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riassunto manuale di storia

Storia Medievale
Università degli Studi di Padova
65 pag.

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I. Il cristianesimo, religione di Stato


Il cristianesimo non era l’unica religione ad essere entrata nel mondo romano, ma il suo intransigente
monoteismo l’aveva reso inassimilabile con le altre. Diocleziano l’aveva avvertito come una minaccia
all’integrità. Era perciò mutata quella tolleranza che contrassegnava la politica romana nei confronti delle
religioni straniere. Il rifiuto dei cristiani si sacrificare agli dei e all’imperatore aveva portato alla ribellione.
Ma Costantino aveva intuito che il cristianesimo era compatibile con il suo dirigismo teocratico. Nel 313
l’editto di Milano aveva liberalizzato la professione del cristianesimo, restituendo alle comunità cristiane le
proprietà confiscate. Da quel momento, escluso il breve tentativo di Giuliano l’Apostata, il cristianesimo
aveva assunto un ruolo crescente nei progetti religiosi dell’impero. Nonostante la chiesa paleocristiana non
avesse ancora basi solide, ne la sua dottrina fosse ancora ben definita, l’appoggio della chiesa le avrebbe
attribuito forza, aiutandola nell’espansione. Costantino aveva accentuato i privilegi della chiesa dei cristiani
che si avviava a diventare uno dei pilastri dell’impero. Il cristianesimo si allargò negli ambienti colti che
chiedevano riflessioni approfondite. Gli interrogativi che più li assillavano erano relativa ad una coesistenza
nella figura di Cristo di una natura umana e una divina. Era esplosa una disputa intorno all’interpretazione
del cristianesimo sostenuta dal prete Ario e che da lui prese il nome di arianesimo secondo cui il Cristo non
aveva lo stesso grado di divinità del Padre ed era a lui subordinato. Questo era l’esempio della diversità tra
tutte le dottrine teologiche di quel tempo, si trattava quindi di diverse chiese locali e non di un'unica
universale. Costantino nel 325 in veste di pontifex maximus riunì il concilio di Nicea considerato il primo
dei ventuno concili ecumenici della chiesa. I rappresentati dell’elitè dei sacerdoti definì il dogma della
Trinità mettendo in minoranza Ario, la sua dottrina era stata definita eretica anche se aveva continuato a
diffondersi tra i popoli germanici, gravitando ancora all’interno dell’impero. Teodosio, imperatore orientale,
intervenne ancora una volta a favore della chiesa proibendo tutte le fedi non cristiane e l’arianesimo con
l’editto di Tessalonica del 380, e nel 391 proclamò il cristianesimo religione ufficiale dello stato, chiudendo
l’oracolo di Delfi e distruggendo i templi delle antiche divinità. Solo nei villaggi più isolati della campagna
rimasero vivi culti pagani, legati al ciclo della fertilità dei campi e a monti, sorgenti e boschi. La diffusione
della nuova religione non era stato un processo trionfale e indolore ma un graduale processo di
acculturazione che conobbe segni di resistenza e di attaccamento alla tradizione.

II. Il V secolo: fine annunciata di un impero


Gli Unni (gruppi di invasori mongoli e nomadi iranici) erano divisi in due grandi gruppi, gli Unni bianchi e
gli Unni neri, si erano spostati da oriente verso occidente arrivando fino ai confini dell’impero romano. Gli
Unni bianchi nel 484 erano arrivati fino al cuore dell’impero persiano dei Sassanidi, mentre gli Unni neri
erano comparsi al di qua degli Urali nel 370, spingendo in avanti i goti, i vandali e gli avari. Battuti nel 415
in Gallia nella battaglia dei campi Catalaunici gli Unni comandati da Attila nel 452 erano scesi in Italia,
saccheggiando numerose città, fino a quando non furono fermati sul Mincio. Da quel momento si erano
ritirati perché intimoriti dalla sacralità del pontefice Leone Magno che come narra la leggenda, ma in realtà
il loro slancio era arrivato al punto massimo. Rapidamente gli Unni scomparvero probabilmente assorbiti
dalle popolazioni locali.
Ma l’avanzata degli Unni aveva comunque avuto un effetto dirompente, in quanto aveva spinto i germani
all’interno dei confini nel tentativo di trovare scampo. Le popolazioni germaniche cominciarono a chiedere
di essere stanziate entro i confini dell’Impero come federate, quindi alleate e non più mercenarie. All’inizio
del V secolo la pressione dei barbari si faceva sempre più pesante. Nel 401 i Visigoti saccheggiarono
Milano, nel 406 gli Ostrogoti arrivarono in Toscana, tra il 408 e il 410 ancora una volta i Visogoti guidati da
Alarico assediarono Roma e la saccheggiarono. Nel 455 Roma fu nuovamente saccheggiata da Genserico e
dai sui Vandali. L’idea che fosse in atto lo smembramento del mondo è visibile dalla testimonianza di alcuni
scrittori dell’epoca. San Girolamo si chiede “che cosa si salverà se Roma perisce?”. La distruzione
dell’impero indusse molti uomini di cultura a ritirarsi dalla vita civile per dedicarsi alla costruzione di un
mondo interiore fatto di preghiera, come fece sant’Ambrogio che abbracciò la vita ecclesiastica. La
considerazione che anche la Roma creduta eterna stava per distruggersi era stata alla base delle riflessioni di
sant’Agostino. Le guerre contro le popolazioni che invadevano il suo territorio avevano creato dei grossi
problemi per i successori di Costantino. Combattendo contro i persiani era morto Giuliano l’Apostata.
Contro gli Alemanni e i Goti avevano combattuto Valentiniano I e suo fratello Valente.
Nel 349 era rimasto unico imperatore Teodosio, ma alla sua morte l’impero era stato diviso tra i suoi figli
l’oriente ad Arcadio e l’occidente ad Onorio, da questo momento le due parti dell’impero si mossero in
maniera autonoma. Fu la fine dell’Impero Romano d’occidente che scomparve nel 476, ma quello d’oriente
rimase in vita per altri mille anni con il nome di impero bizantino fino al 1453, quando Costantinopoli fu

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espugnata dai turchi. Quindi non si può parlare di fine dell’Impero Romano ma solo di una delle sue parti.
La centralità dell’impero d’oriente era sempre più evidente, Teodosio aveva promulgato un codice di leggi il
Codex Theodosianus all’interno del quale raccoglieva tutti gli editti degli imperatori cristiani, gettando le
basi per la nuova giurisprudenza imperiale. Costantinopoli fu circondata di una nuova cinta muraria: le
mura teodosiane.
L’imperatore firmò una pace con i persiani garantendo un lungo periodo di stabilità alle sue frontiere.
L’impero d’occidente sopravvissi ancora solo per ottant’anni, sotto imperatori sempre più
deboli. Il 5 settembre 476 un generale romano di stirpe barbarica Odoacre, capo delle milizie mercenarie,
depose ed esiliò Romolo Augustolo, innalzato al trono tredicenne dal padre Oreste, capo dei mercenari
germanici, che aveva deposto il legittimo imperatore. Odoacre non volle assumere il titolo di imperatore
d’occidente, ma si limitò a riconsegnare le insegne imperiali all’imperatore d’oriente Zenone,
riconoscendogli la sovranità sull’intero impero. Odoacre si propose come legittimo interlocutore di
Costantinopoli in Italia e fu nominato da Zenone, patrizio dei romani. In Italia si costituì cosi un regno
autonomo, governato da un re non di un territorio ma dei gruppi etnici riuniti sotto la sua guida, che era
stato capo delle truppe barbariche. Per il regno d’Italia il rapporto con l’imperatore d’Oriente era
fondamentale, poiché la popolazione romano- italica accettasse di essere governata da un solo imperatore.
Gli scrittori della Roma imperiale avevano interpretato le cause della decadenza generale dell’impero, nella
perdita delle antiche virtù repubblicane e nella modifica delle istituzioni e delle tradizioni. Gli intellettuali
del medioevo erano più indirizzati sul fatto che dalle ceneri di un impero pagano ne era nato uno cristiano.
A queste cause nell’Ottocento se n’era inserita una terza, secondo gli storici marxisti la causa della caduta
del mondo romano fu la trasformazione del sistema di produzione, da quello schiavista fondato sullo
sfruttamento del lavoro dei prigionieri a quello feudale, basato sul rapporto tra i contadini che lavoravano la
terra e coloro che ne erano proprietari e signori. Oggi il cristianesimo e le barbarie vengono messi in
secondo piano, si punta di più su altri fattori, come l’inadeguatezza della produzione agricola, l’incapacità
di svincolare la produzione artigianale da un sistema rigido controllato dallo stato, gli effetti negativi della
situazione di pericolo dovuta al continuo stato di guerra, infine una forte decadenza economica dovuta alla
pressione fiscale che gravava sui cittadini per sostenere il peso della guerra. Il passaggio dalla tarda
antichità al medioevo inizia con una ruralizzazione crescente delle civiltà e delle economie europee.
Intimoriti dai saccheggi i membri della aristocrazia romana lasciarono la città e si spostarono nelle
campagne, dove successivamente si insediarono anche i nuovi proprietari immigrati di stirpe germanica che
non avevano una tradizione di vita urbana.

1 L’Europa dei romani e dei barbari


I. Sulle rovine dell’Impero un’Europa multietnica
L’Europa medievale fu multietnica, originata dalla fusione di immigrati diversi per tradizioni etniche e
livelli culturali dalle popolazioni latine. Quello che era stato il territorio di Roma adesso era una serie più
piccole formazioni politiche, unificate dalle storiografie come regni romano- barbarici o latino-
germanici, latini perché l’amministrazione resto quella romana, ma romanici perchè fondati sul
predominio di elitè guerriere germaniche. Il numero dei nuovi arrivati era inferiore a quello della
popolazione romana che viveva sulle terre dell’ex impero, ed è anche per questo che man mano
penetravano entro i confini, le popolazioni barbare, subivano l’influenza della popolazione romana, tanto
che alcuni loro caratteri comuni come per esempio la mobilità sul territorio, scomparvero e divennero
popolazioni stanziali; altri continuarono invece a distinguerli come il fato di essere popoli guerrieri. La
fusione fu rallentata dal fatto che queste popolazioni erano stata cristianizzate da missionari ariani, cos’
l’arianesimo tanto combattuto dai concili ecumenici fu la fede germanica. Secondo gli storici del ottocento
e del novecento, Roma avrebbe portato in eredità alla nuova Europa la tradizione culturale, il senso dello
stato, il diritto, l’unità civile dell’occidente e la lingua comune, i germani invece avrebbero avuto in
comune la mancanza di una tradizione legislativa e di organizzazione statale. Oggi gli storici che gli
scambi umani tra romani e barbari erano stati già intensi prima della fine dell’impero.

II. I nuovi regni latino-germanici


Il regno fu l’unica istituzione che gli invasori riuscirono ad elaborare per le proprie bande di emigranti che
avevano come punto di riferimento le tribù. I visigoti concepivano il regno come un’entità separata dal re,
mentre i franchi lo consideravano proprietà personale del monarca. Il regno barbarico non conobbe, o
conobbe solo in forma ridotta, la separazione dei poteri, concentrai tutti nelle mani del re, che li aveva

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acquisiti per diritto di conquista. Quella dei popoli germanici era stata a lungo una patria in movimento, la
loro monarchia non fu territoriale, ma nazionale, rappresentava chi era nato nelle tribù. Tutti i nuovi regni
furono vulnerabili e in qualche caso anche molto piccoli. Alcuni come quello dei burgundi o degli svevi
vennero assimilati dai vicini, altri come quelli dei vandali o degli ostrogoti non lasciarono traccia, crollando
sotto l’offensiva di Bisanzio. Quelli dei visigoti in Spagna e dei franchi furono quelli che procedettero
rapidamente sia all’integrazione con i popoli residenti che alla collaborazione con la chiesa e con esponenti
del mondo intellettuale latino.
- I sette regni anglosassoni in Inghilterra
L’avvio della dominazione degli angli, sassoni e juti in Inghilterra è avvolto nella nebbia. Testimonianze
archeologiche dimostrano che un flusso di popolazione germanica si era diretto verso quella terra, in gran
parte appartenuta all’Impero Romano.
Nel 407 le legioni imperiali aveva ripassato la Manica, abbandonando l’isola, fu solo nella metà del secolo
che angli, sassoni e juti proveniente dalla Germania e dalle coste danesi la occuparono.
L’amministrazione romana scomparve definitivamente e la tradizione dice nacquero tre regni di fondazione
sassone Essex, Sussex e Wessex, tre di fondazione angla Mercia, Anglia orientale e Northumbria e uno di
fondazione juta il Kent. Intorno a questa lontana epoca si svilupparono tantissime leggende e tradizioni che
parlavano soprattutto delle scontro etnico tra gli occupanti e gli occupati. La memoria della resistenza degli
invasori emerse poi nella leggenda di re Artù, condottiero della Britannia romanizzata, uno dei capi
dell’opposizione romano-bretone alla pressione dei sassoni. È stata avanzata anche un’ipotesi che il nome
di Artù sia la deformazione leggendaria di Artorius, un generale romano rimasto sull’isola che per il suo
coraggio e la sua determinazione sarebbe stato chiamato re dagli abitanti.
- La penisola iberica e l’unità politica visigota
I visigoti erano, tra i popoli germanici, i più fedeli alleati di Roma, e furono loro a salvare l’occidente dagli
unni di Attila. Dopo il sacco di Roma avevano ottenuto dall’imperatore Onorio di stanziarsi come federati
in Aquitania, ma avevano dimostrato subito un notevole dinamismo espansivo. In Spagna nel 585
assorbirono il regno degli svevi ed espulsero i vandali verso l’Africa creando un nuovo regno con capitale
Toledo, dove cercarono subito di instaurare una convivenza con la chiesa e con l’elemento romano della
popolazione. I re visigoti applicarono il principio della personalità del diritto, secondo cui ogni etnia veniva
giudicata secondo le proprie leggi, anche se la base giuridica per entrambi i popoli era costituita sulla base
del diritto romano, del cosiddetto codice di Teodosio, che prese il nome di lex romana Visigothorum o
breviarium Alaricianum.
- La Gallia dai visigoti ai franchi
Al momento della caduta dell’impero d’occidente la Gallia era passata sotto il dominio dei popoli
germanici, i visigoti, i burgundi, i franchi, e in un piccolo territorio c’era ancora la dominazione romana.
L’unificazione politica del territorio fu opera dei franchi. Nel V-VI secolo furono loro che con il loro re
Clovedo occuparono la maggior parte della Gallia. Clovedo cacciò i visigoti dalla Spagna e scelse come
capitale del suo regno Parigi. Il re costruì la più solida delle monarchie romano-barbariche e la propose
come sede delle tradizioni romane, proprio per questa aspirazione era necessaria la conversione al
cristianesimo. Clovedo quindi si convertì, coinvolgendo in questa scelta prima l’aristocrazia e poi
lentamente l’intero popolo dai franchi. Il battesimo del re per mano di san Remiglio fu poi narrato da
Gregorio vescovo di Tours, che paragonò Clovedo a un “nuovo Costantino”. L’aspirazione imperiale della
Gallia come avvertita da Gregorio di Tours fu più esplicita quando Teodoberto I dopo aver conquistato il
regno dei burgundi nel 534 si fece ritrarre con la corona e il titolo di Augusto. Non era una pretesa
illegittima in quanto la Gallia come prima provincia romana, doveva attribuirsi dopo la caduta dell’impero,
una funzione vicaria del potere imperiale.
- Il regno dei vandali in Africa
I vandali dopo aver lasciato la Spagna nel 429 sbarcarono in Africa. Nel 435 i vandali erano stati riconosciuti
come federati dell’impero. Il loro dominio in Africa si basò soprattutto sulla loro forza militare, poiché non
riuscirono a aggregare le popolazioni intorno al loro capo, ci furono anche le persecuzioni contro i cristiani,
con il risultato che il loro regno fu l’unico che non realizzò nessuna forma di collaborazione tra popoli
germanici e locali. Furono anche l’unico popolo germanico a darsi una flotta. Nel 455 saccheggiarono Roma
ma nel 533 furono travolti dal processo di riconquista bizantina della parte dell’impero occidentale messa in
atto dall’imperatore Giustiniano, i vandali scomparvero senza lasciare traccia.

III. Il regno ostrogoto in Italia

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Il regno barbaro d’Italia, quello degli ostrogoti, ebbe caratteristiche particolari. Il loro re Teodorico era stato
condotto da bambino a Costantinopoli come ostaggio, dove aveva vissuto dieci anni, educato come un
principe romano. Era stato proprio l’imperatore Zenone a mandarlo in Italia per contrastare il potere di
Odoacre e sottomettere la penisola in nome dell’impero. Teodorico dopo essersi impadronito della penisola
a nome dell’imperatore tentò addirittura di ricreare l’impero d’occidente. Per raggiungere il proprio sogno
egli cercò di imparentarsi con tutti i più importante re barbarici. Incontrò però resistenze sia nel mondo
latino che germanico. Teodorico appare ritratti in un mosaico di Sant’Apollinare Nuovo incoronato e
abbigliato come un imperatore bizantino. Egli si circondò di amministratori romani e il suo primo
consigliere fu Cassiodoro, cercò di recuperare all’agricoltura terre che erano state abbandonate e di creare
punti di raccolta grado contro le carestie, riformò il sistema fiscale e quello monetario. Pur facendo di
Ravenna la capitale del regno, egli si impegnò anche nella ricostruzione di Roma, e i suoi amministratori
continuavano a formarsi con la tradizione classica, anche il senato romano rimase in piedi fino al VI secolo.
Tra goti e latini i compiti furono divisi, l’esercito era formato solo da goti mentre i romani si occupavano
dell’amministrazione. Tra i due popoli non si ci fu un’integrazione, ma ci fu una chiara politica di
convivenza. Questa politica fallì per la non integrazione, per lo scontro con Bisanzio quando Teodorico
cercò di conquistare la Pannonia e per quello con i franchi che mossero guerra agli alemanni, alleati degli
ostrogoti. La difesa dell’arianesimo infine alienò a Teodorico le simpatie della classe senatoria latina. I
tentativi di Teodorico di salvare l’Italia non furono sufficienti, il commercio non riuscì a riprendersi, la
produzione artigianale rimase a livelli bassissimi e le terre rimasero incolte. Il frumento che era stato la
coltivazione prevalente dei romani, fu integrato con cereali inferiori, che rendevano più raccolto ma erano
meno nutrienti e il pane era sempre più nero.

IV. Le Chiese e la Chiesa


Gia dal IV secolo la chiesa aveva avviato la costruzione del proprio ordinamento, il punto di riferimento
dell’organizzazione della comunità dei fedeli erano i vescovi, dal greco episcopos, che garantivano l’unità
d’intenti e la disciplina liturgica dei territori sotto la loro giurisdizione, coincidente spesso con il municipio
romano, la diocesi. Il vescovo era l’unico a poter ordinare i sacerdoti e ad autorizzare la costruzione di
monasteri, fu sempre un membro di prestigio del clero locale e fu eletto a vita. Non doveva aver commesso
crimini, non doveva essere bigamo ne bestemmiatore, ne avere incarichi pubblici o militari, doveva essere
giuridicamente un uomo libero. Il vescovo delle metropoli di ogni provincia fu detto arcivescovo e acquisì
un ruolo di preminenza sugli altri vescovi della stessa provincia. In Italia i rapporti tra i vescovi e Roma
furono mediati attraverso tre sedi metropolitane Milano, Aquileia e Ravenna, mentre fu più diretto il
rapporto tra Roma e i vescovi dell’Italia centrale e meridionale. Le sevi vescovili più importanti presero il
nome di patriarcati e furono Roma in occidente e Alessandria, Antiochia, Gerusalemme e Costantinopoli in
oriente. Nel V secolo l’episcopato di Roma, si attribuì una maggiore autorità morale rispetto agli altri,
autoproclamandosi sede apostolica per eccellenza, per aver conservato le spoglie di Pietro, il solo che aveva
ricevuto da Gesù il “potere delle chiavi”. Secondo una tradizione i vescovi doveva recarsi a Roma per far
visita alle tombe degli apostoli Pietro e Paolo. Roma era già prestigiosa per essere stato il centro del vecchio
universo latino, adesso ricavava ancora più autonomia da quando le preferenze residenziali dell’imperatore
si era spostate in oriente, questo spostamento faceva si che il vescovo fosse la massima autorità della città,
infatti 452 papa Leone Magno si presentò davanti agli unni per rappresentare il potere politico che non
c’era. La chiesa quindi come istituzione, si propose come erede dell’impero scomparso, nasceva quindi dalla
dispersione delle forze politiche.

V. Nuovi ideali di vita: il monachesimo cristiano


L’espansione del cristianesimo trovò potenti alleati nei monaci, che riuscivano ad interessare tramite la
conversione dei loro capi molte popolazioni. Il monaco, dal greco monachòs, significa solitario, infatti il
monaco è quel cristiano che desiderava ritirarsi a in una solitudine spirituale per intraprendere un cammino
di perfezione. Vi erano due possibilità, poteva fare la scelta radicale degli eremiti, isolandosi totalmente dal
mondo che si riteneva corrotto, oppure poteva entrare in una comunità. La vita cenobitica, ovvero quella dei
monasteri, ruotava attorno ad un chiostro, uno spazio chiuso, simbolo della chiusura nell’interiorità
personale. Questo fu il modello più diffuso in occidente, mentre quello eremitico fu più diffuso in oriente e
nell’Italia meridionale. L’Italia fu la culla di un’esperienza monastica molto importante, quella fondata da
Benedetto.
Contemporaneamente alla diffusione del cristianesimo un giovane di nome Antonio aveva abbandonato il
suo villaggio sul corso del Nilo e si era rifugiato nel deserto, mettendo a punto una serie di esercizi ascetici

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che lo tenevano lontano dalle tentazioni. Un altro personaggio di rilievo fu il vescovo di Cesarea, Basilio,
che aveva dato vita a un regime monastico in Cappadocia. Sulle origini del monachesimo occidentale,
prebenedettino, troviamo già consolidata l’esperienza di uomini-guida in Gallia con Martino vescovo di
Tours, in Spagna con Isidoro vescovo di Siviglia, in Italia con Cassiodoro e in Africa con Agostino vescovo
di Ippona. Emersero due correnti monastiche sulle altre, quella celtica e quella benedettina. Quella celtica
ebbe origine in Irlanda, la diffusione del cristianesimo fu lenta e si basò su monasteri sorti intorno alle più
importanti famiglie che si impegnavano nella conversione dei pagani. Tra i pionieri del cristianesimo celtico
i più conosciuti sono Brindano, che come narra la leggenda si lasciò trasportare per sette anni dalle correnti
marine tra Irlanda e Scozia; e Colombano, fondatore di numerosi monasteri. Il cristianesimo celtico ebbe
una diversa organizzazione, come le formule del battesimo o la datazione della Pasqua, che lo tennero
distante dalla chiesa di Roma. Cosi quando Colombano cercò di diffondere le sue regole al di fuori
dell’isola, la chiesa organizzò una difesa attraverso la diffusione del monachesimo benedettino, che
esprimeva forme più moderate di vita cenobitica e non metteva in discussione il potere dei vescovi. La
tradizione racconta che Benedetto nascesse a Norcia da una famiglia benestante, e che fondasse il monastero
di Montecassino. Alcuni storico anno dubitato della sua esistenza reale. Quello di Benedetto era un modello
di monachesimo che limitava i rigori della disciplina orientale, evitando i pericoli della solitudine e accanto
alla preghiera valorizzava il lavoro manuale e intellettuale, infatti molti monasteri benedettini divennero
centri importanti dello sfruttamento delle risorse agricole e di trasmissione culturale attraverso l’attività di
copiatura dei libri. L’orto era l’altro elemento importante del monastero benedettino, perché era uno spazio
chiuso in cui il monaco poteva lavorare senza uscire dal convento. Il monaco benedettino rispettava
l’autorità di un abate, che aveva il completo governo sia degli aspetti spirituali che materiali, e rispondeva
solo a Dio e al suo ministero. I monasteri benedettini rappresentarono per la chiesa uno strumento
fondamentale per allontanare i culti pagani. Con Ludovico il Pio nell’871 renderà obbligatoria per tutti
monaci dell’impero carolingio un’impronta benedettina. Il monachesimo eremitico rimase forte in Italia
meridionale.

2 Bisanzio: un Impero latino dai tratti orientali (V-VII secolo)


I. La parte orientale dell’Impero Romano
Dal giorno in cui le insegne imperiali, nel 476, furono accolte a Costantinopoli, parte orientale
dell’Impero Romano viene chiamata dalla storiografia moderna Impero bizantino. L’impero bizantino fu
l’area orientale dell’Impero Romano, fu romano nella formazione istituzionale e cristiano per religione,
anche se greco per cultura. I bizantini infatti fino alla fine volevano chiamarsi romaioi per il loro
convincimento di continuare lo stato e la civiltà di Roma antica. Da Roma, Bisanzio ereditava la struttura
politico-amministrativa accentrata intorno all’imperatore e articolata in prefetture, divise in diocesi, a
loro volta divise in province. Ereditava anche lo spazio geografico e i problemi connessi alla difesa dei
confini. Sul basso Danubio le popolazioni germaniche e slave premevano contro i confini, in Siria e in
Armenia occorreva fronteggiare le ambizioni della Persia. In Egitto e in Siria emergevano violenti dissidi
anche di carattere teologico sempre più forti, a mano a mano che l’impero sosteneva i vescovi e la loro
attività di cristianizzazione. Tema centrale del dibattito teologico era la natura di Cristo e del rapporto tra
sua umanità e divinità.

II. Giustiniano
Giustiniano contribuì a portare l’impero bizantino a uno dei punti più alti del suo sviluppo. L’imperatore
impegno i primi anni di governo a garantire la pace esterna e produrre tranquillità all’interno. Nel 532 siglò
la pace con la Persia, nello stesso anno fece soffocare la rivolta della Nika scoppiata per protestare contro
l’inasprimento fiscale. Sottrasse l’Africa ai vandali, l’Italia agli ostrogoti, il sud della penisola iberica ai
visigoti, infine riorganizzò le province conquistate con il modello romano. Questo tentativo di ricostruzione
fu possibile solo grazie alla collaborazione della quale l’imperatore si circondò, sua moglie Teodora prima
di tutto, ma anche i giuristi, i generali cronisti. Tra il 528 e il 535 fece riordinare da una commissione di
esperti, il diritto romano, nel Corpus iuris civilis, considerato la base di tutta la letteratura giuridica
posteriore, introdotto in Italia dopo la cacciata dei goti. L’amministrazione di Bisanzio si era basata
soprattutto sulla consuetudine e il costume, invece la tradizione della codifica delle leggi veniva dai romani.
La produzione e il commercio furono elementi primari per la vita dell’impero bizantino. L’economia si basò
sull’agricoltura, sul commercio e sulla manifattura, controllati dallo stato e che rifiorirono con Giustiniano.
Alla fine del VII secolo fu promulgata la legge agraria, che garantiva l’esistenza di comunità di liberi

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contadini. L’impiego degli stati si ridusse quindi notevolmente. Costantinopoli rappresentò il maggior centro
industriale e commerciale e numerose attività si svilupparono intorno al porto. Una delle principali
produzioni della città fu quella dei tessuti di seta, una materia prima inizialmente proveniente dalla Cina. Si
lavoravano poi l’oro e l’argento e si producevano profumi. Il commercio come l’industria era controllato
dallo stato, che esercitava il monopolio e vigilava sulle imprese private. Infine, per la prosperità
dell’economia bizantina fu decisiva l’esistenza di una moneta d’oro forte, che gli occidentali chiamavano
bisante, impiegata nel commercio Mediterraneo per i successivi ottocento anni.

III. Alla riconquista della parte occidentale


Giustiniano voleva ricostruire la perduta unità dell’impero, ricostruendone gli antichi confini occidentali.
Così fra il 535 e il 553 si impegnò nella guerra di riconquista dell’occidente, si tratto di una vasta campagna
militare combattuta nell’Africa settentrionale occupata dai vandali. Tutte quelle terre erano appartenute
all’Impero Romano e in seguito alla sua dissoluzione erano passate ai barbari. I bizantini non erano invasori,
quella verso l’occidente non era una guerra di conquista ma di riconquista. Giustiniano restituì ai grandi
proprietari e alla chiesa i beni confiscati durante la guerra, ma l’Italia ne uscì depressa sul piano
demografico ed economico. A guerra finita a Ravenna venne rappresentato Giustiniano in prestigiosi
mosaici accanto alla figura di Cristo trionfante in terra.

IV. Il ripiegamento
La guerra per quanto vittoriosa può essere considerata il peggiore errore gi Giustiniano, che non capì che
per affrontare un simile sforzo militare, lo stato avrebbe dovuto sborsare somme colossali, dilapidando le
riserve d’oro accumulate. La guerra l’aveva costretto a sguarnire i confini con la Persia e con i territori slavi
del nord-est e le conseguenze non si fecero attendere. Nel 617 gli slavi avanzarono nei Balcani, i persiani
nel 612 conquistarono la Cappadocia e l’Armenia e negli anni successivi Damasco, Gerusalemme e
l’Egitto. L’Italia simbolo della restaurazione imperiale venne affidata dai bizantini ai longobardi e solo la
fascia costiera adriatica e la Sicilia in tutto l’occidente appartenevano all’impero. Il greco divenne la lingua
ufficiale della cancelleria imperiale. Il titolo di imperator fu mutato in quello di basileus.

3 Nascita di due Italie (VI-VIII secolo)


I. I longobardi: un popolo in marcia
Fra il 568 e il 569 arrivarono in Italia i longobardi, un popolo di guerrieri di lingua germanica, proveniente
dalla Pannonia, e dalla quale si era allontanato alla fine del V secolo, spinto da una carestia. La migrazione
di questo popolo si concluse in Italia. Per la penisola fu la prima esperienza di dominazione da parte di un
popolo germanico. I longobardi giunsero in Italia attraverso le Alpi orientali sotto la guida di Alboino. Non
si trattava di una spedizione militare, poiché in viaggio si misero anche famiglie. Non era moltissimi, ma si
trattava in ogni caso di un popolo in marcia. Il loro viaggio fu lento senza un vero e proprio piano di
conquista. Senza incontrare difficoltà occuparono il Friuli, il Veneto (con eccezione di Venezia), la
Lombardia, il Piemonte e la Toscana. Crearono i ducati di Spoleto e di Benevento. Tra la fine del VI e la
metà del VII secolo i re Agilulfo e Rotari avrebbero preso Mantova, Parma e Modena e la Liguria. Nel 577
durante la loro marcia distrussero il monastero di Montecassino e i monaci benedettini si salvarono in fuga
verso Roma.

II. I romani e gli occupanti


L’occupazione longobarda rappresentò una delle prove più impegnative che il popolo della penisola avesse
mai affrontato. Per tradizione i longobardi sono stati considerati una popolazione più barbara e più feroce e
meno assimilabile di altre. In realtà non è proprio così, in quanto una parte della popolazione prima di
arrivare in Italia aveva già conosciuto il cristianesimo nella forma ariana, aveva avuto già con i bizantini
un’esperienza al soldo. I longobardi non erano più feroci di altri, erano solo una tribù guerriera con i suoi
costumi particolari, che si scontrano facilmente con quelli di una civiltà sedentaria. Lo stesso simbolo
tradizionale delle loro barbarie, l’episodio del re Alboino che pretese di far bere la moglie Rosmunda dal
cranio del padre ucciso, è da liberare dall’alone romantico che lo ha circondato e da riporre all’interno di
una cultura guerriera comune a molte civiltà indoeuropee di tradizione nomade. Tagliare la testa al nemico
ucciso e bere dal suo cranio, era un rituale di omaggio verso il vinto del quale, simbolicamente, si bevevano
il coraggio, la forza e la virtù. L’offerta fatta a Rosmunda, figlia del re ucciso, era un’offerta di
riconciliazione fra vinti e vincitori. Il rifiuto di Rosmunda non fu altro che il rifiuto di riconciliazione, tanto

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che fece poi assassinare Alboino e si rifugiò a Ravenna, amministrata dai bizantini.
Al momento dell’occupazione colpisce il silenzio dei documenti sulla sorte dei romani. La storiografia
romantica vuole l’immagine del “volgo disperso che non ha” come dice Alessandro Manzoni. In realtà i
longobardi si disinteressarono alla capacità giuridica dei latini, che furono lasciati a se stessi, purchè
versassero un contributo agli occupanti. Nell’VIII secolo la vecchia classe dirigente romana era stata
annientata perché colpita nelle proprietà terriere, e il nuovo ceto dirigente era tutto germanico, in quel
momento ormai quello che viveva su suolo italiano era un unico popolo che non poteva definirsi ne del tutto
latino ne del tutto longobardo, il risultato della lenta fusione tra le due componenti. Il lento processo di
fusione era cominciato nel VII secolo, l’elemento principale che aiutò questo processo fu quello religioso. Il
re Autari aveva proibito il battesimo con rito cattolico a tutti i figli dei longobardi riservando per loro il rito
ariano, ma i matrimoni misti erano già una frequente possibilità. Autari cercò anche di trovare un elemento
di convivenza ra le due popolazioni, e un passo importante fu proprio la sua conversione al cattolicesimo,
avvenuta grazie all’influenza della regina Teodolinda. Ebbe un ruolo importante anche il sostegno che dal
VII secolo, i longobardi, dettero al culto dell’arcangelo Michele sul Gargano, attraverso il quale la
tradizione guerriera ricevette un’impronta più cristiana, confermata dall’introduzione della sua immagine
sulle monete. La trasformazione da cristiani ariani a cristiani cattolici fu un fenomeno progressivo, che si
realizzò un matrimonio dopo l’altro, nomi romani venivano dati ai figli dei longobardi e viceversa. Nel VIII
secolo i longobardi non parlavano nemmeno più la loro lingua.

III. L’Italia fra longobardi e bizantini


L’Italia con l’occupazione longobarda era stata divisa in due, per la prima volta una vasta area della
penisola era uscita fuori dal sistema imperiale, i bizantini aveva mantenuto l’Istria, il Veneto, la Liguria,
l’Esarcato, la Pentapoli (provincia bizantina formata da Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia e Ancona),
Perugia, il Lazio, Napoli, la Puglia, la Calabria e le isole. Nel 584 i bizantini organizzarono i loro domini in
Italia intorno ad un ufficiale superiore, capo dell’esercito e governatore dell’Italia in nome dell’impero,
l’esarca, di stanza a Ravenna. Il potere assoluto si concentrò in mano ai rappresentanti imperiali che oltre a
detenere il comando supremo dell’esercito, nominavano tutte le cariche della città, anche quelle
ecclesiastiche. Al vescovo fu riconosciuta la funzione di supplenza a capo del governo cittadino. L’Italia
dominata dai bizantini cambiò la propria fisionomia, le città accentuarono i tratti militari, e al loro interno i
poteri dei capi dell’esercito sovrastavano quelli civili. Molte parole del linguaggio militare entrarono a far
parte del linguaggio comune. Intorno al 584 fu costituito l’esarcato d’Italia con capitale Ravenna, composto
da tutte le province bizantine. Il regno longobardo invece stabilì la sua capitale a Pavia, dove risiedette il re,
si configurò come una struttura di ducati, ciascuno dei quali aveva il proprio margine di autonomia. Il regno
longobardo ebbe difficoltà ad assestarsi a causa delle lotte tra i duchi, e fra questi e i re che inviarono nelle
sedi periferiche propri fiduciari, i gastaldi, incaricati di amministrare le terre pubbliche. Con Rotari venne
fatto ancora un tentativo di dare un ordine giuridico ai rapporti tra longobardi e latini. Ne scaturì una
raccolta di leggi di diritto privato e penale che viene chiamata editto di Rotari. I longobardi fino a quel
momento avevano espresso le leggi oralmente, e nel 643 per la prima volta il re decide di farle mettere per
iscritto. L’editto scritto 75 anni dopo il loro arrivo in Italia è il lingua latina, la lingua dei “vinti”, inoltre
risentì anche dell’influenza del diritto romano. L’editto è fondamentale per conoscere la loro
organizzazione, sappiamo cosi che la loro forza risiedeva nella struttura tribale, che identificava ciascun
uomo libero come un guerriero, arimanno, che aveva il diritto e il dovere di combattere e di partecipare alle
decisioni politiche. Gli arimanni erano inquadrati in famiglie allargate, fare, composte da più nuclei
imparentati tra loro. Le case delle fare erano inviolabili e senza il permesso del capo famiglia nessuno
poteva entrare. I gruppi di fare erano agli ordini dei duchi. La faida era la possibilità di vendicare un torto
subito, rifacendosi sui parenti del colpevole, ed ebbe lunga vita nel medioevo.
Dal punto di vista penale l’editto si basava su una serie di multe che finivano nelle casse del re. Le leggi di
Rotari inoltre proteggevano il guerriero. Dal punto di vista amministrativo, nell’editto compaiono per la
prima volta i gastaldi, funzionari incaricati di rappresentare il re ne territorio.
Rotari infine si proponeva come protettore degli elementi più deboli della società, tra queste le donne. Ogni
donna aveva un mundio cioè un prezzo di cui era proprietario il capo famiglia e il marito lo riscattava nel
momento del matrimonio. I longobardi diffidavano delle città latine tanto da concentrare il loro potere nei
castelli e negli insediamenti fortificati che erano stati dei bizantini.
Questi secoli rappresentarono anche per l’Italia longobarda il momento culminate del disfacimento
dell’edilizia pubblica di età romana. Dopo l’età di Rotari l’Italia conobbe un miglioramento, e in tutta
l’Europa si videro i primi segni di miglioramento, cominciava a crescere la popolazione, le città e le

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campagne davano segno di riprendere un po di vitalità economica. Il re Liutprando cercò a espandere il


territorio longobardo a parti dell’impero che erano ancora dei bizantini, a temere di questa espansione fu a
Roma il papa Gregorio II, che non si tranquillizzò nemmeno quando Liutprando gli donò una serie di
castelli nel Lazio, la cosiddetta donazione di Sutri considerata il primo nucleo di potere temporale della
chiesa. Contemporaneamente a questo miglioramento, anche alla parte d’Italia dei bizantini si accentuarono
le spinte autonomistiche, ci furono ribellioni in Sicilia. Venezia rimase invece sempre un ducato bizantino,
anche se si mosse sempre in una sostanziale autonomia.

IV. La Chiesa di Roma lega il suo destino all’Europa


L’impero bizantino era ormai da secoli lontano all’occidente. In Italia era stata la chiesa rapporti come
mediatrice tra romani e germani, divenendo uno dei pochi punti di riferimento solidi in una penisola divisa.
La chiesa per eccellenza era quella di Roma. Già nel V secolo, con il concilio di Calcedonia, la chiesa di
Costantinopoli, aveva rivendicato pari dignità a quella di Roma. Alla fine del V secolo, papa Gelasio I
aveva seguito una linea intransigente nei confronti dell’imperatore d’oriente Anastasio, sostenendo che
papa e imperatore erano due figure importanti, ma con diverse funzioni: l’imperatore era stato incaricato da
Dio di mandare in esecuzione ciò che Dio avrebbe deciso per l’umanità, e si esprimeva tramite il papa.
Gelasio proclamava la separazione tra i due poteri, contro ogni forma di cesaropapismo dell’imperatore
bizantino. Su questa linea si mossero altri papi, negli anni della dominazione longobarda. Tra essi
primeggia a figura di Gregorio Magno, con lui il papato rinunciò al diritto di dirigere l’intera chiesa
cristiana e legò il proprio destino all’Europa occidentale. I principali popoli germanici insediati in Europa
erano ormai tutti cristiani. Gregorio mantenne intensi i contatti con i re delle dinastia merovingia della
Gallia e con quelli dei visigoti della Spagna e impresse un forte impulso all’evangelizzazione
dell’Inghilterra. Bizantini, longobardi e Papato si erano dunque divisi l’autorità nella penisola dopo il 569.
Il papa risiedeva a Roma, in una fascia di territorio italiana che faceva riferimento all’impero bizantino, con
i longobardi che lo attorniavano, con i quali i rapporti erano rimasti tesi anche quando essi si avvicinarono
al cattolicesimo. Nel 666 l’imperatore di Bisanzio aveva concesso alla chiesa di Ravenna l’autonomia da
quella di Roma. Il timore del pontefice si accentuò durante il regno di Astolfo. Il primo passo che portò i
franchi non lo fece il papa da solo, ma insieme al rappresentante dell’imperatore di Pavia che in precedenza
aveva chiesto aiuto ai popoli germanici per salvare l’unità dell’Impero Romano. Il papa si recò in Francia.

V. La fine del regno longobardo


Il re dei franchi, Pipino il Breve, intravedendo una nuova fase di espansione scesa in Italia nel 755. Ma già
l’anno precedente aveva stretto un accordo con papa Stefano II in base al quale i suoi armati doveva
accorrere in aiuto del pontefice ogni volte che egli fosse minacciato. Da parte sua il papa aveva confermato
Pipino re, ungendolo con l’olio santo, il quale non era più un re guerriero che primeggiava tra i guerriere,
ma un personaggio al di sopra degli altri membri dell’aristocrazia. Con l’unzione inoltre il papa aveva
aggiunto una novità, da quel momento il poi la dignità regale franca si sarebbe tramandata per via
ereditaria. Pipino allora conquistò l’Esarcato come gli era stato chiesto e lo consegnò al papa.
Furono inutile le proposte del re di Bisanzio per riavere ciò che era legittimamente suo. La chiesa di Roma
ricevette oltre l’Esarcato, l’Emilia, la Pentapoli e Roma, che furono alla base del potere temporale dei papi.
Il Papato aveva tradito l’impero che non si era rivelato capace di proteggerlo. Tutta via il modo in cui si
concluse la guerra dell’Esarcato era solo il segno visibile dell’antico conflitto tra la chiesa di Roma e la
chiesa di Costantinopoli. Fu anche il primo concreto atto di alleanza tra Papato e franchi. Così come suo
padre Carlomagno nel 773 fu invocato da papa Adriano I a contrastare l’incursione del re longobardo
Desiderio. Carlomagno sconfisse i longobardi e ne incorporò i territori. Desiderio fu fatto prigioniero e suo
figlio Adelchi fuggì in esilio presso i bizantini. Finiva così il regno longobardo in Italia, ma i tratti
dell’influsso che ebbero sulla società italiana si mantennero per secoli.

