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Modulo I

Approccio alla letteratura economica

Una distinzione fondamentale nella scienza economica è quella intercorrente tra economia positiva
ed economia normativa. Le proposizioni dell’economia positiva mirano a spiegare e a rappresentare
il funzionamento del sistema economico, mentre le proposizioni dell’economia normativa consistono
in consigli, suggerimenti, norme di condotta per l’azione dei poteri pubblici. Nell’accezione ricorrente
l’economia positiva coincide con l’economia politica e l’economia normativa con la politica
economica.

Alcuni autori sostengono che l’economia politica, come scienza, nasce con la pubblicazione
dell’opera di Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, avvenuta nel 1776, perché questa rappresenta
una vera e propria trattazione scientifica dei problemi economici: si tratta di un’opera che per prima
tratta in modo sistematico e completo i problemi economici, dal momento che le opere precedenti
avevano generalmente avuto carattere frammentario.

L’esame della letteratura mercantilista, comparsa tra la fine del sedicesimo e la metà del diciottesimo
secolo, è utile ai fini della comprensione del processo di formazione della politica economica come
campo di indagine scientifica. I mercantilisti avevano numerosi elementi in comune. In primo luogo
essi ritenevano che un surplus della bilancia commerciale fosse un indice di benessere economico;
pochi di loro avevano compreso che tale surplus avrebbe generato un afflusso di metalli preziosi nel
Paese che, determinando un aumento del livello generale dei prezzi, in regime di cambi fissi, quale
era quello del sistema aureo, avrebbe finito per eliminare il surplus. Un avanzo continuo della bilancia
commerciale non poteva quindi essere mantenuto e in ogni caso avrebbe determinato un processo
inflazionistico. Alcuni autori hanno messo in evidenza che l’idea dei mercantilisti, secondo cui
obiettivo dello Stato sarebbe dovuto essere l’accumulazione dei metalli preziosi, era dovuta solo ed
esclusivamente ad esigenze dell’epoca. In ogni caso i mercantilisti avevano un sistema definito di
politica economica, tant’è che ritenevano che non vi fosse un’armonia di interessi tra le nazioni, che
a loro volta erano anzi in contrasto tra di loro, come se nel mondo vi fosse una quantità data di risorse,
per cui un Paese poteva arricchirsi solo a spese di un altro. Per questo i mercantilisti suggerivano
politiche volte ad impoverire gli Stati vicini, imponendo ad esempio dazi sulle importazioni di merci
da questi o sussidiando l’industria nazionale e le esportazioni. Essi inoltre auspicavano la
realizzazione di opere pubbliche per accrescere l’occupazione e spesso sostenevano la necessità di
adottare provvedimenti restrittivi delle importazioni allo scopo di sostenere la produzione nazionale
e l’occupazione. Secondo i mercantilisti, dunque, la potenza nazionale e il benessere della
popolazione coincidono e possono essere raggiunte mediante una politica economica attuata dal
Governo. Essi infatti intravedono nell’uomo di Governo l’artefice della potenza e della prosperità
nazionale, colui che stimola e coordina l’attività economica e che realizza quindi la migliore
distribuzione dei redditi e delle risorse. Di contro Adam Smith accusava i mercantilisti di avere una
visione distorta del funzionamento del sistema economico, perché le politiche protezionistiche non
avrebbero favorito né la potenza né la prosperità di una nazione, obiettivi che potrebbero essere stati
raggiunti solo ed esclusivamente attraverso il libero scambio e la divisione internazionale del lavoro.

Se i mercantilisti insistevano sul ruolo delle politiche pubbliche allo scopo di promuovere la ricchezza
di un Paese, i fisiocratici, in particolare F. Quesnay e A.R.J. Turgot, chiedevano il superamento di
strutture feudali presenti ancora in Francia, come la servitù della gleba e la mezzadria allo scopo di
introdurre un’organizzazione più moderna e produttiva delle aziende agricole. Essi, in particolare,
sostenevano la necessità di potenziare il settore agricolo abolendo tutte le politiche finalizzate ad
incentivare il settore manifatturiero. Se negli scritti dei mercantilisti le norme di politica economica
rappresentano la parte dominante e in quelli dei fisiocratici il momento analitico e quello normativo
sono disgiunti, nell’opera di Adam Smith i due momenti appaiono largamente fusi. Smith insistè sul
fatto che esiste un ordine naturale che dà i massimi benefici alla collettività, mentre le istituzioni
umane sono per loro natura imperfette. E’ nota la sua affermazione secondo cui “ogni individuo,
perseguendo il proprio interesse, è spinto da una mano invisibile a promuovere un fine che non era
stato previsto dalle istituzioni”, cioè l’interesse della collettività. Se ogni individuo opera in modo da
massimizzare il suo utile personale, si realizzerà il bene comune: in tale contesto lo Stato deve limitare
la sua attività a pochi compiti essenziali come la difesa nazionale, l’amministrazione della giustizia,
la realizzazione e la manutenzione di opere pubbliche, quali ponte, strade, porti, etc. La fede di Smith
nella “mano invisibile” era basata sugli effetti positivi che l’interagire delle forze spontanee avrebbe
determinato sull’ampliamento del mercato e sull’espansione della divisione del lavoro con
conseguenze benefiche sull’accumulazione e sull’aumento del reddito. Pertanto Smith condannava i
sussidi alle esportazioni e le restrizioni delle importazioni, il sistema coloniale, i trattati commerciali
e tutte le altre misure volte a creare in modo artificioso un surplus della bilancia commerciale. Smith
dimenticò, dunque, che i due soggetti, l’imprenditore o capitalista da un lato, e il lavoratore dall’altro,
non erano sullo stesso piano, essendo quest’ultimo inevitabilmente in posizione debole. E’stato infatti
affermato che il pensiero di Adam Smith rappresentava gli interessi di una sola classe: la borghesia
industriale nascente. Egli in realtà vide un’armonia di interessi tra gli individui e le classi e così anche
tra le nazioni, armonia che poteva essere turbata solo dall’acquisizione di privilegi a vantaggio di un
gruppo sociale o di un ramo produttivo. L’intervento dello Stato favoriva interessi particolari a danno
dell’interesse generale: Smith fu quindi il sostenitore del liberismo economico o laissez faire.
Ponendo la questione in questi termini, si può affermare che il pensiero smithiano rappresenta
l’antitesi di quello mercantilista. Mentre i mercantilisti vedevano nell’avvedutezza dell’uomo di
Governo e nelle politiche economiche da lui attuate, l’elemento capace di promuovere la prosperità
economica di una nazione, Smith vede il motore dello sviluppo economico e del progresso
nell’iniziativa individuale, stimolata dall’interesse personale, che finisce per realizzare la prosperità
pubblica e privata, compensando gli effetti dannosi che derivano dalla stravaganza del governo e
dagli errori della pubblica amministrazione. Mentre per i mercantilisti vi era una pluralità di obiettivi
di politica economica da realizzarsi mediante l’azione di Governo, che doveva quindi regolare i
processi economici di produzione e distribuzione della ricchezza, per Smith le politiche dovevano
soltanto creare un quadro istituzionale entro il quale l’attività dei privati avrebbe prodotto il massimo
benessere per la collettività, che Smith chiamava progresso della società. Tale progresso è generato
dal sistema della libertà naturale, cioè dalle forze di mercato, che il governo deve lasciare libere di
esplicare i loro benefici effetti.

Mentre nell’opera di Smith l’interesse appare volto alle politiche economiche, in Davide Ricardo

(1772-1823) prevale il momento analitico. Ricardo riprese la teoria di Smith sul ruolo della mano
invisibile, facendolo dipendere più dal fenomeno sociale della concorrenza, che da una legge naturale,
e affermò che il problema fondamentale dell’economia politica è scoprire le leggi che determinano la
distribuzione del prodotto tra le tre classi sociali che compongono la collettività e che concorrono alla
formazione del prodotto stesso: i proprietari terrieri, i capitalisti e i lavoratori. Secondo Ricardo, è
interesse del proprietario fondiario che il prezzo del grano e dei generi alimentari aumenti, mentre è
interesse non solo degli operai e dei capitalisti ma anche di tutti i consumatori e quindi della
collettività nel suo complesso, che il costo della vita diminuisca. Ricardo identificava l’interesse della
collettività con l’obiettivo della massima accumulazione. Un Paese in cui la popolazione cresce
rapidamente, se non potrà importare grano, e in generale derrate alimentari dall’estero, dovrà mettere
a coltura terre via via meno fertili. Ciò determinerà un aumento del prezzo del grano, che sarà uguale
al costo di produzione sul terreno meno fertile, e di conseguenza un aumento della rendita fondiaria.
Essendo i salari stazionari infatti (Ricardo come Smith, riteneva che i salari fossero al livello di
sussistenza), si sarebbe verificata una diminuzione dei profitti e quindi degli investimenti, cioè un
rallentamento dell’accumulazione. Occorreva quindi favorire le importazioni di grano, abolendo i
dazi che esistevano nell’Inghilterra dell’epoca e che, mentre avvantaggiavano i proprietari terrieri,
erano in contrasto con gli interessi generali della collettività. L’analisi di Ricardo rappresentò la base
teorica per sostenere non solo la nacessità di abolire i dazi sul grano, ciò che venne fatto solo nel
1846, ma anche altre proposte come quelle dell’imposta unica e della nazionalizzazione della terra,
che furono sostenute dai riformatori sociali successivi, allo scopo di eliminare la rendita fondiaria,
ma che non vennero mai attuate. Coerentemente con la sua visione liberista, Ricardo, d’accordo con
Smith e in contrasto con altri suoi contemporanei, fu contrario a che lo Stato stimolasse o effettuasse
investimenti nei periodi di depressione, ritenendo che il meccanismo della concorrenza fosse
sufficiente ad assicurare la stabilità del sistema economico. Analogamente lo Stato non avrebbe
dovuto attuare una politica di redistribuzione del reddito, perché i meno abbienti avrebbero dovuto
aiutarsi da soli mediante l’iniziativa personale e per quanto riguarda il prelievo fiscale, Ricardo era
favorevole all’imposta proporzionale.

La posizione di Smith e di Ricardo era di piena fiducia nel risultato positivo dell’operare delle forze
di mercato e del non intervento dello Stato nella vita economica. Essi auspicavano il libero scambio
non solo all’interno di un Paese ma anche tra diversi Paesi, e Ricardo, mediante la teoria dei costi
comparati, diede una dimostrazione rigorosa del fatto che restrizioni agli scambi internazionali
determinano distorsioni nell’uso delle risorse e una diminuzione del benessere; coerentemente Smith
e Ricardo aderivano all’idea di un sistema di pagamenti multilaterali a carta-moneta convertibile in
oro o altri metalli preziosi. Su posizioni simili si pongono J. Bentham (1748-1832), E. Burke (1729-
1797) e K.W.Humboldt (1767-1835).

Bentham ammette l’intervento dello Stato, oltre che nei casi previsti da Smith, anche allo scopo di
eliminare gli ostacoli che si frappongono all’iniziativa individuale. Lo Stato può agire sulle
conoscenze, sulle attitudini e sulle facoltà degli individui, e deve intervenire quando vi è una carenza
di questi elementi che condizionano l’iniziativa individuale. Egli afferma che l’azione o lo stimolo
del governo è giustificato solo se è in grado di produrre un bene superiore a quello che si
verificherebbe in assenza dell’intervento stesso.

Burke condivise la fiducia di A. Smith nel sistema di libertà naturale e ritenne che lo Stato non
dovesse intervenire nella vita economica, salvo che per mantenere la pace, la sicurezza, l’ordine e la
prosperità pubblica. Egli comunque mise in guardia contro gli interventi eccessivi del governo volti
ad aiutare gli strati più poveri della popolazione nei momenti di congiuntura economica sfavorevole,
perché i cicli economici sono lunghi e quindi diventa impossibile interrompere questo programma di
aiuti. Il pensiero di Burke è dominato dall’idea della conservazione dell’ordine sociale esistente, che
per lui resta l’obiettivo principale che lo Stato deve perseguire.

Humboldt condivideva l’opinione di Smith secondo la quale lo Stato non deve ingerirsi nella vita
economica e sociale e mise in guardia contro il pericolo che gli interventi dello Stato generano l’attesa
di ulteriori interventi, per cui l’azione pubblica, una volta iniziata, è costretta ad espandersi,
generando un accrescimento della burocrazia. Lo Stato, se si occupa del bene positivo dei cittadini,
finirà per espandere i suoi interventi in modo irreversibile e senza limiti. Occorre pertanto fissare un
limite allo Stato: esso deve occuparsi esclusivamente della sicurezza dei cittadini, di quella esterna
(della difesa nazionale) e di quella interna (ordine pubblico e amministrazione della giustizia).

A differenza di tali autori che limitavano l’azione dello Stato ad alcune funzioni essenziali, altri
studiosi professavano idee opposte. Si ricordino, tra essi, i romantici tedeschi come F. Gentz (1764-
1832), A.H. Mller (1779-1829), J.G. Fichte (1762-1814) e F. List (1789-1846).

Questi erano favorevoli al protezionismo doganale e all’adozione della carta-moneta inconvertibile


quali strumenti dell’autorità dello Stato e della potenza nazionale. Fichte sosteneva la necessità che
lo Stato si chiudesse in sè stesso e praticasse l’autarchia, cercando di produrre al suo interno tutto ciò
di cui aveva bisogno, perché riteneva che il commercio estero fosse una causa di rivalità tra i Paesi,
che avrebbe prima o poi generato delle guerre. Egli distingueva anche tra la moneta mondiale,
rappresentata dai metalli preziosi, e la moneta nazionale che poteva essere carta-moneta
inconvertibile istituita dallo Stato per decreto. Solo l’adozione dell’autarchia commerciale, che egli
auspicava, avrebbe portato all’eliminazione della moneta mondiale. Muller sosteneva che Smith
sbagliava nel ritenere che l’interesse egoistico del singolo potesse essere l’unico motore della vita
economica; occorreva anche considerare l’altruismo e la religione come elementi determinanti del
comportamento degli individui e il ruolo dello Stato. Emerge quindi una concezione dello Stato ben
diversa da quella di Smith e degli altri scrittori liberali inglesi. Non è importante solo la ricchezza del
singolo, afferma Muller, ma anche quella dello Stato, cioè la potenza nazionale. Anche Muller
proponeva il protezionismo e l’adozione di carta-moneta inconvertibile. Infine List giustificò il
protezionismo con l’argomento dell’industria giovane allo scopo di consolidarla, ma ritenne questa
una politica temporanea, a differenza di Fichte che aveva teorizzato l’autarchia come ideale
permanente.

