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Storia Economica Appunti del corso

Storia Economica (Università degli Studi di Napoli L'Orientale)

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02/03/20
GLOBALIZZAZIONE dimensione polivalente

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04/02/20
STORIA ECONOMICA GLOBALE vuole comprendere la natura della ricchezza delle
nazioni.

Lo fa attraverso la costruzione di un processo dinamico che risponde alla domanda: perché alcune
nazioni si impoveriscono ed altre si arricchiscono?

COSA DETERMINA LA GLOBAL HISTORY?(pag.12)


 Abbandono della visione eurocentrica;
È il prodotto di contatti plurimi;
Supera la visione delle storie nazionali;
Visione di rete e progresso tecnologico;
Revisione del concetto di Stato;

Progresso globale= PROGRESSO TECNOLOGICO+ TENSIONI DELLE ÈLITE POLITICHE+


CAMBIAMENTO SISTEMA CAPITALISTICO

Possiamo dividere gli ultimi cinquecento anni in tre periodi:


• 1500-1800: era mercantilista= inizio di una economia internazionale integrata.
Argento, zucchero, schiavi, spezie, cotone (merci «globali»): favoriscono i contatti tra le diverse
realtà, creando spazi sempre più connessi, da analizzare attraverso merci, rotte, forme organizzative
e istituzionali dello scambio, protagonisti, e il rapporto tra commercio, consumo, produzione.
Sistema triangolare: Americhe colonizzate, esportano argento, zucchero e tabacco; Africa offre
contingenti di schiavi per produrre tali merci; Asia esporta spezie, tessuti, porcellane; Europa al
centro del sistema, espande i propri mercati colonizzando ed escludendo, attraverso dazi e guerre,
gli altri paesi dal commercio, l’industria crebbe a spese delle colonie.

• 1800-1900: era del catching up= aggancio e superamento dell’Inghilterra da parte degli
altri stati dell’Europa Occidentale e USA: lo sviluppo economico costituisce una priorità
conseguita attraverso quattro politiche economiche standard: costruzione del mercato
interno; costruzione rete di trasporti (ferrovie); ruolo del sistema bancario; sistema di
istruzione di massa

• xx secolo: era della divergenza= le politiche del catching up europeo ed USA si mostrano
meno efficaci per i paesi che non si erano ancora sviluppati. Gli unici paesi che si sono
sviluppati lo hanno fatto attraverso un big push che ha puntato sulla pianificazione e sul
coordinamento degli interventi.

Dalla scoperta dell’America si avvia un processo di diversificazione (GRANDE DIVERGENZA)


che scuoterà gli assetti delle società umane su scala planetaria e che continuerà fino all’avvio della
rivoluzione industriale.
Circa il fenomeno della disuguaglianza, un’importante analisi viene compiuta da Piketty
(economista francese) secondo il quale, la storia della disuguaglianza è modellata dal modo in cui
gli attori economici, sociali e politici interpretano la giustizia economico-sociale, oltre che dal
potere relativo di quegli attori e dalle scelte collettive che ne risultano. In particolare, la dinamica

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della distribuzione della ricchezza rivela l’’esistenza di potenti meccanismi che spingono
alternativamente verso la convergenza e verso la divergenza della ricchezza per adulto all’interno
dei singoli Paesi e tra i singoli Paesi.
Forze di convergenza= ossia quelle che riducono la disuguaglianza. I principali fattori di
convergenza sono: la diffusione della conoscenza e gli investimenti in formazione e competenze;
Forze di divergenza= due principali forze di divergenza nella ricchezza degli individui:
1) l’abilità dei percettori di redditi più elevati di distanziare la propria retribuzione da quella del
resto della popolazione;
2) Il fatto che il tasso di rendimento del capitale (r) sia più elevato del tasso di crescita del PIL (g).
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24/03/20
PRIMA PARTE DEL CORSO= fasi della globalizzazione ed elementi che intervengono.

PERIODIZZAZIONE:
-LA PRIMA GLOBALIZZAZIONE(1870-1914)= siamo in un processo di intensa integrazione
del mercato internazionale;
-DEGLOBALIZZAZIONE(1914-1945);
-LA SECONDA GLOBALIZZAZIONE(1945-1970)= troviamo la ripresa del processo di
globalizzazione con Bretton Woods.

LA PRIMA GLOBALIZZAZIONE (1870-1914)


Non siamo in un processo di globalizzazione irreversibile ma ci sono delle forze che lo mettono in
risalto: progresso tecnologico, volontà politica (che può favorire o meno l’internazionalizzazione),
divergenze economiche (sia all’interno del paese sia tra un paese e l’altro), esistono forze interne
(endogene) a questo processo che possono incentivare o meno l’internazionalizzazione.

Quali sono le variabili che hanno concorso a riconfigurare il rapporto internazionale fra gli
stati? Il processo di PRIMA globalizzazione è determinato da un’accelerata mobilità di tutti i
fattori produttivi. Abbiamo quindi un forte andamento della mobilità delle merci e capitali da paesi
più avanzi (nord) a quelli non industrializzati (sud basso reddito agricolo); lo scambio fra sud e nord
è concentrato sulle materie prime (sud) e prodotti manifatturieri (offerti dal nord). Questa dinamica
presuppone un rapporto basato su uno scambio ineguale perché il rapporto basato sui prezzi dei
beni scambiati era fortemente sperequato (i prodotti manufatti hanno i prezzi che tendono a salire
mentre le materie prime hanno un prezzo anelastico, cioè non tendeva a crescere con la stessa
velocità per esempio dei salari del nord).
QUESTO SCAMBIO INEGUALE determina una ripartizione dei benefici sperequata che si
aggrava se si considera un altro flusso cioè i CAPITALI finanziari e gli investimenti diretti
all’estero. [Questo vuol dire che paesi del Nord avanzato trasferiscono verso il Sud enormi capitali
per esempio acquistando debiti pubblici dei paesi del sud o miniere, quindi appropriandosi
direttamente delle risorse che servono al loro processo produttivo]. Quanto più si intensifica il
flusso di capitale tanto più si arriva ad un processo di globalizzazione, perché si muovono merci,
forza lavoro,persone ecc… Le persone si spostano da vasti territori popolati a territori meno
popolati. UOMINI, MEZZI FINANZIARI E MERCI si muovono quindi tutti nella stessa direzione,
questo significa che se i paesi del nord in virtù di questi spostamenti vedono aumentare il loro
reddito i paesi del sud lo vedono crollare. Questa è la conseguenza della prima globalizzazione:
si allunga la differenza fra nord e sud.

Le cause della prima fase:


 INNOVAZIONE TECNOLOGICA: che si traduce nella rivoluzione dei trasporti
(marittimi e ferroviari) e delle comunicazioni (telegrafo: primo strumento di informazione a
distanza creato intorno agli anni 60);

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LE POLITICHE: vengono attuate quelle di stampo liberista, gli stati decidono di far viaggiare
senza pesi doganali, dazi; questo incentiva la globalizzazione. Negli anni 60 tutti gli stati seguono le
indicazioni dell’Inghilterra la quale abbandona il protezionismo ( Trattato COBDEN-CHEVALIER,
tra l’Inghilterra e Francia, con clausola della nazione più favorita1); tutti i successivi trattati
assumeranno la clausola della nazione più favorita.
Questa ONDATA DI LIBERISMO tuttavia non produce un effetto positivo: tanto più si abbatte il
protezionismo quanto più si vuole scambiare; il problema è che i paesi più forti prevalgono troppo
sui paesi più deboli (in particolare alcuni prodotti es. grano). Perciò a causa di questa facilità degli
scambi ritroviamo una rivendicazione al protezionismo per recuperare la crisi del troppo liberismo.
Il protezionismo di adesso non ha più quei caratteri inibitori rispetto al sistema degli scambi.**

 SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE: ha un raggio di azione più ampio della


prima (che riguardava solo l’Inghilterra); è caratterizza da : economie di scala(capacità di
produrre di più MA abbattendo i costi unitari dei prodotti con costi via via decrescenti),
economie di agglomerazione (tendenza delle attività economiche a concentrarsi
geograficamente in alcune aree), alta mobilità dei fattori produttivi (capitale e lavoro).

INNOVAZIONE DEI MERCATI FINANZIARI: specializzazione del sistema bancario che si


verifica a seconda della clientela (attività commerciali oppure privati).

LA SPINTA ALLA GLOBALIZZAZIONE DA COSA DIPENDE?


- Crescita demografica: nel corso dell’800 abbiamo un forte aumento di popolazione europea (dal
1750 al 1920 la popolazione europea cresce moltissimo). Tuttavia le risorse non riescono a
sostenere questa crescita quindi la popolazione deve muoversi per sopravvivere (per esempio
possiamo parlare del grande esodo migratorio dell’800 in cui le persone si rivolgono a paesi che
invece hanno bisogno di manodopora). L’effetto è un imponente processo di mobilità interna ed
esterna ai paesi.

- Rivoluzione dei trasporti: risulteranno fondamentali perché aiutano a trasportare le merci e le


persone. Lo strumento principale della rivoluzione dei trasporti è l’innovazione della costruzione
delle ferrovie. Funzione dei trasporti passiva ( trasferimento spaziale di beni e persone) e attiva
(capacità di promuovere lo sviluppo). Le due funzioni operano congiuntamente: un sistema di
trasporti efficiente riduce i costi di transazione (f .passiva), ma in tal modo libera risorse che
possono essere destinate ad altri consumi, sostenendo la crescita economica (f.attiva). E non
dimentichiamo la capacità del trasporti di generare domanda per il sistema Industriale (perché le
ferrovie fanno crescere la domanda di elementi siderurgici, meccanici ma anche forza lavoro).
COSA DETERMINA LA RIVOLUZIONE DEI TRASPORTI? Abbattimento dei costi e riduzione
nei tempi di consegna delle merci (età dell’oro della ferrovia 1850-1870).
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25/03/20
**LE POLITICHE NELLA PRIMA GLOBALIZZAZIONE
Politiche commerciali: stato mercantile= protezionismo; stato liberale= liberismo; stato
interventista= protezionismo; stato Imprenditore= protezionismo ed altro.

La cronologia ottocentesca in Europa:


-fino agli anni 40= protezionismo;
-1846= svolta liberista in Inghilterra , abolizione delle Corn Laws;
-1860-70= interludio liberista : i trattati Cobden-Chevalier e la clausola della nazione più favorita;

1 con la quale gli Stati contraenti si impegnano a concedersi reciprocamente il trattamento più favorevole che abbiano
concesso o eventualmente concederanno in futuro, in una determinata materia (ad es. commercio, navigazione, ecc.), a
uno o più Stati.

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-1873-1896= grande depressione e SRI : ritorno al protezionismo (espansione del colonialismo e


apertura di nuovi mercati; rapida espansione dei trasferimenti di capitali).

Circa le politiche si parla di liberismo COATTO [esempio sull’India pag.87 Fumian, fa capire
quanto queste politiche siano influenzate dal peso coloniale]; QUINDI abbiamo una
industrializzazione al nord e una deindustrializzazione al sud (EFFETTI DIVERSI DELLE
POLITICHE DA NORD A SUD).
Queste politiche non sembrano in realtà essere completamente fondamentali alla
globalizzazione ma comunque la favoriscono. Molto importante è anche la teoria di LIST sulle
industrie bambine (le industrie nazionali necessitano dapprima di protezionismo e poi una volta
cresciute a sufficienza per sostenere la concorrenza internazionale passano al liberismo).

LA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE (1850-1914): Innanzitutto abbiamo un


cambiamento radicale nei metodi di produzione, esistono ora imprese che diventano strutture più
consistenti e imponenti, inoltre troviamo la comparsa di diversi settori industriali. Nella prima
rivoluzione industriale (1760-1830) era presente sopratutto l’industria del ferro e l’industria tessile;
nella seconda rivoluzione è tutto incentrato nella chimica, siderurgia e meccanica. Vengono quindi a
configurarsi le industrie di base, producono altri beni da destinare ad altre industrie (ad esempio
senza la seconda rivoluzione non ci sarebbe stato il miracolo ferroviario).
Altra differenza rispetto alla prima rivoluzione è l’apertura di molti paesi a questo modello
industriale (nella prima è stata coinvolta solo l’Inghilterra).

Le innovazioni della seconda rivoluzione industriale:


• Siderurgia — I forni capaci di trasformare i minerali di ferro in acciaio (cosiddetti forni
Bessemer o quelli sviluppati da Martin Siemens);
• Chimica — La sintetizzazione artificiale di alcuni composti:
-la gomma (che ha reso indipendenti i paesi industrializzati dai produttori di gomma
agevolando il processo di industrializzazione);
-i fertilizzanti (che riescono a scardinare la famosa trappola malthusiana rendendo il settore
agrario in grado di migliorare la propria produttività abbastanza da sostenere una popolazione in
costante crescita);
• Elettricità — Il superamento della strettissima dipendenza dal carbone (risorsa di cui erano
ricchi quasi solo i territori occidentali dell’Impero Russo, alcune regioni Tedesche e Britanniche)
permette di estendere la portata dell’industrializzazione. Inoltre, lo sviluppo della rete elettrica
contribuisce a generare ulteriore domanda all’industria dell’elettricità;

Effetti:
• Economie di scala — diminuzione del costo medio di produzione all'aumentare delle
dimensioni dell’impianto (e, quindi, dell’output e dei fattori impiegati);
• Economie di agglomerazione — economie che si determinano in presenza di elevate
concentrazioni di attività produttive in una area e che dipendono dalla possibilità di relazioni
orizzontali tra di esse (acquistare prodotti intermedi di altre imprese, condividere comuni
attrezzature etc.) e di condividere alcune infrastrutture;
• Esternalità — effetti esterni, anche detti (dis)economie o esterne, derivanti dall’attività di
un'unità economica sulla produzione o sul benessere di altre unità;
• Processi di apprendimento — che porta ad una sorta di ‘democratizzazione’, sia pure solo
progressiva, del processo produttivo.

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[Nell’analisi di Schumpeter, ogni innovazione determina per l’impresa un vantaggio competitivo


che, nel lungo periodo, è soltanto estemporaneo. Difatti, i suoi concorrenti saranno veloci a imitare
questa innovazione in modo da chiudere il gap così apertosi. Tuttavia, ci sarà sempre un altro
imprenditore illuminato che procederà a realizzare una nuova innovazione].

Queste trasformazioni del sistema industriale non avrebbero potuto manifestarsi se non in presenza
di cambiamenti paralleli nel settore de:
• la produzione di materie prime;
• il trasporto di materiali e prodotti finiti;
• il sistema distributivo;
• le attività e nei servizi collaterali (per es. attività assicurativa e bancaria).

Economie di scala: Taylorismo-fordismo


Le economie di scala permettono di ottenere una crescita esponenziale dell’output che si affianca ad
una riduzione dei costi medi di produzione spesso decrescenti. In questo processo sarà di estremo
successo la combinazione tra le teorie tayloriste sulla riduzione al minimo dei movimenti degli
operai e l’introduzione della assembly line negli impianti di ispirazione fordista. Trattasi di un
complesso di regole e tecniche di produzione che realizzano un complessivo svuotamento delle
conoscenze del lavoratore. La sostituzione della conoscenza individuale ed empirica con quella
scientifica del manager che organizza il lavoro avviene per mezzo de:
• la suddivisione del lavoro in fasi elementari:
• lo studio dei tempi;
• l’analisi dei movimenti;
• l’adozione del cottimo differenziale come principale incentivo salariale alla produzione; trattasi
di un meccanismo retributivo in base al quale il salario è determinato dalle quantità prodotte in un
certo arco di tempo, ma in modo differenziato in base al volume o al numero complessivo di pezzi
prodotti (e.g.: un’unità di salario per ogni pezzo fino a 100, ma se i pezzi realizzati sono 120 il
salario unitario aumenta a 1,5);

Lo scopo è, chiaramente, l’annullamento degli sprechi di tempo da ottenere mediante la riduzione


all’osso della mobilita operaia. Il taylorismo-fordismo fa della fabbrica una sorta di diabolico
meccanismo – in cui la manodopera è solo un ingranaggio – retto da una rigida gerarchia interna. In
questo contesto i lavoratori sono prevalentemente unskilled.
Al crescere della produzione questa arriva a superare la richiesta della domanda interna. Tuttavia, la
diminuzione verticale dei costi permette una tale riduzione dei prezzi dei beni prodotti che supera di
una certa misura le penalizzazioni introdotte per mezzo delle tariffe protezionistiche introdotte nel
corso dei decenni precedenti.
Aspetto negativo del taylorismo-fordismo= dimensione psicologica alienante per i lavoratori.

