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Economia industriale (Libera Università Internazionale degli Studi Sociali Guido Carli)
Anche Adam Smith riprende questi concetti con il passo: there are no free lunches della Ricchezza delle nazioni e con
la mano invisibile, dove afferma che ogni individuo che persegue il suo personale interesse è guidato da una mano
invisibile che lo porta a promuovere il bene dell’intera società, attraverso un concetto di riequilibrio dei mercati
concorrenziali.
<ricercando il proprio interesse egli promuove frequentemente quello dell’intera società, più efficacemente di quanto
accadrebbe se nell’agire lui stesso si proponesse di seguire l’interesse generale>.
1.11 L’ANTITRUST
La disuguaglianza come market failure riguarda, non solo la distribuzione del reddito, ma anche la concentrazione delle
imprese, ovvero la possibilità di alcune grandi imprese di sfruttare la loro posizione dominante.
Le prime distorsioni della concorrenza iniziarono nella seconda meta dell’Ottocento, conseguentemente ad innovazioni
tecnologiche, diminuzione dei costi di trasporto e all’aumento vertiginoso delle dimensioni di alcune imprese alla
ricerca di economie di scala.
La dottrina prevalente era l’empire building, ovvero il gigantismo. Ciò oltre a creare crisi di sovrapproduzione e quindi
cicli recessivi e depressione, a danneggiare produttori più piccoli e consumatori, aveva creato negli Stati Uniti il ceto dei
tycoons dotati di sproporzionata ricchezza e influenza, e aveva portato in Europa alla formazione di numerosi cartelli.
Lo Sherman Act (1890) e alcuni articoli del Trattato di Nizza molto successivamente, erano finalizzati ad arginare
questo fenomeno. La differenza tra i due sta nel fatto che, mentre in Europa i divieti riguardano l’abuso di posizione
dominante, negli Stati Uniti è l’esistenza stessa della posizione dominante ad essere vietata; c’è infatti anche una forte
connotazione etico-sociale, cioè la dispersione del potere economico e della conseguente influenza politica.
Prima di Keynes e Ropke non si può parlare di stabilità come valore, ma piuttosto come fenomeno naturale.
E’ solo grazie ai due economisti che questa prende l’accezione ad oggi conosciuta.
Attraverso l’opera Keynesiana: “il Trattato sulla moneta” si evinse per la prima volta che la domanda e l’offerta non
sono indipendenti dalla moneta e che questa possa portare ad un’espansione dei consumi e degli investimenti.
E’ proprio su questo trattato che si fondarono in seguito gli accordi di Bretton Woods, caratterizzati da tre principi:
La convertibilità con cambi fissi delle principali valute con il dollaro, e di questo con l’oro.
La tendenza per la piena liberalizzazione degli scambi, con il WTO.
Il controllo e il sostegno della stabilità dei rapporti di cambio e dei tassi di crescita esercitato da parte di
organismi multinazionali specializzati.
Keynes osservò con la crisi del 1929 che gli stati che seguirono la politica del laissez faire fecero sprofondare la
produzione, il reddito e i consumi.
Criticò in questo modo la legge di Say, secondo la quale la stabilità sarebbe assicurata dal fatto che l’offerta finisce
inevitabilmente per creare la domanda finale.
Un altro problema, di cui si occupò Ropke, poiché tedesco, era la stabilità monetaria.
Dopo la guerra la Germania si vide nuovamente di fronte alla difficoltà di ricostruire il potere d’acquisto e di risolverne
la stagnazione e disoccupazione derivante, ma riuscì in poco tempo a diventare la terza potenza nel commercio
mondiale, grazie alla moneta dura(stabile).
A seguire il suo esempio ci fu anche l’Italia, grazie ad Einaudi.
Infine, la controffensiva monetaria, ebbe come protagonista Freidman e la scuola di Chicago che voleva controllare
sia la quantità della moneta, che i tassi di interesse, reintroducendo il valore della stabilità dei prezzi e le politiche di
interventismo.
2. LE METODOLOGIE DI ANALISI
- Tasso di profitto
- Competitività dei prezzi
- Efficienza allocativa
- Saldo della bilancia commerciale
- Livello di retribuzioni e occupazione
- Stabilità/Rischiosità del settore
Due importanti notazioni: la relazione causale, sebbene sia prevalentemente verso il basso, non è univoca; le politiche
pubbliche (regolamentazione, barriere commerciali, antitrust, imposte e sussidi, incentivi per occupazione o
investimenti, proprietà e controllo delle imprese) possono incidere su ciascun gruppo di variabili.
L’elemento prevalente della ricerca sta nell’osservazione e nella descrizione di dati di fatto, tuttavia si possono scorgere
alcuni presupposti teorici rilevanti: alcune caratteristiche di base di una particolare industria (es. rapporto economie di
scala/dimensione del mercato) possono provocare delle distorsioni nella struttura, che ne allontanano le
caratteristiche da quelle della concorrenza perfetta. Le imprese possono sfruttare a proprio vantaggio tali imperfezioni.
3. SETTORI E MERCATI
4. LA TEORIA DELL’IMPRESA
4.3 IL CAPITALISMO ANGLOSASSONE (shareholders)
Nel sistema anglosassone, dove prevalgono società contendibili fortemente dipendenti dal mercato azionario, vi è una
netta distinzione tra la proprietà, che compete all’insieme degli azionisti, e il controllo, esercitato dagli
amministratori. La principale conseguenza di questa divisione è che gli obbiettivi delle due categorie potrebbero non
coincidere.
Tuttavia il comportamento dei manager è sottoposto ad una serie di vincoli che tendono a farlo coincidere con quanto
richiesto dagli azionisti:
a) Vincoli interni all’impresa: in generale, i manager sono assunti con un contratto che li induce a comportarsi
conformemente agli interessi degli azionisti. Tuttavia, con un azionariato molto frazionato, la capacità di controllo
degli azionisti si indebolisce, e si determina un’asimmetria informativa, che rende difficile per gli azionisti calcolare
il costo d’agenzia (differenza del valore dell’azienda con o senza quel management). Anche l’uso di forme
retributive ad incentivo, come le stock options, non risolve il problema. Altra soluzione potrebbe essere il leveraged
buyout, ossia l’acquisto delle azioni da parte del management, finanziato da un debito che sarà estinto dal flusso
dei profitti generati successivamente.
b) Vincoli derivanti dal mercato del lavoro: dato che nelle pubblic companies la rotazione del management avviene
molto frequentemente, l’incentivo degli amministratori ad acquisire una buona reputazione potrebbe determinare
in loro una motivazione coerente con quella degli azionisti.
c) Vincoli derivanti dalla competizione fra imprese: poiché un’impresa poco competitiva è destinata a
scomparire, la sopravvivenza dell’impresa e quindi del proprio posto di lavoro, genera nel management una
motivazione allineata a quella degli azionisti.
d) Vincoli derivanti dal mercato dei capitali: se un’impresa non è gestita in modo da massimizzare il suo valore di
borsa, il basso prezzo delle sue azioni potrebbe rappresentare un’opportunità di scalata al vertice per nuovi
azionisti che più facilmente proporranno un cambio nel management.
Vi sono altre osservazioni da fare riguardo al capitalismo anglosassone, che sottolineano quanto questo si stia
allontanando dal concetto di dominio di sé, fondato su valori etici e su un comportamento volto alla prudenza comune.
Due i motivi che allontanano il capitalismo anglosassone da questi concetti. Da una parte si osserva come il
comportamento dei manager sia troppo influenzato da considerazioni di breve termine, l’interesse per le quali
sopravanza di gran lunga quello per le azioni che daranno benefici in futuro. Dall’altra, invece, si considera quanto
questo tipo di capitalismo faccia aumentare l’esercito di persone con guadagni così elevati da renderle in grado di
formare coalizioni che controllino i mezzi di comunicazione e quindi la sfera politica (vedi anche le lobbies).
4.5 GLI EFFETTI DELLA GLOBALIZZAZIONE SULLE CONDOTTE STRATEGICHE DELLE IMPRESE.
IL FENOMENO DELLE IMPRESE TRANSNAZIONALI (TNC) O “PLATFORM COMPANIES”
La produzione del valore nelle attività d’impresa avviene in una sequenza che può essere rappresentata come una
catena formata da tre anelli:
1. Concezione e progetto industriale di un prodotto o di un servizio.
2. Produzione manifatturiera
3. Attività di marketing e di distribuzione.
I modelli tradizionali di management si concentravano principalmente sul secondo anello di questa catena,
considerando l’attività manifatturiera l’area strategicamente più rilevante. Ma, con le trasformazioni determinate dalla
globalizzazione e dalla rivoluzione Itc, la rilevanza strategica dei singoli anelli è cambiata, poiché la produzione
manifatturiera risente della concorrenza low cost da parte dei paesi emergenti.
Molte imprese americane ed europee, hanno trasferito con strategie di outsourcing la fase delle attività manifatturiere
in paesi emergenti (insieme ad altre attività ad alta intensità di lavoro, come contabilità o servizi di assistenza),
comprimendo l’entità del capitale investito in processi produttivi e migliorando di conseguenza il Roe. Nascono così le
imprese transnazionali o “platform companies” (platco).
Questo fenomeno di deindustrializzazione ha portato ad una progressiva riduzione della quota determinata dalle
attività manifatturiere sul Pil dei paesi le cui imprese adottano tali strategie.
Dal punto di vista macroeconomico, poi, l’outsourcing ha concorso a mantenere bassa l’inflazione.
Altra conseguenza macroeconomica è la grande riduzione del significato delle statistiche del commercio internazionale,
poiché la parte statisticamente rilevante della catena del valore, ovvero l’attività manifatturiera, si traduce in un
elemento passivo della bilancia commerciale per i paesi che hanno guidato questa rivoluzione.
