità
di un leader che permetta di soddisfarne i bisogni.
L’interesse per questa costituzione psicologica proseguirà negli studi sul pregiudizio, che
verranno realizzati in America, dove viene messo a punto il concetto del capro espiatorio. Qui,
si inizia a definire come chi è incline ad una personalità autoritaria, tende a sfuggire all’analisi
razionale della realtà, sfuggendo in particolare alla ricerca di fattori sociali che, in un certo
momento, possono provocare disagio, temendo di criticare il proprio governo o di mettere in
discussione il sistema in cui vive, preferendo al contrario scaricare la colpa del disagio che
avverte su gruppi minoritari e impotenti. Saranno proprio questi gruppi che verranno utilizzati
come capri espiatori, e attraverso cui chi è caratterizzato da questa personalità evita di
affrontare i propri problemi, scaricando contemporaneamente l’aggressività derivante da quel
disagio sentito. Tutto ciò avviene comunque in maniera inconscia.
Ad esempio, Marcuse, all’interno di Eros e civiltà, lo utilizza al livello di una critica molto
generale del capitalismo. Freud aveva cioè osservato che il progresso della civilizzazione aveva
comportato un forte controllo degli impulsi libidici, la cui funzione era stata soprattutto quella
di permettere lo sviluppo crescente del dominio degli uomini sulla natura. Con il capitalismo,
tuttavia, lo sviluppo delle forze produttive è tale da permettere (almeno in parte) di ridurre
questo controllo e lasciare spazio allo sviluppo di un’umanità che sia capace di entrare con la
natura in un rapporto conciliato, e non più esclusivamente antagonistico. È questo l’edonismo,
quella capacità degli uomini di godere della propria vita e di essere felici entro i limiti che la
stessa pone, all’interno di un quadro sociale che sia libero dall’ingiustizia. Si sottolinea come
l’edonismo dal pdv marcusiano non si riferisca all’aumento della libertà dei costumi sessuali
che caratterizza la società contemporanea.
Anche il pensiero di Weber viene ripreso dalla scuola di Francoforte, che ne va ad analizzare in
particolare il processo di razionalizzazione, inteso come vero e proprio processo di
pervertimento della ragione, e cioè come riduzione della ragione ad intelletto. Si ritiene come
gli uomini moderni siano sempre più capaci di eseguire calcoli tecnici, ma sempre meno capaci
di esercitare quelle facoltà critiche proprie della ragione.
Per quanto riguarda il secondo aspetto della critica dell’illuminismo, essa corrisponde al
riconoscimento di un nesso inestricabile tra la ragione con la logica del dominio.
Fondamentale in questo processo è la storia di Ulisse e le sirene, che viene riproposta nella
prima parte della Dialettica dell’Illuminismo. Il carattere emblematico cioè è quello per cui, pur
di conoscere ciò che lo affascina, ma senza lasciarsi coinvolgere, Ulisse si reprime, legandosi.
In questo modo, il cammino del progresso dell’uomo resta sicuramente un progresso della
tecnica, ma riguardo il resto, corrisponde ad un qualcosa che evoca l’idea freudiana del disagio
della civiltà.
Dunque, se fino agli anni Trenta la filosofia della storia della scuola di Francoforte era stata
contrassegnata da un certo ottimismo marxiano, adesso la situazione è sicuramente mutata in
senso negativo, in cui ogni progetto razionale sembra essere condannato allo scacco. Ciò non
significa però considerare questo discorso come la negazione di ogni valore alla ragione, o
sostituire lo stesso illuminismo con l’irrazionalismo, ma significa porre all’illuminismo una
critica che ne mostri le contraddizioni e l’unilateralità.
La forza principale di questa critica sta nel confronto di ogni concetto con ciò che esso esprime
quanto a possibilità, di modo tale che, ad esempio, i concetti borghesi di libertà ed uguaglianza
non vengono annullati dal fatto che libertà o uguaglianza universali non esistono nella realtà,
ma vanno posti al lavoro, mostrandone sia le determinazioni storiche che le possibilità per il
futuro che indicano.
Per quanto il processo di razionalizzazione si sia dispiegato fin dentro le nostre coscienze, e per
quanto ci siamo sforzati di adattarci alle condizioni di una vita estraniata, permane dentro di
noi il ricordo di qualcosa che resiste alla razionalizzazione e all’adattamento, che altro non è
che il ricordo del desiderio della felicità.
I mezzi di comunicazione diventano così di centrale importanza all’interno degli studi della
scuola di Francoforte, considerando cinema, radio, rotocalchi e, subito dopo la guerra, anche la
televisione.
L’industria culturale porta la cultura alle masse, ma sotto questo concetto di nasconde uno
svuotamento della stessa cultura (il che significa che essa non è più quel luogo privilegiato
dell’elaborazione del senso e delle aspirazioni ideali, ma che si trasforma in luogo di
intrattenimento) e un progetto di manipolazione, insita nella logica della comunicazione di
massa, dove i messaggi sono unilaterali e dove, allo stesso modo di quanto accade nella
produzione di massa, i prodotti sono standardizzati e tutti i programmi forniti dall’industria
della cultura finiscono con l’uniformarsi gli uni agli altri.
Il collante di questo sistema è dato dalla sua funzione, da il suo essere cioè promozione di un
adattamento generalizzato al sistema sociale, e dall’altro lato di essere sostegno del mercato,
invitando ognuno al consumo; e, in questo contesto, è la pubblicità ad essere il cuore della
comunicazione. In questo processo la cultura si riduce a merce stessa, perdendo così il suo
significato originale.
Dall’altro lato si ha Benjamin, che si avvicinò più tardi all’Istituto per la Ricerca sociale,
conservandovi una posizione comunque piuttosto marginale. All’interno di una delle sue opere
più note, l’opera d’arte, l’autore propone una delle sue tesi più importanti, e cioè quella della
perdita di quell’aurea di unicità dell’opera d’arte che consegue alla possibilità della sua
riproduzione. La fotografia difatti permette a ciascuno di ammirare un’opera senza spostarsi da
casa, e ciò fa sì che avvenga un allargamento e al contempo, una trasformazione radicale della
funzione dell’opera d’arte. Ciò che invece avviene nel momento in cui ci si reca ad esempio
davanti una statua, è qualcosa che pone il soggetto di fronte alla sensazione di qualcosa che è
unico, e del quale non si può fruire all’infinito come se fosse al contrario una fotografia.
Diversamente dagli altri membri della scuola, la posizione di Benjamin non era del tutto in
contrasto con queste trasformazioni. Ciò che l’autore vuole sottolineare p che in realtà sono le
stesse idee di originalità e autenticità che cambiano senso: agli estremi, spariscono proprio gli
originali, e paradossalmente, risulta nella riproduzione che i concetti di originalità e autenticità
diventano termini ampiamente diffusi.
Un altro concetto fondamentale è quello della crisi dell’esperienza, che è causato soprattutto
dal fatto che le condizioni della vita moderna ci costringono a trattenere le impressioni ai
margini della nostra vita psichica: si padroneggiano intellettualmente, ma non si lasciano
sedimentare nel profondo. Ciò che non sedimenta cioè, non può più essere elaborato dalla
memoria, ed è cioè come se ci limitassimo ai segni di ciò che potrebbe essere vissuto, ma
soltanto attraverso la contemplazione.
L’esperienza in senso proprio, secondo Benjamin, è dunque una sorta di tradizione che il
soggetto costruisce entro se stesso, essendo l’espressione di una continuità del soggetto che,
nel riappropriarsi di ciò che ha vissuto, diventa capace di raccontare a se stesso la propria
storia. Di conseguenza si potrebbe pensare che la crisi dell’esperienza abbia degli effetti che
riguardino solo la vita interiore, ma in realtà non è solo così: anche nelle attività produttive, la
crescente parcellizzazione delle mansioni fa si che il soggetto non vi possa percepire altro che
una mera successione di frammenti di attività che si ripetono sempre uguali a se stessi, e in cui
non sedimenta quasi più alcun sapere.
Quanto alla cultura nel suo complesso, la crisi concepisce corrisponde ad una preferenza
crescente per le informazioni, a scapito di forme di comunicazione più antiche, come la
narrazione. Il motivo sta principalmente sia nel carattere frettoloso della vita moderna, che
toglie il tempo necessario all’ascolto e alla stessa narrazione, sia nella difficoltà di porsi di
fronte alla vita come qualcosa che abbia una trama. Ciò che accade cioè è che vogliamo essere
al corrente di ciò che accade nel mondo (ed è una cosa che sicuramente i mezzi di
comunicazione ci permettono), ma ciò di cui siamo al corrente è un insieme di frammenti che
non ricomponiamo.