Benchè in Smith e Ricardo non manchino cenni al problema della distribuzione del reddito tra gli
individui e le classi sociali, il primo autore che affrontò il problema in modo organico fu John Stuart
Mill (1806-1873). Una distinzione importante è, a riguardo, quella tra giustizia commutativa e
giustizia distributiva. Lo scambio, sosteneva Smith, si verifica quando è vantaggioso per entrambi i
contraenti: questi staranno meglio dopo lo scambio. Pertanto, se il mercato rappresenta la sintesi
dell’interesse personale e della giustizia, l’efficienza, intesa come il miglior utilizzo delle risorse, e
la giustizia sono concepite come indissolubili e realizzate dal meccanismo del mercato. Gli interventi
dello Stato, creando inefficienze nell’uso delle risorse, producono anche delle ingiustizie. In questa
logica le diseguaglianze finiscono per essere il risultato delle libere scelte degli individui: un
individuo è meno ricco di un altro perché è disposto a lavorare di meno o non è disposto ad assumere
i rischi di un’iniziativa imprenditoriale. Le diseguaglianze, essendo la conseguenza di libere scelte
degli individui, non rappresentano delle ingiustizie. Questa teoria considera solo la giustizia
commutativa, che è quella realizzata dal mercato, e ignora completamente il problema della giustizia
distributiva, che è legato alla questione della posizione di partenza di ciascun soggetto, cioè alle
diseguaglianze tra gli individui che cominciano fin dalla nascita, a causa del differente ambiente in
cui vivono, del livello di istruzione che ricevono, e che finiscono per rappresentare ostacoli
insormontabili. Mill considerò tale problema e sostenne che la giustizia del mercato andava
completata con il principio dell’uguaglianza delle opportunità. Molte persone nella vita non hanno
successo benché siano disposte a lavorare intensamente, e ciò spesso dipende non dalle loro capacità
ma dal fatto che sono sfavorite dalla posizione di partenza. Il governo, attraverso l’istruzione, la
legislazione e altri interventi, dovrebbe rendere le posizioni di partenza nella vita uguali per tutti. In
questo modo Mill finiva per legittimare un ampio intervento dello Stato nella vota sociale. Lo stesso
autore ritenne che il laissez faire dovesse essere integrato dall’intervento dello Stato, considerando
quindi l’intervento pubblico come complementare e non sostitutivo di quello privato. Egli assegnò
dei compiti positivi all’azione pubblica, avvertendo che i limiti di tale azione non potevano essere
stabiliti da una norma di carattere universale ma dovevano essere fissati empiricamente, in base a
criteri di opportunità. Egli quindi, considerando che i bambini non erano in grado di valutare quale
fosse il loro interesse, ritenne che lo Stato dovesse occuparsi dell’istruzione e della legislazione sul
lavoro dei minori. Mill propose un’imposta che riducesse la trasmissione ereditaria dei beni e quindi
la concentrazione della ricchezza nelle mani di poche famiglie, auspicò la diffusione della piccola
proprietà contadina, lo sviluppo delle cooperative, la diffusione dell’istruzione e tutte quelle riforme
che attenuassero i mali del capitalismo senza distruggerne le basi. Egli affermò che l’incremento della
ricchezza prima o poi sarebbe dovuto cessare e la società sarebbe arrivata ad uno stato stazionario
simile a quello descritto da Ricardo. Mill guardava con simpatia lo stato stazionario, con una
situazione in cui la lotta della concorrenza è finita e la ricchezza è ripartita in modo più equo per opera
sia delle leggi sia della maggiore frugalità e saggezza degli individui. E’ solo nei Paesi arretrati,
afferma Mill, che l’aumento della produzione rappresenta ancora un obiettivo importante; in quelli
più progrediti invece è necessaria una migliore distribuzione del reddito, che ha per presupposto anche
un controllo più energico dell’aumento della popolazione.

Le principali correnti macroeconomiche

Il primo macroeconomista a pieno titolo fu Keynes. La sua opera “Teoria generale, dell’occupazione,
dell’interesse e della moneta” del 1936 ebbe il pregio di fornire risposte teoriche e pratiche alla
tragedia americana della Grande Depressione e di costituire una fiaccola sul cammino degli
economisti e degli uomini politici. La teoria keynesiana parte dalla domanda aggregata (o effettiva)
per rilanciare la produzione e la crescita economica. Keynes negò in sostanza la legge di Say, secondo
la quale l’offerta crea la propria domanda, situazione per la quale non vi saranno mai quantità di
prodotto invendute in quanto il meccanismo automatico delle variazioni di prezzi e salari, regolati
dalla legge della scarsità, consentirà sempre all’offerta aggregata di “piazzare” tutto il prodotto, tutt’al
più modificandone il prezzo, senza che si verifichi recessione o che vi siano stock di moneta
invenduta. Per Keynes le cose non sono però così semplici, né così automatiche. La viscosità dei
prezzi e dei salari, e soprattutto la lentezza di questo automatismo, ammesso che esso esista, stanno
alla base di ogni recessione, caratterizzata da: merce invenduta, disinvestimenti e aumento della
disoccupazione per i licenziamenti. Al massimo, concludeva Keynes, la legge di Say potrebbe
funzionare nel lungo periodo. Stando così le cose l’unica possibilità di uscire dalla recessione sarebbe
stato il ribaltamento della legge di Say: sarebbe dovuta dunque essere la domanda aggregata a creare
la propria offerta e quindi spingere verso l’alto la curva di domanda aggregata aumentando la spesa
pubblica. Il Governo, in questo caso, avrebbe dovuto investire nel sistema quote cospicue, anche
ricorrendo al debito nell’economia (deficit spending); con un meccanismo di amplificazione, poi, la
maggiore spesa pubblica avrebbe fatto aumentare più che proporzionalmente il prodotto interno.

Sul fronte monetario Keynes espresse brillanti intuizioni ed analizzò la curva di domanda di moneta
(definita nella sua teoria preferenza per la liquidità) introducendo elementi di analisi innovativi: egli
scompose la curva in tre diverse componenti che risultavano variabili dipendenti dal reddito
(domanda di moneta per movente transazionale e per movente precauzionale) e dal livello del tasso
di interesse (domanda di moneta per movente speculativo).

Infine alcuni studiosi, tra cui Blanchard, ritengono che gli animal spirit di cui parlò Keynes come di
intuizioni che ispiravano il comportamento degli imprenditori, preludessero in qualche modo alle
aspettative razionali, introdotte da Lucas e che rappresentano un fronte di ricerca relativamente
recente. L’opera keynesiana dominò il dibattito macroeconomico a lungo, e soltanto negli anni ’50
secondo Samuelson, il 90% degli economisti americani hanno smesso di essere economisti keynesiani
o antikeynesiani per sviluppare filoni di ricerca più autonomi, seppur sempre condizionati,
inevitabilmente, dai risultati delle analisi precedenti. Il filone che si autodefiniva keynesiano, del
resto, trovava tra le sue file autori anche molto distinti tra loro e ciò soprattutto in quanto le idee e le
intuizioni del capostipite non furono mai da lui espresse in termini analitici, così altri economisti
vollero far discendere dalla teoria implicazioni disparate, su cui forse nemmeno Keynes sarebbe stato
d’accordo. Il modello più interessante nato dalla ibridazione del pensiero keynesiano con la teoria dei
monetaristi fu il modello IS-LM, famosa anche come sintesi neoclassica, di cui si parlerà in seguito.
Questo modello, creato nella sua versione originaria da John Hicks e Alvin Hansen negli anni ’30, fu
successivamente migliorato ed integrato dagli e stessi autori e da altri contributi; esso ha il pregio di
insistere sulla relazione tra mercato reale e monetario e di analizzare le implicazioni delle diverse
forme in cui può realizzarsi l’intervento pubblico nell’economia (politica, fiscale e monetaria).

La corrente di pensiero che si oppose più tenacemente al pensiero keynesiano, fu quella dei
monetaristi che riconobbero in Milton Friedman il ruolo di guida intellettuale. Friedman, che si era
già distinto per alcuni apporti alla teoria del consumo, non condivideva il generale ottimismo nelle
possibilità della politica economica tant’è che monetaristi e keynesiani riempirono le riviste di
economia di articoli in polemica gli uni contro gli altri durante gli anni ’70. Lo scontro si concentrava,
in particolare, sulla possibilità della politica economica di ricondurre l’economia al pieno impiego. I
monetaristi negavano questa possibilità, anzi consigliavano un comportamento neutrale da parte delle
autorità centrali rispetto all’emissione di moneta. Secondo Friedman l’offerta di moneta doveva
crescere allo stesso tasso con cui cresceva il PIL per non generare inflazione. I monetaristi, inoltre,
imputavano la Grande Depressione ad un errore di comportamento da parte dell’autorità monetaria
statunitense (la FED) che avrebbe dovuto, in tale congiuntura, emettere quantità aggiuntive di
circolante per compensare il fallimento di numerose banche.

Il più importante e innovativo filone di ricerca, destinato a divenire pietra miliare della teoria, deve i
suoi natali a Robert Lucas e Thomas Sargent che introdussero le aspettative razionali. Secondo questa
teoria, che fu definita critica di Lucas, le persone formano le loro aspettative destinate a determinare
i comportamenti economici nel modo più razionale possibile, utilizzando tutte le informazioni di cui
dispongono e correggendo le aspettative mano a mano che nuove informazioni si rendano note.
Agendo in questo modo, tutti gli operatori anticipano, vanificandolo, ogni tentativo di politica
economica, in quanto prevedendolo, modificano i loro comportamenti, mentre le manovre di politica
economica si basano sui comportamenti degli operatori ormai non più attuali. Questa constatazione
sancì un nuovo connubio tra matematica ed economia: per la prima volta si utilizzò la teoria dei giochi
di von Neumann in campo economico, analizzando secondo questo metodo, che comporta schemi di
simulazione, i comportamenti attivi-reattivi degli operatori. La teoria dei giochi si propagò
rapidamente andando a coinvolgere gli spazi di molte altre discipline politiche e sociali (secondo
schemi di simulazione si analizzarono i comportamenti di partiti politici, banche centrali, governo nei
suoi rapporti con i cittadini, burocrati, governi in relazione tra loro, etc).

L’idea delle aspettative razionali convinse tutti gli economisti che la integrarono nelle loro ricerche,
sebbene alcuni rilevarono eccezioni ed intoppi nel meccanismo di trasmissione delle informazioni
(elementi normativi, conoscenza imperfetta, ecc.): ad esempio, ciò accadeva per lo scaglionamento
delle decisioni di prezzi e salari. Tale contributo si deve a Stanley Fisher e John Taylor che mostrarono
come meccanismi di adeguamento dei prezzi e dei salari rispetto ad un aumento dell’offerta monetaria
potessero essere rallentati da vari intoppi (come la revisione triennale dei contratti di lavoro) per cui,
anche sotto l’ipotesi delle aspettative razionali, era consentito un certo margine di azione alla politica
economica. Il filone keynesiano non scompare ancora negli anni ’80 e ’90 anche se sotto l’etichetta
“neokeynesiani”, come già in passato, si ritrovano autori tra loro perfino in contrasto. Si può
affermare che l’unico punto in comune tra tutti loro è la convinzione della necessità di un intervento
pubblico nell’economia per contrastare meccanismi perversi dovuti ad imperfezioni del mercato,
rigidità di funzionamento e intoppi vari negli automatismi riequilibra tori. Vale la pena citare alcuni
autori “fuori dal coro”, riuniti nel filone noto come teoria dell’offerta. Tra questi va ricordato Arthur
Laffer, ispiratore della politica reaganiana degli anni ’80. La teoria è estremamente liberista,
sostenitrice della legge di Say, e contraria alla presenza dello Stato nell’economia: quest’ultimo
dovrebbe ripiegare nelle retrovie delle sue funzioni istituzionali (difesa, giustizia e ordine pubblico)
e ridurre drasticamente la spesa pubblica e le imposte. Queste misure dovrebbero favorire le imprese
in varie maniere: con l’aumento del reddito disponibile (reddito al netto delle imposte), le famiglie si
ritroverebbero nella possibilità di effettuare maggiori consumi e maggiori risparmi; questi ultimi
sarebbero prestati per gli investimenti del settore privato, essendosi quello pubblico allontanato
dall’economia: ciò annullerebbe gli effetti dello spiazzamento (preferenza delle famiglie ad investire
in titoli di Stato, meno remunerativi ma più sicuri). Le imprese, quindi, avrebbero maggiori profitti
da investire (perché le tasse sono diminuite), maggiori richieste di consumo e maggiore offerta di
capitali. Tutto questo dovrebbe fornire grande impulso alla crescita economica, in termini fisici e
occupazionali. L’evoluzione della teoria non sembra destinata ad esaurirsi ma anzi a procedere, come
sempre, per progressivi adeguamenti e revisioni.

Col passar del tempo alcuni paesi avevano senz’altro beneficiato del ruolo attivo dello Stato, ma altri
paesi, i cui governi avevano assunto un tipo di atteggiamento molto più passivo in ambito economico,
godevano altresì di prosperità.

In tale ambito si sviluppa la scuola degli economisti classici, il cui scopo è di proporre un processo
di sviluppo economico, sia che si tratti della società o che si tratti di una nazione, spostando dunque
il campo di studio, in un quadro storico materiale in cui avrebbe avuto un forte impatto la rivoluzione
industriale e la conseguente affermazione del capitalismo. Il quesito centrale, cui la Scuola
Economica Classica tenta di dare risposta, riguarda il come la società possa evolversi allorquando
ogni persona, nonostante appartenga ad una determinata classe sociale, è libera di farsi condurre dal
proprio interesse individuale.
La scuola degli economisti classici, fa parte del pensiero dell'Illuminismo, e i suoi principali temi
riguardano:

• Il valore di scambio fra le merci

• La differenza tra prezzo naturale e prezzo di mercato

• La consapevolezza che per quasi tutte le merci la Curva di Offerta sia orizzontale, e che quindi
sia l’offerta a determinare il prezzo naturale delle, mentre la domanda è determinante solo per ciò che
concerne la quantità di merce da scambiare.

Sul filone dell’economia classica assunse particolare importanza la teoria di Adam Smith che si
poneva la domanda circa la possibilità per la società di avere una certezza in base alla quale, colui a
cui è affidato il compito di governare, persegue anche l’interesse pubblico. Nella sua osservazione,
Smith notò che in taluni casi i governi perseguivano politiche volte ad aumentare il benessere
pubblico, mentre in altri casi, invece, le politiche adottate, non contribuivano al benessere della
collettività, ma esclusivamente a quello di una sparuta minoranza.