L’informazione essenziale che si ottiene dalla curva di domanda è il grado di reattività della quantità domandata ad ogni
variazione di prezzo > elasticità
ε = −(dQ/dP) × (P/Q)
Due osservazioni:
1. L’elasticità viene presa positivamente, il che spiega la presenza del meno davanti alla frazione.
2. L’elasticità è espressa in termini di variazioni relative: se è maggiore di uno la domanda è elastica, e al diminuire
del prezzo aumenterà la spesa del consumatore (e viceversa); se l’elasticità è minore di uno la domanda è
inelastica e un aumento del prezzo accrescerà la spesa del consumatore; se è uguale a uno, infine, variazioni del
prezzo non alterano la quantità domandata.
L’elasticità dipende:
La curva di Engel invece misura la variazione della quantità domandata al variare del reddito, per mezzo dell’elasticità
della domanda al reddito:
ε = −(dQ/dY) × (Y/Q)
dove Y e Q sono reddito e quantità iniziali e dQ e dY le variazioni.
Alcuni beni hanno elasticità positiva, quindi ad aumenti del reddito aumenta anche la quantità domandata
(ragionamento ≤ o ≥ di 1 analogo a sopra), altri invece hanno elasticità negativa, come nel caso dei beni inferirori.
Secondo Marris a popolazione del mercato è composta da grandi gruppi primari, ossia gruppi in cui ogni membro è in
contatto socio economico con ogni altro (ciò implica comunanza si status, livello di reddito, ma anche di localizzazione
geografica), all’interno dei quali, quindi, si possono innescare ampie reazioni a catena.
Ma la catena dei contatti all’interno del gruppo primario viene sempre interrotta da fattori denominati “sbarramenti
sociali” (come ad esempio i gruppi di età), i quali frazionano ogni gruppo primario in più gruppi secondari.
A questo concetto si lega un nuovo indice, chiamato grado di stratificazione, che indica il numero minimo di gruppi
secondari legati ad un gruppo primario.
La formula del grado di stratificazione è λ = n√Sn
Sn è il numero dei gruppi secondari, e quanto minore sarà il valore di λ, tanto più facilmente un nuovo bene sarà in
grado di saturare una data popolazione di mercato.
Per completare l’analisi, Marris dimostra, se pur con varianti marginali, la validità della propria teoria anche per quanto
riguarda i beni di produzione, ovvero quei prodotti intermedi oggetto di transazione per le imprese.
In alcuni settori produttivi ad alto tasso tecnologico è più ovvio il momento in cui determinati beni andranno rinnovati,
ma spesso le aziende usufruiscono di innovazioni tecnologiche anche quando il prodotto da sostituire non è ancora
logoro o obsoleto.
Per prendere decisioni del genere i dirigenti hanno spesso bisogno di stimoli, analoghi a quelli che la pecora subisce da
parte del pioniere. Tali stimoli derivano da due fonti:
- Dal contatto personale con altri dirigenti che hanno già introdotto l’innovazione: il processo di attivazione e
propagazione è analogo a quello dei consumatori.
- Dagli effetti delle rinnovazioni introdotte da altre imprese concorrenti; effetti che possono diffondersi anche in
settori diversi da quelli in cui sono nati, grazie all’azione di imprese multibusiness operanti in più settori.
Per quanto riguarda i beni “finali” di produzione o beni d’investimento, bisogna prima di tutto considerare se ci si
riferisce al lungo periodo o al medio-breve periodo.
Per quanto riguarda il lungo periodo, per stimare gli investimenti si osservano le due tradizionali variabili: la
propensione al risparmio e i coefficienti marginali capitale-prodotto.
Se si considera, invece, il medio-breve periodo, i modelli che stimano la domanda di beni di investimento vengono
ricondotti a due principali categorie:
Modelli basati sul principio di accelerazione [ I = f (ΔY) ], dove con ΔY si intende la variazione del reddito nazionale.
In generale tali modelli fanno dipendere gli investimenti dalla variazione della domanda. Il più significativo tra
questi modelli è quello proposto dal gruppo di studio di Ancona, secondo il quale gli investimenti industriali fissi
lordi dipendono: direttamente dal saggio di variazione della domanda (o del valore aggiunto dell’industria) e dai
profitti realizzati dall’impresa negli anni precedenti; inversamente dal costo del capitale e dalla capacità produttiva
inutilizzata.
Modelli del tipo profitti-investimenti: gli investimenti dipendono dai profitti o, comunque, dai fondi propri
disponibili nelle imprese. Il modello più importante è quello di Sylos Labini, secondo cui il saggio di variazione degli
investimenti industriale per le grandi imprese dipende dalla quota di profitto corrente, dal saggio di variazione di
questa e dal grado di capacità produttiva inutilizzata, mentre per le piccole-medie imprese gli investimenti sono
funzione dei profitti correnti, del loro saggio di variazione e della liquidità totale.
Nella pratica, quando a stimare la domanda di beni di produzione nel medio-breve periodo è una singola impresa,
vengono considerati anche altri parametri:
- Il costo del denaro, rappresentato dal saggio d’interesse corrente.
- La disponibilità di linee di credito, espressa dalla variazione di liquidità del sistema creditizio.
- I profitti correnti e/o attesi delle imprese.
- Il grado di utilizzazione della capacità produttiva, o il rapporto tra produzione effettiva e produzione potenziale
massima.
- Il “tempo di aggiustamento”, ovvero il tempo necessario perché il parco effettivo di beni strumentali si adegui alle
variazioni teoriche del parco.
I costi totali fissi sono le passività totali che l’impresa deve sostenere nell’unità di tempo per i fattori fissi: il costo
totale sarà il medesimo indipendentemente dalla quantità prodotta.
I costi totali variabili sono i costi che l’impresa deve sostenere per acquistare i fattori variabili. Ovviamente
aumentano all’aumentare della produzione. I costi variabili rispondono alla legge dei rendimenti marginali decrescenti.
I costi totali sono la somma di costi totali fissi e variabili.
Dividendo questi tre tipi per le quantità prodotte avremo rispettivamente il costo medio fisso (la cui curva è
un’iperbole equilatera, perché in ogni suo punto il prodotto fra la quantità prodotta, in ascissa, e il costo medio fisso, in
ordinata, è costante), il costo medio variabile e il costo medio totale (il costo medio totale raggiunge il livello di minimo
dopo il costo medio variabile, perché gli incrementi di quest’ultimo sono compensati dalla diminuzione del costo medio
fisso).
Il costo marginale è l’incremento di costo totale conseguente ad un incremento unitario nell quantità prodotta. La
sua formula è (ΔCTV + ΔCTF) / ΔQ , ma poiché i costi totali nel breve periodo non variano la formula si riduce a ΔCTV /
ΔQ
Il costo marginale diminuisce, raggiunge un minimo per poi aumentare. Nella fase di risalita la curva di costo marginale
attraversa quella di costo medio nel suo punto di minimo. Questo avviene perché, considerando che il costo marginale è
il costo dell’ultima unità prodotta, quando questo è più basso del costo medio abbassa la media, mentre se è più altro la
alza.
Formulazione di Sylos Labini: la funzione dei costi è data da C = vq + k dove v sono i costi variabili e k quelli fissi. Nel
grafico il costo medio è decrescente fino a q* , quantità che corrisponde al pieno utilizzo della capacità produttiva. Oltre
tale punto il costo medio tenderà a crescere perché il costo totale, sarà costante e pari a v fino a q* e da quel punto in
poi sarà crescente e superiore al costo medio.
Nella maggioranza delle produzioni industriali, però, la curva di costi medi di lungo periodo ha una forma a L, piuttosto
di quella tradizionalmente supposta a U, ovvero è decrescente per un lungo tratto, fino a raggiungere la dimensione
ottima minima e rimanere costante per un tratto di lunghezza variabile fino al comparire delle diseconomie di scala.
La pendenza della curva esprime il vantaggio che si acquisisce, in termini costo medio unitario di produzione, avendo
una dimensione più elevata.
La funzione di costo marginale di lungo periodo si comporta nei confronti della funzione di costo medio esattamente
come avveniva nel breve periodo.
Per calcolare il costo totale di lungo periodo basta moltiplicare il costo medio per la quantità. Il grafico avrà un’elevata
pendenza positiva
Economie di scala a livello di prodotto. A livello di prodotto le economie di scala sono importanti quando per
fabbricare diverse varietà dello stesso prodotto basta modificare il layout (la disposizione) degli impianti. Poiché
questo processo richiede tempo, quante più unità di ciascuna varietà si producono tanto meno i tempi influiscono sul
costo totale di lavorazione.
Economie di scala a livello di impianto. A livello di impianto le economie di scala derivano dall’aumento della
dimensione delle singole unità di produzione. Di solito in alcuni tipi di impianti (petrolio, siderurgica, chimica) la
produzione è proporzionale al volume, mentre il costo dell’investimento per ampliare l’impianto è proporzionale alla
superfice in più che l’impianto occuperà. In questi casi vale la regola empirica dei due terzi: se l’area della superfice
varia in rapporto 2/3 rispetto al suo volume, anche il costo variera in rapporto 2/3 rispetto alla crescita della propria
capacità produttiva. L’elasticità dei costi rispetto al volume prodotto è di circa 0.67.
Economie delle riserve di capacità: considerando che deve esistere all’interno dell’impresa una macchina di riserva
da utilizzare in caso di guasti, più aumenta il numero di macchine attive meno il costo di quella di riserva incide sul
costo totale.
concorrenza in un mercato, e spiegano come spesso delle posizioni di dominanza siano difficilmente superabili (caso
Boeing, Lockhead, McDonnel Douglas).
Dalla presenza di curve d’apprendimento deriva una legge generale dell’economia industriale: se nel mercato esistono
situazioni di concorrenza, i prezzi dei prodotti devono diminuire nel tempo in termini reali, proprio per effetto delle
curve di apprendimento; l’esperienza si traduce in riduzione dei costi, i quali determinano un prezzo più competitivo.