Su questo tema ritornerà Adorno, parlando della cultura contemporanea come di una
semicultura, dunque una cultura che ha perduto le sue funzioni, dove i beni simbolici di cui la
cultura è costituita vengono consumati per svago o per essere usati come segni di prestigio
sociale, che non servono più ad illuminarla.
Alcune osservazioni.
Nonostante gli autori della scuola di Francoforte insegnassero la sociologia, o trattassero temi
affini ad essa, nutrivano un sospetto nei confronti della stessa in quanto disciplina accademica,
soprattutto nei riguardi della positivistica, e dunque nei riguardi di quella che va ad assumere la
realtà come un insieme di dati da osservare e registrare. In questo modo altro non si verificava
che un tentativo di duplicare la realtà, quando in realtà la sociologia, se pervasa dallo spirito
della critica, era in grado di spiegare la realtà, andando proprio a rompere il cerchio magico
della duplicazione.
In questo senso, la scienza sociale cui pensano i membri della scuola di Francoforte è un tipo di
ricerca che da un lato tenta di penetrare quelle mediazioni che vanno a collegare ogni singolo
fenomeno al processo storico e alla società, rifiutando così la considerazione di fatti isolati, ma
dall’altro lato tenta di considerare ogni oggetto non solo preso nel momento attuale, ma anche
per la sua carica di possibilità a cui fa segno.
Sicuramente i lavori della stessa scuola hanno suscitato forti reazioni, essendo nel concreto
sottoposti a diverse critiche, le più comuni delle quali riguardano l’atteggiamento elitario e il
soggettivismo che li caratterizza.
Ulteriori critiche riguardano l’atteggiamento sia il vicolo senza uscita dove gli autori si
collocano nel tentativo di trovare una pratica politica concreta, e dall’altro il ruolo eccessivo
che sembrano attribuire all’industria culturale e alle comunicazioni di massa.
Per quanto riguarda la prima tra queste due critiche, essa venne fatta soprattutto dai membri
della seconda generazione della scuola, guidati da Habermas, mentre la seconda proviene
soprattutto dagli studiosi della comunicazione di massa.
10.6. Habermas.
L’autore principale della seconda generazione della scuola è la figura di Habermas, la cui
notorietà arriva con Storia e critica dell’opinione pubblica, e che riguarda il concetto di sfera
pubblica, dalla sua nascita fino alle sue trasformazioni recenti.
La sfera pubblica è uno spazio di discorsi e pratiche discorsive pubblicamente accessibile, che
non si riferisce esclusivamente a ciò che è “pubblico” in senso istituzionale, ma a uno spazio in
cui sono i privati cittadini ad incontrarsi, a informarsi e a discutere di ciò che li concerne
collettivamente. In questo spazio, almeno dal pdv ideale, i cittadini discutono di politica
liberalmente, razionalmente e tra pari, affiancando e controllando in questo modo le azioni dei
propri governi. Le argomentazioni di ciascuno si confrontano sulla base della necessità di
legittimare la propria validità, e in questo modo si affermano le argomentazioni migliori.
Dunque, la sfera pubblica è il luogo in cui si forma l’opinione pubblica, intesa come risultato
di discussioni aperte, razionali e informate, e in quanto tale è cruciale per il funzionamento di
una società democratica.
È questo uno spazio critico nato grazie alla borghesia nei circoli e nei caffe del Settecento,
trasformato successivamente dai mezzi di comunicazione di massa, che sono andati a
colonizzare la sfera pubblica, la quale perse così le sue caratteristiche.
Gli aspetti storico-descrittivi del ragionamento dell’autore sono stati comunque sottoposti ad
alcune critiche, parte delle quali è stata tuttavia accolta da Habermas. Ma va osservato
anzitutto che la descrizione delle forme concrete della sfera pubblica tocca solo relativamente
il suo discorso: quello di sfera pubblica è cioè un ideale che la borghesia ha offerto alla società,
e che vive a prescindere dalle sue mancate realizzazioni.
Nei suoi lavori successi, quali La crisi della razionalità nel capitalismo maturo; Fatti e norme;
Teoria dell’agire comunicativo, il pensiero di Habermas si allontana da quello degli autori della
prima scuola di Francoforte. In particolare, tenendo conto delle correnti della linguistica e della
filosofia del linguaggio (e basandosi soprattutto sulle opere di studiosi che si ispiravano a
Wittengstein), H. riconosce che gli uomini sono sempre legati gli uni agli altri dalla ricerca di
una comprensione reciproca che si realizza attraverso la lingua, prerequisito ineliminabile
della riproduzione della vita sociale.
Difatti, per Habermas la modernità è un progetto incompiuto, come l’ideale di una società
libera dalla penuria e dalla discriminazione, in cui l’autorità sia trasparente e in cui ogni
cittadino abbia il diritto, la capacità e possibilità di partecipare al confronto pubblico su ciò che
è bene per la collettività.
Comunque, il nucleo fondamentale del pensiero di Elias riguarda i rapporti tra civilizzazione e
violenza, partendo dalla realizzazione di come la formazione degli Stati dinastici realizzatisi in
Europa alla fine del Medio Evo corrispondano alla creazione degli stessi come detentori del
monopolio della violenza legittima. Ciò che accade dopo la fase delle guerre di religione del XVI
e del XVII secolo è il progressivo arrivo ad una pacificazione della vita sociale.
Il problema sta qui nel fatto che all’estromissione della violenza della vita esteriore
corrisponde un’interiorizzazione della violenza.
Ciò che si tende ad allontanare in realtà non è solo il dolore o il disgusto, ma in quanto esseri
civilizzati, ciò che avviene è che si inizia ad essere in grado di identificarci sempre di più con gli
altri più di quanto facessero i nostri antenati, ma contemporaneamente si tende ad
allontanare dalla coscienza dei tratti più naturali della nostra esistenza, tra cui la morte.
Dopo la scuola di Chicago, tra il 1930 e il 1960 domina, all’interno della sociologia americana, la
figura di Parsons, pur essendo il panorama sociologico estremamente variegato.
In linea generale possiamo affermare come in questi anni siano proprio gli USA il campo
centrale della sociologia del XX secolo e che, sul piano della rice4rca empirica, vedrà produrre
alcuni studi sulle comunità di grande rilievo.
Andarono inoltre a svilupparsi le tecniche di ricerca quantitativa, con uno sguardo particolare
al positivismo strumentale di Ogburn, che andava a concepire la sociologia scientifica come la
messa a punto di strumenti di misurazione sempre più elaborati e in grado di affrontare le
variabili sociali attraverso procedure statistiche.
Altro tema fondamentale, che tra l’altro, era già stato affrontato negli USA, è quello a
dell’opinione pubblica, e il corrispettivo uso di mezzi di propaganda che si era affermato
soprattutto nel corso delle diverse campagne presidenziali.
Negli USA si verificò cioè un intreccio tra le scienze sociali e le istituzioni politiche, economiche
e militari; un esempio ci viene dato dal Reparto Informazione ed Educazione dell’Esercito che
andò proprio a finanziare durante la seconda guerra mondiale un grande numero di ricerche
sulle motivazioni, gli atteggiamenti e i comportamenti dei soldati e dei reduci, nel corso dei
quali furono proprio messi a punto diversi metodi di indagine, poi ampiamente diffusi,
dimostrando il fortissimo nesso tra le varie discipline esistenti.
11.1. Parsons.
L’importanza di queste definizioni date dall’autore stava nel tentativo di rendere conto della
relativa libertà di scelta che il soggetto possiede nei confronti in cui è immerso, ma anche nel
sottolineare il peso che hanno le norme nel vincolare e governare l’azione.
Le norme altro non sono che il nesso che collega la nostra personalità all’insieme sociale di cui
siamo parte, facendo cioè che ognuno di noi non agisca come se fosse solo a decidere, ma in
base ad un insieme di regole di origine sociali, a loro volta solidali con una cultura, e cioè un
insieme di valori e di credenze.
Parsons distingue quindi personalità, sistema sociale e cultura, e si propone l’idea per cui
affinché un sistema sociale funzioni in modo coerente è necessario che i membri siano dotati
di personalità che abbiano assimilato come proprie le norme in cui si esprime una cultura
comune.
Si va a definire così un sistema come un insieme interrelato di parti che interagisce con
l’ambiente e che è capace di autoregolazione, e dove ogni parte svolge una funzione
necessaria alla riproduzione dell’intero sistema. È necessario inoltre che ogni sistema svolga
almeno quattro funzioni (SCHEMA AGIL), e cioè:
Dunque, il sistema sociale mette in relazione tra loro individui che agiscono, ma nella visione
parsoniana ci si riferisce agli individui in particolare in quanto soggetti in grado di ricoprire certi
ruoli, ossia degli insiemi di modelli di comportamento che siano orientati all’espletamento di
una funzione, facendoci comprendere come il sistema sociale sia essenzialmente un sistema di
ruoli.