Mercati finanziari:
La crescita degli scambi internazionali mise il settore finanziario sotto rinnovata pressione. In
risposta, l’attività bancaria inizia a specializzarsi rispetto al settore di credito (credito alle imprese;
credito retail, etc.). Per finanziare le attività economiche che le banche non potevano riuscire
nascono le borse come specifico modello di autofinanziamento delle attività produttive.
Ne discende la necessità di procedere ad una maggiore integrazione tra i mercati finanziari dei
diversi paesi. La garanzia della stabilità del sistema economico-monetario mondiale fu garantita
dall’adozione del cosiddetto gold standard. Trattasi del meccanismo che permise
l’omogeneizzazione complessiva dei sistemi monetari in un’epoca di depressione. Ciò fu possibile,
in particolare, poiché gli squilibri sistematici del passato sono perlopiù spariti. In un certo senso, il
mercato finanziario funzionò da nucleo solido attorno al quale condensarono i vari settori la cui
crescita fu sostenuta dalla seconda rivoluzione industriale.

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31/03/20
GOLD STANDARD= sistema collante fra i principali stati, che serviva a dare stabilità al mercato
internazionale.
Prima che si affermasse il meccanismo del Gold Standard, il mercato monetario e finanziario
internazionale era particolarmente instabile, gli stati si muovevano all’interno di regole autonome;
era perciò presente una forte difficoltà di organizzazione nel mercato degli scambi.

La necessità di una maggiore stabilità si avverte a causa di una serie di elementi:


1- La grande depressione ottocentesca: durante la quale i prezzi scenderanno vertiginosamente
prima sul mercato agricolo poi manufatturiero, questo genererà un grande disorientamento. Perchè
scendono i prezzi? La causa principale era attribuibile ai trattati di stampo liberista (es. Trattato
Cobden Chevalier).
In questi anni gli USA detengono la principale riserva di grano nel mondo; il primato produttivo
degli USA sul grano rende l’America l’esportatore per eccellenza del prodotto più utilizzato in quel
periodo. Gli USA acquisiscono supremazia anche grazie ad un sistema ferroviario avanzato ed un
regime di proprietà che conferiva enormi pezzi di terra ai coltivatori; in virtù di queste concause il
grano americano può facilmente riversarsi sul mercato europeo, dove incontra un sistema di
produzione del grano estremamente arretrato poiché caratterizzato da regimi di tipo latifondistico
(es. Mezzogiorno italiano), sono sistemi dotati di bassa resa produttiva e perciò poco competitivi
verso il sistema americano. Tutto questo comporterà una riduzione del prezzo del grano (ora
disponibile in quantità maggiori) che genererà a sua volta un meccanismo di caduta dei prezzi
complessivi e quindi un enorme schock nel mercato valutario.
2- Caduta del prezzo dell’argento: precedentemente i paesi utilizzavano l’argento per
commisurare le monete nazionali (attraverso le quantita di riserve argentee che i paesi avevano a
disposizione); tuttavia a causa della scoperta di numerose miniere d’argento si arriva ad un tracollo
di questo metallo (poiché se aumenta l’offerta dell’argento il prodotto scende di prezzo). Tutto
questo genera implicazioni sulla moneta che porteranno ad una rottura dei sistemi bimetallici (basati
sulla prevalenza dell’argento ) e all’introduzione di un sistema monometallico (basato sull’oro). Il
vero punto di svolta dei sistemi in questione viene dato dalla Germania che possedeva un sistema
bimetallico; dopo la sconfitta della Francia nel 1870, la Germania viene ricompensata dei danni di
guerra dalla Francia con una somma di marchi in argento. La Germania versa le riparazioni di
guerra a Londra (un sistema di tipo monometallico centrato sull’oro); questo passaggio di campo
coinvolgerà maggiori paesi e questo conferisce maggiore peso al sistema aureo.
Il sistema garantito dall’oro (gold standard) conferisce una stabilità maggiore nel sistema
monetario internazionale.

Il GOLD STANDARD è un sistema: semplice, automatico, impersonale (sembra che le azioni degli
uomini incidano poco su questo sistema), è dotato di una forte simmetria politica [gli attori
principali (GB, GERMANIA, USA) sono caratterizzati dallo stesso andamento in termini
economici ]. Questo sistema sembra funzionare senza l’intervento e controllo da parte di specifiche
istituzioni, è un meccanismo che si regge su 2 elementi : FIDUCIA TRA GLI ATTORI NEL
SISTEMA e CAPACITÀ DI COOPERARE.

Le tre regole di funzionamento del GOLD STANDARD:


1. Fissazione di una parità aurea (cambi fissi): le monete vengono commisurate con la medesima
unità di misura così da essere paragonate (es. servono 4 dollari per avere in cambio 1 sterlina quindi
in termini aurei il dollaro è pesato meno rispetto alla sterlina); lo scopo è comprendere la quantità di
oro che ogni moneta contiene rispetto all’altra;
2. Possibilità di convertire in oro le monete di carta e viceversa;
3. L’oro può muoversi liberamente da un paese all’altro;

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[POLLARD= affermava che il periodo della prima globalizzazione non registra guerre perché
questi paesi accettano la religione del gold standard, essi accettano la visione e le regole di questo
sistema].

FUNZIONAMENTO DEL GOLD STANDARD:


esempio: immaginiamo che un paese registri un eccedenza nelle esportazioni rispetto alle
importazioni, questo provoca un aumento del denaro e quindi un aumenta della quantità di moneta
disponibile nel paese TUTTAVIA questo porta ad una riduzione valore di quella moneta (erosione
della moneta). Troviamo quindi un’alterazione della bilancia del pagamenti; questa situazione potrà
essere sanata cedendo oro ad altre realtà, riducendo l’oro si riduce anche la quantità di moneta in
circolazione, questo porta ad una rivaluta della moneta nazionale e quindi ad un nuovo equilibrio.
Tutto funziona in virtù del rapporto fra le riserve AUREE e le quantità di banco-moneta emesse.

Dunque sembrerebbe che senza interventi esterni delle istituzioni, ma solo attraverso le 3 regole di
cui sopra, TUTTO funzioni in maniera perfettamente automatica. In realtà questo sistema risulta
essere funzionale grazie ad una serie di condizioni presenti in quell’epoca:
1. esiste un centro monetario internazionale (Gran Bretagna): è il cuore che distribuisce denaro
nel sistema internazionale e permette di avere le risorse monetarie utili a far funzionare il sistema
degli scambi internazionali;
2. simmetria politica (gli attori del gold standard presentano le stesse condizioni): sono paesi
creditori (creano ad altri dipendenza finanziaria verso se stessi), sono paesi che vivono l’imponente
processo di espansione industriale (seconda rivoluzione industriale);
3. presentano tutti un avanzato grado di innovazione finanziaria (hanno tutti una banca centrale
che stabilisce la quantità di moneta che assicura stabilità in un dato paese);

Grazie a questi elementi i principali paesi del gold standard (USA, GB, FR, GERM)
acquisiscono stabilità egemonica, essi presentano inoltre:
1. le stesse fluttuazioni cicliche, cioè meno problemi di aggiustamento della bilancia commerciale;
2. circolarità degli scambi tra paesi avanzati e paesi produttori di materie prime in virtù della
mobilità dei capitali, grazie al gold standard troviamo un innalzamento degli IDE (investimenti
diretti all’estero);
3. affinità politiche delle èlite nazionali, sono èlite politiche che pensano che l’obiettivo
fondamentale sia soltanto la stabilita monetaria. [Il gold standard non persegue obiettivi sociali di
supporto alla società ma ha come scopo solo la stabilità monetaria].

EFFETTI DEL GOLD STANDARD SUL COMMERCIO:


Effetti positivi: crescono le esportazioni, diventando persino maggiori rispetto al livello mondiale,
questo conduce ad una crescita del reddito pro capite (triplicazione del reddito pro capite a livello
europeo). In virtù di questa accelerazione del sistema degli scambi internazionali (mobilità) , si
assiste ad una progressiva crescita dei salari a causa dell’emigrazione.

Effetti negativi: il gold standard non conferisce benefici a tutte le realtà, ad esempio si percepisce
un enorme difficoltà nei paesi dove non sono presenti le banche centrali (es. America Latina);
infatti, a causa del gold standar ora bisogna produrre molta più moneta pur non avendo la quantità
di riserve auree che necessitano a garantire il valore di quella moneta, per tal ragione il valore di
quella moneta si avvilisce e questo porta ad un innalzamento dei prezzi (inflazione). I paesi in
difficoltà chiederanno prestiti internazionali dei paesi più ricchi e questo porterà a maggiori effetti
distorsivi.

Quindi il sistema gold standard risulta essere ambiguo: se si guarda dalla prospettiva europea e
americana sembra essere un sistema perfetto, questa visione appare distorta invece se osserviamo il
gold standard da altre prospettive.

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Le distorsioni compariranno a partire dalla fine dell’800 quando si riducono i filoni auriferi a livello
internazionale (miniere si esauriscono) portando alla contrazione dell’oro.
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01/04/20
LA DEGLOBALIZZAZIONE (1914-1945)
Dopo la prima guerra mondiale si assiste ad un passaggio verso la DEGLOBALIZZAZIONE.

LE CONSEGUENZE ECONOMICHE DELLA GUERRA: la guerra porta con se un carico di


distruzione materiale tale da rendere numerose realtà, come l’Inghilterra e la Germania,
completamente devastate alla fine del conflitto.

Come si arriva all’interruzione e disorganizzazione delle relazioni economiche


internazionali?
- Le politiche erano costituite in funzione dell’economia di guerra: le politiche ora guardano
all’interno e si adattano alle esigenze belliche del confitto, è una riconversione delle scelte politiche
in chiave economica; molti paesi decidono di adottare barriere protezionistiche (es.
contingentamento di beni che possono essere importati= ciò significa stabilire la quantità totale di
un dato bene che può essere importata).
- Sconvolgimento del commercio estero: le relazioni economiche si svolgono in maniera limitata
solo fra gli alleati appartenenti ai diversi blocchi che si erano creati durante la guerra.
- Perdita di posizione dell’Europa: a causa del conflitto abbiamo un blocco nel sistema di scambio
europeo.
- Siamo di fronte ad uno sconvolgimento dell’equilibrio mondiale, sopratutto nel mercato agricolo:
i paesi che entrano in conflitto fanno in modo che l’agricoltura abbia meno braccia (a causa della
chiamata della guerra) e che quindi produca di meno. Questo comporta il fatto che le nazioni
debbano rivolgersi all’esterno per alimentarsi; i paesi principali che risponderanno alla chiamata
delle nazioni in difficoltà sono Argentina, Brasile, USA che risultano essere i maggiori produttori di
grano durante gli anni della guerra. A causa dell’aumento di produzione in regioni già affermate
(USA) e in territori relativamente sottoutilizzate (Argentina e Brasile) si arriva ad una
sovrapproduzione che genererà una maggiore offerta rispetto alla domanda e perciò un
abbassamento del prezzo.
- Alterazione dei circuiti dell’investimento estero: i paesi europei (che prima della guerra erano i
grandi creditori del mondo) ora si trovano nella condizione di essere debitori per sostenere gli sforzi
bellici. Il paese che farà credito agli europei saranno gli USA (nazione non coinvolta nella guerra).
- TUTTO QUESTO PORTA AD UN ENORME INFLAZIONE: questo enorme aumento dei prezzi
penalizza molte fasce sociali (per esempio le persone che hanno reddito fisso), quindi si registrano
disagi nel tessuto sociale.

CONSEGUENZE ECONOMICHE DELLA PACE: i rapporti che si stabiliscono verso i paesi


vincitori sono caratterizzati dalla volontà di “Revenge” cioè l’obiettivo era vendicarsi dei paesi
responsabili del conflitto.

Cosa determina il Trattato di Versailles da un punto di vista economico?


- Smembramento dell’impero austroungarico (che copre tutta l’Europa centro-orientale e che prima
del conflitto era la zona principale di scambio): in conseguenza di ciò si creano tante nazionalità
(Ungheria, Romania, Cecoslovacchia, ecc.) in conflitto l’un l’altra; l’obiettivo è quello di
danneggiare la nazione vicina da un punto di vista economico [si parla perciò di nazionalismo
economico].

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- Chiedere alla Germania di pagare ai paesi vincitori le riparazioni di guerra: i tedeschi vedono
azzerati i vantaggi economici ottenuti fino a quel momento. Nello stesso tempo gli USA richiedono
ai paesi vincitori di saldare il loro debito.
Nasce così una SPIRALE DEI DEBITI DI GUERRA: per pagare gli USA i paesi vincitori
chiedono soldi alla Germania, questa però si trova in un processo di iperinflazione (il valore del
marco tedesco si riduce gradualmente). QUESTA SPIRALE DETERMINERÀ
L’IMPOSSIBILITA DI RICOSTRUIRE UN CLIMA DI RIPRESA ECONOMICA
COMPLESSIVA.

Nel 1924 si prova ad uscire da questa spirale attraverso il piano Dawes, si cerca di rinegoziare un
piano di ripresa per far si che gli USA recuperino i soldi dati durante la guerra, tuttavia il piano
fallisce e la spirale non si interrompe.

All’indomani della guerra tutti richiedono un ritorno al gold standard. Purtroppo però sono
cambiate le condizioni che rendevano il gold standard funzionale.
Condizioni che rendono il gold standard non più realizzabile:

• l’Inghilterra non è più in grado di svolgere il ruolo principale nell’economia internazionale,


non era più la Nazione creditrice per eccellenza ma era adesso una delle nazioni debitrici;
inoltre registrava una bassa potenzialità produttiva. [La sterlina si era ormai indebolita];
• era presente una forte rigidità all’interno del mercato a causa delle diverse implicazioni
politiche che la guerra aveva generato;
• la guerra ha portato con se l’ampliamento del suffragio universale, i popoli ora richiedono
delle misure di welfare di supporto alla società. Questa era una richiesta completamente in
contrasto con quelli che erano i postulati del gold standard;

PERCIÒ, nel 1922 con la Conferenza di Genova, si cerca di trovare una sorta di surrogato del Gold
standard: IL GOLD EXCHANGE STANDARD. Poichè la guerra aveva bruciato anche le risorse
auree delle nazioni, non ci si poteva più basare sul valore costituito dall’oro; si tenta nel 1922 una
possibile ricomposizione fra gli interessi in campo. Lo scopo del Gold exchange standard era quella
di abbinare all’oro un’altra moneta (si pensava alla sterlina), tuttavia la sterlina non aveva più la
forza necessaria. Quindi: da un lato, l’Inghilterra rivendica lo stesso ruolo centrare che aveva avuto
prima del conflitto; mentre dall’altro USA e Francia avversano questa richiesta della GB.
La Francia valuta la propria moneta ad un rapporto aureo più basso, questo fa sì che il franco
diventi più competitivo; la Francia immagazzina in virtù di questa competitività una maggiore
quantità di oro. Nonostante ciò, la Francia non ha intenzione di cooperare con l’Inghilterra per farla
diventare di nuovo il centro del sistema.

Il quadro complessivo: NON C’È PIÙ COOPERAZIONE FRA I PAESI, ognuno detiene le
quantità d’oro a disposizione per se; è evidente che questi sono dei comportamenti in contrasto con
il Gold Standard.

QUINDI, il ritorno al gold standard surrogato (o gold exchange standard) non si realizza, anzi
il fatto stesso di rincorrerlo aggrava l’instabilità del sistema.

