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Storia moderna, Vittorio

Criscuolo
Storia Moderna
Università degli Studi di Milano (UNIMI)
183 pag.

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STORIA MODERNA
Vittorio Criscuolo
CAPITOLO 1
L’ECLISSI DELLA MODERNITÀ

1.1 I limiti dell’età moderna

L’inizio della storia moderna viene ricondotto al 1492, anno della scoperta
dell’America, ma si tratta di una scelta convenzionale e arbitraria. Più che a una data
specifica, il punto di partenza deve essere ricondotto a uno spazio di tempo compreso
tra la metà del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, che fu caratterizzato
da una serie di trasformazioni e di innovazioni di grande portata, da far segnare nella
stessa percezione dei contemporanei una svolta o una rottura nella continuità del
processo storico. La fine della storia moderna e l’inizio di quella contemporanea può
essere collocato fra la seconda metà del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento,
quando l’avvio della rivoluzione industriale in Inghilterra e la caduta dell’antico
regime per opera della Rivoluzione francese modificarono profondamente la realtà
economica, sociale, politica e culturale dell’Europa occidentale.

1.2 Moderno

La nascita di “moderno” come aggettivo sostantivato designava i contemporanei.


Furono gli umanisti che a partire dal XV secolo manifestarono la convinzione che
stesse nascendo una nuova età, nella quale sarebbero ritornati attuali i grandi modelli
dell’antichità greco-romana, dopo un periodo intermedio, la media aetas. Il
programma dell’umanesimo presupponeva l’idea di progresso, un progresso
concepito in forma ciclica, come rinascita della grande lezione degli antichi in ogni
campo. Il termine “moderno” si caricava quindi di un valore positivo che era un
riflesso dell’enorme prestigio dell’antico. Un ulteriore passo verso la costruzione della
modernità si ebbe con la disputa degli antichi e dei moderni che si sviluppò tra la fine
del Seicento e l’inizio del Settecento. Questo dibattito sancì in definitiva
l’affermazione della coscienza europea della superiorità dei moderni, i quali potevano
disporre ormai di un patrimonio di conoscenze e di esperienze che consentiva loro di
progredire oltre i grandi esempi del mondo classico, il cui valore non era negato, ma
era definitivamente ricacciato nel passato. Nello stesso periodo veniva a maturazione
anche la critica storica della tradizione biblica che poneva le basi per una definitiva
separazione fra la storia sacra, dettata dalla rivelazione e fondata quindi su una base
teologica, e la storia profana, il cui processo era determinato esclusivamente
dall’opera dell’uomo. Era la premessa per l’affermazione dell’idea di progresso
espresso dall’illuminismo che, superando il concetto ciclico del tempo, assumeva un
carattere lineare: esso si fondava infatti sulla fiducia in un avanzamento illimitato
della civiltà.

1.3 Il mito del Rinascimento

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Nato dalle correnti storiografiche di orientamento democratico-radicale, il concetto di
età moderna era l’espressione di un punto di vista laico, sostanzialmente
anticattolico, incentrato sulla affermazione dell’individuo, che a partire da quel
periodo aveva rivendicato la capacità di costruirsi il proprio destino e conquistato
finalmente la propria libertà di pensiero e di coscienza contro le autorità e i
dogmatismi che ne avevano limitato o frenato lo sviluppo. La borghesia europea
trovava le proprie radici fra il Quattrocento e il Cinquecento, con la nascita delle
grandi monarchie, che avevano avviato il processo di formazione degli Stati nazionali
protagonisti della realtà politica ottocentesca.

1.4 L’inizio dell’età contemporanea

Anche il punto di arrivo dell’età moderna è stato oggetto negli ultimi decenni di
interpretazioni. Per quanto concerne la Rivoluzione francese, il cosiddetto
revisionismo storiografico, polemizzando con l’interpretazione classica elaborata
dalla storiografia marxista, ha negato che essa abbia rappresentato la fine del sistema
feudale e aperto la strada all’avvento della società borghese, e ha insistito sui molti
motivi di continuità tra l’antico regime e la Francia rivoluzionaria e napoleonica.
Sembra però difficile negare il ruolo giocato dalla Rivoluzione francese che, attraverso
la legislazione imposta in tutti i paesi occupati , aprì effettivamente una nuova fase
nel corso della storia europea. In relazione alla rivoluzione industriale, si è osservato
che essa si estese agli altri paesi dell’Europa occidentale con notevole ritardo, e che
nella stessa Inghilterra fece sentire i suoi effetti dopo diverso tempo, senza provocare
una trasformazione repentina e radicale. Non c’è dubbio però che la struttura
economica-sociale dell’Inghilterra abbia conosciuto a partire dalla metà del
Settecento dei mutamenti irreversibili.

1.5 Nuovi orientamenti della storiografia

In definitiva il concetto di età moderna ha resistito nel complesso alle critiche che gli
sono state mosse e si può considerare ancora valido per quanto concerne l’arte, la
cultura, la vita politica. Questa periodizzazione è apparsa però sempre più inadeguata
quando l’interesse della storiografia si è spostato dalle élite culturali e politiche verso
le classi subalterne, e si è rivolto allo studio della società e dei comportamenti
individuali, aprendosi all’influsso delle altre scienze umane (sociologia e
antropologia). Si è affermata così la categoria della lunga durata, che ha focalizzato
l’attenzione dello storico su fenomeni, come la vita quotidiana, l’alimentazione, la
sessualità, la famiglia, che conoscono un’evoluzione lentissima, e a tratti quasi
impercettibile, rispetto alla quale ben poco significato hanno le periodizzazioni volte a
individuare nel corso degli eventi svolte o rotture.

Un altro dei motivi che hanno indotto molti studiosi a proporre un superamento del
concetto di età moderna è la sua prospettiva eurocentrica, sentita come insufficiente
rispetto alla sensibilità del mondo globalizzato. Di fatto quella periodizzazione è
profondamente radicata nella storia di un’Europa che ha creduto a lungo di incarnare
lo sviluppo della civiltà. Oggi appare superato il pregiudizio che ha indotto a lungo le
storiografie occidentali a considerare i popoli dell’Africa e dell’Asia privi di storia,
degni di essere presi in considerazione solo quando sono entrati nell’orbita

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dell’espansione europea. Questo ampliamento dell’orizzonte storiografico è la
naturale conseguenza della crisi del concetto stesso di modernizzazione, per il quale il
modello economico, sociale, politico-istituzionale e culturale del mondo occidentale
avrebbe dovuto essere adottato dai paesi in “via di sviluppo”. Oggi questa prospettiva
viene radicalmente rifiutata da coloro che non intendono essere omologati alla civiltà
dell’Occidente.

1.6 Postmoderno

In questa situazione si è fatta strada la sensazione di vivere la fine di un’epoca e di


essere entrati in una fase di transizione verso un futuro che appare ancora
indecifrabile: di qui l’uso frequente del previsto post per indicare i vari aspetti di
questa realtà fluida e incerta. Si è parlato dapprima di società postindustriale,
caratterizzata dalla riduzione del numero degli impiegati nell’industria manifatturiera
e dalla diffusione delle tecnologie informatiche e dei mezzi di comunicazione di
massa. Poi si è affermata la categoria della postmodernità, definita come coscienza
critica della stessa società postindustriale.

1.7 Un mondo senza futuro

Nella teorizzazione del postmodernismo il “post” non è un significato cronologico e


nemmeno logico: il postmoderno non è tale perché viene dopo il moderno o perché
lo supera. In effetti è la stessa nozione di superamento a essere negata: nell’età
postmoderna cade definitivamente il concetto di progresso che ha rappresentato il
fondamento dell’idea di modernità. Si prende atto di una divaricazione fra lo sviluppo
scientifico e tecnologico e la dinamica della società.

CAPITOLO 2
LA POPOLAZIONE

2.1 La nascita della demografia

I primi studi dei fenomeni relativi alla popolazione furono compiuti nel XVII secolo ma
solo nel secolo seguente assunse il nome di demografia, termine introdotto per la
prima volta nel 1855. Nella seconda metà del Settecento i tentativi di rendere più
efficiente e razionale la pubblica amministrazione avevano dato vita in diversi Stati
europei a rilevazioni più precise e sistematiche. La svolta si determinò durante la
Rivoluzione francese quando l’Assemblea nazionale costituente fece registrare per
mezzo di pubblici ufficiali le nascite, i matrimoni e le morti di tutti gli abitanti, senza
distinzione, principio che istituì lo stato civile. Questa novità si estese poi
progressivamente a tutti i paesi occupati dalle armate rivoluzionarie e napoleoniche.
In ogni caso nei primi anni dell’Ottocento tutti gli Stati europei organizzarono nella
pubblica amministrazione appositi uffici incaricati di raccogliere le principali
informazioni relative alla popolazione e all’economia: si ebbero così primi censimenti
nominativi dell’intera popolazione. In Italia i censimenti sono partiti subito dopo
l’unificazione nel 1861 e sono proseguiti con cadenza decennale.

2.2. Fonti e metodi della demografia storica

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Il primo compito della demografia storica è ricostruire lo stato della popolazione, ad
esempio la sua composizione in base al sesso e all’età. Altrettanto importante è lo
studio dell’andamento demografico, vale a dire l’analisi dell’evoluzione della
popolazione in un dato periodo e degli eventi che hanno concorso a determinarla. A
tal fine è importante il calcolo degli indici di natalità, di mortalità e di matrimonio,
che, posti in correlazione con altri indicatori della dinamica economica, forniscono
una serie di dati preziosi per l’analisi delle società. Per le epoche più antiche, data
l’assoluta mancanza di dati, si può pervenire solo a una stima, cioè a una valutazione
approssimativa del numero degli abitanti. Per fare questo si moltiplica l’area che si
vuole studiare con un indice di sopravvivenza che è calcolato in base alle
caratteristiche dell’economia e del territorio. Nel medioevo le rilevazioni della
popolazione, occasionali e limitate a territori ristretti, furono promosse soprattutto
per fini militari o fiscali, per cui spesso poco attendibili. Un esempio celebre è il Libro
del giorno del Giudizio, redatto in Inghilterra da re Guglielmo nel 1083-1086, nel
quale erano registrate le terre con i gruppi di famiglie che vivevano su di esse. In
epoca più recente si segnala il catasto fiorentino (metà del XV secolo). In generale
però i censimenti sono scarsamente attendibili prima del XIX secolo . Le fonti più
importanti sono rappresentate dalle registrazioni tenute dagli ecclesiastici, che
compaiono in modo frammentario e occasionale a partire dal XV secolo per poi
diventare regolari, e progressivamente più precise e ricche di informazioni nei secoli
seguenti. Un esempio sono i libri di battesimo, di matrimonio e di sepoltura redatti
dai parroci, che divennero obbligatori nella metà del 1500, con l’obiettivo di redigere
un elenco dello stato delle anime della Chiesa cattolica.

2.4 Il sistema demografico delle società

I principali fattori delle impennate della mortalità erano le epidemie, la guerra e la


carestia, collegati spesso fra loro.

Non è facile distinguere fra le varie malattie sulla base delle testimonianze lasciateci
dai contemporanei. A partire dal Cinquecento regredì notevolmente la lebbra, che
aveva invece imperversato nel Medioevo, mentre fece la sua comparsa verso la fine
del Quattrocento la sifilide. Incisero sulla mortalità il tifo e nel Settecento il vaiolo,
che uccideva il 15% di coloro che ne erano colpiti, mentre il colera sarebbe
sopraggiunto solo nel XIX secolo. Tuttavia, nessuna di queste malattie infettive ebbe
un impatto paragonabile a quello devastante della peste. La malattia, già nota nel
mondo antico, ricomparve in Europa a metà del XIV secolo rimanendovi fino ai primi
decenni del Settecento. La forma più diffusa è la peste bubbonica, che si trasmette
per via cutanea e si presenta con febbre alta e la formazione di uno o più bubboni; la
mortalità è di circa il 70%. Se l’infezione avviene attraverso le vie respiratorie e
colpisce i polmoni (peste polmonare) la mortalità è del 100%. La storia demografica
dell’Europa moderna è condizionata dalla peste nera che fra il 1347 e il 1352 colpì
l’intero continente provocando la morte di circa 25 milioni di individui, un terzo della
popolazione. La peste fece la sua ultima comparsa nella metà del 1700, dopodiché
sparì dall’Europa occidentale mentre continuò a colpire nell’Europa orientale e negli
altri continenti.

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I progressi nella tecnica militare segnarono una profonda differenza rispetto all’età
medievale e determinarono un aumento della mortalità sia per il maggiore potenziale
offensivo delle nuove armi sia per il notevole incremento numerico degli eserciti. Gli
effetti della guerra sull’andamento demografico furono soprattutto indiretti :
saccheggi e violenze ai danni della popolazione civile, sfruttamento e distruzione
delle risorse, con conseguente carestia e diffusione di malattie.

La carestia si presentò periodicamente lungo tutto il corso dell’età moderna. La causa


principale era l’eccessiva dipendenza della maggioranza della popolazione dal
consumo dei cereali. Nell’età moderna diminuì drasticamente, fino a scomparire
quasi del tutto dalle mense dei contadini, il consumo di carne, e per il resto il pane la
faceva da padrone, accompagnato da legumi e ortaggi, uova e latticini, con
l’aggiunta di vino o birra. Nel Settecento si tentò di variare questa alimentazione,
introducendo la patata, venuta dall’America, che dava rese molto più alte rispetto al
frumento, oppure il mais, anch’esso di origine americana e in grado di garantire
rendimenti elevati, o il riso, ma la mentalità contadina oppose forti resistenze a
queste novità. La patata si diffuse in Germania, Polonia e Irlanda, il mais fece
progressi soprattutto in Spagna e nell’Italia settentrionale, dove sarebbe diventato
l’alimento base della maggior parte della popolazione (la polenta). Questi alimenti
solo più tardi si affermarono definitivamente mentre rimasero nel Settecento
complementari rispetto al consumo dei cereali. Quando una congiuntura
metereologica sfavorevole provocava uno o più raccolti cattivi si innescava la crisi : i
contadini una volta esaurite le scorte andavano incontro a una grave penuria di
alimenti mentre l’aumento di prezzo dei cereali colpiva anche i consumi delle classi
lavoratrici della città, le cui difficoltà avevano un contraccolpo negativo su tutta
l’economia. L’incidenza delle carestie sulla mortalità si spiega così: la malnutrizione
favoriva il diffondersi delle epidemie.

Un’incidenza altissima aveva la mortalità infantile: mediamente un quarto dei nati


non raggiungeva il 1° anno di vita, e un altro quarto moriva entro il 5° anno. L’indice
di natalità nelle società di antico regime si attestava mediamente in numeri
esponenzialmente più alti di quelli odierni.

2.6 La demografia urbana

L’urbanizzazione è un processo di concentrazione della popolazione, che può


avvenire attraverso la crescita delle città esistenti o tramite la formazione di nuovi
centri di aggregazione. Naturalmente si pone in via preliminare la necessità di
definire che cosa si debba intendere come città. Per l’Europa occidentale nell’età
moderna si può definire città un agglomerato di più di 5000 individui, ma in zone a
bassa densità abitativa e a bassa urbanizzazione (l’Europa orientale) bisogna
considerare anche i villaggi che hanno più di 2000 abitanti. Rispetto alla demografia,
in un contesto urbano è maggiore il numero di individui non sposati, sia, nei paesi
cattolici, per la media più alta di ecclesiastici vincolati al celibato, sia per la presenza
di una cospicua immigrazione di donne impiegate come domestiche nelle case delle
classi agiate. Va segnalato anche che la mortalità era mediamente più elevata in città
che in campagna: infatti l’addensamento di popolazione e le condizioni igienico-
sanitarie, sicuramente più precarie a causa della scarsa disponibilità di acqua,

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favorivano la diffusione di malattie e di epidemie. Si può parlare di un processo di
urbanizzazione se la popolazione che vive in città cresce non solo in termini assoluti,
ma soprattutto in relazione al complesso della popolazione.

La dinamica della popolazione urbana ha seguito in Europa un percorso sensibilmente


diverso rispetto agli altri continenti. Dopo l’anno Mille c’erano alcune città i cui
abitanti raggiungevano e forse superavano il mezzo milione di abitanti (alcune città
cinesi, Baghdad e Costantinopoli per esempio). In Occidente invece le invasioni
barbariche e il crollo dell’Impero Romano determinarono una profonda crisi della
città (basti pensare a Roma). Una forte crescita degli spazi urbani si ebbe nell’XI-XIII
secolo nell’Europa occidentale, ma questo sviluppo rallentò considerevolmente con la
peste a metà del Trecento. Particolarmente intenso era lo sviluppo degli spazi urbani
nella penisola italiana: nel 1500 su 23 città che superavano i 50.000 abitanti, nove
erano italiane (Napoli, Milano, Venezia, Genova, Firenze, Palermo, Roma, Bologna,
Verona) e le prime tre erano, con Parigi, le sole in Europa a superare i 100.000
abitanti. Se si esamina lo sviluppo successivo delle città maggiori nel corso dell’età
moderna appaiono evidenti alcune trasformazioni che riflettono i mutamenti
intervenuti nella realtà politico-istituzionale ed economico-sociale . Colpisce la
crescita di Londra, che agli inizi del Settecento superò Parigi come città più popolosa
del continente, e di Amsterdam. Nel corso dell’età moderna l’Italia mantenne le sue
posizioni, ma non le incrementò. In generale il baricentro della mappa urbana si
spostò verso l’Europa centrosettentrionale: è l’espressione sul piano demografico di
un decisivo spostamento degli equilibri economico-finanziari dall’Europa
mediterranea a quella atlantica. L’altro fenomeno caratteristico dell’età moderna è la
comparsa di grandi città capitali, Madrid, Vienna, Berlino, San Pietroburgo. Era
questa la conseguenza della formazione di uno Stato strutturalmente diverso rispetto
a quello medievale.

CAPITOLO 3
LA SOCIETÀ PREINDUSTRIALE: AGRICOLTURA

3.1 Una società rurale

La società di antico regime era fondata su un’economia prevalentemente agricola.


Alla fine del Settecento più del 75% della popolazione europea era impegnata nei
lavori agricoli, che continuavano ad adottare tecniche e strutture arretrate. Il più
significativo indice della modernizzazione è la riduzione del numero degli impiegati in
agricoltura. Infatti, quando l’agricoltura riesce ad accrescere la sua produttività in
modo consistente si creano le condizioni per lo spostamento di uomini e risorse verso
altri settori produttivi. Questo processo si manifesta precocemente in Inghilterra,
dove già nel 1800 la forza lavoro agricola era solo il 36% e scese sotto il 10% prima del
1914. Con molta lentezza e difficoltà si avviò un processo di superamento
dell’agricoltura tradizionale che creò le premesse per una modernizzazione delle
tecniche di coltivazione. Come per l’andamento della popolazione, anche in
relazione alla vita economica la periodizzazione dell’età moderna non ha alcun
senso, in quanto non si individuano fra il XV e il XVI secolo elementi di novità tali da
determinare una rottura rispetto all’età medievale. Nell’età moderna la condizione
dei contadini si presentava diversa nell’Europa occidentale rispetto a quella

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orientale. Si tratta di una differenziazione molto importante, che ebbe un peso
decisivo sulla storia delle due parti del continente, non solo in rapporto allo sviluppo
economico ma anche per quanto concerne gli assetti sociali e gli equilibri politico-
istituzionali.

3.2 Il mondo rurale nell’Europa centro-occidentale

Nell’età medievale le grandi proprietà erano generalmente divise in una pars


dominica, gestita direttamente dal proprietario attraverso la prestazione di giornate
di lavoro gratuite dei contadini dipendenti, e una pars massaricia, suddivisa in unità
produttive affidate al lavoro dei contadini liberi o servi che pagavano un canone in
natura o in denaro ed erano obbligati a prestare alcuni lavori o servizi. Tra il IX e il X
secolo, a causa della frammentazione e della debolezza dei poteri politici regi, i
proprietari terrieri assunsero sempre più una funzione di protezione e di difesa delle
popolazioni che vivevano sulle loro terre. Si affermò così la signoria fondiaria, vale a
dire l’assunzione da parte del proprietario terriero di un’autorità che si estendeva
non solo sui contadini da lui dipendenti ma su tutti gli abitanti delle terre di sua
proprietà. Il signore, in cambio della protezione, imponeva obblighi di varia natura,
amministrava la giustizia e riscuoteva i tributi. Progressivamente, le differenze fra le
varie condizioni andarono riducendosi: scomparve quasi del tutto la schiavitù, ma
contadini liberi o dipendenti dal signore, servi addetti alla casa o al lavoro nei campi,
finirono per essere tutti sudditi del signore. A questa situazione si frappose fra l’XI e il
XII secolo una rete di rapporti feudali che provò a ricostruire una forma di gerarchia
politica. Si utilizzò a riguardo l’istituto del vassallaggio. A partire dal XII secolo si
affermò il principio per cui solo l’investitura del sovrano poteva giustificare e
legittimare l’autorità del signore, il quale esercitava nelle sue terre un’autorità
delegata dal sovrano e perciò a lui subordinata. Il beneficio non si configurava solo
come un bene patrimoniale ma comportava l’assunzione da parte del signore di una
funzione pubblica.

Grazie allo sviluppo dell’agricoltura e alla ripresa degli scambi commerciali, a partire
dall’XI secolo, le condizioni dei contadini migliorarono notevolmente. Tra il XII e il XIII
secolo decaddero quasi ovunque le limitazioni della libertà personale come l’obbligo
di risiedere sulle terre del signore. A questa evoluzione dei rapporti sociali si
aggiunse, a partire dal XV secolo, la tendenza di principati e monarchie a richiamare
nelle proprie mani quelle funzioni di ordine amministrativo e politico che prima erano
delegati ai signori feudali.

Agli inizi del Cinquecento, nell’Europa centro-occidentale i contadini erano ormai


quasi ovunque liberi di muoversi. Le corvée erano limitate a qualche giornata di
lavoro per provvedere alla manutenzione delle strade o ad altri lavori pubblici.
Aumentarono i tipi di contratti agrari per lo più a breve durata che prevedevano il
pagamento di un canone in natura o in denaro. In Italia ma anche in Francia si
sviluppano i contratti di mezzadria per cui la proprietà delle terre era condivisa tra il
signore e la famiglia del mezzadro.

3.3 Il servaggio contadino nell’Europa orientale

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Nell’Europa orientale dalla metà del Quattrocento il mondo contadino fu costretto a
subire gravi limitazioni della libertà personale. Questo processo interessò nell’insieme
la Polonia, la Russia, la Boemia, l’Ungheria, la Germania orientale, la Danimarca. In
queste zone vi erano grandi distese di fertili pianure adatte soprattutto alla
cerealicoltura ma scarseggiava la manodopera a causa della bassa densità della
popolazione. Inoltre, la struttura sociale era rigida e poco articolata a causa dello
schiacciante predominio della nobiltà: mancava un forte gruppo intermedio di
mercanti, imprenditori, professionisti, e assai limitato era lo sviluppo delle città. In
questa situazione, quando l’incremento demografico determinò un aumento della
domanda di prodotti agricoli, i proprietari terrieri furono indotti a garantirsi il
controllo della scarsa manodopera vincolando i contadini alla terra e incrementando
le condizioni del loro sfruttamento. I servi non potevano lasciare le terre del signore,
non potevano contrarre matrimonio senza il suo permesso e potevano essere venduti
o scambiati con o senza la terra che era loro affidata. La famiglia contadina garantiva
anche lavori di corvée nelle imprese del signore. Insomma, tutta l’economia di questa
parte dell’Europa era basata sul lavoro coatto del mondo contadino. Lo stabilimento
di quello che è stato definito secondo servaggio, assai più pesante di quello che
avevano conosciuto i contadini occidentali nell’XI secolo, fu favorito dalla debolezza
delle istituzioni statali. Questo comportò nelle campagne un clima di profondo
malessere che provocava fughe collettive, violenze contro la famiglia del signore,
rivolte. Nella seconda metà del XVIII secolo alcuni sovrani riformatori si impegnarono
a regolare a limitare l’asservimento dei contadini. Ma nel XIX secolo il servaggio
permaneva ancora in Ungheria, Romania e Russia, dove solo nel 1861 lo zar
Alessandro II lo abolì.

3.5 Un’agricoltura di sussistenza

Per comprendere natura e caratteristiche dell’economia contadina bisogna dire che il


suo modello fu sempre un’agricoltura di sussistenza; il ricorso al mercato, il surplus,
era limitato e marginale. Tutto ciò che era necessario alla produzione era prodotto
all’interno della stessa azienda familiare. Le famiglie non vivevano isolate ma erano
quasi ovunque integrate nella comunità del villaggio. Nelle zone dove vigevano
contratti come la mezzadria, il paesaggio era caratterizzato dalla presenza di case
coloniche sparse nelle campagne, vicine ai terreni da lavorare. In Inghilterra e nella
maggior parte dell’Europa occidentale le case contadine si trovavano riunite nei
villaggi, generalmente coincidente con la parrocchia, e le unità di coltivazione erano
disperse nei cosiddetti campi aperti (open filds). I terreni di proprietà di ciascun
contadino non erano separati tra loro; si trattava di un’agricoltura di tipo
comunitario in quanto per la frammentazione e la dispersione delle proprietà
individuali ciascuno era vincolato alle pratiche di coltivazione adottate dal villaggio.
Predominava la coltivazione dei cereali, frumento e segale. L’altro aspetto
caratteristico dell’agricoltura comunitaria del villaggio era la rotazione delle culture al
fine di garantire al terreno il necessario riposo. Molto importanti erano anche i campi
comuni, di proprietà collettiva della comunità, spesso formati da boschi e pascoli.

3.6 Un’agricoltura statica

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Le più importanti innovazioni tecniche si erano diffuse a partire dall’XI secolo, come
l’aratro pesante e l’uso nell’aratura del cavallo. Nell’età moderna non vi furono novità
significative e per far fronte all’aumento della popolazione nel Cinquecento si decise
di ampliare il terreno coltivato attraverso bonifiche o l’abbattimento di foreste. Il
superamento dell’agricoltura di sussistenza avvenne con modalità e tempi assai
diversi nell’Europa occidentale. Nel Settecento si affermò un’agricoltura di tipo
intensivo.

CAPITOLO 4
LA SOCIETÀ PREINDUSTRIALE: MANIFATTURE, COMMERCIO E MONETA

4.1 Le innovazioni e l’energia

Nell’età moderna fino alla rivoluzione industriale vi furono diversi progressi nella
tecnologia ma non tali da determinare una svolta nella vita economica. A partire dal
IX secolo erano ricomparsi, per poi diffondersi rapidamente, i mulini ad acqua, già
noti nell’antichità. Dal XII secolo aveva fatto la sua comparsa anche il mulino a vento,
diffuso soprattutto nell’Europa settentrionale ma utilizzato anche in Italia. Agli albori
dell’età moderna bisogna ricordare due innovazioni di straordinaria portata: la
stampa e la polvere da sparo. Non cambiarono di molto le tecniche nel settore
tessile, in particolare nell’industria laniera, che rimase centrale nell’economia di
queste società preindustriali. Va segnalato lo sviluppo della lavorazione del cotone e
della seta, introdotti in Europa dall’Asia già nel basso medioevo. Novità importanti si
ebbero nel settore minerario e nella siderurgia. A partire dal Quattrocento grazie alle
nuove tecnologie si poterono scavare pozzi che giunsero fino a 300 metri. Ne derivò
una crescita notevole della produzione di argento e di rame.

Per quanto concerne l’energia, le fonti disponibili erano l’acqua, il vento e


soprattutto il legname. Questo serviva nell’edilizia, per la fabbricazione di mobili e
per le costruzioni navali, ma soprattutto era impiegato, insieme al carbone da legna
in numerose attività manifatturiere. Si può ben dire che le società preindustriali
erano fondate sul legno. La crescita demografica con il conseguente aumento dei
consumi domestici, il disboscamento provocato dall’estensione dei terreni coltivati a
cereali, il notevole incremento delle costruzioni navali e lo sviluppo degli impieghi
industriali provocarono all’inizio del XVII secolo una crescente scarsità di legname.
Questo fece aumentare il prezzo del legno e il prezzo del carbone da legna. Si
crearono allora le condizioni per lo sfruttamento di una nuova fonte energetica
destinata a diventare centrale nella vita economica: il carbon fossile, che si estraeva
già nel Duecento ma aveva coperto una quota assolutamente marginale del
fabbisogno energetico. In Inghilterra a partire dalla metà del XVI secolo furono aperte
numerose miniere per l’estrazione del carbone , che fu progressivamente impiegato
in sostituzione della legna. Non deve sfuggire l’importanza di questo sviluppo epocale
nella storia dell’energia, che creava le premesse per l’avvento della rivoluzione
industriale in Inghilterra: per la prima volta si passava da fonti rinnovabili a una
fonte non rinnovabile. Nell’Ottocento si sarebbe poi affermata un’altra fonte
energetica non rinnovabile destinata a dominare la vita economica fino ai giorni
nostri: il petrolio.

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4.2 Il settore manifatturiero

Bisogna innanzitutto ricordare che, soprattutto nelle campagne, la famiglia tendeva a


produrre da sé ciò di cui aveva bisogno. In questo caso il produttore è al tempo stesso
consumatore. Nel corso del tempo questa produzione domestica andò diminuendo e
fu sostituita dal ricorso ad artigiani specializzati. In effetti la domanda di prodotti
dell’artigianato e delle manifatture era soprattutto alimentata dei consumi delle classi
agiate. Si deve osservare che nel corso dell’età moderna la domanda di prodotti di
lusso si ampliò progressivamente proprio per le richieste provenienti dei gruppi
sociali non aristocratici che avevano raggiunto un notevole livello di ricchezza e di
prestigio sociale. In questo periodo incise sull’economia soprattutto la domanda
proveniente dagli Stati per le esigenze legate all’armamento e
all’approvvigionamento degli eserciti e delle flotte.

La maggior parte della produzione manifatturiera era localizzata nelle città ed era
organizzata su base individuale o familiare, nella forma dell’artigianato. A partire
dall’XI secolo, quando le città si erano affermate come centri di produzione, i vari
settori del lavoro artigianale erano organizzati nelle Arti o corporazioni. Membro
della corporazione era il maestro, padrone della bottega o del laboratorio; egli aveva
uno o più apprendisti, che non erano stipendiati anzi spesso pagavano per poter
apprendere il mestiere, e dei garzoni o lavoranti, salariati, il cui numero variava in
ragione del mestiere svolto. Le funzioni principali della corporazione erano
innanzitutto la difesa del monopolio della produzione da possibili concorrenti esterni,
garantire la stabilità degli equilibri interni, evitando la formazione di posizioni
dominanti, vigilare sulla qualità della produzione, sui prezzi, sui salari e sulla
formazione dei nuovi operatori. Gli illuministi del Settecento svilupparono una dura
polemica nei confronti delle corporazioni, ritenuti responsabili di ostacolare la libertà
del lavoro, in quanto impedivano ad esempio ad artigiani forestieri di esercitare il
mestiere in città, a meno che non apportassero nuove conoscenze tecniche. Non c’è
dubbio che a un certo punto le corporazioni siano divenute un freno allo sviluppo
dell’economia; non a caso, proprio per superare questi ostacoli, si svilupparono
nuove forme di organizzazione della produzione come l’industria dispersa o a
domicilio. Tuttavia, le resistenze suscitate dai tentativi di eliminare le corporazioni
prima della loro abolizione a opera della Rivoluzione francese mostrano con
chiarezza quanto esse fossero radicate nel tessuto sociale proprio per le funzioni che
svolgevano.

