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Manuale Provero Vallerani riassunto dettagliato

Storia medievale (Università di Bologna)

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MANUALE

Introduzione

Furono gli umanisti ad inventare il concetto stesso di medioevo: ovvero un’età di mezzo che si
frapponesse fra loro e l’età classica. Il giudizio era prettamente negativo in quanto l’ideale politico
dell’umanesimo era lo Stato, mentre il Medioevo vide nel corso dei secoli una costante
frammentazione dei poteri, soprattutto durante gli ultimi due secoli.
Il termine è dunque una convenzione, che può essere tuttavia utile se ci permette i comprendere
meglio il passato. Nessuno può pensare che il millennio medievale consista in una civiltà omogenea
e compatta. È comunque utile perché permette di identificare un periodo della storia che si frappone
tra due epoche di enorme cambiamento nella vita associata: la caduta dell’impero romano e la
formazione dell’Europa moderna.
Possiamo considerare la fase dal IV al VI secolo come una fase di trasformazione. Cambiarono le
fedi religiose e la distribuzione della popolazione in Europa e nel Mediterraneo, i sistemi politici e
le forme della circolazione economica. Il cristianesimo si era diffuso nei territori dell’impero, ma
nel corso del IV secolo compì un salto di qualità: l’editto di Costantino nel 313 e il riconoscimento
come religione ufficiale nel 380 trasformarono il cristianesimo da religione minoritaria a culto
dominante.
Negli stessi decenni gruppi sempre più numerosi di persone di origine straniera (dunque barbara) si
stanziarono all’interno del dominio dell’impero, venendo riconosciuti e accolti nell’esercito. Nel
secolo successivo i gruppi presero il potere in diversi settori dell’impero occidentale, formando i
regni romano-germanici, mentre la parte orientale dell’impero conservò molte forme del potere
imperiale. Questa rottura trasformò i meccanismi economici: il prelievo e la redistribuzione delle
tasse era il sistema principale di circolazione economica, e continuò a funzionare anche dopo la fine
dell’impero d’Occidente ma con questo si interruppe l’interdipendenza tra le regioni come si era
fissata fino a quel momento.
La vita associata del VI secolo era completamente diversa rispetto a due secoli prima: si rispondeva
a poteri diversi, si erano diffuse nuove lingue, si credeva in un Dio diverso, si utilizzavano oggetti
di produzione locale e le città erano più piccole. Individuare una data a cui far risalire tutti questi
cambiamenti è un’operazione che dipende dalla lettura dello storico: il 476 privilegia una lettura che
crede che il motivo principale fosse la fine delle istituzioni più alte, il 410 (sacco di Roma dei
Visigoti) l’analisi ricade sull’ambito etnico-militare, il 324 (fondazione di Costantinopoli) evidenzia
i quadri territoriali e istituzionali, il 313 (editto di Milano) si concentra infine sul mutamento
religioso.
Non è mai il fatto a determinare il mutamento strutturale, ma è il mutamento strutturale a
manifestarsi nel fatto singolo. Questo quadro non intende offrire l’immagine di una transizione
morbida e pacifica, furono secoli di grandi conflitti e saccheggi, oltre che persecuzioni religiose.
Questi eventi non erano nuovi alla storia di Roma, ma queste furono speciali perché portarono alla

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fine dell’impero romano e alla frammentazione di questo in nuovi poteri come i regni inglesi,
romano-germanici, impero bizantino, e regno franco.

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L’IMPERO CRISTIANO

Gli ultimi secoli dell’impero romano vengono ora considerati come un periodo di complesso e
innovativo equilibrio tra la dimensione regionale dell’impero e le istanze del governo centrale, tra la
penetrazione di nuove popolazioni e nuove forme religiose.
Per capire il medioevo bisogna capire il tardoantico, dunque studieremo le strutture di potere e
prelievo, il ruolo dell’esercito e della sua componente barbarica, il mutamento religioso a partire dal
IV secolo, con la cristianizzazione dell’impero e l’avvento della figura del monaco cristiano.
Le fonti sono poche e non esistono fonti barbare che possano dare conto del conflitto culturale tra
romani e barbari, dunque anche le ricostruzioni storiche che ne derivano soffrono di influenze
ideologiche.

Il sistema imperiale tardoromano: poteri e prelievi

L’impero tardo antico inizia a partire dal II secolo d.C, in seguito al termine dell’espansione militare
romana che stabilizzò i suoi confini nel limes del Reno e del Danubio. Studieremo ora gli aspetti
fiscali e militari, che influirono molto sulle popolazioni barbare, ovvero quelle esterne all’impero.
Le varie popolazioni dell’impero erano coordinate da una straordinaria macchina statale, fiscale e
militare. Questo sistema entrò in crisi nella seconda metà del III secolo per via di lotte per il trono
che portarono a continue successioni e alla presenza di più imperatori contemporaneamente.
L’ordine fu ristabilito da Diocleziano, che a partire dal 285 cominciò a condividere il potere con
Massimiano, durante il periodo della diarchia, che non incluse una divisione territoriale del potere
ma una condivisione delle responsabilità. Diocleziano agiva in Oriente, mentre Massimiano in
Gallia. Nessuno dei due risiedette a Roma e questa cominciò a perdere il carattere di unica capitale
dell’impero. La diarchia divenne una tetrarchia quando i due cesari vennero affiancati dai due
augusti, come loro collaboratori e successori naturali. Ancora non veniva messa in discussione
l’unità dell’impero ma i poteri cominciano ad assumere maggiore connotato territoriale. Lungo il IV
secolo ci furono spesso due imperatori.
Due eventi furono la svolta per Roma: la fondazione di Costantinopoli, e il regno di Teodosio con la
sua successione. Sull’antica città di Bisanzio Costantino diede l’ordine di fondare una nuova città a
cui diede il nome di Costantinopoli, di cui tenne la dedicatio nel 330. Si trattava di una città di
residenza imperiale, nulla di nuovo per Roma, ma stavolta la città appena fondata era dotata di un
senato, che era sempre stato il simbolo del potere di Roma come capitale. Per il momento si trattava
di un’appendice del senato della capitale, ed era formato dai senatori più vicini alle questioni
riguardanti il Mediterraneo orientale.
La maturazione di Costantinopoli come capitale fu resa possibile dalla distinzione tra impero
occidentale e orientale avvenuta nel corso della successione a Teodosio I nel 395. Teodosio prese
atto che per far fronte alle minacce militari mosse a zone così diverse fra loro si era resa necessaria
la presenza dell’imperatore, dunque era necessario che si procedesse a dividere il potere e assegnare
ad ogni sovrano un territorio di dimensioni più contenute. Arcadio e Onorio ottennero
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rispettivamente l’Oriente e l’Occidente. È dunque tra il IV e il V secolo che si può cominciare a


parlare di impero orientale.
L’impero aveva bisogno di un afflusso continuo di denaro per fare fronte ai tre principali capitoli di
spesa: la burocrazia con cui si controllava ogni angolo dell’impero, la capitale che doveva garantire
cibo gratuito o a prezzo ridotto ai cittadini liberi di Roma, e l’esercito dato che era stipendiato.
Queste spese erano sostenute grazie ad un sistema di prelievo fiscale capillare di cui l’imposta
principale era l’annona, che gravava sulle popolazioni rurali in base all’estensione delle terre sia al
numero di contadini presenti su di esse. La popolazione urbana era invece esentata, anche se
venivano tassati i cittadini che possedevano beni fondiari nelle campagne, ma soprattutto le città
avevano un ruolo fondamentale nel prelievo fiscale poiché i curiales (i membri dell’assemblea
cittadina) erano incaricati di riscuotere l’imposta nel territorio circostante e girarla all’apparato
imperiale. I curiales dovevano intervenire in prima persona in caso di mancato pagamento o ritardo,
e questo rendeva tale occupazione molto onerosa, dunque veniva espletata da una élite media
cittadina e non dall’aristocrazia.
Questo sistema di circolazione economica attraversava tutta l’Europa. Dunque le abbondanti
produzioni cerealicole dell’Egitto e del Nord Africa serviva a sostenere sia l’immensa popolazione
di Roma (un milione di abitanti in periodo di massima espansione) sia gli eserciti che si
concentravano in aree meno fertili come il limes del Reno e del Danubio. La circolazione
economica tra le sponde del mediterraneo era di tipo fiscale e non commerciale.
Lo scambio commerciale invece si sviluppò su questa base: garantire l’efficacia del sistema fiscale
rese necessario investire in infrastrutture e sicurezza dei viaggi, cose che posero le basi per lo
sviluppo dello scambio commerciale. La peculiarità dell’impero in questa fase era l’interdipendenza
economica di alcune regioni anche lontane fra loro. La fine dell’espansione militare portò alla fine
di una crescita economica che si basava principalmente sui bottini di guerra e sull’importazione di
manodopera servile nelle figure dei prigionieri di guerra. La servitù smise di essere alla base del
sistema produttivo. Le spese militari non furono comprimibili in quanto diverse popolazioni
premevano contro il limes, dunque si attuò una strategia inflazionistica: incassare moneta per poi
fonderla e rimetterla in circolo in numero superiore, riducendo al tempo stesso il metallo prezioso
contenuto nelle singole monete. Cambiò anche la relazione dell’Italia con le province, la prima
diventò infatti sempre meno influente dal punto di vista produttivo, e divenne invece un luogo di
consumo dei beni provenienti dalle province. la circolazione economica si strutturava dunque come
un afflusso di beni dalle province al centro. Uno dei centri principali era Cartagine, come
produzione agricola e artigianale destinata a Roma, e l’Egitto che produceva per Costantinopoli.

L’esercito il limes e i barbari

L’esercito era stipendiato e pagato con le tasse pagate dai grandi proprietari affinché ai propri coloni
fosse permesso di non arruolarsi. La struttura era ampia per via delle continue pressioni sui confini
e delle ricorrenti guerre civili tra imperatori. Nel IV secolo l’esercito si divise in due settori: i
comitatenses, la forza mobile incaricata di accompagnare l’imperatore, e i limitanei, le guarnigioni

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poste a difesa del confine. Il limes è una struttura chiave perché è dove si instaurò il rapporto tra
Roma e i barbari. Si tratta della linea che seguiva il corso del Reno e del Danubio tagliava il
continente da nord-ovest a sud-est. Linea è una definizione imperfetta: il limes era costellato di
fortificazioni ma non del tutto, non esisteva una linea definita che separasse in maniera netta il
mondo romano dal mondo non romano. Il limes è più che altro una fascia di incontro e scambio tra
popolazioni dell’impero e quelle esterne. Non tutte le zone erano ugualmente romanizzate
nell’impero, così come non tutte le zone barbare erano estranee all’influenza di Roma. Infatti le
popolazioni barbare del limes erano simili alle parti periferiche dell’impero e le differenziava solo
la mancanza di sottomissione nei suoi confronti.
La definizione di barbari era usata per indicare i non-romani, tacito utilizza anche il termine
germani, ma anche questo termine è problematico perché al tempo nessuna tribù si sarebbe mai
identificata col termine “germanica”. I diversi gruppi potevano pensare sé stessi come Goti, seguaci
di Alarico o Ripuari, ma sono tre tribù diverse che non hanno niente a che fare l’una con l’altra.
Dunque sarebbe meglio utilizzare il termine barbari perché almeno questi popoli sapevano a cosa
questo termine si riferiva.
Recenti studi medievistici europei e in particolare austriaci hanno rinnovato molto l’approccio
storiografico alla questione dell’identità di questi popoli, chiedendosi come questi si percepissero.
La domanda riguarda l’etnogenesi, ovvero il momento genetico dell’identità di questi popoli. Si
scopre che questo è l’esito di un processo continuo e sempre messo in discussione. Questo vale per
ogni momento storico ma in particolare per questi popoli poco strutturati che vivevano fuori
dall’impero romano. I popoli germanici erano composti da piccole tribù ed erano solamente queste
ad essere oggetto di identificazione da parte degli individui. Durante i periodi militari più intensi
queste tribù si legavano sotto un unico capo militare. Non si trattava dunque di gruppi omogenei
sostenuti da alleanze ereditarie o legali, ma gruppi estremamente mobili che si sfaldavano a seconda
dell’abilità del re nel condurre guerra.
I barbari venivano accettati all’interno dell’esercito romano poiché questo era non solo sempre in
cerca di soldati ma era anche disposto a promuovere i meritevoli indipendentemente dall’etnia
dell’individuo. L’inclusione nell’esercito romano aiutò l’etnogenesi dei barbari poiché permise a
questi di entrarvi in gruppi già formati e persino mantenere il proprio capo. Questo aumentò la
solidarietà dei gruppi e rese possibile rafforzare l’identità del popolo barbaro, poiché nell’esercito le
etnie barbare erano qualcosa di molto più definito di quanto non lo fossero nei regni barbari stessi.
In generale l’inserimento dei barbari nell’esercito non si limitò ai piani bassi ma portò diversi
condottieri stranieri a ricoprire i massimi ruoli militari, come i casi di Arbogaste e Stilicone.
La crescente penetrazione di popolazioni barbare nel territorio romano dipendeva dalla pressione
posa dagli Unni sull’Europa orientale, che scatenò una serie di migrazioni tra cui quella dei visigoti
contro il limes del Danubio, a cui Roma rispose concedendo a questo popolo un massiccio
stanziamento all’interno dei territori romani nel 375.
I visigoti si impegnarono presto in saccheggi nei Balcani, inducendo l’imperatore Valente ad
attaccarli, ma la battaglia di Adrianopoli del 378 si rivelò un disastro per Roma, e si concluse con la
morte dell’imperatore. Da questo evento si cominciò a trattare i gruppi militari barbari

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diversamente, e si cominciò a impedire che i loro capi potessero salire di grado nell’esercito
romano. Questo però non avvenne subito, in quanto il successivo imperatore Teodosio stabilì un
foedus con i visigoti e accogliendoli nell’esercito in gruppi compatti guidati dai loro comandanti.
Questa tendenza si definì in Oriente ma non in Occidente, troppo debole per attuare riforme così
forti. Sono gli anni in cui si definisce la frattura fra Oriente e Occidente, fino alla spartizione
dell’impero fra i figli di Teodosio. Il primo decennio del V secolo è importante perché vede una
intensissima attività e mobilità militare di compagini difficilmente identificabili come romane o
barbare, poiché queste ultime erano ormai già inquadrate nel sistema militare romano, che si
muovevano o per conto dell’imperatore o di spontanea iniziativa. In ogni caso il limes romano perse
efficacia e negli anni 406 407 diversi gruppi armati riuscirono ad entrare nel territorio imperiale.
L’esito fu il sacco dii Roma del 410, la violazione del centro reale dell’Impero che da secoli nessun
nemico aveva mai colpito. Questo evento fu il culmine di un processo che stava determinando una
riduzione della capacità di azione dell’imperatore, in particolare nei settori settentrionali della
Gallia. Questo processo può considerarsi d’avvio alla formazione delle civiltà romano-germaniche.
Seguiamo tre capi militari barbari che agirono in direzioni molto diverse:
• Arbogaste era un franco che alla fine del IV secolo ricopriva la funzione di comandante supremo
dell’esercito romano dell’impero d’Occidente, sotto Valentiniano II; nel 392 si ribellò
all’imperatore e lo uccise e fece incoronare al suo posto Flavio Eugenio, un altro funzionario
dell’impero. Gli si contrappose Teodosio che nel 394 uccise Arbogaste ed Eugenio.
• Stilicone era un vandalo che negli anni successivi assunse le stesse funzioni di Arbogaste sotto
Onorio il figlio di Teodosio. Difese l’impero con successo contro i Visigoti di Alarico a Pollenzo
nel 402 e contro le armate di Radagasio a Fiesole nel 406. Questa vittoria tuttavia lasciò aperto il
campo ai popoli che tra il 406 e il 407 valicarono il Reno. Stilicone fu accusato di tradimento e
ucciso a Ravenna nel 408.
• Alarico era il re dei Visigoti ma al contempo era stato nominato comandante degli eserciti romani
nell’Illirico. Nel 396 guidò la ribellione del suo popolo schiacciato tra gli Unni e l’impero
d’oriente. Costantinopoli indusse Alarico a tentare uno spostamento verso l’Italia dove fu
sconfitto da Stilicone e fu reinserito nei quadri dell’esercito romano. Nel 409 durante le guerre
civili combattute in Occidente Alarico condusse le sue truppe a Roma e la assediò ottenendo un
grosso pagamento, per poi l’anno successivo entrare in città e saccheggiarla. Fu da questi
movimenti che ebbe origine il regno visigoto.

Tutti e tre erano comandanti dell’esercito romano ma ognuno lo era per seguire le sue ambizioni.

La cristianizzazione dell’impero

Per comprendere la cristianizzazione dell’Impero è necessario tenere presente un’idea di pluralità.


• Paganesimi, la religione romana di questi secoli non si limitava ai culti tradizionali ma si era
arricchita di spunti religiosi provenienti dalle regioni sottomesse, tra cui soprattutto i culti salvifici
che garantivano ai fedeli la vita ultra terrena.

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• Pluralità di questi stessi culti salvifici perché il cristianesimo non fu l’unica religione a professare
la vita dopo la morte.
• Pluralità dei cristianesimi perché le sacre scritture avevano lasciato il campo aperto a
interpretazioni teologiche diverse che lungo i primi secoli del medioevo furono al centro di
conflitti molto aspri.
• Pluralità dell’istituzione ecclesiastica, poiché per tutto l’alto medioevo non si può parlare di una
centralità papale ma di una superiorità del vescovo di Roma più che altro in termini di prestigio,
in quanto successore di Pietro, la struttura portante dell’organizzazione ecclesiastica era invece
costituita dalle singole sedi vescovili.
La cristianizzazione non fu semplicemente la diffusione della religione cristiana ma la conversione
alla regione delle strutture di potere, l’adozione del cristianesimo come religione ufficiale e
ideologia fondante del potere imperiale. L’impero divenne cristiano nel IV secolo quando ancora il
cristianesimo era religione minoritaria.
Il punto di partenza per l’analisi di questo fenomeno sono le persecuzioni del III secolo, portate
avanti dall’imperatore Decio (salito al trono nel 250). Le persecuzioni furono un elemento di novità,
rispetto alla tradizionale tolleranza religiosa romana e furono prima di tutto espressione di una
trasformazione del potere imperiale, che si evolse in una esaltazione della figura dell’imperatore.
Un mutamento radicale si ebbe nel 303-304: nel giro di poco tempo si arrivò alla libertà di culto per
i cristiani, cosa che portò entro la fine del secolo il cristianesimo a diventare la religione ufficiale
dell’impero. Le tappe sono 3:
313 Editto di Milano.
325 Editto di Nicea.
380 Concilio di Tessalonica.
Queste non sono tappe della diffusione della religione ma del rapporto di questa con il potere
imperiale. L’editto di Milano è un evento molto noto ma di cui l’esistenza è incerta. Dopo la vittoria
su Massenzio Costantino si limitò a confermare e porre in atto un decreto di Galerio di 311 che
poneva fine alle persecuzioni e garantiva libertà di culto ai cristiani. Costantino viene dunque
ricordato come colui che ha posto in atto il nesso fra cristianesimo e potere imperiale. La
promozione della religione cristiana a religione imperiale derivò da esigenze ideologiche
dell’impero, ovvero di riunire la frammentazione religiosa entro un fondamento che potesse al
tempo stesso legittimare il potere imperiale. La scelta cadde sul cristianesimo perché rispondeva ai
criteri di ricerca dell’impero: religione salvifica con connotazione moralistica che puntasse allo
sviluppo dell’individuo.
Il concilio di Nicea è il momento fondante del credo cristiano, in quanto qui i vescovi condannarono
la tesi di Ario che diceva che Gesù il figlio era inferiore al padre invece di condividerne la sostanza.
Questo punto era fondamentale per assicurare al cristianesimo il suo carattere salvifico.
Il concilio di Nicea fu convocato da Costantino: un imperatore non ancora battezzato cercava di
risolvere una questione teologica. Il suo fine era costituire una religione coesa e unitaria, priva di
divisioni e che potesse fungere come religione ufficiale dell’impero. Si affermò così la centralità del
concilio, ovvero l’assemblea dei vescovi come luogo di elaborazione teologica, e dell’impero come

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tutore dell’equilibrio interno della chiesa. Questo portò alla contrapposizione tra cristianesimo e
arianesimo, che si diffuse rapidamente entro le popolazioni barbare durante il IV secolo. La forza di
coercizione dell’impero si fermava però al limes e nulla poteva sulla diffusione in terre straniere. Il
pieno consolidamento della religione cristiana va individuato nell’editto di tessalonica del 380. Con
cui l’imperatore Teodosio ordinò ai sudditi di adottare il cristianesimo, dando inizio alla repressione
delle forme religiose eretiche. Seguì la conversione di massa dei ceti più ricchi.

Vescovi e monaci

Non bisogna pensare che la chiesa cristiana del IV V secolo fosse una organiizzazione unitaria
come una chiesa universale. La struttura portante era la diocesi, ovvero la comunità cristiana di una
città, presieduta dal vescovo. Questo ruolo venne assunto dall’autorità senatoria convertitasi al
cristiianesimo in seguito all’editto di Milano, e dopo la caduta di Roma furono questi vescovi
aristocratici a conservare i modelli istituzionali romani e mediare tra questi e le pretese di dominio
dei nuovi germani. Al di sopra dei vescovi non vi era una struttura unitaria: tra il IV e V secolo si
affermarono alcune città maggiori definite come sedi patriarcali, come Roma, Costantinopoli,
Antiochia, Alessandria d’Egitto e Gerusalemme. La superiorità del patriarca era solamente di
prestigio e di coordinamento, che si rivelò nondimeno efficace tra il V e VII secolo, periodo di
grandi dibattiti teologici di cui le sedi episcopali divennero i punti di riferimento. Roma divenne il
centro della chiesa solo dopo una lunga elaborazione che si concluse nel XI secolo, durante la
grande riforma gregoriana.
La chiesa era plurale per quanto riguarda la gerarchia e non solo le differenze dottrinali. L’unità di
inquadramento più efficace era la diocesi, da cui partì la creazione di diverse chiese sotto la
direzione del vescovo, nelle quali si sarebbe dovuto completare l’opera di evangelizzazione. Si
trattava di luoghi di scambio culturale in cui emersero modalità di venerazione miste a quelle
precedenti e dunque pagane, invece di essere un evento unidirezionale.
L’evangelizzazione si estese anche verso il limes, e se le popolazioni germaniche videro questo
sotto forma di arianesimo, nelle isole britanniche come Scozia e Irlanda (mai appartenute
all’impero) e Inghilterra, soggetta ad una rapida deromanizzazione già a partire dal V secolo, il
cristianesimo si diffuse in maniera peculiare: in Irlanda ci sono fonti che attestano l’esistenza di un
nucleo cristiano già nel 431, mentre in Inghilterra dopo la conquista anglo-sassone le chiese
vennero messe ai margini per poi ritornare nel VI secolo sotto l’influenza di missioni provenienti
dall’Irlanda e dal continente.
In Irlanda vediamo un cristianesimo diverso da quello continentale: quello monastico. L’origine di
questo modo di vivere la fede religiosa ha origine nel mediterraneo orientale, nel IV secolo. Il
monachesimo esisteva già in altre religioni, e consisteva nel ritiro dal mondo per cercare un
migliore contatto con l’Essere supremo. Tale metodo si costituisce anzitutto come una rinuncia, e
nel caso particolare del cristianesimo la rinuncia è accompagnata dalla penitenza.
La base ideologica della scelta del monachesimo era che questo era un ritorno ad una forma di vita
religiosa estrema e controcorrente, in un periodo in cui il cristianesimo era diventato la religione

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principale e ideologia ufficiale dell’impero. Questo tipo di monachesimo era basato su pochi
elementi teorici fondamentali, e più sull’inclinazione individuale a rivolgersi a Dio, l’ascesi
personale, il perfezionamento del singolo. Le pratiche monastiche avevano elementi in comune:
allontanamento dalla società, propensione all’autosostentamento, e un rapporto continuo con le
sacre scritture. Queste caratteristiche racchiudono forme estremamente variegate dell’esperienza
monastica, a partire dalla più generale tra eremiti (coloro che si ritiravano in solitudine) e cenobiti
(che si riunirono in una comunità chiamata cenobio). Gli eremiti erano molto diffusi in Siria e in
Egitto nel IV secolo, ed erano persone che si ritiravano in luoghi molto isolati ma estremamente
appariscenti, in modo da poter ostentare un esempio che lasciasse il segno nella società. Si
mantenevano attraverso l’afflusso di elemosine che ricevevano dai fedeli. La vita monastica
cenobitica fu una risposta all’esigenza di una vita religiosa più intima e meno esibita, e fu elaborata
da Pacomio nel IV secolo in Egitto. Tale comunità imponeva l’attribuzione di una regola e la
sottomissione all’autorità dell’abate. Il risultato sarebbe stato quello di garantire il controllo
reciproco dei monaci e il perfezionamento del metodo di ascesi. Basilio di Cesarea elaborò
un’ampia precettistica per i monaci, rivolta ai monaci, che includeva fra le altre cose la
collaborazione del vescovo con l’abate e l’assistenza in favore dei cittadini più deboli.
L’importazione nel mondo occidentale fu precoce: a partire dalla fine del IV secolo arrivò in Italia
con San Gerolamo, in Tunisia con Sant’Agostino e in Francia con San Martino. Tuttavia questa
diffusione deve essere collocata nel contesto di una deromanizzazione e la costituzione dei regni
romano-germanici.

Barbari e regni

La caduta di Roma è stata spesso trattata rivolgendosi solamente agli sconvolgimenti militari
derivati dalle invasioni barbariche. Il mutamento tuttavia non riguardò solamente quell’ambito, ma
anche le forme di vita dei cittadini e la circolazione economica, e soprattutto avvenne in un arco di
tempo molto ampio, dal IV al VI secolo. L’espansione dei germani in territorio romano era iniziata
molto tempo prima delle invasioni che condussero alla caduta dell’Impero, e inoltre queste non ne
furono nemmeno l’unica causa.

Mobilità degli eserciti

Nel corso del V secolo il limes del Reno si infranse dando molto terreno a nuove forze fino ad allora
rimaste ai margini. Questo evento non fu casuale ma espressione di una crisi strutturale
dell’esercito: l’impero non riceveva risorse sufficienti per mantenerlo e questo di conseguenza si
rivolgeva al bottino e a iniziative non concordate con l’impero per ottenere bottino e fama. Questa
crisi dell’esercito dunque portò al frequente spostamento di eserciti germanici in cerca di ricchezze,
che a sua volta portò allo scoppio di molti conflitti medi e piccoli. In questo contesto le gerarchie
sociali divennero più fluide consentendo rapide carriere in un certo senso inedite nella cultura
romana.
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Nonostante la situazione caotica alcuni popoli riuscirono a costituirsi come regni autonomi e coesi,
che mantennero la loro identità per generazioni fino a costituire regni curatori con una chiara
fisionomia territoriale. I visigoti furono uno di questi popoli, dopo il saccheggio di Roma del 410 si
spostarono nel sud della Francia (414-418) come regno federato dell’impero ma di fatto
ampiamente autonomo, per poi spostarsi di nuovo nel sud della penisola iberica dove restò per tre
secoli.
Negli stessi secoli si ha la migrazione dei vandali che valicarono il limes romano e attraversando la
Gallia si stanziarono nella penisola iberica nel 417. Nel 429 si spostarono poi in Africa romana
occidentale per conquistare 10 anni dopo la proconsole e la Byzacena (tra Algeria e Tunisia), dove
regnarono per un secolo. I vandalo furono il primo popolo a trasformare il potere militare in un
potere strutturato e pienamente autonomo. Si trattava di un regno che prescindeva da qualsiasi
inquadramento imperiale, nemmeno il foedus imperiale. Furono i primi cioè a non contrattare con
Roma e ad affermarsi come aristocrazia fondiaria dominante.
Gli unni erano invece una popolazione poco strutturata che trovò unità d’azione sotto la guida di un
abilissimo capo militare, il re Attila. Già nei primi anni del V secolo gli Unni avevano costituito una
minaccia per l’impero, premendo contro il limes e al tempo stesso combattendo le battaglie di Roma
come mercenari. Nel 445 Attila prende il potere e guida il suo popolo in dure campagne interne
all’impero, venendo sconfitto da Ezio nel 451 nella battaglia dei Campi Catalaunici. Due anni dopo
Attila morì e gli Unni si disfecero: non avevano fatto il passo dal potere militare al potere
strutturato, come avevo fatto i Vandali. Dopo la morte di Ezio e dell’imperatore Valentiniano III nel
454 la via agli eserciti e ai loro saccheggi si riaprì, come nel caso del saccheggio del 455 da parte
dei Vandali. Durante il V secolo l’impero era operativo e il potere imperiale costituiva ancora
oggetto ambito da parte di diversi generali dell’esercito, in maggior parte barbari. Nonostante
questo è vero che tale potere cominciava a ridursi in quanto l’africa vandala era ormai del tutto
indipendente, i romani abbandonavano l’Inghilterra a partire dal 410 e la Gallia si sottraeva
progressivamente al dominio romano, prima solo la parte settentrionale e poi l’intera regione.
La deposizione di Romolo Augustolo nel 476 da parte del generale sciro Odoacre, fu solamente la
scelta obbligata che concluse un’epoca di continue successioni di imperatori fantoccio mossi da
generali. Il 476 passò inosservato, molto di più che non la battaglia di Adrianopoli o il sacco del
410.
La scelta di inviare le insegne imperiali a Costantinopoli mirava a ricompattare l’unità imperiale.
L’obiettivo di Odoacre era quello di coniugare un’ampia autonomia militare al riconoscimento
dell’impero, non si trattò di un colpo di stato poiché era ovvio che l’unico imperatore dotato di
effettivo potere fosse quello d’oriente. Tuttavia l’imperatore Zenone non ritenne Odoacre un alleato
a cui affidare tale compito, così fece in modo che l’Italia andasse nelle mani degli Ostrogoti di
Teoderico. Il controllo di Odoacre era comunque solamente l’Italia dato che ormai solo questa era
l’ambito di potere dell’imperatore di Occidente, che aveva perso il controllo di Gallia, penisola
Iberica e Africa. Nei decenni centrali del secolo, su esempio dei vandali si crearono diversi regni nei
territori dell’impero, governati da élite aristocratiche germaniche che non riconoscevano più
l’autorità imperiale.

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Alla fine del secolo V si riconosce una geografia politica delineata: l’italia per pochi anni fu nelle
mani di Odoacre, per poi essere conquistata dagli ostrogoti di Teoderico. La Gallia era per la
maggior parte nelle mani dei Franchi, con l’eccezione delle zone controllate dai Burgundi (a sud-
est, attuale Borgogna) e dai visigoti a sud della Gallia e della penisola iberica, in cui erano presenti
gli Svevi nell’attuale Galizia. I vandali controllavano la Tunisia e da qui la Sardegna, la Sicilia e la
Corsica. Le isole britanniche erano divise in molte dominazioni autonome, in parte nelle mani di
celti in parte invasori angli e sassoni.

I nuovi regni

Se si considera il quadro europeo tra V e VI secolo si nota un impoverimento della diversità


archeologica: gli oggetti ritrovati sono più semplici e modesti, ma al tempo stesso una
conservazione delle istituzioni politiche dell’impero, come se i regni fossero riproposizioni
regionali delle forme politiche dell’impero. Questo indica un cambiamento su entrambi i piani
fondato su uno spostamento degli equilibri su base regionale e sulla rottura dell’unità europea e
mediterranea.
La caduta dell’impero romano consegnò il potere all’élite militare germanica che conservò le
istituzioni politiche anche se in versione semplificata poiché rimaneva nella memoria come un
sistema efficace attraverso cui prelevare ingenti somme di denaro per finanziare le proprie attività.
Inoltre il modello politico romano era efficace poiché affiancato da consiglieri e vescovi e
funzionari di corifine romana, portatori di questa tradizione politica e amministrativa. Nacque un
sistema politico nuovo che rielaborò le forme provenienti dalla tradizione romana, con una nuova
centralità politica affidata alle assemblee, ovvero le riunioni dell’aristocrazia intorno ai re.
Questo fu comune ad ogni regno germanico ma ognuno di questi cambiava in base ad alcuni fattori:
• Maggiore o minore peso della aristocrazia romana ai vertici del regno.
• Le forme di retribuzione dell’esercito.
• Politica religiosa o incidenza della contrapposizione tra cristianesimo e arianesimo.
• Ruolo politico dei vescovi e azione in quanto consiglieri del re.
Il problema del prelievo delle tasse smise di essere tale per i regni romano-barbarici, in quanto per
l’impero lo era nella misura in cui serviva per mantenere le spese per lo stipendio dei militari, dei
burocrati e per approvvigionare la capitale. I germani non avevano questi problemi dato che non
avevano una capitale, avevano una burocrazia molto più agile e l’esercito era costituito da tutto il
popolo a cui l’élite veniva consegnata una ricompensa in terre e non in stipendi.
La conseguenza fu che i regni romano-barbarici rinunciarono a prelevare le tasse, rompendo il
meccanismo economico che aveva stabilito l’interdipendenza economica di regioni lontane nel
mediterraneo. Questo implicò una minore quantità di ricchezza per il re sia il declino delle funzioni
delle città sul piano fiscale e politico. Nel frattempo le aristocrazie rimanevano sottoposte
all’autorità regia.

Italia ostrogota

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Odoacre fondò un sistema di potere equilibrato ed efficiente, fondato su una piena collaborazione
con l’aristocrazia senatoria, a cui il re garantì il predominio economico e sociale tutelando le sue
enormi proprietà fondiarie e il controllo degli incarichi pubblici. Il carico fiscale destinato
all’esercito non aumentò. Di fatto l’Italia tra il 476 e il 489 continuò a essere un mondo dominato
un’amministrazione di stampo romano e protetto da un esercito germanico stipendiato grazie alle
tasse. Odoacre si definì patricius, collocandosi nella gerarchia romana, e Rex gentium, che
esprimeva il uso dominio non sull’Italia ma sull’insieme di popoli che costituivano il suo esercito.
Il regno di Odoacre fu invaso dagli Ostrogoti di Teoderico, ma questa impresa militare deve essere
intesa come un’iniziativa imperiale mossa dall’imperatore Zenone, che non approvava l’operato di
Odoacre in Italia. Dunque si affidò al popolo degli ostrogoti che da tempo premeva sul limes
italiano, alla guida di Teoderico, che a sua volta era stato ostaggio a Costantinopoli. Dal 474
Teoderico era al potere ed era stato un interlocutore importante di Zenone che lo appoggiò in guerre
civili e che aveva combattuto per stanziare la presenza territoriale degli ostrogoti. Era un
condottiero capace e che sapeva come mantenere gli equilibri tra funzionamento burocratici ed
esercito. Zenone voleva allontanarlo da Costantinopoli e avvicinarlo all’Italia.
489 invasione dell’Italia da parte degli Ostrogoti, a cui si unirono Rugi e Gepidi, in quanto
l’impresa prometteva grandi quantità di bottino. Le identità dei popoli erano quanto mai fluide,
determinate da interessi circostanziali, si faceva parte del popolo che si sceglieva di seguire, o con
cui si sceglieva di allearsi. Dopo alcune sconfitte Odoacre fu abbandonato dall’aristocrazia
senatoria e si rifugiò a Ravenna, dove resistette a lungo fino al 493, quando fu costretto ad
arrendersi e venne fatto giustiziare da Teoderico.
L’amministrazione rimase legata alle forme imperiali, mantenendo il sistema di prelievo delle tasse
e aggiungendo la possibilità di venire giudicati in base al diritto goto se si era goti (personalità del
diritto). Furono i goti a trasformare le proprie forme di vita, essendo passati da una posizione
marginale alla guida di un potere immenso come quello imperiale.
L’amministrazione veniva espletata dal re coadiuvato dal consistorium, un concilio ristretto di
romani e goti che includeva individui di grande livello culturale come senatori di fede cattolica o
filosofi. Nonostante 30 anni di stabilità e pace sotto il regno di Teoderico non fu raggiunta la
simbiosi fra goti e romani, ma solo una convivenza pacifica: i due popoli condividevano gli stessi
spazi ma svolgevano funzioni diverse.
Caratteristica fondamentale del regno di Teoderico fu la protezione delle chiese nonostante i goti
fossero ariani. In Italia si stava affermando il potere politico della chiesa e soprattutto del vescovo
di Roma, dunque la decisione di Teoderico di porsi a protezione di tutte le chiese del regno fu parte
integrante della strategia di stringere rapporti con l’aristocrazia romana. Nel 498 durante lo scisma
laurenziano in cui alla successione di Anastasio II salirono al soglio due papi, Simmaco e Lorenzo,
entrambi si rivolsero al re, dando prova di quanto questi fosse accettato come erede della continuità
dell’impero da parte della chiesa di Roma.
Teoderico, forte della stabilità interna del regno italico, espanse il suo potere al di là delle alpi verso
Pannonia, Dalmazia e Rezia, e tramite una politica matrimoniale si legò a Vandali, Franchi

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(sposando la sorella del re), Visigoti e Burgundi. Fu importante il rapporto coi visigoti che
occupavano il sud della Gallia, e che si trovarono a combattere i franchi di Clodoveo nella battaglia
di Vouillé nel 507, in cui quest’ultimo uccise il re visigoto Alarico II ponendo fine alle mire dei di
dominio dei visigoti in Gallia meridionale. In seguito a questo evento Teoderico assunse il ruolo di
protettore del figlio di Alarico II, Amalarico e così acquistò maggiore controllo sui visigoti.
La fine del regno di teoderico fu caratterizzato da persecuzioni religiose contro i cattolici parallele a
quelle contro gli ariani portate avanti in Oriente dall’imperatore Giustino a partire dal 518. Queste
persecuzioni furono tuttavia la conseguenza dell’allontanamento progressivo dell’aristocrazia
senatoria romana dal potere monarchico e un suo riavvicinamento all’impero. La guerra aperta
comincio solo alla morte di Teoderico nel 526.
Teoderico lasciò il potere ad Amalasunta come tutrice del nuovo re, il figlio Atalarico, che tuttavia
morì prematuramente nel 534, così la regina sposò il cugino Teodato per preservare il potere, ma
questo matrimonio diede risultati disastrosi in quanto i due coniugi scelsero due vie opposte:
Amalasunta la rappacificazione con Giustiniano, mentre Teodato la guerra. Prevalse la posizione del
marito che fece imprigionare la moglie per poi farla uccidere nel 535, dando il via ad un conflitto
militare che finì per riportare l’Italia all’interno dell’impero.

Anglosassoni, Vandali e Visigoti

Trattiamo altri tre regni germanici che si costituirono all’interno dell’impero, in Inghilterra,
Nordafrica e penisola iberica.

ANGLOSASSONI
Il domino romano non si era mai esteso sulle isole britanniche nel loro complesso ma solo nel sud
della Britannia. Tuttavia vale il discorso per i popoli esterni al limes del Reno, ovvero che
l’influenza romana si faceva comunque sentire anche in terre non romanizzate, come fu il caso di
iScozia e Irlanda. Nonostante questo la deromanizzazione iniziò già nel 410, quando i romani
cominciarono ad abbandonare le isole, e questo portò ad un impoverimento urbano e artigianale,
dunque economico. In seguito alla deromanizzazione si susseguirono una serie di invasioni da parte
della popolazione dei sassoni, provenienti dal nord dell’attuale germania, che portarono grande
instabilità all’interno della Britannia, portando alla formazione di una miriade di piccoli centri di
potere governati da un re e dall’aristocrazia che in molti casi non era molto più ricca del ceto più
povero della popolazione. Nella parte centro meridionale dell’isola vi era una divisione: parte
orientale vi erano anglosassoni, nella parte occidentale celtici. Questi ultimi vennero spinti ad
insediarsi nella scozia meridionale e nella parte sud occidentale della Britannia. La conquista
anglosassone portò alla riduzione dell’importanza della chiesa tanto da richiedere l’intervento di
una nuova evangelizzazione nel VI secolo per ordine del papa.
La rottura con le forme di governo romane ebbero una influenza molto pesante sul piano economico
e politico dato che le strutture alto medievali non si basarono su quelle ereditate dalla dominazione

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romana come avvenne per il continente. Tra il VI e VII secolo vi fu un tentativo di ricomposizione
del potere intorno ai regni maggiori di Northumbria e Mercia.
lo stesso discorso non vale per l’Irlanda che non soffrì delle invasioni sassoni e conservò le proprie
forme di governo, dato che non era nemmeno mai stata soggetta al dominio di Roma. L’isola era
connotata da un’estrema frammentazione politica, centinaia di centri di potere i cui re erano
incaricati di guidare il popolo obbedendo a norme che egli non poteva modificare. Per via di questa
frammentazione il processo di cristianizzazione avvenne più lentamente. Essendoci meno città
assunsero un ruolo centrale i monasteri, portando gli abati ad avvicinarsi alle funzioni di vescovi.

VANDALI
I vandali si insediarono nella penisola iberica nel 417 ma sotto la guida del re Genserico si
spostarono in Africa occidentale attraverso lo stretto di Gibilterra nel 429, per poi spostarsi 10 anni
più tardi verso la proconsolare e Byzacena, qui iniziarono diverse persecuzioni ai danni dei romani
cattolici, sia perché vandali erano ariani e anche per via delle grandi ricchezze della chiesa. Furono
il primo regno a non intrattenere alcun rapporto con Roma, ancora prima dunque dei Franchi e dei
Visigoti.
L’africa vandala rimase stabile economicamente, poiché rimase in vigore il sistema di prelievo
romano ma vennero meno i capitoli di spesa principali come la burocrazia l’esercito e la capitale, e
questo permise ai vandali di accumulare grandi ricchezze nel corso del loro regno. L’indebolimento
del sistema fiscale dell’impero portò ad una diminuzione della domanda che comportò a sua volta
un calo produttivo nell’africa vandala (maggiore produttrice di grano e olio), andando a ridefinire
gli equilibri economici all’interno della regione. Inoltre la solidità economica non comportò una
analoga stabilità militare, forse proprio per via della mancata integrazione dei popoli.

VISIGOTI
Tre fasi:
• V secolo si stanziarono tra il sud della gallia e penisola iberica.
• Prima metà del VI secolo persero il territorio a nord dei Pirenei contro i franchi.
• Seconda metà del secolo consolidarono la loro presenza nella penisola iberica.

I visigoti si stanziarono come federati nella parte meridionale della Gallia, presso Tolosa, e
condussero campagne militari per conto di Roma contro gli Svevi gli Alani e i Vandali nella
penisola iberica. proprio quest’area fu scenario della loro successiva espansione dal 456 al 480
mentre nella parte nord occidentale della penisola si attestarono gli Svevi. Il centro del domino
visigoto rimase la Gallia meridionale. Si dotarono di leggi scritte su base territoriale e destinate a
tutti i sudditi del re visigoto a prescindere dall’identità etnica.
Fino al VI secolo il regno visigoto si riavvicinò a forme di governo romane accompagnato però da
una regressione delle forme di circolazione economica che difficilmente riuscivano ad estendersi
oltre l’ambito regionale.

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Leovigildo nella seconda metà del VI secolo espanse il dominio dei visigoti a tutta la penisola
iberica, e pose come capitale la città di Toledo, sconfiggendo gli svevi e i bizantini. Sotto questo
sovrano vi fu anche una trasformazione sotto l’ottica religiosa: il sovrano capì l’importanza di una
religione forte che fungesse da ideologia del regno, ma allo stesso tempo non era praticabile la via
di imporre l’arianesimo, la religione originale del popolo visigoto, a tutta la penisola iberica.
Fu il figlio Reccaredo a risolvere la questione imponendo la religione cattolica che si diffuse molto
rapidamente, anche grazie alla scelta di designare Toledo come sede dei concilii del regno in cui si
disquisiva di questioni teologiche ma anche politiche, affermando la città come centro di unione tra
potere politico e religioso nella penisola iberica.

La simbiosi franca

I franchi furono il popolo che sviluppò la massima simbiosi tra la sua popolazione e quella romana,
finendo per dare origine ad un nuovo popolo, in grado di integrare e sviluppare diverse culture
politiche e non. Per questo motivo nel giro di due secoli i franchi si affermarono come il popolo più
potente d’Europa, che pose le basi per l’espansione carolingia.

1- Clodoveo
Clodoveo fu il primo re dei franchi, ma assunse questo ruolo solo dopo una lunga ascesa all’interno
dei territori in cui i franchi erano stanziati da tempo. Nel contesto del tardo Impero la Gallia era
scenario di una integrazione fra romani e celti, ma anche del dominio dell’aristocrazia senatoria
romana che si stava rivolgendo sempre di più alla Chiesa e alla funzione vescovile per via dei
vantaggi e del prestigio che derivavano da questa posizione. Il popolo franco che prese il potere in
Gallia nel corso del V secolo non era un popolo omogeneo, ma diviso in tribù, e soggetto ad un
lungo processo di romanizzazione prima di salire al potere. Dal punto di vista religioso i franchi
erano orientati per la maggior parte al paganesimo, a volta reinterpretato in ottica ariana. Il processo
di romanizzazione vide protagoniste tutte le tribù dei franchi, sia quelle che si insediarono nel
territorio romano che quelle che se ne tennero al di fuori, per esempio a tribù dei franchi salii si
stanziarono all’interno dell’impero a partire dalla metà del IV secolo, entrando a far parte
dell’esercito romano e combattendo quindi contro altre popolazioni barbare come quando si ruppe il
limes del Reno e si batterono contro Vandali e Alani. I franchi erano dunque una parte
importantissima dell’esercito imperiale, ma nei decenni centrali del secolo il ruolo dei franchi
assunse un rilievo molto maggiore, dato che il dominio imperiale si ridusse a partire dalla Gallia
settentrionale. Fu a questo pjunto che padre e figlio, re dei franchi di Tournai (dominazione della
Gallia) completarono l’unione dei franchi in un solo regno e la sottomissione di gran parte della
Gallia.
La prima figura fu Childerico I che condusse una campagna sotto la guida del figlio di Ezio, Egidio,
contro i Visigoti. Il merito di Childerico fu di connotare lo scontro in chiave religiosa, come una
lotta contro l’arianesimo, e questo gli valse un grande riconoscimento da parte dei gallo-romani e
dei vescovi.

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Nel 481 il successore di Childerico, Clodoveo, fu colui che conducendo una efficace politica
militare riuscì ad affermare il proprio controllo su Fran parte della Gallia, avendo la meglio su una
serie di dominazioni come i Burgundi in Borgogna, e i Visigoti dall’Aquitania alla Provenza. Dopo
la battaglia di Vouillé del 507 si affermarono definitivamente i Merovingi sulle popolazioni
germaniche della Gallia.
Dopo pochi anni ci fu lka conversione di Clodoveo e del suo popolo al cristianesimo, e ciò avvenne
in tempi brevi, senza causare contrapposizioni identitarie a base religiosa come nel caso degli
Ostrogoti e dei Visigoti. L’impatto della conversione ebbe effetti importanti sugli equilibri interni
del regno dei franchi come testimoniato alcuni decenni dopo da Gregorio di Tours, che parla della
conversione del re Clodoveo da parte di Remigio vescovo di Reims, che poi fu seguito da tutto
l’esercito e dal popolo.
Il re Clodoveo venne così da Gregorio accomunato a Costantino in quanto anche lui aiutato da Dio
sul campo di battaglia, portando grande legittimazione a Clodoveo, il quale trovò una alleanza
molto forte, che sarebbe durata a lungo nella storia franca, con l’episcopato.
L’integrazione tra gallo-romani e franchi non passò solo dall’alleanza tra potere regio e vescovile,
ma anche e soprattutto dalla creazione di un ceto sociale dominante unitario e capace di integrare
modi di vita sia romani che germanici. Se l’aristocrazia senatoria gallo-romana era molto interessata
ai latifondi al radicamento in città e all’occupazione delle cariche ecclesiastiche, i gruppi. Franchi
erano interessati alla guerra e al servizio del re. Lungo il VI secolo si creò un aristocrazia che seppe
impegnarsi in tutti questi fronti: combatteva e accumulava terre, era vicina al re, ma attenta a
radicarsi nelle città, tessera reti clientelari e occupava cattedre vescovili. L’aristocrazia era dunque
mista, che a sua volta diede vita ad istituzioni ibride, dunque del tutto innovative.

Le chiese franche e la diffusione del monachesimo in Occidente

I vescovi erano aristocratici ricchi in cui si concentravano le funzioni di salvezza delle anime e che
godevano della ricchezza derivante dai doni di chi cercava benevolenza per le proprie opere. Il
vescovo era il vertice della vita religiosa regionale. Inoltre il vescovo era portatore di cultura non
solo letteraria ma politica, in quanto era stata la chiesa a conservare le conoscenze istituzionali
dell’impero, di cui si servirono a piene mani i re franchi. Questo rese il re molto dipendente dai
vescovi. L’aristocrazia del VI secolo franca dunque univa la conoscenza delle istituzioni
dell’aristocrazia senatoria con la competenza militare di quella franca.
I vescovi non erano i soli individui religiosi importanti nel regno franco durante il VI secolo: anche
i monasteri si erano espansi nel regno, già dal IV secolo infatti si hanno notizie di monaci in terra
franca tra cui il più famoso è certamente Martino di Tours, figlio di un ufficiale dell’esercito
originario dell’Ungheria, che dopo aver prestato servizio militare in Gallia si fece monaco per poi

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venire ordinato vescovo di Tours, dove morì nel 397 circondato da una fama di santità. Questa
storia raccontata da Gregorio di Tours fa capire come nel IV secolo ancora monasteri e sedi
vescovili non erano separate anzi i vescovi venivano scelti tra i monaci, che dovevano godere di
origine aristocratica, capacità culturale e perfezione religiosa.
Ci furono molte esperienze monastiche prima della forma benedettina a partire da quelle di San
Gerolamo in Italia alla fine del IV secolo tra l’aristocrazia romana, oppure quella di Cassiodoro nel
suo vivarium, in cui si studiavano i classici.
La vita di Benedetto da Norcia ci è narrata da Gregorio Magno nei dialoghi, scritti mezzo secolo
dopo la morte di San Benedetto. Benedetto era nato a Norcia nel 480 e dopo aver studiato a Roma si
era ritirato in vita eremitica, poi cenobitica ed infine abbaziale. Fondò infine nel 529 il monastero di
Montecassino dove scrisse la regola prima di morire nel 547. La regola fu scritta dunque al termine
di una lunga esperienza nei monasteri, informata di tutte le difficoltà del caso, come quando
Benedetto fu costretto a fuggire da Tivoli perché minacciato di morte dagli altri monaci. La regola
non prevedeva gli estremismi della vita ascetica in voga in quel periodo e marginalizzava il lavoro
manuale a favore della preghiera. Ora et labora non compare nella regola, è solo una formula
riassuntiva del messaggio benedettino. La regola doveva essere interpretata dall’abate in base alle
sue esigenze e a quelle dei monaci, e non conteneva a questo scopo precetti rigidi ma principi
ispiratori come la centralità della preghiera e la moderazione nel cibo. La regola ebbe un grande
successo e diffusione ma non divenne il modello per ogni monastero occidentale fino all’XI secolo.
Inoltre non esisteva un’istituzione superiore benedettina che amministrasse tutti i monasteri; l’abate
non aveva alcuna autorità superiore a cui obbedire. L’ascesi eremitica era destinata solo ai monaci
più perfetti e scelti dall’abate, una tale organizzazione iniziò solo con l’XI secolo. Altra influenza
importante erano i monasteri irlandesi pieni di monaci di grande spinta missionaria come
Colombano che alla fine del VI secolo fondò diversi monasteri in Gallia per poi trasferirsi in Italia,
dove fondò l’abbazia di Bobbio, caratterizzato da una forte connotazione penitenziale. I monasteri
irlandesi ancora non erano dotati di organizzazione che li coordinasse, fino a quando tra l’VIII e XI
secolo i monasteri confluirono all’interno del modello benedettino.
La gallia del VI solo fu terreno fertile per i monasteri, che interagirono molto con l’aristocrazia
tramite donazioni di esponenti di quest’ultima per garantire la salvezza della propria anima, la
monacazione di nobili e la scelta di vescovi dai monasteri.

