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Riassunto - Economia Industriale - Carlo Scognamiglio Pasini

Economia industriale (Libera Università Internazionale degli Studi Sociali Guido Carli)

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1. FONDAMENTI DELL’ECONOMIA DI MERCATO. LOGICA E LIMITI.

1.2 L’INTERESSE INDIVIDUALE


Il pensiero che è alla base del capitalismo nasce dall’idea che l’individualismo non sia in contrasto con l’utilità generale.
Principio presentato in forma satirica da Bernard de Mandeville ne “La favola delle api: vizi privati e pubbliche
virtù”.
In questo libro lo scrittore descrive un alveare in cui tutte le api, affette dai più grandi vizi, riescono a generare il bene
comune, proprio attraverso la somma di tutti i loro vizi.
In questo modo si vuole affermare che l’interesse dei singoli coincide con l’interesse generale.

Anche Adam Smith riprende questi concetti con il passo: there are no free lunches della Ricchezza delle nazioni e con
la mano invisibile, dove afferma che ogni individuo che persegue il suo personale interesse è guidato da una mano
invisibile che lo porta a promuovere il bene dell’intera società, attraverso un concetto di riequilibrio dei mercati
concorrenziali.
<ricercando il proprio interesse egli promuove frequentemente quello dell’intera società, più efficacemente di quanto
accadrebbe se nell’agire lui stesso si proponesse di seguire l’interesse generale>.

1.3 ECONOMIA ED ETICA


Il pensiero di Smith può essere pienamente compreso solo alla luce di quanto lui stesso scrive nella sua altra opera
maggiore (Theory of Moral Sentiments, 1790). Qui il ruolo dell’individuo e il suo interesse personale è più ampiamente
definito come prudenza comune, cioè come regola di condotta generalmente accettata e praticata, la quale è unione di
ragione e comprensione da una parte, e di dominio di sé dall’altra.
Il concetto di dominio di sé implica una prevalenza di valori etici nel comportamento dell’individuo, e quindi
indica che l’interesse personale non può essere confuso con il mero egoismo.
L’individuo è posto al centro del sistema economico e politico perché le sue scelte, espressione di prudenza comune,
definiscono un sistema di gran lunga preferibile a qualsiasi ordinamento. Ovvero non vi è il concetto che l’interesse del
singolo coincida con quello generale, ma vi è quello che la burocrazia, cioè il giudizio di pochi, farebbe molto
peggio di quanto risulterebbe dalla libera scelta dei privati.
Ma, se pure il sistema della mano invisibile produce un risultato migliore di quelli che derivano da fenomeni coercitivi,
non è detto che tale risultato sia l’ottimo assoluto. Tale concetto è presentato infatti come un second best, ossia non
necessariamente ottimale, ma comunque preferibile a qualsiasi altra soluzione non individuabile a priori e ancor meno
realizzabile.
Smith inoltre, non solo definisce chiaramente quali compiti spettino allo Stato (difesa militare, giustizia, istruzione,
opere pubbliche), ma compila anche un lungo elenco dei difetti del semplice sistema della libertà naturale (conflitto di
interessi o altri casi in cui il tornaconto privato porta a risultati socialmente indesiderabili).

1.4 L’ECONOMIA DI MERCATO FRA COSTRUZIONE INDUTTIVA E DEDUTTIVA


Le prime critiche al pensiero di Smith furono contestuali alla pubblicazione della Ricchezza delle nazioni in lingua
tedesca. Lo stesso recensore del libro, J. Feder, affermava infatti che le affermazioni di Smith potessero essere
considerate valide solo in una particolare fase dell’industria, ricchezza e civilizzazione.
Anche altre critiche successive (Ricardo, Mill, Walras, Pareto) giravano attorno a questo concetto; List affermò che il
laissez faire(è un principio proprio del liberalismo economico, favorevole al non intervento dello Stato.
Secondo questa teoria, l'azione del singolo, nella ricerca del proprio benessere, sarebbe sufficiente a garantire la
prosperità economica della società) avrebbe portato benefici solamente alla Gran Bretagna, alla ricerca di mercati
sempre più ampi, e non ad economie in via di sviluppo, come Germania e Stati Uniti, per le quali riteneva utili tariffe
doganali protettive e promozione dell’industria nascente.
Da Ricardo in poi si vennero a formare due indirizzi: quello classico (e in seguito neoclassico) di orientamento teorico
deduttivo e quello più empirico, basato sull’analisi dei fenomeni effettivamente presenti nella realtà storica e
istituzionale.

1.5 LA SINTESI DI ALFRED MARSHALL


Alfred Marshall può essere considerato il padre della moderna economia industriale. Egli criticò classici e neoclassici
accusandoli di vedere l’uomo come un’entità omogenea, senza considerare
quanto, invece, le condotte e gli elementi strutturali delle industrie fossero sensibili agli aspetti differenziali tra le
diverse culture.
Nei Principles of economics, partendo dall’analisi della domanda e dell’offerta in specifici “ambiti” di attività economica e
dal riconoscimento delle imperfezioni dei mercati, diede vita alla moderna economia industriale.

1.6 MARKET FAILURES


L’economia industriale riguarda in particolare i casi nei quali forze spontanee fanno allontanare l’equilibrio del mercato
dal cosiddetto “ottimo paretiano”, producendo una distribuzione delle risorse imperfetta.
Le varie market failures possono classificarsi in 6 tipologie:
1. Beni pubblici e sociali, che il mercato non è in grado di produrre nella quantità desiderabile, o a causa di
comportamenti opportunistici, o semplicemente perché il bene non si presta ad essere prodotto e distribuito con i
normali meccanismi del mercato (al suo valore non è incorporabile un prezzo).

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2. Fenomeni legati all’incertezza e all’instabilità che allontanano il sistema dall’equilibrio stabile.


3. Il potere monopolistico, dalla concorrenza monopolistica fino ai monopoli naturali. Riguarda il dilemma tra
massima efficienza produttiva e concorrenzialità dei mercati, che parte dall’osservazione del fenomeno dei
rendimenti crescenti dovuti alle economie di scala.
4. Le esternalità, ovvero gli effetti di un'attività che ricade verso soggetti che non hanno avuto alcun ruolo
decisionale nell'attività stessa. L'esternalità dipende da un'attività economica individuale, ma non è assimilata alle
merci e pertanto è priva di un prezzo di mercato.
5. La presenza di costi di transazione, che rende il ricorso al mercato meno efficiente o più rischioso rispetto
all’accentramento delle operazioni produttive all’interno dell’impresa.
6. Le asimmetrie informative, il cui studio parte dal saggio di George Akerlof, The Markets For “Lemons” per cui una
parte degli operatori del mercato dispone di informazioni rilevanti che non sono disponibili per gli altri.

1.7 LE CORREZIONI AL MERCATO. DA SMITH A KEYNES


La rivoluzione industriale ha da un lato confermato la superiorità dell’economia di mercato capitalistica sotto il profilo
dell’efficienza, ma dall’altro ne ha evidenziato i limiti sotto il profilo dei valori etici e della stabilità. Ciò ha richiesto
l’introduzione di correttivi di carattere istituzionale:
 Il sindacato dei lavoratori e la legislazione sul lavoro.
 Le politiche sociali (welfare) cioè la previdenza obbligatoria e la sanità.
 La tassazione del reddito per finanziare opere pubbliche e a fini redistributivi.
 Le politiche keynesiane di regolazione monetaria e fiscale.

1.8 SINDACATI E LEGISLAZIONE DEL LAVORO


Il primo problema del sistema basato sull’economia di mercato è rappresentato dalla debolezza dei lavoratori salariati
rispetto ai capitalisti che offrono lavoro. Anche Smith affermava che il principio della concorrenza nel mercato del
lavoro era ostacolato da un’asimmetria di forza contrattuale tra capitalisti e lavoratori.
Alcuni economisti (da Lasalle a Marx) proposero la cosiddetta legge ferrea dei salari, secondo cui il salario non
avrebbe potuto eccede il livello della pura sussistenza, costituito dalle condizioni minime alle quali i lavoratori
avrebbero accettato di mettere al mondo dei figli e di mantenerli fino all’età del lavoro.
Ma già lo stesso Smith era contro questo principio, poiché notava come gli alti salari nel Nord America generassero un
aumento della popolazione, che era sintomo di prosperità: se il lavoro era ben remunerato infatti, avere molti figli
anziché essere un peso rappresentava un’opportunità di guadagno.
Infatti poi le previsioni di Marx sul collasso dell’economia capitalistica (dovuto alla sovrapproduzione industriale causa
la restrizione della domanda conseguente all’impoverimento della popolazione) non si avverarono. Anzi l’aumento
della produttività si trasformò in aumento dei salari e delle condizioni di vita, dando luogo ad un’espansione del potere
d’acquisto.
In questo processo un ruolo importante svolsero le pressioni delle attività sindacali, le trade unions e la legislazione a
protezione dei lavoratori.

1.9 LE POLITICHE SOCIALI. PREVIDENZA OBBLIGATORIA E SANITÀ


Il primo che si occupò di politiche sociali fu Otto Von Bismarck nella Germania di fine ottocento, introducendo
l’assicurazione obbligatoria per il pensionamento dei lavoratori dipendenti una volta raggiunto il limite dei 65 anni di
età.
Ma il termine welfare è legato alle riforme del presidente Roosevelt e di Lord Beveridge.
Le politiche del Welfare State mirano al contenimento delle conseguenze derivanti dalle disuguaglianze nella
distribuzione di reddito e ricchezza e dall’assistenza pubblica di coloro che non sono in grado di assicurarsi il minimo
necessario per un esistenza dignitosa.
Il tratto fondamentale sono le assicurazioni sociali (anzianità, malattie, infortuni) finanziate da contributi
obbligatori.
Le controversie sulle politiche sociali all’interno delle democrazie occidentali non riguardano la necessità di disporre di
tali istituzioni, ma solamente il livello dei servizi offerti.

1.10 FINALITÀ DELLA TASSAZIONE


Al tempo dei classici le finalità della tassazione prendevano in considerazione solo la questione del finanziamento della
spesa per beni pubblici, laddove questi non potevano essere realizzati da privati in seguito a concessioni.
All’inizio del Novecento anche la finalità di redistribuzione del reddito fu incorporata nei sistemi fiscali attraverso la
progressività delle aliquote.

1.11 L’ANTITRUST
La disuguaglianza come market failure riguarda, non solo la distribuzione del reddito, ma anche la concentrazione delle
imprese, ovvero la possibilità di alcune grandi imprese di sfruttare la loro posizione dominante.
Le prime distorsioni della concorrenza iniziarono nella seconda meta dell’Ottocento, conseguentemente ad innovazioni
tecnologiche, diminuzione dei costi di trasporto e all’aumento vertiginoso delle dimensioni di alcune imprese alla
ricerca di economie di scala.

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La dottrina prevalente era l’empire building, ovvero il gigantismo. Ciò oltre a creare crisi di sovrapproduzione e quindi
cicli recessivi e depressione, a danneggiare produttori più piccoli e consumatori, aveva creato negli Stati Uniti il ceto dei
tycoons dotati di sproporzionata ricchezza e influenza, e aveva portato in Europa alla formazione di numerosi cartelli.
Lo Sherman Act (1890) e alcuni articoli del Trattato di Nizza molto successivamente, erano finalizzati ad arginare
questo fenomeno. La differenza tra i due sta nel fatto che, mentre in Europa i divieti riguardano l’abuso di posizione
dominante, negli Stati Uniti è l’esistenza stessa della posizione dominante ad essere vietata; c’è infatti anche una forte
connotazione etico-sociale, cioè la dispersione del potere economico e della conseguente influenza politica.

1.12 STABILITÀ E SVILUPPO


Il quinto problema riguardava la stabilità e lo sviluppo, in quanto il mercato produce instabilità per tre motivi:
 Quando l’elasticità dell’offerta è maggiore di quella della domanda
 Quando l’instabilità dei prezzi è dovuta alla moneta estera
 Quando si vede il fenomeno del ciclo economico

Prima di Keynes e Ropke non si può parlare di stabilità come valore, ma piuttosto come fenomeno naturale.
E’ solo grazie ai due economisti che questa prende l’accezione ad oggi conosciuta.

Attraverso l’opera Keynesiana: “il Trattato sulla moneta” si evinse per la prima volta che la domanda e l’offerta non
sono indipendenti dalla moneta e che questa possa portare ad un’espansione dei consumi e degli investimenti.
E’ proprio su questo trattato che si fondarono in seguito gli accordi di Bretton Woods, caratterizzati da tre principi:
 La convertibilità con cambi fissi delle principali valute con il dollaro, e di questo con l’oro.
 La tendenza per la piena liberalizzazione degli scambi, con il WTO.
 Il controllo e il sostegno della stabilità dei rapporti di cambio e dei tassi di crescita esercitato da parte di
organismi multinazionali specializzati.

Keynes osservò con la crisi del 1929 che gli stati che seguirono la politica del laissez faire fecero sprofondare la
produzione, il reddito e i consumi.
Criticò in questo modo la legge di Say, secondo la quale la stabilità sarebbe assicurata dal fatto che l’offerta finisce
inevitabilmente per creare la domanda finale.

Un altro problema, di cui si occupò Ropke, poiché tedesco, era la stabilità monetaria.
Dopo la guerra la Germania si vide nuovamente di fronte alla difficoltà di ricostruire il potere d’acquisto e di risolverne
la stagnazione e disoccupazione derivante, ma riuscì in poco tempo a diventare la terza potenza nel commercio
mondiale, grazie alla moneta dura(stabile).
A seguire il suo esempio ci fu anche l’Italia, grazie ad Einaudi.

Infine, la controffensiva monetaria, ebbe come protagonista Freidman e la scuola di Chicago che voleva controllare
sia la quantità della moneta, che i tassi di interesse, reintroducendo il valore della stabilità dei prezzi e le politiche di
interventismo.

2. LE METODOLOGIE DI ANALISI

2.1 LA SCUOLA DI HARVARD


Associata ai nomi di Edward Mason e Joe Bain, si fonda sull’analisi del paradigma struttura-condotta-performace.
L’analisi parte da un approfondimento della market failure determinata dal potere monopolistico, in particolare dalla
descrizione empirica dei casi discussi davanti all’autorità antitrust prima negli Stati Uniti e successivamente in Europa.
Le variabili sono raggruppate in quattro tipologie:
 Condizioni di base, distinte fra quelle che riguardano la domanda (funzione di domanda) e quelle che riguardano
l’offerta (funzioni di costi). In condizioni ottimali e nel breve-medio periodo questi elementi si presentano come
esogeni.
 Struttura dell’offerta:
- Numerosità e dimensione delle imprese (concentrazione)
- Barriere all’entrata
- Differenziazione dei prodotti
- Integrazione verticale
- Diversificazone
 Dalla struttura dell’offerta, dipende la Condotta delle imprese:
- Politiche di prezzo
- Spesa pubblicitaria
- Qualità del prodotto
- Sviluppo delle quote di mercato e di nuovi prodotti
- Comportamenti cooperativi o indipendenti
 Dalla condotta dipende poi la Performance

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- Tasso di profitto
- Competitività dei prezzi
- Efficienza allocativa
- Saldo della bilancia commerciale
- Livello di retribuzioni e occupazione
- Stabilità/Rischiosità del settore
Due importanti notazioni: la relazione causale, sebbene sia prevalentemente verso il basso, non è univoca; le politiche
pubbliche (regolamentazione, barriere commerciali, antitrust, imposte e sussidi, incentivi per occupazione o
investimenti, proprietà e controllo delle imprese) possono incidere su ciascun gruppo di variabili.
L’elemento prevalente della ricerca sta nell’osservazione e nella descrizione di dati di fatto, tuttavia si possono scorgere
alcuni presupposti teorici rilevanti: alcune caratteristiche di base di una particolare industria (es. rapporto economie di
scala/dimensione del mercato) possono provocare delle distorsioni nella struttura, che ne allontanano le
caratteristiche da quelle della concorrenza perfetta. Le imprese possono sfruttare a proprio vantaggio tali imperfezioni.

2.2 LA SCUOLA DI CHICAGO


Di derivazione classica o neoclassica, ma con impressa una dose ben maggiore di realismo.
L’iniziatore fu Aaron Director, ma il suo esponente principale fu George Stigler.
Stigler da una parte illustra i suoi lavori con un’enorme quantità di dati tratti dalla realtà empirica del mondo degli
affari, dall’altra però, a differenza della scuola di Harvard, attribuisce molta importanza alla teorizzazione,
formulando modelli che spieghino i comportamenti dei soggetti economici, sia pure in campi molto specifici o
delimitati.
Stigler rileva che quasi sempre gli interventi della “mano pubblica” portano a risultati molto peggiori sia di quelli
desiderati che di quelli che le forze spontanee del mercato avrebbero determinato. La regola d’oro è la concorrenzialità
e tutti le inferenze esterne finiscono per essere nocive, salvo quelle dirette ad impedire pratiche collusive o limitative
della concorrenza.
Altro carattere fondamentale, e che differenzia la Scuola di Chicago da quella di Harvard, è che il paradigma condotta-
struttura-performance viene spesso interpretato in senso contrario: sono infatti le capacità di innovazione e di
visione strategica dei manager a creare migliori performance e quindi una posizione dominante all’interno del
mercato (caso Microsoft), e non necessariamente una posizione dominante a creare nuove perfomance.

2.3 I NUOVI SVILUPPI TEORICI. LA “NUOVA ECONOMIA INDUSTRIALE”


Nuovo indirizzo, di carattere fortemente teorico e astratto, fu la “teoria dei giochi”, che segnò quasi un ritorno alla
metodologia deduttivistica della tradizione classica e neoclassica.
Un “gioco” è un modello formalizzato che descrive una situazione di comportamenti interdipendenti, dove il risultato di
ciascun giocatore dipende sia dalle sue scelte che dalle azioni compiute dagli altri giocatori. Ciascun partecipante quindi
nelle proprie scelte deve tenere in considerazione l’effetto che avrebbero queste sulle condotte degli altri partecipanti.

3. SETTORI E MERCATI

3.1 SETTORI E MERCATI: ALCUNE DEFINIZIONI


Per prima cosa, il termine settore, o industria, si riferisce ai venditori, quindi può essere identificato sulla base di fattori
d’offerta, mentre il termine mercato si riferisce agli acquirenti, quindi riguarda fattori di domanda.
Facendo riferimento al settore abbiamo due criteri di classificazione.
Il primo, fatto risalire a P.W.S. Andrews, definisce l’industria come l’insieme di imprese che utilizzano tecnologie
di processo simili e possiedono esperienze e conoscenze comuni che rendono possibili produrre un particolare
prodotto. Le imprese vengono raggruppate secondo processi produttivi simili, che presuppongono patrimonio di
esperienze, organizzazione tecnica o materie prime impiegate simili. Ma questo criterio di classificazione è adatto
solamente a settori maturi, non invece a industrie caratterizzate da intensa innovazione di prodotto.
Il secondo criterio, invece, definisce i settori in funzione dell’esistenza di reti e/o sistemi di distribuzione: fanno parte
di uno stesso settore tutti i beni e i servizi che la rete controllata da un’impresa o da un gruppo di imprese può
distribuire o raggiungere. (telecomunicazioni)
Ma le definizioni basate sull’offerta non tengono conto dei gusti e delle preferenze dei consumatori, al contrario delle
definizioni basate su elementi della domanda.
Fondamentale l’analisi i J.Bain, che sfrutta il concetto di elasticità incrociata:
εx,y = (Δqy/qy) / (Δpx/px)
Un bene è sostituto se l’elasticità incrociata è maggiore di zero, complementare se è minore di zero, indipendente se è
uguale a zero. Non c’è una soglia precisa che identifichi un mercato.
È possibile misurare l’elasticità incrociata anche dal lato dell’offerta. Questa al contrario identifica un bene sostituibile
quand’è minore di zero e indipendente se è uguale a zero. Se, invece l’elasticità è positiva i prodotti in questione sono il
risultato di produzioni tecnicamente congiunte.

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3.2 L’AMBITO COMPETITIVO E L’EQUILIBRIO PARZIALE DI MARSHALL


L’ambito competitivo è l’insieme delle porzioni della domanda e dell’offerta che presentano elevata elasticità incrociata
sia dell’offerta che della domanda.
Questa definizione coincide con quella di equilibrio economico parziale di Marshall.
Marshall definisce mercato uno spazio economico in cui buyers ad sellers are in a such free intercourse with one another
that the prices of the same goods tend to equality easily and quikly.
Quindi Marshall indentifica un mercato se vi è un unico prezzo ed è valida l’analisi dell’equilibrio parziale, sotto
l’ipotesi di massimizzazione dell’utilità come linea d’azione dei soggetti.

3.3 IL MERCATO RILEVANTE: DEFINIZIONE E APPLICAZIONE ALLA NORMATIVA ANTITRUST


La definizione di mercato rilevante serve a individuare l’ambito in cui si esercita la concorrenza tra un gruppo di
imprese, dove quindi è possibile per le imprese porre in atto le fattispecie proibite dalla normativa antitrust.
Il mercato rilevante può essere definito come il più piccolo contesto (insieme di prodotti, area geografica) nel cui
ambito è possibile la creazione di un potere di mercato.
La definizione del mercato rilevante spesso decide l’esito dei casi antitrust.
Secondo le linee guida pubblicate dalla Commissione Europea, il mercato rilevante va definito sia sotto il profilo del
prodotto, sia sotto il profilo geografico.
Il mercato rilevante sotto il profilo del prodotto comprenderà tutti i prodotti che sono sostituibili sotto il profilo
sia della domanda (quanto l’impresa è soggetta al potere di scelta dei clienti), che dell’offerta (quanto velocemente ed
efficientemente l’impresa è in grado di modificare il processo produttivo per mettere sul mercato i prodotti richiesti); le
vendite correnti di tali prodotti verranno sommate per calcolare il volume totale del mercato.
Il mercato rilevante sotto il profilo geografico è definito come l’area geografica nella quale le condizioni di
concorrenza sono sufficientemente omogenee e che può essere distinta da zone geografiche contigue ma con
condizioni di concorrenza differenti.
Si analizzano >costi di trasporto, >disponibilità degli acquirenti a spostarsi >eventuale presenza di barriere di natura
tariffaria o non tariffaria agli scambi internazionali.
Il limite geografico di un mercato viene determinato analizzando se un aumento di prezzo in una località influisca in
modo sostanziale sul prezzo di un’altra località.

3.4 IL DISTRETTO INDUSTRIALE


Beccattini propone il distretto industriale marshalliano come nuovo oggetto di indagine dell’economia industriale,
impiegandolo come categoria interpretativa dello sviluppo industriale italiano nel secondo dopoguerra. Il distretto
industriale è un esteso numero di piccole imprese, legate da relazioni verticali di cooperazione e da relazioni
orizzontali di concorrenza, specializzate in una o più industrie complementari in un’area delimitata
naturalmente e storicamente. La logica economica risiede nell’azione di economie di scala esterne, ossia nei
vantaggi di costo associati alla concentrazione di un’industria in una particolare area geografica.
Il distretto è inoltre interpretato come un costrutto sociale ed economico, dove i legami di amicizia tra la popolazione
locale e i rapporti di vicinato favoriscono la diffusione di conoscenza comune.

