Sei sulla pagina 1di 299

STORIA

Manuale di studio per il


concorso ordinario cdc
A022/A012

1
INDICE

1. Storia Antica:
CIVILTÀ EGIZIA
MESOPOTAMIA
SUMERI
ACCADI
BABILONESI
ASSIRI
SECONDO IMPERO BABILONESE
CITTÀ DI EBLA
SCRITTURA
FENICI
EBREI
LE POPOLAZIONI INDOEUROPEE:
Gli Hittiti
I popoli del mare
Gli Achei (Micenei)
CRETESI

2. Cina e India antiche:


CINA
LA DINASTIA SHANG
LE PRIME FORME RELIGIOSE
LA DINASTIA CHOU
IL PERIODO DEGLI STATI COMBATTENTI
CON L’AFFERMAZIONE DELLA DINASTIA CH’IN SI COSTITUISCE UNO STATO
UNITARIO
L’IMPORTANZA DELLA LEGGE SCRITTA: I LEGISTI
CONFUCIO E IL CULTO DEGLI ANTICHI
IL TAOISMO
INDIA
RELIGIONE, CULTURA E SOCIETA’ DELL’INDIA ANTICA
CIVILTA’ DI HARAPPA
GLI ARII
INDUISMO E BUDDISMO

3. La civiltà greca:
L'ETA' BUIA
IL MONDO GRECO TRA VIII E VI SECOLO
La nascita della pòlis
La pòlis come comunità di cittadini e città fisica

2
Le istituzioni della pòlis
Stato etnico e stato federali
LA CRISI DELLE ARISTOCRAZIE
Oplitismo
Colonizzazione
Legislazione
Tirannide
La nascita della moneta
SPARTA E ATENE IN ETA' ARCAICA
Sparta
Atene
La tirannide ad Atene
Clistene

4. Le guerre greco-persiane, l'età di Pericle,


la seconda guerra del Peloponneso Elaborato non pervenuto

5. Alessandro Magno e i regni ellenistici:


IL REGNO DI MACEDONIA
FILIPPO II E L’ESPANSIONE DEL REGNO
1. LA SOTTOMISSIONE DELLE POLEIS
2. I PREPARATIVI DELLA SPEDIZIONE CONTRO LA PERSIA
LA STRAORDINARIA AVVENTURA DI ALESSANDRO MAGNO
L’AVANZATA, DALL’EGITTO A PERSEPOLI
ALESSANDRO IN ASIA
L’EREDITA’ DI ALESSANDRO
PRIMA GUERRA DEI DIADOCHI (322-320 a.C.)
SECONDA GUERRA DEI DIADOCHI (319-315 a.C.)
TERZA GUERRA DEI DIADOCHI (314-311 a.C.)
QUARTA GUERRA DEI DIADOCHI (308-301 a.C.)
ULTIME OSTILITA’ (298-281 a.C.)
CARATTERISTICHE DEI REGNI ELLENISTICI

6. Le origini di Roma, il passaggio dalla monarchia alla repubblica

7. Le guerre puniche e l'età dei gracchi:


Guerre puniche
L’età dei Gracchi

8. Le riforme di Mario e la dittatura di Silla

9. La fine della repubblica, il principato di Augusto

3
10. Le dinastie Giulio-Claudia e Flavia e gli imperatori adottivi Elaborato non pervenuto

11. L'età dei Severi, il tramonto dell'occidente

12. Storia dell'alto e del basso medioevo: le invasioni barbariche, l'Oriente bizantino
e l'Islam

LE INVASIONI BARBARICHE
I popoli germanici
La spinta degli Unni e le invasioni barbariche
I regni romano-germanici (secoli V-VI)

L’ORIENTE BIZANTINO
Da Teodosio II a Giustino
Giustiniano e la renovatio imperii
L’Impero dopo Giustiniano

L’ISLÀM
La Nascita dell’Islàm
Il califfato elettivo (632-661) e l’Impero omayyade (661-750)
L’impero abbaside (750-1258)

13. I longobardi e l'impero carolingio Elaborato non pervenuto

14. Il feudalesimo:
Definizione e panoramica generale
Origini del sistema feudale
Strutture del sistema feudale
L’omaggio e l’investitura - focus
La cavalleria - focus
Il capitolare di Quierzy : la prima e la seconda età feudale
Il ruolo della Chiesa nell’ordinamento feudale
L’economia e la società feudale
Le tecniche agricole
La dottrina dei tre ordini sociali

15. L'Europa tra impero e papato Elaborato non pervenuto

16. L'Europa tra il XII e il XIV secolo:


Umanesimo e Rinascimento
La nascita della stampa contribuì al diffondersi della cultura
I centri di cultura
La letteratura del Rinascimento

4
L’artista-scienziato del Rinascimento
Un nuovo interesse per la scienza
Il tramonto del Rinascimento
17. La chiesa scismatica:
Il contesto storico e culturale
Il grande scisma d’Occidente
Le successioni scismatiche e i Concili di Pisa e di Costanza
Il piccolo scisma
Il dibattito ideologico e le istanze di rinnovamento
Bibliografia e sitografia

18. Storia dell'età moderna: le scoperte geografiche, l'Europa, l'Africa e l'Oriente:


La ricerca di nuove rotte commerciali
Le prime scoperte genovesi e portoghesi
La rotta occidentale
Lo scambio colombiano
L’identificazione del continente americano
La rotta diretta per le Indie
La circumnavigazione della Terra
Le civiltà indigene americane
Il colonialismo spagnolo
L’impero coloniale portoghese
Conseguenze economiche e culturali dell’esplorazione e dell’espansione europea

19. La riforma protestante e le guerre di religione Elaborato non pervenuto

20. La costruzione degli stati moderni e l'assolutismo Elaborato non pervenuto

21. L'impero Moghul e la dinastia Manciù:


Storia della dinastia Moghul
I Manciù

22. Le trasformazioni in agricoltura e la proto-industria tra XVI e XVIII secolo. La tratta


degli schiavi e il commercio transoceanico:
Le trasformazioni in agricoltura – La rivoluzione agricola
Il passaggio dai campi aperti/open fields alle recinzioni/enclosures
La protoindustrializzazione
Caratteristiche del processo di protoindustrializzazione
La tratta degli schiavi
L’evoluzione delle aree commerciali dell’Europa

23. Le rivoluzioni politiche del Seicento/Settecento (inglese, americana, francese). L'età


napoleonica:

5
La rivoluzione inglese
La rivoluzione americana
La rivoluzione francese
L'età napoleonica
24. Storia contemporanea: l'età della restaurazione e i moti del 1820 – 1821;
i moti del 1830 – 1831; i moti del 1848:
Il Congresso di Vienna
I moti del 1820-1821
I moti del 1830-1831 e il "Neoguelfismo" di Gioberti
I tumulti del 1848

25. L'Unità d'Italia, fino al primo governo Crispi (escluso)

26. Dal primo governo Crispi alla prima guerra mondiale


L’Italia tra Ottocento e Novecento
L’ Italia di fine Ottocento
Il governo Crispi, le tensioni sociali e l’emigrazione
Il primo governo Giolitti e il Partito Socialista
Il ritorno di Crispi e la «crisi di fine secolo»
L’età giolittiana
La politica interna di Giolitti: sviluppo economico e riforme sociali
L’ingresso in politica dei cattolici e dei nazionalisti
La guerra di Libia e la caduta di Giolitti
La belle époque
Luci e ombre della belle époque
I conflitti tra le potenze e la «polveriera» dei Balcani
La Grande guerra
L’attentato a Sarajevo e lo scoppio della guerra
Dal 1914 al 1916: le offensive iniziali e la guerra di trincea
L'entrata in guerra dell'Italia
1917 l'anno cruciale
1918 le ultime offensive e la conclusione del conflitto
I Trattati di Pace e la nuova sistemazione europea.

27. La rivoluzione russa


Dalla grande guerra alla Rivoluzione
La Rivoluzione di Febbraio
La Rivoluzione di Ottobre
Dalla Rivoluzione alla Guerra Civile
La Nuova Politica Economica
Dalla Guerra Civile all’ascesa di Stalin
Lo Stalinismo
Il terrore staliniano

6
Conclusioni

28. Il primo dopoguerra Elaborato non pervenuto

29. L'Italia nel ventennio fascista Elaborato non pervenuto

30. La seconda guerra mondiale

31. Il secondo dopoguerra, dagli anni '60 agli anni '90 del Novecento
Il dopoguerra: distruzione e rinascita
La guerra fredda
Dalla guerra fredda al crollo dell’Urss
La decolonizzazione
L’Italia dal 1945 al 1990

32. Decolonizzazione in Africa. L'India di Gandhi e Nehru

33. Dalla Cina del grande balzo in avanti alle riforme di Deng
Introduzione
La dittatura di Mao Tse Tung. La fase dal 1949 al 1958
“Il grande balzo in avanti” del 1958
La politica estera verso URSS e USA
La rivoluzione culturale di Mao Tse Tung
L’avvento di Deng Xiaoping dal 1978 al 1994
I fatti di Tienamen e il socialismo di mercato

34. Lo sviluppo economico dell'Asia


Introduzione
L’India
Il Giappone
Le Tigri asiatiche
Le conseguenze per il futuro

35. La crisi del sistema sovietico e la caduta del muro di Berlino Elaborato non pervenuto

36. Conflitti in Medio Oriente


Il Sionismo
Dagli accordi Sykes-Picot alla dichiarazione Balfour
La Risoluzione 181 e la guerra del 1948-49
Crisi di suez-1956
OLP e la guerra dei 6 giorni
Dalla guerra di Kippur alle intifada
Dall’accordo di Oslo alla Jihad

7
La situazione nel terzo millennio

37. Globalizzazione e rivoluzione informatica, andamento demografico,


sviluppo diseguale, migrazioni di massa, cambiamento climatico,
cittadinanza globale Elaborato non pervenuto

38. Leggere e valutare le diverse fonti, prospettive e interpretazioni


storiografiche

8
1. Egitto, civiltà mesopotamiche e fenici

CIVILTÀ EGIZIA
- Fiume Nilo T inondazioni T strati di limo = fertilizzante
- Egiziani = stirpe camitica:
o Insieme vasto ed eterogeneo di popolazioni africane accomunate dalla pratica
dell’allevamento e dalla presenza di gerarchie sociali definite
o Si supponeva che questi gruppi fossero giunti dal Caucaso e avessero avuto un ruolo
centrale nella civilizzazione e nella diffusione delle istituzioni politiche in buona
parte dell’Africa
o La maggior parte delle popolazioni dell'Africa settentrionale (dalla costa al Sūdān) e
orientale (dall'Egitto all'Etiopia e Somalia) appaiono collegate da nessi etnici e
linguistici e sono state raggruppate sotto il nome di Camiti (da Cam la cui
discendenza, quale essa ci appare dalla famosa tavola dei popoli nel cap. X del
Genesi, comprende molte di tali popolazioni)
- 2a metà IV millennio T paese diviso in due Stati monarchici:
o Alto Egitto (sud)
o Basso Egitto (nord)

9
Antico Regno: Medio Regno: Nuovo Regno:
2850 – 2200 a.C. 2050 – 1750 a.C. 1570 –
1085
a.C.
Età delle piramidi faraoni: Ripresa economica/politica Faraone Tutmosi
Cheope, Chefren, Micerino III:
Vicino Oriente generi di lusso es. assoggettamento
Declino: impiego manodopera legname di cedro Libano/oro Nubia Fenicia, Palestina,
in opere pubbliche  Siria
manodopera sottratta Faraone Sesostris I riforma
all’agricoltura crisi amministrativa risanare bilancio statale Costruzioni
economica funerarie della
Decadenza del potere centrale + invasione Valle dei Re
Disordine PRINCIPI DI tribù asiatiche Hyksos situazione di
TEBE: ristabiliscono unica disordine PRINCIPI DI TEBE: sono di
sovranità su tutto il Regno nuovo i fautori della ripresa egiziana

NB: le datazioni relative ai tre periodi storici dell’antico Egitto sono approssimative e variano da
fonte a fonte

- Potere assoluto = nelle mani del Faraone T organizzazione fortemente accentrata T non
esiste la proprietà privata
- Contadini/operai/soldati: no salario T lo Stato provvede direttamente al loro sostentamento
o Gli agricoltori non possono disporre del raccolto perché le terre sono di proprietà del
faraone/casta sacerdotale
- Società piramidale T caste chiuse
o Sacerdoti
o Classe militare
o Scribi (grande importanza)
- Religione:
o Teriomorfico = conserva accanto agli dei (che hanno sembianze umane) divinità
animali
o Osiri = fertilità della Terra T faraone = figlio di Osiri
o Culto di Ammon T semimonoteismo T culti teriomorfici + naturalistici + Ammon
(punto più alto della gerarchia religiosa ufficiale)
- Arte T opere architettoniche:
o Piramidi T nella fase “classica” della civiltà egiziana (IV-V dinastia) vengono
erette le piramidi più grandiose (es. a Cheope o a Gaza)
o Costruzioni tombali T le più antiche hanno struttura a gradoni che ricorda le
Ziqqurat mesopotamiche

10
o Forma edifici funebri tendenti verso l’alto e orientati verso i punti cardinali x
rispecchiare il carattere divino del faraone

MESOPOTAMIA = terra tra i fiumi


- Nascono alcune tra le più significative civiltà del Mediterraneo
- Si alternano popoli diversi provenienti da zone desertiche dell’Arabia e dell’Altopiano
iranico
- Cause continuo stanziamento T fertilità del suolo grazie a piene di Tigri ed Eufrate

SUMERI
- III millennio
- Ogni città = piccolo stato indipendente e aveva come capo un re (anche giudice e sacerdote)
T città definite città-stato (importanti centri: Ur, Uruk e Lagash)
- Idee religiose rigide

11
- Le arti e i mestieri sono doni degli dei
- Necessità vita economica T nascita aritmetica (posizione della cifra = base nostro sistema
decimale) + astronomia + geometria T architettura
- Religione:
o An (cielo) = divinità principale
o Enlil = presiede i temporali
o Niu-Khursag = dea della terra
o Enki = dio delle acque/fertilità/attività intellettuale
- Templi – ziggurat = edifici a base quadrata, formati da piani sempre più ristretti T
all’interno si officiavano i riti religiosi
- Religione = aspetto unificante della civiltà cui facevano capo le diverse città
- A capo di ogni città vi era un re chiamato lugàl (grande uomo) o ènsi (governatore):
o Considerato rappresentante di Dio in terra, inviato per la sicurezza e l’ordine del
Paese
o Funzione di “gran Sacerdote”
- Società T tre classi sociali:
o Liberi (classe dominante di proprietari terrieri, funzionari, sacerdoti, ufficiali
militari)
o Semiliberi (coltivatori, operai, artigiani, commercianti, che godevano della libertà
ma non potevano possedere terre)
o Schiavi (persone di umile condizione, prigionieri, persone che avevano perduto la
libertà)
- La vita economica si basava sull’agricoltura, sull’artigianato e sul commercio.

12
ACCADI
- Unificazione città-stato Sumeri T III millennio – Sargon (re degli Accadi)
- 2350 a.C. T serie di fortunate imprese militari T nuova capitale = Accad
- Dinastia sargonoide T dura 4 generazioni = primo esempio di Stato organizzato su una
burocrazia centralizzata (dispotismo orientale) T vastità = fragilità
- Rinascita sumera T breve durata
- 2000 a.C.:
o Ur viene distrutta dagli Elamiti
o Amorrei hanno il sopravvento sugli altri popoli T capitale = Babil (Babilonia)

BABILONESI
- 2000 a.C. T popolo proveniente dalla Siria entrò in Mesopotamia e si stabilì a Babilonia
(città sulle rive dell’Eufrate)
- 1790 a.C. diventò re della città Hammurabi:
o In circa trent’anni conquistò intera Mesopotamia
o 1700 a.C. T Sovrano illuminato
o Ricostruire un impero in Mesopotamia = coalizione tra le città lungo Tigri e Eufrate
o Unificazione Impero sotto profilo giuridico e amministrativo T codice di
Hammurabi

13
- Società babilonese T classi:
o Re;
o Sacerdoti T conoscitori del cielo astri + fondatori astronomia e astrologia
o Ricchi mercanti e i proprietari terrieri
o Contadini, gli artigiani e i piccoli commercianti
o Schiavi.
- Babilonesi T politeisti T ereditano dai Sumeri le tecniche di costruzione della ziqqurat
- Dopo 1500 a.C. regno babilonese invaso da Assiri

ASSIRI
- Valle del Tigri T inizio ascesa economica degli Assiri
- Mercanti che scambiano il rame e lo stagno dell’Anatolia
- Fondano capitale Assur (circa 2000 a.C.)
- Dopo 2000 a.C. T politica espansionistica
- 1800 a.C. T re Assur controlla Alta Mesopotamia
- Società:
o Carattere militare (esercito organizzato)
o Classe contadini
o Classe esercito

14
o Classe sacerdoti
o Re
- Impongono tributi a tutti i popoli conquistati T le guerre di conquista sottraggono
manodopera al paese
- Espansione assira è opera di 4 re T controllo vie commerciali tra Mediterraneo e
Mesopotamia
- 700 a.C. fondata Ninive T sede di una grande biblioteca composta da tavolette di argilla
- Spietata energia T continua ribellione
- Fine VII secolo = decadenza T 612 a.C. Caldei e Medi distruggono Ninive

SECONDO IMPERO BABILONESE


- Dal 600 a.C. però il re babilonese Nabucodonosor riuscì a conquistare tutta la Mesopotamia
e il suo regno rappresentò il massimo splendore dell’impero babilonese.
o Sulle rovine impero assiro T nuova potenza babilonese T apice con
Nabucodonosor:
 Riunificare Mesopotamia x un breve periodo
 Cattività babilonese degli Ebrei = assoggetta Siria e distrugge Gerusalemme
e deporta gli abitanti a Babilonia
 Realizza opere pubbliche:

15
 Giardini pensili
 Palazzo reale di Babilonia
 Rispristina gli antichi culti
- La casta sacerdotale del dio Marduk T molto potente T supremazia sul re T
indebolimento Stato T 538 a.C. soccombe alla potenza persiana = re Ciro riduce la
Mesopotamia ad una provincia del suo impero

CIVILTÀ DI EBLA
- 3000-2250 a.C. T Ebla = a sud di Aleppo
- Rinvenute tavolette contenenti documenti che costituivano l’archivio di Stato T scrittura
cuneiforme
- Era il centro di un regno molto esteso già nel 2400 a.C.
- Rapido sviluppo deriva:
o Dall’eccellente posizione geografica
o Dalla florida agricoltura
o Dall’artigianato T settore tessile
- Prestigio economico T si riflette nell’organizzazione sociale T donna gode di
considerazione (insolito)

SCRITTURA
- Nasce con le città T società urbana basata su scambi T necessità di forma di
comunicazione più duratura del linguaggio verbale + essere trasmissibile in luoghi lontani
- Pittografica
o Tracce in Mesopotamia
o Sacerdoti sumeri registravano su tavolette di argilla le merci consegnate al tempio
tracciando con una canna appuntita dei segni analogici
o Svantaggi:
 Richiede l’introduzione di numerosi segni
 Non poter rappresentare i concetti astratti
- Logografica
o Formata da simboli che esprimono parole e non più cose
o Vantaggio: riduce il numero dei simboli perché basta variare la combinazione degli
elementi x ottenere significati diversi
- Sillabica T riduce ulteriormente il numero dei simboli
- Cuneiforme
o Ogni sillaba viene identificata con un piccolo segno a forma di cuneo che si può
ripetere e disporre in modi diversi x rappresentare una grande varietà di concetti
o Anello di congiunzione tra gli antichi pittogrammi e l’ALFABETO introdotto più
tardi dai Fenici

FENICI
- Da phoinix (porpora) T caratteristico colore rosso con cui i Fenici tingevano i tessuti

16
- In origine chiamati Cananei
- Popolazione che si stanzia nell’odierno Libano nel 3000 a.C.
- Posizione delle città a ridosso del mare rende impossibile la formazione di un organismo
politico su base nazionale T si costituiscono le città-stato
o Governate da un re
o Caratterizzate da un’organizzazione “democratica” T il sovrano è coadiuvato dai
sacerdoti e dal Consiglio degli anziani
- I contrasti interni si risolvono con la fondazione di colonie
- Espansione nel Mediterraneo XII sec:
o 1100 a.C. T insediamenti a Utica – Cadice
o IX sec a.C. T insediamenti a Malta – Cipro – Sardegna
o VII sec a.C. T insediamenti in Sicilia
- Colonie sono soprattutto scali marittimi T ampliare la rete di commerci
- 600 a.C. T circumnavigano l’Africa
- 450 a.C. T raggiungono Irlanda
- NB: x garantire prosperità T città evitano di partecipare alle guerre T si sottomettono al
vincitore e riscattano il loro diritto al libero commercio pagando il tributo richiesto

EBREI
Gli Ebrei in origine erano un gruppo di tribù nomadi di lingua semita provenienti dalla
Mesopotamia stanziatisi, sin dal XVIII secolo a.C., in Palestina, nella parte meridionale della Terra

17
di Canaan.

Per ricostruire la storia delle origini della civiltà ebraica si fa riferimento ad un libro sacro, la
Bibbia. La Bibbia consiste in un insieme di testi scritti fra il VII e il II secolo a.C. e costituisce un
elemento essenziale dell’identità del popolo ebraico. È necessario puntualizzare che la Bibbia,
nonostante conservi il ricordo di episodi realmente accaduti, non è da considerare come fonte
puramente storica. Nessun libro sacro può assumere valore storico, perché la finalità di un testo
sacro non consiste nella verità storica delle vicende narrate, ma nel trarne un significato religioso.
Pertanto, le ricerche sulla civiltà ebraica antica si avvalgono di informazioni ricavate dalla Bibbia,
ma confrontate e integrate con altre fonti e con la ricerca archeologica.

Secondo il racconto biblico, gli ebrei furono guidati da Abramo verso le colline della Palestina,
luogo in cui Dio (YHWH), rivelatosi al patriarca come unico vero Dio, strinse un’alleanza con il
popolo ebraico, promettendogli la sua protezione e il possesso della Palestina, la Terra d’Israele.
Verso il XVII-XVI secolo a.C. gli ebrei migrarono in Egitto, polo di attrazione per le sue ricchezze
agricole. Qui rimasero fino a quando caddero in stato di schiavitù e vennero perseguitati da più
faraoni, tra cui probabilmente Rames II, che li indussero ad abbandonare il paese. Si tratta del
biblico Esodo dall’Egitto, guidato da Mosè, che storicamente si colloca intorno al 1250 a.C..

Nel corso del XII secolo a.C. gli ebrei si stabilirono definitivamente in Palestina, scontrandosi con
le popolazioni locali. Fino a questo momento gli ebrei erano rimasti dei pastori nomadi; ora si
organizzarono in villaggi e piccole unità, pure senza dare vita ad un’organizzazione politica
unitaria. La Bibbia chiama questo periodo “età dei giudici”, perché le 12 tribù in cui era diviso il
popolo ebraico erano governate da un giudice.

Allo scopo di rafforzare la propria unità, intorno al 1020 a.C.: le 12 tribù confluirono in uno stato
unitario, con il primo re Saul, iniziatore di una monarchia unitaria ebraica.

Il successore di Saul, Davide, dovette scontrarsi con la popolazione locale dei filistei, riuscendo ad
ottenere un’importante vittoria politica e morale. I confini del suo regno si ingrandirono
notevolmente, fino ad inglobare Gerusalemme, divenuta poi la capitale.

R e Salomone, figlio e successore di Davide, si dedicò all’organizzazione dello Stato, favorì lo


sviluppo dei traffici commerciali, costruì il Tempio di Gerusalemme. Alla morte del re,
probabilmente a causa dell’elevata tassazione imposta nel corso del suo regno, lo stato si divise in
due: a nord il Regno di Israele (con capitale Samaria), a sud il Regno di Giuda (con capitale
Gerusalemme). Il Regno di Israele decadde rapidamente, fu devastato e ridotto a provincia dagli
assiri; il regno di Giuda resistette fino al VI secolo a.C., per poi decadere a causa delle campagne di
espansione babilonesi. Nel 586 a.C. I babilonesi, guidati dal re Nabucodonosor II, distrussero
Gerusalemme e incendiarono il Tempio, deportando l’intera popolazione giudaica a Babilonia. È il
periodo della cattività babilonese, una fase storica breve, ma di grande importanza per gli ebrei,
durante la quale la loro identità culturale e religiosa si consolidò definitivamente.
Nel 539 a.C., sotto il nuovo impero del re persiano Ciro il Grande, gli ebrei deportati a Babilonia

18
poterono ritornare in Palestina. Ciro consentì la ricostruzione del Tempio, ma in Palestina non
rinacque più un Regno ebraico.

LE POPOLAZIONI INDOEUROPEE
Nel II millennio a.C. l’area del Mediterraneo orientale e il Vicino Oriente furono interessati da
grandi migrazioni di popolazioni nomadi o seminomadi provenienti dagli altopiani dell’Asia
centrale e dalle steppe meridionali della Russia (area euro-asiatica) e interessate. Tali popolazioni
erano accomunate esclusivamente dalle lingue parlare, appartenenti tutte a uno stesso ceppo
chiamato indoeuropeo.

Queste popolazioni (tra cui ricordiamo gli hittiti, gli achei e i cosiddetti popoli del mare) avevano
un livello di sviluppo piuttosto basso: non erano organizzate in città e praticavano un’agricoltura
elementare; si servivano del cavallo, che, unito a una grande abilità nel tiro con l’arco, ne faceva dei
guerrieri temibili.

Gli Hittiti
Gli Hittiti (o Ittiti) sono la prima civiltà indoeuropea di cui abbiamo avuto notizie. Le fonti sono
però piuttosto scarse e il loro reperimento e studio è piuttosto recente. Nel 1906, l'archeologo
tedesco Hugo Winckler riportò alla luce i resti della città di Hattusas, capitale dell'impero ittita, e
alcune tavolette di argilla che facevano parte dell'archivio di stato, contenenti lettere e atti di
politica interna ed estera.

Gli Hittiti, provenienti dal Caucaso, si stanziarono verso il 2000 a.C. in Anatolia e diedero vita nel
corso di tre secoli ad un’evoluta civiltà urbana.

Dal punto di vista dell'organizzazione politica quella degli Ittiti era una monarchia elettiva. Il re,
infatti, veniva eletto da un'assemblea (Pankus) composta dai membri dell’aristocrazia guerriera. A
differenza dei faraoni egiziani, il sovrano hittita non aveva carattere divino; i membri del Pankus,
infatti, affiancavano il re nella gestione del potere per tutta la durata del suo regno.

La loro economia si basava sull’agricoltura e sullo sfruttamento delle risorse minerarie della
regione. In particolare, il nome degli hittiti resta legato all’abile lavorazione del ferro che,
riscaldato, modellato e subito immerso nell’acqua diventava resistentissimo.

Dall’Anatolia, gli hittiti iniziarono un movimento di espansione verso le pianure mesopotamiche,


che li portò a costruire un vasto dominio grazie all’utilizzo del carro da guerra, sconosciuto ai
popoli del Vicino Oriente. Nel 1595 a.C. una spedizione hittita raggiunse e saccheggiò la lontana
Babilonia.

Il regno hittita diventò un impero e raggiunse la massima espansione nel XIV secolo a.C., quando
comprese la Mesopotamia settentrionale, la Siria e i Libano.

La saldezza dell’impero cominciò a incrinarsi a causa delle rivendicazioni di maggiore autonomia

19
da parte dell’aristocrazia. Intorno al 1200 a.C. l’impero crollò definitivamente non riuscendo ad
opporsi all’attacco dei frigi, uno dei “popoli del mare”.

I popoli del mare


I popoli del mare sono un insieme di popolazioni indoeuropee, di provenienza non chiarita, che
attaccarono in vari punti l’oriente Mediterraneo nel XIII-XII secolo a.C. Il nome deriva dalle fonti
egizie, ma non significa che tutte queste popolazioni si muovevano via mare.

Le fonti antiche più importanti nelle quali vengono citati i Popoli del Mare sono l’Obelisco di
Biblo, databile tra il 2000 e il 1700 a.C., le Lettere di Amarna, la Stele di Tanis e le iscrizioni del
faraone Merenptah. Tra le popolazioni citate nelle iscrizioni antiche, le più intriganti sono
certamente i Lukka, gli Shardana, i Šekeleš e i Danuna.

Achei (Micenei)
Verso il 2000 a.C. i popoli indoeuropei si diressero verso la penisola greca, in particolare verso il
Peloponneso, e, fondendosi con le popolazioni locali, diedero vita alla civiltà achea. Gli Achei
fondarono una serie di piccoli regni, ognuno centrato su una roccaforte, il più potente dei quali era
quello di Micene (da qui il nome micenei). Le principali città costruite dai Micenei, oltre Micene,
furono Tirinto, Pilo, Tebe e Atene.

Pochi secoli dopo il loro insediamento, da rozzi pastori diventarono esperti navigatori e
commercianti, strappando ai cretesi (allo studio dei quali sarà dedicato il prossimo capitolo) il
dominio sull’Egeo.

La civiltà micenea era una civiltà palaziale, cioè aveva nel palazzo reale il centro politico e
amministrativo. Le rocche micenee erano poste su alture difese da mura poderose, segno evidente di
una civiltà guerriera. All’interno delle mura, oltre al palazzo sorgevano i templi, le residenze dei
funzionari del re, i magazzini e le abitazioni dei servi.

La società micenea era centralizzata e gerarchica. Al vertice c’era il re chiamato vanax, con
funzioni politiche, amministrative e religiose e affincato dal lavagetas, il comandante dell’esercito;
veniva poi il ceto dell’aristocrazia guerriera (lavos), i nobili armati che erano anche proprietari
guerrieri; di seguito vi era il dàmos, ceto sociale che raggruppava numerose figure, dai funzionari
agli artigiani, dai commercianti ai contadini; il gradino più basso della scala sociale era occupato dai
lavoratori in condizione servile.

La religione micenea era antropomorfa: gli dei che vivevano sull’Olimpo erano rappresentati come
uomini e avevano i loro stessi vizi e virtù. Gli eroi erano glorificati come semidei.
La civiltà micenea decadde tra il 1200 e il 1100 a.C. La causa principale è stata individuata
nell’arrivo in Grecia dei dori, una popolazione bellicosa proveniente da nord.

CRETESI
Per civiltà cretese si intende la civiltà che si sviluppò nell'isola di Creta tra il 2000 e il 1400 a.C. In

20
questo periodo i Cretesi furono il popolo più potente del Mar Egeo. La civiltà cretese è anche
chiamata minoica, in riferimento al re Minosse, protagonista di un famoso mito più tardi rielaborato
dai greci.
Creta fu una civiltà urbana e palaziale. Le più importanti città cretesi – Cnosso, Festo, Mallia – si
svilupparono intorno ad un palazzo reale, centro del potere politico, religioso ed economico e dotato
di sale di rappresentanza, uffici amministrativi, luighi adibiti al culto, spazi per giochi e spettacoli,
frantoi e officine. La civiltà minoica era una civiltà pacifica, non sono stati trovati resti di
fortificazioni né intorno ai palazzi né altrove. Anche le pitture parietali dei palazzi e le ceramiche
non raffigurano scene di guerra o di vittorie militari.

La società cretese era organizzata in diverse classi, a cui capo vi era la figura del re, chiamato minos
(da cui deriva probabilmente il nome di Minosse), al di sotto del quale vie erano i sacerdoti e
l’aristocrazia e infine la classe dei lavoratori di vario tipo.

Creta conobbe tre forme di scrittura. La prima i cui reperti più antichi risalgono al 1900 a.C. era di
tipo geroglifico-pittografico; seguì, verso il 1700 a.C., una scrittura sillabica integrata con segni
ideografici, la cosiddetta lineare A. queste scritture non sono ancora state decifrate. Dal 1450 a.C.
in avanti molte tavolette cretesi risultano incise nella cosiddetta lineare B, che è stata decifrata e
che costituisce il primo esempio di scrittura greca: siamo infatti nel periodo in cui Creta cadde sotto
il dominio degli achei, popolo proveniente dalla penisola greca.

La religione cretese era fondata sul concetto di fecondità e su una forte aspirazione alla vita
ultraterrena. Ebbe grande importanza il culto di divinità femminili come la grande dea madre
della fertilità legata ai cicli di riproduzione e nascita di piante, animali ed esseri umani; più tardi i
greci la chiameranno Gae, la madre di Zeus. Le divinità cretesi erano collegate a elementi naturali
come grotte, alberi, animali… fra questi rivestì grande importanza il toro, che ritroviamo sia nel
mito del Minotauro sia nel gioco rituale della tauromachia, durante il quale i giovani di ambo i sessi
si esibiscono in acrobatici volteggi prima di decapitare, a fine sacrificale, il toro con una scure a
doppio taglio.

La storia di Creta conobbe un evento catastrofico. Intorno al 1600 a.C. l’isola vulcanica di Thera
(oggi Santorini) venne sconvolta da una spaventosa eruzione, che fece sprofondare parte dell’isola
nel mare. Dopo di essa Creta e il suo dominio commerciale nell’Egeo decaddero.

Bibliografia

Amerini, Zanette, Tincati, Dell’Acqua, LIMES-Corso di Storia e Geografia 1, Pearson Italia,


Milano-Torino, 2014

Italiano, storia, geografia e discipline letterarie, Manuale disciplinare per la preparazione ai


concorsi a cattedra, Edizioni Simone, Napoli, 2020

21
Tutto storia, De Agostini, 2017

G. Solfaroli Camillocci, M. Angioni, C. Vinassa, Io nella storia antica, edizione bianca, SEI

Sitografia

https://www.mappe-scuola.com/posts/preistoria-verifica.php

https://www.treccani.it/enciclopedia/camiti/

https://www.treccani.it/enciclopedia/camiti_%28Enciclopedia-Italiana%29/

http://storiafacile.net/

http://geostoria.weebly.com/

http://blogdidattico.it/
2. Cina e India antiche

CINA

Quasi tutti i più antichi stanziamenti neolitici della Cina (IV millennio a.C.) si trovano lungo lo
Huang He (detto anche Huang Ho), il Fiume Giallo, dove si installarono le prime comunità agricole
e dove sorse, nel II millennio a. C., la dinastia Xia, poi nel 1600 a.C., la civiltà della dinastia
Shang, la prima civiltà storica cinese. Questa dinastia aveva imposto il proprio dominio sulla Cina
settentrionale, costituendo un regno nel quale il sovrano, dotato soprattutto di poteri militari e
religiosi, regnava con la collaborazione di governatori locali, che ricevevano tributi dai contadini.

LA DINASTIA SHANG
Durante la dinastia Shang si era già raggiunto un alto livello tecnologico nella lavorazione del
bronzo, utilizzato per le armi dell’aristocrazia, la cui superiorità si basava sul fatto che solo essa
poteva utilizzare armi di questo metallo.

Proprio grazie al monopolio dell’uso del bronzo, i sovrani e l’aristocrazia guerriera poterono
garantirsi a lungo notevoli vantaggi economici, oltre che un’indiscussa supremazia mentre le masse
contadine erano in posizione di totale sudditanza.

LE PRIME FORME RELIGIOSE


Il sacerdote era ritenuto capace di interpretare la volontà divina e di fare predizioni; lo stesso valeva
per il re. Ecco perché molti studiosi ritengono che la monarchia Shang avesse connotazioni sacrali.
Molti testi oracolari riportano richieste di fedeli relative alle offerte in onore degli antenati e questo
lascia supporre che il culto degli antenati fosse un aspetto importante della religione cinese di

22
questo periodo.

LA DINASTIA CHOU
Nel corso dell’XI sec a.C., la dinastia Shang scomparve per lasciare il posto a un nuovo popolo: i
Chou o Zhou.

I Chou governavano le regioni settentrionali della Cina e diedero vita a uno Stato dotato di
caratteristiche feudali simili a quelle che si sarebbero manifestate in Europa molti secoli dopo. Il re
dava le terre migliori in concessione ai nobili in cambio della loro fedeltà, e questi, a poco a poco,
finirono per esercitare sui territori loro assegnati un potere non solo economico ma anche politico e
militare. I grandi feudatari potevano a loro volta assegnare a feudatari minori una parte dei terreni,
in cambio di tributi, fedeltà e aiuto in caso di bisogno. La popolazione contadina era vincolata alla
terra che lavorava e al potere del feudatario locale. All’inizio dell’VIII sec a.C. ci fu un’avanzata
dei popoli nomadi provenienti dalle steppe occidentali che costrinse i sovrani della dinastia Chou a
spostare verso oriente la capitale. Mutò anche l’organizzazione feudale tradizionale: si allentarono i
legami di fedeltà del feudatario nei confronti del sovrano e i feudi divennero ereditari. Il potere dei
sovrani era decisamente indebolito.

IL PERIODO DEGLI STATI COMBATTENTI


In seguito all’indebolimento dei Chou, iniziò il periodo detto “degli Stati combattenti”,
caratterizzato dai frequenti scontri tra feudatari che cercavano di conquistare la supremazia,
aumentando la propria potenza ed estendendo i confini territoriali dei loro piccoli “regni” a scapito
di altri feudatari. L’epoca degli “Stati combattenti” durò dal V al III sec a. C. In questo periodo si
verificarono molte trasformazioni economiche e sociali: i sovrani, per guadagnarsi l’appoggio delle
masse, favorirono lo sfruttamento di terre nuove, stimolarono l’artigianato e i commerci, diffusero
l’uso della moneta coniata e contribuirono a far aumentare l’importanza delle città come centri
economici e amministrativi. In questo periodo fiorirono le scuole filosofiche più importanti come il
confucianesimo, il taoismo e il legismo dando vita alle Cento scuole di pensiero.

CON L’AFFERMAZIONE DELLA DINASTIA CH’IN SI COSTITUISCE UNO STATO


UNITARIO
L’epoca degli “Stati combattenti” si concluse con l’affermazione della supremazia del regno Ch’in
(da cui deriva il nome Cina) con una struttura più centralizzata e autoritaria. Il sovrano Ch’in, che
prese il titolo di Shih Huang-Ti, “primo augusto sovrano” (221 a.C.) unificò politicamente e
culturalmente gli Stati conquistati e li inserì all’interno di un organismo nazionale omogeneo. I suoi
metodi furono spesso brutali: deportò intere popolazioni e le trasferì in altre regioni. Divise il
territorio in 36 distretti all’interno di ognuno dei quali furono poste tre autorità (un amministratore
civile, un governatore militare e un ispettore) che si controllavano a vicenda. Inoltre, per contenere
la pressione dei popoli barbari provenienti dalle steppe settentrionali, (i Mongoli) fu deciso di
collegare le fortificazioni esistenti e nel 215 a.C. vennero deportate e costrette ai lavori forzati,
centinaia di migliaia di persona, specialmente contadini, per portare a termine la costruzione del
primo blocco della Grande Muraglia. Infine, vennero uniformati i sistemi di scrittura, la moneta le

23
misure di peso e di lunghezza. Un governo così autoritario provocò aspre resistenze, di cui si fecero
portavoce gli intellettuali: con un editto, nel 213 a.C., Shih Huang-Ti ordinò il rogo dei libri.

Dopo la morte del sovrano, la dinastia restò al potere per pochi anni travagliata da guerre e rivolte
interne. Nel 202 a.C., un contadino di nome Liu Bang, al comando di un esercito di rivoltosi, si
impadronì del potere e fondò la dinastia Han, che avrebbe governato fino al 220 d.C.

L’IMPORTANZA DELLA LEGGE SCRITTA: I LEGISTI


La dottrina filosofica che ebbe maggiore influenza sulle strutture politiche, giuridiche ed
economiche dei sovrani Ch’in fu quella dei legisti. I seguaci di questa corrente attribuivano grande
importanza alla legge scritta, uguale per tutti. L’interesse di questi pensatori era rivolto ai problemi
della collettività e della gestione del potere. Molti dei loro scritti trattano di questioni economiche,
fiscali e militari (suggeriscono una politica estera aggressiva allo scopo di rafforzare i confini). Le
teorie dei legisti trovarono un’incondizionata adesione da parte dei sovrani Ch’in, impegnati nella
difficile opera di consolidamento dell’impero.

CONFUCIO E IL CULTO DEGLI ANTICHI


La civiltà cinese aveva un gran rispetto per il proprio passato e per le tradizioni antiche. Questa
mentalità trovò piena espressione nel pensiero di Confucio (551-479 a.C.).

Il regno dei primi imperatori Zhou (tra il X e l’VIII sec. A.C.) era considerato come una forma di
governo perfetta, ispirata alla virtù, alla giustizia e alla corretta amministrazione. La morale
confuciana concepiva la società a immagine della famiglia, per cui l’imperatore veniva definito
“padre-madre” dei suoi sudditi. L’obbedienza e il rispetto che venivano prescritti per i rapporti
familiari dovevano regolare anche quelli pubblici. L’educazione dei giovani doveva contribuire al
miglioramento della società.

Secondo Confucio, lo strumento per elevarsi dal rango di uomo comune a uomo superiore era lo
studio che consentiva di assimilare i valori e le scrupolose regole di comportamento dettate dalla
cultura tradizionale. Pur essendo un maestro di vita e non un capo religioso, Confucio influenzò
anche la religione.

Dopo la sua morte, il confucianesimo divenne la dottrina dei funzionari dell’impero. Infatti, dopo
un lungo e severissimo tirocinio di studi sui testi della scuola confuciana, essi venivano reclutati
attraverso un esame di stato molto selettivo. Questo sistema fu abolito nel 1911, quando finì il
millenario impero cinese.

IL TAOISMO
Il taoismo fu il movimento fondato dal filosofo Lao-tzu, “vecchio maestro”, vissuto tra il VI e il V
sec a.C..

Lao-tzu, a differenza di Confucio che credeva nell’opera dello Stato, della famiglia e
dell’educazione per migliorare la società, proponeva l’abbandono della vita sociale per raggiungere

24
una più profonda armonia con il principio supremo (il Tao), cioè l’ordine cosmico. La via che
conduceva a questo obiettivo era il “non fare” cioè sottrarsi a ogni impegno politico e a ogni attività
che mirasse al successo o al guadagno, e vivere una vita libera da falsi scopi e in accordo con la
natura. Il taoismo, oltre che una scuola di pensiero, fu anche un insieme di pratiche religiose e
magiche.

In conclusione, il taoismo ebbe scarso seguito tra le classi dirigenti, legate al confucianesimo, ma
una profonda influenza su diversi settori della società cinese. L’opposizione al confucianesimo fece
del taoismo l’ispiratore di molte rivolte contadine antimperiali.

INDIA

RELIGIONE, CULTURA E SOCIETA' DELL'INDIA ANTICA

In Asia, sulle montagne dell’Himalaya, nascono due grandi fiumi, l’Indo e il Gange che hanno
creato due vastissime pianure alluvionali. Nel III millennio a. C. la pianura del Gange che attraversa
l’india nord-orientale, era coperta da una fittissima foresta equatoriale, sfavorevole agli
insediamenti umani. Il fiume Indo, invece, scorreva nelle regioni aride dell’India occidentale,
l’attuale Pakistan, e con le sue inondazioni periodiche creava un ambiente simile a quello della
Mesopotamia e della Valle del Nilo. La valle dell’indo era però molto più estesa essendo lunga ben
3000 km e larga circa 200.

Inizialmente venne abitata da popolazioni raccolte in


villaggi situati sulle colline. Ma sulla loro origine
sappiamo ben poco: erano probabilmente i progenitori
dei Dravida, popolazione che attualmente vive nell’India meridionale.

Nella valle dell’Indo, la prima civiltà urbana si sviluppò tra il 2500 e il 1700 a.C..

CIVILTA’ DI HARAPPA

Questa civiltà fluviale prende il nome dalla civiltà


di Harappa, la prima che fu scoperta. Attualmente
si conoscono numerosi centri abitati tra i quali
Mohenjo-Daro, Lothal, e Rupar

25
Fin dalle sue origini, la civiltà Harappa ebbe stretti rapporti commerciali con le città sumere, dalle
quali apprese le tecniche agricole. Anche qui, infatti, l’agricoltura si sviluppò grazie al controllo
delle piene del fiume per mezzo di un sistema di canali. Si seminavano orzo e grano in primavera e
cotone in autunno. Grazie all’abbondanza di legname, si costruirono imbarcazioni più solide e
furono sfruttati i monsoni per gli scambi marittimi con le città mesopotamiche. La civiltà harappa
utilizzò un sistema di pesi e di misure uniforme in tutto il territorio, ed ebbe una propria scrittura
pittografica. Nella società harappa esisteva un sistema di accentramento e di retribuzione delle
risorse agricole simile a quello presente in Mesopotamia e in Egitto. Le città erano divise in due
parti: la più elevata era occupata da fortificazioni difensive, da edifici destinati a usi collettivi e da
grandi magazzini. La parte restante della città, occupata dai laboratori degli artigiani e dalle
abitazioni, era suddivisa in quartieri molto ordinati, disposti a scacchiera. Provvisti di rete fognaria
e di condutture d’acqua. Questo tipo di pianificazione dello spazio urbano sembra doversi attribuire
a un’autorità centrale, forse un re-sacerdote. Invece l’assenza di grandi templi fa pensare che la
civiltà dell’Indo fosse piuttosto egualitaria, senza enormi differenze sociali. Sul sistema politico,
non si sa quasi nulla, e nemmeno sulle ragioni della loro scomparsa avvenuta attorno al 1800 a. C.
Le città furono abbandonate e si tornò a una società di villaggi agricoli e pastorali.

GLI ARII

Nella seconda metà del II millennio a. C., tribù guerriere provenienti dalle steppe centro-asiatiche
penetrarono gradualmente nella valle dell’Indo, poi successivamente in tutta l’India settentrionale e
sottomisero le popolazioni indigene.

Furono chiamati Arii (i nobili) ed erano di lingua indoeuropea.

Per conservare la loro identità, gli Arii imposero una divisione della società in gruppi chiusi e
gerarchicamente ordinati: le caste, considerate di origine divina e perciò immutabili.

Le caste, con il tempo, divennero numerosissime, ma le più importanti rimasero quattro, tutte
riservate agli Arii. Le prime due erano la casta dei sacerdoti e quella dei guerrieri; seguiva la casta
dei mercanti e artigiani. L’ultima è quella dei contadini. Ogni casta doveva seguire sue particolari
norme di comportamento. In fondo a questa gerarchia c’erano i “fuori casta” detti paria o
intoccabili: ogni contatto con loro contaminava i membri delle altre caste. In origine i paria erano
indigeni assoggettati dagli Arii. Queste descrizioni sono contenute nei Veda, poemi e testi sacri di
vario tipo, che sono le uniche fonte scritte sul primo periodo degli Arii in India.

A partire dal V sec a.C., il centro della civiltà indiana si spostò verso il bacino del Gange. Qui, nel

26
IV sec a.C. si affermò il regno della dinastia Maurya che durò circa un secolo. Poi l’India tornò a
dividersi in regni e principati indipendenti. Era infatti difficile mantenere l’unità politica della
penisola indiana, così vasta e con una grandissima varietà di ambienti, etnie, lingue e culture. I
rapporti commerciali con la Mesopotamia e il Mediterraneo continuarono nonostante le alterne
vicende politiche.

INDUISMO E BUDDISMO

L’India antica è la culla di due grandi religioni: l’induismo e il buddismo. I Veda sono la fonte
principale per conoscere l’originaria religione degli Arii. Le più importanti divinità vediche erano
Indra, Varuna e Mitra. A partire dall’VIII sec a.C., l’antica religione subì una profonda
trasformazione ad opera della più importante casta indiana, quella dei bramani o bramini, i sacerdoti
di Brahma. Il mondo degli dei venne infatti riordinato sulla base della triade Brahma, Shiva e
Vishnu. Brahma è il dio creatore che mantiene l’equilibrio tra la forza che tende a conservare
l’universo (il dio Vishnu) e la forza che tende a distruggerlo (Shiva). Brahma è il fondamento di
tutto ciò che esiste, quindi anche dell’anima di ciascun uomo. Il bramanesimo detto poi induismo
divenne espressione di una complessa spiritualità rivolta a valorizzare la contemplazione e il
distacco dal mondo. La realtà terrena è solo un’illusione. Le passioni procurano solo sofferenze.
L’esistenza è un continuo succedersi di trasformazioni dolorose che proseguono anche dopo la
morte. La vita è un continuo ciclo di successive morti e rinascite: l’anima si reincarna in altri corpi,
uomini o animali, secondo la condotta morale tenuta nelle vite precedenti. Per abbreviare la serie
delle reincarnazioni e raggiungere la beatitudine si deve passare attraverso un completo dominio del
corpo che si può ottenere con lunghe pratiche di meditazione e di purificazione. La teoria della
reincarnazione forniva una giustificazione religiosa alla divisione sociale in caste, perché secondo
questa teoria ciascuno nasceva nella casta che si era meritato in base al comportamento tenuto nella
vita precedente.

Tra il VI e il IV sec a.C., si diffuse una nuova corrente di spiritualità: il buddismo. Il fondatore è
Siddhartha Gautama, detto il Budda cioè l’Illuminato. Siddhartha (560-480 a.C.) era di nobile
famiglia ma da giovanissimo abbandonò il lusso e divenne un monaco errante, per sottrarsi alla
passione e ai desideri, considerati la radice della sofferenza umana. Buddha non proponeva però una
vita di assoluta rinuncia, ma una via intermedia, basata sulla meditazione, sul controllo delle
passioni e sulla rettitudine fino al raggiungimento del Nirvana, il “nulla”, cioè la serenità per
assenza del desiderio. Buddha rifiutava la divisione in caste e la gerarchia sacerdotale. Per questo
motivo preferì raccogliere i suoi discepoli in comunità di monaci mendicanti. Mentre il
bramanesimo era strettamente collegato alla struttura sociale dell’India e ai bramani, il buddismo
divenne un messaggio rivolto a tutti, dentro e fuori la società indiana e si diffuse maggiormente
nelle regioni vicine all’India, dal Tibet all’Asia orientale.

Bibliografia

27
Barberis C., Kohler R., Noseda E., Scovazzi M.P., Vigolini C., Geostoria 1, Milano, Gruppo
Editoriale Principato, 2016

Solfaroli Camillocci G., Grazioli C., Zambelli M., Ribetto B.M., Sapiens 1, Torino, Sei, 2019

28
3. LA CIVILTA' GRECA

SEZIONE V_CIVILTÀ GRECA_NOBILE..................................................................................................2


1.L'ETÀ BUIA....................................................................................................................................... 2
2.IL MONDO GRECO TRA VIII E VI SECOLO ................................................................................................... 3
2.1LA NASCITA DELLA PÓLIS............................................................................................................................ 3
2.2LA PÓLIS COME COMUNITÀ DI CITTADINI E CITTÀ FISICA....................................................................................... 4
2.3LE ISTITUZIONI DELLA PÓLIS ........................................................................................................................ 5
2.4STATO ETNICO E STATO FEDERALE................................................................................................................. 6
.LA CRISI DELLE ARISTOCRAZIE ................................................................................................................... 7
3.1OPLITISMO............................................................................................................................................. 7
3.2COLONIZZAZIONE..................................................................................................................................... 8
3.3LEGISLAZIONE....................................................................................................................................... 10
3.4TIRANNIDE........................................................................................................................................... 11
3.5LA NASCITA DELLA MONETA...................................................................................................................... 12
.SPARTA E ATENE IN ETÀ ACRAICA............................................................................................................ 13
4.1SPARTA............................................................................................................................................... 13
4.2ATENE................................................................................................................................................ 14
4.3LA TIRANNIDE AD ATENE.......................................................................................................................... 16
4.4CLISTENE............................................................................................................................................. 17

L'ETÀ BUIA

Il periodo compreso tra il XII e l'VIII secolo a.C. è stato considerato, per lungo tempo, una fase di
regressione, di calo demografico, di ristagno sociale e isolamento culturale per la Grecia tutta.

Quest'epoca è stata denominata da studiosi anglosassoni alla fine del XIX secolo, dark age, età buia,
al fine di sottolinearne l'oscurità, conseguenza questa della scarsità della documentazione
disponibile, ovvero dell'assenza di testimonianze scritte (la lineare B, nota ai Micenei, sembra
scomparsa, la scrittura ricomparirà nell'VIII secolo nella forma dell'alfabeto di origine fenicia),
cosicché per la ricostruzione assumono importanza fondamentale i dati archeologici. Per fare
riferimento a questa fase, inoltre, si utilizzano generalmente anche le denominazioni: età del ferro,
in quanto il ferro si sostituisce al bronzo e diviene nel X secolo il metallo di uso comune, e età
geometrica, per la presenza sulla ceramica di motivi decorativi geometrici.

A partire dalla fine del XII secolo la caduta dei palazzi micenei provoca la crisi dell'economia ad
essi legata e l'abbandono dell'agricoltura. Di conseguenza la pastorizia diviene la risorsa principale
e si assiste alla riduzione e dispersione della popolazione sul territorio. Si crea così una società
decentralizzata, autosufficiente sul piano economico e caratterizzata da un marcato regionalismo,
conseguenza dell'interruzione di viaggi di scambio e di contatti interculturali che avevano
caratterizzato l'età micenea. Inoltre, mutano le forme di occupazione del territorio, il numero degli
insediamenti si riduce in conseguenza del calo demografico e della tendenza ad abbandonare gli
insediamenti più piccoli per concentrarsi in pochi centri di grandi dimensioni. Dal punto di vista
politico, poi, questa società si caratterizza per una forte instabilità e per la competizione tra capi

29
rivali o basileis, la cui autorità è legata alle capacità personali e alla pratica del dono.

Tuttavia, nonostante in questo periodo, soprattutto nell'XI e nel X secolo, il mondo greco conosca
una regressione rispetto all'epoca precedente, sia dal punto di vista del tenore di vita, sia dal punto
di vista demografico, è possibile rintracciare segnali di ripresa che porteranno alla fioritura della
civiltà greca arcaica, segnali legati principalmente alla permanenza di forme di interscambio. A
partire dalla distribuzione dei dialetti greci parlati in Asia minore (ionico eolico e dorico), infatti, si
distinguono abitualmente tre movimenti migratori che a partire dalla Grecia coinvolgono quest'area
e ai quali le fonti collegano figure mitiche, in primis gli eroi omerici di ritorno verso le proprie terre
dopo la fine della guerra di Troia. Si ha dunque una migrazione ionica, che muove dall'Eubea,
dall'Attica e dalle Cicladi e interessa la parte centro-meridionale della costa anatolica (la Ionia); una
migrazione eolica, che a partire innanzitutto da Tessaglia e Beozia coinvolge alcune isole (tra cui
Lesbo) e la costa asiatica antistante; infine una migrazione dorica, che dalle aree doriche della
Grecia continentale, come il Peloponneso, o l'isola di Creta, interessa l'estremità meridionale della
costa anatolica (la Doride).

La Grecia regredita al regionalismo dell'età oscura, con la ripresa della mobilità, degli scambi
commerciali e dei contatti culturali, ritrova quindi quell'apertura che la porterà allo sviluppo della
città e della navigazione transmarina. A questo proposito si deve sottolineare il ruolo fondamentale
di mediazione culturale svolto dai santuari (come il tempio di Era a Samo, Era Argiva e Poseidone
Istmio e i santuari panellenici di Olimpia e di Delfi), luoghi di incontro di realtà eterogenee e polo
di attrazione per più comunità sparse sul territorio.

IL MONDO GRECO TRA VIII E VI SECOLO

La nascita della pólis

Con l'inizio dell'età alto-arcaica la Grecia attraversa una fase di riorganizzazione sociale, culturale
e politica che si manifesta con il superamento delle condizioni di isolamento, con lo sviluppo della
produzione agricola a discapito dell’allevamento e della caccia, con una ritrovata crescita
demografica e la comparsa di nuovo della scrittura, non più sillabica bensì mutuata dall'alfabeto
fenicio. Come conseguenza di questi cambiamenti si assiste alla nascita di un modello di
organizzazione della comunità, allo stesso tempo sociale e politica, peculiare del mondo greco: la
pólis.

Gli antichi avevano un'idea abbastanza chiara sull'origine di molte delle loro città. Essi
collegavano la nascita delle póleis al sinecismo, un fenomeno che implicava l'aggregazione e la
fusione di più villaggi e città preesistenti in un centro più grande, e tale processo spesso era legato
a figure mitiche (si pensi al sinecismo dell'Attica ad opera del mitico re Teseo). Tuttavia, questa
ricostruzione è apparsa agli studiosi moderni quanto meno semplicistica, cosicché, attualmente, si
ritiene che la pólis sia in realtà il frutto di un processo di lunga durata che inizia prima dell'VIII,
quando il fenomeno coloniale implica già l'esistenza di realtà cittadine, e termina verso il VI-V

30
secolo a.C., nel momento in cui i singoli elementi che compongono la pólis classica sono ormai
definiti.
L’inizio del processo di formazione della pólis risale più precisamente agli ultimi decenni dell’Età
buia, come lasciano intuire i poemi omerici, le prime fonti letterarie della cultura greca emersa
dalle Dark Ages. La società omerica è dominata da aristocratici che si autodefinivano tali in virtù
di una pretesa discendenza dagli eroi. Si trattava dunque di un’aristocrazia di sangue, la quale per
distinguersi dal resto della società, basava la propria vita su un rigido canone di comportamento,
teso a esaltare il prestigio personale. Le occasioni ideali in cui esprimere la propria superiorità
erano le competizioni sportive e i duelli in guerra, mentre il tempo libero era dedicato all’esercizio
fisico e all’addestramento militare.
La società che Omero descrive già conosce assemblee del popolo e consigli degli anziani, ma
questi organi sono controllati direttamente dall'aristocrazia, che decide quando convocarli, gli
argomenti in discussione e spesso anche l’esito del confronto. Alla prevalenza politica delle élites
fa da contrappeso la debolezza del popolo, ma in questa fase non c'è ancora una distinzione tra i
membri che fanno parte della comunità politica e chi ne è invece escluso. Nonostante quindi si
possano già individuare gli elementi embrionali alla base dello sviluppo della pólis, tuttavia, senza
una comunità cittadina, e in assenza di una reale autonomia delle istituzioni politiche, non si può
ancora parlare di pólis propriamente detta, se non di una pólis aristocratica.

Il termine pólis generalmente viene tradotto con ‘città’, ma per i Greci la parola era polisemica,
cioè a dire poteva assumere più significati in base al contesto in cui veniva utilizzata,
designandone al contempo diversi aspetti: il luogo fisico, la cittadinanza, l'insieme delle istituzioni
che garantivano il governo della comunità.

La pólis come comunità di cittadini e città fisica

La pólis era vista degli antichi in primo luogo come comunità di uomini associati. Già in Alceo
«sono gli uomini il bastione possente della città» e Tucidide fa affermare a Nicia, rivolto agli
Ateniesi rimasti senza flotta in Sicilia, che «gli uomini sono la città, non le mura né le navi vuote
d'uomini». Lo sviluppo urbanistico e architettonico della città, dunque, per gli antichi non sembra
essere mai stato significativo né nella definizione della pólis, né nella distinzione tra póleis grandi
e piccole. Mentre nell'accezione contemporanea, infatti, il termine ‘città’ rimanda a un
insediamento che si distingue rispetto ai centri più piccoli per dimensione, popolazione e servizi
offerti, e la città moderna non ha un rapporto diretto con la campagna che la circonda, entrambi
questi parametri, ovverosia la dimensione e il rapporto oppositivo con il territorio circostante, sono
estranei agli antichi, dal momento che esistevano anche póleis di dimensioni modeste e non vi era
contraddizione tra centro e periferia. Una pólis, infatti, era composta dall'unione di un centro, detto
ásty, e di un territorio rurale, la chóra. L’ásty ospitava i luoghi della vita comunitaria: l’acropoli,
una rocca situata nella parte più alta della città dove venivano edificati i santuari più importanti e
l’agorá, la piazza, luogo polifunzionale nel quale si svolgevano l'assemblea e il mercato con le sue

31
numerose botteghe. Nei suoi paraggi, inoltre venivano solitamente costruiti gli edifici che
ospitavano i principali organi di governo (il pritaneo, dove era custodito il fuoco sacro, e il
buleutérion, sede del consiglio). La chóra era costituita dai terreni destinati all’agricoltura e al
pascolo, ed era costellata di piccoli insediamenti, che costituivano parte integrante della pólis e i
cui abitanti erano dunque cittadini al pari di quelli dell’ásty.

Come si è detto la pólis per gli antichi era innanzitutto una comunità di cittadini, cioè a dire una
società politica strutturata intorno alla nozione di cittadinanza. Chi era dunque cittadino della pólis?
Il cittadino era colui che discendeva da padre cittadino e in virtù di ciò godeva dei pieni diritti
politici e poteva partecipare alla vita politica della comunità. Questo però non era l’unico
privilegio di cui i cittadini godevano, essi infatti erano gli unici a poter possedere la terra nel
territorio su cui insisteva la pólis ed erano esentati dal pagamento di imposte, tranne in casi
eccezionali. Tali diritti erano controbilanciati da alcuni doveri, su tutti la partecipazione alla difesa
della comunità, e ai cittadini più ricchi si chiedeva di coprire le spese per lo svolgimento di alcuni
riti e manifestazioni pubbliche, oltre che per provvedere alla manutenzione delle strutture e degli
apparati della pólis, come ad esempio le navi della flotta.

La comunità dei cittadini non coincideva dunque con tutti gli abitanti, anzi la maggior parte di
questi erano esclusi dalla pólis, come le donne, totalmente prive dei diritti politici, i minori, che
non potevano partecipare dei diritti concessi ai cittadini fino all’ingresso nella maggiore età (che
spesso coincideva con il compimento del ventesimo anno),i nóthoi, ossia i figli illegittimi, i quali
non godevano dei diritti politici e non ereditavano, ma potevano essere arruolati nell’esercito, e gli
stranieri residenti (ad Atene chiamati meteci), i quali spesso erano commercianti e artigiani ed
erano tenuti al pagamento di una tassa di residenza e a nominare un garante che li potesse
rappresentare in giudizio. La maggior parte degli abitanti esclusi dalla cittadinanza era però
costituita dagli schiavi, persone prive della libertà e senza alcun diritto. La schiavitù assumeva
sfumature diverse da pólis a pólis. A Sparta e in altre regioni della Grecia, ad esempio, la schiavitù
era collettiva, gli schiavi erano cioè di proprietà pubblica e lavoravano per l’intera comunità, anche
se dovevano poi rendere conto del loro operato ad alcuni specifici cittadini. Nelle altre póleis
greche, come Atene, invece, gli schiavi erano proprietà privata, e ogni cittadino che ne possedesse
uno poteva disporne liberamente.

Le istituzioni della pólis

Con il termine pólis gli antichi intendevano anche l'organizzazione politica di una comunità e in
questo caso il termine potrebbe essere tradotto, con le dovute differenze, con ‘Stato’. Dunque
perché una comunità di cittadini insediata su un dato territorio potesse definirsi pólis, era necessario
che si dotasse principalmente di tre organi istituzionali: un’assemblea, un consiglio e delle
magistrature. L’assemblea era una riunione aperta a tutti i cittadini e ad essa spettava in ultima
istanza la deliberazione sui temi più importanti e l’elezione delle magistrature di maggiore peso. Vi
era poi il consiglio, un organismo rappresentativo (si andava dai trenta geronti di Sparta fino al

32
consiglio dei Cinquecento dell’Atene democratica di V secolo) con il compito di amministrare lo
stato nell’intervallo di tempo tra la convocazione di un’assemblea e l’altra. Aveva spesso l’autorità
di preparare le leggi che dovevano essere discusse in assemblea. Alla testa dello stato erano le
magistrature con funzioni politiche e amministrative. Nelle póleis democratiche esistevano
numerose magistrature, ognuna con un incarico specifico ma non erano poste tutte sullo stesso
piano. Generalmente le magistrature con compiti militari e finanziari erano gerarchicamente
superiori a quelle destinate agli affari correnti, e per questo erano sempre attribuite tramite elezione,
anche nelle póleis democratiche dove per le altre magistrature si utilizzava il sorteggio come criterio
selettivo. In queste istituzioni consisteva la statualità della pólis, che era, però, una statualità
particolare, nel senso che, mentre oggi lo stato si identifica nelle istituzioni e nei corpi armati, nel
mondo greco sono i cittadini stessi a incaricarsi della difesa della comunità dalle minacce, siano
esse esterne o interne. La comunità e lo stato pertanto coincidono e ciò consente di utilizzare in
relazione alla pólis l'espressione ‘stato dei cittadini’ preferendola a quella generalmente più diffusa
di ‘città-stato’, in quanto, pur mantenendo immutata la natura statuale di questa forma organizzativa
del mondo greco, mette in evidenza la comunità piuttosto che l’insediamento.

Definita la cornice istituzionale, ogni comunità si dota di una propria costituzione, politéia, che non
va intesa come la legge fondamentale dei moderni stati nazionali, bensì come forma di governo,
come regime politico. Il grado di apertura del corpo civico e il peso dei singoli organismi
nell’architettura della pólis ne determinano la qualità, se sia, detto altrimenti, democratica o
oligarchica. Il corpo civico di Sparta, ad esempio, era molto ridotto numericamente e il potere era
detenuto fondamentalmente dal consiglio degli anziani, cose che ne facevano un’oligarchia; mentre
ad Atene la cittadinanza era concessa a tutti i figli di padre e madre ateniesi e l’organismo centrale
era l’assemblea popolare, motivi per cui era ritenuta una democrazia.

Stato etnico e stato federale

La Grecia non era fatta solo di póleis: fin dall'arcaismo sono presenti accanto allo Stato cittadino, lo
Stato federale e lo Stato etnico. Il termine ethnos non indica uno specifico sistema politico o
costituzionale, ma esprime piuttosto l'idea di nazione, in riferimento a gruppi di popoli o tribù in cui
è presidente il senso dell'entità della stirpe in virtù della discendenza da un comune capostipite. Lo
stato etnico ha anche una dimensione territoriale, ovvero si identifica con un territorio circoscritto
entro cui erano distribuite tutte le popolazioni e le comunità che si riconoscevano nell'affinità della
stirpe perché e che da questa in molti casi derivavano la denominazione (l'Arcadia ad esempio era la
regione della nazione degli Arcadi). Questi gruppi etnici sono insediati in regioni particolarmente
impervie della Grecia, con paesaggi dominati da grandi sistemi montuosi. La geografia contribuiva
a distinguere le società tribali sotto il profilo dell'economia, per i sistemi di vita e per i modi di
sfruttamento del suolo. La pastorizia costituiva l'attività più importante, Integrata da un'agricoltura
esclusivamente di sussistenza. Anche il rapporto con il territorio, con la montagna in particolare,
viene vissuto in maniera diversa rispetto al mondo delle póleis. Le zone montuose, che nelle póleis
formano le aree disabitate e selvagge della frontiera, sono i pascoli di consueta frequentazione, il
rifugio per persone e beni in caso di pericolo o di invasione armata del territorio, assumendo ruoli
altrove assegnati all'ásty e alla sua cinta muraria. L'economia spiega la resistenza all'inurbamento,

33
in quanto la civiltà della pólis, basata sull'agricoltura e di conseguenza sul frazionamento del suolo,
si poneva come antitetica al mondo aperto delle società pastorali della Grecia centro-settentrionale.
Gli abitanti di questi territori, spesso molto vasti in rapporto ai territori di una singola pólis, vivono
in villaggi sparsi, senza avviare dinamiche di urbanizzazione. Si riunivano periodicamente, di solito
in un santuario che diveniva sede dell’éthnos. Alle assemblee del popolo (éthnos), che spesso
avvenivano in occasione di eventi di culto, spettava decidere circa la pace e la guerra e designare il
comandante militare, qualora questa carica non fosse detenuta di diritto da un re.

Negli stessi luoghi in cui erano sorti gli stati etnici si formarono, in un secondo momento, gli stati
federali. A modificare la struttura interviene il potenziamento di un centro urbano preesistente
rispetto agli altri, o la fondazione di una nuova città che diviene la capitale della nuova formazione
e la sede degli organismi del governo federale. Le comunità che gravitano attorno a questo centro
rimangono autonome per quel che riguarda gli affari interni, ma cedono la sovranità in materia di
politica estera, militare e di parte del potere politico, economico e finanziario necessario a garantire
l'unità dello stato alla federazione, che si dota, pertanto, anche di più complessi apparati
istituzionali, che prevedono la formazione di consigli e l’elezione di magistrati.

LA CRISI DELLE ARISTOCRAZIE

Tra l'VIII e il VI secolo si assiste a un momento di trasformazione della storia greca arcaica, legato
alla crisi delle aristocrazie greche. Il conflitto tra le istanze del popolo e quelle dei nobili, provocato
dalla diminuzione della produzione agricola con conseguente impoverimento e indebitamento dei
contadini, si esaspera innescando fenomeni che rappresentano spesso soluzioni alternative fra loro
nell'evoluzione delle aristocrazie greche. L’imporsi della tattica oplitica, delle leggi scritte e delle
tirannidi, in molte póleis incide nella ridefinizione dei rapporti tra i differenti segmenti sociali
all’interno delle comunità greche. Ad arricchire questo quadro contribuisce anche l’esperienza
coloniale, nella misura in cui suggerisce nuove forme di organizzazione della chóra e dello stato e
rappresenta una risposta allo squilibrio determinatosi nel rapporto tra le risorse e i bisogni alla fine
dei secoli bui. La colonizzazione, infatti, è un fenomeno che esprime solo in parte una spontanea
ribellione, spesso è favorita o addirittura suscitata dalle stesse aristocrazie cittadine. Ma lo stesso
deve dirsi per le legislazioni e per le tirannidi. In un certo senso si può dire che i due fenomeni,
entrambi espressioni di sviluppi politici interni, rappresentino spesso soluzioni alternative fra loro:
nel primo caso si tratta di forme di adattamento, di autocorrezione o di autocensura dell'aristocrazia
al potere, forse anche sollecitate da strati più modesti e inquieti della popolazione; nel caso della
tirannide, il fenomeno assume forme più traumatiche, ma è sempre dal cuore stesso dell'aristocrazia
che esse nascono.

Dopo questo periodo l’élite perderà il controllo sugli organismi decisionali della comunità, ormai in
grado di autodeterminarsi, mentre il popolo si sarà trasformato in comunità di cittadini.

34
Oplitismo

L’oplitismo è un fenomeno concernente la sfera militare che fa la sua comparsa nella prima metà
del VII secolo e che ha significativi risvolti di ordine sociale e politico. Più precisamente, con il
termine oplitismo si designa una tecnica di combattimento nuova, affermatasi nelle principali
póleis greche. Rispetto alla modalità di combattimento precedente (di cui una delle principali fonti
sono i poemi omerici, in particolare l’Iliade), in cui le operazioni militari si risolvono sovente in
una successione di duelli tra capi, che combattono per il proprio valore, la novità della nuova
tecnica consiste nella scomparsa dei capi dal campo di battaglia, e la sostituzione dei duelli tra
grandi individualità con lo scontro tra schiere di fanti (le falangi) disposte su più file, che
procedono a ranghi compatti. Questi fanti, gli opliti, marciano uniti, vicinissimi, armati di armi
offensive (una lancia e una spada corta, da utilizzare nell’eventuale corpo a corpo) e difensive:
l’elmo, la corazza, i gambali e infine lo scudo. Questo era rotondo, in parte di bronzo, in parte di
legno, e si caratterizza per le grandi dimensioni (ha un diametro di quasi un metro), grazie alle
quali garantisce protezione nel contempo al fianco sinistro di colui che lo imbraccia e al fianco
destro del suo compagno di sinistra nella falange. Per lo più in bronzo, tutte queste armi, con il
loro peso, non rendono certo facili i movimenti degli opliti. Di qui la scarsa mobilità del
combattimento oplitico, nel quale ciò che conta, e che determina la vittoria di uno schieramento
sull’altro, è la forza d’urto della falange, che la coesione dei soldati accresce: nessuno spazio è
allora evidentemente destinato all’azione individuale, perché questa comprometteva la
compattezza dello schieramento, senza contare il fatto che l’oplita, una volta lasciato il suo posto
nella fila, faceva trovare indifeso il compagno. Rispetto ai duelli tra capi, documentati nell’Iliade,
lo scontro oplitico rappresenta dunque il superamento dell’individualismo a favore
dell’integrazione del singolo soldato nel gruppo. Ma, rispetto al duello omerico, il combattimento
oplitico significa altresì il prevalere di nuovi valori: se al primo si addicono valori quali il
coraggio, l’ardore, l’audacia, al secondo si associano piuttosto l’autocontrollo, l’obbedienza e il
senso della solidarietà.

L’affermazione della tattica oplitica ha infine, come detto, riflessi in ambito sociale e politico. Sul
piano sociale, essa comporta una promozione di elementi del corpo civico non appartenenti
all’aristocrazia, nella misura in cui hanno ora modo di prendere parte alla difesa della pólis.
L’esercito oplitico, infatti, è aperto a quanti hanno la possibilità di procurarsi un’armatura
completa (la panoplia), e questa possibilità, sebbene tale equipaggiamento costi caro, è anche, ad
esempio, dei proprietari di terre di media estensione, o comunque non è privilegio esclusivo degli
aristocratici (di questi ultimi, richiedendo maggiore disponibilità economica e tempo per
l’addestramento, resta appannaggio il corpo della cavalleria, la quale, però, nello scontro oplitico
svolge generalmente una funzione limitata). Questo rinnovato stato di cose, inevitabilmente ha
ricadute sulla scena politica, ovverosia sulle strutture della pólis aristocratica. I nuovi cittadini-
soldati, che con gli aristocratici hanno raggiunto la parità sul campo di battaglia, rivendicano una
condivisione del governo di quella città alla cui difesa in caso di pericolo ora concorrono,
assumendosene tutti i rischi.

35
Colonizzazione

La storia greca è costantemente costellata da fenomeni di migrazione: una caratteristica dei Greci è
certamente la mobilità. Questa mobilità, legata innanzitutto alla scarsità di alcune materie prime, fa
sì che la civiltà greca arrivi a coprire uno spazio geografico molto più ampio dei confini della
Grecia propriamente detta, fino a comprendere l’intero bacino del Mediterraneo, dall’estremità
orientale del Mar Nero fino allo Stretto di Gibilterra.

Il fenomeno coloniale, dunque, attraversa tutta la storia greca, pur assumendo forme differenti
nelle sue diverse fasi. Particolare rilievo e importanza esso assume però in età arcaica, quando i
Greci arrivano a fondare circa 150 nuove póleis (alle quali vanno sommati insediamenti di altra
natura, come gli empória, scali commerciali) in tutto il Mediterraneo.

La massiccia espansione coloniale di epoca arcaica prende avvio all’incirca nel primo quarto
dell’VIII secolo a.C., per protrarsi quasi fino alla fine del VI, quando, per più motivi (non ultimo la
resistenza opposta da altre popolazioni, Cartaginesi ed Etruschi su tutti), si conclude.
Quali sono i motivi alla base delle spedizioni coloniali? A questa domanda si è spesso risposto
richiamando motivazioni agricole e commerciali, cioè le spedizioni coloniali sarebbero state
organizzate o per ovviare alla mancanza di terre coltivabili oppure per aprire nuove rotte
commerciali. A queste cause però vanno aggiunte circostanze legate a turbolenze sociali e
politiche all’interno della comunità, per cui la spedizione concorre a prevenire e allontanare il
pericolo di una degenerazione in guerra civile, a evitare di subire una dominazione straniera o
l’instaurazione di un governo malvisto.

La colonizzazione procede sulle rotte già battute dai Micenei, tuttavia l’espansione coloniale di età
arcaica presenta caratteri diversi rispetto ai movimenti di II millennio, dal momento che questi
rappresentano frequentazioni, anche talvolta sistematiche, che però non si traducono nella
fondazione di insediamenti stabili, cosa che viceversa avviene in età arcaica. Le frequentazioni di
epoca micenea sono generalmente definite precolonizzazione a sottolineare che si tratta di un
fenomeno che precede nel tempo la colonizzazione arcaica, ma non ne è in alcun modo
anticipazione o prefigurazione.

La colonizzazione arcaica interessa tutto il bacino del Mediterraneo, in particolare la Sicilia e


l'Italia meridionale (la Magna Grecia) e, quanto alle sedi di partenza delle spedizioni coinvolge
tutta la Grecia, inclusa quella microasiatica (su tutti, Mileto), ma alcune zone della Grecia
continentale (per esempio l’area dell’Istmo di Corinto e l’Acaia) ed egea (l’Eubea) partecipano
decisamente più di altre al moto coloniale. Si possono quindi individuare vere e proprie correnti
coloniali, dai caratteri diversi, quali, con riferimento nello specifico alla Magna Grecia e alla

36
Sicilia, la corrente euboica, con la fondazione di Pitecusa, l'odierna Ischia, Cuma, Zancle, oggi
Messina, e quella achea, cui si deve la nascita di Sibari e Crotone.
La nascita di insediamenti stabili, di nuove póleis, costituisce l’esito delle spedizioni coloniali di
età arcaica frutto della volontà e dell’iniziativa di una comunità politica, talvolta in collaborazione
con un’altra. Dunque è all’intervento ufficiale di una comunità che si deve la loro organizzazione,
nel senso che questa provvede a fornire le navi e i mezzi necessari a quanti partono. La comunità
da cui parte la spedizione o il suo nucleo numericamente più consistente è detto metrópolis, ossia
«città madre», mentre il nuovo insediamento cui la spedizione dà vita prende il nome di apoikía,
termine che significa letteralmente insediamento sorto «lontano da casa», e che comunemente è
reso in italiano con «colonia».

L’apoikía generalmente è una pólis indipendente dalla metrópolis da un punto di vista


amministrativo economico e politico ma mantiene con essa un legame di tipo culturale, che si
esplicita, in particolare nelle fasi iniziali della storia dell’apoikía, nell’uso ad esempio dello stesso
dialetto o dello stesso alfabeto oppure nella riproposizione delle medesime istituzioni, divinità e
culti.

La tradizione letteraria fornisce sulla organizzazione delle spedizioni coloniali e il loro


svolgimento diverse informazioni dalle quali si riesce a ricostruire una sorta di modello di
spedizione coloniale. A capo di questa c'è l’ecista (dal greco oikistés), solitamente un aristocratico,
che presiede all’atto di fondazione ufficiale della nuova pólis e al quale l’apoikía di solito
riconosce onori speciali e soprattutto, una volta morto, tributa un culto. I partecipanti alla
spedizione non sono moltissimi, di solito nell’ordine di alcune centinaia, e la spedizione ha avvio
solo dopo che l’ecista si è recato presso il santuario oracolare di Apollo a Delfi e solo in caso di
parere favorevole da parte della divinità.

La maggior parte degli studiosi concordano sul fatto che i partecipanti alla spedizione fossero solo
maschi, giovani e scapoli, mentre le donne o venivano reperite sul posto tra gli indigeni, o
arrivavano dalla metrópolis in un secondo momento. Una volta sbarcati, se il luogo risultava
idoneo (i requisiti essenziali erano: un facile all’attracco, buona difendibilità e la presenza di
acqua), l’ecista procedeva all’atto fondativo della nuova pólis che si articola, stando ai versi
omerici, in tre atti: costruzione delle mura, organizzazione dello spazio, ovverosia distinzione tra
spazio sacro (i templi per gli dèi), spazio pubblico (ad esempio l’agorá o le strade) e spazio privato
(le case), divisione del territorio adiacente all’apoikía (la sua chóra, insomma), su base paritaria, in
appezzamenti, poi distribuiti a ciascuno dei partecipanti alla spedizione.

Delle aree dove i Greci nella loro espansione coloniale vanno a impiantarsi, le fonti letterarie
antiche danno l’immagine come di terre pressoché deserte, libere, un’immagine, questa,
decisamente falsa e smentita inoltre dalla documentazione archeologica. Nelle fonti, infatti, è
decisamente modesto l’interesse per le popolazioni locali che i Greci incontrano al loro arrivo, e
per gli effetti che la loro presenza e la fondazione delle apoikíai hanno su queste genti. Ciò che
importa alle fonti è piuttosto riportare quale sia la metrópolis di una certa colonia, ricordarne

37
l’ecista oppure, nel caso delle spedizioni ‘miste’, dare conto delle loro diverse componenti. In altri
termini, gli autori antichi trattano del fenomeno coloniale in una prospettiva ellenocentrica.

Grazie a un recente filone di ricerca sui rapporti intercorsi tra coloni greci e popolazioni locali,
però, si è compreso che molti fattori (il tipo di fondazione, la maggiore o minore aggressività dei
coloni, il livello di organizzazione raggiunto dalle popolazioni indigene, etc.) hanno influenza sulle
forme assunte dall’incontro tra Greci e indigeni, così che viene a delinearsi una grande varietà di
situazioni, non sempre chiare, che vanno dallo scontro violento all’intesa pacifica.

In ogni caso, indipendentemente dalla natura delle relazioni instauratesi con le popolazioni locali,
nel caso della Sicilia e dell’Italia meridionale, l’arrivo dei Greci ha su di queste un forte impatto
culturale, che si esprime in vario modo: nell’adozione, da parte degli indigeni di costumi e pratiche
di vita greci, come il simposio, nella organizzazione dei propri insediamenti secondo strutture di
tipo greco, nell’adattamento dei propri sistemi di scrittura agli alfabeti in uso nelle colonie greche,
etc. Tracce più labili, invece, ha lasciato il fenomeno in senso inverso, almeno in Sicilia e in
Magna Grecia, viceversa è ravvisabile in misura maggiore in aree periferiche e non densamente
colonizzate come la Scizia, a nord del Mar Nero, oppure, in Asia Minore, Panfilia e Cilicia.

Legislazione

Nella pólis del VII secolo, anche nella sfera giudiziaria si assiste all'introduzione di importanti
novità: il passaggio, nell’amministrazione della giustizia, da norme orali a leggi scritte. Gli
aristocratici erano i detentori del potere giudiziario e depositari delle leggi in quanto esperti delle
norme di origine divina conservate da una tradizione esclusivamente orale. L'amministrazione
della giustizia era così sottratta ad ogni controllo e diventava spesso espressione dell'arbitrio e del
prepotere degli aristocratici, come dimostrano le lamentele contro i giudici ingiusti e corrotti che
emergono dalle pagine di Esiodo.

I primi interventi di carattere legislativo si registrano in area coloniale, perché in comunità nuove
facilmente si verificano le condizioni per la fissazione di norme condivise e più forte era sentita
l'esigenza di garanzie egualitarie, dal momento che i coloni erano spesso divisi da consuetudini e
origini diverse. Si hanno quindi i nomi di Zaleuco di Locri Epizefiri, Caronda di Catania e Diocle
di Siracusa i quali avrebbero dato leggi scritte alle proprie città (o ad altre o, in alcuni casi, sia alle
proprie che ad altre).

Possiamo ricostruire solo ipoteticamente il processo che ha portato alla codificazione scritta delle
leggi. Per lungo tempo si è pensato che l'esigenza di mettere per iscritto le leggi fosse legata alla
volontà popolare di porre un freno all'arbitrio dei giudici. A questa ricostruzione, però, in tempi
recenti, sono state mosse una serie di riserve. Pare infatti improbabile che vasti ceti popolari
fossero già diventati un autentico soggetto politico, con il potere di imporre la pubblicazione scritta
delle leggi, senza contare poi che questa ipotesi presupporrebbe un'alfabetizzazione oltremodo

38
diffusa. Ponendo in rilievo altri fattori, che meglio potrebbero dare conto dell’avvento della
legislazione scritta, invece, da ultimo, si è posto l'accento sulla crescita della pólis documentabile
tra VIII e VII secolo, che potrebbe avere avuto effetti sul piano giuridico, nella misura in cui
diventano più frequenti le controversie al suo interno, e sempre più eterogenee e complesse si
fanno le questioni che tali controversie sollevavano. Questa nuova realtà, fa emergere
l'inadeguatezza delle norme orali, dalla portata molto generale in confronto a quelle scritte,
esaustive, dettagliate e fisse, che coprono una grande varietà di materie: omicidio, ferimento, furto,
adulterio, eredità, questioni legate alla proprietà, al diritto di cittadinanza o ai culti, etc. Una volta
affidate le leggi alla scrittura, però, ci si rende conto del pericolo che esse vengano alterate o
modificate e questo problema nasce solo quando esse vengono affidate alla scrittura, dal momento
che il diritto consuetudinario era tramandato oralmente e mnemonicamente sempre allo stesso
modo. In questi testi di legge ritorna, spesso, infatti, il timore che i cittadini possano modificare la
legge: questa è pensata per durare ‘per sempre’, ed eventuali mutamenti o aggiunte sono avvertiti
come pericolo da scongiurare a tutti i costi.

Tirannide

La tirannide è un fenomeno che attiene alla sfera politico-istituzionale, assai diffuso, nello spazio
come nel tempo. Molte, infatti, sono le póleis che, in diverse zone del mondo greco come nei
diversi periodi della storia greca, conoscono l’esperienza della tirannide, le cui prime
manifestazioni si collocano intorno alla metà del VII secolo nelle prospere città dell’area
dell’Istmo di Corinto: Corinto stessa, Sicione, Megara.

I termini tiranno e tirannide (in greco rispettivamente týrannos e tyrannís) sono presenti nel
vocabolario greco già dal VII secolo ma con una accezione diversa dalla nostra. Se nel nostro
immaginario, infatti, la tirannide consiste in un governo dispotico, oppressivo e crudele, per i
Greci, la tirannide era semplicemente una delle possibili forme di governo. Ne consegue che
definendo un governo come tirannico, noi ne diamo un giudizio tutt'altro che positivo; al contrario,
per i Greci la parola tyrannís non ha, almeno inizialmente, un’accezione negativa, týrannos
significa letteralmente «signore», così che nel lessico greco la parola tiranno risulta essere non
molto distante da monarca, ovvero «colui che governa da solo». Presto tuttavia, già alla fine dello
stesso VII secolo, i termini acquistano una coloritura negativa, che col tempo andrà accentuandosi
sempre di più, fino ad arrivare al giudizio che ne danno Platone e Aristotele, secondo i quali la
tirannide è una forma di governo che serve solamente al profitto personale di colui che la esercita
poiché l'obiettivo del tiranno sarebbe una bella vita di piacere. Nella produzione letteraria di V e
IV secolo, quindi, la tirannide sarebbe il risultato dell'ascesa al potere di un demagogo che si mette
alla guida del popolo in lotta contro l'oppressione esercitata dagli aristocratici. Nella ricerca
moderna si tende tuttavia a lasciare da parte il più possibile le teorie astratte degli autori più tardi
per concentrarsi sulle testimonianze contemporanee. Il quadro che ne viene fuori è quello di una
Grecia che, tra VII e VI secolo a.C. va incontro a una sempre più scarsa disponibilità di terreni da
pascolo e da coltivazione, il che conduce ben presto al peggioramento delle condizioni di vita

39
contadina. Contemporaneamente la cupidigia dell'élite aristocratica determina un progressivo
aumento del suo bisogno di risorse materiali e ciò contribuisce ad elevare ancora di più la
pressione economica sulla classe degli agricoltori. Di conseguenza l'antica leadership perde
progressivamente consenso creando le condizioni per la gestazione delle tirannidi. In un simile
situazione di malcontento, quindi, singoli membri dell'aristocrazia intervengono per cercare di
superare la crisi in atto, in aperto contrasto con la maggioranza dei loro pari. La tirannide, dunque,
come si è detto, è una delle conseguenze della crisi dell'aristocrazia: il tiranno è un aristocratico
che viene in conflitto con i suoi compagni di gruppo sociale instaurando con la violenza o con
l'inganno un potere assoluto, un governo personale che non conosce limiti. Una volta assunto il
potere, i tiranni, lo mantengono grazie alla protezione assicuratagli da una guardia del corpo
personale, apparentemente conservano inalterate le istituzioni della polis, ma le controllano
dall'interno grazie a uomini a loro fedeli. Quello del tiranno è altresì un potere demagogico, perché
esercitato con l'appoggio del popolo, a favore del quale egli interviene con provvedimenti
(confische di terre, misure intese a reprimere il lusso, etc.) che viceversa colpiscono l’aristocrazia.
La tirannide, infine, solitamente è un governo ereditario, tramandato da padre in figlio, che in
genere, però, è di breve durata: difficilmente, infatti, si protrae oltre la terza generazione.

Nonostante il quadro che emerge dalla descrizione del tiranno sia poco edificante, la tradizione (o
una parte di essa) ha conservato un giudizio positivo su alcune di queste figure. È questo il caso,
per esempio, di Cipselo, che instaura la tirannide a Corinto nel 658/7 a.C.; di Periandro, figlio e
successore di Cipselo, il cui nome figura tra quelli dei Sette Saggi; o infine di Pisistrato, tiranno di
Atene per la prima volta nel 561/60 a.C., e poi continuativamente dal 546/5 fino alla morte
(528/7), il cui governo rappresenterebbe, per la città, addirittura un ritorno alla mitica età dell’oro.
Tra le caratteristiche della loro azione di governo, infatti, i tiranni, oltre alle misure a sostegno dei
ceti più deboli cui si è fatto cenno, intervengono con la costruzione di grandi opere pubbliche, con
la promozione delle attività artigianali, e con l’accoglienza riservata ai migliori poeti del tempo.

La nascita della moneta

Ancora nella seconda metà del VII secolo nel mondo greco viene introdotta la moneta. Le prime
città a coniare moneta furono quelle dell’Asia Minore (Efeso, Mileto, Focea), le quali a loro volta
ne avevano appreso l'uso dai Lidi, una popolazione stanziata in Anatolia. Da qui, all'inizio del VI
secolo, la moneta viene introdotta anche nella Grecia continentale e nella seconda metà del secolo
prendono a emettere moneta anche le città della Sicilia e della Magna Grecia. Il metallo di uso
comune è l’argento mentre l'oro è utilizzato solo in casi particolari, e nel V secolo si diffonde
anche l’uso del bronzo per le monete di piccolo taglio.

Prima della introduzione della moneta, nel mondo greco l'economia era fondata sul baratto ed
erano utilizzati i cosiddetti segni premonetari: anzitutto i buoi e poi alcuni oggetti particolari (la
scure, il tripode o recipienti in bronzo), spiedi in ferro e ancora successivamente lingotti in metallo

40
prezioso (oro e argento) e globetti sferici. La novità introdotta dall'uso della moneta, oltre a
comportare una semplificazione delle operazioni di scambio, sta nel fatto che su di essa sono
impresse un’immagine (tipo monetale) e un’iscrizione (la legenda), ovvero il nome della pólis, che
rappresenta l’autorità emittente della moneta, la quale si fa garante del peso e della purezza del
metallo.

SPARTA E ATENE IN ETÀ ARCAICA

Sparta

Cercare di ricostruire la storia di Sparta in età arcaica non è semplice. I riferimenti nelle fonti alle
prime fasi di vita della pólis, infatti, riflettono il fenomeno del cosiddetto floating gap, per cui le
tradizioni mitiche sull'arrivo dei Doria a Sparta, cioè le vicende che portarono alla fondazione della
città, così come gli eventi più recenti, sono ampiamente valorizzati, mentre è in larga parte
ignorato lo spazio in mezzo, quello in cui ebbe luogo l'espansione della città nel Peloponneso. Vi è
inoltre un altro fenomeno peculiare della storia spartana, il cosiddetto «miraggio», cioè un
processo di idealizzazione ed elevazione a mito della storia e della società di Sparta, che ha
condizionato buona parte delle fonti disponibili. La realtà storica di Sparta è quindi divenuta un
tutt’uno con l’immagine che ne è stata fabbricata nel corso del tempo, rendendo difficile il lavoro
degli studiosi, che hanno provato a individuare il nucleo originario delle vicende della città.

Quel che è certo è che gli Spartani appartengono al gruppo etnico dei Dori, giunti nel Peloponneso
dal nord della penisola greca durante l’Età buia. Secondo la tradizione Sparta in un remoto passato
aveva avuto delle pessime leggi e solo successivamente aveva acquisito un buon ordinamento
grazie all'opera del legislatore Licurgo, la cui storicità è incerta. Stando a quanto riferisce Plutarco,
Licurgo avrebbe ricevuto dall'oracolo di Apollo a Delfi un nuovo ordinamento costituzionale detto
Rhetra. A questa, nel corso del tempo, vennero aggiunte altre leggi, ma alla fine l’intera
organizzazione spartana venne fatta risalire al nome di Licurgo e definita kósmos.
Oggi si ritiene che la figura di Licurgo sia in realtà solo leggendaria e che la formazione delle
istituzioni e della società di Sparta sia andata sviluppandosi attraverso un lungo processo, che
coinvolge tutta l'età arcaica e si conclude nel VI secolo.

41
A capo della città ci sono due re (diarchia) appartenenti alle famiglie degli Agiadi e degli
Euripontidi, le quali vantavano una ascendenza direttamente da Eracle. Ai re spettava la guida
degli eserciti in battaglia, scortati da trecento uomini, mentre in tempo di pace erano titolari del
culto di Zeus e erano loro garantiti alcuni privilegi, come quello di ricevere razioni doppie di cibo
e appezzamenti di terra più grandi rispetto agli altri cittadini. Le decisioni dei re erano prese
insieme al consiglio degli anziani, la gherusía, che stabiliva le proposte da sottoporre
all’assemblea e giudicava i crimini più gravi perpetrati in seno alla comunità.

Più recente, e quindi assente nella Rhetra, è la magistratura degli efori. Questi erano cinque,
venivano eletti annualmente dall'assemblea e avevano il compito di tutelare l'ordine nella città,
applicando le decisioni deliberate dall'assemblea, potendo persino mettere sotto accusa i re.

Vi era infine l’assemblea del popolo, apélla, che radunava i cittadini di pieno diritto. Deteneva
formalmente il potere, ma in realtà si limitava ad approvare o respingere le proposte formulate dal
consiglio e dagli efori.

L'organizzazione sociale di Sparta prevede inoltre una fissità del numero dei cittadini, gli Spartiati,
i quali erano proprietari di appezzamenti di terreno, ma questi non si occupavano direttamente del
lavoro agricolo, che era invece affidato agli iloti, servi rurali forse residui dell'antica popolazione.
Non dovendo lavorare direttamente la terra, gli Spartiati si dedicavano esclusivamente
all’addestramento militare. L'educazione spartana era scandita da una rigida disciplina articolata in
un percorso, detto agoghé, finalizzato al rafforzamento dell’attitudine guerriera del cittadino.
Fondamenti di questo percorso educativo erano la divisione in classi di età, la partecipazione
costante all'esercizio della vita militare, le limitazioni poste alla vita familiare per un certo numero
di anni, la partecipazione ai pasti comuni (sissizi), ai quali tutti gli Spartiati dovevano contribuire.
Momento finale dell’educazione spartana era la kryptéia, una vera e propria ‘caccia all’ilota’
durante la quale il giovane spartano doveva dare prova di coraggio sopravvivendo nel territorio
della pólis, fino ad arrivare ad aggredire gli schiavi che incontrava.

Anche le donne si sottoponevano a esercizi fisici per allenare il corpo a procreare nuovi cittadini in
grado di assolvere ai propri doveri. Esclusi dalla cittadinanza, oltre ovviamente agli iloti, erano
infine i perieci, i quali erano però liberi, vivevano in comunità sparse sul territorio della Laconia ed
erano dediti all’agricoltura e alle attività artigianali e commerciali.

L'evoluzione e la formazione dell’organizzazione sociale e politica di Sparta avvenne di pari passo


con la sua affermazione nel Peloponneso. La conquista della regione cominciò con la I Guerra
Messenica, che vide gli Spartani, guidati dal re Teopompo, contrapposti ai Messeni, stanziati in
una regione a sud-ovest del Peloponneso. La guerra, che le fonti collocano alla fine dell’VIII
secolo a.C., consentì a Sparta di annettere il territorio degli sconfitti, che fu diviso in lotti e

42
distribuito ai cittadini. Le notizie circa una II Guerra Messenica sono invece più incerte e vanno
forse interpretate come la testimonianza di una difficoltà nel controllo dei territori conquistati, più
che come un conflitto vero e proprio al pari della I Guerra Messenica. Sparta entrò poi in attrito
prima con l’arcadica Tegea, poi con Argo, che diventerà sua storica rivale. Tegea fu presto
sconfitta, ma il suo territorio non venne occupato, si preferì invece controllarlo tramite un’alleanza
bilaterale. Con Argo il conflitto si protrasse per tutto il VI secolo a.C., e continuò ancora nel V ma
con toni meno accesi. Col tempo entrarono nell’orbita spartana anche le póleis dell’Istmo, Corinto
e Sicione, che, divenendo alleate di Sparta, contribuirono all’isolamento di Argo. Questa rete di
relazioni bilaterali strutturatasi nel tempo, portò alla nascita della Lega del Peloponneso, la cui
leadership era affidata a Sparta ma prevedeva l’autonomia formale dei suoi membri.

Nel VI secolo, pertanto, si perfeziona il dominio degli Spartani sull’intera regione, in parte
occupata direttamente (Laconia e Messenia), in parte sottoposta ad un’egemonia che solo a parole
permetteva l’autonomia degli alleati (Arcadia, Corinzia). La città peloponnesiaca entrava quindi
nel nuovo secolo come centro dominante nel mondo greco.

Atene

L’Attica visse in misura ridotta la crisi dovuta alla caduta dei palazzi micenei e fu abitata senza
soluzione di continuità dall’età micenea fino all’età arcaica. Durante l’Età buia, secondo la
tradizione cittadina, ebbe luogo l’unificazione politica della regione con il sinecismo. Nell’VIII
secolo la città era governata da alcune famiglie aristocratiche da cui provenivano i re, che
detenevano il potere a vita. Nel secolo seguente tale carica divenne annuale ed elettiva all’interno
di un consiglio, per poi essere organizzata in un collegio composto da tre magistrati, gli arconti.
Il primo avvenimento certo della storia di Atene ha come sfondo la crisi politica che contagia la
città in età arcaica. Nella seconda metà del VII secolo il giovane aristocratico ateniese Cilone, con
l'aiuto del tiranno di Megara, Teagene, cercò di instaurare un regime tirannico impadronendosi
dell'Acropoli. Invece di ottenere il sostegno popolare, però, Cilone e i suoi compagni furono
assediati sull'Acropoli dagli ateniesi giunti dalle campagne. Cilone e il fratello riuscirono a fuggire,
mentre gli altri congiurati si rifugiarono come supplici in vari edifici sacri e si arresero, dopo che la
stata loro promessa l'incolumità. Le promesse però vennero disattese e i Ciloniani furono trucidati
dagli arconti in violazione dell'immunità che lo status di supplice comportava. Il ricordo della
vicenda di Cilone è indizio, per l'Atene del VII secolo, di una crescente rivalità tra le famiglie
dell'aristocrazia, nonché della maturazione di un dibattito politico interno. A quest'episodio la
maggior parte degli studiosi collega l'opera di Draconte, della cui vita non si conosce quasi nulla.
Questi, per risolvere la crisi sociale in cui versava Atene all'indomani dell'affaire di Cilone, tra il
624 e il 621 diede alla città le prime leggi scritte destinate a diventare celebri per la loro severità.
La critica ritiene autentiche tra le disposizioni legislative draconiane di cui la tradizione dà notizia,
solo quelle relative ai reati di sangue, e in particolare a noi è ben nota la norma pertinente
l'omicidio. La novità introdotta da Draconte sul piano del diritto sta nel fatto che in caso di
omicidio il legislatore interveniva direttamente valutando la responsabilità individuale del
colpevole, ossia la volontarietà o involontarietà dell’omicidio e sottraeva, così, almeno in parte, il

43
giudizio alla famiglia della vittima per attribuirlo alla comunità politica, regolamentando il regime
della vendetta privata.

Il tentativo perseguito da Draconte di stabilizzare la situazione politica di Atene non ebbe buon
esito, tanto è vero che le fonti riferiscono che la città nella seconda metà del VII secolo fu
travagliata da discordie interne. Più precisamente, aumentò la tensione tra un esiguo numero di
benestanti da un lato e un gran numero di individui pressoché nullatenenti dall'altro. Questi
lavoravano le terre dei ricchi con l'impegno di versare una quota fissa del raccolto, oppure
contraevano prestiti dando in garanzia la propria persona, non potendo disporre di altro. L’esito di
questo processo fu la riduzione in schiavitù di numerose persone e l’inasprirsi del conflitto con
l’élite aristocratica. Al fine di venire fuori da questa situazione, che si stava pericolosamente
avviando verso una aperta guerra civile, gli Ateniesi decisero di eleggere nel 594/3 come arconte
con poteri straordinari Solone, affinché facesse da mediatore tra le parti in conflitto. Solone cercò
di risolvere la difficile situazione con una legge, la seisáchtheia, letteralmente «scuotimento dei
pesi», la quale prevedeva l'annullamento dei debiti che vincolavano le terre e le persone fisiche e
l'abolizione della schiavitù per debiti. Sancendo il diritto del cittadino a non essere ridotto in
schiavitù, fissò un principio che garantiva i poveri e la comunità, ma lasciava inalterate le
differenze sociali. Egli, infatti, non procedette a una ridistribuzione della terra, come chiedevano i
contadini, dal momento che il suo intento era limitare i conflitti, non favorire eccessivamente il
popolo.

Procedette anzi alla divisione della società in quattro classi di censo, stabilito in base al prodotto
annuo delle terre, valutato in medimni o metreti, le unità di misura di capacità del tempo. Le classi
erano le seguenti: i pentacosiomedimni, che disponevano di 500 medimni o metreti di prodotti
agricoli annui; i cavalieri, tra i 500 e i 300 medimni o metreti; gli zeugiti, che costituivano la classe
media e disponevano di un prodotto che oscillava tra i 300 e i 200 medimni; i teti, il cui reddito
annuo non raggiungeva i 200 medimni. Tale divisione era funzionale a regolare l'accesso alle
cariche pubbliche: quelle di maggiore importanza erano esclusivo appannaggio delle prime due
classi, mentre gli zeugiti avevano accesso ad alcune magistrature minori. I teti potevano
partecipare all’assemblea, ma era loro precluso qualsiasi incarico. In questo modo gli aristocratici,
che allora coincidevano con la classe dei più ricchi, potevano mantenere le redini della politica
ateniese, tuttavia, oltre a garantire la partecipazione, seppur limitata, anche ai più poveri, si
introduceva la possibilità di una certa mobilità sociale.

A Solone è attribuita anche l’istituzione di un consiglio composto da quattrocento membri e del


tribunale popolare, le cui funzioni, però, non sono note.

L'intervento di Solone non riuscì a porre fine alle frizioni interne alla città, che dopo pochissimi
anni riesplosero, portando Atene a vivere l'esperienza della tirannide.

La tirannide ad Atene

44
Negli anni che seguirono all’azione di Solone l’instabilità proseguì, portando alla costituzione di
tre fazioni su base territoriale in conflitto tra di loro: i Pediaci, guidati da Licurgo; i Parali, con a
capo l’alcmeonide Megacle e gli Iperacri, alla cui testa si pose Pisistrato. Lo scontro tra i tre gruppi
proseguì con continui riposizionamenti tattici dei protagonisti e i diversi tentativi da parte di
Pisistrato di imporre la tirannide. Il primo ebbe luogo nel 561/60 a.C., ma fallì a causa dell’unione
dei suoi due avversari; il secondo poco tempo dopo, grazie al matrimonio con la figlia di Megacle.
L’alleanza però non durò a lungo e Pisistrato fu costretto all’esilio, che trascorse nella penisola
calcidica, dove, con le ricchezze accumulate grazie all’estrazione di oro dalle ricche miniere della
zona, riuscì a formare un esercito con il quale, nel 547/6, prese definitivamente il potere ad Atene.
Il governo di Pisistrato non fu oppressivo: anzi, la tradizione antica lo descrive come un periodo di
benessere. Egli non modificò le istituzioni della pólis e preferì intervenire con singoli
provvedimenti, volti in particolare a favorire la produzione agricola e artigianale. In questo periodo
comincia la coniazione di moneta ad Atene, e si dà inizio ad una politica di monumentalizzazione
del centro cittadino, con la costruzione di templi e impianti idraulici. Pisistrato istituì altresì dei
giudici itineranti che giravano nella regione per dirimere le controversie, sollevando i contadini
dall’obbligo di spostarsi nell’ásty per ricevere giustizia.

Dopo la morte del tiranno (528/7 a.C.), il potere passò nelle mani del figlio Ippia, che proseguì
nell’azione, improntata alla moderazione, del padre. Tale equilibrata politica venne meno dopo il
514/3, quando, in seguito ad una fallita congiura organizzata dagli aristocratici Armodio e
Aristogitone, fu assassinato il fratello del tiranno, Ipparco. Ippia reagì con una violenta repressione
nei confronti degli aristocratici, che portò all’espulsione di numerose famiglie, tra cui gli
Alcmeonidi. Questi ultimi si assicurarono il sostegno del santuario delfico e, soprattutto, di Sparta,
il cui esercito, guidato da re Cleomene, riuscì nel 510 a cacciare Ippia, che si recò in esilio in
Persia.

Clistene

All’indomani della cacciata del tiranno, ad Atene non sussistevano le condizioni di una vita
politica collettiva. L'assetto politico istituzionale voluto da Solone, infatti, era stato messo in crisi
dalle lotte tra le famiglie aristocratiche e la tirannide, anche se non aveva eliminato le istituzioni
esistenti certamente non aveva potenziato gli organi della decisionalità collettiva né le magistrature
pubbliche.

La lotta politica quindi riprese con due personalità di altissimo rango: Isagora e Clistene. Il primo,
contando sul sostegno di Sparta, provò a prendere il potere, ma Clistene, confidando sull'appoggio
degli artigiani e dei contadini riuscì a respingere il tentativo dell’avversario. Clistene ricambiò
allora il sostegno ricevuto rifondando le basi della comunità civica e coinvolgendo attivamente la
cittadinanza nei processi decisionali.

Secondo quanto riferisce Aristotele, Clistene, anzitutto, portò il numero delle tribù in cui era divisa
la popolazione da quattro a dieci. Suddivise poi l’intero territorio dell’Attica in tre zone, la costa,

45
la pianura e il centro, a loro volta frazionate in trenta unità, dette trittie. Ogni trittia, comprendeva
inoltre diversi demi, unità che costituiva la circoscrizione territoriale e amministrativa di base. La
residenza in un determinato demo, infatti, definiva il cittadino insieme alla sua paternità. Le tribù
rappresentavano la principale unità di ripartizione della pólis e dunque svolgevano un ruolo
fondamentale nell'organizzazione del corpo civico.

La riforma puntava a rompere la solidarietà esistente tra le famiglie aristocratiche e i territori dove
si concentravano le loro proprietà e a rafforzare il legame dei cittadini, sia con il proprio territorio
di provenienza, sia con le istituzioni comuni della pólis. I demi, infatti, avevano il compito di
registrare i cittadini ed erano dotati di proprie istituzioni, cioè di un’assemblea e di magistrati, cosa
che favoriva i legami tra gli abitanti del medesimo demo. Allo stesso tempo, d’altro canto, i demi
dovevano fornire, in base alla propria dimensione, le liste dei candidati dalle quali sarebbero stati
sorteggiati i membri del consiglio dei Cinquecento, anche questo introdotto da Clistene al posto
del precedente consiglio dei Quattrocento istituito da Solone.

Ogni tribù forniva poi al consiglio cinquanta buleuti, scelti dai demi compresi nelle tre trittie che la
componevano.

La riforma clistenica riguardò anche le magistrature: gli arconti divennero dieci e, al termine del
mandato, entravano a far parte di un antico tribunale, l’Areopago, dal nome del colle (di Ares) su
cui si riuniva. Dieci erano anche gli strateghi, la carica militare più importante della città. Secondo
questo schema decimale furono organizzate tutte le altre magistrature, che si moltiplicarono nel
corso del V e IV secolo.

Un’ultima, ma non meno importante, innovazione che può essere attribuita a Clistene, è
l’introduzione dell’ostracismo. Ogni anno il popolo poteva decidere di attivare questa procedura,
che consisteva nell’indicare su un coccio di ceramica (óstrakon) il nome di un politico sospettato
di ambire alla tirannide. Il più votato veniva allontanato dalla città per dieci anni, senza perdere
tuttavia nessuno dei suoi diritti (rimaneva, ad esempio, proprietario di tutti i suoi beni). Ciò era
finalizzato ad evitare che singole personalità accumulassero un potere tale da sfociare
nell'istaurazione di una tirannide.

In passato, a partire da Erodoto, è stata attribuita a Clistene l’invenzione della demokratía ateniese,
ma oggi si preferisce parlare piuttosto di isonomía, l'uguaglianza dei diritti, e isegoría, ossia il
diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero senza discriminazioni di nascita o di censo e la
possibilità di prendere parte agli organismi di carattere deliberativo e giudiziario. L'instaurazione
di una democrazia reale era frenata ancora dal persistere dei requisiti censitari nell'accesso alle
magistrature, il che escludeva una parte del popolo dall'esercizio del potere esecutivo; inoltre
l'essere membro del consiglio dei cinquecento non prevedeva una retribuzione, per cui nei fatti

46
poteva parteciparvi solo chi era in condizione di abbandonare per un anno le proprie normali
attività e rinunciare ai relativi proventi.

Tuttavia, con le riforme clisteniche erano state gettate le basi che porteranno nel V secolo alla
nascita di una reale democrazia partecipativa.

Bibliografia

C. Bearzot, Manuale di storia greca, Bologna 2013.

D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall'età micenea all'età romana, Bari 2013.

V. Saldutti, A. Visconti, Lineamenti di Storia antica. Vicino Oriente, Grecia, Roma, con
contributi di C. Carabillò, M. Lanzillo, W. Nobile, Napoli 2018.

47
5. Alessandro Magno e i Regni Ellenistici

IL REGNO DI MACEDONIA

La Macedonia, una regione settentrionale della Grecia, si trovava ai margini del mondo delle póleis,
sia geograficamente sia culturalmente; essa era infatti abitata da una popolazione greca che risentiva
degli influssi delle genti balcaniche confinanti. Per molto tempo gli altri Greci avevano considerato
i Macedoni quasi dei barbari: il loro dialetto risultava pressoché incomprensibile e la loro civiltà
aveva risentito ben poco dello sviluppo ellenico. Solo la classe dirigente macedone aveva accolto,
fin da età molto antica, vari influssi culturali dal mondo greco, con cui intratteneva frequenti
contatti, e ne aveva ereditato usi e costumi. Alla fine del V secolo a.C. la corte reale, che aveva sede
a Pella, divenne un importante centro di cultura, in cui si radunavano celebri letterati ed artisti greci.
I Macedoni erano ancora governati da una monarchia: non c’erano póleis ed il territorio era diviso
in cantoni, dominati da famiglie dell’aristocrazia guerriera. La gran massa della popolazione,
costituita prevalentemente da pastori e contadini che occupavano villaggi privi di strutture
difensive, viveva in condizioni politico-economiche arretrate. Oltre ai prodotti dell’agricoltura e
dell’allevamento, un’altra importante fonte di ricchezza era costituita dal legname delle grandi
foreste, che veniva anche esportato in Attica per la costruzione delle navi ateniesi.