Capitolo 2 L’ISLAM SI ESPANDE L’EUROPA SI ORGANIZZA


1 L’Oriente fra Bisanzio e l’Islam (VI-X secolo)

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I. Il mondo nel quale sopraggiunsero gli arabi


All’inizio del VII una nuova religione fece la sua comparsa nel vicino Oriente, si trattò di uno tra i più
grandi eventi dei secoli dell’anno Mille. La missione storica del suo fondatore Maometto, nato nel 570 in
una città dell’Arabia occidentale, La Mecca, fu quella di riunire intorno a una religione monoteista le tribù
arabe disperse, opponendo al loro politeismo quindi questa nuova religione di radice giudaica che si chiamò
islamica.
Le quattro grandi aree del mondo in cui sopraggiunsero gli arabi.
- L’area mediterranea
Per molti secoli l’area mediterranea aveva fatto parte dell’impero romano e perno su Roma, nel IV secolo
il centro imperiale si era trasferito in oriente a Costantinopoli. Da allora i re barbari aveva governato i
territori, anche se non si era del tutto esaurito il senso di appartenenza all’impero romano, la quale
memoria sarebbe poi resuscitata con Carlomagno.
- L’impero sassanide
A oriente dell’impero bizantino, si estendeva l’impero sassanide, abitato da differenti gruppi etnici, separati
da steppe e deserti che rendevano difficile la comunicazione, aggravata dall’inesistenza di fiumi navigabili.
All’interno dell’impero sassanide si era diffusa un’antica religione iranica, secondo la quale l’universo è un
campo di battaglia in cui si affrontano spiriti buoni e malvagi sotto lo sguardo di Dio.
- Sulle rive del mar Rosso
L’Impero Romano e sassanide comprendevano le principali regioni di vita sedentaria e di cultura
avanzata. Ma più a sud sulle rive del mar Rosso si erano sviluppate altre due civiltà, nell’Etiopia e nello
Yemen.

II. L’Arabia preislamica


Era costituita da steppe e deserti, con rare oasi, era un mondo frammentato e disorganico. Popolato
soprattutto da beduini, dediti alla pastorizia di cammelli, pecore e capre e organizzati in tribù. Nel deserto
arabo viveva un altro tipo umano, il mercante carovaniero, anche questo vagabondo. Il mercante e il
beduino erano affiancati da una minoranza di popolazione stanziale di contadini e di artigiani che viveva
nelle città. L’equilibrio tra questi popoli era precario, i nomadi erano una minoranza dal punto di vista
numerico, ma erano anche gli unici che vivevano armati, aveva quindi il predominio sui contadini. La
Mecca era il punto di partenza della via commerciale delle spezie, che andava dal sud al nord dell’Arabia.
Governata da un’aristocrazia mercantile, la città rappresentava un autentico centro politico e la sua autorità
era accresciuta dalla presenza di un santuario, la Ka’ba, la meta di pellegrinaggio più importante della
penisola. Nel VII secolo avvenne l’incontro decisivo di tutte queste culture e si assistette alla nascita di un
nuovo ordine politico. Il gruppo dominate del nuovo ordine fu costituito dagli Arabi dell’ovest. Questo
gruppo dirigente si richiamò alla rivelazione che Dio, aveva fatto discendere sotto forma di un libro santo,
proprio su di loro un cittadino della Mecca di nome Maometto.

III. Maometto e l’Islam


All’inizio del VII secolo una nuova religione, fondata da Maometto, fece la sua comparsa in Oriente. Prima
del suo avvento l’Arabia era un mondo frammentario, segnato da lotte interne tra yemeniti (sud) e beduini
(nord), in cui vivevano anche gli allevatori nomadi ed i mercanti carovanieri che viaggiavano in lungo e in
largo per tutta la penisola. La Mecca era il punto di partenza della via commerciale delle spezie. Le cose
iniziarono a cambiare quando un uomo, Maometto appunto, nato alla Mecca, mentre se ne stava in solitudine
nel deserto, fu avvicinato dall’angelo Gabriele che lo avrebbe esortato ad essere il messaggero di Dio. Da
quel momento, nel 610, Maometto iniziò a comunicare le cose rivelategli d Dio a chi lo affiancava. Raccolse
intorno a se un piccolo numero di credenti che aumentarono sempre più. Il potere che iniziò ad avere fu
enorme, tanto che conquistò le antipatie delle famiglie prestigiose di La Mecca e fu costretto a fuggire. Si
ritirò a Medina dove si impose non solo come capo religioso, ma anche politico; inquadrò la popolazione
sotto l’Islam e tutti i vecchi idoli furono distrutti. Questa nuova religione monoteista si impose, il Corano fu
il suo libro sacro e i lunghi santi furono Medina, La Mecca (dove veniva conservata la pietra nera portata
dall’arcangelo Gabriele) ma anche Gerusalemme. L’uomo islamico a differenza dell’uomo cristiano poteva
avere più mogli.

IV. Gli arabi dilagano fuori dalla penisola


Il profeta aveva dato forma a una comunità e ad un’organizzazione politica, centrata su Medina, ma non
aveva pensato alla sua successione. Fu così che alla sua morte, nel 632, si aprì una specie costituzionale,

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risolta da un gruppo di seguaci che nominarono Abu Bakr, parente del profeta, come “successore
dell’inviato di Dio” califfo. Dunque, il califfo era il successore del profeta, ma non era il profeta, era a capo
della comunità, ma non un messaggero di Dio. Tuttavia, attorno ai primi califfi continuò ad aleggiare
un’aura di santità. La guerra di conversione all’Islam cominciò gia con Abu Bakr, ma fu soprattutto Omar a
costruire una sorta di impero teocratico, dove fede religiosa e amministrazione e potere militare si
fondevano nelle mani di un’unica persona. Iniziata come guerra civile, la conquista militare dilagò fuori
dall’Arabia. Alcuni storici cercando di spiegare l’espansione dell’Arabia solo con l’entusiasmo religioso,
che avrebbe spinto gli arabi a diffondere l’Islam in territorio infedele, convinti dopo i primi successi di
godere del sostegno di Allah, e di essere i solo rappresentati della vera religione. Ma spiegare l’espansione
tramite il fanatismo musulmano è un errore, in quanto i beduini avevano ancora una conoscenza superficiale
dell’Islam quindi la religione non era il motivo dominante. Erano davvero pochi quelli che dopo la
conquista si convertivano alla nuova religione.

VI. Il califfato elettivo e la dinastia Omayyade (661 – 750)


Con il 661 aveva termine la serie di califfi legati da vincoli familiare con Maometto. Con la nuova dinastia
chiamata Omayyade, La Mecca e Medina furono sostituite da Damasco, nella funzione di centro
coordinatore degli eventi politici e religiosi.
Damasco si trovava al centro regione agricola, capace di mantenere una corte, un governo e un esercito ed
era situata in un punto da cui era facile controllare le coste del Mediterraneo. La Siria diventava quindi il
centro del califfato, che nel periodo omayyade si allargò ancora. I soldati musulmani avanzarono verso
Maghreb, conquistando l’ex provincia romana d’Africa, poi si estesero fino alla costa atlantica del Marocco.
Arrivarono fino a Costantinopoli e in Armenia, fino al cuore dell’Asia e cominciarono ad avanzare nel nord-
ovest dell’India. In Spagna gran parte della popolazione, stanza dell’amministrazione visigota, accolsero
con favore l’arrivo dei musulmani, rimasero cristiano solo alcuni focolai, da dove sarebbe poi partito
l’attacco cristiano che prende in nome di riconquista. La capitale dell’emirato fu Cordova.

VII. La complessità geografica del mondo musulmano


Si è soliti generalizzare con il termine arabi, tutti i musulmani, ma i musulmani che passarono nella penisola
iberica, che conquistarono la Sicilia, venivano dall’Africa, perciò non erano arabi. Il vasto spazio del mondo
musulmano, si estendeva su una serie di paesi, che si possono raccogliere in re grandi aree di produzione.
- Le aree di coltivazione sedentaria
Erano quelle dove coltivare era sempre possibile, le fasce costiere dove prosperava l’olio, pianure a
fondovalle dove si coltivava i cerali, oasi ricche di palmizi. In queste zone si producevano anche frutta e
verdure.
- Le aree dell’allevamento nomade
Erano quelle dove acqua e vegetazione era sufficienti solo per allevare cammelli o altri animali che
migravano stagionalmente su grandi distanze. Le aree più importanti di questo tipo erano il deserto arabico
e il Sahara.
- Situazioni intermedie
Erano quelle che si realizzavano ai margini delle altre, soprattutto attorno ai deserti dove erano possibili
precarie coltivazione e l’allevamento animale. Contadini sedentari e pastori nomadi convivevano in queste
zone e si dividevano l’uso della terra.

VIII. L’impero bizantino si ritrae ancora


Sotto l’avanzata dei musulmani, l’impero bizantino arretrò ulteriormente i suoi confini. La penisola
balcanica fu abbandonata dagli slavi, Costantinopoli dovette difendersi dalle incursioni fra il 674 e il 678,
subì un assedio tra il 717 e il 718, e subito dopo la guerra si spostò in Anatolia, dove fu assediata Nicea e
occupata Cesarea. Furono anni anche di forte stabilità interna, dalla quale emerse una nuova dinastia di
imperatori, di origine siriana, che fronteggiarono la minaccia araba, riuscendo a contenerla. Nel 740 Leone
III Isaurico riportò sugli arabi una vittoria ad Akroinos. La dinastia Isaurica aumentò l’ellenizzazione
dell’impero bizantino. Leone III propose la traduzione in greco delle leggi di Giustiniano. Nel frattempo, vi
era un accentuarsi della crisi dei rapporti tra Roma e Costantinopoli. La dinastia degli imperatori Isaurici si
contraddissi soprattutto perché combattè contro il culto delle immagini sacre. Lo scontro fra iconoclasti ( i
fedeli che rifiutavano le immagini sacre) e iconoduli (quelli che invece si opponevano alla loro rimozione)
riguardava un aspetto molto sentito della sensibilità religiosa della popolazione bizantina. Le immagini
erano state usate nei primi tempi del cristianesimo a scopo didattico, per insegnare i principi della fede a chi

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non sapeva leggere, poi i pittori bizantini aveva cominciato a dipingere anche su pannelli più piccoli che le
porsene potevano tenere a casa propria, a questi era stato cominciato ad attribuire una funzione miracolosa,
fino ad arrivare a sostenere che non erano atti da mani umane. La devozione alle immagini sacre aveva
giunto così dei livelli che iniziavano a preoccupare una parte della classe dirigente. Gli imperatori isaurici
avevano imposto di sostituire i personaggi con le croci e motivi stilizzati, ma la maggior parte dei monaci
aveva preso la difese delle icone e delle reliquie.
L’opposizione al culto delle icone era forte soprattutto nelle regioni più orientali dell’impero, dove la
propaganda islamica, che accusava di idolatria l’adorazione delle immagini sacre, aveva influenze più
marcate. Leone III Isaurico voleva liberare la religione dalle superstizioni ereditate dal paganesimo,
divenendo così sempre più impopolare nelle regioni europee, Costantinopoli si allontanò ancora di più da
Roma.

IX. Il califfato degli Abbasidi, una dinastia di riformatori


Non fu tutto merito degli imperatori isaurici, se Costantinopoli sfuggì alla conquista musulmana, a metà del
VIII secolo lo slancio travolgente di conquista dell’Islam si era ampiamente esaurito. Il califfato era in
difficoltà, travagliato da problemi interni, sciiti e karigiti due sette che non avevano mai voluto riconoscere
la legittimità dei successori del Profeta, appoggiati via via da gruppi diversi, incoraggiavano rivolte contro
la dinastia. Chi continuava a professare la propria fede in cambio di un tributo fu spinto a convertirsi e
venne equiparato ai musulmani da punto di vista fiscale, producendo una crisi nelle entrate del califfato. Nel
750 le popolazioni musulmane della Persia rovesciarono la dinastia Omayyade, gli ultimi superstiti si
rifugiarono in Spagna dando vita all’emirato di Cordova. Con la nuova dinastia persiana Abbaside, si
affermava un’idea di eguaglianza per tutti i musulmani, e diminuiva il predominio arabo. Gli Abbasidi
ridussero drasticamente il potere dei ceti dirigenti arabi e spostarono il nuovo centro del califfato da
Damasco a Baghdad. La città divenne la più grande del tempo. Accanto a Baghdad sorsero altre città. Il
punto forte degli Abbasidi furono le riforme fiscali e in quello dell’agricoltura, le due riforme erano
strettamente funzionali l’una all’altra. Le terre incolte erano affidate ai contadini disposti a metterle a frutto
in cambio di sgravi fiscali e i tributi versati erano rimborsati a chi migliorava i sistemi di irrigazione del
terreno e a chi introduceva nuove coltivazioni nei propri campi. In questo modo si otteneva un maggior
numero di prodotti commercializzabili. Questo però non significava che la condizione dei contadini
cambiasse di colpo, ma comunque la riforma abbaside produsse miglioramenti. La situazione di prosperità
fu rafforzata anche dalla moneta d’oro, favorita dalla rande quantità di questo metallo accumulato durante la
conquista della Siria, della Persia e dell’Egitto. Attraverso il Caucaso si aprirono vie commerciali tra in
califfato e i paesi russi, attraverso il Golfo Persico passavano le vie del commercio con la Cina e con
l’India. Tra il VIII e il IX secolo risalgono le storie delle Mille e una notte trascorse da Shahrazàd a narrare
allo scià, diffuse in Europa nel XIII secolo, intrise della passione araba per il viaggio continuo, con i suoi
labirinti che sospingono i protagonisti di regno in regno. Mentre Shahrazàd, racconta Sindibàd e il
Marinaio, con eterna fatica e insaziabile fame di conoscere, attraversa paesi fantastici dove si concentra
tutto il meraviglioso dell’universo, i mercanti continuano a camminare a vendere le loro merci e a cambiare
le monete, nel susseguirsi interminabile delle notti e dei giorni. Spuntano e spariscono le carovane, i porti, i
mercati, le navi e i mercanti e intercalati con essi, i cavalli che sanno volare, i tappeti magici che annullano
distanza e fatica. È così che si riempiono di sogni le notti di Shahriyàr, scià della Persia.

X. Gli “arabi” in Sicilia (IX secolo)


La dinastia abbaside governò fino al 1258 quando Baghdad venne distrutta dai mongoli. Le uniche imprese
militari di rilievo furono quelle verso Creta e la Sicilia. La conquista della Sicilia fu soprattutto ad opera di
barberi o saraceni e accrebbe la diversità tra questa regione e il resto della penisola. L’invasione cominciò
nell’872, e tra 830 e 831 Palermo fu conquistata. Nel 843 con l’aiuto dei cristiani di Napoli conquistarono
Messina, e nell’859 Castrogiovanni (Enna). Nell’878 la caduta di Siracusa, la più importante città dell’isola,
rappresentò per Bisanzio il segnale che la Sicilia era diventata indifendibile. Taormina fu presa nel 902.
Siracusa non riuscì a riprendere dal saccheggio, cominciò così l’ascesa di Palermo, che l’avrebbe ben presto
sostituita come capitale
dell’isola. Oltre a Palermo cominciarono l’ascesa anche altre città come Agrigento. Si trattò per l’isola intera
di un momento di particolare benessere. I musulmani introdussero in Sicilia la coniazione del tarì, moneta
d’oro. Portarono innovazioni colturali (cotone, gelso, nuovi tipi di cereali) e diffusero la produzione di
tessuti. Dettero impulso alla pesca del tonno. La Sicilia divenne un nodo importante del traffico
commerciale fra il mondo musulmano e l’occidente. I musulmani si spinsero anche in Puglia e occuparono

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Brindisi, e diedero vita all’emirato di Bari, impiantarono le loro basi sotto Cassino, spingendosi da qui entro
i muri di Roma.

XI. La fine dell’unità del califfato (IX-X secolo)


Dalla seconda metà del IX al X secolo il califfato si disintegrò in formazioni politiche distinte, rimanendo a
controllare direttamente solo il territorio della Mesopotamia. Nell’869 esplose la rivolta degli schiavi neri,
reclutati in Africa orientale, per farli lavorare in condizioni pesantissime, per prosciugare le valli del Nilo e
trasformarle in terre adatte alla coltivazione della canna da zucchero. La rivolta finì nell’882, quando i
rivoltosi aveva costruito un vero e proprio contropotere in alcune regioni. Il califfato uscì a pezzi dallo
sforzo che aveva dovuto affrontare per controllare la rivolta, inoltre approfittando della situazione Siria e
Egitto si erano resi indipendenti. Intanto l’Islam fu scosso da un’altra insurrezione, la rivolta dei karmati
testimonianza del malcontento degli strati più umili della società. Era un movimento eretico di beduini,
fortemente religioso che attirava la speranza dei contadini senza terra, schivi e mercenari. Attaccarono
Damasco nel 903, nel 906 saccheggiarono la Palestina e nel 930 conquistarono La Mecca, solo nel 939
strinsero una pace con il califfato. Molti governatori abbasidi finirono per acquistare maggiore autonomia,
arrivando a creare vere e proprie dinastie locali in Egitto, nello Yemen ecc. Così l’unità islamica risultò
compromessa. La Persia, le regioni dell’Africa, la penisola iberica i staccarono le une dalle altre.

2 L’Europa carolingia (VIII-IX secolo)


I. L’ascesa verso il potere della famiglia dei Pipinidi
Carolingi è il nome della dinastia germanica che governò gran parte dell’Europa tra VIII e IX secolo. Il
merovingio Clovedo (481-511) aveva trasformato le tribù dei franchi, nella più solida delle monarchie
romano-germaniche, senza però lasciare un regno unito, che fu diviso dai figli alla sua morte, in base al
principio barbarico che non distingueva tra beni di proprietà del re e beni pubblici, la concezione
patrimoniale del regno franco era proprietà del capo guerriero vittorioso.
Così i vari tentativi di unione da parte di un re si alternavano con la divisione dei suoi eredi. Si erano
configurai tre regni autonomi che si reggevano secondo legislazioni diverse: l’Austrasia con capitale Reims,
la Neustria con capitale Parigi e la Borgogna con capitale Orlèans. Successive divisioni territoriali
accelerarono la crisi della dinastia merovingia, e avevano aumentato i poteri dell’aristocrazia delle singole
regioni a danno della monarchia. Nel corso dell’VIII secolo all’interno dell’aristocrazia di palazzo
d’Austrasia si fecero spazio i membri della famiglia Arnolfingi (quella che poi sarebbe stata chiamata dei
Pipinidi e poi Carolingi). Dopo un tentativo fallito di prendere il trono, gli Arnolfingi avevano avuto il loro
momento quando Pipino II di Heristal, aveva sconfitto il maestro dell’aristocrazia della Neustria e della
Borgogna, comportandosi come un re che ricomponeva sotto di se l’unità del regno.

II. Bisanzio si ritrae, il papa sceglie i franchi come protettori


Carlo Martello figlio di Pipino, mantenne il potere costruito dal padre, con una più marcata difesa della
cristianità. Sottomise alamanni e turingi, dichiarò guerra ai sassoni e fece perdere l’indipendenza alla
Baviera. La battaglia di Poitiers del 732 fu il simbolo della resistenza cristiana contro i musulmani,
contribuì al prestigio dei Pipinidi e al crollo parallelo dei merovingi (re fannulloni). Carlo Martello diede
dimostrazione di considerarsi ormai un re, quando spartì il regno tra i propri figli Carlomanno e Pipino il
Breve. I due avviarono la riorganizzazione istituzionale del regno acquisito e ingrandito con le mani del
padre e per prima cosa si occuparono del buon funzionamento dell’ordine ecclesiastico. Tuttavia non erano
ancora re di diritto, poiché sul trono continuava a sedere un re legittimo merovingio. Nel 743 Childerico III
fu deposto. Pipino spinse il fratello a ritirarsi in un monastero e tutto il potere restò nelle sue mani, ma non
ancora il titolo legittimo. Fu con l’alleanza col Papato che Pipino si ripromise di ottenere la legittimazione
per la sua elezione regale. Egli gia al momento della deposizione del re merovingio aveva chiesto al papa
Zaccaria se si dovesse dare il titolo di re a chi deteneva il potere o lasciarlo a chi aveva il titolo legale ma
non il potere. Il papa aveva risposto che il potere spettava a chi aveva l’autorità. Così la lunga marcia della
sua famiglia finiva vittoriosa. Il longobardo Astolfo si era impadronito delle terre bizantine dell’Esarcato e
della Pentapoli. Pipino riconquisto l’esarcato e ne fece dono al papa. Il papa in cambio si era messo in
viaggio verso la Francia e ungendolo con olio santo, aveva consacrato Pipino re dei franchi. L’unzione lo
poneva al di sopra del potere terreno e il papa la estendeva alla moglie e ai figli Carlo e Carlomanno
vietando ai franchi di scegliere re al di fuori di questa famiglia. L’imperatore bizantino non ebbe la forza di
opporsi all’accordo tra i Pipinidi e il papa, anzi conferì a Pipino il titolo di patrizio dei romani. Anche

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perché Bisanzio non era più nemmeno in grado di controllare i territori italiani. Questa alleanza portò i
franchi in Italia e creò le condizioni per l’affermazione del dominio temporale dei papi. Da allora il
territorio della chiesa solido e ben difeso rese possibile ogni tentativo di unificazione della penisola. Fu
redatto un chierico romano il Constitutum Constantini, la cosiddetta donazione di Costantino, la cui
falsificazione fu dimostrata da Niccolò Cusano e Lorenzo Valla, nella quale si voleva far credere che
Costantino avesse donato al papa Silvestro I il palazzo lateranense, la città di Roma con tutte le province
d’Italia e la potestà imperiale dell’occidente intero. Nasceva così nell’VIII secolo lo “Stato della Chiesa”.

III. L’espansione militare di Carlomagno


Dagli anni Settanta dell’VIII secolo Carlo, figlio di Pipino, poi detto Magno, procedette a una serie di
conquiste che quasi raddoppiarono i confini del regno franco. Egli conquistò il regno longobardo d’Italia,
creò così una marca-cuscinetto con il confine della Spagna longobarda e infine conquistò i territori
dell’attuale Germania centrale e meridionale per sottomettere i Sassoni, una confederazione di popoli
germanici mai stata romanizzata. Espandendo il suo regno, Carlo dette vita a un Impero cristiano che coprì
gran parte dell’Europa.
- la conquista franca delle terre dei sassoni andò dal 772 all’804, ci furono durissime campagne
accompagnate da missioni religiose. La popolazione venne cristianizzata con forza e costretta a
battezzarsi in massa. Dopo la conquista i franchi realizzarono in quei territori una serie di reti
episcopali, e ai vescovi venne affidato il controllo politico.
- il regno longobardo fu annesso nel 774, dopo che Carlo era stato chiamato in Italia dal papa Adriano I
allo scopo di contenere i longobardi che volevano riunificate sotto di se tutta la penisola, nonostante il re
dei longobardi Desiderio tentò un’alleanza dando in sposa a Carlo sua figlia Ermengarda.
- la marca di Catalogna fu istituita in seguito a una disastrosa campagna contro i musulmani della
penisola iberica, terminata con la cosiddetta rotta di Roncisvalle, immortalata dalle Chanson de geste: la
Chanson de Roland, composta tra il 1060e il 1100 celebra la resistenza del suo comandante.

IV.Il regno d’Italia


L’azione di Carlo verso il regno longobardo aveva determinato la coesistenza di almeno quattro Italie,
che vivevano storie parallele, bloccando in modo definitivo l’aspirazione dell’unificazione della penisola.
Un’Italia franca, corrispondeva al regno longobardo; un’Italia della Chiesa, corrispondente al territorio
controllato dal papa; un’Italia bizantina che comprendeva le aree costiere, Venezia, la Calabria e la
Sicilia; i ducati di Spoleto e Benevento, nel Mezzogiorno, tentarono di mantenere la loro autonomia e
divennero teatro di conflitti tra filolongobardi e filofranchi. Questo conflitto si risolse a favore di
Carlomagno. I primi anni della dominazione franca, non portarono alcuna radicale trasformazione. Carlo
dopo la conquista aveva abbandonato l’Italia, per impegnarsi nelle spedizioni contro i sassoni. Da Friuli
partirono tentativi di sollevazione antifranca e filolongobarda, che furono velocemente repressi con le
armi, e convinsero Carlo ad aumentare la presenza franca in Italia, che ridimensionò il ruolo delle
aristocrazie longobarde e si adoperò contro i movimenti di resistenza nel ducato di Benevento, finiti con
l’annessione del ducato. Carlo separò la corona d’Italia da quella franca. Suo figlio Carlomagno ricevette
dal papa l’unzione di re d’Italia.

V. Carlomagno imperatore
La fine degli anni Ottanta dell’VIII secolo fu il momento di maggiore tensione tra i franchi e i bizantini. Nel
797, durante lo scontro religioso fra iconoclasti e iconoduli che stava allontanando la chiesa di Roma da
quella di Costantinopoli, l’imperatrice Irene fece accecare il figlio, e il papa dichiarò lei usurpatrice e il
trono vacante per la sua indegnità alla corona. In quello stesso anno il papa cominciò a lavorare perché
fosse Carlo a rimpiazzare in occidente il potere screditato in oriente. Carlo così colse il momento per
colpire il potere bizantino, intraprendendo una serie di campagne militari. Si mosse contro Benevento,
l’Istria e la Croazia, si espanse a est contro gli slavi e infine contro gli avari del medio Danubio. Questa
politica di espansione costrinse Bisanzio a trovare un accordo in base al quale Benevento e l’Istria
diventavano terre franche. La politica filocarolingia dei papi, ebbe successo quando nell’800 papa Leone
III, aggredito e accusato di immoralità dai suoi avversari, si rifugiò presso il re dei franchi, si fece scortare
fino a Roma, si discolpò davanti a un’assemblea con Carlo in posizione di giudice e da lui fu assolto. Pochi
giorni dopo, nel giorno di Natale in San Pietro, Leone III incoronò Carlo imperatore dei romani.
L’incoronazione di Carlomagno è stata molto amplificata dalla leggenda, si trattava infatti soprattutto di un
atto di propaganda che poco cambiava sul piano politico. Ma è vero che dopo 324 anni dalla deposizione di

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Romolo Augustolo, tornava a esistere l’Impero romano d’Occidente, o per lo meno un regno
soprannazionale che ad esso faceva riferimento. Il nuovo impero nasceva come cristiano, perché come
sostenevano i teorici imperiali al regno di Dio nei cieli corrispondeva quello di Carlo sulla terra.
L’imperatore costruì il suo palazzo con una cappella che ricalcava il modello del Santo Sepolcro. Il nuovo
impero era quindi sacro per il particolare legame con il cristianesimo, e romano negli intenti politici.
L’impero di Carlo si proponeva come restaurazione dell’impero romano. Non a casa Eginardo per scrivere
la biografia di Carlomagno, s’ispiro alle Vite dei dodici Cesari di Svetonio, in particolare a quella di
Augusto. L’idea di restaurazione in occidente provocava l’ostilità dei bizantini, poco disposti ad accettare
che esistesse un altro impero cristiano e romano con pretese di universalità. Nell’812 l’imperatore d’oriente
Michele I riconobbe a Carlo il titolo di imperatore, anche se non quello di imperatore dei romani che gli era
stato attribuito dal papa. Si creò una sorta voluta di gioco di equivoci, secondo i bizantini Carlo fu capo
dell’occidente tacitamente subordinato all’imperatore d’oriente che rimaneva unico titolare legittimo
dell’eredità di Roma, per Carlo e i suoi successori l’incoronazione dell’800 fu una resurrezione dei due
imperi.

VI. L’organizzazione dello Stato carolingio


L’impero che si era formato sotto il governo dei Pipinidi era cresciuto poi con le campagne militari di
Carlo. I franchi erano ancora un popolo guerriero e lo avevano dimostrato con la loro capacità di
espansione militare, che aveva prodotto un’organizzazione politica concentrata nella mani di un re, una
società gerarchica con al vertice i membri della nobiltà, ricchi di proprietà fondiarie.
Carlomagno organizzò l’impero con un forte dirigismo centrale e utilizzando le aristocrazie delle regioni
sottomesse. Le regioni furono rette da una serie di deleghe ai conti, funzionari di fiducia del re che
amministravano territori non troppo ampi detti comitati o contee, che facevano spesso capo a una città. I
conti erano in genere remunerati con le entrate delle pene pecuniarie inflitte nell’amministrare la giustizia e
con parte dei pedaggi. Carlo cercò di non riunire eccessivi poteri su di loro, e per questo si limitò ad
assegnare una sola contea per ciascuno (facendo eccezione per quelle di confine). Di fatto però nelle mani
dell’aristocrazia amministrativa si andò concentrando un potere vastissimo. I conti erano agenti del re, che
eseguivano gli ordini ricevuti, convocavano l’esercito, presiedevano i tribunali per le cause penali e
potevano essere chiamati ad incarichi speciali. I loro compiti erano complessi al punto che fu necessario
organizzare una rete di ausiliari. I missi dominici erano ufficiali itineranti che si spostavano da una contea
all’altra soprattutto per far applicare le leggi, per sorvegliare il patrimonio regio e per contrastare i tentativi
autonomistici delle aristocrazie locali. A poco a poco gli aristocratici iniziarono a considerare di proprietà le
terre che erano stati chiamati ad amministrare, fino a lasciarle ai propri eredi.

VII. Fedeltà vassallatiche e funzionari pubblici


Carlo Magno aveva bisogno di garantirsi la fedeltà dei funzionari regi e per far questo ricorse a dei rapporti
che chiamiamo vassallatico-beneficiari: si tratta di quell’insieme di rapporti che più comunemente viene
chiamato “sistema feudale” o “feudalesimo”, con un termine che in realtà non è mai esistito nel Medioevo.
Il consolidarsi e il diffondersi di tali rapporti perfezionava l’esperienza di governo dei suoi predecessori, dal
momento che, il solido legame del re con l’aristocrazia, era già stato il fondamento principale del potere dei
re Merovingi e aveva poi favorito l’affermazione politica e militare dei re Pipinidi. Chi deteneva l’autorità a
vari livelli poteva far appello, in caso di necessità, a una rete di queste fedeltà personali.
Il sistema vassallatico aveva, i suoi antenati, avendo tatto origine da due tradizioni antiche e simili, che si
erano incontrate nei regni romano – barbarici. L’uso del capo barbaro di circondarsi di fedeli, aveva avuto
un chiaro sviluppo in età merovingia, quando attorno alla figura del re si era formato un gruppo di guerrieri
scelti che gli prestava servizio militare e che per questo si collocava in un piano più alto nella scala sociale.
Sia nel mondo romano sia in quello germanico chiunque fosse circondato da una cerchia di fedeli doveva in
qualche modo ricompensarli, gli storici hanno scritto che l’Europa della tarda antichità e del medioevo era
“feudalizzabile”. Il sistema delle fedeltà vassallatiche fu una forma di organizzazione del potere e della
società che si costruì progressivamente e che si basò sul rapporto fra due persone di stato giuridico libero,
una delle quali, più potente dell’altra, concedeva protezione e beni in cambio di fedeltà e servizi, fino a
rappresentare tra VII e IX secolo il vero e proprio cemento della società occidentale.
Carlomagno, impegnato a organizzare l’Impero su un territorio vastissimo, corrispondente alla Germania,
l’Italia e la Francia utilizzando le aristocrazie sottomesse, applicò il vassallaggio ai rapporti con i funzionari
pubblici, i conti e i marchesi, con il risultato che il servizio prestato dal vassallo al sovrano non era più solo
aiuto militare ma anche esercizio di una carica pubblica in nome del sovrano stesso. Il rapporto di

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subordinazione dei funzionari veniva così rafforzato con il giuramento di fedeltà che serviva a Carlomagno
per tenere sotto controllo le tendenze centrifughe dell’aristocrazia. A loro volta costoro si dotavano di
proprie clientele armate che ne accrescevano potere e prestigio.
Il termine vassallo deriva dalla parola germanica gwas che significa uomo. Il vassallaggio sul quale si
basava il rapporto era il giuramento di fedeltà, di un uomo verso un altro uomo. Anche la terminologia in
lingua latina lo conferma: il vassallo che giurava fedeltà ad un individuo imminente entrando nella sua
clientela, faceva un atto di omaggio, cioè, anche in questo caso, diventava uomo di un altro uomo. Suoi
compiti erano di prestare servizio al superiore; di assisterlo nell’amministrazione della giustizia, di pagare
le taglie per il riscatto se fosse stato fatto prigioniero in guerra, o per aiutarlo a sostenere ingenti spese per
l’acquisizione di nuove terre. Il rapporto vassallatico si basava sul giuramento di fedeltà con il quale chi
giurava faceva un atto di omaggio. La cerimonia solenne dell’investitura, che si svolgeva quando veniva
stretto il contratto, comportava un preciso codice simbolico, un insieme di gesti carichi di significato: il
vassallo metteva le mani giunte fra quelle del signore, a ribadire la protezione richiesta e concessa, e il
giuramento veniva sottolineato dallo scambio reciproco del bacio.
In cambio della fedeltà il sovrano o il signore si impegnava a mantenere il vassallo concedendogli una fonte
di reddito, i proventi dell’esercizio della giurisdizione pubblica o, una terra da sfruttare a vita, il “beneficio”
(beneficium o honor) o feudo (soprattutto da X secolo). Anche in questo caso le due parole, la latina e la
germanica, indicavano lo stesso concetto, ed è per questo che, usando un termine che non esisteva nel
Medioevo, si è iniziato a chiamare il feudalesimo il sistema delle fedeltà vassallatico – beneficiarie. Feohu
era, in tedesco, un oggetto prezioso, questo termine aveva indicato a lungo il bene prezioso per eccellenza
per persone non stanziali e non dedite all’agricoltura, il bestiame; la parola in seguito prese il significato di
dono obbligante, vale a dire un dono che si fa per obbligare qualcuno, ottenendone la fedeltà. Il termine
beneficio ebbe lo stesso significato, indicando i beni che il superiore concedeva al vassallo. Inizialmente
qualsiasi tipo di bene poteva essere un feudo o un beneficio, con il tempo questi termini iniziarono ad
indicare soltanto concessione di terra.
Con la concessione di terre la cerimonia dell’investitura si arricchiva di una nuova simbologia, quando il
signore metteva nelle mani del vassallo una zolla di terra a significare il beneficio fondiario che veniva
concesso.

VIII. Un nuovo sistema monetario


Carlo intervenne anche nel settore monetario, stabilendo che battere monta era prerogativa del re e non dei
monetieri privati.
Riformò il sistema basandolo solo su monete d’argento. La riforma prevedeva che la lira o libbra si
tagliasse in 20 soldi, ciascuno dei quali a sua volta si tagliava in 12 denari. Per fare una libbra ci volevano
quindi 240 denari. Il denaro d’argento si diffuse nelle aree conquistate da Carlo e in qualche caso anche
all’esterno e l’uso di coniare in oro non fu più praticato in Europa fino alla metà del XIII secolo.

IX. Dopo Carlomagno: si evolve il senso dello Stato, si avvia la frammentazione


Alla morte di Carlo magno gli succedette il figlio Ludovico il Pio. Ludovico capì l’importanza dell’unità
dell’impero, ed essendo solo ebbe l’opportunità di metterla in pratica. Uno dei suoi primi atti fu la
Ordinatio imperii nella quale affermava che in quanto voluto da Dio e consacrato dal papa, l’impero era res
sacra e non era scomponibile se non a rischio di commettere sacrilegio. Si iniziava a concepire lo stato
come qualcosa che potesse durare anche dopo la morte del re, e si svincolava dall’idea barbarica che il
regno fosse di proprietà del capo vittorioso. Ludovico cercò di attuare una riforma legislativa per unificare i
vari diritti dei popoli sottomessi. Non riuscì, anche se il suo tentativo si era dimostrato un’idea più avanzata
di unità statale. Per combattere la divisione, attuò anche un cambio all’interno dell’aristocrazia che si era
formata sotto il padre, finendo per alienarsene le simpatie. Sancì la centralità dello stato rispetto al pontefice
con la Constitutio dell’824, nella quale dichiarava che non poteva essere incoronato papa chi non aveva
prima giurato fedeltà all’imperatore. Adesso i due poteri, l’Impero Romano e la chiesa dovevano decidere
come dividersi il potere in occidente. Il figlio suscitò maggiori ostilità rispetto al padre, anche se ebbe un
senso dello stato molto più sviluppato. Ludovico voleva che l’impero fosse uno solo, ma sapeva bene che i
suoi primi nemici sarebbero stati i suoi stessi eredi. Pensò dunque ad organizzare la successione ereditaria in
modo coerente con il suo progetto politico-istituzionale. Divisi quindi il regno tra i due figli Pipino e
Ludovico e il nipote Bernardo, tutti e tre sarebbero stati sottoposti al potere del maggiore di loro, Lotario
che avrebbe ereditato anche la dignità imperiale, assumendo la funzione di re dei re. Distinse i loro compiti
con una serie di cose che i tre non potevano fare: non potevano seguire politiche estere autonome, non

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potevano stringere paci, ne dichiarare guerre e non avrebbero potuto ne ricevere ne inviare ambascerie.

X. Si avvia la frammentazione
Il quadro di Ludovico andò in crisi con la nascita di un quarto figlio dalle sue seconde nozze, Carlo anche
lui inserito nel testamento, ricevendo dei territori prima appartenuti a Lotario, che si ribellò. Ludovico
diseredò Lotario e si avviò quindi una lunga fase di guerra tra il padre e i figli. Alla morte di Ludovico il Pio
la guerra continuò tra i figli Ludovico e Carlo che sconfissero il fratello Lotario, facendo un anno dopo
un’alleanza a Strasburgo. Il giuramento di Strasburgo del 14 febbraio 842 è considerato l’atto di nascita del
volgare francese e di quello tedesco e prevedeva la spartizione dell’impero. Cosi l’impero carolingio finiva.
La spartizione attribuiva ad ognuno dei fratelli una quantità di terre più o meno uguale. La spartizione ebbe
due conseguenze, la prima fu che l’impero di Carlomagno non esisteva più e la seconda che ciascuna delle
tre parti dell’ex impero carolingio intraprese un percorso autonomi, e ognuna da allora ebbe la propria
storia. Alla morte di Lotario si assiste a una nuova spartizione tra i figli, al primogenito Ludovico II
andarono il titolo imperiale e la conferma del regnum Italiae e gli altri figli Lotario e Carlo ricevettero
l’uno i territori più settentrionale dei domini paterni e l’altro la Provenza. Ma proprio l’imperatore Ludovico
II si dimostrò il più debole tra i sovrani e il papa si rivolse altrove per trovare alleanze politiche che lo
aiutassero a difendersi dalle incursioni saracene. Il processo di disgregazione andò avanti nonostante il
piccolo tentativo dell’ultimo imperatore della dinastia di Carlomagno, Carlo il Grosso nel 884, di riunificate
Francia, Italia e Germania. Alla fine del IX secolo in molti paesi si affermarono dei vasti principati
territoriali, non si determinarono mai formazioni tanto estese in Italia. Sottoposta a nuovi smembramenti
sulla base delle successioni ereditarie e delle pressioni di alcune fra le più potenti casate aristocratiche.
Nelle città la popolazione cominciava a pensare di organizzarsi autonomamente intorno ai propri vescovi, a
molti dei quali gli imperatori andavano concedendo importanti prerogative come costruire fortificazioni,
istituire mercati e riscuotere dazi. La debolezza dell’impero quindi dava il via agli sconti tra alcune delle più
grandi casate aristocratiche, i signori di Spoleto, del Friuli, di Toscana e di Ivrea. Per tutto il X secolo si
affermarono anche donne aristocratiche molto potenti come, a Roma Marozia, a Lucca la duchessa di
Toscana Berta, a Ivrea Ermengarda. Tra il IX e il X secolo scoppiò un violento conflitto per il possesso della
parte corrispondente all’antico regno longobardo, fra Berengario marchese del Friuli e nipote di Ludovico il
Pio e Guido marchese di Spoleto. A conclusione con l’appoggio del papa Berengario poté cingere la corona
di re d’Italia e di imperatore. Ma Berengario fu assassinato nel 924 e il regno d’Italia divenne ingovernabile
a un livello centrale, uscendo dall’anarchia solo con le dinastie tedesche. Le vicissitudini della Francia e
dell’Italia del X e XI secolo sono senz’altro dovute alla debolezza del potere centrale. Non si trattò di vera e
propria anarchia, ma di una ridislocazione del potere che in Francia passò nelle mani della grande
aristocrazia, in Italia nelle mani delle grandi casate aristocratiche.

