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Il mondo globale- Una storia economica- Amatori, Colli

Economia e storia della globalizzazione (Università degli Studi di Milano)

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Economia e storia della globalizzazione


Il mondo globale
Una storia economica

Il lungo periodo
Per comprendere le economie preindustriali è necessario immaginare un mondo radicalmente diverso da
quello odierno. Carlo Cipolla sosteneva che un uomo inglese del XVIII secolo era più simile ad un cittadino
dell’impero romano che a un suo pronipote. Questo ci illustra i ritmi della crescita e del mutamento
economico, molto lenti prima della rivoluzione industriale, sempre più veloci dopo. Il mutare di passo è
dovuto soprattutto al passaggio da economie agrarie a economie industriali.
Fino a 10-12.000 anni fa le società agrarie non esistevano, gli uomini vivevano in gruppi di cacciatori-
raccoglitori. Si trattava di piccoli gruppi, si stima che allora nel mondo non vivessero che sei milioni di
persone. In seguito, i gruppi umani divennero stanziali, costruendo villaggi e sfruttando la terra. Altre aree
compirono autonomamente questo passo in ritardo, in altre ancora l’agricoltura fu importata.
Si tratta della prima rivoluzione agraria della storia, che segna anche una crescita della popolazione. La tesi
favorita oggi è quella secondo cui l’uomo non iniziò a coltivare la terra fin quando non fu costretto dalla
pressione demografica. Le condizioni di vita peggiorarono: la dieta, dipendente dai cereali, si impoverì, fatto
dimostrato dalla diminuzione della statura; le malattie, favorite dalla densità demografica e dalla vicinanza
ad animali domestici, divennero più numerose; i contadini si trovarono a lavorare più a lungo.
La comparsa delle società agrarie portò anche numerosi benefici. Esse erano più complesse, in grado di
coordinare il lavoro e l’uso delle risorse; la diversificazione dei compiti e il delinearsi di una struttura sociale
favorì l’accumulo di conoscenze e competenze, tramandate poi dall’”invenzione” della scrittura. Questi
vantaggi si dispiegarono in seguito alla rivoluzione urbana dell’età del bronzo (3.000 a.C.). Contestualmente
alla comparsa delle prime città in Europa e in Asia, nascono le prime forme statuali, non presenti in altre
parti del mondo. In particolare, gli stati euroasiatici avrebbero sviluppato precocemente la capacità di
imporre tributi sistematici ai propri abitanti, condizione che stratificò la popolazione.
Rispetto alla rivoluzione del neolitico, la rivoluzione urbana si caratterizza come un fenomeno localizzato,
una sorta di proto-divergenza dell’Eurasia. Jared Diamond ha fornito una spiegazione ambientale a questo
processo: in primo luogo le specie addomesticabili, animali e vegetali, sono numericamente e
qualitativamente superiori rispetto al resto del mondo; in secondo luogo, lo sviluppo “orizzontale” del
continente euroasiatico ha permesso un movimento umano semplificato dalla stessa fascia climatica,
rispetto a quello “verticale” americano. Sta di fatto che all’arrivo di Colombo nel 1492, le uniche forme
“statali” erano gli inca e gli aztechi.
Sul piano organizzativo e istituzionale, le analogie tra Europa e Asia sono diverse: dalla proprietà privata alle
strategie matrimoniali, tutte erano relative al controllo e allo sfruttamento intensivo della terra. Nell’Africa
sub-sahariana, separata dall’Europa e dall’Asia dal deserto e dal mar Rosso, l’urbanizzazione fu molto più
lenta e mai sviluppata: i metodi di coltivazione, una società poco diversificata si accompagnano a una
trasmissione ereditaria minore rispetto all’Eurasia.
La maggior parte della popolazione nelle società agrarie risiedeva in villaggi di ridotte dimensioni. In media,
in Europa occidentale, la popolazione urbana costituiva il 7%. La divisione del lavoro in queste società era
meno complessa rispetto alle società industriali: le conoscenze e le competenze erano diffuse pressoché in
tutta la popolazione. Inoltre, alla minore complessità si accompagnava una limitata gamma di bisogni e la
maggior parte dei prodotti veniva realizzata in loco. La produttività del lavoro era bassa e le società agrarie
riuscivano a produrre un surplus limitato. Questo poneva un freno allo sviluppo e una soggezione alle
fluttuazioni dei raccolti. Le società agrarie erano in grado di sopportare un anno di cattivi raccolti. La fragilità
dell’economia era accentuata dagli incrementi demografici (modello malthusiano). Dati questi fattori, la
resilienza delle società agrarie dipendeva dalle reti di solidarietà tra villaggi, rafforzate dalle politiche
matrimoniali.
Indicativamente, circa il 90% del prodotto veniva consumato in loco, il 9% veniva barattato entro il villaggio,
l’1% era destinato ai mercati della città più vicina. Le città erano il luogo del commercio e del mercato, oltre

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che centri di servizi e sedi di istituzioni civili e religiose, tuttavia, anche nelle città molti abitanti erano
impegnati in attività rurali; ad eccezione di città, come Venezia, note per la loro capacità di introdurre
innovazioni nelle tecnologie e nei comportamenti: esse costituiscono i centri fondamentali di quel
capitalismo commerciale e proto-finanziario che contribuì a mantenere e rafforzare i contatti tra le diverse
regioni economiche. La società agraria non era immobile, le innovazioni come l’aratro pesante e la rotazione
triennale viaggiavano da Oriente a Occidente con relativa facilità.
Un’eccezione alla lentezza della trasformazione fu il periodo successivo alla peste nera. La peste, scomparsa
dal Mediterraneo dal VIII secolo, era endemica nella zona dell’Himalaya. Secondo la tesi più fortunata, il
ritorno della peste sarebbe riconducibile all’enorme impero mongolo che a partire dal 1206 abbracciò quasi
tutta l’Asia fino all’odierna Ungheria. Infatti, la cosiddetta pax mongolica favorì i commerci e i flussi di uomini
e merci (e malattie) dall’estremo Oriente all’Europa. In particolare, l’esercito mongolo, durante un assedio di
Caffa, colonia genovese in Crimea, contagiò alcune galere che diffusero il morbo prima a Costantinopoli, poi
nel resto del continente. La peste uccise tra il 33 e il 60% della popolazione europea.
L’arrivo del morbo, e la sua successiva endemicità, diede inizio ad un processo di adattamento istituzionale e
di rafforzamento della sanità pubblica, favorì una prima divergenza tra Asia e Europa. Di fatto, i danni che
l’economia europea subì durante l’epidemia furono ampliamente compensati dai numerosi benefici: i
superstiti godettero di un netto ribilanciamento di risorse e di ricchezze. Si tratta di una situazione
paradossale: chi gode di una situazione di vantaggio sotto un dato profilo (l’Asia aveva città meno affollate e
più salubri) subisce successivamente uno svantaggio relativo.

La “grande divergenza”
La data convenzionale della “scoperta” dell’America segnò un netto cambiamento di passo riguardo le
trasformazioni economiche mondiali: il vantaggio relativo delle civiltà euroasiatiche si incrementò
ulteriormente ed entro l’Eurasia si assistette al delinearsi del primato europeo. Tale processo è noto come
grande divergenza.
Oltre la Via della seta, numerose vie carovaniere rendevano l’Europa un mondo “aperto”. Tuttavia, poche
erano le merci abbastanza preziose da renderne conveniente il commercio a lunga distanza. Il punto di
partenza dell’apertura di nuove vie commerciali può essere collocato nel 1434, quando l’esploratore
portoghese Gil Eanes doppiò per la prima volta il capo Bojador in Marocco. Fu anche un punto di arrivo:
secoli prima le grandi repubbliche marinare italiane cominciarono a inviare spedizioni commerciali: a nord,
consolidando rapporti commerciali con le Fiandre e l’Inghilterra, ricchi di materie prime e avidi di spezie, ma
anche a sud, fino a Safi in Marocco, e a ovest, fino alle Canarie. Le difficoltà che impedirono agli italiani di
andare fino in fondo a queste rotte commerciali furono di natura tecnologica: le galere, ben adatte al
Mediterraneo, non erano in grado di affrontare l’oceano a causa dei bordi bassi. Nel mare del Nord e nel
Baltico l’imbarcazione più usata era la cocca, di forma tonda e dai bordi alti era inadatta ai viaggi su lunga
distanza perché lenta e difficile da manovrare. Il ruolo di apripista del Portogallo per le esplorazioni è dato
dalla sua posizione geografica: trovandosi a metà della rotta mediterraneo-nordica, è stato capace di
combinare i principi costruttivi di entrambe le zone, oltre alle più avanzate pratiche commerciali. Il simbolo
di questo processo è la caravella, sviluppata alla metà del XV secolo per impulso del sovrano Enrico il
Navigatore, per favorire l’esplorazione atlantica. Ciò che spinse i portoghesi a procedere verso il sud Africa
era l’ambizione di raggiungere le Indie circumnavigando l’Africa, della quale ignoravano la grandezza. Nel
1488 Bartolomeo Diaz rientrò a Lisbona dopo aver doppiato il capo di Buona Speranza. Nel frattempo, i
portoghesi avevano iniziato a stabilire basi commerciali permanenti lungo le coste dell’Africa, avviando
importanti commerci di oro, avorio, spezie e schiavi. Le Indie erano ormai considerate a portata di mano e
per questo rifiutarono la proposta di Cristoforo Colombo di raggiungere l’Oriente andando verso Occidente.
I sovrani che credettero in questa impresa furono Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona che, nello
stesso anno in cui completavano la reconquista, finanziavano la spedizione del genovese. L’obiettivo dei
portoghesi fu comunque raggiunto nel 1498, anno in cui Vasco da Gama raggiunse Calcutta, poi 1510
Malesia, 1513 Cina e 1543 Giappone. Il Portogallo ottenne questi risultati mentre il mediterraneo
attraversava il conflitto con l’Impero ottomano che metteva a rischio i commerci di Genova e Venezia.
Con “grande divergenza” si intende quel processo tramite il quale l’Europa occidentale emerse
progressivamente come area più ricca e potente del pianeta. Per quanto vi siano idee diverse rispetto al

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momento in cui questo processo sia avvenuto, molti indicatori suggeriscono che un differenziale di sviluppo
sia precedente alla rivoluzione industriale (tassi di urbanizzazione e tecnologia: in entrambi i casi prima del
XV secolo l’Asia era allo stesso livello, o superiore, dell’Europa). Perché a partire dal XVI secolo il rapporto
inizia ad invertirsi? Tale domanda è nota come “problema di Needham”.
Non vi è consenso tra gli studiosi relativamente alle origini e alle cause della grande divergenza, ma
possiamo raggruppare le spiegazioni in tre grandi categorie: demografiche, istituzionali e
geografiche/geopolitiche.
L’elevata densità demografica dell’Eurasia è uno dei fattori che spiegano perché uno sviluppo di tale portata
ebbe inizio qui e non altrove. Un’ ipotesi analoga è stata avanzata anche per spiegare il primato europeo
rispetto all’Asia: nell’area mediterranea la popolazione era più raccolta rispetto l’enorme impero cinese, ciò
rendeva le comunicazioni e la circolazione delle idee più facili, oltre a creare quella massa critica che favorì
le innovazioni. Secondo lo storico economico Gregory Clark, la spinta decisiva sarebbe arrivata
dall’endemicità della peste nera, che offrì una sorta di soluzione alla trappola malthusiana, evitando che
l’aumento della popolazione distruggesse ogni miglioramento. Secondo John Hajnal anche alcune istituzioni
sociali tipiche dell’Europa avrebbero avuto un peso, ad esempio l’età elevata al matrimonio diminuiva la
fertilità.
L’idea di fondo delle spiegazioni istituzionali è che quelle europee fossero più favorevoli all’emergere di
società innovative sul piano economico e tecnico-scientifico. Joseph Needham, riprendendo Max Weber,
sottolineò l’importanza della diffusione dell’università in Europa, capace di promuovere lo sviluppo
scientifico di cui Galileo, con il suo metodo scientifico sperimentale, è simbolo. In campo economico un
ruolo analogo è stato svolto dalle città mercantili, crogiolo di istituzioni economiche avanzate e luogo
privilegiato di residenza di una borghesia orientata all’intraprendenza e all’innovazione. Per contro, i grandi
imperi accentrati asiatici avrebbero bloccato lo sviluppo del commercio e delle scienze e l’emergere di élite
capitalistiche. Molti altri autori, ispirati dalla dottrina neo istituzionalista, secondo la quale l’efficienza di un
sistema economico dipende da quella delle sue istituzioni, mettono in primo piano il perfezionamento dei
diritti di proprietà privata e l’apertura delle istituzioni verso le istanze delle élite economiche. È inconfutabile
che le strutture statali orientali divennero sempre più inefficienti, rigide e incapaci di proteggere le loro
popolazioni dall’ingerenza economica europea, ma pare anche difficile negare che sotto molti punti di vista
l’Eurasia sia stata ricca di somiglianze.
Perché furono le navi europee a raggiungere la Cina e non il contrario? Anche in questo caso i cinesi erano
in vantaggio. Tra il 1413 e il 1433, l’ammiraglio cinese Zheng He condusse diverse missioni diplomatiche ed
esplorative verso l’occidente, giungendo fino all’Africa orientale. Le difficoltà che le navi cinesi incontrarono
lungo il loro viaggio sono analoghe a quelle degli esploratori portoghesi, solo che questi ultimi incontrarono
gli ostacoli all’inizio del loro viaggio, mentre Zheng He era già lontanissimo da casa. Questo ragionamento
entra nell’insieme delle spiegazioni geografiche. Jared Diamond ha suggerito che l’origine del primato
europeo vi siano le barriere naturali che, frammentando il territorio europeo, lo avrebbero reso poco adatto
all’emergere di grandi imperi e favorevole alla formazione di piccoli stati in concorrenza tra loro. Di contro, i
poteri centrali orientali furono spesso pronti a proibire innovazioni preferendo preservare la stabilità sociale
perché, in assenza di concorrenti, rinunciare al progresso non comportava un costo significativo. Kennet
Pomeranz ha sottolineato l’importanza, per l’Europa occidentale, di godere di un accesso agevole alle
Americhe. Durante l’età moderna sia l’Europa che l’Asia furono vittime della legge dei rendimenti
decrescenti (la legge postula che in un processo produttivo, aggiungere un fattore di produzione tenendo gli
altri costanti determina un incremento di prodotto decrescente per ogni unità del fattore aggiunto),
rischiando di imboccare il vicolo cieco di un’economia a crescente intensità di lavoro. L’Europa riuscì ad
evitare il problema grazie alla scoperta dell’America e allo sfruttamento delle sue risorse naturali, oltre la
disponibilità in loco di risorse-chiave come il carbone.
Molti studiosi enfatizzano lo sfruttamento dei popoli non-europei quale fattore essenziale nella conquista
del primato dell’Occidente. In particolare, Immanuel Wallerstein diede una lettura della creazione della
prima “economia-mondo” globale nei termini della progressiva istituzione di un sistema articolato in un
centro, in semi periferie e in periferie. In questo sistema il centro impone un sistema di scambi ineguali, che
da un lato consolida il primato del centro, mentre dall’altro tende a rendere permanente il sottosviluppo
delle periferie. All’origine vi sarebbe il vantaggio acquisito in termini di accumulazione di capitale da parte di

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alcune aree dell’Europa occidentale, che il processo di formazione di economia-mondo avrebbe reso
permanente.
Se l’inevitabilità del primato europeo rispetto all’Asia è oggetto di discussioni, nessuno studioso sembra
ritenere che il ruolo svolto dall’Europa occidentale nel dare avvio al processo di apertura e costruzione di un
sistema economico mondiale sarebbe potuto appartenere alle grandi civiltà mesoamericane, ai regni
dell’Africa subsahariana, o agli aborigeni australiani. Al momento dell’incontro degli europei con queste
civiltà, il primato tecnologico risultò così netto che i primi poterono imporre i propri interesse senza quasi
incontrare ostacoli. I casi più noti sono quelli di Cortés e Pizarro, le cui vittorie furono dovute da armamenti
superiori, dai cavalli e dall’involontaria “arma biologica”. Nelle Americhe, gli spagnoli cercarono invano le
spezie per le quali erano partiti, trovando invece grandi quantità di metalli preziosi. Le popolazioni furono
costrette a prestare il loro lavoro nelle miniere in un sistema di corvée. Le durissime condizioni di lavoro
aumentarono la mortalità e diminuirono la natalità. Il risultato fu una catastrofe demografica. La distruzione
della popolazione indigena non era l’obiettivo degli europei: anzi, rappresentò un problema di mancanza di
forza lavoro. L’immigrazione dalla poco popolosa penisola iberica non supplì e la soluzione fu trovata nel
commercio degli schiavi africani. Tra il 1500 e il 1870 furono deportate circa 9 milioni di persone.
Nelle Americhe, spagnoli e portoghesi costruirono vastissimi imperi coloniali. In Africa e in Asia, invece,
adottarono una strategia diversa, ovvero quella di occupare degli avamposti sulle coste, mantenendo una
rete commerciale con l’interno. I portoghesi si stanziarono a Goa e Calcutta in India, in Malacca e Macao in
Cina. Gli spagnoli si limitarono alle Filippine, anche in virtù dei trattati di Tordesillas (1494) e di Zaragoza
(1529) che dividevano il mondo in sfere d’influenza.
Altre aree del mondo furono colonizzate con ritardo e da altri attori: francesi, inglesi e olandesi. I primi a
esplorare l’Oceania occidentale furono gli olandesi all’inizio del XVII secolo, seguiti dai francesi. James Cook
arrivò in Nuova Zelanda nel 1769 e in Australia orientale (più ospitale di quella occidentale) nel 1770. Nel
1778 gli inglesi stabilirono la prima colonia a Botany Bay, anche come reazione alla perdita delle colonie
nordamericane.

Nuovi paradigmi, nuove istituzioni


Nella prima fase del grande processo di apertura dei “mondi chiusi” i protagonisti furono spagnoli e
portoghesi. Già nel corso del XVII secolo i grandi imperi latini apparivano in affanno di fronte ai nuovi
concorrenti. Il processo tramite il quale questi nuovi attori iniziarono a prevalere sull’Europa meridionale è
noto come piccola divergenza.
La città più florida nel secolo e mezzo successivo alla peste nera era Venezia. Con l’apertura delle grandi
rotte atlantiche, la battaglia di Agnadello del 1509, che pose fine all’espansionismo continentale della città
veneta, e i ripetuti scontri con l’impero ottomano fecero barcollare l’egemonia di Venezia. Sembrò allora che
il centro dell’economia dovesse spostarsi a ovest, verso Siviglia e Lisbona. Tuttavia, la vigorosa espansione
coloniale portò anche dei problemi. Nel caso del Portogallo, un freno fu posto dalla limitatezza delle risorse,
che lo indusse ad affidarsi ad operatori stranieri, in particolare di stanza ad Anversa, per la distribuzione
delle merci in Europa. Inoltre, il suo successo nelle coste africane e asiatiche attrasse numerosi concorrenti.
Anche la spagna compì un passo più lungo della gamba. Otre l’immenso impero coloniale, dopo le guerre
d’Italia, gli iberici controllavano Milano e Napoli, oltre altri possedimenti in centro Europa. La supremazia
spagnola portò a dei contrasti con le altre due grandi potenze: Francia e Inghilterra. Le guerre di religione e
la riforma protestante peggiorarono la situazione. Da ultimo, le modalità di sfruttamento dell’America e la
tipologia di merci importate originarono problemi. In un’economia arretrata come quella spagnola, l’afflusso
di metalli preziosi causò scompensi nei mercati e una forte inflazione.
Il centro economico europeo si spostò verso nord, precisamente ad Anversa. L’area vantava un’antica
tradizione mercantile e manifatturiera ed era avvantaggiata dalla posizione centrale tra i traffici dal Baltico al
Mediterraneo. A partire dai primi anni del XVI secolo, ad Anversa giunsero crescenti quantitativi di spezie,
zucchero, drappi inglesi, vini francesi oltre ai metalli americani che gli spagnoli trasferirono nei neoacquisiti
Paesi Bassi. Anversa così divenne un fondamentale centro finanziario. Le sue fortune iniziarono ad inclinarsi
tra il 1557, anno della prima bancarotta spagnola di Filippo II, e il 1566, quando ebbe inizio una serie di
ribellioni contro i dominatori spagnoli. Anversa si ribellò, venne riconquistata dalla Spagna nel 1585 ma il
suo porto fu sottoposto ad un blocco ventennale da parte dei ribelli, circostanza di cui si avvantaggiò

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Amsterdam. La ribellione dei Paesi Bassi settentrionali, che culminerà con l’indipendenza dopo la pace di
Westfalia, aveva portato alla comparsa di un nuovo attore: le Province Unite olandesi. Amsterdam acquisì le
rotte di Anversa, inoltre, quando il Portogallo venne acquisito dalla Spagna, gli olandesi tentarono di
impadronirsi delle rotte portoghesi e dei loro possedimenti coloniali. Per condurre la guerra con il Portogallo
e per amministrare l’espansione, gli olandesi fecero ricorso alle compagnie commerciali privilegiate: società
di mercanti dotate di speciali privilegi come l’esclusiva su determinate rotte o monopolio di prodotti; inoltre,
potevano stipulare trattati commerciali e diplomatici, arruolare e mantenere una flotta ed amministrare in
autonomia le basi acquisite. Nelle guerre contro i portoghesi, gli olandesi furono affiancati dall’Inghilterra,
che riuscì a conquistare il prezioso porto di Hormuz, e nel corso del VXII secolo si insediarono in India.
Gli Atti di navigazione, introdotti nel 1651, stabilivano che tutte le merci in arrivo nei porti dell’Inghilterra e
delle sue colonie dovessero essere trasportate da un naviglio inglese. La misura, perfettamente in linea con i
principi del mercantilismo (secondo cui lo stato deve proteggere i propri commerci, promuovendo le
esportazioni e scoraggiando le importazioni), era finalizzata a combattere gli olandesi. Agli Atti seguirono tre
guerre con le Province Unite tra il 1652 e il 1674, da cui l’Inghilterra uscì rafforzata. Il centro economico
europeo iniziò a spostarsi verso Londra. È ormai un dato consolidato dalla storiografia che il declino
dell’Europa meridionale sia stato relativo e non assoluto, a causa degli elevati tassi di crescita del nord.
Come nel caso della grande divergenza tra Europa e Asia, anche la piccola divergenza è oggetto di
discussioni. Si può distinguere tra quanti hanno fornito spiegazioni geografiche/geopolitiche e quanti hanno
insistito su fattori istituzionali.
Il vantaggio di trovarsi al centro del Mediterraneo in età moderna si tramutò in svantaggio: Venezia si trovò
intrappolata nel Mediterraneo e ostacolata dagli Ottomani. Gli autori che vedono nell’apertura delle rotte
commerciali atlantiche la causa prima della piccola divergenza, tendono a collocarne l’inizio nel corso del
XVI secolo. Per quanto riguarda le spiegazioni di tipo demografico, va sottolineata l’analisi di John Hajnal,
secondo il quale alcune istituzioni sociali tipiche dell’Europa occidentale, in particolare l’età avanzata al
matrimonio o le pratiche neo-locali a sfavore di quelle patri-locali, avrebbero consentito un controllo della
fertilità, un progressivo miglioramento delle condizioni di vita e una forza lavoro indipendente ed
intraprendente. Gregory Clark ha suggerito che la grande fertilità e mobilità delle élite abbia indottrinato gli
strati inferiori della società. Guido Alfani ha sottolineato il ruolo della peste del 1630, che fu molto più
devastante in Europa meridionale, proprio nel momento in cui la concorrenza settentrionale si faceva più
spietata. Secondo Tine De Moor e Jan Luiten van Zanden la peste nera avrebbe contribuito a radicare il
modello matrimoniale europeo e, consolidare ed estendere il mercato del lavoro e a rafforzare la
partecipazione delle donne. La “rivoluzione industriosa”, processo che ha portato a un incremento delle ore
lavorate e della partecipazione al mercato del lavoro, coinvolse maggiormente Fiandre e Inghilterra, dove il
lavoro a domicilio, sistema produttivo in cui un mercante imprenditore residente in città organizza il lavoro
degli operai residenti in campagna, era molto diffuso. Durante il Medioevo, la gran parte delle attività
manifatturiere era regolata dalle corporazioni, che stabilivano i ritmi e i metodi di lavoro, imponevano
standard qualitativi e controllavano il livello dei salari e dei profitti. Questo modello produttivo entrò in crisi
nel XVII secolo a causa della concorrenza dei prodotti a basso costo provenienti da Inghilterra e Paesi Bassi.
Mentre al nord emergevano nuove istituzioni economiche, come le compagnie privilegiate o le borse valori,
al sud queste strutture si irrigidivano difensivamente.
Seguendo un percorso coerente con i postulati della teorica economica neo-istituzionalista, molti studiosi
hanno sottolineato l’importanza dei diritti e delle istituzioni politiche quali potenziali fattori di divergenza.
Douglass C. North ha posto l’accento sull’emergere di diritti di proprietà pieni e sicuri, capace di ridurre
l’incertezza nelle attività economiche e i costi di transizione, ovvero i costi sostenuti per raccogliere quelle
informazioni necessarie per stabilire il valore del bene scambiato, accertare i diritti di proprietà del bene e
l’affidabilità del partner commerciale, al fine di proteggere e rendere efficace un accordo. Maarten Prak e
Van Zanden hanno sottolineato l’importanza dei diritti di cittadinanza, intesi come un insieme di diritti e
obblighi reciproci che vincolano le relazioni tra istituzioni governative e persone. Questo processo si collega
anche all’emergere di nuove istituzioni politiche e al processo di democratizzazione. In particolare, North e
Weingast hanno sottolineato lo stimolo economico prodotto dalla Gloriosa Rivoluzione del 1688, in
particolare il Bill of Rights che impediva l’imposizione di nuovi tributi e l’abrogazione di vecchie leggi senza il
consenso del Parlamento. Di recente Acemoglu, Johnson e Robinson hanno proposto una tesi secondo la
quale tra gli stati che hanno scelto di impegnarsi nel commercio atlantico, la fortuna abbia arriso a quelle

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con istituzioni meno assolutiste. Infine, alcune tesi ispirate a Max Weber, vedono nella riforma protestante
la causa dell’emergere di nuove attitudini favorevoli all’attività economica e allo sviluppo del capitalismo,
particolarmente forti nei calvinisti.
I francesi furono i primi a giungere in America del Nord con l’esploratore Jaques Cartier nel 1534, ma la
prima colonia fu fondata solo nel 1603 a Port Royal, dalla quale la Francia creò una forte rete di scambi
commerciali con i nativi americani. La prima colonia inglese fu fondata nel 1607 a Jamestown nell’attuale
Virginia. Nel 1620 iniziava l’avventura dei puritani, nuovo tipo di migrazione che cercava in America una
maggiore libertà religiosa, mai ostacolati dai britannici. Nel corso del XVII secolo si manifestò un netto
contrasto tra lo sviluppo delle colonie inglesi e francesi. Le prime furono incapaci ad attrarre popolazione al
contrario delle seconde. Dopo il 1664, gli inglesi sottrassero agli olandesi tutte le colonie nordamericane,
fatto che li pose in conflitto con i francesi. Ancora nel 1750 la Francia controllava ampissimi territori, che tra
l’altro dividevano le tredici colonie dai territori rivendicati in Canada dalla Compagnia dello Hudson. Nel
1754 ebbe inizio la guerra dei sette anni, che finì con nel 1763 con il passaggio di quasi tutti i territori
francesi alla corona inglese. Il ruolo fondamentale svolto dalle colonie nella guerra diede loro la speranza di
potersi sedere nel Parlamento inglese. Quando il governo decise di alzare la tassazione delle colonie, le
proteste relative all’illegittimità di tassare chi non era rappresentato, sfociarono in ribellione armata nel
1775. Nel 1783 con il Trattato di Parigi gli Stati Uniti d’America divennero indipendenti.