4. LA TEORIA DELL’IMPRESA
4.3 IL CAPITALISMO ANGLOSASSONE (shareholders)
Nel sistema anglosassone, dove prevalgono società contendibili fortemente dipendenti dal mercato azionario, vi è una
netta distinzione tra la proprietà, che compete all’insieme degli azionisti, e il controllo, esercitato dagli
amministratori. La principale conseguenza di questa divisione è che gli obbiettivi delle due categorie potrebbero non
coincidere.
Tuttavia il comportamento dei manager è sottoposto ad una serie di vincoli che tendono a farlo coincidere con quanto
richiesto dagli azionisti:
a) Vincoli interni all’impresa: in generale, i manager sono assunti con un contratto che li induce a comportarsi
conformemente agli interessi degli azionisti. Tuttavia, con un azionariato molto frazionato, la capacità di controllo
degli azionisti si indebolisce, e si determina un’asimmetria informativa, che rende difficile per gli azionisti calcolare
il costo d’agenzia (differenza del valore dell’azienda con o senza quel management). Anche l’uso di forme
retributive ad incentivo, come le stock options, non risolve il problema. Altra soluzione potrebbe essere il leveraged
buyout, ossia l’acquisto delle azioni da parte del management, finanziato da un debito che sarà estinto dal flusso
dei profitti generati successivamente.
b) Vincoli derivanti dal mercato del lavoro: dato che nelle pubblic companies la rotazione del management avviene
molto frequentemente, l’incentivo degli amministratori ad acquisire una buona reputazione potrebbe determinare
in loro una motivazione coerente con quella degli azionisti.
c) Vincoli derivanti dalla competizione fra imprese: poiché un’impresa poco competitiva è destinata a
scomparire, la sopravvivenza dell’impresa e quindi del proprio posto di lavoro, genera nel management una
motivazione allineata a quella degli azionisti.
d) Vincoli derivanti dal mercato dei capitali: se un’impresa non è gestita in modo da massimizzare il suo valore di
borsa, il basso prezzo delle sue azioni potrebbe rappresentare un’opportunità di scalata al vertice per nuovi
azionisti che più facilmente proporranno un cambio nel management.
Vi sono altre osservazioni da fare riguardo al capitalismo anglosassone, che sottolineano quanto questo si stia
allontanando dal concetto di dominio di sé, fondato su valori etici e su un comportamento volto alla prudenza comune.

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Due i motivi che allontanano il capitalismo anglosassone da questi concetti. Da una parte si osserva come il
comportamento dei manager sia troppo influenzato da considerazioni di breve termine, l’interesse per le quali
sopravanza di gran lunga quello per le azioni che daranno benefici in futuro. Dall’altra, invece, si considera quanto
questo tipo di capitalismo faccia aumentare l’esercito di persone con guadagni così elevati da renderle in grado di
formare coalizioni che controllino i mezzi di comunicazione e quindi la sfera politica (vedi anche le lobbies).

4.4 IL CAPITALISMO RENANO (stakeholders)


La differenza di questo modello capitalistico dal differente sta nel fatto che qui il controllo azionario della maggior parte
delle grandi imprese è riconducibile ad un numero limitato di soggetti.
Ciò genera una profonda differenza di carattere “culturale”: la massimizzazione del valore per gli azionisti, riguardando
un fatto privato e non “pubblico” nell’accezione inglese del termine, risulta un traguardo assai meno generalmente
accettato. Tra l’altro gli azionisti sono spesso anche più deboli dal punto di vista finanziario rispetto ad altri soggetti,
come le banche, che non hanno funzioni di utilità omogenee a quelle degli azionisti.
In generale, i manager di un’impresa di questo stampo si trovano a dover bilanciare non solo gli interessi degli azionisti
(shareholders) ma anche di un’altra serie di soggetti coinvolti (stakeholders).
Il capitalismo renano è un sistema che si presta molto più ad un’interazione tra etica e interessi razionali rispetto a
quanto possa fare il capitalismo anglosassone, ma ciò spesso si risolve in una minore dinamicità sul piano finanziario e
riguardo alle esigenze di sviluppo dell’impresa. Le imprese del modello renano sono anche meno dinamiche nella
competizione globale (facile che un’impresa anglosassone acquisisca un’impresa europea, difficile il contrario), e ciò
determina un’incertezza riguardo al loro futuro.

4.5 GLI EFFETTI DELLA GLOBALIZZAZIONE SULLE CONDOTTE STRATEGICHE DELLE IMPRESE.
IL FENOMENO DELLE IMPRESE TRANSNAZIONALI (TNC) O “PLATFORM COMPANIES”
La produzione del valore nelle attività d’impresa avviene in una sequenza che può essere rappresentata come una
catena formata da tre anelli:
1. Concezione e progetto industriale di un prodotto o di un servizio.
2. Produzione manifatturiera
3. Attività di marketing e di distribuzione.
I modelli tradizionali di management si concentravano principalmente sul secondo anello di questa catena,
considerando l’attività manifatturiera l’area strategicamente più rilevante. Ma, con le trasformazioni determinate dalla
globalizzazione e dalla rivoluzione Itc, la rilevanza strategica dei singoli anelli è cambiata, poiché la produzione
manifatturiera risente della concorrenza low cost da parte dei paesi emergenti.
Molte imprese americane ed europee, hanno trasferito con strategie di outsourcing la fase delle attività manifatturiere
in paesi emergenti (insieme ad altre attività ad alta intensità di lavoro, come contabilità o servizi di assistenza),
comprimendo l’entità del capitale investito in processi produttivi e migliorando di conseguenza il Roe. Nascono così le
imprese transnazionali o “platform companies” (platco).
Questo fenomeno di deindustrializzazione ha portato ad una progressiva riduzione della quota determinata dalle
attività manifatturiere sul Pil dei paesi le cui imprese adottano tali strategie.
Dal punto di vista macroeconomico, poi, l’outsourcing ha concorso a mantenere bassa l’inflazione.
Altra conseguenza macroeconomica è la grande riduzione del significato delle statistiche del commercio internazionale,
poiché la parte statisticamente rilevante della catena del valore, ovvero l’attività manifatturiera, si traduce in un
elemento passivo della bilancia commerciale per i paesi che hanno guidato questa rivoluzione.

5. LE TEORIE DELLA DOMANDA


5.1 LA DOMANDA MARSHALLIANA
La prima e più completa formalizzazione della teoria della domanda è quella di Marshall.
La curva di domanda di un singolo consumatore, per un dato prodotto, riassume la relazione fra la quantità (massima)
del prodotto acquistato o ogni possibile (ipotetico) prezzo:
q = f(p)
La curva è inclinata negativamente > utilità marginale decrescente.
Tale curva di domanda dipende:
a) Dai gusti e dalle preferenze del consumatore considerato.
b) Dal reddito disponibile (all’aumentare del quale la curva si sposta verso destra).
c) Dai prezzi di ogni altro prodotto, che per ipotesi vengono tenuti costanti.

L’informazione essenziale che si ottiene dalla curva di domanda è il grado di reattività della quantità domandata ad ogni
variazione di prezzo > elasticità
ε = −(dQ/dP) × (P/Q)
Due osservazioni:
1. L’elasticità viene presa positivamente, il che spiega la presenza del meno davanti alla frazione.
2. L’elasticità è espressa in termini di variazioni relative: se è maggiore di uno la domanda è elastica, e al diminuire
del prezzo aumenterà la spesa del consumatore (e viceversa); se l’elasticità è minore di uno la domanda è
inelastica e un aumento del prezzo accrescerà la spesa del consumatore; se è uguale a uno, infine, variazioni del
prezzo non alterano la quantità domandata.
L’elasticità dipende:

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a) Dalla durata del periodo a cui si riferisce la domanda


b) Dal numero di beni sostituibili a disposizione
c) Dall’incidenza di un prodotto sul bilancio del consumatore
d) Dai possibili usi alternativi cui un bene si presta

La curva di Engel invece misura la variazione della quantità domandata al variare del reddito, per mezzo dell’elasticità
della domanda al reddito:
ε = −(dQ/dY) × (Y/Q)
dove Y e Q sono reddito e quantità iniziali e dQ e dY le variazioni.
Alcuni beni hanno elasticità positiva, quindi ad aumenti del reddito aumenta anche la quantità domandata
(ragionamento ≤ o ≥ di 1 analogo a sopra), altri invece hanno elasticità negativa, come nel caso dei beni inferirori.

Detto questo si possono presentare poi l’effetto sostituzione e l’effetto reddito:


- Effetto sostituzione: se il prezzo di X diminuisce, l’acquisto di tale prodotto diventerà più conveniente (a parità del
prezzo delle altre merci) e il consumatore sarà spinto ad aumentare la quantità domandata del bene X.
- Effetto reddito: la riduzione del prezzo di X comporta anche un miglioramento del reddito reale del consumatore,
che può far aumentare l’acquisto anche di tutti gli altri prodotti, compreso il bene X a meno che questo non sia un
bene inferiore.

La domanda di mercato viene costruita semplicemente sommando le domande individuali:


Q = Σqi = f(p)

5.2 IL PROCESSO DI REVISIONE DELLA TEORIA NEOCLASSICA


Il modello della domanda marshalliana è un’ottima formalizzazione della relazione quantità prezzo, ma presenta molti
limiti.
Tale modello è, innanzitutto, ragionevole solamente nel breve periodo.
C’è poi da notare come sia fondato su postulati che hanno formato oggetto della revisione critica successiva:
1. Costanza del sistema di preferenze del consumatore
2. Esistenza di una relazione reversibile e differenziabile fra i tre parametri del modello di equilibrio statico di Pareto
(quantità, prezzo e reddito).
3. Massimizzazione dell’utilità soggettiva nel comportamento del consumatore.
4. Razionalità e autonomia del comportamento del consumatore nei confronti di variabili esogene.
Tramite il ricorso a indagini empiriche sempre più numerose e meglio condotte sono emerse diverse logiche
contrastanti con gli assiomi del modello:
- L’elasticità della domanda al prezzo varia in relazione all’ampiezza della variazione di quest’ultimo; varia inoltre in
relazione al grado di assuefazione del consumatore al bene.
- Con maggiore considerazione delle componenti psico-sociologiche del comportamento umano si evince come non
regga l’ipotesi del comportamento razionale e autonomo del consumatore.
- Ne consegue l’assoluta improbabilità di una funzione di domanda collettiva come somma delle singole funzioni di
domanda individuali.
- Nell’analisi marshalliana manca la considerazione del fattore tempo, il che esclude la presenza di qualsiasi elemento
dinamico o processo di cambiamento.

5.3 LA TEORIA MARRISIANA


La teoria di Marris parte dall’osservazione che i consumatori sono portatori di un sistema di preferenze tutt’altro che
stabile e indipendente. I bisogni dei consumatori sono oggetto di continue trasformazioni e spesso sono attivati
dall’esperienza e dal giudizio di altri consumatori.
Marris divide i consumatori in due categorie: i pionieri e le pecore.
I pionieri decidono nuovi acquisti senza fruire di stimoli da parte di altri consumatori, sono più vulnerabili al richiamo
pubblicitario ma anche più coraggiosi riguardo alle incertezze delle novità. Le pecore, al contrario, acquistano un nuovo
prodotto solo se “attivate” dai pionieri con giudizi positivi. Le pecore attivate possono a loro volta influenzare altri
consumatori innescando reazioni a catena di vaste proporzioni.
A questo fenomeno è legato il concetto di criticità: è il momento di passaggio della domanda dalla fase di gestione a
quella di esplosione, in cui sussiste criticità solo se la probabilità che si innesti una reazione a catena è vicina all’unità,
cioè quasi certa.
Il tipo di contatto che innesca queste reazioni è definito socio-economico, e ha successo quando c’è affinità di gusti e
soprattutto di valori etici, sociali ed economici, ovvero quando i due individui appartengono alla stessa classe sociale.
La domanda complessiva di mercato è data dalla somma delle singole schede individuali sia di pionieri che di pecore.
Pionieri: qij = ΦP(Xi Xj)μij Pecore: qij = ΦS(Xi Xj)νij Aggregata: Qj = NPΦP + NaΦS
Con μ e ν =1 se pionieri e pecore sono attivati, =0 altrimenti. Na < NS (attivate < totali)

Secondo Marris a popolazione del mercato è composta da grandi gruppi primari, ossia gruppi in cui ogni membro è in
contatto socio economico con ogni altro (ciò implica comunanza si status, livello di reddito, ma anche di localizzazione
geografica), all’interno dei quali, quindi, si possono innescare ampie reazioni a catena.

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Ma la catena dei contatti all’interno del gruppo primario viene sempre interrotta da fattori denominati “sbarramenti
sociali” (come ad esempio i gruppi di età), i quali frazionano ogni gruppo primario in più gruppi secondari.
A questo concetto si lega un nuovo indice, chiamato grado di stratificazione, che indica il numero minimo di gruppi
secondari legati ad un gruppo primario.
La formula del grado di stratificazione è λ = n√Sn
Sn è il numero dei gruppi secondari, e quanto minore sarà il valore di λ, tanto più facilmente un nuovo bene sarà in
grado di saturare una data popolazione di mercato.

Per completare l’analisi, Marris dimostra, se pur con varianti marginali, la validità della propria teoria anche per quanto
riguarda i beni di produzione, ovvero quei prodotti intermedi oggetto di transazione per le imprese.
In alcuni settori produttivi ad alto tasso tecnologico è più ovvio il momento in cui determinati beni andranno rinnovati,
ma spesso le aziende usufruiscono di innovazioni tecnologiche anche quando il prodotto da sostituire non è ancora
logoro o obsoleto.
Per prendere decisioni del genere i dirigenti hanno spesso bisogno di stimoli, analoghi a quelli che la pecora subisce da
parte del pioniere. Tali stimoli derivano da due fonti:
- Dal contatto personale con altri dirigenti che hanno già introdotto l’innovazione: il processo di attivazione e
propagazione è analogo a quello dei consumatori.
- Dagli effetti delle rinnovazioni introdotte da altre imprese concorrenti; effetti che possono diffondersi anche in
settori diversi da quelli in cui sono nati, grazie all’azione di imprese multibusiness operanti in più settori.

5.4 LA DOMANDA DI BENI DI CONSUMO DUREVOLE


Un altro problema del modello neoclassico sul comportamento del consumatore è che questo considera solamente i
beni di consumo immediato. Questi sono perfettamente divisibili ed il loro consumo viene ripetuto frequentemente,
così da consentire la formazione di un giudizio circa le qualità del prodotto. La teoria marshalliana non è però
applicabile ai beni di consumo durevole e ai beni strumentali, il cui acquisto è più saltuario e comporta una spesa
rilevante in rapporto al reddito del consumatore.
Una prima analisi della domanda di tali beni si può fare partendo principio di accelerazione, che viene sviluppato
inizialmente solo per i beni strumentali. Tale principio afferma che la domanda di beni strumentali dipende dalla
variazione della domanda finale dei prodotti ottenuti con quel particolare sturmento:
It = A (Dt − Dt-1) + DSt con: - It : domanda di beni strumentali al tempo t
- D : quantità domandata del prodotto finale (tempo t e t-1)
- A : coefficiente che misura la produttività del bene strumentale
- DSt : domanda dovuta alla necessita di sostituire il macchinario
È possibile applicare questa formula anche ai beni di consumo durevole, sostituendo la variazione della quantità
domandata di prodotto finale con la variazione del reddito:
Dt = A (Rt − Rt-1) + DSt
L’acquisto di beni durevoli dipende quindi più dalle variazioni di reddito che dall’entità del reddito stesso; se il reddito
non varia il consumatore acquisterà un bene durevole solo quando sarà necessario sostituire quello precendente.
A (Rt − Rt-1) misura la domanda per incremento del parco, mentre il parametro DSt rappresenta la domanda di
sostituzione, che è da mettersi in relazione alla vita media del prodotto e alla domanda per incremento del parco
verificatasi negli anni precedenti. Sulla domanda di sostituzione, ovviamente, influiscono anche altri fattori come
l’intensità d’uso, i miglioramenti tecnici o di design introdotti nei beni nuovi, o l’andamento del “mercato dell’usato”.
Il parametro A, invece, dipende dal grado di saturazione del mercato, dal prezzo unitario del prodotto e dai modelli di
diffusione del consumo nelle diverse categorie sociali.
Per la maggior parte dei beni di consumo durevole l’elasticità della domanda al reddito si è sempre dimostrata
superiore rispetto ai beni di consumo immediato: ogni aumento del reddito comporta una variazione più che
proporzionale della domanda dei beni di consumo durevole.
L’elasticità della domanda al prezzo è invece, in genere, sensibilmente inferiore, perché spesso la domanda di tali
beni è influenzata dal prezzo di altri prodotti che concorrono a determinarne il costo di utilizzazione (es: per un’auto il
carburante).

5.5 LA DOMANDA DI BENI INTERMEDI E DI INVESTIMENTO


Per quanto riguarda i beni di produzione intermedi si fa riferimento a due concetti:
- Interdipendenza input-output: la domanda di materie prime e semilavorati è funzione non solo della domanda delle
imprese industriali che direttamente ne fanno uso nei processi produttivi, ma anche, se pure indirettamente, della
domanda di prodotti finali ottenuti con tali beni.
- Politica di immagazzinamento: nella maggior parte di casi i beni intermedi possono essere immagazzinati senza gravi
pericoli di deterioramento, quindi la loro domanda è influenzata anche dagli stock costituiti presso le imprese
utilizzatrici, nonché dalle future aspettative economico-congiunturali e tecnologiche di queste ultime.

Per quanto riguarda i beni “finali” di produzione o beni d’investimento, bisogna prima di tutto considerare se ci si
riferisce al lungo periodo o al medio-breve periodo.
Per quanto riguarda il lungo periodo, per stimare gli investimenti si osservano le due tradizionali variabili: la
propensione al risparmio e i coefficienti marginali capitale-prodotto.

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Se si considera, invece, il medio-breve periodo, i modelli che stimano la domanda di beni di investimento vengono
ricondotti a due principali categorie:
 Modelli basati sul principio di accelerazione [ I = f (ΔY) ], dove con ΔY si intende la variazione del reddito nazionale.
In generale tali modelli fanno dipendere gli investimenti dalla variazione della domanda. Il più significativo tra
questi modelli è quello proposto dal gruppo di studio di Ancona, secondo il quale gli investimenti industriali fissi
lordi dipendono: direttamente dal saggio di variazione della domanda (o del valore aggiunto dell’industria) e dai
profitti realizzati dall’impresa negli anni precedenti; inversamente dal costo del capitale e dalla capacità produttiva
inutilizzata.
 Modelli del tipo profitti-investimenti: gli investimenti dipendono dai profitti o, comunque, dai fondi propri
disponibili nelle imprese. Il modello più importante è quello di Sylos Labini, secondo cui il saggio di variazione degli
investimenti industriale per le grandi imprese dipende dalla quota di profitto corrente, dal saggio di variazione di
questa e dal grado di capacità produttiva inutilizzata, mentre per le piccole-medie imprese gli investimenti sono
funzione dei profitti correnti, del loro saggio di variazione e della liquidità totale.

Nella pratica, quando a stimare la domanda di beni di produzione nel medio-breve periodo è una singola impresa,
vengono considerati anche altri parametri:
- Il costo del denaro, rappresentato dal saggio d’interesse corrente.
- La disponibilità di linee di credito, espressa dalla variazione di liquidità del sistema creditizio.
- I profitti correnti e/o attesi delle imprese.
- Il grado di utilizzazione della capacità produttiva, o il rapporto tra produzione effettiva e produzione potenziale
massima.
- Il “tempo di aggiustamento”, ovvero il tempo necessario perché il parco effettivo di beni strumentali si adegui alle
variazioni teoriche del parco.

5.6 LA DOMANDA RESIDUALE


La domanda residuale è quella parte della domanda di mercato che si rivolge ad una singola impresa offerente. Essa è
semplicemente costituita dalla differenza fra la domanda complessiva del mercato e la quota assorbita dalle altre
imprese che costituiscono l’offerta:
Dj = D – Σi≠jDi
Tale formula ha senso in un contesto di economia statica, ovvero assumendo che la quantità di domanda soddisfatta
dalle altre imprese rimanga costante ad ogni livello di prezzo.

6. STRUTTURA E REGIME DI VARIAZIONE DEI COSTI DI PRODUZIONE


La struttura e il regime dei costi di produzione costituiscono l’aspetto più importante tra le condizioni di base
dell’offerta nel paradigma struttura condotta performance.

6.2 STRUTTURA DEI COSTI DI PRODUZIONE


La struttura dei costi di produzione si riferisce al breve periodo: con breve periodo si intende un intervallo di tempo
tanto breve da non consentire all’impresa di variare la quantità impiegata di alcuni dei suoi fattori, come in particolare
lo stock di impianti e le attrezzature.

I costi totali fissi sono le passività totali che l’impresa deve sostenere nell’unità di tempo per i fattori fissi: il costo
totale sarà il medesimo indipendentemente dalla quantità prodotta.
I costi totali variabili sono i costi che l’impresa deve sostenere per acquistare i fattori variabili. Ovviamente
aumentano all’aumentare della produzione. I costi variabili rispondono alla legge dei rendimenti marginali decrescenti.
I costi totali sono la somma di costi totali fissi e variabili.
Dividendo questi tre tipi per le quantità prodotte avremo rispettivamente il costo medio fisso (la cui curva è
un’iperbole equilatera, perché in ogni suo punto il prodotto fra la quantità prodotta, in ascissa, e il costo medio fisso, in
ordinata, è costante), il costo medio variabile e il costo medio totale (il costo medio totale raggiunge il livello di minimo
dopo il costo medio variabile, perché gli incrementi di quest’ultimo sono compensati dalla diminuzione del costo medio
fisso).
Il costo marginale è l’incremento di costo totale conseguente ad un incremento unitario nell quantità prodotta. La
sua formula è (ΔCTV + ΔCTF) / ΔQ , ma poiché i costi totali nel breve periodo non variano la formula si riduce a ΔCTV /
ΔQ
Il costo marginale diminuisce, raggiunge un minimo per poi aumentare. Nella fase di risalita la curva di costo marginale
attraversa quella di costo medio nel suo punto di minimo. Questo avviene perché, considerando che il costo marginale è
il costo dell’ultima unità prodotta, quando questo è più basso del costo medio abbassa la media, mentre se è più altro la
alza.

Formulazione di Sylos Labini: la funzione dei costi è data da C = vq + k dove v sono i costi variabili e k quelli fissi. Nel
grafico il costo medio è decrescente fino a q* , quantità che corrisponde al pieno utilizzo della capacità produttiva. Oltre
tale punto il costo medio tenderà a crescere perché il costo totale, sarà costante e pari a v fino a q* e da quel punto in
poi sarà crescente e superiore al costo medio.

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6.3 L’ANALISI DEL BREAK EVEN POINT


In un grafico con le quantità sull’asse delle ascisse e i costi o ricavi totali su quello delle ordinate, considero la retta dei
ricavi inclinata di 45° rispetto all’asse delle ascisse (ipotizzando un’elasticità unitaria). Disegno poi la curva dei costi
totali come somma di quelli fissi (retta orizzontale) e di quelli variabili. Il break even si raggiunge quando le due rette si
intersecano.
È un’analisi semplice ma con importanti implicazioni, soprattutto in considerazione alla struttura dei costi. Infatti, con
elevati costi fissi e bassi costi variabili, si avranno grandi profitti oltre il break even point, ma anche grandi perdite
prima di questo. La variabilità del profitto (sia in senso positivo che negativo) è invece molto ridotta in presenza di
bassi costi fissi ed elevati costi variabili.

6.4 COSTO OPPORTUNITÀ E SUNK COST


Il costo opportunità di usare una qualunque risorsa (tempo, denaro ecc.) per un determinato scopo è il beneficio che
si sarebbe potuto trarre dall’impiego di quella risorsa nel miglior uso possibile alternativo.
Il sunk cost, o costo irrecuperabile, è un investimento in un bene capitale che non ha usi alternativi. In altre parole, è
un costo sostenuto per un fattore produttivo che avrà un costo opportunità nullo.

6.5 IL REGIME DEI COSTI DI PRODUZIONE (LUNGO PERIODO)


Nel lungo periodo non ci sono funzioni del costo fisso perché non esistono costi fissi.
La funzione di costo medio di lungo periodo mostra il costo unitario minimo corrispondente ad ogni livello produttivo,
ovvero la sua curva è tangente a ciascuna delle curve di costo medio di breve periodo nel punto in cui gli impianti a cui
esse si riferiscono sono a livelli di produzione ottimale.
È possibile raggiungere la funzione di costo medio di lungo periodo solo se utilizzando sempre la combinazione tra i
fattori che assicuri il miglior costo, ovvero quando questi sono combinati in modo che il prodotto marginale di ogni
euro investito in un fattore sia pari a quello di agni euro investito negli altri.

Nella maggioranza delle produzioni industriali, però, la curva di costi medi di lungo periodo ha una forma a L, piuttosto
di quella tradizionalmente supposta a U, ovvero è decrescente per un lungo tratto, fino a raggiungere la dimensione
ottima minima e rimanere costante per un tratto di lunghezza variabile fino al comparire delle diseconomie di scala.
La pendenza della curva esprime il vantaggio che si acquisisce, in termini costo medio unitario di produzione, avendo
una dimensione più elevata.