9. DIFFERENZIAZIONE.
EFFETTI DELLA SPESA PUBBLICITARIA. LE QUALITÀ E LE INNOVAZIONI DI PRODOTTO. LA “NON PRICE
COMPETITION”.
9.1 INTRODUZIONE
Il concetto di differenziazione attiene tanto alle condizioni di struttura del mercato, quanto agli elementi che
caratterizzano la condotta delle imprese operanti.
Condizione strutturale: i venditori percepiscono la non perfetta sostituibilità dei propri prodotti rispetto a quelli dei
concorrenti.
Condizione di condotta: l’opportunità di utilizzare elementi di differenziazione nella domanda dei propri prodotti
incide molto sulle strategie di un’impresa.
A livello di formule, senza differenziazione, in una logica quindi price taker, la curva di domanda è:
p1 = p = a – b(Q) = a – b(q1+q2)
Al contrario, se vi è differenziazione, quindi non perfetta sostituibilità, abbiamo:
p1 = a – b1q1 – b2q2
Con il coefficiente b che esprime il grado di differenziazione di ciascun prodotto. Maggiore sarà la differenziazione, più
accentuato sarà il rapporto b1 > b2, tanto meno il prezzo del prodotto 1 risentirà della condotta dell’impresa 2.
Dimostra che se gli acquirenti si affidano a valutazioni statistico-probabilistiche per superare l’incertezza delle
informazioni sulle caratteristiche qualitative, i venditori saranno incentivati ad offrire prodotti di bassa qualità. Questo
perché il beneficio connesso alla vendita di un prodotto di buona qualità avvantaggia tutto il gruppo di venditori più di
quanto faccia con il singolo, con effetto una progressiva riduzione generale della qualità dei prodotti offerti.
Il modello Dorfman-Steiner [parte da Q = f(p,s,z), prezzo, pubblicità, qualità ] afferma che, in un’impresa monopolistica,
il livello ottimale della spesa pubblicitaria, dato dal rapporto tra spesa pubblicitaria e fatturato, risulta essere uguale al
rapporto tra l’elasticità della domanda alla spesa pubblicitaria e l’elasticità della domanda al prezzo. L’intensità della
pubblicità è maggiore quanto maggiore è l’elasticità della domanda alla pubblicità e quanto minore è l’elasticità della
domanda al prezzo.
In generale un’innovazione incrementale avvantaggia le imprese preesistenti ma le rende vulnerabili nei confronti di
possibili innovazioni radicali, le quali non necessariamente dimostrano fin da subito superiorità, ma presentano
sicuramente un potenziale di miglioramento molto più elevato.
Henderson e Clark introducono un nuovo tipo di classificazione, che ruotano attorno a due concetti: le conoscenze alla
base dei componenti e quelle alla base dei legami tra i componenti, definite conoscenze architetturali.
- Innovazioni incrementali: scarso impatto sia sulle conoscenze che su quelle architetturali.
- Innovazioni modulari: cambiamenti significativi delle conoscenze, mantenendo inalterate quelle architetturali.
- Innovazioni architetturali: cambiano solo le conoscenze architetturali.
- Innovazioni radicali: nuovo set di conoscenze, sia alla base dei componenti sia architetturali.
Abernathy e Clark, accanto alle innovazioni che riguardano le competenze tecniche, introducono le innovazioni
commerciali, utili affinchè si possa proporre al meglio la novità sul mercato e beneficiare economicamente delle
innovazioni introdotte.
In generale, per un’impresa, sono molti i vantaggi associati alla capacità di innovare: la reputazione, le economie di
apprendimento, l’opportunità di definire caratteristiche di utilizzo del prodotto universalmente riconosciute, tutte
caratteristiche che rendono meno efficaci le strategie imitative dei concorrenti.
Tuttavia, il processo di innovazione è lungo e dispendioso; presenta, quindi, un alto tasso di rischio, sia nella costosa
fase di ricerca e sviluppo (dall’esito comunque incerto), sia nel momento della diffusione della tecnologia, a causa della
possibilità di imitare a basso costo da parte dei concorrenti (a questo problema fanno fronte brevetti e licenze d’uso).
10. LA DIVERSIFICAZIONE
10.1 DEFINIZIONI E MISURE
Con il termine diversificazione si intende un processo per cui un’impresa caratterizzata da un particolare tipo di
attività produttiva avvia attività economiche diverse da quelle tradizionali, pur mantenendo la propria presenza
nell’ambito originale.
Lo strumento di tale processo può essere costituito dal puro sviluppo interno di nuove attività, da acquisizioni, oppure
da fusioni.
Il processo può essere orizzontale, se riguarda mercati contigui al mercato originario, verticale, se riguarda attività a
valle o a monte nella filiera produttiva, conglomerale, se riguarda attività non connesse fra loro.
Altri vantaggi sono altrimenti ottenibili con l’uso di due tecniche di vendita:
- Tying sales: il venditore di un particolare prodotto condiziona la vendita di quel prodotto all’acquisto
contemporaneo di un altro prodotto (editore che impone l’acquisto di inserzioni sia sulla testata principale che sulle
sue altre testate minori)
- Bundling sales: offrire un pacchetto con un certo numero di prodotti diversi allo stesso prezzo. (es:
biglietti teatrali per spettacoli diversi a gruppi di consumatori con gusti diversi).
La diversificazione, infine, sotto il profilo delle condotte di prezzo, può consentire i sussidi intergruppo (deep pocket),
ovvero l’estensione di una posizione dominante da un settore all’altro. (un’impresa dominante nel settore A, costituisce
un’impresa nel settore B, poi sovvenziona quest’ultima in modo che possa attuare prezzi predatori, far uscire le altre
imprese dal mercato e diventare infine dominante anche nel settore B).
L’approccio di Williamson parte dall’ipotesi che gli attori economici agiscano in condizioni di razionalità limitata
(limitata capacità di prevedere e risolvere problemi) e opportunisticamente (traendo vantaggio dall’opportunità più
vantaggiosa).
Quindi l’organizzazione interna permette di economizzare sia sui costi connessi alla razionalità limitata in tutti quei casi
in cui il sistema non offre un’informazione sufficiente e c’è incertezza, sia sui costi determinati dall’opportunismo delle
parti in un contratto.
Più nel dettaglio, vi sono 4 fattispecie che inducono all’integrazione verticale:
1) Specificità dei beni capitali. Un bene capitale è specifico quando viene realizzato su misura per uno o alcuni
acquirenti particolari; ciò determina una forte dipendenza tra fornitore e acquirente che può spesso portare ad
integrazione verticale. La specificità può riguardare anche il capitale umano (contratti di lavoro vs consulenze). Va
valutata anche la frequenza delle transazioni. Si fa ricorso a integrazione nel caso di elevata specificità e frequenza.
2) Incertezza. Il ricorso al mercato è contraddistinto da incertezza e rischio, soprattutto per quanto riguarda il
fattore temporale (es: tempi di consegna dei fornitori). Per premunirsi le imprese aumentano il livello di scorte,
ma aumentando anche spese di magazzino. L’integrazione verticale permette di arginare questo problema. I rischi
di fornitura sono legati anche alla qualità dei beni, che l’impresa può più facilmente controllare in caso di
produzione interna.
3) Compressione informativa. È difficile stipulare un contratto che dia ad un’impresa fornitrice gli incentivi
adeguati per raccogliere informazioni.
4) Coordinamento estensivo. L’integrazione verticale facilita un coordinamento ampio, utile soprattutto per le
industrie dotate di reti, come compagnie aeree e ferrovie (la ferrovia ha una domanda di traffico sulle sue linee
principali che dipende molto dallo sviluppo delle linee secondarie).
Capitolo 12
I casi della concorrenza
Il modello di concorrenza perfetta si basa su 5 ipotesi:
Struttura del mercato atomistica: le imprese sono numerose e ciascuna impresa copre una quota di mercato
talmente piccola da non avere impatto con le altre
Omogeneità del prodotto: i prodotti offerti dalle singole imprese sono perfetti sostituti
Informazione perfetta
Libertà di accesso e uscita dal mercato e mobilità fattori produzione
Price taking: dato il prezzo di mercato, individua il livello di produzione ottimale, che uguaglia il ricavo
marginale.
Nel lungo periodo il prezzo uguaglia il livello minimo dei costi medi totali.
Queste caratteristiche richiedono poi la perfetta divisibilità della produzione e l’assenza di esternalità e di costi di
transazione(l’impresa sostiene tutti i costi associati alla sua attività di produzione).
Equilibrio di concorrenza
Le curve di offerta del mercato sono rappresentate come la somma orizzontale delle curve di offerta individuali delle
imprese.
Le curve di offerta die fattori produttivi sono perfettamente elastiche.
Inoltre la presenza di rendimenti di scala costanti garantisce che, dopo il raggiungimento della dimensione ottima
minima, tutte le imprese non avranno un incentivo ad aumentare la propria scala produttiva.
I mercati contendibili
I mercati contendibili sono quelli senza costi all’ingresso o in uscita( sunk costs), dove gli operatori possono avere
accesso al mercato delle materie prime liberamente.
Se il mercato presenta opportunità di profitto, un potenziale concorrente potrebbe entrare e realizzare un guadagno
prima che i prezzi cambino, e quindi uscire.
I monopoli
In un mercato caratterizzato da un prodotto per il quale non sia possibile individuare prodotti sostituti, opera una sola
impresa.
La motivazione del monopolio più significativa è quella di monopolio naturale, che riesce a produrre una quantità Q
ad un costo inferiore a quello che caratterizzerebbe la produzione di un numero k di imprese che dividono in parti
uguali la quantità Q.
Equilibrio monopolistico
Il monopolista determina il proprio livello di prezzo e output in funzione della massimizzazione del proprio profitto.
La curva di domanda di mercato coincide con la curva di domanda del monopolista.