La rivoluzione industriale: tecnologia e società


Nell’Ottocento, per la prima volta nella storia, in Europa e in Nord America un forte incremento demografico
si accompagnò ad alti tassi di crescita dei redditi e della produttività del lavoro. La struttura economica fu
trasformata, con il passaggio di una quota crescente della popolazione dall’agricoltura all’industria e ai
servizi. Anche il tessuto sociale cambiò, per merito dell’urbanizzazione e della secolarizzazione. Questo
nuovo mondo ebbe la sua premessa nella prima rivoluzione industriale. Gli storici hanno evidenziato che nel
suo periodo “classico” (1760-1830) non si verificò una drammatica accelerazione del PIL pro capite inglese,
anzi, l’incremento fu minimo. Tale lentezza ha comportato una disputa sul concetto stesso di “rivoluzione”,
data la gradualità del cambiamento. Le basse stime di crescita del PIL pro capite del periodo 1760-1830 si
spiegano innanzitutto con una forte crescita della popolazione. Inoltre, è irrealistico immaginare
un’impennata della produttività e dell’innovazione in tutti i comparti economici. Il dualismo tra settori
moderni e tradizionali implica che le statistiche macroeconomiche riflettano molto lentamente l’impatto
delle innovazioni, inoltre, il PIL non sempre spiega ciò che sta avvenendo in termini di innovazione
tecnologica. La rivoluzione industriale fu un periodo “d’incubazione” in cui furono gettate le fondamenta
dello sviluppo economico. La trasformazione dell’economia e della società della Gran Bretagna fu un
processo lungo, avviato prima del Settecento e proseguito nell’Ottocento.
Una prima spinta dinamica venne dal commercio estero e dall’impero, che nel 1870 avrebbe rappresentato
tre quinti del PIL. Alla metà del XVII secolo l’Inghilterra era un piccolo paese di 5 milioni di abitanti, ma con
una popolazione cresciuta del 20% nei cinquanta anni precedenti. Questo dato è significativo perché nello
stesso arco di tempo le regioni mediterranee e la Germania persero 9 milioni di persone a causa della peste
e della guerra dei Trent’anni. Mentre Italia e Germania ricostruivano l’economia interna, la Gran Bretagna
rafforzò le comunità mercantili nei porti atlantici e settentrionali, il che indirizzò gli investimenti verso
occidente. Il successo inglese fu inseparabile dal dominio navale perché la logica mercantilista non
consentiva un’operazione pacifista. Contro le Province Unite furono combattute tre guerre, contro la Francia
otto. Tutta la politica fiscale e di finanza pubblica era orientata a promuovere le esportazioni e proteggere le
reti commerciali seguendo tre strategie: ottenere un surplus della bilancia commerciale per assicurare al
paese le risorse per pagare le importazioni di materie prime; aprire nuovi mercati per accrescere
l’occupazione nel commercio; stimolare l’espansione della navigazione per sviluppare la flotta commerciale,
la difesa e i servizi marittimi. Si tratta di un rigido nazionalismo e protezionismo che però consentiva la
concorrenza all’interno del paese. Il mercantilismo britannico includeva anche una politica intesa a attrarre
personale specializzato, attraverso l’accoglienza di immigrati.
Un’altra componente fondamentale che precedette e accompagnò la rivoluzione industriale fu la rivoluzione
agricola. In passato l’incremento della produttività era principalmente attribuito a nuove rotazioni agrarie e
alle recinzioni. L’aumento della produttività non si spiega con una singola innovazione, ma con una serie di

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cambiamenti: bonifiche, drenaggi, canalizzazioni, selezione di semi, estensione della concimazione, nuove
rotazioni, più carne e latticini grazie alla selezione di animali. Nel complesso, il maggior incentivo derivò
probabilmente dall’accentuato tasso di crescita urbana. L’incremento di tutte le produzioni tipicamente
mercantili testimonia la definitiva affermazione dell’agricoltura commerciale. Per la prima volta in Europa fu
abbandonato il tradizionale obiettivo di favorire i consumatori adottando nuove strategie nell’interesse dei
produttori. Dal lato delle importazioni, furono adottati dazi elevati quando i prezzi interni dei grani erano
bassi, dazi minori quando salivano. Dal lato delle esportazioni, se la produzione di cereali in loco era
abbondante e i prezzi in ribasso, i grani si potevano inviare all’estero, ottenendo premi dall’esportazione. La
precocità della trasformazione economica inglese è dimostrata anche dalle recenti evidenze riguardanti la
struttura occupazionale della popolazione. All’inizio del Settecento l’economia inglese era molto più
“industriale” di quanto si pensasse, mentre lo spostamento verso il settore secondario fu relativamente
modesto nei sette-otto decenni successivi al 1760. Questi dati hanno due implicazioni. In primo luogo, dato
che la percentuale di occupati nel secondario aumentò poco, mentre la produzione salì drammaticamente,
ciò fu possibile grazie ad una forte crescita della produzione pro capite delle attività manifatturiere.
Secondariamente, se il maggiore tasso di crescita riguardò il settore terziario, i servizi dovrebbero occupare
un posto centrale nelle discussioni sulla rivoluzione industriale.
La rivoluzione agricola consentì di sostenere una crescita demografica altissima e per la prima volta senza
un innalzamento dei prezzi: tra il 1681 e il 1841 la popolazione inglese triplicò. La crescita del Settecento fu
dovuta in primis all’aumento di nascite derivato dall’abbassamento dell’età al matrimonio, in secondo luogo
dalle migliori igiene e medicina. L’aumento della popolazione fu connesso alla rapida urbanizzazione.
Entrambi i processi non sarebbero stati possibili senza la disponibilità continua e a basso prezzo del carbon
fossile, che a sua volta, a causa dei suoi fumi dannosi, stimolò la ricostruzione di vari edifici.
L’espansione dei commerci interni e il boom del carbone furono sostenuti dalle numerose iniziative nel
settore dei trasporti. Le premesse risalgono a metà Settecento con la costruzione di strade a pedaggio e
canali navigabili, per iniziativa di privati sostenuti da atti parlamentari ad hoc. La tecnologia divenne il
motore essenziale di una crescita persistente e irreversibile. Possiamo dividere la rivoluzione tecnologica in
tre fasi. Tra il 1760 e il 1780 si verificò un notevole aumento delle invenzioni, in particolare la macchina a
vapore di Watt e i macchinari tessili, questa ondata interessò settori ristretti ma importanti. Essa fu seguita,
dopo il 1820, da una seconda fase caratterizzata da numerose micro-innovazioni che abbassarono i costi di
produzione, ad esempio la macchina per tessitura meccanica. Mentre durante la prima fase il reddito pro
capite era rimasto stabile, durante la seconda ci fu il periodo critico. La seconda ondata ser da ponte tra la
prima e la seconda rivoluzione industriale. I tre settori più innovativi della rivoluzione industriale furono il
tessile-cotoniero, quello energetico e la lavorazione del ferro. Grazie alla crescente domanda di filati,
l’industria del cotone conobbe notevoli perfezionamenti. L’associazione tra macchina a vapore e rivoluzione
industriale è naturale perché essa fu in grado di convertire il calore in energia motrice; è però importante
ribadire che l’impatto sull’industria fu limitato fino ai primi decenni del XIX secolo. L’espansione
settecentesca dell’industria carbonifera consentì di sostenere anche la nuova siderurgia, dopo l’invenzione
del processo di puddellaggio (creazione acciaio) di Henry Cort. Le invenzioni più note costituiscono solo la
punta dell’iceberg, accanto ad esse si verificarono migliaia di cambiamenti pervasivi, basti pensare al
perfezionamento della tecnica di conservazione degli alimenti. Il processo di innovazione non produsse solo
un abbassamento dei costi, ma anche l’aumento e il miglioramento dei beni di consumo.
Una parte degli studiosi ha individuato come evento centrale della rivoluzione industriale l’affermazione del
sistema di fabbrica, alla base del sistema capitalistico, che avrebbe consentito una maggiore efficienza
produttiva e un miglioramento delle condizioni di vita di imprenditori e consumatori. Altri hanno
sottolineato come la fabbrica abbia dato origine ad un proletariato industriale sfruttato e con pochi diritti,
soggetto ad una dura disciplina e costretto a vivere in ambienti malsani. La grande fabbrica va associata alla
seconda rivoluzione industriale, così come le teorie che insistono sull’impresa quale organizzazione capace
di abbattere i costi di transizione attraverso un’integrazione interna dei processi produttivi. Gli storici hanno
dimostrato che durante la prima rivoluzione industriale le piccole imprese familiari furono predominanti.
Perché l’Europa? Perché l’Inghilterra?
Prima della rivoluzione industriale l’Europa non era l’unica regione del mondo con mercati ben sviluppati e
una divisione del lavoro di tipo smithiano. Tuttavia, una grande quantità di aspetti sono peculiari dell’Europa

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e risultano molto evidenti nel secolo d’avvio della rivoluzione industriale. L’espansione geopolitica e
commerciale, la creazione di imperi oltremare, l’accelerazione dell’economia, i tassi di urbanizzazione, una
cultura filosofico-religiosa umanista, la rivoluzione scientifica e l’illuminismo, sono alcuni degli elementi. Qui
si approfondiranno alcuni aspetti: le relazioni competitive tra gli stati e il loro intervento mercantilistico
nell’economia; una riflessione sui meccanismi che fanno funzionare i mercati e sul ruolo dello stato nella
promozione della crescita economica; la capacità di difendere i commerci e la rivoluzione militare; la
presenza di sviluppati sistemi finanziari in mano a operatori privati e i bassi tassi d’interesse; una tradizione
di rappresentanza dei ceti e la sperimentazione in alcuni paesi di istituzioni inclusive.
Il commercio su lunga distanza fu una necessità vitale per le città commerciali e i piccoli stati come
Portogallo, Province Unite o Inghilterra. L’intraprendenza degli stati europei deriva dalla necessità di
ricercare mercati, materie prime, prodotti da scambiare anche perché per gli stati più commercializzati le
entrate dipendevano maggiormente da dazi doganali e da accise. Gli europei affrontarono rischi e grandi
distanze per procurarsi beni che non esistevano in patria. La Cina, diversamente, si considerava
autosufficiente dato che la vastità dell’impero le consentiva di raccogliere le entrate di decine di milioni di
contadini; ciò offriva meno incentivi alla promozione di iniziative commerciali.
Nel processo di espansione economica dell’Europa lo stato fiscale-militare ebbe un ruolo centrale, poiché
nessuna impresa commerciale su lunga distanza poteva essere attuata senza protezione. E siccome il
continente europeo era frammentato in tanti stati, tale pluralismo determinò relazioni concorrenziali, fatto
che fece aumentare le guerre e di conseguenza la dipendenza dalle risorse economiche e finanziarie a
disposizione. Gli stati si resero presto conto che la ricchezza dello stato dipendeva dalla capacità fiscale dei
sudditi, sicché furono necessari investimenti militari per difendere i propri commerci. La competizione tra le
formazioni politiche europee fu la ragione principale della successiva convergenza: tra Settecento e
Ottocento, le loro strutture statali divennero sempre più simili.
Nel contempo, poiché spesso la competizione portava alla guerra, il debito pubblico si ingrossò dando un
forte incentivo alle innovazioni finanziarie e alla mobilitazione di capitali. L’indebitamento dello stato ebbe
un ruolo importante nella crescita europea perché le élites finanziarie s’impegnarono nella mobilitazione
delle risorse finanziarie disponibili. I tassi d’interesse d’Europa erano tra i più bassi al mondo. E siccome per
pagare gli interessi sul debito pubblico occorreva rendere più efficienti i sistemi fiscali e accrescere le fonti
d’entrata, i paesi intervennero più decisamente in campo marittimo e commerciale.
Pur basandosi sulla forza militare, l’espansione europea non fu un’”accumulazione primitiva”, essa fu
caratterizzata dalla volontà sistematica di raccogliere dati, scoprire nuove zone di pesca, perfezionare le
imbarcazioni. Inoltre, tutto ciò che gli europei scoprirono fu sfruttato e valorizzato economicamente.
Lo sviluppo commerciale ebbe ricadute anche sulle invenzioni e perfezionamenti tecnologici, favorendo
anche una messa in discussione dei testi religiosi fondamentali, grazie alle nuove scoperte. L’interpretazione
culturale della rivoluzione industriale come fenomeno europeo è stata riproposta in termini originali da Joel
Mokyr, il quale sostiene che l’interesse illuminista per la tecnica abbia perfezionato le procedure
sperimentali e l’organizzazione di dati, elementi chiave della rivoluzione industriale. L’interesse per la
tecnica è testimoniato dalla grande quantità di libri editi in Europa e dai tassi di alfabetizzazione rispetto
all’Oriente.
Secondo alcuni storici avrebbe contribuito all’ascesa europea anche la struttura familiare occidentale e la
cosiddetta rivoluzione industriosa. Questi due elementi avrebbero creato una classe media con un tenore di
vita relativamente elevato ed un successivo aumento di domanda di beni.
Perché la Gran Bretagna? Un vantaggio evidente del paese può essere individuato nella sua geografia:
l’essere un’isola la rende più difendibile e garantisce un gran numero di porti costieri; la grande quantità di
corsi d’acqua favorisce il commercio interno; la relativa scarsezza di rilievi montuosi favorì la creazione di vie
di comunicazione efficienti e infine la posizione tra Europa e Americhe e tra Mediterraneo e mari del nord le
garantivano un peso nei commerci. Non meraviglia che la politica economica inglese tenesse molto in
considerazione gli interessi delle classi mercantili impegnate nel commercio estero. Quest’ultimo fu
fondamentale perché diede agli inglesi terra, materie prime e mercati. Tuttavia, va sottolineato che una
parte di merito dell’ascesa commerciale inglese va alla Royal Navy. Lo stato fiscale-militare e le politiche
mercantilistiche furono fattori necessari per l’emergere della Gran Bretagna come prima nazione industriale.
Un’altra caratteristica tipica dell’Inghilterra fu la peculiare dotazione di fattori produttivi. La spinta
all’innovazione derivò spesso dalla necessità di sostituire fattori e risorse relativamente scarsi come la legna,

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l’energia idrica e la manodopera, con altri più a buon mercato come il carbone, le macchine a vapore e il
capitale. Il carbone consentì di creare una nuova economia “minerale” in grado di aggirare i rendimenti
decrescenti del sistema energetico tradizionale.
L’espansione dell’economia moderna tra 1500 e 1700 contribuì a determinare una struttura peculiare: i
salari inglesi erano alti e il costo dell’energia era basso. Di conseguenza, le tecnologie più rivoluzionarie
furono eccezionalmente profittevoli in Gran Bretagna. Al contrario, negli altri paesi europei le campagne
erano meno industrializzate, il lavoro a domicilio aveva maggiori margini di espansione e soprattutto era a
disposizione una cospicua riserva di manodopera. Probabilmente l’Inghilterra aveva anche un numero
maggiore di specialisti.
La rivoluzione industriale trovò un contesto favorevole grazie a un sistema politico originale,
antiassolutistico e pluralistico. Il sistema parlamentare non era democratico ma i benefici delle attività
economiche furono più ampiamente distribuiti, poiché il parlamento rappresentava gruppi che avevano una
capacità più ampia di far rispettare i diritti di proprietà, limitavano e bilanciavano il potere della corona. Allo
stesso tempo, il controllo del parlamento consentì di aumentare le imposte e il debito per effettuare
investimenti pubblici ritenuti vantaggiosi dai ceti produttivi. La gloriosa rivoluzione avrebbe inoltre
contribuito a rendere il sistema politico più aperto ai bisogni degli operatori economici, rafforzando i diritti
di proprietà, perfezionando i sistemi finanziari e smantellando i monopoli.
La Gran Bretagna si distingueva dagli altri stati europei anche per il suo sistema giuridico: la common law,
che si basava sui precedenti delle decisioni giurisprudenziali, era un sistema in grado di adattarsi più
velocemente ai cambiamenti. Infine, la società inglese moderna si differenziava dalle altre per una maggiore
mobilità sociale e per la presenza di una classe media.

Un processo inarrestabile
La rivoluzione industriale ha messo in moto un processo dinamico e autopropulsivo che negli ultimi due
secoli non si è mai arrestato. L’essenza di questo dinamismo risiedeva nel progresso tecnologico, sempre più
sofisticato e costoso. Dopo l’avvio della rivoluzione industriale in Inghilterra, nessun paese ha potuto più
scegliere la stazione d’ingresso sul treno dell’industrializzazione: lo scenario presentava un primo arrivato e
un gruppo di inseguitori che percorreranno la loro peculiare strada per la modernità. Gli obiettivi, le risposte
alle sfide tecnologiche, i mezzi e gli strumenti, i tempi e gli esiti sociali, politici, culturali e economici che
hanno caratterizzato questi percorsi nelle diverse aree rappresentano ciò di cui la riflessione storico-
economica deve rendere conto.
All’inizio dell’Ottocento il cuore tecnologico della rivoluzione industriale inglese, la meccanizzazione dei
processi produttivi, non era sconosciuto nell’Europa continentale: larga parte delle nuove industrie erano
infatti introdotte nell’isola dal continente. Se l’”illuminismo industriale” è stato un fenomeno europeo, è
però innegabile che i paesi europei diventino nell’Ottocento debitori, emuli e inseguitori del modello
inglese.
In uno studio, Sidney Pollard definì la diffusione del processo di industrializzazione come una sorta di
epidemia che si diffuse verso le regioni contigue, non riconducibile al contesto politico statale di riferimento,
quanto piuttosto alla collocazione geografica, alle risorse naturali e all’evoluzione storica. In realtà gli
approcci regionale e nazionale non si escludono.
In capo a pochi decenni il paese di riferimento in Europa diventò la Germania, che si impegnò sulla strada
dell’industrializzazione puntando sui settori pesanti della metallurgia, chimica, elettricità e meccanica. Per
sostenere gli investimenti necessari, le risorse dell’imprenditore non bastarono e si rese necessario
l’intervento delle banche universali o banche miste. L’operare delle banche universali, che assumeva il
rischio di indirizzare le risorse verso gli investimenti a lungo termine, si presentò alla metà del XIX secolo
come un elemento insostituibile per promuove l’industrializzazione di un paese in ritardo. Nell’arco di
mezzo secolo la Germania era la prima potenza industriale in Europa nei settori pesanti. La forte Reichsbak
rappresentò il perno per le operazioni delle banche universali che concentrarono le proprie attività nel
finanziamento a lungo termine alle grandi imprese.
Dopo la metà dell’Ottocento le condizioni per accedere allo sviluppo industriale erano sempre più costose e
complicate a causa della relativa arretratezza dei paesi interessati. Nella Russia zarista si rese necessario
l’intervento dello stato che graie e sovvenzioni, commesse e protezioni doganali a favore di imprese e interi

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settori conseguiva notevoli risultati. In questo processo emerse anche un altro aspetto: i paesi che si
avventuravano sul percorso industriale potevano contare su tecnologie già testate e aggiornate rispetto a
quelle della pioniera Inghilterra. Lo storico economico Alexander Gerschenkron approfondiva il vantaggio
relativo dei paesi arretrati in prospettiva storica e l’azione di fattori sostitutivi.
Il Giappone è l’unico paese asiatico che nell’Ottocento ha reagito all’industrializzazione europea per mezzo
di un’iniziativa governativa che considerava lo sviluppo economico come prerogativa necessaria per
l’indipendenza politica. Nel 1868 ebbe inizio la restaurazione Meiji: in pochi decenni il paese venne
trasformato da un energico intervento statale nelle istituzioni politiche, militari, bancarie, scolastiche e
economiche. Non potendo intervenire in materia doganale a causa dei “trattati ineguali”, il governo decise
di investire direttamente nelle attività industriali. In sintesi, gli stimoli dati dall’iniziativa statale insieme ai
samurai con funzione imprenditoriale, trovarono un tessuto sociale pronto a questo processo.
Anche l’Italia puntò sui “fattori sostitutivi”. Il modello della banca universale venne importato a fine
Ottocento dalla Germania, questo favorì il consolidamento di una base industriale nel triangolo Milano,
Torino, Genova, e fornì un supporto decisivo ai settori della siderurgia e dell’elettricità. Una consapevolezza
dei processi in atto a livello mondiale e la volontà di giocare un ruolo nella politica internazionale spinsero lo
stato italiano a intraprendere la scelta del potenziamento industriale nel settore siderurgico creando la
moderna acciaieria Terni. Quando, tre anni dopo, l’industria appariva sull’orlo del fallimento, l’Italia operò il
primo “salvataggio”, che, ripetuto nel mezzo secolo successivo altre tre volte in altri ambiti, porterà alla
nascita dell’IRI, ovvero l’Istituto per la ricostruzione industriale, con il quale lo stato divenne imprenditore.
Questi due casi dimostrano che per avviare un processo di industrializzazione sono necessari sia l’impulso
statale che una popolazione in grado di reagire a tale impulso. Emblema di questa tesi è l’Egitto di
Muhammad Alì che, dopo aver preso potere negli anni Venti dell’Ottocento, colse il nesso tra potenza
economica e potenza militare e avviò un progetto di industrializzazione incentrato sul settore cotoniero. Il
problema era relativo all’assetto socioeconomico del paese, in cui non esistevano lavoratori in grado di
sottoporsi spontaneamente alla disciplina dell’industria. Sostanziale responsabilità fu attribuita
all’Inghilterra che avrebbe proibito al leader egiziano di porre barriere doganali, ma tale accusa non regge
perché anche il Giappone aveva gli stessi problemi.
Un’analisi del caso francese di Michael Smith riconduce lo sviluppo francese del secondo dopoguerra alle
sue radici ottocentesche: la prospettiva della business history converge nella spiegazione di uno sviluppo
radicato nelle dinamiche ottocentesche di diffusione in Europa di competenze tecnologiche, imprenditoriali
e organizzative, nonché di un tessuto reattivo. In definitiva, lo sviluppo industriale si è configurato
storicamente come il risultato combinato di impulsi esogeni e risposte endogene.

