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Criscuolo
Storia Moderna
Università degli Studi di Milano (UNIMI)
183 pag.
L’inizio della storia moderna viene ricondotto al 1492, anno della scoperta
dell’America, ma si tratta di una scelta convenzionale e arbitraria. Più che a una data
specifica, il punto di partenza deve essere ricondotto a uno spazio di tempo compreso
tra la metà del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, che fu caratterizzato
da una serie di trasformazioni e di innovazioni di grande portata, da far segnare nella
stessa percezione dei contemporanei una svolta o una rottura nella continuità del
processo storico. La fine della storia moderna e l’inizio di quella contemporanea può
essere collocato fra la seconda metà del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento,
quando l’avvio della rivoluzione industriale in Inghilterra e la caduta dell’antico
regime per opera della Rivoluzione francese modificarono profondamente la realtà
economica, sociale, politica e culturale dell’Europa occidentale.
1.2 Moderno
Anche il punto di arrivo dell’età moderna è stato oggetto negli ultimi decenni di
interpretazioni. Per quanto concerne la Rivoluzione francese, il cosiddetto
revisionismo storiografico, polemizzando con l’interpretazione classica elaborata
dalla storiografia marxista, ha negato che essa abbia rappresentato la fine del sistema
feudale e aperto la strada all’avvento della società borghese, e ha insistito sui molti
motivi di continuità tra l’antico regime e la Francia rivoluzionaria e napoleonica.
Sembra però difficile negare il ruolo giocato dalla Rivoluzione francese che, attraverso
la legislazione imposta in tutti i paesi occupati , aprì effettivamente una nuova fase
nel corso della storia europea. In relazione alla rivoluzione industriale, si è osservato
che essa si estese agli altri paesi dell’Europa occidentale con notevole ritardo, e che
nella stessa Inghilterra fece sentire i suoi effetti dopo diverso tempo, senza provocare
una trasformazione repentina e radicale. Non c’è dubbio però che la struttura
economica-sociale dell’Inghilterra abbia conosciuto a partire dalla metà del
Settecento dei mutamenti irreversibili.
In definitiva il concetto di età moderna ha resistito nel complesso alle critiche che gli
sono state mosse e si può considerare ancora valido per quanto concerne l’arte, la
cultura, la vita politica. Questa periodizzazione è apparsa però sempre più inadeguata
quando l’interesse della storiografia si è spostato dalle élite culturali e politiche verso
le classi subalterne, e si è rivolto allo studio della società e dei comportamenti
individuali, aprendosi all’influsso delle altre scienze umane (sociologia e
antropologia). Si è affermata così la categoria della lunga durata, che ha focalizzato
l’attenzione dello storico su fenomeni, come la vita quotidiana, l’alimentazione, la
sessualità, la famiglia, che conoscono un’evoluzione lentissima, e a tratti quasi
impercettibile, rispetto alla quale ben poco significato hanno le periodizzazioni volte a
individuare nel corso degli eventi svolte o rotture.
Un altro dei motivi che hanno indotto molti studiosi a proporre un superamento del
concetto di età moderna è la sua prospettiva eurocentrica, sentita come insufficiente
rispetto alla sensibilità del mondo globalizzato. Di fatto quella periodizzazione è
profondamente radicata nella storia di un’Europa che ha creduto a lungo di incarnare
lo sviluppo della civiltà. Oggi appare superato il pregiudizio che ha indotto a lungo le
storiografie occidentali a considerare i popoli dell’Africa e dell’Asia privi di storia,
degni di essere presi in considerazione solo quando sono entrati nell’orbita
1.6 Postmoderno
CAPITOLO 2
LA POPOLAZIONE
I primi studi dei fenomeni relativi alla popolazione furono compiuti nel XVII secolo ma
solo nel secolo seguente assunse il nome di demografia, termine introdotto per la
prima volta nel 1855. Nella seconda metà del Settecento i tentativi di rendere più
efficiente e razionale la pubblica amministrazione avevano dato vita in diversi Stati
europei a rilevazioni più precise e sistematiche. La svolta si determinò durante la
Rivoluzione francese quando l’Assemblea nazionale costituente fece registrare per
mezzo di pubblici ufficiali le nascite, i matrimoni e le morti di tutti gli abitanti, senza
distinzione, principio che istituì lo stato civile. Questa novità si estese poi
progressivamente a tutti i paesi occupati dalle armate rivoluzionarie e napoleoniche.
In ogni caso nei primi anni dell’Ottocento tutti gli Stati europei organizzarono nella
pubblica amministrazione appositi uffici incaricati di raccogliere le principali
informazioni relative alla popolazione e all’economia: si ebbero così primi censimenti
nominativi dell’intera popolazione. In Italia i censimenti sono partiti subito dopo
l’unificazione nel 1861 e sono proseguiti con cadenza decennale.
Non è facile distinguere fra le varie malattie sulla base delle testimonianze lasciateci
dai contemporanei. A partire dal Cinquecento regredì notevolmente la lebbra, che
aveva invece imperversato nel Medioevo, mentre fece la sua comparsa verso la fine
del Quattrocento la sifilide. Incisero sulla mortalità il tifo e nel Settecento il vaiolo,
che uccideva il 15% di coloro che ne erano colpiti, mentre il colera sarebbe
sopraggiunto solo nel XIX secolo. Tuttavia, nessuna di queste malattie infettive ebbe
un impatto paragonabile a quello devastante della peste. La malattia, già nota nel
mondo antico, ricomparve in Europa a metà del XIV secolo rimanendovi fino ai primi
decenni del Settecento. La forma più diffusa è la peste bubbonica, che si trasmette
per via cutanea e si presenta con febbre alta e la formazione di uno o più bubboni; la
mortalità è di circa il 70%. Se l’infezione avviene attraverso le vie respiratorie e
colpisce i polmoni (peste polmonare) la mortalità è del 100%. La storia demografica
dell’Europa moderna è condizionata dalla peste nera che fra il 1347 e il 1352 colpì
l’intero continente provocando la morte di circa 25 milioni di individui, un terzo della
popolazione. La peste fece la sua ultima comparsa nella metà del 1700, dopodiché
sparì dall’Europa occidentale mentre continuò a colpire nell’Europa orientale e negli
altri continenti.
CAPITOLO 3
LA SOCIETÀ PREINDUSTRIALE: AGRICOLTURA
Grazie allo sviluppo dell’agricoltura e alla ripresa degli scambi commerciali, a partire
dall’XI secolo, le condizioni dei contadini migliorarono notevolmente. Tra il XII e il XIII
secolo decaddero quasi ovunque le limitazioni della libertà personale come l’obbligo
di risiedere sulle terre del signore. A questa evoluzione dei rapporti sociali si
aggiunse, a partire dal XV secolo, la tendenza di principati e monarchie a richiamare
nelle proprie mani quelle funzioni di ordine amministrativo e politico che prima erano
delegati ai signori feudali.
CAPITOLO 4
LA SOCIETÀ PREINDUSTRIALE: MANIFATTURE, COMMERCIO E MONETA
Nell’età moderna fino alla rivoluzione industriale vi furono diversi progressi nella
tecnologia ma non tali da determinare una svolta nella vita economica. A partire dal
IX secolo erano ricomparsi, per poi diffondersi rapidamente, i mulini ad acqua, già
noti nell’antichità. Dal XII secolo aveva fatto la sua comparsa anche il mulino a vento,
diffuso soprattutto nell’Europa settentrionale ma utilizzato anche in Italia. Agli albori
dell’età moderna bisogna ricordare due innovazioni di straordinaria portata: la
stampa e la polvere da sparo. Non cambiarono di molto le tecniche nel settore
tessile, in particolare nell’industria laniera, che rimase centrale nell’economia di
queste società preindustriali. Va segnalato lo sviluppo della lavorazione del cotone e
della seta, introdotti in Europa dall’Asia già nel basso medioevo. Novità importanti si
ebbero nel settore minerario e nella siderurgia. A partire dal Quattrocento grazie alle
nuove tecnologie si poterono scavare pozzi che giunsero fino a 300 metri. Ne derivò
una crescita notevole della produzione di argento e di rame.
La maggior parte della produzione manifatturiera era localizzata nelle città ed era
organizzata su base individuale o familiare, nella forma dell’artigianato. A partire
dall’XI secolo, quando le città si erano affermate come centri di produzione, i vari
settori del lavoro artigianale erano organizzati nelle Arti o corporazioni. Membro
della corporazione era il maestro, padrone della bottega o del laboratorio; egli aveva
uno o più apprendisti, che non erano stipendiati anzi spesso pagavano per poter
apprendere il mestiere, e dei garzoni o lavoranti, salariati, il cui numero variava in
ragione del mestiere svolto. Le funzioni principali della corporazione erano
innanzitutto la difesa del monopolio della produzione da possibili concorrenti esterni,
garantire la stabilità degli equilibri interni, evitando la formazione di posizioni
dominanti, vigilare sulla qualità della produzione, sui prezzi, sui salari e sulla
formazione dei nuovi operatori. Gli illuministi del Settecento svilupparono una dura
polemica nei confronti delle corporazioni, ritenuti responsabili di ostacolare la libertà
del lavoro, in quanto impedivano ad esempio ad artigiani forestieri di esercitare il
mestiere in città, a meno che non apportassero nuove conoscenze tecniche. Non c’è
dubbio che a un certo punto le corporazioni siano divenute un freno allo sviluppo
dell’economia; non a caso, proprio per superare questi ostacoli, si svilupparono
nuove forme di organizzazione della produzione come l’industria dispersa o a
domicilio. Tuttavia, le resistenze suscitate dai tentativi di eliminare le corporazioni
prima della loro abolizione a opera della Rivoluzione francese mostrano con
chiarezza quanto esse fossero radicate nel tessuto sociale proprio per le funzioni che
svolgevano.
4.3 Protoindustria
4.4 I trasporti
Molte novità si ebbero anche nelle costruzioni navali. Rimase a lungo attiva fino al
XVII secolo la galera/galea, che costituì la forza delle flotte genovesi, veneziane e
ottomane. I perfezionamenti della tecnica marinara portarono i paesi atlantici a
sviluppare soprattutto le navi a vela, che divennero protagoniste assolute dei traffici
commerciali e dei combattimenti navali. Il veliero dei mari del Nord era molto diverso
dalla galera mediterranea: superiore di stazza, rotondeggiante e con una stiva
capace, per resistere alla forza dei mari settentrionali. Un’evoluzione di queste
imbarcazioni fu la caravella, di origine portoghese. Molto maneggevole e veloce, non
aveva bisogno di un equipaggio numeroso e perciò poteva imbarcare i viveri per
affrontare lunghi viaggi; per questo fu il mezzo ideale dei viaggi di esplorazione, ma
non era adatta al commercio o alla guerra. Uno sviluppo del veliero fu il galeone,
dotato di un potente armamento di artiglieria, ed era adatto anche al trasporto di
merci.
Uno dei rischi ai quali era esposto il commercio marittimo era l’attacco da parte dei
pirati. Dalla pirateria va distinta, la guerra di corsa, che viene esercitata con il
consenso di un governo contro le navi dello stato nemico. Nel Cinquecento si
4.5 Il commercio
Le origini del sistema monetario in vigore nell’età moderna risalgono alla riforma
realizzata sul finire dell’VIII secolo da Carlo Magno, il quale istituì un sistema fondato
su un’unica moneta di argento, il denaro. L’incremento degli scambi per effetto della
crescita economica iniziata nell’XI secolo rese sempre più inadeguato un sistema
basato su una sola moneta. Si provvide perciò dapprima alla coniazione di multipli del
denaro e poi nella seconda metà del XIII secolo all’emissione di monete d’oro. Per
prime furono Firenze e Genova a coniare nel 1252 rispettivamente il fiorino e il
genovino d’oro, poi seguirono Venezia con il ducato e la Francia con lo scudo. Si
passo così a un sistema di bimetallismo nel quale il valore delle monete era legato al
valore dell’argento e dell’oro, sistema rimasto in vigore fino alla fine del XVIII secolo.
Con l’avvento delle monete che contenevano metalli preziosi, i sudditi iniziarono a
ricavare con la limatura una certa quantità di polvere di argento o di oro; a quel
punto il peso della moneta non corrispondeva più a quello previsto dalla zecca dello
Stato. Proprio per evitare la tosatura, a partire dal Seicento, le monete furono coniate
con un orlo zigrinato, pratica che sopravvive ancora oggi. Ma erano soprattutto i
principi che spesso realizzavano una frode nella coniazione. Le svalutazioni realizzate
nel medioevo e nella prima età moderna furono condannate con severità in quanto
causa di disordine monetario e di danni economici.
