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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI

FACOLTÀ DI STUDI UMANISTICI


CORSO DI LAUREA IN ARCHEOLOGIA E STORIA DELL’ARTE

L’IMMAGINE SACRA NEL PERIODO


PREICONOCLASTA

Origine, evoluzioni e funzioni delle icone di Maria e Cristo tra V e VIII secolo

Relatore: Tesi di Laurea di:


Prof. Andrea Pala Antonio Pinna

ANNO ACCADEMICO 2014-2015


L’IMMAGINE SACRA NEL PERIODO
PREICONOCLASTA

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4
Indice___________________________________________

Cap.1 L’Europa tra il V e l'VIII secolo P. 7


1.1 La società barbarica ›› 7
1.2 I popoli germanici nello stanziamento in Europa ›› 9
1.3 La Chiesa ›› 10
1.4 Il monachesimo ›› 12
1.5 L’Impero d’Oriente ›› 13
1.6 L’arrivo dei Longobardi in Italia ›› 15
1.7 La fine del regno Longobardo ›› 17
Cap. 2 Sull’immagine sacra ›› 19
Cap. 3 Icone Mariane a Roma ›› 29
3.1 La Vergine col Bambino di Santa Maria Nova ›› 33
3.2 La Madonna col Bambino del Pantheon ›› 35
3.3 La Salus Populi Romani ›› 36
3.4 La Madonna del Monasterium Tempuli ›› 39
3.5 La Madonna della Clemenza ›› 41
Cap. 4 L’immagine di Cristo ›› 47
4.1 Sulle immagini Acheropite ›› 54
4.2 Le Acheropite per eccellenza ›› 61
4.3 La Camuliana ›› 62
4.4 Il Mandylion di Edessa ›› 66
4.5 La tipologia del Santo Volto di Edessa ›› 72
4.6 La tipologia del Cristo Pantocratore ›› 74
4.7 Il Cristo Pantocratore del Sinai ›› 77
Conclusioni ›› 79
Apparato fotografico ›› 83
Bibliografia ›› 103

5
6
1. L’Europa tra il V e l'VIII secolo

Il 5 settembre del 476, in Italia lo sciro Odoacre, generale romano di stirpe barbarica a capo
delle milizie, depose ed esiliò il tredicenne Romolo Augustolo, proclamato imperatore dal
padre Oreste, consegnando la pars occidentalis dell'impero a Zenone, Augusto della pars
orientalis. A Odoacre, riconosciuto come Patrizio, Zenone concesse il governo come rex
gentium, re dunque delle popolazioni germaniche da lui guidate e non del territorio. Un
potere legato alle gente in armi, stabilite nella penisola1.In Italia si costituì un regno
autonomo, ma a differenza di quelli sorti nella penisola Iberica, in Africa e in Gallia,
riconobbe l'autorità dell'Impero d'oriente per via di una tradizione fortemente radicata nella
popolazione latina della penisola. In suo nome dal 476 fu governata e storicamente questo
momento sancisce l'inizio del Medioevo2. Quest’importante passaggio storico è scandito da
una crescente ruralizzazione della civiltà, dall'impoverimento dell'economia europea e da una
sostanziale decrescita demografica. I territori occidentali vennero a poco a poco abbandonati
ai barbari. I romani lasciarono dal 408 la Britannia, si ritirarono nel 425 dalla pannonia, poi
dalla penisola Iberica e dalla Gallia sud occidentale e nord orientale. Si vennero a formare
sui territori una volta romani i regni latino-germanici, latino perché l'amministrazione restò
di tipo romano e germanici perché formati dal predominio di élite guerriere barbariche che
mantennero parte della loro cultura. Queste conoscenze si scontreranno con la società
romana, e ne diverrà il nucleo intorno al quale si fonderà la nuova società medievale3.

1.1 La società barbarica

Nella società barbarica la funzione regale aveva carattere accentuatamente sacrale. La


discendenza divina era il fulcro di tutta la società politica dell’etnia e il re ne faceva da
tramite. Più che comandare sembrava dovesse assicurare il tramite tra la stirpe e gli dei, e

1
Delogu, P. 1983, pp 4-6.
2
Piccinni 1999, p. 30
3
Delogu, P. 1983, p. 7.
7
poteva essere deposto o sacrificato, se il tramite sembrava venir meno. Queste capacità di
medium erano insite in famiglie di antica nobiltà, in cui si concentrava la potenza magica
della stirpe. Perciò il re era scelto fra esse e la regalità tendeva a trasmettersi ereditariamente
nella stessa famiglia, almeno che non si fosse costatata la perdita delle capacità prodigiose
del sangue. Il re non aveva le capacità coercitive nei confronti dei guerrieri liberi ed erano
invece soggetto consenso e alla verifica da parte loro. I gruppi che invasero l'impero
conservarono questa struttura di stirpe e i loro nomi, derivano dall’origine divina di queste: i
goti erano consacrati a Gauten Wotan, i franchi erano i selvaggi, gli alemanni erano i veri
uomini. Vi era la distinzione fra il re sacrale e Kuninge, il capo della gente in armi. La
scomparsa del primo termine e l'evoluzione del secondo nel tedesco moderno, rispecchia
l’evoluzione dell’istituzione durante il periodo migratorio. La crescita del loro potere
avvenne infatti durante le migrazioni, quando il successo militare decretava la salvezza della
stessa stirpe. In questa evoluzione politica il potere regale diviene insieme autocratica e
popolare, influenzando fortemente le successive concezioni medievali. La società germanica
si configurava come democratica e aristocratica assieme, pur mantenendo la nobiltà, il
comando dell'azione politica. Questo comando nobiliare era però condiviso dall’aristocrazia
e la stirpe nella ‹‹sovranità condivisa››, che sarà tipica di tutto il medio Evo, esercitata da
gradi diversi dai nobili e dal re, che era comunque soggetto al ‹‹diritto di resistenza››, con il
quale vi era la possibilità di rifiutare legittimamente la fedeltà al re e addirittura di deporlo o
ucciderlo se veniva meno delle sue principali funzioni. Questa tipologia di potere andrà a
confrontarsi con il sistema politico dell'impero romano cristiano, basato sul concetto di
cittadinanza e su quello morale di civiltà. I visigoti furono gli unici a scindere il pubblico dal
re, mentre i franchi, la considerarono proprietà personale del monarca. Nelle altre società
barbariche il pubblico era di proprietà del monarca, che ne disponeva alla sua morte, dondo
cosi un potere più forte al capo che lo esercitava per garantire protezione alla sua gente, in
cambio della loro fedeltà4.

4
Delogu, P. 1983, pp. 5-9.
8
1.2 I popoli germanici nello stanziamento in Europa

Nella Britannia la tradizione vuole che si formassero tre regni Sassoni sulla costa Anglia
orientale, Northumbia, nel centro nord uno di formazione Juta, il Vent. I Visigoti, i più fedeli
alleati di Roma tra i regni germanici, dopo aver ottenuto da Onorio lo stanziamento come
federati ad Aquitania, si spinsero verso la penisola Iberica, dove arrestando l'avanzata dei
Vandali orientandoli verso l'Africa, assorbirono il regno degli Svevi, creando un nuovo regno
con capitale Toledo, in convivenza con la chiesa locale e la parte romana della popolazione.
La loro società era giuridicamente federalizzata in etnie. Ogni individuo se pur vivendo in
uno stesso territorio, seguiva le leggi della stirpe di appartenenza. In realtà la base giuridica
era comune e derivata dal diritto romano anteriore a Giustiniano, in una versione semplificata
a uso del tribunale: la Lex Romana Visigotorum o Breviarum Alariciarum del 506.Alla
scomparsa della parte occidentale dell'Impero, la Gallia passò sotto il dominio delle
popolazioni germaniche: a sud i Visigoti, a est i Burgundi e a nord i Franchi. Al centro vi era
un residuo della dominazione romana. Furono i franchi a unificare politicamente il territorio
tra il V e il VI secolo con il re Clodoveo. I Visigoti vennero cacciati e scelsero come capitale
un piccolo insediamento al ridosso del fiume, Lutetia Parisorum. Clodoveo diede vita alla più
solida monarchia latino-germanica.
Cacciati dalla penisola Iberica, i Vandali si spostarono verso l'Africa e qui sbarcarono nel
430. Nel 435 l'Impero riconobbe il regno vandalico, con Cartagine come capitale. Non
riuscendo in un’integrazione con la popolazione latina, il loro regno fu di dominazione
militare. Dotati di una flotta navale, si mossero verso le grandi isole del mediterraneo e nel
455 saccheggiarono Roma. Dopo il piano di riconquista da parte di Giustiniano dei territori
occidentali dell'impero, dei Vandali, una volta sconfitti, non rimase traccia. Nella penisola
italica si venne a formare il Regno Ostrogoto, guidato dal re Teodorico di formazione
romana inviato dallo stesso Zenone, per contrastare il potere di Odoacre. Tra il 488 e il 489
in nome dell'Impero d'oriente, prese potere in Italia e tentò di ricostituire la parte occidentale
dell'Impero. La formazione romana lo spinse a recuperare le terre destinate al raccolto e alla
costruzione o al recupero dei punti di raccolta del grano per le carestie. Ricrea il sistema
9
finanziario e monetario, mantenne in vita alcune scuole pubbliche, da via ai lavori di restauro
e degli edifici di Roma devastati dalle precedenti razzie e riorganizza il senato, che vedrà la
sua fine solo nel VI secolo. Tra i Goti e i latini non ci fu mai una totale integrazione, ma una
politica di convivenza e la suddivisione delle mansioni tra le due etnie. Questa fu la causa del
fiorire dei conflitti interni che furono aggravati dalla promulgazione di leggi restrittive da
parte del re. Teodorico nel 504 cercò di conquistare la Pannonia, danneggiando i rapporti con
Bisanzio e nel 506, mosse guerra agli Alemanni protetti dagli Ostrogoti. Dopo la morte di
Teodorico le sorti della penisola non furono sollevate. L’Italia dopo la conquista di
Giustiniano nel 563, venne considerata comunque una terra da sfruttare fiscalmente,
soprattutto nel meridione, dove pure i terreni agricoli di uso comune, rispettati dagli
Ostrogoti, furono confiscate dai bizantini, col tentativo di costituire estesi latifondi. (Fig1)

1.3 La Chiesa

Dopo che Sant’Agostino negò la teologia-politica, sancendo che non vi era coincidenza fra
l’Ecclesia e l'Imperium Romanum, l’una di una natura terrena e l’altro privo di una funzione
provvidenziale5, il territorio della chiesa si poteva espandere oltre i confini dell’impero,
affinché nel disegno divino di salvezza, potessero aver ruolo anche le genti e i poteri estranei
alla società Romana. L’autorità politica che la Chiesa andava a svolgere in quei territori una
volta romani, fu giustificata da una lettera di Paolo ai Romani6, dove il Santo dichiarava che
ogni potere venisse da Dio e ogni potente è un ministro di Dio, che opera per il bene. Sulle
rovine dell’impero d'occidente, Gregorio Magno, papa dal 590 al 604, fu il primo ad
applicare queste dottrine. Nella lettera inviata ai re germanici, familiarizzando con la
concezione del potere come ministero, indicò le linee da seguire per corrispondere alla sua
missione: culto della giustizia, garanzia dei diritti, rinuncia all’arbitrio, protezione delle
chiese, tutela della fede e del culto e lotta alla simonia, promettendo supremazia fra i popoli,
prosperità del regno e la vita eterna del re. A ridosso della conversione, la chiesa non sciolse
ma rafforzò la coscienza del gruppo etnico, non ampliò gli orizzonti ma ne rafforzò i limiti. Il