Il monopolista ha la possibilità di sfruttare il tratto anelastico della curva di domanda di breve periodo, ma può
decidere di non farlo se questo crea incentivo per i consumatori ad adottare prodotti sostituti nel lungo periodo.
Con il termine benessere sociale si intende la somma del surplus del produttore e del surplus del consumatore.
Graficamente è rappresentato dalla differenza tra l’utilità totale del consumatore e i costi di produzione.
Il primo effetto del passaggio ad una situazione di monopolio si sostanzia in un trasferimento del surplus del
consumatore al produttore pari al profitto che questo può ottenere applicando il mark-up pm-pc alla quantità Qm.
Il secondo effetto è una perdita per il consumatore che deve rinunciare all’acquisto di un bene.
Questo comporta una perdita totale di benessere sociale, che harberger quantifica così: ½(pm-pc)(qm-qc)
L’elasticità della domanda al prezzo è il parametro determinante della definzione della perdita secca. Si osserva però
che l’effetto dell’elasticità della domanda sulla misura della perdita secca non è sempre determinabile.
Questo pone un limite alla teoria di Harberger e alla approccio dell’equilibrio economico particolare, per cui lungo la
curva marshalliana l’utilità del consumatore non è costante.
Dunque la dimensione dell’equilibrio economico particolare non consente di includere nel calcolo della perdita
secca l’effetto che il trasferimento del reddito monetario al monopolista ha sia sulla quantità domandata di altri
prodotti e sul livello di utilizzo dei fattori produttivi.
Il passaggio a monopolio compromette in ogni caso il pieno utilizzo dei fattori produttivi e si considera costante il
reddito dei consumatori(se il reddito reale dei consumatori aumenta allora si può compensare la variazione di prezzo
imposta dal monopolista).
La teoria di Harberger, anche se con i suoi limiti, rimane comunque la base più utile.
Tullock e Posner affermano che la perdita di benessere è così sottostimata, se non si considerano i costi necessari
all’ottenimento e mantenimento del potere monopolistico.
Il monopsonio
Il monopsonio limita i propri acquisti alla quantità che fa coincidere il costo marginale del fattore acquistato con la sua
produttività marginale.
La restrizione della domanda ha qui l’effetto di ridurre il prezzo e non di aumentarlo, come per il monopolio.
L’area del sovraprofitto del monopsonista è maggiore di zero e si può dividere in:
Una parte che misura il trasferimento della rendita fra produttori più efficienti e il monopsonista
Una parte che misura la perdita netta di benessere sociale
L’interesse principale del monopsonista è di conservare una pluralità di fornitori per non creare un monopolio
bilaterale.
La concorrenza monopolistica
Se si abbandona l’idea di perfetta omogeneità dei prodotti rivali, la concorrenza monopolistica ha tutte le
caratteristiche della concorrenza perfetta, tranne quella stategica di differenziazione del prodotto.
Per il modello di Chamberlin:
Nel mercato ci sono molti produttori e ogni prodotto è sostituto.
Il numero delle imprese è sufficientemente elevato da generare l’asspettativa che le proprie azioni sfuggano ai
concorrenti.
La curva di domanda e le funzioni di costo sono le stesse per ogni impresa.
L’abbandono della perfetta omogeneità implica inoltre che la curva di domanda della singola impresa non sia
perfettamente orizzontale( come in concorrenza perfetta).
La curva di domanda è negativamente inclinata e, nel lungo periodo, i profitti dell’impresa attirano nuovi concorrenti.
L’ingresso di nuovi concorrenti erode il profitto dell’incubement, che si annulla.
Se nel modello di concorrenza perfetta, i prezzi uguagliano i costi medi minimi; nel modello del monopolio i prezzi
potrebbero essere maggiori dei costi medi minimi.
Il monopolio ha poi un margine di capacità in eccesso, dato dalla differenza tra produzione ideale e la quantità
prodotta nel lungo periodo.
2) Price leadership. Il gruppo di imprese attribuisce a una singola impresa, o ad un gruppo di imprese leader legate in
un cartello, la funzione di stabilire i prezzi di vendita.
Price leadership con impresa dominante. Il settore è caratterizzato da un’impresa di vaste dimensioni, che da
sola copre una quota rilevante del mercato, e da un elevato numero di piccole imprese. Le piccole imprese,
quindi, devono seguire le decisioni dell’impresa leader. Quest’ultima a sua volta, nello stabilire le sue linee di
azione deve tener conto non solo della domanda generale, ma anche delle quantità che le imprese di minori
dimensioni offriranno complessivamente al mercato come funzione del prezzo stabilito dall’impresa leader.
Price leadership barometrica. La struttura in questo caso si presenta in modo meno definito, nel senso che non
sono riscontrabili elementi che spieghino la ragione per cui una particolare impresa assume la leadership nella
formazione dei prezzi. Di regola la spiegazione è da ricercarsi nella storia del settore: l’impresa che ha la
leadership barometrica potrebbe esser stata in passato e per lungo tempo un’impresa dominante, può aver
dimostrato una migliore capacità previsiva della domanda, o, semplicemente, può trattarsi dell’impresa più
robusta sotto il profilo finanziario (scoraggia l’avversario dall’intraprendere guerre di prezzo che perderebbe).
3) Regole empiriche di decisione o punti focali. Hanno origine nell’applicazione generalizzata di schemi
decisionali empirici uniformi. Nel caso di determinazione sulla base dei costi, ad esempio, il comportamento è
sostanzialmente collusivo, anche se non esistono accordi in tale senso tra le imprese. Classico esempio è la gara
d’appalto in cui tutte le offerte “segrete” mostrano prezzi equivalenti: un tale fenomeno può sottendere l’esistenza di
un cartello d’offerta, o, più semplicemente può derivare dal fatto che tutte le imprese adottano la stessa metodologia
per la determinazione del prezzo d’offerta.
Altri ostacoli derivano dalle caratteristiche delle imprese, in particolare dai seguenti fenomeni:
Differenziabilità dei prodotti, ovvero asimmetrie nelle curve di domanda particolari delle imprese. Se il
prodotto non è standardizzabile, un accordo sui prezzi non è sufficiente per bloccare la competizione tra imprese,
che possono competere agendo sulla qualità dei prodotti.
Asimmetria nei costi di produzione delle varie imprese. Se i costi di produzione non sono al medesimo livello è
molto difficile che i prezzi “preferiti” dalle singole imprese siano uguali.
Struttura dei costi caratterizzata da elevati costi fissi. Tanto maggiore è la quota dei costi fissi sul totale di
costo di produzione, tanto meno è probabile l’affermarsi di un comportamento collusivo. L’esperienza, in realtà,
sembra smentire tutto ciò: fenomeni collusivi sono assai frequenti nei settori di base dove i costi fissi sono
estremamente elevati (siderurgia, minerali). In generale, gli accordi sui prezzi appaiono solidi quando la domanda
assorbe una quota elevata delle capacità disponibili.
Capitolo 16
Applicazione della teoria dei giochi
La teoria dei giochi fornisce una visione alternativa al problema dell’oligopolio.
Il gioco è un modello stilizzato che riproduce situazioni in cui ogni partecipante considera le decisioni dei rivali.
Gli elementi che definiscono un gioco sono gli agenti, le regole, le strategia a disposizione di ciascun giocatore e i payoff.
Una forma normale di gioco è caratterizzata da:
Assenza della dimensione temporale
Insieme di agenti
Per ogni agente un insieme di strategie pure
Una funzione di profitto
In ogni gioco esiste poi la strategia dominante, che consiste nella strategia che consente di massimizzare l’utilità,
indipendentemente dalla scelta dell’altro.
La combinazione di strategie dominanti degli agenti si chiama equilibrio di nash.
Giochi sequenziali
Il gioco sequenziale consiste nel gioco in cui ciascun giocatore può definire la sua strategia di risposta, tenendo conto
delle mosse di chi lo ha preceduto.
Di solito viene utilizzata la forma estesa, detta game tree.
Per risolvere questo gioco si usa il meccanismo dell’induzione all’indietro.
Capitolo 18
La domanda aggregata come fattore di produttività
La legge di Kaldor-Verdoorn
La connessione tra la domanda di mercato e la produttività dell’industria esiste già dalla ricchezza delle nazioni di
smith, dove afferma che la produttività del lavoro è una funzione crescente della dimensione del mercato e dunque
della domanda.
Sulla base della legge di Kaldor è possibile indurre l’esistenza di relazioni dirette di lungo periodo fra la crescita della
domanda e la crescita della produttività.
Dalla legge di Kaldor è possibile rilevare una relazione costante tra la variazione della produttività del lavoro(L) e
del volume della produzione industriale(q).
Il coefficiente di Verdoon si trova di solito in un intervallo tra il 0,3 e 0,6.
l’equazione di Kaldor Verdoorn è: L=a+nq
Kaldor tiene conto:
Della presenza di economie di scala e di curve di apprendimento
Della rilevanza delle imprese
Della presenza del progresso tecnologico
La relazione tra produttività e crescita riguarda prevalentemente l’industria manifatturiera.
Dunque la crescita risulta più forte dove c’è una maggiore presenza di industrie manifatturiere.
Questo, dagli anni di Kaldor, è un concetto che è andato un po’ a scemare e, insieme alle teorie di Solow, si sono aggiunti
diversi fattori alla base del meccanismo di sviluppo della produzione.
Sul modello di Kaldor domanda-produttività-domanda influisce ad esempio la competitività che, qualora nuovi
competitori sottraggano quote crescenti di mercato, può interrompere il modello.
Capitolo 19
La politica industriale in Italia
L’italia fu caratterizzata da un dualismo, per cui, accanto ad un numero ristretto di grandi imprese, convive una
moltitudine di piccole imprese.
La debole struttura dell’industria italiana era meno di altre in grado di provvedere in via autonoma, sostituendo alle
protezioni tariffarie, barriere oligopolistiche.