Quindi nel 1776 Smith, da molti considerato come il fondatore dell’economia moderna, sosteneva
nella sua opera, La ricchezza delle nazioni, che la concorrenza, se lasciata libera, farebbe sì che gli
individui, nel perseguire il proprio interesse privato (coincidente con il profitto), perseguissero anche
l’interesse pubblico: “…egli mira solo al proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile, in
questo come in molti altri casi, a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni. Né il fatto
che tale fine non rientri nelle sue intenzioni, è sempre un danno per la società. Perseguendo il proprio
interesse, egli spesso persegue quello della società in modo molto più efficace di quando intende
effettivamente perseguirlo”

Smith arriva a sviluppare l’idea secondo cui, per ottenere elevati livelli benessere, non ci si doveva
affidare né allo Stato, né ad alcun sentimento morale. L’interesse pubblico viene automaticamente
perseguito allorquando ogni singolo individuo, mosso da un puro istinto egoistico, fa ciò che egli
ritiene giusto per il perseguimento del suo interesse personale. Da tale assunto muove poi la sua teoria,
tant’è che nella sua opera egli cerca ripetutamente di dimostrare come la concorrenza e la motivazione
del profitto potessero condurre i singoli individui a perseguire l’interesse pubblico. E’ il profitto, o
per meglio dire la sua motivazione, a spingere gli imprenditori a offrire beni desiderati dai
consumatori, senza la necessità dello Stato e della sua funzione di produttore di beni. La concorrenza
tra gli imprenditori, farà sì che nel mercato sopravvivano esclusivamente coloro i quali soddisfano
la domanda, al prezzo più basso possibile, il che porterà quindi, indirettamente, ad aumentare il
benessere pubblico. L’economia è come se fosse sostenuta e spinta da una Mano Invisibile, la quale
riesce con un meccanismo automatico a produrre nel miglior modo possibile ciò che i consumatori
desiderano.

Le teorie di Adam Smith, ebbero molto successo sia tra i governi che tra gli economisti del
diciannovesimo secolo, assertori delle teorie Smithiane e diffusori della dottrina del laissez faire.

Tra di essi, ricopre sicuramente un ruolo fondamentale John Stuart Mill, filosofo utilitarista,
economista liberale, il quale nella sua opera più importante, “Principi di economia politica”, riteneva
leggi naturali, e dunque immutabili, esclusivamente le leggi di produzione, mentre le leggi di
distribuzione erano da lui derubricate come una fenomenologia etico-politica, determinate da ragioni
meramente sociali, e quindi modificabili. Nel calcolo della massimizzazione del benessere sono
valutate tutte le azioni, nonché la qualità, ossia gli ideali di benessere nobili e virtuosi, non solo per
fini egoistici, ma sono considerati importanti anche i piaceri “spirituali” non immediati, utili per
difendere l’aspetto sociale dell’utilitarismo e integrarlo con la morale stoica e cristiana e, quindi, con
i principi di equità e giustizia.

L’autore britannico, riassume la sua concezione classico/liberale del mercato, con la famosa metafora
dell’Mulino ad acqua.

Nello spiegare il funzionamento del meccanismo del mulino ad acqua, egli ci illustra che è necessaria
innanzitutto una forza naturale (l’acqua), che deve essere capace di fornire l’energia necessaria al
funzionamento del congegno, e tale forza non è creata né tantomeno governabile dall’uomo, in quanto
rispondente esclusivamente a leggi naturali, non rinchiudibili nelle regole dell’etica. In secondo luogo
è poi necessario creare un meccanismo capace di trasformare tale energia in ricchezza. Questo
meccanismo deve essere necessariamente costruito seguendo le conoscenze umane e basandosi sulle
regole che ordinano il vivere civile. Il pensiero rivoluzionario di Mill sta nel suo fondere la concezione
liberale della produzione, con una concezione socialista della distribuzione, e questo perché egli
ritiene le leggi di produzione dipendenti dalle necessità naturali, mentre ritiene le leggi di
distribuzione, dipendenti dalla volontà umana.

La teoria di Smith non raccolse favori unanimi tra i pensatori sociali del diciannovesimo secolo, molti
dei quali erano negativamente colpiti dalle condizioni di sperequazione sociale a cui erano sottoposte
le classi sociali più deboli, con una profonda ineguaglianza distributiva tra le classi elitarie e la classe
operaia, e con condizioni di disoccupazione che sempre più spesso dovevano affrontare. Il riferimento
è dunque alla Scuola dell’ Economia Marxiana

L’economia marxiana detta altresì Scuola Marxista di Economia, si riferisce ad una scuola di pensiero
economico che traccia le sue fondamenta nella critica all'economia politica classica esposte da
grandi pensatori nonché fondatori di tale scuola: Karl Marx e Friedrich Engels. L’Economia
marxista si riferisce a diverse teorie e include al suo interno più scuole di pensiero che a volte sono
agli antipodi le une rispetto alle altre. Tra gli ambiti dello studio Marxiano dell’economia vi si trova:

• la crisi del capitalismo

• il ruolo e la distribuzione del prodotto in eccedenza e del plusvalore in vari tipi di sistemi
economici

• la natura e l'origine del valore economico

• l'impatto di classe e la lotta di classe sia nell’economica che nella politica • il processo di
evoluzione economica.

La Scuola Marxista di Economia è altresì vista come un quadro analitico che si pone come alternativa
all'economia neoclassica. Anche se la scuola marxiana è considerata eterodossa , molte idee che sono
venute fuori dal pensiero economico Marxista, hanno dato un forte contribuito ad una migliore
comprensione dell'economia globale; alcuni concetti di economia marxiana, in particolare quelli
relativi alla accumulazione di capitale, al ciclo economico, o la distruzione creativa, sono stati
adeguati per l'utilizzo in sistemi capitalisti.

Tra i principali pensatori sociali in netta opposizione al pensiero di Adam Smith, c’è appunto Karl
Marx, il quale non solo tentò di elaborare teorie per spiegare la realtà che appariva alla loro
osservazione, ma anche di indicare la strada da percorrere per far giungere la società ad una migliore
condizione di equità. Marx riteneva che il male della società fosse incarnato nella proprietà privata
del capitale, ciò che proprio Smith riteneva invece una dote positiva.

Nell’ambito della disquisizione tra i fautori di uno Stato poco presente nell’economia, e chi invece
propendeva per un controllo totale dello stato dei mezzi di produzione, si inseriscono i primi
contributi alla teorizzazione del benessere, con contributi notevoli dati dalla scuola dell’ Utilitarismo
inglese.

La rivoluzione data dal pensiero Utilitaristico derivava dal fatto che ora, oggetto dell’economia,
diventa il calcolo razionale del piacere e della pena, entità psicologiche matematicamente misurabili.
I tre cardini dell’Utilitarismo possono così essere racchiusi in:
- Benesserismo (welfarism)

- Conseguenzialismo

- Ordinamento per somma

Uno dei principali pensatori utilitaristi fu Jeremy Bentham la cui costruzione teorica può essere
riassunta in questa frase "it is the greatest happiness of the greatest number that is the measure of right
and wrong". Con tale affermazione, l’economista afferma che lo scopo del governo deve essere la
massima felicità dei propri cittadini.

Le scelte ed il comportamento razionale non egoistico dei soggetti economici tendono inevitabilmente
a massimizzare, e dunque ricercare, il benessere, e a minimizzare, dunque evitare, i disagi, in un
modello smithiano di essere umano rivolto al futuro, non limitato in un predeterminato ambito.

C’è da dire che, anche se Bentham si allontana dall’approccio Smithiano, ritiene comunque
fondamentale, nella sua proposizione teorica, la presenza di un mercato in perfetta libera concorrenza.

Nella sua visione utilitaristica, Bentham definì la sua visione di Benessere della Collettività, come la
somma delle utilità di tutti i singoli individui, in quanto riteneva che le utilità, da un punto di vista
meramente psichico (e non economico), in termini di soddisfazioni, fossero pacificamente
comparabili e quindi sommabili. Ma prima di sommare tutte le utilità, era necessario fare la differenza
tra i piaceri e i dolori, definiti dal filosofo come “supremes masters of humanity”, supremi padroni
dell’umanità.

La scuola neoclassica

La dottrina marginalista darà un notevole impulso ad un'evoluzione fondamentale, in ciò che concerne
la teoria del valore, in quanto nell'impostazione teorica classica e marxista, ad esempio, sarà il
quantitativo di lavoro che porterà alla definizione del valore di un bene, mentre in base al pensiero
marginalista, il valore del prodotto, rifletterà il livello di gradimento soggettivo che i singoli
consumatori attribuiranno ai diversi beni. Il gradimento, definito anche come "utilità", avrà una
tendenza a diminuire in seguito al consumo di ogni singola unità aggiuntiva del medesimo bene.

La dottrina del valore, sostenuta dai marginalisti, si fonda su elementi unicamente soggettivi, che si
basano su stime di opportunità dei singoli soggetti. Il valore di un bene sarà dunque spiegato sulla
base dell'importanza che il consumatore attribuisce al prodotto stesso e cioè, più il prodotto è
desiderato, più è capace di soddisfare un bisogno e più vale.
Il metodo marginalista, rispetto a quello classico che considera indispensabile lo studio del
progresso economico, incentra la sua osservazione sul concetto di equilibrio economico e sullo
screening di tecniche di allocazione delle risorse in modo efficiente. La scuola Marginalista, ha
senz’altro apportato una notevole professionalizzazione, e grazie all'utilizzo di strumenti
matematici come il calcolo infinitesimale, è stata possibile la definizione precisa del concetto di utilità
marginale, che è il concetto base della teoria marginalista.

Il consumatore appaga i suoi bisogni in maniera decrescente e per far ciò, i marginalisti suggeriscono
un esempio esplicativo: un soggetto assetato, al primo bicchiere d'acqua attribuisce un certo grado di
desiderio e quindi esso recherà al soggetto, una utilità elevata, poi anche il secondo bicchiere recherà
grande utilità e soddisfazione. Dal terzo bicchiere in poi, ogni quantità successiva arrecherà sempre
una minore soddisfazione, fino ad arrivare al punto in cui una quantità successiva consumata crei
fastidio. Da ciò ne deriva “che le dosi o unità di un certo bene, appagano in modo decrescente il
consumatore”, e tale dottrina si riferisce alla nozione di utilità marginale.

La scuola neoclassica o marginalista, concentra la propria attenzione principalmente sullo studio di


un’efficiente allocazione delle risorse, nell’ambito di un mercato a concorrenza perfetta, Quindi
all'interno di un mercato in cui vi è una diffusione ottimale di informazioni che sono fondamentali al
fine di permettere agli operatori di decidere in maniera cosciente.

Un’altra caratteristica degli studi neoclassici, è quella relativa ai fattori produttivi, i quali hanno la
peculiarità della mobilità, intesa come la possibilità di essere facilmente spostati, ed altresì relativa al
mercato, il quale invece si caratterizza della presenza di un gran numero sia di venditori che di
compratori, condizione essenziale per far sì che si evitino situazioni di oligopolio e monopolio.

I primi marginalisti interpretavano il concetto di utilità marginale in termini cardinali, ed in base a


ciò diveniva dunque possibile compiere confronti interpersonali. L'approccio cardinalista fu pian
piano abbandonato a favore del metodo ordinalista con il contributo dato da grandi economisti quali
Vilfredo Pareto, Lèon Walras, Alfred Marhall e Arthur Pigou, con alcuni contributi originali dati da
altri autori quali Francis Edgeworth.

Il primo teorizzatore della teoria dell’Equilibrio Economico Generale fu Lèon Walras il cui studio era
basato sull'assunzione di leggi matematiche, e la cui attenzione era rivolta al concetto di efficienza.
Per Walras non è fondamentale capire che l’equilibrio raggiunto sia anche “equo”, importante sarà
capire come arrivare ad un punto di equilibrio efficiente, punto dal quale non ci si potrà spostare per
migliorare le proprie condizioni, senza che ciò comporti il peggioramento di quelle degli altri
operatori del mercato.
Il pensiero walrasiano si caratterizza per lo studio dell’economia mediante un metodo che sia
Deduttivo-Normativo, tralasciando aspetti istituzionali, ma prendendo in esame solo i comportamenti
razionali degli agenti economici. Walras, in quanto capofila dei marginalisti, tenta di comprendere e
documentare quanto il comportamento economico di un soggetto sia prevedibile e sistematico, nel
momento in cui siano date alcune condizioni, a cui è legata la validità delle teorie, che essendo
caratterizzate da una bassa possibilità di compimento concreto, rendono la teoria valida ad un livello
meramente astratto e dunque poco applicabile alla realtà.

Il noto economista e sociologo Vilfredo Pareto elabora la sua teoria come prosecuzione dell’opera di
Walras, con una peculiarità nel suo metodo caratterizzato dalla sua volontà di trasmutare il metodo
empirico utilizzato nelle scienze fisiche alle scienze economiche.

Pareto mise da parte l’ipotesi della sum-ranking utilitaristica, quindi escludeva la possibilità di
sommare le utilità di individui diversi, in quanto egli riteneva l’utilità di un bene, non la sua mera
proprietà fisica, ma al contrario, la attitudine di tale bene a soddisfare specifici bisogni. L’utilità
secondo Pareto è dunque una grandezza soggettiva nonché psicologica, e in conseguenza di ciò, non
solo non è possibile misurarlo, ma è soprattutto inutile effettuare tale misurazione. Ciò che invece è
necessario, è la possibilità per l’individuo-consumatore di poter mettere a confronto alternative di
consumo, e di poter esprimere liberamente delle preferenze in merito a codeste alternative.

L’economista francese, di origini italiane, definì il suo concetto di benessere con il termine di
Ottimalità Paretiana o Pareto efficienza. Punto di partenza della sua analisi è il sistema di mercato
concorrenziale in quanto perfettamente aderente al principio soggettivista. Secondo tale
impostazione, considerando dati i redditi a disposizione di ogni singolo individuo, solo il mercato
sarà in grado di permettere a ciascuno di implementare il proprio benessere personale, mediante la
produzione, acquisto o vendita dei beni preferiti.

Si mise in disparte la confrontabilità di stampo etico, per giungere al criterio di Ottimo Paretiano, dal
punto di vista del benessere collettivo, analizzando i modi in cui lo spostamento da una situazione
economica all’altra, pur accrescendo il benessere di una parte di individui, non ne comporti
automaticamente una riduzione di benessere ad altri individui.

E’ interessante comprendere il concetto di Allocazione, concetto economico di derivazione


britannica, che indica la ripartizione di beni tra diversi soggetti economici. L’allocazione raggiunge
Pareto Efficienza, allorquando nessun soggetto può migliorare la sua situazione, senza che questa
comporti il peggioramento della situazione di altri soggetti. Le allocazioni realizzate partendo dalla
diversa distribuzione iniziale della ricchezza, non sono comunque comparabili, in quanto questo
comporterebbe il confronto di utilità di individui diversi, idea rifiutata a priori da Pareto.