4.3 Protoindustria

L’artigiano in genere lavorava su commissione in quanto non poteva assumersi


l’onere finanziario di produrre oggetti da costruire in magazzino. Il sarto confezionava
un abito su ordinazione del cliente, che talora gli forniva anche il tessuto. Spesso il
lavoro veniva da un mercante che anticipava la materia prima e curava poi lo smercio
del prodotto. In tal caso l’artigiano era di fatto dipendente dal mercante che
garantiva i rapporti con il mercato . Questa struttura di artigianato subordinato si
affermò a partire dal basso medioevo soprattutto nel settore tessile. Nella filiera della
lana, che rimase preminente nell’ambito dell’industria tessile, il modello della
manifattura a domicilio si diffuse nel XVII e nel XVIII secolo nelle campagne

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circostanti le città e diede vita al sistema delle manifatture decentrate o disperse. Il
mercante imprenditore poteva aggirare i vincoli del sistema corporativo e abbattere i
costi grazie alle minori pretese della manodopera contadina. Il notevole sviluppo di
questo sistema, che produceva tessuti di minor qualità ma in grado di coprire un
mercato molto più ampio, fu un potente fattore di crisi per le manifatture cittadine
fiamminghe e italiane. Nelle città italiane centro settentrionali, nel XVII secolo vi fu
una drastica caduta della produzione di tessuti di lana e seta, e si manifestò una
tendenza alla specializzazione in prodotti di lusso . Il sistema delle manifatture
decentrate si differenziava dall’artigianato perché è caratterizzato dalla dipendenza
dei produttori da un imprenditore; esso può essere considerato come una fase di
transizione verso la formazione dell’industria accentrata, e per questo viene indicato
con il nome di protoindustria. I fattori decisivi per il superamento della manifattura
dispersa furono l’ampliamento eccessivo delle sue dimensioni, che comportava a un
certo punto costi di gestione tanto elevati da renderlo non più conveniente, e
l’introduzione di macchine più complesse e costose (come i telai meccanici) che non
erano alla portata dei contadini artigiani. Questi cambiamenti creavano le condizioni
per lo spostamento della produzione in un luogo nel quale concentrare i macchinari e
la manodopera salariata.

4.4 I trasporti

La crescita dell’economia determinò un aumento degli scambi commerciali e lo


sviluppo di nuovi traffici. Rimase prevalente il trasporto su acqua, più veloce e più
economico. Un contributo in tal senso venne anche dai miglioramenti della tecnica
marinara e dei progressi della cartografia. A partire dal XV secolo i perfezionamenti
della bussola, l’uso di strumenti per localizzare la stella polare, i miglioramenti delle
carte nautiche, resero possibile determinare la posizione geografica di una nave in un
dato istante. Si crearono le premesse per la navigazione in mare aperto. Proprio
questa capacità fece segnare una superiorità dell’Europa rispetto alle altre parti del
mondo.

Molte novità si ebbero anche nelle costruzioni navali. Rimase a lungo attiva fino al
XVII secolo la galera/galea, che costituì la forza delle flotte genovesi, veneziane e
ottomane. I perfezionamenti della tecnica marinara portarono i paesi atlantici a
sviluppare soprattutto le navi a vela, che divennero protagoniste assolute dei traffici
commerciali e dei combattimenti navali. Il veliero dei mari del Nord era molto diverso
dalla galera mediterranea: superiore di stazza, rotondeggiante e con una stiva
capace, per resistere alla forza dei mari settentrionali. Un’evoluzione di queste
imbarcazioni fu la caravella, di origine portoghese. Molto maneggevole e veloce, non
aveva bisogno di un equipaggio numeroso e perciò poteva imbarcare i viveri per
affrontare lunghi viaggi; per questo fu il mezzo ideale dei viaggi di esplorazione, ma
non era adatta al commercio o alla guerra. Uno sviluppo del veliero fu il galeone,
dotato di un potente armamento di artiglieria, ed era adatto anche al trasporto di
merci.

Uno dei rischi ai quali era esposto il commercio marittimo era l’attacco da parte dei
pirati. Dalla pirateria va distinta, la guerra di corsa, che viene esercitata con il
consenso di un governo contro le navi dello stato nemico. Nel Cinquecento si

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sviluppò anche la pirateria atlantica, praticata, ai danni dei galeoni spagnoli che
trasportavano oro e argento dalle miniere del nuovo mondo, da predoni inglesi,
olandesi e francesi chiamati filibustieri o bucanieri. In realtà sul piano pratico è molto
difficile distinguere pirateria e guerra di corsa. Quando scoppiava una guerra i pirati si
affrettavano a farsi rilasciare degli Stati coinvolti lettere di corsa che di fatto davano il
loro mandato di assaltare le navi nemiche. Molti tentativi furono fatti per vietare le
guerre di corsa, che fu abolita dall’Assemblea legislativa durante la Rivoluzione
francese nel 1792; ma la stessa Francia non esitò poi ad appoggiare i corsari contro il
commercio inglese nell’Oceano Indiano. L’abolizione della guerra di corsa si ebbe
con il congresso di Parigi del 1856. Nel XVIII secolo la pirateria declinò sensibilmente.
Il pericolo di naufragi, gli assalti della pirateria, i rischi di deterioramento della merce
nella stiva, indussero a utilizzare il commercio marittimo soprattutto per carichi
ingombranti e di non grande valore mentre per le merci di qualità e di prezzo elevato
fu preferito il trasporto via terra. Questo peraltro non era a sua volta privo di pericoli,
era ostacolato dalla cattiva condizione delle strade e aveva costi molto elevati, anche
per gli innumerevoli dazi e pedaggi che bisognava pagare lungo il tragitto.

4.5 Il commercio

All’inizio dell’età moderna il Mediterraneo rappresentava ancora un nodo centrale


dei traffici commerciali fra l’Europa e l’Asia. I traffici più importanti ricalcavano ancora
le linee che si erano consolidate nel basso medioevo: dalla Cina, dall’India e
dall’Indonesia giungevano in Europa in particolare la seta e le spezie, usate non solo
in cucina ma anche in medicina e farmacia. L’importanza di questo flusso
commerciale, nel quale erano impegnati i maggiori mercanti e banchieri, era dovuto
soprattutto al valore molto elevato di questi prodotti. Essi erano portati dall’Oriente
da mercanti musulmani attraverso il Golfo Persico e il Mar Rosso e poi giungevano ai
porti di Tripoli, Beirut e Alessandria d’Egitto da dove venivano imbarcati su navi
veneziane o genovesi; quindi venivano trasportati verso la Germania, la Francia e le
regioni del Nord Europa. Grande sviluppo ebbero in questo periodo i commerci nei
mari del Nord. Nel basso medioevo si era affermata la potenza di una Lega che
riuniva molte città sulla costa del Mare del Nord e del Baltico e che si estese anche a
città non marinare ma legate alle prime da rapporti commerciali. A partire dal XV
secolo il ruolo della Lega fu progressivamente ridimensionato. Nel Seicento i traffici in
questi mari furono dominati dalle navi olandesi che portavano il legname dalla
Scandinavia, dalla Polonia e dalla Russia, ma anche cereali, metalli, pellicce. Un posto
importante in queste rotte commerciali ebbe fin dal XVI secolo la marineria inglese
che, a partire dalla seconda metà del Seicento, erose progressivamente il primato
degli olandesi. L’età moderna fu però caratterizzata dallo sviluppo dei traffici
oceanici, resi possibili dai viaggi di esplorazione e dalle scoperte geografiche. I
portoghesi nel 1498 riuscirono a raggiungere l’India circumnavigando l’Africa e
poterono così acquistare le spezie direttamente dai produttori senza
l’intermediazione veneziana. Tuttavia, la concorrenza portoghese non riuscivi a
tagliare fuori dal traffico delle spezie Venezia, che per tutto il Cinquecento mantenne
un posto importante nel commercio mediterraneo. Il suo declino iniziò verso la fine
del secolo con l’arrivo di navi olandesi e inglesi che, appoggiandosi sul porto di
Livorno, portavano grano, manufatti e materie prime da scambiare con i prodotti dei
paesi mediterranei o provenienti dall’Oriente . I portoghesi mantennero il controllo

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dei traffici con l’Asia fino ai primi decenni del XVII secolo. Le spezie, in particolare il
pepe, continuarono a rappresentare una componente importante del commercio
internazionale ma persero progressivamente la centralità che avevano avuto nella
prima età moderna. Nel commercio europeo con l’Asia un rilievo crescente fu
acquisito dalle importazioni di seta, cotone, the e rame.

Dopo la scoperta dell’America la formazione di un impero spagnolo che si estendeva


dalla California e della Florida fino al Cile e l’occupazione del Brasile da parte del
Portogallo aprirono un’intensa corrente di scambi commerciali attraverso l’Atlantico.
Fu necessario infatti rifornire i coloni che si erano stabiliti nel nuovo mondo di tutti i
prodotti necessari alla vita. Con la scoperta di ricche miniere di metalli preziosi nei
territori occupati dalla Spagna cominciarono ad arrivare crescenti quantità di oro e di
argento; in seguito furono importati in Europa prodotti come lo zucchero, il tabacco
e il legno. Nel corso del Seicento al declino della Spagna e del Portogallo corrispose
l’affermazione prima dell’Olanda, poi della Francia e dell’Inghilterra.

4.6 La moneta metallica

Le origini del sistema monetario in vigore nell’età moderna risalgono alla riforma
realizzata sul finire dell’VIII secolo da Carlo Magno, il quale istituì un sistema fondato
su un’unica moneta di argento, il denaro. L’incremento degli scambi per effetto della
crescita economica iniziata nell’XI secolo rese sempre più inadeguato un sistema
basato su una sola moneta. Si provvide perciò dapprima alla coniazione di multipli del
denaro e poi nella seconda metà del XIII secolo all’emissione di monete d’oro. Per
prime furono Firenze e Genova a coniare nel 1252 rispettivamente il fiorino e il
genovino d’oro, poi seguirono Venezia con il ducato e la Francia con lo scudo. Si
passo così a un sistema di bimetallismo nel quale il valore delle monete era legato al
valore dell’argento e dell’oro, sistema rimasto in vigore fino alla fine del XVIII secolo.

4.9 Il sistema monetario dell’età medievale e moderna

Con l’avvento delle monete che contenevano metalli preziosi, i sudditi iniziarono a
ricavare con la limatura una certa quantità di polvere di argento o di oro; a quel
punto il peso della moneta non corrispondeva più a quello previsto dalla zecca dello
Stato. Proprio per evitare la tosatura, a partire dal Seicento, le monete furono coniate
con un orlo zigrinato, pratica che sopravvive ancora oggi. Ma erano soprattutto i
principi che spesso realizzavano una frode nella coniazione. Le svalutazioni realizzate
nel medioevo e nella prima età moderna furono condannate con severità in quanto
causa di disordine monetario e di danni economici.

4.10 Moneta grossa e moneta piccola

Fin da quando nel XIII secolo furono coniate monete d’oro si determinò una netta
differenziazione fra queste ultime, utilizzate negli scambi internazionali, nelle
transazioni finanziarie e nel commercio all’ingrosso, e le monete cosiddette piccole,
che servivano invece per le compravendite quotidiane e per il pagamento dei salari.
La tendenza alla svalutazione interessò in particolare le monete piccole, che
garantivano la circolazione interna ed erano il riferimento per la fissazione dei prezzi:
esse finirono per contenere una quantità sempre minore di metallo prezioso, tanto

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che alla fine furono coniate prima in argento misto a rame e poi a partire dal XV
secolo solo in rame. Nell’età moderna per le transazioni quotidiane quindi si usavano
monete che portavano impresso il loro valore nominale, molto superiore al valore di
mercato del loro intrinseco metallo, per cui non vi era alcuna convenienza fonderle.
Al contrario le monete coniate in oro e argento non recavano alcuna indicazione di
valore in quanto quest’ultimo era fissato dall’autorità monetaria sulla base del valore
di mercato dei due metalli.

CAPITOLO 5
LA SOCIETÀ DI ORDINI: LA GERARCHIA SOCIALE

5.1 Organizzazione sociale

Nella società di antico regime il posto di ciascun individuo era stabilito fin dalla
nascita in una scala gerarchica considerata per sua natura perfetta, in quanto
riconducibile alla volontà divina. Il cambiamento era quindi di per sé giudicato
negativamente, come una pericolosa rottura di un ordine immutabile. Ciascuno
faceva parte di un gruppo e da questo dipendeva il suo status, ovvero la sua
condizione giuridica particolare. Fino al 1789 la società fu fondata sulla tradizionale
suddivisione in tre ordini distinti: gli oratores, quelli che pregano cioè il clero; i
bellatores, coloro che combattono ovvero la nobiltà; i laboratores, coloro che non
sono né nobili né ecclesiastici e che lavorando producono i beni necessari alla
sussistenza di tutti. La società di antico regime aveva una base corporativa, si poneva
cioè come un variegato universo di corpi, gruppi e comunità ciascuno con una diversa
e definita configurazione giuridica. La Rivoluzione francese, sancendo l’uguaglianza
giuridica, cancellò questo particolarismo, creando le premesse per una società di
individui eguali. La distinzione fra gli individui non si fondava sulla situazione
economica, ciò che contava era lo status, che era riconosciuto all’individuo in base
alla nascita, al ruolo svolto nella società e alle prerogative (privilegi, obblighi,
immunità) che egli condivideva con i corpi collettivi dei quali faceva parte. Era chiaro
che la divisione nei tre ordini rappresentava uno schema vuoto di contenuto in
quanto non corrispondeva alla realtà dell’Europa occidentale, dove già nel basso
medioevo si era formata una élite di mercanti, imprenditori, finanzieri, proprietari
terrieri non nobili, che, per la ricchezza del patrimonio, per la formazione culturale, si
distingueva dalla massa dei laboratores, formando un gruppo intermedio fra i nobili e
il popolo lavoratore. Si è soliti indicare questa élite con il nome di borghesia, ma si
tratta di un termine anacronistico, che non corrisponde alle condizioni della società
preindustriale. Non è possibile utilizzare per questi gruppi la categoria della classe
sociale nel senso moderno del termine. Perché si possa parlare di classe sociale
occorre che un gruppo abbia la consapevolezza della propria collocazione nell’attività
produttiva e degli specifici interessi economici ad essa connessi; questa coscienza era
assente in quegli uomini, che tendevano ad imitare i modelli di vita della nobiltà e
miravano ad uscire dalla loro condizione.

5.2 Il primo ordine: il clero

Il primo ordine nei paesi cattolici era il clero. La Chiesa deteneva una quota
importante della proprietà fondiaria. I beni ecclesiastici erano inalienabili ed erano in

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via di principio esenti da imposte. La Chiesa riscuoteva inoltre annualmente la decima
per il mantenimento del clero, degli edifici di culto e dei poveri. La ricchezza del corpo
ecclesiastico era generalmente appannaggio dell’alto clero, in larga parte proveniente
dei ranghi della nobiltà, a conferma del predominio sociale di questo ceto.

5.3 Origini e caratteri della nobiltà

Sicuramente in età carolingia fu molto importante l’emergere di una classe feudale


votata al servizio militare, principale obbligo del vassallo per adempiere al legame
personale di fedeltà stabilitosi con il proprio signore. Si consolidò in tal modo l’idea di
una categoria di persone che trovavano nella guerra la propria vocazione e la
giustificazione della propria superiorità rispetto agli altri membri del corpo sociale. A
questa aristocrazia di guerrieri si aggiunsero in seguito i titolari della signoria rurale,
che esercitavano su quanti risiedevano nel territorio poteri che comportavano il
mantenimento dell’ordine e l’amministrazione della giustizia. La continuità della
ricchezza, del prestigio e del potere di questi gruppi determinò la nascita di dinastie
familiari e portò di conseguenza alla progressiva identificazione di un ceto
stabilmente insediato al vertice della gerarchia sociale. Fondamentale per rafforzare
la superiorità di questo gruppo era rendere ereditario il nome, il patrimonio e il
prestigio. Un ruolo decisivo nella formazione del costume e della mentalità nobiliare
ebbe la cultura cavalleresca, che impose modelli della virtù, dell’onore e della difesa
della fede come tratti tipici del cavaliere cristiano. Su queste basi nacquero fra il XII e
XIII secolo i grandi ordini religioso-militari per la difesa dei luoghi santi. La proprietà
della terra era nell’antico regime la fonte principale della ricchezza, del prestigio
sociale e del potere politico. Rappresentava il fondamento del patrimonio delle
famiglie nobili. Infatti, la nobiltà possedeva, pur essendo una frazione assai piccola
della popolazione, un patrimonio fondiario vastissimo. Al rango erano legati privilegi:
onorifici, come il diritto di portare la spada, giudiziari, ad esempio il diritto di essere
giudicati da tribunali composti da propri pari e di non sottoposti alle stesse pene dei
plebei, o fiscali come l’esenzione totale o parziale del pagamento delle imposte. Nel
corso dell’età moderna la nobiltà dovette confrontarsi con il processo di
rafforzamento dell’istituto monarchico che tese a limitarne il potere, proteggendo i
sudditi contro le sue prepotenze. Questa politica fu perseguita con particolare rigore
da Luigi XIV, e non è un caso che proprio dopo la sua morte si sia sviluppata una
corrente di pensiero di forte impronta aristocratica che in vario modo ribadì la
centralità dell’ordine nobiliare negli equilibri della società francese ed europea. Vi
erano diverse strade per diventare nobili. Una via era offerta dalla pratica della
venalità delle cariche. In sostanza tutti coloro che disponevano di un cospicuo
patrimonio potevano acquistare alcune cariche finanziarie o giudiziarie che
conferivano una nobiltà trasmissibile agli eredi. Un’altra possibilità era l’acquisto di
un feudo; in tal caso occorreva abbandonare ogni attività che richiamasse le attività
mercantili precedenti, iniziare a vivere nobilmente e acquistare o costruire un palazzo
degno del nuovo rango.

5.4 Il patriziato

Lo sviluppo delle città determinò la progressiva affermazione di un altro tipo di ceto


aristocratico, di origine urbana, non legato alla funzione militare. La cronica instabilità

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delle istituzioni comunali provocò a partire dalla metà del XIII secolo la tendenza alla
formazione di governi più forti e duraturi, in grado di disciplinare i conflitti politici e
sociali, grazie anche all’emergere di una classe dirigente che assunse il controllo delle
magistrature cittadine. Questi erano i patriziati, ristretti gruppi di famiglie di grandi
mercanti e banchieri che si riservarono il monopolio delle principali cariche trovando
in questa funzione la radice di una distinzione di status rispetto alla restante
popolazione cittadina.

5.5 La città

Per tanti secoli la città rimase una struttura frammentata in ceti, corpi, comunità e
corporazioni. Questo frammentato mosaico trovava un elemento di coesione
nell’esigenza di controllare il territorio circostante, allo scopo di garantire due
esigenze vitali per l’universo urbano: la difesa da possibili attacchi nemici e il
regolare approvvigionamento di frumento e derrate alimentari, di legname e di
acqua.

5.6 Gli ebrei

Dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. ad opera dell’imperatore


Tito, gli ebrei si dispersero nei paesi del Mediterraneo, nell’Oriente e in varie zone
dell’Europa. Iniziava così il periodo della diaspora (dal greco: esilio, dispersione).
Nella Bibbia ebraica, che riconosce solo l’Antico Testamento, fondamentali sono in
particolare i primi cinque libri, che raccolgono l’insieme degli insegnamenti e delle
prescrizioni rivelati da Dio attraverso Mosè e che costituisce la Torah scritta, la legge
sacra dell’ebraismo. Non meno importante è la cosiddetta la Torah orale, ovvero il
Talmud (“studio”), che raccoglie l’interpretazione della dottrina tradizionale giudaica
post-biblica presentando una serie di norme giuridiche, di indicazioni etiche, di
comportamenti nei riti, nelle liturgie e nell’alimentazione che costituiscono parte
essenziale dell’identità del popolo ebraico. Figura centrale delle comunità era il
rabbino, interprete della legge e custode del patrimonio storico e culturale
dell’ebraismo. Nell’età medievale particolarmente consistente ed importante fu la
presenza degli ebrei nella penisola iberica. Chiamati sefarditi da Sefarad, nome
ebraico della Spagna, essi sotto la dominazione araba poterono vivere in condizioni
accettabili, pur essendo soggetti a varie restrizioni e al pagamento della tassa prevista
dal Corano per ebrei e cristiani. La situazione degli ebrei peggiorò quando i territori in
cui vivevano passarono sotto il controllo dei regni cristiani. A parte l’accusa di aver
mandato a morte Gesù, pesava il fatto che entrambe le religioni si riferivano
all’Antico Testamento come libro ispirato da Dio, ma lo interpretavano in modo
diverso. Nel 1205 Papa Innocenzo III affermò che la presenza degli ebrei in terra
cristiana poteva essere tollerata, ma solo a patto che fossero tenuti in una condizione
di perpetua servitù.

Il clima di esaltazione che caratterizzò la prima crociata del 1096 fu occasione di


violenze ed uccisioni nei confronti degli ebrei che vivevano in Germania, chiamati
askenaziti da Ashkenaz, il nome di un personaggio biblico ritenuto capostipite dei
popoli nordici. Il concilio lateranense voluto da Papa Innocenzo III nel 1215 impose
l’obbligo di portare un segno distintivo, variabile per colore e forma nei vari paesi.

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Seguirono il grande rogo pubblico dei libri del Talmud a Parigi, nel 1290 l’espulsione
dall’Inghilterra e nel XIV secolo dalla Francia. Nel basso medioevo si determinò anche
una progressiva evoluzione dell’identità delle comunità ebraiche dal punto di vista
economico-sociale. In precedenza, gli ebrei si erano inseriti nel tessuto economico
delle società cristiane praticando l’agricoltura, l’allevamento, l’artigianato, il
commercio ed altre professioni. Con il peggioramento del loro status giuridico non
poterono più esercitare molte di queste attività e non poterono acquistare beni
immobili; inoltre fu vietato loro di sposare donne cristiane o di avere dei cristiani alle
loro dipendenze. Dopo il concilio lateranense del 1179, che vietò ai cristiani il
prestito a interesse ad altri cristiani, gli ebrei si specializzarono nell’attività di
cambiavalute, nel prestito a interesse e al commercio, caratteristiche che sarebbero
state in seguito una delle radici economico-sociali dell’antisemitismo.

All’alba dell’età moderna l’espulsione dalla Spagna nel 1492 e poi nel 1497 dal
Portogallo segnò una svolta decisiva nella storia delle minoranze ebraiche in quanto
colpì la comunità europea più antica, numerosa e radicata. Già alla fine del XIV secolo
si era avuto in Spagna un massacro degli ebrei accompagnato da migliaia di
conversioni forzate; tuttavia anche l’accettazione del battesimo non poneva fine alle
discriminazioni e ai sospetti: proprio dalla necessità di verificare che gli ebrei
convertiti non conservassero la fede ebraica, nacque nel 1478 l’Inquisizione
spagnola. Agli ebrei furono concesse nel 1492 poche settimane per abbandonare le
proprie case e lasciare la Spagna. Coloro che scelsero di partire si diressero nei Paesi
Bassi, nei paesi balcanici e verso l’impero ottomano. Negli stessi anni le espulsioni da
quasi tutte le città tedesche determinarono un esodo verso l’Europa orientale, in
particolare la Polonia.

Nella crisi religiosa del Cinquecento prevalse una considerazione negativa della
presenza ebraica. Lutero pubblicò nel 1543 un violento libro nel quale incitò ad
incendiare le sinagoghe e le case degli ebrei e a limitarne la libertà di movimento;
queste posizioni furono sostanzialmente condivise dalla Chiesa di Roma. Gli ebrei
furono scacciati da tutti i territori italiani soggetti alla Spagna mentre rimasero per
esempio nello Stato della Chiesa, nel Granducato di Toscana e nella Repubblica di
Venezia. Proprio a Venezia si istituzionalizzò una forma di segregazione che avrebbe
caratterizzato tutta la vita dell’ebraismo nell’Europa moderna: il ghetto. In effetti già
in precedenza gli ebrei si erano stabiliti preferibilmente in alcuni quartieri delle città,
dove potevano avere a disposizione le strutture necessarie ai loro riti ed erano stati
soggetti a limitazioni della libertà di spostarsi. Nel 1516 la Repubblica di Venezia
impose agli ebrei l’obbligo di risiedere in un’area separata, che fu chiamata ghetto
perché lì era situato in precedenza una fonderia (detta “getto”). Il nome si diffuse poi
progressivamente in tutta Europa ad indicare le zone destinate alla segregazione degli
ebrei. Il provvedimento veneziano era un compromesso: la segregazione era la
condizione posta per consentire la residenza degli ebrei, in precedenza non ammessi
in città. Nel 1555 il Papa dichiarò in una bolla che gli ebrei dovevano vivere in
quartieri distinti, dai quali non potevano uscire di notte e nelle festività cristiane. Alla
linea fissata da Roma si adeguarono molti Stati italiani: nel Settecento si contavano
nella penisola 41 ghetti nei quali viveva il 75% degli ebrei. Faceva eccezione Livorno,
l’unica città italiana nella quale non si stabilì un ghetto. L’istituzione del ghetto,
circondato da mura, con i portoni chiusi al tramonto e sorvegliati da guardie, obbligò

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le comunità ebraiche a vivere in spazi molto ristretti e gravemente carenti dal punto
di vista igienico-sanitario a causa del sovraffollamento. Per le comunità ebraiche
avevano enorme importanza i riti e le tradizioni sui quali si fondava la loro identità
non solo religiosa ma anche culturale: il riposo di Shabbat (sabato), la Pesah (la
Pasqua, che commemora la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto e non la risurrezione
di Cristo), la circoncisione e le rigide regole alimentari della cucina cosiddetta kasher.
La popolazione del ghetto aveva un livello di istruzione e di alfabetizzazione
mediamente superiore a quello dei cristiani.

Nel Settecento il clima culturale e politico progressivamente si modificò grazie


all’influenza del pensiero illuministico. Agli inizi degli anni ‘80 l’imperatore d’Austria
Giuseppe II con diversi editti adottò i primi provvedimenti favorevoli agli ebrei,
concedendo loro alcuni diritti civili. Si trattava però di misure parziali e limitate; fu la
Rivoluzione francese a decretare la completa emancipazione proclamando gli ebrei,
sulla base dei principi del 1789, cittadini francesi a pieno titolo. Napoleone, pur non
senza qualche dubbio, mantenne il principio affermato dalla rivoluzione. Il clima
cambiò nuovamente nell’età della Restaurazione: in molti Stati furono messi in
discussione le conquiste dell’età rivoluzionaria e in qualche caso vi fu anche una
violenta ripresa di misure discriminatorie. A Roma fu ripristinato il ghetto, che
sarebbe stato poi definitivamente chiuso solo dopo l’annessione al regno d’Italia.

CAPITOLO 6
LE FORME E LE STRUTTURE DEL POTERE

6.1 Lo Stato moderno

Lo Stato moderno si è affermato nell’Europa occidentale agli inizi del XIX secolo ed è
stato adattato da tutti i popoli civilizzati . Esso si caratterizza come un organismo
politico dotato di piena sovranità sul territorio e sugli individui sottoposti alla sua
autorità, in quanto dispone del monopolio legittimo della forza, sia all’interno per
garantire l’ordine, sia all’esterno nei confronti degli altri Stati. In tal senso lo Stato
moderno è Stato di diritto, che regola la vita della società attraverso un ordinamento
giuridico uniforme, fondato su norme astratte, generali e impersonali. Esso ha
assunto a partire dal XIX secolo il carattere di Stato nazione, in quanto organizzazione
politica di una popolazione che ha maturato una coscienza della propria identità
sulla base di comuni caratteri etnici, linguistici, storico-culturali. Questo tipo di Stato
è sorto storicamente dalla Rivoluzione francese, la quale stabilì l’uguaglianza
giuridica di tutti cittadini, imponendo così l’idea della legge generale e astratta, e
diede l’impulso decisivo alla nascita della moderna idea di nazione che ha dominato il
panorama politico dell’età contemporanea.

6.2 Lo Stato di antico regime

Alcune correnti storiografiche hanno individuato nell’indirizzo assolutistico di alcune


monarchie tra il XV e il XVIII secolo un’anticipazione di molti aspetti dello Stato
moderno. A queste interpretazioni si sono contrapposti quanti ritengono
anacronistico utilizzare la categoria dello Stato moderno per analizzare le istituzioni
delle società di antico regime, che mantennero in realtà numerosi elementi di
continuità rispetto agli assetti politici dell’età medievale. Non c’è dubbio che verso la

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metà del XV secolo si fece strada in molti Stati dell’Europa occidentale un processo di
rafforzamento del governo centrale volto a limitare le prerogative della nobiltà
feudale, della Chiesa e delle autorità periferiche, e a formare un apparato
amministrativo e finanziario più solido ed efficiente. Non a caso la stessa parola
“Stato” cominciò proprio allora ad affermarsi nel significato attuale, come dimostra il
trattato Il Principe di Machiavelli (1513). Vi troviamo infatti l’accezione attuale del
termine, che indica l’autorità e l’ambito territoriale e umano sul quale questa si
esercita. Sul finire del XVI secolo furono i teorici della Ragion di Stato che a partire dal
trattato pubblicato da Giovanni Botero (1589), riproposero l’uso del termine. In
generale però il termine “Stato” stentò ad affermarsi nel pensiero politico.

Particolarmente importante fu, fra il XVI e il XVII secolo, la definizione del concetto di
sovranità. Nel medioevo il potere sovrano non aveva il carattere di assolutezza che
avrebbe acquisito nel corso dell’età moderna. Lo si definiva come summa potestas o
summum imperium, proprio per indicare che esso non era esclusivo ma si poneva al
di sopra di una molteplicità di poteri. A questo potere era affidata l’amministrazione
della giustizia, il mantenimento dell’ordine, la riscossione di imposte, la gestione
dell’esercito. L’autorità del sovrano quindi doveva affermarsi attraverso un
complesso sistema di mediazione e di transizione con i poteri subordinati. I termini
essenziali del moderno concetto di sovranità si trovano negli scritti di Jean Bodin
(1576): egli indicò come principale caratteristica della sovranità il potere di
promulgare leggi senza il consenso dei sudditi. Bodin distinse la consuetudine, che si
impone col tempo e per consenso comune, dalla legge, che esprime la volontà di
colui che ha il potere di comando, l’imperium. La legge prevale sulle altre forme del
diritto proprio in quanto espressione della volontà del sovrano. Su queste basi Bodin
poteva affermare che il sovrano è legibus solutus, cioè sciolto dalle leggi, al di sopra
di tutte le leggi delle quali è lui stesso l’artefice. In realtà, aldilà delle rappresentazioni
elaborate dalla dottrina politica, la monarchia nell’età moderna fu ben lontana
dall’assolutismo descritto dai suoi teorici.