I 4 elementi che rendono impossibile il ritorno al gold standard:


1. l’impatto della guerra sul sistema monetario rende gli stati poco propensi a cooperare (Francia e
USA non volevano aiutare l’Inghilterra a riconquistare il ruolo centrale);

2. i debiti realizzati in guerra pesano sulla bilancia commerciale dei paesi, questo fa registrare
enormi disavanzi che ostruiscono le riserve di capitali utili a ristabilire il sistema. La situazione è

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inoltre aggravata dagli USA, che hanno tutte le condizioni per poter supportare l’Inghilterra (visto
che la loro capacità era accresciuta con la guerra) ma non vogliono farlo, anzi gli americani
attireranno altri capitali verso la loro nazione;

3. in virtù di questo atteggiamento gli USA agiscono avendo come obiettivo quello di deflazionare il
proprio sistema monetario. Essi riescono a farlo alzando il costo del denaro (quindi alzando i tassi
di sconto sui prestiti), questo comporterà un enorme flusso di capitali verso l’America.

I presupposti appena descritti giocheranno un ruolo fondamentale nella grande depressione del
1929.
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07/04/20
LA CRISI DEL 1929: rappresenta il picco di quelle difficoltà che possono essere fatte risalire alla
fine del primo conflitto mondiale. È una crisi che viene continuamente evocata e studiata ogni volta
che si arriva a periodi economici negativi; per esempio negli anni 70 oppure a partire dal 2008.
In ogni caso i risultati di questa crisi sono stati devastanti sia in termini sociali che economici; è una
crisi che coinvolge tutti i settori strategici di un’economia nazionale: è una crisi finanziaria,
dell’economia reale e del sistema bancario.

LE CAUSE DELLA CRISI DEL 1929:


• Le premesse storiche: per comprendere gli effetti e la genesi della crisi bisogna partire
dalle premesse storiche che affondano nella guerra e nel primo dopoguerra; quindi bisogna
tenere in considerazione le conseguenze economiche della pace e della guerra.

• Le premesse economiche: il sistema delle relazioni economiche finanziarie internazionali


muta durante i tempi di guerra. Gli USA durante la guerra diventano creditori degli altri
paesi, tutto si ribalta rispetto a prima; tuttavia questo non porta ad una capacità di alimentare
il sistema economico internazionale con quei capitali utili per il suo funzionamento.
Piuttosto, questa situazione porta ad una sovrapposizione di una serie di elementi di rigidità:
rigidità del mercato del lavoro ( partiti, organizzazioni sindacali ecc. cercano di guadagnare
livelli salariali accettabili anche a causa di quella spirale inflazionistica, ciò genera una forte
tensione sociale tra i diversi gruppi); rigidità costituita dalla creazione di grande imprese e
cartelli volti a realizzare forme di monopolio; il sistema fordista tende ad indebolirmi
all’indomani del primo conflitto mondiale.

• Le premesse bancarie: troviamo un’ anarchia del sistema bancario, il ruolo determinante
delle banche centrali si era dimostrato funzionale con il sistema del gold standard ma con il
conflitto quel sistema perde di forza. All’interno dei singoli paesi si registra ora un crescente
conflitto fra tutti i segmenti del sistema creditizio.
• Le premesse di carattere sociale: (boom economico, ottimismo,, consumismo); gli USA,
proprio perchè non coinvolti nel conflitto, hanno continuato a sviluppare un sistema
economicamente forte contraddistinto da alti livelli di occupazione e un generale
accrescimento della ricchezza complessiva. Grazie a queste condizioni ritroviamo negli anni
20 in USA uno spiccato processo di consumismo: a causa del forte incremento economico
ritroviamo un innalzamento della domanda interna. Vengono sopratutto acquistati beni
intermedi che aumentano la comodità della vita (lavatrici, macchina, redio ecc). Data una
domanda cosi forte la paura negli USA dovrebbe essere quella di ritrovarsi in una
condizione di eccesso dell’offerta rispetto alla domanda, TUTTAVIA la capacità di
produzione americana è talmente consistente tale da soddisfare la domanda interna. Il
mercato USA si sarebbe potuto anche espandere oltre i confini nazionali, tuttavia le forti
politiche protezioniste del tempo non lo concedevano.

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Gli imprenditori americani, avendo l’impressione (ILLUSIONE MONETARIA 2) che la


domanda rimanesse così consistente nel tempo, fanno ulteriori investimenti (per accaparrarsi
quote di profitto più alte) e quindi ricercano nuovi capitali attraverso: la borsa e
l’indebitamento (convinti che, questo indebitamento, potesse essere sostenuto in virtù della
forte domanda interna).

• Le premesse finanziarie: le banche hanno bisogno di mettere in piedi una serie di strumenti
che facciano percepire ai clienti il fatto che siamo in una fase in cui il denaro può essere
ottenuto molto facilmente; questo alimenta ancora di più il processo di illusione monetaria.

• La causa scatenante: tutte queste premesse fanno sì che la speculazione finanziaria e i


giochi in borsa siano un’attività di grande vantaggio e redditività. Perchè se da un lato ci
sono le imprese che esibiscono e vendono le loro azioni in borsa grazie ad una condizione
patrimoniale accattivante, dall’altro lato ci sono i risparmiatori che in virtù di questa
illusione monetaria acquistano i titoli.

È logico pensare che questo è un mercato che si alimenta da solo: se i titoli in borsa sono
accattivanti, la domanda di quei titoli accresce sempre di più portando ad un aumento del valore dei
titoli stessi; tuttavia si tratta di un valore illusorio dato dal gioco speculativo e non dall’effettiva
entità delle attività economiche svolte dalle imprese.

Ora dentro a questo gioco di domanda e offerta si innesca la procedura dell’illusione


monetaria.
Qual è il meccanismo del gioco in borsa? Lo scopo era quello di acquistare titoli per poi rivenderli
ad un prezzo maggiore (grazie al continuo aumento di valore) così da ricavare un margine di
profitto.
Le banche iniziano ad inserire strumenti finanziari che sostengono i giochi in borsa cioè: i “caller
loans (debiti di riporto)” che consentivano di ricevere un prestito per un valore del 80/90 % del
capitale impiegato nell’acquisto di azioni. [I DEBITI DI RIPORTO erano chiamati cosi perché
potevano essere «chiamati» indietro dal creditore: è vero che erano garantiti dai titoli, ma dato che
venivano fatti fino al 90% del valore dei titoli, se il titolo sottostante andava giù di più del 10%, il
prestito non era coperto da una garanzia piena.]

Qual era il procedimento proposto dalle banche?


ESEMPIO: possiedo 5000 dollari di capitale con cui ho intenzione di acquistare alcune azioni,
l’agente di borsa (rappresentate della banca) mi propone di integrare il mio capitale con una
richiesta di credito (caller loans) così che le possibilità di guadagno si amplifichino rispetto ai titoli
acquistati.
Durante quel periodo a Wall Street tutti rincorrono i titoli, così da creare paurosi collegamenti tra il
sistema bancario (gli agenti di borsa) e i risparmiatori detentori di capitale attratti dalla grande
redditività dei titoli dei quel periodo.
RICORDIAMO CHE TUTTO QUESTO PUÒ FUNZIONARE SOLTANTO SE ABBIAMO DEI
TITOLI DI VALORE SEMPRE CRESCENTE.

Si arriva ad un certo punto in cui qualcuno inizia a vendere i titoli acquistati. NEL SISTEMA
FINANZIARIO SE QUALCUNO INIZIA A VENDERE LE PROPRIE AZIONI
INTERROMPENDO IL GIOCO SPECULATIVO vengono in essere dei dubbi circa il valore
dei titoli. Adesso tutti fanno l’esatto opposto rispetto a prima, iniziano vendere le proprie azioni;
questo genererà una perdita di valore dei titoli stessi. Il 24 ottobre 1929 il valore dei titoli inizia a
scendere rapidamente fino a portare al crollo della borsa di Wall Street.

2 Errore di valutazione di cui sono vittime gli agenti economici quando prendono le loro decisioni in funzione delle
variazioni del valore nominale della moneta, piuttosto che in relazione alle modificazioni del suo valore reale.

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A causa della perdita di valore dei titoli gli imprenditori devono pagare i loro debiti (caller loans)
alle banche, ma questi non sono più in grado farlo perchè i titoli sono crollati piuttosto che
aumentare. Qui inizieranno gli effetti della la crisi del 1929.

GLI EFFETTI DELLA CRISI:


Il crollo della borsa azionari ed il mancato pagamento di molti debitori sui propri caller loans
portano ad una crisi bancaria ed una progressiva svalutazione del dollaro. Il risultato è una serie di
fallimenti a catena tra le imprese manifatturiere che erano state coinvolte in questo meccanismo.
Ben presto, però, l’impoverimento del consumatore/risparmiatore causa un crollo della domanda
interna e, quindi, un crollo dei prezzi. Il risultato dalla crisi finanziaria è, quindi, una crisi di
sovrapproduzione.
Sarebbe, tuttavia, stato ancora possibile per le autorità politiche statunitensi ridurre questo impatto
sull’economia reale se l’economia fosse stata aperta verso l’estero. All’opposto, il protezionismo
richiesto a grande voce dagli agrari causa un irrigidimento del sistema degli scambi e del
commercio internazionale. Ovviamente, questa dinamica è reciprocata dagli altri Stati avviando
una spirale letale.
L’effetto finale è, dunque la crescita esponenziale della disoccupazione causata dell’estendersi dei
fallimenti a macchia d’olio. La produzione industriale, ovviamente, si riduce (in tre anni del 60%)
così come l’aspettativa di vita.

DIFFUSIONE DELLA CRISI:


La complessiva rigidità del sistema economico internazionale trasforma la crisi degli USA in una
crisi mondiale. Nel corso del 1930 ben 18 dei 25 paesi più ricchi sono già in recessione ed il
numerò salì a 22 nell’anno successivo. Gli investimenti diretti all’estero diventano, così,
sconvenienti e si dimezzano nel corso di tre anni.
Il commercio internazionale, prevedibilmente, crolla sia in termini di valore (72%) sia in termini di
volume (60%) a causa del protezionismo predicato da più parti.
Infine, l’ostilità delle banche centrali di Francia e USA alla circolazione dell’oro mette la parola
fine sull’esistenza inconcludente del golden exchange standard.

LA RIPRESA:
Nel corso degli anni ’30 il cambio alla Presidenza negli USA con l’elezione di Franklin Delano
Roosevelt (FDR) segna l’avvio di una policy economica anti-ciclica che punta ad alleviare le
sofferenze delle classi lavoratrici. Col New Deal le policy keynesiane3 si affermano come la nuova
norma sebbene la stessa amministrazione di FDR li volesse temporanei. Concretamente esso si
materializzò in:
Creazione della Tennessee Valley Authority per l’agricoltura;
Un programma di sussidi per la riduzione della produzione;
Riforma dell’agricoltura;
Riforma del settore bancario.
In Europa l’adozione di politiche interventiste fu la bandiera di regimi autoritari (e.g. la dittatura
di Boris III in Bulgaria), dei diversi fascismi (i.e. l’Italia, il Portogallo, etc.), del
nazionalsocialismo ed ovviamente del comunismo in URSS.
La vera uscita del sistema internazionale dalla Grande Crisi si avrà con gli investimenti massicci
degli Stati centrali e di alcuni Stati (semi-)periferici in armamenti per combattere quella che sarà la
Seconda Guerra Mondiale. La diversa policy degli USA nel secondo dopoguerra sarà, poi,
fondamentale per la ripresa definitiva delle economie occidentali nel post-1945.
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3 Keynes, riteneva necessario l'intervento dello Stato che, attraverso la spesa pubblica, può determinare un aumento
del livello di occupazione e, di conseguenza, un aumento dei redditi delle famiglie e, quindi, dei consumi.

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08/04/20
LA SECONDA GLOBALIZZAZIONE (1945-1970)
Il periodo successivo alle due guerre mondiali è un periodo di ripresa sul piano dell’economia
internazionale che si traduce in una rapida capacità dei paesi di riconquistare le posizioni perse tra
il primo e il secondo conflitto mondiale. Questo periodo offre una visione della globalizzazione che
ha caratteristiche particolarmente diverse rispetto alla prima fase; infatti durante la seconda
globalizzazione viene più volte fatta una sorta “considerazione degli errori compiuti negli anni ‘20”
cos’ da evitare il riproporsi di quelle tragiche condizioni che erano avvenute con la crisi del 1929.

Ancor prima della fine della seconda guerra mondiale, gli USA immaginano di attuare un
comportamento contrario rispetto a quello che si era tenuto negli anni ‘20 (fatto da politiche
commerciali protezioniste, deflazionistiche); lo scopo era quello di costruire un modello di
cooperazione economica internazionale guidato dagli USA in cui la politica e i sistemi di
governance avessero un ruolo fondamentale che viene ovviamente visto in chiave keynesiana.

Inoltre, gli Stati Uniti mettono un punto al loro isolazionismo preoccupandosi di favorire
pienamente e rapidamente la ripresa dell’Europa attraverso l’instaurazione del PIANO
MARSHALL (1947). Come funzionava?
Il piano dura 4 anni (1948-1952), prevede un impegno finanziario degli USA verso i paesi alleati
e non, questo perché ormai gli americani non puntano all’umiliazione degli sconfitti e capiscono
che la ripresa dell’Europa passa per un contestuale ritorno ad un’economia internazionale di pace. Il
piano Marshall (particolarmente aderente alle teorie di Keynes) non prevede l’attribuzione di fondi
di capitale ai paesi europei da parte degli USA ma prevede piuttosto un complesso meccanismo di
aiuti materiali (merci, macchine della produzione, beni alimentari) forniti dagli Stati Uniti.
Inizialmente gli usa chiedono ai singoli paesi europei di formulare un loro fabbisogno che viene
preventivamente valutato e poi reso coerente in maniera complessiva dall’OECE (un’istituzione
voluta degli USA composta dai paesi europei); tuttavia la decisione finale spettava ad un altro ente:
l’ECA (voluto dal congresso americano) che gestiva il flusso di risorse tra USA ed EUROPA.
Con questo complesso sistema decisionale si comprende facilmente il fatto che gli Stati Uniti sono
disposti ad aumentare il flusso di risorse verso i paesi europei A PATTO CHE queste risorse
siano impegnate nelllo sforzo di riavviare l’economia di pace.
Perciò, dopo l’approvazione dell’ECA, cominciano a partire gli aiuti materiali verso l’Europa;
questi beni arrivano ai singoli stati europei i quali successivamente rivendono i suddetti beni agli
operatori economici nazionali ad un prezzo ‘politico’ (fuori mercato) che consente di acquisire
ulteriori risorse. Inoltre ogni governo doveva costituire un "fondo di contropartita" nella propria
moneta nazionale; tale fondo (in cui doveva essere versato il ricavato dalla vendita delle merci
ottenute) doveva essere utilizzato per la ripresa e lo sviluppo economico del paese, questo ha un
effetto di moltiplicatore nello sviluppare una forza di sostegno alla ripresa delle economie
internazionali; TUTTAVIA il fondo in questione poteva essere gestito solo attraverso le decisioni
prese dall’ECA (quindi dagli USA).
In appena 4 anni questo sistema, fortemente concentrato nelle mani degli USA, riesce a costituire
un punto di forza per la ripresa dell’economia europea.
Nel piano Marshall si notano degli elementi innovativi:
1. una scelta politica coerente, gli USA vogliono contribuire alla ripresa dell’Europa
indipendentemente da vincitori e vinti;
2. capacità di collegare questi aiuti anche alla prospettiva di non incorrere più in una crisi di
sovrapproduzione, perciò si preferendo risorse materiali piuttosto che monetarie;
3. gli USA esercitano con forza questo ruolo di promotore dello sviluppo, riservandosi anche la
facoltà di decidere sui fondi di contropartita;

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La conferenza di BRETTON WOODS del 1944 favorisce la costruzione istituzionale del piano
MARSHALL; esso era formato da 3 istituzioni:
1. FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE (FMI): destinato a garantire la stabilita
monetaria dell’economia internazionale accogliendo quelli che erano i principi basilari del
gold standard ma con una correzione di rotta poiché ormai l’oro aveva lasciato il posto al
dollaro. Il compito era concedere crediti a breve termine ai paesi in difficoltà a patto di
impostare politiche di risanamento dei bilanci quindi occorre guardare alla prospettiva di
tenere i conti pubblici in ordine utilizzando 3 elementi:
a) controllo del mantenimento della parità aurea= nel caso di squilibri della moneta nazionale gli
stati possono eccedere del più o meno 10% rispetto a quella che è la parità aurea fissata ma è
possibile farlo solo in maniera temporanea;
b) attività di condizionalità= lo stato in difficoltà riceverà risorse monetarie dal FMI solo a
condizione che quelle risorse vengano impiegate per riuscire ad equilibrare la parità aurea fissata;
c) attività di sorveglianza= per esempio sui flussi complessivi di capitale di un paese all’altro;

2. BANCA MONDIALE: che oggi agisce come istituto di credito e che serve a rilasciare
una serie di capitali per finanziare progetti per la ripresa dello sviluppo economico dei
paesi più arretrati. In realtà all’origine, questo istituto era stato pensato per la ricostruzione
europea, tuttavia questa richiedeva molti più specifici impegni (ecco perchè nasce il piano
Marshall) perciò la Banca Mondiale verrà poi dirottata nel sostegno al processo di sviluppo
dei paesi più poveri;

3. ACCORDO GENERALE SULLE TARIFFE DOGANALI E SUL COMMERGIO


(GATT): questa istituzione al contrario delle precedenti non nasce con Bretton Woods. Il
GATT si impegna ad alleggerire il sistema degli scambi internazionali dal peso del
protezionismo che si era formato fino a quel momento; ora bisognava eliminare le ccessive
misure protezionistiche ed aprire al commercio degli scambi internazionali;

La partecipazione dei paesi a queste 3 istituzioni è volontaria, tuttavia c’è un intreccio fra queste 3
istituzioni. Esse per funzionare hanno bisogno di un budget che viene conferito dai paesi, il paese
che fornisce maggiori risorse è anche colui che ha un maggior peso in sede decisionale.
[Ai tempi il paese con maggior peso era l’America, in virtù degli aiuti forniti ai paesi europei ma
anche a causa di implicazioni geopolitiche (basti pensare alla ‘Cortina di ferro’ della Guerra
Fredda)].