Il criterio della Pareto Efficienza, consente di mettere in ordine diversi stati dell’economia, mediante
il confronto dei benesseri, al fine di individuare situazioni di inefficienza, dove sarebbe quindi
possibile migliorare il benessere di qualcuno senza intaccare il benessere di altri. Marshall e Pigou

Gli studi di Walras e Pareto non riscossero, almeno inizialmente, grande successo. Tra la fine del 19°
secolo e i primi decenni del 20°secolo, risultò invece essere dominante, l'insegnamento
dell’economista inglese Alfred Marshall (Londra, 26 luglio 1842 – Cambridge, 13 luglio 1924), che
applicò metodicamente i principi base del marginalismo sia alla teoria del consumatore, sia a quella
dell'impresa, prediligendo l’utilizzo della statica comparata (cioè confronto tra diverse situazioni di
equilibrio) e l'analisi degli equilibri parziali (domanda e offerta di un singolo bene) alla teoria
dell'equilibrio economico generale.

Fu creatore dell’idea di Equilibrio Economico Parziale, e fu colui che inoltre, definì i concetti di
Surplus del Consumatore e Surplus del Produttore ed è sempre al suo lavoro che si deve l’importanza
assunta nell’analisi contemporanea, dalle cosiddette esternalità.

Dopo un secolo dalla nascita dell’utilitarismo classico di Bentham, si perviene all’inglese

Arthur Cecil Pigou che nella sua opera “L’economia del benessere”,enuncia in due postulati
dogmatici, la sua definizione di benessere che, oltre ad un connotato filosofico, si veste altresì di
misurabilità, ergo di confrontabilità:

• Il Benessere è composto di stati d’animo “states of consciousness”e dei loro rapporti

• Il Benessere può essere posto nella categoria del più e del meno, e il suo indice più
appropriato è il reddito nazionale (Dividendo)

Da questi due dogmi deriva che “ in economic science, for the simple reason that the subject is
constituted by living men, it is almost impossible to conduct experiments ..... economic science,
however, must always speak in a voice uncertainly”, quindi, secondo Pigou, la scienza economica, i
cui soggetti sono uomini viventi, su cui è impossibile condurre esperimenti, dovrà sempre esprimersi
in termini incerti.
Poiché risulta impossibile ricercare tutte le cause che influenzano il benessere, l’autore britannico
suggerisce di focalizzare la ricerca solo su quella parte di benessere che può essere posta in rapporto
direttamente o indirettamente, con il metro misuratore della moneta.

Il benessere economico diviene quindi un insieme, allorché confuso e definito contemporaneamente,


di “satisfactions and dissatisfactions that measure the intensity of the desire to own an asset by the
amount of money that a person is ready to offer”, un insieme, dunque, composto da tutte le
soddisfazioni e insoddisfazioni che vanno a misurare l’intensità del desiderio di possedere un bene
attraverso la quantità di denaro che un soggetto è disposto ad offrire.

Pigou trova, inoltre, un trait d’union, tra il benessere economico e il benessere non economico che
invece può essere condizionato dal modo in cui il reddito viene effettivamente speso e guadagnato.

Nella sua analisi Pigou prende in considerazione soprattutto il tema del benessere da un punto di vista
puramente economico e su basi utilitaristiche, sempre misurabili. Ecco che quindi Pigou definirà
l’Economia del Benessere, come quella parte di scienza economica che studia sul come pervenire alla
massimizzazione di benessere. Egli riteneva che il benessere economico collettivo, era senz’altro
strettamente collegato al prodotto nazionale, ma altresì alla sua ottimale distribuzione tra gli individui.
Il noto economista, vedeva un forte collegamento tra il reddito nazionale (dividendo) e il benessere
collettivo, in quanto ad un aumento del primo, sarebbe conseguito un incremento del secondo, ma
tutto ciò sarebbe stato plausibile allorquando tale distribuzione di reddito non sarebbe andata a
discapito della fascia di popolazione più povera. Ad una variazione del reddito, corrisponderà sempre
una variazione nel benessere economico, in quanto l’assunto di base è che, per la legge dell’utilità
marginale decrescente del reddito, a redditi uguali corrispondono utilità uguali. Traducendo in termini
poveri tale asserzione, se un provvedimento di politica economica ha come conseguenza la riduzione
del reddito di un indigente, aumentando nella medesima misura il reddito di un benestante, nel sistema
complessivo, tale provvedimento comporterà una diminuzione di benessere nella collettività.

In termini di utilità, l’individuo povero, in seguito a tale provvedimento, sarà costretto a rinunciare a
soddisfare dei bisogni primari, penando in maniera maggiore rispetto all’incremento di piacere del
ricco.
In sostanza, se non peggiora la distribuzione a danno dei più poveri, un aumento del dividendo
(reddito) aumenterà il benessere (criterio di efficienza) che aumenterà anche se migliora la
distribuzione e il dividendo resta immutato (criterio di equità).

Ecco che quindi si instaurano i nuovi dictat, che sono anche strumento e obiettivo della nuova
Economia del Benessere:

• Uguale capacità di sentire degli individui

• Comparabilità delle soddisfazioni

• Possibilità di misurare le utilità dell’individuo in termini cardinali

Si ricorderà che secondo Bentham l'utilità individuale era implicitamente assunta come una quantità
misurabile e addizionabile. Il principio della maximum felicitas sopra accennato era infatti
condizionato alla possibilità di:

- misurare l'utilità di ciascun individuo ricollegabile a qualsiasi evento, ed in particolare al

consumo di quantità date di beni e servizi;

- sommare le utilità individuali per ottenere l’utilità totale della collettività

Questa nozione di utilità, come una quantità misurabile e aggregabile tra gli individui, è stata poi
denominata utilità cardinale. Secondo tale nozione ciascun individuo è in grado di assegnare un valore
esatto a ciascun bene su una scala cardinale

In questa nuova Economia del Benessere, traspare in ogni caso la consapevolezza dell’impossibilità
di pervenire ad un metodo oggettivo di confronto delle utilità, il che sembrava inoltre superato dal
fatto che, innanzitutto, i confronti non venivano riferiti a singoli, ma a gruppi, con le medesime
caratteristiche (donne, uomini, ricchi, poveri), e in secondo luogo, l’esistenza dell’utilità marginale
decrescente era valida per tutti.

Da una parte, quindi, si tendeva a privilegiare gusti e preferenze, configurando una sorta di dittatura
delle preferenze, e dall’altra vi era una tendenza a favorire il soddisfacimento di bisogni voluttuari e
a non discriminare tra preferenze endogene ed adattive quindi indotte dalle abitudini o dalle
assuefazioni. Il benessere collettivo, quindi, ottenuto come aggregazione-somma delle utilità dei
singoli individui e non come soddisfacimento di bisogni collettivi.

Un contributo senz’altro originale alla teoria del benessere, è attribuibile al tentativo dell’economista
politico F. Y. Edgeworth di fondere matematica e morale, per di arrivare ad un vero e proprio calcolo
della felicità. L’autore irlandese, nel suo percorso logico ritiene che, se è possibile ricondurre a
sistema scientifico i fenomeni fisici, ciò è altresì possibile per le scienze sociali. C’è da premettere
che tale interpretazione meccanica e matematica della felicità, va contestualizzata alla comparsa
dell’utilitarismo, dottrina filosofica secondo cui, ciò che aumenta la felicità degli individui è “bene”,
ed è quindi l’utilità, la misura della felicità di un essere sensibile. Occorre in ogni caso
contestualizzare il pensiero di Edgeworth, poiché ci si trova in un periodo storico in cui si passava da
un contesto in cui l’ordine sociale giusto veniva realizzato dal Sovrano e dallo Stato, senza tener conto
delle esigenze degli individui, alla comparsa del criterio del Benessere, che invece presuppone la
centralità dell’individuo. Il matematico irlandese, dunque, iniziò ad indagare sulle caratteristiche reali
delle azioni umane, e come risultato, cercò di edificare teorie sul calcolo razionale dei piaceri e dei
dolori.

L’economia del benessere deriva, quindi, i suoi tratti essenziali dalla mescolanza di diverse filosofie
e teorie di quell’epoca:

• Dal marginalismo, e dunque dal principio dell’utilità marginale decrescente, si forma il fulcro
della teoria del benessere: eguagliando al margine soddisfazione e pena, il soggetto razionale, egoista
e libero di scegliere, massimizza il suo benessere

• Dalla dottrina filosofica dell’edonismo, dal greco edonè (piacere), la quale pone il piacere
come fine ultimo della vita, e fondamentale principio regolatore della condotta umana, e l’uomo cerca
di equilibrare i piaceri e le pene, con l’obiettivo di cercare di far prevalere i primi

• Dalla filosofia giusnaturalistica, secondo cui c’è l’originaria uguaglianza di tutti e la


medesima possibilità per tutti di raggiungere la felicità.

I fallimenti di mercato

In una società evoluta dove c'è divisione del lavoro, i mezzi idonei all'appagamento di gran parte dei
bisogni dei vari soggetti sono ottenuti per mezzo dello scambio. In tali società il singolo individuo è
occupato nella produzione di una gamma di beni sensibilmente più ristretta di quella che corrisponde
al suo pattern di consumo. Di qui la necessità per i soggetti di intraprendere un'attività di scambio. Il
luogo economico in cui tale attività si svolge è il mercato.

Naturalmente, non tutte le transazioni che quotidianamente si realizzano nei moderni sistemi
economici passano per il mercato. La Pubblica amministrazione non riscuote le sue entrate per questa
via, ma per il tramite dell'imposizione fiscale. In certe comunità agricole gran parte di ciò che viene
prodotto è consumato direttamente dagli stessi produttori (autoconsumo). Qualcosa di analogo si
verifica nelle moderne grandi imprese, ogniqualvolta le parti prodotte in un reparto vengono trasferite
al reparto che procede all'assemblaggio delle stesse. Da ciò discende che il mercato non è il solo luogo
in cui prende corpo l’interazione economica tra individui. Nelle moderne economie troviamo, accanto
al mercato, tutta una serie di altre economie (tra cui la famiglia), attraverso le quali i soggetti entrano
in rapporti di interazione.

Il mercato presuppone lo scambio volontario. L'elemento della volontarietà è essenziale per la


definizione di una transazione di mercato, anche se non sempre è facile stabilire cosa esso
presupponga. Se vengo fermato in un luogo deserto e mi viene offerta l'opzione tra la borsa o la vita,
sono libero di scegliere tra le due alternative, ma difficilmente questo potrebbe essere indicato come
esempio di scambio volontario. Il problema sottostante è di non poco conto e ruota intorno al fatto
che il soggetto deve essere libero non solo nel senso (debole) di scegliere tra alternative date, ma
anche nel senso (forte) di poter, in qualche modo, scegliere tali alternative.

Leggi o regolamenti possono impedire o restringere il funzionamento di un certo mercato, ma non


possono decretarne l'esistenza. Un «mercato obbligatorio» è una contraddizione in termini. Molti
mercati sono oggi istituzionalizzati e regolamentati. Le borse valori e le borse merci sono gli esempi
tipici. Alcune regole vengono volontariamente introdotte come vincoli dagli stessi operatori, altre
sono imposte dalle autorità preposte al loro controllo. In ogni caso deve essere assicurata la proprietà
essenziale, che è appunto la libertà di aderire o meno ad un atto di scambio. Consegue da ciò che
nessuna delle due parti di una transazione di mercato può danneggiare, nei limiti delle proprie
conoscenze del momento, la sua posizione personale. Una transazione può condurre una delle parti a
«stare peggio» a causa di mutamenti intervenuti dopo la relativa stipula oppure per l'incapacità della
parte di prevedere correttamente le conseguenze che ne sarebbero derivate. Ma, al di là di situazioni
del genere, il verificarsi di uno scambio volontario è condizione necessaria e sufficiente perché
nessuna delle due parti ci perda, anche se una può guadagnare più dell'altra.

Preme qui indicare le condizioni per la realizzabilità di tale importante risultato. Se le transazioni
sono volontarie e chiunque può legittimamente opporvisi; se tutti coloro che risultano toccati nei
propri interessi da una transazione sono parte della transazione medesima; se i termini delle
transazioni sono noti alle parti in causa così che queste possono decidere se conviene loro parteciparvi
o meno (omogeneità delle conoscenze e delle abilità delle parti contraenti); se ciascun contraente è
protetto dall'estorsione, da comportamenti sleali, ecc. (esigenza di un codice di moralità mercantile),
se tutto ciò è assicurato, allora si può certamente pensare che lo scambio di mercato sia un mezzo con
cui gli individui conseguono i loro obiettivi personali senza che ciò avvenga a spese altrui.

Ma si badi quante e quali sono le condizioni che devono essere soddisfatte Non basta la protezione
legale e la garanzia dell'esecutività del contratto; deve esserci piena informazione, così che ognuno
sappia dove comperare o vendere, ecc.; deve cioè esistere una standardizzazione dei beni e dei servizi
e deve essere a tutti nota la terminologia per descriverli. Dietro un'economia di mercato vi sono secoli
di lento sviluppo dei diritti di proprietà e di tutto un insieme di istituzioni funzionali ad essa.

In particolare, è necessario che i soggetti che in essa operano dichiarino, di fatto, di aderire ad un
codice morale che sancisca quali comportamenti sono leciti e perciò ammissibili. Senza l'adesione ad
un codice di moralità mercantile che affermi valori come quello dell'onestà, della trasparenza, della
fiducia e della solidarietà nessun sistema di scambi volontari potrebbe a lungo durare. Un'economia
di mercato non si può dunque improvvisare, nè si può ritenere che essa possa continuare a funzionare
da sola, in virtù dell'operare dei suoi meccanismi propri. In particolare, è necessario che tra i soggetti
che prendono parte al gioco di mercato sussista una robusta rete di relazioni di fiducia. La ragione è
semplice. Se non si fidasse del suo venditore, nessun compratore accetterebbe di comprare da questi
la merce di cui ha bisogno per timore di risultare danneggiato. D'altro canto, se non fosse certo della
capacità di pagamento del compratore o della sua onestà, nessun venditore sarebbe disposto ad
accettare in pagamento per la merce ceduta un assegno bancario, ecc. Il punto in questione è che, per
funzionare senza costi di transazione proibitivi, il mercato esige alti livelli di cooperazione tra gli
agenti economici e la cooperazione presuppone l'esistenza di forti legami di fiducia tra gli agenti
stessi. Come scrive il celebre economista americano Kenneth Arrow: “si può plausibilmente sostenere
che gran parte dell'arretratezza nel mondo può essere spiegata con la mancanza di reciproca fiducia”.
Quanto a dire che il mercato è un'istituzione che si regge essenzialmente sulla fiducia.