I regni e l’aristocrazia

La ragione della forza dei franchi rispetto agli altri regni europei fu la grande organizzazione che
l’aristocrazia riuscì a darsi attorno alla figura del re. Questo fu reso possibile da una interpretazione
dell’eredità romana adeguata alle nuove condizioni sociali, che diede come risultato la legge salica
del 510, che da un lato riprendeva la cultura romana della legge scritta e dall’altro si discostava
dalla tradizione imperiale per l’importanza data all’assemblea degli uomini liberi, il mallus, e dei
quattro grandi uomini di diritto eletti per stabilire le leggi, senza nominare il re e dunque non
accentrando il potere nelle sue mani.

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Il potere del re era un potere pratico, che si esercitava attraverso l’aristocrazia, che governava con i
comes, o conti, i vari distretti dal punto di vista giuridico, militare e fiscale. Questo tipo di
amministrazione distrettuale era un chiaro richiamo alla tradizione romana ma non diventò mai il
sistema capillare che era quello imperiale, ma rimase sempre uno dei diversi modi in cui re e
aristocrazia collaboravano e intessevano rapporti clientelari grazie ai quali il re poteva contare sulle
sue truppe armate (dette Trustis).
Il re era ricco ma non pagava l’esercito in stipendi, ma in terre, cosa che rese superfluo il prelievo
fiscale che venne abbandonato tra il VI e il VII secolo. Perciò i merovingi furono molto più poveri
dei loro contemporanei imperatori e re. Questo rendeva i re più dipendenti dal consenso
aristocratico e meno capaci di redistribuire ricchezze ai propri trustis. Nonostante questo erano i re
germanici più ricchi ed erano in grado di garantire rapporti clientelari favorevoli ai nobili, che si
riunirono intorno alla figura del monarca, senza creare però una dinamica di corte accentrata verso
una capitale, dato che il regno franco ne era privo. La nobiltà si riuniva presso il re nelle varie
residenze collocate nel nord della Gallia.
Se la tradizione germanica era di attribuire grandi poteri all’assemblea militare come l’elezione del
re o le decisioni legislative, questi poteri nel regno franco si attenuarono molto in favore della
mediazione aristocratica e del carattere dinastico della monarchia. Tuttavia le assemblee
dell’esercito non scomparvero, ma ottennero mandato di ratifica nei temi prima citati e
conservarono grande importanza nella pianificazione delle operazioni militari. Nacquero le
assemblee regionali intorno al conte, come occasione di deliberazione politica e giudiziaria oltre che
come ambito di risoluzione di conflitti locali.
La frammentazione del potere del regno franco derivò dalla dinamica della successione al trono, su
base dinastica. A partire dalla morte di Clodoveo nel 511. Di fatto tutta la storia franca del VI e VII
secolo è una vicenda di continue fratture e ricomposizioni del regno e solo in brevi periodi ci sono
re in grado di governare l’intero popolo franco. Si delinearono i fretta precise partizioni del
territorio: i regni di Australia (nord-est germanico), di Neustria (nord-ovest), Burgundia (sud-est),
Aquitania (sud-ovest). Inoltre le divisioni e le ricomposizioni avvennero sempre all’interno della
famiglia merovingia, tale era l’influsso della figura di Clodoveo. Nonostante queste difficoltà il
regno franco riuscì ad esercitare un’influenza indiretta anche sul mondo germanico come il ducato
di Tubinga e di Baviera, e in seguito sull’Italia longobarda. Solo alla fine del VIII secolo si ebbe la
piena affermazione di questo dominio con l’espansione carolingia.

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La rottura del mediterraneo romano

Il crollo del sistema economico, politico e militare dell’impero portò a ripercussioni significative
sulla circolazione economica nel mediterraneo orientale, ridotta ad una dimensione poco più che
regionale.

Produzioni e scambi in Occidente

I funzionamenti economici sono molto difficili da leggere per quanto riguarda l’alto medioevo, per
via della mancanza di fonti. Le merci più utili sono le ceramiche che venivano utilizzate in più modi
a seconda del tipo di ceramica in questione.
La prima trasformazione del sistema economico romano fu nel II. Secolo con l’arresto
dell’espansione e con la stabilizzazione entro il limes del Reno e del Danubio: fino a quel momento
l’espansione aveva comportato un afflusso costante di bottino e schiavi, ma quando l’espansione
terminò le spese per la burocrazia e il mantenimento dell’esercito dovettero essere compensati dal
prelievo fiscale che pesava a sua volta sulle regioni che erano entrate nell’impero, e che avevano
guadagnato nondimeno un apertura dei mercati nel mediterraneo e nelle altre zone imperiali.
Nei primi secoli del medioevo vi fu un cambiamento profondo nell’ambito di un calo demografico e
della crisi di molte forme di produzione. Con la caduta dell’impero e del sistema fiscale ebbe fine
anche l’interdipendenza delle regioni oltre che il mutamento di molte forme di produzione e dello
scambio commerciale. Il calo demografico riguardò principalmente le città poiché in un epoca di
declino del sistema di prelievo fiscale diventava per l’aristocrazia valorizzare al meglio le proprie
ricchezze terriere. Gli scavi archeologici rivelano una struttura urbana più povera e frammentata in
una serie di piccoli insediamenti raccolti entro le mura di età romana.
Quella che cambiò in modo più drastico fu Roma che vide la sua popolazione ridotta da un milione
a 20000 abitanti. Questa crisi tuttavia non comportò la fine dell’urbanesimo dato che era ancora
legato all’influenza dei vescovi come potere cittadino.

Le reti

Il commercio era secondario rispetto alla politica economica fiscale dell’impero, e quando questo
sistema entrò in crisi diversi settori incontrarono un arresto significativo: il settore produttivo non
era sostenuto da un’aristocrazia tunisina abbastanza forte da garantire la soddisfazione della
domanda, la rete di scambio deteriorò perché da fiscale divenne commerciale e dunque molto più
onerosa e la città di Roma si spopolò.

Produzione

L’aristocrazia delle zone mediterranee ed europee non era abbastanza ricca da sostituire il prelievo
fiscale imperiale, inoltre il sistema produttivo incentrato su grano olio e vino era in crisi. Le
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differenze tra le varie regioni riguardavano la ricchezza dell’aristocrazia, la produzione di prodotti


specializzati che entrava in crisi nel momento in cui la regione si isolava commercialmente, non
contando il fatto che il sistema fiscale sopravvisse in alcune regioni sostenendo la produzione ma
avendo pesanti effetti sulla popolazione.
Una delle regioni più importanti era l’africa romana, che era stata conquistata dei vandali e in
concomitanza con questo evento aveva visto un calo produttivo per via del calo della domanda da
parte di Roma. In ogni caso venne riconquistata nel 534 dall’impero d’Oriente che riprese il sistema
di prelievo fiscale dell’impero occidentale, tuttavia questo non riportò la produzione africana ai suoi
antichi fasti poiché tutta la zona mediterranea era in crisi, in particolare le aristocrazie, e i prelievi
fiscali finivano così solo nelle casse di Costantinopoli e dell’esercito a difesa della Tunisia.
In italia si ha un impoverimento della rete commerciale che viene ridotta ad un raggio inferiore a
quello regionale. La vera crisi arrivò nel VI secolo prima con la guerra greco-gotica poi con la
conquista longobarda, la prima per la durata di vent’anni che causò grandi devastazioni e la seconda
che finì il lavoro con la frammentazione in una parte imperiale e una longobarda.
Il regno franco prosperò per via della sua forte aristocrazia, mentre quello britannico entrò in crisi.
La caduta dell’impero romano decretò la divisione dei destini economici dell’europa: nel
mediterraneo orientale la sopravvivenza del sistema fiscale assicurò il mantenimento delle capitali e
del limes grazie alla forza produttiva di regioni come Egitto e Tunisia, mentre in occidente la
scomparsa del modello romano fece regredire l’economia ad un livello regionale.

I contadini

I contadini erano il 90-95% ma non abbiamo alcuna fonte diretta del loro stile di vita. Erano
delegati a produrre per sostenere la domanda proveniente dalle aree più ricche dell’impero, e con la
caduta di quest’ultimo il loro numero aumentò ancora di più. L’autonomia contadina era
inversamente proporzionale alla ricchezza aristocratica.

Le ambizioni universali di Giustiniano

Alla fine del IV secolo Costantinopoli si trovò al centro di un dominio che comprendeva gran parte
del mediterraneo orientale e meridionale, con ampi settori territoriali della penisola balcanica fino
alla Libia. Alla caduta dell’impero romano costantinopoli diventò la capitale di un vero e proprio
impero. Importante era il rapporto col cristianesimo, la successione al trono, il sistema burocratico e
la comunità ecclesiastica.
La successione al trono imperiale non era mai stata dinastica né dotata di una vera e propria prassi,
ma condizionata da rapporti di forza ed eserciti schierati, cosa che si conservò per tutto l’alto-
medioevo orientale. La lotta politica riguardava anche il trono di Costantinopoli, cosa che non
accadeva nel regno franco per via dell’egemonia merovingia. La successione dinastica arrivò solo
nel X secolo, per esempio Giustiniano fu scelto dallo zio Giustino che era stato un valoroso
comandante dell’esercito anche se di umili origini. Nessuna norma, solo interessi politici e familiari.

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Questa instabilità politica veniva compensata dalla stabilità burocratica dello stato, che a sua volta
si fondava sulla divisione fra incarichi civili e militari.
L’impero d’oriente era strutturato intorno alla relazione tra capitale e province, centinaia di distretti
in cui l’Impero era suddiviso. L’esercito era diviso nel corpo limitaneo e comitatenses, ovvero tra le
truppe stanziate intorno al limes e quelle riunite intorno alla figura dell’imperatore.
Il sistema burocratico fu il principale strumento per il prelievo fiscale a modello romano
implementato da Costantinopoli. In particolare la principale tassa era l’annona, un’imposta sulla
terra in proporzione a quante persone la lavoravano. Per riscuotere una tassa del genere si rendeva
necessaria la redazione di un catasto che documentasse le terre e quanti le lavoravano. Questo
comportava un dispendio economico molto elevato e dunque si prese il provvedimento di vincolare
i lavoratori alla terra, creando la classe dei coloni, uomini liberi ma a cui veniva vietato di spostarsi
verso altri fondi.
L’organizzazione di questo sistema richiese la partecipazione attiva di molti giuristi provenienti
dalle migliori scuole dell’impero, come Roma Costantinopoli e Beirut. Questo sistema si espresse al
meglio con la grande riforma di Giustiniano, la redazione del Corpus iuris civilis, un insieme
articolato di testi giuridici, che doveva risolvere il problema della sedimentazione di moltissime
leggi promulgate in tempi molto diversi durante la storia di Roma. Il compito venne affidato a sette
giuristi guidati da Triboniano che l’anno seguente redassero il codex, una raccolta molto selettiva
delle norme dal periodo di Adriano al 529. Poi le institutiones, il digesto (raccolta in 50 volumi di
testi di giuristi) e le novellae contenenti le nuove disposizioni imperiali emanate dopo la redazione
del codex. I quattro testi in questione andarono a costituire il corpus iuris civilis.
Tre elementi permisero la riconquista dell’africa romana e della parte meridionale della penisola
iberica: stabilità del limes sul lato persiano, rinnovamento della ideologia universale dell’impero
grazie alla rinascita giuridica, stabilità economica grazie alla politica fiscale.
In questi anni questi tre elementi permisero il rinforzo della flotta imperiale al fine di tutelare i mari
soggetti a scorribande di pirati, oltre a quello di cominciare spedizioni per conquistare l’africa
vandala in particolare la Tunisia con la sua ricca produzione agraria.
533-534 conquista della Tunisia vandala da parte di Costantinopoli.
Ben più faticose furono le altre campagne. La Spagna non fu mai riconquistata oltre la fascia
costiera mediterranea tra Valencia e Cadice. Per l’Italia ostrogota ci vollero vent’anni di guerra
(35-53) per riportare la penisola sotto il controllo imperiale. La guerra arrivò ad una prima battuta
d’arresto con la conquista di Ravenna del 540 e al confino degli ostrogoti oltre il po, per poi
ricominciare dopo la salita al trono del re totila che riprese le ostilità espropriando terre
all’aristocrazia senatoria. Belisario fu sostituito da Narsete che sconfisse i goti ponendo fine alla
guerra nel 553, grazie ad una campagna mossa a partire dalla Dalmazia.
Nel 554 Giustiniano emanò la Prammatica sanzione per ristabilire le condizioni precedenti al regno
di Totila per quanto riguardava i possessi terrieri degli aristocratici, su cui si basava l’economia
fiscale dell’impero. Il nuovo centro di governo imperiale fu posto nella figura dell’esarca di
Ravenna mentre Roma fu lasciata al suo vescovo.

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568 i Longobardi scendono dalle alpi e cominciano una campagna militare discontinua della
penisola che porterà alla divisione della stessa in zone longobarde e zone imperiali.
Le altre conquiste durarono poco: l’Africa resistette un anno prima della conquista araba, mentre la
Spagna desistette alla forza dei visigoti nel 625.
Giustiniano tentò anche la riunificazione religiosa dell’impero.

Dibattiti teologici e identità locali

Dibattiti nel V e VI secolo riguardavano la natura di cristo, le posizioni erano queste:


• Nestorio vescovo di Costantinopoli nel 428 teorizzava che Maria non fosse la madre di Dio ma la
madre di Cristo, cioè Gesù congiunto con il figlio, fu condannato nel 431 su iniziativa
dell’imperatore Teodosio II al concilio d iEfeso del 431, sollecitato da Roma e Alessandria.
• Monofisismo (mono physis) la natura divina e la natura umana venivano congiunte, venne
condannato dal concilio di Calcedonia 451 perché cancellava l’integrità delle rispettive nature di
Cristo.
• Diofisismo conservava le due nature insieme ma divise.

Fu il concilio di Calcedonia ad affermare Costantinopoli come sede patriarcale rispetto ad


Alessandria e Antiochia.
La lotta per la risoluzione di queste dispute teologiche si rifletteva nel campo della geopolitica che
vedeva contrapposte le varie diocesi di Roma, Costantinopoli e Alessandria contro Antiochia e che
dava connotazione religiosa ad una divisione del mediterraneo.
Il monofisismo rimase in vita nelle zone che gravitavano intorno ad Alessandria, dato che adottare
le disposizioni del concilio di Calcedonia sarebbe stato riconoscere la superiorità di Costantinopoli.
Rifiutare le disposizioni dei concili significava asserire una indipendenza dal potere imperiale
dunque Costantinopoli aveva tutti gl interessi a fare rispettare tali disposizioni.
Per tenersi buoni i monofisisti d’Egitto Giustiniano condannò i Tre Capitoli che sostenevano tesi
diofisiste estreme. Questa condanna venne accettata dal vescovo di Roma Vigilio ma non da Milano
Aquileia e le diocesi del Nord Africa, le quali diedero vita ad uno scisma sanato solo nel secolo
successivo.
Il monotelismo di Eraclio, imperatore dal 610 al 641 fu un nuovo tentativo dii riunire le nature di
cristo, stavolta in un telos, ovvero scopo indiretto alla salvezza ricondotto all’unità fondamentale
dalla persona. Fu condannato nel concilio di Costantinopoli nel 681.
Dopo questo concilio le parti meridionali dell’impor d’Oriente passarono in mani islamiche, mentre
in Occidente il diofisismo era affamato e il nestorianesimo e il monofisismo erano sopravvissute in
parti al di fuori del controllo imperiale.

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IL SISTEMA DI DOMINAZIONE ALTO MEDIEVALE

Nobili chiese e re, ricchezze e poteri

Il quadro politico territoriale dell’occidente tra VI e VIII secolo è molto più stabile rispetto ai due
secoli precedenti, nonostante la presenza endemica di zone di guerra.
Si tratta di regni maturi che sono passati attraverso l’integrazione delle popolazioni romane e
germaniche, nella creazione di un nuovo popolo.

Nobili e re

Il rapporto tra aristocrazia e regno fu sempre di accordo in questo periodo del medioevo, per via del
grande potere militare del sovrano. Nonostante questo li re era meno povero rispetto agli imperatori
del passato e per questo motivo risultava più difficile radunare a sé i nobili.
I visigoti conquistarono gli ultimi territori ancora in mano bizantina entro il 625. Inoltre si avvia il
processo di cristianizzazione cattolica che ha come esito la scomparsa dell’arianesimo dal regno.
Oltre a questo nel 654 viene completata la redazione delle leggi contenute nel Liber iudiciorum,
sotto il regno di Recesvinto. In questo testo sono dominanti elementi presi dal diritto romano, a
discapito delle tradizioni germaniche. L’ideale era quello di un impero in cui sovrano e vescovi
collaboravano, e così accadeva nei concili di Toledo, in cui gli scopi della chiesa e del potere regio
erano sempre gli stessi e gli uni in funzione degli altri.
La centralizzazione del potere ebbe come risultato lo scoppio di frequenti lotte per il trono
combattute dall’aristocrazia. Questo rafforzamento del potere regio comportò un indebolimento del
controllo militare sul territorio, cosa che portò a sua volta alla sconfitta contro gli islamici nel
secolo successivo.
Le isole britanniche nel VII secolo restarono caratterizzate dalla frammentazione politica, anche in
presenza di una rete di monasteri molto forte a cui era affidata al cura delle anime. La struttura
politica. Era molto frammentata e si cercò di rimediare con una teoria giuridica distinguente diversi
livelli di dominazioni.
Il VII secolo britannico è segnato dal processo di cristianizzazione e dall’apertura ad influssi dalla
Gallia. Rimase basso il livello di urbanizzazione. Sono attestati molti regni di diversa dimensione e
importanza. Il principale cronista del tempo, il monaco Beda mostra di pensare all’Inghilterra come
uno spazio unitario di civiltà.
Esisteva una pluralità di regni a livello di importanza, tra cui i più importanti: Mercia e
Northumbria, e altri come l’East Anglia, Wessex, Sussex, Essex e Kent. Tra il VII e il VIII si
affermò il regno di Mercia su tutti i r ogni meridionali, cioè tutti tranne la Northumbria. Solo nel IX
secolo potremo constatare l’esistenza di un regno inglese unitario.
Nel regno dei franchi ci dobbiamo concentrare sul fatto che il territorio a partire dal VII secolo va
incontro ad una parziale riduzione, anche se rimane un regno molto esteso (tutta la Francia e parte
della Germania). I merovingia erano ritenuti i soli possibili re, per via della loro grande ricchezza e
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della loro politica matrimoniale condivisa con re di altri regni. Il controllo di questi sovrani era
comunque discontinuo dato che il regno franco non aveva una capitale fissa e la corte del re si
ritrovava così a muoversi lungo le diverse zone del regno in base alle emergenze militari.
I pipinidi/carolingi emersero dall’aristocrazia franca del regno di Austrasia. Nel VII secolo nel
contesto della lotta per il trono interna alla famiglia dei merovingi Pipino di Landen e Arnolfo di
Metz appoggiarono Clodoveo II venendo ricompensati rispettivamente con la carica di maestro di
palazzo del regno di Austrasia e vescovo di Metz. Il maestro di palazzo era il posto più elevato nel
regno al di sotto del re. Era il capo della corte regia, colui che coordinava la vita politica intorno al
re e attuava le decisioni regie. Diventò presto uno degli obiettivi principali della dinastia pipinide.
Carlo martello nell’VIII secolo ricoprì contemporaneamente il ruolo di maestro di palazzo sin tutte
le regioni del regno. Non fu comunque possibile per i pipinidi prendere il potere regio, nel 656
Grimoaldo esiliò il merovingio Dagoberto e fece incoronare il proprio figlio Chidelberto, ma
incontrò l’ostilità di gran parte dell’aristocrazia e venne sconfitto e giustiziato. I pipnidi erano saliti
al potere per via delle loro relazioni clientelari (solidarietà militare) con l’aristocrazia austrasiana,
cosa che permise loro di controllare contingenti militari non dovendo rispondere immediatamente al
re. Chiaro è l’esempio di carlo martello e del suo potere militare. Ricordiamo la battaglia di Poitiers
del 732 in cui sconfisse una spedizione proveniente dalla Spagna islamica.
Carlo Martello non fu mai re, lo fu però suo figlio Pipino III (o Pipino il Breve) nel 751, deponendo
gliultimi merovingi.
La capacità. Di agirei una prospettiva ampia dei pipinidi è da vedere a riguardo dell’appoggio
conferito alle missioni di Wynfrith, un monaco originario del Wessex che papa Gregorio II nominò
vescovo e che mandò nelle regioni orientali della Germania (presso i Turingi, Frisoni e Sassoni) dal
722 al 754. L’appoggio dei pipinidi ci dice che intercorreva un buon rapporto tra Roma e il regno
franco pipinide.
Terre e uomini

Essere ricco significava possedere molte terre. Le campagne erano a bassissima densità abitativa. Il
territorio era dominato dai boschi, al cui internassi aprivano le radure che accoglievano i villaggi e i
terreni coltivati. Il villaggio era costituito dall’integrazione tra case e terre. Il villaggio contadino era
un nucleo di case contadine attorno a cui si sviluppavano una serie di cerchi concentrici, nelle
immediate vicinanze c’erano orti, nei cerchi più lontani i pascoli e i campi coltivati.
Il sistema produttivo era a ciclo di due anni che divideva a metà le terre tra pascolo e coltivazione,
cosa che rendeva la resa molto lenta e poco produttiva (2 o 3 volte il seminato). L’incolto come il
bosco e la foresta non erano considerati improduttivi in quanto erano soggetti ad un uso collettivo
che comprendeva caccia, pesca, raccolta di frutta e di legna. Il campo incolto era diviso in nemus,
ovvero lo spazio boschivo antropizzato, e la silva, la foresta più remota in cui si addentravano solo i
nobili per la caccia. La distinzione tra colto e incolto era quella tra carboidrati dei cereali e proteine
della cacciagione. I possedimenti terrieri erano diversi a seconda del regno: per esempio nel regno
franco le proprietà erano più compatte che nel regno longobardo. Nel caso di una proprietà più
ampia e compatta la nobiltà assume caratteristiche molto importanti poiché stringeva rapporti di

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dominio su più contadini attraverso la gestione di grandi aziende agrarie chiamate curtis. Queste
aziende non erano latifondi, non erano dunque entità fisiche territoriali ma proprietà terriere
sconnesse e frammentate appartenenti ad un solo proprietario. In una singola curtis confluivano
prodotti diversi, inoltre questa dispersione faceva sì che il grande proprietario potesse estendere il
suo potere in molti villaggi diversi. Curtis e villaggio erano agli opposti: una era una forma di
gestione fondiaria al cui capo era un proprietario, mentre il villaggio era una base insediati di
cooperazione contadina. La divisione principale della curtis era tra dominicum e massaricium. La
prima era quella gestita direttamente dal proprietario, mentre la seconda era quella divisa in terre
date in concessione a contadini liberi che ottenevano un manto in cambio di cui il Massaro aveva
nei cotoni del proprietario un insieme di obblighi che variava molto da luogo a luogo, ma che
comprendeva talvolta un censo sin denaro, oltre a una quota di prodotti e a una serie di corvée
ovvero giorni di lavoro gratuiti da svolgere sul dominicum. Grazie a questo sistema il proprietario si
assicurava manodopera nei momenti più critici dell’anno in un periodo storico in cui la circolazione
di moneta impediva di assumere manodopera stipendiata o ai contadini di pagare i censi. Dunque i
contadini usavano il proprio lavoro per pagare il censo e il signore per pagare la manodopera sul
dominicum.
Il sistema era molto rigido, innanzitutto poiché una qualsiasi alterazione del dominicum avrebbe
avuto conseguenze destabilizzanti sulla manodopera e i legami sociali che derivavano dai contratti a
lunga durata stipulata tra i signori e i contadini. In secondo luogo perché le annate non erano tutte
uguali e a seconda dell’abbondanza o scarsità del raccolto i contadini venivano sottoposti ad una
richiesta di lavoro più intensa o lavorare per corvée maggiori rispetto al normale, ma allo stesso
tempo il signore non era abbastanza potente per stravolgere troppo la normale gestire delle corvèe.
Il sistema tuttavia funzionava poiché era quello migliore in assenza di circolazione monetaria
sufficiente a garantire una gestione salariata della manodopera.
Il dominicum era il centro della curtis, e da esso dipendeva la manodopera richiesta e in funzione di
esso si organizzavano le corvée. La distinzione tra omnium e massaricium corrispondeva a quella
tra servi che lavoravano sul primo e liberi che ottenevano le terre del secondo. Ci sono tuttavia delle
distinzioni da fare: il termine servo non è uguale a schiavo. Erano certo simili: erano uomini e
donne non liveri comprati e venduti come beni ed esclusi dal rapporto diretto col potere regio.
Tuttavia il servo era giuridicamente una persona, al contrario che per i romani lo schiavo, che era un
utensile dotato di voce. Da ciò derivava che il servo poteva ricevere in concessione possedimenti di
terra o addirittura ottenere la libertà: non era del tutto espropriato del suo lavoro e inoltre
l’economia non era interamente basata sullo sfruttamento dei servi. Inoltre vi era un meccanismo di
sfruttamento molto flessibile per quanto riguarda la manodopera in quanto un servo poteva vedersi
assegnato un manso per via della sovrabbondanza di manodopera servile e delle terre del
massaricium. Tuttavia non appena il servo entrava in possesso del manso, il manto stesso assumeva
la caratteristica di manso servile e dunque implicava obblighi più pesanti per il servo. C’era anche il
caso che un uomo libero acquistasse, in condizioni di ristrettezze economiche, un manso diventato
servile. Dunque la differenza fra lavoratori nel villaggio non era solamente quella tra servi e liberi,
ma vi erano sfumature giuridiche molteplici.

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La condizione contadina dunque non era appiattita alla servitù: i Massari erano uomini liberi a cui
veniva data terra da coltivare. Nell’epoca della signoria locale la distinzione sparirà dato che verrà
data più importanza al prelievo fiscale su tutta la popolazione, ma fino all’epoca carolingia sarà
molto importante: essere liberi significava ricevere protezione dal re, mentre i servi ne venivano
esclusi. La distinzione resse fino a che esisteva un re che necessitava di soggiogare al proprio potere
i liberi dividendoli dai servi.

Reti di scambio

Si è pensato per molto tempo all’interno della storiografia moedevistica che le curtis fossero votate
alla produzione per autoconsumo, basandosi sul Capitulare de Villis (legge sulle curtis) emanata da
Carlo Magno, in cui si stabiliva che ogni curtis dovesse avere una serie di artigiani specializzati
oltre a ogni tipo di attrezzo, e prodotto agricolo da raccogliere all’interno dell’azienda. Queste però
erano le regole imposte alle curtis regie soltanto: rimanevano fuori dal regolamento quelle che
appartenevano alla chiesa e quelle signorili, oltre al fatto che non tutte le curtis regie osservavano
questo ideale, in quanto questo era e nulla più quello delineato nel Capitulare de villis. Le fonti ci
raccontano di mercati settimanali, confluenza dei prodotti curtensi nelle città e moneta nelle mani
dei coloni.
Capiamo i meccanismi economici se consideriamo che i proprietari franchi erano molto più ricchi
rispetto ad altri aristocratici, e questa ricchezza derivava dall’estensione delle loro terre, da cui
l’elevata pressione produttiva a cui venivano sottoposti i contadini e i servi, e di conseguenza
l’appropriazione di elevati surplus di lavoro da spendere sul mercato. La curtis era dunque un
sistema per gestire questa ricchezza: una insieme di scelte gestionali destiniate a offrire ai
proprietari la massima redditività. Infatti anche se il commercio era debole non lo era del tutto, e i
centri economici esistevano: la città era la domanda e la curtis era l’offerta. Le curtis stesse
diventavano sedi di mercato, grazie alla potenza dei signori che erano i grado di portare grandi
quantità di prodotti e dunque fissarne anche i prezzi. Abbazie come Nonantola o Bobbio erano in
grado di portare sul mercato masse imponenti di grano o vino. I proprietari terrieri erano dunque
figure attive sul mercato, e i contadini? qualera il ruolo del censo dovuto ai proprietari? I censi in
natura, in prodotti e moneta non sono da dividere tra loro secondo un andamento progressivo o
dividere ii vari modi di pagare il censo tra baratto e scambio economico. Per il proprietario poteva
essere più retributivo raccogliere il censo in natura, al fine di accumulare prodotti da rivendere sul
mercato. Tra i grandi proprietari troviamo anche i monasteri e la chiesa in particolare. Questi
raggiungevano l’autosufficienza non entro le singole curtis, ma entro il patrimonio che
comprendeva curtis in più luoghi.
Il meccanismo economico è da introdurre in un contesto monetario affermatosi nei primi decenni
dell’espansione carolingia che vedeva protagonista la libbra d’argento da 400g, divisa in 20 solidi e
a sua volta divisi in 12 denari. Queste monete erano diverse solamente rispetto al loro valore di
conto, in quanto a materiale era usato solamente l’argento. Questa moneta non era per l’utilizzo

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quotidiano, ma per il commercio. Il diffondersi delle monete sono segnali dell’apertura di rotte
commerciali in Europa, in particolare in Europa settentrionale. Monete franche compaiono in
Inghilterra e Frisia nell’VIII secolo, è un indizio del coinvolgimento di queste regioni in una rete di
scambi che trovava polarità nell’Austrasia franca e si ampliava verso il Mare del Nord. Questo
faceva parte di un processo di affermazione dell’egemone franca, in questo rientra anche la
conversione piena dell’Inghilterra al cristianesimo, le missioni di Wynfrith verso l’attuale germania,
la sottomissione dei Sassoni da parte di Carlo Magno e lo sviluppo di una rete commerciale che
coinvolse le coste del mare del Nord.
Grazie alla crescente pressione aristocratica sui contadini tramite l’organizzazione curtense, la
popolazione dei centri urbani si consolidò soprattutto nelle parti settentrionale del regno come la
Nustria e l’Austrasia, in città come Parigi, Colonia, Maastricht e Treviri, ma anche uno sbocco
commerciale sulle sponde del mare del nord. Le popolazioni al di là di questo mare non
possedevano vino o ceramica, per le quali gli unici canali di approvvigionamento erano i franchi
stessi. Nascono nuovi centri urbani: gli emporia, finalizzati proprio allo scambio commerciale.
Bisogna distinguere le varie città che si affacciavano sul mare del nord. Nel regno franco in centri
come quentovic (estremo nord della Francia non lontano da Calais), e Dorestad (sul Reno, nella
regione di Utrecht) gli emporia si estendevano su centri urbani pre esistenti, di cui costituirono uno
sviluppo importante. In Inghilterra Londra e York erano diventati due città molto importanti dopo la
rottura con l’urbanesimo romano del V secolo. In Scandinavia Ribe e Birka furono vere e proprie
novità, in assenza di una precedente tradizione urbana.
Altro evento commerciale erano le fiere che si tenevano con cadenza regolare in luoghi di rilievo
politico o religioso come le fiere di Parigi, Saint-Denis o Piacenza. Al contempo i porti italiani
iniziano una relazione commerciale con le diverse parti del Mediterraneo.

I longobardi

I longobardi in Italia

Potremmo definire la dominazione longobarda come un regno germanico di seconda generazione,


che si impose una secolo più tardi rispetto agli altri regni, e di conseguenza si trovava in un contesto
diverso, di egemonia franca sui territori occidentali e di profonda ridefinizione dell’impero
orientale.
È probabile un origine scandinava dei longobardi, che nel I secolo si spostarono in Germania
settentrionale, poi Pannonia (attuale Ungheria tra IV e V secolo). Qui i longobardi si inserirono
vincendo le ostilità dei Gepidi, per poi subire le pressioni degli Avari, al tempo stesso stipularono un
foesdus con l’impero combattendo come mercenari senza però inquadrarsi nell’esercito imperiale.
La conquista dell’Italia del 568 assunse caratteristiche migratorie poiché insieme all’esercito si
spostò l’intero popolo longobardo, ovvero anche le donne e i bambini. I longobardi erano infatti un
popolo guerriero, il cui esercito era formato da tutti i maschi adulti liberi, e la migrazione verso
l’Italia per via della sua debolezza politica e grande ricchezza, attirò a sé altri popoli desiderosi di
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bottino, e che si riconobbero nella figura del re longobardo Alboino, accelerando il processo di
etnogenesi longobarda tramite influssi di altri gruppi armati.
L’esercito longobardo era diviso in farai dal tedesco fahren che erano gruppi armati uniti in
solidarietà militare e guidati dai duces, dotati a loro volta di grande autonomia, la quale verrà alla
luce nell’espansione longobarda, in cui i duchi si spinsero verso Sud alla conquista di Spoleto e
Benevento e tentarono anche una campagna oltre le alpi, ai danni dei franchi che però li respinsero.
Durante la loro discesa in Italia individuarono delle sedi fisse su base del tutto autonoma rispetto al
potere del re. Si parla dunque non di ducati veri e propri ma sedi ducali, poco definite
territorialmente, in quanto il potere di un duca si estendeva fin dove non andava a scontrarsi con un
altro duca.
Il re longobardo doveva essere forte fisicamente e un valente guerriero, e queste erano le
prerogative per la scelta dei duchi, infatti il re longobardo era elettivo, scelto dall’assemblea
dell’esercito ma di fatto dai duchi. Dopo la conquista dell’Italia 568-569, Alboino viene ucciso nel
572 in una congiura. A lui succede Clefi che regna solo per due anni, prima di essere ucciso. Dal
572 al 584 i Longobardi rimasero senza un re dato che l’impegno militare era finito e i duchi
ritennero che un re sarebbe stato solo d’intralcio al loro potere. Le pressioni dei Franchi costrinsero
i duchi ad eleggere un nuovo re nel 584. Il re che scelsero fu Autari, figlio di Clefi, scelto per la sua
ascendenza. D’ora in poi i longobardi ebbero sempre un re, scelto su base a volte dinastica a volte
elettiva. Fino a quando il potere passò alla vedova Teodolinda che sposò il duca Agilulfo: da questo
momento in poi i re successivi discendevano per la maggior parte da questa coppia. La costituzione
dell’egemonia regia si compì tra il VII e VIII secolo. Allo stesso tempo si cerca di individuare una
capitale, e la scelta ricadde su Pavia, dato che Roma e Ravenna erano precluse poiché
appartenevano all’impero. Pavia era già stata residenza di Teoderico, e la preferirono a Milano, e
divenne sede degli organismi che facevano capo al re e lo rimase fino all’XI secolo. I centri politci e
militari dei Longobardi furono le città, il declino delle quali non era dovuto interamente alla
conquista longobarda, ma era la manifestazione del mutamento delle funzioni cittadine nel
passaggio da una politica fiscale a quella altomedievale.

Longobardi e Romani

Partiamo dalla coppia Teodolinda e Agilulfo: nessuno dei due era longobardo di sangue, la prima
era bavara e il secondo era turingio, e questo dice molto sulla flessibilità etnica del potere
longobardo.
L’identità longobarda dunque non era qualcosa di dato stabilmente ma soggetta a un continuo
processo di costruzione. Un segno di questo processo di etnogenesi è dato dalla redazione della
cosiddetta orino genesi Longobardorum, un racconto dell’origine dei longobardi fino alla
costruzione del regno d’Italia. L’oggetto del racconto è il momento ordinario dell’identità del
popolo dei longobardi, e viene scritto un secolo dopo lo stanziamento in Italia, rispondendo
all’esigenza di stabilire la coesione etnica indebolita dall’assimilazione con la popolazione romana.
Il termine Romani sembra riferirsi agli abitanti delle terre ancora in mano imperiale.

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Al momento dell’invasione dei longobardi i ceti aristocratici romani vennero emarginati, persero le
loro ricchezze poiché ne vennero espropriati. Vennero costretti ad emigrare nelle terre imperiali e a
riunirsi attorno alle sedi vescovili di Ravenna e Roma. Nel giro di qualche generazione la
contrapposizione Longobardi-Romani venne meno tramite la convivenza, i matrimoni misti e
l’assimilazione degli stili di vita fino a culminare nell’VIII secolo in cui l’appartenenza la popolo e
esercito longobardi era una questione territoriale e non etnica.
La religione longobarda al tempo della discesa in Italia era paganesimo tradizionale e cristianesimo
ariano, caratteristica germanica di influenza romana (l’arianesimo fu condannato a Nicea nel 325).
Non si delineò una vera e propria contrapposizione tra cattolici e ariani, ma l’arianesimo divenne un
perno attorno a cui i Longobardi poterono consolidare una propria identità etnica distinta dai
Romani: all’interno delle città c’erano vescovi e sacerdoti ariani al fianco di quelli cattolici, come
dice Diacono del regno di Rotari, re ariano.
Teodolinda è il simbolo della fluidità dell’identità longobarda, dato che non solo non era longobarda
ma era anche cattolica. Al suo fianco Agilulfo restò ariano, ma acconsentì al battesimo cattolico del
fidlio Adaloaldo e appoggiò la missione di Colombano e la sua fondazione dell’abbazia di Bobbio
nel 614. Nel popolo della corte abbiamo dunque una lunga convivenza di arianesimo e
cattolicesimo, con una lieve tendenza verso il cattolicesimo. Solo nell’VIII secolo il regno
longobardo fu totalmente cattolico. Nonostante questo i vescovi non furono mai obiettivo politico
per le élite del regno dato che non furono capaci di inquadrare i sudditi entro l’autorità del re. La
lenta e contrastata conversione al cristianesimo contribuì all’ostilità del vescovo di Roma nei
confronti del regno longobardo.
Il vescovo di Roma era al centro dei territori rimasti in mano imperiale, il cui potere. Era
discontinuo in relazione alle mire autonomistiche di alcuni territori italiani e delle tensioni militari
che impegnarono gli eserciti imperiali su altri fronti. L’Italia era la periferia dell’Impero, e le zone
più importanti erano le coste che la collegavano ad esso. Roma tuttavia godeva di uno status
particolare poiché era l’unica sede patriarcale in Occidente, ed era anche la sede dei successori di
Pietro. Ravenna era la rivale di Roma dal momento che era la sede dell’esarca, ill funzionario
imperiale incaricato di governare l’Italia.
Gregorio Magno, discendente di una famiglia aristocratica senatoria, in un periodo in cui la società
romana dovette prendere atto di quanto fosse tramontata la centralità dell’Urbe, lasciando spazio a
Costantinopoli. In questi anni scompare la figura del praefectus urbis, il funzionario imperiale
incaricato di foderare da Roma gran parte della penisola.
In questo vuoto di potere i vescovi dei territori imperiali detenevano grandi poteri, per via della loro
connessione alla grande aristocrazia, della ricchezza della chiesa e della cultura dei vescovi. Questi
dunque erano i referenti dei cittadini per questioni tipo giustizia, approvvigionamento e difesa. Il
caso di Gregorio rappresenta un salto di qualità nel potere politico dei vescovi in quanto si fa
protagonista di una trattativa con i longobardi, sostituendo il potere imperiale assente. Da qui le
ambizioni papali al dominio sull’Italia al centro delle ostilità con il regno longobardo.
Nel corso del VII secolo l’espansione araba tolse dal possesso imperiale l’Egitto e l’africa
proconsolaris (Tunisia), ovvero i due grandi granai dell’impero che rifornivano capitale ed esercito.

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Tale funzione fu assunta da quel momento in poi dalla Sicilia, che assunse un grande rilievo fiscale
ed economico, conservato fino alla conquista araba nel IX secolo.
La riorganizzazione della società intorno alle sedi vescovili di Roma e Ravenna dipesero anche
dalla ridotta e intermittente capacità di intervento imperiale in Italia, causata da crisi prima
militari )VII secolo pressioni da parte di Avari, Bulgari e Arabi che culminarono con la perdita del
Nord africa e del Medio Oriente, fino all’assedio degli arabi di Costantinopoli nel 717), e religiose
poi, con una forte iconoclastia che avvicinò l’imperatore ai franchi come migliori candidati alla
difesa del cattolicesimo.

Crescita e fine del regno

Molte informazioni ci arrivano dall’editto di Rotari del 643. Durante il suo regno Rotari estese il
dominio longobardo verso alcune aree e dall’altro avviò la trasformazione delle strutture interne al
regno, indebolendo i duchi e aumentando quello del re, e le leggi furono in linea con questo
progetto.
La scrittura di leggi è sempre la ripresa di un modello politico romano, assente nelle popolazioni
germaniche prime del loro insediamento nell’impero. La legge promulgata da Rotari non è una
trascrizione di antiche tradizioni, ma una vera e propria normativa prodotta ex novo da parte del re,
l’unico accenno alla memoria è a quella dei suoi predecessori, la centralità del re dunque diventa il
punto centrale della legge longobarda.
L’obiettivo principale è la tutela delle gens longobardorum, che non è più tanto etnica quanto
politica: sono i sudditi del re. A chi erano destinate le leggi? I longobardi erano una minoranza al
momento del regno di Rotari, e le leggi non erano sufficienti a garantire l’ordine pubblico per la
maggioranza romana. Dunque le leggi andavano a colmare questo vuoto.
La società che emerge dal testo è impoverita, rurale, dominato dalle élite militari, vengono citati i
gassindii, ovvero uomini fedeli ai duchi con compiti prevalentemente militari, ma in cui l’unica
distinzione giuridica era tra servi e liberi. Su ciò si impose il potere regio con la legislazione,
l’amministrazione della giustizia e dei conflitti interni ai sudditi del regno.
Il processo di espansione territoriale iniziato da ROtari fu continuato durante la seconda metà del
VII e del VIII secolo da Grimoaldo che si ampliò sul Veneto e si spiinse fino in Puglia. Si affermò la
tendenza dinastica senza mai fissare meccanismi regolamentati di successione al trono, ma la
tendenza a mantenere il potere regale all’interno della famiglia. Per questo durante il VII secolo si
assiste ad una importanza retroattiva della coppia Teodolinda Agilulfo.
L’accentramento del potere regio sia sul piano militare e territoriale nei confronti del domniiio
imperiale aumentò sotto il regno di Liutprando (712-744), prima di tutto in un momento in cui si
rafforzavano le tendenze dinastiche che erano sempre state presenti nel regno longobardo.
Liutprando agì su un orizzonte interamente italiano, sottomise Benevento e Spoleto che avevano
sempre rivendicato l’autonomia dal regno longobardo, conquistò per un breve periodo Ravenna,

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portò le proprie truppe di fronte alle mura di Roma. La conquista dell’Italia intera fu una possibilità
concreta anche se non s verificò.
Liutprando fu il re che integrò in modo più ampio l’editto di Rotari con più di 150 articoli emanati
fino al 735. Emerge una chiara ideologia cattolica del regno, che rivendicava a sé un nuovo
accentramento di potere per proteggere le chiese. Non bastò per stabilire un rapporto con i vescovi,
che fu impedito dalla. Tensione fra cattolici e ariani e la centralità di iRoma e Ravenna e la tensione
militare fra i territori dell’impero e quelli longobardi. Mancarono dunque le risorse fondiarie della
chiesa, politiche per orientare i fedeli e culturali poiché i vescovi erano detentori di una cultura
scritta di alto livello.
Con Liutprando si cominciano a vedere i primi risultati della politica di accentramento iniziata da
Rotari un secolo prima: la fondazione del gruppo dei gastaldi, funzionari delegati
all’amministrazione del patrimonio regio. Questo gruppo era privo di compiti giurisdizionali ma
costituirono comunque un contrappeso al potere dei duchi e un canale di comunicazione tra il re e i
sudditi. Inoltre si incentivò la fedeltà personale al re riconoscendo speciali privilegi ai gassindii regi
invece che a quelli ducali, ovvero quei guerrieri che si erano legati alla figura del re in maniera
particolare.
Nell’VIII secolo la società longobarda non era più divisa in etnie, come danno prova le leggi del re
Astolfo del 750 in cui si dividono gli obblighi militari in base alla rendita fondiaria.
A partire dagli anni centrali dell’VIII secolo il papato si alleò con i carolingi in quanto non vedeva
più nell’impero un’entità capace di tutelare i propri interessi. L’alleanza divenne effettiva nel corso
della prima spedizione di Pipino il Breve in Italia, in cui sconfisse Astolfo e conquistò Ravenna e la
diede a Roma. Vent’anni dopo il figlio Carlo Magno conquistò il regno Longobardo definitivamente
annettendo l’Italia centro-settentrionale al regno carolingio. Carlo Magno si nominò re dei franchi e
dei longobardi, Pavia continuò a essere la capitale e il ducato fi Benevento sopravvisse come
dominazione autonoma. Solo nell’XI secolo i Normanni ricostituirono l’unità politico territoriale
dell’Italia del sud riunendo le dominazioni di origine longobarda e bizantina del continente e
annettendo poi la Sicilia araba.

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Impero carolingio, ecclesia carolingia

Dal regno all’impero

Il regno merovingio tra il VII e VIII secolo vide l’affermarsi dei pipinidi tramite l’iniziativa
militare, la costruzione di una rete clientelare nell’aristocrazia dell’Austrasia e l’occupazione della
carica di maestro di palazzo nei diversi regni franchi, e infine la protezione a Wynfrith. Dunque se
Pipino il III depose Childerico III fu solo per via dell’esistenza di una costruzione di potere
anteriore. Per come viene narrata la storia negli annali del regno dei franchi si racconta che il papa
Zaccaria diede la sua benedizione al re pipinide prima ancora dell’incoronazione, am questo è
considerato inattendibile dagli storici, dunque si pensa che l’incoronazione sia stata voluta dalla
grande aristocrazia. Il colpo di stato portò a rinchiudere Childerico in un monastero, tagliargli la
lunga chioma e facendo ungere re Pipino da Wynfrith, iniziando una nuova tradizione derivante
dalla bibbia e dall’unzione di David. Dopo venne anche l’unzione di Saint Denis di papa Zaccaria a
Pipino e ai suoi figli Carlo e Carlomanno. Ora pipino godeva del titolo di patricius, il protettore di
Roma. Al contempo Pipino era preoccupato di ottenere legittimazione del suo potere, dunque si
affrettò a commissionare gli annali che abbiamo citato prima, una seconda unzione da parte di
Stefano II, e l’alleanza stabile con Roma.
Venne creato ad hoc l’argomento dei merovingi re fannulloni, che continuò ad essere alimentato
fino a cinquant’anni dopo il colpo di stato di Pipino. La sconfitta dei longobardi non portò alla
conquista franca, dunque non scoppiarono guerre tra franchi bavari e longobardi anche grazie alle
politiche matrimoniali messe in atto dalla vedova Bertrada in cui i figli Carlo e Carlomanno
sposarono le figlie del re Desiderio. Dopo la morte di Carlomanno Carlo si mosse in una più chiara
prospettiva di espansione.
Cominciò dunque la campagna d’espansione militare che valse a Carlo il soprannome di Magno,
che lo portò a conquistare gran parte dell’Europa Occidentale che comprendeva Francia, Olanda,
Germania, Svizzera, Austria, Italia settentrionale. La conquista più importante fu quella dell’Italia
perché fu quella che garantì a Carlo l’alleanza con il papa e che gli valse la trasformazione del
regno in impero. l’Italia da parte sua non venne conquistata in intera parte, ma solo la parte
settentrionale, mentre continuavano a esistere parti soggette all’impero bizantino, il ducato di
Benevento prima autonomo poi sotto l’influenza dei Normanni a partire dal XI secolo, e la parte
appartenente a Roma, ovvero il Lazio e Romagna. La conquista della penisola iberica fu modesta:
una serie di conflitti si succedettero dal 778 (sconfitta dei franchi inflitta dai baschi a Roncisvalle)
all’813 in cui si costituì la Marca Hispanica, fascia territoriale immediatamente a sud dei pirenei nel
regno franco. Più incisive le campagne a Oriente in particolare contro i Sassoni, iniziaste nell’VIII
secolo per assoggettare un popolo bellicoso e forte militarmente già autore di diverse incursioni in
Occidente. Quando salì al potere Carlo la campagna divenne di vera e propria conquista, dotata
anche di una connotazione religiosa (i sassoni erano pagani), dunque nel 772 Carlo Magno fece
distruggere l’Irminsul, un idolo di grande importanza per la religiosità sassone. La guerra vide la
fondazione di diverse diocesi all’interno del territorio sassone, contro cui la guerra continuò dal 772

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all’803. La Baviera fu posta sotto stretto controllo per limitare le mire autonomistiche del duca
Tassilone, vassallo dei re carolingi. Venne anche costruita una grande circoscrizione politico
militare, la cosiddetta marca orientale, destinata a tenere sotto controllo le popolazioni slave pagane
estranee al dominio carolingio.
Il dominio carolingio si estendeva fino alle marche che erano zone di confine in zona iberica e
austriaca in particolare, che Carlo usava come luogo di comunicazione con i popoli estranei
all’impero. Nel caso della marca austriaca carlo sconfisse gli avari e impose l’egemonia franca alla
popolazione degli slavi resa possibile dalla presenza militare nella marca. Carlo fece inoltre
costruire una fortificazione conto le incursioni danesi intorno alla zona del mare del nord.
Il papato, dopo la socnfitta longobarda, si impegnò nel rafforzamento dell’egemonia in Italia
centrale, ma ad un certo punto Leone III dovette rifugiarsi in territorio franco perché minacciato dai
suoi oppositori. Carlo pose Leone sul soglio papale e in cambio Leone III incoronò Carlo
imperatore, imponendo la figura di Carlo come superiore a qualsiasi altro sovrano in Europa.
Incoronare carlo imperatore era molto utile anche al papa che aveva bisogno del suo appoggio sia
contro i nemici esterni in Italia che contro i nemici interni alla società romana. La nozione chiave
non fu quella di impero ma di imperatore.
Rimase comunque viva una certa tensione fra papato e impero: alla fine del VIII secolo comparve
un documento falso, la donazione di Costantino, che attestava la cessione al patto di tutte le regioni
occidentali dell’Impero. Il papato non usò la donazione non rivendico il. Controllo su regioni che
andassero al di là delle terre della Chiesa, ma la stessa creazione di questo documento indica che
l’alleanza con i franchi non era l’unica opzione politica per la Chiesa.
L’incoronazione di Carlo Magno inasprì ulteriormente i rapporti di Roma con Bisanzio che già
erano tesi per via della diffusione del movimento iconoclasta. Il titolo di imperatore era per
definizione universale e dunque non era accettabile avere due imperatori, tra l’altro Carlo era
inserito n continuità con Costantino in persona, e ciò non lasciava dubbi sulla sua ambizione
universale. Inoltre la rivalità tra Bisanzio e i franchi era già iniziata prima dell’incoronazione pre via
della scelta di espandere le missioni ad est, tenere concili ecclesiastici e di fondare una nuova
capitale: Aquisgrana.