5
Cfr Sant’Agostino De Civitate Dei, 14, 28
6
Epistola ai Romani XIII, 4-6
10
clero delle diverse gentes, fu partecipe delle diversità di cultura, sottolineando le proprie
differenze locali, dando vita all’idea di una molteplicità di ecclesie gentium, prive di
sostanziali legami l'una con l'altra e di un centrale coordinamento giuridico 7.
Nell’organizzazione della chiesa in questi secoli, il punto di riferimento per la comunità dei
fedeli, era l'episcopos8. Questa figura garantiva sotto la sua giurisdizione, l'unita d’intenti e la
disciplina della comunità. I fedeli facevano capo al vescovo per ricevere sacramenti
importanti come il battesimo. La suddivisione ecclesiastica del territorio in buona parte dei
casi coincideva con la suddivisione romana. La circoscrizione alla quale facevano a capo i
vescovi, chiamata ora diocesi, corrispose al municipio romano. Il vescovo era l'unico a
ordinare sacerdoti e autorizzare la fondazione dei monasteri. la sua elezione era a vita e fu
sempre un membro di prestigio del clero locale. Il vescovo della metropoli di ogni provincia
ecclesiastica venne chiamato Metropolita, poi Arcivescovo ed era gerarchicamente più
importante rispetto gli altri. Il rapporto tra il vescovo di Roma e gli altri vescovi dell'Italia
settentrionale, venne mediato dai vescovi di Milano, Aquileia e Ravenna, mentre fu più
diretto con l'Italia centrale e meridionale. Le sedi più importanti della Chiesa corrisposero
alle grandi città dell'impero e presero il nome di Patriarcati. I patriarcati furono cinque: Roma
per l'Occidente, Antiochia, Alessandria, Gerusalemme e Costantinopoli per l'Oriente. La
centralità di Roma per tutto l’occidente era frutto di una teoria che affermava il primato
romano attraverso Pietro che fu l'unico incaricato da Gesù a ricevere le chiavi del suo regno.
L'abbandono dell’imperatore faceva del vescovo la maggiore autorità di Roma. All'arrivo
degli unni, nel 452, il papa Leone Magno si presenta come rappresentante del potere politico
ormai assente. Si può dire che la scomparsa dell'Impero d'Occidente rafforzò il ruolo politico
della chiesa romana in tutta l’Europa occidentale, patteggiando difficoltosamente con gli
invasori. La Chiesa fu la forza unificatrice dell’Europa invasa, ereditò dall'Impero il ruolo e i
tratti della civiltà latina e garantì la sopravvivenza del tessuto urbano e della memora
istituzionale.

7
Delogu, P. 1983, pp 9-11.
8
Questo termine si può tradurre come sorvegliante o vigilante.
11
1.4 Il monachesimo

La dissoluzione della sicurezza del sistema culturale e sociale romano, portò a una ricerca
interiore di Dio, trovando nel monachesimo -dal greco monachos, solitario- un’importante
risorsa per quei fedeli cristiani che sentivano l'esigenza di vivere interamente nel vangelo.
Le tipologie preferibili erano due: una vita eremitica, in totale isolamento dal mondo corrotto
o il ritiro in una comunità cenobitica, dalla vita organizzata secondo una regula. Il modello
eremitico prevalse in Oriente, mentre in Occidente si diffuse maggiormente quello
cenobitico. In Italia vi fu la nascita di un importante esperienza monastica, quella fondata da
Benedetto da Norcia (480-549). attorno alla sua regola si riunirono una vasta tipologie di
credenti: dall’aristocrazia romana, ai figli dei goti e di schiavi. Benedetto, infatti, gettava le
basi per una reale unità tra la gentes e i latini, fondante sull’uguaglianza universale insegnata
nel vangelo. Nell’oriente la vita monastica ascetica, aveva già raggiunto un alto livello di
organizzazione. Forme di vita ascetica, infatti, fecero la loro comparsa molto presto in Egitto.
Verso la fine del III secolo, abbiamo già testimonianza di Antonio Abate che ritiratosi in
solitudine, sostava in luoghi sempre più solitari verso il deserto, mettendo appunto una serie
di esercizi che gli consentirono di resistere alle tentazioni. Un’altra figura importante per il
monachesimo orientale era il vescovo di Cesarea, Basilio (330-79), grazie al quale un secolo
più tardi in Cappadocia si costituì il monachesimo basiliano9, uno dei fondamenti della
cultura religiosa bizantina. Sulla nascita dell’esperienza monastica prebenedettina in
Occidente non abbiamo molti dati storici, si presume che vi sia stata l'influenza orientale,
forse dalla diffusione della Vita Antonii scritta da Atanasio nel 365 o dell'esperienza
eremitica di Girolamo. Maggiori notizie si hanno quando in Europa il monachesimo ha già
una fisionomia forte e consolidata sotto la guida di uomini come Martino, vescovo di Tours e
Cesareo di Arles, che operarono in Gallia, o Isidoro di Siviglia che in Spagna tra il 600 e il
636, fu autore d importanti manoscritti come l'Etymologiae, fondamentale enciclopedia del
mondo medievale, in Italia Cassiodoro 490-583, e in Africa il vescovo di Ippona dal 395 al

9
Per approfondire sul Monachesimo Basiliano si veda: Mario Mazza Monachesimo basiliano : modelli spirituali e
tendenze economico-sociali nell' impero del IV secolo, in Studi Storici n. 21, Fondazione istituto Gramsci, 1980
12
450, Agostino. In Irlanda, cristianizzata dall'aristocratico Patrizio nel V secolo, fu importante
il monachesimo di Brandano e Colombano, fondatore di numerosi monasteri autonomi e
lontani dai desideri della Chiesa di Roma. Tra tutte queste diverse esperienze monastiche.
quella celtica e quella benedettina emersero sulle altre, destinate a diventare il modello
dominante10. Importanti monasteri irlandesi sorsero anche nel continente europeo, come
Luxeuil, in Borgogna e a Bobbio, vicino a Piacenza, con l'appoggio dei franchi. In difesa
della sua autorità la Chiesa incrementò la diffusione dei monasteri benedettini, che esprimeva
forme più moderate di vita cenobitica e non metteva in discussione l’autorità vescovile nella
gestione del territorio. In poco tempo i monasteri benedettini ricoprirono il territorio della
penisola e del resto dell’Europa, raggiungendo più facilmente villaggi e campagne isolate. Il
monaco che viveva tra i boschi in mezzo alla campagna era uno strumento di conversione dei
meno acculturati più adatto rispetto un vescovo. Alcuni monasteri furono costruiti in luoghi
di culto precristiani, per affermarne la sacralità nello stesso tempo allontanare dalla memoria
il culto pano. La presenza di monasteri che seguivano la regola basiliana, servì a tenere a
lungo il legame con la chiesa d’Oriente di quelle regioni, come la Sicilia che divenne il luogo
fondamentale per le esperienze anacoretiche e generatrice di personaggi di grande spessore
per la Chiesa di Costantinopoli11.

1.5 L’Impero d’Oriente

Con la crisi dell'occidente, che porto nel 476 alla consegna delle insegne imperiali, la nuova
Roma, Costantinopoli, divenne l'unico centro di trasmissione della civiltà politica romana e
cristiana di religione, anche se greca per cultura. L’operato di Giustiniano va inserito in un
contesto di ricostituzione economica avviata già dagli imperatori che regnarono tra la fine del
V e l’inizio del VI secolo12. L'impegno di Giustiniano (Fig.3) si concretizzo nel portare
l'impero bizantino a uno all’apice del suo sviluppo, con una politica garante della pace

11
Cfr. Pacaut M. 2007, pp. 57-59

13
esterna e tranquillità interna. Nel 532 venne siglata la pace con la Persia e vece sedare la
rivolta detta della Nika, esplosa per l’inasprimento fiscale. Dopo averla sedata, intervenne
emanando una riforma amministrativa, che ridusse il gettito fiscale. Giustiniano nella politica
interna s’incentrò sulla riforma amministrativa del diritto. Tra il 528 e il 555 a suo nome, una
commissione di esperti riunì il Corpus iuris civilis, raccogliendo in quattro testi il diritto
romano. Questa importante raccolta, costituirà la base di tutta la letteratura giuridica
posteriore, spodestando in Italia il più antico Codice Teodosiano. Anche nell’agricoltura si
tutelò la libertà del contadino con la legge agraria Nomos Georgikos che garantiva la libertà
delle comunità di contadini. Il mercato e la produzione erano fortemente condizionate dallo
stato, che ne esercitava il monopolio e vigilava sulle imprese private. Dopo alcune campagne
militari, nel 534 sottrasse l'africa ai Vandali, nel 553 l'Italia agli ostrogoti e il sud della
penisola iberica ai Visigoti nel 554. I territori riconquistati furono riorganizzati secondo il
sistema delle province romane. A Ravenna come a siglare questa ripresa dei territori romani,
nell'abside della basilica di San Vitale venne rappresentata l’immagine dell’imperatore
accanto a quella di Cristo trionfante in terra, a simboleggiare il rapporto tra Occidente e
Oriente, tra Chiesa e Impero. Le gloriose riconquiste resero economicamente debole
l’Impero. La mancanza di finanziamenti, arrestò pure la forza militare, alla quale Giustiniano
cercò di sopperire con la fortificazione dei centri, come ci riporta Procopio di Cesarea nel
secondo libro del De aedificiis. L'Italia appena sedici anni dopo dalla riconquista venne
affidata dagli stessi bizantini, ai longobardi, e solo la fascia costiera adriatica e la Sicilia,
restò sotto il controllo dell'Impero. Già agli inizi del VII secolo buona parte dei territori
conquistati furono persi. Nel 617 gli slavi avanzarono nei Balcani, i persiani conquistarono la
Cappadocia e l'Armenia nel 612 e inseguito, Gerusalemme, Damasco, e l’Egitto. Meno di
vent’anni dopo la fine della guerra, i visigoti se ne rimpadronirono. L’arretramento militare
durò per altri due secoli, e sotto il regno di Eraclio iniziò quel processo di trasformazione
dell'impero d’oriente in una civiltà di tipo diversa, nota come bizantina. I costumi e la coltura
divennero sempre più orientali e la lingua ufficiale della cancelleria fu il greco. Dal 629 il
titolo di Imperator muto in Basileus. Le regioni dell’Italia bizantina, mantennero vivo il
collegamento amministrativo ed ecclesiastico con l'oriente, ma la lontananza del potere

14
centrale, fece accrescere il potere delle autorità locali, soprattutto dei vescovi, che divennero
in buona parte dei casi portatori del potere civile e in certi casi sostituti dei governatori.
1.6 L’arrivo dei Longobardi in Italia