Quanto precede ci aiuta a comprendere le ragioni delle gravi difficoltà che paesi cosiddetti in
transizione incontrano sulla via della realizzazione di un'economia di mercato. Non è tanto per la
carenza di risorse produttive o di manodopera specializzata se in questi paesi si assiste ad una
diminuzione del benessere medio delle popolazioni. La ragione di fondo è che la libertà economica e
soprattutto la democrazia economica hanno tempi di realizzazione assai più lunghi della libertà
politica e della democrazia politica.

In un'economia di mercato di tipo capitalistico, i consumatori scelgono, tra i beni loro accessibili,
quelli che meglio soddisfano le loro preferenze. D'altro canto, le imprese scelgono la combinazione
di fattori produttivi che consente loro di massimizzare i propri profitti. Per riuscirci, le imprese devono
produrre quei beni che i consumatori desiderano acquistare e devono altresì produrli al costo più basso
possibile. Il fatto che le imprese competano fra loro alla ricerca del massimo profitto, mentre le
costringe a minimizzare i costi di produzione, finisce con l'avvantaggiare i consumatori, dal momento
che i prezzi di vendita saranno quelli più bassi possibile.

È importante tener presente, sin da ora, che il meccanismo competitivo all'opera in un'economia di
mercato è caratterizzato da tre elementi fondamentali. Esso è:
• automatico (il meccanismo si svolge senza l'intervento diretto o indiretto di qualcuno);

• invisibile (gli individui the prendono parte al gioco economico non sono a conoscenza delle
conseguenze ultime che discendono dalle loro scelte e del loro impatto sul funzionamento del sistema
nel suo complesso);

• anonimo (per funzionare, il meccanismo competitivo esige che tra i soggetti che vi prendono parte
vi sia una diversità di opinione o di punti di vista. Se compratore e venditore sono entrambi convinti
che il prezzo del bene in questione sia destinato a diminuire, il primo vorrà rinviare l'acquisto e il
secondo vorrà vendere quanto prima, ma nessuno dei due riuscirà nell'intento di realizzare il proprio
piano. I mercati non funzionano quando c’è unanimità di vedute!).

Un'osservazione importante. Un'economia di mercato di tipo capitalistico mentre è in grado di fornire


una risposta efficiente alle tre questioni del «cosa si produce; come si produce; chi prende le
decisioni», non è in grado di dare una risposta soddisfacente alla questione «per chi si produce».
Infatti, il mercato assegna i beni a coloro che sono disposti e sono in grado di pagarne il relativo
prezzo. Proprio come accade in un'asta, i partecipanti alla gara di mercato che sono nelle condizioni
di pagare il prezzo più alto, si portano a casa il bene. Ciò significa che un'economia di mercato è un
sistema di prezzi, un sistema dove cioè è il prezzo la variabile che guida l'allocazione delle risorse.
D'altro canto, ciò che i soggetti sono in grado di pagare dipende dal loro reddito, ovvero dalle loro
dotazioni iniziali.

E’ dunque possibile che la distribuzione iniziale delle ricchezze tra gli individui sia tale da non
consentire loro, nei fatti, di partecipare alla gara di mercato. Come si può comprendere, si tratta di
una questione di giustizia distributiva e non di efficienza. Invero un'economia di mercato
perfettamente competitiva non assicura affatto che la distribuzione finale dei beni tra i soggetti sia
giusta, cioè equa.

Nozione di fallimento del mercato ed efficienza paretiana

Nel suo libro del 1920, Economia del benessere, l'economista inglese Arthur C. Pigou, allievo di
Alfred Marshall, scriveva: «oggetto dell'economia del benessere è l'indagine delle influenze
predominanti attraverso le quali sia possibile aumentare il benessere economico del mondo o di un
paese determinato. La pretesa di coloro che si dedicano a tale indagine è quella di suggerire forme di
intervento - o di non intervento - da parte dello Stato o di privati, le quali possano favorire tali
influenze». Anche se è con l'affermazione della rivoluzione marginalista, verso la fine del secolo
scorso, che l'economia del benessere si costituisce come branca di studio parzialmente autonoma
all'interno della scienza economica, è Pigou il sistematizzatore della «vecchia economia del
benessere»; così come è a Lionel Robbins, a John Hicks e a Kenneth Arrow che si deve, a partire
dagli anni '30, la costruzione della «nuova economia del benessere». La ragion d'essere dell'economia
del benessere, vecchia e nuova, è nel tentativo dell'economista di gettare ponti tra l'analisi teorica e
la soluzione di problemi socialmente rilevanti, suggerendo «forme di intervento» ai pubblici poteri.
Invero, al pari degli individui, anche le autorità pubbliche devono operare scelte per decidere come
usare al meglio le risorse a loro disposizione. In ogni dato periodo di tempo, l'ammontare totale di
risorse a disposizione è fisso, il che sempre genera specifici trade-off: se si produce più di un bene,
occorre produrre quantità minori di altri beni. A sua volta, ciò influisce sulle condizioni di vita di tanti
soggetti, con la conseguenza che alcuni guadagneranno e altri perderanno da tali decisioni. Si pone
allora la domanda: cosa può dire l'economista circa la desiderabilità o meno di un certo cambiamento
o di una certa decisione nei molti casi in cui non vi fosse unanimità di consensi tra i diretti interessati?

Una distinzione comune in economia è quella tra analisi delle conseguenze di una politica (o di un
cambiamento) e giudizio circa la desiderabilità di una particolare politica (o di un particolare
cambiamento). Il primo tipo di analisi è spesso chiamato economia positiva; il secondo, economia
normativa; quando esaminiamo il modo in cui il prezzo di equilibrio di un bene risulta influenzato
dall'introduzione di una tassa ci muoviamo nell'ambito dell'economia positiva. Del pari, se
considerassimo come una nuova tassa influisce sul benessere dei poveri o dei ricchi, pure ci
occuperemmo di indagine positiva. Invece, l'economia normativa si occupa di valutare le varie
conseguenze, poniamo, dell'introduzione di una tassa e ciò al fine di arrivare a esprimere un qualche
giudizio di desiderabilità sulla misura in questione.

Scopo principale dell'economia del benessere, la quale è parte dell'economia normativa, è dunque
quello di fornire criteri sulla base dei quali è possibile giudicare proposte alternative di politica
economica. Ad esempio, è bene o male per la società che si proceda alla costruzione di un impianto
nucleare? Chiaramente, non è possibile trovare una regola oggettiva per esprimere un giudizio
incontrovertibile e ciò per l'evidente ragione che qualunque regola si fonda su un qualche giudizio di
valore. Un individuo può pensare che la società spenda troppo nella difesa nazionale, mentre un altro
può pensare esattamente il contrario. Tuttavia, questo non significa che non sia possibile dire qualcosa
di sensato circa la desiderabilità o meno per la società di politiche alternative. In non pochi casi, alcuni
giudizi di valore molto deboli bastano a consentirci di arrivare a scegliere tra proposte diverse. Non
solo, ma è anche importante portare alla luce quei giudizi di valore che sono impliciti in affermazioni
del tipo: la politica M è superiore alla politica N. Ciò serve a far capire su quali presupposti etici certe
affermazioni o prese di posizione poggiano.
Poiché è sul ceppo dell'utilitarismo che l'economia del benessere si costituisce come discorso
scientifico, è opportuno che si precisi cosa esso sia esattamente. Tre sono le tesi fondamentali della
filosofia utilitarista di Jeremy Bentham.

La prima tesi concerne la valutazione di situazioni alternative e afferma che la sola base corretta di
tale valutazione è il benessere o la soddisfazione che i soggetti ottengono nel fare ciò che preferiscono.
Questa prima componente dell'utilitarismo è chiamata benesserismo (welfarism). Essa non concede
alcun ruolo, poniamo, alla valutazione dei diritti in quanto tali.

La seconda tesi riguarda la base di scelta delle azioni e afferma che le azioni devono essere
confrontate o valutate solo sulla base delle conseguenze che esse producono; nessuna considerazione
deve essere riservata alle intenzioni dell'agente (come vuole, ad esempio, il deontologismo) ovvero a
motivazioni diverse da quelle del benessere. Questa seconda componente dell'utilitarismo è nota
come conseguenzialismo: il valore di un'azione è interamente determinato dal valore delle sue
conseguenze, a prescindere dalle intenzioni dell'agente.

Infine, la terza tesi concerne il modo in cui mettere assieme il benessere dei singoli e afferma che il
criterio di aggregazione deve essere quello della somma dei benesseri individuali. A questa terza
componente si attribuisce il nome di ordinamento per somma (sum-ranking): la valutazione di stati
sociali alternativi va fatta in termini della somma delle utilità individuali a essi associati. Nel corso
del tempo, questi tre cardini della dottrina benthamiana sono andati soggetti a formulazioni e
interpretazioni diverse. In particolare, con l'affermarsi nel discorso economico dell'ordinalismo, il
terzo principio viene sostituito dal criterio di Pareto. D'altro canto, a Roy Harrod si deve l'importante
distinzione, divenuta celebre, tra utilitarismo dell'atto e utilitarismo della regola. Infine, John
Harsanyi ha gettato le basi del neoutilitarismo con la sua distinzione tra «preferenze etiche» e
«preferenze personali».

Punto centrale della riflessione benthamiana è l'idea che l'utilità sia una grandezza misurabile in senso
cardinale. Le utilità individuali possono allora essere sommate e la somma fornisce una misura del
benessere sociale. Il criterio per giudicare tra situazioni o configurazioni economiche alternative è
allora quello della massimizzazione della somma delle utilità individuali. La più nota espressione di
questa linea di pensiero si trova nell'opera di Pigou, Economia del benessere.

Ma cosa esige l'applicazione, nei casi concreti, del criterio di Bentham? La risposta è immediata: la
possibilità di effettuare confronti interpersonali di utilità; quanto a dire che la società deve poter
confrontare il miglioramento di benessere di un individuo con il peggioramento subito da un altro
individuo. Si assuma, infatti, che la collettività sia composta di tre individui, le cui funzioni di utilità
siano UA, UB e UC.

Il benessere collettivo è allora espresso da W = UA, + UB + UC.

In forza del criterio di Bentham, W > 0 se e solo se W (UA, + UB + UC) > 0. Ora, potrebbe accadere
che il «provvedimento» di cui si deve giudicare l'opportunità dal punto di vista del benessere
collettivo sia tale da comportare UA > 0, UB > 0 e UC < 0, ma che, ciononostante, (UA, + UB) >
UC: il benessere collettivo aumenterebbe, ma l'individuo C verrebbe a trovarsi, dopo il
provvedimento, in una situazione peggiore rispetto a quella iniziale. Applicando il criterio di Bentham
il provvedimento passa; ciò comporta che nel processo di scelta sociale il miglioramento di benessere
di cui possono godere A e B supera il peggioramento di benessere di C.

Dov'è qui la difficoltà? Nel fatto che - a prescindere da considerazioni di natura etica (il soggetto C,
infatti, potrebbe meritare speciale considerazione perché portatore di handicap) - è necessario
introdurre la nozione di utilità cardinale, una nozione che entra definitivamente in crisi intorno ai
primi anni '30 in seguito alla sistemazione epistemologica che Robbins dà alla teoria economica.

A dire il vero, gli studiosi della vecchia economia del benessere erano consapevoli del fatto che non
esiste un metodo oggettivo per confrontare i livelli delle utilità soggettive di persone diverse. La loro
esitazione veniva però superata dalla considerazione che i confronti di utilità non venivano riferiti a
individui singoli ma a gruppi di persone (ad esempio, ricchi e poveri; giovani e anziani; uomini e
donne), rispetto ai quali era ragionevole assumere che esistessero, in media, differenze significative.
Una posizione questa che trovava ulteriori elementi di sostegno nella legge dell'utilità marginale
decrescente, una legge ritenuta valida per tutti gli individui. Di qui la raccomandazione, tipica della
vecchia economia del benessere, secondo cui per massimizzare la somma delle utilità, W, occorreva
procedere a trasferimenti di reddito dai ricchi ai poveri, ad esempio mediante un'imposizione fiscale
di tipo progressivo.

Il passaggio dalla vecchia alla nuova economia del benessere è segnato dall'abbandono del concetto
di utilità cardinale e, in particolare, dal rifiuto dei confronti interpersonali di benessere, dal momento
che l'utilità, per sua natura, non può essere osservata, e tanto meno misurata. Poiché l'utilità esprime
il soddisfacimento delle preferenze individuali (e non più, come per gli economisti cardinalisti, la
capacità dei beni di soddisfare i bisogni), tutto quello che si può esigere è che i soggetti siano in grado
di ordinare i loro sistemi di preferenze - l'utilità ordinale, appunto. Ma come si possono formulare
asserti sul benessere sociale se viene a cadere il criterio dell'ordinamento per somma?
Ci viene incontro il criterio di Pareto: in generale, una configurazione costituita da grandezze
eterogenee, e perciò inconfrontabili, è ottimale quando risulta impossibile aumentare una delle
grandezze senza diminuirne un'altra. Nel caso specifico del benessere sociale, il criterio paretiano
assume la ben nota formulazione secondo cui una certa configurazione è ottimale quando è
impossibile aumentare il benessere di qualcuno senza diminuire quello di qualcun altro. Come si
comprende, tale criterio consente di valutare stati sociali alternativi senza alcun bisogno di fare
appello a confronti interpersonali di utilità o di benessere: determinare se ciascun individuo migliora
o peggiora la sua condizione è tutto quanto viene in pratica richiesto.

Più nello specifico, diremo che uno stato sociale a è Pareto-superiore ad uno stato sociale b se e solo
se vi è almeno un individuo che sta meglio in a che non in b, senza che nessun altro individuo stia
peggio in a che non in b. L' ottimalità paretiana denota allora lo stato di cose in cui non esiste alcuna
opportunità di trovare una soluzione Pareto-superiore. Si capisce subito che il criterio paretiano non
è di alcun aiuto come criterio di scelta in tutti quei casi in cui è necessario «valutare» o soppesare i
benefici di alcuni e gli oneri di altri. Esso è perciò un criterio scarsamente selettivo. Ad esempio, se
io preferisco il pane ai biscotti e possiedo solo biscotti, mentre qualcun altro preferisce i biscotti al
pane, allora uno scambio di pane contro biscotti condurrà ovviamente a una situazione Pareto-
superiore. Tuttavia se mi impossesso illegalmente del pane di qualcun altro, ciò non può essere
giudicato un miglioramento in senso paretiano, anche se quel pane serve a scongiurare la mia morte
per fame e anche se l'altra persona risulta lievemente danneggiata dalla perdita di un po' di pane.

Il criterio paretiano incorpora, dunque, un particolare giudizio di valore: quello dell'individualismo


assiologico. Esso identifica ciò che è bene per una società esclusivamente con il benessere degli
individui che la compongono. È questa una posizione senz'altro legittima; tuttavia esistono sistemi
etici che investono la società in quanto tale o alcuni gruppi al suo interno (come, ad esempio, le classi
sociali), di un'importanza morale diversa da quella attribuita agli individui. Rispetto a tali sistemi il
criterio paretiano è, nel migliore dei casi, inadeguato, se non assolutamente privo di senso.