Il sistema GATT riguarderà in modo prevalente gli scambi di beni manufatti. Perchè?
Il commercio internazionale della prima globalizzazione era di tipo verticale: cioè beni manufatti
del nord erano scambiati con le materie prime e i prodotti agricoli provenienti dal sud (il così detto
scambio ineguale); all’indomani del secondo conflitto mondiale le politiche di stampo liberista
verranno applicate soltanto ai beni manufatti, si tengono fuori i paesi in via di sviluppo i quali
verranno concepiti come dei pericolosi concorrenti su almeno 2 mercati: prodotti tessili e prodotti
agricoli.
Questo significa che la partita si svolge soltanto tra i paesi sviluppati, mentre quelli in via di
sviluppo continuano ad incorrere in misure protezionistiche data la natura dei beni venduti.
Si passa così da un modello di scambio di tipo verticale come quello della fine dell’800 (che tra
l’altro garantiva maggiore partecipazione dei paesi più poveri al mercato internazionale) ad un
commercio orizzontale in cui i beni scambiati sono solo i quelli manufatti.

GLI EFFETTI DEL PIANO MARSHALL SI DISPIEGANO RAPIDAMENTE E


CONTRIBUISCONO ALLA CRESCITA dagli anni 50 agli anni 70.

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L’economia internazionale riparte grazie alla mobilità dei diversi fattori (capitali, fattori produttivi,
mobilità umana).
Se nella prima globalizzazione la mobilità dei fattori aveva un senso univoco, cioè i questi
andavano tutti nella stessa direzione ovvero gli USA; adesso invece, con la seconda globalizzazione
abbiamo flussi divergenti poiché troviamo una mobilità dei fattori solo tra i paesi ricchi.
TUTTAVIA i flussi migratori questa volta hanno un andamento diverso: non più da nord a nord ma
da sud a nord; questo alimenta la divergenza fra nord e sud.
Ciò che bisogna notare è che durante la prima globalizzazione le disuguaglianze economiche
all’interno dei paesi erano in qualche modo non troppo evidenti, anzi tendevano ad equipararsi;
nella seconda globalizzazione, invece, si registra uno scarto interno consistente fra nord e sud,
anche in virtù del fatto che i paesi del nord cercano di ‘raggiungere’ le economie di zone più
avanzate tramite processo di catching-up.

Durante questi 20 anni non ci sono crisi, lo stato gioca un ruolo fondamentale in piena
conformità con le teorie keynesiane.

LA CRISI DEGLI ANNI 70: tra la fine degli anni 60 e gli inizi degli anni 70 concorrono una serie
di circostanze che cambiano il quadro di crescita, i grandi miracoli economici si tramutano in un
momento di stop. 2 elementi concorrono alla crisi:
1. il dollaro non è più in grado di sostenere il sistema di Bretton Woods: il dollaro con Bretton
Woods veniva definito come la moneta forte, come la moneta dei pagamenti internazionali.
Perciò il dollaro doveva essere coniato in quantità tali da sostenere non solo gli scambi
interni al paese ma anche gli scambi del sistema internazionale nel suo complesso. A causa
dell’importanza del dollaro il bilancio americano è strutturalmente in deficit, ma è un deficit
giustificato dal ruolo fondamentale che quella moneta gioca all’interno del sistema
internazionale.
Alla fine degli anni 70 il dollaro viene a subire una serie di interventi interni da parte degli USA che
ne minano la forza: gli USA finanziano la guerra in Vietnam. Sono anni in cui si comincia a
speculare sulla tenuta del dollaro; nel 1971 Nixon affermerà che il dollaro non è più in grado di
reggere il sistema dei cambi fissi di Bretton Woods.
Da quel momento in poi, il dollaro non può più rappresentare quella riserva su cui si erano costruite
le parità auree e il sistema dei cambi fissi viene sostituito da uno a cambi flessibili.

2. Lo shock petrolifero del 1973: precedentemente il mercato del petrolio era saldamente in
mano alle “7 sorelle” cioe sette multinazionali (5 americane e 2 inglesi) che gestivano
l’intero mercato e che offrivano il petrolio a prezzi assolutamente bassi.
A partire dagli anni 60, causa del prevalere di élite sovietiche, avviene un processo di
nazionalizzazione della risorsa del petrolio da parte dei paesi arabi produttori di petrolio insieme al
Venezuela e dunque (anche a causa di implicazioni geopolitiche) per andare contro all’America si
decide di aumentare il prezzo del petrolio ( che passa da 3 dollari al gallone a 11 dollari al gallone).
Questo cosa implica? Se prima il sistema economico si poteva dotare di petrolio a costi molto bassi,
adesso a causa dell’aumento del prezzo il sistema economico si trova all’interno di un quadro
disastroso dei costi della produzione (oltre ad aumentare il costo del petrolio aumenta anche il costo
del lavoro). Il sistema fordista non regge più a questi costi, come anche il sistema politico dei tempi.

PERCHÈ RITORNANO LE INSTABILITÀ? Il gioco dell’aumento di prezzo di petrolio è


pericoloso. Innanzitutto i paesi produttori di petrolio si trovano sommersi da un enorme quantità di
moneta (a causa dell’aumento del prezzo) che utilizzano per alimentare un processo di
finanziarizzazione dell’economia internazionale. Cioè, le banche si trovano ad avere quindi una
quantità enorme di denaro e per mobilitare queste quantità di denaro si aprono ai paesi più poveri i
quali possono dunque attingere al credito bancario pagando un basso tasso d’interesse. TUTTAVIA

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i paesi poveri non sono in grado di convertire questo credito in processo di sviluppo, inizia quindi la
piaga dell’indebitamento finanziario dei paesi più poveri.

Dalla crisi degli anni 70 si uscirà grazie alla terza rivoluzione tecnologica, quella informatica.
Prima la tecnologia era di tipo materiale: carbone, vapore. petrolio ecc. , adesso il paradigma
prevalente è la conoscenza. In questa rivoluzione si registra anche il passaggio da un modello
classico di multinazionale ad un modello transnazionale.
-Modello classico: esiste un’impresa madre che costruisce delle sussidiarie in altri paesi;
-Modello transnazionale: l’impresa madre non ha più vantaggio a costruire una sussidiaria in un
altro paese ma è molto più conveniente costruire un rapporto di affari con imprese già esistenti in
altri paesi a condizione che queste utilizzino i nuovi linguaggi dell’economia e della conoscenza.
IL PROCESSO DI PRODUZIONE SI È ORA INTERNAZIONALIZZATO.
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21/04/20
SECONDA PARTE DEL CORSO: le migrazioni, elementi che determinano questo fenomeno e le
metodologie utilizzate per studiarlo.

LE MIGRAZIONI
Le migrazioni sono uno di quei fattori di mobilità che determinano la qualità del processo di
globalizzazione; migrazione e globalizzazione sono fenomeni proporzionalmente correlati, come
anche la rivoluzione dei trasporti e della comunicazione. Altra questione che favorirà la
migrazione è il fatto che verranno a crearsi diverse velocità nei processi di sviluppo (diffusione
selettiva dei modelli di sviluppo), anche in virtù di questo processo le masse tenderanno a migrare.

Tutti questi fattori determinano, nel contesto di un economia che va sempre più globalizzandosi,
molte disuguaglianze economiche; infatti, la spinta che determina la scelta di migrare riflette in
primo luogo la percezione di queste disuguaglianze. È proprio a causa di questa percezione che le
persone saranno indotte a migrare, così da riuscire a migliorare le proprie condizioni di vita.

DISUGUAGLIANZA= è la diversa possibilità di accedere alle risorse economiche, sociali e


naturali di cui si dispone. Esistono 3 diversi livelli di disuguaglianza:
1. Trattamento: diverso accesso ad aspetti importanti della vita (es. la giustizia, la disparità tra
generi e generazioni, disparità ci accesso ai diritti fondamentali dell‘uomo, controllo
inadeguato sull’esenzione fiscale), cioè la crescita economica si accompagna a
sperequazioni che determinano diversità di trattamento tra soggetti in base a come questi si
posizionano nella gerarchia sociale;
2. Opportunità: profonda disparità nell’accesso alle diverse opportunità che il sistema offre
(es. opportunità mercato del lavoro oppure nel mercato monetario), cioè ci sono filtri che
rendono, a seconda dei soggetti, facile o difficile l’accesso a determinate opportunità e
mercati;
3. Condizione: disparità dovuta al fatto che lo Stato non è in grado di garantire uguale
trattamento a tutti i suoi cittadini;

Il tema della disuguaglianza economica in realtà varia a seconda delle EPOCHE STORICHE:
-PRIMA GLOBALIZZAZIONE: con l’avvio dell’industrializzazione la disuguaglianza si determina
all’interno dei diversi contesti nazionali ma, ancor di più, determina un allargamento del divario tra
i diversi paesi (disuguaglianza esterna); l’800 quindi genera ineguaglianza interna ed esterna.

-DEGLOBALIZZAZIONE: è un momento in cui il processo di integrazione del mercato


internazionale si arresta, questo determinerà una sorta di pausa in termini di disuguaglianze interne
ed esterne. Siamo in un periodo in cui è presente una leggera redistribuzione della ricchezza,
complice il fatto che verranno introdotti strumenti di sostegno alla popolazione (welfare). Non è un

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caso che in quest’epoca i processi migratori vadano lentamente a diminuirsi, anche a causa di scelte
costrittive degli stati per i cittadini in entrata (es. protezionismo degli USA).

-SECONDA GLOBALIZZAZIONE: in questo periodo ritorna a crescere la diversificazione


economica e sociale ma in maniera meno evidente fra un paese e l’altro, anche perché all’interno
del terzo mondo partiranno esperienze positive (Cina, India, Tailandia ecc…). Questo genererà una
segmentazione all’interno del Terzo Mondo: alcuni paesi si staccano dai livelli di arretratezza di
quei sistemi; tuttavia lo stato di disuguaglianza non verrà superato, infatti mentre alcuni paesi
emergeranno, altri rimarranno allo stato originario.
Le disuguaglianze che si determinano nel corso della seconda globalizzazione risentono anche di
altri elementi: innanzitutto, processi apparentemente liberatori creati allo scopo di porre un freno
alla discesa nella povertà delle Nazioni più sfortunate (es. processi di colonizzazione e di
modernizzazione lanciati dai paesi del Nord), si dimostrano incapaci di svolgere questo ruolo.
Infatti si scoprirà che stati meno industrializzati non sono in grado di avviare un processo di
imitazione dei paesi del Nord (catching up) sopratutto negli anni 80 (il così detto decennio perso
allo sviluppo). Inoltre, si riconosce ulteriormente il divario quando si comincia a misurare il
processo di ineguaglianza non soltanto nella diversità di reddito ma anche grazie a variabili come
l’accesso all’acqua potabile, la minima assistenza sanitaria ed educativa, ecc.. (quindi si pondera
sugli aspetti quotidiani della vita della persona).
Come dicevamo prima, nelle realtà del Terzo Mondo avvengono alcuni processi di sviluppo. Questi
tenderanno a creare una classe MEDIA che allungherà le distanze tra l’alto e il basso della scala
sociale dei paesi poveri; si manifesta un ceto che in termini di redistribuzione delle risorse finisce
per accentuare la discesa delle classi più basse di quelle stesse realtà sociali.

PERCIÒ, la disuguaglianza va a definirsi man mano che il processo di globalizzazione, con


tutti i suoi fattori, amplia le sue capacità e coinvolge più popolazioni.

QUALI SONO GLI EFFETTI FINALI DELLA DISUGUAGLIANZA?


[La riduzione dei costi e il miglioramento (anche grazie alla rivoluzione informatica) di trasporto e
comunicazione, hanno l’effetto di sostenere la migrazione.]
Persiste una disuguaglianza nella distribuzione mondiale del reddito, basti pensare che nel ‘900 i
paesi poveri rappresentano il 21% della popolazione mondiale ma godono solo del 3% del reddito
mondiale, i paesi a reddito medio rappresentano il 70% ma godono solo del 19% del PNL, mentre i
paesi ricchi rappresentano solo il 9% della popolazione mondiale ma detengono il 78% del PNL.
Due elementi hanno favorito queste divaricazioni così profonde:
1. l’affermarsi delle politiche liberiste del mercato che hanno l’obiettivo di costruire un processo di
crescita assoluta ma senza occuparsi della redistribuzione della ricchezza;
2. progressiva perdita della capacita ostativa da parte degli stati nel contrastare questi processi di
concentrazione della ricchezza, infatti la politica diventa una sorta di modello ancillare a quello che
il mercato andava imponendo con le sue ferree regole.

A proposito della DISUGUAGLIANZA, PIKETTY fornisce un quadro preoccupante della


distribuzione mondiale dei redditi basandosi sul patrimonio e non sul reddito; egli ripercorrendo
250 anni di redistribuzione della ricchezza patrimoniale, arriva alla conclusione che nei paesi più
sviluppati la disuguaglianza economica sia enormemente aumentata. Egli attribuisce la questione al
fatto che le ricchezze patrimoniali crescono man mano che diventa più lento il processo di crescita
economica complessiva.
Piketty parla dei paesi di nuova industrializzazione (es. Cina, India, ecc…) affermando che in questi
paesi il processo di redistribuzione dei redditi è più equilibrato perché risulta essere presente una
grande diffusione della conoscenza, grandi investimenti nella formazione e competenza. Infatti
questo aveva prodotto non solo l’accelerazione del processo di crescita industriale ma aveva anche
favorito una redistribuzione più ampia della ricchezza in questi paesi.

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Se invece questo processo industriale procede in maniera lenta (ad esempio si sceglie di essere
giocatori della partita finanziaria) tutto si traduce in una impennata delle disparità economiche
interne tra i paesi più sviluppati.
Nel periodo di riferimento, dunque si registra nei paesi una divaricazione interna causata della
mancanza degli ammortizzatori sociali (modelli di welfare, che aiutavano nella redistribuzione della
ricchezza) e dal forte livello di finanziarizzazione dell’economia.