FILIPPO II E L’ESPANSIONE DEL REGNO

Fu il re Filippo II (359-336 a.C.) a far diventare la Macedonia una grande potenza. Egli rafforzò la
coesione dello Stato macedone legando a sé l’aristocrazia, che venne inquadrata nei ranghi della
cavalleria; i cavalieri furono insigniti del titolo onorifico di etéri, cioè “compagni”. Vennero
valorizzati anche i soldati di fanteria, definiti pezetéri, cioè “compagni a piedi”, armati con una
lunga lancia (la sarissa) e inquadrati in una nuova falange, la falange macedone: disposti su sedici
file (anziché otto), formavano una schiera molto più compatta e solida della falange oplitica greca.
La forza militare macedone poté contare anche su fanti armati alla leggera e su mercenari illiri e
traci, oltre che su efficienti macchine d’assedio. Accanto al rafforzamento dell’esercito, Filippo
favorì la trasformazione dei Macedoni da popolo dedito prevalentemente alla pastorizia a popolo di
agricoltori, portando così alla nascita di insediamenti stabili e alla fondazione di città. Filippo II,
inoltre, si impegnò fin da subito a consolidare i confini dello Stato macedone, sconfiggendo gli Illiri
e altre bellicose popolazioni limitrofe. In seguito, dopo aver riorganizzato l’esercito, estese i confini
del regno fino a comprendere a sud la Tessaglia e a nord la Tracia, regione ricca di miniere d’oro.
Iniziò quindi a rivolgere il suo interesse verso la Grecia. Forte del potente apparato militare, si inserì
progressivamente nella politica di rivalità che opponeva le diverse póleis greche, acquisendo man
mano il controllo di zone sempre più vaste della Grecia centro-settentrionale, fino a minacciare gli
interessi commerciali e gli approvvigionamenti di Atene. Nei rapporti con le póleis greche Filippo
seguì inizialmente una politica accorta, presentandosi come alleato e difensore. In virtù del ruolo
che si era arrogato, nel 353 a.C., sceso in Grecia, mosse in aiuto dei Tessali contro i Focesi (Terza
Guerra Sacra). Il casus belli fu l’accusa rivolta da Tebe ai Focesi di aver coltivato le terre sacre del
tempio di Delfi. A questa accusa seguì l’occupazione militare del santuario che scatenò così lo
sdegno e la guerra. I Tebani sembrarono prevalere ma i Focesi resistettero grazie ai mercenari

48
ingaggiati con il tesoro del santuario.
I Tessali preoccupati, chiesero l’intervento di Filippo che sconfisse in breve tempo i Focesi. La
guerra tra Focesi e Tebani continuò, nel frattempo però Filippo distrusse Olinto, ultima polis di
potere nel Nord della Grecia, per questioni puramente legate alla politica (343 a.C.).

1. LA SOTTOMISSIONE DELLE POLEIS

Di fronte all’intervento non richiesto di Filippo, ad Atene emersero pareri contrastanti: Demostene,
oratore e politico fautore della resistenza antimacedone, nelle sue Filippiche lanciava l’allarme
contro la strategia di annessioni perseguita da Filippo e incitava tutte le città greche ad allearsi in
una grande lega per combattere i Macedoni. I moderati, di cui si fece portavoce l’oratore Isocrate,
propendevano invece per la pace: essi ritenevano infatti che Filippo rappresentasse un freno alle
tendenze democratiche radicali e potesse realizzare l’unità dei Greci contro la Persia. Prevalse
inizialmente il partito filomacedone e nel 346 a.C. fu stipulato un trattato di pace (Pace di Filocrate)
che riconosceva a Filippo le sue conquiste ed un ruolo di guida nella politica greca. Ormai il re non
nascondeva più le proprie mire: egli aspirava al dominio sull’intera Grecia. Per far fronte a questa
situazione, Tebe si alleò con Atene ed intorno alle due città si formò una vasta coalizione
antimacedone, che affrontò l’esercito nemico nel 338 a.C. a Cheronea, in Beozia. Con la sua potente
falange, Filippo sbaragliò facilmente l’esercito delle póleis greche alleate, che pure combatté
valorosamente a difesa della libertà della Grecia. Finiva così l’autonomia delle póleis e si apriva una
nuova fase storica. Dopo la vittoria Filippo impose condizioni di pace moderate ad Atene ed alle
altre città, il cui appoggio gli era prezioso per la spedizione contro la Persia che aveva in progetto di
realizzare. In generale, Filippo cercò di unire tutti i Greci nel segno di un rinnovato panellenismo.
Riunì dunque tutte le città sconfitte in una confederazione, la cosiddetta Lega di Corinto, che aveva
il compito di mantenere la pace tra le città greche e l’ordine sociale al loro interno. Filippo appariva
dunque come il promotore ed il custode della pace dei Greci, ma la realtà era ben diversa. Benché
venisse riconosciuta l’autonomia e la libertà delle póleis, esse di fatto avevano perso la loro
indipendenza in quanto dovevano sottostare all’effettiva egemonia della Macedonia.

2. PREPARATIVI DELLA SPEDIZIONE CONTRO LA PERSIA

Dopo aver conquistato il controllo sulle città greche, Filippo iniziò i preparativi per la sua
spedizione contro la Persia; per indurre le città della Lega di Corinto a mettere a sua disposizione le
loro risorse presentò le spedizioni come vendetta per la distruzione dei templi greci compiuta dai
Persiani al tempo dell’invasione di Serse e come liberazione delle città greche in Asia Minore, che
dalla pace del Re (386 a.C.) erano sotto il dominio persiano. La guerra fu dichiarata nel 337 a.C.,
ma Filippo non poté proseguire nella sua impresa: nel 336 a.C., quando già un’avanguardia
macedone aveva raggiunto il territorio persiano, il re cadde vittima di una congiura. Gli succedette
il figlio ventenne Alessandro, allora comandante della cavalleria. Forte personalità e grande
ammiratore della cultura greca, il giovane sovrano aveva ricevuto un’ottima educazione in diverse
discipline, sotto la guida di un maestro d’eccezione, il filosofo Aristotele, il cui padre era stato
medico di corte dei re macedoni.

49
LA STRAORDINARIA AVVENTURA DI ALESSANDRO MAGNO

Nel 336 a.C. dopo aver sepolto solennemente il padre, Alessandro si recò in Grecia per farsi
confermare capo della Lega di Corinto. Si diresse quindi verso la Tracia e poi verso l’Illiria, per
consolidare i confini settentrionali della Macedonia. Nell’estate del 335 a.C. scoppiò a Tebe una
rivolta contro il governo oligarchico filomacedone. Mentre i Tebani cercavano il sostegno delle
altre città, Alessandro si diresse a marce forzate verso la Grecia centrale ed attaccò la città: oltre
6000 Tebani morirono nello scontro; i sopravvissuti furono venduti come schiavi e la città venne
distrutta. La terribile punizione di Tebe fu un efficace atto dimostrativo del potere macedone, con il
quale Alessandro si assicurò la lealtà delle póleis, al fine di riprendere il piano del padre di
conquista della Persia. L’esercito macedone (composto da 15000 Macedoni, 7000 Greci forniti dalla
Lega di Corinto, 5000 mercenari ed alcuni contingenti forniti da tribù balcaniche) ottenne la prima
vittoria contro i Persiani nella battaglia presso il fiume Granìco (334 a.C.), in Asia Minore: alla
vittoria seguì la liberazione delle città greche della Ionia, che furono sottratte definitivamente al
dominio persiano e riorganizzate con regimi democratici. L’anno successivo Alessandro affrontò
l’intero esercito persiano nella grande battaglia di Isso (333 a.C.), nella quale combatté anche il
Gran Re Dario III, alla testa di truppe formate essenzialmente da mercenari greci. La cavalleria, al
comando dello stesso Alessandro, attaccò la guardia del Gran Re che, per evitare di essere catturato,
si diede alla fuga, lasciando il tesoro imperiale e la sua stessa famiglia nelle mani di Alessandro.
Sbaragliato l’esercito persiano, tutta la penisola anatolica fu annessa all’Impero macedone. Per
impedire ai Persiani di attaccare alle spalle la Grecia con la flotta fornita dalle città fenicie,
Alessandro si accinse alla loro conquista; Tiro, non accettando la sottomissione, subì un lungo
assedio e, una volta caduta, una punizione spietata: 8000 abitanti furono uccisi, 30000 venduti come
schiavi e 2000 crocifissi lungo la costa. La via per l’Egitto, una delle più ricche satrapie persiane,
era libera.

L’AVANZATA, DALL’EGITTO A PERSEPOLI

Quando Alessandro giunse in Egitto, il satrapo locale gli consegnò senza combattere la ricca valle
del Nilo. A differenza degli ex dominatori persiani, la cui mancanza di rispetto per la potente casta
sacerdotale egizia li aveva esposti all’ostilità della popolazione, Alessandro adottò una politica di
riguardo nei confronti della religione locale. Per prima cosa rese omaggio al dio-toro Api a Menfi,
capitale del Basso Egitto, e ordinò il ripristino di tutti i santuari nei centri dell’Alto Egitto, Karnak e
Luxor. I sacerdoti egizi accettarono quindi il nuovo dominatore, considerandolo erede legittimo dei
faraoni. Alessandro fece poi una spedizione nell’oasi di Siwa, sede di un celebre oracolo del dio
Amon, dove i sacerdoti lo salutarono come una divinità: si diffuse così la fama della sua natura
divina. Dopo aver fondato sul delta del Nilo una nuova città, che chiamò Alessandria, destinata a
diventare una delle maggiori città del mondo antico, il sovrano macedone riprese l’avanzata nel
cuore dell’Impero persiano. Alessandro sconfisse definitivamente Dario nella battaglia di
Gaugamèla (331 a.C.); quindi occupò le capitali del regno persiano: Babilonia, Susa, Ecbatana e
Persepoli. Il grande palazzo imperiale di Persepoli, un capolavoro dell’architettura e dell’arte

50
persiana, venne incendiato con tutti i suoi arredi come atto finale della vendetta per la distruzione
dei templi greci al tempo di Serse. L’obiettivo della spedizione era raggiunto e Alessandro congedò
i contingenti greci rimandandoli in patria. Molti di loro rimasero tuttavia con lui come mercenari.
Le ragioni di una così rapida avanzata devono essere individuate sia nella debolezza dell’Impero
persiano, ridotto ad utilizzare mercenari greci e snervato dalla crescente indipendenza dei satrapi,
sia nella forza straordinaria dell’esercito macedone, fondato sulla falange e sulla cavalleria e
stimolato dalle prospettive di un ricco bottino.

ALESSANDRO IN ASIA

Dopo aver dato una prima sistemazione amministrativa ai territori conquistati, nominando uomini
sia persiani sia macedoni come nuovi satrapi, Alessandro si diresse verso l’Asia centrale
all’inseguimento di Dario, di nuovo in fuga dopo la sconfitta di Gaugamèla. Tuttavia, egli non riuscì
a catturare Dario perché il Gran Re fu ucciso a tradimento da uno dei suoi satrapi, Besso. Il
Macedone avanzò allora nella conquista delle satrapie orientali. Quest’impresa si rivelò lunga e
complicata, dal momento che l’esercito macedone dovette superare forti difficoltà ambientali e
affrontare popoli fino ad allora sconosciuti. Nel corso della marcia vennero fondate numerose città,
molte delle quali denominate “Alessandria”, che divennero nei secoli seguenti centri di irradiazione
della cultura ellenica nell’Asia centrale, tanto da influenzare l’arte e la filosofia indiane. Per
consolidare il suo potere sulle popolazioni iraniche, Alessandro iniziò una politica di fusione tra il
popolo persiano e quello dei vincitori che, secondo i suoi progetti, avrebbe garantito la stabilità del
vastissimo impero: favorì perciò i matrimoni misti tra i suoi soldati e le donne del luogo ed egli
stesso sposò nel 327 a.C. Rossane, una principessa persiana, e poi, nel 324 a.C., Statira, figlia di
Dario III. Attratto dal fascino della conquista e dagli immensi tesori delle estreme regioni orientali,
Alessandro si spinse fino alla valle dell’Indo, che i Greci consideravano l’estremo confine del
mondo abitato. Qui però il suo esercito, stremato dagli scontri e da 15000 chilometri di marcia, lo
costrinse a fermarsi e a ritornare in patria.

Per ritornare a Babilonia, la futura capitale dell’impero, l’esercito impiegò due anni. Una volta
giunto in questa città, Alessandro riprese la politica di integrazione tra Persiani e Macedoni: arruolò
nel suo esercito numerosi soldati e comandanti persiani, cercò di assicurarsi la fedeltà
dell’aristocrazia locale, organizzò perfino un matrimonio collettivo tra ufficiali e soldati semplici
macedoni e donne persiane (Nozze di Susa 324 a.C.). Questa politica, unitamente all’adozione da
parte di Alessandro di usanze della corte del Gran Re (per esempio la proskýnesis, l’atto di
prosternarsi al cospetto del sovrano come davanti ad una divinità) suscitò il malcontento di
Macedoni e Greci, ma Alessandro reagì con violenza contro chi si opponeva, facendo giustiziare
anche alcuni dei suoi più fedeli collaboratori tra cui Clito, compagno di mille battaglie.
L’integrazione fu perseguita anche sul piano amministrativo: Alessandro creò apparati burocratici
misti, coniò una moneta unica e impose l’uso del greco come lingua ufficiale dell’amministrazione
dello Stato. Un altro provvedimento che suscitò scandalo nella madrepatria fu il decreto degli esuli
del 324 a.C., che concedeva un’amnistia immediata a tutti gli esuli greci, tranne per coloro che
avevano commesso omicidio o sacrilegio. La morte improvvisa impedì al sovrano macedone di
realizzare i suoi progetti: nel 323 a.C., a soli 33 anni, Alessandro morì a causa di un attacco di

51
febbri forse malariche mentre stava allestendo una spedizione per la conquista dell’Arabia. In pochi
anni, era diventato il padrone incontrastato di un impero che si estendeva dalla Grecia all’Egitto,
alla Siria, all’Asia Minore, alla Mesopotamia, alla Persia, fino ai confini dell’India, favorendo
l’espansione della cultura greca al di là del mondo ellenico. Subito dopo la sua morte iniziò a
diffondersi il “mito” di Alessandro detto Magno, del conquistatore mosso dal desiderio insaziabile
di spingersi oltre, superando le frontiere raggiunte da tutti i predecessori. L’impresa di Alessandro
ha condizionato a lungo la storia delle regioni conquistate e la sua figura d’eccezione ha affascinato
per secoli la nostra ed altre civiltà.

L’EREDITA’ DI ALESSANDRO

Alessandro morì senza eredi e, venuta meno la sua personalità accentratrice, i generali che avevano
servito il sovrano si divisero l’impero. Naturalmente questa spartizione non fu attuata
pacificamente, ma fu segnata da continue guerre e dall’eliminazione di alcuni pretendenti. Il
processo di frammentazione dell’impero e di stabilizzazione dei nuovi regni si concluse nel 280 a.C.
Dalle lotte per il potere tra i diàdochi, i successori di Alessandro, tra cui prevalsero Tolomeo,
Seleuco e Antigono, nacquero tre grandi formazioni statali: il regno dei Tolomei in Egitto, il regno
dei Seleucidi in Asia e il regno degli Antigonidi in Macedonia. Un quarto regno importante nacque
in Asia Minore ad opera di Eumene di Pergamo, funzionario dei Seleucidi. Andiamo però a vedere
come si arrivò alla definizione degli assetti geopolitici di quello che fino a poco tempo prima era
l’immenso Impero Macedone.

I 50 anni successivi alla morte di Alessandro sono ricordati come gli anni dei Diàdochi. Alla morte
del sovrano ed in assenza di un successore ben formato, le sorti dell’impero rimasero nelle mani dei
suoi generali che concordarono con il rendere regnanti (fantoccio) il fratello diversamente abile di
Alessandro, Filippo III Arrideo, ed il figlio che doveva ancora nascere dal ventre di Rossane.
Teoricamente i due, che rappresentavano il popolo macedone e quello persiano, avrebbero dovuto
regnare dividendosi il trono, ma il vero potere veniva diviso tra:

ANTIPATRO, supervisore delle regioni della Grecia


PERDICCA; supervisore delle regioni dell’Asia
CRATERO, gestore degli affari della corona e delle finanze

Contemporaneamente si procedette all’assegnazione delle satrapie:


ANTIGONO, detto il Monoftalmo, ottenne l’Asia Minore
LISIMACO, la Tracia
TOLOMEO, l’Egitto
EUMENE, la Cappadocia
SELEUCO, Babilonia

Ogni tentativo di fondere l'elemento greco-macedone con quello persiano fu abbandonato e la


maggior parte dei matrimoni celebrati a Susa fu rescissa. Saputa in Grecia nel frattempo la notizia
della morte di Alessandro, la lega ellenica voluta da Filippo II si sciolse e si venne a costituire
un’alleanza antimacedone con a capo Atene. Questo breve conflitto prese il nome di GUERRA

52
LAMÌACA e vide la sconfitta della lega per mano di Antipatro e Cratero.

PRIMA GUERRA DEI DIADOCHI (322-320 a.C.)

Dopo circa un anno dai primi accordi, ebbero inizio le prime lotte fra i successori di Alessandro,
che puntavano a costituire dei nuclei di potere autonomi. Quando Cratero, supervisore assoluto e
ago degli equilibri dell’impero, lasciò l’Asia per portare aiuto ad Antipatro nella guerra contro la
lega greca, Perdicca ed Eumene ne approfittarono per espandere il proprio potere. I due attaccarono
l’Egitto ed in questa occasione Perdicca perse la vita. Nello stesso tempo Cratero, tornato in Asia
per fermare gli ormai ex compagni d’arme, moriva per mano di Eumene. DUE dei TRE supervisori
dell’impero macedone erano morti e si vedeva pertanto necessario ridefinire gli assetti del potere. I
diadochi si incontrarono nel 321 a.C. a Triparadiso, in Siria e da questo incontro sorse un nuovo
ordine, estremo tentativo di mantenere di fatto unito un impero che ormai lo era solo formalmente.

Le assegnazioni furono dozzine, e questo fu dovuto soprattutto alla vastità del territorio da
controllare. Ricordiamo le più importanti:

 ANTIPATRO, Unico reggente e supervisore
 ANTIGONO, stratego della provincia di Susa, al quale viene affidato il compito di eliminare
Eumene
 TOLOMEO, stratego d’Egitto
 LISIMACO, stratego di Tracia
 SELEUCO, stratego di Babilonia

SECONDA GUERRA DEI DIADOCHI (319-315 a.C.)

Il sistema delle assegnazioni funzionò per poco tempo, gli equilibri erano ormai fin troppo precari.
Alla morte di Antipatro (319 a.C.), ultimo supervisore, le spinte secessioniste e di conquista dei
diadochi la fecero da padrone. A ciò va aggiunta la singolare scelta di Antipatro, di affidare la
reggenza e l’unità dell’Impero non al proprio figlio Cassandro, quanto al compagno d’armi
Poliperconte. Come è naturale immaginarsi Cassandro scatenò una guerra, con il sostegno del
governo filomacedone dell’Atene di Demetro del Falero e, temporaneamente, dei due diadochi
Tolomeo e Antigono. Poliperconte, scacciato dalla coalizione dei tre generali, giunse in Epiro dove
si alleò con Olimpiade, madre esiliata di Alessandro, che lo aiutò nell’invasione della Macedonia
del fratellastro diversamente abile Filippo Arrideo. Non ci fu una vera e propria battaglia tra le due
fazioni, anche perché l’esercito reale non esitò a disertare, permettendo la conquista da parte della
coppia sovra citata. Il re fantoccio venne fatto eliminare da Olimpiade, che però subirà la stessa
sorte per mano di Cassandro; nei mesi a seguire anche Poliperconte verrà spodestato (316 a.C.). In
Asia nello stesso anno terminava la fuga di Eumene, tradito dai suoi uomini, e la sua morte come si
vedrà di seguito assicurerà ad Antigono vasti possedimenti in Oriente ed altrettante mire da parte

53
degli altri diadochi.

TERZA GUERRA DEI DIADOCHI (314-311 a.C.)

In questa terza fase assistiamo alla sconfitta di Antigono per mano di tutti gli altri diadochi,
concordi nel fatto che il generale aveva ormai accumulato troppo potere. Il casus belli va ricercato
nella conquista da parte di Antigono della satrapia di Babilonia, governata da Seleuco, che riesce
con fortuna a scampare alla morte rifugiandosi in Egitto, da Tolomeo. A questa dichiarazione di
guerra segue l’autonomina a reggente dell’Impero (Antigono non aveva abbandonato il sogno di
ricreare l'antico impero di Alessandro, sotto il suo controllo). Per destabilizzare il potere di
Cassandro, che governava in Grecia, Antigono chiama le città stato greche alle armi, affermando
come esse dovessero essere libere e autonome. Nel momento in cui le sorti del conflitto sembravano
volgere dalla parte di Antigono, fece il suo intervento Tolomeo che invase la Siria e sconfisse il
figlio di Antigono, Demetrio Poliorcete, nella battaglia di Gaza (312 a.C.). Nel mentre le forze di
Seleuco riconquistavano Babilonia e si garantivano il controllo dei territori più orientali (contesi a
lungo con Antigono, sino al 309 a.C.). Sconfitto su tutti i fronti, Antigono fu costretto alla pace
(311 a.C.). Alla disputa tra i diadochi segue l’assassinio del legittimo erede al trono, Alessandro IV,
e di sua madre Rossane, per mano di Cassandro, conscio del fatto che una volta raggiunta la
maggiore età la corona della Macedonia sarebbe toccata al giovane. Questo evento portò ad una
linea di demarcazione ancor più netta tra i potentati dei diadochi.

Dalla pace del 311 a.C. si stabilisce il seguente ordine geopolitico:

1. TOLOMEO, stratego d’Egitto


2. CASSANDRO, stratego di Macedonia e Grecia
3. LISIMACO, stratego di Tracia
4. SELEUCO, stratego di Babilonia e delle regioni orientali
5. ANTIGONO, stratego d’Asia Minore, suoi iniziali possedimenti

QUARTA GUERRA DEI DIADOCHI (308-301 a.C.)

Nel 307 una spedizione di Demetrio assicura al padre Antigono il dominio su Atene, la quale passa
dalla parte dei due con entusiasmo e recupera la sua democrazia. L’anno successivo Demetrio riesce
nell’intento di strappare Cipro a Tolomeo, impresa che convinse il padre Antigono a proclamarsi di
nuovo re, volendo rivendicare per l’ennesima volta l’intero regno che fu di Alessandro. Ne seguì
una campagna in Egitto, fallita dopo poco, che portò Tolomeo stesso a proclamarsi re, ma non di
tutti i domini macedoni, bensì della satrapia che per vent’anni aveva diligentemente governato,
mossa seguita anche dagli altri diadochi Cassandro, Lisimaco e Seleuco. Negli anni a seguire
Antigono e suo figlio Demetrio cercarono di unificare i domini in Grecia, riuscendo a conquistare

54
Corinto ma fallendo nel celebre assedio di Rodi. Nel 302 a.C. nasce una nuova lega ellenica, con lo
scopo di spodestare Cassandro. Dinanzi all’ennesima pericolosa avanzata di Antigono e suo figlio,
gli altri diadochi si allearono per eliminarne una volta per tutte la minaccia. Lo scontro ebbe luogo a
Ipso nel 301 a.C., qui le armate di Antigono e del figlio subirono una cocente sconfitta, Antigono
stesso morì sul campo di battaglia e Demetrio fu costretto alla fuga.

ULTIME OSTILITA’ (298-281 a.C.)

Con la morte di Antigono, la regione della Siria venne rapidamente occupata da Tolomeo,
operazione militare che suscitò rabbia in Seleuco e che porrà le basi per le guerre siriache che si
sarebbero combattute trent’anni dopo tra i due regni. Nel 297 a.C. muore Cassandro, Demetrio
fiutando l’occasione, occupa la Macedonia e si proclama re nel 294 a.C. La sua reggenza durerà ben
poco, sarà Lisimaco insieme al re d’Epiro Pirro a spodestarlo. Demetrio verrà catturato ed
imprigionato da Seleuco qualche anno dopo, cattura che sancirà definitivamente la sua fine nello
scacchiere geopolitico; morirà in prigionia nel 283 a.C., lo stesso anno della morte del re d’Egitto
Tolomeo, che prima di lasciare il trono riuscirà a riconquistare l’isola Cipro, e con essa il dominio
sull’Egeo. Gli ultimi due diadochi rimasti, Lisimaco e Seleuco, si scontreranno a Corupedio, nel
281 a.C., dove il re di Tracia troverà la morte. Con questa vittoria Seleuco ottenne teoricamente il
controllo di gran parte dell’Impero di Alessandro, ma non ebbe tempo di organizzarlo: pochi mesi
dopo venne assassinato dal figlio di Tolomeo. Con la morte di Seleuco terminò la generazione dei
diadochi, i sovrani dell’entità politiche che si consolideranno in questi anni prenderanno il nome di
epìgoni. Al regno d’Egitto dei Tolomei e a quello orientale dei Seleucidi, si affiancherà il regno di
Pergamo nato durante la reggenza di Antioco I, figlio di Seleuco, e retto da Filetero, fondatore della
dinastia degli Attalidi. Dopo la morte di Seleuco nel 281 la Macedonia visse alcuni anni di
incertezza prima che nel suo trono si insediasse stabilmente la dinastia degli Antigonidi. Nello
stesso 281 a.C. l'esercito aveva acclamato re l'assassino di Seleuco, Tolomeo Cerauno e vano fu il
tentativo di Antigono Gonata, il primogenito di Demetrio Poliorcete e nipote di Antigono, di
riconquistare la regione. La partita fra i due sarebbe stata decisa da un fattore esterno, l'invasione
dei Celti che di lì a poco sarebbero giunti nella penisola. Tolomeo Cerauno morì e i celti vennero
sconfitti da Antigono Gonata, nel 277 a.C. che potè così stabilizzare il suo potere sulla Macedonia.

CARATTERISTICHE DEI REGNI ELLENISTICI

In tutti i regni ellenistici, come si è già spiegato in precedenza, si mise fine alla politica di
integrazione tra Macedoni e Persiani. Nei regni dei Selèucidi e dei Tolomei si attuò una vera e
propria separazione tra i Greci e i Macedoni, detentori di ogni potere, e gli “indigeni”, esclusi da
ogni partecipazione al governo. Le monarchie, dovendosi appoggiare a Greci e Macedoni, ne
favorirono l’immigrazione, insediandoli nei vari settori dell’esercito, dell’amministrazione e
donando loro terre e privilegi. In entrambi gli Stati buona parte della terra era infatti nelle mani dei
sovrani, che ne distribuivano porzioni ai cleruchi, soldati greci che la ottenevano in prestito in
cambio del servizio militare. I cleruchi assicuravano anche la coltivazione della terra e il relativo
pagamento delle tasse: in tal modo i re ellenistici evitavano di dover pagare somme ingenti per

55
mantenere un esercito fisso. I sovrani, il cui potere era assoluto, si appoggiavano all’esercito, che,
secondo la tradizione macedone, accoglieva nei suoi ranghi superiori funzionari e ministri, i
cosiddetti “amici”; tra questi c’erano uomini di diversa origine sociale, dotati delle capacità
richieste. I regni ellenistici, pur governati da monarchi assoluti, basavano la propria sopravvivenza
sull’esistenza nel territorio di numerose póleis, nelle quali abitavano le comunità dei Greci
immigrati o di indigeni ellenizzati. Queste póleis si autogovernavano tramite le istituzioni
tradizionali (magistrati, consiglio, assemblea), anche se i loro margini di autonomia erano
fortemente limitati dall’autorità del sovrano. La pólis dunque sopravvisse nel mondo ellenistico,
seppur spogliata della propria caratteristica peculiare di città autonoma. Un altro elemento comune a
queste monarchie fu la divinizzazione del sovrano e dei suoi famigliari. Essi venivano considerati
degli dèi viventi: ciò non era in contrasto con le tradizioni dei popoli orientali, specialmente degli
Egizi, ma era un elemento del tutto nuovo per i Greci. Essi si abituarono gradualmente all’idea dei
sovrani divinizzati, ai quali tributavano onori di ogni tipo, assimilandoli a eroi mitici. Inoltre, per far
risaltare la distanza tra monarca e sudditi venne introdotto il cerimoniale di tipo orientale, che
prevedeva un abbigliamento sontuoso per il re e rituali gesti di ossequio nei suoi confronti.

I Tolomei per esempio, organizzarono una ramificata burocrazia, composta di funzionari Greci, per
controllare ogni aspetto dell’economia e ricavarne ingenti risorse. Essi si limitarono, sotto questo
aspetto, a riprendere il tradizionale sistema amministrativo faraonico, introducendo però il greco nel
linguaggio burocratico. Accanto alla scrittura greca sopravvisse in Egitto quella indigena, il
geroglifico, usato soprattutto a fini religiosi dai sacerdoti egizi, e la sua versione semplificata, il
demotico. La terra regia era divisa tra contadini egizi e soldati greci, e parte del raccolto finiva nei
magazzini dello Stato sotto forma di tasse. Tuttavia, estese proprietà terriere erano concesse ai
grandi templi, tradizionali centri di potere egizi. Ogni attività artigianale e commerciale era tassata;
quelle più redditizie, come le miniere o la produzione di essenze oleose, erano monopolio dello
Stato. Il regno tolemaico è un classico esempio di intromissione dello Stato nell’economia, della
quale venivano controllati tutti gli aspetti al fine di ricavare le maggiori risorse possibili.

La ricchezza dell’Egitto tolemaico fu favorita non solo dalla capacità di gestire le risorse agricole
del paese, ma anche dalla crescita di Alessandria d’Egitto, una delle maggiori città mercantili ed
artigianali del bacino del Mediterraneo. La città era infatti produttrice di beni di pregio come tessuti
di lino, papiri, profumi ed essenze, che venivano poi destinati ad altri mercati; a questi prodotti si
aggiungeva lo smercio di quelli provenienti dall’India, come la seta, le perle e le spezie. Sotto il
patrocinio dei Tolomei, questa città divenne anche un importante centro culturale. Qui venne
fondata la più grande biblioteca del mondo antico, nella quale lavoravano letterati professionisti per
trascrivere le opere greche e tradurre quelle scritte in altre lingue: secondo la tradizione, nella
biblioteca era custodito l’intero scibile umano, migliaia e migliaia di volumi, in gran parte andati
perduti dopo un disastroso incendio.

La trasmissione di cultura procedette in qualche caso anche in senso inverso: fu infatti grazie a
orientali ellenizzati che parte del patrimonio culturale dell’antico Oriente, come l’astrologia e
l’astronomia babilonesi, entrò a far parte della cultura ellenica. L’emigrazione di Greci provenienti
da ogni angolo dell’Ellade e la circolazione di uomini di cultura originari di póleis diverse, ebbero

56
come risultato la nascita di un sentimento di cosmopolitismo, tipico dell’età ellenistica. I Greci,
infatti, non si sentivano più legati ad una singola pólis, come nei secoli precedenti, ma avevano la
percezione di essere cittadini di un mondo (kosmos), quello ellenistico, caratterizzato da una civiltà
omogenea, nella quale le antiche divisioni che avevano funestato il mondo della pólis erano venute
meno.

Bibliografia

Bettalli, D’agata, Magnetto, Storia Greca, Roma, Carocci Ed., 2013

Chiauzza, Senatore, Storti, Vicari, Attualità del passato, Torino, Mondadori, 2008

Corsaro, Gallo, Storia Greca, Milano, Mondadori, 2009

Musti, Storia Greca, Bari, Laterza, 2006

Lotze, Garulli, Storia Greca, Bologna, Il Mulino, 2010

57
6. Le origini di Roma, il passaggio dalla monarchia alla repubblica

La storia di Roma viene suddivisa dagli storici in tre periodi:


1. monarchia, dalla fondazione (753 a.C.) alla cacciata del re di origine etrusca Tarquinio il
superbo (509 a.C.);
2. repubblica, sino alla fondazione dell’impero per opera di Augusto (30 a.C.);
3. impero, sino alla caduta dell’impero d’occidente (476 d.C.).

Roma non ebbe una fondazione precisa. La data del 753 a.C., che non si basa su alcun documento,
fu fissata nel I sec a.C. La città ebbe probabilmente origine da poche capanne abitate da pastori, che
col tempo si raggrupparono in un villaggio sul colle Palatino, non lontano dal Tevere. Quando
Roma diventò la città più forte e ricca del suo tempo, si pretese che le sue origini fossero nobiliari:
di qui il ricorso ai miti/leggende (Romolo figlio di Marte, dio della guerra, la madre, Silvia,
sacerdotessa della dea Vesta, discendente dell’eroe troiano, Enea, scampato alla distruzione della
sua città, poi approdato sulle rive del Lazio).
Le tradizioni romane hanno adornato la storia della città con varie leggende, per lo più narrate
da Tito Livio nel primo libro della sua Storia di Roma.

LA FONDAZIONE DI ROMA

Narra la leggenda che Ascanio, figlio dell’eroe traiano Enea (discendente di Venere e del mortale
Anchise), fondò la città d’Alba Longa sulla riva destra del Tevere. Qui regnarono molti dei suoi
discendenti, fino a quando raggiunsero il potere Numitore e suo fratello Amulio. Quest’ultimo si
appropriò del trono e costrinse l’unica figlia del fratello, Rea Silvia, a diventare vestale e a far
quindi voto di castità, in modo da non poter procreare, evitando di generare pretendenti alla corona.

Marte, il dio della guerra, si invaghì della fanciulla e dopo averla posseduta la rese madre di
due gemelli, Romolo e Remo. Amulio ordinò ai suoi soldati di uccidere i due bambini, ma questi
per pietà li risparmiarono e li abbandonarono in una cesta lungo il Tevere.

Una lupa, attirata dai vagiti dei due bambini, li raggiunse e li allattò nella sua tana del monte
Palatino, fino a quando furono trovati da un pastore che insieme a sua moglie li adottò. Ormai
adulti, i gemelli uccisero Amulio e riconsegnarono il potere d’Alba Longa al nonno Numitore e,
come colonia di quest’ultima, fondarono una città nei pressi della riva destra del Tevere, nel luogo
incui erano stati allattati dalla lupa.

Si ipotizza che la lupa che allattò Romolo e Remo fu, in realtà, la loro madre adottiva. Il
termine lupa era infatti utilizzato per indicare con disprezzo le prostitute.

La leggenda racconta, inoltre, di come Romolo uccise Remo. Vicino alla foce del fiume vi erano
sette colli, chiamati Aventino, Celio, Capitolino, Esquilino, Palatino, Quirinale e Viminale. Romolo
e Remo non giungevano a un accordo sulla scelta del luogo di fondazione della loro città
e lasciarono decidere al fato, osservando, secondo il metodo etrusco, il volo degli uccelli. Romolo
ne vide dodici sul Palatino, mentre Remo solo sei su un’altra collina. Per delimitare la nuova

58
città, Romolo tracciò un perimetro con l’aratro nell'area del monte Palatino e giurò che avrebbe
ucciso chiunque avesse cercato di superare il confine. Remo disubbidì all'ordine di Romolo e
attraversò con disprezzo la linea tracciata dal fratello. Fu così che Romolo lo uccise, diventando il
primo e unico re di Roma.

Durante la fase monarchica, i re di Roma - secondo la tradizione semileggendaria- sarebbero stati


sette: Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e
Tarquinio il Superbo. Ad essi la tradizione attribuisce l’organizzazione dello Stato e dell’esercito,
del culto religioso, la fondazione del porto di Ostia, la costruzione di ponti, acquedotti ecc. Il nome
Tarquinio sta ad indicare che per un certo periodo Roma fu dominata da alcuni di origine etrusca.
Forse Tarquinio il superbo fu cacciato dalla città perché voleva imporre una monarchia assoluta ed
ereditaria. Dopo di lui i romani proclamarono la repubblica.
Qualche notizia in più sui sette re di Roma.
Secondo la tradizione l'età dei sette re di Roma sarebbe andata dal 21 Aprile del 753 a.c., anno di
fondazione della città ad opera di Romolo (primo re di Roma), al 509 a.c., quando venne cacciato
dal trono Tarquinio il Superbo, un nome che dice tutto. Si chiamano i 7 re di Roma ma in realtà i re
furono 8, anche se due re governarono unitamente.

Gli autori sono concordi nel ritenere che Roma, per i primi 250 anni della sua storia, fu retta da un
governo monarchico. In quest’arco di tempo si sarebbero alternati ben sette re, la maggior parte dei
quali di origine sabina o etrusca.

Infine, nel 509 a.c., una rivoluzione popolare guidata però da alcuni membri dell’aristocrazia
senatoria avrebbe cacciato l’ultimo re e portato alla fondazione della libera Res Publica

Queste leggende sono surrogate da varie prove, quali la celebrazione, già in età repubblicana, della
cerimonia del regifugium o la presenza, nel calendario, per i giorni 24 marzo e 24 maggio, della
sigla Q.R.C.F. ovvero Quando Rex Comitiavit Fas, che indicava la data in cui era lecito per il re
convocare il popolo in assemblea. Ma ne fa fede anche la Regia, sede poi del Pontefice Massimo,
ma che doveva essere stata l’antica dimora del sovrano, per non parlare poi dell’interregnum,
istituto cui si ricorreva in età repubblicana in caso di assenza dei magistrati superiori.

Ma ne fanno fede pure il famoso cippo del Foro romano, il lapis niger, di età molto arcaica, che
menziona per due volte la carica di re. Gli scavi sul Palatino per giunta hanno fatto emergere la
dimora dei primi re di Roma.

La storicità dei sette re sembra dimostrata anche dai nomi regali. Mentre i personaggi relativi alla
fondazione (Romolo, Remo, Amulio, Numitore) hanno un unico nomen, i re successivi riportano,
accanto ad esso, anche un patronimico (Numa Pompilio, Tullo Ostilio), dati dalla necessità di
evitare omonimie in una comunità ormai più allargata.

IL REX

59
La parola rex è chiaramente imparentata con regere, cioè governare, e il rex era un vero "sacerdos",
per di più inaugurato. L'elezione del re avveniva ogni volta e in ogni tempo attraverso tre passi:
– la designatio (da parte dell’interrex),
– la creatio (da parte dei comitia curiata)
– l’inauguratio (da parte di un augure,

procedura tuttavia stravolta all’epoca dei sovrani di origine etrusca.

L’inauguratio rimase sempre, fino alla fine del VI secolo, la tappa conclusiva dell’elezione del rex,
passata in eredità al rex sacrorum.

ROMOLO - vita 771 a.c. - 716 a.c. - latino - morto a 55 anni - regno 753 - 716 a.c. - si
autoproclamò re dopo l'assassinio di suo fratello. Si disse figlio di Rea Silvia (e perciò discendente
di Enea) e del Dio Marte.

TITO TAZIO - vita ? a.c. - 745 a.c. - sabino, re sabini di Cures - regno: 750-745 a.c. combattè
contro i romani per l'offesa subita del Ratto delle Sabine ma finì per accordarsi con Romolo
regnando unitamente sui romani e sui sabini.

NUMA POMPILIO - vita 754 a.c. – 673 a.c. - sabino - morto a 80 anni - regno 715 - 673 a.c. -
Cognato di Romolo - Eletto dai comizi curiati. Istituì il calendario e i principali collegi sacerdotali.

TULLO OSTILIO - vita ? – 641 a.c. -. regno 672 - 641 a.c. - madre latina e padre etrusco -
pronipote di Romolo - Eletto re dopo la morte di Numa Pompilio. Dette a Roma l’egemonia sulle
popolazioni circostanti e riuscì a conquistare la più grande città vicina, Albalonga, grazie alla
leggendaria vittoria degli Orazi sui Curiazi.

ANCO MARZIO - vita ? – 616 a.c. - regno 641 - 616 a.c. - sabino - Suocero di Tullo Ostilio,
nipote di Numa Pompilio; fu eletto re dopo la morte di Tullo Ostilio. Fondò la colonia di Ostia e fu
il primo a promuovere opere pubbliche, come il ponte Sublicio, le saline, la prima prigione
pubblica, etc

LUCIO TARQUINIO PRISCO - vita ? – 579 a.c. - regno 616 - 579 a.c. - etrusco. Eresse edifici
pubblici grandiosi, come il Circo Massimo, il più antichi portici del Foro e il Tempio di Giove
Capitolino, protettore della città.

SERVIO TULLIO - vita ? – 539 a.c. - regno 578 - 539 a.c. - etrusco. Eresse la nuova cinta di mura
urbane, dette appunto “Serviane”, che circondavano i sette colli di Roma. Dette un nuovo ordine
alle assemblee pubbliche ed eresse il Tempio di Diana sul colle Aventino.

LUCIO TARQUINIO IL SUPERBO - vita ? – 495 a.c. - regno 535 - 509 a.c. - etrusco. Tentò di
instaurare la tirannide. Scoppiò una rivolta per il suicidio della giovane Lucrezia a causa del

60
tentativo di violenza dal figlio del re. La rivolta portò alla cacciata di Tarquinio e all’istituzione
della repubblica.
LE ELEZIONI

Alla morte del re, il senato si riuniva e nominava un senatore come interrex, che indicasse in cinque
giorni il prossimo re di Roma, scaduti i quali l'interrex, con il consenso del senato, nominava un
altro senatore come nuovo interrex, per altri cinque giorni. Trovato un candidato adatto, l'interrex lo
candidava al senato per ottenere la ratifica della nomina.

Ottenutala, convocava i Comizi Curiati, in cui i cittadini romani partecipavano suddivisi per curie,
che presiedevano per la procedura di elezione del re. L'assemblea dei Comitia Curiata poteva solo
accettare o rifiutare il candidato re. Se accettato, si procedeva a interrogare la volontà degli Dei,
mediante gli auspici di un augure che seguiva la cerimonia.

Si procedeva quindi al conferimento dell'imperium al re, che avveniva attraverso l'approvazione


della "lex curiata de imperio", votata sempre dai Comizi Curiati. Se in teoria era il popolo, tramite i
comizi curiati, ad eleggere il re, in pratica era il senato a controllare l'elezione del re.

LA RELIGIONE

ROMOLO - Romolo salì il vicino Monte Saturno detto Campidoglio dove designò un luogo per
innalzarvi un Tempio a Giove Feretrio.

NUMA POMPILIO - Nel Foro, fece costruire il tempio di Vesta, e dietro di questo la Regia, e
lungo la Via Sacra fece edificare il Tempio di Giano, le cui porte potevano essere chiuse solo in
tempo di pace (e rimasero chiuse per tutti i quarantatré anni del suo regno). Stabilì il culto della
ninfa Egeria.

TULLO OSTILIO - La leggenda dice che Tullo era così occupato in una guerra dopo un'altra che
aveva trascurato ogni servizio verso le divinità. Una peste terribile si abbatté sui Romani. Anche
Tullo ne fu colpito. Pregò Giove per avere il suo favore ed il suo aiuto. La risposta del Dio fu un
fulmine che venne giù dal cielo, bruciò il re e ridusse la sua casa in cenere, dopo trentadue anni di
regno.

ANCO MARZIO - I Romani allora scelsero meglio il nuovo re, un re che seguisse l'esempio
pacifico e religioso di Numa Pompilio ed elessero Anco Marzio, il nipote di Numa Pompilio. Ma
anche questi fu un combattente e ottenne il controllo dei territori che si estendevano dalla costa
all'Urbe. Inserì nell'Urbe l'Aventino, il Gianicolo e il Celio.

TARQUINIO PRISCO - Fortificò il suo potere intorno al culto di Iuppiter, dando inizio alla
costruzione del grandioso tempio capitolino e introducendo le cerimonie del trionfo e dei ludi
Romani, nonché al culto di Hercules, a cui fu dedicata nel Foro Boario una statua rivestita
dell’ornatus triumphalis.

61
SERVIO TULLIO - legò invece il suo nome alla Dea Fortuna, alla quale fece edificare un tempio
nel Foro Boario, e alla dea Diana, a cui fu innalzato il celebre santuario sull’Aventino aperto ai
Latini.

TARQUINIO IL SUPERBO - riprendendo il programma del Prisco, portò a compimento la


costruzione del tempio di Giove capitolino, diede nuova linfa al culto di Hercules e riorganizzò le
feriae Latinae in onore di Iuppiter Latiaris.

LE STRANEZZE

Fatto strano, a parte il fondatore, nessun re di Roma fu romano. Per giunta, come rileva Tim J.
Cornell nel suo "The Beginnings of Rome", p. 142, nessuna delle grandi gentes romane fornì un re;
anzi i re romani furono stranieri, ma c'è di più, i Pompilii, i Tulli, gli Hostilli e i Marci oltre che
stranieri erano di origini plebee, e Servio Tullio nasce addirittura da una schiava.

Altro appunto: due gemelli non sopportavano di governare insieme per cui si scannarono tra loro,
anzi Romolo, o chi per lui, scannò Remo, ma Romolo e Tito Tazio si misero d'accordo e regnarono
insieme. Perchè Romolo e Remo non hanno diviso il trono tra fratelli? Mistero.

Ancora, dalla tradizione si ricava che nessuno dei re ereditò il trono dal padre, con la sola parziale
eccezione di Tarquinio il Superbo, che era forse figlio del Prisco, ma la faccenda non è certa, e
comunque non divenne re subito dopo di lui; non a caso Cicerone osserva orgogliosamente: "nostri
illi etiam tum agrestes viderunt virtutem et sapientiam regalem, non progeniem quaeri oportere"
(re p. 2 , 12 ,24 ), n el co nfr ont o c on l ’a nt i ca m ona rc hi a e re di t ar ia di S pa rt a .

Tuttavia sembra che per gli ultimi tre re di origine etrusca fu stabilito un principio di discendenza
matrilineare. Comunque i romani non volevano principi ereditari, perchè volevano essere loro,
l'orgoglioso popolo romano, ad eleggere il loro capo. In effetti, il principio ereditario rimase sempre
estraneo alla mentalità romana, anche in età imperiale. Qual'era dunque il criterio con cui si
sceglieva un re? Forse le virtù, ma soprattutto il carisma.

LA SCELTA DEL RE

I romani nacquero come un rozzo popolo di pecorai costretti a battersi per non essere espropriati dei
greggi o peggio delle terra. Fin dall'inizio furono pertanto costretti a combattere, esposti come erano
alle incursioni via terra ma soprattutto via fiume.

Se in effetti era difficile all'epoca muoversi attraverso le foreste prive di vie agevoli e dove era
difficile anche l'orientamento, risultava molto più facile spostarsi via fiume, e Roma aveva il
privilegio del Tevere sia per abbeverarsi, per lavarsi, per cucinare, per le fognature e per spostarsi.

Il pericolo di venire sopraffatti era tanto, per cui tanto era il desiderio di associarsi con gli stranieri

62
per diventare più forti con l'esercito. Roma infatti non fece mai questioni di stranieri, di razze o di
religioni. Andavano bene anche i neri dell'Africa o i pallidi popoli del nord, purchè si unissero a
difendere Roma.

Poiché non guardavano per il sottile nemmeno gli schiavi ribelli e i criminali, e questi ultimi erano
preponderanti, è logico che i romani non fossero né teneri né facilmente influenzabili. L'unione di
genti diverse, di usanze diverse e di credenze diverse resero il popolo romano da un lato più
diffidente ma dall'altro più critico e indipendente. Le informazioni plurime e discordanti
costringono a riflettere e ad essere critici.

Per tutto ciò i romani ebbero come regime iniziale una monarchia assoluta, ma il re veniva eletto dal
popolo. I fieri romani volevano poter decidere e non che si decidesse per loro. Furono le beghe di
palazzo più che le vicissitudini della bella Lucrezia a sollevare il popolo contro la corona. Si erano
accorti che la monarchia si decideva ora nelle alte sfere e non erano più loro a decidere. Per questo
si ribellarono rifiutando per sempre un potere che non venisse dall'interno della popolazione.

I POTERI DEL RE

– capo con potere esecutivo,


– comandante in capo dell'esercito,
– capo di Stato,
– pontefice massimo,
– legislatore,
– giudice supremo.

LE INSEGNE DEL RE

– i dodici littori recanti fasci dotati di asce. Il Fascius Lictorius consisteva in un fascio di
bastoni di legno legati con strisce di cuoio, normalmente intorno a una scure.
– la sedia curule, un sedile pieghevole a "X" ornato d'avorio, simbolo del potere giudiziario,
riservato inizialmente ai Re di Roma e in seguito ai magistrati superiori dotati di
giurisdizione, detti perciò "curuli";
– la toga rossa, un tipo di toga orlata da due bande di porpora, detta toga praetexta, importata
dai vicini Etruschi al tempo di Tarquinio Prisco, Veniva indossata da tutti i più alti
magistrati.
– le scarpe rosse di cuoio dipinte.

– il diadema bianco sul capo, una fascia di tessuto che cinge la fronte come segno distintivo
di colui che la indossava, originariamente destinata alle donne e ai sacerdoti. La fascia
poteva essere finemente impreziosita da inserti in oro e pietre preziose, o come cerchio di
metallo che cinge la front.

63
«A me non dispiace la teoria di quelli che sostengono che [i dodici littori siano stati]
importati dalla vicina Etruria (da dove furono introdotte la sella curule e la toga pretesta)
tanto questa tipologia di subalterni, quanto il loro stesso numero. Essi credono che ciò
fosse così per gli Etruschi poiché, una volta eletto il re dall'insieme dei dodici popoli,
ciascuno di essi forniva un littore.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 8.)

La vita dei re non fu facile, ricordiamo che su otto re (anche Tito Tazio fu re) due soli morirono nel
loro letto (Numa Pompilio e Anco Marcio) mentre Tarquinio il Superbo finì i suoi giorni in esilio.
Gli altri cinque morirono di morte violenta.

Dalla fine della monarchia i romani decisero di non avere più re, ma ebbero imperatori. Caso strano,
l'impero fu il periodo più ricco di territori, commerci, ricchezze, leggi e arte per i romani, che
insegnarono la civiltà al mondo.

Quindi, al tempo della monarchia, il re veniva eletto dal Senato (autorevole consiglio di anziani). Il
re governava ed esercitava il potere politico, giudiziario, militare e religioso. La religione era
politeistica e naturalistica (divinità dei campi, dei boschi, delle greggi). Gli abitanti di Roma erano
distinti in tre classi:
1. patrizi (ricchi e potenti, si consideravano discendenti dei fondatori della città),
2. plebei (umili lavoratori, senza diritti politici: non potevano neppure contrarre matrimoni coi
patrizi, né trattare affari);
3. schiavi (all’origine prigionieri di guerra, di proprietà dei padroni cui venivano assegnati; si
chiamavano liberti se affrancati). Il primo periodo della repubblica si differenzia da quello
monarchico sostanzialmente per un fatto: invece di un re in carica fino alla morte, il senato
patrizio eleggeva ogni anno due consoli (repubblica aristocratica). Le prerogative religiose
erano affidate a un sacerdote apposito. Il governo, anche qui, era in mano ai patrizi, i soli
che ricoprivano cariche pubbliche e che erano membri di diritto del senato. Solo loro
potevano fare le leggi. I plebei, pur essendo costretti a partecipare alle guerre, con grave
danno per i loro campi e per l’attività artigiana, non avevano il diritto di partecipare alla
spartizione dei territori occupati. Sicché, ad ogni guerra il divario tra patrizi e plebei invece
di diminuire, aumentava: il rischio maggiore era che, indebitandosi, i plebei finissero tra le
fila degli schiavi.

La pretesa parificazione dei diritti con i patrizi, portò i plebei a condurre dure lotte sociali, civili e
politiche. Alla fine i patrizi furono costretti a riconoscere due magistrati (tribuni della plebe) come
rappresentanti dei plebei in senato. Essi potevano opporre il loro veto alle leggi ritenute anti-plebee.

Passaggio dalla monarchia alla repubblica 509 a.C.

Come è avvenuto questo passaggio? Ancora una volta si mescolano leggenda e storia. La tradizione
dice che il passaggio fu determinato da una ribellione dei romani nei confronti del re Tarquinio
il Superbo in seguito a uno stupro fatto da suo figlio (Sesto Tarquinio) a LUCREZIA, moglie di
Collatino.

64
Collatino aveva lodato, durante un assedio, sua moglie dicendo che era una donna di grande virtù.
Collatino disse agli altri di andare a vedere cosa stavano facendo le loro donne. Lucrezia
effettivamente, mentre le altre donne banchettavano, stava lavorando la lana (modello romano della
donna). Sesto Tarquinio rimane colpito sia dalla virtù che dalla bellezza di Lucrezia. Ritorna
perciò da lei e tenta di sedurla; lei si oppone, ma poi deve cedere ai ricatti dell’uomo. In seguito
Lucrezia confessa tutto a marito e padre, e per la vergogna si uccide.

Lucio Giulio Bruto estrae il coltello da Lucrezia e giura di cacciare i Tarquini. Il popolo, venuto a
conoscenza dei fatti, si ribellò ai Tarquini e il potere fu dato a DUE CONSOLI (Lucio Giulio
Bruto e Lucio Tarquinio Collatino).
Questa è una storia esemplare (è cioè di esempio e d’insegnamento): l’onore delle donne era uno
dei fondamenti su cui si basava lo stato romano:
Gli storici sono però divisi tra due ipotesi:
- il passaggio dalla monarchia alla repubblica è stato graduale
- c’è stata effettivamente una rivolta

Attorno al 509 a.C. comunque il re fu sostituito dai consoli. Dal potere assoluto del re (a carica
vitalizia, cioè valida per tutta la vita) si passa a magistrature collegiali e temporanee.
Probabilmente è accaduto che i re etruschi avessero perso molta della loro potenza. Ne
approfittano GLI ARISTOCRATICI per fare un colpo di stato, introducendo la magistratura del
consolato.
Roma diventa una REPUBBLICA ARISTOCRATICA (dominata dunque dai patrizi).

I consoli:
 HANNO IL PIENO POTERE (comando dell’esercito, convocazione del senato, ecc.; non
avevano cariche religiose, che spettavano al pontefice) SONO DUE, e quindi devono
trovare un accordo (console = colui che si consulta).
 La loro carica durava 1 ANNO
 Non dovevano rendere atto delle loro azioni agli elettori
 Avevano una guardia del corpo, i littori (che li accompagnavano portando le insegne del
potere assoluto, l’imperium).
 Ogni console aveva DIRITTO DI VETO (aveva il diritto di bloccare una decisione del
collega). Se c’era disaccordo, governavano alternativamente.

In alcuni casi estremi di pericolo e di emergenza veniva nominato (dal Senato) un DITTATORE
che aveva il potere assoluto, che durava in carica soli 6 mesi (non si vuole che il potere di una
singola persona diventi troppo forte).

Oltre ai consoli, nascono poi altre figure di magistrati: esempi sono i questori, i pretori, i tribuni
della plebe (la nascita di questa figura sarà una grande conquista della plebe).

Il passaggio da monarchia e repubblica è senz’altro un avanzamento verso una maggior

65
democrazia:
 C’è collegialità
 I consoli durano poco tempo
Ma in realtà ad avere il potere sono i patrizi, gli aristocratici, che fanno i loro interessi. Tanto è
vero che lo scontro che ci sarà tra patrizi e plebei sarà molto aspro e duro; la plebe si ribellerà e i
patrizi dovranno fare diverse concessioni (nel V secolo), tra cui le Leggi scritte sulle XII Tavole.

Lettura – Figli contro padri: il supplizio dei parricidi


I padri avevano autorità assoluta sui figli, per tutta la vita. Spesso dunque il rapporto tra padri e figli
era conflittuale. Perciò non di rado c’erano parricidi.

Se ciò avveniva, quale era la punizione? Subito dopo la condanna il parricida veniva fustigato e poi
rinchiuso in un sacco con 4 animali (un cane, un gallo,una vipera e una scimmia). Tutti gli
elementi della punizione avevano significato simbolico: il cane era considerato una bestia immonda
e vile; la scimmia una caricatura dell’uomo; il gallo rappresentava la violazione della convivenza
civile; le vipere divoravano la madre dopo la nascita.
Perché una punizione tanto crudele? Perché la partia potestas era un fondamento dello stato
romano.

LA REPUBLICA ROMANA

Quindi,il passaggio dalla monarchia alla repubblica non fu indolore. Tarquinio il Superbo era stato
cacciato da Roma, ma non per questo aveva rinunciato al suo trono. Egli in effetti radunò un
esercito e lo condusse contro Roma, ma fu sconfitto. Allora si rifugiò a Chiusi, una potente città
etrusca, e riuscì a convincere il suo re, Porsenna, a muovere alla conquista di Roma.Nonostante
l'eroica resistenza dei suoi abitanti, Roma dovette cedere di fronte all'esercito nemico coalizzato, ma
l'atto eroico di Muzio Scevola fece desistere Porsenna dall'infierire sulla città e di pretendere la
restaurazione

MUZIO SCEVOLA

Per liberare la sua città, Porsenna diresse il suo esercito Muzio Scevola si introdusse verso Ariccia
con l'intento di ucciderlo ma fu catturato e, per punire la sua mano che aveva fallito, la pose sul
fuoco e la lasciò bruciare dicendo che altri cento giovani romani lo avrebbero seguito. Porsenna
diresse il suo esercito verso Ariccia con l’intento di conquistarla , ma fu sconfitto dalle milizie di
Cuma che erano venute in soccorso della città.
La spedizione di Porsenna era terminata per sempre, ma i pericoli per Roma non erano scomparsi.
Le città del Lazio si erano ribellate al potere di Roma e molte avevano appoggiato Porsenna dopo
aver trucidato la guarnigione romana presente nelle loro città. Nella stessa Roma ci fu
un'insurrezione a favore del deposto monarca, a cui parteciparono anche i figli di Lucio Giunio
Bruto. Roma ne uscì prostrata e ridimensionata.

I CONSOLI

66
La cacciata del re aveva creato un vuoto nelle istituzioni della città. Era sparito il potere esecutivo
rappresentato dal re. Nel passato , quando si verificava un simile vuoto, il Senato provvedeva a
colmarlo con l'elezione temporanea di un inter-re. Ma questa volta, i Romani erano arrivati alla
conclusione che la monarchia non era stata un buon affare per l'Urbe (la Città) e decisero, quindi, di
sostituirla. Essi decisero che del potere esecutivo ne dovevano essere investiti non uno, ma due
magistrati(consoli) eletti per un solo anno. I consoli dovevano governare con eguali poteri. Le
decisioni dovevano essere prese di comune accordo. Ciascuno di essi aveva il potere di bloccare le
decisioni dell'altro (potere di veto). Un loro eventuale contrasto era sottoposto all'arbitrato del
senato, che veniva ad acquisire un peso notevole. Il simbolo del potere e dell'autorità dei consoli
erano i littori, da cui erano sempre accompagnati nelle uscite pubbliche.

SPQR

Con l'istituzione della repubblica su tutti i monumenti e gli edifici pubblici fu posta la scritta S P Q
R , le quattro iniziali di Senatus Populus-Que Romanus (= Il Senato e il popolo romano), e stava a
significare che tutto il potere (oggi diremmo tutta la sovranità) apparteneva al Senato e al Popolo. I
primi due consoli furono Bruto e Collatino, i due protagonisti della cacciata del re. La repubblica
nasceva aristocratica. Il potere rimaneva nelle mani dei patrizi. Bruto fece subito approvare una
risoluzione che metteva al bando tutti i membri della famiglia del re. Tarquinio Collatino, quale
nipote del re, fu costretto all’esilio. Al suo posto fu eletto Publio Valerio, che si meriterà
l’appellativo di publicola,
amico del popolo. Egli fece approvare, tra l'altro, la Lex Valerii, che garantiva al cittadino il ricorso
all'assemblea generale quando era in gioco la sua vita o i suoi diritti.

IL DITTATORE

La divisione del potere esecutivo tra due persone porta dei problemi quando lo stato è in pericolo. Il
comando di due autorità, che possono bloccarsi a vicenda col potere di veto, fa perdere
l'immediatezza e la rapidità delle decisioni. In questi casi, era previsto che i consoli venissero
sospesi e al loro posto venisse nominato, da uno dei due consoli, un Dittatore, un Magister Populi,
che assumeva il comando unico. Il Dittatore, tuttavia, non governava da solo. Egli si avvaleva della
collaborazione di un Magister Equitum, Maestro di Cavalleria. La carica del Dittatore aveva una
durata breve. Egli restava in carica per sei mesi o,comunque, non oltre il termine della scadenza del
mandato del console che l'aveva nominato.

I CARATTERI ORIGINARI DEI ROMANI

Politicamente i Romani erano destinati ad avere un successo che le città greche non conobbero mai.
Essi avevano una concezione dello stato che li rendeva diversi. In termini moderni, possiamo dire
che, contrariamente ai Greci,essi avevano una concezione aperta dello stato. Mentre per i Greci il
diritto di cittadinanza apparteneva solo ai Greci di nascita, i Romani, fin dalle origini, ne fecero
beneficiare tutti gli stranieri che sceglievano di fissare la loro dimora e i loro affari nella città

67
capitolina. Uno schiavo in Grecia, anche se affrancato dalla schiavitù, non sarebbe mai diventato un
cittadino portatore di diritti, ma sarebbe rimasto uno straniero con nessun dovere di lealtà verso la
città che lo ospitava .A Roma, invece, uno schiavo liberato acquisiva la cittadinanza romana, anche
se veniva relegato nel più infimo livello della scala sociale, ma questa nuova condizione sociale,
che veniva trasmessa ai propri figli, lo legava alla città nel bene e nel male e quindi ne difendeva gli
interessi. Anche nei rapporti imperialistici Roma aveva ben presto adottato in Italia una politica
molto diversa di quella di Atene o di Sparta. Le città conquistate da Roma sul territorio italiano
venivano inglobate nel sistema romano e venivano assimilate alla città capitolina. Era la politica
delle porte aperte.

LA POLITICA DELLA CITTADINANZA

La cittadinanza romana venne estesa a tutti i territori conquistati. Godere della cittadinanza romana
non era una semplice gratificazione morale, anche se importante, ma significava acquisire dei diritti
che aprivano le porte a tanti benefici. Per i singoli, i benefici erano il diritto di partecipare al
governo della città e il diritto alle provviste alimentari. Per le città, i benefici erano che esse
partecipavano di diritto alla spartizione dei bottini e delle terre di future conquiste. Insomma, Roma
non conquistava semplicemente, ma inglobava e assimilava tutto al proprio sistema e alla propria
organizzazione politica. E questa politica la rese grande. In Italia, non c'erano più città che si
distinguevano da Roma. Tutto il territorio italiano era "Roma" e tutti erano "Romani". I Sanniti, i
Sabini, gli Etruschi, ecc. erano diventati tutti Romani. Questa fu la grandezza di Roma. Aveva
dietro di sè un territorio vasto e compatto e una popolazione in cui ognuno di identificava con essa,
almeno finchè le continue vittorie garantivano bottini e ulteriori benefici.

LA DOMUS ROMANA

La domus romana era il regno della domina, la padrona di casa. Era molto ampia e rappresentava un
piccolo fortilizio in cui viveva il dominus, il padrone di casa, e la sua familias .All'esterno della casa
c'era l'effigia del dio Giano che, con i suoi due volti, uno rivolto all'esterno e uno verso l'interno,
proteggeva la casa. All'interno c'era il focolare, il cui fuoco era il fuoco sacro di Vesta, la dea della
vita e della continuità della famiglia. Il fuoco non doveva mai spegnersi e ad ogni pasto vi si doveva
buttare un pò di cibo. Attaccati al muro c'erano delle icone (immagini): i Lares, divinità che
assicuravano le fortune della casa e proteggevano i campi e gli edifici; i Penati, divinità che
assicuravano il benessere materiale (l'abbondanza) della famiglia; i Mani, gli spiriti degli antenati,
che andavano onorati da parte di tutti.

IL PATER FAMILIAS E LA GENS

La gens romana era formata da tutti quei nuclei familiari che discendevano da un antenato comune
ed era organizzata come una monarchia assoluta dove la volontà del capo della casata o gens, il
pater familias era legge. Tutto dipendeva da lui: le persone, le cose e gli animali. La sua autorità
non conosceva limiti. Nemmeno lo stato poteva intervenire negli affari interni della gens. La gens o

68
casata era un'unità monolitica, quasi un piccolo stato. Amministrava la giustizia al suo interno.
Aveva una propria religione con i propri numi tutelari, i Lari, che proteggevano la casa, il focolare
domestico. La gens possedeva un proprio demanio privato e ad ogni membro della famiglia sposato
veniva attribuito un pezzo di terra per coltivarlo (5000 mq circa). I figli, anche sposati, rimanevano
sotto la tutela del pater familias e tutte le proprietà, anche se acquisite dal figlio, appartenevano a lui
che ne aveva la più completa disponibilità. Poteva venderle, come poteva vendere i propri figli.
Le figlie si sottraevano alla tutela del padre solo se venivano date in spose cum manu, cioè se il
padre rinunciava ai propri diritti su di esse. Ma esse non acquistavano la propria indipendenza. Esse
cambiavano soltanto tutela. Cessava quella del padre e subentrava quella del marito.

L'AUTORITA' MORALE DEL PATER FAMILIAS

I membri della famiglia erano chiamati patrizi e portavano tre nomi. Il primo, il praenomen, era il
nome proprio (Caio, Marco, ecc.), il secondo, il nomen, indicava la gens di appartenenza (Cornelia,
Giulia, ecc.), il terzo,infine, il cognomen, indicava quella della sua famiglia (Bruto, Gracco, ecc.).
Ma il pater familias aveva anche grosse responsabilità, di carattere morale soprattutto. Egli era il
custode della gens, che era a fondamento dello stato romano. La sua prosperità era la prosperità
dello stato. La sua estinzione costituiva un danno notevole per lo stato che perdeva popolazione e
quindi soldati, ma costituiva un danno irreparabile anche per la famiglia che non avrebbe lasciato
nessuno dietro di sè a prendersi cura dei propri morti. Le loro anime, senza i dovuti sacrifici, non
sarebbero entrate in paradiso. Per tutti questi motivi, in mancanza di prole, la sopravvivenza della
casata poteva essere garantita attraverso le adozioni, che erano promosse dallo stato

I CLIENTI DELLA CASA

La gens aveva attorno a sè delle persone che, per una serie di motivi,dipendevano da essa. Erano i
clienti (clientes) della casa, che potevano ammontare anche a migliaia. Il cliente poteva essere una
persona asservita o,più semplicemente, potevano essere persone, o famiglie, la cui condizione di
vita era molto precaria e perciò avevano bisogno della protezione di una famiglia potente. Tra gens
e clientes si stabiliva un legame molto stretto con vincoli reciproci di vario genere: legali e
finanziari. Il cliente doveva essere sempre presente alle uscite pubbliche del patrono; doveva
contribuire a formare la dote alle sue figlie; doveva combattere al suo fianco; doveva votare per lui
e doveva contribuire a pagare il suo riscatto in caso egli cadesse prigioniero in guerra. Ma il patrono
era obbligato a fornire al cliente protezione e tutta l'assistenza di cui poteva avere bisogno.

LA CONDIZIONE DELLA DONNA

La donna romana, la domina, godeva di molto rispetto all'interno della casa, ma era completamente
sotto la tutela del maschio. Egli poteva anche ucciderla. Essa sovraintendeva ai lavori domestici e
alla servitù. Essa era completamente dedita al focolare domestico e non si interessava degli affari
sociali o politici (Nota: le vesti dei Romani: l'uomo indossa la tunica e, quando usciva, sopra di essa

69
metteva la toga. La donna porta anch'essa la tunica, ma disopra metteva la stola. Quando usciva
metteva la palla, un mantello).Le virtù apprezzate nella donna romana erano le virtù che abbiamo
visto in Lucrezia: vivere in funzione del marito e al servizio della casa. Mentre il marito consumava
i suoi pasti disteso sul triclinio (una specie di divano), a lei era consentito solo rimanere seduta.
La donna romana era l'esatto opposto della donna etrusca, che era libera e riceveva un'educazione
simile a quella del maschi e poteva esercitare il costume toscano (la prostituzione) per crearsi una
dote.

LA RELIGIONE

Numa Pompilio, il secondo re di Roma, fu il primo riformatore religioso della storia di Roma. Egli
mise ordine tra le diverse divinità delle tre popolazioni che costituivano Roma; Latini, Sabini e
Etruschi, ogn'una delle quali aveva i propri dèi ed i propri riti. Al vertice del Pantheon c'erano tre
divinità: Giove, il re degli dei, del cielo e della pioggia; Marte, il dio della guerra e Quirino, il dio
della fecondità. Sotto i re Tarquini questa triade fu modificata e al posto di Marte e Quirino
troviamo, nell'ordine, Giunone, sorella e moglie di Giove, dea del matrimonio e protettrice delle
spose e delle puerpere, e Minerva, dea della sapienza e delle arti .Accanto a queste c'erano le altre
divinità: Giano, il dio bifronte (a due facce, che stavano a significare l'inizio e la fine di ogni cosa),
anticamente venerato quanto Giove; Vesta, l'antica divinità di Alba Longa, dea del fuoco e della
vita, la cui sacerdotessa Rea Silvia aveva dato i natali a Romolo e Remo. Un pò più sotto ci sono le
divinità agrarie: Cerere, la dea della mietitura;Saturno, il dio della semina; Flora, la dea dei fiori;
Pomona, la dea dei frutti; Libero o Bacco, dio della vite, ecc. Nella vita del romano non c'era una
netta distinzione tra la vita religiosa e quella civile. Ogni aspetto della sua vita quotidiana era intrisa
di religione. La sua stessa casa era piena di segni religiosi e il paterfamilias era il sacerdote che
officiava tutte le funzione.

LA CASTA SACERDOTALE

Originariamente, il re era anche capo della religione (pontefice). I due poteri, quello laico e quello
religioso, non erano distinti. Solo lentamente il re incominciò a spogliarsi della sua funzione
religiosa delegandola al Pontifex Maximus e alla casta dei sacerdoti che si andava formando. Ai
tempi di Numa Pompilio, il riformatore della religione romana, i più importanti ordini sacerdotali
erano quelli dei flamini, degli auguri, dei pontefici e delle vestali. Gli auguri svolgevano il compito
importante di osservare ed interpretare i segni naturali (volo degli uccelli, il fulmine, l'appetito dei
polli sacri,ecc.) per conoscere la volontà degli dei e trarre previsioni (auspici). Romolo stesso aveva
consultato gli auspici prima di procedere alla fondazione di Roma. I pontefici badavano al
mantenimento del culto e dovevano garantire la paxdeorum, cioè garantire il favore degli dèi verso
la città. Le vestali, infine,erano le custode del fuoco sacro che simboleggiava la vita. I flamini
amministravano la giustizia e offrivano i sacrifici agli dèi. Nella società romana primitiva non c'era
una distinzione tra jus civile(diritto civile) e jus divinum (diritto sacro). Tutti gli aspetti della vita
erano intrisi di religione. Anzi, si può dire che tutta la vita del romano primitivo fosse fondata sulla
religione. Il prete era il giudice naturale perché egli sapeva interpretare la volontà degli dei.

70
LE FESTE ROMANE

La vita del romano antico era tutta regolata e vissuta in senso religioso. Ogni aspetto della vita
produttiva e sociale aveva un carattere divino che si materializzava in un dio, a cui si dovevano
tributare sacrifici ed onori infeste pubbliche a scadenze fisse. Le feriae publicae, i giorni festivi
dell'antica Roma, avevano luogo in tutti i periodi dell'anno ed erano sempre dedicate ad un dio. A
marzo, per esempio, si festeggiava Marte, il dio della guerra. Una delle feste dedicate a Giove,
come dio del vino, era quelle detta di Vinalia (19 agosto). A Saturno era dedicata, il 17 dicembre, la
festa della seminagione (Saturnalia). Cerialia, che si teneva il 19 aprile, era la festa dedicata a
Cerere, dea delle messi. Il 23luglio si festeggiava (Neptunalia) il dio del mare. Il dio del Tevere si
festeggiava il 27 agosto (Volturnalia). Vesta, dea della casa, si festeggiava il9 giugno (Vestalia).Ma
c'erano anche feste dedicate agli dèi o agli spiriti del mondo della natura: quella del giorno più
breve (21 dicembre), quello dei defunti (21febbraio), quello dei boschi (19 e 21 luglio), ecc..

LA MORALE ED I COSTUMI

La moralità dei Romani non era molto rigida. L'uomo godeva di una maggiore libertà nei costumi
rispetto alla donna, ma la decenza pubblica doveva essere sempre garantita. Tuttavia, questa libertà
terminava non appena l'uomo prendeva moglie. Il suo dovere, d'allora in poi, era quello di
provvedere alla famiglia. La prostituzione era ammessa, ma essa doveva essere esercitata con
discrezione e al riparo. La prostituta non poteva indossare l'abito tradizionale della matrona romana
perchè esso era il simbolo della fedeltà coniugale. La donna doveva essere casta da nubile e fedele
da sposata. Il matrimonio poteva essere com manu o sinemanu. Col primo, il padre rinunciava ai
suoi diritti sulla figlia in favore del genero, che ne prendeva il posto. Col matrimonio sine manu,
che si svolgeva senza il rito religioso, il padre conservava i suoi diritti sulla figlia. Il matrimonio
cum manu poteva avvenire in tre forme diverse: per uso, dopo un anno di coabitazione degli sposi;
per coemptio, cioè per acquisto o perconfarretio. Quest'ultimo, di cui parleremo più avanti, era
riservato ai patrizi.

L'EDUCAZIONE

Il romano, sin dalla più tenere infanzia, era educato alla disciplina e all'osservanza delle regole. La
sua non era un'educazione formale ricevuta a scuola. Alla sua educazione provvedeva direttamente
la famiglia. Era il compito che si assumeva direttamente il pater familias. Solo più tardi questo
compito verrà delegato a degli schiavi colti(pedagogo), spesso di origine greca. Le regole che il
giovane doveva apprendere non erano regole scritte. Erano regole applicate nelle cerimonie
religiose che si svolgevano attorno a lui. Ogni rito doveva essere fatto nella forma richiesta per non
offendere il dio che si celebrava per propiziarselo nella funzione che esso rappresentava. Nel mondo
romano anche le funzioni personali avevano il proprio dio o dea. La dea Abeona, per esempio,
insegnava al bambino a muovere i primi passi. Fabulina gli insegnava a pronunciare le prime
parole, ecc. Questa formalità del rito aveva uno scopo ben preciso: abituare il giovane alla
disciplina e al rispetto nella formazione del carattere.

71
Verso i sette anni, il bambino veniva avviato alla scrittura e allo studio della storia e dell'aritmetica.
La geometria era appena accennata, quel tanto che serviva. Ma l'educazione del giovane avveniva
soprattutto per apprendistato. Egli apprendeva dall'esempio degli adulti, sia nella lavorazione dei
campi, sia nella gestione della casa, sia nella partecipazione alla vita pubblica. Il giovane veniva
portato molto presto ad ascoltare le discussioni che si svolgevano in senato. La formazione del
giovane si completava prestando servizio militare che lo faceva diventare cittadino di pieno diritto e
gli apriva le porte dell'elettorato attivo (votando per gli altri) e passivo (essere votato dagli altri).

LA LOTTA PER L'UGUAGLIANZA

Fino ai primissimi re, i cittadini erano perfettamente eguali. Anche se tra le tre tribù fondate da
Romolo (Ramni, Tazii, Leceri) c'era una leggera differenza di status, almeno tra le prime due e
l'ultima, di fronte alla legge c'era una perfetta uguaglianza, indipendentemente dalla tribù di
appartenenza. Il problema dell'uguaglianza dei cittadini sorse quando Roma incominciò a
raccogliere gente da tutte le parti. Il nucleo originario si rimpiccioliva nei confronti dei residenti non
Romani, che non godevano di alcun diritto, pur contribuendo a fare Roma grande col loro lavoro.
Tuttavia, in quel periodo non ci fu una lotta per l'uguaglianza. Il problema era sentito, ma non era
rivoluzionario, come diverrà nel periodo della repubblica. La cittadinanza a queste classi fu
concessa da Servio Tullio, il sesto re di Roma, non perchè richiesta, ma perchè tale concessione
contribuiva a rendere più sicura la posizione personale del sovrano, che aveva contro quasi tutta la
classe dei patrizi, e perchè contribuiva a risolvere il problema dell'esercito,i cui effettivi erano
troppo pochi per la politica di conquista che il re aveva intenzione di portare avanti.

DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI

Il primo dovere del cittadino romano era quello di contribuire alla difesa dello stato. Doveva essere
al servizio del stato per la costruzione delle opere pubbliche. Non c'erano tasse perchè il cittadino
provvedeva direttamente a tutte le necessità della città. Le imposizioni di tasse avvenivano solo in
casi di necessità estrema, ma la somma versata veniva restituita non appena le condizioni delle
finanze dello stato lo permettevano. Il principale diritto del cittadino era quello di partecipare alle
assemblee pubbliche, dove si decideva la politica della stato. Egli aveva il diritto di partecipare
all'elezione del re ed egli stesso poteva essere eletto ad una carica pubblica. Lo stato gli garantiva il
diritto alla libertà, che aveva acquisito per nascita ed era inalienabile.

IL CENSIMENTO

Il censimento della popolazione avveniva ogni cinque anni. Esso consisteva in un accertamento
accurato delle proprietà dei cittadini ed era, in effetti,una grande rilevazione catastale fatta a scopo
militare e tributario(successivamente). La riforma costituzionale, voluta da Servio Tullio, aveva
esteso l'obbligo di prestare servizio militare a tutti i possidenti, che venivano inquadrati nelle
centurie.

L'ESERCITO

72
L'esercito è stata sempre la forza suprema di Roma. Il soldato romano era ordinato e disciplinato
non perchè ricevesse un formale addestramento sotto le armi. Era ordinato e disciplinato perchè era
abituato all'ordine e alla disciplina nella vita civile. Sin dalla più tenera età veniva educato al valore
personale, all'obbedienza e al senso di responsabilità. Prestare il servizio militare era un obbligo per
tutti gli uomini dai sedici fino ai sessant'anni. Le campagne militari, di solito, erano limitate ai mesi
estivi e al primo autunno. L'esercito era diviso in due fasce di età: iuniores e seniores. Alla
prima,che andava dai sedici ai quarantasei anni, erano affidati compiti di prima linea. Alla seconda
erano riservati compiti di difesa e di assistenza .E' dal momento in cui entra nell'esercito che il civis
romanus, il cittadino romano, acquista la sua pienezza di cittadino. Egli acquista la capacità di
partecipare attivamente alla vita dello stato attraverso il diritto di voto nelle assemblee dei comizi
centuriati, che rappresentavano il parlamento della repubblica. Una lunga permanenza nell'esercito,
inoltre, apriva le porte ad una brillante carriera nelle magistrature dello stato. Sotto i primi re,
l'esercito era modellato sulle trenta curie e ogni milites (fante) o equites (cavaliere) doveva
provvedere al proprio armamento .Ogni curia doveva contribuire alla formazione dell'esercito con
una centuria(cento fanti, milites) e una decuria (dieci cavalieri, equites).
LA STRUTTURA DELL'ESERCITO

La legione, com'era chiamato l'esercito,, aveva in tutto tremila milites etrecento equites. Alla sua
testa c'era il re coadiuvato da un Magister populi,il quale, a sua volta, nominava un proprio
sottoposto (Magister equitum).Il re stabiliva il piano delle operazioni e nominava i comandanti
intermedi,detti pretori, ma per entrambi doveva ricevere l'approvazione dei comizi centuriati. Con la
riforma di Servio Tullio, la legione era formato da 193 centurie. Ogn'una delle cinque classi
introdotte da questo sovrano contribuiva alla sua formazione in base ad una quota prefissata. La
prima classe, quella dei più ricchi, forniva ottanta centurie di milites e diciotto centurie di equites.
Novantotto in tutto. Questo era molto importante ai fini politici perchè, nei comizi centuriati,che
avevano preso il posto dei soppressi comizi curiati, si votava per centurie e i novantotto voti della
prima classe costituivano la maggioranza assoluta. Le altre quattro classi contribuivano con venti
centurie ciascuna la seconda, la terza e la quarte. La quinta ne forniva trenta. Cinque centurie,
infine, erano composte da specialisti inermi.

IL PRIMITIVO DIRITTO ROMANNO

Quello che noi chiamiamo diritto in realtà, in quest'epoca, non sono che antiche regole che vengono
accettate da tutti come sacre. E' questo carattere religioso che le rende vincolanti e le fa osservare da
tutti .L'amministrazione della giustizia avveniva su due livelli. Nel primo livello era il re, o un suo
delegato, che giudicava quei casi limitati che ricadevano sotto la sua giurisdizione. La giustizia del
re era limitata ai casi di turbamento della sicurezza pubblica, quali il tradimento o, la ribellione, ecc.
Oppure a quei casi che venivano equiparati al turbamento della sicurezza pubblica, quali il
parricidio,la violenza carnale contro le donne, l'incendiario, la falsa testimonianza, ecc. Le liti tra
privati venivano, di solito, portati davanti al sacerdote che giudicava secondo il jus divinum, anche
se, in questo periodo, non c'è una distinzione netta tra jus civile e jus divinum. I due si confondono.
L'altro livello di giustizia era quello amministrato dal pater familias all'interno della propria casata o

73
gens. Le norme in base alle quali egli giudicava erano fondate sul culto della gens, la casata, e
miravano alla sua perpetuazione. Era una giustizia privata. Il pater familias, assistito dal consiglio di
famiglia, puniva il membro della famiglia o il servo che si era macchiato di qualche colpa o
organizzava la vendetta contro chi aveva offeso la famiglia o un suo membro. Il debitore insolvente
veniva abbandonato alla volontà del creditore che ne poteva fare quello che credeva: poteva
venderlo, farne uno schiavo o ucciderlo, se credeva.

UNA SOCIETA' FONDATA SULLE REGOLE (NORME)

La nascita, il matrimonio, le adozioni, i funerali erano regolate con norme molto precise. Il
matrimonio si svolgeva in una forma essenzialmente religiosa e prevedeva tre momenti: la traditio,
la deductio in domum e la confarreatio. Preceduta da una fiaccola nuziale e cantando un inno
religioso molto antico,la sposa veniva condotta, velata e incoronata, alla casa dello sposo
(traditio).Alcuni amici dello sposo, simulando un rapimento, conducevano la sposa nella casa dello
sposo (deductio in domum). La cerimonia si concludeva con l'offerta del sacrificio a Giove
consistente in una torta di farro (confarreatio).La nascita aveva delle regole ben precise. Un figlio,
se non sano o femmina,poteva essere rifiutato o lasciato morire dal pater familias. Se lo
accettava,dopo nove giorni, lo presentava agli dei domestici. Se, invece, non aveva eredi,egli poteva
adottarne uno. Alla morte del pater familias, l'erede doveva essere dichiarato pubblicamente nei
comizi curiati, che si riunivano due volte all'anno.

I COMIZI CURIATI

I Comizi Curiati era l'assemblea popolare. In termini moderni, potremmo dire che essa era il
parlamento di Roma. Si riuniva due volte all'anno ed i suoi poteri erano elettivi, legislativi (quindi
politici) e giurisdizionali (cioè, in alcuni casi amministravano la giustizia).Nella sua funzione
elettiva, l'assemblea curiata eleggeva il re e gli delegava il potere esecutivo, l'imperium. Come
organo politico approvava le leggi e dichiarava lo stato di guerra. Nella sua funzione di organo di
giustizia giudicava in appello le sentenze del re ed aveva il potere giuridico per decidere in materia
di cittadinanza, adozioni e testamenti.

IL SENATO

Il senato era il consiglio permanente che assisteva il re in tutti gli affari di stato. Esso era composto,
per diritto di nascita, dai patres, i capi delle casate o gentes, e svolgeva un compito molto delicato
durante il vuoto di potere che si verificava tra il decesso del re e l'elezione del nuovo.
Alla morte del re, esso nominava, per cinque giorni, un inter-re (interrex)tra i suoi membri. Questa
procedura andava avanti finchè non si riusciva a convocare i Comizi Curiati, che provvedevano a
colmare il vuoto di potere nominando un nuovo re. La continuità dello stato non era garantita dal re,
che era una carica elettiva e non si trasmetteva per successione, ma era garantita dal senato, che era
un organo ereditario e rappresentava i reali interessi dello stato.

I PATRES

74
I patres erano quei pater familias, quegli anziani (senex) cittadini,che per prima furono chiamati da
Romolo a sedere in un'assemblea comune per aiutarlo e consigliarlo nel disbrigo degli affari di
stato. Essi erano i capi riconosciuti delle gentes e sedevano nel senato di diritto. I loro discendenti
saranno chiamati patrizi. Essi rappresentavano la più antica aristocrazia romana. Sotto la monarchia
il loro ruolo politico fu minimo, ma diventò rilevante sotto la repubblica.

I POTERI DEL SENATO

Il senato era un organo di controllo. Esso non aveva un proprio potere o una propria giurisdizione. I
singoli senatori potevano essere utilizzati, e lo erano frequentemente, come comandanti dell'esercito
o come giudici, ma collegialmente il senato non aveva un proprio potere in questi campi. Il senato
esaminava gli atti del re e delle assemblee legislative e poteva negare la sua sanzione se questi non
erano conformi alla tradizione o al sentimento religioso dello stato. Il suo voto era richiesto come
vincolante in caso di modifiche della costituzione dello stato, o quando si concedeva la cittadinanza
o, infine, in caso di dichiarazione di guerra. Il senato fungeva anche come consiglio di stato. Il re lo
consultava sempre prima di sottoporre i suoi provvedimenti ai comizi curiati o centuriati.

GLI EDITTI DEI PRETORI

La vita legale di Roma si sviluppava attraverso i provvedimenti legislativi delle assemblee popolari,
le opinioni dei giureconsulti e gli editti dei pretori. Ogni pretore all'inizio del suo mandato stabiliva,
attraverso la pubblicazione degli editti, le regole attraverso le quali avrebbe giudicato le cause di sua
pertinenza. Le clausole contenute negli editti conservavano il loro validità anche quando il pretore
che le aveva emanate non era più in carica. Tuttavia, il pretore che seguiva poteva modificarle o
rigettarle completamente ed istituirne altre.

LE CARICHE PUBBLICHE

I comizi curiati o centuriati (potere legislativo), il senato (potere di controllo), il re (potere


esecutivo) rappresentavano gli organi fondamentali dello stato. Ma lo stato, per essere gestito, aveva
bisogno di tutta una serie di funzionari pubblici che venivano eletti per un periodo più o meno
lungo. La carica più in basso era quella del QUESTORE. Egli veniva eletto dai comizi centuriati e
collaborava con i magistrati di grado più elevato nel controllo delle finanze dello stato e della
giustizia. Era il custo-de del tesoro pubblico, incassava le tasse e pagava gli stipendi ai dipendenti
pubblici e ai militari. Il suo era un compito investigativo e restava in carica un anno. Se voleva fare
carriera politica (cursus hono-rum), egli poteva presentare la sua candidatura per una carica più
elevata. Se veniva bocciato, non si poteva ripresentare candidato a nessuna carica per dieci anni. Se,
invece, aveva successo veniva eletto alla carica di EDILE. Era un magistrato che aveva la
supervisione di tutte le opere pubbliche dello stato, compreso gli edifici, provvedeva ai mercati e
all'approvvigionamento, ed era re-sponsabile degli spettacoli pubblici. La carica successiva a cui
poteva aspirare era quella di PRETORE. Era un giudice di altissimo rango, ma anche una carica
militare in caso di guerra. Ai tempi della repubblica, le due cariche più importanti erano quelle del

75
console e del censore.

CENSORE

Istituito per la prima volta nel 443 a.C., restava incarica cinque anni e aveva il compito
delicatissimo e importantissimo di aggiornare i registri dei contribuenti per stabilire l'ammontare
delle tasse che doveva pagare e assegnarlo alle tribù e alle centurie. Ma il censore era anche il
fustigatore della moralità pubblica e il controllore della moralità degli aspiranti a cariche pubbliche.

CONSOLE

Di cui abbiamo già parlato, esercitava il potere esecutivo ed era capo dell'esercito.

LA PLEBE

Quando nasce la Repubblica la plebe ha uno scarso rilievo politico. Tutto il potere era nelle mani
dei patrizi e degli equites, che occupavano le massime cariche dello stato. Gli equites erano quei
capitalisti che anticamente facevano parte della plebe e che, con la riforma dello stato di Servio
Tullio (579-535), entrarono a far parte della prima delle cinque classi: quella che deteneva tutto il
potere .I plebei, la folla di artigiani, bottegai, liberti, impiegati, ecc., anche se facevano parte dei
comizi centuriati, il loro peso politico era irrilevante. Erano sottoposti a tutta una serie di divieti che
li tenevano in una condizione di soggezione politica e ai margini della società. I plebei non
potevano contrarre matrimonio con i patrizi; erano esclusi dalla gestione della giustizia e dalle
massime cariche dello stato; non avevano voce in capitolo nella gestione del demanio pubblico.

LA RIVOLTA DELLA PLEBE E LA GUERRA CONTRO LA LEGA LATINA

Lentamente, tutti questi svantaggi spariranno a causa della crescente dipendenza dello stato
dall'apporto finanziario e militare della plebe, la quale, come contropartita, rivendicherà sempre
nuovi diritti e una maggiore partecipazione nella gestione dello stato. Nel 493 a.C., quando Roma
era ancora in guerra contro le città della lega latina (498-493), essa arrivò anche a minacciare una
secessione abbandonando Roma e ritirandosi sul Monte Sacro (perchè era la sede dei templi delle
maggiori divinità romane).I patrizi, guidati da Menenio Agrippa, dopo estenuanti trattative e
discorsi più o meno nobili, riuscirono ad ammansirli, ma furono costretti a fare delle significative
concessioni. Dovettero concedere l'istituzione del concilium plebis (l'assemblea della plebe),
l'elezione di due tribuni e due edili della plebe. Roma saldò il conto con le città latine
sconfiggendole al lago Regillo ed imponendo loro il foedus Cassianus (il patto Cassio), che lasciava
sopravvivere la lega, ma sanciva la supremazia di Roma.

I POTERI DEI TRIBUNI DELLA PLEBE

Ai tribuni venne riconosciuto il potere di veto su qualsiasi decisione del senato o dei magistrati della
repubblica se essa andava contro gli interessi della plebe. Essi avevano il diritto di assistere i plebei

76
maltrattati e potevano intercedere in loro favore per fermare l'esecuzione di qualsiasi procedimento
o azione dei magistrati. Ma, innanzi tutto essi vennero dichiarati intoccabili da parte dei patrizi. I
poteri del concilium pleblis o comizi tributi (l'assemblea della plebe) verranno meglio precisati nel
449, quando si specificherà, con una legge,che le sue decisioni (plebisciti) erano vincolanti per tutto
il popolo romano,anche se erano soggette alla ratifica del senato. Agli edili della plebe vennero
attribuite due funzioni: garantire l'ordine pubblico e custodire il tesoro della plebe che era
depositato nel tempio di Cerere).

I DECEMVIRI

Quando la plebe incominciò ad acquisire un certo peso politico, nel V secolo a.C., chiese ed ottenne
che si mettesse ordine nell'amministrazione della giustizia. Secondo la tradizione, il diritto romano
si divideva in jus civile e jusdivinum, ma tra i due non c'era una netta divisione perchè entrambi non
erano basati su norme scritte, ma erano dettati dalla consuetudine (tradizione), che veniva
amministrata dal collegio sacerdotale dei pontefices. Questo non garantiva la certezza del diritto, nè
quella della giustizia. Il cittadino comune si trovava in una condizione di inferiorità perchè non
conosceva le norme in base alle quali veniva giudicato. Nello stesso tempo, la consuetudine non era
comune ai due settori della società romana: i patrizi e la plebe. Ognuno dei due settori aveva le
proprie tradizioni. Con la richiesta di mettere ordine nella giustizia, la plebe voleva rendere il
cittadino uguale di fronte alla legge, che doveva essere unica e certa. Il compito di raccogliere e
codificare la consuetudine fu affidato a dieci magistrati eletti (Decemviri = dieci uomini), ai quali
furono concessi poteri illimitati. I Decemviri prepararono un codice, che fu inciso su XII Tavole di
bronzo ed esposto nel Foro. Era l'anno 450 a.C. Roma, finalmente, aveva una legge scritta che
garantiva la certezza del diritto e si avviava a diventare la madre del diritto per tutti i popoli
successivi, anche quelli del mondo moderno.

Quindi, la più grande conquista dei plebei furono le Leggi delle XII tavole (incise nel 450 a.C. su
tavole di bronzo ed esposte nel Foro, la piazza più importante della città). Esse segnano il passaggio
dal diritto orale a quello scritto: affermano il principio dell’uguaglianza davanti alla legge e la
sovranità del popolo.

LA LEGGE ROMANA DELLE XII TAVOLE

Con le leggi delle XII Tavole era stato codificato il diritto privato, il diritto processuale, quello
penale, il diritto pubblico e quello sacrale. Questa codificazione, tuttavia, non era che un primo
passo ancora incompleto verso il più maturo diritto romano. Si erano pubblicate le norme, che
avevano ancora un carattere magico-religioso e prevedevano la pena del taglione, ma non si erano
rese pubbliche le norme di procedura, che rimasero ancora nelle mani dei pontefici per più di cento
cinquant'anni. Tuttavia, queste leggi costituivano un passo molto importante verso la direzione della
completa uguaglianza dei cittadini di fronte alle legge. Un altro passo in questa direzione fu
compiuto pochi anni dopo, nel 445, con l'approvazione della legge del conubium (lexcanuleia), che
aboliva, una volta per sempre, il divieto di contrarre matrimoni tra patrizi e plebei).

77
Nota: La legge del taglione era basata sulla reciprocità della pena. All’offensore veniva comminata
una pena uguale e contraria all’offesa commessa.

L'ESERCITO NELL'ETA' REPUBBLICANA

L'esercito era diventato una macchina ordinata ed efficiente. Nei primi tempi della repubblica tutto
l'esercito romano si esauriva in due legioni, ciascuna delle quali era comandata da un console. I
milites erano divisi in coorti, manipoli e centurie. Gli equites erano raggruppati in dieci turme. Il
console rappresentava il comandante in capo. Sotto di lui c'erano i tribuni (gli ufficiali superiori), i
centurioni, che avevano il comando di cento milites, ed i decurioni, che comandavano i drappelli
della cavalleria. Quando l'esercito si muoveva per la guerra era preceduto dai genieri (fabbri),che
provvedevano a costruire l'accampamento (castra) ed, eventualmente, le strade ed i ponti. Il castra
era un accampamento fortificato di forma quadrangolare . Tutt'intorno al castra c'era un fossato e
una palizzata. Al centro dell' accampamento, all'incrocio delle due strade principali che
intersecavano il campo, c'era la tenda del console. Lo schieramento in battaglia era composto di
quattro file che si muovevano inondate successive. I primi a muoversi erano i veliti che erano
armati alla leggera e combattevano in ordine sparso. Seguivano a dare man forte gli astati,che erano
numericamente più consistenti. Il colpo decisivo veniva sferrato dai principi, i milites più maturi,
che avevano un armamento più pesante. I triàri, la quarta fila, entrava in gioco solo in caso di
necessità.

L'ORDINAMENTO COSTITUZIONALE ROMANO

I tre aspetti dei poteri fondamentali all'interno della stato romano erano la libertas, esercitata dal
popolo nei comizi centuriati (il parlamento), la potestas, esercitata dai magistrati e dal pater familias
all'interno della gens, e l'auctoritas, esercitata dal senato.

1. LA LIBERTAS
La libertas era la libertà di prendere decisioni politiche che fossero vincolanti per tutti. Essa
era riservata al popolo, che la esercitava attraverso gli organi collegiali.
I massimi organi collegiali erano i comizi curiati e, successivamente, i comizi centuriati. In
termini moderni, questi organi erano il parlamento di Roma, dove si approvavano le leggi e
si eleggevano i massimi magistrati dello stato.

2. LA POTESTAS
La potestas era la capacità-possibilità di esercitare un potere. Detta in altri termini,
significava che chi era investito della potestas poteva legittimamente usare la forza per far
rispettare i suoi ordini. La potestas, nella Roma antica, apparteneva di diritto al re che
esercitava il potere esecutivo dello stato. Sotto la repubblica, essa era esercitata dai
magistrati (consoli, ecc.). Questi erano i soli che potevano usare legalmente la forza per far
rispettare le leggio gli altri provvedimenti amministrativi che si rendevano necessari per il
corretto funzionamento dello stato. All'interno della gens, della casata, il diritto di usare la
forza per far rispettare la propria volontà era esercitato dal pater familias, che, come

78
abbiamo visto, amministrava la giustizia all'interno della gens. In questo caso si diceva che
il pater familias esercitava la patria potestas. In base a questa potestas, che gli era
riconosciuta dalla tradizione, il pater familias poteva disporre a piacimento non solo dei beni
della famiglia e dei servi, ma anche dei membri della famiglia. Egli poteva sentenziare
legalmente la morte di sua moglie o vendere i propri figli. Il suo potere (potestas) era così
vasto che, mentre come cittadino doveva obbedienza ad un proprio figlio magistrato dello
stato (console, ecc.),all'interno della famiglia era il figlio che gli doveva obbedienza.

3. L'AUCTORITAS
L'auctoritas era la capacità, riconosciuta ed accettata, di dare consigli,anche se non
vincolanti. La massima auctoritas in Roma era il senato, che era stato istituito per dare
consiglio al re e, successivamente, ai consoli. Il re consultava sempre il senato prima di
sottoporre i suoi provvedimenti alle assemblee legislative. Il senato, inoltre, esercitava la sua
auctoritas anche sui provvedimenti legislativi dei comizi centuriati sui quali esprimeva il
proprio parere, ma non aveva il potere di modificarli o rigettarli. Le decisioni politiche dei
comizi centuriati diventavano leggi dello stato anche senza il parere del Senato. L'influenza
del senato come auctoritas fu grande e prestigiosa fino alle guerre puniche. Dopo incominciò
a perdere quel prestigio che lo aveva caratterizzato dal V al II secolo. Per tutto questo
periodo, la sua influenza fucosì grande da sfociare nella potestas. L'auctoritas era esercitata
anche dai comizi centuriati, a cui il re e,successivamente, i consoli, come capi dell'esercito,
dovevano sottoporre i loro piani di azione, che, però, non potevano essere modificati.
L'auctoritas era anche riconosciuta nella vita privata a singole grandi personalità, che, per la
loro statura morale o politica, si ergevano come punti di riferimento essenziali. I loro
consigli potevano anche non essere seguiti. La loro auctoritas, infatti, si basava su un
rapporto di fiducia e di stima, che non poteva essere vincolante.

Tuttavia, solo dopo circa un secolo e mezzo fu riconosciuto ai plebei il diritto di accedere a tutte le
cariche pubbliche. I plebei ottennero anche il riconoscimento della funzione dei tribuni, dichiarati
inviolabili e forniti del diritto di veto rispetto a qualsiasi decisione presa dai magistrati della
repubblica che fosse da loro giudicata dannosa o contraria agli interessi della plebe. Solo nella
prima metà del IV secolo, tuttavia, i plebei furono ammessi a rivestire le massime magistrature
repubblicane ed entrarono quindi a pieno titolo nella realtà politica romana. Sul piano della politica
estera la neonata repubblica di Roma fu dapprima coinvolta in una guerra con i latini, ai quali in
seguito si alleò in lega per far fronte alla comune minaccia rappresentata da Sabini, Equi e Volsci,
sconfitti definitivamente nella seconda metà del V secolo a.C. Seguì la vittoria contro la potente
città di Veio; dopodiché si impegnò nella guerra contro Taranto e altre colonie greche. Tra il V e il
III sec a.C. praticamente i romani occuparono tutta la penisola. I popoli conquistati non vennero
schiavizzati, ma accettarono le leggi romane, il latino come lingua, alcune divinità religiose ecc.
Subito dopo Roma fu travolta dall’invasione delle popolazioni celtiche della Val Padana, che
all’inizio del IV secolo a.C. sconfissero la lega latina e penetrarono in Roma (390 a.C. secondo la
tradizione). La grave situazione determinatasi dopo il trionfo dei Celti costrinse Roma a un faticoso
lavoro di riorganizzazione interna dello stato: fu riordinata l’assemblea centuriata e ridefinito il
quadro delle magistrature. La cura istituzionale – in cui rientrò anche il sempre maggior peso

79
assunto dai concili plebei – si rivelò efficace e consenti a Roma di affrontare la politica estera con la
necessaria tranquillità e autorità. Fra il III e il II sec. a.C. i romani contadini e guerrieri, com’erano
sempre stati, cominciarono ad interessarsi anche di commercio e di navigazione, soprattutto perché,
conquistando le città etrusche e greche, erano venuti a contatto con una civiltà che per molti aspetti
era superiore alla loro. Le idee direttive dell’organizzazione politico-amministrativa delle province:
1) nessuna uguaglianza di diritti tra romani e popoli soggetti;
2) formale rispetto delle tradizioni locali;
3) diversità di trattamento (divide et impera).

Tra la seconda metà del IV e l’inizio del III secolo a.C., dopo una lunga e dura guerra contro i
sanniti, popolazione dell’Appennino abruzzese e campano, Roma estese la propria egemonia su
quasi tutta l’Italia peninsulare. Sconfitta definitivamente, nel 275 a.C., anche la città greca di
Taranto e il suo potente alleato, il re dell’Epiro Pirro, un sovrano ellenistico con scoperte ambizioni
di potenza, Roma si affacciò decisamente sul Mediterraneo e venne per la prima volta a contatto
diretto e in competizione di interessi con la maggior potenza economica e commerciale che allora
su quel mare operava, Cartagine. Città nordafri-cana di fondazione fenicia, Cartagine controllava
direttamente la Corsica, la Sardegna e la Sicilia (meno Siracusa e Messina), e soprattutto manteneva
il controllo sulle rotte commerciali che univano il Mediterraneo occidentale con quello orientale. Lo
scontro di interessi fra Cartagine e Roma si trasformò ben presto in scontro armato.

Approfondimento:

La leggenda del ratto delle Sabine


Fondata la città, sorge il problema del suo popolamento. Romolo decise di accogliere i
pastori abitanti le zone circostanti, ma subito si rese conto che erano tutti maschi,
mancavano le donne. Romolo allora escogitò un piano : indisse una festa alla quale
invitò i Sabini della tribù di Tito Tazio, i Curiti, con mogli e figlie. Nel bel mezzo della
festa, fra libagioni e canti, ad un segnale precedentemente convenuto, alcuni giovani
romani rapirono le donne sabine, mentre altri, armati di pugnali, fecero fuggire gli
uomini Sabini. Questi dopo poco tempo ritornarono, alla guida del loro re Tito Tazio,
decisi a riprendersi le familiari ed a lavare l'onta subita. Una fanciulla di nome Tarpea,
schiuse ai sabini le porte della città. Fu un gesto che pagò con una morte raccapricciante:
fu schiacciata sotto gli scudi dei romani pronti a difendersi dall'attacco di Tito Tazio e
dei suoi uomini. I posteri daranno il suo nome alla rupe dalla quale diverrà usanza
gettare i condannati a morte per alto tradimento dello Stato, la rupe Tarpea. Dalle porte
spalancate della città, i Sabini si gettarono contro i guerrieri nemici. Comunque, appena
iniziò la battaglia, le donne riuscirono a frapporsi fra i due schieramenti che subito si
fermarono per non ferirle. Molte donne infatti, si erano già affezionate agli sposi romani
e non potevano sopportare quella battaglia che versava il sangue dei loro padri e dei

80
loro mariti. La vicenda ebbe così una pacifica conclusione: Romolo e Tito Tazio
regnarono in comune sulla città di Roma. Sabini e Romani si fusero in un solo popolo.
Dal nome della tribù di Tito Tazio, quella dei Curiti, derivò poi ai Romani l'appellativo
di Quiriti.

Bibliografia

Appiano di Alessandria, Storia romana , Diodoro Siculo, Bibliotheca historica - libri IX-XIII

F. Della Corte - Varrone, Il terzo gran lume romano, Firenze: La Nuova Italia, 1970

Giovanni Brizzi, Storia di Roma: Dalle origini ad Azio, Bologna: Patron, 1997

Massimo Pallottino, Origini e storia primitiva di Roma, Milano: Rusconi, 1993

Plutarco, Vita di Romolo e Vita di Numa

Strabone - Geografia, V (Italia) -- Tito Livio - Ab Urbe condita libri –

Storia romana di Giovanni Geraci (Autore), Arnaldo Marcone (Autore),Mondadori

Manuale di storia romana, Luigi Bessone, Rita Scuderi, Antonio Baldini, Monduzzi, 2011

81
7. Le guerre puniche, l’età dei gracchi

LE GUERRE PUNICHE

Nel III secolo a.C Roma perfezionò gli strumenti di conquista e promosse un altro forte impulso
espansionistico in contesto italico ed extra-italico: fu questo il periodo dell’imperialismo romano,
caratterizzato da “guerre giuste”, in nome di principi come lealtà, equità e clemenza, avallate dalle
classi dirigenti, dal ceto medio e dagli alleati.
……………
In seguito alle guerre sannitiche Roma combattè più avversari:
 GUERRA CONTRO GLI ETRUSCHI (284 al 282 a.C.) Portò alla vittoria di Roma e
all’annessione nell’Impero di territori come Rimini e Luni (attuale Massa Carrara).
 GUERRA CONTRO TARANTO (dal 282 al 275 a.C.) In una prima fase portò alla vittoria
della città magnogreca e di Pirro (re dell’Epiro, brillante comandante alla guida di un
esercito di stampo ellenistico formato anche da elefanti). Roma ebbe la sua rivincita nel 275
a.C. con la battaglia di Benevento; il suo dominio si estese fino a Rhegion (Reggio
Calabria).
 PRIMA GUERRA PUNICA (dal 264 al 241 a.C). Le nuove conquiste fecero andare in
collisione gli interessi economici e territoriali di Roma con la tradizionale alleata Cartagine,
ormai grande potenza commerciale in grado di controllare l’Africa settentrionale, Spagna
meridionale, Sardegna, Corsica, e parte della Sicilia occidentale. Lo scontro iniziò quando
Roma intervenne al fianco di Messina, invasa da mercenari campani, Mamertini, al soldo dei
Cartaginesi. La battaglia decisiva venne combattuta nel 241 a.C. presso le Isole Egadi e
costrinse l’esercito punico e l’ammiraglio Amilcare alla resa. Due furono le conseguenze di
questo conflitto: grazie a tale successo Roma iniziò a conseguire il dominio sul
Mediterraneo e ad attivare una politica di provincializzazione (con annessione della Sicilia,
Sardegna e Corsica).
 DUE GUERRE ILLIRICHE (dal 230 al 219 a.C). Roma sconfisse la regina Teuta e riuscì a
conquistare parte della costa albanese. Roma si trovò per la prima volta proiettata verso
Oriente…
 GUERRA CONTRO I CELTI (dal 225 al 218 a.C.) Tribù e popolazioni celtiche dell’area
lombarda ed emiliana si spinsero fino in Etruria, dove vennero fermate da Talamone. Roma
decise di passare al contrattacco e penetrare la pianura padana quando, ad interrompere il
progetto, intervenne l’invasione del cartaginese Annibale sulle Alpi (218 a.C.).
 SECONDA GUERRA PUNICA (dal 219 al 202 a.C) Fu per Roma una guerra difensiva. Il
pretesto dello scontro si produsse in Spagna (dove i cartaginesi si erano insediati e
sfruttavano le risorse minerarie del territorio). Annibale (figlio di Amilcare) iniziò ad
attaccare Sagunto, oltrepassò i Pirenei, sconfisse Roma sul Ticino, sul Lago Trasimeno e a
Canne, in Puglia (dove morirono 50.000 soldati romani). Roma perse la Cisalpina e la
Sicilia. L’intento di Annibale era quello di sottrarre a Roma le alleanze con le comunità
italiche, in questa ottica riuscì a stringere un’intesa con Capua e Filippo V (re di
Macedonia). Nel 211 a.C, grazie ad un cambio di strategia, la guerra di logoramento messa
in atto dai Romani portò alla ripresa della Sicilia, di Taranto e alla resa di Capua. Nel

82
frattempo, in Spagna si affermava Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano, il quale
annientò i cartaginesi.
La sconfitta definitiva della fazione punica avvenne nella Pianura di Zama nel 202 a.C.
Annibale fu costretto a fuggire e rifugiarsi in Siria, da Antiochio III. Scipione impose a
Cartagine condizioni di pace durissime che sancirono il definitivo controllo di Roma sul
Mediterraneo occidentale.
 TRE GUERRE MACEDONICHE (dal 215 al 168 a.C). Nacquero come appendici del
conflitto punico, vista la alleanza tra Annibale e Filippo V che mirava ad indebolire Roma
su più fronti. In Oriente, lo sforzo di alcuni regni indipendenti che avevano creato un asse
antiromano (Siria- Bitinia- Etolia) servì a ben poco in quanto Roma costrinse alla fuga
Annibale (il quale si rifugiò in Bitinia dove si tolse la vita nel 183 a.C), rase al suolo Corinto
e divise la Macedonia in 4 distretti che sancirono la definitiva istituzione della provincia di
Macedonia e Acaia.
 TERZA GUERRA PUNICA (dal 149 al 146 a.C.) Su insistenza di Catone, Roma aprì un
nuovo fronte di guerra a Cartagine che, nel frattempo, aveva ripreso la sua politica
espansionistica. Il casus belli furono le tensioni maturate tra Cartagine e il regno di
Numidia, alleato di Roma. Il comando fu affidato a Publio Cornelio Scipione Emiliano
(nipote adottivo dell’Africano), nel 146 a.C. Cartagine cedette al lungo assedio, venne
saccheggiata e rasa al suolo. Il suo territorio fu annesso allo stato romano e trasformato in
provincia d’Africa.
I Romani mantennero l’alleanza con il re di Numidia che avrebbe poi lasciato il regno ai figli
(Aderbale e Iempsale) e al nipote Giugurta, futuro nemico di Roma. Secondo una visione
acquisita da gran parte della storiografia romana da questo momento in poi iniziò quel degrado
morale che si sarebbe rispecchiato nella vita politica e che avrebbe portato lentamente alla crisi
della Repubblica.