Anche accettando l'etica individualistica, quello di Pareto è ben lungi dal costituire un criterio
completo per la politica economica. Ciò in quanto l'ordinamento paretiano degli stati del mondo è
incompleto. Infatti, il criterio paretiano non ci permette di dire alcunché sul livello di superiorità di
una situazione rispetto a un'altra se entrambe sono Pareto-ottimali, tanto meno ci consente di
discernere fra situazioni alternative che potrebbero essere entrambe superiori in senso paretiano
rispetto a una qualche situazione di partenza, ma che implicano variazioni di benessere di individui
differenti.
Infine, pur essendo quella della distribuzione del reddito una questione di importanza fondamentale
nella formulazione di giudizi su configurazioni alternative dell'economia, il criterio paretiano non è
in grado di dire alcunché sulla distribuzione del benessere economico fra gli individui. In generale,
esistono tante situazioni Pareto-ottimali tra loro non confrontabili quante sono le distribuzioni del
reddito possibili. Ciò significa che il criterio di Pareto opera una distinzione netta fra l'efficienza
allocativa di una particolare configurazione economica e il giudizio di equità sulla stessa. Questa
distinzione, se può essere tracciata in linea di principio, risulta di particolare rilevanza nella realtà, in
cui le questioni concernenti la distribuzione del reddito e l'allocazione delle risorse tendono a
presentarsi come aspetti inscindibilmente legati tra loro.

Nonostante questi limiti la nozione di ottimalità paretiana la relazione gode di un importante


caratteristica: la relazione assai stretta tra questa nozione e il modello di un equilibrio economico
generale.

In due celebri contributi del 1951 Kenneth Arrow e Gérard Debreu dimostrano in modo indipendente
l'uno dall'altro, che vi è una stretta corrispondenza tra un'allocazione di risorse che soddisfa la
condizione di Pareto e l'allocazione che contraddistingue un equilibrio competitivo.

Il primo teorema fondamentale dell'economia del benessere afferma che ogni equilibrio competitivo
è un ottimo paretiano. Inoltre, gli stessi autori dimostrano anche il risultato reciproco, e cioè che data
una qualsiasi allocazione ottimale in senso paretiano è sempre possibile, sotto certe condizioni,
trovare un modo di distribuzione delle risorse tra gli individui tale che l'allocazione di equilibrio
walrasiano relativa a quella distribuzione coincida con l’allocazione data. È questo il contenuto del
secondo teorema fondamentale dell'economia del benessere, il cui significato operativo è quello di
rappresentare una soluzione al problema di indicare attraverso quale via sia possibile conseguire una
certa allocazione ottimale.

Come si comprende, questi due teoremi, presi insieme, sanciscono una sorta di corrispondenza
biunivoca tra concorrenza perfetta e ottimalità paretiana. Grazie ad essi, la smithiana mano invisibile
cessa di essere una suggestiva metafora per diventare un teorema gravido di conseguenze politiche:
la giustificazione, non solo ideologica ma anche analitica, del laissez faire. Il primo teorema asserisce,
nella sostanza, che il meccanismo perfettamente concorrenziale è non-wasteful, non spreca cioè
risorse. D'altro canto, il senso del secondo teorema fondamentale è quello di assicurare che il
meccanismo di mercato è unbiased, cioè neutrale: mediante un'opportuna redistribuzione delle risorse
è possibile conseguire qualsiasi ottimo paretiano come equilibrio competitivo.
Occupiamoci dapprima del primo teorema. Per semplicità, ci limitiamo al caso di un'economia di
puro scambio, nella quale i consumatori hanno una certa dotazione iniziale di beni. In concreto
vogliamo vedere se in un'economia competitiva, il calcolo individuale (massimizzante) dei
consumatori conduce ad una distribuzione efficiente dei beni. Consideriamo due consumatori (A e
B) e due beni (X, Y) i cui prezzi di mercato sono rispettivamente PX e PY. Per massimizzare la
propria utilità ciascun consumatore attiverà uno scambio con l'altro fino a quando il suo SMS tra beni
non uguaglierà il rapporto fra i prezzi degli stessi. Poiché i prezzi dei beni sono gli stessi per i due
consumatori, nella posizione di equilibrio verrà soddisfatta la condizione.

Individuata la configurazione di equilibrio si tratta ora di mostrare che essa è un ottimo paretiano. A
tal scopo ci è di aiuto la scatola di Edgeworth. Riportiamo all'interno di essa le curve di indifferenza
dei due consumatori. Abbiamo già dimostrato che solo i punti che si trovano sulla curva dei contratti
soddisfano la condizione di ottimalità di Pareto e che ogni allocazione che si situi al di fuori di essa
può essere migliorata attraverso ulteriori scambi di merci. Come sappiamo la curva dei contratti è
formata dai punti di tangenza delle curve di indifferenza dei due consumatori, cioè dai punti in
corrispondenza dei quali la pendenza delle curve di indifferenza è la medesima.

Pertanto, per quanto riguarda l'equilibrio generale per un'economia di puro scambio, abbiamo
mostrato quanto volevamo: l'equilibrio competitivo è un ottimo paretiano.

Per arrivare ad un equilibrio generale del consumo, i consumatori devono poter guadagnare redditi
tali da consentire loro di acquistare le quantità dei due beni, individuate dal punto sulla curva dei
contratti che realizza la condizione. Ora, il reddito di ciascun consumatore dipende dalla distribuzione
della proprietà di fattori produttivi tra i soggetti, cioè dalla quantità di lavoro e di capitale posseduti
da ciascuno e dai prezzi degli stessi. Infatti, moltiplicando le quantità di lavoro e capitale possedute
da ciascun consumatore per i corrispondenti prezzi, veniamo a conoscere i loro vincoli di bilancio.

Chiaramente, a seconda di come viene fissata la distribuzione iniziale delle risorse fra i due individui,
si avrà una diversa combinazione degli output prodotti e dunque una diversa configurazione di EEG.
In altre parole, la determinazione del punto esatto sulla curva dei contratti del consumo dipende dalla
dotazione iniziale dei beni fra i soggetti. Ciò non deve sorprendere. Sappiamo, infatti, che tutti i punti
situati sulla curva dei contratti dello scambio rappresentano un ottimo del consumo. Ma quale di
questi infiniti punti sarà quello che il meccanismo di mercato andrà a selezionare dipenderà dalla
dotazione iniziale di risorse a disposizione dei soggetti. Col risultato che, nella configurazione di
EEG, le quantità consumate dei due beni dai due soggetti e perciò i loro livelli di benessere
dipenderanno da questo dato iniziale.
Come si comprende, il problema che sorge a questo punto non è più un problema di efficienza, bensì
di giustizia distributiva. Vediamo cosa ha da dire al riguardo il secondo teorema fondamentale. Sia w
la configurazione iniziale delle dotazioni di beni: w = (WAX, WBX, WBY). w avvantaggia
nettamente l'individuo A. L'equilibrio competitivo relativo a w sia Z. Tuttavia, un'allocazione come
V, che pure giace sulla curva dei contratti - e dunque è efficiente - sembra preferibile a Z sotto il
profilo dell'equità. Sorge spontanea la domanda: può il meccanismo competitivo, data w, condurre
l'economia ad un'allocazione come V? La risposta positiva è fornita dal secondo teorema
fondamentale dell'economia del benessere.

Esistono situazioni nelle quali il meccanismo di mercato non si dimostrava capace di generare i
risultati da esso attesi, in particolare, casi nei quali, per una ragione o l'altra, le forze del mercato non
assicurano l'ottenimento dei risultati promessi dai due teoremi fondamentali dell'economia del
benessere. A ben considerare, queste ragioni possono essere raggruppate in tre principali categorie:
quelle che chiamano in causa la natura della libertà presupposta dal mercato; quelle riguardanti la
questione della giustizia distributiva; quelle che hanno a che fare con i cosiddetti fallimenti del
mercato. Soffermiamoci su quest’ultime.

Quando l'equilibrio dei mercati determina delle perdite secche (perdite di surplus rispetto al massimo
livello possibile per qualche operatore) si afferma che nel sistema economico si registrano dei
fallimenti di mercato. Il termine fallimento di mercato indica una situazione in cui un sistema
economico organizzato in mercati è incapace di realizzare una situazione di ottimo Paretiano (ottimo
nel senso di Pareto, l'economista già noto al lettore per essere l'ideatore dell'approccio ordinale
dell'utilità). Un ottimo Paretiano corrisponde ad una situazione in cui il surplus di tutti gli operatori è
massimo. Se un'economia non è in una situazione di ottimo paretiano allora con una opportuna
redistribuzione dei beni è sempre possibile aumentare il benessere di qualcuno (aumentandone
l'utilità) senza ridurre (in termini di utilità) il benessere di nessun altro. Per una collettività, perciò, è
conveniente tendere ad un ottimo paretiano, perché così facendo qualcuno dei suoi componenti riesce
a migliorare il proprio benessere, mentre nessuno è danneggiato.

Quando vi sono fallimenti di mercato è come se il sistema non fosse in grado di migliorare la
posizione di qualcuno pur essendo ciò possibile senza alcun danno per gli altri.

Cause microeconomiche dei fallimenti di mercato

In precedenza sono state descritte quelle situazioni nelle quali il meccanismo di mercato non si
dimostrava capace di generare risultati da esso attesi. In particolare, abbiamo illustrato i diversi casi
nei quali, per una ragione o l'altra, le forze del mercato non assicurano l’ottenimento dei risultati
promessi dai due teoremi fondamentali dell'economia del benessere. A ben considerare, queste
ragioni possono essere raggruppate in tre principali categorie: quelle che chiamano in causa la natura
della libertà presupposta dal mercato; quelle riguardanti la questione della giustizia distributiva;
quelle the hanno a the fare con i cosiddetti fallimenti del mercato.

Vediamo di chiarire.

• Mercato e libertà. Nonostante le apparenze, la nozione di libertà presupposta dal mercato come
istituzione sociale è alquanto ristretta. Essa è espressa dal celebre principio, enunciato per primo da
John Stuart Mill, della sovranità del consumatore: questi è sovrano perché con le sue decisioni di
consumo, manifestate sul mercato, orienta le scelte produttive, portandole in linea con le proprie
preferenze. È questo il senso proprio della libertà come autodeterminazione, vale a dire come
possibilità di libera scelta - free to choose, per usare la ben nota espressione di Milton Friedman. Non
si può certo negare che l’assenza della libertà consista nell'esercizio di quel potere in cui sta lo
scegliere. Ma il fatto e che il soggetto non ha solo il potere di scegliere; ha anche bisogno di farlo.
L'atto dello scegliere è in funzione di ineludibili bisogni da soddisfare: nessuno sceglie per scegliere,
ma per raggiungere esiti convenienti o giudicati necessari.

La libertà, allora, non è solo opportunità di scelta, cioè autodeterminazione; è anche capacità di scelta,
cioè autorealizzazione. Come Amartya Sen e altri hanno bene chiarito in anni recenti, la scelta
razionale e in funzione della realizzazione del soggetto; il che significa the l'autodeterminazione è per
raggiungere quei fini che soggetto giudica validi, cioè felicitanti. Non e vero che le persone in carne
ed ossa traggono soddisfazione dalla sola libertà di scelta. Quest'ultima è solo una condizione
necessaria e non sufficiente per consentire ai soggetti di perseguire i loro obiettivi. Quel che in più si
richiede è l'esercizio effettivo della scelta. È in ciò un limite, non certo secondario, del mercato, un
limite che è all'origine di non pochi paradossi sociali.

• Mercato e giustizia distributiva. Le economie di mercato sono macchine straordinariamente


efficienti nella produzione della ricchezza, ma assai poco capaci di distribuirla equamente tra coloro
the hanno preso parte al processo della sua creazione. Il portatore di una rara e apprezzata abilità
conseguirà, grazie all'operare delle leggi della domanda e dell'offerta, redditi elevati; chi si trova
dotato di abilità mediocri e comuni otterrà redditi bassi o medi. Il punto è che ciò che definisce cos’è
un talento e cos’è un handicap è, almeno in parte, endogenamente determinato dalle istituzioni
prevalenti (i talenti di un buon burocrate e quelli di un imprenditore non fioriscono nel medesimo
assetto istituzionale!).
È di fronte a situazioni del genere che molti economisti vedono nello Stato l'istituzione in grado di
intervenire sulla distribuzione dei redditi prelevando dai più abbienti, con la tassazione, risorse che
verranno destinate ai meno abbienti. La logica che sta alla base dello stato sociale (welfare state) è
quella della redistribuzione.

• Fallimenti del mercato. Quelli seguenti sono i casi più importanti in cui il meccanismo del mercato
non riesce ad assicurare un equilibrio Pareto-ottimale e dunque «fallisce» nei suoi compiti:

1. gli agenti, nel perseguire i propri obiettivi, generano effetti, positivi o negativi, che ricadono in
capo ad altri soggetti, senza che il meccanismo di mercato riesca a filtrarli. È questo il caso delle
esternalità;

2. gli agenti che partecipano ad una transazione non riescono a coordinarsi sul modo in cui dividere i
guadagni ottenibili dallo scambio oppure sul modo in cui ripartire i costi di una intrapresa the tenda
a beneficiare tutti. E questo il caso che si registra con i beni pubblici e con i beni a proprietà comune
(commons);

3. l'esistenza di strutture di mercato mono-oligopolistiche non consente al mercato di conseguire ciò


the i due teoremi dell'economia del benessere promettono;

4. gli agenti non hanno a disposizione l’informazione sufficiente a consentire loro di sfruttare tutte le
opportunità mutuamente vantaggiose. È quel che succede nei casi di asimmetria informative;

5. la disoccupazione di lungo periodo, dovuta alla specifica modalità di funzionamento del mercato
del lavoro, costituisce un caso eclatante di spreco di risorse e dunque di inefficienza sistemica.

Esternalità e teorema di Coase

Consideriamo, dapprima, il caso delle esternalità, vale a dire, di quegli effetti — sia vantaggiosi sia
svantaggiosi — che ricadono sull'attività di produzione e di consumo di un altro individuo, provocati
dall’attività di produzione e di consumo di un altro individuo, e che non si riflettono di prezzi pagati
o ricevuti. Parliamo, dunque, di effetti esterni in tutti i casi in cui : i) le scelte di consumo di alcuni
soggetti influenzano i livelli di utilità che altri soggetti derivano dalle loro scelte di consumo; ii) le
funzioni di produzione di talune imprese sono influenzate dalle decisioni di produzione di altre
imprese.