Conti, vassallo liberi

I rappresentanti regi sorvegliavano i sudditi e il potere regio. Il potere si fondava sul coordinamento
dell’aristocrazia laica e delle chiese. L’aristocrazia laica era composta da conti, funzionari incaricati
di governare a nome del re un territorio al cui interno assolvevano di fatto tutte le funzione spettanti
al re come la guida militare, giustizia, prelievo. Alcune aree, poste ai confini o comunque
militarmente delicate, erano organizzate in circoscrizioni più grandi, le marche, affidate ai marchesi.
La forza dell’impero si fondava nella capacità di separare la loro potenza personale da quella
esercitata a nome dell’imperatore.
Conti e marchesi venivano assegnati a regioni lontane da quelle di provenienza, i suoi poteri
personali erano nettamente distinti dai poteri derivanti dalla loro delega. Le cose cominciarono a

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cambiare dal IX secolo, quando le funzioni comitali divennero più stabili fino a diventare vitalizie e
ereditarie. Questo legò insieme potenza dinastica e territoriale, portando le stesse famiglie a regnare
sulle stesse terre per decenni.
I legami tra re e realtà locali erano anche garantite dai missi regis, inviati del re. Le competenze di
questi funzionari sono meno chiaramente definibili. Talvolta avevano ambito territoriale specifico,
altre volte no. Alcune volte collaboravano con l’ordinamento comitale, altre volte erano da soli.
L’ascesa al potere dei pipinidi si era fondata sullo stabilimento di un sistema clientelare a sfondo
militare che era composto da tutta l’aristocrazia austrasiana. Questi rapporti di fedeltà personale si
conformavano in maniera più definita entro la fine del VIII secolo, secondo il modello vassallatico.
Ili vassallo era in origine una condizione sociale bassa al servizio di un signore, ma sotto Pipino III
si constata un cambiamento del significato: divenga un uomo che giura fedeltà militare a un potente,
impegnandosi a servirlo e a combattere per lui, ottenendo in cambio protezione e un sostegno
economico.
Un buon esempio è il duca di Baviera Tassilone vassallo di Pipino III, come viene raccontato negli
annali del regno dei franchi. La rete di fedeltà passava attraverso tutta l’aristocrazia franca. I
maggiori aristocratici basavano il loro potere sul seguito armato di cui si circondavano, questa era
una rete clientelare di vassalli, fondata sulla fiducia personale. La stessa forza dei re carolingi era
costituita dalla capacità di coordinare l’aristocrazia franca e di tradurre il coordinamento in forza
militare, ponendosi al vertice del sistema vassallatico.
Non tutti i vassalli regi diventavano conti, ma i conti venivano scelti tra i vassalli regi. Ludovico il
Pio emise una legge secondo cui chi veniva nominato conte doveva prestare giuramento al re. Avere
obblighi militari non significava avere compiti amministrativi. Le funzioni comitali erano
un’estensione dei compiti vassallatici ma anche la possibilità di aumentare il proprio potere per gli
aristocratici.
I carolingi si muovevano con una prospettiva statale: volevano infatti costruire un apparato di
governo centrale e locale tramite un sistema di deleghe e responsabilità. Il governo era il
coordinamento dell’aristocrazia. il coordinamento si basava a sua volta sulla capacitò dei re di
mantenere l’equilibrio fra redistribuzione di ricchezze e servizi resi dai nobili, ovvero i due termini
del legame clientelare che univa la corona all’aristocrazia. Questa capacità venne meno nell’IX
secolo.
Altro motivo di vanto per i re carolingi era la possibilità di poter eludere la connessione con
l’aristocrazia e dialogare direttamente con i pauperes, i poveri dal punto di vista economico. Ci sono
molti documenti di gruppi di contadini che si rivolgono al conte o al re per chiedere di essere difesi
da un potente che cerca di sopraffarli, molto spesso la chiesa. I gruppi rurali potevano dunque
accedere liberamente alla giustizia regia.

Le chiese carolingie

I chierici non potevano diventare conti, poiché non potevano portare la spada, dunque si vedono
spesso nei panni di missi regi in cui il compito amministrativo e giudiziario prevaleva su quello

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militare. I vescovi si sentivano parte dello stesso progetto dell’imperatore che era quello di garantire
la giustizia in territorio franco.
Nella cooperazione vescovile con il potere imperiale venivano impiegate le diverse risorse della
chiesa, come la direzione delle anime all’obbedienza al re, la cultura per redigere le leggi, le grandi
proprietà terriere e le loro clientele vassallatiche. Dunque nei capitolari, ovvero le leggi che
preparavano le grandi spedizioni militari, il re si riferiva anche ai vescovi.
I monasteri erano molto importanti perché concentravano in sé grandi ricchezze, grande cultura e
grande autorità religiosa: per questi tre motivi vennero sempre tutelati dai re carolingi, fino ad
arrivare alla riforma voluta da Ludovico il Pio e attuata da Benedetto di Aniane che introdusse la
regola benedettina come unico testo normativo di riferimento. La riforma si estese anche alla vita
clericale: in una serie di concili indetti da Ludovico il Pio e tenuti ad Aquisgrana si impose un
codice normativo per la vita in comune dei chierici. L’intervento apparentemente violento del potere
imperiale sulle forme di vita ecclesiastica e monastica è in realtà solo un’altra prova del
collegamento tra impero e ecclesia. Le chiese non erano estranee al potere imperiale, ma sue
estensioni.
Altra prova della connessione chiesa-impero erano i diplomi di immunità, ovvero disposizioni
concesse alle chiese che vietavano a qualunque funzionari refill di entrare negli edifici e nelle terre
del beneficiario per riscuotere tasse o per amministrare la giustizia. Da parte sua la chiesa ripagò il
potere imperiale costruendo la memoria della fiancasti carolingia a partire dalle imprese militari di.
Carlo Martello, la leggenda dei re fannulloni merovingi, il colpo di stato di Pipino il Breve
legittimato da papa Zaccaria. Le stesse leggi carolingie furono prodotte dai grandi ecclesiastici
giunti alla corte imperiale e si sono conservate grazie alle chiese vescovili. La rappresentazione che
abbiamo del regno carolingio viene esclusivamente dal punto di vista della chiesa.

Dall’impero ai regni

Gran parte dell’IX secolo può essere letta come una fase di continuità nei funzionamenti politici.
Negli anni centrali del secolo l’impero si articolò in una serie di regni molteplici. Nonostante il fatto
che dal 751 all’814 il regno carolingio fu retto da un solo imperatore non era caduta la convinzione
che il potere appartenesse alla famiglia pipinide e che discendesse ereditariamente ai figli maschi.
Si creò dunque una tensione tra una visione unitaria dell’impero e una più marcatamente ereditaria,
da parte dei diversi membri della famiglia regia.
Carlo dovette dividere il regno tra i suoi tre figli: con la diviso regni dell’806 Carlo fu assegnato alla
parte centrale, Ludovico ad Aquitania, la parte sudoccidentale della Francia e Pipino all’Italia di cui
divenne re nel 781. La divisione fu una divisione dell’impero in regni ma che lasciava intero il
corpo dell’impero. Alla morte prematura dei due figli seguì la morte di Carlo Magno, che lasciò
come unico erede Ludovico il Pio, che tuttavia non evitò tensioni interne alla famiglia carolingia,
dato che il figlio del fratello Pipino (Bernardo) era salito al trono d’Italia. Ludovico affrontò la
questione con la Ordinatio nominando il primogenito Lotario come unico erede, consegnando agli
altri figli territori minori, cioè Aquitania e Baviera.

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Si scatenò la tensione sia tra i fratelli che da parte di Bernardo, che si vide escluso da ogni
prospettiva ereditaria e seppe raccogliere attorno a sé una quota consistente dell’aristocrazia italica.
La ribellione fallì e Bernardo venne accecato, ma questa vicenda ci mostra come si stesse formando
in Italia una rete clientelare avversa al potere imperiale, che non si basava su un territorio patriottico
ma semplicemente definito territorialmente.
Altro motivo di tensione fu la nascita di Carlo il Calvo nel 823, figlio di Ludovico il Pio e la nuova
moglie Judith, che negli anni successivi agì per garantire al figlio un futuro politico. Questa attività
della moglie entrava in contrasto con la direzione che Ludovico aveva intrapreso con la ordinatio
imperii, ovvero quella dell’unitarietà dell’impero.
Il punto più alto di queste tensioni arrivò nell’833: Ludovico fu sconfitto a Colmar dai figli nati dal
primo matrimonio (Lotario, Pipino e Ludovico) che si vedevano minacciati dal ruolo crescente di
Carlo, sconfissero il padre a Colmar nel 833 e arrivarono a farlo deporre in un concilio in cui venne
spogliato della dignità imperiale, che rimase nelle mani di Lotario. Tuttavia le discordie tra i figli
permisero a Ludovico di tornare sul trono già l’anno successivo: fu un potere pieno, non limitato o
condizionato. Alla morte di Ludovico il Pio nel 840 le tensioni sfociarono in conflitto aperto tra
Lotario Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo (Pipino era morto nel 838). Tre passaggi sono
significativi:
• 841 battaglia di Fontenoy, in cui Lotario fu sconfitto dai fratelli. La battaglia si risolse in un
massacro che dimostrò quanto la rete clientelare aristocratica si fosse spezzata e articolata intorno
ai diversi re.
• 842 giuramenti di Strasburgo che sancirono l’alleanza tra Ludovico e Carlo contro Lotario. Per
farsi comprendere dai due eserciti Carlo prestò giuramento in tedesco, Ludovico in lingua
romanza, l’antenato del francese. Questo significa la presa d’atto dell’esistenza di spazi di civiltà
diversi riuniti nei decenni precedenti nella grande costruzione politica di Carlo Magno.
• 843 Pace di Verdun, che pose fine al conflitto. A Carlo andò il regno dei Franchi occidentali
(approssimativamente l’attuale Francia) a Ludovico il Germanico i Franchi orientali (la
Germania) mentre Lotario ottenne una fascia intermedia che andava dall’Alsazia fino all’Italia. A
mantenere il titolo imperiale fu Lotario, investito del compito di tutelare la chiesa di Roma,
connaturato alla dignità imperiale.
Nonostante il riconoscimento della dignità imperiale a Lotario l’impero non era più sottoposto ad
una logica di dominio unitario, ma ogni regno era autonomo. Anche se l’amministrazione non
cambiò rispetto a quella di Ludovico il Pio, l’impero carolingio perse per sempre il carattere di
punto di riferimento territoriale. Si costituirono invece forme di organizzazione politica di respiro
regionale grazie al coordinamento dell’aristocrazia intorno ai diversi re.
Negli anni successivi la famiglia si articolò, con Carlo il Calvo che venne incoronato imperatore nel
875, due anni prima della sua morte, e con i figli di Lotario che assunsero in vari momenti poteri
regi in Italia, Provena e Lorena (che prese il nome di Lotaringia da Lotario II), mentre i figli di
Ludovico si affermarono soprattutto in Baviera e in Germania.
Nell’888 Carlo il Grosso, figlio di Ludovico il Germanico, unisce i territori carolingi senza detenere
su di essi un completo controllo, segna con la sua morte la fine della dinastia non in senso biologico

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ma politico. Dall’888 al 987 i carolingi ricoprirono infatti solo occasionalmente posizione di potere,
mentre in altre erano solo una delle tante famiglie in conflitto per il potere.

Il Mediterraneo bizantino e islamico

Le origini dell’Islam

Nella penisola araba la popolazione era divisa in quella urbana (concentrata a La Mecca e Yathrib,
futura Medina) e quella pastorale. La mecca giocava un ruolo centrale per via del culto della Ka’ba,
la pietra di origine meteorica meta di pellegrinaggi. Sul piano religioso prevalevano forme di
politeismo corrette da tendenze al monoteismo, come la gerarchia che conduceva ad un dio
superiore.
Muhammad nacque nel 570 a La Mecca da un ramo minore della potente tribù dei Quraishiti, e
iniziò la sua predicazione religiosa nel 612 in seguito ad alcune visioni che lo convinsero di essere il
profeta incaricato di declamare la parola di Dio. Il Corano, che deriva dalla trascrizione della
predicazione di Maometto che venne messa per iscritta solo in seguito alla sua morte, è direttamente
la parola di Dio.
La predicazione di Maometto era un pericolo per l’aristocrazia della Mecca poiché questa giovava
molto dai pellegrinaggi verso la Ka’ba, che erano politeistici. Dunque Maometto fu costretto a
scappare a Yathrib, dando inizio ad uno dei momenti fondativi dell’Islam, cioè l’Egira, che portò a
cambiare il nome della città a Medina, ovvero città del profeta. Maometto qui radicalizza le sue
posizioni politiche, riunisce sotto la umma, la comunità dei fedeli, un gruppo etnicamente
diversificato che andò a costituire un’organizzazione politico-militare che gli permise di ritornare a
La Mecca dove seppe coinvolgere i Quraishiti più potenti e modificare il culto della Ka’ba in senso
monoteistico.
Alla morte di Muhammad la religione islamica aveva assunto un ruolo guida alla Mecca e
nell’intera penisola araba, un potente fattore di coesione ideologica che permise di dare unità
politica a forse prima disperse e su questa base avviare un’azione militare che nel giro di pochi anni
sottomise agli arabi territori di straordinaria ampiezza. I successori di Muahammad, i califfi, a
partire dagli anni 30 cancellarono l’Impero persiano e ottennero importanti vittorie ai danni di
Bisanzio conquistando Siria e Palestina e avviando la conquista del nordafrica a partire da
Alessandria d’Egitto. Cartagine cadde nel 698, fino a conquistare nell’VIII secolo la Spagna
visigota. L’espansione si arrestò nel 717-718. I limiti territoriali si attestano in seguito alla conquista
della Spagna e alla sconfitta subita a Costantinopoli, ma si espansero a Oriente in Uzbekistan e alla
valle dell’Indo.
Si contrapposero fin dalla morte del profeta, tre fazioni:
• I sunniti che si rifacevano alla sunna, la tradizione, ritenevano che il califfo dovesse essere eletto
sulla base del consenso degli anziani all’interno della tribù di Muhammad.

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• Gli sciiti, seguaci di Alì (cugino e genero di Muhammad) che davano la massima importanza al
carisma familiare e ritenevano che il califfo dovesse essere scelto all0interno della famiglia del
Profeta.
• I Kharigiti su posizioni in qualche modo opposte perché ritenevano che il califfo dovesse essere
scelto solo per merito.
La rottura si realizzò nel 661 con l’uccisione di Alì e l’ascesa al potere dei sunniti, e la funzione
callifale fu assunta dalla tribù degli Omayyadi, il cui potere si estese su gran parte della penisola
anche se rimasero attivi alcuni centri settori in opposizione, che si rifacevano cioè all’autorità di Alì.
Gli Omayyadi posero fine al califfato elettivo e mantennero il potere fino al 750, fu sotto i primi
Omayyadi che si completò l’espansione territoriale dell’Islam. Per gli Omayyadi l’Islam era la
religione degli arabi, e questo li pose in rapporti difficili con le popolazioni sottomesse.
All’interno della società islamica esistevano due disuguaglianze: arabi e non arabi e islamici e non
islamici. La divisione di fede non si tradusse in persecuzione, ma nell’obbligo dei non islamici di
pagare una tassa specifica. La divisione interna ai fedeli islamici non era invece formalizzata e il
sistema di potere islamico era un sistema in cui i nuovi fedeli potevano integrarsi solo legandosi
come clienti a una tribù araba.
Sotto il regno degli Omayyadi il centro politico divenne Damasco, in Siria, riducendo Mecca e
Medina a semplici città religiose, inoltre tra il VII e VIII secolo si sistemò definitivamente la
religione islamica, nel momento di maggiore espansione dell’impero arabo e dunque risentendo di
parecchie influenze esterne derivanti dai popoli conquistati. Nonostante queste influenze l’Islam si
impose come religione araba, in quanto si sviluppo parallelamente all’espansione della cultura e
della lingua arabe su tutto il territorio conquistato. Questo processo troverà il suo compimento con
l’ascesa al potere degli Abbasidi e con lo spostamento del centro califfale a Baghdad.
La perdita di Tunsia ed Egitto fu un duro colpo per l’Impero Bizantino, che dovette dare maggiore
importanza alla Sicilia e ridisegnare i suoi orizzonti politico-militari.
Dal punto di vistas amministrativo e fiscale il califfato fu un erede del sistema imperiale.

Bisanzio: crisi e organizzazione dell’impero

L’espansione dell’Islam sottrasse all’impero bizantino ampi territori del mediterraneo orientale e
meridionale, privandolo dunque del sostegno economico di alcune delle zone più produttive
dell’impero. Allo stesso tempo l’ascesa dei carolingi si oppose ideologicamente alla continuità
imperiale che deteneva Bisanzio, in quanto l’imperatore per essere tale avrebbe dovuto essere uno
solo. L’impero bizantino dunque nasce in seguito al questi stravolgimenti politici del VII e VIII
secolo, i quali gli tolsero la prospettiva universale ma lo rafforzarono dal punto di vista regionale
polarizzata intorno all’Egeo e attorno alla capitale, per la quale appare la definizione di Impero
bizantino. Per comprendere i mutamenti di questa fase bisogna guardare la crisi post-giustinianea,
in cui le conquiste militari erano risultate effimere, le pressioni dei popoli ostili più forti e le

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tensioni interne all’esercito per mancanza di stipendi sempre più intense. Infine le tensioni religiose
avevano reso difficili i rapporti sia con la cristianità occidentale che con le popolazioni monofisite
ai limiti dell’impero, condannati a partire dai concili del V e VI secolo.
Svolta militare con Eraclio che sconfisse l’impero persiano, che fu tuttavia la premessa per la
vittoria del dominio islamico. Con Eraclio si ebbe una grande riforma del sistema amministrativo
che introdusse il sistema di ordinamento tematico. Se nei primi secoli dell’impero si conservavano
la netta separazione tra potere amministrativo e potere militare e dall’altro un esercito stipendiato
grazie alle tasse prelevate nelle province cerealicole. La riduzione territoriale e la costante pressione
militare suggerirono agli imperatori di consegnare poteri amministrativi ai comandanti militari in
alcune regioni dell’impero. Si abbandonò il sistema provinciale di Costantino in favore
dell’organizzazione per temi: il tema era in origine un termine militare ma finì per indicare un
particolare tipo di struttura istituzionale di una particolare regione. I militari assegnati a queste terre
non venivano stipendiati ma venivano concesse loro terre e esenzioni fiscali. La causa di questo fu
la conquista da parte islamica delle regioni più produttive dell’impero, cioè Egitto e Tunisia.
Leone III nel 730 vietò con un editto la venerazione delle immagini sacre, aderendo
all’orientamento iconoclasta alla ricerca di una religione più austera che ricollocasse l’imperatore al
centro della mediazione religiosa, eludendo dunque il culto delle immagini. la pressione militare
richiedeva la massima coesione intorno alla figura dell’imperatore, e la scelta dell’iconoclastia
doveva servire a favorire proprio questo. Tuttavia questo non accadde, anzi creò molte divisioni
all’interno e all’esterno dell’impero per via del fatto che le immagini sacre erano estremamente
importanti nel culto monastico e laico, e all’esterno per via del fatto che questa scelta poneva in
netta contrapposizione la chiesa di Bisanzio con quella di Roma.
La condanna formale del culto delle immagini arrivò nel 754 durante il concilio di Hierea, sotto il
regno di Costantino V. Il concilio fu però subito messo in discussione per via del fatto che a esso
non parteciparono vescovi di chiese occidentali, né degli altri patriarcati orientali: fu una scelta
della sola chiesa bizantina, dei vescovi compresi nei soli territori dell’impero. I più feroci oppositori
di questa decisione furono i monaci, che furono costretti a fuggire per via di persecuzioni.
La pressione si attenuò con Leone IV asceso al trono nel 775 e con la vedova Irene che assunse la
reggenza in nome del figlio. Il concilio di Nicea del 787 riaffermò il culto delle immagini, ma ciò
non pose fine alle tensioni fra i sostenitori di una tesi e quelli dell’altra. L’iconoclasmo fu
riaffermato in forme più moderate già nell’815 ma in questi anni la sua funzione politica andò
esaurendosi: il potere dei monaci appariva ora ridotto, era stata riaffermata l’assoluta centralità del
potere imperiale di derivazione divina, ed erano infine complessivamente sotto controllo le minacce
militari esterne. Nel concilio di Costantinopoli dell’843 l’iconoclasmo fu condannato
definitivamente.
La rottura con roma fu ricomposta infatti solo durante il IX secolo con la condanna
dell’iconoclasmo. Questa vicenda si inserì nella lunga serie di allontanamenti e avvicinamenti che
segna la storia del rapporto tra patriarcati di Roma e Costantinopoli.

Le articolazioni del mondo islamico e bizantino

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Nel 750 si compì un cambio di potere ai vertici del califfato: gli Omayyadi furono deposti dagli
Abbasidi, discendenti da uno zio du Muhammad. Gli Abbasidi rimasero al potere fino al XIII
secolo, spostarono la capitale da Damasco a Baghdad, fecero perdere al dominio islamico la
connotazione etnica araba, in favore di quella esclusivamente religiosa.
Il dominio abbaside articolò diversamente il potere politico rispetto agli Omayyadi, garantendo
maggiore autonomia agli emiri (i funzionari assegnati alle varie parti del dominio islamico) tanto
che Al-Aghlab fu concesso di trasmettere la dignità all’interno della propria famiglia, gli Aghlabiti
che mantennero il potere in Nord Africa per un secolo e mezzo e realizzarono la conquista della
Sicilia, mentre l’emiro dell’Egitto si rese del tutto autonomo insieme alla sua famiglia, i Fatimidi
che rivendicarono per loro stessi il titolo califfale (910) che conservarono fino alla fine del XII
secolo.
La dominazione della Spagna meridionale da parte degli arabi fu condotta in armonia con i regni
cristiani, e fu portata avanti da un emiro scappato dal collo di stato che portò alla salita al trono
degli abbasidi. Soprattutto l’emirato di Al-Andalus contenne una popolazione molto variregata, che
comprendeva l’aristocrazia araba, le truppe berbere provenienti dal Nordafrica e stanziate qui al
momento della conquista, le popolazioni locali convertite e quelle che avevano conservato la loro
fede cristiana o ebrea. Nel 929 gli emiri di Al-Andalus assunsero il titolo califfale entrando in
diretta competizione con gli Abbasidi di Baghdad e con Fatimidi d’Egitto. Il dominio islamico
rimase stabile fino al X secolo, per poi articolarsi in dominazioni autonome (tayfas) che a partire
dall’XI secolo subirono le pressioni militari dei regni cristiani durante la reconquista.
La campagna per la conquista della Sicilia iniziò nel 827, e si concluse alla fine del secolo. A partire
dal 916-17 fu sottomessa alla dinastia dei Fatimidi, ma lo spostamento verso l’Egitto lasciò spazio a
dinastie locali che dominarono autonomamente fino alla conquista dei normanni nell’XI secolo.
l’impero bizantino incontrò una rinascita sotto il regno de basilici, iniziato con Basilio I, che portò
ad un’espansione dell’impero sul mediterraneo arabo e sull’oriente, ma non solo, fu in grado di fare
questo infatti per via della costruzione di una rete clientelare e religiosa che abbracciava molti
territori confinanti, territori autonomi ma che risentivano dell’egemonia di Bisanzio.
Alla fine del IX secolo la rottura con Roma fu ricomposta tramite un accordo che prevedeva la
priorità solo formale di Roma, ma priva di una qualsiasi implicazione giurisdizionale.
Entrambi gli imperi di oriente e occidente intendevano estendere la propria egemonia su un
territorio in particolare: l’Europa orientale. Oggetto degli interessi degli imperi era la popolazione
slava. Si trattava di una popolazione frammentata, un insieme variegato di popoli con caratteri
culturali e linguistici comuni che si trovarono in ampio coordinamento politico. Due dominazioni da
ricordare: Bulgari e Grande Moravia. I Bulgari esercitarono pressioni militare sull’Impero durante il
VIII secolo per subire poi un processo di assimilazione religioso-culturale per poi subire un
processo di assimilazione religioso-culturale nella seconda metà del IX sotto il Khan Boris, ma i
decenni successivi furono segnati da una ripresa dell’azione militare contro l’Impero, che nei primi
anni del X secolo culminò in una minaccia diretta alla capitale e in un trattato di pace favorevole ai
bulgari, con un accordo matrimoniale fra l’imperatore minorenne Costantino VII e la figlia del

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Khan Simeone. Si affermò a Costantinopoli tuttavia un nuovo imperatore, Romano Lecapeno, che
impedì il matrimonio e i bulgari persero il loro potere dopo la morte di Simeone. Tra il IX e X
secolo si affermò il regno della Grande Moravia, che arrivò a comprendere territori delle attuali
Germania, Boemia e Ungheria.
Queste popolazioni si diressero verso il Cristianesimo. I principi slavi cercavano la conversione ma
temevano che ciò implicasse la sottomissione ai due imperi cristiani, e per questo si oscillarono
durante la loro storia da un patriarcato all’altro, scegliendo spesso quello meno minaccioso. La
chiave del successo di Bisanzio fu la lingua: durante il IX secolo operarono in territorio slavo due
fratelli missionari, Costantino (che assunse il nome di Cirillo) e Metodio, conoscitori della lingua
slava crearono una grafia apposita per rendere fedelmente i suoni della lingua. Con questa scrittura
poterono tradurre i maggiori testi sacri e liturgici e di fatto avviare un processo di profonda
assimilazione culturale delle popolazioni slave, che rientrarono nell’orbita di Bisanzio.

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Società e poteri nel X secolo

I mutamenti dei poteri comitali

L’impero carolingio non crollò per cause esterne ma per cause interne: per i mutamenti negli
equilibri del potere regio e quello aristocratico ed ecclesiastico.
Le divisioni dell’impero tra diversi esponenti della dinastia portò a un cambiamento nei rapporti tra
corona e aristocrazia. Questi sotto Carlo Magno univano i rapporti vassallatici agli incarichi
funzionariali. Era un rapporto fondato sullo scambiai di servizi e redistribuzione di ricchezze
(benefici feudali, funzioni prestigiose, cariche ecclesiastiche). I re non potevano più disporre delle
ricchezze come negli anni precedenti, e durante le guerre per la successione i vari aristocratici erano
quelli che si trovavano nella posizione di maggior forza contrattuale, dato che i re avevano bisogno
di loro ma non loro dei re. Ciò che veniva chiesto dagli aristocratici ai re era la possibilità di poter
lasciare in eredità la propria ricchezza senza alcun disturbo.
A partire dagli ultimi decenni del IX secolo, i marchesi e i conti rimangono sempre più a lungo
entro i loro domini e passano la loro posizione ai figli. Comincia la saldatura fra funzione di
governo e beneficio vassallatico. Ora la clientela vassallatica aveva assunto maggiore potere per via
dell’indebolimento della corona, sempre più sprovvista di ricchezze da scambiare per i servizi degli
aristocratici.
La saldatura fra funzionari e conti porta questi ultimi a radicarsi nel territorio, a siglare accordi
matrimoniali, ad acquistare terre, a fondare chiese, e dunque a porre più attenzione alle porzioni di
terra che possiede invece che all’intera regione a cui è assegnato. Questo avviene perché i quadri
politici generali erano di più ridotto respiro e anche perché in territori di minore estensione come
questi l’aristocrazia era più portata a concentrarsi sulla porzione più redditizia.
Questo porta all’astensionismo dei conti, che viene supportato anche da altri fattori, primo fra tutti
l’immunità della chiesa che scoraggiava i funzionari regi a mettere piede nei territori circostanti
l’influenza della chiesa, e le aree in cui s concentravano possessioni terriere di dinastie amiche o di
cui non si voleva attirare l’ostilità. Questo astensionismo portò alla formazione di poteri locali, ma
già nel X secolo si constata come il territorio del comitato non fosse tutto uguale, fosse il campo di
affermazione di diverse chiese e dinastie che fondavano il loro potere sul possesso fondiario.
Altro elemento di diversificazione del potere territoriale du la formazione dei poteri vescovili nell
città, avvenuto per via della difficoltà da parte degli ufficiali regi di governare un centro urbano
socialmente diversificato, oltre alle concessioni regie nei confronti dei vescovi stessi. Tutte queste
novità ci mostrano un indebolimento del potere regio sui propri funzionari e territori, ma anche una
discontinuità del controllo dei conti sui loro territori, oltre alla scomparsa della capacità di difesa da
parte del re e del suo apparato.

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Minacce esterne: le incursioni Saraceni, Ungari, e Normanni

Alla fine del IX secolo la crisi del potere carolingio diede spazio a incursioni militari di popoli
provenienti dall’esterno dell’impero: queste popolazioni erano i Saraceni, pirati attivi ne
Mediterraneo, Ungari, risiedenti nelle steppe dell’attuale Ungheria, e i Normanni, provenienti dalla
Scandinavia. Questi gruppi non invasero Francia Germania e Inghilterra con campagne militari di
massa, ma con spedizioni minori volte al saccheggio.
I saraceni erano un gruppo di etnia mista dedito alla pirateria nella zona meridionale del
Mediterraneo già a partire dagli anni 60 del IX secolo. Il salto di qualità avvenne alla fine del secolo
con la fondazione di basi permanenti sulla costa settentrionale del Mediterraneo, la principale
essendo Fraxinetum, nella baia di Saint-Tropez, da cui partirono spedizioni di saccheggio
nell’entroterra e sulle Alpi che cessarono solo dopo il 972, quando il conte di Arles e il marchese di
Torino si allearono per distruggere la base saracena.
Ci sono pervenute solo testimonianze prodotte nelle chiese e nei monasteri, che attestano
un’atmosfera di paura e insicurezza, oltre che di malcontento per l’incapacità di porre freno alle
violenze di queste bande di guerrieri.
Tra la metà del IX e la metà del X si contano 30 spedizioni ungare in Germania e in Italia. Questa
popolazione si spostava a cavallo attraverso l’Europa Orientale e sempre a cavallo combatteva, fino
a spingersi dentro il territorio carolingio e saccheggiare importanti città come Pavia o la Lorena.
Nelle dure lotte politiche che segnarono il regno italico nella prima metà del secolo X i diversi
aspiranti al trono assunsero gruppi ungari perché combattessero al proprio servizio. Furono i
cambiamenti politici interni al regno post-carolingio che portarono alla fine delle incursioni ungare:
nel 955 nella battaglia di Lechfeld condotta da Ottone I di Sassonia forte di un nuovo e più efficace
controllo sul regno di Germania, gli ungari vengono sconfitti e comincia una fase di trasformazione
del loro regno ad opera di Ottone. Nei decenni successivi le scorrerie cessarono e gli Ungari si
convertirono al cristianesimo, l’Ungheria divenne stabile alleata della Germania.
Lo sviluppo degli scambi nel mare del Nord aveva stimolato la mobilità dei popoli scandinavi su
due livelli: commercio e pirateria. Questa mobilità si sviluppò in tre direzioni diverse: Russia,
Inghilterra e le coste settentrionali dell’Europa. In queste zone popolazioni affini vennero
identificate con nomi diversi: in Russia Vareghi, in Inghilterra Vichinghi e in Francia Normanni.
A est prevalse la dimensione commerciale, le navi a fondo piatto permettevano di salire grandi
fiumi consentirono un commercio in profondiità ai Vareghi che vennero anche chiamati Rus. Questi
seppero trasformare la loro attività commerciale in stanziamento stabile fondando emporia che
dovevano fungere da luoghi di scambio, e che si costituirono col tempo come insediamenti abitativi,
che crebbero demograficamente fino a che alcuni di essi come Kiev e Novgorod assunsero
centralità politica nei confronti del territorio circostante e nel corso del X secolo diedero vita a
costruzioni politico territoriali autonome. Il principato di Kiev divenne uno delle maggiori
dominazioni dell’Europa Orientale.
In Occidente l’azione militare dei Normanni può essere scandita in tre fasi:

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• Prime operazioni di rapina sulle coste dell’Inghilterra e della Frisia a partire dai primi decenni del
IX secolo.
• Decenni centrali del secolo le incursioni crebbero di scala con flotte di decine di navi che
permettevano di risalire i fiumi e attaccare Londra (851) o Parigi (855).
• Alla fine del IX secolo le incursioni si trasformarono in insediamenti stabili all’interno dei regni
inglesi della Mercia e dell’East Anglia e nel nord del regno franco, attorno alla foce della Senna;
quest’ultimo fu riconosciuto dal re Carlo il Semplice che nel 911 investì di questa regione il capo
normanno Rollone dando vita al ducato di Normandia.
Anche in quest’ultimo caso si avviò un processo di assimilazione culturale e politica: i Normanni si
convertirono al cristianesimo e il ducato divenne analogo agli altri principati territoriali che si
spartivano il territorio francese e si coordinavano attorno al re, anzi divenne centro di stabilità
militare poiché conteneva con la sua forza altre possibili incursioni normanne.
Tra il X e XI secolo il mare del Nord era normanno, tra Danimarca, Scandinavia, Normandia e
Inghilterra si confrontavano poteri regi diversi ma strettamente collegati da parentele e alleanze. Il
re knut riuscì ad unificare nei primi anni del XI secolo i regni d’Inghilterra, Danimarca e Norvegia.

Il potere dei re

Il potere regio smise di disporre della legislazione di carattere generale a partire dal secolo X e XI, e
si limitò invece all’elargizione di diplomi a singoli individui o comunità. Questo non significa che il
potere regio fosse diminuito ulteriormente: possedeva ancora grandi ricchezze e poteva ancora
occupare posizioni di forza con l’aristocrazia, ma non più in modo diretto: ormai le terre
appartenenti ai signori dovevano essere riconosciute come autonome e la posizione regia era quella
della constatazione attiva, ovvero del riconoscimento della proprietà aristocratica ma al contempo la
conservazione del potere di indirizzare e legittimare la vita pubblica ivi amministrata.
I diplomi regi erano ritenuti molto importanti dall’aristocrazia poiché servivano a legittimare i
propri possedimenti oltre ogni dubbio e pretesa di signori rivali, inoltre si trattava di una
concessione molto costosa in quanto poteva comportare un lungo viaggio alla corte del re e i doni
da consegnarvi.
La crisi post-carolingia non annullò il potere regio ma portò ad una ridefinizione del suo ruolo
politico, fondata su alcuni caratteri comuni a tutti i regni, territori meno estesi, rapporti con
aristocrazia, ridotta capacità di influenzare dinastie e chiese, impossibilità di manovra con leggi
generali. Si formarono quattro regni: Germania Italia Francia e Borgogna. Non si trattava di stati
odierni: con confini definiti e sistemi politici distinti. Le aristocrazie di ognuno di questi regni erano
legate le une alle altre in modo molto profondo, e ciò impediva di separare le politiche dei diversi
regni.

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La Borgogna si affermò alla fine del IX secolo come regno autonomo sotto il potere dei Rodolfingi,
tra Alpi e Rodano, a cavallo di quelle che sono Francia e Svizzera francese. Nel 933 sotto Rodolfo
II si conquistò la Provenza, ma la crisi dinastica iniziata con la morte di Rodolfo II aprì la strada ai
re di Germania per affermare il patronato e il controllo sulla Borgogna, fino ad acquisirla
completamente a partire dal 1034.

Italia

A partire dalla morte di Carlo il Grosso nell’888 l’Italia visse vicende parallele a quelle degli altri
regni ex-carolingi. Alla fine della dinastia nessuno poteva vantare discendenze sufficienti a salire al
trono per diritto, dunque dall’888 al 961 si estese una fase di scontri politici e militari molto
violenta, che vedeva opposti principalmente i marchesi del Friuli e quelli di Spoleto. Berengario del
Friuli fu incoronato re nell’888, ma fu sconfitto da Guido di Spoleto l’anno successivo, dunque
Guido. Viene incoronato re nell’889 e imperatore nell’891. Berengario non scomparve ma si ritirò
nelle sue terre, fino alla morte di Guido nell’894, anno in cui venne di nuovo incoronato re e poi
imperatore nel 915, e regnò fino alla sua morte nel 924. Dovette fronteggiare gli attacchi di
Lamberto di Spoleto (figlio di Guido) e di Ludovico di Provenza, che si risolsero con la morte del
primo nell’898 e nell’accecamento del secondo nel 905.
La battaglia non era solo tra questi aspiranti, ma tra gruppi parentali marchionali che cercavano di
controllare la corona direttamente o indirettamente. A questo gruppo appartenevano Berengario,
Guido e Lamberto, ma del tutto analoghi erano gruppi come i marchesi di Ivrea e di Tuscia. Settori
della grande aristocrazia italica chiesero a Rodolfo di Borgogna di rivendicare la corona contro
Berengario, e la battaglia fra questi due durò fino all’uccisione di quest’ultimo, che tuttavia non
rese campo libero a Rodolfo che si trovò a scontrarsi con Ugo di Provenza, che lo sconfisse e lo
costrinse a ritornare in Borgogna nel 926.
Ugo tenne la corona fino al 946 fino a quando non la lasciò al figlio Lotario, il quale dovette
fronteggiare le aspirazioni del nipote da parte di madre di Berngario I, il marchese d’Ivrea
Berengario II. Alla morte di Lotario la corona passò a Berengario II nel 950, ma non era nemmeno
questo un periodo di pace poiché Ottone I volle imporre la sua egemonia sull’italia, dunque affermò
il suo controllo sul regno italico unendo i regni di Germania e Italia.

Germania

L’ultimo re carolingio dei Franchi orientali fu Ludovico il Fanciullo, che morì nel 911m lasciando il
posto per re nuovi che non ereditarono la corona dai propri antenati. Il nuovo re veniva scelto
dall’insieme dei duchi; ma tale principio dovette sempre convivere con tendenze dinastiche di
famiglie aristocratiche. La storia di questo regno dal X secolo in avanti può essere letta nell’ottica
della convivenza tra potere principesco e potere regio, elettivo e dinastico. Nei momenti di forza
della corona era il secondo a prevalere ma sin mementi di crisi dinastica era il primo.

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Alla morte di Ludovico nel 911 divenne re Corrado di Franconia, che venne però osteggiato da
alcuni settori dell’aristocrazia perché non era considerato un re valido, dunque si oppose a lui
Enrico di Sassonia, con cui il re arrivò ad un accordo di non ingerenza del potere regio nei territori
sassoni. Alla morte di Corrado Enrico venne scelto come nuovo re, e la corona si trasmise
all’interno della dinastia dei duchi di Sassonia, fino alla morte di Enrico II nel 1024.
Nel 925 Enrico sottomise il regno di Lotaringia (fascia tra Germania e Francia) e Ottone I conquistò
l’Italia con una campagna iniziata nel 951.
Ottone si ritrovò ad operare in un contesto molto complesso: le fazioni interne all’aristocrazia di chi
sosteneva Berengario II e chi la regina Adelaide, vedova di Lotario, poi la fazione di Berengario,
poi l’opposizione del proprio figlio Liutdolfo che voleva affermare il proprio potere personale
sull’Italia. L’intervento di Ottone fu a sostegno della regina, che Ottone sposò a Pavia nel 951, sia
superiorità di Berengario II, ma al contempo le tensioni tra ottone e il figlio si trasformarono ini un
vero e proprio conflitto. Il figlio Liutdolfo aveva cercato di riunire i grandi del regno al suo seguito
contro il padre, dunque la questione sin Italia fu risolta con il riconoscimento di Bernegario II e il
figlio Adalberto come sovrani sottoposti all’autorità di Ottone.
Il conflitto con il figlio si risolse a favore di Ottone nel 954 con un atto di sottomissione di
Liutdolfo. Seguì la vittoria di Lechfeld del 955.
Si definì l’unione dei due regni (Germania e Italia) a cui poi si aggiunse nel 1034 la Borgogna.
La dinastia degli Ottoni continua per un secolo ad essere riconosciuta dall’aristocrazia ducale, w
questo era dovuto al fatto che gli Ottoni stabilivano parenti nelle sedi ducali andando a solidificare
il controllo degli Ottoni sul territorio tedesco.
Sotto Ottone III ci fu la renovatio imperi che avrebbe dovuto recuperare le usanze imperiali sia
occidentali che bizantine. Il riferimento a Roma non era solamente ideologico ma di convenienza:
nel 996 mentre il re si avviava per ricevere la corona imperiale gli giunge la notizia della morte di
Giovanni XV, dunque l’imperatore nomina papa un proprio cugino: Bruno di Worms. La novità non
era tanto che l’imperatore nominasse il pontefice, ma che quest’ultimo provenisse dai territori
d’Oltralpe, dall’aristocrazia tedesca.
Dopo il declino dell’era carolingia l’aristocrazia romana aveva avuto il primato sull’elezione
papale, infatti i romani si ribellarono duramente all’elezione di Gregorio, tanto che nel 998 Ottone
III dovette intervenire per far deporre il papa eletto dall’aristocrazia e riporre sul soglio pontificio
Gregorio. Alla morte di quest’ultimo nominò Gerbert d’Aurillac, che assunse il nome di Silvestro II,
richiamandosi al papa che aveva battezzato Costantino. Ottone III cercò dunque di riporre Roma al
centro dell’Impero, partendo dalla nomina di Papi colti e svincolati dalla lotta di potere interna
all’aristocrazia romana, ma questo suo orientamento non ebbe seguito e solo dalla metà del secolo
successivo sarebbe iniziata una vera e propria riforma del papato.
Alla morte di Ottone III nel 1002 seguì in Germania il cugino Enrico II, il quale aprì la possibilità di
salire alle cariche ducali anche a non esponenti della sua famiglia. In Italia le implicazioni della
morte di Ottone III non furono così lineari: poche settimane dopo la morte dell’imperatore gruppi di
aristocratici italiani si riunirono a Pavia per eleggere re d’Italia Arduino, marchese di Ivrea. Fu
sconfitto da Enrico II nel 1004, si ritirò in seguito nelle zone da lui controllate, dove ricostruì una

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folta rete di alleanze che attirarono una seconda spedizione militare di Enrico nel 1014 che si
concluse stavolta con il ritiro di Arduino in un monastero.

Francia

Dopo la morte di Carlo il Grosso nel 888 salì al trono il primo re di Francia non Carolingio: Oddone
di Parigi, ma questo fu solo l’inizio di una fase di discontinuità nella successione al trono di
Francia, in quanto poco dopo alcuni settori dell’aristocrazia francese decisero di appoggiare Carlo il
Semplice, che fu incoronato a Reims nel 893, e divenne univo re di Francia nel 898 alla morte di
Oddone. Fu un re debole, che cedette la Normandia ai normanni e per questo venne deposto nel 922
dagli aristocratici.
La novità del regno francese post-carolingio fu la divisione del territorio in principati regionali
autonomi come la Borgogna, la Chamapgne, l’Aquitania, e l’Anjou si allearono attorno ad
altrettante dinastie di conti e duchi, e il territorio effettivamente governato dai re era molto meno
esteso dei restanti principati.
Negli anni successivi l’aristocrazia pose sul trono Roberto di Neustria (fratello di Oddone) e
Rodolfo di Borgogna (genero di Roberto). Questi erano dunque parenti di Oddone, che chiamiamo
Robertini, ma si evitò di consegnare la corona al figlio di Oddone, Ugo il Grande.
Ugo il Grande non impose la sua incoronazione alla morte di Rodolfo, anzi fece ritornare dall’esilio
il figlio di Carlo il Semplice, Ludovico IV, con cui i carolingi ripresero la corona e la detennero fino
al 987. Furono i Robertini a crescere maggiormente sotto il nuovo regno dei carolingi, fino al punto
in cui nel 987 salì al trono il figlio di Ugo il Grande: Ugo Capeto, da cui prese inizio la dinastia
capetingia, destinata a durare fino al 1328, quando la corona passò a un ramo collaterale della
famiglia, i Valois. L’ascesa al trono di Ugo Capeto è dovuta ad una contingente crisi dinastica
carolingia in quanto Ludovico V non aveva figli.
La corona di Francia durante il X secolo fu a lungo nelle amni dei carolingi parallelamente al
consolidarsi del potere del principato Robertino, mentre nell’XI secolo il potere regio acquisì
carattere duplice: egemone sul territorio francese e regionale nell’Ile-de-France. Furono i poteri
regionali a creare nuovi funzionamenti politici, primi fra tutti i grandi vescovi.

Ai margini del mondo carolingio

In Inghilterra vi era grande frammentazione politica che solo a fatica si era organizzata tra il VII e il
VIII secolo in una molteplicità di regni minori, una discontinua egemonia del regno di Mercia, sotto
la guida del re Offa, alla fine dell’VIII secolo. Il secolo IX può essere letto alla luce di due processi:
da un lato la progressiva crescita delle incursioni normanne che portarono ad un controllo della
zona centro-orientale tra la Mercia e l’Est-Anglia, dall’altro lato una crescente egemonia del
Wessex, regno posto nella parte sud-occidentale dell’Inghilterra. Il culmine di questo regno fu
quello sotto Alfredo il Grande (871-899) che sottomise la Mercia e unificò i territori inglesi non
compresi dalla dominazione normanna. Alla morte di Alfredo salì al trono il figlio Edoardo

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(899-924), ma non gli furono riconosciuti tutti i poteri del padre, dunque nel 911 dovette
sottomettere di nuovo la Mercia. Alla morte di Edoardo Wessex e Mercia si separarono di nuovo.
Per tutto il X secolo non si parla di regno inglese unitario, ma ancora di una pluralità di regni, che a
tratti si legavano e si staccavano. Fu solo all’inizio del XI secolo che si ebbe l’unificazione
dell’Inghilterra con Knut (Canuto), il quale nel 1016 partendo dai domini normanni dell’Inghilterra
orientale arrivò a controllare il Wessex e tutti i principali regni inglesi. Knut controllava da tempo
Danimarca e Norvegia. Knut dunque unificò l’Inghilterra da una parte e integrò i regni del mare del
Nord controllati da re diversi ma simili per cultura e a volta per parentela.
Alla morte del re Edoardo nel 1066 ci furono tre aspiranti successori: Duca del Wessex Harold
Godwinson, re di Norvegia Harald e il duca di Normandia Guglielmo. Il primo fu rapidamente
incoronato re ma nell’autunno dello stesso anno fu sconfitto e ucciso da Guglielmo ad Hastings. La
battaglia viene considerata un momento di svolta per la storia inglese in quanto segna
l’affermazione definitiva dell’aristocrazia normanna per cui negli anni successivi l’aristocrazia
normanna e inglese entrarono a stretto contatto, e il potere regio diventò più centrale.
La conquista araba della penisola iberica aveva dissolto l’unità visigota: la parte centrale e
meridionale era diventata l’emirato di Al-Andalus, mentre a Nord si erano formati i regni delle
Asturie e Pamplona/Navarra. La convivenza tra emiri e cristiani fu segnata indubbiamente da una
tensione di fondo, ma che non portò né a tentativi di conquista integrale del territorio da parte degli
arabi né di riconquista cristiana. I re cristiani cercarono di fomentare la lotta per il potere e
l’instabilità politica sostenendo certe fazioni all’interno dell’emirato invece di altre. In patibolare a
fare questo fu il regno delle Asturie, il cui centro politico si spostò da Oviedo a Leòn (diventò noto
come regno di Leòn). Già dalla fine del IX secolo erano presenti le basi ideologiche della
Reconquista spagnola, come l’opposizione militare su base religiosa, l’azione militare degli emiri
come guerra giusta, eccetera. Nel X secolo l’emirato e i regni cristiani non erano entità contrapposte
in modo assoluto, ma diverse realtà regionali protagoniste di un’intensa dinamica politica, non
sempre fondata sullo scontro armato. Solo nell’XI secolo e in concordanza della prima crociata si
ebbe la Reconquista come forma strutturata e ideologicamente organizzata di campagna militare-
religiosa per l’espansione territoriale ai danni dell’emirato, che tuttavia raggiunse risultati solo a
partire dal XIII secolo.

Modelli di ordine sociale

Il potere aristocratico dopo la caduta dei carolingi aveva iniziato a lottare non più per avvicinarsi al
re ma per impadronirsi del potere regio, e questo li aveva resi i veri protagonisti della scena politica
dei secoli X e XI. I re non erano più in grado di creare aspetti politici locali, ma solo di
condizionarli o legittimarli. Gli esponenti dell’aristocrazia erano i discendenti degli ufficiali
pubblici, le chiese vescovili e monastiche e i nuovi nuclei signorili.
Ebbe inizio dunque l’elaborazione di nuove forme di amministrazione e di ordine sociale, che ebbe
origine non nelle corti regie ma nelle sedi vescovili. Una trasformazione così profonda non incise
sulle forme di vita a tutti i livelli am indusse i gruppi intellettuali a un ampio processo di riflessione

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sulle forme del potere: la questione chiave. Era come si potesse costruire un ordine in assenza di un
efficace potere politico.
Una trasformazione così profonda non incise solo sulle forme del potere: la questione chiave era
come si potesse costruire un ordine in assenza di un efficace potere regio.
Il modello più noto è quello trifunzionale: in breve nei primi anni dell’XI secolo due vescovi del
Nord della Francia, Adalberone di Laon e Gerardo di Cambrai enunciarono la teoria che il corpo
sociale dovesse essere diviso tra chi pregava, chi lavorava e chi combatteva. Il punto centrale era la
reciprocità delle tre funzioni.
Questa concezione aveva radici lontane, una fondamentale tripartizione della società la si vede negli
strati più profondi della cultura indoeuropea; ed ebbe un lungo futuro, dato che fu ripresa in molti
testi ed immagini. L’importante è notare che questa ideologia trovò nuova linfa dalla situazione
politica del tempo, ovvero la debolezza del potere monarchico di Roberto il Pio (figlio di Ugo
Capeto) che poneva in pericolo la chiesa di fronte alle scorrerie dei signori locali.
Modello diverso era quello proposto dalle paci di Dio. Alcuni vescovi del sud della Francia a partire
dagli ultimi anni del X secolo convocarono delle assemblee di chierici e laici destinate a ristabilire
la pace in una regione. In queste assemblee venivano radunate reliquie in grandi quantità e su di
esse veniva pronunciato un giuramento di rispettare le norme che avrebbero permesso il
raggiungimento della pace. La novità non erano le norme in sé stesse, già affermate dalla legge
carolingia, ma il fatto che fossero volute dalla collettività. La differenza maggiore era che se da un
lato la violenza dei laici cercava di essere contenuta ripartendo le sfere della società a diversi
compiti, dall’altro si cercava di farlo riunendo i corpi sociali.