XI. Il sistema vassallatico si trasforma: l’eredità dei feudi (877 – 1037)


Con la crisi dell’impero carolingio, già dalla seconda metà del IX scolo i grandi feudatari avevano iniziato ad
acquisire in modo permanente i feudi che erano stati loro assegnati perlopiù per la durata della loro vita, con
le relative giurisdizioni. La stessa tendenza a rendersi autonomi dal proprio signore si era fatta sentire anche
tra i vassalli dei livelli più bassi. Carlo il Calvo, riconoscendo una situazione di fatto, emise un secondo
capitolare nell’877 a Quierzy – sur - Oise con il quale riconobbe il diritto di lasciare i feudi in eredità ai
propri discendenti.
Per rafforzare la propria autonomia molti vassalli avevano cominciato a prestare giuramento a più signori
contemporaneamente, in modo da eludere gli obblighi di fedeltà verso ciascuno di essi in modo da eludere gli
obblighi di fedeltà verso ciascuno di essi tramite un semplice gioco di precedenze incrociate. A loro volta, nel
tentativo di rendere nullo questo espediente, nell’XI secolo i signori della Francia e della Lotaringia e in
seguito della Catalogna, dell’Inghilterra ecc. introdussero l’obbligo dell’omaggio ligio: il vassallo, cioè,
poteva anche aver prestato giuramento a più signori, ma adesso doveva chiarire a quale di essi intendeva dare
la precedenza per osservare i suoi obblighi di fedeltà. Servì a poco. Ben presto fu chiaro che i vassalli
prestavano a più signori contemporaneamente anche l’omaggio ligio. La trasformazione del feudo concesso
di volta in volta in una proprietà piena ed ereditaria, insomma, appariva insita della natura stessa del rapporto
vassallatico e non era fenomeno che potesse essere arginato con disposizione di legge.
Il peso dei feudatari maggiori si accrebbe; la giustizia del re divenne giustizia comitale, amministrata
autonomamente dai conti dei vassalli; e i conti smisero di organizzare l’esercito in nome del re, per esigere,
sempre più spesso prestazioni militari a titolo personale. Ancora vivente Carlomagno i conti potevano
esonerare dalle prestazioni militari dovute al re quegli uomini liberi che avessero fatto loro dono della propria

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terra in cambio di protezione, e in questo caso usurpavano di fatto un diritto pubblico. Mescolavano il
concetto di honor (cioè la concessione del diritto a esercitare una funzione pubblica) con quello di dominatus
(cioè l’esercizio di un potere di fatto su uomini e beni).
Nei secoli X e XI, con la dissoluzione dell’impero carolingio, alcuni conti, facevano leva sui possessi
fondiari, sulle fedeltà vassallatiche e sui vincoli di parentela, riuscirono a imporre il proprio controllo s
diversi distretti e costituire dei veri e propri principati territoriali che riconoscevano al re solo un omaggio
formale. Si basò su tutto questo la nascita di dinastie potentissime. Alcuni conti ebbero più potere dello stesso
re. Una parte del mondo feudale si organizzò come una rete di rapporti di fedeltà.
Forme diverse di organizzazione dei poteri locali, costruendosi dal basso, camminarono nella stessa
direzione: da una parte alcuni conti e marchesi, inizialmente titolari di circoscrizioni pubbliche,
amministratori di regioni per conto di un potere più alto, diventarono signori della popolazione che vi viveva,
titolari, di domini signorili su base ereditaria; da un’altra si ebbero feudatari che divennero proprietari e
signori delle terre inizialmente ricevute come compenso del servizio armato e della fedeltà; da un’altra
ancora furono certe signorie rurali a divenire, oltre che un sistema di sfruttamento della terra, un sistema di
comando di un territorio, per quanto in questo caso il potere non fosse stato concesso dal signore dall’alto
bensì si fosse formato dal basso, cioè dalla necessità stessa di difesa e organizzazione delle popolazioni

3 Le ultime invasioni e l’Impero degli Ottoni (IX-X secolo)


I. L’attacco da nord, da est e da sud
Tra il IX e il X secolo sull’Europa si versarono altre ondate migratorie, da nord i vichinghi, da est gli ungari
e da sud i saraceni. Erano attirati da tutti i luoghi dove si erano accumulati ricchezze, li spingeva più quindi
la speranza del bottino che quella della dominazione politica. Infatti non c’erano altre spiegazioni, non
erano stati spinti dal sovrappopolamento, nel dal clima ne dall’idea dell’espansione politica. L’avvio
dell’attacco all’Europa pur condotto vari punti e con mezzi e tecniche diversi, fu quasi simultaneo. Era
l’agosto dell’864 quando a Ostia sbarcò un corpo di spedizione composto da saraceni, bande di pirati
proveniente dalla Siria, dall’Egitto e dall’Africa. Nel giro di pochi giorni giunsero alle porta di Roma,
penetrarono al suo interno e saccheggiarono San Pietro, provocando l’allarme in tutto l’occidente. Nell’875
gli ungari passavano i Carpazi e si stanziavano in Pannonia cacciandone i contadini sedentari e i missionari
cristiani. I vichinghi attaccarono da nord, dalla Scandinavia (erano già comparsi durante il regno di
Carlomagno). Dagli anni 30 e 40 del IX secolo le loro spedizioni furono sempre meno scorrerie si bande
armate e assunsero sempre più la caratteristica di vere conquiste militari. La loro forza stava soprattutto
nelle imbarcazioni, drakker per l’effigie del drago che decorava la prua, erano leggere e veloci e adatte alla
navigazione dei mari e dei fiumi. Depredarono l’Irlanda, l’Inghilterra e le coste della Francia, il Portogallo,
le coste provenzali e quelle italiane. A poco a poco cominciarono a insediarsi nei territori che avevano
saccheggiato. Dall’860 cominciarono a colonizzare l’Islanda, spostandosi in seguito in Groenlandia da dove
raggiunsero le coste americane. Nel 896 si stabilirono lungo il corso interiore della Senna, dando origine al
primo nucleo della Normandia. Gli ungari attaccarono da est, provenivano dall’Asia. Si stanziarono nelle
pianure della Pannonia nell’895 e dall’898 avviarono una serie di spedizioni contro le campagne e i
monasteri tedeschi. Attaccarono la Baviera, la Sassonia, l’Italia padana, la Borgogna e la Provenza. Nel 988
furono sconfitti dall’imperatore Ottone I e da quella data ebbe inizio il processo che li trasformò da popolo
migrante a popolo sedentario. Le incursioni cessarono e si stanziarono sul corso del Danubio, formando
l’embrione del regno ungherese. Nel 996 l’Ungheria divenne un regno cristiano con la conversione al
cattolicesimo di re Stefano che si legò con la chiesa di Roma tagliando i ponti con quella di Bisanzio. I
saraceni attaccarono da sud. Colpirono le coste tirreniche soprattutto italiane e provenzali, e le isole. Dal
710 la Sardegna fu assalita cinque volte in 100 anni. L’effetto più importante delle loro scorrerie fu la
conquista della Sicilia e l’insediamento in Puglia.
S’impiantavano nei territori che avevano saccheggiato e con spedizioni fulminanti saccheggiavano nuovi
villaggi. Nell’846 saccheggiarono San Pietro, nell’881 attaccarono l’abbazia di San Vincenzo e nel 883
quella di Montecassino. Un altro contingente si stabilì in Provenza nei pressi di Saint- Tropez, le incursioni
si spinsero per 80 anni in Provenza, in Piemonte, in Liguria e in Svizzera, fino a quando nel 973 furono
cacciati dalle forze congiunte del marchese di Torino e del conte di Provenza. Il pericolo portò alla
fortificazione di molti villaggi, chiese e monasteri, che misero in sesto le loro difese, mentre sorsero
ovunque nuovi castelli per la protezione delle popolazioni. In Francia nelle contee, diventati veri e propri
centri di resistenza contro le invasioni, i conti ricevettero in delega il potere militare. Alcuni signori fondiari
organizzarono la difesa, controllavano e difendevano la giustizia. Il sistema politico mutò, ebbe meno

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bisogno della partecipazione del re, una figura debole rispetto a certe famiglie di signori ben più forti di lui.
Scomparve il giuramento di fedeltà militare. In Germania il ruolo centrale della monarchia non fu più messo
in discussione, anche quando nel 911 morì senza eredi l’ultimo re tedesco della stirpe carolingia, Ludovico il
Fanciullo. L’aristocrazia chiamò al trono Corrado di Franconia, che continuò a tenersi su un piano più alto
rispetto all’aristocrazia. Enrico I di Franconia, suo successore, ebbe modo di riaffermare la forza del re a
conclusione di una lotta contro i duchi.

II. L’imperatore rinasce come germanico: gli Ottoni


La Germania in questa situazione ne usciva come il regno più solido, ed era anche l’unico a mantenere viva
la memoria di Carlomagno, attraverso la tradizione di consacrare i re nella cappella palatina, inaugurata nel
936 per incoronare Ottone I, detto il Grande, come re di Germania. La dinastia sassone che da lui prese vita
è detta ottoniana. La sua opera fu di stile carolingio e il suo programma di espansione in Borgogna e in
Italia si ripropose come una continuità di quello di Carlo, al quale egli guardava come modello. Ottone il
Grande, alla morte del re di Borgongna, intervenne nella successione per difendere il legittimo erede, ma in
realtà voleva assicurarsi il controllo su quelle regioni. Il Italia il progetto ottoniano corrispondeva
perfettamente con quello del papa, diffidente della piega che andava prendere lo scontro fra le casate.
Ottone all’inizio andò incontro alla sua volontà cercando di fare da arbitro da Ugo di Provenza e Berengario
marchese d’Ivrea. Quando il primo morì il secondo fu eletto re d’Italia, ma Ottone scese in Italia e si fece
nominare al suo posto. L’anno successivo Berengario dovette fare un atto di omaggio verso di lui in modo
da ribadire la sottomissione, solo allora recuperò l’investitura del regno d’Italia. In questo modo l’Italia
diventava un feudo del re di Germania e Berengario era capo del regno come suo vassallo. L’opera di
Ottone in Italia si interruppe quando nel 953 scoppiò una rivolta in Germania che lo costrinse a tenersi
lontano dagli affari italiani per alcuni anni. Fu ancora una volta il papa, Giovanni XII a chiamarlo perché
Berengario aveva recuperato troppo potere. Ottone tornò in Italia ed eliminò completamente dalla scena
Berengario e l’anno dopo fu unto e incoronato dal papa “imperatore del Sacro Romano Impero delle nazioni
tedesche”. Il regno d’Italia fu allora unito a quello di Germania. Il papa in cambio della consacrazione
ottenne di mantenere la signoria della città di Roma, s’impegnò a un forte legame di fedeltà con
l’imperatore, da allora ogni papa appena eletto doveva giurare fedeltà all’imperatore. Non appena ripartito
Ottone nel tentativo di allentare questo legame troppo stretto, il papa si alleò con quelli che erano stati i suoi
nemici, prima di tutti con Berengario. Di fronte a questo tradimento Ottone tornò in Italia, e impose al clero
e all’aristocrazia romana di accettare che da ora in poi nessun papa non solo non poteva essere consacrato,
me nemmeno eletto senza prima aver giurato fedeltà. Cosi papa Giovanni XII fu deposto e venne eletto
Leone VIII. L’imperatore cercò di estendere il controllo a tutta l’Italia, compreso il Mezzogiorno (esclusa la
Sicilia musulmana). Costrinse i duchi di Capua e di Benevento a giurargli fedeltà e cercò anche di
conquistare i territori bizantini in Puglia e in Calabria, e raggiunse un accordo con Bisanzio che lo
riconosceva imperatore. Secondo la Translatio imperii, il pontefice da allora avrebbe ruotato tra Roma la
Germania. La Germania dette potere ai vescovi che dipendevano dagli imperatori, così che la chiesa in
questo paese fu il primo strumento della politica imperiale. Dovette poi però limitare il loro potere
contrapponendogli alcune famiglie dell’aristocrazia discendenti dai longobardi. Nonostante gli sforzi
l’impero ottoniano fu debole.
Ottone II non riprese il tentativo del padre di assoggettare all’impero le terre bizantine e musulmane
dell’Italia. Ottone III era bambino, perciò resse l’impero la madre bizantina. In Germania scoppiò una
rivolta, Ottone III fu dichiarato maggiorenne ma non riuscì a riprendere la situazione. Lasciò a se stessa la
Germania, visse solo a Roma con il sogno di restaurare l’impero e di controllare il Papato. L’aristocrazia
romana fece fallire i suoi progetti. Una rivolta costrinse alla fuga papa Silvestro II e l’imperatore. Alla loro
morte Enrico II re di Germania dovette impegnarsi contro le popolazioni slave, in Italia fu eletto re il
marchese d’Ivrea Arduino. Nel 1004 Enrico II scese in Italia, sconfisse Arduino e si fece incoronare re. Ma
la sera stessa scoppiò a Pavia una rivolta.
Domati i ribelli Enrico ripartì, e Arduino restò il punto di riferimento per chi non voleva Ottone re d’Italia.
Enrico tornò in Italia e nel 1014 fu incoronato imperatore, Arduino rinunciò alla lotta e si ritirò in un
monastero.
III. L’Europa intorno all’Impero ottoniano
- La Francia dai Carolingi ai Capetingi
Delle trasformazioni si stavano avviando anche nella Francia carolingia. Alla morte di Carlo il Calvo (887)
il regno aveva cominciato di nuovo a disgregarsi in più piccole unità e la Bassa Borgogna e l’Alta
Borgogna si erano staccate diventando regni autonomi. Nell’888 il suo successore Carlo il Grosso era stato

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deposto ed era stato sostituito dal conte di Parigi Oddone I. Da allora e per un secolo i conti di Parigi
furono i veri re della Francia, anche se la dignità regale rimase dei carolingi. Nel 987 la corona passò a
Ugo Capeto e con lui cominciò la casata dei capetingi. L’affermazione completa di questa famiglia si avrà
con Luigi VI, che ridurrà il potere ai conti, si assicurerà l’alleanza del pontefice e creerà le basi per
l’amministrazione centrale.
- L’Inghilterra
La resistenza in Inghilterra contro le invasioni danesi ebbe un protagonista, Alfredo il Grande, che costruì
insediamenti fortificati per sconfiggere le mire degli invasori. Alfredo promosse raccolte legislative e la sua
opera di riorganizzazione della cultura si baso sulla traduzione di autori latini e sull’istituzione della scuola
pubblica. Il problema principale dei suoi successori, fu sempre quello di contenere i danesi. Finchè nel 1016
il re danese Canuto il Grande conquistò l’isola, si convertì al cristianesimo e fece dell’Inghilterra il fulcro
del suo potere nel mare del Nord. La convivenza fra conquistatori e conquistati fu possibile grazie alle
istituzione di Canuto che assegnò terre a inglesi e danesi senza espropriare i vecchi proprietari.
L’organizzazione pubblica fu affidata a esponenti di entrambi i popoli.
- A ovest: la Spagna cristiana
Intorno alla Spagna musulmana si muovevano i focolai della resistenza cristiana, intenzionati a
riconquistare le terre che i loro antenati aveva perduto. Il regno delle Asturie e Leòn fu per due secoli il
punto centrale dell’azione di reconquista. A metà del X secolo il suo posto fu preso dalla contea di
Castiglia, che dotò il proprio territorio di una struttura difensiva antimusulmana. La Catalogna si rese
indipendente mantenendo lingua e cultura diversa dal resto della penisola.
- A est: Ungheria, Boemia, Polonia
In questi anni l’Europa orientale fu molto in movimento. L’Ungheria divenne un regno cristiano con re
Stefano. La Boemia fu cristianizzata e si organizzò come un ducato, assoggettata formalmente all’imperatore
tedesco, mantenne un certo margine di autonomia. La Polonia nel X secolo divenne autonoma e si
cristianizzò. Il suo principe Miecislao mantenne rapporti di fedeltà personale con Ottone III, ma pose il paese
sotto la protezione del papa.
- A est: Rus
Nel IX secolo si erano formati dei principati intorno al lago Lagoda, in parte per iniziativa dei vichinghi e in
parte per le popolazioni autoctone. Kiev era la capitale del nuovo principato di Rus. All’inizio dell’XI
secolo la città ormai era il crocevia dei traffici economici, dei rapporti culturali e di quelli religiosi della
Russia. Gli slavi erano popoli pagani, e la conversione fu preceduta da quella del principe russo Vladimir a
seguito di negoziati militari e commerciali con Bisanzio. A Kiev fu costruita la prima cattedrale russa e
anche la principale personalità religiosa russa, il metropolita, di nomina bizantina. Dall’incontro tra il diritto
slavo e la cultura e le leggi bizantine nacque, nella prima metà del XI secolo, la prima redazione delle leggi
russe. Alla morte del re Jaroslav nel 1054 la Russia si sgretolò in una serie di principati e signorie locali.

Capitolo 3 L’OCCIDENTE TRA COMUNITA’ E SPERIMENTAZIONI


1 Il ritorno della scrittura e i suoi effetti

I. Si moltiplicano i documenti
Abbiamo già visto come le fonti dalle quali ricostruiamo la storia si siano rarefatte a partire da IV – V secolo,
al punto da compromettere le nostre possibilità di conoscenza. In questo quadro la breve stagione carolingia,
che si svolge nell’arco di poco più di un secolo, colpisce per la ricchezza delle informazioni che la riguardano
e ne illuminano i tratti, rispetto a quelle, ben più povere, che lasciano confusi i contorni dei secoli precedenti.
Quasi all’improvviso si moltiplicano i documenti e da questo momento sappiamo qualcosa di più della storia
di una buona parte d’Europa. Si rinnova l’uso di legittimare con lo scritto gli atti di trasmissione della
proprietà della terra e delle transizioni economiche. Aumentano i documenti prodotti dalla cancelleria regia,
costituiti soprattutto da un buon numero di testi di capitolari, di diplomi (documenti ufficiali rilasciati per
concedere un privilegio o sancire l’esistenza di un diritto), di placiti, di lettere. Quando i documenti
aumentano è aumentata di necessità la diffusione della scrittura e della cultura, e di sicuro un fenomeno così
ampio non può essere mai soltanto merito di un capo, per quanto lungimirante possa essere. È vero tuttavia
che Carlo raggruppò intorno alla corte un ambiente intellettuale internazionale dove si potevano incontrare
uomini di cultura come l’anglosassone Alcuino, maestro della scuola episcopale di York, i visigoti Benedetto
abate di Aniane e il poeta Teodolfo, il monaco Longobardo Paolo Diacono e altri personaggi provenienti da

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paesi non inclusi nell’impero, ma in stretto contatto con esso. Se c’era bisogno di formare amministratori di
valore bravi vescovi, degni e istruiti, occorrevano manuali sui quali studiare, testi chiari, soprattutto dal punto
di vista giuridico. L’istruzione ebbe sede nei monasteri e le loro biblioteche e gli sciptoria, dove si copiavano
i manoscritti, trovarono nelle nuove scuole un forte motivo di sviluppo. Fu così che si salvarono molti testi
della letteratura cristiana dei primi secoli e anche gran parte di quella latina pagana, considerata presupposto
indispensabile per continuare a comprendere anche i testi sacri e quelli dei Padri della Chiesa.

II. La rinascita carolingia


Lo sforzo per dare nuovo vigore all’amministrazione nei paesi franchi, che ricreò scuole e pratiche
amministrative basate sull’uso regolare della scrittura, è chiamato rinascita carolingia e fu un fenomeno che
riguardò soprattutto gli ecclesiastici dato che gli imperatori si servivano soltanto di loro per stendere gli atti e
organizzare il servizio di redazione.
Il nuovo bisogno di libri condusse anche alla diffusione di una nuova scrittura, che dal nome dell’imperatore
fu detta minuscola carolina, inventata per facilitare il lavoro dei amanuensi e la lettura dei testi essenziali e
che costituì la base di ogni successiva corsiva minuscola. Si trattava di una scrittura caratterizzata da lettere
piccole, leggibili e tracciate separate l’una dall’altra. La diffusione della carolina in Italia avvenne, attraverso
codici fatti trascrivere dai maestri venuti d’oltralpe e usati per l’insegnamento delle litterae. La ritroviamo a
Verona, Pavia, Bobbio entro il terzo decennio del IX secolo, poco dopo a Milano. Sostituita più tardi dalla
scrittura gotica, con le sue tipiche lettere angolose, la minuscola carolina sarà riutilizzata dagli umanisti.
Questi letterati italiani del XIV – XV secolo diverranno assidui frequentatori delle biblioteche dei monasteri
nelle quali cercheranno le testimonianze dei grandi classici dell’antichità e, poiché le opere dei classici che
essi ritroveranno saranno scritte in minuscola carolina, finiranno per crederla già in uso presso i romani, la
chiameranno antiqua e la prenderanno come modello calligrafico senza capirne l’origine medioevale.

III. Capitolari e polittici


Le dettagliate descrizioni redatte durante il periodo carolingio forniscono indicazioni molto puntuali sulla
vita nelle campagne che gli agenti del re erano chiamati ad amministrare. La grande legge sulle terre
pubbliche emanata negli ultimi anni dell’VIII secolo, il Capitolare de villis (villae o curtes erano dette le
aziende agrarie) conteneva precise disposizioni su come esse dovessero essere amministrate. Il re, per
premunirsi contro gli abusi di potere, pretese esplicitamente che fossero stilati elenchi dei suoi principali
possedimenti.
Il sistema di mettere per iscritto inventari di beni ebbe rapidamente successo. Anche i signori, per
amministrare i loro beni terrieri, avevano bisogno di conoscere con sufficiente esattezza quanto possedevano
e quali obblighi i contadini dipendenti avevano verso di loro. A questo scopo mandavano in tutte le terre
degli agenti che s’informavano sullo stato della proprietà, riunivano gli abitanti e, dopo aver fatto giurare la
verità, domandavano quali erano gli oneri tradizionali di ogni campo.
Le risposte erano messe per scritto e conservate nell’archivio del signore, dal quale uscivano per far fede in
tribunale in caso di contestazione tra lui e i suoi uomini.
Dal IX secolo disponiamo, perciò, dei polittici, inventari descrittivi del patrimonio in uomini, terre, rendite,
scorte delle grandi signorie ecclesiastiche, quelle che più si presero cura della loro conservazione, ma si
ritiene che possano averli prodotti anche quelle laiche.

2 Campagne e città

I. Le campagne: un mondo di servi, liberi e semiliberi


L’alto Medioevo è l’età di una nuova organizzazione degli abitanti rurali e del lavoro della terra. Molti
insediamenti romani erano stati abbandonato tra il V e il VI secolo in seguito al drastico calo della
popolazione, e poi sostituiti da case contadine, inoltre a lavorare la terra non erano più solo schiavi o
contadini itineranti. Nel Medioevo la distinzione tra liberi e schiavi, così semplice nel mondo romano, si
complicò, fino a creare molti gradini di semiservitù o semilibertà. Il servus romano era privo di diritti civili,
politici e della propria libertà, era possesso di un padrone che aveva su di lui diritto di vita e di morte. Greci
e romani reclutavano gli schiavi tra i prigionieri di guerra. La fine delle guerre di conquista aveva fatto
diminuire il numero degli schiavi disponibili a coltivare la terra, quindi i proprietari dovevano trovare altri
modi altrettanto produttivi. La fine del mondo romano quindi comportò la diminuzione degli schiavi ma non
della schiavitù. Poi si reclutava ancora manodopera agricola facendo prigionieri soprattutto gli slavi. Lo
stato giuridico del servo medievale ero lo stesso delle schiavo romano, però a differenza di questo, a quello

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medievale era consentita una vita familiare e su di lui il proprietario non aveva più diritto di vita o di morte,
sia per i principi di uguaglianza predicati del cristianesimo sia perché il capitale umano era prezioso da
quando non c’erano più guerre di conquista. Per gli schiavi veri e propri, quelli cioè simili agli antichi fu
creato la nuova parola sclavum. Nelle documentazioni scritte si incontrano poi i servi casati o manenti,
servi giuridicamente liberi, che non erano sottoposti alla proprietà del padrone ne alla legislazione
schiavistica. Pur non essendo vincolati dal proprietario, lo erano da padre in figlio alla terra che lavoravano,
facevano parte dei beni mobile del padrone, ma per loro era un vantaggio in quanto potevano assicurare ai
figli un lavoro e una casa, per indicare questo tipo di lavoratori si utilizza il termine servi della gleba. Liberi
erano tutti coloro che nascevano in condizione giuridica non servile o chi acquistava la libertà grazie al
padrone. Erano piccoli contadini che lavoravano la loro terra o quella padronale in cambio di un canone. I
contratti avevano una durata di ventinove anni anche se poi divenivano illimitati perché ereditari. Con lo
sviluppo delle signorie territoriali tutti coloro che lavoravano la terre con le mani, furono sottomessi al
potere signorile.

II. L’agricoltura sperimenta nuovi modelli


La curtis o villa è l’azienda attraverso al quale i grandi proprietari sperimentano tra VIII e IX secolo una
diversa organizzazione del lavoro agricolo. Questa forma non si sviluppò in tutta Europa ma interessò
soprattutto l’Inghilterra, la Gallia del nord, la Renania e l’Italia settentrionale.
- La curtis franca
Centro importante d’irradiazione di questo modello fu l’area franca, dalla quale esso di diffuse in molte
delle regioni che furono conquistate da Carlomagno. La curtis era un’azienda agraria le cui terre avevano
due tipi di gestione. La pars dominica, erano le terre che avevano come centro i magazzini e l’abitazione
del signore, che se ne riservava i frutti per il proprio fabbisogno. Questa riserva era lavorata dai servi
prebendari, il cui lavoro era integrato a quelli che lavoravano l’altra parte dell’azienda, la pars massaricia.
Questa era composta da piccoli poderi, detti mansi, affidati al lavoro dei servi casati, o concessi in affitto
alle famiglie di massari liberi in cambio di un canone in denaro o in natura. Questi affiancavano i servi
nelle coltivazione della parte dominica, impegnandosi ad effettuare dei servizi detti corvées. Si trattava di
un lavoro a tempo, calcolato in base alla giornata. In questo modo il proprietario risolveva il problema della
carenza della manodopera, la parte dominica veniva coltivata un po da servi e molto dai contadini del
massaricio, in genere ogni contadino doveva tre giorni di corvées al padrone. Le corvées furono il segno
della dipendenza dal padrone. Spesso le terre migliori erano comprese nella parte dominica, e quelle più
difficili venivano date in affitto, non risultavano divise nettamente le une dalle altre. Nella corte inoltre si
tendeva a produrre di tutto anche abiti e attrezzi da lavoro, ma non si trattava di un’economia chiusa.
- Il maniero inglese
Qualcosa del genere avveniva anche se con delle differenze in Inghilterra. In questa regione le aziende
erano meno estese e facevano ancora largo uso di schiavi, in quanto le guerre contro gli scandinavi
fornivano ancora schiavi da addestrare per la terra. I servizi erano necessari e venivano fornititi dagli
uomini intorno alla hall del signore in cambio di protezione a aiuto.
- La grande proprietà in Spagna
La grande proprietà fondiaria si diffuse a partire dal IX secolo nella penisola iberica a nord nella cordigliera
cantabrica, a spese di quelle comunità che si erano costituite in epoca visigota.
- In Italia: tra casale longobardo e curtis franca
In Italia l’azienda nel modello franco si sviluppò nelle terre longobarde quando furono conquistate da
Carlomagno. Ma non in tutte, soprattutto nell’area padana, in Toscana e nel ducato di Spoleto, fu modesta
nel Friuli e in Trentino, rimasero fuori le terre longobarde dell’Italia meridionale. Il modello fu meno
organizzato rispetto a quello del territorio franco e s’incontrò e sovrappose con il modello di casale
longobardo. Simile, perché anche quell’azienda era organizzata in gruppi di poderi, punto di partenza per la
coltivazione, ma differenti perché non prevedevano una parte di terra dominica. Inoltre i poderi non erano
coltivati mai da contadini liberi, ma da servi o semiliberi. Più simile al modello franco era stata
l’organizzazione delle terre personali dei re longobardi, in cui i casali rappresentavano un nucleo di
dominico intorno al quale ruotavano le terre dei contadini. Il commercio in Italia non era mai scomparso del
tutto anche quando si era fortemente ridotto e le monete avevano continuato a circolare. In alcuni casi i
contadini sostituirono i servizi che dovevano al padrone con il pagamento di denaro e la produzione
dell’azienda non fu solo destinata all’autoconsumo ma raggiunse anche i mercati. Si affermarono importanti
aziende anche intorno ai monasteri. Philip Jones nel 1966 ha calcolato che in epoca carolingia un terzo del
territorio produttivo della penisola fosse in mano ad enti ecclesiastici.

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III. Fuori dalla curtes. Grandi aziende e piccole proprietà


Non tutta l’agricoltura era organizzata sulla base delle aziende curtensi. Non tutti i coltivatori finivano servi
dei grandi proprietari. Contadini liberi anche se in notevole diminuzione vi erano nell’Italia del nord,
nell’Inghilterra, nella Germania e nell’Aquitania. Non ci fu grande proprietà anche nelle zone scandinave e
sulla costa del mare del Nord fino alla frontiera danese. Nel X secolo si cominciarono a bonificare le zone
paludose lungo le coste, l’operazione riuscì perché si attirarono i contadini incoraggiandoli con la
prospettiva di libertà. Nei paesi slavi rimase a lungo in vita la proprietà collettiva della terra, in mano
all’intera comunità dei contadini. Il monaco Harnold racconta che nell’XI secolo i signori dovettero
insegnare ai contadini la coltivazione individuale, poiché da loro era conosciuta solo quella collettiva. Nella
regione di Kiev la grande proprietà prese piede nel X secolo riducendo drasticamente la libertà dei contadini
che erano stati del tutto indipendenti. Nella Spagna occidentale e in Catalogna le libere proprietà contadine
resistettero, organizzando la difesa contro i musulmani, ma anche qui dall’XI secolo finirono per diventare
servi dei grandi signori.

IV. L’Europa senza città, con poche città, con città retrate
Nel V secolo le città persero buona parte della popolazione, sotto la spinta degli stanziamenti barbari i
grandi proprietari di stirpe romana avevano preferito spostare le loro residenze in campagna,
disinteressandosi all’amministrazione urbana. Anche i nuovi proprietari di stirpe germanica non conoscendo
una tradizione di vita cittadina si erano insediati nelle campagne. Fra IV e VIII secolo molte città si erano
spopolate, alcune erano scomparse. Altre chiamate dagli storici “città retratte” si erano ridotte. Ad Arles e
Nimes il perimetro dell’antico anfiteatro romano fu la muraglia all’interno della quale si riunì la
popolazione. Parigi si restrinse sulla isola della Citè. La popolazione di Roma subì un drastico
ridimensionamento, superiore al resto di tutta la penisola. La vita politica si svolgeva nei grandi castelli
imperiali dove il re prendeva le decisioni ed emanava le leggi. La stessa cultura medievale nacque
all’interno delle corti, basti pensare al ciclo di re Artù, che narrava le gesta del capo dell’opposizione
Britannica romanizzata alla conquista sassone come il capo di una compagnia di cavalieri, o le Chanson de
geste che cantavano le gesta degli eroi, esaltavano la lotta contro i mori e la difesa della cristianità, di cui il
primo testo conservato è la Chanson de Roland. Le città altomediavali non erano più le stesse di quelle
romane. Per l’Italia la situazione non fu tutta uguale, perché dipendeva da quella di partenza, per esempio in
Sardegna non c’erano molto città nemmeno nel periodo romano. Nei secoli delle grandi invasioni il sud
divenne un “cimitero di città”. In Italia centrale e settentrionale la popolazione rimase un po più fedele alla
tradizione romana, risiedendo in città. Negli anni 80 del 900 ci fu una discussione intorno a degli scavi
archeologici che mettevano in risalto alcuni la continuità della vita urbana altri segni di interruzione. Nelle
città romane, abbandonate in gran parte dai proprietari terrieri e dai ceti dirigenti, una certa continuità fu
data dalla chiesa, con la creazione di diocesi. Così il mantenimento di una funzione rispetto al territorio
circostante fu per molte di esse il motivo principale di sopravvivenza.

V. Un commercio di raggio più ristretto


Le attività commerciali subirono una serie di importanti trasformazioni nella prima metà del Medioevo.
Innanzi tutto, per il rarefarsi della popolazione e degli scambi via terra. Molte strade romane di frontiera
erano state mandate in rovina perché non favorissero l’irruzione dei nemici. Così percorrere le strade era
diventato lento, pericoloso e costoso. Poiché era rinata la vegetazione, i signori esigevano i pedaggi e nei
boschi si nascondevano ladri e animali. Per questo il commercio medievale aveva seguito più le vie
d’acqua. L’Italia non rappresentava più il cuore dell’impero che si era dissolto, Roma non era stata più
caput mundi. Nel mondo franco nell’VIII secolo era arrivato a compimento un processo che portava alla
sostituzione della moneta d’ora con una d’argento.
Questo portava ad un rallentamento della vita economica e a una diminuzione degli scambi tra oriente
e occidente.

VI. Primi segni della ripresa


Si è soliti pensare che l’Europa cominciò a riprendersi con il nuovo millennio da una depressione durata
molti secoli. Ma gli studiosi sostengono che gia nell’VIII secolo qualcosa cominciava a cambiare. Le
grandi epidemia aveva dato tregua, per questo ci fu un processo di ripresa della popolazione. In Italia il
ruolo delle città fu più importante che altrove, anche i mercati non erano scomparsi mai del tutto. Fra il IX
e il X secolo i sovrani concessero numerosi privilegi a mercanti, ma anche a vescovi, abati e signori laici

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per utilizzare a scopo commerciale le acque e i porti dei fiumi. Nell’840 un patto commerciale tra
carolingi e Venezia mise le basi della fortuna di questa città, che importava dall’oriente prodotti di lusso,
ce poi smerciava nell’area padana e stabiliva i primi contatti con l’Egitto. In Toscana Pisa cominciava a
mettere le premesse per la sua fortuna economica. Al sud oltre che in Sicilia, Bari sviluppò un ponte
commerciale con Bisanzio.
Muovendo in parte dalle campagne, in parte dalle città, nell’Europa del IX, X secolo cominciarono a
vedersi i primi segni di lenta e chiara ripresa.

Capitolo 4 LA CRESCITA DELL’OCCIDENTE (XI-XII secolo)


1 L’anno Mille: la verità e la leggenda

I. La leggenda della grande paur


Millenarismo (“mille anni”) indica le dottrine e utopie fondate sull’attesa del giudizio, della punizione, della
salvezza, del regno di Satana, dl regno di Dio, del trionfo della giustizia sociale. Probabilmente in alcuni
ambienti si era generato realmente, sulla scorta della profezia di Giovanni contenuta nell’Apocalisse, un
sentimento di attesa del millennio. Tuttavia, le cronache del tempo danno scarso rilievo al millesimo anno
dall’Incarnazione di Cristo. La leggenda della grande paura, insomma, cominciò a crescere da uno a quattro
secoli dopo gli eventi ai quali si riferiva.

II. Uomini e donne in numero crescente


Collegare l’origine dello slancio dell’XI secolo alla leggenda del superamento delle paure dell’anno Mille è
sbagliato, e anche l’idea tradizionale di un’espansione della popolazione, della società, dell’economia
europea intorno all’anno Mille è ormai superata. Intanto, a essere interessata dal cambiamento fu l’Europa
occidentale, non certo il mondo bizantino o musulmano: dall’XI secolo l’equilibrio tra le grandi aree delle
civiltà musulmana, bizantina e cristiana-occidentale nello spazio mediterraneo si modificò a vantaggio
dell’Occidente: è l’età dell’organizzazione progressiva dei regni, dell’avanzata cristiana verso le terre degli
infedeli, delle crociate e della reconquista in Spagna. In secondo luogo, il cambiamento riguardò molti luoghi
e aspetti del vivere umano: il numero delle persone aumentò e cambiò in gran parte il loro modo di vivere;
cambiarono le campagne e le città, vi fu una nuova espansione religiosa e la popolazione cominciò a
spostarsi. In tutto questo il Mille è una data simbolo, non un esatto riferimento cronologico. La popolazione
europea, nei secoli dello sconvolgimento delle basi della civiltà romana, era diminuita moltissimo, toccando
il minimo tra V e VIII secolo. È certo che con il nuovo millennio la popolazione, che già aveva timidi segnali
di ripresa, crebbe molto più velocemente che in passato: gli studiosi trovano sufficientemente d’accordo su
questo, pur con pochi documenti espliciti a disposizione, poiché è evidente che, rispetto al passato, gli uomini
in questi secoli hanno lasciato molte più tracce di sé. I nuclei abitati erano più numerosi e la superficie dei
campi aveva guadagnato terreno sui boschi e sui pantani: alcuni aspetti dello sviluppo dei secoli dall’XI al
XIII sono spiegabili con un allargamento delle coltivazioni, con il miglioramento dell’agricoltura e dei
consumi alimentari

III. Il periodo caldo medioevale


Perché la terra comincia, a un certo punto, a produrre di più? Gli esperti di storia del clima pensano che un
“addolcimento” climatico possa aver avviato in modo naturale un ciclo alimentare favorevole, determinando
un “età tiepida” nella quale sarebbero diminuite le crisi alimentari. Le fonti per la storia del clima sono molto
varie e piuttosto numerose: eventi come la pioggia, la siccità, il freddo, le gelate di fiumi e laghi sono sempre
registrati dai cronisti: le date delle vendemmie o della raccolta delle ghiande per i maiali sono riportate nei
bandi e nei contratti: gli alberi rinvenuti negli scavi archeologici mostrano l’andamento del clima attraverso i
segni di accrescimento. Quelli forniti dalla storia del clima, tuttavia, non sono segni interpretabili in maniera
del tutto certa.

2 La svolta: le campagne

I. Terra nuova erodendo i margini del bosco


I prodotti della terra possono aumentare per tre motivi oltre che per lo spontaneo miglioramento del clima,
perché si coltivano più intensamente gli stessi campi, perché aumenta la superficie agricola e perché si

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organizza meglio il lavoro. Ma nel nuovo millennio il fattore che riuscì davvero a cambiare le cose fu
l’aumento della terra, risultato del graduale dissodamento di terre incolte e boschi, promosso dai monasteri,
dai signori, dalle comunità contadine e più tardi dalle città. Il 1200 fu l’età dei dissodamenti collettivi e
della creazione di nuovi villaggi, ma qualche forma era esistita anche prima. La novità sta nel fatto che non
si trattò più soltanto di episodi isolati, ma di terre strappate alle foresta, al mare, alle paludi in modo
permanete.

II. I nuovi villaggi di pionieri e la colonizzazione delle foreste


Per spingersi nelle profondità delle grandi foreste, fu necessario che gruppi di contadini lasciassero le
proprie case e si spostassero lontano costruendo nuovi villaggi. Questa è la fase dell’espansione popolare e
dell’agricoltura. Dall’XI-XIII secolo questi nuovi borghi franchi, ville nuove o ville franche, cambiarono le
carte del popolo rurale. I nuovi villaggi e i campi circostanti assunsero sempre una forma regolare. Con un
sentiero si tagliava il bosco e ai due lati del suo tracciato si costruivano le case e da li partivano i terreni
arati; in altri casi a striscia di aratura si disponeva intorno al centro del villaggio, come raggi; o ancora
parallele a un corso del fiume. Nei nuovi villaggi si trasferirono a poco a poco un numero crescente di
persone giovani, espulse dal loro paese per l’aumento del numero dei componenti della famiglia d’origine.
La creazione di nuovi villaggi non fu un processo spontaneo, i contadini furono sollecitati da chi esercitava
il potere sul territorio, disponendo incentivi e facilitazioni per convincerli a mettere a coltura terre molto
impegnative. Fu necessario concedere anche alcuni privilegi come un’esenzione temporanea dei tributi, la
protezione e la libertà personale. I re e i signori furono incoraggiati da considerazioni politiche,
amministrative e militari: la sicurezza delle strade, il consolidamento della frontiera; dalla fine del XI secolo
il dissodamento delle terre fu incoraggiato dall’insediamento di nuovi centri religiosi, i monaci ricercavano
la solitudine per vivere coltivando la campagna circostante.

III. Terra nuova dall’acqua


Si costruirono inoltre nuove terre strappate al mare e alle paludi. Uno dei principali interventi fu la
creazione dei polders. Nell’XI e XII secolo i coloni di Fiandra, fecero asciugare i pantani del litorale e
costruire dighe che impedissero l’irruzione del mare nelle aree più basse. La lotta contro il mare fu molto
dura, e la vittoria fu possibile solo perché crescendo la popolazione, c’erano molto più braccia disponibili
per il lavoro e la manutenzione. Per far funzionare i polders gli abitanti dei villaggi fiamminghi si riunirono
in associazioni, wateringues, associazioni per le chiuse.
Prosciugamenti ci furono anche in Inghilterra, in Normandia e nell’area di Tolosa. I nobili tedeschi nel XII
secolo chiamarono i contadini fiamminghi divenuti esperti con queste tecniche. Il vescovo di Halberstadt
definiva nel 1180 diritti e doveri di chi fondava nuovi villaggi nelle paludi. Tra i diritti i contadini avevano
la libertà personale e di spostamento, la protezione e l’uso gratuito di pascoli e boschi. In Italia
cominciarono lavori per contenere le inondazioni dei Po, e si gettarono le basi del sistema dei canali di
navigazione e irrigazione della Pianura Padana.

IV. Come mantenere la fertilità dei campi


Dal IX-X secolo si diffusero alcuni miglioramenti nelle tecniche di agricoltura, descritti come una sorta di
“miracolo medievale”. In Europa, l’espansione delle terre coltivabili si allargò di tre volte, ma l’aumento
parallelo delle produzioni si dimostrò minore di quanto ci si poteva aspettare. Il problema più grande che i
contadini dovevano risolvere, era mantenere il terreno fertile negli anni. Ma il concime era troppo poco, e il
sistema di lungo riposo dei campi richiedeva un’eccezionale disponibilità di terreno e anche molta fatica per
togliere le sterpi, le radici e i cespugli dai campi rinati. Inizialmente veniva utilizzato un sistema biennale, il
contadino divideva in due in terreno, un anno ne seminava uno e faceva riposare l’altro e viceversa
(maggese), ma in questo caso il contadino doveva avere a disposizione il doppio della terra per non morire
di fame. A questo sistema di affiancò la rotazione triennale. Il contadino divideva cosi la terra in tre campi,
in autunno ne piantava uno, in primavera il secondo e il terzo intanto riposava e lo lasciava libero ai pascoli.
Con questo sistema il contadino riceveva vantaggi, lasciava incolto ogni anno solo un terzo della terra e
poteva nutrire meglio gli animali. Diminuivano inoltre i rischi di un cattivo raccolto e infine poteva
distribuire il suo lavoro nell’arco di un anno intero. Alcuni miglioramenti tecnici dunque ci furono, ma la
rotazione triennale che fu inventata dopo l’anno Mille, si diffuse molto lentamente, in molte regioni
continuò a coesistere con quella biennale, in altre non si affermò affatto. Nelle Alpi si continuò con il
sistema della coltura sul debbio si bruciava l’erba in modo che la cenere fertilizzasse la terra.

