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LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

1. Il problema

Il concetto di rivoluzione industriale, coniato in ambito francese negli anni venti dell’Ottocento, ha fatto
molto discutere gli storici. Mentre alcuni lo ritengono inadeguato a indicare rivolgimenti di lungo periodo,
difficilmente delimitabili nel tempo e nello spazio come il termine “rivoluzione” sembrerebbe presupporre,
i più lo usano abitualmente, seppure con qualche cautela, soprattutto perché sembra il più idoneo a
esprimere la profondità e la radicalità dei mutamenti verificatisi nelle economie occidentali a partire
dall’Inghilterra del Settecento. Se sembra effettivamente difficile rinunciare a una definizione ormai entrata
nel linguaggio comune, si deve però riconoscere che le perplessità non sono infondate. Non è facile, ad
esempio, accordarsi su quali furono i fattori determinanti e scatenanti del processo, e di volta in volta si
pone l’accento sul versante dell’organizzazione del lavoro o sui rapporti di produzione,
sull’imprenditorialità, sulle trasformazioni tecnologiche o sulle risorse disponibili. Talvolta si assumono
insieme alcuni di questi elementi, talaltra ci si riferisce ad essi nel loro complesso. Problemi non minori
sorgono se si prendono in considerazione gli indicatori in base a cui misurare lo sviluppo, o l’ambito,
sovranazionale, nazionale o regionale a cui rifarsi. Simili difficoltà sono solo in parte aggirate da chi
preferisce rifarsi a categorie esplicative diverse. In quest’ambito merita di essere ricordato il concetto
di sviluppo economico moderno elaborato dalla storiografia. Esso indica un aumento della quantità pro
capite dei beni e dei servizi a disposizione di una comunità che, a differenza di quelli del passato, presenta
sul lungo periodo caratteri di irreversibilità, accompagnandosi a profonde trasformazioni produttive, sociali
e demografiche. Perché tale sviluppo si verifichi, il tasso di crescita del reddito per abitante, variabile a
seconda dei tempi e delle situazioni, dovrebbe ammontare al 15-30% per decade, in un contesto
caratterizzato dall’aumento della popolazione, dei risparmi e degli investimenti, e, soprattutto, della
produttività, grazie all’innovazione tecnologica e a una diversa organizzazione del lavoro. Lo sviluppo
economico moderno si accompagna anche a uno straordinario mutamento nella composizione del prodotto
nazionale per il quale, mentre crescono le quote relative del settore industriale e dei servizi, diminuisce in
proporzione quella tradizionalmente preponderante dell’agricoltura, nonostante gli elevati incrementi di
produzione e di produttività che si verificano anche in quest’ambito.