Un nuovo equilibrio mondiale


Innovazioni tecnologiche di grande portata, conoscenze scientifiche sistematicamente applicate, nuove
configurazioni organizzative, settori emergenti che diventano trainanti, l’elettricità: questi i pilastri della
seconda rivoluzione industriale, la quale portò nei decenni finali dell’Ottocento a un cambiamento degli
equilibri economici mondiali. La Gran Bretagna fu sopravanzata dal maggior dinamismo di Stati Uniti e
Germania.
Con la seconda rivoluzione industriale balzò prepotentemente sulla scena la grande impresa, un attore che
richiese appropriati elementi giuridico istituzionali, economici e culturali. Furono inoltre necessari
prerequisiti come la ferrovia e il telegrafo. Se nuovi strumenti di gestione come l’organigramma, i rapporti
gerarchici e di stato maggiore rappresentarono la risposta manageriale alla complessità delle nuove unità
aziendali, fu determinante all’origine della grande impresa la larga varietà di processi produttivi che vennero
inventati e perfezionati, come la distillazione del petrolio o la fabbricazione di parti meccaniche
intercambiabili. Questo nodale gruppo di innovazioni si distingueva dalla fase precedente per una maggiore
applicazione di energia ai processi produttivi e un tipo di produzione di grandi volumi realizzata ad elevata
velocità.
Si definì allora all’interno della produzione industriale un significativo dualismo. Alcuni settori non vennero
toccati dalla trasformazione, come il tessile, e mantennero assetti tradizionali ad alta intensità di lavoro e
tecnologicamente semplici. Per aumentare la produzione non si faceva altro che inserire macchinari e
lavoratori, così che le piccole e le grandi aziende potevano concorrere tra loro. Nei settori tipici della

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seconda rivoluzione l’espansione dimensionale comportò una radicale trasformazione della fabbrica:
l’inserimento di macchinari che consentissero la sequenza continua delle diverse fasi fino al prodotto finito
e la grande alimentazione da combustibile fossile permisero una riduzione dei costi unitari, un incremento
della produzione e un vantaggio rispetto alle piccole aziende. I vantaggi di costo potevano essere ottenuti
solo garantendo un flusso continuo, per il quale era necessaria una costante coordinazione tra fornitori,
produttori, distributori e consumatori. L’atto critico imprenditoriale per la grande impresa era rappresentato
dalla creazione di un’estesa gerarchia manageriale. Per rendere effettive le economie di scala l’impresa non
poteva arretrare di fronte le prospettive dell’integrazione verticale (l’inserimento di fasi produttive interne),
si per garantirsi nei confronti dei fornitori, sia per slacciarsi dai distributori. Un aspetto di novità della grande
impresa fu rappresentato dal suo rapporto diretto con il mercato derivante dall’investimento nella rete
distributiva.
Le condizioni poste dal cambiamento tecnologico della seconda industrializzazione si presentarono come un
insieme di vincoli e opportunità: le potenzialità poterono essere accolte solo investendo in organizzazione
d’impresa.
Negli Stati Uniti la grande impresa manageriale, corporation, si affermò in tutti i settori interessati dallo
sviluppo tecnologico fino a diventare il modello da imitare: retta da un ufficio centrale e da dipartimenti
funzionali, integrò produzione e distribuzione e mostrò la tendenza all’espansione multinazionale.
Anche in Inghilterra operavano aziende capaci di integrare la produzione con un’adeguata rete di marketing.
La maggioranza delle imprese si collocava ancora nei settori che producevano beni di largo consumo, che
richiedevano tecnologie poco sofisticate. La maggiore differenza con il modello americano riguardò la
presenza attiva della famiglia proprietaria nella gestione, affiancata da una limitata gerarchia manageriale.
In Germania la grande impresa si affermò nei settori della siderurgia, chimica e meccanica pesante, ad alto
contenuto tecnologico e che richiedevano un’estesa gerarchia manageriale e grandi investimenti, dei quali
le banche universali furono protagoniste.
Se la bassa urbanizzazione e la dispersione della popolazione sul territorio spingevano l’integrazione a valle
della corporation americana, la concentrazione della popolazione inglese nelle città non impose il
miglioramento di un impianto distributivo già consolidato. Allo stesso modo le città e le infrastrutture inglesi
non richiesero quei diffusi interventi di ristrutturazione che erano necessari in Germania. L’economia inglese
si trovò infine a scontare una forma di svantaggio del pioniere. Emblematica la questione delle ferrovie: in
America imposero la formazione di un management specializzato alla grande dimensione di impresa,
indussero la centralizzazione a Wall Street e rappresentarono un terreno di prova della regulation e delle
moderne relazioni industriali; in Germania l’impatto delle costruzioni ferroviarie fece sorgere nuove
istituzioni finanziarie come le banche universali.
La dimensione dei mercati rappresenta un’altra variabile significativa per comprendere il cambiamento di
scenario mondiale. Le esportazioni americane incidevano per il 5% sul reddito nazionale e riguardavano
prodotti innovativi, quelle inglesi il 30% e riguardavano prodotti della prima industrializzazione. In Germania
le esportazioni erano concentrate su prodotti chimici e meccanici, destinati a quei paesi che intendevano
industrializzarsi.
Il tema della regolamentazione della concorrenza fra imprese presenta spunti interessanti. Gli studiosi
hanno parlato di paradossi americano a proposito degli esiti della legislazione antitrust: contro il gigantismo
delle large corporation si affermò l’intenzione delle forze politiche e della magistratura di preservare la
libera competizione ma con effetti contrari. Infatti, le regole contro gli accordi interaziendali favorirono la
crescita interna delle grandi imprese.
In Inghilterra gli accordi per il controllo della competizione si dimostrarono operanti e non sanzionati perché
la piccola impresa riusciva a convivere con la grande.
In Germania venne a mancare qualsiasi pressione sulla grande impresa da parte della politica e del potere
giudiziario, anzi i cartelli per regolare l’andamento del mercato furono protetti da una legge nel 1897,
allorché la Corte suprema ne dichiarò l’utilità a vantaggio dell’interesse pubblico.
Gli studi hanno evidenziato come la società americana apparisse un terreno favorevole all’affermazione di
grandi organizzazioni capaci di fornire un “nuovo ordine” basato su efficienza, regolarità, continuità.
Il veloce sviluppo industriale mise alla prova gli atteggiamenti culturali della società, così come la capacità di
sostenere le esigenze dell’industria da parte del sistema scolastico e universitario. La società inglese mostrò
notevoli resistenze all’affermazione dell’economia industriale moderna, a differenza di quella tedesca.

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Per quanto riguarda le istituzioni educative, la Germania vantava a fine Ottocento le migliori facoltà
scientifiche al mondo, oltre a diversi istituti tecnici e commerciali.
Negli USA, prima del 1880 i college si concentravano sulla formazione di tecnici ferroviari, mentre
successivamente scuole come il MIT diedero vita a corsi per ingegneri e manageriali, oltre a intraprendere
rapporti con le grandi imprese. Il sistema inglese non fu in grado di offrire niente di simile.
Nel penultimo decennio dell’Ottocento, la sproporzione tra offerta e domanda causò una generale caduta
dei prezzi e la prima reazione fu rappresentata dai tentativi di controllo del mercato attraverso gli accordi tra
imprese.
Nell’ambiente economico americano lo strumento delle intese si rivelò inefficace e poi fu proibito, lasciando
però spazio alle fusioni che con una selezione di impianti, coordinamento del flusso dei prodotti, e rigorosa
centralizzazione amministrativa raggiunse gli obiettivi desiderati di abbassamento di costi di produzione e
ascesa dei profitti.
Anche in Inghilterra si verificarono fusioni: il risultato fu la forma della federazione di imprese, indipendenti
tra loro, ma che potevano trovare accordi su alcune fasi del processo produttivo.

Il modello occidentale e i suoi limiti


I percorsi effettuati dalle economie dell’Europa e degli Stati Uniti che portarono alla loro “crescita
economica moderna”, possibili grazie all’azione degli agenti sostitutivi, sono molto diversi da quelli di quei
paesi che negli anni Sessanta dell’Ottocento rientravano nel novero delle società tradizionali. Le nuove
esigenze del commercio e dell’industria, la progressiva integrazione del mercato mondiale, l’infittirsi delle
relazioni d’affari furono le leve che spezzarono equilibri secolari.
La Russia era il simbolo dell’assolutismo reazionario: il livello di urbanizzazione era limitato, la borghesia
inconsistente e il potere si concentra nella figura dello zar. La nobiltà deteneva oltre il 90% delle terre non di
proprietà della corona e l’industria era gravemente arretrata. Fu il paese dove la servitù della gleba
sopravvisse più lungamente. L’organizzazione produttiva del settore primario si basava sul latifondo: le
coltivazioni erano estensive e i sistemi di rotazione arretrati, oltre le sfavorevoli condizioni climatiche. Il
progressivo aumento della coercizione sui contadini determinò, tra il 1855 e il 1861 una serie di 474
sommosse. Il fenomeno preoccupava la corona che esitava a imboccare il percorso dell’industrializzazione.
La caduta di Sebastopoli, entro la guerra in Crimea, mostrò al mondo che la Russia non era più quella
potenza in grado di fermare Napoleone e la pace di Parigi impose ad Alessandro II un intervento riformatore
che implicava la preservazione dell’autocrazia e la salvaguardia degli interessi della nobiltà. Tra il 1855 e il
1861 lo zar abolì la servitù della gleba, le punizioni corporali e i tribunali di casta. I contadini divennero
soggetti ad imposta. Per quanto riguarda la terra, parte dei terreni appartenenti alla corona e alla nobiltà
venne ceduta a piccoli lotti alle famiglie, ma l’incertezza dell’possesso dell’appezzamento scoraggiava ogni
miglioramento. Si configurò una situazione agli antipodi rispetto all’individualismo agrario europeo. L’esito
più significativo fu la maggiore potenzialità fiscale dello stato. Sul lungo termine la parcellizzazione delle
terre peggiorò la condizione dei contadini. Nel 1881 lo zar morì in un attentato, seguì la svolta autoritaria di
Alessandro III e in seguito un più convinto intervento riformatore di Nicola II. Dal 1893 il ministro delle
finanze Witte, tramite sussidi, protezione doganale e prezzi elevati, riuscì ad attrarre capitali esteri. Fu un
passo obbligato, data l’assenza di una classe imprenditoriale. Il modello russo di modernizzazione coniugò al
fattore sostitutivo “stato” il capitale estero. Nel secondo Ottocento la costruzione della rete ferroviaria
trainò l’espansione dell’industria mineraria e siderurgica. Il gigantesco sforzo modernizzatore produsse esiti
modesti: la produzione rimase concentrata in poche aree e l’industria pesante non era di qualità
eccezionale. Vennero sacrificate l’industria leggere e i beni di consumo. La produzione petrolifera utilizzava
metodi di estrazione e raffinazione arretrati.
Il periodo Tokugawa rappresenta l’ultimo stadio del feudalesimo in Giappone, iniziato nel 1183 con la
reintroduzione della carica di shogun. Quando nel 1600 Tokugawa Ieyasu rese lo shogunato ereditario si
configurò una struttura economico-sociale nella quale i possedimenti della coalizzazione dominante
risultavano inferiori rispetto ai feudatari rivali. Questo impedì la creazione di uno stato centralizzato. Il
Giappone si configurava come una confederazione di circa 250 unità semiautonome. I feudi riconoscevano
la supremazia shogunale ma permanevano tendenze centrifughe. Per imbrigliarle, la dinastia regnante creò
una costruzione istituzionale imperniata su particolari meccanismi di disciplina sociale e politica. Il primo

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passo fu l’assicurarsi le città principali: Edo, Osaka e Kyoto. I territori feudali vennero distribuiti
strategicamente con i rivali in periferia, separati da feudi cuscinetto. L’autorità imperiale venne relegata a un
ruolo religioso-sacrale e al paese venne imposto l’isolazionismo. Gli occidentali vennero espulsi. Tra il 1635
e il 1642 fu introdotto il sistema della residenza alternata (sankin-kothai). Ai feudatari e al loro seguito
venne imposto di risiedere per sei mesi all’anno a Edo, dove dovevano utilizzare la propria ricchezza per
mantenere un alto tenore di vita. Alla partenza dovevano lasciare in ostaggio i figli maschi. Questo modello
impediva l’arricchimento eccessivo dei feudatari e il loro controllo. Sul lungo termine però questa pratica
permise un’integrazione del mercato nazionale e una formazione di mercati regionali, innescando una
rivoluzione industriosa. Il livello di monetizzazione dell’economia aumentò, così come il peso delle famiglie
mercantili. Il malcontento però serpeggiava nel paese.
Nel 1853 il commodoro Perry impose l’apertura dei porti giapponesi alle navi statunitensi, ma il Giappone si
fece trovare preparato. Le conseguenze dell’ingerenza occidentale in Cina non erano estranee al governo
giapponese, quindi, il primo ministro tentò di ricompattare il paese nel nome della nobiltà tradizionale.
Questo fu visto come un’ammissione di debolezza. Nel frattempo, le importazioni di cotone inglese a basso
costo e l’aumento del prezzo della seta per la domanda esterna, a causa dei trattati ineguali, misero le basi
per il movimento rivoluzionario del Sonno Joi. La repressione del governo non riportò l’ordine e l’esercito fu
sciolto. Dopo il 1868 il primo problema che la classe dirigente dovette affrontare fu quello di mantenere
l’indipendenza. Il successo fu agevolato dal fatto che la società giapponese era più vicina a quella
occidentale e quindi idonea a promuovere lo sviluppo capitalista. Inoltre, eventi come i moti indiani del
1857 avevano reso gli occidentali più cauti nei confronti dei governi locali. Consolidato il proprio ruolo nello
scacchiere asiatico e ottenuta la revisione dei trattati ineguali, il Giappone iniziò un processo di conquista di
nuovi territori, spinto dalla mancanza di materie prime.
Il problema di reperire capitali sufficienti a superare la dimensione manifatturiero-artigianale non fu di
immediata soluzione. I banchieri non erano pronti a finanziare le industrie. Il ruolo del governo
nell’ampliamento del capitale fisso sociale, nella promozione di stabilimenti in nuovi settori e
nell’introduzione della tecnologia occidentale fu rilevante. Fondamentale l’istituzione della scuola e della
leva universale.
La Cina cadde sotto la dominazione della dinastia Qing nel corso del XVII secolo, nel quale la popolazione
crebbe insieme all’urbanizzazione. La base dell’economia rimase l’agricoltura e per fronteggiare la crescita
demografica i Qing incoraggiarono la coltivazione della Manciuria. Fino a questa fase lo standard di vita
rimase elevato e si parla di “miracolo agricolo” premoderno. L’industrializzazione non costituiva una
priorità, specialmente per la visione confuciana della vita che condannava il profitto e la subordinazione di
ciascuno al suo superiore naturale.
L’affacciarsi di preoccupazione di ordine economico rappresentò una reazione alla prima globalizzazoine e
all’imperialismo, processo in cui l’Inghilterra ebbe un ruolo chiave. Vinta la guerra dei sette anni e
perfezionato il controllo sull’India, furono intensificati i commerci con l’Asia. I prodotti inglesi faticavano a
sfondare in Cina, quindi si creò un deficit commerciale. Gli inglesi allora per aumentare le esportazioni
asiatiche, iniziarono a commerciare l’oppio bengalese. Il consumo di oppio alimentava la corruzione interna
e i disordini amministrativi. Si arrivò alle cosiddette guerre dell’oppio (1840 e 1860) che evidenziarono la
debolezza del potere centrale e aumentarono il malcontento. Alcuni consiglieri suggerirono il
potenziamento dell’industria pesante, cosa che avvenne in maniera frammentata. L’auto rafforzamento e
l’integrazione selettiva di tecnologia occidentale avevano conferito una vernice industriale ad alcune aree e
aveva consolidato il potere dei governatori regionali. L’apertura agli scambi internazionali e l’emigrazione
condusse alla formazione di una borghesia e di un ceto imprenditoriale. La riforma della scuola e
dell’esercito, successive alla rivolta dei Boxer, antioccidentali, distrussero la capacità della dinastia regnante
di egemonizzare il ceto burocratico-intellettuale. Gli studenti acquisirono un atteggiamento critico verso la
società tradizionale e si volsero a un nazionalismo etnico. L’Impero era in crisi.
L’area latino-americana è stata profondamente segnata dalla colonizzazione spagnola e portoghese. Il
confine tra Messico e USA costituisce una demarcazione culturale e socio-economica. La plurisecolare
dominazione iberica ha fornito ai paesi che compongono il continente sudamericano un sostrato culturale
comune, sostanziato di modelli di consumo e socioculturali imbevuti di valori occidentali. La strutturale
scarsità di autoctoni indusse gli europei prima a importare schiavi dall’Africa, poi a sostenere l’emigrazione.
Gli insediamenti sono sorti essenzialmente nelle zone minerarie, nelle piantagioni e nelle città portuali.

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Dopo l’abolizione della schiavitù, l’espansione della domanda internazionale trainò quella delle colture di
piantagione e richiese l’iniezione di forza lavoro fresca: i migranti si stanziarono per lo più in Brasile e
Argentina. Il conseguimento dell’indipendenza non innescò trasformazioni istituzionali in senso
democratico: i creoli ambivano a sostituirsi agli spagnoli. La conclusione degli scontri, intorno al 1830, portò
alla creazione di repubbliche nominalmente modellate sugli schemi europei, ma incapaci di adattarsi a una
realtà sociopolitica differente. Il vuoto di potere venne riempito da uomini forti, che si imposero al governo
in molte zone. Lo sviluppo economico si avviò nel tardo Ottocento. I paesi si specializzarono
nell’esportazione di materie prime e mentre importavano manufatti. La crescita fu sostanzialmente
circoscritta alle industrie estrattive. Nel secondo Ottocento la realizzazione delle ferrovie non avvenne
nell’ottica dell’integrazione dei mercati nazionali, ma plasmata sulla necessità di collegare le miniere con i
porti. La tendenza latifondista era retaggio del colonialismo, ma dall’inizio dell’Ottocento la tendenza
all’ampliamento della maglia proprietaria si rafforzò. Le leggi sulla secolarizzazione della manomorta
permisero che le proprietà della chiesa traslassero all’oligarchia locale. In Messico ci fu una prima
industrializzazione con Porfirio Diaz con una politica commerciale protezionista. In Argentina venne avviata
la conquista del desierto, finalizzata a strappare la Patagonia agli indigeni. In Brasile lo stato offrì aree
immense alle grandi società. La fragilità delle istituzioni politiche trovava il suo contraltare nella forza della
proprietà terriera.

La prima globalizzazione
Dal termine dei conflitti francesi fino alla guerra di Crimea il sistema geopolitico europeo si resse sui pilastri
dell’equilibrio di potenza e del concerto europeo, preposti a prevenire o contrastare minacce eversive. Alla
metà del secolo, tuttavia, il diffondersi della rivoluzione industriale accrebbe i divari tra le regioni del
continente, rimodellando i rapporti di forza. L’apertura dei canali di Suez e Panama, il diffondersi della
ferrovia, l’introduzione di macchine agricole la riduzione dei tempi e dei costi di trasporto, i massici
movimenti di capitale e la compressione delle barriere protezionistiche sincronizzarono le singole
economie. La crescita del commercio rinsaldò i legami internazionali e sollecitò un nazionalismo reattivo che
stimolò l’industrializzazione in un’ottica di potenza. La combinazione tra politiche migratorie liberali e
l’integrazione delle economie nazionali portò alla formazione di un mercato del lavoro mondiale.
Il XIX secolo conobbe grandi oscillazioni dei prezzi su scala globale con un’intensità e rapidità inusitate. Ogni
decennio fu attraversato da crisi. La teoria classica, pur non ignorando l’esistenza dei cicli economici, non li
comprendeva nel proprio armamentario teorico. La costruzione degli economisti si basava sulla legge di Say:
la produzione di merci generava una domanda aggregata sufficiente per comprare quanto era stato
prodotto, il sistema economico tendeva all’equilibrio e il mercato riusciva ad autocorreggersi. L’evidenza
empirica andava in un’altra direzione. L’interesse sulla fluttuazione dei prezzi si accentuò durante le guerre
francesi, quando subirono un rilevante incremento, e cessati gli scontri, il de stoccaggio delle merci e
l’incremento della produzione ne determinarono la caduta e, a metà Ottocento, la scoperta delle miniere
californiane a australiane produsse una nuova inversione. Tra il 1870 e il 1890 la concatenazione di una crisi
di sovrapproduzione, agraria e finanziaria spinsero alla più lunga fase deflattiva della storia. Una decina di
anni prima Clement Juglar aveva individuato un andamento ciclico. Le crisi partecipavano di un movimento
in tre fasi, precedevano la liquidazione e cui seguiva la ripresa. La periodicità si aggirava tra i sei e gli otto
anni. Nell’interpretazione di Juglar essi erano causati da un eccesso di credito. Nel 1921, studiando le
variazioni dei prezzi all’ingrosso e dei tassi di interesse negli Stati Uniti, Kitchin individuò un movimento
breve, di tre anni e mezzo. I cicli di Juglar e Kitchin si inseriscono nell’onda secolare di Kondriatev, periodi
cinquantennali che comprendevano fasi di crescita e di decrescita. Schumpeter negli anni Trenta scorse
nelle fluttuazioni l’essenza del capitalismo: la crescita conseguiva dalla distruzione creatrice che sbloccava
l’economia dal suo stato stazionario. Egli giustificò le fluttuazioni economiche con l’azione dell’imprenditore
che tramite il credito trasformava il sistema combinando nuovi fattori produttivi, individuando nuovi mercati
o adottando nuove tecnologie. I cicli economici di ripresa, prosperità, recessione e depressione si
spiegavano grazie alla sua azione.
La grande depressione costituì un’esperienza nuova: tra il 1873 e il 1896 i prezzi caddero vertiginosamente
in tutto il mondo “occidentale”. La crisi derivava dall’eccesso per la prima volta. A questo periodo risale la
fortuna postuma di List. Collocato intellettualmente agli antipodi di Smith e Ricardo, List utilizzò il