In questo periodo si cominciò a considerare la Corona come ente distinto rispetto alla
figura del re, primo passo verso l’elaborazione del concetto di Stato come persona
giuridica; tuttavia rimase viva la tradizionale concezione patrimoniale dello Stato,
inteso come possesso di un certo territorio da parte di una dinastia. Di conseguenza i
confini fra gli Stati si presentavano in modo tutt’altro che chiaro e definito: un
territorio apparteneva a un sovrano per diritto dinastico, acquisito per eredità o per
cessione o attraverso un trattato o per incameramento di un feudo. Solo dopo la
Rivoluzione francese il confine assunse il significato di limite della sovranità e per
questo presentò una tipica forma lineare, con la funzione di separare due comunità
nazionali ben identificate. Per questo non è esatto definire la Francia e l’Inghilterra
come monarchie “nazionali” proprio perché non si era ancora affermata la moderna
idea di nazione. In definitiva, per l’età prerivoluzionaria è opportuno parlare di Stati
di antico regime come forme intermedie fra la realtà politica medievale e lo Stato
ottocentesco.

Non a caso nel XIX secolo il concetto di Stato si impose come punto di riferimento
centrale della riflessione politica. Decisiva in tal senso fu l’elaborazione della nozione
di società civile come entità autonoma, distinta rispetto al piano propriamente

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politico. Nel pensiero settecentesco l’espressione “società civile” era utilizzata in
genere come sinonimo di società politica. Fu Hegel (1821) che elaborò con chiarezza
questo concetto. Il filosofo tedesco definì la società civile come la sfera
dell’economia, nella quale ciascuno persegue il proprio particolare vantaggio o
interesse. Distinta da questo mondo, nel quale domina la concorrenza, è invece la
sfera statale che Hegel pose come l’espressione più alta della razionalità e come la
piena realizzazione della libertà. Nella società civile gli individui concorrono al bene
comune indirettamente, in quanto mossi solo del proprio egoismo; lo Stato invece si
pone come supremo regolatore neutrale dei contrasti di interesse e quindi come
istanza etica nella quale tutti gli individui formano un tutto organico, trovando la vera
e piena realizzazione della loro libertà. Marx rovesciò la tesi hegeliana che lo Stato
non può essere concepito astrattamente come un organo che persegue il bene
comune componendo gli interessi particolari della società civile: al contrario sono i
rapporti di forza nella sfera economico-sociale a determinare la forma dello Stato ,
che rappresenta quindi l’organizzazione giuridica del potere della classe dominante.

6.4 La concezione del potere

Nel considerare l’istituto monarchico bisogna innanzitutto tenere ben presente la


dimensione di sacralità sia della monarchia sia del re. Significativa in tal senso era la
cerimonia di consacrazione dei re, che aveva luogo tradizionalmente a Reims in
ricordo della conversione al cristianesimo del re Clodoveo avvenuta la Vigilia di
Natale del 496. Fondamentale era anche il carattere ereditario della monarchia,
secondo un ordine definito dalla legge; la continuità dinastica, che esprimeva il
permanere dello Stato aldilà della persona fisica del re, assumeva un carattere quasi
mistico, come dimostrano le massime che tradizionalmente si ripetevano alla morte
di ogni sovrano: “il re di Francia non muore mai”, “il re è morto, viva il re”.

6.5 Dualismo istituzionale

Nel basso medioevo i regimi di tipo monocratico prevedevano al vertice un


caratteristico dualismo istituzionale: il sovrano, principe o monarca, era affiancato da
organismi rappresentativi sulla base del ceto: gli Stati generali in Francia, le Cortes in
Spagna, la Dieta in Germania, il Parlamento in Inghilterra. In generale queste
assemblee erano formate dai rappresentanti dei tre ordini , clero, nobiltà e Terzo
Stato; in Inghilterra le Camere erano invece due, in quanto arcivescovi e vescovi
facevano parte insieme ai nobili della Camera dei Lord mentre era elettiva la Camera
dei Comuni. Essi avevano il compito di assistere il re e soprattutto sostenerlo dal
punto di vista finanziario approvando le imposte che egli proponeva. Il dualismo fra il
sovrano e i ceti esprime la natura di questo modello di Stato che si definisce a base
cetuale. Il processo di rafforzamento del potere monarchico passò attraverso il
ridimensionamento del ruolo di queste assemblee che costituivano evidentemente
un grave limite per l’esercizio della sua autorità. Dove le monarchie riuscirono a
liberarsi dal controllo di queste assemblee poterono avviarsi alla costruzione di uno
Stato più forte; diversa fu la situazione nei paesi dell’Europa centrale e orientale nei
quali questi organismi mantennero il diritto di riunirsi con regolarità.

6.6 La corte

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Nell’età moderna si affermò la tendenza dei sovrani a stabilire la propria dimora in un
luogo che si poneva anche come centro della vita politica dello Stato, la corte. Il
sovrano qui viveva circondato dagli esponenti delle principali famiglie della nobiltà, i
cortigiani, e anche da ministri e funzionari e da una schiera di artisti, letterati e
tecnici. Nell’Italia fra il XV e XVI secolo le corti si affermarono come centri di raffinata
cultura, punti di riferimento della straordinaria fioritura artistica che caratterizzò l’età
rinascimentale. Nelle grandi monarchie la corte era il centro simbolico del potere,
ma non il luogo nel quale esso concretamente si esercitava. Non a caso sia la
cancelleria, il grande ufficio nel quale si redigevano gli atti ufficiali e si teneva la
corrispondenza, sia i supremi tribunali che amministravano la giustizia, nacquero
distaccati dalla corte.

6.7 Gli organi di governo

Nell’età moderna un posto centrale nella vita politica ebbero i segretari di Stato, le
cui segreterie erano il vertice della macchina burocratica. In Inghilterra e in Francia
dall’evoluzione di queste funzioni, emerse progressivamente la figura dei moderni
ministri. Tuttavia, l’indirizzo politico fu spesso riservato a un uomo la cui autorità si
fondava esclusivamente sulla fiducia del re. Decisivo per il concreto esercizio
dell’autorità era il controllo del territorio. Le monarchie per imporre la loro volontà
sulle periferie si servirono di commissari nominati e dipendenti dal governo centrale.
La struttura burocratica creata dalle monarchie per rendere più efficace l’influenza
del centro sulle periferie non annullò la realtà preesistente ma si sovrappose a essa.

6.9 La giustizia

La funzione di sommo giustiziere rappresentò la prerogativa centrale del potere


monarchico, che si esercitava attraverso la legislazione (creazione del diritto) e la
giurisdizione civile e penale (applicazione del diritto per risolvere le controversie e
per punire i delitti). Nell’età moderna l’attività legislativa non ebbe mai il carattere
continuativo e sistematico che ha nelle società attuali. Il re emetteva ordinanze,
editti, decreti e lettere patenti (cioè aperte, destinate ad uffici e funzionari), spesso su
argomenti specifici, ma perlopiù non poteva stabilire norme dotate di validità
generale perché trovava un limite nella pluralità di ordinamenti giuridici particolari,
garantiti dalla consuetudine e sanciti formalmente da statuti . Il diritto era perciò un
coacervo di norme provenienti dall’accumulo secolare di fonti diverse. In Inghilterra
la legislazione regia aveva poi un limite oggettivo in quanto la giustizia veniva
amministrata dai giudici in base alla legge comune (common law), fondata sulle
consuetudini giuridiche ovvero sulla precedente giurisprudenza delle corti e sulla
dottrina. La pluralità di ordinamenti giuridici determinava l’esistenza di una pluralità
di giurisdizioni che limitavano le prerogative del potere sovrano. La giustizia di prima
istanza era esercitata in molti casi da autorità e poteri periferici di fatto autonomi
rispetto al potere centrale. La giustizia regia incontrava poi un limite nella giustizia
ecclesiastica, che aveva una competenza esclusiva nelle cause concernenti i
componenti del clero e inoltre rivendicava la propria autorità in materia di eresia e
per una serie di delitti attinenti alla sfera religiosa . Il potere di questi tribunali
particolari fu notevolmente limitato nel corso dell’età moderna: per i processi più
importanti furono previsti l’appello o l’avocazione davanti ai tribunali regi.

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6.10 I rapporti con la Chiesa

La sacralità del potere monarchico, legata alla sua origine divina, si rifletteva sui
rapporti con l’autorità ecclesiastica e in particolare nella volontà di accreditarsi come
protettore della Chiesa e baluardo della fede. In questo senso si coglie il significato
dei titoli di “cristianissimo” del quale si fregiava il re di Francia, o di “re cattolici”,
conferito ai sovrani dopo la presa del regno musulmano di Granada. Il problema dei
rapporti fra il potere politico e l’istituzione ecclesiastica si pose in termini
profondamente diversi nei territori che aderirono alla Riforma protestante. Per
quanto riguarda i paesi cattolici, rimase il tradizionale dualismo dei due poteri
separati, la Chiesa e lo Stato, le cui relazioni costituivano un aspetto centrale degli
equilibri politico-istituzionali e sociali. Lo Stato tendeva ad affermare le prerogative
spettanti al sovrano in materia di religione , rivendicando non solo il compito di
proteggere l’istituzione ecclesiastica, ma anche il diritto di controllarla e di intervenire
per riformarne gli abusi. In ogni caso gli Stati erano ben attenti a evitare che gli atti
del Papa avessero immediata validità all’interno del loro territorio. In generale
l’esigenza di limitare e controllare il potere della Chiesa, nei suoi aspetti istituzionali,
giuridici ed economici, fu una componente imprescindibile del processo di
rafforzamento del potere monarchico e della struttura statale. I nodi decisivi in tal
senso erano il diritto di nomina delle principali cariche ecclesiastiche e la possibilità
di ricavare dalle proprietà della Chiesa un contributo alle finanze statali.

6.11 Le finanze

Il problema finanziario rappresentò il nodo centrale dei tentativi di dare maggiore


solidità alla struttura dello Stato. Tradizionalmente le imposte erano concepite come
contributi straordinari, legati cioè a una situazione contingente. Le esigenze militari e
della politica estera, il mantenimento dell’apparato burocratico, la gestione degli
affari interni e l’amministrazione della giustizia, richiesero agli Stati crescenti risorse .
Occorreva quindi stabilire un prelievo fiscale sistematico e continuativo: fu questo
l’obiettivo principale degli stati di antico regime, e non a caso fu proprio questo il
principale terreno di scontro fra il monarca e le assemblee. Gli sforzi degli Stati di
antico regime non furono in grado di stabilire un sistema finanziario coerente e
razionale. Innanzitutto, non c’era un bilancio attendibile delle spese e delle entrate
in quanto i flussi erano gestiti da una miriade di casse ed enti particolari , e non si
arriva mai a una effettiva centralizzazione amministrativa. Quanto al sistema fiscale
non vi era uniformità perché erano in vigore regimi diversi (la città era privilegiata
rispetto alla campagna) e pesavano esenzioni e privilegi. Nel Settecento si ebbero i
primi tentativi di razionalizzare il sistema. In molti Stati si provvide a richiamare nelle
mani dell’amministrazione la riscossione e si tentò di realizzare un’imposizione
diretta e reale, promuovendo ad esempio la formazione di catasti, che consentivano
di dare una base oggettiva all’imposta fondiaria. Tuttavia, solo con la Rivoluzione
francese si posero le basi per un apparato finanziario uniforme, efficiente e razionale .

6.12 La politica estera

Nell’età medievale le relazioni fra gli Stati erano affidate in generale ad ambascerie
occasionali, che avevano l’obiettivo di comporre i contrasti o potenziali conflitti, di

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negoziare alleanze o di trattare su specifiche questioni. Del resto, nell’Europa
medievale era il Papa che svolgeva una naturale funzione di mediazione. Furono gli
stati italiani dell’età umanistico-rinascimentale a porre le basi della diplomazia
moderna, prevedendo l’invio di un rappresentante permanente presso i governi
stranieri, in particolare, la Repubblica di Venezia. Agli inizi del Cinquecento questo
esempio fu seguito da tutti i principali paesi europei. Anche lo Stato della Chiesa,
esaurita ormai la sua missione universale, inviò suoi rappresentanti permanenti (i
nunzi) presso le principali corti d’Europa. In questo periodo si posero anche le prime
basi del cerimoniale e delle forme che dovevano regolare l’attività diplomatica. I due
trattati noti con il nome di pace di Vestfalia, che chiusero nel 1648 la guerra dei
Trent’anni, posero le premesse per il riconoscimento di una comunità internazionale
di Stati considerati in via di principio eguali per dignità e prerogative.

6.13 Gli sviluppi della tecnica militare

I progressi della tecnica militare furono da un lato l’espressione delle trasformazioni


sociali che caratterizzarono la transizione dal medioevo all’età moderna, dall’altro
furono il principale motivo che rese necessario un rafforzamento
dell’amministrazione statale. Un aspetto centrale di questa evoluzione della tecnica
fu sicuramente l’uso della polvere da sparo, già nota in Cina e arrivata in Occidente
agli inizi del XIV secolo. Tuttavia, il perfezionamento delle armi da fuoco fu lento.

Un elemento di novità che contribuì al superamento dei caratteri tipici della guerra
medievale, fu la formazione di eserciti interarmi, nei quali cioè accanto alla cavalleria
pesante era prevista la presenza di balestrieri, arcieri e di nuclei di fanteria. La
cavalleria, composta di uomini reclutati su base feudale, era stata l’arma tipica
dell’età medievale e il nucleo centrale degli eserciti fino al XIII secolo. La formazione
di questi eserciti interarmi, che implicava naturalmente una struttura organizzativa e
logistica più complessa e una trasformazione dei piani tattici, fu il primo segnale di
cambiamento. Soprattutto risultò decisivo, per il tramonto della guerra medievale,
l’avvento delle fanterie, imposto dai trionfi conseguiti dall’ esercito svizzero. Questo
si presentava come una fitta muraglia di picche, portate da file serrate di uomini che
si muovevano in formazioni compatte a forma di quadrato. Questo schiarimento era
protetto da arcieri e balestrieri, e da tiratori dotati di armi da fuoco portatili
(archibugi e poi moschetti). Esso si rivelò in tal modo un ostacolo insuperabile per le
cariche della cavalleria. La centralità della fanteria nella struttura degli eserciti impose
una nuova forma di reclutamento: il re ora poteva liberarsi dai vincoli con i potenti
signori feudali e assicurarsi il monopolio delle forze militari assoldando fanterie.
Naturalmente era necessario a tal fine disporre di entrate finanziarie regolari
cospicue.

Il predominio delle fanterie svizzere durò solo fino ai primi anni del XVI secolo, in
quanto la crescente importanza delle armi da fuoco determinò la necessità di un
ulteriore evoluzione della tecnica militare. Lo sviluppo delle armi da fuoco individuali
(dal primitivo schioppo all’archibugio fino al moschetto, che si affermò a partire dalla
metà del XVI secolo), le rese sempre più maneggevoli e leggere e ne migliorò la
funzionalità. Per effetto di questi progressi scomparvero progressivamente dei campi
di battaglia l’arco e la balestra. Nel corso del XVI secolo le armi da fuoco

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conquistarono nella fanteria uno spazio sempre maggiore. Importante fu
l’introduzione, sul finire del XVII secolo, della baionetta che faceva le veci della picca
nella battaglia corpo a corpo. Mutò anche il ruolo della cavalleria che, dotata di armi
leggere, sciabole e pistole, fu impiegata per azioni isolate o per l’inseguimento.
Rimase a lungo il problema della lentezza dei tiri. La soluzione del problema si ebbe
alla fine del Cinquecento quando l’esercito olandese mise in atto contro gli spagnoli la
tecnica del fuoco a salve successive: i moschetti si disponevano su più file in modo
che, dopo che la prima aveva sparato, subentrava immediatamente il fuoco della
seconda mentre i primi avevano il tempo di ricaricare protetti dai compagni.

Quanto all’artiglieria, essa per un lungo periodo non ebbe un’incidenza significativa
sui campi di battaglia a causa delle difficoltà del trasporto, della lentezza della
cadenza del tiro, della scarsa precisione e della limitata gittata. Solo nella seconda
metà del Quattrocento i progressi tecnici misero a disposizione degli eserciti cannoni
più robusti, leggeri e precisi. Contro il fuoco di queste bombarde era indifendibile il
castello medievale, simbolo della nobiltà feudale, che infatti si trasformò
progressivamente in una residenza di campagna, priva di valore strategico. Tuttavia,
fu rapidamente trovata la risposta alla nuova temibile arma, con la costruzione di
fortezze bastionate di forma poligonale, un sistema di difesa che comportava costi
enormi. Le mura divennero più basse e furono rese più spesse e resistenti; inoltre i
torrioni divennero sporgenti oltre il perimetro delle mura per controllare l’artiglieria
nemica e impedire attacchi di sorpresa. La diffusione e i perfezionamenti
dell’architettura bastionata provocarono una progressiva transizione verso una
guerra statica, di posizione, incentrata su lunghi assedi. I progressi della tecnica
militare determinarono la formazione di eserciti permanenti di grandi dimensioni .
Nella prima metà del XVII secolo gli Stati più importanti mantenevano non meno di
100.000 uomini in armi. Cambiò anche il mestiere del soldato: le truppe erano
sottoposte a un capillare addestramento, composte da professionisti e mercenari.

Importanti trasformazioni riguardarono anche la guerra sui mari. Gli scontri navali
rimasero a lungo legati allo schema tradizionale dello speronamento e
dell’arrembaggio, che trasformava la battaglia in un corpo a corpo. La più grande
battaglia navale del XVI secolo (Lepanto, 7 ottobre 1571) si svolse secondo questa
tipologia e fu vinta dai cristiani su quelle ottomane. La situazione cambiò con lo
sviluppo della marineria a vela e con l’utilizzo dell’artiglieria. L’eliminazione dei
problemi generati dai cannoni posero le premesse per la comparsa del galeone.

CAPITOLO 7
IL SISTEMA DEGLI STATI ALLE SOGLIE DELL’ETÀ MODERNA

Il quadro politico dell’Europa all’inizio dell’età moderna è segnato dal declino


irreversibile del papato e dell’impero. La Chiesa di Roma aveva conosciuto una
profonda crisi, quando la sede pontificale si era trasferita ad Avignone (1309-1378),
ed era caduta sotto il controllo della monarchia francese, e poi nel periodo del grande
scisma di Occidente (1378-1417) che vide contrapposti due e addirittura a un certo
punto tre papi in lotta fra loro. Quanto alla corona imperiale era connaturata ancora
un’idea di universalità che risaliva all’incoronazione nella notte di Natale dell’800 di
Carlo Magno, che aveva riportato la dignità dall’Oriente all’Occidente, ponendosi

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come legittimo successore degli imperatori romani. Agli inizi del XIV secolo l’impero si
era dimostrato incapace di sostenere le sue aspirazioni verso l’Italia e di fatto aveva
sempre più ristretto il campo d’azione all’area tedesca. Nel XV secolo entrò in uso
l’intitolazione di Sacro Romano Impero della nazione germanica, ufficializzata nel
1512.

7.1 Il Sacro Romano Impero

L’impero era una confederazione che comprendeva centinaia di Stati assai differenti
per status e per estensione, largamente autonomi. Un passaggio fondamentale
nell’organizzazione istituzionale si era avuto con la Bolla d’Oro emanata nel 1356 da
Carlo IV, che assegnava l’elezione alla corona imperiale a sette principi elettori.
Organo centrale era la Dieta, le cui deliberazioni avevano valore di legge generale.
Convocata dall’imperatore con frequenza irregolare, la Dieta era divisa in tre ordini:
collegio dei principi elettori; il collegio dei principi e dei signori territoriali, nel quale
erano rappresentati i principi ecclesiastici (arcivescovi, vescovi e abati), i principati e i
signori minori, laici ed ecclesiastici; il collegio dei rappresentanti delle città libere .
Dal 1438 il titolo di imperatore era diventato appannaggio della casa di Asburgo, che
lo avrebbe tenuto fino alla fine del Sacro Romano Impero nel 1806. Questa continuità
dinastica, rafforzata fra l’altro dalla consuetudine di far eleggere, quando era ancora
in vita l’imperatore, il suo successore designato come re dei Romani, diede
indubbiamente maggior peso alla corona imperiale.

7.2 Alla periferia dell’impero: la Confederazione svizzera

Il primo nucleo della Confederazione Svizzera fu rappresentato dalla lega stretta nel
1291, a difesa dei loro diritti, e che diede il nome a tutta la confederazione, detta
anche elvetica dal nome romano del popolo di origine celtica. Pur non disconoscendo
la sovranità dell’impero e l’autorità signorile degli Asburgo, la lega era animata da un
forte spirito di indipendenza. Nel 1353 la Confederazione comprendeva otto Stati,
che venivano chiamati comunemente cantoni. Nel XIV secolo, dopo diverse battaglie,
la Confederazione riuscì a emanciparsi dal dominio degli Asburgo, e con la pace di
Basilea (1499) ottenne l’affrancamento dalla sovranità dell’impero. Fra la fine del
Quattrocento e gli inizi del Cinquecento i confederati furono rafforzati da nuove
adesioni. Nel 1513 era di fatto formata la cosiddetta Antica Confederazione,
composta di 13 cantoni, che sarebbe stata riconosciuta ufficialmente solo dalla pace
di Vestfalia del 1648 e che sarebbe sopravvissuta fino al 1798. La Confederazione non
presentava un forte potere federale perché i cantoni erano gelosi della loro
autonomia.

7.3 Fra impero e Francia: il ducato di Borgogna

Sul confine tra l’impero e la Francia si formò sotto i duchi di Borgogna uno Stato che
durò poco più di un secolo ma ebbe una decisiva importanza nella formazione degli
equilibri politici all’inizio dell’età moderna. Il Ducato di Borgogna ebbe un’origine
feudale nel 1364, legati al re di Francia a partire dalla metà del XIV secolo . Tuttavia,
fin dall’inizio essi adottarono una spregiudicata politica volta a creare un ampio Stato
indipendente; a tal fine, pur essendo nominalmente vassalli del re di Francia, si
schierarono nella guerra dei Cento anni dalla parte dell’Inghilterra, e poi si posero a

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capo della Lega del bene pubblico, composta da vari feudatari ribelli all’autorità del
re Luigi XI (1461-1483). I duchi, attraverso conquiste e accordi dinastici, acquisirono il
controllo di un vasto territorio che andava dalle Fiandre a nord fino alla Franca
Contea a sud. Il loro Stato era estremamente eterogeneo, diviso in tre tronconi e
composto di territori molto diversi per lingua e costumi. Proprio per dare continuità
territoriale ai suoi possedimenti l’ultimo duca, Carlo il Temerario, tentò di
conquistare la Lorena ma si scontrò con la Confederazione svizzera cadendo in
battaglia. La costruzione dei duchi di Borgogna si disgregò: il re di Francia Luigi XI si
impadronì della Borgogna, dell’Artois (Fiandre francesi) e della Franca Contea,
mentre l’arciduca d’Austria Massimiliano di Asburgo, sposando la figlia di Carlo il
Temerario, Maria, ottenne i Paesi Bassi.

7.4 Massimiliano d’Asburgo

Massimiliano I (1493-1519) divenne imperatore nel 1493. Egli riuscì a rafforzare la


propria autorità nei sui domini, creando una solida amministrazione finanziaria, ma
dovette scontrarsi con la resistenza dei principi territoriali riluttanti a rinunciare alle
proprie prerogative. All’inizio del suo regno ottenne dal re di Francia Carlo VIII
l’Artois e la Franca Contea, ma non riuscì a ripristinare l’autorità imperiale in Italia,
dove conseguì solo modeste acquisizioni territoriali, e dovette rinunciare al tentativo
di riportare all’obbedienza la Confederazione elvetica. I maggiori successi vennero
dalla sua politica matrimoniale. Grazie al matrimonio con Maria di Borgogna, riuscii
ad acquisire i Paesi Bassi. Da questa unione sarebbe derivata in seguito, attraverso
una fortunata combinazione di circostanze, la straordinaria eredità del nipote di
Massimiliano, Carlo. Nel 1515 Massimiliano organizzò anche il matrimonio di un altro
suo nipote, Ferdinando, con una sorella di Luigi Jagellone, re di Boemia e di Ungheria,
ponendo le premesse perché anche questi due Stati fossero acquisiti dagli Asburgo.

7.5 Il regno di Francia

La monarchia francese all’alba dell’età moderna si presentava ancora di carattere


feudale. Il re era il vertice di una gerarchia di vassalli legati a lui da vincoli personali.
Un primo passo verso l’unificazione del regno fu la vittoria sui re inglesi, i quali nel
1453 persero tutti i loro possedimenti sul suolo francese . Eliminata, con la morte di
Carlo il Temerario, la minaccia che veniva dallo Stato borgognone, la monarchia
francese poté ristabilire l’autorità negli altri territori. La figlia dell’ultimo duca di
Bretagna fu obbligata a sposare l’erede al trono francese che sarebbe diventato poi
re con il nome di Carlo VIII (1483-1498) e alla morte di questi il suo successore Luigi
XII (1498-1515). Anche il territorio bretone fu quindi incorporato nel regno.
Ponendosi come garante dell’integrità del paese contro lo straniero, la monarchia
poté realizzare un rafforzamento del proprio potere. Si accrebbe l’autorità del
Consiglio del re e si consolidò l’apparato amministrativo. Grazie alla regolarità delle
entrate, la monarchia francese poté liberarsi dalla necessità di ricorrere ai tre ordini
riuniti negli Stati generali che, dopo il 1484, non furono più convocati fino al 1560, e
anche in seguito, superata la fase delle guerre di religione, furono una presenza
assolutamente marginale nella storia francese. Nel 1515, quando salì sul trono
Francesco I (1515-1547), il regno era lo stato più popoloso, solido e coeso
dell’Europa, pronto a ingaggiare il lungo conflitto con gli Asburgo per la supremazia in

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Italia e in Europa. Il nuovo sovrano conseguì subito un successo assicurandosi il
controllo della compagine ecclesiastica: con il concordato di Bologna del 1516 egli si
vide riconosciuto il diritto di nominare tutte le principali cariche (vescovi, arcivescovi,
abati e priori) della Chiesa detta gallicana, proprio a sottolineare la sua autonomia sul
piano organizzativo-disciplinare da Roma. Nel 1522 Francesco sancì formalmente il
sistema della venalità delle cariche istituendo un ufficio per gestire le entrate
provenienti da tali vendite. Per effetto di questa pratica l’amministrazione finanziaria
e giudiziaria sfuggì al diretto controllo del re. Al vertice dell’amministrazione
giudiziaria si poneva il Parlamento di Parigi; nel Quattrocento esistevano in varie
province altri 7 Parlamenti, che sarebbero diventati 12 nel Settecento. Oltre alle
funzioni giudiziarie il Parlamento aveva il compito di registrare gli editti del re e per
questo assunse un ruolo politico, ponendosi come il principale ostacolo
all’assolutismo monarchico. In via di principio al Parlamento spettava solo un
controllo formale della regolarità dal punto di vista giuridico degli atti reali; spesso
però esso sospendeva la registrazione sollevando delle rimostranze nelle quali
entrava nel merito delle questioni e manifestava la sua ostilità verso le decisioni del
re. In generale, la volontà della monarchia di dare un effettivo indirizzo unitario
all’azione di governo trovava un limite oggettivo nella pluralità di privilegi, distinzioni
e immunità che costituivano la trama della società di antico regime. La struttura
burocratica, amministrativa e finanziaria, create per rafforzare le istituzioni centrali
dello Stato, non cancellarono i poteri territoriali, ma si sovrapposero a essi nel
tentativo di controllarli. Nel 1542 Francesco stabilì delle circoscrizioni fiscali per la
riscossione delle imposte, ma nelle province di recente annessione era costretto a
contrattare annualmente l’ammontare dell’imposta con i tre ordini riuniti negli Stati
provinciali. Parlare di accentramento e di unità quindi è una semplificazione,
considerando che il regno era un mosaico di città e province ciascuna delle quali
manteneva le proprie autonomie.

7.6 La Spagna

Alla fine del XV secolo, nella penisola iberica la presenza musulmana era ridotta ormai
al solo regno di Granada. La nascita della Spagna moderna prese avvio dal
matrimonio celebrato nel 1469 fra Isabella e Ferdinando, eredi rispettivamente della
corona di Castiglia e di Aragona. La successione di Isabella sul trono castigliano nel
1474 fu contestata e provocò una guerra civile che durò fino al 1479, anno in cui, con
la contemporanea salita al trono aragonese del marito Ferdinando, si realizzò
definitivamente l’unione dei due regni. Si trattò di un’unione personale, in quanto i
due regni mantennero ciascuno le proprie leggi e le proprie istituzioni. Il regno
aragonese, composto di tre province, l’Aragona, la Catalogna e Valencia, possedeva
la Sicilia e la Sardegna e aveva installato un ramo della dinastia sul trono del regno di
Napoli. Ben maggiore era il peso economico e demografico della Castiglia. La
supremazia castigliana si manifestò fin dall’inizio nella decisione di Ferdinando di
risiedere nel regno di sua moglie e di delegare stabilmente l’amministrazione dei suoi
domini ereditari a dei viceré. L’azione dei due sovrani realizzò un notevole
rafforzamento dell’autorità della monarchia in Castiglia, dove si pose innanzitutto il
problema di combattere la prepotenza nobiliare e la diffusa violenza. A tal fine la
monarchia, appoggiandosi sul consenso delle città, riorganizzò le milizie urbane che
represse con durezza le aggressioni e le violenze private. In Castiglia la monarchia

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mirò a sottomettere al suo servizio le grandi casate aristocratiche escludendole dalle
cariche politiche e chiamando nel Consiglio reale, il ristretto organismo che
governava il paese, giuristi non nobili, che avevano studiato diritto nelle università.
Molto importante fu il controllo dei tre ordini religioso-militari, di Santiago, Alcantara
e Calatrava. Ferdinando si fece nominare gran maestro di tutti e tre gli ordini, che
pose sotto l’autorità della monarchia. Ferdinando e Isabella si preoccuparono anche
di limitare il potere delle città nominando dei funzionari che avevano funzioni
amministrative e giudiziarie. Per quanto concerne la Chiesa, i sovrani spagnoli già sul
finire del XV secolo si garantirono che il Papa nominasse alle principali cariche
ecclesiastiche le persone da loro designate e inoltre ottennero che le ricchezze della
Chiesa versassero un contributo alle finanze statali. Sul piano finanziario essi
accrebbero in notevole misura le loro entrate e riuscirono perciò a non convocare i
ceti riuniti nelle Cortes del regno castigliano. Il potere di quest’ultime fu poi
ulteriormente ridimensionato quando alle loro sessioni non parteciparono più il clero
e la nobiltà, ma solo i rappresentanti di alcune città, incapaci quindi di resistere al
potere della corona. Diversa fu la situazione istituzionale nel regno di Aragona, dove
le Cortes delle tre province difesero con successo le proprie prerogative,
rappresentando un freno alla politica della monarchia.

