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Teorie dello sviluppo

Risalgono alla fine della seconda guerra mondiale e alla necessità di ricostruire le nazioni distrutte
dal secondo conflitto mondiale. Cercano di individuare i fattori e interpretare le relative cause che
determinano lo sviluppo economico, oltre a spiegare la differenza, da sempre, esistente tra i paesi
avanzati ed emergenti. Le teorie sono 8:
1. teorie classiche
2. modelli di crescita lineare
3. teorie del cambiamento strutturale
4. teorie della dipendenza
5. la contro-rivoluzione neoclassica
6. le nuove teorie della crescita
7. la New Institutional Economics
8. le teorie delle capabilities
teorie classiche: Adam Smith, David Ricardo e Karl Marx affrontano questioni legate alle
dinamiche di crescita dei paesi.
Nel suo libro, “la Ricchezza delle Nazioni” (1776), Smith prevede che il settore industriale,
contrariamente da ciò che pensava Quesnay, producesse surplus (eccesso di produzione), e che
questo conducesse gli stessi lavoratori ad acquistare un volume crescente di beni manufatti,
alimentando così la crescita della domanda e, di conseguenza, la crescita economica. È il primo che
parla di divisione del lavoro come un meccanismo che innalza gli standard di vita della
popolazione. Evidenzia per primo la relazione fra accumulazione di capitale e aumento della
produttività: l’accumulazione di capitale conduce, secondo Smith, a un aumento della popolazione e
dell’occupazione. I lavoratori diventano consumatori, cresce la domanda e diventa più ampia la
divisione del lavoro, con effetti positivi sulla produttività.
Ricardo si concentra sul settore agricolo per comprendere i meccanismi che incidono sulla
produzione. Secondo Ricardo, se l’economia cresce, aumentano le rendite e diminuiscono i profitti.
Tuttavia, una riduzione dei profitti porta a una riduzione della crescita economica. Suddivide la
popolazione in tre classi: lavoratori, proprietari terrieri, capitalisti. La fonte di reddito dei lavoratori
è il salario, quella dei p.t. è la rendita e quella dei capitalisti è il profitto. Ricardo è d’accordo con la
teoria di Malthus (aumento della popolazione porta a una minore disponibilità delle risorse): se c’è
un aumento della popolazione che determina un aumento della domanda dei generi alimentari,
allora si inizierà a coltivare anche nelle aree meno fertili, i quali, a causa di tale sfruttamento,
diventeranno ancora meno fertili. In questo modo, i profitti realizzati tenderanno a diminuire e
quindi ci sarà l’annullamento dell’accumulazione di capitale.
Marx si oppone alle teorie prevalenti nella sua epoca per proporre una visione del mondo chiamata
“materialismo storico” che è in grado di analizzare i processi in movimento. Il sistema di
produzione capitalistico prevede che un aumento della popolazione porti a una crisi nel sistema, in
quanto il mercato, che dipende dai consumi dei lavoratori, cresce in maniera più lenta rispetto alla
capacità produttiva. La crescita è considerata come un fenomeno provvisorio destinato a
concludersi con la crisi naturale del sistema capitalistico.
modelli di crescita lineare: anni 50-60, approccio teorico che considera l’industrializzazione come
un fondamentale fattore di sviluppo. Si parte dell’osservazione dei paesi avanzati, più
industrializzati, per proporre una strategia di sviluppo nelle aree più povere basata sul rafforzamento
industriale e replicare lo stesso percorso di crescita economica già intrapreso dai paesi sviluppati.
Questa teoria si afferma sulla scia del successo del Piano Marshall, piano che mandò una massiccia
quantità di aiuti finanziari e supporto tecnico nei paesi che erano usciti più indeboliti dalla seconda
guerra mondiale. Tale successo spinse la maggior parte degli economisti a suggerire strategie di
sviluppo caratterizzato dallo stesso meccanismo del Piano Marshall, cioè trasferire capitali verso i
paesi più poveri per incoraggiarne lo sviluppo. I due modelli più noti sono il modello di crescita per
stadi di Rostow e il modello Harrod-Domar.