È attraverso l’esercizio del nostro ruolo in maniera conforme alle norme che ciascun individuo
entra in relazione con gli altri e contribuisce alla riproduzione dell’intero sistema, che funziona
essenzialmente grazie alle norme e al continuo feed-back tra le parti: agendo in base alle
norme, infatti, noi ci comportiamo come gli altri si aspettano che facciamo, e a nostra volta
contribuiamo a rinforzare queste aspettative proprio con la nostra adesione.
C’è da dire che in tutte le epoche e società premoderne l’istituzione familiare non svolgeva
solo la funzione di socializzare i figli, ma anche e soprattutto funzioni assistenziali, religiose ed
economiche. Tuttavia, quando avviene l’evoluzione della società, secondo Parsons, si verifica
un processo di differenziazione e specializzazione delle istituzioni: alla differenziazione in
particolare corrisponde un processo di moltiplicazione dei ruoli che è permesso dal sistema
sociale, inteso come adattamento all’ambiente, mentre alla specializzazione corrisponde come
i ruoli differenziati vadano a diventare sempre più circoscritti, dunque sempre più specializzati.
Viene da sé che insieme questi due processi determinano una complessità crescente del
sistema sociale.
Riguardo alla famiglia, ciò fa sì che essa perda alcune funzioni tradizionali, come
l’autoconsumo sostituito dall’acquisto di beni e servizi forniti da altri, e dall’altro che essa si
specializza nel processo di socializzazione dei bambini e di stabilizzazione della personalità per
adulti. Inoltre, la famiglia tende, all’interno di questi processi, a conformarsi ad alcune
caratteristiche, che permettano sia possibile la distinzione della famiglia moderna da ogni altro
tipo di famiglia sia esistita. Prima di tutto, essa si presenta come famiglia nucleare, composta
esclusivamente dalla coppia dei genitori e dai figli, separando inoltre i suoi membri dal resto
della parentela e “collocandosi” in un’abitazione indipendente. Al suo interno si differenziano
ulteriormente le funzioni dei genitori, con la moglie/madre che si vede corrisposto il ruolo di
colei che bada ai bisogni materiali primari dei figli e del coniuge e che dirige al meglio la
dimensione affettiva dei rapporti famigliari, contrapposta al marito/padre con il ruolo di colui
che procura il denaro necessario alla famiglia, della quale dirige i rapporti con l’ambiente
esterno.
Sono questi rapporti, tuttavia, che devono essere considerati in maniera complementare, per
cui ciascuno non può esistere senza l’altro e per cui ciascuno sostiene la personalità dell’altro
attribuendo valore alle sue prestazioni, e collaborando alla socializzazione dei figli proprio con
l’esempio che danno loro.
All’interno della sua sociologia Parsons ha elaborato diversi concetti che sono entrati poi
all’interno del linguaggio corrente della disciplina stessa, e che sono:
Norme: modelli di condotta, tutte quelle prescrizioni riconoscibili dal fatto che chi non
vi si adegua è sottoposto a sanzioni;
Valori: ciò cui le norme si ispirano, orientamenti diffusi che contribuiscono a definire il
significato dell’esistenza, gli scopi che gli individui possono raggiungere e la definizione
dei mezzi leciti da usare;
Ruoli: insieme di comportamenti regolati da norme, attraverso cui l’individuo
interagisce con gli altri, spesso complementari tra loro. Spesso se ne svolgono una
pluralità, e l’insieme dei ruoli principali che un individuo ricopre è ciò che gli conferisce
lo status, dunque la posizione che egli occupa complessivamente all’interno della sua
società;
Istituzioni: sottounità del sistema sociali che implicano più ruoli interagenti tra loro,
come può essere la famiglia o la scuola;
Socializzazione: processo attraverso cui un individuo interiorizza valori e norme,
diventando capace di svolgere ruoli che le istituzioni gli richiederanno, e di accedere
così al proprio status.
Nonostante questi concetti abbiano sfumature diverse all’interno dei vari sistemi sociali,
secondo Parsons è possibile applicarli sempre.
Secondo Parsons, riconoscere i modi in cui gli individui si dispongono rispetto questi
atteggiamenti permette di capire quelli che sono i caratteri fondamentali di un sistema
sociale. In particolare, le società moderne si distaccherebbero dalle tradizionali nella
misura in cui privilegerebbero tipi di azioni orientati in senso universalistico e ispirati al
principio dell’acquisizione, mentre quelle tradizionale presenterebbero tipi di azione
particolaristici e orientati a prendere in considerazione soprattutto gli elementi ascrittivi di
ogni persona.
Parsons sviluppa poi l’idea per cui i diversi sistemi sociali apparsi via via nella storia
possano essere disposti lungo un coontinum, descrivendo in questo modo l’evoluzione
della società come il superamento di diversi livelli, ciascuno dei quali corrisponde
all’emersione di un nuovo modello organizzativo. Questi modelli vengono considerati
universali, incontrandosi cioè in tutte le società che sono allo stesso livello, e sono
evolutivi, poiché promuovono un adattamento all’ambiente che è migliore di quello che
era possibile prima del loro avvento:
2. Al secondo livello (rivoluzione neolitica, con la nascita delle città e dell’agricoltura) sono
universali evolutivi lo sviluppo di un sistema di stratificazione sociale e di un sistema
specificamente deputato alla legittimazione dell’assetto politico, che corrisponde alla
necessità di tenere coesa una società stratificata;
Alcune osservazioni.
Inoltre molti autori criticano a Parsons il fatto di aver prodotto un rispecchiamento acritico
degli ideali della società americana del suo tempo, essendo indubbia nel suo pensiero una
vena etnocentrica. Difatti la sua teoria si appoggia spesso e con forza su osservazioni
riguardanti la società americana (basti pensare agli studi sulla famiglia) a lui
contemporanea, ma il problema è che poi tende ad universalizzarla indebitamente.
In realtà cioè bisognerebbe riconoscere che le forme di famiglia nel mondo sono
estremamente varie (mentre Parsons ha sicuramente in mente il modello di famiglia
nordamericana, bianca, anglosassone e di ceto medio) e in cambiamento costante, e non è
possibile ordinarle secondo un modello evolutivo.
Un'altra critica fa riferimento al concetto di azione; ciò che Parsons afferma è di richiamarsi
a Weber, ma in realtà rispetto a questi e rispetto alle forme di agire proposte da Weber
stesso, Parsons si limita al solo agire razionale rispetto allo scopo. In secondo luogo, se
Weber si poneva il problema di interpretare l’agire, Parsons ha quello di descrivere l’azione
scomponendola nei suoi elementi, facendo con ciò passare da un lato in secondo piano
l’interpretazione e dall0altro sostanzializzando il concetto di azione come se esso fosse una
“cosa”. Il che è sicuramente dubbio.
Tuttavia, nonostante le critiche Parsons resta un autore fondamentale, il cui sforzo teorico
si situa ad un livello estremamente ambizioso, nella ricerca continua della coerenza.
È un’espressione questa che entra in circolazione soltanto nel secondo dopoguerra, e che
parte dallo studio dei processi di acquisizione dell’indipendenza e decolonizzazione in atto
in Africa e in Asia, con la contemporanea competizione tra USA e URSS per attrarre i nuovi
paesi nella propria orbita. Proprio in questo contesto nasce l’espressione “Terzo mondo”,
con cui si vanno ad identificare tutti quei paesi che non appartengono all’area dei paesi
occidentali economicamente avanzati (“Primo mondo”) ma neanche all’area egemonizzata
del modello sovietico (“Secondo mondo”).
Diventa dunque fondamentale per i teorici della modernizzazione capire come aiutare i
paesi del Terzo mondo ad entrare nell’orbita dello sviluppo trainato dall’Occidente, e per
ciò andranno a formulare delle analisi che si basano su un modello di sviluppo graduale (e
non rivoluzionario), fondato sulla fiducia nei caratteri universali del progresso occidentale,
considerando la modernità come una miscela di elementi quali l’industrialismo, la
democratizzazione della vita politica, la razionalizzazione, la secolarizzazione e
l’individualismo.
La maggior parte degli autori di queste teorie erano ispirati allo struttural-funzionalismo e
percepivano gli ostacoli allo sviluppo come un qualcosa di tipo culturale piuttosto che
economico, consistendo non tanto in una mancanza di risorse materiali, quanto
nell’assenza di una mentalità favorevole allo sviluppo. Si considera in particolare
l’orientamento ascrittivo quale ostacolo, andando a sfavorire l’enfasi sull’importanza
dell’individuo e del suo agire in prima persona, contando sulle proprie forze.