Secondo il mito longobardo, la popolazione era originaria della Scandinavia e la loro


migrazione verso l’Europa fu causata da una grave carestia. La loro nascita come Longobardi
(lunga barba) si ha quando abbracciarono il culto del guerriero Wotan, dio dalla lunga
barba13. Coinvolti nella guerra greco-gotica, come federati alleati ai bizantini, si avvicinarono
all'Italia e dopo la morte di Giustiniano, nel 569 irruppero nella penisola. Qui si concluse la
migrazione di questo popolo, che duro almeno sei secoli. Con loro in Italia, si avrà la prima
esperienza di dominazione da parte di un popolo germanico, dopo gli ostrogoti che imitarono
l'organizzazione militare romana. I Longobardi mantennero principalmente la loro società
primitiva. Una parte di questo popolo arrivo in Italia già convertito al Cristianesimo, nella
sua forma ariana. Del momento in cui occuparono l'Italia non si hanno documenti sulla sorte
della popolazione indigena, sappiamo comunque che si disinteressarono della loro società e
capacita giuridica, assoggettandoli e obbligandoli al pagamento di un tributo per la loro
salvezza. Nel corso del VII e sino agli inizi dell’ottavo secolo, le due etnie si fusero,
formando cosi un unico popolo sotto un'unica giurisdizione, seguito da una naturale
conversione al cattolicesimo. Lo stesso re Autari in una politica di unione della popolazione
da l'esempio convertendosi al cattolicesimo, grazie al sostegno della moglie Teodolinda,
figlia di un capo barbarico cattolico. Nell'VIII secolo, oltre che la totale adesione al
cattolicesimo, vi fu pure l'abbandono della lingua longobarda per l'adozione del latino. Sotto
Agilulfo, re dal 590 al 616, l'Impero d'Oriente riconobbe il regno longobardo nella sua
configurazione territoriale, che comprende l'Italia del nord, la Toscana, la parte centrale
dell'Umbria e delle Marche. A Sud degli Appennini il loro potere era debole, il ducato di
Spoleto e quello di Benevento, corrispondevano a poteri autonomi . La penisola dunque, si
trovava nella prima meta del VII secolo divisa tra il potere longobardo e quello bizantino
(Fig.2). Non sorprende che l’Italia sia rimasta la parte più 'romana' e civilizzata del mondo

13
Vauchez A. 1998, s.v. Longobardi.
15
occidentale, nonostante le varie incursioni barbariche. Quella dei longobardi fu una fase più
delicata. La loro espansione venne ostacolata dall’Impero d’oriente che ne impedì l'avanzata
ancora più a sud, impedendo l'unificazione del regno longobardo d'Italia con i ducati
longobardi di Spoleto e Benevento provocando la divisione dell'Italia in regioni distinte. Il
controllo imperiale di Ravenna e del meridione, limito pure l'autorità rivendicata dalla Chiesa
di Roma sull'Italia, mentre al nord longobardo l'arcivescovo di Milano, affermava di
rappresentare l'autorità cattolica. Intorno al 584 i bizantini organizzarono i loro domini che
componevano l'esarcato d'Italia. Con capitale Ravenna era composto da tutte le province
bizantine: la Romagna, le coste venete, la Pentapoli nelle Marche (costituita dai territori di
cinque citta della costa: Rimini, Pesaro, Fanno, Senigallia, Ancona), la Puglia, la Calabria, I
ducati di Napoli, di Roma, la Liguria, la Sardegna e la Sicilia. Intorno all'Esarca di Ravenna,
un ufficiale superiore che governava politicamente e militarmente sotto il nome dell'Impero.
In assenza dell'esarca fu riconosciuta al vescovo la funzione di supplenza a capo del governo
cittadino. Il regno longobardo stabilì la sua capitale a Pavia, già scelta in precedenza dai
Goti, e si strutturò in ducati che godevano di una buona autonomia. Nell'Italia centro-
meridionale, i ducati di Spoleto e di Benevento facevano capo a se. Questa autonomia
troppo sentita fu causa di disordini giuridici e continue rivalità tra i vari duchi e lo stesso
sovrano. Tra il 636 e il 652, sotto il re Rotari, venne favorita l'unita del regno e compilato in
lingua latina l'editto di Rotari, che rappresenta la prima raccolta scritta delle leggi di diritto
privato e penale, tramandate oralmente dagli anziani chiamati "codici viventi". In alcuni casi
ad ispirare alcune formule giuridiche fu il diritto romano, come ad esempio l'istituzione di un
giudice unico anziché un tribunale collettivo di origine germanica o la territorialità del
diritto, opposta alla personalità di diritto, che era la forma usata dalle popolazioni
germaniche. Fu istituita una nuova figura giudiziaria, il gastaldo, e i loro subordinati, gli
sculdasci, per limitare l'autorità ducale anche nel campo militare. Lo statuto giuridico
distingueva tra liberi, non liberi e aldii, legati alla terra. Il re si proponeva come difensore dei
più deboli, come le donne, subordinate all'uomo e escluse dall’eredità paterna14. La crisi
portata dalla guerra e lo spolpamento delle citta causarono un progressivo decadimento della

14
Vauchez A. 1998, s.v. Longobardi.
16
cultura e della società, sempre più contadina. L'incastellamento e i regimi militari che
controllavano i territori, ostacolarono il commercio la produttività. Dopo il regno di Rotari,
in Italia e in Europa ci furono i primi deboli segni di ripresa economica e demografica. Il re
Liutprando in carica dal 712 al 744, rafforzato da questa ripresa, tentò una campagna
espansionistica verso qui territori d’Italia ancora sotto il governo di Bisanzio. La Chiesa di
Roma sentendo in pericolo il proprio primato rispetto le altre chiese, temeva questa
espansione, nonostante la donazione di una serie di castelli del Lazio, che costituirà il primo
nucleo dei possedimenti della Chiesa, la cosiddetta donazione di Sutri del 728.Sotto il suo
regno si concluse il processo di conversione al cattolicesimo della gente longobarda e la
ripresa produttiva fu caratterizzata da nuovi rapporti commerciali e dalla circolazione del
denaro dal miglioramento delle coltivazioni nei campi. Sia nella parte longobarda che in
quella bizantina il potere autonomo dei ducati si rafforzò. L’eccessivo carico fiscale porto
alla ribellione alcuni ducati bizantini, come in Sicilia intorno al 718. Il ducato di Venezia
restava bizantino, ma la sua autonomia, era sempre più forte. Questo processo di
affermazione della propria indipendenza politica dei vari ducati fu la base per la futura
struttura socio-politica della penisola.

1.7 La fine del regno longobardo

Tra le potenze che si divisero l’autorità nella penisola italiana dopo il 569, il Papato sentiva
l’oppressione di Bisanzio e la minaccia espansionistica Longobarda, soprattutto quando
quest’ultimi sotto Astolfo, nel 751, sottrassero ai bizantini l’Esarcato, ridotto ora mai in una
fascia stretta di terra costiera nell’Adriatico. Il timore del papa lo spinse a chiedere aiuto ai
franchi e stringere un alleanza. La stessa mossa fu fatta dai bizantini, che come in
precedenza, in nome del dell'antica unita dell'Impero, chiesero già aiuto agli ostrogoti contro
Odoacre, ai longobardi contro gli Ostrogoti e ora ai franchi contro i longobardi. L'accordo
sancito tra il re dei franchi Pipino il Breve e il papa Stefano II sanciva che il re dovesse
accorrere alla richiesta se il papa ne avesse avuto bisogno. Per accertarsi di quest’aiuto, il
papa confermo il ruolo di Pipino il Breve, consacrandolo con l'olio santo. Ora, consacrato,
Pipino si elevava al di sopra degli altri nobili franchi e secondo la tradizione germanica, solo
17
lui e la sua progenie erano designati al trono. I Pipinidi erano grati di questa consacrazione,
avendo loro deposto i re legittimi, i Merovingi. Come re legittimo Pipino, vendendone
un'occasione espansionistica, scese in Italia nel 755. Sottrasse ai longobardi, su richiesta
dell'Impero, l'Esarcato. Il re non lo riconsegno ai bizantini, ma alla Chiesa di Roma. Le
proteste dell'Impero e l'invio di un'ambasceria presso Pipino a Pavia, non servirono a
risolvere la questione. Il papato ricevette oltre che l'Esarcato, l'Emilia, la Pentapoli e Roma,
formando il primo nucleo del potere temporale della Chiesa di Roma. Nel 773 il papa
Adriano I chiese aiuto al figlio di Pipino, Carlo Magno, per risolvere la questione delle
invasioni longobarde guidate dal re Desiderio, nei territori della Chiesa. Carlo Magno
intervenne rapidamente assedio Pavia, sconfisse l'anno seguente i longobardi e fece
prigioniero il re Desiderio. Suo figlio, simbolo della resistenza longobarda, fuggì presso i
bizantini. Nel 774 finiva il regno longobardo e la vittoria dei franchi segnava una nuova
frammentazione del territorio della penisola: i franchi si sostituirono al nord ai longobardi, la
parte centrale era controllata dal papa e la parte meridionale restava sotto l'influsso bizantino.
La presenza longobarda lascio i propri segni nella cultura della penisola. Oltre duecento anni
di vita comune, aveva fatto si che le due culture, romana e germanica, si fondessero e molti
usi, nomi propri e non, ancora oggi sono di uso comune15.

15
Sulla cultura dei Longobardi si veda: Gian Pietro Brogiolo, Alexandra Chavarría Arnau, I Longobardi: dalla
caduta dell'Impero all'alba dell'Italia Silvana, 2007
18
2. Sull’immagine sacra

Se la tolleranza religiosa nel territorio romano, portò alla formazione di legami simbolici con
oggetti di culto di diversa natura spirituale, ciò non accadde con i cristiani. Le atroci
persecuzioni crearono all'interno delle comunità un forte sentimento di appartenenza e
fermezza nel proprio credo e per chi abbracciò la Fede, uno scudo protettivo che li isolò dalle
contaminazioni pagane. Con la liberalizzazione del 313 da parte di Costantino e divenuta poi
religione ufficiale nel 380, sotto Teodorico, il credo cristiano fu erede delle esigenze cultuali
dell’intera popolazione romana, abituata e favorevole a una comunicazione per oggetti,
luoghi e immagini da parte del potere religioso-politico. Per usare le parole della Bettini ‹‹il
popolo era bramoso di poter vedere e toccare ciò in cui doveva credere››16. Aboliti i culti
pagani, i cittadini sentirono il bisogno di ritrovare nella nuova religione ufficiale degli aspetti
devozionali presenti nei culti precedenti. Il pensiero cristiano, nella questione delle immagini
sacre, in questi secoli, tra il IV e il V secolo, viene influenzato dalla corrente neoplatonica, e
in particolare dalla filosofia plotiniana capace di dare indirizzi precisi sulla corretta
rappresentazione delle figure. Indirizzi che saranno determinanti per le epoche a venire sino
alla modernità. Plotino (ca 205-270 d.C.), in una graduale visione tipicamente neoplatonica,
osservò che la facoltà più bassa per verificare la materia è l’immaginazione. 17 La stessa
immaginazione permette a chi lavora la materia, come l’artista, di superarla e attraverso
l’anima, arrivare alla contemplazione dell’intelletto dove si trovano le forme, le idee, o
modelli. Gli oggetti d’arte cosi lavorati, non devono essere pure imitazioni, ma essere capaci
di farsi attraversare dalla luce e condurre all’intellegibile, fatto di belle immagini prive di
opacità del sensibile18. Nel suo discorso le forme rappresentate nell’arte per essere
riconosciute devono essere autonome, piatte, isolate e rappresentate su un solo piano, senza
giochi di luce; l’unica luce possibile è quella delle superfici, priva di ogni profondità e