L’ETÀ DEI GRACCHI

CRISI DELLA REPUBBLICA- LA QUESTIONE AGRARIA

In seguito all’annessione della Spagna Citeriore, Spagna Ulteriore, Gallia Transalpina e Gallia
Narbonense, per la potenza romana iniziò una lunga fase di trasformazioni politiche e sociali che
condurranno alla crisi della Repubblica e alla nascita del principato nel 27 a.C. All’insoddisfazione
di esercito, alleati e province si aggiunsero le devastazioni dei territori provocate dai conflitti, in
particolare dalla seconda guerra punica che, in Italia centro-meridionale, portò all’abbandono delle
pianure e ad un forte calo demografico. A causa di questi fenomeni:
- diminuì il numero dei cittadini arruolabili
 - tramontò l’agricoltura di sussistenza, sostituita da due nuovi sistemi di sfruttamento
agricolo come l’allevamento transumante e la villa schiavistica (dedicata alla
produzione di colture pregiate, oggetti di artigianato, materiali da costruzione).
 - scomparve la media proprietà terriera. Alcuni cittadini, per via del meccanismo censitario,
vendettero i terreni per sottrarsi alla leva. Altri invece, per sottrarsi alle richieste di
cessione della terra avanzate dai grandi proprietari, si trasferirono in aree poco

83
appetibili per i capitalisti agrari (tra le mete principali la pianura padana).

Tiberio Sempronio Gracco, appartenente ad una ricca famiglia plebea di rango consolare e nipote di
Scipione l’Africano, fu il primo a mettere in relazione la crisi agraria e quella dell’esercito romano.
Nel 133 a.C. venne eletto tribuno della plebe e diede il via ad una riforma restauratrice delle leggi
Licinie Sestie (in base alle quali ogni famiglia poteva occupare un massimo di 500 iugeri, circa 125
ettari, di agro pubblico) che innalzò il tetto massimo di proprietà di ogni nucleo familiare a 1000
iugeri. Il terreno pubblico espropriato ai latifondisti sarebbe stato suddiviso in piccoli lotti,
distribuiti poi ai piccoli proprietari che ne avessero fatto richiesta.

Grazie alla legge Sempronia i contadini assegnatari avrebbero pagato allo Stato un canone d’affitto
simbolico, i lotti sarebbero divenuti inalienabili e si sarebbero scongiurate così la vendita dei terreni
ai latifondisti e la scomparsa della piccola proprietà terriera. Molti senatori latifondisti e Marco
Ottavio (l’altro tribuno della plebe) si opposero alla riforma in quanto minava i loro diritti di
possesso sui grandi appezzamenti. Tiberio riuscì a far deporre il collega grazie all’assemblea
popolare e la legge fu finalmente approvata.

Una commissione triumvirale fu incaricata di controllare le operazioni relative ai terreni. Tuttavia,


la riforma si mostrò di difficile applicazione perché i contadini non possedevano i mezzi necessari
per coltivare i terreni loro assegnati; occorreva concedere loro dei finanziamenti per l’acquisto di
attrezzi, sementi e bestiame. Per questo motivo, nel 133 a.C., Tiberio pensò di finanziare la
ricostruzione delle fattorie dei piccoli contadini attraverso il testamento del re Attalo III di Pergamo
(quest’ultimo, non avendo figli, lasciò il suo regno e i suoi beni al popolo romano). Il Senato e la
nobiltà videro nella proposta di Tiberio e nella sua seconda candidatura come tribuno per l’anno
successivo un tentativo di scavalcare le autorità: sostennero infatti che la replica del tribunato
richiedesse una pausa decennale. Al momento delle elezioni, quando fu palese il vantaggio di
Tiberio, i consoli sospesero le operazioni di voto. A Roma scoppiarono dei tumulti, Tiberio venne
ucciso insieme a 300 dei suoi sostenitori e il suo corpo fu gettato nel Tevere.

La morte violenta di Tiberio Gracco e le tensioni sociali accumulate portarono all’approvazione


delle leggi tabellarie (la scheda cerata, tabella, sostituì la votazione per alzata di mano): si affermò,
così, il voto segreto. Questa nuova procedura portò alla crisi delle relazioni clientelari (le classi
dirigenti persero il controllo sul popolo) e alla nascita di propaganda e programmi politici per
guadagnare il consenso elettorale.

Nel 123 a.C. venne eletto tribuno della plebe Gaio Sempronio Gracco, fratello minore di Tiberio. In
seguito alla vicenda del fratello capì di dover creare solide alleanze per ottenere il consenso; per
indebolire il potere senatorio aprì ai cavalieri l’accesso al tribunale che giudicava l’operato dei
magistrati nelle province. Ottenne che i comizi tributi legittimassero l’iterazione delle magistrature
così, nel 122 a.C., si candidò nuovamente e venne eletto per la seconda volta tribuno della plebe.

Pose la sua attenzione sui ceti subalterni (piccoli proprietari terrieri, cittadini-soldati) e avanzò un
pacchetto di 17 provvedimenti legislativi. Alcuni tra questi:

84
1571 legge agraria: mirava a ricostruire il ceto dei piccoli proprietari terrieri distribuendo,
ad esempio, in seguito alle confische, piccoli lotti dell’agro pubblico ai nullatenenti.
1572 legge frumentaria: lo stato si sostituiva ai patroni nello stoccaggio del grano,
entrava in crisi il sistema clientelare.
1573 legge Rubria: riavviava la politica coloniale in territorio italico ed extra-italico (fu
fondata una nuova comunità a Iuniona, nel sito dell’antica Cartagine).
1574 legge giudiziaria: il cittadino romano affrontava la condanna alla pena capitale solo
in seguito al pronunciamento popolare.

I provvedimenti vennero tutti approvati dall’assemblea popolare tranne uno, quello che prevedeva
la concessione della cittadinanza romana ai Latini ed equiparava giuridicamente gli alleati italici ai
cittadini romani. Gaio Gracco entrò in contrasto, infatti, con la plebe urbana, che temeva di perdere
i diritti recentemente acquisiti (terre e frumentazioni). Dei malcontenti popolari si fece portavoce il
collega tribuno Marco Livio Druso il quale ne approfittò per guadagnare consenso. Nel 121 a.C.
Gaio Gracco non riuscì ad assumere di nuovo il tribunato della plebe (sarebbe stato il terzo
mandato). Coloro i quali avevano subìto danni dalle sue leggi misero in atto rivolte e tafferugli.
Gaio Gracco morì con 3000 dei suoi partigiani.

La riforma agraria dei fratelli Gracchi fallì definitivamente e nel giro di pochi anni si diffuse
nuovamente il latifondo, promosso da una nuova legge agraria del 111 a.C..

In seguito alla vicenda graccana, nell’aristocrazia senatoria iniziarono a contrapporsi due fazioni:
gli ottimati (“i migliori”, rappresentanti degli interessi dell’oligarchia conservatrice e delle sue
clientele) e i popolari (rappresentanti degli interessi del popolo e della plebe urbana). Questi ultimi
stilarono un programma politico pensato per trasformare la Repubblica. Tra i principali cardini della
riforma: cittadinanza romana agli Italici, emancipazione delle masse, definizione della questione
agraria, alleanza con il ceto equestre. I tribuni promotori di tale politica affrontarono gravi pericoli:
Lucio Apuleio Saturnino (tribuno della plebe nel 103 a.C.) e Marco Livio Druso (tribuno della
plebe nel 91 a.C.), ad esempio, furono assassinati nel 100 a.C..

Bibliografia

Marrone G., Vio F., Calvelli L., Roma Antica- Storia e documenti, 2014, Il Mulino

85
8. Le riforme di Mario e la dittatura di Silla

LE RIFORME DI MARIO

Gaio Mario, militare e politico, nato nel 157 a.C. ad Arpino (antica Cereatae) nel Lazio meridionale,
apparteneva a una famiglia di cavalieri priva di antenati illustri: era dunque un homo novus, un non
nobile.

Venne eletto console nel 107 a.C. per porre riparo al disastroso andamento della guerra
contro Giugurta, re di Numidia, in Africa settentrionale. Nel 112 Giugurta, in lotta per il trono
contro i cugini alleati di Roma, aveva conquistato la città di Cirta, massacrando i commercianti
romani e italici che vi si trovavano. Davanti a una simile provocazione il senato esitò a intervenire,
anche perché alcuni senatori ricevevano grandi somme di denaro dal re usurpatore; sotto la
pressione dei cavalieri e del popolo decise infine la guerra, che fu però condotta con poca
determinazione. Nella nuova situazione trovare reclute in numero sufficiente e ben motivate era
divenuto difficile, e poi i generali si lasciavano corrompere dall’oro di Giugurta. Mario fu dunque
eletto sull’onda dell’indignazione popolare contro questa umiliante conduzione della guerra.

Per prima cosa il nuovo console promosse un’importante riforma dell’esercito. Preso atto che la
crisi della piccola proprietà rendeva necessario abbandonare l’antico principio che limitava il
servizio militare ai soli cittadini possidenti, decise di aprire il reclutamento anche ai nullatenenti, i
proletari. Fu l’inizio di una trasformazione che nel giro di alcuni decenni portò a un cambiamento
radicale: da milizia temporanea di cittadini-agricoltori, le legioni romane si trasformarono in truppe
di professionisti regolarmente stipendiati, bene addestrati e in servizio per molti anni di seguito.
Oltre a cambiare il reclutamento, Mario riformò altri aspetti dell’esercito. Elmo, corazza, scudo e
armi furono resi più robusti ed efficaci, l’addestramento fu più curato, e la tattica bellica fu
migliorata dall’introduzione del sistema della coorte. La coorte era un’unità tattica agile ma
abbastanza forte per operare autonomamente. Era costituita dall’unione di tre manipoli e composta
di regola da 500-600 soldati. Composta da dieci coorti, la legione divenne la più efficace
formazione di fanteria della storia fino all’introduzione, nel XVI secolo, delle armi da fuoco.

La durata della ferma richiesta ai poveri che si offrivano volontariamente di diventare legionari era
di sedici anni. Poiché al momento del congedo i generali cercavano di fare avere ai loro veterani un
appezzamento di terra, il servizio militare appariva agli occhi delle classi rurali povere uno
strumento per arricchirsi e raggiungere infine lo status di piccoli proprietari. Durante il servizio
militare i soldati erano equipaggiati e stipendiati dallo Stato, vivevano in accampamenti, erano
soggetti alla legge militare e rimanevano lontani dalla vita civile. Erano professionisti della guerra
che vivevano fuori dalla società e dipendevano in tutto dal generale che li arruolava, li guidava in
battaglia e infine li congedava. Essi sapevano che il loro avvenire dipendeva dal successo del loro
generale. Da un punto di vista bellico, in questo modo l’esercito diventava più numeroso, addestrato
ed efficace nell’azione. Ma dal punto di vista politico era una trasformazione molto pericolosa,
come si sarebbe visto presto: le legioni diventavano così strettamente legate al loro comandante da
trasformarsi quasi in suoi eserciti personali, pronti a seguirlo in tutto, anche contro la stessa

86
repubblica.
Grazie a queste riforme, Giugurta venne sconfitto senza difficoltà. In catene, nel 105 a.C. il re
africano sfilò per le vie di Roma nel trionfo di Mario, e subito dopo fu giustiziato, secondo la feroce
usanza dei Romani che ammazzavano i capi nemici prigionieri. Mario era l’idolo del popolo e il
capo dello schieramento dei popolari. Fu rieletto al consolato per ben cinque anni consecutivi, a
dispetto di tutte le leggi. Le rielezioni del resto non dipesero solo dal suo prestigio di generale:
molto contò anche un pericolo che dal settentrione minacciava Roma. Da oltre un decennio i due
popoli dei Cimbri e dei Tèutoni, considerati germanici dagli scrittori romani di epoca successiva ma
probabilmente di etnia celtica, attaccavano e vincevano le truppe romane stanziate in Gallia e
in Spagna. Proprio nel 105 a.C. due armate romane erano state sterminate ad Arausio (Orange), ai
confini della parte meridionale della Gallia conquistata dalla repubblica pochi anni prima (la Gallia
Transalpina, più tardi detta Gallia Narbonense). Si riaffacciava a Roma e in Italia l’antica paura di
venire invasi da popoli del Nord, come era accaduto con i Galli nel 390 a.C.: Mario apparve come il
salvatore. Nel 102 arrivò in effetti l’invasione. Ma il grande generale sconfisse dapprima i Teutoni
in marcia verso l’Italia ad Aquae Sextiae (oggi Aix-en-Provence), e poi nel 101 sterminò i Cimbri,
che erano scesi nella Pianura Padana attraverso il Brennero, nella battaglia dei Campi Raudi (una
località ignota, forse presso Vercelli, o forse in Veneto). La popolarità di Mario era immensa, e la
fazione dei popolari sembrava destinata a imporre agli ottimati una serie di riforme. L’abile
generale si rivelò però un modesto politico. Fatale fu soprattutto la sua decisione di rompere
l’alleanza con un leader dei popolari, il tribuno della plebe Saturnino, che venne catturato e poi
ucciso proprio ad opera di Mario. Mario perse così l’appoggio di molti popolari e si ritirò
(momentaneamente) dalla vita politica.

LA DITTATURA DI SILLA

Prima di partire da Patrasso per l'Italia, Silla scrisse al Senato, annunciandogli le vittorie ottenute in
Asia, la pace imposta a Mitridate e il suo ritorno. Si lamentava però delle offese recate alla sua
famiglia e ai suoi amici e terminava esprimendo il proposito di rimettere l'ordine a Roma,
a s s i c u r a n d o c h e n o n a v r e b b e f a t t o a l c u n m a l e a i "buoni" c i t t a d i n i .
Giunta a Roma la lettera, i "cattivi" capirono benissimo che cosa li aspettava se tornava Silla; e così
il partito che era al potere si preparò alla difesa. Si raccolsero soldati dal Sannio, dall'Etruria e dalla
Lucania e si formò un esercito di circa duecentomila uomini. Ma questa gente per lo più costretta ad
ubbidire erano elementi eterogenei e indisciplinati, con i quali non si sarebbe potuto tener testa ai
"professionisti" delle agguerrite e fedeli legioni di Silla.
Cinna, sempre al consolato, nell'inverno dell’84, condusse quell'esercito raffazzonato, ad Ancona
per prendere il mare e recarsi incontro al rivale, ma le truppe si rifiutarono d'intraprendere una
navigazione in quella stagione e, poiché il console voleva obbligarle ad imbarcarsi, si ribellarono e
l'uccisero.

Il suo collega console Gneo Papirio Carbone, reso prudente dalla sorte toccata al collega, promise
all'esercito che sarebbe rimasto in Italia e lo trasferì ad Arimino (Rimini).
Dopo la sospensione di quattro anni, tornarono ad esserci le elezioni consolari, e all'inizio dell'anno
83, furono eletti L. Cornelio Scipione e Cajo Norbano, e mentre Carbone si recava nella Cisalpina

87
in qualità di proconsole, i due neoletti si prepararono ad ostacolare il ritorno del vincitore di
Mitridate.
Silla, intanto, sbarcato indisturbato a Brindisi, assicurò la popolazione delle sue intenzioni
amichevoli ed impedì alle truppe ogni atto ostile. Fu per l'esemplare contegno del suo esercito, che
le città dell'Apulia gli aprirono le porte e così il generale riuscì senza incontrare ostacoli procedere
verso Roma.

Durante il cammino, le sue schiere s'ingrossarono di volontari italici cui egli prometteva la
cittadinanza e di partigiani suoi sostenitori, elementi che Mario e Cinna avevano costretto ad andare
in esilio.

Dalla Liguria, Silla fu raggiunto dal figlio del "Numidico", Q. Metello Pio; con lui vi erano alcuni
che militavano nel partito della democrazia: L. Filippo, Q. Lucrezio Ofella e il senatore P. Cetego.
Un buon contingente di truppe le condusse Cneo Pompeo, il giovane figlio di Strabone che era
passato al partito aristocratico perché i democratici lo avevano minacciato di confiscargli gli averi
se non restituiva il bottino che - secondo loro - il padre aveva sottratto per sé ad Ascoli. Il giovane
Pompeo lungo il percorso aveva sconfitto alcune truppe inviate del pretore L. Giunio Damasippo.
Quando si unì, Silla lo accolse simpaticamente chiamandolo "imperator".

A contrastare invece il passo a Silla si presentarono nella Campania i due neo consoli Scipione e
Norbano. Il primo mise il campo presso Teano, il secondo nelle vicinanze di Capua.
Silla iniziò ingaggiando battaglia con Norbano, lo attaccò, lo sconfisse, gli uccise settemila uomini
e lo costrinse a rifugiarsi a Capua; poi marciò su Teano e offrì una tregua con un armistizio a
Scipione, e questi accettò per avere tempo di chiedere consigli a Norbano e Sertorio; ma quando
ricevette il consiglio di rompere l'armistizio, fu abbandonato dalle sue legioni che fraternizzarono
con quelle di Silla e, deposto il consolato, se ne andò volontario esilio a Marsiglia.
Silla aveva ottenuto senza dubbio dei notevoli successi, ma Roma era ancora lontana e il nemico
ancor forte.

Nell'anno 82 a.C, il consolato fu conferito a Papirio Carbone e a Mario (detto il "Giovane"), figlio
del vincitore dei Cimbri. I due, inviato Sertorio nella Spagna Citeriore, accolsero numerosi soldati
nella Gallia Cisalpina e nell'Etruria e si prepararono a dare battaglia a Silla; il primo a nord, il
secondo a sud di Roma. Contro Papirio Carbone furono mandati Pompeo e Metello. Questi
sull'Esino sbaragliarono Albio Carina, luogotenente di Carbone; mentre contro Mario andò lo stesso
Silla, che si scontrò con il figlio del suo grande nemico nella pianura di Sacriporto, tra Signia e
Preneste. La battaglia fu impetuosa, ma si risolse con una grande vittoria dei Sillani per la
diserzione di sette coorti, seguita dalla fuga dell'intero esercito verso Preneste. In quel
combattimento più di ventimila soldati di Mario furono uccisi. Mario, da Preneste ordinò al pretore
Damasippo che si trovava a Roma di uscire dalla città, essendo ormai aperta a Silla la via, e di
uccidere, prima di allontanarsi, tutti coloro che si sospettava parteggiassero per l'oligarchia.
Damasippo eseguì fedelmente l'ordine e, radunato il Senato, fece trucidare i senatori sillani fra cui
P. Antistio, L. Domizio, C. Papirio Carbone e il pontefice massimo Muzio Scevola.

88
Silla, lasciato il suo luogotenente Lucrezio Ofella a continuare l'assedio di Preneste, con le sue
truppe occupò facilmente Roma, poi marciò su Chiusi dove si trovava il console Carbone.
I due eserciti ingaggiarono battaglia per una giornata intera, ma senza che uno sopraffacesse l'altro;
tuttavia Carbone, inviò in soccorso del collega parte delle sue truppe al comando del suo
luogotenente, il quale però a Spoleto, incontratosi con Pompeo, fu sconfitto senza così riuscire ad
unirsi al collega. Ma a parte questo successo, le speranze degli avversari di Silla furono ugualmente
rialzate da un soccorso insperato: circa settantamila di Sanniti e Lucani avevano già brandito le
armi, e guidati da Ponzio Telesino, M. Lamponio E Gutta, avanzavano verso il nord.
Per impedire che questo esercito si unisse a Mario, Silla si disimpegnò nell'assedio da Chiusi e
scese verso il mezzogiorno occupando la stretta di Valmontone. Rimasto libero, Carbone puntò
verso il Piceno, ma a Faenza lo aspettava un'infausta disfatta per merito delle truppe di Metello.
Sfiduciato e abbandonato da alcuni suoi ufficiali, il console abbandonò il teatro di guerra e partì per
l'Africa, lasciando a Chiusi parte dell'esercito allo sbando, e che, assalito da Pompeo, fu quasi
interamente distrutto. Solo alcune schiere, guidate dal luogotenente Caninate, riuscirono a salvarsi e
presero al via del sud per congiungersi con Mario e con gli Italici. Questi ultimi, non riuscendo più
a giungere a Preneste, puntarono audacemente e segretamente su Roma che sapevano difesa da
poche truppe sillane comandate da Appio Claudio. Dopo aver marciato tutta una notte, giunsero
all'alba davanti alla porta Collina. Mostrando ai suoi uomini la città è fama che Ponzio Telesino
esclamasse "Ecco il covo dei lupi! E finché non sarà distrutto mai ci sarà libertà per noi". Poi
ordinò di iniziare l'assalto.

Roma quel giorno (era 1° novembre dell'82 a.C.) sarebbe stata conquistata dai suoi secolari nemici
se un pugno di uomini risoluti che ne costituivano il presidio non avessero messo in atto un'audace e
vigorosa sortita, che se non ebbe esito fortunato riuscì -tenendo impegnati i nemici tutto il giorno - a
permettere a Silla di giungere in soccorso della città.

Sebbene la drammatica giornata era già giunta al termine, l'animoso generale ingaggiò battaglia con
i Sanniti e i Lucani. Ma stanchi dal frettoloso viaggio, le truppe sillane non furono favorite dalla
sorte nei primi scontri. L'ala sinistra, assalita impetuosamente e cominciò a piegare. Si narra che
Silla -quest'ala la comandava proprio lui- addolorato dalla rotta dei suoi, rivolgesse ad Apollo
queste parole "Perché mi hai elevato a tanta altezza se dovevi poi abbandonarmi sotto le mura
della mia città?"

Ma non tutto era perduto. L'ala destra, infatti, comandata da Marco Crasso, rimase ferma e ben
compatta davanti all'impeto dei nemici, poi, passata al contrattacco, si abbatté così violentemente
sui Sanniti che in pochi attimi furono sbaragliati; poi il colpo di grazia quando nel furioso scontro
Ponzio Telesino fu ucciso. Staccata subito la sua testa, impalata su una picca, fatta girare per il
campo di battaglia tolse ogni speranza ai suoi uomini; poi fu subito mandata a Preneste a
sgomentare le truppe impegnate contro il luogotenente di Silla Lucrezio Ofella.
Abbandonati dagli uomini, Caninate, Marcio E Damasippo caddero prigionieri e, condotti a Roma,
furono subito giustiziati nel Campo Marzio. Questa battaglia fu decisiva per le sorti della guerra ed
ebbe come conseguenza la resa di Preneste. Il console Mario e il figlio di Ponzio cercarono di
fuggire attraverso un sotterraneo, ma, essendo riuscito vano il loro tentativo, per non cadere nelle

89
mani dei nemici, si uccisero.

Caduta Preneste, Silla assunse il nome di "felix"; poi diede sfogo alle sue vendette. Dà corso a
repressioni sanguinose del partito democratico e degli Italici ribelli ed ampie proscrizioni per
eliminare gli avversari; tra i pochi che osano tenergli testa, si distingue un giovane 18 enne, CAIO
Giulio Cesare.

Nessuno di coloro che avevano parteggiato per Mario e per Cinna e avevano osteggiato con la
parola o con le armi i suoi disegni, doveva aver salva la vita in Roma e fuori Roma. A Preneste non
rimasero che le donne e i fanciulli. Cinquemila prigionieri sanniti condotti a Roma furono
ferocemente trucidati. Silla si trovava nel tempio di Bellona dove aveva convocato il Senato,
quando, mentre esponeva il suo programma, giunsero gli urli strazianti dei poveri Sanniti in massa
sgozzati. Un palese turbamento invase gli animi dei senatori e Silla, per calmarli disse loro che
coloro i quali gridavano erano solo alcuni ribelli che lui faceva punire, e continuò la sua orazione.

Tutto questo, non era che il preludio dell'immane carneficina che doveva insanguinare Roma e
l'Italia, tali da far impallidire le stragi mariane. Prima la soldataglia inferocita e i sicari del vincitore
si sparsero per la città trucidando barbaramente; poi, su consiglio di Metello, fu stabilito che i nomi
di quelli che dovevano esser messi a morte si scrivessero su certe "tavole" che furono chiamate di
"proscrizione", e che ogni giorno erano appese nel foro. Già c'erano gli spietati pugnali dei sicari di
Silla che giravano le vie, le case, le campagne in cerca di prede, poi le tavole con i nomi istigarono
molti vili cittadini a diventare giustizieri, allettati solo dalle taglie di dodicimila denari posta sul
capo di ogni proscritto.

Migliaia di malcapitati che erano riusciti a sfuggire ai sicari caddero sotto mani assassine
insospettabili. E migliaia di teste recise (condizione per incassare il premio) diventarono i trofei che
andarono ad adornare i rostri. Fra gli uccisi vi furono quindici ex consoli, quaranta senatori e
milleseicento cavalieri. Gli immensi averi dei proscritti furono confiscati e dichiarati proprietà dello
stato e proprio per questo motivo furono prima d'ogni altro presi di mira i cittadini più ricchi, e finiti
questi ci si accontentò anche di quelli solo appena benestanti. Un liberto di Silla, di nome
Crisogono, si appropriò dei beni di un certo Sesto Roscio Amerino che ascendevano a sei milioni di
sesterzi e fu poi il bersaglio delle invettive del giovane M. Tullio Cicerone, che, con vero sprezzo
del pericolo al quale si esponeva, osò tacciare di vile, di ladro e d'assassino il liberto.

Altra prova d'audacia fu data dal giovane diciottenne Caio Giulio Cesare il quale rifiutò di ripudiare
la propria moglie, che era una figlia di Cinna, contravvenendo agli ordini di Silla che aveva
decretato che fossero -pena di morte ai trasgressori- ripudiate tutte le mogli appartenenti a famiglie
sostenitrici di Mario. Cesare rientrò fra i trasgressori e fu condannato a morte; gli salvò la vita
l'intercessione di una favorita del tiranno, e Silla malvolentieri concesse la grazia, ma si narra che
esclamò: "nell'uomo cui risparmio la vita, io vedo molti Marii".

Non soltanto sui beni e sulle persone degli avversari si sfogarono le vendette dei sillani, che
durarono dal dicembre dell’82 al giugno dell’80. Tutto ciò che ricordava l'esacrato Mario, i

90
monumenti innalzati in onore delle vittorie su Giugurta e i Cimbri, fu abbattuto. Neppure i sepolcri
furono rispettati: la tomba di Mario fu scoperchiata e le sue ossa gettate nel Tevere. Fimbria, che
anni prima, aveva proposto di sacrificare una vittima umana sull'ara del vincitore dei Teutoni, trovò
un emulo in Lucio Sergio Catilina, che prima accompagnò a frustate Marco Graditiano nipote
adottivo di Mario, fino alla tomba di Lutazio Catulo, poi su questa gli cavò gli occhi, gli mozzò la
lingua, le orecchie e le mani, infine fra gli spasimi lo trucidarono trasformando le sue membra in
brandelli sanguinolenti. Il suo corpo, orrendamente mutilato, fu portato davanti a Silla ed essendo,
alla vista di quel corpo, svenuto un cittadino, il ferocissimo Catilina, per completare l'opera, gli
tagliò la testa.

Non soltanto a Roma proseguirono gli orrori che abbiamo descritto, ma anche in molti altri luoghi
d'Italia. Nel Sannio, più che altrove infuriò la ferocia di Silla e dei suoi partigiani; città floridissime
come Telesia, Esernia e Boviano furono ridotte a squallidi villaggi; paesi e campagne furono
saccheggiati, famiglie intere decimate o costrette andare in esilio; le loro terre furono sottratte e
distribuite ai soldati. Ventitré legioni, secondo alcuni scrittori, quarantasette secondo altri,
costituirono le prime colonie militari cui è affidata la difesa e la romanizzazione dell'Italia.

Dovendosi eleggere i nuovi consoli, Silla chiese la dittatura. Gli fu conferita con un nuovo sistema,
fu proclamato dal Senato l'interregno e creato nello stesso anno, l’82, interrè L. Valerio Flacco, il
quale, convocate le centurie, fece approvare una legge che nominava Silla dittatore con potere
costituente, a tempo indeterminato, e con il compito di fare leggi e riordinare lo Stato.
Così Silla divenne legalmente il padrone assoluto di Roma. Nel riordinare la repubblica ebbe di
mira prima di tutto l'avvilimento della plebe e l'esaltazione dell'aristocrazia. Secoli di storia, di lotte
e di sacrifici furono a un tratto cancellati. Con la legge intorno al potere tribunizio il tribunato
plebeo perse la sua indipendenza e l'autorità. Ai tribuni fu sottratto il diritto di convocare il popolo e
di parlare nelle assemblee; fu chiusa la via degli uffici curuli e fu strappato il jus auxilii, il diritto
cioè di difendere la plebe, di modo che a questi magistrati, dove prima era riposta tutta la forza del
popolo, non rimase che una meschina mansione, quella di patrocinare gl'interessi dei singoli. Con la
legge sui magistrati fu stabilito, rimettendo in vigore un plebiscito di tre secoli e mezzo prima, che
non si poteva ricoprire la medesima magistratura se prima non erano trascorsi dieci anni, che non
poteva essere creato pretore chi non aveva prima ricoperta la questura e console chi non era stato
prima pretore; infine fu fissata l'età minima nella quale si poteva conseguire la magistratura: 30 anni
per la questura, 40 per la pretura e 43 per il consolato.

Con altre leggi si stabilì che i consoli e i pretori dovevano restare a Roma per tutto il tempo della
loro magistratura esercitandovi soltanto il potere civile e che soltanto dopo potevano esser mandati,
in qualità di proconsoli e propretori, nelle province ad esercitarvi il potere militare; fu inoltre
disposto che non potevano allontanarsi dalle province senza il permesso del Senato né far guerra e
stipulare trattati; e comminata la pena di morte per i trasgressori.

Fu abolita la legge di M. Plauzio riguardante il potere giudiziario e questo fu attribuito al Senato.


Ma il Senato non fu più come una volta, un'assemblea esclusivamente composta di aristocratici.
Silla creò un organo ligio alla propria volontà e vi mise trecento cavalieri da lui stesso scelti ed

91
approvati poi dai comizi. Silla pensò anche alle questioni religiose, pur non essendo in fama di
uomo pio; il tempio di Giove Capitolino, che era stato distrutto dall'incendio qualche anno prima, fu
ricostruito e, allo scopo di erigerne uno che superasse tutti gli altri, fece trasportare da Atene a
Roma le colonne del tempio di Giove Olimpio.

Mentre riordinava a modo suo la repubblica, Silla non trascurava i nemici che si erano rinforzati
nelle province dove o vi erano già o erano aumentati di numero con i tanti esuli.
Contro Quinto Sertorio che si trovava nella Spagna Citeriore inviò i pretori C. Annio Losco e C.
Valerio Flacco, che nell'81, costrinsero il ribelle e rifugiarsi nella Mauritania; contro Marco
Perpenna, che era in Sicilia e Cneo-Domizio Enobarbo che in Africa aveva tirato dalla sua parte,
Jarba, re della Numidia, inviò con centoventi navi e sei legioni Pompeo, il quale prima in Sicilia
mise in fuga Perpenna, poi sbarcò in Africa e qui, sconfitto e fatto prigioniero Enobarbo, che fu
messo a morte, depose dal trono Jarba dando lo scettro della Numidia a Jempsale amico di Roma.

Nell'anno 80 a.C. l'Italia e le province erano completamente ridotte sotto il potere assoluto di Silla
che, pur conservando la dittatura, si fece eleggere console con Cecilio Metello il Pio, e per premiare
il suo più fedele seguace, Pompeo, che reduce dall'Africa, chiedeva il trionfo, lo concesse,
promulgando una legge speciale. Così il giovane guerriero (aveva allora 26 anni) che tanta parte
doveva avere negli avvenimenti futuri della repubblica, pur non essendo senatore (ricordiamo che
solo ai senatori era consentito trionfare - riuscì a celebrare, il 12 marzo 80 a.C, il trionfo, al cospetto
di Silla che lo salutò "Magnus".

Adunatisi i comizi del 79 a.C., il Dittatore si volle riconfermarlo al consolato, ma Silla rifiutò e
furono eletti P. Servilio Vezio (o Vatia) ed Appio Claudio Pulcro, sue creature; e quando questi
entrarono in carica lui depose la carica di dittatore. SILLA, aveva quasi 60 anni, era forse stanco,
tuttavia, rinunciando alla dittatura, lui non cessava di essere il padrone della repubblica.
Innumerevoli erano i suoi partigiani, distrutta era la potenza popolare e ripristinata l'autorità del
Senato; in mano ai suoi seguaci c'erano tutte le magistrature; ma ciò che costituiva la sua vera forza
erano i centoventimila fedelissimi veterani che vivevano in ogni parte d'Italia e i diecimila uomini
che aveva liberato dalla schiavitù, e che da lui avevano ricevuto la cittadinanza romana e il nome.

Presentatosi al popolo, Silla depose le insegne dittatoriali e disse "Romani! Vi restituisco l'illimitata
autorità che mi avete conferito. Governatevi con le leggi vostre. Se poi c'è qualcuno in mezzo a voi
che vuole che io renda conto delle mie azioni, eccomi pronto!". Si ritirò in una sua villa a Puteoli
(Cuma), e qui trascorse gli ultimi mesi della sua vita negli studi, ma forse pure abusando dei piaceri.
Scriveva i suoi "Commentari", ma quando deponeva la penna, si svagava pescando e cacciando o,
insieme con Metrobio, con il comico Roscio e con il buffone Sorice, si dava a quelle orge
voluttuose che dovevano portarlo alla tomba. Morì all'età di sessanta anni nel 78 a.C.. La sua salma
da Puteoli fu trasportata a Roma in una lettiga d'oro e le sue esequie furono degne di un imperatore.
La bara era adorna da duemila corone inviate dalle città d'Italia e seguita dai consoli, dagli altri
magistrati, dalle vestali, dai senatori, dai cavalieri e dalle legioni.
Il cadavere fu sepolto nel Campo Marzio, dove soltanto i Re erano stati inumati, e sulla tomba fu
posta una lapide con l'epitaffio dettato dallo stesso Silla: "Nessuno lo superò nel beneficiare gli

92
amici e nel danneggiare i nemici". Poi Roma prese il lutto e le matrone vestirono le nere gramaglie
che portarono per un anno intero.

Con la sua morte terminava anche quel periodo che seguì la guerra civile, fra Mario e Silla e che
segnò il trapasso dalla repubblica all'impero e fu caratterizzato da lotte civili fra democratici e gli
aristocratici, i cui interessi furono rappresentati da uomini politici forti e ambiziosi, ma soprattutto
da gloriosi generali che tentarono di impadronirsi del potere con l'appoggio dei loro eserciti.
Bibliografia

Giovanni Geraci – Arnaldo Marcone Storia romana, Le Monnier Università / Storia

93
9. La fine della repubblica e il principato di Augusto

L’INIZIO DELLA FINE

Non è stato semplice, per gli storici, individuare le cause della crisi della Repubblica Romana. Esse
sono molteplici, intricate, talvolta più intrinseche, talvolta più evidenti: tutte però, hanno
determinato in un modo o nell’altro, la fine di un lunghissimo e significativo periodo storico, durato
ben 482 anni (509 a.C. – 27 a.C.). Si tratta di secoli importanti per la storia di Roma, che accresce
incommensurabilmente il suo potere, la sua grandezza e la sua gloria, conquistando gran parte del
mondo conosciuto. Lo storico greco Polibio, affascinato dal sistema repubblicano romano, sostiene
che la grandezza dell’Urbe non è determinata da un esercito ben addestrato, da soldati valorosi, da
abili condottieri e dalle numerose conquiste che hanno forgiato l’Impero: la forza di Roma è insita
nella Repubblica stessa, nella sua Costituzione mista, che riesce a far coesistere in modo proficuo e
armonioso tre forme di governo:

la monarchia rappresentata dai Consoli


l’aristocrazia rappresentata dal Senato
la democrazia rappresentata dai Comizi

Quando l’armonia tra questi poteri diviene instabile, anche la stabilità dello Stato comincia a venire
meno. Tutti gli storici, individuano “l’inizio della fine” in un insolito, ma emblematico processo di
promulgazione di leggi scritte, molto evidente soprattutto nel I sec. a. C.: un popolo che da sempre
si è regolamentato sulla consuetudine imposta dai mores maiourm e non su una Costituzione scritta,
adesso sente l’esigenza di fissare per iscritto le regole; ciò accade perché in molti, sempre più
assetati di potere, cominciano a bramare una gloria personale, a imporre il proprio volere. Alcuni
falliranno, altri scriveranno la storia.

LA FINE DELLA REPUBBLICA ROMANA

La rivolta di Spartaco (73-71 a.C.)

Dal punto di sociale, Roma conobbe una forte crisi nel I sec. a.C.: una crisi che impoverì
moltissimo i piccoli proprietari terrieri e i contadini. Inoltre, le numerose conquiste che avevano
contribuito a sancire la supremazia di Roma sul mondo conosciuto, avevano prodotto anche una
quantità immane di prigionieri di guerra, i quali per la maggior parte erano deportati nell’Urbe,
venduti come schiavi o mandati in scuole per gladiatori. Queste classi sociali erano le meno agiate e
le meno tutelate: il malcontento di schiavi e contadini crebbe a tal punto che nel 73 a.C., l’esercito
romano dovette fronteggiare una pericolosa rivolta, guidata da un gladiatore trace, Spartaco. La sua
armata era composta da ben 60000 uomini: perlopiù da schiavi (che non avevano nulla da perdere,
combattendo e morendo) e gladiatori (che erano ben addestrati a combattere). La situazione si
presentava per i romani molto tragica: entrambi i consoli del 72 furono sconfitti da Spartaco, e così
il Senato si affidò al comando straordinario di Marco Licinio Crasso, affiancato da Gneo Pompeo,
i quali non con poche difficoltà riuscirono a sbaragliare definitivamente l’esercito di Spartaco, nel

94
71 a.C. Il gladiatore trace venne ucciso, mentre i 6000 sopravvissuti furono crocifissi sulla via
Appia, per scoraggiare ogni altro tentativo di ribellione a Roma e all’ordine costituito, anche se, per
quanto concerne quest’ultimo aspetto, la maggior parte degli studiosi sono concordi nel definire la
rivolta di Spartaco un tentativo per migliorare e non elevare, le condizioni di vita dei meno abbienti
e dei nullatenenti della società romana.

L’ascesa di Pompeo

Nella rivolta di Spartaco si era distinto il giovane Pompeo, giù ufficiale di Silla. Egli era subito
stato notato per la sua caparbietà e le sue capacità, valori ampiamente dimostrati sia nel 77 a.C.,
quando sconfisse Marco Emilio Lepido che aveva tentato di abolire la Costituzione Sillana
nell’Etruria e nella Cisalpina, sia nel 72 a.C., quando fermò la rivolta dei lusitani in Spagna, guidati
da Quinto Sertorio. Ancora nel 67 a.C. vinse i pirati che minacciavano la stabilità nel Mediterraneo;
nel 66 a.C. vinse definitivamente Mitridate, re del Ponto, che aveva tentato una nuova offensiva
contro Roma, dopo le due guerre precedenti. Pompeo rese province romane la Siria e la Giudea e
sottomise l’Armenia e la Bitinia. Grazie a tutte queste imprese, la sua fama a Roma crebbe
notevolmente e diventò per i romani una sorta di eroe, nell’Urbe: aveva combattuto nemici
considerati invincibili, in pochissimo tempo. Il suo potere superava di gran lunga quella di ogni
istituzione a Roma e il Senato temeva che egli potesse instaurare una dittatura, così come aveva
fatto Silla; d’altronde disponeva di un esercito a lui fedele e di un superbo ingegno, grazie al quale
non avrebbe avuto difficoltà a imporsi. Ma i suoi piani erano diversi, poiché una volta sbarcato a
Brindisi, sciolse il suo esercito; durante il suo ritorno a Roma fu ovunque accolto con processioni e
da folle adoranti, mentre il Senato gli decretò il meritato Trionfo e tutto il popolo lo acclamò come
Magnus. Tuttavia, sciogliendo il suo esercito, egli era consapevole di aver perso parte della sua
influenza e del suo potere; nonostante il Senato avesse limitato la sua posizione, Pompeo Magno
restava sempre un grande stratega, poiché consapevole che avrebbe potuto continuare ad accrescere
la sua fama e il suo potere, cercando nuovi alleati e dirigendo i fili della politica romana nell’ombra.

Il primo triumvirato (60 a.C., Lucca)

Triumvirato dal latino ‹‹tres vir››, che significa ‹‹tre uomini ››: indica un’alleanza politico-
militare. Nella storia delle Repubblica romana, abbiamo notizie di due triumvirati: il primo,
stipulato a Lucca nel 60 a.C. da Pompeo, Crasso e Cesare, fu un patto segreto, che favorì tra tutti
Giulio Cesare. Il secondo, diversamente dal primo, fu pubblico e venne stipulato nel 43 a.C. da
Ottaviano, Marcantonio e Marco Lepido, durò 10 anni ma non venne rinnovato.

Nonostante tutto il popolo acclamasse Pompeo come un eroe, era ovvio che il Senato non vedesse
di buon occhio il suo potere eccessivo e pur riconoscendo i suoi meriti, non ratificò le sue vittorie in
Oriente e soprattutto non permise una ridistribuzione delle terre in favore dei veterani di Pompeo,
che dopo anni di guerra, voleva riconoscere al suo esercito una stabilità economica, anche a costo di
sacrificare i piccoli proprietari terrieri. Il generale romano capì che doveva cercare altre soluzioni,
per non compromettere la sua fama a Roma: decise, perciò, di allearsi in segreto con Giulio Cesare,
un generale che difendeva e sosteneva i populares, molto ben voluto dal popolo, nonostante la sua

95
origine patrizia. L’altro triumviro era Crasso, la cui fama dipendeva dalle ingenti ricchezze raccolte
in pochissimo tempo. Attraverso questo patto segreto (diverso dal secondo triumvirato, che invece
fu pubblico) i triumviri si spartirono segretamente le cariche dello Stato: Cesare avrebbe avanzato la
sua candidatura a console e una volta divenuto tale, sostenuto da Crasso e Pompeo, avrebbe subito
approvato una legge per la concessione delle terre ai veterani, oltre che a ratificare le vittorie in
Oriente di Pompeo, mentre a favore di Crasso e dei cavalieri avrebbe ridotto il canone di appalto
pagato dai pubblicani allo Stato. Tutti mantennero fede alla parola data: nel 59 a.C. Cesare fu eletto
console e propose le leggi stabilite; dopodiché, alla scadenza del suo mandato, si fece assegnare le
province della Gallia Narbonese e della Gallia Cisalpina. Questa situazione preoccupò Crasso e
Pompeo, perché temevano che la fama di Cesare fosse predominante; il generale patrizio, uomo
lungimirante, allontanò prima coloro che avevano una certa influenza su Pompeo (come ad esempio
Cicerone) e placò gli animi dei suoi alleati con un rinnovamento del patto nel 56 a.C., affinché essi
fossero liberi da qualsiasi sospetto o timore nei suoi confronti. In questa occasione, Crasso e
Pompeo ottennero il consolato per il 55 a.C. e Cesare ottenne nuovamente il controllo delle
province galliche. La situazione restò apparentemente tranquilla sino al 53 a.C.: Crasso fu ucciso
nella battaglia di Carre, contro i Parti; Cesare e Pompeo restavano, quindi, i protagonisti
indiscussi del patto, ma i loro dissidi avrebbero trasformato la loro alleanza in una sanguinosa
guerra civile, che avrebbe cambiato per sempre il volto della politica romana.

Le guerre galliche (58 a.C.- 51 a.C.)

Tutti questi avvenimenti, come già detto, si verificarono mentre Cesare era impegnato nella
conquista della Gallia. Egli, infatti, si era fatto affidare il comando nella Gallia Narbonese e nella
Gallia Cisalpina, per conquistare questi territori e per raggiungere la fama militare che ancora gli
mancava. Accade proprio come aveva sperato: nel giro di due anni, Cesare aveva conquistato i
territori dell’attuale Francia, Belgio e Svizzera ed era diventato un generale amato dal suo esercito e
dai romani. Non tutte le popolazioni galliche si rassegnarono a subire la dominazione romana. Nel
58 a.C., il generale era stato ostacolato da Ariovisto, principe germanico, il quale aveva delle
pretese sulla Gallia; quest’ultimo fu prevenuto e fermato dalle legioni romane. Nell’inverno 56 i
Veneti trattennero come ostaggi gli romani incaricati di requisire frumento per l’esercito di Cesare.
L’esempio dei Veneti fu imitato da molte altre popolazioni galliche. Cesare non perse tempo: decise
di attaccare i Veneti per terre e per mare. Affidò l’incarico di sferrare l’attacco sul mare al suo
luogotenente Decimo Bruto. Certi di una facile vittoria per la grande superiorità numerica delle loro
navi, i Veneti diedero battaglia alla flotta romana, ma quasi tutte le loro navi vennero distrutte.
Intanto Cesare, con le sue legioni, aveva sconfitto duramente l’esercito avversario. La rivolta dei
Veneti era così fallita. Poi, decise di completare la conquista della Gallia: in una serie di fortunate
battaglie, il suo luogotenente Publio Crasso conquistò in breve tempo l’Aquitania nel 56 a.C. Pochi
anni dopo i Galli tentarono ancora di ribellarsi, guidati da Vercingetorige. Egli fu uno dei primi capi
in grado di federare una parte importante dei popoli gallici, vincendo le tradizionali divisioni
storiche. Di fronte ad uno dei più grandi strateghi di sempre, mise in mostra i suoi eccellenti talenti
militari. Nel 52 a.C. fu sconfitto nell’assedio di Alesia. Consegnatosi, fu imprigionato a Roma per
5 anni. Nel 46 a.C. fu trascinato in catene per ornare la celebrazione del trionfo di Cesare.
Immediatamente dopo fu mandato a morte.

96
La guerra civile

Mentre Cesare combatteva in Gallia, il suo potere e la sua fama presso il suo esercito e presso il
popolo, crebbero in maniera spropositata; egli aveva intenzione di farsi nominare console per l’anno
52 a.C., per godere delle immunità della sua carica. Pompeo, timoroso del suo crescente successo,
decise di contrastarlo attraverso una legge che obbligava Cesare a presentare la sua candidatura
giungendo a Roma da privato cittadino (senza il suo esercito); dal canto suo, il generale romano,
sapeva che tutto questo era stato creato affinché, senza il sostegno del suo esercito, egli fosse
eliminato senza troppi problemi. La risposta, comunque, fu tattica: Cesare accettava la proposta, a
patto che Pompeo sciogliesse il suo esercito. Il rifiuto fu categorico e Cesare, il 10 gennaio 49 a.C.,
marciò sul Rubicone, limes sacro: si tratta di una marcia estremamente simbolica, visto che il limes
era il confine che non poteva essere varcato in armi. Cesare entrava a Roma ed entrava armato,
pronto a combattere contro i suoi nemici. Pompeo non si aspettava una tale presa di posizione e così
fuggì da Roma, rifugiandosi in Spagna. Cesare inseguì il genero, ma solo otto giorni dopo, dopo
aver riorganizzato l’esercito: questa mossa gli garantì il controllo in Provenza e in Spagna. Pompeo
era pronto alla battaglia e nel 48 a.C. sbarcò a Durazzo; qui fu raggiunto dalle truppe di Cesare che,
in evidente inferiorità numerica, furono sbaragliate (battaglia di Durazzo, 48 a.C.). Ma la battaglia
decisiva, combattuta il 9 agosto dello stesso anno (battaglia di Farsalo, 48 a.C.) ebbe un esito del
tutto diverso e questa volta, definitivo: Cesare conosceva il comandante della cavalleria contro cui
combatteva, studiò con scrupolo le sue tattiche e le previde con successo, riuscendo a far capitolare
Pompeo, che cercò asilo in Egitto, presso Tolomeo XIII. I consiglieri del giovane re colsero
l’occasione per ingraziarsi il potente Cesare e assicurarsi una solida alleanza con Roma, perciò
convinsero Tolomeo XIII a giustiziare Pompeo. La testa fu consegnata a Cesare, che si mostrò
affranto per la morte del suo avversario. A Roma ciò fu visto come un’ulteriore prova della
grandezza e della clementia di Cesare, ma in realtà egli sapeva che questo rendeva Pompeo un
martire e implicava una nuova lotta contro i sostenitori di Pompeo. In Egitto, punì Tolomeo XIII,
spodestandolo, facendo sì che salisse al trono la sorella di Tolomeo stesso, la regina Cleopatra, con
cui Cesare iniziò una relazione sentimentale, dalla quale nacque anche un figlio, Cesarione. Agli
egiziani questa presa di potere non piacque, così Cesare fu costretto a barricarsi per quasi un anno
nel palazzo di Alessandria, finché non fu liberato dai suoi alleati. Dopo aver riappacificato
l’Oriente, nell’ottobre del 47 a. C. Cesare tornò a Roma per sedare delle legioni sotto il comando
del suo generale Marcantonio. Esse si erano ribellate poiché ancora in attesa della somma di denaro
che lo stesso Cesare aveva promesso loro prima della battaglia di Farsalo. Abilmente, Cesare riuscì
a placare gli animi dei soldati e a convincerli a partire con lui alla volta dell’Africa (dicembre del 47
a. C.), per sconfiggere il pompeiano Marco Porcio Catone Uticense, famoso senatore seguace della
filosofia stoica. Continuò il suo scontro contro i pompeiani, i quali furono definitivamente sconfitti
nella battaglia di Tapso, nel 46 a.C. Ma la pace non era ancora stata raggiunta del tutto, poiché i
figli di Pompeo attaccarono Cesare in un estremo tentativo di difendere l’onore del padre: ma anche
essi furono sconfitti dall’incontrastabile generale, nella battaglia di Munda del 45 a.C. Cesare poté
tornare a Roma, dove fu accolto e osannato dal popolo romano: già nel 47 a.C. si era nominato

97
dictator con carica decennale; ma non c’erano più nemici e oppositori a contrastarlo e il 14
febbraio 44 a.C., si nominò dictator perpetuo: adesso il controllo dell’Urbe era totalmente nelle
sue mani.

Le Idi di Marzo

Cesare godeva ormai di pieni poteri e anche di molto successo presso il popolo romano: le cariche
che gradualmente si era conferito negli ultimi anni, erano riconosciute come necessarie per la
salvaguardia della salus publica e meritate per lo straordinario lavoro svolto dal nuovo dittatore, in
tutta la sua carriera militare e politica. Questo è senza dubbio il merito principale che gli storici
riconoscono a Cesare, cioè quello di essersi presentato come un politico impegnato a rinnovare e
curare l’ordine costituito dal malgoverno, dalle numerose lotte intestine che avevano piegato l’Urbe
nel corso della prima metà del I secolo; egli è sempre molto attento a presentarsi desideroso di
ricostruire e non di stravolgere la Repubblica (sebbene i cambiamenti radicali ci fossero, essendo
stati i poteri repubblicani privati di ogni forza e significato). Augusto, qualche decennio dopo,
seguirà questo modus operandi, sottolineando la sua volontà di restituere salus pubblica,
mantenendo l’ordine costituito, sebbene mutato nella sostanza.

Dunque, il popolo offriva il suo sostegno a Cesare, ma in molti interpretavano la sua presa di potere
definitiva come l’instaurazione di una vera e propria tirannia: non era possibile tollerare la figura di
u n r e x e il ritorno alla tanta odiata monarchia: per tali ragioni, cominciarono a essere ordite
numerose cospirazioni contro di lui. Fra le tante pensate, sventate e organizzate, una gli fu fatale,
quella che si consumò ai piedi della statua di Pompeo Magno, nella Curia dedicata proprio a
quest’ultimo, il 15 marzo del 44 a.C. I giorni che precedono la cospirazione vengono tramandati
dagli storici come giorni solenni e carichi di segni premonitori, che l’inamovibile Cesare scelse di
ignorare. Fu a lungo dubbioso circa i numerosi avvertimenti che lo mettevano in guardia, ma alle Idi
di Marzo decise di incamminarsi lo stesso verso la Curia; qui fu accolto e avvicinato dai fratelli
Casca, i primi a sferrare i colpi, a cui ne seguirono tanti altri, per un totale di 23 coltellate. Di
queste, solo la seconda fu mortale, a dimostrazione del fatto che nei congiurati vi era l’intenzione di
uccidere Cesare, ma non la convinzione. Tuttavia, volendo citare Cesare stesso, il dado era tratto: i
cesaricidi erano convinti che, uccidendo Cesare, restituivano dignità all’Urbe, credevano che
sarebbero stati accolti come coloro che avevano liberato la città dalla tirannia; ma non avevano fatto
i conti con l’influenza che Cesare aveva avuto sul popolo romano; quando, letto il testamento, ci fu
un’ulteriore prova della benevolenza del dictator nei confronti del popolo (ad ogni romano Cesare
lasciò in eredità 300 sesterzi), i cesaricidi furono ufficialmente dichiarati nemici dello Stato,
catturati e processati con procedura sommaria.

L’ascesa di Gaio Giulio Cesare Ottaviano

La successione a Cesare fu contesa tra Antonio e Ottaviano, un nipote di Cesare adottato con il
nome di Gaio Giulio Cesare Ottaviano. La rivalità iniziale fra i due fu superata attraverso
un’alleanza stipulata insieme ad un altro generale, Marco Emilio Lepido. Nacque così, il secondo
triumvirato (43 a.C.), formato per creare una nuova costituzione e ristabilire un nuovo ordine

98
nell’Impero, considerata la situazione poco stabile che si era creata dopo la morte di Cesare.
Innanzitutto, furono create delle liste di proscrizione con cui si mandavano a morte tutti i nemici di
Cesare, dichiarati nemici pubblici; è facile comprendere che in realtà queste liste furono ideate per
eliminare personaggi scomodi, come avvenne per Cicerone, di cui Antonio si sbarazzò
definitivamente proprio in questa occasione, dopo essere stato duramente attaccato nelle Filippiche.
Ci fu uno scontro aperto nella battaglia di Filippi, dove capitolarono Bruto e Cassio. Attraverso
questa nuova alleanza, inoltre, i triumviri si spartirono l’Impero: Antonio ottenne la Gallia e
l’Oriente, Lepido ottenne l’Africa e Ottaviano la Spagna, pur restando in Italia. La stabilità del patto
era, tuttavia, molto precaria, così fu necessario un rinnovamento nel 40 a.C. (accordo di Brindisi):
con tale accordo Antonio cedette la Gallia, Lepido pretese la Sicilia, ma Ottaviano si oppose
duramente e lo espulse dal triumvirato, lasciandogli solo la carica di Pontefice Massimo. Eliminato
Lepido, Ottaviano e Antonio erano sostanzialmente i rispettivi padroni dell’Occidente e
dell’Oriente; Antonio in Egitto sposò la regina Cleopatra, ripudiando Ottavia (sorella di Ottaviano)
e cominciò a farsi adorare come un dio, secondo la tradizionale orientale. Ottaviano, fervido
difensore della sacralità dei valori romani, indusse il Senato a privare Antonio della sua carica e a
dichiarare guerra all’Egitto. Lo scontro definitivo si ebbe nella battaglia di Azio nel 31 a.C., in cui
l’abile generale Agrippa costrinse Antonio e Cleopatra a fuggire presso Alessandria; qui si uccisero
pochi mesi dopo, essendo incombente l’arrivo delle truppe nemiche. L’Egitto diventò provincia
romana nel 29 a.C. Ottaviano fu accolto a Roma come grande trionfatore e gli fu concesso il titolo
di imperator. Augusto (27 a.C. – 14 d.C.).

La vittoria di Azio spinse il Senato a decretare la costruzione di due archi di trionfo in onore di
Ottaviano: Roma e l’Impero avevano finalmente il loro padrone incontrastato. Ottaviano, così come
Cesare, fu però molto cauto: egli riconosceva il suo potere, ma precisava che esso era ottenuto per
consensum universorum, così come riporta un frammento delle Res Gestae. In sostanza, Ottaviano
mise in atto uno smantellamento dell’ordinamento repubblicano: introdusse nuove cariche
basandosi sulla tradizione romana, recuperando cariche che per secoli non erano state utilizzate,
mantenne quelle esistenti; si trattava, però, di cariche il cui potere era solo formale, poiché il
controllo dell’Impero era concentrato nelle mani di una nuova figura, solenne, suprema: il principe.
Ottaviano, infatti, nel 27 a.C., si attribuì un nuovo significativo nome, Augusto, da augeo (che
significa “accresco”) e si fece conferire dal Senato il titolo di princeps senatus, primo tra i senatori:
questa carica, in realtà, esisteva da sempre e consisteva nel diritto di parlare per primi (ius primae
sententiae) concesso in una seduta del Senato al senatore che avesse più esperienza e prestigio: ciò
consentiva di influenzare i senatori che avrebbero parlato dopo; la carica era temporanea, ma
Ottaviano modificò la durata e la rese carica a vita, per sé stesso.

I titoli e i poteri riconosciuti ad Augusto furono:


- principe del Senato primo tra i senatori.
- Imperator comandante supremo dell’esercito.
- Tribunicia potestas conferiva ad Augusto tutti i privilegi del tribuno della plebe, cioè:
inviolabilità: il principe era sacro e non si poteva attentare alla sua vita;
immunità personale: il principe non poteva subire processi;
diritto di veto: il principe poteva opporsi alle proposte del Senato e dei magistrati

99
possibilità di far approvare le leggi;
possibilità di comminare condanne a morte;
Non era tribuno della plebe, perciò non doveva consultarsi con i suoi colleghi e allo
stesso tempo controllava il Senato, che non poteva opporsi al suo volere.
- imperio proconsolare potere su tutte le province maius et infinitum, superiore a tutti, nel
tempo e nello spazio.
- pontefice massimo massimo potere religioso
- patres patriae del 2 a.C.; conferiva ad Augusto il titolo di padre della patria; non otteneva
una carica particolare, ma un riconoscimento pubblico.

Erano così poste le basi del Principato augusteo. Dopo aver raggiunto gradualmente un potere
pressoché maius et infinitum, si dedicò al rinnovamento totale dell’Impero e lo fece perlopiù
riformando le forza esistenti e creando nuovi corpi e funzioni.

In campo amministrativo, ad esempio, creò nuove cariche per i vari ranghi, ai quali voleva restituire
la dignità persa nel corso della crisi che Roma aveva vissuto poco tempo prima.

Cariche carriera consolare – RANGO SENATORIO

Agli ex senatori offriva l’accesso alle seguenti cariche:


 Prafectus Urbi
 Curator Frumenti dandi
 Curatutor aedium sacorium et operum publicorum
 Curaotr alvei tiberis
 Curator aquarum
 Prafectura alimentorum

Ai senatori ex pretori:
 Praefectura frumenti dandi
 Praefectura aerari militaris e aerari saturni
 Cura viarum

Cariche carriera equestre – RANGO EQUESTRE

Praefectus praetorio
Praefectus vigilum
Praefectus annonae

Nella gestione dei vasti possedimenti imperiali, operò una distinzione di cariche in base ai vari
territori.

L’Italia era gestita da:

100
Curator civitatis
Prefectus praetorio
Praefectus annonae
Procuratores
Praefectus vehicolorum

Amministrò il territorio extra-italico distinguendo le provinciae Caesaris dalle provinciae Populi


romanae. Le prime, in genere non pacificate, erano gestite da collaboratori fidati, nominati
direttamente dall’imperatore (legatus augusti propretore, legatus iuridicus, procuratori equestri); le
seconde erano gestite da governatori nominati dal Senato (proconsoli, legati propretore, questores,
procuratores) e si trattava di province pacificate, dove non era necessaria la presenza delle legioni.
In politica estera, invece, Augusto rafforzò i confini settentrionali dell’Impero con una serie di
campagne militari e con l’istituzione di nuove province: il Norico (parte dell’Austria), la Rezia
(Trentino-Alto Adige e parte della Svizzera). Il tentativo di penetrazione nella Germania, fino
all’Elba, fu interrotto dall’insurrezione di tribù germaniche (9 d.C.) guidate da Arminio. Il confine
fu così stabilito al fiume Reno.

Tutti gli interventi di Augusto contribuirono a creare un clima di consenso, favorito anche da
un’intensa attività propagandistica messa in atto dai media dell’epoca: epigrafi, monete, oggetti
d’arte, monumenti; importante per tale attività fu anche un circolo culturale, il circolo di Mecenate,
che raccoglieva gli intellettuali e i letterati più illustri dell’epoca (Orazio, Properzio, Virgilio,
Tibullo) ai quali era affidato il compito di donare ai posteri svariate testimonianze sulla grandiosità
di Augusto e sulla prosperità dell’età augustea, impresse nelle opere che ancora oggi leggiamo.
Nessuno cercava più di contrastare la posizione raggiunta; Augusto cominciò, sul modello orientale,
a diffondere forme di culto legate alla persona del principe, alla sua famiglia e alla sua casa. Proprio
la sua famiglia fu la sua preoccupazione principale: si affaccendò molto per stabilizzare il potere
che aveva per anni creato: Augusto sapeva che i suoi poteri gli erano stati conferiti, non aveva
ereditato nulla; sapeva era stato nominato principe dal Senato, ma intendeva rendere tale carica non
più elettiva, ma ereditaria, per garantire una trasmissione pacifica del potere che rendesse sempre
protagonista la sua discendenza. Così adottò via via i suoi nipoti Marcello, Gaio e Lucio, ai quali
però sopravvisse. Nel 5 d.C., quindi, adottò il figlio di primo letto di sua moglie Livia, Tiberio: gli
conferì la tribunicia potestas e l’imperium maius et infinitus, affiancandolo al suo governo e
preparando l’ascesa del giovane, avvenuta nel 14 d.C., immediatamente dopo la sua morte.

Bibliografia

Svetonio, Vita dei Cesari, Milano, Rizzoli, 2018

A. Marcone, Augusto, in Luigi Firpo (a cura di) I protagonisti della storia, vol.1, Milano, 2018

B. Biscotti, Giulio Cesare: un ‹‹tirannicidio›› imperfetto, in Luciano Fontana (a cura di) Grandi
delitti della storia, vol.1, Milano, 2020

101
M. Pani, E. Todisco, Storia Romana. Dalle origini alla tardo-antichità, Roma, Carocci, 2014

Sitografia

https://www.capitolivm.it/

https://it.wikipedia.org/wiki/

102
11. L’etá dei Severi, il tramonto dell’occidente

III SECOLO d.C. - LA DINASTIA DEI SEVERI (193-235 d.C.)

192 d.C: morte di Commodo  periodo di instabilità e lotte: Senato nomina principe uno dei suoi
membri, Publio Elvio Pertinace, il quale:
- tenta di risanare finanze pubbliche e favorire produzione agricola;
- cura rapporti col Senato;
- cerca di ricondurre all’ordine i pretoriani  lo uccidono e proclamano imperatore Didio
Giuliano.

Segue una sollevazione delle truppe che proclamano tre diversi imperatori in altrettante regioni:
- Britannia Clodio Albino
- Siria Gaio Pescennio Nigro
- Pannonia Lucio Settimio Severo  si accorda con Albino e marcia su Roma, facendo
condannare a morte Didio Giliano e dando vita a una nuova dinastia.

Settimio Severo (193-211 d.C.)

Nato a Leptis Magna (Africa), parlava punico, latino e greco.


Per prima cosa si libera dei due principali contendenti: elimina Pescannio Nigro in Anatolia, poi
affronta anche Albino (prima suo alleato) sconfiggendolo a Lione (197 d.C.).

Politica estera
- dopo campagne contro i suoi avversari Settimio riparte per una campagna in Oriente contro i
Parti (avevano invaso la Mesopotamia): arruola tre nuove legioni per una campagna di due
anni. Conquista la capitale Ctesifonte e raccoglie un ricco bottino. Conseguenze:
rallentamento crisi finanziaria (grazie al bottino) e creazione nuova provincia della
MESOPOTAMIA (per la prima volta dopo Traiano l’impero è tornato a crescere);
- tornando dalle campagne in Oriente passa per Egitto e Siria (per effettuare controlli da un
punto di vista politico e amministrativo) e rientrato a Roma celebra i DECENNALIA (=
dieci anni di regno);
- ovunque vengono rafforzate fortificazioni e linee di comunicazione;
- installazione di due nuove legioni in Oriente (in totale diventano 11)  consolida principio
del reclutamento regionale e riconosce valore dei matrimoni dei legionari che prestavano
servizio fisso lungo i confini;
- 208 d.C.: scorrerie di tribù scozzesi  parte per la Britannia, ma tre anni dopo si ammala e
muore nei pressi di York.

Politica interna e riforme


- 203-207 d.C.: avvia un imponente programma edilizio e fa costruire il grandioso arco che
porta il suo nome; celebra i ludi saeculares e restaura il tempio della pace;

103
- aumenta la paga dei legionari ( da 300 a 500 denari) e favorisce possibilità di carriera,
sostituisce guardia pretoriana italica con illirici, mette una delle due nuove legioni sui colli
Albani;
- moltiplica il numero di monete, svalutandole aumenta inflazione;
- istituisce l’Annona Militaris (= imposta fondiaria che si aggiunge a quelle esistenti e
colpisce, per la prima volta, territori italici, anche se viene corrisposta in natura, non in
denaro);
- per legittimare il proprio potere si proclama figlio adottivo di Marco Aurelio e fratello di
Commodo, elevando così al rango di Augusti Caracalla e Geta;
- ha una visione assolutista e rilancia culto imperiale, perseguitando i cristiani e introduce
culti orientali es. Mitra.

Caracalla (211-217 d.C.)

Il suo vero nome era Marco Aurelio Severo, il soprannome “Caracalla” si deve al mantello gallico
che era solito portare. Per il primo anno condivide il regno con il fratello Publio Settimio Geta, poi
lo assassinò (attuando la damnatio memoriae) e con lui i suoi sostenitori.

- Aumenta stipendi dei legionari per guadagnarsi il loro sostegno, ma per fare ciò è costretto a
inasprire le imposte e conseguentemente a coniare più monete ulteriore svalutazione!
- 212 d.C.: EDITTO DI CARACALLA (o Contitutio Antoniniana): concede la cittadinanza
romana agli abitanti liberi delle province (allo scopo di ottenere il loro appoggio bilanciando
ostilità delle classi alte della società romana, ma il vero fine è quello di far pagare loro la
tassa di successione, che prima gravava solo sui cittadini romani, andando quindi a
rimpolpare le finanze dello stato);
- A Roma fa costruire gigantesche terme in proprio onore;
- Si reca in Oriente per combattere contro i Parti (per rinnovare gloria di Alessandro Magno),
ma nel 217 d.C. viene ucciso a tradimento dalla sua scorta, su istigazione del prefetto delle
guardie, Opellio Macrino, il quale viene proclamato imperatore, ma appena un anno dopo
viene a sua volta ucciso dai soldati che appoggiano il cugino di Caracalla, Elàgabalo.

Elàgabalo (218-222 d.C.)

Il suo vero nome era Varius Avitus Bassianus ed era nipote della cognata di Settimio Severo, Giulia
Mesa. Nasce a Èmesa in Siria e viene proclamato imperatore a 14 anni su insistenza delle potenti
principesse siriane che pagano le truppe. (In ogni caso con lui si riafferma il principio di
successione dinastica).

Prende il nome di Marcus Aurelius Antoninus, ma a Roma sarà noto con il soprannome di
Elàgabalo (dal nome del Dio locale di Èmesa, di cui era sacerdote e di cui introdusse il culto a
Roma, ma i romani identificano tale divinità con il Dio Sole e così spesso il soprannome viene
tradotto come Heliogabalus).

104
Si circonda di lusso e vizi e lascia governare la madre, Giulia Soemia e la nonna, Giulia Mesa, la
quale fa sì che venga associato al trono l’altro suo nipote, Severo Alessandro.

La dissolutezza dell’imperatore genera però malcontento e ostilità viene assassinato dai pretoriani
(il suo corpo gettato nel Tevere e condannato alla damnatio memoriae).

Severo Alessandro (222-235 d.C.)

Diversamente dai suoi spregevoli predecessori, lascia un buon ricordo di sé, dimostrandosi mite e
attento a non opprimere i sudditi.

Inizialmente anche lui è influenzato da madre e nonna, ma poi governa con un’impronta personale,
restituendo autorità al Senato, attuando riforme per ridurre pressione fiscale, ascoltando i pareri dei
giuristi del tempo (es. Ulpiano) e rafforzando il sincretismo religioso.

226 d.C.: deve fronteggiare invasione dei Persiani guidati da Artaserse (dinastia dei Sasànidi), che
avevano occupato Cappadocia, Mesopotamia e Siria. Bilancio disastroso!

334 d.C.: accorre sul Reno per respingere un’invasione dei Germani.  si dimostra titubante e ciò,
sommato alla mancanza di concessioni per ingraziarsi il favore dei soldati, provoca l’insurrezione
delle truppe, che lo assassinano nel 235 d.C. nell’accampamento a Magonza.

L’ANARCHIA MILITARE (235-284 d.C.)

Con la morte di Severo Alessandro si chiude la dinastia dei Severi e si aprono ben 50 anni di
anarchia che precipitano l’impero in una gravissima crisi, rischiando più volte di portarlo alla
dissoluzione.

Cause: soprattutto di carattere militare, perché per la prima volta gli attacchi avvennero
contemporaneamente su più fronti e con assalti ripetuti e incessanti, costringendo gli imperatori a
muoversi da un capo all’altro dell’impero. In Oriente bisognava fermare l’avanzata dei Persiani, in
Europa quella delle tribù germaniche che premevano sui fronti del Reno e del Danubio. 
L’improvviso venire meno della sorveglianza incoraggiò alla rivolta anche i popoli più tranquilli:
Goti, Alamanni, Franchi, Èruli giunsero in Italia settentrionale, in Spagna e in Grecia, compiendo
razzie ed evidenziando la debolezza del sistema del limes.

Conseguenze: le inevitabili sconfitte e il potere enorme assunto dalle legioni producono instabilità
politica si susseguono imperatori a un ritmo incessante (muoiono in battaglia o vengono uccisi dai
loro stessi soldati)  le legioni eleggono imperatori i loro generali, ma li uccidono quando
individuano un candidato migliore. la discontinuità di potere genera crisi economica e sociale:
- i “barbari”, penetrano nell’impero abbandonandosi al saccheggio e devastando città e
campagne, mentre sui mari si riaffacciava la pirateria.  distruzione dei trasporti causa

105
riduzione dei commerci;
- tra 250 e 270 d.C. infuriano le epidemie  calo popolazione e produttività  diminuzione
gettito delle entrate nelle casse dell’impero (anche per difficoltà a riscuotere imposte regolarmente);
- aumentano esigenze di denaro per pagare legionari e donativi per i barbari e popoli di
confine (in cambio di maggiore controllo)  aumento inflazione e tracollo sistema
monetario.

La crisi si ripercuote su classi più povere, ma anche su ceti benestanti che si disinteressano alle
città, rinunciando ad atti di evergetismo abbandono campagne e inizio ribellioni di massa.

Aumentano inoltre persecuzioni contro cristiani, poiché, in quanto rifiutavano di tributare culto agli
dei tradizionali, erano considerati responsabili della furia divina. Le persecuzioni sono alternate a
periodi di tolleranza, anche perché nel frattempo cristiani divengono numerosissimi e organizzati in
una Chiesa che comincia ed essere ricca. D’altro canto essi non sono interessati a mantenere unità
dell’impero: rifiutano di combattere ed uccidere e non riconoscono autorità dell’imperatore
divinizzato. Si focalizzano invece su chiarezza dottrinale, per differenziarla da ebraismo: abolita
circoncisione, giorno di festa è la domenica (Dies Dominica = giorno del Signore), Pasqua ebraica
sostituita da Pasqua di resurrezione.

Di seguito la successione dei principali imperatori in questo periodo (in tutto 19 in soli 33 anni):

Massimino il Trace (235-238 d.C.)


Così detto per le sue origini barbare (gli storiografi pro senato lo dipingono con toni spregiativi
come figlio di pastori e soldato brutale).
Ottiene importanti vittorie militari sul fronte del Reno e del Danubio, perseguita i cristiani e
inasprisce le imposte, causando rivolte. Non riesce però mai a mettere piede a Roma, perché quando
sta per raggiungerla le sue legioni lo uccidono nei pressi di Aquileia.

Gordiano I e II, Pupieno e Balbino (238 d.C.)


I primi due acclamati in Africa e subito uccisi; i secondi eletti dal Senato e subito uccisi dai
pretoriani.

Gordiano III (238-244 d.C.)


Proclamato imperatore quando è appena fanciullo, muore sul fronte persiano dopo sei anni di regno.

Filippo l’Arabo (244-249 d.C.)


Di simpatie cristiane, compra la pace con la Persia per potersi dedicare ai nemici in Europa. Ucciso
dal comandante delle legioni del Danubio, Quinto Decio Valeriano, che prende il suo posto.

Decio (249-251 d.C.)


Durissima persecuzione dei cristiani, muore combattendo contro i Goti, mentre inizia a diffondersi
un’epidemia di peste.

106
Valeriano (253-260 d.C.)
A differenza dei predecessori apparteneva ad aristocrazia e aveva percorso la carriera senatoria.
Appena nominato associò al potere il figlio Gallieno, cui affidò compito di frenare le incursioni di
Goti, Franchi e Alemanni, giunti fino in Grecia e in Gallia. Mentre il figlio opera in Europa lui si
dedica all’Oriente, cercando di frenare le incursioni persiane. 260 d.C.: catturato e messo a morte
(le vesti da schiavo che gli vengono fatte indossare in segno di umiliazione vengono esposte nelle
pubbliche piazze in Iran).

Gallieno (260-268 d.C.)


Eredita situazione disastrosa, gravata da una momentanea secessione di un’ampia area delle Gallie e
della regione di Palmira. Cerca quindi di rinsaldare l’impero, attuando una riforma dell’esercito
(esclude senatori e trasferisce ai cavalieri le alte cariche militari, premiando il merito sul campo +
crea una sorta di “unità mobile”, basata sulla cavalleria, che si sposta seguendo l’imperatore).
Uomo colto e raffinato, iniziato ai misteri Eleusi, fa fiorire le arti, ma concepisce comunque
l’impero come dominio assoluto. Viene anche lui assassinato in una congiura, contemporaneamente
a invasione della penisola balcanica.

Aureliano (270-275 d.C.)


Generale dell’Illiria, dopo quasi mezzo secolo di anarchia riesce a riportare un po’ d’ordine sul
piano politico e militare:
- riconduce nell’impero i due regni separatisti: nel corso della spedizione contro Palmira però,
passò per l’Egitto e distrusse il quartiere di Alessandria che ospitava il celebre Museo e la
biblioteca voluta da Tolomeo I;
- in Pannonia e Italia riesce a respingere le popolazioni germaniche, ma perde la Dacia
(conquistata da Traiano, oggi corrispondente alla Romania);
- riforma il sistema monetario, ritirando le monete senza valore e migliorando la quantità di
metallo pregiato in quelle circolanti, ma la crisi economica è troppo profonda e i prezzi
continuano a salire a Roma fa distribuire gratuitamente pane ogni giorno e garantisce
vendita di vino a prezzo contenuto tiene a freno le rivolte;
- per ridare dignità all’autorità imperiale attribuisce alla propria persona carattere divino e
indossa il diadema (modello orientale);
- cerca di introdurre culto del Sole come unica religione, volendo ricostituire intorno a esso
unità morale dell’impero;
- fa costruire una immensa cerchia di mura intorno a Roma (dette appunto aureliane, lunghe
19 km, con 383 torri e 7000 postazioni per arcieri) che circondavano la città, ad eccezione
della parte protetta dal Tevere.

Anche lui viene ucciso in una congiura. Segue un periodo di anarchia, con imperatori acclamati e
uccisi, fino a quando riesce ad emergere Gaio Valerio Diocle, detto Diocleziano.

Diocleziano (284-305 d.C.)


Gaio Valerio Diocle, originario della Dalmazia e proveniente da una famiglia di umili origini, ma

107
riesce ugualmente ad avanzare nei ranghi dell’esercito, fino a diventare comandante della scorta
imperiale.

284 d.C.: acclamato imperatore dall’esercito con il nome di Diocleziano e riuscirà a regnare per
vent’anni.

Cerca di frenare la crisi con una serie di riforme, in campi diversi:


- TETRARCHIA: per evitare disordine ogni volta che si passa da un imperatore all’altro,
decide che la successione diventerà automatica e prevedibile. Al posto di un unico
imperatore ci sarà un collegio di quattro persone (tetrarchia): due Augusti comandano
rispettivamente su Impero d’Oriente e Impero d’Occidente, i quali scelgono subito due
Cesari, destinati a sostituire automaticamente gli Augusti quando si ritireranno dal potere
(dopo 20 anni di regno) o moriranno. La prima tetrarchia, inaugurata da Diocleziano è così
strutturata:

Augusti  Occidente: Diocleziano e Oriente: Massimiano (suo commilitone, di umili


origini)
Cesari  O c c i d e n t e : Costanzo Cloro e O r i e n t e : Galerio (dovranno sostituire
automaticamente gli Augusti)

- porta avanti divinizzazione dell’imperatore, facendosi adorare e chiamare divino e


indossando diadema e mantello gemmato;

- divide impero in due parti: Occidente e Oriente, con quattro capitali, dove risiedono i quattro
Cesari e Augusti. In Occidente le capitali sono Milano per l’Augusto e Sirmio per il Cesare.
In Oriente le capitali sono Nicomedia per l’Augusto e Treviri per il Cesare. La scelta delle
città deriva da un preciso calcolo militare, in quanto si trovano in posizioni strategiche, da
dove gli imperatori possono respingere le incursioni, sedare rivolte interne e controllare
eventuali usurpatori.

- RIFORMA MILITARE:
o Consolidamento protezioni esistenti e costruzione nuove fortificazioni;
o Raddoppia n° di soldati (450 mila), ma li distribuisce maggiormente nelle legioni;
o Costringe proprietari terrieri a fornire un numero di uomini proporzionale alla dimensione
delle terre che possiedono;
o Arruola molti barbari.

- RIFORMA PROVINCE:
ne riduce le dimensioni, aumentandone il numero (da 47 a 85) e le raggruppa in tre grandi
DIOCESI (in questa occasione l’Italia viene ormai ridotta al rango di una qualsiasi
provincia) aumento funzionari aumento spese riforma economica! (vd. Sotto).

108
- RIFORMA ECONOMICA:
o 301 d.C.: Editto dei prezzi = ogni prodotto non può costare più di un certo prezzo fissato,
così come anche i salari non possono aumentare oltre una certa soglia. Tale provvedimento
non cura le cause del male, in quanto le merci più costose spariscono dal mercato e vengono
vendute sul mercato nero;
o Per quanto riguarda le imposte, stabilisce la loro quantità con censimenti, ma, non riuscendo
a ridare valore alla moneta, ne fissa pagamento in natura (grano, foraggio, cavalli) scambi
più difficili e diminuzione degli oggetti che si possono vendere e comprare;
o Istituisce obbligo per i figli di continuare il mestiere dei padri, in particolare i contadini non
possono in alcun modo abbandonare le proprie terre (se fuggono, i contadini dei campi
adiacenti devono coltivare le loro terre).  numerose rivolte contadine  massacri! Altri
contadini invece cedono i campi a ricchi proprietari terrieri che possedevano latifondi: i
latifondisti però non coltivano in modo intensivo, perché guadagnano ugualmente e ciò
comporta un impoverimento delle terre.

- ULTIMA GRANDE PERSECUZIONE DEI CRISTIANI:


o Motivi: divinizzazione imperatore, timore che cristianesimo allontani dall’esercito lo spirito
combattivo;
o Emana ben 4 editti tra 303 e 304 d.C.: colpisce i cristiani prevedendo distruzione di chiese e
consegna di libri sacri (in latino consegnare = tradere  chi li consegnava = traditores,
perché abbandonava la propria fede).
305 d.C.: abdica insieme all’altro Augusto e si ritira a vivere nel lussuoso palazzo di Spalato
in Dalmazia.

CARATTERISTICHE IMPERO ALLA FINE DEL REGNO DI DIOCLEZIANO:

POLITICA  imperatore ormai considerato “padrone” dello stato e Senato completamente


subordinato: nomina di nuovo imperatore viene semplicemente notificata ai senatori, i quali
diventano 900 e ormai provengono da tutte le regioni dell’impero, senza esercitare funzione
legislativa e giudiziaria (in pratica è una carica meramente onoraria). Tutti i poteri sono concentrati
nelle mani dell’imperatore, che è l’unica fonte del diritto, al di sopra di ogni legge, la cui nomina è
appannaggio dell’esercito. Da ciò deriva la necessità di ingraziarsi il favore delle truppe, con una
conseguente mancanza di liquidità da parte dello stato, che aumenta quindi le tasse, generando
malcontento soprattutto nelle corporazioni professionali e nei ceti meno abbienti.
SOCIETÁ è divisa in due categorie sociali:
- Honestiores: classe privilegiata, comprendente alti gradi dell’esercito, senatori, cavalieri,
grandi proprietari terrieri
- Humiliores: plebei e ceti meno abbienti.
Alla prima categoria si riconoscono particolari privilegi, ma anche la seconda è sempre
tenuta in una certa considerazione, perché ne fanno parte i legionari, molti dei quali
provenienti dalle province (progressiva barbarizzazione dell’esercito).

109
LA TETRARCHIA (TABELLA GLOBALE)

ANNO OCCIDENTE CARICA ORIENTE

MASSIMIANO AUGUSTI DIOCLEZIANO


293 d.C.
COSTANZO CLORO CESARI GALERIO

305 d.C.:
i due Augusti si dimettono COSTANZO CLORO AUGUSTI GALERIO
per lasciare spazio ai Cesari
ch e, a l oro vol t a , ne
VALERIO SEVERO CESARI MASSIMINO DAIA
scelgono altri due

306 d.C. - fase A: COSTANTINO


muore Cloro; ( f i g l i o d i C o s t a n z o AUGUSTI GALERIO
le truppe proclamano Cloro)
augusto suo figlio
Costantino, appena liberato VALERIO SEVERO CESARI MASSIMINO DAIA
da Galerio
306 d.C. - fase B:
interviene Galerio che VALERIO SEVERO AUGUSTI GALERIO
propone che Valerio Severo
diventi regolarmente
augusto e Costantino
d i v e n t i c e s a r e - - > COSTANTINO CESARI MASSIMINO DAIA
malcontento a Roma

307 d.C. : i pretoriani a Roma nominano MASSENZIO (figlio di Massimiano) come augusto
d'Occidente che, a sua volta, propone COSTANTINO come augusto d'Oriente.
Interviene Galerio ma le truppe non combattono vs Massenzio (che nel frattempo ha sconfitto
Valerio Severo e poi lo farà uccidere) > Galerio si dimette

308 d.C. a Carnuntum


Diocleziano si incontra con
Galerio e Massimiano:
LICINIANO LICINIO AUGUSTI GALERIO
- ribadisce le proprie
dimissioni e quelle di
Massimiano;
- non riconosce Massenzio COSTANTINO CESARI MASSIMINO DAIA
> viene dichiarato hostis
publicus;

110
- vengono nominati nuovi
cesari e nuovi augusti

310-311 d.C.: ci sono molti aspiranti al potere imperiale > equilibrio molto fragile;
muoiono Massimiano e Galerio > è necessario un nuovo accentramento del potere;
intanto Massenzio va a reprimere in Africa Domizio Alessandro che era stato proclamato augusto
dell'esercito;
si crea un'alleanza tra Costantino e Licinio VS Massenzio e Massimino Daia

IV SECOLO d.C. - COSTANTINO E L'INIZIO DELL'IMPERO CRISTIANO

312 d.C. >Costantino e Licinio ottengono il potere sconfiggendo:

- Costantino > vs Massenzio --> Battaglia di Ponte Milvio (battaglia molto sanguinosa;
Massenzio e gran parte dei suoi sostenitori pretoriani muoiono; i pochi pretoriani rimasti
vengono spogliati di armi e uniformi; Costantino sopprime l'istituzione della pretura; sogno
di Costantino la notte precedente la battaglia e monogramma di Cristo sugli scudi dei suoi
soldati);
- Licinio > vs Massimino Daia --> viene ucciso in Oriente insieme alla sua famiglia.

313 d.C. >Licinio e Costantino a Milano:

- spartizione dell'impero: a Licinio – parte orientale; a Costantino – parte occidentale.


- editto di tolleranza: libertà di culto > atto politico importante per porre fine alle lotte
religiose e per ottenere l'appoggio della popolazione cristiana (ormai forza politica
organizzata che occupa i gradi alti della burocrazia e dell'esercito; cristiani ottengono molti
vantaggi economici: restituzione beni confiscati, nessuna imposta per il clero, chiesa
autorizzata a ricevere eredità e donazioni, costruzione edifici di culto).

317 d.C.>accordo di Serica: i due figli di Costantino e un figlio di Licinio vengono nominati cesari.

324 d.C.> dopo una serie di sanguinosi conflitti che portano alla condanna a morte di Licinio
(accusato da Costantino di atteggiamento anticristiano), Costantino diventa unico augusto
riunificando l'impero.

325 d.C. >Concilio di Nicea: presieduto da Costantino, presenti 300 vescovi in rapresentanza dei
tutte le chiese aderenti al cristianesimo; esito: uniformazione della dottrina cristina e condanna
dell'arianesimo [= da vescovo Ario (Alessandria d'Egitto, 280 - 336 d.C.) il quale sosteneva che
soltanto Dio Padre fosse veramente Dio, mentre Cristo era solo un uomo, un intermediario fra Dio e
gli uomini. L'interpretazione di Ario si diffonde presto tra tutte le popolazioni di stirpe germanica
grazie al vescovo goto Ufila (anche traduttore della Bibbia in goto) che evangelizza i Visigoti, che
a loro volta convertono gli Ostrogoti, i Vandali, i Burgundi e i Longobardi. L'arianesimo in Oriente

111
sarà condannato solo nel 381 d.C.].

326-330 d.C.> fondazione di Costantinopoli (nel luogo dell'antica Bisanzio): nuova capitale
dell'impero --> ormai il fulcro dell'impero è in Oriente (centro della vita politica, commerciale,
concentrato di ricchezze e cultura)

POLITICHE E RIFORME COSTANTINIANE: hanno l'obiettivo di mantenere l'unità


dell'impero a tutti i livelli (politico, religioso, sociale).

Politica religiosa:
- primo imperatore della storia a permettere la libertà di culto (vd. Editto di tolleranza, Milano
313 d.C.);
- si appoggia alla Chiesa per sopperire alle mancanze statali in ambito assistenziale;
- favorisce i cristiani: obbligando lo Stato e i privati cittadini a restituire i beni confiscati alla
Chiesa; permettendo la creazione di tribunali religiosi; accordando ai clericali l'esenzione dal
pagamento delle tasse; autorizzando la possibilità di effettuare lasciti o donazioni alla
Chiesa;
- contrasta i movimenti scismatici promuovendo l'unità dell'impero (vd. Concilio di Nicea,
325 d.C.).
Se Costantino sia stato un cristiano o meno non è dato saperlo. In ogni caso, la ragion di stato
rimase al di sopra di ogni considerazione personale e religiosa dell'imperatore.

Politica economica:
- ritorno alla monetazione in oro: Costantino fa coniare il solidus aureo --> la moneta acuisce
le differenze sociali, infatti essa limita l'inflazione, ma favorisce le classi più elevate causando
immobilismo sociale;
- tassa per chi non possiede terra (chrysargyron).

Politica estera:
- per la tranquillità di alcuni luoghi di frontiera, Costantino è costretto a stipula di foedera con
alcune popolazioni stanziate sul confine;
- utilizza l'arma della conversione per mitigare i contrasti ai confini dell'impero (es. Goti).

Riforma dell'esercito:
- sostituisce i pretoriani con una nuova guardia imperiale;
- indebolimento delle truppe di confine (dette limitanei): devono rimanere stanziate lungo la
linea di demarcazione dell'impero (spesso tra queste truppe vi erano barbari e comincia a
diffondersi la prassi do concedere loro degli appezzamenti di terreno da coltivare);
- l'esercito mobile (detto comitatus) viene allargato, deve spostarsi rapidamente da una parte
all'altra dell'impero in caso di emergenza;
- arruolamento sia volontario che obbligatorio, ma accettata pratica dell'aurum tironicus
(=sostituzione della recluta con pagamento in denaro);
- organizzazione grarchica dell'esercito: magistri equitum, magistri peditum, magistri militum

112
e, al di sotto, vari duces.

Riforma amministrativa e politica:


- con un impero così vasto, Costantino cerca di accentrare il potere (togliendone ai Cesari) e
crea una burocrazia ancora più numerosa (questa però, anziché rinforzare il controllo dello
stato, diventa sempre più corrotta);
- organizzazione territoriale e corte conservano sistema dioclezianeo ma il cerimoniale si fa
sempre più rigido;
- consolato su nomina imperiale;
- senato cristiano con pari dignità di quello romano; carica senatoriale trasmessa da
aristocrazia (gentes).

337 d.C. > morte di Costantino nei pressi di Nicomedia, mentre stava andando a combattere vs i
Persiani > ripresa lotte di successione; di fatto l'impero è spaccato in due:
1575 Occidente > povero, in decadenza, soggetto alle invasioni da parte di popoli stranieri;
1576 Oriente > ricco, in grado di contrastare con l'esercito gli invasori, politicamente stabile
[N.B. Costantinopoli cadrà soltanto nel 1453].

L'EREDITA' DI COSTANTINO

337 d.C. > l'impero è spartito tra i figli di Costantino:


- Costantino II(più potente degli altri) --> Gallia, Britannia, Spagna;
- Costante --> Illirico, Italia, Africa;
- Costanzo II --> Asia Minore, Siria, Egitto.

Costantino II attacca Costante ma viene ucciso, quindi restano:

. Costante a Occidente . Costanzo II a Oriente


Costante è niceno, porta avanti repressione di ariano
pagani ed ebrei, sprezzante verso le truppe che
lo uccidono.

In Occidente prende il potere il capo degli insorti: Magnezio.

353 d.C. > Magnezio viene sconfitto da Costanzo IIche diventa unico imperatore.

360 d.C. > Costanzo IImentre è impegnato sul fronte persiano e danubiano, affida le Gallie al
cugino Giuliano.
Giuliano, molto amato dalle truppe, riscuote numerosi successi (vs Alamanni) -> le truppe lo
acclamano augusto -> lo scontro sembra inevitabile ma Costanzo II muore mentre sta andando ad
affrontarlo.

361 d.C. >Giuliano diventa unico imperatore e attua molte buone riforme:

113
- riduzione del carico fiscale;
- miglioramento riscossione imposte e combatte la corruzione di funzionari e amministratori.
Giuliano è soprannominato Apòstata (=rinnegato) perché appoggia la religione pagana e fa riaprire i
templi temendo che, a causa del cristianesimo, la cultura classica venga perduta; osteggia il
cristianesimo fino ad attuare una politica anticristiana [in realtà fuori tempo massimo perché ormai
anche i popoli germanici si erano cristianizzati!].

363 d.C.> morte di Giuliano (ucciso in battaglia vs Persiani a Cresifonte, forse tradito da un suo
milite) --> fine delle speranze pagane e fine della dinastia di Costantino.

Gli ufficiali eleggono Salutio, ma rifiuta per l'età.

L'IMPERO CRISTIANO-BARBARICO

363-364 d.C. (per soli 6 mesi) > impero di Gioviano> conclude la pace con i Persiani rinunciando a
molti territori (Persia, Armenia), revoca le norme vs i cristiani e promuove la tolleranza religiosa;
muore in battaglia.

364 C. > dopo nuovo rifiuto di Salutio, elezione di Valentiniano(ufficiale di origine pannonica):
. tiene per sè l'Occidente;
. respinge i "barbari" dividendoli tra loro;
. aumenta le tasse --> la guerra rende indispensabile privilegiare i militari;
. combatte la corruzione;
. crea i "difensori del popolo" affinché tutelino i meno abbienti;
. temuto per la sua durezza, ma ammirato per la sua tolleranza religiosa.
Valentiano regna insieme al fratello Valente al quale viene assegnato l'Oriente.
Nel frattempo gli Unni (originari delle steppe dell'Asia centrale) si spostano verso terre più fertili:
nel 370 d.C. sconfiggono gli Ostrogoti e puntano a ovest.

375 d.C.> morte di Valentiniano, viene eletto Graziano.

375-376 d.C. > i Visigoti (foederati dell'impero stanziati tra Don e Danubio), spinti dagli Unni,
chiedono e ottengono il permesso di oltrepassare il Danubio e stabilirsi all'interno dell'impero; in
cambio i due imperatori chiedono loro aiuti militari e tasse -> i funzionari pubblici, però, li
sfruttano inimicandoseli.

378 d.C. > battaglia di Adrianopoli:Visigoti sconfiggono esercito imperiale e uccidono Valente in
battaglia. Gli scontri tra Romani e popoli germanici continuano.

379 d.C.> diventa augusto orientale Teodosio: ex generale di origine iberica, magister militum sul
Danubio, per farsi eleggere deve sbarazzarsi degli altri pretendenti sostenuti da diverse fazioni
religiose: - partito pagano - partito cristiano-ariano - partito cristiano-cattolico.

114
Teodosio si schiera con la fazione cristiano-cattolica (che ricompenserà con Editto di
Costantinopoli).

381 d.C. > Teodosio ottiene pace con Visogoti e, più tardi, con i Persiani.

383 d.C. > in Britannia l'usurpatore Magno Massimo uccide Graziano; Teodosio lo riconosce ma
poi lo decapita ad Aquileia sostituendolo con il fratello di Graziano: Valentiniano II.

392 d.C. > Valentiniano II è ucciso dal magister equitum Arbogaste che proclama un altro augusto
(Eugenio) sostenuto dall'aristocrazia pagana.

394 d.C.>Teodosio sconfigge Eugenio e Arbogaste ad Aquileia > diventa unico imperatore.

POLITICA TEODOSIANA

Politica estera:
- conclude con i Goti un foedus innovativo > si insediano all'interno dell'impero come nazione
indipendente alleata esente da imposte e con leggi prorie, in cambio forniscono truppe con
comandanti goti;
- a sposare sua figlia con capo vandalo (Stilicone).

Politica religiosa:
- vieta ogni discussione religiosa >390-392 d.C. > Editto di Tessalonica / Editto di
Costantinopoli: cattolicesimo come religione di stato, altri culti (pagani e arianesimo)
perseguiti.

Politica economica/amministrativa:
- privilegia latifondisti e imprenditori, mentre sfianca di tasse i ceti produttivi;
- vieta ai coloni di abbandonare la terra;
- neutralizza i difensori del popolo e li sostituisce con i decurioni (= responsabili delle
imposte).

395 d.C. > morte di Teodosio, che non riesce nell'intento di unificare l'impero e lo divide tra i suoi
due figli: . Onorio a Occidente . Arcadio a Oriente

LA CULTURA E L'ARTE NELL'IMPERO TRA III E IV SECOLO d.C.

Città:
- in questo periodo molte città si cingono di mura --> crescita dell'insicurezza, aumento
bisogno di difesa e protezione;
– poche nuove costruzioni ad esclusione dei nuovi edifici sacri cristiani e delle sedi vescovili
(es. Basiliche di San Giovanni in Laterano e San Pietro a Roma).

115
Cultura:
- spiccano in questo periodo le figure di giuristi come Papianiano e Ulpiano, di storici come
Cassio, di medici come Galeno e infine di filosofi come Plotino (< neoplatonismo:
presuppone un intelletto puro, principio razionale del mondo e fonte di tutte le azioni, a cui
l’anima dell’individuo può innalzarsi senza alcun ausilio esterno > misticismo).
- arte pagana > acquista importanza la decorazione a mosaico; ritrattistica sempre più
realistica;
- dopo il grande declino del III sec. d.C., le autorità municipali favoriscono la riapertura di
scuole per mantenere viva la cultura classica;
- arte cristiana > decorazione delle catacombe con immagini simboliche, scene tratte dai
Vangeli o dalla quotidinità della vita religiosa cristiana.
- letteratura cristiana > è il momento dei Padri della Chiesa (letteratura patristica: san Basilio,
san Giovanni Crisostomo, sant'Agostino);
- sviluppo del monachesimo.
Bibliografia

Compendio di Storia Antica greca e romana, Edizioni Simone

C. Frugoni, A. Magnetto, Prima di noi, Ed. Zanichelli (testo di seconda superiore)

A. Baldini, R. Scuderi, L. Bessone, Manuale di storia romana, Monduzzi 2013

R. Colonna, C. Foliti, A. Pagano, Storia ed educazione civica. Manuale per prove scritte e orali per
le classi A037-A043-A050-A051-A052, Edises 2018

116
12. Le invasioni barbariche, l'Oriente bizantino e l'Islam

LE INVASIONI BARBARICHE

I popoli germanici

Tra il IV ed il VI secolo i popoli che erano vissuti per lungo tempo ai confini dell’Impero Romano
d’Occidente migrarono al suo interno contribuendone alla caduta e costituendo nuovi regni.
Tali popoli erano accomunati tutti da un unico elemento, il non essere romani, ed erano chiamati
barbari, termine derivato dal greco barbaros, di origine onomatopeica, che significa balbuziente, e
che fu usato dapprima nella Grecia classica e poi nel mondo romano per indicare in modo
spregiativo tutti coloro che non parlavano il greco o il latino ma delle lingue ritenute ridicole e
incomprensibili, rappresentate appunto dall’espressione “bar-bar”.

Con il tempo il termine acquisì una valenza fortemente negativa assumendo il significato di
“incivile”, con cui Greci e Latini designavano le genti estranee alla loro cultura e civiltà. Pertanto,
la voce barbaro può essere utilizzata ancora oggi soltanto se la si priva della sua connotazione
originale e la si usa in senso storicizzato per indicare una galassia di popolazioni ciascuna con una
propria identità etnica.

Dopo che Giulio Cesare ebbe conquistato la Gallia (I sec. a.C.), fino alla fine dell’età imperiale i
corsi dei fiumi Reno e Danubio costituirono il limes oltre il quale vivevano diversi popoli barbari
che i romani chiamavano indistintamente con il nome di germani. Romani e tribù germaniche si
fronteggiarono lungo il confine con scontri e incursioni ma svilupparono al contempo importanti
contatti e scambi commerciali.

Come si evince dalla cartina storica che raffigura l’estensione dell’Impero tra il II e III secolo, le
popolazioni germaniche erano divise tra loro in diversi e numerosi gruppi (Franchi, Vandali,
Visigoti, Ostrogoti, Burgundi, eccetera) che non avevano un’unica identità etnica o culturale. Solo
molto lentamente queste tribù riuscirono a costituirsi come popoli in base a un processo storico che
è stato definito dagli studiosi “etnogenesi”, ossia il formarsi e il continuo ridefinirsi delle identità
etniche in base a elementi di natura culturale.

Le genti germaniche provenivano tutte dalle regioni dell’Europa settentrionale che si affacciano sul
mare del Nord e sul mar Baltico, parlavano lingue tra loro simili ed erano prevalentemente nomadi
o seminomadi con una organizzazione sociale, una cultura e una religione molto diverse da quelle
romane. Esse, infatti, non vivevano in stati organizzati ma in tribù che erano gruppi sociali con
caratteristiche linguistiche e culturali omogenee. Gli uomini di una stessa tribù erano uniti da
legami di sangue e di clan: più famiglie costituivano un clan, più clan si univano in una tribù. La
guerra era considerata l’attività più importante e quindi i gradini più alti della società erano occupati
da guerrieri, gli unici uomini liberi. Ogni tribù era governata da un capo eletto tra i guerrieri più
valorosi e i gradini più bassi della società erano occupati dagli uomini semiliberi e dai servi. Non
avevano leggi scritte, per cui le regole della convivenza si tramandavano oralmente di padre in

117
figlio e praticavano la faida (vendetta privata per vendicarsi di un’offesa ricevuta) e l’ordalia
(prova fisica per dimostrare l’innocenza). La loro economia si basava sul baratto e le attività che
svolgevano erano in prevalenza la caccia e la pastorizia. Per procurarsi i beni che non potevano
trovare nelle terre controllate dalle loro tribù ricorrevano alla razzia e al saccheggio con spedizioni
armate nei territori vicini e, specie a partire dal II secolo, all’interno dei confini romani, attratti dalle
ricche città e dalle campagne da depredare. La guerra per procurarsi il bottino era infatti considerata
una normale attività degli uomini, al pari della caccia.

Privi di senso della proprietà privata, i germani praticavano un’agricoltura rudimentale coltivando
un terreno fino a quando rendeva a sufficienza, per poi spostarsi in terre più fertili. Erano molto
abili nella lavorazione dei metalli sia per costruire armi che per realizzare splendidi gioielli. Nella
loro religione politeista prevalevano i culti per le divinità della natura e della guerra, prima fra tutte
Odino, dio della tempesta, della caccia e della guerra. Tuttavia, a partire dal III secolo si diffuse tra
loro il cristianesimo e, nel secolo successivo, a seguito della predicazione del vescovo Ulfila,
dapprima i Goti e successivamente le altre genti barbare abbracciarono la fede ariana, la quale
negando la divinità di Cristo e la sua identità di natura col Padre venne proclamata eretica nel
concilio di Nicea del 325.

Nel corso del III secolo i popoli germanici abbandonarono le loro abitudini nomadi e diedero vita a
insediamenti più stabili costituiti da fattorie e piccoli villaggi migliorando anche le tecniche
agricole. I rapporti commerciali con i Romani si intensificarono: i germani esportavano metalli,
pellicce e ambra in cambio di manufatti e armi. Tra il III e il IV secolo aumentarono anche le
migrazioni di intere tribù alla ricerca di nuove terre fertili da coltivare. Gli imperatori talvolta
risposero con le armi riconducendo le popolazioni germaniche al di là dei confini dell’impero,
talvolta cercarono di controllare l’immigrazione con una politica di accoglienza: ad alcune tribù fu
concesso di insediarsi nel territorio romano e i loro guerrieri furono arruolati nelle legioni romane
raggiungendo in molti casi le cariche militari di maggior rilievo. Inoltre, i capi delle grandi tribù o i
loro giovani figli furono accolti nelle corti imperiali per imparare la cultura dell’impero e l’arte di
governare.

118
La spinta degli Unni e le invasioni barbariche

Nel frattempo, in Asia accadevano grandi rivolgimenti che avrebbero avuto importanti ripercussioni
anche in occidente. Altri popoli nomadi, infatti, provenienti dalle steppe della Siberia e dai deserti
della Mongolia, forse a causa di un peggioramento del clima e della diminuzione delle risorse,
invasero gli imperi sedentari cinese, indiano e persiano e, negli anni 374-375, uno di essi, gli Unni,
comparvero nelle pianure dell’odierna Ucraina.

Gli Unni erano un gruppo di guerrieri nomadi di stirpe mongolica che combattevano a cavallo
utilizzando archi molto solidi e che si lanciavano in scorrerie contro i germani, compiendo massacri
e saccheggi. Il loro arrivo travolse il mondo germanico determinando una serie di spostamenti a

119
catena: interi popoli, infatti, si ammassarono sui confini dell’Impero romano che, a causa del suo
indebolimento politico ed economico, non riuscì a parare con nessun mezzo l’urto delle popolazioni
germaniche le quali dilagarono al suo interno in diverse direzioni.

I primi ad essere colpiti dall’arrivo degli Unni furono i Goti, un insieme di tribù nomadi che dal III
secolo si erano insediati in vari territori dal Danubio al Mar Nero dando vita a due grandi
raggruppamenti: i Visigoti, stanziati più verso occidente e gli Ostrogoti, stanziati più a oriente.

Furono i Visigoti a segnare con le loro incursioni l’inizio di una nuova epoca nei rapporti tra
Romani e barbari. Ottenuta da Valente, l’imperatore d’Oriente, l’autorizzazione a valicare il limes e
oltrepassare il Danubio, gruppi di Visigoti iniziarono a devastare le regioni dei Balcani meridionali,
fintanto che l’imperatore stesso fu costretto ad affrontarli in campo aperto con il proprio esercito nel
378 presso Adrianopoli, dove accadde l’impensabile: l’imperatore morì nella battaglia.

La sconfitta di Adrianopoli ebbe una vastissima eco e determinò una nuova strategia di
contenimento nei confronti dei barbari. Gli imperatori romani presero atto di non poterli bloccare
militarmente e adottarono una politica pragmatica basata sui sistemi della hospitalitas e della
foedereatio. Il primo prevedeva la concessione di un terzo delle terre di una regione alle popolazioni
barbariche che dichiaravano fedeltà all’impero e fornivano un appoggio militare pur rimanendo
indipendenti; il secondo prevedeva un’alleanza in senso stretto in cambio di un compenso.

Tuttavia, il tentativo di inquadrare le popolazioni barbariche all’interno dell’impero non ebbe


successo. Infatti, se durante il governo dell’imperatore Teodosio i Visigoti dichiarati foederati
vissero qualche tempo in pace nelle terre dell’Illirico, dopo la sua morte il nuovo imperatore
Arcadio adottò una politica ostile ai germani favorendone la migrazione verso occidente. Sotto la

120
guida del loro re Alarico, i Visigoti ricominciarono a compiere devastanti incursioni, la più
drammatica delle quali avvenne nel 410, quando saccheggiarono Roma per tre giorni.
Successivamente, morto Alarico, abbandonarono l’Italia e si stanziarono in Gallia meridionale
attorno a Tolosa, dove però dovettero fronteggiare altre popolazioni barbariche.

Nel frattempo, pochi anni prima del sacco di Roma, l’Impero era stato sconvolto da un’altra ondata
migratoria. A partire dal 406 infatti la frontiera posta lungo il Reno fu oltrepassata da intere
popolazion,i tra cui Vandali, Alani, Svevi e Burgundi che dilagarono nell’Impero d’Occidente in
ondate successive con scorrerie e migrazioni. In particolare, penetrando nei territori della Gallia essi
si scontrarono con Franchi e Alamanni, foederati dell’impero, ai quali era stata affidata la difesa del
confine renano. Mentre i Burgundi riuscirono a insediarsi nella Gallia centro-meridionale, Vandali,
Alani e Svevi furono costretti da Franchi e Alamanni a oltrepassare i Pirenei e a stanziarsi nella
penisola iberica. Ben presto però dovettero confrontarsi con i Visigoti, i quali a loro volta avevano
dovuto abbandonare parte della Gallia meridionale a causa della forte pressione franca.

Militarmente più organizzati delle altre popolazioni barbariche, i Visigoti riuscirono a creare un
dominio stabile su gran parte della Spagna, costringendo gli Svevi a ritirarsi nell’odierna Galizia, gli
Alani nell’odierno Portogallo settentrionale e i Vandali nella fascia settentrionale dell’Africa, dove
conquistarono i territori attorno a Cartagine.

Negli stessi anni anche la Britannia, abbandonata dalle guarnigioni militari romane, rimase in balia
delle incursioni dei Pitti, insediati nell’odierna Scozia. Per porre freno a queste scorrerie i Britanni
favorirono lo sbarco nei loro territori di popolazioni germaniche che speravano di inquadrare
all’interno del sistema della foederatio. Tuttavia, provenienti dalle coste della Danimarca e della
Germania settentrionale, Juti, Angli e Sassoni cercarono di creare insediamenti stabili a danno dei
Britanni.

Intanto gli Unni, dopo avere sospinto i germani, avevano conquistato un immenso regno
nell’Europa orientale da dove compivano frequenti incursioni nei Balcani seminando terrore e
morte. Attorno al 450, sotto la guida di Attila, loro re dal 434, invasero l’occidente diretti verso la
Gallia, ma, nel 451, furono sconfitti dal generale Ezio nella famosa battaglia dei Campi Catalaunici,
presso l’odierna città di Chalons in Francia. In quella occasione i germani combatterono sia da una
parte che dall’altra: gli Ostrogoti si schierarono al seguito di Attila, mentre Visigoti, Franchi e
Burgundi, che ormai si erano insediati nella Gallia, si allearono con i romani.

Pur sconfitto Attila riprese le sue scorrerie e nel 452 scese in Italia mettendo a ferro e fuoco le città
padane. Decise poi di attaccare Roma, ma gli andò incontro un’ambasceria guidata da papa Leone I
che, probabilmente dietro la concessione di ingenti beni, ottenne il ritiro dell’esercito unno. Attila
fece ritorno al campo base nella pianura ungherese e lì nel 453 lo colse la morte. Con la sua
scomparsa il suo potente esercito si disperse e gli Unni tornarono a vagare per le steppe da cui erano
venuti.

121
Immediatamente dopo l’invasione degli Unni, nel 455 i Vandali di Genserico dopo avere risalito il
Tevere con le loro navi saccheggiarono violentemente Roma, dimostrando che l’Impero Romano
d’Occidente volgeva ormai al suo tramonto. In occidente, infatti, la figura dell’imperatore era
ridotta a un semplice simbolo senza autorità. Tra il 455 e il 476 si succedettero nove imperatori:
tutti furono nominati e poi uccisi o deposti dai capi germanici che si contendevano il potere.

Nel 475 il generale Oreste nominò imperatore il figlio Romolo Augusto, detto Augustolo per la sua
giovane età; di fatto era il padre a governare. L’anno successivo, un altro generale germanico,
Odoacre, uccise Oreste, depose Romolo Augustolo, s’impadronì del potere e governò l’Italia con il
titolo di patrizio dei romani. Così nel 476 ebbe fine l’Impero Romano d’Occidente.

I regni romano-germanici (secoli V-VI)

Dopo la morte di Attila sul suolo dell’impero d’Occidente i popoli germanici fondarono molti regni
che ottennero dall’imperatore romano d’Oriente il riconoscimento della loro autorità.

Benché i nuovi regni avessero caratteristiche diverse è possibile individuare alcuni tratti che li
accomunavano. In tutti i territori conquistati infatti, i barbari, desiderosi di conservare la loro
identità etnica, si trovavano però in netta minoranza rispetto alla popolazione residente e quindi si
pose il problema della convivenza.

Dal momento che non avevano l’esperienza necessaria per gestire e governare regni di grande
estensione con città e una società assai evoluta, i germani affidarono la gestione diretta
dell’amministrazione a funzionari civili romani, e si appoggiarono all’antica classe dirigente
romana che conservava ancora grane influenza; mentre l’esercito e la difesa militare divennero un
loro monopolio.

122
Tra i molti regni fondati i più rilevanti furono quelli di Vandali, Visigoti, Burgundi, Franchi,
Anglosassoni ed Ostrogoti.

