Sei sulla pagina 1di 5

I.

2 Un excursus storico della globalizzazione

La globalizzazione è generalmente percepita come un fenomeno recente, in questa sede si intende


tracciare un excursus storico della globalizzazione per mostrarne le origini, sebbene in letteratura vi
sia un dibattito sempre aperto a proposito del tema, e tracciarne i possibili sviluppi, perché la storia
possa diventare il punto di partenza per valutare razionalmente le basi su cui poggiare gli sviluppi
futuri di una tendenza che ha cambiato ed è destinata a cambiare ulteriormente il vivere quotidiano
delle imprese, dall'organizzazione delle funzioni alla formulazione delle strategie, fino
all'operatività quotidiana in senso stretto.
A proposito dell'origine della globalizzazione è opportuno richiamare in questa sede un estratto di
Amartya Sen, per chiarire il ruolo che la globalizzazione ha avuto nello sviluppo del moderno
sistema mondiale: “Attorno all'anno Mille la diffusione globale della scienza, della tecnologia e
della matematica stava cambiando la natura del vecchio mondo, ma la disseminazione seguiva, in
larga misura, una direzione opposta a quella attuale. Ad esempio, alte tecnologie dell'anno Mille
quali carta e stampa, sestante e polvere da sparo, orologio e ponte sospeso a catene di ferro,
aquilone e bussola magnetica, carro su ruote e ventola erano note e ampiamente utilizzate in Cina,
ma quasi sconosciute altrove. La globalizzazione le ha diffuse nel mondo, Europa compresa. La
stessa cosa avvenne per la matematica. Il sistema decimale nacque e fu sviluppato in India tra il
secondo e il sesto secolo e, poco più tardi, venne impiegato anche dagli arabi. Queste innovazioni
matematiche raggiunsero l'Europa perlopiù negli ultimi decenni del decimo secolo e cominciarono
ad avere un impatto consistente all'inizio dello scorso millennio. Successivamente avrebbero avuto
una parte di primo piano nella rivoluzione scientifica che ha favorito la trasformazione dell'Europa.
In effetti, l'Europa sarebbe molto più povera – dal punto di vista economico, scientifico e culturale –
se avesse opposto resistenza alla globalizzazione della matematica, della scienza e della tecnologia
di quel tempo”. A prescindere dalla disputa in merito all'origine del fenomeno, si può considerare
che la prima mondializzazione, per non risalire alle crociate o all'impero di Alessandro, porta la data
della conquista dell’America (1492), quando l’Occidente prese coscienza della rotondità della terra
per scoprirla ed imporre le proprie conquiste: si può parlare, in questa fase, di colonizzazione delle
terre meno evolute in un'ottica di predominio degli stati europei, finalizzato allo sfruttamento delle
risorse di cui erano ricche le terre appena scoperte. Chi scrive non conviene quindi con quella
letteratura manageriale che identifica la prima impresa internazionale con la Compagnia delle Indie,
infatti già nel periodo coloniale, diverse imprese europee, che si classificano come multinazionali di
prima generazione, stabilirono all’estero attività per l’estrazione di risorse naturali e materie prime.
La delocalizzazione all’estero di attività di trasformazione industriale invece è un fenomeno più
recente, strettamente correlato allo sviluppo del commercio internazionale nel corso del XX secolo.
Piuttosto che stabilire legami commerciali o concedere ad imprese locali la licenza per produrre
particolari prodotti, alcune imprese possono ritenere preferibile installare direttamente all’estero le
proprie unità produttive. In questo modo è possibile, per esempio, ridurre i costi di trasporto,
adattare la produzione alle esigenze specifiche del contesto locale e, più in generale, stare ‘sul
mercato’ con tutti i vantaggi di tipo economico e di tipo non economico che questo comporta.
In particolare, ritornando al quadro storico, lo schema della conquista prevedeva una crescita della
prosperità a senso unico: i metalli preziosi – e, poi, le materie prime – importati dai territori
d'oltreoceano in cambio di prodotti europei di scarso valore e bassa qualità, eccetto in rari casi, si
indirizzavano inesorabilmente verso i paesi più fiorenti del vecchio continente, sostando solo nella
penisola iberica, che fungeva da grande centro di smistamento delle ricchezze europee. Il
mercantilismo, una dottrina priva di grandi e raffinate basi teoriche ma dotata di una solida
concretezza e sostenuta da un successo indiscutibile nella pratica, riuscì ad imporsi come elemento
connettivo di una lunga epoca storica, durata fino alle soglie della rivoluzione industriale. Nel corso
di questo lungo periodo, l'economia si legò sempre di più al ruolo degli Stati, alla loro autorità
assoluta e unilateralità di comando, alla loro capacità di commercializzare i prodotti all'esterno dei
confini nazionali, al protezionismo interno e alla propensione ad accumulare metalli preziosi.
Tuttavia, in questo contesto generale, in cui ebbero origine e si consolidarono le politiche di
potenza, con condizioni squilibrate ed estremamente propizie di guadagno, non scomparve il ruolo
del fattore umano, che, anzi, venne esaltato dai traffici su larga scala e dall'attività di negoziazione
tipica del commercio, anche quello delle grandi compagnie.
Un secondo importante punto fermo nella storia della globalizzazione è riferibile sostanzialmente
alla cosiddetta rivoluzione industriale, partita dalla Gran Bretagna e gradualmente estesasi a tutti gli
stati europei: l'incidere del fenomeno dell'industrializzazione fa risaltare l'ampliamento delle