16
Bettini M. 2006 p. 72
17
Plotino, Enneadi (IV 4,13)
18
Plotino, Enneadi (V, 8, 1, 35-38)
19
ombre. La figura dovrà essere ricca di particolari e ben riconoscibile con una tendenza alla
geometrizzazione.
Sul finire del V secolo i testi dello Pseudo-Dionigi, saranno fondamentali per dare valenza
cristiana alle teorie plotiniane che vennero tradotte nel linguaggio dottrinale della teologia19.
Nel pensiero del Pseudo-Dionigi l’arte è intesa come potenza divina che rimanda allo
spirituale e non mimesis, imitazione di ciò che risiede nell’essere. Richiamando il Bello di
Platone, nei Nomi Divini afferma che la bellezza del Principio è Luce che “illumina con la
sua pienezza ogni intelligenza che vive sopra il mondo, attorno al mondo e nel mondo”20. La
materia e pervasa dalla luce divina, e come afferma nella Gerarchia Ecclesiastica, attraverso
questa luce, avendo come modello il solo Principio, il pittore riesce a darci delle “belle e
profumate similitudini con il Dio nascosto”21. Le parole dello Pseudo-Dionigi autorizzano
dunque il ritrarre il creato e gli uomini, solo se l’assomiglianza non è erronea.22 Anche se non
si legge nei suoi testi un’esplicita funzione dell’immagine come tramite tra il mondo e Dio,
su questa chiave verranno interpretati e saranno spunto per una teologia dell’immagine. La
valutazione positiva del pensiero plotiniano, non fece cessare il timore dell’idolatria, e spinse
i vescovi ad azioni proibitive, come accadde nel concilio di Elvira, avvenuto nel 306, dove fu
deciso che non ci dovessero essere pitture nelle chiese, affinché non venisse adorato ciò che
veniva raffigurato nelle pareti23. Epifanio, vescovo di Salamina (315-403), fu contrario alle
icone, definendole materia morta e muta ‘‘agalma’’, messa in forma solo dalla mano
dell’uomo24. Agostino d’Ippona (354-430), percepisce nella rappresentazione del sacro due
nature diverse. Se da un lato l’immediatezza dell’immagine rende partecipe chi non sa

19
Pseudo-Dionigi, Corpus Areopiticum
20
Pseudo-Dionigi, Nomi Divini, (IV, Lezione 4, 130)
21
Pseudo-Dionigi, Gerarchia Ecclesiasticaa, (IV, 3, 473B)
22
Pseudo-Dionigi, Gerarchia Ecclesiasticaa, (IV, 3, 476A)
23
Tenutosi ad Elivra, l’attuale Granada, coinvolse tutti i vescovi e presbiteri della chiesa spnola. È il primo sinodo
in cui è presente un canone. Proprio il canone 36 si esprime contro l’uso di immagini nella decorazione delle chiese
24
L’insieme degli scritti sulle immagini di Epifanio comprende tre testi di maggiore estensione, quali le lettere
all‟imperatore Teodosio e a Giovanni di Gerusalemme e il Discorso contro coloro che si applicano a fare, per un
rituale idolatra, delle immagini a somiglianza di Cristo, della Madre di Dio e dei martiri, ma anche degli angeli e
dei profeti, due passi più brevi, il Frammento di epistola dogmatica e il Testamento ai suoi concittadini.
20
leggere al messaggio evangelico, dall’atro può essere fonte di distrazione o errore25. La
ricerca di risposte nell’immagine anziché nei libri sacri, può condurre ad una ingannevole
interpretazione, come nel credere che Cristo avesse scritto delle lettere a Pietro e Paolo26.
Nell’analisi agostiniana, l’immagine arriva al ragionamento attraverso il senso esterno della
vista27, che a sua volta viene suddiviso in tre generi di visioni: corporale, spirituale e
intellettuale. Se l’analisi della visione è unicamente corporale, ovvero, non accede all’anima,
l’oggetto percepito non si eleva all’attività di questa. Agostino non sdegna le immagini ma
per la loro doppia natura, le subordina alla scrittura, definita nel De magistro, regina dei
segni28. Nella cultura dell’Oriente romano, le parole per definire scrittura e pittura, vengono
accomunate dalla stessa graphè, e historia per la narrazione scritta e figurata. Questa
comunanza facilitò l’uso delle immagini sacre e della narrazione figurata, tollerata sin di
primi Padri greci, che ponevano sullo stesso piano pittori e scrittori. Basilio Magno (ca 330-
379), scrisse che pittori e scrittori comunicano allo stesso modo. Il pittore, descritto nei
Carmina, da Gregorio di Nazianzeno (ca 330- ca 395), è capace di insegnare con le
immagini. L’immagine associata al testo aiutava a comprendere meglio l’interpretazione
delle scritture29. Dobbiamo a Gregorio Magno (ca 540-604) la prima validazione dell’uso
orientale dell’immagine in Occidente, definendole due ruoli, quali l’insegnamento e il
ricordo di ciò che si è imparato. Questa validazione in particolare, la si ritrova nelle lettere
inviate a Sereno, vescovo di Marsiglia, incline all’iconoclastia. Gregorio nella prima lettera,
rassicura il vescovo Sereno, preoccupato di vedere i fedeli venerare le immagini come gli

25
Il riferimento all’immediata lettura dell’immagine lo si trova nell’omelia 24 del Commento al Vangelo di
Giovanni (6,1-14), mentre nel De consensu Evangelistarum (1,10) , il santo osserva che le immagini possono
condurre all’errore interpretativo del messaggio evangelico.
26
De Cconsensu Evangelistaum (1, 10)
27
Senso definito nel De quantitate Anime (23, 41) come luogo della manifestazione dell’anima.
28
Il De Magistro, composto nel 389, definisce il rapporto tra fede e ragione, individuando le condizioni che
rendono possibile la comprensione razionale dei contenuti dottrinali del cristianesimo.
29
Basilio Magno e Gregorio Nazianzeno, insieme a Gregorio di Nissa (Cesarea in Cappadocia, 335 – Nissa, 395
circa), furono dei monaci del IV secolo provenienti dalla Cappadocia. Filosofi cristiani ellenici, vengono
riconosciuti come Padri cappadoci. Eruditi in grado di dialogare con la filosofia greca, dimostrando l’apertura del
cristianesimo verso la cultura pagana.
21
idoli pagani, sulla funzione didattica delle pitture presenti nelle chiese, capaci di rendere
partecipi al significato delle Scritture a chi non sa leggere. Riconoscendo che l’Europa ora
mai era affidata diritto dei Barbari, Gregorio confida nelle immagini per dare una prima
conoscenza della Storia Sacra ai cristiani ignoranti e alla gentes, definendo le immagini come
una lettura per il popolo 30. Lo stesso atteggiamento positivo nei confronti dell’immagine lo
si ritrova negli scritti di Beda il Venerabile (672-735), che in un’omelia ribadisce l’utilità
delle pitture delle sacre scritture per coloro che non sanno leggere31.
Abbiamo visto come sin dagli esordi la rappresentazione sacra fu causa di diverse questioni
teologiche. La tipologia che più ne fu interessata è l'icona. Questa immagine è per lo più un
dipinto su tavola del periodo tardoantico che deriva dall'effige imperiale, dal ritratto
funerario e dall’immagine degli dei. Ereditaria di stili preesistenti, in ambito cristiano, nel
periodo preiconoclasta non ha sviluppato dei canoni estetici e di fabbricazione propria,
presentando una molteplicità di forme32. È la diversità di stili che contraddistingue questo
periodo, derivante dalle diverse concezioni sull'arte in cui l'immagine veniva creata. La
funzione delle icone era quella di creare un rapporto immediato e diretto col venerato, ancora
capace di garantire salvezza ai devoti contemplanti, capacità intrinseca dell'immagine
contenitrice del nume divino. Già Artemidoro nel II secolo, considerava il nume divino
contenuto nella rappresentazione divina, equivalente al nume della divinità in persona e per
questo, partecipe e operante33. Le prime icone cristiane non presentavano una titolatura
specifica se non il nome del santo rappresentato34. Solo l'icona della Vergine, ha la sua
titolatura teologica in Madre di Dio, dato che il suo fu un ruolo fondamentale nella storia

30
Gregorio Magno, Epistola XI 10
31
Beda il Venerabile, Omelia I, 13 p. 152
32
Belting H. 2001, pp. 43; 59-64; 105-128.
33
Artemidoro di Daldi (96-108 d.C.) in Dell'interpretatione dÈ sogni Artemidoro Daldiano filosofo eccellentissimo,
tradotto per Pietro Lauro Modonese, nuovamente di greco in volgare MDXLVII, Libro 2, 35 leggiamo: “Non ve
differentia che si vegga la Dea, come crediamo che quella sia, ovvero la sua statua, che apparerci di carne, o come
Statue di materia fabricate”.
34
Il nome attribuito ad un’icona è stato erroneamente, per i primi studi sul settore, uno dei punti di partenza
sull’indagine fatta ad una immagine sacra, affinché questa fosse catalogata in una tipologia immutabile. In proposito
cfr. Belting H. 2001, p. 49
22
della salvezza35. In alcuni casi riportava pure il nome della chiesa in cui era posta
l'immagine. La rappresentazione della Vergine ha un percorso particolare, e un'importante
svolta sulla ricerca della figura di Maria, si ha solo dopo il concilio di Efeso. Convocato nel
431 da Teodosio II fu presieduto da Cirillo di Alessandria e contava la partecipazione di più
di duecento vescovi. Furono trattati diversi argomenti di carattere teologico, ma il più
dibattuto interessò la natura di Cristo, tema di elevata importanza. La controversia vedeva
due scuole di pensiero interpretativo contrapporsi. Nestorio patriarca di Costantinopoli,
sosteneva l'interpretazione divisiva, dove la natura umana di Cristo è separata da quella
divina, contenuta dentro il suo corpo, Theophoros36. Maria era genitrice solo dell'uomo
Cristo, Christotokos. Il pensiero contrastante e di maggioranza, capeggiato da Cirillo di
Alessandria era invece l'interpretazione unitaria del Verbo, dove la natura divina è già infusa
nel suo essere, dal concepimento nel grembo di Maria, definendola Theotokos. Nella prima
giornata di concilio, in assenza di Nestorio, Cirillo pilotò con grande abilità il dibattito e
ottenne la condanna del pensiero divisivo nestoriano. Venne sancito che la divinità di Cristo
ha inizio nel grembo della Madre, ora Theotokos, Madre di Dio. In questo modo, il concilio
liberò gli ecclesiastici dal timore di creare una divinità dal culto di Maria, sino a quel
momento tenuta in riserbo rispetto alla figura di Cristo. Un timore giustificato dalla
compresenza di molti culti misterici rivolti a divinità materne. Tra tutti ricordiamo il culto
garante di salute e salvezza rivolto a Diana di Efeso, e quello rivolto a Iside dispensatrice di
giustizia e sapienza, genitrice di Oro e dolente per la morte del marito Osiride 37. Dopo il
concilio di Efeso, il nuovo culto universale e autonomo dedicato alla Theotokos si fece fulcro
delle caratteristiche delle divinità materne. I templi di Iside, chiusi nel IV secolo, furono poi
dedicati alla Madre di Dio. Una svolta importante in termini cultuali e teologici. La
cristianità riuscì a conferire in Maria caratteristiche e onori pressoché divini, rendendola