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nazionalismo per veicolare l’ideologia dell’industrializzazione: la produzione manifatturiera costituiva la


premessa della potenza militare e il suo sviluppo rappresentava un imperativo. Una volta importate
dall’Inghilterra le tecnologie necessarie a sviluppare l’industria, il protezionismo rappresentava la via per
raggiungere un primo arrivato che si era valso dei medesimi mezzi. Ma proprio qui allignava l’eresia.
Richiedendo un diritto di protezione a tutela dell’industria nazionale, lo stato si collocava al di sopra
dell’individuo, in una visione in contrasto con quella ricardiana. Questa postulava un pianeta in cui
l’interdipendenza delle singole economie conseguiva dalla specializzazione produttiva e dal libero scambio.
La risposta alla grande depressione si sostanziò nella svolta protezionista del tardo Ottocento.
Il ventennio della grande depressione coincise con il passaggio al regime aureo dei principali protagonisti
della rivoluzione industriale, seguendo le orme dell’Inghilterra che aveva adottato il gold standard nel 1819.
Il movimento si condensò tra 1873 e primo Novecento. Nella prima metà del secolo i sistemi monetari dei
maggiori paesi europei si basavano su un sistema bimetallico o sul silver standard. L’enorme espansione in
volume e valore degli scambi favorì l’uso dell’oro per i cambiamenti internazionali. La diffusione
dell’industrializzazione agì nello stesso senso e l’Inghilterra si trovò al centro del sistema-mondo. Complice
la superiorità marittima e della banca, la sterlina si pose come fulcro del sistema monetario internazionale.
Nel 1865 le ambizioni egemoniche della Francia sollecitarono la creazione dell’Unione monetaria latina
composta da Italia, Belgio e Svizzera. Napoleone III intendeva creare un’area del franco in chiave
antitedesca. Le cose andarono diversamente: nel 1866 l’Italia perfezionando il processo di unificazione e
adottò il corso forzoso. Il conseguente rimpatrio di titoli del debito pubblico determinò un afflusso di
argento verso la Francia e mostrò il lato debole del sodalizio: la difficoltà di unificare sistemi monetari
differenti senza coordinare le politiche economiche. Dopo Sedan l’Unione monetaria latina si convertì al
gold standard. Nel 1873 anche la Germania adottò il tallone aureo seguita da Danimarca, Olanda, Norvegia
e Svezia. La vendita dell’argento tedesco ne depresse il prezzo sui mercati mondiali e pose gli altri paesi
davanti a un bivio: inflazione o abbandono del bimetallismo? Nello stesso anno gli USA decretarono la
sospensione della coniazione dell’argento. La resistenza opposta dai produttori di questo metallo e dagli
agricoltori portò al ripristino della convertibilità e al varo di politiche protezioniste (Sherman Act). Nel 1894,
dopo l’abolizione dello Sherman Act il presidente ne bloccò la libera coniazione, mentre la scoperta di
alcune miniere rese l’oro meno prezioso, agevolando l’accettazione del gold standard. Come insegna
l’allegoria del Mago di Oz, gli USA sarebbero usciti dalla deflazione se si fosse creata inflazione coniando
anche l’argento.
Il gold standard assicurava che l’equilibrio interno di un paese dipendesse anche da quello con l’estero. La
massa monetaria era vincolata dall’afflusso o deflusso di oro. Deficit o eccedenze sarebbero stati
automaticamente livellati dall’azione dei meccanismi di mercato e dal riallineamento dei prezzi: qualora le
esportazioni fossero prevalse sulle importazioni l’oro sarebbe affluito nel paese. I prezzi sarebbero
aumentati, inducendo gli attori economici a preferire prodotti stranieri, consentendo così il riallineamento
dei cambi. Poiché le divise venivano cambiate a tasso fisso, il sistema monetario internazionale risultava
unificato e omogeneo. Il gold standard, rimuovendo il rischio di cambio e impegnando i paesi aderenti a
politiche fiscali e monetarie sane, riduceva il costo del servizio del debito comprimendo quello che oggi
chiamiamo spread. Il cambio fisso chiamava in causa l’impegno ad attenersi a solidi fondamentali
economici. Altre due condizioni erano imprescindibili: la cooperazione e l’indipendenza delle banche
centrali. Come è evidenziato dal political trilemma di Obstfeld-Taylor, solo due, su tre, macro-obiettivi
desiderabili (cambi fissi, libera circolazione dei capitali e politica monetaria indipendente) sono conseguibili
contemporaneamente. Il sistema crollò negli anni Trenta.
La progressiva integrazione dei mercati internazionali trovò il proprio contraltare nell’ascesa del
nazionalismo che finalizzava l’espansione del commercio internazionale all’incremento di potenza e
alimentava una concezione antagonistica delle relazioni interstatuali. La fase coloniale, rappresenta un
tassello centrale della globalizzazione, poiché fu grazie ad essa che la periferia del mondo si integrò in un
unico sistema.
L’aumento della capacità di penetrazione degli europei si accompagnava alla crescita della loro potenzialità
militare e alla superiore resistenza alle malattie. La corsa all’impero fu strategica: le nuove conquiste
territoriali furono percepite come necessarie, mentre i governi sollecitavano l’orgoglio nazionale.

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La rilevanza dell’imperialismo non si esauriva nel suo significato economico. I paesi che lo praticavano lo
consideravano un elemento fondante dell’identità nazionale. La grande depressione fornì una
giustificazione economica e teorica all’espansione coloniale.
Fu grazie all’impero, e soprattutto all’India, che la Gran Bretagna poté chiudere a proprio vantaggio il
cerchio delle transazioni commerciali internazionali. Dipendendo dal resto del mondo per le materie prime,
la preservazione del monopolio del commercio le consentiva di trarre quel surplus utile per pagare il saldo
delle importazioni.
Le prime riflessioni teoriche sull’imperialismo furono redatte da John Hobson, il quale lesse la conquista di
nuovi territori come il prodotto della trasformazione della concorrenza che, evolvendo in senso
monopolistico, avrebbe condotto allo scontro tra stati. L’imperialismo, in sostanza, era considerato la
conseguenza del ritorno al mercantilismo. L’imperialismo ottocentesco era diverso da quello dell’età
mercantilista. Allora i governi affidavano l’espansione alle compagnie privilegiate, che avevano notevoli
economie. Dopo la rivolta indiana dei sepoy la Gran Bretagna decise di dominare direttamente la sua
colonia. Dopo la conferenza di Berlino del 1885, dove fu sancito il principio che il possesso delle colonie
fosse riconosciuto solo se esse erano realmente conquistate e organizzate territorialmente, partì la corsa
all’Africa. La Gran Bretagna predilesse l’amministrazione indiretta. I Francesi optarono per un dominio
diretto, finalizzato in teoria ad un processo di assimilazione culturale dei nativi. A parte fu il caso del Congo,
che divenne dominio diretto e assoluto di Leopoldo II del Belgio. Il paese conobbe uno sfruttamento e una
violenza inauditi, con l’obiettivo del conseguimento del massimo profitto con il minimo investimento.

La grande guerra: la fine di un mondo


La prima guerra mondiale pose fine a un periodo di pace e di progresso pressoché ininterrotto dal 1870. Il
conflitto indebolì l’Europa, che perse il primato politico ed economico, e plasmò la geopolitica
internazionale. Il commercio internazionale fu gravemente danneggiato e il sistema monetario
internazionale cessò di regolare i rapporti tra le valute.
Si affermò una nuova concezione collettivistica dello stato che garantiva nuovi diritti per i cittadini,
rimodellando i rapporti tra potere politico e capitalismo. Lo stato dilatò le proprie prerogative di intervento,
vigilanza e controllo.
La Costituzione di Weimar del 1919 costituì l’archetipo di un modo originale di concepire la comunità
nazionale e rappresentò un modello ideale per le democrazie del XX secolo. Essa attribuiva allo stato la
responsabilità di garantire ai cittadini il soddisfacimento dei bisogni primari essenziali; ridisegnava le
connessioni tra diritti collettivi e individuali; sublimava la dignità del lavoro: rivoluzionava a beneficio della
comunità i rapporti tra capitale e lavoro, rendita e profitto e rendita e lavoro. L’economia doveva assicurare
a tutti un’esistenza degna dell’uomo. La proprietà era garantita ma il suo utilizzo doveva volgersi anche al
bene comune. Lo stato poteva confiscare la terra e distribuirla agli ex combattenti. Esso aveva anche la
facoltà di nazionalizzare le imprese o disporne la concentrazione in determinati settori. Lo stato godeva del
diritto di pianificare la produzione, la distribuzione e l’utilizzo delle merci, di controllarne i prezzi, nonché
l’importazione e l’esportazione.
La nuova economia era disegnata in modo ancor più radicale nella Carta del Carnaro, della città di Fiume,
ispirata da D’annunzio. Essa proclamava una democrazia diretta avente come base il lavoro produttivo, che
si proponeva di elevare la prosperità di tutti i cittadini. Garantiva il diritto all’istruzione primaria e al lavoro,
all’assistenza in caso di malattia e disoccupazione, nonché la pensione. La repubblica considerava la
proprietà “una funzione sociale”: la prerogativa della proprietà su qualsiasi mezzo di produzione o di
scambio era legittimata solo dal lavoro che la faceva fruttare a vantaggio dell’economia del paese. Lo stato
riconosceva il diritto di cittadinanza solo ai cittadini produttivi e istituiva le corporazioni.
La guerra non fu solo un evento storico e politico, ma anche culturale. La violenza degli assalti, le penose
condizioni di vita modificarono la psicologia collettiva. Crebbe il discredito verso gli uomini politici che
avevano condotto alla guerra e la fiducia verso i capi militari: si consolidò il mito del capo che avrebbe
portato ai totalitarismi.
La guerra fu vissuta come una catastrofe capace di generare una nuova era, ma il dopoguerra tradì le
aspettative. L’inflazione e il declassamento sociale erosero la credibilità e il consenso dei partiti borghesi,
crollò la fiducia nei sistemi parlamentari. I combattenti reclamarono il riconoscimento economico e sociale e

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non lo ricevettero. Ovunque nacquero organizzazioni di militari congedati, capaci di influenzare il voto.
L’irrompere delle masse nella storia modificò radicalmente la prassi della competizione politica. Le ideologie
contrapposte generarono un clima di guerra civile, accentuata dall’assuefazione alla violenza. La politica
divenne ideologica, i miti e i simboli prevalsero sui programmi razionali. Ebbero ruolo importante anche le
organizzazioni collaterali di massa e i nuovi mezzi di comunicazione.
Nessuno è mai riuscito a dimostrare che la guerra fosse un esito fatale, necessariamente iscritto nella
rivalità imperialista ed economica delle potenze europee.
L’opinione condivisa era che la guerra sarebbe stata breve. Lo stato maggiore tedesco basava la sua strategia
sulla guerra lampo: battere velocemente la Francia e passare ad Oriente per sconfiggere la Russia. I piani
andarono diversamente e la guerra divenne di logoramento. Per fronteggiare le colossali esigenze degli
eserciti i governi dovettero organizzare un sistema per il reperimento, la pianificazione e il razionamento
degli approvvigionamenti, specialmente nel caso della Germania che non possedeva colonie ed era
sottoposta a un blocco economico verso i paesi neutrali. La Germania reagì al blocco con la guerra
sottomarina indiscriminata che effettivamente ebbe i suoi effetti. L’evento decisivo fu l’ingresso in guerra
degli Stati Uniti e soprattutto le loro risorse. Gli imperi centrali furono in grado di mantenere la potenzialità
bellica fino al 1918, grazie anche alla conquista di territori orientali come la Polonia. Il rifornimento delle
materie prime costituiva un aspetto delicato della produzione bellica tedesca: fu il primo settore ad essere
sottoposto al controllo statale. Fino al 1915 l’efficienza della produzione bellica consentì di aumentare la
produttività, ma quando, durante Verdun e Somme, la superiorità inglese fu palesata dal numero di colpi
sparati, i tedeschi vararono un programma di aumento della produzione: una politica economica piegata
alle esigenze di guerra.
La Gran Bretagna era impreparata ad un conflitto lungo. Il ministro della guerra avviò la coscrizione
obbligatoria, in contrasto con la tradizione, così come il Defence of the Realm Act, impose l’ingerenza dello
stato in economia.
L’occupazione tedesca delle regioni settentrionali della Francia la privò di industrie e materie prime,
l’economia bellica fu organizzata in gruppi regionali ma rimase sostanzialmente affidata ai privati.
Nel 1915 in Italia fu costituito il sottosegretariato per le Armi e le munizioni e fu organizzato il sistema della
mobilitazione industriale.
In Russia la produzione degli armamenti restò sensibilmente inferiore alla necessità, inoltre la perdita della
Polonia privò il paese di impianti e giacimenti.
La produzione bellica degli USA fu regolata dal War Industries Board.
La guerra stimolò la crescita dell’industria pesante, siderurgica, chimica e meccanica, e del settore
estrattivo, favorendo concentrazioni e razionalizzazioni delle imprese. Il conflitto incentivò il progresso
tecnologico in tutti i comparti coinvolti. La motorizzazione delle forze armate promosse l’industria
automobilistica. L’industria chimica crebbe grazie agli esplosivi e ai gas asfissianti. Il settore aeronautico
registrò costanti innovazioni, specialmente nella fabbricazione di leghe più leggere. Anche la radio conseguì
notevoli progressi.
La guerra dissolse il sistema monetario internazionale basato sul gold standard perché le banche centrali dei
paesi coinvolti sospesero la convertibilità aurea. Per l’intesa il problema monetario fondamentale fu di
sostenere la parità della sterlina col dollaro, ma fu difficile perché nel 1915 la GB cedette i suoi investimenti
all’estero e accumulò debiti. Solo l’entrata in guerra degli USA risolse la questione perché fu direttamente il
tesoro americano a concedere i crediti richiesti in dollari.
Convinti che la guerra sarebbe stata breve, gli stati sottovalutarono i finanziamenti: se inizialmente Francia e
GB prestarono molto denaro agli alleati minori, in seguito diventarono debitori degli USA, che a fine
conflitto raccolse 10.3 miliardi di dollari di credito. Nel dopoguerra gli alleati chiesero agli USA di cancellare i
debiti o di compensarli con le riparazioni tedesche ma la nuova amministrazione repubblicana rifiutò. La
questione dei debiti interalleati danneggiò le relazioni internazionali. Lo spostamento del baricentro
economico-finanziario da Londra a New York avrebbe imposto che gli USA assumessero su di sé il ruolo di
perno del sistema multilaterale. Fino al 1914 la stabilità dell’economia mondiale si era basata sul fatto che la
GB manteneva aperto il loro mercato e a sua volta esportava capitali a lungo termine. Gli USA praticarono
una politica protezionista e i loro investimenti erano bassi e breve termine. Questa situazione impedì il
ripristino dell’equilibrio.

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Gli imperi centrali, tagliati fuori dal mercato mondiale, regolarono i loro conti economici con accordi
bilaterali statali bilanciati, riducendo i pagamenti in valuta o eliminandoli. I costi bellici furono finanziati
dall’aumento del debito pubblico, lanciando prestiti di guerra, e anche attraverso l’aumento dell’offerta di
moneta: questo contribuì all’inflazione. Nel dopoguerra i bilanci statali furono appesantiti dalle pensioni per
vedove, orfani e invalidi.
Il trattato di Versailles nel 1919 dimostrò l’incapacità di trovare soluzioni condivise per ricostruire un
equilibrio europeo tra vinti e vincitori. Alla Germania fu addossata la piena responsabilità del conflitto. Così
Versailles tradì l’obiettivo più importante dei Quattordici punti di Wilson e generò i presupposti per una
nuova guerra. La Germania subì amputazioni territoriali, le furono confiscate le colonie, requisiti materiali e
armamenti, ridotti esercito e marina, e proibita un’aviazione, oltre il pagamento di 132 miliardi di marchi
oro, che la Germania non avrebbe mai potuto pagare.
John Maynard Keynes si dimise dalla delegazione britannica alla conferenza di pace e con il suo Le
conseguenze economiche della pace predisse la brevità della pace.
I trattati di pace sancirono la dissoluzione degli imperi e la nascita di nuovi paesi indipendenti sui principi di
nazionalità e autodeterminazione di Wilson. Le economie degli imperi centrali risultarono disarticolate dai
giacimenti di materie prime e dal taglio delle comunicazioni. Tutte le nazioni dell’Europa Orientale erano
prevalentemente agricole, con un basso livello di reddito pro capite, afflitte da inflazioni. I governi
rafforzarono il protezionismo doganale e/o svalutarono la moneta, ma queste politiche frenavano il
commercio europeo. La rivoluzione bolscevica e la lunga guerra civile comportarono l’uscita della Russia dai
circuiti dell’economia internazionale. I sovietici denunciarono la diplomazia segreta dello zar e dichiararono
nulli i debiti. Con la politica del comunismo di guerra il governo dei commissari nazionalizzò le industrie e le
proprietà terriere.
Le perdite della prima guerra mondiale arrivarono a 10 milioni di soldati più 7 di civili, senza contare 21
milioni di giovani feriti. L’epidemia di spagnola non fu di aiuto. Le distruzioni materiali si concentrarono nelle
aree delle battaglie e l’agricoltura patì i danni maggiori. Al termine della guerra si registrò lo spostamento
del baricentro economico verso gli USA che dal 1916 invertirono la tendenza e divennero creditori rispetto
l’Europa. In America latina, Africa e Asia ci fu una crescita della produzione agricola a causa della domanda
europea che in alcuni casi favorì l’industrializzazione.

Il dopoguerra: l’età dell’insicurezza


Nel 1919 alcuni paesi vissero una fase di crescita ma già l’anno seguente subentrò la recessione. Gli
stabilimenti industriali ridussero la produzione e la disoccupazione, aggravata dalla smobilitazione degli
eserciti, si innalzò. Inoltre l’inflazione e il costante deprezzamento del cambio indirizzarono molti paesi a
politiche di austerità. Al contrario dei pareri contemporanei, non era il sistema aureo ad aver generato la
stabilità dell’anteguerra, ma la belle époque a permettere il suo funzionamento ideale.
L’estensione del diritto di voto, l’aumento dei consensi ai socialdemocratici e la nascita dei partiti comunisti
radicalizzarono la competizione politica. I governi privilegiarono la tenuta dell’occupazione e l’espansione
economica. Così il sistema perse credibilità perché gli operatori finanziari non erano più sicuri che a una
svalutazione della moneta le autorità rispondessero alzando i tassi di interesse e avviando politiche di
austerità.
Per ripristinare la convertibilità aurea vi erano due possibilità: o tornare alla parità prebellica o riallinearla
alle nuove condizioni. La Gran Bretagna tornò al gold standard nel 1925, adottando la parità prebellica,
adottando una rigida politica di contenimento della spesa pubblica; l’economia entrò in recessione e
aumentò la disoccupazione; causa della sterlina sopravvalutata crollarono le esportazioni. A cause di questi
interventi la Trade Unions indisse uno sciopero il 2 maggio 1926, che non ebbe gli effetti sperati.
La Francia era indebitata con USA e GB, e si finanziò tramite la Banca centrale e l’emissione dei titoli di stato,
incrementando l’inflazione e stimolando gli investimenti. Rispetto all’anteguerra il franco si era svalutato. Il
paese era spaccato a metà tra chi voleva inserire una patrimoniale e chi voleva elevare le imposte indirette.
Poincarè scelse la prima opzione favorendo il rientro di capitali e la stabilizzazione del franco.
Un nuovo elemento di instabilità era calante disponibilità di oro. Per ovviare a questa penuria si escogitò il
gold exchange standard, e cioè di poter cambiare la propria valuta con quelle che dipendevano dall’oro.

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Il problema più grave era la mancanza di cooperazione tra i governi e le banche centrali che privilegiarono
gli interessi nazionali. Per preservare le proprie riserve auree gli stati furono costretti a tenere alti i tassi di
interesse, restringendo il credito. Gli USA, maggiori detentori d’oro, avrebbero dovuto esportare capitali
all’estero per garantire fluidità al sistema dei pagamenti internazionali, ma lo fecero fino al 1927, due anni
dopo il ritiro dei capitali mise in crisi l’intero sistema.
Al termine della guerra il valore del marco era un decimo di quello prebellico, nel 1923 precipitò di un
trilione di volte. La crisi fu accelerata dall’occupazione d ella Ruhr. In pieno caos economico il governo della
repubblica di Weimar finanziò la resistenza passiva delle maestranze incrementando l’emissione di carta
moneta per poter pagare i salari. Fu così che l’inflazione sfuggì a ogni controllo. Nel 1923 fu decretato il
lancio di una nuova valuta, il Rentenmark, il cui valore fu assicurato da un prestito internazionale garantito
da attività reali come la terra, gli immobili e gli impianti, e ne fu limitata l’emissione. Il governo tedesco si
impegnò a realizzare leggi fiscali più rigorose. La situazione migliorò l’anno dopo con il piano Dawes, che
diminuì le rate di guerra e ne prolungò la scadenza contestualmente ad un grande prestito. La Germania
tornò alla convertibilità aurea con il Reichsmark.
Dopo la recessione del 1921 la produzione industriale mondiale ripartì oltrepassando i livelli prebellici, con
situazioni diverse da paese a paese. Dopo il 1925 la fase espansiva fu robusta e coinvolse in misura
maggiore l’Europa, l’aumento della produttività fu notevole grazie alle innovazioni tecnologiche. I settori
trainanti furono quelli della seconda rivoluzione industriale. Per aggirare barriere protezionistiche e ridurre i
costi finali delle merci le imprese divennero multinazionali. La riduzione degli orari di lavoro contribuirono a
foggiare nuovi stili di vita. Nacque l’industria dell’entertainment, si diffusero le vacanze che incrementarono
l’industria del turismo.
A differenza degli USA, in Europa la disoccupazione si mantenne più elevata nei comparti tradizionali, a
causa della crescita della capacità produttiva data dal conflitto e dall’industrializzazione negli altri
continenti. Il settore primario costituiva la principale fonte di reddito di quasi tutti i paesi nel mondo, e la
loro economia era asservita in misura quasi esclusiva dalle esportazioni nei paesi industrializzati. La
domanda di materie prime ne stimolava la produzione, accrescendo però i rischi della dipendenza da un
solo settore. Gli storici sono propensi a ritenere che il calo dei prezzi sia stato determinato dalla debole
crescita della domanda, a causa di una distribuzione del reddito che frenava la crescita dei consumi. Inoltre,
le politiche volte al ritorno della parità aurea utilizzarono la leva della compressione del costo del lavoro.
Dopo il 1925 gli USA vissero un boom senza precedenti. Incrementarono le esportazioni, vi fu una grande
espansione dell’edilizia, si verificò un drenaggio di capitali dal settore primario verso l’industria e le attività
finanziarie. I costi calavano grazie alle economie di scala e all’aumento della produttività. La crescita
dimensionale delle imprese favorì la separazione tra proprietà e management. Nelle industrie innovative i
salari erano più alti rispetto a quelli dei settori tradizionali e anche l’atteggiamento verso le unioni dei
lavoratori era meno ostile. All’inizio del 1929 l’economia americana rallentò, il mercato era saturo, a parte
quello azionario che infatti quando subì una forte contrazione la borsa crollò.
Il 30 dicembre 1922 fu proclamata l’URSS. La situazione economica era tragica, il comunismo di guerra
aveva abbattuto un’economia già disarticolata. La creazione di un organo centralizzato per la pianificazione
fu inefficace e la nazionalizzazione delle imprese non migliorò la situazione. Lo stato non era in grado di
gestire le attività produttive. Molte aziende cercavano di smerciare i propri beni nel mercato nero, così
l’amministrazione si trovò sprovvista di prodotti. La circolazione monetaria si era dissolta.
Le violente requisizioni operate dall’Armata rossa a danno dei contadini li avevano disincentivato a coltivare
la terra e avevano generato centinaia di rivolte. La produzione agricola crollò e le confische riportarono il
paese all’economia naturale. La carestia del 1921 peggiorò la situazione. La rivolta più tragica fu quella del
marzo 1920 a Kronstadt. Sorse un Comitato provvisorio che reclamò la libertà d’espressione, l’indizione di
elezioni, un razionamento alimentare, la fine delle requisizioni e la possibilità per gli artigiani e i contadini
che non impiegavano lavoratori salariati di operare autonomamente. La nuova politica economica ripristinò
parzialmente l’economia di mercato. Un’imposta in natura sostituì l’obbligo di consegnare quasi tutto il
raccolto allo stato; fu liberato il commercio interno; venne autorizzata la creazione di piccole imprese e
furono privatizzate quelle con meno di 21 impiegati. In sostanza la NEP costituì un parziale ritorno al
capitalismo. Il teorico bolscevica Bucharin riallineò le scelte economiche al pensiero marxista. L’obiettivo era
di creare un circolo vizioso tra agricoltura e industria: la. crescita di produttività della prima avrebbe
assicurato il sostentamento alimentare e gli investimenti per il settore secondario. La NEP fu vista anche

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come una tregua dopo i terribili anni, ma essa non conseguì gli obiettivi prefissati anche perché
incompatibile con le economia di guerra tipica dei totalitarismi, caratterizzata da una forte pianificazione
centralizzata e da una netta sperequazione degli investimenti verso l’industria pesante rispetto ai beni di
consumo. Quando Stalin divenne capo del partito denunciò l’insufficienza della Nep e proclamò la necessità
di pianificare le tappe dello sviluppo economico, avviando la collettivizzazione agraria e l’industrializzazione
forzata.