La funzione di costo marginale di lungo periodo si comporta nei confronti della funzione di costo medio esattamente
come avveniva nel breve periodo.
Per calcolare il costo totale di lungo periodo basta moltiplicare il costo medio per la quantità. Il grafico avrà un’elevata
pendenza positiva

6.6 LE ECONOMIE DI SCALA


Un’impresa realizza economie di scala quando il costo medio unitario di produzione diminuisce all’aumentare della
“produttività” dei suoi impianti.
Le economie di scala si associano ai rendimenti di scala crescenti, ma i due concetti sono differenti: i rendimenti di
scala, infatti, si riferiscono alla relazione tra variazioni di input e variazioni di output espressa in termini “fisici”, mentre
per le economie di scala la relazione considerata è quella tra dimensione dell’impianto e costo medio unitario di
produzione.
Il concetto è anche correlato ma differente rispetto alle economie di saturazione: queste indicano che all’aumentare
della quantità prodotta diminuisce il costo perché i costi fissi si distribuiscono su una quantità maggiore di output; le
economie di scala, invece, indicano che una maggiore dimensione dell’impianto consente un uso più efficiente delle
risorse coinvolte nel processo.

6.7 LE DETERMINANTI DELLE ECONOMIE DI SCALA


Le economie di scala possono derivare dalla presenza di rendimenti di scala crescenti (quindi dei fattori che ne
determinano la presenza) e da fattori connessi con il grado di controllo del mercato (si parla in questo caso di
economie monetarie perché non cambia nulla dal punto di vista “fisico”).
Una delle prime cause di economie di scala, individuata già da Adam Smith, fu la divisione del lavoro, che permette di
aumentare la produttività delle risorse umane e delle macchine impiegate, per mezzo della specializzazione di mansioni
e processi. Connesso a questo c’è il concetto di indivisibilità dei fattori produttivi, che dà luogo al principio dei multipli:
se un’impresa utilizza diversi macchinari indivisibili, deve scegliere come livello di produzione minimo, il minimo
comune multipli della produzione dei vari macchinari.

Economie di scala a livello di prodotto. A livello di prodotto le economie di scala sono importanti quando per
fabbricare diverse varietà dello stesso prodotto basta modificare il layout (la disposizione) degli impianti. Poiché
questo processo richiede tempo, quante più unità di ciascuna varietà si producono tanto meno i tempi influiscono sul
costo totale di lavorazione.

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Economie di scala a livello di impianto. A livello di impianto le economie di scala derivano dall’aumento della
dimensione delle singole unità di produzione. Di solito in alcuni tipi di impianti (petrolio, siderurgica, chimica) la
produzione è proporzionale al volume, mentre il costo dell’investimento per ampliare l’impianto è proporzionale alla
superfice in più che l’impianto occuperà. In questi casi vale la regola empirica dei due terzi: se l’area della superfice
varia in rapporto 2/3 rispetto al suo volume, anche il costo variera in rapporto 2/3 rispetto alla crescita della propria
capacità produttiva. L’elasticità dei costi rispetto al volume prodotto è di circa 0.67.
Economie delle riserve di capacità: considerando che deve esistere all’interno dell’impresa una macchina di riserva
da utilizzare in caso di guasti, più aumenta il numero di macchine attive meno il costo di quella di riserva incide sul
costo totale.

Economie multimpianto e a livello di impresa


Le economie derivanti dalla specializzazione e dalle riserve di capacità valgono anche nel caso di gestione di numerosi
stabilimenti da parte di una stessa impresa. Allo stesso modo ad improvvise fluttuazioni della domanda servita da uno
stabilimento può far fronte un altro stabilimento.
Può essere conveniente disporre di più impianti disseminati sul territorio, quando ad esempio i costi di trasporto
sono elevati, o per sfruttare la specializzazione di mano d’opera.
Le economie di scala possono avere luogo anche a livello di gruppo di imprese, con vantaggi:
a) Nell’approvvigionamento di materie prime > maggiore quantità = maggiore potere contrattuale
b) Nella promozione e nelle vendite > economie legate alla dimensione degli investimenti pubblicitari: è necessario
raggiungere una soglia minima di messaggi diffusi perché questi abbiano effetto sui consumatori. Inoltre anche i
servizi post vendita sono legati alle quantità di prodotto, in quanto hanno componenti fisse (officine,
addestramento del personale)
c) Nella raccolta di capitale > maggior credito verso le banche, grazie ad una redditività più stabile e anche maggiore
disponibilità di azionisti e investitori > il costo del capitale varia inversamente rispetto alle dimensioni
dell’impresa.
d) Nella dotazione di risorse e competenze di tipo organizzativo-manageriale > centralizzazione di funzioni
organizzative come ricerca e sviluppo, servizi informatici e contabilità.

6.8 ECONOMIE DI AMPIEZZA O DI GAMMA


Si verificano quando la produzione congiunta di due o più prodotti è conveniente rispetto a quanto lo sarebbe
produrli separatamente.
Le economie di ampiezza si accompagnano a molti casi di integrazione verticale e di diversificazione. (es: produco
sia ghisa che acciaio, sia latte che yogurt)
Le economie di ampiezza son determinate dalla condivisione di:
1. Fattori o componenti del sistema produttivo (impianti, attrezzature, ecc.)
2. Attività materiali della struttura commerciale (canali e reti di distribuzione)
3. Risorse immateriali in dotazione all’impresa (marchio, reputazione, know-how, ecc.)

6.9 DISECONOMIE DI SCALA


Vi sono numerosi fattori che tendono a far crescere dopo un certo livello la curva dei costi supposta a L. Di solito questi
fattori hanno natura organizzativa oppure operativa, a differenza di quelli che determinano economie di scala che
includono anche fattori di natura tecnologica. Tra questi in particolare i costi di coordinamento e di informazione; costi
di trasporto o difficoltà logistiche, nel caso in cui l’impresa cominci a servire più mercati.
In generale non sempre le grandi imprese sono in vantaggio rispetto a quelle di dimensioni minori: entrambe le forme
di impresa hanno una loro razionalità economica a seconda dei contesti competitivi e tecnologici dei settori di
appartenenza.

6.10 ECONOMIE DI SCALA ESTERNE


Riguardano i vantaggi derivanti dalla localizzazione dell’attività produttiva, ossia dalla concentrazione in uno spazio
limitato di territorio di più imprese di piccola o media dimensione specializzate nella produzione di un singolo bene o di
più beni tra loro correlati.
Correlato al concetto di distretto industriale di Marshall, i vantaggi derivano da:
a) Lo sviluppo di industrie ausiliarie, che fabbricano strumenti e macchine particolari richieste nel processo
produttivo.
b) La diffusione delle conoscenze tecniche, l’educazione all’abilità e la “circolazione di idee”.
c) Il facile reperimento di manodopera specializzata.
Questi fattori determinano a loro volta vantaggi, che costituiscono la triade marshalliana delle economie esterne:
- Economie di specializzazione degli input produttivi (in particolare il lavoro specializzato).
- Economie di specializzazione a livello di beni e servizi intermedi (fornitori specializzati).
- Trasferimenti di informazioni e competenze tecnologiche (information spillover).
6.11 ECONOMIE DI APPRENDIMENTO
Si tratta di riduzioni dei costi medi unitari generate dall’esperienza.
L’esperienza può essere calcolata con la produzione cumulata o con gli investimenti cumulati o con il tempo.
La curva d’apprendimento fornisce un’ulteriore giustificazione alla persistenza della dominanza di un’impresa leader
nel mercato. Inoltre se i processi di apprendimento sono marcati, questi conferiscono una forte dinamicità alla

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concorrenza in un mercato, e spiegano come spesso delle posizioni di dominanza siano difficilmente superabili (caso
Boeing, Lockhead, McDonnel Douglas).
Dalla presenza di curve d’apprendimento deriva una legge generale dell’economia industriale: se nel mercato esistono
situazioni di concorrenza, i prezzi dei prodotti devono diminuire nel tempo in termini reali, proprio per effetto delle
curve di apprendimento; l’esperienza si traduce in riduzione dei costi, i quali determinano un prezzo più competitivo.

6.12 MISURAZIONE DELL’ANDAMENTO DEI COSTI


I metodi di misurazione dei costi possono essere suddivisi in 3 categorie:
1. Il primo metodo consiste nell’analisi del rendimento sul capitale investito, Roi. Se vi è una correlazione tra
dimensione del capitale investito e Roi potrebbero esserci economie di scala (il condizionale perché tale
correlazione positiva potrebbe esser dovuta a fattori legati ai ricavi).
A livello di impianto, non essendo utilizzabile il Roi, si ricorre all’analisi del fabbisogno di investimento per unità di
produzione rispetto a diverse alternative dimensionali.
2. Il secondo metodo, teorizzato da Stigler, è la tecnica dell’analisi della sopravvivenza: se una particolare
dimensione di stabilimento è efficiente, con il tempo tutte le imprese appartenenti a quell’industria tenderanno ad
avvicinarsi a quella dimensione (o a una gamma di dimensioni comunque tutte efficienti).
3. Il metodo più diretto, adatto particolarmente agli impianti, è l’analisi econometrica dei costi: si mettono in
relazione i costi medi di produzione registrati per un campione abbastanza ampio di impianti con statistiche e
variabili relative al prodotto di questi ultimi. La difficoltà maggiore risiede nel reperimento di dati.

6.13 IL FENOMENO DELLE ESTERNALITÀ


Il fenomeno delle esternalità è rappresentato dalla presenza di circostanze che influenzano il livello della produttività o
dei costi di produzione malgrado esse non vengano normalmente prese in considerazione dall’imprenditore nelle
proprie valutazioni decisionali. Possono essere sia positive (es: coltivazioni alberi da frutto e allevamento di api) che
negative (inquinamento).

9. DIFFERENZIAZIONE.
EFFETTI DELLA SPESA PUBBLICITARIA. LE QUALITÀ E LE INNOVAZIONI DI PRODOTTO. LA “NON PRICE
COMPETITION”.

9.1 INTRODUZIONE
Il concetto di differenziazione attiene tanto alle condizioni di struttura del mercato, quanto agli elementi che
caratterizzano la condotta delle imprese operanti.
Condizione strutturale: i venditori percepiscono la non perfetta sostituibilità dei propri prodotti rispetto a quelli dei
concorrenti.
Condizione di condotta: l’opportunità di utilizzare elementi di differenziazione nella domanda dei propri prodotti
incide molto sulle strategie di un’impresa.

A livello di formule, senza differenziazione, in una logica quindi price taker, la curva di domanda è:
p1 = p = a – b(Q) = a – b(q1+q2)
Al contrario, se vi è differenziazione, quindi non perfetta sostituibilità, abbiamo:
p1 = a – b1q1 – b2q2
Con il coefficiente b che esprime il grado di differenziazione di ciascun prodotto. Maggiore sarà la differenziazione, più
accentuato sarà il rapporto b1 > b2, tanto meno il prezzo del prodotto 1 risentirà della condotta dell’impresa 2.

9.2 DIFFERENZIAZIONE DEI PRODOTTI: MODELLI TEORICI


Il primo approccio teorico fa leva sull’ipotesi che la domanda dei consumatori non sia orientata tato al prodotto
quanto alle caratteristiche e agli attributi del prodotto. La funzione di utilità di un singolo consumatore sarà quindi
composta dalle caratteristiche di un prodotto (a cui sarà associato un punteggio) ponderate per l’importanza che tali
caratteristiche hanno per il consumatore. Il consumatore sceglierà il mix di caratteristiche che massimizza la sua
funzione di utilità.
Nessun consumatore troverà il prodotto perfetto per lui (perché nessuna impresa è in grado di produrre tanti prodotti
quanti sono i mix ideali dei propri clienti, per ragioni di economie di scala e costi fissi), la sua scelta sarà quindi
comunque determinata dai prezzi relativi delle combinazioni offerte, per cui la curva di domanda rimane inclinata
negativamente.
Un secondo approccio parte dal concetto di informazioni e costi di transazione. Ciascun consumatore, nel prendere le
proprie decisioni di acquisto, investe nell’acquisizione di diverse tipologie di informazione fino al punto in cui i benefici
attesi da una scelta più oculata tra i brand eguaglino il costo marginale dell’informazione. Ma ciascun consumatore ha
un set di informazioni incompleto e diverso dagli altri acquirenti, perciò, anche se tutti i consumatori avessero le stesse
preferenze, essi esprimerebbero preferenze diverse rispetto ai costi relativi. Da ciò deriva l’inclinazione negativa delle
curve di domanda individuali.

Modello di Akerloff: market for “lemons”

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Dimostra che se gli acquirenti si affidano a valutazioni statistico-probabilistiche per superare l’incertezza delle
informazioni sulle caratteristiche qualitative, i venditori saranno incentivati ad offrire prodotti di bassa qualità. Questo
perché il beneficio connesso alla vendita di un prodotto di buona qualità avvantaggia tutto il gruppo di venditori più di
quanto faccia con il singolo, con effetto una progressiva riduzione generale della qualità dei prodotti offerti.

9.3 ANALISI EMPIRICHE


Per definire strumenti idonei alla misurazione del grado di differenziazione si può far ricorso all’elasticità incrociata,
ma questa scelta pone non pochi problemi nella definizione delle funzioni di domanda dei consumatori.
Più utile a questo fine l’approccio teorico basato sulle caratteristiche del prodotto, con il quale si possono mettere a
confronto tutte le caratteristiche misurabili dei vari prodotti (lasciando comunque fuori altri importanti elementi come
il design). Il problema più rilevante, anche in questo caso, è definire gli effetti della differenziazione; avremmo, infatti,
bisogno di stimare il peso che ciascun consumatore da alle diverse caratteristiche.
Ultimo approccio, proposto da Caves e Williamson, si basa sull’analisi fattoriale: considerate alcune variabili di un
prodotto e dei prodotti suoi sostituti (ad esempio, i dati delle vendite disaggregati per tipologia di consumatore, spese
di pubblicità e spese di ricerca e sviluppo, espresse in percentuale delle vendite), si utilizza la correlazione rilevabile tra
queste, come stima dei fattori non osservabili e della loro rilevanza nel differenziare il prodotto.

9.4 EFFETTI DELLA SPESA PUBBLICITARIA


La spesa pubblicitaria è fondamentale per l’approccio teorico basato sulla teoria dell’informazione e dei costi di
transazione, poiché rappresenta per i consumatori una fonte di informazione relativamente economica.
La pubblicità può essere informativa in caso di prodotti valutabili prima dell’acquisto, o, più frequentemente,
persuasiva nel caso di prodotti con qualità da sperimentare. Anche quest’ultima tuttavia dovrà essere il più veritiera
possibile perché il prodotto incontrerà il giudizio effettivo del pubblico.
L’intensità di pubblicità e la sua persistenza nel tempo sono di per sé segnali di qualità e hanno una valenza
informativa (signaling advertising): un prodotto di elevata qualità mantiene elevati livelli di profitto che giustificano
un alto livello di spese in pubblicità.
Vi sono, inoltre, altre relazioni: un bene con un elevato grado di innovazione è soggetto ad un livello più elevato di
pubblicità, per informare costantemente i consumatori sui miglioramenti. I beni ad alto contenuto di moda richiedono
massicci investimenti in pubblicità per mantere elevata l’immagine.

Il modello Dorfman-Steiner [parte da Q = f(p,s,z), prezzo, pubblicità, qualità ] afferma che, in un’impresa monopolistica,
il livello ottimale della spesa pubblicitaria, dato dal rapporto tra spesa pubblicitaria e fatturato, risulta essere uguale al
rapporto tra l’elasticità della domanda alla spesa pubblicitaria e l’elasticità della domanda al prezzo. L’intensità della
pubblicità è maggiore quanto maggiore è l’elasticità della domanda alla pubblicità e quanto minore è l’elasticità della
domanda al prezzo.

9.5 EFFETTI DELLE POLITICHE DI QUALITÀ E DI INNOVAZIONE DI PRODOTTO.


La definizione dell’Oslo Manual: il requisito minimo affinchè si possa parlare di innovazione è che il prodotto,
processo, metodo organizzativo o di marketing sia nuovo o significamente migliorato, con riguardo all’impresa in
questione. Ciò significa che non è necessario che prodotto, processo, o metodo siano sviluppati all’interno dell’impresa.
Quattro categorie fondamentali:
- Innovazione di prodotto: vengono introdotti nuovi beni/servizi, oppure apportati significativi miglioramenti alle
caratteristiche funzionali.
- Innovazione di processo: vengono introdotti nuovi o significativamente migliorati metodi di produzione o
distribuzione, compresi vari aspetti logistici dell’impresa (dall’acquisto delle materie prime fino alla distribuzione
del prodotto). Generalmente si associa ad una riduzione dei costi medi unitari, oppure ad un aumento qualitativo
dell’output finale.
- Innovazione organizzativa: può riguardare l’organizzazione delle pratiche, routine e procedure dell’azienda,
oppure la suddivisione del lavoro e la ripartizione delle responsabilità e del potere decisionale, oppure, infine, la
gestione delle relazioni esterne. Può generare un aumento delle performance attraverso la riduzione dei costi
amministrativi o l’aumento della produttività dei lavoratori.
- Innovazione di marketing: implementazione di un nuovo metodo di marketing (strategie, concetti o strumenti),
con l’obbiettivo di aumentare le vendite, aumentando l’attrattività del prodotto, estendendo il suo target, aprendo
nuovi mercati o modificando le modalità di collocamento.

Innovazione radicale o incrementale.


Questa distinzione a due valenze diverse, relativamente alla dimensione interna e esterna all’impresa:
Internamente, si parla di innovazioni incrementali se poggiano su un sistema preesistente di risorse e competenze
(competence enhancing); si parla di innovazioni radicali se richiedono una riconfigurazione di tutto il bagaglio di
conoscenze (competence destroying).
Esternamente, la differenza riguarda l’avanzamento tecnologica rispetto al prodotto o processo precedente, se è
modesto avremo innovazione incrementale, se, invece, è in grado di rendere obsolete le versioni precedenti del
prodotto è innovazione radicale.

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In generale un’innovazione incrementale avvantaggia le imprese preesistenti ma le rende vulnerabili nei confronti di
possibili innovazioni radicali, le quali non necessariamente dimostrano fin da subito superiorità, ma presentano
sicuramente un potenziale di miglioramento molto più elevato.

Henderson e Clark introducono un nuovo tipo di classificazione, che ruotano attorno a due concetti: le conoscenze alla
base dei componenti e quelle alla base dei legami tra i componenti, definite conoscenze architetturali.
- Innovazioni incrementali: scarso impatto sia sulle conoscenze che su quelle architetturali.
- Innovazioni modulari: cambiamenti significativi delle conoscenze, mantenendo inalterate quelle architetturali.
- Innovazioni architetturali: cambiano solo le conoscenze architetturali.
- Innovazioni radicali: nuovo set di conoscenze, sia alla base dei componenti sia architetturali.

Abernathy e Clark, accanto alle innovazioni che riguardano le competenze tecniche, introducono le innovazioni
commerciali, utili affinchè si possa proporre al meglio la novità sul mercato e beneficiare economicamente delle
innovazioni introdotte.

Christensen introduce il concetto di disruptive technologies, contrapponendolo a quello di sustaining technologies. La


classificazione non si basa sulla complessità tecnologica, né sulle competenze richieste, bensì fa riferimento alla
domanda dei consumatori: questo tipo di tecnologie presentano prestazioni inferiori rispetto alle funzionalità
richieste dai consumatori tradizionali (motivo per cui vengono sottovalutate dalle incumbents che preferiscono
investire in tecnologie sustaining), ma superiori con riferimento a caratteristiche secondarie, valutate da nicchie di
consumatori correnti o futuri potenziali. Generalmente costano anche di meno. (es: cd 3,5 pollici).

In generale, per un’impresa, sono molti i vantaggi associati alla capacità di innovare: la reputazione, le economie di
apprendimento, l’opportunità di definire caratteristiche di utilizzo del prodotto universalmente riconosciute, tutte
caratteristiche che rendono meno efficaci le strategie imitative dei concorrenti.
Tuttavia, il processo di innovazione è lungo e dispendioso; presenta, quindi, un alto tasso di rischio, sia nella costosa
fase di ricerca e sviluppo (dall’esito comunque incerto), sia nel momento della diffusione della tecnologia, a causa della
possibilità di imitare a basso costo da parte dei concorrenti (a questo problema fanno fronte brevetti e licenze d’uso).

9.6 STRUTTURA DI MERCATO E INNOVAZIONE DI PRODOTTO


L’obbiettivo è quello di definire quale contesto competitivo offra maggiori incentivi all’innovazione.
Arrow individua nella concorrenza perfetta la forma di mercato con maggiori incentivi, perché se un’impresa opera in
un contesto competitivo avrà un incentivo maggiore ad introdurre un’innovazione di processo che consenta una
riduzione dei costi: l’impresa in concorrenza beneficerà di questa riduzione su una quantità di prodotto maggiore
rispetto ad un’impresa monopolistica.
Nella tesi di Shumpeter, invece, prevale l’argomentazione che la grande dimensione di un’impresa offre di per sé
incentivi maggiori all’innovazione, per ragioni che riguardano la quantità di risorse da destinare all’attività di ricerca.
L’analisi si Shumpeter non porta al classico trade off concorrenza/monopolio, ma implica piuttosto una visione
dinamica che lascia spazio nel breve periodo a forme di potere monopolistico. Inoltre afferma che l’effetto benefico
della concorrenza non deriva dalla concorrenza di imprese esistenti ma, piuttosto, dalla concorrenza potenziale di
nuovi prodotti o processi, che possono distruggere la posizione acquisita dal monopolista.

10. LA DIVERSIFICAZIONE
10.1 DEFINIZIONI E MISURE
Con il termine diversificazione si intende un processo per cui un’impresa caratterizzata da un particolare tipo di
attività produttiva avvia attività economiche diverse da quelle tradizionali, pur mantenendo la propria presenza
nell’ambito originale.
Lo strumento di tale processo può essere costituito dal puro sviluppo interno di nuove attività, da acquisizioni, oppure
da fusioni.
Il processo può essere orizzontale, se riguarda mercati contigui al mercato originario, verticale, se riguarda attività a
valle o a monte nella filiera produttiva, conglomerale, se riguarda attività non connesse fra loro.

La misurazione della diversificazione si fonda sui due concetti:


 Attività prevalente: si individua semplicemente osservando quale attività economica generi per l’impresa il
maggior fatturato.
 Grado di diversificazione: può essere misurato secondo due tipologie:
- La prima, utilizzata dal Census of Manufactures degli Stati Uniti, consiste semplicemente nel rapportare la
quota di attività secondarie all’attività totale. (60,30,10  40/100)
- Il secondo metodo utilizza l’indice HH, ovvero la somma delle percentuali di fatturato di ogni attività,
ponderate per se stesse. (60,30,10  0,6×0,6 + 0,3×0,3 + 0,1×0,1)

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10.2 FATTORI CHE DETERMINANO LA DIVERSIFICAZIONE


Le cause che spiegano la diversificazione sono distinguibili in 4 categorie:
1. Vantaggi nei costi di produzione
2. Vantaggi nei prezzi di vendita
3. Strategie di sviluppo dell’impresa
4. Aspetti finanziari
Possono presentarsi anche congiuntamente.

10.3 EFFETTI SUI COSTI DI PRODUZIONE


Una delle giustificazioni più frequenti per le strategie di diversificazione è la ripartizione dei costi indivisibili su una
più ampia gamma di prodotti (≠ da economie di scala, cioè minori cmu all’aumentare dei volumi di produzione). Es:
settore alimentare, per forti elementi di stagionalità.

10.4 EFFETTI SUI PREZZI DI VENDITA


In generale, il primo vantaggio nei prezzi di vendita ottenibile con la diversificazione riguarda il fatto che mediante
quest’ultima è possibile segmentare la domanda di mercato, e quindi sfruttare, con prezzi differenziati, le differenti
elasticità dei segmenti della curva.

Altri vantaggi sono altrimenti ottenibili con l’uso di due tecniche di vendita:
- Tying sales: il venditore di un particolare prodotto condiziona la vendita di quel prodotto all’acquisto
contemporaneo di un altro prodotto (editore che impone l’acquisto di inserzioni sia sulla testata principale che sulle
sue altre testate minori)
- Bundling sales: offrire un pacchetto con un certo numero di prodotti diversi allo stesso prezzo. (es:
biglietti teatrali per spettacoli diversi a gruppi di consumatori con gusti diversi).