2. La rivoluzione industriale inglese

Solitamente quando si parla di rivoluzione industriale, o di avvio dello sviluppo economico moderno, ci si
riferisce al processo verificatosi in Inghilterra a partire dalla seconda metà del Settecento e che da lì si
diffuse successivamente all’Europa, agli Stati Uniti, a parte del Sudamerica, alle colonie di insediamento
bianco e al Giappone, per coinvolgere solo dal secondo dopoguerra altri paesi dell’Asia e dell’Africa. La
rivoluzione industriale inglese, giunta a compimento verso la metà dell’Ottocento, è riconducibile alla
presenza di fattori di natura diversa. Le peculiari tradizioni politiche britanniche e la mentalità delle sue
classi dirigenti, inclusa l’aristocrazia, offrivano un terreno particolarmente propizio allo sviluppo delle
attività economiche e alla ricerca del profitto, che potevano svolgersi in un quadro di libertà e di certezza
del diritto sconosciuti nella maggior parte del continente e che erano oggetto di una valutazione sociale più
positiva che altrove. Inoltre, l’Inghilterra aveva già trasformato radicalmente la sua agricoltura e la sua
popolazione, che era tra le più prospere d’Europa, costituiva un possibile mercato anche per consumi non
di prima necessità. Proprio nella rivoluzione agricola, attuata in Gran Bretagna con qualche anticipo rispetto
all’industrializzazione e nel corso del suo primo svolgersi, è stata spesso individuata una sorta di
precondizione per il verificarsi della rivoluzione industriale. Il possesso di un vasto impero coloniale e
l’elevata disponibilità di materie prime e di risorse ampliavano poi le dimensioni degli scambi e le
potenzialità produttive. In questo contesto si colloca l’introduzione di numerose innovazioni tecnologiche,
che presentandosi con una straordinaria concentrazione temporale permisero incrementi di produttività
senza precedenti. Il settore industriale che ne fu per primo protagonista fu quello tessile. L’avvento della
meccanizzazione della filatura e, in un secondo tempo, della tessitura, prima del cotone e poi della lana,
permisero, con un caratteristico meccanismo di botta e risposta nel campo delle innovazioni, sviluppi
straordinari: nella filatura del cotone, ad esempio, la produttività del lavoro crebbe di circa 150 volte entro
la fine del secolo e di trecento entro il 1825.Si trattò certamente, come avrebbe sostenuto Schumpeter, di
“bufere di distruzione creativa”, giacché alle innovazioni si accompagnarono anche drammatiche
conseguenze: basti pensare che la meccanizzazione della tessitura portò con sé la distruzione della figura
professionale centrale dei tessitori, che dai circa 250.000 che erano nell’Inghilterra del 1820 si videro ridotti
a 3000 intorno alla metà del secolo. In seguito all’industrializzazione si diffusero e si inasprirono pertanto i
conflitti sociali e la lotta di classe, che diedero luogo al sorgere del movimento operaio. Gli altri grandi
protagonisti della rivoluzione industriale furono il carbone e la macchina a vapore. Nella prima fase la forza
motrice usata nell’industria tessile rimase ancora quella idraulica. Ma la macchina a vapore, il cui uso si
diffuse soprattutto dall’inizio dell’Ottocento, permise di estrarre il carbone in profondità, aprendo la
possibilità di disporre di risorse energetiche sino a quel momento impensabili. Fu questa rivoluzione
energetica a imprimere un’autentica svolta nella storia dell’umanità, giacché grazie ad essa si poté contare
per la prima volta su risorse praticamente illimitate, o in ogni caso disponibili per secoli e non più, come era
stato sino ad allora, per poche generazioni. Anche in questo caso si innescò un felice meccanismo di botta e
risposta: la macchina a vapore sostituì l’acqua, più discontinua e inaffidabile, come forza motrice; permise
l’estrazione di una maggior quantità di carbone, che a sua volta serviva ad alimentarla; carbone e macchina
a vapore diedero l’impulso ad altre industrie, come quella siderurgica e meccanica, e l’insieme di questi
fattori rese possibile, a partire dagli anni Venti dell’Ottocento, quell’altro evento rivoluzionario che fu
l’avvento delle ferrovie. Sul versante dell’organizzazione del lavoro, il dato saliente della rivoluzione
industriale consiste nell’introduzione del sistema di fabbrica. A partire dall’industria tessile, la
concentrazione del lavoro e delle macchine in un unico edificio, la divisione del lavoro e il controllo sui suoi
orari e sui suoi ritmi da parte del proprietario capitalista si sostituirono progressivamente ai preesistenti
modelli organizzativi protoindustriali, largamente legati al lavoro a domicilio e alla compresenza di attività
agricole e industriali. L’avvento del factorysystem determinò la fine della centralità della famiglia come
luogo di organizzazione e di divisione del lavoro e la separazione sempre più netta del lavoratore, divenuto
salariato, dal controllo del processo produttivo e dei prodotti del lavoro; in contrapposizione ai lavoratori
salariati si affermarono così la proprietà privata del capitale e dei mezzi di produzione e, all’insegna della
logica del profitto individuale, la figura del moderno capitalista industriale.