Nel 1492 Ferdinando e Isabella portarono a compimento la Reconquista, occupando


Granada. Inizialmente fu concesso ai musulmani di restare e di conservare le loro
consuetudini e la loro religione. Ma l’unità della fede cristiana era indispensabile per
integrare i territori, così diversi dal punto di vista linguistico, sociale e istituzionale.
Così alla cacciata degli ebrei, avvenuta dopo la caduta di Granada, seguì un
progressivo inasprimento della politica nei confronti dei musulmani che furono
obbligati a convertirsi. Per controllare la sincerità della conversione degli ebrei fin dal
1478 Ferdinando e Isabella avevano ottenuto dal Papa la creazione di un tribunale
dell’Inquisizione, esteso poi all’Aragona, alla Sicilia e alla Sardegna. Questa
istituzione fu l’unica istituzione comune ai vari domini ed ebbe una funzione
decisiva nel preservare la purezza della fede cristiana e l’unità religiosa che erano il
fondamento su cui poggiava la nuova Spagna. Da qui la costante ostilità e diffidenza
nei confronti degli ebrei e dei mori convertiti: l’intolleranza religiosa rappresentò il
marchio di origine della Spagna moderna. La morte di Isabella nel 1504 pose un
delicato problema di successione, che mise in pericolo l’unione fra i due regni. La
corona di Castiglia sarebbe spettata alla figlia dei sovrani, Giovanna, che aveva
sposato il figlio dell’imperatore Massimiliano, Filippo il Bello. La morte di Filippo nel
1506 e la pazzia di Giovanna risolsero la crisi dinastica e consentirono a Ferdinando di
continuare a governare anche il regno castigliano. Nel 1512 egli, occupando il regno
di Navarra, portò a compimento l’unificazione della Spagna .

7.7 L’Inghilterra

Uscito vincitore dalla Guerra delle due rose fra le famiglie di York (rosa bianca) ed i
Lancaster (rosa rossa) (1455-1485), Enrico VII Tudor (1485-1509) si occupò di
restaurare l’autorità della monarchia contro le congiure e le violenze della nobiltà
feudale e si guadagnò così il consenso degli abitanti delle città e della piccola e media
nobiltà. Egli governò con un ristretto numero di uomini di sua fiducia e si servì per
rafforzare la propria autorità della corte della Camera stellata, un tribunale che si

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occupò dei reati di natura politica e colpì con durezza rivolte e disordini. Si trattava in
un certo senso di un tribunale straordinario, perché in Inghilterra vigeva la common
law che garantiva l’indipendenza dei giudici dal governo e costituiva un limite
oggettivo per la legislazione regia. Enrico VII accrebbe il proprio patrimonio fondiario
con le terre confiscate ai nobili ribelli e incrementò notevolmente le entrate
finanziarie. Ciò gli consentì di convocare solo una volta il Parlamento, composto di
due Camere, la Camera dei Lord, alla quale sedevano i nobili titolati e le alte cariche
ecclesiastiche, e la Camera dei Comuni, formata dai rappresentanti eletti dalle contee
e dai borghi. A Enrico VII successe il figlio Enrico VIII (1509-1547), che nei primi anni
di regno si impegnò senza molto successo nelle guerre continentali. Il distacco della
Chiesa inglese da Roma nel 1534 rappresentò una svolta decisiva anche negli equilibri
istituzionali del regno, ponendo le basi per l’affermazione del ruolo centrale del
Parlamento.

7.8 Gli stati dell’Europa settentrionale e orientale

Nel 1386 il regno di Polonia, la cui corona era elettiva, fu unito per matrimonio al
Granducato di Lituania del quale era titolare la famiglia degli Jagelloni. La Lituania
era uno Stato molto esteso che comprendeva la Bielorussia e l’Ucraina e giungeva
fino al Mar Nero. La federazione polacco-lituano rappresentava perciò all’epoca il più
vasto Stato dell’Europa orientale. Sotto la guida degli Jagelloni la Polonia sconfisse
l’Ordine dei cavalieri teutonici e acquisì nel 1466 la Prussia occidentale ottenendo
uno sbocco sul mare; la Prussia orientale rimase all’Ordine, che però dovette
riconoscersi vassallo della corona polacca. La Polonia restava tuttavia uno Stato
fragile soprattutto perché era dominata da una potente classe aristocratica. Il re, già
indebolito dal carattere elettivo della corona, era fortemente condizionato dalla
Dieta, formata da un Senato, nel quale sedevano gli esponenti delle grandi famiglie di
latifondisti e i vescovi, e da una Camera dei Deputati eletti nelle Dietine provinciali
dalla numerosa piccola nobiltà. Nessuna rappresentanza avevano il clero come
ordine, le città e le campagne. Nel 1505 la Dieta impose al re Alessandro Jagellone
(1501-1506) una convenzione per cui senza il suo consenso non avrebbe potuto
stabilire niente nello Stato. Gli Jagelloni alla fine del XV secolo estesero ancora la loro
influenza sistemando un membro della loro famiglia sui troni di Boemia e di
Ungheria, rimasti vacanti. Quanto ai regni di Danimarca, Svezia e Norvegia,
dall’unione di Kalmar del 1397 erano uniti in regime di legame personale sotto
l’egemonia dei re danesi.

7.9 La Russia

Fra i molti Stati a Oriente della Lituania, cominciò a emergere già agli inizi del
Trecento il Ducato di Moscovia, che ampliò progressivamente i propri confini. Il
fondatore dello Stato russo fu Ivan III il Grande (1462-1505) che occupò la grande
Repubblica di Novgorod (nord della Russia, affacciata sul Mar Baltico), assumendo il
titolo di sovrano di tutta la Russia. All’interno limitò il potere dell’aristocrazia, ai quali
contrappose un ceto di nuovi nobili legati al servizio della monarchia . Egli importò
dall’Oriente le armi da fuoco e adottò le nuove tecnologie militari per la costruzione
delle fortezze, per cui accrebbe notevolmente la pressione fiscale sul mondo
contadino. Molto importante fu il trasferimento dell’arcivescovo ortodosso da Kiev a

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Mosca, in quanto la Chiesa, legata alla tradizione bizantina di stretta unione fra
potere civile e religioso, contribuì al rafforzamento dell’autorità monarchica e
insieme sviluppò i primi elementi di un’ identità non solo religiosa ma anche culturale
dello Stato russo. Ivan sposò una nipote dell’ultimo imperatore di Costantinopoli e si
pose come erede spirituale della corona bizantina. Ivan usò sporadicamente il titolo
di zar, che univa il titolo romano e poi bizantino di caesar a quello di khan della
tradizione asiatica, ed esprimeva quindi insieme il principio assolutistico e la sacralità
del difensore della fede. In questa prospettiva Mosca si poneva come la terza Roma,
erede di Bisanzio che era subentrata con lo scisma d’Oriente del 1054 a Roma ma
aveva perduto la sua funzione dopo la conquista ottomana. Lo Stato russo era quindi
investito del compito di garantire la vittoria del cristianesimo ortodosso sul
paganesimo e sul cattolicesimo. L’opera di Ivan III fu proseguita dal figlio Basilio III
(1505-1533) e poi dal figlio di questi, Ivan IV il Terribile (1533-1584), che nel 1547
assunse formalmente il titolo di zar. Molto più incisiva divenne l’azione della
monarchia per limitare i poteri della grande nobiltà; Ivan IV infatti contrappose alla
Duma (Consiglio) dominata dall’aristocrazia, un’assemblea composta di esponenti dei
ceti, l’Assemblea territoriale. Egli sancì con alcuni decreti il processo di asservimento
del mondo contadino e formò il primo nucleo di un esercito di professionisti
stipendiati. Instaurò relazioni con gli olandesi e gli inglesi, i quali fondarono la
Compagnia della Moscovia. Nel 1560 la morte della moglie, che aveva arginato le
tendenze violente del suo carattere, aprì una seconda fase del suo regno nella quale
Ivan colpì con straordinaria crudeltà tutti coloro che riteneva suoi oppositori .
L’aumento della pressione fiscale per coprire le spese militari e le violenze contro la
popolazione portarono il paese a uno stato di grave crisi. Dopo la morte di Ivan IV ci
fu un lungo periodo di debolezza e di anarchia, finché nel 1613 venne eletto zar il
minorenne Michail Fedorovic Romanov (1613-1645) portando sul trono la dinastia
che vi sarebbe rimasta fino alla rivoluzione del 1917.

7.10 L’impero ottomano

L’evento più importante nella politica europea all’inizio dell’età moderna fu


l’espansione dell’impero ottomano, originario dell’Anatolia occidentale fondato da
Osman o Othman (morto nel 1326) che diede il nome alla dinastia. Nel XIV secolo gli
Ottomani estesero il loro dominio fino a comprendere gran parte dei Balcani. Nei
primi decenni del XV secolo l’impero bizantino era ridotto ormai alla capitale
Costantinopoli e a pochi territori circostanti. Il debole aiuto degli Stati cristiani non
valse a fermare l’attacco decisivo portato dal sultano Maometto II il Conquistatore
(1451-1481). Costantinopoli, presa il 29 maggio 1453, divenne la capitale
dell’impero con il nome di Istanbul. La cattedrale di Santa Sofia fu trasformata in
moschea. Maometto si impadronì in seguito della Grecia, dove Venezia perse molti
dei suoi possedimenti, della Serbia, della Bosnia, dell’Albania, della Moldavia,
giungendo a ridosso del regno di Ungheria. La flotta riuscì anche a saccheggiare e
occupare per un anno Otranto (1480). L’espansione ottomana interessò anche il Mar
Nero che divenne in pratica un mare interno dell’impero. Il sultano Selim I (1512-
1520) combatté a est contro l’impero persiano dei Safawidi, occupando l’Armenia e
il Kurdistan; quindi sottomise la Siria e sconfisse i Mamelucchi, la casta militare che
dominava in Egitto, portando i suoi confini fino al Mar Rosso. L’influenza ottomana si
estese quindi sugli Stati del Nord Africa, che divennero vassalli dell’impero. A Selim

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successe Solimano I il Magnifico (1520-1566) che occupando Baghdad, spinse i
confini dell’impero fino al Golfo Persico. La conquista di Belgrado, l’unica città serba
non ancora occupata, rese davvero concreta la minaccia di un’invasione musulmana
nel cuore dell’Europa cristiana. Molto importante fu la conquista dell’Egitto, dal quale
dipendevano le città sacre dell’Islam, La Mecca e Medina. In tal modo i sultani
acquisirono il controllo del califfato e si posero come capi spirituali di tutto l’Islam
sunnita, ovvero dei musulmani ortodossi seguaci, oltre che del Corano, della Sunna,
la tradizione orale fondata sugli insegnamenti di Maometto, e sostenitori del principio
elettivo del califfato.

Alla base dell’espansionismo ottomano vi era la solida struttura dell’impero,


imperniata sull’autorità assoluta del sultano, coadiuvato da collaboratori che
facevano parte del Consiglio presieduto dal gran visir. Le entrate erano fornite
dall’imposta pagata dai musulmani per le terre avute in concessione, dalla tassa
dovuta dai non musulmani e dai dazi doganali. La giustizia era fondata in larga misura
sui precetti coranici. Sul piano militare la potenza ottomana fu fondata fin dal XIV
secolo sulla formazione di un esercito regolare, il cui nucleo centrale era costituito
dalla fanteria dei giannizzeri, formata da prigionieri di guerra e dalla leva coatta di
bambini cristiani educati nella fede islamica e addestrati alla guerra con il divieto di
sposarsi. La cavalleria era composta invece dai notabili i quali, in cambio delle
entrate fiscali della terra data loro in concessione, erano tenuti in caso di guerra a
combattere e a fornire un determinato quantitativo di truppe.

In base al diritto ottomano tutte le terre appartenevano al sultano. L’economia si


basava sull’agricoltura; la cellula di base era la famiglia contadina, che riceveva in
concessione dal villaggio una tenuta che non poteva vendere. La condizione del
mondo contadino era comunque migliore rispetto all’Europa occidentale (era assente
il servaggio). Gli abitanti delle città erano in larga parte artigiani, organizzati in
corporazioni. Con l’espansione nel Mediterraneo l’impero acquisì una posizione
strategica nei traffici dei prodotti di lusso (seta e spezie) che dall’Oriente arrivavano ai
porti della Siria e dell’Egitto per essere poi trasportati in Europa.

CAPITOLO 8
CIVILTÀ E IMPERI EXTRAEUROPEI

8.1 L’Africa

Gli studi sull’Africa sono stati condizionati dalla scarsità e dalla poca attendibilità delle
fonti disponibili. Molto importante per la storia del continente fu l’espansione
dell’Islam, che conquistò prima i paesi che si affacciavano sul Mediterraneo, il
cosiddetto Maghreb, e si diffuse poi, con maggior lentezza e difficoltà, nell’Africa
occidentale e orientale. La penetrazione mussulmana rappresentò un forte incentivo
allo sviluppo delle attività commerciali e dell’urbanizzazione. Lungo le rotte del
commercio transahariano si svilupparono città dove transitavano i prodotti dell’Africa
meridionale (oro, avorio, pelli e schiavi) scambiati con il sale e altri prodotti dell’Africa
settentrionale.

Le città erano una presenza marginale. Prevalevano società strutturate in piccole


comunità, nelle quali il principale elemento di coesione era un legame di tipo etnico o

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parentale. Il carattere frammentario della società africana è confermato dal grande
numero di dialetti e dalla varietà dei culti. Le religioni africane si fondavano su una
visione magica. Le religioni dettavano gerarchie, norme e comportamenti sui quali si
fondava tutta la vita della comunità. Su questo policentrismo si sovrapposero in
alcune zone forme di organizzazione politica più complesse. Mancava l’idea di uno
stabile dominio sul territorio in quanto i confini di questi Stati erano incerti e mobili
proprio per la fluidità delle società segmentarie che ne erano la base. Nell’Africa
equatoriale e meridionale l’idea di una organizzazione territoriale solida era
impossibile. L’impulso alla formazione di un’autorità centrale nasceva in genere dallo
stato di guerra o dalla necessità di espandersi, di controllare le vie commerciali o di
riscuotere tributi o pedaggi.

Il cristianesimo si diffuse precocemente nell’Egitto sotto la dominazione romana nella


forma della dottrina monofisita, che negava la doppia natura umana e divina di
Cristo. Si formò così la Chiesa copta che sopravvive ancora oggi. Il cristianesimo poi si
espanse verso sud sull’altopiano etiopico.

Alle soglie dell’età moderna si formò il regno Songhai, che approfittò del declino del
precedente impero islamizzato del Mali per acquisire il controllo dell’altro corso del
Niger; nella metà del XV secolo si impadronirono di importanti città, nodi dei traffici
delle carovane. Il regno del Marocco, l’unico dell’Africa settentrionale a non essere
soggetto gli ottomani, nel 1591 sconfisse il regno Songhai provocandone la
scomparsa.

8.2 La Cina

La storia della Cina moderna inizia dalla caduta della dominazione mongola di Kublai
Khan (nipote di Gengis Khan), grazia a una insurrezione militare capeggiata da un ex
monaco buddista, il quale prese il potere nel 1368 assumendo il nome di Hongwu e
diede inizio alla dinastia Ming (luminosa) durata fino al 1644. L’economia cinese si
fondava su un’agricoltura che presentava caratteristiche molto diverse rispetto a
quella europea. Dominava il riso, che assicurava l’alimentazione della popolazione
con rese superiori rispetto a quelle del frumento. Si coltivavano anche the, cotone e
soia. Rispetto all’agricoltura europea si utilizzavano pochi strumenti agricoli e molto
scarsi erano anche gli animali. Nel periodo Ming vi fu un notevole sviluppo delle
manifatture (seta, cotone e porcellana) e una crescita dei centri urbani. L’andamento
demografico della Cina presenta analogie con quello dell’Europa occidentale, in
quanto anch’essa fu gravemente colpita dalla peste della seconda metà del XIV
secolo e conobbe una rapida ripresa della popolazione, che passò nel periodo Ming
da 65 a 150 milioni. Anche la Cina ebbe un forte incremento demografico nel
Settecento ma nell’Ottocento, a differenza dell’Europa, non superò lo stato di
arretratezza e patì conflitti e carestie che arrestarono la crescita. Il periodo Ming
coincise con un rafforzamento del potere centrale. Hongwu eliminò la carica di Primo
Ministro per governare personalmente. Egli riportò in auge il Confucianesimo, che
considerava funzionale a questo indirizzo politico: non si trattava di una religione, ma
di un insieme di dottrine, risalenti a Confucio, vissuto fra il VI e il V secolo a.C., che
elaboravano principi e credenze dell’antica civiltà cinese e ponevano una serie di
regole per il buon funzionamento della comunità, valorizzando il rispetto delle

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gerarchie sociali e l’obbedienza alle autorità. Hongwu ripristinò poi il sistema
burocratico-amministrativo che attribuiva le cariche pubbliche solo a coloro che
avessero superato severi esami di Stato sulla conoscenza dei testi classici . A questo
ceto di burocrati era affidata l’esecuzione delle decisioni politiche nelle 15 province
dell’impero. Se il confucianesimo non si poneva il problema del destino individuale, la
salvezza dell’uomo era invece centrale nel Taoismo, una corrente di pensiero
filosofico religioso radicata nella cultura cinese, e anche nel Buddhismo, sorto in India
nel VI secolo a.C. e diffuso in Cina a partire dal III secolo d.C. La storia religiosa della
Cina è legata ai reciproci contatti e influssi fra queste tre correnti e alla loro alterna
fortuna nella storia dei vari regimi. Infine, si deve ricordare l’influenza del
Cristianesimo, che fu introdotto per opera dei gesuiti. Nella seconda metà del XVI
secolo il regime fu indebolito da aspre lotte di fazione e dal prevalere a corte degli
eunuchi che, grazie al favore degli imperatori, divennero spesso una sorta di segretari
personali, rendendosi responsabili di abusi di potere.

A partire dal 1620 scoppiarono numerose rivolte contadine, provocate dal


malcontento per il prelievo fiscale e da una serie di carestie. Nel frattempo, i Manciù,
un gruppo di tribù stabilite in Manciuria che si erano unite dandosi un’organizzazione
statale, occuparono una parte del territorio cinese. Quando nel 1644 il capo di una
delle rivolte contadine entrò a Pechino, l’ultimo imperatore si impiccò. In seguito, i
Manciù si insediarono nella capitale e, represse le ribellioni, diedero vita alla dinastia
che chiamarono Q’ing (chiara o pura), destinata a regnare in Cina fino al 1912,
quando l’ultimo “figlio del cielo”, come veniva chiamato l’imperatore, fu costretto a
rinunciare al trono. Con i Manciù la Cina si trovò soggetta alla dominazione straniera.
Il controllo dell’impero non era facile per i Manciù: solo pochi conoscevano a
sufficienza il cinese, e del resto i più colti fra i cinesi consideravano i conquistatori dei
barbari. I Manciù furono costretti perciò a servirsi della classe dirigente cinese e a
mantenere la precedente struttura burocratica e amministrativa. I Manciù
intendevano comunque preservare le proprie tradizioni: in segno di sottomissione i
cinesi maschi furono obbligati ad adottare la tipica acconciatura manciù, radendosi la
parte anteriore della testa e intrecciando i capelli restanti con una lunga coda di
cavallo. I Manciù erano l’etnia di minoranza, per cui andarono incontro a un
inevitabile processo di assimilazione.

La storiografia si è interrogata a lungo sul paradosso della storia cinese: perché è un


popolo che aveva acquisito molto prima dell’Occidente risorse e conoscenze tecniche
fondamentali come la carta, la stampa, la polvere da sparo, la bussola, non intraprese
la via della modernizzazione? Anche sul piano della navigazione i cinesi non erano
inferiori agli europei. Nel XV secolo organizzarono una serie di spedizioni navali
nell’Oceano Indiano, giungendo fino alla costa somala, ma non circumnavigarono
l’Africa, addirittura abbandonarono del tutto le attività marine. Causa di ciò potrebbe
essere stata la necessità di concentrare gli sforzi nella difesa della frontiera terrestre,
costantemente minacciata dai mongoli.

8.3 Il Giappone

Un primo nucleo di organizzazione politica si formò, sul modello cinese, a partire dal
VII secolo a Kyoto, intorno alla corte dell’imperatore, che però ebbe un’autorità

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limitata. Nel 1192 si affermò a Tokyo l’altro polo del dualismo istituzionale
giapponese, lo Shogunato: la carica di shogun (grande generale dell’esercito)
divenne ereditaria e assunse il governo effettivo del paese, mentre l’imperatore,
lontano nel suo palazzo di Kyoto, era al di fuori delle contese politiche come supremo
depositario della legittimità. Tuttavia, già nel XIII secolo lo Shogunato perse buona
parte della sua autorità in quanto i grandi proprietari delle province si trasformarono
in signori fondiari di fatto autonomi che disponevano di guerrieri di professione
(samurai) legati ad essi da vincoli di fedeltà. Ne derivò un lungo periodo di endemiche
guerre civili che portarono la completa frantumazione del Giappone. Nella seconda
metà del XVI secolo in questa fase di anarchia feudale si imposero dei capi militari
che posero le basi per una riunificazione del paese. Infine, un membro di una ricca
famiglia di militari, Tokugawa Jeyasu (1543-1616) nel 1603 si fece nominare
dall’imperatore shogun e diede avvio a una lunga fase della storia giapponese. Sul
piano istituzionale l’era Tokugawa fu caratterizzata da un equilibrio fra tre centri di
potere: a Kyoto la corte imperiale, a Edo lo shogun, e più di 250 signori feudali che di
fatto erano signori assoluti nei loro territori. Gli shogun imposero un accentramento
burocratico che permise loro di assumere di fatto la direzione politica del paese. Per
garantirsi la fedeltà dei signori fondiari fu imposto loro di trascorrere ogni anno un
periodo nella capitale e di lasciare alla loro partenza moglie e figli in ostaggio. Questo
regime è stato definito un feudalesimo centralizzato.

La religione nazionale era lo scintoismo, che considera tutti i fenomeni naturali


espressione di forze divine; poiché lo scintoismo non si pone il problema dell’anima e
della salvezza dopo la morte, e non è concepito come un culto religioso in senso
proprio, la partecipazione ai suoi riti non preclude la possibilità di aderire ad altre
religioni o dottrine filosofiche. Esso infatti ha fortemente subito l’influsso del
Buddhismo, penetrato in Giappone fin dal VI secolo d.C., e anche di alcuni aspetti del
Confucianesimo. Tutta la storia religiosa del Giappone è incentrata sulle relazioni fra
lo scintoismo e il buddhismo. Lo scintoismo peraltro ha avuto una funzione
importante in chiave nazionale perché ha fornito la legittimazione del potere
dell’imperatore, ritenuto, fino al 1946, di natura divina. Quanto al Cristianesimo, esso
era stato introdotto a partire dalla metà del Cinquecento da un gesuita, ma già sul
finire del secolo si sviluppò una violenta persecuzione nei confronti dei cristiani.
Questa svolta si inseriva nella politica del “paese chiuso” adottato dal regime
Tokugawa nei primi decenni del XVII secolo. Fino ad allora i rapporti con i mercanti
europei avevano introdotto nel paese le armi da fuoco, ma anche gli occhiali, gli
orologi, il tabacco, la patata. Nel 1635 fu vietato ai giapponesi di uscire dallo Stato e
fu imposto ai residenti all’estero di tornare ; quindi furono scacciati i mercanti
stranieri e solo agli olandesi fu permesso di restare in un isolotto artificiale collegato
a Nagasaki, che rimase l’unico porto a potere svolgere una limitata attività
commerciale con l’estero. I Tokugawa favorirono la diffusione del confucianesimo,
che costituiva un valido sostegno del regime. La società era fondata sulla divisione in
quattro classi: guerrieri, agricoltori, artigiani e mercanti; poiché questo ordine era
considerato una legge naturale, ciascuno era vincolato la propria condizione. Non
mancò tuttavia un notevole sviluppo economico, che modificò di fatto questa rigida
struttura sociale. Grazie anche al miglioramento della rete dei trasporti, vi fu un
aumento del commercio interno; poiché era proibito ai guerrieri il commercio, i
mercanti videro crescere notevolmente le loro attività. Molte terre furono bonificate

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e fu intensificata la produzione del riso, ma soprattutto furono incentivate colture
non volte alla sussistenza della popolazione, come il cotone, la canapa, il gelso, il
tabacco e il the. Dalla massa del mondo contadino si staccò un ceto di ricchi
proprietari terrieri, che introdussero nella coltivazione nuovi metodi atti a sviluppare
la produttività. L’incremento delle attività manifatturiere creò le premesse per l’avvio
del processo di industrializzazione. Prova di questa crescita furono l’aumento della
popolazione e lo sviluppo delle città.

8.4 L’impero Safawide di Persia

La dinastia dei Safawidi, destinata a regnare fino al 1722, iniziò quando Ismail I,
membro di una famiglia di sceicchi originaria della Persia occidentale, riuscì a
sottoporre al suo dominio gran parte del territorio persiano fino al Golfo Persico. Nel
1501 si proclamò primo shah dell’Iran, dando inizio alla dinastia. Nel 1514 una grave
sconfitta da parte dell’esercito ottomano lo costrinse ad abbandonare diversi
territori. Fin dall’inizio, lo Stato persiano ebbe come suo principale nemico l’impero
ottomano, con il quale fu costantemente in lotta. Ai motivi politico-territoriali di
conflitto si aggiunse una contrapposizione di natura religiosa gravida di conseguenze
future. Mentre l’impero Ottomano si poneva come erede dell’ Islam sunnita, i
Safawidi imposero come religione nazionale l’ Islam sciita, che considerava degli
usurpatori i primi tre califfi, riconosceva come suo successore legittimo di Maometto
il quarto, il cugino e genero Alì e i suoi discendenti, e negava il carattere elettivo del
califfato, sostenuto invece dai sunniti. Questa posizione religiosa era anche il
fondamento della legittimità dei Safawidi, che si ponevano come eredi diretti di un
discendente del profeta. Un contributo decisivo al rafforzamento della dinastia venne
dallo shah Abbas I il Grande (1587-1629) il quale, riordinato l’esercito su nuove basi,
ottenne importanti vittorie su gli Ottomani conquistando diversi territori fino a
Baghdad. Abbas si impegnò anche a incentivare il commercio fondando nel 1623 sul
Golfo Persico un porto. Con Abbas l’impero raggiunse al suo massimo splendore.
Dopo la sua morte l’impero si avviò a un lento declino, segnato dalla lotta con
l’impero ottomano per il possesso della Mesopotamia, che alla fine fu stabilmente
occupata dei sultani di Istanbul. Nel 1722 l’impero fu travolto da un’invasione degli
afghani. Grazie alle imprese di Nadir Quli (1736-1747) i persiani riuscirono a
sconfiggere gli afghani e ad occupare tutto il loro territorio. Guidati dal nuovo shah
invasero l’India occupando Delhi e posero fine all’impero Moghul. Alla morte di Nadir
la Persia piombò in un periodo di anarchia e di sanguinose guerre civili.

8.5 L’impero Moghul

Nel XIII secolo nella parte settentrionale del continente indiano si era stabilito uno
Stato musulmano, il sultanato di Delhi. Nel 1398 però il sultanato cadde in una
condizione di anarchia, caratterizzata da ripetute frammentazioni del territorio e da
frequenti insurrezioni e rivolte. Nell’India meridionale vi erano invece vari principati
induisti. Il processo di riunificazione fu avviato da un capo militare afgano di fede
musulmana chiamato Babur (tigre), che fra il 1526 e l’anno della sua morte nel 1530
conquistò Delhi creando nell’India nord-occidentale un ampio dominio destinato a
rappresentare il primo nucleo dell’ impero Moghul (o mongolo). Il consolidamento
dell’impero fu opera del nipote di Babur, Akbar il Grande (1556-1605), che riuscì a

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imporre il suo controllo su tutta l’India settentrionale e in seguito estese i suoi
domini. Una delle cause della fragilità dell’impero era la sua eterogeneità: vi
convivevano infatti popolazioni di etnie di lingue diverse. Ma il fattore principale di
divisione era la religione. La maggioranza della popolazione era legata all’insieme di
credenze, di pratiche religiose, di regole sociali e di usi e costumi risalenti in origine
all’antica letteratura dei Veda, che gli inglesi del XIX secolo designarono con il nome
di induismo. La religione induista non ebbe un fondatore e non formò una chiesa, è
un modo di concepire la vita secondo l’ordine del cosmo e i principi universali che lo
animano. Parte essenziale di questo ordine è la divisione della società in quattro
classi: i sacerdoti, i guerrieri o governanti, gli artigiani e mercanti, gli addetti ai lavori
servili; al di sotto delle caste vi erano gli impuri o intoccabili ai quali erano riservati
compiti umili e degradanti. Circa un quarto della popolazione aderiva invece all’Islam;
e di fede musulmana era anche la dinastia straniera imperiale. Nel periodo che
consideriamo si formò inoltre una nuova corrente religiosa, il movimento sikh, che
condivideva molti motivi della tradizione induista, ad esempio la credenza nella
reincarnazione, ma rifiutava il sistema delle caste e soprattutto intendeva unire indù
e musulmani nella fede in un Dio unico, del quale non si doveva dare alcuna
rappresentazione materiale. Infine, con l’arrivo degli europei iniziò anche una limitata
penetrazione del cristianesimo. Akbar cercò di superare queste divisioni
promuovendo una riforma religiosa e sociale che sancisse la parificazione di
musulmani e indù. Egli a tal fine abolì la tassa prescritta dal Corano per i non
musulmani. Inoltre, praticò una larga tolleranza, operando anche una limitata
apertura nei confronti dei gesuiti.

L’impero Moghul costruì nel tempo una struttura amministrativa solida, che consentì
ai sovrani un efficace controllo sulle varie regioni dello Stato. A tal fine era centrale la
figura che rappresentava il comandante militare e il capo amministrativo della
circoscrizione a lui affidata. Egli aveva competenza sulle questioni militari e sulla vita
economica del territorio, e doveva garantire il rispetto della legge e il mantenimento
dell’ordine pubblico. L’economia dell’impero si fondava su un’agricoltura di
sussistenza, generalmente arretrata. La sua scomparsa segnò l’inizio della crisi. Nel
1739 Nadir invase l’India e occupò Delhi. Finì così l’impero Moghul.

8.6 L’America precolombiana

Agli inizi del XVI secolo, quando arrivarono gli spagnoli, in America esistevano civiltà
millenarie che avevano sviluppato forme di organizzazione politica, economica e
sociale di livello assai elevato: in particolare gli Aztechi e i Maya nel Messico e
nell’America centrale, e gli Inca nella regione andina. La base dell’economia era
l’agricoltura (mais, patata, pomodori, fagioli, peperoni e zucche). L’allevamento del
bestiame non era molto praticato. Nella zona andina molto importanti erano i lama,
usati come bestie da soma, l’alpaca per la lana. Fra gli animali domestici erano
conosciuti solo il tacchino, l’anatra e il porcellino d’India. L’artigianato produceva
ceramiche artistiche, tessuti preziosi e monili in oro, argento e rame. Queste civiltà,
fermi all’età della pietra, non conoscevano il ferro e non utilizzavano la ruota, ma
costruirono grandi opere pubbliche (canali di irrigazione, strade) e splendide città con
imponenti complessi monumentali dedicati alle cerimonie e al culto.

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Spicca fra tutte per la sua raffinatezza sul piano culturale, architettonico e artistico la
civiltà dei Maya. Questo popolo conosceva la scrittura e usava un sistema di
numerazione che implicava il concetto dello zero. In Maya accumularono un gran
numero di osservazioni astronomiche, calcolarono con grande precisione i cicli della
luna, di Venere e di altri pianeti, e predisposero tabelle che consentivano di
prevedere l’eclissi. Quando giunsero gli spagnoli i Maya erano in una fase di declino in
quanto, frantumatasi l’unità politica, erano divisi in una molteplicità di Stati minori.