La diversificazione, infine, sotto il profilo delle condotte di prezzo, può consentire i sussidi intergruppo (deep pocket),
ovvero l’estensione di una posizione dominante da un settore all’altro. (un’impresa dominante nel settore A, costituisce
un’impresa nel settore B, poi sovvenziona quest’ultima in modo che possa attuare prezzi predatori, far uscire le altre
imprese dal mercato e diventare infine dominante anche nel settore B).

10.5 STRATEGIE DI SVILUPPO DELL’IMPRESA


Uno dei tipici motivi che spingono l’impresa a diversificare si verifica quando la generazione di risorse prodotte
dall’attività tradizionale supera le esigenze che ha l’impresa per mantenere la competitività in quel settore.
Matrice BCG (tasso di crescita in y, quota o potere di mercato in x):
- Cash cows: buona profittabilità e bassi tassi di crescita. Il cash flow supera le esigenze di crescita e quindi libera
disponibilità da investire in altre attività.
- Stars: alta redditività e crescita.
- Question marks: alto tasso di crescita ma bassa quota di mercato, sono le attività su cui investire.
- Dogs: attività che dovrebbero essere eliminate.
Questo schema evidenzia inoltre il concetto secondo se un’impresa, sia pure di successo, non investe in nuove
produzioni e mercati, è destinata al declino.
(ricorda, in generale, confine incerto tra differenziazione e diversificazione).

10.6 PROFILI FINANZIARI


Sotto il profilo finanziario, la diversificazione solleva questioni che riguardano:
a) Il valore del capitale economico, ovvero le quotazioni delle azioni nel medio-lungo termine.
b) Il costo del capitale di rischio (ke), ovvero il rendimento richiesto dal mercato per le azioni.
c) La crescita, la stabilità del gruppo e le risorse finanziarie.
Primo e secondo aspetto vengono considerati congiuntamente, perché il valore delle azioni è uguale al rapporto tra
il risultato atteso e il rendimento richiesto dal mercato.
Con risultato atteso si intende l’insieme dei risultati che verosimilmente possono determinarsi, ciascuno dei quali ha
una data probabilità la cui somma è uguale a 1. Del risultato atteso si considerano media e deviazione standard (σ).
La teoria finanziaria assume che gli operatori del mercato siano avversi al rischio, ossia che, a partità di rendimento
atteso, essi assegnino all’attività più rischiosa (elevata σ) un valore inferiore e quindi un costo del capitale maggiore.
Un obbiettivo del processo di diversificazione può essere quindi quello di compensare il rischio di un’attività con
un’altra attività, facendo così diminuire il costo del capitale e aumentare il valore delle azioni e dunque dell’impresa nel
suo complesso.

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11. INTEGRAZIONE VERTICALE


11.1 DEFINIZIONI E MISURE
L’integrazione verticale può essere definita secondo due diverse prospettive.
- Secondo il paradigma struttura-condotta-performance il termine integrazione verticale è uno degli elementi
della struttura e indica la misura in cui una singola impresa realizza al suo interno fasi successive della filiera
produttiva.
- Secondo una prospettiva strategica il termine si riferisce alla strategia di un’impresa che decide di muoversi
verso un’altra fase del processo produttivo o distributivo, sia attraverso una fusione (o acquisizione) verticale, sia
avviando al suo interno nuove attività.

Anche per quanto riguarda gl’indici di misurazione abbiamo due opzioni:


- Adelman proponeva come indice il rapporto tra la sommatoria del valore aggiunto e la sommatoria delle
vendite. Tanto più l’impresa è integrata, tanto più alto è l’indice, che al massimo avrà valore 1. Presenta però dei
limiti (vedi libro) perché fornisce differenti risultati a seconda dello stadio in corrispondenza del quale viene
misurata l’integrazione.
- Un’altra famiglia di indici è quella che utilizza le tavole input-output, dalle quali si può desumere quanto
un’impresa dipenda dal mercato, ossia dai produttori degli input e dei beni intermedi.

11.2 CAUSE E OBBIETTIVI DEI PROCESSI DI VERTICALIZZAZIONE


In una prospettiva statica si individuano tre determinanti principali: a) vincoli o economie tecnologiche, (11,2,1); b)
economie di transazione (11,2,2); c) imperfezioni del mercato (11,2,3).
In una prospettiva dinamica, invece, si può considerare l’integrazione verticale come una modalità per acquisire
potere di mercato (11.2.4). Un secondo filone pone l’accento, più che sulle strategie, sugli aspetti dinamici ed evolutivi
dell’integrazione verticale (11.2.5).

11.2.1 Fattori tecnologici


In questo caso l’integrazione riguarda processi produttivi con forti interdipendenze tecnologiche.
Come nel classico esempio dell’acciaio e del ferro, l’integrazione permette di evitare la ripetizione di un’operazione (es:
rifondere il materiale dopo che si era raffreddato) e consente, inoltre, il risparmio su una serie di materiali ausiliari per
la conservazione e il trasporto del bene intermedio. Questi aspetti riguardano soprattutto le economie di tipo “termico”
e le industrie con processi chimici.
Vi sono anche casi di integrazione verticale come un tentativo di sfruttamento economico a valle di particolari
tecnologie sviluppate (es: Polaroid).

11.2.2 Economie di transazione – teoria di Coase e di Williamson


Ronald Coase distingueva tra il coordinamento del mercato e il coordinamento imprendioriale e ad essi erano
associati, rispettivamente, costi di transazione e costi di organizzazione. L’impresa economizza sui costi di transazione
quando:
a) Il meccanismo dei prezzi risulta troppo oneroso e conviene internalizzare le transazioni che in precedenza erano
svolte sul mercato.
b) Una molteplicità di contratti completi comporta costi di negoziazione più elevati di quelli connessi ad un unico
contratto incompleto (es: contratto collettivo di lavoro)
Quindi, l’impresa intraprenderà direttamente delle nuove attività fino al punto in cui i costi di coordinamento interno
dell’ultima attività da internalizzare uguagliano i costi del coordinamento del mercato.

L’approccio di Williamson parte dall’ipotesi che gli attori economici agiscano in condizioni di razionalità limitata
(limitata capacità di prevedere e risolvere problemi) e opportunisticamente (traendo vantaggio dall’opportunità più
vantaggiosa).
Quindi l’organizzazione interna permette di economizzare sia sui costi connessi alla razionalità limitata in tutti quei casi
in cui il sistema non offre un’informazione sufficiente e c’è incertezza, sia sui costi determinati dall’opportunismo delle
parti in un contratto.
Più nel dettaglio, vi sono 4 fattispecie che inducono all’integrazione verticale:
1) Specificità dei beni capitali. Un bene capitale è specifico quando viene realizzato su misura per uno o alcuni
acquirenti particolari; ciò determina una forte dipendenza tra fornitore e acquirente che può spesso portare ad
integrazione verticale. La specificità può riguardare anche il capitale umano (contratti di lavoro vs consulenze). Va
valutata anche la frequenza delle transazioni. Si fa ricorso a integrazione nel caso di elevata specificità e frequenza.
2) Incertezza. Il ricorso al mercato è contraddistinto da incertezza e rischio, soprattutto per quanto riguarda il
fattore temporale (es: tempi di consegna dei fornitori). Per premunirsi le imprese aumentano il livello di scorte,
ma aumentando anche spese di magazzino. L’integrazione verticale permette di arginare questo problema. I rischi
di fornitura sono legati anche alla qualità dei beni, che l’impresa può più facilmente controllare in caso di
produzione interna.
3) Compressione informativa. È difficile stipulare un contratto che dia ad un’impresa fornitrice gli incentivi
adeguati per raccogliere informazioni.

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4) Coordinamento estensivo. L’integrazione verticale facilita un coordinamento ampio, utile soprattutto per le
industrie dotate di reti, come compagnie aeree e ferrovie (la ferrovia ha una domanda di traffico sulle sue linee
principali che dipende molto dallo sviluppo delle linee secondarie).

11.2.3 Imperfezioni dei mercati


Le imperfezioni dei mercati comprendono tutti quei casi in cui i beni vengono venduti a prezzi non competitivi o non
vengono prodotti affatto (incompletezza dei mercati). Le cause di tali imperfezioni sono già citate nella teoria dei costi
di transazione, in particolare l’incertezza e l’asimmetria informativa sono tra le spiegazioni di integrazione verticale più
citate.

11.2.4 Motivazioni strategiche e restrizioni della concorrenza


Già Bain segnalava che l’integrazione verticale, quando non è spiegata da economie legate a complementarietà
tecnologiche dei processi impiegati, è interpretabile in termini di barriera all’entrata. L’integrazione è un
comportamento strategico, quindi, quando ha il fine di escludere dal mercato avversari non integrati, elevandone i
costi, e di impedire l’entrata di nuove imprese, aumentandone i requisiti in termini di fabbisogno di capitale iniziale.
Esistono altrimenti le cosiddette restrizioni verticali, ovvero accordi sanzionati da contratti tra produttori e fornitori
o distributori, volti a ottenere gli stessi effetti dell’integrazione verticale, ma che lasciano indipendenza giuridica e
strategica alle imprese. Tra questi il franchising, il prezzo imposto, le vendite in esclusiva e le vendite abbinate.

11.2.5 Modelli dinamici


Il grado di integrazione verticale di un’industria può variare nel tempo, in funzione della fase del ciclo di vita che lo
stesso settore si trova ad attraversare.
In una prima fase di crescita del settore le imprese tendono a svolgere internamente tutte le attività intermedie e
complementari connesse con la produzione dell’output finale, in quanto il mercato dei prodotti intermedi è limitato
dallo sviluppo ancora modesto dell’industria di sbocco.
Quando l’industria si espande, le imprese tenderanno a disintegrarsi verticalmente specializzandosi nella loro attività
core e a rivolgersi a un oramai sviluppato mercato dei prodotti intermedi.

Capitolo 12
I casi della concorrenza
Il modello di concorrenza perfetta si basa su 5 ipotesi:
 Struttura del mercato atomistica: le imprese sono numerose e ciascuna impresa copre una quota di mercato
talmente piccola da non avere impatto con le altre
 Omogeneità del prodotto: i prodotti offerti dalle singole imprese sono perfetti sostituti
 Informazione perfetta
 Libertà di accesso e uscita dal mercato e mobilità fattori produzione
 Price taking: dato il prezzo di mercato, individua il livello di produzione ottimale, che uguaglia il ricavo
marginale.
Nel lungo periodo il prezzo uguaglia il livello minimo dei costi medi totali.
Queste caratteristiche richiedono poi la perfetta divisibilità della produzione e l’assenza di esternalità e di costi di
transazione(l’impresa sostiene tutti i costi associati alla sua attività di produzione).

Equilibrio di concorrenza
Le curve di offerta del mercato sono rappresentate come la somma orizzontale delle curve di offerta individuali delle
imprese.
Le curve di offerta die fattori produttivi sono perfettamente elastiche.
Inoltre la presenza di rendimenti di scala costanti garantisce che, dopo il raggiungimento della dimensione ottima
minima, tutte le imprese non avranno un incentivo ad aumentare la propria scala produttiva.

Stabilizzazione dei mercati concorrenziali


A poter determinare spostamenti nella curva di domanda devono cambiare o l’elasticità dell’offerta, o i gusti e il reddito
del consumatore.
Questi fattori producono elementi di instabilità nei prezzi e nelle quantità prodotte e rendono più problematico il
processo di convergenza verso l’equilibrio di lungo periodo.
L’instabilità nei prezzi può essere tale da compromettere la sopravvivenza del settore.
per questo l governo introduce un floor price che evita che il prezzo scenda sotto ad un determinato limite.
una soluzione all’instabilità dei mercati concorrenziali è rappresentata dai futures, che attribuiscono al sottoscrittore il
diritto di acquistare o vendere un determinato bene ad una scadenza prefissata.

I mercati contendibili
I mercati contendibili sono quelli senza costi all’ingresso o in uscita( sunk costs), dove gli operatori possono avere
accesso al mercato delle materie prime liberamente.
Se il mercato presenta opportunità di profitto, un potenziale concorrente potrebbe entrare e realizzare un guadagno
prima che i prezzi cambino, e quindi uscire.

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Questa è una dinamica hit and run.

I monopoli
In un mercato caratterizzato da un prodotto per il quale non sia possibile individuare prodotti sostituti, opera una sola
impresa.
La motivazione del monopolio più significativa è quella di monopolio naturale, che riesce a produrre una quantità Q
ad un costo inferiore a quello che caratterizzerebbe la produzione di un numero k di imprese che dividono in parti
uguali la quantità Q.

Equilibrio monopolistico
Il monopolista determina il proprio livello di prezzo e output in funzione della massimizzazione del proprio profitto.
La curva di domanda di mercato coincide con la curva di domanda del monopolista.
Il monopolista ha la possibilità di sfruttare il tratto anelastico della curva di domanda di breve periodo, ma può
decidere di non farlo se questo crea incentivo per i consumatori ad adottare prodotti sostituti nel lungo periodo.

Costi e benefici del monopolio

Con il termine benessere sociale si intende la somma del surplus del produttore e del surplus del consumatore.
Graficamente è rappresentato dalla differenza tra l’utilità totale del consumatore e i costi di produzione.
Il primo effetto del passaggio ad una situazione di monopolio si sostanzia in un trasferimento del surplus del
consumatore al produttore pari al profitto che questo può ottenere applicando il mark-up pm-pc alla quantità Qm.
Il secondo effetto è una perdita per il consumatore che deve rinunciare all’acquisto di un bene.
Questo comporta una perdita totale di benessere sociale, che harberger quantifica così: ½(pm-pc)(qm-qc)
L’elasticità della domanda al prezzo è il parametro determinante della definzione della perdita secca. Si osserva però
che l’effetto dell’elasticità della domanda sulla misura della perdita secca non è sempre determinabile.
Questo pone un limite alla teoria di Harberger e alla approccio dell’equilibrio economico particolare, per cui lungo la
curva marshalliana l’utilità del consumatore non è costante.
Dunque la dimensione dell’equilibrio economico particolare non consente di includere nel calcolo della perdita
secca l’effetto che il trasferimento del reddito monetario al monopolista ha sia sulla quantità domandata di altri
prodotti e sul livello di utilizzo dei fattori produttivi.
Il passaggio a monopolio compromette in ogni caso il pieno utilizzo dei fattori produttivi e si considera costante il
reddito dei consumatori(se il reddito reale dei consumatori aumenta allora si può compensare la variazione di prezzo
imposta dal monopolista).

La teoria di Harberger, anche se con i suoi limiti, rimane comunque la base più utile.
Tullock e Posner affermano che la perdita di benessere è così sottostimata, se non si considerano i costi necessari
all’ottenimento e mantenimento del potere monopolistico.

Il monopsonio
Il monopsonio limita i propri acquisti alla quantità che fa coincidere il costo marginale del fattore acquistato con la sua
produttività marginale.
La restrizione della domanda ha qui l’effetto di ridurre il prezzo e non di aumentarlo, come per il monopolio.
L’area del sovraprofitto del monopsonista è maggiore di zero e si può dividere in:
 Una parte che misura il trasferimento della rendita fra produttori più efficienti e il monopsonista
 Una parte che misura la perdita netta di benessere sociale
L’interesse principale del monopsonista è di conservare una pluralità di fornitori per non creare un monopolio
bilaterale.

La concorrenza monopolistica
Se si abbandona l’idea di perfetta omogeneità dei prodotti rivali, la concorrenza monopolistica ha tutte le
caratteristiche della concorrenza perfetta, tranne quella stategica di differenziazione del prodotto.
Per il modello di Chamberlin:
 Nel mercato ci sono molti produttori e ogni prodotto è sostituto.
 Il numero delle imprese è sufficientemente elevato da generare l’asspettativa che le proprie azioni sfuggano ai
concorrenti.
 La curva di domanda e le funzioni di costo sono le stesse per ogni impresa.

L’abbandono della perfetta omogeneità implica inoltre che la curva di domanda della singola impresa non sia
perfettamente orizzontale( come in concorrenza perfetta).
La curva di domanda è negativamente inclinata e, nel lungo periodo, i profitti dell’impresa attirano nuovi concorrenti.
L’ingresso di nuovi concorrenti erode il profitto dell’incubement, che si annulla.
Se nel modello di concorrenza perfetta, i prezzi uguagliano i costi medi minimi; nel modello del monopolio i prezzi
potrebbero essere maggiori dei costi medi minimi.

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Il monopolio ha poi un margine di capacità in eccesso, dato dalla differenza tra produzione ideale e la quantità
prodotta nel lungo periodo.

14. TEORIA DELL’OLIGOPOLIO. I COMPORTAMENTI COLLUSIVI


14.1 I CARATTERI COMUNI DEGLI OLIGOPOLI
Sotto la denominazione di “oligopoli” si raccolgono forme competitive assai differenziate. Esse però presentano dei
tratti comuni:
1. Scarsa numerosità delle imprese che operano nel settore.
Per la verità, tale condizione non esclude che il numero assoluto delle imprese operanti sia alto, basta che siano
poche le imprese che detengono un certo potere di mercato, ovvero che hanno un certo margine di
discrezionalità nella formulazione delle proprie politiche (imprese leader).
I prezzi in un oligopolio non derivano direttamente dall’equilibrio sul mercato; ciò non vuol dire che le decisioni sui
prezzi siano completamente arbitrarie, anzi questi risentono molto dell’andamento della domanda, tuttavia i
meccanismi automatici del mercato sono sostituiti da singoli centri decisionali, che in genere risultano ben
identificabili.
2. Le singole imprese devono tener conto delle reazioni delle imprese rivali.
Variabile molto importante da considerare è l’elasticità di sottrazione, cioè l’effetto che qualsiasi azione di prezzo
(sia dell’impresa medesima che delle imprese rivali) può avere come conseguenza di variazione delle quote di
mercato.
L’impresa si trova davanti, quindi, non una curva di domanda reale, ma una curva di domanda immaginata, perché
dipende da ipotesi formulabili sul comportamento delle imprese rivali.
3. Le forme di mercato oligopolistiche, come si evince da sopra, sono caratterizzate da un elevato grado d’incertezza.
In più non esistono posizioni di equilibrio competitivo spontanee.

Tali caratteristiche sollevano tre gruppi di problematiche:


- Problemi della formazione e del mantenimento dell’equilibrio oligopolistico.
- Esplorazione della modalità e delle forme di comportamento collusivo.
- Comportamento delle imprese di fronte a variazioni dei costi o della domanda.

14.2 L’EQUILIBRIO NEGLI OLIGOPOLI. FORMULAZIONI TEORICHE


Le costruzioni teoriche sul comportamento degli oligopolisti possono essere ricondotte a due ipotesi:
a) La prima ipotesi si fa risalire a Cournot, e definisce un comportamento indipendente delle imprese: posto in
condizioni di incertezza circa le reazioni delle rivali alle proprie decisioni in materia di prezzi, ciascun oligopolista
agirà assumendo che da parte delle rivali non vi sarà nessuna reazione, tentando quindi di massimizzare il proprio
profitto in modo indipendente. Il saggio di profitto che ne deriva diminuisce all’aumentare del numero di imprese
presenti.
Una variante di questa ipotesi è costituita dal postulato di Sylos: le imprese si comportano come se si
attendessero dai rivali la reazione più sfavorevole, ovvero come se queste ultime tendessero a mantenere invariata
la propria quota di mercato in seguito ad un aumento della quantità offerta dell’impresa che stiamo considerando. È
così possibile individuare un limite superiore ai prezzi praticabili, e un limite inferiore alla produzione complessiva
offerta (?).
b) L’ipotesi di Chamberlin definisce un comportamento opposto: le imprese che operano in un settore in un numero
limitato non possono non rendersi conto che le rispettive performance sono interdipendenti. Ne segue che le
imprese fisseranno un prezzo (monopolistico) che massimizzi i profitti del settore, ripartendo poi fra loro le quote
di mercato secondo tattiche collusive.

14.3 MODALITÀ E FORME DELLA COLLUSIONE OLIGOPOLISTICA


I comportamenti collusivi sono tesi ad eliminare l’incertezza e a impedire che la concorrenza tra le imprese faccia
scendere prezzi e saggi di profitto. Quattro modalità:
1) Accordi formali e informali. Possono riguardare: la formulazione di una politica comune riguardo a prezzi e
condizioni di vendita; la suddivisione del mercato tra competitors (es: per area geografica); l’organizzazione in
cartelli, ovvero la formazione di organizzazioni tese a disciplinare i vari aspetti del processo competitivo.
Il cartello può configurarsi in uno di questi modi:
 Cartello obbligatorio: si assegna a ciascuna impresa una quota massima di produzione. Il cartello può essere
eventualmente integrato da un consorzio centralizzato di vendita, che monopolizza l’intera distribuzione del
settore.
 Cartello di offerta. Si applica nei settori che producono su commessa, e consiste nell’interporre, tra i
committenti e le imprese, un organismo che provveda a raccogliere le ordinazioni e a distribuirle in proporzione
alle quote di mercato storicamente detenute dalle varie aziende. L’obbiettivo è quello di bloccare le singole quote
di mercato eliminando ogni incentivo alla riduzione dei prezzi. Utile in caso di monopsonio.
 Cartello di razionalizzazione. È la forma più rigida di collusione, e consiste nel coordinare i piani di produzione
e le politiche di vendita delle diverse imprese in modo integrato, come se si trattasse di un’unica azienda.

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2) Price leadership. Il gruppo di imprese attribuisce a una singola impresa, o ad un gruppo di imprese leader legate in
un cartello, la funzione di stabilire i prezzi di vendita.
 Price leadership con impresa dominante. Il settore è caratterizzato da un’impresa di vaste dimensioni, che da
sola copre una quota rilevante del mercato, e da un elevato numero di piccole imprese. Le piccole imprese,
quindi, devono seguire le decisioni dell’impresa leader. Quest’ultima a sua volta, nello stabilire le sue linee di
azione deve tener conto non solo della domanda generale, ma anche delle quantità che le imprese di minori
dimensioni offriranno complessivamente al mercato come funzione del prezzo stabilito dall’impresa leader.
 Price leadership barometrica. La struttura in questo caso si presenta in modo meno definito, nel senso che non
sono riscontrabili elementi che spieghino la ragione per cui una particolare impresa assume la leadership nella
formazione dei prezzi. Di regola la spiegazione è da ricercarsi nella storia del settore: l’impresa che ha la
leadership barometrica potrebbe esser stata in passato e per lungo tempo un’impresa dominante, può aver
dimostrato una migliore capacità previsiva della domanda, o, semplicemente, può trattarsi dell’impresa più
robusta sotto il profilo finanziario (scoraggia l’avversario dall’intraprendere guerre di prezzo che perderebbe).

3) Regole empiriche di decisione o punti focali. Hanno origine nell’applicazione generalizzata di schemi
decisionali empirici uniformi. Nel caso di determinazione sulla base dei costi, ad esempio, il comportamento è
sostanzialmente collusivo, anche se non esistono accordi in tale senso tra le imprese. Classico esempio è la gara
d’appalto in cui tutte le offerte “segrete” mostrano prezzi equivalenti: un tale fenomeno può sottendere l’esistenza di
un cartello d’offerta, o, più semplicemente può derivare dal fatto che tutte le imprese adottano la stessa metodologia
per la determinazione del prezzo d’offerta.

14.4 OSTACOLI AI COMPORTAMENTI COLLUSIVI


La collusione ha l’obbiettivo di mantenere il saggio di profitto del settore su livelli monopolistici, ma in concreto non
pochi ostacoli si frappongono alla collusione. Tali ostacoli possono derivare dalla legge (normativa antitrust) o dalle
caratteristiche dell’economia delle imprese che operano nel settore.
In Europa la disciplina antitrust è definita nelle norme degli articoli 85 (incompatibilità con il mercato comune degli
accordi fra imprese suscettibili di limitare il commercio fra gli Stati membri) e 86 (abuso di posizioni dominanti) del
trattato istitutivo del Mercato Comune Europeo. La disciplina della concorrenza nella Cee è quindi più orientata al
comportamento delle imprese che non alla struttura del mercato.
In generale, l’antitrust colpisce casi che presentano simultaneamente queste caratteristiche:
a. La collusione ha manifestazione in un accordo o nel comportamento delle imprese.
b. Le politiche restrittive devono interferire con il commercio tra gli stati membri.
c. Gli accordi devono comportare effetti negativi sulla concorrenza.
Quindi dagli interventi della Cee sono esclusi sia i comportamenti collusivi che hanno effetti limitati ad un ambito
nazionale, sia le collusioni che hanno come obbiettivo il miglioramento delle tecniche produttive e/o di distribuzione.