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V. L’aratro e gli animali da tiro


Un’altra innovazione fu la diffusione dell’aratro a ruote o pesante, nel quale vi erano parti di metallo, invece
fino ad allora era stato solo in legno. Questo richiedeva molti animali per la trazione, ma arava più in
profondità e faceva risparmiare lavoro perché un solo passaggio era sufficiente. L’aratro a ruote fu una
novità dell’anno Mille, e dove si diffuse portò trasformazioni radicali alle abitudini dei contadini. Ma in
alcune regioni europee rimase sempre quello in legno, che serviva solo a rompere la crosta, ma aveva il
pregio di essere leggero da trasportare e da guidare e poteva essere tirato da un solo animale. L’introduzione
del collare a spalla permise che i buoi non venissero più soffocati e consentì di utilizzare i cavalli da tiro.
Con l’uso dei due aratri i terreni prendevano forme diverse. Con l’aratro a ruote si spiega la particolarità dei
terreni dell’Europa del nord, più stretti e lunghi, in modo da ridurre le volte in cui girare l’attrezzo. Molti
campi di queste aree sono detti openfield, perché tra una semina e l’altra venivano aperti al pascolo.
Nell’Europa centrale invece i campi erano quadrati.

VI. La resa dei cereali e i mulini ad acqua


Con l’intensificazione del lavoro dei campi si realizzò un certo aumento delle rese dei cereali, però non
rivoluzionario. I prezzi delle derrate alimentari continuarono a crescere per alcuni secoli, dimostrando che
non si stavano risolvendo i problemi alimentari (il grande salto nella produttività si ebbe solo nella seconda
metà del XIV secolo). Dall’XI secolo si moltiplicò l’uso del mulino ad acqua (inventato in precedenza),
abbandonando le antiche macine adatte soltanto a piccole quantità di prodotto. I signori fecero costruire i
nuovi mulini lungo il corso dei fiumi a proprie spese e, in base ai diritti sulle acque, obbligarono i contadini a
macinare soltanto in essi il proprio grano. Dove non c’era acqua a sufficienza si utilizzò, dal XII secolo, la
forza del vento. I mulini resero disponibile una certa quantità di manodopera che poté essere impegnata di
più in altre operazioni agricole, consentendo un nuovo ampliamento delle coltivazioni. L’energia dell’acqua,
dapprima usata unicamente per macinare il grano e altri cereali, venne in un secondo tempo applicata alla
macinatura delle castagne, alla spremitura delle olive (frantoi), per azionare i mantici nella lavorazione del
ferro e per battere le stoffe uscite dal telaio con appositi martelli. È evidente che, con il diffondersi di queste
innovazioni gli artigiani ebbero più lavoro: la società rurale si fece più varia e nelle campagne non si
incontravano più soltanto contadini e pastori, ma anche altre figure di lavoratori. Dopo questa fase di diffusi
miglioramenti della tecnica agricola si dovrà attendere il XVII secolo per incontrarne di altrettanto
significativi.

VII. Il rovescio della medaglia: i danni del disboscamento, un’alimentazione più monotona,
nuove malattie
La fame è stata un evento normale nella vita delle società primitive, costellate dalla memoria di luoghi
meravigliosi, dove gli uomini immaginavano una vita confortevole e con il cibo a portata di mano. Con il
giardino dell’Eden che offriva i suoi frutti ad Adamo ed Eva; l’età d’oro e i Campi Elisi raccontati dai
greci, con alberi con coppe piene di vino e il pane che galleggia nei fiumi; ancora le vigne del paese di
Bengodi descritte da Boccaccio nel Decameron, legate con file di salsiccia e le montagne di parmigiano; o
Pinocchio che nel paese dei Balocchi trova anche dolciumi. Quando si sogna l’abbondanza è possibile che
il cibo scarseggi, e il medioevo è stata un’età più affamata di altre. Ma utilizzando una gamma molto varia
di fonti dell’alto medioevo, sappiamo che il contadino avuto a sua disposizione cibo vario e abbondante.
Oltre che coltivatore, era cacciatore, pescatore, allevatore e raccoglieva i prodotti del bosco. Quindi la
dieta contadina sostiene Massimo Montanari era stata molto più varia e abbondante di quanto non fu
quando crebbero le città. E ancora l’incolto non era mai stato ne vuoto ne improduttivo, si trovava la
materia prima più utile, come il legno, si raccoglievano frutti spontanei e poi si cacciava. Quando aumentò
la popolazione grandi parti della foresta europea vennero distrutti, e si persero molti spazi nei quali i
contadini fini ad allora aveva raccolto, pescato e cacciato. Dopo il Mille di conseguenza anche la dieta
cambiò, molte paludi ad esempio erano state prosciugate eliminando così la possibilità di pescare. Per la
prima volta l’abitante del villaggio si poteva trovare a dover andare anche molto lontano per poter trovare
un prato naturale. Quindi se da un lato della medaglia mettessimo il progresso dell’agricoltura, dall’altro la
riduzione del bosco e della palude e la conseguente riduzione dei suoi frutti. Dall’alimentazione
scomparve anche la carne, nonostante il numero crescente di buoi, essi venivano utilizzati per il lavoro nei
campi. La dieta si fece meno equilibrata, favorendo anche la diffusione della lebbra, che raggiunge l’apice
in Europa nel XII secolo, quando le crociate aumentarono la possibilità di contagio con l’oriente. Con
l’uso di allungare il pane con la segale di diffuse l’ergotismo che nell’XI secolo si propagò in tutto

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l’occidente. Alcuni danni ambientali provati dal disboscamento cominciarono proprio in questa età.

VIII. La curtis si trasforma


Fra IX e X secolo l’azienda curtense aveva posto le basi per la sua trasformazione. In Italia e in Francia del
sud, le corvèes si estinsero in fretta e con esse scomparve la terra gestita dal signore, ma veniva tutta
affittata. Questa trasformazione non si realizzò nello stesso modo in tutta Europa e non portò ovunque alla
fine della curtis. Residui di prestazioni curtensi si mantennero per secoli dopo la scomparsa della curtis, i
contadini liberi erano comunque costretti a servizi si trovano nel 300 in Toscana, nel Trentino e nel Friuli, e
nel 400 nel territorio di Genova. I contadini cominciavano a rifiutati di lavorare giornate nelle terre del
signore, che avrebbero potuto impiegare nella coltivazione dei loro mansi. Il signore sostituì perciò l
corvèes con un canone in denaro. Inoltre alcuni contadini cominciavano ad essere meno poveri di altri, e
sempre più spesso questi pagavano contadini più poveri di loro, perché facessero i lavori per i signori. Con
il superamento del dominico, l’azienda si trasformò e i campi furono tutti concessi in affitto. L’affitto
incoraggiava i contadini a lavorare di più e produrre meglio, e permettevano al signore di intascare più
denaro. Ma il numero delle famiglie era in aumento e i mansi si facevano sempre più piccoli. Per mantenere
efficiente il castello il signore introdusse diversi tipi di corvèes, erano ore di giornate di lavoro alle
fortificazioni, di interesse pubblico. Tra XI e XIV secolo in Italia, l’indebolimento del regno provocava la
crescita di poteri di livello inferiore, in competizione fra loro, in cerca di legittimazione. Le grandi proprietà
videro rafforzasi certe tendenze, si ponevano come centri di governo su un territorio oltre che di potere
economico sulla terra e su chi la lavorava. Non a caso il proprietario della curtis si chiamava signore, che
implica il fatto che sia proprietario della terra ma anche superiore agli altri. Era accaduto che spesso il
proprietario aveva fortificato la curtis o il villaggio contadino, circondandolo di mura, e aveva preso non
solo i suoi contadini ma tutta la popolazione locale sotto la sua protezione. Ai signori più potenti vennero
così trasferiti diritti sugli abitanti, ricevettero il diritto di banno, che era il potere di comandare, costringere,
punire con la finalità dell’ordine pubblico non solo i suoi contadini ma tutta la popolazione residente nel
territorio. Molti castelli non avevano più solo una funzione strategica e militare, ma si ponevano come uno
strumento di potere. Tra i diritti che cambiarono i rapporti tra signore e contadino ci sono:
- il diritto a riscuotere la taglia, la comunità contadina ripagava la protezione con un contributo anche
in denaro.
- il diritto ai proventi dell’amministrazione della giustizia.
- i diritti sulle acque, il signore deteneva diritti sulle acque, così poteva rivendicare il monopolio del
mulino e obbligare gli abitanti a macinare soltanto in esso pagando con una parte del prodotto.
Il cammino verso la signoria territoriale fu un processo lungo che si produsse in Europa e non fu frenato. I
poteri centrali produssero diverse signorie italiane. Tra i diritti del signore esisteva il formariage cioè
l’obbligo di chiedere l’autorizzazione al signore e pagargli una tassa se si intendeva sposare una donna di
un’altra signoria. I contadini furono allontanati dall’uso degli spazi incolti comuni a vantaggio del signore
che vi stabilì la sua riserva. La crisi degli spazi comuni e degli usi civici con l’intervento delle città, e fu
uno dei momenti più drammatici della storia rurale dei secoli dopo l’anno Mille.

3 La svolta: le città
I. La rinascita della vita urbana
A cavallo del medioevo anche la vita urbana subiva una forte spinta per la ripresa. Le città recuperarono
vigore prima con lentezza poi sempre più velocemente, fu un fenomeno spettacolare che cambiò la
fisionomia dell’Europa. Mille anni dopo così l’occidente era di nuovo seminato di città. Ma non tutte le città
avevano avuto la stessa sorte, in alcuni territori la crisi dei centri cittadini era stata meno accentuata rispetto
ad altri. In Italia dove la tradizione urbana era più forte, molti di essi rimasero in vita. Il recupero di vigore
del fenomeno urbano si manifestò sia con l’apparire di nuovi centri, sia con il ripopolamento di quelli
antichi. Henri Pirenne si chiese se esistevano gia le città prima del IX secolo. Egli dice che all’origine della
città medievale ci fu la ripresa del commercio di lungo raggio, quando alcuni mercanti senza fissa dimora
avessero deciso di darsi una sede stabile, dove gia esistevano una cattedrale e un castello. Gli abitanti delle
città nacquero soprattutto sotto la spinta dell’inurbamento delle popolazioni rurali, processo inverso a quello
che si era sviluppato nei primi secoli del medioevo. L’ipotesi di Pirenne rimane valida solo per alcune aree,
soprattutto nelle Fiandre. Nell’Europa meridionale invece le città era quasi sempre sedi di mercati
permanenti, nei quali erano i prodotti della campagna circostante a essere scambiati con quelli

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dell’artigianato della città.

II. L’abitante del borgo, il “borghese”. Artigiani e mercanti


La spinta iniziale per trasferirsi venne dall’allargarsi delle famiglie contadine, i più giovani si spostavano
nelle città per alleggerire i peso delle famiglie di origine. Più tardi non furono più solo i coltivatori a
spostarsi ma anche molti proprietari terrieri, attratti dalle prospettive professionali, culturali e politiche della
città. Quando le abitazione non entrarono più all’interno della mura si cominciarono a costruire fuori,
disposte ai lati delle strade che uscivano dalle porte e formarono i borghi. La parola borghese nacque nel
medioevo, per indicare l’abitante dei sobborghi della città ce riprendeva vigore. Prima borghese era
chiamato l’ultimo arrivato, che abitava nei luoghi meno sicuri, ma con il tempo la situazione mutò, con il
crescere della popolazione aumentavano i bisogni e comparivano nuove professioni. Il ceto degli artigiani e
dei mercanti si allargò e perse vigore proprio dai borghi.

III. Le arti
Tra XI e XII secolo i commercianti e gli artigiani di ogni città si associarono in quelle che oggi chiamiamo
corporazioni. Questa parola è nata soltanto in età moderna per indicare istituzioni che nel Medioevo
assunsero il nome di arti. L’ arte, fu l’associazione giurata, su base volontaria, di quanti esercitavano lo
stesso mestiere o mestieri affini, padroni di una bottega artigiana, ma anche dipendenti, garzoni, salariati o
apprendisti, inclusi in genere in forma subordinata. Il più importante fine era la difesa e il sostegno degli
iscritti. Vigilavano sulla qualità del prodotto, limitavano la concorrenza, fissavano prezzi e salari dei
dipendenti e affrontavano eventuali crisi di sovrapproduzione. Queste corporazioni assunsero nel 200 il
massimo dell’organizzazione, acquisendo in certi casi anche valore politico.
Alla fine del Medioevo, le arti saranno ormai divenute ovunque organismi sclerotici, impreparati ad
affrontare una nuova fase di sviluppo economico.

4 La svolta: la “rivoluzione commerciale”


I. L’Europa in comunicazione
Un’ampia mobilità delle popolazioni, basata in gran parte sulla crescita degli scambi, coinvolse l’Europa del
secondo millennio. All’espansione dell’agricoltura e della vita urbana si accompagnò infatti, il decollo delle
attività commerciali, che ricevettero la spinta dalle campagne, ma trovarono nelle città il loro punto di forza.
Il passaggio da un’economia più stagnante a una più inconfondibilmente urbana monetaria e mercantile,
determinava anche la comparsa di nuovi bisogni che il mercato locale non era in grado da solo di soddisfare.
Uomini e merci circolarono sempre più sia all’interno, tra le regioni e i paesi europei, sia all’estero tra
l’Europa e gli altri continenti. Si trattò di un processo che si protrasse per alcuni secoli e si sviluppò su tre
piani: uno locale, uno interregionale e uno a lunghissima distanza. Sul piano locale di accentuò la
circolazione di prodotti tra campagna e città; gli scambi interregionali invece mettevano in comunicazione
aree europee distanti creando luoghi di appuntamento periodico (fiere). Infine, gli europei rilanciarono con
maggior decisione i rapporti economici intercontinentali che non si erano mai interrotti del tutto con l’impero
bizantino. Il mondo musulmano, l’Asia, l’India: nel commercio sulle medie e lunghe distanze si impegnarono
i grandi mercanti he erano disposti a impegnare grandi quantità di denaro per ottenere consistenti guadagni.
La crescita del commercio internazionale impose altri modi di pagamento rispetto al trasporto di valuta e da
quella del mercante nacque rapidamente la figura del banchiere. L’Europa gravitava su due itinerari
commerciali: da Oriente, mar Rosso e oceano Indiano fino ai porti del Mediterraneo orientale, da dove i
carichi continuavano verso l’Italia che era il perno del sistema: a nord il collegamento tra Russia,
Scandinavia, Inghilterra, Francia del nord; con le Fiandre come perno. Nel quadro della ripresa commerciale
ebbero un ruolo rilevante gli ebrei, particolarmente numerosi nella penisola iberica, nelle regioni tra il Reno e
la Mosa, in Provenza.

II. Vie di terra


Si ricorderà che nell’alto Medioevo era diventato lento, pericoloso e costoso percorrere gli itinerari di terra,
lungo le antiche strade romane. Per incoraggiare il commercio, una nuova rete di strade in terra battuta aveva
unito tra loro i centri più importanti. Le differenze con il mondo romano, tuttavia, erano grandi. Le città si
erano venute collegando l’una all’altra non più con una singola strada maestra, ma con un gran numero di
strade locali spesso serpeggianti, alle quali mancava un disegno generale. Nessuna strada medioevale era
vincolata ad un tracciato; si trattava piuttosto di fasci paralleli percorsi che consentivano al viaggiatore di

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regolarsi al momento. Si trattava senza dubbio, di una rete più flessibile e complessa, ma anche tanto meno
solida di quella delle grandi vie consolari romane con le quali le strade medievali non riusciranno mai a
competere. Anche la francigena, uno dei più importanti itinerari, che univa Roma al mare del Nord, secondo
il tragitto più breve, non era una strada: dobbiamo immaginarla come una direzione, talvolta come un fascio
di strade e d’itinerari alternativi.

III. Vie d’acqua


Fino alla tarda età moderna era più veloce e agevole viaggiare via mare e via fiume che per terra. Il Po, il
Rodano, la Senna, il Reno, il Danubio, l’Oder erano tutti fiumi che si potevano navigare seguendo il filo della
corrente o risalendola a vela per ambi tratti. Essi ebbero un ruolo di primo piano nel commercio che cresceva
e furono sede di porti importanti. In questo modo, di fiume in affluente, a parte un giorno di viaggio per terra,
si poteva navigare dal Reno fino al delta del Rodano. Anche il traffico marittimo, sebbene più pericoloso,
ebbe un grande sviluppo: non c’erano pedaggi e si andava spediti se si aveva l’audacia e la competenza per
utilizzare i venti favorevoli. Il Mediterraneo, in particolare, era un mare seminato di isole che facilitavano la
navigazione a contatto visivo con la terraferma, necessario in assenza dell’uso della bussola, un insieme di
“strade di mare” che collegavano tra loro le città della costa di tre continenti.

IV. Il commercio mediterraneo e quello del Nord Europa


Abbiamo detto che l’Italia fu il perno del sistema del commercio dell’Europa meridionale, ed è del tutto
naturale che tra le sue protagoniste ci siano state citta nelle quali non aveva mai cessato di esistere un’attività
economica: cioè quelle poste lungo le coste dell’Adriatico (Venezia, Bari e Ancona), della Sicilia (Palermo,
Messina, Trapani, Mazara e Agrigento) e del Tirreno meridionale (Napoli, Gaeta, Salerno e Amalfi). Sono
tutte città che già dal IX secolo erano centri di scambio commerciale tra Oriente e Occidente. Dall’età
carolingia Venezia era diventata, insieme a Pavia, l’unico centro del commercio internazionale nel quale
circolavano moneta d’oro. La città cominciò a diventare la potenza commerciale di primo piano del
Mediterraneo nel 1082, quando ottenne dall’imperatore Bizantino un privilegio (crisobolla) che la impegnava
a fornire assistenza navale in cambio dell’esenzione dalle tasse e le consentì di avviare un solido commercio
in oriente in nome dell’Impero bizantino svolgendo, di fatto, una politica propria. A esse si aggiungono
dall’XI e XII secolo, altre città del Tirreno settentrionale, Genova e Pisa, che si erano arricchite col
saccheggio delle basi saracene in Corsica, Africa settentrionale, Baleari e Sardegna, si unirono in una
spedizione di conquista sulle coste tunisine e ottennero privilegi per i propri mercanti; successivamente, in
cambio del trasporto dei crociati in Terrasanta (1099), acquisirono le basi economiche e territoriali per lo
sviluppo delle proprie attività mercantili. Amalfi, Venezia, Genova e Pisa sono le quattro città che, secondo
la tradizione, hanno avuto il nome di repubbliche marinare.

V. Il punto di contatto: le fiere della Champagne


Le due aree commerciali del Sud e del Nord erano collegate tra loro. L’itinerario tra le due seguiva una via di
terra, dato che lo stretto di Gibilterra era controllato da musulmani e le navi cristiane non potevano
attraversarlo verso l’Atlantico. Le mercanzie provenienti dal mediterraneo passavano le Alpi, seguivani la via
di Marsiglia e il corso del Rodano per scambiarsi con quelle provenienti dal Nord in alcuni punti strategici.
Fu in quelle aree di collegamento che si svilupparono le grandi fiere: la più importante era la rete delle fiere
della Champagne (sei fiere, ognuna delle quali della durata di sei settimane): il primo grande mercato
internazionale in cui i mercanti del Mediterraneo, soprattutto italiani, poterono scambiare merci con quelli
del mare del Nord e del Baltico, soprattutto tedeschi. La loro fortuna dipese molto dall’ubicazione nella
Francia settentrionale, circa a metà strada tra le due aree commerciali, dalla regolarità del loro svolgimento,
dall’organizzazione e dalla protezione accordata dai conti che ne promossero lo sviluppo. Il circuito fieristico
della Champagne era già perfettamente organizzato alla fine del XII secolo, mentre le fiere delle Fiandre
soltanto agli inizi del successivo raggiunsero quella organizzazione che le fece apprezzare nel mondo.

5 I poteri sugli uomini e sui territori


I. Dalle signorie fondiarie alle signorie territoriali
Si è già visto come, all’interno dei regni in formazione, il potere, che non sempre aveva padroni
chiaramente riconoscibili, tendeva a concentrarsi in centri di potere locale più piccoli, ciascuno dei quali si

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reggeva quasi in autonomia. La capacità di controllo dei re si fece più debole e le circoscrizioni che essi
avevano affidato a conti, a marchesi, ad aristocratici o anche le chiese si trasformarono in signorie come
poteri autonomi. In questo quadro anche le grandi proprietà tesero a porsi come centri di governo su un
territorio. Per comprendere la trasformazione delle signorie fondiarie (nelle quali il signore esercitava
l’autorità sui contadini che lavoravano le sue terre) in signorie territoriali di varia natura e ampiezza (nelle
quali quel potere si allargava a tutti gli abitanti di una determinata zona) è utile ricordare che spesso questa
trasformazione ha origine dalla stessa località: dato che i sovrani non erano in grado di proteggere le
popolazioni, era accaduto che il proprietario fortificasse il centro della Curtis o il villaggio circondandoli di
mura e in questo modo, di fatto, aveva preso l’intera popolazione locale, e non solo i contadini sotto la sua
protezione. Durante questo processo i proprietari avevano finito quasi naturalmente per occupare il ruolo
lasciato vuoto dal potere pubblico che non riusciva a essere presente in modo capillare a livello di territorio,
e avevano assunto, dopo quelli di protezione, anche compiti politico e amministrativi. Ai signori più potenti
vennero così trasferiti diritti sugli abitanti, ricevettero il diritto di banno, che era il potere di comandare,
costringere, punire con la finalità dell’ordine pubblico non solo i suoi contadini ma tutta la popolazione
residente all’interno di un certo territorio: esercitavano la giustizia, ricoprivano funzioni di polizia,
riscuotevano pedaggi, tasse su mercati e fiere. La capacità di controllo del signore era garantita da bande di
uomini armati al suo servizio, cavalieri coordinati e organizzati attraverso legami vassallatici. Con la
signoria bannale i legami tra signore e contadini cambiarono in maniera radicale e in certi casi aumentarono
molto non solo i tributi pagati ai sudditi, ma anche gli abusi e le sopraffazioni. Oltre al diritto a riscuotere la
taglia (la comunità contadina ripagava la protezione con un contributo anche in denaro), il diritto ai proventi
dell’amministrazione della giustizia, i diritti sulle acque, (il signore deteneva diritti sulle acque, così poteva
rivendicare il monopolio del mulino e obbligare gli abitanti a macinare soltanto in esso pagando con una
parte del prodotto), i contadini furono allontanati dall’uso di spazi incolti comuni nei quali fino ad allora la
comunità del villaggio aveva potuto cacciare, raccogliere frutti, legna, pascolare gli animali, a vantaggio del
signore che si appropriava di quello spazio (la crisi degli spazi comuni e degli usi civici è uno dei fenomeni
più drammatici della storia rurale dei secoli dopo l’anno Mille, perché privò i contadini di una risorsa
indispensabile per la sopravvivenza. La “maturità” della signoria si colloca, approssimativamente, tra la fine
dell’XI e la metà del XII, poi il sistema iniziò ad andare in crisi.

II. Il castello, centro di potere


Il castello, centro di potere
Il castello è considerato uno dei simboli del medioevo. Per gli storici il castello fu, soprattutto, un nucleo di
abitazioni accentrato, un villaggio fortificato da una cinta di mura. Quando l’impero carolingio si dissolse i
popoli che vivevano ai margini dell’Europa si mossero nuovamente verso di esse, così il territorio si coprì di
una rete di fortificazioni, che divennero molto spesso anche centri amministrativi, economici e di esercizio
del potere sugli uomini. La costruzione del castello era prerogativa che solo il re poteva concedere. Ma
l’occidente conobbe castelli costruiti all’insaputa o senza il consenso del re, o spesso i signori disponevano
dei castelli costruiti dal re come fossero loro. In Italia i vescovi che avevano avuto la delega di costruire i
castelli agirono come se fossero di loro proprietà. Chi aveva denaro e autorità per farlo costruiva il proprio
castello e cingeva di mura il villaggio dei contadini posto sul suo territorio, senza preoccuparsi della
legalità.
Sull’incastellamento in Italia si svolge un dibatti a tratti molto vivace, il punto di partenza è un volume di
Pierre Toubert sul Lazio e meridionale, nel quale lo storico interpretava i castelli di quell’area come uno
strumento signorile per riorganizzare le forme di occupazione del suolo, i signori laziali tra il 920 e il 1150,
avevano pianificato l’insediamento dentro a villaggi fortificati, concentrandovi gli abitanti e
organizzandole coltivazioni intorno ai castelli, ma scavi archeologici successivi soprattutto in Toscana
hanno dimostrato che esisteva un processo di concentramento degli abitanti anche precedente a questa fase.
La costruzione dei castelli non fu sempre legata alle invasioni barbariche. La società medievale per
risparmiare nei materiali e nella fatica usò più volte le stesse strutture e i medesimi materiali da costruzione
e anche gli stessi luoghi. Ci sono dunque diversi tipo di castelli medievali, secondo i motivi per i quali
furono realizzati.
- le ville tardo-romane
In tutta l’Europa continentale il castello ebbe i suoi antenati in età preistorica, sotto forma di recinti, altri
antenati dei castelli s’incontrano nel III secolo, quando le popolazioni barbare cominciarono a penetrare in
profondità nell’Europa occidentale.
- i castelli contro i barbari e dei barbari

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Gli edifici tardo-romani fortificati, per difendere il territorio dai barbari, furono ereditari proprio da questi.
Goti e bizantini ne costruirono altri, spesso consistenti in torri per difendere le popolazioni della linea di
confine. I longobardi a loro volta ereditarono queste costruzioni.
- i castelli contro i pirati saraceni e vichinghi
Dal IX secolo fu necessario fortificare molti villaggi nelle coste del Mezzogiorno d’Italia, della
Provenza, della Liguria e di tutte le aree che andavano difese dalle incursioni dei pirati saraceni. Allo
stesso modo furono fortificate le sponde atlantiche per le incursioni dei vichinghi.
- i castelli contro gli ungari
Vennero costruiti reti di castelli contro le ondate di invasione degli ungari, a ovest del Reno, in Francia
orientale e in Italia centro-settentrionale.
- i castelli signorili
A far nascere i castelli non fu solo la paura e il bisogno di luoghi militari. molti signori offrirono ai propri
contadini un luogo protetto per evitare che si dessero alla fuga al primo segnale di pericolo.
- i castelli dell’età dell’espansione economica
Molti castelli furono costruiti per sostenere la ripresa del commercio, come luoghi protetti per il
mercato o per la produzione.
- i castelli dell’età dell’espansione demografica
Quando la popolazione aumentò, nelle campagne sorsero casali e case sparse, piccoli borghi dove vivevano
famiglie che non entravano più nei vecchi insediamenti, ma l’insicurezza costrinse pi questa popolazione a
raccogliersi e a difendersi.

6 I regni, gli imperi


I. Il quadro di partenza
L’impero, restaurato dagli Ottoni, attraversava una fase di difficoltà: gli attacchi degli slavi a nord, la rivolta
dei principi in Germania e la pressione dei musulmani e dei bizantini nell’Italia meridionale. Nonostante si
richiamasse all’impero carolingio, esso non aveva la preminenza sull’occidente. Il regno d’Italia non
abbracciava tutta la penisola, sebbene gli Ottoni avessero provato più volte a controllare anche il meridione,
la Sicilia faceva ancora parte dei domini musulmani, Puglia e Calabria erano bizantine, c’erano poi ducati,
principati e città autonome, il resto della penisola era governato dalla chiesa. Il regno copriva l’Italia
settentrionale e la Toscana, ma al suo interno si erano rafforzati poteri locali e alcune casate nobiliari. Tra
questa la più importante era divenuta quella dei Canossa, e nel 1027, uno dei suo membri, Bonifacio, aveva
ottenuto dall’imperatore Corrado II la marca-ducato di Toscana. Il territorio dei Canossa già ampio, si
distese allora su vastissime regioni. L’Inghilterra era in quel momento governata da una monarchia danese
ma stava per subire delle importanti trasformazioni , la conquista dei normanni. A est gli ungari aveva
abbandonato il nomadismo e avevano formato il regno d’Ungheria. Tra Oder, mar Baltico e Carpazi si
estendeva il principato cristiano di Polonia. Cristiano era anche il principato di Kiev e il regno di Bulgaria.
In Francia la dinastia dei capetingi, avviata da Ugo Capeto continuava a tenere unito il paese. La penisola
iberica era invece divisa tra musulmani e cristiani. Il mpondo musulmano era molto esteso partiva dal
Caucaso e il mar Caspio, copriva la penisola d’Arabia, l’Egitto, la Persia, il litorale del nord Africa, gran
parte della penisola iberica e la Sicilia. L’impero bizantino era cristiano, ma diviso dalla cristianità
d’occidente, era ormai solo un residuo dell’antico impero romano dal quale aveva preso vita. Comprendeva
la Grecia fino a Costantinopoli, le isole del mar Egeo, Cipro, il mezzogiorno d’Italia, Venezia e l’Asia
minore. Ma nel corso del XI secolo le conquiste dei normanni rovesciarono la carta politica d’Europa.

II. Grandi cambiamenti: i normanni in Inghilterra (1066)


Dalla Normandia francese nel XI secolo i normanni passarono a dominare l’Inghilterra e l’Italia
meridionale. La conquista d’Inghilterra segnò la fine del conflitto tra danesi e anglosassoni che più volte si
erano appoggiati ai duchi normanni imparentandosi anche con essi. Nel 1024 il re anglosassone Edoardo il
Confessore, aveva potuto levare la corona dalle mani del figlio di Canuto il Grande re d’Inghilterra e
Danimarca, e rafforzare la presenza normanna in Inghilterra. Molti normanni erano stati allora impegnati
alla sua corte e molti li aveva fatti vescovi, inoltre aveva donato l’abbazia di Westmister. Nel 1066 il re
moriva senza discendenti, ma dopo aver nominato suo successore il cugino Guglielmo, duca di Normandia.
Guglielmo reclamò la corona per fa valere i sui diritti di sangue, ma l’assemblea invece appoggiava la
candidatura di Aroldo conte di Wessex, che divenne re anche se per breve tempo. Nell’ottobre dello stesso
anno fu ucciso. Dopo poco più di due mesi Guglielmo, soprannominato il conquistatore, fu incoronato re a

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Westmister. Nel giro di qualche anno governava tutta l’sola. Egli realizzò un rimodellamento delle strutture
politiche e sociali e impiantò un controllo stretto sul territorio. La conquista trasformò a fondo la società
inglese. Nei suoi vent’anni di regno Guglielmo trapiantò il modello feudale francese. I castelli di
moltiplicarono. I re normanni crearono delle circoscrizioni amministrative, contee, abbastanza autonome
che facevano capo al re senza intermediari ed erano rette da un suo funzionario il giustiziere. Ogni
giustiziere aveva alle sue dipendenze uno sceriffo, che raccoglieva le imposte e custodiva il castello.
Guglielmo progettò il Domesday book, un censimento di beni e persone di tutto il territorio. Il re inviò gli
incaricati a registrare villaggio per villaggio, l’estensione e la qualità delle terre, gli aratri, i cavalli e tutti gli
animali, la terra i castelli, il numero degli abitanti e il loro stato giuridico.

III. I normanni nel Mezzogiorno d’Italia (1059)


Quasi contemporaneamente al grande spostamento in Inghilterra, dalla Normandia partivano altri due flussi
migratori, uno si dirigeva a ovest, per unirsi alle milizie cristiane della reconquista, l’altro si spingeva via
via verso il sud dell’Italia. Nella penisola arrivarono gruppi di mercenari normanni attratti dalle ribellioni
antibizantine in Puglia. I normanni prestarono servizio agli uni e agli altri proteggendo i gruppi di pellegrini
che andavano e tornavano da Gerusalemme. Si arricchirono e costruirono delle signorie territoriali, si
dettero una sorte di direzione politica affidandola alla famiglia degli Altavilla. Le tappe della penetrazione
normanna in Italia furono rapide. Papa Leone IX in un primo momento tentò di contrastare questa crescente
potenza, ma fu sconfitto e catturato. Nel 1059 Roberto d’Altavilla strinse l’accordo di Melfi con papa
Nicolò II che sancì il dominio normanno su Calabria e Puglia. Roberto giurò fedeltà al pontefice e se ne
dichiarò vassallo, in cambio assunse il titolo di duca di Puglia, di Calabria e di Sicilia, anche se ancora
doveva prenderla ai musulmani. Il papa favorì questo processo anche perché la presenza dei normanni era
uno strumento per allontanare i bizantini dall’Italia meridionale. Roberto fu il vero artefice delle fortune dei
normanni. Presero ad una ad una le città fortificate della Calabria, della Puglia e della Campania
costringendo i funzionari bizantini ad abbandonarle. La conquista della Sicilia fu avviata nel 1061.
L’attacco più importante fu quello di Ruggero d’Altavilla, fratello di Roberto. Nel 1072 occupò Palermo, e
nel giro di pochi anni la Sicilia fu tutta nelle sue mani. Ruggero I fu conte di Sicilia e fu poi detto il “Gran
Conte“. Nel 1130 suo figlio Ruggero II riunificò i due regni normanni e fu re di Sicilia, Calabria e Puglia e
successivamente conquistò Napoli. Palermo ne fu la capitale, sede della corte del re. I re normanni
costruirono un forte apparato amministrativo e un’organizzazione centralizzata. Il regno fu diviso in
circoscrizioni, ognuna con a capo un giustiziere per gli affari giudiziari e un camerario per la riscossione
delle imposte. Non si trattò di uno stato “moderno”, poiché il potere fui esclusivamente nelle mani del re e
dei suoi funzionari.

IV. Il rafforzamento delle monarchie europee


Proprio utilizzando alcuni principi del diritto feudale le monarchie europee si rafforzarono, trovando anche
la strada per portare l’Europa fuori dalla disgregazione politica. I vassalli per quanto potenti fossero erano
obbligati a rendere omaggio al re, anche se più debole, riaffermando con questo gesto simbolico che era da
lui che ricevano certi diritti e che tutta la terra del regno era di proprietà del re ed era da lui che i vassalli la
ricevevano. Il progresso della monarchia fu più rapido nei regni normanni, proprio perché furono il risultato
di una conquista militare che aveva automaticamente indebolito le aristocrazie locali. Il processo fu invece
più lento in Francia, dove la frammentazione era stata più grave, e ancora più lento in Spagna. Non ci fu
invece questo processo in Germania e nell’Italia centro-settentrionale. Ci furono anche in queste aree
processi di ricomposizione politica, in Germania ci furono tentativi di trasmissione ereditaria del titolo
imperiale ma fallirono a differenza di Francia e Inghilterra.

V. Il regno di Francia, una monarchia feudale


Nel regno di Francia già sotto Ugo Capeto nel 987 si erano sviluppati molti principati feudali. Proprio
perché debole la monarchia non era una minaccia per le potenze locali ed era simbolo dell’unità morale e
storica del territorio. I re capetingi si tennero stretto questo ruolo e costruirono una dinastia. Tra XII e XIII
secolo una propaganda reale rilanciò l’immagine del re presentandolo come un personaggio quasi
soprannaturale per essere stato unto dal Signore, e che avesse la capacità di guarire con il solo tocco della
mano. Simile potere era attribuito al re d’Inghilterra.

VI. Il regno d’Inghilterra


Sotto il regno di Enrico II, il prestigio e l’autorità della monarchia Inglese raggiunsero il punto massimo.

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Enrico fu il primo re della dinastia dei Plantageneti, fu il re che conquistò la monarchia inglese d’Irlanda.
Egli limitò ulteriormente il potere dei baroni, ma rimanevano ancora due cose importanti: ruolo polito e
ricchezza. Il primo derivava dalla presenza di una gran consiglio, il secondo dalla coltivazione delle loro
terre. Enrico II ridusse notevolmente il potere della chiesa inglese, le Costitutioni di Clarendon,
prevedevano il controllo del re sull’elezione dei vescovi. Si spinse al punto di far uccidere dentro la
cattedrale, il suo ex cancelliere che da quando era diventato arcivescovo di Canterbury aveva cominciato ad
opporsi alla sua politica e aveva preso le distanze dalle costituzioni.

VII. L’espansione tedesca verso est


I secoli dopo il Mille furono segnati da un’altra espansione politica, quella dell’impero germanico. I
tedeschi sottomisero i paesi slavi vicini. L’evangelizzazione slava era già cominciata sotto Carlomagno, ma
fu intorno all’anno Mille che furono organizzate delle missioni di evangelizzazione dei popolo slavi e
scandinavi. Questa cristianizzazione fu molto violenta ed ebbe i suoi martiri. Le tombe di questi cristiani
divennero furono trasformate in mete di pellegrinaggio.

7 Le origini del comune


I. Il governo della città
L’organizzazione politica e giuridica di autogoverno che si dettero in Germania, Inghilterra, Francia,
Fiandra e Italia a partire dall’XI-XII secolo si chiamò comune. Coloro che fecero comune avevano lo scopo
di acquisire autonomia rispetto agli altri poteri. Il comune non nacque in tutte le città allo stesso momento e
allo stesso modo. L’autonomia politica prese forma quando alcuni abitanti delle città ebbero bisogno di
avere una magistratura con la quale esprimere la propria volontà di decidere. Un tema ricorrente fu quello
della pace e della concordia di tutti i componenti della società, tanto che le prime associazioni di cittadini si
chiamarono anche amicizie o addirittura paci. Non si conosce con esattezza ne la data di nascita ne le
caratteristiche iniziali dei comuni. I primi rappresentati della comunità vennero chiamati buoni uomini e poi
consoli o scabini. Si trattò in principio di magistrature provvisorie nate per risolvere le necessità della vita
quotidiana quando il potere centrale era praticamente assente. Col tempo queste magistrature si fecero più
stabili, oscurando l’influenza politica e religiosa del vescovo. I consoli al momento dell’entrata in carica
prestavano giuramento davanti alla cittadinanza elencando i propri obblighi. Questi giuramenti formarono i
primi statuti cittadini. Per i loro successori i consoli redigevano una specie di memoria, il breve, nel quale
era riportato l’elenco delle opere di pubblico interesse da loro iniziate ma non condotte a termine. Tutti gli
uomini che godevano dei diritti urbani si riunivano nel parlamento l’organo fondamentale della vita dei
comuni. Inizialmente troppo numeroso fu poi ristretto a un consiglio più piccolo. Per essere ammessi
nell’associazione occorreva essere chiamati dai consoli e accettare entro quaranta giorni. Una volta chiamati
era molto difficile poster rifiutare. Per partecipare al potere comune occorreva essere maggiorenni, maschi,
essere cristiani e spesso pagare una tassa d’ammissione e possedere una casa. Aveva il diritto di
partecipazione il 20-25% della popolazione.

II. L’autonomia politica delle città d’oltralpe


Le città conseguirono l’autonomia in modi differenti. Ci furono poi quella che non la conobbero per niente o
in forma molto ridotta. In molte città dell’Europa nord-occidentale i cittadini ottennero il riconoscimento
attraverso le carte di franchigia o di comune, concordate dalla parti, giurate e sottoscritte da chi le
concedeva e da ogni cittadino. In alcune città i comuni ottennero le carte solo dopo scontri molto duri e a
volte dopo decenni. In Francia il comune ebbe l’appoggio della monarchia che concesse il diritto di “fare
comune” soprattutto dove i troppi poterei che dirigevano le città si sovrapponevano in maniera inefficiente.
Anche in Germania le nuove organizzazione furono sostenute dai re. Dunque in questa fascia il potere non
si sviluppò in alternativa a quello del re. fu soltanto un altro potere che si andò sommando a quelli gia
esistenti senza eliminarli. In Inghilterra i comuni si affermarono senza difficoltà anzi furono favoriti dai re e
anche dai signori per aiutare la crescita economica e demografica delle città. Ma anche qui rimasero sempre
poteri di secondo piano. Anche in Spagna furono favoriti dai re. Forme di autonomia politica si ebbero
anche in alcune città della Russia. Oggi gli storici dicono che nella nascita del comune ebbero un ruolo
importante non solo i borghesi come si diceva nell’ottocento, ma anche le vecchie classi dirigenti.
In Italia la nobiltà feudale media e piccola ebbe un ruolo fondamentale nella nascita dei comuni.

III. I comuni di Provenza e d’Italia

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I comuni di Provenza e dell’Italia centro-settentrionale assunsero caratteristiche diverse da quelli d’oltralpe.


La penisola italiana si divise in due. Nell’Italia meridionale, durante la costruzione del potere normanno,
l’esistenza di una forte autorità centrale pose un limite al pieno espandersi della autonomia cittadine. Le
città vennero inquadrate nell’amministrazione regia. In Sicilia s’imposero nel 1072 i normanni e provvidero
all’autorità del governo e all’amministrazione dei singoli centri che si arrendevano. Così il centralismo
statale dei normanni finì per bloccare lo sviluppo dei comuni nell’Italia meridionale. In Sardegna non ci fu
un processo spontaneo verso il comune. Il regno d’Italia fu teatro di una profonda evoluzione istituzionale.
Qui i comuni crebbero sia nelle città che nelle campagne. All’inizio del XII secolo quasi tutte le città
dell’Italia settentrionale e centrale sperimentarono una nuova forma di organizzazione politica. Con un
ritardo a Roma causato dalla forte autorità religiosa del papa. Nelle città d’Italia centro-settentrionale
vivevano famiglie con potenti interessi nella campagna. Si trattava di nobili e di proprietari terrieri che non
si erano isolati nelle loro terre e che risiedevano in città almeno in parte dell’anno. In Italia furono spesso tra
i promotori e i capi del comune. Dunque il comune italiano alle origini fu diretto dalla nobiltà urbana. In
Francia, soprattutto in Provenza, i comuni presero forme simili a quelli italiani, anche se non assunsero un
potere altrettanto grande. Anche qui viveva in città un ceto di nobili che esercitava diritti signorili sulle
campagne, e tra i consoli si incontravano sia aristocratici che mercanti. In Provenza come in Italia avvenne
nelle città il distacco dal vescovo, che talvolta aveva promosso il comune. Nel XII-XIII secolo tutti i comuni
cittadini in Italia centro-settentrionale, in Pastiglia e in Fiandra, acquisirono a poco a poco il controllo della
campagna, sia quella che faceva capo a loro, sia i territori di altre piccole città minori. Si opporranno a
questo le signorie rurali di castello esercitate dalle grandi famiglie nobili. Questo processo prenderà è noto
come formazione del contado. Successivamente il comune si trasformerà ancora, al posto dei consoli ci
saranno i podestà, amministratori di mestiere che non saranno celti tra i cittadini ma saranno forestieri,
chiamati per la loro esperienza dalle città amiche. I podestà saranno scelti dai consigli e pagati per
amministrare e mantenere il proprio seguito di funzionari, non potranno assentarsi dalla città senza
permesso e resteranno in carica dai sei mesi ai due anni. Avranno il compito di presiedere i consigli, ai quali
resterà il potere legislativo, esercitare la giustizia e ricoprire funzione amministrative e finanziarie. Con lo
spostarsi dei podestà da un luogo all’altro le leggi e le istituzioni delle città comunali italiane finiranno per
assomigliarsi.