Per questo si cercò man mano di avviare una nuova programmazione del settore.
I primi tentativi di intervento nell’industria si occuparono di rifornire le industrie dei materiali indispensabili per la
ripresa dell’attività industriale.
Il primo documento di cui si ha notizia è intitolato “ programma delle importazioni essenziali per il 1945).
Di questo fu anche attuata una seconda stesura che, insieme alla prima, non fu in grado di migliorare il sistema.
un tentativo che invece merita menzione fu lo studio effettuato da Saraceno che voleva creare una solida base di
domanda interna per lo sviluppo industriale, con il coinvolgimento della pubblica amministrazione.
Questo finì solo a creare ingenti trasferimenti alle imprese, creando una grande linea di problemi.
Quando Marshal rese disponibili i fondi dell’European recovery program, fu inaugurato il nuovo piano del comitato
interministeriale.
L’obiettivo principale era il riequilibrio dei conti con l’estero, riattivando i settori esportatori.
Questo avvenne con il fondo IMI-ERP che doveva da un lato sviluppare i settori esportatori, dall’altro attivare
meccanismi di trasferimento per guidare lo sviluppo dei settori.
Le esportazioni si svilupparono in maniera rapidissima grazie alla disponibilità di petrolio a costi inferiori del carbone e
al basso costo del lavoro.
A contrastare questo piano di sviluppo c’era la sinistra che, con “il piano del lavoro” del CGIL, miravano ad impostare
come motore dello sviluppo i lavori pubblici e non le esportazioni.
Un’ultima politica industriale importante fu la riconversione bellica all’insegna del non intervento e della
ricollocazione delle risorse produttive affidata ai meccanismi del mercato.
Venne istituito a questo scopo il FONDO INDUSTRIA MECCANICA che somministrava credito alle imprese o acquisiva
partecipazioni.
Un effettivo contributo dello schema vanoni sul piano della politica industriale si ebbe nel campo della siderurgia.
Di questo settore si valutò la domanda di acciaio e la stima dell’andamento dell’offerta.
La conclusione del programma è favorevole alla costruzione del nuovo centro e della sua localizzazione nel
mezzogiorno.
Il piano dette luogo infatti al centro siderurgico di Taranto.
Così le politiche di settore iniziarono a prendere forma all’interno dei maggiori gruppo: l’iri si occupava della siderurgia
e meccanica; Eni dell’energia, Fiat per l’automobile.
con la legge 623 del 30 Luglio 1959 si iniziarono anche attività di credito nei confronti di piccole e medie imprese.
Nasce allora con la legge 170 del 1965 la bandiera della concentrazione, che concedeva agevolazioni alle fusioni di
imprese e alla nascita di colossi nel campo della telecomunicazione.
I finanziamenti necessari erano 4500 miliardi e i posti di lavoro che si sarebbero creati 190000.
In base al rapporto, il Cipe predispose poi il “progetto di produzione per l’industria chimica di base prima sezione”.
Il piano chimico si tradusse in un grande insuccesso.
In questi anni si vede l’aumento dei prezzi internazionali che danno l’avvio ad un ciclo di scorte per cui, sotto la
pressione della domanda, le imprese possono migliorare i propri margini.
Questi ultimi quasi raddoppiano nel corso del 1973, fino ad aumentare anche il volume delle vendite.
Quella che però, nel breve periodo, sembra una politica di successo, si rivela nel lungo problematica.
All’inizio del 1976 la lira si svaluta ulteriormente, i tassi di interesse devono essere ricondotti a livelli elevatissimi e i
margini lordi dell’industria, cadono al di sotto del 2% del fatturato.
Dunque la spirale inflazione-svalutazione colpì più i settori ad alta intensità di capitale, che quelli ad alta intensità di
lavoro.
La flessione dei margini colpì infatti soprattutto i settori della chimica, gomma, carta e tessile.
La crisi del 1975 fu condizionata dalla legge Moro-La Malfa e dalla decisione di Guido Carli di seguire l’esempio tedesco
e creare un forte legame tra le banche e le industrie che, per il sistema italiano, risultò essere troppo radicale e non
funzionale.
Inoltre la proposta di coordinamento della politica industriale e la ristrutturazione del settore, sotto alla supervisione
del CIPI, fu un insuccesso.
Il CIPI identificò le aree di intervento in sette grandi settori e in tre linee orizzontali per le quali il ministero
dell’industria avrebbe dovuto predisporre programmi finalizzati.
La legge 675 del 1977 doveva occuparsi di coordinare la politica industriale e la ristrutturazione del settore, ma lo fece
in modo lento e deludente per chi si aspettava un intervento taumaturgico e in grado di risolvere i problemi del sistema.
I piani di settore, che dovevano essere un ponte tra il governo e le industrie, si rivelarono spesso deludenti.
Il problema principale era dovuto proprio dalla divisione settoriale, in quanto la performance di un settore si spiega
solo parzialmente con fattori interni al settore medesimo.
Ne consegue che se l’analisi è limitata ad un singolo settore, buona parte dei problemi rilevanti ne rimane esclusa.
Solo negli anni 80 finiscono le politiche di piano e iniziano gli interventi a pioggia di incentivi e benefici finanziari.
Le cause di questa svolta possono essere riconosciute in tre categorie principali:
La constatazione della inadeguatezza dei risultati conseguiti rispetto a quelli attesi, di fronte alla politica dei
piani.
La crisi delle grandi imprese
La rivoluzione della scuola di Chicago e il governo di Regan e la Tatcher, resero obsolete le idee alla base di una
programmazione della politica industriale.
In questa fase il CIPI e il CIP non furono più utilizzati e nel 1993 decaddero definitivamente.
Qui si portò avanti una politica di svalutazione del cambio della lira rispetto alle altre valute che, negli anni 90 ebbe
delle ripercussioni disastrose.
Capitolo 20
La crisi della produttività e della crescita
Negli ultimi anni l’Italia rappresenta il caso di un’economia a crescita zero.
Tre sono le scuole di pensiero che si occupano di queste questioni dell’economia:
La scuola che focalizza l’incertezza, la domanda effettiva, quella aggregata e il moltiplicatore-acceleratore
La scuola neo-monetarista che si concentra sui mercati
La scuola che da maggior rilievo alla qualità dell’offerta
Produttività e ristagno
La crisi italiana esiste anche a prescindere della crisi globale a seguito dell’esplosione della finanza creativa.
Gli andamenti del PIL negli anni della crisi del 2008 confermano l’instabilità del paese fuori dalla media.
Il traino esercitato dai consumi sulla crescita della domanda e sulla produttività è decisamente inferiore rispetto alla
dinamica dei principali concorrenti.
La produttività, misurata dal CLUP(Costo del lavoro per unità di prodotto) va ancora peggio.
Per tutti il periodo che va dal dopoguerra in poi, le esportazioni hanno trainato l’economia italiana e, ad oggi,
rappresentano circa il 25% del Pil.
In ogni caso, però, l’Italia è scesa all’ultimo posto nella classifica della produttività pubblicata dall’Ocse.
Il modello post keynesiano dovuto a Kaldor-Verdoorn sulle relazioni circolare tra la domanda aggregata, la domanda
effettiva e la produttività, definiva il progresso tecnologico come una variabile esogena che determina salti quantici
nella relazione fra le prime due.
In questo modello un incremento della domanda, determina un incremento della produttività/salari/occupazione, che
determinano di nuovo un incremento della domanda.
Assumendo che le altre variabili non cambiano, gli incrementi di produttività si traducono in incrementi del PIL, per
effetto della domanda interna o estera.
Questo conduce ad un circolo virtuoso se le variabili sono in aumento, oppure vizioso se sono in diminuzione.
Il sistema Italia è un caso perfetto per illustrare questa teoria.
Negli anni recenti l’economia italiana cresceva ad un tasso normale, ma all’alba del nuovo secolo, tutto è cambiato e il
circolo virtuoso è diventato vizioso.
Per quale motivo questo sia accaduto è difficile da comprendere, ma sicuramente devono essere esclusi:
L’introduzione dell’euro
La bolla immobiliare
L’attacco alle twin towers
La variazione dei salari e l’occupazione
Dunque l’elemento rappresentato dalla formazione del personale nel determinare la crescita della produttività
riveste un ruolo paragonabile a quello dell’innovazione tout court.
Rileggendo però gli scritti di Marshall(fondatore di questa scuola di pensiero) è possibile capire che un elemento
importante per lo sviluppo delle nazione è la spesa pubblica per i trasporti e la tecnologia.
Questo elemento era mancante nell’economia italiana e, insieme ad altri elementi l’ha portata a volare più basso.
Gli altri elementi possono essere riassunti in:
La massa di leggi che continua a crescere: questo avviene in modo esagerato rispetto agli altri paesi europei.
Il debito pubblico: grazie a questo macigno l’italia è il secondo paese dal debito pubblico più alto e rientra nei
paesi PIGS, posti sotto al controllo dei mercati finanziari.
Pressioni fiscali: grazie alla vastità della spesa pubblica e all’elevatezza del debito pubblico, Italia e Belgio
sono rientrati nel patto della stabilità, per aumentare la pressione fiscale e ridurre la spesa.
In Belgio questo funzionò, mentre in Italia fu disastroso.
la crescita della spesa pubblica avviene a spese degli investimenti e dei consumi privati, penalizzando i settori a
più elevata produttività.
Capitolo 22
Le privatizzazioni
Nei paesi europei del post prima rivoluzione industriale, la proprietà statale costituì una soluzione per il problema dei
monopoli naturali.
A differenza degli stati uniti, dove si preferì la regolamentazione e la concessione a privati per lo sviluppo delle grandi
industrie, in europa si preferì la statalizzazione delle imprese sia per correggere le market failures, che per sostenere
l’occupazione.