Altri ostacoli derivano dalle caratteristiche delle imprese, in particolare dai seguenti fenomeni:
 Differenziabilità dei prodotti, ovvero asimmetrie nelle curve di domanda particolari delle imprese. Se il
prodotto non è standardizzabile, un accordo sui prezzi non è sufficiente per bloccare la competizione tra imprese,
che possono competere agendo sulla qualità dei prodotti.
 Asimmetria nei costi di produzione delle varie imprese. Se i costi di produzione non sono al medesimo livello è
molto difficile che i prezzi “preferiti” dalle singole imprese siano uguali.
 Struttura dei costi caratterizzata da elevati costi fissi. Tanto maggiore è la quota dei costi fissi sul totale di
costo di produzione, tanto meno è probabile l’affermarsi di un comportamento collusivo. L’esperienza, in realtà,
sembra smentire tutto ciò: fenomeni collusivi sono assai frequenti nei settori di base dove i costi fissi sono
estremamente elevati (siderurgia, minerali). In generale, gli accordi sui prezzi appaiono solidi quando la domanda
assorbe una quota elevata delle capacità disponibili.

Capitolo 16
Applicazione della teoria dei giochi
La teoria dei giochi fornisce una visione alternativa al problema dell’oligopolio.
Il gioco è un modello stilizzato che riproduce situazioni in cui ogni partecipante considera le decisioni dei rivali.
Gli elementi che definiscono un gioco sono gli agenti, le regole, le strategia a disposizione di ciascun giocatore e i payoff.
Una forma normale di gioco è caratterizzata da:
 Assenza della dimensione temporale
 Insieme di agenti
 Per ogni agente un insieme di strategie pure
 Una funzione di profitto

In ogni gioco esiste poi la strategia dominante, che consiste nella strategia che consente di massimizzare l’utilità,
indipendentemente dalla scelta dell’altro.
La combinazione di strategie dominanti degli agenti si chiama equilibrio di nash.

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Giochi sequenziali
Il gioco sequenziale consiste nel gioco in cui ciascun giocatore può definire la sua strategia di risposta, tenendo conto
delle mosse di chi lo ha preceduto.
Di solito viene utilizzata la forma estesa, detta game tree.
Per risolvere questo gioco si usa il meccanismo dell’induzione all’indietro.

Capitolo 18
La domanda aggregata come fattore di produttività
La legge di Kaldor-Verdoorn
La connessione tra la domanda di mercato e la produttività dell’industria esiste già dalla ricchezza delle nazioni di
smith, dove afferma che la produttività del lavoro è una funzione crescente della dimensione del mercato e dunque
della domanda.
Sulla base della legge di Kaldor è possibile indurre l’esistenza di relazioni dirette di lungo periodo fra la crescita della
domanda e la crescita della produttività.
Dalla legge di Kaldor è possibile rilevare una relazione costante tra la variazione della produttività del lavoro(L) e
del volume della produzione industriale(q).
Il coefficiente di Verdoon si trova di solito in un intervallo tra il 0,3 e 0,6.
l’equazione di Kaldor Verdoorn è: L=a+nq
Kaldor tiene conto:
 Della presenza di economie di scala e di curve di apprendimento
 Della rilevanza delle imprese
 Della presenza del progresso tecnologico
La relazione tra produttività e crescita riguarda prevalentemente l’industria manifatturiera.
Dunque la crescita risulta più forte dove c’è una maggiore presenza di industrie manifatturiere.
Questo, dagli anni di Kaldor, è un concetto che è andato un po’ a scemare e, insieme alle teorie di Solow, si sono aggiunti
diversi fattori alla base del meccanismo di sviluppo della produzione.

Sul modello di Kaldor domanda-produttività-domanda influisce ad esempio la competitività che, qualora nuovi
competitori sottraggano quote crescenti di mercato, può interrompere il modello.

Capitolo 19
La politica industriale in Italia
L’italia fu caratterizzata da un dualismo, per cui, accanto ad un numero ristretto di grandi imprese, convive una
moltitudine di piccole imprese.
La debole struttura dell’industria italiana era meno di altre in grado di provvedere in via autonoma, sostituendo alle
protezioni tariffarie, barriere oligopolistiche.
Per questo si cercò man mano di avviare una nuova programmazione del settore.
I primi tentativi di intervento nell’industria si occuparono di rifornire le industrie dei materiali indispensabili per la
ripresa dell’attività industriale.
Il primo documento di cui si ha notizia è intitolato “ programma delle importazioni essenziali per il 1945).
Di questo fu anche attuata una seconda stesura che, insieme alla prima, non fu in grado di migliorare il sistema.
un tentativo che invece merita menzione fu lo studio effettuato da Saraceno che voleva creare una solida base di
domanda interna per lo sviluppo industriale, con il coinvolgimento della pubblica amministrazione.
Questo finì solo a creare ingenti trasferimenti alle imprese, creando una grande linea di problemi.

Quando Marshal rese disponibili i fondi dell’European recovery program, fu inaugurato il nuovo piano del comitato
interministeriale.
L’obiettivo principale era il riequilibrio dei conti con l’estero, riattivando i settori esportatori.
Questo avvenne con il fondo IMI-ERP che doveva da un lato sviluppare i settori esportatori, dall’altro attivare
meccanismi di trasferimento per guidare lo sviluppo dei settori.
Le esportazioni si svilupparono in maniera rapidissima grazie alla disponibilità di petrolio a costi inferiori del carbone e
al basso costo del lavoro.

A contrastare questo piano di sviluppo c’era la sinistra che, con “il piano del lavoro” del CGIL, miravano ad impostare
come motore dello sviluppo i lavori pubblici e non le esportazioni.

Un’ultima politica industriale importante fu la riconversione bellica all’insegna del non intervento e della
ricollocazione delle risorse produttive affidata ai meccanismi del mercato.
Venne istituito a questo scopo il FONDO INDUSTRIA MECCANICA che somministrava credito alle imprese o acquisiva
partecipazioni.

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La politica industriale nello Schema Vanoni


Con il 1953 si segna la fine del periodo della ricostruzione e dall’obiettivo di espansione delle esportazioni, si passa al
prevalere dell’obiettivo della piena occupazione e dell’attenuazione degli squilibri tra Nord e Mezzogiorno.
Con lo schema vanoni nel 1955 si segnarono dei nuovi obiettivi, come;
 Sviluppo annuo del reddito nazionale del 5%
 La creazione di 4milioni di posti di lavoro
 Riduzione squilibri Nord e Sud
Sotto il punto di vista della strumentazione, lo schema era debole e necessitava di un Comitato per lo sviluppo
dell’occupazione e del reddito, presieduto da Saraceno.

Un effettivo contributo dello schema vanoni sul piano della politica industriale si ebbe nel campo della siderurgia.
Di questo settore si valutò la domanda di acciaio e la stima dell’andamento dell’offerta.
La conclusione del programma è favorevole alla costruzione del nuovo centro e della sua localizzazione nel
mezzogiorno.
Il piano dette luogo infatti al centro siderurgico di Taranto.

Così le politiche di settore iniziarono a prendere forma all’interno dei maggiori gruppo: l’iri si occupava della siderurgia
e meccanica; Eni dell’energia, Fiat per l’automobile.
con la legge 623 del 30 Luglio 1959 si iniziarono anche attività di credito nei confronti di piccole e medie imprese.

La fine della rapida crescita


Dallo schema Vanoni al “programma economico nazionale” del 1965-69 aumentano i costi del lavoro e il timore della
borghesia imprenditoriale a causa della nazionalizzazione dell’energia elettrica.
In questa fase peggiorano i conti con l’estero e c’è un’impennata inflazionistica dell’economia, oltre che la perdita di
competitività all’estero.
Questa situazione, oltre che alla incerta situazione delle industrie statali e di quale ruolo dovessero giocare nel sistema,
portò ad una politica deflativa, che ebbe inizio con la restrizione creditizia nel 1963.

La politica di industrializzazione di questo periodo fu accompagnata da due ordini di riflessioni.


La prima riflessione riguardava gli effetti direzionali della politica monetaria sull’industria, per cui si portò avanti la
tesi che gli effetti della politica monetaria sarebbero più avvertiti dalle imprese di dimensioni minori, che non da quelle
grandi.
La seconda convinzione comporta la necessità di ristrutturazione settoriale dell’industria italiana, per modificarne la
composizione a beneficio dei settori a più alto contenuto tecnologico.

Nasce allora con la legge 170 del 1965 la bandiera della concentrazione, che concedeva agevolazioni alle fusioni di
imprese e alla nascita di colossi nel campo della telecomunicazione.

La crisi dell’Autunno caldo


Si potrebbe sostenere che la strategia industriale italiana avesse tre punti di forza:
 Un costo del lavoro inferiore al livello medio degli altri paesi
 Una favorevole ragione di scambio fra manufatti industriali e materie prime
 Un andamento espansivo della domanda internazionale
Sia il rapporto preliminare al Programma economico nazionale 1971-75 che i successivi documenti prodotti dal
ministero del bilancio e dall’Ispe, mostravano una chiara coscienza della precarietà dei fattori di successo dell’industria
italiana e identificavano delle azioni orizzontali, riguardanti i fattori produttivi e delle azioni verticali, riguardanti
specifici settori, da condursi nel quadro di un programma di promozione.
Il costo del lavoro per unità di prodotto nel 1962-62, subisce un fortissimo aumento e la manovra sui prezzi risulta
essere bloccata dalla stabilità dei prezzi internazionali.
Molti sono i settori che vengono influenzati da questo cambiamento, soprattutto quello metallurgico e tessile.
Di fronte alla crisi la reazione istituzionale consiste nel varo di una nuova legge di sostegno al settore in maggiore
difficoltà, attraverso la legge tessile che, tuttavia, mancava di un riferimento strategico e di piani guida nella
ristrutturazione e riconversione.
Ciò che avvenne fu dunque un flusso di trasferimenti dal settore pubblico alle imprese, senza una vera logica dietro.
Intorno al 1970 la legge tessile si ampliò anche negli altri settori coinvolti, come quello chimico e metallurgico.
La legge 464/1972 mirava soprattutto ad estendere i termini massimi di applicabilità della cassa integrazione
guadagni, per alleggerire i conti economici delle imprese.
Erano poi previste facilitazioni creditizie e tributarie alle imprese che dessero corso ai programmi di ristrutturazione.
La legge erogò meno del 5 per mille degli stanziamenti previsti e questo portò al decadimento della legge stessa.
Diversa fu la situazione per l’industria chimica.
Il piano chimico si articolò in due documenti: in base alla delibera Cipe del 1969 la segreteria della programmazione
affidò all’Ispe il compito di svolgere gli studi necessari alla preparazione di un piano per l’industria chimica, da cui
nacque “il rapporto preparatorio del programma di promozione per l’industria chimica”.
I punti salienti del rapporto sono costituiti dalla previsione di una crescita tendenziale della produzione del 10%.

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I finanziamenti necessari erano 4500 miliardi e i posti di lavoro che si sarebbero creati 190000.
In base al rapporto, il Cipe predispose poi il “progetto di produzione per l’industria chimica di base prima sezione”.
Il piano chimico si tradusse in un grande insuccesso.

La prima crisi petrolifera


Difronte alla lunga crisi attraversata dall’industria italiana il governo era rimasto impassibile, senza poter ne’ attuare
una manovra deflativa, ne’ inflativa.
La crisi petrolifera del 1972 aveva condotto alla fine dei governi di centro sinistra e all’abbandono della politica di
piano nel 1973, ma soprattutto aveva condotto ad una situazione drammatica per i prezzi che, anche grazie
all’introduzione dell’IVA, aumentarono di oltre il 15% nel primo semestre del 1973.
Di fronte a questi fenomeni l’autorità governativa decise di imboccare la via inflativa e di uscire dal serpente monetario,
di fatto svalutando la moneta.
La necessità di controllare la svalutazione della lira, portò però al rialzo dei tassi di interesse, situazione che aumentò
l’indebitamento delle imprese.
Ben presto si capì che i risultati sarebbero stati drammatici e si abbandonò il controllo della moneta.

In questi anni si vede l’aumento dei prezzi internazionali che danno l’avvio ad un ciclo di scorte per cui, sotto la
pressione della domanda, le imprese possono migliorare i propri margini.
Questi ultimi quasi raddoppiano nel corso del 1973, fino ad aumentare anche il volume delle vendite.
Quella che però, nel breve periodo, sembra una politica di successo, si rivela nel lungo problematica.
All’inizio del 1976 la lira si svaluta ulteriormente, i tassi di interesse devono essere ricondotti a livelli elevatissimi e i
margini lordi dell’industria, cadono al di sotto del 2% del fatturato.
Dunque la spirale inflazione-svalutazione colpì più i settori ad alta intensità di capitale, che quelli ad alta intensità di
lavoro.
La flessione dei margini colpì infatti soprattutto i settori della chimica, gomma, carta e tessile.

La crisi del 1975 fu condizionata dalla legge Moro-La Malfa e dalla decisione di Guido Carli di seguire l’esempio tedesco
e creare un forte legame tra le banche e le industrie che, per il sistema italiano, risultò essere troppo radicale e non
funzionale.
Inoltre la proposta di coordinamento della politica industriale e la ristrutturazione del settore, sotto alla supervisione
del CIPI, fu un insuccesso.

La politica dei piani di settore


Alla luce di questa enorme crisi, fu necessario riordinare i meccanismi di credito agevolato con un provvedimento
legislativo, istitutivo di un fondo.
Il provvedimento era in grado di bloccare alcune iniziative, ma non di promuoverne altre.
Le grandi imprese furono in un primo momento escluse dalle agevolazioni ma, nel 1979 furono riammesse agli incentivi
finanziari.

Nel 1976 fu presentato un nuovo progetto di legge che prevedeva:


 L’istituzione di un comitato interministeriale per il coordinamento della politica industriale(CIPI) per lo
sviluppo del sistema industriale
 Lo stanziamento di cospicui fondi di finanziamento in coerenza con gli indirizzi strategici elaborati dal CIPI.
 Il rifinanziamento del fondo di ricerca IMI
 I criteri per favorire la mobilità della mano d’opera

Il CIPI identificò le aree di intervento in sette grandi settori e in tre linee orizzontali per le quali il ministero
dell’industria avrebbe dovuto predisporre programmi finalizzati.
La legge 675 del 1977 doveva occuparsi di coordinare la politica industriale e la ristrutturazione del settore, ma lo fece
in modo lento e deludente per chi si aspettava un intervento taumaturgico e in grado di risolvere i problemi del sistema.

Piani di settore e strategia industriale


La legge 675 segnò il passaggio dal principio della automaticità del regime degli incentivi finanziari, al principio della
discrezionalità.
Dalla legge 675 in poi fu infatti previsto che la validità dell’iniziativa ad agevolare fosse vigilata dal CIPI.
Venivano così formalizzati i rapporti tra governo ed industria attraverso programmi che possono essere scissi in due
momenti principali:
 La fase analitico-conoscitiva: volta ad indentificare la caratteristiche strutturali del settore
 La fase politico-propositiva: volta alla soluzione di specifici problemi dell’industria e a fornire criteri
operativi per la decisione del Cipi.

I piani di settore, che dovevano essere un ponte tra il governo e le industrie, si rivelarono spesso deludenti.

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Il problema principale era dovuto proprio dalla divisione settoriale, in quanto la performance di un settore si spiega
solo parzialmente con fattori interni al settore medesimo.
Ne consegue che se l’analisi è limitata ad un singolo settore, buona parte dei problemi rilevanti ne rimane esclusa.

Solo negli anni 80 finiscono le politiche di piano e iniziano gli interventi a pioggia di incentivi e benefici finanziari.
Le cause di questa svolta possono essere riconosciute in tre categorie principali:
 La constatazione della inadeguatezza dei risultati conseguiti rispetto a quelli attesi, di fronte alla politica dei
piani.
 La crisi delle grandi imprese
 La rivoluzione della scuola di Chicago e il governo di Regan e la Tatcher, resero obsolete le idee alla base di una
programmazione della politica industriale.

In questa fase il CIPI e il CIP non furono più utilizzati e nel 1993 decaddero definitivamente.
Qui si portò avanti una politica di svalutazione del cambio della lira rispetto alle altre valute che, negli anni 90 ebbe
delle ripercussioni disastrose.

Capitolo 20
La crisi della produttività e della crescita
Negli ultimi anni l’Italia rappresenta il caso di un’economia a crescita zero.
Tre sono le scuole di pensiero che si occupano di queste questioni dell’economia:
 La scuola che focalizza l’incertezza, la domanda effettiva, quella aggregata e il moltiplicatore-acceleratore
 La scuola neo-monetarista che si concentra sui mercati
 La scuola che da maggior rilievo alla qualità dell’offerta

Produttività e ristagno
La crisi italiana esiste anche a prescindere della crisi globale a seguito dell’esplosione della finanza creativa.
Gli andamenti del PIL negli anni della crisi del 2008 confermano l’instabilità del paese fuori dalla media.
Il traino esercitato dai consumi sulla crescita della domanda e sulla produttività è decisamente inferiore rispetto alla
dinamica dei principali concorrenti.
La produttività, misurata dal CLUP(Costo del lavoro per unità di prodotto) va ancora peggio.
Per tutti il periodo che va dal dopoguerra in poi, le esportazioni hanno trainato l’economia italiana e, ad oggi,
rappresentano circa il 25% del Pil.
In ogni caso, però, l’Italia è scesa all’ultimo posto nella classifica della produttività pubblicata dall’Ocse.

Le analisi post keynesiane


La prima scuola che studia la relazione dell’andamento della produttività con lo sviluppo, fu Keynes.
Quest’ultimo considerava che la domanda privata o pubblica traina l’offerta attraverso il meccanismo del
moltiplicatore-acceleratore e stabilisce una relazione di segno positivo tra domanda, produttività e sviluppo.
Tale relazione non sussiste quando il sistema si trova in piena occupazione.

Il modello post keynesiano dovuto a Kaldor-Verdoorn sulle relazioni circolare tra la domanda aggregata, la domanda
effettiva e la produttività, definiva il progresso tecnologico come una variabile esogena che determina salti quantici
nella relazione fra le prime due.
In questo modello un incremento della domanda, determina un incremento della produttività/salari/occupazione, che
determinano di nuovo un incremento della domanda.
Assumendo che le altre variabili non cambiano, gli incrementi di produttività si traducono in incrementi del PIL, per
effetto della domanda interna o estera.
Questo conduce ad un circolo virtuoso se le variabili sono in aumento, oppure vizioso se sono in diminuzione.
Il sistema Italia è un caso perfetto per illustrare questa teoria.
Negli anni recenti l’economia italiana cresceva ad un tasso normale, ma all’alba del nuovo secolo, tutto è cambiato e il
circolo virtuoso è diventato vizioso.
Per quale motivo questo sia accaduto è difficile da comprendere, ma sicuramente devono essere esclusi:
 L’introduzione dell’euro
 La bolla immobiliare
 L’attacco alle twin towers
 La variazione dei salari e l’occupazione

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Il ruolo del capitale umano e Solow


Il modello di Solow permette di separare determinanti della crescita dell’output in variazioni incrementali di input,
mentre l’incremento del prodotto che non risulta spiegato dall’incremento dei due input viene attribuito al progresso
tecnologico.
Grazie a Mankiw, Romer e Weil si scoprì poi che se si aggiunge il capitale umano nel concetto di capitale, il modello di
Solow risulta enormemente potenziato.

Dunque l’elemento rappresentato dalla formazione del personale nel determinare la crescita della produttività
riveste un ruolo paragonabile a quello dell’innovazione tout court.

La visione neo-monetarista della scuola di Chicago


Questa seconda scuola afferma che ciò che determina i buoni risultati economici è la concorrenzialità dei mercati.
Il monetarismo della Chicago School deriva il suo nome dai lavori di Irving Fisher sulla teoria quantitativa della moneta.
Il prevalere di questa forma di scuola ha condotto alla deregolamentazione e alla privatizzazione negli anni 80, dando
così grande prominenza alle forze spontanee del mercato.
Se da una parte il processo di una competitività più ampia è stato positivo per l’Italia, che si basa sulle sue esportazioni;
dall’altra il venir meno delle svalutazioni competitive alle industrie esportatrici e a quello che subiscono la concorrenza
delle importazioni, ha ridotto la profittabilità delle attività esposte alla concorrenza e reso più attrattive quelle protette.

Suppy side economics


Questa economia dell’offerta ha rappresentato la reazione intellettuale agli anni bui della stagflazione, dovuta al
dilagare della spesa pubblica in disavanzo e si fonda sull’assunzione che la spesa pubblica produce risultati
decrescenti.
La spesa pubblica italiana ha tuttavia la stessa dimensione e composizione di quella degli altri paesi europei e, proprio
per questo, non ci permette di capire perché l’Italia si trovi in questa situazione.

Rileggendo però gli scritti di Marshall(fondatore di questa scuola di pensiero) è possibile capire che un elemento
importante per lo sviluppo delle nazione è la spesa pubblica per i trasporti e la tecnologia.
Questo elemento era mancante nell’economia italiana e, insieme ad altri elementi l’ha portata a volare più basso.
Gli altri elementi possono essere riassunti in:
 La massa di leggi che continua a crescere: questo avviene in modo esagerato rispetto agli altri paesi europei.
 Il debito pubblico: grazie a questo macigno l’italia è il secondo paese dal debito pubblico più alto e rientra nei
paesi PIGS, posti sotto al controllo dei mercati finanziari.
 Pressioni fiscali: grazie alla vastità della spesa pubblica e all’elevatezza del debito pubblico, Italia e Belgio
sono rientrati nel patto della stabilità, per aumentare la pressione fiscale e ridurre la spesa.
In Belgio questo funzionò, mentre in Italia fu disastroso.
la crescita della spesa pubblica avviene a spese degli investimenti e dei consumi privati, penalizzando i settori a
più elevata produttività.

Dalle riforme degli anni 90 al quindicennio perduto


In conseguenza della grande recessione sia il deficit nel conto con l’estero, che il disavanzo pubblico, è peggiorato.
L’Italia è entrata nella crisi del 2008, già con molti problemi intrinsechi e nella prima fase della crisi le condizioni della
nostra finanza pubblica hanno fatto si che la preoccupazione di non compromettere lo standing creditizio del paese
sul mercato avesse il sopravvento sulla necessità di condurre politiche fiscali anticicliche in sostegno alla domanda e
alla competitività.
Questa prima mossa ha avuto successo per tre motivi:
 Gli altri paesi deboli si sono trovati nella stessa situazione
 Il sistema bancario italiano è risultato meno compromesso nelle attività di speculazione immobiliare
 Il livello dei tassi internazionali è sceso
La crisi del 2008 fu la testimonianza che l’Italia aveva imparato dagli errori della crisi del 1974.
Gli errori possibili si ridussero infatti a 4 campi:
 Spesa pubblica e infrastrutture: la severa cura a cui la stabilizzazione della moneta ha sottoposto il settore
privato deve essere estesa alla spesa pubblica.
 Debito e patrimonio pubblico: la politica delle privatizzazioni in un primo momento aveva ridotto il debito
pubblico, ma poi la situazione è rimasta statica.
 Concorrenzialità dei mercati: mentre i costi unitari del lavoro e le retribuzioni sono aumentati più di quanto
sia successo per i nostri competitors, il potere d’acquisto per le famiglie italiane è diminuito.
 La reazione di fronte all’allungamento della vita media: il numero di pensionati è cresciuto rispetto al
numero dei lavoratori attivi.

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Capitolo 22
Le privatizzazioni
Nei paesi europei del post prima rivoluzione industriale, la proprietà statale costituì una soluzione per il problema dei
monopoli naturali.
A differenza degli stati uniti, dove si preferì la regolamentazione e la concessione a privati per lo sviluppo delle grandi
industrie, in europa si preferì la statalizzazione delle imprese sia per correggere le market failures, che per sostenere
l’occupazione.

L’esito delle nazionalizzazioni fu nel complesso negativo in quanto i costi di intervento crebbero a dismisura con
produttività decrescenti, inducendo deficit che alimentavano la stagnazione e l’inflazione.
Con la crisi petrolifera del 70 si diede un colpo di grazia alle politiche statalistiche europee.