La crisi del capitalismo


Il crollo di Wall Street determinò la recessione mondiale. Il crack segnò l’inizio della crisi economica, ma non
ne costituì la causa più importante. I broker non furono più in grado di pagare i debiti contratti con le
banche e fallirono. Il valore dei titoli dati a garanzia precipitò e incrinò la solidità degli istituti di credito.
Questi ultimi contrassero il volume degli affidamenti alla propria clientela per rafforzare le riserve. Inoltre,
mentre i prezzi crollavano l’importo delle rate dei mutui rimase lo stesso peggiorando la condizione dei
debitori. I primi fallimenti bancari del 1930 innescarono un massiccio ritiro dei depositi che aggravò la
situazione patrimoniale degli istituti. Per salvarsi le banche bloccarono i flussi di denaro alle imprese. La crisi
finanziaria generò una spirale deflazionistica, anche perché le autorità monetarie e il governo si rifiutarono
di intervenire. Il mondo della produzione entrò nella depressione: la sovrapproduzione generò il calo del
valore delle merci, degli stock e degli investimenti; crebbero i fallimenti e si moltiplicarono i licenziamenti;
aumentò la disoccupazione e la domanda si ridusse ancora. Inoltre, il mantenimento del tallone aureo
impose una politica restrittiva che inasprì la crisi della liquidità.
Già nel dicembre 1928 e marzo 1929 la borsa americana subì due sensibili contrazioni. Il sistema bancario
non era sano. Gli USA, a differenza dell’Europa, avevano molti piccoli istituti non controllati dalla Federal
Reserve che operavano con scarsi mezzi propri, raggio d’azione limitato e una gestione inadeguata. Di
contro il sistema borsistico procedeva a balzi sollecitato da: speculazioni, politiche di credito facile, nuovi
strumenti finanziari come gli investment trust: i cittadini acquistavano le azioni di una compagnia di
investimento che impiegava il capitale per speculare in borsa. Inizialmente i promotori si erano impegnati a
rispettare norme rigorose e trasparenti, ma queste cautele non furono più rispettate. Così i risparmiatori,
acquistando le azioni del trust, gli conferivano sostanzialmente un mandato cieco e ad alto rischio. Molti
investment trust ne generarono altri, moltiplicando le azioni. Gli stessi brokers prestavano ai propri clienti o
costituivano nuove imprese. L’illusione di un’economia sana era alimentata dalla straordinaria vitalità della
borsa e i corsi dei titoli non erano correlati alla capacità delle aziende di produrre utili. Gli acquisti furono
sollecitati dal fatto che bastava depositare una percentuale e lasciare le azioni come garanzia collaterale,
tanto nessuno le avrebbe conservate. Tutti le volevano per rivenderle. Nonostante la Federal Reserve fosse
consapevole si trattasse di una bolla, decise di non intervenire per non suscitare le antipatie del mercato.
Alla fine i prezzi crollarono e fu panico. La liquidità si prosciugò, il crollo dei corsi dei titoli privò le banche
dei margini sui beni in garanzia e i debitori preferirono perdere la cauzione piuttosto che pagare la cifra
pattuita. La crisi borsistica si propagò al mercato del credito che iniziò a rarefarsi, i prezzi crollarono e iniziò
la deflazione da debito. La recessione si estese all’economia reale, generando la caduta degli investimenti,
dell’occupazione e dei consumi. La speculazione necessita di sicurezza e di diffuso ottimismo. Inoltre,
l’accumulazione di capitali deve essere abbondante perché il boom si alimenta di fondi presi a prestito e se i
risparmi sono più elevati si è più propensi a rischiarne una parte. La speculazione si scatena in seguito alla
prosperità.
Il ritiro dei capitali dalla borsa di New York da parte degli investitori esteri, degli istituti di credito e delle
aziende, generò perdite colossali per gli investitori. Tutti bloccarono i propri impieghi di capitale. Le società
che si avvalevano della borsa per le contrattazioni di azioni e obbligazioni si tuffarono in una corsa verso la
liquidità. Nel settore immobiliare aumentarono le insolvenze e gli espropri, generando il deprezzamento
delle terre e delle case. L’indice della produzione industriale decadde. Vertiginosa fu la discesa dei prezzi e
delle importazioni. La deflazione crebbe rapidamente in due fasi: la prima dal crollo del mercato borsistico
alla contrazione della produzione manifatturiera con la conseguente riduzione delle scorte; la seconda dai
corsi dei titoli a quelli delle merci e al calo del valore delle importazioni.
La correlazione fra la borsa e l’economia reale fu in parte di tipo psicologico, e in parte determinata dalla
brusca contrazione del credito allorché banche e imprese entrarono in competizione per conseguire il

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massimo livello di liquidità. Nel 1930 il senato statunitense approvò la legge Smoot-Hawley che rafforzò le
tariffe doganali sulle importazioni. Si innescò un meccanismo di ritorsioni commerciali da parte degli altri
paesi che acuì il crollo degli scambi internazionali. Anche la GB abbandonò il liberismo, favorendo il
commercio con i Dominion, L’iper-protezionismo degli USA generò un meccanismo di reazione: i paesi
produttori di materie prime e prodotti agricoli registrarono un’elevata contrazione delle proprie esportazioni
e a loro volta ridussero gli acquisti dai paesi industriali. Il sistema economico mondiale era indirizzato verso
l’instabilità, salvo che una potenza mondiale avviasse politiche tali da consolidarne i meccanismi. La GB non
fu più in grado di ricoprire quel ruolo e gli USA non vollero. Essi avrebbero dovuto aprire il mercato, avviare
un flusso di prestiti anticiclici a lungo termine e supportare il sistema creditizio durante la crisi.
Il problema più grave fu la disoccupazione, in mancanza di sussidi pubblici. Alcuni capi di stato americani
tentarono di perseverare nell’opera di assistenza ma da soli non poterono fare molto. La situazione peggiorò
nel 1933 quando i cittadini iniziarono a ritirare i loro risparmi dagli istituti di credito, aggravando la loro crisi
di liquidità. Il presidente gli USA non credeva che lo stato avrebbe dovuto intervenire pesantemente per
risollevare l’economia del paese. Le banche che avevano denaro non lo usavano per espandere il credito,
perché dovevano assestare i bilanci. Il presidente annunciò sgravi fiscali e chiese alle imprese di limitare i
licenziamenti. In seguito sollecitò il pareggio del bilancio: ne conseguì che non si potevano aumentare le
spese federali per sostenere gli acquisti di beni e servizi, mentre il riequilibrio del budget avrebbe implicato
la necessità di aumentare le imposte o di ridurre le spese, con il risultato di deprimere ulteriormente
l’economia. L’altro fattore che aggravò la deflazione fu la fedeltà al sistema aureo: il timore dell’inflazione e
la volontà di mantenere una moneta solida da difendere per il prestigio nazionale rafforzarono le istanze per
il pareggio del bilancio. Così per due anni non furono prese misure per arrestare la deflazione né per ridurre
la disoccupazione. Nel 1931 Hoover provò a reagire: decise di concedere una moratoria sui debiti dei paesi
europei, elargì fondi agli istituti di credito e fu avviata la costruzione di diverse opere pubbliche.
La recessione colpì duramente la Germania. Nel 1931 fallì il Credit Anstalt, grande istituto viennese,
generando un effetto domino. Il ritiro dei capitali esteri e la contrazione delle esportazioni fu esiziale per
l’economia tedesca. La natura del settore creditizio, basato su banche universali e quindi più esposto ai
rischi derivanti da una crisi di liquidità, aggravò la situazione. Fallirono centinaia di aziende. Per frenare la
corsa agli sportelli, il governo dispose la chiusura degli istituti di credito. Per salvare le banche in difficoltà ne
rilevò le azioni. Il suo obiettivo era di mantenere il pareggio di bilancio e di controllare l’inflazione,
riducendo la spesa pubblica e i salari, per abbassare il valore del debito estero tedesco in rapporto alle
monete dei creditori, convinto anche che gli alleati avrebbero prima o poi cancellato le riparazioni. In realtà
i prezzi esteri calarono più rapidamente di quelli interni, le esportazioni crollarono e il cancelliere inasprì le
politiche deflazionistiche per carcare di ridurre il deficit della bilancia dei pagamenti e conseguire l’obiettivo
di diminuire il debito verso l’estero. La massa monetaria diminuì della metà e dilagò la disoccupazione.
Vi fu una correlazione perfetta tra la crescita dei fallimenti delle banche, delle imprese e della
disoccupazione con l’aumento dei voti per i partiti antisistema: nazionalsocialista e comunista. Ovunque
l’insicurezza economia e la disoccupazione incrinarono l’equilibrio dei sistemi democratici. Nel 1933 venne
organizzato un incontro aperto a tutti i paesi per cercare di ricostruire l’economia, a Londra il 12 giugno.
Qualunque sforzo fu infranto dalla dichiarazione degli USA di abbandonare il gold standard e di svalutare il
dollaro per preservare l’economia nazionale. Da quel momento ciascun paese cercò di uscire dalla
depressione autonomamente.
La dottrina economica tradizionale si dimostrò incapace di spiegare la crisi e l’applicazione delle ricette
ortodosse generarono la depressione mondiale. Nel 1929 era valida la legge Say, secondo cui in un regime
di libero scambio l’offerta crea sempre la propria domanda, posto che i salari e i profitti vengano spesi per
comprare quanto prodotto. Se qualcuno avesse risparmiato, i prezzi sarebbero scesi e la gente sarebbe
tornata ad acquistare: ecco la mano invisibile del mercato.
John Maynard Keynes pensava che la razionalità in condizioni di incertezza induce il consumatore a
esprimere una scelta circa il verificarsi di un evento e deve ragionare in termini probabilistici e di fiducia.
Dimostrò che potevano esserci carenze nella domanda a fronte delle quali non esistevano meccanismi di
aggiustamento automatici: era necessario intervenire. Keynes rovesciò il nesso causale: è la domanda che
genera l’offerta. Le decisioni di investimento dipendono dalle aspettative di rendimento attese.

Lo stato interventista

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Il collasso finanziario del 1929 chiuse un eccezionale periodo di prosperità. Le conseguenze furono
economiche, politiche, sociali, culturali e psicologiche. Questa crisi però pose le premesse per operare
riforme radicali.
Nel novembre 1932 la presidenza spettò a Franklin Delano Roosevelt. Il suo approccio fu rigorosamente
pragmatico. Assieme all’economia doveva essere risollevato il morale della nazione, anche per questo avviò
la tradizione dei discorsi radiofonici.
Le principali novità del suo insediamento consistettero: nella formazione di un brain trust di professori
universitari, giornalisti e componenti del mondo della finanza per un’azione mirata a breve termine; nella
raccolta sistematica di dati per potersi muovere con base empirica; nella determinazione ad allontanarsi
dall’ortodossia prevalente.
Nei primi cento giorni di governo venne emanata una legge ogni 4 giorni. Il New Deal si articolò in due fasi:
la prima 33-35 economica, la seconda 35-38 sociale.
Il primo obiettivo fu di iniettare liquidità nel sistema economico. Roosevelt emanò l’Holiday Banking che
determinò la chiusura delle banche per tre giorni, nei quali sarebbero state valutate. Solo le migliori
sarebbero rimaste aperte. L’atto più importante per la regolazione del sistema creditizio fu il Glass-Steagall
Banking Act che separava banche commerciali, riservando loro solo il credito a breve termine, da quelle di
investimento, oltre a proibire detenzione, collocazione, acquisto o vendita di titoli di imprese private alle
banche. Il Security Exchange Act fu istituito per evitare manipolazioni del mercato azionario. La Security and
Exchange Commission serviva a valutare ogni nuovo titolo che entrava in borsa.
Secondo il presidente la rivitalizzazione dell’economia american non poteva prescindere dalla sospensione
del gold standard e dalla svalutazione della moneta per rilanciare i prezzi e le esportazioni. L’oro fu ritirato
dal mercato, se ne vietò l’esportazione e fu sancito l’obbligo a chi lo possedeva di venderlo alla Fed eral
Reserve.
I due progetti più ambiziosi furono l’Agricoltural Adjustment Act (AAA) e il National Recovery Act (NRA)
(dichiarati incostituzionali nel 35/36). Nel primo l’obiettivo era di sostenere artificialmente i prezzi interni e
di separarli rispetto a quelli correnti sul mercato mondiale. Il governo supportò anche le esportazioni e
prezzi inferiori ai costi di produzione. Furono concessi finanziamenti a chi riduceva la superficie coltivabile.
Così il mercato americano fu protetto da tariffe elevate.Il NRA era volto a regolare i prezzi e la produzione
del settore industriale, nonché a garantire il livello dei salari dei lavoratori, gli orari e i diritti sindacali. Il
progetto fu impopolare. Venne varato un importante piano di lavori pubblici, con grandi opere di bonifiche
per avviare lo sviluppo industriale in determinate aree. I lavori pubblici occuparono un terzo dei disoccupati.
Il bilancio del New Deal è ambiguo. Indiscutibilmente rivitalizzò lo spirito della nazione ma i risultati
economici non furono pari alle attese. L’economia americana si riprenderà solo dopo il secondo conflitto
mondiale. L’eredità più significativa fu quella di aver dimostrato che stato regolatore e democrazia potevano
convivere.
Alle elezioni del novembre 1932 il partito nazista si confermò il più forte del paese. Dopo un tentativo del
cancelliere von Schleicher di far scindere il partito, Hitler divenne cancelliere nel ’33. Dopo aver epurato la
politica dai rivali divenne Fuhrer. Eliminò partiti, sindacati e libertà di espressione.
Il primo obiettivo era il lavoro: abbattere la disoccupazione. Fu elaborato un programma quadriennale in cui
era previsto un aumento massiccio degli investimenti pubblici, al quale fu affiancata una riduzione
dell’utilizzo dei macchinari per aumentare la manodopera, senza preoccuparsi dell’indebitamento. Inoltre,
decine di migliaia di disoccupati aderirono alle SS e SA. Le politiche ebbero un successo straordinario.
Dal 1936 il secondo piano quadriennale fu affidato a Goering, relegò in secondo piano le infrastrutture per
preparare la guerra. Il programma incentivò la concentrazione delle imprese al fine di aumentare l’efficienza
del sistema produttivo. Gli investimenti privilegiarono il settore minerario, chimico, strumentale e
armamentario. Uno sforzo notevole fu fatto per aumentare l’autarchia del sistema. Per quanto riguarda
l’autosufficienza agricola, il governo indirizzò il consumo di prodotti di facile reperibilità.
Hitler stabilì che progressivamente si sarebbero dovute ridurre le importazioni dalla Svezia per sostituirle
con minerali nazionali. L’industria metallurgica si oppose perché non voleva sostenere gli oneri di questa
operazione. Ma Hitler non badava a spese e fondò le acciaierie Hermann Goering, dimostrando la volontà di
disciplinare il settore siderurgico. Il programma di investimenti richiese un impegno finanziario eccezionale,
per di più le spese militari dovevano essere mascherate all’estero. I costi dell’economia di guerra sarebbero
stati ripagati dai paesi occupati e solo la vittoria della guerra avrebbe risanato i problemi economici.

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L’obiettivo di Schacht fu di non acquistare più di quanto non si può pagare e comprare solo ciò di cui si ha
bisogno. Le importazioni furono limitate e l’acquisto delle materie prime era compensato dalle esportazioni.
La scelta dei partner fu lungimirante: paesi che necessitavano di beni industriali in cambio di materie prime.
Hitler non era un partigiano a oltranza dell’intervento pubblico e della pianificazione organizzata: in diverse
situazioni fece capire la sua propensione alla competitività e alla libera impresa.
Alla fine del 1932 l’economia italiana era sull’orlo del collasso. Le banche avevano crisi di liquidità. La
maggior parte dei crediti alle imprese erano inesigibili e le prospettive di ripresa erano nulle. Solo lo stato
poteva salvare le banche. Nel ’33 nacque l’IRI, lo stato lo dotò dei capitali per soccorrere gli istituti di credito
ma allo stesso tempo ne acquisì le azioni e le proprietà industriali. Le tre banche principali furono
nazionalizzate. L’istituto fu diviso in una sezione Finanziamenti, che avrebbe valutato la situazione delle
banche e nel caso finanziate; e Smobilizzi, per privatizzarle dopo il risanamento.
Nel 1935 Mussolini attacca l’Etiopia. La Società delle Nazioni multa l’Italia. Nel 1936 il duce lanciò
l’autarchia. Mussolini annunciò anche un maggiore intervento dello stato nell’industria. Le novità più
importanti concernevano il settore dell’industria pesante: le maggiori imprese collegate alla difesa
sarebbero state organizzate in grandi unità e avrebbero assunto una fisionomia speciale nell’orbita dello
stato.
L’autarchia rappresentò anche uno strumento politico per la mobilitazione del paese perché: accelerò lo
sfruttamento delle risorse naturali nazionali e dell’impero; rafforzò l’intervento e il controllo pubblico in
ambito economico anche nelle relazioni con l’estero; inoculò nelle masse quell’etica della povertà e della
sobrietà; mobilitò l’intera comunità nazionale verso quell’idea di guerra concepita come momento più
elevato nella vita di un uomo. Si può raffigurare un disegno organico ispirato dalla Carta del Lavoro,
strutturato su tre piani: avvio della pianificazione centralizzata delle risorse, degli investimenti e della
produzione; utilizzo strategico dell’IRI per rafforzare industria pesante e per accrescere il controllo pubblico
nei settori nevralgici dell’economia; la socializzazione delle imprese, cioè la partecipazione dei tecnici e degli
operai alla gestione delle aziende, coniugando una “terza via” tra capitalismo e comunismo.
La riforma bancaria sancì la separazione fra banca e industria e la specializzazione del settore creditizio in
istituti a breve termine. Il credito a lungo termine venne affidato a istituti di credito speciali. L’IRI divenne
permanente nel ’37 e divenne una holding che gestiva i titoli detenuti dallo stato e si finanziava sul mercato
tramite obbligazioni.
La guerra d’Etiopia rilanciò l’economia italiana. La spesa pubblica per l’intervento militare stimolò la ripresa
in tutti i settori. Contestualmente venne avviato un grosso programma di opere pubbliche.
La collettivizzazione agraria nei kolchozy costituì la premessa per l’industrializzazione forzata. Lo stato
intendeva accaparrarsi una quota rilevante del prodotto agricolo per destinarlo in parte all’alimentazione
della popolazione, in parte all’estero per acquistare la tecnologia per l’industrializzazione. Inoltre, eliminato
il regime Nep, era lo stato a fare i prezzi. Mantenendoli artificiosamente bassi utilizzava il surplus per gli
investimenti mentre i contadini facevano la fame. La crisi alimentare del ’27 fu presa a pretesto da Stalin per
avviare la guerra contro i contadini “capitalisti” chiamati kulaki. Iniziò una persecuzione violentissima, ai
restanti non rimase che aderire ai kolchoz. Entro il 1930 fu collettivizzato il 60% delle terre.
Il primo piano quinquennale fu lanciato nel 1928: esso prevedeva una crescita della produzione industriale
del 136%, della produttività del 110% e una diminuzione dei costi del 35%. La priorità era data all’industria
pesante. Le stime furono continuamente riviste e accresciute. Nel tentativo di raggiungere obiettivi
impossibili le industrie entrarono in conflitto tra loro per accaparrarsi le materie prime necessarie a non
essere accusate di essere antisovietiche. Il primo piano fu considerato concluso al quarto anno. Il successivo
doveva consolidare la crescita della produzione dei beni strumentali, degli armamenti e dell’energia.
Non è facile formulare un giudizio sull’economia sovietica, anche perché le statistiche furono costantemente
manipolate. Certo è che lo sviluppo dell’industria pesante, del settore minerario e energetico fu notevole a
differenza di quello dei beni di consumo. La carenza di capitali spinse a forzare il fattore lavoro, come
dimostra il mito di Stachanov, e l’utilizzo dei deportati nei campi di concentramento.
Nel lungo periodo le disfunzioni causeranno la caduta dell’URSS, ma se si deve giudicare la strategia per
quello che era, ovvero un’economia di guerra di uno stato totalitario, il giudizio è positivo.

La seconda guerra mondiale: la distruzione creatrice

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La seconda guerra mondiale rappresentò il culmine della trasformazione in senso tecnologico dello scontro
bellico. I paesi belligeranti ne uscirono stremati in termine di risorse economiche e demografiche. La guerra
sovvertì l’ordine politico stabilito dopo il primo conflitto mondiale, cancellò dittature e regimi militari,
accelerò il processo di decolonizzazione e creò un nuovo equilibrio geopolitico basato sul confronto
costante tra capitalismo e comunismo.
La guerra pose traumaticamente fine alla lunga stagnazione conseguente alla crisi degli anni Trenta, che
nella spesa per armamenti trovò un potente antidoto. Il conflitto impose una soluzione radicale, basata
sull’attivazione di una quantità enorme di risorse e sull’introduzione di sofisticate politiche di
programmazione e pianificazione. La guerra creò piena occupazione, sostenne investimenti e intensificò
l’accumulazione di capitale.
La guerra mobilitò complessi economico-produttivi di vastissime dimensioni. Includendo le colonie, gli
alleati contavano 750 milioni di persone e un PIL di mille miliardi di dollari. I paesi dell’Asse contavano 250
milioni di persone e 750 miliardi di dollari di PIL.
Secondo alcune stime la produzione mondiale complessiva aumentò del 20%. Quasi ovunque tra i paesi in
guerra (eccetto Germania e Giappone) il PIL pro capite superò quello prebellico e molte nazioni neutrali
videro un miglioramento delle condizioni economiche. Altri paesi furono depauperati della propria capacità
produttiva, specialmente in Europa orientale e centrale.
La mobilitazione di risorse destinate a incrementare la produzione bellica avvenne a spese dei consumi
privati. I dati enfatizzano l’ascesa costante delle spese militari. L’espansione del settore pubblico avvenne
tramite la compressione dei consumi privati. Gli anni finali del conflitto videro ridursi i consumi di beni non
connessi al comparto militare. Tutti i governi degli stati belligeranti introdussero inoltre misure di controllo
dell’inflazione, di razionamento e di volontario contenimento degli investimenti e della produzione
finalizzata a soddisfare i consumi privati. In termini generali, l’incremento, e l’ampiezza, delle risorse
dedicate alla mobilitazione globale erano in funzione del potenziale intrinseco del paese e delle politiche
industriali precedentemente intraprese.
La guerra ebbe un impatto generalmente depressivo sul commercio internazionale e sugli investimenti
esteri. Il dato complessivo è la prosecuzione del trend negativo che aveva caratterizzato gli anni della grande
depressione e delle chiusure autarchiche. Nonostante alcuni stati beneficiassero in certa misura di un
aumento della necessità di importazione dei belligeranti, il commercio internazionale subiva gli effetti dello
spostamento nella composizione di consumi, della riduzione della capacità di acquisto delle famiglie e
dell’aumento di incertezza delle condizioni di trasposto.
Oltra a subire una contrazione, il commercio internazionale di regionalizzò, ovvero si frammentò all’interno
di blocchi geografici definiti: quello anglosassone, quello europeo-continentale, quello sovietico e quello
orientale. Un limitato commercio internazionale tendeva a svolgersi all’interno dei blocchi.
Analogamente al commercio estero, la guerra bloccò l’attività di investimento all’estero svolta da
imprenditori e imprese (sequestro imprese di cittadini di paesi nemici).
Lo sforzo bellico non risparmiò alcun settore. Il comparto agricolo dovette fronteggiare la diminuzione della
forza lavoro disponibile e le politiche attuate per contrastare la grande depressione che provocarono una
diminuzione della produzione. La guerra aggiunse devastazioni, occupazioni, requisizioni, mentre la
situazione era aggravata dal fatto che le produzioni belliche saturavano la capacità produttiva delle aziende
meccaniche e chimiche.
D’altro canto, sotto la pressione della necessità il settore agricolo fece registrare buoni risultati, come il
miglioramento delle tecniche di coltivazione. Per quanto riguarda le materie prime, la geografia del conflitto
e dei suoi esiti determinò le sorti di interi settori. In sintesi, la guerra spinse al massimo la capacità
produttiva del settore estrattivo ma contemporaneamente stimolò l’individuazione di tecnologie alternative
capaci di generare validi prodotti sostitutivi.
Gli anni del conflitto videro un’espansione senza precedenti dell’industria militare, che finì per assorbire
percentuali crescenti del prodotto nazionale lordo. Lo sforzo produttivo fu ovunque imponente, anche se,
una volta fallita la guerra lampo tedesca, apparve la superiorità degli alleati. L’enorme incremento dei
volumi di produzione fu possibile grazie all’applicazione delle più moderne tecniche di produzione di massa
all’industria degli armamenti, attuata in coincidenza con un ulteriore incremento della concentrazione
industriale. Furono le grandi imprese nei settori a elevata intensità di capitale ed energie le protagoniste del

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conflitto. Il caso più significativo è quello dell’industria aeronautica. La Boeing passò dal produrre 60 aerei al
mese nel 1942 a 360 nel 1944.
Uno sforzo produttivo di questa portata poteva essere attuato solo sulla base di alcune premesse. La prima
era la presenza di un apparato produttivo adeguato. La seconda era la temporanea rinuncia ai tradizionali
meccanismi di allocazione dei fattori produttivi attuati tramite lo strumento dei pressi di mercato a favore di
sistemi marcatamente più regolati. Ovunque la guerra portò all’imposizione di prezzi amministrati, di
razionamenti, di controlli e di altri provvedimenti finalizzati a ottenere una compressione dei consumi
privati a favore delle spese belliche, incluso un incremento del prelievo fiscale. Uno dei lasciti del primo
conflitto e della grande crisi fu l’intensificarsi dell’ingerenza statale in economia. Pianificazione e capacità di
coordinamento del complesso produttivo pubblico e privato attuate durante lo sforzo bellico, costituirono
un know-how per le politiche interventiste del dopoguerra.
Non si trattò solamente di un aumento dei volumi produttivi, ma anche della qualità della produzione. La
seconda guerra mondiale fu caratterizzata da un contenuto tecnologico ancor più elevato del precedente.
Non poche di queste innovazioni saranno destinate ad affermarsi negli anni seguenti come componenti
fondamentali di un nuovo paradigma tecnologico, quello della terza rivoluzione industriale e di un ennesimo
processo di globalizzazione. Un caso clamoroso è quello delle innovazioni finalizzate a permettere una più
efficace tecnica di distruzione dal cielo, queste portarono alla maturazione della tecnologia della
pressurizzazione, quella del volo assistito da strumenti elettronici, nonché dei sistemi di puntamento come i
radar. Inoltre, la necessità di aerei sempre più veloci perfezionò il motore a reazione, alla base dell’industria
aerospaziale ma anche della moderna industria di aviazione commerciale e civile. L’aviazione stimolò anche
l’innovazione nel settore della raffinazione e della chimica dei carburanti. Un altro esito della guerra fu lo
sviluppo dell’elettronica, del computer e delle comunicazioni.