L’esito delle nazionalizzazioni fu nel complesso negativo in quanto i costi di intervento crebbero a dismisura con
produttività decrescenti, inducendo deficit che alimentavano la stagnazione e l’inflazione.
Con la crisi petrolifera del 70 si diede un colpo di grazia alle politiche statalistiche europee.
Con la nomina di Maragaret Thatcher e lo slogan: “lo stato è il problema, non la soluzione”, si inverte il corso della
statalizzazione e inizia un periodo di privatizzazione, che comincia dalla british telecom.
In Italia la situazione della statalizzazione era stata caratterizzata da una scarsità del capitale di rischio, dalla
dipendenza dalle banche e dalle sovvenzioni statali che la costrinsero a ricorrere alla banca universale(raccoglie
depositi e li converte in investimenti a lungo termine).
Questo stretto legame tra industrie e banche portò nel 1933 al rischio del crollo dell’intero sistema bancario che spinse
lo stato a creare l’Iri e a diventare proprietario delle maggiori imprese e banche italiane.
Le imprese erano caratterizzate dalla partecipazione statale, il che teneva slegato il management e quindi c’era la
separazione tra proprietà e controllo.
Negli anni 60 l’equilibrio dato dai discreti margini di profitto, i tassi di interesse bassi e la raccolta di ingenti capitali, si
incrina.
con la crisi degli anni 70 l’Italia entra definitivamente in crisi.
In queste condizioni l’autonomia del management divenne insostenibile.
fu coniata la definizione “oneri impropri” come espressione dei maggiori costi che l’impresa doveva sostenere in
natura della sua natura pubblica.
Furono anche riconosciuti gli azionisti occulti, ossia le segreterie dei partiti che esercitavano il controllo delle imprese
senza alcuna trasparenza.
negli anni 80, l’infeudamento delle imprese a partecipazione statale era esplicito e disastroso, in quanto il potere
effettivo detenuto dalle segreterie dei partiti risultava scisso dalla responsabilità.
L’agonia del sistema continuò fino alla nomina di guido carli come ministro del tesoro.
Guido Carli era un stretto osservante dei principi di Ropke e del liberalismo moderno.
Si batté contro il neocorporativismo per stabilizzare la moneta e concludere l’esperienza delle imprese statali( 9 marzo
1990 via alle privatizzazioni).
Inizialmente furono rese private le società per azioni con caratteristiche adatte al collocamento delle azioni al
pubblico(ENEL;ENI).
Sulle imprese dell’IRI si agì invece con lo spinoff, ossia la vendita separata delle capogruppo settoriali.
7.1 INTRODUZIONE
Il punto di partenza delle analisi di economia industriale è la definizione del grado di
concentrazione che caratterizza e determina la struttura dell’industria.
Si intende un tipo di concentrazione orizzontale, quindi distinta da fenomeni di integrazione o di
concentrazione globale.
Un’industria è concentrata se il numero n di imprese in essa operanti è piccolo; a parità di n il
grado di concentrazione cresce all’aumentare della variabilità delle dimensioni, in particolare
quando una larga porzione di qualche aggregato è detenuto da una piccola porzione di unità
produttive e decisionali, la quale domina l’aggregato.
Lo scopo di un indice di concentrazione è prevedere il comportamento potenziale delle imprese
operanti, con riguardo a quanto queste riescano a fissare un prezzo di mercato superirore al costo
marginale.
Si può disegnare la curva di concentrazione mettendo sull’asse delle ascisse il numero di imprese
cumulate a partire dalla più grande e sulle ordinate la percentuale cumulata dell’output.
Le curve sono tutte concave verso il basso, o al limite sono delle rette nel caso di imprese tutte di
uguali dimensioni.
Criteri di lettura delle curve di concentrazione:
a. Criteri di classificazione: n’industria è più concentrata dell’altra se la sua curva di
concentrazione giace, per ogni suo punto, al di sopra della curva dell’altra.
b. Principio di trasferimento delle vendite: il trasferimento delle vendite da una piccola a una
grande impresa causa un aumento di concentrazione che si traduce in un rigonfiamento della
curva.
c. Condizioni di entrata: l’entrata di una piccola impresa porta ad una diminuzione della
concentrazione, mentre l’ingresso di un nuovo concorrente di elevate dimensioni può tradursi
in un aumento della concentrazione.
d. Condizioni di fusione: una fusione porta ad un aumento della concentrazione, essendo
scomposta in un trasferimento delle vendite da grande a piccola e in un uscita di un’impresa dal
mercato.
(*grafico alla fine)
Entropia E = Σ si ln(1/si)
Termine mutuato dalla fisica, determina la grandezza del disordine. È quindi una misura inversa
della concentrazione, in quanto ad un minor numero di imprese presenti e/o alla presenza di poche
grandi imprese dovrebbe corrispondere un minor grado di incertezza e quindi di disordine.
LAC1 è la curva di costi medi di lungo periodo nella situazione di partenza. Il livello di
concentrazione sarà determinato dal numero di imprese presenti e dal rapporto x1/D1.
Se un cambiamento tecnologico provoca un abbassamento della curva dei costi fino a LAC2,
aumenta la dimensione ottima minima, diminuisce il prezzo di equilibrio concorrenziale (da p1 a p2)
ed aumenta la quantità domandata, fino a D2. Se l’aumento della quantità domandata è minore
dell’aumento del livello della scala di produzione ottimale la concentrazione dell’industria
aumenterà.
8. BARRIERE ALL’ENTRATA
In un mercato di ampiezza OM, possono operare solo tre imprese che producano una quantità
OB ciascuna. Se un’impresa desidera entrare anch’essa alla dimensione ottima minima, dovrà
sperare in un’espansione successiva del mercato oppure strappare una grossa fetta di mercato
dalle imprese già attive, sostenendo comunque inizialmente gravi perdite. Potrà, altrimenti,
entrare ad una dimensione minore di quella ottimale, comunque sperando in un’espansione
successiva del mercato, in questo caso l’entità delle perdite è misurata dalla pendenza iniziale
della curva (più sarà pendente, maggiori saranno i costi di produzione per una dimensione
inferiore rispetto alla Dom, maggiori saranno le perdite).
2. I vantaggi assoluti in termini di costo si verificano quando i nuovi entranti devono sostenere
costi unitari di produzione maggiori delle imprese già presenti, a prescindere dalla dimensione
produttiva. Possono derivare da una molteplicità di fattori: tecniche produttive superiori,
accesso ai fattori produttivi a prezzi e/o condizioni più favorevoli, risorse naturali meno
costose (miniere), maggiori disponibilità liquide, ecc.
3. Con differenziazione del prodotto si intende la preferenza dei consumatori nei confronti dei
prodotti già presenti sul mercato. Una buona reputazione associata ad un marchio, ad esempio,
permette all’impresa di applicare prezzi superiori ai costi unitari di produzione, senza attirare
nuovi entranti; la nuova impresa sarà quindi costretta ad applicare prezzi sostanzialmente
inferiori, oppure a sostenere elevati costi di produzione.
Conclusioni:
Le economie di scala sono una causa frequente di barriera, ma configurano barriere basse,
perché sono pochi i settori in cui la Dom è elevata rispetto alle dimensioni del mercato.
I vantaggi assoluti di costo non sono in genere causa di alte barriere, con l’eccezione di quei
settori in cui sussiste il fenomeno dell’integrazione verticale. Importante anche la presenza di
brevetti e il fabbisogno di capitale.
I vantaggi da differenziazione del prodotto sono una causa frequente di barriere all’entrata e
sono in grado di generare barriere molto alte.
- Non vi è differenziazione tra il prodotto delle imprese già presenti (qi) e quello delle imprese
entranti (qe).
- La domanda di mercato è costante nel tempo.
Fatte queste assunzioni, il prezzo limite è la differenza tra i costi medi/marginali delle incumbents
e delle nuove entranti, più il sovrapprezzo che può essere applicato senza attirare nuove entranti.
Puppy dog è la più accomodante. Le strategie Lean ad angry e Fat cat cercano di ritardare l’entrata
attuando, rispettivamente, una strategia di prezzi bassi e elevati investimenti in differenziazione e
capacità produttiva. Top dog, attuando entrambe queste ultime due strategie, si presenta come la
strategia più ostile all’entrata di nuovi concorrenti.
Mentre per le imprese price taker l’equilibrio è assicurato dal fatto che le variazioni del prezzo
aggiustano le quantità fino a raggiungere l’uguaglianza di domanda e offerta, nelle imprese price
maker si pone il problema di come formare il prezzo. Problema scomposto in due profili:
- Tecniche di formazione di dei prezzi, ovvero i criteri.
- Strategie, cioè le finalità che le imprese intendono raggiungere attraverso le politiche di
prezzo.
Un’indagine di Hall e Hitch dimostrò come spesso gli imprenditori hanno scarsa familiarità con i
concetti che caratterizzano la teoria del prezzo (es: costi e ricavi marginali).
Perciò il metodo più utilizzato è il full cost pricing, ovvero applicare un mark up ai costi di
produzione imputabili al prodotto sufficiente a coprire i costi non direttamente attibuibili al
prodotto e a far conseguire un margine di profitto “normale”. Presenta una serie di variazioni:
1. Gross margin: si applica un mark up ad un solo costo di produzione, ad esempio gli acquisti
(si riscontra prevalentemente nel commercio)
2. Roi pricing: si applica un mark up con un preciso obbiettivo di rendimento sul capitale
investito.
3. Flexible mark up: è solo un’indicazione, il prezzo vero e proprio si decide considerando le
reazioni dei concorrenti.