Nell’opinione degli autori, è grazie ai rapporti tra i paesi tradizionali e i più avanzati che si
andranno a rimuovere questi ostacoli, soprattutto grazie alla diffusione dell’impiego di
macchine e di fonti inanimate di energia, ma anche grazie all’istruzione e ai media.
Queste teorie hanno però dimostrato presto i loro limiti, primo fra tutti quello per cui non
si andava a considerare come in realtà a processi di modernizzazione repentini e bruschi
corrispondessero maggiori tensioni e conflitti.
11.12. Merton.
Secondo Merton innanzitutto gli scienziati sociali tendono a dividersi tra coloro che
potrebbero affermare di “non so se quello che dico è vero, ma so che è importante” e quelli
che potrebbero affermare che “non so se quello che dico che è importante, ma perlomeno
so che è vero”; tra questo divario l’autore propone la strada intermedia delle teorie a
medio raggio, intendendo con il concetto una serie di concetti logicamente collegati tra
loro ma che non pretendono di essere universali, limitandosi in questo modo ad
evidenziare delle ricerche parziali e alla costruzione dei ponti fra ricerche diverse.
In secondo luogo, Merton rifiuta sia l’idea che tutti gli elementi di un sistema sociale
debbano avere una funzione, sia quella per cui ci sarebbero istituzioni che svolgono
funzioni considerate indispensabili.
Inoltre Merton introduce la distinzione tra funzioni manifeste, ossia quelle che hanno
conseguenze riconosciute e volute dagli individui e funzioni latenti, quelle cioè non
appaiono immediatamente allo sguardo, come per esempio il voler dimostrare a qualcuno
di essere in grado di acquistare determinati beni.
È questo un tipo di analisi che può essere ripetuto per altri fenomeni; il punto sta nel fatto
che gli uomini non sono sempre coscienti degli scopi che stanno perseguendo, ed i
conseguenze delle funzioni che assolvono i loro comportamenti, e ciò si può verificare
anche dal lato delle istituzioni.
Nonostante sia innegabile la quantità ampissima di scritti svolti da Merton, egli più che
andare a scrivere innovazioni, operava maggiormente estraendo da autori a lui precedenti
concetti che poi ampliava.
È questo che succede con il concetto di deprivazione relativa, introdotto nella ricerca The
american soldier con l’obiettivo di descrivere l’insoddisfazione provata verso la propria
carriera da parte di militari, nonostante si trovassero in una situazione privilegiata. Il punto
centrale era che la sensazione di insoddisfazione e di “essere privati” di qualcosa aveva a
che fare con la realtà soggettiva, e non con l’oggettiva e di conseguenza, se ci si abitua a
coltivare certe aspettative, anche una realtà positiva poteva apparire frustante.
Partendo da qui Merton dimostra così che ogni individuo si rapporta ad almeno due
gruppi, identificando da un lato il gruppo di appartenenza, cui un individuo fa parte nella
sua vita, e dall’altro il gruppo di riferimento, quello cui l’individuo aspira e vi si riconosce
idealmente; e così la frustrazione si verifica quando il gruppo di riferimento possi9ede
opportunità e bisogni che l’individuo non può soddisfare nel gruppo di appartenenza.
Partendo da questo presupposto, esistono per Merton quattro tipi di devianti diversi:
1. Innovatori: coloro che, pur conformandosi agli scopi dominanti, sono devianti rispetto
ai mezzi scelti;
2. Ritualisti: coloro che rimangano fedeli ai mezzi scelti, pur non condividendo gli scopi
cui dovrebbero servire;
3. Rinunciatori: quelli che rifiutano sia valori e scopi che norme che riguardano i mezzi da
usare;
4. Ribelli: coloro che, non accettando obiettivi e mezzi comuni, lottano per affermarne di
diversi.
Per quanto riguarda l’anomia, essa viene riconcettualizzata in un nuovo modo: non più
incertezza o assenza di norme, ma come quella situazione in cui vi è una disgiunzione tra gli
scopi dell’esistenza proposti dalla cultura e le possibilità concrete di raggiungerli attraverso
comportamenti considerati normali. Questo vuol dire cioè che nel momento in cui una grande
parte dei membri di una società non ha i mezzi per raggiungere in modo lecito gli obiettivi che
condivide, gli stessi vengono perseguiti in modo non lecito.
Altra nozione fondamentale è quello della profezia che si autoavvera, che parte da una
valorizzazione del teorema di Thomas. Merton sottolinea cioè il fatto che le situazioni
diventano reali nelle loro conseguenze e cioè che “gli uomini non rispondono solo agli elementi
oggettivi di una situazione, ma anche, al significato che questa situazione ha per loro. E una
volta che essi hanno attribuito un qualunque significato ad una situazione, questo significato è
causa determinante del loro comportamento”.
L’esempio più tipico che Merton proporne è quello di una diceria che afferma che una banca è
insolvente; questa diceria può essere pure falsa, ma una volta che la situazione della banca è
definita così, diventa reale. Ciò fa capire in primo luogo come gli esseri umani abbiano la
facoltà di determinare almeno in parte il corso degli eventi attraverso le proprie credenze a
riguardo.
Tra i temi che hanno accompagnato la vita di Merton vi è sicuramente quello della sociologia
della scienza, di cui l’autore può essere considerato come iniziatore. L’aspetto più importanqte
della relazione tra società e scienza consiste, per Merton, nell’esistenza di una serie di quesiti
che la prima pone alla seconda.
L’idea cioè che la verità sia qualcosa di accettabile razionalmente attraverso l’osservazione
sistematica e l’esperimento è l’idea senza cui la scienza stessa non potrebbe esistere; ma è
un’idea che non nasce dalla scienza stessa, ma all’interno della cultura più vasta in cui essa è
inserita.
Nei primi saggi dedicati all’argomento Merton si dedica al tentativo di rintracciare le origini
della nozione di scienza nei primi secoli dell’età moderna, ponendole in relazione con la
mentalità di rifiuto dell’autorità ecclesiastica che caratterizzava i puritani. Al di là della
correttezza di queste analisi, il punto centrale è che, affinché la scienza si sviluppi, è necessario
prima di tutto che la cultura formuli l’idea che essa possa esistere, che attribuisca agli scienziati
uno status, che concepisca le domande cui essi possano trovare risposta.
La scienza è dunque un’istituzione sociale, che trae cioè il proprio significato dalla cultura della
società in cui è immersa, senza ciò stare a significare che non abbia una propria autonomia.
La logica della sua comunità scientifica è difatti peculiare, basandosi da un lato su una serie di
procedure caratteristiche, ma sicuramente anche su un suo ethos specifico, che attribuisce un
valore chiave al dubbio sistematico, comportando che ogni affermazione sia verificabile
intersoggettivamente ed imponendo così il dialogo aperto tra gli scienziati, implicando la
disponibilità universale dei risultati di ogni ricerca e pretendendo che ogni scienziato sia
valutato in relazione esclusiva ai meriti del proprio lavoro.
Quando parliamo dei movimenti giovanili degli anni Sessanta, la data culmine si colloca nel
1968, pur essendo questa convenzionale nel senso che i movimenti andarono avanti per
diversi anni, con situazioni diversi.
Tuttavia con il Sessantotto si fa riferimento all’anno del maggio di Parigi, e con il temine si
indica prevalentemente un movimento antiautoritario di studenti e di giovani, internazionale,
articolato e differenziato localmente. Difatti negli USA si saldò con il movimento per i diritti
civili dei neri e con l’opposizione alla guerra nel Vietnam, mentre ad esempio in Germania si
manifestò attraverso la memoria del nazismo e dell’olocausto, opponendosi così alla possibilità
che episodi del genere potessero riverificarsi.
Si andarono a proporre rapporti sessuali più liberi, una certa parità tra donne e uomini e la
sperimentazione di nuove forme di convivenza e lavoro. Nonostante le contraddizioni, fu un
tentativo collettivo di cambiare il mondo sociale, costruendo un nuovo senso di appartenenza
globale, tanto che coloro che vi parteciparono 7hanno conservato un’identità generazionale
marcato.
In questo quadro, una funzione rilevantissima è svolta dalle donne che vede nascere nei primi
anni Settanta (e restare attivo per tutto il decennio successivo) il neofemminismo, mettendo in
primo piano la questione della subordinazione femminile, e promuovendo cioè
l’emancipazione della donna in ogni ambito della vita sociale.