CHE VARIABILI SI UTILIZZANO PER MISURARE LE DISUGUAGLIANZE


ECONOMICHE?
Oltre alle classiche variabili quantitative ritroviamo: l’indice di sviluppo umano (che prende in
considerazioni altre variabili oltre al reddito); utilizzatori di internet (la percentuale della
popolazione mondiale che usa internet); l’intensità d’uso di un social come facebook; ecc...

QUALI CAUSE AGISCONO NEL DEFINIRE L’INTENSITÀ E LA DIREZIONE DEI


FLUSSI MIGRATORI?
• Disparità di reddito: sono disposto a partire se percepisco che posso migliorare il mio
livello di reddito (è questo l’elemento maggiormente determinante nei grandi esodi storici);
• Crescita dei ceti medi: in alcune realtà come Cina o India i ceti medi, che si ritrovano dentro
un contesto di povertà, scelgono di emigrare non tanto per la disparità di reddito ma
piuttosto per consolidare la posizione sociale guadagnata in patria. Essi sono in cerca di
paesi in cui venga garantito: opportunità di occupazione sicura, disponibilità di capitali per
attività imprenditoriali, necessità di gestire il rischio nel lungo periodo;
• Strategie di carattere familiare: la scelta di migrare è dettata collettivamente dal nucleo
familiare (ad esempio vengono scelti componenti giovani, i quali hanno più possibilità di
fare soldi, possono muoversi più facilmente ed impegnarsi in lavori più remunerativi);
• Influenze esterne: le traiettorie del processo migratorio sono definite da una serie di
influenze esterne (colonizzazione, influenza politica, stabilità degli scambi commerciali o
investimenti, legami culturali). Per cui si creano quasi delle rotte privilegiate tra l ex-paese
colonizzatore e i paesi colonizzati dove la distanza economica delle disuguaglianze viene
risolta dalla presenza di una serie di collegamenti. PER ESEMPIO: uno dei flussi più
consistenti che si rivela nel corso del ‘900 è quello dei cittadini turchi che migrano in
Germania, poiché si trattava di un tipo di legame storicamente consolidato già nel ’800.

DUNQUE, la migrazione è un processo dettato da molteplici variabili e non solo dall’estrema


povertà (anche perché in situazioni di estrema povertà non si pongono le condizioni minime
per poter partire).

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22/04/20
LA STORIA DELLE MIGRAZIONI IN TRE ONDATE (Colucci- Sanfilippo)
1) MIGRAZIONI NEL PERIODO COLONIALE
Dall’avvio del XIX secolo allo scoppio della Grande Guerra si assiste ad una notevole crescita dei
flussi migratori all’interno di vari vettori. In questo periodo, infatti, quello che è un elemento
connaturato all’esistenza umana cambia in qualità e quantità. Difatti, è nel secolo XIX che
l’emigrazione diventa fenomeno di massa in cui il colonialismo agisce come fattore coadiuvante.

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In termini percentuali (ben il 10% della popolazione mondiale in movimento) questo periodo
rappresenta un picco nella storia delle migrazioni mai più raggiunto.

CAUSE E FORME DELLA MIGRAZIONE


• Crescita demografica squilibrata: il fondamentale presupposto di tale trasformazione è la
crescita demografica della popolazione europea, sia sul continente sia nelle colonie
d’oltreoceano. Più precisamente, sono gli squilibri nei tassi di crescita registrati tra gli
Europei e quelli delle altre popolazioni con cui i primi intrattenevano relazioni di vario tipo.
Sebbene la trappola malthusiana4 fosse ancora lontana dal realizzarsi, il reddito pro-capite
venne riducendosi con l’aumento del denominatore (popolazione).

• Diffusione della rivoluzione industriale: la rivoluzione industriale, d’altro canto,


contribuisce con la propria diffusione inter-continentale a rendere attrattive certe
destinazioni localizzate al di fuori dell’Europa. Per meglio dire, i territori che come gli
USA erano in una fase precedente della cosiddetta transizione demografica ma la cui
economia si presentava come non meno avanzata di quelle europee, forniscono la valvola di
sfogo del surplus di popolazione europea. Inoltre, anche gli Stati produttori di materie prime
e con una abbondanza di risorsa terra, come America Latina, conservano una propria
attrattiva.

• Divisione internazionale del lavoro: l’emigrazione è anche il prodotto della divisione


internazionale del lavoro che viene determinandosi nel corso della prima globalizzazione.
Per questa ragione la scala statale si presenta come insufficiente per comprendere la portata
delle migrazioni tra il secolo XIX ed il 1914. In un certo senso, difatti, le migrazioni sono
uno strumento emancipatorio per la classe lavoratrice, la quale spostandosi può ricercare
un più elevato tenore di vita e migliori condizioni di lavoro altrove. Per contrasto,
l’interesse delle imprese che ricevono questa manodopera altamente mobile è disciplinarla
e, dunque, vincolarla al loro nuovo posto di lavoro. Nell’accettare questo legame le classi
lavoratrici spesso lottano perché la loro posizione sia contrattualizzata.

• Migrazioni forzate: gran parte della popolazione migrante si sposta volontariamente.


Tuttavia, il fenomeno delle migrazioni forzate non è certo estraneo alla prima
globalizzazione, basti pensare che la tratta degli schiavi era stato un fenomeno fondamentale
nell’affermazione del sistema di scambi internazionali a partire dai secoli XVI e XVII. Il
sistema coloniale permette, infatti, alle madrepatrie di agire a scala macro-regionale
attraverso il trasferimento di manodopera da una colonia ad un’altra, spesso seguendo i
ritmi stagionali della produzione agricola; è il caso dei coolies: indigeni che i Britannici
trasferivano in altre colonie asiatiche a seconda delle necessità.

• Emigrazioni politiche: le emigrazioni per ragioni politiche sono, per tutta la prima
globalizzazione, particolarmente rilevanti. Basti ricordare le sostanziose minoranze di
Polacchi ed Ebrei russi presenti negli USA già all’inizio del secolo XX in fuga da un’Est
Europa autocratica o nel caos più completo; per renderci conto delle proporzioni del
fenomeno vale la pena di ricordare che circa i due quinti degli Ebrei russi emigrarono in
questo periodo solo verso gli Stati Uniti.

2) LA SECONDA ONDATA DI MIGRAZIONI (1950-1970)


Nel corso del secondo dopoguerra e sino alla crisi degli anni Settanta, l’Europa si mette
complessivamente in moto per varie ragioni ed in diverse forme. Essendo stata per decenni

4 Quando le risorse alimentari disponibili sono insufficienti nel lungo periodo, a soddisfare i bisogni dell'intera
popolazione.

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attraversata ininterrottamente da diversi conflitti, l’Europa del 1945 vede milioni di profughi
doversi spostare da una parte all’altra del continente. Troviamo i Tedeschi che si erano stanziati
nell’Est Europeo e che ora sono portati dall’instaurazione del socialismo reale a ritornare in
Germania; non possono poi essere dimenticati i flussi tra la Repubblica Federale Tedesca (BRD) e
la Repubblica Democratica Tedesca (DDR), e tra le due parti di Berlino. Al contempo, un flusso più
ridotto di migranti parte dall’Inghilterra per dirigersi verso gli USA. Il ciclo migratorio si esaurì
soltanto negli anni ’70, quando la crisi aprì – all’opposto – la questione del contro-esodo.
In ogni caso, la percentuale di persone in movimento sono prossime alla metà delle cifre registrate
nell’epoca precedente.

In breve, l’emigrazione del secondo dopoguerra è prevalentemente un fenomeno INTRA-


EUROPEO ed UNIDIREZIONALE: dall’est e dal sud verso il centro ed il nord del Vecchio
Continente. Questa elevatissima mobilità è connessa al fattore produttivo lavoro e alla
ricostruzione facilitata dall’Europa (tramite il piano Marshall). Difatti, i massici investimenti
realizzati coi fondi di contropartita in paesi come Belgio, Francia e Germania generano una
domanda di manodopera che i singoli mercati nazionali non riescono a soddisfare.
La prevalenza dei movimenti migratori intra-europei in questo periodo è da ricollegare anche alla
creazione delle fondamenta del mercato comune europeo. Difatti, tra i pilastri delle comunità
europee, accanto alla libera circolazione delle merci e dei capitali, è presente la libera mobilità degli
individui.

A partire dagli anni ’60 iniziano a registrarsi significativi flussi INTER-MEDITERRANEI da


Sud-Nord: dal Nord Africa ed il Medio Oriente all’Europa continentale. Nello stesso periodo, la
decolonizzazione dell’Asia orientale favorisce l’avvio di flussi verso le ex-madrepatrie.
In entrambi i casi le migrazioni sono agevolate da frequenti accordi bilaterali che regolamentano
i trasferimenti di persone tra ex-colonie ed ex-madrepatrie.

I migranti che si spostano nel secondo dopoguerra sono in media sensibilmente più istruiti rispetto
a quelli della prima globalizzazione. In questo caso, difatti, a guidare le migrazioni è la domanda
di lavoro, la quale richiede una certa specializzazione e qualificazione della manodopera
immigrante. Al fine di certificare la qualità della manodopera in ingresso, le ex-madrepatrie
pongono in essere, a mezzo accordi bilaterali, dei sistemi di controllo della adeguatezza della
preparazione degli immigrati. Archetipico in questo senso è il cosiddetto Immigrants Act approvato
nel 1962 nel Regno Unito.

3) LA TERZA ONDATA MIGRATORIA


A partire dagli anni’80 le migrazioni accelerano nuovamente grazie al progressivo annullamento del
mondo bipolare della guerra fredda. Dal 1989 in poi, infatti, il crollo del socialismo reale comporta
un collasso economico a livello di ordini regionali e di asseto internazionale.
La destinazione prediletta dei migranti resta l’Europa occidentale, seguita dall’America.
Cosa succede nella diverse aree?

L’Est Europeo: molti Est Europei iniziano a muoversi verso l’Occidente. Tra le 15 repubbliche
post-sovietiche si ingenerano dei flussi spesso perversi che portano allo svuotamento di aree
periferiche (Siberia, Ucraina, Moldavia) a favore di economie incapaci di assorbire ulteriore
manodopera (soprattutto la Russia). I Balcani Occidentali, negli anni ’90, vivono un periodo di
collasso economico con la fuga di diverse centinaia di migliaia di profughi.

America Latina: massicce emigrazioni partono dall’America Latina verso la Spagna ed il


Portogallo (Stati la cui lingua è parlata nativamente in Sud America).

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Asia: prevale la dimensione macro-regionale dei flussi migratori. La Cina, ad esempio, per un verso
attrae un certo numero di abitati degli Stati vicini e per l’altro vede massici spostamenti interni
(perlopiù verso Sud ed Est).

Rispetto agli anni precedenti, l’emigrazione va DIVERSIFICANDOSI. Soprattutto perché la


domanda di lavoro va velocemente segmentandosi e scontrandosi con policies restrittive
implementate da diversi Stati ad economia avanzata. In particolare, la manodopera migrante è
prevalentemente impiegata in settori a bassa qualificazione, e quindi scarsamente remunerati e
generalmente sgraditi agli abitanti degli Stati avanzati.
Inoltre le ragioni delle migrazioni vanno aumentando. Accanto a quelle meramente economiche si
moltiplicano i numeri di emigranti politici e di quelli che l’ONU definisce, nei suoi rapporti più
recenti, ‘ecologici’.
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28/04/20
GLI APPROCCI TEORICI DEL FENOMENO MIGRATORIO
Il tema dell’emigrazione presenta varie sfaccettature, studi e approcci:
-Demografia: quantificazione dei flussi (misurazione);
-Geografia: studio delle traiettorie dei flussi migratori, sia nei paesi di partenza sia nei paesi di
arrivo;
-Sociologia: lo studio delle motivazioni che portano le persone a partire e quali sono i profili socio-
professionali coinvolti. Questo significa sottrarre al fenomeno migratorio il suo carattere univoco,
non è solo la povertà che induce a partire, infatti tramite lo studio dei profili socio-professionali
vengono fuori altre motivazioni di partenza;
-Economia: studio mercato del lavoro;
-Diritto: studio delle politiche migratorie;
-Antropologia: studio del comportamento di famiglie o altri gruppi sociali coesi;
-Storiografia: tentativo di ricostruire un’analisi in cui i diversi approcci possano confrontarsi e
integrasi;

COLUCCI-SANFILIPPO: privilegiare questo o quello aspetto significa scegliere un approccio,


utilizzare un metodo e inevitabilmente imboccare una strada ben precisa nell’analisi delle
migrazioni. Quindi al di là delle volontà di lavorare su un terreno multidisciplinare, l’analisi
compiuta alla fine finirà per essere poco complessiva.

1) TEORIA MACROECONOMICA NEOCLASSICA


Nel ‘70 HARRIS e TODARO: affermano che le migrazioni internazionali sono causate dalle
differenze geografiche tra domanda ed offerta di lavoro; la spinta all’emigrazione è data dal fatto
che la quantità di lavoro è maggiormente disponibile in un paese piuttosto che in un altro.
Perciò là dove la forza operaia è minore rispetto alle potenzialità del fattore capitale si avranno
salari più alti, viceversa dove la forza lavoro è sovrabbondate rispetto al capitale si avranno salari
più bassi. Il DIFFERENZIALE SALARIALE (fra i paesi con maggior e minore capitale) è la
molla che spinge le persone a migrare, così da riuscire a raggiungere un reddito più alto.

Elementi che contraddicono (limitano) la teoria del differenziale salariale:


1. spesso la migrazione si verifica in un momento in cui questi salari non sono poi così alti o
comunque tali da poter giustificare la partenza;
2. i movimenti principali si registrano da paesi in cui i livelli salariali non sono i più bassi, ad
esempio la prima ondata migratoria dell’Italia non riguarda il sud ma le realtà più attrezzate del
nord (dove c’era un livello salariale più alto rispetto al sud);

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TENENDO PRESENTE QUESTI LIMITI, è quindi necessario guardare allo spettro sociale
dell’emigrazione; esistono altri fattori che portano all’emigrazione anche di classi meno
povere:
-migliori assetti giuridici;
-migliore qualità di alcuni servizi (es. scuola);
-capacità di salvaguardare meglio i propri risparmi;

DUNQUE, in base alla teoria macroeconomica il differenziale salariale è la spinta all’emigrazione;


TUTTAVIA nello stesso tempo le partenze restituiscono anche un processo di tendenziale
riparazione dei salari che avviene in maniera inversa ai flussi migratori. Cioè, se non fosse esistito
un flusso migratorio ci sarebbe sicuramente stato un differenziale salariale ancor più alto, perciò
mentre si consolida il flusso migratorio dall’Europa verso le Americhe si ha un processo che tende
ad avvicinare il salario medio dei paesi americani al salario medio che si registra nei paesi di
partenza. Dovremmo aspettarci a questo punto che questo livellamento dei salari tenda a far
diminuire questi flussi migratori ma questo non accade; ciò fa capire che una volta soddisfatte le
condizioni di partenze non è detto che il livellamento induca a tornare in patria.

2) TEORIA MICROECONOMICA NEOCLASSICA


Tenta di avvicinare i suoi ragionamenti alla qualità umana dalle persone coinvolte nel flusso
migratorio, quindi si sposta da quello che è il livello generale di analisi (macro); quello che non
cambia è il gioco di espulsione e attrazione.
Le teorie a livello micro vogliono individuare i fattori personali di espulsione (push) e di attrazione
(pull) che influenzano la mobilità del singolo individuo, partendo sempre dal presupposto che la
molla iniziale è il differenziale salariale. La principale aspirazione personale della scelta migratoria
è quella di massimizzare il reddito in un quadro in cui il rapporto tra i costi e i benefici
dell’emigrazione volga ad un saldo positivo.