I Vandali sotto la guida del re Genserico sbarcarono in Africa nel 429 e in dieci anni conquistarono
l’intera provincia instaurando un vero e proprio dominio. Confiscarono molte proprietà romane,
imposero tributi e, poiché erano di fede ariana, perseguitarono i cattolici. Unici tra i barbari,
allestirono una flotta con la quale fecero incursioni in tutto il Mediterraneo saccheggiando Roma nel
455. Avendo occupato l’Africa settentrionale, la Sardegna, la Corsica, la Sicilia e le Baleari,
riuscirono a controllare i principali mercati del grano, minacciando di affamare la stessa Roma. Il
regno si indebolì alla morte di Genserico per lo scontro tra re e nobili; nel 534 fu conquistato dalle
truppe di Giustiniano, guidate da Belisario e aiutate dalla popolazione romana alla quale apparvero
come portatrici di pace e libertà.
Più duraturo fu invece il regno instaurato dai Visigoti su un vasto territorio che dalla Gallia
meridionale si estendeva a quasi tutta la Spagna. Nel 406 Vandali, Alani e Svevi avevano varcato i
Pirenei penetrando nella penisola iberica e diventando federati dell’impero. I Visigoti furono indotti
dal governo imperiale a combattere queste popolazioni in cambio di forniture di grano. Una volta
vittoriosi però divennero essi stessi pericolosi; ebbero quindi l’ordine di interrompere le operazioni
di guerra e di stanziarsi nella provincia di Aquitania (Gallia centromeridionale). Tuttavia, nel 507 i
Franchi di Clodoveo sconfissero il re Alarico II e conquistarono la regione. Maggiore importanza e
durata ebbe il regno che i Visigoti fondarono in Spagna. Comprendeva quasi tutta la penisola
iberica (dopo la conquista del Regno degli Svevi nel 585) e aveva come capitale Toledo. Fino al VI

123
secolo mantennero il credo ariano ma nel 586 il re Recaredo si convertì al cattolicesimo facendone
la religione di Stato. I Visigoti riuscirono a integrarsi in modo particolarmente efficace con la
tradizione gallo-romana, dando vita a una società multietnica in cui l’eredità politico-amministrativa
romana era particolarmente forte. Specchio di questa situazione fu l’attività legislativa dei sovrani
che nel 654 portò all’unificazione delle leggi di Visigoti e Latini con la compilazione della Lex
Romana Visigothorum. Il loro regno durò fino al 711 quando fu abbattuto in seguito alle invasioni
islamiche.

Il Regno dei Burgundi si estendeva nella Francia sudorientale fino al confine con la Provenza. Qui
erano stati relegati i Burgundi sopravvissuti al massacro compiuto dai mercenari unni al servizio
dell’Impero all’inizio del V sec. (episodio questo che diede spunto alla Saga dei Nibelunghi). Il re
Gundobaldo (480-516 ca.) fece redigere la Lex Burgundionum in cui raccolse le consuetudini del
suo popolo. I Franchi conquistarono il regno nel 534 e i Burgundi si sparsero allora tra la
popolazione romana, adottandone la lingua e la religione cattolica.

Il Regno dei Franchi formato dalle tribù dei Salii, dei Ripuarii e dei Sicambri, occupava
originariamente una zona della Gallia nordorientale. Successivamente, in seguito alle conquiste
territoriali del re Clodoveo (482-511), della dinastia dei Merovingi (dal capostipite Meroveo) e dei
suoi successori, arrivò a comprendere la maggior parte della Gallia e un buon tratto della Germania.
Nel 496 Clodoveo, appoggiato dai vescovi durante le sue conquiste, si convertì al cattolicesimo. I
Franchi si accontentarono di confiscare ai Romani solo porzioni minime dei loro territori. Ciò favorì
una pacifica convivenza tra i Franchi e l’aristocrazia gallo-romana, alla quale fu affidata
l’amministrazione del regno. Alla morte di Clodoveo il regno fu diviso tra i figli che regnarono in
accordo. Gli altri successori diedero invece vita a forti contrasti interni che portarono allo
sfaldamento del regno: i regni di Austrasia e Neustria (a nordest e nordovest) e i ducati di Borgogna
e di Aquitania (a sud della Loira). I re merovingi, politicamente incapaci, lasciarono il potere ai
“maggiordomi” o “maestri di palazzo”, amministratori dei territori reali e rappresentanti dei nobili
aristocratici, laici ed ecclesiastici. Nel 687 il maestro di palazzo d’Austrasia vinse quello di Neustria
e ricostituì l’unità del Regno.

Negli stessi anni in cui i Franchi si affermavano nella Gallia, oltre Manica si stanziarono più
popolazioni di origine germanica aggregate sotto la comune denominazione di Anglosassoni. Essi
diedero vita nella Britannia orientale a dei regni regionali costringendo i Britanni a ritirarsi nei
territori più occidentali. Dal punto di vista religioso l’invasione anglosassone determinò una nuova
paganizzazione della Britannia già cristianizzata in età romana. Solo sotto la guida del monaco
Agostino verso la fine del VI secolo, fu avviata un’opera di rievangelizzazione.

Un discorso assai diverso deve essere fatto per gli Ostrogoti giunti in Italia per volontà dei
Bizantini. Dopo la deposizione di Romolo Augustolo, infatti, per una decina d’anni Odoacre
governò pacificamente l’Italia. L’imperatore d’Oriente, Zenone, preoccupato dalle mire espansive
del re goto, gli mandò contro Teodorico, re degli Ostrogoti, che per dieci anni aveva vissuto come
ostaggio alla corte di Costantinopoli. Odoacre capitolò dopo tre anni di resistenza e Teodorico lo
fece uccidere. Essendo un inviato di Zenone, Teodorico fu per l’Italia soltanto un funzionario

124
amministrativo, mentre conservò il titolo di re degli Ostrogoti: per i Romani poteva emanare solo
delle ordinanze, come rappresentante dell’imperatore, mentre poteva emanare leggi per gli
Ostrogoti. Cercò di realizzare una politica di pacifica convivenza tra barbari e Romani, assegnando
ai primi responsabilità militari e ai secondi l’amministrazione dello Stato. Romani e Ostrogoti erano
divisi dalla religione (cattolici gli uni, ariani gli altri). Finché l’Impero d’Oriente fu in rotta con la
Chiesa per la controversia monofisita (da monos, “uno”, e physis, “natura”: la teoria del monaco
Eutiche secondo cui in Cristo vi era un’unica natura divina) fu mantenuto un atteggiamento di
tolleranza reciproca. Quando Impero e Chiesa si rappacificarono (519), la Chiesa divenne la più
potente forza antigotica e Teodorico fece uccidere molti esponenti dell’aristocrazia romana. Morto
Teodorico (526), il regno fu sconvolto da disordini culminati nell’uccisione della regina
Amalasunta (figlia di Teodorico). Con la Guerra greco-gotica (535-553) Giustiniano cacciò gli
Ostrogoti dall’Italia.

L’ORIENTE BIZANTINO

Da Teodosio II a Giustino

La differenziazione fra Occidente latino e Oriente ellenistico prese corpo già con la riforma
di Diocleziano (284-305) e fu catalizzata da Costantino col trasferimento della capitale dell’Impero
a Bisanzio (tra 324 e 330), l'antica città greca sul cui sito sorse Costantinopoli (attuale Istanbul).
Mentre l’Occidente si trovò a subire le pressioni e poi le invasioni delle popolazioni germaniche, il
cui insediamento determinò dapprima la coesistenza e in seguito l’integrazione di elementi delle
civiltà romano-cristiana e germanica, l’Oriente si mosse sulla linea di un’ostinata fedeltà alla
tradizione romana. I Bizantini continuarono a definirsi “romani” e operarono una conseguente
emarginazione degli elementi estranei con una forte reazione anti-germanica.

Con la denominazione “Impero bizantino” ci si riferisce pertanto all’area orientale dell’Impero


romano (romano nella formazione istituzionale e cristiano per religione, anche se greco per cultura)
che dopo la caduta dell'Impero d'Occidente (476) sopravvisse a questo per circa mille anni. Diverse
furono le ragioni della lunga vita della civiltà bizantina: il fatto che non fu investita dalle invasioni
barbariche, l'efficiente burocrazia, la ricchezza economica. Essa, infatti, raggiunse un altissimo
livello in tutte le sue espressioni, culturali, artistiche, legislative, segno dell'unità metafisica e della
forza del cristianesimo orientale. Il monarca (basiléus) era il luogotenente di Dio sulla terra e in
quanto tale aveva un ampio margine di intervento nella vita religiosa dell'Impero (cesaropapismo).
I secoli V e VI nella parte orientale dell’Impero non rappresentarono dunque un momento di cesura
come in Occidente: gli imperatori, infatti, non solo seppero resistere alle invasioni dei barbari ma
riuscirono anche a conservare una certa autorità sui territori occidentali.

In particolare, morto Arcadio nel 408, fu eletto imperatore d’Oriente Teodosio II il quale dovette
affrontare i problemi relativi al diffondersi di differenti dottrine relative alla natura di Cristo che
minavano l’unità dell’Impero. Con i concili di Efeso (431 e 449), entrambi convocati per iniziativa
dell’imperatore, a riprova dell'influenza che il dogma religioso esercitava sulla stabilità dell'Impero,
si cercò di sanare queste controversie di natura religiosa. In campo giuridico si deve sempre a

125
Teodosio l’emanazione (438) del Codice Teodosiano, la più importante raccolta di leggi romane
antecedente a quella di Giustiniano. In politica estera, Teodosio tra il 421 e il 422 sconfisse i
Persiani e, accordatosi con gli Unni, li allontanò da Costantinopoli.

Sotto Marciano, successore di Teodosio, nel 451 il Concilio di Calcedonia affermò la supremazia
del patriarca di Costantinopoli nella Chiesa orientale e condannò il monofisismo che però rimase a
lungo un elemento di contrasto sia con la sede di Roma sia all’interno dell’ortodossia orientale.

Nel 474 salì al potere Zenone che, intervenuto autoritariamente nelle questioni religiose, fu
scomunicato, dando inizio a una separazione trentennale con la Chiesa d’Occidente. A definire il
rapporto tra Chiesa e Impero fu papa Gelasio I il quale, in una lettera al successore di Zenone,
Anastasio, affermò la distinzione delle sfere spirituale e temporale, la supremazia dell’autorità
spirituale e la sua responsabilità di fronte a Dio nella cura dei fedeli. Al cesaropapismo si opponeva
così la teocrazia (ovvero il potere divino, da Theós, “Dio”, e kràtos, “potere”; tra i secoli XI-XIV la
confusione fra le nozioni di autorità e potere condurrà la Chiesa cattolica a svilupparsi sul piano
temporale come una potenza fra le altre). La rappacificazione avvenne nel 519, sotto Giustino,
successore di Anastasio.

Giustiniano e la renovatio imperii

Nel 527 a Giustino succedette il nipote Giustiniano che regnò quasi quarant’anni fino al 565. Perno
della sua azione politica fu il progetto di riunificazione dell’Impero riconquistando i territori della
parte occidentale dove si erano formati i regni romano-germanici.

Egli ebbe tra i suoi collaboratori più influenti i generali Belisario e Narsete e la moglie Teodora. I
primi furono determinanti per la politica di “riconquista”, la seconda in alcuni affari di politica

126
interna (nel 532 spinse il marito, che già aveva pensato alla fuga, a reprimere con un sanguinoso
massacro la rivolta della popolazione di Costantinopoli pressata dalle imposte fiscali).

Giustiniano ebbe l’ambizione di ricostituire l’Impero romano nella sua integrità politica e spirituale:
proclamandosi “legge vivente e rappresentante di Dio in terra”, riportò in auge il modello orientale
di integrazione fra le due sfere religiosa e politica.

Fermati i Persiani a oriente (“pace perpetua” del 532) e repressa la rivolta a Costantinopoli nel 532,
Giustiniano poté rivolgersi a occidente per ripristinare l’unità dell’Impero spezzata dalle invasioni
barbariche. Obiettivo dell’azione di conquista fu il Mediterraneo: gli eserciti imperiali rovesciarono
in breve tempo (533-534) il Regno dei Vandali in Africa; poi si rivolsero contro i Visigoti nella
Spagna meridionale e infine si accinsero alla guerra nella penisola italiana contro gli Ostrogoti.

Le imprese militari comportarono campagne estremamente lunghe e onerose, non solo in termini
economici. In particolare, la guerra greco-gotica durò quasi vent’anni dal 535 al 553 e segnò per la
nostra penisola il vero crollo della civiltà tardo-antica. In precedenza, la politica perseguita da
Teodorico aveva conservato all’aristocrazia senatoria romana i privilegi tradizionali e un ruolo
importante nella gestione politica. Inoltre, il primo re goto in Italia aveva anche mantenuto un
riconoscimento formale dell’autorità imperiale di Costantinopoli. Con la sua morte, questo sistema
di convivenza tra barbari e Romani si incrinò e durante il conflitto greco-gotico si frantumò
completamente. In un primo tempo, infatti, i barbari e la classe senatoria romana fecero fronte
comune contro l’attacco imperiale ma dopo la conquista (540) della capitale Ravenna, l’élite
senatoria si piegò ai Bizantini e gli Ostrogoti rimasero soli a fronteggiare le truppe di Giustiniano.
Nel 553 l’intera penisola italiana risultava assoggettata a Bisanzio ma vent’anni di guerra
consegnavano ai vincitori un territorio distrutto, in gran parte spopolato, colpito da un’epidemia di
peste e lacerato nelle sue componenti etniche e sociali. Dopo la guerra l’Italia fu amministrata da un
governatore con pieni poteri nominato da Costantinopoli, chiamato esarca (comandante) e Ravenna
divenne la capitale dell’Italia bizantina.

Di grande portata fu poi l’opera di sistemazione e rielaborazione della giurisprudenza romana


voluta da Giustiniano e condotta da una commissione di giureconsulti coordinata da Triboniano, a
partire dal 528, che portò all’edizione del Corpus Iuris Civilis, per secoli punto di riferimento della
scienza giuridica. La novità del progetto fu l’intento di recuperare sia la legislazione che la
normativa giurisprudenziale. L’iniziativa imperiale consegnò in tal modo alla posterità una raccolta
che consentiva di conservare memoria di ciò che era stato il diritto romano.
Al termine della guerra in Italia fu immediatamente introdotta la legislazione bizantina: nel 554
l’imperatore Giustiniano promulgò la Prammatica Sanzione, un decreto con cui estendeva la sua
compilazione legislativa alle terre riconquistate e che riproponeva un modello amministrativo
proprio del tardo impero i cui quadri sociali di riferimento erano ormai scomparsi da tempo.

In generale le riforme amministrative di età giustinianea mirarono alla moralizzazione della vita
pubblica, al rafforzamento dei governi delle province e alla certezza del gettito fiscale, all’origine di
un sistema tributario sempre più opprimente che suscitò un lungo elenco di rivolte interne.

127
Per quanto concerne la politica religiosa, erede della tradizione cesaropapista degli imperatori
orientali, in un primo tempo Giustiniano si inserì nelle vicende della Chiesa combattendo le eresie
monofisita e ariana così come il paganesimo (chiusura della scuola filosofica di Atene nel 529) e il
giudaismo (abbattimento delle sinagoghe). Di fronte all’ampio seguito di monofisiti in Siria ed
Egitto, cercò di forzare papa Vigilio a un compromesso, rigettando la formula dell’ortodossia del
Concilio di Nicea (convocato da Costantino nel 325, in cui venne condannata l’eresia ariana ed
elaborata la professione di fede ortodossa, detta “simbolo niceno”, il Credo tuttora in uso) che fu
però riconfermata nel 553 dal Concilio di Costantinopoli.

L’impero dopo Giustiniano

Il grandioso programma di restaurazione attuato da Giustiniano dopo la sua morte (565) consegnò ai
successori un’eredità difficile. L’equilibrio raggiunto era infatti assai fragile: la condizione
finanziaria era assai precaria, al punto da non consentire il regolare pagamento delle truppe
mercenarie che costituivano la maggior parte degli eserciti imperiali. Le grandi distanze che
separavano i territori assoggettati rendevano difficili gli interventi del potere centrale nelle aree
periferiche. A tutto ciò si aggiunse la pressione sui diversi confini dell’impero di numerose
popolazioni ostili.

Soltanto durante i regni degli immediati successori di Giustiniano si riuscì a conservare l’integrità
territoriale dell’Impero, salvo che nella penisola italiana, occupata in gran parte, dal 568 in avanti,
dai Longobardi.

Nel 602 infatti, si ebbe la rivolta militare di Foca: l’uccisione dell’imperatore Maurizio e i
rivolgimenti interni che ne seguirono allentarono il controllo sulle frontiere di nord-est e ciò
permise l’ingresso nella penisola balcanica di numerose tribù di Avari e Slavi che iniziarono così a
insediarsi stabilmente in quella regione. Contemporaneamente, a sud-est, i Persiani erano riusciti a
penetrare in Armenia e nell’Asia Minore, conquistando anche la città di Gerusalemme (614).

Nella gravità della situazione fu il generale Eraclio (dinastia degli Eraclidi, 610-717) che, deposto
Foca e preso il potere (610- 641), risollevò l’Impero. Riorganizzato l’esercito, attaccò i Persiani e,
per vendicare il sacco di Gerusalemme, incendiò il sacro tempio del fuoco di Zoroastro,
abbandonando aree come la Spagna, definitivamente persa nel 629, e la penisola balcanica dove
Avari e Slavi giunsero ad assediare la stessa Costantinopoli. La città seppe però resistere all’attacco
e la guerra contro i Persiani si concluse con un trionfo: nel 630 l’imperatore rientrò nella capitale
dopo aver riconquistato tutti i territori occupati e addirittura aver ampliato i domini imperiali in
Armenia. Eraclio venne celebrato come un “nuovo Costantino” e, consapevole delle nuove
difficoltà religiose che avrebbe comportato il ritorno all’interno della compagine imperiale delle
province orientali di fede monofisita, nel 638 cercò di ricomporre i dissidi cristologici proponendo
una nuova dottrina, il monotelismo, che intendeva superare i contrasti sorti intorno alla doppia
natura di Cristo centrando l’attenzione sull’unica volontà del figlio di Dio. La nuova formulazione
della fede cristiana fu però avversata dai monofisiti così come dagli ortodossi e approfondì il

128
divario con la chiesa occidentale che condannò la nuova dottrina come eretica. Eraclio attuò inoltre
importanti riforme sociali: distribuì terre ai contadini obbligandoli al servizio militare e divise il
territorio in distretti (temi) governati da strateghi, da lui direttamente nominati, con pieni poteri
civili e militari.

Tra il 674 e il 678 Bisanzio dovette subire incursioni da parte degli Arabi che avevano già abbattuto
l’Impero persiano, conquistato la Siria, la Palestina, l’Egitto e, allestita una flotta, erano penetrati
nell’Egeo, espugnando Cipro e Rodi. Bisanzio resistette grazie alle sue fortificazioni e all’uso del
fuoco greco, una nuova arma costituita da un esplosivo, di formula segreta, scagliato a grande
distanza sulle navi nemiche per incendiarle. Nel 717 fu tentata una nuova conquista; da allora Arabi
e Bizantini intrapresero un lungo conflitto intervallato da periodi di pace e di scambi economici e
culturali. Gli Arabi erano comunque riusciti a sottrarre all’Impero molti territori; rimanevano
bizantini l’Asia Minore, parte dei Balcani e alcuni territori dell’Italia.

Nella prima metà dell’VIII sec. una grave crisi religiosa, nota col nome di “lotta iconoclasta” (da
“iconoclastia”, distruzione delle immagini), colpì l’Impero. L’imperatore Leone III Isaurico (717-
741) proibì il culto delle immagini sacre (icone) di Dio, della Vergine e dei santi, ovunque fossero
riprodotte, e le fece distruggere, mirando così a togliere potere ai monasteri dove si riunivano grandi
masse di fedeli per la venerazione. La Chiesa condannò Leone III nel 731; il Concilio ecumenico di
Nicea condannò l’iconoclastia nel 787 ma essa riprese con gli imperatori successivi fino a quando
nell’843 l’imperatrice Teodora dichiarò di nuovo lecito il culto delle immagini.

Successivamente, a seguito delle dispute sul primato del vescovo di Roma (non accettato dai
cristiani d’Oriente) e sul filioque (la formula aggiunta al Credo niceno-costantinopolitano dalla
Chiesa latina, secondo cui lo Spirito Santo procederebbe dal Padre e dal Figlio e non solamente dal
Figlio), i contrasti di natura teologica con la chiesa d’Occidente condussero nel 1054 allo scisma
(rottura) tra le due Chiese.

Dal 1057 al 1185 regnarono i Comneni. Lotte interne tra generali e nobiltà di corte permisero ai
Turchi di conquistare l’Asia Minore che venne ripresa nel 1081 e poi persa definitivamente con la
sconfitta di Myriocefale nel 1176. La dinastia dei Comneni fu poi abbattuta da una rivolta di nobili.
Le succedette la dinastia degli Angeli (1185-1204) che regnò su un Paese spezzettato in una miriade
di potentati locali, uno stato di anarchia che favorì le rivolte dei Serbi e la ricostituzione di uno
Stato bulgaro.

Durante la quarta crociata Bisanzio fu conquistata dai Latini (1203-1204); l’imperatore Isacco II fu
deposto e sostituito da Baldovino di Fiandra: ebbe inizio l’Impero Latino d’Oriente (1204-1261). Le
spoglie dell’Impero bizantino furono divise tra Venezia (Bisanzio, Tracia e isole egee), crociati
(Regno di Tessalonica, Ducato di Atene, Principato di Acaia) e gli Stati greci indipendenti d’Epiro,
di Trebisonda e di Nicea. I regnanti di quest’ultimo, a partire dal 1222, ottennero progressivamente
il controllo di buona parte della Grecia continentale e, con Michele Paleologo, quello di Bisanzio,
ristabilendo nominalmente l’Impero bizantino.

129
L’Impero, sotto la dinastia dei Paleologhi, sopravvisse ancora due secoli, subendo la minaccia serba
a occidente, quindi quella ottomana a oriente (presa di Nicea, 1330; passaggio in Europa, 1357). Si
ridusse quindi alla sola regione della capitale che, posta sotto assedio, fu conquistata dal sultano
Maometto II nel 1453, segnando la fine definitiva dell’Impero bizantino.

L’ISLÀM

La nascita dell’islàm

La penisola araba, in gran parte desertica, a differenza degli imperi bizantino e persiano era
originariamente abitata da tribù dedite alla pastorizia e che praticavano il commercio lungo le piste
che collegavano le oasi.

Le popolazioni del nord avevano avuto contatti con gli Ebrei e i Romani, quelle del sud avevano
subìto il dominio di Etiopi e Persiani. Al centro vivevano tribù nomadi piccole ma combattive che
gravitavano intorno a La Mecca, centro religioso, ma anche economico, dove sorge tuttora il tempio
della Ka’ba (parola araba che significa “cubo”, dalla forma dell’edificio) nel luogo che la tradizione
voleva prescelto da Adamo stesso, e poi da Abramo e dal figlio Ismaele. Nell’angolo sudest della
Ka’ba è incastonata la pietra nera che, sempre la tradizione, sosteneva caduta sulla Terra per volere
divino divenendo da bianca nera per i peccati degli uomini. All’interno della Ka’ba, tempio per
eccellenza del monoteismo, erano tuttavia stati posti nel corso dei secoli numerosi idoli (da quelli
animisti e astrologici a quelli giudaici e cristiani) essendo meta del pellegrinaggio annuale delle
tribù arabe che sospendevano per l’occasione ogni conflitto. La custodia del tempio era affidata alla
tribù dei Qurayshiti che controllava pertanto anche i traffici commerciali. Oltre ad alcuni Ebrei, che
mantenevano la purezza del culto monoteista, la Mecca ospitava anche alcuni Arabi, detti hunafa,
“puri”, rimasti fedeli alla religione di Abramo. Uno di questi era il futuro profeta dell’islàm.

La predicazione di Muhammad (nome che significa “il lodato”, mentre “Maometto” è una
corruzione del turco Mehmet tramite il francese Mahomet) nacque alla Mecca intorno al 570 in un
ramo secondario della tribù dei Qurayshiti. Rimasto presto orfano, esercitò il mestiere di guardiano
del bestiame e di cammelliere e a venticinque anni sposò Khadigia, una ricca vedova di cui gestì le
attività carovaniere.

Secondo i dati della storia sacra dell’islàm che ci provengono dal Corano (libro sacro dei
musulmani), dai Detti del Profeta e da alcune biografie posteriori, intorno al 610, all’età di
quarant’anni, Muhammad, in ritiro spirituale in una caverna del monte Hira, ricevette tramite
l’angelo Gabriele la rivelazione sintetica del sacro Corano, che gli venne in seguito rivelato in modo
distintivo nel corso dei restanti ventitré anni della sua esistenza terrena. Secondo queste fonti le
rivelazioni ebbero come oggetto la necessità di abbandonare i culti precedenti e di recuperare le
radici originarie dei monoteismi già esistenti e di arrendersi (è questo il significato della radice
araba slm, alla base tanto della parola islàm quanto di musulmano) all’unico Dio, Allâh, che non è
una divinità araba, ma il termine arabo per riferirsi al Dio assoluto (da al, “il”, e ilaha, “divinità”,

130
come dire “la Divinità” per eccellenza, “Iddio”) e che aveva già scelto degli inviati tra gli uomini
pii: Abramo, Mosè e Gesù.

Il profeta stabilì che la vita religiosa del musulmano dovesse essere regolata dai cinque pilastri della
fede: la professione di fede in Allah unico Dio; la preghiera quotidiana; la santificazione attraverso
il digiuno del mese di Ramadan; il pellegrinaggio a La Mecca almeno una volta nella vita;
l’elemosina ai poveri, una tassa che i ricchi dovevano versare alla comunità affinché questa possa
soccorrere poveri e bisognosi.

A causa della radicale novità del suo messaggio, Maometto incontrò inizialmente molte
opposizioni, specie perché condannando gli idolatri, urtava anche gli interessi economici dei
meccani. Per queste ragioni nel 622 lui e la sua comunità di fedeli furono costretti a trasferirsi
presso l’oasi agricola di Medina: da tale evento, l’Ègira (dall’arabo hijra, migrazione), ritenuto di
grande importanza, viene fatto iniziare il calendario islamico.

A Medina Maometto consolidò l’originaria comunità di credenti: lanciò l’appello di porre fine a
tutte le lotte interne e di trovare l’unità nella fede e nella sottomissione a Dio, riuscendo ad acquisire
un gran numero di seguaci.

Dopo otto anni di lavoro diplomatico condotto con i clan della penisola, il fronte antimusulmano
capitolò e nel 630 Muhammad entrò trionfante alla Mecca dove distrusse i trecentosessanta idoli
che vi erano insediati, a eccezione di un’icona raffigurante la Vergine col Bambino e della Pietra
nera, e rese la Ka’ba il luogo santo dell’islàm.

Da quel momento vi fu un crescendo continuo di adesioni alla nuova fede e Muhammad, divenuto il
capo religioso e militare, poté imporre la sua autorità su quasi tutta l’Arabia. La maggior parte delle
tribù non ancora convertite abbracciarono la nuova fede e si consolidarono in un popolo talmente
unito e compatto da arrivare a costituire una potenza militare inarrestabile. Tuttavia, di lì a poco il
Maometto morì (632) senza lasciare indicazioni per la propria successione ragione per cui sorsero
primi contrasti tra i suoi seguaci.

131
Il califfato elettivo (632-661) e l’Impero omayyade (661-750)

Dopo la morte di Maometto nella comunità araba si manifestarono due alternative. Secondo i
sostenitori dell’ortodossia il comportamento del profeta doveva fungere da modello di riferimento
per risolvere i problemi futuri e conseguentemente il califfo, dall’espressione araba khalifa rasul
Allah che significa successore dell’inviato di Dio, doveva essere un semplice sostituto, incaricato di
perpetuare il pensiero di Maometto. Secondo altri invece lo spirito del profeta sopravviveva nei suoi
familiari, in particolare nei discendenti del cugino e genero Alì, pertanto il titolo di califfo doveva
essere trasmesso per via ereditaria.
Dal 632 al 661 prevalse l’orientamento ortodosso e si ebbe un califfato elettivo durante il quale i
califfi (Abu Bakr, Omar, Othman, Alì) che si succedettero furono tutti eletti dalla comunità
musulmana per la loro anzianità di fede e la particolare vicinanza a Maometto. Sotto il loro dominio
la comunità islamica dovendo diffondere la nuova rivelazione alle popolazioni dei Paesi vicini, se
necessario anche con l’uso della forza, iniziò una guerra santa, la jihâd, con cui ebbe luogo la prima

132
fase dell’espansionismo islamico. In breve tempo e senza incontrare molte resistenze l'Impero arabo
conquistò Iraq e Iran in direzione nord-est, Siria e territori bizantini in direzione nord, Egitto e nord
Africa in direzione ovest. In sostanza venne abbattuto l’Impero sassanide mentre Bisanzio perse
molti dei suoi possedimenti. Le ragioni che spiegano la rapidità e l’efficacia di questa espansione
islamica vanno individuate nell’alto grado di organizzazione dell’esercito arabo (i cui generali
spesso avevano combattuto per l’Impero bizantino e persiano), nella debolezza degli imperi
confinanti e nelle divisioni interne che rendevano preferibile alle popolazioni mediterranee il
dominio di un potere esterno e neutrale come quello arabo.

La prima fase di conquiste ebbe come effetto la costruzione di città-fortezze per concentrare e
smistare le truppe: tra di esse Fustat, in Egitto, da cui sarebbe sorta Il Cairo. La conquista fu
improntata al principio di separazione secondo il quale gli Arabi dovevano costituire un’élite
militare cui era impedito di possedere terre, mentre le altre popolazioni, di cui erano mantenute
tradizioni e sistemi amministrativi e fiscali, producevano e pagavano le imposte, maggiorate di un
tributo destinato ai conquistatori. Il grande afflusso di ricchezze che ne derivò sconvolse la società
araba, contribuendo all’acuirsi dei conflitti secondo le due linee alternative che si erano delineate
alla morte di Maometto.

Sull’interpretazione della rivelazione si scatenò una lotta di vaste proporzioni che riguardò la natura
del califfato. Un gruppo radicale, quello dei kharigiti, vedeva l’esperienza di Maometto come un
atto divino in sé concluso e attribuiva ogni potere alla comunità, proponendo che i califfi fossero
liberamente eletti in base alla loro dignità personale. All’estremo opposto gli sciiti sostennero la
restrizione della possibilità di accedere al califfato ai soli discendenti di Alì, il quarto califfo, cugino
e genero di Maometto. Alla base di questa scelta era la definizione del califfato come carica
essenzialmente carismatica fondata sulla sua natura religiosa. Tra queste due tendenze riuscirono a
spuntarla i sostenitori di quella che più tardi sarebbe stata definita sunna, (ortodossia islamica, da
cui sunniti), i quali ritenevano possibile conciliare gli insegnamenti del profeta con il senso della
comunità, attribuendo al califfo questo compito squisitamente politico.

La prima guerra civile ebbe il suo culmine nel 660 con l’assassinio di Alì, riferimento principale
degli sciiti, e la vittoria di Muàwiya, aristocratico meccano sostenuto dai sunniti con il quale nel 661
ebbe inizio il califfato degli Omayyadi (661-750).

Durante la dominazione omayyade la capitale dell’impero fu trasferita a Damasco e si verificarono


importanti processi di trasformazione dell’originario impianto delle conquiste. La sedentarizzazione
e l’abbandono della vita militare delle guarnigioni locali favorirono l’integrazione tra conquistatori
e conquistati. Si moltiplicarono le conversioni all’islàm, ritenute vantaggiose poiché consentivano
di entrare nell’élite dominante e di godere dell’esenzione fiscale. Venne progressivamente meno il
principio di separazione sancito dai primi califfi. La lingua araba sostituì tutte le altre. Le conquiste
comportarono per la prima volta attacchi pianificati in regioni lontane, con l’appoggio di
popolazioni locali. L’espansione proseguì verso il Caucaso, il Mar Caspio e l'attuale Turkmenistan.
Furono conquistate Bukhara, Samarcanda e la Persia meridionale e, tra il 711 e il 715, anche la
Spagna dei Visigoti. Da qui si compì anche il tentativo di conquistare la Francia del sud ma, le

133
truppe arabe, sostenute da contingenti africani (berberi) ed europei (baschi), furono arrestate a
Poitiers da Carlo Martello nel 732 segnando la fine dell’espansionismo arabo in occidente.
L’impero abbaside (750-1258)

Gli ultimi anni della dinastia omayyade videro riesplodere i conflitti interni: gli sciiti speravano
nella riacquisizione del califfato da parte dei discendenti di Alì, mentre i gruppi kharigiti
sostenevano ancora la necessità di rendere il califfato una carica elettiva. La guida dell’opposizione
agli Omayyadi fu assunta, attraverso complesse strategie diplomatiche con gli sciiti e altri ribelli,
dagli Abbasidi, una dinastia discendente da Abbas, uno zio del profeta. Costoro, uscendo vittoriosi
dalla guerra civile, inaugurarono una nuova fase dell’impero.

La rivolta che intorno al 750 portò al potere la dinastia Abbaside (750-1258) fu sostenuta dai
Persiani islamizzati e nel lungo periodo portò alla costituzione di un organismo politico del tutto
nuovo. L’impero non fu più impegnato nella conquista di nuove terre, ma nel consolidamento
dell’amministrazione centrale secondo il modello persiano-sasanide.

L’evento più importante fu la fondazione di una capitale del tutto nuova: Baghdad, sul fiume Tigri.
In pochi anni venne costruito un enorme agglomerato urbano che divenne la città più grande del
mondo (escludendo la Cina).

Nonostante il dominio sul Mediterraneo (conquista della Sicilia nell’827) e la conquista dell’India
(XI sec.), sotto gli Abbasidi iniziò la disgregazione dell’impero, con il progressivo crescere
dell’autonomia di singole regioni rette da governatori (emiri), solo formalmente sottomessi al
califfo di Baghdad, il cui ruolo dall’XI secolo fu solo di capo spirituale.

Tunisia, Marocco, Egitto e altre province asiatiche si resero indipendenti; contemporaneamente i


Turchi Selgiuchidi, militarmente forti e convertiti alla fede musulmana, conquistarono Baghdad e la
Persia.

Il declino dell'unità politica non intaccò nell'immediato l'omogeneità linguistica e religiosa


dell'islàm. Essa si fondava sui contributi offerti all'arabismo dalle secolari culture mediterranee,
persiane e anche indiane. La matematica, l'astronomia, la medicina, l'agraria, la filosofia e la
letteratura raggiunsero un tale sviluppo da conferire all'islàm il primato culturale su tutto il bacino
mediterraneo. Fu dagli Arabi che il Medioevo europeo assimilò le scienze apprese nei centri delle
antiche civiltà e questo ruolo di trasmissione culturale venne svolto fino all'XI secolo, quando i
Turchi conquistarono Baghdad e gli Europei recuperarono le terre sottratte loro nei secoli
precedenti. L'espansione araba aveva comunque trasformato la vita dei popoli al punto che, oggi, la
religione islamica è professata da 400 milioni di persone e l'arabo continua a essere parlato nel
bacino del mare Mediterraneo in tutti i paesi che furono conquistati tra il VII e l'VIII secolo, con la
sola eccezione costituita dalla Spagna e dalle isole.

Nel 1258 i Mongoli abbatterono il califfato Abbaside. Un risveglio arabo si ebbe solo dopo la Prima
Guerra Mondiale e la dissoluzione dell’Impero Ottomano. Alla fondazione di vari Stati arabi

134
indipendenti fece seguito una serie di tentativi di unificazione. La questione araba è diventata un
aspetto cruciale dell’equilibrio mediorientale dopo il 1945. Nonostante la consuetudine a voler fare
dell’islàm un’ideologia politica, esso resta tuttavia una religione che, al di là del clamore
mediorientale, è diffusa soprattutto fra i non arabi (gli Arabi sono il 20% dei musulmani) compreso
un certo numero di europei.

Bibliografia

G. De Vecchi, G. Giovannetti, Vivere e capire la storia, Milano-Torino, Pearson Italia, 2014

Istituto Geografico De Agostini, Tutto storia, Novara, De Agostini, Quinta edizione elettronica,
gennaio 2011

M. Montanari, Storia medievale, Roma-Bari, Gius. Laterza & Figli S.p.A., 2002

G. Piccinni, I mille anni del Medioevo, Milano-Torino, Pearson Italia, 1999

Sitografia

https://www.treccani.it/

http://dizionaripiu.zanichelli.it/storiadigitale/

https://www.mondadorieducation.it/

135
14. Il Feudalesimo

Definizione e panoramica generale

Il termine feudalesimo deriva da “feudo” che a sua volta deriva dal franco fehu-od: fehu,
“bestiame”, e od, “possesso”, usati per indicare i beni mobili e immobili donati da un capo ai suoi
soldati in cambio dei servigi resi. Tale termine fu poi latinizzato in feodum e feudum e passò ad
indicare il bene per il mantenimento della persona subordinata e infine la terra stessa concessa in
beneficio.

Per feudalesimo si intende l'organizzazione politica, sociale ed economica che ha caratterizzato


la storia europea fra il X e il XIII secolo. Tale sistema, sorto in Francia e poi diffusosi in vaste zone
dell'Europa, vide prevalere il mondo rurale su quello urbano e il frazionamento dell'autorità e dell’
unità territoriale dello Stato. Il potere decentrato era delegato a persone di fiducia del sovrano che
mantenevano nei fatti una grande autonomia, tanto che nell’ etica cavalleresca il sovrano stesso
venne inteso come un primus inter pares.

Il sistema feudale si consolidò in età carolingia quando il sovrano cominciò regolarmente ad


attribuire terre ai suoi soldati che gli rendevano omaggio e si mettevano al suo servizio. Dopo Carlo
Magno, infatti, i sovrani istituzionalizzarono la consuetudine di concedere terre in usufrutto ai
propri collaboratori mediante una cerimonia solenne (investitura), durante la quale chi riceveva il
beneficio (o feudo, costituito generalmente da terreni) si dichiarava vassallo (servitore) del suo
signore e gli giurava fedeltà. Dato che spesso i feudi erano molto vasti, i grandi feudatari potevano
concedere a loro volta parte del loro territorio ai propri sottoposti (valvassori), i quali facevano
altrettanto con i valvassini, creando un sistema gerarchico piramidale. In seguito, nel corso degli
anni, i vassalli riuscirono a ottenere speciali prerogative (immunità) che in origine spettavano
esclusivamente al potere centrale e si resero così sempre più indipendenti dall'autorità del sovrano.
In seguito il capitolare di Quierzy dell’877 rese ereditari i feudi maggiori dando inizio a un
processo di secolarizzazione della società feudale. Infatti mentre in età carolingia l’assegnazione di
funzioni pubbliche da parte del re avveniva in un contesto privato, come benevola concessione del
sovrano al suo vassallo, nel XII sec. si era ormai di fronte a due poteri pubblici consolidati: il
sovrano da una parte e il singolo signore feudale, al quale venivano trasferiti funzioni e diritti
ereditari, dall’altra. Infine, col formarsi delle prime monarchie nazionali, i poteri feudali furono
svuotati del loro ruolo politico a causa del fatto che i sovrani si servirono sempre più per governare
di funzionari di professione.

Origini del sistema feudale

I primi feudi possono essere individuati nell’area compresa tra il Reno, la Loira e la regione della
Borgogna, anche se, in forme diverse da quelle generalmente considerate feudali, organizzazioni
simili esistevano anche in Inghilterra e nella penisola italiana. Addirittura, prime embrionali forme
di organizzazione feudale si possono già ritrovare all’epoca del dissolvimento dell’Impero romano,
quando i più deboli per sopravvivere avevano bisogno della protezione di personaggi più potenti.

136
Questi a loro volta per mantenere la propria posizione avevano bisogno del servizio e della fedeltà
di altri uomini.

Dal diffondersi di tale pratica nacque l’istituto della commendatio (raccomandazione), cioè un
contratto tra protettore e protetto, comportante diritti e doveri per entrambi e che aveva durata
vitalizia. Di varia natura potevano essere sia il servizio sia le forme di aiuto prestati: spesso il
potente concedeva una quantità di terra (o in proprietà o, caso più frequente, in usufrutto) affinché il
protetto potesse mantenersi. In questo secondo caso il beneficiario aveva l’obbligo di pagare un
censo in denaro o, più spesso, in natura. La protezione esercitata dal benefattore veniva detta
mundium.

Un altro tipo di istituzione esistente presso i popoli germanici era il comitatus, termine che indicava
il gruppo di soldati che si impegnavano volontariamente a combattere per un capo, giurandogli
fedeltà personale. I componenti del comitato furono poi detti vassalli, dal termine celtico gwas con
cui erano chiamati nel VI sec..

Nell’alto medioevo tra i popoli germanici le fedeltà personali erano spesso usate come sostitutivo
del rapporto parentale: erano società ancora poco abituate alla stanzialità e quindi ogni individuo si
identificava nel gruppo di persone in cui era inserito e non nel territorio in cui era insediato. I fedeli
ai capi ( definiti gasindii dai longobardi, criados dai visigoti di Spagna) oltre a collaborare alla vita
domestica potevano ricevere compiti amministrativi e militari.

Tra i franchi del VI sec. il vassus o vassallus o valvassor (tutti sinonimi) era un giovane di corte, un
“garzone” addetto a vari incarichi dall’aristocratico protettore (che gli procurava in cambio vitto e
alloggio). Negli anni della dinastia dei merovingi soltanto i re potevano avere una trustis, cioè una
guardia personale di accompagnatori (leudes o antrustiones), fedeli come i vassalli ma di più alto
livello sociale e con compiti essenzialmente militari. In parallelo i maestri di palazzo della dinastia
dei carolingi, mentre accrescevano la propria potenza a danno dei re merovingi, usavano sempre più
circondarsi di vassi con incarichi militari. Chi giurava fedeltà vassallatica doveva essere in grado di
mantenersi il cavallo e l’armatura. Pertanto già dall’inizio del secolo VIII il vassallo era un membro
dell’aristocrazia militare.

Nel rapporto vassallatico del pieno secolo VIII la concessione di un compenso in cambio di questa
fedeltà era ancora facoltativa: gradualmente, poi, divenne abituale remunerare la fedeltà con un
beneficio, che poteva essere una rendita, qualche bene prezioso, o prevalentemente una terra. I
documenti altomedievali usano di preferenza il termine beneficium per indicare questo compenso, a
cui a poco a poco si affiancò il termine feudum.

Le “clientele” vassallatiche presero il posto della trustis quando i carolingi assunsero la corona e
anche per gli altri potenti del mondo franco, sia laici (ufficiali regi, grandi latifondisti) sia religiosi
(abati, vescovi) divenne normale avere clientele di vassalli.

I vassalli del re si distinguevano solo per la loro definizione di vassi dominici. Il rito attraverso cui

137
si stabiliva il rapporto fra il protettore (il senior) e il protetto (il vassus) prevedeva l’“investitura” da
parte del signore e l’“omaggio” da parte del vassallo: entrambi in piedi, il primo prendeva fra le sue
mani le mani del fedele (immixtio manuum), il secondo giurava la sua fedeltà, che era ormai sempre
di contenuto militare (il vassus si impegnava cioè a combattere per il senior ogni qual volta fosse
necessario). Altri elementi gestuali facoltativi potevano completare il rito: uno dei più frequenti era
il bacio (osculum).

Strutture del sistema feudale

L’organizzazione della società in base a rapporti personali di fedeltà venne pienamente utilizzata
dai sovrani carolingi. Il vassallaggio ebbe quindi ampia diffusione in Occidente, costituendo un
importante strumento di coesione politica. Con il rito della immixtio manuum (“commistione delle
mani”), come abbiamo visto, il vassallo si legava al monarca, affidandogli la propria persona e
creando un rapporto bilaterale tra soggetti ineguali sul piano sociale, sancito da un giuramento di
fedeltà.

Elementi costitutivi del feudalesimo furono il vassallaggio (elemento etico-sociale), il beneficio


(elemento economico) e l’immunità (elemento politico).

Il vassallaggio, cioè il particolare rapporto di subordinazione tra protettore e protetto, si diffuse su


vasta scala tra l’VIII e il IX sec. soprattutto per ragioni di carattere militare, ma anche
amministrativo. Maestri di palazzo e poi sovrani carolingi, non essendovi un esercito fisso, avevano
bisogno di uomini da arruolare in caso di necessità, ma anche di funzionari per amministrare uno
Stato sempre più esteso. Le sue origini risiedono proprio nel fatto che con le continue incursioni
barbariche le popolazioni europee avevano bisogno di garantirsi una certa sicurezza. Man mano che
lo Stato e il diritto romano si dissolvevano, le popolazioni cercarono di mettersi al servizio dei
grandi proprietari fondiari. Esse, se libere giuridicamente, rinunciarono in parte a questa libertà e
diventarono “semilibere”, lavorando come servi presso il feudatario. Naturalmente il latifondista era
maggiormente “libero” del piccolo proprietario, possedendo un maggiore potere economico.

Fra le classi superiori il servizio corrispondente alla protezione non era il servaggio, bensì l'aiuto
militare (che poteva includere anche l'esercizio di una funzione pubblica). Costoro furono chiamati
“vassalli”, mentre i piccoli proprietari divennero i “servi della gleba”. Esisteva una ulteriore
suddivisione tra:

 Vassalli, come già visto, erano coloro che ricevevano direttamente dal re il beneficio cui era
congiunta la dignità di un ufficio (conte, vescovo...). Erano tenuti ad offrire guarnigioni
armate, fortezze in caso di guerra; dovevano partecipare alle assemblee plenarie dei notabili
che deliberavano e rendevano giustizia; offrire consiglio e assistenza al signore nell'attività
di governo e giudiziaria; fornire aiuti economici in circostanze particolari: ad esempio per il
riscatto del signore se fatto prigioniero, per il matrimonio della figlia, per l'investitura a
cavaliere del primogenito, per una crociata, etc;

138
 Valvassori, erano coloro che ricevevano dai vassalli il beneficio, cui non era congiunto
ufficio o dignità particolare;

 Valvassini, ricevevano il beneficio dai valvassori: possedevano cavallo e armatura, ma non


giurisdizione, cioè non potevano disporre di uomini liberi armati, legati a loro da vincoli di
fedeltà, ma potevano armare servi e plebi rurali.

Ciascun feudatario era legato al suo signore dal vincolo di fedeltà, che era personale-privato e
insieme pubblico-politico. Tra obblighi del vassallo figuravano l’aiuto e il consiglio. L’aiuto era il
servizio militare a cavallo, che in alcuni casi poteva essere sostituito dal pagamento di una somma
di denaro. Il consiglio, invece, consisteva nell’obbligo di presentarsi al signore in caso di chiamata,
che solitamente avveniva per giudicare delle cause o per ricevere un parere su un qualsiasi
argomento.
Il signore da parte sua aveva l’obbligo di rispettare la vita del suo vassallo, di difenderlo dai nemici
e di assisterlo in eventuali cause giudiziarie. Il rapporto era vitalizio ma poteva rompersi nel caso
uno dei due contraenti fosse venuto meno ai propri obblighi: tale mancanza era definita fellonia, ed
era considerato il peggior tradimento che si potesse commettere. Solo il vincolo di fedeltà a un
signore più grande (re, imperatore, papa, Dio) poteva infatti giustificare la disobbedienza.
Il beneficio,come abbiamo visto, consisteva nella concessione di un bene (res), solitamente una
terra o un ufficio. Le terre venivano attinte dalle proprietà del sovrano, ma più spesso erano
confiscate alla Chiesa: Carlo Martello e i suoi successori si impadronirono infatti di molti territori
ecclesiastici, ma dovettero cambiare rotta quando si trovarono ad avere bisogno dell’appoggio della
Chiesa franca.

Le terre cominciarono successivamente a essere concesse secondo un tipo di contratto detto


precaria. Esso corrispondeva alla concessione di una terra in usufrutto dietro richiesta formulata in
una lettera di preghiera (epistula precaria), in cui era implicita la corresponsione di un compenso,
spesso sostituito dalla prestazione di un servizio, solitamente militare. La cerimonia si chiamava
“investitura”: con essa il signore cedeva una porzione di terra a titolo gratuito, temporaneo o
vitalizio, in uso non in proprietà e quindi revocabile (perché in rapporto a un servizio). Il
beneficio,come già detto, era una conseguenza del servizio militare e questo veniva prestato a
favore del re in proporzione all'entità del beneficio. Infatti in base ai mansi di cui disponeva (con
un manso si manteneva una famiglia) il vassallo doveva fornire al signore un certo numero uomini
armati. Col tempo agli uomini armati il vassallo sostituì una quota di denaro. Erano soprattutto i
piccoli proprietari, liberi ma deboli, che preferivano cedere le proprie terre ai signori potenti per
riaverle sotto forma di beneficio, accettando protezione, servizi e fedeltà.

Il terzo elemento costitutivo del feudalesimo fu l’immunità. Nel diritto romano l’immunitas era
l’esenzione dal pagamento di alcune tasse personali o patrimoniali, concesso per certi tipi di beni e
solo a certe categorie di persone, ma già nell’ultimo periodo dell’Impero l’esenzione aveva perso il
suo carattere fiscale.

Con l’immunità venivano delegate a determinate persone alcune funzioni amministrative ed

139
esattive. Fu questa forma di immunità a prevalere nel Medioevo: il titolare di un feudo cominciò
infatti a essere titolare anche di funzioni pubbliche e le relazioni feudali assunsero l’aspetto di
un’amministrazione politica. I funzionari regi avevano il divieto di recarsi nei territori dichiarati
“immuni” per riscuotere le imposte o per esercitarvi atti di pubblica giurisdizione.

Per immunità s'intende anche il diritto di regalìa. Gli imperatori, privi di un forte potere, per
assicurarsi l'aiuto e la fedeltà dei grandi feudatari, rinunciarono ai loro diritti o prerogative
(regalìe), trasferendone a privati (conti, duchi, marchesi...) l'esercizio.

Le immunità potevano essere esattive (riscuotere le imposte), militari (arruolare milizie) e


giurisdizionali (amministrare la giustizia). Da un lato quindi si verificò una sottrazione dell'autorità
al sovrano; dall'altro un'imposizione di autorità in basso. Le funzioni amministrative e giudiziarie,
esercitate prima a vantaggio dell'imperatore, vennero cioè esercitate dal feudatario a proprio
vantaggio.

Carlo Magno affidò molti territori (marche e contee) a marchesi e conti, per facilitare con questo
decentramento l’amministrazione stessa del suo immenso Impero. Allo stesso modo assunsero
analoghe funzioni di governo nelle loro terre anche vescovi e abati, estendendo il sistema feudale
anche alla Chiesa.

Sotto i successori di Carlo il decentramento si tramutò in autonomia: i signori si arrogarono libertà


sempre maggiori, oltrepassando i limiti imposti dall’autorità del sovrano e cercando di favorire i
propri interessi o quelli del feudo più che quelli dell’Impero. L’autorità del re andò quindi via via
diminuendo a favore di quella dei signori locali.

L’omaggio e l’investitura – focus

L’atto con cui si instaurava il rapporto di vassallaggio era detto omaggio (dal latino homo, uomo,
poiché chi lo compiva diventava “uomo di un altro uomo”, cioè suo subordinato). La congiunzione
delle mani dei due contraenti simboleggiava la dedizione del vassallo al proprio signore; a questo
atto seguiva il giuramento di fedeltà su libri sacri o reliquie e spesso lo scambio di un bacio.

Durante il IX sec. cominciò a diffondersi la prestazione di più omaggi: ottenendo una pluralità di
benefici da signori diversi, infatti, alcuni vassalli ridimensionarono a proprio favore i rapporti di
vassallaggio.

L’atto con cui veniva concesso il beneficio o feudo era detto investitura ed era conseguente
all’omaggio e al giuramento di fedeltà. Essa consisteva nel consegnare al vassallo un oggetto
simboleggiante il beneficio: uno scettro, una spada, un anello, un pezzetto di terra, uno stendardo,
una croce o un pastorale qualora a essere investito fosse un vescovo. Il beneficiario entrava così in
possesso di un feudo come usufruttuario, mentre la proprietà era conservata da colui che elargiva la
concessione.

140
La cavalleria – focus

Fin dall’Alto Medioevo si formò una casta militare di cavalieri, la cavalleria, fatta di combattenti
che potevano disporre a proprie spese di un cavallo e dell’armatura. Essi avevano il compito di
aiutare il principe, a cui erano legati da vincoli di vassallaggio, nella difesa dei deboli. Nella Francia
del XII sec. fiorì nelle corti dei grandi signori feudali un’etica cavalleresca che esaltava le virtù
della lealtà verso il proprio signore e gli altri cavalieri, oltre a valori quali la prodezza (coraggio e
capacità di maneggiare le armi), la generosità (intesa come disinteresse per la ricchezza) e la
cortesia, cioè la capacità di attenersi a un particolare codice di comportamento verso le dame
dell’aristocrazia (ancor oggi per indicare l’atteggiamento cortese verso le donne si usa il termine
“cavaliere”). Questa stilizzazione dell’ideale cavalleresco si manifestò nella pratica dei tornei
(combattimenti simulati, regolati da norme rigorose) e nella fioritura dell’amor cortese in tutte le
corti europee. Con l’ascesa delle monarchie nazionali l’appartenenza alla cavalleria diventò segno
di un particolare rapporto di benevolenza tra cavaliere e autorità dello Stato, che si traduceva nel
conferimento di una decorazione e del titolo di cavaliere (con un’accezione mantenuta sino a oggi).

Il capitolare di Quierzy: la prima e la seconda età feudale

Il capitolare di Quierzy, emanato da Carlo il Calvo nell’877, sancì l’ereditarietà dei feudi maggiori,
pratica già concretamente in uso da un certo tempo. In Francia prevalse il principio dell'integrità del
feudo attraverso il maggiorasco (primogenito). In Italia e in Germania prevalse invece il principio
della divisione fra tutti i figli maschi del signore. I cadetti (secondogeniti) diventavano cavalieri-
mercenari, affidando alle armi la possibilità di acquistare potenza e ricchezza, oppure entravano nei
monasteri. La Chiesa tentò di nobilitare lo spirito guerriero dei cavalieri indirizzandolo verso
finalità etico-religiose: difesa dei deboli e poveri (orfani e vedove), della giustizia, dell'onore, dei
diritti religiosi. Nacquero così l'Ordine degli Ospedalieri, dei Cavalieri di Malta, dei Templari, dei
Cavalieri Teutonici, che furono però impiegati soprattutto per cattolicizzare i popoli islamici,
ortodossi e pagani (arabi, bizantini e slavi) anche attraverso le crociate.

Il poter succedere al padre consentiva ai figli di non perdere i beni immobili, mentre per i sovrani
significava avere sempre uomini al proprio servizio. Col passare del tempo diventarono ereditarie
anche le funzioni amministrative a cui era legata la concessione delle terre. Inoltre, come già visto,
i vassalli potevano crearsi dei subordinati nel proprio feudo (detti valvassori, che a loro volta
nominavano i valvassini) e questo determinò la creazione di una vera e propria gerarchia feudale.

Con la deposizione di Carlo il Grosso (887) da parte di un’assemblea di feudatari, cominciò in


Europa uno stato di anarchia e di guerriglia quotidiana: feudatari che lottavano per il potere, vassalli
armati che si ribellavano, ruberie di cavalieri e briganti. La Chiesa fu costretta a intervenire
stabilendo la “tregua di Dio”, cioè la sospensione di ogni azione di guerra in determinati periodi. Le
invasioni di Normanni, Ungari e Saraceni spinsero gran parte della popolazione a cercare rifugio
presso i castelli dei signori che divennero così il cuore della vita civile ed economica del feudo.

Nei secc. X e XI, cronologicamente definiti dal medievista Marc Bloch “prima età feudale”,

141
l’ereditarietà delle funzioni pubbliche aveva ormai di fatto neutralizzato il potere del re sui territori
da lui formalmente dominati ma concessi in feudo. Anche gli imperatori delle case di Sassonia e di
Franconia, quando concedevano a laici ed ecclesiastici privilegi o immunità, si limitavano a
ratificare situazioni di fatto, indipendenti dalla loro volontà.

Nel 1037 la Constitutio de feudis dell’imperatore Corrado II il Salico sancì l’ereditarietà anche dei
feudi minori, per tentare di indebolire la potenza dei vassalli maggiori, ormai totalmente sfuggiti a
ogni controllo.

Dai secoli XI-XII in poi ai vassalli (sempre meno fedeli, sempre meno pronti a combattere per il
signore, sempre più rassicurati dall’ereditarietà dei loro feudi) cominciarono ad affiancarsi i
cavalieri. Ma l’investitura cavalleresca (l’adoubement o addobbamento) non era un rapporto fra
pari: era la promozione operata da un membro della nobiltà a vantaggio di un uomo di sua fiducia
che, attraverso l’assegnazione di cavallo e armatura, saliva a un rango superiore. Anche il rito era
diverso, e il futuro cavaliere era genuflesso davanti al signore.

Alla prima età feudale seguì, dal XII sec., il periodo del feudalesimo classico (o seconda età
feudale), in cui vassallaggio e feudo furono organizzati in un ordinamento compiutamente
formalizzato e basato su raccolte sistematiche di consuetudini e leggi feudali. L’assoluta garanzia
nel possesso del feudo indusse molti signori ad entrare nella feudalità, ed i giuristi assunsero il ruolo
di codificare il diritto feudale. Ciò assicurò ai vassalli la certezza dei loro diritti e la possibilità di
dare un fondamento giuridico ai loro poteri signorili, collegandosi con il sovrano o un signore
potente, mentre ai sovrani e ai signori territoriali il riconoscimento della loro autorità in territori nei
quali non erano in grado di imporsi con altri strumenti, e ciò come premessa per un futuro
consolidamento del loro potere.

I rapporti vassallatico-beneficiari persero il carattere personale e militare delle origini,


acquistandone uno sempre più decisamente politico (feudum sine servitio, feudum sine fidelitate) e
configurandosi come un efficace strumento dei processi di ricomposizione politico-territoriale in
atto in tutto l’Occidente nel sec. XII, ma in alcuni ambiti già avviati nella seconda metà dell’XI.
Tale fenomeno interessò in modo particolare i regni normanni d’Inghilterra e del sud Italia, i
principati franco-latini d’Oriente, il Regno di Francia dei Capetingi e i principati tedeschi. Al potere
del sovrano continuava ad affiancarsi il potere dei singoli feudatari, ma questa tendenza cominciò a
essere temperata dalla sempre maggiore capacità delle nascenti monarchie nazionali di impedire il
formarsi di nuovi nuclei autonomi di potere e di imporsi ai potentati feudali già esistenti.

Nella seconda metà del XII sec. anche la Chiesa, con la riforma di Gregorio VII, cercò di imporre il
controllo del Papato su diocesi e abbazie sottraendole alla pratica diffusa di considerarle benefici
feudali.

Il ruolo della Chiesa nell’ordinamento feudale

142
Gli imperatori concessero beni e privilegi anche agli uomini di Chiesa, ai conventi e alle abbazie.
L'attribuzione di funzioni politico-amministrative ai vescovi da parte dei sovrani fu determinata
soprattutto dall'esigenza di questi ultimi di limitare l'autorità dei grandi funzionari laici. In origine,
al vescovo spettava il controllo della città, mentre al conte quello della campagna (contado). In
seguito intere contee vennero affidate ai vescovi dagli imperatori.

In particolare, furono nominati molti vescovi-conti, cui veniva affidato un territorio con tutte le
prerogative che spettavano ad un feudatario. Il vantaggio per gli imperatori era evidente: gli
ecclesiastici non potevano avere eredi, quindi alla loro morte l’imperatore era certo di rientrare in
possesso del feudo.
Nel corso del Medioevo la Chiesa acquistò un enorme patrimonio terriero, e a parte i territori
italiani controllati direttamente dal papa, le abbazie e i conventi sparsi in tutta Europa ricevettero di
frequente lasciti testamentari e donazioni. Inoltre, molti piccoli proprietari, oppressi dai feudatari,
preferivano consegnare la loro terra alla Chiesa, mantenendone l’usufrutto e ottenendo in cambio
protezione. In conseguenza di tutto ciò gli ecclesiastici furono sempre più coinvolti in interessi
mondani e politici e cedettero sempre più spesso alla corruzione. La missione spirituale passò in
secondo piano rispetto alla brama di accumulare ricchezze e potenza e si diffuse ampiamente la
simonia (cioè la compravendita di dignità e di poteri ecclesiastici).

L’economia e la società feudale

La società feudale era divisa in nobiltà, piccoli proprietari, artigiani, commercianti e lavoratori della
terra. Della nobiltà facevano parte tutti coloro che potevano diventare vassalli del re e quindi grandi,
medi e piccoli feudatari (nobiltà fondiaria), nonché abati e vescovi (nobiltà ecclesiastica). Vi
erano poi coloro che vivevano nelle città e che, essendo per questo meno sottoposti al controllo del
feudatario che risiedeva nel suo castello in campagna, potevano avviare alcune attività economiche
e/o diventare artigiani. C'era, infine, la massa dei contadini che viveva in semi-schiavitù, obbligata
com'era a lavorare gratuitamente, a pagare tasse per usufruire di strade, mulini etc. e a subire il
controllo e le decisioni del feudatario in ogni ambito della vita. Migliori erano le condizioni
dei liberi coloni, che ricevevano dal signore terre in affitto da coltivare in autonomia, pur
riservando a lui una parte della produzione.

L’esistenza della grande proprietà fondiaria fu il presupposto del sistema feudale e la base
dell’economia. A causa della difficoltà di procurarsi prodotti all'esterno, nelle grandi proprietà
terriere si tendeva a produrre tutto ciò che serviva per la sopravvivenza dei signori e dei contadini:
in primo luogo cereali, base dell'alimentazione, frutta, vino. Questo tipo di economia è
definita curtense, da curtis, un possedimento fondiario di dimensioni più o meno ampie, che
costituiva l’unità minima delle grandi proprietà terriere, tipiche soprattutto della Gallia, delle valli
della Loira e del Reno, dell'Inghilterra e del Nord Italia.

La curtis, che poteva appartenere a un signore laico o ecclesiastico, era divisa in due parti distinte:
la pars dominica (dal latino dominus, "padrone, signore") o parte padronale o riserva, e la pars
massaricia (dal latino medievale massa o mansus, "podere affidato a famiglia contadina")

143
o colonica. La pars dominica, gestita direttamente dal proprietario e dai suoi amministratori, aveva
al centro la residenza del signore o l’abbazia. Le terre della pars dominica, coltivate da servi che
dipendevano direttamente dal signore, erano in genere le terre migliori e gran parte di esse era
costituita da bosco, sfruttato per il pascolo e la caccia. La seconda zona della curtis, la pars
massaricia, era costituita dagli appezzamenti di terreno concessi a coltivatori, liberi o servi, da cui il
proprietario pretendeva il pagamento di canoni in denaro, o più spesso in natura. I detentori
dei mansi avevano l'obbligo di prestare un certo numero di giornate di lavoro gratuite, dette corvées,
nella pars dominica. I contadini dovevano anche collaborare alla costruzione e manutenzione di
ponti, strade, edifici, mentre le donne filavano e tessevano al servizio del signore.
La realtà economica del periodo era chiusa e autarchica (autosufficiente), perché il feudo produceva
tutto ciò che consumava (autoconsumo). Era inoltre naturale, perché gli scambi non erano legati alla
moneta ma riguardavano il valore d'uso delle cose (cioè quanto più qualcosa era usuale e necessario
alla vita, tanto più era reperibile facilmente ovunque). Non si produceva per il mercato, dove si
vendeva soltanto il superfluo e si acquistavano unicamente i beni essenziali che in loco non si
producevano a sufficienza (ad es. sale, tessuti particolari,etc. In particolare Bisanzio produceva
articoli di lusso ricercati da sovrani, corti e feudatari.). I commerci erano quindi scarsissimi, perché
il valore fondamentale era costituito dalla terra, e la forma di scambio più usata era il baratto. Nel
IX e X sec. si tennero tuttavia numerose fiere e mercati, luoghi di scambio dei prodotti di curtis
diverse, favoriti anche dal fatto che alcuni signori possedessero più curtis.

La campagna dominava sulla città, anche se esistevano alcuni agglomerati urbani abbastanza
sviluppati che non comprendevano solo abitazioni, officine e orti, ma anche buona parte di campi.
Tra i più importanti si possono menzionare Milano, Tours, Arles, Metz, Parigi, Aquisgrana.

Le tecniche agricole

Lo strumento basilare per la lavorazione dei campi era l’aratro. Per i territori argillosi e pesanti del
Nord Europa fu utilizzato un tipo d’aratro munito di versoio, un dispositivo che permetteva di
voltare la terra, facilitando così l’aratura. Sempre per facilitare il lavoro, i campi assunsero una
forma allungata, in modo tale da poter diminuire il numero di percorsi fatti per arare e le
conseguenti girate. I rendimenti dei terreni erano ottimizzati grazie alle rotazioni biennale e
triennale. Nella prima il terreno veniva suddiviso in due parti: la prima veniva coltivata a cereali,
mentre la seconda, se pure arata, veniva lasciata a maggese, affinché il terreno si rifertilizzasse;
l’anno seguente le parti venivano invertite. Nella seconda il terreno era diviso in tre parti, una
coltivata a cereali invernali (segale e frumento), una a cereali primaverili (avena e orzo), la terza
arata soltanto. Questa seconda soluzione permetteva un migliore sfruttamento del terreno, oltre alla
disponibilità di notevoli quantitativi d’avena utili per alimentare i cavalli, più veloci dei buoi nel
lavoro di traino dell’aratro. A questo periodo risalgono anche la ferratura degli zoccoli del cavallo e
l’utilizzazione su vasta scala dei mulini ad acqua.

La dottrina dei tre ordini sociali

Tra la fine del X e l’inizio dell’XI sec. fu sviluppata la dottrina dei tre ordini in cui la società

144
feudale era suddivisa. Tale dottrina riprendeva gli insegnamenti dei Padri della Chiesa, che a loro
volta si rifacevano a quanto insegnava Platone nella Repubblica circa l’analogia fra l’ordinamento
sociale e la ripartizione dell’anima nelle sue parti: egemonica (che contempla e governa), irascibile
(volitiva e guerriera) e concupiscibile (che segue le inclinazioni del corpo e che pertanto deve essere
sottomessa alle due superiori).

Al primo ordine, o alla parte nobile dell’anima, corrispondeva nel Medioevo la casta degli oratores,
monaci e sacerdoti dediti alla contemplazione e alla preghiera e a ritrasmettere gli insegnamenti
della Chiesa. Vescovi, abati ed ecclesiastici in genere avevano dunque diritto a vivere della rendita
delle loro proprietà.
Il secondo ordine era quello dei signori laici, detti bellatores poiché tra i loro compiti vi era la
guerra. La loro occupazione era il mantenimento dell’ordine e della giustizia, interni ed esterni e
appunto la guerra, dalla quale ricavavano ingenti bottini che si aggiungevano alle rendite dei loro
latifondi; si dedicavano inoltre alla caccia, ai tornei, e in generale a tutto ciò che era conforme
all’ideale cavalleresco della nobiltà.

Il terzo ordine era quello dei laboratores, che lavoravano mantenendo sé stessi e coloro a cui
prestavano servizio, potendo partecipare solo in questo modo indiretto alla società: si riteneva in
fatti che le loro possibilità intellettuali non permettessero una conoscenza superiore.

Questa dottrina sociale si diffuse soprattutto a opera di alcuni vescovi francesi per arginare la
confusione sociale dell’XI sec. , richiamando gli appartenenti ai vari ordini sociali al principio
dell’istituzione divina di una ripartizione sociale al di là dell’imperfezione delle nature umane che
nella confusione dei tempi non sempre corrispondevano perfettamente alle funzioni che rivestivano.
La cultura era prevalentemente religiosa, anche se si continuava a studiare il diritto romano, e
ristretta a poche persone. La lingua ufficiale scritta era il latino, anche se verso il Mille iniziarono a
fare la loro comparsa i volgari scritti. Nelle corti signorili e curie ecclesiastiche si insegnavano le 7
arti liberali: trivio (grammatica, dialettica e retorica) e quadrivio (aritmetica, geometria, musica,
astronomia). Gli intellettuali dominanti fino al Mille furono i chierici: I monasteri svolsero
un'importante opera di mediazione fra civiltà antica e medievale raccogliendo e trascrivendo i
codici dei testi antichi. Ad essi, dopo il Mille, si affiancarono gli intellettuali laici ed infine gli
umanisti.

Bibliografia

Coll. Tutto Storia: schemi riassuntivi, quadri di approfondimento, 2011, De Agostini

Materiale didattico dell’ Università degli Studi di Napoli “Federico II”

Sitografia

145
http://www.luzappy.eu/medioevo/feudalesimo.htm (ultimo accesso 16/10/2020)

https://dizionaripiu.zanichelli.it/storiadigitale/p/percorso/472/2482/dallincastellamento-alle-
signorie-feudalesimo (ultimo accesso 16/10/2020)

http://www.casuzze.it/files/IL%20FEUDALESIMO.pdf (ultimo accesso 16/10/2020)

https://www.homolaicus.com/storia/medioevo/sistema_feudale.htm (ultimo accesso 16/10/2020)

146
15. L'Europa tra il XII e il XIV secolo

Umanesimo e Rinascimento

Con i termini Umanesimo e Rinascimento indichiamo quei periodi artistico-letterari, in un certo


senso sovrapponibili, ascrivibili ai secoli XV e XVI.

La cultura che caratterizza questi secoli è stata definita:


– Umanesimo, perché si richiamava alla letteratura classica (le humanae litterae), in
contrapposizione alla Scolastica che aveva al centro del suo interesse i testi sacri (le divinae
litterae);
– Rinascimento, perché gli intellettuali di questa epoca erano convinti di essere protagonisti di
una rinascita della cultura dopo la crisi medievale.

In quest’epoca, in Italia come negli altri paesi dell’Europa occidentale, si assiste ad una sostanziale
rivalutazione dell’essere umano che, in totale contrasto con il pensiero medievale, viene considerato
il cardine dell’Universo.

L’uomo prende il posto di Dio, dunque, capace di costruire da sé il proprio destino, di dominare la
natura e di rendersi protagonista della storia senza dover ricorrere alla mediazione divina.

L’aspetto più importante della nascente cultura fu la nuova concezione che si ebbe dell’uomo e la
valutazione che si fece della sua personalità e delle sue attività. Valori quali l’intelligenza, la
bellezza, la fama, la ricchezza furono tutti riscoperti in una prospettiva individualistica. Tutto questo
alla luce di una speciale rilettura naturalistica del mondo antico.

Il termine Umanesimo ha origine dall’espressione latina humanae litterae con la quale si indica la
letteratura che ha per oggetto l’uomo e la sua formazione spirituale e morale.

La realizzazione dell’uomo poteva avvenire anche durante la sua vita terrestre, senza per questo
svalutare quella ultraterrena.

I classici latini nel Medioevo erano stati sì studiati, ma sempre con l’intento di adattarli alla
concezione religiosa della vita e di cogliere in essi i segni premonitori della civiltà cristiana. In
questo periodo rinascimentale invece la rilettura dei classici ebbe un nuovo scopo: si cercò
innanzitutto di restituire i testi antichi alla loro forma originaria, sia dal punto di vista contenutistico
che stilistico e si cercò di riscoprirne i valori morali e intellettuali per poterli confrontare con quelli
attuali.

I tempi moderni furono così intesi come un ritorno al passato, come una “rinascita” e nacque
parallelamente il concetto di “media età” (il Medioevo) per indicare il periodo di tempo compreso
tra l’età antica e quella contemporanea.

147
Il recupero degli antichi fu un recupero critico, in cui ci si preoccupò anche di problemi stilistici e
grammaticali e si sentì la necessità di imitare l’esempio degli antichi.

Nacque il concetto rinascimentale di imitazione, cioè la conoscenza della humanitas che è in ogni
uomo attraverso lo studio e l’emulazione, seguendone l’esempio e il procedimento, delle opere dei
classici.

Non ci si limitò comunque a leggere i testi antichi già a disposizione, ma se ne andarono a cercare
di nuovi, e alle opere latine si affiancarono quelle greche portate in Occidente dai dotti bizantini
fuggiti da Costantinopoli per l’avanzata dei Turchi (fra questi si ricordano Giorgio Gemisto Pletone,
Costantino Lascaris e Giovanni Aurispa).

La nascita della stampa contribuì al diffondersi della cultura

La diffusione della cultura fu favorita dall’invenzione della stampa a caratteri mobili, attribuita
all’orefice tedesco Johannes Gutenberg (1400-1468), e dal contemporaneo affermarsi dell’uso della
carta, che divenne nel XV secolo uno dei più diffusi materiali per la scrittura, sostituendosi
rapidamente alla pergamena.

Nel Medioevo la trascrizione a mano richiedeva tempi lunghissimi. Un libro scritto e miniato su
costose pergamene, era un oggetto di lusso che solo poche persone potevano permettersi (principi,
alti ecclesiastici, ricchi mercanti). Così gli esemplari in circolazione erano pochi.

La nuova stampa a caratteri mobili permise, invece, di produrre un alto numero di copie identiche di
uno stesso libro in tempi rapidi e a prezzi più economici.

Grazie ai caratteri mobili, prima in legno e poi in metallo ogni singola lettera veniva prodotta in
serie, ogni carattere isolato e mobile diveniva intercambiabile, permettendo così di comporre e
ricomporre qualunque combinazione o modello.

Grazie alla stampa si diffusero rapidamente molti testi letterari e la cultura penetrò in strati sociali
che fino ad allora ne erano stati esclusi. Proprio questa conseguenza, però, che comportava il
vantaggio dell’istruzione diffusa, fece sì che alcuni spiriti profondi non condividessero il generale
entusiasmo per la divulgazione della nuova tecnica.

Nel 1456 in Germania, a Magonza, apparve nella stamperia di Johann Gutenberg la prima versione
a stampa della Bibbia latina.

Da allora le stamperie si diffusero in ogni parte d’Europa e in Italia Venezia raggiunse il primato
per numero di stampatori e pregio delle edizioni, tra cui si distinsero quelle cosiddette aldine, dal
nome dello stampatore Aldo Manuzio.

148
I centri di cultura

Nel Medioevo, pittura, scultura e architettura erano considerate arti meccaniche (manuali e
pratiche), che si imparavano in una bottega sotto la guida di un maestro. Ma a partire dal
Quattrocento si comprese che la produzione artistica richiedeva capacità creativa e scienza e non
soltanto pratica di bottega, proprio come le arti liberali che venivano insegnate nelle università.
Il centro propulsore di questi nuovi studi, indagini e scoperte furono le corti signorili dove i principi
gareggiarono nell’attrarre artisti, letterati e filosofi. D’altra parte, la presenza a corte di un artista
famoso dava prestigio al signore: pitture e sculture testimoniavano la sua generosità ed erano uno
strumento di propaganda che rafforzava il suo potere.

Gli intellettuali da parte loro anelavano a divenire consiglieri dei principi e a collaborare alla vita
delle corti. Difficile dire quando ciò avvenne, anche se a poco a poco artisti e letterati cessarono di
partecipare alla vita politica; la loro produzione assunse talvolta carattere encomiastico, di
idealizzazione della figura del principe, paragonato ai grandi uomini dell’antichità (Cesare e
Augusto divennero i modelli ideali).

Le corti signorili offrirono agli intellettuali biblioteche ricche di manoscritti e di libri stampati.
A Firenze nel 1437 fu fondata da Cosimo de’ Medici la biblioteca Medicea, a Venezia la Marciana
(1460), a Roma la Vaticana (1484).

Con i frequenti spostamenti di sede degli umanisti e gli scambi culturali che avvenivano tra le
diverse città, si formò un latino diverso da quello medievale, ispirato ai modelli classici, che
divenne un importante elemento di unificazione in un momento in cui non esisteva ancora nella
penisola, oltre che unità politica, anche unità linguistica.

Nelle classi più colte cominciò a svilupparsi l’idea di una comune civiltà fondata sulla cultura
classica e sulla lingua dell’antica Roma.

I principali centri di cultura furono Firenze, Milano, Roma e Napoli, ma sono da ricordare anche
centri minori quali Urbino, Ferrara, Mantova, Rimini, dove i Montefeltro, gli Estensi, i Gonzaga e i
Malatesta non furono inferiori agli altri signori (soprattutto ai Medici e ai Visconti) nell’attirare a sé
gli intellettuali del tempo.

A Firenze, oltre agli umanisti già citati, vanno ricordati filosofi come Marsilio Ficino (che
nell’opera Theologia Platonica indicava l’identità essenziale fra la dottrina cristiana e
l’insegnamento platonico), Giannozzo Manetti e Pico della Mirandola. I principali studiosi di Roma
furono Lorenzo Valla e Giulio Pomponio Leto, fondatore dell’Accademia romana. A Napoli si
distinsero, sotto la protezione dei re aragonesi, Antonio Beccadelli che fondò l’Accademia
pontaniana e Giovanni Pontano che scrisse poesie e dialoghi in latino. A Ferrara insegnò il veronese
Guarino Guarini, a Milano operò il grande pedagogista Vittorino da Feltre.

La letteratura del Rinascimento

149
La produzione poetica, dopo la morte del Petrarca, fu ripresa alla fine del Quattrocento con la
pubblicazione delle opere di Poliziano e di Lorenzo il Magnifico.

Molte opere quattrocentesche furono scritte in latino; le migliori furono i trattati scritti in forma di
dialogo, le epistole e le opere storiche.

Nella seconda metà del Quattrocento tornarono a prevalere gli scritti in italiano volgare, tanto che
gli studiosi di letteratura chiamano questo periodo “umanesimo volgare”.

A Ferrara tornò a fiorire il poema cavalleresco con l’Orlando innamorato del Boiardo, a Napoli il
Sannazaro con l’Arcadia lanciò un nuovo modello di poesia bucolica, a Firenze ricomparve la satira
nell’opera del Pulci, il Morgante.

Opere importantissime furono prodotte all’inizio del Cinquecento: l’Orlando Furioso dell’Ariosto,
il Principe e I discorsi sopra la prima deca di Tito Livio di Machiavelli, gli Asolani del Bembo, il
Cortegiano del Castiglione.

Fu il periodo della disputa su quale fosse la miglior lingua da usare da parte di tutti gli scrittori:
prevalse la teoria di Pietro Bembo secondo cui la migliore tradizione espressiva era quella offerta
dal fiorentino.

L’artista-scienziato del Rinascimento

La cultura rinascimentale si espresse anche in campo pittorico, scultoreo e architettonico.


La nuova importanza conferita all’uomo trovò espressione nel superamento degli schemi astratti
dell’arte bizantina; non più schemi rigidi e amorfi e tratti costanti nella raffigurazione umana (ad
esempio la barba era costantemente presente nelle raffigurazioni degli imperatori) ma figure di
singoli individui, ognuno con propri atteggiamenti, espressioni e stati d’animo. Chiari esempi sono
l a Gioconda di Leonardo, le Veneri del Botticelli, le nudità audaci del Giudizio Universale di
Michelangelo, la plasticità delle figure inserite in prospettiva del Masaccio.

Tutti quanti i pittori, tra cui si ricordano anche Donatello e Piero della Francesca, espressero nelle
loro figure il nuovo senso di energia morale e dignità umana di cui tanto avevano parlato gli
umanisti. In campo scultoreo il cambiamento iniziò con Niccolò, Giovanni e Arnolfo Pisano che
riprodussero fedelmente nelle loro opere i tratti della figura umana fino a esprimerne sentimenti ed
emozioni.

In campo architettonico, le nuove costruzioni di Bramante e Brunelleschi abbandonarono sia la


staticità del romanico sia il dinamismo del gotico, ricomponendo il tutto in uno spazio misurato e
armonico.

All’artista in questo periodo si chiedeva di essere esperto in molti campi del sapere. Doveva unire

150
creatività e scienza, essere insieme artista e scienziato.

Il fiorentino Filippo Brunelleschi, fu orefice, scultore e architetto sommo, ideatore della grande
cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze. Si devono a lui i primi calcoli geometrici sulla
prospettiva, che è forse la più grande scoperta del tempo.
Pittore, scultore, architetto e poeta fu Michelangelo Buonarroti che portò a piena maturazione gli
ideali artistici del Rinascimento. Sono opera sua sculture famose come la Pietà, il Mosè, il David e
l’immenso ciclo di affreschi che adorna la Cappella Sistina.

Un nuovo interesse per la scienza

In questo periodo nacque un nuovo interesse per la natura, intesa come una realtà che gli uomini
potevano studiare, conoscere e anche dominare. Venne ripresa la tradizione degli erbari medievali.
Dagli inizi del Cinquecento la Chiesa autorizzò la dissezione dei cadaveri, in precedenza proibita e
praticata di nascosto da artisti e scienziati. L’osservazione diretta degli organi interni permise al
medico fiammingo Andrea Vesalio di pubblicare, nel 1453, il primo trattato moderno di anatomia
umana, dimostrando come molte convinzioni mediche dell’Antichità e del Medioevo fossero prive
di fondamento.

Fu soprattutto in campo astronomico che iniziò una vera rivoluzione. Gli studiosi antichi e
medievali credevano che fosse il Sole a ruotare intorno alla Terra, immaginata come il centro di
tutto l’universo. Questa teoria era stata sostenuta dall’astronomo egiziano Tolomeo e perciò era
detta tolemaica oppure geocentrica. Anche la Bibbia sembrava confermare le idee di Tolomeo: vi si
raccontava infatti che il condottiero ebreo Giosuè, durante una battaglia, aveva ordinato al Sole di
fermarsi. Ma nel Cinquecento lo scienziato polacco Niccolò Copernico presentò una nuova teoria,
poi rivelatasi esatta, secondo la quale è invece la terra a girare intorno al sole.

La teoria di Copernico, detta copernicana o eliocentrica, poteva mettere in discussione l’autorità


delle Sacre Scritture, perciò venne combattuta e solo con difficoltà riuscì ad affermarsi fra gli
studiosi.

Nel 1582, saltando dieci giorni, venne corretto il calendario giuliano (risalente a Giulio Cesare) e
venne introdotto il calendario gregoriano.

Da non dimenticare è infine l’impulso dato dalla cultura del tempo ai viaggi e alle scoperte
geografiche. La sete di avventura e di nuove scoperte, senza dimenticare anche l’aspetto economico
alla base di certe missioni, spinse uomini quali Bartolomeo Diaz, Vasco da Gama, Cristoforo
Colombo e Amerigo Vespucci a compiere i loro viaggi per mare.

Il tramonto del Rinascimento

Con la decadenza politica ed economica in Italia il Rinascimento entrò nella sua fase discendente,
poiché si spensero quelle forze creative che gli avevano dato vigore.

151
Le sventurate vicende politiche della penisola fecero vacillare la fede nelle capacità dell'individuo,
facendo riaffiorare la superstizione e la speranza nel miracoloso, il senso della precarietà, le
assillanti domande sul lecito e l'illecito.
Nel frattempo il pensiero politico rifuggiva dalla chiarezza lineare di Machiavelli. Sullo scorcio del
XVI secolo prevaleva ormai lo stato d'animo della Controriforma e il Tasso esprimeva il tormento
dell'uomo nuovamente attanagliato dall'angoscia del peccato.

Bibliografia

L’ora di Storia 2, L’età Moderna, Zanichelli, 2018

Storia, DeAgostini, 2011

Storia Moderna, Renata Ago, Vittorio Vidotto, Laterza, 2004

152
17. La Chiesa Scismatica

Il contesto storico e culturale

Tra il XIV e il XV secolo l’universalismo religioso che aveva caratterizzato i primi secoli del
Medioevo inizia gioco forza a vacillare sotto l’emergere di una religiosità sempre meno ingenua e
sempre più osteggiata dai poteri temporali. L’ascesa di Federico I Barbarossa in Italia,
l’affermazione dei diversi Stati territoriali, la cattività avignonese sono tutti segnali di debolezza del
potere spirituale di fronte a quello politico. Se tra il 1198 al 1216 Innocenzo III diveniva portavoce
della dottrina teocratica – che affermava la superiorità del potere spirituale su quello temporali in
virtù della sua origine divina- pochi secoli più tardi il sentire comune era che il potere regio fosse
superiorem non recogoscens, cioè non disposto a riconoscere nessun potere al di sopra del proprio.
In effetti le nascenti monarchie assolute tendono a sottomettere il clero locale, costringendolo a
rispettare le leggi civili e spesso anche a contribuire alle finanze dello Stato. Nel frattempo, la
cattività avignonese aveva sottolineato le debolezze della Chiesa e aveva mostrato quanto questa si
fosse allontanata dal messaggio evangelico per perseguire ricchezza e potere secolare. I movimenti
pauperistici chiedono a gran voce un ritorno della Chiesa entro i binari della spiritualità e la nascita
degli ordini mendicanti frena solo temporaneamente il declino di un’Istituzione che intanto si
apprestava ad avere un ruolo chiave nella Reconquista dei territori spagnoli.

Come sappiamo nel 1309 la sede papale si trasferì da Roma ad Avignone in seguito al conflitto tra
Filippo il Bello e Bonifacio VIII. Questo cambiò non soltanto gli equilibri del potere in territorio
italiano ma rappresentò la base di un profondo cambiamento all’interno della Chiesa: tutti i papi del
periodo avignonese furono originari della Francia meridionale e la stessa cosa accadde con i
cardinali ed anche il personale della curia era quasi interamente francese. Lontana dalle questioni
politiche romani, la curia francese poté organizzarsi in un apparato burocratico-amministrativo tanto
efficiente da consentire ai pontefici l’accentramento e la direzione dell’intera vita ecclesiastica,
riducendo sempre di più lo spazio delle istituzioni locali. Ufficio particolarmente importante era
quello della Camera apostolica che si occupava della gestione delle finanze e che consentiva ai
prelati avignonesi di disporre di somme -provenienti dalla riscossione delle imposte - spesso
elevatissime. La cattività avignonese del papato aveva lasciato un forte vuoto sia ideologico che
politico nella città di Roma e ad approfittarne è ben presto Cola di Rienzo che nel 1347 si
impadronisce del potere assumendo il titolo di tribuno della Repubblica romana, per grazia del
Nostro Signore Gesù Cristo. Il programma di Cola è quello di far ritornare l’Italia ai fasti del
mondo classico ripartendo proprio dagli ideali cristiani. Inizialmente l’ascesa di Cola è sostenuta da
intellettuali del calibro di Petrarca, ma ben presto sia l’aristocrazia europea che il Pontefice
Clemente VI iniziano ad interpretarlo come una minaccia e fanno di tutto per ostacolarlo,
costringendolo all’esilio. Quando viene eletto a nuovo Papa Innocenzo VI Cola di Rienzo ottiene la
nomina di senatore di Roma ma finirà per restare vittima dei moti insurrezionali causati in città
dall’emanazione di una nuova imposta sui generi alimentari e il conseguente rialzo del prezzo del
pane.

153
Il grande scisma d’Occidente

Già verso la metà del Trecento si erano succeduti gli appelli ai papi da parte di prestigiose figure del
mondo cristiano affinché facessero ritorno a Roma, ma la tranquillità e la ricchezza che la piccola
città provenzale sembrava garantire incitavano i pontefici a temporeggiare. Finalmente nel 1377,
durante il pontificato di Gregorio XI, la sede pontificia è riportata a Roma, ma questo non è di per
sé sufficiente a ristabilire gli equilibri di potere tra le mire assolutistiche del potere temporale e la
necessità, anche politica, di ristabilire l’autorità spirituale del Pontefice. Del resto, diventa presto
ben chiaro che nessuno dei due poteri potrà più ambire ad una legittimazione universalistica in un
periodo in cui l’ascesa degli Stati Nazionali tende a conferire una connotazione territoriale a tutti gli
aspetti della vita politica, religiosa e sociale. Ed è esattamente in questo scenario che si colloca il
cosiddetto Grande Scisma d’Occidente. La morte di Gregorio XI, avvenuta appena un anno dopo il
rientro a Roma, pose subito il collegio cardinalizio, in maggioranza francese, davanti al problema di
dargli un successore. I Romani, temendo che venisse ancora scelto un papa francese pronto a
tornare ad Avignone, inscenarono delle manifestazioni al grido di “Romano lo volemo o almanco
italiano” e a questo punto il vescovo di Bari, Bartolomeo Prignano, è eletto in conclave a Roma per
volere del popolo romano con il nome di Urbano VI; Già valente e rispettato amministratore della
Cancelleria Apostolica ad Avignone, Urbano, da papa, si dimostrò severo ed esigente tanto che
alcuni cardinali, in particolare quelli francesi, che si erano riuniti per congiurare contro il papa
(qualcuno di essi propose anche la cattura e sostituzione del nuovo pontefice), abbandonarono il
vertice e si riunirono in una città situata oltre il confine dello Stato, Fondi, sotto la protezione del
conte Onorato di Catelani. Il 20 settembre di quello stesso anno, dopo appena cinque mesi, i
cardinali "scismatici" elessero papa il cardinale Roberto di Ginevra, che prese il nome di Clemente
VII. I due papi considerarono entrambi legittima la propria elezione e diedero vita a due collegi di
cardinali e a due curie, una a Roma e l’altra ad Avignone. La legittimazione dell’uno o dell’altro
pontefice a questo punto spetta ai vari sovrani europei che scelgono di appoggiare l’una o l’altra
decisione in virtù di possibili benefici politici e contribuiscono a rendere difficilmente sanabile la
questione religiosa che inizia ad assumere connotati marcatamente politici. L’imperatore di
Germania, il re di Inghilterra e i vari signori italiani decidono di assicurare la propria fedeltà al
Pontefice romano, mentre il re di Francia, gli Angioini del Regno di Napoli e gli Aragonesi di
Sicilia e di Spagna appoggiano il Papa avignonese. In altri tempi forse il conflitto si sarebbe
ricomposto presto, probabilmente alla morte di uno dei due contendenti; ma ora la situazione era
complicata da considerazioni di carattere politico, dato che le varie corti d’Europa cercarono di
trarre vantaggio dalla necessità in cui si trovavano i due pontefici di guadagnare appoggi alla
propria causa.

Le successioni scismatiche e i Concili di Pisa e di Costanza

Vari tentativi di riconciliazione sono destinati a fallire anche perché le curie papali di Roma e di
Avignone continuarono ad agire con pretesa di legittimità anche oltre i pontificati dei due primi
contendenti, eleggendone i successori e perpetuando così lo scisma. Nel 1389, alla morte di Urbano
VI, i cardinali romani elevarono al soglio pontificio Pietro Tomacelli, con il nome di Bonifacio IX,

154
mentre ad Avignone, scomparso Clemente, fu eletto nel 1394 Pedro Martínez de Luna, papa
Benedetto XIII. Uno spiraglio sembrò aprirsi nel 1404, quando alla morte di Bonifacio IX i
cardinali si dissero disposti ad astenersi dall'eleggere un successore qualora Benedetto avesse
accettato di dimettersi. Di fronte al rifiuto del papa avignonese, i cardinali romani procedettero
all'elezione e la scelta cadde su Cosimo de' Migliorati, papa col nome di Innocenzo VII. Due anni
dopo, nel 1406, gli successe il cardinale Angelo Correr (Gregorio XII). La faccenda appare senza
soluzione e addirittura, nel 1409, si arriva alla paradossale situazione della presenza di tre diversi
Pontefici: nell’ambito del Concilio di Pisa - convocato appunto nel 1409 - che avrebbe dovuto
dirimere la questione, vennero infatti dichiarati eretici e scismatici sia Papa Benedetto XIII che
Papa Gregorio XII e venne eletto a nuovo Pontefice Alessandro V. La soluzione, però, non venne
accettata dal resto del mondo ecclesiastico che si affrettò a dichiarare illegittimo il Concilio di Pisa
e tutti e tre i pontefici rifiutarono di deporre la carica.

La questione pare dipanarsi quando, nel 1414 l’Imperatore Sigismondo di Lussemburgo indice un
nuovo Concilio a Costanza. I tre anni di Concilio permetteranno di pervenire alle seguenti
conclusioni:
- Tutti i tre Papi precedentemente eletti vengono deposti e al loro posto viene riconosciuto
come unico e legittimo Pontefice Martino V.
- Da questo momento vi è l’obbligo per i pontefici di convocare un Concilio almeno una volta
ogni dieci anni.
- Con l’approvazione e il consenso del Concilio i Papi sono tenuti a stabilire la sede di queste
assemblee plenarie, che è passibile di cambiamento solo in casi di estrema necessità (assedi,
guerre, pestilenze).

Il Concilio di Costanza rimette ricuce lo scisma ma, contemporaneamente, sancisce la superiorità


del potere conciliare su quello pontificio. Elemento, questo, che verrà sfruttato dalle potenze
temporali per sottomettere il clero locale alla propria autorità ed esercitare un maggiore peso
politico nell’elezione di vescovi e cardinali.

Il piccolo scisma

A succedere a Martino V sul soglio pontificio è Eugenio IV che, secondo quanto stabilito a
Costanza, convoca un concilio ecumenico a Basilea nel 1431. Il Concilio diventa per il Papa
l’occasione per confutare la tesi conciliarista e ristabilire la supremazia delle decisioni papali su
quelle conciliari. L’intransigenza di Eugenio IV ovviamente infervora il collegio cardinalizio che si
dissocia dalla decisione del Papa di convocare un nuovo Concilio a Ferrara e che arriva addirittura
ad eleggere nella stessa Basilea un antipapa, Felice V, l’ex duca di Savoia Amedeo VIII, dando
origine ad una nuova crisi scismatica conosciuta come piccolo scisma (dal 1437 al 1449). Nel 1449
l’antipapa si dimette e viene unanimemente riconosciuta l’autorità pontificia di Niccolò V. La crisi
del movimento conciliarista, sancita dagli eventi di Basilea, mostrava chiaramente come fosse arduo
mettere in atto un’effettiva riforma della Chiesa. Gli stessi principi e sovrani che pure avevano tratto
vantaggio dalla crisi dell’autorità papale, si resero conto che la strada migliore per il rafforzamento
del proprio potere era quello di stabilire con il papato degli accordi, scritti o taciti, che

155
salvaguardassero i loro reciproci interessi delimitando in maniera chiara le rispettive sfere di
influenza

Il dibattito ideologico e le istanze di rinnovamento

Il grande Scisma e i relativi fermenti all’interno del mondo cattolico avevano acceso il dibattito
ideologico attorno a dogmi che fino a quel momento erano considerati indiscutibili. Il teologo
inglese John Wycliff, ad esempio, porta avanti la convinzione che la Chiesa non sia costituita
semplicemente dalla comunità dei credenti, bensì da quella dei predestinati, coloro i quali potranno
salvarsi dal peccato originale solo in virtù della propria fede. Questa teoria – che prepara il terreno
alle idee riformiste di Lutero, getta ovviamente immediato discredito sull’istituzione ecclesiastica
che aveva fino a quel momento esercitato una fondamentale funzione salvifica e mediatrice tra Dio
e l’uomo. Secondo Wycliff la mediazione della Chiesa nella comunicazione tra Dio e credente non
è fondamentale perché questa avviene attraverso la lettura diretta della Bibbia e l’interiorizzazione
dei suoi messaggi. Anche i sacramenti – ad eccezione di battesimo ed eucarestia - vengono
considerati da Wycliff una mediazione non necessaria e la forzatura di una Chiesa ormai
allontanatasi dalla purezza evangelica. Le idee di Wycliff si diffondono rapidamente perché
attechiscono facilmente nel sentire comune ormai deluso dall’atteggiamento secolare della comunità
ecclesiastica: ben presto nasce un gruppo di seguaci che assume il nome di “lollardi”, lodatori di
Dio e che comprende soprattutto le classi popolari britanniche che in questi messaggi intravedono le
questioni dell’uguaglianza tra gli uomini e la necessità di un più equa distribuzione delle ricchezze.
Ovviamente le tesi lollarde sono tacciate di eresia e perseguitate, ma questo non impedisce loro di
arrivare in Boemia dove saranno fatte proprie dal teologo Jan Hus. In Boemia la questione spirituale
affianca in maniera più incisiva il dibattito sociale e politico: gli hussiti, infatti, ritengono che da
una rivoluzione delle istituzioni ecclesiastiche possa dipendere la difesa del territorio boemo dalle
mire asburgiche e tedesche. Le insurrezioni contadine dovute alla povertà e alla forte ingiustizia
sociale sembrano infatti trovare nelle teorie di Hus una legittimazione religiosa e non si fermeranno
neanche di fronte alla condanna al rogo per eresia dello stesso teologo.

In questo periodo di intricate vicende politiche e giochi di potere la Chiesa aveva notevolmente
indebolito il suo impegno nella missione pastorale, tuttavia fattori di dinamismo nella vita religiosa
urbana e rurale possono riscontrarsi sia nell’associazionismo laico sia alla riorganizzazione di ordini
religiosi vecchi e nuovi. Confraternite e terzi ordini (francescano, domenicano, agostiniano,
carmelitano, servita), consentivano a molti esponenti del laicato di praticare quelle forme di
devozione e di impegno caritativo che non sempre la parrocchia era in grado di garantire. In qualche
modo le forze propulsive della vita religiosa locale cercarono di rispondere alle idee della Devotio
moderna e a quell’ansia di rinnovamento e purezza evangelica che agitava confusamente il mondo
cristiano (e che poi convergerà nelle istanze luterane). In questo clima ebbe larga diffusione il
movimento dell’Osservanza, nato nella seconda metà del Trecento per richiamare frati e monaci alla
rigorosa osservanza delle rispettive regole e dal quale deriverà, nel Cinquecento, l’ordine dei
Cappuccini.

156
Bibliografia

Salvatore Pagano (a cura di), TFA italiano, storia, ed. civiva, geografia, materie letterarie, Gruppo
Editoriale Simone, Napoli, 2014

Franco Cardini, Marina Montesano, Storia Medievale, Le Monnier Università, 2019

Sitografia

Pagina Wikipedia dedicata al grande scisma, link funzionante alla data del 20/10/2020:
https://it.wikipedia.org/wiki/Scisma_d%27Occidente#:~:text=Con%20Scisma%20d'Occidente
%20o,il%20controllo%20del%20soglio%20pontificio.

157
18. Storia dell'età moderna: le scoperte geografiche, l'Europa, l'Africa e l'Oriente

La ricerca di nuove rotte commerciali


Nei decenni a cavallo tra XV e XVI secolo i navigatori europei si spinsero oltre le zone del mondo
fino ad allora conosciute, intensificando i viaggi verso paesi lontani su nuove rotte non ancora
conosciute.
Si può affermare che la principale causa della cosiddetta era delle scoperte geografiche sia da
ricercarsi negli interessi commerciali. I commercianti europei infatti, erano interessati a raggiungere
l’Asia orientale,le cosiddette Indie, per procurarsi beni di lusso e ricercati come le spezie e la seta.
Fino ad allora le rotte battute dagli esploratori erano state principalmente quelle mediterranee che
conducevano ai porti della Siria e dell’Asia minore, dove si potevano trovare beni provenienti dal
lontano Oriente che erano giunti nella zona via terra, l’avanzata dei Turchi Ottomani nell’Impero
Bizantino nel corso del XV secolo, tuttavia, aveva reso più difficili i contatti tra Europa e Asia
e il prezzo delle merci asiatiche era conseguentemente aumentato.
Cominciò allora a diffondersi l’idea di cercare delle vie per un accesso più diretto all’Oriente, di
modo da aggirare i territori controllati dagli ottomani.

Le prime scoperte genovesi e portoghesi


I primi a interessarsi alle nuove vie di navigazione furono Genova e il Portogallo. La città ligure
infatti, con l’avanzata turca, era stata di fatto esclusa dagli scali dell’Egeo e del Mar Nero, dove
conduceva abitualmente i suoi affari.
I Genovesi dunque cominciarono a frequentare il porto di Lisbona, dove venivano ingaggiati per
conto dei sovrani del Portogallo; la ricerca delle nuove vie di navigazione aveva come obiettivo
raggiungere l’Oriente, ma importanti scoperte furono fatte anche spingendosi verso Sud; per conto
della corona portoghese Antoniotto Usodimare nel 1455 raggiunse la Guinea, mentre negli stessi
anni Alvise Ca’ da Mosto si spinse fino alla scoperta di Capo Verde. Nel 1488 infine il Portoghese
Bartolomeo Diaz si spinse ancora più a Sud fino a toccare l’attuale Capo di Buona Speranza.
La rotta occidentale
Le prime esplorazioni dunque furono condotte battendo la rotta meridionale fino a quando un
giovane genovese, Cristoforo Colombo, non ventilò l’idea di dirigersi verso occidente per
raggiungere le Indie. Colombo presentò il suo progetto alla corte di Lisbona ma la proposta non
ebbe successo, poiché il regno portoghese era allora impegnato a espandere i commerci sulle coste
africane appena scoperte.
Fu così che Colombo si rivolse a Isabella di Castiglia, regina di Spagna, che decise di
finanziare l’impresa; la spedizione salpò nell’Agosto del 1492, per concludersi il 12 Ottobre,
quando l’equipaggio riuscì a sbarcare sulla costa di un’isola delle Antille (San Salvador), per
poi passare ad Haiti e Cuba.

158
Fig.1: la rotta del primo viaggio di Colombo nel 1492

Sia il capitano sia l’equipaggio erano convinti che le terre d’approdo fossero le Indie, così
chiamarono il popolo indigeno “Indios”.
Lo scambio colombiano
Dopo circa due mesi cominciò il viaggio di ritorno verso l’Europa, dove Colombo riuscì ad
approdare fortunosamente all’inizio di Marzo del 1493. Egli aveva portato con sé alcuni indigeni e
diversi prodotti tipici del nuovo continente.
Nei successivi viaggi Colombo raggiunse Dominica e Porto Rico (1943- 1945), poi Trinidad, Santo
Domingo e le coste del Venezuela (1498 – 1500) e infine Honduras, Nicaragua, Costa Rica, Panama
e Isole Cayman. (1502 – 1504).
Nel corso delle sue spedizioni Colombo aveva importato in Europa prodotti tipici dalle Americhe e
viceversa introdotto nuove colture e animali nel Nuovo Mondo. Lo scambio non si limitava però
solamente a piante e animali, anche virus e malattie furono veicolate nel corso dei viaggi delle
caravelle, con conseguenze devastanti per gli Indios. Il processo di scambio di prodotti tra Europa e
America prende il nome di “scambio Colombiano”.
Tra i prodotti introdotti in Europa ne troviamo alcuni che rivoluzionarono la dieta e le
abitudini degli abitanti del vecchio continente come per esempio: patate, fagioli, pomodori,
mais, tacchino, cacao e zucca, tabacco, cotone e gomma. Introdusse invece in America molte
specie animali da cortile come il maiale, pollo, mucca, capra e colture tipiche di Europa, Asia
e vicino Oriente come riso, grano, agrumi, caffè, melanzane, tè.
L’identificazione del continente americano
Sulla scia dell’entusiasmo per i viaggi di Colombo molti altri esploratori si imbarcarono alla volta
delle Americhe che ancora non erano state identificate come nuovo continente; si riteneva infatti
che Colombo si fosse recato in Oriente, giungendo nelle cosiddette “Indie”.
La Spagna proseguì nel finanziamento di spedizioni sulle rotte già battute da Colombo, ma l’idea

159
che le terre appena scoperte non fossero le Indie non tardò a essere formulata, molte spedizioni
infatti giunsero in America senza trovare l’oro, le spezie e gli altri prodotti tipicamente orientali.
Per conto del re d’Inghilterra si imbarcò nel 1455 il veneziano Giovanni Caboto, scoprendo l’Isola
di Terranova (Canada), al 1500 invece risale lo sbarco del portoghese Pedro Cabral in Brasile. In
entrambi i casi le descrizioni che essi fornirono erano molto diverse da quelle delle Indie. Fu il
fiorentino Amerigo Vespucci, nel corso delle sue esplorazioni del continente americano tra il
1500 e il 1502, a scrivere esplicitamente al re del Portogallo che le terre scoperte da Colombo
erano un “Nuovo Mondo, sconosciuto agli antichi”, fu così che nel 1507 il nuovo continente fu
battezzato America, in onore a Vespucci.
La rotta diretta per le Indie
Mentre gran parte delle esplorazioni si concentravano sulle rotte occidentali, nel 1497 Vasco de
Gama seguì la rotta verso sud di Bartolomeo Diaz, raggiungendo il capo di Buona Speranza
risalendo sulla costa africana orientale fino al sub continente indiano, sbarcando a Calcutta, fu così
che la via diretta per le Indie fu finalmente trovata. Ciò consentì ai portoghesi di costruire diversi
avamposti commerciali lungo il percorso, giungendo infine in Cina, dove fondarono la base
commerciale di Macau, ponendo le basi dell’impero coloniale portoghese. (1554).

La circumnavigazione della Terra


Una volta appurato che il continente americano era un nuovo mondo si presentò il problema di
capire se esisteva una via diretta per arrivare in oriente passando da occidente, una rotta che non
fosse sbarrata dall’enorme massa delle Americhe. Fu così che continuarono le esplorazioni
sull’onda delle necessità commerciali, ma anche della curiosità scientifica. Il portoghese
Ferdinando Magellano si imbarcò, spingendosi oltre la terra dei fuochi e navigando
nell’oceano Pacifico (da lui così battezzato) fino alle Filippine, dove trovò la morte nel 1521.
L’equipaggio continuò la spedizione per tre lunghi anni, giungendo nuovamente in patria
dopo aver compiuto il primo giro completo della Terra.
La spedizione era stata tragica, dei circa 300 uomini che erano partiti ne tornarono solo 21 tra cui
Antonio Pigafetta, un veneziano a cui dobbiamo il resoconto del viaggio.

160
Grazie al viaggio di Magellano inoltre si ebbe la prova empirica della sfericità della Terra, che
fino ad allora era stata dimostrata solo matematicamente.

Le civiltà indigene americane


Il Nuovo Mondo era allora abitato da tre principali popolazioni (oggi chiamate precolombiane):
Gli Aztechi (California meridionale, Messico), erano una monarchia elettiva. Il re era capo dello
Stato e dell’esercito, nonché sommo sacerdote. Le cariche civili e religiose erano riservate alla
nobiltà, la quale era anche l’unica a possedere privatamente la terra; i contadini invece la ricevevano
in usufrutto dalla comunità. Il ceto intermedio era formato da mercanti e artigiani; al di sotto c'erano
gli schiavi. Gli aztechi non avevano la ruota né gli utensili di metallo, nonostante conoscessero oro
e rame. Molto fiorenti erano l’architettura, l’oreficeria, la scultura, la musica, la danza e la religione.
Celebravano sacrifici umani. La loro capitale aveva 300.000 ab. ed era tra le più grandi città del
mondo.
I Maya (sud- est del Messico, Guatemala, Belize, Honduras) erano organizzati in città-stato
dotate di completa autonomia. Non erano però centri urbani abitati da una popolazione stabile, ma
luoghi di culto, dove avevano sede i templi e le abitazioni del clero. La popolazione viveva nelle
campagne e si recava in città per il mercato e le cerimonie religiose. Capo della città era il sommo
sacerdote, che deteneva anche i poteri politici e giudiziari. Architettura, astronomia, scultura, pittura
e ceramiche erano molto evolute.
Gli Incas (Perù, Cile, Colombia) avevano l’impero più vasto, controllato da un esercito agguerrito
e da una struttura amministrativa efficiente. Non erano tuttavia bellicosi perché non schiavizzavano
i popoli vinti ma li associavano, fornendo loro ciò di cui avevano bisogno. Bene organizzata era la
rete stradale. L’impero era suddiviso in circoscrizioni rette da governatori. Capo supremo era
l’imperatore, con poteri politici, militari e religiosi. L’economia era soprattutto agricola. La
proprietà individuale non esisteva. Si coltivava in maniera intensiva: mais, patate, cereali.
Conoscevano l’anestesia e una tecnica chirurgica molto avanzata. Praticavano concimazioni e
irrigazioni artificiali. Tessitura e ceramica erano molto sviluppate. Grande importanza attribuivano
alla divinazione. Praticavano sacrifici umani.
Il colonialismo spagnolo
Già Cristoforo Colombo, nel corso dei suoi viaggi, aveva avuto a che fare con gli abitanti del
continente americano, a volte con esiti non pacifici, ma un vero e proprio rapporto tra europei e
nativi si ebbe nel corso del XVI secolo, quando le terre americane furono invase da un gruppo di
avventurieri spagnoli – i conquistadores- alla ricerca di oro e ricchezze.
Nel 1519 Hernàn Cortès sbarcò in Messico dove riuscì a ottenere la resa del re Montezuma,
sottomettendo il potente Impero azteco, la facilità dell’impresa era dovuta alla paura degli
indigeni, che pensavano che gli spagnoli fossero stati mandati dagli dèi. Nel 1531 Francisco Pizarro
sottomise l’Impero degli Incas nella regione andina, uccidendo il re Athaualpa.
Vi furono innumerevoli uccisioni, stupri e saccheggi ai danni della popolazione nativa; gli indios

161
venivano anche sfruttati come forza lavoro nelle miniere; a causa della brutalità dei coloni la
mortalità degli indios ebbe un’enorme impennata e per riempire il vuoto di forza lavoro si
ricorse alla deportazione delle popolazioni Africane, che furono condotte in America per questo
scopo.
L’impero coloniale portoghese
Anche i Portoghesi erano interessati al Nuovo Mondo, ragione per la quale gli interessi delle due
potenze europee erano entrate in conflitto, fino alla firma del Trattato di Tordesillas (1494)
promosso da Papa Alessandro VI Borgia, che aveva elogiato l’intento delle due potenze europee
di convertire gli amerindi. In base a questo trattato il mondo veniva idealmente diviso tra sfere
d’influenza spagnola e portoghese.
Alla Spagna toccarono le cosiddette Indie occidentali, cioè America centrale e Meridionale.
Al Portogallo le Indie orientali (Africa e Asia) e in aggiunta il Brasile.

Il Portogallo pareva dunque avvantaggiato rispetto alla Spagna, che si era assicurata delle terre
selvagge e sconosciute a fronte di numerosi scali portuali e snodi commerciali già conosciuti
dell’impero portoghese.
Il Portogallo fondò nuovi scali commerciali per l’importazione di spezie, spingendosi fino a toccare
le isole giapponesi; per quanto riguarda il Brasile invece, si fece ricorso anche qui alla tratta degli
schiavi.
Conseguenze economiche e culturali dell’esplorazione e dell’espansione europea
L’espansione europea determinò alcune conseguenze, sia commerciali, sia sociali e culturali.

• Lo spostamento delle principali vie di scambio; il Mediterraneo perse così la sua centralità
economica e commerciale a favore dell’Oceano Atlantico; fu così che le nazioni con lo
sbocco oceanico cominciarono pian piano a diventare gli stati egemoni in Europa e nel
Mondo.
• Ebbe inizio il predominio economico e politico europeo sugli altri continenti (colonialismo)
• Ebbe inizio la tratta degli schiavi ai danni delle popolazioni africane

162
• In Europa vennero introdotti nuovi prodotti agricoli e mutò l’alimentazione delle
popolazioni d’Europa, ma anche nelle Americhe vennero introdotti prodotti prima
sconosciuti, l’America divenne così un continente europeizzato, dove si producevano beni
per il consumo degli europei stanziativisi o per la vendita dei mercati del Vecchio
Continente
• Si cominciò a parlare dell’evangelizzazione delle popolazioni “selvagge”.