Gli Aztechi erano una popolazione originaria del Messico settentrionale, proveniente
da una leggendaria terra chiamata Aztlan, da qui il nome di aztechi divenuto di uso
comune nel XIX secolo. Dopo varie migrazioni, nel XIV secolo gli aztechi si erano
stabiliti sull’altopiano centrale fondando il primo nucleo di quella che sarebbe
diventata Città del Messico, la grande capitale del loro impero. Gli aztechi si
espansero fino a controllare tutto il Messico centro-meridionale e estesero il proprio
territorio fino alle coste del Pacifico e dell’Atlantico, penetrando anche nel territorio
dei Maya. Sotto il regno di Montezuma II (1503-1520) l’impero comprendeva almeno
38 province, ma non era uno Stato unitario, bensì una sorta di federazione di popoli
sottomessi; gli aztechi infatti non annettevano i territori conquistati ma lasciavano
loro un’ampia autonomia: si accontentavano di controllare il commercio e di imporre
tributi. Questa situazione fu abilmente sfruttata dagli spagnoli. Gli aztechi usavano
una scrittura pittografica. Non conoscevano la moneta. La società era articolata in
classi, secondo una rigida gerarchia sociale. Al vertice c’erano il sovrano e la nobiltà,
formata dalle antiche aristocrazie tribali e da uomini nobilitati per meriti di guerra .
Questa nobiltà aveva vari privilegi: non pagavano tributi e poteva possedere terreni. I
mercanti di oggetti di lusso e gli artigiani, riuniti in corporazioni, avevano una
condizione privilegiata; vi erano infine i contadini, ai quali la comunità, formata da
clan che si richiamavano a una comune discendenza, assegnava la terra da coltivare.
Vi erano poi gli schiavi (prigionieri di guerra o colpevoli di delitti), utilizzati come
domestici ma non del tutto privi di diritti. Gli aztechi avevano un gran numero di
divinità, anche perché adottavano quelle dei popoli sottomessi. Essi credevano in un
ordine cosmico al quale gli stessi dei erano sottomessi. I loro dei erano
personificazioni delle forze della natura (sole, pioggia, vento, ecc.), dalle quali
dipendevano la prosperità e la rovina della società. I sacrifici umani, che ogni anno
immolavano un gran numero di vittime, anche bambini, talora con pratiche
particolarmente crudeli, miravano ad alimentare e rinvigorire con il dono del sangue
umano gli dei nella loro lotta contro le forze ostili. Poiché i prigionieri di guerra erano
l’offerta più pregiata per il Dio, gli aztechi combattevano anche per procurarsi vittime
sacrificali.

L’impero Inca era il più potente dell’America precolombiana . La parola “inca” era il
titolo dato al sovrano della città-Stato di Cuzco, situata a 3500 metri di altezza nel
Perù meridionale, nucleo originario dell’impero. In seguito, è passata a designare
l’impero e la sua popolazione. L’espansione degli Inca si realizzò nel corso del XV
secolo quando con varie spedizioni sottomisero la regione andina spingendosi fino
all’Ecuador; quindi occuparono l’attuale Bolivia e penetrarono in Cile e nell’Argentina
settentrionale. Alla morte del sovrano Càpac nel 1527, si aprì una lotta per la
successione fra i due figli che si risolse con la vittoria di Atahualpa. Gli spagnoli
arrivarono proprio mentre era in atto questa guerra civile. A differenza degli aztechi,

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gli Inca crearono un impero centralizzato grazie a un solido apparato burocratico. Il
sovrano, che era ritenuto di natura divina in quanto discendente diretto del Dio del
sole, guidava dal centro l’impero con un ristretto gruppo di consiglieri. Le province
erano rette da governatori che amministravano la giustizia. In sede locale erano i
capitribù a garantire l’esecuzione delle direttive. Gli Inca non usavano la scrittura.
Nelle cerimonie religiose degli Inca i sacrifici umani ebbero un rilievo molto minore
che presso gli aztechi.

CAPITOLO 9
UMANESIMO E RINASCIMENTO

Sviluppatosi dapprima in Italia fra Trecento e Quattrocento, il movimento umanistico


perseguì un programma di radicale rinnovamento culturale ed educativo incentrato
sulla rinascita dei grandi modelli dell’antichità classica, nella convinzione che ciò
avrebbe avviato una nuova età di progresso dopo il lungo periodo di barbarie e di
ignoranza seguito alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Gli umanisti
ammirarono le grandi opere della cultura greca e latina perché ritrovavano in esse il
nuovo modello di formazione dell’uomo al quale intendevano ispirarsi. Per questo
motivo gli studi classici furono definiti, con espressione risalente a Cicerone, studia
humanitatis. Da questa formula derivò il termine latino humanista, che fu usato
correntemente nel corso del Cinquecento per designare appunto colui che,
ispirandosi alla lezione dei grandi maestri della cultura classica, si dedicava allo studio
e all’insegnamento delle discipline umanistiche, letteratura, grammatica e retorica.
Gli stessi umanisti individuarono le origini della nuova cultura nell’opera di Francesco
Petrarca (1304-1374), il primo a usare il termine media aetas dal quale sarebbe
derivata la periodizzazione dell’età moderna. L’umanesimo si sviluppò in particolare
nelle città dell’Italia centro-settentrionale. Fu l’espressione delle aspirazioni e della
visione del mondo di quei ceti emergenti che animarono la civiltà comunale : cadde
allora il monopolio della cultura detenuto dall’autorità ecclesiastica e si affermò una
nuova classe intellettuale di formazione laica, inserita nel tessuto sociale urbano e
desiderosa di mettere il suo sapere al servizio della vita civile. I destinatari della
nuova cultura furono dunque uomini di palazzo, segretari e funzionari delle
magistrature italiane, maestri, esperti di diritto, notai, professionisti, uomini del
mondo del commercio e degli affari. L’umanesimo mise a disposizione di questi
gruppi un patrimonio di conoscenze che fornì loro quella consapevolezza culturale
per porsi come nuova classe dirigente. Vi fu quindi al centro del pensiero umanistico
l’idea che l’uomo di lettere dovesse partecipare attivamente alla vita politica della sua
città. Si è parlato perciò di umanesimo civile, soprattutto in relazione a Firenze, vera
capitale del movimento umanistico.

La crisi delle libertà comunali modificò il quadro nel quale si era affermato il primo
umanesimo: nelle nuove condizioni politiche gli umanisti furono chiamati a illustrare
con le loro opere la figura dei signori o dei principi e a formare i quadri dell’apparato
burocratico-amministrativo dei nuovi regimi. Letterati e artisti iniziarono a trovare
protezione e sostegno economico dalle grandi famiglie principesche, i Gonzaga a
Mantova, gli Este a Ferrara, i Montefeltro a Urbino. Mutò così anche l’immagine
dell’umanista. Se alla metà del Quattrocento Leon Battista Alberti, grande architetto
e raffinato letterato, aveva posto come ideale della cultura umanistica la formazione

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di un uomo integrale, scienziato, artista, tecnico e al tempo stesso partecipe della vita
politica cittadina, ben diversa è l’immagine ideata da Baldassar Castiglione (1528):
l’intellettuale, inserito nella società di corte è un uomo di mondo, attento alle belle
maniere, maestro nell’arte della dissimulazione, pronto a celebrare i fasti del principe
e del mondo aristocratico che lo circonda. In questa evoluzione vi era anche il germe
della crisi del sapere umanistico, che perse progressivamente il fecondo impatto
rinnovatore delle origini e perseguì sempre più una vuota eleganza formale.

Nel frattempo, la cultura umanistica si era progressivamente staccata dalle sue radici
italiane e si era trasformata nel corso del Quattrocento, attraverso la circolazione
degli uomini e delle idee, in un fenomeno europeo. Il metodo critico e storico che
essa impose nello studio del mondo antico divenne patrimonio comune di tutta la
cultura dell’epoca, intrecciandosi con le inquietudini provocate dalle radicali
trasformazioni politiche e religiose che caratterizzarono il passaggio dal Quattrocento
al Cinquecento. Fra gli intellettuali europei che ispirarono la loro attività ai canoni
umanistici ricordiamo in particolare Erasmo da Rotterdam.

9.2 La riscoperta della cultura classica

Per realizzare il loro progetto di rinascita degli studi classici, gli umanisti si
dedicarono a una paziente opera di ricerca di manoscritti nei monasteri di tutta
Europa. Ancora più importante fu la riscoperta del greco, ignorato nella cultura
occidentale del medioevo. Alla diffusione della lingua greca concorsero anche
intellettuali bizantini, riparati in Italia per sottrarsi alla minaccia ottomana. È grazie a
questo movimento che fu recuperato quasi tutto il corpo della letteratura greca che
oggi conosciamo. In particolare, si impose all’attenzione della cultura europea la
filosofia di Platone. In generale, la rinascita della cultura classica promossa
dall’umanesimo favorì un allargamento della circolazione dei testi latini e greci,
dapprima attraverso il moltiplicarsi delle copie manoscritte e poi in misura ancora più
grande grazie alla rapida diffusione della stampa, che permise di predisporre in tempi
molto rapidi un elevato numero di copie di un’opera. La tecnica della stampa a
caratteri mobili, nota dal X secolo in Cina, fu messa a punto a Magonza da un orafo
tedesco, Johann Gutenberg, intorno alla metà del XV secolo. Con questa tecnica fu
realizzata fra il 1454 e il 1455 la Bibbia latina a due colonne detta mazzarina dalla
coppia posseduta dal cardinale Mazzarino, che si considera il primo grande libro a
stampa. Le tipografie si diffusero velocemente in tutta Europa, dando un contributo
decisivo all’allargamento della vita culturale. Fu questa l’età in cui si formarono le
prime biblioteche, la prima delle quali fu proprio quella di Petrarca.

9.3 Continuità o rottura?

A segnare la differenza rispetto alla cultura medievale fu la disciplina nella quale gli
umanisti erano portati, la filologia, vale a dire l’analisi critica e storica del testo.
Questo metodo implicava innanzitutto il ripristino della versione originaria, ripulita
dagli errori, dai travisamenti, dalle deformazioni dei copisti, degli antichi interpreti,
dei commentatori e dei traduttori medievali. Il medioevo si era preoccupato
soprattutto di conciliare lo studio dei classici pagani con i principi del cristianesimo.

9.4 L’arte

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La capacità di lanciare uno sguardo nuovo sulle cose e sulla stessa interiorità
dell’uomo si manifestò dapprima nel mondo dell’arte, a partire da Giotto e poi con
Masaccio, Piero della Francesca e Brunelleschi, per giungere fino ai grandi artisti
dell’età rinascimentale. Nell’età precedente aveva prevalso la dimensione religiosa
per cui anche la produzione artistica doveva essere rivolta al conseguimento della
salvezza dell’anima. Quando si fece strada una nuova sensibilità, si iniziò a
considerare la natura e l’uomo nel loro autentico significato e valore, a prescindere
dal loro coinvolgimento in un disegno divino. Se prima tutte le figure erano poste su
uno stesso piano e le loro dimensioni e la loro disposizione nello spazio erano dettate
da una gerarchia ispirata da criteri di carattere religioso, ora invece l’artista si
riproponeva di ricostruire lo spazio secondo regole matematiche precise. Si affermò
così la tecnica della prospettiva, elaborata da Brunelleschi ed esposta poi nel 1436 da
Leon Battista Alberti.

9.5 La nuova concezione dell’uomo

Dalla rivalutazione della dimensione terrena dell’uomo deriva l’aspirazione a una


società armonica e razionale, motivo ebbe largo spazio anche nelle composizioni
letterarie. Fra queste si segnala in particolare l’opera pubblicata nel 1516 da Thomas
More, Utopia, che descrive la felice situazione sociale dell’isola di Utopia sulla base
del racconto di un marinaio portoghese che l’aveva visionata nel corso dei suoi viaggi.
Presso gli Utopiani non esisteva proprietà privata né denaro, tutti lavorano per sei
ore al giorno e possono impiegare la restante parte del loro tempo in attività
intellettuali, non ci sono guerre e sono tollerate tutte le religioni, accomunate dalla
fede in un Dio buono e provvidente. Insomma, nell’isola si vive un’esistenza
armoniosa, semplice e fondata sulla ragione naturale. L’opera è ispirata allo stato
perfetto descritto da Platone nella Repubblica. Utopia rappresenta come ogni
evidenza la proiezione dell’ideale di vita caro al movimento umanista. Come il nome
dell’isola (cioè luogo che non c’è), tutti i nomi sono derivati dal greco e alludono alla
natura ideale della società descritta.

9.6 La nuova concezione della natura

Molti hanno ritenuto che il germe della modernità vada individuato nella rivoluzione
scientifica che segnò l’affermazione del metodo sperimentale, per cui il vero
momento di discontinuità rispetto all’età medievale andrebbe posto fra la fine del
Cinquecento e l’inizio del Seicento. È infatti, per esempio, nel 1543 che Niccolò
Copernico, astronomo polacco, propose l’ipotesi eliocentrica, che poneva al centro
del cosmo non la Terra ma il sole. Assai diffusa e praticata era all’epoca l’astrologia,
vale a dire lo studio degli influssi che il moto degli astri ha su tutti i movimenti del
mondo terreno, e quindi anche sulle passioni e sui caratteri dell’uomo. Non erano
ancora ben definiti invece i confini fra la chimica e l’alchimia, vale a dire il complesso
di teorie e di pratiche che miravano alla trasmutazione dei metalli in oro o alla
scoperta di sostanze in grado di prolungare la vita. Occorre aspettare il 1687, con i
“Principi matematici di filosofia della natura” di Newton per sancire la definitiva
frattura fra la scienza moderna e le teorie di matrice magico-alchimistiche. D’altra
parte, gli umanisti furono molto interessati ai problemi di ordine scientifico. Essi
riportarono alla luce infatti le opere di matematica, geometria, astronomia, geografia

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e medicina dei principali autori greci (come Euclide e Archimede), rimettendo così in
circolazione idee e problemi che rappresentarono uno stimolo fondamentale per la
discussione critica delle teorie dominanti nelle scuole e nelle università. Il contributo
dell’umanesimo al processo di affermazione del metodo scientifico va individuato
soprattutto nell’esplicito rifiuto del principio di autorità, vale a dire nella volontà di
non accreditare alcuna affermazione o alcun giudizio che non fossero comprovati in
campo letterario dalla critica filologica e storica e, per quanto concerne il mondo
della natura, dalla diretta osservazione dei fenomeni. Un esempio tra tutti è dato
dalle annotazioni nelle quali Leonardo da Vinci negava il valore scientifico delle
dottrine fondate esclusivamente sull’autorità degli antichi maestri, e rivendicava
l’esigenza di verificare ogni teoria sulla base dell’esperienza, vale a dire attraverso
un’analisi diretta della realtà naturale. Nella stessa direzione si mosse Machiavelli,
per cui nel Principe volle esaminare quali potevano essere i modi di governo di un
principe-signore con i sudditi, affermando di voler prescindere da considerazioni di
natura morale e religiosa, ponendo quindi le basi della moderna scienza politica.

9.8 Erasmo da Rotterdam

Il più importante esponente della cultura umanistica, Erasmo da Rotterdam perseguì


l’ideale di un umanesimo cristiano nel quale la rinascita degli studi classici si
coniugava con il ritorno allo spirito evangelico del cristianesimo delle origini. Figlio
illegittimo di un ecclesiastico, fu ordinato sacerdote nel 1492, ma si dedicò per tutta
la vita alla libera attività intellettuale che lo portò a viaggiare per tutta l’Europa.
L’opera di rinnovamento culturale e religioso perseguita da Erasmo si espresse
innanzitutto nel tentativo di applicare il metodo critico della filologia anche alle sacre
scritture. Proprio in nome della critica filologica Erasmo affermò di non accettare
l’autorità degli antichi e degli stessi padri della Chiesa, e rivendicò il diritto della libera
ricerca intellettuale di procedere nei suoi studi senza incontrare ostacoli o limitazioni.
Erasmo portò a compimento il suo progetto dando alle stampe nel 1516 il Novum
instrumentum, che presentava il testo greco del Nuovo Testamento, con una nuova
versione in latino e un apparato di annotazioni critiche. L’opera, pur non priva di
difetti, pose le basi della moderna critica biblica.

Erasmo si fece fautore di un ritorno alle origini non solo per quanto concerne le
fonti, ma anche nel sentimento religioso, che egli voleva semplice e puro, lontano da
ogni esteriorità, fedele allo spirito evangelico . Nei suoi scritti egli criticò gli eccessi
della devozione, il culto delle reliquie, i digiuni, le veglie, le mortificazioni della carne,
i pellegrinaggi, insomma tutte quelle forme di religiosità esteriore che riteneva
estranee al vero spirito del cristianesimo. Il suo ideale di vita cristiana si trova
espresso con particolare efficacia nel testo “Elogio della follia”, pubblicata nel 1511
in Inghilterra. Erasmo, per bocca della follia, intesa come insensatezza e non nel
senso di malattia mentale, paragona la vita a una rappresentazione nella quale
ognuno degli attori porta una maschera. Che succederebbe se qualcuno rompesse la
finzione per mostrare gli attori con le loro facce vere e naturali? Tutta l’efficacia del
dramma sarebbe distrutta proprio perché è la finzione a tenere legati gli spettatori.
Nella seconda parte l’opera sviluppa una satira nei confronti di tutti i protagonisti
della vita culturale e sociale: re, nobili, grammatici, poeti, filosofi, teologi, uomini di
Chiesa, tutti ostentano una falsa sapienza che in realtà è follia . Folli i principi a

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distruggere con continue guerre ricchezze e vite umane. Folli i teologi che
pretendono di svelare con infinite sottigliezze i misteri della fede e sono pronti a
bollare come eretici coloro che non si adeguano alle loro tesi. Folli ancora vescovi,
cardinali e papi, più attratti dai beni mondani che da quelli spirituali dei quali
dovrebbero essere gli amministratori. Ma la parte più interessante è quella
conclusiva, nella quale Erasmo propone un parallelo fra il platonismo e il
cristianesimo, concordi nell’interpretare la realtà sulla base di una contrapposizione
fra anima e corpo, spirito e materia. Nella filosofia di Platone l’anima è prigioniera del
corpo e tende a staccarsene per ricongiungersi al mondo delle idee, dal quale
proviene e del quale conserva un vago ricordo. Analogamente coloro che vivono
sforzandosi di seguire il modello di Cristo disprezzano le cose terrene e gli aspetti
materiali della vita per lasciarsi rapire nella contemplazione delle cose invisibili.
Tuttavia, solo pochi uomini sono capaci di vivere con tanta profondità il messaggio
cristiano e per questo sono derisi e disprezzati come folli della gente comune. Questa
infatti è attratta soprattutto dalle cose visibili, dai beni materiali. Nella distinzione fra i
pochi autentici seguaci di Cristo e la massa ignorante e superstiziosa si manifesta
chiaramente il carattere elitario e aristocratico dell’umanesimo erasmiano . La
prospettiva proposta da Erasmo sarebbe poi stata seguita dalle correnti più radicali
della Riforma protestante. Naturalmente non era questa l’intenzione di Erasmo, non
a caso egli alcuni anni dopo avrebbe confessato che alla luce degli sviluppi successivi
della crisi religiosa certe cose non le avrebbe scritte. Il suo infatti è un cristianesimo
etico: non è importante ciò che si crede, cioè la dottrina e i dogmi, ma come si vive.
Il cristiano solo sforzandosi di seguire l’esempio di Cristo può risorgere a nuova vita: si
vede qui come l’idea della rinascita, centrale nella cultura umanistica, si sia affermata
attraverso il pensiero erasmiano anche nell’ambito del cristianesimo come ritorno
allo spirito delle origini.

CAPITOLO 10
LE SCOPERTE GEOGRAFICHE E GLI IMPERI PORTOGHESE E SPAGNOLO

10.1 Uno sguardo nuovo sul mondo

Alla radice delle grandi scoperte geografiche ci furono innanzitutto esigenze


economiche, in particolare il desiderio di trovare una nuova via per raggiungere le
Indie e controllare il commercio delle spezie. Tuttavia, i grandi viaggi di esplorazione
non possono essere compresi se non si fa riferimento anche al clima affermatosi in
Europa grazie alla cultura umanistica, che concorse a radicare negli uomini colti
dell’Europa la convinzione della sfericità della Terra e stimolarono la riflessione sulle
questioni geografiche e astronomiche.

10.2 L’esplorazione dell’Africa

Fu il Portogallo a dare avvio nel XV secolo ai viaggi di esplorazione della costa


occidentale dell’Africa iniziata nel 1415. Essi raggiunsero il Senegal, la Sierra Leone e
il Golfo di Guinea. Fin dall’inizio un ruolo notevole in queste imprese ebbe la dinastia
di Aviz, che regnava dal 1385: consapevoli delle limitate possibilità di sviluppo
agricolo del Portogallo, i sovrani si appoggiarono sui ceti mercantili favorendo le
attività commerciali e le costruzioni navali. Venne fondato anche un centro di studi

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astronomici, geografici e cartografici per favorire il perfezionamento delle tecniche di
navigazione e per organizzare le spedizioni. In questa prima fase i portoghesi
miravano esclusivamente a controllare i luoghi commerciali dell’Africa atlantica dove
arrivavano oro, avorio e schiavi. Qui i portoghesi stabilirono una serie di scali
commerciali che poi trasformarono in basi fortificate, a protezione dei loro traffici.
Una svolta in tal senso si ebbe quando i portoghesi arrivarono sulla costa del Ghana,
che per le notevoli quantità di metallo che vi si estraevano chiamarono Costa d’oro. I
papi nella metà del 1400 legittimarono queste spedizioni in quanto svolgevano la
missione di diffondere la fede cristiana e concessero perciò ai portoghesi il diritto di
sottomettere i musulmani e i pagani, vietando alle altre potenze di interferire nelle
loro attività commerciali.

10.3 Una nuova via per le Indie

Negli anni seguenti, in particolare per impulso del re Giovanni II (1481-1495), mutò la
natura di questi viaggi. Maturò infatti la convinzione che fosse possibile
circumnavigare l’Africa allo scopo di raggiungere le Indie via mare e acquistare le
spezie direttamente dei produttori senza l’intermediazione veneziana. All’epoca si
riteneva che il continente fosse molto più corto e avesse una forma tondeggiante,
facile quindi da circumnavigare. Per primo tentò l’impresa Bartolomeu Diaz che nel
1487 raggiunse la punta meridionale dell’Africa, chiamata poi Capo di Buona
Speranza.

10.4 L’impresa delle Indie di Cristoforo Colombo

In questi stessi anni chiese udienza al sovrano portoghese il genovese Cristoforo


Colombo (1451-1506) nella speranza di ottenere un finanziamento per l’impresa che
da alcuni anni aveva concepito. Stabilitosi a Lisbona, Colombo si appassionò all’idea
di sfruttare la forma sferica della terra per raggiungere, navigando verso Occidente,
l’Oriente, ovvero il Giappone del quale aveva parlato Marco Polo. In realtà l’impresa
parve praticabile a causa di errori nel calcolo della circonferenza terrestre, ritenuta
molto minore di quella reale. Giovanni II però decise di non finanziare il suo progetto,
in quanto aveva deciso di concentrare i suoi sforzi sul tentativo di circumnavigazione
dell’Africa. Colombo trovò invece un clima favorevole nella Spagna dei re cattolici
impegnati nell’assalto finale al regno di Granada . E proprio nel campo eretto nei
pressi della città che furono firmati il 17 aprile 1492 i termini dell’accordo: Colombo
fu nominato ammiraglio del mare Oceano, viceré e governatore delle terre scoperte
ed ebbe garantito una quota dei proventi dell’impresa. Il finanziamento fu assicurato
in parte dalla corona spagnola, in parte da banchieri amici di Colombo. A bordo di
due caravelle (la Niña e la Pinta) e di un veliero più grande, la Santa Maria, presero il
mare il 3 agosto 1492 dal porto di Palos 120 uomini fra i quali un interprete di arabo,
greco ed ebraico. Dopo un mese, quando secondo i calcoli avrebbero dovuto
raggiungere il Giappone, l’equipaggio cominciò a dare segnali di ammutinamento. Il
12 ottobre fu raggiunta la terra, un’isola delle Bahamas che fu chiamata San
Salvador. In seguito, la spedizione toccò Cuba e Haiti. Avendo fatto naufragio la Santa
Maria, ritornarono due sole navi che giunsero a Lisbona dove Colombo fu ricevuto dal
re Giovanni II. In Spagna Colombo ricevette un’accoglienza trionfale; portò con sé
come trofei della scoperta sette indiani piumati, che portavano pappagalli e oggetti

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d’oro. Dopo la prima spedizione Colombo fece altri tre viaggi: nel 1493-1496, nel
1498-1500 e nel 1502-1504; egli scoprì molte delle isole caraibiche e giunse fino in
Costa Rica, Honduras e Panama, ma solo nel terzo viaggio toccò il continente
americano, in Venezuela. Egli scambiò questi territori per le isole del Giappone e, fino
alla fine, rimase convinto di trovarsi nelle Indie. Apparve ben presto evidente che
dalle terre scoperte si potevano ricavare solo schiavi, non le ricchezze che si era
sperato di trovare. Colombo incontrò molte difficoltà nel far valere la sua autorità e
per questo fu arrestato; quando tornò in Spagna fu liberato ma privato del titolo di
viceré e governatore (1500). Dopo il fallimento del suo ultimo viaggio morì nel 1506.
Subito dopo il ritorno di Colombo, nel maggio 1493, Ferdinando e Isabella ottennero
dal Papa Alessandro VI una bolla che fissava a 100 leghe a ovest delle isole del Capo
Verde una linea immaginaria da nord a sud assegnando alla Spagna come area
esclusiva di esplorazione il mare e le terre situate a ovest di essa. Un anno dopo
Giovanni II negoziò con la Spagna ottenendo uno spostamento della linea di
demarcazione: si trattò di una modifica molto importante per effetto della quale
sarebbe rientrato nell’orbita portoghese il Brasile (allora sconosciuto).

10.5 I viaggi di Giovanni Caboto

L’Inghilterra e la Francia, ispirati dagli spagnoli e dai portoghesi, iniziarono a


promuovere viaggi di esplorazione. Nel 1497 l’italiano Giovanni Caboto, al servizio
del re d’Inghilterra, tentò di raggiungere le Indie attraverso una rotta più
settentrionale, ritenuta più breve di quella seguita da Colombo. Egli raggiunse le
coste dell’America del Nord, convinto anch’egli di essere giunto in Asia, e rivendicò
quelle terre alla sovranità della corona inglese. Anche il re di Francia Francesco I si
interessò ai viaggi di esplorazione e finanziò la spedizione del toscano Giovanni da
Verrazzano che raggiunse nel 1524 la costa dell’America settentrionale.

10.6 L’impero portoghese

Al successo della Spagna si affrettò a rispondere la corona portoghese, portando a


compimento la circumnavigazione dell’Africa. L’impresa fu affidata a Vasco da
Gama, esperto navigatore e soldato. Egli partì nel luglio 1497 con quattro navi e circa
170 uomini fra i quali anche Diaz; superato il capo di Buona Speranza, egli giunse a
Malindi (Kenya), dove ottenne una collaborazione di un esperto pilota arabo che
condusse la flotta fino alla costa indiana, dove giunse nel maggio 1498. I rapporti con
i principi locali non furono facili, ma Gama riuscì a ottenere una certa quantità di
pepe e cannella e fece ritorno a Lisbona, nell’estate del 1499, con due sole navi. Il
compito di consolidare questa rotta fu affidato a Pedro Alvarez Cabral, che partì nel
marzo del 1500 con 13 navi e circa 1600 uomini. La flotta compì una larga deviazione
che la portò in Brasile. Lo sfruttamento economico della nuova terra sarebbe iniziato
solo molto più tardi. Una nave ritornò a Lisbona per portarvi la notizia. Lasciate
queste terre, Cabral giunse sulle coste indiane, a Calicut, dove fondò un emporio ma
dovette fronteggiare l’ostilità dei mercanti arabi e locali. La volontà dei portoghesi di
imporre il proprio predominio nell’Oceano Indiano urtava gli interessi dei mercanti
musulmani e dei sovrani indiani che controllavano i traffici con i porti orientali del
Mediterraneo attraverso il Golfo Persico e il Mar Rosso. Il progetto di dirottare i
traffici attraverso la via del Capo di Buona Speranza fu perseguito con brutale

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violenza. I portoghesi costruirono una serie di fortezze a protezione dei loro empori e
strinsero o imposero con la forza accordi commerciali con i sovrani locali. Per
contrastare questa avanzata, il sultano dello Stato indiano, il sovrano dell’ Egitto e il
sovrano di Calicut, sostenuti dall’impero ottomano, da Venezia e dalla Repubblica di
Ragusa (oggi Dubrovnik) allestirono una flotta ma furono sconfitti dai portoghesi al
largo della costa indiana (1509). In pochi anni i portoghesi occuparono diverse città
chiave lungo la costa indiana e nel Golfo Persico. A partire dal 1543 il Portogallo aprì
una linea di commercio anche con il Giappone e nel 1557, grazie un accordo con
l’impero cinese, fondò una colonia commerciale a Macao. L’impero portoghese
raggiunse così la sua massima estensione: poté quindi imporre un controllo militare
sul libero commercio nell’Oceano Indiano attraverso un sistema di lasciapassare. Nel
Mediterraneo orientale invece il commercio portoghese si aggiunse a quello
veneziano, ma non riuscì a soppiantarlo. Lo “Stato dell’India” fu un impero
commerciale ma non territoriale, anche perché il numero di portoghesi in India non
superò mai i 15.000 individui. Il centro dell’impero era Goa, dove arrivava ogni anno
da Lisbona una flotta composta da navi che portavano mercanzie, soldati ed
ecclesiastici e ritornava con un carico di spezie, di pietre preziose, di sete e tessuti
orientali. Il traffico era regolato e controllato dalla “ Casa da India” di Lisbona, che
riservava una quota dei proventi a favore della corona.

10.7 Mondo nuovo

Nel 1499-1500 e nel 1501-1502 il fiorentino Amerigo Vespucci prese parte a due
spedizioni, la prima organizzata dalla Spagna e la seconda dal Portogallo, che
esplorarono le coste atlantiche dell’America meridionale e comprese che non
dell’Asia si trattava, ma di un nuovo continente. La lettera divulgata a suo nome nel
1503, con il titolo Mundus Novus, rese esplicita questa intuizione, e nel 1507 le nuove
terre presero il nome di America.

10.8 Il viaggio di Magellano

L’idea di aggirare il continente americano da sud fu concepita da un portoghese,


Ferdinando Magellano. Egli si rivolse alla Spagna che, essendo stata battuta dal
Portogallo nella corsa verso i paesi produttori delle spezie, aveva interesse a cercare
una via alternativa a quella aperta da Vasco da Gama. Magellano convinse Carlo V
finanziare la sua impresa. La spedizione partì da Siviglia nel settembre 1519 dopo una
sosta in Brasile, raggiunse nel marzo 1520 la Patagonia dove dovette fermarsi a
passare l’inverno per le cattive condizioni climatiche. Ripreso il viaggio, Magellano
nell’ottobre 1520 trovò lo stretto che da lui avrebbe preso il nome e passo
nell’oceano che egli chiamò Pacifico. Nel marzo 1521 raggiunse un gruppo di isole
che rivendicò al re di Spagna e che si sarebbero chiamate in seguito Filippine. Qui
Magellano rimase ucciso in uno scontro con gli indigeni. Dopo un lungo viaggio
attraverso l’Oceano Indiano e intorno all’Africa tornò in patria nel 1522 una sola nave
con meno di 20 uomini. Il vicentino Antonio Pigafetta, che era tra i superstiti, lasciò
un importante diario del viaggio. Al suo arrivo egli constatò che, nonostante avesse
tenuto diligentemente il conto dei giorni, la data era il 10 luglio 1522 e non il 9 come
aveva calcolato: per la prima volta si osservò che facendo il giro del mondo verso
ovest si perde un giorno, mentre lo si guadagna se si va verso est. Carlo V negli anni

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successivi decise di rinunciare ad utilizzare lo stretto di Magellano, a causa delle
grandi difficoltà della navigazione.