Il fumo della ciminiera di una fabbrica è un esempio classico di esternalità negativa. La tecnica
utilizzata dalla fabbrica per la sua produzione ha come sottoprodotto il fumo che viene «consumato»,
si fa per dire, da coloro che risiedono vicino alla fabbrica e respirano l’aria inquinata dal fumo. Un
esempio altrettanto immediato di esternalità, questa volta positiva, è dato dai prati circostanti quelli
di proprietà dell'apicoltore. Le api di quest'ultimo possono nutrirsi infatti del polline dei fiori che
crescono nei prati di proprietà altrui. Ma l'esempio, certamente più interessante, e quello dei distretti
industriali e dei distretti cooperativi che caratterizzano in modo così netto l’esperienza italiana.

Le esternalità esistono quando, data la definizione esistente dei diritti di proprietà, cioè i diritti e gli
obblighi incombenti su chi esercita un'attività economica, il produttore del fumo non ha l'obbligo di
indennizzare i consumatori danneggiati dalle sue attività o, i proprietari dei prati circostanti
l'apicoltore non hanno modo di farsi pagare i vantaggi prodotti.

La presenza di esternalità sia positive, note come economie esterne, che negative, diseconomie
esterne, implica l'inefficienza delle allocazioni di mercato, nel senso che le scelte degli individui sono
effettuate sulla base di prezzi e di costi che non riflettono il valore effettivo delle risorse utilizzate.
Nell'esempio della fabbrica che emana fumo, il produttore agirà sulla base di un costo della sua
attività, il costo privato, che è inferiore a quello che sopporterebbe se dovesse pagare gli indennizzi
per i danni provocati ai vicini, cioè al costo sociale (somma dei costi privati e dei danni sopportati
dagli altri). Il risultato è che egli tenderà a spingere la produzione oltre il livello ottimale tenendo
conto anche delle esternalità, cioè del costo sociale. Di qui l'imperfezione nel funzionamento del
meccanismo di mercato.

Nell'ambito dell'attività di consumo, un effetto esterno è un effetto diretto del consumo di un agente
sul livello di utilità di un altro agente: diretto nel senso che non opera attraverso il meccanismo dei
prezzi. Se il consumo di un soggetto influenza il benessere di un altro soggetto attraverso il
meccanismo dei prezzi, quando B offre un prezzo più elevato di quello che sarebbe pagato da A per
un certo bene, l'economia funziona nel modo previsto dai due teoremi fondamentali dell'economia
del benessere illustrati in precedenza. Se B ottiene una grande quantità di quel bene a spese di A, in
quanto disposto a pagare di più, allora il meccanismo concorrenziale favorisce — come è previsto —
B. Se il consumo di B influenza invece direttamente l'utilità di A, allora il meccanismo dei prezzi non
fornisce segnali adeguati ai consumatori. Allorché consuma un certo bene, B considera soltanto il suo
livello di utilità e, dati i prezzi, sceglie quelle azioni che massimizzano la sua funzione di utilità (
UB). Le sue azioni hanno però un impatto diretto su UA e il prezzo che B paga per quel bene non
rispecchierà questo effetto su A. In altre parole, il meccanismo dei prezzi non segnala correttamente
a B i costi e i benefici complessivi delle sue decisioni, e la distribuzione finale dei beni non è
un'allocazione efficiente in senso paretiano.

Si può allora sostenere che i due teoremi fondamentali dell'economia del benessere riescono a tener
conto soltanto di quel tipo di interazioni che possono essere assorbite dal meccanismo dei prezzi.
Quest'ultimo, in presenza di esternalità (sia nell'attività di consumo sia In quella di produzione), è
incapace di informare correttamente i decision-makers, ed è questo che fa venir meno il carattere di
ottimalità alle allocazioni di equilibrio competitivo — proprio perché i prezzi emettono segnali
fuorvianti per quanto concerne l'allocazione delle risorse.

Quanto precede non vale a sostenere che l'esistenza di effetti esterni annulla la funzione del mercato.
La soluzione per correggere le inefficienze procurate dalle esternalità risiede nell'introduzione di
appositi correttivi già anticipati da Pigou nel 1920: sostanzialmente tasse e sussidi. Se, nell'esercizio
della sua attività di consumo o di produzione, un soggetto danneggia gli altri, egli dovrà pagare una
tassa commisurata al danno che ha provocato, mentre se egli avvantaggia gli altri dovrà ricevere un
sussidio.

Prendiamo in considerazione il caso di una esternalità nella produzione in cui si ha (come nell'esempio
della fabbrica che emette fumo) una divergenza fra costo privato e costo sociale. L'impresa, che opera
in un mercato di concorrenza perfetta e che produce un determinato bene x, è in equilibrio quando
realizza l'uguaglianza fra costo marginale e prezzo, cioè:

C'x = px, dove il primo membro rappresenta il costo privato. Evidentemente, C'x non comprende il
costo dell'inquinamento dell'ambiente poiché quest'ultimo è esterno all'impresa.

Supponiamo ora che il ministero dell'Ambiente riesca a stimare il costo marginale dell'inquinamento
che l'impresa produce. In tale evenienza, il costo marginale sociale C'Sx è dato dalla somma del costo
marginale privato C'x e del costo marginale esterno C'Ex, vale a dire:

C'Sx = C'x + C'Ex

Se vale la relazione si ha che ps < C'sx), e quindi l'allocazione delle risorse non è ottimale.

In particolare quando il costo privato è inferiore a quello sociale, la determinazione del livello ottimale
di produzione sulla base della regola marginalistica conduce a una sovrapproduzione del bene cui è
associata l'esternalità negativa, cioè la divergenza fra costo privato e costo sociale segnala una
distorsione nell'allocazione delle risorse.

Come è agevole comprendere, la tassa da far pagare all'impresa che genera inquinamento deve essere
uguale al costo marginale esterno. In questo caso C'Sx può essere pensato come la somma del costo
marginale privato, C'x, e dell'imposta commisurata all'esternalità. Come utilizzare il gettito derivante
dalla riscossione dell'imposta? Pigou suggerì che venisse utilizzato per indennizzare coloro che erano
stati danneggiati oppure per finanziare la costruzione di impianti di disinquinamento.

Come è evidente, il punto debole della soluzione pigouviana sta nella difficoltà pratica di quantificare
il valore del danno (inquinamento) connesso all'esternalità. Un modo diverso di correggere le
conseguenze connesse all'esternalità, è quello suggerito da Coase, secondo cui a tali conseguenze si
può porre rimedio a mezzo del meccanismo di mercato stesso.

Nel suo celebre saggio Il problema del costo sociale del 1960, Ronald Coase propone un'impostazione
alternativa, basata sulle conseguenze esercitate dalla struttura dei diritti di proprietà sui risultati
dell'interazione economica. L'idea di base è che in presenza di informazione completa da parte degli
agenti, e in assenza di costi di transazione (tutti i costi relativi alla fase di negoziazione e alla
stipulazione dei contratti privati), le conseguenze negative delle esternalità possono essere corrette
per mezzo del meccanismo di mercato stesso, senza alcun bisogno di ricorrere a, o di invocare, altri
principi di organizzazione.

Coase dimostra infatti il seguente teorema: se le parti in causa sono in grado di negoziare liberamente
tra loro (vale a dire i costi di transazione sono nulli), si raggiungerà un'allocazione ottimale delle
risorse che, senza intervento alcuno da parte dello Stato, è indipendente dalla distribuzione iniziale
dei diritti di proprietà. Si può allora dire che l'allocazione iniziale delle risorse tra gli individui non è
rilevante ai fini dell'efficienza, e ciò nella misura in cui quell'allocazione può essere resa oggetto di
negoziazione tra le parti senza limite alcuno. Si consideri il caso della fabbrica che emette materiale
inquinante e di una comunità che subisce il danno e che è titolare del diritto all'aria pulita. La comunità
può alienare tale diritto vendendo «permessi» di inquinamento. Ogni permesso consente alla fabbrica
di produrre un'unità in più di output e l'inquinamento che l'accompagna. La comunità seguiterà a
vendere concessioni fino a che i benefici marginali ottenuti vendendo un permesso in più eccedono i
costi marginali rappresentati dall'aumento dell'inquinamento.

Come si comprende, alla base del teorema di Coase sta l'idea secondo cui gli individui possono
liberamente fare oggetto di contrattazione sul mercato i loro diritti proprio come se si trattasse di beni
qualsiasi. Per questa ragione si può affermare che il teorema di Coase estende le regole che presiedono
allo scambio dei beni allo scambio della titolarità dei diritti.

La rilevanza del teorema di Coase risiede nel fatto che la presenza di fallimenti del mercato non
costituirebbe di per sé una ragione sufficiente per giustificare l'intervento pubblico. Il ruolo dello
Stato dovrebbe essere confinato alla definizione di appropriati diritti di proprietà tra i soggetti. Non
c'è dunque bisogno di tasse, sussidi o controlli amministrativi. Siccome il teorema di Coase afferma
che la negoziazione tra privati consente il raggiungimento di una situazione efficiente se i costi di
transazione sono nulli, lo Stato dovrebbe piuttosto orientare i propri interventi per ridurre il più
possibile tali costi.
Come è stato osservato, il teorema di Coase è più robusto del primo teorema dell'economia del
benessere. Al pari di quest'ultimo, asserisce che se ogni oggetto, compresi i diritti di proprietà, è
negoziabile, allora sono assicurati risultati efficienti in senso paretiano. Ma, a differenza del primo
teorema, esso non richiede alcuna ipotesi di convessità, di comportamento price-taking, di mercati
completi. Tutto quanto esso esige è l'assenza di qualsiasi barriera alla contrattazione. Ora, poiché è
tautologico affermare che se i soggetti negoziano in modo efficiente allora i risultati della
negoziazione saranno efficienti, il teorema di Coase ha contenuto esplicativo solo se si ha motivo di
ritenere che negoziazioni efficienti siano plausibili e dunque verosimili.

I beni pubblici

Prendiamo in considerazione quello che è ritenuto un caso limite, ed estremamente importante, di


esternalità: la produzione e il consumo di beni pubblici. L'interesse per tale categoria di beni si fa
risalire a un originale lavoro di Jules Dupuit del 1844, nel quale l'ingegnere francese, allo scopo di
misurare l'utilità delle opere pubbliche, coglie nitidamente le caratteristiche che contraddistinguono i
beni pubblici (o collettivi). Un bene pubblico puro è identificato da due caratteristiche tipiche:
l'assenza di rivalità nel consumo e l'assenza di escludibilità dai benefici. Vediamo di chiarire.

• Assenza di rivalità nel consumo di un bene significa che più soggetti possono simultaneamente
beneficiare di quel bene senza per questo ridurre l'utilità che essi traggono dal suo consumo: pensiamo
alla luce solare, alle trasmissioni televisive e alla visione di un paesaggio. Il benessere di un individuo
derivante dalla fruizione di questi beni non è influenzato, in questo caso, dalla concomitante fruizione
degli stessi da parte di altri consumatori.

• Assenza di escludibilità significa invece che qualora il bene sia reso disponibile per qualche
consumatore non è possibile o non è conveniente da un punto di vista economico escludere altri
consumatori dai benefici che il bene produce. L'escludibilità può essere di duplice natura: tecnica o
economica. La prima trova la propria ragione d'essere in caratteristiche fisico-oggettive del bene
(pensiamo a un sistema di ripetitori per stazioni televisive che servono una determinata area) mentre
la seconda deriva dall'elevato costo cui si incorrerebbe se si desiderasse escludere taluni individui
dalla fruizione del servizio. Pensiamo a un faro per l'illuminazione o alla protezione assicurata da
dispositivi di sicurezza, e così via.

I beni pubblici rappresentano un caso limite di esternalità. Infatti il loro consumo da parte di un
consumatore compare nella funzione di utilità di ogni altro consumatore. È dunque evidente che in
presenza di beni pubblici le condizioni atte a garantire l'ottimalità paretiana non possano essere le
stesse di quelle già viste.
Un primo problema posto dalla presenza di beni pubblici è dovuto all'aggregazione delle curve
individuali di domanda. La curva di domanda aggregata per i beni privati si ottiene sommando
orizzontalmente le curve di domanda individuali. Nel caso di un bene pubblico puro, l'aggregazione
non può avvenire in senso orizzontale ma deve essere effettuata verticalmente. In sostanza occorre
chiedere a ciascun individuo non qual è la quantità che egli è disposto ad acquistare per ciascun livello
di prezzo, bensì qual è il prezzo che egli è disposto a pagare per ciascuna quantità.

Due altri problemi sorgono con i beni pubblici. Il primo di questi concerne la determinazione della
quantità ottimale di bene pubblico da produrre. Per esso, disponiamo di una soluzione, nota anche
come condizione di Samuel-son: la somma delle utilità marginali che ciascun soggetto trae dal
consumo del bene pubblico deve uguagliare il costo marginale dello stesso.

Ma vi è un secondo grosso problema con i beni pubblici: come finanziarli? Si tratta di un problema
di centrale importanza per l'economia pubblica, in quanto compendia una lunga lista di difficoltà
presenti ogniqualvolta l'interazione tra i soggetti non sia adeguatamente rappresentata dal sistema dei
prezzi. In effetti, in presenza di beni pubblici è come se la smithiana mano invisibile si inceppasse.
Vediamo perché.

In mercati perfettamente concorrenziali, il singolo consumatore non può influenzare il prezzo dei beni
e quindi aggiusta la quantità acquistata di un bene privato in modo da eguagliare al prezzo corrente
l'utilità marginale derivante dal consumo di quel bene. Siccome in equilibrio il prezzo di un bene
eguaglia il suo costo marginale, la ben nota condizione di ottimalità paretiana risulta soddisfatta. Ciò
non è più vero per i beni pubblici.

Infatti il costo marginale dei benefici resi da un bene pubblico è nullo — per la proprietà di non
rivalità del consumo — e dunque sembra ottimale estenderne la disponibilità all'intera collettività.
Questa è chiamata però a finanziarne il costo. Se ogni consumatore dovesse pagare lo stesso
ammontare (per esempio, il costo totale diviso per il numero dei consumatori), allora i consumatori
con utilità marginale più bassa preferirebbero non consumare il bene pubblico. Chiaramente ciò è
subottimale in vista del fatto che il consumo aggiuntivo da parte di un soggetto non aumenta il costo
totale. Se ne trae che la condizione di ottimalità richiede che ogni consumatore sia tenuto a pagare un
prezzo pari alla sua valutazione marginale del bene pubblico. Se ciò fosse il caso, verrebbe allora
raggiunto il cosiddetto equilibrio di Lindahl, dal nome dello studioso svedese che, nel 1919, formulò
per primo lo schema successivamente elaborato (nel 1954) da Paul Samuelson.