35
Cfr. Kartsonis A., The Identity of the Image of the Virgin and the Iconoclastic Controversy. Before and after, in
“Jahrbuch der österreichischen Byzantinistik” 1987
36
Cfr. Scipioni L. 1974
37
Belting H. 2001. p. 55
23
riconosciuta e accettata dai fedeli38. Inoltre l'essere vissuta realmente la rendeva unica
rispetto alle divinità materne preesistenti. Fu proprio questa grande accettazione popolare del
culto mariano e il riconoscimento dell'unicità di Cristo, la spinta per il risultato voluto e
ottenuto da Cirillo d'Alessandria, nel concilio di Efeso, svolto in una chiesa intitolata a
Maria. Elevata all'importante ruolo di genitrice di Dio, la vita terrena di Maria fu oggetto
d’indagine da parte della letteratura sacra, impegnata a ricostruirne la biografia, essendo poco
citata nei Vangeli. Per queste ragioni, in questo periodo, divenne popolare il Protovangelo di
Giacomo, scritto intorno al 200 d.C. con la più antica leggenda di Maria 39. S’incrementò la
ricerca delle reliquie delle sue vesti e le icone assunsero un senso storico, uniche reali
testimonianze della sua presenza sulla terra. Si rese popolare il ruolo cosmico nel disegno
divino, Maria ponte verso Dio nella concezione di Cristo e interceditrice universale. Il cuore
di Maria, madre misericordiosa, divenne il rifugio di coloro che cercavano la guarigione,
sostituendosi agli dei guaritori e taumaturgici40.
Nel campo politico imperiale la rappresentazione iconica dell'imperatore, è sempre stata la
garanzia di un saldo potere centrale. La dove non fosse presente l'imperatore, la sua
immagine ne faceva le veci ed era monito al rispetto delle leggi. In questi secoli, con il
susseguirsi delle devastanti invasioni barbariche e la sempre più ostacolata sicurezza sociale
imperiale, l'immagine dell'imperatore, venne sostituita con le immagini di Dio, unico garante
di unità in terra, come nel regno ultraterreno. In questo graduale passaggio, le Icone si
trasformarono in strumenti vittoriosi41. A Costantinopoli dopo il concilio di Efeso, fu
introdotto un testo liturgico celebrante la nascita di Cristo, l'Akathistos 42. Maria è descritta

38
Se prima del concilio di Efeso la devozione verso Maria adottò le forme del preesistente culto dei santi, dopo il
concilio prese delle forme autonome. Nel suo ruolo di Madre di Dio le potevano essere attribuite le caratteristiche
appartenenti ad una madre universale, già noti alle divinità materne.
39
Cfr al riguardo Moraldi L. 1994. pp.123-39
40
Cfr Turner V. 1978 pp. 159 s.
41
Belting H. 2004 p. 66
42
L’Akathistos appartiene al genere innografico antico chiamato kontakion (contacio), destinata alle assemblee
liturgiche con scopo catechetico-pastorale. È stato composto nel V secolo per celebrare la divina Maternità di
Maria. Composto da 24 stanze, è l’unico contacio rimasto in uso. Maggiori approfondimenti sull’argomento si
possono trovare in: Relazione tenuta al Convegno di studio e aggiornamento promosso dalla Facoltà Pontificia
24
come una divinità cittadina dalle esplicite funzioni imperiali, alla quale si chiede aiuto e
protezione. Nel testo, infatti, assume le funzioni che spettarono alla Thyche e alla Vittoria, le
due divinità civiche garanti del governo imperiale. La sua corona richiama la dea Vittoria e
Maria stessa funge da muraglia inespugnabile43 richiamando Thyche. In questo modo il
popolo collegò immediatamente le due divinità con la Theotokos, capace a sua volta di
garantire protezione44. Se il secondo concilio di Efeso osteggiava la natura umana di Cristo45,
il ruolo cristologico di Maria venne ulteriormente rafforzato durante il concilio di Calcedonia
nel 451, convocato dall'imperatore d'oriente Marciario nel 450, in una località vicino a
Costantinopoli46. A Pulcheria, imperatrice, moglie di Marciario, viene attribuita la volontà di
edificazione di tre chiese dedicate alla Vergine47. Alcune chiese vennero edificate in luoghi
di culto curativi precristiani, come la chiesa di Santa Maria alla fonte della salute, nella quale
Giustiniano I (527-565), fu il promotore del culto mariano, divenendo poi luogo di diversi
miracoli e leggende48. Assieme alle reliquie della veste, i ritratti autentici supplirono
l'assenza di reliquie corporali. Se da un lato la devozione popolare vedeva nella
rappresentazione iconica la presenza corporale di Maria, al quale rivolgere le suppliche,
dall'atra il potere politico ne assicurava la protezione della capitale, facendone un uso
difensivo. Nel periodo delle lotte contro gli Avari e i Persiani, il culto di Maria vittoriosa si

Salesiana (roma 10-11 marzo 1989) e pubblicata a cura di S. Felici, La Mariologia nella catechesi dei Padri (età
postnicea), LAS, Roma 1991, p 265-283; Toniolo E. M.,Akathistos : Saggi di critica e di teologia, Roma, Centro di
Cultura Mariana "Madre della Chiesa", 2000 p. 135-162
43
“Ave, Tu sei per la Chiesa qual torre possente… Tu sei per l’Impero qual forte muraglia”. La celeste protezione
della Vergine, (stanza 23) è segno e caparra dell’aiuto divino, militante contro i nemici.
44
Associazione favorita dall’onnipresenza in luoghi pubblici Costantinopolitani, tra il V e il VI secolo, di statue
raffiguranti la Thike e la Vittoria. Cfr B. Pentcheva V. 2001, p. 12 ss.
45
Il concilio avvenuto nel 449 è conosciuto come il Brigantaggio di Efeso. Risultando in maggioranza le posizioni
monofisite, papa Leone I lo dichiarò nullo, mentre l’imperatore Teodosio II, lo sostenne sino alla morte, avvenuta
nel 450. Cfr al riguardo: Wipszyckap E. 2000, 204-213
46
Cfr al riguardo: Wipszycka E. 2000 p. 216-239
47
Si tratta delle tre chiese di S. Maria delle Blaherne, S. Maria Odighitria e S. Maria delle Calcoprateie. Ritroviamo
l’attribuzione nella storia della Chiesa compilata nel Vi secolo da Teodoro Lettore, in base alle conti anteriori . PG
86, pp 168 s.
48
Belting H. 2001 p. 57
25
rafforzò, e divenne strumento di unione e ideale di unità nelle suppliche a lei rivolte per la
vittoria, svolgendo il ruolo di Promachos, la cui statua si trovava nella città49. Acquisendo
sempre più potere mistico le Icone mariane divennero strumento di giuramento imperiale. La
preghiera rivolta alla Theotokos, pronunciata da Giustino II , durante l'incoronazione
dell'imperatrice, ha una funzione legittimare il suo potere. L'imperatore, ricorda il sogno fatto
sulla Verginene annunciante il suo destino, come fece Venere con Enea50. L'imperatore
Maurizio (582-602), nella lenta e progressiva cristianizzazione del potere, distrusse la statua
della Thike nel palazzo imperiale e sostituì l'effige della Nike sui sigilli con quella di
Maria51. Fissò al 15 agosto la festa universale dedicata alla Vergine e obbligò i sudditi al
giuramento sulla sua assunzione in cielo52. In questo periodo emerse pure un nuovo mito di
fondazione di Costantinopoli, nel quale Costantino dedicava la città alla Theotokos53. Pure
Eraclio (610-641) ascese al trono per volontà di Maria e dovendo partire in battaglia contro i
persiani, le consegnò la città in custodia. Sarà lei, secondo i racconti tramandati, a intervenire
di persona contro l'assedio degli Avari54. Secondo Giorgio di Pisidia, Eraclio in battaglia
contro i persiani, portò con sé come scudi protettori, due immagini dipinte dalla mano di
Dio55. La stessa protezione data da un’immagine non dipinta dall’uomo, la si ritrova a Roma
nell'VIII secolo, quando non essendoci più la protezione fisica dell'Imperatore, per paura dei
Longobardi, papa Stefano II (752-757) portò in una solenne processione l'immagine di Cristo
acheropita, dal Laterano sino a Santa Maria Maggiore56. A Costantinopoli, durante l'omelia
attribuita a Andrea Creta, Maria venne descritta alla destra dell'imperatore, posto riservato

49
Preghiera composta dal poeta Flavio Cresconio Corippo ( 550-568), Ivi. p. 58
50
Cfr. Cameron A. 1981, pp 84 s.
51
Ivi p. 84 ss
52
Belting H. 2001 p. 90
53
Pentcheva B. V. 1993, p.20
54
Scrive la Pentcheva B. V. 1993, p. 54 : “Tre resoconti del VII a noi pervenuti raccontano l’assedio degli Avari :
un poema di Giorgio di Pisidia, un sermone attribuito a Chronicon Poschale. La Theotokos è descritta mentre
percorre le mura della città e ingaggia un combattimento corpo a corpo con i nemici”
55
Belting H. 2001 p. 79
56
La processione del 754, aveva lo scopo di implorare l’aiuto di Dio contro il re dei Longobardi Aristolfo. Cfr
Pentcheva B.V. 1993, p.59
26
all'Imperatrice, con indosso la preziosa porpora imperiale. Ormai Maria è divenuta
Imperatrice, coesistente all'Imperatore, presente con la sua fisicità come invincibile guerriera
compagna del Pio57. La rappresentazione che ne deriva è pienamente imperiale. La Vergine
indossa una corona tempestata di pietre preziose, con lunghe file di perle, Prependulia.
Poggiata sulle spalle sopra la tunica dalmatica bianca e purpurea cade una fascia di seta
tempestata di gemme. Il loros è un ornamento tipico della famiglia imperiale d'oriente. A
Roma sopravvive solo una raffigurazione di Maria Regina che indossa il loros, in un affresco
voluto nel corpo di guardia del palazzo bizantino, l’attuale S. Maria Antiqua, quando i suoi
generali si trovarono a Roma con l’incarico di riportare il controllo imperiale bizantino sul
Palatino58. La mancanza del loros nelle raffigurazioni successive a Roma è volutamente un
simbolo della divisione tra il potere papale a Roma e il potere politico di Costantinopoli. Il
papa d'ora in avanti si prostrerà nel rito della proskinesis solo davanti a Maria Regina59.
Come abbiamo detto il potere imperiale bizantino fu strettamente connesso con il potere
mariano. L'Imperatore basava la sua legittimazione alla reggenza sulla scelta diretta di Maria,
accettandone il potere da lei voluto. Per questa discendenza diretta Maria ne diveniva madre
e l'imperatore, nato nella Camera di Porpora, battezzato tra l'icona della Vergine e sua madre
l'imperatrice, riceveva l'Impero direttamente dalla Madre di Dio. Il potere delle icone
cristiane divenne sempre più forte, soprattutto in quelle dipinte da mano non umana, nelle
quali la raffigurazione dei volti e delle sembianze umane, avvicinavano i fedeli alla
venerazione di una parte realmente terrena del divino e di chi l'ha generato in terra. Le
immagini mariane acheropite acquisirono questa caratteristica dalla certezza della loro pittura
avvenuta per mano di Luca. Per quanto riguarda Cristo invece, si fece fede ai racconti sul
miracolo del Mandylion di Edessa e l'immagine di Cristo di Kamouliana e di Menphis60.
L'immagine acheropita fungeva pure da arma sacra. Evagrio racconta che nell'assedio del
544 per poter dar fuoco alle strutture in legno degli assedianti, aspersero con dell'acqua

57
Parte dell’omelia è citata in Pentcheva B. V. 1993, p 22. Per approfondire su Andrea Creta, si legga: Omelie
mariane a cura di Vittorio Fazzo, Citta nuova, Roma, 1996.
58
Quando l’edificio fu trasformato in Chiesa, l’affresco venne coperto da uno novo rappresentante l’Annunciazione.
59
Cfr Pentcheva B. V. 1993, p. 23-30.
60
Sulle immagini acheropite tratterò in maniera più approfondita nel cap. 4.1, p. 50.
27
l'icona di Cristo acheropita, e questa per miracolo fece bruciare la torre del nemico 61. Il
termine cristiano giudaico acheiropoieton definisce tutto ciò che viene creato per mano
divina. Le prime comparse di immagini acheropite, in ambito cristiano, avvennero nei
territori di cultura classica, in Asia minore e in Siria. Qui le immagini di origine divina
facevano parte di una cultura religiosa precristiana. Le immagini cristiane si diversificarono
dalle precedenti in quanto offrivano la contemplazione e la venerazione di un volto storico,
reale. Erano per questo vere testimoni dalla vita terrena di Cristo e nello stesso tempo davano
un segno tangibile della sua sovra temporalità, perché capaci di fare miracoli come fece
Cristo in vita.