10.9 La conquista

Con il viaggio di Magellano l’era delle grandi esplorazioni era di fatto conclusa: la
cognizione del globo terrestre era ormai acquisita, anche se restavano zone da
esplorare e si ignorava l’esistenza dell’Australia. Cominciò allora l’epoca della
conquista e della colonizzazione delle terre che erano state scoperte . La conquista fu
affidata all’iniziativa individuale: la Spagna non dovette mai inviare truppe nel nuovo
mondo. Gli spagnoli che arrivarono dall’Europa si insediarono in questa prima fase
nelle isole caraibiche, soprattutto Haiti e Cuba . Nel contempo fu avviata
l’esplorazione della terraferma. Nel 1513 gli spagnoli vennero a contatto con i Maya e
cominciarono ad avere notizie dell’esistenza a nord di un vasto e ricchissimo impero.
Iniziò così l’epopea dei conquistadores, avventurieri senza scrupoli, avidi di oro e di
gloria, che fra il 1519 il 1550 distrussero con brutale spietatezza le civiltà
precolombiane assoggettando al dominio della Spagna un immenso territorio.

Il primo fu Hernan Cortez (1485-1547), il quale ricevette l’incarico di verificare la


veridicità delle voci sull’impero azteco e nel febbraio 1519 partì da Cuba circa 500
soldati e sbarcò sulla costa messicana. Egli si diresse verso la capitale degli aztechi,
dove fu ricevuto dal sovrano Montezuma II. Cortez fece prigioniero Montezuma e lo
tenne in ostaggio costringendolo a pagare un ingente riscatto in oro. Cortez si servì
del prestigio di Montezuma per imporre la propria autorità sul popolo. Dopo una
serie di scontri tra gli spagnoli e gli aztechi, la capitale fu conquistata nell’agosto del
1521 e negli anni seguenti tutto il territorio dell’impero fu sottomesso. La capitale fu
distrutta e sulle sue rovine fu edificata Città del Messico.

Simile fu la caduta dell’impero Inca per mano di Francisco Pizarro, il quale nel 1531
partì alla conquista dell’impero Inca. Pizarro incontrò nel novembre 1532 Atahualpa
e, dopo averlo catturato e chiesto un riscatto in oro, lo fece uccidere nel 1533. Nel
novembre dello stesso anno venne conquistata e saccheggiata la capitale Cuzco,
segnando la fine dell’impero.

10.10 La distruzione delle civiltà precolombiane

La storiografia si è a lungo interrogata sulle cause che consentirono a un pugno di


uomini di sottomettere popolazioni infinitamente più numerose. In una prima fase un
impatto notevole ebbe il terrore provocato dalle armature, dai cavalli e dalle armi da
fuoco. Gli spagnoli sfruttarono inoltre con grande abilità l’ostilità verso gli aztechi dei
popoli da loro sottomessi e il conflitto dinastico che aveva diviso gli Inca. Inoltre,
l’elevata mortalità provocata dalle malattie portate dagli europei indebolirono le
capacità delle popolazioni indigene di opporsi alla conquista.

10.11 L’impero spagnolo

Fino alla metà del XVI secolo una schiera di conquistadores partiti alla ricerca di un
paese ricco di oro e di pietre preziose, il mitico El Dorado, assoggettò alla corona
spagnola un territorio immenso che andava dalla California (scoperta da Cortez nel

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1535) e dalla Florida fino al Cile, fatta eccezione per la parte meridionale di
quest’ultimo; a est il limite era segnato dall’impenetrabile foresta amazzonica.
Questo impero fu eretto in “regno delle Indie”: formalmente non si trattava quindi di
una colonia, ma di un regno con lo stesso status degli altri sottoposti alla sovranità
della corona spagnola. Per il governo di quei territori il sovrano fu affiancato a partire
dal 1524 da un Consiglio delle Indie. Il regno dipendeva amministrativamente dalla
corona di Castiglia, e castigliani furono in maggior parte i coloni che vi si recarono. La
struttura amministrativa fu ricalcata sulle istituzioni spagnole: furono creati due
vicereami, la Nuova Spagna e il Perù. L’amministrazione della giustizia fu affidata a
tribunali regi composti da giudici inviati dalla Spagna . La colonizzazione si realizzò
innanzitutto attraverso la fondazione di città. Secondo le stime più attendibili gli
spagnoli emigrati in America nel XVI secolo furono circa 250.000; il limitato numero di
donne impediva una rapida crescita demografica, per cui non molto alto fu il numero
dei creoli, figli di spagnoli nati nel nuovo mondo. Vi erano anche diverse migliaia di
schiavi africani. Nel 1514 la corona spagnola autorizzò i matrimoni misti. Ne risultò
un alto numero di meticci, che divennero la composizione maggioritaria; ma cospicua
fu anche la presenza di mulatti, nati da europei e africani e di zambos i figli di africani
e indios.

10.12 L’economia

L’economia fu caratterizzata soprattutto dallo sviluppo dell’allevamento di pecore,


buoi e cavalli. Minore importanza ebbe invece l’agricoltura (mais, frumento, segale,
l’orzo, il riso e varie piante da frutta). Sulle Ande si introdusse la coltivazione della vite
e dell’olivo. Nelle isole caraibiche si affermò la coltivazione della canna da zucchero,
per la quale fu necessaria l’importazione di schiavi dall’Africa a causa della rapida
estensione della popolazione locale. Mentre le spedizioni portoghesi avevano
conseguito l’obiettivo che si erano posti, la Spagna non riuscì a raggiungere le Indie e
dalla scoperta del continente americano non ricavò all’inizio le grandi ricchezze
promesse da Colombo. La situazione mutò radicalmente quando furono scoperte
miniere di oro e di argento. Le quantità ricavate crebbero notevolmente anche grazie
all’introduzione di nuove tecniche per estrarre il metallo dalla roccia. Per lo
sfruttamento delle miniere furono impiegati migliaia di indios, che furono sottoposti
a condizioni di lavoro durissime. Il trasporto in Europa delle crescenti quantità di oro
e di argento fu organizzato attraverso un sistema di convogli scortati da galeoni. Le
navi spagnole furono esposte sistematicamente agli attacchi dei pirati inglesi, francesi
e olandesi.

È impossibile avere dati attendibili sulla popolazione degli imperi precolombiani. In


ogni caso non vi può essere alcun dubbio sul fatto che avvenne una vera catastrofe
demografica, provocata dal brutale sfruttamento del lavoro degli indios, dalle
violenze perpetrate loro danni e dalle malattie (vaiolo, tifo, morbillo, influenza)
portate dagli europei contro le quali essi non avevano alcuna difesa immunitaria.

10.13 L’evangelizzazione

Fin dalle prime spedizioni portoghesi, queste erano animate dalla volontà di
diffondere la religione cristiana. L’espansione portoghese assunse il carattere di una

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crociata contro l’Islam che stringeva l’Europa cristiana in una morsa fra l’impero
ottomano che avanzava nel Mediterraneo e gli Stati musulmani che occupavano gran
parte dell’Africa settentrionale. Anche nella colonizzazione del continente americano
si riscontra un legame indissolubile fra motivazioni economiche e religiose. I due Stati
iberici infatti improntarono la loro missione religiosa ai principi e ai metodi che
avevano caratterizzato la Reconquista, e quindi propagarono un cristianesimo
animato dallo spirito di crociata, propenso cioè all’uso della forza per ottenere la
conversione al proprio credo. Il papato legittimò il loro diritto di conquista, proprio
in virtù dell’impegno a diffondere la religione di Cristo fra gli indios, e per questo
concesse ai rispettivi sovrani il pieno controllo dell’istituzione ecclesiastica nei
territori occupati o scoperti . L’Inquisizione, istituita nel 1531 in Portogallo sul
modello di quella spagnola, fu estesa nel 1560 anche ai domini asiatici. I re
nominavano i titolari delle diocesi e incameravano la decima dovuta dalle popolazioni
indigene alla Chiesa. Quanto all’evangelizzazione fu molto spesso un mero paravento
per giustificare lo spietato sfruttamento degli indios. Si ricorse spesso a battesimi di
massa. Anche in America l’Inquisizione fu stabilita per verificare la sincerità delle
conversioni.

10.14 L’impatto della scoperta

I progressi nella conoscenza del pianeta posero le basi per un ridimensionamento del
mito dell’antichità classica: i moderni avevano superato le colonne d’Ercole che
segnavano il confine del mondo antico e medievale. Sconvolgente fu l’impatto
culturale per cui la volontà di sopraffazione dei conquistadores impose con brutalità
modelli sociali, religiosi e culturali del vecchio continente. Col tempo però maturò
l’esigenza di una riflessione critica sulle proprie origini. Occorreva infatti spiegare
l’origine di popolazioni che non erano contemplate dalla Bibbia. Ci si interrogò anche
sulla natura degli abitanti del nuovo mondo. Si moltiplicarono le voci di coloro che
difendevano i diritti degli indios, denunciando le violenze dei conquistadores. Anche
l’evangelizzazione iniziò a diventare pacifica. Una posizione molto decisa venne da
Carlo V: nel 1542 egli promulgò le “nuove leggi”, che equiparavano gli indios agli altri
sudditi e prescrivevano che si sarebbe dovuto tenere conto delle loro tradizioni e
delle loro gerarchie interne, riconoscendo ad esempio l’autorità dei capi dei villaggi.
Lasciò scritto al figlio Filippo di proteggere gli indios dagli abusi e dagli eccessi
commessi ai loro danni. Carlo V prescrisse che non si usasse più la parola “conquista”
per indicare i domini della Spagna nel nuovo mondo. In quegli anni si aprirono nuovi
orizzonti culturali che sostenevano la necessità di confrontarsi con gli usi e costumi
dei tanti popoli dei quali era composta l’umanità in modo aperto e scevro da
pregiudizi, per poter comprendere e valorizzare la specifica identità di ciascuno. Era la
premessa di un relativismo culturale che si sarebbe affermato nella coscienza
europea solo molto più tardi, nell’età dei Lumi.

CAPITOLO 11
LA RIFORMA PROTESTANTE

11.1 Le premesse

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Da tempo si desiderava una riforma che ponesse fine alla corruzione della Chiesa. La
crisi dello scisma di Occidente (1378-1417) fu risolta al concilio di Costanza (1414-
1417), con l’elezione di Martino V, ma il ruolo del papato fu messo in discussione
dall’affermazione delle dottrine conciliariste, che proclamarono la superiorità del
concilio rispetto al pontefice. I papi del Quattrocento si impegnarono perciò a
ripristinare la propria autorità attraverso un processo di centralizzazione, che
provocò un diffuso malcontento fra i fedeli. Le critiche al papato non si limitavano a
condannare il lusso e la mondanità della curia; grazie al diffondersi della cultura
umanista, era viva fra i laici ed ecclesiastici il desiderio di un rinnovamento spirituale,
l’aspirazione a una religiosità ispirata al modello evangelico, la volontà di una ripresa
degli studi sulle sacre scritture. Questi orientamenti trovarono come principale punto
di riferimento l’opera di Erasmo, che non a caso fu considerato un anticipatore di
Lutero.

11.2 Lutero

Martin Lutero nacque in Turingia (Germania centro-orientale) nel 1483. Studiava


giurisprudenza all’università quando nel 1505 decise di entrare nel convento degli
eremiti agostiniani della città, dove due anni dopo prese il sacerdozio. La sua
esperienza religiosa fu condizionata da una vera e propria ossessione per il problema
della salvezza: egli concepiva la vita come una lotta contro il demonio, sempre pronto
a tentare l’uomo per trascinarlo nel baratro della perdizione eterna. Si dedicò agli
studi biblici e divenne lettore di teologia all’Università di Wittemberg; e proprio in un
ciclo di lezioni trovò la rivelazione: “il giusto vivrà in virtù della fede”. Si delineava così
il punto fondamentale della dottrina luterana, la giustificazione (= rendere giusti) per
sola fede. Tommaso d’Aquino aveva affermato che la salvezza è opera della grazia
divina, ma aveva anche ritenuto che l’uomo in virtù del libero arbitrio, è capace di
fornire un proprio contributo. La concezione pessimistica dell’uomo indusse Lutero a
negargli qualsiasi ruolo: le opere dell’uomo apparentemente meritevoli (atti di pietà
e di carità, di devozione, penitenze) sono corrotte dal peccato originale. Egli non dà
alcun valore a opere compiute per timore di punizione o per desiderio di
ricompensa. La salvezza è un dono di Dio. L’uomo ha in questo un ruolo
assolutamente passivo: è la grazia divina che, infondendogli la fede, lo rende giusto
e lo chiama alla vita eterna. Non si può sapere però chi sarà salvato, ma qualcuno
sarà chiamato perché è scritto nel Vangelo, che diventava così per Lutero la “buona
novella”, promessa di salvezza. Emergeva allora al centro della riflessione di Lutero la
figura di Cristo, morto sulla croce per redimere l’umanità dal peccato. Era la teologia
della croce. Lutero non pensavo affatto di essersi posto al di fuori della tradizione
ecclesiastica. In fondo aveva solo criticato la teologia scolastica per ricollegarsi alla
patristica (teologia dei Padri della Chiesa). Lo scandalo delle indulgenze lo indusse
però a una presa di posizione che sarebbe divenuta l’atto di inizio della Riforma.

11.3 La questione delle indulgenze

Lo scandalo iniziò nel 1515 quando papa Leone X avviò a una decisa campagna di
vendita delle indulgenze, cioè la possibilità di rimettere i peccati o ridurre le pene a
fronte di un pagamento. L’obiettivo del Papa era quello di finanziare la costruzione
della basilica di San Pietro a Roma. Lutero prese posizione con la redazione in latino

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di 95 tesi che affisse alla porta della cattedrale di Wittemberg il 31 ottobre 1517. La
pratica delle indulgenze si fondava sulla teoria del tesoro dei meriti dei santi, per cui
attraverso la mediazione della Chiesa, per compensare le colpe dei peccatori, in vita o
defunti, si potevano rimettere parzialmente o totalmente le pene da scontare in
Purgatorio con l’offerta di una somma di denaro. I predicatori, pur di ottenere
maggiori introiti, promettevano ai fedeli non solo la remissione delle pene ma anche
il perdono dei peccati, a prescindere da un sincero pentimento, e giunsero ad
affermare che nel momento stesso in cui la moneta tintinnava sul fondo della cassa
l’anima volava dal Purgatorio in Paradiso. Lutero condannava le indulgenze perché
creavano nel cristiano un atteggiamento sbagliato, lo incitavano a intraprendere
una scorciatoia per sfuggire alle proprie colpe; ogni uomo, invece, consapevole della
propria miseria di fronte alla maestà di Dio, doveva innanzitutto maturare un sincero
e profondo pentimento per i propri peccati, e quindi accettare le pene.

11.4 La rottura con Roma

Lutero intendeva solo promuovere una disputa teologica fra dotti, non certo un atto
di ribellione contro Roma. Ma lo scritto, subito tradotto e stampato in tedesco,
suscitò nei suoi confronti un vasto consenso in tutti gli ambienti favorevoli alla
Riforma della Chiesa. Un ruolo decisivo nella diffusione della Riforma ebbe la
stampa: i principi del pensiero di Lutero raggiunsero tutti gli strati della popolazione.
Particolarmente importanti furono le immagini, che proposero in forma immediata e
accessibile a coloro che non sapevano leggere, la contrapposizione fra Lutero,
raffigurato come difensore della Germania oppressa dallo sfruttamento di Roma, e il
Papa presentato come incarnazione di Satana. Negli anni seguenti Lutero elaborò le
basi della sua dottrina che riassunse in tre scritti pubblicati nel corso del 1520 . In
queste opere il riformatore tedesco rifiutava l’autorità del Papa e poneva nella Sacra
scrittura la sola guida della Chiesa di Cristo: la Riforma realizzava sul piano religioso
quel ritorno alle origini che l’umanesimo aveva promosso sul piano linguistico,
culturale e artistico. La parola di Dio era il solo punto di riferimento per il cristiano.
Attraverso i due principi fondamentali della sua dottrina, sola fide e sola scriptura,
Lutero stabiliva un rapporto diretto fra l’individuo e Dio, e abbatteva
l’intermediazione della Chiesa sia nella via verso la salvezza sia nell’interpretazione
della Bibbia. Crollavano così tutto l’apparato istituzionale e tutta la costruzione
teologica della Chiesa. Furono aboliti il monachesimo e il celibato dei preti: lo stesso
Lutero sposò una suora ed ebbe sei figli. Lutero ridusse anche i sacramenti,
riconoscendo solo battesimo ed eucarestia, gli unici comprovati dalla Sacra scrittura .
In base al principio del sacerdozio universale dei credenti, per cui tutti sono fratelli di
Cristo, cadde l’idea di un clero dotato di uno status diverso rispetto ai laici. Spariva
anche il Purgatorio, la cui invenzione risaliva al XII secolo.

La reazione di Roma giunse nel 1520 con una bolla che minacciava la scomunica per
Lutero se non avesse ritrattato le sue dottrine. Per tutta risposta il riformatore
tedesco bruciò sulla pubblica piazza la bolla e il codice di diritto canonico, atto
simbolico di rifiuto dell’intera istituzione ecclesiastica. L’imperatore di Germania, che
dal 1519 era il giovanissimo Carlo V, decise di ascoltare Lutero il 17 aprile 1521. Alla
richiesta di sconfessare gli scritti che aveva pubblicato Lutero restò convinto delle sue
posizioni. Lutero fu quindi condannato come eretico e posto al bando dell’impero. Fu

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il duca di Sassonia a salvarlo e a condurlo in un castello dove rimase nascosto circa un
anno e tradusse la Bibbia in tedesco, opera assai importante per la storia linguistica
della Germania.

11.5 I rivolgimenti in Germania

In quegli anni esplosero nella società tedesca le tensioni causate dal diffondersi della
nuova dottrina. Gli avvenimenti più importanti furono le guerre dei contadini che fra
il 1524 e il 1525 infiammarono la Germania, a partire dalla Svevia. Le rivendicazioni
autonomistiche degli insorti furono sintetizzate in articoli redatti dai contadini di
Svevia nel 1525: riduzione della decima, ripristino delle tradizionali prerogative della
comunità di villaggio usurpate dai signori laici ed ecclesiastici (diritti di caccia e pesca,
taglio della legna, restituzione delle terre), fissazione di canoni e di servizi di lavoro
giusti. Uno degli elementi più interessanti fu la coesione fra gli individui, generata dal
senso di giustizia e di eguaglianza ispirati dal richiamo al Vangelo . La protesta voleva
essere pacifica, ma non mancarono violenze. Lutero prese subito le distanze dalle
rivendicazioni dei contadini ed esortò i principi a utilizzare la violenza contro i ribelli.
Questa reazione era la logica conseguenza delle sue convinzioni: la libertà del
cristiano è solamente interiore, la realtà terrena non deve interessarlo, perché egli
vive nella speranza e nell’attesa di essere accolto nel regno di Cristo. Quindi il
cristiano deve in ogni caso obbedienza al potere politico, poiché è stabilito da Dio
per mantenere l’ordine. A queste posizioni conservatrici si spirò l’organizzazione delle
comunità luterane. La Chiesa luterana divenne una Chiesa di Stato, amministrata da
commissioni composte di ecclesiastici e laici che rispondevano in ultima istanza al
principe territoriale o al governo cittadino.

11.6 La polemica con Erasmo

Erasmo nel 1524 si schierò apertamente contro Lutero. Rispetto ai tanti temi che lo
accostavano al pensiero del riformatore tedesco (il rifiuto degli aspetti esteriori del
culto e il ritorno al cristianesimo evangelico), egli attaccò Lutero proprio nel punto sul
quale l’umanesimo e la Riforma si distinguevano in modo più netto: la concezione
dell’uomo. Al pessimismo luterano Erasmo oppose la convinzione che la libertà di
scelta dell’uomo, sebbene ferita dal peccato, non è stata distrutta. In ogni caso egli
riteneva che, anche se l’uomo avesse un ruolo passivo nella propria salvezza, non
sarebbe stato conveniente informare il popolo. Analogamente egli giudicava utile la
confessione, perché tratteneva molti dal commettere il male . Alle posizioni
aristocratiche ed elitarie di Erasmo, Lutero oppose con efficacia la natura popolare
della Riforma: la parola di Dio è per tutti, non si deve tacere la verità al popolo nel
timore che possa abusarne. Anche in relazione alla confessione la replica di Lutero
risultava particolarmente penetrante: astenersi dal male solo per il timore di doversi
confessare o per paura dell’Inferno non aveva ai suoi occhi alcun valore, serviva a
fare degli ipocriti, non dei veri cristiani. In realtà la prudenza e la moderazione di
Erasmo erano il riflesso del suo disagio di fronte a una realtà nella quale egli non si
riconosceva più. Erasmo si ritraeva intimorito da un mondo lacerato da conflitti
sempre più aspri, che stavano spaccando la cristianità. Per Lutero gli sconvolgimenti
che Erasmo cercava di ridimensionare dimostravano invece che era finalmente rinato
lo spirito di Cristo crocifisso, destinato a creare scandalo ogni volta che fosse ripreso

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nella sua identica sostanza. Erasmo fu accusato sia dai protestanti, per non aver
sostenuto le teorie del suo cristianesimo evangelico, sia dalla Chiesa di Roma, per
aver creato le basi teoriche da cui si svilupparono le teorie di Lutero, tant’è che tutta
la sua opera sarebbe stata poi messa all’Indice dei libri proibiti.

11.7 La Riforma nella Svizzera tedesca: Zwingli

Ulrich Zwingli fu il più importante riformatore della Svizzera tedesca. Cappellano della
cattedrale di Zurigo, egli aveva maturato l’aspirazione a un ripristino della semplicità
evangelica quando, nel 1519, l’esempio di Lutero lo spinse a mettersi sulla via della
Riforma. Grazie al sostegno del Consiglio civico, il gruppo che comandava la città,
Zwingli poté smantellare l’edificio della Chiesa cattolica e stabilire in città il culto
riformato. Tutti i principali aspetti della sua azione riformatrice si ricollegavano
all’umanesimo di impronta erasmiana. Il razionalismo umanistico lo portò a negare
ogni presenza reale nell’eucarestia (transustanziazione), che egli concepì come una
semplice commemorazione o ricordo dell’ultima cena, valida come segno di
appartenenza alla comunità: il miracolo è avvenuto nell’ultima cena, ma non si
sarebbe più ripetuto. Da Zurigo la riforma si diffuse in molte città della Svizzera e ciò
generò un conflitto con i cantoni cattolici. Durante uno di questi conflitti, nel 1531
perse la vita lo stesso Zwingli.

11.8 Calvino

Calvino nacque in Francia nel 1509. Il giovane ebbe una solida formazione umanistica
che lo portarono ad aderire ai principi della Riforma. Nel 1534 fu costretto a lasciare
la Francia per sfuggire alle persecuzioni lanciate contro gli eretici da Francesco I.
Calvino si trasferì prima a Basilea, dove nel 1536 pubblicò la sua opera, poi in Italia,
alla corte di Ferrara, quindi a Ginevra dove provò a consolidare l’adesione della città
alla Riforma. Ginevra infatti mirava a sottrarsi, con l’aiuto di Berna, al controllo del
vescovo, signore feudale della città che, sostenuto dei duchi di Savoia, tendeva a
imporre la propria autorità sulle magistrature comunali. Le resistenze del governo
cittadino lo portarono a essere esiliato nel 1538, ma già qualche anno dopo nel 1541
lo richiamarono in città. L’oligarchia patrizia si era resa conto che fosse indispensabile
ricorrere alla sua guida spirituale e alle sue capacità di organizzatore per contrastare
le mire egemoniche di Berna. Da questo momento e fino alla morte nel 1564, l’azione
riformatrice di Calvino si identificò con la città, che egli intese trasformare in una
nuova Gerusalemme.

11.9 La dottrina di Calvino

Il pensiero di Calvino è incentrato sul principio dell’ onnipotenza di Dio, sovrano


assoluto di tutto il creato, che egli governa nella sua infinita sapienza secondo i suoi
imperscrutabili disegni. Da queste premesse deriva la dottrina della doppia
predestinazione. Secondo tale teoria Dio crea solo pochi preordinati alla salvezza
mentre destina la maggior parte dell’umanità alla perdizione eterna. I decreti divini
sono sottratti alla capacità di comprensione dell’uomo, e sono perciò insindacabili e
indiscutibili. L’elezione è un atto di misericordia, per il quale i prescelti non possono
vantare alcun merito; per contro, i dannati non hanno alcun diritto di lamentarsi della
loro sorte. Questa concezione assai dura divenne per il calvinista una potente fonte di

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energia positiva, purché egli avesse la forza di lasciarsi alle spalle il pensiero della
propria salvezza individuale per sottomettersi al volere divino. La grazia divina per
Calvino obbliga il cristiano a vivere nella fiducia che Dio lo abbia scelto, impegnando
ogni attimo della sua esistenza per celebrare nel mondo la sua gloria. Calvino
riprende l’idea di Lutero della Chiesa invisibile degli eletti, composta cioè da quanti
sono stati destinati da Dio alla salvezza ; nessuno poteva essere certo di far parte di
questa Chiesa perché la sua composizione era nei disegni imperscrutabili di Dio. Vi
sono però dei segni presuntivi che possono far pensare, pur senza certezza, di
essere tra gli eletti: l’adesione alla Chiesa, quindi il condurre una vita morigerata, e
infine l’attuazione della vocazione (beruf) che Dio ha assegnato a ciascuno nel
mondo. Per quanto concerne il primo punto, fondamentale il ruolo dei sacramenti, e
in particolare dell’eucarestia, rispetto alla quale Calvino negava la presenza reale del
Corpo e del Sangue di Cristo (transustanziazione) ma rappresentava il momento
essenziale di comunione spirituale con Dio. Un rilievo centrale nella teologia di
Calvino aveva il concetto di vocazione: Dio ha stabilito per ciascuno il dovere da
compiere sicché il cristiano che adempie nella sua vita i disegni divini trova una
grande consolazione e conferisce a ogni atto, per quanto piccolo e apparentemente
insignificante, un valore religioso, di testimonianza della gloria di Dio. Era questa la
matrice del tipico attivismo delle comunità calviniste. A differenza di Lutero, che
non aveva mai dato grande importanza alla realtà terrena, Calvino riteneva invece
che il corso della storia fosse governato dalla Provvidenza divina. La Chiesa calvinista
si poneva come una Chiesa militante, impegnata ad agire nel quadro della storia,
come un nuovo Israele, per la realizzazione dei disegni divini. Una chiesa fedele ai
dettami evangelici, formata dei pochi eletti che si mettevano al suo servizio come
soldati di Cristo.

11.10 L’etica protestante e lo spirito del capitalismo

Nel saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo pubblicato nel 1904-1905 il
sociologo tedesco Marx Weber affermò che il concetto di vocazione, inducendo il
calvinista a interpretare i profitti conseguiti nella sua attività come una prova del
favore divino, avrebbe contribuito al sorgere della mentalità capitalistica. In effetti
Calvino considerò lecito il prestito con tassi di interesse. Si deve ricordare che anche
il tempo, considerato sacro in quanto dono di Dio, assunse un valore diverso: il suo
impiego da parte degli individui dell’intera collettività fu regolato in misura rigorosa;
era una forma di regolamentazione della vita quotidiana che aveva un evidente
impatto sull’attività lavorativa. Tuttavia, non ci sono negli scritti di Calvino indizi
significativi per poter interpretare in chiave economica il suo concetto di vocazione.
La tesi di Weber deve essere considerata sul piano sociologico, non su quello storico:
egli, esaminando la realtà della società calvinista e nei secoli successivi al
Cinquecento, individuò un modello tipico di mercante che considerava il suo
guadagno come una benedizione divina e quindi, vivendo in modo estremamente
frugale e austero, lo utilizzava o per reinvestirlo nella sua impresa o a soccorso dei
poveri.

11.11 Ginevra città di Dio

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Nel 1541 Calvino gettò le basi della struttura della sua Chiesa. Secondo il modello del
Nuovo Testamento, egli istituì quattro ordini: i pastori o ministri, responsabili del
culto e della predicazione; i dottori, ai quali era affidata l’educazione e la difesa
dell’ortodossia; i diaconi, che si occupavano dell’assistenza ai malati; e 12 anziani
laici (presbiteri) scelti dal Consiglio cittadino fra i suoi membri con il compito di
vigilare sulla vita cristiana dei cittadini nei 12 distretti nei quali era divisa la città . Gli
anziani e i pastori formavano insieme il Concistoro, che esercitava un controllo su
ogni aspetto della vita morale e sociale e poteva combinare pene di natura
ecclesiastica (ammonizione, scomunica) e sottoporre i casi più gravi, che prevedevano
l’espulsione o la condanna capitale, all’autorità civile. Diversamente da Lutero,
Calvino garantì l’indipendenza della Chiesa dallo Stato, che non poteva intromettersi
nella vita della comunità riformata (no teocrazia). A Ginevra il potere politico e quello
religioso rimasero distinti. Il governo fu sempre nelle mani del Consiglio, espressione
del patriziato, e solo nel 1555 i sostenitori della riforma disposero della maggioranza
al suo interno. Lo stesso Calvino nel 1559 ottenne lo status di borghese che gli dava il
diritto di votare nelle elezioni delle magistrature cittadine. Tuttavia, egli, attraverso gli
organi della sua Chiesa, impose una rigorosa disciplina, che tese a trasformare la città
in una Repubblica di santi: fu proibito il gioco con le carte, furono vietati i nomi di
battesimo non presenti nella Bibbia, furono puniti i balli immorali, gli abbigliamenti
lussuosi o eccentrici. Lo Stato era responsabile, nella prospettiva calvinista, della
realizzazione di questo progetto di rigenerazione cristiana. La legge della Bibbia fu
posta a fondamento di tutta la vita non solo religiosa, ma anche politica, sociale ed
economica della città (bibliocrazia). Calvino attribuiva al potere politico il dovere di
ispirare le sue azioni alla parola di Dio. Non mancarono polemiche e contrasti con le
autorità cittadine: molti ambienti manifestarono malumore e anche aperta ostilità nei
confronti dell’austero modello di vita imposto dal riformatore. Eppure, l’azione
riformatrice di Calvino si legò in modo indissolubile alla città di Ginevra, ponendosi
come la principale garante della sua autonomia: Ginevra, che solo nel 1815 sarebbe
entrata a far parte della confederazione elvetica, grazie l’adesione alla Riforma si
costituì in Repubblica indipendente.