Nel loro complesso gli studi delle donne hanno cioè reso visibili per il pensiero sociale oggetti e
problemi cui fin qui nessuno prestava attenzione.
Tra i profili della sociologia più recenti è necessario fare riferimento soprattutto a due
concezioni, opposte tra di loro:
Raymond Boudon: la sua sociologia si ispira al presupposto per cui ognuno ha delle
buone ragioni per fare ciò che fa, ed è qui che risiede il presupposto della razionalità
dell’attore. In questo modo, il ragionamento sociologico deve partire dalla
considerazione degli individui, dal momento in cui le ragioni mutano a seconda del
contesto e del soggetto considerato. Ovviamente ciò non significa negare che esistono
collettività, istituzioni e altre entità sovraindividuali, ma riconoscere come tutto ciò è
originato, riprodotto e a volte modificato dalle azioni di individui concreti, attraverso la
composizione dei loro effetti, che a volte si combinano tra di loto generandone altri, e
producendo così l’apparenza di processi sconosciuti a qualsiasi azione soggettiva.
Questo fa capire co0me i risultati finali non corrispondano alle intenzioni di nessuno
degli attori coinvolti, facendo sì che sia possibile parlare di effetti perversi, effetti cioè
imprevisti o addirittura contrari alle intenzioni iniziali.
Per quanto riguarda gli approcci sistemici, l’autore più importante è Niklas Luhmann, la cui
teoria può, per certi versi, essere considerata come un raffinamento e una radicalizzazione
della prospettiva di Parsons, per cui come sappiamo, un sistema è un insieme interrelato di
parti al cui interno ogni parte svolge compiti necessari alla riproduzione del sistema stesso.
Ora con Luhmannn, il concetto di sistema deve essere differenziato da quello di mondo ed
ambiente. Con il termine mondo si indica cioè l’insieme di tutto ciò che esiste, dei modi in cui
può essere percepito o compreso e delle possibilità che offre all’azione. Al suo interno, la
costituzione di un sistema consiste nella selezione di alcune di queste possibilità (e con la
conseguente eliminazione delle altre) e simmetricamente, corrisponde alla costituzione di un
ambiente; dunque, ciò che risulta esterno al sistema e a cui il sistema è in grado di rapportarsi.
Ciò vuol dire che ogni sistema si forma come costruzioni di certi confini fra sé e il suo
ambiente, ma che allo stesso tempo è meccanismo di riduzione della complessità del mondo.
Dal momento in cui la capacità dell’ambiente di rapportarsi con il mondo è limitata dalle sue
proprietà, un sistema è autoreferenziale, ma anche autopoietico, per cui i suoi sviluppi o la
sua costruzione sono il risultato delle sue caratteristiche e capacità.
Altro concetto fondamentale viene esplicato all’interno di Sistemi sociali: fondamenti di una
teoria generale. Qui viene proposta l’idea per cui la realtà in cui viviamo non è tanto costituita
da un insieme di entità, ma da un insieme di relazioni, mettendo cioè in rilevanza l’importanza
delle reti di interdipendenza che legano i diversi aspetti della vita sociale. La realtà sociale
risulta dunque sia fatta di individui che di insiemi regolati di possibilità che si offrono al loro
agire e lo condizionano, e proprio per questi concetti al giorno d’oggi la sociologia che si
inserisce in quest’accezione, può trarre spunti interessanti dalle opere dello stesso Luhmann.
Giddens è uno degli autori che ha acquistato la maggior fama ed influenza internazionale negli
ultimi decenni, sapendo raccogliere e ricomporre al meglio le istanze volte al rinnovamento
della sociologia che si percepivano nell’aria.
Una sua opera fondamentale in materia di teoria sociale è La costituzione della società, dove
innanzitutto Giddens fa riferimento al fatto per cui la teoria sociale non sia la stessa cosa della
sociologia: quest’ultima è una disciplina scientifica, che si occupa principalmente dello studio
delle formazioni sociali moderne, mentre la teoria sociale riguarda argomenti che toccano
tutte le scienze sociali, impegnandosi in particolare nella formulazione di concetti che
riguardano la natura dell’uomo e della società, e quelli che sono i modi più plausibili per
indagarla. Si trova cioè a metà strada tra le scienze sociali e la filosofia, e può essere
considerata come l’insieme dei presupposti (espliciti) che rendono la ricerca empirica
consapevole dei propri limiti e delle proprie condizioni.
Secondo Giddens i sociologi classici ben sapevano le esigenze di una teoria soggiacente la
ricerca empirica, ma si trattava di procedere oltre, e in particolare di superare la
contrapposizione sia tra le teorie dell’azione e le sistemiche, che quella riguardo i termini in cui
si considera il problema, cioè tra lo studio degli aspetti micro e quello degli aspetti macro della
vita sociale.
In questo modo, l’autore arriva alla formulazione della teoria della strutturazione, per cui le
forme della vita sociale sono sia qualcosa che si impone agli individui come dato, che qualcosa
che viene costituito dagli individui stessi attraverso l’azione. Il punto di unione tra strutture e
azioni è dato dalle pratiche, riconducibili a forme di condotta parzialmente routinizzate
attraverso cui gli esseri umani riproducono incessantemente gli assetti istituzionali entro i quali
sono collocati, conservando comunque la possibilità di mutarli con nuove forme di agire.
Questi assetti istituzionali sono dunque da un lato dei vincoli all’azione, imponendo cioè
abitudini e significati dati per scontati, ma sono anche le risorse attraverso cui si dispiega
l’agire, ed è in ciò che risiede la dualità della struttura, che ci permette tra l’altro di capire
come il mutamento sociale non sia qualcosa che proviene dall’esterno delle società, ma come
qualcosa di cui sono responsabili gli uomini, dal momento in cui la struttura esiste solo in
quanto costantemente riprodotta da essi.
Giddens ha cioè l’idea delle strutture come quelle di insiemi di istituzioni, forme organizzate di
regole e ruoli, con un carattere sistemico molto variabile, dipendendo dalla disponibilità degli
uomini ad aderirvi.
Il fatto che gli esseri umani siano attori può significare da un lato che essi siano capaci a
trasformare le cose, dall’altro anche che essi possano astenersi dal farlo o dal farlo come ci si
aspetta. Significa inoltre che gli uomini sono dotati di intelligenza, conoscendo cioè la realtà in
cui operano, e di capacità riflessiva: sono queste risorse considerate spesso implicite, e che
non si esprimono cioè discorsivamente, ma tacitamente, come cioè capacità pratica di
muoversi nel proprio ambiente. Sono anche inintenzionali, non corrispondendo cioè a ciò che
gli attori vogliono ottenere, in vista per esempio del fatto che la conoscenza dei contesti in cui
si agisce è raramente perfetta, o a causa del fatto che le conseguenze delle azioni di ognuno si
combinano con quelle degli altri, generando così processi il cui disegno singolo sfugge al
singolo.
Rivendicazione dello studio dello spazio e del tempo per la sociologia: Giddens
considera qui che la divisione del lavoro è deleteria per la sociologia. Difatti nella sua
opinione, la riproduzione e il cambiamento delle strutture sociali altro non ha portato
che un’irrealistica visione acronica della società e dell’agire.
La modernità in particolare comporta (non ho capito).
13.5. Pierre Bourdieau: campi, habitus e pratiche.
Un’opera fondamentale scritta da Bordieau è La riproduzione. Elementi per una teoria del
sistema scolastico, libro che, scritto a ridosso delle contestazioni studentesche del 1968,
confermava qualcosa detto dagli stessi movimenti di allora, e cioè che le istituzioni scolastiche
sono solo in parte veicolo di mobilità sociale. Esse non sono infatti neutrali, né possono
esserle considerate, incorporando un tipo di istruzione che è solidale solamente con la cultura
delle classi superiori, e funzionando come un meccanismo che legittima l’esclusione di chi
proviene dal basso, certificandone l’insuccesso attraverso criteri in apparenza meritocratici, ma
che in realtà consistono soprattutto nella capacità degli studenti di adattarsi ai canoni della
cultura proposta. La scuola quindi altro non è che il luogo di tensione tra ciò che la società
moderna dice di essere e ciò che effettivamente è.
Partire da una situazione svantaggiata significa per Bordieau non avere accesso al capitale, che
considera in tre accezioni (la cui somma influenza l’effettiva collocazione di una persona nella
stratificazione sociale): capitale economico; capitale culturale (educazione famigliare,
istruzione e credenziali educative di cui un soggetto è in possesso); capitale sociale (capitale
che consiste nelle relazioni di cui un soggetto dispone.