Fin da quando nel XIII secolo furono coniate monete d’oro si determinò una netta
differenziazione fra queste ultime, utilizzate negli scambi internazionali, nelle
transazioni finanziarie e nel commercio all’ingrosso, e le monete cosiddette piccole,
che servivano invece per le compravendite quotidiane e per il pagamento dei salari.
La tendenza alla svalutazione interessò in particolare le monete piccole, che
garantivano la circolazione interna ed erano il riferimento per la fissazione dei prezzi:
esse finirono per contenere una quantità sempre minore di metallo prezioso, tanto
CAPITOLO 5
LA SOCIETÀ DI ORDINI: LA GERARCHIA SOCIALE
Nella società di antico regime il posto di ciascun individuo era stabilito fin dalla
nascita in una scala gerarchica considerata per sua natura perfetta, in quanto
riconducibile alla volontà divina. Il cambiamento era quindi di per sé giudicato
negativamente, come una pericolosa rottura di un ordine immutabile. Ciascuno
faceva parte di un gruppo e da questo dipendeva il suo status, ovvero la sua
condizione giuridica particolare. Fino al 1789 la società fu fondata sulla tradizionale
suddivisione in tre ordini distinti: gli oratores, quelli che pregano cioè il clero; i
bellatores, coloro che combattono ovvero la nobiltà; i laboratores, coloro che non
sono né nobili né ecclesiastici e che lavorando producono i beni necessari alla
sussistenza di tutti. La società di antico regime aveva una base corporativa, si poneva
cioè come un variegato universo di corpi, gruppi e comunità ciascuno con una diversa
e definita configurazione giuridica. La Rivoluzione francese, sancendo l’uguaglianza
giuridica, cancellò questo particolarismo, creando le premesse per una società di
individui eguali. La distinzione fra gli individui non si fondava sulla situazione
economica, ciò che contava era lo status, che era riconosciuto all’individuo in base
alla nascita, al ruolo svolto nella società e alle prerogative (privilegi, obblighi,
immunità) che egli condivideva con i corpi collettivi dei quali faceva parte. Era chiaro
che la divisione nei tre ordini rappresentava uno schema vuoto di contenuto in
quanto non corrispondeva alla realtà dell’Europa occidentale, dove già nel basso
medioevo si era formata una élite di mercanti, imprenditori, finanzieri, proprietari
terrieri non nobili, che, per la ricchezza del patrimonio, per la formazione culturale, si
distingueva dalla massa dei laboratores, formando un gruppo intermedio fra i nobili e
il popolo lavoratore. Si è soliti indicare questa élite con il nome di borghesia, ma si
tratta di un termine anacronistico, che non corrisponde alle condizioni della società
preindustriale. Non è possibile utilizzare per questi gruppi la categoria della classe
sociale nel senso moderno del termine. Perché si possa parlare di classe sociale
occorre che un gruppo abbia la consapevolezza della propria collocazione nell’attività
produttiva e degli specifici interessi economici ad essa connessi; questa coscienza era
assente in quegli uomini, che tendevano ad imitare i modelli di vita della nobiltà e
miravano ad uscire dalla loro condizione.
Il primo ordine nei paesi cattolici era il clero. La Chiesa deteneva una quota
importante della proprietà fondiaria. I beni ecclesiastici erano inalienabili ed erano in
5.4 Il patriziato
5.5 La città
Per tanti secoli la città rimase una struttura frammentata in ceti, corpi, comunità e
corporazioni. Questo frammentato mosaico trovava un elemento di coesione
nell’esigenza di controllare il territorio circostante, allo scopo di garantire due
esigenze vitali per l’universo urbano: la difesa da possibili attacchi nemici e il
regolare approvvigionamento di frumento e derrate alimentari, di legname e di
acqua.
All’alba dell’età moderna l’espulsione dalla Spagna nel 1492 e poi nel 1497 dal
Portogallo segnò una svolta decisiva nella storia delle minoranze ebraiche in quanto
colpì la comunità europea più antica, numerosa e radicata. Già alla fine del XIV secolo
si era avuto in Spagna un massacro degli ebrei accompagnato da migliaia di
conversioni forzate; tuttavia anche l’accettazione del battesimo non poneva fine alle
discriminazioni e ai sospetti: proprio dalla necessità di verificare che gli ebrei
convertiti non conservassero la fede ebraica, nacque nel 1478 l’Inquisizione
spagnola. Agli ebrei furono concesse nel 1492 poche settimane per abbandonare le
proprie case e lasciare la Spagna. Coloro che scelsero di partire si diressero nei Paesi
Bassi, nei paesi balcanici e verso l’impero ottomano. Negli stessi anni le espulsioni da
quasi tutte le città tedesche determinarono un esodo verso l’Europa orientale, in
particolare la Polonia.
Nella crisi religiosa del Cinquecento prevalse una considerazione negativa della
presenza ebraica. Lutero pubblicò nel 1543 un violento libro nel quale incitò ad
incendiare le sinagoghe e le case degli ebrei e a limitarne la libertà di movimento;
queste posizioni furono sostanzialmente condivise dalla Chiesa di Roma. Gli ebrei
furono scacciati da tutti i territori italiani soggetti alla Spagna mentre rimasero per
esempio nello Stato della Chiesa, nel Granducato di Toscana e nella Repubblica di
Venezia. Proprio a Venezia si istituzionalizzò una forma di segregazione che avrebbe
caratterizzato tutta la vita dell’ebraismo nell’Europa moderna: il ghetto. In effetti già
in precedenza gli ebrei si erano stabiliti preferibilmente in alcuni quartieri delle città,
dove potevano avere a disposizione le strutture necessarie ai loro riti ed erano stati
soggetti a limitazioni della libertà di spostarsi. Nel 1516 la Repubblica di Venezia
impose agli ebrei l’obbligo di risiedere in un’area separata, che fu chiamata ghetto
perché lì era situato in precedenza una fonderia (detta “getto”). Il nome si diffuse poi
progressivamente in tutta Europa ad indicare le zone destinate alla segregazione degli
ebrei. Il provvedimento veneziano era un compromesso: la segregazione era la
condizione posta per consentire la residenza degli ebrei, in precedenza non ammessi
in città. Nel 1555 il Papa dichiarò in una bolla che gli ebrei dovevano vivere in
quartieri distinti, dai quali non potevano uscire di notte e nelle festività cristiane. Alla
linea fissata da Roma si adeguarono molti Stati italiani: nel Settecento si contavano
nella penisola 41 ghetti nei quali viveva il 75% degli ebrei. Faceva eccezione Livorno,
l’unica città italiana nella quale non si stabilì un ghetto. L’istituzione del ghetto,
circondato da mura, con i portoni chiusi al tramonto e sorvegliati da guardie, obbligò
CAPITOLO 6
LE FORME E LE STRUTTURE DEL POTERE
Lo Stato moderno si è affermato nell’Europa occidentale agli inizi del XIX secolo ed è
stato adattato da tutti i popoli civilizzati . Esso si caratterizza come un organismo
politico dotato di piena sovranità sul territorio e sugli individui sottoposti alla sua
autorità, in quanto dispone del monopolio legittimo della forza, sia all’interno per
garantire l’ordine, sia all’esterno nei confronti degli altri Stati. In tal senso lo Stato
moderno è Stato di diritto, che regola la vita della società attraverso un ordinamento
giuridico uniforme, fondato su norme astratte, generali e impersonali. Esso ha
assunto a partire dal XIX secolo il carattere di Stato nazione, in quanto organizzazione
politica di una popolazione che ha maturato una coscienza della propria identità
sulla base di comuni caratteri etnici, linguistici, storico-culturali. Questo tipo di Stato
è sorto storicamente dalla Rivoluzione francese, la quale stabilì l’uguaglianza
giuridica di tutti cittadini, imponendo così l’idea della legge generale e astratta, e
diede l’impulso decisivo alla nascita della moderna idea di nazione che ha dominato il
panorama politico dell’età contemporanea.
Particolarmente importante fu, fra il XVI e il XVII secolo, la definizione del concetto di
sovranità. Nel medioevo il potere sovrano non aveva il carattere di assolutezza che
avrebbe acquisito nel corso dell’età moderna. Lo si definiva come summa potestas o
summum imperium, proprio per indicare che esso non era esclusivo ma si poneva al
di sopra di una molteplicità di poteri. A questo potere era affidata l’amministrazione
della giustizia, il mantenimento dell’ordine, la riscossione di imposte, la gestione
dell’esercito. L’autorità del sovrano quindi doveva affermarsi attraverso un
complesso sistema di mediazione e di transizione con i poteri subordinati. I termini
essenziali del moderno concetto di sovranità si trovano negli scritti di Jean Bodin
(1576): egli indicò come principale caratteristica della sovranità il potere di
promulgare leggi senza il consenso dei sudditi. Bodin distinse la consuetudine, che si
impone col tempo e per consenso comune, dalla legge, che esprime la volontà di
colui che ha il potere di comando, l’imperium. La legge prevale sulle altre forme del
diritto proprio in quanto espressione della volontà del sovrano. Su queste basi Bodin
poteva affermare che il sovrano è legibus solutus, cioè sciolto dalle leggi, al di sopra
di tutte le leggi delle quali è lui stesso l’artefice. In realtà, aldilà delle rappresentazioni
elaborate dalla dottrina politica, la monarchia nell’età moderna fu ben lontana
dall’assolutismo descritto dai suoi teorici.
In questo periodo si cominciò a considerare la Corona come ente distinto rispetto alla
figura del re, primo passo verso l’elaborazione del concetto di Stato come persona
giuridica; tuttavia rimase viva la tradizionale concezione patrimoniale dello Stato,
inteso come possesso di un certo territorio da parte di una dinastia. Di conseguenza i
confini fra gli Stati si presentavano in modo tutt’altro che chiaro e definito: un
territorio apparteneva a un sovrano per diritto dinastico, acquisito per eredità o per
cessione o attraverso un trattato o per incameramento di un feudo. Solo dopo la
Rivoluzione francese il confine assunse il significato di limite della sovranità e per
questo presentò una tipica forma lineare, con la funzione di separare due comunità
nazionali ben identificate. Per questo non è esatto definire la Francia e l’Inghilterra
come monarchie “nazionali” proprio perché non si era ancora affermata la moderna
idea di nazione. In definitiva, per l’età prerivoluzionaria è opportuno parlare di Stati
di antico regime come forme intermedie fra la realtà politica medievale e lo Stato
ottocentesco.
Non a caso nel XIX secolo il concetto di Stato si impose come punto di riferimento
centrale della riflessione politica. Decisiva in tal senso fu l’elaborazione della nozione
di società civile come entità autonoma, distinta rispetto al piano propriamente
6.6 La corte
Nell’età moderna un posto centrale nella vita politica ebbero i segretari di Stato, le
cui segreterie erano il vertice della macchina burocratica. In Inghilterra e in Francia
dall’evoluzione di queste funzioni, emerse progressivamente la figura dei moderni
ministri. Tuttavia, l’indirizzo politico fu spesso riservato a un uomo la cui autorità si
fondava esclusivamente sulla fiducia del re. Decisivo per il concreto esercizio
dell’autorità era il controllo del territorio. Le monarchie per imporre la loro volontà
sulle periferie si servirono di commissari nominati e dipendenti dal governo centrale.
La struttura burocratica creata dalle monarchie per rendere più efficace l’influenza
del centro sulle periferie non annullò la realtà preesistente ma si sovrappose a essa.
6.9 La giustizia
La sacralità del potere monarchico, legata alla sua origine divina, si rifletteva sui
rapporti con l’autorità ecclesiastica e in particolare nella volontà di accreditarsi come
protettore della Chiesa e baluardo della fede. In questo senso si coglie il significato
dei titoli di “cristianissimo” del quale si fregiava il re di Francia, o di “re cattolici”,
conferito ai sovrani dopo la presa del regno musulmano di Granada. Il problema dei
rapporti fra il potere politico e l’istituzione ecclesiastica si pose in termini
profondamente diversi nei territori che aderirono alla Riforma protestante. Per
quanto riguarda i paesi cattolici, rimase il tradizionale dualismo dei due poteri
separati, la Chiesa e lo Stato, le cui relazioni costituivano un aspetto centrale degli
equilibri politico-istituzionali e sociali. Lo Stato tendeva ad affermare le prerogative
spettanti al sovrano in materia di religione , rivendicando non solo il compito di
proteggere l’istituzione ecclesiastica, ma anche il diritto di controllarla e di intervenire
per riformarne gli abusi. In ogni caso gli Stati erano ben attenti a evitare che gli atti
del Papa avessero immediata validità all’interno del loro territorio. In generale
l’esigenza di limitare e controllare il potere della Chiesa, nei suoi aspetti istituzionali,
giuridici ed economici, fu una componente imprescindibile del processo di
rafforzamento del potere monarchico e della struttura statale. I nodi decisivi in tal
senso erano il diritto di nomina delle principali cariche ecclesiastiche e la possibilità
di ricavare dalle proprietà della Chiesa un contributo alle finanze statali.