Elementi che contraddicono (limitano) la teoria microeconomica:


1. non viene valutato l’ambiente politico-economico internazionale, cioè come gli eventi sul piano
politico ed economico possano definire la quantità di movimento in certo periodo rispetto ad un
altro (indipendentemente dal differenziale salariale);
2. spesso si trascura di valutare quello che avviene sul versante dei paesi di partenza, per esempio
cosa ha impattato nei ritmi dei processi d’industrializzazione;
3. non vengono considerate le decisioni politiche, come il contesto politico tende a frenare o
favorire il flusso migratorio;

3)TEORIE STRUTTURALISTE
Sono teorie che per spiegare il fenomeno migratorio guardano al quadro mondiale, inserendo le
variabili strutturali che agiscono : povertà, mancanza di lavoro, guerre, sovrappopolazione, etc.
Rispetto alle teorie macroeconomiche, le teorie strutturaliste privilegiano lo studio dei fattori
storico-sociali per l’analisi del fenomeno; guardano al contesto mondiale ed a ciò che l’ha definito
per poi inserire come effetto il processo migratorio.

Teorie strutturaliste più importanti:

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• La teoria del sistema mondo (Wallerstein, 2000): afferma che a partire dal ‘500 si
costruisce un modello economico basato su come i paesi del centro si rapportano con i paesi
della periferia. Wallerstein nel 2000 afferma che l’emigrazione è collegata al sistema
capitalistico, infatti la penetrazione del sistema capitalistico nei paesi della periferia porta ad
un impoverimento di quest’ultimi e ad un arricchimento dei paesi del centro; questo porterà
le persone a migrare in cerca di migliori condizioni (ritorna l’importanza del differenziale
salariale).

• Teoria del mercato del lavoro duale (Piore,1979): secondo questa teoria l’emigrazione
non è causata da fattori di “spinta” nei paesi di origine ma è determinata solo da fattori di
“attrazione” che si determinano nei paesi di destinazione, dati dal fatto che questi paesi
hanno bisogno di forza lavoro (che non riescono a soddisfare). Perciò, in questa teoria la
struttura economica dei paesi avanzati è il vero volano dell’emigrazione.
Inoltre, il mercato del lavoro nei paesi avanzanti funziona in maniera duale, è formato da 2
gruppi: uno stabile di lavoratori qualificati ben pagati e protetti e una categoria di lavoratori
flessibili non protetti, cioè coloro che emigrano).
Questo determina il fatto che una parte della componente forza lavoro (quelli qualificati) vengono
ad essere gratificati ed a beneficiare dell’esistenza del processo migratorio.

3)TEORIE SOCIOLOGICHE
Come la società agisce nel favorire o rallentare i processi miratori? Quali sono i livelli di
interazione sociale entro cui si formano i processi di migrazione?
Secondo queste teorie la decisione di migrare è una scelta influenzata da gruppi di
appartenenza (famiglia, gruppi sociali, etc.) e dalle caratteristiche di quest’ultimi.
Le teorie sociologiche propongono un’integrazione fra fattori di spinta all’emigrazione (teorie
micro e macro) e interazione sociale.

Il concetto di “RETE SOCIALE” nella nuova economica dell’emigrazione (Stark e Taylor,


1989): questa teoria parte da un’analisi micro e considera in modo innovativo, rispetto alla teoria
economica classica, le cause dell’emigrazione. È la RETE SOCIALE che definisce la volontà di
partire: il ruolo della famiglia o altri gruppi è fondamentale ed è ovviamente volto a massimizzare il
reddito familiare complessivo e NON individuale; inoltre, si parte anche per diversificare i rischi
(così da non essere tutti vincolati alla stessa dinamica).
La logica della rete sociale è una componente teorica che si è poi trasformata nella così detta
CATENA MIGRATORIA: essa presuppone di per sè un livello di coesione dei gruppi sociali
d’appartenenza (accomunati dalle stesse pulsioni, sentimenti, etc.) in virtù del quale la scelta di
migrare risulta essere più “agevolata” [es. Little Italy].

Tuttavia, le interpretazioni delle migrazioni come un processo a catena, danno un’immagine


distorta, troppo riferita all’idea di solidarietà comunitaria e parentale (si passa dalla catena alla
ragnatela), bisognava rompere quella rassicurante dimensione psicologica data dalla catena
migratoria.
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29/04/20
ULTERIORI TEORIE SOCIOLOGICHE:
Lee (1966) : descrive quanto l’emigrazione sia il frutto della contrapposizione tra fattori positivi dei
paesi di destinazione e fattori negativi dei paesi di origine. All’aumentare della differenza tra i due
fattori aumenta anche la probabilità di migrare.

Teoria istituzionale (Guilmoto e Sandron, 2005) : accanto a reti primarie come la famiglia e la
comunità di appartenenza incidono sul fenomeno migratorio anche le entità intermedie: cioè tutta

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una serie di istituzioni (es. comitati d’immigrazione, agenzie dello stato, etc.) che in qualche modo
favoriscono questo processo di fuori uscita dalla nazione.

Una recente teoria ha suggerito nuove metodologie di ricerca:


5)LA TEORIA TRANSNAZIONALISTA
È principalmente una teoria di stampo antropologico; al centro dell’attenzione si trova la figura
sociale del “transmigrante” non più nella sua dimensione economica ma nella sua dimensione
complessiva (contesto sociale, reti, comunità). Una volta assunta questa figura sociale del
trasmigrante comprendiamo come quest’ultimo sia in grado di mantenere molteplici relazioni in
luoghi diversi e come questa sua particolarità porti a creare zone sociali che travalicano i confini
nazionali. Siamo di fronte all’idea di un “confine liquido” che viene perforato dal sovrapporsi di
relazioni che si instaurano fra i paesi di destinazione e i paesi di arrivo; in un certo senso, nella
teoria transnazionalista la dimensione dello stato-nazione viene a perdersi.
Dunque in questa teoria l’elemento della partenza dell’emigrante non si traduce nella scomparsa di
questo dal paese di origine, piuttosto i rapporti che si costruiscono tra l’uno e l’altro paese
costituisco nol’elemento caratteristico di un nuovo modello di emigrazione.
Questa teoria allenta il valore semantico della parola migrante, questo significa costruire un
carattere circolare frutto di quella doppia identità appartenente al soggetto partito.
Il transmigrante finisce col costruire nuovi campi sociali: un ponte informativo che mette in
comunicazione i due poli del movimento migratorio (partenza e arrivo). Perciò, viene a costruirsi
una bi-direzionalità, al contrario delle reti sociali che costruiscono un modello unidirezionale (cioè
le catene migratorie vivono solo in funzione del passaggio del soggetto da paese di origine a paese
di destinazione).
In quest’ambito il tema delle rimesse degli emigranti risulta importante; infattti il sistema delle
rimesse (immigration money) e quindi il flutto del lavoro dei migranti fuori dalla loro patria, incide
particolarmente sullo sviluppo dei paesi di origine (vengono promosse attività economiche,
associazioni, programmi sociali etc.).
Modello di economia della circolazione: i proventi dell’impresa migratoria possono costruire la
premessa per lo sviluppo di attività anche nei paesi di destinazione. [es. A partire dagli anni 60 del
‘900 le rimesse degli emigrati messicani che si trovavano in USA hanno favorito lo sviluppo
complessivo del Messico e hanno generato un ammodernamento del sistema bancario].

Elementi coinvolti nella teoria transnazionale:


1. Economia;
2. Sfera sociale: focus sulle modalità con cui si costruiscono le relazioni tra il paese di arrivo e di
destinazione (capitale di conoscenze, reti sociali, etc.);
3. Politica: partecipazione del migrante alla vita pubblica, esercizio del voto, decisioni collettive;
4. Religione: mantenimento del culto religioso nei paesi di destinazione;
5. Sfera culturale-Simbolica: trasposizione di valori e culture;

La teoria transnazionalista sembra costituire la teoria più adeguata per integrarsi in quelli
che sono i temi della global history. PERCHÈ?
1. Sul piano metodologico non assume a priori gli Stati nazione come unità di analisi prevalente;
2. Valutata il lavoro umano in tutte le sue forme, piuttosto che concentrarsi su alcune di esse.
Vengono considerate: migrazione volontaria, forzata, internazionale, interna, stagionale;
3. Non presuppone non modello lineare che individua un’unica causa la genesi dell’emigrazione;

In virtù di questi studi è possibile nominare la così detta EMIGRAZIONE VITTORIOSA cioè
quella componente di emigrazione che non ha come motivazione esclusiva l’estrema povertà e che
invece ha la capacità di muoversi in spazi economici ben più ampi in cui costruisce realtà
imprenditoriali molto significative nei paesi di destinazione. L’emigrazione vittoriosa si distingue

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dall’emigrazione forzata che appartiene alla grande massa di contadini che alla fine dell’800 è
costretta a partire.
L’emigrazione vittoriosa trasporta queste comunità, che si costituiscono fuori dei paesi di arrivo (es.
Little Italy), in una dimensione che via via induce all’integrazione con il paese di destinazione.

QUALE RAPPORTO ANDAVA A COSTRUIRSI TRA IL COMMERCIO


INTERNAZIONALE DEL NOSTRO PAESE E L'EMIGRAZIONE?
Nell’epoca del grande esodo migratorio la politica italiana trasmetteva l’idea che avremmo ricevuto
grandi benefici, derivanti dal fatto che un gran numero di italiani all’estero avrebbero esercitato
(anche per le loro abitudini alimentari) una grande richiesta di beni prodotti nel nostro paese;
l’emigrazione era vista come un trampolino per l’apertura al mercato internazionale delle nostre
produzioni tipiche.
I dati però suggeriscono il contrario: in realtà l’emigrazione compariva un elemento di freno allo
sviluppo e alla modernizzazione del sistema degli scambi commerciali italiani in quel periodo.
Questo perché molti italiani esprimevano la volontà di costituire un consistente risparmio, che
portava a regimi alimentari e regimi di consumo assolutamente poveri. [Logica valevole almeno
per la prima generazione di emigranti]

Al contrario, la seconda generazione di emigranti procedeva più celermente in un processo di


integrazione con la realtà americana; a causa di 2 elementi:
1. Specializzazione delle proprie attività commerciali (immaginiamo le Little Italy) in cui si
vendevano prodotti italiani, soprattutto nel campo alimentare: una specializzazione di carattere
mercantile che andava a fondersi con quanto compiuto dalla prima generazione di migranti, così da
esercitare una domanda di beni molto più alta. Notiamo come la seconda generazione, pur non
vivendo nei luoghi di partenza dei loro genitori, avevano mantenuto un contatto con la terra
d’origine.
2. Il consumo di beni made in Italy diventa un tratto identitario sul piano sociale, si va al di là della
produzione gastronomica: si tratta infatti anche di scarpe, abbigliamento e simili.

6)TEORIE ANTROPOLOGICHE
Fanno riferimento agli studi che hanno segnato il concetto di sviluppo e sottosviluppo a partire dal
secondo conflitto mondiale; si fondano su tre diversi orientamenti metodologici:
• Teoria della modernizzazione: i paesi più sviluppati immaginano di favorire un processo di
sviluppo ad imitazione del proprio nei paesi meno avanzati. Secondo questa teoria i flussi
migratori dovrebbero consentire alle società tradizionali l’accesso alla modernità: le
migrazioni vengono viste come un fenomeno necessario ed inevitabile. Il tutto viene però
studiato in chiave astorica, senza tenere conto degli aspetti economici e politici dei paesi
della periferia.

• Teoria della dipendenza: il fenomeno migratorio segue un percorso simile a quello dello
sviluppo economico: entrambi negano la possibilità ai paesi della periferia di riuscire ad
emergere; l’unico modo per farlo sarebbe soltanto in una prospettiva “rivoluzionaria” che
possa abbattere la subalternità della periferia al centro.

• Teoria dell’articolazione: (potremmo anche definirla come teoria di mezzo) non considera
le società dei paesi in via di sviluppo come se fossero totalmente dipendenti dalle potenze
capitalistiche (come fa la teoria della dipendenza) o interamente tagliate fuori (teoria della
modernizzazione), piuttosto concepisce queste società come sicuramente influenzate dalle
potenze capitalistiche MA anche dotate di una propria logica economica, sociale; tramite

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collegamenti vascolari fra questi due elementi, i migranti (riconoscendo la diversità dei
modelli che riscontrano nei paesi di destinazione rispetto a quelli di arrivo) possono
costituire un vettore attraverso cui mettere in moto uno sviluppo credibile, poggiato sulle
variabili cultuali e sociali di appartenenza.
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05/05/20
LE FONTI PER LA STORIA DELL’EMIGRAZIONE
La pluralità delle teorie fin qui esposte induce ad una sorta di approccio sistemico basato sulla
capacita di combinare varie suggestioni prese dalle diverse teorie; bisogna intendere il tutto coma la
capacità di combinare variabili micro e macro. Tuttavia il problema preliminare di quest’approccio
sistemico è dato dalla quantità e dalla qualità di dati a disposizione.

QUALI SONO LE FONTI PER STUDIARE IL FENOMENO EMIGRATORIO OGGI?

■ FONTI INTERNAZIONALI
• Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati: essendo le nazioni unite un agenzia
internazionale nata anche per salvaguardare i diritti degli uomini, è ovvio che l’ONU curi
l’emigrazione in chiave umanitaria;
• Organizzazione delle Nazioni Unite Divisione Popolazione: che studia i temi
dell’emigrazione tenendo in considerazione le disuguaglianze economiche;
• Banca Mondiale : contiene anche i dati sulla circolazione delle rimesse;
• Eurostat (Ufficio statistico della Commissione Europea): immigrazione nei paesi
dell’Unione europea
• OCSE: immigrazione del continente europeo

Quali sono i LIMITI delle fonti internazionali?


- Parzialità dell’approccio;
- Arco cronologico ristretto (in genere dagli anni 90 del ‘900);
- Fonti di provenienza costruite dagli stati nazionali e che dunque scontano tecniche di rilevazione
non confrontabili, perché gli stati hanno una struttura molto diversa tra di loro;

■ FONTI ITALIANE
• Registro dei permessi di soggiorno: che passa attraverso il canale delle autorità, questo offre
però una visione molto limitata perché contabilizza solo quella parte di immigrati regolari (e
non anche quelli clandestini);
• Centro per l’impiego: si registra solo quella parte di migranti regolari;
• INPS: misurare l’incidenza contributiva dei migranti (stima: 8% migrantti regolarizzati)
• Registro delle Imprese della Camera di Commercio: imprese i cui titolari sono persone
proveniente da altre realtà nazionali;

Perciò, i LIMITI alle fonti italiane sono principalmente dati dalle politiche interne stringenti e che
favoriscono in misura minore la regolarizzazione del migrante.

■ LE FONTI STORICHE
Le statistiche ufficiali nazionali, datano dalla fine dell’800 nel quadro di una ideologia positivista
che fa ricorso al dato come elemento connaturale alla scienza del governo.

Il caso italiano:

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Le prime statistiche vengono prodotte dalla fine degli anni 70 del 1800, la logica applicata era:
raccogliere pochi dati che abbiano però un elemento di certezza (riducendo i campi di rilevazione
possiamo avere dati più certi del fenomeno nel suo complesso).
In quegli anni viene fatta un’indagine statistica circa la contrapposizione tra favorevoli e contrari
all’emigrazione.

Fonti:
• Fino al 1094 abbiamo il registro dei nullaosta dei sindaci per il rilascio passaporti: i sindaci
segnano coloro che fanno richiesta di autorizzazione a richiedere il passaporto;

• Nel 1094 il registro di passaporti concessi (Pubblica sicurezza): nel momento in cui si
rilascia il passaporto si pagano anche delle tasse (da parte di chi lo riceve9 che vanno a
costituire una parte del budget del Commissariato Generale dell’emigrazione (prevista dalla
legge del 1901).

TUTTAVIA, entrambe le fonti, in maniera diversa, sono molto approssimative nella stima del
fenomeno (emigrazione clandestina, nazionale da porti esteri dove arrivano con il treno).
A causa di ciò si fa strada la necessità di incrociare le diverse fonti (registri del nullaosta, dei
passaporti che vengono confrontati anche con le liste di imbarco che sono redatte dal
Commissariato dell’emigrazione.