Quest’ultimo è proprio il tipo di capitale più rilevante, essendo cioè la possibilità di suscitare
fiducia, di mobilitare l’aiuto degli altri e essendo costituito dalla somma delle risorse che fanno
capo ad un individuo o a un gruppo in quanto possiede una grande rete di relazioni,
conoscenze e reciproche riconoscenze più o meno istituzionalizzate.
C’è da dire che comunque il capitale, che ha per Bordieau un’accezione simbolica, presenta
aspetti diversi per ogni campo o sottocampo della vita sociale. Con il termine campo si fa
riferimento ad un’area della vita sociale caratterizzata dalla condivisione fra un certo numero
di attori di determinati interessi, dalla presenza di certe posizioni reciproche, regole e rapporti
di forza. Ogni campo esistente è caratterizzato da una parziale autonomia, e ciascuno di essi da
forma ad un particolare tipo di capitale.
Tuttavia il campo non è definibile a priori, e i suoi limiti sono i limiti della rete di effetti di
influenza reciproca che lega certi elementi della vita sociale tra loro.
Ciò ha molte conseguenze: spinge innanzitutto a pensare in termini relazioni; pone il problema
del coordinamento tra i campi; prevede come la scienza stessa sia un campo fra gli altri e come
la comprensione delle sue caratteristiche sia essenziale ai fini di un corretto lavoro scientifico,
mettendo in evidenza la raccomandazione di un’autoriflessività come elemento fondamentale
della sociologia e di ogni scienza sociale.
Nonostante le scienze sociali dunque contribuiscono alla riflessività degli attori, è necessario
che questa riflessività coinvolga anche lo scienziato, essendo anch’egli “fatto” da
determinazioni, che devono proprio essere prese in considerazione nel suo lavoro, andando ad
influenzare il suo rapporto con l’oggetto che studia. Ma ad esser tenuta sotto controllo deve
essere anche l’influenza che hanno sul lavoro scientifico le regole dei campi entro cui questo
lavoro si situa.
Tenere conto di tutto ciò corrisponde proprio ad un’autoanalisi dello scienziato, in termini del
riconoscimento dei propri condizionamenti oggettivi, e non in termini di una autocoscienza
soggettiva.
Comunque, la permanenza all’interno di determinati campi della vita sociale genera nei
soggetti particolari tipi di habitus, considerabili come modi di porsi nei confronti del mondo e
dunque disposizione ad agire in un certo modo. Dipende dalla struttura del campo o dei campi
entro cui ci si forma e in cui si trascorre la vita, e può essere considerato come quel versante
sociale osservabile dall’esterno che rende prevedibile ciò che il soggetto farà, corrispondendo
ad una certa comprensione di come lui vede il mondo, di quelle che sono le sue gerarchi di
partenza, sempre consapevoli che non si sarà mai esattamente sicuri delle azioni che farà,
potendo intervenire sentimenti, situazioni ed incontri che faranno andare il soggetto che
osserviamo nella direzione opposta da quella che si crede.
C’è da dire infine che, nonostante abbia un’indubbia passione per la teoria, Bordieau non si
dedica alla costruzione di un programma teorico, mantenendo i suoi concetti (che nascono
all’interno della ricerca) come programmi di ricerche ulteriori.
All’interno de La distinzione, Bordieau colloca due inchieste svolte da lui stesso negli anni
Sessanta intervistando in Francia 1200 persone appartenenti a gruppi sociali diversi, con
domande che riguardavano le preferenze alimentari, i gusti musicali e cosi via.
Il primo risultato che emerse fu l’evidenza di una differenziazione del gusto sulla base
dell’appartenenza dei soggetti a classi diverse e, all’interno della stessa classe, a ceti diversi,
facendo capire come, nonostante appaia soggettivo, il gusto possieda in realtà un versante
socialmente determinato. Ancor più interessante è rendersi conto di come le preferenze di
gusto e le scelte di consumo in realtà non si limitano ad esprimere certe posizioni sociali, ma
contribuiscono all’articolazione e alla creazione delle stesse. Infatti, l’affermazione del gusto
risponde ad un’esigenza di distinzione: classificando i gusti altrui come negativi, ciascuno
afferma e costruisce la propria differenza, quindi la propria identità come distinta da quella
degli altri.
I consumi, dunque, non si limitano a rispondere ad esigenze materiali, dal momento in cui ogni
bene è dotato di un valore simbolico, e sceglierlo corrisponde a marcare l’identità del
consumatore. Ciò venne notato da Baudrillard che in Per una critica dell’economia politica del
segno, riflettendo sulla distinzione marxiana tra valore d’uso e valore di scambio, proponeva il
terzo valore delle merci, appunto quello simbolico, che coincide con la facoltà di significare
altro da sé. I significati degli oggetti non sono tuttavia arbitrari, dipendendo dalla cultura in cui
sono inseriti, al cui interno costituiscono una sorta di sistema linguistico che i soggetti
condividono, riconoscono ed usano per mediare le proprie interazioni e marcare le proprie
appartenenze e differenze.
Con l’espressione cultural studies si intende una corrente di studiosi sorta negli anni Sessanta,
la cui prospettiva, vicina al modo in cui gli antropologi e gli storici hanno concettualizzato la
cultura, intende quest’ultima come qualcosa di indissolubilmente intrecciato con le pratiche
degli attori sociali. La cultura cioè non esiste se non come forma di vita: studiarla è cioè
studiare come le persone danno senso alla realtà e alle cose che fanno, studiare gli oggetti che
li circondano e i modi in cui vivono quotidianamente.
Intesa in questo senso, la cultura è patrimonio di ogni gruppo sociale e si apre la possibilità di
considerare oggetti propri di una sociologia della cultura non solo le visioni del mondo
espressa dalla filosofia, dalle religioni o da certi insiemi di norme o valori, ma anche ciò che si
esprime negli stili di convivialità o nei gusti alimentari.
Nel 1964 venne fondato a Birgmingha, il Centro degli Studi Culturali Contemporaneo, di cui
vanno ricordati i nomi di Hoggart, Williams, Hall E Thompson, tutti studiosi accomunati
dall’idea per cui la cultura sia il modo in cui diamo forma alle nostre esperienze e pratiche.
Ciò che risultava difficile era stabilire i limiti della condivisione sociale della cultura, visto anche
il fatto per cui una stesa società poteva ospitare al suo interno orientamenti culturali differenti
e in conflitto tra loro, da cui la visione della cultura anche come campo di tensioni,
compromessi e conflitti permanenti tra diversi gruppi sociali-
Gli strumenti più efficaci in mano alle classi dominanti per imporre la propria egemonia sulla
società sono i media e i consumi che, nella visione di alcuni, sono responsabili (attraverso la
loro diffusione) della distruzione delle preesistenti differenziazioni culturali, generando
un’omogeneizzazione dei gusti e degli orientamenti.
Tuttavia, l’idea di una società di massa viene contestata dai cultural studies, soprattutto nel
senso che i destinatari dei mass media non sono masse passive, ma pubblici attivi e capaci di
interpretare in modi diversi i messaggi cui sono esposti. Secondo Hall, infatti, il pubblico è in
grado di interpretare o decodificare i messaggi che riceve in modo coerente con il significato
che gli autori gli attribuivano, ma è anche in grado di interpretarli criticamente, o travisandone
il senso o applicandovi codici di lettura non previsti, o addirittura può non comprenderli.
Questa visione vuole cioè suggerire come i mass media non siano in realtà onnipotenti, dal
momento in cui l’influenza che esercitano è filtrata dalle competenze e dagli atteggiamenti
interpretativi dei pubblici.
Non si tratta comunque solo dell’interpretazione; ulteriore caratteristica dei cultural studies è
quella per la dimensione dell’uso (…).
Tra lo studio dei mass media, posizione privilegiata è data alla televisione, su cui si concentra
Williams, in particolare in relazione alle sue forme discorsive e ai suoi rapporti con l’insieme
della cultura contemporanea. Dunque, se da un lato il formato della sua programmazione
favorisce un’esperienza sempre più fluida, dall’altro la televisione si iscrive dentro una
modificazione generale della vita sociale, sempre più orientata verso consumi privati, ma
contemporaneamente aperta e tendente a sfumare la distinzione tra privato e pubblico.
Tale modificazione viene descritta da Williams nei termini della tendenza ad una
privatizzazione mobile, con la cui espressione si vuole cogliere il dispiegarsi solidale di due
tendenze apparentemente contraddittorie, ma in realtà fortemente interconnesse, ossia quella
della formazione di unità domestiche sempre più autosufficienti grazie allo sviluppo di consumi
privati, e quella della crescente mobilità degli individui e alla loro maggiore interconnessione.