6.11 Le finanze
Nell’età medievale le relazioni fra gli Stati erano affidate in generale ad ambascerie
occasionali, che avevano l’obiettivo di comporre i contrasti o potenziali conflitti, di
Un elemento di novità che contribuì al superamento dei caratteri tipici della guerra
medievale, fu la formazione di eserciti interarmi, nei quali cioè accanto alla cavalleria
pesante era prevista la presenza di balestrieri, arcieri e di nuclei di fanteria. La
cavalleria, composta di uomini reclutati su base feudale, era stata l’arma tipica
dell’età medievale e il nucleo centrale degli eserciti fino al XIII secolo. La formazione
di questi eserciti interarmi, che implicava naturalmente una struttura organizzativa e
logistica più complessa e una trasformazione dei piani tattici, fu il primo segnale di
cambiamento. Soprattutto risultò decisivo, per il tramonto della guerra medievale,
l’avvento delle fanterie, imposto dai trionfi conseguiti dall’ esercito svizzero. Questo
si presentava come una fitta muraglia di picche, portate da file serrate di uomini che
si muovevano in formazioni compatte a forma di quadrato. Questo schiarimento era
protetto da arcieri e balestrieri, e da tiratori dotati di armi da fuoco portatili
(archibugi e poi moschetti). Esso si rivelò in tal modo un ostacolo insuperabile per le
cariche della cavalleria. La centralità della fanteria nella struttura degli eserciti impose
una nuova forma di reclutamento: il re ora poteva liberarsi dai vincoli con i potenti
signori feudali e assicurarsi il monopolio delle forze militari assoldando fanterie.
Naturalmente era necessario a tal fine disporre di entrate finanziarie regolari
cospicue.
Il predominio delle fanterie svizzere durò solo fino ai primi anni del XVI secolo, in
quanto la crescente importanza delle armi da fuoco determinò la necessità di un
ulteriore evoluzione della tecnica militare. Lo sviluppo delle armi da fuoco individuali
(dal primitivo schioppo all’archibugio fino al moschetto, che si affermò a partire dalla
metà del XVI secolo), le rese sempre più maneggevoli e leggere e ne migliorò la
funzionalità. Per effetto di questi progressi scomparvero progressivamente dei campi
di battaglia l’arco e la balestra. Nel corso del XVI secolo le armi da fuoco
Quanto all’artiglieria, essa per un lungo periodo non ebbe un’incidenza significativa
sui campi di battaglia a causa delle difficoltà del trasporto, della lentezza della
cadenza del tiro, della scarsa precisione e della limitata gittata. Solo nella seconda
metà del Quattrocento i progressi tecnici misero a disposizione degli eserciti cannoni
più robusti, leggeri e precisi. Contro il fuoco di queste bombarde era indifendibile il
castello medievale, simbolo della nobiltà feudale, che infatti si trasformò
progressivamente in una residenza di campagna, priva di valore strategico. Tuttavia,
fu rapidamente trovata la risposta alla nuova temibile arma, con la costruzione di
fortezze bastionate di forma poligonale, un sistema di difesa che comportava costi
enormi. Le mura divennero più basse e furono rese più spesse e resistenti; inoltre i
torrioni divennero sporgenti oltre il perimetro delle mura per controllare l’artiglieria
nemica e impedire attacchi di sorpresa. La diffusione e i perfezionamenti
dell’architettura bastionata provocarono una progressiva transizione verso una
guerra statica, di posizione, incentrata su lunghi assedi. I progressi della tecnica
militare determinarono la formazione di eserciti permanenti di grandi dimensioni .
Nella prima metà del XVII secolo gli Stati più importanti mantenevano non meno di
100.000 uomini in armi. Cambiò anche il mestiere del soldato: le truppe erano
sottoposte a un capillare addestramento, composte da professionisti e mercenari.
Importanti trasformazioni riguardarono anche la guerra sui mari. Gli scontri navali
rimasero a lungo legati allo schema tradizionale dello speronamento e
dell’arrembaggio, che trasformava la battaglia in un corpo a corpo. La più grande
battaglia navale del XVI secolo (Lepanto, 7 ottobre 1571) si svolse secondo questa
tipologia e fu vinta dai cristiani su quelle ottomane. La situazione cambiò con lo
sviluppo della marineria a vela e con l’utilizzo dell’artiglieria. L’eliminazione dei
problemi generati dai cannoni posero le premesse per la comparsa del galeone.
CAPITOLO 7
IL SISTEMA DEGLI STATI ALLE SOGLIE DELL’ETÀ MODERNA
L’impero era una confederazione che comprendeva centinaia di Stati assai differenti
per status e per estensione, largamente autonomi. Un passaggio fondamentale
nell’organizzazione istituzionale si era avuto con la Bolla d’Oro emanata nel 1356 da
Carlo IV, che assegnava l’elezione alla corona imperiale a sette principi elettori.
Organo centrale era la Dieta, le cui deliberazioni avevano valore di legge generale.
Convocata dall’imperatore con frequenza irregolare, la Dieta era divisa in tre ordini:
collegio dei principi elettori; il collegio dei principi e dei signori territoriali, nel quale
erano rappresentati i principi ecclesiastici (arcivescovi, vescovi e abati), i principati e i
signori minori, laici ed ecclesiastici; il collegio dei rappresentanti delle città libere .
Dal 1438 il titolo di imperatore era diventato appannaggio della casa di Asburgo, che
lo avrebbe tenuto fino alla fine del Sacro Romano Impero nel 1806. Questa continuità
dinastica, rafforzata fra l’altro dalla consuetudine di far eleggere, quando era ancora
in vita l’imperatore, il suo successore designato come re dei Romani, diede
indubbiamente maggior peso alla corona imperiale.
Il primo nucleo della Confederazione Svizzera fu rappresentato dalla lega stretta nel
1291, a difesa dei loro diritti, e che diede il nome a tutta la confederazione, detta
anche elvetica dal nome romano del popolo di origine celtica. Pur non disconoscendo
la sovranità dell’impero e l’autorità signorile degli Asburgo, la lega era animata da un
forte spirito di indipendenza. Nel 1353 la Confederazione comprendeva otto Stati,
che venivano chiamati comunemente cantoni. Nel XIV secolo, dopo diverse battaglie,
la Confederazione riuscì a emanciparsi dal dominio degli Asburgo, e con la pace di
Basilea (1499) ottenne l’affrancamento dalla sovranità dell’impero. Fra la fine del
Quattrocento e gli inizi del Cinquecento i confederati furono rafforzati da nuove
adesioni. Nel 1513 era di fatto formata la cosiddetta Antica Confederazione,
composta di 13 cantoni, che sarebbe stata riconosciuta ufficialmente solo dalla pace
di Vestfalia del 1648 e che sarebbe sopravvissuta fino al 1798. La Confederazione non
presentava un forte potere federale perché i cantoni erano gelosi della loro
autonomia.
Sul confine tra l’impero e la Francia si formò sotto i duchi di Borgogna uno Stato che
durò poco più di un secolo ma ebbe una decisiva importanza nella formazione degli
equilibri politici all’inizio dell’età moderna. Il Ducato di Borgogna ebbe un’origine
feudale nel 1364, legati al re di Francia a partire dalla metà del XIV secolo . Tuttavia,
fin dall’inizio essi adottarono una spregiudicata politica volta a creare un ampio Stato
indipendente; a tal fine, pur essendo nominalmente vassalli del re di Francia, si
schierarono nella guerra dei Cento anni dalla parte dell’Inghilterra, e poi si posero a
7.6 La Spagna
Alla fine del XV secolo, nella penisola iberica la presenza musulmana era ridotta ormai
al solo regno di Granada. La nascita della Spagna moderna prese avvio dal
matrimonio celebrato nel 1469 fra Isabella e Ferdinando, eredi rispettivamente della
corona di Castiglia e di Aragona. La successione di Isabella sul trono castigliano nel
1474 fu contestata e provocò una guerra civile che durò fino al 1479, anno in cui, con
la contemporanea salita al trono aragonese del marito Ferdinando, si realizzò
definitivamente l’unione dei due regni. Si trattò di un’unione personale, in quanto i
due regni mantennero ciascuno le proprie leggi e le proprie istituzioni. Il regno
aragonese, composto di tre province, l’Aragona, la Catalogna e Valencia, possedeva
la Sicilia e la Sardegna e aveva installato un ramo della dinastia sul trono del regno di
Napoli. Ben maggiore era il peso economico e demografico della Castiglia. La
supremazia castigliana si manifestò fin dall’inizio nella decisione di Ferdinando di
risiedere nel regno di sua moglie e di delegare stabilmente l’amministrazione dei suoi
domini ereditari a dei viceré. L’azione dei due sovrani realizzò un notevole
rafforzamento dell’autorità della monarchia in Castiglia, dove si pose innanzitutto il
problema di combattere la prepotenza nobiliare e la diffusa violenza. A tal fine la
monarchia, appoggiandosi sul consenso delle città, riorganizzò le milizie urbane che
represse con durezza le aggressioni e le violenze private. In Castiglia la monarchia
7.7 L’Inghilterra
Uscito vincitore dalla Guerra delle due rose fra le famiglie di York (rosa bianca) ed i
Lancaster (rosa rossa) (1455-1485), Enrico VII Tudor (1485-1509) si occupò di
restaurare l’autorità della monarchia contro le congiure e le violenze della nobiltà
feudale e si guadagnò così il consenso degli abitanti delle città e della piccola e media
nobiltà. Egli governò con un ristretto numero di uomini di sua fiducia e si servì per
rafforzare la propria autorità della corte della Camera stellata, un tribunale che si
Nel 1386 il regno di Polonia, la cui corona era elettiva, fu unito per matrimonio al
Granducato di Lituania del quale era titolare la famiglia degli Jagelloni. La Lituania
era uno Stato molto esteso che comprendeva la Bielorussia e l’Ucraina e giungeva
fino al Mar Nero. La federazione polacco-lituano rappresentava perciò all’epoca il più
vasto Stato dell’Europa orientale. Sotto la guida degli Jagelloni la Polonia sconfisse
l’Ordine dei cavalieri teutonici e acquisì nel 1466 la Prussia occidentale ottenendo
uno sbocco sul mare; la Prussia orientale rimase all’Ordine, che però dovette
riconoscersi vassallo della corona polacca. La Polonia restava tuttavia uno Stato
fragile soprattutto perché era dominata da una potente classe aristocratica. Il re, già
indebolito dal carattere elettivo della corona, era fortemente condizionato dalla
Dieta, formata da un Senato, nel quale sedevano gli esponenti delle grandi famiglie di
latifondisti e i vescovi, e da una Camera dei Deputati eletti nelle Dietine provinciali
dalla numerosa piccola nobiltà. Nessuna rappresentanza avevano il clero come
ordine, le città e le campagne. Nel 1505 la Dieta impose al re Alessandro Jagellone
(1501-1506) una convenzione per cui senza il suo consenso non avrebbe potuto
stabilire niente nello Stato. Gli Jagelloni alla fine del XV secolo estesero ancora la loro
influenza sistemando un membro della loro famiglia sui troni di Boemia e di
Ungheria, rimasti vacanti. Quanto ai regni di Danimarca, Svezia e Norvegia,
dall’unione di Kalmar del 1397 erano uniti in regime di legame personale sotto
l’egemonia dei re danesi.
7.9 La Russia
Fra i molti Stati a Oriente della Lituania, cominciò a emergere già agli inizi del
Trecento il Ducato di Moscovia, che ampliò progressivamente i propri confini. Il
fondatore dello Stato russo fu Ivan III il Grande (1462-1505) che occupò la grande
Repubblica di Novgorod (nord della Russia, affacciata sul Mar Baltico), assumendo il
titolo di sovrano di tutta la Russia. All’interno limitò il potere dell’aristocrazia, ai quali
contrappose un ceto di nuovi nobili legati al servizio della monarchia . Egli importò
dall’Oriente le armi da fuoco e adottò le nuove tecnologie militari per la costruzione
delle fortezze, per cui accrebbe notevolmente la pressione fiscale sul mondo
contadino. Molto importante fu il trasferimento dell’arcivescovo ortodosso da Kiev a
CAPITOLO 8
CIVILTÀ E IMPERI EXTRAEUROPEI
8.1 L’Africa
Gli studi sull’Africa sono stati condizionati dalla scarsità e dalla poca attendibilità delle
fonti disponibili. Molto importante per la storia del continente fu l’espansione
dell’Islam, che conquistò prima i paesi che si affacciavano sul Mediterraneo, il
cosiddetto Maghreb, e si diffuse poi, con maggior lentezza e difficoltà, nell’Africa
occidentale e orientale. La penetrazione mussulmana rappresentò un forte incentivo
allo sviluppo delle attività commerciali e dell’urbanizzazione. Lungo le rotte del
commercio transahariano si svilupparono città dove transitavano i prodotti dell’Africa
meridionale (oro, avorio, pelli e schiavi) scambiati con il sale e altri prodotti dell’Africa
settentrionale.