■ LE FONTI DI POLIZIA
(ci riferiamo ovviamente alla documentazione di queste istituzioni)

• Questura: aveva competenza su tutto ciò che riguardava l’ordine pubblico e provvedeva alla
vigilanza sugli avvenimenti e sui fattori di turbamento e di trasgressione delle disposizioni
in materia di pubblica sicurezza. Suo referente diretto era la Prefettura che assicurava il
costante raccordo con il Ministero dell’Interno. Un ruolo particolarmente delicato svolgeva
l’Ufficio di Polizia che operava presso lo Scalo marittimo, accanto all’ispettore
dell’emigrazione. L’attività di polizia riguardava sia il rilascio delle autorizzazioni, sia il
perseguimento dei reati commessi dai protagonisti delle vicende migratorie. Erano infatti di
competenza della Polizia Amministrativa la concessione di passaporti, rinnovo o rilascio,
agli emigranti. [Importanza della documentazione dei PASSAPORTI].

• Prefettura: svolgeva una complessiva attività di vigilanza e indagine; in particolare


compilava statistiche mensili del movimento migratorio, che trasmetteva al Ministero di
agricoltura, industria e commercio, a scopo di analisi e di monitoraggio del fenomeno.
Svolgeva un ruolo di rilievo contro le “frodi in danno di emigranti” di cui si ritenevano
responsabili alcune agenzie di emigrazione.

• Il Tribunale civile: che fornisce documenti che agenzie di emigrazione e compagnie di


navigazione erano tenute a depositare presso il Tribunale civile o di commercio. Da questi
documenti si possono ricostruire la fondazione, il settore di intervento, il regolamento
interno e le attività di queste organizzazioni.

• Le lettere degli emigranti: si rivelano una fonte preziosa per indagare sull’integrazione degli
emigranti nei paesi d’accoglienza, reti, disgregazione familiare, conflitti di classe, l’uso
delle rimesse ecc…

• Fonti ufficiali ed a stampa: Bollettino dell’Emigrazione, Fonti diplomatiche, camere di

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commercio all’estero.

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06/05/20
LE IMPLICAZIONI ECONOMICHE DELLE MIGRAZIONI
Diversi aspetti economici del fenomeno migratorio:
• Effetti sul paese di partenza: qui collochiamo il fenomeno migratorio nella teoria dello
sviluppo economico;
• Effetti sui fattori della produzione: il peso dell’emigrazione per esempio sulla competitività
del sistema paese e questo si proietta nello scenario dell’economia internazionale;
• Effetti sul salario e l’occupazione: dobbiamo assumere a riferimento l’economia del lavoro;
• Effetti sulla spesa pubblica: entriamo sul terreno della finanza pubblica;

Questi sono i filoni entro cui si è tentato d’interpretare il fenomeno migratorio e che incrociano 4
temi fondamentali:
- Effetti sui paesi di partenza;
- Effetti sui paesi di arrivo;
- La determinanti della scelta migratoria;
- Efficacia delle politiche migratorie e costi sociali;

1) EFFETTI SUI PAESI DI PARTENZA


Troviamo un’incidenza sull’occupazione, produzione e salari. Il fenomeno migratorio nei paesi
di partenza costituisce una valvola per alleggerire il mercato locale del lavoro e l’impegno sul
versante della spesa sociale; l’emigrazione produce effetti positivi anche attraverso le RIMESSE
poiché redistribuisce i redditi all’interno del paese. Possiamo dire che tanto più incidente è il ruolo
delle RIMESSE quanto più piccolo è il paese di partenza (es. ne El Salvador il 5% delle entrate
dello stato sono costituite dalle rimesse degli emigranti).

Quali effetti concretamente può determinare questo grande flusso di risorse attivate dagli
emigranti sui paesi di partenza (considerando che questi paesi partono da una soglia molto
bassa di stile di vita) ?
Innanzitutto bisogna valutare se queste rimesse possono contribuire allo sviluppo. Infatti, se le
rimesse sono dirette a forme di investimento nella madre-patria allora il contributo nei paesi di
origine è positivo, se invece queste risorse non si rivolgono a forme d’investimento MA si
rivolgono semplicemente al consumo delle famiglie l’effetto in questo caso è di tipo negativo,
perché questo aumento del reddito delle famiglie finirà per generare fenomeni inflattivi nel paese.

[Inoltre, se l’emigrazione è promossa dai giovani, il paese si vedrà in difetto di forza lavoro e questo
potrebbe minare al processo di sviluppo; ancora se in un paese l’emigrazione è maggiormente
femminile questa potrebbe produrre un ribasso nel settore dell’agricoltura nel paese di origine.]

Possono esserci effetti indiretti:


Se regolamentata, la quantità di rimesse a disposizione aiuta a regolarizzare tutto il circuito del
credito all’interno dei paesi di partenza. Ad esempio, nel caso italiano, i cittadini che versavano le
rimesse nei circuiti postali contribuivano ad alimentare la grande cassa depositi e prestiti che a sua
volta era impiegata a sostenere il debito pubblico o l’attività di opere pubbliche; se queste rimesse si
incanalano nel sistema bancario la situazione diventa diversa, non sempre le rimesse hanno
contribuito al miglioramento dei circuiti bancari.

L’altro aspetto è quello della capacità delle rimesse di contenere i disavanzi che si creano nella
contabilità pubblica sopratutto nelle importazioni pagate in valuta straniera.

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Per quanto riguarda il miglioramento delle esportazioni le comunità emigrate all’estero possono
incidere nel miglioramento delle export sfruttando il rapporto che riescono a creare con la società
che li accoglie (nel caso italiano ritroviamo una lentezza nelle aperture del sistema degli scambi
internazionali).

Quindi, esiste un contrasto tra coloro che affermano gli effetti positivi dell’emigrazione e
coloro che affermano gli effetti negativi:
-effetti negativi: l’emigrazione ha generato effetti inflazionistici, a causa dell’aumento del
consumo);
-effetti positivi: attraverso l’economia della circolazione si erano create forme di investimento nei
paesi di provenienza;

2) EFFETTI SUI PAESI DI ARRIVO


Dibattito centrale: le migrazioni sono un BENE oppure un MALE? Complessivamente a questa
domanda l’opinione pubblica tendeva a dare una risposta negativa (sono un male) .

Lo scopo fu quello dare una risposta a questa domanda servendosi dei dati; i percorsi analitici:
- Impatto dei lavoratori stranieri sul mercato del lavoro;
- Assimilazione salariale (cioè la capacità dello straniero di raggiungere un profilo salariale simile a
quello dei lavoratori nazionali);
- Effetto dell’emigrazione sulla crescita del reddito pro-capite;
- Impatto sulla spesa sociale (qui ritroviamo atteggiamenti xenofobi basati sul presupposto che in
realtà questa grande migrazione finiva col costituire un peso per il paese a causa dei servizi da
erogare agli immigrati);
- Impatto sulla struttura demografica e sul sistema pensionistico (gli emigranti riescono a sostenere
il sistema pensionistico ed il sistema demografico, le componenti giovani immigrate contribuiscono
attraverso a miglioramento di questi fattori anche pagando i contributi previdenziali);

Tutti questi elementi ci riportano a valutare le POLITICHE MIGRATORIE come determinanti


degli effetti economici del fenomeno migratorio, infatti la qualità elle politiche in questione impatta
particolarmente.

3) EFFETTI SUL MERCATO DEL LAVORO


La quantità di forza lavoro immigrata è COMPLEMENTARE o COMPETITIVA rispetto a
quelli che sono gli assetti del mercato del lavoro dei paesi di destinazione (i lavoratori
endogeni)?
Per rispondere occorre considerare il CICLO ECONOMICO, cioè gli effetti che si possono
determinare sul mercato del lavoro vanno misurati in basa a quello che l’andamento congiunturale
dell’economia di un paese in quel determinato momento.
Se prevale la domanda di lavoro, ovviamente siamo in un ciclo economico espansivo, e si registra
una sorta di COMPLEMENTARIETÀ fra lavoratori immigrati ed endogeni (non troviamo
conflittualità).
Se invece predomina l’offerta di lavoro, abbiamo effetti diametralmente opposti rispetto ad un ciclo
espansivo, e si registra una forte COMPETIZIONE fra lavoratori immigrati e nazionali
(conflittualità).

Altri fattori di incidenza:


- LAVORO INFORMALE
La presenza di lavoratori immigrati irregolari o comunque impiegati in modo informale,
penalizzano direttamente i salari e le condizioni di lavoro degli altri soggetti impiegati con lavoro

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irregolare (altri stranieri soprattutto). Invece, l’effetto sui lavoratori regolari è minimo, ma in ogni
caso l’aumento del lavoro informale tende a penalizzare, all’interno del mercato del lavoro, chi
rispetta le regole.

- POLITICA MIGRATORIA
Le politiche migratorie dei diversi stati incidono particolarmente sull’effetto di competitività o
complementarietà nel mercato del lavoro.
Es. circa gli effetti complementari: nel settore HI TECH degli USA (si richiedono ingegneri di altri
paesi poiché gli USA sono in difetto di forza lavoro in questo settore).
Le politiche migratorie impattano anche sulla qualità dell’inserimento sociale, la formazione
professionale e ciò influenza l’occupazione dei migranti.

- EFFETTI INDIRETTI SULLE SCELTE DELLE IMPRESE


Se è vero che l’immigrazione può influenzare i livelli salariali e occupazionali, essa può anche
influenzare in maniera indiretta anche quelle che sono le scelte produttive dell’impresa e la
loro filosofia imprenditoriale.

- Una grande disponibilità di lavoro non qualificato induce le imprese a persistere in attività
produttive di tipo tradizionale ed a bassa intensità di capitale con scarsa innovazione tecnologica,
questo produce una diminuzione dei salari e un possibile spostamento verso il settore informale.

- Una minore disponibilità di lavoro non qualificato invece spingerebbe l’impresa ad investire in
settori più efficienti con maggiore intensità di capitale ed una più alta innovazione tecnologica,
questo conduce ad un aumento del lavoro qualificato e quindi dei salari.

In virtù di queste considerazioni proviamo ad effettuare un confronto tra USA ed EUROPA


Verifiche empiriche in termini generali: negli USA prevale la complementarietà della forza lavoro,
mentre invece nel caso EUROPEO abbiamo un sistema di competizione e sostituzione. PERCHÈ?

1. Minore flessibilità del lavoro nei mercati europei (qui impatta sopratutto la diversità del ruolo dei
sindacati e delle normative);
2. La difficoltà anche da parte dei lavoratori nazionali di spostarsi dove esistono possibilità
occupazionali e salari migliori (gli immigrati sembrano più legati al luogo dove è insediata una
comunità del paese di origine);
3. Rigidità del mercato immobiliare statunitense;
4. Le maggiori barriere linguistiche;
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12/05/20
LA RICERCA STORICA SULL’EMIGRAZIONE (una rassegna)

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Quali sono i filoni di ricerca, limiti, contenuti, prospettive nella storia della migrazione e del
grande esodo fine 800-900?

COME SI EVOLVE LA RICERCA STORICA? Due volumi importanti:


 2001, STORIA DELL'EMIGRAZIONE ITALIANA- PARTENZE E ARRIVI A CURA
BEVILACQUA, FRANZINA, DE CLEMENTI
VOL. I.- PARTENZE; indice:
-I QUADRI GENERALI
-L’EMIGRAZIONE IN MASSA IN ETÀ LIBERALE FINO ANNI 30
-I MOV MIGRATORI DAGLI ANNI 30 ALLA FINE 900
-L’IMMAGGINARIO E LA RAPPRESENTAZIONE DELL’EMIGRANTE

VOL. I.- PARTENZE; indice:


-AREE D’ARRIVO: APPRODI DEL FLUSSO MIGRATORIO
-COMUNITA’ E MESTIERI: COME MIGRANTI ENTRANO NEL MERCTAO DEL
LAVORO
-POLITICA E ISTITUZIONI: CHIESA CATTOLICA COME ELEMENTO
ONNIPRESENTE
-ILVOTO DEGLI ITALIANI ALL’ESTERO
-L’IMMAGINARIO E LE RAPPRESENTAZIONI: TEMI IDENTITARI E CULTURALI
FOCUS IN LETTERATURA

COSA SPINGE NEL 2001 A CREARE QUESTI DUE VOLUMI?


I due volumi si concentrano sulla crescente attenzione pubblica che si ha verso il tema migratorio,
ciò dato in modo particolare dall’approvazione della legge 2001: Legge 27 dicembre 2001, n. 459
"Norme per l'esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all' estero "

Un altro volume:
 2009, ANNALE 24: STORIA DI ITALIA, ENAUDI LE MIGRAZIONI (A CURA DI
SAN FILIPPO E CORTI)
Questo nuovo «Annale» della Storia d’Italia dedicato alle Migrazioni prende spunto da due
considerazioni di fondo. La prima considerazione è la rilevanza che nel lungo periodo i processi di
emigrazione e di immigrazione hanno avuto nella storia italiana. Innanzi tutto è stata la posizione
strategica nel Mediterraneo a rendere l’Italia uno dei nodi di quell’intensa mobilità che ha
conferito unitarietà culturale alle civiltà del grande bacino marino. In secondo luogo è stata la
dinamica demografica esistente nelle aree di frontiera settentrionali a conferire all’Italia un altro
rilevante ruolo strategico. Le Alpi, ritenute a lungo una frontierabarriera, nelle ricerche più recenti
si sono rivelate l’altro grande spazio di comunicazione e di scambio, in virtù della radicata
mobilità delle popolazioni locali. In terzo luogo è stata l’incessante mobilità interna che,
nonostante la reiterata frammentazione politica del paese, ha caratterizzato i rapporti fra diverse
realtà, mettendo costantemente in contatto le popolazioni di differenti aree economiche e sociali. E
infine, a conferire un altro ruolo decisivo all’Italia è stato il contributo predominante che in termini
quantitativi il nostro paese ha fornito alle grandi emigrazioni europee otto-novecentesche. La
seconda considerazione investe l’attualità che i fenomeni di emigrazione e immigrazione hanno
assunto oggi, nel breve periodo, sotto lo stimolo delle tendenze affermatesi negli ultimi venti anni.
In questo arco temporale, infatti, al pari di altri paesi dell’area mediterranea, l’Italia è diventata

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uno dei poli di destinazione dei flussi migratori internazionali, stimolati dalle grandi
trasformazioni economiche e politiche del mondo contemporaneo. Negli stessi anni in cui si è
andata affermando l’immigrazione straniera si è assistito inoltre alla ripresa dell’emigrazione da
parte degli italiani. Molti storici italiani e stranieri lamentano che l’emigrazione sia quasi del tutto
esclusa dalle grandi riflessioni d’insieme sulla storia del paese. Si tratta di un vuoto storiografico
che questa nuova «Grande Opera» colma in modo davvero esemplare.

TAGLIO COMPARATIVO FRA I TESTI:

In Italia vengono ad introdursi delle normative che rendono fortemente sperequate il processo di
integrazione. Un esempio attuale: in Italia predomina il principio dello ‘ius sanguinis’ e si dibatte
molto sul grande tema dello ‘ius soli’ (cioè il riconoscimento della cittadinanza italiana a chi
dimostra di essersi costruito una vita nel nostro paese). Perciò, mentre l’attuale normativa permette
di avere la cittadinanza italiana anche a figli di emigranti di seconda, terza e addirittura quarta
generazione (anche se ormai non hanno più rapporti con il nostro paese), chi invece vive nella
nostra nazione regolarmente non può accedere alla cittadinanza; troviamo un evidente disparità di
trattamento.

Con l’Annale sulle migrazioni siamo di fronte ad una concezione del fenomeno come un fatto
sociale totale (cit. Robert Marton), questo indica una stretta aderenza con la storia complessiva del

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nostro paese. Indubbiamente nell’arco di 10 anni la storiografia sulla migrazione italiana ha


acquisito la consapevolezza di cambiare i propri elementi di riferimento MA ovviamente tutto
questo non si risolve in maniera definitiva ed immediata; soprattutto se notiamo quanto gli storici
economici siano stati assenti nel racconto del processo di migrazione.
Precedentemente essi si concentravano sul filone della cliometria (bisognava tradurre tutto in
numeri) TUTTAVIA sappiamo che la stroia delle migrazioni non è fatta solo di numeri ma anche di
una dialettica di norme, consuetudini, cultura, valori ecc…In realtà l’approccio degli storici
economici nel campo delle migrazioni avveniva solo in maniera incidentale.
Col tempo gli storici economici hanno riconosciuto un attenzione a quella storia che non poteva
essere spiegata con variabili cliometriche ma attraverso una narrazione analitica.