Bibliografia
AA.VV., Il nuovo concorso a cattedra - Storia, nella Scuola secondaria, a cura di A. Pagano,
Edises, 2018
M. Montanari, Vivere nella Storia, vol I, Laterza, 2012
R. Villari, Sommario di Storia,Vol I, Laterza, 2002

Sitografia
https://www.homolaicus.com/storia/moderna/colombo/scoperte_geografiche.htm
https://it.wikipedia.org/wiki/Et%C3%A0_delle_scoperte

163
21. L'Impero Moghul e la Dinastia Manciù

Storia della dinastia Moghul: dal 1526 al 1707

La Dinastia Moghul, conosciuta anche come Mughal, è stata la più importante


dinastia imperiale indiana di religione musulmana e regnò su quasi tutto il
territorio dell'Asia meridionale durante la dominazione islamica in India. Il
termine Moghul (o Mughal) deriva dall'arabo e dal persiano, come alterazione del
vocabolo "Mongolo", per enfatizzare l'origine mongola della dinastia timuride.
Esso era fondato su strutture di tipo feudale, controllate dal governo centrale; i
sovrani musulmani adottarono una politica di tolleranza religiosa nei confronti
dell'induismo e delle altre religioni del subcontinente. L'ascesa dei Maratti come
grande potenza (18° secolo) ne segnò la decadenza e quindi la fine. Fu l'economia
più forte del mondo.

L'impero Moghul venne fondato da Bābur, detto il Conquistatore nel 1526. Egli
era un discendente del grande conquistatore turco-mongolo Tamerlano, e
governava una delle tante città della Transoxiana, in buona parte l'odierno
Uzbekistan. Scacciato dalle sue terre in seguito all'invasione dei nomadi Uzbeki,
Bābur, desideroso di conquistare un altro regno, decise di conquistare l'India. Con
un piccolo esercito invase l'India, allora sotto il dominio del Sultanato di Delhi, e
si scontrò con l'esercito del sultano Ibrāhīm Lōdī nella battaglia di Panipat (21
aprile 1526), uscendone vincitore.

Babur regnò per altri quattro anni, estendendo il suo nuovo impero
da ll' Afghanis tan al Bengala, e i ncrementa ndo l e migrazi oni turche in India
dall'Asia centrale, accrescendo così il peso della religione islamica in questo
paese. L'impero raggiunse l'apogeo con il terzo imperatore Akbar, che completò la
conquista del Bengala e sottomise il Gujarat e i principati indù Rajput, che furono
ammessi nell'apparato amministrativo Moghul come esattori delle tasse. Akbar
fondò la nuova capitale di Fatehpur Sikri e cercò di creare una nuova religione
sincretistica, accostando l'Induismo all'Islam.

L'India divenne parte del cosiddetto Rinascimento timuride tramite i Moghul.

Gli ultimi grandi imperatori Moghul furono Shāh Jahān ("Imperatore del mondo"),
che regnò dal 1628 al 1658, e suo figlio Aurangzeb (1658 - 1707). Artefice di una
politica espansionista, quest'ultimo dedicò gli ultimi anni del suo regno a una lotta
incessante contro i prìncipi indù Maratha (abitanti nell'attuale Maharashtra), che
avevano creato la Confederazione Maratha nell'India meridionale.

Aurangzeb impose in tutta l'India la religione islamica, provocando rivolte e


guerre. Alla sua morte, avvenuta nel 1707, l'impero si disgregò, e ciò che ne

164
rimaneva fu definitivamente conquistato dai Britannici dopo la I guerra
d'indipendenza indiana - meglio nota in Occidente come l'Ammutinamento dei
Sepoy o i Moti Indiani - nel 1859.

I Moghul sono rimasti famosi per lo sfarzo della loro corte imperiale, e per lo
splendore delle loro capitali, Delhi e Agra, che esistono ancora oggi. L'Impero
rappresentò il culmine dell'architettura indiana, con monumenti famosi come il Taj
Mahal, una delle nuove sette meraviglie del mondo. Inoltre sono rinomati per la
scuola artistica Moghul, che l'imperatore Humāyūn arricchì invitando un buon
numero di artisti persiani presso la sua corte, con il ruolo di maestri. Tra i pittori
più importanti della scuola si annovera Basawan.
La dinastia Moghul fu l'ultima forza unificatrice dell'India prima della conquista
europea. La sua fine aprì indirettamente le porte dell'India alla penetrazione e alla
dominazione britannica.

I Manciu'

I Manciù avevano costruito la loro potenza ai margini della cultura e


dell'amministrazione cinese e fu quindi loro possibile accogliere in modo selettivo
l'influenza cinese, senza essere completamente soggiogati. Infatti, la parte più
meridionale della Manciuria, il Liaodong, benché fosse una regione amministrata
di fatto dai cinesi, consentiva facilmente ai barbari che vi vivevano di apprendere i
metodi di governo cinesi, di costituire organi amministrativi per dominare la
popolazione e sfidare così la dinastia.

Gradualmente, tutte le tribù mongole e Nuzhen ricevettero lo status di comandi e


vennero arruolate come unità militari sotto i Ming. Questi reparti furono comandati
dai capi tribali e ereditari, la cui successione era riconosciuta dalla corte.
A ogni capo tribale venivano conferiti titoli ufficiali e sigilli, mentre i capi si
impegnavano ad inviare ogni anno missioni tributarie alla corte cinese.

Le tribù Nuzhen tributarie furono in gran parte stanziate lungo i contrafforti


meridionali della zona montuosa e sull'alto corso del fiume Tumen.
L’aumento delle risorse delle tribù, risultante dalla combinazione della loro
economia tradizionale, basata sulla caccia e la pastorizia, con il commercio e
l'agricoltura, fece si che anche i barbari furono in grado di costruire piazze
fortificate destinate a servire nelle lotte interne gruppi tribali.

Nurhaci del clan Aisin Gioro e fondatore dello Stato Manciù, fortificò i territori in
suo possesso, sposò la figlia e la nipote di due potenti capi, soppresse il
banditismo e accettò il vassallaggio da parte di capi tribali minori.

Nel 1595, la corte Ming, di cui era tributario, gli conferì il titolo di generale

165
drago-tigre. L'ascesa di Nurhaci non fu, però, solo una questione militare, ma
anche di ordine politico, economico e amministrativo. Nella sua zona base, al
limite nord-orientale della penisola del Liaodong, Nurhaci fece costruire un
castello fortificato che, come quelli degli altri grandi capi, aveva tre o quattro
mur a c onc e nt ric he ch e fo rm av ano de i re ci nt i fort i fi ca t i; que l lo i nt e rno e ra
riservato al capo e al suo clan; quello intermedio ai generali e ai loro aiutanti;
quello esterno agli uomini di truppa e alle loro famiglie. Il castello disponeva
inoltre di magazzini, granai, artigiani. Anche l'agricoltura e il commercio di
cavalli e radici di ginseng avevano enorme importanza in un centro così vasto, che
tra l'altro crebbe grazie anche all'aiuto di tecnici e consiglieri cinesi.

Allo scopo di unificare il suo popolo, Nurhaci introdusse nel 1601 il sistema delle
bandiere, organizzate sul modello delle guarnigioni cinesi. Inizialmente, sotto
quattro bandiere, con i colori giallo, bianco, azzurro e rosso, furono raggruppate
d e l l e u n i t à m i n o r i , c o m p r e n d e n t i 3 0 0 u o m i n i e n o t e c o m e n i r u (fre ccia ) o
compagnia e il cui numero variò con il tempo. Come nelle guarnigioni cinesi, in
tempo di pace, gli uomini appartenenti alle varie bandiere continuavano nelle loro
solite occupazioni artigianali, mentre in caso di guerra un certo numero di essi
prendeva le armi e gli altri provvedevano ai rifornimenti.

Nel 1615 furono aggiunte altre quattro bandiere con gli stessi colori delle
precedenti, ma bordate di rosso, ad eccezione di quella rossa che fu orlata di
bianco. Nel 1635 furono istituite otto bandiere mongole e l'anno seguente se ne
aggiunsero anche due cinesi, che nel 1643 raggiunsero il numero di otto come le
altre. Queste unità furono quindi organizzate burocraticamente e successivamente
raggiunsero il numero di 24 unità. L’intera popolazione, compresi prigionieri, gli
schiavi e i servi, venne registrata nelle varie bandiere e sottoposta quindi alla
tassazione, alla costrizione, al controllo e alla mobilitazione attraverso queste
unità amministrative del nuovo Stato.

Le bandiere furono poste agli ordini di ufficiali nominati dall'alto, ma il comando


supremo fu riservato ai discendenti di Nurhaci. Un'altra delle realizzazioni di
Nurhaci fu lo sviluppo di un sistema di scrittura per scopi amministrativi.
Inizialmente , si servì del mongolo e n el 1599, di un interprete al suo servizio
scrisse le parole nuzhe n modificando l'alfabeto mongolo. Il suo sistema fu poi
perfezionato nel 1632 con l'aggiunta di segni diacritici (punti e cerchi) alle lettere
mongole. Nel 1616, Nurhaci assunse il titolo di imperatore della dinastia Jin
posteriore (Hou Jin). Successivamente, nel 1635, il suo successore stabilì che
fosse usato il nome manciù per tutte le tribù nuzhen. L'origine di tale termine è
tuttora sconosciuto. Nurhaci riuscì con l'aiuto cinese a creare un'amministrazione
civile e nel 1618 attaccò apertamente i Ming occupando parte del Liaodong; in
questa occasione fece prigioniero un diplomato cinese Fan Wenzheng, che divenne
il fidato consigliere di Nurhaci e dei suoi successori. Nel 1625, Nurhaci trasferì la

166
sua capitale a Mukden (Shenyang). Dopo la sua morte, avvenuta nel 1626, gli
successe suo figlio Abahai, che aprì la strada alla conquista della Cina del Nord,
che venne però effettuata dall'uomo che detenne il potere dopo di lui Dorgon
quattordicesimo figlio di Nurhaci. Rispettoso delle consuetudini, Dorgon rifiutò di
accettare il titolo di imperatore e si pronunciò a favore di un bambino di sei anni,
figlio di Abahai, ma in realtà egli governò per sette anni dopo l'occupazione di
Pechino, avvenuta nel 1644, in qualità di reggente del giovane imperatore. Il
successo dei manciù dipese in gran parte dal fatto che essi seppero organizzare il
potere statale sul modello cinese, oltre che dall'impiego di collaboratori cinesi.
Via via che l'organizzazione burocratica sostituiva gli usi tribali, si rendevano
necessari in misura sempre maggiore gli uomini di cultura e gli amministratori.
Moltissimi furono i cinesi del Liaodong reclutati per la nuova amministrazione
statale. Nel 1631, vennero istituiti a Mukden i sei ministeri, simili a quelli di
Pechino; Fan Wenzheng divenne grande segretario e, sempre su un modello cinese,
si c rearono il c ens ora to e al tri uffic i; Il fi glio di N urhaci , Abaha i, aveva
rapidamente esteso la potenza dello stato manciù e nel 1627, nel 1636 e 1937,
attaccò la Corea riducendola alla condizione di Stato vassallo, inoltre, guidò
personalmente le spedizioni nella Mongolia interna, rendendone le tribù vassalle.
Sotto i sovrani Manciù la potenza dell’impero cinese raggiunse l’apice della sua
storia, per poi crollare sotto la duplice spinta della crisi del sistema di governo e
delle pressioni esterne. I Manciù assorbirono la cultura cinese, acquisendo in
particolare le strutture politico-amministrative dei Ming, altamente centralizzate,
con al vertice un Gran Consiglio che si occupava degli affari politici e militari
dello stato sotto la diretta supervisione dell’imperatore.

Verso la fine del XVII secolo i Manciù avevano eliminato ogni traccia di
opposizione Ming e soffocato una rivolta guidata da generali cinesi cui era stato
affidato il governo di territori semiautonomi nel Sud. Con il regno dell’imperatore
Ch’ien Lung a metà del secolo successivo, la dinastia giunse all’apogeo del potere,
con il pieno controllo di Manciuria, Mongolia, Xinjiang e Tibet; Nepal e Birmania
inviavano periodicamente tributi alla corte Ching, così come le isole Ryukyu, la
Corea e il Vietnam del Nord. Taiwan fu incorporata nell’impero cinese.

Il XVIII secolo fu anche un periodo di ordine, pace e prosperità senza precedenti


nella storia della nazione. La popolazione raddoppiò e ciò pose le premesse della
cr i s i , po i ch é l a pr od uz i on e a g ri c ol a r i s ul t ò i n s uf fi c i en t e , i no lt r e l e ri s o rs e
finanziarie del governo furono gravemente intaccate dai costi di una politica di
espansionismo e il mantenimento di truppe Manciù stanziate in tutto il territorio
cinese rappresentò un pesante capitolo di spesa.

I Ma nci ù acc ett arono l oro ma lgra do di s t ringe re rel azi oni c omm erci al i con
l’Occidente. Il permesso di effettuare scambi con l’estero fu inizialmente
circoscritto al porto di Canton. L’Inghilterra comprava ingenti quantità di tè che

167
pagava in argento; ma quando i mercanti inglesi introdussero in Cina l’oppio
indiano, attorno al 1780, questo mercato si sviluppò in maniera rapidissima,
facendo crollare l’economia cinese.

Bibliografia

Burton Stein, A History of India, John Wiley & Sons, 2010


ISBN 978-1-4443-2351-1

rfan Habib, Economic History of Medieval India, 1200–1500, Pearson Education,


2011

John F. Richards, The Mughal Empire, Cambridge, Cambridge University Press,


1965

Peter Robb, A History of India, Macmillan, 2011. ISBN 978-0-230-34549-2

Sitografia

https://museocineseparma.org/it/scuole/le-dinastie-della-cina/

https://www.treccani.it/enciclopedia/impero-moghul/

https://www.wikiwand.com/it/Moghul

168
22. Le trasformazioni in agricoltura e la proto-industria tra XVI e XVIII secolo. La tratta
degli schiavi e il commercio transoceanico

Le trasformazioni in agricoltura - La rivoluzione agricola

Con rivoluzione agricola si intende quella fase di incremento della produttività della terra e del
lavoro che iniziò nell'Europa occidentale prima della rivoluzione industriale. Essa fu caratterizzata
innanzitutto da un cambiamento a livello istituzionale. In gran parte dell'Europa occidentale la
servitù della gleba venne finalmente abolita, e con essa l'istituzione delle terre comuni, anche se gli
appezzamenti frammentati dei campi aperti sopravvissero in molte regioni sino alla metà del XX
secolo. In secondo luogo vi fu la diffusione su larga scala di metodi e di attrezzi peraltro già noti.
L'allevamento controllato del bestiame e il perfezionamento dell'aratro costituirono progressi
significativi, ma il fattore più importante fu l'integrazione a reciproco beneficio dell'allevamento e
dell'agricoltura nella stessa azienda. Il terzo elemento da porre in rilievo è dato dal fatto che la
rivoluzione agricola si basò in larga misura su risorse fornite dalla stessa azienda agricola; pochi
input venivano acquistati all'esterno, sebbene la maggior parte della produzione non fosse per il
consumo locale ma venisse venduta sul mercato. I fertilizzanti erano forniti dal concime organico e
dalla coltivazione delle leguminose, e solo di rado le sementi venivano acquistate; i semplici
attrezzi impiegati erano fabbricati localmente da artigiani, e non dalle industrie.

La lenta crescita della produttività cominciò in Inghilterra intorno al 1650, probabilmente più tardi
nel resto dell'Europa occidentale. Ovunque, peraltro, la rivoluzione agricola ebbe conseguenze di
grande portata. Prima di tutto divenne possibile, per la prima volta nella storia, disporre di cibo a
sufficienza per una popolazione in costante crescita. Le carestie si fecero sempre più rare dalla fine
del XVII secolo, e la produzione di cibo fu superiore al sensibile aumento della popolazione iniziato
verso la metà del Settecento. In secondo luogo l'incremento della produttività fu sufficiente a
sostenere non solo un incremento della popolazione complessiva, ma anche una crescita della
popolazione urbana e industriale. In terzo luogo, l'aumento della produttività e del benessere nelle
campagne creò un mercato per i primi prodotti industriali, determinò un flusso migratorio rurale-
urbano, e fu probabilmente un'importante fonte di capitali per gli imprenditori industriali.

Prima di tutto, la rivoluzione agricola classica determinò un aumento della produttività del lavoro,
ma scarsi furono i tentativi di introdurre nuove tecnologie atte a risparmiare lavoro, data l'esistenza
di una manodopera abbondante e a basso costo. La seminatrice, poco diffusa in Inghilterra e in altri
paesi sino alla metà dell'Ottocento, era usata soprattutto per piantare le colture a filari piuttosto che
per risparmiare il lavoro della semina a spaglio. La mietitrice inventata da Patrick Bell verso il 1820
fu ignorata dagli agricoltori; messa a punto negli Stati Uniti da Cyrus McCormick, fu adottata in
Inghilterra solo quando cominciò il declino della manodopera nelle campagne. È quest'ultimo, di
fatto, l'elemento chiave per stabilire una periodizzazione della crescita della produttività. Sino alla
metà dell'Ottocento le popolazioni rurali e agricole in tutta l'Europa occidentale registrarono un
aumento; da allora in poi, ma in tempi diversi nei singoli paesi, cominciò un calo costante della
forza lavoro nelle campagne, che rese di importanza prioritaria l'adozione di macchine atte a
risparmiare lavoro.

169
In secondo luogo, tra gli anni quaranta e cinquanta dell'Ottocento aumentò costantemente l'impiego
di input ottenuti non dall'azienda agricola ma dal settore industriale; la produzione industriale di
fertilizzanti iniziò negli anni quaranta, ma per gran parte del secolo ebbe un'importanza trascurabile.
L'energia motrice continuò a essere fornita dalla forza muscolare animale e umana, ma negli anni
quaranta cominciò a diffondersi l'uso della mietitrice a vapore, preannuncio dell'imminente
meccanizzazione. In sintesi, la rivoluzione agricola classica terminò in Inghilterra verso la metà
dell'Ottocento. Differenti processi di trasformazione dell'agricoltura emersero lentamente, iniziando
in tempi diversi nei vari paesi europei, secondo una scansione cronologica determinata in larga
misura dallo sviluppo dell'industrializzazione e dal conseguente declino della forza lavoro agricola.
(Treccani)

Il passaggio dai campi aperti/open fields alle recinzioni/enclosures

L’introduzione, nel ‘600, della coltivazione della rapa e del trifoglio consentì di migliorare la
produttività dei campi e di produrre molto mangime per gli animali, che aumentarono di numero,
fornendo molto concime; di conseguenza la produttività dei suoli aumentò rendendo possibile
recintarne una parte per sfruttarli per altre colture più redditizie per i proprietari. Le enclosures
modificano progressivamente e profondamente il paesaggio agrario inglese. Da una distesa di campi
lunghi e stretti, non recintati, contigui, ma di proprietà individuale, sui quali dopo il raccolto tutti
potevano spigolare o portare a pascolare gli animali (open fields), si passa a un sistema di campi
chiusi, recintati con muretti, siepi o alberi. Questo processo riguarda anche le terre comuni
(common lands) di proprietà collettiva e adibite al pascolo, alla raccolta di legna, alla caccia, alla
pesca. Iniziato nel XVI secolo, nel XVII interessa già oltre la metà delle campagne inglesi e agli
inizi dell'Ottocento tutte le terre coltivate. Le recinzioni portano all'accorpamento delle proprietà
frammentate e alla privatizzazione delle terre comuni. Queste smantellano il sistema comunitario
ereditato dall'età medioevale e affermano il diritto di proprietà e l'individualismo agrario, libero da
vincoli e consuetudini, interessato a una gestione della terra razionale e redditizia. Portano anche a
un drastico peggioramento delle condizioni di vita dei contadini poveri, privati dei diritti di pascolo,
di spigolatura, di caccia da secoli alla base della loro stentata sopravvivenza. Espulsi dalle
campagne, forniranno molte braccia alla nascente industria. La proprietà agraria si trasforma e si
delineano le figure dell'agricoltore professionista e del bracciante. Infatti diminuisce il numero dei
piccoli proprietari gran parte dei quali, privi dei capitali necessari all'ammodernamento, costretti a
vendere, si trasformano in braccianti. Il possesso delle terre si concentra nelle mani di grandi e medi
proprietari che adottano criteri imprenditoriali. I nuovi imprenditori applicano la scienza e la tecnica
per migliorare la produzione (ad esempio, per selezionare sementi e animali o per un allevamento
intensivo e non più brado), utilizzano il lavoro di salariati agricoli, esportano eccedenze,
reinvestono i profitti e accumulano capitali. La recinzione dei terreni determinò la nascita di aziende
agricole capitalistiche, che funzionavano con manodopera specializzata e meno numerosa. Si resero
perciò disponibili molte braccia da impiegare in altri settori, come il nascente settore industriale,
che rappresenta uno sviluppo dell’industria rurale domestica, già diffusa presso i contadini nel
periodo in cui vigeva il sistema dei campi aperti. Oltre che dalle recinzioni, la produzione agricola
viene incrementata da un nuovo e più complesso sistema di rotazione delle coltivazioni. Non vi

170
sono più campi incolti e improduttivi e si avvia una sorta di circolo virtuoso fra agricoltura e
allevamento. Aumentando, infatti, le disponibilità alimentari sia per gli uomini sia per il bestiame, è
possibile sviluppare l'allevamento con il conseguente aumento di produzione del concime naturale
per i campi e di carne, latte e pelli per il mercato. I mutamenti riscontrabili nelle campagne inglesi
trasformano i regimi agrari d'impronta feudale e collettivistica in regimi agrari d’impronta
capitalistica e individualistica. Aumenta la produzione e, contemporaneamente, diminuisce la
percentuale di popolazione attiva in agricoltura. Aumenta la popolazione, in particolare quella
urbana. Si sviluppano le attività legate ai prodotti agricoli (lana, latte, ecc.), ma anche ai beni
strumentali per l'agricoltura. Gli imprenditori agricoli iniziano ad accumulare capitali, in parte
reinvestiti nell'agricoltura. Diminuisce la manodopera necessaria all'agricoltura, che diventa così
disponibile per lo sviluppo di altri settori economici e, specialmente, della nascente industria. Questi
sviluppi si collocano nell'arco temporale di più di un secolo, avanzano lentamente, ma sono
profondi. Un'agricoltura integrata con l'allevamento, che utilizza rotazioni complesse, produce per il
mercato, investe capitali sulla terra, è presente fra XVII e XVIII secolo anche in altre, limitate, aree
Europee. questa agricoltura rimane comunque marginale, specie nel sud Europa ed è lenta la sua
espansione. Per molto tempo le innovazioni continueranno a convivere con l'agricoltura tradizionale
incontrando molti ostacoli (sociali, culturali, politici) alla loro diffusione. Sarà lenta e difficile
anche l’affermazione, nonostante la resa superiore a quella dei tradizionali cereali europei, di due
piante di origine americana, la patata e il mais, destinate a diventare il cibo quotidiano di molti
contadini, non solo irlandesi o veneti. In ogni caso nelle diverse aree d'Europa, pur con tendenze,
ritmi e tempi diversi, gli sviluppi dell'agricoltura saranno essenziali per passare da un'economia di
sussistenza a un'economia moderna legata all'industrializzazione.

Molti storici sostengono che l’industrializzazione non avrebbe potuto realizzarsi senza l’essenziale
contributo dell’agricoltura; senza quella rivoluzione agricola che, integrando coltivazione e
allevamento, fra XVIII e XIX secolo, innanzitutto in Inghilterra e poi lentamente in altre aree
dell’Europa occidentale, porta al superamento dell’agricoltura tradizionale, a un incremento della
produzione e della produttività e fornisce cibo, manodopera, materie prime e capitali all’industria
nascente.

Riepilogando:
- Crisi della rotazione triennale e attivazione della rotazione pluriennale
- Integrazione pascolo/arativo
Prima_ Più pascolo = meno arativo
Dopo_ Più pascolo = più concime
più resa
più carne
- Fine della monocoltura del frumento
- Allargamento della coltura di:
patata
mais
grano saraceno
riso

171
- Maggiore redditività/minore valore proteico
- Investimenti di capitali nell’agricoltura
- Formazione di un proletariato agricolo (manodopera libera e mobile)
Nuove tecniche agricole che rendono la terra più produttiva e ne consentono uno sfruttamento
intensivo: l’aratro doppio versoio e la rotazione pluriennale.

Ulteriori condizioni positive:


- Un ciclo climatico positivo
- Fine della “piccola era glaciale” (1620 – 1710)
- L’agricoltura diventa una scienza; nasce l’agronomia come disciplina accademica
- Nascono le Accademie di agricoltura e le Società agrarie (anni sessanta)

La protoindustrializzazione

Il problema delle attività artigianali in ambiente rurale, nelle società tradizionali, è stato impostato
in termini completamente nuovi, nel 1969, da Franklin Mendels, cui si deve il termine
'protoindustrializzazione'. Mendels intende formulare un’interpretazione articolata della transizione
da un’economia ed una società di impronta prevalentemente agraria ad una contrassegnata dalle
attività industriali come prevalenti. Alla tesi classica della rottura rappresentata dalla rivoluzione
industriale, Mendels risponde raffigurando un processo di lunga durata che, attraverso una serie di
tappe assicura una sorta di continuità tra le industrie rurali e l’industrializzazione ottocentesca.
Attraverso lo studio della situazione produttiva delle Fiandre nel Settecento, Mendels mette a punto
la propria teoria e nella dimensione della regione coglie i tratti della protoindustrializzazione.

Caratteristiche del processo di protoindustrializzazione

1) La protoindustrializzazione ha rotto l’assetto matrimoniale che differiva l’età al matrimonio


in ragione dei mezzi di sussistenza. Ora infatti, oltre che sulla produzione agricola si poteva
contare anche su una serie di attività artigianali.
2) L’espansione del lavoro a domicilio nelle campagne di una regione crea, spesso, delle
difficoltà nel rilevamento del prodotto e nel controllo della sua qualità. Ciò condurrà i
mercanti- imprenditori – nel corso dell’Ottocento – a provvedere a concentrare nelle città
una parte della manodopera in opifici dotati di macchine.
3) Il capitale necessario per l’impianto di detti opifici era stato accumulato localmente dagli
stessi mercanti imprenditori.
4) La protoindustrializzazione favorisce, da parte dei mercanti, l’acquisizione di un’esperienza
notevole per quanto riguarda capacità di negoziazione e tecniche produttive e commerciali.
5) La protoindustrializzazione prepara una manodopera qualificata, che in un secondo
momento potrà facilmente essere impiegata all’interno di un sistema di fabbrica. Lo
sviluppo in senso capitalistico dell’agricoltura della regione prepara il settore primario a
sostenere, in un secondo momento, la crescita delle dimensioni urbane.

All’interno delle regioni cosiddette ‘protoindustriali’, generalmente in prossimità di corsi d’acqua o

172
in zone montane, venivano prodotti tessuti, oggetti in metallo, manufatti di vario genere. In Irlanda:
lino; nelle montagne vicino a Zurigo: filo; nella regione di Solingen: coltelli e altri oggetti metallici.
In linea di massima le zone protoindustriali si trovavano all’esterno delle aree agricole migliori,
dove la produzione alimentare per il mercato dava lavoro sicuro. In particolare, poi, le regioni della
protoindustria tessile erano tendenzialmente prossime ma non sovrapposte a quelle in cui si
lavoravano metalli ed in alcuni casi entrambe si trovavano in aree provviste di giacimenti di
carbone. Cosa stimola la concentrazione della proto industria rurale?

a) particolari sistemi di trasmissione ereditaria ed alcune strutture agrarie sono più favorevoli
allo sviluppo protoindustriale (p. es. la divisione in quote tra più figli; rendite fondiarie fisse;
cessione in affitto della terra);
b) il successo di una determinata regione funziona come elemento ‘cumulativo’: si forma una
forte concentrazione di capitale urbano che viene poi utilizzato in settori protoindustriali
c) presenza di risorse naturali sul territorio;
importanza della scelta della tipologia del prodotto (tessuti di lana e cotone piuttosto che
quelli di lino; lavorazione dei metalli piuttosto che metallurgia primaria basata sulla
combustione del carbone).

Se l'industria rurale è presente già molti secoli prima della rivoluzione industriale, la
protoindustrializzazione si sviluppa soprattutto durante il XVIII secolo. La protoindustrializzazione
consentiva ai contadini di svolgere attività che aumentavano i redditi senza ridurre il lavoro
agricolo, e permetteva ai mercanti di sfuggire ai regolamenti delle corporazioni cittadine. Infine, ma
non ultimo, occorre anche segnalare che questa protoindustrializzazione ha determinato delle
modifiche nelle strutture e nei comportamenti demografici (in particolare l'abbassamento dell'età
matrimoniale), anche se essa stessa è stata talvolta attivata da tali cambiamenti (Treccani_
Enciclopedia delle scienze sociali).

La tratta degli schiavi

La schiavitù ha rappresentato nel corso dei secoli una realtà storica ritenuta a lungo una pratica
strettamente connessa con le guerre e la sottomissione dei popoli. Ma è solo dopo la scoperta di
nuove terre e nuovi continenti che il fenomeno acquista una rilevanza epocale caratterizzando i
secoli dalla metà del XV alla fine del XIX, di un commercio dedicato capace di trasferire milioni di
persone da un continente all’altro, sotto l’egida delle potenti monarchie europee, con il beneplacito
papale (Niccolò V con la bolla “Dum diversas” del 1452) e attraverso un’imprenditoria armatoriale
avida e spietata.

In America latina, anche in rapporto con la diminuzione della popolazione india, nel possesso della
terra si andò sempre più rafforzando la grande proprietà inserita nella produzione per il mercato
interno o internazionale e il diffondersi delle piantagioni nelle zone insulari o aperte verso l’Oceano
Atlantico, dove si coltivavano canna da zucchero, cacao, caffè e tabacco. Tutti prodotti destinati
all’esportazione. Il sistema delle piantagioni approdò in America Latina con l’inizio della
coltivazione della canna da zucchero in Brasile, nella seconda metà del ’500. Per la coltivazione

173
della canna sono necessari un clima caldo-umido, energia idrica o animale, legname, capitali per i
mulini di spremitura e una larga disponibilità di manodopera da impiegare soprattutto nella raccolta.
I portoghesi disponevano dei limitati capitali occorrenti per le macchine; il Brasile forniva tutto il
resto, ma non la manodopera. Gli indios, che erano stati decimanti dalle violenze degli Europei e
dalle malattie trasmesse loro dai conquistadores, erano considerati troppo ostili o fisicamente
inadatti al lavoro organizzato e disciplinato delle piantagioni. Nelle colonie spagnole, inoltre, dal
1512 la legislazione tutelava dalla schiavitù i nativi americani (Leggi di Burgos1 e Leggi nuove2).
Infine, con esclusivo riferimento al Continente americano, la bolla Veritas Ipsa di papa Paolo III del
2 giugno 1537, conosciuta anche col nome di Sublimis Deus o di Excelsus, scomunicava invece
tutti coloro che "praefatos Indios quomodolibet in servitutem redigere aut eos bonis suis spoliare"
("ridurranno in schiavitù gli Indios o li spoglieranno dei loro beni"). Gli schiavi neri africani si
erano invece dimostrati molto resistenti al duro lavoro nelle miniere, come avevano sperimentato la
Spagna e Portogallo che ne avevano avviato la tratta nel ‘500. L’Africa, infatti, fu una modesta
fonte di schiavi per l’Europa del sud fino agli inizi del sedicesimo secolo, e fu soltanto con
l’apertura delle Americhe alla colonizzazione europea che il commercio degli schiavi si trasformò
in una importante attività economica.

Le coltivazioni vennero organizzate in grandi aziende agricole capaci di garantire straordinari e


duraturi profitti. Nei domini si producevano quindi materie prime da importare in madrepatria, dove
sarebbero state consumate o lavorate nelle manifatture. Contemporaneamente le colonie
diventarono anche uno sbocco di mercato per i prodotti finiti europei. Una serie di flussi
commerciali - di materie prime verso l’Europa e di prodotti finiti verso le colonie – collegò così i
domini agli Stati colonizzatori. Così cominciarono ad essere importati schiavi neri dall’Africa
perché zucchero, tabacco e caffè e cacao – fonti di inesauribile ricchezza per i coloni europei –
richiedevano un duro lavoro nelle piantagioni che implicava un’ampia disponibilità di manodopera.
Manodopera che era assicurata quasi esclusivamente da schiavi neri importati dall’Africa. Non solo
gli inglesi, ma anche francesi, tedeschi, ecc. traevano notevoli profitti da questo commercio.
Potenze europee (come Portogallo, Regno Unito, Spagna, Francia, Paesi Bassi, Danimarca e
Svezia), mercanti provenienti dal Brasile e dal Nordamerica e Stati africani (come il Regno del
Benin, il Regno del Dahomey, l'Impero Ashanti, l'Impero Oyo e il Regno del Congo) alimentarono
la tratta. Gli insediamenti commerciali portoghesi sulle coste africane operarono come centri di
1 Una serie di ordinanze stilate nella città Castigliana di Burgos il 27 gennaio del 1512, il cui scopo era quello di
mettere in regola il trattamento dei popoli nativi del Nuovo Mondo, che non era garantito dal contratto. Furono le prime
leggi che la Monarchia Ispanica applicò per organizzare la conquista del Nuovo Mondo. Le Leggi di Burgos si possono
riassumere in quattro principi: gli indigeni sono liberi; i Re cattolici sono i Signori degli indigeni e di conseguenza
hanno il compito di evangelizzarli; era consentito obbligare l'indio a lavorare, purché il lavoro fosse tollerabile e il
salario giusto, benché non fosse obbligatorio un pagamento in denaro; si giustifica la guerra e la conquista degli
indigeni nel momento in cui essi si rifiutano di essere cristianizzati (per questo venne redatto il Requerimiento).
2Le Leggi Nuove (in spagnolo Leyes Nuevas) sono un insieme di leggi promulgate il 20 novembre 1542 con lo scopo di
migliorare le condizioni degli indigeni dell'America spagnola, fondamentalmente attraverso la revisione del sistema
dell'encomienda. Le Leggi Nuove si possono riassumere in questi principi: garantire la conservazione del governo e il
buon trattamento degli indigeni; divieto di schiavizzare gli indigeni per qualsiasi ragione; liberazione degli schiavi, se
non si dimostravano delle ragioni giuridiche in senso contrario; gli indigeni non dovevano essere costretti a fare da
caricatori contro la loro volontà o senza un salario adeguato; non potevano essere portati in regioni remote con la scusa
della raccolta delle perle; gli ufficiali reali, ordini religiosi, ospedali e confraternite non avevano diritto all'encomienda;
il possesso delle terre dato ai primi conquistadores doveva cessare totalmente alla loro morte senza che nessuno potesse
ereditarne la detenzione e il dominio.

174
raccolta verso i quali venivano convogliati i neri fatti prigionieri in azioni di guerra o in razzie
nell’interno. Gli schiavi erano in primo luogo vittime delle guerre fra gli “Stati” africani o fra le
tribù, conflitti ai quali spesso si associavano spesso gli europei. Era proprio il loro status di
prigionieri di guerra a giustificarne la schiavitù. Non furono gli europei a introdurre la schiavitù,
che era invece una istituzione diffusa in Africa e tenuta viva dalla domanda del mondo arabo. La
tratta europea e quella araba, tuttavia, presentano grandi differenze. Innanzitutto gli Europei hanno
concentrato la loro attenzione sulla popolazione africana, mentre gli Arabi, asservivano
indifferentemente bianchi e neri. Per gli Arabi, inoltre, il commercio degli schiavi non
rappresentava che un’integrazione di attività di scambio ben più fruttuose. Infine, gli Arabi
utilizzavano la manodopera degli schiavi essenzialmente per i bisogni domestici. E non si può
ugualmente giustificare la tratta degli schiavi da parte europea neanche ricordando che tale traffico
si svolgeva con la complicità interessata degli Africani. Coloro, tra gli Africani, che trassero reale
vantaggio economico dalla tratta degli schiavi furono una minoranza sparuta. La responsabilità
degli Europei nella tratta degli schiavi sono gravissime e non comparabili con altre forme di
schiavismo già praticate ai danni delle popolazioni africane. L’intervento dei negrieri europei
determinò anche un aumento impressionante della violenza fra le tribù e all’interno delle tribù.
Il Regno del Congo e gli Stati africani che si affacciavano sul Golfo di Guinea vendevano gli
schiavi agli europei. I portoghesi, quindi, imbarcavano gli schiavi in Africa, li vendevano in
America e riportavano in Europa le navi cariche di zucchero o di melassa: così i traffici legati allo
zucchero si configuravano come un commercio triangolare che sarebbe divenuto caratteristico
dell’intero sistema mercantile atlantico. Il commercio triangolare, fu uno dei più grandi traffici
mercantili, sviluppatosi nelle acque dell’Oceano Atlantico tra il XVI e il XIX secolo e avente come
poli tre continenti: Europa, Africa e America. Esso era gestito unicamente dai principali stati
europei dell’epoca: Gran Bretagna, Spagna e Portogallo. La caratteristica configurazione del
traffico triangolare:
- le navi europee facevano rotta verso le coste dell’Africa occidentale dove il loro carico, in
genere di scarso valore (chincaglieria, ferramenta minuta, coltelli, tessuti di qualità scadente,
alcolici, armi, cavalli, perline di vetro), veniva scambiato coni ingenti quantità di schiavi;
- in America centrale e del Sud gli schiavi venivano venduti ai mercanti del Brasile, delle
Antille e ai coloni; i negrieri utilizzavano gli straordinari profitti che realizzavano per
acquistare i prodotti coloniali;
- le stesse navi ripartivano cariche di caffè, tabacco e zucchero alla volta dell’Europa.

In questo modo le navi viaggiavano sempre cariche e a ogni tappa il guadagno era assicurato: il
valore delle merci che partivano dall’Europa verso l’Africa era inferiore a quello degli schiavi neri e
dei prodotti importati dall’America, che erano molto richiesti sul mercato europeo. La scoperta
dell’America e la tratta dei neri portarono perciò enormi ricchezze in Europa: oltre ai prodotti del
commercio triangolare dall’America giungevano anche grandi quantità di oro e d’argento, nonché
quei prodotti alimentari.

L’economia delle piantagioni, fondata sul lavoro degli schiavi, presto si diffuse dal Brasile ad altre
zone dell’America: le Antille prima e in seguito l’America del Nord. Data l’elevata mortalità degli
schiavi nelle piantagioni (nelle quali la speranza di vita non superava i dieci anni), la manodopera

175
nera andava continuamente rinnovata. La tratta dei neri fu praticata per circa 300 anni da negrieri
portoghesi, spagnoli, inglesi, francesi e olandesi. Nell’arco di tre secoli, questo commercio impoverì
demograficamente l’Africa di oltre 50 milioni di persone, causando un danno incalcolabile allo
sviluppo di quel continente. La forzata immigrazione degli africani, non solo produsse durature
trasformazioni nelle strutture sociali ed economiche, ma diede luogo ad una vera e propria
rivoluzione etnica e demografica. “La tratta ha disorganizzato gli scambi, scosso le fondamenta
delle società africane, provocato la fuga verso l’interno delle popolazioni costiere.” (Rémond).
L'effetto dello schiavismo sulle società africane è un tema molto controverso. All'inizio del XIX
secolo, gli abolizionisti denunciarono lo schiavismo non solo come pratica immorale e ingiusta nei
confronti dei deportati, ma anche come danno insanabile nei confronti dei paesi da cui venivano
prelevati gli schiavi: a tal proposito si parla anche di diaspora nera o africana. La tratta non ha avuto
impatto uniforme sul continente africano: a essere coinvolte maggiormente sono state le coste
occidentali dell'Africa - più vicine alle Americhe - quali Sudan occidentale, Costa d'Oro (Ghana),
Sierra Leone, Liberia, Guinea; al contrario, le società situate nel cuore del continente africano
(Uganda, Ruanda e Burundi) non vennero in alcun modo toccate dal fenomeno.

Le cose cominciarono a cambiare dopo la firma di un accordo anti-tratta stipulato nel 1841 tra
Inghilterra, Russia, Francia, Austria e Prussia. Tuttavia, temendo che queste nazioni, sotto la
bandiera dell'abolizionismo, potessero ledere la libertà dei propri traffici, gli Usa fecero l'anno dopo
un accordo con la sola Inghilterra, impegnandosi a far stazionare lungo le coste africane occidentali
dello smercio dapprima due navi da guerra, poi diventate sei nel 1846 e cinque nel 1850. La politica
del governo americano era ambigua, poiché da un lato si voleva che la propria economia
rispondesse alla crescente domanda di cotone da parte dei paesi più industrializzati del mondo,
dall'altro però si doveva dimostrare all'opinione pubblica, nazionale ed estera, l'effettiva intenzione
di smantellare lo schiavismo. Nel decennio 1850-60 le navi militari americane sulle coste africane
continuarono a diminuire, mentre la tratta degli schiavi si effettuava praticamente senza alcuna
limitazione. Gli europei non presero mai delle decisioni unanimi contro il governo americano,
proprio perché dovevano tener conto anche degli interessi degli imprenditori privati dei loro paesi.
A quel tempo il tessile era l'arma vincente per affermarsi sul piano economico. La situazione era
diventata schizofrenica: all'aumentare della rigorosità delle leggi, aumentava il permissivismo sul
piano pratico. Questa palese contraddizione veniva mistificata persino dal presidente J. Buchanan,
che nel 1860 dichiarava finito l'import di negri negli Usa. Proprio nello stesso anno il "New York
Daily Tribune" (su cui peraltro scrivevano Marx ed Engels) arrivò a dire, in tutta tranquillità, che gli
schiavisti preferivano gli africani perché, non conoscendo l'inglese, avevano molta più difficoltà a
orientarsi. Di sicuro se ne importarono di più nel periodo 1809-61 che non in quello 1786-1808,
quando la tratta era più libera. Il motivo è semplice. Alla fine del XVIII sec. i vecchi Stati americani
schiavisti di frontiera (Maryland, Virginia, Nord Carolina, Delaware) avevano subito una profonda
metamorfosi. Poiché col passaggio alla coltivazione intensiva del cotone si accelerava l'esaurimento
del suolo, per attenuare i danni dal calo dell'export, gli schiavisti avevano preso ad "allevare" neri
da vendere ai nuovi Stati americani, produttori di cotone, situati nell'estremo sud-ovest, evitando
così i rischi degli acquisti transoceanici.

Contro l’indiscriminato sfruttamento delle colonie e degli schiavi si levarono le voci di molti

176
intellettuali europei. Grande successo in questo senso ebbe l’opera di Guillaume Thomas Raynal,
Storia filosofica e politica delle colonie e del commercio degli europei nelle due Indie.

La schiavitù fu abolita in quasi tutto il mondo nel corso del XIX secolo: tra i primi Stati che la
vietarono vi furono Haiti (1791) e il Canada (1803), tra gli ultimi gli Sati Uniti (1865) e il Brasile
(1888). Negli Stati Uniti, solo in seguito alla guerra civile degli anni 1861-65 la schiavitù fu abolita.
Il 1 gennaio 1863 Abramo Lincoln abolisce la schiavitù in America. Il Proclama di Emancipazione
è un documento composto da due ordini esecutivi promulgati dal presidente degli Stati Uniti
Abramo Lincoln durante la guerra civile americana.

L’evoluzione delle aree commerciali dell’Europa

Nel Quattrocento le attività mercantili e finanziarie avevano come centro il Mar Mediterraneo e in
particolare l’Italia. Era in Italia, infatti, che si collocavano i principali attori del commercio
internazionale: Genova e Venezia. Le due repubbliche effettuavano gran parte degli scambi, sia
all’interno del Mediterraneo sia verso l’Europa settentrionale, dove operavano le città anseatiche,
anch’esse molto attive economicamente. In Italia avevano sede anche le banche più importanti, in
grado di finanziare gli Stati, i loro sovrani e le più diverse imprese commerciali. I maggiori centri
finanziari erano rappresentati da Firenze, con la famiglia Medici, e da Genova, dove aveva sede il
Banco di San Giorgio.

Nel Cinquecento l’economia europea ruotava ancora intono a Mediterraneo, ma le scoperte


oltreoceano avevano allargato i mercati. L’importanza economica della Spagna e del Portogallo
aumentò da quando i due Paesi ebbero disponibilità delle risorse che ricavavano dalle colonie.
Emersero due grandi centri: il primo è la città di Anversa, nelle Fiandre, che con il suo porto gestiva
un’enorme quantità di mercanzie in partenza e in arrivo da ogni angolo dell’Europa; il secondo è la
città tedesca di Augusta, dove operavano i Fugger, famiglia di grandi commercianti e banchieri.
Nel Seicento, il fenomeno dell’atlantizzazione favorì il definitivo spostamento del centro
economico dal Mediterraneo verso i Paesi che si affacciavano sull’Oceano Atlantico. I centri del
commercio e della finanza erano le città di Londra, Parigi, Amsterdam. Si trattava delle capitali
delle nazioni più impegnate nella colonizzazione e nel commercio con i Paesi extraeuropei. La
Spagna, nonostante la posizione geografica favorevole e l’ingente afflusso di metalli preziosi, non
riuscì a consolidare la sua economia. L’Italia risultava sempre più ai margini dei grandi traffici
internazionali.

Il XVII secolo, dunque, vide un ribaltamento degli equilibri economici: gli antichi protagonisti della
vita economica (gli Stati mediterranei) furono sconfitti dall’ascesa delle potenze atlantiche:
soprattutto dall’Olanda. Nel Seicento, quindi, giunse a compimento quel processo di
atlantizzazione, avviato dalle scoperte geografiche del secolo precedente, per il Mediterraneo perse
il suo ruolo di baricentro commerciale a favore del Baltico e dell’Atlantico. L’organizzazione
produttiva dei Paesi atlantici sconfisse quella degli Stati mediterranei. I traffici mediterranei
restarono consistenti ma finirono nelle mani delle flotte inglesi e olandesi che praticavano prezzi per
il trasporto inferiori a quelli proposti dalle marine mediterranee. Inoltre, l’Olanda e l’Inghilterra si

177
assicurarono il primato anche nell’agricoltura e nelle manifatture.

Molti erano i paesi europei che partecipavano al sistema di commercio triangolare che
caratterizzava l’Atlantico. Anche le colonie inglesi del Nord America entrarono stabilmente in
questo circuito non senza qualche rivalità e tensione con la madrepatria: esse erano favorite infatti,
rispetto all’Europa, da una minore distanza dalle Antille e da una capacità produttiva che non solo
era in grado di soddisfare la domanda europea (tabacco e cotone), ma anche quella dei Caraibi e
dell’America spagnola e portoghese (grano, pesce e legname da costruzione). Erano inoltre
importatrici di schiavi neri dall’Africa e di melassa dalle Antille. Questa nuova presenza allargava
l’area controllata dagli inglesi e rafforzava un predominio evidente per gran parte del ’700. In uno
dei settori più importanti, quello del commercio degli schiavi, l’Inghilterra ottenne con la pace di
Utrecht del 1713, oltre che acquisizioni territoriali, il monopolio della tratta verso le colonie
spagnole, l’asiento de negros, e lo mantenne fino al 1750. Ma l’Inghilterra era la prima potenza
commerciale anche per molti altri prodotti coloniali di cui curava lo smercio in un’estesa attività di
riesportazione.

Lo sfruttamento monopolistico delle ricchezze del Nuovo Mondo prevedeva che le colonie spagnole
in America potessero avere relazioni commerciali solo con la madrepatria. Questo sistema chiuso fu
costantemente attaccato e aggirato dalla pirateria e dal contrabbando,
praticati soprattutto da inglesi, olandesi e francesi.

I pirati assalivano e depredavano le navi che trasportavano i metalli preziosi; i contrabbandieri si


presentavano di fronte ai porti dell’America e, con la complicità delle
autorità locali, scaricavano e vendevano beni che erano fortemente richiesti nelle colonie e che la
Spagna non era in grado di fornire. I guadagni elevatissimi del contrabbando consentivano di
affrontarne tutti i rischi e di pagare le cospicue spese di corruzione.

Agli inizi del ’700 l’espansionismo commerciale e territoriale francese era destinato a scontrarsi con
l’Inghilterra non solo in America ma anche nell’Atlantico e, come abbiamo visto, in India. L’ipotesi
che l’esaurirsi della discendenza diretta del ramo spagnolo degli Asburgo portasse un re di origine
francese sul trono di Spagna e che la Francia di Luigi XIV si impadronisse dell’immenso impero
spagnolo, minacciando gli interessi inglesi, aveva già definito i contorni del conflitto.

Nel corso del ’600, inoltre, sia l’Inghilterra con gli Atti di navigazione sia la Francia con una rigida
politica protezionista avevano contribuito a ridurre drasticamente l’egemonia commerciale
olandese.

Questa nuova presenza allargava l’area controllata dagli inglesi e rafforzava un predominio che
aveva le sue origini non solo in un maggiore dinamismo finanziario e commerciale, ma anche in
una potenza navale superiore a quella di ogni altro avversario e quindi in grado di
prevalere in ogni occasione di conflitto. Tale predominio è evidente per gran parte del ’700. In uno
dei settori più importanti, quello del commercio degli schiavi, l’Inghilterra ottenne con la pace di
Utrecht del 1713, oltre che acquisizioni territoriali, il monopolio della tratta verso le colonie

178
spagnole, l’asiento de negros, e lo mantenne fino al 1750; in quella circostanza fu riconosciuto agli
inglesi anche il privilegio di inviare un vascello di 500 tonnellate alle fiere coloniali spagnole.
L’asiento (che prevedeva un flusso di 4800 schiavi l’anno) fu stipulato con una compagnia
privilegiata, la South Seas Company, che si associava nell’impresa con la Royal African Company.
Prima che alla compagnia inglese, gli spagnoli, che non praticarono mai direttamente il commercio
degli schiavi, avevano concesso l’asiento a mercanti genovesi e tedeschi, poi a compagnie
portoghesi e, dal 1701, francesi. Questo commercio «ufficiale» rappresentava comunque solo una
parte della tratta complessiva, alla quale partecipavano molti armatori inglesi soprattutto di Bristol e
Liverpool. Ma l’Inghilterra era la prima potenza commerciale anche per molti altri prodotti coloniali
di cui curava lo smercio in un’estesa attività di riesportazione. Quando, nella seconda metà del ’700,
si inserì nel commercio triangolare il cotone grezzo delle piantagioni americane (Antille e Nord
America), un mercato di vendita su scala mondiale era già pronto per i tessuti di cotone
dell’industria inglese. La rivalità anglo-francese si trasformò in aperto conflitto con la guerra dei
Sette anni, che si concluse con la schiacciante vittoria dell’Inghilterra. All’apertura delle trattative
di pace con Francia e Spagna, l’Inghilterra era vittoriosa in Canada, dove occupava Québec e
Montréal; aveva conquistato la Guadalupa e la Martinica; aveva espugnato L’Avana a Cuba; teneva
Pondichéry e Mahé in India. Contro una parte della stessa opinione pubblica inglese, il governo
britannico optò per una pace moderata e restituì alla Francia le «isole dello zucchero». L’Inghilterra
otteneva comunque dalla Francia, con il trattato di Parigi (1763), tutto il Canada e i territori della
Louisiana a est del Mississippi; la Florida dalla Spagna, che da parte sua riceveva in cambio la
Louisiana a ovest del Mississippi con Nuova Orléans. I domini francesi in America erano ridotti alle
sole Antille, mentre l’Inghilterra, che aveva già conquistato agli inizi del secolo il quasi-monopolio
negli scambi con il Portogallo e il Brasile, manteneva anche una posizione privilegiata nel
commercio con i domini spagnoli. L’Atlantico era ormai sempre più un mare inglese. Ma di lì a
pochi anni l’Inghilterra avrebbe dovuto affrontare l’inevitabile conflitto con le
colonie dell’America settentrionale in grado di esercitare nel commercio interamericano un ruolo
troppo simile, e quindi alternativo, a quello inglese.

Bibliografia

R. Ago – V. Vidotto, Storia Moderna, Laterza

A. Giardina G. Sabbatucci V. Vidotto Laterza, Moduli di Storia dal 1650 al 1900

M. Palazzo – M. Bergese – A. Rossi, Storia magazine. Corso di storia per il secondo biennio e il
quinto anno

Sitografia

179
Sito Treccani e altri siti web

Enciclopedia Treccani online

Wikipedia

180
23. Le rivoluzioni politiche del Seicento-Settecento (inglese, americana, francese). L'età
napoleonica

La rivoluzione inglese

Alla morte senza eredi della regina Elisabetta I (1603), la Corona inglese passò al parente più
prossimo, Giacomo I Stuart, già re di Scozia. Quest’ultimo tentò di perseguire una politica
autoritaria e antiparlamentare, ma si scontrò con una realtà ormai mutata, in cui le autonomie locali
e individuali erano ormai ben radicate. Il suo regno sarà infatti caratterizzato da una serie di
contrasti religiosi, politici e sociali. A ciò si aggiunga il fatto che, con l’ascesa al trono Giacomo I,
Inghilterra, Irlanda3 e Scozia4 si trovarono unite sotto un unico sovrano. Tale unione creò però non
pochi problemi di instabilità, soprattutto a causa delle diverse confessioni religiose che venivano
professate nei diversi territori.

Il clima di tensione sfociò nel novembre 1605 nella cosiddetta “congiura delle polveri”, un
tentativo di colpo di stato: i cattolici, durante l’inaugurazione del Parlamento, tentarono di uccidere
Giacomo I per mettere sul trono un re cattolico. La congiura venne però scoperta e il re reagì
scatenando una dura repressione contro i cattolici. Anche i puritani (una setta radicale che
riconosceva carattere normativo solo alla Bibbia e rifiutava la sottomissione alla Corona) furono
vittime di una politica repressiva. Alcuni (detti padri pellegrini) fuggirono in Olanda e poi in
America dove fondarono la colonia di New Plymouth, prima colonia di inglesi nel Nuovo Mondo.
Per rafforzare la sua autorità e mantenere una base di consenso, Giacomo I cercò di ottenere
l’appoggio della Camera dei Lords, concedendo ricche pensioni e il mantenimento dei diritti
feudali alla nobiltà, scatenando però così il malcontento dei membri della Camera dei Comuni
(gentry). Ne derivò così un grave stato di tensione con la borghesia commerciale e la piccola nobiltà
agraria, che sfocerà in aperto conflitto. Il re riteneva di poter superare questa situazione non
convocando più il Parlamento, se non quando costretto dalla necessità di ottenere stanziamenti di
denaro. Il contrasto tra sovrano e Parlamento si fece ancora più aspro con il successore di Giacomo,
Carlo I Stuart. Quando il nuovo sovrano chiese finanziamenti per sostenere gli ugonotti di La
Rochelle, il Parlamento pretese, e ottenne, in cambio la firma della Petition of Rights (1628), con
cui venivano stabiliti alcuni limiti all’arbitrio regio. L’anno successivo però Carlo sciolse
nuovamente il Parlamento e non lo convocò più per ben undici anni.

Il governo di Carlo I, caratterizzato da provvedimenti fiscali impopolari (tra cui l’estensione della
Ship Money, tassa sugli armamenti, anche ai tempi di pace) e dal lusso di corte, creò malcontento,
soprattutto dopo che, nel 1639, il re cominciò a favorire apertamente la diffusione
dell’anglicanesimo in Scozia. Scoppiò una vera e propria sommossa. Per ottenere i fondi necessari a
soffocarla, Carlo I si vide costretto a riconvocare il Parlamento. Il cosiddetto Corto parlamento (13
aprile – 5 maggio 1640), anziché concedere sussidi, chiese però al re di rendere conto delle illegalità
commesse. Carlo I lo sciolse dopo meno di un mese di attività.

3 L’Irlanda era stasa annessa all’Inghilterra quando, nel 1541, il Parlamento aveva proclamato Enrico VIII “re
d’Irlanda”.
4 Ma i tre territori mantennero Parlamenti separati fino al 1707.

181
Fu però presto costretto a riconvocarlo (Lungo parlamento, 1640-1653). In un primo momento,
costretto dalla situazione, Carlo fece alcune concessioni che di fatto limitavano il suo potere.
Inoltre, il novembre e il gennaio 1642 il Parlamento approvò una Grande Rimostranza, con cui
ripercorreva i motivi di dissenso che lo avevano contrapposto al re. Carlo I la respinse,
disconoscendone i contenuti. Intanto, agitazioni popolari sconvolsero Londra. Per uscire da questa
situazione, nel 1642, il re decise di arruolare un esercito per tentare di arrestare i capi più
intransigenti e ostili del Parlamento. Il piano però fallì. I capi, aiutati anche dalla popolazione
londinese, riuscirono a mettersi in salvo, il Parlamento si alleò con i ribelli scozzesi e il re fu
costretto a fuggire. Scoppiò così una vera e propria guerra civile, con la popolazione divisa in due.
I fedeli al re (nobili e classi conservatrici) vennero detti “cavalieri”, i seguaci del Parlamento
(borghesi e oppositori religiosi) “teste rotonde” (perché non indossavano le tradizionali parrucche,
prerogativa dei nobili). Inizialmente sembrarono prevalere i cavalieri, ma in seguito il conflitto
volse in favore dei parlamentari, anche grazie alla valida guida di Oliver Cromwell (il cui ruolo fu
fondamentale nella battaglia di Naseby, che vide la sconfitta del re). Nei mesi che seguirono il
Parlamento fu attraversato da aspri dibattiti, che videro contrapporsi gli Indipendenti (favorevoli
alla tolleranza religiosa e decisi a combattere fino alla vittoria) e Presbiteriani (rigidamente
ortodossi, vorrebbero trovare un compromesso con il sovrano). Le divisioni esistevano anche
all’interno dell’esercito, dove emersero i Livellatori, una costellazione di gruppi radicali le cui
rivendicazioni confluirono nel documento An Agreement of the People. La fuga del re, che cercò di
accordarsi con gli scozzesi, e l’inizio di una nuova fase della guerra civile, sospesero il dibattito
parlamentare. Infine nel 1648 il re venne definitivamente sconfitto, giudicato dal Parlamento e
condannato a morte per decapitazione (30 gennaio 1649).

L’evento sconvolse l’Europa. La nuova repubblica (detta Commonwealth) represse anche la rivolta
dei cattolici irlandesi. La guerra fu cruenta e molti si videro costretti a fuggire nel Nuovo Mondo.
Poco dopo vennero sconfitti anche gli scozzesi.

Tornò così la pace tra Inghilterra, Irlanda e Scozia, anche se sotto il protettorato di Cromwell
(nominato “Lord protettore di Inghilterra, Scozia e Irlanda” e stabilitosi a Whitehall, ex residenza di
Carlo I), che in realtà si configurava come una vera e propria dittatura militare e che durerà fino al
1658.

La dittatura di Cromwell
Cromwell perseguì fin da subito una politica mantenuta con grande abilità in equilibrio tra
autoritarismo ed egualitarismo democratico. Perseguì così gli interessi dei proprietari terrieri e della
borghesia commerciale puritana. La sua politica incentivava la proprietà privata e stimolava il
commercio eliminando i privilegi locali e riducendo il prelievo fiscale. Vennero aboliti vari
privilegi prima riconosciuti ai nobili. Cromwell cercò anche di raggiungere la pacificazione
religiosa del paese, esercitando la tolleranza religiosa, da cui erano però esclusi i cattolici, visti
come filomonarchici. In politica estera ampliò la flotta e intraprese l’espansione commerciale sul
mare, scontrandosi con Olanda (contro cui, il 9 ottobre 1651, venne promulgato l’Atto di

182
navigazione5) e Spagna. L’Atto di navigazione scatenerà, nel 1652, una guerra con le Province
Unite, vinta dalla flotta inglese. Ma nel 1655 scoppiò un nuovo conflitto, questa volta vinto
dall’Olanda. Con il successivo Trattato di Breda (1667), che pose fine alle ostilità, gli olandesi
ottennero un’attenuazione dell’Atto di navigazione. In cambio cedettero agli inglesi Nuova
Amsterdam, che diverrà poi New York.

Forte di tali successi, Cromwell adottò una politica aggressiva anche nei confronti della Spagna, a
cui riuscì a sottrarre l’isola di Giamaica.

Alla morte di Cromwell (1658) gli successe il figlio Richard, che però era di carattere debole e si
ritirò dopo meno di un anno di governo. Il timore di nuovi periodi di instabilità indusse i moderati
ad appoggiare il generale George Monk, che nel febbraio 1660 marciò vittoriosamente su Londra.
Monk fece votare al Parlamento la restaurazione dell’autorità regia. Salì al trono Carlo II Stuart
(figlio d Carlo I), che si impegnò a concedere l’amnistia e a tutelare la libertà di coscienza.

Ben presto però Carlo II tornò alla forma di governo assoluto praticata dal padre. Rinacquero
tensioni in Parlamento e, nel timore di una nuova rivoluzione, il sovrano accettò due leggi:
1. Test Act (1673): venivano ammessi alle cariche pubbliche solo gli anglicani (Carlo II
tendeva a favorire i cattolici, per compiacere la Francia di Luigi XIV)
2. Habeas Corpus Act (1679): vietava l’arresto arbitrario e il carcere preventivo. Solo il
magistrato poteva decidere l’arresto.

Intanto il Parlamento si occupava anche del problema della successione. Carlo II non aveva figli,
quindi, alla sua morte, il trono sarebbe andato al fratello Giacomo, duca di York e cattolico. I
Whings (borghesia progressista e liberale, sostenitori della libertà religiosa) volevano escluderlo
dalla successione, i Tories (nobiltà tradizionalista e conservatrice) erano invece sostenitori della
legalità, e quindi della successione. A causa di divergenze all’interno del partito dei Wings,
prevalsero i Tories e Giacomo II salì al trono. Ma la sua politica filocattolica gli rese ben presto
ostile tutto il Parlamento, che quindi offrì la Corona al principe protestante Guglielmo III d’Orange,
marito di Maria Stuart, la figlia di Giacomo II.

Guglielmo III d’Orange marciò pacificamente e trionfalmente su Londra nel novembre 1688.
Giacomo II fuggì in Francia. È la cosiddetta “gloriosa rivoluzione”, che consolidò definitivamente
il sistema parlamentare. Prima dell’incoronazione, nel 1689, Guglielmo III sottoscrisse il Bill of
Rights6, che circoscriveva i poteri della Corona. Questo atto segnò la fine della monarchia assoluta
in Inghilterra.

Era stato fatto un decisivo passo avanti, ma permanevano ancora alcuni attriti. Il re infatti poteva
ancora nominare i ministri in piena autonomia. Per evitare scontri con il Parlamento, il sovrano
5 Stabilisce che nei porti inglesi possano entrare solo merci trasportate da navi inglesi.
6 Il Bill of Rights nega al re la possibilità si sospendere l’applicazione di una legge, di esigere tasse per uso personale,
di mantenere un esercito in tempo di pace e nello stesso tempo garantisce al Parlamento piena libertà di parola,
immunità ai suoi rappresentanti per le idee sostenute, libere votazioni e un regolare funzionamento dell’assemblea.
Ribadisce inoltre che il Parlamento ha pieno controllo sulle imposte e sulle finanze.

183
iniziò a scegliere i ministri su indicazione della maggioranza parlamentare.

Gli anni che vanno dal 1640 al 1690 furono caratterizzati anche da uno straordinario fervore
intellettuale e teorico-politico. Gli avvenimenti appena descritti contribuirono non poco a stimolare
le riflessioni sulla natura del potere. Già Ugo Grozio (1583- 1645), considerato il fondatore del
giusnaturalismo, sosteneva che l’essere umano è dotato per natura di diritti che precedono il
formarsi dello Stato e che quindi sono superiori a qualsiasi altra norma giuridica stabilita dallo Stato
stesso. Lo Stato e la società nascono sulla base di un contratto tra gli uomini. Da qui prendono il via
le riflessioni di due grandi pensatori del tempo, che però, pur partendo entrambi dal
giusnaturalismo, giungono ad esiti differenti. Thomas Hobbes (1588-1679) nella sua opera Il
Leviatano (1651) afferma che, per uscire dallo stato di natura, un continuo stato di guerra di tutti
contro tutti, gli uomini stringono un patto sociale che garantisce ad un’unica persona il potere
assoluto (si tratta di fatto della teoria dell’assolutismo). John Locke (1632-1704) afferma invece che
lo Stato nasce per garantire a tutti gli uomini i diritti naturali (vita, libertà e proprietà), che nello
stato di natura potevano essere messi a repentaglio. I cittadini, secondo Locke, conservano però il
diritto di revocare il potere al sovrano, qualora egli ne faccia cattivo uso. Tale pensiero, espresso in
Due trattati sul governo civile, contiene dunque la formulazione teorica dei principi che troveranno
applicazione nel Bill of Rights.

La rivoluzione americana

Gli inglesi si erano stabiliti sulle coste dell’America del Nord 7 fin dal XVI secolo. Nel corso di circa
un secolo, lungo le coste atlantiche si costituirono, sotto la sovranità inglese, tredici colonie 8 abitate
da una popolazione molto variegata: spesso erano perseguitati religiosi, di origine inglese, scozzese,
irlandese, francese e tedesca, ma anche molti schiavi neri. Questa popolazione variegata riuscì però
a formarsi una coscienza nazionale sempre più autonoma: si ritrovavano infatti uniti nella dura lotta
per la sopravvivenza in un territorio selvaggio e dall’entusiasmo di fondare un mondo nuovo, il più
possibile libero da pregiudizi.

L’Inghilterra adottò verso queste colonie una politica restrittiva. Le vedeva infatti come un mercato
di sfruttamento e le controllava in regime di monopolio, perciò le colonie potevano esportare le
materie prime solo in Inghilterra, importare prodotti solo dall’Inghilterra, ai prezzi decisi
dall’Inghilterra e non potevano aprire industrie in concorrenza con quelle inglesi. Inoltre i coloni
non godevano di rappresentanza nel Parlamento inglese ed erano spesso costretti a subire
passivamente le leggi che li riguardavano. Per tutti questi motivi nelle colonie crebbe pian piano il
malcontento verso la madrepatria. Gli esiti della guerra dei Sette anni (a cui i coloni avevano
partecipato attivamente, senza però ottenerne benefici) e alcuni provvedimenti inglesi faranno sì che
le tensioni sfocino in aperto conflitto. Al malcontento per le varie nuove tasse sui generi di consumo
che i coloni erano costretti ad importare (lo Sugar Act del 1764, per esempio, costringeva i coloni
7 Vi erano grandi differenze tra le colonie del Nord America e quelle del Sud, dovute anche ai fattori geografici e
climatici. Nel Nord prevaleva una società di piccoli coltivatori, mercanti e artigiani, nel Sud prosperavano invece le
grandi piantagioni di cotone, tabacco e canna da zucchero.
8 New Hampshire, Massachusetts , Rhode Island, Connecticut, New York, New Jersey, Pennsylvania, Delaware,
Maryland, Virginia, Carolina del Nord, Carolina del Sud, Georgia.

184
ad importare zucchero esclusivamente dai Caraibi inglesi, anche se quello francese costava meno),
si aggiunse quello causato dallo Stamp Act (1765), l’imposizione di uno speciale bollo su giornali,
fatture commerciali e documenti legali. In seguito alle proteste delle colonie, l’anno successivo lo
Stamp Act venne revocato. Ma nel 1667 vennero emanati una serie di provvedimenti (detti
Townshend Acts) che imponevano alle colonie numerosi dazi d’entrata sulle merci importate dalla
madrepatria. A far precipitare gli eventi sarà però il Tea Act (1773), che concedeva il monopolio
del commercio del tè alla Compagnia delle Indie orientali, danneggiando pesantemente i traffici
delle colonie. Le proteste che seguirono tale atto sfociarono nel cosiddetto “Boston Tea Party”: la
notte del 16 dicembre 1773, alcuni Figli della Libertà, assaltarono tre navi della Compagnia nel
porto di Boston e ne gettarono in mare l’intero carico. La reazione inglese non si fece attendere: il
porto venne chiuso al traffico e l’intero Massachusetts venne privato di ogni autonomia
amministrativa. A questa situazione di tensione si aggiunse anche il malcontento causato dal
Quebec Act (1774), con cui al Canada venivano riconosciute le terre a nord dell’Ohio, a cui i
coloni americani aspiravano da tempo.

Malgrado l’esasperazione causata da tutti questi provvedimenti, al primo Congresso Continentale,


riunitosi a Filadelfia nel 1774, prevalse ancora la linea moderata. Dodici delle tredici colonie
firmarono una solenne Dichiarazione dei diritti che ribadiva i diritti inalienabili degli uomini (vita,
libertà e proprietà) e il diritto del popolo di partecipare alla redazione delle leggi che lo
riguardavano. I coloni chiedevano il ripristino dell’autonomia amministrativa in Massachusetts e
l’abolizione del Tea Act. Il re inglese Giorgio III reagì però con intransigenza e rifiutò
sdegnosamente tutte le richieste dei coloni, trasformando così una rivendicazione politica in una
vera e propria guerra di indipendenza.

Nell’aprile 1775 due occasionali scontri a fuoco tra truppe britanniche e coloni indussero il
Parlamento inglese a dichiarare ribelli le colonie. La popolazione delle colonie, pur divisa tra lealisti
e indipendentisti, nel secondo congresso continentale (maggio 1775) decise la formazione della
Continental Army. Sotto l’incalzare degli eventi, il 4 luglio 1776 i rappresentanti delle tredici
colonie sottoscrissero a Filadelfia la Dichiarazione d’Indipendenza9 e assunsero il nome di Stati
Uniti d’America.

La guida dell’esercito venne affidata a George Washington, ricco proprietario della Virginia, che
riuscì a volgere la lotta a favore delle colonie, anche grazie agli aiuti giunti dall’Europa (Francia,
Olanda e Spagna mandarono degli uomini). L’Inghilterra si trovò così politicamente isolata, anche a
causa dell’azione diplomatica svolta in patria da Benjamin Franklin e della costituzione della
cosiddetta Lega dei neutri (voluta da Caterina II di Russia, vi aderiscono anche Prussia, Austria,
Svezia, Danimarca e Portogallo, a difesa della libertà di navigazione contro la pretesa degli inglesi
di ispezionare tutte le navi neutrali). Il conflitto è ormai internazionale.

Nell’ottobre 1777 gli inglesi subirono a Saratoga la loro prima sconfitta sula campo. La situazione
degli insorti restava però precaria, anche a livello economico (l’interruzione dei traffici con la Gran

9 Redatta principalmente da Thomas Jefferson, si fonda sulla sovranità popolare e sul principio della difesa dei diritti
inalienabili dell’uomo.

185
Bretagna aveva sconvolto l’economia delle colonie) e in questo senso gli aiuti giunti dall’Europa si
rivelarono fondamentali. In seguito. Infine, nell’estate del 1781 gli insorti, potendo contare anche
sul sostengo di un contingente francese appena sbarcato, posero sotto assedio la città di Yorktown,
dove erano concentrate le forze britanniche. La resa degli assediati (ottobre 1781) pose fine alla
guerra d’indipendenza. L’Inghilterra si trovò costretta alla pace e a riconoscere, con il Trattato di
Versailles del 3 settembre 1783, l’indipendenza delle tredici colonie e la loro trasformazione in
Stati Uniti d’America.

Ottenuta l’indipendenza, all’interno delle colonie nacquero contrasti dovuti ai più vari motivi
(vendette contro i lealisti, corsa alle cariche pubbliche, rivendicazioni economiche, problema della
schiavitù), ma soprattutto ai dissensi sull’organizzazione da dare allo stato. Si costituirono due
correnti opposte:
• i repubblicani antifederalisti, sostenitori delle autonomie locali contro il progetto di
centralizzazione, riuniti attorno a Thomas Jefferson, fautore di una politica economica
agricola.
• i federalisti, che optavano per una soluzione centralista, guidati dall’avvocato newyorkese
Alxander Hamilton., che vedeva l’avvenire degli Stati Uniti in una fiorente industria.

Prevalse lo schieramento federalista e, il 17 settembre 1787, venne varata, ad opera di personalità


come Washington e Franklin, una Costituzione federale10. Il 4 marzo 1789 venne eletto il primo
presidente, George Washington, che seppe assicurarsi la collaborazione sia di Jefferson che di
Hamilton.

La Costituzione americana è la prima costituzione moderna, perché non si tratta più di una carta di
privilegi concessa da un sovrano (com’era ancora il Bill of Rights), ma di una legge fondamentale
stabilita in seno ad un’assemblea di rappresentanti del popolo appositamente convocata. Essa può
essere considerata espressione della cultura illuministica, perché si fonda sul principio della
separazione dei poteri (teorizzato da Montesquieu), elimina i privilegi ecclesiastici e proclama la
piena libertà di culto (la religione viene attribuita alla sfera della libera coscienza individuale).

Quella americana non fu una rivoluzione solo politica, ma anche sociale, in cui si delinearono la
prima forma di governo democratico e un nuovo tipo di società, in cui sembrava che non dovessero
esistere barriere contro le aspirazioni popolari alla giustizia e alla libertà. Va però precisato che non
tutti gli abitanti del Nuovo Mondo poterono godere dell’applicazione di tali principi. Ne rimasero
infatti esclusi gli schiavi neri (vittime di razzismo e brutalmente sfruttati), gli indiani (vittime di
genocidio) e le donne (a cui non venne concesso il diritto di voto).

La rivoluzione francese

10 La Costituzione prevede un forte governo centrale, in cui il potere esecutivo è affidato a un Presidente, quello
legislativo ad un Parlamento bicamerale (il Congresso), composto da un Senato (due rappresentanti per Stato) e da
una Camera dei rappresentanti (in numero proporzionale in base alla popolazione dei vari Stati). Congresso e
Presidente sono eletti dai cittadini maschi, con alcune restrizioni, tra cui il pagamento delle tasse.

186
In Francia, patria dell’illuminismo, il dispotismo illuminato portò cambiamenti troppo modesti.
Permanevano ancora differenze giuridiche e di privilegi tra le varie classi sociali (clero o Primo
stato, nobiltà o Secondo stato e borghesia e popolo, detti Terzo stato). Di qui un diffuso
malcontento. Inoltre, tra il 1786 e il 1789 giunse in Francia la crisi economica che tra 1770 e 1790
colpì un po’ tutta l’Europa. Ci furono carestie dovute, tra l’altro, ad un periodo climatico avverso,
un enorme aumento di prezzi, disastroso per contadini, artigiani e salariati e molte industrie
manifatturiere non ressero la concorrenza olandese. Il tutto si verificò in un periodo di aumento
demografico, con conseguenze disastrose. Molti contadini, impossibilitati a pagare le corvées, si
spostarono in città, dove finirono a mendicare. La tragica situazione finì per unire borghesi,
contadini e operai (cioè tutto il Terzo stato) contro la nobiltà e l’alto clero.

La situazione si inasprì ulteriormente nel 1788, quando il prezzo del pane subì un ulteriore aumento.
Il re Luigi XVI, chiuso nella reggia di Versailles, non era all’altezza della situazione. Numerose
guerre, la perdita di parte delle colonie, la crisi delle finanze pubbliche (dovuta anche alla vita
lussuosa condotta del sovrano) rendevano necessaria una riforma finanziaria che tassasse anche i
ceti più abbienti. Ben tre ministri delle finanze, incaricati dal sovrano, cercarono di tassare le classi
privilegiate. I nobili però si ribellarono a tali tentativi e chiesero la convocazione degli Stati
generali, concessa nel maggio 1789. A molti francesi, questa sembrava l’occasione giusta per
affrontare i più urgenti problemi politici e sociali del momento. I cahiers de doléances redatti dal
Terzo stato chiedevano l’uguaglianza fiscale e la fine dei privilegi feudali. Gli Stai generali si
aprirono già con contrasti, riguardanti soprattutto le modalità di voto (nobili e clero chiedevano che
si votasse “per stato”, il Terzo stato invece “per testa”). Le tensioni durarono diversi giorni. Il 17
giugno il Terzo stato si proclamò Assemblea nazionale (dichiarandosi quindi vero rappresentante
del popolo francese). Il 20 giugno i rappresentanti del Terzo stato, trovando chiusa la sala delle
riunioni per ordine del re, si riunirono in un’altra sala adibita al gioco della pallacorda, dove fecero
il cosiddetto “giuramento della pallacorda”, impegnandosi a non separarsi finché la Francia non
avesse ottenuto una costituzione basata su principi liberali, come quella inglese. Luigi XVI si vide
costretto ad ordinare ai rappresentanti del Primo e Secondo stato di unirsi a quelli del terzo e così, il
9 luglio 1789, l’Assemblea nazionale venne trasformata in Assemblea costituente.

Malgrado le apparenze, permaneva però uno stato di conflittualità. I nobili conservatori premevano
sul re per spingerlo a non fare troppe concessioni, il popolo diede vita a violenti tumulti (“rivolta
della fame”). Quando si sparse la voce che il re intendeva sciogliere l’Assemblea, il 14 luglio 1789
una folla di parigini assaltò la Bastiglia, prigione considerata simbolo dell’assolutismo. Da allora
Parigi venne governata da un consiglio di cittadini, detto Municipalità. Venne anche istituita la
Guardia nazionale, con a capo La Fayette, nobile di idee liberali schieratosi con il Terzo stato. La
rivolta si estese velocemente anche alle campagne, dove per i ceti privilegiati ebbe inizio il periodo
della cosiddetta “grande paura”. I vari consigli comunali non obbedivano più al re, ma
all’Assemblea costituente che, il 4 agosto 1789, decretò l’abolizione di privilegi del clero e della
nobiltà e la soppressione dei diritti feudali. Poi, il 26 agosto, venne approvata anche la
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che riconosceva l’esistenza dei diritti naturali
e inalienabili, che l’Assemblea identificava nel riconoscimento della sovranità popolare, nel diritto
di parola, di pensiero, di religione, di stampa e nell’inviolabilità della persona e della proprietà. Il re

187
però rifiutò di approvare i decreti, scatenando una nuova rivolta dei cittadini che, il 5 ottobre, giunti
alla reggia di Versailles, costrinsero il sovrano e la sua famiglia a trasferirsi a Parigi. Luigi XVI si
vide così costretto a ratificare le decisioni dell’Assemblea.

In questa fase giocavano un ruolo in primo piano anche i club, luoghi di aggregazione, discussione
politica e propaganda. I più importanti erano il “Club del 1789” (riunito attorno a La Fayette,
aspirava ad una soluzione moderata, su modello inglese) e i più radicali “Amici della Costituzione”
(noti come giacobini, sostenitori dell’ideologia repubblicana) e “Amici dell’uomo e del cittadino”
(noti come cordiglieri, radicali e favorevoli all’abbattimento della monarchia, guidati da Danton,
Desmoulins e Marat).

Intanto, l’Assemblea prendeva vari provvedimenti, tra cui vanno ricordati i seguenti:
• confisca da parte dello stato delle proprietà ecclesiastiche
• costituzione civile del clero (i sacerdoti e i vescovi diventano impiegati dello Stato e devono
giurare fedeltà allo Stato e alla Costituzione). Questo provvedimento diede vita alla
divisione tra clero costituzionale e clero refrattario
• unificazione dei pesi e delle misure
• eliminazione dei titoli nobiliari
• istituzione presso ogni comune di uffici di stato civile (prima nascite, matrimoni e morti
erano registrati dal clero).

Nell’Assemblea costituente prevalse il riformismo moderato, che trovò applicazione nella


Costituzione approvata il 3 settembre 1891 11. La nuova legge introdusse il suffragio ristretto,
creando così divisioni all’interno dello stesso Terzo stato e ponendo così fine all’alleanza tra nobiltà
liberale, borghesia e classi popolari.

Nell’estate del 1891 il re Luigi XVI e la sua famiglia cercarono di fuggire, ma vennero riconosciuti
e ricondotti a Parigi il 25 giugno 1891. L’episodio venne interpretato da molti francesi come un
tradimento.

Un altro episodio che turbò il precario equilibrio raggiunto si verificò il 17 luglio 1791, quando la
Guardia nazionale sparò sulla folla che stava manifestando contro la monarchia all’interno del
Campo di Marte, uccidendo alcuni dimostranti.

La nascita della prima repubblica


Il 1° ottobre 1791 venne sciolta la costituente ed eletta un’Assemblea legislativa con il compito di
emanare le leggi per attuare la Costituzione. I suoi membri appartenevano a diverse correnti
politiche (a sinistra c’erano sono i giacobini, i cordiglieri di Danton e Marat e i girondini, al centro
la maggioranza dei deputati, detti indipendenti, e a destra i foglianti guidati da La Fayette).

Nell’agosto 1791 Austria e Prussia, preoccupati dalla situazione francese, dichiararono guerra alla
11 Sua caratteristica è la divisione dei poteri: il legislativo è affidato ad un’Assemblea di 745 membri, l’esecutivo al re
che lo esercita tramite i ministri da lui nominati, il giudiziario da giudici eletti dal popolo.

188
Francia (dichiarazione di Phillnitz) per restituire il trono a Luigi XVI. La Francia rispose
dichiarando guerra all’Austria, al cui fianco si schierò subito la Prussia. Di fronte alle prime
sconfitte militari, il popolo accusò immediatamente il re di tradimento. Tra il 9 e il 10 agosto 1792
una rivolta popolare attaccò la reggia della Tuileries, dove risiedeva il re, che fu costretto a
rifugiarsi presso l’Assemblea. A Parigi ebbe luogo un vero e proprio colpo di stato: nella capitale si
formò un governo straordinario guidato dalla Comune insurrezionale, che costrinse l’Assemblea a
sospendere la monarchia costituzionale e ad eleggere una nuova costituente, la Convenzione, eletta
a suffragio universale. È una nuova fase della Rivoluzione, dominata dalle forze popolari e dai
giacobini.
Il clima a Parigi era di grande tensione. Il tentativo di La Fayette di arrestare l’azione dei giacobini
marciando su Parigi venne interpretato come un tradimento. Manifestazioni di violenza portarono
all’uccisione indiscriminata di centinaia di nobili e preti refrattari. In tale contesto, il 20 settembre
1792 ebbero luogo due eventi decisivi: i francesi sconfissero i prussiani a Valmy, costringendoli a
ritirarsi oltre il confine, e l’Assemblea legislativa venne sciolta per lasciare il posto, il giorno
seguente, alla Convenzione nazionale .

Nella seduta del 21 settembre 1792 la Convenzione dichiarò decaduta la monarchia e proclamò la
repubblica. Aveva così inizio l’anno I dell’era repubblicana. Il re venne processato e condannato a
morte. Morì sulla ghigliottina il 21 gennaio 1793. Il fatto fece una profonda impressione alle altre
potenze europee.

Inghilterra, Austria, Russia, Prussia, Spagna, Portogallo e Olanda (a cui si aggiunsero ben presto il
Regno di Sardegna e quello di Napoli), si coalizzarono contro la Francia (prima coalizione, 1793) e
ottennero subito alcuni successi militari. La Convezione corse subito ai ripari con alcuni
provvedimenti straordinari, tra cui l’istituzione della leva di massa obbligatoria, la creazione di un
Comitato di salute pubblica con pieni poteri in politica interna ed estera, la formazione di una
Commissione di difesa generale (per sorvegliare persone sospette) e l’istituzione di un Tribunale
rivoluzionario. Così la Convenzione finì per spogliarsi sempre più dei suoi poteri.

L’insofferenza del popolo verso questi provvedimenti fu alla base della rivolta di Vandea (guidata
dal nobile Henri de La Rochejaquelein e soffocata nel sangue) e di quelle in altre regioni, in
particolare la Bretagna.

Un altro dei problemi che la Costituente si trovò ad affrontare fu l’inflazione, causata


dall’irresponsabile e incontrollata messa in circolazione di carta moneta. Per tutelare le classi più
povere, la Convenzione decise il razionamento dei viveri e introdusse un calmiere sui prezzi.

La repubblica giacobina e il Terrore


Intanto nella Convenzione si facevano sempre più accesi i contrasti tra i montagnardi, guidati da
Robespierre, e i girondini. Il 2 giungo 1793 lo scontro si concluse con la vittoria dei montagnardi,
appoggiati dai sanculotti12 e con la morte per ghigliottina di ventinove deputati girondini. Da questo
momento la Francia sarà governata dal Comitato di salute pubblica, strumento grazie al quale i
12 Gli appartenenti alle classi popolari, chiamati così perché non portavano le culottes, i pantaloni indossati dai nobili.

189
giacobini, e soprattutto Robespierre, instaurarono un regime fortemente accentrato e dittatoriale.
Ebbe così inizio il periodo del Terrore.

Il 24 giugno 1793 la Convenzione presentò la Costituzione dell’anno I, ispirata ai più radicali


principi democratici e preceduta da una seconda Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.
Tale Costituzione però non venne mai applicata: non c’era spazio per il confronto nella dittatura dei
giacobini.

Tra i più importanti provvedimenti presi dalla Convenzione in quegli anni vanno ricordati:
• istituzione del matrimonio civile e del divorzio
• abolizione della schiavitù
• introduzione del sistema metrico decimale per pesi e misure
• riforma del calendario
• introduzione dei culti della Dea Ragione e dell’Essere Supremo, in evidente
contrapposizione al cattolicesimo.

Anche all’interno dello schieramento dei giacobini comunque esistevano delle opposizioni: a destra
i più moderati, detti “indulgenti”, a sinistra i più radicali ancora, detti “arrabbiati”. Il 13 luglio 1793
la situazione precipitò: Marat, leader degli arrabbiati, venne assassinato da Charlotte Corday,
giovane monarchica. Robespierre approfittò della situazione per prendere provvedimenti
straordinari, come l’eliminazione tramite ghigliottina di tutti i suoi antagonisti, grazie ad accuse
montate ad arte. Eliminate tutte le opposizioni, Robespierre poté dare nuovo impulso alla politica
del Terrore. Al settembre 1793 risale la “legge dei sospetti”, che portò all’arresto arbitrario di
migliaia di “nemici della Rivoluzione”. Dal 10 giugno 1794 la pena prevista per i nemici della
rivoluzione è una sola: la morte.

Questo clima di sospetto e terrore, insieme con la crisi economica, fece però perdere a Robespierre
l’appoggio del popolo. Il 27 luglio (9 termidoro) 1794 la Convenzione votò l’arresto di Robespierre,
che il giorno seguente venne ghigliottinato senza processo. Ebbe così fine il periodo del Terrore.

Dopo l’eliminazione di Robespierre in Assemblea prevalse nuovamente l’ala moderata. Sotto la


guida dei termidoriani si giunse alla terza Costituzione 13, che abolì il suffragio universale (si tornò
così al suffragio ristretto su regime censitario), ripristinò la libertà di commercio e tornò a tutelare la
proprietà privata. Tolti i calmieri sui prezzi, vi fu un forte rincaro, di cui risentirono soprattutto le
classi più deboli. Gli interessi delle classi popolari venivano così subordinati a quelli del borghesia.
Il nuovo regime entrò in vigore il 27 ottobre 1795, data che segna l’uscita dalla fase propriamente
rivoluzionaria. Tale Costituzione però non accontentava né i giacobini né i realisti.

Nella primavera 1795 le folle parigine si mobilitarono, ma la protesta venne soffocata dall’esercito.
Anche i realisti tentarono di insorgere, ma anche il loro intervento venne stroncato da un reparto
13 Il potere esecutivo è affidato al Direttorio, composto da 5 membri a cui spetta la nomina dei ministri e dei capi
dell’esercito. Il potere legislativo passa ad un Parlamento bicamerale, composto dal Consiglio dei Cinquecento e dal
Consiglio degli Anziani. Il secondo funge da organismo di controllo.

190
dell’esercito, guidato dal giovane Napoleone Bonaparte.

Nel 1796 Babeuf, con l’aiuto del fiorentino Filippo Buonarroti, organizzò la Congiura degli Eguali,
con l’obiettivo di fondare una società di tipo comunistico, ma l’insurrezione venne repressa sul
nascere.
Il periodo che seguì viene detto del Terrore bianco, perché caratterizzato da una sistematica
persecuzione di giacobini e sanculotti attraverso processi sommari e massacri indiscriminati.

L’età napoleonica

A fine XVIII secolo l’espansione territoriale sembrava ormai l’unico mezzo per superare i problemi
politici ed economici della Francia. In quest’ottica l’esercito diventava un evidente strumento di
potere e promozione sociale. Al suo interno emerse la personalità del giovane Napoleone Bonaparte
che, dopo essere caduto in disgrazia alla morte di Robespierre, riuscì a riguadagnare la fiducia del
Direttorio reprimendo una rivolta di monarchici. Nel marzo 1796 gli venne affidata un’armata da
guidare in Italia. La campagna d’Italia fu subito caratterizzata da importanti successi. Nel maggio
1796 vennero sconfitti i piemontesi e gli austriaci, a cui venne sottratta la Lombardia. Nel febbraio
1797 Bonaparte conquistò i ducati di Parma e Modena e lo Stato Pontificio, proseguì poi attraverso
il Veneto e il 30 aprile occupò Vienna. L’Austria chiese allora l’armistizio, ratificato dalla pace di
Campoformio (17 ottobre 1797), con cui la Francia ottenne Belgio e Lombardia e cedette
all’Austria il Veneto (con Istria e Dalmazia), segnando così la fine della Repubblica di Venezia.

Inizialmente accolti bene da alcuni intellettuali, i francesi persero però prestigio in seguito alle
spoliazioni indiscriminate dei territori occupati e al tradimento di Venezia.

Nelle terre occupate vennero istituite le “repubbliche sorelle”, che però non erano tanto vere
repubbliche democratiche indipendenti, quanto piuttosto entità statali satelliti della Francia.
Nell’ottobre 1796 nacque la Repubblica Cispadana (regione emiliana), che, unita nel 1797 a quella
Transpadana (Lombardia) e alle poche terre venete non cedute all’Austria, a Romagna e Pesaro,
diede vita alla Repubblica Cisaplina, con capitale Milano. Nel gennaio 1798 nacque la Repubblica
Ligure, poi la Repubblica Romana, la Repubblica Partenopea (1799, Napoli). A inizio 1799 tutta la
penisola italiana era sotto influenza francese.

Ma repubbliche simili vennero create anche fuori dall’Italia (ne sono un esempio la Repubblica
Bastava nei Paesi Bassi e la Repubblica Elvetica in Svizzera).

Intanto in Francia, alle elezioni dell’autunno 1798 i monarchici conseguirono un successo elettorale,
così il Direttorio dichiarò nulle le elezioni e il 18 fruttidoro (4 settembre) intervenne l’esercito per
arrestare i maggiori esponenti dei monarchici, mettendo così in atto un vero e proprio colpo di stato.
Sconfitta l’Austria, la Francia guardava ormai verso l’Inghilterra che però, protetta dalla sua flotta,
appariva come un nemico troppo temibile. Così il Direttorio decise di attaccarla nei suoi interessi

191
coloniali, partendo dall’Egitto, per poi sferrare in un secondo tempo un attacco in India. La
campagna d’Egitto (maggio 1798-giugno 1799) e, più in generale, l’espansionismo francese,
destarono però preoccupazione in Europa. Inghilterra, Turchia, Russia e Austria, che si riunirono
così nella seconda coalizione. Sconfitti sul campo dalle truppe austro-russe, i francesi furono così
costretti ad abbandonare la penisola italiana dove, cadute le repubbliche sorelle, vennero ripristinati
i regimi monarchici precedenti.

La situazione della Francia era molto instabile. Il governo era paralizzato dalla corruzione dei
funzionari pubblici, dal progressivo rallentamento dell’attività industriale e commerciale e,
soprattutto, dalla crescita di consensi dei giacobini. Il Direttorio stava prendendo in considerazione
la possibilità di imporre una nuova Costituzione autoritaria e conservatrice con cui stabilire
l’egemonia borghese. Non poteva però farlo senza l’appoggio dell’esercito. Intuendo la situazione,
il 18 brumaio (9 novembre) 1799 Napoleone sciolse con la forza il Direttorio ed mise in atto un
colpo di stato.

L’ascesa e la caduta di Napoleone


Napoleone venne nominato primo console e la repubblica cessò di fatto di esistere. La nuova
Costituzione affidava il governo al Primo console e il potere legislativo ad un Parlamento che però
di fatto non aveva nessun potere decisionale. Il potere giudiziario era affidato ad un gruppo di
magistrati nominati dal Primo console. Era quindi, di fatto, una dittatura del Primo console.

Forte della nuova posizione raggiunta, Napoleone riprese le armi ed intraprese una seconda
campagna d’Italia. Il 2 giugno 1800 sconfisse gli austriaci a Milano (pace di Lunéville, che
conferma il trattato di Campoformio) e ricreò la Repubblica Cisalpina (che nel 1802 venne
ribattezzata Repubblica italiana). Intanto l’Inghilterra costrinse alla resa il corpo di spedizione
francese rimasto in Egitto e firmò con la Francia la pace di Amiens (1802).

Il 16 luglio 1801 la Francia stipulò anche un Concordato con la Santa Sede, in base a cui veniva
riconosciuta in Francia la preminenza della religione cattolica (ma rimanevano ammesse altre forme
di culto) e la Francia si impegnava a sostenere il mantenimento del clero. Inoltre i parroci tornavano
ad essere eletti dalla Chiesa (ma dovevano giurare fedeltà anche al governo).

Inoltre, tra 1800 e 1804 venne emanato il nuovo Codice civile, detto poi “codice napoleonico”, che
riprendeva alcuni provvedimenti della Rivoluzione, accanto a norme ispirate all’Ancien Régime.
Napoleone prese anche vari provvedimenti per accentrare il potere nelle sue mani: istituì prefetti
nominati dal governo (che sostituivano i rappresentanti liberamente eletti), riorganizzò la polizia,
limitò il numero dei giornali, si servì di una rigida censura e istituì scuole di alto livello, volte alla
formazione di una nuova classe dirigente. In campo economico introdusse nuove monete, istituì la
Banca di Francia (1800) per incoraggiare la ripresa degli investimenti, impose alte tariffe doganali
ai danni della concorrenza inglese e stipulò contratti commerciali favorevoli con le repubbliche
sorelle, Spagna, Portogallo e Turchia, diminuì le imposte dirette e aumentò quelle indirette
(favorendo così i proprietari terrieri e la borghesia e penalizzando le fasce meno abbienti). Riuscì
così a dare nuovo impulso sia all’economia agraria che a quella industriale.

192
Com’è evidente, Napoleone mirava alla creazione di un governo autoritario e centralizzato,
ponendo tutte le premesse per l’instaurazione di un impero personale. Il primo passo verso questo
traguardo è rappresentato dal consolato a vita, concessogli dal Senato il 2 agosto 1802. Due giorni
dopo gli venne anche concesso il diritto di scegliere il proprio successore. Napoleone fu
avvantaggiato anche dai vari complotti orditi da repubblicani e monarchici. Nell’aprile 1804, per
esempio, venne scoperto l’ennesimo complotto di monarchici. Il Senato reagì attribuendo a
Napoleone il titolo di imperatore, trasmissibile agli eredi, ufficialmente confermato dal plebiscito il
2 dicembre 1804.

Il resto d’Europa era preoccupato, soprattutto l’Inghilterra. Nel settembre 1805 prese vita la terza
coalizione antifrancese, a cui presero parte Austria, Russia, Svezia e Regno di Napoli. Il 20 ottobre
1805 i francesi sconfissero gli inglesi nella battaglia di Ulm, ma lo stesso giorno la flotta francese
venne distrutta da quella inglese (guidata da Horatio Nelson) nella battaglia di Trafalgar. Il 2
dicembre 1802 gli austriaci vennero definitivamente sconfitti nella battaglia di Austerlitz e
l’Austria si trovò costretta a firmare la durissima pace dei Pirenei (26 dicembre 1805). In base al
trattato, l’Austria dovette cedere l’Istria e la Dalmazia, annesse alla Francia, e il Veneto, che venne
unito al Regno d’Italia, poi affidato al figliastro di Napoleone, Eugenio di Beauharnais.

Restava però aperto lo scontro con l’Inghilterra. Nel novembre 1906 la Francia istituì un blocco
continentale, che vietava i traffici commerciali con l’Inghilterra a tutti i paesi sottomessi alla
Francia o alleati con essa. Napoleone decise di colpire il Portogallo, legato da tempo al commercio
inglese. Ottenne l’appoggio della Spagna, a cui fu promessa una parte del territorio portoghese. Il
Portogallo venne così invaso da un contingente guidato da Gioacchino Murat, cognato di
Napoleone, e la famiglia reale fu costretta a fuggire. Poi, approfittando di dissidi per la successione
al trono spagnolo, Napoleone mise sul trono di Spagna il fratello Giuseppe Bonaparte (che era già
re di Napoli) e affidò il trono di Napoli a Marat. In seguito, nel 1808, Napoleone occupò anche lo
Stato pontificio e, di fronte alla scomunica inflittagli da Pio VII, fece arrestare il pontefice, che
venne trasferito a Fontainebleau.

Tra 1806 e 1809 si formarono la quarta e la quinta coalizione antifrancese. Ancora una volta però,
Napoleone riuscì a sconfiggere separatamente i propri avversari (la Prussia nella battaglia di Jena
dell’ottobre 1806, gli austriaci e gli inglesi nella battaglia di Wagram del 1809). I successi militari
vanno in parte attribuiti alla strategia francese, basata su rapidi e improvvisi spostamenti di truppe e
artiglieria, contrapposti agli schemi tradizionali degli altri eserciti, caratterizzati da lentezza e scarsa
mobilità.

Nell’aprile 1810, per assicurarsi una discendenza, Napoleone Bonaparte lasciò la prima moglie e
sposò la diciannovenne Maria Luisa, figlia dell’imperatore d’Austria, che nel 1811 gli diede un
figlio maschio.

La situazione interna della Francia rimaneva però instabile. C’era malcontento per i danni
economici causati dal blocco continentale e per il continuo stato di guerra. Napoleone non godeva

193
del consenso né dei democratici né dei monarchici, e si era inimicato anche il cattolici. Il colpo di
grazia gli verrà inflitto dalla guerra con la Russia.

Napoleone organizzò infatti una spedizione in Russia, che, pur essendo formalmente alleata
francese, veniva però accusata di non collaborare al blocco continentale. L’esercito partì il 25
giugno 1812. La marcia verso Mosca fu lunga e lenta. I francesi entrarono in città il 14 settembre
1812, ma la trovarono distrutta da un incendio e rimasero quindi privi di alloggi e provviste.
Napoleone attese la richiesta di pace dello zar, che però non arrivò. Infine, visto l’approssimarsi
dell’inverso, decise di ritirarsi. La ritirata fu un disastro, a causa delle rigide condizioni
atmosferiche e dell’impreparazione dell’esercito ad affrontarle. Inoltre, i russi riuscirono a
circondare i francesi al passaggio della Beresina tra il 25 e il 27 novembre 1812. Le vittime furono
innumerevoli.

Intanto i paesi europei si unirono nella sesta coalizione (Inghilterra, Russia, Svezia, Prussia,
Austria) che riuscì a sconfiggere i francesi nella battaglia di Lipsia (16-18 ottobre 1813, nota come
“battaglia delle nazioni”). La Francia venne invasa e Napoleone, il 6 aprile 1814, fu costretto a
sottoscrivere a Fontainebleau l’atto di abdicazione e a ritirarsi in esilio all’isola d’Elba. A Parigi,
occupata fin dal 31 marzo, salì al trono Luigi XVIII, e il 30 maggio venne firmato il trattato di pace
tra gli alleati, in base al quale la Francia tornava ai confini del 1792.

Nel marzo 1815 Napoleone, riuscito a fuggire dall’esilio, sbarcò in Francia. Il nuovo governo durò
però solo tre mesi, i famosi “cento giorni”. La settima coalizione, organizzata tempestivamente,
ottenne una vittoria decisiva il 18 giugno 1815, nella battaglia di Waterloo. Napoleone venne
esiliato a Sant’Elena, dove morirà il 5 maggio 1821.

In Italia vennero nuovamente ripristinati i vecchi regimi monarchici, mentre Veneto e Lombardia
diventarono parte integrante del regime asburgico. Ebbe così inizio il periodo della Restaurazione.

Le coalizioni contro la Francia


Stati coalizzati Principali eventi bellici Esito finale
Prima Inghilterra, Austria, Napoleone entra in scena Pace di Parigi,
1793-1797 Prussia, Spagna, con la Campagna d’Italia Trattato di
Portogallo, Olanda, (1796-1799) Campoformio
Sardegna, Due Sicilie,
Chiesa
Seconda Austria, Russia, Svezia, Sconfitta dei francesi in Paci di Lunéville e di
1798-1799 regno di Napoli Italia Amiens
Terza Inghilterra, Turchia, Vittorie di Ulm e Pace di Presburgo
agosto/settembre Russia, Austria Austerlitz;
1805 Sconfitta di Trafalgar
Quarta Inghilterra, Russia, Vittoria di Jena; Pace di Tilsit

194
1806-1807 Prussia, Svezia Invasione di Portogallo e
Spagna
Quinta Inghilterra, Austria Vittoria di Wagram Pace di Vienna
1809
Sesta Inghilterra, Russia, Sconfitta di Lipsia Trattato di Parigi
1813-1814 Prussia, Svezia, Austria Abdicazione
Settima Inghilterra, Russia, Cento giorni; Seconda abdicazione
1815 Prussia, Austria Sconfitta di Waterloo

Bibliografia

BRANCATI ANTONIO e PAGLIARANI TREBI, a cura di, Dialogo con la storia e l’attualità, vol. 2, Dalla
metà del Seicento alla fine dell’Ottocento, Milano, La Nuova Italia, 2017

AGO RENATA e VIDOTTO VITTORIO, a cura di, Storia moderna, Bari, Edizioni Laterza, 2004

R I C U P E R A T I GI U S E P P E e I E V A FR É D É R I C, Manuale di storia moderna, Novara, UTET,


1018

195
24. Storia contemporanea: l'eta' della restaurazione e i moti del 1820-1821, i moti del 1830-
1831, i moti del 1848

Il Congresso di Vienna

Il XIX secolo si aprì con un evento storico di fondamentale importanza per l’Italia. Nel maggio
dell’anno 1800, Napoleone con circa 40.000 uomini superò il valico del Gran San Bernardo e
sorprese l’esercito austriaco dislocato in Piemonte. Nel mese successivo occupò Milano e il 14
giugno sconfisse gli austriaci a Marengo, presso Alessandria. Potè quindi ricostruire la Repubblica
Cisalpina, la Repubblica ligure e rioccupare il Piemonte [1]. Ma il sogno di Napoleone di
espansione territoriale, per l’ingrandimento del suo Impero, si infranse ben presto con la disfatta di
Waterloo da parte delle truppe inglesi. Dopo la sua morte, avvenuta nell’isola di Sant’Elena, in
occasione del Congresso di Vienna (4 ottobre 1814 – 9 giugno 1815), le potenze vincitrici (Russia,
Inghilterra, Austria e Prussia) fecero i conti con l’immenso lascito napoleonico e cercarono di
risolvere i problemi che ne furono scaturiti, realizzando il disegno di una nuova Europa. Il periodo
storico che va dal Congresso di Vienna alla rivoluzione di luglio in Francia (1830) è stato detto età
della Restaurazione. Dopo l'abdicazione di Napoleone, quasi tutti i sovrani europei che furono stati
spodestati dalle armate francesi ritornarono sui loro troni. In Francia venne restaurata la monarchia
borbonica con Luigi XVIII. Le potenze vollero ritornare allo status quo ante, aspirazione di cui si
fece portavoce il principe Klemens von Metternich, ministro dell'imperatore d'Austria, coadiuvato
dal plenipotenziario francese Talleyrand. Metternich propose alle quattro potenze che si erano
opposte a Napoleone - Austria, Prussia, Russia e Inghilterra - di convocare a Vienna un Congresso
al quale avrebbero preso parte tutti gli stati europei, al fine di determinare un nuovo assetto del
continente. Il Congresso di Vienna si aprì il 4 ottobre del 1814, anche se venne temporaneamente
sospeso durante i Cento giorni del ritorno di Napoleone. Nel febbraio del 1815 Napoleone riuscì a
fuggire dall'isola d'Elba e approdò in Francia. Riuscì ad organizzare l'esercito e si scontrò in
un'epica battaglia a Waterloo, dove venne sconfitto da inglesi e prussiani (18 giugno 1815).
successivamente venne esiliato nella isola di Sant'Elena, dove morì il 5 maggio del 1821. L'Atto
finale del Congresso risale al 9 giugno 1815 e con esso si dichiarò universalmente l'abolizione della
tratta degli schiavi (2).

I principi sanciti dal Congresso furono:


– Il principio di legittimità, sostenuto da Talleyrand, che tenne conto dei diritti dei sovrani che
erano stati privati dei loro troni;
– il principio dei compensi: si dovette garantire un compenso territoriale agli stati che ebbero
rinunciato a parti del loro territorio, sotto la pressione di Napoleone;
– il principio dell'equilibro politico, fatto più che altro per proteggere grandi potenze come la
Francia, creando intorno ad essa degli stati-cuscinetto per frenare nuove eventuali desideri
espansionistici;
– il principio di solidarietà fra le grandi dinastie, grazie al quale esse si prestavano soccorso
nel caso di nuovo sconvolgimento dell'assetto europeo concordato a Vienna.

Al Congresso parteciparono tutti gli stati europei, furono però le maggiori potenze vincitrici del

196
conflitto contro Napoleone a prendere le decisioni finali, ossia Prussia, Austria, Russia e Inghilterra.
Un ruolo molto importante venne svolto dalla Francia grazie al rappresentante del re Luigi XVIII, il
visconte di Talleyrand, che ottenne il ritorno dei Borboni. Il nuovo assetto internazionale stabilito
dal Congresso di Vienna si risolse, in sostanza, nell'affermazione del predominio delle potenze
vincitrici: mentre l'Inghilterra consolidò il suo impero marittimo e coloniale, le grandi monarchie di
Russia, d'Austria e di Prussia assunsero la direzione della politica continentale. Esse si costituirono
in una specie di direttorio europeo, che trovò la sua giustificazione nel compito di restaurare e
custodire l'ordine politico e sociale sconvolto dalla rivoluzione e dalle guerre napoleoniche,
contrapponendo ai principi rivoluzionari il diritto divino delle dinastie: ognuno dei membri
dell'alleanza fu tenuto a partecipare attivamente alla conservazione dell'ordine restaurato,
intervenendo ovunque esso fosse minacciato. (principio dell'intervento). Lo zar Alessandro I, nel
suo spirito mistico e romantico, diede a questa concezione un'impronta religiosa, presentando, con il
manifesto della Santa Alleanza, la solidarietà delle monarchie conservatrici, come la solidarietà
cristiana dei dinasti, investiti da Dio della missione di guidare i popoli, secondo i dettami della fede.
L'adesione del re di Francia al patto della Santa Alleanza, firmato dai sovrani di Russia, d'Austria e
di Prussia il 26 settembre del 1815, associava la dinastia francese, ristabilita sul trono in nome del
principio di legittimità, alla coalizione delle monarchie europee a difesa dell'ordine costituito. La
Santa Alleanza costituiva il baluardo elevato dall'Europa conservatrice contro le nuove forze che
avevano trovato la loro espressione nella rivoluzione francese (3). Alla Santa Alleanza non
aderirono l'Inghilterra e lo stato Pontificio, con Papa Pio VII. Con la Santa Alleanza si afferma per
la prima volta il "principio di intervento" in base al quale gli stati della Santa Alleanza si
impegnavano ad aiutarsi e ad intervenire in caso di sommosse che potessero sconvolgere l'assetto
politico e territoriale del Congresso di Vienna. Ma una maggiore influenza sulle vicende politiche di
quegli anni ebbe la Quadruplice Alleanza, sottoscritta da Austria, Gran Bretagna, Prussia e Russia
nel novembre 1815. Essa prevedeva che le potenze si riunissero regolarmente in congressi per
discutere circa i vari problemi dell'ordine europeo. Il primo dei loro incontri avvenne ad Aquisgrana
nel 1818.

Il nuovo assetto politico europeo fu il seguente:


– L'Austria controllava tutta l'Europa centro-orientale e parte dell'Italia, riacquista tutti gli
antichi possedimenti (ad eccezione del Belgio, ceduto all'Olanda) e il territorio della
soppressa Repubblica di Venezia. All'imperatore d'Austria venne attribuita la presidenza
della Confederazione Germanica.
– La Russia acquistò la Polonia, la Bessarabia e la Finlandia
– L'Inghilterra fu priva di interessi territoriali sul continente, ad eccezione di Malta e delle
Isole Ionie, ma conservò le conquiste coloniali, e fu interessata solo al mantenimento dello
status quo.
– La Francia si ridimensionò territorialmente ma ritornò pressappoco ai confini precedenti il
1789
– la Prussia si ingrandì a spese della Sassonia e di altri territori sulle rive del fiume Reno
– L'Olanda venne incorporata al Belgio e assunse il nome di Regno dei Paesi Bassi.
– La Svezia perse la Finlandia e ottenne in cambio la Norvegia

197
– La Danimarca perse la Norvegia ma ricevè la Pomerania
– La Svizzera venne riorganizzata in Confederazione e gli altri stati si impegnarono a
garantirne la neutralità.

L'assetto dell'Italia dopo il 1815, invece, prevedette il seguente quadro:


– Il Lombardo-Veneto tornò all'Austria
– il Regno di Sardegna fu nelle mani di Vittorio Emanuele I di Savoia e acquisì i territori
dell'ex Repubblica di Genova.
– Il Granducato di Toscana fu di Ferdinando III d'Asburgo- Lorena
– Il Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla fu nelle mani della moglie di Napoleone (Maria
Luisa d'Austria)
– La Repubblica di San Marino rimase sempre indipendente dal territorio italiano
– Lo stato pontificio fu sotto il controllo del papato
– Il Regno delle due Sicilie fu dei Borbone
– il Ducato di Modena e Reggio fu assegnato a Francesco IV d'Este.

Esclusa dall'intransigenza dei detentori del potere la possibilità di una opposizione legale, la
ribellione al regime non aveva altra via che la lotta clandestina e la rivolta violenta (2). Infatti, nel
corso del secolo, quell’”ordine” stabilito in occasione del Congresso, che prevedette il ritorno degli
stati alla situazione geo-politica del periodo antecedente alle conquiste napoleoniche, venne
scombinato dall’emergere dell’idea di nazione. In diversi paesi d’Europa, popoli che si sentivano
uniti da una stessa lingua, da una stessa cultura e da una stessa storia si trovarono dispersi in una
pluralità di formazioni statali, che a volte comprendevano anche popolazioni «estranee». Per tutti
questi popoli, la nascita di un sentimento nazionale era facilitata dalla possibilità di riconoscersi in
opposizione ad un altro popolo visto come oppressore o sfruttatore [4]. Germania e Italia erano i
due paesi nei quali si manifestavano i primi dissapori verso il popolo conquistatore. L’800, per tale
motivo, sarà interessato da numerose guerre di indipendenza dallo straniero.