Alle soglie dell’età moderna si formò il regno Songhai, che approfittò del declino del
precedente impero islamizzato del Mali per acquisire il controllo dell’altro corso del
Niger; nella metà del XV secolo si impadronirono di importanti città, nodi dei traffici
delle carovane. Il regno del Marocco, l’unico dell’Africa settentrionale a non essere
soggetto gli ottomani, nel 1591 sconfisse il regno Songhai provocandone la
scomparsa.
8.2 La Cina
La storia della Cina moderna inizia dalla caduta della dominazione mongola di Kublai
Khan (nipote di Gengis Khan), grazia a una insurrezione militare capeggiata da un ex
monaco buddista, il quale prese il potere nel 1368 assumendo il nome di Hongwu e
diede inizio alla dinastia Ming (luminosa) durata fino al 1644. L’economia cinese si
fondava su un’agricoltura che presentava caratteristiche molto diverse rispetto a
quella europea. Dominava il riso, che assicurava l’alimentazione della popolazione
con rese superiori rispetto a quelle del frumento. Si coltivavano anche the, cotone e
soia. Rispetto all’agricoltura europea si utilizzavano pochi strumenti agricoli e molto
scarsi erano anche gli animali. Nel periodo Ming vi fu un notevole sviluppo delle
manifatture (seta, cotone e porcellana) e una crescita dei centri urbani. L’andamento
demografico della Cina presenta analogie con quello dell’Europa occidentale, in
quanto anch’essa fu gravemente colpita dalla peste della seconda metà del XIV
secolo e conobbe una rapida ripresa della popolazione, che passò nel periodo Ming
da 65 a 150 milioni. Anche la Cina ebbe un forte incremento demografico nel
Settecento ma nell’Ottocento, a differenza dell’Europa, non superò lo stato di
arretratezza e patì conflitti e carestie che arrestarono la crescita. Il periodo Ming
coincise con un rafforzamento del potere centrale. Hongwu eliminò la carica di Primo
Ministro per governare personalmente. Egli riportò in auge il Confucianesimo, che
considerava funzionale a questo indirizzo politico: non si trattava di una religione, ma
di un insieme di dottrine, risalenti a Confucio, vissuto fra il VI e il V secolo a.C., che
elaboravano principi e credenze dell’antica civiltà cinese e ponevano una serie di
regole per il buon funzionamento della comunità, valorizzando il rispetto delle
8.3 Il Giappone
Un primo nucleo di organizzazione politica si formò, sul modello cinese, a partire dal
VII secolo a Kyoto, intorno alla corte dell’imperatore, che però ebbe un’autorità
La dinastia dei Safawidi, destinata a regnare fino al 1722, iniziò quando Ismail I,
membro di una famiglia di sceicchi originaria della Persia occidentale, riuscì a
sottoporre al suo dominio gran parte del territorio persiano fino al Golfo Persico. Nel
1501 si proclamò primo shah dell’Iran, dando inizio alla dinastia. Nel 1514 una grave
sconfitta da parte dell’esercito ottomano lo costrinse ad abbandonare diversi
territori. Fin dall’inizio, lo Stato persiano ebbe come suo principale nemico l’impero
ottomano, con il quale fu costantemente in lotta. Ai motivi politico-territoriali di
conflitto si aggiunse una contrapposizione di natura religiosa gravida di conseguenze
future. Mentre l’impero Ottomano si poneva come erede dell’ Islam sunnita, i
Safawidi imposero come religione nazionale l’ Islam sciita, che considerava degli
usurpatori i primi tre califfi, riconosceva come suo successore legittimo di Maometto
il quarto, il cugino e genero Alì e i suoi discendenti, e negava il carattere elettivo del
califfato, sostenuto invece dai sunniti. Questa posizione religiosa era anche il
fondamento della legittimità dei Safawidi, che si ponevano come eredi diretti di un
discendente del profeta. Un contributo decisivo al rafforzamento della dinastia venne
dallo shah Abbas I il Grande (1587-1629) il quale, riordinato l’esercito su nuove basi,
ottenne importanti vittorie su gli Ottomani conquistando diversi territori fino a
Baghdad. Abbas si impegnò anche a incentivare il commercio fondando nel 1623 sul
Golfo Persico un porto. Con Abbas l’impero raggiunse al suo massimo splendore.
Dopo la sua morte l’impero si avviò a un lento declino, segnato dalla lotta con
l’impero ottomano per il possesso della Mesopotamia, che alla fine fu stabilmente
occupata dei sultani di Istanbul. Nel 1722 l’impero fu travolto da un’invasione degli
afghani. Grazie alle imprese di Nadir Quli (1736-1747) i persiani riuscirono a
sconfiggere gli afghani e ad occupare tutto il loro territorio. Guidati dal nuovo shah
invasero l’India occupando Delhi e posero fine all’impero Moghul. Alla morte di Nadir
la Persia piombò in un periodo di anarchia e di sanguinose guerre civili.
Nel XIII secolo nella parte settentrionale del continente indiano si era stabilito uno
Stato musulmano, il sultanato di Delhi. Nel 1398 però il sultanato cadde in una
condizione di anarchia, caratterizzata da ripetute frammentazioni del territorio e da
frequenti insurrezioni e rivolte. Nell’India meridionale vi erano invece vari principati
induisti. Il processo di riunificazione fu avviato da un capo militare afgano di fede
musulmana chiamato Babur (tigre), che fra il 1526 e l’anno della sua morte nel 1530
conquistò Delhi creando nell’India nord-occidentale un ampio dominio destinato a
rappresentare il primo nucleo dell’ impero Moghul (o mongolo). Il consolidamento
dell’impero fu opera del nipote di Babur, Akbar il Grande (1556-1605), che riuscì a
L’impero Moghul costruì nel tempo una struttura amministrativa solida, che consentì
ai sovrani un efficace controllo sulle varie regioni dello Stato. A tal fine era centrale la
figura che rappresentava il comandante militare e il capo amministrativo della
circoscrizione a lui affidata. Egli aveva competenza sulle questioni militari e sulla vita
economica del territorio, e doveva garantire il rispetto della legge e il mantenimento
dell’ordine pubblico. L’economia dell’impero si fondava su un’agricoltura di
sussistenza, generalmente arretrata. La sua scomparsa segnò l’inizio della crisi. Nel
1739 Nadir invase l’India e occupò Delhi. Finì così l’impero Moghul.
Agli inizi del XVI secolo, quando arrivarono gli spagnoli, in America esistevano civiltà
millenarie che avevano sviluppato forme di organizzazione politica, economica e
sociale di livello assai elevato: in particolare gli Aztechi e i Maya nel Messico e
nell’America centrale, e gli Inca nella regione andina. La base dell’economia era
l’agricoltura (mais, patata, pomodori, fagioli, peperoni e zucche). L’allevamento del
bestiame non era molto praticato. Nella zona andina molto importanti erano i lama,
usati come bestie da soma, l’alpaca per la lana. Fra gli animali domestici erano
conosciuti solo il tacchino, l’anatra e il porcellino d’India. L’artigianato produceva
ceramiche artistiche, tessuti preziosi e monili in oro, argento e rame. Queste civiltà,
fermi all’età della pietra, non conoscevano il ferro e non utilizzavano la ruota, ma
costruirono grandi opere pubbliche (canali di irrigazione, strade) e splendide città con
imponenti complessi monumentali dedicati alle cerimonie e al culto.
Gli Aztechi erano una popolazione originaria del Messico settentrionale, proveniente
da una leggendaria terra chiamata Aztlan, da qui il nome di aztechi divenuto di uso
comune nel XIX secolo. Dopo varie migrazioni, nel XIV secolo gli aztechi si erano
stabiliti sull’altopiano centrale fondando il primo nucleo di quella che sarebbe
diventata Città del Messico, la grande capitale del loro impero. Gli aztechi si
espansero fino a controllare tutto il Messico centro-meridionale e estesero il proprio
territorio fino alle coste del Pacifico e dell’Atlantico, penetrando anche nel territorio
dei Maya. Sotto il regno di Montezuma II (1503-1520) l’impero comprendeva almeno
38 province, ma non era uno Stato unitario, bensì una sorta di federazione di popoli
sottomessi; gli aztechi infatti non annettevano i territori conquistati ma lasciavano
loro un’ampia autonomia: si accontentavano di controllare il commercio e di imporre
tributi. Questa situazione fu abilmente sfruttata dagli spagnoli. Gli aztechi usavano
una scrittura pittografica. Non conoscevano la moneta. La società era articolata in
classi, secondo una rigida gerarchia sociale. Al vertice c’erano il sovrano e la nobiltà,
formata dalle antiche aristocrazie tribali e da uomini nobilitati per meriti di guerra .
Questa nobiltà aveva vari privilegi: non pagavano tributi e poteva possedere terreni. I
mercanti di oggetti di lusso e gli artigiani, riuniti in corporazioni, avevano una
condizione privilegiata; vi erano infine i contadini, ai quali la comunità, formata da
clan che si richiamavano a una comune discendenza, assegnava la terra da coltivare.
Vi erano poi gli schiavi (prigionieri di guerra o colpevoli di delitti), utilizzati come
domestici ma non del tutto privi di diritti. Gli aztechi avevano un gran numero di
divinità, anche perché adottavano quelle dei popoli sottomessi. Essi credevano in un
ordine cosmico al quale gli stessi dei erano sottomessi. I loro dei erano
personificazioni delle forze della natura (sole, pioggia, vento, ecc.), dalle quali
dipendevano la prosperità e la rovina della società. I sacrifici umani, che ogni anno
immolavano un gran numero di vittime, anche bambini, talora con pratiche
particolarmente crudeli, miravano ad alimentare e rinvigorire con il dono del sangue
umano gli dei nella loro lotta contro le forze ostili. Poiché i prigionieri di guerra erano
l’offerta più pregiata per il Dio, gli aztechi combattevano anche per procurarsi vittime
sacrificali.
L’impero Inca era il più potente dell’America precolombiana . La parola “inca” era il
titolo dato al sovrano della città-Stato di Cuzco, situata a 3500 metri di altezza nel
Perù meridionale, nucleo originario dell’impero. In seguito, è passata a designare
l’impero e la sua popolazione. L’espansione degli Inca si realizzò nel corso del XV
secolo quando con varie spedizioni sottomisero la regione andina spingendosi fino
all’Ecuador; quindi occuparono l’attuale Bolivia e penetrarono in Cile e nell’Argentina
settentrionale. Alla morte del sovrano Càpac nel 1527, si aprì una lotta per la
successione fra i due figli che si risolse con la vittoria di Atahualpa. Gli spagnoli
arrivarono proprio mentre era in atto questa guerra civile. A differenza degli aztechi,
CAPITOLO 9
UMANESIMO E RINASCIMENTO
La crisi delle libertà comunali modificò il quadro nel quale si era affermato il primo
umanesimo: nelle nuove condizioni politiche gli umanisti furono chiamati a illustrare
con le loro opere la figura dei signori o dei principi e a formare i quadri dell’apparato
burocratico-amministrativo dei nuovi regimi. Letterati e artisti iniziarono a trovare
protezione e sostegno economico dalle grandi famiglie principesche, i Gonzaga a
Mantova, gli Este a Ferrara, i Montefeltro a Urbino. Mutò così anche l’immagine
dell’umanista. Se alla metà del Quattrocento Leon Battista Alberti, grande architetto
e raffinato letterato, aveva posto come ideale della cultura umanistica la formazione
Nel frattempo, la cultura umanistica si era progressivamente staccata dalle sue radici
italiane e si era trasformata nel corso del Quattrocento, attraverso la circolazione
degli uomini e delle idee, in un fenomeno europeo. Il metodo critico e storico che
essa impose nello studio del mondo antico divenne patrimonio comune di tutta la
cultura dell’epoca, intrecciandosi con le inquietudini provocate dalle radicali
trasformazioni politiche e religiose che caratterizzarono il passaggio dal Quattrocento
al Cinquecento. Fra gli intellettuali europei che ispirarono la loro attività ai canoni
umanistici ricordiamo in particolare Erasmo da Rotterdam.