IV. Somiglianze e differenze


I comuni con i quali si governano tante città tante città della penisola non sono confondibili né per
intensità del fenomeno, né per la sua durata, i suoi caratteri, la sua stabilità con altre forme più limitate di
autogoverno cittadino controllate da poteri superiori che s’incontrano oltralpe o nel Mezzogiorno d’Italia.
Dei comuni italiani si sviluppò presto anche una visione negativa, perché essi apparivano decisamente
sovversivi a chi veniva da fuori. Autogestivano città ricche in modo eccezionale e in tumultuoso sviluppo
e incarnavano quindi, agli occhi dei teorici dell’impero, un fenomeno anomalo e pericoloso. Altri aspetti
distinguevano le città italiane della parte centrosettentrionale del paese, e occorre ricordare almeno la
possibilità di darsi un’autonoma “politica estera” e soprattutto, la stretta unione affermatasi sul piano
politico tra il centro urbano e un territorio circostante (anche di migliaia di chilometri quadrati). Si tratta
di un fenomeno che non trova riscontro, per ampiezza e intensità in altri paesi europei. Anche su questo
piano fu ben diversa la vicenda del Mezzogiorno, perché dall’età normanna l’istituzione della monarchia
rappresentò una struttura politica ingombrante che predispose il territorio a un fitto frazionamento
signorile.

8 L’epoca delle grandi idee universali


I. La cristianità occidentale e il bisogno di rinnovamento spirituale
Fin dall’alto medioevo l’Europa era un ampio territorio politicamente diviso, ma accomunato da una
medesima religione, quella cristiana. Questa Europa rimase unita anche quando si trovò ad affrontare
nemici esterni. Ma al suo interno fu molto complicato costruire una convivenza armonica soprattutto tra
l’impero e il papato. L’aristocrazia romana che aveva sempre considerato il soglio pontificio “cosa propria”,
sempre più spesso aveva portato a capo della cristianità personaggi di dubbia moralità o indegni di tale
carica. I vescovi avrebbero dovuto essere uomini della chieda in quanto capi di una diocesi, ma molti di loro
erano divenuti invece uomini dell’imperatore, o del re o del signore. Dietro ogni carica c’erano benefici
molto concreti, terre, contadini, diritti di alloggio. Gli interessi erano grandi. Dai vescovi l’impoverimento
delle funzioni della chiesa scendeva verso il basso fino ai preti che erano spesso a contatto con la gente e

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avevano per questo un compito delicato che non sempre sapevano svolgere.

II. Eremiti e monaci: l’originalità di Cluny


Ci furono due momenti nella storia nei quali fu importante l’influenza esercita dai monaci sulla spiritualità
della gente: il primo fu nell’età di Benedetto e del monaco celtico Colombano e il secondo fu a cavallo del
nuovo millennio. Tra X e XI secolo crebbe il numero degli eremiti e dei monaci, soprattutto quando il
monachesimo benedettino si rinnovò per effetto di vari processi di riforma. I più importanti fecero capo
all’abbazia di Cluny e a quella di Citeaux. L’abbazia di Cluny fu fondata nel 910 in Borgogna. I monasteri
benedettini erano stati autonomi fra loro, guidati dal proprio abate e sottoposto all’autorità dei vescovi
locali. Cluny ebbe il privilegio dell’esenzione. Il monastero era sottratto alla giurisdizione del vescovo, al
quale era addirittura vietato di entrarvi senza essere invitato, ed era inquadrato sotto la protezione della
Santa Sede, senza intermediari, alla quale doveva pagare ogni anno un censo simbolico. L’esenzione
consentì a Cluny di liberarsi dell’influenza delle famiglie aristocratiche. Questa esenzione era dovuta al
desiderio di evitare la decadenza economica e spirituale del monastero, per opera dei suoi successori. I papi
sostennero Cluny. Non fu soltanto un’abbazia, fu anche capofila di un sistema di abbazie alle sue
dipendenze, una congregazione religiosa che contava centinaia di monasteri affiliati in tutta Europa. La
potenza di questa congregazione crebbe vistosamente, si tratto di una sorta di “impero monastico”, che
faceva capo al suo abate che a sua volte rispondeva solo al pontefice. Cluny fu dopo San Pietro il più
grande edificio religioso dell’occidente. Mantenne la regola benedettina, all’interno della quale furono
aumentate le ore di preghiera, rispetto a quelle dedicate al lavoro manuale.

III. I cistercensi e il ritorno alle origini


Questa esenzione aveva legato però di più Cluny al papa, l’aveva quindi avvicinata la mondo dei potenti,
proprio per questo ci fu il bisogno di un nuovo “ritorno alle origini”. Nuove esperienze di vita comune
fecero concorrenza a Cluny, soprattutto quella cistercense. L’ordine cistercense nacque all’interno stesso
dell’esperienza di Cluny, a partire da una spinta verso il ritorno alla stretta osservanza della regola
benedettina e al lavoro manuale. I cistercensi si distinsero dai monaci di Cluny per un maggior rispetto ai
voti, in particolare a quello di povertà. Le abbazie infatti si ispirarono a canoni estetici di semplicità. Nel
1119 papa Callisto II, confermò la Carta di Carità, primo statuto del nuovo ordine. Era la prima volta che
una regola monastica riceveva l’approvazione del papa. Bernardo sostenne la chiesa nella lotto contro le
eresie e si schierò dalla parte di Innocenzo II in uno scontro con l’antipapa Anacleto II. I viaggi di Bernardo
in Italia dettero spunto a nuove fondazioni e a una serie di incorporazioni di monasteri benedettini. Per
fondare un nuovo monastero occorreva che almeno dodici individui si staccassero dalla case madre. I
cistercensi crearono una serie di abbazie federate, legate da legami di fratellanza e non di gerarchia. Si
assicurarono la sussistenza attraverso la gestione del lavoro dei campi. I monaci organizzarono i loro terreni
in fattorie e ne divennero abili amministratori aumentando la produttività del lavoro agricolo. Lavorarono la
terra anche i conversi, che non erano monaci e nemmeno laici, presentavano il voto di obbedienza ed erano
tenuti ad un numero di preghiere quotidiane.

IV. Verso la riforma della Chiesa


Un forte movimento di opposizione al matrimonio dei sacerdoti, di reazione alla simonia (era l’atto di chi
ripeteva il gesto del mago Simone, che offrì dei soldi a Pietro per comprare il doni dello Spirito Santo),
all’intervento dei signori laici, si produsse a Roma, il centro principale della corruzione. Nella seconda metà
dell’XI secolo fu proprio il papato a prendere l’iniziativa di riforma. A questo slancio è dato il nome di
riforma gregoriana, in omaggio all’impulso che diede papa Gregorio VII. Tutta la storia dell’Europa fu
coinvolta in questa fase. Per rinnovare la chiesa ci fu bisogno innanzi tutto di un lavoro preparatorio di
carattere teorico. Lo sforzo di elaborare un nuovo pensiero durò quasi un decennio e richieste di raccogliere
tutti i testi antichi, di studiare e interpretare la Sacra Scrittura, di discutere di teologia e di riflettere sul
diritto. Il lavoro più solido cominciò quando salì al soglio pontificio Leone IX, imparentato con
l’imperatore Enrico III. Il nuovo pensiero si basava su un ragionamento: se vescovi e preti conducono una
vita indegna è perché c’è mercato delle funzioni ecclesiastiche. Dunque bisognava abolire l’investitura laica
dei religiosi. Ma solo il papa era abbastanza forte da farlo, quindi prima si doveva rafforzare il papa. Si
doveva allora svincolare la chiesa di Roma dalla tutela imperiale. Uno dei compiti più urgenti era proprio la
lotta contro la simonia e il matrimonio dei sacerdoti. Tra i fermenti religiosi orientali vanno ricordati i
patarini, gruppi laici che conducevano una campagna durissima di moralizzazione contro i preti di Milano.
La chiesa di Milano in effetti era molto prospera, attraverso gli imperatori ottoniani e la concessione di

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diritti feudali aveva portato con se molta corruzione. Molti fedeli cominciarono a disertare le funzioni
religiose celebrate dai sacerdoti ritenuti indegni. Nel 1054 era intervenuto lo scisma della chiesa di
Costantinopoli , con la sua separazione dalla disciplina e dalla gerarchia dalla chiesa di Roma. Non era
possibile una convivenza “morbida” tra due chiese potenti. Lo scisma della chiesa orientale fu in gran parte
il prodotto dell’irrigidimento di quella occidentale. Nel 1059 nella basilica di San Giovanni in Laterano,
papa Niccolò II dettò tre regole della vita della chiesa: condannò il matrimonio dei sacerdoti, stabilì che
nessun prete potesse accettare una chiesa dalle mani di un laico ne gratuitamente ne per denaro, e infine il
diritto di eleggere il papa sarebbe toccato ai cardinali. Nel 1061 Alessandro II fu il primo papa eletto con le
nuove regole.

V. Il papa al centro del mondo: Gregorio VII


Nel 1073 Ildebrando di Soana, uno dei principali collaboratori di Leone IX divenne papa con il nome di
Gregorio VII. Fu il papa che passò dalla teoria alla pratica. Convocati due concili dichiarò decaduti tutti i
sacerdoti simoniaci e concubinati e minacciò la scomunica di chi accettasse da un laico la carica vescovile.
Nel 1075 condanno le investiture. Egli si rendeva conto che la sua riforma così radicale avrebbe portato alla
rottura con l’imperatore. Enrico IV rispose con una provocazione, ignorando il decreto del papa, conferì la
nomina all’arcivescovo di Colonia e vari altri vescovi.
Altrettanto rapida fu la controrisposta di Gregorio. Con il Dictatus papae, un elenco di principi sui quali si
basava la concezione della chiesa, proclamò la superiorità del papa su ogni altra autorità terrena e il primato
assoluto della chiesa di Roma. Solo il papa può deporre o trasferire i vescovi, il papa può deporre un
imperatore, la chiesa romana è infallibile, il papa può sciogliere i sudditi dai doveri di fedeltà. Non
mancarono le resistenze anche tra gli ecclesiastici. Tra papa e imperatore non poteva che essere lotta aperta.
In questo aspro conflitto lotta per le investiture ognuno aveva le sue armi. In alcune diocesi c’erano due
vescovi uno legato al papa, l’altro all’imperatore che poteva far eleggere un antipapa. Il papa però poteva
scomunicarlo, privando automaticamente di ogni autorità verso i suoi sudditi. Il clero filoimperiale
rappresentava la maggioranza sia in Germania che in Italia. Nel 1076 ventiquattro vescovi fedeli
all’imperatore dichiararono decaduto Gregorio VII. Il papa rispose scomunicando l’imperatore. In
Germania spuntò subito un pretendente alla corona.
Enrico IV implorò il perdono del papa e nel 1077 si presento al castello di Canossa, dove il papa
soggiornava, in abito da penitente, a piedi scalzi nella neve. Il papa lo fece attendere tre giorni, poi dovette
concedergli il perdono. La vittoria apparentemente era della chiesa, ma di fatto l’imperatore aveva
soggiogato il papa, obbligando a reintegrarlo nei suoi compiti. Enrico tornava ad essere imperatore e riprese
la lotta. Nuovamente pretese di deporre il papa e ancora fu scomunicato, nel 1083 occupò Roma con forza
portandovi l’antipapa Clemente III. Gregorio venne liberato con le armi dai normanni e morì due anni dopo.
La lotta però continuò con i suoi successori. Fu eletto Urbano II. Ma si tendeva ad un accordo poichè la
cristianità doveva essere unita e le crociate era già nell’aria. Alla fine del conflitto si arrivò nel 1122 con il
concordato sottoscritto a Worms, dall’imperatore Enrico V e dal papa Callisto II. Il compromesso era che
quando un sede episcopale restava vacante il nuovo vescovo doveva essere eletto da un consiglio ristretto
composto da canonici della chiesa e da qualche altro dignitario della diocesi. Da questa elezione
l’imperatore rimaneva escluso nel regno d’Italia e in Borgogna, mentre continuava ad assistere in Germania.
Il papa poi consegnava al nuovo vescovo la croce e l’anello simboli del governo sulle anime, solo dopo
l’imperatore consegnava lo scettro simbolo dei poteri pubblici. Nel 1123 il primo concilio dopo Worms,
confermò il concordato, ribadì l’obbligo di celibato e la condanna dei simoniaci, proclamò per i crociati
l’indulgenza. I risultanti importanti furono almeno tre, innanzi tutto la distinzione tra spirituale e temporale,
poi la perdita da parte dell’imperatore della scelta di vescovi in Italia e in Borgogna e infine la conferma
della centralità della chiesa di Roma nella cristianità. Ne usciva rafforzata la figura del papa che
abbandonava il titolo di vicario di Pietro per prendere quello di vicario di Cristo. La chiesa divenne una
monarchia teocratica, il papa-re si considerava capo spirituale e temporale dell’intera cristianità.

VI. Al servizio dei tempi nuovi: gli intellettuali e la rinascita culturale del XII secolo
Per secoli si era pensato che la tradizione avesse tutte le risposte ai problemi di conoscenza e alcuni
testi venivano considerati auctoritates in quanto testimoni di verità. Al primo posto erano le Sacre Scritture.
Questo atteggiamento nei confronti della tradizione aveva compresso lo spirito critico nella cultura
occidentale. Affinchè nascesse una nuova cultura era necessario mettere almeno in parte in discussione
queste certezze. A poco a poco in Europa si fece largo una nuova figura, l’intellettuale. Era ancora un fedele

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servitore della chiesa o del re, era un personaggio che si dava un nuovo dovere importante, quello di
insegnare e poi di scrivere e insegnare il suo pensiero. I suoi materiali di riflessione erano ancora le Sacre
Scritture e i testi degli antichi, ma l’obiettivo era quello di andare più avanti. Agli uomini di cultura, che
erano tutti di chiesa, era richiesto uno sforzo critico. Per questo si tratta di rinascita, proprio per intendere
questo nuovo dinamismo della cultura cristiana del XII secolo. Quello che davvero cambiò il pensiero
filosofico fu la scoperta di Aristotele. Il grande filosofo non era mai rimasto del tutto sconosciuto, ma nel
XII lo studio del suo pensiero di fece più intenso. Un ruolo fondamentale nelle riscoperta delle opere fino ad
allora ignorate della fisica e matematica di Aristotele lo ebbero i commentatori arabi e ebrei, colti e
attivissimi, che entrarono in contatto con il mondo occidentale attraverso le terre musulmane.
Ripresero intanto spazio anche studi di diritto, il diritto romano rinacque e fu elaborato nelle università
sulla base di quello giustinianeo. Rinacque al servizio della politica e comportò la crescita dell’idea di stato
e di pubblico. Anche sul versante della chiesa di svilupparono studi di diritto. Il diritto canonico
rappresentò il diritto della nuova monarchia papale, elaborato raccogliendo i decreti dei concili e le lettere
dei papi. Nel corso del XII secolo nacquero grandi scuole urbane e si imposero importanti università.

VII. L’impero al centro del mondo: il progetto di Federico I Barbarossa


Dopo il concordato di Worms il conflitto tra papa e imperatore durò a lungo, con alcune fasi molto apre
sotto l’imperatore Federico I e i suoi successori. Da quando Enrico V era morto senza eredi, reggeva il
regno di Germania la famiglia sveva degli Hohenstaufen i suoi sostenitori si chiamavano ghibellini. A
portarli sul trono nel 1138 era stata un elezione non del tutto regolare ottenuta dopo diversi scontri con la
famiglia dei guelfi duchi di Baviera, la cui candidatura aveva l’appoggio del papa. Federico I imparentato
con entrambi fu scelto come imperatore di Germania nel 1152.
Federico, detto in Italia il Barbarossa, si dimostrò capace di grandi progetti e volte risollevare l’impero
dalla crisi. Nemmeno Roma stava meglio. La figura del papa era cresciuta di prestigio, la nobiltà romana
era irrequieta, voleva potere e voleva ancora contare nell’elezione del papa. Papa Eugenio III voleva
risolvere l’anarchia che regnava nelle città e in un primo momento trovò in Federico un aiuto. Ma
l’imperatore non si accontentava di essere uno strumento nelle mani del papa. Egli aspirava al “governo del
mondo”, sul papato, sul regno d’Italia e sulle monarchie europee. Ottone di Frisinga sostenne che l’impero
germanico, è un potere di portata universale, superiore agli altri, perché tale fu quello romano, del quale è
continuazione diretta attraverso quello di Carlomagno e poi degli ottoni fu sacro e romano. Federico tentò
in tutti i modi di ribadire le ascendenze romane del suo impero.

VIII. Il papa, l’imperatore e le città d’Italia


Il primo atto di governo di Barbarossa fu di cercare di consolidarsi nel regno di Germania, il secondo fu
invece di tornare ad occuparsi dell’Italia. Nel regno d’Italia vi erano grandi problemi irrisolti. Uno riguardava
i territori che erano stati della grande contessa Matilde di Toscana che, nonostante feudataria dell’imperatore,
aveva donato alla Santa Sede, li aveva poi ricevuti indietro da papa a titolo di vassallaggio e li aveva di
nuovo affidati come feudi all’imperatore Enrico V. l’imperatore si era trovato ad essere quindi vassallo del
papa. La morte di Matilde aveva reso il problema più evidente. La chiesa rivendicava i territori, l’impero li
voleva per se. A complicare il quadro c’era la forza di autonomia dei comuni del centro-nord e i normanni
vassalli del papa che avevano in mano il meridione. Federico Barbarossa scese una prima volta in Italia nel
1154, in cerca di prestigio e dell’incoronazione dalle mani di papa Eugenio III. Nel 1144 c’era stato un moto
popolare e il papa era stato cacciato e a capo della città si era messo Arnaldo da Brescia. Arnaldo era stato
considerato un attentatore all’unità della chiesa, il suo stesso radicalismo lo isolò. Nel 1155 Federico fu
incoronato a Roma e aiutò il papa ad eliminare il regime comunale e a liberarsi di lui.
Arnaldo finì sul rogo. Dopo questa collaborazione però i rapporti tra papa e imperatore si erano raffreddati.
Federico non apprezzava l’alleanza del papa con i normanni e il papa non apprezzava i frequenti interventi
dell’imperatore per mantenere o recuperare il controllo sui vescovi tedeschi.
All’inizio lo scontro fu solo verbale. Nel 1158 Federico aveva formulato l’idea che il luogo migliore per
rafforzare il suo potere fosse l’Italia. L’Italia comunale era il punto più debole dell’impero. La città più
importante di questo movimento era Milano e fu proprio questa che l’imperatore per prima prese di mira.
Chiese esplicitamente ai rappresentati die comuni di giurargli fedeltà. Milano gli fu subito ostile, ma
l’imperatore non voleva ne abolire il consolato, ne spegnere il comune di Milano o togliere autonomia alla
città, voleva solo costringerla a pagare e a riconoscere l’autorità imperiale. Non voleva cancellarli, ma
soltanto inquadrarli all’interno dell’impero. La situazione si complicò alla morte di papa Eugenio III, perché
venne eletto papa Alessandro III. Fu il papa dello scontro con l’imperatore che si gioco sui comuni d’Italia.

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Il risultato fu un movimento di forte apposizione nei confronti di Barbarossa. Federico rispose ancora con un
antipapa Vittore IV e l’insediò a Roma contro Alessandro III, che cacciato dalla città scomunicò
l’imperatore. Così nessuno era obbligato a obbedire a un imperatore scomunicato. Milano ne approfittò per
aprirsi un ulteriore varco di autonomia. Nel 1161 si sollevò contro di lui, ma vene ripresa e costretta a dei
pagamenti.
L’imperatore si trovo due leghe di città che appoggiate dal papa, la lega veronese e la lega lombarda. Il
papa scomunicò tutti coloro che minacciavano la lega. Nel 1176 a Legnano l’esercito imperiale venne
abbattuto. Gli effetti furono rivelanti. L’annoi dopo di arrivò a una tregua. A Venezia l’imperatore di
sottomise e con la pace di Costanza riconobbe la lega lombarda e rinunciò alla nomina degli ufficiali della
città a impatto che in cambio ai dichiarassero vassalli dell’imperatore. Il testo della pace di Costanza è
considerato l’atto legale di riconoscimento della personalità giuridica dei comuni. I comuni videro
riconosciuta dall’imperatore la propria autonomia. L’impero era in realtà, un potere lontano, non
oppressivo per i comuni italiani. Anche durante l’età medievale ci furono sostenitori di Federico, Dante
l’avrebbe ricordato come il “buon Barbarossa”. Nel 1186 Federico compì un altro gesto combinando il
matrimonio del proprio figlio Enrico, futuro imperatore, con la normanna Costanza d’Altavilla, erede alla
corona di Sicilia. Il dominio dell’impero sul mondo era ormai un sogno.

9 In partibus infidelium
I. Gerusalemme
Gerusalemme stessa è città santa per tutte e tre le religioni monoteiste. Custodisce infatti i principali luoghi
santi di tutte e tre: il Muro del pianto e la spianata del Tempio di Salomone per gli Ebrei, il Santo Sepolcro
per i cristiani, per i musulmani la roccia dalla quale si pensava che Maometto fosse asceso al cielo. La storia
del viaggio nei luoghi della vita di Gesù inizia molto presto, forse dal momento stesso in cui l’Editto di
Milano, nel 313, ne rese lecito il culto. Da quando, nel 638, si era arresa al califfo Omar Gerusalemme non
era più cristiana, era musulmana. Tuttavia, ai pellegrini ebrei e cristiani non era mai stato impedito l’accesso
ai luoghi santi, che pure si trovavano in partibus infidelium (nei luoghi degli infedeli). Una certa stasi del
pellegrinaggio cristiano si era poi verificata tra VIII e X secolo, nell’età delle incursioni dei barbari;
successivamente Carlomagno aveva anche ottenuto dal califfo di Baghdad la protezione dei pellegrini
occidentali.

II. Il grande viaggio


Esistevano quattro grandi mete del pellegrinaggio cristiano: Gerusalemme, Roma (tomba dell’apostolo
Pietro), Santiago del Compostela (tomba dell’apostolo Giacomo), Costantinopoli (reliquie della passione di
Cristo. Ad esse ne aggiungevano altre, minori: per rispondere al desiderio dei cristiani di entrare in contatto
con la terra della Passione di Cristo, era anche stata costruita in Europa tutta una serie di “imitazioni”, che
spesso conservavano una reliquia dei luoghi santi o un’immagine particolarmente venerata. Chi non aveva i
mezzi o la libertà o la salute necessari per farlo di persona aveva così l’opportunità di sostituire il viaggio
verso mete lontane con quello in direzione di mete più vicine. Spesso questi edifici si trovavano lungo le
strade che portavano ai santuari maggiori e diventavano tappe (stazioni) di un grande viaggio che impegnava
per molti mesi, talvolta anni. La storia dei pellegrinaggi si lega anche a quella del popolamento di aree semi
spopolate d’Europa: sui passaggi obbligati di tutte le strade che portavano a Santiago all’estremo nord-
occidentale della penisola iberica sorsero numerosi luoghi attrezzati per il riposo, ospizi gestiti da monaci che
curavano anche la manutenzione di tratti di strada. Ogni centro di culto e preghiera, a sua volta, diventava
sede di un mercato o di una fiera, di locande e taverne: nacquero in questo modo interi villaggi.

III. Dai musulmani ai cristiani: la reconquista di Spagna


La reconquista, cioè il recupero dell’Andalusia dai musulmani ai cristiani, fu un lungo processo, iniziato
nel VIII-IX secolo si protrasse fino al 1492, quando si chiuse con la caduta di Granada. Ma nell’XI secolo
ebbe una svolta importante. Divenne un’impresa collettiva della cristianità occidentale. I re cristiani di
Spagna furono molto abili a ottenere l’impegno delle altre potenze occidentali nella penisola.
S’imparentarono con le casate francesi, propagando il pellegrinaggio verso Santiago. Dalla metà del secolo i
pontefici si impegnarono e invitarono i cavalieri d’occidente a andare in aiuto ai regni cristiani. Nel 1063
papa Alessandro II dette il suoi appoggio alla guerra e nel 1102, l’impresa militare della reconquista fu
assimilata a una crociata. Il re Ferdinando I e suo figlio Alfonso aiutati da alcuni cavalieri provenienti da
varie aree della Francia, strapparono ai mori alcune città. Collaboratore di Alfonso fu un condottiero

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castigliano Rodrigo Diaz de Bivar detto dai mori il Cid Campeador, un nobile avventuriero mercenario le
cui gesta divennero leggenda, dando materia a un noto poema epico Cantar de mio Cid.

IV. Cristiani e musulmani: come nasce e cresce l’idea della crociata


L’idea della resistenza e la lotta armata contro gli infedeli era già radicata nel pensiero cristiano: la modesta
vittoria di Carlo Martello a Poitiers era divenuta leggenda; l’idea agostiniana della giusta utilizzazione della
guerra in difesa della Chiesa era stata poi sostenuta per la reconquista della Spagna dalle mani musulmane.
L’idea della crociata era nell’ara ben prima delle scaramucce in Terrasanta. Tra il X secolo e l’inizio dell’XI
si era profilato un rimescolamento all’interno del mondo musulmano (diviso nei blocchi sciita e sunnita), cui
era seguita una nuova fase di scontro con i cristiani. Intanto un considerevole movimento migratorio spostava
popolazioni turche dall’Asia centro – meridionale verso ovest e molti turchi selgiuchidi erano stato assoldati
come militari dai califfi, ottenendo in cambio estesi possessi terrieri. Dal 1055 i turchi poterono estendersi in
Persia (oggi Iran) e nel Califfato di Bagdad (oggi Iraq); qualche anno dopo, nel 1071, si erano annessi
l’Armenia e la Cappadocia, ex territorio bizantino; Gerusalemme e la Siria erano state strappate dai califfi
fatimidi d’Egitto. In pochi anni si era costituito un impero selgiuchide che andava dall’Egitto all’Afganistan e
dal Turchestan alla Palestina. Ma i turchi cercavano spazio all’interno dei territori musulmani e non erano
passati all’offensiva del mondo cristiano, né avevano mai impedito ai cristiani l’accesso ai luoghi santi.

V. Gli antefatti
Nel 1054 alcune chiese latine di Gerusalemme erano state chiuse al culto. L’ordine non era venuto dai turchi,
ma dal patriarca cristiano di Costantinopoli all’indomani dello scisma tra la chiesa orientale e occidentale.
L’anno dopo c’erano stati alcuni incidenti che avevano coinvolto i pellegrini ma anche in questo caso i turchi
non c’entravano: c’erano stati diversi abusi di potere e vessazioni economiche, ma non risulta che i pellegrini
corressero seri pericoli andando ai luoghi santi (tant’è vero che il loro numero continuava a crescere).
Quando, a fine secolo la situazione esplose e partì la prima crociata, i turchi non governavano la città, che era
stata da poco recuperata dagli arabi: dunque i pellegrini potevano raggiungere i luoghi santi come in passato.
Neanche l’impero bizantino quando nel 1095 chiese l’aiuto all’occidente, era in pericolo più di quanto lo
fosse stato vent’anni prima: ciò significa che le ragioni della crociata non erano esterne e incalzanti, ma
interne alla cristianità occidentale.

VI. Urbano II invita a prendere la croce


Nel 1088 fu eletto papa Urbano II che completò l’opera di Gregorio VII. Egli non potendo risiedere a Roma
perché sede dell’antipapa Clemente III, nominato durante la lotta per le investiture, viaggiò in Francia e in
Italia. Il suo scopo era la vittoria sull’antipapa. Nel suo progetto c’erano una serie di concili e forse un
risanamento dello scisma tra oriente e occidente. In conclusione, a un suo concilio il 28 novembre, Urbano
pronunciò un celebre discorso nel quale invitava i cristiani, soprattutto i cavalieri in Francia che in quel
momento combattevano tra loro, di posare le armi e recarsi tutti insieme in un pellegrinaggio di penitenza
durante il quale li autorizzava, se necessario, a difendere la chiesa dalla minaccia degli infedeli, come
chiedevano i bizantini. Li invitava a portare sulle vesti una Croce Rossa. Il papa faceva sia appello per aiutare
i bizantini sia per liberare l’occidente dai combattimenti interni. Comunque, un appello alle armi lanciato da
un papa non poteva passare inosservato, non poteva esistere un motivo legittimo per uccidere, per questo la
chiesa si trovò sempre in difficoltà a conciliare il “non uccidere” con la spedizione delle crociate.

VII. La crociata dei poveri di Cristo


La tradizione narra che Pietro l’Eremita, un predicatore che godeva di fama di santità, nella Pasqua del
1096, a Colonia trovò l’ascolto di un cavaliere povero, ma abile con le armi (Gualtieri Senza Averi), che si
dice donasse tutto ai poveri per seguirlo. Intorno ai due si riunì il primo gruppo: non sappiamo esattamente
quanti fossero, ma velocemente sfuggirono a tutti i controlli e costituirono “la crociata dei poveri di
Cristo”. Erano un gruppo di predicatori, di poveri cavalieri senza speranza di raccogliere l’eredità paterna,
un misto di contadini, di accantoni, di avventurieri, di malati, donne, vecchi. Andarono verso i luoghi santi
senza organizzazione e senza vettovaglie e per sfamarsi saccheggiarono le campagne e le città lungo il
corso del Reno e del Danubio, massacrando in un furore crescente le comunità di ebrei che vivevano nella
zona. Molti si persero per strada, in parte furono eliminati dal re cristiano d’Ungheria. I pochi che giunsero
a Costantinopoli e passarono nei territori turchi, verso Nicea, furono uccisi o si sbandarono. Dopo questa
drammatica esperienza si stabilirono regole severe: nessuno da allora sarebbe potuto partire per la crociata
né per un pellegrinaggio senza ottenere prima il permesso dei suoi superiori (se religioso) o del coniuge (se

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un laico sposato).

VIII. 1099: i cristiani a Gerusalemme


La prima vera crociata iniziò quando partirono da diverse parti dell’Europa contingenti militari, guidati da
personaggi prestigiosi esponenti della feudalità europea a livello elevato, tra questi Ugo di Vermandois,
fratello del re di Francia, Goffredo di Buglione, duca della Lorena, Boemondo d’Altavilla. Queste truppe di
misero in marcia nel giugno del 1097 da Costantinopoli, dopo due anni espugnarono Nicea, Edessa e
Antiochia, conquistarono Gerusalemme il 15 luglio 1099, dopo aver massacrato quasi tutta la popolazione
musulmana e quella ebrea. Così il Sepolcro era “liberato”. La prima crociata entrò nella leggenda e anche
nella cultura popolare, a essa si ispirò Torquato Tasso ne La Gerusalemme liberata, e nell’ottocento Verdi
musicò I lombardi alla prima crociata. Due giorni dopo la conquista i capi crociati si riunirono per
proceder all’organizzazione delle terre occupate ed eleggevano avvocato del Santo Sepolcro Goffredo di
Buglione, gettando le basi del regno latino di Gerusalemme. Goffredo non fu mai re del regno che governò
poiché il titolo spettava al papa, poiché secondo le leggi di Giustiniano le res sanctae non potevano
appartenere ad alcun potere terreno. Con i successi militari dei crociati vennero create tre signorie feudali, il
principato di Antiochia, quello di Edessa e la contea di Tripoli, a Raimondo di Tolosa; all’interno di questi
principati furono assegnati feudi militari, consentendo una sistemazione per molti nobili europei che in
patria erano privi di un posto di potere. Il sistema feudale così si riproduceva in oriente. Dalla prima crociata
ne trassero benefici Pisa e Genova che ottennero privilegi commerciali nel levante per aver trasportato i
crociati con le loro navi. Da allora le colonie di pisani e genovesi, con i magazzini per le loro merci, si
impiantarono in tutti i centri commerciali delle regioni conquistate. Venezia non partecipò alla crociata ma
ne condivise i vantaggi.

IX. Monaci e cavalieri tra Gerusalemme e l’Europa


Uno dei prodotti più importanti della crociata fu la creazione degli ordini dei monaci guerrieri. Le conquiste
andavano difese, come anche il viaggio dei pellegrini, che avveniva adesso in mezzo a popolazioni
diventate ostili. Nei periodi in cui i pellegrinaggi erano più frequenti, erano organizzate delle spedizioni
militari, ma nel resto dell’anno il regno di Gerusalemme era di nuovo privo di protezione e si trattava di
un’isola cristiana in un mare musulmano. Ci voleva una forza militare stabile. Nacquero a Gerusalemme
degli ordini religiosi di tipo nuovo, monastico-militari. Si trattava di gruppi religiosi che erano anche
guerrieri: vivevano in comunità, pronunciavano voti di castità, erano fedeli al papa e giuravano di assistere i
pellegrini e di usare le armi contro gli infedeli. Il teorico della figura delle monaco cavaliere fu Bernardo di
Chiaravalle. Tra i principali gruppi di monaci cavalieri ci furono: l’ordine degli Ospedalieri di San
Giovanni, che si proponeva soprattutto di accogliere e difendere i pellegrini; i cavalieri del Santo Sepolcro,
incaricati della guardia della tomba di Cristo, i Templari, insediati nel tempio di Salomone. Più tardi
nacquero i Cavalieri teutonici impegnati nella cristianizzazione armata. Forti dell’appoggio della chiesa
questi ordini divennero molto influenti. I loro monasteri si eressero a guardia della Terrasanta, ne sorsero
poi di nuovi lungo i cammini europei dei pellegrinaggi. In Spagna durante la reconquista nacquero atri tre
ordini, di Calatrava, di Alcantara e di Santiago.

X. La seconda e la terza crociata


Nonostante la protezione dei monaci cavalieri, il regno di Gerusalemme di trovò di nuovo in difficoltà,
quando i turchi impadronitisi di Edessa, minacciarono da vicino le conquiste crociate. La notizia arrivò in
Europa in un momento molto difficile, erano anni di carestie e di crisi economica, inoltre in cielo era
apparsa una cometa, considerata segno di sventura. Bernardo di Chiaravalle allora propagandò con energia
una nuova crociata. Dio, diceva, non ha bisogno delle crociate per liberare la Terrasanta, ma con essa offre
ai cristiani un mezzo per la salvezza eterna. La seconda crociata bandita da papa Eugenio III nel 1147,
coinvolse i grandi potenti del tempo: il re di Francia Luigi VII e quello di Germania Corrado III. I crociati
trovarono in Terrasanta una sorpresa, perché in cinquant’anni i latini si erano orientalizzati, ormai trattavano
senza diffidenza gli infedeli e non nascondevano nemmeno il loro fastidio per lo slancio europeo
antimusulmano. A loro volta i crociati guardavano con disprezzo questi occidentali. Per questi motivi, per
errori militari, per gelosie e rivalità tra i sovrani la crociata fu un fallimento. Cominciò allora la riscossa
musulmana, che non si fermò fino alla spartizione di tutti gli stati crociati. Una trentina d’anni più tardi
Egitto e Siria si unificarono in un regno guidato dal sultano Saladino. Nel 1187 egli entrò trionfante in
Gerusalemme, acclamato come eroe che aveva riconquistato la Città Santa dell’Islam. In occidente si bandì
in fretta una terza crociata per la quale si mobilitarono personalmente l’imperatore Federico Barbarossa, il

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re di Francia Filippo Augusto, il re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone e il re di Sicilia Guglielmo III.
Barbarossa sconfisse i musulmani a Konya ma morì prima di arrivare in Terrasanta, annegò mentre faceva il
bagno in un fiume di Cilicia. Gli altri sovrani non riuscirono a liberare Gerusalemme e si ritirarono anche
gli ordini monastico-militari. Per i cristiani anche la terza crociata si chiudeva in fallimento. Il Saladino,
invece, non solo sconfisse i crociati, ma fece dell’Egitto la più importante potenza del Medioriente. Con un
accordo garantì ai cristiani libero accesso al Santo Sepolcro.

Capitolo 5 “L’ETA’ D’ORO”: IL DUECENTO E IL PRIMO TRECENTO


1 La grande crescita delle città e delle campagne
I. Mai così tanti la popolazione al suo massimo
La popolazione europea nel corso del XIII secolo raggiunse il suo massimo. Anche se non tutti gli studiosi
concordano, in quanto nonostante il progredire dell’organizzazione della vita urbana, continuava a non
esistere alcuna forma di anagrafe per registrare i nuovi nati, ne mai furono promossi dei censimenti. Al
vertice della piramide della popolazione europea troviamo alcune città italiane, ovviamente esclusa
Costantinopoli che era capitale di un impero. In Italia dove la vita urbana non era cessata mai del tutto
alcune città crebbero d’importanza politica ed economica, anzi si trovavano già nel duecento quelle che noi
oggi chiameremmo metropoli. Tra le metropoli italiane c’era Milano, che era la città più popolosa d’Europa.
Tra quelle europee c’era Parigi. L’Andalusia era stata fino alla reconquista una “terra di città”. Le sue più
grandi città come Cordova e Granada subirono forti perdite dopo la reconquista. Palermo era l’unica città
del sud in cui gli abitanti superavano i 50 mila, ad essa si affiancava Colonia, la città più popolata della
Germania e in Russa Novgorod. Tra la fine del duecento e gli inizi del trecento si collocavano in una fascia
alta le città dell’Italia centro-settentrionale: Bologna, Verona, Brescia, Cremona, Siena e Pisa. Infine vi era
una rete molto fitta di piccole città italiane.

II. Le città, foreste di pietra e di mattoni


Alcuni caratteri, come le mura e le torri, che ancora oggi riconosciamo in diversi nuclei antichi di molte
città europee, sono eredità dello slancio edilizio del duecento. Leggendo la carta di una città che abbia una
storia medievale restano quasi sempre leggibili i disegni delle strade, le torri riassorbite in edifici più grandi
che si riconoscono dalle finestre o dalla larghezza delle mura a piano terra scomparse perché assorbite nelle
case o divenute strade, ma delle quali è possibile vederne il tracciato. Non tutti gli edifici che ne hanno
l’aspetto però risalgono al medioevo, poiché nell’Ottocento l’Europa attraversò un vento culturale che
voleva che si costruisse alla maniera che si riteneva medievale, anche quando ormai il gotico era molto
lontano. Questo modo di costruire è chiamato oggi neogotico. Il flusso di gente che si spostò nelle città fu
paragonato all’epoca delle migrazioni. Innanzi tutto, furono soprattutto i contadini a trasferirsi in città, un po
più tardi cominciarono anche i proprietari fondiari. Nel Duecento il segno evidente che la popolazione fosse
cresciuta fu la costruzione di nuove mura che ampliavano l’area urbana. L’allargamento delle mura però
ebbe una caratteristica diversa rispetto al passato perché all’interno vennero compresi oltre alle case anche
pezzi ampi di campagna, poiché le città avevamo bisogno di ancora spazio per costruire le case perché ci si
aspettava che la popolazione crescesse ancora. La città duecentesca nonostante le sue diverse forme ebbe
sempre uno slancio verticale, per motivi difensivi e di prestigio, secondo un modello di vita guerresco e
nobiliare, ma anche per sfruttare il terreno edificabile il più possibile. Nelle abitazioni unifamiliare al piano
terra c’era la bottega dell’artigiano e sopra viveva la sua famiglia. Le città erano tutte un cantiere dato che
nel corso del Duecento furono costruite nuove abitazioni per la popolazione che cresceva. Furono costruiti
ospedali, fonti e acquedotti, vennero innalzate cattedrali gotiche, come Notre-Dame di Parigi e Santa Maria
del Fiore a Firenze. Aumentò anche la necessità di manodopera anche femminile. Anche i monaci furono
chiamati nei grandi cantieri urbani.

III. La campagna e la città


Nonostante il forte inurbamento la maggior parte della gente continuava a mantenersi con i prodotti della
terra. La popolazione in così forte aumento aumentò anche in campagna. In questi secoli quindi la
prosperità continuava a dipendere dalla terra. Tanto più cresceva una popolazione che non aveva di che
sfamarsi, tanto più veniva chiesta alla campagna una produzione che superasse autoconsumo della famiglia
del coltivatore. Una risposta alla minaccia delle carestie era data dalla rete di scambi. I granai inviavano
cereali per mare verso le regioni che consumavano di più perché più popolose, le città si occupavano di

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organizzare il trasporto, la conservazione e la vendita nei mercati. In Italia il grande sviluppo demografico
urbano contrastava con la povertà delle campagne, spesso insufficienti ad assicurare il necessario alle città
cui appartenevano. Furono creati appositi uffici, annone, incaricati di produrre i cereali necessari, anche
importandoli dall’estero. Tutte le città più grandi misero a punto leggi per i tempi di carestia. L’aumento del
bisogno di alimenti spinse a destinare alcune zone all’agricoltura intensiva.