opportunità economiche e del mercato, l'allargamento spropositato dell'orizzonte produttivo e
territoriale entro cui si trovava ad operare larga parte dell'umanità, perlomeno – in una prima fase –
all'interno del continente europeo. La produzione su scala industriale, infatti, ha comportato diverse
conseguenze, più o meno ravvicinate: innanzitutto, la ricerca di mercati più vasti, una volta saturato
quello interno dei paesi industrializzati; ma anche il passaggio dalle economie protette al libero
scambio; la formazione e l'allargamento del capitale industriale, attraverso il processo di
accumulazione; l'intensificazione massiccia delle attività di distribuzione collegate ai prodotti
industriali, anche mediante nuove forme di subordinazione dei paesi meno sviluppati; fino
all'insorgere delle prime crisi di sovrapproduzione, come segno folgorante del cambiamento di
un'epoca.
Queste tendenze sicuramente pongono in evidenza le origini remote di un processo di
globalizzazione, per lungo tempo considerato recente, che ha contribuito, con alti e bassi allo
sviluppo del sistema economico così come oggi ci è noto, ma in realtà fino al XIX secolo non ci è
dato parlare di un mondo globalizzato alla luce degli attuali standard, infatti, in riferimento a questi,
gran parte degli storici dell'economia conviene nell'affermare che l'economia mondiale era
estremamente ben integrata solo (o già!) nel 1914. Si possono in realtà tracciare due ondate di
globalizzazione: la prima relativa al periodo 1820-1914 e la seconda, attualmente in corso, a partire
dagli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale.
Nel periodo 1820-1914 si possono individuare diverse determinanti in base alle quali è ragionevole
parlare di globalizzazione nell'accezione moderna del fenomeno: la rivoluzione industriale, quella
cominciata in Gran Bretagna durante il secolo precedente, si estese in molti paesi interessando tutti
gli aspetti della società. L'energia a vapore nel settore manifatturiero e nei trasporti marittimi e
ferroviari condusse ad una diminuzione imponente dei costi di produzione e di distribuzione, si
aggiunga l’uso generalizzato del telegrafo e la produzione di massa, che innescò un processo di
globalizzazione dell'economia mondiale sviluppando il commercio molto celermente. Gli Stati Uniti
e l'Europa occidentale cominciarono a scambiare beni manufatti con le materie prime dal resto del
mondo. Il commercio all'interno dell’Europa, inoltre, si sviluppò velocemente anche per il
differente grado di sviluppo dei vari paesi, anche i mercati finanziari raggiunsero livelli di
integrazione ineguagliati; quel che più sorprende però è la quota di investimenti diretti esteri: si
stima infatti che il 35 per cento circa dei flussi di investimenti esteri nel corso della prima ondata di
globalizzazione sia rappresentato da investimenti diretti all'estero (Dunning, 1983); mentre si può
“ritenere che oggi tale incidenza sia, per la media mondiale, assai più bassa” (Mariotti,2000,p.26).
Dopo il 1914, a causa delle guerre mondiali e delle politiche protezionistiche, i processi in corso
subiscono una rilevante battuta d'arresto, se non addirittura una vera e propria inversione di
tendenza: nel 1929 infatti negli USA viene approvata la Smoot-Hawley Tariff, forse la misura più
protezionistica del XX secolo; questa risposta protezionistica trasforma una crisi finanziaria in
Grande Depressione, moltiplicando le barriere alle migrazioni, al commercio e ai capitali. Negli
anni '40 quindi, nel momento in cui si verifica una preliminare, timida nuova apertura al libero
scambio, nascono le cosiddette multinazionali di seconda generazione: in alcuni casi, proprio la
presenza di ostacoli tariffari o non tariffari favorisce la localizzazione diretta nei mercati di sbocco
delle proprie merci. Paradossalmente la presenza di politiche economiche protezionistiche favorisce
l’internazionalizzazione di alcune imprese. L’introduzione di barriere all’entrata, come dazi
doganali e contingentamenti sulle importazioni, è stata per molto tempo uno strumento utilizzato da
alcuni paesi per forzare le grandi imprese esportatrici a localizzarsi direttamente in loco, attraverso
le cosiddette politiche di sostituzione delle importazioni. Negli anni '60 e '70, in riferimento
sopratutto (ma non solo) a società di servizi, come banche, assicurazioni e imprese di consulenza,
nasce una terza generazione di multinazionali, per le quali l'investimento estero è un'alternativa
all'esportazione ed è guidato soprattutto da fattori di mercato: si tratta sostanzialmente di
investimenti finalizzati a servire meglio il mercato locale, che deve essere quindi il più ampio
possibile. Solo il recente sviluppo dell' Information and Communication Technlogy ha reso invece
possibile il concepimento di una multinazionale di quarta generazione, si tratta di imprese multi-
funzionali e multi-impianto in cui il luogo di produzione è spazialmente separato dalle funzioni di
controllo dell’impresa, dalle funzioni amministrative e dalle strutture che hanno funzioni
specifiche, come ad esempio i laboratori di ricerca e sviluppo. La multinazionale di quarto livello è
comunque una realtà di cui solo molto recentemente si è sentita l'esigenza e che oggi sta
conoscendo forme di sviluppo prima impensabili, in quanto il sentir comune del management in
relazione all'ambiente globale solo in tempo piuttosto recenti ha assunto nuove prospettive.