Pertanto, siamo ora in grado di cogliere la sostanziale differenza fra l'equilibrio di Lindahl e
l'equilibrio competitivo walrasiano con soli beni privati. Mentre per quest'ultimo gli agenti hanno un
evidente vantaggio a rivelare correttamente le loro preferenze, l'equilibrio di Lindahl è vulnerabile a
questo proposito. Ciò che mina la praticabilità dello schema di pagamento richiesto dall'equilibrio di
Lindahl è il problema del «freeriding», ovvero la presenza di consumatori che approfittano dei
consumi collettivi non partecipando adeguatamente al loro finanziamento. (Le espressioni free-rider
e free-riding si riferiscono al caso di una persona che usa il mezzo pubblico senza pagare il biglietto
contando sul fatto che il costo del trasporto venga pagato dagli altri utenti.) Infatti, di fronte alla
richiesta di rivelare la quantità consumata — e la conseguente utilità — di un bene pubblico, il
consumatore ha l'incentivo a mascherare la vera utilità, a non rivelare cioè le sue effettive preferenze,
e ciò al fine di pagare un prezzo o un contributo minore. Ma è chiaro che la presenza di free-riders
conduce, alla fine, ad un'offerta subottimale del bene pubblico perché non ci saranno fondi a
sufficienza per finanziarlo. In sostanza, in presenza di beni pubblici, il problema che sorge è quello
tipico del dilemma del prigioniero.

Il problema del free-rider è parzialmente risolto nel caso dei beni pubblici spuri (club goods). Questi
costituiscono una classe intermedia tra i beni pubblici puri e i beni privati, in quanto i loro benefici
sono escludibili. Solo chi è disposto a pagare, può godere dei benefici (si pensi al biglietto che si paga
per assistere ad una partita di calcio).

I problemi di cui sopra si presentano anche nel caso di «commons», cioè dei beni a proprietà comune
(un pascolo comune a più allevatori, un centro storico, ecc.). Il problema che in casi del genere sorge
è che i soggetti, ognuno alla ricerca del proprio interesse personale, interferiscono tra loro a tal punto
che collettivamente essi potrebbero stare meglio solo se il loro comportamento venisse vincolato ad
una qualche regola di condotta o di pagamento. Nessuno, però, ha individualmente interesse ad
autovincolarsi, col risultato che, alla fine, tutti staranno peggio.

Costi di transazione e asimmetria informativa

La presenza di asimmetrie informative può impedire ii raggiungimento di un qualsiasi accordo,


persino quando ciò sarebbe efficiente.

Due sono le specie principali (una non uniche) di problemi causati dalle asimmetrie informative. La
prima concerne l’opportunismo precontrattuale ed è nota come selezione avversa; la seconda
concerne l’opportunismo post-contrattuale ed è nota come azzardo morale. Vediamoli separatamente.

L’espressione selezione avversa (adverse selection) proviene dal settore delle assicurazioni. Gli
acquirenti di una polizza assicurativa non rappresentano un campione casuale della popolazione, ma
piuttosto un gruppo di individui con informazioni private circa le loro caratteristiche personali: perciò
è probabile che, dalla polizza sottoscritta, queste persone ricevano un livello di rimborsi più elevato
della media della popolazione. Per esempio, se una compagnia di assicurazioni dovesse emettere una
polizza individuale che coprisse costi medici associati alla gravidanza e al parto, è facile prevedere
che la polizza verrebbe acquistata in una percentuale più che proporzionale da donne che progettano
di avere figli. La pianificazione di una maternità costituisce una caratteristica inosservata del
compratore di una polizza, e questa circostanza ha un impatto significativo sui costi d'assicurazione.

Un secondo esempio di selezione avversa proviene dalla garanzia prestata sulle automobili: le
macchine nuove vengono tipicamente vendute con la garanzia che il produttore pagherà per qualsiasi
problema (diverso dalla manutenzione ordinaria) che insorga entro un certo periodo di tempo. Alcune
case automobilistiche hanno sperimentato la vendita di una garanzia opzionale estesa a coprire le
spese per periodi più lunghi. Chiaramente, la copertura estesa sarà acquistata più frequentemente da
persone che si aspettano di utilizzare molto intensamente le loro automobili. Coloro che si attendono
di utilizzare le loro macchine semplicemente per il trasporto di passeggeri, su strade ben tenute e in
normali condizioni climatiche, saranno invece meno propensi ad acquistare una garanzia estesa.

La selezione avversa è un problema dì opportunismo precontrattuale; esso sorge a causa delle


informazioni private di cui un contraente dispone prima della realizzazione del contratto, nel
momento in cui si considera la convenienza del medesimo. Per questi motivi si parla anche di
informazione nascosta.

La selezione avversa risulta intrattabile secondo la tradizionale analisi dei mercati. Nel modello
tradizionale, ciascuna impresa ha un preciso insieme di produzioni tecnicamente realizzabili: ogni
piano di produzione viene descritto in termini delle quantità che l'impresa deve comprare e vendere
in modo da realizzarlo. In presenza di selezione avversa le risorse necessarie a fornire il servizio di
assicurazione dipendono non soltanto dal numero di polizze vendute, ma anche dalle caratteristiche
non osservabile dei compratori. Poiché l'impresa non conosce le caratteristiche dei clienti, essa non
può perciò verificare la realizzabilità tecnica del suo piano di produzione. Quali sono, dunque, le
conseguenze di questa asimmetria informativa che induce forme di opportunismo precontrattuale?

Quando il problema della selezione avversa risulta particolarmente serio, può non esistere un prezzo
al quale l'offerta di un bene eguagli la quantità domandata. Il problema sta nel fatto che, poiché i costi
di fornitura non sono osservabili dai venditori, il prezzo deve essere lo stesso per tutti i compratori,
non importa quali risultino poi essere i costi di erogazione del servizio ai singoli clienti. Tuttavia, i
soli compratori disposti a pagare un dato prezzo sono coloro che sono indotti dalla loro informazione
privata a ritenere che tale prezzo sia vantaggioso. Questi tenderanno a essere proprio coloro i quali
sono più costosi da soddisfare. Se vi sono dei costi amministrativi, allora il prezzo deve aumentare
così tanto che neanche coloro che valutano di più il prodotto troveranno conveniente comprarlo.
Qualsiasi prezzo inferiore a quello che permette di coprire i costi attrae solamente coloro i quali hanno
un costo di fornitura che supera il ricavo. Di conseguenza il mercato «sparisce», persino nel caso in
cui, in assenza di informazione privata, lo scambio avrebbe garantito una mutua opportunità di
guadagno.

Vediamo ora una semplice versione del pionieristico modello di selezione avversa sviluppato nel
1970 da George Akerlof. Esso mostra come il volume degli scambi nei mercati che soffrono di
selezione avversa risulti inefficientemente basso. Il rimedio proposto è la certificazione della qualità,
da cui il cosiddetto «mercato dell'usato sicuro».

Il tipo di imperfezione informativa sopra considerata può essere utilmente inquadrata in una casistica
originariamente esplorata dai contributi di George Stigler. A tal fine, si può fare riferimento a una
classificazione dei beni o servizi presenti su un mercato in tre categorie corrispondenti a tre gradi
crescenti di ignoranza da parte dell'acquirente.

1. Beni di ricerca (search goods): beni e servizi la cui esistenza non è sempre conosciuta da tutti gli
acquirenti, ma le cui qualità possono essere conosciute prima dell'acquisto e del consumo, una volta
che l'esistenza sia stata accertata: ad esempio, un abito, una casa, un giornale.

2. Beni di esperienza (experience goods): beni e servizi le cui qualità possono essere riconosciute solo
dopo l'acquisto, tramite l'utilizzo o il processo di consumo: ad esempio, un’automobile, in pasto al
ristorante.

3. Beni di fiducia (credenve goods): beni e servizi le cui qualità non sono perfettamente identificate
neanche dopo l’acquisto o l’utilizzo: ad esempio, la bontà di una diagnosi o di una cura medica, la
qualità di una consulenza legale, l’efficacia di un corso universitario.

Con l'espressione azzardo morale (moral hazard) si intende una forma di opportunismo
postcontrattuale causata dalla non osservabilità di certe azioni, il che permette agli individui incaricati
di eseguirle di perseguire i loro interessi, a spese della controparte. Simili comportamenti non sono
contemplati dal modello dei mercati competitivi, dove si assume implicitamente che le transazioni
avvengano sotto forma di semplici operazioni di scambio di beni e servizi dotati di caratteristiche
note e osservabili, e che le parti possano verificare senza costi il rispetto dei termini di contratto.

Anche il termine azzardo morale è stato coniato in ambito assicurativo, dove esso indica la tendenza
degli assicurati a modificare il loro comportamento in un modo che rende più elevati i rimborsi
richiesti. Per esempio, la copertura assicurativa può rendere le persone meno attente nel prendere le
precauzioni necessarie a evitare o minimizzare le perdite. Se le precauzioni necessarie fossero
definibili in anticipo, e potessero essere osservate e misurate accuratamente, allora il contratto
assicurativo potrebbe richiederne l'adempimento: spesso, tuttavia, esse non sono osservabili e
verificabili, e perciò risulta impossibile farne l'oggetto di un accordo effettivamente vincolante (il
contratto potrebbe richiedere il mantenimento di un certo comportamento, ma la compagnia
d'assicurazioni non sarebbe in grado di verificarne il rispetto). Per queste ragioni, i fenomeni di
azzardo morale sono spesso indicati come casi di azione nascosta.

L'azzardo morale indebolisce certamente la capacità delle persone di raggiungere accordi


mutuamente vantaggiosi, e ne compromette significativamente l'efficienza. Nell'esempio
dell'automobilista, il guidatore sostiene tutti costi relativi a una guida prudente ma, se assicurato, non
ottiene dall'esercizio di tale prudenza alcun beneficio. Nel caso dell'assicurazione sanitaria,
l'assicurato ottiene invece tutti i benefici dei trattamenti aggiuntivi, ma non sostiene per essi quasi
alcun costo: egli tende perciò a usufruire dei servizi offerti, per i quali investe semplicemente un po'
del suo tempo, persino nei casi in cui il loro costo totale ne superi l'utilità.

Come abbiamo già detto, gli incentivi a un comportamento inappropriato rappresentano un problema
solo perché questo non può venir controllato o prevenuto, o quanto meno perché la sua inibizione
risulterebbe troppo costosa. Non esiste infatti un metodo economicamente conveniente attraverso il
quale l'impresa di assicurazione possa controllare la cura con la quale la macchina viene guidata. Nel
caso delle visite mediche, i soggetti assicurati non dispongono delle conoscenze necessarie a decidere
se un trattamento risulta necessario, ed è nell'interesse dei medici dichiararlo tale.

Quasi ogni situazione caratterizzata da azzardo morale può essere formalizzata nei termini di una
relazione di agenzia. L'espressione è utilizzata con riferimento ai casi nei quali un individuo (l'agente)
agisce per conto di un altro (il principale), e si suppone che questa sua azione avvenga per promuovere
l'interesse di quest'ultimo. Il problema dell'azzardo morale sorge quando l'agente e il principale hanno
interessi diversi, e quest'ultimo non è in grado di riconoscere facilmente se l'operato del primo
avvenga effettivamente nel suo interesse. Le relazioni di agenzia sono assai diffuse: un medico risulta
l'agente del paziente, un dipendente è un agente dell'impresa, il consiglio di amministrazione è
l'agente dei proprietari dell'impresa, ecc. Tuttavia, i problemi di azzardo morale sorgono anche nel
caso di relazioni nelle quali nessuna parte può essere considerata l'agente delle altre, ma tutti sono
piuttosto sullo stesso piano (come in un'associazione). Quali i rimedi ai problemi dell'azzardo morale?
Vediamone due.

1. Un primo rimedio è quello di incrementare le risorse dedicate ai controlli e alle verifiche. Talvolta
ciò consiste nel prevenire i comportamenti inadeguati bloccandoli direttamente prima che essi si
manifestino. Per esempio le società per azioni statunitensi non possono pubblicare i loro bilanci finché
questi non sono stati verificati da certificatoci (auditor) indipendenti dall'impresa; i prospetti che
descrivono gli investimenti per i quali si raccolgono fondi presso il pubblico devono essere approvati
da un'agenzia governativa. Le compagnie d'assicurazioni possono ottenere che i loro assicurati si
sotto-mettano a una seconda visita, prima di finanziare trattamenti costosi sulla base della
raccomandazione di un singolo medico. I lavoratori devono spesso timbrare un cartellino che registra
i loro movimenti, e sono soggetti a varie sanzioni nel caso di arrivi in ritardo e di uscite anticipate.

2. Un secondo rimedio, diffuso in alcuni settori, è quello di richiedere il pagamento di cauzioni a


garanzia delle prestazioni da fornire: esse consistono in somme di denaro che vengono trattenute nel
caso in cui venga accertato un comportamento inadeguato. Per esempio, gli appaltatori spesso pagano
una cauzione che viene poi trattenuta se il progetto non viene completato nel tempo e nei modi
stabiliti. Il pagamento di una cauzione può essere un espediente molto efficace per creare gli incentivi
desiderati: il problema consiste nel fatto che spesso gli individui non hanno le risorse finanziarie
necessarie per prestarne una adeguata. Ciò è particolarmente rilevante quando i guadagni ottenibili
da un comportamento scorretto sono elevati e la probabilità di essere scoperti è invece bassa, cosicché
la cauzione dovrebbe essere significativamente elevata.

I bisogni meritori

Esistono dei beni che lo Stato crea perché possiedono un valore funzionale al progresso e sviluppo
sociale, morale e culturale di tutta la collettività (si pensi al bisogno di arte, di cultura, di musica e
d'informazione). Si tratta dei cosiddetti "beni meritori" (merit goods).

Occorre precisare che i beni meritori non nascono da una domanda specifica dei cittadini ma vengono
individuati dallo Stato che impone ai cittadini le proprie scelte, allo scopo di aumentare il benessere
sociale. Quindi l'operatore pubblico soddisfa questi bisogni meritori prescindendo da una domanda
specifica da parte dei cittadini, ma solo sulla base della valutazione dei vantaggi che l'intera società
può trarne.

Esistono alcune ipotesi nelle quali lo Stato, nell'ambito di questa particolare categoria di beni o
servizi, si pronuncia attraverso il divieto di tenere un determinato comportamento, come ad esempio
fumare in luoghi pubblici.

Vale la pena di ricordare che alcuni economisti (come ad esempio Brosio) definiscono i beni meritori
come beni pubblici misti la cui componente pubblica avvantaggia segmenti più o meno ristretti della
popolazione (ad esempio i sussidi alla musica o le spese per la conservazione del patrimonio artistico).
Inoltre alla categoria dei bisogni meritori fa frequente e ampio riferimento gran parte della letteratura
quando cerca di spiegare le ragioni dell'intervento pubblico.

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