3. La diffusione dell’industrializzazione

La diffusione dell’industrializzazione dall’Inghilterra verso altri paesi si verificò con notevoli discontinuità
spaziali e temporali, tanto che il suo procedere è stato paragonato alla conformazione maculata della pelle
del leopardo. In un primo tempo, sin dalla prima metà dell’Ottocento, furono coinvolte soprattutto le aree
dell’Europa nord-occidentale più ricche di risorse energetiche e più prossime alla Gran Bretagna, come il
Belgio e alcune regioni della Francia e della Germania, mentre solo in misura più limitata e circoscritta
furono interessate zone dell’Europa centrale e meridionale. Solo nella seconda metà del secolo, e anche
allora con persistenti discontinuità e disomogeneità, il processo si estese al resto dell’Europa e al Giappone,
mentre lo sviluppo economico statunitense seguì vie diverse, più graduali e più legate ai caratteri di quel
paese, attraverso una peculiare e felice imitazione del modello britannico, imperniato sulla centralità della
produzione tessile. Fu soprattutto a partire dal decennio successivo che furono intraprese, particolarmente
a partire dalla Germania, vie più autonome e originali. In quella che alcuni hanno definito la “seconda
rivoluzione industriale” si possono infatti riscontrare alcuni tratti che si differenziano notevolmente
dall’esperienza dei decenni precedenti. Mentre nel commercio internazionale alla fase liberista ne
subentrava un’altra sempre più segnata dal protezionismo e dall’antagonismo fra le nazioni, si affermavano
come protagoniste industrie nuove, o che in passato avevano avuto una funzione meno centrale. Assunsero
così un’importanza cruciale la siderurgia, grazie alle nuove possibilità di produrre acciaio a basso costo,
l’industria chimica, la meccanica e l’idroelettrica, mentre gli stabilimenti assumevano spesso, per
l’estensione degli impianti e per la quantità della manodopera occupata, le nuove dimensioni della grande
industria moderna. Si trattava di settori produttivi che rispetto a quello tessile richiedevano tecnologie
nuove, meno artigianali e più sofisticate, e più ingenti investimenti di capitali. Si assistette pertanto a uno
sviluppo senza precedenti della ricerca scientifica finalizzata all’innovazione tecnologica e alla nascita di
nuove istituzioni di credito per il finanziamento industriale, le cosiddette banche miste o di tipo tedesco.In
questo contesto, a differenza di quanto era accaduto nella prima fase della rivoluzione industriale, il
sostegno degli stati e delle politiche economiche ebbe una funzione cruciale nello sviluppo dei paesi giunti
in ritardo al capitalismo. La Germania, che emerse in questa fase come grande potenza industriale, alla fine
del secolo raggiunse il potenziale economico dell’Inghilterra, che veniva così a perdere, anche in
concomitanza con lo straordinario sviluppo degli Stati Uniti, il ruolo egemone che aveva a lungo occupato.

4. La I Rivoluzione industriale e l’età dell’egemonia europea

La rivoluzione industriale, che si attua in Inghilterra, vede una prima fase dal 1750 agli anni ‘80, con il
susseguirsi di invenzioni che incrementano la produzione tessile e i primi opifici realizzati con non grossi
investimenti, spesso dagli stessi artigiani-inventori; mentre la seconda fase si ha con l’affermazione
dell’utilizzo della macchina a vapore e una più decisa trasformazione della vita economica e della società.
Essa è parallela a una «rivoluzione agricola» avviatasi già in età medievale con innovazioni tecnologiche
quali la rotazione triennale e l’aratro pesante e concretizzatasi nell’Inghilterra di età moderna con le
recinzioni (atti di soppressione delle terre comuni dal XV a metà XIX sec.). Su scala mondiale questo è il
periodo dell’egemonia europea che va dalla fine del XVIII sec. a inizio XX, caratterizzata dal controllo
coloniale e produttivo inglese e, in misura molto minore, francese (per Braudel Londra è centro
dell’economia mondo dal 1783 a inizio ‘900). Questa supremazia viene preparata nei secoli precedenti a
partire dalle innovazioni nella tecnologia nautica che consentono la scoperta dell’America e attraverso i
commerci e la Rivoluzione scientifica del XVII sec. Tuttavia per lungo tempo la bilancia dei pagamenti
europea è stata in deficit rispetto all’oriente, da cui provenivano seta e spezie (India) o anche manufatti
(Cina) e in cui sono presenti efficienti organizzazioni territoriali, statali o militari. La supremazia europea è
allora motivata da diversi fattori: 1) una struttura economica e politica che non ostacola artigiani e
commercianti, ma anzi favorisce l’esercizio della proprietà privata e la formazione del capitalismo
commerciale; 2) lo sviluppo tecnologico come capacità di costruire macchine, cioè di applicare le
conoscenze scientifiche per ottenere risultati pratici (dalla bussola, agli occhiali, agli orologi); 3) la volontà di
conquista, che rappresenta un elemento culturale.

Le innovazioni tecnologiche alla base della I Rivoluzione industriale sono sempre più rappresentate da
nuovi brevetti: in Inghilterra dai circa 100 all’anno del 1650-1750 si passa agli oltre 450 del 1780.