I.2.1 La crisi della globalizzazione

La globalizzazione è stata oggetto di uno sfrenato entusiasmo tra gli anni '80 e '90 del secolo appena
trascorso da parte di un gran numero di imprese che avevano creduto di trovare in essa una manna
scesa dal cielo, e hanno dovuto poi ahisè ricredersi a riguardo, verso la fine degli anni '90,
sperimentando una serie di shock come la crisi finanziaria asiatica, le riserve avverse alla
globalizzazione che hanno ottenuto visibilità globale con la “Battaglia di Seattle”, nonché la recente
crisi finanziaria che ha destabilizzato l'intero sistema economico mondiale. Su The Nation
Wallerstein ha recentemente evidenziato le criticità del modello di globalizzazione che si è
affermato in questi ultimi anni. Tra le conseguenze, la delocalizzazione delle attività economiche
che trasferisce fabbriche da una parte all'altra del mondo alla ricerca di costi operativi più bassi, ma
anche la diminuzione dei posti di lavoro. Anche dal punto di vista delle imprese la globalizzazione
negli ultimi anni ha preso una brutta piega, al punto da invertire i normali canoni di valutazione
della presenza globale che viene percepita, a ragione, non più come un aspetto indiscriminatamente
positivo, ma piuttosto come un fenomeno moltiplicatore di inusitati rischi, così il management di
nuova generazione si trova a dover prendere decisioni circa le strategie d'internazionalizzazione per
il lungo termine in un contesto che appare caratterizzato esclusivamente da una temibile
mutevolezza.
La crisi della globalizzazione mette in evidenza i rischi cui il management va inesorabilmente
incontro con l'attuazione di strategie globali: l'equilibrio finanziario dell'impresa inizia a dipendere
da meccanismi di mercato non totalmente, o per niente, sotto il controllo della governance
aziendale, il rapporto con gli stakeholders diventa sempre più difficile da gestire, se si considerano
addirittura, a titolo d'esempio, iniziative reazionarie di boicottaggio e di pubblicità negativa dei
marchi. Inoltre il crescente interesse dei mercati occidentali verso prodotti differenziati, piuttosto
che acquistabili a buon mercato, non giustifica più le delocalizzazioni produttive in paesi
caratterizzati da bassi costi di manodopera. La globalizzazione ha creato negli ultimi anni un
reticolo di connessioni sociali e di interdipendenze economiche funzionali, che legano fra loro i
destini degli individui e dei popoli, per cui la crisi politica di questo o quell'altro paese ai confini
della terra può determinare una destabilizzazione dell'impresa nata dall'altra parte del mondo.
A quest'ordine di problemi, il management più moderno ha deciso di far fronte considerando il
mondo non come totalmente integrato, né come costituito da regioni geneticamente incompatibili,
ponendo in essere quindi un giusto mix di strategie locali e internazionali che rendono giustizia a
questo nuovo modo di vedere la realtà.

Potrebbero piacerti anche