IV. La liberazione dei servi e i nuovi contratti agrari


Nel corso del XIII secolo si diffuse un modo di dire “l’aria della città rende liberi”. Significava che un servo
non poteva essere ripreso dal padrone se risiedeva in città da un certo tempo. Nel tempo la servitù personale
si era allentata. E comunque fuggire in città non era stato mezzo per conquistare la libertà. Innanzi tutto ci
furono le carte di libertà. Con la lotta secolare intere comunità cittadine ebbero una certa autonomia
ottenendo carte di concordia, di libertà, era ordinamenti o statuti nei quali diritti e doveri venivano messi
per iscritto. Poi c’erano le liberazioni collettive. I comuni italiani procedettero alla liberazione collettiva dei
contadini, tra essi è noto il liber paradisus, con il quale il comune di Bologna riscattò quasi 6000 servi,
pagando ai loro proprietari una somma di denaro. La motivazione ideologica fu che Dio ha creato l’uomo
libero, ma in realtà i motivi erano vari, per sfoltire le città sovraffollate e ricacciare i contadini a lavorare in
campagna e per aumentare la popolazione tassabile. Infine la libertà si poteva comprare, singolarmente o a
piccoli gruppi, in cambio di denaro o di un bene immobile. Tanti contadini europei alla fine del XIII secolo
erano arrivati a lavorare la terra da uomini liberi.

V. Le università e la crescita culturale nelle città


Nell’alto medioevo le scuole monastiche avevano rappresentato i centri del sapere per eccellenza,
ricoprendo un ruolo di notevole importanza nella conservazione ed elaborazione della scrittura.
Nell’Europa carolingia erano state loro accostate le scuole episcopali o cattedrali, che avevo finito per
superarle d’importanza. Il fenomeno delle scuole cattedrali era stato molto sviluppato in Francia nelle quali
arrivavano studenti da ogni dove. In alcune città operavano talvolta scuole di altro tipo,. Chiamate laiche. La
crescita urbana fui accompagnata da una crescita culturale. Gli uomini d’affari avevano bisogno di notai,
scrivani, uomini di legge e inseganti. Avevano necessità di saper leggere e scrivere, di tenere i conti e di
parlare altre lingue, e per questo le scuole di religione non bastarono più. Soprattutto nell’Italia comunale, la
borghesia istituì scuole pubbliche laiche, per trasmettere ai propri figli una cultura prevalentemente pratica
che li preparasse al commercio, all’amministrazione, alla conoscenza delle leggi. D’infrangeva così il
monopolio dell’istruzione che avevano detenuto per lungo tempo gli ecclesiastici. In molte città il livello
d’istruzione crebbe notevolmente, insieme al numero di laici che avevano accesso alla cultura. Ma alla
maggior parte della popolazione, cioè alle donne e ai ceti bassi si continuò a non insegnare nemmeno a
leggere e a scrivere. Quelle che noi oggi chiamiamo università, sorte nel XI secolo, si erano diffuse
soprattutto nel corso del duecento, venivano chiamate Studi generali. Con il termine universitas si intendeva
invece il gruppo di scolari e professori che si riunivano in un associazione in difesa dei loro diritti e
interessi, per chiedere all’autorità civile o ecclesiastica il riconoscimento come Studio. Essere riconosciuti
era fondamentale se volevano che il loro titolo di studio avesse valore legale. A Parigi per iniziativa di
Roberto Sorbon e con l’aiuto del re Luigi IX nacque nel 1257 il primo collegio universitario. Quello di
Bologna fu riconosciuto da Barbarossa. Nel corso del duecento vennero fondate molte altre università.
C’erano alcuni elementi che rendevano simili gli studi europei, prima di tutto gli studenti e i maestri si
spostavano di frequente anche su grandi distanze, anche per questo lo studio avveniva in latino, perché una
sola lingua consentiva l’abbattimento delle barriere linguistiche. Seguiva il modello della scolastica, i libri
venivano letti e commentati in comune, poi il maestro trovava un argomento per la discussione e infine
diceva il suo punto di vista. Questo sistema fu adottato per molti secoli. I testi più letti erano quelli sacri, ma
anche Aristotele, Euclide e Cicerone. Dalla metà del Duecento sorsero le prime librerie universitarie.

2 La rivoluzione commerciale al suo culmine


I. La mappa del commercio europeo
Tra le grandi aree europee dei mercanti tra la fine del XII e l’inizio del XIV secolo troviamo: l’Europa
centro-settentrionale, dove nel duecento le fiere di Champagne erano molto attive. I mercati delle Fiandre,
dove stoffe di lana facevano da calamita ai mercanti di tutto il mondo. Una terza area raggruppava mercanti
e città del Baltico e del mare del Nord. Colonia fu la città leader di quest’area, popolatissima, era cresciuta
attorno ad un artigianato che lavorava molto sull’esportazione. Il santuario dove si conservavano le reliquie

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dei re Magi ne, sede di pellegrinaggio, ne accentuava la proiezione internazionale. Il duecento rappresentò
l’età del successo internazionale degli italiani. La Francia era per molti di loro quasi una seconda casa.
Figure di spicco nei mercati internazionali erano i lombardi. E nel giro di cinquant’anni si fece schiacciante
il predominio dei fiorentini che dominarono i mercati come imprenditori. Sul mare un ruolo di primo piano
rivestirono Venezia e Genova. Fu con la quarta crociata che il saccheggio di Costantinopoli fruttò loro un
enorme bottino di guerra. Tramite queste due città l’Europa si legava all’Asia. Erano veneziani Matteo,
Nicolò e Marco Polo ed erano genovese Benedetto Zaccaria, Ugolino e Vadino Vivaldi. Intorno al
commercio per mare progredirono anche le scienze per rendere la navigazione meno empirica.

II. I tessuti: il primato delle città delle Fiandre


La produzione di stoffe, soprattutto di lana, fu la “grande industria” delle città medievali. I tessuti
costituivano per l’Europa soprattutto una merce d’importazione. Venivano scambiati con la seta e il cotone
grezzi e con le spezie usate per la farmacologia e nella cucina. I più importanti produttori di lana europei
operavano in cinque città delle Fiandre francesi e in tre delle Fiandre fiamminghe, utilizzando soprattutto la
lana che veniva dall’Inghilterra. Anche gli italiani producevano tessuti ma si trattava di prodotti meno belli,
ma cominciarono a comprarle dal nord e tingerle, a rifinirle a proprio gusto. L’industria delle rifinitura fu
molto importante a Firenze.

III. Il mercante banchiere e il primato italiano


L’espansione del commercio impose in tutta Europa nuovi metodi di pagamento. Per comprare e vendere era
ormai necessario cambiare molte monete di diverso valore. Il banchiere divenne indispensabile per l’attività
del mercante. I banchieri genovesi furono i primi ad applicare accanto alla pratica di cambio anche quella di
deposito di denaro, rimborsabile su richiesta e la pratica del giroconto, cioè quella attraverso cui si trasferiva
da un deposito all’altro. Nel corso del XIII secolo si affinarono gli strumenti di credito, affaristi, mercanti,
banchieri e cambiatori erano al centro di un giro di commercio e credito. Per iniziativa italiana si diffuso
l’uso del contratto-lettera, un atto notarile con il quale il mercante si recava all’estero senza portare con se
una grande quantità di denaro liquido. Essendo sempre in viaggio, mandava per iscritto al suo socio, che si
trovava in un’altra piazza, una lettera, con l’ordine di restituire la somma in altra moneta a un
rappresentante del banchiere in quella città. Il mercante pagava così con interessi il vantaggio di non esporre
il suo denaro ai rischi del viaggio. Il banchiere attraverso le sue filiali all’estero,. Percepiva un interesse sul
prestito. La lettera di cambio era ritenuta lecita dalla chiesa. Prestare denaro invece era peccato di usura,
quando non fosse per spirito di carità e solidarietà, la chiesa non accettava nemmeno l’interesse percepito da
chi prestava. Tenendo conto del giudizio della chiesa la storiografia ha usato sempre il termine “usura” ogni
volta che ne medioevo di parlava di credito, attribuendo automaticamente un giudizio negativo al prestatore,
identificandolo come uno sfruttatore. Si è finito così per sottovalutare che la presenza di prestatori ha
favorito lo sviluppo di tante attività urbane.

IV.Il ritorno della moneta d’oro in Europa


Alla metà del Duecento, dopo diversi secoli, in varie parti d’ Europa si cominciò a pensare al conio di nuove
monete, prima d’argento e poi in oro (l’instabilità delle monete d’argento occidentali e il loro scarso valore
intrinseco rendeva molto difficile usarle per il grande commercio internazionale). Il fiorino di Firenze,
coniato nel 1252, spodestò rapidamente quasi tutte le altre monete (eccetto il ducato) e, in mezzo al caos
delle varie monete locali, assunse nel commento duecentesco un ruolo internazionale analogo a quello che il
dollaro ha poi avuto in quello del Novecento.

3 La chiesa teocratica
I. L’età di Innocenzo III e l’apogeo del potere monarchico del papa
Nel 1198 salì al soglio pontificio Innocenzo III. Il suo pontificato segnò il trionfo del progetto di fare della
chiesa una teocrazia, la teoria politico-religiosa che si sviluppò non fu del tutto nuova. Il suo successo derivò
soprattutto dalla capacità di saper applicare le teorie dei suoi predecessori, trasformandole in principi
nettissimi e propagandole poi con metafore semplici e molto efficaci e infine trasformate in concrete scelte
di governo. Innocenzo III fu una delle figure più importanti della storia della chiesa. Il nuovo pontefice

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impegnò le sue energie nelle questioni interne, per riprendere il pieno controllo su Roma. Egli ridusse al
ruolo di semplice funzionario pontificio il capo del comune di Roma, costrinse poi i feudatari a rinnovarli il
giuramento di fedeltà. Recuperò l’Esarcato. Ma non si accontentava di regnare sul patrimonio della chiesa,
voleva essere la guida del potere imperiale. Per raggiungere quest’obbiettivo approfittò delle contese tra i
pretendenti alla corona imperiale, proponendosi come punto si equilibrio tra di loro. A indicargli la strada fu
la normanna Costanza d’Altavilla, regina e imperatrice di Sicilia, morì prima di poter portare a termine un
patto con Innocenzo per definire meglio i caratteri della dipendenza feudale della Sicilia dal papa, ma non
prima di averlo nominato tutore di suo figlio Federico. Così fino al 1208, anno della maggiore età di
Federico, papa Innocenzo III fu tutore di Sicilia. Il pontefice intervenne anche nella successione
dell’imperatore. Nel 1201 egli riconobbe i diritti di uno dei candidati alla corona Ottone di Brunswick,
contro quelli di Filippo di Svevia, fratello dell’imperatore defunto Enrico VI, in cambio Ottone concesse
ampia libertà alla chiesa tedesca e rinunciò alle pretese imperiali su Ancona, Spoleto, sulla Toscana e sulla
Sicilia. Divenuto imperatore Ottone però tradì l’impegno e tornò a rivendicare il regno di Sicilia, Innocenzo
lo scomunicò e pensò anche di spingere per l’elezione di un nuovo imperatore che fosse più vicino ai suoi
progetti, aspettò così la maggiore età di Federico e quando questo divenne re di Sicilia, lo fece candidare alla
corona imperiale. Ottone IV era legittimo imperatore in carica ma privo di potere in quanto scomunicato. Il
giovane Federico era aspirante alla corona imperiale in nome dell’eredità paterna. Federico ebbe l’appoggio
del re di Francia, Ottone da quello inglese e fiammingo. Fu uno dei momenti più tesi dei rapporti tra Francia
e Inghilterra. Si arrivò velocemente allo scontro armato e Ottone e i suoi alleati subirono una dura sconfitta
in quella che fu chiamata “la battaglia delle nazioni”. Questa battaglia fu nel 1214, questa data e considerata
simbolo della fine dell’egemonia dell’impero nell’ordinamento politico della cristianità e l’ascesa verticale
delle singole monarchie su base nazionale. L’alleanza tra Federico di Svevia, Innocenzo III e Filippo
Augusto risultò trionfante. Nel 1215 Federico fu incoronato anche re di Germania e si preparò a ricevere
l’incoronazione imperiale con il nome di Federico II. Egli rinunciò alla corona di re di Sicilia e lasciò a suo
figlio. Innocenzo III affermò la signoria del papa sui re della terra. Con una serie di manovre riuscì a
diventare un punto di riferimento per l’impero e per le altre monarchie europee. Il papa era davvero superiore
a ogni altra autorità terrena dell’Europa cristiana.

II. 1204: il sacco di Costantinopoli


Innocenzo III rilanciò la crociata e definì giusta ogni guerra combattuta in nome della Chiesa, comprese
quelle contro gli eretici. Le tappe della riaffermazione della cristianità che scaturirono da questa svolta
ideologica, furono il sacco di Costantinopoli nel 1204 durante la quarta crociata, il massacro degli albigesi
nel mezzogiorno della Francia nel 1209, la spedizione di Las Navas de Tolosa nella quale i re cristiani di
Castiglia, Aragona e Navarra sconfissero il califfo di Cordova.
Circa 60000 musulmani furono uccisi o fatti prigionieri a Las Navas, che è considerata la tappa più
importante della fase finale della reconquista. Dopo quella data la Spagna musulmana si ridusse a una serie
di piccoli regni. Nel 1204 a essere conquistata dai crociati fu la città cristiana di Costantinopoli, quest’atto
fu la conclusione del deteriorarsi dei rapporti tra bizantini e occidente. La terza crociata non era servita ai
latini per riprendere Gerusalemme, aveva significato tuttavia per Bisanzio perdere Cipro, conquistata da
Riccardo Cuori di Leone. Il conflitto tra occidente e Bisanzio era cresciuto. Intorno agli anni ottanta del XII
secolo Bisanzio aveva cominciato ad avvicinarsi al Saladino, aumentando così la sua distanza
dall’occidente. Quando morì il Saladino gli occidentali pensarono che fosse arrivato il momento opportuno
per liberare Gerusalemme e quindi organizzarono la quarta crociata. La strategia era di colpire la potenza
musulmana dove era più forte, perciò i crociati dovevano conquistare prima tutto l’Egitto. L’iniziativa
quindi partì da Innocenzo III che voleva inoltre espandere la propria influenza nei Balcani, che cominciò a
raccogliere i soldi per la crociata. Venezia avrebbe fornito gratuitamente le navi necessarie al trasporto. Il
doge di Venezia Enrico Dandolo divenne il vero capo della spedizione, accettando di trasportare i crociati a
due condizioni: che prima di puntare sull’Egitto si dirigessero in Dalmazia per recuperare Zara che era
passata sotto il regno d’Ungheria e che si costringessero i bizantini a mettere sul trono imperiale un
imperatore gradito a Venezia. I crociati partirono nel 1202 e non arrivarono mai ne in Egitto ne in
Terrasanta. Zara fu conquistata e la spedizione deviò su Costantinopoli per attuare la seconda parte delle
richieste veneziane. Nel 1203 i crociati entrarono nella città e reinsediarono Isacco II Angelo associandogli
al trono il figlio Alessio IV. Ne seguirono mesi di congiure e una rivolta del popolo. I latini decisero di
spezzare le resistenze con un attacco forte. Il 13 aprile 1204 la città fu saccheggiata. Il sacco di
Costantinopoli aveva portato una crisi di coscienza in molti crociati che erano partiti con l’idea di liberare il
Santo Sepolcro e si trovavano nel pieno di un’operazione politica coloniale. Dopo il sacco di Costantinopoli

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i territori bizantini furono divisi come bottino di guerra. Da essi nacquero l’effimero impero latino d’oriente
creato dai crociati con a capo il conte di Fiandra che visse appena 50 anni e un monopolio veneziano sulle
isole dell’Egeo e del Peloponneso. Venezia prese la maggior parte del bottino. Quello che restava
dell’impero bizantino era in piedi nel piccolo stato di Nicea. Da lì l’imperatore Michele VIII con l’aiuto dei
genovesi riconquistò Costantinopoli e ricostruì l’impero bizantino anche se ormai era solo un semplice stato
greco. L’impero bizantino di fatto dopo 700 anni di storia morì con il sacco di Costantinopoli, anche se
formalmente rimase in vita fino al 1453.

III. La repressione del dissenso


La chiesa conobbe molte posizione dottrinali che furono conosciute come eresie. Molte di esse crebbero
tra XI e XII secolo. Nel corso del XIII secolo si passò dalla polemica e dalla propaganda alla repressione.
Ci furono eresie più accademiche che non uscirono da cerchie ristrette di intellettuali e eresie che ebbero
carattere di massa. Ci furono poi:
- correnti popolari di tipo profetico e millenaristico, tra le più sviluppate quella florense, dove il profeta
Gioacchino Fiore predicava l’era dello Spirito Santo. La chiesa la vide come un’imminente distruzione
delle gerarchie e alla morte di Gioacchino condannò i suoi seguaci.
- correnti di povertà volontaria, accettate fino a quando la povertà era una scelta individuale, tra le
correnti di questo genere e da segnalare quella valdese, nata dalla predicazione di Pietro Valdo, un ricco
mercante, che si era fatto povero per seguire l’esempio degli apostoli. Nonostante la
benevolenza con cui papa Alessandro III avesse accolto il predicatore, il clero di Lione pretese di
subordinare l’ordine alla autorizzazione del clero locale, quando Pietro si rifiutò, i valdesi furono
scomunicati e cacciati dalla città.
- il catarismo è considerata l’eresia del medioevo, quella che ebbe più seguito popolare. La loro fede era
dualista, in quanto si basava sulla concezione di una lotta continua tra il Bene e il Male. Dio era separato dal
mondo, come l’anima dal corpo e lo spirito dalla materia. La creazione della materia quindi non era atto
divino ma opera diabolica e quindi il Dio Creatore del Vecchio Testamento in realtà era il diavolo, e perciò
la materia, il corpo umano e il creato intero sono quindi da condannare, Cristo invece è uno spirito angelico
venuto a combattere le tenebre. Nell’uomo lo spirito che è il Bene è racchiuso nel corpo che è il Male. I
catari rifiutavano i sacramenti e le istituzioni degli uomini, erano fortemente anticlericali e avevano una loro
contro-chiesa. Prime tracce di questa eresia di trovano nel X secolo nel mondo bizantino e nell’XI in
occidente.
Innocenzo III raccolse l’allarme lanciato da San Bernardo per il successo popolare di molte forme di eresia,
che era stato ripreso da molti intellettuali cattolici nel corso del XII secolo e confermato dalla condanna
canonica durante il II concilio lateranense nel 1179 e, nel 1184, ribadito dalla condanna di Lucio III con la
bolla Ad abolendam.

IV. La “crociata” contro gli albigesi (1208). L’Inquisizione


Il papa fece alcuni tentativi di recuperare alcuni gruppi all’ortodossia, ma per la maggior parte scelse di
allontanare dai sacramenti o di espellere dalla comunità cristiana tutti coloro che non riconoscevano il
primato della chiesa in materia di fede e che ne contestavano la ricchezza terrena. Tutti avevano in comune
l’aspirazione a una vita di povertà più coerente con il vangelo, e la predicazione della povertà assoluta era
molto pericolosa perché metteva in discussione la potenza mondana della chiesa. La battaglia più feroce fu
quella contro i catari di Albi. Nel mezzogiorno della Francia la situazione era particolarmente grave.
Quando fu assassinato Pietro di Castelnau, un legato pontificio che si era recato in quelle terre a nome del
papa, la chiesa chiamò tutti i principi della cristianità per una guerra che è chiamata crociata contro gli
albigesi. In risposta al suo appello si formò un esercito internazionale capitanato dal cavaliere Simone di
Monfort. Fu un salto di qualità nella lotta della Chiesa contro gli eretici. Non si trattava più di convincere
l’eretico dell’errore, si trattava di eliminarlo. La crociata contro gli albigesi fu un massacro e una guerra di
rapina. Il risultato fu politico e non religioso: le regioni intorno ad Albi persero ogni autonomia e furono
consegnate dal papa al re di Francia. Innocenzo III però non era così ingenuo da pensare che l’eresia si
combattesse solo con le armi. Alla guerra fece seguito un progetto di sradicamento sociale. Il papa
predispose alcuni strumenti per consentire ai sacerdoti di controllare cosa accadeva nelle coscienze della
gente: la confessione annuale fu resa obbligatoria, insieme alla comunione, dal IV concilio lateranense
(1215); costruì, infine, l’Inquisizione, un tribunale come strumento per evitare che le idee non ortodosse
turbassero le coscienze, mettendo in discussione gerarchie e poteri. La Chiesa, che non riconosceva a sé
stessa il diritto d spargere sangue, attraverso speciali commissioni d’indagine poteva ricercare

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sistematicamente i sospetti di eresia e condannarli, mentre il potere civile assumeva il ruolo di “braccio
secolare” che eseguiva le sentenze e faceva scontare pene, amministrando anche quella di morte.
Nel 1232 l’Inquisizione fu affidata agli ordini mendicanti, soprattutto domenicani, nel 1252 fu autorizzata la
tortura per ottenere a confessione; vennero anche scritti dei manuali che dettavano le norme per gli
interrogatori e i processi. Gli eretici dunque non erano considerati solo dissenzienti dalla religione cattolica
ma sovversivi e addirittura fuori legge dalle leggi dello Stato: con il loro rifiuto radicale della ricchezza e
del potere, avevano in sé anche una carica di forte critica dei rapporti sociali esistenti (quindi rivendicazioni
politiche si mescolavano spesso alle rivendicazioni di carattere religioso, come era avvenuto nella pataria
milanese).

V. Il IV concilio lateranense (1215)


Innocenzo III nel 1215 convocò il IV concilio ecumenico lateranense, che fu uno dei più importanti della
storia della chiesa per le diverse materie che trattò e per il numero di personaggi che vi parteciparono. Il
concilio rese obbligatorie le confessioni e le comunioni annuali, costrinse gli ebrei che vivevano tra i
cristiani a portare un simbolo che li facesse riconoscere, stabilì come dovevano essere pagate le decime,
impose agli ordini religiosi di basarsi sui cistercensi, imposte al quarto grado di parentela il limite oltre il
quale i consanguinei non potevano sposarsi tra loro, vietò ai chierici di assistere agli spettacoli dei giullari e
prese decisioni importanti sulle strategie della lotto contro le eresie. Gli ebrei erano stati accusati di orribili
delitti, come l’infanticidio rituale. I papi avevano ripetute che erano solamente calunnie e avevano preso gli
ebrei sotto la loro protezione.
Innocenzo aveva cominciato ad allentare la protezione degli ebrei. Da allora furono oggetto di espulsione.
Furono cacciati in gran numero dall’Inghilterra, da Champagne, Normandia e Linguadoca.

VI. La quinta, la sesta e la settima crociata


Il concilio si chiuse con un appello alla cristianità, che partisse una nuova crociata verso le terre musulmane
e ricevesse il perdono dei peccati non solo chi andasse a combattere contro gli infedeli ma anche chi
finanziasse la spedizione o trasportasse i crociati. Si trattò dell’ultima volontà politica di Innocenzo III che
morì un mese dopo. La quinta crociata venne organizzata dal suo successore Onorio III. Fu una spedizione
militarmente monopolizzata da i contingenti germanici, che s’indirizzò contro l’Egitto con scarsi risultati. I
crociati dopo un anno di assedio occuparono Damietta ma dovettero restituirla due anni dopo. Ci furono
altre crociate nel corso del Duecento e nessuna ebbe come obbiettivo la Terrasanta. Nel 1228 Federico II
risolse la situazione degli accessi ai luoghi sacri con accordi diplomatici, ottenendone la liberazione per
dieci anni. Ma a Federico fruttò l’accusa di infamia, per aver trattato con gli infedeli. La zona fu ripresa dai
musulmani, poi dai cristiani, e ancora dai musulmani. La sesta crociata alla quale partecipò anche
l’imperatore fu bandita poco dopo ed ebbe come obbiettivo ancora l’Egitto. Damietta fu riconquistata, ma
la guerra finì quando il re di Francia, Luigi IX, fu fatto prigioniero. La settima fu condotta sempre da Luigi
IX insieme al fratello Carlo d’Angiò re di Sicilia. I genovesi giocarono un ruolo importante nella sua
organizzazione, ma la spedizione inizialmente diretta verso Tunisi fu un fallimento.

4 Il cristianesimo evangelico: Domenico e Francesco


I. Mendicanti per imitare Cristo
Innocenzo III sapeva che di fronte ai mutamenti che investivano la società a tutti i livelli la chiesa doveva
rispondere con un’arma di rinnovamento, l’arma adatta la trovò negli ordini mendicanti. Punto di partenza
come in passato fu la povertà. Ma con una novità, non bastava la povertà del singolo monaco nella ricchezza
complessiva del monastero, occorreva che fosse povero il singolo nella povertà di tutti gli altri fratelli. La
chiesa intuì che questa poteva essere la risposta che finora era mancata di fronte ai fermenti di rinnovamento
della società. Predicando tuttavia un messaggio simile a quello degli eretici, questi mendicanti iniziavano la
riconquista della coscienza della chiesa. Con loro essa provava a riassorbire senza armi, senza roghi ne
condanne, le spinte eretiche presenti nella cultura laica. I mendicanti scelsero di vivere di carità. Essi
somigliavano agli eretici prima di tutto per la loro ispirazione al vangelo. Si radicarono in ambianti popolari,
non furono cioè il prodotto di dispute colte. A differenza degli eretici questi però predicavano l’obbedienza
alla chiesa e crebbero più nelle città che nelle campagne, in quelle città da dove i monaci si allontanavano
per l’isolamento. Comparve vicino a quella del monaco la figura del frate. Il frate non era un monaco,

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perché non viveva in un chiostro isolato, anzi cercava il punto più popolato del mondo, che era la città e da
li diffondeva il vangelo.

II. I frati predicatori di Domenico di Guzman


Domenico di Guzman fondò l’ordine che fu detto dei frati predicatori o, dal suo nome domenicani. Durante
un viaggio in Francia entrò in contatto con l’eresia catara e arrivò alla conclusione che per combatterla
occorresse convincere i fedeli con due strumenti: la parola (predicazione) e l’esempio (povertà). Nell’anno
della morte di Domenico, avvenuta nel 1221, l’ordine già contava più di una ventina di conventi, divisi in
otto circoscrizioni (province). Giocando sul loro nome, i domenicani di definirono domini canes cioè “cani
da guardia del Signore” contro l’eresia. I loro conventi si inserirono all’interno o immediatamente all’esterno
delle mura urbane, dove le città crescevano, tra la gente da poco inurbata alla quale più facilmente potevano
mancare punti di riferimento e guida religiosa. I conventi domenicani divennero perciò anche centri di studi
teologici biblici, e nelle università i frati occuparono presto le cattedre di teologia e filosofia. Appartennero
all’ordine i più apprezzati pensatori della scolastica, come Tommaso d’Aquino.

III. Francesco
Quasi contemporaneamente ai domenicani, dall’esperienza di Francesco d’Assisi nacquero in Italia i frati
minori (francescani). Fu la fedeltà totale che Francesco dichiarò al papa, pur predicando l’assoluta povertà, a
fruttagli l’approvazione. I francescani praticarono una predicazione più accessibile di quella domenicana.
Francesco parlava un linguaggio a portata di tutti, tratto in gran parte dalla vita di tutti i giorni e lo sosteneva
con gesti simbolici ed effetti scenici. Incarnando consapevolmente il modello giullare di Dio.

IV. La nascita dell’ordine francescano


Francesco non approvò mai la trasformazione della comunità in ordine, non amava lo schema rigido che ne
derivava. Ma le gerarchie della chiesa avevano fatto forti pressioni e Francesco l’accettò per quello spirito
di obbedienza e nel 1224 si ritirò sul monte della Verna e li tornò al modello di vita dei primi anni, alla cura
dei lebbrosi e all’eremitaggio. Francesco morì nel 1226 e appena due anni dopo fu dichiarato santo e nello
stesso anno Assisi cominciò a costruire la basilica che porta il suo nome. Quella di Francesco si rivelò
un’eredità difficile. La frattura all’interno dell’ordine quando era ancora vivo si accentuò alla sua morte. Gli
storici hanno molto discusso se i compagni e i successori di Francesco abbiamo tradito i suoi ideali o se si
sia trattato solo di adattamento alla realtà della chiesa di quel tempo. L’ordine si divise in due gruppi
avversi, quello più radicale e rigorista degli spirituali e quello più moderato dei conventuali, i primi
volevano tornare ai propositi die primi tempi, professando povertà assoluta, i secondi volevano costruire
un’organizzazione ordinata, colta e adatta a servire la curia romana, che li sosteneva. Gregorio IX autorizzò
i frati minori ad accettare le offerte in nome della chiesa che le avrebbe amministrate. Chiara rifiutò questa
dispensa per il convento femminile da lei fondato sulla scia della scelta di Francesco, l’accettò invece
Bonaventura per quello maschile. Gli spirituali ebbero un momento felice quando nel 1294 fu eletto papa
Celestino V, un frate molto vicino alle loro idee. Ma Celestino il “papa angelico”, abdicò poco dopo e la vita
per gli spirituali tornò ad essere difficile, fino a quando non furono perseguitati come eretici da papa
Bonifacio VIII. I parroci per poter presentare ai fedeli i valori di Francesco avevano bisogno di un testo
ufficiale che potesse essere letto durante le liturgie. Papa Gregorio IX affidò a Tommaso da Celano, che era
estraneo alle due parti, di scrivere la biografia del santo. E Tommaso lo fece, descrivendo la vita semplice di
un uomo, sempre obbediente al vangelo, nel suo testo erano citati due fatti miracolosi: la predica agli uccelli
e l’impressione delle stimmate. Ma i dirigenti che ormai reggevano l’ordine convinsero Tommaso ad
aggiungere altri miracoli. In tutte le immagino che lo rappresentano, Francesco è segnato dalle stimmate che
sintetizzano la sua identità con Cristo. Sul fatto che le avesse ricevute esistono solo due testimonianze.

V. La biografia ufficiale di Francesco: la Legenda di Maior


Di fronte a tanta diversità di opinioni e di scelte c’era bisogno di un testo ufficiale che potesse essere letto
durante le liturgie e celebrasse i meriti di Francesco in maniera uguale per tutti. Fu per questo che papa
Gregorio IX affidò a Tommaso da Celano la scrittura della biografia del santo. Nel suo testo erano citati solo
due fatti miracolosi: la predica agli uccelli e l’impressione delle stimmate. Ma i dirigenti che ormai
reggevano l’ordine convinsero Tommaso prima e altri biografi poi a riscrivere molte volte la vita,
aggiungendo altri miracoli che rendessero la memoria di Francesco meno pericolosa e meno forte la carica
sovversiva: meno lebbrosi e più stimmate. Nel 1263 Bonaventura fece redigere una biografia ufficiale di San
Francesco, la Legenda maior, e tre anni dopo, per evitare interpretazioni discordi, Bonaventura fece anche

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distruggere tutte le altre biografie del santo. Qualche manoscritto sfuggi solo per caso a questa distruzione,
come la Vita prima e la Vita seconda scritte da Tommaso da Celano.

VI. Chiara
Acconto all’ordine maschile dei frati minori si sviluppò quello che venne poi detto delle clarisse o secondo
ordine francescano, risultato dell’istituzione della regola di vita messa in piedi a San Damiano da Chiara
d’Assisi su imitazione di quello si Francesco. Chiara aspirava a una vita di religione, ma non era interessata
ai monasteri tradizionali. Lei e Francesco si sarebbero incontrati più volte per sciogliere insieme importanti
interrogativi. Poteva Chiara intraprendere una vita girovaga e di perpetua marginalità come era quella che
conduceva Francesco con i suoi compagni, vivendo “nelle chiese povere e abbandonate”? la società al suo
tempo avrebbe accettato questo comportamento da parte di una giovane donna? La regola delle sorelle
prudentemente, scelse la totale povertà, ma escluse il vagabondaggio. Con forza e decisione, dopo la morte di
Francesco, Chiara rifiutò dalla Chiesa la possibilità di possedere beni che era accettata dall’ordine maschile e,
anzi, chiese e ottenne dal papa “il privilegio della povertà”. Il carattere eccezionale di San Damiano
scomparve dopo la morte della sua fondatrice.

VII. Fermenti e trasformazioni tra Due e Trecento


Dopo la canonizzazione di Francesco cominciarono a sorgere conventi e chiese dedicati a lui. A chi non se
la sentiva di lasciare la famiglia, veniva poi proposta un’alternativa più moderata, che fu detta terzo ordine
francescano. Tra francescani e domenicani ci furono molte somiglianze, ma anche profonde differenze.
Quello dei domenicani fu un nuovo clero, perché i compagni di Domenico erano preti. La povertà fu per
Francesco una scelta più radicale che per i domenicani. La predicazione domenicana era dotta e prendeva in
esame i dogmi della fede, mentre quella di Francesco era più popolare. Questo non significa che fra i
francescani non ci siano stati personaggi dotti. Del resto dopo la morte di Francesco anche i frati minori
erano stati avviati allo studio della teologia e quindi della filosofia. All’interno dell’ordine ci furono delle
resistenze da parte di chi desiderava continuare a ispirarsi alla primitiva esperienza di Francesco che aveva
messo in guardia i suoi compagni dalle insidie della scienza. Sia francescani che domenicani furono
coinvolti nella gestione dei tribunali dell’Inquisizione contro gli eretici, ma furono molto più spesso i
domenicani a ricoprire il ruolo di inquisitori. Sul finire del secolo in Italia si erano sviluppate nuove correnti
pauperistiche. Quella di fra Dolcino fu la più esplosiva, condannava la ricchezza delle chiesa e praticava la
povertà e l’attesa delle fine del mondo. I dolciniani si dispersero alle prime persecuzioni, Dolcino rimasto
solo, fu preso per fame e poi bruciato.

5 Il tramonto dell’impero e delle nuove idee universali


I. L’ultimo grande imperatore
Dopo la morte di Barbarossa, l’idea che potesse esistere un potere superiore a quello del papa, dei re, dei
signori e dei comuni, un’autorità sovrannazionale che unificasse l’Europa rimase solo un sogno. Non si
pensi che Enrico VI, suo figlio, non avesse un progetto politico chiaro. Divenuto re di Sicilia nel 1186 per
aver sposato la normanna Costanza d’Altavilla, nel 1190 aveva unito il regno di Sicilia ai domini imperiali,
ma morì troppo presto perché questa unione potesse tradursi in un progetto universale. L’idea di impero
universale trovò il suo ultimo interprete in Federico II, nipote di Barbarossa. A quattro anni fu re sotto la
tutela di Innocenzo III, a quattordici re di Sicilia a pieno titolo e a vent’uno imperatore per volontà del suo
tutor. Federico di Svevia fu eletto nel 1215 e incoronato nel 1220. Fu un sovrano importante, dotato di
notevoli capacità organizzative, che lasciò una traccia profonda. I nemici lo attaccarono con durezza, la
propaganda guelfa antimperiale utilizzò il suo amore per la cultura araba per accusarlo si somigliare di più a
un sultano che a un imperatore cristiano e lo presentò alla gente come “la bestia dell’Apocalisse”. Il papa
finì per scomunicarlo. I suoi amici invece lo videro come colui che avrebbe riportato la giustizia del mondo,
perché il suo operato era ispirato da un disegno divino. Intorno a Federico si raccolsero i poeti della scuola
siciliana, che diedero forma al volgare poetico italiano, egli si circondò anche di una equipè di dotti di varie
lingue e culture. Federico è stato descritto a volte come un superuomo a volte come un anticipatore del
Rinascimento, a volte anche come un despota. L’imperatore progettò che il suo impero divenisse universale
e che si formasse su singoli regni. Per essere così doveva unificare sotto una corona il regno di Germania e
di Sicilia, doveva essere riconosciuto re d’Italia, e doveva avere il suo centro in Roma.

II. Federico II rafforza la monarchia nel Mezzogiorno d’Italia

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I domini che componevano l’impero erano molto diversi. La Germania aveva una sua organizzazione
politica e amministrativa feudale-vassallatica. La Sicilia era una monarchia centralizzata. L’Italia centro-
settentrionale era caratterizzata da forti comuni ormai molto autonomi. A Roma, nei territori della chiesa
che si erano irrobustiti sotto Innocenzo III, non c’era posto per l’imperatore. Federico II alla morte di
Innocenzo III per prima cosa ruppe la promessa he gli aveva fatto di mantenere separato il regno di Sicilia
da quello della Germania. Così dal momento della sua incoronazione l’impero coprì dalla Germania alla
Sicilia, interrotto dal patrimonio di San Pietro.
Egli decise di fare del regno di Sicilia il centro dell’impero. Nel regno Federico rafforzò il potere
monarchico, dotandolo di mezzi e strumenti che rappresentavano soprattutto il tentativo di imporsi sui
feudatari del regno. Egli costruì una legislazione unificata per tutto il regno. Un codice di leggi che
rifacendosi al diritto romano e alla legislazione normanna, compiva un passo decisivo per superare la
consuetudine. Federico centralizzò anche le scritture pubbliche, organizzò un archivio del regno e
introdusse l’uso di registrare gli atti in una cancelleria. Federico si propose come il motore di tutte le attività
umane. Dette al regno un carattere autoritario e centralizzato. Federico combattè anche i baroni del regno e
in Sicilia attuò una vera e propria destrutturazione della cultura tradizionale saracena e dopo una resistenza
dalla montagne deportò dall’isola gli ultimi musulmani. costruì in punti strategici anche dei castelli reali.
Organizzò l’amministrazione del regno in provincie, affidata ognuno a personale che riceveva un incarico,
revocabile e un salario statale. Per formare i funzionari del governo, egli fondò l’università di Napoli. Per
tenere in piedi questo sistema centralizzato occorreva molto denaro, egli se lo procurò stabilendo monopoli
regi, creando un sistema di imposte permanente e aumento le tasse che percepiva sul commercio estero. Il
re si trasformò anche il mercante.

III. L’imperatore, il papa e i comuni italiani


Riorganizzato il regno di Sicilia, Federico passò alla seconda parte del suo progetto, che prevedeva il
recupero dell’autorità imperiale sul regno d’Italia e il controllo dei territori della chiesa. Soltanto così la
penisola poteva essere unificata in un solo regno, diviso in vicariati, ma con lo stesso sistema
amministrativo. Ogni vicariato sarebbe stato presieduto da un personaggio di stretta fiducia dell’imperatore.
Nel 1226 Federico convocò a Cremona una dieta per discutere della lotto all’eresie e della preparazione
della crociata che Federico continuava a rimandare, accompagnando la convocazione con un ordine: i
comuni dovevano inviare i loro rappresentanti e si dovevano sottomettere all’autorità dei vicari
dell’imperatore. Le città italiane disposte a riconoscere formalmente di far parte dell’impero, non lo erano a
rinunciare alla loro autonomia che avevano conquistato con tanta fatica. Accettare l’ordine di Cremona
significava trovare i vicari a governare in tutta l’Italia centro-settentrionale. Immediatamente si ricostituì la
Lega lombarda. Federico annullò la dieta. Nel 1227 quando salì al soglio pontificio Gregorio IX, il progetto
riprese anche nei confronti dei territori della chiesa, e per la prima volta fu scomunicato che gli veniva data
perpunirlo di non aver messo in pratica l’antica promessa della crociata. Federico dopo tanti anno di rinvii
sorprese tutti e partì per la Terrasanta, nonostante fosse scomunicato, ma non andò per combattere, ma per
stabilire una pacifica convivenza tra musulmani e cristiani in Gerusalemme. Si disse che l’imperatore era
compiacente verso gli infedeli e che per di più era l’anticristo, il diavolo in terra, nato da un rapporto tra la
madre Costanza e Satana. Anche dalla parte musulmana l’accordo fece scandalo, perché a fare l’accordo
furono Federico e il sultano, quindi per la prima volta per una questione religiosa non furono coinvolti le
autorità religiose, il papa e il califfo di Baghdad. In Italia dilagò ancora la guerra tra guelfi e ghibellini, tra i
partigiani del papa e dell’imperatore. La situazione precipitò quando l’imperatore dopo un viaggio in
Germania, tornò in Italia con il suo esercito e sconfisse la Lega lombarda. Allora Federico si illuse di essere
vicino alla vittoria e chiese ai comuni guelfi la resa incondizionata. Nel 1239 Gregorio lo scomunicò ancora
e fui di nuovo guerra aperta. Federico rispose continuando la sua marcia sui domini pontifici, occupò
Spoleto e Ancona, ottenne che molte città a castelli nel Lazio e dell’Umbria si dichiarassero
spontaneamente terre dell’imperatore. Poi assediò Roma. Il papa concedeva a chi avesse combattuto per lui
le stesse indulgenze per chi combatteva in Terrasanta. Nel 1241 l’imperatore bloccò tutte le strade che
portavano a Roma e fece catturare i prelati del concilio che era stato convocato proprio per deporlo e
dichiarare al mondo la sua indegnità. Il concilio non si tenne. Il nuovo papa Innocenzo IV organizzò la
riscossa. Convocò il concilio non più a Roma, ma a Lione, e alla conclusione dichiarò scomunicato e
deposto l’imperatore. In Germania fu subito eletto un nuovo re. In Italia lo scontrò dilagò ancora, dove le
forse guelfe ripresero vigore. Nel 1248 i guelfi d’Italia batterono le forze dell’imperatore. La fama di
condottiero invincibile di Federico si spense e l’imperatore cominciò a sospettare dei suoi stessi
collaboratori. Anche Pier delle Vigne fu accusato di aver tramato contro di lui per avvelenarlo, fu preso e si

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uccise. I contemporanei ne difesero la memoria anche Dante credette alla sua innocenza “vi giuro che mai
non ruppi fede al mio signor, che fu d’onor si degno”. Nel 1250 Federico muore in Puglia.

IV. Il grande interregno (1254-73)


Corrado IV, successero di Federico dal 1250, regnò solo quattro anni su quello che di fatto ormai era solo un
mosaico di staterelli autonomi. Comparve anche un anti-re straniero Guglielmo d’Olanda, sostenuto dal
papa. Nel giro di poco tempo morirono sia Corrado che Guglielmo e anche Innocenzo IV. Il quadro politico
cambiò completamente. Iniziò quel periodo di anarchia che è chiamato “grande interregno”, diciannove
anni durante i quali in Germania ci fu solo una lotta per il trono. Corradino, nipote di Federico, era allora
giovanissimo, e i grandi principi elettori finirono per candidare la suo posto due stranieri che si contesero il
regno: Alfonso X di Castiglia e Riccardo di Cornovaglia, fratello del re d’Inghilterra. Ma nessuno die due
s’impose sull’altro. Moriva quindi come Federico l’idea di impero che unificasse sotto un solo simbolo i
territori dalla Germania all’Italia.