Con la nomina di Maragaret Thatcher e lo slogan: “lo stato è il problema, non la soluzione”, si inverte il corso della
statalizzazione e inizia un periodo di privatizzazione, che comincia dalla british telecom.

In Italia la situazione della statalizzazione era stata caratterizzata da una scarsità del capitale di rischio, dalla
dipendenza dalle banche e dalle sovvenzioni statali che la costrinsero a ricorrere alla banca universale(raccoglie
depositi e li converte in investimenti a lungo termine).
Questo stretto legame tra industrie e banche portò nel 1933 al rischio del crollo dell’intero sistema bancario che spinse
lo stato a creare l’Iri e a diventare proprietario delle maggiori imprese e banche italiane.
Le imprese erano caratterizzate dalla partecipazione statale, il che teneva slegato il management e quindi c’era la
separazione tra proprietà e controllo.
Negli anni 60 l’equilibrio dato dai discreti margini di profitto, i tassi di interesse bassi e la raccolta di ingenti capitali, si
incrina.
con la crisi degli anni 70 l’Italia entra definitivamente in crisi.
In queste condizioni l’autonomia del management divenne insostenibile.
fu coniata la definizione “oneri impropri” come espressione dei maggiori costi che l’impresa doveva sostenere in
natura della sua natura pubblica.
Furono anche riconosciuti gli azionisti occulti, ossia le segreterie dei partiti che esercitavano il controllo delle imprese
senza alcuna trasparenza.
negli anni 80, l’infeudamento delle imprese a partecipazione statale era esplicito e disastroso, in quanto il potere
effettivo detenuto dalle segreterie dei partiti risultava scisso dalla responsabilità.
L’agonia del sistema continuò fino alla nomina di guido carli come ministro del tesoro.
Guido Carli era un stretto osservante dei principi di Ropke e del liberalismo moderno.
Si batté contro il neocorporativismo per stabilizzare la moneta e concludere l’esperienza delle imprese statali( 9 marzo
1990 via alle privatizzazioni).
Inizialmente furono rese private le società per azioni con caratteristiche adatte al collocamento delle azioni al
pubblico(ENEL;ENI).
Sulle imprese dell’IRI si agì invece con lo spinoff, ossia la vendita separata delle capogruppo settoriali.

Gli obiettivi da mantenere in questo processo erano 6:


 Risanare il bilancio e il debito pubblico, mediante i proventi delle vendite di azioni
 Allargare il mercato azionario
 Favorire l’afflusso di capitali dall’estero
 Introdurre maggiore concorrenza nell’economia di mercato
 Eliminare l’influenza esercitata dall’azionista occulto
 Creare l’indispensabile consenso politico per i compiti più difficili, come la privatizzazione delle ferrovie.
I primi 4 obiettivi furono rispettati.
Nel processo di privatizzazione delle banche le fondazioni ebbero un ruolo importante.
La governance delle fondazioni era tuttavia controllata dagli enti locali e quindi dai partiti politici.

7. LA CONCENTRAZIONE DELL’OFFERTA. MISURAZIONE, CAUSE E EFFETTI.

7.1 INTRODUZIONE
Il punto di partenza delle analisi di economia industriale è la definizione del grado di
concentrazione che caratterizza e determina la struttura dell’industria.
Si intende un tipo di concentrazione orizzontale, quindi distinta da fenomeni di integrazione o di
concentrazione globale.
Un’industria è concentrata se il numero n di imprese in essa operanti è piccolo; a parità di n il
grado di concentrazione cresce all’aumentare della variabilità delle dimensioni, in particolare

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quando una larga porzione di qualche aggregato è detenuto da una piccola porzione di unità
produttive e decisionali, la quale domina l’aggregato.
Lo scopo di un indice di concentrazione è prevedere il comportamento potenziale delle imprese
operanti, con riguardo a quanto queste riescano a fissare un prezzo di mercato superirore al costo
marginale.

7.2 MISURE STATISTICHE DELLA CONCENTRAZIONE


La costruzione di un efficace indice di concentrazione (0,1) pone numerosi problemi:
a) La scelta della variabile da porre a misura della dimensione: vi sono le seguenti alternative:
1. Le vendite o le quantità prodotte: tale scelta dà rilevanza alla domanda ma non tiene conto
delle eventuali integrazioni verticali (per le quali più opportuno è il valore aggiunto).
2. Il numero degli occupati e il capitale investito: non idonea perché riflette piuttosto
caratteristiche del sistema produttivo (labour o capital intensive)
3. Gli immobilizzi: vi sono problemi di valutazione e comunque non idonea a riflettere
univocamente il grado di concentrazione.
b) La definizione dell’aggregato di riferimento: oltre a dover individuare il criterio economico più
adeguato per la definizione dell’ambiente competitivo, è necessario anche delimitarlo
territorialmente.
c) La scelta dei metodi di misura più adeguati: problema che si pone per la duplice dimensione
della concentrazione (numero di imprese e distribuzione per dimensione). Si distinguono:
1. Indici di concentrazione assoluti: legati sia al numero delle imprese che alle rispettive
quote di mercato.
2. Incidi di concentrazione relativi: misurano unicamente la dispersione delle quote.

Si può disegnare la curva di concentrazione mettendo sull’asse delle ascisse il numero di imprese
cumulate a partire dalla più grande e sulle ordinate la percentuale cumulata dell’output.
Le curve sono tutte concave verso il basso, o al limite sono delle rette nel caso di imprese tutte di
uguali dimensioni.
Criteri di lettura delle curve di concentrazione:
a. Criteri di classificazione: n’industria è più concentrata dell’altra se la sua curva di
concentrazione giace, per ogni suo punto, al di sopra della curva dell’altra.
b. Principio di trasferimento delle vendite: il trasferimento delle vendite da una piccola a una
grande impresa causa un aumento di concentrazione che si traduce in un rigonfiamento della
curva.
c. Condizioni di entrata: l’entrata di una piccola impresa porta ad una diminuzione della
concentrazione, mentre l’ingresso di un nuovo concorrente di elevate dimensioni può tradursi
in un aumento della concentrazione.
d. Condizioni di fusione: una fusione porta ad un aumento della concentrazione, essendo
scomposta in un trasferimento delle vendite da grande a piccola e in un uscita di un’impresa dal
mercato.
(*grafico alla fine)

7.3 INDICI DI CONCENTRAZIONE ASSOLUTA


Definiamo alcune variabili:
Output totale dell’industria: X = Σ xi  quota dell’impresa i-esima: si = xi / X
Indice di concentrazione assoluto: C = Σ hSi si
Con hSi che rappresenta la ponderazione attribuita alle quote di mercato delle imprese
Indice di Hirschman−Herfindahl  HH = Σ si2
Propone una ponderazione uguale alla quota di mercato stessa (hSi = si), così da dare maggiore
rilevanza alle imprese che detengono una quota maggiore. Per converso, il valore dell’indice risente
troppo poco della presenza di imprese di piccole dimensioni.
Invertendo l’indice (1/HH) si determina il numero di imprese di uguali dimensioni equivalente al
grado di concentrazione calcolato.

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Entropia  E = Σ si ln(1/si)
Termine mutuato dalla fisica, determina la grandezza del disordine. È quindi una misura inversa
della concentrazione, in quanto ad un minor numero di imprese presenti e/o alla presenza di poche
grandi imprese dovrebbe corrispondere un minor grado di incertezza e quindi di disordine.

Tra i due metodi l’indice HH è il più utilizzato, per la sua semplicità.


Il campo d’applicazione più frequente è quello delle procedure di valutazione attivate dalle autorità
di tutela della concorrenza sulle operazioni di fusione e di acquisizione.
Altro campo d’applicazione interessante è quando l’indice di concentrazione viene utilizzato da un
regolatore che cerchi di indirizzare una particolare industria verso il grado di concentrazione che
porti i livelli di performance più efficienti (industria elettrica inglese anni ’90)

7.5 INDICI DI CONCENTRAZIONE RELATIVA


Non tengono conto del numero, in valore assoluto, delle imprese.
Trovano la loro rappresentazione sintetica nella curva di Lorenz: percentuale cumulata dell’output
dell’industria sull’asse y, percentuale cumulata delle imprese disposte in ordine crescente sull’asse
x.
La curva è concava verso l’alto, sarebbe una retta (OT) se tutte le imprese avessero uguale
dimensione.
 Coefficiente di Gini ,è il rapporto: area compresa tra il grafico e la retta OT / tutta l’area
sottostante alla retta OT. Più aumenta la disuguaglianza, più aumenta l’area compresa tra retta
OT e grafico, più aumenta il coefficiente di Gini.
 Coefficiente di variazione, è il rapporto tra la deviazione standard della dimensione di ciascuna
impresa dalla dimensione media dell’industria (radice di varianza) e la dimensione media.

7.5 I PROCESSI DETERMINISTICI


È uno dei processi atti ad individuare le origini della concentrazione in un determinato mercato.
Questo approccio sottolinea il carattere originario del fenomeno per cui in un dato mercato e in un
dato momento le condizioni di costo e di domanda saranno tali da spingere le imprese a muoversi
con azioni deliberate verso un livello di concentrazione d’equilibrio. La concentrazione, quindi,
varia al mutare delle condizioni tecnologiche o di costo e delle condizioni di domanda. Le economie
di scala sono un fattore centrale nella determinazione di crescenti livelli di concentrazione.

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LAC1 è la curva di costi medi di lungo periodo nella situazione di partenza. Il livello di
concentrazione sarà determinato dal numero di imprese presenti e dal rapporto x1/D1.
Se un cambiamento tecnologico provoca un abbassamento della curva dei costi fino a LAC2,
aumenta la dimensione ottima minima, diminuisce il prezzo di equilibrio concorrenziale (da p1 a p2)
ed aumenta la quantità domandata, fino a D2. Se l’aumento della quantità domandata è minore
dell’aumento del livello della scala di produzione ottimale la concentrazione dell’industria
aumenterà.

Questa teoria ha dei limiti:


- Il primo risiede nel fatto che abbiamo ipotizzato una curva di costo medio di lungo periodo a U,
mentre solitamente ha una forma a L. Considerando una curva a L le economie di scala
determinerebbero solo il livello minimo di concentrazione, se calcoliamo questo tramite il numero
di imprese e il rapporto x1/D1 (con x1 = Dom).
- Il secondo limite risiede nel fatto che l’ipotesi di un raggiungimento di un equilibrio di
concorrenza con p=mc è una semplificazione.

7.6 I PROCESSI STOCASTICI


L’approccio in esame si basa sull’ipotesi che la struttura di un mercato, e quindi il suo livello di
concentrazione, sia frutto di un processo stocastico, ovvero casuale.
In teoria la probabilità di cambiamenti indotti da eventi casuali dovrebbe essere uguale per tutte le
imprese e indipendente dalla dimensione di dette imprese, quindi gradualmente le imprese
dovrebbero raggiungere tutte la stessa dimensione (distribuzione Gauss-Laplace)
In realtà però si osserva una distribuzione asimmetrica delle dimensioni delle imprese e questo è
dovuto alla legge dell’effetto proporzionato: tutte le imprese hanno la stessa probabilità di una
crescita percentuale, quindi eventi casuali influenzano la dimensione della singola impresa con la
stessa probabilità ma con tassi di crescita reali diversi.

7.7 POTERE DI MERCATO, CONCENTRAZIONE ED ELASTICITÀ DELLA DOMANDA


Assumendo in via semplificata che le performance di un settore siano misurate con il tasso di
profitto, si può dimostrare che questo dipende da: 1) l’elasticità della domanda; 2) la
concentrazione dell’offerta; 3) le condotte collusive.

Si definisce potere di mercato il rapporto tra il margine di profitto e il prezzo


 Indice di Lener: L = (p−MC)/p [ con funzioni di costo non omogenee diventa Σ si (p−MCi)/p ]
Quindi l’indice di Lener è la media ponderata dei margini di profitto delle imprese di un settore.
Per un industria nel suo complesso L = 1/ε

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Considerando che p = f ( q1 + q2 + … + qn) e che il profitto di ogni impresa è π = pqi − ciqi


Le variazioni di margine di profitto di ogni impresa dipendono non solo dalla differenza tra prezzo
e costo di produzione, ma anche dalla variazione della quota di mercato, cioè dalla reazione delle
imprese a decisioni assunte dall’impresa.

Si possono immaginare due situazioni sotto questo profilo:


Se le imprese non tengono in considerazione le reazioni delle imprese rivali (o perché in
equilibrio di Nash, o perché si considerano “date” le decisioni dei competitori, o perché le imprese
sono legate da un cartello)  L = HH / ε
Quindi l’indice HH diviso per il valore assoluto dell’elasticità esprime la media ponderata dei
margini di profitto delle imprese.
Se invece le imprese sono consapevoli della possibilità che le loro azioni possano provocare una
variazione della condotta delle altre imprese, l’indicatore del potere di mercato diviene
 L = (1+λ) / nε dove n è il numero di imprese, mentre λ rappresenta la congettura che
l’impresa i-esima formula sulla reazione che la sua variazione della quantità provocherà sulla
variazione della quantità offerta dalle altre imprese.

*grafico curve di concentrazione:

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8. BARRIERE ALL’ENTRATA

8.1 DEFINIZIONI DELLE BARREIRE ALL’ENTRATA


Se la concentrazione riflette il numero di rivali effettivi, le barriere all’entrata indicano i potenziali
concorrenti. Nel capitolo si segue l’impostazione di Bain, ma è opportuno dare definizioni diverse:
1. Per alcuni autori, come Demsetz e Brozen, le barriere all’entrata si limitano a vincoli di
natura istituzionale, ovvero vincoli di natura regolamentativa (concessioni, licenze, permessi)
o proprio di natura istituzionale (sistemi fiscali, dazi doganali, ecc.). Ognuno di questi vincoli,
rappresentando un costo operativo, è considerato barriera all’entrata. (es: licenza taxi)
2. Una seconda definizione, suggerita da Stigler, individua come barriera all’entrata qualunque
elemento che comporta un costo per i nuovi entranti, ma che non comporta un costo
equivalente per le imprese già presenti. (ad esempio Stigler definirebbe i costi del trasporto
internazionale come barriera all’entrata, perché le imprese estere sono svantaggiate rispetto a
quelle nazionali, ma non definirebbe barriera le licenze per i taxi).
3. Secondo Bain, invece, le barriere all’entrata misurano di quanto nel lungo periodo le imprese
già sul mercato possono alzare il prezzo di vendita al di sopra dei costi medi minimi di
produzione e distribuzione senza indurre l’entrata di potenziali concorrenti. Quindi è l’effetto
potenziale della barriera a definire la sua natura. Questa è la definizione più ampia perché tiene
conto anche delle economie di scala.
Il prezzo di esclusione è il prezzo più che le imprese attive possono stabilire senza attirare
l’entrata di nuove imprese.
Importante il concetto di condizione d’entrata, che misura l’altezza delle barriere all’entrata,
perché è definito come il mark-up o il margine percentuale massimo realizzabile al disopra del
costo medio minimo dalle imprese già presenti.

8.2 DETERMINANTI DELLE BARRIERE ALL’ENTRATA


Consideriamo adesso le barriere all’entrata di tipo assoluto, ovvero indipendenti dalle
aspettative delle imprese entranti e dalle reazioni delle imprese incombenti. 3 tipi:
1. Le economie di scala costituiscono una barriera all’entrata importante quando la dimensione
ottima minima di produzione è elevata rispetto alla dimensione del mercato

In un mercato di ampiezza OM, possono operare solo tre imprese che producano una quantità
OB ciascuna. Se un’impresa desidera entrare anch’essa alla dimensione ottima minima, dovrà
sperare in un’espansione successiva del mercato oppure strappare una grossa fetta di mercato
dalle imprese già attive, sostenendo comunque inizialmente gravi perdite. Potrà, altrimenti,
entrare ad una dimensione minore di quella ottimale, comunque sperando in un’espansione
successiva del mercato, in questo caso l’entità delle perdite è misurata dalla pendenza iniziale

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della curva (più sarà pendente, maggiori saranno i costi di produzione per una dimensione
inferiore rispetto alla Dom, maggiori saranno le perdite).
2. I vantaggi assoluti in termini di costo si verificano quando i nuovi entranti devono sostenere
costi unitari di produzione maggiori delle imprese già presenti, a prescindere dalla dimensione
produttiva. Possono derivare da una molteplicità di fattori: tecniche produttive superiori,
accesso ai fattori produttivi a prezzi e/o condizioni più favorevoli, risorse naturali meno
costose (miniere), maggiori disponibilità liquide, ecc.
3. Con differenziazione del prodotto si intende la preferenza dei consumatori nei confronti dei
prodotti già presenti sul mercato. Una buona reputazione associata ad un marchio, ad esempio,
permette all’impresa di applicare prezzi superiori ai costi unitari di produzione, senza attirare
nuovi entranti; la nuova impresa sarà quindi costretta ad applicare prezzi sostanzialmente
inferiori, oppure a sostenere elevati costi di produzione.

Conclusioni:
 Le economie di scala sono una causa frequente di barriera, ma configurano barriere basse,
perché sono pochi i settori in cui la Dom è elevata rispetto alle dimensioni del mercato.
 I vantaggi assoluti di costo non sono in genere causa di alte barriere, con l’eccezione di quei
settori in cui sussiste il fenomeno dell’integrazione verticale. Importante anche la presenza di
brevetti e il fabbisogno di capitale.
 I vantaggi da differenziazione del prodotto sono una causa frequente di barriere all’entrata e
sono in grado di generare barriere molto alte.

8.4 BARRIERE TECNOLOGICHE


Un’altra barriera importante è la superiorità tecnologica protetta da brevetti o altri diritti su opere
dell’ingegno. La finalità dei brevetti e dei diritti d’autore è quella di fornire un incentivo
all’innovazione, assicurando una protezione che consenta di remunerare le risorse impiegate per lo
sviluppo della stessa innovazione, in particolare i costi di ricerca e sviluppo.
La protezione legale conferisce un potere di monopolio all’innovatore, il che comporta un costo
sociale in termini di efficienza. Si configura spesso un trade off tra inefficienza e incentivo
all’innovazione.

8.5 BARRIERE ALL’USCITA. PREZZO DI ELIMINAZIONE


Le barriere all’uscita sono fattori economici, strategici ed emotivi che trattengono l’impresa nel
mercato anche se la redditività è bassa o negativa. Sono di solito dovuti alla presenta di sunk costs,
contratti di lavoro di lungo termine per i dipendenti, contratti di fornitura già in essere,
interdipendenza con altre attività della stessa impresa. Spesso l’esistenza di alte barriere all’uscita
costituisce, paradossalmente, oggetto di considerazione in fase d’entrata.
Il prezzo di eliminazione è quel prezzo in corrispondenza del quale uno o più concorrenti sono
indotti a sospendere la produzione e uscire dal mercato. Ciò avviene qualora i prezzi correnti non
consentano di coprire il costo variabile.
Esistono poi strategie che un’impresa forte può mettere in atto per costringere alla ritirata le
imprese che sono appena entrate nel mercato; si tratta di strategie dei prezzi predatori o di
eliminazione: si fissa in una prima fase un prezzo molto basso, abbassandolo al di sotto dei costi
marginali o dei costi variabili medi, per poi rialzarlo una volta che i rivali hanno abbandonato il
mercato.

8.6 IL MODELLO BSM


Siamo ora in un contesto dinamico, si parla quindi di barriere relative, ovvero le barriere che si
determinerebbero in seguito all’incremento di offerta determinato dall’entrata di nuove imprese.
Nel modello BSM (Bain, Modigliani, Sylos Labini) si assumono determinate ipotesi:
- Le imprese entranti prendono le loro decisioni supponendo che gli incumbent reagiscano
all’entrata non variando i loro livelli di produzione.
- L’offerta al tempo t = 0 è costituita da una sola impresa o da un cartello di imprese.

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- Non vi è differenziazione tra il prodotto delle imprese già presenti (qi) e quello delle imprese
entranti (qe).
- La domanda di mercato è costante nel tempo.
Fatte queste assunzioni, il prezzo limite è la differenza tra i costi medi/marginali delle incumbents
e delle nuove entranti, più il sovrapprezzo che può essere applicato senza attirare nuove entranti.

8.7 BARRIERE ALL’ENTRATA IN UN CONTESTO DI CONCORRENZA DINAMICA


In un contesto dinamico è necessario:
- Rimuovere l’ipotesi dell’invarianza della domanda, definendo g il tasso medio annuale della
crescita attesa della domanda di mercato.
- Introdurre il concetto di tempo di reazione, R, che corrisponde al tempo impiegato da un nuovo
concorrente per allestire una capacità produttiva.
A questo punto, si può formulare l’equazione:
(1 + g)R = (qi + qe)/qi  crescita della domanda = crescita dell’offerta, da cui
qe = qi [(1 + g)R – 1]

Ponendosi ora nella prospettiva dell’impresa incombente, le alternative possono essere:


a) Fat cat: mantenere i profitti al più alto livello possibile non curandosi dell’entrata.
b) Lean ad angry: contenere i profitti applicando un prezzo più basso del prezzo limite, ritardando
in questo modo l’entrata di nuovi concorrenti il più possibile.
E indipendentemente da a) e b):
c) Top dog: investire in capacità produttiva o nella differenziazione del prodotto per ritardare il
più possibile la condizione d’entrata.
d) Puppy dog: contenere gli investimenti per massimizzare il profitto e quindi presentarsi
alternativamente come aggressivo o accomodante nei confronti dei nuovi entranti.

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Puppy dog è la più accomodante. Le strategie Lean ad angry e Fat cat cercano di ritardare l’entrata
attuando, rispettivamente, una strategia di prezzi bassi e elevati investimenti in differenziazione e
capacità produttiva. Top dog, attuando entrambe queste ultime due strategie, si presenta come la
strategia più ostile all’entrata di nuovi concorrenti.

13.1 LE POLITICHE DI PREZZO

13.1 LA FORMAZIONE DEI PREZZI


I prodotti e i relativi mercati possono essere classificati in due grandi categorie:
 Commodities, ovvero le merci non differenziate  imprese price taker
 Products o Customs, prodotti differenziati  possono essere sia price taker che price maker.

Mentre per le imprese price taker l’equilibrio è assicurato dal fatto che le variazioni del prezzo
aggiustano le quantità fino a raggiungere l’uguaglianza di domanda e offerta, nelle imprese price
maker si pone il problema di come formare il prezzo. Problema scomposto in due profili:
- Tecniche di formazione di dei prezzi, ovvero i criteri.
- Strategie, cioè le finalità che le imprese intendono raggiungere attraverso le politiche di
prezzo.

Un’indagine di Hall e Hitch dimostrò come spesso gli imprenditori hanno scarsa familiarità con i
concetti che caratterizzano la teoria del prezzo (es: costi e ricavi marginali).
Perciò il metodo più utilizzato è il full cost pricing, ovvero applicare un mark up ai costi di
produzione imputabili al prodotto sufficiente a coprire i costi non direttamente attibuibili al
prodotto e a far conseguire un margine di profitto “normale”. Presenta una serie di variazioni:
1. Gross margin: si applica un mark up ad un solo costo di produzione, ad esempio gli acquisti
(si riscontra prevalentemente nel commercio)
2. Roi pricing: si applica un mark up con un preciso obbiettivo di rendimento sul capitale
investito.
3. Flexible mark up: è solo un’indicazione, il prezzo vero e proprio si decide considerando le
reazioni dei concorrenti.
4. Direct costing: ci si limita a calcolare il costo diretto di una produzione, affidando al
marketing la scelta della combinazione prezzo-qualità-pubblicità che ottimizzi il risultato
complessivo.

13.2 GLI OBBIETTIVI DELLE POLITICHE DI PREZZO


L’obbiettivo che solitamente si associa alle politiche di prezzo è la massimizzazione del profitto, ma,
come abbiamo visto, gli imprenditori sono piuttosto orientati al raggiungimento di un profitto
“normale”. Ciò può essere in parte spiegato dagli orizzonti temporali presi in considerazione:
mentre l’orizzonte è istantaneo quando consideriamo una situazione di massimizzazione di
profitto, normalmente l’imprenditore tende a massimizzare il valore dell’impresa, che risulta dal
flusso attualizzato dei profitti che verranno conseguiti. Questi ultimi sono funzione anche della
sostituibilità dei prodotti nel breve e lungo periodo, del prezzo di questi prodotti sostituti,
dell’eventualità dell’entrata di nuovi competitors, ecc.