Nuove chiese e nuovi poteri

La riforma della chiesa iniziò nel XI secolo ma nel X ci fu la riforma monastica di Cluny, e la
diffusione di nuove forme di religiosità, a più chiaro orientamento eremitico, e dall’altro lato un
maggiore coinvolgimento dei vescovi nelle strutture del potere locale.
909-910 il Duca Guglielmo d’Aquitania- un potente principe che controllava territori sparsi nel sud
della Francia, dai Pirenei alla Borgogna fondò l’abazia di Cluny nella diocesi di Mâcon, e l’affidò
all’abate Bernone. Nulla di nuovo, tra il X e XI secolo furono centinaia i monasteri fondati da
nobili. La prima peculiarità di questa fondazione fu la rinuncia del duca a qualsiasi controllo sulla
vita intera del monastero, e alla nomina dei futuri abati. Al contempo il monastero fu libera anche
dal controllo del vescovo di Mâcon, poiché la benedizione del monastero era affidata direttamente
al vescovo di Roma.
Gli abati cluniacensi diedero una interpretazione molto specifica della regola, che arrivò a dare
maggiore importanza alla liturgia e alla preghiera rispetto al lavoro manuale. La preghiera assunse
dunque aspetti sempre più solenni e una speciale attenzione alla preghiera per i defunti. Queste
caratteristiche assicuravano un alto beneficio spirituale a coloro che si trovavano nelle vicinanze di
Cluny e dunque che ripagavano con ricchi versamenti di denaro e patrimoni fondiari.

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Fu dunque un modello di vita religiosa integrato al sistema di dominio aristocratico. Nel giro di
pochi decenni i cluniacensi acquisirono una grande fama all’interno e all’esterno del regno di
Francia, e questo spinse ad incaricare Oddone, il secondo abate, a riformare alcune abbazie antiche
importanti in declino dal punto di vista della disciplina e della spiritualità (Fleury, San Paolo, San
Pietro a Pavia).
Altra grande novità che sarebbe derivata dalla innovazione cluniacense fu la costituzione di una rete
di monasteri coordinati dall’abbazia borgognona, una congregazione di enti religiosi che
riconoscevano la propria guida nell’abate Cluny. La congregazione era composta in parte da abbazie
antiche che si sottoposero all’autorità di Cluny, ma per la maggior parte da priorati sprovvisti abati
in quanto l’unico abate era quello di Cluny.
Le basi della congregazione furono posti dal X secolo con gli abbazia di Oddone e Maiolo poi a
cavallo tra ili X e XI secolo, poi di Odilone dal 994 e 1049: in tutto questo periodo l’abbazia ottenne
grande prestigio. I priorati si diffusero così durante l’XI secolo ini Germania, Spagna, e Italia. Si
diffuse anche il modello di congregazione che venne adottato dalla abbazia di fruttuaria in
Piemonte, anche se nessuna raggiunse mai il prestigio di Cluny.
Il punto massimo del trionfo cluniacense avvenne nel 1088 con l’elezione al soglio pontificio di
Oddone, priore di Cluny, che assunse il nome di Urbano II. A lui si deve la proclamazione della
prima crociata, fenomeno destinato a trasformare in modo importante i rapporti con il Mediterraneo.
Oltre a Cluny altra. Esperienza. Riformatrice fu quella di Romualdo che si concentrò sulla vita
eremitica, e che fondò nel 1023 il monastero di Camaldoli che manifestò una grande forma di
attrazione dando vita a un movimento che dopo la morte di Romualdo trovò un punto di riferimento
in Pier Damiani, grande figura del riformismo il cui impegno per la chiesa si coniugava con
l’esperienza eremitica. Non si trattava in questi monasteri dell’ermetismo tradizionale ma un
ermetismo comunitario che era nato in quanto il cenobitismo era considerato troppo legato al
secolo. Comincia così un ideale di religiosità più legata alla penitenza e alla povertà, quando Cluny
faceva vanto della sua ricchezza.
Dopo la caduta del potere carolingio i vescovi assunsero pieno controllo delle città in quanto i
funzionari nobili si rivolgevano sempre più ai loro terreni di proprietà. Un caso specifico del potere
vescovile è il diploma concesso da Ottone I al vescovo di Parma nel 962. La concessione al vescovo
uberto è enorme: Ottone gli assegnò tutti i beni fiscali compresi nella città e nel comitato, le mura,
ogni diritto di prelievo in città e per una fascia di tre miglia attorno il potere giudiziario sugli
abitanti della città. In pratica il vescovo ottenne tutti i poteri spettanti al conte.
Il diploma concesso al vescovo di Parma era uno dei tanti concessi alle sedi vedovili da parte degli
Ottoni, che consegnavano queste concessioni al partito più favorevole agli interessi imperiali. Dal
punto di vista regio il senso politico. Di queste operazioni si coglie considerando i meccanismi di
trasmissione del potere comitale. I conti sapevano di essere ancora detentori di cariche derivate dal
potere regio, ma il vincolo che li univa al re si era molto indebolito. Era più conveniente per il re
concedere poteri al vescovo in quanto questi non poteva avere eredi legittimi e inoltre intervenire
eventualmente sulla successione dinastica di un conte sarebbe stato troppo radicale, anche per un re
potente come Ottone III.

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Altro importante elemento dei vescovi era che avevano legami importanti con la società e i ceti
eminenti, in quanto gli aristocratici di livello più elevato erano al contempo i chierici che
affiancavano il vescovo, o in alternativa la clientela vassallatica vescovile. Queste famiglie
fungevano da guide militari e intermediari dell’autorità vescovile sulla società. I diplomi potevano
essere concessi al vescovo e ai suoi concives, come accadde nel caso del diploma concesso da
Enrico II nel 1014 al vescovo di Savona e ai cittadini di Savona tutelando questi dalle ingerenze di
conti e marchesi.
Spesso i diplomi confermavano semplicemente un processo già iniziato da anni, come nel caso
degli arcivescovi di Milano, che agirono al comando della città e di una vasta clientela vassallatica
pur senza ottenere mai un diploma imperiale che ratificasse tale potere.
Le concessioni si concentrarono nell’età dei re sassoni da Ottone I a Enrico II per attenuarsi nei
secoli centrali del XI secolo, quando il rapporto tra impero e vescovi fu intaccato dalla riforma.

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PARTE TERZA: POTERI LOCALI E POTERI REGI TRA L’XI E IL


XIII SECOLO

Le istituzioni della Chiesa e l’inquadramento religioso delle popolazioni fra


XI e XIII secolo

La chiesa deteneva maggiore potere del re per quanto riguardava il mantenimento dell’ordine
pubblico e all’interno delle relazioni di potere signorile. Sulla spinta di chiese locali, vescovi,
imperatori e fedeli militanti si mise in moto la Riforma, un processo di ripensamento delle strutture
della chiesa. Nei primi decenni del secolo XI i temi portanti furono fissati: recupero dei beni,
affermazione della natura inalienabile e indisponibile delle cose sacre, a cominciare dalla cariche
che non potevano essere vendute per denaro (simonia), celibato ecclesiastico, necessità di un vertice
della chiesa libero di condizionamenti esterni. Il programma era lungo e di difficile realizzazione,
senza contare l’enorme resistenza che sarebbe stata opposta ai riformatori, in primo luogo dagli
stessi quadri episcopali, che seppur approvando molti punti della riforma di opponevano al.
Moralismo dei riformatori radicali che mettevano in discussione le basi del loro potere.
Sotto il pontificato di Gregorio VII questo scontro coinvolse anche l’imeperatore Enrico IV, per via
di una disputa sull’abolizione delle investiture dei vescovi da parte dei laici: il tentativo del papa era
quello di inserire i vescovi in un quadro esclusivamente religioso, tagliandoli fuori dal raggio
d’influenza del potere imperiale. Seguirono cinquant’anni di scontri violentissimi, scomuniche,
maledizioni, e deposizioni che si conclusero con un lasciare le cose come erano ai tempi di
Gregorio.

Per una riforma della chiesa, vescovi imperatori e papi nella prima metà dell’XI secolo

Uno dei primi punti ad essere realizzati nel corso dell’XI secolo fu la difesa o il recupero di territori
di proprietà della chiesa usurpati dai laici nel corso del secolo. precedente. Su andò a ricostruire
così un apparato istituzionale delle chiese locali in grado di esercitare una vera e propria funzione
pastorale. In questa fase della riforma il papato fu sostenuto dall’imperatore e dalla sua curia
formata da principali vescovi del regno di Germania.
In questa impresa collaborarono anche i membri della curia imperiale sotto Enrico III incoronato nel
1039, il quale si pose a capo del progetto di riforma della chiesa volendo estendere il suo controllo
su Roma che era in balia di lotte signorili per il potere, basti pensare che quando Enrico scese in
Italia a Roma erano stati eletti tre papi diversi allo stesso momento. Dopo un primo tentativo di
appoggiare uno dei tre contendenti l’imperatore scelse di risolvere il problema alla radice e di
deporre tutti e tre i papi eletti e proporre il vescovo di Bamberga, membro della sua curia, eletto
papa con il nome di Clemente II. Era l’inizio di una lunga serie di papi tedeschi provenienti dalla
cerchia dei chierici imperiali riformatori. A Clemente II successe il vescovo di Bressanone,
Poppone, con il nome di Damasio II che morì due mesi dopo, poi ci fu Brunone di Toul, da tempo al

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servizio della corte regia, con il nome di Leone IX. Anche i successori di Leone IX provenivano
dalla corte tedesca: Vittore II, vescovo di Gebhart, Stefano IX, Federico, fratello del duca di Lorena.
Tutti questi molto impegnati nel progetto della riforma.
La simonia era un peccato grave che riguardava la vendita di cose sacre, e prendeva il nome da
Simon Mago, un samaritano che esercitava la magia convertito al cristianesimo che chiese ai due
apostoli Pietro e Giovanni di vendergli il potere di imporre lo spirito santo dalle mani. Se era
indiscutibile che le cose sacre non avessero prezzo la disputa era intorno alla distinzione tra ciò che
poteva o non poteva essere venduto.
La vendita delle cariche si riferiva d una pratica assai diffusa tra. Le élite politiche dell’occidente
cristiano fin dall’età carolingia, ovvero donare beni o denaro ai laici in seguito ad una nomina
importante, e l’episcopato era una di queste. I vescovi provenienti sempre dalle famiglie
aristocratiche del regno avevano vere e proprie funzioni pubbliche: erano prìncipi dell’impero.
Dunque era naturale che operassero scambi simbolici o monetari. Il pagamento di una carica era
ritenuto perfettamente normale poiché era considerato interno alla logica della nomina episcopale
da parte dei laici.
Per buona parte dell’alto medioevo gli esponenti del clero potevano in alcuni casi avere una moglie.
Il matrimonio del clero infatti non era sconosciuto né del tutto vietato: se si prendevano gli ordini
non ci si poteva sposare, ma se ciò accadeva dopo il matrimonio era tollerato. A Milano e Roma le
consuetudini locali legittimavano lo stato matrimoniale del chierico anche se sacerdote o vescovo.
Ancora più diffuso era il concubinato: la semplice convivenza con una donna al di fuori del
matrimonio. Queste coppie potevano addirittura passare in eredità cariche ecclesiastiche ai figli, e
ciò col benestare del vescovo.
Contro la simonia il clero imperiale è stato sempre molto fermo, e fu condannata. In tutti i sinodi
provinciali a partire dal concilio di Pavia del 1046. In particolare nel concilio di Reims del 1049 la
lotta alla simonia acquisì un carattere quasi drammatico in quanto vi si denunciò pubblicamente
prelati chiama a discolparsi dall’accusa di simonia. La confessione spontanea risparmiava la
deposizione ma implicava comunque l’abbandono della carica e della sede.
Parte della lotta per la riforma erano anche i fedeli, chiamati a raccolta dai vescovi di opposti
schieramenti. Milano fu per esempio scenario di uno scontro tra riformatori chiamati patarini e il
clero locale. Arialdo, un chierico minore, accusò il clero corrotto della città riuscendo a trascinare i
fedeli dalla sua parte. I patarini furono in controllo di Milano per decenni, contrapponendosi al clero
maggiore e cacciando i preti giudicati indegni appropriandosi dei loro beni e imponendo loro il voto
di castità. Anche dopo l’uccisione di Arialdo il movimento continuò ricevendo l’appoggio degli
imperatori riformatori.
Il radicalismo dei riformatori si dimostrò eccessivo e cominciò a perdere l’appoggio dellaChiesa di
Roma, in particolare per via della violenza contro le chiese e della negazione del valore dei
sacramenti elargiti dai preti indegni, che implicava la concezione di una influenza umana sulla
divinità del sacramento, infatti venne condannata come eretica pochi anni dopo come eresia.
Ci fu anche la quesitone dell’unità della chiesa rispetto all’interno(al momento delle elezioni) e
all’esterno (con Costantinopoli).

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Nel 1053 scoppiò una polemica in seguito ad una lettera scritta da Michele Cerulario patriarca, in
cui invitava i vescovi ad abbandonare pratiche giudaiche come la comunione con l’ostia. Questo
suscita violente reazioni a Roma, da parte di Papa Leone IX. Vennero inviate due ambasciate per
affermare la priorità della chiesa di Roma sulle questioni spirituali e dottrinali. Seguì dunque la
definitiva separazione delle due chiese.
Qualche anno dopo lo scisma si aprì la questione delle elezioni dei papi. In assenza di procedure
certe ogni elezione poteva essere contestata. Così successe per esempio al momento dell’elezione di
papa Benedetto X, nobile romano imposto dalla famiglia dei tuscolani in un momento di debolezza
dell’impero. Il breve pontificato di Benedetto X portò alla reazione di un gruppo di intellettuali
riformatori che prese in mano la reazione, contestando le modalità irregolari della sua elezione.
In particolare Ildebrando di Soana nominato da Leone IX amministratore della chiesa romana e al
servizio di tutti i papi riformatori di quei decenni. Ildebrando acquisì tanto potere da imporre come
papa il vescovo di Firenze Gerardo che fu eletto sotto il nome di Niccolò II. Il nuovo papa una volta
consacrato presentò nel concilio di Roma del 1059 un diverso sistema di elezione del papa che
limitava il diritto di voto ai cardinali vescovi, lasciando uno spazio ambiguo al potere imperiale. La
sottrazione dell’elezione papale dal ristretto ambito romano contribuì a dare un rilievo universale al
papato. Fu in questo contesto che si svolse il pontificato di Ildebrando di Soana, salito al trono
papale con il nome di Gregorio VII.
Il momento del conflitto

Sotto il pontificato di Gregorio VII si raggiunse il massimo conflitto tra papato e impero.
L’obiettivo del papa era l’inquadramento dell’intera società e dei poteri laici in una gerarchia unica
con al vertice il papa.
Ildebrando di Soana aveva partecipato attivamente a tutte le grandi battaglie riformatrici dell’XI
secolo, fino alla sua elezione per acclamazione tutt’altro che regolare nel 1074. In Italia
l’accoglienza del suo progetto riformatore di purificazione del clero fu accolto molto tiepidamente.
Una parte del clero concubinato preferì abbandonare gli ordini rispetto alla propria relazione
coniugale.
In Germania le reazioni furono ancora più violente: l’arcivescovo di Brema rifiutò di obbedire ai
legati gregoriani e impedì loro di convocare il concilio. Al concilio di Erfurt riunito nel 1074 il clero
locale accusò Gregorio di essere eretico e di sostenere dogmi folli come l’imposizione del celibato
ecclesiastico.
Davanti a queste ostilità Gregorio VII rispose attaccando il clero ribelle: nel concilio di Roma del
1075 venne attaccata la legittimità delle investiture vescovili da parte dei laici. L’investitura laica
dei vescovi era tradizione diffusa nell’ex impiego carolingio, e in Francia e Germania era il re a
nominare i candidati, spesso appartenenti alla famiglia del re nel caso della Germania anche prima
degli Ottoni, e a deporre quelli non graditi. Era inoltre all’imperatore che il vescovo giurava fedeltà
sotto il regno di Enrico III. Dunque nel concilio si dispose che nessun chierico o prete riceva in
alcun modo una chiesa dalle mani di un laico, gratuitamente o per denaro. Fu poi aggiunto nei
concili del 1078 e del 1080 che nemmeno l’imperatore poteva investire i vescovi della loro carica.

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Gregorio VII inserì nel suo registro il dictatus papae, 27 tesi in cui si sosteneva quali poteri
appartenessero solo al papa: deporre un vescovo, unire episcopati, spostare vescovi da una diocesi
all’altra, usare insegne imperiali e scomunicare o persino deporre imperatori. A questa onnipotenza
del papa corrisponde una indiscussa superiorità giurisdizionale: nessuno poteva giudicare il papa o
modificare le sue decisioni.
Dopo la deposizione del vescovo di Milano per simonia, Gregorio aveva nominato al suo posto
Attone, Enrico IV nominò il suddiacono Tedaldo aprendo un contenzioso lunghissimo e di estrema
violenza, che coinvolse l’episcopato dell’Impero e i potentati laici del regno italico. I due
antagonisti ricorsero ad ogni mezzo a disposizione per delegittimare l’altro, concili, elezioni,retorica
eccetera. La teoria alto-medievale dei due poteri che si dividevano le sfere di governo dell’umanità
ne uscì annichilita.
Nel concilio di WOrms del 1076 Gregorio VII fu deposto dai vescovi riuniti sotto l’Impero, mentre
nel sinodo romano di un mese dopo du scomunicato e deposto Enrico IV. Quest’ultimo rispose che
la sua autorità proveniva da Dio e non dal papa, e sulla base della volontà divina doveva liberare la
chiesa dal tiranno. Enrico IV aveva dalla sua parte la forza militare e la maggior parte
dell’episcopato, dunque riunì più volte concili a cui parteciparono vescovi romani e tedeschi, fino al
momento in cui non si elesse un nuovo papa (antipapa per la chiesa di Roma) nella figura del
vescovo Guiberto, arcivescovo di Ravenna. Per dieci anni Guiberto governò come pontefice
riconosciuto dall’Impero.
Con la mediazione di Matilde di Canossa nel 1077 Enrico chiese perdono e dopo tre giorni Gregorio
lo concesse, ma il conflitto riprese più violento di prima. Nel concilio di Roma del 1080 Gregorio
scomunicò e depose nuovamente l’imperatore. Enrico scese a Roma insediando Guiberto e
facendosi incoronare imperatore nel 1081. Gregorio assediato fu salvato dai Normanni, divenuti ora
fedeli del papa ma dovette abbandonare Roma per morire in esilio a Salerno.
Da questi scontri sia il papa che l’imperatore uscirono indeboliti in quanto deporre uno o l’altro si
era rivelata cosa alquanto facile e la sovrapposizione delle scomuniche da entrambi i lati causò
sconcerto presso le masse di fedeli-sudditi. In realtà tra gli effetti reali del conflitto emerse proprio
il ruolo assunto dalle popolazioni locali: indipendentemente dagli scontri tra papato e impero la vera
influenza sulla vita concreta delle chiese furono le scelte prese di volta in volta dai laici nelle città. I
papi continuarono a sostenere la visione rigorista di Gregorio, rinnovando periodicamente il divieto
di ricevere investiture di chiese da parte dei laici. Urbano II impose nel 1095 il divieto per i chierici
di prestare giuramento di fedeltà a un laico; impedendo in altre parole, qualsiasi subordinazione
feudale di un ecclesiastico a un laico.
Il papa Pasquale II aveva raggiunto un accordo con i re di Francia e Inghilterra, che rinunciarono
all’elezione dei vescovi. Cercò un accordo con Enrico V per la rinuncia dei vescovi ai poteri
temporali, ma questo scatenò la rivolta di quest’ultimi, tanto che Enrico V sconfessò il patto con il
papa. Allora pasquale II sospese l’incoronazione dell’imperatore, ma fu arrestato e dopo due mesi
riconobbe il potere del re di investire con anello i vescovi. Anche questo causò proteste da parte
romana dunque il papa dovette ritrattare il privilegio nel concilio lateranense del 1112 e a
confermare la condanna di Enrico.

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Le due funzioni non potevano essere separate, dunque nel conciilio di Worms del 1122 Enrico V e
Callisto II trovarono un accordo che rispettava nei fatti le complesse relazioni tra i due poteri: al
papa spettava l’investitura con anello e pastorale , mentre al re l0investitura dei regalia con lo
scettro. In Germania le elezioni dei vescovi e degli abati erano fatti in presenza dell’imperatore,
mentre nelle altre parti dell’Impero veniva prima la consacrazione e dopo sei mesi l’investitura. Un
accordo regionalizzato che rifletteva uno stato delle cose già in atto.

Pretese universali e definizione istituzionale della Chiesa

Nel periodo delle lotte per le investiture raramente i papi ufficiali risiedevano a Roma, erano per lo
più o in viaggio nelle terre dell’Impero da cui provenivano oppure in esilio.
Il papato uscì dal conflitto sdoppiato e militarizzato, un centro di potere politico in grado di
influenzare le politiche dei regni europei. Il papa rivendicava un ruolo di guida delle anime che
prescindeva dai confini territoriali, e questo conferiva al papa un popolo vastissimo di sudditi.
Su questa visione ideologia poggiò l’elaborazione del sistema istituzionale, che andava di pari passo
con l’esigenza di costruire un sistema di inquadramento delle popolazioni entro la fede cristiana, e
dunque della definizione di un’ortodossia dottrinale. La religione doveva essere definita solo da
uomini di chiesa, poiché il messaggio evangelico era stato affidato a Pietro. Lo spazio per. Altre fedi
e per altri modi di rivivere la scelta religiosa doveva adeguarsi ai limiti imposti dalla chiesa di
Roma.
L’intensa produzione normativa del periodo del conflitto dipese dalla lunga serie di concili in cui di
volta in volta le questioni principali della riforma gregoriana si andavano definendo in maniera più
precisa. Furono realizzate raccolte delle decisioni conciliari e di lettere pontificie, e per mettere
ordine su queste materie complesse un maestro di nome Graziano attivo a Bologna in torno al 1140
mise insieme una raccolta di canoni chiamata Decreto, in cui vennero raccolti concili lettere papali
passi biblici intorno alle materie di diritto ecclesiastico.
Lo sviluppo di un ceto di giuristi esperti nel diritto fu un evento fondamentale per la chiesa perché
sempre più i funzionamenti interni della chiesa vennero sottoposti a regole giuridiche come
elezioni, sinodi, concili, concessioni di benedici e rapporti con le chiese locali, amministrazione dei
sacramenti, liturgia, ruolo del clero parrocchiale e altro ancora. I canonisti non assumevano principi
giuridici universali in base ai quali decidere delle questioni particolari, ma partivano dai casi
particolari da risolvere con equità. In ogni caso si rivelò necessario definire con più precisione una
gerarchia ecclesiastica.
Da un lato i vescovi erano legati alle proprie diocesi, in cui esercitavano il controllo dell’elargizione
dei benefici, dei sacramenti, e soprattutto giudicavano le cause ecclesiastiche della diocesi, ma
dall’altro i papi limitarono questa libertà di azione dei vescovi inviando loro rappresentanti chiamati
legati apostolici, che dovevano risolvere i conflitti in corso e inviare la risoluzione a Roma.
Le competenze giuridiche da questo momento in avanti furono distribuite rispetto alla gerarchia
interna della Chiesa, per cui alcune questioni erano di pertinenza dei parroci, poi dei vescovi e poi
dei papi. Negli ultimi anni del secolo XII si affermò una nuova procedura giudiziaria:

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l’investigazione d’ufficio, che partiva dalla <<fama>>, ovvero le voci che circolavano riguardo il
cattivo operato di un chierico. Nel caso in cui i crimini del chierico suscitassero scandalo, questo
avrebbe dovuto essere processato e punito. Grazie a questo strumento giudiziario era possibile
controllare tuti i gradi della gerarchia, anche i vescovi.
Proprio negli anni finali del XII secolo si modifico la titolatura del papa, che invece di essere
vicario di Pietro diventò vicario di Cristo. Il primato sacro e spirituale si affermò insieme ad una
razionalizzazione dell’articolazione istituzionale della curia romana.
Intorno al papa si formò un sacro collegio di cardinali, mentre il governo era affidato alla curia con
uffici, tribunali e camera apostoli che gestiva le finanze della chiesa di Roma. Ricordiamo che a
Roma affluivano le decime da tutte le diocesi, dunque Roma era uno degli enti pii ricchi e potenti
dal punto di vista finanziario di tutto l’occidente.
Nelle città episcopali si cercò di stabilire disciplina nella vita del clero secondo un modello
carolingio andato in disuso: i canonici, dunque i chierici adibiti al servizio della cattedrale furono
richiamati ad un ideale di penitenza, di rinunce e di castità. Iniziò così la vita in comune nelle
canoniche, risposta a questa tensione organizzativa.
Nelle varie diocesi europee si iniziò la costruzione di nuovi edifici collettivi per ospitare il clero
cittadino. Nel corso del secolo XI le canoniche adottarono la regola di Sant’Agostino, redatta nel IV
secolo per la comunità di Ippona. Intorno alle cattedrali si istituirono i capitoli, che col tempo
acquisirono rilevanza giuridica autonoma, con beni immobili e dotazioni economiche indipendenti
dal controllo del vescovo. Questi capitoli erano composti dai membri delle maggiori famiglie
aristocratiche della città, e costituivano un importante centro di potere politico: articolati in uffici
diversi, gerarchizzati, proprio tribunale, ed erano alla guida della vita cittadina.
Oltre ai capitoli delle cattedrali nacquero anche i capitoli delle singole chiese, chiamati capitoli
collegiali, sempre sotto il controllo del vescovo ma con caratteristiche di autonomia.
Fra il XI e XIII secolo nacquero nuovi movimenti monastici, di connotazione prevalentemente
pauperistica. Alcuni di questi diedero vita a ordini di grande importanza: i cistercensi e i certosini.
I primi presero il nome dalla città di Citeaux, in Borgogna, in cui venne fondato un monastero da
Roberto, abate di Molesme, monastero che questi aveva lasciato per fondarne uno dove osservare in
maniera più severa la regola benedettina: vita di preghiera, ascesi e duro lavoro manuale, da
condurre in luoghi isolati e poco raggiungibili. L’esperimento fu supportato dal vescovo di Lione
Ugo di Die e dai signori locali come il duca di Borgogna e il papa Pasquale II che mise il monastero
sotto la sua protezione.
1108 viene eletto abate Stefano Harding: nel suo abbaziato i cistercensi assunsero una struttura più
stabile. Nacquero inoltre quattro abbazie figlie di Citeaux: Chiaravalle, Morimondo, Pontigny e La
Ferté.
1119 Stefano scrisse la carta di carità, regola dell’ordine approvata nel 1119 da Callisto II e
nuovamente da Eugenio III nel 1152. Con l’aumentare delle abbazie figlie era necessario imporre
un ordo e un coordinamento più stretti. I legami fra le quattro abbazie madri dovevano essere
disposte in una scala di dipendenze che rendesse formale la superiorità di Citeaux, e ciò. Non
avvenne prima della metà del XII secolo.

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Intorno al 1150 si stabilì che si sarebbe dovuto tenere un capitolo generale una volta l’anno per
meglio coordinare le abbazie figlie (nel 1153 si contavano già 343 monasteri che arrivarono a 530
nel XIII secolo si capisce che la struttura dei capitoli richiedevano tecniche di gestione avanzate.
Dato che i monasteri nascevano in luoghi isolati i cistercensi divennero abilissimi colonizzatori e
ricchi proprietari terrieri grazie alle donazioni dei potenti laici e dai fedeli, oltre che dai vescovi.
Inoltre disponevano di aziende agrarie all’avanguardia molto produttive.
L’ordine cistercense produsse uomini potenti come vescovi e papi, tra cui Bernardo di Chiaravalle
che fu una figura centrale nel dibattito del XII secolo riguardo i conflitti tra capitoli e vescovi, tra
vescovi e re di Francia, la promozione dei templari e delle crociate, oltre che dure repressioni di
eresie nel sud della Francia.
Nel 1084 nacquero i certosini per iniziativa di Bruno dii Colonia, maestro della cattedrale di Reims.
Realizzarono con maggiore rigore e coerenza una comunità ascetica di preghiera inseguendo
l’ideale del deserto: luogo fisico senza uomini e senza contatti, isolato ma impervio e
irraggiungibile dove la solitudine era la vera e unica dimensione di vita del monaco. Il modello fu il
primo monastero fondato nel 1084 sulla Chartreuse, sud della Francia, sulla costa di un monte a più
di 1100 metri d’altezza. Al suo interno il monastero era composto da tante celle, ognuna con una
finestra che affacciava su un giardino chiuso. Al contrario dei cistercensi che adottarono il modello
della vita in comune cenobitica, i certosini elaborarono un modello più eremitico ma comunque
misto al modello cenobitico. Il distacco dal mondo e dunque l’isolamento alimentava il desiderio
del monaco per le cose celesti. La regola certosina era caratterizzata da una limitazione nel numero
di tutto ciò che apparteneva alla vita del monastero: i monaci, i conversi che svolgeva i lavori
materiali e vivevano in case distanti dall’eremo, gli oggetti da tenere nella cella, i beni posseduti, gli
animali.
Solo nel 1127 i certosini si dotarono di un testo scritto di riferimento, scritto dall’abate Guigo I, con
le Consuetudini, che erano regole antiche aggiornate secondo le esigenze del monastero. Come i
cistercensi affidarono al capitolo generale il compito di coordinare le abbazie figlie che erano
aumentate di numero nel corso del XII secolo. Dal 1154 tutti i priori dei monasteri certosini
dovevano fare voto di obbedienza al priore generale.
L’inserimento dei certosini nei contesti locali fu segnato da violenti conflitti, in quanto il concetto di
deserto dei certosini era sia reale che ideale, dunque inglobava anche territori appartenenti ad altri
soggetti ed esigevano che nessuno passasse intorno al deserto per non disturbare il loro isolamento.
Questo causava forti conflitti con i signori locali ma questi si risolvevano spesso a favore dei
monaci per via della protezione loro accordata dai vescovi. Erano stati questi ad esigere la redazione
delle consuetudini, in particolare il vescovo di Grenoble.

Inquadramento religioso dei laici

La parola latina laicus indicava la parte della popolazione non consacrata a Dio. Nei testi. Cristiani
rimandava alla parte della popolazione non investita del sacerdozio. Una lunga tradizione di testi ed
immagini della divisione sociale fra laici e clero fu recuperata nel Decreto di Graziano del XII

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secolo. In questo testo veniva ribadita la differenza fra natura regale del clero e quella popolare dei
laici. Per questo era necessaria anche una protezione giuridica dell’ordine clericale. Veniva ribadito
in più parti del decreto che nessun laico poteva accusare un chierico, perché solo un altro chierico
(di grado pari o superiore) poteva farlo. La lettura pubblica delle sacre scritture divenne un
ministero propriamente sacerdotale.
Il battesimo dei bambini si affermò come necessario rito di entrata del fedele nella comunità di
appartenenza, l’eucarestia acquisì una nuova centralità divenendo il perno della liturgia della messa.
Proprio negli anni della riforma furono condannate defniticamente le teorie simboliste secondo le
quali il rito dell’eucarestia si limitava a ricordare il sacrificio di Cristo. La dottrina ufficiale
sostenne che invece l’eucarestia trasforma il pane nel vero corpo di Cristo e il vino nel vero sangue
di Cristo.
Nei decenni centrali del secolo XII si delineò una dimensione più costrittiva e individuale della
penitenza. Il dolore interiore per un peccato commesso doveva essere confessato al prete e solo
dopo la confessione e l’assolvimento da parte del prete il fedele poteva tornare nel gregge dei fedeli.
Il matrimonio cominciò ad essere considerato un sacramento a partire dagli anni della riforma,
sottopose a un controllo assai stretto la vita sociale dei fedeli: le loro parentele, l’espressione degli
affetti personali e le strategie di alleanza che non dovevano contrastare con il libero arbitrio degli
sposi.
Infine la morte con i riti di estrema unzione, venne interpretata come la soglia di entrata nel regno
dei cieli, e divenne dunque uno strumento potentissimo per la tenuta della società. Fu istituita una
comunicazione dei vivi con i morti: non solo le preghiere per i morti potevano abbreviarne le pene
nel purgatorio, ma anche lenire i dolori e accumulare un capitale di meriti che aiutava l’anima del
defunto a lenire i suoi dolori nel regno di mezzo. Le indulgenze erano la pratica di acquistare parti
di questo capitale di meriti per i propri parenti nel purgatorio.
Prende così forma una economia della vita religiosa, persino dopo la morte: i laici cercavano
assicurarsi le sepolture nei luoghi migliori oltre alle cerimonie che meglio avrebbero accordato la
loro ascesa al paradiso. Anche la lotta alle eresie comportò una spinta alla definizione dell’identità
della chiesa come istituzione: la maggior parte dei testi sugli eretici provengono da chierici e da
monaci, che spiegano il perché una posizione diventa o meno eretica. Queste fonti descrivono gli
eretici sempre come folli, in quanto praticavano magia nera o sesso degenerato. I movimenti eretici
rifiutavano spesso i sacramenti e il legame con la chiesa di Roma, richiamandosi allo spirito santo
interno alla loro anima, oltre alle richieste economiche della chiesa come le decime sui raccolti.
• 1018 Aquitania, persone che rifiutano il battesimo e praticavano castità e digiuno.
• 1022 alcuni canonici di Orlean, negano battesimo, eucarestia e culto dei santi. Vengono accusati
di manicheismo.
• 1025 Arras, guidati da Gandolfo, che predicava l’abbandono del mondo, castità carità e lavoro
manuale oltre alla inutilità dei sacramenti.
Eretici divennero tutti quelli che rifiutavano la mediazione della chiesa tramite i sacramenti.
Furono accusati di eresia anche coloro che pretendevano di predicare il vangelo, esempio di questo
fu Valdo di Lione, mercante al servizio del vescovo. Riformatore di Lione. Aveva fondato una

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comunità pauperistica dove predicava e leggeva il vangelo tradotto in volgare. Ottenne in un primo
momento il supporto del papa nel concilio laterano III del 1179 da Alessandro III, che però gli
proibì di predicare il vangelo. Valdo rifiutò e fu condannato come eretico nel 1184.
Diverso il caso delle sette dualiste come i catari. Queste sette vennero scoperte intorno al 1140 in
Germania e poi in Francia meridionale e in Italia, si attribuiva una dottrina apertamente non
cristiana: dualismo di fondo che riconosceva due principi, il bene e il male come coesistenti e in
conflitto continuo fra di loro. Ai catari si attribuisce l’organizzazione da vera anti-chiesa. In alcune
fonti cattoliche si racconta di una organizzazione tale e quale quella della chiesa, con diocesi,
vescovi e preti e addirittura un papa venuto dall’Oriente. La provenienza orientale del culto e il
collegamento con sette orientali aumentavano l’alone misterioso del catarismo.
Le fonti raccontano di migliaia di fedeli in Italia, di intere città in Francia come Beziers e Albi. Tali
ricostruzioni sono però poco attendibili in quanto non è stato possibile trovare fonti che non
provenissero dai protagonisti di tali sette. La repressione invece fu sicuramente violenta con
migliaia di condanne, esempio la decretale di Lucio III ad abolendam preparata insieme
al.l’imperatore Federico Barbarossa nel 1184, in cui si colpirono tutte le eresie, qualunque nome
avessero assunto, in quanto l’eresia è prima di tutto disobbedienza.
Il compito di informare i vescovi era conferito a uomini di fiducia della chiesa locale, lasciando al
loro arbitrio l’individuazione di ciò che era normale o meno. Nel 1199 la bolla papale Vergentis in
senium equiparò l’eresia a un reato di lesa maestà. Punibile con l’espropriazione dei beni e della
possibilità di fare testamento.

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La guerra, la Chiesa, la cavalleria

Per via dell’assenz adi un potere centrale a tutela delle chiese Roma cominciò a legittimare la
violenza a tutela dell’ordine costituito, al fine di incanalare la violenza delle scorrerie degli eserciti
dei signori locali. Seguendo questa logica i papi decisero di dare una torsione militaristica al
pellegrinaggio religioso verso Gerusalemme, e così si giunse alla promozione di una spedizione
militare condotta da quattro armate franco-normanno-tedesche che avrebbero dovuto prendere la
città sacra. Nacquero nuovi stati cristiani nell’Oriente musulmano e nuove forme di unione di vita
religiosa e militare, gli ordini monastici cavallereschi. Il controllo su questa classe armata fu debole
per diverse ragioni: indebolimento della fedeltà, attenuazione del servizio militare a favore del
signore, ampia disponibilità dei benefici ricevuti che potevano essere venduti.
Oer fare fronte alla disobbedienza lo strato alto del ceto militare serrò i ranghi e aumentò le
occasioni di sequestro del bene concesso, chiamato d’ora in poi feudo, in caso di disobbedienza.
Vennero diffusi modelli letterari di cavalieri ideali a rafforzare l’idea di una comune appartenenza
ad un ceto eletto, dedito alla guerra e ligio al dovere. Il ceto militare rimase tuttavia un ceto mobile
contraddistinto unicamente dall’uso professionale delle armi, ma differenziato al suo interno per
ricchezza, non tra nobili e non nobili, ma fra potenti e meno potenti.

Il controllo della violenza e le paci di Dio

I racconti della violenza dei gruppi armati durante il X e XI secolo sono raccapriccianti, violenze
inaudite perpetrate da Ungari, Vichinghi e mali cristiani che attaccano le chiese, usurpano le terre e
uccidono contadini e monaci. L’ordine che veniva invocato era tuttavia diverso da quello carolingio,
invece di essere universale l’ordine proposto era regionale e localizzato. Portatori di questa idea
erano i fautori delle paci di Dio. Diffuse soprattutto nella Francia del Sud, in Aquitania. Erano
riunioni di vescovi di una o più diocesi che invocavano la cessazione delle violenze in nome di Dio.
Era lecito continuare a combattere una guerra giusta o sotto il comando di una autorità legittima.
Erano dunque tentativi di difesa dei beni della chiesa dagli attacchi degli aristocratici.

Sacralizzazione della guerra e le prime crociate

Viene ad affermarsi una dimensione religiosa della guerra come difesa della fede che coinvolse
anche la cavalleria come ceto armato. Nei decenni successivi al 1050 si sviluppò la tendenza per
conquistare o liberare le regioni periferiche dell’Europa in mano agli infedeli. I papi riformatori
sostennero attivamente queste guerre. Già sotto Leone IX bande di cavalieri furono radunate in
difesa di Roma contro i Normanni, che le sconfissero facilmente a civitate nel 1053.
1063 Alessandro II concesse la remissione dei peccati per chi fosse partito a combattere in Spagna i
musulmani dopo l’assassinio di Ramiro I d’Aragona. Sempre contro i normanni anche Gregorio VII
schiera una milizia di San Pietro nel 1074, ma furono gli stessi normanni a riconoscersi come fedeli

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vassalli pontifici, e vennero dunque invitai a difendere la fede guidando l’espansione delle armate
cristiane nelle terre in mano agli infedeli.
Gli appelli alla guerra santa si fecero più insistenti sotto Gregorio VII. In una lettera del 1073
Gregorio invitò di nuovo a liberare la Spagna con un’azione militare, incitò inoltre il vescovo di
Cartagine a resistere ai saraceni, invitò i cavalieri di San Pietro ad accorrere in difesa dei cristiani di
Costantinopoli, uccisi come pecore e perseguitati dai Saraceni. Nel 1089 Urbano II concesse
un’altra indulgenza e la vita eterna per la conquista di Terragona.
Nacque la qualifica di <<soldato di cristo>>, consegnata a molti principi laici che combattevano in
conflitti religiosi, come il principe di Danimarca nel 1075, i patarini che combattevano la simonia a
Milano.

Le spedizioni in terra santa

I pellegrinaggi nell’XI secolo ebbero uno straordinario successo, per i motivi più disparati, ricerca
di vicinanza ai luoghi santi, possibilità di toccare la tomba o addirittura i corpi dei santi, investiti di
un potere taumaturgico.
Un ricchissimo mercato di reliquie si espanse in tutta l’Europa: tutte le diocesi volevano
accaparrarsi una reliquia sacco in modo da arricchire la propria chiesa. Furono soprattutto i nobili
alla ricerca di questi oggetti, poiché in cambio di essi avrebbero potuto avere una legittimazione e
l’investitura di una preminenza locale.
San Giacomo di Compostela in Spagna divenne uno dei maggiori centri di attrazione religiosa, in
quanto cavalieri francesi parteciparono alla difesa del cammino di Santiago dalle incursioni dei
mori fra il 1060 e il 1080. Fu la via per Gerusalemme che. Interessò maggiormente insiemi molto
diversi di fedeli: dai semplici pellegrini ai grandi aristocratici dei regni europei. Tale viaggio era
molto pericoloso in quanto vi erano gruppi musulmani molto ostili ai pellegrini cristiani, e la
protezione di soldati era molto diffusa.
1095 Concilio di Clermont: papa Urbano II lancia l’appello al pellegrinaggio verso Gerusalemme.
Nelle fonti del secolo XI il termine crociata ancora non esisteva, come non esisteva l0idea di
crociata. Nel 1095 il papa aveva confezionato una bolla con elementi in comune con molti dei suoi
predecessori, tra cui il pellegrinaggio come penitenza, la necessità di proteggere i pellegrini con le
armi e la liberazione dei luoghi sacri dagli infedeli.
Fu la risposta ad essere inaspettata: una prima armata formata da laici violenti partì alla volta di
Gerusalemme ma si disperse dopo poco tempo, anche se non prima di avere sterminato le comunità
ebraiche sul loro cammino. Una seconda più organizzata guidata da nuclei di cavalieri francesi e
normanni riuscì ad arrivare a Gerusalemme. Le armate in realtà furono quattro e si mossero in piena
autonomia una dall’altra.
I saraceni erano presentati come usurpatori di un bene che di diritto spettava ai cristiani. Nella bolla
non erano presenti appelli allo sterminio del nemico.
Dopo un lungo viaggio gli eserciti furono accolti dall’imperatore bizantino e indirizzati verso la
palestina, conquistarono città importanti come Nicea nel 1097, Antiochia l’anno successivo tenuta

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da Boemondo di Taranto. Gli eserciti cominciarono a dividersi, alcuni a ritirarsi e altri a insediarsi
nei territori conquistati. Quaelli che arrivarono a Gerusalemme dovettero organizzare un lungo
assedio della città, tecnica che conoscevano bene, dopo cinque settimane il 15 Luglio del 1099 i
cavalieri entrarono a Gerusalemme. Tutte le fonti sono concordi nel ricordare un eccidio di inaudita
violenza della popolazione musulmana ed ebraica durato almeno 15 giorni. Baldovino di Boulogne
si fece incoronare re lo stesso anno a natale, mentre i territori conquistati in precedenza divennero
principati autonomi: Edessa, Tripoli, Antiochia e Gerusalemme.
1144 caduta di Edessa Luigi VII organizza una seconda spedizione con benedizione del papa
Eugenio III e l’imperatore Corrado III, ma finì in un nulla di fatto. Peggio ancora la terza crociata,
successiva alla sconfitta subita da Saladino nel 1187 ad Hattin. Questi era diventato visir e regnava
su Egitto e Siria. La vittoria ad Hattin gli aprì le porte per la Palestina, la conquista di Gerusalemme
e degli stati cristiani della costa. Dunque seguì la terza crociata. Fu un ecatombe: l’imperatore
Federico I morì attraversando un fiume, un’epidemia decimò i crociati davanti ad Antiochia e il re
di francia abbandonò la spedizione mentre gli altri capi dovettero venire a patti con il Saladino che
concesse il permesso di venire in pellegrinaggio e ai mercanti italiani di commerciare con gli stati
della costa.
Nacquero diversi ordini monastici in concomitanza con il primo pellegrinaggio a Gerusalemme: gli
Ospedalieri di San Giovanni riconosciuti dal papa nel 1112 e a cui Baldovino assegnò una fortezza
ad Ascalona e nel 1142 il conte di Tripoli dei castelli e un territorio da governare una volta liberato
dai turchi. Erano dediti alla cura dei pellegrini feriti, e si circondarono di cavalieri per essere difesi.
Nacquero anche i templari, che conservarono funzione prettamente militare: otto cavalieri presi
dall’aristocrazia. Giurarono davanti al patriarca di Costantinopoli di difendere la via per la terra
santa e al contempo rispettare gli ordini di castità povertà e obbedienza. Si distinsero per la capacità
di combattere ed ebbero una grande diffusione sia in Oriente che in Occidente, diventarono
addirittura consiglieri di re e assunsero funzioni di gestione delle somme derivanti delle decime da
destinare alle crociate. Bernardo di Chiaravalle li prese ad esempio come nuova milizia ideale, in
quanto combattevano per il vero bene e non per tornaconto personale.
I cistercensi fondarono nuovi ordini militari soprattutto nelle zone di frontiera. Nesso fra espansione
del cristianesimo e penetrazione degli eserciti cristiani in terre come la Spagna o i paesi baltici slavi,
dove fu ripreso con maggior successo il modello crociato. In Spagna nacque l’ordine di Calatrava
nel 1158 fondato da Raimondo di Fitero, che colonizzò terre di frontiere per anni.
Nei paesi baltici nel 1202 un monaco cistercense Dietrich radunò cavalieri tedeschi sotto l’ordine
della Milizia di Cristo di Livonia. Si andò a formare uno stato militare con sostegno di vescovi e
principi locali.
La chiesa aveva dunque integrato l’attività bellica nelle forme di penitenza e di salvezza dei laici:
sacralizzato la guerra sotto l’egida della croce e creato una propria milizia al servizio di Cristo.

Da guerrieri a cavalieri

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Le cronache raccontano spesso di vassalli disobbedienza i loro padroni, dunque la strategia per
riportare i guerrieri all’ordine fu duplice: gerarchizzare il rapporto vassallatico e sottoporlo ad una
disciplina ideale del cavaliere diffusa nei romanzi, oltre a introdurre una ritualità specifica del
mondo cavalleresco in grado di individuare tatti unificanti d ius ceto militare distinto dal resto della
società.
I due elementi del rapporto vassallatico carolingio erano andati deteriorandosi durante la crisi del XI
e XII secolo: la fedeltà militare passava spesso in secondo piano rispetto alle ambizioni personali
del singolo cavaliere, e la fedeltà veniva a dipendere dall’importanza del feudo ricevuto.
Specialmente dalle regioni di Francia la fedeltà poteva essere concessa a più signori
contemporaneamente: non erano rari i casi in cui un vassallo avesse giurato fedeltà a 10 signori alla
volta, e se contiamo che il rapporto di fedeltà durava in genere 40 giorni, condurre una era quasi
impossibile. Da un editto dell’imperatore Corrado II del 1037, emanato n seguito ad una rivolta dei
vassalli minori di Milano, era stato definita l’impossibilità di privare un vassallo del suo beneficio e
la possibilità invece per questi di trasmetterlo in eredità. Si aprì inoltre la possibilità di alienare i
pendici con una vendita o una sotto-infeudazione che sottraeva al signore la scelta del nuovo
concessionario. Si arrivava in tal caso a una rottura del legame di fiducia tra vassallo e signore. Col
tempo anche l’aristocrazia cominciò a vendere i feudi ricevuti dal re. A un secolo dall’editto dei
benefici, nel 1136, l’imperatore Lotario III lamentava le conseguenze della prassi di pensare il
feudo come una cosa propria.
Le conseguenze furono una ridotta capacità degli eserciti regi e dei grandi signori del regno: il
legame tra servizio e feudo era orami scisso, tanto che i giuristi del XII secolo definirono il feudo.
Come diritto reale, vale a dire relativo alle cose, attribuendo al vassallo quasi gli stessi diritti del
proprietario. Si trattava comunque dii categorie giuridiche fluide, che non facevano che riflettere la
realtà circostante, la quale contraddiceva le solite usanze rispettanti ii concetti di beni in
concessione o allodio (piena proprietà).
Furono inventate nuove dorme di protezione dei diritti del signore: come la commise, ovvero il
sequestro del feudo in caso di disobbedienza, che permetteva di intervenire in maniera coercitiva
contro i vassalli infedeli, ma che provocava anche conflitti armati. Altra possibilità era il ligio, una
fedeltà privilegiata che si doveva a un signore in particolare, questo strumento permetteva d
amministrare la fedeltà in maniera più circoscritta e permetteva di circondarsi di una schiera più
prossima di vassalli.
Le pratiche negoziali fra signori e vassalli, fatte di ricatti e conciliazioni dominarono il medioevo in
tutta Europa. La giustizia amministrava le dispute e redistribuiva le terre in accordo con le due parti,
quando possibile. Raramente tuttavia il verdetto finale assegnava a solo una persona il possesso a
uno dei due litiganti. Era sempre meglio ottenere l’approvazione del perdente del processo, in
quanto era l’unico modo di risolvere veramente la disputa. Non esistette mai una rete di fedeltà
piramidale che culminava con il re, ma piuttosto una orizzontale, contrattata caso per caso dai
signori e i loro vassalli.