Finalmente la prosperità
Tra il novembre del 1945 e l’ottobre dell’anno dopo si tenne il processo di Norimberga. Rebecca West,
inviata del New Yorker, spostò la sua attenzione dal processo a quanto accadeva nella Germania distrutta
dalla guerra, ma dalla quale emergevano segni lampanti di rinascita. La rinascita tedesca simboleggia il
percorso di rinascita europea che ebbe un’intensità imprevedibile. Già nel 1960 l’Europa si era ripresa,
grazie alla risultante di tanti “miracoli economici” verificatisi all’interno delle economie nazionali, con la
spinta esogena degli Stati Uniti e quella endogena dei sistemi di economia mista.
La guerra aveva lasciato l’Europa sotto un cumulo di macerie. Le perdite umane erano state considerevoli
ma anche la distruzione di risorse, infrastrutture, abitazioni e impianti produttivi fu letale. Il commercio
internazionale languiva e lo stesso poteva dirsi del settore primario. Le principali vie di comunicazione erano
state distrutte. La produzione industriale tra ’45 e ’46 era la metà dell’anteguerra e il PIL pro capite era
sceso.
Mentre il Giappone iniziava autonomamente un percorso di ripresa, era convinzione comune che la ripresa
economica dell’Europa occidentale fosse necessaria per superare la stagnazione e mettere rimedio alla
povertà. Un’Europa povera non conveniva a nessuno, come dimostra la sorte del piano Morgenthau, che
intendeva deindustrializzare la Germania: l’idea venne sostituita con quella di costruire intorno alla ripresa
tedesca la generale rinascita dei paesi occidentali.
Tra il ’47 e il ’51 la maggior parte dei paesi europei fece registrare tassi di crescita del PIL con una media del
55% in cinque anni. La crescita della produzione industriale fu accompagnata da un incremento del
commercio con l’estero. Tra ’38 e ’50 anche la produttività del lavoro crebbe quasi ovunque. Questo andava
di pari passo con un miglioramento delle condizioni di vita. Il cambiamento rapido e considerevole delle
condizioni economiche fu il risultato di diversi fattori tra cui una forte volontà di rinascita e di ritorno alla
vita normale. Vi furono anche una serie di fattori economici e istituzionali.
La consapevolezza condivisa dai governi europei del dopoguerra era che tale ripresa doveva essere rapida,
centrata sui settori manifatturiero-industriali, continentale, al fine di evitare la frammentazione. L’obiettivo
generale della ripresa si scontrava con una situazione di potenziale lock-in: per riavviare il proprio potenziale
produttivo, l’Europa aveva bisogno di importare tutto il necessario, senza avere però contropartite o capitali
in cambio. Solo un intervento esterno avrebbe potuto sbloccare la situazione.

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Tra il 1948 e il 1951 gli USA con il Piano Marshall o European Recovery Program, trasferirono in Europa circa
13 miliardi di dollari. L’erogazione di fondi avveniva sotto forma di beni d’investimento e materie prime
necessarie alla produzione industriale, e la sua impostazione prevedeva uno stretto coordinamento tra le
imprese che necessitavano i beni e gli uffici dislocati sul territorio nazionale. I beni venivano ceduti alle
imprese che li pagavano in svalutata moneta locale; il denaro veniva accumulato in fondi di “contropartita”
che restavano a disposizione dei governi dei paesi che sceglievano di aderire al piano. Per un terzo di
trattava di materie prime, un altro terzo prodotti alimentari e fertilizzanti, il resto prodotti energetici,
macchinari e beni d’investimento.
Il trasferimento fu reso più efficace dal fatto che la guerra aveva risolto in molti paesi il problema dei
cosiddetti sunk cost, ovvero costi irrecuperabili. I beni che giungevano, e che gli USA acquistavano
largamente sui propri mercati interni, erano caratterizzati da un elevato grado di aggiornamento
tecnologico, e imponevano un rapido progresso nelle competenze dei lavoratori. Non va trascurata la
valenza politica del Piano che era l’affermazione della leadership degli USA e imperniato sul ristabilimento
dei meccanismi fondanti dell’economia capitalista di mercato. La partecipazione al piano fu offerta anche
all’Unione Sovietica e ai paesi satellite, ma fu rifiutato. L’erogazione degli aiuti finì per coincidere ovunque
con l’insediamento di governi moderati, dai quali fuoriuscivano gli elementi radicali, specialmente di
sinistra.
La ricostruzione economica dell’Europa poggiò in maniera sostanziale sulla ricostruzione della capacità
produttiva, ma anche sul riavvio delle correnti commerciali, in primis tra i paesi che partecipavano al Piano.
Nel 1947 vene creata l’Organizzazione per la cooperazione economica europea. Nel 1951 nacque la CECA,
Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, destinata all’armonizzazione del mercato europeo di questi
beni fondamentali. La cooperazione era a sua volta basata su un calo significativo di tariffe doganali.
Dopo la fine della guerra ebbero inizio le negoziazioni che portarono alla nascita di un accordo generale sul
commercio internazionale (GATT) che venne a includere buona parte delle economie dell’occidente
capitalista. A Bretton Woods presero forma il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.
Quest’ultima erogava finanziamenti ai paesi in ricostruzione, il FMI sosteneva il regime di cambi fissi e la
piena convertibilità delle valute, oltre il compenso di temporanei squilibri nella bilancia dei pagamenti dei
paesi aderenti.
Una serie di fattori esogeni, primo tra tutti il raffreddarsi dei rapporti dei due blocchi contrapposti, rendeva
inattuabile il ricrearsi della globalizzazione tipica del primo anteguerra. Né era prevedibile il riavvio
immediato di un ciclo economico positivo senza il superamento delle chiusure che avevano caratterizzato il
ripiegamento degli anni Trenta. Ne scaturì la progressiva formazione di spazi di scambio sovranazionali, ma
limitati, una regionalizzazione dell’economia mondiale, più che una ri-globalizzazione. Due esempi
significativi sono il Comecon per i paesi comunisti e l’Unione Europea per l’Europa occidentale.
La rinascita di spazi di scambio e di cooperazione sovranazionali era una componente essenziale della
ripresa postbellica. La guerra aveva insegnato ai governi europei la necessità di pianificare, e i benefici di
un’economia mista; né erano ignoti i progressi di un’economia pianificata come quella sovietica.
Era dunque naturale che molti governi europei adottassero forme di intervento, sia attraverso imprese
pubbliche, sia tramite agenzie regolatrici di monopoli naturali e loro volta nazionalizzati. Le imprese
pubbliche abbondavano in tutta Europa e ricoprivano un ruolo essenziale nelle scelte di politica industriale
e di sviluppo economico territoriale. La presenza pubblica nei monopoli naturali, ma anche nelle industrie di
base, era funzionale anche al welfare, specialmente in ambito previdenziale e pensionistico.
Tra il 1950 e il 1973 il PIL pro capite crebbe con una media del 4%. L’incremento della ricchezza nazionale
veniva generato da un balzo in avanti della produttività in tutti i fattori. Il maggior reddito disponibile andò a
finanziare un incremento dei consumi privati: quello che venne definito consumismo si diffuse in Europa.
Nel frattempo il blocco comunista non restava indietro: PIL e produttività crescevano più che in occidente.
La sommatoria dei miracoli economici ebbe come risultato anche quello di ridurre il divario in termini di PIL
che separava queste macroregioni dall’economia di riferimento degli USA. Agli inizi degli anni Settanta,
quasi tutti i paesi distrutti dalla guerra erano tornati a buoni livelli di competitività, favorendo un lento
processo di ricostruzione di uno spazio globale.

La decolonizzazione: luci e (molte) ombre

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Gli anni della grande prosperità avevano avuto l’effetto di attivare un processo di convergenza tra le
economie che uscivano distrutte dalla guerra e gli Stati Uniti. Si era trattato di una convergenza tecnologica,
produttiva e di stili di vita. Il consumismo che si era diffuso nelle società europee dei decenni
immediatamente successivi alla guerra era il segno più evidente dell’aumento di benessere. Tale fenomeno
finì per allargare drammaticamente il divario tra le economie industrializzate e altre che godevano
marginalmente del ciclo economico positivo.
Alla categoria del sottosviluppo apparteneva un’area maggioritaria del pianeta. Il vasto gruppo dei paesi
poveri comprendeva realtà tra di loro molto diverse per estensione, regime politico, struttura istituzionale,
cultura e religione. Li accumunavano tre caratteristiche: quasi tutti erano nell’emisfero meridionale, erano
caratterizzati da economie gravitanti intorno al settore primario e da tassi di espansione demografica sopra
la media. Inoltre, moltissimi si trovavano ancora in stato di colonie ex colonie o protettorati o erano retti da
regimi politici instabili.
Il sottosviluppo deriva da una serie di fattori. Innanzitutto la struttura economica dei paesi poveri era
sbilanciata verso il settore primario, caratterizzato da un’agricoltura di sussistenza. Per altri il settore
minerario/estrattivo consentiva di compensare con le esportazioni l’importazione di beni industriali e di
consumo. La guerra aveva apportato qualche correzione in questi equilibri dato l’incremento della domanda
di derrate alimentari ma il ritorno alla normalità aveva annullato tali benefici. Facevano eccezioni i paesi i
cui beni erano ancora necessari allo sviluppo occidentale come il petrolio.
La dipendenza dal settore agricolo e dalle sue fluttuazione determinava anche le sorti del settore
secondario. Il sottosviluppo del settore primario riduceva la capacità di risparmio della popolazione,
limitandone la propensione al consumo. Ciò rendeva questi paesi poco attrattivi per gli investimenti esteri. I
modestissimi redditi coincidevano con la crescita demografica, il che si tradusse con un peggioramento delle
condizioni di vita.
Nonostante la prima guerra mondiale avesse cancellato gli impero, una porzione del globo si trovava ancora
sottoposta a domini imperiali-coloniali. Inghilterra: Canada, Africa centrorientale e meridionale, Palestina,
Suez, Arabia, India, Australia e Nuova Zelanda. Francia: Africa settentrionale e centroccidentale,
Madagascar, Siria, Sudest asiatico, Indocina. Olanda: Indonesia. Italia: Libia e Corno d’Africa. Giappone:
Manciuria, Taiwan e Corea. L’URSS coincideva con i confini dell’ex impero russo.
Tuttavia, negli anni tra le due guerre le spinte indipendentiste si fecero sentire in quasi tutte le colonie. La
conquista giapponese del Sudest asiatico era coincisa con l’espulsione degli olandesi in Indonesia, degli
inglesi da Singapore e dai francesi dall’Indocina. Gli Usa osteggiavano il dominio coloniale in Asia sia su base
ideologica sia per evitare che il dominio coloniale facesse diffondere il comunismo. A dare il colpo di grazia
all’imperialismo occidentale fu la guerra fredda. Dei tre atteggiamenti che emersero dopo la guerra, ovvero
concessione dell’indipendenza, decentramento dei poteri o mantenimento dello status quo, fu il primo a
prevalere. Emblematico l’episodio del canale di Suez. L’azienda che aveva costruito e gestiva il canale fu
nazionalizzata dall’Egitto. Israele si oppose e al suo fianco intervennero Francia e Inghilterra. Quando l’URSS
si schierò a fianco dell’Egitto, gli USA richiamarono gli alleati, che lasciarono la zona. Gli imperi coloniali
erano politicamente insostenibili. Il processo di decolonizzazione accelerò tra gli anni Cinquanta e i primi
Sessanta.
Il raggiungimento dell’indipendenza da parte delle ex colonie non coincise, in genere, con l’avvio di una fase
di prosperità e di ricchezza. Le dichiarazioni di indipendenza non cancellavano i problemi strutturali come la
dipendenza dal settore primario, l’arretratezza del secondario, la pressione demografica e la povertà. A tale
situazione si aggiungeva una classe dirigente incapace di avviare una modernizzazione sostenibile. Quasi
ovunque emersero regimi dittatoriali e militari. La contrapposizione tra i due blocchi influenzò la politica
interne dei nuovi stati, corteggiati sia dagli americani che dai sovietici. Il processo di decolonizzazione vide
emergere gli interessi di coloro che intendevano contrastare la forza gravitazionale delle due potenze.
Nell’aprile del 1955 a Bandung si tenne un summit di 29 nazioni che avevano come obiettivi la cooperazione
e l’opposizione a qualsiasi tipo di colonizzazione. Dopo altre conferenze si arrivò, nel 1961 a Belgrado, alla
fondazione del movimento dei Paesi non allineati.
Cina e India, due paesi che in età preindustriale possedevano la maggior parte delle ricchezze mondiali
erano ridotte nel ‘900 a ruoli meno che marginali. Il PIL era molto inferiore alla media mondiale, insieme
ospitavano un miliardo di persone, la speranza di vita era la metà rispetto all’occidente, il settore primario
occupava il 40% del PIL, l’urbanizzazione era un quinto rispetto l’Europa. India e Cina avevano altro in

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comune: la lunga storia di declino, in India coinciso con la sottomissione alla corona inglese e in Cina, dopo
le guerre dell’oppio, alla subordinazione delle politiche internazionali e dall’occupazione nipponica della
Manciuria. Durante il secondo dopoguerra entrambe le nazioni subirono dei cambiamenti: l’India raggiunse
l’indipendenza nel 1947, e in Cina la guerra civile vide vincitore Mao Zedong nel 1949. Entrambe le classi
dirigenti puntarono, per la ripresa economica, su strumenti di intervento.
In Cina il partito comunista aveva consolidato il proprio controllo sul sistema economico. Dal 1953 avviò un
processo di collettivizzazione dei mezzi di produzione, aiutata anche dall’URSS. In una prima fase il
coordinamento dette i suoi frutti e il PIL crebbe vertiginosamente. Successivamente però una serie di errori
di programmazione del “grande balzo in avanti”, causarono un grave insuccesso che uccise, per fame e
indigenza, 30 milioni di persone.
Anche in India il sottosviluppo venne affrontato ricorrendo a principi di pianificazione economica. Dal 1956
lo strumento dell’impresa pubblica fu inserito in un sistema di economia mista, in cui i settori strategici
erano nazionalizzati. Ai privati, nei settori strategici, era dedicato poco spazio di azione, mentre negli altri
avevano libertà. Alle imprese pubbliche spettava anche la prevenzione dell’eccessiva concentrazione di
potere, il sostegno all’occupazione e l’attenuazione dei divari regionali. I risultati non furono pessimi.
Tra le politiche più efficaci, ricordiamo quelle delle cosiddette tigri asiatiche, ovvero Taiwan e Corea, che
nell’80 arrivarono ad avere un PIL di cinque volte maggiore rispetto Cina e India.

Dal keynesismo al neoliberismo


I primi anni Ottanta del Novecento coincisero con il momento di massima espansione del settore pubblico
nelle economie capitalistiche avanzate, ma anche con l’avvio dello smantellamento della presenza diretta
dello stato nell’economia.
La stessa generazione che aveva vissuto la grande depressione avevo osservato come la guerra avesse
creato piena occupazione e assistito alla maggiore operazione economica keynesiana: il Piano Marshall. In
questo scenario era la domanda a rivestire un ruolo trainante: la domanda privata, ma anche quella
pubblica, che si alimentava attraverso un congruo prelievo fiscale, ma anche un uso disinvolto del deficit
strutturale del bilancio pubblico. Gli anni Settanta presentarono una serie di gravi perturbazioni in un
quadro relativamente quieto, provocando una rivoluzione che finì per porre in discussione l’intera
architettura delle politiche economie e industriali del secondo dopoguerra.
Gli anni Settanta coincisero con un periodo di generale recessione in cui si mescolarono un po’ ovunque
un’elevata inflazione, una stagnazione del PIL e un aumento della disoccupazione, oltre alla drammatica
sensazione di insicurezza e instabilità.
Due drammatiche crisi petrolifere, provocate da un rialzo del prezzo al barile a seguito di una decisione dei
paesi produttori riuniti nell’Opec, toccarono la vita quotidiana dei cittadini occidentali. Il conseguente
tentativo di recuperare la competitività attraverso svalutazioni ebbe come esito la cancellazione del regime
di cambio fisso di Bretton Woods. Il rallentamento della crescita costituiva un’indubbia contraddizione per la
filosofia economica keynesiana. Ripresero forza i principi di ispirazione liberista. Le prime voci ad alzarsi
furono quelle degli economisti monetaristi, i quali ritenevano essenziale della crescita l’espansione graduale
e controllata della massa monetaria.
All’idea keynesiana della domanda come motore della crescita si opponevano quegli economisti che
individuavano nell’urgenza di liberare le energie espresse dal lato dell’offerta un indispensabile obiettivo di
politica economica. Per offerta si intendeva in questo caso la massa di produttori privati, caratterizzati da un
implicito dinamismo che i vincoli fiscali e regolativi avevano compresso. Liberalizzazioni dal lato dell’offerta,
minore regolamentazione, e attenuazione della pressione fiscale su cittadini e imprese avrebbero, nell’ottica
della supply-side economics, effetti di stimolo alla domanda, riduzione della disoccupazione e, grazie alla
competizione, un contenimento all’inflazione. Questo scenario trovò applicazione nell’Inghilterra della
Tatcher e negli USA di Reagan.
In Occidente il settore pubblico, inteso come intervento statale nell’economia, era andato espandendosi
senza sosta e l’affermazione dei sistemi di welfare aveva contribuito a rendere i governi protagonisti assoluti
della vita economica. In molti dei paesi che aderirono a questo sistema, lo Stato aveva un ruolo centrale
nella formazione del capitale loro e degli investimenti. In molti casi ai governi era ascrivibile un ruolo
decisivo nella modernizzazione del paese.

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La crisi generale del sistema keynesiano non risparmiò l’impresa pubblica, sottoposta a critiche crescenti. I
punti deboli erano individuati nell’inadeguatezza del dirigismo ad affrontare la crisi del ’70. In molti paesi
l’opinione pubblica prese a guardare sempre più criticamente ai privilegi dei lavoratori pubblici. Anche i
tradizionali argomenti a favore della gestione pubblica dei monopoli naturali erano indeboliti dal progresso
tecnologico, che consentiva e incentivava la presenza di più operatori su uno stesso mercato. La crescente
ostilità verso l’idea di stato imprenditore si inquadrava infine in un movimento ideologico che enfatizzava i
benefici della deregulation, la progressiva diminuzione della capacità regolativa dei governi, di pari passo
con la politica di privatizzazioni.
A partire dalla fine del ’70 e fino a tutti i ’90 un vasto processo di privatizzazione modificò l’assetto
economico di quasi tutti i paesi europei. A una dinamica in atto nell’Europa occidentali si aggiunsero i
mutamenti dai paesi dell’ex URSS. Non ne furono immuni neanche i pasi asiatici e africani.
Il grande mutamento prese avvio nel Regno Unito sotto la guida di Margaret Tatcher, seguita dalla Francia di
Chirac, e dall’Italia. Complessivamente le privatizzazioni raggiunsero i 650 milioni di dollari, il 7% del
prodotto lordo dell’occidente europeo.
I governi coinvolti nel processo basarono le proprie decisioni di vendita su un ventaglio di motivi da
presentare ai cittadini. Una prima serie di ragioni atteneva all’efficienza economica: le imprese private
avrebbero incrementato la propria capacità di generare redditi e profitti, migliorando nel contempo i servizi
offerti. Una seconda serie di ragioni invocava un ulteriore aspetto di natura strutturale connesso
all’efficienza e alla trasparenza dei mercati finanziari. Le privatizzazioni potevano avvenire, in molti casi, solo
tramite l’attrazione di investitori stranieri e investitori istituzionali, disposti a finanziare le operazioni
solamente a fronte della garanzia di trasparenza e di equità della compagine azionaria. Molte dismissioni
avvenivano nella forma di offerte pubbliche, il che richiedeva un incremento di efficienza dei mercati
borsistici. Un terzo ordine di motivi, che faceva presa sull’opinione pubblica: le privatizzazioni avrebbero
portato nelle casse dello stato consistenti introiti e avrebbero interrotto un’emorragia di risorse pubbliche
che ormai si percepivano come destinate a coprire le perdite generate da gestioni inefficienti.
Infine, ma questo riguardava solo i firmatari di Maastricht, privatizzare era indispensabile per essere in linea
con le politiche economiche per entrare nella comunità europea.
Le modalità con cui il peso del settore pubblico passò da una media del 10% a una del 5% del prodotto lordo
complessivo mondiale furono essenzialmente tre.
La prima era basata su consistenti offerte pubbliche di vendita. Altrove, la necessità avvertita come
prioritaria dal sistema politico di preservare la nazionalità domestica degli azionisti generò una variante che
prevedeva la creazione di “noccioli duri” di azionisti stabili e la collocazione libera del resto delle azioni sul
mercato. In non pochi casi il governo sceglieva anche di restare presente tramite l’emissione di golden
shares, azioni che conferivano particolari diritti di veto. In altri casi le cessioni avvennero tramite la cessione
delle imprese a investitori nazionali o stranieri. Un terzo metodo, spesso in uso nelle economie ex
pianificate, era basato sulla distribuzione alla popolazione di voucher, successivamente convertibili in azioni,
al fine di stimolare un mercato finanziario. In alcuni casi tali procedure si risolsero in un’accentuazione della
disuguaglianza e della concentrazione in poche mani della ricchezza. Il governo di Boris Eltsin intraprese in
Russia un intenso processo di occidentalizzazione economica che vide emergere un’aggressiva coorte
d’investitori privati. I cosiddetti oligarchi riuscirono a consolidarsi come un centro di potere alternativo a
quello pubblico.
Nel corso degli anni Novanta alcune economie in via di sviluppo avviarono politiche di privatizzazione in
settori base.
L’economia mista che aveva governato gli anni della grande prosperità in Occidente e i principi keynesiani
chela ispiravano erano finiti sotto attacco. Contemporaneamente il crollo dei regimi comunisti e le grandi
trasformazioni in Asia e Sudamerica agivano nella stessa direzione. Ne scaturì un sistema economico globale
in cui i governi lasciavano spazi crescenti al settore privato, limitandosi a tracciare e regolare il quadro
generale.