61
Si legge: “portando questa santissima immagine all’ingresso del cunicolo…l’aspersero di acqua benedetta; poi
sotto la sua protezione diedero fuoco ai materiali combustibili e alle travi. Ecco allora che, essendo scesa la potenza
divina…subito infatti, le travi si incendiarono e, ridotte in carbone in minor tempo di quanto si possa dire…non
avvolse tutta la costruzione” in Storia Ecclesiastica di Evagrius (Scholasticus) IV, 27 , Roma, Città nuova editrice ,
1998.
28
3. Icone Mariane a Roma

Le raffigurazioni mariane hanno conosciuto una meravigliosa fioritura dopo il concilio di


Efeso del 431 che proclamò Maria Madre di Dio. Le prime raffigurazioni della Vergine
pervenute sino a noi, si trovano nelle catacombe romane di Domitilla e Priscilla62 e risalgono
al III secolo. La più celebre rappresentazione è la Madonna della Stella (Fig. 5), ritrovata
nelle catacombe di Priscilla nell’estremo margine della parete d’ingresso del sepolcro, in una
posizione non affatto secondaria63. La giovane Maria siede su una seggiola, tiene in grembo
il bambino Gesù nudo. Sopra il capo della Vergine è raffigurata una stella a otto raggi. Alla
sua destra vi è un personaggio stante, identificato come il profeta Isaia o Michea o Balaam,
nell’atto di indicare con la mano destra Maria e Gesù, mentre con la sinistra tiene le Sacre
Scritture; da escludere che sia uno dei Magi, perché rivestito di pallio, veste propria dei
filosofi. La presenza di Gesù in queste paleo-raffigurazioni, indica che le immagini mariane
sono subordinate ai temi cristologici, dipendendo dunque dall’iconografia di Cristo. Lo stile
che caratterizza queste prime pitture mariane ci ricorda la spontaneità del ritratto. Stile che
presto si spoglierà del tempo e del contesto narrativo, liberando la figura dalla fisicità
terrena. Inizia così una profonda mutazione dell'arte antica che porterà nell’arte dell'icona, il
frutto di una schematizzazione dei soggetti e delle forme, richiesto dal carattere
soprannaturale delle verità della fede.64 Questo processo di mutazione, sfociante nella
modellizzazione della rappresentazione mariana, prende le sue origini dalla raffigurazione di
altre madri, sia da esempi di maternità divine come Iside65, che terrene come stele e ritratti
funerari e l'immagine stessa dell'imperatrice su diverse medaglie romane66. Non sappiamo
quando il processo di caratterizzazione artistica dei soggetti cristiani ha avuto inizio, ma si
può supporre che la diversificazione delle rappresentazioni di tema mariano si sia sviluppata

62
Grabar A. 1980, pp. 67-121.
63
Turco G. 1960, pp. 66-70; EAA , Maria, 1961.
64
Il processo si analizza nel capitolo 2.
65
Weitzman K, 2000 pp 8-14.
66
Sendler E. 1995.

29
nel primo incremento del culto della Madre di Dio, tra il IV e il V secolo. Nell’arte bizantina
la raffigurazione della Vergine vede la sua fioritura sotto l’imperatore Giustiniano I (483-
565). Nei sigilli imperiali, la Theotokos apparirà durante l’imperatore Giustino II (565-578)
sostituendosi all’immagine della Vittoria67. Il Le prime rappresentazioni di Maria, se pur
raramente isolata, si rifanno a scene tratte dagli evangeli apocrifi, dai quali gli artisti hanno
attinto. Tra essi l’Evangelium Iacobi è il più impiegato68.
Lo sviluppo delle immagini della Theotokos, dopo la spinta del Concilio di Efeso, portò alla
creazione di diversi modelli iconografici, differenziati tra loro dal significato teologico
espresso e dal luogo che inizialmente le accolse. Le diverse immagini furono oggetto di
grande devozione e modelli d’ispirazione per repliche successive, tramandanti le
caratteristiche predominanti. Tra le più replicate vi è quello dell’Hodighitria “Colei che
mostra la via”. Diffusasi in gran parte delle terre di conquista romana, è sicuramente di
origine orientale. La donazione fatta dalla stessa imperatrice Eudocia, moglie di Teodosio II
(408-450), testimonia quest’origine, la quale da Gerusalemme inviò l’icona alla suocera
Pulcheria69, che secondo il racconto di Teodoro il Lettore70, storico bizantino del VI secolo,
la depose nella Chiesa del quartiere Ton Odegon. Per tradizione la prima immagine
dell’Hodighitria venne dipinta da San Luca e avrebbe ricevuto la benedizione dalla stessa
Maria. Le varie tradizioni tramandate sulla prima Hodighitria, si contraddicono sui
personaggi che per primi l’ebbero con sé, ma tutte sono concorde nel porre l’origine di
questa icona in Oriente, dalla Palestina o dall’Egitto. Giunta a Costantinopoli nell’epoca
Giustinianea, manifesta sin dagli inizi una forte caratterizzazione artistica nello stile dei
ritratti ellenistici. Se la tradizione la vuole originaria della mano di Luca, la figura
rappresentata è una giovane Madre, con in braccio il piccolo Gesù, mentre Luca, il medico
discepolo di Paolo, la conobbe già in tarda età. L’attribuzione a San Luca è erronea, ma

67
Maria diviene l’ereditaria delle divinità cittadine. Cfr. Pentcheva B. V. 1995, pp 17-23.
68
Il Protovangelo di Giacomo fu composto probabilmente introno alla seconda metà del II secolo. I 25 capitoli
raccontano dell’infanzia di Maria sino alla nascita di Cristo. Cfr. Craveri Marcello, Il protovangelo di Giacomo,
Interlinea, 1993.
69
La testimonianza più antica sembrerebbe risalire al VI secolo e si trova nella Storia Ecclesiastica di Teodoro
Anagnoste, anche se il testo si trova nei manoscritti del XIII secolo. Cfr. Pentcheva B. V. 1995, pp 158- 162
70
EAA, Maria,1961.
30
l’errore potrebbe esser stato causato dall’omonimia del vescovo del IV secolo di Tebaide, in
Egitto, autore di diverse immagini della Theotokos71. La tradizione però potrebbe esser stata
alimentata e resa plausibile dalla difesa delle icone, durante il periodo iconoclasta, quando i
patriarchi davano testimonianza dell’icona dipinta dal Santo, come prova dell’accettazione
divina delle immagini. La presenza a Costantinopoli dell’icona è provata, come abbiamo
detto, dalla donazione fatta dall’imperatrice Eudossia, anche se sui sigilli imperiali si afferma
solo dopo la crisi iconoclasta72. Il nome attribuito alla tipologia in esame è legato al miracolo
avvenuto a Costantinopoli, dove la Tutta Santa apparve a due ciechi che presili per mano, li
condusse al santuario dell’Hodighitria restituendogli la vista, nel quartiere τον οδεγον. Nello
stesso quartiere sorse all’epoca di Michele III (842-867) il monastero e santuario
dell’Hodighitria.
Prima dell’uniformazione del modello iconografico in questione, nel periodo preiconoclasta,
il rapporto tra la Vergine è il Bambino è intimo. Maria tiene il bambino, sul braccio sinistro,
o in alcuni casi sul destro, sorretto amorevolmente; il braccio libero di Maria, a volte si posa
sul suo ginocchio, e a volte, alzato tra il petto e la testa del Bimbo, indicandolo
morbidamente. Il sentimento che trasmette l’immagine dell’Hodighitria preiconoclasta è di
una tenera e giovane madre attenta al suo Bambino, figlio di Dio ma anche figlio suo. Non vi
è dunque nessuna esigenza nel volerlo rappresentare distante dalla vita umana, al contrario
trapela una forte voglia di rendere in figura ciò che è stato: Dio fattosi carne nel disegno della
Salvezza. Modello di naturalezza, cui si può far riferimento per una possibile ispirazione, è il
ritratto funerario su tavola impiegato in Egitto tra il I e il III secolo,73 su stele funerarie e

71
Sendler E. 1995, p 89.
72
È la Pentcheva a spiegarci che la presenza dell’immagine di Maria Hodighitria nei sigilli imperiali, anche se
attestata ancor prima della crisi Iconoclasta nelle altre tipologie di sigilli, è raffigurata nel modello dell’Hodighitriaa
solo dal IX. L’esempio è il sigillo dell’imperatore Niceforo I (802-811) in B. V. Pentcheva, 1993 p. 151.
73
Se la Ius imaginum era tradizionalmente usata a Roma nella celebrazione del defunto, il ritratto funerario su
tavola, eseguito a tempera o a encausto, lo si ritrova nella regione egiziana detta El-Fayyum, vicino al lago Moeris.
Divenuta colonia greca al tempo di Tolomeo I, dopo ingegnosi lavori di canalizzazione, la regione divenne
notevolmente fertile per l’agricoltura, attirando a sé numerosi contadini egiziani capaci di gestire i terreni agricoli
dei coloni greci, prevalentemente militari in congedo. Questa miscellanea di culture portò a ricevere tra il I e il III
secolo, nel rituale funerario, una serie di caratteri dalle diverse tradizioni. Si ritrovarono dunque nella regione, nel
31
dalla raffigurazione della stessa imperatrice stringente i propri figli o i bimbi
dell’orfanotrofio di cui è la patrona74.
Tornando alle pitture catacombali, possiamo supporre che l’immagine dell’Hodighitria,
nasca dalla prime rappresentazioni mariane, come appunto quella della adorazione dei magi,
dove le figure, rappresentate sino all’altezza del busto, verranno isolate dal contesto
evangelico, arricchite di particolari identificativi e di chiavi di lettura caratterizzanti (come
l’espediente delle aureole e delle vesti sacre, simbolo del disegno divino)75. La forma
rappresentativa dell’Hodighitria nei sigilli dal VI all’VIII secolo, la presenta in piedi.
Possiamo presumere che la derivazione di questo modello non sia quello catacombale. Il
sigillo del Vescovo Zoil risalente al secolo VI-VII secolo76 e quello dell’imperatore Niceforo
I (802-811) ne sono esempio.
Se la maggior parte delle icone giunte sino a noi proviene dall’Oriente, a Roma, la loro
presenza è attestata sin dal V secolo, dalla testimonianza di Teodoreto di Ciro (393-457),
Teologo della scuola di Antiochia, il quale affermò che era normale, per le strade dell’Urbe,
vedere le icone dei santi appese agli ingressi delle botteghe e nei luoghi pubblici77. Alcune di
queste icone vengono ancora oggi venerate senza soluzione di continuità. Nel corso di questo

corso degli scavi del XIX secolo, le prime mummie con il ritratto del defunto su tavola, su tessuto o su teste in gesso
attaccate poi al sarcofago. Nella pittura a tempera il ritratto si faceva su fondo in gesso chiaro, dando risalto al volto.
Il colore, applicato con pennelli molto sottili, veniva steso con tratteggi verticali o obliqui. Nell’encausto i colori, più
pastosi, venivano stesi con il pennello e in seguito sfumati con un attrezzo più duro, per dare profondità alla
superficie. Cfr. R. B. Bandinelli, 1976 pp. 277-296.
74
Il Sendler fa l’esempio dell’imperatrice Fausta, troneggiante con uno o de bambini tra le braccia. Cfr. Sendler E.
1995, p. 74.
75
La vergine indossa quasi sempre il Maphorion, simbolo del matrimonio in Palestina, divenuto poi sacra reliquia,
testimonianza della fisicità di Maria, mentre il Logos l’Himatyon, simbolo della Passione. Secondo il pensiero di
Plotino nelle Ennadi dal quale poi la cristianità prenderà spunto per la rappresentzione delle Immagini sacre,
possiamo dire che le forme rappresentate nell’arte per essere riconosciute devono essere autonome, piatte, isolate e
rappresentate su un solo piano; la figura deve essere ricca di particolari e ben riconoscibile con una tendenza alla
geometrizzazione.
76
Sendler E. 1995, p. 93.
77
Notizia appresa da Teodoreto di Ciro.
32
capitolo ci occuperemo di queste importanti immagini, alcune delle quali giunte a Roma
dall’oriente per la loro salvezza, durante il periodo iconoclasta.