6 L’ascesa delle monarchie europee


I. La monarchia inglese
Il rafforzamento delle monarchie europee non poteva realizzarsi senza provocare conflitti e resistenze.
Questo processo aveva avuto diversa evoluzione nei vari regni europei. In Inghilterra il processo della
monarchia era stato rapido. Come i successori di Enrico II la nobiltà aveva recuperato potere rispetto al re.
Riccardo Cuor di Leone le aveva lasciato spazio quando era stato assente per molto tempo durante la terza
crociata, e perchè essendosi schierato contro Enrico VI era stato fatto prigioniero e costretto a prestargli
giuramento vassallatico. Il seguito il fratello Giovanni Senzaterra aveva fatto un disastro dopo l’altro, aveva
perso i suoi feudi in Francia ed era stato scomunicato per non aver voluto confermale l’elezione
dell’arcivescovo di Canterbuty. Nel 1213 era stato deposto dal papa che arrivò a offrire la corona
d’Inghilterra al re di Francia. A quel punto non gli era rimasto che piegarsi a mettere il suo paese sotto la
protezione del pontefice. La sconfitta mise in forti difficoltà Giovanni che dovette fronteggiare la reazione
dell’opinione pubblica inglese. La nobiltà e gli ecclesiastici approfittarono della sue debolezza e lo
costrinsero a sottoscrivere la Magna charta libertatum, un patto che fissava i limiti reciproci ai diritti e ai
doveri del re sui sudditi. Con essa il re s’impegnava a rispettare i diritti degli ecclesiastici, dei nobili e di
tutti gli uomini liberi del regno, confermava le concessione sulla circolazione dei mercanti, riconosceva il
diritto dei sudditi di condizione libera di essere giudicati da tribunali di loro pari e si obbligava a non
imporre nuove tasse senza l’approvazione della nobiltà e del clero e farsi assistere negli affari di governo da
un gruppo di baroni. Ma Magna Charta è un documento feudale e di tiro reazionario, perché nasceva dalla
reazione del mondo feudale al crescente potere del re, e fu stesa quando i nobili riacquistarono potere,
infatti la Charta limitava i poteri del re. Questa rappresentò anche una tappa importante per la nascita del
parlamento inglese. Nei primi anni ci furono scontri armati con la piccola nobiltà rurale che chiedeva di
essere rappresentata insieme agli altri nel parlamento.
Edoardo I finì per accordarci per una “monarchia controllata”.

II. Particolarismi nella penisola iberica dopo la reconquista


La penisola iberica fu l’altra regione in cui la monarchia fece rilevanti progressi. Via via che i musulmani si
erano ritirati dalla penisola erano sorti quattro regni cattolici: Portogallo, Navarra, Castiglia e Aragona. La
presenza musulmana sopravvisse fino al 1492 solo nel regno di Granada. La popolazione della penisola sia
per lo stato di guerra sia per la dispersione di molti musulmani diminuì notevolmente. Si tentò allora di
avviare il ripopolamento cristiano creando nuovi insediamenti, come quelli affidati agli ordini monastico-
cavallereschi lungo il cammino di Santiago. Ampie distese di terreno, spopolato a causa della lunga guerra,
furono affidate come feudo a esponenti della piccola nobiltà cavalleresca. Ma i cristiani popolarono
soprattutto le città dalle quali erano stati espulsi i musulmani. Nella penisola iberica nacquero più regni, la
Navarra attraverso matrimoni dinastici fu unita al regno di Francia e il resto del territorio rimase diviso in
tre pezzi: Portogallo, Castiglia e Aragona. L’Aragona era a sua volta una confederazione di regni e questo
suo assetto istituzionale era chiamato “Corona” lentamente il potere monarchico si rafforzò. Il regno di
Castiglia si allargò soprattutto con Ferdinando III e Alfonso X, finendo per controllarne più della metà.
L’Aragona volse le sue mire espansionistiche al Mediterraneo e si avviò a divenire una solida potenza,
conquistò le Baleari e tolse la Sicilia agli Angioini e infine mise le mani sulla Sardegna.

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III. La monarchia francese e il “mestiere del re”


Filippo Augusto fu un conquistatore che estese il dominio del regno a scapito delle terre feudali del re
d’Inghilterra. Tra il 1202 e il 1206 entrarono a far parte del territorio francese la Normandia, parte del
Maine, l’Angiò, la Turenna, il Poitou, fui ancora per queste terre che Francia e Inghilterra si trovarono su
fronti opposti a Bouvines, il fronte vincitore fu quello francese che sosteneva Federico II e il pontefice.
Filippo Augusto fu anche un abile amministratore che prese per la prima volta coscienza che quello del re
era un mestiere. Il suo prestigio aumentò con il perfezionamento dell’amministrazione del regno. Filippo
rafforzò le competenze dei funzionari reali, riorganizzò la curia e la cancelleria. Concesse ampie autonomie
alle città, introdusse la trasmissione ereditaria del diritto regale così da evitare alla monarchia la crisi alla
morte di ogni re. Rafforzò la coscienza nazionale francese ottenendo dal papa il riconoscimento
dell’indipendenza completa del regno di Francia dall’Impero. Il re divenne il centro indiscusso di ogni
decisione politica all’interno del territorio. Filippo non si definì più re dei francesi, ma re di Francia.
Filippo Augusto fu quindi in primo re di Francia. Dopo di lui con Luigi IX il prestigio della monarchia
francese crebbe ancora, ma con Filippo il Bello la monarchia francese raggiunse il suo punto massimo.

7 I grandi mutamenti politici tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo
I. Filippo il bello e il trionfo della monarchia francese
È con Filippo il Bello che l’autorità della monarchia francese raggiunse il suo massimo. Nel 1300 i francesi
occuparono con le armi il territorio delle Fiandre e la popolazione si sollevò contro di loro. Nel 1302 un moto
popolare liberò Bruges, l’anno dopo a Courtrai la fanteria dei comuni fiamminghi sconfisse la cavalleria
francese. Infine, nel 1328 una repressione violenta spense i focolai di resistenza popolare. Filippo il Bello
dovette accorgersi presto che per amministrare il grande territorio del regno erano necessarie ingenti risorse
finanziarie. Decise perciò di far fronte alla mancanza di denaro confiscando beni dei cavalieri Templari,
l’ordine nato in Terrasanta che si era diffuso in Europa ammassando grandi ricchezze, finendo per svolgere
funzioni bancarie a livello internazionale. Il re si era pesantemente indebitato con loro, e la soluzione che
trovò per non pagare il dovuto fu semplice e spregiudicata: con un pretesto, processò per eresia un gruppo di
Templari di Parigi, che erano tra i più potenti, li mandò al rogo e soppresse l’ordine. Una seconda fonte di
entrate fu la liberazione dei contadini, che consentì al re di sostituirsi ai signori come destinatario delle
imposte. La terza, nel 1302, fu quella di appropriarsi delle decime, cioè il decimo del raccolto che i fedeli
pagavano alle chiese e queste alla Chiesa di Roma. Quest’ultimo intervento ebbe importanti conseguenze:
uno scontro durissimo con il papa, e l’occasione per convocare una riunione di tipo del tutto nuovo,
considerata la nascita dei cosiddetti Stati Generali di Francia. Per far fronte alle delicate decisioni che
occorreva pendere nei confronti del papa, il re chiamò a Parigi i rappresentanti di tutte le città del regno,
insieme ai nobili e agli ecclesiastici, che riconobbero al re di Francia la piena e totale sovranità all’interno dei
suoi territori.

II. Il mezzogiorno d’Italia dagli Svevi agli Angiolini (1266)


In Sicilia i discendenti degli Svevi avevano mantenuto il potere per pochi anni dopo la morte di Federico II
(1250), poi si erano ecclissati; la loro scomparsa segnò l’inizio dell’espansione francese in Italia. Sul trono di
Sicilia sedette, come reggente, un figlio naturale dell’imperatore, Manfredi, che, per mantenere intatta
l’eredità paterna, si mise alla testa die ghibellini d’Italia ma il suo successo durò poco. Di fronte alla
sgradevole prospettiva che uno svevo provasse di nuovo a controllare tutta la penisola il nuovo papa, Urbano
IV, cercò di contrapporgli Carlo conte di Angiò re di Provenza e fratello del re di Francia (il papa rivendicava
a sé l’autorità di scegliere il re di Sicilia perché considerava quel regno ancora un feudo pontificio, in base
all’antico accordo stretto con i normanni nel 1059). Così Carlo d’Angiò e le città guelfe attaccarono Manfredi
e lo sconfissero a Benevento (1266). Invano i ghibellini dirottarono le loro ultime speranze sul giovane nipote
di Federico II, Corradino nel 1268 entrò a Roma, ma pochi mesi dopo Carlo d’Angiò lo sconfisse a
Tagliacozzo e lo fece decapitare nella piazza mercato di Napoli. Carlo, già titolare delle contee di Provenza e
Angiò, ora re di Sicilia, si affermava anche in alcune aree del Piemonte e non nascondeva un progetto di
egemonia mediterranea. Firenze ricavò importanti vantaggi economici dal finanziamento di Carlo per la
conquista del Mezzogiorno e acquisì un più deciso predominio sulle altre città toscane.

III. I vespri siciliani portarono gli Aragonesi in Sicilia (1282)


L’interpretazione del Vespro come una spontanea rivolta popolare trova scarso appoggio nei documenti e

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nacque nell’ottocento a sostegno degli ideali patriottici risorgimentali. Le città d’Italia avrebbero cacciato
l’imperatore straniero e la Sicilia avrebbe fatto lo stesso con i usoi dominatori. Gli avvenimenti palermitani
avevano così tuti i caratteri per entrare nella leggenda, la leggenda di un popolo che si scaglia contro il
potere. Anche la tradizione italiana ottocentesca considera quella del Vespro una rivolta per la libertà; cosi
ci è anche tramandata dall’interpretazione delle immagini, poiché gli artisti prediligono gli aspetti del
melodramma e dipingono la rivolta in modo da suscitare emozione in chi guarda. Gli studiosi oggi tendono
a considerare la rivolta palermitana come il prodotto di una congiura ordita contro gli Angioini, contro il
processo si francesizzazione del ceto dirigente. La rivolta prese il via a Palermo il 30 maggio 1282, era il
lunedì di Pasqua, e si estese rapidamente a tutta l’isola. Si narra che l’occasione sia nata per un gesto
irriguardoso di un soldato francese verso una donna siciliana. Un cronista veneziano racconta che i soldati
francesi cercavano armi abusive e perquisivano sia gli uomini che le donne. Al difesa delle donne avrebbe
dunque fatto da scintilla. Sul fuoco della rivolta si è certi che abbiano soffiato i ghibellini d’Italia,
l’imperatore bizantino e alcuni gruppi familiari del Mezzogiorno, guidati da fedeli servitori degli Svevi.
Furono loro a chiamare il re d’Aragona Pietro III, come marito di una figlia di Manfredi, per rivendicare il
regno di Sicilia. E fu così che la rivolta di Palermo si trasformò in una guerra internazionale. Pietro III
d’Aragona sbarcò a Trapani e fu incoronato re di Palermo. La sua incoronazione segnò l’inizio della guerra
che provoco la dissoluzione del potere centrale del regno e si chiuse solo nel 1302 con la pace di
Caltabellotta. Furono spartite le sfere d’influenza del Mezzogiorno e il regno di Sicilia si scisse in due, il
regno di Napoli rimase agli Angioini e si collocò nell’orbita papale, mentre quello di Sicilia, ristretto solo
all’isola fu degli Aragonesi. Tra gli storici siciliani si rafforzò l’idea che la Sicilia avesse espresso la sua
vocazione d’autonomia rispetto alla penisola italiana. La rivolta ha segnato il distacco definitivo tra le due
parti. Questa distinzione oggi non viene accettata perché non si vedono dei caratteri specifici così netti. Si è
pensato a lungo che alla ferocia con la quale il popolo si scagliò contro i francesi ci fosse la l’impopolarità
di Carlo, che avrebbe governato con mano molto più pesante di quanto avesse fatto Federico II. Il re di
Napoli Roberto il Saggio, fu considerato capo indiscusso del partito guelfo, ma inutilmente sia lui che i suoi
successori si impegnarono per riprendere la Sicilia.

IV. Gli Aragonesi creano la “via delle isole”


I re di Aragona, che già nel 1229 avevano conquistato le Baleari, nel 1297 ottennero da Bonifacio VIII
l’infeudazione di un inesistente “regnum Sardiniae et Corsicae”: era un artificio diplomatico concordato per
risolvere in maniera equa il conflitto tra francesi e Corona d’Aragona.
La Sardegna era stata organizzata, dal X secolo, in quattro Giudicati o regni, Cagliari, Gallura, Torres e
Arborea, ognuno retto da un giudice o re. Al momento dell’infeudazione agli Aragonesi la situazione politica
dell’isola era questa: l’ex giudicato di Cagliari e quello di Gallura erano o direttamente sotto il controllo
pisano o sotto l’influenza indiretta di Pisa, Sassari e il suo entro terra dipendevano da Genova; l’ex giudicato
di Torres era controllato dai genovesi Doria e dai Malaspina di Lunigiana; il fertile giudicato d’Arborea era
governato autonomamente da una famiglia giudicale di origine catalana. La conquista della Sardegna da parte
della Corona d’Aragona si attuò con una strategia differenziata, passò attraverso una lunga guerra,
sostanzialmente condotta contro Pisa e i suoi alleati, dal 1232 e si chiuse, nel 1410-1420, con la caduta
dell’Arborea. La lunga guerra distrusse l’economia dell’isola, che divenne per gli aragonesi una tappa
importante di quella “via delle isole” nel mediterraneo che doveva mettere in contatto commerciale
Barcellona, Baleari, Corsica, Sardegna, Sicilia, Cipro e poi l’Oriente.

V. Bonifacio VII
L’elezione di Pietro da Morrone con il nome di Celestino V, nel 1294, era stata salutata con gioia dagli
spirituali Francescani e in genere da tutti coloro che chiedevano alla chiesa di ritornare alla purezza del
Vangelo. I rinnovatori si attendevano da Pietro grandi cose. Ma la tradizione vuole che Pietro fosse un
sant'uomo, che non ce la fece reggere il peso dei condizionamenti politici angioini, delle pressioni dei
cardinali che volevano farne una loro pedina, dell'isolamento a Napoli, dove fu relegato per essere più
strettamente controllato da Carlo II d'Angiò. Celestino V, accerchiato, consapevole forse di non poter
sfuggire alle pressioni e insieme ben deciso a rimanere coerente con i suoi ideali, dopo aver chiesto una
serie di consigli giuridici al più alto livello, scelse il gesto clamoroso dell'abdicazione, tornando a essere
solo un eremita, dedito alla vita contemplativa. Dante Alighieri, duramente nella Commedia lo definì vile.
Gli succedette un pontefice che era l'opposto. Quanto Celestino era tormentato, tanto questo era in energico,
volitivo anche spregiudicato. Benedetto Caetani, esponenti di una potente famiglia romana, personaggio
chiave della curia, esperto di diritto canonico tanto da aver avuto un ruolo di primo piano nel fornire a

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Celestino, una relazione in perfetta regola sulla facoltà giuridica del Papa di rassegnare le dimissioni, salì al
soglio pontificio con il nome di Bonifacio VIII. La prima cosa che fece, per allontanare il rischio che
qualcuno potesse ritenere illegittima la sua lezione, fu trasferire Pietro, in condizione di semi prigionia.
Bonifacio tentò di ricostruire i trionfi della teocrazia pontificia, senza accorgersi che l'idea che il Papa fosse
il capo anche politico oltre che religioso della cristianità apparteneva ormai al passato. Quanto questa
pretesa fosse al di fuori dei tempi lo si vide nell'ultimo scontro che oppose il Papa al regno di Francia.
Filippo il Bello prese, una serie di provvedimenti ostili alla chiesa, tra i quali la revoca dell'immunità fiscale
dalla quale fino a quel momento aveva goduto il clero. Il Papa provò a opporsi e ordinò al clero francese di
non pagare alcun’imposta senza il permesso della Santa Sede, ma il re di Francia rispose impedendo ai
proventi delle decime raccolte dalle chiese francesi di raggiungere Roma. Il Papa tuonò con la solita
minaccia di scomunica, ma non ottenne la revoca del provvedimento. Filippo assestò un altro colpo alla
teocrazia pontificia: accettò, infatti le sue richieste come il risultato di un accordo con la persona di
Bonifacio, non con il Papa che egli era. Nelle 1300 Bonifacio VIII dichiarò un anno di indulgenza plenaria,
cioè il condono delle pene del purgatorio connesse ai peccati, per i pellegrini che arrivarono a Roma per
onorare le reliquie dell'apostolo Pietro e l'icona di Cristo che la tradizione popolare chiamava velo della
Veronica, sul modello dell'indulgenza che veniva concessa per la crociata. Fu il primo anno Santo nella
Chiesa o giubileo. In quell'occasione sembra che abbiano raggiunto Roma milioni di persone. Il giubileo del
1300 non fu sufficiente però a cambiare la sostanza delle cose; la sostanza era che il Papa non era più il capo
politico indiscusso della cristianità. E infatti il duro conflitto con il re si riaprì nel 1301 quando Filippo il
Bello fece arrestare il legato pontificio e di fronte alle proteste romane convocò gli Stati generali,
ottenendone nel 1302 la dichiarazione che il re ricavava il suo potere direttamente da Dio, senza la
mediazione del Papa. Inutilmente Bonifacio emanò una bolla, dal titolo una Unam sanctam, nella quale
ribadiva le idee teocratiche e universali che erano state di Gregorio VII e di Innocenzo III e rincarava la
dose aggiungendo che il Papa non solo era superiore ad ogni altro potere terreno, ma poteva anche
giudicarlo senza essere sepolto giudicato se non da Dio. Le sue tesi furono difese da alcuni ma attaccati da
molti. Dante gli preparò un posto nell'Inferno mentre era ancora arrivo. Da altri fu definito eretico,
simoniaco, scismatico. Infine, si decise di tenere un concilio per decidere cosa fare di lui. Filippo il Bello
mando in Italia un suo consigliere, Guglielmo di Nogaret, con il compito di catturare Bonifacio e portarlo al
concilio. Il pontefice, che si presentò indifeso, ma vestito dei paramenti sacri e reggendo la croce, venne
catturato ad Anagni e si dice che in quell'occasione sia stato anche colpito in viso con uno schiaffo da
Sciarra Colonna, esponente di una famiglia avversaria dei Caetani. Per il papa era un segno drammatico di
perdita di prestigio. Bonifacio non partecipò al concilio, fu liberata dagli abitanti di Anagni e poco dopo
morì.

VI. I papi ad Avignone


Nel 1305 salì al soglio nuovo papa francese, Clemente V, che non scese mai fino a Roma, in preda agli
scontri tra famiglie rivali. Nel 1309 si spostò provvisoriamente ad Avignone, ai confini con il regno di
Francia, che sarebbe rimasta sede del papato fino alle 1378. Il trasferimento della corte papale ad Avignone
fu interpretato da tutti come un segno tangibile del passaggio della Santa Sede sotto l'influenza politica del
re di Francia. A diffondere la polemica contro il trasferimento dei papi ad Avignone contribuirono gli scritti
di Dante Alighieri, impegnato in quegli anni nella stesura della Commedia. Nell'Interno aveva deciso di
mettere in una buca a testa in giù sia Bonifacio VIII sia Clemente V; nel Purgatorio aveva rincarato la dose
è definito crudamente la chiesa dei suoi anni “puttana sciolta”, infine aveva inserito nel paradiso una
violenta invettiva contro i papi francesi, pronti a bere del “sangue nostro”. E siccome i manoscritti del
poema dantesco ebbero grande diffusione, furono molti gli intellettuali italiani che nel corso del trecento
fecero proprio il suo giudizio negativo. Francesco Petrarca, attaccando papa Urbano V, definirà Avignone,
come Babilonia, “immensa turpitudine ed estremo fetore del mondo” e Roma, invece, “capo del mondo,
fonte di tutti gli esempi memorabili”. Il periodo avignonese non sembra per nulla di crisi per il papato. I
papi vissero ad Avignone una stagione di splendore cortigiano di floridezza economica, la città divenne in
quegli anni un centro commerciale e finanziario di primo piano. Il papato pagò quello splendore e la
protezione francese con la perdita di molta della sua influenza sull’Italia. Negli anni 40 sulla scena cattolica
della vita politica romana prenda gli scontri tra le grandi famiglie dei Colonna, degli Orsini, dei Caetani,
apparve un personaggio singolare, Cola di Rienzo, notaio e figlio di un taverniere che era stato inviato ad
Avignone per chiedere a Clemente VI di tornare a Roma, e il Papa lo aveva fatto notaio della Camera
capitolina. Rientrato a Roma Cola si era reso popolare e si era accattivato simpatie, al punto che nel maggio
1347 avevo occupato il Campidoglio, assumendo il titolo di “tribuno della libertà, della pace e della

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giustizia è il liberatore della sacra Repubblica romana”. Si era dato allora un preciso programma politico:
sottomettere i potenti nobili, restaurare l'antica Repubblica romana, stringere intorno a Roma i comuni e i
signori dell'Italia centrale. I baroni lo avversarono, i comuni lo guardarono con diffidenza, il Papa con
sospetto. Neanche il popolo romano lo sostenne. Cola Fuggì. Si recò poi a Praga e parlare dei suoi
programmi all'imperatore, e li fu imprigionato come eretico. Per lui sembrava finita. Il nuovo papa
Innocenzo VII affidò al cardinale, Egidio di Albornoz, il compito di restaurare il suo potere nel territorio e
pensò di fare di Cola uno strumento di questo disegno, inviandolo in Italia con l'incarico di appoggiare la
politica del cardinale. Nel 1354, così, Cola di Rienzo rientro a Roma con il titolo di senatore. Durante una
sommossa fu ucciso. Il cardinale di Albornoz, invece, intraprese la fatica di restaurare l'autorità del Papa nel
territorio della Chiesa. Promosse la Costituzioni Egidiane, una raccolta legislativa che doveva valere per
tutti i territori della Chiesa è mettere ordine tra le molte leggi che si erano accumulate. Con le Costituzioni
lo Stato della Chiesa si eretto fino al XIX secolo.

VII. L’ultima nostalgia dell’imperatore e il viaggio di Enrico VII in Italia


All’inizio del Trecento non solo l’Impero germanico ma anche l’esistenza di una semplice monarchia tedesca
era messa in forse. Il re di Francia Filippo il Bello, al vertice della sua potenza, provò ad attuarne
l’accerchiamento aiutando suo fratello Carlo di Valois a soppiantare il sovrano legittimo, che era in quel
momento (1308) un esponente della casa dei Lussemburgo, Enrico VII. Sentendosi in pericolo, Enrico decise
di riprendere la politica italiana per difendere il trono e anche per fermare la dilagante egemonia del re
francese in Europa: nel 1310 scese in Italia e fu coronato come re d’Italia a Milano, poi chiese al papa di
predisporre l’incoronazione imperiale a Roma (1312). Ma il viaggio fu un fallimento: l’imperatore incontrò
l’ostilità di quasi tutta la penisola per i quali la presenza di un re d’Italia, e per di più straniero, dove c’erano
ormai degli stati cittadini, era impossibile. Le ultime due tappe della definitiva germanizzazione dell’impero
sono segnate con il nome di Ludovico in Bavaro e di Carlo IV di Lussemburgo e di Boemia. Ludovico il
Bavaro portò a compimento il distacco della corona imperiale dal riconoscimento papale, tanto che si fece
incoronare imperatore non dal papa ma addirittura da un esponente della famiglia romana dei Colonna. Nel
1338 i principi elettori tedeschi stabilirono formalmente che da allora l’elezione dell’imperatore non aveva
più bisogno di conferma papale; Calo IV di Boemia. con la cosiddetta Bollo d’Oro (1356), stabilì che
l’imperatore sarebbe stato eletto dai più importanti principi tedeschi, quattro laici e tre ecclesiastici. L’impero
fu da allora solo un regno tedesco, formato da una federazione di principati.

8 Un’Italia, due Italie, tante Italie


I. La società cittadina e l’evoluzione politica dei comuni
Tra 1220 e 1240 erano personaggi ormai diffusi i podestà di mestiere, pagati per guidare i comuni come
mediatori imparziali, ad di sopra dei contrasti che dividevano la società. Nei comuni guelfi e ghibellini
combattevano tra loro dalla parte della chiesa o dalla parte dell’impero durante i ventiquattro anni di scontro
tra Federico II e il papa. Nel 1268 l’esecuzione di Corradino aveva allontanato gli svevi dall’Italia,
lasciando un sistema politico molto frazionato, e decretando il trionfo dei guelfi. Dalla morte di Federico II
in Italia non era più esistito alcun centro di governo regio ne di giustizia che si ponesse al di sopra dei
comuni. Il podestà forestiero, fino ad allora, era stato scelto dall’aristocrazia consolare, cioè da quel gruppo
abbastanza ristretto di famiglie che aveva esercitato un ruolo predominante nella prima formazione del
comune. Nel frattempo, la opposizione sociale della città era mutata, erano moti i proprietari terrieri che si
erano spostati a vivere entro le mura e inoltre era aumentato il numero e il peso economico di chi viveva
facendo il mercante o l’artigiano. Questa gente reclama potere e lo strumento che si dette per gestirlo si
chiamò Popolo. Nelle città italiane del Duecento il termine popolo indicava l’organizzazione che si dettero i
ceti popolari dei mercanti e degli artigiani, per contrapporre un proprio potere a quello dell’aristocrazia.

II. Il popolo
Il Popolo si dette un vessillo e uno stemma, elesse propri magistrati e un proprio capitano, con il compito di
comandare la milizia popolare (la fanteria). Come al solito anche in questo processo le varie città ebbero
storie molto diverse l’una dall’altra: il comune di Popolo non si sviluppò in tutte le città comunali e,
comunque, non ovunque nello stesso momento. In molti casi le organizzazioni politiche della borghesia
arrivarono a controllare il governo della città, anche se non abolirono mai il podestà ma diminuirono soltanto
il suo peso politico, creando una sorta di doppio sistema nel quale le reciproche competenze non erano
sempre ben chiarite. Il capitano del Popolo poco a poco tolse al podestà le funzioni militari, lo relegò in ruoli

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più tecnici e amministrativi e tenne per sé quelli politici. In alcune città furono le corporazioni più importanti
a prendere in mano il potere all’interno del comune Popolo, e i due casi più noti sono quelli di Bologna, dove
le arti governavano dal 1256, e di Firenze, dal 1282. Diversa sorte ebbero le corporazioni a Venezia, a Roma
e in molte città governate da un signore, dove esse furono esautorate, assoggettate al controllo di funzionari
pubblici, messe in competizione l’una con l’altra.

III. I magnati
Magnati, o più spesso grandi, erano chiamati gli appartenenti alle più potenti famiglie dell’aristocrazia
cittadina. Dove queste famiglie erano tutte di antica origine e di tradizione militare, magnate o grande può
essere considerato sinonimo di nobile, ma nelle città economicamente più vivaci non mancavano famiglie di
origine mercantile capaci di imitare i modi di vita e le ambizioni dei nobili, addirittura fino al punto di fare
armare cavalieri i propri figli. Che il concetto di nobiltà in Italia variasse da luogo a luogo e in base
all’ambiente sociale e politico era riconosciuto anche dai giuristi medievali. Nella via di tutti i giorni gli
abitanti delle città comunali riconoscevano i magnati o grandi in base a una serie di tratti condivisi: la casa
della famiglia, la volontà di superarsi l’un l’altro e quella di vivere al di fuori o al di sopra, delle leggi
comuni.

IV. Magnati e popolani


La lotta tra i magnati che detenevano le leve del potere politico e il Popolo che aspirava a impadronirsene è
stata oggetto di un vivace dibattito storiografico fin dai primissimi anni del Novecento. Basti qui fare
l’esempio più noto, quello di Firenze. Con lo sviluppo del comune di Popolo i magnati fiorentini nel giro di
alcuni decenni avevano perso larga parte del loro potere: prima erano stati emarginati da alcune cariche, poi
ne erano stati esclusi con una legislazione molto severa conosciuta come leggi anti-magnatizie. Le leggi
fiorentine che escludevano i magnati dalla partecipazione al governo presero il nome di Ordinamenti di
giustizia (1293): specificavano anche che, con quel nome, s’intendeva a Firenze ogni famiglia, fosse nobile
o popolare, che avesse o avesse avuto al suo interno almeno un cavaliere. Essi produssero la selezione di un
gruppo dirigente guelfo e filoangioino, l’esclusione del governo delle città delle grandi famiglie di magnati
e quelle dei ceti artigiani e popolari più bassi.

V. Signorie cittadine
Così come i regimi popolari nacquero dall’interno stesso di quelli podestarili, anche le signorie familiari
nacquero dentro i comuni. Si ebbero signorie cittadine, cioè, quando alcuni poteri particolari del comune
vennero tutti affidati, per un certo periodo, a un solo personaggio di prestigio che, con il tempo, cominciò a
tenerseli e a passarli ai suoi figli ed eredi. In qualche caso, addirittura, la signoria nacque dal fatto che un alto
magistrato della città (per esempio il podestà stesso o lo stesso capitano del Popolo) trasformò il suo incarico
a tempo determinato in un ufficio a vita. Si trattò, dunque, per lo più, di un potere formalmente legittimo e
ben tollerato dai cittadini che pensavano di trovare nell’uomo forse il “salvatore del comune”, anche se segnò
sempre un’involuzione della partecipazione politica dei cittadini e un progressivo svuotamento delle
magistrature repubblicane. Inoltre, l’affermazione del comune e quella della signoria cittadina non furono,
come vedremo, città in cui il ricorso a un go-verno signorile si configurò come una parentesi, talvolta dovute
a circostanze straordinarie esaurite le quali tornarono in vigore gli ordinamenti comunali. In generale la
formazione di poteri signorili fu precoce nelle città padane rispetto al resto dell’Italia centro-settentrionale.

VI. Storie di città


o Le città padane
Un caso particolare di signoria fu quella che Ezzelino III da romano esercitò sulle città di Verona, Vicenza e
Padova dal 12336: divenne signore non per un processo di trasformazione interno alla sua città o al comune,
ma perché sostenne la politica di Federico II e ne ricavò in cambio l’appoggio militare. A Ferrara, nel 1240,
gli Este estromisero la famiglia rivale degli Adelardi e successivamente acquisirono Modena, Reggio, parte
del polesine e del Padovano. A Milano nel 1311 fu Matteo Visconti a rafforzare il peso sulla città della sua
famiglia, che ne ebbe definitivamente la signoria nel 1330. A Mantova dal 1308 i Bonacolsi ottennero
l’ereditarietà della signoria che dal 1328, passò ai Gonzaga. Nemmeno in questa parte dell’Italia
settentrionale, tuttavia, tutte le città scelsero subito la signoria (Padova, appena ebbe la forza di liberarsi della
tirannide di Ezzelino, si resse a comune per sessantadue anni; a Bologna solo nel 1337 venne fatto signore
Taddeo Pepoli.
o Genova

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Genova si reggeva a comune ed era in piena crescita; alla metà del Duecento il suo ruolo nel mediterraneo
era cresciuto; nel 1284 sconfiggendo Pisa nella sanguinosa battaglia della Meloria aveva avuto mano libera
anche sulla Corsica.
o La Toscana
Le resistenze maggiori ad accogliere l’istituzione signorile di ebbero in Toscana. Soltanto all’inizio del
Trecento si verificarono anche qui dedizioni di città a un signore, ma furono signorie temporanee che non
intaccarono la vita materiale e le idealità delle cittadinanze
o Venezia
Dal regno d’Italia, si ricorderà, non faceva parte Venezia perché la sua lontana appartenenza alle terre
bizantine le aveva lasciato una sostanziale autonomia, via via riconosciuta dai re d’Italia e italiane e infatti
sviluppò un tipo particolarissimo di comune. Il carattere della sua organizzazione politica fu sempre elitario-
aristocratico. A Venezia non fu mai un comune di Popolo, a governare le città fu un patrizio di grandi
famiglie di mercanti che ebbero presto nelle mani di un governo e se lo tennero saldo, senza dividersi per
lotte interne. La dirigeva una specie di principe elettivo e a vita, il doge, dotato di pochi poteri, e un sistema
di consigli di stampo comunale.
o I territori della Chiesa
La fascia territoriale governata dal papa presentava una serie di città e dominazioni locali che divennero più
autonome dopo il trasferimento della sede papale ad Avignone, nel 1309. A Roma il Comune era nato in
chiave antipontificia e aveva passarono gran parte della sua esistenza a combattere contro il papa.
o L’Italia meridionale
Inquadrate in un regno forte, anche le città del Mezzogiorno tendevano ad allargare i loro diritti ogni volta
che si allentava il potere centrale. Federico vietò ai cittadini di eleggersi propri magistrati, stabilendo che
soltanto i magistrati del regno erano autorizzati a esercitare nelle città la giurisdizione civile e penale. Anche
quando, nel corso del XIV secolo si diffuse l’uso di mettere per scritto le consuetudini locali e si ebbero
alcune forme di autogoverno cittadino, esse dovettero sempre essere legittimate dal re.

VII. L’amministrazione e i servizi delle città


Le città dell’Italia centrale e settentrionale ebbero anche degli elementi comuni. Un segno del progresso del
potere è il palazzo pubblico. Tra la fine del XII secolo e gli inizi del XIII si costruirono palazzi del popolo,
del capitano, della signoria, con gli uffici e le sale di riunione in cui si regolava la vita pubblica. La
costruzione di palazzi pubblici segnò l’accelerazione del processo di autonomia del comune. Agli inizi del
Trecento tutte le città avevano proprie leggi e propri regolamenti, gli statuti, che venivano spessissimo
aggiornati anche in relazione del mutare dei governi. I consigli tenevano sessioni regolari e facevano
redigere un verbale scritto delle riunioni.
Le spese erano cresciute, anche per pagare gli stipendi del personale sempre più numeroso e questo non
solo complicò i bilanci, ma portò anche a organizzare meglio le imposte sui consumi, le gabelle, e a
imporre ai cittadini di prestare denaro al comune. I prestiti, sui quali il comune pagava un interesse, con il
tempo non furono più restituiti al prestatore, divenendo come dei “titoli di Stato”. Ovunque si organizzò la
riscossione dell’imposte dirette, si cominciò a conservare i registri, gli statuti, i verbali e il bilanci, che
costituirono i primi archivi delle città. Nelle città medievali esistevano uno o più ospedali, nati in genere per
iniziativa dei religiosi allo scopo di accogliere i pellegrini. Crescendo la popolazione questi ospedali si
trovarono a dover affrontare assistenze di tutti i tipi. In molte città vennero istituiti i medici condotti, medici
stipendiati dal comune o dal signore con un contratto a termine. Nel XIII secolo si moltiplicarono anche i
maestri condotti. Si pavimentavano le strade, si dettavano le norme delle distanze tra un edificio e l’altro,
sulla larghezza delle strade, sull’altezza delle case e dei portici, si limitava il numero dei balconi o la loro
sporgenza e si prescriveva di che materiale doveva essere fatta la facciata. Si organizzò un corpo di vigili
del fuoco e si provvedeva ad allontanare dal centro i lavori più sporchi e meno igienici, si cercava qualche
mezzo per pulire le strade (per esempio mandando un maialino a mangiare i resti del cibo del mercato *-*).

VIII. La conquista del contado, lo sfruttamento della campagna


Si è già volte ripetuto che nell’Italia centro – settentrionale città e campagne intrecciarono forti rapporti,
condizionandosi a vicenda. Le città attraverso patti non di alleanza ma di sottomissione, si assicurarono il
controllo politico diretto delle campagne (contado), mentre altre forze, comunità rurali e soprattutto signori
territoriali, contrastavano o assecondavano secondo i casi questo processo di conquista. La costruzione del
contado fu particolarmente intesa nel corso del Duecento, quando molte città riuscirono a creare “Stati”
(città-Stato) che controllavano i rispettivi contadi e li amministravano. In certe aree i cittadini cominciarono

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nel corso del Duecento a comprare la terra e a organizzarla in poderi fino ad arrivare, alla fine del secolo
successivo, a eliminare quasi del tutto la piccola proprietà contadina. In Toscana, soprattutto tra Firenze e
Siena, questo processo fu più decisivo che altrove e sui poderi che si erano così formati si diffuse la
mezzadria.

9 Fuori d’Europa
NON STUDIARE

10 Si annuncia la “crisi”
I. La popolazione smette di crescere
Il 1348 è diventata la data simbolo del tracollo, sarebbe arrivata la peste nera, destinata a decimare la
popolazione e rendere evidente, in modo drammatico, il profondo malessere che già permeava la società.
Gli storici sono d'accordo sul fatto che la difficoltà dei tempi non furono tutte da apportare alla peste. Tra la
fine del Duecento e i primi anni del Trecento, la popolazione in crescita progressiva da alcuni secoli smise
di crescere e qua e là cominciò a diminuire, cominciarono a fallire le banche, si smise di costruire; dal 1270
si manifestarono spesso gravi carestie (che non sono comunque una novità della fine del XIII secolo. Quella
del 1347, alla vigilia dell'arrivo della peste, fu la crisi agraria più grave di quanto interessarono l'Italia e
arrivò al culmine di vari decenni di difficoltà alimentari in tutta l’Europa. La penuria non dipese che in
piccola parte dai raccolti scarsi, dalle guerre e dalle inclemenze del clima. Si trattava piuttosto di un
fenomeno di mercato, oltre che di un effetto dell’urbanizzazione massiccia: l’economia europea aveva
iniziato a funzionare, dal XII secolo al più tardi, come un vasto mercato dove le grandi città si procuravano
lontano parte del grano di cui aveva bisogno e dove le informazioni su produzione e pezzi circolavano a
scala internazionale, agevolando i meccanismi speculativi.

II. Le difficoltà della banca, della produzione, le prime tensioni nel mondo del lavoro
Anche la moneta incontrò alcune difficoltà sul finire delle XIII secolo. L'Occidente aveva fame di denaro
per mancanza di metalli preziosi per le accresciute necessità finanziarie dei sovrani europei, che
ricorrevano sempre più largamente ai prestiti di banchieri. Alcune importanti banche usciranno rovinate
proprio dall'inadempienza delle grandi Monarchie. Inoltre, il re facevano “fluttuare” le monete: ne
abbassavano o alzavano il valore a loro piacimento, le svalutavano e rivalutavano a seconda dei loro
bisogni, della loro condizione di debitori o creditori. Difficoltà incontrò anche il settore di punta della
produzione medioevale, quello tessile. Diminuì, infatti, di quantità, e aumentò di prezzo, la lana inglese
grezza che veniva esportata nel continente per essere lavorata, perché la nascente manifattura tessile inglese
ne assorbiva quantità crescenti per la produzione interna. Dalla fine del XIII secolo alcune aree urbane
furono coinvolte in tensioni sociali che si manifestarono con maggiore violenza nelle Fiandre e nell’Italia
centro - settentrionale. Sul finire del Duecento, in Fiandra, la situazione di disagio per la concorrenza
crescente dei centri di produzione tessile italiani complicò la frizione già esistente tra patriziato al potere e
mondo artigiano: tra il 1297 e il 1302 a Bruges e Gand un movimento artigiano che reclamava potere
politico fu represso nel sangue. In Italia un movimento di protesta dei lavoratori salariati del settore laniero
che lo guidarono, ebbe Luogo a Bologna nel 1289. Anche a Firenze negli anni 40 delle 300 si ebbero
rivendicazioni salariali nel mondo della manifattura. Nel 1345 Firenze conobbe anche il primo sciopero: i
lavoratori della lana abbandonare il lavoro e dichiararono che non lo avrebbero ripreso fino a quando non
fosse stato liberato il loro capo, Ciuto Brandini, arrestato per aver convocato un’assemblea di operai, con il
programma di costituire un’associazione e promuovere una raccolta di fondi per creare una cassa sociale. A
Siena nello stesso anno una rivolta venne promossa da altri lavoratori della lana, anche in questo caso
l’agitazione fu soffocata e i suoi capi costretti alla fuga.

Capitolo 6 La “fine” del medioevo il Tre e il Quattrocento


1 La crisi del Trecento
I. “A peste, fame et bello libera nos Domine”
La peste comparve in Europa nel 1347 e la percorse tutta. Fu un evento disastroso che decimò la
popolazione e accelerò o cambiamenti nella società, nell’economia e nella mentalità. Ma non fu la sola
sciagura di quegli anni. L’invocazione che risuonava nelle chiese di tutto l’occidente cristiano “a peste,

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fame et bello libera nos Domine” sintetizzava i tre flagelli con cui fecero i conti gli uomini del tempo.
- La Fame
Tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV, pioggia, freddo, umidità, siccità avevano avuto effetti più
gravi che in passato, perché la popolazione era aumentata. Il rapporto tra popolazione e risorse era dunque
alterato. Da metà Trecento a causare la fame ci si misero pure le epidemie sul cattivo raccolto. La peste
portava la carestia e la carestia a sua volta, uccideva quasi come la peste. I più deboli o i più poveri
morivano di fame, i più forti si mettevano alla ricerca di cibo, ma morivano lo stesso di infezioni, poiché si
accontentavano di quello che trovavano. Anche la carestia poteva portare a una pestilenza perché affamava
i topi neri portatori della malattia, che abbandonavano le tane per cercare cibo nelle case degli uomini.
Nella seconda metà del Trecento, via via la fame diminuì, sia per il calo della popolazione da sfamare, sia
perché aumentò la produttività della terra.
- La guerra
Nel medioevo si alternarono periodi di pace, più o meno lunghi, ma in una condizione di quasi continua
belligeranza. Nel Trecento e nel Quattrocento il fenomeno si accentuò e la guerra divenne quasi abituale.
La guerra assorbiva uomini e consumava denaro anche di chi non la faceva in prima persona, perché le
città pagavano forti somme pur di evitare che gli eserciti attraversassero le campagne, saccheggiando e
catturando ostaggi.
- La peste
Merita una trattazione a parte, sia perché la sua gravità s’impone all’attenzione, sia perché è considerata il
simbolo della crisi del Medioevo. Il peso esatto che ebbe in mezzo alle calamità del Trecento è, tuttavia,
ancor materia aperta di discussione tra gli storici.