13.3 OBBIETTIVI DI SPECIFICHE POLITICHE DI PREZZO


Politiche di prezzo per obbiettivi diversi dal raggiungimento di un profitto “normale”:
a) Vintage pricing. Prezzi che consentano di recuperare nel più breve tempo possibile il capitale
impiegato per lo sviluppo del prodotto. Tale periodo è detto payback period [ PBP = 1/(p-c)q ].
La logica è quella di cautelarsi contro il rischio che nuovi concorrenti entrino nel mercato,
prima che l’investimento venga recuperato, facendo si che il prezzo si abbassi eccessivamente.
b) Prezzi di penetrazione. Prezzi inferiori al prezzo di equilibrio per facilitare la diffuzione di un
prodotto. Utilizzata quando il prodotto deve scalzarne un altro, o in presenza di costi fissi molto
elevati e rilevanti economie di scala.

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c) Prezzi limite. Consistono nel fissare un prezzo e una corrispondente quantità di produzione in
modo che la domanda residuale per le altre imprese sia uguale a zero (vantaggi assoluti nei
costi e “postulato di “Sylos”).
d) Prezzi discriminatori. Sfruttano i diversi valori dell’elasticità nelle curve di domanda di
diversi tipi di consumatori, la cui somma costituisce la domanda di mercato. La discriminazione
può essere temporale (cinema, dvd, tv), spaziale se i prezzi vengono discriminati per area
geografica, oppure per categoria di clienti (es: tariffe a due stadi, con una parte fissa e una
variabile).
e) Prezzi predatori. Praticare prezzi tali da eliminare o escludere i concorrenti, per sfruttare la
posizione dominante una volta raggiunto l’obbiettivo.

L’impresa comincia a produrre q* facendo scendere i prezzi a p*, ossia ad un livello inferiore ai costi
di produzione. L’impresa predata fa sendere la produzione fino a qe per minimizzare le perdite.
L’impresa predatoria avrà una perdita pari all’area B.
La ratio delle politiche predatorie, però, consiste nel ritenere che la rendita monopolistica
conseguente all’eliminazione delle imprese predate sia maggiore delle perdite sostenute nella fase
di predazione.

13.4 VENDITE CONNESSE (BUNDLING) E VENDITE TRAINATE (TYING)


Bundling puro: l’impresa subordina la vendita di un bene alla condizione che il cliente acquisti
contemporaneamente anche un altro prodotto o servizio.
Bundling misto: il venditore offre un’alternativa tra acquistare separatamente i singoli beni
oppure acquistarli congiuntamente ad un prezzo scontato.
In ogni caso i beni abbinati sono offerti in proporzioni fisse. (es: quotidiani e inserti)
Tying sales: acquistando il prodotto primario, definito trainante (tying product), il cliente si
impegna ad acquistare dallo stesso venditore un secondo bene, trainato o legato (tied product).
L’impegno può avere natura contrattuale o tecnologica. (es: fotocopiatrici, toner)
Nelle vendite trainate la proporzione tra beni abbinati e generalmente variabile.

Le motivazioni legate all’efficienza


Bundling e tying sales possono generare effetti socialmente desiderabili.
Dal lato del consumatore  assemblare i singoli componenti potrebbe essere più oneroso e
complicato per il cliente che per il produttore (es: cucina); inoltre assicura al cliente il vantaggio
dell’acquisto in un’unica soluzione (one-stop-shop-effect).
Dal lato del produttore  queste pratiche permettono lo sfruttamento di economie di ampiezza e
di gamma nella fase di produzione o distribuzione. I risparmi possono essere sostanziali e, almeno
nei contesti più competitivi, sono trasferiti al consumatore in termini di prezzi più bassi. Altra
ragione: preservare la reputazione dei propri prodotti (es: automobile, pneumatici).

Bundling e discriminazione del mercato, modello di Stigler

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Il bundling può avere l’effetto di separare i consumatori in gruppi omogenei, consentendo al


venditore di estrarre una maggior porzione della loro rendita.
Siano A e B due beni distinti, e valgano le seguenti ipotesi:
- Il venditore conosce perfettamente le preferenze dei consumatori.
- Non è possibile una discriminazione di prezzo (vendere a prezzi diversi lo stesso bene).
- I costi di produzione dei due beni siano uguali e costanti al variare della produzione
(nell’analisi sono considerati pari a zero per semplicità).
Vendendo i due libri a 80 euro solo il gruppo 1 e il gruppo 2 effettueranno acquisti, per un profitto
complessivo di 16.000 euro. Se invece i libri vengono offerti in blocco (bundle) a 80 euro, anche il
terzo gruppo sarebbe disposto ad acquistare, per un profitto complessivo di 19.200 euro.
La condizione necessaria affinchè la discriminazione sia efficace e profittevole è che le
preferenze relative siano inverse tra i differenti gruppi di clientela.

Il modello di Adams e Yellen


Il modello di Stigler ha dei limiti:
- Pochi gruppi di consumatori e ben identificati nelle loro scelte.
- Trascura i costi di produzione, ipotizzandone volutamente l’assenza.
- Non include il bundling misto tra le possibili strategie.
Adams e Yelling sulle base delle stesse ipotesi dimostrano che:
a) Il bundling puro è preferibile alla vendita separata quando il beneficio di una maggiore
estrazione della rendita dei consumatori attivati è maggiore rispetto all’effetto negativo delle
minori vendite nei mercati dei singoli beni e delle vendite ad un prezzo minore rispetto al
prezzo di mercato dei singoli beni.
b) Il bundling misto è preferibile a quello puro quando i costi di produzione sono elevati e/o
quando le domande sono correlate negativamente in modo imperfetto.  Meccanismo di
discriminazione “indiretta” tra consumatori con preferenze strette per un solo bene e quelli
con valutazione alta per entrambi i beni.

Le vendite in tying come meccanismo di misurazione e discriminazione


Le vendite in tying possono essere usate per misurare implicitamente l’intensità d’uso individuale
del bene trainante e applicare prezzi complessivi differenziati in funzione del suo grado di utilizzo.
Es: pistola spara-chiodi e ricariche  Il venditore applicherà un prezzo basso alla pistola, così da
indurre all’acquisto anche i clienti con minore intensità d’uso. Applicherà invece un prezzo alto alle
ricariche così da appropriarsi di una maggiore porzione di rendita da coloro che utilizzano più
intensamente il prodotto trainante e pertanto hanno una domanda meno elastica al prezzo.
Simile al concetto di tariffa a due stadi.

Bundling e tying come strumenti di estensione delle posizioni dominanti.


 Teoria della leva: tramite il bundling o il tying, un’impresa dominante in un mercato può
estendere la dominanza ad altri mercati utilizzando come leva il potere di mercato già detenuto. In
seguito alla monopolizzazione a traino anche l’ingresso di potenziali concorrenti sarebbe
scoraggiato, perché i nuovi entranti dovrebbero accedere ad entrambi i mercati.

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La teoria della leva si risolve in una valutazione contraria verso qualsiasi forma di bundling o tyling
sales praticata da imprese dominanti

Il single monopoly profit theorem della scuola di Chicago


A partire dagli anni ’70 la teoria della leva è stata fortemente criticata dalla scuola di Chicago.
Secondo il Smpt le pratiche di bundling e tying da parte di imprese in posizione dominante, pur
determinando l’estensione della domanda in mercati contigui, non si risolverebbero in alcuna
duplicazione di profitti monopolistici, e potrebbero anzi risultare per fino non profittevoli per le
imprese che le adottano.
Spiegazione  Monopolista in A, competizione per B  due possibili strategie:
1. Vendere A e B in bundle al prezzo pt , monopolizzando anche il mercato B.
2. Vendere i due beni separatamente, applicando a B un prezzo competitivo pB = cB e ad A un
prezzo monopolistico pA = pt−cB
La seconda strategia è più conveniente per I  si considerino i passaggi da strategia 1 a strategia
2:
1. Alcuni consumatori sceglieranno versioni rivali del prodotto B, ma essendo questo venduto ad
un prezzo esattamente uguale al costo ciò non comporta nessuna diminuzione di profitto.
2. Alcuni consumatori che non avrebbero comprato il bene B, ora possono comprare un suo
sostituto. Tuttavia acquisteranno il bene A perché necessitano, ed il bene A genera profitti per
l’impresa essendo venduto a prezzo monopolistico.
In generale questa teoria è valida anche per prodotti non complementari: ogni consumatori con
preferenza stretta per versioni rivali del bene B non acquisterebbe il bundle A-B e, dunque, neppure
il prodotto A.

Contributi più recenti della teoria economica


Alcuni recenti contributi hanno messo in discussione la posizione della Scuola di Chicago, tornando
più o meno sulle posizioni della teoria della leva.
Beni abbinati caratterizzati da domanda indipendente:
Whinston  Il bundling consente di scoraggiare l’ingresso di potenziali rivali nel mercato B
(deterrenza) e di ridurre nello stesso mercato i profitti dei concorrenti, perché comporta
necessariamente che il monopolista nel mercato A adotti politiche aggressive nel mercato connesso
B.
Nalebuff  Il bundling può essere utile all’impresa per fronteggiare il rischio di entrata di nuovi
concorrenti non solo nel mercato B, ma anche in quello A. L’offerta pacchetto, infatti, fa si che in
ciascun mercato la domanda residuale sia ridotta ai soli consumatori con una più stretta preferenza
per versioni rivali di A o di B.
Beni abbinati complementari:
Choi e Stefanidis  considerano un contesto dinamico nel quale l’ingresso di nuovi concorrenti è
legato al successo delle iniziative di ricerca e sviluppo. Quindi adottando una strategia di bundling
puro, l’impresa I obbliga i potenziali concorrenti ad entrare in entrambi i mercati, duplicando i costi
e i rischi per l’investimento in innovazione.

La disciplina antitrust negli Stati Uniti e in Europa


Negli Stati Uniti bundling e tying sono oggetto della Section I dello Sherman Act e della Section 3
del Clayton Act. La giurisprudenza a riguardo si è ammorbidita: mentre prima si condannava
qualsiasi tipo di comportamento di bundling e tying, adesso l’illegalità va dimostrata; è necessario
provare che:
1. I beni legati siano realmente distinti, ovvero presentino un’autonoma domanda di mercato.
2. Il venditore possegga un apprezzabile potere di mercato.
3. La connessione risulti imposta all’acquirente.
4. Le condotte comportino una sostanziale restrizione degli scambi.

In Europa l’atteggiamento della Commissione e delle Corti è più ostile, perché più basato sulla
teoria della leva. Tuttavia sta conoscendo un’evoluzione verso criteri meno rigidi.

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13.5 I PREZZI DISCRIMINATORI


Si analizzano le pratiche di sfruttamento delle posizioni monopolistiche, cioè i comportamenti che
un’impresa potrebbe mettere in atto per estrarre la maggior parte della rendita (surplus) dei
consumatori.
La discriminazione consiste, in poche parole, nel vendere lo stesso bene (o sue leggere varianti) a
prezzi differenti a differenti consumatori, applicando prezzi più alti ai clienti con più elevata
disponibilità a pagare e più bassi a quelli di cui è necessario invogliare il consumo.

Le condizioni per la discriminazione


La discriminazione è fattibile solo se si verificano 3 pre-condizioni:
1. L’esistenza di consumatori con diverse valutazioni soggettive per lo stesso bene. Occorre
inoltre che il venditore sia in grado di identificare, direttamente o indirettamente, tali
consumatori.
2. L’impresa deve avere potere di mercato (in concorrenza vale legge del prezzo unico).
3. Non deve esistere un mercato secondario di rivendita, altrimenti gli arbitraggi renderebbero
impossibile la discriminazione.

Le modalità di discriminazione del prezzo


Arthur Cecil Pigou  tre modalità di discriminazione:
Discriminazione di primo tipo. Il venditore conosce con esattezza la disponibilità a pagare di
ogni potenziale compratore: applicando a ciascuno esattamente il suo prezzo soggettivo, il
venditore riesce a prelevare l’intera rendita dei consumatori. Assai improbabile nel mondo reale.
Discriminazione del secondo tipo. L’impresa possiede alcune informazioni sulle preferenze
medie dei vari consumatori, ma non è in grado di osservare le caratteristiche individuali di ciascun
potenziale cliente. Può, quindi, discriminare offrendo un menù di combinazioni e sfruttando
meccanismi di autoselezione o screening personale.
Discriminazione del terzo tipo. Il venditore potrebbe individuare alcune caratteristiche
osservabili del singolo consumatore (es. età, occupazione) come “segnali” della relativa
disponibilità a pagare e utilizzare tali segnali per discriminare il prezzo.
Discriminazioni di primo e terzo tipo sono dette discriminazione diretta, perché come indicatori
usano caratteristiche verificabili dell’individuo, mentre la seconda è una forma di discriminazione
indiretta, perché opera tramite un processo di autoselezione.

Discriminazione del primo tipo


Richiede che ogni singolo potenziale cliente abbia domanda unitaria (ciascuno consuma al massimo
un’unità del bene) e che il venditore conosca perfettamente la valutazione soggettiva vi di ciascuno.
Il venditore applicherà a ciascuno il prezzo pari alla massima disponibilità a pagare, purchè ecceda
il costo marginale  pi = vi per ogni vi > CMi
In tal modo il venditore si appropria di tutta la rendita dei consumatori.
Il problema è che, a meno che i consumatori non siano pochi e ben identificati, questo tipo di
discriminazione è impossibile da intraprendere ed è in ogni caso molto onerosa.
Il monopolista può allora discriminare in modo imperfetto, individuando m gruppi omogenei di
consumatori e definendo un prezzo differenziato per ogni gruppo  curva di domanda a gradini.

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In ogni caso, l’impresa deve sostenere un costo transattivo per conoscere la valutazione
soggettiva di ciascun potenziale compratore: il venditore ha un incentivo a discriminare nella
misura in cui tale costo transattivo non eccede i maggiori profitti associati alla discriminazione. ΔΠ
> CT
Tali considerazioni vanno fatte anche a livello di benessere sociale: tutti i costi legati alla
realizzazione di questo tipo di discriminazione non devono eccedere l’ammontare di perdita secca
che, rispetto al caso di monopolio con prezzo uniforme, viene eliminata dalla discriminazione
stessa.
DWL > CT.

Discriminazione del terzo tipo


Il venditore segmenta il mercato in gruppi omogenei sulla base di informazioni esogene. A ciascun
gruppo è applicato un prezzo diverso in funzione di una stima sulla sensibilità al prezzo, ovvero
stimando l’elasticità della curva di domanda di ciascun gruppo di consumatori
ε1 > ε2  p1 < p2

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Discriminazione indiretta (del secondo tipo)


Il venditore, non potendo distinguere direttamente i consumatori, può farlo indirettamente
offrendo differenti combinazioni (prezzo-qualità, prezzo-quantità, prezzo-tempo) e lasciando che
sia il consumatore stesso ad autoidentificarsi.
L’impresa deve, però, accertarsi che ogni consumatore preferisca acquistare il bene che non
acquistarlo (vincolo di partecipazione) e, soprattutto, che ciascun consumatore sia indotto
all’acquisto della combinazione per lui “disegnata” (vincolo di compatibilità degli incentivi).

Discriminazione qualitativa del secondo tipo: classi di beni

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L’impresa offre varianti qualitative dello stesso bene a prezzi significativamente diversi (esempio
classico: le compagnie aeree).
Spesso questa strategia prevede l’offerta di due versioni dello stesso bene, una delle quali
volutamente peggiorata. Ciò non significa che il costo di produzione del bene peggiore sia minore,
anzi può capitare che il produttore debba sostenere ulteriori costi per ridurre le funzionalità o il
pregio del bene peggiorato.

Discriminazione quantitativa del secondo tipo


Il venditore offre una serie di menù quantità-prezzo (inversamente proporzionali). Ovviamente,
questa logica ha senso solo per quei beni e servizi per i quali il compratore deve decidere non solo
se acquistare, ma anche quanto acquistarne.
Le combinazioni possono essere proposte esplicite, come gli sconti-quantità o il paghi due prendi
tre, oppure implicite, cioè vendendo pacchetti d’offerta i cui prezzi scendono all’aumentare del
numero di prodotti contenuti.
Una modalità di questo tipo di discriminazione molto diffusa e importante è la tariffa a due stadi.
Consiste in una quota fissa per l’accesso e in una quota addizionale per ogni unità consumata.
 P = F + pq
La tariffa a due stadi è considerata una discriminazione del secondo tipo perché il prezzo unitario
decresce al crescere delle quantità acquistate.
La questione principale sta nella determinazione delle due variabili F e p. Due casi:

 Consumatori omogenei.
La quota fissa F deve essere uguale alla rendita che il consumatore può ricavare dall’acquisto di q
unità al prezzo p.  F = S(p). Mentre il prezzo è stabilito uguale al costo marginale (che
ipotizziamo costante a livello c)  p = c. Quindi in totale: P* = S(c) + q(c)c
Ciò consente di massimizzare l’efficienza totale, a scapito dei consumatori e totalmente a
vantaggio del venditore, come nella discriminazione perfetta di primo tipo.
 Consumatori eterogenei.
Si ipotizzi per semplicità due soli gruppi di clienti; i consumatori del gruppo 1, utilizzando più
intensamente il bene, attribuiscono al suo consumo un valore maggiore, e dunque, a parità di
prezzo, ottengono un surplus maggiore. La tariffa a due stadi ottimale prevede un prezzo
variabile superiore al costo marginale [ p > c ] e una parte fissa pari alla rendita che il gruppo 2
otterrebbe dall’aquisto di q unità al prezzo p [ F = S2(c) ]. In tal modo estrae l’intera rendita ai
consumatori con più bassa intensità di domanda e, con il prezzo variabile superiore al costo
marginale, lucra soprattutto sui consumatori a più alta intensità d’uso.
Consumatori eterogenei, alternativa.
Sempre nel caso dei due gruppi come sopra, il venditore ha un’alternativa più profittevole:
offrire un menu di tariffe a due stadi, ovviamente definite in modo tale che ciascuno sia indotto
ad acquistare alla tariffa specificatamente indirizzata al suo gruppo di appartenenza.
p2 > c F2 = S2(p2)
p1 = c F2 < F1 < S1(p2)
Ogni acquirente del gruppo 1 preferisce [F1,p1] perché gli assicura un costo variabile basso e una
parte fissa comunque più bassa di quella che per lui rappresenterebbe l’alternativa 2. Ogni
acquirente del gruppo 2 preferisce il suo menu perché scegliendo l’altra opzione registrerebbe
una rendita negativa [ F1 > S2(p2) ]

14. LE CONDOTTE NON COLLUSIVE. TEORIA DELLA CURVA DI DOMANDA AD


ANGOLO

14.1 FORMULAZIONE ORIGINARIA DELLA TEORIA DI SWEEZY

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La teoria della curva di domanda spezzata è un modello utile per studiare il comportamento di
imprese oligopolistiche. Non è una teoria generale dell’oligopolio, ma costituisce un ottimo
strumento concettuale per comprendere le condotte di tali imprese.
L’obbiettivo è dimostrare che, in un sistema economico monopolizzato da grandi imprese, il
movimento dei prezzi non riveste più il ruolo fondamentale teorizzato da Marshall e da Walras nel
determinare l’equilibrio di breve periodo tra quantità offerte e domandate; l’equilibrio in parola, al
contrario, sarebbe assicurato dalle variazioni delle quantità offerte dalle grandi imprese.

Il modello poggia su delle considerazioni iniziali.


Ci troviamo in un oligopolio omogeneo non collusivo: un settore con poche imprese di
dimensioni pressoché uguali, che producono un bene omogeneo, e non possono stabilire fra loro
alcun accordo di delimitazione di quote di mercato o di formazione di un prezzo comune.
Componente fondamentale della curva di domanda che le imprese “immaginano” di avere di
fronte a sé è costituita dalle diverse ipotesi circa il comportamento delle imprese rivali, in
occasione di un’azione di aumento o diminuzione del prezzo.
Infine ipotizziamo che le imprese abbiano come obbiettivo la massimizzazione del profitto, e
che determinino i prezzi in base a schemi marginalisti (costi marginali = ricavi marginali).

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B è il punto di equilibrio in cui si trova l’impresa. ABC sarà la curva di domanda del prodotto
dell’impresa nel caso in cui questa decida di aumentare il prezzo, mentre DBE sarà la curva di
domanda nel caso in cui l’impresa decida di abbassare il prezzo. ABC è più elastica perché se
l’impresa aumentasse il prezzo, le altre imprese non modificherebbero i loro prezzi, e questo si
tradurrebbe, per l’impresa in questione, in una robusta riduzione della propria quota di mercato.
DBE è meno elastica perché, nel caso di una riduzione di prezzo, l’impresa sarebbe seguita dalle
altre imprese rivali; l’incremento della quota di mercato dell’impresa che ha preso per prima
l’iniziativa, quindi, sarebbe modesto se non nullo.
Se si considera che il segmento BC e il segmento DB non sono rilevanti, si otterrà la curva di
domanda ad angolo.
Lo stesso ragionamento va fatto sulle due curve dei ricavi marginali (AF e DG): Segmentando anche
queste in corrispondenza dell’angolo della curva di domanda, si avrà una discontinuità tra R e M,
non essendo la curva di domanda continuamente derivabile.
La curva di costo marginale MC si trova nel punto di discontinuità, assicurando comunque
l’uguaglianza tra costo e ricavo marginale.

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Mentre in un regime di concorrenza, una diminuzione della domanda comporterebbe, data la


rigidità dell’offerta nel periodo, una riduzione del prezzo, in questo caso, invece, comporta la
traslazione verso sinistra dell’intero sistema della curva di domanda immaginata (Da ABE a
ZYX). Come si può notare, la riduzione della domanda non porta ad un modifica di prezzo: P, infatti,
soddisfa anche ora l’uguaglianza tra costi e ricavi marginali. Tutto ciò equivale a dire che le imprese
oligopolistiche tenderanno ad amministrare l’offerta, facendo variare le quantità offerte
proporzionalmente alle quantità domandate, con il risultato di mantenere stabili i prezzi.

Il modello si presta anche ad analizzare gli effetti delle variazioni dei costi di produzione sui
prezzi.
Se le variazioni dei costi sono contenute all’interno della discontinuità della curva di ricavo
marginale, il prezzo al quale l’impresa massimizza rimane inalterato.
Da ciò si ricava una conclusione interessante: le variazioni dei costi di produzione (purchè non
eccessive) non comportano immediate variazioni dei prezzi. Quindi un aumento dei costi ha
come effetto, nel breve periodo, di ridurre il profitto delle imprese.

Gli autori riconobbero due eccezioni al principio della rigidità dei prezzi:
 In caso di caduta della domanda di notevole entità e durata ovviamente anche il prezzo si
adeguerà.
 Se i costi di produzione di tutte le imprese si modificassero simultaneamente in uguale
proporzione, un’azione altrettanto simultanea delle imprese adeguerà il livello dei prezzi ai
nuovi costi di produzione. Ciò avverrà senza che le quote di mercato delle singole imprese
subiscano alcuna modificazione.

A conclusioni simili arrivano Hall e Hitch, che con il loro metodo delle interviste dimostrarono
che nella maggior parte delle imprese la formazione del prezzo ha come fine unico la copertura del
costo medio, con un margine di profitto “normale”.
L’adozione del costo medio è il risultato di: forme di collusione esplicite o implicite, convinzioni
morali circa “l’equità del prezzo”, e, soprattutto, incertezza circa gli effetti della variazione del
prezzo sulle quote di mercato.
Quindi, considerando che le imprese fissano i prezzi con l’obbiettivo di coprire il costo medio e
lasciare un margine di profitto, ne deriva che le variazioni della domanda che si verificano
successivamente alla fissazione del prezzo non influiscono sui prezzi medesimi, che quindi tendono
ad essere rigidi rispetto alla variazione della domanda.