1689 macchina a vapore di Thomas Savery per drenare l’acqua dalle miniere
1705 macchina a vapore di Thomas Newcomen, applicata a una pompa per le miniere
1709 Darby utilizza il carbon coke
1733 navetta volante di Kay
1764 filatoio multiplo meccanico (jenny) di James Hargreaves
1765 prima macchina a vapore di James Watt: ne risulta il moto circolare di un asse
1769 telaio idraulico di Richard Arkwright
1774 primi utilizzi industriali della macchina a vapore
1779 macchina filatrice (mule) di Crompton
1784 nuove tecniche di fonderia di Henry Cort
1785 telaio meccanico di Edmund Cartwright che sfrutta l’energia motrice del vapore
5. La reazione del proletariato alle contraddizioni del capitale
Mentre l'impetuoso sviluppo del capitalismo commerciale nulla poté contro il dilagare della peste nella
seconda metà del Trecento, che dimezzò di un terzo gli europei, uno sviluppo ancora più impetuoso del
capitalismo industriale, potenziando la medicina, migliorando l'igiene e l'alimentazione (almeno per chi se
lo poteva permettere), sfruttando le colonie extra-europee come sbocco per la manodopera eccedente e
facendo in modo di non avere più carestie nel continente (l'ultima sarà quella irlandese del 1847-48),
determinò un incredibile aumento della popolazione, che da 193 milioni nel 1800 passò a 400 milioni alla
fine dello stesso secolo. Si era infranta per sempre quella compensazione naturale tra nascite e morti che
aveva caratterizzato l'Europa agricola per millenni, ove a una eventuale alta natalità seguiva sempre un'alta
mortalità, dovuta a carestie o epidemie. Si aveva inoltre l'impressione che i miglioramenti tecnologici nelle
campagne sarebbero stati in grado di sfamare chiunque e che se nelle città esistevano vaste sacche di
povertà, ciò non era certamente dovuto al progresso tecnologico, ma semmai ad altri fattori: p. es.
all'ignoranza del proletariato urbano (per gran parte di origine contadina), incapace di fare lavori adatti alla
vita di città; oppure all'indolenza di chi aspettava dall'alto la soluzione dei propri problemi materiali.
Tuttavia chiunque poteva rendersi conto che le città si stavano popolando di ex-contadini, espulsi dai
proprietari terrieri, intenzionati a utilizzare le loro terre secondo criteri di profitto borghese e non più di
rendita feudale. Con la rivoluzione industriale la mobilità sociale coinvolse milioni di persone, la gran parte
delle quali finì addirittura oltre oceano. Questo perché l'industria voleva sottomettere a tutti i costi
l'agricoltura, non concependosi più al pari di una semplice un'attività collaterale, come avveniva al tempo
della manifattura sparsa. Gli imprenditori, scoperta la possibilità di fare soldi facili in virtù del lavoro altrui e
della tecnologia, volevano espandere la loro attività il più in fretta possibile. E così, se nel 1810 solo 12
europei su 100 vivevano in città, un secolo dopo erano già 41.La grande azienda agricola capitalistica stava
cancellando la piccola e media proprietà contadina a conduzione familiare, e lo sviluppo della manifattura
di fabbrica soppiantava l'artigianato e l'industria a domicilio. La mobilità, conseguente a questa rivoluzione
tecnologica e di mentalità, non era solo in orizzontale, da un luogo all'altro, ma per molti individui, più
intraprendenti di altri, era anche in verticale, da uno status sociale a un altro, da un certo reddito a un altro.
Il concetto di "ceto sociale", con tutte le sue rigidità dovute all'origine nobiliare, veniva sostituito da un
concetto più elastico, la "classe sociale", rapportabile unicamente alla proprietà, mobiliare o immobiliare.
Alla classe di tipo borghese tutti, virtualmente, potevano appartenere, fatto salvo ovviamente un certo
censo e una certa cultura. Già nel 1830 almeno 25 città europee superavano i 100.000 abitanti: cosa che in
Italia si poteva tranquillamente constatare al tempo delle signorie e dei principati (Milano, Firenze, Napoli,
Venezia... erano tra le città più grandi d'Europa), grazie allo sviluppo del capitalismo commerciale e
finanziario. Tuttavia l'Italia, a partire dalla seconda metà del XVI secolo, in forza della Controriforma aveva
fatto molti passi indietro, trovandosi quasi completamente spiazzata dallo sviluppo industriale maturato nei
paesi nord-europei. Non solo, ma le condizioni abitative dei lavoratori del Trecento, sino alla metà del
Settecento, non erano assolutamente paragonabili con quelle iperdegradate che dovevano vivere i