Per realizzare il loro progetto di rinascita degli studi classici, gli umanisti si
dedicarono a una paziente opera di ricerca di manoscritti nei monasteri di tutta
Europa. Ancora più importante fu la riscoperta del greco, ignorato nella cultura
occidentale del medioevo. Alla diffusione della lingua greca concorsero anche
intellettuali bizantini, riparati in Italia per sottrarsi alla minaccia ottomana. È grazie a
questo movimento che fu recuperato quasi tutto il corpo della letteratura greca che
oggi conosciamo. In particolare, si impose all’attenzione della cultura europea la
filosofia di Platone. In generale, la rinascita della cultura classica promossa
dall’umanesimo favorì un allargamento della circolazione dei testi latini e greci,
dapprima attraverso il moltiplicarsi delle copie manoscritte e poi in misura ancora più
grande grazie alla rapida diffusione della stampa, che permise di predisporre in tempi
molto rapidi un elevato numero di copie di un’opera. La tecnica della stampa a
caratteri mobili, nota dal X secolo in Cina, fu messa a punto a Magonza da un orafo
tedesco, Johann Gutenberg, intorno alla metà del XV secolo. Con questa tecnica fu
realizzata fra il 1454 e il 1455 la Bibbia latina a due colonne detta mazzarina dalla
coppia posseduta dal cardinale Mazzarino, che si considera il primo grande libro a
stampa. Le tipografie si diffusero velocemente in tutta Europa, dando un contributo
decisivo all’allargamento della vita culturale. Fu questa l’età in cui si formarono le
prime biblioteche, la prima delle quali fu proprio quella di Petrarca.
A segnare la differenza rispetto alla cultura medievale fu la disciplina nella quale gli
umanisti erano portati, la filologia, vale a dire l’analisi critica e storica del testo.
Questo metodo implicava innanzitutto il ripristino della versione originaria, ripulita
dagli errori, dai travisamenti, dalle deformazioni dei copisti, degli antichi interpreti,
dei commentatori e dei traduttori medievali. Il medioevo si era preoccupato
soprattutto di conciliare lo studio dei classici pagani con i principi del cristianesimo.
9.4 L’arte
Molti hanno ritenuto che il germe della modernità vada individuato nella rivoluzione
scientifica che segnò l’affermazione del metodo sperimentale, per cui il vero
momento di discontinuità rispetto all’età medievale andrebbe posto fra la fine del
Cinquecento e l’inizio del Seicento. È infatti, per esempio, nel 1543 che Niccolò
Copernico, astronomo polacco, propose l’ipotesi eliocentrica, che poneva al centro
del cosmo non la Terra ma il sole. Assai diffusa e praticata era all’epoca l’astrologia,
vale a dire lo studio degli influssi che il moto degli astri ha su tutti i movimenti del
mondo terreno, e quindi anche sulle passioni e sui caratteri dell’uomo. Non erano
ancora ben definiti invece i confini fra la chimica e l’alchimia, vale a dire il complesso
di teorie e di pratiche che miravano alla trasmutazione dei metalli in oro o alla
scoperta di sostanze in grado di prolungare la vita. Occorre aspettare il 1687, con i
“Principi matematici di filosofia della natura” di Newton per sancire la definitiva
frattura fra la scienza moderna e le teorie di matrice magico-alchimistiche. D’altra
parte, gli umanisti furono molto interessati ai problemi di ordine scientifico. Essi
riportarono alla luce infatti le opere di matematica, geometria, astronomia, geografia
Erasmo si fece fautore di un ritorno alle origini non solo per quanto concerne le
fonti, ma anche nel sentimento religioso, che egli voleva semplice e puro, lontano da
ogni esteriorità, fedele allo spirito evangelico . Nei suoi scritti egli criticò gli eccessi
della devozione, il culto delle reliquie, i digiuni, le veglie, le mortificazioni della carne,
i pellegrinaggi, insomma tutte quelle forme di religiosità esteriore che riteneva
estranee al vero spirito del cristianesimo. Il suo ideale di vita cristiana si trova
espresso con particolare efficacia nel testo “Elogio della follia”, pubblicata nel 1511
in Inghilterra. Erasmo, per bocca della follia, intesa come insensatezza e non nel
senso di malattia mentale, paragona la vita a una rappresentazione nella quale
ognuno degli attori porta una maschera. Che succederebbe se qualcuno rompesse la
finzione per mostrare gli attori con le loro facce vere e naturali? Tutta l’efficacia del
dramma sarebbe distrutta proprio perché è la finzione a tenere legati gli spettatori.
Nella seconda parte l’opera sviluppa una satira nei confronti di tutti i protagonisti
della vita culturale e sociale: re, nobili, grammatici, poeti, filosofi, teologi, uomini di
Chiesa, tutti ostentano una falsa sapienza che in realtà è follia . Folli i principi a
CAPITOLO 10
LE SCOPERTE GEOGRAFICHE E GLI IMPERI PORTOGHESE E SPAGNOLO
Negli anni seguenti, in particolare per impulso del re Giovanni II (1481-1495), mutò la
natura di questi viaggi. Maturò infatti la convinzione che fosse possibile
circumnavigare l’Africa allo scopo di raggiungere le Indie via mare e acquistare le
spezie direttamente dei produttori senza l’intermediazione veneziana. All’epoca si
riteneva che il continente fosse molto più corto e avesse una forma tondeggiante,
facile quindi da circumnavigare. Per primo tentò l’impresa Bartolomeu Diaz che nel
1487 raggiunse la punta meridionale dell’Africa, chiamata poi Capo di Buona
Speranza.
Nel 1499-1500 e nel 1501-1502 il fiorentino Amerigo Vespucci prese parte a due
spedizioni, la prima organizzata dalla Spagna e la seconda dal Portogallo, che
esplorarono le coste atlantiche dell’America meridionale e comprese che non
dell’Asia si trattava, ma di un nuovo continente. La lettera divulgata a suo nome nel
1503, con il titolo Mundus Novus, rese esplicita questa intuizione, e nel 1507 le nuove
terre presero il nome di America.
10.9 La conquista
Con il viaggio di Magellano l’era delle grandi esplorazioni era di fatto conclusa: la
cognizione del globo terrestre era ormai acquisita, anche se restavano zone da
esplorare e si ignorava l’esistenza dell’Australia. Cominciò allora l’epoca della
conquista e della colonizzazione delle terre che erano state scoperte . La conquista fu
affidata all’iniziativa individuale: la Spagna non dovette mai inviare truppe nel nuovo
mondo. Gli spagnoli che arrivarono dall’Europa si insediarono in questa prima fase
nelle isole caraibiche, soprattutto Haiti e Cuba . Nel contempo fu avviata
l’esplorazione della terraferma. Nel 1513 gli spagnoli vennero a contatto con i Maya e
cominciarono ad avere notizie dell’esistenza a nord di un vasto e ricchissimo impero.
Iniziò così l’epopea dei conquistadores, avventurieri senza scrupoli, avidi di oro e di
gloria, che fra il 1519 il 1550 distrussero con brutale spietatezza le civiltà
precolombiane assoggettando al dominio della Spagna un immenso territorio.
Simile fu la caduta dell’impero Inca per mano di Francisco Pizarro, il quale nel 1531
partì alla conquista dell’impero Inca. Pizarro incontrò nel novembre 1532 Atahualpa
e, dopo averlo catturato e chiesto un riscatto in oro, lo fece uccidere nel 1533. Nel
novembre dello stesso anno venne conquistata e saccheggiata la capitale Cuzco,
segnando la fine dell’impero.
Fino alla metà del XVI secolo una schiera di conquistadores partiti alla ricerca di un
paese ricco di oro e di pietre preziose, il mitico El Dorado, assoggettò alla corona
spagnola un territorio immenso che andava dalla California (scoperta da Cortez nel
10.12 L’economia
10.13 L’evangelizzazione
Fin dalle prime spedizioni portoghesi, queste erano animate dalla volontà di
diffondere la religione cristiana. L’espansione portoghese assunse il carattere di una
I progressi nella conoscenza del pianeta posero le basi per un ridimensionamento del
mito dell’antichità classica: i moderni avevano superato le colonne d’Ercole che
segnavano il confine del mondo antico e medievale. Sconvolgente fu l’impatto
culturale per cui la volontà di sopraffazione dei conquistadores impose con brutalità
modelli sociali, religiosi e culturali del vecchio continente. Col tempo però maturò
l’esigenza di una riflessione critica sulle proprie origini. Occorreva infatti spiegare
l’origine di popolazioni che non erano contemplate dalla Bibbia. Ci si interrogò anche
sulla natura degli abitanti del nuovo mondo. Si moltiplicarono le voci di coloro che
difendevano i diritti degli indios, denunciando le violenze dei conquistadores. Anche
l’evangelizzazione iniziò a diventare pacifica. Una posizione molto decisa venne da
Carlo V: nel 1542 egli promulgò le “nuove leggi”, che equiparavano gli indios agli altri
sudditi e prescrivevano che si sarebbe dovuto tenere conto delle loro tradizioni e
delle loro gerarchie interne, riconoscendo ad esempio l’autorità dei capi dei villaggi.
Lasciò scritto al figlio Filippo di proteggere gli indios dagli abusi e dagli eccessi
commessi ai loro danni. Carlo V prescrisse che non si usasse più la parola “conquista”
per indicare i domini della Spagna nel nuovo mondo. In quegli anni si aprirono nuovi
orizzonti culturali che sostenevano la necessità di confrontarsi con gli usi e costumi
dei tanti popoli dei quali era composta l’umanità in modo aperto e scevro da
pregiudizi, per poter comprendere e valorizzare la specifica identità di ciascuno. Era la
premessa di un relativismo culturale che si sarebbe affermato nella coscienza
europea solo molto più tardi, nell’età dei Lumi.
CAPITOLO 11
LA RIFORMA PROTESTANTE
11.1 Le premesse
11.2 Lutero
Lo scandalo iniziò nel 1515 quando papa Leone X avviò a una decisa campagna di
vendita delle indulgenze, cioè la possibilità di rimettere i peccati o ridurre le pene a
fronte di un pagamento. L’obiettivo del Papa era quello di finanziare la costruzione
della basilica di San Pietro a Roma. Lutero prese posizione con la redazione in latino
Lutero intendeva solo promuovere una disputa teologica fra dotti, non certo un atto
di ribellione contro Roma. Ma lo scritto, subito tradotto e stampato in tedesco,
suscitò nei suoi confronti un vasto consenso in tutti gli ambienti favorevoli alla
Riforma della Chiesa. Un ruolo decisivo nella diffusione della Riforma ebbe la
stampa: i principi del pensiero di Lutero raggiunsero tutti gli strati della popolazione.
Particolarmente importanti furono le immagini, che proposero in forma immediata e
accessibile a coloro che non sapevano leggere, la contrapposizione fra Lutero,
raffigurato come difensore della Germania oppressa dallo sfruttamento di Roma, e il
Papa presentato come incarnazione di Satana. Negli anni seguenti Lutero elaborò le
basi della sua dottrina che riassunse in tre scritti pubblicati nel corso del 1520 . In
queste opere il riformatore tedesco rifiutava l’autorità del Papa e poneva nella Sacra
scrittura la sola guida della Chiesa di Cristo: la Riforma realizzava sul piano religioso
quel ritorno alle origini che l’umanesimo aveva promosso sul piano linguistico,
culturale e artistico. La parola di Dio era il solo punto di riferimento per il cristiano.
Attraverso i due principi fondamentali della sua dottrina, sola fide e sola scriptura,
Lutero stabiliva un rapporto diretto fra l’individuo e Dio, e abbatteva
l’intermediazione della Chiesa sia nella via verso la salvezza sia nell’interpretazione
della Bibbia. Crollavano così tutto l’apparato istituzionale e tutta la costruzione
teologica della Chiesa. Furono aboliti il monachesimo e il celibato dei preti: lo stesso
Lutero sposò una suora ed ebbe sei figli. Lutero ridusse anche i sacramenti,
riconoscendo solo battesimo ed eucarestia, gli unici comprovati dalla Sacra scrittura .
In base al principio del sacerdozio universale dei credenti, per cui tutti sono fratelli di
Cristo, cadde l’idea di un clero dotato di uno status diverso rispetto ai laici. Spariva
anche il Purgatorio, la cui invenzione risaliva al XII secolo.