II. La peste nera del 1347 - 1350


Peste dal latino peius, significa la malattia peggiore. Con questo termine erano indicati molti tipi di gravi
epidemie, come il tifo, la dissenteria, il colera o l’influenza broncopolmonare. I contemporanei
descrivevano i sintomi del male, però non potevano spiegarsi come si trasmetteva ne sapevano difendersi.
Non solamente ignoravano l’esistenza del bacillo che la provocava, ma non avevano nemmeno esperienza
pratica perché la peste non si presentava in Europa da 580 anni. La peste non è una malattia dell’uomo, si
tratta di un’infezione dei roditori selvatici, che vivono in città sotterranee, e che se spinti dalla fame a
cercare cibo lontano dalle loro tane, possono contagiare i topi domestici, provocandone la morte. Quando ne
muoiono troppi le pulci che vivono nella loro pelliccia, dalla quale hanno succhiato il sangue infetto, si
trasferiscono nella pelle degli uomini, infettandoli a loro volta. La forma polmonare della malattia si
sviluppa negli ambienti freddi, mentre quella bubbonica negli ambienti caldi e umidi. Il bacillo è sensibile
alla luce, e sarebbe bastato questo per limitarne la diffusione, invece al buio si conserva per alcuni anni e le
condizioni poco igieniche, le case sovraffollate, le canti buie e le stive delle navi spiegano perché la malattia
rimase per secoli, esplodendo di tanto in tanto. La peste venne da oriente. Il suo viaggio in Europa iniziò
intorno al 1338 e seguì probabilmente la via di Samarcanda. Nel 1347 i mongoli che tenevano in assedio la
colonia genovese di Caffa, catapultarono al suo interno come proiettili alcuni cadaveri con la peste. Così le
navi che salparono dalla città avevano la peste a bordo e le soste lungo i porti aumentarono le occasioni di
contagio. La peste penetrò in Europa attraverso i porti in cui quelle navi si fermarono. A metà del 1348
aveva già coperto buona parte dell’Europa.

III. Come si vive e come si muore nelle città appestate


Le città appena si resero conto della vastità dell’epidemia si sforzarono di ridurre le occasioni di contagio,
limitando i movimenti delle persone, istituendo le quarantene e vietando gli assembramenti per processioni
o funerali. Provvedimenti di buon senso, ma non di grande efficacia, poiché non sapevano del ruolo che
avevano i topi nella trasmissione della malattia. Giovanni Boccaccio come altri contemporanei descrisse la
paralisi della vita cittadina, con le botteghe e le taverne chiuse e le strade vuote e la paralisi dei rapporti
umani. La maggior parte dei medici provarono a curare la malattia, molti di loro la contrassero a loro volta.
Ognuno reagiva come credeva meglio, tra baldorie, giochi, feste e banchetti. Nacquero i gruppi di
flagellanti, uomini incappucciati che giravano per le piazze d’Europa cantando, che si frustravano in
pubblico con violenza e incitando la popolazione al linciaggio dei cristiani ritenuti responsabili della
malattia. Nel 1349 papa Clemente VI condannò il movimento che svanì di colpo.

IV. La gente si spiega la peste


La maggior parte delle cronache indica la causa della peste nei peccati degli uomini: la corruzione politica,

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le guerre, gli omicidi e addirittura la moda troppo frivola. La peste veniva da oriente, da un mondo magico
popolato da infedeli. Li si diceva era piovuto fuoco e vermi che portavano la morte, erano saliti al cielo
vapori che avevano coperto il sole ed erano morti i pesci nel mare. Dio intendeva punire i musulmani, i
cristiani erano solo vittime innocenti. Anche il sospetto che avvelenatori avessero sparso polveri pestifere
nei pozzi e nel vento, serpeggiò rapidamente tra la gente in preda al panico. La rabbia e l’impotenza si
sfogò soprattutto sugli ebrei, molti finirono squartati, linciati o bruciati vivi. In Inghilterra la gente si scagliò
su alcune donne accusate di essere streghe, in Germania nacque la leggenda della ragazza della peste che
usciva sotto forma di fuoco dalla bocca dei morti e che uccideva se alzava una mano. Ci fu anche chi cercò
le cause della pesta nel cielo e credette che fosse causa dell’allineamento dei pianeti.

V. Il crollo della popolazione e i suoi esiti


È impossibile calcolare quanta gente morì di peste. I numeri riportati dai contemporanei erano senza dubbio
esagerati. Le perdite non furono ovunque uguali. La peste di propagò più velocemente dove le persone
vivevano vicine, nelle pianure e soprattutto nelle città, di più tra i poveri che fra i ricchi. In Inghilterra la
peste uccise un quarto della popolazione e tra un quarto e la metà morì nelle città italiane, complessivamente
era scomparso un terzo della popolazione europea. All’indomani del 1348 i matrimoni aumentarono e di
conseguenza il numero dei figli, ma la popolazione continuò a diminuire. Questo perché alla prima
seguirono altre pestilenze. La peste non se andava mai scompariva da un luogo e ricompariva in un altro.
Solo dopo quattrocento anni allentò la presa. La scomparsa di un numero così alto di persone ebbe
importanti conseguenze, in molte aree la boscaglia cominciò a ricrescere, regioni spopolate dalle epidemie
non furono più popolate.
Diminuendo la superficie coltivabile aumentò ovunque la terra destinata all’allevamento, ci furono più
carne sulla tavola, più concimi nei campi, più buoi per lavorare la terra.

VI. Tensioni sociali nelle campagne


Il potere signorile e padronale sulle campagne uscì indebolito dalla crisi del Trecento, anche se la maggior
parte degli studiosi crede che sia esagerato parlare di una “crisi della signoria rurale” dato che essa continuò
a sopravvivere in gran parte dell’Europa fino al settecento. È vero però che i signori furono messi in
difficoltà dal calo del prezzo dei generi alimentari, soprattutto da quello del grano, dal crollo delle rendite
derivate dallo spopolamento e da un certo aumento dei salari agricoli in conseguenza della diminuzione di
manodopera. L’aumento dei salari e il miglioramento della vita dei contadini furono solo temporanei, perché
i governo presero le loro contromisure. In Inghilterra fu messo a punto uno statuto dei lavoratori che vietava
l’aumento dei salari. Così pure in Italia. Nel corso del trecento si segnalarono numerose esplosioni di
malcontento contadino.
Francia e Inghilterra furono teatro di due importanti rivolte. La jacquerie fu un movimento contadino
improvviso, breve e violento che esplose nel 1358. Si tratta della più grande rivolta contadina nella storia
della Francia. I ribelli venivano chiamati dai nobili jacques. Alla base della rivolta c’era la condizione
generale di difficoltà nella quale cresceva il malcontento contadino, le difficoltà alimentari e il fatto che
dieci anni prima la peste aveva decimato la popolazione, inoltre la Francia era coinvolta in una serie di
scontri armati con l’Inghilterra. Si aggiunse a questo un sentimento nuovo e sempre più diffuso di disprezzo
verso i nobili, accusati d’incapacità. Trovando ascolto a Parigi, i seguaci di Etienne Marcel, potente capo dei
mercanti parigini, volevano togliere alla nobiltà privilegi e potere politico e inaugurare un governo della
borghesia. I parigini perciò inviarono una lettera tutta le città, borghi e villaggi del regno per insorgere e
prendere le armi contro i nobili. Nonostante l’appoggio della borghesia la jacquerie fu soffocata nel sangue.
Nel 1381 in Inghilterra a causa di una nuova imposta la pool-tax, esplose una violenta rivolta. Parteciparono
all’organizzazione anche alcune preti ribelli che predicavano l’eguaglianza sociale e il comunismo
dei beni, contro i ricchi. Tra i rivoltosi che marciarono su Londra, trascinando con se anche molti artigiani
salariati di città, c’erano sia contadini agiati sia salariati a giornata. Gli storici si chiedono se tra i contadini
inglesi ci fosse qualcosa che si avvicina alla lotta di classe.

VII. Tensioni sociali nelle città


La peste del 1348 provocò nelle città un vero e proprio terremoto nei rapporti tra i lavoratori, sottoposti ai
datori di lavoro. Le prime avvisaglie della tensione si videro già mentre era in corso l’epidemia, quando
come narra Boccaccio, i serventi smossi da smisurata avarizia chiedevano salari grossi e sconvenevoli. I
salari aumentarono fino al 1370 e con lor migliorarono le condizioni di vita dei salariati. In seguito, però
furono di nuovo abbassati, la legge aveva protetto i datori di lavoro, e molti lavoratori erano riprecipitati

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nella condizione di miseria. Nel giro di pochi anni esplosero importanti rivolte, a Firenze come in altre città,
soprattutto in quelle impegnate nel settore tessile.
Le tensioni si fecero acute perché la guerra impediva alle lane inglesi di rifornire i laboratori, gettando
molti nella rovina. Nel 1378 esplose a Firenze la più nota rivolta urbana del 300 alla quale è stato dato in
nome di tumulto dei ciompi i lavoratori salariati che svolgevano nelle botteghe la parte meno qualificata
del lavoro. La rivolta guidata da Michele Lando cominciò come una ribellione armata d’artigiani che
protestavano per i salari troppo bassi e rivendicavano il diritto di riunirsi in un arte riconosciuta dal
governo. Continuò poi con richieste più radicali, il programma di articolava in cinque punti:
- i rivoltosi si rifiutavano di rimanere subordinati ai padroni
- chiedevano di partecipare al governo del comune
- volevano che fosse eliminata la carica dell’ufficiale forestiero, che aveva il compito di vigilare che i
dipendenti non fondassero associazioni
- chiedevano un aumento dei salari
- e volevano l’impunità per i partecipanti al movimento
Le loro richieste erano quindi sia contro lo stato che contro i lavoratori. Dopo qualche giorno, i rivoltosi
assediarono il palazzo del podestà, e s’impadronirono per sei settimane del governo di Firenze, ottenendo
per i propri rappresentanti un terzo delle cariche di governo e il diritto di formare nuove arti. Ma un dura
repressione rimise le cose com’erano prima della rivolta. Intorno alla rivolta dei ciompi è esplosa una vivace
produzione storiografica. Gli studiosi di orientamento marxista hanno visto nella rivolta una manifestazione
precoce della lotta di classe, i loro oppositori hanno negato il carattere sociale delle rivolte.

2 Fermenti della cristianità fra Tre e Quattrocento


I. Una nuova sensibilità religiosa (lettura facoltativa)
II. Lo scisma della Chiesa d’Occidente (1378-1414)
Papa Gregorio XI era rientrato a Roma nel 1377, influenzato prima da Brigida di Svezia e poi spinto a
riacquistare autonomia rispetto al potere politico francese da Caterina da Siena, che si era recata ad
Avignone, preceduta da una fama di santità, cosa che attribuiva particolare autorevolezza ai suoi interventi
in favore del rientro in quella che era la sede naturale della chiesa. Alla morte del papa i cardinali si
trovarono in difficoltà a indicare il suo successore, gli italiani elessero Urbano VI che s’insediò a Roma, i
francesi invece elessero Clemente VII che rimase ad Avignone. Lo scontro si protrasse per circa
quarant’anni. Le forze erano equilibrate ed era difficile trovare una soluzione, anche perchè alla morte di
uno dei due papi ognuno dei due partiti rieleggeva il proprio. Ad entrami i papi fu proposto di abdicare per
eleggere un unico successore, ma nessuno dei due era disposto a rinunciare al soglio, anzi entrambi
cercavano di rafforzare la fedeltà dei propri uomini nominando una serie di cardinali. Infine si pensò a un
concilio , anche perché i papi erano aumentati di numero, quando un gruppo di cardinali riuniti a Pisa aveva
tentato eleggendone un terzo di ottenere l’abdicazione degli altri due. Nel concilio di Costanza lo scisma fu
ricomposto, il concilio si dichiarò superiore al pontefice e iniziò il processo contro i tre papi regnanti. Nel
1417 fu eletto il cardinale Ottone Colonna, che salì al soglio pontificio con il nome di Martino V. Roma
tornava ad essere l’unica sede dei pontefici.
III. Le eresie di Wyclif e Hus e la costruzione delle identità nazionali (lettura facoltativa)

3 Il consolidamento delle monarchie


I. La Guerra dei cent’anni
Francia e Inghilterra, dopo che si era indebolito il sistema di rapporti feudali si stavano trasformando in stati
centralizzati di tipo moderno. Nel 300 più di un re europeo si trovò di fronte un’aristocrazia smaniosa si
riaffermare i suoi privilegi. L’insistenza di un vecchio che resisteva a scomparire e un nuovo che cercava la
strada per nascere è all’origine della Guerra dei cent’anni. Nel 1324 il re d’Inghilterra si rifiutò di prestare
l’omaggio feudale che doveva al re di Francia per le terre che gli inglesi avevano mantenuto nella Francia
occidentale. Lo scontrò nacque perciò da una contesa antica, da un conflitto tra un vassallo, il re
d’Inghilterra e il suo signore, il re di Francia. A questo conflitto d’autorità si aggiungevano rivalità
dinastiche. Nel 1328quando l’ultimo re dei capetingi, Carlo IV, moriva senza figli, il re d’Inghilterra
Edoardo III fu escluso dalla successione perché il suo legame di sangue con la casa regnante francese
procedeva per via materna. Filippo VI di Valois fu re al suo posto, non perché era l’erede più prossimo per
via maschile, ma semplicemente perché era nato in Francia. Edoardo rivendicò la successione al trono di

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Francia e si rifiutò di riconoscere nel cugino il nuovo re. La Guerra dei cent’anni iniziò quindi su questa
scena. A nominarla Guerra dei cent’anni, furono alcuni storici dell’ottocento, che vollero mettere l’accento
sul fatto che nonostante le interruzioni, si trattò sempre di uno stesso conflitto, una catena di scontri che si
protrasse così a lungo anche perché la debolezza dei mezzi militari non consentiva a nessuno di trionfare. Il
1337 è considerato la data dell’inizio delle ostilità, Filippo VI confiscò le terre che Edoardo III d’Inghilterra
aveva nel continente e quest’ultimo gli dichiarò guerra. In realtà questa data è scelta solo per convenzione.
Ambedue i re cercarono alleati in Fiandra. Quella terra si trovava nel continente ma era affacciata sul mare e
da tempo la sua popolazione era divisa anche dal punto di vista linguistico. Era il terreno adatto per i primi
scontri. Con la vittoria navale di Escluse, gli inglesi si assicurarono la possibilità di trasportare truppe nel
continente, verso Calais.
La guerra, così lunga, attraversò varie fasi che vide i due regni alternativamente vittoriosi. I primi scontri
furono favorevoli all’Inghilterra. Nelle grandi battaglie campali la numerosa cavalleria pesante francese,
simbolo della nobiltà tradizionale, fu clamorosamente sconfitta da un piccolo esercito. Insieme a queste
azioni di guerra una serie di scorribande di truppe inglesi che entrarono nel territorio francese e
saccheggiarono intere regioni. Le difficoltà economiche portarono al fallimento due banche fiorentine che
avevano finanziato l’operazione. Nel 1356 a Poitiers fu preso prigioniero il re di Francia, Giovanni II il
Buono. L’immagine della monarchia francese fu duramente colpita, tanto che in un primo momento gli Stati
generali non volevano nemmeno pagare il riscatto. Alla fine, il figlio Carlo, pagò agli inglesi una somma
enorme per la liberazione del padre e per la rinuncia inglese a ogni pretesa sul trono di Francia e delle
Fiandre. Carlo V non fu un uomo di guerra, ma fu un buon sovrano, ristabilì la pace interna, si circondò di
validi collaboratori, ricostruì il prestigio della casa reale e infine progettò una spedizione di riconquista. La
guerra riprese nel 1369, ma ormai i francesi avevano capito che la cavalleria pesante non serviva più.
Cambiarono tattica, tagliando i rifornimenti al nemico e colpendolo con tecniche da guerriglia, assalti rapidi
e imboscate, rifiutando lo scontro in campo aperto. La vittoria fu francese. Nel 1380 cessarono le ostilità.
L’Inghilterra era sconvolta dalle rivolte popolari, la Francia finì preda delle guerre civili, tra gli
Armagnacchi e i Borgognoni che si contendevano il potere. Con Enrico V d’Inghilterra del 1413 ripreso gli
scontri. L’armata francese fu distrutta e i principi di sangue quasi tutti uccisi o fatti prigionieri, i
Borgognoni si avvicinarono agli inglesi che conquistarono tutta la Normandia. Carlo VI il Folle, nel 1420
dichiarò che Enrico V sarebbe stato il suo successore sul trono fi Francia.
Sembrava finita e che Francia e Inghilterra dovessero essere unificate sotto la dinastia inglese dei Lancaster.
Ma alla morte di Enrico V e di Carlo VI la Francia si spaccò in due. A nord Enrico VI formò un regno
franco-inglese con l’appoggio dei Borgognoni e Carlo VII formò nel sud un regno- rifugio sostenuto dagli
Armagnacchi. Giovanna d’Arco è considerata da alcuni l’artefice della resistenza all’occupazione inglese, da
altri una visionaria sulla cui storia si ricamò una fantasia popolare, fino a farne il simbolo del nazionalismo
francese. Giovanna aveva diciassette anni quando entrò sulla scena della guerra. Non sapeva ne leggere ne
scrivere però sosteneva di sentire delle voci dal cielo che le assegnavano la missione di aiutare il suo re.
Convinse Carlo VII a inviare soldati in soccorso ad Orleans assediata. Per prendere parte alle operazioni
militari si vestì da uomo e si tagliò i capelli, cosa che fece scandalo soprattutto negli ambienti ecclesiastici.
Giovanna difese con forza il suo modo di vestire da uomo perché, come spiegò al processo, la difendevano
alle attenzioni dei soldati. Nel 1492 gli inglesi, sconfitti, ritirarono l’assedio da Orleans. Carlo VII riprese con
successo l’iniziativa militare e si fece incoronare legittimo re di Francia. Nel 1431 Giovanna fu fatta
prigioniera dai Borgognoni, venduta agli inglesi, processata come strega e condannata al rogo. La forma fu
quella di un processo in materia di fede, ma in realtà fu un processo politico, nel quale si erano scontrate due
France, quella nazionalista di Giovanna e l’altra filoinglese. La propaganda disse che Dio appoggiava la
Francia che da allora ebbe una serie di vittorie sugli inglesi. Nel 1453 gli inglesi furono cacciati oltre la
Manica. Il conflitto era chiuso con la Francia vincitrice.

II. Francia, Borgogna, Inghilterra dopo i “cent’anni”


In Francia le miserie della guerra avevano colpito duramente tutti gli strati sociali: i contadini, i nobili e i
borghesi. L’unico a trionfare era il re che acquisiva potere quanto più le altre forze lo perdevano. La guerra
con i suoi costi l’aveva spinto ad affinare il sistema fiscale e a dotarsi di un esercito stabile e reclutato e
pagato direttamente, senza l’intermediazione dei nobili. I duchi di Borgogna non si erano mai considerati
del tutto principi francesi, e per un certo tempo riuscirono a trasformare il loro territorio in un regno. Il re di
Francia Luigi XI fece fronte con successo alla grande nobiltà che si era riunita intorno ai Borgognoni. Lo
scontro riprese quando salì al trono Carlo il Temerario che inseguì il sogno di unificare i domini borgognoni
a quelli fiamminghi. Dopo la sua morte si assistette alla progressiva scomparsa della Borgogna. Con

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l’appoggio di svizzeri e lorenesi il re di Francia occupò il ducato, l’Artois, la Franca Contea e la Piccardia.
La nuova Francia si completò negli ultimi decenni del 400. La monarchia inglese sconfitta nei suoi propositi
d’espansione, si ritirò nell’isola e concentrò le energie al suo interno, uscendone rafforzata.
Attraversò però prima un lungo conflitto dinastico, conosciuto come guerra delle due rose, che vide
scontrarsi due partiti, facenti capo alle famiglie dei duchi di Lancaster e di York entrambe discendenti da
Edoardo III. I Lancaster incoronarono Enrico IV, V e VI, gli York imposero con forza Edoardo IV,
sbaragliando il clan rivale. Dopo la sua morte lo scontro si fece più feroce e si concluse con la vittoria dei
Lancaster e l’incoronazione di Enrico VII membro della famiglia Tudor. Il nuovo re sposando la figlia del
suo predecessore, Isabella di York, mise fine alla guerra e acquisì i beni del clan rivale. La nuova dinastia
unificata si chiamò Tudor.

III. I regni spagnoli alla conquista dell’oltremare


Lettura facoltativa
IV. La Germania dei principati
V. La nuova Russia e gli stati dell’Europa del nord-est

4 L’Italia alla fine del Medioevo


I. Dalla fermentazione politica…..
Mentre i regni europei si rafforzavano su base nazionale, l’Italia è la protagonista di una serie di processi
politici che la rendevano diversa dal resto dell’Europa. La penisola rimaneva divisa in stati più grandi, come i
regni meridionali e più piccoli, come quelli che si stendevano intorno alle città dell’Italia comunale e
signorile formalmente parte dell’Impero. Ad essere frammentato non era solo il territorio: talvolta a pochi
chilometri di distanza l’uno dall’altro convivevano i tipi più svariati di regime politico, le popolazioni si
reggevano con diverse leggi, rispondevano variamente alla giustizia. Nello spazio limitato, s’incontrava una
serie di città-stato a regime repubblicano come Firenze, o signorile come Ferrara con gli Este o Milano con i
Visconti, o ancora principati come quello dei marchesi di Monferrato, dei marchesi di Saluzzo, quelli
ecclesiastici del patriarca di Aquileia e dei vescovi di Trento e Bressanone o come il Piemonte integrato nel
dominio dei conti di Savoia, Pisa e Genova si dividevano l’influenza economica e politica su Sardegna e
Corsica; sui troni si Napoli e Sicilia sedevano re stranieri. Al centro d’Italia lo Stato della chiesa era un regno
particolare, formalmente retto da un papa-re, ma con una capitale che nel periodo avignonese, conobbe
esperienza repubblicane, e con un territorio spesso ribelle all’autorità centralizzatrice del papato.
Quest’ultimo aveva sempre ostacolato ogni tentativo di costruire in Italia uno stato di grandi dimensioni
perché temeva per il proprio dominio territoriale.
In questo quadro generale, fin dagli anni Sessanta del XIII secolo e per lungo tempo, la dinastia angioina
aveva rappresentato una presenza determinante nel sistema politico italiano. Carlo I d’Angiò, dopo aver
fissato a Napoli la capitale di Sicilia, aveva da lì coordinato un’azione politica di ampio raggio che l’aveva
portato a far riconoscere la propria autorità anche a molte città dell’Italia comunale. Dopo aver perso la
Sicilia nel 1282 il nipote di Carlo, il re di Napoli Roberto I, rinnovò la signoria angioina su varie città,
mettendosi a capo dell’alleanza guelfa guidata da Firenze per fronteggiare la campagna italiana
dell’imperatore Enrico VII di Lussemburgo che, tra 1310 e 1313, aveva tentato di pacificare sotto l’alta
sovranità imperiale le città italiane in lotta tra loro. L’alleanza che si determinò tra il papato e gli angioini fu
all’origine del progressivo coinvolgimento delle città nei due grandi schieramenti che chiamiamo guelfi e
ghibellini.

II. ….agli stati territoriali


Anche nella frammentata Italia centro-settentrionale si avviarono processi di superamento di concentrazione
politica e di creazione di organizzazioni statuali più vasti: le città più grandi cominciarono a inglobare le
piccole con i loro contadi, a incorporare le residue terre signorili, a estendere la propria egemonia. Anche se
alcuni stati territoriali italiani si svilupparono in maniera più simile ei principati d’oltralpe, sta nello sforzo
delle città di superare la frammentazione politica la differenza più forte con quanto accadeva altrove, dove, la
ricomposizione del potere fece perno sulle monarchie. Il passaggio dai comuni agli stati regionali confermò il
policentrismo politico della penisola perché si trattò di entità territoriali di dimensione media o piccola, non
paragonabili a quelle sulle quali esercitavano i loro poteri le monarchie d’oltralpe.
È utile ripetere che gli stati regionali italiani del 1400 non ebbero certo i caratteri di Stato moderno,
accentrato e assoluto, che ci viene talvolta proposto da un modello storiografico, astratto come tutti i modelli;
tuttavia anch’essi realizzarono una forma di concentrazione del potere sulle mani del principe o del governo

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cittadino, repubblicano o signorile che fosse, dandosi strutture diplomatiche stabili e una burocrazia per un
più ordinato funzionamento della vita pubblica, applicando una politica di tipo protezionistico, come si
chiama quella nella quale lo Stato protegge il mercato interno come blocco delle produzioni proprie.
Le città più attive nel processo di ampliamento dei propri confini furono Milano, Venezia, Genova e Firenze.

III. La formazione del ducato di Milano


Nel corso del 300 i Visconti, signori di Milano, s’imparentarono sia con ricchi mercanti sia con antiche
famiglie dell’aristocrazia cittadina. Forti di ricchezza e di apparato militare, iniziarono una politica di
estensione del territorio milanese, attraendo nella propria orbita una serie di città della valle del Po:
Piacenza, Bologna, Parma, Lodi, Cremona, Brescia, Bergamo, Vercelli, Novara, Como, Alessandria e Asti.
I principali avversari dell’espansione furono gli Scaligeri di Verona che sul finire del 300, dopo aver esteso
il loro dominio su Reggio, Parma e Lucca si scontrarono con i Milano. Gian Galeazzo Visconti, signore di
Milano dal 1385 al 1502, ottenne dall’imperatore il titolo di duca. Milano era allora una città ricca, ben
popolata, con una forza militare consistente, una produzione di tessuti in pieno sviluppo e una prospera
industria delle armi. Gian Galeazzo costruì uno stato che andò vicino a unificare gran parte dell’Italia
settentrionale. Il ducato inglobò Verona, Pisa e Siena mentre Firenze già vacillava. Il progetto si chiuse però
alla morte del duca, che non aveva avuto il tempo di rafforzare l’unità politica. Buona parte del ducato
venne divisa tra i suoi figli, Verona tornò ai veneziani, Siena recuperò autonomia. Il prestigio dei Visconti
declinò rapidamente. Risalì con la signoria di Filippo Maria, ma alla sua morte senza eredi la città
attraversò una crisi politica. Carlo VII di Francia volle cogliere l’occasione per impadronirsi del ducato, il
re d’Aragona Alfonso il Magnanimo, accorso come alleate, se ne dichiarò duca, i veneziani si prepararono a
invadere la città. I milanesi proclamarono la repubblica e nominarono generale Francesco Sforza che pose
fine agli scontri proclamandosi duca di Milano. Gli Sforza rimasero al potere fino al 1499.

IV. Tra mare e terraferma: Venezia e Genova


Venezia era una repubblica dominata da una stretta oligarchia, la città era stata modello di stabilità politica.
Omogenei per estrazione, i membri del governo guidavano le iniziative politiche e commerciali compatti
nelle decisioni. Nel corso del 300, Venezia era cambiata profondamente: prima tutta proiettata verso il mare
aveva cominciato a cercare spazio sulla terraferma. Prese sotto la sua sovranità Ferrara, Padova, Vicenza e
Verona. Era inevitabile che questa politica andasse contro quella dei Visconti, perché creava un argine ai
loro propositi di espansione. Non a caso l’espansione veneziana subì un’accelerazione alla morte di Gian
Galeazzo Visconti.
Anche nella vita politica genovese dominavano alcune grandi famiglie. Sul piano commerciale aveva
eliminato la concorrenza di Pisa. Nella seconda metà del 300 fu costretta a difendersi su molti fronti, prima
di tutto contro i veneziani, dato che il commercio marittimo verso l’oriente continuava a concentrarsi nelle
sue mani e questo manteneva in conflitto le due città. Genova aveva poi affrontato la concorrenza di
Marsiglia e Barcellona e le nuove mire fiorentine su Pisa. L’espansione verso oriente degli Aragonesi
divenne nel 400 guerra contro Genova, che indebolita dovette sottoporsi più volte alla sovranità e protezione
straniera. A fine 400 si ritirarono dai mercati orientali per dedicarsi a quelli occidentali.

V. Firenze sotto i medici


In due momenti nel corso del 300 i fiorentini erano ricorsi a un potere forte, affidando per breve tempo, la
signoria della città prima a Carlo di Calabria, figlio di Roberto d’Angiò e poi al duca di Atene Gualtieri di
Brienne. Alla conclusione di queste esperienze si tornò sempre al governo delle arti, anche se non era
identico a quello del passato, perché ogni volta il potere tendeva a concentrarsi nelle mani di un’oligarchia
più stretta di mercanti- imprenditori e di banchieri. Da fine 300 il dominio di Firenze si era allargato su
Pistoia, Cortona, Arezzo, Colle Val d’Elsa e le campagne. Nel 1375 si trovò coinvolta nella guerra degli
Otto Santi, contro il papa che minacciava la città. Nel 1390 dovette difendersi anche dai Visconti. Solo alla
morte di Gian Galeazzo poté annettere Pisa al proprio dominio, garantendosi uno sbocco nel mare e finendo
per coprire i due terzi della Toscana. Firenze aveva riorganizzato uno dei punti forti della sua ricchezza, che
era la produzione di tessuti. Molti artigiani non lavoravano più in proprio, ne svolgevano tutte le fasi della
lavorazione dalla lana grezza alla stoffa. Ognuno svolgeva un’operazione alle dipendenze di un mercante-
imprenditore che finanziava l’attività ma non lavorava con le proprie mani.
L’organizzazione produttiva fiorentina fu sempre molto legata alla politica. Non a caso la tendenza a
concentrare il potere in poche mani si fece più chiara quando la borghesia cittadina temette, con il tumulto
dei ciompi (1378), di perdere il governo della città o di doverlo condividere con i ceti più bassi della società

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urbana. L’altro polo della ricchezza fiorentina, il commercio e la banca, aveva trovato da tempo un
importante motivo di crescita nell’impegno economico nei regni meridionali e dalla Sicilia, dalla Campania,
dalla Puglia, dalla Calabria i fiorentini importavano grano, olio, vino, formaggio, sale e legname verso nord.
Sugli affari con la corte romana, dopo il rientro dei papi da Avignone, fondarono la loro fortuna i Medici,
banchieri che avevano ereditato la grandezza finanziaria dei Bardi e dei Peruzzi.
Tra le famiglie che detenevano il potere nella città emersero prima gli Albizi, imprenditori del settore
laniero, poi i Medici. I Medici furono abili nell’allearsi al popolo contro lo strapotere dell’oligarchia
capeggiata dagli Albizi. Nello scontro tra le fazioni il capo della famiglia dei Medici, Cosimo il Vecchio,
venne prima esiliato, poi l’anno dopo rientrò a Firenze mentre fu cacciato quella della fazione opposta,
Rinaldo degli Albizi. Nel giro di poco tempo i Medici impiantarono a Firenze la signoria di Cosimo. La
signoria dei Medici fu molto particolare, si trattò di un potere non ufficiale, ma comunque riconosciuto. I
nuovi signori non cambiarono la forma delle istituzioni comunali, perché sapevano che ad esse i fiorentini
erano molto legati e si limitarono a controllare che le cariche più importanti fossero ricoperte da personaggi
di loro gradimento. Trovarono spazio nella politica prima i figli di Cosimo e poi i nipoti. Il momento di
massimo splendore la signoria lo ebbe con Lorenzo poi detto il Magnifico, che succedette al padre nel 1469,
reggendo la città fino alò 1492 e che fu uno dei più brillanti uomini del suo tempo, specialmente dal punto
di vista culturale e artistico. Durante il governo dei Medici su Firenze venne redatto il catasto, il nuovo
sistema di tassazione che si basava sulle denunce dei redditi e dei patrimoni presentate da ogni
capofamiglia.

VI. I regni meridionali e le isole


Negli ultimi decenni del 300 inquietudini e tensioni avevano travagliato i paesi conquistati ma non
pacificati dagli Aragonesi, nonostante gli sforzi che Pietro IV il Cerimonioso aveva fatto in Sicilia e in
Sardegna. Il giudicato d’Arborea era l’unico dei quattro regni sardi originari sopravvissuto ai tanti conflitti
del 300. Si trattava di un giudicato con una forte tradizione. I successori di Pietro IV sul trono d’Aragona
affrontarono in Sardegna nuove importanti ribellioni guidate dai partigiani del visconte di Narbone e
Brancaleone Doria. Quando i ribelli furono sconfitti, fu possibile la completa sottomissione dell’isola. Nel
1421 in Sardegna fu istituito il viceregno, sorte pochi anni addietro già toccata alla Sicilia. Nel 1421 la
Carta de logu, così detta perché su logu, in volgare sardo, è il territorio dello Stato.
L’idea della Sicilia come regno autonomo fu alimentata nel corso del 300, da una serie di famiglie siciliane
eminenti che riuscirono a forzare la mano ai sovrani d’Aragona ottenendo che l’isola fosse governata da un
proprio re, diverso da quello d’Aragnona anche se appartenente alla stessa dinastia, fino al 1412. Ci furono
perciò dei re si Sicilia della dinastia Aragonese. Alcuni capaci e attivi come Federico III che si era occupato
di riorganizzare le istituzioni e le amministrazioni locali e centrali dell’isola.
Nel corso del 300 si erano rianimati i commerci siciliani con i paesi del Levante, versoi quali l’isola faceva
da “ponte”, e impiantate alcune interessanti iniziative economiche: nel palermitano e ragusano, baroni e
imprenditori avevano investito capitali nell’industria dello zucchero ricavato dalla canna (cannamele),
un’attività impegnativa che dava lavoro a molte persone. L’interesse di parte del patriziato urbano verso
alcune attività imprenditoriali fu una delle differenze della Sicilia con il meridione peninsulare, meno
popolato e più contadino, dominato dai proprietari di estesi latifondi che in genere si accontentavano della
rendita che veniva da una terra naturalmente ricca senza investire in essa grandi somme di denaro e che,
quando lo facevano, si trovavano comunque sempre davanti il problema di una manodopera scarsa.
Nel 1412-15 la Sicilia aveva subito una sorta di declassamento politico, divenendo viceregno della corona
d’Aragona: da quella data, quindi non c’era stato più un re di Sicilia residente nell’isola, che era divenuta
solo un pezzo dei domini aragonesi, governata da un re residente altrove che inviava un amministratore in
suo nome, un viceré. La nuova classe dominante risultò strettamente legata alla monarchia. Ecco che i
soggetti del dominio politico sociale sull’isola divengono due: da una parte la monarchia lontana, dall’altra
il gruppo dei nuovi nobili protagonisti dell’ascesa sociale.
Il regno di Napoli governato dagli Angioini, principi di sangue reale francese, era il più esteso anche se non
il più sviluppato dal punto di vista economico. I baroni del regno avevano mantenuto un ampio controllo sui
loro re, anche perché la maggiore ricchezza del regno, che era la terra, era quasi interamente in mano loro.
Napoli aveva attraversato un periodo di vero splendore durante il regno di Roberto il Saggio che aveva fatto
un debole tentativo imperiale in Italia. Si alleò con il papa avignonese; fu considerato il capo del partito
guelfo; tentò di conquistare la Sicilia; sviluppò l’emissione, nella zecca di Napoli, del gigliato, una buona
moneta d’argento che ebbe molte imitazioni e largo successo. La sua politica neoguelfa per un po' dette dei
frutti: suo figlio Carlo di Calabria, fu per un certo tempo signore di Firenze e i mercanti banchieri fiorentini

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trovarono nel regno u buono spazio per la loro attività, contribuendo al successo della moneta napoletana
nei mercati orientali.
In seguito, la presenza angioina in Italia si era indebolita a poco a poco, soprattutto per le continue lotte
dinastiche che avevano impoverito e devastato i territori. Per la conquista del trono di Napoli si scontrarono
quattro rami della famiglia degli Angiò. Giovanna I a diciassette anni fu regina di Napoli, si trovò a
governare negli anni di crisi del 300. Cercò di soddisfare pacificamente le pressioni dinastiche attraverso
una serie di sfortunati matrimoni. Ripetè inutilmente il tentativo del nonno di conquistare la Sicilia, si
schierò con l’antipapa avignonese, Clemente VII. Non avendo avuto figli, scelse a succederle Luigi
d’Angiò che dovette contendere il regno con vari rivali, tra i quali Carlo di Durazzo. Carlo fu incoronato re
di Napoli dal papa e l’anno successivo fece strangolare la stessa Giovanna. Il regno uscì spossato dalle lotte
dinastiche. Le sue sorti si risollevarono un po’ con Ladislao d’Angiò Durazzo e infine con Giovanna II.
Quella angioina fu tuttavia per Napoli una stagione di splendore, infatti nel corso del 300 era stato possibile
incontrarvi i maggiori esponenti della cultura italiana, Petrarca, Boccaccio, Giotto. Nel 1442 l’Italia
meridionale fu unificata e il regno di Napoli entrò a far parte con la Sicilia dei domini aragonesi del
Mediterraneo. Morta Giovanna senza eredi, Alfonso il Magnanimo, re di Sicilia e Aragona, ne aveva
rivendicato la corona, si era scontrato con il ramo degli Angiò-Valois e con altre forze che non vedevano di
buon occhio l’ulteriore espansione aragonese in Italia e ne temevano la concorrenza economica, infine
aveva ottenuto l’appoggio e il consenso di Filippo Maria Visconti, che aveva così completamente cambiato
il quadro delle sue alleanze. Il Mezzogiorno entrava definitivamente nella confederazione dei domini
spagnoli e la potenza aragonese diveniva una delle forze determinanti nel gioco politico d’Italia.
Alfonso fisso la sua residenza a Napoli, mirava a reinserire l’Italia meridionale intera in un più grande
circuito politico ed economico e si adoperò per l’integrazione economica della produzione granaria di
Puglia e Sicilia con quella tessile del regno aragonese. Ma il predominio degli operatori economici esterni e
la fase di generale ristagno dell’economia mediterranea non dette grande spazio a progetti di rilancio. In
Sicilia difficoltà di mercato ostacolavano la produzione dello zucchero, spingendo di nuovo il patriziato
urbano dell’isola verso lo sfruttamento della rendita fondiaria. Nel programma di Alfonso ci furono, la
conferma della specializzazione granaria della Sicilia e l’introduzione dell’allevamento di pecore merinos in
Puglia.
Con i successori di Alfonso il regno di Napoli ebbe di nuovo una vita autonoma dalla Sicilia fino a che non
fu riunito ai domini spagnoli nel 1504 da Ferdinando il Cattolico.

VII. Il “sistema dell’equilibrio”


Alla meta del 1400 l’Italia era un mondo in ebollizione. E se da una parte la cultura e l’arte conseguivano
importanti risultati, dall’altra lo scenario in cui questa cultura si sviluppa era quello delle lotte interminabili.
Il culmine si ebbe quasi alla metà del 1400 quando l’improvviso cambiamento di fronte di Filippo Maria
Visconti provocò alcune reazioni, si trattava di un importante cambiamento di alleanze. Genova, Venezia e
Firenze non lo vedevano di buon occhio perché era per loro chiaro che alla base delle imprese di Alfonso il
Magnanimo c’era un progetto d’inquadramento politico della penisola italiana in due grandi aree, una centro-
settentrionale dominata dai visconti e una meridionale e insulare dal re aragonese. Si trattava, di un progetto
di sistemazione politica unitaria d’Italia, articolato in due poli.
Il progetto restò incompiuto anche questa volta. Genovesi, fiorentini e veneziani lo avversarono. Poi si
profilò la possibilità di un nuovo equilibrio.
Primo passo per un’intesa tra Venezia, Milano, Firenze, lo Stato della Chiesa e il regno di Napoli fu la pace
tra Milano e Venezia firmata a Lodi nel 1454 (Pace di Lodi) e che mise fine, alla lunga sequenza di scontri
dell’Italia Quattrocentesca. La pace ebbe due significati chiari: serviva a stabilire un equilibrio tra le forze
politiche più consistenti della penisola e ad evitare nuovi interventi stranieri da parte dell’impero e della
Francia che poteva avere la tentazione di tornare a rivendicare le terre d’Italia a nome degli Angioini.
S’inaugurò, un venticinquennio di relativa tranquillità, basata su una stabilizzazione della carta politica d’Itali
e sul reciproco rispetto dell’assestamento dei confini che la pace segnava: in questo disegno le guerre
condotte dalle varie leghe avevano il proposito di impedire a un singolo Stato di mirare all’egemonia nella
penisola. Firenze assunse in questa fase un ruolo di mediazione tra le potenze italiane.
Dopo qualche tempo, la nuova instabilità dovuta alla sete di potere di alcuni sforza fu un fattore di debolezza
del ducato di Milano e non a caso, alla lunga, aprì la porta all’intervento francese in Italia. Negli ultimi anni
del 1400 le controversie si riaprirono su più fronti. Nel 1482 fu l’aggressione di Venezia contro Ferrara a
provocare la formazione di una nuova alleanza tra Milano, Firenze e Napoli. A Napoli nel 1486 ci fu una
rivolta, presto soffocata, e il papa chiese l’intervento del re di Francia in difesa della città. Ludovico il Moro

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(duca di Milano), duca usurpatore, sentì in pericolo il suo dominio e consegnò il ducato nelle mani dei
francesi. Il 1494 Carlo VIII, re di Francia, entrava in Italia, dimostrando la grande fragilità del sistema degli
stati italiani che si presentavano sulla scena internazionale ancora molto divisi e privi della volontà di tentare
quella unità politica che sola avrebbe consentito di far fronte alla potenza delle monarchie europee.
Quello che è chiamato “lo Stato del Rinascimento”, non rivestì caratteri di piena modernità; fu qualcosa di
molto particolare, perché il potere centrale del principe italiano incontrò difficoltà a imporsi alla nobiltà, alle
città, al clero, e perché rimasero in piedi molte sovrapposizioni amministrative che solamente ben più avanti
la schiacciante capacità di disciplinamento dello Stato moderno riuscirà a ridurre.

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