Rostow e i 5 stadi nella fase di sviluppo di un paese:
- la società tradizionale, legata all’agricoltura di sussistenza, stadio primordiale in cui il
mercato è totalmente assente;
- le precondizioni, si creano i presupposti per il passaggio dal settore agricolo a quello
industriale, la produzione inizia a legarsi al mercato grazie a un surplus che permette gli
scambi, miglioramento dell’istruzione e sanità;
- il decollo, fase fondamentale dell’intero processo in cui c’è la transizione da uno stato di
sottosviluppo a uno di sviluppo; nasce la classe imprenditoriale, c’è il definitivo
trasferimento della manodopera dall’agricoltura all’industria. Cresce il tasso degli
investimenti e con esso il sistema economico;
- il cammino verso la maturità, il paese è ormai sviluppato, il sistema economico acquista
peso e importanza nel panorama economico internazionale, la povertà si riduce, si innalza il
benessere della popolazione;
- la diffusione dei consumi di massa, il paese ormai ricco immette sul mercato beni e servizi
che possano rispondere alle esigenze sempre più diversificate della popolazione (quindi non
bene primari).
Nel suo modello di crescita lineare, Domar afferma che il principale fattore di sviluppo per
l’economia sono gli investimenti; affinché avvenga uno sviluppo, ogni paese deve comprendere che
c’è bisogno di capitale per dar luogo agli investimenti.
Questo modello si basa su tre ipotesi:
- la presenza di una tecnologia che dia rendimenti costanti, in grado di garantire un mercato
concorrenziale;
- il risparmio visto come una frazione del reddito: i lavoratori utilizzano il loro reddito
maggiormente per l’acquisto di beni, mentre una porzione minore del reddito è destinata al
risparmio, cioè viene congelata e conservata;
- l’eguaglianza tra l’investimento e il risparmio: il risparmio che i lavoratori conservano viene
convogliato all’interno dei canali del risparmio delle banche che contendono quindi il
risparmio delle famiglie. Le banche, a loro volta, devono rispondere alle esigenze delle
imprese che si occupano degli investimenti, cioè dell’accumulazione del capitale fisico.
Infatti, per poter acquistare un macchinario, quindi per poter portare a termine un
investimento, le imprese hanno bisogno di chiedere credito alle banche, le quali faranno
fronte a quella richiesta rendendo disponibile alle imprese i risparmi delle famiglie. Questo è
il punto in cui investimento e risparmio si equivalgono.
teorie del cambiamento strutturale: anni 60-70, meccanismo con cui i paesi più poveri possono
passare dall’agricoltura di sussistenza alla più moderna economica urbanizzata, in cui l’agricoltura è
sostituita dall’industria e dai servizi (economia più diversificata). Modello più noto: Lewis ipotizza
che la caratteristica fondamentale del settore tradizionale sia l’eccesso di manodopera che può
essere trasferita a costo zero all’industria.
teorie della dipendenza: anni 70-80, i paesi poveri sono dipendenti dai paesi avanzati, per questo
esiste un sottosviluppo. Lo sfruttamento da parte dei paesi avanzati avviene in confronto delle
risorse naturali (energetiche o di prodotti alimentari) presenti nei paesi in via di sviluppo. Secondo
questa teoria, i paesi emergenti dovrebbero porre fine alla dipendenza rompendo i propri legami con
i paesi ricchi. Uno degli autori più noti è Gunder Frank che sostiene che è lo sviluppo dei paesi più
ricchi a contribuire al sottosviluppo dei paesi poveri. In particolare, evidenzia 5 fattori:
- la sostituzione di imprese locali con imprese tecnologicamente più avanzate
- lavoratori non formati che vengono impiegati nelle fabbriche, miniere, piantagioni
- l’assorbimento di giovani istruiti nei servizi amministrativi coloniali
- la migrazione dei lavoratori dai villaggi a complessi urbani gestiti dai paesi avanzati
- l’apertura delle economie locali al commercio con i paesi avanzati
contro-rivoluzione neoclassica: anni 80-90, questa teoria si pone come antagonista rispetto alle
teorie di dipendenza, sostenendo che il sottosviluppo non sia dovuto allo sfruttamento da parte dei
paesi avanzati, ma da fattori interni, come il massiccio intervento dello Stato nelle dinamiche di
mercato. Lo Stato rallenta la crescita con il suo intervento, in quanto il mercato, grazie agli
stabilizzatori automatici, è in grado di assicurare il proprio funzionamento, sia in situazioni di
prosperità che di crisi.
Per slegarsi dal controllo dello Stato, nei paesi in via di sviluppo si tende ad applicare dei piani
strategici di privatizzazione (processo che sposta la proprietà di un ente o società dal controllo
statale a quello privato), insieme alla liberalizzazione del commercio con l’estero (riduzione di
restrizioni come i dazi).