11.13 Geografia della Riforma

La diffusione del luteranesimo in Germania fu favorita dal fatto che esso dava la
possibilità ai principi di confiscare le ingenti proprietà della Chiesa . La guerra dei
contadini segnò un’involuzione conservatrice nell’organizzazione della Chiesa
luterana, un arresto della sua espansione in Germania per il timore di rivolgimenti
sociali che si diffuse nella nobiltà e nella borghesia cittadina. Dopo il 1525 il
cattolicesimo riguadagnò varie zone toccate dalla Riforma, soprattutto in buona parte
della Germania meridionale. Convinto che la corona imperiale gli assegnasse la
missione universale di ripristinare l’unità della cristianità, Carlo V si impegnò con ogni
mezzo per superare la divisione religiosa della Germania, che rappresentava un
oggettivo fattore di indebolimento della sua azione politica. Dopo aver sconfitto la
Francia e ottenuto il controllo dell’Italia, egli minacciò di rimettere in vigore gli editti
contro il luteranesimo approvati alla Dieta di Worms (1521). Contro questo disegno si
alzò la protesta di diversi principi e città che avevano aderito alla Riforma. Entrò in
uso allora il nome di protestanti per i seguaci delle nuove dottrine. I principi luterani

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rifiutarono l’invito di Carlo V a sottomettersi e si unirono nel 1531 nella Lega di
Smalcalda, guidata dai duchi di Sassonia.

Il luteranesimo si diffuse anche nell’Europa settentrionale, sotto l’egemonia danese


che comprendeva i regni di Danimarca, Norvegia e Svezia (l’unione di Kalmar). Il
passaggio alla Riforma fu dovuto in origine da motivazioni soprattutto politiche,
legate alla volontà dei sovrani di incamerare i beni della Chiesa e di controllare le
nomine ecclesiastiche.

Esauritasi l’espansione del luteranesimo, il movimento più diffuso della Riforma


divenne il calvinismo in virtù dell’attivismo che era connaturato alla concezione stessa
della Chiesa del suo fondatore. In Germania i calvinisti venivano detti riformati. Le
chiese riformate si diffusero in Francia, dove i loro adepti furono chiamati ugonotti e
furono protagonisti delle guerre di religione che dilaniarono il regno nella seconda
metà del Cinquecento, e nei Paesi Bassi, dove animarono la lotta contro il predominio
spagnolo. Una notevole penetrazione del calvinismo si ebbe anche in Ungheria, in
Polonia in Boemia. Il calvinismo penetrò in Inghilterra e si impose in Scozia come
religione nazionale.

11.14 La nascita della Chiesa anglicana

Anche in Inghilterra il distacco dalla Chiesa di Roma fu originato da cause


esclusivamente politiche. Nel 1534 Enrico VIII si attribuì il titolo di capo supremo della
Chiesa anglicana. Sotto il suo regno le uniche novità significative furono la
sospensione dei conventi e l’introduzione della Bibbia in volgare. Solo in seguito la
Chiesa anglicana si aprì all’influenza delle dottrine protestanti. Nella seconda metà
del Cinquecento, sotto il lungo regno di Elisabetta I, si sviluppò una corrente ispirata
alla tradizione calvinista che per il suo rigoroso moralismo fu chiamata puritanesimo.
Essa ebbe un ruolo molto importante nelle vicende dell’Inghilterra nel XVII secolo.

11.15 La Riforma radicale

Con il nome di Riforma radicale, divenuto di uso corrente nella storiografia nel 1962,
si designa un insieme di gruppi, di sette, di esperienze individuali che portarono alle
estreme conseguenze il principio di un ripristino del cristianesimo evangelico. La
Riforma radicale si presenta come un universo estremamente diversificato, nel quale
è molto difficile individuare criteri per definire con esattezza le varie posizioni.

L’anabattismo

Il primo tema sul quale si realizzò un primo importante distacco dalle chiese fu il
battesimo, che in base agli esempi presenti nella Bibbia avrebbe dovuto essere
praticato non ai fanciulli ma agli adulti. I gruppi che seguirono questa indicazione
furono chiamati anabattisti, cioè ribattezzatori, termine improprio perché per loro
non si trattava di una ripetizione del battesimo in quanto ritenevano non valido
quello praticato ai bambini. La questione era molto delicata, perché implicava il
problema dell’assetto della comunità. Quest’ultima attraverso il battesimo dei
fanciulli trasmette di generazione in generazione la fede comune e quindi si radica in
un territorio, fino a identificarsi con l’intera società: si ha in questo caso una Chiesa.

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Il battesimo da adulti è invece il punto di arrivo di un processo di rigenerazione
interiore: il cristiano in tal caso entra volontariamente a far parte della comunità . Si
forma così una setta, un gruppo di pochi individui che insieme aspirano alla
perfezione della vita cristiana. La condotta morale era il principale requisito per
essere accolto in queste comunità, mentre minore importanza si dava alle questioni
dottrinali. Era un cristianesimo etico, in linea con quello vagheggiato da Erasmo, che
si traduceva in una vita austera, caratterizzata da sobrietà nel mangiare e nel bere,
mitezza, umiltà, onestà, rettitudine. Essi tendevano a far coincidere la Chiesa visibile
e quella invisibile, ponendosi in terra come il nuovo popolo di Dio, prefigurazione del
regno di Cristo. Ciò li portava naturalmente a una radicale separazione dalla società,
che si consideravano il regno di Satana: gli anabattisti non assumevano cariche
pubbliche, non giuravano e rifiutavano l’uso della forza. Questa infatti è praticata
dallo Stato, istituito da Dio per punire i peccatori, ma è rifiutata dalla Chiesa dei santi,
nella quale vige la mitezza di Cristo ed è prevista come sola punizione l’esclusione
dalla comunità. L’ideale di un ripristino del cristianesimo apostolico fu inteso da loro
in forma integrale: riviveva in questi gruppi lo spirito delle prime comunità cristiane,
perseguite dalle autorità e costrette a professare la loro fede in clandestinità. Sugli
anabattisti, che non poterono contare sulla protezione di un principe o di un governo
cittadino, si abbatté una spietata repressione che essi subirono con rassegnazione.
Molti videro nel martirio la suprema testimonianza della loro santità. L’ostilità nei
loro confronti fu motivata anche dalle istanze di rinnovamento sociale di cui essi si
fecero portatori, esprimendo il malessere dei ceti più poveri e l’aspirazione a una
società più giusta. L’anabattismo si diffuse rapidamente in Svizzera, in Germania,
nelle città di Strasburgo e di Augusta, in Austria e nel Tirolo, in Boemia, Slovenia, nei
Paesi Bassi e anche in Italia (in particolare nel Veneto). Esso si radicò nei ceti popolari,
soprattutto urbani, ma annoverò tra le sue fila anche intellettuali, ecclesiastici,
mercanti e professionisti.

Altre esperienze legate all’anabattismo sono il millenarismo, vale a dire l’attesa


dell’avvento imminente in terra, prima del giudizio universale, del regno di Cristo
riservato ai soli giusti e destinato a durare mille anni; e il profetismo, cioè l’attività di
singole persone ritenute capaci di interpretare e comunicare agli altri la volontà di
Dio.

CAPITOLO 12
LE “HORRIBILI” GUERRE D’ITALIA (1494-1530)

12.1 La penisola italiana nel XV secolo

Dopo la pace di Lodi del 1454 il quadro politico della penisola italiana rimase
incentrato per un cinquantennio sull’equilibrio stabilito se fra i cinque maggiori Stati:
il regno di Napoli, lo Stato della Chiesa, il Ducato di Milano, la Repubblica di Firenze e
la Repubblica di Venezia.

12.1.1 Il regno di Napoli

Il regno di Napoli, che il papato considerava un proprio feudo, era passato nel 1458 a
Ferdinando I di Aragona (1458-1494), che reggeva lo Stato aragonese in Spagna. I

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tentativi di Ferdinando di rafforzare l’apparato amministrativo e finanziario si
scontravano con l’opposizione dei baroni.

12.1.2 Lo Stato della Chiesa

Nel centro Italia c’era lo Stato della Chiesa, che possedeva anche Benevento,
Pontecorvo nel regno napoletano e, in Francia, Avignone. Rientrati a Roma nel 1420
dopo la fine dello scisma d’Occidente, i papi si impegnarono a ripristinare il proprio
dominio temporale sia nella capitale, dove il loro potere era condizionato dalle
famiglie dell’aristocrazia romana, sia nel territorio dello Stato, dove molti territori
importanti (Marche e Romagna) erano di fatto autonomi . Obiettivo della politica
pontificia fu mantenere un equilibrio politico fra gli Stati italiani e più in generale a
livello europeo, in modo che il Papa potesse svolgere una funzione di mediazione e
avere libertà d’azione per consolidare il proprio potere. Per questo motivo Roma
ostacolò sistematicamente gli Stati italiani più forti e poi, nella lotta fra le potenze
europee per la supremazia in Europa, si impegnò per scongiurare un assoluto
predominio dell’uno o dell’altro. In questa fase il pontificato era elettivo di
conseguenza molti papi si sforzarono di dare continuità al potere familiare
nominando cardinali propri familiari, soprattutto nipoti (i cardinal nipoti), in modo
tale da inserire nel collegio cardinalizio uomini di loro fiducia. A questo nepotismo si
affiancò il cosiddetto “grande nepotismo”, vale a dire il tentativo di alcuni papi di
creare uno stato autonomo da affidare a qualcuno dei membri della propria casata.

12.1.3 Sviluppi della civiltà comunale

All’inizio dell’età moderna si assiste in larga parte dell’Italia centro-settentrionale ad


un processo di superamento degli ordinamenti comunali che si erano affermati fino
al XII secolo. Un passo verso il superamento dell’instabilità dei comuni fu l’esclusione
delle classi popolari dalla partecipazione alla vita politica a favore di oligarchie
composte da famiglie di mercanti e banchieri e da esponenti della nobiltà. Dal XIII
secolo in poi in molte città il controllo effettivo del governo venne assunto di fatto da
un signore, talora straniero, che riuscì poi a trasmetterlo ai suoi eredi, fondando una
vera e propria dinastia. La signoria si trasformava quindi in principato con la
concessione da parte dell’imperatore o del Papa di un titolo di duca, conte o
marchese. Nel contempo si manifestò anche la tendenza al superamento della
frantumazione territoriale, con la formazione di organismi politici più ampi, che
comprendevano diversi borghi e città. Agli inizi del Quattrocento solo poche città
conservavano ancora i loro ordinamenti repubblicani: Genova, Siena e soprattutto
Firenze e Venezia, che si erano affermate come centri di due Stati di dimensione
regionale. Altri Stati avevano invece origini feudali: è il caso dei domini della famiglia
Savoia, che ottenne nel 1416 il titolo ducale. Essa governava un territorio
comprendente, oltre la Savoia, la contea di Nizza, il Ducato di Aosta e il Principato di
Piemonte, non corrispondente all’attuale regione. Si trattava di uno Stato per lingua,
cultura e orientamenti politici più vicini alla Francia che alla penisola.

12.1.4 Il ducato di Milano

Dall’evoluzione dell’esperienza comunale era nato anche lo Stato di Milano, che


comprendeva nove province: Milano, Pavia, Lodi, Cremona, Como, Novara, Tortona,

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Alessandria e Vigevano. Passato a metà del XV secolo da Filippo Maria Visconti, che
aveva ricevuto il titolo di duca dall’imperatore (1395), a Francesco Sforza, importante
condottiero dell’epoca, lo Stato milanese fu la chiave della supremazia in Europa.

12.1.5 La repubblica di Firenze

Anche a Firenze si era manifestata dalla fine del XIV secolo un’evoluzione delle
istituzioni comunali verso un regime oligarchico caratterizzato dal predominio di un
ristretto gruppo di famiglie. In questa fase Firenze portò a compimento la sua
espansione in Toscana occupando Pisa (1406) e Livorno (1421) che le diede uno
sbocco sul mare. Dal 1434 si affermò in città l’egemonia di una famiglia di banchieri, i
Medici, che divenne una signoria de facto grazie all’abile opera di Cosimo il Vecchio
(1434-1464), il quale si garantì il controllo delle magistrature repubblicane
escludendone gli avversari. La sua opera fu proseguita dal nipote, Lorenzo il
Magnifico (1469-1492), grande protagonista della cultura umanistico-rinascimentale.
Alla sua morte la signoria era però lontana dall’essere consolidata, in quanto
permanevano in città nostalgie per il regime repubblicano ed era ancora viva l’ostilità
nei confronti dei Medici.

12.1.6 La repubblica di Venezia

Conservava le forme repubblicane Venezia, che si era data una solida struttura
costituzionale attraverso le riforme realizzate tra la fine del XIII secolo e l’inizio del
XIV secolo. Questi provvedimenti stabilirono che il Maggior consiglio, l’organismo
sovrano della costituzione veneziana sarebbe stato composto da allora in poi dai
maschi adulti (25 anni) delle famiglie che ne facevano parte in quel momento o ne
avevano fatto parte in passato. In pratica queste famiglie, i cui nomi erano registrati
nel libro dell’aristocrazia veneziana, diedero vita a un patriziato, ovvero un ceto di
governo ereditario di fatto chiuso. Il Maggior consiglio, composto nel XVI secolo da
circa 2500 membri, eleggeva fra i suoi membri tutte le principali cariche dello Stato.
Le principali funzioni politiche e giudiziarie erano delegate dal Maggior consiglio a
organi più ristretti come il Senato, nel quale si discutevano i problemi politici e si
prendevano le decisioni più importanti. Tutte le magistrature erano collegiali e
temporanee; unica carica vitalizia era quella del Doge, capo e rappresentante dello
Stato veneziano ma privo di veri poteri. Venezia conquistò nel Quattrocento un
ampio dominio, occupando tutto il Veneto, il Friuli, Brescia, Bergamo e Crema. A
questi territori si aggiungeva l’Istria, la Dalmazia, parte del litorale adriatico, le isole
Ionie, vari stabilimenti in Grecia e le isole di Creta e Cipro. Alla fine del Quattrocento
la Serenissima era al massimo livello di prosperità commerciale, economica e politica,
e rappresentava perciò lo Stato più forte della penisola.

12.2 L’avventura di Carlo VIII

Il precario equilibrio politico della penisola fu rotto quando il re di Francia Carlo VIII
volle far valere i propri diritti sul regno di Napoli, dopo che acquisì il Ducato di Angiò.
Carlo VIII preparò accuratamente l’impresa garantendosi la neutralità della Spagna,
alla quale cedette territori sui Pirenei, e dell’imperatore Massimiliano, al quale diede
la Franca Contea e Artois, antichi domini borgognoni. Il suo tentativo fu incoraggiato
da vari componenti della società italiana che volevano approfittare del suo intervento

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per conseguire i propri obiettivi politici. Fra questi c’era Ludovico Sforza detto il
Moro, che reggeva lo Stato di Milano come tutore del nipote Gian Galeazzo Sforza, e
che voleva ottenere il potere ai danni del nipote. Quando Carlo VIII scese in Italia
(1494) con un forte esercito, fu ricevuto da Ludovico il Moro e poi da Piero dei
Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico. La decisione di quest’ultimo suscitò una forte
opposizione che costrinse Piero a fuggire. Fu ristabilito così il regime repubblicano .
Un ruolo decisivo lo ebbe Girolamo Savonarola, frate domenicano, che aveva
acquisito un grande ascendente in città con le sue prediche apocalittiche nelle quali
denunciava la corruzione e la decadenza della Chiesa, attaccando il Papa. In una delle
sue prediche Savonarola aveva annunciato di aver visto in sogno una spada
sanguinante calare su Roma. Quando l’esercito di Carlo VIII era alle porte di Firenze,
sembrò materializzarsi il sogno di Savonarola, e la popolazione fiorentina iniziò a
riconoscerlo come punto di riferimento. La sua influenza sulla vita politica della
Repubblica fece sì che venne allargata la base popolare del governo il cui potere era
però controllato da un organismo oligarchico più ristretto. Dopo essere stato
scomunicato dal Papa e abbandonato dalla popolazione, Savonarola fu condannato al
rogo come eretico e ucciso il 23 maggio 1498. Questa prima Repubblica Fiorentina
(1494-1512) sopravvisse alla sua morte, ma si trovò in una situazione sempre più
precaria, in quanto dipendeva dal sostegno della Francia. Dopo aver raggiunto un
accordo con il Papa Alessandro VI Borgia (1492-1503), Carlo VIII si diresse a Napoli e
la conquistò senza combattere (febbraio 1495). Il re di Napoli Alfonso di Aragona
abdicò in favore del figlio Ferdinando II, che, non potendo opporsi all’esercito
francese fuggì a Ischia. Gli stati italiani e lo stesso Ludovico il Moro che, dopo la morte
di Gian Galeazzo aveva ottenuto il potere, compresero che l’insediamento della
Francia a Napoli rappresentava una grave minaccia. Si formò così una Lega santa:
aderirono Venezia, Milano, il Papa e anche Ferdinando il cattolico e l’imperatore
Massimiliano, non più disposti a mantenere fede alla promessa neutralità. Colto di
sorpresa, Carlo VIII abbandonò Napoli e risalì la penisola (1495). Con l’aiuto delle
truppe spagnole, Ferdinando II poté ritornare sul trono di Napoli, ma dovette cedere
a Venezia Brindisi e alcuni porti sull’Adriatico. L’avventura di Carlo VIII si era conclusa
rapidamente senza lasciare cambiamenti di rilievo, se non la nascita della Repubblica
fiorentina.

12.3 Il ducato di Milano al centro della contesa

Morto nel 1498 Carlo VIII, la corona passò al cugino Luigi XII (1498-1515), che riprese
i progetti di intervento in Italia puntando sulla conquista di Milano , sul quale poteva
accampare diritti in quanto discendente di Valentina Visconti, che nel 1387 aveva
sposato un Orleans. Egli si accordò con Venezia, con la Confederazione elvetica e con
il Papa Alessandro VI. Trovatosi completamente isolato, Ludovico il Moro fu costretto
a rifugiarsi presso Massimiliano d’Asburgo, che aveva sposato sua nipote Bianca
Maria Sforza. Con l’arrivo dei francesi nel 1500, Milano perse l’indipendenza e
rimase sotto il dominio straniero per circa 360 anni. Ludovico il Moro fu sconfitto e
finì la sua vita prigioniero in Francia. Quindi Luigi XII volse le sue mire sul regno di
Napoli. Per questo si accordò con il re di Spagna: l’accordo prevedeva la spartizione
del regno fra la Spagna e la Francia. Il re di Napoli fu colto di sorpresa credendo che le
truppe spagnole fossero sue alleate, e quindi cedette i suoi diritti a Luigi XII senza
combattere. Al re di Francia era dato nell’accordo il possesso di Campania, Abruzzo e

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il titolo di re di Napoli, mentre alla Spagna sarebbero toccate Calabria e Puglia. Ma
ben presto scoppiò fra i due alleati il conflitto che volse a favore della Spagna , grazie
alla superiorità dimostrata sul campo dalla sua fanteria. La battaglia del 1503 fu una
vera disfatta per l’esercito di Luigi XII, che fu costretto a stipulare l’armistizio (marzo
1504) che sancì l’esclusiva appartenenza del regno di Napoli alla Spagna (che
mantenne per due secoli).

12.4 L’avventura di Cesare Borgia

Grazie all’appoggio francese, Alessandro VI cercò di creare uno Stato per il figlio
Cesare. Questi, nominato cardinale, divenne poi gonfaloniere della Chiesa e con le
forze messegli a disposizione da Luigi XII riuscì a crearsi un dominio personale fra la
Romagna e le Marche eliminando numerosi signori. Machiavelli, che lo incontrò per
conto della Repubblica fiorentina, ne fece un punto di riferimento essenziale della
figura del principe nuovo. In effetti, Cesare Borgia riuscì con la sua azione a
consolidare il dominio del Papa in territori nei quali la sua autorità era puramente
nominale. La morte improvvisa di Alessandro VI pose fine alla sua impresa. Dopo un
brevissimo pontificato di Pio III, fu eletto Papa con il nome di Giulio II proprio il
grande nemico dei Borgia, Giuliano della Rovere. Cesare dovette assistere alla
disgregazione della sua costruzione. Sarebbe poi morto nel 1507 in Spagna.

12.5 La lega anti-veneziana

Papa Giulio II proseguì la politica del suo predecessore cercando di ricondurre tutto il
territorio dello Stato sotto il pieno controllo del governo romano e riuscì a ristabilire
la sua autorità sulla città di Perugia e Bologna. Nel perseguire questo programma, si
scontrò con Venezia, che già deteneva Ravenna e Cervia e aveva approfittato della
caduta di Cesare Borgia per occupare, nella Romagna pontificia, Rimini e Faenza. In
effetti Venezia si era creata con il suo espansionismo molte ostilità, per cui venne
costituita nel 1508 la lega di Cambrai in cui entrarono il Papa Giulio II, Ferdinando il
cattolico, Luigi XII e l’imperatore Massimiliano, oltre che vari principi italiani. Il 14
maggio 1509 le truppe francesi inflissero a quelle veneziane una terribile sconfitta:
tutte le conquiste della terraferma andarono perdute e la stessa città lagunare
sembrò minacciata. La Repubblica con un’abile azione diplomatica riuscì a porre fine
al conflitto. Del resto, i membri della coalizione avevano ormai recuperato i territori
che Venezia aveva sottratto loro e quindi la guerra aveva raggiunto il suo obiettivo.
Negli anni seguenti Venezia riuscì a recuperare i possedimenti di terraferma, ma le
sue mire espansionistiche erano definitivamente tramontate. Da allora la Repubblica
assunse un atteggiamento prudente, partecipando alle guerre d’Italia solo per
difendere il suo territorio, e evitò di farsi coinvolgere nello scontro fra la Francia e gli
Asburgo.

12.6 «Fuori i barbari»

Ripristinato il potere nella Romagna, Giulio II si pose l’obiettivo di recuperare il


Ducato di Ferrara, che era sostenuto dalla Francia. Il Papa riunì a Roma il concilio
lateranense, e organizzò contro la Francia un’ampia coalizione, la Lega Santa, che
univa gli svizzeri, Venezia, Ferdinando il cattolico e il re d’Inghilterra. L’iniziativa fu
giustificata dal Papa con la parola d’ordine “fuori i barbari”. La Francia riuscì a

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sconfiggere le forze nemiche (aprile 1512), ma l’arrivo di un corpo di spedizione della
Confederazione elvetica costrinse Luigi XII ad abbandonare Milano, dove rientrò,
protetto dagli svizzeri, il figlio di Ludovico il Moro, Massimiliano. Ferdinando il
cattolico occupò il regno di Navarra, alleato della Francia (1512). La sconfitta della
Francia segnò anche la fine della prima Repubblica fiorentina: un corpo di
spedizione spagnolo ristabilì in città la signoria dei Medici, il cui potere fu rinsaldato
l’anno seguente quando, morto Giulio II, fu eletto Papa il figlio di Lorenzo il Magnifico,
con il nome di Leone X (1513-1521). Proprio nel 1513, dopo la fine della prima
Repubblica Fiorentina, Machiavelli scrisse il suo testo, il Principe, che sarebbe stato
pubblicato postumo nel 1532. In questa opera egli prendeva atto della crisi del
sistema politico italiano e del modello repubblicano: nella conclusione lanciava
un’appassionata esortazione a liberare l’Italia dei barbari ma affidava ormai le sue
speranze a un principe nuovo, che sapesse cogliere con la sua virtù le occasioni che la
fortuna gli avesse presentato.

12.7 La conclusione della prima fase delle guerre d’Italia

Nel 1515 morì Luigi XII, per cui il trono passò a Francesco I (1515-1547). Il sovrano,
appena ventenne, scese in Italia con un forte esercito e affrontò nella battaglia di
Melegnano le truppe messe insieme da Spagna, Impero e Ducato di Milano
(settembre 1515). La battaglia segnò la sconfitta dei mercenari svizzeri che
costituivano il nerbo della coalizione. La Francia rioccupò Milano e stipulò un trattato
di pace con gli svizzeri, i quali occuparono Locarno e il Canton Ticino, stabilendo il
confine rimasto sostanzialmente invariato fino a oggi. L’equilibrio raggiunto fu sancito
con la pace di Noyon del 1516 che lasciava ai francesi Milano e agli spagnoli Napoli.
L’anno precedente era stato dichiarato maggiorenne il nipote dell’imperatore
Massimiliano, Carlo d’Asburgo, che poté assumere così il governo dei Paesi Bassi e
nel 1516, alla morte del nonno Ferdinando, ereditare anche il trono di Spagna .
Francesco e Carlo sarebbero stati i protagonisti del duello franco-asburgico per il
controllo della penisola e per la supremazia in Europa.

12.8 Carlo V

Carlo d’Asburgo era nato nel febbraio 1500 da Filippo il Bello (figlio di Massimiliano I
e di Maria di Borgogna), e da Giovanna, figlia dei re spagnoli. A differenza del fratello
minore Ferdinando, nato ed educato in Spagna, Carlo visse nelle Fiandre che
Massimiliano aveva affidato al padre Filippo. Alla morte di Filippo nel 1506, che
provocò un acuirsi della follia della madre (Giovanna la Pazza), Carlo divenne
sovrano dei Paesi Bassi, che furono retti in suo nome dalla zia Margherita d’Austria.
Carlo, la cui lingua madre fu il francese, si formò quindi in un ambiente dominato
dagli ideali cavallereschi della tradizione borgognona. Nel 1516, alla morte del nonno
Ferdinando, egli fu proclamato con il nome di Carlo I, re di Spagna, e non reggente
come avrebbe voluto il Consiglio di Castiglia in quanto l’erede legittima della corona
castigliana era per pur sempre sua madre Giovanna, impossibilitata a regnare a causa
della sua follia. Quando nel 1517 si recò in Spagna dovette confrontarsi con la difficile
realtà di uno Stato formato da due regni distinti, attraversato da conflitti religiosi e
sociali e da forti tensioni autonomistiche. Nel 1519, mentre era in Spagna, la morte
del nonno Massimiliano I portò a Carlo i domini ereditari austriaci e inoltre aprì il

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problema della successione imperiale. Questa prospettiva appariva pericolosa per la
Francia che si vide accerchiata. Francesco I pose addirittura la sua candidatura alla
corona imperiale, ma era impossibile che l’aristocrazia tedesca potesse accettare un
re straniero. Così, il 28 giugno 1519 Carlo fu eletto all’unanimità e assunse con il
nome di Carlo V anche il titolo di imperatore del Sacro Romano Impero. La
straordinaria eredità di Carlo fu certo favorita dal caso, ma fu anche il frutto di una
strategia matrimoniale volta a stabilire una rete di alleanze in funzione
antifrancese. La presenza di un re straniero generò la rivolta delle città spagnole,
detta dei comuneros: si trattò di un moto autonomistico, che intendeva difendere le
prerogative delle comunità contro i funzionari regi che le limitavano; il movimento
chiedeva anche riunioni regolari delle Cortes a garanzia della loro indipendenza. La
rivolta si estese rapidamente, formando una Giunta centrale di coordinamento, e
assunse una matrice popolare, avanzando rivendicazioni di ordine sociale contro il
potere dei nobili e dei ricchi. La sconfitta degli insorti nel 1521 segnò la fine del
movimento. Carlo V comprese però la necessità di tenere conto delle tradizioni e
della specifica realtà del regno spagnolo. Lasciata la Spagna, Carlo si trovò subito a
dover fronteggiare una situazione molto complessa in Germania. L’unità religiosa era
minacciata dal dilagare della riforma di Lutero, mentre Francesco I era visibilmente
intenzionato a dare battaglia per rompere la morsa nella quale si trovava. Carlo si
garantì l’alleanza dell’ Inghilterra e del Papa Leone X e decise nel 1522 di lasciare i
domini ereditari al fratello Ferdinando, che sarebbe stato in sua assenza il
luogotenente dell’impero.

12.9 La ripresa della guerra in Italia

Fu Francesco I a prendere l’iniziativa attaccando senza successo sui Pirenei e in


Lussemburgo. La guerra poi si spostò in Italia dove la sconfitta della Bicocca (1522)
obbligò i francesi a lasciare lo Stato di Milano, che fu affidato al secondo genito di
Ludovico il Moro, Francesco II Sforza. Si ebbero altri due eventi favorevoli alla causa
asburgica: l’elezione a Papa, come successore di Leone X, del precettore di Carlo,
Adriano di Utrecht, che si chiamò Adriano VI (1522-1523), e la defezione del potente
comandante generale dell’esercito francese, Carlo di Borbone che, scontrandosi con
Francesco, passò al servizio dell’impero. Con un notevole sforzo finanziario, il re di
Francia riuscì a mettere insieme un nuovo esercito con il quale scese in Italia e nel
1524 si impadronì nuovamente di Milano. Quindi pose l’assedio a Pavia, nodo
strategico essenziale per le comunicazioni con Genova e con la Francia. L’assedio si
protrasse per quattro mesi e ciò consentì l’arrivo dalla Germania di rinforzi che
attaccarono alle spalle l’esercito francese. Fu per Francesco I una vera disfatta nella
quale egli stesso fu ferito e fatto prigioniero (febbraio 1525). Condotto a Madrid,
Francesco fu costretto a firmare un trattato (1526), con il quale rinunciava a ogni
pretesa in Italia e nelle Fiandre e si impegnava a cedere la Borgogna, lasciando in
ostaggio i suoi figli. Ma, ottenuta la libertà, egli organizzò una coalizione, la Lega di
Cognac, con tutti gli Stati che erano intimoriti dallo strapotere asburgico : il re
d’Inghilterra, il Papa Clemente VII Medici, Firenze, la Repubblica di Venezia, il duca
di Milano Francesco II Sforza.

12.10 Il sacco di Roma

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A favore di Carlo V giocarono le divisioni e le diffidenze che minavano la Lega di
Cognac. L’esercito imperiale occupò Milano costringendo il duca ribelle Francesco II
Sforza alla resa. Quindi Carlo V lanciò un’offensiva contro le forze della Lega inviando
in Italia un corpo di spedizione di migliaia di lanzichenecchi, al quale i coalizzati non
opposero alcuna resistenza. Questo potente esercito, comandato dal generale
Borbone, giunse fino a Roma, mentre Clemente VII e i cardinali si rifugiavano in Castel
Sant’Angelo. Le truppe da tempo prive di paga entrarono in città e la saccheggiarono.
Molti palazzi furono distrutti e la popolazione si dimezzò anche a causa di
un’epidemia di peste. Quando la notizia giunse a Firenze, vennero scacciati i Medici e
instaurata la seconda Repubblica fiorentina (1527-1530).

12.11 Andrea Doria e la repubblica di Genova

L’anno seguente Francesco I riprese l’offensiva inviando un esercito che, occupata


Genova, proseguì verso sud nell’intento di scacciare gli spagnoli da Napoli . La capitale
fu assediata via terra e via mare, grazie alla flotta dell’ammiraglio genovese Andrea
Doria. L’impresa francese fallì quando Doria tolse improvvisamente il blocco navale di
Napoli. Il corpo di spedizione francese dovette ritirarsi. Andrea Doria era un
imprenditore della guerra, proprietario di una flotta che poneva al servizio del
miglior offerente. La scelta di lasciare il servizio di Francesco I per passare con Carlo
V, che lo nominò ammiraglio della flotta del Mediterraneo, fu dovuto sì a
considerazioni di interesse personale, ma mirò soprattutto a realizzare un decisivo
cambiamento della situazione politica della sua città. Genova era stata coinvolta
direttamente nella contesa franco-imperiale per il possesso dello Stato di Milano e si
era trovata perciò di volta in volta alla mercé del vincitore di turno. Il 12 settembre
1528 Andrea Doria sbarcò a Genova e se ne impadronì, presentandosi come il
restauratore della libertà cittadina. Da quel momento Genova rimase vincolata
all’alleanza della Spagna. Nel contempo Doria ispirò una riforma delle istituzioni
cittadine, che diede vita a una Repubblica oligarchica sul modello veneziano. Al
vertice c’era un Doge eletto per due anni. L’alleanza con Andrea Doria ebbe un esito
decisivo sul conflitto perché diede a Carlo V una potenza navale alla quale la marina
francese non era in grado di opporsi.