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L’ideale cavalleresco e la socialità cortese

L’invenzione di un ideale cavalleresco in letteratura servì a fornire a questo ceto armato un etica del
mestiere: il cavaliere ideale combatteva contro nemici più forti, prepotenti e persecutori dei deboli,
al fine di trovare la propria identità. Il cavaliere divenne uno status sempre più codificato nel corso
del XII secolo, in particolare il rituale dell’addobbamento, rito d’entrata nella cavalleria con
consegna delle armi da parte del signore, giuramento, e veglia in chiesa. Non bisogna idealizzare il
cavaliere come diffusa autonoma della società medievale. La regolamentazione del ceto militare
rispondeva ad un esigenza reale e non ideale, in un periodo in cui le alleanze si erano andate
definendosi in modo molto mobile.
Nel rituale di addobbamento prevaleva un aspetto politico molto concreto: l’entrata nel mondo
adulto da parte di un erede, e la sua capacità di difendere il feudo. Tale avvenimento poteva attirare
reazioni ostili da parte di signori detentori di una parte del possesso in questione, o che avanzavano
pretese su di esso. I legami di parentela erano spesso molto intricati e portavano dunque a lotte di
successione che a loro volta dovevano essere inquadrate intorno ad una rete di alleanze e protezioni
definite. Spesso durante il rito di addobbamento il principe riuniva tutti i suoi alleati cavalieri per
mostrare pubblicamente la sua potenza.
Nonostante gli alti ideali cavallereschi le guerre feudali non avevano nulla di eroico, poiché si
basavano solo sull’assedio e sul saccheggio dei territori circostanti. Forse per rimediare a questa
carenza di combattimenti onorevoli vennero creati i tornei, combattimenti ristretti a pochi campioni,
che non coinvolgano l’esercito intero. Tale pratica ebbe molto successo presso le maggiori corti
europee. Dal punto di vista simbolico si mostrava il valore in combattimento del singolo, sul piano
sociale, si poneva come punto di incontro dei cavalieri di livello diverso in un rito che aumentava la
socialità interna, sul piano politico serviva infine ad affermare il controllo del signore sulle forze
militari del proprio territorio.
vi è un dibattito riguardo la novità dell’ordine cavalleresco nel periodo centrale del medioevo:
alcuni sostengono sia un ceto sociale nuovo a partire dagli strati umili della società, mentre altri lo
riconducono al ceto armato dell’impero carolingio. In ogni caso le differenze regionali impediscono
di ricondurre questa entità ad una sola interpretazione. I termini linguistici che si rivolgono ai
protagonista di tale ordine sono inoltre spesso vari e ambigui, cosa che confonde gli storici. Sul
piano militare il termine miles indica un combattente a cavallo contrapposto ai pedites e ai rustici,
contadini. Identifica in altre parole un ceto superiore dotato di forza militare e potere di coercizione.
L’ordine dei cavalieri o degli uomini armati era a sua volta molto variegato: lo strato superiore era
composto dai grandi aristocratici discendenti dell’elite carolingia, che avevano costruito il loro
potere sul servizio fornito al re; già a partire dal X secolo vi era corrispondenza semantica tra
nobilis e indicava una generica ma ben visibile preminenza sociale.
Lo strato centrale era molto composto e poteva rivestire più ruoli oltre a quello militare, poteva
inoltre essere dislocato in diverse corti periferiche o addirittura città; gruppo mobile e molto
instabile, che rivendicava assieme ai diritti di beneficio anche una considerabile libertà d’azione. In
alcune regioni come quelle tedesche, al servizio armato accedevano anche i ministeriali, uomini

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armati di condizioni quasi servile, agli ordini di una nobiltà militare impenetrabile ai soggetti
minori.
Difficile dire se l’addobbamento e il titolo di cavaliere fossero sufficienti per l’accesso ad un ceto
basso di nobiltà, esistevano però certamente casi di milites che ascendevano fino alle sfere più alte
del servizio armato, ma non era affatto scontato, ma l’esito di una lunga ascesa e strategica scelta
dei signori da servire. Esisteva dunque una comune identità corporativa dei combattenti a cavallo,
ma almeno uno alla metà del secolo XIII non coincisero. Non tutti i cavalieri erano nobili. Prima di
esserlo i cavalieri sarebbero dovuti passare dallo stadio della signoria. Il medioevo era più signorile
che feudale.

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Il dominio signorile

I secoli X e XII furono teatro di un grande cambiamento dei rapporti di potere: si indebolì la
capacità regia di controllo, si frammentarono i distretti affidati a conti e marchesi mentre le
aristocrazie costruirono poteri locali autonomi, ovvero signorie di piccole e piccolissime
dimensioni. Le signorie erano costruzioni politiche attuate dal basso senza delega, valorizzando basi
locali del potere, come terra castelli e clientele armate. Il processo fu comune a tutta l’Europa
carolingia, ma i modi in cui si diffuse fu diverso a seconda delle regioni. I poteri signorili partivano
dal possesso fondiario, in quanto solo chi possedeva la terra poteva imporre il controllo sui vicini
più deboli, ma fu un salto di qualità rispetto al potere dei signori feudali dell’impero carolingio, in
quanto ora si trattava di un controllo politico su tutti i vicini e non solo sulla fascia produttiva della
popolazione circostante, e ciò fu reso possibile dal controllo dell’ordine dei cavalieri che iniziò a
partire dal XI secolo.

Un potere senza deleghe: terre castelli e clientele

Le dinastia potevano essere nobili o ecclesiastiche ed erano più le analogie che le differenze, in
particolare: terre, clientele e legami famigliari. La nobiltà aveva sottomesso i contadini tramite il
sistema curtense mentre la chiesa riceveva terre e ricchezze sin cambio della salvezza delle anime
dei fedeli.
Già dall’impero carolingio la terra aveva rivestito un ruolo centrale con le curtes, che
sottomettevano i contadini all’autorità di un grande proprietario terriero in diversi villaggi. Altra
funzione sociale dei proprietari terrieri fu giocata nell’ambito della protezione verso gli abitanti dei
villaggi, in quanto l’autorità regia rappresentata dai conti e dai marchesi stava progressivamente
svanendo e inoltre questi funzionari dirigevano le loro attenzioni principalmente alle città o ai
villaggi da cui traevano maggior profitto. Risale a questo periodo l’incastellamento, spesso
associato nella letteratura alle invasioni di Saraceni e Ungari, ma recentemente collegato ad una
esigenza di trasformare la preminenza economica del signore in controllo politico e materiale,
attraverso una roccaforte in cui collocare contingenti militari al proprio servizio. Fu proprio la
militarizzazione della signoria la ragione principale dell’incastellamento, mentre la causa fu
l’indebolimento del potere regio coincidente con il rafforzamento dei poteri locali nei villaggi rurali.
Se il regno non poteva proteggere i sudditi questi si rivolgevano a chi poteva, dunque a questo
punto i candidati erano chiesa presso le città e grandi possessori terrieri presso le campagne. I
castelli servivano da luogo fortificato entro cui ci si sarebbe potuti rifugiare in caso di attacco di
predoni, in cambio però. Sudditi dovevano offrire corvée per la manutenzione dell’edificio stesso.
La popolazione che il castello si offriva di accogliere era molto diversificata: da una parte il signore
con la sua famiglia, poi i contadini sotto la sua influenza, e infine i vicini con cui non aveva alcun
rapporto formale ma che avevano bisogno della sua protezione. Si affermò dunque la capacità del
signore di sostituirsi al potere regio nel garantire la sicurezza, ma questa deve essere messa in
collegamento con il ricorso alle milizie armate dei cavalieri.

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Lo strumento privilegiato dai signori per mantenere l’ordine era il legame vassallatico con guerrieri
o altri signori minori, e il loro compito era duplice: combattere contro i signori nemici e minacciare
i sudditi in caso di ritorsioni. Come detto non bisogna immaginarsi né una struttura piramidale dei
vassalli che va dal re agli strati più bassi della nobiltà, né una rete. Orizzontale e continua che
metteva in collegamento i vari signori con i loro vassalli: non vi era nessun quadro coeso se non
definito dalla fedeltà personale, anche se era certamente gerarchizzato. I vassalli cominciarono a
partire dal XI secolo a non essere più funzionari e delegati del potere regio, ma uomini fedeli alla
persona del signore che garantiva loro un beneficio. I signori inoltre potevano diventare vassalli di
signori più potenti e aggiungere alle proprie ricchezze i benefici derivanti da questo loro nuovo
legame. Il legame vassallatico integrava dunque le due prerogative principali dei signori medievali:
la proprietà terriera e la capacità militare, inoltre serviva a mettere ordine nel variegato mondo della
signoria medievale, quanto ami diversificata. I rapporti vassallatici dunque erano espressione di
questa diversità di rapporti di potere, ma essi stessi avevano a loro volta origine nella struttura
economica dei poteri signorili.

La formazione dei poteri signorili

Il punto di partenza dei poteri signorili sono i rapporti di potere tra re e i suoi ufficiali (conti o
marchesi) a cui venivano consegnati territori da amministrare. Il rapporto tra aristocrazia locale e
questi funzionari era spesso di collaborazione, a volta di conflitto, ma sempre definita da una
discrepanza gerarchica: gli ufficiali regi erano sempre e comunque rispettati come i rappresentanti
del potere regio e come centro politico della regione. A partire dal X secolo avviene il già
menzionato ridimensionamento dei territori comitali consegnati ai marchesi, in quanto i confini dei
distretti perdettero rilievo e diminuirono in estensione, in funzione della capacità di controllo delle
singole dinastie signorili del luogo. I conti e i marchesi dal canto loro furono parte attiva in questo
processo, in quanto premevano per mantenere il potere nei diversi distretti per più anni d seguito per
poi passarlo ai figli, in modo di arrivare a radicare le proprie clientele e alleanze.
I poteri dei marchesi e dei conti dunque aumentò, ma bisogna distinguere il regno italico in cui i
marchesi e i conti aumentarono il loro potere ma rimanendo all’interno dei confini politici di
funzionari del potere sovrano, dai regni di Francia, Borgogna e Germania dove nacquero i principati
territoriali, che erano costruzioni politiche più strutturate delle solite signore di castello:
dominazioni come quelle dei conti di Champagne e dei duchi di Aquitania riprendevano molte
strutture direttamente dal potere regio. In italia non riuscirono mai a estendere il controllo
sull’intero distretto e a trasformarlo in una dominazione autonoma e dinastica, ma riuscirono
nondimeno a possedere molti castelli, interi settori dell’antico comitato per via della loro grande
ricchezza.
I poteri signorili e quelli funzionariali si imitavano a vicenda, in quanto da una parte ai signori
importava avere il controllo politico, giuridico, fiscale del territorio, mentre i funzionari erano
interessati alla capacità di contrattare con i sudditi in termini materiali come terre castelli e
protezione. L’esito fu una moltitudine di poteri signorili che condicviidevano la capacità di unire

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poteri di matrice diversa: dipendenza economica e personale unita a protezioni armate, tasse per la
sicurezza e imposte di tradizione pubblica. Inoltre il potere signorile era diviso in due categorie: la
signoria territoriale che si estendeva sul territorio circostante il castello, e la signoria fondiaria che
estendeva il suo potere a possessioni di terra collocate in più villaggi. All’interno del dominio
territoriale del signore del castello dunque convivevano poteri signorili minori che avevano
controllo esclusivo suoi contadini che lavoravano le proprie terre. In situazioni come queste i vari
poteri signorili venivano spartiti in base a delicati equilibri a seconda delle esigenze dei signori, e
senza alcun regolamento preordinato. Questi poteri signorili, come imporre una tassa o una
prerogativa di controllo giuridico su un certo gruppo di contadini poteva essere estremamente
frammentata, in quanto erano considerati parte del patrimonio signorile e dunque potevano essere
venduti in cambio di denaro a chiese o altri signori.

Chiese potenti e chiese private

Le differenze fra chiese e signorie è che le terre che le chiese ricevevano dai signori in occasione
del ricevimento degli ordini di un famigliare non potevano essere vendute, né vi erano sistemi di
ereditarietà ma rimaneva tutto accumulato nelle mani della diocesi, anche se potevano certamente
venire affittate o concesse come benefici a dei vassalli, non potevano cambiare di proprietà.
Altra caratteristica era l’immunità, ovvero una larga esenzione fiscale e tutela dei beni della chiesa.
La violenza invece era comune sia al comportamento dei signori che a quello dei chierici, in quanto
era necessaria per mantenere il controllo sul territorio.
Le chiese non erano solo protagoniste dello sviluppo signorile, ma potevano esserne lo strumento:
erano molte le chiese private fondate da una signoria o un altra chiesa. Occorre tuttavia distinguere
chiese in cura d’anime e monasteri.
• Le chiese in cura d’anime comprendono gli enti religiosi finalizzati all’officiazione dei culti ai
laici, cattedrali cittadine e chiese di villaggio. Il sistema dominante era quello delle pievi, chiese
create dai vescovi destinate a guidare la cura delle anime di un gruppo di villaggi. Dato che
riunivano villaggi lontano decine di chilometri non potevano assolvere al compito della guida
delle anime su base settimanale. La parte importante era che queste chiese avevano al loro interno
la fonte battesimale. Le chiese di normale frequentazione erano le chiese presenti in tutti i
villaggi. Spesso queste chiese. Erano costruite da signori che avevano interessi economici, come
la riscossione della decima destinata al clero, e politici, ovvero diventare protettori sia dei
contadini che dei fedeli.
• Per molti monasteri l’atto di nascita è rappresentato da un’iniziativa di un aristocratico. Questo
nomina l’abate e si riserva il diritto di nominarne i successori, inoltre i monaci all’interno
dell’abbazia devono pregare per il signore e la sua famiglia, così da assicurare loro la vita eterna.
La funzione dei monaci era di raggiungere l’ascesi per sé stessi e poi pregare per i propri

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benefattori. Inoltre il monastero privato poteva fungere da riserva patrimoniale sicura per i propri
discendenti in quanto si era sicuri che il monastero non avrebbe potuto alienare le ricchezze ad
esso donategli. Attraverso l’influenza sull’abate si poteva indurre quest’ultimo a beneficiare
vassalli del signore o concedere terre ai suoi contadini, ma questa pratica cadde in disuso entro il
XI secolo per via della tendenza dei monasteri a svincolarsi dal potere signorile.
L’atto di fondare un monastero serviva anche a cementificare le solidarietà famigliari, evidenziarne
l’estensione e i limiti con inclusioni e silenzi. Il signore doveva inoltre proteggere il monastero, e
l’insieme di doveri e diritti passava dal signore al suo erede, e il monastero diventava così un
simbolo della famiglia.
Con la fondazione di un monastero gli equilibri della famiglia vengono definiti una volta per tutte,
ed era molto importante dato che lo statuto giuridico di un individuo dipendeva innanzitutto da ciò.
che aveva ereditato. Tuttavia la fondazione di un monastero non era solamente utile alla dinamica
interna alla famiglia, ma anche per i sudditi del signore, in quanto dal monastero era possibile
ricevere terre in concessione o benefici vassallatici.

Produzione e prelievo in un età di sviluppo

Il dato fondamentale del XI secolo è che i contadini diventarono sudditi: i signori avevano assunto
in tutto e per tutto le funzioni regie una volta ricoperte dai funzionari, tra cui proteggere, prelevare
le tasse e giudicare. Usavano dunque il loro potere per prelevare dai sudditi la maggior quantità di
prodotti e denaro. La vita aristocratica era infatti estremamente dispendiosa in quanto il dovere
sociale del signore era quello di donare a parenti, monasteri o chiese, vassalli e alleati ingenti
quantità di beni, questo era funzionale a mantenere il proprio potere sul territorio. Per sostenere
queste spese i nobili dovettero attuare politiche di intenso prelievo fiscale anche in concomitanza
con un rilevante sviluppo economico e demografico che si estese dal XI al XIII secolo. Le famiglie
contadine si allargarono, e si divisero il lavoro, si moltiplicarono i flussi migratori e gli spostamenti
di popolazione che abitarono gli insediamenti rurali in funzione di colonizzazione. Collocare gli
uomini diventò presto il nuovo problema amministrativo dei signori nel XII secolo, se insediarli nei
pressi del castello o fondare nuovi borghi eccetera.
In questi anni s svilupparono nuove tecniche per l’agricoltura a partire dagli strumenti: gli attrezzi
in ferro vengono utilizzati molto di più in particolare gli aratri a versoio nei terreni pesanti delle
terre umide strappate alla foresta. I cistercensi erano famosi per la loro lavorazione del ferro,
esisteva un legame stretto fra aratro in ferro, numero di arature possibili e tempi di lavorazione del
terreno diviso in riposo e semina. Il ricorso ai cavalli per trainare l’aratro permetteva arature più
profonde e frequenti, aumentando produttività dei semi, osservazione attenta dei cicli favorì la
diffusione del riposo dei campi per non esaurire in cicli troppo brevi le capacità del terreno. In
ampie zone d’Europa l’investimento nell’agricoltura fu redditizio. Il sistema economico che aveva
permesso questo balzo in avanti era pur sempre quello signorile.
In questo periodo i prelievi signorili aumentarono di quantità e numero. Alcuni erano di origine
pubblica come il fodro che era in origine destinato al mantenimento dell’esercito regio, l’Albergaria

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ovvero il dovere di mantenere i costi dell’alloggiamento del re, la taglia era la tassa per il contributo
alla difesa e gravava su tutti i residenti, il focatico era sui nuclei famigliari, e infine i telonei (tasse
sui pedaggi), e quelle sull’uso dei boschi, dei fiumi e dell’acqua.
Dal pagamento in lavoro i contadini passarono al pagamento in denaro. Il lavoro dei contadini fu
più libero, meno condizionato dalle specifiche richieste di prestazioni d’opera, ma rimane il fatto
che in mano signorile confluiva una quota importante delle risorse.

L’azione politica contadina

I contadini erano una realtà assai stratificata: si andava dal bracciante che non sarebbe sopravvissuto
senza prestare lavoro nei campi, al medio proprietario terriero che disponeva di un patrimonio
fondiario su cui si poteva permettere di assumere dei braccianti salariati. Tra questi due estremi
diverse figure intermedie come affittuari e piccoli proprietari.
La diversificazione però non era solo economica, ma anche politica in quanto gli strati più elevati
dei contadini potevano entrare nei rapporti di clientela che facevano capo ai signori e alle chiese
locali. Per i signori questi contadini benestanti svolgevano piccoli incarichi amministrativi come
controllare mulini e forni, oppure riscuotere i censi, in cambio di protezione o servizi. Ora
tratteremo dei comuni rurali.
I comuni rurali erano tutti quei casi in cui la popolazione di un villaggio si organizzava o agiva
collettivamente sul piano politico e si dava una piccola struttura istituzionale. Si trattava in buona
misura di imitazioni dei comuni cittadini, e ci fanno capire il funzionamento della politica rurale e
che il potere signorile non era assoluto e fondato unicamente sulla forza, ma era sempre in qualche
modo contrattato.
Le fonti migliori sono le cosiddette franchigie, gli atti che raccolgono i diritti e doveri dei sudditi e
dei signori, a volte nate dalla debolezza contingente di un signore, che finì per portare all’esenzione
da alcune imposte.
Erano previste delle penalità a chi violasse gli accordi, e questo ci mostra come non ci troviamo di
forte ad una concessione da parte di un potere superiore ma ad una contratto tra due parti.
ovviamente non si tratta di due parti pari fra loro. L’accordo per spartirsi i lavori di fortificazione
mostra come questa fosse interesse comune di sudditi e signori.
Altro dato importante sono le clausole iniziali, ovvero le garanzie relative alla giustizia signorile e
al possesso delle terre. Un esigenza fondamentale dei sudditi era quella di trovarsi di fronte ad un
potere regolato e limitato. Le rivolte contadine non puntavano mai ad una abolizione della signoria
ma a ottenere il rispetto delle norme fondamentali, come il riconoscimento del possesso delle terre,
imposizione fiscale prevedibile e tollerabile, una giustizia efficace.
Infine la concessione dei beni comuni, selve, paludi e pascoli che avevano sempre un grande peso
nell’economia contadina.
Insieme alla rivoluzione agricola avvenne dunque anche una rivoluzione insediativa, tendenza
all’accentramento della popolazione in luoghi di convivenza collettiva. In questo contesto si

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svilupparono i centri urbani dell’Europa medievale. Gli insediamenti funzionali alla colonizzazione
furono esentati da prelievi fiscali e obblighi signorili.

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Le città nell’Europa medievale

Le basi dello sviluppo urbano

La nascita della città non è un oggetto definito che procede per tappe prestabilite, piuttosto è da
intendere come un processo di trasformazione continua di più elementi materiali e culturali:
popolazione, diritti, rapporti di potere, scambi economici, attività produttive, mentalità,
rivendicazioni di autonomia. Ci sono tre elementi in particolare da considerare:
• Legame con il territorio: natura economica e demografica, Pirenne attribuiva la nascita dei centri
urbani a una nuova classe di abitanti, per di più mobili, come i mercanti. Tuttavia la sua posizione
è stata abbandonata. Lo sviluppo dei centri urbani deve essere messo in stretta relazione di quello
dei centri rurali. Le città che sorgevano lungo percorsi commerciali importanti attiravano molti
abitanti, ma nella grande maggioranza dei casi si trattava di città medio-piccole che attiravano
nuovi abitanti dalle campagne circostanti. Il territorio circostante rappresentò sempre un nodo di
scambio indispensabile per la città.
• La capacità di trasformare la condizione degli abitanti. Due dati ricorrono costantemente: la
dipendenza dal signore dei cittadini. Alla metà del XI secolo i legami di dipendenza degli abitanti
con i signori erano ancora forti. Il suolo dove si costruivano le case spesso era del signore e gli
abitanti pagavano un censo come qualsiasi altro abitante della zona, senza contare la presenza di
numerosi servitori dei signori sottoposti al loro dominio personale.
Inoltre i cittadini sia immigrati che originari tendono a riconoscersi come membri di un insieme
sociale nuovo, che condivide diritti e doveri derivanti da una comune appartenenza alla città. Li
univa una comune aspirazione all’autonomia delle proprie attività economiche, che erano
alleggerite dalla fiscalità diretta e dalla influenza del signore. Il più grande elemento di novità fu
infatti il costruirsi di un nuovo statuto giuridico del cittadino, dotato di una particolare libertà
personale, estesa anche alle persone di origine servile, e una solidarietà necessaria per inviare
richieste univoche ai cittadini. A questo scopo erano indirizzati a questi fini.
• Rapporti fra centri urbani e centri di potere signorile, alcune volte furono di collaborazione come i
duchi di Normandia e la fondazione di città come Caen, o i conti di Fiandra che favorirono il
popolamento di alcune zone del loro principato con la promozione di diversi centri urbani come
sedi mercantili (Bruges, St. Omer, Ypres). Sotto il conte Filippo d’Alsazia (1157-1191) tali centri
furono inseriti in un sistema economico di produzione e di scambio a lungo raggio, protetto dal
principe. In queste città gli abitanti ottennero presto la proprietà dei suoli abitativi, dopo aver
acquistato il censo dal signore. A questa forma di autonomia si aggiunsero alcuni privilegi
giudiziari, l’esenzione da alcune imposte sui beni commerciali. Il permesso di costruire le mura
come protezione e delimitazione dello spazio urbano.

Privilegi simili erano presenti anche in città tedesche del Reno, come Colonia e Worms, o della
Mosa come Liegi. Sempre in Germania ci sono molte città di fondazione signorile da parte di
famiglie potenti: Zhärnigen fondano almeno sette città in sette anni tra cui Friburgo, Villigen e
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Berna. I signori impostarono uno schema urbanistico a croce, impostato su una strada mercato
principale, collegata alle porte della città. Il carattere mercantile della città venne stabilito anche
negli statuti.
Il conte distribuì terreni a nuovi abitanti pe costruire delle case in cambio di un censo annuale. Una
politica analoga fu seguita dal duca di Sassonia Enrico il Leone, che fondò città come Monaco
Hannocer e Lubecca.
Le concessioni di terreno che seguivano erano volte a un progetto di rafforzamento del potere
pubblico locale: lo sviluppo precoce di una rete urbana favoriva una maggiore stabilizzazione delle
regioni interessate. I principi che favorirono le città furono anche quelli che prima di altri
realizzarono uno stato relativamente accentrato, con una rete di ufficiali minori e la formazione di
una corte con funzioni fiscali e giudiziarie intorno al signore.
Non sempre le cose andavano così: in Francia ci furono vari esempi di forte resistenza alla
determinazione di un’autonoma rappresentanza della città. Spesso si trattava di città di antica
fondazione in cui la chiesa che aveva più da perdere nel riconoscere l’autonomia dei sudditi. In ogni
caso la città riceveva forma istituzionale attraverso il riconoscimento da parte del signore. Tanto i
giuramenti di comune quanto le franchigie che provenivano dal signore.
Nelle città della francia meridionale la libertà era maggiore: lì a partire dagli anni 30 del XII secolo
si elessero dei magistrati chiamati consoli su ispirazione dei modelli romani. A differenza delle città
del nord si trattava di un governo collegiale di cittadini che poteva contare su un centinaio di
membri. La nomina dei consoli era interna ad una elite urbana formata in genere dalle famiglie
dall’aristocrazia militare più in vista che si passavano le cariche di padre in figlio. Dalla metà del
XII i borghesi non nobili ne rimasero esclusi. Amministravano giustizia civile (eredità) sia penale
(ingiurie) ma non potevano toccare il dominio e i diritti dei signori maggiori, vale a dire
dell’arcivescovo stesso.
La città era dunque divisa in due: da un lato gli ufficiali signorili, balivi o siniscalchi che
detenevano il potere della giustizia alta di sangue per conto del potere del signore i consoli che
rappresentavano la fascia di popolazione ammessa alla vita politica della città. Il quadro tutttavia
non era del tutto dualistico in quanto vi erano molti soggetti che chiedevano di avere maggiore voce
in capitolo sulla vita politica della città. I cittadini chiedevano che venissero rispettati i loro interessi
commerciali, e non andavano mai contro al signore. I signori dovevano garantire queste sfere di
autonoma organizzazione dei cittadini, premiare con dei privilegi eccetera. Il comando militare
comunque rimaneva al signore.

Le città tra XII e XIII secolo

Tra il XII e il XIII secolo le varie parti della città come la chiesa, il castello, il borgo, furono riunite
tutte entro una cinta muraria in pittura intervallata da torri di guardia. La nuova cerchi abbracciava
un area più volte superiore a quella delle precedenti, questo per inglobare la campagna circostante.
Le mura assorbirono per anni le energie economiche della città, in primo luogo per la pressione
fiscale necessaria per pagare i lavori di costruzione.

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Lo sviluppo economico acuiva le differenze sociali, non tutti erano liberi allo stesso modo. La
stratificazione all’interno della città era molto variegata: mercanti, nobili, nuovi ricchi, capi bottega
in ascesa, artigiani, dipendenti e salariati.
Le città fondate dai vecchi funzionari signorili asserragliati nella città fu costretto a integrare nuove
famiglie di borghesi, ma solo quelle che avevano fatto fortuna con il commercio. Furono loro a
rivendicare un ruolo ne consigli cittadini. Le accumulazioni di denaro liquido furono rapidissime e
sconvolsero le gerarchie prestabilite, gli strumenti dei governo usati dalla piccola novità funzionaria
non bastavano più. La mediazione con il signore perse importanza di fronte alla capacità di
spostare grandi capitali in poco tempo, assicurandosi poteri molto più estesi rispetto ai vecchi poteri
signorili. L’élite economica si approprio dei posti di comando e controllo della vita economica
dellala città garantendo la prosperità del territorio ai signori. Non è un caso se per lungo tempo non
esistette il palazzo comunale, ma la halles dei mercanti. La città aveva delle rappresentanze ma non
aveva un sistema rappresentativo, in quanto non rappresentava tutti gli strati della società ma solo
quello più alto. Esisteva infatti un frastagliato mondo artigianale ma non era riconosciuto come tale:
la divisone sociale dipendeva dalla qualità del mestiere artigianale: la gerarchia era infatti duplice,
da una parte i diversi mestieri che vedeva primeggiare i banchieri, ii proprietari di botteghe tessili,
orafi, favori cuoiai e merciai e da un altra parte le funzioni svolte all0interno dello stesso mestiere.
Il prestigio sociale ricoperto da alcuni professionisti era riservato solo ai maestri in possesso dei
mezzi tecnici più costosi e avanzati, per diminuire di numero mano a mano che la lavorazione
andava avanri: le prime fasi della lavorazione implicava lavorare con carne e sangue, tinture per
colori da lavorare solo meccanicamente era considerato svilente da un punto di vista morale, e
macchiava la qualità umana e giuridica dell’artigiano. Questi diventava infame e nel medioevo
questo termine aveva una vera e propria valenza giuridica in quanto impediva alla persona in
questione di entrare nei tribunali per chiedere giustizia o prestare testimonianza.
Il salariato urbano del duecento fu spinto verso una condizione servile nei confronti del capo-
bottega. Le tensioni accumulate nel corso del XIII secolo alimentarono come vedremo i numerosi
movimenti di rivolta nel trecento.

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I regni e i sistemi politici europei tra XI e XII secolo

I re per buona parte del XII secolo avevano poteri limitati, controllavano territori ristretti,
contrattavano azioni di governo con enti regionali come città e signorie, e provenivano da signorie
ancora poco legittimate. Le azioni delle monarchie si concentravano sull’affermare il proprio diritto
a esistere, a coordinare poteri in mani diverse, abituate a governare autonomamente.

I limiti dei regni nel XI e XII secolo

Le dinastie regnanti si basavano ancora sul terreno incerto delle alleanze matrimoniali tra le grandi
famiglie aristocratiche europee, così che si poteva diventare re di una regione anche molto lontana
sposando una o un erede di quel principato, unendo eredità diverse o imponendo un proprio
discendente su un trono vacante. Questo tipo di legami era molto debole poiché cambiava a seconda
degli accordi politici fra le singole famiglie.
Inoltre sul piano territoriale i regni non erano per niente definiti, e gli si opponevano principati
spesso e volentieri più estesi come nel caso del regno di Francia che si limitava all’Ile de France e
gli s opponevano le contee di Blois e di Champagne e al sud Tolosa e Provenza, i ducati di
Normandia, di Borgogna e il principato di Aquitania. In Germania l’impero univa formalmente i
ducati nazionali ma aveva poca influenza su di essi al di fuori della Franconia dove si
concentravano i possessi demaniali dell’impero.
I regni dunque avevano dei possedimenti propri, in quanto avevano bisogno di una base materiale
per attestare la loro esistenza a livello formale. Non erano dunque molto diversi dagli altri principati
territoriali se non per una tendenza egemonica e il vertice coincidente con il re.
Altra difficoltà per i regni era il coordinamento delle alleanze feudali che non controllavano
direttamente: un vassallo di un vassallo del re, non era un vassallo del re.
Gli uffici regi infine, erano controllati dall’alta aristocrazia che a volte si opponeva a volte
collaborava con il re, in quanto se da un lato aveva dei doveri nei confronti della corona, dall’altro
doveva radicare la sua influenza sul territorio. Il sistema di potere medievale imponeva la necessità
di possedere le basi materiali della vita delle persone, al fine di controllare le persone stesse. Questo
perché il potere sulle persone era una cosa come un altra e in quanto tale poteva essere venduta.

L’Inghilterra alla conquista del duecento

In seguito alla battaglia di Hatings del 1066 ci fu un completo rovesciamento delle istituzioni
precedenti e sostituzione immediata delle élite aristocratiche da parte dei baroni normanni. Il
rovesciamento ci fu e i baroni si imposero come classe dominante e come gente del re. Tuttavia i
normanni non trovarono ili deserto e fondarono il loro dominio su una base solida di istituzioni
pubbliche, riallacciandosi così alla tradizione locale per aumentare il consenso.
L’Inghilterra prima della conquista era diviso in circoscrizioni di origine militare e fiscale chiamate
shares, assegnate a uffici pubblici ealdormen o earl. Al di sotto degli shares esistevano
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circoscrizioni minori, le hundreds, formate da tithing, gruppi di dieci famiglie. Queste unità
godevano di ampia autonomia e avevano come fine principale l’amministrazione della giustizia. I
processi applicavano il folkright, e il mantenimento dell’ordine la pace era centrale anche per il re.
Al contrario dei re francesi che avevano smesso di emanare capitolari, i re inglesi continuavano a
fare leggi, da re Athelstan del 939 al re Knut 995-1035. Anche Guglielmo riprese la collaborazione
con l’amministrazione locale della giustizia, e la sua incoronazione riprese molti aspetti tradizionali
tra cui la protezione delle chiese e del popolo. Tuttavia i baroni normanni che seguirono il re
nell’invasione esigevano in cambio della loro fedeltà le terre degli aristocratici inglesi, oltre che
grande autonomia una volta insediativisi, e inoltre controllo sulle azioni del re. Dunque il re si
trovava a metà fra le pretese degli aristocratici e l’esigenza di fondare il suo potere sul popolo.
Guglielmo che era contemporaneamente duca di Normandia, dovette nominare un suo
rappresentante in Inghilterra: un giustiziere, che governava in sua vece. Eliminò inoltre i conti e
istituì gli sceriffi, incaricati di amministrare la giustizia e controllare le finanze nei singoli shire.
Tutti i liberi furono dichiarati sudditi del sovrano e tutte le possessioni dei baroni fu sottoposta a
concerto obblighi di fedeltà militare nei suoi confronti. Gli storici hanno spesso fatto coincidere con
questo periodo l’inizio del feudalesimo inglese, con una gerarchia di proprietari terrieri che partiva
dal re, per passare a baroni, vescovi, nobili e uomini liberi. Tuttavia non è del tutto vero in quanto la
proprietà era ancora ereditaria nella maggior parte dei casi, oppure ottenuta in seguito a conquiste
militari. Non tutte le terre dunque, erano originariamente di concessione regia, ma in un periodo
successivo ad una villetta invasione Guglielmo decise di inquadrare le terre conquistate sotto il
modello feudale, così che i grandi proprietari fossero vincolati a servire nell’esercito o contribuire
in denaro.
Guglielmo necessitò di sapere quanti fossero gli abitanti effettivi delle terre inglesi prima e dopo la
conquista, dunque ordinò il primo censimento della storia medievale: il Domesday book, il re
voleva sapere infatti quante fossero le terre che appartenevano ai baroni, quali fossero gli obblighi
di ciascun proprietario e a quanto ammontavano i beni del regno. Il domesday book fu organizzata
per contee, per scendere poi a feudi, alle hundreds o centene, alle ville e infine ai manor, l’unità di
base della proprietà contadina. In questo modo si poteva mantenere il controllo su baroni e sudditi
allo stesso tempo.
Enrico I, figlio di Guglielmo e suo secondo successore, mantenne un assiduo rapporto con il popolo
che a suo modo di vedere costituiva un ostacolo all’arroganza dei baroni. In occasione della sua
elezione Enrico I emanò la carta delle libertà in cui ripristinò le antiche usanze inglesi
contrapponendole alle nuove norme normanne, troppo oppressive nei confronti degli uomini liberi
in quanto baroni e i loro vassalli esigevano tasse eccessive e non motivate sulla tutela dei minori, i
matrimoni la riassegnazione dei feudi dopo la morte del tenutario. Con la carta Enrico si ergeva a
difensore della parte del popolo oppressa, limitò il potere dei baroni istituendo un sistema di
controllo sul passaggio ereditario delle terre e di punizione delle loro malefatte, inoltre rafforzò la
giustizia regia nelle sedi locali.
Il successore di Enrico fu Stefano di Blois a cui si contrappose la figlia di Enrico, Matilde; questa
guerra per la successione portò ad un rafforzamento del potere dei baroni: non solo si

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impossessarono delle cariche pubbliche come quella degli sceriffi, ma cercarono anche di renderle
ereditarie. Il successore, Enrico II intese porre rimedio a questo stato di violenza.
Il regno di Enrico II 1154-1189 è stato forse il periodo più importante per l’Inghilterra del secolo
XII, con il matrimonio con Eleonora d’Aquitania unì la Normandia, L’Inghilterra e l’Aquitania e
sotto il suo governo presero forma più definita le istituzioni monarchiche del regno inglese.
Il sistema era fisso, incentrato sul giustiziere e cero primo ministro delegato del re, e sulla curia
regia, composta dai grandi del regno, laici ed ecclesiastici che dovevano esprimere formalmente
consenso alle decisioni del re. A questi si aggiunse lo scacchiere responsabile delle finanze
pubbliche con potere di controllo su tutti gli ufficiali, compresi gli sceriffi: due volte l’anno questi
potenti ufficiali dovevano fare un minuto rendiconto del loro operato finanziario e giuridico.
Il. Secondo sistema era mobile e comprendeva un collegio di giudici itineranti nelle singole contee,
rinite in sei circuiti da percorrere nel corso dell’anno. Enrico inoltre costituì il sistema delle giurie
dei dodici uomini saggi nelle comunità, incaricati di giudicare i colpevoli e tenerli in custodia fino
all’arrivo dei. Giudici regi, e per quelli che non potevano aspettare il loro Enrico potenziò le
funzioni giudiziarie della corte centrale a Londra, che divenne un vero tribunale aperto a tutti i
sudditi del regno. Così i casi discussi davanti al re aumentarono di anno in anno e formarono la
materia per una nuova corte di giustizia situata a Westminster (il Bench). Ancora una volta i re
puntavano sulla regolazione della giustizia per tenere il regno unito e in pace. Il potere giudiziario
era utile soprattutto per ridimensionare le pretese dei baroni sui sudditi liberi, e così Enrico emanò
una norma che garantiva diritto di successione ai vassalli dei feudatari maggiori assicurando loro la
trasmissione ereditaria dei feudi ricevuti in beneficio dai loro signori.
Oltre a queste iniziative Enrico recuperò una vecchia consuetudine di chiamata alle armi, ordinò a
tutti i sudditi possessori e liberi di partecipare all’esercito con un armamento proporzionale al
reddito. Era chiaro il fine ideologico e al tempo stesso fiscale del re dato che inquadrava i sudditi in
una dipendenza diretta dal re. Queste grandi riforme furono accompagnate da strumenti di governo
molto innovativi: Enrico fu il primo a utilizzare l’inchiesta sull’esempio del Domesday book per
redigere un elenco dei feudi militari o dei. Feudatari che non avevano prestato giuramento al re.
Inoltre incaricò una commissione per ogni cenetta incaricata di verificare i redditi dei residenti. Il
controllo di Enrico sui baroni cominciò a vacillare per via della elevata pressione fiscale che si rese
necessaria per mantenere le guerre del re.
La crisi del regno fu accentuata dalla lotta dinastica fra i due figli di Enrico II: Riccardo, re tra il
1189 e. 1199 e Giovanni Senzaterra 1199-1216. Sotto il regno di Giovanni i rapporti con i baroni si
fece sempre più teso per via della resistenza di questi a prestare servizio fuori dal regno.
Dopo la sconfitta di Giovanni da parte di Filippo Augusto il primo fu costretto ad firmare un
documento di concessioni assai ampie al popolo, conosciuto come Magna Charta, che riprendevate
antiche libertà concesse da Enrico I, ma in realtà configurava un nuovo equilibrio potere fra il re e i
baroni. La carta era un patto di limitazione delle prerogative regie in ambito fiscale (il re non poteva
imporre tasse senza il consenso dei baroni) e feudale, riguardo soprattutto la trasmissibilità del
feudo. La libertà politica protagonista del documento era quello di potere possedere beni al riparo
delle molestie degli ufficiali pubblici.

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Il regno di Francia da Luigi VI a Filippo Augusto

• Ducato d’Aquitania: apparteneva alla dinastia di Guglielmo IX


• Contee di Tolosa e Provenza, con importanti centri commerciali come Marsiglia, Montpellier e
Narbonne.
• Bretagna e Normandia gravitavano in una sfera mista con poteri condivisi con l’Inghilterra.
• La contea di Champagne che forniva molti degli ufficiali regi era in mano a una dinastia di conti
da sempre molto riottosi alla eventualità sottomettersi al re.
• La contea di Fiandra potentissima economicamente non si percepiva minimamente come parte del
regno francese.

Di questa situazione politica i re del regno di Francia avevano preso coscienza da tempo e per
questo redigevano diplomi solo diretti a enti religiosi del dominio compreso nella regione dell’Ile de
France. I nobili a capo delle altre entità regionali non riconoscevano più il re nemmeno come erede
simbolico dell’impero carolingio, essi avevano creato una corte di castellani fedeli, di grandi
vassalli in competizione che riconoscevano al principe la superiorità e il comando. Nelle città
c’erano anche casi di una amministrazione gestita da uomini fedeli solo al principe, e non ai suoi
vassalli maggiori.
Luigi VI 1108-1137 cercò di disciplinare i castellani ribelli e contenere l’avanzata di Enrico I duca
di Normandia e re d’Inghilterra oltre a fronteggiare le aspirazioni dei conti di Fiandra e di
Champagne-Blois. Il fronte interno era quello più promettente; sostenuto da alcuni vescovi e da un
consigliere autorevole come Sugerio abate di Saint-Denis, da molti ritenuto il vero inventore della
monarchia, Luigi VI si lanciò in una serie. Di battaglie punitive contro potenti locali interni ed
esterni al suo dominio. Erano guerre individuali, non di schieramento, provocate dall’intemperanza
di. Quei ceti di cavalieri e castellani che non inserivano in una gerarchia feudale definita. Suggerii
fornì una interpretazione giuridica del sistema feudale molto utile alla parte monarchica in quanto
sosteneva che un feudo si muovesse sempre da un altro feudo e che solo il re non aveva superiori,
dunque poteva presentare tutti gli altri principi come dipendenti dal re.
Allo stesso tempo sugerio sosteneva che ogni azione militare del re provenisse dal mandato degli
uomini di chiesa, che avveniva in caso di minaccia da parte dei castellani della pace pubblica.
Sugerio trasmise al re il. Compito di mantenere la pace. Il cambiamento avvenne col figlio di Luigi
VI, Luigi VII (1137-1180), che fu nominato reggente quando il re partì per la seconda crociata nel
1144. Luigi riuscii a disegnare una nuova funzione della monarchia con una serie di atti di governi
in nome e per il bene del regno.
Nel 1155 durante il concilio di Soissons Luigi VII proclamò la pace per tutto il regno, che fu
ribadita nel concilio di Reims del 1157, quando si attribuì al re il compito di assicurare la pace e di
punire i colpevoli che signori locali non avevano perseguito. Da un lato si assegnava al re la
funzione superiore e sostitutiva rispetto ai signori degli altri principati, e dall’altro si indicava come
mantenere la pace significasse esercitare la giustizia coercitiva e punitiva contro tutti.

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Solo in un caso i principi minacciarono direttaemnte i confini del regno: quando per ragioni
matrimoniali si unirono i educarti di Normandia, Aquitania e regno di Inghilterra sotto il dominio
dei duchi d’Angiò, più tardi detti Plantageneti dalla pianta di ginestra presa a simbolo della casata.
Luigi VII aveva sposato Eleonora d’Aquitania che portava in dote il ducato d’Aquitania, ma dopo il
ritorno dalla crociata Luigi VII decise di divorziare da Eleonora che sposò allora il conte d’Angiò
Enrico, figlio di Enrico I duca di Normandia e re d’Inghilterra. Con il nome di Enrico II il re
aggiungeva a questi titoli anche il ducato di Aquitania, unendo in un solo dominato tutto la francia
nordoccidetnale e meridionale.
Iniziò così quella che alcuni storici chiamano la prima guerra dei cento anni fra francesi e inglesi,
un conflitto che si protrasse fino alla. Morte di Luigi VII senza granfi conseguenze sul piano
territoriale. Le alleanze in conflitto tra loro si mostrarono molto permeabili e gli stessi principi che
le componevano potevano passare da un lato all’altro secondo le convenienze del momento.
Luigi VII morì nel 1180 lasciando il figlio Filippo, incoronato nel 1179, in balia di due potenti caldi
protettori: i conti di Champagne per via di madre, e i conti di Fiandra per via matrimoniale, avendo
sposato il giovane Filippo la nipote del conte Filippo d’Alsazia a capo di quella contea.
Il regno di Filippo Augusto è considerato il punto di svolta della monarchia francese, sia per la
durata quarantennale del suo governo sia per le trasformazioni che impresse ai metodi di governo
del regno. In primo luogo le guerre contro i baroni furono fruttuose: dai costrinse il conte di Fiandra
a cedere due contee importantissime, come il Vermandois e l’Artois. Nel corso dello scontro
ventennale con gli anglo-normanni, Filippo sfruttò invece le divisioni interne alla dinastia
plantageneta indebolita dalla competizione tra i due figli di Enrico Giovanni e Riccardo.
Enrico II governava un territorio vastissimo, governando con abilità territori molto diversi fra loro.
In Normandia l’amministrazione era di alto livello: istituì la figura dello scacchiere a imitazione del
magistrato inglese che si occupava delle finanze del regno, una capillare rete di ufficiali locali
chiamati balivi assicurava il controllo dei luoghi strategici del ducato. Questi erano eletti dal duca,
incaricati a tempo di più mansioni, erano reclutati dalla classe media di funzionare fedeli in primo
luogo al re, e non dalla nobiltà.
A fasi alterne Riccardo si dichiarava vassallo e avversario del re di Francia. Alla sua morte gli
successe il fratello Giovanni Senzaterra, che però non godeva dell’appoggio né dei baroni né dei
normanni, e perse la Normandia per mano di Filippo durante un’azione militare culminata nel 1204.
In Normandia il ducato era molto potente in quanto gli apparteneva la maggior parte del territorio. Il
re francese accordò ai nobili normanni ampie autonomie, e riuscì anche ad acquisire maggiore
controllo su altri ducati come la Borgogna. Fu una guerra però a consegnare a Filippo un prestigio
mai ottenuto prima da alcun sovrano.
Nella battaglia di Bouvines del 1214 si unirono contro Filippo tutti i suoi nemici antiichi: Giovannii
Senzaterra, l’imperatore tedesco Ottone IV, il conte di Fiandra, il duca di Brabante (che governava
territori a nord-est di Parigi) e molte città fiamminghe. Sconfiggere questa coalizione permise a
Filippo di superare nello stesso momento le maggiori resistenze alla sua espansione verso la Fiandra
e iil nord del regno. Seguì una politica militare. Più aggressiva che comprese anche vari tentativi di
invadere l’Inghilterra, la quale però fallì.

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Tra queste imprese ci fu la crociata albigese, spedizione che i baroni del nord della francia avevano
condotto per conto del papa contro il conte di tolosa, che era culminata nella presa di Tolosa da
parte dei cavalieri francesi. Il conte di tolosa era stato accusato di eresia da papa Innocenzo III e gli
eretici erano stati sciolti dai giuramenti di fedeltà e potevano essere privati dei beni. Filippo poteva
così rivendicare la spedizione come atto in difesa della fede.
Le spese del rengo erano occupate per l’80% da spese militari ma è l’entrata che si distingue dagli
altri principati europei: il 50% era costituito dai proventi delle rendite agricole del dominio regio, il
20% delle tasse sulla città che iniziavano a costruire sensibilmente alla ricchezza del regno, per il
7% dalla giustizia più una quota di provenienza indefinita per ili 16%.
La possibilità di sfruttare meglio il dominio regio fu sostenuta dalla creazione di un nuovo
funzionario regio: il balivo, responsabile del governo della giustizia e della fiscalità in una
circoscrizione definita. Questi dovevano redigere rendiconti mensili della loro attività in libri di
entrate e uscite. Le. Entrate dunque divennero più stabili e prevedibili. Il ceto amministrativo
coincideva non con i baroni ma con l’ordine templare locale, la nobiltà urbana e la media cavalleria.
Forte del nuovo impianto ideologico fornito da Sugerio di Saint-Denis il richiese enormi somme
per. La riassegnazione dei feudi agli eredi del vassallo nel caso della sua morte. Riuscì inoltre a
monetizzare il mancato impegno militare imponendo una tassa per assoldare dei sergenti. Distribuì
anche territori in zone contese a cavalieri per assicurarsi la loro neutralità.

I regni spagnoli

La Spagna del secolo XI era divisa in contee con aspirazioni monarchiche nella parte settentrionale
della penisola. Gli storici della Spagna hanno interpretato il regno arabo durato sei secoli, come una
parentesi del regno visigoto mai del tutto scomparso. Per molti intellettuali l’occupazione degli
arabi della penisola iberica era una appropriazione che non aveva senso di esistere. I regni spagnoli
del XI non erano esattamente dei regni, erano di fatto contee di dimensioni regionale che
occupavano solo la parte settentrionale della penisola. La contea di Barcellona rimase lungo
strettamente legata alle vicende della Francia meridionale: Navarra, Aragona, Leòn e Castiglia
erano formazioni territoriali fluide e la loro esistenza come regni fu intermittente, fra unioni
dinastiche e separazioni successive. La Castiglia assorbì Leon, ma con due fasi di separazione tra il
1065 e il 1072 e poi fra il 1157 e il 1230. Navarra e Aragona furono unite fino al 1134 per poi avere
due sovrani diversi. Il conte di Barcellona divenne fomentante dell’Aragona quando Raimondo
Berengario IV sposò la figlia di Ramiro II d’Aragona.
La divisione dei due regni non era netta come ci si aspetterebbe, anzi furono innumerevoli i casi di
collaborazione protezione scambio e alleanza fra re spagnoli e i diversi potentati delle città della
frontiera. Alfonso VI di Castiglia per esempio cacciato dal fratello trovò ospitalità presso il califfato
di Toledo e intervenne a suo favore una volta diventato re contro una fazione nemica che aveva
occupato la città. Il famoso cid, Rodrigo Diaz 1043-1049 un cavaliere castigliano esiliato. Da
Alfonso celebrato nei poemi cavallereschi prestò servizio presso diversi principe musulmani. Senza

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contare i grandi scambi della cultura latina con quella araba, con la traduzione di moltissime opere
nelle due lingue.
Era comunque vero che la guerra all’infedele era un motivo ricorrente nel discorso politico a partire
dalla concessione papale alle spedizioni di cavalieri nel 1063 e nel 1085 in funzione pre-crociata. I
re spagnoli si servirono spesso di questo armamentario retorico nelle loro battaglie contro i califfati
per esempio:
• 1085 conquista di Toledo da parte di Alfonso VI di Castiglia
• 1118 occupazione delle Baleari da parte dei Catalani e di Saragozza da parte degli Aragonesi
Si trattò. In ogni caso di conquista temporanee e gli Almoravidi ripresero le loro terre in breve
tempo. Le guerre combattute durante la prima metà del XII secolo furono dunque infruttuose,
ricordiamo le cavalcate dei re spagnoli che però non erano vere e proprie spedizioni militari ma
razzie e saccheggi.
La crisi Almoravide iniziò per via della insofferenza mostrata dai sudditi dell’Andalusia nei
confronti del governo oppressivo che imponeva le tradizioni musulmane e perseguitava i cristiani.
La crisi iniziò con la presa del Marocco da parte della setta degli Almohadi, che riuscì anche ad
espandersi in Andalusia. Tra il 1144-47 riuscirono a prendere anche le maggiori città della regione
ed elessero come capitale Siviglia. Nel 1195 l’esercito musulmano aiutato da alcuni cristiani ribelli
al re inflisse una dura sconfitta all’esercito di Alfonso VIII di Castiglia ad Alarcos.
La. Reazione iniziò nei primi anni del Duecento con la proclamazione di una crociata
antimusulmana nel 1211da parte di Innocenzo III. Nel 1212 il re castigliano vince. La battaglia di
Las Navas e da quel momento le vittorie cristiane si moltiplicano e tra il 1212 e il 1240 i territori
mano ai principi cristiani raddoppiarono, con la fondazione di nuovi insediamenti di cristiani in
Estremadura e Andalusia. La Catalogna e l’Aragona conquistarono le Baleari (Maiorca e Minorca) e
il regno diValencia assicurandosi uno sbocco sul Mediterraneo. Il ripopolamento era in realtà
iniziato fin dal XI secolo, prima dell’occupazione politica di quelle regioni, la creazione di villaggi
dicristiain abitati da contadini e cavalieri era parte integrante della Reconquista. Agli abitanti
venivano concessi ampi lotti di terra ma erano incaricati anche di difenderla. militarmente.le terre
erano distribuite in base alla capacità militare.
Nell a parte centrale della penisola vicino a Toledo la popolazione era mista e gli abitanti della città
erano cristiani ebrei e musulmani. Più a sud troviamo più monasteri che fondarono villaggi nella
Mancia, come l’ordine di Calatrava. Con il progredire della conquista il destino della popolazione
difese musulmana divenne sempre più un problema, risolto con emarginazione economica e politica
e spaziale, recludendo i musulmani in quartieri etnici nelle città o relegati nelle campagne. I re
spagnoli si trovavano spesso di fronte a realtà indipendenti e fortemente identitarie, con le quali il
potere monarchico dovette rappportarsi in modo pattizio, fino a convocare assemblee di grandi del
regno con città e corti comunali: le curie generali o cortes che deliberavano sui grandi temi della
politica regia. Questa molteplicità di presenze istituzionalizzate, carattere fortemente militare
dell’aristocrazia del regno e la necessaria condivisione delle decisioni maggiori in assemblee
composite rimasero caratteristiche di fondo dei regni spagnoli per lungo tempo.