4. Direct costing: ci si limita a calcolare il costo diretto di una produzione, affidando al
marketing la scelta della combinazione prezzo-qualità-pubblicità che ottimizzi il risultato
complessivo.
c) Prezzi limite. Consistono nel fissare un prezzo e una corrispondente quantità di produzione in
modo che la domanda residuale per le altre imprese sia uguale a zero (vantaggi assoluti nei
costi e “postulato di “Sylos”).
d) Prezzi discriminatori. Sfruttano i diversi valori dell’elasticità nelle curve di domanda di
diversi tipi di consumatori, la cui somma costituisce la domanda di mercato. La discriminazione
può essere temporale (cinema, dvd, tv), spaziale se i prezzi vengono discriminati per area
geografica, oppure per categoria di clienti (es: tariffe a due stadi, con una parte fissa e una
variabile).
e) Prezzi predatori. Praticare prezzi tali da eliminare o escludere i concorrenti, per sfruttare la
posizione dominante una volta raggiunto l’obbiettivo.
L’impresa comincia a produrre q* facendo scendere i prezzi a p*, ossia ad un livello inferiore ai costi
di produzione. L’impresa predata fa sendere la produzione fino a qe per minimizzare le perdite.
L’impresa predatoria avrà una perdita pari all’area B.
La ratio delle politiche predatorie, però, consiste nel ritenere che la rendita monopolistica
conseguente all’eliminazione delle imprese predate sia maggiore delle perdite sostenute nella fase
di predazione.
La teoria della leva si risolve in una valutazione contraria verso qualsiasi forma di bundling o tyling
sales praticata da imprese dominanti
In Europa l’atteggiamento della Commissione e delle Corti è più ostile, perché più basato sulla
teoria della leva. Tuttavia sta conoscendo un’evoluzione verso criteri meno rigidi.
Pagina 271
In ogni caso, l’impresa deve sostenere un costo transattivo per conoscere la valutazione
soggettiva di ciascun potenziale compratore: il venditore ha un incentivo a discriminare nella
misura in cui tale costo transattivo non eccede i maggiori profitti associati alla discriminazione. ΔΠ
> CT
Tali considerazioni vanno fatte anche a livello di benessere sociale: tutti i costi legati alla
realizzazione di questo tipo di discriminazione non devono eccedere l’ammontare di perdita secca
che, rispetto al caso di monopolio con prezzo uniforme, viene eliminata dalla discriminazione
stessa.
DWL > CT.
pagina 275
L’impresa offre varianti qualitative dello stesso bene a prezzi significativamente diversi (esempio
classico: le compagnie aeree).
Spesso questa strategia prevede l’offerta di due versioni dello stesso bene, una delle quali
volutamente peggiorata. Ciò non significa che il costo di produzione del bene peggiore sia minore,
anzi può capitare che il produttore debba sostenere ulteriori costi per ridurre le funzionalità o il
pregio del bene peggiorato.
Consumatori omogenei.
La quota fissa F deve essere uguale alla rendita che il consumatore può ricavare dall’acquisto di q
unità al prezzo p. F = S(p). Mentre il prezzo è stabilito uguale al costo marginale (che
ipotizziamo costante a livello c) p = c. Quindi in totale: P* = S(c) + q(c)c
Ciò consente di massimizzare l’efficienza totale, a scapito dei consumatori e totalmente a
vantaggio del venditore, come nella discriminazione perfetta di primo tipo.
Consumatori eterogenei.
Si ipotizzi per semplicità due soli gruppi di clienti; i consumatori del gruppo 1, utilizzando più
intensamente il bene, attribuiscono al suo consumo un valore maggiore, e dunque, a parità di
prezzo, ottengono un surplus maggiore. La tariffa a due stadi ottimale prevede un prezzo
variabile superiore al costo marginale [ p > c ] e una parte fissa pari alla rendita che il gruppo 2
otterrebbe dall’aquisto di q unità al prezzo p [ F = S2(c) ]. In tal modo estrae l’intera rendita ai
consumatori con più bassa intensità di domanda e, con il prezzo variabile superiore al costo
marginale, lucra soprattutto sui consumatori a più alta intensità d’uso.
Consumatori eterogenei, alternativa.
Sempre nel caso dei due gruppi come sopra, il venditore ha un’alternativa più profittevole:
offrire un menu di tariffe a due stadi, ovviamente definite in modo tale che ciascuno sia indotto
ad acquistare alla tariffa specificatamente indirizzata al suo gruppo di appartenenza.
p2 > c F2 = S2(p2)
p1 = c F2 < F1 < S1(p2)
Ogni acquirente del gruppo 1 preferisce [F1,p1] perché gli assicura un costo variabile basso e una
parte fissa comunque più bassa di quella che per lui rappresenterebbe l’alternativa 2. Ogni
acquirente del gruppo 2 preferisce il suo menu perché scegliendo l’altra opzione registrerebbe
una rendita negativa [ F1 > S2(p2) ]
La teoria della curva di domanda spezzata è un modello utile per studiare il comportamento di
imprese oligopolistiche. Non è una teoria generale dell’oligopolio, ma costituisce un ottimo
strumento concettuale per comprendere le condotte di tali imprese.
L’obbiettivo è dimostrare che, in un sistema economico monopolizzato da grandi imprese, il
movimento dei prezzi non riveste più il ruolo fondamentale teorizzato da Marshall e da Walras nel
determinare l’equilibrio di breve periodo tra quantità offerte e domandate; l’equilibrio in parola, al
contrario, sarebbe assicurato dalle variazioni delle quantità offerte dalle grandi imprese.
Pag 305
B è il punto di equilibrio in cui si trova l’impresa. ABC sarà la curva di domanda del prodotto
dell’impresa nel caso in cui questa decida di aumentare il prezzo, mentre DBE sarà la curva di
domanda nel caso in cui l’impresa decida di abbassare il prezzo. ABC è più elastica perché se
l’impresa aumentasse il prezzo, le altre imprese non modificherebbero i loro prezzi, e questo si
tradurrebbe, per l’impresa in questione, in una robusta riduzione della propria quota di mercato.
DBE è meno elastica perché, nel caso di una riduzione di prezzo, l’impresa sarebbe seguita dalle
altre imprese rivali; l’incremento della quota di mercato dell’impresa che ha preso per prima
l’iniziativa, quindi, sarebbe modesto se non nullo.
Se si considera che il segmento BC e il segmento DB non sono rilevanti, si otterrà la curva di
domanda ad angolo.
Lo stesso ragionamento va fatto sulle due curve dei ricavi marginali (AF e DG): Segmentando anche
queste in corrispondenza dell’angolo della curva di domanda, si avrà una discontinuità tra R e M,
non essendo la curva di domanda continuamente derivabile.
La curva di costo marginale MC si trova nel punto di discontinuità, assicurando comunque
l’uguaglianza tra costo e ricavo marginale.
Pagina 306
Il modello si presta anche ad analizzare gli effetti delle variazioni dei costi di produzione sui
prezzi.
Se le variazioni dei costi sono contenute all’interno della discontinuità della curva di ricavo
marginale, il prezzo al quale l’impresa massimizza rimane inalterato.
Da ciò si ricava una conclusione interessante: le variazioni dei costi di produzione (purchè non
eccessive) non comportano immediate variazioni dei prezzi. Quindi un aumento dei costi ha
come effetto, nel breve periodo, di ridurre il profitto delle imprese.
Gli autori riconobbero due eccezioni al principio della rigidità dei prezzi:
In caso di caduta della domanda di notevole entità e durata ovviamente anche il prezzo si
adeguerà.
Se i costi di produzione di tutte le imprese si modificassero simultaneamente in uguale
proporzione, un’azione altrettanto simultanea delle imprese adeguerà il livello dei prezzi ai
nuovi costi di produzione. Ciò avverrà senza che le quote di mercato delle singole imprese
subiscano alcuna modificazione.
A conclusioni simili arrivano Hall e Hitch, che con il loro metodo delle interviste dimostrarono
che nella maggior parte delle imprese la formazione del prezzo ha come fine unico la copertura del
costo medio, con un margine di profitto “normale”.
L’adozione del costo medio è il risultato di: forme di collusione esplicite o implicite, convinzioni
morali circa “l’equità del prezzo”, e, soprattutto, incertezza circa gli effetti della variazione del
prezzo sulle quote di mercato.
Quindi, considerando che le imprese fissano i prezzi con l’obbiettivo di coprire il costo medio e
lasciare un margine di profitto, ne deriva che le variazioni della domanda che si verificano
successivamente alla fissazione del prezzo non influiscono sui prezzi medesimi, che quindi tendono
ad essere rigidi rispetto alla variazione della domanda.
della discontinuità della curva dei ricavi marginali, elemento fondamentale per la staticità dei
prezzi. Si concentrò, innanzitutto, sul grado di concentrazione assoluta, individuando tra 5 e 10 il
numero di imprese a cui potrebbe corrispondere un comportamento interdipendente come quello
della teoria in questione. Se le imprese fossero meno di 5 tenderebbero inevitabilmente a colludere,
se invece fossero più di 10, la variazione di prezzo di una singola impresa potrebbe non essere
avvertita dalle altre, e quindi non dare luogo a ritorsioni. [ si noti però che il comportamento
interdipendente è un presupposto fondamentale della forma oligopolistica in questione ].
Un secondo ordine di osservazioni riguardava la concentrazione relativa: Stigler affermava,
infatti, che se la distribuzione dimensionale non fosse omogenea, sarebbe verosimile che
un’impreassumesse il ruolo di price leader, rendendo invalide le ipotesi di reazione del modello [
anche qui si noti,che il modello di Sweezy ipotizzava un’equidistribuzione delle quote di mercato tra le
imprese ].
A conferma delle sue tesi, Stigler notò che in sette settori dell’industria americana (sigarette,
acciaio, esplosivi, benzina, potassa, antracite, automobili) gli aumenti di prezzo di un’impresa
erano generalmente seguiti da analoghi aumenti da parte delle altre imprese. Più in generale
sosteneva che, essendo la curva ad angolo una logica che ostacola le variazioni dei prezzi che
aumentino il profitto, questa non poteva essere realistica considerato l’obbiettivo generale di
massimizzazione del profitto.