Terzo mondo, “terzi mondi”

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Alla metà degli anni Sessanta solo due Giappone e Honk Kong avevano un reddito pro capite superiore alla
media mondiale. A est dei giacimenti di petrolio arabi dominava il sottosviluppo, tuttavia, nel giro di
vent’anni molte economie vissero una crescita enorme. Lo stesso non si può dire per il Sudamerica.
Alice Amsden e Takashi Hikino hanno individuato alcune categorie per classificare i paesi in via di sviluppo
sulla base delle caratteristiche dei loro processi di evoluzione e maturazione industriale, nonché delle
dinamiche di convergenza con le economie più avanzate.
La ricerca storico-economica ha individuato una serie di elementi utili a spiegare l’origine di tali differenze.
Spiegazioni che includono vari aspetti istituzionali e culturali i quali influenzano i modelli prevalenti di
gestione dell’attività economica, le forme di impresa e le modalità con cui lo stato struttura i propri rapporti
con il sistema economico.
Gran parte dei paesi del Terzo mondo avevano in comune un passato di dominio coloniale. In alcuni casi il
dominio non aveva intaccato la struttura economica tradizionale, basata su un’agricoltura di sussistenza e su
un artigianato manifatturiero. La formula economica rimase a lungo quella basata su stagnazione, povertà,
esproprio di risorse naturali, sfruttamento della popolazione da parte delle élite politico-militari.
In Sudamerica un nucleo consistente di esperienze nel settore manifatturiero era stato veicolato da flussi
migratori provenienti per lo più dall’Europa occidentale che non di rado avviarono attività imprenditoriali
autonome. In Asia il trasferimento di competenze era avvenuto sia tramite correnti migratorie, sia per
eredità coloniale di matrice europea e giapponese. In entrambe le aree erano presenti numero imprese
estere attratte sia dalla presenza di risorse naturali, sia dai mercati, che potevano fungere da agenti di
trasferimento tecnologico.
Anche per i paesi dotati di una minima base industriale il processo di convergenza si presentava complicato.
Per il latecomer degli anni Settanta la distanza da colmare era ormai enorme. Da scartare erano i
meccanismi di accumulazione nel settore primario, così come lo erano i settori labour intensive a bassi
salari, dato che gli stipendi tendevano a salire e comunque avrebbero causato una carenza di domanda.
Esperienze recenti ricordavano come il sistema della svalutazione nel lungo periodo era foriero di instabilità.
Infine, le imprese straniere era poco incentivate dall’insediamento in aree con mercati scarsi, erano
piuttosto interessate all’appropriazione di beni naturali o al lavoro a basso costo.
Un tratto comune ai percorsi di sviluppo dei paesi che innescato la spirale positiva è rintracciabile in una
consapevole e marcata focalizzazione su settori definibili a tecnologia “media”, o matura. Si trattava di
acquisire e mantenere una stabile leadership su produzioni per cui la tecnologia fosse facilmente
appropriabile perché già consolidata e non richiedesse particolari specializzazioni. In questo periodo storico
i settori erano: siderurgia, chimica di base, automobili, elettronica di consumo.
La precisa specializzazione settoriale implicava la presenza di imprese di larghe dimensioni, capaci di
conseguire adeguate economie di scala in produzioni ormai da tempo caratterizzate da una marcata
standardizzazione. Nel caso dei latecomer moderni le imprese leader erano caratterizzate da strategie e
strutture organizzative peculiari.
In primo luogo, le strategie prevalenti comprendevano un elevato grado di diversificazione per ridurre i
rischi connessi a un’unica attività e a causa del ristretto mercato interno.
Le strategie di diversificazione erano accompagnate da strutture organizzative particolari. La struttura
dominante era quella del gruppo, una unità legale da cui dipendevano, per via di legami azionari, una serie
di altre unità giuridiche attive nei settori in cui la strategia di diversificazione conglomerata spingeva
l’azienda. Queste configurazioni condividono il fatto di essere generalmente sotto controllo di una famiglia e
di godere di rapporti privilegiati con il potere politico. Queste organizzazioni erano responsabili di
percentuali rilevanti della produzione lorda interna. La dinamica dei gruppi era anche funzionale
all’intervento dello stato come acceleratore di sviluppo.
Per definire il ruolo assunto dai governi in tale processo di convergenza viene utilizzata l’espressione di
developmental state. I governi che intrapresero il ruolo di acceleratori di sviluppo non disdegnarono
l’impiego di politiche di pianificazione, come la creazione di imprese pubbliche. Tuttavia, l’essenza dello
stato sviluppatore era una sofisticata capacità di interazione con il settore privato, chiamato a perseguire i
propri obiettivi di redditività nel quadro di una politica di disciplinamento della produzione. Tutti questi stati
avevano in comune alcune strategie guidate la principio che il settore secondario avrebbe portato
benessere economico a tutta la popolazione. Tra gli altri, un sistema bancario efficiente. Le nuove
development banks costituirono i principali canali per il finanziamento di infrastrutture e impianti industriali.

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Le banche di sviluppo offrivano crediti a medio e lungo termine, con tassi di interesse bassissimi. Nelle
decisioni di finanziamento erano guidate dal criterio di sostenere gli investimenti finalizzati a ridurre le
importazioni ed aumentare le esportazioni. Ciò significava che dovevano essere abili a cogliere le tendenze
mondiali. In cambio della concessione dei crediti, le banche esigevano il rispetto degli standard fissati, sia in
ambito tecnologico sia nell’orizzonte strategico e competitivo a livello internazionale.
Altri strumenti frequentemente utilizzati dagli stati sviluppatori comprendevano l’uso disinvolto di incentivi
fiscali ma anche il controllo dei prezzi nei settori di base.

La fine di un grande sogno


Nella prima metà degli anni Settanta, la crisi del petrolio aveva danneggiato le economie dell’Occidente e
del Giappone, ma la situazione in URSS sembrava tranquilla. Nel 1978 due economisti americano hanno
dimostrato che l’URSS non presentava cicli economici analoghi a quelli delle economie occidentali. Pertanto,
la sua influenza sull’economia mondiale era ridotta a zero. Tuttavia, i tassi di crescita del PIL erano un
lontano ricordo, le riforme tardavano a dare risultati, i tassi di sviluppo e di crescita dei consumi erano calati.
Queste cifre non erano in grado di descrivere la bassa qualità delle merci o la difficoltà per i cittadini di
accedere a beni di base, né la loro situazione fisica e psicologica. Qualche apertura verso maggiori consumi
privati era stata promossa da Kruscev. Tuttavia, se l’economia pianificata era stata capace di produrre uno
sviluppo estensivo, meno adatta si era rivelata quando si trattava di sviluppo intensivo.
Con il passare del tempo il livello di burocratizzazione dell’economia sovietica era notevolmente aumentato.
All’inizio degli anni Ottanta il sistema industriale sovietico era basato su quaranta settori o gruppi industrie,
ciascuno dei quali era coordinato da un ministero. Prima della riforma del 1973 tali ministeri interloquivano
con centinaia di imprese sotto il loro controllo. Inoltre, la crescita delle spese militari, diversamente che in
occidente, rappresentava un elemento negativo per l’economia perché sottraeva risorse ad altri settori. Le
riforme introdotte da Kossygin negli anni Sessanta avevano cambiato poco, limitandosi ad introdurre una
maggiore decentralizzazione ma mantenendo il sistema dei prezzi fissi.
Un ulteriore fattore di crisi fu la questione petrolifera. Dalla vendita di petrolio all’estero, l’URSS aveva tratto
vantaggi di ordine politico; più tardi le esportazioni di petrolio erano diventate l’unico strumento a
disposizione del governo per ottenere dollari. Parte dei vantaggi della politica dei prezzi dell’Opec dovevano
servire a finanziare le vendite di petrolio a prezzi politici ai paesi del Comecon. Tuttavia, la produzione
petrolifera andava a rilento e bisognava trovare fonti energetiche alternative. Già nei primi Ottanta si
riconosceva in Occidente che l’URSS sarebbe potuta diventare leader mondiale dei gas naturali ma anche in
questo caso i vincoli erano di natura tecnologica.
A rendere più fragile la situazione c’era una forte crisi demografica, segnata da bassi tassi di natalità, alti
tassi di aborto e di mortalità, nonché una diminuzione delle aspettative di vita.
La parte politica della crisi risiedeva tutta nell’establishment del partito, diventato una struttura
autoreferenziale e parassitaria.
Quando nel 1985 Gorbaciov viene eletto alla testa del Pcus, nel paese esistevano condizioni rivoluzionarie:
uno stallo tra le élites dominanti e la popolazione. Malgrado le debolezze, in URSS quasi tutti possedevano
un televisore o un frigorifero ed erano culturalmente in linea con l’occidente. Di contro, la libertà di
espressione era fortemente limitata. Nel novembre del 1987 Gorbaciov ribadiva la sua convinzione che il
sistema sovietico fosse ancora solido e proiettato verso il futuro, a condizione che venisse modificato. Le
riforme che intendeva introdurre dovevano portare il paese da un sistema di comando centralizzato a un
sistema democratico, basato su metodi economici e su una combinazione tra centralismo e self-
management. In tal modo la perestroika avrebbe potuto trasmettere un nuovo slancio al socialismo.
Gorbaciov aveva necessità di dare responsabilità maggiori a chi dimostrava di volerlo seguire. A questa
scelta apparteneva la decisione di concentrare il potere in alcuni super ministeri e la riforma che rafforzava i
poteri del presidente dell’URSS. In pochissimo tempo il segretario del Pcus bruciò tutto il suo capitale
politico. Le promesse di riforme furono infrante. Colpito in quegli anni da Chernobyl, terremoti, caduta dei
prezzi del petrolio, vittoria dei nazionalisti nei paesi baltici, Gorbaciov venne travolto dagli eventi dell’estate
’91. In agosto un autoproclamato comitato per lo stato di emergenza depose il presidente e decretò lo stato
d’assedio. La reazione popolare fu immediata, soprattutto a Mosca, dove la popolazione si strinse attorno al
presidente del parlamento Boris Eltsin che sospese le attività del Pcus e smantellò il Kgb. Poco dopo Russia,

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Ucraina e Bielorussia decretarono la fine dell’Unione Sovietica e nei mesi successivi altre otto si unirono alle
prime per dare vita alla Comunità di stati indipendenti. A dicembre Gorbaciov si dimetteva.
Eltsin aveva davanti sfide molto difficili. Le principali erano: costruire uno stato democratico, creare un
mercato, attuare un processo di privatizzazioni, istituire un sistema legale. Eltsin annunciò le riforme
nell’ottobre del ’91 e la trasformazione richiese solo tre anni.
In Polonia, la cosiddetta shock therapy, ovvero la velocità delle decisioni economiche, fu in grado di bloccare
la super inflazione e di riportare in fretta i beni sugli scaffali. Per contro parecchie imprese statali dovettero
chiudere e si registrò un aumento della disoccupazione. In Russia il governo Gaidar tentò di emulare questa
azione, ma poi ammise che la teoria era priva di efficacia. Nel ’91 il deficit statale era in costante crescita, le
riserve auree erano sparite, la produzione industriale era in caduta libera, l’inflazione al 3000% annuo. A
livello monetario e finanziario le cose andavano anche peggio. La banca centrale sovietica venne sostituita
da banche centrali in ciascuna delle ex repubbliche ma, mentre la banca centrale russa poteva stampare
moneta, le altre quattordici potevano emettere crediti in rubli. Solo nel ’93 la Russia ottenne la sospensione
delle emissioni di crediti in rubli da parte delle ex repubbliche. Gaidar venne sostituito da Chernomyrdin che
riuscì a tenere sotto controllo l’inflazione.
La politica di privatizzazioni partì nel 1992 quando 150 milioni di russi ricevettero dei voucher (convertibili in
azioni) che però, essendo commerciabili, si concentrarono nelle mani di pochi. La grande stagione delle
privatizzazioni andò in scena tra il ’95 e il ’98. Le difficoltà finanziarie e fiscali del governo avevano spinto
l’esecutivo a chiedere prestiti alle nuove banche private, i cosiddetti loans for shares, crediti garantiti dalle
azioni che deteneva nel settore petrolifero e in altri rami industriali. Nel caso in cui il governo non avesse
ripagato il debito le azioni potevano essere vendute all’asta, cosa che avvenne. Il guaio fu che erano le
banche stesse a gestire le aste. Risultato: lo stato incassò molto meno del valore reale delle aziende
privatizzate e si crearono immense ricchezze personali. In Russia si formò una nuova oligarchia di potenti
uomini d’affari le cui origini erano di tre tipi: ex funzionari del partito, manager di grande impresa o
criminali. La nuova Russia si costruì attorno a queste enormi fortune che detenevano un potere “reale”
contrapposto a quello ufficiale.
Dopo una serie di crisi, la ripresa coincise con il passaggio dei poteri da Eltsin a Putin. Il merito di
quest’ultimo fu quello di ridefinire gli equilibri di potere tra stato e oligarchi, introducendo un nuovo
sistema fiscale e imponendo norme e comportamento che i grandi potentati economici non avevano mai
accettato in precedenza. Promise di non interferire con gli affari degli oligarchi ma voleva che si tenessero
lontani dalla politica.
Gran parte del primo decennio del XXI secolo è stata caratterizzata da una forte domanda interna,
dipendente dal commercio estero delle materie prime energetiche. Inflazione, disoccupazione e povertà
calavano. A fronte di queste tendenze si manifesta una crescente presenza dello stato nell’economia che fa
parlare di un nuovo capitalismo di stato. Il nuovo fenomeno è evidente nel comparto energetico: la
Gazprom, ad esempio, oltre a controllare altri apparati industriali, è proprietaria di due dei maggiori
quotidiani del paese.
La crisi mondiale del 2008 diede pochi segnali negativi in Russia. Nel gennaio 2012 Putin avviò nuove
privatizzazioni, ma senza rinunciare al ruolo dello stato come artefice del progetto di trasformazione. In
questo quadro si inseriscono le sanzioni americane e europee per l’appoggio di mosca ai ribelli filo-russi in
Ucraina ma che non hanno avuto l’effetto sperato. Lo sostituzione delle importazioni con merci fabbricate
nel paese ha dato uno slancio all’economia. Molto maggiore sembra invece l’effetto delle sanzioni lanciate
contro la cerchia degli oligarchi.

Una egemonia instabile


All’inizio degli anni Ottanta la società americana si confrontava con problemi di grande portata. La fine della
convertibilità del dollaro nel 1971, l’impennata del prezzo del petrolio, la guerra del Kippur. La stagflazione
degli anni Settanta portò un aumento della disoccupazione, il calo dei profitti e una certa stagnazione nei
redditi. Il nuovo presidente americano Reagan, nel discorso di insediamento, lanciò la parola d’ordine che
avrebbe caratterizzato i suoi mandati: meno stato nell’economia. Era un approccio supply-side: meno tasse
per i redditi medio-alti e per le imprese, per incentivare il consumo e gli investimenti; riduzione della spesa

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assistenziale e minore intervento nel mercato del lavoro. I tagli agli interventi sociali sono stati investiti
nell’esercito, sia per mantenere l’occupazione, sia per incentivare la ricerca.
I risultati non furono pari alle attese e in molti casi ebbero effetti contrari per chi aveva basato la propria
politica sul contenimento della spesa pubblica: la diminuzione delle entrate fiscali spinse il deficit federale e
portò un aumento del debito pubblico. Tuttavia, grazie anche alla severa politica monetaria della Federal
Reserve il dollaro si apprezzò e gli USA poterono approfittare del calo dei prezzi delle materie prime degli
Ottanta. L’inflazione tornò sotto controllo, la disoccupazione calava. Ma altri dati causavano delle
preoccupazioni sulla possibile fine del “secolo americano”. Uno dei prodotti che si stavano affermando
erano i semiconduttori, essenziali per l’industria elettronica. Fino a quel momento gli USA avevano
controllato il mercato mondiale ma incontrarono difficoltà di fronte al mercato giapponese. Esemplare fu il
tentativo di Fujitsu di acquisire il controllo della Fairchild Semiconductor. Il veto del segretario alla Difesa fu
determinante a far fallire l’operazione e a permettere alla americana National Semiconductor di acquisire la
Fairchild. La vicenda fu solo uno degli aspetti della guerra commerciale tra USA e Giappone. Le tensioni tra i
due paesi erano aumentate a causa del crescente deficit commerciale che i produttori manifatturieri
americani e Washington attribuivano alla sottovalutazione dello yen.
L’amministrazione Reagan trasformò la vicenda in una sorta di battaglia. Usando tutte le armi a disposizione
si arrivò alla firma degli accordi del Plaza nel settembre 1985 che permisero una svalutazione del dollaro
rispetto allo yen. L’effetto immediato fu una leggera contrazione delle esportazioni giapponesi che la banca
nipponica tentò di combattere con una riduzione dei tassi di interesse.
In molti davano per scontato che il Giappone dovesse diventare la prima economia mondiale del XXI secolo.
L’iniezione di liquidità nel sistema spinse le imprese ad aumentare i loro investimenti fissi. Tali investimenti
consentirono al paese di compensare l’apprezzamento dello yen, mentre alcuni mercati si erano abituati al
made in Japan. Tokyo divenne in quegli anni uno dei più dinamici mercati finanziari. Nel contempo si creò
un’enorme bolla immobiliare. Il sistema bancario continuò a pompare denaro soprattutto nel comparto
immobiliare, immaginando che i prezzi sarebbero rimasti stabili. Il tasso ufficiale di sconto venne rialzato per
la prima volta a partire dal maggio 1989 ma la bolla non si sgonfiò immediatamente. La borsa invece iniziò
un rapido calo, seguito poi dal mercato immobiliare e infine dalla crisi delle banche. Le conseguenze furono
dannose per tutto il sistema economico. Le banche ridussero la disponibilità a finanziare le imprese. A farne
le spese furono le aziende piccole e medie. Le grandi imprese avviarono una profonda ristrutturazione che
le portò a concentrarsi sul core business passando per una diminuzione dell’occupazione. Cominciò il lost
decade, durante i quali l’economia giapponese entrò in una profonda stagnazione. Il governo, fino a quel
momento, aveva solamente utilizzato la leva fiscale, in vista delle necessità sociali per l’invecchiamento
della popolazione. Dalla seconda parte del decennio una serie di investimenti pubblici tentarono di invertire
la tendenza, ma i risultati non furono quelli sperati.
L’economia americana cominciò a correre, dalla guerra del golfo al 2001. Il contenimento della spesa voluto
da Bush senior dovette fare i conti con i vincoli sociali e politici: una popolazione anziana che non voleva
perdere i privilegi del welfare; gli immigrati che stavano modificando la composizione della classe
lavoratrice; la sensazione di insicurezza della middle class. Le difficoltà economiche spinsero Bush a non
porre il veto promesso all’aumento delle tasse, il che gli costò il secondo mandato.
Il successo di Clinton non significò un ritorno all’assistenzialismo, nel suo programma c’era spazio per una
riforma del sistema sanitario, incentivi a favore dell’istruzione e una riduzione del welfare per spingere
alcune categorie a entrare nel mondo del lavoro. Il deficit pubblico ereditato da Reagan e Bush impediva
nuove spese. D’altra parte il presidente della Federal Reserve, Greenspan, aveva inaugurato una politica di
bassi tassi di interesse per uscire dalla recessione.
Gli USA sembravano avviato verso un secondo secolo americano, confermato dalla nascita di quei colossi
tecnologici e della potenza di Wall Street.
L’attacco dell’11 settembre fu un colpo durissimo per gli USA. Il governo e la Federal Reserve diedero una
risposta immediata attraverso interventi di ordine economico e monetario, oltre che politico e militare con
la guerra in Afghanistan e Iraq. Le conseguenze immediate dell’attacco fecero passare in secondo piano
l’ingresso della Cina nel WTO.
Quando nel 2012 la Cina divenne il primo esportatore mondiale in tanti si domandavano se il XXI sarebbe
stato il secolo della Cina. Nel corso degli anni Novanta il paese crebbe con una media del 10% annuo. Per
capire le enormi trasformazioni che la società cinese ha subito dagli anni Settanta a oggi le parole di Yu Hua

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sono sufficienti: “per noi cinesi gli ultimi quaranta anni sono stati come gli ultimi quattrocento per gli
europei”. L’economia cinese è stata profondamente riformata dalle trasformazioni avviate nel ’78. Le basi
sono state messe prima nel settore primario con una gestione diversa delle terre, lo smantellamento delle
comuni agricole, una parziale liberalizzazione dei prezzi che ha consentito il formarsi di una domanda
interna dalle campagne. Subito dopo venne cambiato il sistema bancario con la creazione di quattro banche
statali. Nel 1979 vennero approvate le norme per attirare investimenti esteri nelle zone economiche speciali
(ZES) e introdotta la politica del figlio unico. Nel 1980 la Cina entrava a far parte della Banca Mondiale,
mentre le imprese statali vennero autorizzate a conservare una parte dei profitti per gli investimenti. Nel
1986 la Cina chiese l’adesione al Gatt. Le inquietudini del partito e della società si facevano più acute e
culminarono con le manifestazioni, e la cruda repressione, di Tienanmen.
Deng, architetto delle riforme, organizzò la reazione, mentre il segretario del partito, Zyiang viene dimesso e
sostituito da Zemin, che diventerà anche presidente della Repubblica popolare cinese. Mentre Deng
rilanciava le riforme, il Pcc definì l’obiettivo del percorso come “economia socialista di mercato”.
A sperimentare il nuovo assetto furono le aziende di stato. Nel ’93 venne avviata una radicale politica di
ristrutturazione che diminuì l’occupazione. Nel contempo si pose mano alla legislazione sulle aziende,
introducendo diverse forme di proprietà. Nel 1994 le aziende statali (SOE) divennero società anonime o a
responsabilità limitata. L’anno successivo fu avviata la privatizzazione delle SOE più piccole. Nel ’97 il partito
annunciò che la presenza pubblica dell’economia avrebbe riguardato solo settori strategici.
La crisi del 2008 sembrò non toccare la Cina che anzi si trasformò nel motore di crescita dell’economia
mondiale. L’opinione pubblica mondiale oscillava tra il sottolineare la preoccupazione di una dipendenza
economica dalla Cina al mettere in rilievo le fragilità politico-sociali del paese. Nel primo caso si notava
come la Cina fosse diventata ormai l’officina del mondo, anche se buona parte della produzione avveniva
per conto di aziende estere. Nel secondo caso si mettevano in luce l’eccesso di investimenti in capitale fisso
rispetto ai consumi, l’abbondanza di investimenti immobiliari, un debito pubblico superiore a quello
dichiarato così come la disoccupazione, una liberalizzazione incompleta che penalizzava gli investitori esteri
e un crescente indebitamento delle imprese. Quando dal 2014 l’economia cinese ha iniziato a rallentare, da
un lato sono aumentate le preoccupazione delle ripercussioni, dall’altra il sollievo per la normalità
dell’economia cinese. Nel 2015 il premier Li ha ammesso le difficoltà economiche del paese. Nello stesso
anno si iniziò a lavorare per la convertibilità del Rmb, che si è tradotta in una svalutazione della moneta.