In quasi tutti i Paesi del continente, la storia degli anni che seguirono il 1815 fu tutto un seguito di
congiure, di colpi di mano, di sommosse. La prima manifestazione a carattere rivoluzionario fu la
rivolta che ebbe luogo in Spagna all'inizio del 1820. Il moto partì dall'esercito, dove le infiltrazioni
carbonare erano numerose, e assunse proporzioni tali da costringere il re a ripristinare la
costituzione del 1812.

I moti del 1820-1821

Le ripercussioni degli avvenimenti spagnoli si fecero presto sentire in Italia. Nel regno napoletano,
come in Spagna, furono i militari ad assumere l'iniziativa: il 2 luglio 1820. la guarnigione di Nola,
sotto la guida di due tenenti, Morelli e Silvati, si ammutinò, marciando sulla capitale. La sorpresa
paralizzò le forze governative: il 13 luglio il re concesse la costituzione sul modello spagnolo. A sua
volta, la Sicilia insorse ma l'insurrezione siciliana non fu animata dagli stessi ideali di quella
napoletana. Quello cui miravano i siciliani era l'autonomia: la costituzione significava per loro un

198
parlamento proprio, espressione della sovranità dell'isola. Il nuovo governo napoletano non
intendeva transigere su questo punto e si risolse a domare con le armi l'isola ribelle. Frattanto, si era
messo in moto il meccanismo della Santa Alleanza. I sovrani conservatori, radunati in congresso a
Lubiana nel gennaio 1821, affidarono all'Austria il compito di soffocare il moto liberale, che
contrastava con il "sistema" stabilito nel 1815. Re Ferdinando di Napoli, chiamato a Lubiana a
giustificarsi per aver concesso la costituzione, sconfessò il proprio operato e si adoperò a
promuovere l'intervento. L'esercito costituzionale napoletano tentò invano di contrastare il passo
agli invasori: dopo un breve scontro ad Antrodoco, le sue forze si sbandarono; il 23 marzo 1821 gli
austriaci entravano a Napoli. La reazione fu violenta: Morelli e Silvati furono giustiziati; quelli che
non riuscirono a scampare con la fuga subirono implacabili condanne.

Il moto napoletano era l'espressione di un profondo disagio, che non si limitava alla situazione
locale. La rete delle congiure non si limitava alla situazione locale. La rete delle congiure si
diramava su tutta la penisola. A Milano, nell’ottobre del 1820, la polizia aveva scoperto una
"vendita" carbonara, le cui ramificazioni si estendevano sino all'Emilia Romagna e aveva arrestato,
come principali esponenti della cospirazione, il piemontese Silvio Pellico e il romagnolo Piero
Maroncelli. La Carboneria, nata nel sud del paese sin dall'epoca della dominazione francese, era
un'organizzazione segreta e rigorosamente cospirativa. Negli anni della restaurazione essa aveva
costituito delle sezioni non soltanto nel Regno Napoletano, ma anche nello Stato pontificio, in
Piemonte e in Toscana, a Parma, Modena e nel Lombardo-Veneto. Gli appartenenti a questa
organizzazione provenivano per lo più dalla borghesia, dalla nobiltà liberale e dagli intellettuali
progressisti. Il lato debole dei Carbonari era la chiusura delle loro organizzazioni, l'assenza di
legami solidi con le grandi masse popolari, l'ignoranza del problema della terra (5). Uno dei capi del
liberalismo lombardo, il conte Federico Confalonieri alla testa di un gruppo di congiurati in cui
militavano diversi aristocratici milanesi, manteneva stretti contatti con la setta dei Federati, assai
diffusa negli ambienti subalpini. I liberali piemontesi appuntavano le loro speranze sull'erede
presunto del trono, Carlo Alberto di Savoia Carignano. Cresciuto nell'atmosfera napoleonica, il
giovane principe aveva assunto un atteggiamento di fronda contro lo spirito retrivo che dominava
alla Corte e, animato da confuse ambizioni, non aveva respinto i contatti con i cospiratori. Secondo
i piani della congiura un'insurrezione militare avrebbe dovuto costringere il re Vittorio Emanuele I a
concedere la costituzione: la guerra contro l'Austria sarebbe stata la immediata conseguenza. Il 10
marzo 1821 insorse la guarnigione di Alessandra; il moto si propagò, raggiungendo il 13 marzo la
capitale. Ma Vittorio Emanuele I non era Ferdinando di Napoli: piuttosto che scendere a
concessioni contrarie alle sue convinzioni, preferì abdicare in favore del fratello Carlo Felice, in
quel momento ospite del duca di Modena. Nella assenza del nuovo re, la reggenza spettava a Carlo
Alberto, in cui gli insorti vedevano un alleato. E' vero che, al momento dell'azione, il Carignano
aveva negato la sua partecipazione al moto insurrezionale; ma non aveva nemmeno preso posizione
in senso contrario. Messo dinanzi al fatto compiuto, Carlo Alberto si risolse a concedere la richiesta
costituzione, con la riserva dell'approvazione del re. Carlo Felice, invece di approvare l'operato del
reggente, gli intimò di raggiungere le truppe fedeli radunate a Novara, e Carlo Alberto non osò
disobbedirgli. In realtà i suoi rapporti con i congiurati si basavano su di un equivoco: egli era
animato da una profonda avversione all'Austria e dalla vaga ambizione di recitare una parte, ma non
era un liberale e non pensava a mettere in discussione il principio d'autorità rappresentato dalla

199
corona. L'insurrezione piemontese si dissolse come quella napoletana: le truppe fedeli al re, alle
quali si erano congiunti contingenti austriaci, incontrarono solo una debole resistenza. Come a
Napoli, anche a Torino seguirono le condanne. Carlo Alberto fu inviato in più o meno velato esilio
presso il suocero, granduca di Toscana, e fu restituito nei suoi diritti di successione solo dopo
essersi impegnato a non mutare le istituzioni dello Stato e aver dato prova della sua rottura con i
liberali, partecipando alla spedizione contro i costituzionali di Spagna.

In Lombardia, il governo austriaco stringeva i freni: condannati al carcere a vita, nella fortezza dello
Spielberg, il Pellico e il Maroncelli, arrestati e puniti con la stessa condanna il Confalonieri e i suoi
compagni. I focolai della rivolta si spegnevano a uno a uno, in Italia e in Europa. Il congresso di
Verona, convocato fra i sovrani della Santa Alleanza nel 1822, decideva l'intervento contro la
costituzione spagnola; la dinastia borbonica di Francia si assunse il carico della repressione. I
costituzionali, ridotti in breve entro le mura di Cadice, dovettero capitolare dopo che gli assedianti -
fra i quali si trovava Carlo Alberto - ebbero espugnato la fortezza del Trocadero. Unico a salvarsi
dalla sorte comune fu il moto per l'indipendenza scoppiato in Grecia nel gennaio 1821 e
prolungatosi con alterne vicende per un intero decennio. Ma intorno alla Grecia si intrecciavano gli
interessi della Russia e dell'Inghilterra che rivaleggiavano nel Mediterraneo orientale: il moto greco
trovò così, a differenza di quelli italiani e spagnoli, una situazione internazionale favorevole e
l'intervento europeo si risolse, perciò, a suo vantaggio. Al trionfo esteriore della Santa Alleanza non
rispondeva però una vera vittoria: l'opposizione repressa non era soppressa e si sviluppò anzi con
rinnovata energia.

I moti del 1830-1831 e il "Neoguelfismo" di Gioberti

Fra il 1830-31, l'Europa fu attraversata da una nuova ondata rivoluzionaria, simile per molti aspetti
a quella cominciata dieci anni prima. Simile fu l'ispirazione ideale dei moti e simili furono le forze
che se ne fecero promotrici, anche se diversi furono i paesi interessati. Nel complesso, i moti del
1830-31 furono meno estesi e meno violenti di quelli del '20-21. Ma ebbero conseguenze piú
profonde e durature. Ciò accadde perchè il primo e piú importante movimento insurrezionale ebbe
luogo in Francia, e soprattutto perchè questo moto si concluse con un sostanziale successo: cioè con
la cacciata della dinastia dei Borboni (6) Infatti, nel luglio del 1830, a Parigi, una rivoluzione
popolare rovesciava la dinastia borbonica, restaurata nel 1815, e instaurava al suo posto una
monarchia costituzionale, con Luigi Filippo, del ramo cadetto degli Orleans. Le giornate di luglio
segnano la prima sconfitta della reazione, la prima rivelazione della sua debolezza; una ripresa dello
spirito combattivo nelle file del liberalismo europeo ne fu l'immediata conseguenza. Il primo degli
effetti fu l'insurrezione del Belgio, per rivendicare la propria indipendenza nazionale con la
separazione dall'Olanda. Le ripercussioni della rivoluzione parigina si fecero sentire anche in
Spagna dove, nel 1834, la regina Maria Cristina promulgò una "carta" costituzionale. Altrove si
tentò e non si riuscì, come in Polonia, dove era scoppiata una sollevazione nel novembre 1830, che
aveva resistito fino al settembre dell'anno successivo al soverchiante esercito russo.

Anche in Italia si riaccese la rivolta, sopita ma non spenta dopo gli insuccessi del 1821. A Modena,
sotto la guida di un giovane commerciante, Ciro Menotti, si era costituito un gruppo che manteneva

200
stretti contatti con Parigi. Affiliato alla Carboneria fin dal 1817, maturò fin da giovane un forte
sentimento democratico e patriottico che lo portò a rifiutare la dominazione austriaca in Italia.
Affascinato dal nuovo corso del re Luigi Filippo d'Orléans, dal 1820 tenne frequenti contatti con i
circoli liberali francesi: l'obiettivo era quello di liberare il ducato di Modena dal giogo dell'Austria
(7). Le giornate di luglio incoraggiarono i congiurati a passare all'attuazione di un piano che
avrebbe dovuto condurre alla formazione di uno stato libero e indipendente nell'Emilia e nella
Romagna: il duca di Modena, Francesco V, avrebbe dovuto assumere il trono delle province
liberate. Ma il duca, anche se in un primo tempo fu tentato nelle sue ambizioni, assunse ben presto
un atteggiamento ostile e pervenne il tentativo del Menotti, facendolo arrestare nella notte fra il 3 e
il 4 febbraio 1831. Ciò non valse però a fermare il moto insurrezionale ormai in corso: la rivolta,
scoppiata a Bologna, dilagò rapidamente nella Romagna e nelle Marche. Di fronte al pericolo, il
duca cercò di riparare in territorio austriaco, mentre la duchessa di Parma, abbandonata la sua
capitale, si rifugiava nella più sicura Piacenza, presidiata da una guarnigione austriaca. A Parma e a
Modena si costituirono governi provvisori; Bologna si pose alla testa della Romagna, delle Marche
e dell'Umbria, erigendosi a sede del "governo delle Province Unite". Gli eventi provocarono
l'immediata reazione di Vienna, decisa, come dieci anni prima, a stroncare con il suo intervento "il
contagio della rivoluzione". Le speranze degli insorti si rivolgevano alla nuova Francia
costituzionale, che aveva contrapposto al principio di intervento della Santa Alleanza la tesi del non
intervento, del dovere cioè delle potenze di non immischiarsi nelle faccende interne degli altri stati.
Ma il prudente Luigi Filippo non era disposto ad affrontare i rischi di una politica che l'avrebbe
posto in contrasto con tutta l'Europa conservatrice e rimase, quindi, spettatore. Abbandonato a sè
stesso, in poche settimane il moto si dissolse dinanzi all'avanzata austriaca. Ancora una volta, la
reazione prese la sua rivincita: le repressioni culminarono con l'impiccagione di Ciro Menotti.

Le vicende dell'insurrezione avevano messo in evidenza le manchevolezze del movimento settario,


dei suoi metodi e dei suoi programmi: si imponeva la necessità di una ispirazione coerente, di una
più efficiente organizzazione della lotta. Interprete di questa esigenza fu Giuseppe Mazzini, che
doveva dare al nostro Risorgimento un'incancellabile impronta e quel contenuto interiore che
ancora gli mancava. Cresciuto in un ambiente familiare di tradizioni repubblicane e democratiche
assai ostile al governo sabaudo, subì soprattutto l'influsso della madre che gli comunicò una severa
coscienza morale e un senso religioso della vita che furono poi sempre alla base del suo pensiero.
Laureatosi in legge (1827) e iscrittosi alla Carboneria, alternò all'azione politica l'attività letteraria
(8). Il problema dell'indipendenza italiana non era per lui soltanto un problema politico: era una
fede di cui si sentiva profeta; da ciò la sua potenza di suggestione e la sua forza di convinzione.
Nazionalità e libertà formarono per lui un tutto unico, due aspetti inscindibili del principio della
sovranità popolare: per questo vedeva l'attuazione dell'idea nazionale solo nella forma repubblicana
che, in antitesi allo stato dinastico, rappresentava lo Stato del popolo in tutta la sua pienezza.
L'associazione da lui fondata nell'agosto del 1831, la Giovane Italia, costituì l'antitesi della
Carboneria. Di fronte allo spirito locale della Carboneria, affermò una intransigente ispirazione
unitaria: il suo compito era di dare agli italiani, ancora imbevuti di spiriti municipali, il senso
dell'unità, la coscienza di formare un tutto unico. Al costituzionalismo carbonaro, fiducioso nella
collaborazione dei sovrani, contrappose un ardente credo repubblicano, la sua fede nella rivoluzione
popolare, mete ideali che davano al movimento nazionale italiano un impulso possente, animato da

201
mistico fervore. Fu, dapprima, la congiura del 1833, in Piemonte, tendente a rovesciare la
monarchia e a iniziare da Torino la crociata popolare contro l'Austria. Fu nel 1834 il tentativo di
sollevazione della Savoia, conclusosi anch'esso con uno scacco. Fu, dieci anni dopo, nel 1844, la
spedizione dei fratelli Bandiera in Calabria, finita tragicamente nel Vallone di Rovito. Furono, negli
anni fra il 1843 e il 1845, i colpi di mano di Bologna e di Rimini, miseramente falliti.. Nessun
risultato immediato, dunque; ma un fermento animatore immesso nella vita italiana ed europea, di
una situazione insostenibile, cui bisognava porre rimedio. Tuttavia, la serie degli insuccessi finì con
l'ingenerare un senso di stanchezza. Si diffuse la convinzione che il problema nazionale andava
affrontato in termini di evoluzione e non di rivoluzione, attraverso una oculata attività riformatrice
meglio rispondente alla reale situazione italiana. Convertire i principi al programma riformistico,
invece di inasprirli con la minaccia rivoluzionaria, ottenere da loro la concessione di statuti,
spingerli a emanciparsi dalla tutela austriaca, convincerli della necessità dell'indipendenza. Nel
1843 uscì il "Primato morale e civile e gli italiani" di Vincenzo Gioberti. Secondo Gioberti, il
risorgimento d'Italia poteva avvenire solo facendo appello alla tradizione spirituale cattolica: come i
guelfi del Medioevo, gli italiani del Risorgimento dovevano schierarsi attorno al pontefice, nella
lotta contro l'Imperatore tedesco. Un neoguelfismo, dunque, che radunasse gli stati italiani in una
federazione intorno al papa e che contrapponesse al conservatorismo austriaco un cattolicesimo
vivo e moderno, conciliato con i principi del liberalismo. Nel 1846 salì al soglio pontificio Pio IX: i
suoi primi atti sembravano annunciare in lui il papa auspicato da Gioberti. Mostrò di comprendere
le esigenze del tempo e soddisfece le aspirazioni di libertà dei sudditi: nel 1847 attenuò il regime
della censura; annunciò l'istituzione di una consulta di stato, cui dovevano partecipare dei laici; creò
la guardia civica. Modeste concessioni ma che suscitarono la sensazione di una cambiata atmosfera.

I tumulti del 1848

All'inizio del '48, il moto riformatore diventò una impetuosa corrente, che trascinò i prìncipi italiani
a cominciare dal più retrivo, il re di Napoli. Il 12 gennaio Palermo insorse; Napoli era in fermento:
il Borbone proclamò una costituzione sul modello di quella francese del 1830. Il granduca di
Toscana seguì il suo esempio. Di lì a poche settimane, a Torino, Carlo Alberto emanò lo statuto. Il
sovrano, concedendo lo Statuto, aveva voluto dar vita ad una sorta di monarchia limitata, nella
quale la Corona non fosse solo un elemento formale, ma, investita della titolarità dell'esecutivo,
partecipasse in modo determinante al potere legislativo e a quello giudiziario, andando ben oltre i
limiti di un "potere neutro". In tale contesto istituzionale tutti gli altri poteri e tutti gli altri organi
erano collocati in una posizione subalterna o, quanto meno, inferiore a quella del sovrano (9). Nel
frattempo Pio IX coronò l'edificio delle sue riforme con una carta costituzionale. Il moto italiano si
svolse, questa volta, in un clima europeo ben diverso da quello del 1821 e del 1831. Il 24 febbraio
Parigi aveva abbattuto la monarchia di Luigi Filippo e instaurato la repubblica. La scintilla partita
da Parigi incendiò l'Europa: la rivoluzione raggiunse quello che era apparso fino ad allora il già
solido baluardo dell'ordine antico, l'Impero asburgico. Il 3 marzo Budapest insorse; l'agitazione si
diffuse in Croazia e in Boemia; il 13 marzo Vienna era in rivolta. Metternich, il ministro in cui si
incarnava il sistema del 1815, abbandonò il poeta; l'imperatore concesse la costituzione. Questa
notizia suscitò nell'Italia austriaca una vera e propria esplosione: il 18 marzo 1848, Milano si coprì
di barricate. Dopo cinque giorni di lotta accanita, il 23 marzo il comandante austriaco, Radetzki, fu

202
costretto a sgomberare. E il 22 marzo si liberò Venezia, in un moto improvviso di popolo, senza
incontrare resistenza. Nonostante i festeggiamenti dei milanesi dopo la cacciata degli austriaci dalla
città, tutti erano consapevoli che la liberazione del Lombardo-Veneto poteva essere solo il frutto di
una vera e propria campagna militare combattuta tramite battaglie campali e certamente i patrioti
lombardi, per generosi che siano i loro sforzi, non ne avevano i mezzi. L’unica potenza che poteva
ambire ad una simile impresa era l’esercito sardo di Carlo Alberto ed fu dal suo comportamento
che, a questo punto, dipese il futuro politico dell’Italia settentrionale (10). Le insurrezioni del
Lombardo-Veneto avevano dato il segnale dell'intervento piemontese: Carlo Alberto varcò con le
sue truppe, il 23 marzo, il Ticino, invase la Lombardia, si mise alle calcagna di Radetzki in ritirata,
batte gli austriaci a Pastrengo. L'edificio costruito dai trattati del 1815 in Italia crollò: i duchi di
Modena e di Parma abbandonarono i loro stati; gli altri prìncipi, per mantenersi sul trono, dovettero
seguire la corrente: il Papa, il re di Napoli, il Granduca di Toscana parteciparono alla guerra contro
l'Austria.

Il sogno di Gioberti sembrò trasformarsi in realtà. Ma non era che un'illusione. Gli statuti, l'invio
delle truppe erano per i sovrani italiani il prodotto di uno stato di necessità: concessioni che si
preparavano a revocare non appena ne avessero avuto la possibilità. Mentre il Granduca di Toscana
temporeggiava, il re di Napoli il 15 maggio diede un improvviso colpo di freno: chiuso il
Parlamento, fece mitragliare i patrioti dai suoi mercenari svizzeri; le truppe che aveva inviato contro
l'Austria ricevettero l'ordine di tornare. Il Papa a sua volta, in una allocuzione del 29 aprile, aveva
dichiarato di non poter entrare, come Pontefice, in una contesa politica, e aveva richiamato i suoi
soldati. Non tutti gli obbedirono, come non obbedirono i napoletani all'ordine del loro re. Ma dove
era più la crociata che doveva vedere i prìncipi italiani uniti contro l'Austria?

Di tutti, uno solo rimase in campo: Carlo Alberto. Aveva conquistato Peschiera, il 30 maggio;
battuto a Goito gli Austriaci che i volontari toscani avevano impegnato a Curtatone. Ma furono gli
ultimi successi. In breve, le sorti si rovesciarono: Radetzki, che aveva ricevuto rinforzi da Vienna,
prense l'offensiva. Quattro giorni di Battaglia intorno a Custoza, dal 22 al 25 luglio, si conclusero
con la sconfitta piemontese. Cominciò la ritirata che non si fermò nemmeno a Milano: Radetzki
rientrò vittorioso nella città delle Cinque Giornate. Mentre l'esercito austriaco si schierò al confine
del Ticino, il 9 agosto il generale Salasco concluse l'armistizio che portava il suo nome. La sconfitta
di Carlo Alberto era la sconfitta del partito moderato e riformista, L'iniziativa del moto nazionale
passò alle forze rivoluzionarie, decise a prendere nelle loro mani la direzione della lotta. A Venezia,
Daniele Manin proclamò la repubblica (agosto 1948); a Firenze, Francesco Guerrazzi si impadronì
del potere e convocò una Costituente italiana. Anche a Roma il regime costituzionale non riuscì a
reggersi: il papa si rifugiò a Gaeta sotto la protezione del re di Napoli; il 9 febbraio 1849 venne
proclamata la repubblica. Intanto il Piemonte riprendeva la guerra il 20 marzo 1949. Tre giorni
dopo l'esercito piemontese veniva sconfitto a Novara. A Carlo Alberto non rimaneva che abdicare; a
suo figlio, Vittorio Emanuele II, spettò il compito di trattare col vincitore. Il giovane sovrano seppe
uscire dalla difficile situazione con dignità e accortezza: nel colloquio di Vignale riuscì a
convincere Radetzki dell'opportunità di lasciare alla monarchia piemontese lo Statuto (24 marzo).
Il 26 marzo veniva firmato a Novara l'armistizio. La guerra era finita, ma i suoi strascichi si
prolungarono nella lotta politica all'interno. La sinistra democratica chiedeva la ripresa delle ostilità;

203
alla decisa opposizione all'armistizio in Parlamento, che condusse allo scioglimento della Camera,
si accompagnò a Genova una rivolta che dovette essere repressa manu militari. Firmato il trattato di
pace a Milano, il nuovo Parlamento rifiutò la sua approvazione e fu anch'esso sciolto. Indette nuove
elezioni, il re intervenne con un appello al Paese (proclama di Moncalieri, 20 Novembre 1949). Fu
così possibile avere una maggioranza favorevole alla ratifica del trattato evitando una guerra a
oltranza con i conseguenti sviluppi rivoluzionari e le incognite di una lotta senza speranza. Il
ministero d'Azzeglio, che aveva condotto la battaglia parlamentare, mantenne la politica piemontese
sul binario costituzionale, sottraendosi alle tentazioni reazionarie. Come aveva fatto fronte agli
attacchi delle sinistre, seppe resistere all'offensiva scatenata dalle destre in occasione delle leggi
emanate dal ministro della giustizia Siccardi, che abolivano i privilegi ecclesiastici e mettevano un
blocco all'aumento dei beni delle congregazioni religiose.

Mentre la situazione si stabilizzava in Piemonte nell'equilibrio costituzionale, il resto d'Italia


oscillava fra la rivoluzione e la reazione. La monarchia austriaca, superata la crisi rivoluzionaria,
riprese la sua funzione di custode dell'ordine costituito nella Penisola. Le truppe imperiali
soffocarono l'insurrezione di Brescia, dopo dieci giorni di lotta (23 marzo - 2 aprile 1849);
varcarono i confini dello Stato della Chiesa, occupando Bologna e spingendosi sino ad Ancona, e
restaurarono sul trono il granduca di Toscana. Contemporaneamente il re di Napoli, riconquistata
Palermo, domava l'insurrezione siciliana. Rimanevano, ultime roccaforti del movimento popolare,
Roma e Venezia. La Francia, preoccupata dell'avanzata austriaca nel territorio pontificio, assumeva
l'iniziativa di restaurare l'autorità papale, inviando un corpo di spedizione contro la Repubblica
Romana. Sugli spalti di Roma, sotto la guida di Mazzini e di Garibaldi, la rivoluzione italiana
combattè la sua suprema battaglia; per due mesi, l'esercito improvvisato della Repubblica tenne
testa alle agguerrite truppe francesi. Mentre gli invasori entravano nella città, l'Assemblea
Costituente romana chiudeva i suoi lavori, proclamando dal Campidoglio, in segno di protesta e di
affermazione ideale, la costituzione repubblicana (3 luglio 1849). Restava Venezia, unica isola di
libertà nell'Italia sommersa dalla reazione. Domate la Lombardia e il Veneto, le forze austriache si
erano concentrate intorno alla città. Affamata, travagliata dalla carestia e dal colera, Venezia
resistette sino al 24 agosto. La caduta di Venezia sanciva la vittoria della reazione in Italia; il ritorno
dell'antico regime pareva aver cancellato ogni traccia del grande moto che aveva sollevato, nel '48,
la Penisola. Ma v'era uno stato, in Italia, in cui l'eredità del '48 era sopravvissuta: il Piemonte.
Un'eredità apparentemente modesta, eppure gravida di conseguenze: il Piemonte con il suo regime
costituzionale, si elevava a simbolo delle superstiti fortune liberali e nazionali. Tutti i sovrani della
Penisola si erano condannati a obbedire alla bacchetta dell'Austria. Il tricolore e lo statuto facevano
del Piemonte qualcosa di ben diverso da quei piccoli stati vassalli, facevano del Piemonte "l'intero
problema italiano". Le forze della rivoluzione sembravano essersi consumate nell'epopea di Roma e
di Venezia. Mazzini cercò ancora di tenere acceso il fuoco della rivolta; ma i tentativi mazziniani,
sporadici e isolati, furono soltanto occasione di implacabili repressioni. Le cospirazioni di Mantova,
concluse con le impiccagioni di Belfiore; la sommossa del 6 febbraio 1853; l'esecuzione di Pier
Fortunato Calvi nel Cardore dimostravano l'impotenza del metodo insurrezionale dinnanzi alla
schiacciante preponderanza della reazione. Il Piemonte offrirà al moto nazionale non soltanto il
punto di appoggio di uno stato e di un esercito solidamente costruiti ma anche l'ausilio di una
diplomazia capace di far valere le sue ragioni di fronte all'Europa. Poiché - il '48 l'aveva dimostrato

204
- il problema italiano non poteva essere risolto con le sole risorse interne: per avere probabilità di
successo, la lotta contro l'Impero austriaco doveva essere portata sul piano europeo, coinvolgere le
grandi potenze. Fu questa l'intuizione di Cavour: fare del problema italiano un problema europeo,
inserire la politica italiana in quella europea.. Per questo spingerà il Piemonte a intervenire nel
primo grande conflitto internazionale dopo il '48, la guerra di Crimea, e successivamente otterrà di
essere presente al Congresso di Parigi, dove riuscirà a mettere sul tavolo la "questione italiana" (3).

Bibliografia

Musi A., Le vie della Modernità, Milano: Sansoni; 2003

L'Italia Storica, Milano: Touring Club Italiano; 1961

Benigno F., Salvemini B., Progetto storia. Tempi e problemi, Roma-Bari: Edizioni Laterza; 2002

Sitografia

L'Età della Restaurazione - disponibile sul sito www.simone.it (consultato il 23.09.2020)

I moti carbonari del 1820-21 e del 1830-31- disponibile sul sito www.homolaicus.com (consultato
il 10.10. 2020)

I moti del 1830-31- disponibile sul sito www.retegp.net (consultato il 11.10.2020)

Ciro Menotti, patriota italiano (1798-1831) - disponibile sul sito www.visitmodena.it (consultato il
09.10.2020)

Mazzini, Giuseppe - disponibile sul sito www.sapere.it (consultato il 10.10.2020)

Lo Statuto albertino/ norme fondamentali e leggi/ camera dei deputati - disponibile sul sito
www.storia.camera.it (consultato il 11.10.2020)

Le cinque giornate di Milano e la prima guerra di indipendenza - disponibile sul sito


www.library.weschool.com (consultato il 10.10.2020)

205
25. L'Unità d'Italia fino al primo governo Crispi (escluso)

In Italia, dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1848-49, si apre l'epoca definita seconda
restaurazione caratterizzata da:
– mancata evoluzione delle strutture politiche (dovuta al ritorno dei sovrani legittimi che
arresta qualsiasi esperimento riformatore);
– mancato sviluppo economico (dovuto alla miopia delle classi dirigenti, alla ristrettezza dei
mercati e alla scarsezza delle vie di comunicazione).

In particolare, la situazione in:


• LOMBARDO-VENETO > pesante regime di occupazione militare (guidato, tra gli altri, da
Radetzky), inasprimento della già forte pressione fiscale, inadeguato sviluppo delle opere
pubbliche (in part. Ferrovia), separazione sempre più netta tra Impero Asburgico e
popolazione locale.
• STATI MINORI DEL CENTRO-NORD (Granducato di Toscana, ducati di Modena e
Parma) > ritorno di uomini e istituzioni dell'antico regime, nessuna possibilità per i moderati
di riprendere il discorso costituzionale interrotto dalle rivoluzioni del '48, accentuazione
distacco tra le corti e l'opinione pubblica borghese.
• STATO PONTIFICIO > riorganizzazione secondo vecchio modello teocratico-
assolutistico, persecuzione di liberali e democratici, potere nelle mani di ristretta oligarchia
di prelati con al vertice il segretario di Stato cardinale Antonelli.
• REGNO DELLE DUE SICILIE > ritorno al sistema assolutistico, durissima repressione,
conservatorismo economico (es. alti dazi doganali) ostacola lo sviluppo, relativa mitezza
della pressione fiscale non consente investimenti in scuole e opere pubbliche causando
arretratezza economica e sociale (unici investimenti concentrati a Napoli accentuando lo
squilibrio tra capitale abnorme e il resto del paese), forte malcontento della popolazione,
Regno considerato esempio negativo agli occhi dell'opinione pubblica liberale europea.

Diversa è la situazione in Piemonte, dove prosegue l'esperienza liberale inaugurata con la


concessione dello statuto albertino (4 marzo 1848) :
– agosto '49 > Vittorio Emanuele II si scontra con la Camera Elettiva (composta per la
maggior parte da democratici) perché la Camera rifiuta di approvare la pace di Milano con
l'Austria nella quale il Piemonte si sarebbe impegnato a pagare una forte indennità di guerra
senza subire mutilazioni territoriali; il re e il governo (presieduto dal moderato d'Azeglio)
decidono di sciogliere la Camera e di indire nuove consultazioni, nel frattempo il re
indirizza agli elettori un messaggio (proclama di Moncalieri) invitandoli a eleggere
rappresentanti più moderati (in caso contrario lo Statuto albertino sarebbe stato in pericolo);
– maggio '49 > nuova Camera (formata soprattutto da moderati) approva la pace di Milano e
l'esperimento liberale può proseguire nella sua opera di MODERNIZZAZIONE dello
Stato.
– febbraio '50 > approvazione delle Leggi Siccardi = riordino dei rapporti tra Stato e Chiesa e
fine dei privilegi ecclesiastici (ad es. tribunali riservati, diritto d'asilo per chiese e conventi,

206
censura sui libri) adeguando la legislazione a quella degli Stati cattolici europei.
Durante la battaglia politica per l'approvazione di queste leggi emerge un nuovo leader liberal-
democratico: Camillo Benso Di Cavour (Torino, 1810-1861):
- estrazione sociale > aristocratico, uomo d'affari, proprietario terriero, giornalista, direttore
del giornale "Il Risorgimento"; suo padre di nobile d'aristocrazia terriera che amministrava
direttamente il proprio patrimonio; sua madre discendente di nobile famiglia calvinista di
Ginevra.
- formazione culturale > cresciuto in un clima aristocratico e conservatore, ma immerso nel
cosmopolitismo culturale e nell'intraprendenza borghese, fin dagli anni giovanili si avvicina
alle idee liberali; all'indomani della Rivoluzione del 1830 in Francia, abbandona la carriera
militare per dedicarsi agli studi, ai viaggi, alla cura del patrimonio familiare.
- pensiero politico > il suo ideale politico è quello di un liberalismo moderato; è convinto
che l'allargamento delle basi dello Stato sia inevitabile (e che sia anche l'unico antidoto
contro la rivoluzione e il disordine sociale) ma deve essere affrontato con gradualità e
incanalato in un sistema monarchico-costituzionale fondato sulla libertà individuale e sulla
proprietà privata; Cavour vede nello sviluppo produttivo la premessa indispensabile per il
progresso politico e civile; ha estrema fiducia nelle virtù della libertà economica
(ammiratore di Colben e del liberalismo britannico).
- ingresso in politica > dal 1847-48: Cavour si dedica all'attività politica; 1950: Cavour entra
nel gabinetto di D'Azeglio come titolare del ministero per l'Agricoltura e il Commercio;
1952: D'Azeglio si dimette per contrasti con il re e Cavour è incaricato di formare un nuovo
governo.
- il connubio > ancora prima di diventare presidente del Consiglio, Cavour attua una piccola
rivoluzione parlamentare promuovendo un accordo, chiamato appunto connubio, tra l'ala
più progressista della maggioranza moderata alla quale lui stesso apparteneva (il cosiddetto
"centro-destro") e la componente più moderata della sinistra democratica capeggiata da
Urbano Rattazzi (il cosiddetto "centro sinistro") --> nasce una nuova formazione politica di
centro che relega all'opposizione i clericali-conservatori e i democratici intransigenti -->
Cavour allarga la base parlamentare del governo e sposta l'asse verso sinistra potendo quindi
proporre una politica patriottica e antiaustriaca ed attuare riforme in campo politico ed
economico e istituzionale.
- riforma istituzionale > grazie all'azione di Cavour si afferma stabilmente l'interpretazione
parlamentare dello Statuto facendo dipendere la vita del governo non solo dalla fiducia del
re, ma anche dal sostegno della maggioranza del Parlamento.
- politica economica > prima come ministro dell'Agricoltura, poi come presidente del
Consiglio, Cavour adotta una linea liberoscambista per sviluppare l'economia italiana e
integrarla in quella europea tramite:
a) 1851 – trattati commerciali con Francia, Belgio, Austria, Gran Bretagna;
b) 1851-54 – graduale abolizione dazi sul grano > grandi vantaggi per il settore agricolo.

Cavour dà forte impulso alle opere pubbliche: strade e canali (es. Canale Cavour nel Novarese),
ampliamento e ammodernamento porto di Genova, ferrovie; soprattutto lo sviluppo di queste ultime
è da stimolo alla crescita dell'industria siderurgica e meccanica (es. Ansaldo); sviluppo spontaneo

207
dell'industria della seta legata all'esportazione verso la Francia.

Grazie alle strategie messe in atto da Cavour nei suoi primi 10 anni di impegno politico, il
Piemonte progredisce e può vantare:
• agricoltura in fase di espansione e modernizzazione;
• progresso nell'industria (anche se ancora occupa un ruolo secondario);
• sistema creditizio potenziato e riorganizzato intorno a una banca centrale (Banca nazionale);
• rete di trasporti efficiente e collegata con l'Europa tramite traforo del Fréjus;
• volume di scambi commerciali con l'estero doppio rispetto al resto d'Italia;
• classe politica e intellettuale di livello (dai 20.000 ai 30.000 esuli politici si stabiliscono nel
Regno sabaudo fra il '49 e il '60 apportando nuova linfa alla vita culturale dello stato e
partecipando attivamente alla vita politica amalgamandosi con la classe dirigente
piemontese);
• di essere punto di riferimento per la borghesia liberale di tutta Italia dimostrando che la
libertà va di pari passo con il progresso economico.

Nonostante questo, anche in Piemonte esistono squilibri e ritardi:


– condizioni delle classi subalterne sia in città che in campagna non conoscono miglioramenti;
– crescente peso delle imposte indirette.

Intanto, nonostante le sconfitte subite tra il '48 e il '49, Mazzini e i mazziniani sono ancora convinti
che l'unità italiana debba scaturire da un processo rivoluzionario. Per questo Giuseppe Mazzini, in
esilio a Londra:
• intensifica i contatti con i maggiori esponenti del movimento democratico europeo;
• si adopera per ritessere le file delle attività cospirative in Italia.

I risultati però sono fallimentari, infatti, tra 1851-1853 gli austriaci arrestano e condannano a
morte molti capi dell'organizzazione mazziniana in Lombardia (vd. Mantova, impiccagioni nella
fortezza di Belfiore; vd. fallimento dei moti milanesi del 6 febbraio 1853).
Per rimediare alle carenze organizzative del suo movimento, Mazzini:
• 1853 a Ginevra, fonda il Partito d'azione;
• cerca di creare consenso fra gli operai/artigiani delle società operaie di mutuo soccorso,
soprattutto in Piemonte e in Liguria.

Critiche a Mazzini: fin dagli anni '50, alcune correnti dei democratici italiani mettono in
discussione la guida politica di Mazzini e la sua strategia, in particolare:
1) alcuni considerano la strategia mazziniana troppo intransigente auspicando maggiore
collaborazione con tutte le forze interessate all'unità d'Italia;
2) altri, in prospettiva già socialista, considerano i mazziniani poco aperti ai problemi sociali e
alle classi subalterne.

Inoltre nel 1851, due intellettuali introducono il socialismo nel dibattito interno al movimento

208
risorgimentale, sostenendo entrambi che la lotta per l'indipendenza nazionale avrebbe potuto avere
successo solo coinvolgendo le classi popolari; in particolare:
– Giuseppe Ferrari > ogni iniziativa è legata alla ripresa delle forze rivoluzionarie in Francia;
– Carlo Pisacane > vede nell'Italia, in particolare nel sud, il terreno più adatto alla
rivoluzione.

Nonostante le divergenze ideologiche, nel giugno 1857 Pisacane e Mazzini organizzano un nuovo
progetto insurrezionale: la spedizione di Sapri > Pisacane e compagni si imbarcano a Genova alla
volta del carcere di ponza per liberare i carcerati e poi giungere a Sapri iniziando la marcia verso
l'interno, ma i rivoltosi sono facilmente annientati dalle truppe borboniche anche a causa della
mancata adesione dei contadini locali (auspicata da Pisacane).

Il fallimento di Sapri, coincide con la nascita di un movimento indipendentista filo-piemontese


capeggiato da Daniele Manin (capo del governo repubblicano di Venezia nel '48-49 che dal '55
proponeva il superamento di ogni divisione relativa alla futura forma di governo dell'Italia unita e
l'unione di tutte le correnti attorno alla monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele ii considerata
l'unica forza in grado di raggiungere l'obiettivo dell'unità nazionale) al quale aderisce anche
Giuseppe Garibaldi > nel 1857 il movimento assume forma organizzata adottando il nome di
Società Nazionale.

Cavour inizialmente non aveva tra i suoi obiettivi l'Unità d'Italia ma soltanto allargare i confini del
Piemonte verso l'Italia settentrionale; presentandosi l'occasione, però, non si tira indietro e per farlo
cerca di avvicinare il Piemonte all'europa più moderna tramite:
• 1855 – partecipazione alla guerra di Crimea, insieme a Francia e Inghilterra, inviando
18.000 uomini sotto il generale La Marmora; vincendo ottiene il diritto di partecipare alla
• 1856 - Conferenza di Parigi durante la quale solleva la questione italiana nel contesto
internazionale denunciando la presenza militare austriaca nelle Legazioni pontificie, il
malgoverno dello Stato della Chiesa e del Regno delle Due Sicilie le cui tensioni interne
avrebbero potuto minacciare la pace e l'equilibrio europeo e presentando il Regno sabaudo
come portavoce delle istanze di rinnovamento di tutta la borghesia italiana e, allo stesso
tempo, come garante contro una deriva rivoluzionaria.
Ma Conferenza non offre risultati concreti e Cavour si accorge che:
– è necessario modificare gli equilibri sanciti dal Congresso di Vienna;
– bisogna mantenere viva l'insurrezione patriottica;
– deve assicurarsi l'appoggio della Francia di Napoleone III facendo leva sulle ambizioni
egemoniche dell'imperatore e sulla paura di nuove agitazioni mazziniane.

Alleanza Franco-Piemontese > favorita dal fallito attentato contro l'imperatore Napoleone III da
parte di Felice Orsini (gennaio '58) e sancita dall'accordo di Plombières (luglio '58) che ipotizza
una nuova sistemazione della penisola divisa in 3 stati:
• regno dell'Alta Italia (Piemonte, Lombardo-Veneto, Emilia-Romagna) sotto la casa sabauda
(che avrebbe dato ai francesi Nizza e la Savoia);

209
• regno dell'Italia Centrale (Toscana, Stato Pontificio);
• regno meridionale.
Perché l'alleanza diventi operante è necessario casus belli > Cavour fa di tutto per far salire la
tensione con l'Austria (manovre militari al confine, armamento di corpi volontari, discorso di
Vittorio Emanuele II).
23 aprile '59 > il governo asburgico invia un ultimatum al Piemonte > inizia la seconda guerra di
indipendenza (aprile – luglio '59): con azioni combinate i volontari garibaldini e l'esercito franco-
piemontese sconfiggono l'esercito asburgico in varie occasioni (vd. Montebello, Magenta,
Solferino, San Martino).
11 luglio '59 > Napoleone III (pressato dall'opinione pubblica francese, preoccupato per i costi
umani e finanziari della guerra, per un possibile intervento della Confederazione germanica a fianco
dell'Austria, per la nuova situazione dell'Italia centrale – dove nel frattempo insurrezioni a a
Firenze, Modena e Parma guidate dalla Società nazionale avevano installato governi provvisori a
guida sabauda) propone agli austriaci Armistizio di Villafranca:
– Impero asburgico cede alla Francia (che a sua volta l'avrebbe girata al Piemonte) la
Lombardia, ma mantiene Veneto e Peschiera;
– per il resto d'Italia ritorno allo stato precedente lo scoppio delle insurrezioni in Italia centrale
--> l'armistizio coglie di sorpresa Cavour che si dimette, sostituito dal generale La Marmora.

Dopo mesi di stallo e la non risolutiva pace di Zurigo, nel 1860:


• Napoleone III accetta la nuova situazione in Italia centrale guidata da commissari
piemontesi (Emilia, Romagna e Toscana scelgono tramite plebiscito l'annessione al
Regno sabaudo);
• Cavour, tornato alla guida del governo, cede alla Francia Nizza e Savoia.
--> STATO SABAUDO si avvia a diventare uno STATO NAZIONALE (non più stato dinastico).

Questo risultato anima i democratici che decidono di proseguire la lotta attraverso una insurrezione
del mezzogiorno (dove era salito al trono il giovane Francesco II e la Sicilia era in uno stato di
rivolta latente). L'idea parte da due esuli siciliani in Piemonte: Francesco Crispi e Rosolino Pilo. I
due si assicurano di:
– organizzare una rivolta locale prima dello sbarco dei volontari;
– garantire l'appoggio del governo piemontese;
– assicurare una guida politica e militare alla spedizione: Giuseppe Garibaldi > capo militare
più prestigioso del movimento patriottico, unico leader capace di riunire tutte le anime del
patriottismo, repubblicano convinto, con inclinazioni al socialismo umanitario, si allontana
da Mazzini, ma aderisce alla Società nazionale, collabora con la monarchia sabauda.

Nella notte tra 5 e 6 maggio 1860 > partenza della Spedizione Dei Mille (composti soprattutto da
settentrionali di varia estrazione sociale – borghesi, intellettuali, operai, artigiani) da Quarto (GE)
con due navi vapore rubate (il Piemonte e il Lombardo); sbarco a Marsala; penetrazione all'interno;
accoglienza entusiasta della popolazione; 15 maggio 1860 a Catalafimi, le truppe garibaldine
insieme ai siciliani insorti mettono in fuga le truppe borboniche e puntano verso Palermo dove

210
Garibaldi assume la dittatura in nome di Vittorio Emanuele II proclamando la decadenza della
monarchia borbonica.

Francesco Crispi forma un governo civile provvisorio e mette in moto un primo processo di riforma
sociale (riduzione carico fiscale, assegnazione terre ai contadini combattenti) mentre al Nord si
raccolgono uomini e mezzi che sbarcano in Sicilia fra giugno e luglio e il 20 luglio 2020 a Milazzo
sconfiggono definitivamente i Borboni.

I contadini siciliani però intravedono la possibilità di liberarsi non solo dal malgoverno borbonico,
ma anche dal secolare sfruttamento feudale e danno vita ad agitazioni in tutta la Sicilia
--> gli interessi dei patrioti del Nord e dei contadini insorti non collimano più e portano a dure
repressioni (vd. ribelli fucilati a Bronte da Nino Bixio).

Intanto i proprietari terrieri invocano l'annessione al Piemonte come unica garanzia per la tutela
dell'ordine sociale.
20 agosto 1860 > Garibaldi sbarca in Calabria e risale la penisola senza resistenza da parte
dell'esercito borbonico.
6 settembre 1860 > Francesco II abbandona Napoli per rifugiarsi a Gaeta.
7 settembre 1860 > Garibaldi entra a Napoli.

Cavour teme l'iniziativa dei garibaldini così, dopo aver ottenuto l'assenso di Napoleone III
promettendo di non minacciare Roma e il Lazio, le truppe regie varcano i confini dello Stato della
Chiesa, invadono l'Umbria e le Marche e sconfiggono l'esercito pontificio nella battaglia di
Castelfidardo.

Mentre Garibaldi batte i borbonici nella battaglia del Volturno, l'esercito sabaudo marcia verso il
Mezzogiorno.

Nel frattempo il Parlamento piemontese approva una legge, proposta da Cavour, che autorizza il
governo a decretare l'annessione di altre regioni italiane allo Stato sabaudo, purché le popolazioni
interessate esprimano il loro assenso tramite plebisciti.

21 ottobre 1860 > in tutte le province meridionali e in Sicilia (pochi giorni dopo nelle Marche e in
Umbria) si tengono plebisciti a suffragio universale maschile e vengono sancite le annessioni.
25 ottobre 1860 a Teano > Garibaldi attende l'arrivo dei piemontesi poi si ritira a Caprera, mentre
l'esercito sabaudo elimina le ultime resistenza borboniche.
17 marzo 1861 > il primo Parlamento nazionale – eletto su base censitaria – proclama Vittorio
Emanuele II re d'Italia.

Ragioni dell'Unita' d'Italia


• conquista regia e iniziativa popolare > combinazione di un'inziativa dall'alto (politica di
Cavour, monarchia sabauda) e di una dal basso (insurrezioni dell'Italia centrale, spedizione
garibaldina nel Sud); combinazione di un'iniziativa diplomatica e militare con il

211
coinvolgimento dell'opinione pubblica tramite i suoi intellettuali/studenti/borghesia;
• circostanze favorevoli a livello internazionale >neutralità della Gran Bretagna, isolamento
del Regno delle due Sicilie e dell'Impero asburgico, appoggio di Napoleone III.

ANNI '60 – LA DESTRA AL POTERE

Classe dirigente: Destra e Sinistra


giugno 1861 – morte di Cavour; si contrappongono:
• la Destra (poi definita Storica) prosegue la sua opera improntata a una politica rispettosa
delle libertà costituzionali ma insieme accentratrice, al liberismo economico, alla laicità nei
rapporti Stato-Chiesa; nucleo centrale dello schieramento formato da piemontesi (La
Marmora, Sella, Lanza) + lombardi (Jacini, Visconti-Venosta) + emiliani (Farini, Minghetti)
+ toscani (Ricasoli, Peruzzi) + pochi meridionali (Scialoja, Spaventa) per lo più provenienti
da famiglie di proprietari terrieri di origine aristocratica
• la Sinistra fa sue le rivendicazioni della democrazia risorgimentale ovvero suffragio
universale, decentramento amministrativo, completamento dell'unità attraverso l'iniziativa
popolare; formata da esponenti della vecchia sinistra piemontese (Depretis, Valerio,
Brofferio) + patrioti mazziniani e garibaldini (Crispi, Bertani, Cairoli); ha una base sociale
più ampia formata da gruppi medio-borghesi e da operai e artigiani del Nord.

Entrambi gli schieramenti sono espressione di una classe dirigente molto ristretta (solo il 2% della
popolazione ha diritto al voto – ovvero chi ha più di 25 anni, sa leggere e scrivere, paga almeno 40
lire di imposte l'anno) e questo porta a dare alle questioni politiche un carattere personalistico e a
un generale isolamento della classe dirigente.

Restano esclusi dalla vita politica i clericali, i nostalgici dei vecchi regimi, i repubblicani
intransigenti e i mazziniani più radicali.

Agricoltura e mondo contadino


Al momento dell'unità, l'agricoltura è l'attività economica prevalente nel paese; si tratta di
un'agricoltura per lo più povera, caratterizzata da una grande varietà di assetti produttivi: aziende
agricole moderne e a conduzione familiare (Pianura Padana); mezzadria (Italia Centrale); latifondo
(Mezzogiorno). Le condizioni di vita dei contadini sono generalmente al limite della sussistenza
fisica. Questa arretratezza economica e il derivante disagio sociale sono poco conosciuti dalla classe
dirigente.

Accentramento amministrativo e legislativo e fenomeno del brigantaggio


La Destra realizza una rigida centralizzazione sul piano amministrativo e legislativo (legge Casati,
legge Rattazzi, legge di unificazione amministrativa). Ciò che spinge la classe dirigente in questa
direzione è soprattutto la situazione del Mezzogiorno, dove le masse contadine (che non vedono
miglioramenti della loro condizione) si ribellano contro i "conquistatori" dando vita a una vera e

212
propria guerriglia fin dal 1861 (fenomeno del brigantaggio) che viene combattuta duramente con
l'intervento dell'esercito e con la creazione di veri e propri tribunali militari (1863).

Già nel 1865 le bande di briganti più importanti sono isolate e distrutte ma resta irrisolto il
problema di fondo del Mezzogiorno: la mancata realizzazione delle aspirazioni contadine relative
alla proprietà della terra, infatti né la divisione dei terreni demaniali (ossia delle terre pubbliche di
origine feudale o comunale), né la vendita dei beni ecclesiastici incamerati dallo Stato favoriscono i
contadini. Si accresce quindi il divario tra le regioni del Sud e quelle del Centro-Nord.

Politica economica
E' necessario unificare il paese anche dal punto di vista economico uniformando sistemi monetari e
fiscali diversi, rimuovendo barriere doganali e costruendo una nuova ed efficiente rete di
comunicazione.

La Destra prosegue la linea liberista: l'intensificarsi degli scambi commerciali (dovuti a dazi di
entrata molto bassi) favorisce lo sviluppo dell'agricoltura e consente l'inserimento dell'Italia nel
nuovo contesto economico europeo.

La Destra si impegna nella creazione delle infrastrutture necessarie allo sviluppo economico e per
cementare l'unità del paese (strade, ferrovie).

Nessun vantaggio viene invece al settore industriale, penalizzato dalla concorrenza internazionale
e poco valorizzato dalla classe dirigente.

Il tenore di vita della popolazione non migliora a causa della dura politica fiscale (soprattutto dopo
il '66 quando alla necessità di coprire gli ingenti costi dell'unificazione – comunicazioni,
amministrazione pubblica, istruzione, esercito - si sommano le conseguenze della crisi
internazionale e le spese per la guerra contro l'Austria) attuata anche tramite molte imposte indirette
sui consumi, sugli affari e sui movimenti di capitale (es. tassa sul macinato). Il duro regime imposto
da Quintino Sella (ministro delle Finanze del gabinetto Lanza – 1869-73) ottiene l'obiettivo del
pareggio di bilancio ma alla protesta dei ceti popolari del meridione si aggiunge il malcontento
degli industriali e dei gruppi bancari in favore di una politica economica meno rigida che lasci più
ampi margini alla formazione della ricchezza privata.

ANNI '60 – PRIMA META' ANNI '70 - COMPLETAMENTO DELL'UNITA'


Restano da riunire alla madrepatria il Veneto, il Trentino, Roma e il Lazio.
• Questione romana (dovuta alla presenza del Papa e di un corpo francese di occupazione) >
la proposta cavouriana di "libera chiesa in libero stato" (=soluzione che assicura al papa e al
clero piena libertà di esercitare il proprio magistero spirituale, in cambio della rinuncia al
potere temporale e del riconoscimento del nuovo Stato) si scontra con l'intransigenza di Pio
IX e nessuno dei tentativi di conciliazione va a buon fine; nel 1862 si assiste al tentativo di
Garibaldi di organizzare una spedizione militare contro lo Stato pontificio dalla Sicilia;
l'esercito garibaldino viene intercettato dall'esercito di Vittorio Emanuele II preoccupato di

213
mantenere buoni rapporti con la Francia (scontro dell'Aspromonte); nel 1864 Convenzione
di settembre con la Francia > trasferimento della capitale a Firenze, garanzia del rispetto da
parte dell'Italia dei confini dello Stato pontificio e ritiro delle truppe francesi dal Lazio; 1867
nuovo tentativo garibaldino di conquistare Roma e per una rifondazione repubblicana dello
Stato tramite un esercito di volontari e di patrioti romani > l'impresa fallisce (Villa Glori e
Mentana) e si chiude l'epoca delle imprese risorgimentali; 1870 il governo italiano (non
sentendosi più vincolato ai patti sottoscritti con Napoleone III) decide di mandare un corpo
di spedizione nel Lazio e di avviare un negoziato col papa, ma Pio IX non cede > 20
settembre 1870 – breccia di Porta Pia e plebiscito che sancisce l'annessione di Roma e del
Lazio; 1871 - trasferimento della capitale da Firenze a Roma; 13 maggio 1871 - legge delle
guarentigie = libero svolgimento del magistero spirituale, onori sovrani al papa, facoltà di
tenere guardie armate, diritto di rappresentanza diplomatica, extraterritorialità del Vaticano e
del Laterano, libertà di comunicazione ma il papa non attenua la sua intransigenza verso il
regno d'Italia; 1874 – non expedit = esplicito divieto di partecipazione dei cattolici alle
elezioni politiche promulgato dalla curia romana.
• Questione veneta (sotto l'Impero asburgico) > Italia si allea con la Prussia (Bismarck)
contro l'Austria; l'Italia subisce dolorose sconfitte (Custoza 24/06/1866, Lissa 20/07/1866),
ma la Prussia vince la guerra; 3 ottobre 1866 pace di Vienna – l'Italia ottiene il Veneto
(senza la Venezia-Giulia e il Trentino).

ANNI '70 – LA SINISTRA AL POTERE


Prima metà anni Settanta: - aumento numero di deputati indipendenti / di centro
– si accentuano le fratture nella Destra storica
– la Sinistra slitta su posizioni più moderate (accanto alla Sinistra
piemontese di Depretis e alla Sinistra Storica di Crispi e
Zanardelli, emerge una Sinistra giovane espressione di una
borghesia moderata attenta alla tutela dei propri interessi).
1876 – caduta del governo Minghetti di Destra; il re Vittorio Emanuele II incarica Agostino
Depretis di formare un nuovo governo e la Sinistra vince le elezioni -> RIVOLUZIONE
PARLAMENTARE = al potere un ceto dirigente quasi del tutto nuovo mentre muoiono i vecchi
rappresentanti del risorgimento (Mazzini, Vittorio Emanuele II, Pio IX, Garibaldi).

Programma della sinistra: allargamento del suffragio elettorale (1882 - riforma elettorale = diritto
di voto per uomini con almeno 21 anni di età, non analfabeti, 20 lire annuali di imposte pagate),
riforma dell'istruzione elementare che diventa obbligatoria e gratuita (legge Coppino), sgravi fiscali,
decentramento amministrativo [quest'ultimo poi accantonato].

L'allargamento del suffragio che consente l'accesso alle urne ad operai e artigiani del Nord,
convince i moderati di Destra (di Minghetti) e di Sinistra (di Depretis) ad unirsi per bilanciare il
prevedibile rafforzamento dell'estrema sinistra = fenomeno del TRASFORMISMO > vengono
meno le tradizionali distinzioni ideologiche tra Destra e Sinistra e al modello bipartitico di stampo
inglese se ne sostituisce un altro basato su un grande centro che tende ad emarginare le ali più
estremiste costruendo la maggioranza giorno per giorno in Parlamento.

214
Politica economica
La Sinistra cerca di andare incontro alle esigenze della borghesia e dei ceti produttivi riducendo il
carico fiscale e aumentando la spesa pubblica --> favorisce il processo di industrializzazione , ma
provoca un forte e crescente deficit nel bilancio statale senza riuscire a superare l'arretratezza del
settore agricolo.

Agricoltura > i progressi riguardano soltanto le zone e i settori già relativamente progrediti
(Lombardia, colture specializzate del Mezzogiorno, zone bonificate del Ferrarese); l'Inchiesta
agraria deliberata dal Parlamento (1877-1884) presieduta dal senatore Jacini dimostra lo stato
drammatico dell'agricoltura italiana e dei lavoratori delle campagne; si aggiunge una crisi agraria
con brusco abbassamento dei prezzi e conseguente calo della produzione cui segue un aumento
della conflittualità nelle campagne, un rapido incremento dei flussi migratori verso i centri urbani e
verso l'estero (soprattutto oltreoceano).

Industria > le risorse sottratte all'agricoltura vengono investite nel settore industriale (vd.
Acciaierie di Terni); per favorirlo, a partire dal 1878, vengono approvati dazi doganali che offrono
una moderata protezione ai prodotti dell'industria italiana.

Svolta protezionistica – 1887 > viene varata una nuova tariffa generale che mette al riparo
importanti settori dell'industria nazionale (siderurgico, laniero, cotoniero, zuccheriero) dalla
concorrenza straniera colpendo le merci d'importazione con pesanti dazi in entrata; i dazi sono
estesi al settore agricolo --> conseguenze: accentuazione degli squilibri tra i diversi settori;
penalizzazione delle colture specializzate (che si reggono soprattutto sull'esportazione); rottura
commerciale poi degenerata in guerra doganale con la Francia.

Politica estera
maggio 1882 > per timore di rimanere isolato a livello internazionale e a seguito dell'occupazione
francese della Tunisia, il governo Depretis abbandona la linea dell'equilibrio con le potenze
europee, stipulando la TRIPLICE ALLEANZA con Germania e Austro-Ungheria = alleanza di
carattere difensivo che impegna gli stati firmatari a garantirsi reciproca assistenza in caso di
aggressione da parte di altre potenze; l'Italia però deve rinunciare alle terre irredente (Trentino e
Venezia Giulia); l'accordo viene rinnovato nel 1887 (con l'aggiunta che eventuali modifiche nella
geografia balcanica sarebbero state concordate e che la Germania si impegni a intervenire a fianco
dell'Italia in caso di conflitti in Nord Africa).

1882 > avvio dell'espansione coloniale dell'Italia in Etiopia (o Abissinia) per stabilire nuovi
rapporti commerciali, ma scontri con i locali (vd. episodio di Dogali).

Società - Movimento operaio


La crescita del movimento operaio è lenta (a causa del ritardo dello sviluppo industriale italiano,
dell'assenza del proletariato di fabbrica poiché é ancora diffuso il lavoro stagionale alternato tra
fabbrica e campi e il lavoro a domicilio soprattutto nel settore tessile).

215
Le società di mutuo soccorso, inizialmente dominate da mazziniani e moderati, perdono via via
terreno a favore del movimento internazionalista che in Italia tende verso un indirizzo anarchico.

Gli anni '80 vedono la crescita del movimento operaio con la fondazione di federazioni di mestiere
e Camere del lavoro, leghe bracciantili e cooperative agricole.

Nel 1892 avviene la fondazione del Partito dei lavoratori italiani (poi Partito socialista).

Società - Organizzazioni cattoliche


Benché il non expedit (1874) vietasse la partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche, la
presenza cattolica nella società italiana è massiccia. L'Opera dei congressi nasce per organizzare
tale presenza secondo una linea di rigida opposizione al liberalismo e al socialismo.

L'elezione a papa di Leone XIII (1878) favorisce l'impegno sociale dei cattolici e lo sviluppo delle
loro organizzazioni.

Estate 1887 > morte di Depretis > governo affidato a Francesco Crispi.

Bibliografia

A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto, Storia. Dal 1650 al 1900, Laterza 2006

R. Colonna, C. Foliti, A. Pagano, Storia ed Educazione Civica. Manuale teorico per le classi di
abilitazione A037, A043, A050, A051, A052, Edises 2014

N. Cristino, G. Di Rienzo, I fatti e le interpretazioni, Petrini 2017

216
26. Dal primo governo Crispi alla prima guerra mondiale

L’Italia tra Ottocento e Novecento

L’ Italia di fine Ottocento

o Il governo Crispi, le tensioni sociali e l’emigrazione

L’ultimo quarto dell’Ottocento fu per l’Italia un periodo particolarmente travagliato; la


Grande depressione (cioè la crisi economica internazionale negli anni 1873-1896) fece salire
la tensione sociale e una serie di agitazioni scosse il paese. Negli anni Ottanta i governi della
Sinistra storica vararono i primi interventi di legislazione sociale, istituendo la Cassa
nazionale per gli incidenti sul lavoro e ponendo dei limiti al lavoro femminile e minorile nelle
fabbriche.

Questa linea politica venne abbandonata nel 1887 quando il governo fu affidato a un uomo che
aveva partecipato all’impresa dei Mille Di Garibaldi, il siciliano Francesco Crispi; costui,
giunto al potere, assunse anche i ruoli di ministro degli Esteri e dell’Interno, e avviò
un’aggressiva politica nazionalista. L’Italia cominciava a sviluppare un proprio apparato
industriale e prendendo a modello la Germania, cercava un suo spazio fra le potenze
imperialiste: Crispi, che dal 1877 era in rapporti di amicizia con il cancelliere tedesco
Bismark, fu il simbolo di questa trasformazione. In politica interna riorganizzò le strutture
amministrative dello Stato; un’importante riforma fu l’introduzione del nuovo codice penale
(Codice Zanardelli, 1890)), che abolì la pena di morte e consentì lo sciopero. Crispi scatenò
una guerra doganale con la Francia, il paese con cui l’Italia aveva le maggiori relazioni
commerciali: le conseguenze furono da una parte la brusca riduzione delle esportazioni
agricole, dall’altra il rapidissimo aumento dell’emigrazione. La guerra doganale colpiva i
contadini meridionali, perché la politica economica della Destra storica aveva imposto
all’agricoltura del sud di rinnovarsi per seguire le esigenze dell’esportazione ( per esempio
diminuendo la coltivazione dei cereali alimentari a favore dei più redditizi vigneti e
mandorleti): il blocco improvviso di gran parte del commercio gettò nella fame più nera i
miserabili delle campagne, che furono costretti a espatriare definitivamente: tra il 1891 e il1910
partirono circa 8 milioni di persone, principalmente verso le Americhe.

o Il primo governo Giolitti e il Partito Socialista

Nel 1891 Crispi si dimise per questioni parlamentari e del 1892 il governo passò al piemontese
Giovanni Giolitti; politico esperto, egli capì che era necessario allargare le basi della politica
nazionale e dare in parte soddisfazione alle proteste delle classi subalterne; concepì allora un
progetto a vasto raggio per ridare al Parlamento (e non al governo come intendeva Crispi) una
funzione centrale nella vita politica. Queste idee liberali spinsero Giolitti ad agire in maniera
poco democratica nelle elezioni del novembre 1892: poiché il sistema elettorale uninominale
e il suffragio ristretto avrebbero potuto far prevalere alla Camera i sostenitori di Crispi,

217
Giolitti spostò ben 49 prefetti su 69 e perfezionò le tecniche di manipolazione elettorale per
garantire la vittoria dei candidati favorevoli al suo governo. Fin dal 1892 fu evidente il doppio
volto della politica giolittiana. A Giolitti toccò affrontare le prime manifestazioni del
movimento operaio organizzato. Da tempo le società operaie di mutuo soccorso, cercavano di
istituire delle Casse infortuni e organizzare scuole nel dopolavoro; negli anni Ottanta in molte
di queste associazioni erano penetrate le idee di Karl Marx basate sul concetto di lotta di
classe per la conquista dei diritti sociali e politici. Nell’agosto del 1892, durante una riunione
di associazioni operaie, nacque a Genova il Partito dei Lavoratori, che qualche anno dopo mutò
il nome in Partito Socialista Italiano (PSI) e fu guidato da Filippo Turati. I socialisti erano
divisi al proprio interno in due tendenze opposte: alcuni esponenti, detti massimalisti,
escludevano la collaborazione col governo e pensavano che i lavoratori rappresentati dal partito
dovessero raggiungere l’obiettivo massimo, cioè la conquista del poter attraverso la
rivoluzione. Turati stesso e altri che furono detti riformisti sostennero la partecipazione del
partito al governo al fine di ottenere riforme sociali cioè leggi a favore dei lavoratori. Il primo
governo di Giolitti fu travolto dallo scandalo della Banca Romana, quando si scoprì che tale
istituto aveva commesso gravissime irregolarità e fu liquidato (1893); la crisi coinvolse tutto il
sistema creditizio, che venne tuttavia riorganizzato. Fu istituita una banca centrale, la Banca
d’Italia, che ricevette ampi poteri di controllo sulla circolazione monetaria, e con capitali
tedeschi venne fondata la Banca Commerciale Italiana. Giolitti, sospettato di aver coperto lo
scandalo, si dimise.

o Il ritorno di Crispi e la «crisi di fine secolo»

Sostenuto dai gruppi industriali del Nord, dai latifondisti meridionali e dal re Umberto I,
Crispi tornò al governo e, per riportare l’ordine nel paese, usò il «pugno di ferro», inviando
un contingente di soldati in Sicilia e proclamando lo stato d’assedio. Nel 1894 il PSI venne
sciolto e furono limitate le libertà di stampa, di associazione e di sciopero. Crispi fu
aggressivo anche in politica estera. Con l’intenzione di ottenere un successo che lo
consolidasse nel potere, ruppe l’alleanza col negus (appellativo etiopico del monarca)
dell’Etiopia Menelik (con il quale l’Italia aveva stipulato il trattato di Uccialli) e inviò un
contingente militare nello Stato africano. Il risultato fu disastroso: Menelik sconfisse gli
italiani nel 1896 ad Adua, dove caddero circa 7000 soldati. La disfatta provocò sdegno in
tutta Italia e Crispi dovette dimettersi: fu la fine della sua carriera politica. Il governo passò
al marchese Di Rudinì, esponente degli interessi degli «agrari» cioè dei grandi proprietari
terrieri sostenitori di una politica economica protezionistica. Cercò di riallacciare i contatti
commerciali con la Francia. Tuttavia, il blocco conservatore che sosteneva Di Rudinì aveva
altre idee, che nel 1897 furono espresse in uno scritto di Sidney Sonnino dal titolo
eloquente «Torniamo allo statuto»: si doveva interpretare alla lettera il testo dello Statuto
Albertino, cioè tornare alle usanze costituzionali precedenti a Cavour. Secondo
l’interpretazione di Sonnino, il presidente del Consiglio era responsabile solo ed
esclusivamente di fronte al re e non al Parlamento, e alla Camera elettiva dovevano essere
tolti i poteri di indirizzo legislativo e di controllo dell’attività politica.

218
Nel 1898 la tensione sociale arrivò ad un livello esplosivo a causa di un aumento del prezzo
del pane. Si verificarono tumulti in varie città, e a Milano il generale Bava Beccaris ordinò
ai soldati di sparare sulla folla. Gli organi della stampa d’opposizione, compresi i giornali
cattolici furono chiusi, e molti oppositori del governo vennero arresti; dal canto suo, re
Umberto I consegnò a Bava Beccaris addirittura un’onorificenza «per il grande servizio reso
alle istituzioni e alla civiltà». Seguì a Di Rudinì il generale Pelloux, il quale propose una
serie di leggi per vietare lo sciopero, sospendere i giornali, sciogliere tutte le associazioni
considerate sovversive e proibire le manifestazioni di piazza. Le opposizioni convinte che
ormai fosse in atto un vero e proprio colpo di Stato, reagirono con tutti i mezzi legali e alla
Camera adottarono l’ostruzionismo, tattica che permise di allungare i tempi dei lavori
parlamentari e impedì l’approvazione delle leggi Pelloux; il generale si dimise e fu sostituito
dal presidente del Senato, Giuseppe Saracco, che avviò una politica di distensione. La crisi
ebbe un esito drammatico nel luglio 1900 quando il re Umberto I fu assassinato a Monza
d a Gaetano Bresci, un anarchico che voleva vendicare i morti milanesi nel 1898. Anche
Saracco rassegnò le dimissioni e il nuovo re, Vittorio Emanuele III, diede l’incarico di
formare un nuovo governo a Giuseppe Zanardelli; questi, chiamato Giolitti agli interni, si
propose di realizzare una politica di pacificazione.

L’età giolittiana

o La politica interna di Giolitti: sviluppo economico e riforme sociali

Nell’autunno del 1903 a Zanardelli subentrò Giolitti che restò in carica fino al 1914 e
contrassegnò il periodo che la storiografia ha definito «età giolittiana». Fino al 1909
l’economia internazionale attraversò un ottimo momenti: l’Italia conobbe una fase di
espansione industriale ciò garantì la crescita della ricchezza nazionale e del reddito medio
(+ 33%): le condizioni delle finanze consentirono di avviare un a serie di riforme in capo
sociale. L’istruzione elementare divenne obbligatoria fino al dodicesimo anno d’età,
furono emanate leggi sul lavoro femminile, si ampliò il sostegno previdenziale a favore dei
lavoratori anziani e degli infortunati sul lavoro; dopo una lunga battaglia parlamentare fu
istituito l’Istituto nazionale per la assicurazioni, che consentì allo Stato di controllare una
parte significativa del sistema previdenziale. Lo stato cominciò ad intervenire
nell’economia: le ferrovie furono statalizzate e vennero stanziati fondi per realizzare
stabilimenti industriali nel Meridione. La popolazione passo da 26 a 36 milioni. Grazie in
gran parte al miglioramento delle condizioni igieniche, alimentari e sanitarie. Gli istituti
bancari finanziarono settori come la siderurgia, la cantieristica e l’idroelettrico, che
crebbero costantemente. Una novità fu costituita dalle industrie automobilistiche come la
FIAT fondata nel 1899. Anche se i conflitti sociali e gli scioperi furono numerosi, e forti
furono le repressioni sui governi per intervenire con la forza, Giolitti non perse il controllo
della situazione e mantenne la sua posizione di garante delle istituzioni e dell’ordine
pubblico. Seguendo la sua politica di continui bilanciamenti, il governo favorì la nascita
delle rappresentanze dei lavoratori Confederazione Generale del Lavoro (attuali
confederazioni sindacali italiane CGIL-CISL-UIL) riformista; Unione Sindacale Italiana,

219
rivoluzionaria; Federterra, per i coltivatori diretti. Il rinnovamento giolittiano tuttavia
interessò solo marginalmente la questione meridionale: l’economia e la società del Sud
Italia rimasero in un situazione di arretratezza economica e sociale. Come speranza non
restò che l’emigrazione all’ estero.

o L’ingresso in politica dei cattolici e dei nazionalisti

Nel 1909 una crisi economica accentuò le lotte sociali, indebolì i riformisti e spinse Giolitti
a cercare l’appoggio di nuove forze politiche: i cattolici e i nazionalisti. Nel 1891 il
pontefice Leone XIII con una enciclica, intitolata Rerum Novarum, aveva delineato i
principi della dottrina sociale della Chiesa. Il papa si era rivolto agli operai e ai datori di
lavori, chiedendo ai primi di rinunciare alle idee rivoluzionarie, e ai secondi di pagare i
giusti stipendi; la lotta di classe doveva essere sostituita dalla solidarietà, cioè dalla
consapevolezza che padroni e operai facevano parte dell’unica grande famiglia dei
produttori, come in ogni famiglia, però ciascuno doveva mantenere il proprio ruolo, e così
collaborare al bene comune. Le cooperative o corporazioni vennero considerate la forma
associativa più aderente ai concetto della Rerum Novarum e in breve tempo si diffusero
soprattutto nelle campagne; nacquero anche cooperative di tipo bancario, le casse rurali,
che finanziavano i piccoli coltivatori. Il successore di papa Leone XIII, Pio X, allargò il
campo di azione dei cattolici dalla vita sociale a quella politica; pur senza fondare un partito,
riunì le associazioni che si richiamavano alla Chiesa in tre grandi gruppi (l’unione
economico- sociale , l’Unione popolare e l’Unione elettorale) che agirono come le odierne
lobby, cercando di condizionare il gioco politico dall’esterno. Giolitti cercò di approfittare
della situazione e per le elezioni del 1913 strinse un accordo con Vincenzo Gentiloni,
presidente dell’Unione elettore (Patto Gentiloni): gli elettori cattolici si impegnavano a
votare i candidati giolittiani in cambio della promessa di abbandonare le politiche
anticlericali, ostacolare il divorzio e sostenere l’insegnamento privato impartito dalle scuole
cattoliche. Nel 1910 fu fondata l’Associazione nazionalista, che reclamò una linea
aggressiva in politica estera. I nazionalisti affermavano che solo una guerra di espansione
avrebbe potuto risolvere i problemi dell’Italia, garantendo nuovi mercati e una valvola di
sfogo per l’emigrazione dal Meridione. Alla solidarietà di classe propria del socialismo essi
contrapposero l’idea di una solidarietà nazionale che, combinata a un modello di Stato
autoritario, avrebbe consentito all’Italia di emergere rispetto alle altre potenze europee.

o La guerra di Libia e la caduta di Giolitti

Intorno al 1910 Giolitti trovò l’accordo con cattolici e nazionalisti sul tema della guerra
coloniale. Il Banco di Roma, che era strettamente legato alla finanza cattolica, aveva
effettuato una quantità di investimenti in Libia. Nei giornali del periodo si iniziò a chiamare
la Libia la «quarta sponda» italiana sul Mediterraneo e la propaganda riuscì a convincere
della necessità di una guerra non solo la borghesia, ma anche alcuni socialisti e riformisti.
Sul piano della politica estera Giolitti preparò bene il conflitto: mantenne la Triplice
Alleanza con Germania e Austria ma cercò anche il ravvicinamento con Francia e

220
Inghilterra, e ottenne infine il via libera. Nel settembre 1911 un corpo di spedizione sbarcò a
Tripoli e occupò la fascia costiera; per la prima volta aeroplani vennero impiegati per i
bombardamenti aerei. Solo i socialisti e alcuni intellettuali, come Gaetano Salvemini, che
definì la Libia uno scatolone di sabbia, si opposero alla guerra. La flotta italiana arrivò ad
occupare Rodi così da costringere il governo ottomano a offrire la resa. Nel corso della
guerra Giolitti, aveva chiesto al parlamento di varare una riforma elettorale di impronta
progressista, che concedeva il suffragio universale maschile. La legge fu approvata e le
elezioni si svolsero nel 1913; fu in quella circostanza che Giolitti, per evitare di essere
condizionato dai socialisti , si rivolse ai cattolici con il patto Gentiloni; vinse ma si trovò a
dover gestire una maggioranza disorganica, e fu costretto a dimettersi nel marzo 1914. Il
governo fu affidato al conservatore Antonio Salandra che, dal giugno 1914, affrontò la
crisi internazionale che avrebbe portato alla Prima guerra mondiale.

La belle époque

• Luci e ombre della belle époque

Fra il 1870 e il 1914 in Europa non si combatterono guerre, se non nelle aree periferiche come i
Balcani. Dopo la seconda Rivoluzione industriale pareva fosse giunto il trionfo della società
borghese, dinamica e in costante progresso grazie alle industrie e alle innovazioni tecnologiche e
scientifiche, che rendevano più facile e piacevole la vita. Tra queste: la macchina da cucire e quella
da scrivere, il telefono e il fonografo (ovvero il primo strumento per registrare e riprodurre suono),
il motore a scoppio. Nel 1895 in una campagna nei pressi di Bologna Guglielmo Marconi collaudò
il telefono senza fili, da cui in seguito derivò la radio. Nel 1903 i fratelli Wright su una spiaggia
della Carolina del Nord si alzarono in volo per 36 metri su un aereo di legno con le ali di tela. Le
scoperte del radio e del polonio fatte dai coniugi Pierre e Marie Curie rivoluzionarono la chimica
e la medicina. A Parigi i fratelli Lumière presentarono la prima proiezione cinematografica,
mentre nelle città europee, ormai completamente illuminate da lampioni elettrici, circolavano
automobili sempre più veloci. Tutte queste innovazioni vennero esaltate in uno spettacolo che dal
1881 fu puntualmente replicato sui palcoscenici di tutta Europa: il ballo Excelsior, ideato dagli
italiani Manzotti e Marenco per celebrare il positivismo, una corrente filosofica che poneva al
centro della storia umana i miti della scienza e del progresso. Capitale di questa Europa in pieno
sviluppo era Parigi, la ville lumière, con i suoi teatri e i caffè frequentati a romanzieri e pittori,
mentre Berlino, e oltreoceano New York, erano i principali centri della finanza, con le sedi delle
Borse, delle banche e dei grandi gruppi industriali. Per tutti questi motivi, a stagione conclusa il
periodo fu chiamato Belle époque, cioè epoca bella.

Fu però un periodo denso di contraddizioni. Emersero tuttavia, in alcuni contesti sociali e culturali,
segnali di crisi e di inquietudini, che si manifestarono nei modi più disparati e in molti ambiti della
vita associativa: si affacciarono così la crisi della famiglia e dei ruoli sessuali tradizionali. La
società europea era attraversata da forti tensioni causate dalle disuguaglianze sociali: da un lato vi
erano i magnati dell’industria, sempre più ricchi, a cui si contrapponeva una massa di operai e

221
contadini poveri, che non avevano voce in capitolo nelle decisioni politiche a causa dei limiti al
diritto di voto. Esistevano anche delle contrapposizioni politiche tra le grandi potenze europee
determinate dalla volontà di Francia, Inghilterra e Germania di ingrandire i rispettivi imperi
coloniali, soprattutto in Africa. Nel 1898 si verificò l’incidente di Fashioda, in Sudan, quando le
truppe francesi e britanniche si fronteggiarono minacciando lo scoppio di un conflitto. Molto forte
era anche la tensione tra la Francia e la Germania, con quest’ultima contraria all’invasione francese
del Marocco. Nello stesso periodo inglesi e tedeschi aprirono i primi campi di concentramento: i
sudditi del Kaiser, cioè l’imperatore di Germania Guglielmo II, per rinchiudervi i membri della
popolazione indigena degli Herero c, che si opponevano al loro dominio in Namibia ; i britannici in
Sud Africa li utilizzarono per internare i boeri ovvero i bianchi discendenti dagli antichi coloni
olandesi, che volevano restare indipendenti da Londra.

• I conflitti tra le potenze e la «polveriera» dei Balcani

Gli scontri nelle colonie generarono contrapposizioni più ampie che spinsero l’Inghilterra e la
Francia ad allearsi, essendo entrambe preoccupate dalla crescente potenza militare tedesca. Nel
1904 queste due nazioni firmarono un accordo detto «Intesa cordiale», che tre anni dopo cambiò
nome in Triplice Intesa con l’inserimento della Russia. A essa si contrapponeva la Triplice
Alleanza tra Germania, Austria e Italia, firmata nel 1882. Contemporaneamente in quasi tutti i paesi
europei crescevano i movimenti nazionalistici, che infiammavano l’opinione pubblica presentando
la guerra come l’unico modo per risolvere i problemi sociali ed economici interni e per dimostrare
la potenza della propria nazione a livello internazionale; acquisiva una sempre maggiore importanza
anche l’antisemitismo, come intorno al 1895 fu evidenziato in Francia dal caso Dreyfus e in
Austria dall’elezione nel 1897, a furor di popolo e contro la volontà dello stesso imperatore, il
vecchio Francesco Giuseppe (1848-1916), di un sindaco di Vienna, Karl Lueger, violentemente
antiebraico. Le questioni territoriali che alimentavano il contrasto fra le nazioni erano numerose.
L’Italia puntava a recuperare le «terre irredente» (territori non liberati) ovvero Trieste e Trento,
e a sfruttare la crisi dell’Impero ottomano per confermare la propria supremazia sull’Adriatico,
mentre la Russia cercava di espandersi nelle nazioni dell’est, come Bulgaria, Romania e Serbia,
dove erano presenti comunità di cristiani ortodossi, e di impadronirsi del Bosforo per garantirsi un
accesso diretto al Mediterraneo. Le rivendicazioni nazionalistiche e gli odi etnici erano molto
sentiti soprattutto nell’area balcanica: qui nel 1908 si risentirono le conseguenze dalla rivolta dei
giovani Turchi, un movimento di ufficiali che a Istanbul mise sul trono un nuovo sultano
Maometto V; l’Austria approfitto della debolezza turca annettendo la Bosnia Erzegovina, già suo
protettorato dal 1878. Questo alimento le preoccupazioni della Serbia, che puntava a unire
popolazioni slave della penisola; tra il 1912 e il 1913 vennero combattute due guerre balcaniche
che coinvolsero Serbia, Montenegro, Bulgaria, Romania, Grecia e Turchia, rendendo instabile tutta
l’area. Di fronte a questi conflitti le altre potenze si lanciarono in una corsa agli armamenti che
andò a vantaggio dei grandi gruppi industriali e delle gerarchie militari, che accrebbero il loro
prestigio e peso politico. Il clima ideologico favorevole alla guerra coinvolse anche le classi più
umili. Persino il movimento socialista, unito nella Seconda Internazionale e tradizionalmente
pacifista, dal momento che un conflitto militare era sempre stato visto come uno strumento da parte
degli industriali per sfruttare i lavoratori, si spaccò, finendo per appoggiare i rispettivi governi

222
nazionali. Intorno al 1914 la maggioranza degli europei sembrava non solo considerare inevitabile
lo scoppio di una guerra di vaste proporzioni, ma quasi auspicarlo.

223
La Grande guerra

◦ L’attentato a Sarajevo e lo scoppio della guerra

Nel giugno 1914 alcuni colpi di rivoltella spazzarono via un mondo che, come scrisse il romanziere
Stefan Zweig, sembrava «ordinato e sicuro». Infatti il 28 di quel mese Gravilo Princip, uno
studente bosniaco affiliato una società segreta serba, sparò all'erede al trono austro-ungarico,
l’arciduca Francesco Ferdinando e a sua moglie Sofia, uccidendoli mentre su un'auto scoperta
attraversavano le vie di Sarajevo, capitale della Bosnia. L'arciduca aveva manifestato la volontà di
allargare l'impero verso l'area balcanica e il suo progetto avrebbe vanificato le speranze dei serbi di
unire le popolazioni slave sotto la loro guida. In un contesto di crescente tensione il singolo
episodio finì per influenzare il corso della storia, accelerando lo scoppio del conflitto. Il primo
passo lo fece l'Austria, che invio alla Serbia un ultimatum che, col pretesto di colpire i complici
dell'attentatore, ne limitava la sovranità. Di fronte a un rifiuto l'Austria dichiarò guerra alla Serbia
(28 luglio) che nel frattempo aveva ricevuto la solidarietà della Russia, dove lo zar avevo ordinato
la mobilitazione delle Forze Armate. Iniziata la guerra, venne il momento dei generali; i comandi
militari tedeschi ritenevano fondamentali la sorpresa e la rapidità di movimento delle truppe per
poter ottenere un veloce successo sulla Francia e avevano preparato un progetto che prevedeva il
transito dei soldati attraverso il Belgio paese che però si era dichiarato neutrale. Il 4 agosto i reparti
germanici invasero il territorio belga dirigendosi verso i confini francesi: tale violazione del diritto
internazionale provocò le proteste dell'Inghilterra, che decise di intervenire nel conflitto. In seguito
si aggiunsero altre nazioni come l'impero Ottomano e la Bulgaria dalla parte degli imperi centrali
(cioè Germania e Austria-Ungheria, così chiamati perché occupavano il centro dell'Europa, o
Mitteleuropa), e dalla parte dell'Intesa la Romania, la Grecia, il Giappone. L'Italia si mantiene
neutrale, dal momento che la Triplice Alleanza era un patto difensivo ma, in questo caso, Austria
e Germania avevano attaccato per prime. I governi dei paesi coinvolti sbagliarono le previsioni sulla
durata del conflitto che pensavano sarebbe stato breve, di un anno al massimo. Invece si prolungò a
causa della guerra di trincea e dello sviluppo dei nuovi armamenti (mitragliatrici, lanciafiamme,
carri armati e gas) che lo resero più distruttivo, ma anche più equilibrato e difficile da risolvere con
le vecchie strategie ottocentesche, incentrate sull’ impiego della cavalleria. Nel frattempo la
Seconda Internazionale cessò di esistere e il movimento socialista si spaccò quando i singoli
partiti nazionali decisero di sostenere i rispettivi governi.

o Dal 1914 al 1916: le offensive iniziali e la guerra di trincea

I generali tedeschi speravano di piegare in poche settimane la Francia, in modo da spostare le truppe
sul fronte orientale per fronteggiare le armate russe. Le avanguardie tedesche giunsero a 40 km da
Parigi, ma la loro avanzata fu fermata nel settembre 1914 dal generale francese Joseph Joffrè che
fece requisire tutti i mezzi di trasporto disponibili, persino i taxi, per spostare i suoi reparti lungo il
fiume Marna e organizzarvi una linea difensiva. Riuscì ad arrestare i nemici e il fronte si stabilizzò
lungo una linea che correva per 800 km, dalle coste del Mare del Nord fino al confine con la
Svizzera. A est I tedeschi si rifecero battendo la Russia nelle grandi battaglie di Tannenberg e dei
Laghi Masuri; Tuttavia, la sconfitta degli austriaci in Galizia ridiede fiato ai russi e fece svanire le

224
speranze di una rapida fine della guerra; nel frattempo reparti austriaci e tedeschi invasero la Serbia.
Su entrambi i fronti, occidentale-orientale, iniziarono battaglie durissime che causarono centinaia di
migliaia di morti. È questa la cosiddetta guerra di logoramento protagonista ne fu la trincea,
ovvero un fossato scavato nel terreno che veniva importato con pali di legno e sacchi di sabbia, così
da offrire un riparo contro i colpi di artiglieria protette da reticolati di filo spinato e da «nidi» cioè
postazioni di mitragliatrici. Le trincee diventavano pressoché inespugnabili per i soldati che
cercavano di conquistarle con assalti disperati, che il più delle volte si fermavano nel lembo di terra
tra le opposte postazioni, detto «terra di nessuno», mentre le mitragliatrici falciavano i fanti rimasti
senza difese; i comandi militari organizzarono reparti addetti alla conquista delle posizioni nemiche,
che presero il nome di Sturmtruppen (reparti d’assalto» in Germania e di Arditi in Italia. Gli assalti
erano preceduti da un tiro di artiglieria, il fuoco di preparazione, che in teoria doveva scompaginare
le difese avversarie, ma che finiva per togliere ogni effetto di sorpresa. Nel 1915 nei Resti della città
Belga di Ypres i tedeschi sperimentarono l'Impiego di un gas mortale che da allora prese il nome di
Iprite. Dopo quell'episodio tutti gli eserciti si dotarono di maschere antigas. Francia e Regno Unito
cercarono di rovesciare le sorti del conflitto organizzando una spedizione navale contro la Turchia,
che però fallì a causa della Resistenza incontrata dalle truppe sbarcate a Gallipoli, dove morirono
circa 200 mila soldati. Sul mare, gli inglesi riuscirono ad imporre il blocco navale nel Mare del
Nord, impedendo le navi cariche di rifornimenti di raggiungere i porti della Germania. I tedeschi
reagirono sperimentando una nuova arma, il sottomarino, che consentiva di attaccare e affondare le
navi nemiche senza preavviso, rendendo insicure le tradizionali rotte commerciali. La guerra
Sottomarina però sollevava gravi problemi politici e morali che emersero con forza nel maggio
1915, quando un sommergibile tedesco affondò il transatlantico «Lusitania» con a Borgo più di
1000 passeggeri, di cui 140 cittadini americani: il governo degli Stati Uniti protestò aspramente uno
scontro navale tra le flotte tedesca e inglese avvenuto nello Jutland, al largo della Danimarca si
risolse con un nulla di fatto nel maggio 1916.

o L'entrata in guerra dell'Italia

In Italia, quando nel 1914 scoppiò la guerra, il Presidente del Consiglio, Antonio Salandra, e il
ministro degli Esteri San Giuliano (poi deceduto, e sostituito da Sidney Sonnino) proclamarono la
neutralità, argomentando che la Triplice Alleanza era un patto difensivo, mentre era stata l'Austria
ad attaccare la Serbia senza consultare prima il governo italiano; neutralista era anche la posizione
d i Giolitti, recente vincitore delle elezioni del 1913, ben consapevole che l'esercito era stato
indebolito dallo sforzo sostenuto nella guerra di Libia del 1911-12. Tuttavia col passare dei mesi il
nazionalismo crebbe d'intensità e numerosi intellettuali lo appoggiarono; la guerra fu considerata
un fattore di modernità come da tempo sostenevano i futuristi, seguaci di un movimento artistico-
letterario che già nel suo manifesto di fondazione (redatto da Filippo Tommaso Marinetti nel
1909) aveva affermato che la guerra era «la sola igiene del mondo». Diventa evidente la frattura fra
neutralisti ( su tutti Giolitti e Alfredo Frassati, direttore del quotidiano «La Stampa» di Torino; e
poi cattolici e socialisti) e interventisti, un variegato schieramento che andava dagli irredentisti e
nazionalisti, che parlavano di «Risorgimento incompiuto», a scrittori ultranazionalisti come
Gabriele D'Annunzio e ai conservatori legati al mondo degli industriali come Luigi Albertini,
direttore del «Corriere della Sera» di Milano, che inizio a caldeggiare sulle sue pagine l'entrata in

225
guerra dell'Italia. Un altro giornalista, Benito Mussolini, direttore del socialista «Avanti!», dopo
aver sostenuto la posizione neutralista del partito si dichiarò a favore dell'intervento. I neutralisti
erano in prevalenza nella massa della popolazione ma non riuscirono a creare uno schieramento
politico omogeneo; al contrario gli interventisti riuscirono a far passare la guerra come occasione di
rinnovamento degli spiriti e di completamento del Risorgimento. Salandra e Sonnino, con il
consenso del re Vittorio Emanuele III che voleva seguire le tradizioni militari di Savoia,
avviarono trattative segrete con l'intesa che in cambio dell' Alleanza italiana promise Trentino,
Venezia Giulia, Dalmazia e Tirolo, nonché il protettorato sull'Albania e ingrandimenti coloniali in
Africa; il 26 aprile 1915 fu firmato il Patto di Londra, nel quale l'Italia prometteva l'ingresso in
guerra dalla parte dell'intesa nel giro di un mese. Gli accordi erano segreti e il Parlamento non ne
sapeva nulla; Giolitti chiese dunque di continuare le trattative con l’Austria per ottenere
«parecchio», cioè Trento e Trieste in cambio della neutralità, ed ebbe sostegno di ben 300 deputati;
Salandra si dimise, ma interventisti e nazionalisti si mobilitarono organizzando manifestazioni di
piazza che finirono con duri scontri (le «radiose giornate di maggio», secondo la retorica
nazionalista). Il re respinge le dimissioni di Salandra e così il 24 maggio 1915 l'Italia dichiara
guerra all'Austria: l'esercito attraverso il Piave e attaccò in direzione di Trieste, circondata dalla
altopiano del Carso.

o 1917 l'anno cruciale

L'esercito italiano, guidato dal Generale Luigi Cadorna, non riuscì a sfondare e anche in questa
zona il fronte si stabilizzò e rimase fermo: tra il Maggio 1915 e l'agosto 1917 furono combattute 11
battaglie sanguinose lungo il corso del fiume Isonzo che risultano pressoché inutili, a parte la presa
di Gorizia. Nel maggio 1916 gli austriaci lanciarono dal Trentino la strafexpedition, cioè una
spedizione punitiva per penetrare in Veneto, ma furono anch'essi fermati. A livello politico Salandra
si dimise e subentrò Paolo Boselli, che creò un governo di unità nazionale. Nel 1917 due eventi
contribuirono a mutare il corso della guerra. Mentre la stanchezza serpeggiava tra tutte le truppe e
aumentavano gli episodi di insubordinazione e ammutinamento; mentre nelle città europee le
popolazioni scendevano in piazza per protestare contro la guerra e le privazioni alimentari, in
Russia sull'onda delle proteste popolari scoppiò la rivoluzione. Il governo zarista crollò nel
febbraio 1917 ed allora Germania e Austria rimaste quasi senza nemico, cominciarono ad
abbandonare il fronte orientale e trasferire truppe su quello occidentale. I tedeschi decisero anche di
riprendere la guerra sottomarina nel tentativo di chiudere la partita con Inghilterra e Francia
infliggendo un colpo mortale alle loro economie. Tuttavia i sommergibili centrarono nuovamente
delle navi passeggeri e ciò provocò il 6 aprile 1917 l'entrata in guerra degli Stati Uniti, il cui peso
militare e industriale finì col compensare l'uscita di scena della Russia. In agosto papa Benedetto
XV fece un appello ai governi a porre fine alla «inutile strage», ma la sua iniziativa non ebbe esiti.
Grazie ai reparti gunti dalla Russia, gli austriaci, rinforzati da 7 divisioni tedesche, attaccarono le
linee italiane il 24 ottobre 1917 riuscendo a sfondare nei pressi di Caporetto. Il fronte crollò di
schianto e la ritirata italiana si svolse nel caos lasciando in mano nemica diecimila chilometri
quadrati di territorio e oltre 300.000 prigionieri. Cadorna fu sostituito con il Generale Armando
Diaz e Boselli lascio il governo a Vittorio Emanuele Orlando. Di fronte alla minaccia di
invasione l'opinione pubblica si stringe attorno al governo, mentre Diaz adotta una strategia più

226
rispettosa dei soldati limitando lo spreco di vite umane e concedendo più licenze e un occhio
abbondante; un'attenta politica di propaganda esaltò il valore dei combattenti, dei soldati semplici
che difendevano il suolo nazionale e promise loro che a guerra finita sarebbero state effettuate delle
riforme agrarie per ricompensare l'eroismo dei fanti italiani: questi si attestarono sul fiume Piave
divenuto la nuova linea difensiva.

o 1918 le ultime offensive e la conclusione del conflitto

Nella primavera del 1918 i tedeschi attaccarono sul fronte occidentale, minacciando nuovamente
Parigi: vennero però Fermati sulla Marna e poi sconfitti ad Amiens dagli anglo-francesi, che
potevano contare sui rinforzi americani: oltre due milioni di uomini alla fine del conflitto. I carri
armati inglesi, la più recente delle nuove armi impiegate nel conflitto travolsero le linee nemiche.
In giugno si mossero anche gli austriaci, con l'obiettivo di sfondare sul Piave; gli italiani
attaccarono ormai l'Austria che era in ginocchio, anche a causa della defezione dei reparti
ungheresi, cechi e croati che lasciavano il fronte: sull'onda delle sconfitte militare si era ribellata
anche la popolazione boema e slovacca desiderosa di ottenere l'indipendenza nazionale. Il 29
ottobre l'esercito italiano si impose a Vittorio Veneto; il 4 novembre entrò in vigore il cessate-il-
fuoco. A Vienna Carlo I, imperatore che era succeduto nel 1916 a Francesco Giuseppe, abdicò e fu
dichiarata la repubblica. L’ 11 novembre i tedeschi firmarono la resa, accettando di consegnare
l'armamento e persino la flotta, che però si autoaffondò pur di non cadere in mano al nemico. La
guerra così si concludeva con la vittoria dell’Intesa, ma tutte le nazioni ne uscivano prostate ed
esaurite a causa dell' immane sforzo sostenuto.

o I Trattati di Pace e la nuova sistemazione europea

La conferenza di pace si aprì a Parigi nel gennaio 1919 e si protrasse per più di un anno. Scopo
principale delle potenze vincitrici era quello di ridisegnare la carta politica del Vecchio Continente,
sconvolta dalla dissoluzione di quattro imperi: tedesco, austro-ungarico, russo e ottomano. Come
punto di riferimento venne preso il programma indicato nei 14 punti redatti dal presidente
americano Woodrow Wilson nel gennaio 1918: in essi si affermava che la Nuova Europa sorta
dalla guerra avrebbe dovuto essere Democratica e pacifica e soprattutto rispettosa dei principi di
nazionalità e di autodeterminazione. Tuttavia gli scontri etnici esplosi nei Balcani e nei paesi
dell'Est misero fin dal principio in crisi le teorie di Wilson; al contempo le nazioni vincitrici
decisero di punire duramente gli sconfitti e soprattutto la Germania considerata la vera iniziatrice
del conflitto. E così, nonostante le opposizioni degli Usa, il primo trattato, firmato a Versailles nel
giugno 1919, proprio con la Germania fu un diktat cioè una vera e propria imposizione su
pressione del primo ministro francese Georges Clemenceau. I tedeschi dovettero restituire Alsazia
e Lorena alla Francia e cedere alla Polonia (uno dei nuovi Stati come la Cecoslovacchia, che erano
precedentemente incorporate negli imperi ora crollati) molti territori e un corridoio, cioè una
striscia di terra che, tagliando in due la Germania, avrebbe consentito ai polacchi di accedere al Mar
Baltico. Con il Trattato di Saint Germain (settembre 1919) l’Austria venne ridotta un piccolo
Stato con una grande capitale, Vienna, dove abitavano molti dei 6 milioni di austriaci. I territori
dell'impero vennero in parte dati alla nuova colonia, e Praga divenne la capitale del nuovo stato

227
cecoslovacco. Le popolazioni slave del Sud si unirono, anch’esse dando vita alla Jugoslavia.
L'Ungheria, firmataria del Trattato di Trianon (giugno 1920) divenne un regno a se con una
popolazione omogenea. Il Trattato di Neully (novembre 1919) penalizzò la Bulgaria, che perse lo
sbocco sul Mar Egeo a favore della Grecia. Il Trattato di Sèvres (agosto 1920) riguardò i territori
ex ottomani fra cui il Medio Oriente, che fu posto sotto il controllo di Francia (Siria e Libano) e
Inghilterra (Palestina, Giordania e Iraq). A nord vennero create Finlandia, Lituania, Lettonia ed
Estonia utilizzando terre tolte alla Russia, che venne così circondata da un cordone sanitario cioè
da un sistema di sicurezza per evitare che il contagio delle idee rivoluzionarie Socialiste si
propagandasse in Occidente. L'Italia, rappresentata a Parigi da Orlando e Sonnino, ottenere Trento e
l'Alto Adige, Trieste e l’Istria. Era meno di quanto previsto dal Patto di Londra, ma la situazione
Europea era ormai cambiata: la Dalmazia e la città di Fiume infatti facevano già parte della
neonata Jugoslavia, mentre le colonie tedesche in Africa se l'erano spartite francesi e inglesi; quindi
in Italia nacque il mito della «Vittoria mutilata», che a lungo alimentò tensioni, odio e uno spirito
di rivalsa.

Bibliografia

Storia avvenimenti e problemi, Sergio Manca e Simona Variara, Loescher Editore 2012

Voci della storia e dell’attualità, Antonio Brancati e Trebi Pagliarani, La Nuova


Italia 2019

228
27. La rivoluzione russa

Dalla grande guerra alla rivoluzione

La russia, nei primi anni del xx sec., era un paese molto arretrato e l’80% della popolazione
risiedeva in villaggi che avevano una propria amministrazione ed erano comandati dai ricchi
proprietari delle stesse terre; a causa della grande guerra la sua povertà crebbe sia dal punto di vista
economico che sociale: la popolazione perdeva sempre più fiducia nel governo e soprattutto nello
zar anche in seguito al fallimento di un movimento rivoluzionario verificatosi nel 1905.

La rivoluzione di febbraio

Nel 1916 contadini ed operai organizzarono scioperi a causa della mancanza di cibo e dell’aumento
dei prezzi ed alla fine di febbraio 1917 (marzo per il calendario occidentale), dopo che la crisi
bellica di coloro che avevano combattuto la grande guerra diventava palese con alcune rivolte ed
ammutinamenti, scoppiò la Rivoluzione in Russia. Il popolo a S. Pietroburgo ed a Mosca prese il
potere, venne rovesciato lo zar Nicola II e furono creati due distinti organismi di potere come la
duma, cioè la camera dei deputati ed i Soviet, assemblee popolari tumultuanti formate da operai,
soldati e contadini. Lo zar fu costretto ad abdicare e la duma nominò un governo provvisorio
socialista e repubblicano, guidato dal socialista Kerenskij, che voleva continuare la guerra, mentre i
soviet volevano finire la guerra ed avere una riforma agraria. I Soviet, formati da due gruppi, i
bolscevichi (che volevano fare subito una rivoluzione) ed i menscevichi (che volevano
trasformazioni più lente) furono in disaccordo con il governo; infatti Lenin, capo dei bolscevichi,
volle uscire subito dalla guerra e dare il governo ai Soviet: con lui si schierò Trockij, gran dirigente
e militare che già nel 1905 era stato presidente del Soviet di Pietroburgo.

La rivoluzione di ottobre

Fra il 6 ed il 7 Novembre (fine di Ottobre per il calendario russo) 1917 i bolscevichi, guidati da
Lenin, con un colpo di stato, rovesciarono il governo, occupando la posta, le stazioni ferroviarie, le
centrali elettriche, la centrale telefonica ed infine, a S. Pietroburgo, il Palazzo d’Inverno degli zar
(ora sede del governo)14. Kerenskij fuggì dalla città verso il fronte mentre i membri del governo
furono arrestati. Il nuovo governo, presieduto da Lenin, voleva trasformare la guerra imperialista in
guerra civile; le decisioni del nuovo governo rivoluzionario e comunista, che aveva preso il potere
scacciandone un altro, vennero prese attraverso dei decreti:
- Vennero eliminati i latifondi e le terre divennero così di proprietà dello Stato (il libero uso
venne, però, concesso ai contadini)
- Le fabbriche e le banche furono affidate ai Soviet
- Venne separato lo Stato dalla Chiesa

14La presa del Palazzo d’Inverno è rimasta, come la presa della Bastiglia nel 1789, un simbolo della rottura
rivoluzionaria violenta con cui una classe sociale sfruttata prende il potere politico sotto la guida di un gruppo dirigente
deciso a tutto.

229
Dalla rivoluzione alla guerra civile

Secondo Lenin il Partito Unico doveva rappresentare una forma di avanguardia che trascinava tutto
il popolo ma il suo autoritarismo e la forza venivano vanificati al suo interno da correnti contrastanti
che rischiavano di diventare veri e propri conflitti.

Nel Marzo del 1918, intanto, la Russia, dopo essere uscita dalla Prima Guerra Mondiale, firmò la
pace di Brest- Litovsk con la Germania secondo cui l’Impero Russo veniva smembrato in stati
vassalli dell’Impero tedesco, perdendo così la Polonia, i paesi baltici, la Finlandia ed una parte
dell’Ucraina; la capitale venne spostata da Pietrogrado a Mosca, l’esercito fu costituito dall’Armata
Rossa ed il congresso del Partito bolscevico prese il nome di comunista. Del regime zarista non
restava quasi niente, ma una parte dello stato maggiore, attraverso l’Armata bianca, costituì
l’offensiva contro il potere sovietico. Scoppiò così nel 1921 la guerra civile tra rivoluzionari
bolscevichi e conservatori fedeli allo zar che si concluse con la vittoria dei bolscevichi, ma ebbe
come conseguenze moltissimi morti e la Russia versò in pessime condizioni economiche perché
scomparve il libero mercato.

La nuova politica economica

Nel 1921 venne abbandonato il comunismo di guerra 15 e venne avviata una parziale
liberalizzazione nella produzione e negli scambi con una la nuova politica economica (Nep) che
rappresentò un sistema di piccola produzione agricola stimolando la produzione agricola e
l’approvvigionamento nelle città; inoltre si ebbe una protesta del comparto militare perché l’Armata
Rossa era priva di moderne armi. La Nep, nonostante tutto ciò, favorì lo sviluppo della piccola
impresa e l’arricchimento dei Kulaki, cioè dei grandi proprietari terrieri benestanti contrari alla
collettivizzazione del settore agricolo. Nel 1922 nacque l’URSS ( Unione delle Repubbliche
Socialiste Sovietiche), una federazione di Repubbliche controllata dal Partito Comunista. Alla fine
della guerra civile Lenin escogitò, dunque, per la ricostruzione del paese, sia una soluzione
istituzionale dando soddisfazione alle nazionalità non russe e creando l’URSS, sia una soluzione
economica attraverso la Nep; Lenin comprese, infatti, che una certa gerarchizzazione sociale era
importante per creare un ceto di contadini imprenditori: i Soviet non esistevano più e gli effetti della
Nep vennero ridimensionati dalla centralità del Partito Unico.

Dalla guerra civile all’ascesa di Stalin

Nel 1924, alla morte di Lenin, si trovarono faccia a faccia Trockij, favorevole alla rivoluzione
permanente cioè una forma di comunismo a scala mondiale e Stalin, un georgiano che
rappresentava molto più i Bolscevichi che avevano vinto la guerra ed era favorevole ad una
rivoluzione per tappe: bisognava, infatti, prima di tutto, rafforzare la dittatura del partito e creare un

15Questo comprendeva provvedimenti sociali ed economici adottati da Lenin durante la guerra civile costituiti dalla
nazionalizzazione delle industrie e dalla soppressione del commercio privato attraverso un controllo totale e
centralizzato.

230
comunismo chiuso e forte16. Stalin cercò di contrastare subito l’influenza di Trockij e nel 1927 a
Mosca avvenne la resa dei conti: Trockij, infatti, in occasione della decennale rivoluzione d’ottobre,
tentò di far sollevare il paese contro Stalin ,ma venne sconfitto ed espulso dal partito e nel 1929 dal
paese. Trockij, rifugiatosi in Turchia e poi nel Messico, venne assassinato nel 1940 e Stalin, rimasto
da solo al potere, rafforzò sempre di più gli aspetti totalitari del regime.

Lo stalinismo

Il Partito Comunista si riconosceva interamente in Stalin che diventava sempre più simile allo zar e,
con l’andar del tempo, Stalin divenne oggetto di un vero e proprio culto della personalità; nella
politica estera, a partire dal ’29, Stalin lanciò un’economia basata sulla collettivizzazione delle
campagne ed abbandono della proprietà privata e della Nep; sotto il suo governo, però l’URSS,
sebbene fosse divenuta un gigante industriale, dovette fare i conti con la bassa produttività dovuta
all’arretratezza tecnologica ed al basso livello dei consumi. Nonostante ciò, nel 1937 la produzione
industriale sovietica era già la seconda al mondo anche grazie ai piani quinquennali: per 5 anni lo
stato ebbe il totale controllo su tutto e scomparve inoltre la proprietà privata per favorire la nascita
di aziende collettive e statali17.

Il terrore staliniano

Per la pianificazione dello stato sovietico e poter ottenere l’industrializzazione, Stalin espropriò le
terre dei Kulaki ed essi, assieme a tutti gli oppositori al regime, vennero repressi duramente nei
Gulag che furono dei lager, campi di lavoro forzato in Siberia e nell’Artico 18. Stalin diede così
origine ad una dittatura spietata fondata sul totale controllo di ogni aspetto della vita. Lo stalinismo,
tirannide che terminò nel 1953 con la morte del dittatore, provocò diversi milioni di morti anche
grazie alle Grandi Purghe che, tra il 1937 ed il 1938, sterminarono tutti gli antichi oppositori di
Stalin, i dirigenti bolscevichi che avevano fatto la rivoluzione nel “17, l’intero partito bolscevico e
tutti quanti gli esponenti dell’Armata Rossa. La vittima più illustre fu Bucharin, uno dei massimi
protagonisti della rivoluzione che fu accusato di voler ricostruire il capitalismo; per non arrecare al
comunismo quello che gli sembrava un danno terribile, fu spinto a confessare tutti i crimini di cui
era imputato, tranne quello di aver voluto uccidere Lenin: Bucharin non aveva affatto commesso i
delitti di cui era accusato, ma confessò lo stesso al pari di altri imputati e venne fucilato nel 1938.

Conclusioni

Se da un lato la Rivoluzione Russa rappresentò una Rivoluzione sociale guidata da marxisti,


dall’altro essa costituì anche una forma di nazionalismo perché il paese si divise in stati
16La linea conservatrice di Stalin avrebbe determinato il socialismo in un solo paese mentre i popoli oppressi avrebbero
rappresentato per la Russia una cintura protettiva ricevendo, in cambio, un supporto internazionale.
17Tra il 1926 ed il 1940 si ebbe un massiccio trasferimento della popolazione dalle campagne in città.
18Rispetto ai lager tedeschi che erano finalizzati allo sterminio, i Gulag avevano lo scopo di reprimere l’opposizione e,
benché non avessero forni crematori né camere a gas, il numero delle vittime fu superiore a quello dei campi di
concentramento tedeschi. Inizialmente i Gulag si occuparono, alla fine degli anni ’20, della repressione dei Kulaki,
furono istituiti ufficialmente nel 1931, continuarono ad essere utilizzati in occasione della Grandi Purghe e rimasero
operativi fino al 1953, anno della morte di Stalin.

231
indipendenti e partiti; si realizzerà, però, sia pure in maniera diversa da quanto era stato previsto da
Marx, una società socialista, dando origine al comunismo che rappresentò, fino al suo fallimento,
l’unica alternativa al successo del capitalismo.
Bibliografia

P. Viola, Il Novecento, Einaudi, Torino



A. Camera. R. Fabietti, L’Età Contemporanea, Zanichelli

S. Lupo. A. Ventrone, L’età contemporanea, Le Monnier

A. M. Banti, L’età contemporanea. Dalla Grande Guerra a oggi, Editori Laterza

Appunti di lezioni Universitarie

Dispense universitarie a cura del Prof. Salvatore lupo

232
30. La seconda guerra mondiale

Le origini e le responsabilità

Gli undici mesi che vanno dalla conferenza di Monaco (fine settembre 1938) allo scoppio della
seconda guerra mondiale (inizio settembre 1939) mostrarono come la “falsa pace” negoziata a
Monaco fra Hitler e le potenze democratiche non fosse che il rinvio di uno scontro ormai
inevitabile. La guerra era già nell’aria. Non vi sono dubbi che a provocare il conflitto fu la politica
di conquista e di aggressione della Germania nazista, ma ciò non significa che le altre potenze
fossero immuni da errori o colpe.