15.2 CRITICHE ALLA TEORIA DELLA DOMANDA AD ANGOLO


Stigler fece un ampio esame critico della teoria della curva di domanda spezzata, ma le sue critiche
appaiono frutto di un’incomprensione delle ipotesi sottese alla formulazione del modello, o di un
esasperato formalismo, che non tiene conto della necessità di semplificazione comune a tutta la
modellistica economica. Egli si propose di analizzare tutti i fattori dai quali dipendeva l’ampiezza

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della discontinuità della curva dei ricavi marginali, elemento fondamentale per la staticità dei
prezzi. Si concentrò, innanzitutto, sul grado di concentrazione assoluta, individuando tra 5 e 10 il
numero di imprese a cui potrebbe corrispondere un comportamento interdipendente come quello
della teoria in questione. Se le imprese fossero meno di 5 tenderebbero inevitabilmente a colludere,
se invece fossero più di 10, la variazione di prezzo di una singola impresa potrebbe non essere
avvertita dalle altre, e quindi non dare luogo a ritorsioni. [ si noti però che il comportamento
interdipendente è un presupposto fondamentale della forma oligopolistica in questione ].
Un secondo ordine di osservazioni riguardava la concentrazione relativa: Stigler affermava,
infatti, che se la distribuzione dimensionale non fosse omogenea, sarebbe verosimile che
un’impreassumesse il ruolo di price leader, rendendo invalide le ipotesi di reazione del modello [
anche qui si noti,che il modello di Sweezy ipotizzava un’equidistribuzione delle quote di mercato tra le
imprese ].
A conferma delle sue tesi, Stigler notò che in sette settori dell’industria americana (sigarette,
acciaio, esplosivi, benzina, potassa, antracite, automobili) gli aumenti di prezzo di un’impresa
erano generalmente seguiti da analoghi aumenti da parte delle altre imprese. Più in generale
sosteneva che, essendo la curva ad angolo una logica che ostacola le variazioni dei prezzi che
aumentino il profitto, questa non poteva essere realistica considerato l’obbiettivo generale di
massimizzazione del profitto.

Un’altra critica, puramente formale, osservava che, in considerazione dell’obbiettivo di


massimizzazione del profitto, la curva dei costi marginali dovrebbe posizionarsi il più in basso
possibile all’interno della discontinuità dei costi marginali. Ma in una tale situazione, una
diminuzione dei costi marginali, o una diminuzione della domanda (nell’ipotesi di costi marginali
crescenti), porterebbe immediatamente ad un aumento del prezzo.

Altre critiche riguardano il fatto che la teoria della curva spezzata non spiega sufficientemente
come un determinato prezzo si sia formato, ma di tale limite era conscio anche lo stesso Sweezy,
che faceva notare come tale modello sia applicabile solo in riferimento a una data situazione di
fatto. Tale teoria si propone, infatti, di esplorare le leggi di variazione dei prezzi e non di fornire
criteri sulla formazione di questi.

15.3 ESTENSIONE AL CASO DEI SETTORI COSTITUITI DA IMPRESE DI DIVERSE DIMENSIONI


Un’evoluzione teorica è dovuta alla teoria di Momigliano. La sua teoria prescinde da congetture
formulate a priori circa le reazioni degli avversari; in questo modo il comportamento delle imprese
risulta deducibile da elementi oggettivi che caratterizzano la struttura di mercato.
Un’applicazione semplificata può essere fatta nel caso di duopolio con prodotto omogeneo. Noti i
coefficienti di elasticità α (effetto reddito) e β (elasticità di sottrazione degli acquirenti fra i due
oligopolisti), si possono derivare una serie di curve di domanda particolare, di notevole interesse.

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Come si può notare, la curva di domanda dell’impresa che intraprende l’azione di prezzo presenta
una concavità verso il basso se la quota di mercato iniziale è superiore al 50%, mentre ha una
concavità verso l’alto se la quota di mercato è inferiore al 50%.
Da tale considerazione si giunge ad importanti conclusioni:
1. L’effetto della riduzione del prezzo è tanto maggiore sul piano dell’incremento della quota di
mercato, quanto minore sarà la dimensione relativa dell’impresa.
2. Le imprese più grandi nel settore avranno una preferenza sistematica per la stabilità del prezzo
di vendita; al contrario, le imprese minori tenderanno a mettere in atto politiche di prezzo più
aggressive, beneficiando di un’elevata elasticità di sottrazione.
3. In assenza di differenze nei costi di produzione, la differenza nelle dimensioni relative delle
varie imprese può condurre ad una forma di mercato altamente instabile, ed al verificarsi di
guerre di prezzi, continui miglioramenti qualitativi, e rifiuto di seguire la leader.
La situazione tenderà ad evolversi verso una forma di mercato in cui tutte le imprese hanno
una dimensione grosso modo equivalente.

Il modello di Momigliano, quindi, sembra estendere la validità della teoria di Sweezy, anche in
assenza della sottesa ipotesi di equidistribuzione delle quote di mercato, quindi anche in presenza
di un’impresa leader.
Tuttavia, l’esistenza di un’impresa leader solitamente presuppone per quest’ultima l’esistenza di un
vantaggio competitivo, di solito per effetto di un costo unitario di produzione minore.
Quindi, se l’impresa è leader per un’effettivo vantaggio di costo, la sua curva di domanda particolare
avrà la forma della curva spezzata di Sweezy; se, invece, un’impresa ha una price leadership di
carattere barometrico, possono verosimilmente verificarsi instabilità e guerre di prezzi come alla
punto 3 precendente.

15.4 REALISMO DELLA CURVA DI DOMANDA AD ANGOLO


Nella realtà economica, l’azione delle variabili che agiscono sulla politica dei prezzi delle imprese
e più in generale sulle loro performance, avviene di norma in modo congiunto, così da rendere
estremamente difficile, se non impossibile, il tentativo di isolare il movimento dei costi, della
domanda e della capacità produttiva utilizzata, e correlarne gli andamenti con le variazioni dei
prezzi.
Tuttavia, analisi attualmente disponibili, in particolare grazie al lavoro di Sylos Labini,
confermano che la dinamica industriale tende ad assumere le seguenti caratteristiche:
 Con riferimento al breve periodo, vi è una scarsa elasticità dei prezzi rispetto alle variazioni dei
costi diretti (0,747 in Italia; 0,711 in Usa). Il mark-up quindi, non è mai costante, ma diminuisce
temporaneamente nelle fasi di aumento dei costi di produzione diretti.
 Nel lungo periodo, invece, l’elasticità dei prezzi rispetto alle variazioni dei costi tende ad essere
sistematicamente uguale all’unità.
 Le variazioni della domanda danno non sembrano influenzare i prezzi, ma danno luogo
solamente ad un’uguale variazione dell’offerta, cosicché i prezzi rimangono costanti.

Sylos Labini notava che nei settori nei quali si stanno sviluppando o sono già sviluppate forme
competitive definibili di “oligopolio internazionale”, il movimento dei prezzi, in relazione alle
variazioni della domanda, dipende essenzialmente dal livello di capacità produttiva utilizzata,
non in un singolo mercato, ma nell’insieme dei mercati di tutti i paesi facenti parte di tale oligopolio.
Un aumento della domanda può comportare un aumento dei prezzi solo se il limite di pieno
sfruttamento della capacità produttiva è raggiunto simultaneamente in tutti i paesi che
compongono il mercato internazionale.
[ Impresa paese 1 utilizza l’intera capacità produttiva, ma impresa paese 2 no > aumento di
domanda > l’impresa 1 non può coprire la domanda in eccesso perché utilizza già tutta la sua

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capacità; un suo aumento di prezzo però, non farebbe tornare l’equilibrio tra domanda e offerta,
ma, al contrario, l’unico risultato sarebbe che i clienti dell’impresa 1 inizino a comprare i prodotti
dell’impresa 2, che hanno un prezzo più vantaggioso > in conclusione, solo se tutte le imprese
impiegano l’intera capacità produttiva, un’impresa può assumere il ruolo di leader ed alzare il
prezzo, venendo poi seguita da tutte le altre. ]
Sempre in un contesto di oligopolio internazionale si possono fare considerazioni sugli effetti delle
variazioni dei costi di produzione  sulla curva di domanda particolare di un’impresa compare
un angolo nel momento in cui i costi di quell’impresa aumentano, mentre rimangono costanti i costi
delle imprese rivali.
L’aumento di qualche costo diretto ha come effetto per l’impresa una momentanea diminuzione dei
mark-up che genera profitto. Tale flessione rimarrà costante fino a quanto un aumento analogo si
determini nei costi di produzione anche delle altre imprese. Solo in questa fase l’impresa potrà dare
luogo ad un aumento del prezzo senza temere di non essere seguita dalle imprese rivali.

Le nuove tendenze delle politiche industriali


Per proteggere la concorrenza dagli abusi di potere del monopolio e dell’oligopolio, è necessario
attuare delle politiche antitrust riguardo:
 Comportamenti dei monopolisti volti a scoraggiare l’entrata di nuove imprese:
L’esistenza di extraprofitti richiama l’entrata di nuove imprese.
Se il monopolista vuole proteggere il proprio mercato adotterà diverse strategie, tra cui
l’applicazione di prezzi più bassi di quelli che portano alla massimizzazione di profitto di
breve periodo.
Questo tipo di strategia ha spesso ripercussioni negative sul monopolio stesso nel lungo
periodo.
 Comportamenti dei monopolisti nei settori delle public utilities volti a estendere la
propria posizione dominante
 Costo opportunità legato agli investimenti che gli altri operatori farebbero se non ci
fosse il monopolio
 Minore progresso tecnologico del monopolio: il monopolio ritarda il progresso
tecnologico a causa di perdite di benessere

La normativa antitrust negli USA


Gli Usa nel 1980 furono i primi ad emanare una normativa antitrust: lo Sherman act.
Sebbene la prima e la seconda disposizione dello sherman act vietino il monopolio tout court, ad
oggi sono sanzionati solo alcuni comportamenti, anche grazie al Clayton act e al federal trade
commission act.
Il primo mira a combattere 4 prassi specifiche:
 La discriminazione dei prezzi
 Le vendite abbinate di due monopoli locali
 I monopoli che limitano la concorrenza
 Le fusioni che limitano la concorrenza: qui si utilizza l’indice Hirschman-Herfindal per
valutare se la fusione è restrittiva alla concorrenza.
Si calcolano i valori indici, vengono moltiplicati per 1000 e se l’indice è minore di 1000 allora
non viene condannata l’operazione.

Il federal trade commission act ha creato una nuova agenzia governativa che vigila sull’applicazione
delle leggi antitrust e giudica le controversie.
Questa vieta le forme di concorrenza sleale.

La normativa antitrust in Europa


il trattato dell’unione europea fornisce il quadro normativo della politica europea e comprende 5
ambiti:
 Il divieto di accordi restrittivi della concorrenza, a parte per quelle categorie sottoposte
ai regolamenti di esenzione per categoria, che invece facilitano la concorrenza.

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 Il divieto di abusi di posizione dominante


 Il divieto delle concentrazioni che creano una posizione dominante: sotto un apposito
regolamento viene segnata una soglia insuperabile per il fatturato delle imprese interessate.
 La liberalizzazione dei settori in regime di monopolio: in questi settori la normativa
antitrust trova limitazioni solo se sia da ostacolo alla realizzazione di un obiettivo di
interesse pubblico
 Il divieto degli aiuti di stato: questi possono falsare la concorrenza e danneggiare
l’economia.
La normativa antitrust in Italia e l’AGCM
Nel 1990 è stata istituita l’agcm e la normativa italiana richiama la disciplina europea.
L’agcm ha potere investigativo e decisionale sui casi di violazione della concorrenza legati a intese o
cartelli, ma anche di promozione della concorrenza.

L’azione antitrust si attesta su obiettivi second best quali la diffusione del potere del mercato, la
difesa della libertà economica dei partecipanti al mercato e l’efficienza allocativa, per cui non ci
sono gruppi o categorie sociali favorite in partenza.

Differenze tra la normativa statunitense ed europea


Le maggiori difformità tra la normativa statunitense ed europea si sono manifestate in passato
nell’ambito del controllo sulle operazioni di fusione e acquisizione.
Tra gli anni 30 e 70 il paradigma SCP ebbe un’influenza dominante nell’applicazione della
normativa antitrust americana.
Durante gli anni 50 e 60 il controllo delle concentrazioni fu molto severo e i criteri di valutazione
utilizzati, assai restrittivi.
Furono vietati di per se alcuni tipi di accordi verticali.
A partire degli anni 70 si afferma invece il pensiero della scuola di Chicago e una maggiore
attenzione viene rivolta agli aspetti organizzativi del mercato, mentre si passa, per le intese
verticali, alla rule of reason, ossia alla possibilità di utilizzare pratiche restrittive, purchè non siano
dannose alla concorrenza.

Per quanto riguarda l’Europa il trattato del 1957 non conteneva norme in materia di
concentrazioni e, nell’effettivo, veniva portata avanti l’idea che il rafforzamento delle imprese già
operanti in un settore fosse una cosa positiva.
Negli anni, tuttavia, la situazione si è fatta più rigida e sono stati inseriti dei criteri per il giudizio
delle imprese che si fondono.
La disciplina europea rimane però ancora distante, in un certo più permissiva, rispetto a quella
americana.

La regolazione economica
Il fondamento economico della regolazione risiede nei fallimenti di mercato, tra cui è compreso
anche il caso del monopolio naturale.
Le fonti e le forme che possono assumere i fallimenti di mercato sono molteplici:
 Monopolio naturale: la domanda di mercato di un bene può essere soddisfatta da parte di
una singola impresa ad un costo più basso, di quello che si avrebbe se a produrre il bene
fossero due imprese.
 Esternalità: situazione in cui gli operatori nel mercato, nel prendere le loro decisioni, sono
indotti a trascurare le ricadute degli effetti negativi o positivi di tali decisioni su terzi.
 Asimmetrie informative: l’informazione su prodotti e servizi può in molti casi essere
incompleta, perché costosa, o falsa o complessa.
quando, nonostante ripetuti scambi, la reciproca esperienza non si rivela sufficiente ad
eliminare le asimmetrie informative tra compratori e venditori, l’intervento pubblico può
essere orientato ad imporre standard qualitativi minimi.

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 Universalità del servizio: si tratta di obblighi di servizio universali volti a garantire un


livello minimo di servizio per tutti.

L’oggetto della regolamentazione riguarda sicuramente la fissazione dei livelli di prezzi e dei loro
meccanismi di adeguamento, oltre la fissazione dei livelli di qualità.
Il problema della fissazione del livello di prezzo
Il regolatore deve affrontare la tematica della fissazione dei prezzi finali ed intermedi, definendo
una remunerazione equa per l’impresa che garantisca la massimizzazione del benessere collettivo.
Nel caso di un monopolio naturale l’efficienza viene raggiunta quando il prezzo è uguale al costo
marginale.
Tuttavia, nella realtà, questo risulta essere utopico e, di solito, sono più comuni le regolazioni di
second best che pongono il prezzo pari al prezzo medio, invece che a quello marginale.

Due sono poi i modelli più utilizzati per la ricerca dell’efficienza:


 Modello di discriminazione dei prezzi: consente la fissazione di prezzi diversi in funzione
alla diversa elasticità al prezzo di ciascun consumatore.
Questo meccanismo è però vietato dall’antitrust che, tuttavia, permette la differenziazione
dei prezzi in funzione ai livelli e ai periodi di consumo.
 La teoria di Frank Ramsey: un’impresa in monopolio deve aumentare i prezzi al di sopra
dei costi marginali in modo inversamente proporzionale all’elasticità della domanda rispetto
ai prezzi.
Così i prezzi sono più alti nei mercati a domanda meno elastica e viceversa.
la regola di Ramsey può essere applicata nella definizione di prezzi non lineari e di picco.
I primi, come ad esempio la tariffa binomia(quota fissa pari al costo marginale),
presuppongono che tutti i consumatori siano uguali e, se questo non avviene, so generano
problemi.
I secondi si utilizzano quando la domanda è soggetta a fluttuazioni periodiche e bisogna
fissare i prezzi per i diversi periodi: più alti nei periodi di picco e più bassi in quelli fuori
picco.

Il controllo della dinamica dei prezzi e i sistemi di incentivazione


Se l’amministrazione dei prezzi è finalizzata a mitigare il potere di mercato, l’evoluzione dinamica
delle economia ed imprese potrebbe riproporre in forme diverse le stesse forme di intervento
regolatorio.
Gli schemi di regolazione sono due:
 Metodo di regolazione del saggio di rendimento del capitale(Ror): fissazione da parte
del regolatore di un tasso di rendimento massimo sul capitale investito che l’impresa dovrà
rispettare.
si definisce come: r=profitto/capitale investito<X%
questo vincolo deve spingere l’impresa a fissare tariffe che lo rispettino e, questo, può avere
degli effetti distorcenti.
nel caso di un’impresa in monopolio che produce un solo servizio, la fissazione di un dato
vincolo, porterà l’impresa ad aumentare il denominatore della funzione, realizzando
investimenti non necessari.
Questo comportamento equivale a scegliere una combinazione produttiva non efficiente per
il livello di produzione individuato.
L’impresa modifica dunque le proprie scelte a favore del fattore produttivo che viene
remunerato a un saggio inferiore a quello ottenuto in assenza del vincolo.
Si ha infatti un’inefficienza produttiva in quanto l’impresa impiega una quantità eccessiva di
capitale e un’inefficienza allocativa in quanto la produzione avviene a costi più elevati.
 Metodo del vincolo delle variazioni annuali dei prezzi(price cap): consiste
nell’applicazione di un tetto alla crescita dei prezzi dei servizi prodotti da un’impresa,

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vincolandola, nel tempo, alla variazione di un indice dei prezzi di un paniere di beni e di una
grandezza X che riflette l’efficienza produttiva:
VariazioneP=RPI-X dove RPI=indice prezzi al consumo
il price cap può essere applicato attraverso vari modelli operativi, che hanno in comune il
fatto che il vincolo ai prezzi induce l’impresa a comportarsi in maniera più efficiente,
riducendo i costi, perché sa di poter trattenere come profitti la riduzione dei costi superiori
al valore fissato dal regolatore.
A differenza del Ror il regolatore non deve necessariamente disporre di informazioni
dettagliate sulla struttura dei costi dell’impresa regolata, rendendo meno stringente il
problema dell’asimmetria informativa.
Il regolatore, infatti, fissa il valore di X sulla base di valutazioni sulla capacità dell’impresa.
Se il vincolo viene definito con riferimento ad un paniere che include più servizi, l’impresa
può modificarne i prezzi purchè la loro media ponderata, non aumenti.
Inoltre il Price cap presenta più vantaggi anche per i consumatori che possono beneficiare
delle riduzioni di costo conseguite dall’impresa.
Tuttavia il regolatore può trasferire ai consumatori le fluttuazioni dei prezzi di fattori
esogeni, con il metodo del cost-pass-through.

La regolazione dei prezzi di interconnessione


La regolazione dei prezzi riguarda anche quelli intermedi, che sono rilevanti in tutti i servizi nei
quali esista un’infrastruttura e rete il cui utilizzo da parte di terzi, avvenga sulla base di prezzi
regolati.
Si parla a tal proposito di essential facility, che può essere definita come un’infrastruttura che:
 Costituisce un asse
 Non può essere facilmente replicata
 È nella disponibilità di un’impresa in posizione dominante
 Non presenta ragioni tecniche plausibili per negare l’accesso ad esso
In presenza di un essential facility occorre regolamentare l’accesso per favorire la concorrenza
nelle altri fasi della produzione, stabilendo prezzi e regole eque, per evitare che si abusi della
posizione dominante.

La regolazione della qualità


La teoria della regolazione ha privilegiato per molto tempo il solo aspetto della regolazione dei
prezzi, trascurando gli aspetti qualitativi dei servizi offerti.
La progressiva privatizzazione e liberalizzazione dei servizi pubblici ha reso necessario stabilire
nuove regole e garanzie per i cittadini utenti, che sono protetti ormai dalle authorities.
Le authorities possono fissare standard qualitativi vincolanti per le imprese regolate e si
distinguono:
 Standard di qualità generali: riferiti al complesso delle prestazioni
 Specifici: riferiti alla singola prestazione

per mantenere questi standard possono essere introdotti diversi incentivi, come anche il price cap e
il ror.
Nel caso in cui si utilizzi il price cap nell’ambito della regolazione degli aspetti qualitativi del
servizio, allora la sua funzione si modifica così: RPI-X+Q
I costi della regolazione e la teoria della cattura
L’attività di regolazione comporta costi che possono essere valutati secondo una duplice
prospettiva: da una parte occorre considerare i costi di funzionamento che una struttura richiede;
dall’altro la possibile inefficacia che lo stesso intervento regolatorio può introdurre nel mercati.
Il caso più rilevante di regulation failure è la teoria della cattura, in base alla quale il regolatore
tende a condividere e tutelare gli interessi dell’impresa regolata e ad esserne catturato,
sovrastimando così i costi e riducendo il benessere dei consumatori.

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La concorrenza per il mercato


Una soluzione alternativa alla regolazione economica è quella volta a far emergere, attraverso l’asta,
la concorrenza per il mercato, nella quale le imprese competono tra di loro per avere il diritto di
fornire il mercato in un determinato periodo di tempo.
L’idea fu proposta da Demsetz, che vedeva nel meccanismo dell’asta una modalità per far prevalere
l’operatore più efficiente nei mercati dove non è possibile raggiungere la concorrenza.
L’asta funge solo come primo momento dell’attività di regolazione, in quanto non si esclude che nel
tempo possa aver luogo un’attività di regolazione nei confronti del monopolista, che consente di
governare il contratto fissato al momento della concessione in presenza di mutue circostanze.

La qualità del regolatore


Secondo Baldwin e Cave le principali caratteristiche desiderabili di un regolatore, sono:
 Competenza: il regolatore deve considerare opzioni alternative e prendere decisioni che
compongono gli interessi di più parti, sulla base di informazioni spesso incomplete.
l’asimmetria che connota il lavoro del regolatore richiede dunque competenze tecniche,
economiche e giuridiche.
 Efficacia: l’attività del regolatore deve corrispondere a quella specificata nel mandato
legislativo assegnatoli.
 Efficienza: il regolatore deve svolgere i propri compiti impiegando le risorse a disposizione
 Indipendenza: il regolatore deve essere indipendente dagli interessi dell’industria regolata,
dai poteri di stato, dai clienti e dai concorrenti.
 Accountability: l’attività del regolatore deve godere di una forma di legittimazione
democratica
 Trasparenza: le decisioni del regolatore devono essere frutto di decisioni trasparenti e non
discriminatorie.

Il requisito dell’indipendenza
L’autorità di regolazione nei settori dell’energia è prescritta dalle direttive europee in materia di
mercato interno dell’elettricità e del gas che prevedono la creazione obbligatoria di autorità di
regolazione indipendenti dall’industria.
Queste autorità promuovono principalmente la concorrenza.
E’ preferibile, inoltre, che il regolatore sia allocato al di fuori dell’amministrazione ministeriale, per
tre motivi:
 Funzione obiettivo del regolatore politico: il regolatore politico può essere sensibile a
tematiche che esulano dall’economia del settore.
 Orizzonte temporale: di solito i servizi pubblici richiedono investimenti estremamente
lunghi, ma l’orizzonte temporale di un controllo politico è assai breve.
 Natura proprietaria delle imprese regolate: se le imprese sono private, si ritiene che la
creazione di un’autorità indipendente sia più adatta a minimizzare i rischi di
comportamento di tipo politico.

Il requisito di accountability del regolatore


Il tema dell’accountability del regolatore si declina nei due aspetti principali della legittimità
democratica e, entro determinati limiti, della sindacabilità e controllabilità da qualche altro potere
dello stato.
Nella specificazione dell’accountability uno strumento tipico di dialogo con altre istituzioni è la
presentazione alle camere di una Relazione annuale sull’attività svolta e lo stato dei servizi.
Altra forma di collegamento tra l’autorità e il parlamento sono le audizioni conoscitive da parte
delle commissioni dei due rami del parlamento.
Inoltre gli atti delle autorità indipendenti devono essere sottoposti a un giudizio esterno nelle fasi
di formazione, applicazione ed effetto.
Nella fase ex ante di formazione delle decisioni, sono in genere previste forme di consultazione
pubblica che consentono la partecipazione di diversi portatori di interessi.

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Le autorità di regolazione in Italia


I principi dell’attività di regolazione dei servizi pubblici sono disciplinati dall’autorità per l’energia
elettrica e il gas.
Sono invece attualmente privi di un regolatore nazionale i settori dei trasporti, rifiuti e acqua.
Anche in Italia le autorità devono garantire la concorrenza, i livelli di qualità nei servizi, la fruibilità
di questi e promuovere la tutela degli interessi di utenti e consumatori.
Anche qui il rapporto con il parlamento consiste solo in una presentazione annuale delle proposte.

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