12.12 La pace delle due dame

La guerra proseguì ancora senza grandi cambiamenti e si giunse così nel 1529 alla
pace di Cambrai detta anche pace delle due dame, perché negoziata dalla madre di
Francesco I Luisa di Savoia, e dalla zia di Carlo V Margherita d’Austria. La Francia
rinunciava a ogni pretesa nella penisola, ma conservava la Borgogna e a Francesco I
furono restituiti (dietro un riscatto) i figli presi in ostaggio. Carlo V aveva raggiunto un
accordo con il Papa Clemente VII, il quale gli diede l’investitura del regno di Napoli,
concesso il libero transito delle sue truppe nei territori pontifici e acconsentì a una
incorporazione nei domini asburgici dello Stato di Milano , incorporazione che
avvenne alla morte di Francesco Sforza nel 1535. In cambio Carlo V si impegnò a
restaurare il dominio dei Medici a Firenze. Durante il congresso di Bologna, il Papa
Clemente VII incoronò Carlo V imperatore e re d’Italia (24 febbraio 1530). Egli fu
l’ultimo imperatore a essere incoronato da un Papa. Dopo un lungo assedio da parte
delle truppe imperiali, Firenze, dovette arrendersi nel 1530; il potere fu dato ad

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Alessandro dei Medici, che ebbe da Carlo V il titolo di duca (1532). Così si realizzò
anche a Firenze la transizione dal regime repubblicano al principato.

CAPITOLO 13
IL SOGNO IMPERIALE DI CARLO V

13.1 L’imperatore come signore del mondo (dominus mundi)

Principale consigliere di Carlo V e ispiratore del suo programma politico fu il


piemontese Mercurino Arborio da Gattinara, gran cancelliere dal 1518 alla morte nel
1530. Di formazione umanistica, Gattinara riprese l’idea di impero come governo
universale, e su queste basi elaborò una concezione in grado di dare coerenza e unità
alla direzione politica dei tanti domini di Carlo V.

13.2 La svolta del 1530

Nel 1531 fece eleggere re dei romani, quindi già candidato alla successione imperiale,
il fratello Ferdinando e conferì la reggenza dei Paesi Bassi alla sorella Maria, vedova
di Luigi II Jagellone; per gli altri suoi domini delegò il governo a dei viceré. Con la pace
delle due dame, il conflitto franco-asburgico raggiunse un punto di equilibrio. Si
stabilì allora il predominio spagnolo nella penisola che sarebbe stato sancito
ufficialmente nella pace di Cateau Cambresis del 1559; venne a cadere quindi la
centralità del problema italiano nella politica di Carlo V, che andò assumendo
progressivamente una dimensione universale. Le questioni che dovette affrontare ora
erano l’impero ottomano sulla frontiera a est, l’area mediterranea dove
imperversavano le incursioni dei pirati, rafforzare la conquista dei domini americani,
che si compì interamente durante il suo regno. I due vicereami delle Indie
conferirono al suo impero una dimensione planetaria. Infine, le lotte religiose in
Germania accentuarono l’aspirazione di Carlo V a porsi come arbitro dei conflitti
religiosi e come supremo garante dell’unità dell’Europa cristiana.

13.3 Gli Ottomani alle porte di Vienna

Fin dal 1520 gli Asburgo avevano dovuto fronteggiare sul confine orientale
dell’impero le minacce ottomane. Primo obiettivo dell’impero ottomano era il regno
cristiano di Ungheria, che separava i due imperi. Nell’estate del 1526 il sultano
Solimano il Magnifico sconfisse l’esercito ungherese in una battaglia in cui morì lo
stesso re Luigi II Jagellone, che era anche re di Boemia. Solimano poté quindi
occupare gran parte del territorio ungherese. Ferdinando, che aveva sposato una
sorella di Luigi II, Anna, rivendicò i regni del cognato, ma mentre egli poté assumere
senza problemi la corona di re di Boemia, in Ungheria la sua successione fu
contestata da un partito nazionale ungherese ostile agli Asburgo, capeggiato da
Giovanni Szapolyai, sostenuto da Solimano, che intendeva fare dell’Ungheria uno
stato vassallo dell’impero ottomano. Negli anni seguenti l’esercito turco proseguì la
sua offensiva spingendosi fino a Vienna. Alla fine, Solimano firmò la pace (1533) per
cui il regno di Ungheria fu diviso tra Giovanni e Ferdinando. Quando nel 1540 morì
Giovanni, il conflitto si riaprì: il sultano occupò la maggior parte il territorio ungherese
e la annetté all’impero ottomano. Questa situazione non subì modifiche negli anni
seguenti e la spartizione fu confermata dal trattato stipulato da Ferdinando e

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Solimano nel 1562. Fino alla fine del Seicento i domini asburgici si trovarono così a
diretto contatto con l’impero ottomano, distanti pochi chilometri da Vienna. L’impero
asburgico divenne quindi l’avamposto della cristianità di fronte alla minaccia islamica.

13.4 La lotta contro i Turchi nel Mediterraneo

Il problema turco si poneva anche nel Mediterraneo, dove gli Stati dei paesi
dell’Africa settentrionale (Libia, Tunisia, Algeria), detti barbareschi, soggetti
all’autorità del sultano, rappresentavano la base per scorrerie sulle coste spagnole e
italiane e per atti di pirateria ai danni delle navi cristiane. Proseguendo la lotta contro
i musulmani, Ferdinando il cattolico aveva acquisito il controllo di diverse località
sulla costa africana e imposto un protettorato ad Algeri. Ma quest’ultima venne
conquistata nel 1529 dai corsari barbareschi guidati da Barbarossa, che Solimano
decise di nominare ammiraglio della flotta turca. Nel 1535 Francesco I, animato dal
desiderio di riaprire la partita in Italia, strinse un’alleanza con il sultano. Carlo V
decise di preparare una spedizione verso le coste africane che occuparono la fortezza
di La Goletta, a nord della Tunisia. Carlo V nel 1538 riuscì a organizzare una seconda
flotta formata da navi spagnole e veneziane, che però fu sconfitta da quella del
Barbarossa nella Grecia nord-occidentale. Un ultimo tentativo di contrastare la
potenza ottomana sul mare fu fatto nel 1541, ma una grave tempesta distrusse la
metà della flotta spagnola. Fino alla battaglia di Lepanto (1571) le potenze cristiane
non furono in grado di contrastare la flotta ottomana.

13.5 La ripresa della guerra franco-imperiale

Il segnale per la ripresa della guerra fu quando Carlo V incorporò lo Stato di Milano
alla morte del duca Francesco II Sforza (1535). Francesco I penetrò nella Savoia e nel
1536 occupò Torino; Carlo V rispose attaccando in Provenza e nei Paesi Bassi. Ma il
conflitto si trascinò senza eventi risolutivi fino alla tregua firmata a Nizza nel 1538.
Dopo una serie di conflitti, si giunse alla pace di Crepy (1544) che ribadiva lo status
quo. Per sancire la pace tra l’impero e la Francia, si progettò un matrimonio
combinato: quello fra il terzo figlio di Francesco I, e una principessa asburgica, che
avrebbero dovuto portare in dote rispettivamente o i Paesi Bassi o Milano. La
situazione si risolse con la morte del principe francese nel 1545.

13.6 Opposizioni al predominio spagnolo nella penisola

Il fallimento dei colloqui tra protestanti e cattolici aveva indotto i principi tedeschi che
avevano aderito alla Riforma a unirsi nella lega di Smalcalda: il partito protestante
era diventato così una forza politica e militare. Carlo V, che già nel congresso di
Bologna aveva ottenuto da Clemente VII l’impegno di convocare il concilio per
dirimere le questioni interne alla cristianità, rinnovò l’invito al nuovo Papa Paolo III.
Nel frattempo, egli puntò su una serie di incontri fra luterani e cattolici nella speranza
che raggiungessero un accordo sul piano teologico. Non portando alcun risultato,
Carlo V decise di passare all’azione e mosse guerra alle forze della lega di Smalcalda
che sconfisse nel 1547; lo stesso duca di Sassonia fu fatto prigioniero. Carlo V poté
quindi convocare una Dieta ad Augusta (1547-1548) nella quale impose l’interim,
vale a dire una regolamentazione provvisoria delle relazioni fra cattolici e luterani
in attesa che il concilio in corso a Trento portasse alla pacificazione religiosa. Nello

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stesso tempo Carlo V propose anche una riforma dell’impero in senso federale che
prevedeva leve regolari con la formazione di un esercito imperiale stabile e tributi
fissi destinati a una cassa comune.

13.8 Il fallimento della pacificazione religiosa

Al concilio di Trento vennero approvati decreti che non prevedevano alcun


compromesso con i protestanti. Quanto alla riforma federale essa incontrò
l’opposizione della maggior parte degli Stati che, a prescindere dalla confessione
religiosa, intendevano difendere le proprie prerogative in nome della libertà tedesca.
Nonostante la vittoria contro la lega di Smalcalda, Carlo V non riuscì a portare a
compimento il suo progetto politico. I principi protestanti poterono riorganizzarsi e
nel 1551 realizzarono un accordo segreto con il nuovo re di Francia Enrico II,
succeduto al padre Francesco I, che garantì loro il suo sostegno . L’offensiva
protestante colse di sorpresa Carlo V: avendo preso atto dell’impossibilità di sanare la
divisione religiosa della Germania, Carlo diede incarico al fratello Ferdinando di
negoziare una soluzione di compromesso. Si crearono così le premesse per la pace di
Augusta del 25 settembre 1555, che per la prima volta sancì la rottura dell’unità
cristiana. In base a essa fu concessa la libertà religiosa solo ai principi dell’impero,
non ai sudditi: secondo la formula cuius regio eius religio spettava al sovrano
scegliere la religione, cattolica o luterana (non furono considerati i calvinisti); ai
dissidenti non restava che convertirsi o emigrare . In alcune città dove era già in
vigore fu permessa la convivenza delle due religioni. La clausola del reservatum
ecclesiasticum, non riconosciuta però formalmente dai protestanti, imponeva ai
vescovi e agli abati che sarebbero passati alla Riforma in futuro di rinunciare ai beni e
alla carica.

13.9 Le abdicazioni

Il 25 ottobre 1555 Carlo V abdicò alla sovranità dei Paesi Bassi. In seguito, il 16
gennaio 1556, lasciò le corone di Castiglia e di Aragona al figlio Filippo II e lasciò
l’impero al fratello Ferdinando I. Quindi partì per la Spagna, dove morì il 21
settembre 1558.

CAPITOLO 14
L’ETÀ DELLA CONTRORIFORMA

14.1 Riforma cattolica o controriforma?

Il termine “Controriforma” entrò in uso alla fine del XVIII secolo per designare il
processo attraverso il quale un territorio passato alla fede protestante era
ricondotto con la forza all’obbedienza nei confronti di Roma. In seguito, il concetto
si ampliò e indicò non solo l’azione di contrasto alla diffusione delle dottrine
riformate ma anche l’opera di rinnovamento della Chiesa cattolica culminata nel
concilio di Trento.

14.2 La nozione di eresia

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La parola eresia vuol dire “scelta, presa di posizione”, e ha in sé una connotazione
negativa sulla base della convinzione che l’uomo, se nelle cose divine vuole scegliere,
va necessariamente incontro all’errore. In seguito, la parola eresie al plurale indicò
non solo le dottrine erronee ma anche i gruppi o le sette che le adottavano. Secondo
il codice di diritto canonico l’eretico deve essere battezzato, continuare a professarsi
cristiano e deve essere ostinato nel confermare le sue convinzioni; gli era offerta la
possibilità di abiurare, di negare cioè le idee per le quali era inquisito. Dall’eresia si
distinguono lo scisma, che implica la separazione nel corpo della Chiesa, e
l’apostasia, che comporta il rifiuto (individuale) dell’insegnamento cristiano. Chi si
converte all’Islam è apostata, ma non eretico.

14.4 I nuovi ordini religiosi

Quanto diffuso e sentito fosse il bisogno di rinnovamento della Chiesa è dimostrato


dalla nascita di molti nuovi ordini religiosi impegnati nella società , sorti da iniziative
spontanee, maturate nel corpo della cristianità e successivamente approvate
dall’autorità ecclesiastica. Gli oratori del divino amore erano per esempio
confraternite sorte in diverse città italiane tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVI
secolo, dedite a opere di carità e di devozione. Dal tronco della grande tradizione
francescana nacquero nel 1528 i cappuccini, detti così dal semplice abito col
cappuccio che intendeva riproporre il modello francescano. Ricordiamo poi i
somaschi, attivi nell’assistenza materiale e spirituale ai poveri e ai malati e
nell’educazione; fra gli ordini femminili invece le orsoline, votati alla carità, istituite
nel 1535 da Angela Merici.

14.5 I gesuiti

L’ordine più importante sorto nella prima metà del Cinquecento, destinato ad avere
un ruolo decisivo nell’età della Controriforma, fu la Compagnia di Gesù, fondata nel
1534 a Parigi dallo spagnolo in Iñigo (Ignazio) di Loyola (1491-1556), che, costretto
ad abbandonare la carriera militare, si mise al servizio della fede cristiana. Ai voti
tipici della scelta monastica, povertà, castità e obbedienza, i gesuiti ne aggiunsero un
quarto, l’assoluta obbedienza al Papa. La loro regola fu approvata da Paolo III nel
1540. Il capo dell’ordine, detto generale, dipendeva direttamente dal pontefice. Il
gesuita entrava nella Compagnia dopo un lungo e rigoroso noviziato, nel quale
imparava ad annichilire la propria volontà e la propria personalità, preparandosi a
ubbidire ai propri superiori. I gesuiti furono attivi innanzitutto nell’istruzione : nei
loro collegi, che alla fine del secolo erano già più di 500 in tutta Europa, si formarono i
rampolli delle casate aristocratiche e delle famiglie più ricche, quindi i membri delle
future classi dirigenti; l’ordinamento degli studi forniva un’educazione severa e di alto
livello: studio del latino, della retorica, della dottrina cattolica. I gesuiti ebbero anche
un notevole peso politico in quanto furono spesso confessori e consiglieri di sovrani
e principi. Infine, essi si impegnarono nell’attività missionaria per la diffusione del
cristianesimo.

14.6 La lotta per il concilio

Lutero aveva dichiarato di essere disposto a discutere le sue tesi solo in un concilio, a
patto che fosse libero, cioè non condizionato dal Papa, cristiano, vale a dire fondato

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unicamente sull’autorità della Scrittura, e in terra tedesca. Eppure, questo si riunì
solo dopo ben 28 anni dalla protesta di Lutero. Questo ritardo fu dovuto soprattutto
alla riluttanza dei papi, i quali temevano una ripresa delle teorie conciliariste che
affermavano la superiorità dell’assemblea dei vescovi sull’autorità pontificia. Paolo III
Farnese (1534-1549), nominò una commissione di cardinali e alti prelati per
elaborare un progetto di riforma della Chiesa. La commissione emise un parere che
denunciava i molti mali che impedivano alla Chiesa un corretto esercizio della sua
funzione pastorale: i profitti ricavati dall’amministrazione degli affari ecclesiastici,
l’ignoranza, la corruzione del clero, gli abusi nell’assegnazione e nell’esercizio dei
vescovati. I non facili rapporti politici con Carlo V allontanarono la convocazione del
concilio.

14.7 La diffusione della Riforma in Italia

Nel frattempo, le opere di Lutero e degli altri riformatori si diffondevano in Italia.


Queste teorie trovarono adesioni in diverse città e fra gli ecclesiastici, gli intellettuali,
gli studenti, i mercanti, i professionisti e gli artigiani. Un forte radicamento popolare
ebbero le comunità anabattisti, che si formarono in varie zone della penisola, in
particolare nel Veneto. In questa fase la rottura con la Chiesa non fu percepita come
insanabile e molti speravano che durante il prossimo concilio si sarebbero ricomposti
i dissidi sulla base di un rinnovamento della Chiesa. Si diffusero perciò posizioni non
ben definite, vicini alle istanze della Riforma ma non di aperta rottura con Roma.

14.8 La congregazione del Sant’Ufficio

Nel 1542, di fronte alla crescente diffusione delle dottrine ereticali, Paolo III promosse
la stretta repressiva reclamata dal cardinale Carafa, il futuro Paolo IV, esponente
dell’ala più intransigente della curia. Nacque così la congregazione cardinalizia del
Santo Uffizio o dell’Inquisizione, presieduta dal Papa, con il compito di riorganizzare
e dirigere dal centro la rete dei tribunali inquisitoriali istituiti. Questa decisione segnò
una vera svolta: fu sempre più difficile assumere posizioni intermedie, di mediazione
o di compromesso. Fu per questo che si intensificò il fenomeno delle fughe dall’Italia
dei seguaci delle dottrine protestanti per sottrarsi alla persecuzione inquisitoriale.

14.9 Il concilio di Trento

Nel dicembre 1545 si aprì a Trento il concilio indetto da Paolo III. Si stabilì che
avevano diritto di voto, oltre ai vescovi, anche i generali degli ordini mendicanti,
mentre non votavano i consulenti (teologi e canonisti). Il concilio decise di affrontare
sin da subito le questioni teologiche e, condannando il principio della giustificazione
per sola fede (cioè la questione di come l’uomo possa tornare a diventare giusto, in
linea, di fronte a Dio), chiuse la porta a ogni dialogo. La decisione di spostare il
concilio a Bologna (1547) fu un nuovo motivo di conflitto fra il Papa e Carlo V; i lavori,
ai quali non parteciparono più i vescovi spagnoli, proseguirono ma senza risultati fino
alla morte del pontefice nel 1549. Il concilio si riaprì a Trento nel 1551 sotto il nuovo
Papa Giulio III del Monte, ma fu nuovamente sospeso nel 1552 per la ripresa della
guerra. Nel 1555 il quadro mutò con l’elezione di Gian Pietro Carafa come Papa con il
nome Paolo IV. Egli diede alla politica del papato un orientamento decisamente
antispagnolo; per quanto riguarda i problemi religiosi, era favorevole a una dura

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repressione dell’eresia a difesa dell’ortodossia. Egli perseguì una politica di
accentramento e di rafforzamento del primato del Papa, fondato sulla centralità
dell’Inquisizione. Paolo IV promulgò nel 1559 anche il primo Indice dei libri proibiti ,
nel quale fu compresa tutta l’opera di Erasmo. La morte di Paolo IV nel 1559 fu
accolta con gioia dalla popolazione romana, che assaltò le carceri del Santo Uffizio e
liberò i prigionieri. Il nuovo papato di Pio IV Medici (1559-1565) fece segnare una
svolta rispetto alle linee del predecessore. Sotto il suo pontificato poté svolgersi tra il
1562 e il 1563 l’ultima fase del concilio, che fu anche la più intensa sia per la
maggiore presenza di vescovi, anche francesi e spagnoli, sia per le decisioni prese. Già
nella prima fase i decreti condannarono come eretiche le dottrine delle chiese
protestanti e riaffermarono contro le tesi luterane (sola fide e sola scriptura) il valore
delle opere ai fini della salvezza e l’eguale importanza della tradizione rispetto alla
Scrittura come fonte di verità; il concilio ribadì la dottrina cattolica sul numero (7),
sulla natura e sulla validità dei sacramenti e riguardo all’eucaristia confermò la
trasformazione nel Corpo e nel Sangue di Cristo; contro il principio del sacerdozio
universale dei credenti, agli ecclesiastici fu mantenuto, attraverso il sacramento
dell’ordine, uno status distinto rispetto al laicato; inoltre fu definita la dottrina delle
indulgenze e furono ribaditi l’esistenza del Purgatorio e il culto dei santi e della
Madonna. Oltre a queste prese di posizione sul piano dogmatico, il concilio provvide
anche a un rinnovamento morale e disciplinare. Per la formazione del clero furono
istituiti seminari, aperti anche ai figli dei poveri . I parroci, per i quali fu confermato
l’obbligo del celibato e dell’abito talare, furono tenuti a registrare i battesimi e
matrimoni per controllare l’adempimento da parte dei fedeli dei precetti religiosi. Un
ruolo centrale fu riconosciuto ai vescovi, ai quali fu imposto il divieto di cumulare più
benefici e l’obbligo di risiedere nella diocesi e di monitorarla ogni due anni
presentando una dettagliata relazione a Roma.

14.10 L’affermazione dell’assolutismo papale

La scelta di Trento non fu casuale: era un principato vescovile in terra italiana ma


compreso nei confini dell’impero. Di fatto il Papa riuscì a controllare tutti i lavori
assembleari. Dalla crisi religiosa del Cinquecento la Chiesa di Roma uscì con una
struttura verticistica e rigorosamente gerarchizzata, della quale il Papa era il
monarca assoluto; si delineò la strada che avrebbe portato poi alla dichiarazione di
infallibilità del 1870.

14.11 La riorganizzazione dello Stato della Chiesa

Il concilio non si occupò degli organi centrali della curia, che furono riorganizzati nel
corso del secolo in modo da rafforzare il centralismo papale. Il Sacro Collegio o
Concistoro fu progressivamente privato della sua funzione di organo supremo del
governo della Chiesa. Al suo posto al vertice della struttura di potere furono istituite
le congregazioni cardinalizie dipendenti direttamente dal Papa, fissate da Sisto V
(1585-1590) nel numero di quindici. Il cardinale, posto al vertice della gerarchia
ecclesiastica e dell’amministrazione statale, si trasformò sempre più in un alto
burocrate, impegnato nella gestione degli affari ecclesiastici e dei delicati equilibri
politici della curia. Lo Stato della Chiesa si dotò di una complessa macchina
burocratica votata ad amministrare insieme i problemi temporali e spirituali, che

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risultavano congiunti in modo indissolubile nella figura del pontefice, insieme
sovrano di uno Stato e capo della cattolicità. L’orbita d’azione dello Stato della
Chiesa rimase sempre più confinata nell’ambito della penisola, come dimostra tra
l’altro il processo di italianizzazione del personale di curia e dello stesso collegio
cardinalizio: dopo Adriano VI (1522- 1523) occorre arrivare al 1978 per trovare con
Giovanni Paolo II un altro Papa straniero. Di conseguenza, il peso internazionale del
papato andò progressivamente declinando; l’evento più significativo in tal senso fu il
mancato coinvolgimento nelle trattative che portarono alla pace di Vestfalia del 1648.

CAPITOLO 15
L’ETÀ DI FILIPPO II

15.1 Conseguenze politiche della Controriforma

L’affermazione del primato del Papa quale capo assoluto della Chiesa di Roma, pose
agli Stati cattolici il problema di difendere l’autonomia delle Chiese nazionali. Gli stati
italiani, il Portogallo e la Polonia pubblicarono la bolla papale, ma nella Spagna la
pubblicazione fu accompagnata dalla formale riserva che essa non poteva limitare il
potere statale. La Francia, in nome delle libertà della Chiesa gallicana, non accettò la
bolla, che fu pubblicata solo nel 1615 per iniziativa unilaterale del clero. Ancora più
eclatante fu la mancata ricezione dei decreti conciliari da parte dell’Impero, dove la
pace di Augusta aveva di fatto privato l’imperatore di ogni potere in campo religioso.

15.2 Espansione della Riforma protestante

Dopo la pace di Augusta, l’ala marciante della Riforma divenne il calvinismo. In


Germania i calvinisti erano definiti “riformati” mentre “evangelici” erano chiamati i
luterani.

15.3 La Chiesa anglicana assume un’impronta protestante

Il distacco dell’Inghilterra dalla Chiesa di Roma era stato originato da cause politiche.
Il re Enrico VIII (1509-1547), non riuscì ad avere un erede maschio dalla moglie
Caterina di Aragona; nel contempo aveva rotto l’alleanza con la Spagna aderendo alla
Lega di Cognac contro Carlo V. A questi motivi si aggiunse la sua passione per una
dama di corte, Anna Bolena. La sua richiesta di annullamento del matrimonio, il Papa
Clemente VII, che dopo il sacco di Roma era ormai legato alla Spagna, non glielo
concesse per non urtare Carlo V, nipote di Caterina. Allora Enrico VIII fece votare dal
Parlamento provvedimenti che ruppero tutti rapporti della Chiesa inglese con Roma e
infine nel 1534 l’Atto di supremazia, che lo dichiarava “capo supremo in terra della
Chiesa inglese (anglicana ecclesia) subito dopo Dio”. Enrico ottenne così da un
tribunale ecclesiastico la dichiarazione di nullità del matrimonio con Caterina e quindi
la legittimazione dell’unione con la Bolena. Tra coloro che rifiutarono di accettare
l’Atto di supremazia vi fu il grande umanista Thomas More, mandato al patibolo nel
1535. Fu una delle tante vittime di Enrico: egli fece condannare a morte con l’accusa
di tradimento anche il cancelliere Thomas Cromwell che aveva guidato il governo
durante la crisi con la chiesa di Roma, e tre delle sue sei mogli, fra le quali la stessa
Anna Bolena.

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Il distacco della Chiesa inglese da Roma fu uno scisma senza eresia: sul piano
dottrinale e liturgico nulla cambiò, tant’è che Enrico VIII continuò a perseguitare i
protestanti. In pratica i vescovi, con a capo l’arcivescovo di Canterbury, riconobbero
come capo della Chiesa il re e non più il Papa. Il principale cambiamento fu la
soppressione dei monasteri, le cui ingenti proprietà fondiarie furono incamerate dallo
Stato; Enrico VIII ebbe in tal modo a disposizione un notevole patrimonio che però
dilapidò con partecipazioni alle guerre europee che non diedero alcun risultato. Il
fatto che il re fosse anche il capo della Chiesa espose quest’ultima a repentini
cambiamenti a ogni avvicendamento sul trono. A Enrico successe il figlio Edoardo VI
(1547-1553) ma non governò fino alla maggiore età; i protettori che governarono in
suo nome decisero di aprire la Chiesa anglicana alle influenze delle dottrine
protestanti, in particolare con il Book of common prayer (libro di preghiere comuni)
del 1552. Le cose mutarono radicalmente con l’avvento al trono di Maria Tudor, la
figlia nata dal matrimonio di Enrico VIII con Caterina d’Aragona. Maria, che sposò nel
1554 il figlio di Carlo V, Filippo, allora principe ereditario poi re di Spagna, si impegnò
in un tentativo di restaurazione cattolica e mandò sul rogo molti di coloro che sotto il
regno di Edoardo avevano appoggiato l’introduzione della Riforma, tanto da essere
chiamata Maria la Sanguinaria. Nel 1558 salì infine al trono la figlia che Enrico VIII
aveva avuto da Anna Bolena, Elisabetta (1558-1603). Sotto il suo regno la Chiesa
anglicana trovava finalmente un assetto stabile e si legò definitivamente al mondo
protestante.

15.4 La fine della lotta per la supremazia in Europa

Toccò ai figli ed eredi di Francesco I e di Carlo V portare a compimento la guerra per


la supremazia in Europa. Fu il re francese Enrico II a prendere l’iniziativa. La penisola
italiana, saldamente legata alla Spagna, non era più il centro del conflitto, che si
spostò infatti nei Paesi Bassi dove l’esercito spagnolo ottenne nel 1557 una
schiacciante vittoria. Filippo II, che poteva contare sull’appoggio dell’Inghilterra della
moglie Maria Tudor, non fu in grado di sfruttare il successo a causa delle difficoltà
finanziarie, che lo obbligarono in quello stesso anno a dichiarare la bancarotta. Anche
Enrico II doveva fronteggiare una situazione finanziaria pesantissima. La morte di
Maria Tudor nel novembre 1558 privò Filippo dell’appoggio inglese e questo favorì la
pace che fu stipulata a Cateau Cambresis il 3 aprile 1559. La Francia dovette
confermare le rinunce a Milano e Napoli (che restarono sotto la dominazione
spagnola: Milano lo restò fino agli inizi del XVIII secolo), restituire la Corsica a Genova
e diversi territori al duca di Savoia Emanuele Filiberto. Enrico II mantenne in Italia
alcune piazze forti in Piemonte e il marchesato di Saluzzo. Filippo II aveva il pieno
controllo della penisola italiana dato che tutti gli Stati, tranne Venezia, erano legati
alla potenza spagnola. A garanzia della pace fu celebrato il matrimonio tra Filippo II e
Isabella di Valois, figlia di Enrico II. Il trattato di Cateau Cambresis resse a lungo
perché dopo la morte di Enrico II (1559) si aprì in Francia una profonda crisi politica e
religiosa.

15.5 Il re prudente

Filippo II, tornato in Spagna nel 1559, decise di spostare la corte a Madrid. Qui fece
costruire un imponente edificio, insieme monastero e Palazzo Reale, dedicato al

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martire San Lorenzo, l’Escorial, che divenne la sua residenza preferita. Da allora
Filippo non si spostò più. Venne definito re prudente in quanto, per prendere le sue
decisioni, si confrontava con i suoi confessori e con i teologi di corte, dato che era
convinto di dover rendere conto a Dio dei suoi atti. Filippo ebbe quattro mogli ma
solo dall’ultima di queste, Anna d’Austria, la figlia di sua sorella, ebbe l’erede, il futuro
Filippo III.

15.6 L’acquisizione della corona portoghese

La morte del re del Portogallo Sebastiano I aprì la strada a Filippo II per ottenere la
corona portoghese. A Sebastiano successe il fratello che morì nel 1580. A questo
punto Filippo II si fece riconoscere come erede della colonna degli Aviz, anche in
nome dei legami di parentela che lo univano a quella famiglia (portoghese era stata la
sua prima moglie). In tal modo la Spagna acquisì anche il controllo dell’impero
coloniale portoghese. Il Portogallo però conservò la sua struttura istituzionale le sue
leggi.

15.7 La Spagna imperiale

La vocazione imperiale che aveva segnato l’esperienza del padre rimase in eredità a
Filippo II. Si parla di sistema imperiale spagnolo, anche in ragione della grande
estensione territoriale dei suoi possedimenti e soprattutto della grande potenza
militare e finanziaria, alimentata dal flusso di metalli preziosi che arrivavano dal
nuovo mondo. Tuttavia, Filippo mirò innanzitutto ad accrescere la potenza della
Spagna e non esitò a scontrarsi con il pontefice per difendere le prerogative dello
Stato. I territori sottoposti alla sovranità di Filippo II, la cui amministrazione era
delegata a viceré o governatori, conservarono le proprie identità giuridiche e
istituzionali: ciò che li univa era la fedeltà alla dinastia regnante. La struttura di
governo era imperniata sul sistema dei consigli. Si trattava di organi collegiali con
funzioni consultive, che preparavano dei documenti in base ai quali il re prendeva le
sue decisioni. Il più importante era il Consiglio di Stato, competente per la politica
estera e per gli affari di maggior rilevanza. Gli altri erano competenti per materia o
per territorio (Castiglia, Aragona, Italia, Indie, Fiandre, Portogallo). Nei consigli per
territorio erano presenti esponenti delle classi dirigenti locali, che avevano il compito
di rappresentare le richieste locali.

15.8 Le finanze

La Spagna, a differenza di tutti gli altri Stati, poteva contare grazie alle miniere
americane su un costante flusso