Le democrazie occidentali si erano illuse, a Monaco, di aver placato la Germania con la cessione dei
Sudeti. In realtà, già nell’ottobre 1938, Hitler aveva pronti i piani per l’occupazione della Boemia e
della Moldavia. L’operazione scattò a marzo 1939. Mentre la Slovacchia si dichiarava indipendente
con l’appoggio dei tedeschi, Hitler dava vita al “protettorato di Boemia e Moravia”, parte integrante
del Reich.

La distruzione dello Stato cecoslovacco determinò una svolta nell’atteggiamento delle potenze
occidentali. Fra il marzo e il maggio 1939, accantonato l’appeasement, G.B. e Francia diedero vita a
una vera e propria offensiva diplomatica, volta a contenere l’aggressività delle potenze dell’Asse
con una rete quando più possibile estesa di alleanze. Furono stipulati patti con Belgio, Olanda,
Grecia, Romania, Turchia, ma soprattutto con la Polonia, primo obiettivo delle mire espansive
tedesche: già in marzo Hitler aveva rivendicato il possesso di Danzica e il diritto di passaggio
attraverso il suo “corridoio”.

Il radicalizzarsi della contrapposizione tra Germania e anglo-francesi tolse ogni residuo spazio di
manovra all’Italia. Mussolini cercò di contrapporre alle iniziative di Hitler una propria iniziativa
unilaterale: l’occupazione (aprile 1939) del piccolo Regno di Albania ebbe solamente l’effetto di
accrescere la tensione fra l’Italia e le democrazie occidentali.

Nel maggio 1939 Mussolini decise di accettare le pressanti richieste tedesche di trasformare il
generico vincolo dell’Asse Roma-Berlino in una vera e propria alleanza militare, il patto d’acciaio.
Esso stabiliva che, se una delle due parti si fosse trovata impegnata in un conflitto per una causa
qualsiasi, l’altra sarebbe stata obbligata a scendere in campo al suo fianco. Mussolini firmò il patto
pur sapendo che l’Italia non era preparata per un conflitto europeo (Hitler disse che non voleva la
guerra prima di due o tre anni).

La principale incognita era l’atteggiamento dell’Urss. Le trattative con l’Urss furono compromesse
da una serie di reciproche e non infondate diffidenze: i sovietici sospettavano che gli occidentali
mirassero a scaricare su di loro l’aggressività della Germania; gli occidentali attribuivano ai
sovietici ambizioni egemoniche sull’Europa orientale; i polacchi non volevano i russi sul loro
territorio.

233
Il 23 agosto 1939 i ministri degli Esteri tedesco e sovietico, Ribbentrop e Molotov, firmarono a
Mosca un patto di non aggressione fra i due paesi. L’annuncio dell’accordo rappresentò uno dei più
grandi colpi di scena nella storia della diplomazia del tempo e fu colto con stupore e indignazione.
Si trattava di un patto che portava vantaggi ad ambo le parti. L’Urss otteneva, con un protocollo
segreto, un riconoscimento delle sue aspirazioni territoriali nei confronti degli Stati baltici, della
Romania e della Polonia. Hitler poteva invece risolvere la questione polacca, rinviando lo scontro
con la Russia sovietica.

Il 1° settembre 1939 le truppe tedesche attaccavano la Polonia. Il 3 settembre G.B. e Francia


dichiaravano guerra alla Germania, mentre l’Italia si era dichiarato “non belligerante”. Rispetto al
primo conflitto mondiale, il secondo vide accentuarsi il carattere totale della guerra. Lo scontro
ideologico fra i due schieramenti fu più aspro e radicale, più ampia la mobilitazione dei cittadini.

La distruzione della Polonia e l’offensiva al Nord

Le prime settimane di guerra furono sufficienti alla Germania per sbarazzarsi della Polonia e per
offrire al mondo la dimostrazione di efficienza bellica. L’offensiva tedesca ebbe ragione su un
esercito antiquato e mal guidato. Fu la prima applicazione della guerra-lampo, nuovo metodo di
guerra che si basava sull’uso congiunto dell’aviazione e delle forze corazzate, che avevano il peso
principale dell’attacco.

L’impiego di carri armati e delle autoblindo e il loro raggruppamento in speciali reparti


meccanizzati rendevano di nuovo possibile la guerra di movimento, e consentivano di impadronirsi
in pochi giorni di territori molto vasti. A metà settembre i tedeschi assediavano Varsavia, che
capitolò a fine mese. Frattanto i russi si impadronivano delle regioni orientali del paese.

La Repubblica polacca cessava di esistere e al suo posto venne instaurato uno spietato regime di
occupazione. Per i successivi sette mesi, la guerra a occidente restò come congelata. L’Europa visse
una fase di trepida attesa che i francesi chiamarono “drole de guerre” (strana guerra o guerra per
finta). Il teatro di guerra si spostava inaspettatamente nell’Europa del Nord. Fu l’Urss a prendere
iniziativa, attaccando il 30 novembre la Finlandia, colpevole di aver rifiutato alcune rettifiche di
confine. La campagna fu più dura del previsto, ma nel marzo 1940 la Finlandia dovette cedere alle
richieste sovietiche.

La Germania, colpendo tutto di sorpresa, il 9 aprile 1940 attaccò la Danimarca e la Norvegia. La


Danimarca si arrese senza combattere. La Norvegia oppose una certa resistenza, aiutata da un
tardivo sbarco alleato nel Nord. L’azione tedesca si rivelò per incontenibile: nella primavera del
1940 Hitler controllava così buona parte dell’Europa centro-settentrionale.

L’attacco a occidente e la caduta della Francia

L’offensiva tedesca sul fronte occidentale ebbe inizio il 10 maggio 1940 e si risolse nel giro di
poche settimane in un nuovo travolgente successo. L’esercito francese era il più numeroso e il più

234
armato d’Europa e disponeva di una forte aviazione e di ingenti forze corazzate. A provocare la
sconfitta furono gli errori dei comandi francesi, ancora legati ad una concezione statica della guerra.
I comandi erano troppo fiduciosi nell’efficacia delle fortificazioni difensive che costituivano la linea
Maginot: fortificazione che lasciavano scoperto il confine col Belgio e col Lussemburgo. Infatti,
come nel 1914, i tedeschi iniziarono l’attacco violando la neutralità dei piccoli Stati confinanti.
Questa volta, oltre al Belgio, furono invasi Olanda e Lussemburgo. Fra il 12 e il 15 maggio, dopo
aver attraversato velocemente la foresta delle Ardenne i reparti tedeschi sfondarono le linee
nemiche nei pressi di Sedan.

Lo schieramento alleato cedette. Le truppe tedesche dilagarono in pianura e puntarono verso il


mare, chiudendo in una sacca molti reparti francesi e belgi e l’intero corpo di spedizione inglese.
Solo un momentaneo rallentamento dell’offensiva consentì al grosso delle forze britanniche,
assieme a circa 100.000 fra belgi e francesi, un difficile e drammatico reimbarco nel porto di
Dunkerque.

La sosta tedesca era dovuto in parte all’esigenza di riorganizzare le forze in vista del definitivo
attacco alla Francia, in parte a un calcolo politico di Hitler, che voleva la strada aperta per un
accordo con l’Inghilterra. Il 14 giugno i tedeschi entravano a Parigi. Assieme alle forze armate
cedeva anche la classe politica. Il governo di Paul Reynaud fu costretto a dimettersi. Divenne
presidente del Consiglio Philippe Pétain.

Invano il generale Charles De Gaulle lanciò da Londra, il 18 giugno, un appello ai francesi per
incitarli a continuare a combattere a fianco degli alleati. L’armistizio fu firmato il 22 giugno a
Rethondes, stesso luogo e vagone ferroviario che nel novembre 1918 avevano visto la delegazione
tedesca piegarsi al Diktat dei vincitori. In base all’armistizio il governo si stabilì nella cittadina
termale di Vichy e conservava la sua sovranità nella metà centro-meridionale del paese, mentre il
resto della Francia restava sotto la piena occupazione tedesca (metà settentrionale del paese).

Finiva così la Terza Repubblica. Il 9 luglio l’Assemblea nazionale, riunita a Vichy, si spogliava dei
suoi poteri, affidando al presidente del Consiglio il compito di promulgare una nuova costituzione.
La “rivoluzione nazionale” promossa da Pétain si risolse in un ritorno alle tradizioni dell’ancien
régime: culto dell’autorità, difesa della religione e della famiglia, esaltazione retorica della piccola
proprietà e del lavoro nei campi, organizzazione sociale di stampo corporativo.

L’intervento dell’Italia

Nell’estate 1939 l’Italia era stata colta di sorpresa dal precipitare della crisi. Scoppiata la guerra,
aveva dichiarato la propria non belligeranza: l’equipaggiamento delle forze armate, già scarso e
antiquato, era stato ulteriormente impoverito dalle imprese in Etiopia e in Spagna. Insufficienti
erano le scorte di materie prime (per le quali l’Italia dipendeva dalle importazioni estere).

Il crollo della Francia però spazzò via le ultime esitazioni di Mussolini e vinse le resistenze di quei
settori della classe dirigente che fin allora si erano mostrati meno favorevoli alla guerra: il re, i

235
gerarchi dell’ala “moderata”, gli industriali, gli stessi vertici militari. Anche l’opinione pubblica
cambiò orientamento di fronte alla prospettiva di una vittoria da ottenersi col minimo sforzo.

Il 10 giugno 1940 il duce annunciava a una folla plaudente l’entrata in guerra dell’Italia.
L’offensiva sulle Alpi, sferrata il 21 giugno in condizioni di netta superiorità numerica contro un
avversario praticamente già sconfitto si risolse in una grossa prova di inefficienza: la penetrazione
in suolo francese fu molo limitata e le perdite relativamente ingenti.

Le cose non andarono meglio contro gli inglesi. Nel Mediterraneo la flotta italiana subì, in luglio,
due successive sconfitte da quella britannica (sulle coste della Calabria e nei pressi di Creta). In
Africa settentrionale, l’attacco lanciato in settembre dal territorio libico contro le forze inglesi in
Egitto dovette arrestarsi ben presto per l’insufficienza dei mezzi corazzati. Un’offerta di aiuto da
parte della Germania fu respinta da Mussolini, preoccupato di sottrarsi alla tutela del più potente
alleato e convinto che l’Italia dovesse combattere una sua guerra, parallela a quella tedesca.

La battaglia d’Inghilterra

Dal giugno 1940, la G.B. era rimasta sola a combattere contro la Germania e i suoi alleati. Hitler era
anche disposto a trattare, a patto di vedersi riconosciute le sue conquiste: ma il popolo inglese era
intenzionato a continuare la lotta. Interprete e ispiratore di questa volontà di lotta fu il primo
ministro conservatore Winston Churchill. Chiamato nel maggio 1940 a guidare il nuovo governo di
coalizione nazionale, Churchill emanò subito il suo programma: la vittoria a tutti i costi contro
Hitler.

All’inizio di luglio Hitler dava il via al progetto per l’invasione dell’Inghilterra (operazione Leone
marino). Premessa essenziale era il dominio dell’aria. Quella ingaggiata nell’estate del 1940 fu la
prima grande battaglia aerea della storia. Per circa tre mesi l’aviazione tedesca (Luftwaffe) effettuò
continue incursioni in territorio britannico, prima contro obiettivi militari, poi contro i centri
industriali.

Gli attacchi furono però efficacemente contrastati dalla contraerea e dagli aerei da caccia della Raf,
Royal Air Force, che si valeva di un ottimo sistema di informazione e di avvistamento radar.
All’inizio dell’autunno apparve chiaro che l’Inghilterra non era stata piegata. La battaglia segnò la
prima battuta d’arresto per Hitler e vide la dimostrazione di potenzialità distruttive dell’aereo:
bombardamenti sulle città, incursioni notturne precedute dal suono della sirena e dalla fuga di civili
verso rifugi, bombe incendiarie.

Il fallimento della guerra italiana: i Balcani e il Nord Africa

Il 28 ottobre 1940 l’esercito italiano, muovendo dall’Albania, attaccava improvvisamente la Grecia,


paese governato da un regime semifascista con cui l’Italia aveva buoni rapporti. L’attacco fu
determinato da ragioni di concorrenza con la Germania che aveva iniziato una penetrazione militare
in Romania. Decisa in gran fretta e senza adeguata preparazione, l’offensiva si scontrò con una

236
resistenza molto più dura del previsto. Alla fine di novembre gli italiani furono costretti a ripiegare
in territorio albanese.

L’esito fallimentare della campagna provocò un terremoto nei vertici militari (lo stesso Badoglio si
dimise) e provocò nel paese una diffusa crisi di sfiducia. Nel dicembre 1940 gli inglesi erano passati
al contrattacco in Africa e in meno di due mesi avevano riconquistato la Cirenaica (parte orientale
della Libia), infliggendo agli italiani numerose perdite.

Mussolini fu costretto ad accettare l’aiuto della Germania per scacciare gli inglesi. In marzo il
generale Erwin Rommel e le sue truppe cominciavano una lunga controffensiva che, già in aprile,
portò alla riconquista della Cirenaica. Intanto l’Africa orientale (Etiopia, Somalia, Eritrea) stava
cadendo nelle mani degli inglesi: il 6 aprile 1941 fu occupata Addis Abeba e pochi giorni dopo
rientrò il negus.

Fu un altro durissimo colpo per il prestigio dell’Italia, costretta a rinunciare al sogno della guerra
parallela e ridotta ovunque a recitare il ruolo di alleato subalterno. Anche nei Balcani, nell’aprile
1941, la Jugoslavia e la Grecia, attaccate simultaneamente da truppe tedesche e italiane, furono
travolte solo grazie all’aiuto della Germania.

L’attacco all’Unione Sovietica

Con l’attacco tedesco all’Unione Sovietica, all’inizio dell’estate 1941, la guerra entrò in una nuova
fase. Un grande fronte si aprì in Europa orientale. Che l’Urss fosse da sempre il principale obiettivo
di Hitler non era un misero per nessuno. Stalin si illuse tuttavia che Hitler non avrebbe mai
aggredito la Russia prima di aver chiuso la partita con la Gran Bretagna. Il 22 giugno 1941 partì
l’offensiva tedesca (operazione Barbarossa) e i russi furono colti impreparati (le grandi purghe
avevano eliminato molti comandanti).

In due settimane le armate del Reich penetrarono in territorio sovietico per centinaia di chilometri.
L’offensiva, cui prese parte un corpo di spedizione italiano inviato in tutta fretta da Mussolini,
continuò per tutta l’estate lungo due direttrici: a nord, attraverso le regioni baltiche, a sud, attraverso
l’ucraina. L’attacco decisivo a Mosca fu sferrato troppo tardi, all’inizio di ottobre.

L’attacco fu così bloccato a poche decine di chilometri dalla capitale anche per il sopraggiungere
del maltempo, che rese impraticabile la maggior parte delle strade. In dicembre i sovietici
lanciavano la loro prima controffensiva, allontanando la minaccia da Mosca. All’inizio dell’inverno
i tedeschi erano ancora padroni di vasti territori (Ucraina, Bielorussia, regioni baltiche), ma non
erano riusciti a mettere fuori gioco l’Urss. L’offensiva, guidata personalmente da Stalin, bloccò
l’offensiva tedesca. Anche la guerra meccanizzata si trasformava così in una guerra d’usura.

L’aggressione giapponese e il coinvolgimento degli Stati Uniti

Allo scoppio del conflitto gli Usa avevano ribadito la linea di non intervento negli affari europei

237
mantenuta negli anni tra le due guerre. Ma, una volta rieletto alla presidenza per la terza volta nel
novembre 1940, Roosevelt si impegnò in un aperto sostegno economico alla Gran Bretagna. Nel
marzo 1941 fu approvata una legge (degli affari e dei prestiti) che consentiva la fornitura di
materiale bellico a condizioni molto favorevoli a quegli Stati la cui difesa fosse considerata vitale
per gli interessi americani.
Questa politica ebbe il suo suggello ufficiale nell’incontro tra Roosevelt e Churchill avvenuto il 14
agosto 1941 su una nave da guerra al largo dell’isola di Terranova. Frutto dell’incontro fu la
cosiddetta Carta atlantica: un documento in otto punti in cui si ribadiva la condanna dei regimi
fascisti e si fissava le linee di un nuovo ordine democratico a guerra finita: rispetto dei principi di
sovranità popolare e di autodecisione dei popoli, libertà dei commerci, libertà dei mari,
cooperazione internazionale, rinuncio all’uso della forza nei rapporti tra i vari Stati.

Il coinvolgimento degli Usa sembrava a questo punto inevitabile. A scatenarlo fu l’improvvisa


aggressione subito nel Pacifico da parte del Giappone (legata a Germania e Italia dal settembre
1940 in un patto tripartito). Nel luglio 1941 il Giappone invase l’Indocina francese e Usa e G.B.
reagirono con un blocco delle esportazioni. Il Giappone non si piegò alle richieste dei paesi
occidentali e continuò la guerra.

Il 7 dicembre 1941 l’aviazione giapponese attaccò, senza previa dichiarazione di guerra, la flotta
degli Usa ancorata a Pearl Harbor, nelle Hawaii, e la distrusse in buona parte. Nei mesi successivi i
giapponesi raggiunsero i loro obiettivi: nel maggio 1942 controllavano le Filippine, la Malesia e la
Birmania britanniche, l’Indonesia olandese. Pochi giorni dopo, Germania e Italia dichiaravano
guerra agli Usa.

Il “nuovo ordine”. Resistenza e collaborazionismo

Nella primavera-estate del 1942, le potenze del Tripartito raggiunsero la loro massima espansione
territoriale. Il Giappone dominava su tutto il Sud-Est asiatico, su vaste zone della Cina e su molte
isole del Pacifico. In Europa le forze dell’Asse controllavano un territorio vastissimo. Attorno a
Germania e Italia ruotavano Ungheria, Romania, Bulgaria, Slovacchia, Croazia e Francia. In
Olanda, Norvegia e Boemia governavano “alti commissari” tedeschi. Ai due lati del blocco c’erano
Spagna, Turchia e Svezia, neutrali ma di fatto incusi nella sfera politico-economica dell’Asse.

Sia la Germania sia il Giappone cercarono di costruire nelle zone sotto il loro controllo un nuovo
ordine basato sulla supremazia della nazione eletta e sulla rigida subordinazione degli altri popoli
alle esigenze dei dominatori. Mentre però il Giappone si appoggiò ai movimenti indipendentisti
locali e fece propria la causa della lotta contro l’imperialismo europeo, la Germania non concesse
nulla alle esigenze di autogoverno dei popoli ad essa soggetti.

Un trattamento particolarmente duro fu riservato ai popoli slavi, considerati inferiori e destinati ad


una condizione di semischiavitù: tutta l’Europa orientale doveva diventare una colonia agricola del
Grande Reich, ogni traccia di industrializzazione e di urbanizzazione doveva essere cancellata, ogni
forma di istruzione superiore debellata.

238
La persecuzione più orribile e spietata fu quella contro gli ebrei. In tutti i paesi occupati dai nazisti
gli ebrei furono prima confinati nei ghetti e discriminati; quindi furono deportati in campi di
prigionia (lager), situati per lo più in Polonia o in Germania (Auschwitz, Buchenwald, Dachau,
ecc.). Qui i deportati venivano sfruttati, usati come cavie per esperimenti medici e eliminati in
massa nelle camere a gas. La “soluzione finale” del problema ebraico, avviata dall’inizio del 1942
prevedeva l’eliminazione fisica degli ebrei.

Il sistema di sfruttamento, di terrore e di sterminio pianificato costruito dai tedeschi nell’Europa


occupata portò alla Germania numerosi vantaggi: una riserva inesauribile di forza-lavoro gratuita,
un flusso continuo di materie prime, un enorme prelievo di ricchezza e di beni di consumo che
permise ai cittadini tedeschi di mantenere, almeno fino al 1943, un livello di vita molto elevato.

Episodi di resistenza all’occupazione nazista si manifestarono già ella prima fase della guerra in
tutti i paesi invasi dai nazisti. Protagonisti erano di solito i piccoli gruppi antifascisti, appoggiati
dagli inglesi e legati per lo più ai governi in esilio o ai movimenti di liberazione (come la Francia
libera di De Gaulle). Fu la primavera del 1941a far aumentare la resistenza al nazismo.

Non sempre le diverse forze che confluivano nella Resistenza riuscirono a stabilire una linea
d’azione comune. Nonostante avessero adottato una strategia che subordinava ogni obiettivo
rivoluzionario alla lotta di liberazione nazionale (voluta da Stalin che, nel maggio 1943, decise lo
scioglimento del Comintern) i comunisti erano guardati con sospetto dagli anglo-americani e dai
moderati antifascisti.

La collaborazione si rivelò impossibile in tutti quei paesi dell’Europa orientale e balcanica dove più
diffuso era il timore che i partiti comunisti fungessero da strumento per i piani sovietici. In
Jugoslavia in particolare, l’esercito popolare guidato dal comunista Josip Broz (Tito) prevalse sui
nazionalisti e sui monarchici.

Nonostante la resistenza, in tutti i paesi invasi vi fu una parte più o meno consistente della
popolazione che, per opportunismo o per convinzione, accettò di collaborare con i dominatori. In
alcun paesi i tedeschi si servirono dei esponenti dei fascismi locali. In altri trovarono il sostegno di
movimenti separatisti (gli slovacchi, gli ustacia croati) già in lotta con i loro Stati. In altri ancora
furono frazioni della classe dirigente al potere prima della guerra che decisero di governare contro il
comunismo. Il caso più importante fu la Francia, dove nella primavera 1942 Pétain lasciò il governo
a Pierre Laval.

1942-1943: la svolta della guerra e la “grande alleanza”

Fra il 1942 e il 1943, l’andamento della guerra subì una svolta decisiva su tutti i fronti. I primi
segnali di inversione di tendenza si ebbero nel Pacifico, dove la spinta offensiva dei giapponesi fu
fermata dagli americani (maggio-giugno 1942) nelle due battaglie del Mar dei Coralli e delle isole
Midway: le prime battaglie navali in cui le flotte si affrontarono senza vedersi, bombardandosi a

239
vicenda con gli aerei che decollavano dalle grandi portaerei. Dopo che, nel febbraio 1943, le truppe
americane (marines) ebbero conquistato l’isola di Guadalcanal, i giapponesi rinunciarono alle azioni
offensive.

Tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943 un mutamento dei rapporti di forza si verificò nell’Atlantico,
dove i tedeschi avevano condotto fin allora un’efficace guerra sottomarina. Gli alleati riuscirono a
limitare notevolmente le perdite, grazie a una serie di innovazioni tecniche e grazie a una migliore
organizzazione tattica, che consisteva nel concentrare le forze di difesa dei convogli, anziché
disperderle.

L’episodio più decisivo si ebbe in Russia. In agosto i tedeschi iniziarono l’assedio di Stalingrado,
sul Volga. Nel novembre 1942 i sovietici contrattaccarono efficacemente sui fianchi dello
schieramento nemico, chiudendo i tedeschi in una morsa. Hitler ordinò la resistenza a oltranza,
sacrificano l’intera armata.

Negli stessi mesi un’altra decisiva battaglia vedeva l’esercito britannico impegnato nel deserto del
Nord Africa contro il contingente italo-tedesco del generale Rommel, che era giunto ad El Alamein,
vicino Alessandria. A fine ottobre il generale Montgomery, comandante delle forze britanniche,
poteva lanciare la controffensiva. Frattanto, nel novembre 1942, un contingente alleato era sbarcato
in Algeria e in Marocco. Le truppe dell’Asse, prese tra due fuochi, dovettero arrendersi nel maggio
1943.

Per gli anglo-americani e i sovietici si faceva urgente una strategia comune. Già nella conferenza a
Washington fra il dicembre 1941 e il gennaio 1942 tutte le 26 nazioni in guerra contro l’Asse
(potenze e colonie) si erano riunite per sottoscrivere il patto detto delle Nazioni Unite: i contraenti si
impegnavano a tener fede ai principi della Carta atlantica e a combattere le forze fasciste.

L’impegno comune non bastava però a cancellare né le divergenze ideologiche né i contrasti


strategici. Il contrasto più grande riguardava i tempi e i modi con cui procedere all’apertura di un
secondo fronte in Europa. Stalin lo avrebbe voluto subito, Churchill voleva prima chiudere la partita
in Africa e pensava a un successivo sbarco nell’Europa meridionale.

Prevalse il punto di vista inglese. Nella conferenza di Casablanca in Marocco (gennaio 1943)
inglesi e americani decisero che, chiuso il fronte africano, lo sbarco sarebbe avvenuto in Italia,
obiettivo più facile per motivi logistici e per ragioni politico-militare. Nella stessa conferenza gli
anglo-americani si accordarono sul principio della resa incondizionata da imporre agli avversari.

L’Italia: la caduta del fascismo e l’8 settembre

La campagna d’Italia ebbe inizio il 12 giugno 1943 con la conquista alleata dell’isola di Pantelleria.
Un mese dopo, il 10 luglio, i primi contingenti sbarcavano in Sicilia e in poche settimane si
impadronivano dell’isola. La popolazione locale non oppose resistenza ed anzi accolse gli alleati
come liberatori. Lo sbarco rappresentò il colpo di grazie per il regime fascista.

240
Un sintomo allarmante era venuto, nel marzo 1943, dai grandi scioperi operai che, partendo da
Torino, avevano interessato tutti i maggiori centri industriali del Nord. La prima vera protesta di
massa del periodo fascista era il sintomo di un diffuso disagio popolare legato al caro-vita,
all’acuirsi dei disagi alimentari, agli effetti dei bombardamenti aerei alleati.

A determinare la caduta di Mussolini fu una sorta di congiura che faceva capo alla corona e vedeva
tutte le componenti moderate del regime (industriali, militari, gerarchi dell’ala monarchico-
conservatrice) unite ad alcuni esponenti del mondo politico prefascista. Il pretesto formale per
l’intervento del re fu offerto da una riunione del Gran consiglio del fascismo, tenutasi nella notte tra
il 24 e il 25 luglio 1943 e conclusasi con l’approvazione a forte maggioranza di un ordine del giorno
presentato da Dino Grandi.

L’ordine invitava il re a riassumere le sue funzioni di comandante supremo delle forze armate. Il
pomeriggio del 25 luglio Mussolini era convocato da Vittorio Emanuele II, inviato a rassegnare le
dimissioni e arrestato dai carabinieri. Capo del governo era nominato il maresciallo Pietro Badoglio.
L’annuncio della caduta di Mussolini fu accolto con incontenibili manifestazioni di esultanza.

L’entusiasmo era legato alla diffusa speranza di una prossima fine della guerra. I tedeschi si
affrettarono però a rafforzare la loro presenza militare per prevenire, o punire, la ormai prevedibile
defezione. Il governo Badoglio, dal canto suo, proclamò che nulla sarebbe cambiato nell’impegno
bellico italiano, ma intanto allacciò trattative segretissime con gli alleati.

I negoziatori italiani dovettero accettare un atto di resa incondizionata senza nessuna garanzia per il
futuro. Firmato il 3 settembre, l’armistizio fu reso noto solo l’8 settembre. L’annunzio
dell’armistizio gettò l’Italia nel caos più completo. Mentre il re e il governo riparavano a Brindisi, i
tedeschi procedevano a una sistematica occupazione di tutte la parte centro-settentrionale dell’Italia.
Roma fu inutilmente difesa solo da alcuni reparti isolati e da alcuni civili (scontri a Porta San Paolo,
primo episodio della Resistenza).

Gli episodi di aperta resistenza, che pure non mancarono, furono puniti dai tedeschi con veri e
propri massacri: il più grave avvenne nell’isola greca di Cefalonia dove un’intera armata italiana fu
devastata. Le conseguenze dell’armistizio si ripercossero sull’andamento della campagna d’Italia.
Attestatisi su una linea difensiva (linea Gustav) che andava da Gaeta alla foce del Sandro (sud di
Pescara) e aveva il suo punto nodale nella zona di Cassino, i tedeschi bloccarono l’offensiva alleata
fino alla primavera del 1944.

L’Italia: guerra civile, resistenza, liberazione

A partire dall’autunno 1943 l’Italia non fu solo divisa di fatto da un fronte, ma anche spezzata in
due entità statali distinte. Mentre nel Sud il vecchio Stato monarchico sopravviveva col suo governo
e la sua burocrazia, nell’Italia settentrionale il fascismo risorgeva sotto la protezione dei nazisti.

241
Il 12 settembre 1943, un commando di aviatori e paracadutisti tedeschi liberò Mussolini dalla
prigionia di Campo Imperatore, sul Gran Sasso. Pochi giorni dopo il duce annunciò la sua
intenzione di dar vita, nell’Italia tedesca, a un nuovo Stato fascista, chiamato Repubblica sociale
italiana (Rsi). Venne creato un nuovo Partito fascista repubblicano e un nuovo esercito.

La Rsi si proponeva di punire gli artefici del tradimento del 25 luglio: monarchici, badogliani e
fascisti moderati (Galeazzo Ciano ed altri furono fucilati a Verona). Il nuovo Stato trasferì i suoi
uffici sulle rive del lago di Garda, da cui il nome di Repubblica di Salò. Esso ribadì la fedeltà
all’alleato tedesco e si propose come unico legittimo rappresentante dell’Italia. La funzione
principale del nuovo Stato (fantoccio, in mano ai tedeschi) fu di reprimere il movimento partigiano
allora attivo.

Le prime formazioni armate si raccolsero sulle montagne dell’Italia centro-settentrionale subito


dopo l’8 settembre e nacquero dall’incontro fra i piccoli nuclei di militanti antifascisti già attivi nel
paese e i gruppi di militari sbandati che non avevano voluto consegnarsi ai tedeschi. I partigiani
agivano lontano dai centri abitati, con attacchi improvvisi ed operazioni di sabotaggio e disturbo.

Erano presenti anche in città con i Gruppi di azione patriottica, piccole formazioni tre o quattro
uomini che compivano attentati contro militari o contro singole personalità tedesche o
“repubblichine”. I tedeschi risposero con violente rappresaglie: feroce fu quella messa in atto a
Roma nel marzo 1944, quando furono fucilati alle Fosse Ardeatine 335 detenuti, ebrei, antifascisti e
militari “badogliani”.

Dopo una prima fase di aggregazione spontanea e spesso casuale, le bande partigiane si andarono
organizzando in base all’orientamento politico prevalente tra i membri: le Brigate Garibaldi
(comunisti), formazioni di Giustizia e Libertà (si ricollegavano al movimento antifascista degli anni
’30 e al nuovo Partito d’azione), le Brigate Matteotti (socialisti), più formazioni cattoliche e liberali
e bande autonome.

Fin dall’inizio le vicende della Resistenza si intrecciarono con quelle dei partiti antifascisti, riemersi
alla luce. Già prima della caduta del fascismo era sorto, dalla confluenza tra gruppi in area
intermedia tra liberalismo progressista e socialismo, il Partito d’azione (Pda). Nello stesso periodo
numerosi esponenti cattolici, per lo più ex popolari, avevano elaborato il programma di una nuova
formazione destinata a raccogliere l’eredità del Partito popolare: la Democrazia cristiana (Dc).

Subito dopo il 25 luglio fu costituito il Partito liberale (Pli) e rinacquero il Partito repubblicano
(Pri), e quello socialista col nome di Partito socialista di unità proletaria (Psiup). Quanto ai
comunisti, riuscirono a ricostituire buona parte del loro gruppo dirigente.

Nei giorni successivi all’8 settembre, i rappresentanti di sei partiti (Pci, Psiup, Dc, Pli, Pda, oltre
alla Democrazia del lavoro, appena fondata da Bonomi) si riunirono a Roma e si costituirono in
Comitato di liberazione nazionale (Cln). I partiti antifascisti si proponevano come guida e
rappresentanza dell’Italia democratica, in contrapposizione non solo agli occupanti tedeschi e ai

242
loro collaboratori fascisti, ma allo stesso sovrano, corresponsabile della dittatura e della guerra, e al
governo Badoglio.

Nati per l’iniziativa isolata di piccoli gruppi, divisi tra un’ala di sinistra (Pci, Psiup, Pda) e una di
centro-destra (Cd, Pli, Democrazia del lavoro), i partiti del Cln non avevano però la forza per
imporre il loro punto di vista. Infatti il governo Badoglio godeva della fiducia degli alleati.
Nell’ottobre 1943 il governo dichiarò guerra alla Germania e ottenne per l’Italia la qualifica di
“cobelligerante”; un Corpo italiano di liberazione combatté in effetti a fianco degli anglo-americani.
Il contrasto tra Cln e governo fu sbloccato dal leader comunista Palmiro Togliatti. Egli propose di
accantonate ogni pregiudiziale contro il re o Badoglio e di formare un governo di unità nazionale
capace di concentrare le sue energie sul problema prioritario della guerra e della lotta al fascismo.
La svolta di Salerno era in armonia con le scelte dell’Urss.

La scelta togliattiana consentì di formare, il 24 aprile, il primo governo di unità nazionale,


presieduto da Badoglio e comprendente i rappresentanti dei partiti del Cln. Da parte sua Vittorio
Emanuele III si impegnò a trasmettere provvisoriamente i suoi poteri al figlio Umberto. Nel giugno
1944 Umberto assunse la luogotenenza generale del Regno. Badoglio si dimise e lasciò il posto a un
nuovo governo Bonomi.

L’avvento del governo Bonomi significò un più stretto collegamento fra i poteri legali dell’Italia
liberata e il movimento di resistenza. Le formazioni partigiane che già dal gennaio avevano la loro
guida politica nel Cln Alta Italia (Clnai), si diedero anche una direzione militare con la costituzione,
nel giugno 1944, di un comando unificato. Le azioni militari dei partigiani divennero più ampie e
frequenti, nonostante le feroci rappresaglie effettuate dai tedeschi (la più terribile fu quella messa in
atto a Marzabotto, nell’Appennino bolognese, quando nel settembre 1944 furono uccisi 770 civili).
I limiti e le contraddizioni del movimento resistenziale vennero alla luce nell’autunno del 1944,
quando l’offensiva alleata sul fronte italiano si sbloccò lungo la linea gotica, fra Rimini e La Spezia.
La Resistenza visse allora un momento difficile. Il proclama del generale inglese Alexander che, nel
novembre 1944, invitava i partigiani a sospendere le operazioni su vasta scala, provocò malintesi e
polemiche fra i capi della Resistenza, gli alleati e il governo di Roma.

I contrasti furono superati furono comunque superati e in dicembre il ministro Bonomi riconobbe il
Clnai come suo rappresentante nell’Italia occupata. Nonostante i rastrellamenti tedeschi il
movimento partigiano riuscì a mantenersi attivo e a sopravvivere al difficile inverno 1944-45.

Le vittorie sovietiche e lo sbarco in Normandia

Fra 1943 e 1944, mentre gli anglo-americani erano impegnati nella lunga campagna d’Italia, i
sovietici riprendevano l’iniziativa sul fronte orientale. Dopo aver respinto nel luglio 1943 l’ultimo
attacco di forze tedesco, l’Armata rossa iniziò una lenta ma inarrestabile avanzata che si sarebbe
conclusa soltanto nell’aprile-maggio 1945 con la conquista di Berlino. Il nuovo ruolo dell’Urss
emerse nella conferenza interalleata di Teheran (novembre-dicembre 1943), la prima in cui i “tre
grandi” si incontrarono personalmente. Stalin ottenne dagli anglo-americani l’impegno per uno

243
sbarco sul suolo francese.

Era un’impresa rischiosa, visto che i tedeschi aveva munito tutta la zona costiera con imponenti
fortificazioni difensive (vallo atlantico). Per attuare il piano, che prevedeva lo sbarco sulle coste
settentrionali della Normandia, furono necessari un lungo periodo di preparazione ed un eccezionale
spiegamento di mezzi. Gli alleati agivano sotto il comando dell’ufficiale americano Eisenhower.
L’operazione Overlord scattò all’alba del 6 giugno 1944, preparata da un’impressione serie di
bombardamenti e da un nutrito lancio di paracadutisti. Alla fine di luglio gli alleati riuscirono a
sfondare le difese tedesche e a dilagare nel Nord della Francia. Il 25 agosto, gli anglo-americani e i
reparti di De Gaulle entravano a Parigi, già liberata dai partigiani. In settembre la Francia era quasi
tutta liberata, ma i tedeschi ebbero modo di riorganizzarsi e resistere.
La fine del Terzo Reich

Nell’autunno 1944 la Germania poteva considerarsi virtualmente sconfitta. In agosto la Romania


aveva cambiato fronte, seguita a breve distanza dalla Bulgaria. Fra agosto e ottobre la Finlandia e
l’Ungheria avevano chiesto l’armistizio all’Urss. Sempre in ottobre, russi e partigiani jugoslavi
erano entrati in Belgrado liberata, mentre gli inglesi erano sbarcati in Grecia.

Il territorio del Reich non era ancora toccato da eserciti stranieri, ma era sottoposto a continui
bombardamenti da parte degli alleati che disponevano ormai del dominio dell’aria. L’offensiva
aerea aveva lo scopo di colpire la produzione industriale e il sistema di comunicazioni, ma
soprattutto di “demoralizzare” il popolo tedesco fino a minarne le capacità di resistenza.

Nella conferenza di Mosca dell’ottobre 1944, Churchill e Stalin abbozzarono una divisione in sfere
d’influenza dei paesi balcanici (Romania e Bulgaria all’Urss, Grecia alla Gran Bretagna, situazione
di equilibrio in Jugoslavia e Ungheria) che, in contrasto con la Carta atlantica, non teneva conto
della volontà dei popoli interessati. I tre grandi tornarono a incontrarsi a Yalta, in Crimea, nel
febbraio 1945.

In questa occasione fu stabilito, fra l’altro, che la Germania sarebbe stata divisa in quattro zone di
occupazione e sottoposta a radicali misure di “denazificazione”, che i popoli liberati avrebbero
potuto esprimersi mediante libere elezioni, che il governo polacco sarebbe nato da un compromesso
tra la componente comunista e quella filo-occidentale.

Era nel frattempo scattata l’offensiva finale. A metà gennaio, dopo un’ultima disperata
controffensiva tedesca nelle Ardenne, gli alleati riprendevano l’iniziativa su tutti i fronti. I sovietici,
dopo aver preso Varsavia, attraversavano tutto il restante territorio polacco. Gli anglo-americani
attraversarono il Reno il 22 marzo e dilagarono nel cuore della Germania. Il 25 aprile le
avanguardie alleate raggiungevano l’Elba e si congiungevano coi sovietici che stavano
accerchiando Berlino.

In aprile crollava il fronte italiano. Il 25 aprile, mentre il Cnl lanciava l’ordine dell’insurrezione
generale contro il nemico in ritirata, i tedeschi abbandonavano Milano. Mussolini fu catturato e

244
fucilato dai partigiani il 28 aprile, insieme ad altri gerarchi.

Il 30 aprile, mentre i russi entravano a Berlino, Hitler si suicidò nel bunker dove era stato trasferito
il governo, lasciando la presidenza del Reich all’ammiraglio Karl Domitz, che offrì subito la resa
agli alleati. Il 7 maggio 1945, nel quartier generale alleato a Reims, fu firmato l’atto di
capitolazione delle forze armate tedesche. Le ostilità cessarono nella notte tra l’8 e il 9 maggio.

La sconfitta del Giappone e la bomba atomica

A partire dal 1943 gli Usa avevano iniziato la lenta riconquista delle posizioni perdute nel Pacifico.
Decisivo fu l’apporto delle grandi navi portaerei e dei bombardieri strategici. Nell’estate del 1945
gli alleati, ormai liberi da impegni bellici in Europa, erano pronti ad un attacco nel territorio
nemico. Un nemico che però continuava a combattere strenuamente, facendo ampio ricorso
all’azione dei kamikaze, aviatori suicidi che si gettavano sulle navi portaerei con i loro aerei carichi
di esplosivo.

Fu a questo punto che il nuovo presidente americano Harry Truman decise di impiegare la nuova
arma “totale”; la bomba a fissione nucleare o bomba atomica, messa a punto da un gruppo di
scienziati e sperimentate per la prima volta in luglio nel deserto del Nuovo Messico. La scelta
serviva per una fine immediata della guerra, ma anche per dimostrare la superiorità americana.
Il 6 agosto 1945 un bombardiere americano sganciava la prima bomba atomica sulla città di
Hiroshima. Tre giorni dopo l’operazione era ripetuta a Nagasaki. Le conseguenze furono disastrose:
100.000 morti a Hiroshima, 60.000 a Nagasaki. Il 15 agosto l’imperatore Hirohito offrì la resa senza
condizioni. L’armistizio venne firmato il 2 settembre 1945.

245
31. Il secondo dopoguerra, dagli anni '60 agli anni '90 del Novecento

Il dopoguerra : distruzione e rinascita

La seconda guerra mondiale aveva provocato 55 milioni di morti e la distruzione di molte città. Al
termine della guerra, il desiderio di pace delle potenze vincitrici portò alla creazione (1945)
dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), un organismo internazionale che avrebbe avuto il
compito di garantire la pace su scala globale. Mentre l’Europa usciva dal conflitto distrutta , gli
Stati Uniti emergevano come la nazione più ricca e potente del mondo e l’Unione Sovietica (Urss),
anche se danneggiata dalla guerra, diventava la seconda potenza mondiale in quanto la sua
economia era in grado di riprendersi velocemente e in più era dotata di un grande apparato militare.
In questa situazione si tenne la Conferenza di Parigi, che stabilì il nuovo assetto dell’Europa: forti
vantaggi territoriali toccarono all'URSS e alla Polonia; l'Italia perse le colonie, il Dodecaneso e
parte della Venezia Giulia; la Germania, divisa in quattro zone di occupazione (sovietica,
britannica, francese e americana), finì spaccata in due tronconi (1949): la Repubblica Federale
Tedesca a ovest, sotto il controllo americano; ad est la Repubblica democratica tedesca, sotto il
controllo sovietico. Anche la capitale Berlino venne divisa in due.

La guerra fredda

Frattanto, USA e URSS, poco prima alleati contro il nazifascismo, cominciarono a manifestare una
reciproca ostilità, che nasceva innanzitutto dalla diversità dei rispettivi sistemi politici e sociali.
Mentre nell’ Europa orientale si andava diffondendo il comunismo, gli Stati Uniti vararono un
piano di aiuti e prestiti per i paesi sconvolti dalla guerra, il Piano Marshall, per estendere l'influenza
ai paesi dell'Europa occidentale. Si andava dunque delineando una netta divisione del mondo in due
blocchi: orientale, (comunista) sotto il controllo dell’Urss e occidentale (capitalista) sotto il
controllo americano. Ad accrescere la divisione nel 1949 venne costituita un’ alleanza politico
militare, la NATO alla quale aderirono, oltre agli Stati Uniti, la maggior parte dei paesi dell’Europa
occidentale. Nel 1955, invece, per iniziativa dell’Unione Sovietica, venne stipulato il patto di
Varsavia, un’alleanza militare alla quale aderirono tutti i Paesi comunisti europei (tranne la
Iugoslavia di Tito). Lo stato di tensione e ostilità di quegli anni fu chiamato “guerra fredda”(1949-
1989). Gli Stati Uniti possedevano già dal 1945 la bomba atomica che nel 1949 fu costruita anche
dall’Unione Sovietica, così il timore di un conflitto nucleare accompagnò per parecchi anni
l’umanità. La tensione fra USA e URSS fu particolarmente aspra nella Germania e sopratutto a
Berlino, la cui parte occidentale venne a trovarsi circondata da territori controllati dall’Unione
Sovietica. Nel 1948 Berlino Ovest fu isolata dalle truppe sovietiche e restò priva di rifornimenti,
allora gli Usa e L’Inghilterra organizzarono un ponte aereo che permise di rifornire la città di merci,
permettendone la sopravvivenza. Negli anni successivi il destino delle due Germanie fu ben
diverso: la Germania Ovest riuscì a ricostruire le proprie industrie e a rilanciare la sua economia; la
Germania est vide affermarsi un regime di polizia duro e oppressivo, quindi migliaia di Tedeschi
della Germania dell’Est iniziarono a fuggire verso occidente. Per bloccare quel flusso, nel 1961 il
governo della Germania orientale costruì intorno a Berlino est un muro (detto muro di Berlino), tutti
coloro che provavano ad oltrepassare il muro venivano uccisi. Nel 1950 la rivalità fra gli Stati Uniti

246
e mondo comunista sfociò nella guerra di Corea. Dopo la seconda guerra mondiale parte del
territorio era stato invaso dalle truppe sovietiche e nel 1948 il paese era stato diviso lungo il 38°
parallelo, a nord la Repubblica Democratica popolare (comunista), a sud la Repubblica di Corea.
Nel 1950 la Corea del Nord invase quella del Sud, gli Stati Uniti allora inviarono truppe in aiuto
della Corea del Sud che riuscì a respingere le truppe nemiche. A quel punto la Cina intervenne nel
conflitto rendendo reale la possibilità di una guerra con gli Stati Uniti e l’utilizzo della bomba
atomica. Nel 1953 fortunatamente si giunse alla firma di un armistizio e venne ripristinato il confine
sul 38°parallelo.

Dalla guerra fredda al crollo dell’Urss

Nel 1953, all’apice della tensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica, morì Stalin, il suo successore
Kruscev denunciò pubblicamente alcuni crimini commessi dal suo predecessore, ma non esitò ad
inviare le truppe sovietiche in Ungheria (1956) per domare la ribellione contro il regime comunista.
(Nel 1961 inoltre approvò la costruzione del muro di Berlino). Ancora più pericolosa fu la crisi di
Cuba nel 1962. L'isola, distante solo 150 Km dalla Florida, aveva abbattuto nel 1958 il regime
dittatoriale di Batista, dopo sei anni di guerriglia condotta da Fidel Castro. Da più di mezzo secolo
l'economia dipendeva interamente da quella degli Stati Uniti, che a Cuba possedevano anche una
base militare. Deciso a tagliare questi legami di dipendenza, Castro si era sempre più avvicinato
all'URSS. Il presidente statunitense Kennedy decise allora di bloccare l'acquisto dello zucchero,
l'unico prodotto cubano di esportazione, sperando così di soffocare l'economia dell'isola, e
contemporaneamente tentò uno sbarco militare alla Baia dei Porci, che però fu respinto dai Castristi.
Nello stesso anno i servizi segreti americani scoprirono che i Russi stavano installando a Cuba
missili nucleari puntati contro gli USA. Per quattro giorni il mondo intero visse con la paura di
essere sull'orlo di una terza guerra mondiale. La crisi si concluse con il ritiro delle installazioni
missilistiche da Cuba, contro la promessa da parte degli Stati Uniti di rinunciare a ogni tentativo di
invasione. Nel 1956 in Polonia e inUngheria scoppiarono scioperi e manifestazioni popolari per
chiedere l’allontanamento delle truppe russe e riforme che riconoscessero maggiori diritti e libertà
ai cittadini. Le rivolte ebbero esiti diversi.In Polonia vennero accolte alcune richieste dei
manifestanti, ma venne confermata la fedeltà a Mosca. In Ungheria invece le proteste si
trasformarono in insurrezione armata, ma nel giro di dieci giorni la rivolta popolare venne
stroncata.Nel 1968 i carri armati sovietici repressero la cosiddetta “primavera di Praga” in
Cecoslovacchia, dove la popolazione era insorta perché voleva un comunismo dal volto più umano.
Intanto negli Stati Uniti era stato eletto presidente Eisenhower. Entrambi si mostrarono disponibili a
istituire tra i due Blocchi una situazione di “coesistenza pacifica”(1958). Nel 1963 diventò
presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy: il clima tra USA e URSS divenne più sereno
(anche se non mancarono i momenti di tensione). Le due potenze, infatti, volevano dimostrare la
superiorità del proprio sistema economico e politico, senza però ricorrere all’uso delle armi. Gran
parte del merito di questo clima va a papa Giovanni XXIII, che favorì una politica di dialogo fra le
due potenze. Gli anni Settanta furono caratterizzati da una crisi economica, dovuta principalmente
al rialzo del prezzo del petrolio. Nel frattempo i rapporti tra USA e URSS erano ritornati tesi e le
due potenze spendevano sempre di più in armamenti. Nel 1985 divenne segretario del Partito
comunista russo Michail Gorbaciov. Egli strinse degli accordi con il presidente americano Ronald

247
Reagan per ridurre la corsa agli armamenti delle due potenze. Portò avanti, inoltre, importanti
riforme in URSS per modernizzare il Paese e avviarlo sulla via della democrazia. La firma del
trattato di Washington per l'eliminazione degli euromissili, il ritiro dall'Afghanistan e la
smobilitazione della presenza sovietica in tutti i continenti consentirono di passare dalla "seconda
guerra fredda" a una nuova fase di distensione e dialogo tra Est e Ovest. Nel frattempo le riforme di
Gorbaciov spinsero i Paesi di area comunista a chiedere una maggiore indipendenza all’URSS. Il
primo Stato che imboccò la strada della democrazia fu la Polonia, grazie anche all’aiuto del papa
polacco Karol Wojtyla. Piano piano tutti i Paesi dell’Est europeo si liberarono dei regimi comunisti
per trasformarsi in democrazie. Il 9 novembre 1989 cadde il Muro di Berlino: la guerra fredda era
finita, l'anno successivo la Germania tornò unita. Una spinta liberalizzatrice travolse in rapida
successione e in modo pacifico tutti i regimi comunisti. Solo in Romania, per abbattere la dittatura
di Ceaucescu, fu necessaria una sanguinosa rivolta popolare. La situazione interna dell'URSS si
risolse in modo drammatico: l'ala più estrema dei comunisti tentò di destituire Gorbaciov con un
colpo di stato, ma il tentativo falli per il mancato sostegno dell'esercito e per la vasta mobilitazione
popolare guidata da Boris Eltsin. Il golpe trascinò nel suo fallimento il Partito comunista e la stessa
Unione Sovietica: l'URSS cessò di esistere e le 15 repubbliche che la formavano scelsero di
affrontare ognuna per proprio conto i difficili problemi ereditati dal passato. Undici di esse
restarono alleate nella Comunità di stati indipendenti (CSI), un organismo fragile e privo di strutture
operative. Il crollo del regime comunista in Cecoslovacchia determinò la divisione pacifica del
paese in due stati: la Repubblica ceca e la Repubblica slovacca.

La decolonizzazione

Gli anni che vanno dal 1945 al 1990 non furono solo il periodo della “guerra fredda”, ma videro
anche la più imponente e profonda trasformazione del XX secolo: la decolonizzazione cioè il
definitivo tramonto degli imperi coloniali europei e la conquista dell’indipendenza da parte dei
popoli colonizzati.In Asia il primo paese che si era ribellato alle potenze europee era stato la Cina,
dove, dopo una dura lotta, le forze comuniste guidate da Mao Tse Tung riuscirono nel 1949 a
imporsi e instaurare la Repubblica popolare cinese. Mao Tze Tung volle impostare lo sviluppo
economico sull’agricoltura e confiscò le terre ai proprietari per distribuirle ai contadini: i risultati
ottenuti furono però molto deludenti. A partire dagli anni Ottanta la Cina si è parzialmente aperta al
libero mercato, anche se è sempre il Partito comunista a controllare la vita politica e sociale del
Paese. Una delle zone asiatiche più calde è senza dubbio l’Indocina. Una volta ottenuta
l’indipendenza dalla Francia (1954), si formarono tre nuovi Stati: Laos, Cambogia e Vietnam.
Quest’ultimo Stato fu diviso in due parti: il Vietnam del Nord, con un governo comunista, e il
Vietnam del Sud, con un regime sostenuto dagli Americani. Nel 1960 nel Vietnam del Sud iniziò
una guerriglia tra i Vietcong e il regime filoamericano. I Vietcong avevano appoggi militari sia dal
Vietnam del Nord sia da URSS e Cina. Gli Stati Uniti, nel 1965 decisero quindi di partecipare
attivamente al confitto e inviarono i soldati americani a sostegno del Vietnam del Sud. Nonostante
l’enorme dispiegamento di mezzi e di uomini, gli Stati Uniti non riuscirono a vincere la guerra e
dovettero ritirarsi dal conflitto nel 1973. Nel 1975 i Vietcong riuscirono a cacciare il regime
filoamericano e a unificare il Paese sotto la guida comunista. L’ India ottiene l’indipendenza dalla
Gran Bretagna nel 1947, dopo una lunga protesta non violenta guidata da Gandhi. I seguaci di

248
Gandhi non comprarono più i prodotti inglesi, non indossarono più abiti occidentali, non
frequentarono più le scuole e gli uffici inglesi. La non violenza fu quindi una lotta pacifica, ma
molto efficace, e L’India ottenne l’indipendenza. A causa della rivalità tra induisti e musulmani, il
paese venne diviso in due Stati: l’Unione indiana, a maggioranza induista, e il Pakistan, a
maggioranza islamica.

In Medio Oriente alla fine del Novecento era sorto il movimento sionista, che aveva l’obiettivo di
costruire uno Stato ebraico in Palestina. Gli ebrei, infatti, non avevano una loro patria, ma vivevano
sparsi in diversi Stati. A partire dagli anni Venti, e poi durante le persecuzioni naziste in Europa,
molti Ebrei decisero di trasferirsi in Palestina, spinti dalle idee sioniste. Il fenomeno proseguì in
modo ancora più evidente al termine della seconda guerra mondiale. La Palestina era però già
abitata da gli Arabi Palestinesi. La situazione divenne tesa e peggiorò ulteriormente quando, nel
1948, fu proclamata la nascita dello Stato di Israele, dopo che l’ONU aveva approvato un progetto
di spartizione della Palestina. La Lega araba non accettò la proclamazione dello Stato di Israele e
nel 1949 lo attaccò, ma venne sconfitta. Quello fu il primo di una lunga serie di conflitti tra le due
parti che videro, comunque, sempre prevalere lo Stato ebraico. I Palestinesi, nel 1969, fondarono
l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), che non riconosce l’esistenza di Israele e
cerca di combattere in ogni modo lo Stato ebraico. Tale situazione critica non è cambiata di molto e
ancora oggi il Medio Oriente rimane una delle zone più calde del pianeta.

In Africa la decolonizzazione avvenne principalmente tra il 1950 e il 1970, anche se assume i tratti
del “neocolonialismo”: alcuni governi mantengono rapporti politici ed economici con gli ex
dominatori. Particolarmente drammatico fu il caso dell’Algeria che ottenne l’indipendenza nel
1962, in seguito a una guerra atroce contro l’esercito francese. In Sudafrica, invece, la minoranza
bianca della popolazione attuò una pesante discriminazione verso i neri con la politica
dell’apartheid. Solo negli anni Novanta (1994), dopo lunghe battaglie, l’apartheid venne sconfitto:
uomo simbolo di questa lotta fu Nelson Mandela, incarcerato per circa vent’anni per aver
denunciato la situazione.

In America Latina, invece, dove gli Stati avevano ottenuto l’indipendenza già nell’Ottocento, si
instaurarono regimi dittatoriali guidati dai militari. A partire dagli anni Settanta, furono molto dure
le dittature del generale Pinochet in Cile e del generale Videla in Argentina. A Cuba, invece, nel
1959 Fidel Castro rovesciò la dittatura di Batista e impose un regime comunista.

L’Italia dal 1945 al 1990

Dopo la seconda guerra mondiale l’Italia si trovava in una situazione drammatica: molte città erano
state distrutte dai bombardamenti e la disoccupazione era a livelli altissimi. Dal punto di vista
politico subito dopo la guerra si era temporaneamente formato un governo presieduto dal
democristiano Alcide De Gasperi e composto da liberali, democristiani, comunisti e socialisti. Il 2
giugno 1946 gli Italiani furono chiamati alle urne per scegliere, attraverso un referendum, tra la
monarchia e la repubblica: a prevalere fu quest’ultima. Sempre nella stessa data gli Italiani votarono
per eleggere i rappresentanti dell’Assemblea costituente, incaricata di scrivere una nuova

249
costituzione. Entrambe furono votazioni storiche perché, per la prima volta, anche le donne
poterono partecipare al voto. Dopo il risultato del referendum, il re Umberto II andò in esilio in
Portogallo. L’Assemblea Costituente, invece, si mise al lavoro per predisporre la nuova
Costituzione repubblicana. Dopo 18 mesi di lavori, venne firmata dal capo provvisorio dello Stato
Enrico De Nicola ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948. Nel 1948 si tennero le prime elezioni
politiche della storia repubblicana. Vinse la Democrazia cristiana, il partito di Alcide De Gasperi.
L’alleanza tra l’Italia e gli Stati Uniti divenne ancora più stretta: il nostro Paese beneficiò perciò
degli aiuti del Piano Marshall e in seguito aderì alla NATO (1949). Nel 1957 L’Italia aderì alla
Comunità Economica Europea (CEE) e i nostri prodotti trovarono subito posto nei mercati degli
altri paesi membri. Tra il 1958 e il 1963 l’Italia conobbe un eccezionale sviluppo economico:
aumentarono la produzione industriale e i consumi. Le industrie, però, erano concentrate
principalmente al Nord: ecco perché in quegli anni ci fu una forte emigrazione dal Meridione al
Settentrione. A partire dagli anni Sessanta la DC decise di aprire il governo anche ai socialisti:
iniziarono gli anni dei governi di centro-sinistra. Questi governi vararono importanti riforme per il
Paese: per esempio venne istituita la scuola media unica obbligatoria e fu nazionalizzata l’energia
elettrica. Nel 1968 anche l’Italia fu attraversata dalla contestazione giovanile.I giovani sessantottini
volevano una società egualitaria che rispondesse ai bisogni reali degli uomini e non agli interessi
dei gruppi privilegiati. La protesta studentesca fu seguita dal movimento delle donne, che
rivendicavano una reale parità di diritti rispetto agli uomini, e dalla lotta operaia per il
miglioramento delle condizioni lavorative. Il sistema scolastico fu criticato perché ritenuto al
servizio delle classi sociali più ricche: molte università vennero quindi occupate dagli studenti.
Negli anni Settanta, scoppiò una grave crisi economica, determinata dal rialzo del prezzo del
petrolio: aumentò la disoccupazione mentre crescevano i prezzi dei prodotti e inoltre si manifestò il
fenomeno del terrorismo, si verificarono numerose stragi e attentati in cui persero la vita molte
persone (Milano, piazza Fontana; Brescia, piazza della Loggia; Treno Italicus; stazione di Bologna)
Lo scopo di queste stragi era la diffusione del terrore nella popolazione per far si che gli italiani
accettassero il passaggio a un regime autoritario che ristabilisse l’ordine e liquidasse i movimenti di
sinistra. Si avvertì allora la necessità di assicurare al Paese governi stabili, che coinvolgessero tutte
le forze, compreso il Partito comunista. Per fronteggiare questa situazione, le forze politiche si
compattarono e tra il 1976 e il 1979 si susseguirono governi di solidarietà nazionale. Nel 1979 il
Presidente della Repubblica, il socialista Sandro Pertini, affidò l'incarico di formare un nuovo
governo al repubblicano Giovanni Spadolini. Era la prima volta, dal 1945, che un politico non
democristiano presiedeva il governo italiano. Intanto la crisi economica era superata e il Paese tornò
a crescere. Nel 1984 il presidente del consiglio Bettino Craxi rinnovò il concordato con la Chiesa
cattolica: il cattolicesimo non era più riconosciuto come religione ufficiale, ma la Chiesa aveva
libertà e autonomia dallo Stato. Alcuni gravi problemi minacciavano un pieno sviluppo dell’Italia:
la malavita organizzata, che si stava impossessando di vaste aree del Paese e l’aumento
incontrollato della spesa pubblica, che indebiterà sempre di più lo Stato italiano. Fu la magistratura
di Milano a indagare per la prima volta su questo complicatissimo mondo, che fu definito
“Tangentopoli”. L’operazione “Mani pulite”, iniziata nel 1992, scoprì la corruzione dei politici e
indagò su circa mille persone, tra le quali lo stesso Craxi. Tutto questo provocò la scomparsa dei
partiti politici che avevano governato in quegli anni e la fine della così detta Prima repubblica (cioè
la repubblica nata dal referendum del 1946). Le elezioni del 1994 si svolsero con una nuova legge

250
elettorale, maggioritaria anziché proporzionale e inaugurarono la Seconda repubblica costituita da
partiti nuovi o da vecchi partiti che rinnovarono la loro organizzazione, i loro programmi e perfino i
loro nomi.

Bibliografia

Enrico B. Stumpo, La grande storia, dal novecento ai giorni nostri, Le Monnier scuola 2016

Calvani V., Incontra la Storia, Mondadori scuola 2017

Montepurgo – Marzo Magno – Recalcati, Le linee della Storia, Pearson 2015

Castronovo V., Presente Storico, La nuova Italia 2015

Cannavacciulo R., Storsunt DSA pdf

Di Sacco P., Facciamo Storia 3 (percorsi facilitati). SEI

251
32. Decolonizzazione in Africa. L'India di Gandhi e di Nehru

La decolonizzazione in Africa

Durante la seconda guerra mondiale prende avvio un processo di emancipazione delle colonie
europee che prosegue e si fa imponente alla fine della guerra. I paesi asiatici e mediorientali sono i
primi a conquistare l'indipendenza dalle potenze coloniali: si tratta di paesi nei quali la resistenza
antimperialista è stata più strutturata e tenace già nei decenni precedenti alla seconda guerra
mondiale e possono approfittare del fortissimo indebolimento politico e militare sofferto da Regno
Unito, Francia e Olanda a causa della guerra, per conquistare l'indipendenza. La ricerca
dell'indipendenza è condotta da dirigenti e movimenti che combinano tradizioni e culture locali con
modelli di organizzazione politica e quadri ideologici di matrice occidentale. Si delinea una netta
differenza tra due tipi di dinamiche politiche:
- aree nelle quali si sviluppano movimenti nazionalisti che uniscono il discorso patriottico di
matrice europea con l'identità religiosa e culturale locale; ad esempio nell'India induista e in
paesi musulmani quali il Pakistan, l'Indonesia e l'area mediorientale). Tuttavia, dopo la
conquista dell'indipendenza, in diversi nuovi Stati islamici si delinea un contrasto tra gruppi
che aspirano alla costituzione di uno Stato islamico e gruppi che vogliono costruire uno
Stato laico;
- nell'Asia sud-orientale (Indocina soprattutto) si formano movimenti che eleggono a modello
l'esperienza del comunismo cinese e che dalla Cina ricevono aiuti e sostegno militare e
logistico in vista dell'edificazione di una società comunista.

Il cammino per l’indipendenza fu lungo e non di rado sanguinoso. Inoltre gli Stati Europei, una
volta persi i propri domini coloniali, cercarono di mantenere rapporti economici con le ex colonie
così da controllarne l’economia, direttamente o indirettamente.

L'India di Gandhi

Dopo la Grande Guerra l'India si aspetta cambiamenti: durante il conflitto oltre un milione di
indiani ha combattuto nelle file dell'esercito britannico e sia indù sia musulmani sperano che questo
contributo sia riconosciuto dal governo britannico con la concessione di una qualche autonomia.
Nel 1919 invece il governo britannico decide di confermare le leggi eccezionali varate durante la
guerra: norme dure, che negano ogni autonomia e prevedono l'incarcerazione senza processo per chi
manifesti posizioni politiche antigovernative.

In un tale contesto emerge la figura di Mohandas Karamchand Gandhi (1869-1948). Figlio del
Primo ministro del Porbandar, un piccolo Stato semiautonomo dell'India nord-occidentale, Gandhi è
di religione indù ed influenzato dal giainismo, una corrente filosofico-religiosa che si fonda sul
principio dell'ahimsa (non violenza integrale). Gandhi, che ha studiato giurisprudenza allo
University College di Londra, ha le sue prime importanti esperienze professionali e politiche in
Sudafrica, dove nel 1893 viene inviato da un commerciante musulmano per difendere un suo socio
in un processo. Turbato dalla dura discriminazione razziale che colpisce i neri e i numerosi
immigrati indiani che vi lavorano, si impegna attivamente nella difesa dei diritti degli indiani del

252
Sudafrica. Elabora una sua teoria politica, radicale e innovativa, distante sia dalla cultura politica
occidentale sia dalla prassi di moltissimi indiani, sia indù sia musulmani: si basa sull'idea che
un'azione politica di massa possa essere condotta senza ricorrere alla violenza ma con il ricorso a
forme di resistenza pacifica. La sua lotta politica prende il nome di satyagraha (fermezza della
verità).

Le iniziative sudafricane portano Gandhi ad una grande popolarità tra la comunità indiana locale e
ben presto la sua fama arriva in India, quando torna in patria è già molto noto. Nel 1918 si impegna
per la difesa dei contadini di alcune regioni dell'India settentrionale: molti indiani cominciano a
chiamarlo Bapu (padre) o Mahatma (grande anima). Nel l919 invita gli indiani a protestare contro la
conferma delle leggi eccezionali britanniche, invitando tutti ad un hartal, uno sciopero generale di
tutto il paese. L'appello di Gandhi ha un grande successo, ma ad Amritsar (nel Punjab), un reparto
militare britannico, nel tentativo di disperdere la folla che si è riunita in una piazza, spara uccidendo
400 manifestanti indiani. Il massacro di Amritsar gioca gravemente a sfavore dell'autorità
britannica, mentre il prestigio di Gandhi ne esce enormemente accresciuto.

Nel 1920 Tilak muore e Gandhi si impone, quasi naturalmente, come il capo del Congresso
nazionale, impegnandosi con tutte le sue capacità nel tentativo di coinvolgere anche gli indiani di
religione musulmana in un grande movimento di resistenza passiva all'oppressione britannica per il
conseguimento dello Swaraj («indipendenza»). Jinnah e la Lega musulmana non apprezzano
l'iniziativa gandhiana, poiché non credono nella tecnica della non-violenza.

Gandhi nel 1920-22 lancia una grande campagna per la “non cooperazione”: i notabili devono
restituire le onorificenze ricevute dagli inglesi; gli studenti devono boicottare le università; gli
avvocati rifiutarsi di discutere le cause nei tribunali; le elezioni per gli organi amministrativi locali
devono essere disertate; Gandhi prende posizione per l'emancipazione delle donne e per la loro
partecipazione attiva al movimento indipendentista; si dichiara a favore dell'abolizione della casta
degli intoccabili; insiste sulla necessità di una collaborazione tra tutti gli indiani, anche se di
confessione religiosa diversa; come segno di protesta i tessuti inglesi devono essere distrutti e i suoi
seguaci sono invitati a bruciare pubblicamente giacche e tessuti di fattura inglese, Gandhi stesso
rinuncia agli abiti occidentali e comincia a indossare il dhoti, tradizionale abbigliamento indiano; la
ruota dell'arcolaio, che Gandhi ha sempre con sé, diventa il simbolo dell'indipendenza indiana.

Tuttavia nel 1922, in un villaggio dell'India settentrionale si verifica un episodio contrario allo
spirito politico di Gandhi: manifestanti indiani rinchiudono un gruppo di poliziotti dentro la
stazione di polizia e le danno fuoco; pertanto Gandhi, turbato dal ricorso alla violenza e timoroso
che altri episodi simili possano accadere, proclama la revoca della campagna. Gandhi viene
arrestato per attività antigovernative e condannato a sei anni di carcere: ne sconta due e poi esce nel
1924 per potersi operare di appendicite.

Nonostante ciò le sue idee non si fermano. Alcuni suoi seguaci, in particolare Jawaharlal Nehru
(1889-1964), continuano a spingere il Congresso verso azioni che possano portare a una completa
indipendenza dell'India e Gandhi torna all'azione politica per appoggiare l'iniziativa di Nehru.

253
Nel 1930 Gandhi lancia una nuova grande campagna di disobbedienza civile, la marcia del sale: la
produzione del sale è posta sotto un rigido monopolio statale, gestito dal governo coloniale
britannico e non si può produrre il sale personalmente. Contro tali norme vessatorie viene
organizzata la marcia: percorre con un gruppo di seguaci 400 Km di cammino (da Ahmedabad a
Dandi) e si trasforma in una grande processione di massa; sulla spiaggia Gandhi raccoglie un
granello di sale, violando la legge. In tutto il paese un'enorme quantità di persone lo imita.

Le autorità britanniche non sanno che fare: le prigioni sono stracolme di manifestanti arrestati; il
viceré dell'India, Lord Edward Irwin, propone a Gandhi di sospendere la manifestazione; in cambio
gli offre la possibilità di andare a Londra a parlare col presidente del Consiglio (il laburista Ramsay
MacDonald): Gandhi accetta ma non ottiene nulla: il quadro politico britannico è dominato dai
conservatori, che non vogliono sentir parlare di concessioni. Quando Gandhi ritorna da Londra,
viene arrestato. Il nuovo viceré, Lord Willingdon (1866-1941), cerca di stroncare definitivamente il
movimento di Gandhi, ricorrendo a metodi repressivi. Ma non è possibile: gli atti di resistenza o di
insubordinazione si moltiplicano, anche se Gandhi è in prigione e lui stesso in carcere attua lo
sciopero della fame, attirando su di sé l'interesse dell'opinione pubblica indiana e mondiale.

Il governo britannico decide finalmente di concedere una Costituzione per l'India (1935, in vigore
dal 1937) che attribuisce maggiori autonomie ai governi locali. Per il Congresso non è abbastanza:
Gandhi, Nehru e altri dirigenti sono convinti che l'indipendenza dell'India sia a portata di mano e
che si tratta solo di insistere.

La Partition

I tempi sembrano maturi perché l'India ottenga la sua indipendenza. Cosi, quando nel 1945 si forma
il governo laburista guidato da Attlee, uno dei primi atti di governo è la convocazione delle elezioni
per un'Assemblea Costituente indiana che rediga un testo costituzionale per un'India indipendente
(1946). Tuttavia le elezioni non danno il risultato sperato dal governo britannico, poiché sono
l'occasione per una netta rottura tra il Partito nazionale del Congresso (il partito indipendentista
induista) guidato da Gandhi e Nehru, e la Lega musulmana di Mohammed Ali Jinnah.

Jawaharlal Nehru (1889-1964): Figlio di un importante avvocato indiano, studia legge a Cambridge,
avvicinandosi agli ideali socialisti. Nel 1916, al suo ritorno in India, conosce Gandhi, con il quale
stringe una solida amicizia. Nel 1918 entra nel Partito nazionale del Congresso e partecipa
attivamente alle iniziative indipendentiste. Nel corso della seconda guerra mondiale è recisamente
contrario alle tendenze filo-naziste e filo-giapponesi diffuse in alcuni ambienti del Partito del
Congresso in funzione anti-britannica. Nel 1947 diventa capo del governo dell'India indipendente.

Gandhi si è più volte pronunciato a favore di un'India unita, nella quale possano convivere sia gli
indù (circa 300.000.000), sia i musulmani (circa 100.000.000), sia i Sikh (circa 4.000.000).
Tuttavia, sia lui sia gli altri dirigenti del Partito nazionale del Congresso hanno trascurato le
richieste avanzate dai capi musulmani, primo fra i quali Jinnah, che vogliono precise garanzie per la
minoranza musulmana del paese. Ciò ha indotto i musulmani a radicalizzare la loro posizione, con

254
la richiesta della immediata formazione di uno Stato musulmano autonomo. La mancanza di intesa
tra leader indù e musulmani e il netto irrigidimento di questi ultimi, che nel 1946 si è tradotto in una
azione diretta, con manifestazioni e scontri con gli indù, convince il viceré, Lord Louis Mountbatten
e il governo inglese che è assolutamente necessario procedere in tempi brevi a una divisione
(Partition) del territorio indiano, con la formazione di uno Stato a maggioranza indù e di uno a
maggioranza musulmana. Ci sono, tuttavia, due gravi problemi da affrontare:
- la massima concentrazione dei musulmani è all'estremo occidente (nelle regioni del
Beluchistan, Punjab e Sindh) e all'estremo oriente (nel Bengala), e tra le due zone ci
sono 1600 chilometri di distanza;
- in queste regioni vivono minoranze indù significative, così come nel centro della
Penisola indiana vivono importanti minoranze musulmane. Stando così le cose, un
unico Stato musulmano non può essere costituito.

Il governo britannico, cui è affidato il compito di disegnare le nuove entità politiche, procede
dunque a delineare due regioni distinte, una a occidente e una a oriente, appartenenti a un nuovo
Stato musulmano, il Pakistan, e uno Stato indù che occupa il resto dell'India, l'Unione Indiana.

Il 14 agosto 1947 Mountbatten annuncia a Karachi l'indipendenza del Pakistan e il 15 agosto 1947
annuncia a Nuova Delhi l'indipendenza dell'India. La Partition, che Mountbatten e il governo
britannico si augurano pacifica, si trasforma immediatamente in un'immensa tragedia: tra i due
nuovi Stati scoppiano subito contestazioni sui confini che attraversano il Punjab e il Kashmir, con
scontri armati tra gli eserciti.

La situazione del Kashmir è la più delicata: è una regione a maggioranza musulmana che,
nonostante ciò, è stata annessa all'India per il fatto che il suo principe (maharajah) era indù: pertanto
rimane una zona continuamente contesa tra i due paesi.

Parallelamente prende il via un gigantesco esodo: gli indù e i Sikh, che dopo la Partition si trovano
a vivere entro i confini del Pakistan, decidono di spostarsi in India, oppure sono costretti a farlo dai
musulmani che li vogliono cacciare fuori dai confini del Pakistan; viceversa i musulmani che si
trovano entro i confini dell'Unione Indiana si muovono verso il Pakistan per gli stessi motivi.
L'esodo è enorme e non è pacifico: l'intero processo ha un bilancio di morti oscillante tra le 100.000
e le 250.000 unità. La formazione dei due nuovi Stati, preparata dalla grande esperienza del
movimento non violento di Gandhi, finisce in un mare di sangue.

L'Unione Indiana cerca di uscire da questa terribile situazione preparandosi a costruire un assetto
costituzionale democratico sotto la guida politica di Nehru e morale di Gandhi. Quest'ultimo, nella
sua tenace intenzione di rasserenare i rapporti tra le componenti di una popolazione che per secoli
ha vissuto l'una a fianco dell'altra (sebbene non sempre pacificamente), si dichiara favorevole a una
divisione delle risorse patrimoniali lasciate dagli inglesi e ora a disposizione del governo
dell'Unione Indiana; il ministro degli Interni indiano, Sardar Vallabhbhai Patel, vorrebbe fare
diversamente, ma l'insistenza di Gandhi lo induce a procedere alla cessione delle risorse, nonostante
lo stato di tensione col Pakistan sia permanente. È un gesto estremamente generoso, ma non tutti in
India lo apprezzano: proprio per un tale gesto Gandhi perde la vita, assassinato il 30 gennaio 1948

255
da un estremista indù che lo ritiene responsabile di aver tradito gli interessi dell'India. Neanche
questo gravissimo dramma politico interrompe la costruzione della democrazia indiana:
l'Assemblea Costituente eletta nel 1946 continua i suoi lavori fino alla redazione di una
Costituzione che entra in vigore il 26 gennaio 1950 e pone le fondamenta di uno Stato indiano laico
e democratico.

L’India di Nehru

Dopo la Partition, la costruzione dell'India è affidata alla guida di Jawaharlal Nehru, il cui obiettivo
dichiarato è quello di fare dell'India «la più grande democrazia del mondo». Le condizioni dell'India
postcoloniale non sono facili: è un'area enormemente popolata, prevalentemente agricola, con
elevati livelli di analfabetismo e povertà, con grandi disuguaglianze sociali, linguistiche e regionali.
Tuttavia queste difficoltà sono affrontate con successo, grazie a solidi strumenti istituzionali e di
positive dinamiche politiche. Fondamentale la Costituzione, approvata il 27 novembre 1949 ed
entra in vigore il 26 gennaio 1950: con essa si istituisce un sistema rappresentativo democratico e si
stabilisce anche l'eguaglianza giuridica di tutti i cittadini e la parità giuridica tra i sessi.

Il Partito del Congresso, con il suo leader Nehru, si impone su numerose altre formazioni politiche
perché è l'unico partito politico nazionale, mentre le altre formazioni hanno un radicamento locale e
non riescono a trovare accordi di coalizione tra di loro. Inoltre contiene al suo interno sia gruppi
moderati, favorevoli alla valorizzazione del nazionalismo indù (rappresentati dal moderatismo
nazionalista Sardar Vallabhbhai Patel), sia gruppi inclini alla realizzazione di riforme di ispirazione
socialdemocratica (rappresentati da Nehru) orientato a realizzare un'idea di socialismo: le
divergenze di orientamento sono discusse in dibattiti aperti, condotti con spirito democratico.

Dal punto di vista della politica economica i governi guidati da Nehru si caratterizzano soprattutto
per una riforma agraria che, pur non mettendo in discussione la proprietà privata, redistribuisce una
parte almeno delle proprietà terriere tra i contadini; inoltre lo Stato finanzia la costruzione di
infrastrutture (strade, dighe, centrali elettriche). In politica estera Nehru è tra i principali promotori
della Conferenza di Bandung del 1955, con la costituzione del fronte dei paesi allineati, che
dovrebbero costituire un terzo polo internazionale, estraneo sia agli interessi dell'Urss sia a quelli
degli Usa. Tuttavia gli equilibri interni a questo fronte sono minati dai dissensi tra India e Cina
relativamente ai confini orientali tra i due paesi, che nel 1962 portano a una breve guerra nella quale
la Cina sbaraglia le truppe indiane e conquista il controllo del Tibet meridionale.

L'India di lndira Gandhi

Dopo la morte di Nehru (1964), il Partito del Congresso nel 1966 affida la direzione del governo
alla figlia di Nehru, Indira Gandhi (1917-1984): è una donna a ricoprire la carica di Primo ministro,
emblema dell’uguaglianza costituzionale.

La fase che Indira Gandhi si trova a governare non è semplice, né in politica interna, né in politica
estera. In politica interna il problema principale è costituito da un progressivo declino della forza

256
elettorale del Partito del Congresso, a favore di diversi partiti locali. In politica estera le difficoltà
nascono dai complessi rapporti tra l'India e il Pakistan. In linea generale Indira Gandhi sceglie di
fronteggiare queste difficoltà con uno stile politico decisamente autoritario: assume su di sé, oltre
che la presidenza del Consiglio, anche altri ministeri chiave, come per esempio quello dell'Interno
(per poter controllare direttamente la polizia); in politica estera affronta le tensioni col Pakistan nel
modo più diretto possibile.

Nel 1965 l'India ha già combattuto una guerra col Pakistan per il controllo del Kashmir, regione
contesa sin dal 1947; la guerra non è stata risolutiva e la tensione con il Pakistan, che è rimasta
costante, sfocia nel 1971 in un intervento militare indiano a favore dell'indipendenza del Pakistan
orientale. Qui si è da tempo formato un movimento nazionale bengalese che protesta contro il
Pakistan occidentale per lo scarso peso politico che è riconosciuto alla regione pakistana orientale e
per l'eccessivo sfruttamento economico della zona a tutto vantaggio del Pakistan occidentale.
Quando, nel marzo del 1971, l'esercito pakistano interviene nel Pakistan orientale per reprimere il
movimento indipendentista bengalese, Indira Gandhi decide di far intervenire l'esercito indiano a
fianco dei ribelli orientali; la guerra di indipendenza bengalese dura fino a dicembre 1971, quando
l'esercito pakistano viene battuto e si forma il nuovo Stato indipendente del Bangladesh (Pakistan
orientale). La guerra provoca una crisi delle relazioni diplomatiche tra l'India e gli Stati Uniti che
hanno fatto del Pakistan uno dei loro principali alleati tra i vari paesi islamici; questo
raffreddamento nelle relazioni tra i due paesi induce la Gandhi a rompere con la politica di non
allineamento, a stringere un accordo di amicizia e di collaborazione con l'Unione Sovietica e a
compiere il primo test (1974) per dotare l'esercito indiano di armi atomiche.

In politica interna Indira Gandhi cerca di rilanciare il Partito del Congresso unificando le sue due
componenti storiche: da un lato, infatti, introduce riforme sociali a favore delle classi più povere;
dall'altro insiste molto sul nazionalismo indù come chiave identitaria fondamentale, una scelta alla
quale è indotta pure dall'evoluzione dei rapporti internazionali che coinvolgono l'India. Nel campo
economico, inoltre, il governo si impegna molto nel diffondere l'uso di sementi agricole selezionate
e di fertilizzanti artificiali e nel miglioramento della produzione casearia, una campagna che dà
buoni risultati, aumentando la produttività dell'agricoltura ed eliminando definitivamente le cicliche
crisi agricole e le carestie che avevano continuato a colpire l'India fino agli anni Cinquanta.

Tutte queste iniziative garantiscono a Indira Gandhi e al Partito del Congresso un grande successo
nelle elezioni del 1971, che diventano tuttavia la causa della più grave crisi politica attraversata
dall'India indipendente. Nel 1975 i giudici di un tribunale indiano ritengono di aver riscontrato gravi
irregolarità compiute nel corso delle elezioni del 1971, di cui ritengono la Gandhi personalmente
responsabile; per questo il tribunale emette una sentenza che la interdice per sei anni dalle
competizioni elettorali. La risposta della Gandhi è molto decisa, poiché, ricorrendo a una norma
prevista dalla Costituzione, proclama lo stato di emergenza per insurrezione interna, ciò che le
consente di restare al potere.
Le successive elezioni del 1977 mostrano tuttavia la grande vitalità della democrazia indiana: in
quell'occasione inaspettatamente, per la prima volta nella storia dell'India indipendente, il Partito
del Congresso viene nettamente battuto da un nuovo partito, il Janata Party, una federazione di

257
raggruppamenti politici uniti dall'ostilità nei confronti del tentativo di svolta autoritaria intrapreso
da Indira Gandhi: il Janata Party conquista 270 seggi in Parlamento, contro i 153 del Congresso,
mandando la Gandhi e il suo partito per la prima volta all'opposizione.

258
33. Dalla Cina del grande balzo in avanti alle riforme di Deng

Introduzione

Storicamente la Cina si è sempre contraddistinta per la sua ricchezza. I primi contatti con il mondo
occidentale avvennero già ai tempi dell’Antica Grecia e dell’Antica Roma, attraverso la via Reale di
Persia che poi prese il nome di “Via della Seta”. Nel XIII sec. Marco Polo, nel resoconto dei suoi
viaggi in Asia, ne descrisse la bellezza e il benessere.

A partire però dalla seconda metà del XVIII sec. il controllo sempre più rigido da parte del Governo
imperiale cinese finì per indebolire la dinastia Qing.

Nel corso del XIX sec., oltre alle ribellioni interne, sul fronte estero la Cina uscì sconfitta sia dalle
due Guerre dell’Oppio, sia dal confitto Sino-Giapponese.

Fu così che, nel 1912, a seguito di una rivolta militare, le idee rivoluzionarie di Sun-Yat-sen
portarono alla fine dell’impero, alla nascita della Repubblica di Cina e alla successiva
affermazione del Partito Comunista Cinese.

La dittatura di Mao Tse Tung. La fase dal 1949 al 1958

Alla fine della Seconda guerra mondiale, la Cina era uno dei paesi più poveri al mondo, con
una ricca civiltà millenaria ma ancora ferma ad una struttura socio-economica preindustriale, che
usciva da quarant’anni di guerre e dall’occupazione giapponese. I suoi 600 milioni di abitanti
rischiavano di morire di fame.

Nel 1949, con la presa del potere da parte di Mao Tse Tung nacque l’attuale Repubblica popolare
cinese. Si instaurò un Governo comunista sul modello sovietico, con l’immane compito di
assicurare la sopravvivenza del popolo, avviando al contempo le premesse socio-economiche per
costruire una società socialista. La versione maoista prevedeva tuttavia un forte consenso delle
masse contadine che erano circa l’80% della popolazione.

Tra il 1950 e il 1952 una gigantesca riforma agraria eliminò il latifondo e decretò la
distribuzione gratuita della terra a 300 milioni di contadini. I precedenti proprietari terrieri vennero
uccisi o deportati in campi di lavoro. Dal 1955 cominciò l’opera di collettivizzazione delle
campagne, con la nazionalizzazione di tutte le terre, distribuite alle cooperative agricole. Molti
contadini si opposero e decine di milioni di famiglie furono trasferite a forza da una regione
all’altra. Lo stesso trattamento fu fatto ai missionari cristiani, mal visti dal Partito comunista in
quanto per la maggior parte stranieri e sospettati di essere agenti della controrivoluzione. Fu fondata
una Chiesa cattolica nazionale, la cosiddetta Chiesa patriottica, separata da Roma e fedele al
Partito comunista. Grande industria, banche, commercio estero e commercio all’ingrosso
furono nazionalizzati.

259
Poiché la situazione economica del Paese non accennava a migliorare, nel 1953-57 Mao impose un
piano quinquennale che avrebbe dovuto sviluppare l’industria pesante, come era avvenuto
nell’Urss di Stalin qualche decennio prima. Il piano non ottenne i risultati sperati. “Il grande balzo
in avanti” del 1958

“il Grande balzo in avanti” del 1958

Fu un nuovo piano economico e sociale attivato tra il 1958 e il 1962. Si trattava di abbandonare
il modello sovietico, basato sulla priorità dell’industria pesante, per sperimentare l’idea maoista
di uno sviluppo integrato di industria e agricoltura.

Il piano era trasformare l'intera economia del Paese raddoppiando ogni anno i raccolti agricoli e la
produzione industriale; allo stesso tempo bisognava rivoluzionare gli animi.

A tale scopo furono soppresse le vecchie cooperative agricole e furono fondate le comuni popolari:
grandi aziende di stato che dovevano appunto sviluppare in parallelo agricoltura e industria. Si
trattata di cellule fondamentali di una nuova società socialista che ospitavano fino a 50.000-70.000
persone. Nelle comuni la terra era di tutti, le attività artigianali e i servizi sociali (scuole, asili,
ospedali) erano gestiti comunitariamente. Ogni aspetto della vita dei cittadini, dal lavoro, alla
scuola, all’educazione dei figli, doveva rispondere alle attività della comune e controllate a loro
volta dai commissari del Partito comunista. Alla base della comune vi era un’originale strategia
economica che abbandonava la pianificazione di Stato, tipica del modello sovietico, a favore di un
decentramento che rafforzava il ruolo dei dirigenti locali e indeboliva gli apparati centrali del
partito. Tuttavia vivere in una comune significava sottostare ad un’ideologia soffocante e alla
privazione della libertà.

Questo piano si rivelò una sfida impossibile, tale da condizionare la crescita del paese per molti
anni. Il piano fallì perché mancavano dirigenti e tecnici preparati; molte comuni popolari si
reggevano sull’improvvisazione dei dirigenti locali. Benché i ritmi di lavoro fossero massacranti, la
produzione industriale risultava di scarsa qualità; anche i raccolti di cereali non riuscivano a
sfamare una popolazione in continuo aumento.

È ampiamente riconosciuto dagli storici che “Il grande balzo in avanti”, provocò decine di milioni
di morti. Una politica che tanti studiosi paragonano ai massacri di Stalin e Hitler. La produzione, in
primo luogo quella agricola, andò incontro a un’enorme contrazione tanto da provocare una
terribile carestia. Le stime più basse suggeriscono infatti un bilancio pari a 18 milioni di morti,
mentre altre ricerche, come quella dello storico cinese Yu Xiguang, indicano un bilancio pari a oltre
50 milioni di morti.

A questo punto vennero in parte resuscitate le vecchie cooperative agricole, in cui era tollerata la
vendita libera di una certa quota di prodotti. Solo così fu possibile superare, tra molte difficoltà, la
crisi alimentare.

260
La politica estera verso URSS e USA

Alle difficoltà interne si aggiunse l’isolamento esterno. All’inizio Mao aveva appoggiato
attivamente l’Urss nella guerra di Corea del 1950 contro gli Stati Uniti. Dopo la morte di Stalin
nel 1953 e la presa di potere di Kruščëv, i rapporti tra i due stati comunisti peggiorarono
notevolmente. I cinesi infatti accusarono i sovietici di aver dimenticato gli ideali della
rivoluzione leninista; Cina e Urss giunsero a scontrarsi militarmente nel 1969 per una questione di
confine sul fiume Ussuri.

Pochi anni dopo, nel 1972, Mao incontrò a Pechino il presidente americano Richard Nixon,
evento che segnò una prima distensione nei rapporti tra i due Paesi. Pechino uscì così
dall’isolamento internazionale. Nell’ottobre del 1971 la Repubblica popolare cinese entrò a fare
parte dell’ONU, occupando il seggio fino ad allora tenuto dalla Cina nazionalista di Taiwan.

La rivoluzione culturale di Mao Tse Tung

Nel 1966 Mao riprese saldamente le redini del potere intenzionato a impedire che la Cina venisse
contagiata dalle influenze sia del cosiddetto revisionismo dei leader sovietici, accusati di aver
tradito sia gli ideali comunisti. Egli lanciò allora la Rivoluzione culturale: così chiamata perché il
suo intento era di far trionfare nelle masse il giusto orientamento spirituale favorevole a un
egualitarismo radicale e comunista.

Strumenti di Mao, che venne idolatrato dai suoi seguaci esaltati, divennero le Guardie rosse,
composte soprattutto da giovani studenti animati dal Libretto rosso, una raccolta di piccolo
formato che conteneva i pensieri del capo. La rivoluzione provocò per tre anni ondate di enorme
violenza, che colpirono in primo luogo quanti erano accusati di revisionismo e paralizzarono il
Paese. I “revisionisti” vennero sottoposti anche alla “rieducazione” in lavori umilianti nelle comuni
popolari. Milioni di persone furono deportate, imprigionate o uccise, mentre la Cina precipitava
nel caos. Dopo acute lotte intestine all’interno del gruppo dirigente, nel 1973 “La rivoluzione
culturale” si era esaurita e Mao sconfessò i gruppi più radicali. Mao morì a Pechino nel 1976, la
sua linea rivoluzionaria era fortemente indebolita, tanto da preparare l’avvento al potere nel 1978 di
un revisionista come Deng Xiaoping. In sintesi possiamo dire che il grande merito di Mao fu di
assicurare al popolo una condizione di dignitosa povertà in un Paese immenso in cui i
contadini spesso morivano di fame, in un clima spesso oppressivo e crudele.

L’avvento di Deng Xiaoping dal 1978 al 1994

Dopo dure lotte per la successione, nel 1978 emerse come nuovo leader Deng Xiaoping, un
anziano dirigente comunista che era stato esiliato al tempo della Rivoluzione culturale.

Fra il 1978 e 1994 Deng Xiaoping in Cina provocò una vera rivoluzione, unendo due principi

261
apparentemente inconciliabili: dittatura politica e libertà economica. In Cina si cominciò a dire
che l’economia privata era compatibile con il socialismo se permetteva di realizzare una maggior
ricchezza da mettere a disposizione dl Paese. Deng avviò il programma delle “Quattro
modernizzazioni”: agricoltura, industria, scienza e tecnologia, apparato militare.

La Cina uscì dal sottosviluppo, raggiungendo tassi di crescita altissimi e costanti che la porteranno a
riprendere il posto centrale nel mondo che aveva avuto fino al 1700 contendendo agli Occidentali il
primato economico, scientifico e civile. Il potere rimase comunque nelle mani del Partito
comunista, non erano concessi altri partiti e neppure la libertà di espressione. Tutto questo avvenne
anche utilizzando, dal 1979, una gravissima violazione dei diritti umani, ossia la politica del figlio
unico.

Nel dicembre del 1978, Deng Xiaoping introdusse per la prima volta il concetto di “politica delle
porte aperte”. In breve tempo, il sistema agricolo comunale fu gradualmente smantellato, le
comuni popolari soppresse e furono abolite le quote di raccolto obbligatorio da destinare allo
Stato. I contadini iniziarono ad avere più libertà nel gestire la terra coltivata e a vendere i loro
prodotti sul mercato. La produzione agricola registrò un vero boom di raccolti.

Un approccio simile fu successivamente adottato in molte altre industrie. In altre parole, il ceto
medio borghese non era più, da un punto di vista economico, un nemico da combattere.

Allo stesso tempo, l’economia cinese iniziò ad aprirsi al commercio estero e ad aprire le proprie
porte alle imprese straniere che volevano stabilirsi in Cina. Proprio per questo motivo, nel 1980
Deng Xiaoping decise di istituire quattro “Zone economiche speciali” (Shenzhen, Zhuhai, Shantou e
Xiamen). Queste aree economiche erano situate strategicamente vicino a Hong Kong, Macao e
Taiwan, con un regime fiscale molto favorevole e bassi salari per attirare capitale e affari.

Dal 1980 al 1990 la produzione industriale cinese raddoppiò. Tutto ciò avvenne sempre senza
modificare l’impianto politico socialista sul quale si reggeva il Governo, il che significava ribadire
l’assoluta preminenza del partito comunista e il suo monopolio del potere.

I fatti di Tienamen e il socialismo di mercato

Il 1989 fu l’anno che segnò la fine del socialismo reale in Europa e che vide diffondersi anche in
Cina forti richieste di maggiori libertà e diritti civili. In particolare gli studenti diedero vita a
proteste non violente, con forme di resistenza e sciopero della fame. Per quasi due mesi fu
occupata la grande piazza di Tienanmen a Pechino. Il 4 giugno 1989 la protesta venne repressa
con l’intervento dei carri armati dell’esercito. La piazza fu sgomberata, ma sul terreno rimasero
oltre un migliaio di morti, seguiti da molte altre migliaia di arresti.

Il vecchio Deng venne esautorato nel novembre dello stesso anno e alla guida del Partito
comunista, quindi della Cina, subentrò Jang Zemin. Egli continuò la ristrutturazione economica,
aprendo la Cina alle logiche della libera concorrenza e dei capitali privati.

262
Le riforme economiche continuarono con i successori di Deng Xiaoping. Ad esempio, tra il
1997 ed il 1998 avvenne un processo di privatizzazione su larga scala, in cui moltissime imprese
statali, tranne alcuni grandi monopoli, furono liquidate e le loro attività vendute a investitori privati.
Tra il 2001 e il 2004, il numero di imprese statali diminuì del 48%.

Nello stesso periodo i vertici politici ridussero le tariffe, le barriere commerciali ed i vari
regolamenti commerciali; riformarono il sistema bancario; smantellarono gran parte del sistema di
assistenza sociale di epoca maoista; ridussero l’inflazione; e portarono a compimento il processo
che vide la Cina accedere all’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001.

Le esportazioni cinesi verso Africa e Asia superarono ben presto quelle occidentali; nel 2005, per la
prima volta, la produzione del settore privato superava il 50% del PIL.

Dobbiamo però ricordare che il forte sviluppo economico cinese degli ultimi tre decenni si è basato
anche in larga parte sulla grande quantità di manodopera a basso costo reperibile, spesso
minorile, che ha attirato la delocalizzazione produttiva di molte imprese occidentali e giapponesi.

L'enorme sviluppo economico ha avuto comunque il merito di trascinare milioni di cinesi fuori
dalla povertà: nel 2009 circa il 10% della popolazione viveva con meno di 1 dollaro al giorno,
rispetto al 64% del 1978. L'aspettativa di vita è salita a 73 anni. La disoccupazione nelle città alla
fine del 2007 era scesa al 4%, mentre la disoccupazione media si attesta attorno al 10%. Al
contempo sono cresciuti notevolmente sia la fetta di popolazione appartenente al ceto che i super
ricchi. Tuttavia la crescita economica si è concentrata nelle regioni industrializzate del sud-est,
contribuendo ad allargare la disparità di reddito tra le diverse regioni della Cina.

Oggi la Cina è il Paese più popoloso del mondo con circa 1,4 miliardi di abitanti e, dopo gli
Stati Uniti, rappresenta la seconda potenza economica mondiale. Allo straordinario sviluppo
economico si associa il crescente peso internazionale: nessuna decisione a livello mondiale può
essere presa senza il consenso della Cina. Gli interessi politici ed economici in gioco sono talmente
forti che la comunità internazionale tollera le costanti violazioni dei diritti umani, compresa la
repressione del movimento indipendentista del Tibet.

Bibliografia

Bignante E., Dansero E., Scarpocchi C., 2015“Geografia e cooperazione allo sviluppo. Temi e
prospettive per un approccio territoriale” Franco Angeli, Milano

De Simone E. 2009 “ Il manuale di storia economica. Dalla rivoluzione industriale alle rivoluzione
Informatica” terza edizione, Franco Angeli, Milano

Di Sacco P., 2016 “Passato e futuro – dal Novecento ai giorni nostri”, Società Editrice

263
Internazionale , Torino

Onnis M. e Crippa L. 2019, “Il corriere della storia – Dal Novecento alla contemporaneità”
Loescher Editore, Torino

Salvalaggio R. 2003, “La storia – Il Novecento” Piccoli Manuali – Arnoldo Mondadori Scuola,
Milano

Sitografia

Sabatin M. “Storia economica” Facoltà di Scienze Economiche e Giuridiche Corso di Economia


aziendale

inhttps://www.studocu.com/it/document/universita-degli-studi-di-siena/storia-economica/appunti-
di-lezione/lezioni-di-storia-economica-2017-2018/8430617/view

https://www.treccani.it/

264
34. Lo sviluppo economico dell'Asia

Introduzione

L’Asia è un continente immenso e presenta una grande varietà di scenari politici, sociali ed
economici. Oltre alla Cina (vedi capitolo precedente) che rappresenta la seconda potenza industriale
mondiale e l’altra potenza emergente che è l’India, possiamo individuare due grandi gruppi di
Paesi.

PRIMO GRUPPO: è guidato dal Giappone, che è oggi è la terza potenza industriale del mondo,
dietro USA e Cina. Vicino al Giappone possiamo collocare le cosiddette “Tigri asiatiche” , Paesi
chiamati così per la loro straordinaria crescita economica: Hong Kong, Singapore, Taiwan, Corea
del Sud.
Talvolta alle quattro economie emergenti maggiori dell'area vengono affiancate le cosiddette “Tigri
minori o Piccole tigri”: Malaysia, Indonesia, Thailandia, Filippine. Produzione industriale volta
all’esportazione, basso costo della manodopera e governi conservatori caratterizzano questi Paesi.

SECONDO GRUPPO: raccoglie molti altri stati dell’Asia c h e n o n si sono avviati verso uno
sviluppo stabile. Le loro caratteristiche più comuni sono l’arretratezza economica e sociale, la
povertà in cui vive la maggioranza della popolazione. In questo gruppo troviamo la Corea del Nord
e il Vietnam, la Cambogia, il Myanmar e il Pakistan. Rientrano nel gruppo anche molti Paesi del
Medio Oriente, regione musulmana ricchissima di petrolio. Proprio grazie al petrolio, l’Arabia
Saudita, il Kuwait, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti hanno una straordinaria ricchezza economica,
accompagnata però dalla limitazione delle libertà politiche e civili. Afghanistan e Iraq hanno subito
l’occupazione di forze militari straniere e cercano l’approdo alla democrazia. Siria, Giordania e
Libano svolgono il ruolo di cerniera tra Occidente e Oriente. L’Iran, infine, governato dagli
ayatollah sciiti, è circondato dalla diffidenza internazionale.

L’India

L’India, insieme al Giappone, fu l’unico Paese asiatico a non aver subito un regime dittatoriale nel
secondo dopoguerra. Nel 1947 la Gran Bretagna concesse all’India l’indipendenza, suddividendo
tuttavia la colonia in due aree: Il Pakistan, a maggioranza musulmana e l’Unione Indiana, a
maggioranza indù. l’India indipendente divenne una Repubblica federale parlamentare e fu
governata dal Partito del Congresso dal 1947 al 1984. L’India cercò di proporsi, per la vastità del
suo territorio, per l’entità della sua popolazione, per la sua millenaria civiltà, come uno degli stati
guida dell’Asia e in generale del Terzo Mondo.

Alcuni di questi elementi furono in tutto o in parte un’eredità del periodo coloniale; altri furono una
più diretta espressione delle convinzioni personali e dell’azione politica del primo ministro Nehru
che governò dal 1947 al 1964. discepolo di Gandhi che in realtà svolse un programma di
modernizzazione del paese lontano dal pensiero del mahatma.

265
La politica di Nehru si articolò in tre punti chiave:
1. il potenziamento dell’intervento statale in economia, soprattutto con l’obiettivo di creare a
tappe forzate l’industria pesante di base;
2. una radicale ristrutturazione del mondo rurale che si concludesse in tempi brevi con la
socializzazione dell’agricoltura;
3. il protezionismo dell’industria per assicurare la crescita dell’industria locale rispetto alla
concorrenza estera.

I risultati degli investimenti nell’industria pesante avrebbero portato ad un aumento della


disponibilità di beni di consumo solo nel lungo termine. La politica di sviluppo voluta da Nehru
ebbe quindi una serie di limiti. Il fallimento più evidente fu la distribuzione della ricchezza, lungi
dall’assumere un aspetto più egalitario, favorì in maniera crescente una minoranza della
popolazione. Ancor più importante fu il fatto che lo sviluppo pianificato relegò l’istruzione di base
al ruolo di Cenerentola.

Vi furono però anche gravi problemi. Il PIL cresceva, ma oltre un terzo degli indiani soffriva di
povertà. L’agricoltura progrediva ma non era in grado di soddisfare i bisogni della popolazione: gli
indiani erano meno di 200 milioni negli anni Quaranta e già oltre 700 milioni a metà degli anni
Ottanta. Infine, le tensioni con il Pakistan sfociarono nel 1948 e nel 1965 in due guerre combattute
per il controllo della regione di confine del Kashmir. Quest’area, sotto il dominio indiano, in realtà
era abitata in prevalenza da mussulmani che lottavano per l’indipendenza.

Dopo Nehru, Indira Gandhi, (figlia di Nehru e non imparentata con il Mahatma) nazionalizzò il
sistema bancario, con l’opportunità di orientare il credito a favore della piccola industria e,
soprattutto, del settore rurale. Da allora iniziò un percorso ininterrotto di crescita economica con
tassi del 6-9%.

In India rimasero comunque i forti contrasti religioni interni e nel 1984 la Gandhi stessa fu uccisa
da due guardie del corpo di origine sikh. Prese il suo posto il figlio Rajiv Gandhi e anche lui si trovò
alle prese con le rivendicazioni di guerriglieri, tanto da essere a sua volta assassinato nel 1991.

Dal 1991 che il sistema nehruviano venne meno, sia pure con la cruciale eccezione della
democrazia politica. L’India conobbe un periodo di riforme di liberalizzazione e
deregolamentazione dell’economia nonché la privatizzazione di interi settori di proprietà pubblica.
Sul piano economico invece, il Paese con 1,2 miliardi di abitanti, appare in pieno sviluppo, pur tra
tante contraddizioni. La crescita del PIL è di circa il 9% annuo, tale da permettere al Paese di
entrare nel gruppo dei dieci più ricchi del mondo. L’India è oggi sede di un’avanzata ricerca
scientifica che esporta conoscenze e applicazioni tecniche, specie nel campo dell’informatica. I
problemi rimangono però evidenti. L’agricoltura non è ancora in grado di sfamare l’intera
popolazione. Ancora oggi l’India è purtroppo scossa da attentati e scoppi di violenza motivati da
pretesti religiosi. Vi sono inoltre ancora profonde disuguaglianze sociali.

266
Il Giappone

Alla fine della seconda guerra mondiale il Giappone si presentò totalmente distrutto. Le bombe
atomiche di Hiroshima e Nagasaki furono l’epilogo del conflitto. La produzione agricola era
crollata del 40% e il PIL rappresentava appena il 12% di quello americano. Tuttavia dal 1950 al
1973 il Giappone ha vissuto il suo miracolo economico raggiungendo il PIL inglese e avvicinandosi
a quello americano. Gli investimenti e produttività crebbero vertiginosamente, mentre la
disoccupazione scese e le esportazioni aumentarono di ben 23 volte.

I fattori dello sviluppo economico furono:


1. la guerra di Corea e la divisione della Corea in due stati favorì il Giappone in quanto testa di
ponte per l’impegno militare americano;
2. l’espansione del commercio internazionale con le costanti esportazioni giapponesi negli
Stati Uniti;
2. l’affidamento a tecnologie avanzate e a capitale umana qualificato;
3. l’azione dello Stato che tenne i tassi di interesse bassi, ridusse le tasse sugli utili e gli
investimenti, favorì la creazione di cartelli e stabilì barriere protezionistiche alle importazioni e
infine la riforma agraria che ha ridistribuito la terra ai contadini, espropriandola a quelli passivi;
4. il clima di collaborazione tra governo e imprese, tra imprese e tra imprese e lavoratori che
rientra nella tradizione confuciana di rispetto delle gerarchie. Si garantiva il lavoro ai dipendenti in
cambio di fedeltà e sacrifici.

Il Giappone risentì molto meno di tutti della crisi del 1973. La crescita rallentò ma mantenne livelli
superiori all’Europa. Si procedette ad una ristrutturazione produttiva con l’introduzione dei robot e
la creazione di imprese “snelle”.

Alla fine degli anni Ottanta, il Giappone era la seconda potenza economica mondiale.

Negli anni Novanta tuttavia il Paese visse una crisi finanziaria e bancaria simile a quella attuale con
speculazioni immobiliari e finanziarie che finirono per produrre fallimenti e crisi di liquidità. La
bolla scoppiò appunto nel 1990 e la borsa crollò del 63%. Per combattere la crisi fu previsto un
forte programma di lavori pubblici, interventi protezionistici e anche di dumping. Solo nei primi
anni del nuovo secolo il Giappone ha segnato modesti segnali di ripresa.

Nel 2011 un devastante terremoto ha inferto al Paese un colpo terribile, ma l’economia e la società
nipponiche si sono riprese rapidamente. L’economia giapponese, oggigiorno, è quella inerente alla
produzione di radio, televisori e cellulari che sono venduti in tutto il mondo.

Le Tigri asiatiche

Le “Tigri asiatiche” o “Quattro Dragoni” è il nome che è stato attribuito verso la fine degli anni

267
Novanta principalmente a quattro paesi asiatici per via del loro ininterrotto sviluppo degli ultimi
decenni. Questi paesi sono: Hong Kong, Singapore, Taiwan, Corea del Sud.
Negli anni Cinquanta tutti e quattro versavano in una condizione di estrema povertà, erano infatti
usciti devastati dal Secondo conflitto mondiale; la Corea del Sud in particolar modo, tra il 1950 e il
1953 era stata impegnata anche in una sanguinosa e dispendiosa guerra con gli Stati Uniti.

Il contesto iniziale non prometteva dunque niente di buono. È necessario anche sottolineare il fatto
che i quattro Paesi in questione non erano particolarmente dotati di nessuno dei classici fattori di
sviluppo che hanno portato i paesi occidentali al decollo industriale: un consistente numero di
lavoratori che potessero spostarsi dal settore primario al settore secondario ( in seguito anche al
terziario) e/o abbondanza di terre. I quattro stati versavano in una condizione di profonda
arretratezza, la principale fonte di ricchezza era rappresentata dal settore primario, pochissime erano
le industrie, presenti soprattutto a Taiwan e in Corea del Sud – questi due Paesi infatti avevano
risentito particolarmente dello sviluppo industriale del Giappone. Erano tutte nazioni
moderatamente piccole, poco popolate, prive di materie prime e, come già detto, uscite dalla
seconda guerra mondiale in condizioni disastrose.

Presentavano però alcuni vantaggi comuni: la popolazione, sebbene di entità esigua, era
caratterizzata da un discreto livello di alfabetizzazione, molti erano cinesi colti fuggiti dal paese
natale a causa dell’azione militare del Giappone, e su di essi non gravava il pesante fardello di
un’agricoltura arretrata: gli abitanti di questi paesi infatti, in particolare coloro che vivevano ad
Hong Kong e Singapore, non potevano contare su una quantità infinita di terreno. L’agricoltura
risultava quindi essere moderna ed evoluta. L’esperienza giapponese aveva insegnato alle Quattro
tigri che il processo di industrializzazione doveva essere completato per gradi: era necessario
costruire solide basi e mantenere, almeno durante le fasi iniziali del ciclo di sviluppo, un basso
profilo a livello internazionale.

Tra il 1960 e il 1996 le Tigri asiatiche si sono rese protagoniste di un vero e proprio miracolo
economico. Queste nazioni sono state le prime, non occidentali, ad avviare un fiorente processo di
industrializzazione. Durante il XXI sec. sono a pieno titolo entrate a far parte del mercato globale:
Hong Kong e Singapore come centri finanziari e logistici di importanza mondiale, la Corea del Sud
e Taiwan raggiungendo posizioni di leadership per alcuni importanti prodotti industriali, esempio
nel campo delle automobili e nel settore delle tecnologie informatiche.

Singapore non scordò comunque l’importanza del settore secondario, che mantenne una grande
importanza e tuttora rappresenta una parte significativa del PIL del paese (ad oggi il 26%).

La crisi finanziaria di fine secolo, che ebbe il suo picco nel 1997, colpì in maniera diversa ciascuna
delle tigri asiatiche. Hong Kong risentì gravemente della crisi dei mercati finanziari. Singapore
soffrì in maniera minore della crisi finanziaria: la bolla immobiliare non causò grandi danni – gli
immobili erano in gran parte gestiti e concessi ai cittadini dal Governo – in più, come già detto, la
grande importanza del settore secondario nella composizione del PIL fece sì che quest’ultimo non
diminuisse in maniera significativa. Taiwan non risentì in minima misura della crisi di fine secolo,

268
il tasso di crescita del PIL continuò a registrare valori molto alti. La Corea, invece, ebbe particolari
problemi: scelte strategiche errate e anni di cattiva gestione da parte dei manager delle più
importanti conglomerate causarono una perdita netta di competitività. Inoltre scarsi investimenti
operati nelle più moderne tecnologie informatiche, per esempio nel campo dei semiconduttori,
portarono le imprese a perdere, almeno temporaneamente, la loro leadership mondiale.

Con l’inizio del nuovo millennio le Quattro tigri rimisero a posto le cose e ripresero il loro
incredibile sviluppo là dove si era interrotto a fine degli anni Novanta.

Talvolta alle quattro economie emergenti maggiori dell'area vengono affiancate le cosiddette “Tigri
minori o Piccole tigri”, ossia altri quattro stati: Malaysia, Indonesia, Thailandia, Filippine.

Nonostante la distanza in termini economici dalle maggiori economie dell'area, ma tuttavia grazie al
loro sviluppo negli anni Novanta che le allontano dall'economia di pura sussistenza, anche il
Vietnam e la Cambogia saltuariamente venivano incluse nella definizione di tigri asiatiche.