Per tal ragione gli storici economici si avvicinano allo studio del fenomeno migratorio ed esplorano
diversi campi, per esempio:

1. I rapporti tra migrazione e dinamiche dei consumi (la vita materiale dei migranti e quindi i riflessi
sul mercato dei consumi soprattutto alimentari);
2. Aspetti illegali e criminali legati alle migrazioni (l’economia del malaffare);
3. Le migrazioni delle catastrofi (attenzione particolare alle grandi catastrofi che sul luogo di lavoro
dei paesi di destinazione coinvolgono i nostri emigranti, per es. miniera di Marcinelle in Belgio);
4. Come la forza migratoria unskilled partecipa al progresso fordista delle economie di scala;

[Moricola] L’AFFARE MIGRAZIONE- “l’albero della cuccagna”= quanto è capace il


fenomeno migratorio, opportunamente sfruttato e strumentalizzato, di poter alimentare circuiti
distributivi illegali. L’idea è quella di concentrarsi sulla contabilità dell’impresa migratoria, cioè
tentare di individuare il costo che questa impresa comportava e quali costi di carattere strutturale,
sociale questa impresa doveva sopportare.
È importante in questo contesta il tema del VIAGGIO: bisogna immaginare il VIAGGIO nella sua
massima dilatazione della dilatazione; esso ricomprende anche il rapporto che si definisce tra i costi
dell’emigrazione e l’insufficiente politica di attrezzamento dei porti; il viaggio propoone come
costante il nesso causale tra debolezza delle politiche migratorie e l affare migrazione .

L’AFFARE MIGRAZIONE È DIRETTAMENTE CORRELATO ALL’INCAPACITÀ O


CAPACITÀ DI COGLIERE LE OPPORTUNITÀ CONNESSE AL FENOMEMENO
MIGRATORIO: per esempio le opportunità o non opportunità nel commercio internazionale,
capire quanto le rimesse possono aver favorito lo sviluppo del sistema bancario italiano,
comprendere il rapporto fra imprenditoria italiana ed emigrazione all’estero.
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13/05/20
IL GRANDE ESODO: STATO ED EMIGRAZIONE
MIGRAZIONI EUROPEE E ITALIANE
Tra gli anni 1850 e la Grande Guerra oltre 40 milioni di Europei prendo la via del Nuovo Mondo.
Si tratta di circa un terzo della manodopera del Vecchio continente. Oltre la metà di questi (27
milioni) si stabiliscono negli USA pari al 30% della crescita delle forze di lavoro del paese.
Almeno inizialmente (1851–1860), il grosso dei migranti proviene dal Nord Europa (Irlanda,
Inghilterra e Germania). La meridionalizzazione dei flussi si realizza nel corso di una fase
successiva.

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Attorno al 1880–1910 questo spostamento verso sud delle aree di partenza vede protagoniste
l’Italia, che fornì il 32% di tutti i migranti del primo decennio del secolo XX, la Spagna (ca. 10%)
e la Russia (con appena l’8%). Sono le realtà agrarie a fare la parte del leone tra le aree di
partenza, spingendo perlopiù uomini soprattutto giovani e single a emigrare. Talvolta, specie gli
immigrati negli USA, vedono quote di rimpatri abbastanza elevati. Lo stesso non si può dire
dell’America Latina, ove i contadini alle volte diventano piccoli proprietari terrieri e si
traferiscono con tutta la propria famiglia. Questa prospettiva di ascesa sociale spiega la
irreversibilità delle migrazioni verso il Brasile e, ancor di più, l’Argentina. Guardando ancora ai
dati italiani, il grande esodo è perlopiù migrazione transatlantica sebbene esistano flussi intra-
europei sostanziosi per tutto il periodo 1876–1988. Circa il 70% di quanti sono partiti tra il 1876 e
il 1915 è di origine meridionale e rurale. I flussi si indeboliscono nel periodo della Grande
Guerra e con le numerose misure restrittive messe in campo dagli USA. La migrazione riprenderà
nel periodo interbellico sia pure indirizzata sempre più marcatamente verso il Sud America —
ove i limiti all’immigrazione sono più laschi.

EMIGRAZIONI E RITORNI
Adottando una prospettiva di più lungo periodo, tra il 1870 e il 1970 il dato dell’emigrazione netta
risulta praticamente dimezzato rispetto all’emigrazione lorda da un numero di rimpatri stimato
attorno ai 11–13 milioni di persone (circa il 50% dei 27 milioni di emigrati). In questo senso, spicca
una varietà di cause:
 Il ritorno dei fallimenti — proprio di tutto coloro che non riescono a integrarsi nella
società d’immigrazione nonostante il supporto delle catene migratori. In alcuni casi I
ritorni dei fallimenti sono prematuri e causati dai fiscali controlli che le autorità dei paesi
di arrivo (specie gli USA) eseguivano sui migranti. Ad ogni modo, questi ostacoli poterono
essere superati dall’emigrazione clandestine od optando per altre mete (e.g. scartando la
più gettona New York per la Louisiana e New Orleans);
 Il ritorno della conservazione — proprio di quanto emigrano soltanto per accumulare le
risorse necessarie per poter tornare nella propria terra natia migliorando però il proprio
status sociale. In questo senso la mentalità del migrante resta immutata, specie nei suoi
tratti conservatori e retrogradi;
 Il ritorno d’investimento — talvolta, i contadini urbanizzatisi nelle are di immigrazione
possono rimpatriare realizzando, però, una nuova attività economica slegata dal settore di
attività originario (i.e., spesso, l’agricoltura). In questo caos la mentalità del migrante muta
diventando dinamica e imprenditoriale;
 Il ritorno per pensionamento — alcuni decidono, dopo aver raggiunto la pensione nel
paese di immigrazione ed esservisi integrati, decidono di rimpatriare. Questo rimpatrio
ha un sensibile impatto sulla struttura demografica dei paesi di partenza ai quali si fa
ritorno, che invecchiano precocemente.
La massa dell’emigrazione italiana è stata quantificata in circa quasi 60 milioni di individui, i.e. la
popolazione del paese nel primo decennio del XXI secolo.

LE SPINTE ALL’EMIGRAZIONE
Resta sorprendente che cotante persone fosse permesso loro di emigrare. Difatti, nell’Otto-
Novecento gli Stati europei di partenza furono restii a introdurre norme che potessero limitare

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incisivamente i flussi migratori. Diversamente essi si mossero nel corso del secondo dopoguerra,
quando furono adottati accordi bilaterali in materia tra Stati di partenza e di arrivo. In assenza di
ogni ostacolo politico sensibile, i fattori strutturali poterono avere la meglio rendendo possibili
tali migrazioni:
 il diverso stadio a cui la transizione demografica è giunta in paesi diversi — soprattutto
in Europa, in boom demografico, e nel Nuovo Mondo, ancora nel cosiddetto regime
tradizionale;
 l’inesistenza di vincoli economici alla mobilità della manodopera;
 i progressi tecnologici nel campo dei trasporti — Almeno fino agli anni 1880 si registrò
infatti una forte riduzione del costo dei biglietti. Dopo di allora i costi di viaggio
riprendono a salire, con rialzi fino al 30% per almeno due ragioni:
o Rinnovamento delle flotte col passaggio dalla vela al vapore;

o accordi di cartello fra le compagnie di navigazioni.


Ad ogni modo la riduzione dei costi e della durata della traversata incentivano l’andamento
circolare – più che lineare – dell’emigrazione.

IL MODELLO HATTON -WILLIAMSON (1998)


Le emigrazioni del tardo secolo XIX sono state spiegate nelle loro cause attraverso la stilizzazione
proposta da Hatton e Williamson. I due guardano dinamicamente a quattro variabili studiate
attraverso un modello a regressione multipla:
 il gap salariale in termini reale fra aree di origine e destinazioni — che permette di misurare
il guadagno atteso dall'emigrazione in termini di reddito;
 il tasso di incremento demografico naturale — che dà indicazioni sulla transizione
demografica nelle aree di partenza;
 il livello di industrializzazione — misurato dalla percentuale di lavoratori in agricoltura,
che agisce come variabile proxy che sta in relazione inversa con il livello di
industrializzazione;
 lo stock di emigranti che vivevano all’estero — che approssima l’effetto della catena
migratoria sulle nuove migrazioni.
Ciò significa, schematicamente, che i cicli dell’emigrazione europea sono stati:
 crescenti — fino a quando:
o i tassi d’incremento demografico restarono maggiori nelle aree di partenza che in
quelle di arrivo;
o l’industrializzazione procedette rapidamente nelle aree di arrivo;

o persistette un differenziale salariale significativo in favore delle aree di arrivo;


o quantità crescenti di precedenti emigrati determinarono l’accelerazione del ciclo
stesso.
 Decrescenti — dal momento in cui:

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o il bilancio della transizione demografica tese a ri-equilibrarsi;

o l’industrializzazione delle aree di arrivo iniziò a rallentare;


o le forze del mercato spinsero di salari reali verso la convergenza — in ciò aiutate
dalla spinta più debole offerta dallo stock di precedenti emigrati man mano che il
loro numero all'estero si stabilizzava;
o La stabilizzazione e/o riduzione degli stock di precedenti emigrati .

In realtà, l’esperienza migratoria di Italia e Spagna dimostra un certo ritardo temporale e una
minore intensità degli effetti restrittivi sulle emigrazioni. Ciò è forse dovuto significativamente
alla maggiore povertà e i più stringenti vincoli di reddito per gli abitanti delle aree rurali più poveri
di questi paesi.

IL RUOLO DELLE ÉLITES DI GOVERNO


Il modello Hatton-Williamson non prende in considerazione il ruolo delle policies e degli interessi
delle élites di governo sulle migrazioni. Difatti, chi trae vantaggio dalle policy migratori sono
proprio le classi i cui interessi sono rappresentate dalla regime vigente.
 Rispetto alle policies d’ingresso molto dipende dal peso relativo dei diversi interessi sulla
funzione obiettivo del governo. In linea generale:
o quanto maggiore è il peso degli interessi operai, tanto più la politica
sull’immigrazione sarà restrittiva;
o quanto maggiore le categorie dei capitalisti, dei latifondisti e degli altri rentier,
tanto più lassista sarà la politica sull’immigrazione.
 Rispetto alle policies migratorie messe in atto nel paese di partenza, esse corrispondono
prioritariamente agli interessi delle classi dominanti e si risolvono in compromessi
inconcludenti:
o l’interesse dei latifondisti in questo caso sarà per la limitazione dell’emigrazione
con lo scopo di conservare la pressione al ribasso sul livello medio dei salari reali;
o l’interesse delle classi subordinate è di permettere l’emigrazione per aspirare a
condizioni migliori e, soprattutto, allentare la pressione al ribasso sui salari.

LE POLICIES SULL’EMIGRAZIONE DALL’ITALIA LIBERALE AL FASCISMO


In Italia ebbe a prevalere un atteggiamento positivo verso l’emigrazione almeno siano agli anni
1880. Successivamente, lo Stato intervenne legislativamente per disciplinare il flusso migratorio
in uscita.
LA LEGGE DI POLIZIA DEL 1888
Il primo atto normativo che tange il settore delle migrazioni sia pure indirettamente è la Legge di
polizia voluta dal governo Crispi nel 1888. Più che una vera e propria legge sull’emigrazione, di
fatto si trattò di un provvedimento di ordine pubblico. Esso istituì un sistema di emigrazione

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pilotata in cui al singolo viene lasciata piena libertà di emigrare ma anche l’onera di dover fare da
sé per quanto atteneva la ricerca di un lavoro.
Il programma di Crispi si traduce nel controllo della autorità di pubblica sicurezza su eventuali
illeciti e la loro repressione. Si prova a migliorare la disciplina degli agenti della polizia
migratoria attraverso l’emissione di un patentino di agente che, però, fallisce miseramente nel
proprio scopo.
Di fatto, però nessun limite venne posto allo strapotere delle compagnie di navigazione e della
borghesia meridionale nella gestione del traffico migratorio. Si riscontra, ad esempio, l’assenza
di qualsivoglia regolamentazione del contratto di trasporto. Ne derivano condizioni di trasporto
al limite della lesione della dignità umana. Tuttavia, viene istituita una commissione per la gestione
delle vertenze tra emigranti e vettori. In una parola, affermò Nitti, «l’emigrante veniva
accompagnato per mano all'imbarco per poi essere gettato in mare e abbandonato a sé stesso».

L’EMIGRAZIONE TUTELATA
La legge sulle migrazioni approvate dal governo Giolitti nel 1901 fu una forma primordiale di
legislazione sociale espressione del liberismo sociale, contrapponibile al liberismo conservatore.
Tuttavia, resta notevole l’assenza di qualsivoglia dibattito sulle cause dell'emigrazione di massa.

Il Commissariato Generale dell’Emigrazione (CGE)


Essa s’iscrive nel più vasto ambito dello stato amministrativo giolittiano, costruito attraverso
l’istituzione di amministrazioni speciali con poteri e funzioni parallele a quelle dei Ministeri. Tale
provvedimento procedette alla razionalizzazione delle competenze prima sparpagliate tra vari
uffici e ministeri con la creazione del Commissariato Generale dell’Emigrazione (CGE). Esso ha
competenze non solo sull’imbarco, ma anche sulle condizioni di viaggio — norma supportata dai
socialisti ma opposta da agrari e liberisti. Tale organo è dotato di un suo fondo per l’emigrazione
gestito autonomamente, presieduto da un consiglio dell’emigrazione con poteri solo consultivi e
controllato da una Commissione parlamentare di vigilanza.
Il fondo della CGE resta in attivo sino al suo scioglimento. Esso si nutriva di contribuzioni versate
dalle compagnie di navigazione, da imposte pagate dagli emigranti sui propri passaporti e da
altre variegate fonti di finanziamento. Essa, però, tradirà in gran parte la propria missione agendo
quasi come una Cassa Depositi e Prestiti che operò scelte di investimento del proprio attivo in
titoli di Stato e altri strumenti finanziari. Invece, la CGE avrebbe dovuto allocare i propri fondi per
ben altri scopi: migliorare la funzionalità dei porti d’emigrazione, la fornitura di servizi per gli
emigranti, finanziare l’attività del personale di bordo della CGE (soprattutto quello medico).

Rottura o continuità?
La legge arrivò sino a fissare i noli e i costi dei biglietti per legge. Tuttavia, non va esagerata la
sua carica di rottura rispetto al passato. Difatti, la legge del 1901 conserva il vecchio impianto
privatistico della legge del 1881. Insomma, essa non interviene a regolamentare il rapporto tra
emigrante e vettore in maniera diretta. La stessa abolizione dell’agente di emigrazione viene
facilmente aggirato dalle compagnie di navigazione conferendo agli ex-agenti la veste giuridica dei
rappresentanti.

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Dopo l’ascesa del fascismo


L’introduzione di policies restrittive nei paesi di destinazione, e le conseguenze della Grande
Guerra determina anche in Italia un cambiamento nelle politiche emigratorie.
Il fascismo tenta di arruolare gli emigrati italiani mezzo di organizzazioni come i fasci di
combattimento all’estero, progetto che però fallisce. Trattasi di un periodo in cui il fenomeno
dell’emigrazione si incrocia con quello della fascistizzazione degli Italiani e della colonizzazione
delle aree dell’Africa cadute vittime dell’imperialismo italiano.
In un contesto di centralizzazione del potere politico le diverse amministrazioni parallele create
in epoca giolittiano non possono che apparire un ostacolo. In questa logica si procedette nel 1927
allo smantellamento dell'impianto istituzionale della legge del 1901 e del CGE innanzitutto. In
questi anni si supera il consolidato modello privatistico di gestione delle emigrazioni per passare.
Gli succede una statalizzazione delle stesse che sono sempre più regolamentate da accordi
intergovernativi che hanno a oggetto delle singole categorie di lavoratori.

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