Secondo la teoria neoclassica, alcuni fattori di crescita economica sono:
- incremento del lavoro e miglioramento dal punto di vista qualitativo;
- aumento degli investimenti
- presenza di innovazioni tecnologiche.
le nuove teorie della crescita: anni 90, sostengono che le innovazioni tecnologiche, di cui si
servono i paesi avanzati, non sono state trasferite ai paesi in via di sviluppo. I nuovi teorici
sostengono, inoltre, che c’è una stretta connessione fra produzione della conoscenza e
trasformazione tecnologica e che non esiste un solo tipo di capitale (quello fisico), ma anche quello
umano e sociale che sono inseriti nello stock di capitale dell’impresa.
Il capitale umano e il capitale fisico hanno delle caratteristiche in comune: in entrambi i casi si tratta
di risorse prodotte, entrambi possono essere accumulati grazie a delle iniziative di investimento. Ci
sono anche delle differenze: il c. fisico è identificabile, quello umano non è osservabile; il c. umano
richiede che l’individuo assuma un ruolo attivo nell’accumulazione, mentre il c. fisico assicura una
rendita anche senza la partecipazione diretta del proprietario; l’investimento in c. fisico è meno
rischioso di quello effettuato nel c. umano, perché in quest’ultimo rientrano fattori più complessi,
psicologici e individuali, legati alla peculiarità del soggetto stesso.
Il primo a parlare espressamente di capitale umano è stato Schultz (1960) che individua una serie di
costi e benefici legati all’investimento in istruzioni: i costi sono le tasse scolastiche, le spese per i
libri; i benefici sono i consumi presenti, guadagni futuri.
Altro contributo è dato dal modello di Mincer (1958): sostiene che i livelli salariali diversi, a parità
di capacità di lavoratori, dipende dal numero di anni di istruzione.
Il capitale sociale, invece, è l’insieme delle relazioni sociali che in una comunità consentono di
sviluppare un maggior grado di fiducia, soprattutto negli scambi, ovvero nei costi di transizione.
Numerosi sono stati gli studi che hanno cercato di interpretare il capitale sociale, fra tutti lo studio
di Bordieu che sostiene che il capitale sociale posseduto da un individuo dipende sia dalla quantità
che dalla qualità delle relazioni sociali che egli intrattiene.
Una teoria più completa è da attribuire a Coleman che afferma che il capitale sociale non è
connesso né ai beni materiali, come il c. fisico, né all’individuo, come il c. umano, ma è legato alle
relazioni che individui instaurano tra loro. È proprio la collettività, le relazioni, a conseguire
obbiettivi che i singoli individui, da soli, non potrebbero raggiungere.
Un elemento di debolezza del capitale sociale è la difficoltà di misurarla, difficoltà legata alla
complessa struttura sociale di una collettività.
New Institutional Economics: 1920, teorie basate sull’importanza delle istituzioni all’interno dei
sistemi economici che, originariamente, si formano all’interno della cosiddetta scuola Old
Institutional Economics. Si tratta di una rivoluzione perché le scelte razionali dell’agente
economico vengono sostituite con le abitudini degli individui. In particolare, con la New
Institutional Economics, che nascerà 50 anni dopo, le istituzioni creano una serie di abitudini che
rappresentano poi i fattori in base ai quali gli agenti effettuano le proprie scelte razionali. Uno dei
più noti esponenti di questa scuola, è Williamson che si concentra sui costi di transizioni, grazie ai
quali è possibile descrivere i comportamenti dei soggetti nel mondo reale. Altra figura chiave è
North che afferma che le istituzioni non sono solo in grado di abbassare i costi di transizione ma
anche alzarli. Se le istituzioni hanno questo potere, ovvero determinano i costi di transizione, le
istituzioni condizionano le performance del sistema economico. Se sono privi di questo potere,
allora si può affermare che esse sono inefficienti nel paese in questione. In sostanza, North spiega
come le differenze fra paesi avanzati ed emergenti dipendano anche dal ruolo delle istituzioni
economiche, se sono efficienti o meno.
teoria delle capabilities: 1993, di Amartya Sed che definisce lo sviluppo come la diffusione di
capacità (capabilities) e i diritti di essere e fare (funzionamenti). In particolare, afferma il bisogno di
creare le condizioni affinché ciascun cittadino possa non solo coltivare le proprie capacità, ma
anche trovare le condizioni per utilizzarle, i cosiddetti funzionamenti. Questo perché, secondo Sed,
la povertà non è solo legata dalla mancanza di reddito, ma anche alla mancanza di opportunità per i
cittadini. La principale condizione affinché ciò possa succedere, è la diffusione dei servizi
essenziali, sia sotto il profilo igienico-sanitario che sotto quello educativo.

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