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La Germania e l’impero

La Germania del secolo XI presenta un quadro più stabile rispetto ai regni vicini. I quattro ducati di
Franconia, Sassonia, Baviera e Svevia erano ben saldi nelle mani dei nobili che coordinavano conti
e castellani. C’erano marche di frontiera dove famiglie intraprendevano politiche di espansione nei
territori orientali come l’Austria, la Stiria e Brandeburgo, ma anche i ducati più lontani di
Pomerania e Slesia, confinanti con il regno di Polonia.
Ci fu inoltre una grande crescita demografica in Germania nei secoli XII-XIII: da 4 milioni a 8 di
abitanti, che alimentò una forte emigrazione verso est, dove i principi tedeschi chiamavano coloni
per stabilizzare i propri dominati. Seguì di conseguenza una emarginazione crescente delle
popolazioni slave originarie di quei territori.
L’impero come istituzione funzionava comunque ad intermittenza e l’imperatore veniva eletto per
tradizione dai principi dei quattro ducati maggiori e basava il suo potere principalmente sui
possedimenti del ducato di Franconia, che era considerevole ma non abbastanza da afferrare
assoluta superiorità nei confronti degli altri principi suoi concorrenti. Il problema degli imperatori
già dai primi decenni del XI secolo fu quello di resistere alle ribellioni dei vassalli, a partire
dall’elezione di un secondo imperatore da parte di Gregorio VII in Rodolfo di Rheinfelden, e poi i
successori di Enrico V Lotario III e Corrado III, provenienti da una casata precedente e scelti per la
loro debolezza.
Il potere personale delle dinastie nobili dei ducati era basato sulle grandi proprietà, e questo unito
all’ereditarietà delle cariche portava i nobili a slegarsi dalla autorità imperiale in caso di conflitto,
così che si crearono ducati che si credevano svincolati dalla fedeltà all’imperatore. Nel 1136 Lotario
III mise in guardia sulla difficoltà di allestire un esercito quando i nobili avevano alienato tutti i
benefici ricevuti dalla corona e non prestavano più servizio militare.
In questo contesto iniziò il regno di Federico I di Hofenstaufen di Svevia, chiamato Barbarossa, il
quale riuscì a riunire la Germania dei quattro ducati in quarant’anni di regno. Nel 1158 ordinò la
pace generale dell’impero, e promosse paci territoriali nei territori tedeschi. In secondo luogo si
appellò al diritto feudale per confiscare i ducati ai principi ribelli come fece nel 1180 con Enrico il
Leone, potentissimo esponente della casa di Welfen.
Ogni volta che Federico entrava in possesso di un ducato lo divideva in due diminuendo la forza dei
singoli principati, così fece per la Sassonia e la Baviera. Creò due nuovi ducati in Austria e in Stiria
e cercò di rafforzare la sua base patrimoniale in Franconia attraverso un’opera di passaggi di feudi,
alla fine del suo regno i principi laici erano 20 e altrettanti quelli ecclesiastici. I risultati vennero
raggiunti grazie ad un attuazione del diritto feudale.
Nella dieta di Roncaglia del 1158 Federico stabilì che ogni potere pubblico doveva provenire dal re
attraverso una investitura formale, rifacendosi al diritto romano. Usò questa legge per rafforzare le
sue prerogative feudali. Si rinnovò inoltre il divieto di alienare i feudi, di venderli o dividerli, di
giurare fedeltà a più signori. Barbarossa cercò dunque di instaurare un potere imperiale che fosse al
culmine di una gerarchia feudale. La dieta di Roncaglia riguardava tuttavia principalmente l’Italia.
Le guerre italiane di Federico richiedevano l’appoggio dei principi che non sempre erano favorevoli

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al prolungamento della presenza militare in Italia. Dopo Federico Barbarossa scoppiarono nuovi
dissidi sotto Enrico VI che cercava di imporre il diritto di successione dinastica all’impero
abbandonando il criterio elettivo. In cambio di questo aveva proposto ai nobili la possibilità di
trasmettere i propri feudi ai propri figli in linea maschile e femminile. I principi tedeschi rifiutarono
la proposta.
Enrico VI aveva raggiunto una posizione di forza grazie al matrimonio con Costanza d’Altavilla,
ultima erede dei re normanni, dalla quale ebbe nel 1194 un figlio chiamato Federico Ruggero, poi
Federico II. Nonostante le ribellioni siciliane del 1190 che elessero come re un figlio illegittimo di
Ruggero III, Tancredi conte di Lecce, Enrico riuscì a entrare a Palermo nel 1194 e farsi eleggere re
di Sicilia. Il figlio dunque si ritrovò ad ereditare il titolo di imperatore e re di Sicilia dal padre.

Il regno di Sicilia

Costanza d’Altavilla era l’ultima esponente della famiglia che aveva conferito unità alla moltitudine
di cavalieri normanni che si erano stanziati in Sicilia durante l’epoca delle grandi invasioni
dell’Europa da parte dei normanni nel 1013-1016. Furono successivamente utilizzate dai
Longobardi come mercenari che combattessero in guerre interne o contro i bizantini. Un primo
gruppo si stabilì ad Aversa nel 1030, e si impadronì del principato di Capua 1058. Altri gruppi. Si
espansero in Campania, Calabria, Puglia, costruendo basi di un potere locale disperso ma con
tendenze egemoniche sulla regione. I baroni normanni esercitavano un controllo molto violento
sulla popolazione, chiedevano più tasse ai contadini e alle chiese. Non avevamo un ordinamento
gerarchico all’interno di un sistema istituzionale unico. La vecchia aristocrazia longobarda e
bizantina in Campania e in Puglia fu in buona parte sostituita dai cavalieri normanni, in altre parole
divennero signori di castello attraverso matrimoni e alleanze.
Faticò anche ad affermarsi una dinastia di signori regionali, fino agli anni 70 in cui si impose la
famiglia degli altavilla come un punto di riferimento nel coordinamento dei territori conquistati.
Erano presenti in Sicilia Puglia e Calabria intorno al 1040 (Guglielmo Braccio di Ferro edu al
servizio dei bizantini e del principe di Salerno), e i vari discendenti della famiglia seppero sfruttare
non solo le debolezze dei potentati bizantini ma anche la contrapposizione fra papa e imperatore.
Drogone, fratello di Guglielmo, fu eletto conte di Puglia dal duca di Salerno, e duca nel 1047
dall’imperatore Enrico III. Il fratello Umfredo riprese il titolo di duca di Puglia dopo la morte di
Drogone e creò un rapporto più stretto con il papato. Il titolo passò ad un nuovo membro della
famiglia chiamato Roberto il Guiscardo, nel 1059, con un giramento di fronte al papa.
Roberto e Ruggero operarono su più fronti con un intento non più occasionale. In Puglia
occuparono Bari, ultimo avamposto bizantino in Italia meridionale nel 1071, e conquistarono
Palermo l’anno successivo. Fu un evento cruciale che aprì alla famiglia le strade per un aposizione
politica preminente nel gioco politico europeo. Nel 1098 fu conferito a Ruggero un riconoscimento
papale che lo equiparava nelle capacità ad un legato apostolico: poteva nominare i vescovi,
controllare le finanze della chiesa e dirimere controversie fra ecclesiastici. Si servì tuttavia anche
del modello amministrativo musulmano molto accentrato. Ruggero II, figlio di Ruggero I, impostò

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un regno che abbracciasse tutti i territorio dell’Italia meridionale. Lo aiutò aver ricevuto il titolo di
re da Anacleto II in cambio di sottomissione vassallatica alla chiesa di Roma, confermato da papa
Innocenzo II nel 1138 e da allora mai messo in discussione. Una volta che Ruggero tentò di portare
avanti queste forme di controllo sul continente le congiure dei baroni aumentarono, nel 1160 una di
queste scosse le basi del regno di Guglielmo I, che dovette reprimerla nel sangue. L’autonomia
dell’aristocrazia normanna sul continente rimase un ostacolo alla tenuta della monarchia.
Ciò non era colpa del feudalesimo, dato che non esisteva nel regno normanno: la terra non veniva
concessa in feudi né esisteva una gerarchia di fedeltà a regolare i rapporti tra aristocrazia e re. Le
terre appartenevano ai cavalieri che le avevano confiscate durante le invasioni, ma esisteva un
rapporto di fedeltà con il condottiero di riferimento che aveva conquistato la terra.
Le fonti sono ancora più ambigue che nel caso inglese dove la tenuta del bene era più importante
del diritto astratto di chi l’aveva concesso. L’unico documento vagamente feudale del regno
normanno è il catalogo dei baroni del 1142, un censimento di tutti i cavalieri del regno e del loro
potenziale militare-fiscale. Nonostante questo quelli raccolti in questo documento non erano vassalli
del re ma i soldati che i baroni potevano armare in caso di guerra.
Lo sfruttamento del demanio regio fu la chiave di volta del sistema politico normanno poiché si
creò un ceto sociale dii funzionari pubblici capaci di garantire gettiti fiscali più sicuri, e perché
nelle. Terre. Demaniali si sperimentava con successo nuove forme signorili di sfruttamento del
lavoro contadino. Più del ceto dei baroni furono i funzionari regi a praticare un controllo diretto sul
lavoro contadino e a prelevarne il surplus disponibile. Nelle assise di Melfi del 1129 il re Ruggero II
proclamò una pace del regno ponendo il divieto a guerre private in favore della giustizia del re.
Nelle assise del 1140 ad Ariano il re continua il suo progetto di sottomettere. I baroni al potere
pubblico sul piano fiscale e giudiziario. Prendendo norme dalle tradizioni romane, bizantine e
papali riuscirono a imporre il controllo egemonico sulla base della fedeltà militare tra baroni e re.
Gli strumenti per governare sui baroni furono dunque organizzazione amministrativa, ovvero il
controllo tramite funzionari regi delle cause più importanti come i matrimoni tra nobili che
venivano limitati per evitare eccessive concentrazioni di potere, oltre a stemperare le pretese dei
signori sui loro dipendenti.

Successione imperiale e il regno di Federico II

Il figlio di Enrico VI e. Costanza, Federico, ereditò il regno di Sicilia ma per quanto riguarda
l’impero le cose erano più complicate.
Il primo conflitto perla successione vedeva contrapposti Filippo di Svevia e Ottone di Sassonia e
l’arbitro della competizione fu il papa Innocenzo III che cambiò più volte idea prima a favore di
Filippo e poi dal 1208 a favore di Ottone. Il papa raperò anche tutore legale di Federico che divenne
presto un altro contendente al trono. Tuttavia se Federico fosse diventato imperatore il papato si
sarebbe trovato circondato e questo era l’incubo dello stato pontificio. Federico fu incoronato re di
Germania nel 1214, e uscito vincente dalla battaglia di Bouvines, Federico fu eletto nel 1220 re dei

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romani e poi consacrato imperatore da papa Onorio III. Ora nelle sue mani riuniva le sorti
dell’impero e di tre regni, Germania Italia e Sicilia.
Federico II agì nel meridione in modo duro, rafforzando il suo controllo sul territorio creando nuove
figure di funzionari pubblici come sculacci margravi e procuratori. Promosse anche le città del
ducato.
In Germania però non governava in modo così autorevole, e anzi si trovò costretto a creare le
condizioni per mantenere la pace all’interno dell’impero attraverso compromessi con i potentati
regionali. Al momento della sua elezione nel 1220 emanò un atto molto importante in cui concedeva
estrema autonomia alle terre possedute dai principati cattolici. Il figlio di Federico II, Enrico, nel
1231 dovette accordare ai principi laici di. Germania lo stesso privilegio, contro il volere del padre.
Federico in Sicilia governò. Per recuperare le terre usurpate. Dai nobili durante la reggenza della
madre, così come aveva fatto nel meridione. Appena maggiorenne Federico aveva fatto stilare
infatti un elenco di tutte le possessioni del re e un inventario dei beni sottratti alla corona.
Nell’assile del 1220 a Capua Federico convocò tutti i possessori a presentare i propri privilegi in
modo da distinguere quali fossero legittimi e quali no, in base al diritto regio. Nel 1231 Federico
emanò a Melfi uno dei suoi atti legislativi più importanti: il liber constitutionum, o liber augustalis.
Il regno d’Italia però continuava a sfuggirgli: divisa in distretti cittadini autonomi sotto il governo
collettivo dei comuni l’Italia centro-settentrionale aveva seguito una traiettoria diversa dalle altre
regioni. L’inquadramento regio fu più debole per tutto il secolo XI e metà del XII, e lo sforzo di
autogoverno delle città che ben sapevano di essere inserite in un regno assente creò un sistema di
territori cittadini senza uguali in Europa.

Conclusioni

Il risultato non è nitidissimo: la costruzione degli apparati monarchici nazionali si configura come
un processo interrotto, in quanto le carte territoriali sono ancora macchiate dai principati regionali
legati feudalmente al re. In Francia tra il XII e il XIII secolo le aree appartenenti al regno sono
ancora isole in un sistema di dominati locali. Per la Spagna valgono le linee di espansione portate
avanti dai regni: la linea del XIII secolo si arresta sotto la metà della penisola, in quanto il sud è
sotto i regni musulmani. Il regno normanno d’Italia è uno dei regni territorialmente più stabili per
via dell’azione efficace di Federico II.
I re si trovavano da un lato ad amministrare con l’aiuto di funzionari pubblici e dall’altro a mediare
tra questi e il potere degli aristocratici, ma estendere il proprio potere in modo capillare era
impossiibile in questa fase storica. I re fecero uso del diritto feudale per intervenire in territori non
di loro proprietà: nelle dispute tra potenti e sudditi o loro vassalli il re poteva prendere le parti dei
più deboli facendo valere il suo diritto si superiore nei confronti del signore le curie feudali furono
lo strumento più utilizzato dai sovrani.
Altro strumento fu la politica matrimoniale grazie a cui i re soprattutto i re di Francia si
impossessarono di grandi proprietà fondiarie: il matrimonio generava un legame giuridico molto

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forte e riconosciuto. Altra usanza fu quella dell’incinerazione delle terre dei vassalli morti senza
eredi oppure con eredi minorenni, i quali erano costretti a riacquistare il feudo a prezzi elevati. I
La frenetica attività dei censimenti dipende dal fatto che i re dovevano monitorare le proprietà dei
signori del loro regno. Altro fattore da cui dipendeva il successo di un regno erano i funzionari
pubblici che fino alla prima metà del XII secolo venivano affidati per via ereditaria ai grandi
vassalli di rango principesco, mentre al dii fuori dei territori regi ili controllo dei centri abitati e dei
castelli era totalmente in mano ai signori territoriali. Verso la fine del secolo la tendenza si invertì, e
a corte emersero persone di ceto medio, di origini non nobili come cavalieri, chiericii, agenti
contabili di provenienza urbana, che presero il posto dei grandi vassalli.
Il controllo sul territorio dai punti di vista fiscale e giuridico erano essenziali per assoldare i vassalli
per scopi militari. Gli agenti locali chiamati balivi o siniscalchi diffusi già dalla prima metà del XII
secolo in Normandia, Fiandra, Borgogna e dal 1190 anche in Francia, divennero collettori locali del
fisco regio: curarono la raccolta delle tasse, individuarono nuovi soggetti tassabili e nuove fonti di
reddito. Su un piano le corti monarchiche erano naturalmente superiori ai loro vicini: quello
dell’elaborazione culturale giuridica delle forme di sapere, in quanto ponevano il re. Come. Vertice
politico in base a cui gli altri poteri dovevano conformare il proprio spazio di azione. Il re
assumeva. Funzioni di pacificatore, di difensore dell’ortodossia, detentore legittimo dei poteri
pubblici, tutte funzioni che servivano a identificare i contorni di questa maestà in costruzione.

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Nuove strutture politiche nell’Italia medievale: città e comuni

La città medievale è stata spesso oggetto di interpretazioni storiografiche ideologiche:


nell’ottocento era considerata come centro abitativo latino contrapposto ai possedimenti feudali
germanici, nel novecento è oggetto di attacchi violenti che vedono nella città la culla del sentimento
municipalista della borghesia italiana, ma negli ultimi anni si è cercato di attaccare il mito
storiografico cittadino su basi meno ideologiche, in particolare si mette in dubbio l’effettiva
capacità della città di coordinare l’ambito territoriale in modo coerente.

Nascita del comune consolare: rappresentanza autonoma delle forze cittadine

Le città italiane si presentavano come comunità senza capo, che si governava al di fuori di un ordine
gerarchico di poteri delegati.
Il conte carolingio del secolo IX era un ricordo remoto, poiché i suoi discendenti si erano recati nel
castello del loro contado lasciando la città a sé stessa. I suoi dipendenti come i visconti e gli
avvocati conservarono diritti economici ma ora da dividere con il vescovo. Questa era la figura di
maggior rilievo: guidava la vita cittadina e ne assicurava l’unità religiosa oltre a detenere importanti
diritti pubblici: mercato, dazi sulle merci, giustizia civile, che costituivano il suo potere sulla vita
pubblica. Tuttavia il vescovo non prese mai il posto del conte nella gerarchia regale come avvenne
in Germania e in Francia. In questi paesi spesso il titolo di conte poteva essere assegnato ai
vescovi.
In Italia i vescovi ricevettero privilegi molto importanti dall’imperatore ma non la carica di conte. ii
vescovi erano anche signori feudali, che dovevano amministrare il consenso che ricevevano dai loro
vassalli cittadini, e per questo la città fu il centro di grandi tensioni sociali, a cui il vescovo era
tenuto ad applicare soluzioni equilibrate.
Le famiglie di. Tradizione militare giuravano fedeltà al vescovo in cambio di terre e benefici, e
grazie a questi mantenevano il prestigio della dinastia, ma non rinunciavano ad usurpare terreni
appartenenti alla chiesa. I conflitti interni di questo tipo venivano giudicati dalla curia episcopale
che aveva le caratteristiche delle corti feudali. Gli imperatori intervennero durante il XI secolo
molto spesso a favore dei vescovi, ma l’equilibrio interno della città era molto complesso e
comprendeva alleanze e cooperazioni forzate fra diversi gruppi sociali influenti, il vescovo e i suoi
soldati.
In molte città urbane i cittadini erano gli abitanti di estrazione non militare, distinti in base a livelli
di ricchezza e mestiere. La parte alta della cittadinanza era composta da alcune categorie di
professionisti distinti dai semplici abitanti: giudici, avvocati, grandi mercanti. I giudici davano
forma ai governi cittadini fissando le regole di funzionamento, inquadrando l’azione di controllo
degli uomini da parte del vescovo, assistendo direttamente i cittadini nelle questioni giudiziarie.
Affiancavano i giudici negli strati più alti della società le élite economiche come i mercanti, i
cambiatori (che valutavano e cambiavano le diverse monete) e i prestatori di denaro. Questi
costituivano un ceto tecnico necessario al governo della città. La collaborazione dei vescovi con
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queste élite cittadine assicurava solidarietà reciproca nella difesa dei propri privilegi. Al di sotto
troviamo tutti gli abitanti senza particolari qualifiche, esposti alle angherie dei vassalli del vescovo,
ma capaci di farsi sentire nelle assemblee pubbliche in cui venivano prese le decisioni più
importanti.
Il vescovo era il mediatore degli interessi divergenti all’interno della città. Le dispute che minavano
la pace interna della città erano risolte dal presule, che imponeva un giuramento collettivo volto a
preservare la pace. Chi infrangeva questo giuramento veniva escluso dalla comunità e cacciato dalla
città. Nel 1088 a Pisa scoppiò una disputa tra famiglie nobili per la conquista di alcuni lotti di terra,
e a risolverla fu il vescovo Daiberto con una tregua (o lodo) che imponeva a tutti l’obbligo del
rispetto. Della pace, vietò di innalzare le torri oltre una misura fissa e affidò ad un consiglio comune
il compito di amministrare la pace imposta con l’accordo in questione. Esisteva dunque una
istituzione formata da buoni cives, che agiva sotto la protezione del vescovo. La struttura politica
della città aveva già preso forma.
Nel corso del XI secolo le città crescevano per numero di abitanti, attività economiche, rilievo
culturale e importanza delle decisioni politiche prese nelle assemblee e palazzi episcopali. Queste
decisioni crebbero di importanza fino a influenzare la vita dei cittadini fuori dalle mura, nel
contado. Questa crescente rilevanza politica delle città portò a creare una nuova istituzione a cui
affidare il governo della vita pubblica. Fra il 1090 e il 1120 compaiono in quasi tutte le città italiane
dei magistrati chiamati consoli, un richiamo alla gestione della repubblica romana in cui il potere
era gestito da due consoli eletti ogni anno. Il consolato medievale era però molto diverso da quello
romano: era formato da un numero variabile di membri, da quattro a sei, a volte anche dodici, che si
riunivano in genere nel palazzo del vescovo, inoltre provenivano spesso da famiglie di vassalli del
vescovo, della media e alta democrazia urbana, con l’apporto determinante dei giudici, e che
finivano per difendere i privilegi delle classi alte. Le somiglianze con il modello antico invece
erano: la durata annuale della carica, il carattere elettivo della nomina che si contrapponeva al
semplice prevalere dei più forti in ambito urbano. I consoli italiani a differenza di quelli tedeschi e
francesi non erano nominati da un superiore ma eletti da un organo collettivo della città:
l’assemblea generale dei cives, detta concio che li investiva del potere di governo.
Nel corso degli anni si coinvolse la parte cittadina più attiva nel governo della città, così si istituì iil
consiglio cittadino formato da un centinaio di persone che affiancasse i consoli nelle scelte più
importanti. Prese piede in Italia una politica parlamentare, in consiglio si potevano avanzare
richieste, discutere le decisioni, contestare l’operato dei consoli ed eleggere i consoli futuri. Nel
corso del XII secolo i consoli si garantivano quando riuscivano a fare approvare le loro proposte
dalla maggioranza del consiglio. Il principio di maggioranza entrò nella politica del comune
italiano.
Fra cittadini e istituzioni si affermava un legame diretto, rafforzato da un giuramento reciproco. Dei
consoli verso la civitas e dei cives verso i consoli. Era un patto giurato di natura pubblica chiamato
breve, che legittimava i consoli ad agire come rappresentanti della comunità, a servirsi di strumenti
giuridici come il bando (cacciata dalla città) e regolare la vita economica della collettività. Queste
prime carte giurate mostrano quindi una città consapevole della propria struttura istituzionale,

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consapevole anche che un governo pubblico doveva avere un surplus di potere da contrapporre alle
forze ostili o riluttanti a sottomettersi al volere dei nuovi magistrati. La scelta di appartenere al
comune in altre parole non era così libera. Le decisioni prese del comune erano immediatamente
valide per tutti.
Il termine comune comparve solamente nei decenni finali del secolo XII, nato come aggettivo “di
tutti” assunse nel tempo una connotazione politica che lo trasformò in sostantivo, ovvero indicante
il “comune della città”. Si tratta di un istituzione non immediatamente coincidente con poteri
personali di alcun tipo, rispondente all’esigenza di autonomia di una comunità nella seconda metà
del XII secolo. Da qui in avanti si parlerà del bene del comune, dei beni del comune, del suo onore,
dell’utilità della sua salvezza e del suo incremento. Tutti termini presi da autori latini come Sallustio
o Cicerone che più avevano insistito sulla natura positiva delle istituzioni romane dell’età
repubblicana.

Le funzioni di governo: giustizia, economia e controllo del territorio

XII-XIII secolo le città italiane affrontarono una serie di sfide importanti: aumento demografico con
correnti migratorie di persone di diversi ceti sociali come lavoratori agricoli, piccoli nobili dei
castelli vicini, notai rurali, ampliamento delle zone abitate, creazione dei sobborghi, nuovi quartieri
poco fuori la prima antica cinta muraria; inserimento sociale dei nuovi arrivati, da integrare con il
resto degli abitanti. Infine la richiesta dei nuovi ceti urbani di ampliare gli spazi di partecipazione
politica .
La crescita economica delle città portava con sé nuove tensioni: liti per possesso della terra,
conglitti di lavoro fra artigiani e mercanti, incomprensioni fra nuovi immigrati del contado e
cittadini creavano occasioni di scontro, mettevano in pericolo la sopravvivenza del comune. Il
consolato si affermò come figura istituzionale addetta alla risoluzione di queste. Dispute senza
ricorso alla violenza. Ben presto la giustizia divenne una funzione prioritaria della nuova
magistratura; anzi per molti storici vero inizio del comune va individuato nell’atto di nascita dei
tribunali cittadini. Con l’aiuto dei giudici e dei notai si instaurarono delle corti comunali aperte a
tutti dove era possibile presentare lamentela e ottenere giustizia dopo un processo, mentre i reati di
vendetta furono considerati un reato grave contro la pace pubblica. Chi rompeva la pace della città
veniva bandito e la sua casa abbattuta.
La. Giustizia. Aveva anche funzioni più pratiche come regolare le dispute sui beni come la terra o le
case, tra confinanti e parenti, consentiva ai deboli di accedere a un triibunale terzo in caso di dispute
contro signori potenti. Rendendo pubblica una lite secondo una proceduta presieduta dai giudici, si
evitava la riproduzione di atti violenti. Non sempre si arrivava a una sentenza anzi molte volte il
processo serviva solo a prolungare la disputa con altri mezzi, eppure proprio questa funzione di
traslare i conflitti su altri binari che non fossero quelli della violenza, si rivelò necessaria per la
sopravvivenza del comune.
Le istituzioni comunali aveva bisogno di un continuo afflusso di denaro per funzionare, ma al
tempo stesso bisognava convincere i cittadini che tale denaro fosse effettivamente necessario al

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mantenimento della vita pubblica, per non dare loro l’impressione di essere sottoposti ad un potere
dispotico. Le imposte in città erano infatti solo straordinarie, e rispondevano alle esigenze
immediate del momento, mentre nel contado erano ordinarie, ovvero riscosse alla fine di ogni anno.
Ciò che attirava la maggior parte delle entrate fiscali erano: costruzioni di strade, della cinta
muraria, ed edifici pubblici. Chi non contribuiva nemmeno volontariamente al sostenimento
finanziario della città, veniva privato della qualifica di vici e della protezione pubblica della persona
e dei suoi beni. L’amministrazione economica era fondamentale dei consoli: con l’aumento della
popolazione era necessario assicurare l’arrivo del grano in città, organizzare i mercati urbani e
disciplinare le attività produttive. Nacquero dunque i consoli dei mercanti, ma si rese necessaria
anche il controllo dell’area circostante.
Il rapporto con il contado attraversò una svolta con l’organizzazione comunale, dopo un periodo di
declino dovuto alla scomparsa delle forme amministrative carolinge, anche se era rimasto in vita
grazie ai vescovi da cui dipendevano i sacerdoti sparsi nella diocesi. Ora però i cittadini
intendevano estendere il loro potere su tutto il territorio, in virtù della superiorità politica del centro
urbano.
I consoli sapevano bene che un controllo effettivo e capillare delle svariatissime dominazioni locali
era irrealizzabile, almeno dal punto di vista militare, dunque si tentò di coordinare dal punto di vista
economico e militare solamente il territorio circostante la città. Poter disporre di punti strategici per
la difesa della città nel, e riscuotere le tasse dal contado non erano ben viste dagli abitanti
comitatini. I signori rurali vedevano queste come pretese eccessive da avanzare senza una
contropartita, dunque i consoli percorsero vie diverse per ottenere dalle forze del contado un
riconoscimento della propria superiorità.
Le alleanze con i signori portarono questi ad inurbarsi e i consoli a poter disporre delle loro
fortezze. I signori inurbati poi avrebbero occupato ruoli di rilievo nella vita politica del comune.
questa soluzione prese piede nei comuni medio-piccoli come Alba, Vercelli, e Asti, ma anche nei
comuni emiliani come Modena e Reggio dove i giuramenti degli anni 80 e 90 del XII secolo
segnarono l’entrata in città della nobiltà rurale di castello. In alcuni casi gli stessi signori, una volta
ceduto il castello ai consoli, lo ricevevano indietro come feudo (feudo oblato). A Perugia, gli atti di
sottomissioni contenevano clausole realmente severe riguardo la fedeltà e disponibilità militare dei
castelli più importanti, ma la sottomissione riguardava contempo i signori e gli abitanti dei centri
interessati, in una solidarietà che lasciava comunque ampio spazio di manovra ai signori di castello
in sede locale. Nei casi più gravi si ricorreva alla forza, assediando i castelli dei signori ribelli. A
Genova l’azione armata del comune fu violenta fin dalla prima metà del secolo XII: contro i conti di
Lavagna fu emanato una bando per tradimento, i loro beni sequestrati e i servi liberati. Invece si
concedevano molti privilegi alle comunità che si liberavano dall’influenza di un signore. Gli
abitanti furono dichiaratamente liberi e sottomessi solo alla città e in alcuni casi trasferiti in altri
luoghi con un nuovo nome. Molti di questi centri chiamati villefranche o villenuove avevano
condizione giuridica ibrida: gli abitanti erano considerati cives, ma versavano in condizione di
dipendenza feudale dalla città. Infine quando era possibile il comune comprava direttamente i
castelli situati in posizioni strategiche, sottraendone il controllo a famiglie signorili impoverite.

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L’acquisizione finanziaria si rivelò la forma più efficace di penetrazione nel territorio.da considerare
anche che su scala più ampia il dominio su vaste zone era più virtuale che reale e molte comunità
erano contese con altre città. Per esempio la parte occidentale del territorio senese era rivendicata
anche da Arezzo e il comune di Siena cercò di fondare le sue pretese su un’aggressiva politica
fiscale che estendeva le imposte anche ai luoghi di incerta sottomissione. Chiedere il censo alle
comunità contese equivaleva ad affermarne il controllo.
Rimanevano fuori dal controllo delle città ancora molti territori in mano alla nobiltà militare, che in
certi casi riuscirono addirittura a costruire veri e propri principati, territori politicamente omogenei e
sottomessi alla dinastia con una piccola capitale: è il caso dei Saluzzo e dei Monferrato in Piemonte,
del Patriarcato di Aquileia in Friuli; della contea di Este e dei Da Romano in Veneto e di altre
numerose famiglie detentrici di contee intorno alla città. l’Italia alto medievale dunque non era un
arazzo di comuni, ma di tessere molto diverse: reti punteggiate da signorie autonome, principati
signorili che inglobavano città minori, territori senza città, popolati da una rete di villaggi rurali; e
ancora costellazioni piccole città indipendenti da un centro maggiore.
Alcune tendenze erano chiare, come l’importanza delle città che sorgevano sul mare: le cosiddette
repubbliche marinare: Genova, Pisa,Venezia, (Amalfi era di minore importanza nel XII secolo).
Queste erano diventate grandi empori commerciali, nonché centri con forti istituzioni cittadine,
consolari le prime due, già orientata verso un modello regale Venezia che era governata da un doge.
Pisa e Genova si lanciarono alla conquista del Mediterraneo occidentale, creando colonie nei
principali approdi del tempo, dalle coste nordafricane, saccheggiate dai pisani nel 1087, alla Sicilia,
di recente liberata dal dominio arabo, inoltre una lunga lotta contrappose le due città per il controllo
della Sardegna e della Corsica. Anche Venezia la più dinamica e più ricca, costruì un ampio
dominio sull’adriatico e sui porti d’oriente usando. Sapientemente forza militare e penetrazione
economica (famose le colonie di Cipro e Creta).
Anche nell’Italia continentale abbiamo linee di espansione evidenti. Milano appariva già come città
di indiscussa supremazia politica ed economica nella regione padana. Dopo una serie di. Vittoriose
campagne militari contro centri più piccoli ma pericolosi concorrenti economici come Lodi, Como,
Pavia e Cremona, Milano divenne il terminale dei traffici commerciali tra Italia e terre d’Impero, e
un centro di potere politico che irradiava il suo dominio sia sul Piemonte che sull’Emilia
settentrionale.
Le città emiliane come Piacenza, Parma, Reggio, Modena, Bologna si erano giovate dei commerci
lungo il Po e la Via Emilia. Le città crescevano costantemente soprattutto Bologna, sede della prima
università italiana, anche se i territori del contado non erano ampi e un0agguerrita piccola nobiltà di
castello rendeva la vita politica interna agitata.
La toscana aveva città con territori più estesi come Pisa, Siena, Firenze, Arezzo, Lucca, e si
combattevano palmo a palmo i confini di territorio ancora da definire.
In Umbria e nelle Marche la dimensin dei centri urbani era di taglia minore, eccetto il caso di
Perugia, la media delle città era di 5-6000 abitanti. Erano abitate da una borghesia campagnola,
dipendenti da un’economia agraria.

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La varia composizione economico-sociale rende ancora più sorprendente l’adozione di un sistema


politico comune delle città. Durante il XII secolo le città dell’Italia centro-settentrionale divennero
comuni, sperimentano le stesse forme di governo e usarono un medesimo linguaggio per
rappresentarsi e comunicare fra loro. A favorire questa omogeneità di fondo del sistema politico
comunale concorsero vari fattori: la circolazione di idee e di uomini fra i centri urbani delle varie
regioni, la spontanea diffusione di forme assembleari di autogoverno nelle comunità rurali, la
funzionalità della forma consolare per governare le città di diversa taglia e misura. Infine la
necessità di fronteggiare la sfida posta al sistema cittadino italiano dalle pretese dell’Impero nei
decenni fra il 1154 e il 1183, sotto il regno di Federico I di Hofenstaufen.

I comuni alla prova della guerra

Parte integranti della fase di definizione dei comuni è lo scontro con l’impero di Federico
Barbarossa.
l’Italia alla Germania sembrava al tempo stesso unita e divisa, distante dai modi delle terre
dell’Impero. Ottone vescovo di Frisinga, cancelliere imperiale zio di Federico I di Svevia, nella sua
Historia definisce i lombardi come amanti della libertà, pretendevano di eleggersi i consoli da soli, e
si dimostravano aperti verso le classi inferiori, tanto che addirittura gli artigiani partecipavano alla
guerra con i cavalli. Per i tedeschi questo era un mondo alla rovescia e fuorilegge. La cavalleria era
un ordine chiuso e limitato alla nobiltà, le città dovevano essere sottomesse all’impero.
Il primo impatto con gli italiani fu traumatico per l’imperatore: in una riunione tenuta a Costanza
due ambasciatori di Lodi si recarono vestiti di stracci dicendo che Milano aveva inflitto
innumerevoli sofferenze ai lodigiani, che per questo motivo avevano giurato di non abitare mai più
nella stessa città dei milanesi. Così l’imperatore chiamò Milano a riparare all’offesa alla dignità
imperiale. I milanesi tentarono di comprare con denaro contante il diritto di controllare Lodi e
Como, un oltraggio inaudito alle orecchie dei cronisti imperiali. Federico rifiutò e mise al bando i
milanesi dando inizio alla guerra.
1155 conquista imperiale di Asti e distruzione di Tortona.
1158 ritorno in Italia, conquista di Brescia e saccheggio di Milano.
Durante la dieta di Roncaglia del 1158 Federico aveva rivendicato il potere imperiale su tutti i
territori dell’Impero, e pretese la restituzione di tutti i diritti regi usurpati dalle città: le tasse (il
foro), l’elezione dei consoli, i palazzi pubblici, imposte sulle strade e sui fiumi, una lista. Così lunga
che avrebbe svuotato l’autonomia dei comuni.
Dopo la distruzione di Milano del 1158 Federico impose alle città ribelli dei rettori di nomina
imperiale, i cosiddetti podestà imperiali. Il governo di questi podestà è ricordato dalle città soggette
come violento dispotico ed esoso: i podestà erano famosi per la loro rapacità nel prelievo fiscale per
le guerre imperiali. L’ambito fiscale dunque diventò un argomento centrale per le città italiane, non
solo per l’elevata pressione dei. Funzionari dell’impero, ma perché questi versamenti non restavano
in città ma alimentavano un sistema di dominio sovra cittadino e centralizzato. Il sistema fiscale

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aveva smesso di essere un sistema di integrazione di cittadini in una comunità e aveva iniziato ad
essere un segno di sottomissione infamante, in quanto esteso solo ai sudditi del signore.
1162 Federico Barbarossa attacca per la seconda volta Milano, radendola al suolo con l’aiuto dei
lodigiano. Anche i comuni alleati dell’Impero come Cremona, Pavia, Reggio Emilia, Modena,
Verona che avevano ricevuto numerosi privilegi ed esenzioni, vedevano nel governo imperiale una
minaccia grave alla propria autonomia. Le città venete avevano formato una lega di comuni alleati
impegnati a prestarsi aiuto in caso di attacco.
L’idea funzionava e venne ripresa anche dalle città lombarde nel 1168, con la fondazione della Lega
Lombarda. Fu una alleanza tattica tra centri urbani in conflitto fra loro che sospendevano le ostilità
per difendersi da un pericolo maggiore. Per questo entrarono nella lega, anche se non senza riserve,
le città nemiche di Milano come Cremona, Como, Lodi e Bergamo, insieme alle alleate storiche:
Brescia, Piacenza e Bologna. La lega era governata dai. Rettori, eletti da tutte le città, aveva un
tribunale proprio per risolvere le controversie fra i comuni e coordinava sul piano militare le azioni
delle singole città, spostando eserciti e aiutando i membri in difficoltà. Si diffuse dunque un
modello coerente di città comunale, governata da consoli eletti, gravitante su un territorio di
pertinenza del comune intoccabile da parte delle altre città. L’alleanza potè durare anche grazie
all’appoggio del papa che conferiva alla lega un supporto ideologico molto forte, essendo ora
l’emblema della libertà contro la tirannia dell’impero.
Le azioni militari più efficaci furono quelle di disturbo, anche per via del fatto che Federico
Barbarossa non poteva contare sul totale appoggio dei principi nelle sue campagne militari in Italia,
oltre al fatto che le città a lui alleate nella penisola erano poco fidate, in quanto fornivano aiuto ma
solo in cambio di ingenti privilegi che minavano l’autorità dell’imperatore stesso, il quale
nonostante questo li accordava.
Dopo un decennio di battaglie non risolutive nel 1176 avvenne lo scontro di Legnano in cui i
comuni lombardi sconfissero l’esercito imperiale, e l’evento ebbe un effetto formidabile sul piano
della propaganda politica. I comuni erano a tutti gli effetti i difensori della Libertà, che coincideva
con <<indipendenza dall’impero>>. La diplomazia tuttavia prevalse: nel 1177 il papa strappò
all’imperatore una tregua di cinque anni, la pace di Venezia e allo scadere dei cinque anni si
raggiunse una concordia definitiva fra impero e città, a Costanza.
La. Pace di. Costanza fu interpretata in modo diverso dai protagonisti: l’imperatore la considerava
una grazia imperiale concessa generosamente, che permetteva ai comuni di godere di diritti di
origine regia. I comuni assunsero il documento come carta costituzionale, e da quel momento le
città non furono più messe in dubbio dall’imperatore: nel 1183 Federico mise fine alle guerre
d’Italia.
Federico si dedicò così ad imprese guerresche considerate più valorose come la crociata e la
liberazione di Gerusalemme, che era stata riconquistata da Saladino nel 1187. Partì nel 1188 ma
morì mentre attraversava il fiume Salef sui monti della Cilicia.
In Italia la fine del conflitto con l’imperatore fece emergere nuovi conflitti politici e sociali. A
prestare servizio militare erano gli stessi cittadini del comune, chiamati allea armi e costretti così.ad
abbandonare la loro attività. Questi venivano impiegati come pedites, ovvero soldati appiedati senza

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cavallo, e obbedivano agli ordini di una nobiltà spesso dispotica. Nel servizio militare era evidente
la divisione in classi sociali del corpo cittadino, e dopo la vittoria della lega contro l’imperatore i
soldati cominciarono a chiedere a gran voce maggiore rappresentanza, denunciando l’oligarchia di
un ceto consolare ormai nelle mani delle grandi famiglie.

L’affermazione del comune aperto: podestà, consigli e governi di popolo

Tra gli ultimi anni del XII e gli inizi del XIII, scoppiarono sempre più violente rivolte di cittadini
appena immigrati oppure di ceto medio o inferiore, contro l’iniqua ripartizione delle tasse imposte
dai consoli in occasione delle spedizioni militari. La protesta era rivolta contro la ristrettezza del
sistema rappresentativo e sulla sua sordità alle richieste di maggior giustizia sociale, oltre alla
prepotenza di un ceto militare che moltiplicava le guerre senza badare agli interessi della città.
I milites, dunque i nobili che prestavano servizio militare ricevevano un cospicui risarcimento dal
comune per le perdite subite in battaglia, dunque erano due volte avvantaggiati sul piano fiscale:
erano esenti dalla maggior parte delle imposte e in più si accaparravano una parte delle entrate
grazie al risarcimento dei danni. (Platone concepisce lo stato come l’ingrandimento di un soggetto,
la politica è strettamente legata a come viene concepito il soggetto).
Fu subito chiaro ai cittadini che per cambiare le cose sarebbe stato necessario entrare nel consiglio
delle città. Dunque si organizzarono nuovi raggruppamenti politici non nobili: le societates. In
primo luogo le società rionali, o di armi, che radunavano gli abitanti di una parrocchia o di una
vicinia con compiti di autogoverno locale (ad esempio i consoli della vicinia decideva la
ripartizione dei carichi fiscali, le opere di difesa e i turni di guardia alle mura cittadine). In un
secondo momento si formarono le società di mestiere, di composizione artigianale e mercantile.
Nella stessa compagine politica si ritrovavano grandi mercanti, monopolisti di mezzi di produzione,
capi-bottega artigiani e piccoli lavoranti in proprio.
Tuttavia nei momenti iniziali prevalse uno spirito unitario e federativo: la società nacque con lo
scopo di proteggere i suoi membri, ma col tempo si diede una struttura coordinata che radunava
tutte le arti sotto un unico organismo chiamato Popolo, istituzione pubblica che si affiancava al
comune come ente esterno e interno allo stesso tempo, che cercava di influire sul governo della
città.
Durante gli anni 20-30 del duecento vennero avanzate dunque richieste di garantire a membri del
popolo una quota di posti in consiglio, di far pagare le tasse a tutti secondo le proprie ricchezze,
ridurre i privilegi dei nobili che non pagavano le tasse pubbliche, impiegare le risorse per opere
pubbliche, creare alleanze utili agli scambi commerciali e soprattutto assicurare una pace interna
della città, limitando la violenza dei nobili. Il sistema consolare si rivelò inadeguato a risolvere
questo tipo di tensioni, così si cercarono vie alternative.
La prima scelta ricadde sull’eleggere un podestà come magistrato di emergenza, che rimanesse in
carica per un anno e investito dei maggiori poteri di governo della città: potere politico, giudiziario,
di direzione economica e comando degli eserciti cittadini. I primi incarichi furono dati a podestà.
Locali ma questo fece solo aumentare i conflitti interni, così si decise di eleggere un podestà

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proveniente da un altro comune, in modo da garantire imparzialità, e dotato di uno stipendio


adeguato a pagare i suoi notai e i giudici che componevano la cosiddetta <<famiglia del podestà>>.
Questa soluzione funzionò, in quanto la questione interna smise di vertere su chi dovesse governare
ma su cosa fare e come farlo. Dal 1190 al 1220 quasi tutte le città passarono dal sistema consolare
al podestà forestiero, con istituzioni simili e problemi comuni.
Il sistema podestarile era un sistema complesso, esso si presentava come uno snodo centrale della
vita politica cittadina: doveva sanare le discordie, mediare i conflitti, assicurare gli scambi e
difendere il comune dagli attacchi esterni, moderare i dibattiti nel consiglio e amministrare la
giustizia. Molti podestà si specializzarono nella politica itinerante e ricoprirono la carica in diversi
comuni per dieci-quindici anni di seguito spesso seguiti dai figli che continuarono a ricoprire
magistrature forestiere. Il podestariato era diventato una vera professione, la prima di carattere
politico che il medioevo ricordi come notò il grande sociologo tedesco Max Weber, nella sua opera
la politica come professione. Furono scritti manuali specifici come Libri del governo della città
(libri de regimine), per istruire i podestà sui possibili modi di parlare di presentarsi in pubblico,
formulare le proposte, di tenere i discorsi in occasioni solenni. La cultura duecentesca fece anche di
più e costruì un vero e proprio sistema di conoscenze scientifiche. L’arte di reggere la città divenne
una parte del sapere universale sotto il titolo di politica. Il discorso politico del tempo aveva tratto a
piene mani termini tecnici dagli scritti di Cicerone e Agostino, oltre a fondarsi sul mito della parola
civilizzatrice, secondo cui dopo un’età ferina in cui gli uomini non avevano case né conoscenza di
Dio, era venuta un’età della parola e della civilitas che portò gli uomini a riunirsi per vivere in
comunità, a costruire le città, sottomettersi alle leggi.
La parola e la legge erano dunque alla base del discorso politico, costituivano inoltre la scienza di
governo. La legge era creata dagli stessi cives riuniti nel consiglio aumentato da 500 a 1000, il cui
potere doveva compensare quello del podestà, il quale proponeva una legge la quale il consiglio
avrebbe dovuto accettare o rifiutare tramite maggioranza, che poteva essere palese o segreta. I voti
erano espressi con delle palle o delle fave, di colore bianco e nero che ogni consigliere depositava in
una sacca al momento del voto. A Bologna e in altre città il conteggio era affidato a due frati
eremita in e due Anziani.
Il principio di maggioranza espresso in segreto suonava come rivoluzionario alle orecchie del ceto
nobiliare- abituato a dominare la vita politica grazie a relazioni familiari e clientelari. Le alleanze
familiari continuavano ad esistere ma furono costretti a confrontarsi più da vicino con gli interessi
contrastanti di consistenti gruppi sociali fino a quel momento trascurati. Lo scenario di questi
conflitti era il consiglio. Il podestà guidava la politica e ne forniva la direzione ma le decisioni
venivano prese dal consiglio. Rispetto al secolo precedente trovare una sintesi generale degli
interessi cittadini era diventato molto più difficile. Innanzitutto erano aumentati gli abitanti. Città di
media grandezza come Perugia si affidavano tra i 25.000 abitanti, mentre Bologna toccò i 50.000
nella seconda metà del XIII secolo mentre Milano e Firenze superavano gli 80.000, vere metropoli
dell’epoca.
La fetta della popolazione costituita da immigrati da territori circostanti aumentava era in costante
crescita, e formava un ceto poco specializzato affermato nei quartieri periferici non compresi tra le

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mura. La società. Urbana fu scossa da questo flusso dii immigrazione così impetuoso e fu
necessario trovare forme di integrazione nelle strutture urbane. Molti divennero salariati, alle
dipendenze dei maestri, ma altri si trasformarono in artigiani in proprio. Il ceto artigiano si affermò.
Sul piano politico ed economico, a Bologna su una popolazione di 50.000 gli artigiani erano 12.000,
dunque quasi tutti i machi adulti, e a Firenze anche. Iscriversi alle Arti era diventato di grande
importanza nel XIII secolo. In primo luogo per un motivo economico, le corporazioni controllavano
il lavoro e stabilivano i prezzi delle merci e i salari dei lavoranti, dunque per aprire un’attività era
necessario iscriversi all’arte. In secondo luogo vi era un motivo politico: i consoli delle Arti erano
confluiti in un consiglio unitario detto <<del popolo>> che prendeva decisioni sempre più
importanti per tutta la città. Alla fine del Duecento fu liberalizzata la partecipazione alle Arti: per
iscriversi non era necessario praticare il mestiere ma avere intenzione di appartenere alla società e
possedere la conoscenza per essere accettati. Erano passate dunque da essere società corporative a
società politiche.

Il governo delle corporazioni del Duecento

Le Arti si candidarono al governo della città in nome di una nuova idea di comunità, fondata sul
lavoro artigianale e sui commerci, su una giusta divisione delle spese pubbliche e sulla pace sociale.
In un primo momento il Popolo duplicò le istituzioni comunali affiancando al podestà e al consiglio
del comune un proprio magistrato, sempre forestiero e a tempo chiamato Capitano del Popolo che
guidava il Consiglio del Popolo. Nei comuni in cui prevalse questa nuova formula si instaurò un
nuovo governo dominato direttamente dal gruppo dirigente delle Arti. A Bologna presero il nome di
Anziani, a Firenze e Perugia i Priori, a Siena i Nove: nomi diversi per esperienze simili, un governo
collegiale formato dal Podestà, dal Capitano, dai due consigli (del comune e del Popolo) coordinati
dalle Arti. Una volta giunto a potere il Popolo si divise in gruppi egemoni che dirigevano la vita
politica della città. Il dominio delle cosiddette Arti maggiori a Firenze non è solo un mito
storiografico. Ci fu un alleanza a più livelli, spesso non coordinati, fra grandi commercianti e i
banchieri che tendevano a limitare la partecipazione politica e la libertà d’azione economica dei
gruppi artigianali minori. A Siena il dominio degli intermediari del denaro si alleò con le compagnie
mercantili formando uno dei governi più stabili della storia comunale, il governo dei Nove. A
Bologna la situazione era più complessa. I banchieri finanziavano il comune, e lo tenevano in pugno
con i crediti, ma furono i notai a influenzare l’indirizzo politico del governo. Questi erano animati
da un impeto ideologico esasperato, ed erano i custodi della politica del controllo totale
caratteristica delle città italiane nella seconda metà del Duecento.
Si accelerò il processo di razionalizzazione delle pratiche di governo: in primo luogo i residenti
venivano censiti e divisi per parrocchie, quindi i contribuenti divisi in soggetti al fodro, antica tassa
regia, e in estimi già moderni con valutazione reale della ricchezza individuale. Le dichiarazioni dei
contribuenti venivano trascritte in grandi registri e alla somma dei beni dichiarati veniva attribuito
un valore totale che rappresentava la cifra di estimo di quel civis, la sintesi della sua ricchezza.