Le conseguenze per il futuro

Cosa significa tutto questo? Sempre più fabbriche stanno delocalizzando i loro stabilimenti nel sud
est asiatico, attratte da bassi costi e bassi salari; così facendo l’Asia meridionale diventerà presto
la nuova fabbrica del mondo, prima di essere incoronata una nuova potenza regionale. Ad aiutare
paesi come il Vietnam e la Cambogia non sono tanto le potenze occidentali, quando le varie
imprese cinesi, giapponesi e sudcoreane che, impaurite dalla guerra dei dazi, hanno scelto di
spostare le loro attività altrove. C’è poi un altro dato da prendere in considerazione e riguarda l’età
media che contraddistingue il sud est asiatico. Mentre la popolazione cinese e giapponese invecchia
anno dopo anno, quella di stati come Vietnam, Bangladesh, Indonesia, Filippine e Myanmar si
abbassa con la stessa velocità. In questi ultimi paesi, l’età media si attesta essere intorno ai 30 anni.
Il processo di crescita è ancora in fase di divenire e forse serviranno altri decenni prima che il
miracolo asiatico contagi anche il sud est della regione. Eppure i primi germogli sono già sbocciati.

Bibliografia

Bignante E., Dansero E., Scarpocchi C., 2015“Geografia e cooperazione allo sviluppo. Temi e
prospettive per un approccio territoriale” Franco Angeli, Milano

De Simone E. 2009 “ Il manuale di storia economica. Dalla rivoluzione industriale alle rivoluzione
Informatica” terza edizione, Franco Angeli, Milano

Di Sacco P., 2016 “Passato e futuro – dal Novecento ai giorni nostri”, Società Editrice
Internazionale , Torino

269
Onnis M. e Crippa L. 2019, “Il corriere della storia – Dal Novecento alla contemporaneità”
Loescher Editore, Torino

Salvalaggio R. 2003, “La storia – Il Novecento” Piccoli Manuali – Arnoldo Mondadori Scuola,
Milano
Sitografia

Sabatin M. “Storia economica” Facoltà di Scienze Economiche e Giuridiche Corso di Economia


aziendale
inhttps://www.studocu.com/it/document/universita-degli-studi-di-siena/storia-economica/appunti-
di-lezione/lezioni-di-storia-economica-2017-2018/8430617/view

https://www.treccani.it/

270
35. Conflitti In Medio Oriente

Il Sionismo

Il problema israelo-palestinese ha origine verso la fine del XIX secolo con la nascita del moderno
concetto di Sionismo all’interno degli scritti programmatici di alcuni scrittori, filosofi e attivisti
politici di origine ebraica come Moses Hess, Judah Alkalai, Hirsch Kalischer e soprattutto Theodor
Herzl, che diedero vita ad un movimento politico internazionale che rispondeva al crescente
antisemitismo che si andava diffondendo in Europa. Gli emblemi di questo sentimento diffuso
furono l’”affaire Dreyfus” (1896) e la pubblicazione dei “Protocolli dei savi anziani di Sion”, due
falsi storici che avevano l'intento di diffondere l'odio verso gli ebrei e avevano spinto questi
intellettuali a formulare il concetto di Sionismo, che proclamava la necessità di fondare uno stato
completamente ebraico e rivendicava i suoi “diritti storici” ed esclusivi sul territorio palestinese,
abitato all’epoca da popolazioni musulmane, druse e cristiane. Fu il giornalista ungherese Herzl a
fondare il Movimento sionista e ad indire il primo congresso mondiale nel 1897, mentre nel
frattempo iniziava l’immigrazione ebraica in territorio palestinese, provocando dissapori con la
popolazione locale.

Dagli accordi Sykes-Picot alla dichiarazione Balfour

La prima guerra mondiale cambiò completamente lo scenario geopolitico del Medio Oriente, con
la caduta del millenario Impero Ottomano e la creazione di mandati francesi e inglesi in tutta l’area.
Nel novembre 1915 il diplomatico parigino François Georges Picot e il politico londinese Mark
Sykes iniziarono le trattative per raggiungere un accordo sulla spartizione delle regioni arabe
dell’Impero ottomano. Per molte popolazioni del Medio Oriente l’intesa che raggiunsero cinque
mesi dopo costituisce il simbolo del tradimento dell’imperialismo europeo e la causa di molte delle
loro sofferenze. Il governo inglese intendeva stipulare l'accordo per affermare un controllo su vaste
regioni del Medio Oriente, passaggio terrestre e marittimo obbligato per l’India, perla del suo
impero. Quello francese, invece, aveva un interesse culturale e religioso – prima ancora che
economico – per la regione siriana. Gli accordi Sykes-Picot furono condizionati dal tentativo
britannico di tener conto delle ambizioni di Hussein ibn Ali, guardiano delle città sante della Mecca
e di Medina e successivamente re dello 'Hegiaz, (penisola araba, oggi parte dell'Arabia Saudita) ,
che rivendicava l’indipendenza di tutti i territori arabi dell’impero turco sotto la sua sovranità, tra
cui le province di Bassora e Baghdad e la costa Siriana. Per cercare di armonizzare quest’accordo
con quello raggiunto con Hussein, fu stabilito che, oltre ai territori divisi tra Francia e Gran
Bretagna, ciò che rimaneva sarebbe appartenuto a uno «Stato arabo» o a una «confederazione di
Stati arabi». Anche all’interno di questi Stati «indipendenti», però, le due potenze si riservavano
delle sfere d'influenza.

Successivamente, quando con la Dichiarazione Balfour (2 novembre 1917) la Gran Bretagna


prometteva di fare «ogni sforzo per facilitare» la «costituzione in Palestina di un focolare nazionale
per il popolo ebraico» e allo stesso tempo nella salvaguardia dei diritti della popolazione araba, fu
chiaro che stava violando gli accordi Sykes-Picot e quelli con Hussein. La contraddizione insita nel

271
duplice impegno della Gran Bretagna era evidente e si scontrava con la volontà di
autodeterminazione nazionale (ispirata proprio dagli Alleati durante la guerra con i “14 punti” del
presidente statunitense W i l s o n ) di entrambe le popolazioni.
L’afflusso di immigranti ebrei e la realtà di un governo imperialista straniero provocarono un
risveglio nazionalista degli arabi palestinesi, la cui società si polarizzò proprio in quegli anni.

Una fetta cospicua di arabi, richiedeva la fine del Mandato inglese, l’istituzione di uno stato arabo e
la cessazione dell’immigrazione ebraica. Purtroppo l’esistenza nelle fila degli arabi palestinesi di
una opposizione dalle richieste più morbide, creò una spaccatura che sfociò in un triennio (1936-39)
caratterizzato da rivolte e atti terroristici, che indebolì il tessuto socio-politico palestinese e portò,
tra le altre cose, alla disfatta del 1948. Gli inglesi, tentando di sedare la rivolta, proposero la prima
spartizione della Palestina, bocciata dall’AHC (Alto comitato arabo). Fallita questa proposta, la
Gran Bretagna, per accattivarsi tutto il mondo arabo alla vigilia del secondo conflitto mondiale,
pubblicò il “Libro Bianco” sulla Palestina (1939): qui pose grossi limiti all’immigrazione ebraica,
vietando l’acquisto di terreni e promettendo l’indipendenza politica entro dieci anni ai palestinesi.

La Risoluzione 181 e la guerra del 1948-49

Malgrado i buoni propositi inglesi, la guerra cambiò di nuovo le carte in tavole, rendendo la
situazione sempre più sfavorevole per gli arabi. Furono diverse e varie le ragioni per cui la Gran
Bretagna affidò la risoluzione di questo insanabile conflitto all’assemblea delle Nazioni Unite, che
il 29 novembre 1947 approvò un piano di spartizione, risoluzione 181, che prevedeva il 55% del
territorio affidato agli ebrei, il 40% agli arabi e la zona di Gerusalemme posta sotto controllo
internazionale. Innanzitutto giocarono a favore di questa risoluzione e della causa ebraica, le
pressioni politico-morali esercitate dall’Olocausto e dal crescente coinvolgimento americano a
favore del sionismo, che rendevano ormai inevitabile la creazione di uno stato ebraico.
A ciò va aggiunta una vergognosa e immorale campagna antisemita degli inglesi che, prima e dopo
la guerra, non solo avevano vietato l’immigrazione in Palestina, ma avevano inoltre cercato di
contrastare il terrorismo ebraico ad opera dei revisionisti dell’IZL (noto come
I r g u n - " O r g a n i z z a z i o n e M i l i t a r e N a z i o n a l e " - g r u p p o p a r a m i l i t a r e sionista,
giudicato terrorista dal Regno Unito.) Infine l’immagine dei palestinesi si era macchiata con la
rivolta del ’36-’39, e soprattutto con l’appoggio ai nazisti durante la guerra.
L’Yishuv (gruppo etnico ebraico insediatosi in Palestina prima della nascita dello Stato di Israele)
accolse con gioia la risoluzione, mentre invece l’AHC la respinse con decisione, ritenendola iniqua
e innescando un’ondata di disordini. L’ALA (Esercito di liberazione arabo), o semplicemente Lega
araba, formata da migliaia di volontari provenienti dalle principali nazioni del mondo arabo (Egitto,
Iraq, Giordania, e tante altre), iniziò presto a scontrarsi con le altre formazioni militari ebraiche. La
situazione precipitò ben presto, degenerando in una vera e propria guerra civile, anche a causa
dell’annuncio del ritiro inglese e della fine del mandato entro il 15 maggio del 1948.

Quando divenne chiaro che gli inglesi non sarebbero intervenuti in alcun modo, l'organizzazione
paramilitare ebraica in Palestina (Haganah) cambiò radicalmente la sua strategia da difensiva a
offensiva, con l’obiettivo di arrivare alla fatidica data del 15 maggio (in cui fu proclamata la nascita

272
dello stato ebraico di Israele) con le linee di comunicazione interne e i confini sicuri, ”ripuliti” dai
nemici palestinesi, per affrontare al meglio l’inevitabile invasione degli stati arabi confinanti.
Pochi giorni dopo la proclamazione dello stato di Israele, gli eserciti degli stati arabi confinanti e un
contingente iracheno diedero avvio a quella che ufficialmente è definita la I guerra arabo -
israeliana invadendo la Palestina, che il gruppo dirigente sionista aveva occupato fino al 76% dopo
il ritiro delle truppe inglesi (molto più del 55% della risoluzione O.N.U.).
Il presidente americano Truman, non volendo scontentare l’elettorato ebreo, riconobbe subito lo
stato di Israele, e con lui la maggior parte delle nazioni occidentali. Il riconoscimento
internazionale permise a Israele di riarmarsi ed ai sionisti di far fronte con successo alle armate
arabe. La guerra consentì agli israeliani nuove conquiste e portò il totale dei profughi palestinesi a
ottocentomila. Di loro, solo circa 10'000 poterono ritornare alla fine del conflitto.
Al termine dello scontro le nazioni coinvolte firmarono armistizi separati, grazie ai quali Israele
controllava il 21 % del territorio destinato dall’ONU allo stato Palestinese, ovvero il 77,7% del
territorio palestinese originario. Il rimanente 22,3% fu in parte annesso al regno di Transgiordania,
che mutò il suo nome in Giordania, mentre ciò che rimase della Zona di Gaza passò sotto
amministrazione militare egiziana.

Crisi di Suez - 1956

Il 26 luglio 1956, il generale Nasser annunciò pubblicamente la nazionalizzazione del canale di


Suez, cosa che gli valse il favore del popolo visto che affermava la sovranità dell’Egitto, ma anche
l’ostilità dei paesi maggiori fruitori del servizio. In virtù di una convenzione del 1888, il canale era
regolamentato da uno statuto internazionale, grazia al quale doveva restare aperto ad ogni nave
mercantile, sia in tempo di pace che di guerra. Del canale beneficiavano in particolar misura inglesi
e francesi e, nazionalizzandolo, Nasser affermava sì la sovranità su un suo legittimo territorio, ma
cercava anche di recuperare un credito che gli sarebbe servito per la costruzione della monumentale
diga di Assuan sul Nilo. Per la realizzazione di questa opera, gli egiziani si erano già rivolti agli
USA, incassando però un rifiuto, mentre i sovietici avevano loro garantito appoggio militare e
finanziario in caso di necessità. Gran Bretagna e Francia però, che volevano ripristinare lo status
quo nel canale, chiamarono subito in causa Israele, che dal canto suo pensava di punire l’Egitto per
averlo attaccato durante la prima guerra arabo-israeliana. Nonostante alcune negoziazioni e
intermediazioni internazionali, il conflitto fu inevitabile, e le tre potenze alleate riuscirono ad avere
in breve la meglio sull’Egitto dal punto di vista militare. I problemi però per Gran Bretagna e
Francia nacquero quando, da un lato il consiglio di sicurezza della NATO pose il veto su una
risoluzione che facesse ricorso alla forza, dall’altro l’URSS, rispettando i patti con gli egiziani,
minacciarono di lanciare missili su Parigi e Londra. A quel punto anche l’alleato USA dovette
condannare il gesto delle due potenze europee, che furono costrette a fare marcia indietro, e furono
sostituite in terra egiziana da truppe americane e sovietiche. Questa grave crisi internazionale
mostrò una volta per tutte a Francia e Gran Bretagna la poca affidabilità dell’alleato statunitense,
ma allo stesso tempo dimostrò la debolezza della NATO circa le consultazioni preliminari con gli
alleati prima di usare la forza e la mancanza di pianificazione e cooperazione al di fuori
dell’Europa.

273
OLP e la guerra dei 6 giorni

I palestinesi sparirono dalla scena politica per alcuni anni, riapparendo ufficialmente soltanto il 30
maggio del 1964 con la nascita dell’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina) sotto la
tutela egiziana. In quegli stessi anni iniziavano le azioni militari di Al-Fatah, organizzazione
politica e paramilitare palestinese creata dal futuro leader dell’OLP Yasser Arafat.
La guerra dei 6 giorni del 1967 sancì l’occupazione completa del territorio palestinese da parte di
Israele. La crisi fu aperta da una crisi internazionale intorno al controllo del golfo di Aqaba (Sharm
el Sheikh), innescato principalmente da Nasser, presidente dell'Egitto, forte dell'appoggio sovietico.
Israele conquistò la Cisgiordania (prima in mano ai giordani), la striscia di Gaza, Gerusalemme Est e
la penisola del Sinai, con un’ennesima violazione delle risoluzioni ONU. Questo conflitto terminato
con un’altra sconfitta, spinse Al-Fatah e molti altri movimenti per la liberazione della Palestina, ad
unirsi sotto l’egida dell’OLP, che radicalizzò la sua politica e divenne il portavoce ufficiale delle
istanze palestinesi. Il settembre nero del ’70 (massacro di palestinesi in Giordania) non fece altro
che esacerbare questa situazione già critica.

Dalla guerra di Kippur alle intifada

Nel 1973 arrivò il primo riconoscimento ufficiale per l’OLP da parte del Marocco e
contemporaneamente la Guerra del Kippur, dove l’Egitto non riuscì a riappropriarsi del Sinai.
In Israele l’estrema destra prese nel ’77 per la prima volta il potere con il primo ministro Begin,
radicalizzando la propria politica e intensificando la colonizzazione dei territori occupati. Questa
linea politica sarà perseguita per i successivi quindici anni, con un’ondata di violenza senza eguali.
L’anno successivo segnò il primo storico accordo di pace tra Israele ed uno stato arabo: gli accordi
di Camp David 1978, grazie ai quali l’Egitto ottenne il recupero del Sinai entro quattro anni in
cambio del riconoscimento ufficiale dello Stato d’Israele; questa pace separata, favorevole agli
israeliani, era stata resa possibile dall’ascesa politica in Egitto di Sadat, leader molto più conciliante
del predecessore Nasser. I progetti di Begin per un “Grande Israele” proseguirono con l’invasione
del Libano (6 giugno 1982), con l’obiettivo, tutt’altro che secondario, di liquidare l’OLP.
La distruzione delle forze militari palestinesi, grazie anche all’aiuto libanese, fu una sconfitta
politica e morale pesantissima per Israele. Un movimento popolare, nato proprio dalle crescenti
violenze israeliane (aumento delle colonie nei territori occupati) e dalla condizione sempre più
disastrosa dei profughi, iniziò a scatenare attacchi di guerriglia, innescando uno stato di guerra
civile perenne. È il 1987 l’anno in cui iniziò la prima ”intifada” (“rivolta delle pietre”) nelle regioni
occupate di Cisgiordania e Gaza. Tra i protagonisti dell’intifada, nato da una rivolta popolare, vi era
il neonato movimento di resistenza islamica Hamas. Esso si opponeva decisamente alla nuova
strategia negoziale intrapresa dall’ormai prostrato OLP, e sosteneva la resistenza armata ad ogni
costo, distinguendosi però anche per lodevoli iniziative di sostegno e assistenza ai profughi, il tutto
sotto una fortissima connotazione religiosa. Mentre gran parte dell’opinione pubblica israeliana
iniziava a desiderare la pace, riconoscendo i diritti dei palestinesi, l’OLP proclamava
la nascita dello Stato indipendente di Palestina (15-11-1988). Tutto ciò non fu sufficiente però a
trovare un accordo di pace duraturo.

274
Dall’accordo di Oslo alla Jihad

Ancora una volta furono gli Stati Uniti a spingere per il raggiungimento della pace. Forti della
grande vittoria politica ottenuta con la guerra del Golfo (1991), gli americani miravano ad aver un
controllo capillare di un’area ad alto interesse economico-strategico, sia per l’alta concentrazione di
petrolio, che per il ruolo chiave del Medio Oriente nello scacchiere geopolitico. La scomparsa dalla
scena mondiale dell’Unione Sovietica imponeva agli Stati Uniti di fare pressioni su Israele, grande
alleato nella regione, affinché negoziasse con i palestinesi. Il 13 maggio del 1993 si arrivò allo
storico accordo di Oslo sancito dalla stretta di mano tra Rabin e Arafat: Israele e l’OLP si
riconobbero reciprocamente, e i palestinesi ottennero un’autonomia provvisoria (nascita
dell’Autorità nazionale palestinese) con la promessa che, nell’arco di cinque anni, il conflitto
sarebbe stato risolto in via definitiva. Quello che poteva sembrare l’inizio di decisivi trattati di pace,
fu bruscamente interrotto dall’assassinio del primo ministro israeliano Rabin (4 novembre 1995),
seguito in rapida successione dall’uccisione del capo di Hamas ordinato dal neoeletto premier
israeliano Simon Peres. Hamas, rifiutando ogni compromesso con il nemico israeliano, iniziò ad
utilizzare sistematicamente la “tecnica” degli attentati suicidi, rendendosi conto dell’impatto
devastante di questi attacchi sulla psiche collettiva. La prima ondata di attacchi di questo tipo venne
compiuta come ritorsione contro il massacro di Hebron, datato al febbraio del ’94. Questa strategia
conferì un’aura di forza e popolarità presso i palestinesi, e fornì un pericolosissimo esempio di
resistenza ai movimenti islamici: gli attentati suicidi potevano essere giustificati in chiave di
martirio religioso, ai fini della Jihad (guerra santa).

La situazione nel terzo millennio

Nel 2000 si compì il definitivo fallimento dei trattati di pace, in cui Arafat rifiutò le concessioni
fatte da Barak sotto la supervisione del presidente statunitense Clinton. Oltre alla mancata
istituzione di uno Stato indipendente, tutte le questioni più importanti, cioè lo status di
Gerusalemme, il controllo dei confini, lo smantellamento degli insediamenti a Gaza e in
Cisgiordania e il problema dei profughi sono rimasti irrisolti. La perdita di fiducia nei trattati di
pace e il senso di frustrazione indotto dalla crescente occupazione israeliana, sono sfociati nello
scoppio della seconda intifada, molto più violenta della prima. Le dimissioni di Barak hanno
riportato al potere la destra con Sharon (già comandante militare durante l’invasione del Libano), il
quale propose una linea intransigente unita alla volontà, nemmeno tanto celata, di espellere tutti i
palestinesi rimasti in territorio israeliano e di erigere un Muro, per dividere israeliani e palestinesi.
L’opinione pubblica del paese sta però cambiando, e il crollo dell’estrema destra nelle ultime
elezioni, con la vittoria di Olmert, è il segnale più evidente. La politica israeliana degli ultimi
vent’anni ha generato una spirale di odio e intolleranza insostenibile, che hanno avuto come
naturale conseguenza la vittoria di Hamas nelle elezioni per il rinnovo del Consiglio legislativo
palestinese (25 gennaio 2006).

Oggi gli Stati Uniti sono interessati a mantenere calmo lo scacchiere mediorientale, e allo stesso
tempo a salvaguardare gli interessi di Israele, storico alleato. La situazione internazionale non ha
quindi favorito il raggiungimento di una soluzione al problema israelo-palestinese. Le risoluzioni

275
dell’ONU non sono mai state fatte rispettare. Risulta incomprensibile come le Nazioni Unite non ne
abbiano mai imposto il rispetto ad Israele. A distanza di 60 anni il diritto al ritorno dei profughi, e
alla creazione di uno stato palestinese indipendente, continuano a venire palesemente ignorati.

Bibliografia

François Massoulié,”I conflitti del Medio Oriente”, 2006. Giunti editore.

James L. Gelvin, “Il conflitto israelo-palestinese”. Cent'anni di guerra”, 2007. Einaudi editore.

Sitografia

https://www.michaelvittori.it/storia/storia_conflitto_israelo_palestinese/

https://www.peacelink.it/palestina/a/268.html

Videografia

https://www.youtube.com/watch?v=yAU00trRMT8

276
38. Leggere e valutare le diverse fonti, prospettive e interpretazioni storiografiche

Storiografia greca

ASPETTI GENERALI DEL PENSIERO STOREOGRAFICO ANTICO

Ciò che noi chiamiamo senso storico comprende cose diverse: «la nozione della continuità del
tempo e dell’unità del passato, del senso degli avvenimenti, del significato del passato per il
presente, della connessione causale degli eventi ed altro». Una tale nozione complessa fu presso i
Greci una scoperta della poesia. Nell’epica omerica la riflessione sulle azioni umane avviene già in
base a determinati modelli di comportamento, che orientano il giudizio e la comprensione degli
eventi. C’è interesse per la concatenazione causale dei fatti, sia che l’origine venga ricercata
nell’agire umano (il rapimento di Elena da parte di Paride è la causa della guerra di Troia), sia che
venga identificata con una volontà divina. Nella lirica, ad esempio Mimnermo (VII, VI secolo a.C.),
narrando le vicende della propria città, Colofone, spiega le disgrazie del presente come espiazione
di una colpa antica, secondo un criterio di causalità voluto dagli dei. L’idea di un continuum dalle
origini alla contemporaneità è già in Erodoto, che per primo opera una netta separazione tra le
vicende mitiche e quelle accessibili all’indagine. In Erodoto il senso storico sembra configurarsi
come l’ampliarsi della consapevolezza che il singolo individuo ha delle propria storia personale:
«Se egli vede l’unità e il senso della storia nel fatto che un’entità divina fa salire e cadere gli
uomini, questa interpretazione si fonda su un’esperienza che gli uomini hanno fatto innanzitutto su
se stessi, ed è chiaro che lo storico dà all’accadere universale quel senso che altri hanno dato prima
alla propria storia personale»1 . Già nella lirica corale, Pindaro aveva la consapevolezza che il moto
alterno del destino, che dispensa gioie e dolori ed è il senso stesso della vita umana, non riguarda
solo la singola esistenza, ma l’intero succedersi delle generazioni. Insomma, la comprensione della
storia è preceduta da un’«autocomprensione degli uomini». Un carattere della storiografia greca,
derivato dalla cultura orale e dal racconto dei rapsodi, è la continuità con l’opera degli storici
precedenti. Erodoto comincia il suo racconto definendo il campo della propria indagine rispetto alla
letteratura genealogica, della quale egli si sente il continuatore. Tucidide si considera successore di
Erodoto, in quanto ne riprende il filo della narrazione nel punto in cui Erodoto l’aveva terminata. Si
forma così «l’immagine di una historia perpetua, in forza della quale, quando ad un autore la morte
porta via di mano la penna, ad uno più giovane tocca riprenderla, al fine di proseguire il racconto».
Ciò implica che per lo storico antico era quasi obbligata la scelta del punto di inizio della
narrazione, in quanto collegato alla fine dell’opera precedente. La storiografia classica può allora
considerarsi una catena narrativa ininterrotta, anche se di tale catena alcuni anelli sono per noi
perduti. La dimensione universale della narrazione, che caratterizzava l’opera di Erodoto, non viene
meno con gli storici successivi. Se Tucidide restringe la propria indagine alla politica degli stati
greci e al conflitto del Peloponneso, tuttavia ritiene che questa guerra abbia una portata universale:
«… la più importante di tutte quelle avvenute fin allora … il più grande sommovimento che sia mai
avvenuto fra i Greci e per una parte dei barbari e, per così dire, anche per la maggior parte degli
uomini» (I 1). L’universalità per Tucidide sta anche nel fatto che l’oggetto dell’indagine
storiografica sono le cause profonde degli eventi, le leggi generali del comportamento umano, ad
esempio la legge del più forte: «È sempre stata norma che il più debole soccombesse al più forte» (I

277
76, 2). Che tali leggi esistano era convinzione anche dei lirici greci, ad esempio di Archiloco
(«Riconosci quale ritmo governa gli uomini», frammento 67a D.). Di qui anche l’idea di Tucidide
che la storia rappresenti per tutti gli uomini un’acquisizione permanente, «un possesso per sempre».
L’elemento che unifica e orienta la storia universale è, come vedremo, per lo più l’incontro bellico.
Un altro punto fondante della storiografia antica riguarda la definizione del fine, in base
all’alternativa tra «utile» e «piacere». Tucidide e Polibio privilegiano l’utile, mentre respingono la
ricerca del diletto escludendo l’elemento favolistico, dilettevole, tipico dei libri di Erodoto. Ma
Polibio, che pure dichiara la propria superiorità rispetto alla storiografia «edonistica», riconoscerà
validità ad entrambi i fini. Nella prefazione alla sua opera (I 4, 1-7), mentre afferma la necessità di
scrivere una storia «universale», sostiene che proprio questa natura universale consentirà ai fruitori
di trarre, oltre che «giovamento», anche «diletto». La concezione di Tucidide e quella di Erodoto
non stanno tra loro come il primitivismo ingenuo sta al razionalismo maturo, ma piuttosto riflettono
due differenti tecnologie della comunicazione: l’oralità e la scrittura. Il metodo proposto da
Tucidide non si sarebbe potuto applicare in una civiltà orale. Questa non è grado di analizzare
l’esperienza in una logica sequenza di causa ed effetto, mentre esige «immagini e atteggiamenti di
pensiero che siano immediatamente percepibili dall’uditorio e lo incatenino psicologicamente
all’ascolto» (B. Gentili). L’indirizzo storiografico, legato all’oralità e opposto a quello
«pragmatico» (perché basato sui fatti, prágmata) che fa capo a Tucidide, è il cosiddetto «mimetico»,
cioè basato sull’idea che l’attività dello storico, al pari di quella del poeta drammatico, consista
nell’imitazione, mimesi appunto, della vita umana. L’indirizzo pragmatico rifiuta ogni elemento
non vagliabile criticamente, assume l’utile come fine del discorso storiografico, bandisce ogni
componente favolosa atta a dilettare. Al contrario l’indirizzo mimetico, che risale a Erodoto e ai
logografi ionici, etnografico e antropologico, assegna allo storico il compito di dare una
rappresentazione icastica e completa della vita umana. Così Duride di Samo (IV-III sec. a.C.)
rimprovera i precedecessori Eforo e Teopompo di avere privilegiato la componente dell’utilità
rispetto a quella del diletto, di non avere saputo suscitare l’edoné, cioè «il piacere di leggere» nei
destinatari, conferendo alla parola scritta la stessa attrattiva posseduta dalla parola parlata. La
narrazione storica deve essere mimetica, cioè deve sapere commuovere gli animi come un dramma,
deve essere «capace di riattualizzare in tutta la loro carica emotiva gli elementi narrati, sì da
trasformare il lettore in spettatore. Lo storico diviene così, al pari dell’attore drammatico, l’artefice
di una mediazione mimetica tra la realtà storica ed il pubblico che la recepisce in uno stretto
rapporto di immedesimazione simpatetica». Come vedremo meglio trattando i singoli autori, gli
storici latini come Sallustio e Livio, sempre bisognosi di giustificare la loro opera in termini di
utilità per lo stato, sembrerebbero imboccare la via della storiografia pragmatica e polibiana. Ma
l’attenzione che essi riservano per gli aspetti psicagogici e la ricerca di una forma narrativa capace
di impressionare e coinvolgere il pubblico, ci dice la loro preferenza – loro, e di tutta la storiografia
latina – per il filone mimetico e drammatico. Una preferenza, questa, condivisa anche da Cicerone,
per il quale la narrazione delle vicende passate, anche dolorose, «genera piacere» (Ad fam., 5, 12,
habet … delectationem). Il coinvolgimento del lettore implica un uguale coinvolgimento dello
scrittore, che simpateticamente s’immedesima nei fatti narrati, come Livio che confessa: «Anche
per me è un ristoro essere giunto alla fine della guerra punica, come se ne avessi condiviso i travagli
e i pericoli» (31, 1, 1) e, di fronte a un evento portentoso del passato dal quale il razionalismo dei
suoi tempi consiglierebbe di prendere le distanze, si lascia idealmente trasportare in quel tempo

278
remoto: «Quanto a me, intento a scriver la storia dei tempi antichi, l’animo mi si fa antico e un certo
scrupolo religioso mi trattiene dal giudicare indegni … quei prodigi» (43, 13, 2). Per rivivere il
passato in sintonia con lo spirito dei maiores occorre condividere anche le loro superstizioni e
ingenuità.

ERODOTO

Nato intorno al 485 a.C. ad Alicarnasso sulla costa dell’Asia Minore, Erodoto fu coinvolto in
giovinezza nelle insurrezioni della sua città contro il tiranno Ligdami vassallo di Serse. In seguito
Alicarnasso divenne città alleata di Atene, dove lo storico soggiornò a più riprese. Erodoto viaggiò
molto, in oriente fino alla Mesopotamia, in Egitto e nella Scizia, accumulando grande esperienza
diretta del mondo conosciuto. L’evento più importante fu l’incontro con l’ambiente ateniese
raccolto intorno a Pericle, di cui condivise l’orientamento politico. Negli ultimi anni si stabilì a
Turii, colonia ateniese in Magna Grecia, prendendone la cittadinanza, e vi rimase fino alla morte,
avvenuta probabilmente nei primi anni successivi all’inizio della guerra del Peloponneso (430
circa). Il titolo, Storia o Storie, e la ripartizione in nove libri, ciascuno dei quali porta il nome di una
delle Muse, non furono voluti dall’autore, che divulgò la sua opera in pubbliche letture in Atene e
con essa volle assicurare un eterno ricordo alla più nobile delle imprese compiute da questa città, la
vittoria sui Persiani. Le origini mitiche dello scontro tra Greci e barbari. Vicende della Lidia.
Incontro tra Creso e Solone (che offre lo spunto a una riflessione di carattere morale e religioso).
Origini e crescita della potenza persiana. Le imprese del re persiano Cambise. Lunga digressione
etnografica (lògos) sull’Egitto di cui sono descritti la natura geografica, la storia, gli usi e costumi
degli abitanti. Conquista dell’Egitto ad opera di Cambise. Excursus sulle vicende di Policrate
tiranno di Samo, esempio dell’eccessiva potenza umana punita dagli dei. La successione di Dario
alla morte di Cambise. Campagna militare di Dario contro gli Sciti, di cui sono descritte le abitudini
e le tradizioni. Guerra contro Cirene e storia dei suoi sovrani. Gli antefatti del conflitto greco-
persiano: ribellione delle città ioniche che chiedono aiuto alla madrepatria. Digressioni dedicate alla
storia di Sparta e di Atene. Mentre Sparta rifiuta l’aiuto, Atene accoglie la richiesta. Repressione dei
Persiani e conquista di Mileto. Storia di Milziade e della sua famiglia. Prima spedizione persiana
contro la Grecia. Battaglia di Maratona. Assedio di Paro e morte di Milziade accusato di tradimento.
Seconda spedizione persiana guidata da Serse succeduto al padre Dario. Attraversamento
dell’Ellesponto. L’invio di un’ambasceria in Sicilia è l’occasione per parlare delle vicende storiche
dei Greci di occidente. La sconfitta dello spartano Leonida con i suoi trecento alle Termopili.
Occupazione di Atene da parte dei Persiani. Temistocle fa evacuare la città. Battaglia navale di
Salamina e sconfitta dei Persiani. Ritorno in Asia di Serse. Vittoria di Pausania a Platea. Vittoria
navale dei Greci sui Persiani a Micale. I Persiani sconfitti ritornano a Sardi. Presa di Sesto
sull’Ellesponto da parte dei Greci.

Le Storie

Sono la prima grande opera in prosa della grecità. Il modello è quello dei logografi ionici, che a sua
volta risale alla poesia catalogica esiodea e omerica. Le Storie sono il punto d’arrivo di una vicenda
di «pubblicazione orale». Infatti la stesura in forma scritta e unitaria era stata preceduta da

279
recitazioni dello storico itinerante che, come i rapsodi omerici, leggeva parti dell’opera davanti a un
uditorio. L’antefatto orale-aurale è percepibile nelle forme espressive «agonistiche» tipiche del
messaggio non scritto, in particolare nel tono polemico e risentito, come per prevenire le reazioni di
un pubblico partecipe e interattivo. Ciò è evidente quando l’autore rassicura l’uditorio
sull’attendibilità della propria ricostruzione o ne previene le critiche esprimendo anticipatamente le
proprie perplessità: «Mi riferiscono anche questa versione, ma io non la ritengo degna di fede» (III
3). Agli schemi della cultura orale sembra conformarsi anche la struttura dell’opera nella quale sono
accostate unità narrative minori dotate ciascuna di una propria autonomia narrativa. Rispetto alla
logografia ionica le novità sono rilevanti, a partire dall’impiego del termine historìe, che indica
l’indagine preliminare alla redazione dell’opera storica e comprende tre fasi: la visione diretta
(òpsis) già implicita nella parola historìe (da wid-, gr. eidon, lat. video), l’ascolto dei testimoni
diretti dei fatti (akoé), la riflessione critica (gnome) in base alla quale si sceglie tra più versioni
quella più attendibile, cioè più verosimile, più probabile. Nasce così la storiografia come genere che
consiste nella ricerca dei dati di fatto, in primo luogo ciò che l’autore ha visto o raccolto da
testimoni oculari. La tradizione orale è la base della documentazione erodotea, che ricorre tuttavia
anche a fonti scritte come i testi di iscrizioni o di oracoli. Sui dati raccolti lo storico opera una
valutazione critica. Dall’impossibilità di controllare ogni notizia nasce la consapevolezza della
relatività della ricostruzione storica: Fino ad ora le fonti di quanto ho detto sono state la mia visione
diretta (òpsis), la mia valutazione critica (gnome), la mia ricerca (historìe), ma d’ora innanzi riporto
i racconti degli Egiziani come li ho sentiti. Queste notizie sui Persiani le posso affermare con
sicurezza, perché ne ho conoscenza diretta; invece queste altre […] non mi sento di affermarle con
certezza. Il metodo prevede, come prima e imprescindibile operazione, il reperimento del materiale
documentario, nell’intento di ricostruire la realtà degli eventi. Ciò comporta che il piano
complessivo dell’opera non preesiste alla raccolta di informazioni. Le notizie raccolte sono
organizzate attorno a un filo conduttore, ma non tutto il materiale trovato serve a illustrare, ad
esempio, la causa dello scontro tra Greci e barbari. Molto di questo materiale servirà per vari
excursus d’interesse etnografico che completano un quadro complessivo di fatti genericamente
«umani». Così il discorso erodoteo si dipana attraverso digressioni anche di grandi dimensioni come
la descrizione dell’Egitto nel libro II, anche se l’autore ha sempre presente il filo principale della
narrazione. Erodoto non disdegna di introdurre il favoloso, il paradossale. Rispettoso del divino e
del soprannaturale, riporta anche fatti poco verosimili, come quello della sacerdotessa cui cresce la
barba nell’imminenza di una disgrazia, ma non li discute, non li sceglie, li considera come
appartenenti ad un ambito dal quale il raziocinio dello storico è bene che resti escluso: Se intendessi
analizzare i motivi per cui sono considerati sacri [gli animali presso gli Egizi], finirei per occuparmi
di cose concernenti la divinità, che io voglio assolutamente evitare di trattare. Sulle cause della
guerra persiana, Erodoto espone le motivazioni mitiche, ma diversamente da Ecateo e dagli altri
logografi, non sceglie tra l’una e l’altra, dichiara anzi di non volerne parlare. Considera solo i fatti
certi e documentabili: il tributo imposto da Creso ai Greci d’Asia, i loro tentativi di liberarsi dal
giogo, ecc. In tal modo egli crea la nozione di uno spatium historicum, contrapposto al tempo del
mito. Come si evince dal proemio, l’obiettivo dell’indagine storica è di impedire che il tempo
cancelli la memoria di imprese e monumenti insigni, che meritano d’essere tramandati ai posteri:
Questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Turii, perché le imprese degli uomini col tempo
non cadano in oblìo, né le gesta grandi e meravigliose delle quali han dato prova così i Greci come i

280
barbari rimangan senza gloria, e inoltre per mostrare per qual motivo vennero a guerra fra loro. È
implicita l’idea che «le gesta grandi e meravigliose» abbiano una validità paradigmatica che
trascende l’ambito municipale di quella data polis o popolo rivestendo caratteri di universalità. La
verità che interessa lo storico non è contingente o particolare, ma è una visione unitaria dei processi
storici. Erodoto intuisce che le Guerre Persiane non sono un conflitto qualsiasi, ma il risultato di un
antagonismo secolare tra Europa e Asia, l’anello terminale di una catena di nessi causali di lungo
periodo. E in questo svolgere il filo delle connessioni degli eventi sta il compito dello storico e
nell’aver capito ciò è tutta la grandezza di Erodoto. La qualifica di pater historiae di cui Cicerone lo
gratificò (De leg. I 5) è il giusto riconoscimento del fatto che «egli ha creato l’idea stessa di storia»
(H. Strasburger). La decisione di lasciare una stesura scritta è condizione fondante dell’attività
storiografica: «Erodoto sembra voler intenzionalmente lasciare una versione scritta dei suoi
racconti, che potrà essere utilizzata dai posteri, da un pubblico astratto, non legato a una specifica
occasione. Emerge così un altro piano cronologico, quello dei fruitori dell’opera immaginati nel
futuro […] ed è proprio questo fissarsi della ricerca in una forma scritta definitiva, utilizzabile dai
posteri, a fondare, anche per la produzione storiografica, la possibilità di un “ciclo”» (L. Canfora).
L’«omericità» è riscontrabile sia nel lessico e nelle formule, sia nell’andamento non lineare della
narrazione segmentata in episodi relativamente autonomi, nel modo tipico della tradizione rapsodica
e dei testi destinati alla recitazione. La lingua – il dialetto ionico misto a elementi attici – risente
dell’influsso dell’epos, della tragedia, della lirica. Tale varietà di modelli e forme spiega la
definizione di lexis poikìle che gli antichi davano allo stile delle Storie. Soprattutto all’esigenza di
narrare sembrano corrispondere i numerosi inserti e novelle (si può dire che la novella nasce con
Erodoto), la grande abbondanza di notizie e particolari non funzionali alla comprensione
dell’evento storico in sé. La congerie di informazioni talora rasenta la pedanteria (descrizioni di
oggetti con specificazione puntuale di peso, misura, materia) e il pettegolezzo.

Costumi dei Persiani, I 131-135.

Come esempio di excursus etnografico proponiamo questo passo, in cui sono descritti alcuni
aspetti della civiltà dei Persiani: il rifiuto dell’antropomorfismo e la divinizzazione di elementi
naturali, il carattere collettivo dei riti (il sacrificante è obbligato a invocare gli dei non solo per sé,
ma per tutti i Persiani), la singolare importanza attribuita alle deliberazioni in stato di ebbrezza
che debbono confermare quelle prese da sobri, le forme di saluto in rapporto allo status sociale, la
grande disponibilità all’integrazione culturale, cioè ad accogliere usanze di altri popoli. 131. Mi
consta che le usanze dei Persiani sono queste: non usano costruire altari, statue, templi, e
considerano sciocco chi lo fa, credo perché, a differenza dei Greci, non ritengono che gli dei
abbiano aspetto umano. Usano salire sulla cima dei monti per fare sacrifici a Zeus (chiamano Zeus
la volta del cielo), e sacrificano anche al sole, alla luna, alla terra, al fuoco, all’acqua e ai venti.
Questi sono i soli esseri a cui fanno sacrifici fin dall’antichità; successivamente hanno appreso
dagli Assiri e dagli Arabi a sacrificare ad Afrodite celeste, che gli Assiri chiamano Militta, gli
Arabi Alilat, i Persiani Mitra. 132. I sacrifici in onore di questi dei si svolgono nel modo seguente:
per sacrificare non costruiscono altari, non accendono il fuoco, non fanno libagioni, non usano
strumenti musicali, né bende, né orzo. Chi vuole sacrificare, conduce la vittima in un luogo puro e
invoca il dio con la tiara cinta da una corona, per lo più di mirto. Il sacrificante non può chiedere

281
del bene soltanto per sé, ma lo chiede per il re e per tutti i Persiani: tra tutti i Persiani è compreso
anche lui. Dopo aver fatta a pezzi la vittima, bolle la carne e la mette sopra uno strato d’erba più
tenera possibile (soprattutto trifoglio). Fatto questo, un Mago canta un racconto sacro sulla
nascita degli dei (in questo consiste il canto, dicono); senza la presenza di un Mago non è lecito
sacrificare. Dopo un breve intervallo il sacrificante porta via le carni e ne fa l’uso che crede. 133.
[…] Bevono molto vino, ma non è permesso vomitare né orinare in presenza di un’altra persona.
Oltre a conservare la tradizione, hanno l’abitudine di deliberare ubriachi sulle questioni più
importanti. Il giorno dopo, quando sono sobri, il padrone di casa sottopone loro nuovamente le
deliberazioni prese e se anche da sobri le approvano, le mettono in pratica, diversamente
rinunciano. E viceversa, quanto hanno deliberato da sobri, lo riesaminano anche ubriachi. 134.
Quando due persone si incontrano per la strada, se sono dello stesso livello sociale si può
riconoscere dal fatto che anziché salutarsi si baciano sulla bocca; se uno dei due è lievemente
inferiore, si baciano sulle guance; se la differenza di nobiltà è molto grande, l’inferiore si inchina
facendo atto d’omaggio. Dopo se stessi, stimano più di tutti i popoli che abitano più vicino a loro, e
così via, meno di tutti quelli che abitano più lontano, in quanto considerano se stessi di gran lunga
i migliori e pensano che gli altri partecipano della virtù in proporzione alla distanza, e di
conseguenza che i più lontani sono i peggiori di tutti. Allo stesso modo, durante l’impero dei Medi,
era organizzato il potere di un popolo sull’altro; i Medi avevano il potere universale e in
particolare sulla popolazione più vicina, questa sui loro vicini, questi a loro volta sui vicini loro,
secondo il medesimo ordine di apprezzamento adottato dai Persiani. Così procedeva il ruolo
assegnato ad ogni popolazione nella sovranità e nella sorveglianza delle altre. 135. Più di tutti, i
Persiani sono proclivi ad accettare le usanze dei popoli stranieri. Portano gli abiti dei Medi,
preferendoli ai propri, e in guerra le corazze egiziane. Tutte le forme di piacere di cui vengono a
conoscenza le praticano, e così hanno appreso dai Greci anche la pederastia. Ognuno di loro
sposa molte mogli legittime e tiene un numero ancora maggiore di concubine. (trad. di G. Paduano)

Le Termopili, VII 223-225.

Gli Spartani di Leonida, traditi da un abitante del luogo, Efialte, che ha indicato ai Persiani un
sentiero per giungere rapidamente alle Termopili, soccombono di fronte alla soverchiante forza dei
nemici. Una grandiosità e un pathos omerici caratterizzano la descrizione della famosa battaglia.
223. Serse, dopo avere compiuto le libagioni al sorgere del sole, aspettò l’ora in cui si affolla il
mercato e poi portò l’assalto secondo le istruzioni ricevute da Efialte: la discesa dal monte infatti è
molto più ripida, e la via molto più breve dell’aggiramento e della salita. Così i barbari di Serse
attaccarono e i Greci di Leonida, ben sapendo di andare alla morte, avanzarono molto più di
prima verso la parte più larga della gola. Prima avevano sorvegliato il muro eretto a difesa, e nei
giorni precedenti avevano sempre combattuto facendo sortite nelle strettoie. Ora invece ne
uscirono per affrontare i nemici, e molti barbari cadevano; i comandanti dei battaglioni li
spingevano avanti uno dopo l’altro a colpi di frusta. Molti caddero in mare e morirono, molti di
più si calpestavano vivi gli uni con gli altri. Dei morti non si teneva nessun conto. Poiché i Greci
sapevano che la morte li aspettava per mano di quelli che stavano aggirando il monte, mostrarono
contro i barbari tutta la forza, la temerarietà, la furia che avevano. 224. La maggior parte di loro
aveva già le lance spezzate e attaccava i Persiani con le spade. In questo scontro morì Leonida

282
combattendo eroicamente e con lui altri nobili spartiati di cui ho cercato tutti i nomi (ne erano ben
degni), come del resto li ho cercati di tutti e trecento. Morirono anche molti Persiani illustri, tra i
quali due figli di Dario e della figlia di Artane Fratagune, Abrocome e Iperante. Artane era fratello
di Dario, figlio di Istaspe, figlio di Arsame, e quando diede in moglie a Dario sua figlia le assegnò
come dote l’intero patrimonio, perché era la sua unica discendente. 225. Due fratelli di Serse
dunque caddero in battaglia e sul corpo di Leonida ci fu una mischia feroce tra Spartani e
Persiani, finché i Greci riuscirono a trascinarlo via e per quattro volte respinsero i nemici. (trad. di
G. Paduano)

TUCIDIDE

Della vita di Tucidide sappiamo poco. Nato intorno al 460 a.C. nel demo attico di Alimunte (nella
prefazione dell’opera egli si presenta come «Tucidide Ateniese»), di nobile famiglia probabilmente
di origine tracia, partecipò alla guerra del Peloponneso, che trattò nelle sue Storie. Nel 430 a.C.
contrasse la peste che aveva colpito l’Attica e di cui diede nella sua opera una precisa descrizione,
ma riuscì a guarire. Nel 424, comandante di una flotta che avrebbe dovuto controllare le coste della
Tracia, non riuscì ad impedire che Anfipoli cadesse nelle mani degli Spartani, per questo fu
processato e mandato in esilio. Nell’ultima parte della vita probabilmente intraprese una serie di
viaggi, come aveva fatto Erodoto, al fine di raccogliere materiali per la sua attività storiografica.
Non conosciamo né il luogo né l’anno della morte, probabilmente successiva alla sconfitta di Atene
avvenuta nel 404 a.C. Tucidide narra in otto libri la guerra del Peloponneso. Il titolo Storie, come
pure la ripartizione in otto libri, non sono originari ma, come per Erodoto, furono voluti dai
grammatici alessandrini e tramandati nei codici. Gli avvenimenti narrati vanno dal 431 a.C., anno di
inizio delle ostilità, al 411. Ma l’autore intendeva giungere fino alla fine della guerra e gli ultimi
avvenimenti, forse narrati dallo stesso Tucidide, saranno poi pubblicati nelle Elleniche di
Senofonte. Storia della Grecia dalle origini alle guerre persiane, la cosiddetta «Archeologia».
Premessa metodologica relativa agli scopi e ai metodi. Presentazione della causa occasionale del
conflitto (ostilità tra Corinto e Corcira e intervento di Atene a favore di quest’ultima) contrapposta
alla vera causa (rivalità fra Atene e Sparta per l’egemonia sulla Grecia). Excursus sui cinquant’anni
intercorsi tra le guerre persiane e il conflitto tra Atene e Sparta («pentacontaetia»). Ad Atene Pericle
presenta il piano di guerra, che si basa principalmente sulle forze di mare. Vengono narrati i primi
tre anni di guerra (431-429). Discorso funebre di Pericle per i caduti ateniesi nel primo anno del
conflitto. Descrizione della peste che colpì Atene e di cui fu vittima lo stesso Pericle. Anni 428-425.
Gli Ateniesi incitati da Cleone, nuovo capo dei popolari, reprimono la ribellione di Mitilene, gli
Spartani conquistano Platea e la radono al suolo. Le atroci violenze cui si abbandonano a Corcira i
democratici nei confronti degli oligarchici forniscono lo spunto per un’amara riflessione
sull’imbarbarimento morale causato dalla guerra. Anni 425-422. Dopo l’invasione dell’Attica da
parte degli Spartani, Cleone porta la guerra nel Peloponneso. Falliscono le trattative di pace. In
Tracia si verifica l’episodio di Anfipoli, nel quale rimane coinvolto Tucidide stesso. Pace di Nicia
seguita alla battaglia di Anfipoli (421 a.C.). Ma in realtà si prepara un nuovo periodo di guerra. È
narrato l’episodio degli abitanti dell’isola di Melo, che si erano rifiutati di abbandonare lo stato di
neutralità e verranno spietatamente trucidati dagli Atenesi. Segue un’altra riflessione dell’autore
sulla logica orrenda della guerra. Spedizione in Sicilia promossa, a partire dal 416 a.C., da

283
Alcibiade. È allestita una flotta imponente, ma la partenza avviene sotto cattivi auspici: sono trovate
sfregiate le Erme, busti in pietra del dio Hermes posti agli angoli delle strade. Alcibiade, accusato
dell’empio atto, si rifugia presso gli Spartani. Nicia e Lamaco, capi ateniesi della spedizione, non
riescono a prevalere sui Siracusani alleati degli Spartani e presso Siracusa sono vinti. I superstiti,
catturati, sono gettati nelle latomie, terribili prigioni siracusane scavate nella pietra. Anni 413-411.
Condanna a morte di Alcibiade per l’episodio delle erme. Colpo di stato oligarchico ad Atene («i
Quattrocento») e defezione degli alleati. Vittoria navale ateniese a Cinossena. A questo punto il
libro si interrompe. L’ultima parte del conflitto è raccontata da Senofonte all’inizio delle Elleniche.
Il valore dell’indagine storica Lo scoppio della guerra spinse Tucidide a farsene storico, proprio
perché del carattere immane e decisivo del conflitto egli ebbe subito chiara l’intuizione. Lo scrive
nelle righe iniziali dell’opera, dove condensa tutti gli elementi che lo hanno deciso alla scelta.
L’ateniese Tucidide descrisse la guerra tra Ateniesi e Peloponnesi, come combatterono tra di loro
cominciando subito al suo sorgere e immaginandosi che sarebbe stata grande e la più importante di
tutte quelle avvenute fin allora. Lo immaginava deducendolo dal fatto che le due parti si
scontrarono quando entrambe erano al culmine di tutti i loro mezzi militari e vedendo che il resto
della Grecia si univa ai due contendenti, gli uni subito, e gli altri ne avevano l’intenzione. Certo,
questo è stato il più grande sommovimento che sia mai avvenuto fra i Greci e per una parte dei
barbari e, per così dire, anche per la maggior parte degli uomini. Giacché gli avvenimenti precedenti
alla guerra e quelli ancora più antichi erano impossibili a investigarsi perfettamente per via del gran
tempo trascorso e, a giudicar dalle prove che esaminando molto indietro nel passato mi capita di
riconoscere come attendibili, non li considero importanti né dal punto di vista militare né per il
resto. La scelta di narrare la guerra si giustifica con la sua dimensione. Si tratta dello
sconvolgimento più grande mai capitato a Greci e barbari, che ha comportato, come aggiungerà
poco dopo (I 23, 1-2), «tante disgrazie quante mai ne occorsero in uno stesso periodo di tempo. Mai
tante città furono prese o rase al suolo … né tanta gente mandata in esilio o uccisa». L’intuizione
precoce della rilevanza dell’evento e della sua superiorità su tutto il passato nasce dalla riflessione
su alcuni segni, indizio di una patologia. Il metodo è simile a quello seguito dalla medicina
ippocritea e consiste nell’indagare dei sintomi. L’autore è orgoglioso del proprio acume politico che
gli ha fatto cogliere i tekméria, gli «indizi» giusti, che non potevano non annunciare gli effetti
previsti. Altro motivo di orgoglio sta «nel non dover essere al più l’emulo del grande Erodoto, il
quale aveva occupato per sempre “lo spazio storiografico” dell’epopea delle guerre persiane
(lasciando agli epigoni la storia della meno grande età successiva), ma nel poter legare il proprio
nome al “più memorabile” tra gli eventi umani conosciuti» (L. Canfora). Lo scontro peloponnesiaco
assume, per la sua importanza, valore emblematico. Non interessa solo i Greci, ma anche i barbari,
anzi «la maggior parte degli uomini». Il valore emblematico – di cui lo storico ha lucida percezione
– sta nella causa profonda che l’ha originato, non occasionale e superficiale o legata ad antefatti
favolosi, ma conforme alla natura umana: «La causa vera, ma taciuta … giudico sia il fatto che gli
Ateniesi, divenuti sempre più potenti e incutendo timore agli Spartani, obbligarono questi alla
guerra» (I 23, 6). Il movente dello scontro sta in una legge umana, che ha applicazione universale:
«È sempre stata norma che il più debole soccombesse al più forte» (I 76, 2). La ricerca della causa
profonda implica la presa di distanza dagli storici precedenti, che miravano al diletto degli
ascoltatori, piuttosto che alla verità. Ma implica anche la selezione del pubblico, il quale dovrà
rinunciare agli elementi favolosi e interessarsi solo alla comprensione dei fatti. Lo sforzo nel

284
seguire l’autore in tale ricerca sarà compensato dall’acquisizione, non effimera ma perenne (ktéma
es aéi), di una chiave di lettura degli eventi umani. La mancanza del favoloso in questi fatti li farà
apparire forse meno piacevoli all’ascolto, ma se quelli che vorranno investigare la realtà degli
avvenimenti passati e di quelli futuri (i quali, secondo la natura umana saranno uguali o simili a
questi) considereranno utile la mia opera, tanto mi basta: essa è un possesso che vale per sempre
(ktéma es aéi), più che un mezzo di bravura destinato all’ascolto immediato. Nella conoscenza delle
leggi universali del comportamento umano, sempre uguali al variare delle epoche e dei popoli,
consiste il «possesso per l’eternità» tucidideo. Si tratta di un modello in grado d’interpretare gli
eventi e predirne gli esiti probabili. Di qui il valore educativo che una tale storiografia assume
soprattutto per l’uomo politico, il quale nel costruire i propri progetti non potrà prescindere dai
principi generali enucleati dalla riflessione tucididea. Una storiografia che studia gli eventi in base a
leggi universali del comportamento umano – e non in base a un principio divino – è anche
necessariamente laica e antropocentrica. Non c’è più spazio per interpretazioni di tipo metafisico,
per letture che esulino dall’ambito dell’uomo e della sua natura. Ogni principio divino è escluso e in
ciò la visione tucididea segna la distanza anche rispetto alla concezione erodotea. Tutti i residui
della mitologia, della teologia e del misticismo che affioravano in Erodoto sono banditi. La
centralità dell’uomo non implica tuttavia la sua onnipotenza. Il successo dell’azione umana trova
precisi limiti nell’imponderabile, nella Tyche, che non è più come nella tragedia un principio
metafisico, ma è, al pari dell’errore, un elemento costitutivo della natura e del destino umano: «Per
loro natura gli uomini … sono portati ad errare, e non c’è legge che possa impedirglielo» (III 45, 3).
Di qui anche i limiti della capacità previsionale delle leggi enucleate dallo storico, che consentono
di ipotizzare un esito probabile degli eventi, ma non saprebbero con certezza predire il futuro.

Il metodo

La necessità di vagliare le testimonianze, spesso contraddittorie o difficilmente confrontabili per


l’inevitabile soggettivismo, è quasi la stessa che avvertiva Erodoto: Gli eventi accaduti nel corso
della guerra non ho considerato opportuno registrarli informandomi dal primo che capitava, né
come pareva a me, ma ho narrato quelli a cui io stesso fui presente e quelli sui quali ho potuto
informarmi da altri con la massima esattezza possibile. Difficile era la ricerca, poiché coloro che
avevano partecipato ai fatti non dicevano tutti le stesse cose sugli stessi avvenimenti, ma li
riportavano in relazione alla loro personale simpatia per una delle due parti o alla loro memoria.
L’evento storico viene indagato secondo una disposizione razionale e scientifica che ricerca i
rapporti di causa ed effetto che operano nella storia. Si avverte nell’opera di Tucidide lo sforzo di
raggiungere un’obiettività in cui solo eccezionalmente traspaiono atteggiamenti di simpatia, e una
tensione nella selezione dei dati utili per raggiungere la verità che possiamo ricondurre all’ambiente
ateniese, ricco di interessi scientifici (la medicina) e filosofici (la Sofistica). I discorsi in forma
diretta sono numerosissimi e parrebbero contrastare con la professione di esattezza e fedeltà alla
verità dei fatti. Tucidide sostiene che, se anche non furono pronunciati nella forma in cui li riporta, i
suoi discorsi sono verosimili, nel senso che è molto probabile che, in quel contesto che egli ha
minuziosamente ricostruito, venissero proferite quelle parole. I discorsi che furono pronunciati
prima o durante la guerra è difficile ricordarli con esattezza, sia per me (quelli che io stesso ho
sentito), sia per quelli che me li hanno riferiti da altre fonti: ho scritto qui quello che a mio parere di

285
volta in volta è più verosimile che sia stato detto, tenendomi il più vicino possibile al senso generale
dei discorsi effettivamente pronunciati. Il discorso sul vero e sul verosimile ci conduce alla retorica,
in particolare a quella giudiziale: «Lo storico, analogamente al retore, deve ricostruire lo
svolgimento dei fatti sulla base di testimonianze ed elementi di prova, che convalidino
l’attendibilità della tesi esposta» (B. Gentili).

Lo stile

La prosa di Tucidide – densa, irregolare e scabra – riflette la sua concezione drammatica della
storia. A volte appare intricata, «difficile», concentrata al limite dell’oscurità. Sebbene sussistano
alcuni degli elementi, che già abbiamo rilevato in Erodoto, della cultura orale (in particolare i
discorsi in forma diretta), tuttavia l’autore ha selezionato un pubblico non di uditori, ma di lettori.
Questi potranno indugiare sulla pagina, ritornare sui punti precedenti, valutare i rapporti logici tra i
vari blocchi del testo. Il metodo analitico e razionale di Tucidide non sarebbe stato proponibile in
una cultura orale come quella a cui prevalentemente si rivolgeva Erodoto (per il rapporto tra
scrittura e analisi razionalistica dell’esperienza, vedi p. 111). Il resoconto freddo e distaccato
privilegia i contenuti ideologici, apparentemente a discapito degli ornamenti formali. Tuttavia c’è
un ampio uso di figure. In particolare abbondano la variatio e le dissimmetrie (anacoluti, costruzioni
sintattiche che si accavallano, «inconcinnità») e soprattutto l’antitesi, assunta a principio dello stile
tucidideo. Si tratta di procedimenti che, insieme con la brevità e la tinta arcaica della lingua,
avranno imitatori tra i latini, in particolare Sallustio. I livelli stilistici sono vari in rapporto agli
argomenti trattati e in ossequio al principio retorico della convenienza (prépon).

Le leggi dell’agire umano, I 76.

I moventi profondi, non occasionali o superficiali o mitici, del conflitto tra Spartani e Ateniesi sono
chiariti con lucidità da questi ultimi e ricondotti alle tre «leggi umane» seguenti: paura (déos), onore
(timé), utilità (ophéleia). L’impero ateniese è giustificato in base al diritto naturale del più forte.
7 6 . «Voi, Spartani, esercitate la vostra egemonia sulle città del Peloponneso e le avete pure
organizzate in vista dei vostri interessi, e se perseverando nell’egemonia aveste incontrato l’ostilità
che abbiamo avuto noi, sappiamo bene che non sareste stati meno duri verso i vostri alleati e
sareste stati obbligati a governare con la forza, oppure a trovarvi voi stessi in pericolo. Così anche
noi non abbiamo fatto niente di straordinario né di strano per la natura dell’uomo se abbiamo
accettato l’impero che ci è stato offerto e non l’abbiamo lasciato, per le tre massime ragioni: la
paura, il senso dell’onore, il profitto. Non siamo stati noi i primi a far questo: da sempre è invalso
l’uso che il più debole sia sotto il controllo del più forte. Noi ci riteniamo degni dell’impero, e ne
eravate convinti fino ad ora anche voi, che adesso per il calcolo dei vostri interessi usate il
discorso della giustizia, il quale non ha mai impedito a nessuno, che avesse occasione di ottenere
qualcosa con la forza, di perseguire questo risutato. È degno di lode chi, pur assecondando la
natura umana nel suo desiderio di dominio, esercita maggiore giustizia di quella che il suo potere
gli consentirebbe. Crediamo che se altri prendessero il nostro posto darebbero dimostrazione di
quanto siamo moderati, mentre irragionevolmente da questo comportamento ci è venuto più
discredito che lode. (trad. di G. Paduano)

286
La peste, II 52-54.

L’epidemia colpì Atene nel 431 a.C., fu contratta dallo stesso Tucidide, che riuscì a guarirne, e da
Pericle che ne morì. La descrizione precisa e drammatica che ci ha lasciato lo storico ateniese
costituirà il modello di ogni futura rappresentazione della peste nella letteratura occidentale, da
Lucrezio a Boccaccio, da Manzoni a Camus. In particolare Lucrezio avrà ben presente il brano che
qui proponiamo nell’affresco apocalittico del finale del De rerum natura.
«Il discorso tucidideo diventa prodigioso nell’individuazione delle conseguenze in campo
psicologico: sia di psicologia individuale, per cui possiamo ricordare … la passività e lo
scoraggiamento che più della debilitazione fisica incidono sulla mortalità; sia di psicologia
sociale, per cui si impongono dei comportamenti che esautorano di fatto il contratto sociale e le
norme etico-religiose» (G. Paduano).

L’effetto più tremendo in tutta questa calamità era lo scoramento, quando ci si accorgeva di essere
colpiti (abbandonavano subito ogni speranza, si ritenevano senz’altro spacciati, e non opponevano
nessuna resistenza al male); e il fatto che, curandosi a vicenda, morivano di contagio, come
avviene tra le bestie. Era appunto al contagio che si doveva la più intensa mortalità. Quelli che per
paura evitavano i contatti morivano in solitudine (e molte famiglie furono spazzate via perché
nessuno volle far loro da infermiere). Quelli che non li evitavano vi rimettevano la vita: specie
coloro che tenevano a mostrare una certa nobiltà di sentimenti. Spronati dal senso dell’onore essi
arrischiavano la propria esistenza visitando gli amici; mentre invece perfino i familiari alla fine
oppressi ed esauriti dall’orrore del male, arrivavano a trascurare anche le lamentazioni sui propri
morti. A ogni modo maggiore pietà di questi familiari mostravano verso chi moriva e chi lottava
col male coloro che ne erano scampati, per l’esperienza fatta, e perché ormai si sentivano al
sicuro. Giacché il male non tornava una seconda volta: o almeno non tornava con esito letale. Gli
altri li consideravano felici: ed essi stessi nell’esaltazione del momento si abbandonavano senza
riflettere alla vaga speranza che anche per l’avvenire nessun’altra malattia se li sarebbe mai più
portati via. Maggior tormento recava ora, in aggiunta all’epidemia, l’ammassarsi della
popolazione dal contado alla città; e più ne soffrivano i profughi. Non avevano case, vivevano in
capanne soffocanti per la stagione, e la strage dilagava in cieco disordine. Giacevano alla rinfusa
morti o moribondi. Uomini semivivi si trascinavano per le strade e ovunque fossero fontane,
divorati dalla sete. I sacri recinti, ove i cittadini si erano accampati, erano pieni di cadaveri,
poiché la gente vi moriva dentro: la furia del male aveva travolto ogni argine, e gli uomini, in balia
di un destino ignoto, trascuravano con eguale indifferenza le leggi umane e le divine. Ogni
consuetudine prima in onore per le sepolture era sconvolta; ognuno seppelliva come poteva. Molti
ricorsero a funerali senza decoro, data la scarsezza del materiale necessario a causa dei molti
morti che avevano già avuto. Mettevano i propri defunti sopra roghi altrui, che accendevano prima
che sopravvenissero i proprietari; altri gettavano il morto, che avevano portato, su di un rogo,
mentre un altro cadavere vi ardeva; e se n’andavano.

EFORO E TEOPOMPO

Eforo nacque a Cuma, in Asia eolica, nel 400 a.C. circa. Visse ad Atene dove con Teopompo fu

287
allievo di Isocrate, il retore che teorizzava le virtù della parola scritta. Oltre a trattati retorici, scrisse
una storia della Grecia in 29 libri che narrano gli avvenimenti dall’invasione dorica del Peloponneso
al 340 a.C. e di cui restano solo frammenti. Si basò sull’opera degli autori precedenti (Erodoto,
Tucidide) e fu ammirato da Polibio, che considerò la compilazione di Eforo il primo tentativo di
storia universale. Nato a Chio nel 380 a.C. circa, allievo di Isocrate, visse alla corte di Filippo II e di
Alessandro Magno. Oltre a scritti di carattere oratorio e a un’Epitome di Erodoto, compose due
opere storiche: le Elleniche in 12 libri, che continuavano la narrazione di Tucidide fino alla battaglia
navale di Cnido (394 a.C.), e le Filippiche in 58 libri, che trattavano la storia macedone dall’ascesa
al trono di Filippo II (359) alla morte del sovrano (336 a.C.). Quest’opera – la prima concentrata sui
fatti di un singolo personaggio – rappresenta il superamento dell’ottica della polis. In essa infatti è
centrale la Macedonia, mentre alla Grecia e alla Persia è assegnato uno spazio marginale. La prosa
di Teopompo si caratterizza per il vigore espressivo, la compiaciuta presenza di moduli retorici
isocratei assunti nell’intento di dilettare. Dell’intera produzione restano solo pochi frammenti.

SENOFONTE

Senofonte nacque ad Atene intorno al 430 a.C. Di famiglia benestante appartenente al ceto equestre,
fu discepolo di Socrate, insieme con Platone, Alcibiade, Crizia. Forse per insofferenza verso il
partito democratico e per evitare le conseguenze della propria adesione alla dittatura filospartana dei
Trenta Tiranni, nel 401 accolse l’invito a seguire i mercenari greci arruolati da Ciro il Giovane in
lotta col fratello Artaserse II, re di Persia. Senza essere «né generale, né ufficiale, né soldato»
(Anabasi III 1, 4), Senofonte probabilmente aveva ricevuto l’incarico di redigere un resoconto della
spedizione, che si concluse con la sconfitta di Ciro a Cunassa. I mercenari sopravvissuti, sbandati e
dispersi, furono ricondotti da Senofonte stesso, eletto a loro guida, in Grecia e consegnati al
generale spartano Tibrone. Nel frattempo, a causa del filolaconismo, Senofonte era stato
condannato all’esilio da Atene e aveva subito la confisca dei beni. Scelse Sparta come nuova patria,
legandosi d’amicizia ad Agesilao. Durante questo periodo, che durò vent’anni, soggiornò a
Scillunte presso Olimpia in un podere concessogli dagli Spartani, dedicandosi alla caccia,
all’agricoltura e all’attività di scrittore. Quando, durante l’egemonia tebana, ci fu un
riavvicinamento tra Atene e Sparta, egli forse rientrò nella città natale. L’anno della morte non ci è
noto, ma è da collocare intorno al 350. Senofonte ebbe molteplici interessi nati dalle varie
esperienze di vita, e scrisse numerose opere tradizionalmente raggruppate in tre gruppi:
• opere di carattere storico, politico, biografico: Anabasi, Elleniche, Costituzione degli Spartani,
Agesilao, Ierone, Ciropedia;
• opere socratiche, cioè incentrate sulla figura di Socrate: Apologia di Socrate, Memorabili di
Socrate (quattro libri di dialoghi e scritti socratici), Simposio (sulla natura dell’amore), Economico
(dialogo tra Socrate e il giovane Critobulo, nel quale si tratta dell’amministrazione della casa, del
metodo per la lavorazione dei campi, dei rapporti con i subordinati, dei rapporti con la moglie);
• opere di carattere tecnico-didascalico: Trattato sull’equitazione, Ipparchico, Cinegetico (che
riguarda la caccia vista come contributo alla formazione del carattere), Poroi.
Ci occuperemo solo delle opere appartenenti al primo gruppo.

288
L’Anabasi

L’Anabasi in sette libri narra la spedizione di Ciro il Giovane contro Artaserse II. L’opera racconta
nel primo libro la «marcia verso l’interno» (l’anàbasis, appunto) dei Greci; negli altri sei, descrive
la battaglia di Cunassa sfavorevole a Ciro, la sua morte, l’imboscata del satrapo Tissaferne e
l’uccisione dei capi greci, la ritirata e il difficile rientro in patria (la katàbasis) dei Diecimila guidati
da Senofonte stesso, attraverso terre sterminate e ignote. La coloritura autocelebrativa – male
dissimulata dall’uso della terza persona (l’autore si cela sotto lo pseudonimo di Temistogene di
Siracusa) – e la struttura diaristica rendono incerta l’attribuzione dell’opera al genere storiografico.
L’assenza di un’indagine approfondita delle cause degli eventi narrati, l’interesse quasi solo
cronachistico o rivolto ai dettagli tecnici, la prevalenza dell’informazione sulla riflessione segnano
un netto regresso rispetto alla visione tucididea. Non riconducibile a un preciso modello letterario,
l’Anabasi è il primo diario di guerra della letteratura occidentale, come scrive Italo Calvino: «È il
memoriale tecnico di un ufficiale, un giornale di viaggio con tutte le distanze e i punti di riferimento
geografici e notizie sulle risorse vegetali e animali. E una rassegna di problemi diplomatici,
logistici, strategici e delle rispettive soluzioni … Come scrittore d’azione Senofonte è esemplare …
Quello che conta è la successione continua di particolari visivi e di azione». L’Anabasi è anche
un’autobiografia con intenti apologetici, nella quale l’autore difende le proprie decisioni, riportando
i discorsi da lui pronunciati e sottolineando il ruolo decisivo giocato dai suoi interventi in seno
all’esercito, che lo segue e lo ammira con totale fiducia. Il resoconto fatto in terza persona, come da
un estraneo, non basta a impedire che l’autore – con la sua forza d’animo, astuzia, eloquenza –
risulti il vero centro della narrazione. Per il tono soggettivo e apologetico l’Anabasi può essere
confrontata ai Commentari della Guerra Gallica di Cesare. L’Anabasi è infine il racconto
meticoloso di un viaggio in un contesto etnografico e geografico remoto, favoloso, esotico. È una
storia di avventure, di cui alcuni elementi anticipano le rocambolesche peripezie del romanzo
ellenistico e le gesta di Alessandro Magno. Avvicinano l’autore al mondo ellenistico il brillante
eclettismo e l’attitudine giornalistica a scrivere di tutto, la scarsa simpatia per la democrazia e la
propensione per le monarchie orientali, la concezione cosmopolitica che lo porta a mutare patria
senza troppi traumi, la passione per i viaggi e lo spirito d’avventura. A confermare quest’ultimo
tratto della personalità di Senofonte sta il fatto che, quando finalmente giunge con i Diecimila in
vista del Mar Nero, proprio di fronte alla Grecia, dopo un moto di commozione che percorre tutta la
truppa («il mare, il mare!», IV 7, 24), egli non mostra alcuna intenzione di tornare in patria e
prolunga la spedizione mettendo i suoi mercenari al servizio di rissosi principi traci. Senofonte, al
pari del contemporaneo Alcibiade – entrambi non esitano a porsi al servizio dei nemici della patria,
perfino dei «barbari» –, fa presentire la crisi della polis e il cosmopolitismo che sarà dei tempi
nuovi. Anche nell’incerta definizione del genere letterario – biografia, trattato tecnico, romanzo
memorialistico – egli anticipa l’ellenismo. Le restanti opere di carattere storico Le Elleniche, che
recano il sottotitolo Aggiunte alla storia di Tucidide, narrano in sette libri gli eventi della storia
greca dal punto in cui s’interrompe l’opera di Tucidide, cioè dal 410 a.C., alla battaglia di Mantinea
(362 a.C.) che conclude con la morte di Epaminonda l’effimera supremazia tebana. Il fatto che il
primo libro e parte del secondo rivelino tratti stilistici tucididei (esposizione fredda e impersonale,
ordinamento annalistico dei fatti), mentre il resto del racconto conserva la consueta impostazione
diaristica, ha fatto pensare che almeno la parte iniziale dell’opera (fino al governo dei Trenta)

289
appartenesse a Tucidide. Confermerebbe la tesi di una redazione a due mani l’incipit brusco delle
Elleniche, senza un’introduzione: «Dopo questi avvenimenti, passati non molti giorni, giunse
Timocare da Atene con poche navi …». Tranne la sezione iniziale l’opera è, come l’Anabasi,
fortemente autobiografica e varia nei contenuti, fondendo personali esperienze dell’autore, storia
politica, digressioni sull’arte della guerra e considerazioni sui regimi autocratici esemplificati in
figure tipiche di tiranni. L’Agesilao è una biografia encomiastica del re spartano ammirato da
Senofonte. In essa sono descritte le imprese e le virtù del personaggio, per il quale l’autore nutriva
sincera stima e amicizia ed al cui seguito rimase per parecchi anni. Il Ierone è una specie di trattato
encomiastico nel quale il tiranno siracusano e il poeta Simonide discutono in utramque partem, cioè
sui pro e sui contro della tirannide analizzando le differenze tra la condizione del privato cittadino e
del tiranno, concludendo che è preferibile la prima. Tuttavia anche il tiranno può essere felice, se è
giusto e saggio, sollecito del bene dei cittadini. L’opera esalta la costituzione spartana e la ferrea
disciplina istituita da Licurgo come la perfetta antitesi della democrazia e individua nella corruzione
dei costumi che cominciava ad affliggere anche Sparta la causa della decadenza della città.

La Ciropedia, o Educazione di Ciro, in otto libri, è la biografia di Ciro il Vecchio, fondatore


dell’impero persiano. Anche in questo caso non si tratta di una vera opera storica, bensì di una
biografia romanzata o «pseudo-biografia pedagogica» (A. Momigliano), che anticipa temi del
romanzo ellenistico, ma anche del moderno «romanzo di formazione» europeo. In particolare la
storia d’amore di Pantea ed Abradata (libro V, VI), due figure eroiche nell’amore e nella lealtà fino
all’estremo sacrificio, è la prima novella della letteratura occidentale. Nella Ciropedia si parla
dell’educazione, della formazione, delle conquiste del re, la cui figura idealizzata rappresenta il
prototipo del monarca illuminato, dell’optimus princeps modello di ogni virtù e grandezza morale.
Ciro, che insegnava ai suoi soldati che lasciare dopo un saccheggio qualcosa ai vinti era un segno di
umanità (philantropia) è un esempio di humanitas anche per il mondo romano. Che tale esemplarità
s’incarni in un sovrano «barbaro» è un altro segno dei tempi, prossimi alla visione cosmopolitica
dell’ellenismo: «Il passato eroico non è più quello nazionale, ma quello straniero, barbarico. Il
mondo si è ormai aperto; il mondo monolitico e chiuso dei propri (come era nell’epopea) è
sostituito dal grande e aperto mondo e dei propri e degli altri»

Lo stile

Senofonte fu giudicato fin dall’antichità scrittore gradevole, limpido ed elegante. Non vero storico
ma piuttosto poligrafo, fornito di straordinaria capacità di assimilazione piuttosto che di originalità
di pensiero, egli «guarda di fuori» (Cantarella), narra episodi e avvenimenti con ordine e chiarezza.
Calvino scrive che da Senofonte si cita male, perché «quello che conta è la successione continua di
particolari visivi e d’azione». Sebbene sia stato additato come modello di perfezione e purezza
attica e sia divenuto il modello per i puristi atticizzanti, in realtà i contatti anche prolungati con
diversi ambiti linguistici e la frequentazione di letterature non attiche conferiscono alla sua lingua e
al suo stile caratteri di varietà che preludono alla koinè linguistica d’età ellenistica.

290
Un documentario di guerra, Anabasi IV 5, 3-14.

Riportiamo il passo dell’Anabasi che Calvino considera l’archetipo del diario di guerra,
confrontabile ai libri di memorie sulla ritirata di Russia degli alpini italiani, come Il sergente nella
neve di Mario Rigoni Stern, un romanzo che già Elio Vittorini ebbe a definire come «piccola
Anabasi dialettale». Qui i mercenari, durante il difficile ritorno, si confrontano con i rischi e i disagi
del gelo avvalorando il richiamo alla memorialistica della ritirata di Russia e al ridimensionamento
dell’ideale eroico del soldato attraverso la descrizione delle sofferenze patite e la difesa del
principio di conservazione e dell’interesse egoistico. A Calvino il brano fa pensare a «un vecchio
documentario di guerra, col fascino del bianco e nero della pellicola un po’ sbiadita, con crudi
contrasti d’ombre e movimenti accelerati». 3. Di qui percorsero, attraverso un territorio
pianeggiante e un’alta coltre di neve, tre tappe per cinque parasanghe. Il terzo giorno di marcia fu
particolarmente sofferto: la tramontana soffiava in fronte bruciando completamente ogni cosa e
intirizzendo le persone. 4. Allora un indovino suggerì di offrire un sacrificio al vento, e così fu fatto:
e tutti poterono constatare come d’improvviso scemò l’intensità delle raffiche. Quanto alla neve, era
alta un braccio, per cui molti animali e molti servi, nonché una trentina di soldati, persero la vita. 5.
Si trascorreva la notte tenendo acceso il fuoco. Nelle soste di tappa si trovava sempre molta legna e
nondimeno gli ultimi arrivati ne rimanevano privi. Chi arrivava per primo e accendeva il fuoco non
permetteva a chi arrivava dopo di accostarsi alla vampa, a meno che dessero in cambio del frumento
o qualche altro bene commestibile. 6. Così barattavano le sostanze di cui volta a volta disponevano.
Dove si accendeva il fuoco la neve fondeva e si aprivano grosse cavità fino al suolo, attraverso le
quali era possibile misurare la profondità della neve.
7. Di qui per tutto il giorno seguente marciarono in mezzo alla neve, e molti uomini furono colti da
una fame divorante. Senofonte, che guidava la retroguardia e incappava negli uomini che via via
stramazzavano al suolo, non riusciva a rendersi conto di che cosa soffrissero. 8. Ma quando un
tale, che aveva esperienza della cosa, gli disse che si trattava palesemente di bulimia e che sarebbe
bastato che ingurgitassero qualcosa per rialzarsi prontamente in piedi, ispezionò le salmerie per
vedere di trovare da qualche parte delle cibarie e ne distribuì personalmente o ne fece distribuire
da chi era in grado di muoversi tra gli affamati. E bastava un boccone perché si rialzassero e
riprendessero la marcia. 9. All’imbrunire Chirisofo arrivò a un villaggio, dove trovò, davanti al
muro di protezione, delle donne e delle ragazze che erano uscite per andare ad attingere acqua
alla fonte. 10. Esse chiesero loro chi fossero: in persiano l’interprete rispose dicendo che erano
truppe che il re aveva inviato al satrapo. E le donne replicarono: «Il satrapo non è qui: si trova a
circa una parasanga da qui». Ma visto che ormai si era fatto troppo tardi, essi penetrarono oltre il
muro seguendo le donne con le brocche e si diressero verso il capo del villaggio. 11. Così
Chirosofo e quanti dell’esercito avevano avuto la forza di arrivare fin lì vi si accamparono, mentre
gli altri soldati che non erano riusciti a completare la marcia trascorsero la notte senza cibo e
senza fuoco. E alcuni soldati morirono. 12. Gruppi compatti di nemici incalzavano alle spalle e
catturavano le bestie che stentavano a proseguire, contendendosene il possesso. E furono
abbandonati sul posto i soldati che avevano perso la vista per il bagliore della neve e quelli a cui
per il gelo si erano incancrenite le dita dei piedi. 13. Si proteggevano gli occhi dalla neve
fasciandoli con una pezza nera durante la marcia; si difendevano i piedi muovendosi
continuamente senza mai fermarsi e sciogliendo i calzari durante la notte. 14. Se dormivano

291
calzati, i legacci penetravano nella carne dei piedi e le suole si congelavano. Del resto, dato che
ormai avevano dovuto abbandonare le vecchie calzature, si trattava di sandali rimediati alla
meglio con suole ricavate da buoi appena scuoiati. (trad. di F. Ferrari)

LA STORIOGRAFIA NELL’ETA’ ELLENISTICA

Verso la fine del IV secolo a.C. s’intensifica l’interesse per il genere storiografico, e si assiste a un
pullulare di storici, memorialisti, scrittori di cronache, per lo più mediocri e incapaci di avvicinarsi
alla profondità analitica di Tucidide. Da questo essi si allontanavano anche per la predilezione della
ricerca psicagogica propria dell’indirizzo mimetico e teatrale. Quasi interamente perduta è la vasta
produzione dei cosiddetti «storici di Alessandro», il sovrano che inaugurò l’usanza di condurre al
proprio seguito un manipolo di scrittori che narrassero le proprie gesta. Tra questi si distinguono
Callistene di Olinto (370-327), autore di dieci libri di Elleniche delle Gesta di Alessandro, e
Clitarco, la cui opera sarà alla base delle Storie di Alessandro Magno di Curzio Rufo. Di Duride di
Samo (340-270 a.C.), autore di una Storia Macedonica, abbiamo già avuto occasione di parlare
come del campione della storiografia mimetica, improntata alla ricerca del diletto e in grado di
emozionare il destinatario. Contemporaneo di questi storici è il siciliano Timeo (346-250 a.C.) di
Tauromenio (Taormina), le cui Storie dell’Occidente greco andavano dalle origini mitiche alla
prima guerra punica (264 a.C.) e segnavano l’ingresso di Roma nella storiografia greca. Il solo
storico di spicco di questo arco temporale è Polibio di Megalopoli.

POLIBIO

Polibio nacque a Megalopoli in Arcadia alla fine del III secolo a.C. Il padre, stratego della Lega
Achea, assicurò al figlio una formazione culturale e tecnica (soprattutto militare) di largo respiro.
Ben presto anche Polibio ebbe incarichi importanti nella Lega, partecipò a spedizioni in Messenia e
in Egitto. Dopo la vittoria romana sulla Macedonia a Pidna (168 a.C.), Polibio fu deportato a Roma
con altri ostaggi accusati dal partito filoromano di ostilità verso i nuovi padroni. Ebbe fortuna e fu
destinato alla casa del console L. Emilio Paolo, animatore del famoso «circolo» filellenico degli
Scipioni. Nella casa del vincitore di Pidna, ebbe l’incarico di occuparsi dell’educazione dei figli,
Scipione Emiliano e Quinto Fabio Massimo. Con questi strinse profondi legami d’amicizia,
accompagnando Scipione in varie spedizioni militari; in particolare partecipò alla terza guerra
punica, assistette alla distruzione di Cartagine (146 a.C.) e alla presa di Numanzia (134-132 a.C.).
Roma divenne per Polibio la nuova patria e l’irresistibile ascesa di questa città fu l’oggetto della sua
attività di storico. Traspare ovunque nelle Storie l’ammirazione per Roma, come in questo passo in
cui la potenza romana è posta a confronto con i grandi ma effimeri imperi precedenti: I 2; trad. di C.
Schick Quanto l’argomento della nostra trattazione sia grande e meraviglioso, apparirà soprattutto
evidente se con cura paragoneremo i più illustri imperi precedenti, le cui vicende gli storici hanno
più diffusamente trattato, alla dominazione romana. Tra i più degni di essere messi a confronto con
Roma, i Persiani in determinate circostanze riuscirono a conquistarla, ma la conservarono intatta per
soli dodici anni. I Macedoni signoreggiarono sull’Europa dalle coste dell’Adriatico al fiume Istro,
ma aggiunsero poi a questo il dominio dell’Asia, dopo avere abbattuta la potenza persiana. Benché
possa sembrare che questi popoli abbiano conquistato vasti territori e grande potere, essi lasciarono

292
tuttavia ad altri il predominio su gran parte della terra abitata: neppure una volta aspirarono, infatti,
alla conquista della Sicilia, della Sardegna, dell’Africa settentrionale, né conobbero le più bellicose
popolazioni dell’Europa occidentale. I Romani invece assoggettarono quasi tutta la terra abitata e
instaurarono una supremazia irresistibile per i contemporanei, insuperabile per i posteri. Polibio
ritornò in Grecia, dopo la dissoluzione della lega Achea, come mediatore tra vincitori e vinti e
partecipò alla spedizione di Scipione contro la città iberica di Numanzia. La morte lo colse, a
ottantadue anni, in seguito a una caduta da cavallo nel 124 a.C. Restano i libri I-V delle Storie che,
in 40 libri, trattavano gli avvenimenti della storia romana dall’inizio della prima guerra punica (264
a.C.) al 144 a.C. Dei libri mancanti rimangono ampi estratti, provenienti da antiche antologie
dell’opera o citati da altri autori. Comprendono una sintesi degli avvenimenti degli anni 264-220
a.C. e si collegano alla Storia di Timeo di Tauromenio, che aveva trattato questioni inerenti la sua
isola, la Sicilia. Trattano gli avvenimenti di Grecia e le vicende della guerra punica fino alla
battaglia di Canne (216 a.C.). Nel Libro VI la narrazione s’interrompeva per lasciare il posto alla
teoria delle costituzioni, con particolare riguardo per quella romana, di cui è celebrata la superiorità.
Dal libro VII in poi erano narrati, secondo uno schema annalistico, gli avvenimenti in oriente e in
occidente fino all’anno 144. Il XII conteneva la polemica contro gli storici precedenti, soprattutto
Timeo. L’opera terminava con un riassunto conclusivo degli avvenimenti trattati e un quadro
generale. La divisione cronologica era in base alle Olimpiadi. Delle opere minori ricordiamo la Vita
di Filopemene, la Guerra di Numanzia, un trattato Sulla tattica, Sulla abitabilità della zona
equatoriale, tutte perdute. Le Storie La storia deve essere «pragmatica» nel senso che deve poggiare
su dati di fatto (pràgmata), sulla realtà oggettiva. Una storiografia pragmatica non deve basarsi su
minuzie erudite di tipo antiquario (fondazioni, genealogie, ecc.) o curiosità peregrine, ma su
avvenimenti politici e militari dei quali si sia accertata la consistenza reale. Infatti scopo precipuo
della storia è la conoscenza della verità. La storia non ha per oggetto il diletto ma l’utile, e questo
s’identifica, come anche per Tucidide, nell’ammaestramento che ci viene dal confronto con
l’esperienza compiuta da altri uomini. Non soltanto alcuni storici incidentalmente, ma tutti senza
distinzione, con tale elogio [della storiografia] hanno dato inizio e posto termine alle loro opere,
dichiarando lo studio della storia la migliore palestra e preparazione all’attività politica e il ricordo
delle peripezie altrui il solo e più efficace incitamento a sopportare con fortezza i rivolgimenti della
sorte: è evidente quindi che a nessuno, e meno che agli altri a noi, sembrerebbe opportuno ripetersi
intorno a un argomento già trattato a fondo da molti altri. L’utilità della storia è conseguente alla
sua capacità di accertare le cause, laddove la sola enunciazione dei fatti può al massimo avere un
effetto psicagogico: «La pura e semplice esposizione di ciò che è accaduto può eccitare il
sentimento (psychagogéi), ma non reca alcun frutto; aggiungi la causa, e la confidenza con la
materia della storia si fa immediatamente più utile» (XII 25b, 2). Si può parlare di historia magistra
vitae sia nel senso della formazione culturale del cittadino, sia nella prospettiva ancora più
utilitaristica dell’acquisizione di un potente strumento per orientarsi nella vita politica e prevedere
gli eventi futuri: «Si può, sulla base di quanto è già successo, fare previsioni certe sul futuro» (VI
3). In particolare la tesaurizzazione delle altrui esperienze dolorose risulta proficua, consentendo di
acquisire un insegnamento senza ricevere i danni: Io ho voluto ricordare queste vicende proprio in
grazia degli insegnamenti che i lettori ne possono ricavare: per due vie infatti gli uomini possono
divenire migliori: mediante le disgrazie proprie e mediante quelle degli altri: la prima è senz’altro
più efficace, ma la seconda è di gran lunga meno dolorosa. Mai si deve spontaneamente ricorrere a

293
quella per trarne ammaestramento a prezzo di grandi travagli e pericoli, mentre sempre si deve
ricercare l’altro mezzo, che senza danno alcuno insegna a distinguere il partito migliore.
Concludendo, la migliore preparazione al vivere rettamente è l’esperienza che si ricava dalla storia
delle vicende vissute: solo questa infatti può, senza pericolo di danno, rendere sicuri giudici del
partito preferibile in ogni occasione o circostanza. Una storiografia pragmatica e che mira
all’ammaestramento dell’uomo politico e del cittadino non può che affermare il primato dell’utile
(ophélimon) sul diletto (térpsis). Tuttavia la presenza del diletto, respinta in linea di principio, è
garantita dall’importanza delle vicende narrate, che proprio per la loro rilevanza storica hanno in sé
anche la capacità di attrarre il lettore. Del resto il carattere meraviglioso delle vicende delle quali
abbiamo intrapreso a narrare, è di per sé tale da indurre e incoraggiare tutti, e giovani e vecchi, a
interessarsi a questo nostro lavoro. Chi infatti può essere tanto stolto o pigro da non sentire il
desiderio di sapere come e sotto quale forma di governo i Romani, in meno di 53 anni – fatto senza
precedenti nella storia – abbiano conquistato quasi tutta la terra abitata, o chi ancora potrebbe essere
tanto appassionato ad altra forma di studio o spettacolo, da considerarlo preferibile alla ricerca
storica? La polemica di Polibio era nei confronti della storiografia mimetica (vedi pag. 111) e
contro l’indirizzo isocrateo, rappresentato da Eforo e Teopompo, che aveva privilegiato gli
argomenti di tipo etnografico e antropologico (tradizioni mitiche, fondazioni di città e colonie,
storie di famiglie, excursus sulla geografia e i costumi dei popoli): Quasi tutti gli altri scrittori …
attraggono molti alla loro opera. Infatti il discorso sulle genealogie attira chi ascolta per il puro
piacere di ascoltare; chi ama possedere una molteplicità di conoscenze e notizie erudite è attratto dai
racconti sulle colonie, le fondazioni … come si legge anche in Eforo. Il politico volge il suo
interesse alle vicende dei popoli, delle città e di chi le governa. Questo è il solo argomento che noi
abbiamo affrontato e solo ad esso abbiamo dedicato la nostra trattazione … preparando per la
maggior parte degli ascoltatori una lettura priva di ogni fine psicagogico. La storia assolve alla
finalità formativa suddetta solo a patto che si indaghino le cause di ciò che è realmente accaduto
con metodo rigoroso, atto ad individuare la realtà oggettiva. Tale metodo comporta un’indagine
scientifica condotta sulle fonti scritte e sulle informazioni topografiche e geografiche controllate
personalmente (visitando i luoghi teatro degli eventi) e la sicura competenza di problemi politici e
militari. Fondamentale è la distinzione di Polibio tra causa vera (aitìa), causa apparente (pròfasis),
inizio degli avvenimenti (arché). Ma vi sono uomini che non vedono quanto il principio dei fatti è
diverso dalle cause che li determinarono, e quanto siano tra loro lontani i motivi veri e i pretesti
occasionali e come i motivi veri sono alle origini prima dei fatti, mentre il principio è quello che si
verifica per ultimo. In generale io dico che sono «princìpi» i primi attacchi e le prime forme di
attuazione di cose già stabilite; «cause» invece io chiamo quelle che sono dietro le decisioni e le
deliberazioni. Intendo riferirmi alle riflessioni, agli stati d’animo, alle considerazioni relative ai
deliberati che si prendono, attraverso i quali arriviamo alle risoluzioni che ci proponiamo. Violenta
è la critica, in una digressione metodologica contenuta nel libro XII, nei confronti degli storici
precedenti tacciati d’incompetenza e superficialità. In particolare è contro Timeo che Polibio
rivolge i suoi strali. La storia concepita da Polibio è inoltre universale, cioè quella che trova la sua
unità nell’intreccio non occasionale delle vicende, che non si limita a esporre un fatto isolato o un
evento marginale, ma collega gli avvenimenti in una visione generale e organica, in cui tutti
abbiano un centro generativo. Nel caso della storia recente questo centro è Roma, la sua rapida
ascesa nel Mediterraneo, la sua azione catalizzatrice e unificatrice del mondo conosciuto. A partire

294
dalla vittoria su Annibale, lo spirito di conquista romano unifica il mondo mediterraneo e ne rende
la storia intimamente unitaria. In particolare le vicende dal 264 al 220 a.C. sembrano appartenere a
un disegno coerente (somatoeidés) teso a un solo obiettivo, il governo di Roma. «Un siffatto
impianto – questo sì davvero “universale” – supera l’aporia insita in un racconto continuo che,
come quella di Eforo, rischia continuamente di frantumarsi in monografie, e al tempo stesso dà un
senso alla successione narrativa, giacché il “prima” e il “poi” non si presentano più nella casuale e
falsa successione dovuta alla mera trascrizione degli eventi».
Ma ciò che è proprio della nostra storia ed è novità assoluta dei nostri tempi è questo: come la
fortuna volse in una sola direzione tutti gli eventi del mondo allora abitato e li costrinse tutti a
piegare verso un unico obiettivo, così sarà necessario presentare al lettore in un unico quadro di
insieme le vie di cui la fortuna si servì per il compimento della sua opera. Proprio questo mi ha
incitato e spinto alla composizione di questa storia, e inoltre la constatazione che nessuno, ai nostri
tempi, ha posto mano a scrivere una storia universale: altrimenti non mi sarei sobbarcato a questa
impresa. Ma vedendo che anche più d’uno ha trattato le singole guerre e alcuni avvenimenti
particolari ad esse contemporanei, e che nessuno, a quanto almeno mi risulta, pensò neppure di
indagare, nel complesso, l’insieme dei fatti e quando e da che cosa quei fatti ebbero origine e come
si conclusero, ho ritenuto assolutamente necessario non traslasciare né permettere che passasse
inosservata l’opera più bella e più utile della fortuna. Nel VI libro, in cui sono studiate le
costituzioni con le quali gli stati si reggono, Polibio enuncia sulle orme di Platone e Aristotele la
cosiddetta «anaciclosi», cioè la teoria del ritorno ciclico delle forme di governo. Ci sono tre forme
di governo positive che sono la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia a cui si oppongono le
corrispondenti tre forme degenerate: la tirannide, l’oligarchia e l’oclocrazia o potere delle masse.
Alle prime seguono inevitabilmente le altre secondo un ciclo discendente a cui non può sottrarsi
nemmeno la costituzione romana, che pure a Polibio sembra perfetta, in quanto in essa coesistono la
monarchia (i consoli), l’aristocrazia (il senato), la democrazia (i comitia del popolo). Legato a una
visione laica della storia, Polibio nega che le divinità tradizionali abbiano un peso negli eventi
umani, le cui cause vanno ricercate unicamente in fatti concreti come le condizioni geografiche, la
situazione politica e militare, la ricerca dell’utile. Nondimeno è ripetutamente menzionata la Tyche,
la forza irrazionale del caso ora provvidenziale ora ostile, personificazione dell’imponderabile e dei
limiti dell’umana capacità di comprensione dei fatti storici. Il ricorso alla Tyche è, in taluni casi, la
sola spiegazione dell’avvicendarsi insensato di imperi e di egemonie, dei bruschi capovolgimenti di
fortuna, dei crolli imprevedibili come quello dell’impero persiano. «Chi avrebbe potuto prevedere
cinquant’anni fa, e anticipare ai Greci e ai Persiani che l’impero persiano sarebbe scomparso e che i
Macedoni avrebbero regnato al loro posto?»: con queste parole, tratte dal trattato Perì tyches di
Demetrio Falereo, Polibio commenta la fine di Perseo di Macedonia. Nella visione pragmatica e
utilitaristica di Polibio, è positiva la considerazione dell’impiego della religione a Roma, intesa
come instrumentum regni, cioè come mezzo di potere e fattore di coesione politica: Ciò che presso
gli altri popoli è oggetto di biasimo, cioè lo scrupolo religioso, mantiene la coesione dello stato
romano. Questo elemento è stato introdotto in ogni aspetto della vita privata e pubblica dei Romani,
con ogni espediente per impressionare paurosamente l’immaginazione, ad un punto oltre il quale
non si potrebbe andare. Ciò potrebbe apparire stupefacente a molti. Ma a mio modo di vedere i
Romani hanno fatto ciò per impressionare le masse. Se fosse possibile formare uno stato di soli
uomini saggi, forse non sarebbe necessario ricorrere a questo mezzo; ma, data la leggerezza,

295
l’avidità sfrenata, la collera irragionevole e le passioni violente delle masse, non rimane che tenerle
a freno coi terrori dell’invisibile o con altre imposture dello stesso tipo. Perciò gli antichi non a
torto, ma secondo un preciso proposito, hanno inculcato nelle masse le nozioni relative agli dei e le
credenze sulla vita dell’aldilà. Sciocchi i moderni che cercano di disperdere queste illusioni! La
lingua delle Storie è quella fredda e volutamente arida dei documenti ufficiali, priva di ornamenti
retorici, ricca di lessico tecnico impiegato con precisione e competenza. Lo stile è
conseguentemente «cancelleresco», formale, astratto. Il periodo risulta complesso, denso di
concetti, ricco di perifrasi e, a tratti, faticoso. Non è tuttavia nella ricercatezza dello stile che
troviamo la grandezza di Polibio, che è un sostenitore della concezione pragmatica della storia, che
risulta fondata cioè sull’analisi dei fatti politici e militari senza digressioni narrative. Plutarco 127
La religione VI 56; trad. di L. Canfora Lingue e stile Il pianto di Scipione su Cartagine distutta,
XXVIII 22. Riportiamo uno dei rari passi in cui la prosa, sempre un po’ fredda e incolore delle
Storie si anima, arricchendosi di elementi patetici normalmente banditi dalla scrittura polibiana e
cari invece alla storiografia «tragica». Scipione, vedendo ridotta ormai all’estrema rovina la città di
Cartagine, pianse apertamente, si dice, per i nemici. A lungo egli rimase meditabondo, considerando
come la sorte di città, popoli, domíni, varii come il destino degli uomini: ciò era accaduto ad Ilio,
città una volta potente, era accaduto ai regni degli Assiri, dei Medi e dei Persiani, che erano stati
grandissimi ai loro tempi, e recentemente al regno macedone. Infine sia volontariamente, sia che tali
parole gli siano sfuggite, esclamò: «Verrà giorno che il sacro iliaco muro / e Priamo e tutta la sua
gente cada». Polibio, che gli era stato maestro e gli poteva parlare liberamente, gli chiese che cosa
egli volesse significare con queste parole e allora Scipione senza reticenza nominò la patria, per la
quale temeva considerando la sorte degli uomini. Ciò riferisce Polibio, avendolo udito con le sue
orecchie.

PLUTARCO

Per motivi di economia espositiva trattiamo in questo capitolo anche la figura di Plutarco, sebbene
sia vissuto due secoli dopo Polibio e pertanto rispecchi una concezione storiografica assai distante
da quella degli storici greci sin qui considerati. Nacque intorno al 45 d.C. a Cheronea in Beozia da
famiglia benestante; studiò ad Atene alla scuola del filosofo platonico Ammonio, curando la
matematica, le scienze, la retorica e la filosofia. Viaggiò in Egitto, in Asia, a Roma e nell’Italia
Meridionale, ma trascorse la gran parte della vita a Cheronea che, ironicamente, diceva di non
volere rendere più piccola con la propria lontananza e dove esercitò i più alti uffici. Fece parte del
collegio sacerdotale del santuario di Delfi. Acquistata la cittadinanza romana, ricoprì alte cariche
onorifiche sotto Traiano e Adriano. È singolare che i contemporanei Plinio il Giovane e Tacito non
facciano menzione di lui. A Cheronea aprì una scuola, secondo l’esempio platonico, nella quale
provvedeva all’istruzione dei figli e di pochi discepoli. In essa si celebravano come festività i giorni
natali di Socrate e Platone. Morì a Cheronea intorno al 125 d.C. Plutarco fu scrittore assai
produttivo. Un catalogo antico gli attribuisce ben 227 opere, di cui soltanto 83 sono conservate in
due grandi sezioni: • le opere morali, note come Moralia a partire dal Medioevo,
• le Vite parallele, 22 coppie di Vite, 19 di esse con l’aggiunta del confronto (sy´nkrisis), e quattro
Vite singole.

296
I Moralia

In questo raggruppamento sono contenuti scritti filosofici, pedagogici, teologici, retorici, scientifici
e letterari, accanto ad opere di contenuto etico che in forma di dialogo o di diatriba – genere tipico
del trattato filosofico-morale a scopo di divulgazione popolare – sviluppano argomenti di filosofia
spicciola o forniscono precetti di vita quotidiana. In questo repertorio del sapere antico hanno uno
spazio rilevante gli scritti che vertono su problemi dell’educazione e della vita politica. Ecco alcuni
titoli: Come i giovani devono leggere i poeti, Precetti politici, Se gli anziani debbano fare politica,
ecc. Gli scritti sull’educazione, che influenzarono la pedagogia cristiana e quella umanistica,
affrontano le questioni non da un punto di vista teorico, ma come guida per una condotta etica
corretta. Anche gli scritti politici sono veri e propri manuali indicanti i mezzi adeguati per
conseguire determinati obiettivi nella concreta pratica della vita cittadina. Un gruppo a parte sono le
opere di carattere religioso, legate anche alla funzione sacerdotale svolta dall’autore, che nel 95 d.C.
ricoprì il più alto grado nella gerarchia dei sacerdoti di Delfi. Ecco alcuni titoli: Sugli indugi della
giustizia divina (che spiega l’enigma della prosperità dei malvagi), Sulla lettera E in Delfi, cioè
sulla lettera E incisa sul tempio di Apollo, per la quale l’autore propone un’interpretazione
pitagorica. Ci sono poi le opere filosofiche, nelle quali l’autore espone il proprio punto di vista,
fondamentalmente platonico, moderatamente aperto allo stoicismo (Sulla tranquillità interiore, La
repressione dell’ira) e polemico verso l’epicureismo (Non è possibile vivere felici seguendo
Epicuro). Non mancano scritti bizzarri, come quelli sulla psicologia degli animali, sulla loquacità,
su come distinguere un adulatore da un amico. Altri sono di carattere astronomico (Sulla faccia
della Luna, una meditazione sul cosmo), consolatorio (Consolazione alla moglie, per la morte della
figlia), antiquario (Questioni greche, Questioni romane), letterario (Confronto fra Aristotele e
Menandro). Nell’ambito di quest’ultimo gruppo, è singolare come l’autore ignori quasi
completamente la letteratura latina. I Moralia, oltre a documentare l’ampiezza degli interessi
dell’autore, sono una fonte inesauribile di frammenti di testi più antichi, noti solo per le citazioni di
Plutarco. Inoltre vennero letti durante tutto il Medioevo, furono il modello della saggistica morale a
partire dai Saggi di Montaigne (1533-1592), contribuirono potentemente a trasmettere all’Europa il
pensiero e la cultura del mondo antico. Le Vite parallele L’opera più propriamente storica di
Plutarco sono le Vite parallele: 22 coppie di ritratti di personaggi illustri, nelle quali un greco e un
romano sono accostati, in base a criteri spesso evidenti (Alessandro e Cesare, Demostene e
Cicerone) e quasi sempre chiariti nella synkrisis. Ecco le Vite a confronto: Teseo-Romolo, Solone-
Publicola, Temistocle-Camillo, AristideCatone maggiore, Cimone-Lucullo, Pericle-Fabio Massimo,
Nicia-Crasso, Coriolano-Alcibiade, Demostene-Cicerone, Focione-Catone minore, Dione-Bruto,
Emilio Paolo-Timoleonte, Sertorio-Eumene, Filopemene-Tito Flaminino, Pelopida-Marcello,
Alessandro-Cesare, Demetrio Poliorcete-Antonio, Pirro-Mario, Agide e Cleomene-Tiberio e Caio
Gracco, Licurgo-Numa, Lisandro-Silla, Agesilao-Pompeo. Al di fuori delle biografie parallele sono
le Vite di Arato, Artaserse, Galba e Otone. Ciò che interessa è il carattere dei protagonisti, e questo
si rivela nel loro modo di rapportarsi non solo alle grandi occasioni storiche, ma anche alle
questioni spicciole della vita quotidiana. La personalità, l’etos emerge nei tratti fisici, nelle battute
memorabili, nel comportamento privato riscostruibile a partire anche dalle più minute notazioni
aneddotiche, com’è detto nella Vita di Alessandro: … Io non scrivo un’opera di storia, ma delle
vite; ora, noi ritroviamo una manifestazione delle virtù e dei vizi degli uomini non soltanto nelle

297
loro azioni più appariscenti: spesso un breve fatto, una frase, uno scherzo rivelano il carattere di un
individuo più di quanto non facciano battaglie ove caddero diecimila morti, i più grandi
schieramenti di eserciti e assedi. Insomma, come i pittori colgono la somiglianza di un soggetto nel
volto e nell’espressione degli occhi, poiché lì si manifesta il carattere, e si preoccupano meno delle
altre parti del corpo; così anche a me deve essere concesso di addentrarmi maggiormente in quei
fatti o in quegli aspetti di ognuno, ove si rivela il suo animo, e attraverso di essi rappresentarne la
vita, lasciando ad altri di raccontare le grandi lotte. In questo passo, Plutarco distingue la vita dalla
storia – quindi il carattere del personaggio dai fatti politici e militari – optando per la biografia
peripatetica, un genere con forte accentuazione dei motivi etici. Si tratta di una prospettiva che
esclude l’analisi rigorosa delle cause e degli effetti e quella visione d’insieme che secondo Polibio
deve caratterizzare la ricostruzione storica. D’altronde, la priorità accordata alla dimensione etica
caratterizza quasi tutta la storiografia antica, più interessata a ricercare le cause dei fatti nei vizi e
nelle virtù dei protagonisti, che nei fattori economici e politici. Anche lo schema retorico della sy
´nkrisis – già impiegato da Sallustio (è celebre la comparatio tra Cesare e Catone nel Bellum
Catilinae) mira a educare il lettore. L’intento morale è enunciato in particolare nella Vita di Emilio
Paolo, dove l’autore dichiara di volere uniformare il proprio comportamento a quello dei personaggi
presentati, guardando nella storia come in uno specchio. In questa prospettiva etico-pedagogica le
Vitae hanno una funzione paradigmatica e i personaggi assumono la fissità dell’archetipo
psicologico e morale (éidos). Un secondo intento dell’autore era di mostrare la complementarità tra
mondo romano e greco, la compatibilità di Roma dominatrice e della Grecia educatrice,
valorizzando le differenze tra le due civiltà ormai congiunte, ma distinte: «La formula delle Vite che
introduce il doppio principio di una corrispondenza e anche di una opposizione, esprime appunto
l’ambivalente senso della continuità culturale che collega Roma con la Grecia, e però anche della
indipendenza con cui i Greci consideravano quel passato che era una eredità esclusivamente loro»
(D. Del Corno).

Il ritratto di Cesare.

Riportiamo dalla Vita di Cesare il paragrafo 17. Chi suscitò e coltivò questa risolutezza e
questo spirito di emulazione nelle sue truppe fu Cesare stesso. Egli anzi tutto elargì senza
risparmio danaro e beneficenze. Così dava a vedere di non voler ricavare dalle campagne di
guerra ricchezze che servissero al suo lusso e al suo benessere personale, ma tutto metteva da
parte e conservava per premiare chiunque compisse un atto di valore; la sua parte di ricchezza
consisteva in ciò che dava ai suoi soldati meritevoli. In secondo luogo si sottopose
spontaneamente ad ogni loro rischio e non si sottrasse a nessuna delle loro fatiche. Che amasse
il pericolo, non stupiva i suoi uomini, perché sapevano quant’era ambizioso; ma la sua resistenza
ai disagi, superiore alla forza apparente del suo corpo, li sbalordiva. Cesare era di costituzione
fisica asciutta, di carnagione bianca e delicata; subiva frequenti mal di capo e andava soggetto
ad attacchi di epilessia: la prima manifestazione l’ebbe, pare, a Cordova. Eppure non sfruttò la
propria debolezza come un pretesto per essere trattato con riguardo; al contrario, fece del
servizio militare una cura della propria debolezza. Compiendo lunghe marce, consumando pasti
frugali, dormendo costantemente a cielo aperto, sottoponendosi ad ogni genere di disagi,
sgominò i suoi malanni e serbò il suo corpo ben difeso dai loro assalti. Si coricava la maggior

298
parte delle notti su qualche veicolo o nella lettiga, sfruttando il riposo per fare qualcosa. Durante
il giorno si faceva portare in visita alle guarnigioni, alle città, agli accampamenti ed aveva seduto
al fianco uno schiavo che era abituato a scrivere sotto dettatura anche in viaggio, e dietro, in
piedi, un soldato con la spada sguainata. Viaggiava così rapidamente, che la prima volta partì da
Roma e compì il viaggio fino al Rodano in otto giorni. Cavalcare era sempre stato facile per lui
fin da bambino; sapeva persino mantenersi in sella col cavallo spinto a grande carriera, tenendo
le mani riunite dietro il dorso. Durante la campagna militare in Gallia si esercitò inoltre a
dettare lettere mentre cavalcava, e a tenere testa contemporaneamente a due scrivani, dice Oppio,
o anche più. Si narra anzi che Cesare sia stato il primo ad usare la corrispondenza per tenersi in
contatto coi suoi amici, quando la massa dei suoi impegni e l’estensione di Roma non gli
consentivano d’incontrarli di persona per discutere affari urgenti. A dimostrare quanto poco
esigente fosse in tema di vitto, si cita di solito questo episodio. Un suo ospite, presso cui mangiava
a Milano, Valerio Leone, mise in tavola degli asparagi conditi con mirra, anziché con olio.
Cesare li mangiò tranquillamente e rimbrottò i suoi amici che si sentivano offesi. «Bastava»
disse «che coloro a cui non piacevano non se ne servissero. Chi si lamenta di una zoticaggine
come questa, è uno zotico anche lui». Un’altra volta, mentr’era in viaggio, una tempesta lo
costrinse a riparare nella capanna di un poveraccio; come vide che si componeva di non più di
una stanza, capace d’ospitare a mala pena una sola persona, disse, rivolto agli amici: «Gli onori
spettano ai più potenti, ma le comodità ai più deboli» e impose ad Oppio di riposare lui
nell’interno, mentre egli dormì con gli altri sotto la gronda, davanti alla porta.

299

Potrebbero piacerti anche