L’Europa alla ricerca di un’identità


La crisi del sistema sovietico e il crollo del muro di Berlino avevano avuto un vincitore politico-militare, gli
USA, ma anche uno politico-culturale, l’Europa. Si ponevano le basi per la realizzazione di un progetto
decennale. Sul piano istituzionale il sentiero era in un certo senso obbligato dalle decisioni prese ad
Hannover nel 1988 dal Consiglio europeo. Jacques Delors, presidente della Commissione europea, aveva
ricevuto dai capi di governo e di stato dei paesi membri l’incarico di studiare le modalità e le tappe per la
realizzazione dell’Unione economica e monetaria. Sarebbe stato la base del trattato di Maastricht del 1992.
Durante l’ultima parte degli anni Ottanta il progetto di una moneta unica europea era stato considerato uno
strumento utile per rafforzare le politiche di rigore e di controllo dell’inflazione, ma proprio per questo
aveva diviso i paesi membri. Ancora più forti le divergenze tra il mondo bancario, rappresentato dalla
Bundesbank, favorevole alla moneta unica tra quanti avessero il profilo adeguato sotto il profilo dei conti
pubblici, e il mondo politico che riteneva questo approccio troppo severo. Dalla parte dei meno convinti la
Tatcher, che considerava la moneta unica un ponte per la costruzione di una sovrastruttura politica che
avrebbe danneggiato gli interessi nazionali. Tuttavia, era impossibile bloccare il percorso indicato da Delors.
La crisi dell’est e la riunificazione della Germania rimescolarono le carte.
Le economie europee non si erano mai riprese dalla crisi del Settanta. I tassi di crescita del Sessanta erano
un ricordo. Le politiche neoliberiste americane e inglesi avevano messo in moto processi di revisione delle
politiche europee, facendo emergere un progressivo impegno alla diminuzione degli interventi statali. I
meccanismi comunitari di compensazione tra paesi mostravano inceppi burocratici. Mentre l’economia
mondiale stava cominciando una trasformazione profonda, mentre Stati Uniti e Giappone sembravano
contendersi il primato economico, a Bruxelles si aumentava di circa il 40% la spesa comunitaria per i fondi a

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favore delle regioni più deboli e alla formazione dei disoccupati, ma restava altissima la quota destinata alla
politica agricola, e molto bassa quella per la ricerca.
I primi effetti derivanti dalla prospettiva di una riunificazione tedesca videro il ricompattamento dei
principali paesi dell’Europa occidentale, tutti convinti che la stabilità in Europa fosse garantita da due
Germanie e non una. Alcune decisioni, come il cambio tra marco e marco ddr di uno a uno, e l’enorme
sforzo finanziario che spettava alla Germania, posero le basi per un riorientamento completo delle scelte dei
principali partner europei. Chi era cauto divenne favorevole, chi era favorevole era ancora più esigente,
prospettando un gruppo di paesi immediatamente aderenti e un secondo gruppo che si sarebbe unito dopo.
L’agenda della Comunità europea stabilita prima del crollo del muro prevedeva una serie di scadenze che
avrebbero dovuto portare al processo di unificazione economica e monetaria. Sulla base di tale prospettiva
venne firmato il trattato di Maastricht nel 1992.
Venne costituito un Istituto monetario europeo che, insieme alla Commissione, avrebbe decidere i
parametri in base ai quali i paesi potevano diventare membri. Erano i seguenti: un tasso di inflazione che nel
corso di due anni non superasse dell’1,5% quello dei tre stati membri più stabili; un bilancio pubblico con un
disavanzo non superiore al 3% del PIL; un tasso di cambio stabile; dei tassi di interesse stabili e dei titoli di
stato a lungo termine non superiori di oltre i 200 punti base rispetto ai tre paesi con minore inflazione; un
debito pubblico non superiore al 60% del PIL.
Le basi del progetto erano incrinate da una serie di problemi. Il mercato unico entrato in vigore nel 1993 ha
offerto opportunità nuove a tutti gli attori economici. I processi di globalizzazione non si fermarono di fronte
la neonata Unione L’economia del continente venne interessata da profondi sommovimenti che coinvolsero
anche il mondo delle grandi imprese, protagoniste di veri e propri mega-mergers.
Il rapporto Delors prevedeva la definizione della Bce e l’avvio di un processo che avrebbe dovuto portare
all’unione monetaria massimo nel 1999. I tempi di tali procedure vennero però dettati dalla politica, in
particolare, un referendum in Danimarca mostrò l’astio nei confronti della moneta unica.
Negli anni successivi le discussioni furono spesso centrate sulla flessibilità dei criteri di Maastricht,
soprattutto riguardo Italia e Spagna. La decisione fu politica: Italia e Spagna fuori dall’Unione sarebbero stati
concorrenti troppo pericolosi, ma anche per loro la decisione poteva dare problemi.
Pur senza venir meno alle regole di Maastricht, ma interpretandole, l’accordo tra i capi di stato consentì la
nascita dell’Uem con un primo nucleo di partecipanti composto da Austria, Belgio, Finlandia, Germania,
Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo e Spagna, mentre Gran Bretagna e Danimarca rifiutarono e
Svezia e Grecia non soddisfacevano i criteri. Nell’occasione vennero stabiliti i tassi di conversione all’euro.
Dal gennaio ’99 l’euro sostituì l’ecu e dal 1° gennaio 2002 la nuova moneta era in circolazione.
Gli aspetti fiscali furono sottovalutati e ciò minò fin dall’inizio un’autentica stabilità del sistema.
Le debolezze strutturali (assenza di politiche fiscali comuni ed eccesso di prestiti interbancari internazionali)
non erano unicamente europee, ma la complessità dei meccanismi di governo europei era tale da renderle
pericolose. L’importanza politica e simbolica del completamento dell’unificazione faceva aggio su ogni altra
considerazione. “Le regole non devono essere scritte su misura per il più debole, ma per il più forte”, disse la
Merkel nel 2010 nel dibattito sul salvataggio della Grecia. Questo messaggio nessuno fu in grado di lanciarlo
nei primi Duemila.
Nel 2002 dodici paesi su quindici membri aderirono all’euro e la moneta nel giro di pochi anni sembrò
essere in grado di acquisire una forza e uno statuto non troppo dissimile dal dollaro. L’adozione della
moneta unica non fu priva di difficoltà, ad esempio ci fu un generale aumento dei prezzi di beni-simbolo.
Tuttavia, nel giro di pochi anni l’opinione pubblica europea pareva soddisfatta.
Già prima della crisi divenne normale criticare la moneta unica, attribuendole ogni male. Sarkozy imperniò
parte della sua campagna elettorale sull’impossibilità di mettere l’euro al servizio delle politiche
dell’occupazione, mentre Berluscono affermò di non voler porre ulteriori vincoli alla crescita economica
della nazione.
Due anni dopo la nascita dell’euro dieci paesi centrorientali europei entravano nell’Ue.
Nel 2003, dopo le riforme sul lavoro tedesche, la Germania subì una svolta. Orari di lavoro diversi a seconda
delle esigenze, introduzione dei mini jobs, contenimento della spesa sociale, furono le premesse per un
rilancio delle esportazioni tedesche. Poco prima della crisi la crescita della Germania era considerato dalla
Commissione un elemento di destabilizzazione degli equilibri.

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I tassi di interesse spagnoli e greci erano più bassi di quelli tedeschi, il che ebbe diverse conseguenze: in
Spagna, ad esempio, lo sviluppo di una bolla immobiliare consentì un alto livello di crescita e spinse gli
investitori verso il meridione. Se fino agli anni Novanta la gran parte del debito dei governi era detenuto da
investitori privati e istituzionali dello stesso paese, con l’euro la situazione era diversa. Secondo la Banca dei
regolamenti internazionali, nel 2010 le banche tedesche e francesi detenevano rispettivamente 610 e 778
miliardi di titoli del debito pubblico di Portogallo, Irlanda, Italia e Spagna. Un altro aspetto dell’unione fu la
nascita di veri e propri giganti finanziari europei, come l’Unicredit.
La crisi giunse in Europa nel 2008. All’inizio non ci fu consapevolezza e si credeva fosse un problema
americano. In pochi capirono che almeno la metà dei titoli tossici emessi dalle banche americane erano
nella pancia delle banche europee. Dal 2009 il numero degli europei che dubitavano dell’Europa era
cresciuto. Era subentrata una spaccatura tra nord e sud e tra ricchi e poveri. Nel frattempo crescevano i
partiti antieuropeisti. La crisi aveva dapprima colpito i paesi in cui la bolla immobiliare era stata
particolarmente importante: Spagna e Irlanda. Furono seguiti da Portogallo e Italia, il quale debito rispetto
al PIL era secondo solo alla Grecia e la gestione politica di Berlusconi rappresentò un elemento di sfiducia.
La crisi divenne più drammatica tra 2009 e 2010 quando la Grecia mostrò i primi segni della sua incapacità
di far fronte ai debiti. Negli anni seguenti il punto più delicato fu quello di salvare le banche europee, ma
sotto l’etichetta di salvataggio della Grecia.
Ai primi di novembre del 2011 al vertice di Cannes l’Italia e la Spagna vennero invitate a chiedere aiuto
finanziario al Fondo monetario internazionale. Al rifiuto seguì la dichiarazione della Merkel di non voler
aumentare il contributo al firewall dell’eurozona.
Secondo Fischer il punto di svolta va individuato nell’ottobre 2008, quando la Germania rifiutò di
partecipare alla creazione di un fondo di salvataggio europeo, temendo che la Francia potesse utilizzare tali
risorse per pagare i debiti: secondo Fischer questa scelta rappresentava l’inizio del processo di
rinazionalizzazione dell’Unione europea.
Apparve sempre più evidente che certe riforme non erano più rinviabili. Il punto tuttora in discussione
riguarda la capacità/volontà dei paesi membri dell’eurozona di cedere anche la propria sovranità nelle
politiche di bilancio. Sembra che mantenerle a livello nazionale abbia rappresentato la compensazione della
perdita della sovranità nella politica monetaria.
Un’Europa divisa ha discusso a lungo il Grexit, come evento possibile e forse auspicabile. Nel 2016 la Gran
Bretagna decise di uscire dall’Unione europea. Il voto sulla Brexit ha spaccato in due il paese e prodotto un
terremoto politico. I primi effetti sembrano dar ragione a chi aveva pronosticato nuove difficoltà e l’avvio di
una recessione in Gran Bretagna. Gli effetti economici si possono calcolare a anni di distanza, quelli politici
sono immediati. Da una parte si è rotto il tabù, non appare impossibile un’implosione dell’istituzione;
dall’altra la reazione più partecipata ha espresso una rinnovata volontà di ricostruire su basi meno
centralizzate e meno burocratizzate, il percorso di costruzione di un’Europa unita.

Il mondo globale
La crescita dell’economia delle “economie emergenti” è stata per certi versi spettacolare. Studiosi e
commentatori sono concordi nell’affermare che oggi il motore dell’economia appartiene a questi paesi.
L’aspetto più appariscente è stato rappresentato dallo straordinario mutamento dell’economia e della
società cinese. La Cina è diventata la fabbrica del mondo il maggior esportatore, il che la pone di diritto tra i
mega traders, inoltre, ha una grande capacità di essere un partner economico-commerciale per un
centinaio di paesi al mondo. Ricerca e sfruttamento di materie prime, importazione di commodities
industriali, collaborazione lungo la catena produttiva, esportazione di manufatti verso i partner sono i
pilastri della presenza globale della Cina. Dopo l’ingresso nel Wto la Cina divenne la principale destinazione
degli investimenti esteri.
L’ascesa della Cina va inserita nelle profonde trasformazioni di fine secolo. In relazione al mutamento degli
scenari, Goldman Sachs creò un gruppo di lavoro per comprendere quali potessero essere le dinamiche di
fondo suscettibili di interesse per la banca e i suoi clienti.

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I Bric (Brasile, Russia, India e Cina) sono gli unici paesi al mondo, insieme agli USA, ad avere
contemporaneamente un PIL di oltre 600 miliardi, una popolazione superiore a 100 milioni di abitanti e una
superficie maggiore di 2 milioni di km quadrati. A partire dall’anno successivo alla crisi, i Bric cominciarono a
riunirsi annualmente, nel 2011 venne invitato anche il Sudafrica. Negli anni più difficili della crisi i Brics
strinsero accordi di cooperazione molto stretti, arrivando anche alla fondazione di un istituto bancario, con
lo scopo di facilitare le transazioni tra stati membri. Lo sviluppo conosciuto da queste realtà iniziò a
rallentare nel 2013.
In Cina, il PIL aveva iniziato a crescere meno. La spinta a riequilibrare un’economia troppo sbilanciata verso
investimenti in capitale fisso era un’esigenza di molti, come il bisogno di aumentare i consumi interni. La
crescita salariale era più veloce del previsto e fu necessario riadattare la catena di valore cinese, dirottando
le attività labour intensive verso Vietnam, Malesia o India.
In Russia il tasso di crescita del PIL aveva cominciato a rallentare prima della crisi, per poi riprendersi nel
2011 e continuare a scendere nel 2014 anche a causa del calo dei prezzi del petrolio e delle sanzioni
successive all’appoggio alla guerra civile in Ucraina.
In Brasile la caduta del tasso di crescita fu altrettanto rapida. La “diversità” brasiliana- una domanda interna
in crescita, una struttura industriale solida, inflazione e debito pubblico sotto controllo- stava venendo
meno. La caduta del PIL non si è arrestata anche a causa dell’instabilità politica causata dall’impeachment
della presidente Roussef per lo scandalo dei fondi forniti da Petrobras.
La situazione era in parte diversa in India, da sempre lontana dal modello di sviluppo basato sulle
esportazioni, cresciuta in maniera sincopata e asimmetrica. Il paese è caratterizzato da un’agricoltura poco
efficiente, un settore industriale a cavallo tra imprese pubbliche e multinazionali straniere, molto carenti
sono le infrastrutture.
Il caso più rilevante tra i cambiamenti mondiali è quello della Corea del sud. Tra i paesi più poveri dell’Asia
dopo la seconda guerra mondiale, teatro di una guerra civile sanguinosa, la sua crescita economica
rappresenta un modello. Grande attenzione ai fattori strutturali, in primo luogo le politiche educative e
sanitarie; governi autoritari entro involucri istituzionali e democratici; robuste politiche protezioniste unite a
una spinta alla competizione fuori dai confini; un forte ruolo dei grandi gruppi privati, i chaebol. Tali fattori
hanno consentito al paese un forte processo di industrializzazione. I settori sui quali costruire le basi
industriali sono stati quelli “maturi”. Tuttavia il paese ha dimostrato capacità nell’aggiornare il quadro. Dagli
anni Ottanta il governo ha inaugurato una cauta liberalizzazione che ha lentamente smantellato il sistema
protezionista. Tuttavia, i grandi gruppi dominano ancora l’economia coreana.
Il successo sudcoreano è stata accompagnato da altri paesi asiatici, in particolare Singapore, Taiwan e Hong
Kong, considerate la conferma di un modello di sviluppo economico asiatico di successo. La Banca mondiale
accettò con fatica il fatto che il successo di queste economie non fosse dovuto a politiche liberiste.
Singapore aveva caratteri molto particolari: le dimensioni da città-stato; la miscela di intervento statale e
apertura agli investitori; il porto più importante al mondo.
Le “tigri asiatiche” sono poi aumentate. Si sono aggiunti: Thailandia, Indonesia, Malesia e Vietnam. In alcuni
casi si tratta semplicemente dell’ampliamento della catena di valore della Cina, in altri sono fenomeni di
sviluppo che riprendono strade seguite da paesi vicini.
Una buona parte di questo successo è legato all’enorme domanda di materie prime generata dalla Cina. Il
mercato delle commodities ha conosciuto un boom dall’inizio del secolo. La spiegazione più solida è stata
quella di legare tali trend alla domanda esercitata dai Brics.
In molti paesi asiatici, africani e sudamericani, la crescita della domanda di materie prime da parte della
Cina ha indotto importanti cambiamenti economico-sociali. Il modo in cui il governo cinese ha
accompagnato queste operazioni ha offerto alcune nuove opportunità ai paesi esportatori di materie prime.
In parecchi casi il do ut des economico-commerciale prevede un impegno delle aziende cinesi nella
realizzazione di nuove infrastrutture o nel miglioramento di quelle esistenti. Infine, l’esigenza strategica di
mantenere una bilancia commerciale con questi paesi, ha fatto si che fosse possibile accedere a prodotti
cinesi.
Il più rilevante mutamento degli assetti dell’economia mondiale è l’aumento dei rapporti commerciali tra i
paesi emergenti. In un contesto del genere le politiche liberali commerciali volute dal WTO rappresentano
un elemento di fondamentale importanza. I maggiori protagonisti dell’economie mondiali stanno
sviluppando nuove strategie per proteggere gli interessi nazionali

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In particolare, gli USA iniziarono le trattative per la costituzione di un’area di libero scambio tra Nord
America e Europa, chiamata Partenariato Atlantico, ma, tra l’incertezza di alcuni paesi europei e la vittoria di
Trump, il progetto, voluto da Obama, è stato accantonato. Allo stesso modo, è stato progettato un
Partenariato pacifico, per limitare la potenza cinese. Nonostante la firma di dodici paesi, anche questo
progetto è passato inosservato durante l’amministrazione Trump.
La Cina nel 2014 ha costituito l’Asian Infrastructure Investment Bank. Nei primi mesi del 2015 60 paesi
aderirono, perché considerata un equivalente regionale alla World Bank (influenzata dagli USA) e l’Asian
Development Bank (dal Giappone). Questa iniziativa va inserita nella strategia cinese tesa a liberalizzare i
rapporti commerciali, difendendo i propri interessi e proponendosi come partner per investimenti di grande
respiro.

Una crisi diversa?


La crisi iniziata nel 2007 con le prime difficoltà nel mercato immobiliare americano e poi divenuta globale
sta marcando il processo di globalizzazione. Nata come crisi dei subprime, limitata al mercato dei mutui
ipotecari statunitensi, concessi con eccessiva facilità a soggetti che non garantivano il pagamento degli
interessi in caso di aumento dei tassi, ha permesso di scoprire l’ampiezza che aveva preso il processo di
finanziarizzazione dell’economia mondiale.
La massa di capitali in circolazione a partire dal 1973, a seguito dell’aumento dei prezzi del petrolio, ha
generato dei mutamenti. La prima fase della globalizzazione dei mercati finanziari può essere vista
nell’intreccio del mercato degli eurodollari con quello dei petrodollari e nel loro massiccio utilizzo per
finanziare le economie dei paesi in via di sviluppo, obiettivo rivelatosi all’origine di forti crisi debitorie.
Il sistema finanziario ha dovuto adattarsi a questa crescente massa di risorse, adeguando la sua capacità
produttiva all’offerta di denaro: hanno inventato nuovi strumenti finanziari per allocare queste masse di
denaro.
Nel 1980 il valore complessivo degli assets finanziari era pari a 12 trilioni di dollari, 2007 era 196 trilioni, pari
al 351% del PIL mondiale. Questa massa di risorse finanziarie si era progressivamente spostata dai depositi
bancari verso gli investitori istituzionali.
A dicembre 2006 e febbraio 2007 sia l’Economist che il capo della Federal Reserve presentavano scenari
rosei e non c’erano preoccupazioni eccessive per la parte più a rischio del mercato dei mutui, visto che
l’extra debito delle famiglie era compensato dal declino dei tassi di interesse.
Nel luglio 2007 i gestori di un hedge fund australiano comunicarono che il fondo stava riducendo il valore
dei suoi investimenti come conseguenza delle difficoltà del mercato creditizio americano. Le banche
americane cominciarono a risentire della situazione. Le notizie si infittirono ad agosto. Il 17 la Federal
Reserve tagliò i tassi di sconto. A settembre cominciò a serpeggiare l’idea che l’economia mondiale era
giunta ad un punto di svolta, ma si era convinti che la capacità dell’economia di assorbire gli shock potesse
produrre una stabilità permanente. Pareva folle in quel momento pensare di testare quell’assunto
combinando le turbolenze dei mercati creditizi con la vulnerabilità dei mercati immobiliari. Tuttavia, il
rischio c’era ed era legato all’eccessiva disinvoltura delle innovazioni finanziarie il cui fall-out stava
avvelenando i mercati del credito a breve.
Un anno dopo fallirono Fannie Mae e Freddie Mac, tra i maggiori protagonisti del mercato dei mutui
ipotecari, e Lehman Brothers, mentre Bank of America assorbì Merril Lynch. A poco a poco apparvero più
chiari i motivi della crisi. L’eccesso di capitali in Asia derivante dal grande surplus commerciale cinese,
impiegato da Pechino per comprare i bond americani, spinse al ribasso i tassi di interesse nei primi anni
Duemila a livello globale. Le banche europee si finanziarono negli USA e usarono tali fondi per acquistare
titoli insicuri.
La folli e l’irresponsabilità avevano spinto a prestare denaro a chi aveva una povera storia finanziaria. Tali
crediti a rischio vennero passati a ingegneri finanziari che li impacchettarono insieme a prodotti finanziari a
basso rischio, nella convinzione che il mercato immobiliare si comportasse in maniera eterogenea. Nel 2006
tutto il paese conobbe una caduta di prezzi delle case. Questi prodotti furono usati per proteggere altri
titoli, i Cdo, cioè dei titoli a reddito fisso tutelati da un portafoglio di obbligazioni, prestiti e altri strumenti,
che a loro volta furono tagliati a fette per livelli di esposizione al default. Gli investitori comprarono le
tranches più sicure perché credettero nelle valutazioni, falsificate sotto pagamento, delle agenzie di rating.

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Quando il mercato immobiliare americano comincia ad andare male una reazione a catena mise in evidenza
tutte le fragilità del sistema finanziario. I prodotti dell’ingegneria finanziaria non si rivelarono protetti. Il
valore dei mutui appoggiati a tali prodotti crollò. I Cdo apparvero privi di valore e divenne impossibile
venderli. Inoltre, la fiducia era venuta meno. Il credito a breve venne interrotto oppure portato a livelli
altissimi per scoraggiare il mercato. Strumenti come i credit default swap, con cui il venditore si impegnava
a compensare il compratore in caso di default di terzi, creati per distribuire meglio il rischio, si rivelarono
strumenti per concentrarlo.
Il fallimento di Lehman Brothers scatenò il panico. Il 22 settembre 2009 Morgan Stanley e Goldman Sachs
divennero banche commerciali. Il 28 settembre il Congresso approvò il Trouble Asset Relief Programme, un
piano di salvataggio per il settore bancario. Era un segnale che l’intervento pubblico avrebbe inciso
nell’evoluzione della crisi. La vittoria di Obama fu decisiva per l’esito di molti provvedimenti. Già nella fase di
transizione tra le due amministrazioni la Fed acquisto miliardi di obbligazioni e strumenti finanziario per far
ripartire il mercato immobiliare. Inoltre, il governo appoggiò il piano per il salvataggio di Citigroup.
Il consolidamento della finanza americana fu affidato al Public-Private Investment Program for Legacy
Assetts, accompagnato dal Fiscal Stimulus o Recovery Act. Questi provvedimenti dovevano servire a
rilanciare l’economia americana attraverso la creazione di posti di lavoro, investimenti per aumentare
l’efficienza del sistema, investimenti nei trasporti e per stabilizzare il bilancio dei governi. Queste misure
rafforzarono le idee dei nemici di Obama, accusato di introdurre elementi socialisti nel governo. Nel 2009 lo
stato intervenne anche nell’industria automobilistica, acquistando temporaneamente la metà delle azioni
della General Motors.
La crisi del 2007-08 divenne subito un caso di studio. Il dibattito divenne in parte pubblico. Secondo il
Financial Times la crisi aveva distrutto la fiducia nel mercato libero. Si iniziarono a progettare strategie per
evitare il ripetersi della crisi. Il rapporto stilato dalla commissione voluta dal governo americano è chiaro
nell’affermare che la crisi era evitabile. Il rapporto non venne approvato all’unanimità. Alcuni dei commissari
presentarono un rapporto di minoranza nel quale si critica l’incapacità della commissione di valutare
accuratamente il volume del capitale internazionale alla ricerca di investimenti redditizi nel mercato
immobiliare dei mutui.
Nell’opinione pubblica destò più sospetto il fatto che tra i maggiori responsabili dei fallimenti, nessuno di
loro fu condannato.
Quando il rapporto venne pubblicato il sistema finanziario internazionale era molto diverso. Tuttavia, il
valore degli assets finanziario ripresero subito quota. In genere maggiori controlli vennero introdotti a tutti i
livelli. Il dopo crisi esacerbò un problema: le banche sono diventate ancora più grandi e interconnesse con
l’intero sistema.
La crisi aveva fatto emergere come una fetta consistente delle operazioni e degli strumenti più rischiosi
fossero in mano ad operatori che giuridicamente non possono essere controllati da autorità finanziarie,
rendendo difficile la regolamentazione. Si tratta del cosiddetto shadow banking system.
La crisi iniziata come un problema economico-sociale nelle fasce basse della popolazione americana,
incapaci di pagare gli interessi sui mutui ottenuti da un sistema bancario che doveva rincorrere i clienti per
aumentare i volumi della propria cifra di affari, è diventata prima una crisi finanziaria, poi globale.

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