3.1 La Vergine col Bambino di Santa Maria Nova

Come prima immagine, prendiamo in esame la Madonna col Bambino (Fig.6) del V secolo,
oggi venerata nella chiesa di Santa Maria Nuova, conosciuta come S. Francesca Romana. La
chiesa che la ospita fu voluta da Papa Leone IV (847-855), e prese il posto della Santa Maria
Antiqua, situata nel Palatino, sorta nel V secolo come santuario nazionale della colonia greca
a Roma, dal quale viene l’immagine. L’icona subì diverse ridipinture: secondo il Cellini78 la
prima effettuata sotto Onorio III (1216-1275), per via di un incendio, la seconda nel XVI
secolo e infine nel restauro ottocentesco curato da Pietro Tedeschi, il quale nel retro della
tavola si firmò come restauratore79. Dell’icona originale è rimasto ben poco. Nel lavoro di
restauro curato e documentato da Pico Cellini nel 1950, riaffiorano le fasi di ridipintura,
scoprendo che della prima tela rimasero solo due frammenti, importanti per la loro
raffigurazione: la testa della Vergine e del Logos, eseguiti a encausto. I saggi effettuati sul
busto fecero emergere lo strato della precedente ridipintura del primo ‘500, sopra la quale il
Tedeschi operò. Il fondo oro fu messo a mordente direttamente sul legno senza alcuna
preparazione in gesso e venne rispettato dal restauro dell’ottocento, disposto a raggi alterni,
fiammeggianti e diritti, com’era nel gusto del ‘500, si riscontra in tanti restauri eseguiti sotto
Sisto V, nelle varie basiliche romane80. Delle parti superstiti del V secolo, il volto della
Vergine si conserva in eccellente stato e per le sue grandi dimensioni (circa 40 cm), è
probabile che appartenesse ad una figura monumentale. Dalle posizioni delle teste possiamo
presumere che il Bambino guardasse la Vergine e fosse da lei tenuto col braccio destro. Si
può solo ipotizzare la configurazione originaria dell’icona; in mancanza delle mani e
dell’originaria veste, non possiamo sapere se Maria indicasse il Fanciullo e se fosse in piedi o
seduta. Il volto della Vergine dall’incarnato chiaro e luminoso, è allungato. La luce,

78
Cellini P. 1950, pp. 4-53.
79
Amato P. 1988, p. 18.
80
Cellini P. 1950, pp. 4-53 .
33
proveniente dall’alto, crea nel viso una schematica ombra data dal naso di tre quarti, a sua
volta allungato. La fronte è coperta da un velo, lo sguardo che oltrepassa il fedele osservante
è contornato dalle spesse sopracciglia che adombrano gli occhi a mandorla. Le labbra
morbidamente serrate e molto piccole, dal vivido rosso, riescono a trasmettere la
consapevolezza del disegno divino. Un tenue rossore definisce la parte sinistra del viso,
terminante in un tondeggiante mento. Particolari i colori delle ombreggiature dell’incarnato,
riscoperti dal Cellini, che vanno dal verde-giada al verde-blu. La pittura del Logos risulta
più degradata, ma si possono notare i diversi cromatismi che la definiscono; colori più caldi
che vanno dal giallo, al rosso, al bruno.
Il Bambino tenuto sul braccio destro è un dettaglio che ci aiuta a considerare quest’icona
dell’Hodighitria tra le più antiche, eseguita in un periodo teologico in evoluzione precedente
alle successive Hodighitrie attribuite alla mano di San Luca, dove il Bambino viene sorretto
dal braccio sinistro. Come osserva il Cellini, l’espediente della diversità cromatica tra i due
volti per differenziarne il sesso è tipico delle pitture antiche. La caratteristica forma degli
occhi della Vergine, richiama il ritratto funerario romano della tarda antichità, che tanto si
adoperò nella colonia greco-tolemaica (Fig. 4), dove la commistione tra le diverse tipologie
di sepoltura, greca e egiziana dopo la conquista romana, tra il I e il III secolo, portò ad una
serie di ritratti funerari che richiamano, in stile e esecuzione, la stessa icona in questione.
Questo genere di ritratto era il più vicino alle correnti neoplatoniche che influenzarono la
rappresentazione sacra cristiana81. L’esecuzione di quest’opera avvenne sicuramente sotto
conoscenza della filosofia plotiniana e l’artista, riuscì a rendere il volto della Vergine
riconducibile alla freschezza della Prescelta e immediato nell’interpretazione del fedele. Per
la vicinanza al ritratto funerario, unito alla semplificazione delle forme, potremmo supporre
che la datazione non superi gli ultimi decenni del V secolo, in una località orientale
culturalmente vicina ad Alessandria.

81
Sul finire del V secolo i testi dello Pseudo-Dionigi, saranno fondamentali per dare valenza cristiana alle teorie
plotiniane, tradotte nel linguaggio dottrinale della teologia. Cfr. Pseudo-Dionigi, Corpus Areopiticum.
34
3.2 Madonna col Bambino del Pantheon

Sempre a Roma si trova un’altra tavola del periodo preiconoclasta, è la Vergine Hodighitria
(Fig.7). Custodita nella Basilica di S. Maria ad Martyres, il vecchio Pantheon, uno dei
luoghi di culto pano più importanti, divenuto cristiano sotto Bonifacio IV (608-615), durante
il regno dell’imperatore Foca (602-610). Il papa decise di dedicarla alla Santissima Vergine e
a tutti i Santi Martiri82 e l’opera potrebbe far parte dei doni fatti dall’imperatore alla Chiesa83.

L’icona fu dipinta su una tavola di olmo con la tecnica dei colori a caseina. Maria guarda
lontano, non trapela la freschezza di una giovane donna come nella tavola di S. Maria Nova,
ma la serietà di una madre consapevole della sorte del Figlio, anch’esso dallo sguardo
cruciato e maturo, non rivolge l’attenzione alla madre, ma guarda alla sua sinistra. Qui la
rappresentazione del Logos è mutata. Non più i suoi occhi cercano la Madre, ma sono
espressione del disegno di Dio. Non è più d’interesse il verismo ritrattistico, sostituito da un
più maturo messaggio teologico. La si deve dunque inserire in un epoca posteriore all’icona
di S. Maria Maggiore e presumibilmente nei primo decennio del VII secolo, quando il ruolo
interceditrice di Maria, in questo caso evidenziato dalla doratura della mano indicante, era
più che affermato. Della grande tavola originale rimane la sagomatura delle due figure. Per
grandezza (100 x 47,5 cm) è affine alle grandi tavole romane di Santa Maria in Trastevere, di
Santa Maria Nova e del Sancta Sanctorum. L’indagine e il restauro del 1960 effettuato
dall’Istituto centrale del Restauro di Roma, diretto da Giovanni Urbani, testimoniano i
diversi restauri che l’icona affrontò, di cui i primi due a encausto, quindi di data piuttosto
antica. Le ridipinture si susseguirono sino al XVIII secolo e quest’ultime non rispettarono le
mani e i volti84. Le diverse inondazioni che invasero il Pantheon, deteriorano sempre più

82
La datazione della consacrazione dell’edificio ai riti cristiani, basandosi sul Liber Pontificalis ( I, p 317) e sulla
testimonianza di Paolo Diacono nella Historia Longobardorum, è ritenuta dagli studiosi il 13 maggio del 609.
Questo giorno è lo stesso che nel IV secolo celebrava la festa dedicata a tutti i martiri, culto diffuso pure in Oriente.
Cfr. Amato P. 1988, p. 38.
83
Non Risulta dalle fonti nessuna notizia precisa, ma avendo l’Imperatore elargito molti doni alla nuova chiesa, si
può ipotizzare che fra questi ci fosse pure la Sacra Immagine.
84
Bertelli C.1961, p. 24.
35
l’originaria pittura a caseina. La stessa forma della tavola, sagomata nel nimbo della vergine,
fa pensare al tentativo di salvare la parte più importante dell’immagine. I volti, le mani e i
piedi sono contornati da un’incisione a punta metallica e potrebbero farci pensare al segno
lasciato sul legno durante l’esecuzione dell’icona, sotto un modello preciso, oppure eseguiti
durante i primi restauri a encausto. Essendo pure la base riadattata durante i secoli, la
frontalità della Vergine è d’indizio per pensarla a figura intera, dando all’icona una notevole
grandezza, degna della Basilica alla quale era legata.
Per le imponenti dimensioni della tavola originaria, per il modello figurativo, l’icona della
Vergine col Bambino, alla quale la Chiesa fu intitolata, sostituiva d’imponenza e importanza
il mosaico absidale delle chiese a navata centrale. Un esempio absidale lo troviamo a Kiti,
presso Larnaka (Cipro), nella chiesa del VI secolo, dedicato alla Panagia Angelokisti (Fig.8).
Questo mosaico, risalente al primo impianto dell’edificio, prima del rifacimento del XI
secolo, presenta l’Hodighitria in piedi tra gli angeli Michele e Gabriele che tengono in mano
un lungo scettro e un globo. I volti della Vergine e del Bambino ci riconducono all’icona
romana. Non è da escludere che entrambe le opere siano state eseguite da un modello ben
preciso, ben conosciuto in Oriente e commissionato a Roma in occasione dell’importante
donazione imperiale alla Chiesa, simboleggiante una continuità di culto, ancora capace di
legare tutti i territori della cultura romana.