La reazione di Roma giunse nel 1520 con una bolla che minacciava la scomunica per
Lutero se non avesse ritrattato le sue dottrine. Per tutta risposta il riformatore
tedesco bruciò sulla pubblica piazza la bolla e il codice di diritto canonico, atto
simbolico di rifiuto dell’intera istituzione ecclesiastica. L’imperatore di Germania, che
dal 1519 era il giovanissimo Carlo V, decise di ascoltare Lutero il 17 aprile 1521. Alla
richiesta di sconfessare gli scritti che aveva pubblicato Lutero restò convinto delle sue
posizioni. Lutero fu quindi condannato come eretico e posto al bando dell’impero. Fu
In quegli anni esplosero nella società tedesca le tensioni causate dal diffondersi della
nuova dottrina. Gli avvenimenti più importanti furono le guerre dei contadini che fra
il 1524 e il 1525 infiammarono la Germania, a partire dalla Svevia. Le rivendicazioni
autonomistiche degli insorti furono sintetizzate in articoli redatti dai contadini di
Svevia nel 1525: riduzione della decima, ripristino delle tradizionali prerogative della
comunità di villaggio usurpate dai signori laici ed ecclesiastici (diritti di caccia e pesca,
taglio della legna, restituzione delle terre), fissazione di canoni e di servizi di lavoro
giusti. Uno degli elementi più interessanti fu la coesione fra gli individui, generata dal
senso di giustizia e di eguaglianza ispirati dal richiamo al Vangelo . La protesta voleva
essere pacifica, ma non mancarono violenze. Lutero prese subito le distanze dalle
rivendicazioni dei contadini ed esortò i principi a utilizzare la violenza contro i ribelli.
Questa reazione era la logica conseguenza delle sue convinzioni: la libertà del
cristiano è solamente interiore, la realtà terrena non deve interessarlo, perché egli
vive nella speranza e nell’attesa di essere accolto nel regno di Cristo. Quindi il
cristiano deve in ogni caso obbedienza al potere politico, poiché è stabilito da Dio
per mantenere l’ordine. A queste posizioni conservatrici si spirò l’organizzazione delle
comunità luterane. La Chiesa luterana divenne una Chiesa di Stato, amministrata da
commissioni composte di ecclesiastici e laici che rispondevano in ultima istanza al
principe territoriale o al governo cittadino.
Erasmo nel 1524 si schierò apertamente contro Lutero. Rispetto ai tanti temi che lo
accostavano al pensiero del riformatore tedesco (il rifiuto degli aspetti esteriori del
culto e il ritorno al cristianesimo evangelico), egli attaccò Lutero proprio nel punto sul
quale l’umanesimo e la Riforma si distinguevano in modo più netto: la concezione
dell’uomo. Al pessimismo luterano Erasmo oppose la convinzione che la libertà di
scelta dell’uomo, sebbene ferita dal peccato, non è stata distrutta. In ogni caso egli
riteneva che, anche se l’uomo avesse un ruolo passivo nella propria salvezza, non
sarebbe stato conveniente informare il popolo. Analogamente egli giudicava utile la
confessione, perché tratteneva molti dal commettere il male . Alle posizioni
aristocratiche ed elitarie di Erasmo, Lutero oppose con efficacia la natura popolare
della Riforma: la parola di Dio è per tutti, non si deve tacere la verità al popolo nel
timore che possa abusarne. Anche in relazione alla confessione la replica di Lutero
risultava particolarmente penetrante: astenersi dal male solo per il timore di doversi
confessare o per paura dell’Inferno non aveva ai suoi occhi alcun valore, serviva a
fare degli ipocriti, non dei veri cristiani. In realtà la prudenza e la moderazione di
Erasmo erano il riflesso del suo disagio di fronte a una realtà nella quale egli non si
riconosceva più. Erasmo si ritraeva intimorito da un mondo lacerato da conflitti
sempre più aspri, che stavano spaccando la cristianità. Per Lutero gli sconvolgimenti
che Erasmo cercava di ridimensionare dimostravano invece che era finalmente rinato
lo spirito di Cristo crocifisso, destinato a creare scandalo ogni volta che fosse ripreso
Ulrich Zwingli fu il più importante riformatore della Svizzera tedesca. Cappellano della
cattedrale di Zurigo, egli aveva maturato l’aspirazione a un ripristino della semplicità
evangelica quando, nel 1519, l’esempio di Lutero lo spinse a mettersi sulla via della
Riforma. Grazie al sostegno del Consiglio civico, il gruppo che comandava la città,
Zwingli poté smantellare l’edificio della Chiesa cattolica e stabilire in città il culto
riformato. Tutti i principali aspetti della sua azione riformatrice si ricollegavano
all’umanesimo di impronta erasmiana. Il razionalismo umanistico lo portò a negare
ogni presenza reale nell’eucarestia (transustanziazione), che egli concepì come una
semplice commemorazione o ricordo dell’ultima cena, valida come segno di
appartenenza alla comunità: il miracolo è avvenuto nell’ultima cena, ma non si
sarebbe più ripetuto. Da Zurigo la riforma si diffuse in molte città della Svizzera e ciò
generò un conflitto con i cantoni cattolici. Durante uno di questi conflitti, nel 1531
perse la vita lo stesso Zwingli.
11.8 Calvino
Calvino nacque in Francia nel 1509. Il giovane ebbe una solida formazione umanistica
che lo portarono ad aderire ai principi della Riforma. Nel 1534 fu costretto a lasciare
la Francia per sfuggire alle persecuzioni lanciate contro gli eretici da Francesco I.
Calvino si trasferì prima a Basilea, dove nel 1536 pubblicò la sua opera, poi in Italia,
alla corte di Ferrara, quindi a Ginevra dove provò a consolidare l’adesione della città
alla Riforma. Ginevra infatti mirava a sottrarsi, con l’aiuto di Berna, al controllo del
vescovo, signore feudale della città che, sostenuto dei duchi di Savoia, tendeva a
imporre la propria autorità sulle magistrature comunali. Le resistenze del governo
cittadino lo portarono a essere esiliato nel 1538, ma già qualche anno dopo nel 1541
lo richiamarono in città. L’oligarchia patrizia si era resa conto che fosse indispensabile
ricorrere alla sua guida spirituale e alle sue capacità di organizzatore per contrastare
le mire egemoniche di Berna. Da questo momento e fino alla morte nel 1564, l’azione
riformatrice di Calvino si identificò con la città, che egli intese trasformare in una
nuova Gerusalemme.
Nel saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo pubblicato nel 1904-1905 il
sociologo tedesco Marx Weber affermò che il concetto di vocazione, inducendo il
calvinista a interpretare i profitti conseguiti nella sua attività come una prova del
favore divino, avrebbe contribuito al sorgere della mentalità capitalistica. In effetti
Calvino considerò lecito il prestito con tassi di interesse. Si deve ricordare che anche
il tempo, considerato sacro in quanto dono di Dio, assunse un valore diverso: il suo
impiego da parte degli individui dell’intera collettività fu regolato in misura rigorosa;
era una forma di regolamentazione della vita quotidiana che aveva un evidente
impatto sull’attività lavorativa. Tuttavia, non ci sono negli scritti di Calvino indizi
significativi per poter interpretare in chiave economica il suo concetto di vocazione.
La tesi di Weber deve essere considerata sul piano sociologico, non su quello storico:
egli, esaminando la realtà della società calvinista e nei secoli successivi al
Cinquecento, individuò un modello tipico di mercante che considerava il suo
guadagno come una benedizione divina e quindi, vivendo in modo estremamente
frugale e austero, lo utilizzava o per reinvestirlo nella sua impresa o a soccorso dei
poveri.
La diffusione del luteranesimo in Germania fu favorita dal fatto che esso dava la
possibilità ai principi di confiscare le ingenti proprietà della Chiesa . La guerra dei
contadini segnò un’involuzione conservatrice nell’organizzazione della Chiesa
luterana, un arresto della sua espansione in Germania per il timore di rivolgimenti
sociali che si diffuse nella nobiltà e nella borghesia cittadina. Dopo il 1525 il
cattolicesimo riguadagnò varie zone toccate dalla Riforma, soprattutto in buona parte
della Germania meridionale. Convinto che la corona imperiale gli assegnasse la
missione universale di ripristinare l’unità della cristianità, Carlo V si impegnò con ogni
mezzo per superare la divisione religiosa della Germania, che rappresentava un
oggettivo fattore di indebolimento della sua azione politica. Dopo aver sconfitto la
Francia e ottenuto il controllo dell’Italia, egli minacciò di rimettere in vigore gli editti
contro il luteranesimo approvati alla Dieta di Worms (1521). Contro questo disegno si
alzò la protesta di diversi principi e città che avevano aderito alla Riforma. Entrò in
uso allora il nome di protestanti per i seguaci delle nuove dottrine. I principi luterani
Con il nome di Riforma radicale, divenuto di uso corrente nella storiografia nel 1962,
si designa un insieme di gruppi, di sette, di esperienze individuali che portarono alle
estreme conseguenze il principio di un ripristino del cristianesimo evangelico. La
Riforma radicale si presenta come un universo estremamente diversificato, nel quale
è molto difficile individuare criteri per definire con esattezza le varie posizioni.
L’anabattismo
Il primo tema sul quale si realizzò un primo importante distacco dalle chiese fu il
battesimo, che in base agli esempi presenti nella Bibbia avrebbe dovuto essere
praticato non ai fanciulli ma agli adulti. I gruppi che seguirono questa indicazione
furono chiamati anabattisti, cioè ribattezzatori, termine improprio perché per loro
non si trattava di una ripetizione del battesimo in quanto ritenevano non valido
quello praticato ai bambini. La questione era molto delicata, perché implicava il
problema dell’assetto della comunità. Quest’ultima attraverso il battesimo dei
fanciulli trasmette di generazione in generazione la fede comune e quindi si radica in
un territorio, fino a identificarsi con l’intera società: si ha in questo caso una Chiesa.
CAPITOLO 12
LE “HORRIBILI” GUERRE D’ITALIA (1494-1530)
Dopo la pace di Lodi del 1454 il quadro politico della penisola italiana rimase
incentrato per un cinquantennio sull’equilibrio stabilito se fra i cinque maggiori Stati:
il regno di Napoli, lo Stato della Chiesa, il Ducato di Milano, la Repubblica di Firenze e
la Repubblica di Venezia.
Il regno di Napoli, che il papato considerava un proprio feudo, era passato nel 1458 a
Ferdinando I di Aragona (1458-1494), che reggeva lo Stato aragonese in Spagna. I
Nel centro Italia c’era lo Stato della Chiesa, che possedeva anche Benevento,
Pontecorvo nel regno napoletano e, in Francia, Avignone. Rientrati a Roma nel 1420
dopo la fine dello scisma d’Occidente, i papi si impegnarono a ripristinare il proprio
dominio temporale sia nella capitale, dove il loro potere era condizionato dalle
famiglie dell’aristocrazia romana, sia nel territorio dello Stato, dove molti territori
importanti (Marche e Romagna) erano di fatto autonomi . Obiettivo della politica
pontificia fu mantenere un equilibrio politico fra gli Stati italiani e più in generale a
livello europeo, in modo che il Papa potesse svolgere una funzione di mediazione e
avere libertà d’azione per consolidare il proprio potere. Per questo motivo Roma
ostacolò sistematicamente gli Stati italiani più forti e poi, nella lotta fra le potenze
europee per la supremazia in Europa, si impegnò per scongiurare un assoluto
predominio dell’uno o dell’altro. In questa fase il pontificato era elettivo di
conseguenza molti papi si sforzarono di dare continuità al potere familiare
nominando cardinali propri familiari, soprattutto nipoti (i cardinal nipoti), in modo
tale da inserire nel collegio cardinalizio uomini di loro fiducia. A questo nepotismo si
affiancò il cosiddetto “grande nepotismo”, vale a dire il tentativo di alcuni papi di
creare uno stato autonomo da affidare a qualcuno dei membri della propria casata.
Anche a Firenze si era manifestata dalla fine del XIV secolo un’evoluzione delle
istituzioni comunali verso un regime oligarchico caratterizzato dal predominio di un
ristretto gruppo di famiglie. In questa fase Firenze portò a compimento la sua
espansione in Toscana occupando Pisa (1406) e Livorno (1421) che le diede uno
sbocco sul mare. Dal 1434 si affermò in città l’egemonia di una famiglia di banchieri, i
Medici, che divenne una signoria de facto grazie all’abile opera di Cosimo il Vecchio
(1434-1464), il quale si garantì il controllo delle magistrature repubblicane
escludendone gli avversari. La sua opera fu proseguita dal nipote, Lorenzo il
Magnifico (1469-1492), grande protagonista della cultura umanistico-rinascimentale.
Alla sua morte la signoria era però lontana dall’essere consolidata, in quanto
permanevano in città nostalgie per il regime repubblicano ed era ancora viva l’ostilità
nei confronti dei Medici.