Nel dispiegamento di questa tendenza contano simultaneamente la televisione e altri mezzi,
che sono cioè beni acquistati privatamente e che fanno capo all’unità famigliare, ma che fanno
sì che la stessa unità famigliare si apre a spazi e a flussi di comunicazione sempre più ampi.
Ciascuno è cioè qui sempre più autonomo e allo stesso tempo sempre più connesso con altri e
con reti socio-tecnologiche sempre più capillari.
Questa spinta verso la privatizzazione mobile si radica in bisogni sociali che trovano modo di
soddisfarsi proprio nelle nuove tecnologie, che in realtà sono proprio responsabili della
manifestazione degli stessi bisogni, mostrando così una circolarità tra cultura e tecnologia che
è, per Willliams e per i cultural studies, caratteristica generale di tutti i processi di mutamento.
All’inizio degli anni Novanta si avvierà una rivoluzione destinata a mutare rapidamente molti
aspetti della società: innanzitutto si verifica la modifica delle forme di interazione a carico dei
mezzi di comunicazione; la fine dell’Unione Sovietica e del conseguente ordine bipolare del
mondo che aveva retto per tutti gli anni della Guerra Fredda; la comparsa di nuovi conflitti
legati soprattutto alla disputa per il controllo delle fonti energetiche.
Su queste trasformazioni del lavoro si avviano molto ricerchi, tra cui alcuni come Gorz che
ritengono che lo sviluppo tecnico stia tendendo ad una sostituzione sempre più diffusa del
lavoro umano con le macchine, tale da portare ad una vera e propria fine del lavoro. Si nota
come negli ultimi anni siano cresciute sia l’occupazione, in virtù della comparsa di nuove
professioni, che la disoccupazione, a causa della crescente offerta di lavoro da parte delle
donne.
Ciò che è dunque innegabile è come i rapporti tra lavoro e società stiano diventando sempre
più articolati e complicati, anche se i cambiamenti in corso modificano progressivamente
l’organizzazione delle imprese e riducono i posti di lavoro a tempo indeterminato.
Tra gli effetti si verificano alcuni cambiamenti nella stratificazione sociale; in generale, la quota
dei ceti intermedi occupati nel settore terziario aumenta, ma allo stesso tempo questi stessi
ceti medi e coloro che appartengono ancora alla classe operaia iniziano ad essere minacciati
dai nuovi assetti del lavoro e dalla riduzione delle garanzie pubbliche, e si verifica difatti
soprattutto nelle società occidentali, una nuova polarizzazione che separano coloro che sono
inclusi nel godimento del benessere, da coloro che ne sono esclusi o che sono minacciati di
esserlo. A partire dagli anni Ottanta, sarà questa situazione uno dei fattori che provocano il
sorgere di nuovi movimenti di taglio conservatore, che si mobilitano in difesa delle proprie
posizioni di privilegio.
Nello stesso periodo, specialmente in Europa, nuovi flussi migratori provenienti da aree del
mondo più povere o politicamente instabili alimentano la creazione di una nuova classe
subalterna, formata da persone che forniscono lavoro a basso costo e che restano escluse da
gran parte dei diritti civili.
Con il pensiero neo-conservatore si indica un insieme di posizioni che si sono sviluppate negli
ultimi decenni in modo particolare negli Stati Uniti, soprattutto ad opera di autori che non
lavorano tanto nelle università, quanto in fondazioni private.
Parte delle basi teoriche di questi autori può essere rintracciata nell’opera di Leo Strauss,
filosofo tedesco emigrato negli USA nel 1937, che aveva vissuto il crollo della Rep. Di Weimar
arrivando alla conclusione per cui la democrazia non può permettersi la debolezza, e che la
vita sociale abbia una chiara definizione di ciò che è bene. Vi è un chiaro invito a contrapporre
radicalmente il bene incarnato nei valori della cultura occidentale, al male che corrisponde a
tutto ciò di diverso a questa cultura e a tutti coloro che a quest’ultima vi si contrappongono.
Tra l’altro, ricollegandosi a Machiavelli, Strauss ritiene che le masse abbiano tipicamente
un’idea poco chiara del bene, e che siano facilmente sedotte da demagoghi.
Il campo di influenza cui ambiscono gli studiosi neo-conservatori è soprattutto quello delle
relazioni internazionali, risultando comunque in sintonia con tutti quei movimenti che, nei
paesi più ricchi, tendono a concepire il resto del mondo come un luogo minaccioso rispetto cui
è necessario ricostruire barriere.
Tali processi di interconnessione tra le diverse parti del globo sono in corso da secoli, ma ora
assumono dimensioni imponenti, essendo più marcati più in certi ambiti della vita sociale che
in altri e combinandosi con nuovi processi di accentuazione di identità o di problematiche
locali. Gli ambiti in cui sono più evidenti sono da un lato il sistema finanziario, dall’altro quello
dell’informazione e dell’intrattenimento garantiti dalle industrie della comunicazione. Dove la
globalizzazione è indiscutibile è soprattutto riguardo agli effetti della produzione e degli stili di
vita sull’ambiente naturale. Vi è accordo generalizzato sul carattere globale e pericoloso di
questi effetti, ma resta un conflitto sulle misure da adottare per contenerli e su chi debba
pagarne i costi.
Difatti la questione dei rapporti fra sviluppo economico e deperimento delle risorse ambientali
si sta affacciando in maniera molto seria negli ultimi anno, e la sua comparsa può essere
collocata all’uscita del primo rapporto di D.Meadows e altri su I limiti dello sviluppo al suo
interno alcuni ricercatori del Masachusetts Institute of Technology andarono a lavorare su
simulazioni matematiche di possibili futuri. Conservando le tendenze attuali di crescita
demografica e l’attuale andamento della crescita economica in termini produttivi, di consumi e
scorie, il rapporto osservava come si generavano effetti di esaurimento delle risorse naturali e
di inquinamento tali da impossibilitare ogni sviluppo ulteriore entro pochi decenni.
I successivi aggiornamenti dello stesso rapporto hanno notato poi come fosse possibile
ipotizzare che nuove tecnologie e regolazioni del mercato migliorassero la situazione, ma solo
in presenza di un consapevole sforzo teso a modificare le tendenze in atto, e ad impedire
eccessive disequità nella distribuzione delle risorse.
Questi problemi sono stati inizialmente preso da alcune minoranze attive come organizzazioni
volontarie, e entreranno in seguito nell’agenda di movimenti che rivendicavano la necessità di
elaborare modelli di sviluppo radicalmente alternative, mentre attualmente si tratta di
questioni vivissime.
La globalizzazione è in ogni caso difficile da gestire; il suo dispiegamento crea infatti una
miriade di attori sociali, e riduce l’importanza e l’autonomia degli Stati nazionali, nonostante
questi restino comunque gli unici organismi legittimati a definire e ad imporre le regole della
vita in comune.
Alcuni autori hanno poi suggerito come la situazione delineata possa essere definita come era
del post-modernismo, che soprattutto all’inizio degli anni Sessanta altro non è che una
corrente dell’architettura, ambito in cui consiste in una reazione al modernismo razionalismo
che si era imposto nel secondo dopoguerra. Al contrario di quest’ultimo, improntato al
funzionalismo, il post-modernismo invita a stili ibridi e variegati, in grado di interagire con le
tradizioni locali, e mantenendo un certo gusto per la decorazione. Trasferito in ambiti quali il
cinema o la letteratura, il post-modernismo corrisponde ad una democratizzazione nei
confronti della produzione e fruizione di cultura, rifiutando ogni “autoritarismo” della cultura
d’elitè e sviluppando allo stesso tempo l’esercizio dell’ironia e l’invito a rinunciare ad ogni
pretesa da parte degli autori di produrre qualcosa più vero di un’illusione.
Il problema, dal punto di vista dei post-modernisti, sta nella difficoltà sempre maggiore nel
distinguere tra realtà e simulazione; difatti, il mondo è un mondo in cui la realtà è oggetto
costante di processi comunicativi pervasivi, tanto che diventa evidente che nulla può essere
identificato in se stesso, ma solo attraverso i modi e le forme in cui è comunicato.
Ciò che più di tutto invita all’idea per la quale stiamo effettivamente entrando in una
condizione post-moderna è che la nozione stessa di modernità sia stata elaborata in seno
all’Occidente. Nessuna scienza sociale oggi può limitare la sua attenzione ai soli paesi
occidentali, a prescindere sia dalle differenze esistenti, sia dai rapporti che legano questi agli
altri paesi.
Siamo cioè consapevoli di essere immersi in un mondo più ampio di quello a cui guardavano i
teorici della modernità, e questa consapevolezza si fa sempre più forte nelle scìcienze sociali,
avvertendo così l’esigenza di sviluppare sia la comparazione sia l’attenzione per
l’interdipendenza tra i fenomeni osservati nelle diverse parti del mondo.