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Questo processo avviò la riscossione delle tasse su base proporzionale alla ricchezza reale dei
cittadini, la quale costituiva una mezza rivoluzione poiché per la prima volta si andavano ad
intaccare i patrimoni dei ricchi. Nella pratica le cose andarono in maniera diversa: i più ricchi
pagavano più tasse, ma erano presenti precauzioni a tutela degli aristocratici. Una di queste era
l’esenzione dall’estimo dei capitali mobili, gli sconti per i crediti non pagati erano concessi con
generosità e dare soldi al comune onera avvertito come una perdita di capitale, ma come
investimento. Molte famiglie di banchieri trovavano vantaggioso prestare al comune e mostrarsi
generosi benefattori della collettività.
Oltre a queste categorie giuridiche di cittadini (residenti e contribuenti) si elaborarono liste
secondarie di appartenenti ai consigli, a società territoriali e corporative, agli uffici comunali, con la
possibilità di incrociare e ricopiare i dati ogni volta che le esigenze amministrative richiedevano di
isolare un gruppo particolare di persone: chi non era iscritto all’estimo, chi non pagava le tasse, chi
non si presentava in consiglio e così via. Non sfugge il significato politico di questo sistema e il
grande salto di astrazione compiuto dal comune di Popolo nei metodi di governo. Il presupposto era
il controllo delle condizioni individuali dei cittadini, un controllo da attuare con strumenti completi
ma sintetici e facilmente aggiornabili. Da questo momento tutte le relazioni fra cittadino e
istituzioni furono formalizzate all’interno di un sistema contabile e facilmente consultabile, in modo
da riconoscere immediatamente il cittadino. Anche la politica repressiva del comune trasse profitto
da questa rivoluzione, formando elenchi di appartenenti alla parte riconosciuta come nemica e posta
al bando. La giustizia divenne più severa, fatto salvo il fatto che tutti avevano il diritto di presentarsi
davanti al tribunale per difendersi. Si fornirono ai giudici poteri maggiori per scoprire e punire le
infrazioni contro l’ordine pubblico, in particolare quei reati violenti dovuti allo sfoggio di potenza
della nobiltà militare.
Si presero inoltre provvedimenti severi contro le speculazioni economiche dei grandi proprietari, in
città si pose un limite ai prezzi degli affitti delle case. Nei confronti del contado si vietò di
accumulare frumento per i periodi di carestia per fare aumentare il prezzo e di esportare grano fuori
del contado.
Il contado fu oggetto di una profonda ristrutturazione delle sue articolazioni amministrative. Fino
alla prima metà del Duecento il tentativo del comune di creare un territorio fedele alla città aveva
portato alla formazione di una rete di alleanze, acquisti, e pattuizioni in grado di coordinare una
pluralità di persone (il problema è come intendere le pluralità di persone, in base a cosa questa
pluralità di persone viene riunita sotto un certo potere). Negli anni finali del duecento le pretese
della città aumentarono e il controllo sul contado si fece più stretto: esso fu diviso in sezioni
corrispondenti ai quartieri della città dei quali erano i prolungamenti, al loro interno queste
partizioni furono divise in aree minori affidate ad un ufficiale cittadino, il vicario o il podestà
responsabile della condotta degli abitanti; i castelli furono controllati direttamente da contingenti
militari anch’essi di provenienza urbana. Soprattutto si imposero una serie di fiscali e annonari che
scaricavano sul contado una parte rilevante del mantenimento della città e della sua popolazione in
crescita. Agli estimi cittadini si aggiunsero così quelli sul contado, che definivano le tasse da
imporre a ciascun villaggio in base ad un calcolo degli abitanti- il calcolo era spesso approssimativo

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e iniquo, che non teneva conto dei fenomeni di spopolamento e di mobilità della popolazione del
contado, costretto così a pagare la stessa cifra anche in caso di riduzione degli abitanti. Si
irrigidirono inoltre le forme di accoglienza degli immigrati di provenienza rurale, i quali venivano
accettati in città solamente se integrabili nel sistema economico della città. Nonostante queste.
Tensioni il comune di Popolo ottenne una legittimità più alta del regime podestarile: senza dubbio
una legittimità fondata sulla disciplina, ma anche su una reale compartecipazione agli interessi
collettivi attraverso un sistema di rappresentanze a catena che avvicinavano membri delle
associazioni di mestiere con gli organismi dirigenti del Popolo e dunque con le istituzioni comunali.
I meccanismi elettivi delle corporazioni moltiplicarono i rappresentanti delle singole società in
piccoli consigli societari che a loro volta eleggevano i Priori o gli Anziani. allo stesso tempo molti
provvedimenti esaminati nei consigli maggiori del popolo e del comune provenivano da impulsi
delle società di Arti. I governi popolari erano più legalistici e più aperti e partecipati, ma non
durarono più a lungo dei predecessori.
La divisione in gruppi di famiglie alleate contro una parte avversa si era diffusa durante le guerre
contro Federico I e Federico II tra il 1226 e il 1250. In quel periodo le famiglie si contrapposero in
guelfi, alleati del papa, e ghibellini, alleati dell’imperatore. La scelta dipendeva spesso da fattori
diversi, sociali o personali invece che una fedeltà all’impero.
In molte città una di queste due parti divenne un’istituzione, con i loro consigli e podestà dando
modo ai nobili esclusi dal consiglio del Popolo di tornare in politica nel gruppo dei guelfi o dei
ghibellini. Si aggiunsero oltre ai conflitti di classe anche i conflitti tra fazioni. Per questo il popolo
cercò di combattere eccessiva carica di violenza di queste forze centrifughe, facendo del tema della
pace l’ideale politico della città. Non era una scelta remissiva ma un tentativo di sostenere
l’equilibrio fragile tra governi di popolo e fazioni grazie ad una potente molla ideologica che
legittimasse governi sempre più di parte.
Il mantenimento della pace era spesso una pratica di imposizione, e legittimava procedure di
emergenza. Molti comuni di Popolo emanarono a fine duecento leggi speciali chiamate ordinamenti
di giustizia o antimagnatizie, per assicurare la pace interna contro i magnati. I magnati erano tutti
quei grandi, ricchi, potenti, cavalieri, e grandi mercanti e banchieri che imitavano la nobiltà, che si
opponevano al comune e lo minacciavano con atti di sovversione violenta. A queste persone fu
vietato di prendere parte a pratiche comunali, fu imposto un regime speciale nelle questioni
giudiziarie, e infine a molti di coloro che non rispettavano questi precetti fu comminato il bando e
l’esilio dalla città. Il comune poteva dunque spostare gli individui ribelli o inaffidabili dalle liste di
inclusione a quelle di esclusione.
In questi anni il Popolo si propose come unica forza politica capace di perseguire il bene comune,
ripreso dalla Politica di Aristotele, portatrice di un sistema consolare aperto e difensoredel benessere
collettivo e della uguaglianza giuridica. Tuttavia questa posizione perse poiché non riuscì ad
affermare queste prerogative senza il ricorso alla forza e le tensioni fra fazioni portarono ad un
rigetto della forma comunale, portando all0investitura di una singola figura di prestigio proveniente
da famiglia nobiliare. Si tratta del dominus che si impose grazie ad alleanze con le istituzioni del
Popolo, così a Milano dagli anni quaranta del duecento fino al 1277 si formò un alleanza fra la

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credenza di S. Ambrogio e la famiglia dei della torre, che occupò la carica di podestà della stessa
credenza, maggiore organizzazione di Popolo.
Tuttavia non si trattò di una svolta definitiva ma dell’ingresso in una fase di sperimentazione che
poteva anche ricondurre ad adottare il sistema comunale. La delega del potere ad un podestà
straniero perse la sua efficacia una volta che nuove organizzazioni politiche reclamarono il loro
posto nel consiglio della città.

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CRISI E INQUADRAMENTO DELLE CIVILTÀ EUROPEE


(XIII-XV sec.)

Il papato, gli ordini mendicanti e la crisi della Chiesa (1215-1378)

La Chiesa del papa: apogeo e crisi del papato

1215 Concilio Lateranense IV, Innocenzo III sottopone l’intero ordine ecclesiastico alla sua autorità
giudiziaria, si impose l’obbligo di mettere per iscritto gli atti giudiziari e inoltre si abolì la pratica
dell’ordalia che doveva essere sostituita con ili ricorso alle prove scritte e alle testimonianze.
I sacramenti diventarono obbligatori almeno una volta all’anno, in caso contrario non si sarebbe
potuto più entrare in chiesa o essere seppelliti in essa. Non partecipare alla vita religiosa significava
un ripudio dell’autorità della Chiesa, e doveva essere punito: ogni posizione eterodossa giudicata
errata da un tribunale ecclesiastico fu condannata con la scomunica, la confisca dei beni e il divieto
per i figli di ereditare i beni del/la scomunicato/a.
In questo concilio si affermò la concezione di infallibilità del papa, che ora era successore di Cristo
e non successore di Pietro. L’infallibilità derivava dal fatto che Dio non avrebbe mai affidato ad un
uomo la capaciità di scioglere i dubbi dei fedeli, solo per poi permettergli di sbagliare. L’origine di
questa posizione viene dal Vangelo secondo Luca in cui Gesù dice a Pietro di avere pregato perché
lui si ravvedesse e istruisse i suoi compagni sul da farsi. In ogni caso questa pretesa infallibilità
rispondeva anche alle mire di potere del pontefice, che ora era il vertice incontrastato e indiscusso
del sistema ecclesiastico. In primo luogo furono rafforzate le competenze dei. Legati pontifici che
sopravanzarono iil potere dei vescovi locali, fino a diventare vicari diretti del papa. La pretesa
principale era quella di controllare l’elezione dei vescovi e il potere di potere spostare questi da una
diocesi all’altra. Nacque nel corso del duecento una resistenza interna a queste pretese papali, che
sosteneva la superiorità del concilio di tutti ii vescovi rispetto all’autorità pontificia. Se nel XIII
secolo ancora la posizione era ambigua a riguardo, i giuristi dell’inizio del trecento si divisero tra
coloro che sostenevano che il papa non avrebbe potuto decidere cose contrarie alle disposizioni dei
concili generali, e coloro che sostenevano che le decisioni del concilio dovessero essere in seguito
approvate dal papa. La possibilità di una spaccatura interna alla chiesa era sempre presente e
rappresentava una vera e propria spada di. Damocle sull’autorità pontificia. Il diritto canonico fu
rinnovato profondamente nel Duecento, con la redazione delle lettere papali chiamate decretali,
riunite nelle cinque compilazioni, poi integrate in un opera che comprendeva anche decretali
precedenti per formare il Liber Extra, punto di riferimento giuridico per la Chiesa fino alla
redazione del primo Codice nel 1917. Si trattava di un insieme di principi dedotti da casi particolari.
La chiesa di Roma divenne un punto di riferimento finanziario (dato che arrivavano le decine da
tutte le diocesi dell’Europa) e giudiziario, dato che a Roma giungevano sempre più cause da
sottoporre allo scrutinio del papa. La corte papale era abitata da numerosi avvocati, procuratori e
giuristi, e il motivo per cui era diventato così rilevante dal punto di vista del diritto era che il papa
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poteva decidere delle cause in appello e riservarsi il diritto di procedere ex-officio. Nacque una
nuova magistratura che sostituì ii cappellani alla corte papale, gli auditori, che spartivano i processi
con ii cardinali. Il papa ottenne anche due nuovi poteri: la dispensa, ovvero l’esenzione da un
dovere religioso che solo il papa poteva concedere, e l’istituzione di peccati particolari che solo ili
papa poteva perdonare.

Gli ordini mendicanti

Gli ordini mendicanti natii nel corso del duecento riuscirono ad assumere una funzione mediatrice
molto importante tra fedeli e Chiesa, in quanto presentava una forma di vita religiosa del tutto
slegata dal potere monastico (i mendicanti. Erano frati e non monaci) ed ecclesiastico. Solo una
volta integrati nel sistema ecclesiastico assunsero la funzione di inquisitori, obbedendo fedelmente
alle imposizioni dei vescovi.
L’origine dei frati predicatori si situa nella lotta anti ereticale condotta dal vescovo di Osma, al cui
seguito vi era Domenico di Careluega, e appoggiata da Innocenzo III all’inizio del Duecento. I
catari osservavano le regole delle prime comunità cristiane, protestando contro l’ostentazione dei
monaci cistercensi, così Domenico. Si presentò a queste comunità scalzo e vestito di stracci,
cercando di dialogare con tutti e di convincere gli eretici che una vita in umiltà e povertà era
possibile anche all’interno della Chiesa. La sua azione fu approvata dal vescovo di Tolosa che gli
fornì una chiesa come base e così il seguito di Domenico arrivò a contare 4000 frati nel 1237. Il
nuovo ordine fu. Approvato da Onorio III nel 1216 e nel 1221 ne furono approvate le costituzioni
che imponevano la povertà individuale e l’elemosina come forma di sostentamento, vita in comune
e predicazioni in accordo coi vescovi. Si formò inoltre un capitolo generale che avrebbe dovuto
eleggere il maestro. dell’ordine. La preparazione teologica era richiesta per entrare a fare parte
dell’ordine, in ogni convento doveva essere presente un maestro che avesse studiato in università.
Famosi maestri dell’ordine furono Alberto Magno e Tommaso d’Acquino.
La nascita dei minori invece è legata indissolubilmente alla figura di Francesco d’Assisi, figlio di un
agiati mercante di Assisi. Come scritto nel Testamento del 1226 alla fine della sua vita, Francesco
dice che la sua conversione si ultimò dopo l’incontro con i lebbrosi, gli ultimi della società, che
dopo un primo rifiuto imparò ad amare. Tra il 1207 e il 1208 iniziò la usa predicazione in Italia
centro-settentrionale. Nel testamento di questo periodo c’è un riferimento ad una breve regola
scritta approvata dal papa, ma che non ci è stata tramandata. vi è però una regola non bollata del
1221 che dice che i minori dovevano rinunciare ai beni, donarli ai poveri, vestire di una tunica
lavorare sempre e non avere possessi individuali né comuni.
La povertà di San Francesco non era una fuga dal mondo, ma il tentativo di coniugare la fede
cristiana con le esigenze di tutti i giorni. La povertà era di doppia natura: esterna e riguardante i
beni, e interiore che richiedeva la rinuncia alla propria interiorità per consentire all’animo umano di
portarlo verso la salvezza. Questo patto è assicurato dalla eucarestia che era considerata il
compimento naturale del percorso di salvezza del fedele e obbligava i suoi frati al rispetto assoluto
per i sacerdoti.

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Nel 1220 Francesco rinunciò alla guida dell’ordine e richiese al papa di affidarlo ad un cardinale,
così fu fatto e Ugolino d’Ostia, futuro papa Gregorio IX divenne cardinale di riferimento dei minori
e scrisse con Francesco la seconda regola dell’ordine, stavolta bollata da Onorio III: questa
prevedeva una struttura istituzionale ben definita, con ministro generale, ministri provinciali e
capitolo.
Negli ultimi anni Francesco si ritirò sul monte della Verna e ricevette il dono delle stigmate, come
riferisce nel suo Testamento. In esso ribadì i punti fermi della spiritualità ma avvertì anche la
distanza che si rea creata tra la fraternità di pellegrini itineranti che aveva immaginato all’inizio e
l’ordine che aveva sotto gli occhi, sempre più sottomesso al potere del papa. In seguito alla sua
morte nel 1226 le sue parole divennero campo di battaglia interno all’ordine.
Su richiesta di alcuni frati Gregorio IX emanò nel 1230 una bolla che limitava l’osservanza stretta
dei precetti evangelici contenuti nelle lettere di francesco: erano consigli e non prescrizioni dato che
lui non poteva obbligare poiché si riferiva alla totalità dei chierici senza il consenso dei frati e dei
ministri. Nel 1239 il capitolo generale limitò l’accesso all’ordine ai soli chierici, istruiti in
grammatica e logica. Nel 1254 a minori e ai predicatori fu assegnato l’ufficio di inquisitori contro
l’eresia, l’apparato repressivo speciale che coordinava i tribunali vescovili delle diocesi europee.
Nel 1260 il maestro generale Bonaventura da Bagnoregio riformò le costituzioni dell’ordine e
scrisse. Una nuova storia di Francesco, la legenda major approvata dal capitolo generale nel 1263
come versione ufficiale.
Nei decenni successivi l’ordine tornò a dividersi su molti temi come la natura del messaggio
francescano che non andava interpretato ma vissuto in prima persona, adesione a un modello
radicalmente evangelico di povertà,, in base al. quale l’ordine non poteva possedere nulla; sulle
forme organizzative dell’ordine diffuso in tutti i paesi europei. All’inizio del trecento la formazione
di un gruppo di rigoristi della povertà chiamati spirituali portò ad una rottura profonda in seno
all’ordine dei minori. Non solo i frati non dovevano possedere nulla ma neanche l’ordine stesso.
Questo pose problemi alla chiesa che non si era mai chiesta se possedere beni fosse o meno in
contraddizione con il messaggio di Cristo.

I mendicanti e l’inquadramento dei fedeli

Il successo dei frati minori fu eccezionale: divennero maestri di università e scuole, consiglieri di re
e principi, e venivano riconosciuti dal popolo come nuovi pastori di anime. Questo successo era
dovuto al fatto che incarnavano una fede religiosa vicina al popolo, le prediche erano in volgare, le
questioni teologiche venivano semplificate e ricondotte ad esempi. Tratti dalla vita quotidiana ben
nota agli stessi frati, che spesso provenivano dal contesto urbano e conoscevano di persona coloro ai
quali predicavano. Il male peggiore era la superbia, ovvero la presunzione di potere decidere. Del
proprio destino, e la penitenza e la povertà erano necessarie per riconoscere che le sorti umane
dipendono da Dio. In alcuni predicatori (esistevano diversi indirizzi) questo portava ad un
accettazione della propria posizione all’interno della società in funzione dell’armonia della
comunità. La predicazione doveva dunque condurre alla confessione.

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Esistevano manuali di confessione redatti dagli esponenti degli ordini mendicanti, che servivano a
classificare i peccati degli individui in base al loro status, alla loro età, alla disposizione a peccare.
Ogni categoria sociale aveva i suoi peccati, e due persone diverse compiendo le stesse azioni
potevano stare peccando in maniera diversa.
Il sacerdote confessore doveva così essere addestrato a rivolgere al fedele le domande adeguate a
condurre una confessione completa. Il sacerdote diventava un giudice di un piccolo processo dove il
sacerdote giudicava la coscienza del fedele in un foro speciale detto “foro penitenziale”.
I laici cominciarono però a rivendicare il diritto ad una vita religiosa più partecipativa, in reazione
al tentativo gregoriano di inquadrare questa solo entro la sfera ecclesiastica. Nacquero così
associazioni di laici penitenti, che predicavano l’astensione dalla vita mondana come i banchetti e
dal lusso. Tra questi ordini troviamo i poveri valdesi, gli umiliati, o i poveri lombardi. La Chiesa
rispose cercando di fornire una forma istituzionale a queste associazioni attraverso la formula della
confraternita, imponendo loro di fornirsi di una regola scritta che regolasse la vita interna del
gruppo e l’obbedienza al clero diocesano. Molte confraternite si specializzarono nella carità
pubblica, altre nell’assistenza ai malati, fondando ospedali e ricoveri per pellegrini.
Questa galassia di movimenti laicali fu ricondotta sotto l’ala dei frati minori. In una bolla del 1289
papa Niccolò IV (primo papa proveniente dai minori) affermò che penitenti dovevano essere affidati
ai francescani poiché fondati da San Francesco, anche se ciò non era vero. Dunque gli ordini
mendicanti istituirono dei “terz’ordini” composti da laici penitenti, che vennero delegati ad opere di
carità pubblica, in obbedienza al vescovo.
La partecipazione dei minori all’ufficio dell’Inquisizione fu ufficializzato da Innocenzo IV nel
1254, ma ci sono fonti che attestano minori inquisitori ben prima di quella data. In Francia del Nord
troviamo frati inquisitori già nel 1227, nel 1236 e a Tolosa nel 1237. Nel 1254 l’Inquisizione
diventa un’istituzione della Chiesa romana. Innocenzo IV aveva diviso l’Italia in due province: una
assegnata ai predicatori, (Emilia, Lombardia, Piemonte, Liguria) e una ai minori (Marca di Treviso,
Marca di Ancona, Romagna e Toscana).
La procedura degli inquisitori era chiamata inquisitio ex officio. Non era diretta unicamente contro
l’adesione ad una fede eterodossa o eretica, ma anche e soprattutto contro la frequentazione di un
gruppo sospetto, l’adesione alla setta, il prestare aiuto anche indiretto o anche solo la semplice
conoscenza. La battaglia era dunque contro la rete sociale che sosteneva l’eresia, non solo il singolo
eretico. La procedura comprendeva che all’arrivo in un villaggio l’inquisitore proclamasse l’inizio
di un periodo di grazia durante il quale chiunque avrebbe potuto confessare o riferire alle autorità
ecclesiastiche i propri peccati o quelli di qualcun altro, e in cambio sarebbe stato perdonato. Si
tentava così di colpire i membri più deboli della setta. Era previsto anche il ricorso alla tortura per
estorcere una confessione, e una volta andata a buon fine l’eretico poteva scegliere se abiurare o se
mantenere la propria fede. Il fine dell’inquisizione non era quello di sterminare gli eretici, ma di
convincerli all’abiura. Nonostante questo le pene per gli irriducibili erano severe: Innocenzo IV,
nella bolla ad extirpanda del 1252 aveva inserito nella legislazione ecclesiastica un esplicito assenso
alla pena di morte da infliggere agli eretici penitenti, che dovevano essere giustiziati e bruciati.

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L’uso politico dell’eresia

Federico II introdusse il reato di eresia nell’ambito politico, dopo aver combattuto i patarini in
Sicilia ed essersi così schierato al fianco della chiesa. Aveva equiparato il reato di eresia a quello di
lesa maestà, ma il suo progetto venne meno quando nel 1245 durante il Concilio di Lione venne
scomunicato dal papa, cosa che iniziò una lunga guerra tra papato e impero, continuata anche sotto i
due eredi di Federico: Manfredi e Corradino, dopo la morte di Federico nel 1250. Rimanevano in
Italia potentissimi dominati fedeli al partito dell’Imperatore e oppositori della chiesa, a cominciare
dal più forte capo ghibellino: Ezzelino da Romano, velocemente definito dalla chiesa come
l’esempio perfetto di tiranno eretico, violento e dispotico contro i suoi sudditi. Venne dunque
dichiarata una crociata contro di lui, guidata dal legato pontificio. Grazie agli sforzi della chiesa la
violazione dell’ortodossia religiosa era equiparata ad un crimine di stampo politico: la
disobbedienza ai dogmi era disobbedienza alla Chiesa. Per questo però era necessario l’intervento
dei sovrani cristiani dell’Europa medievale.
Filippo il Bello vs Bonifacio VIII, e il conflitto contro i templari sono esempi della nuova
affermazione del potere regio. Il conflitto con Bonifacio VIII verteva sulla difesa dell’immunità
pontificia dal fisco e dalla giustizia dei re. Filippo IV il Bello aveva forzato la mano in due
occasioni: aveva imposto il pagamento delle tasse al clero francese durante la guerra mettendo
sotto processo un vescovo. Bonifacio VIII reagì in modo violento: minacciò il re di scomunica
riaffermò il potere del papa su tutti i principi laici (la Unam Sanctam). L’autorità temporale doveva
essere sottomessa a quella spirituale. Non era la prima volta che le idee teocratiche entravano nel
teatro politico europeo, ma in questo caso lo scontro non verteva sulle idee ma sulla capacità di
esercitare un potere reale su un territorio. Bonifacio eletto papa nel 1294 in seguito alle
contrastatissime dimissioni di Celestino V era un papa potente, di grande cultura giuridica,
spregiudicato nel. Governo della chiesa e violento nel rapporto con i poteri laici. Tuttavia aveva
molti punti deboli, a partire dalla famiglia rivale dei Colonna, che aveva sconfitto alle elezioni
pontificie, le resistenze dei comuni allo stato della chiesa e i cardinali oppositori in tutta Europa.
Filippo il Bello si contrapponeva a Bonifacio denunciandolo come un papa eletto illegalmente
ergendosi come il. Vero protettore della chiesa. Coadiuvato da un gruppo di giuristi che stavano
ridisegnando la dimensione della maestà dal punto di vista giuridico Filippo mandò il suo
cancelliere Guglielmo di Nogaret ad Anagni, per catturare Bonifacio e impedirgli di pubblicare la
scomunica del re nel 1303. Dopo un mese Bonifacio morì e iniziò una delle più grandi crisi della
Chiesa medievale. Venne iniziato un processo contro Bonifacio nello stesso 1303, poi ripreso nel
1308 e nel 1311. Le accuse erano molto gravi: eresia e. condotta sessuale deviata. Il processo a
Bonifacio inoltre si aggiungeva al processo contro i templari che custodivano il tesoro regio. La
mattina del 7 ottobre con un ordine impartito da tutto il regno Filippo fece arrestare i generali
dell’ordine e tutti i templari del regno. Le accuse erano la rinnovazione del crocifisso e l’adorazione
del demonio. Il re agisca contro una trasgressione dell’ordine della natura, noi che siamo costituiti
dal Signore sul posto di osservazione dell’eminenza regia per difendere la fede della Chiesa.

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In pochi anni il reato di stregoneria e sodomia divenne l’accusa comune rivolta agli oppositori
politici della corona. Sia il re di Francia che il papa Giovanni XXII seguirono questo modulo. Il
papato venne spostato in Avignone nel 1309, come esilio da Roma per via della corruzione del papa
Bonifacio VIII. Per il pontefice avignonese il demonio esisteva e abitava nella zona oscura degli
uomini, non nell’inferno. Contro questo patto sacrilego bisognava usare procedure speciali, rompere
i sigilli del segreto interiore, svelare l’occulto e rendere manifesto il pericolo.
Il papato di Giovanni XXII risentì della cattività avignonese, che rendeva difficile la gestione di un
territorio vasto come l’Italia da parte di un papa che gli abitanti ritenevano straniero. Nonostante
questo i 70 anni avignonesi permisero al papato di fornirsi di nuovi assetti amministrativi: i registri
pontifici assunsero una forma più razionale, il controllo sui legati si fece più attento e la contabilità
fece progressi enormi.
Sul piano politico le cose erano cambiate: la maestà regia si era impossessata di strumenti e idee
della Chiesa, la contrapposizione diretta fra le due spade, quella spirituale aveva mostrato quanto
più resistente fosse quella secolare. Il re aveva rivendicato a sé la difesa della fede.
Il ritorno del. Papato a Roma nel 1378 non riuscì a pacificare la Chiesa. Si elesse il papa italiano
Urbano VI, contestato dai cardinali francesi che elessero Roberto di Ginevra sotto il nome di
Clemente VII, insediato ad Avignone. La chiesa si spaccò in due: una parte stava col papa romano e
l’altra col papa francese. L’unità religiosa da sempre prerogativa del papato venne meno. Si
sviluppò un vasto movimento riformatore che vedeva la chiesa come un organo collettivo e plurale
fondato sulla collegialità del concilio. Il potere sovrano sarebbe dovuto essere affidato
all’assemblea dei vescovi, in analogia con i modelli apostolici del Nuovo Testamento. Il concilio di
Basilea elaborò una teoria ultra democratica che identificava il concilio stesso con la Chiesa. La
radicalità della corrente conciliarismo portò all’abbandono del partito riformatore da parte di poteri
laici che prima lo avevano sostenuto. Alla fine Martino V riuscì a imporre supremazia papale. La
proposta conciliarista non si dovette scontrare solo con una chiesa ormai fondata sull’autorità
papale, ma anche con una direzione del potere ecclesiastico che durante l’esilio avignonese si era
ristretta nei singoli regni in ambiti nazionali.

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La costruzione dello spazio politico dei regni europei

Gli storici hanno abbandonato la teoria per cui lo stato monarchico si sia affermato tramite
un’imposizione netta della supremazia del monarca, e hanno optato per un lungo processo di
negoziazione tra la nuova forma di potere <<centrale>> con le zone regionali fino a poco tempo
prima indipendenti all’interno del regno. Dunque ci occuperemo di come si sia messo in opera un
governo politico del regno attraverso un lento processo di integrazione di diversi gruppi di interesse,
dai ceti nobiliari alle élite economiche urbane in un sistema di istituzioni a guida regia.

La difficile costruzione di uno spazio politico dei regni di Francia e Inghilterra

Non esiste un’evoluzione lineare nei due secoli che prendiamo in esame, poiché questi sono segnati
da un numero altissimo di eventi in grado di mutare il quadro istituzionale dei regni. Se un dato
comune emerge sono le forze contrastanti la monarchia, come le tensioni per la successione, sui
poteri da esercitare, sulla legittimità delle richieste rivolte ai sudditi. Mai come nel XV secolo la
politica dinastica ebbe effetti disgreganti sulla politica territoriale europea, con regni che venivano
divisi e ricomposti in pochi anni, spesso in relazione a matrimoni, morti e battaglie. L’unico motivo
per cui le monarchie europee si mantennero fu la grande flessibilità politica di cui erano capaci: per
esempio poteva affidare il regno a un reggente, trasmetterlo ai figli o accettare l’elezione dei grandi
del regno, fare senza re e governare grazie ad un consiglio di grandi oppure averne due con fedeltà
diverse.
La Francia poteva giovare dell’eredità di due grandi re del XIII secolo: Luigi IX che regnò dal 1226
al 1270, rimanendo nella memoria collettiva e Filippo IV il Bello, in carica tra il 1285 e il 1315.
Sotto il primo la Francia si era estesa fino a comprendere le regioni meridionali della Linguadoca,
sottomesse con la forza. Ma era cresciuta ancor più la sfera delle competenze riservate al re, a
cominciare dall’attività legislativa: il re riprese a legiferare emanando numerose ordinanze. Oggetto
di queste ordinanze era prima di tutto il malgoverno dei funzionari del re, che assumeva la giustizia
come principio etico del suo regno.
L’apparato centrale si fece con Filippo il Bello ancora più pesante e pervasivo, le finanze furono
rinnovate aumentando il carico fiscale sui sudditi; la giustizia rimase strettamente nelle mani del re
che estese le sue pretese anche sulle persone e i beni della Chiesa. Filippo viene ricordato per il
processo ai danni del papa e dell’ordine dei templari del 1307, per essersi più volte arrischiato a
speculazioni finanziarie cambiando più volte valore alla moneta ufficiale. L’esperimento fu un
mezzo disastro sul piano economico suscitando numerose opposizioni nei confronti della sua
politica.
I limiti delle pretese regie furono evidenti sotto il successore Luigi X, durante il 1315 una rivolta dei
baroni del regno costrinse il re a concedere un’ampia autonomia politica ai paesi ribelli. La rivolta
andò a toccare i punti di forza della monarchia: fiscalità e giustizia.
Nel 1328 si esaurì la dinastia capetingia e salì al trono quella dei Valois. Tuttavia questo causò una
guerra con l’Inghilterra per via del fatto che Edoardo III aveva un legame di parentela con i
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Capetingi. Questa fu poi chiamata guerra dei cent’anni. Questa mise in evidenza le debolezze della
Francia, il suo esercito lento basato. Ancora. Sui cavalieri, una scarsa mobilità della popolazione, un
sistema fiscale imperfetto e incapace di finanziare una guerra prolungata nel tempo, una fortissima
frammentazione territoriale. Già dal XII secolo le regioni atlantiche erano inglesi; parte della
Borgogna costituitasi in ducato dipendente dall’Impero si rivoltò; le regioni del sud furono
riassorbite in parte dai re spagnoli. Il regno di Francia, soprattutto nei primi decenni del
quattrocento si riscoprì piccolo e accerchiato. La prima fase della guerra mise in rilievo la
vulnerabilità francese più volte battuto dagli inglesi: a Crecy nel 1346 e nel 1356 a Poitiers dove il
francese Giovanni il Buono fu preso prigioniero; infine ad Azincourt nel 1415. Nella seconda fase
gli aspetti politici prevalsero.
Nel frattempo era infatti scoppiata una guerra civile nel 1392, quando due membri della corte
avevano tentato di influenzare Carlo VI, ormai impazzito. Da un lato il duca di Borgogna, Giovanni
Senza Paura e dall’altro il fratello del re Luigi duca d’Orléans. Lo scontro iniziò quando Luigi
impose una nuova tassa subito respinta dagli altri principi. Presero forma due partiti: gli Almanacchi
fedeli al duca d’Orléans e i Borgognoni, fedeli al duca di Borgogna, i quali presero il controllo di
Parigi e della Francia settentrionale. La resistenza alla politica fiscale degli Orléans divenne un filo
costante della guerra civile, tanto che quando i Borgognoni conquistarono Parigi per la seconda
volte nel 1418 come prima cosa abolirono tutte. Le tasse nella città. Gli orleanisti abbandonarono
Parigi e la Francia Settentrionale per fondare un regno itinerante nelle Regini centrali detto regno di
Bourges.
Il dibattito sulla tassazione pubblica si era dunque sovrapposto completamente al dibattito sul potere
monarchico: i sostenitori del re erano per un sistema fiscale pesante che assorbisse le risorse del
paese per mantenere la monarchia, mentre il partito dei Borgognoni era favorevole a un assetto
politico più decentrato, basato una relativa autonomia dei territori e meno esoso sul piano fiscale.
La complicazione divenne massima quando dopo la tregua tra Francia e Inghilterra con la pace di
Troyes del 1420, Enrico V re di Inghilterra sposò Caterina di Valois, figlia di Carlo VI. Non solo
quest’ultimo aveva esautorato l’erede legittimo: il delfino Carlo (poi VII), ma aveva eletto suo
figlio e successore iil re inglese. Alla morte dei due re Carlo VI ed Enrico V, il figlio di quest’ultimo
Enrico VI aveva legittima pretesa al trono, dunque esigette l’elezione a re di Francia. Gli Orleanisti
approfittarono della proposta di un re straniero appoggiando Carlo VII, mentre i Borgognoni
avrebbero accettato Enrico VI. La guerra riscoppiò e stavolta portò con sé una grande propaganda
politica che rimodellò lo stato francese.
Fu in questi anni, dal 1428 al 1431, che si svolse la parabola di Giovanna D’Arco, una donna
condottiera ispirata dalle voci divine che le indicarono Carlo VII come vero re francese, guidandola
nella riscossa vittoriosa contro gli inglesi e i Borgognoni invasori. Autorizzata dal re a portare le
armi, fu protagonista di miracolosi scontri armati come la difesa di Orléans nel 1429, e di
riconquiste impossibili di città occupate dagli inglesi. profetessa, leader religiosa, protettrice del re,
la figura di Giovanna D’Arco divenne subito elemento centrale della propaganda. Regia, anche
dopo il processo e la condanna per stregoneria del 1431 da vescovo di Rouen, alleato dei
Borgognoni. Nell’ultimo ventennio la guerra finì a favore dei francesi. Una serie di campagne

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vittoriose tra. Il 1449 e il 1453 permisero a Carlo VII di riconquistare alcuni territori in mano
inglese ma la guerra si spense perché in Inghilterra scoppiò una lotta per al corona di un re folle
(Enrico VI) tra due partiti che poi daranno inizio ad una lunga guerra civile. Le vicende di Luigi XI
mostrano le contraddizioni della monarchia francese: ribelle al padre esiliato nel delfinato per
quattordici anni dal 1447 al 1461, una volta divenuto re cercò di affermare il suo potere su tutti i
principati. Gli si contrappose un fronte formato da suo. Fratello Carlo, il duca di Borgogna, i signori
di Armagnac, Alençon e Bourbon. Luigi XI mise in atto una spietata repressione giudiziaria.
Trattandoli come traditori della corona invece che come vassalli, cercò di fondare il potere regio
come indiscutibile e sacro. Sotto questo strato di eventi politici emergeva lentamente la costruzione
di un regno radicato nelle sue funzioni di base. Le ordinanze regie sulla fiscalità la moneta e la
Chiesa, la giustizia, l’esercito e gli ufficiali pubblici (resi inamovibili nel 1467) e allo stesso tempo
il crescente monopolio esercitato dal re sulle nobilitazioni portarono verso un oggettivo
rafforzamento dello stato. Tuttavia la costruzione dello stato francese riposava ancora sulle alleanze
dinastiche, sui matrimoni, e sulle morti senza eredi dei principi vassalli, che assegnavano al re di
Francia il principato vacante. Fu in questo modo tra il 1460 e il 1490 furono annesse le regioni più
distanti come il Delfinato nel 1461, l’Angiò nel 1480, il ducato di Borgogna nel 1482, la Provenza
nel 1486 e finalmente la Bretagna nel 1498.

• 1315 rivolta delle regioni, carte di libertà.


• 1328 passaggio alla dinastia dei Valois.
• 1337 inizio guerra dei cent’anni.
• 1356 sconfitta di Poitiers, prigionia del re francese Giovanni il Buono.
• 1392 infermità di Carlo VI, nascita di Armagnacchi e borgognoni.
• 1407 inizio della guerra civile.
• 1420 pace di Troyes, Carlo VI nomina successore Enrico V.
• 1422 Enrico VI e Carlo VII competono per il regno.
• 1429 Carlo VII incoronato re.
• 1453 fine della guerra dei cent’anni.
• 1461 Regno di Luigi IX.
• 1498 Ultima annessione, la Bretagna.

l’Inghilterra del primo trecento presenta già tutti i segni dell’instabilità che l’avrebbe accompagnata
durante i secoli successivi.

• Regno incapace di finanziarsi, in mano ai voleri dei grandi.


• Ruolo spropositato dei baroni, che per anni competerono con i detentori della corona in modo
aperto e senza regole.
• Un parlamento: assemblea dei nobili, ecclesiastici, e rappresentanti dei comuni, molto forte
nell’imporre un controllo stretto intorno al re e alla gestione delle finanze regie, ma non
altrettanto forte nel posti come garante di un assetto istituzionale stabile.

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Edoardo I fu imprigionato e poi deposto nel 1327.


Edoardo III fu impegnato nella guerra con la Francia.
Riccardo II fu costretto ad abdicare nel 1399.
Tra il 1420 e il 1440 il regno fu affidato a un reggente durante l’infanzia di Enrico VI. Davanti a
questo vuoto di potere due erano le forze che si sovrapponevano e che potevano aspirare a trovare
un ordine: parlamento e i Grandi, la nobiltà militare dei pari. Il parlamento inglese assunse un ruolo
di indirizzo della politica regia nel 300:

• 1318 propose di istituire un consiglio permanente composto da baroni.


• 1340 trovò compromesso con il re per una tassazione sull’esportazione della lana.
• 1351 cercò di porre rimedio all’aumento dei salari dopo la peste nera.
• 1353 is pose alla giurisdizione dei tribunali ecclesiastici.

Nonostante tutte queste iniziative l’Inghilterra non raggiunse la stabilità cercata.


La guerra in francia portò alla frammentazione del regno inglese in una serie di ducati semi-
indipendenti, in questo periodo lo scontro fra i baroni riguardava la conquista della corona. nel 1453
questa ostilità si polarizzò intorno al conflitto fra la casa di Lancaster che aveva lungo dominato il
Parlamento, e quella di York, finì con la morte di due re e degli eredi di Edoardo IV per mano di
Riccardo III, e con l’ascesa della dinastia dei Tudor nel 1485.
L’unità territoriale dell’Inghilterra era tutt’altro che scontata poiché le guerre con la scozia nella
prima metà del 1300 non avevano condotto a nessuna risoluzione definitiva. I re scozzesi riuscirono
a mantenere un regno di Scozia indipendente da quello inglese. Anche il dominio sul Galles era
incerto a causa delle continue ribellioni interne, per non parlare dei territori francesi perduti dopo il
1453. l’Inghilterra avvertiva dunque il bisogno di slegare l’autorità monarchica dal re in carne e
ossa e collocarla su una nozione astratta.

Anche in Spagna ci furono molte lotte dinastiche. In Castiglia la successione dinastica fu un


problema costante: contestata quella di Alfonso X, morto nel 1284, e contrastatissima quella di
Alfonso XI 1311-1350, intenzionato a lasciare il trono al figlio primogenito e per questo attaccato
dagli altri figli illegittimi e dai loro discendenti della casa di Trastàmara che riuscirono a diventare
re succedendosi sul trono di Castiglia dal 1369 al 1516.
Dato che i re dei vari regni spagnoli erano uniti da legami parentali i destini degli stessi regni erano
connessi: nel 1412 un esponente del ramo cadetto dei Trastamara divenne re di Aragona come
Ferdinando I d’Aragona. Il figlio Alfonso V di Aragona detto il Magnanimo acquisì il regno di
Napoli nel 1442 dopo una lunga lotta con i francesi, e dopo essersi assicurato anche la Sardegna.
La galassia. Aragonese abbracciava tutta l’Italia meridionale e insulare, controllando l’intero bacino
del Mediterraneo occidentale.
La struttura interna dei singoli regni era diversificata e poco aperta ad una vera unificazione
politica. Se in tutti i regni i re dovettero confrontarsi con assemblee rappresentative influenti, le
Cortes, la composizione e il ruolo di queste istituzioni variava da caso a caso. In Castiglia le Cortes

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non comprendevano i nobili ed erano formate quasi esclusivamente dai rappresentanti della città. I
letrados, il ceto intellettuale e amministrativo delle città si avvicinò sempre più al re, difendendo il
suo diritto di imporre liberamente le tasse.
Negli altri regni le Cortes assunsero un ruolo ben diverso. In Catalogna e Aragone i rappresentanti
dei tre ordini: Chiesa, Nobiltà e città, ebbero amplissimi poteri sulle finanze e sulla legislazione. I.
Re di Aragona e. Navarra erano costretti a chiedere consiglio e consenso alle Cortes quasi per ogni
cosa, dai tributi alle leggi da approvare. Le cortesi crearono istituzioni permanenti: le Deputazioni:
in Catalogna nel 1359, in Aragona nel 1412 e a Valenza nel 1419. Le Deputazioni amministravano
direttamente alcune funzioni politiche, stipendiavano una milizia e riscuotevano in proprio una tassa
del 10% sul valore delle produzioni tessili. Questo è l’unico esempio di una tassa riservata ad un
assemblea rappresentativa. Anche dopo l’unificazione dei regni, questa struttura pattista pose un
freno alla formazione di una monarchia centralizzata.
Un matrimonio e una successione contestata portarono all’unificazione dei regni di Castiglia e
Aragona: Isabella di Castiglia e Fernando d’Aragona, si trattava di un’unione solo personale delle
due corone, ma di fatto l’unione della Spagna si completò nel corso del loro regno e in seguito della
caduta dell’ultima enclave musulmana, Granada nel 1492, oltre all’assorbimento del regno di
Navarra nel 1512. Queste vicende dinastiche turbolente mostrano quanto ancora la politica fosse in
balia dei legami familiari e personali interni all’alta aristocrazia europea.

L’impero e i regni dell’est: crisi e flessibilità della forma monarchica

L’impero perse tra il 1200 e il 1400 tre pezzi fondamentali: l’unità d’Italia, della Borgogna e della
Germania. Nel caso della Borgogna essa si era divisa in ducato, vassallo del re di Francia, e contea,
appartenente all’impero. Per quanto riguarda l’Italia, Enrico VII di Lussemburgo fu l’ultimo
imperatore a cercare di riunirla in un regno unitario durante un viaggio nel 1311, ma la sua morte
prematura due anni dopo fece svanire le speranze di unificazione.
Il consiglio degli elettori si credeva superiore all’imperatore stesso, e nel 1356 la Bolla d’oro
concessa da Carlo IV concedeva ai principi elettori la piena autonomia giurisdizionale nei propri
territori. Nel frattempo si sarebbe verificata tra il 1300 e il 1400 una transizione di potere dalla
dinastia dei duchi di Boemia a quella degli Asburgo, famiglia ducale non elettrice, che rivendicava
l’indipendenza dell’Austria dall’Impero, con annesso li riconoscimento di un patrimonio austriaco
slegato dalla famiglia asburgica. Rodolfo IV (1358-1365) confermò il<<privilegio grande>>,
documento falso in cui si concedeva all’Austria totale autonomia dall’Impero, la costituzione di un
patrimonio austriaco e di un sigillo con il duca incoronato: il duca sarebbe diventato un sovrano di
pari grado all’imperatore. Carlo IV reagì e impose la distruzione del sigillo regale del duca e rifiutò
di riconoscere l’annessione del Tirolo. Questo non impedì ai successori di Rodolfo di accedere al
trono imperiale, dato che Rodolfo era genero di Carlo, dunque la carica di imperatore passò nel
1439 ad Alberto d’Asburgo, e trasmise la carica al cugino Federico III (re nel 1440 e imperatore dal
1452) e questi a suo figlio Massimiliano I (re dal 1493), il vero fondatore del nuovo impero ormai
asburgico.

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Nel 1495 Massimiliano d’Asburgo aveva cercato di creare un tribunale imperiale che superasse i
diritti locali e di imporre una tassa per tutti i territori del regno, ma suscitò forti resistenze. Il nuovo
Impero rimase così bipartito fra l’imperatore e i principi.
l’Impero era un entità ormai solo formale, che però non smetteva di legittimare pretese territoriali
nei confronti di Francia e Inghilterra, o di contrapporsi ai turchi a sud e agli slavi ad est.
Per quanto riguarda i regni dell’Est si ha una definizione territoriale chiara solo a partire dal
Duecento: il regno di Boemia era legato all’Impero dato che il suo duca era uno dei sette principi
elettori. Il regno di Ungheria si fa iniziare con la conversione di Stefano. Nel 1000-1001, e fu
conteso da dinastie locali fino a che non fu inglobato a momenti alterni dalla Boemia e dalla
Polonia, ma trovò una dimensione territoriale e ideologica solo quando divenne la frontiera contro i
turchi che comunque ne conquistarono una importante porzione. La Polonia si era unita con la
Lituania nel 1386 sotto gli Jagelloni. Questi regni orientali erano territori di frontiera e costruirono
la loro identità sulla difesa del cristianesimo. Polonia Ungheria e Boemia rimasero molto legate, sia
sul piano politico che dinastico. Le trame dinastico-familiari legarono la regione in una fitta matassa
di parentele prima con i principi europei e tra le famiglie dei tre regni. In periodi diversi i regni si
unirono a due o a tre: Ungheria e Boemia vennero unite sotto i gigli di Carlo IV di Lussemburgo
(Venceslao e Sigismondo re di Boemia e Ungheria fino al 1419) poi sotto il re ungherese Mattia
Corvino fra il 1469 e il 1490; Ungheria , Boemia e Polonia furono sotto un unico re sotto la dinastia
degli Jagelloni. Nella realtà dei fatti ognuno di questi regni era governato da nobiltà potentissime,
come i grandi magnati ungheresi e i cavalieri di boemia. Queste nobiltà si affermavano grazie alle
assemblee rappresentative presenti in ogni regno, espressioni di realtà territoriali. semi-
indipendenti. C’erano infatti due livelli della nobiltà: una alta arbitro indiscusso della vita politica
del paese, e una bassa composta da tutti gli uomini liberi e dunque non servi, legata a quella alta da
rapporti clientelari. Al sovrano veniva riconosciuto solamente un ruolo formale di coordinamento
della politica sovralocale, che non si traduceva nella adesione a uno stato centralizzato.
In seguito alla predicazione di Jan Hus che predicava il ritorno alla vita evangelica il regno di
Boemia fu diviso in due: la Dieta e la città di Praga si schierarono a favore della riforma di Jan Hus,
mentre la Moravia sotto Sigismondo (che fu anche imperatore) si oppose. Seguirono 17 anni d
guerra civile senza re, con la Dieta a capo della parte ribelle. Nel 1436 Sigismondo riconobbe la
chiesa hussita, si riformò dunque l’unità del paese. Ugualmente in Ungheria dopo la morte di Mattia
Corvino, re accentratore, i nobili non elessero più un re autoctono ma si unirono sotto il regno di
Ladislao II Jagellone già re di Boemia, che garantì all’Ungheria ampie autonomie locali.

Il regno ottomano si formò dopo la crisi dello stato selgiudiche da uno degli emirati presenti nella
penisola anatolica. La conquista di Anatolia e regioni bizantine della Tracia e dell’Europa
sudorientale ad opera di una élite di tribù turcomanne della penisola turca diede origine all’impero
ottomano. Su trattava di una élite nomade che decise di rivolgersi al mediterraneo staccandosi dalle
dominazioni dell’Oriente musulmano pur conservando la fede islamica come guida della propria
azione politica. L’avanzata ottomana fu inarrestabile dal 1300 in avanti: stanziati vicino alla
capitale, Bisanzio, si spinsero oltre ii Dardanelli nella Tracia nel 1345, per assoggettare

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gradualmente la Macedonia, la Bulgaria conquistando Sofia nel 1384, l’Albania nella battaglia di
Kosovo nel 1389 fino a una parte del regno di Ungheria. La caduta di Bisanzio nel 1453 sotto
Maometto II segnò la fine del dominio bizantino e l’inizio di un processo di unificazione politica e
religiosa di tutta la regione.

Il caso italiano: stati regionali dal XIV alla fine del XV secolo

Nei primi anni del 300 assistiamo in Italia ad un processo di ricomposizione e divisione delle città
comunali in alcuni stati territoriali di carattere regionale, i quali furono spesso elementi di una
competizione politica tra imperatore e papa. In questo quadro di frammentazione politica troviamo:

• Grandi stati principeschi come il Ducato di Savoia, contenente Piemonte e la Savoia oggi
francese, lo Stato dei visconti tra Lombardia Piemonte ed Emilia, lo Stato Estense
comprendente parti di Emilia e Romagna, con capitale Ferrara, lo Stato della Chiesa dai confini
ancora incerti tra Lazio Marche e Romagna.
• Le formazioni regionali sotto regime repubblicano come la repubblica di Venezia con la
Terraferma (Veneto e Friuli), la repubblica di Firenze estesa su quasi tutta la Toscana dopo la
conquista di Pisa nel 1406, e la repubblica di Genova.
• Le regioni meridionali inserite nei regni come la Sicilia sotto gli Angioini e poi gli Aragonesi, il
regno di Napoli sotto gli Angioini fino al 1442 poi unito alla corona di Aragona.