Conservava le forme repubblicane Venezia, che si era data una solida struttura
costituzionale attraverso le riforme realizzate tra la fine del XIII secolo e l’inizio del
XIV secolo. Questi provvedimenti stabilirono che il Maggior consiglio, l’organismo
sovrano della costituzione veneziana sarebbe stato composto da allora in poi dai
maschi adulti (25 anni) delle famiglie che ne facevano parte in quel momento o ne
avevano fatto parte in passato. In pratica queste famiglie, i cui nomi erano registrati
nel libro dell’aristocrazia veneziana, diedero vita a un patriziato, ovvero un ceto di
governo ereditario di fatto chiuso. Il Maggior consiglio, composto nel XVI secolo da
circa 2500 membri, eleggeva fra i suoi membri tutte le principali cariche dello Stato.
Le principali funzioni politiche e giudiziarie erano delegate dal Maggior consiglio a
organi più ristretti come il Senato, nel quale si discutevano i problemi politici e si
prendevano le decisioni più importanti. Tutte le magistrature erano collegiali e
temporanee; unica carica vitalizia era quella del Doge, capo e rappresentante dello
Stato veneziano ma privo di veri poteri. Venezia conquistò nel Quattrocento un
ampio dominio, occupando tutto il Veneto, il Friuli, Brescia, Bergamo e Crema. A
questi territori si aggiungeva l’Istria, la Dalmazia, parte del litorale adriatico, le isole
Ionie, vari stabilimenti in Grecia e le isole di Creta e Cipro. Alla fine del Quattrocento
la Serenissima era al massimo livello di prosperità commerciale, economica e politica,
e rappresentava perciò lo Stato più forte della penisola.
Il precario equilibrio politico della penisola fu rotto quando il re di Francia Carlo VIII
volle far valere i propri diritti sul regno di Napoli, dopo che acquisì il Ducato di Angiò.
Carlo VIII preparò accuratamente l’impresa garantendosi la neutralità della Spagna,
alla quale cedette territori sui Pirenei, e dell’imperatore Massimiliano, al quale diede
la Franca Contea e Artois, antichi domini borgognoni. Il suo tentativo fu incoraggiato
da vari componenti della società italiana che volevano approfittare del suo intervento
Morto nel 1498 Carlo VIII, la corona passò al cugino Luigi XII (1498-1515), che riprese
i progetti di intervento in Italia puntando sulla conquista di Milano , sul quale poteva
accampare diritti in quanto discendente di Valentina Visconti, che nel 1387 aveva
sposato un Orleans. Egli si accordò con Venezia, con la Confederazione elvetica e con
il Papa Alessandro VI. Trovatosi completamente isolato, Ludovico il Moro fu costretto
a rifugiarsi presso Massimiliano d’Asburgo, che aveva sposato sua nipote Bianca
Maria Sforza. Con l’arrivo dei francesi nel 1500, Milano perse l’indipendenza e
rimase sotto il dominio straniero per circa 360 anni. Ludovico il Moro fu sconfitto e
finì la sua vita prigioniero in Francia. Quindi Luigi XII volse le sue mire sul regno di
Napoli. Per questo si accordò con il re di Spagna: l’accordo prevedeva la spartizione
del regno fra la Spagna e la Francia. Il re di Napoli fu colto di sorpresa credendo che le
truppe spagnole fossero sue alleate, e quindi cedette i suoi diritti a Luigi XII senza
combattere. Al re di Francia era dato nell’accordo il possesso di Campania, Abruzzo e
Grazie all’appoggio francese, Alessandro VI cercò di creare uno Stato per il figlio
Cesare. Questi, nominato cardinale, divenne poi gonfaloniere della Chiesa e con le
forze messegli a disposizione da Luigi XII riuscì a crearsi un dominio personale fra la
Romagna e le Marche eliminando numerosi signori. Machiavelli, che lo incontrò per
conto della Repubblica fiorentina, ne fece un punto di riferimento essenziale della
figura del principe nuovo. In effetti, Cesare Borgia riuscì con la sua azione a
consolidare il dominio del Papa in territori nei quali la sua autorità era puramente
nominale. La morte improvvisa di Alessandro VI pose fine alla sua impresa. Dopo un
brevissimo pontificato di Pio III, fu eletto Papa con il nome di Giulio II proprio il
grande nemico dei Borgia, Giuliano della Rovere. Cesare dovette assistere alla
disgregazione della sua costruzione. Sarebbe poi morto nel 1507 in Spagna.
Papa Giulio II proseguì la politica del suo predecessore cercando di ricondurre tutto il
territorio dello Stato sotto il pieno controllo del governo romano e riuscì a ristabilire
la sua autorità sulla città di Perugia e Bologna. Nel perseguire questo programma, si
scontrò con Venezia, che già deteneva Ravenna e Cervia e aveva approfittato della
caduta di Cesare Borgia per occupare, nella Romagna pontificia, Rimini e Faenza. In
effetti Venezia si era creata con il suo espansionismo molte ostilità, per cui venne
costituita nel 1508 la lega di Cambrai in cui entrarono il Papa Giulio II, Ferdinando il
cattolico, Luigi XII e l’imperatore Massimiliano, oltre che vari principi italiani. Il 14
maggio 1509 le truppe francesi inflissero a quelle veneziane una terribile sconfitta:
tutte le conquiste della terraferma andarono perdute e la stessa città lagunare
sembrò minacciata. La Repubblica con un’abile azione diplomatica riuscì a porre fine
al conflitto. Del resto, i membri della coalizione avevano ormai recuperato i territori
che Venezia aveva sottratto loro e quindi la guerra aveva raggiunto il suo obiettivo.
Negli anni seguenti Venezia riuscì a recuperare i possedimenti di terraferma, ma le
sue mire espansionistiche erano definitivamente tramontate. Da allora la Repubblica
assunse un atteggiamento prudente, partecipando alle guerre d’Italia solo per
difendere il suo territorio, e evitò di farsi coinvolgere nello scontro fra la Francia e gli
Asburgo.
Nel 1515 morì Luigi XII, per cui il trono passò a Francesco I (1515-1547). Il sovrano,
appena ventenne, scese in Italia con un forte esercito e affrontò nella battaglia di
Melegnano le truppe messe insieme da Spagna, Impero e Ducato di Milano
(settembre 1515). La battaglia segnò la sconfitta dei mercenari svizzeri che
costituivano il nerbo della coalizione. La Francia rioccupò Milano e stipulò un trattato
di pace con gli svizzeri, i quali occuparono Locarno e il Canton Ticino, stabilendo il
confine rimasto sostanzialmente invariato fino a oggi. L’equilibrio raggiunto fu sancito
con la pace di Noyon del 1516 che lasciava ai francesi Milano e agli spagnoli Napoli.
L’anno precedente era stato dichiarato maggiorenne il nipote dell’imperatore
Massimiliano, Carlo d’Asburgo, che poté assumere così il governo dei Paesi Bassi e
nel 1516, alla morte del nonno Ferdinando, ereditare anche il trono di Spagna .
Francesco e Carlo sarebbero stati i protagonisti del duello franco-asburgico per il
controllo della penisola e per la supremazia in Europa.
12.8 Carlo V
Carlo d’Asburgo era nato nel febbraio 1500 da Filippo il Bello (figlio di Massimiliano I
e di Maria di Borgogna), e da Giovanna, figlia dei re spagnoli. A differenza del fratello
minore Ferdinando, nato ed educato in Spagna, Carlo visse nelle Fiandre che
Massimiliano aveva affidato al padre Filippo. Alla morte di Filippo nel 1506, che
provocò un acuirsi della follia della madre (Giovanna la Pazza), Carlo divenne
sovrano dei Paesi Bassi, che furono retti in suo nome dalla zia Margherita d’Austria.
Carlo, la cui lingua madre fu il francese, si formò quindi in un ambiente dominato
dagli ideali cavallereschi della tradizione borgognona. Nel 1516, alla morte del nonno
Ferdinando, egli fu proclamato con il nome di Carlo I, re di Spagna, e non reggente
come avrebbe voluto il Consiglio di Castiglia in quanto l’erede legittima della corona
castigliana era per pur sempre sua madre Giovanna, impossibilitata a regnare a causa
della sua follia. Quando nel 1517 si recò in Spagna dovette confrontarsi con la difficile
realtà di uno Stato formato da due regni distinti, attraversato da conflitti religiosi e
sociali e da forti tensioni autonomistiche. Nel 1519, mentre era in Spagna, la morte
del nonno Massimiliano I portò a Carlo i domini ereditari austriaci e inoltre aprì il
La guerra proseguì ancora senza grandi cambiamenti e si giunse così nel 1529 alla
pace di Cambrai detta anche pace delle due dame, perché negoziata dalla madre di
Francesco I Luisa di Savoia, e dalla zia di Carlo V Margherita d’Austria. La Francia
rinunciava a ogni pretesa nella penisola, ma conservava la Borgogna e a Francesco I
furono restituiti (dietro un riscatto) i figli presi in ostaggio. Carlo V aveva raggiunto un
accordo con il Papa Clemente VII, il quale gli diede l’investitura del regno di Napoli,
concesso il libero transito delle sue truppe nei territori pontifici e acconsentì a una
incorporazione nei domini asburgici dello Stato di Milano , incorporazione che
avvenne alla morte di Francesco Sforza nel 1535. In cambio Carlo V si impegnò a
restaurare il dominio dei Medici a Firenze. Durante il congresso di Bologna, il Papa
Clemente VII incoronò Carlo V imperatore e re d’Italia (24 febbraio 1530). Egli fu
l’ultimo imperatore a essere incoronato da un Papa. Dopo un lungo assedio da parte
delle truppe imperiali, Firenze, dovette arrendersi nel 1530; il potere fu dato ad
CAPITOLO 13
IL SOGNO IMPERIALE DI CARLO V
Nel 1531 fece eleggere re dei romani, quindi già candidato alla successione imperiale,
il fratello Ferdinando e conferì la reggenza dei Paesi Bassi alla sorella Maria, vedova
di Luigi II Jagellone; per gli altri suoi domini delegò il governo a dei viceré. Con la pace
delle due dame, il conflitto franco-asburgico raggiunse un punto di equilibrio. Si
stabilì allora il predominio spagnolo nella penisola che sarebbe stato sancito
ufficialmente nella pace di Cateau Cambresis del 1559; venne a cadere quindi la
centralità del problema italiano nella politica di Carlo V, che andò assumendo
progressivamente una dimensione universale. Le questioni che dovette affrontare ora
erano l’impero ottomano sulla frontiera a est, l’area mediterranea dove
imperversavano le incursioni dei pirati, rafforzare la conquista dei domini americani,
che si compì interamente durante il suo regno. I due vicereami delle Indie
conferirono al suo impero una dimensione planetaria. Infine, le lotte religiose in
Germania accentuarono l’aspirazione di Carlo V a porsi come arbitro dei conflitti
religiosi e come supremo garante dell’unità dell’Europa cristiana.
Fin dal 1520 gli Asburgo avevano dovuto fronteggiare sul confine orientale
dell’impero le minacce ottomane. Primo obiettivo dell’impero ottomano era il regno
cristiano di Ungheria, che separava i due imperi. Nell’estate del 1526 il sultano
Solimano il Magnifico sconfisse l’esercito ungherese in una battaglia in cui morì lo
stesso re Luigi II Jagellone, che era anche re di Boemia. Solimano poté quindi
occupare gran parte del territorio ungherese. Ferdinando, che aveva sposato una
sorella di Luigi II, Anna, rivendicò i regni del cognato, ma mentre egli poté assumere
senza problemi la corona di re di Boemia, in Ungheria la sua successione fu
contestata da un partito nazionale ungherese ostile agli Asburgo, capeggiato da
Giovanni Szapolyai, sostenuto da Solimano, che intendeva fare dell’Ungheria uno
stato vassallo dell’impero ottomano. Negli anni seguenti l’esercito turco proseguì la
sua offensiva spingendosi fino a Vienna. Alla fine, Solimano firmò la pace (1533) per
cui il regno di Ungheria fu diviso tra Giovanni e Ferdinando. Quando nel 1540 morì
Giovanni, il conflitto si riaprì: il sultano occupò la maggior parte il territorio ungherese
e la annetté all’impero ottomano. Questa situazione non subì modifiche negli anni
seguenti e la spartizione fu confermata dal trattato stipulato da Ferdinando e
Il problema turco si poneva anche nel Mediterraneo, dove gli Stati dei paesi
dell’Africa settentrionale (Libia, Tunisia, Algeria), detti barbareschi, soggetti
all’autorità del sultano, rappresentavano la base per scorrerie sulle coste spagnole e
italiane e per atti di pirateria ai danni delle navi cristiane. Proseguendo la lotta contro
i musulmani, Ferdinando il cattolico aveva acquisito il controllo di diverse località
sulla costa africana e imposto un protettorato ad Algeri. Ma quest’ultima venne
conquistata nel 1529 dai corsari barbareschi guidati da Barbarossa, che Solimano
decise di nominare ammiraglio della flotta turca. Nel 1535 Francesco I, animato dal
desiderio di riaprire la partita in Italia, strinse un’alleanza con il sultano. Carlo V
decise di preparare una spedizione verso le coste africane che occuparono la fortezza
di La Goletta, a nord della Tunisia. Carlo V nel 1538 riuscì a organizzare una seconda
flotta formata da navi spagnole e veneziane, che però fu sconfitta da quella del
Barbarossa nella Grecia nord-occidentale. Un ultimo tentativo di contrastare la
potenza ottomana sul mare fu fatto nel 1541, ma una grave tempesta distrusse la
metà della flotta spagnola. Fino alla battaglia di Lepanto (1571) le potenze cristiane
non furono in grado di contrastare la flotta ottomana.