lavoratori nei centri urbani durante la rivoluzione industriale. Infatti veniva impiegata molta manodopera
femminile e infantile per sei giorni la settimana e per 14-15 ore al giorno; le condizioni abitative erano
molto precarie; il sovraffollamento favoriva il diffondersi di malattie; l'inquinamento prodotto dalle
fabbriche a carbone era molto elevato. E poi vi era delinquenza, alcolismo, prostituzione...
Nelle città era molto evidente la distinzione tra borghesia e proletariato. La borghesia poteva essere
suddivisa, sulla base del reddito, in piccola, media e grande, ma anche in commerciale, finanziaria e
industriale; i proletari invece erano tutti coloro che per campare potevano far leva soltanto sulle capacità
fisiche o intellettuali, non possedendo altro. Se lavora in fabbrica il proletario è un operaio salariato, sia egli
di qualifica generica o specializzata; se lavora in campagna è un bracciante a ore, un salariato agricolo. Chi è
proprietario di un lotto di terra, chi la cede in affitto o l'acquista pagando un certo canone, è già un piccolo
borghese, e lo è anche l'artigiano specializzato ancora padrone dei propri mezzi produttivi. I più sfruttati
sono le donne e bambini: si ha bisogno di loro soprattutto nel tessile, ma anche perché è più facile sfruttarli,
incatenandoli a una macchina. La loro vita media è bassa, perché si ammalano facilmente (soprattutto di
tisi), e sino alla fine dell'Ottocento la vita di fabbrica è molto dura, anche perché non esisteva alcuna forma
di indennità per malattia, alcuna assicurazione per gli incidenti e nessuna pensione. Quando si usciva dal
ciclo produttivo, si finiva in un ospizio sostenuto dalla pubblica carità. Di qui l'esigenza che gli operai
avevano di darsi delle strutture di mutuo soccorso, con cui venire incontro alle situazioni di maggiore
disagio. Paradossalmente quanto più aumentava la ricchezza di una nazione, tanto più gli economisti
(Malthus, Smith, Ricardo...) chiedevano di abolire anche le ultime leggi statali di assistenza per i poveri, col
pretesto che, a causa loro, i poveri ambivano a campare di rendita, senza più cercare alcun impiego. In
particolare si temeva che l'assistenza assorbisse tutta la ricchezza eccedente e non si voleva assolutamente
che lo Stato interferisse nei rapporti tra imprese e lavoratori: questo perché l'erogazione dei sussidi,
inducendo i disoccupati a non cercare un lavoro, faceva aumentare i salari. Sarà proprio questa durezza nei
confronti dell'assistenza pubblica che indurrà i lavoratori a organizzarsi a livello sindacale, il che comporterà
per gli imprenditori dei costi di molto superiori alla suddetta assistenza. La vita della fabbrica non solo
mandava in rovina chi, standosene fuori col proprio lavoro artigianale, non riusciva più a competere (si veda
il fenomeno del luddismo, negli anni 1811-13, cioè della distruzione materiale delle macchine, repressa
sempre molto violentemente), ma mandava in rovina anche chi se ne stava dentro, a sopportare condizioni
di vita proibitiva. Di qui l'esigenza di regolamentare il lavoro femminile e minorile, che venne limitato a 58
ore settimanali e solo per soggetti al di sopra degli otto anni. La prima forma di opposizione al sistema
aziendale, che andasse oltre la mera distruzione delle macchine, fu costituita dai sindacati, piccoli organismi
a base territoriale locale. Quando in Gran Bretagna vennero fuori le Trade Unions, cioè i sindacati di
mestiere, il primo congresso si tenne nel 1833, ma un respiro nazionale si avrà solo nella seconda metà
dell'Ottocento. All'inizio la resistenza degli imprenditori fu durissima, anche perché col continuo afflusso dei
contadini verso la città, gli operai non specializzati potevano facilmente essere sostituiti. Scioperare era
molto difficile: il diritto di poterlo fare venne riconosciuto soltanto verso la metà del XIX secolo. Il diritto di
associazione sindacale in Inghilterra fu ammesso solo nel 1825; in Francia solo nel 1864. Occorsero molte
lotte per portare la giornata lavorativa prima a 12 ore, poi a 10.Una volta creati i sindacati si passò ai partiti
politici: il primo fu il Cartismo inglese, sviluppatosi negli anni '30. La Carta del popolo (1837) prevedeva il
suffragio universale maschile, il voto segreto durante le elezioni, l'abolizione del requisito del censo per i
parlamentari, l'indennità di presenza per i parlamentari, un numero uguale di rappresentanti nei collegi
elettorali per un ugual numero di elettori, il rinnovo annuale dei Parlamenti.

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