Il salto riguardò la trasformazione del dominio di una città in una costellazione pluricittadina.
Questi stati regionali furono caratterizzati dalla capacità di riadattare le loro istituzioni in relazione
ai cambiamenti di poteri personali o familiari. La prima generazione di signorie erano legate
principalmente sul potere personale e alla legittimazione dal basso come la delega della carica di
rettore dal consiglio comunale. Da una parte il signore era in una posizione di forza perché aveva
costretto il comune a stravolgere la norma istituzionale della rotazione delle cariche, ma dall’altra
non era riuscito ad imporsi del tutto, dovendo ricevere il potere dal comune. Il marchese Estense a
Ferrara era superiore al consiglio cittadino e lo stesso statuto poteva essere modificato come e
quando il signore voleva. Nonostante questo non poteva fare a meno di costruirsi una sorta di
mandato dal basso o dall’alto che fosse: la nomina per acclamazione del consiglio o dell’assemblea
plenaria dei cittadini che approvava la. Cessione del potere al signore.
Persino i visconti di Milano dovettero basare la loro autorità sulla delega del comune. Sotto i
visconti si sottomisero tutte le città lombarde come Pavia, Como, Cremona, Piacenza, Brescia,
Bergamo, oltre ai principali centri urbani piemontesi come Novara, Vercelli, Alessandria, Asti) e. In
periodi intermittenti anche alcuni grandi comuni emiliani da Reggio a Modena alla stessa Bologna.
l’Italia viscontea rappresenta un punto di rottura con l’Italia comunale multipartitica aperta e
conflittuale che aveva reso instabili e ingovernabili la maggior parte delle città padane. Si diffuse
l’ideologia che vedeva nel visconte il protettore dell’ordine costituito e della pace civile. Il punto
fermo della politica si spostò dunque all’esaltazione dello stato di Giovanni e Luchino Visconti, che

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godevano di totale arbitrio di governo, giudiziario e legislativo. Stesso potere veniva affidato nelle
repubbliche ai consigli degli anziani e dei priori. Nonostante questo i giuristi si opponevano alla
legittimazione che i signori davano del loro potere: in particolare il più autorevole giurista del
tempo, Bartolo da Sassoferrato, si oppose all’argomento dei visconti, sostenendo che il
conferimento della podestà legislativa dal popolo al signore era valido solo quando la scelta dei
consigli era libera e non costretta dalla forza. La maggior parte delle dedizioni d città al signore
votate dalle assemblee di cittadini era condizionata dalla presenza di armati del signore che non
lasciavano scelta ai cittadini. Sul piano politico la costruzione dello stato regionale procedette per
gradi e per acquisizione di blocchi separati di città e territori tramite patteggiamenti con il sovrano.
Il ducato sabaudo che copriva gran parte dell’attuale Piemonte e la Savoia fu quello che più di tutti
conservò la struttura originaria dei territori che nel corso di un s secolo ne formarono l’ossatura;
solo nel 1418 fu possibile riunire formalmente il principato d’Acacia, che comprendeva Torino e il
Piemonte con il ducato radicato al di là delle Alpi in Savoia.
Lo stato della chiesa non riuscì ad affermare le sue pretese suoi territori umbri e marchigiani per via
della cattività avignonese che diede spazio a signorie come quelle dei Malatesta, dei Montefeltro
che guidarono una rivolta ad Urbino, e degli Sforza nella marca di Ancona. Nonostante il ricorso a
castellani e podestà inviati dal papa queste signorie crebbero sempre più.
Più compatta la. Formazione del ducato veneto che si estendeva sulla Terraferma che comprendeva
sistemi cittadini preesistenti come Verona, Vicenza, Padova e Treviso. Saggiamente lo Stato veneto
rispettò la struttura comunale della città, integrando le oligarchie urbane in un sistema di governo
condiviso: l’ordine locale era affidato alle aristocrazie cittadine dietro un controllo non pesante di
un rettore veneziano che risiedeva in città come anello di collegamento con la dominante.
Diversamente lo stato fiorentino dopo lunghe guerre che portarono all’annessione di Pistoia, Arezzo
e Pisa fu improntato a una ridefinizione dei contadi affidati a governatori provenienti da Firenze.
Per le città soggette la divisione amministrativa arbitraria significò un distacco dal proprio territorio
e una disarticolazione dei rapporti sociali ed economici con gli antichi contadi.
L’ampliamento del domino richiese una ristrutturazione delle corti centrali, oltre al potenziamento
della burocrazia centrale dai Grandi Stati ai piccoli principati. Nacquero nuovi organi come la
cancelleria principesca, i segretari, una camera dei conti, collegi segreti di consiglieri occupati
sempre più frequentemente da giuristi ed esperti di diritto. In alcuni casi. Signori puntarono sulla
promozione culturale sostenendo università di prestigio come i Visconti con Pavia, o i iSavoia con
Torino. La presenza di un personale tecnico di estrazione borghese fornì li sostegno a nuove
pratiche governo di tipo statuale. La conseguenza principale fu che la fiscalità e il diritto furono
armonizzati in gran parte dei luoghi del dominio. Tuttavia fu un percorso lungo: solo dal 1355 le
decisioni dei Visconti valevano per l’intero dominio, mentre prima erano applicabili solo per la città
cui erano destinate, solo nel 1395 Gian Galeazzo divenne principe e lo Stato visconteo un ducato.
La chiave di volta degli stati signorili rimase infatti la capacità del signore di assicurare un rapporto
diretto tra il centro (la corte) e singole comunità rurali e urbane del dominio, e ciò veniva fatto
operando sui rapporti di potere che univano i soggetti dello stato in una rete di esenzioni, privilegi,
diritti e doveri. Il grado di autonomia rimase alto in molte città in Lombardia, in Veneto, nel ducato

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sabaudo e nello Stato della Chiesa. Il governo si assicurava il controllo sulle decisioni politiche
attraverso l’invio o la scelta di magistrati da affiancare ai collegi cittadini o in alcuni casi ai consigli
comunali che erano rimasti in vita e difendevano gelosamente le prerogative del governo urbano. Il
rapporto fra funzionari signorili e le oligarchie cittadine fu spesso tormentato, ma anche
collaborativo nella misura in cui fossero riusciti a spartirsi aree di potere diverse.
Un conflitto di più vaste proporzioni ci fu ma riguardava la città e il suo territorio. Lo scontro
assunse forme diverse: lamentele delle comunità con il signore contro l’oppressione della città,
richieste di esenzioni, suppliche di essere sottoposto solo al governo centrale e non agli avidi
ufficiali cittadini. Molte comunità lombarde chiesero addirittura agli Sforza di essere riconosciute
come comunità separate, autonome e riconosciute come enti sovrani.
Le numerose e sparse signorie locali insediate in castelli o in piccoli centri che costellavano i centri
comunali dal Duecento, rivendicarono un’autonomia politica e giurisdizionale piena suoi territori di
loro pertinenza. La rivendicarono anzi con maggiore fermezza, sicuri di trovare nel principe una
risposta più rispettosa delle loro esigenze rispetto a quella data dagli odiati magistrati comunali.
Dopo aver liquidato gli eccessi di alcuni signorotti potenti che vollero farsi piccoli principi i
visconti soprattutto ma anche i Savoia e gli Sforza e i pontefici concessero infeudazioni ai signori
locali in questione, stando attenti a non sconvolgere l’equilibrio dei signori della città. La funzione
di questo nuovo rapporto feudale era duplice: sottomettere i poteri signorili locali e allo stesso
tempo riconoscerli. Il vassallaggio qui non è da intendere come alleanza militare ma come
soggezione politica.
Ciò che a volte non risultava all’altezza era lo Stato centrale, il nucleo istituzionale di riferimento
che doveva coordinare questo insieme variegato di rapporti. Il problema riguardava la continuità del
potere e la mentalità di governo. La prima rimase a lungo una chimera non solo per la fragilità
dinastica delle famiglie signorili, ma anche per una connaturata incapacità di concepire la
successione come elemento ordinario dello Stato, di mantenere unito il dominio, di pensare lo Stato
come altro da sé, separato dalle vicende familiare. Alla morte del principe seguiva una selvaggia
competizione per il trono. Il problema in teoria non avrebbe dovuto riguardare Sicilia e Napoli per
via del fatto che questi erano regni monarchici. I destini di questi due regni si erano divisi nel 1282
quando la Sicilia, in seguito ad una rivolta della popolazione di Palermo (i vespri siciliani) contro
gli angioini. Il governo aragonese in Sicilia iniziò una politica di valorizzazione delle realtà locali,
baroni e città. Li investì di privilegi, di esenzioni, di compiti di autogoverno, ne fece i protagonisti
della vita politica dell’isola, alienando certe competenze importanti dell’amministrazione pubblica,
legando allo Stato le comunità e una parte del ceto baronale. I re aragonesi aumentarono il numero
di cavalieri, concessero loro grande disponibilità di feudi che potevano essere trasmessi in eredità, e
affidarono alla comunità la riscossione delle imposte dirette. L’elemento destabilizzatole fu la
vendita dei beni demaniali per aumentare le entrate, che aumentò però anche iil potere dei baroni
che entrarono di conseguenza in competizione con il potere regio, portando ad una fase di instabilità
dinastica e politica che si concluse con un governo condiviso di quattro vicari che si spartirono
l’isola. Il periodo vicariale poco documentato favorì la nascita di centri di potere autonomo che non
riconoscevano il re.

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Crisi simile nel regno di Napoli dopo la morte della regina Giovanna nel 1381- erede di Carlo III
d’Angiò quando la successione fu contesa da due rami della prolifica famiglia: il ramo degli Angiò
di Provenza e quello degli Angiò-Durazzo re d’Ungheria. Questi due rami della stessa famiglia si
combatterono per settant’anni, fino a che il re d’Aragona, Alfonso il Magnanimo non conquistò e
unì il regno di Napoli ai domini della corona d’Aragona: a questo punto questa corona aveva sotto il
suo controllo Baleari, Sardegna, Sicilia, Napoli, l’intero bacino del Mediterraneo e Barcellona.
Durante questo periodo i baroni riuscirono ad accrescere il loro potere e a costruire addirittura degli
stati semi-indipendenti. Nel 1443 Alfonso d’Aragona da poco diventato re di Napoli confermò a
molti feudatari. L’alta giustizia civile e penale, oltre a un enorme numero di privilegi fiscali e
giurisdizionali minori. Il principe di Taranto, Orsini riuscì a costruire un esteso dominato regionale
che comprendeva gran parte della Puglia e della Basilicata. Il progetto del principe di Taranto
sembrava puntare verso il riconoscimento di una vera autonomia del regno, e ci sembrò riuscirci
quanto Ferrante di Aragona nel 1462 gli concesse il privilegio di non prestare omaggio feudale al re,
tuttavia l’anno seguente, in seguito alla morte di Orsini, lo stesso Ferrante invase i suoi territori e
smantellò il regno.
La parabola del principato tarantino è indicativa di una dimensione ambigua e ambivalente dei
rapporti tra feudalità e regno. I poteri concessi ai baroni si inserivano all’interno di una condivisione
con il re dell’amministrazione della vita pubblica del regno. Non erano dunque forze esterne allo
stato. La riforma del fisco volta da Alfonso il Magnanimo aveva razionalizzato la fiscalità diretta
con la refezione di catasti per censire le proprietà dei sudditi e tassarli n proporzione ai beni. Il re
aumentò anche le entrate indirette a cominciare dai dire provenienti dalla dogana delle pecore
alimentata da una ricchissima transumanza delle greggi, oltre alla formazione di un esercito
permanente. Il punto di forza del regno di Aragona a Napoli fu proprio la collaborazione fra
amministrazione della giustizia affidata ai baroni e riscossione delle tasse affidata alle città.
Anche gli stati repubblicani passarono momenti di instabilità dovuti ai difetti dei sistemi
istituzionali. Nonostante congiure, cambi di regime e governi provvisori affidati a condottieri come
Gualtieri di Brienne, Firenze rimase una repubblica, ma nel XV secolo le cose cambiarono. Si
affermò una corrente che riteneva la stabilità dello stato più importante della legalità repubblicana.
In termini generali si può dire che l’élite rivendicava l’autonomia della politica dal diritto e fece di
tutto per affermare una forma di governo oligarchica: un vertice ristretto che prendeva le decisioni
più importanti e un’ampia base popolare, esclusa dalle istituzioni, ma coinvolta nelle sorti dello
Stato. Uno degli strumenti più importanti in questa direzione fu la costruzione graduale del monte
delle prestanze, un istituto che stabilizzava il debito pubblico del comune. Il comune chiedeva da
tempo prestiti volontari ai cittadini, e decise di riconsegnare non più il capitale ma solo gli interessi
in rate annuali. Dopo un primo tentennamento i cittadini accettarono e comprarono delle cedole del
debito pubblico: davano denaro in prestito e ricevevano nel tempo gli interessi. Il comune rese
possibile vendere le cedole e usarle quasi come un nuovo tipo denaro cartaceo. Lo stato ottenne così
enormi quantità di denaro che usò per finanziare la sua espansione in Toscana.
Questo sistema di gestione del debito pubblico era in uso in altri due grandi stati repubblicani:
Genova e Venezia, i centri di uno sviluppo economico eccezionale su scala mediterranea. Genova e

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Venezia avevano infatti costruito vasti domini coloniali a carattere commerciale, dalle coste africane
alle isole dell’Egeo. Venezia aveva sottomesso una lunga fascia costiera della Dalmazia.
L’oligarchia finanziaria aveva in questi due stati un giro d’affari molto superiori a quelli degli altri
comuni italiani. Il modello veneziano pose molta attenzione agli equilibri di potere tra le élite
urbane tramite controlli incrociati tra un ufficio e l’altro, e ciò permise di evitare guerre civili.
Naturalmente si trattava di una società politica bloccata. Dal 1297 una serie di norme del Maggior
Consiglio individuò le famiglie nobili che potevano partecipare al governo inserendole n elenchi
fissi. L’oligarchia dunque era chiusa e rinnovata con prudenza, capace di cointeressare grandi
porzioni della popolazione veneta nell’espansione commerciale verso il Mediterraneo.
Si accese una violenta competizione tra il ducato milanese e gli stati forti della penisola: con
Firenze in primo luogo che contrastò duramente il tentativo egemonico dei Visconti nell’Italia
centrale, con Venezia ormai potente sulla Terraferma e abile nel creare alleanze prima a favore e poi
contro Milano, con lo Stato della Chiesa che cominciava ad agire come potere di interposizione
contro ogni movimento egemonico. Un gioco di spinte e controspinte misero in evidenza come i
problemi italiani sarebbero potuti essere risolti solo in un contesto europeo.
Tutti i regni dovettero affrontare le resistenze di istituzioni assembleari rappresentative che si
ponevano come potere esterno alla monarchia, anche se non sempre in conflitto con essa. Il
rapporto con queste assemblee fu decisivo per i re. In alcuni casi dovettero far fronte a una
supremazia di fatto di questi corpi intermedi, concedendo loro poteri amplissimi, al limite
dell’autonomia. In altri la contrattazione fu più serrata e diede modo al re di usare le assemblee per
entrare in contatto con le forze sociali più rappresentative delle regioni. La forma monarchica si
affermò perché riuscì a rendersi più conveniente dell’alternativa, inglobando e collaborando con i
poteri signorili invece di combatterli apertamente.

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Società politiche del basso medioevo. Un processo di integrazione


conflittuale

Le regioni contavano solo nella misura in cui venivano riconosciute come regioni di un regno, e
dunque la distribuzione delle risorse e la contrattazione dei carichi fiscali dovevano venire discusse
nelle assemblee rappresentative, luoghi di mediazione degli interessi dei re e delle esigenze locali.
Queste assemblee tuttavia non erano del tutto rappresentative nel senso che il voto dell’aristocrazia
era molto più pesante di quello del popolo. Si confermò un grande corpo della nazione sotto
all’autorità del re che doveva rimanere immobile nel disegno organico di una società divisa per ceti
sociali a cui venivano affidate stabilmente funzioni diverse.

Immagini e ideologie del re

A dispetto delle discontinuità dinastiche delle monarchie fra Tre e Quattrocento si diffuse sul piano
rituale una nuova rappresentazione dell’autorità regia. L’ingresso dei giuristi e dei teologi negli
organi consigliari portò grandi passi in avanti nella concezione ideologica della monarchia. Manuali
di storia insieme a trattati e scritti di propaganda crearono nuove immagini del sovrano onnipotente
voluto da Fio come guida naturale della società e padre misericordioso del popolo.
L’ingresso dei giuristi nelle corti europee risale almeno alla metà del Duecento, in seguito
all’affermazione delle università che portò il diritto ad affermarsi come vera e propria scienza,
fondamentale per la gestione di un regno. I giuristi di cui si servivano i sovrani provenivano da
università come Bologna, Montpelllier, Orléans, e Tolosa. Conoscevano la legge insieme al
funzionamento della macchina pubblica e scrivevano sapendo bene quali erano le implicazione
delle loro teorie. Si impose dunque che la deroga sulle leggi del regno doveva essere vincolata ad
una ragione di urgenza, uno stato di necessità impellente. Tuttavia i giuristi di Orléans, grandi
sostenitori della monarchia, affermavano che tale ragione era implicita e non doveva essere
dichiarata.
In Inghilterra il potere del re fu legato indissolubilmente alla legge, con Henry Bracton eliso “Le
leggi e le consuetudini dell’Inghilterra” scrive che il re era comunque sottoposto alla legge, poiché
è la legge che fa il re. Si tratta di una visione antiassolutista.
La debolezza delle dinastie portò alla formazione di un concetto legato alla corona, una astrazione
personificata del regno investita di beni e diritti pubblici inalienabili. In Inghilterra questo successe
relativamente presto, mentre in Francia comincia a comparire nel 1319 in alcuni documenti e nel
1361 abbiamo il primo documento che attesta un giuramento di non alienare i beni della corona da
parte di un re.
La natio comune era un legame naturale che imponeva che il re di una nazione fosse originario della
stessa. Il re straniero era considerato un usurpatore innaturale.
Le correnti filo-monarchiche molto forti in Francia e Castiglia legarono il re al volere divino. Già
dal Duecento il re francese veniva chiamato dal papa re cristianissimo per la difesa della chiesa.
Anche i teologi si impegnarono nella materia della riflessione sulla monarchia, scrivendo gli
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<<specchi dei principi>> in cui si riprendevano esempi di re virtuosi della bibbia per guidare le
azioni inevitabilmente violente dei re verso la misericordia, la protezione dei poveri, e l’amore per
le celebrazioni religiose.

L’amministrazione del regno: corti, ufficiali e fiscalità

Si venne a costruire un sistema burocratico a più livelli, sulla scia. Degli esperimenti dii governo dei
re del XIII secolo. Si ebbe un rafforzamento sensibile dell’amministrazione centrale articolata in
organismi sempre più complessi.
Organi centrali, uffici territoriali, e sistema fiscale sono elementi che troviamo in tutte le monarchie
europee. La burocrazia pubblica giocava un ruolo importante per diversi motivi:

• Favoriva una vita autonoma del regno anche senza re come capitava in Europa tra il XIV e XV
secolo.
• Assicurava una presenza sui territori di un corpo di ufficiali che rappresentavano il re in quel
luogo.
• Permetteva la promozione del ceto intermedio urbano, favorendo gli esponenti più dinamici delle
classi cittadine che avevano facilmente accesso a una formazione di base.

Le funzioni della corte erano essenzialmente tre: fornire al re un consiglio ristretto nato da una
costola della curia regia, la cui composizione poteva variare, infatti poteva contenere i principi di
sangue, i grandi feudatari e i loro vassalli.
Le funzioni della corte furono assegnate all’Hotel del re, che comprendeva gli ufficiali al servizio
diretto del re fra cui spiccava il cancelliere esperto della legittimazione delle disposizioni
monarchiche.
L’attività dei conti era svolta dalla camera dei conti retta da due presidenti, un chierico e un laico,
oltre a otto maestri. La sua funzione era quella di controllare due volte all’anno gli uffici locali
(balivi) ed era investita anche di poteri giudiziari. Una parte importante del potere giudiziario era
giocato dal parlamento che in Francia non era un organo consultivo ma giudiziario. La corte inglese
consegnò sempre maggiori poteri ai tribunali regi e allo scacchiere che controllava la contabilità
degli uffici locali. A partire dal Quattrocento si dorme una vera e propria classe sociale di funzionari
pubblici tra gli esponenti più dinamici dei ceti urbani.
Il re aveva di continuo bisogno di denaro che si era sempre basato sui legami vassallatici, anche se
non mancarono i tentativi di rendere il sistema finanziario più regolato e sistematico. In ogni caso
nell’Europa del Duecento non esisteva un sistema fiscale permanente. Il Trecento cambiò le cose in
modo irreversibile. I bisogni finanziari erano enormi e le spese per gli apparati militari
decuplicarono. Il sistema fiscale divenne il motore principale delle trasformazioni politiche dei
regni.
Il sistema fiscale assunse due forme: la diretta e quella indiretta. Quella indiretta era quella
composta dalle imposte messe sui beni prodotti o sui beni di consumo, i dazi doganali sulle merci

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importate o esportate e le gabelle suoi beni di prima necessità. Il peso di queste imposte ricadeva sui
consumatori in maniera indistinta: chiaramente i redditi più bassi erano i più colpiti. La gran parte
dei regni europei si basava sulle imposte di questo tipo.
Le tasse dirette invece gravavano sui beni appartenenti ai singoli o ai nuclei familiari. Si trattava di
imposte eccezionali che venivano suddivise in base alla ricchezza dei singoli. Per fare questo si
erano preparati dei catasti, ma non funzionarono perché era molto diffusa la falsificazione del
valore dei beni, dunque le imposte vennero evitate in molti modi dall’aristocrazia.
La questione fiscale aveva anche un aspetto politico e si basava sulla questione riguardo se il re
avesse o meno potere assoluto, ovvero se avesse l’autorità necessaria per imporre tasse anche senza
il consenso dei grandi del regno. I sostenitori monarchici dicevano che il re era legittimato a fare
qualsiasi cosa se avesse aiutato il paese in caso di emergenza.

Assemblee e parlamenti: la società locale nei sistemi monarchici

I re dovettero richiedere sempre più denaro con l’aumentare dei territori del regno. Per fare questo
dovettero rivolgersi alle assemblee rappresentative come i parlamenti. In Inghilterra il Parlamento
diviso in una camera bassa dei Comuni e una camera alta dei Lords. In Francia gli stati generali
erano composti da tre ordini: uomini di chiesa, nobiltà e borghesi. Si distinguevano stati provinciali
che discutevano problemi locali da sottoporre al re o eleggevano i rappresentanti della regione per
gli stati generali, che discutevano con il re di questioni economiche e politiche.
In Spagna c’erano le cortes che in Castiglia comprendevano solo le città ma ne escludevano i nobili,
mentre in Aragona e nelle città catalane la formazione di Deputazioni stabili delle cortes aveva
consegnato nelle mani delle assemblee di eletti un vero potere di controllo sull’operato del re.
Ampia autonomia anche alle Diete imperiali distinte in tre ordini: ecclesiastici nobili e di città.
Erano convocate quando si discuteva di argomenti militari o economici.
Il sistema guerre-tasse-assemblee divenne il meccanismo di base dea monarchia.
l’Inghilterra è il regno che più ha usato il sistema delle assemblee sia sotto la forma del parlamento
che affrontava casi giudiziari e questioni politiche sia ricorrendo al Consiglio nazionale del re,
un’assemblea composta dai grandi e dai rappresentanti delle città. Anzi all’inizio il parlamento era
una riunione particolare del consiglio nazionale. I motivi di questi riunioni riguardavano le richieste
finanziarie del re che presupponevano pesanti imposizioni fiscali nei territori del regno. Il re
chiedeva aiuto al parlamento che lo accordava solo dopo aver deliberato e votato. Non si trattava di
una semplice formalità. Da tempo nel regno inglese dare soldi al re era un atto. Politico: le domande
di aiuto dovevano essere commisurate al grado di fedeltà del re ai suoi impegni, alla legittimità
della richiesta e alla utilità per il regno. Nel corso del Duecento il parlamento si riunì in maniera
crescente e addirittura in pianta stabile dal 1284, momento in cui i giuristi si impegnarono a trovare
una giustificazione teorica della loro utilità nel principio romanistico che ciò che riguarda tutti deve
essere approvato.
Non si votava solo se concedere o meno aiuto, ma si presentavano al re lamentele
sull’amministrazione pubblica, si disponevano riforme sullo stato del regno, nuovi regolamenti da

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sottoporre al re e si negoziavano privilegi locali e favori. Queste assemblee svolgevano funzioni


legislative o dirette come in Aragona o indirette come in Inghilterra, in cui la legge era concessa dal
re in cambio di aiuto finanziario. In Inghilterra le decisioni del parlamento erano chiamate statuti,
non potevano essere modificate dal re ma solo da un altro statuto.
Queste assemblee conservavano alcune caratteristiche strutturali che è bene ricordare.

• Erano temporanee e venivano convocate con una periodicità decisa da caso a caso.
• Avevano una rappresentanza sociale limitata, vale a dire che, salvo il caso castigliano non
rappresentavano tutti gli ordini nello stesso modo.
• Non erano contro la monarchia, anzi la sostennero.
• Fissarono la divisione in ordini conferendo alla nobiltà potere politico che conservò per molto
tempo.

Nonostante la presenza dei tre ordini e i criteri elettivi usati per alcuni di essi, queste assemblee non
erano rappresentative nel senso moderno del termine poiché la composizione sociale all’interno era
molto sbilanciata. I rappresentati delle città erano spesso in minoranza e non erano consultati in tutti
i casi, ma solo in quelli che riguardavano direttamente le città come le tassazioni dirette. Nel
parlamento inglese si osservava una gerarchia precisa: dovevano essere convocati per primi e
individualmente i membri del clero, arcivescovi, vescovi, abati, e priori che erano anche detentori di
una baronia; poi i baroni e i conti o i proprietari terrieri di alto livello. A seguire i cavalieri, eletti
due per ogni contea; poi i cittadini di Londra e di altre città, i rappresentanti dei borghi sempre in
numero di due per ogni località.
La frequenza delle assemblee rimase senza periodicità fissa nel corso del XIV e XV secolo, e la
frequenza dipendeva dalla funzione delle assemblee e dalla regione in cui si tenevano. Nei territori
con molte città come la conta di Fiandra e i Paesi Bassi o nelle città tedesche le riunioni erano
frequenti. Gran parte delle assemblee francesi, spagnole e tedesche riguardavano territori regionali a
prevalente interesse agrario e furono convocate secondo una frequenza relativamente lenta, con una
media di una o due volte l’anno. Nel corso del XV secolo ci fu però una drastica riduzione delle
convocazioni delle assemblee, e questo mette in dubbio la loro caratteristica anti-monarchica. In
Castiglia le assemblee furono esplicite nell’appoggio alla monarchia, poiché il re era stato scelto da
Dio, era il tutore del popolo e sottometteva tutti al suo volere per il bene comune. I rapporti tra
assemblea e re vengono esemplificati dall’assemblea degli stati generali a Tours del 1484, in cui
questi si opposero alle richieste fiscali spropositate del re, ma allo stesso tempo il re fece di tutto per
trasformare l’occasione in una gentile concessione del re al popolo.
Anche i più accesi sostenitori del diritto di resistenza degli stati non misero mai in dubbio la
legittimità del re come potere superiore e di origine divina. La limitazione al potere del re poteva
provenire solo da lui stesso e non dal popolo.
Le assemblee avevano nella nobiltà il loro punto principale, poiché era la fetta di popolazione più
potente che agiva da rappresentante sia della nobiltà sia dei comuni. Numerosi infatti erano i
rappresentanti dei comuni che erano anche ufficiali regi e dunque legati al re. Le assemblee non

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erano dunque un blocco di resistenza contro il re ma un insieme sociale ogni volta diverso che in
parte era manipolato dall’aristocrazia, che aveva reti clientelari nelle regioni che rappresentavano. A
partire dal XV furono convocate sempre più raramente e ebbero sempre meno potere di proporre
politiche autonome dal potere del re. Questo per tre motivi:

• Reintegrazione dei beni della corona che rese superflua la tassazione.


• Esenzione della nobiltà dalle imposte ordinarie che pesavano ora solo sui contadini
• Tassazione ordinaria non veniva più contestata anzi veniva accettata.

La nobiltà nel Quattrocento penetrò nell’amministrazione del regno, andando a coprire le cariche
ufficiali maggiori nei territori, oltre a contrattare con il re privilegi pesanti che finirono per far
recuperare ai nobili molte delle competenze perse in favore degli ufficiali regi nei secoli precedenti.
In Francia le continue guerre potarono alla valorizzazione delle funzioni militari.
In Inghilterra la creazione di una nuova figura di ufficiali locali: i giudici di pace, permettevano a
potenti locali di accedere al potere giudiziario e di polizia.
In Spagna la nobiltà rimase sempre abbastanza potente da condizionare la politica territoriale.
Inoltre la parte più alta dei titulados poteva contare su territori quasi indipendenti dal potere del re,
chiamati estados, oltre che su una rete fittissima di clienti nella media nobiltà dei cavalieri e dei
letrados di origine urbana. Il potere de nobili crebbe ancora d più quando nel Quattrocento i re
permisero loro di riscuotere le tasse nei loro stessi territori.
I re inoltre cercarono di coinvolgere la nobiltà in forme private della gestione del potere, si
chiamavano infatti privados coloro che venivano inclusi nella privanza del re e a cui venivano
affidate alcune funzioni di governo come especiales servidores. Il servizio regio divenne un fattore
di prestigio, di conferma pubblica della propria nobiltà e potenza politica. Questa inclusione della
nobiltà accrebbe il potere della monarchia, e segnò l’ingresso di clientele non più feudali nel
sistema di governo, attraverso la promozione di esponenti a ufficiali o la vendita di cariche regie a
vita. Più lo stato riusciva a distribuire quote di potere pubblico alla nobiltà territoriale più il
successo aumentava.

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Gerarchie sociali alla fine del medioevo

Crisi e ristrutturazione dei rapporti sociali nelle campagne

Il basso medioevo si apre con una crisi acuta dei processi produttivi ed economici delle società
europee. In primo luogo una serie di carestie molto ravvicinate indebolì le popolazioni urbane e
rurali dal 1315-1322. Le guerre come quella dei cento anni portarono devastazione delle regioni in
cui furono combattute e un incremento delle tasse. Un esborso improvviso di denaro richiedeva un
indebitamento, cosa che riguardò sia signorie laiche che ecclesiastiche. A questo si aggiunse la peste
del 1348.
Questa colpì duramente città e campagne europee, arrivata attraverso navi provenienti da porti
orientali la peste si diffuse in tutta Europa, dall’Italia alla Germania del nord. I dati sulla mortalità
sono incerti perché le cronache ingigantivano i dati per via della convinzione di trovarsi di fronte
alla fine del mondo. Le città stando alle fonti demografiche si spopolarono del 50%. Nelle
campagne la situazione era aggravata da un meccanismo di impoverimento causato dalla fiscalità
pubblica urbana o signorile. Le tasse erano imposte base alla popolazione che però era variata molto
per via del morbo.
I rapporti agraria Europa furono dominati da due forme di affitto a lungo termine, o dieci o
ventinove anni, rinnovabili fino a tre generazioni, o addirittura perpetue. I contadini erano tenuti ad
un pagamento in natura o in denaro. In un periodo di tempo così lungo che andava dai 29 ai 90 anni,
il contadino acquisiva una certa disponibilità della terra anche se non era il proprietario. Si definiva
diritto pesante quello che regolava il possesso della terra da parte di colui che la coltivava.
Il passaggio dal canone in denaro al canone in natura modificò la struttura della rendita fondiaria in
molte realtà basso medievali. I motivi furono diversi: crescita della domanda dei beni in città, i
mercati cittadini divennero in pochi anni centri di scambio troppo grande per essere soddisfatti dalla
miriade di piccoli e medi proprietari che popolavano le campagne. Ne erano in grado però le
aziende agrarie ecclesiastiche.
Nel corso del Duecento nei paesi a più alta densità urbana una parte consistente della proprietà
fondiaria passò in mano al ceto di speculatori attivi nel commercio e nel settore finanziario che
avevano accumulato enormi ricchezze nella prima metà del Duecento come i banchieri che si
arricchivano sui guadagni dei cambi e dei prestiti usurai, i mercanti, gli strati alti del ceto
artigianale. Lo si vede bene nei catasti e negli estimi trecenteschi delle città comunali.
Iniziarono a fiorire contratti di affitto sperimentali in forme ibride ì. La novità era la brevità dei
contratti come cinque o tre anni. Si causò così maggiore precarietà dei posti di lavoro, allo stesso
tempo contadini dovettero apportare migliorie alle terre a loro assegnate come nuove colture
specializzate, fossati e irrigazione dei terreni, arature ripetute eccetera.
In Italia nelle zone con più concentrazione della popolazione urbana ci fu la mezzadria: un contratto
a breve termine che prevedeva una spartizione a metà tra il proprietario e il contadino. Questo tipo
di contratto ridisegnò i rapporti sociali in quanto condizionava la dimensione delle famiglie e
l’insediamento di una famiglia per ogni podere.
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Nel corso del Duecento il contadino si vide aumentare gli obblighi a cui era sottoposto, prima alla
fornitura delle scorte di semi e di animali, definire il calendario dei lavori con l’obbligo di inserire
nuove colture nel corso dell’affitto. Con l’affermarsi del sistema dei poderi (fondi di un unico
proprietario affidati a un conduttore e la sua famiglia, la mezzadria acquisì i caratteri stabili che
conservò per tutta l’età moderna. L’impegno del mezzadro fu esteso alla residenza obbligatoria
nella casa sita al centro del podere e si avvertì la necessità di definire nel contratto anche i compiti
dei singoli membri della famiglia che era diventata l’unità produttiva della mezzadria.
Anche in molte regioni europee il servaggio venne sostituito con rapporti parziari perché la gestione
della terra era diventata troppo onerosa per i proprietari: in Francia si chiamavano fermages o
metayages, in Inghilterra si registrò alla fine del del XIV secolo la fine del servaggio e la diffusione
di unità produttive affidate a contadini in affitto di breve durata coordinati da un funzionario di
livello intermedio chiamato firmarius. Emerse uno strato di contadini più elevato responsabile della
conduzione dei fondi nei confronti del proprietario, mentre i contadini più poveri furono vincolati a
contratti sempre più severi, pena la revoca del fondo.
Si crearono intensi movimenti di contadini verso le zone più produttive come l’Italia padana che
vide una fiorente attività di artigianato legato alla lavorazione di materie prime pregiate. In
Inghilterra e in parte in Spagna si scelse di convertire parti dei possedimenti fondiari dalla
coltivazione al pascolo per l’allevamento i ovini per la produzione laniera.
La concentrazione su nuove colture specializzate portò all’abbandono delle zone meno fertili da
parte dei padroni, soprattutto perché i contratti più brevi portarono alla nascita di un bracciantato
stagionale sempre in movimento e senza terra. Nei momenti di maggiore crisi queste persone si
rifugiavano in città in cerca di fortuna migliore, ma le condizioni di vita erano in netto
peggioramento.

La trasformazione del mondo del lavoro in ambito urbano: i salariati

Nelle città vi era molta diffidenza contro gli immigrati dalla campagna, ne è prova la legislazione
sempre più severa e restrittiva nei confronti degli immigrati, al fine di tutelare i propri privilegi.
A Perugia, Bologna, Firenze e Siena si emanarono norme contro i contadini appena immigrati in
città, proponendo un loro allontanamento, obbligandoli ad iscriversi negli estimi urbani per pagare
le tasse, limitando la loro partecipazione alle cariche politiche.
Nel tre-quattrocento le città erano per metà costituite da artigiani, si crearono due canali di
reclutamento dei lavoratori: da un lato i giovani apprendisti figli di maestri o futuri maestri già in
possesso di una loro bottega; dall’altro i giovani inservienti senza mezzi. Questi erano i salariati,
operai, lavoratori. Questi dipendevano in tutto e per tutto dal proprietario della bottega.
Si diffuse dunque la rigidità di inquadrare le arti in corporazioni e in una gerarchia di mestieri,
l’ingresso alle corporazioni era riservato ad un ridotto numero di individui e solo in seguito al
superamento di un esame molto difficile. Le arti maggiori a Firenze comprendevano i mercanti, il
cambio, l’arte della lana, della seta, i Pellettieri, i Giudici e i Medici.

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Ci fu un declino delle condizioni degli strati intermedi degli artigiani urbani, non erano rari i casi di
maestri che tornavano apprendisti o apprendisti che rinunciavano ad aprire una loro bottega. Il ceto
operaio si stava declassando, e questo significava per loro dover prestare la loro opera a tempo per
una giornata o una settimana, oppure a cottimo senza un rapporto di lavoro fisso. Il numero di
questi lavoratori si moltiplicò nella prima metà del Trecento. L’apertura di grandi cantieri edili in
molte città europee per la costruzione delle cattedrali e delle abitazioni in città ne favoriva la
crescita. Si venne a creare una classe sociale di non proprietari che potevano solo vendere il proprio
lavoro, senza avere reali possibilità di radicarsi, comprare una casa o partecipare alla vita politica
della città. Nel pensiero del Due-Trecento sembra riemergere l’antica diffidenza per le arti manuali
del mondo greco-romano. La testimonianza degli artigiani in tribunale non era ammessa, e venivano
posti limiti alla loro possibilità di estendere il loro giro d’affari. Erano diffidati da parte dei teologi e
dei ceti urbani dirigenti che limitavano l’ingresso dei lavoratori meno abbienti nelle istituzioni
cittadine, soprattutto quelle di vertice. In molte città era necessario avere un reddito alto, 50 lire per
accedere al consiglio cittadino, in altri casi la partecipazione era preclusa in maniera diretta a chi
svolgeva mestieri artigiani.
Dopo la peste del 48 i vuoti della popolazione urbana crearono una situazione favorevole ai
lavoratori: erano pochi e più richiesti rispetto agli anni precedenti l’epidemia. La scarsità di
manodopera sembra un fenomeno diffuso in tutte le città europee. Quasi ovunque era diventato più
difficile trovare lavoranti ordinari o specializzati. I capibottega si indignarono davanti alle richieste
di contrattazione del proprio salario da parte dei lavoratori, e li incolpavano di avidità. Numerosi
interventi legislativi erano iniettati a limitare il potere contrattuale dei garzoni, e costringere questi
ad accettare qualsiasi impiego venisse loro offerto. Queste normative ebbero un effetto limitato,
poiché dopo la peste i salari continuarono a salire. Un numero assai alto di rivolte nelle campagne
turbò la vita ordinata delle città europee, in realtà già attraversate da crisi ricorrenti dovute alle
guerre e alle epidemie. Si trattò di sollevazioni violente che portarono all’instaurazione di governi
provvisori composti in maggioranza da piccoli artigiani alleati ad alcuni esponenti della borghesia
mercantile. Le rivolte più importanti furono quelle che riuscivano a legare le rivolte dei contadini
con quelle dei cittadini, così successe nel XIV secolo a Parigi con le rivolte contro il re di Francia
durante la guerra dei cent’anni. L’episodio più noto fu il governo provvisorio di Etienne Marcel il
prevosto dei mercanti che aveva rappresentato il malcontento dei borghesi di Parigi per l’eccessivo
carico fiscale imposto dal re Giovanni il Buono.
Nel 1356 i mercanti avevano mal tollerato la nuova imposta di guerra, e con la prigionia del re e la
sconfitta della cavalleria Poitiers i borghesi parigini tentarono il governo popolare diretto da Marcel.
Questo apparteneva alla grande borghesia mercantile ma si appoggiò alla piccola borghesia
artigiana per mettere in piedi un governo cittadino nel 1357. La crisi stava però colpendo anche le
campagne. I lavoranti guadagnavano di più ma i contadini nelle campagne pagavano di più per i
beni a loro necessari. Dunque nelle campagne vicino a Parigi i contadini si rivoltarono contro i loro
signori nel luglio de 1358, il movimento prese il nome di jacquerie e si accanì contro i piccoli nobili
di campagna, quelli più vicini ai contadini accusati di non difendere il paese dalle scorribande delle
truppe nemiche e di aumentare i prelievi. Attaccarono i padroni e le loro proprietà bruciando i

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castelli. Marcel pensò di poter inglobare questa rivolta ma la media borghesia si spaventò della
violenza dei contadini e decretò la caduta del governo di Marcel, che fu ucciso nel 1358, mentre
rientrò a Parigi l’erede al trono e tolse di mezzo i pochi seguaci rimasti per iniziare una politica di
pacificazione.
In Inghilterra invece ci fu una rivolta nel 1381, scoppiata anch’essa nelle campagne e portata in città
dai rivoltosi ed ebbe un esito simile. La rivolta dei contadini era nata in seguito alla pressione
fiscale della Polltax, una tassa diretta ma non proporzionale da pagare in base al numero delle
persone, che diventava molto pesante per i poveri. I rivoltosi arrivarono a Londra e vennero accolti
dalla popolazione in accordo col basso clero, aiutandoli nell’attacco ai palazzi della nobiltà. Il re fu
costretto a trattare, concedendo l’abolizione della servitù e altri privilegi. La. Rivolta venne domata
comunque e il capo delle bande contadine, Wat Tyler fu impiccato insieme ad altri.
In Italia la rivolta dei Ciompi fu più complessa: i ciompi erano lavoratori salariati del tessile che
insieme ad altri lavoratori pose la questione della rappresentanza interna alle arti, si chiesero la
formazione di nuove arti minori e uno spazio nel governo che in quegli anni a Firenze era occupato
da una rappresentanza delle Arti. Esigevano riforme importanti come la determinazione dei salari e
la riforma fiscale. I ciompi riuscirono a formare un governo nel 1378 e si mostrarono subito
particolarmente ostili ai monti che consentivano ai cittadini benestanti di ricevere gli interessi sul
debito, finanziati con le tasse imposte ai ceti bassi. Questo portò ad una feroce repressione dei
piccoli artigiani.
Nelle rivolte ci furono punti in comune: la protesta contro il sistema fiscale troppo pesante sui
lavoratori, oltre contro l’utilizzo improprio delle tasse da parte dello stato. Lo sfruttamento del
denaro prelevato dalle campagne a favore della speculazione finanziaria che aveva luogo in città.
Per capire le reali condizioni del salariato è necessario conoscere i bisogni primari dei lavoratori,
l’andamento dei prezzi e rapportare questi dati al salario. Diversi tentativi di calcolare il costo della
cita sono stati fatti per l’Inghilterra o pre la Toscana della metà del Trecento, stimando quanta pare
del salario fosse necessaria per acquistare il pane sufficiente ad assicurate l’apporto calorico per una
giornata.
Non esistevano due insiemi sociali chiusi e definiti fra poveri e non poveri, poiché la condizione
dell’individuo dipendeva dal ciclo di vita in cui si trovava (celibe, coniugato, con figli) a cui si
aggiungevano gli imprevisti, che caratterizzavano l’epoca del XIV secolo più delle precedenti.
Le classi lavoratrici di questo periodo si trovavano in una condizione di grave incertezza
economica, non erano sempre povere ma potevano diventarlo con estrema facilità.

Povertà e assistenza: nuovi modelli di solidarietà e la promozione di élite sociali

Per fronteggiare la povertà si fondarono ospedali confraternite chiese e monasteri che operavano
una redistribuzione delle donazioni ai poveri della città.
La predicazione francescana aveva avuto grande successo ispirandosi alla carità di Cristo. I rapporti
sociali dovevano essere regolati da amore assoluto verso il prossimo.

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La povertà francescana dipendeva da un atto volontario sostenuto da una riflessione sul valore delle
cose. Nelle fonti era definita come povertà volontaria.
I poveri involontari invece non erano considerati dal mondo ecclesiastico, erano divisi infatti in
poveri meritevoli guidati dalla carità ricevuta e poveri oziosi che spendevano le elemosine in
taverna senza lavorare. Era necessario indirizzare le elemosine verso i poveri di Cristo ovvero quelli
selezionati dalla chiesa. La carità richiedeva discernimento, capacità di discernimento, distinguere
le situazioni sociali secondo una logica dei bisogni che solo i religiosi potevano comprendere.
Il panorama delle città europee fu influenzato dallo sviluppo di numerosi istituti assistenziali fra tre
e quattrocento. Molte confraternite si specializzarono nell’assistenza ai propri iscritti e
all’elemosina verso i più bisognosi. Accanto alle loro sedi vennero costruite piccoli ricoveri per soci
anziani e malati. Lentamente il carattere medicale delle strutture di accoglienza iniziarono a
estendere l’ospitalità a persone malate e deboli. Nel corso del 300 gli ospedali si moltiplicarono.
Questi mantennero sempre un carattere di assistenza i poveri con redistribuzione di elemosine. Uno
degli ospedali più grandinar quello di Orsanmichele che contava 707 assistiti nel 1324 e 3760 alla
metà del secolo.
La maggioranza dei poveri di Cristo erano donne, madri di famiglie numerose, vedove, malate,
giovani da sistemare. Le donne sposate erano sempre la maggioranza.
Le donne erano oggetto anche di altri tipi di assistenza garantita istituti specializzati: per esempio
gli ospedali per il lato e le confraternite specializzate nel fornire le doti alle giovani donne povere al
momento del matrimonio. La funzione di dotare le giovani povere aveva anche un esplicito
significato morale: salvare le giovani dalla prostituzione.
La carità era dunque oggetto di decisioni politiche ben precise: doveva essere convogliata in
istituzioni specializzate in opere pie selezionate da religiosi, che a loro volta agivano in funzione del
decoro collettivo, e dunque accordavano la carità a coloro che sarebbero stati in grado di fornire un
ricavo alla società in cambio. Gli oziosi e i poveri mendicanti non meritavano aiuto. Il modello
cristiano presentava così due categorie sociali accettabili: il povero laborioso e il ricco generoso.
Gli ospedali servivano anche a tenere lontani i poveri dal mendicare in giro per la città.
La politica dell’utilità prevedeva il riutilizzo di forza lavoro a basso costo che altrimenti sarebbe
rimasta inattiva: persino gli orfanotrofi come lo Spedale degli Innocenti, nato sotto la potente arte
della Seta a Firenze, allevava i bambini per poi impiegarli una volta cresciuti nelle botteghe.
L’etica economica del tempo condannava l’avidità e l’accumulazionie di capitale, e incoraggiava
invece gli investimenti mettendoli in comune in un sistema di scambio fondato sulla carità. Arbitri e
interpreti di questo erano gli uomini di chiiesa.
I francescani erano al centro della riflessione sull’economia, venne ripreso da loro il termine
<<monte>> come luogo di grazia di Cristo, che fu assegnato alle istituzioni laiche che mettevano in
comune le ricchezze della città per distribuirle ai bisognosi.
Monti erano chiamati dunque gli istituti fondati su capitali messi in comune con scopi morali. I
monti delle doti attivi nel XV secolo si incaricavano di fornire alle donne nubili una dote prima del
matrimonio. altri, i monti di pietà erano indirizzati al credito, prestavano alle persone povere dietro
consegna di un pegno anche di poco valore.

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In molte città soprattutto in quelle italiane l’élite economica divenne anche un’élite politica e di
governo che monopolizzava le cariche e controllava l’economia della città, la redistribuzione dei
beni e di ricchezze nella società urbana. I compratori delle quote del monte di debito divennero i
controllori della politica del comune. Si crearono istituti che gestivano le finanze pubbliche in
forme apertamente speculative.
A Bologna nel quattrocento il sistema finanziario del comune fu appaltato a una società di persone:
il credito di Tesoreria. I membri della Tesoreria prestavano al comune in anticipo una somma
prestabilita e prendevano in gestione le entrate pubbliche, cioè riscuotevano per conto del comune
tuta i dazi e le imposte indirette. Iil meccanismo era percorso poiché trasferita a una società privata
le entrate pubbliche. In realtà era tutto sotto controllo: i membri della Tesoreria erano eletti dalle
stesse famiglie che componevano il Senato e l’ufficio dei sedici Riformatori, cioè l’élite politica
della città. Un’élite bifronte e sdoppiata in apparenza: pubblica al senato e privata nella tesoreria,
ma espressione unica di un potere cittadino che controllava l’economia urbana per conservare il
potere politico.
La chiusura dell’accesso agli uffici riservate a persone fidate, continuò per secoli. Nuovi ingressi
erano possibili solo per cooptazione delle istituzioni di vertice. I consigli, i senati o le assemblee
sceglievano con cura a chi accordare tale privilegio. Per diventare parte dell’élite non era sufficiente
essere ricchi, bisognava entrare nel circolo degli ufficiali, dei magistrati, dei tesorieri, delle persone
capaci di stare nelle istituzioni: la direzione delle finanze pubbliche, l’appartenenza alle
confraternite, il patronato di ospedali o il finanziamento di istituti caritatevoli erano tutte attività
necessarie a guidare le comunità attraverso il controllo dello scambio sia dei beni materiali sia delle
virtù all’interno della cittadinanza.
La grande nobiltà fu riassorbita nello Stato attraverso nuovi incarichi militari che assicuravano tra
gli altri privilegi, l’esenzione dalle tasse. La nobiltà accettò il potere sovrano, ma chiedeva una parte
dell’amministrazione dei territori del regno.
Anche una parte della borghesia urbana stabilizzò la sua presenza negli uffici centrali e
nell’amministrazione locale e si vide riconosciuta il privilegio di gestire la politica fiscale del re.
Dalla Francia al regno di Napoli alla Spagna le oligarchie cittadine furono incaricate di decidere
come ripartire le tasse, fra quali persone e in quali quantità. Funzione governativa come poche altre
come si è visto per le città italiane, che consegnava nelle loro mani la capacità di regolare i flussi
dello scambio economico secondo le regole comuni.
Le forme della costruzione di una eminenza sociale e politica furono dunque molteplici e irriducibili
a un modello unico, ma si fondavano su una trama fittissima di relazioni tra le componenti più
dinamiche delle società urbane e rurali degli stati. La partecipazione alle istituzioni pubbliche, la
guida delle istituzioni morali comunitarie e la fedeltà al regno costituirono il nesso vitale che tenera
in piedi il corpo della nazione.

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