Il segnale per la ripresa della guerra fu quando Carlo V incorporò lo Stato di Milano
alla morte del duca Francesco II Sforza (1535). Francesco I penetrò nella Savoia e nel
1536 occupò Torino; Carlo V rispose attaccando in Provenza e nei Paesi Bassi. Ma il
conflitto si trascinò senza eventi risolutivi fino alla tregua firmata a Nizza nel 1538.
Dopo una serie di conflitti, si giunse alla pace di Crepy (1544) che ribadiva lo status
quo. Per sancire la pace tra l’impero e la Francia, si progettò un matrimonio
combinato: quello fra il terzo figlio di Francesco I, e una principessa asburgica, che
avrebbero dovuto portare in dote rispettivamente o i Paesi Bassi o Milano. La
situazione si risolse con la morte del principe francese nel 1545.
Il fallimento dei colloqui tra protestanti e cattolici aveva indotto i principi tedeschi che
avevano aderito alla Riforma a unirsi nella lega di Smalcalda: il partito protestante
era diventato così una forza politica e militare. Carlo V, che già nel congresso di
Bologna aveva ottenuto da Clemente VII l’impegno di convocare il concilio per
dirimere le questioni interne alla cristianità, rinnovò l’invito al nuovo Papa Paolo III.
Nel frattempo, egli puntò su una serie di incontri fra luterani e cattolici nella speranza
che raggiungessero un accordo sul piano teologico. Non portando alcun risultato,
Carlo V decise di passare all’azione e mosse guerra alle forze della lega di Smalcalda
che sconfisse nel 1547; lo stesso duca di Sassonia fu fatto prigioniero. Carlo V poté
quindi convocare una Dieta ad Augusta (1547-1548) nella quale impose l’interim,
vale a dire una regolamentazione provvisoria delle relazioni fra cattolici e luterani
in attesa che il concilio in corso a Trento portasse alla pacificazione religiosa. Nello
13.9 Le abdicazioni
Il 25 ottobre 1555 Carlo V abdicò alla sovranità dei Paesi Bassi. In seguito, il 16
gennaio 1556, lasciò le corone di Castiglia e di Aragona al figlio Filippo II e lasciò
l’impero al fratello Ferdinando I. Quindi partì per la Spagna, dove morì il 21
settembre 1558.
CAPITOLO 14
L’ETÀ DELLA CONTRORIFORMA
Il termine “Controriforma” entrò in uso alla fine del XVIII secolo per designare il
processo attraverso il quale un territorio passato alla fede protestante era
ricondotto con la forza all’obbedienza nei confronti di Roma. In seguito, il concetto
si ampliò e indicò non solo l’azione di contrasto alla diffusione delle dottrine
riformate ma anche l’opera di rinnovamento della Chiesa cattolica culminata nel
concilio di Trento.
14.5 I gesuiti
L’ordine più importante sorto nella prima metà del Cinquecento, destinato ad avere
un ruolo decisivo nell’età della Controriforma, fu la Compagnia di Gesù, fondata nel
1534 a Parigi dallo spagnolo in Iñigo (Ignazio) di Loyola (1491-1556), che, costretto
ad abbandonare la carriera militare, si mise al servizio della fede cristiana. Ai voti
tipici della scelta monastica, povertà, castità e obbedienza, i gesuiti ne aggiunsero un
quarto, l’assoluta obbedienza al Papa. La loro regola fu approvata da Paolo III nel
1540. Il capo dell’ordine, detto generale, dipendeva direttamente dal pontefice. Il
gesuita entrava nella Compagnia dopo un lungo e rigoroso noviziato, nel quale
imparava ad annichilire la propria volontà e la propria personalità, preparandosi a
ubbidire ai propri superiori. I gesuiti furono attivi innanzitutto nell’istruzione : nei
loro collegi, che alla fine del secolo erano già più di 500 in tutta Europa, si formarono i
rampolli delle casate aristocratiche e delle famiglie più ricche, quindi i membri delle
future classi dirigenti; l’ordinamento degli studi forniva un’educazione severa e di alto
livello: studio del latino, della retorica, della dottrina cattolica. I gesuiti ebbero anche
un notevole peso politico in quanto furono spesso confessori e consiglieri di sovrani
e principi. Infine, essi si impegnarono nell’attività missionaria per la diffusione del
cristianesimo.
Lutero aveva dichiarato di essere disposto a discutere le sue tesi solo in un concilio, a
patto che fosse libero, cioè non condizionato dal Papa, cristiano, vale a dire fondato
Nel 1542, di fronte alla crescente diffusione delle dottrine ereticali, Paolo III promosse
la stretta repressiva reclamata dal cardinale Carafa, il futuro Paolo IV, esponente
dell’ala più intransigente della curia. Nacque così la congregazione cardinalizia del
Santo Uffizio o dell’Inquisizione, presieduta dal Papa, con il compito di riorganizzare
e dirigere dal centro la rete dei tribunali inquisitoriali istituiti. Questa decisione segnò
una vera svolta: fu sempre più difficile assumere posizioni intermedie, di mediazione
o di compromesso. Fu per questo che si intensificò il fenomeno delle fughe dall’Italia
dei seguaci delle dottrine protestanti per sottrarsi alla persecuzione inquisitoriale.
Nel dicembre 1545 si aprì a Trento il concilio indetto da Paolo III. Si stabilì che
avevano diritto di voto, oltre ai vescovi, anche i generali degli ordini mendicanti,
mentre non votavano i consulenti (teologi e canonisti). Il concilio decise di affrontare
sin da subito le questioni teologiche e, condannando il principio della giustificazione
per sola fede (cioè la questione di come l’uomo possa tornare a diventare giusto, in
linea, di fronte a Dio), chiuse la porta a ogni dialogo. La decisione di spostare il
concilio a Bologna (1547) fu un nuovo motivo di conflitto fra il Papa e Carlo V; i lavori,
ai quali non parteciparono più i vescovi spagnoli, proseguirono ma senza risultati fino
alla morte del pontefice nel 1549. Il concilio si riaprì a Trento nel 1551 sotto il nuovo
Papa Giulio III del Monte, ma fu nuovamente sospeso nel 1552 per la ripresa della
guerra. Nel 1555 il quadro mutò con l’elezione di Gian Pietro Carafa come Papa con il
nome Paolo IV. Egli diede alla politica del papato un orientamento decisamente
antispagnolo; per quanto riguarda i problemi religiosi, era favorevole a una dura
Il concilio non si occupò degli organi centrali della curia, che furono riorganizzati nel
corso del secolo in modo da rafforzare il centralismo papale. Il Sacro Collegio o
Concistoro fu progressivamente privato della sua funzione di organo supremo del
governo della Chiesa. Al suo posto al vertice della struttura di potere furono istituite
le congregazioni cardinalizie dipendenti direttamente dal Papa, fissate da Sisto V
(1585-1590) nel numero di quindici. Il cardinale, posto al vertice della gerarchia
ecclesiastica e dell’amministrazione statale, si trasformò sempre più in un alto
burocrate, impegnato nella gestione degli affari ecclesiastici e dei delicati equilibri
politici della curia. Lo Stato della Chiesa si dotò di una complessa macchina
burocratica votata ad amministrare insieme i problemi temporali e spirituali, che
CAPITOLO 15
L’ETÀ DI FILIPPO II
L’affermazione del primato del Papa quale capo assoluto della Chiesa di Roma, pose
agli Stati cattolici il problema di difendere l’autonomia delle Chiese nazionali. Gli stati
italiani, il Portogallo e la Polonia pubblicarono la bolla papale, ma nella Spagna la
pubblicazione fu accompagnata dalla formale riserva che essa non poteva limitare il
potere statale. La Francia, in nome delle libertà della Chiesa gallicana, non accettò la
bolla, che fu pubblicata solo nel 1615 per iniziativa unilaterale del clero. Ancora più
eclatante fu la mancata ricezione dei decreti conciliari da parte dell’Impero, dove la
pace di Augusta aveva di fatto privato l’imperatore di ogni potere in campo religioso.
Il distacco dell’Inghilterra dalla Chiesa di Roma era stato originato da cause politiche.
Il re Enrico VIII (1509-1547), non riuscì ad avere un erede maschio dalla moglie
Caterina di Aragona; nel contempo aveva rotto l’alleanza con la Spagna aderendo alla
Lega di Cognac contro Carlo V. A questi motivi si aggiunse la sua passione per una
dama di corte, Anna Bolena. La sua richiesta di annullamento del matrimonio, il Papa
Clemente VII, che dopo il sacco di Roma era ormai legato alla Spagna, non glielo
concesse per non urtare Carlo V, nipote di Caterina. Allora Enrico VIII fece votare dal
Parlamento provvedimenti che ruppero tutti rapporti della Chiesa inglese con Roma e
infine nel 1534 l’Atto di supremazia, che lo dichiarava “capo supremo in terra della
Chiesa inglese (anglicana ecclesia) subito dopo Dio”. Enrico ottenne così da un
tribunale ecclesiastico la dichiarazione di nullità del matrimonio con Caterina e quindi
la legittimazione dell’unione con la Bolena. Tra coloro che rifiutarono di accettare
l’Atto di supremazia vi fu il grande umanista Thomas More, mandato al patibolo nel
1535. Fu una delle tante vittime di Enrico: egli fece condannare a morte con l’accusa
di tradimento anche il cancelliere Thomas Cromwell che aveva guidato il governo
durante la crisi con la chiesa di Roma, e tre delle sue sei mogli, fra le quali la stessa
Anna Bolena.
15.5 Il re prudente
Filippo II, tornato in Spagna nel 1559, decise di spostare la corte a Madrid. Qui fece
costruire un imponente edificio, insieme monastero e Palazzo Reale, dedicato al
La morte del re del Portogallo Sebastiano I aprì la strada a Filippo II per ottenere la
corona portoghese. A Sebastiano successe il fratello che morì nel 1580. A questo
punto Filippo II si fece riconoscere come erede della colonna degli Aviz, anche in
nome dei legami di parentela che lo univano a quella famiglia (portoghese era stata la
sua prima moglie). In tal modo la Spagna acquisì anche il controllo dell’impero
coloniale portoghese. Il Portogallo però conservò la sua struttura istituzionale le sue
leggi.
La vocazione imperiale che aveva segnato l’esperienza del padre rimase in eredità a
Filippo II. Si parla di sistema imperiale spagnolo, anche in ragione della grande
estensione territoriale dei suoi possedimenti e soprattutto della grande potenza
militare e finanziaria, alimentata dal flusso di metalli preziosi che arrivavano dal
nuovo mondo. Tuttavia, Filippo mirò innanzitutto ad accrescere la potenza della
Spagna e non esitò a scontrarsi con il pontefice per difendere le prerogative dello
Stato. I territori sottoposti alla sovranità di Filippo II, la cui amministrazione era
delegata a viceré o governatori, conservarono le proprie identità giuridiche e
istituzionali: ciò che li univa era la fedeltà alla dinastia regnante. La struttura di
governo era imperniata sul sistema dei consigli. Si trattava di organi collegiali con
funzioni consultive, che preparavano dei documenti in base ai quali il re prendeva le
sue decisioni. Il più importante era il Consiglio di Stato, competente per la politica
estera e per gli affari di maggior rilevanza. Gli altri erano competenti per materia o
per territorio (Castiglia, Aragona, Italia, Indie, Fiandre, Portogallo). Nei consigli per
territorio erano presenti esponenti delle classi dirigenti locali, che avevano il compito
di rappresentare le richieste locali.
15.8 Le finanze
La Spagna, a differenza di tutti gli altri Stati, poteva contare grazie alle miniere
americane su un costante flusso