Altre critiche riguardano il fatto che la teoria della curva spezzata non spiega sufficientemente
come un determinato prezzo si sia formato, ma di tale limite era conscio anche lo stesso Sweezy,
che faceva notare come tale modello sia applicabile solo in riferimento a una data situazione di
fatto. Tale teoria si propone, infatti, di esplorare le leggi di variazione dei prezzi e non di fornire
criteri sulla formazione di questi.
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Come si può notare, la curva di domanda dell’impresa che intraprende l’azione di prezzo presenta
una concavità verso il basso se la quota di mercato iniziale è superiore al 50%, mentre ha una
concavità verso l’alto se la quota di mercato è inferiore al 50%.
Da tale considerazione si giunge ad importanti conclusioni:
1. L’effetto della riduzione del prezzo è tanto maggiore sul piano dell’incremento della quota di
mercato, quanto minore sarà la dimensione relativa dell’impresa.
2. Le imprese più grandi nel settore avranno una preferenza sistematica per la stabilità del prezzo
di vendita; al contrario, le imprese minori tenderanno a mettere in atto politiche di prezzo più
aggressive, beneficiando di un’elevata elasticità di sottrazione.
3. In assenza di differenze nei costi di produzione, la differenza nelle dimensioni relative delle
varie imprese può condurre ad una forma di mercato altamente instabile, ed al verificarsi di
guerre di prezzi, continui miglioramenti qualitativi, e rifiuto di seguire la leader.
La situazione tenderà ad evolversi verso una forma di mercato in cui tutte le imprese hanno
una dimensione grosso modo equivalente.
Il modello di Momigliano, quindi, sembra estendere la validità della teoria di Sweezy, anche in
assenza della sottesa ipotesi di equidistribuzione delle quote di mercato, quindi anche in presenza
di un’impresa leader.
Tuttavia, l’esistenza di un’impresa leader solitamente presuppone per quest’ultima l’esistenza di un
vantaggio competitivo, di solito per effetto di un costo unitario di produzione minore.
Quindi, se l’impresa è leader per un’effettivo vantaggio di costo, la sua curva di domanda particolare
avrà la forma della curva spezzata di Sweezy; se, invece, un’impresa ha una price leadership di
carattere barometrico, possono verosimilmente verificarsi instabilità e guerre di prezzi come alla
punto 3 precendente.
Sylos Labini notava che nei settori nei quali si stanno sviluppando o sono già sviluppate forme
competitive definibili di “oligopolio internazionale”, il movimento dei prezzi, in relazione alle
variazioni della domanda, dipende essenzialmente dal livello di capacità produttiva utilizzata,
non in un singolo mercato, ma nell’insieme dei mercati di tutti i paesi facenti parte di tale oligopolio.
Un aumento della domanda può comportare un aumento dei prezzi solo se il limite di pieno
sfruttamento della capacità produttiva è raggiunto simultaneamente in tutti i paesi che
compongono il mercato internazionale.
[ Impresa paese 1 utilizza l’intera capacità produttiva, ma impresa paese 2 no > aumento di
domanda > l’impresa 1 non può coprire la domanda in eccesso perché utilizza già tutta la sua
capacità; un suo aumento di prezzo però, non farebbe tornare l’equilibrio tra domanda e offerta,
ma, al contrario, l’unico risultato sarebbe che i clienti dell’impresa 1 inizino a comprare i prodotti
dell’impresa 2, che hanno un prezzo più vantaggioso > in conclusione, solo se tutte le imprese
impiegano l’intera capacità produttiva, un’impresa può assumere il ruolo di leader ed alzare il
prezzo, venendo poi seguita da tutte le altre. ]
Sempre in un contesto di oligopolio internazionale si possono fare considerazioni sugli effetti delle
variazioni dei costi di produzione sulla curva di domanda particolare di un’impresa compare
un angolo nel momento in cui i costi di quell’impresa aumentano, mentre rimangono costanti i costi
delle imprese rivali.
L’aumento di qualche costo diretto ha come effetto per l’impresa una momentanea diminuzione dei
mark-up che genera profitto. Tale flessione rimarrà costante fino a quanto un aumento analogo si
determini nei costi di produzione anche delle altre imprese. Solo in questa fase l’impresa potrà dare
luogo ad un aumento del prezzo senza temere di non essere seguita dalle imprese rivali.
Il federal trade commission act ha creato una nuova agenzia governativa che vigila sull’applicazione
delle leggi antitrust e giudica le controversie.
Questa vieta le forme di concorrenza sleale.
L’azione antitrust si attesta su obiettivi second best quali la diffusione del potere del mercato, la
difesa della libertà economica dei partecipanti al mercato e l’efficienza allocativa, per cui non ci
sono gruppi o categorie sociali favorite in partenza.
Per quanto riguarda l’Europa il trattato del 1957 non conteneva norme in materia di
concentrazioni e, nell’effettivo, veniva portata avanti l’idea che il rafforzamento delle imprese già
operanti in un settore fosse una cosa positiva.
Negli anni, tuttavia, la situazione si è fatta più rigida e sono stati inseriti dei criteri per il giudizio
delle imprese che si fondono.
La disciplina europea rimane però ancora distante, in un certo più permissiva, rispetto a quella
americana.
La regolazione economica
Il fondamento economico della regolazione risiede nei fallimenti di mercato, tra cui è compreso
anche il caso del monopolio naturale.
Le fonti e le forme che possono assumere i fallimenti di mercato sono molteplici:
Monopolio naturale: la domanda di mercato di un bene può essere soddisfatta da parte di
una singola impresa ad un costo più basso, di quello che si avrebbe se a produrre il bene
fossero due imprese.
Esternalità: situazione in cui gli operatori nel mercato, nel prendere le loro decisioni, sono
indotti a trascurare le ricadute degli effetti negativi o positivi di tali decisioni su terzi.
Asimmetrie informative: l’informazione su prodotti e servizi può in molti casi essere
incompleta, perché costosa, o falsa o complessa.
quando, nonostante ripetuti scambi, la reciproca esperienza non si rivela sufficiente ad
eliminare le asimmetrie informative tra compratori e venditori, l’intervento pubblico può
essere orientato ad imporre standard qualitativi minimi.
L’oggetto della regolamentazione riguarda sicuramente la fissazione dei livelli di prezzi e dei loro
meccanismi di adeguamento, oltre la fissazione dei livelli di qualità.
Il problema della fissazione del livello di prezzo
Il regolatore deve affrontare la tematica della fissazione dei prezzi finali ed intermedi, definendo
una remunerazione equa per l’impresa che garantisca la massimizzazione del benessere collettivo.
Nel caso di un monopolio naturale l’efficienza viene raggiunta quando il prezzo è uguale al costo
marginale.
Tuttavia, nella realtà, questo risulta essere utopico e, di solito, sono più comuni le regolazioni di
second best che pongono il prezzo pari al prezzo medio, invece che a quello marginale.
vincolandola, nel tempo, alla variazione di un indice dei prezzi di un paniere di beni e di una
grandezza X che riflette l’efficienza produttiva:
VariazioneP=RPI-X dove RPI=indice prezzi al consumo
il price cap può essere applicato attraverso vari modelli operativi, che hanno in comune il
fatto che il vincolo ai prezzi induce l’impresa a comportarsi in maniera più efficiente,
riducendo i costi, perché sa di poter trattenere come profitti la riduzione dei costi superiori
al valore fissato dal regolatore.
A differenza del Ror il regolatore non deve necessariamente disporre di informazioni
dettagliate sulla struttura dei costi dell’impresa regolata, rendendo meno stringente il
problema dell’asimmetria informativa.
Il regolatore, infatti, fissa il valore di X sulla base di valutazioni sulla capacità dell’impresa.
Se il vincolo viene definito con riferimento ad un paniere che include più servizi, l’impresa
può modificarne i prezzi purchè la loro media ponderata, non aumenti.
Inoltre il Price cap presenta più vantaggi anche per i consumatori che possono beneficiare
delle riduzioni di costo conseguite dall’impresa.
Tuttavia il regolatore può trasferire ai consumatori le fluttuazioni dei prezzi di fattori
esogeni, con il metodo del cost-pass-through.
per mantenere questi standard possono essere introdotti diversi incentivi, come anche il price cap e
il ror.
Nel caso in cui si utilizzi il price cap nell’ambito della regolazione degli aspetti qualitativi del
servizio, allora la sua funzione si modifica così: RPI-X+Q
I costi della regolazione e la teoria della cattura
L’attività di regolazione comporta costi che possono essere valutati secondo una duplice
prospettiva: da una parte occorre considerare i costi di funzionamento che una struttura richiede;
dall’altro la possibile inefficacia che lo stesso intervento regolatorio può introdurre nel mercati.
Il caso più rilevante di regulation failure è la teoria della cattura, in base alla quale il regolatore
tende a condividere e tutelare gli interessi dell’impresa regolata e ad esserne catturato,
sovrastimando così i costi e riducendo il benessere dei consumatori.
Il requisito dell’indipendenza
L’autorità di regolazione nei settori dell’energia è prescritta dalle direttive europee in materia di
mercato interno dell’elettricità e del gas che prevedono la creazione obbligatoria di autorità di
regolazione indipendenti dall’industria.
Queste autorità promuovono principalmente la concorrenza.
E’ preferibile, inoltre, che il regolatore sia allocato al di fuori dell’amministrazione ministeriale, per
tre motivi:
Funzione obiettivo del regolatore politico: il regolatore politico può essere sensibile a
tematiche che esulano dall’economia del settore.
Orizzonte temporale: di solito i servizi pubblici richiedono investimenti estremamente
lunghi, ma l’orizzonte temporale di un controllo politico è assai breve.
Natura proprietaria delle imprese regolate: se le imprese sono private, si ritiene che la
creazione di un’autorità indipendente sia più adatta a minimizzare i rischi di
comportamento di tipo politico.