Uno dei nomi più importanti in materia è quello di Eisenstad, i cui primi lavori si erano
sviluppati nell’ottica dello struttural-funzionalismo. Era attento ad evitare una forte
contrapposizione tra società tradizionali e moderne, e ad attribuire un peso rilevante alle
capacità specifiche delle élite locali di gestire il processo di modernizzazione.
Tuttavia all’interno di questo programma esistono alcune spinte contraddittorie, tra cui
soprattutto quella alla mobilitazione generalizzata e le tendenze dei centri a chiudersi e a
controllare le periferie, tensioni che hanno dato vita a varie eterodossie, dunque ad
interpretazioni del programma della modernità alternative a quelle più consolidate.
È proprio l’osservazione delle varie forme di realizzazione della modernità che è importante,
osservando ad esempio come parte dell’evoluzione della civiltà moderna abbia avuto luogo al
di fuori dell’Occidente. Ciò porta alla presa di visione di Eisenstad di come sul piano mondiale,
lo sviluppo degli ultimisecoli ha corrisposto ad una diffusione della civiltà mondiale al di fuori
dei suoi confini originari, i cui vettori di diffusione sono stati il mercato, le tecnologie, i mezzi e i
flussi della comunicazione.
È qui che si instaura il concetto centrale delle modernità multiple: ciò che accade è che,
diffondendosi nel globo, il modello occidentale non da luogo ad uno sviluppo identico
ovunque, ma a processi che incorporano selettivamente i tratti della modernità, accettandone
alcuni e rifiutandone altri. tale selezione altro non dipende che dal momento storico in cui si
pone la sfida, dallo stato delle relazioni internazionali, ma anche dalle visioni del mondo di ogni
civiltà, che danno vita allo sviluppo di molteplici modernità.
Nonostante l’importanza indubbia della ricerca comparata, il problema che vi si pone è che
oggi più che mai le parti del globo sono interconnesse, concetto ripreso soprattutto da
Wallerstein, per cui l’idea di sistema non riguarda tanto l’interconnessione funzionale delle
parti che compongono una società, quanto i rapporti tra le diverse aree del globo.
Il suo punto di partenza è quello della critica delle teorie di stampo struttural-funzionalista
della modernizzazione, muovendo innanzitutto dall’obiezione riguardo la questione dell’unità
di analisi, e per cui nessuno stato nazionale è un’unità adeguata per comprendere lo sviluppo,
dal momento in cui gli Stati sono tutti legati in un’unica economia-mondo.
Quelle che appaiono società tradizionali corrispondono soprattutto ad assetti sociali connessi
all’eredità coloniale e al modo in cui queste aree del mondo sono state incuse nel sistema, e
difatti i paesi del Terzo mondo sono integrati nel sistema dell’economia mondiale in quanto
periferie.
Questa distinzione tra centri e periferie è fondamentale: il centro del sistema corrisponde alle
aree del mondo in cui si concentrano le attività che comportano il potere decisionale
strategico, il controllo e l’amministrazione dell’economia, la ricerca finalizzata all’innovazione e
dove si producono i beni che generano i profitti maggiori, mentre in periferia si trovano
situazioni di sostanziale subordinazioni, e dove si producono beni che generano profitti minori.
Tra queste due aree si trovano aree semiperiferiche, caratterizzate da scambi svantaggiosi con
le prime e vantaggiosi con le seconde.
I sistemi naturalmente si evolvono nel tempo, tanto che all’interno del sistema mondo le
posizioni relative dei diversi paesi possono a volte mutare. In certi momenti della storia
mondiale, si verificano inoltre crisi che preludono a variazioni più ampie, come sta accadendo
in questi decenni. In ogni caso la storia di nessun paese è staccata da quella delle relazioni che
intrattiene con gli altri. lo stesso successo dei processi di industrializzazione in diverse aree
periferiche del globo può non significare nulla quanto ai rapporti di potere effettivi: i centri
possono cioè affidare alle periferie la produzione di beni industriali che ormai generano limiti
profitti, riservando tuttavia a sé la produzioni di beni avanzati o che garantiscono i guadagni
maggiori, servendosi del potere militare e politico dei propri stati per mantenere la propria
posizione egemonica.
È questa una critica radicale alle teorie della modernizzazione, reinterpretate come ideologiche
nel senso marxiano, tendendo a legittimare i rapporti di forza esistenti sul piano mondiale
attribuendo ai subordinati la responsabilità del loro sottosviluppo. Allo stesso tempo, è un
modo originale di intendere la modernità come situazione attuale che più che a una post-
modernità, corrisponde ad una crisi dell’economia-mondo moderna, all’emergere di
contraddizioni e conflitti che preludono a nuove forme di organizzazione mondiale.
Dal punto di vista di una storia generale del pensiero sociologico, uno degli aspetti più
interessanti dei processi di globalizzazione è costituito dall’intrecciarsi di sguardi e voci che
provengono dall’intero globo, e ciò comporta il necessario tentativo di riconsiderare l’intera
storia del pensiero sociale in un’ottica che riconosca il fatto che, fino ad oggi, si è trattato di
un’impresa quasi esclusivamente occidentale.
A questo tentativo invitano i postcolonial studies, espressione che ha avuto la prima diffusione
in ambito letterario, come sviluppo dei precedenti Commonwealth studies, quegli studi sulle
letterature di ex colonie della Gran Bretagna. Diffondendosi poi nell’area delle scienze sociali, il
termine è andato a riferirsi ad una galassia di studi, la cui principale caratteristica sta
nell’intendere il passato coloniale come un’eredità che contribuisce in modo sostanziale a dr
forma al presente, in modo autocritico.
Decostruire questi discorsi è il compito che si prefiggono gli studi post-coloniali. Tuttavia, il
compito è difficile dal momento in cui le categorie con cui l’Occidente ha interpretato il mondo
e se stesso sono da un lato necessarie perché all’origine delle istituzioni che hanno dato ai
paesi extra-occidentali la forma che hanno stesso, dall’altro sono insufficienti perché
inadeguate a descrivere ciò che nella storia e nelle pratiche di vita di questi paesi non rientra in
tali contorni istituzionali. Sono tra l’altro inadeguate anche per la descrizione dello stesso
Occidente, nella misura in cui sono state elaborate minimizzando il ruolo di attori e processi
non occidentali.
Ciò a cui concretamente è possibile dar luogo è così una moltiplicazione delle storie e degli
approcci teorici, nel tentativo di dar voce a soggetti e a processi che sono caduti all’esterno
delle narrazioni e delle teorie fornite dall’Occidente.
Una delle opere fondamentali di tali studi è Orientalismo di Edward Said, che proponeva una
decostruzione dell’immagine dell’Oriente diffusa nella cultura e nelle scienze sociali europee,
mostrando come tale immagine sia stata solidale con le pratiche imperialiste ed abbia
contribuito a legittimarle. Nel suo lavoro si utilizzava la nozione gramsciana di egemonia e
anche alcuni spunti tratti dalle opere di Fochault, il cui centro del pensiero stava nel concetto
di discorso, che altro non è che un insieme di enunciati, di pratiche linguistiche e di significati
attraverso cui gruppi determinati di individui percepiscono ed ordinano la realtà. È un modo di
parlare dei fatti in cui si incarnano i valori e le credenze del gruppo, ma in cui questi stessi
valori e queste stesse credenze si trasformano in criteri di verità.
Questa sintesi delle nozioni di Gramsci e Fochault permetteva a Said di mostrare come il
discorso coloniali crei la realtà stessa che pretendeva di descrivere, attraverso l’espressione di
valori e credenze che legittimano la dominazione, assumendo un atteggiamento coerente con
la nozione di costruzione sociale.
Al di là di Said, gli studi postcoloniali costruiscono a ritroso una propria tradizione rivalutando
autori che la cultura dominante e la stessa storia accademica hanno spesso considerato come
marginali.
Tuttavia, la fine politica del colonialismo non ha coinciso con la fine dell’egemonia occidentale,
ma anzi ha complicato ulteriormente il quadro, con il razzismo che continua a persistere, ma
dove emergono anche diverse forme di resistenza all’egemonia, combinate con intensi
processi di ibridazione culturale reciproca, concetto che assieme a quello di diaspora è cruciale
negli studi post-coloniale.
Comunque il punto di interesse fondamentale degli studi post-coloniale sta soprattutto negli
interrogativi che si propongono, con l’obiettivo di costruire le teorie con la consapevolezza che
le differenze esistono, che si modificano incessantemente, ed evitare di espandere
incautamente la portata di esperienze locali.