3.3 La Salus Populi Romani

Un’altra Hodighitria di nostro interesse è la Salus Populi Romani85 (Fig. 14). Si trova a
Roma nella chiesa di Santa Maria Maggiore, venne custodita nel Tabernacolo a sinistra della
navata centrale86, prima di esser collocata nel 1611, con grande solennità, nella cappella
eretta da Papa Paolo V Borghese87, detta Cappella Borghesina.
Le ridipinture susseguite dalla creazione dell’icona, non ci permettono di ammirarla nel suo
stato originario, ma presentano un’immagine databile tra il XII e il XIII secolo, date le

85
Il nome all’icone fu attribuito nel XIX secolo
86
Questi dati risultano dalle stampe del De Angelis (1621)
87
Paolo V compì questa traslazione motivato dalla grande devozione personale e dell’aiuto ricevuto dalla Vergine in
situazioni difficili e per i miracoli attribuiti alla Salus Populi Romani. Cfr. Bombelli, 1972, p 81.
36
tipiche iscrizioni greche ai lati dell’aureola (Madre di Dio), secondo una prassi stabilitasi in
Italia nel XII secolo88. Lo studioso Dom Wilmart trova la prima menzione di questa sacra
immagine in una lettera risalente al 1170, in cui il priore della Basilica di S. Giovanni in
Laterano, accenna alla solenne processione notturna della vigilia dell’Assunzione, (riportata
anche dagli Ordines Romani del XII secolo), durante la quale l’immagine del Salvatore del
Laterano, rendeva visita all’immagine mariana di Santa Maria Maggiore89. Il Sendler
menziona la testimonianza, nel Liber Pontificalis, di una processione con icona della Madre
di Dio, fatta da Gregorio Magno (morto nel 604), sino alla Basilica di San Pietro, per
scongiurare un grave male che affliggeva Roma, ma non è certo quale Icona fosse stata
portata in processione90. Negli studi del Garducci l’immagine risalirebbe al V secolo91,
mentre secondo N. P. Kondakov, la si deve inserire tra il VIII-IX secolo92. L’immagine è
stata riadattata nel corso dei secoli. Dato lo slancio dinamico della figura della Vergine, è
ipotizzabile che inizialmente dovette presentarsi a figura intera. I piedini del Santissimo si
poggiano forzatamente sulla cornice di gusto cosmatesco, mentre il nimbo della Madre di
Dio la sovrasta. Particolare e densa di significato teologico è la mano della vergine poggiata
sulle ginocchia del Bambino. Le tre dita allungate, il pollice, l’indice e il medio, indicano la
natura divina del Figlio, mentre le due ripiegate quella umana. L’anello portato sul medio è il
simbolo dello sposalizio della Vergine. Il gioco di sguardi tra la Vergine e il Bambino nella
tavola è particolare: Maria protegge maternamente il Bambino nel suo grembo, ma non
traspare tristezza sul suo volto, al contrario, guardando verso il mondo e all’uomo, con
orgoglio presenta il Salvatore. Il Logos invece, benedicente con la mano destra, attento
all’espressione della madre, le porge lo sguardo di un amore non infantile ma maturo,
accentuato dalla fronte alta e spaziosa, pronto a confortare la Madre e seguire la via della
salvezza. Maria indossa il maphorion, il tipico mantello donato alle donne sposate a forma di

88
Amato P. 1988, p. 59.
89
Gharib G. 1993, p. 146.
90
Sendler E. 1995, p. 96.
91
Garrucci R. 1876, Vol. II p.17.
92
Kondakov N. P. 1914 P. 274.
37
velo. La reliquia, data la dormizione della Vergine93, ebbe la stessa valenza delle reliquie
corporee e fu portata dalla Palestina, nel 473, nella chiesa della Panaghia delle Blachernae
a Costantinopoli94 . Il Logos invece indossa l’himatyon, dalle lumeggiature in oro,
simboleggianti la gloria della resurrezione. L’immagine per la ricchezza di particolari,
inizialmente doveva esser destinata a un luogo che permettesse la visione diretta, come nel
caso delle icone della Madonna col Bambino nell’iconostasi, occupanti il lato destro della
porta regia. In funzione del culto delle icone, l’iconostasi era dotata di un proskinetario.
Distrutta poi l’iconostasi, l’immagine forte di devozione popolare, venne posta nella stessa
posizione nell’edicola medievale95. Un’altra particolarità dell’immagine è che il Bambino
tiene con la mano sinistra il Vangelo in codice e non in rotolo, com’è d’uso nell’icona
bizantina. Sappiamo che il codice subentra man mano al rotolo, per una questione sia di
comodità, come riporta il caso di Marziale96, che per motivi di scarsa reperibilità del papiro,
data la crisi che dal III secolo ne colpì la produzione. Nel IV secolo il codice è d’uso
prevalente e nell’VIII secolo il papiro era pienamente sostituito dalla pergamena e pure
questa iniziava a trovare un sostituto con la carta a stracci. L’opera, ricca di significato
teologico presenta anche altri aspetti esclusivi. Il volto della Vergine è unico e non trova un
riscontro nell’arte occidentale, neppure nell’arte orientale97. Il Kondakov la considera tra le
migliori icone greche del IX secolo, mente il Sendler mette l’attenzione sui particolari della
tavola, tipici della pittura occidentale dell’epoca, come la posa della Vergine e delle braccia
che stringono il Bambino, e anche la presenza del codice anziché del rotolo98. Dopo queste

93
Maria, conclusa la vita terrena, venne portata in cielo sia con l’anima che con il corpo, anticipando la resurrezione
della carne, che per tutti verrò dopo il Giudizio universale. Nella chiesa Ortodossa, essendo la Vergine preservata
dal peccato originale e la morte conseguenza di questo peccato, Maria non è morta, ma caduta in un sonno profondo
e dopodiché portata in Cielo. Differentemente per la Chiesa Cattolica, il dogma dell’Assunzione non esclude la
morte della Vergine.
94
Fin dal V secolo in Oriente si è festeggiata la ‹‹Deposizione della veneranda veste sella santissima nostra signora e
Madre di Dio in Blacherne››, facendo memoria alla collocazione della reliquia nella chiesa di Blacherne del velo
virginale -il maphorion- portata dai fratelli patrizi Galbino e Candido nel 473. Cfr. M. Masini, 2001, p 148-149
95
Amato P. 1988, p.60
96
Marziale, Epigr., I 2
97
Sendler E. 1995 p. 95
98
Kondakov N. P. 1914 p 170; Sendler E. 1995 pp. 94-96.
38
analisi, in accordo con l’esclusività e la vicinanza alle capacità esecutorie greche, seguenti
però un modello occidentale, descritte dal Kondakov e dal Sendler, basandomi poi sugli
indizi trapelati dalle ridipinture dei secoli successivi, e dalla testimonianza del Liber
Ponticalis, propenderei a inquadrare la tavola originaria, tra la fine del VII e i primi
del’VIII.

3.4 La Madonna del Monasterium Tempuli

Differente in tipologia e significato, ma sempre detta dipinta da San Luca, è il modello


iconografico mariano della Vergine Orante, l’Haghiosoritissa. La tipologia deve il suo nome
alla Hagia Soros, la Santa Cassa contenete la reliquia della Cintura (o Zonè) della Vergine,
custodita nella Basilica della Chalcoprateia, voluta da Pulcheria a Costantinopoli.
Nell’oratorio, vicina al prezioso tabernacolo ospitante l’indiretta reliquia di Maria, vi era
l’icona della Theotokos. Probabilmente l’immagine andò distrutta durante la crisi iconoclasta
o durante l’occupazione Turca del 1453. A Roma invece, si conserva un’importante icona
della Vergine Orante, non dissimile dal modello costantinopolitano, oggi nella chiesa di
Santa Maria del Rosario, la cosiddetta Madonna Advocata del Monasterium Tempuli (Fig.9).
Su tavola di tiglio dalle dimensioni contenute (70 x 40,5 cm), fu dipinta a encausto
direttamente su una preparazione di gesso e coperto poi da uno strato di bolo giallo cromo,
senza l’uso della tela. Liberata dai vari strati di ridipinture, nel restauro eseguito nell’Istituto
Centrale del Restauro di Roma nel 196099, emerse la prima pittura su fondo a foglia d’oro, di
alto livello esecutivo e in buono stato di conservazione. Sui quattro lati della tavola
rimangono tracce di un largo bordo che la inquadrava. Dell’immagine si conserva buona
parte del fondo oro, il volto e la mano sinistra della Santissima, mentre la tunica e la mano
destra risultano molto degradati. In seguito sopra le mani e sulla veste vennero posti degli
ornamenti d’oro. Di tre quarti, con lo sguardo rivolto verso il fedele, la Vergine orante, è
rappresentata a mezzo busto, sola nell’atto della preghiera. Le mani conformemente ai
costumi dei cristiani dei primi secoli, sono poste all’altezza del petto con i palmi verso

99
Bertelli C. 1961 pp. 82-111
39
l’alto100, come ricordano gli apologisti della scuola Alessandrina, con le braccia non troppo
estese, evitando il modo dei pagani. Questo modello è probabilmente riconducibile alla
Madonna orante raffigurata nelle Deesis101, laddove, assieme al San Giovanni Battista orante,
le due figure sono ai lati del Cristo Pantocratore in Maestà, seduto in trono. Isolata poi, la
Vergine prese una forma autonoma di rappresentazione, assumendo il nome devozionale di
Haghiosoritissa. A Roma nel corso dei secoli, in segno di grande devozione, si diffusero
varie copie dell’icona, come ad esempio quella posta sull’alare maggiore di Santa Maria in
Campo Marzo, del XIII secolo e la Madonna Advocata in Santa Maria in Via Lata del XII-
XIII secolo. Dallo sguardo della Vergine traspare il dolore della morte violenta del Figlio,
posto immaginariamente alla sua sinistra. I dettagli del volto richiamano la Madonna
Hodighitra custodita a Santa Maria Nova, differenziandosi però nell’abbondanza del viso.
L’incarnato del florido volto è caratterizzato da un forte realismo, accentuato dall’alto livello
tecnico esecutivo, capace di rendere i passaggi di luce graduali in un fine sfumato
ottimamente eseguito. Dobbiamo dunque pensare a una tavola eseguita nell’area greco-
costantinopolitana e poi giunta a Roma. Il Bertelli la identifica proprio nell’opera venerata
nella Hagia Soros, salvata dalla crisi iconoclasta e portata a Roma102; P. Amato per la tecnica
e l’accuratezza nell’esecuzione la inserisce in un ambiente siro-palestinese , inquadrandola
tra il VII el’VIII secolo, e per qualità di realizzazione possiamo paragonarla al San Pietro del
monastero di Santa Caterina nel Monte Sinai103. L’Haghiosoritissa a Roma non è stata mai
legata ad una precisa Chiesa, ma ad una comunità di religiose, insieme alla quale si spostò in
diversi luoghi di culto e dalla Chiesa del Monasterium Tempuli ospitata sino al 1209, passo
alla chiesa di San Sisto Vecchio, nella quale rimase sino 1221. Venne poi ospitata nella
chiesa dei SS Domenico e Sisto sino al 1567, e infine all’oratorio del Rosario a Monte Mario
dove ancora si trova.

100
Tradizione affermata da S.Clemente di Roma in Ad Corinti, XXIX , da Tertulliano nel De Oratione cap. XIV e
da San Cipriano in De Oratione Dominica XXIII.
101
Andaloro M. 1970, pp. 85-135.
102
Bertelli C. 1988, p 42-46.
103
Amato P. 1988, 42-49.
40
3.5 La Madonna della Clemenza

Un’altra tipologia d’icona mariana che troviamo a Roma e collegata all’oriente, è la


Basilissa, Madre di Dio in Maestà. Sappiamo che a Costantinopoli nel VII secolo, il concetto
di Maria Regina è ben espresso nelle omelie di Andrea di Creta, ma delle raffigurazioni
costantinopolitane nessuna sopravvisse al periodo iconoclasta (730-843). A Roma, invece, la
rappresentazione della Madre di Dio in maestà diverrà un chiaro messaggio politico.
L’affresco ritrovato nella chiesa di Santa Maria Antiqua (Fig.12), risalente al VI secolo, è
uno dei primi esempi di questa tipologia, realizzato durante il periodo in cui i generali
imperiali, sotto Giustiniano (527-565), Belisario e Nareste si trovarono a Roma104. La
presenza del loros, la fascia di seta ingioiellata riservata alla casa imperiale, sopra la preziosa
veste della Vergine è un chiaro messaggio d’imposizione del potere Imperiale su Roma e
sulla Chiesa. I papi replicheranno il modello, escludendo però le simbologie imperiali
bizantine e riconoscendo in Maria l’unica regina alla quale prostrarsi nell’atto della
proskynesis105. L’icona in esame è da inserirsi nel VI secolo, ma la presenza della lacunosa
figura del pontefice in ginocchio, ci lascia solo ipotesi di datazione precisa106. Il modello
seguito per la rappresentazione di questa tipologia d’icona mariana è da ricercarsi nel tema
dell’arte catacombale dell’adorazione dei Magi. È in questa scena che si racchiude il
cammino della Chiesa e la sua essenza, un cammino dove il Figlio di Dio, in dovuta maestà,
viene adorato dagli uomini, da pagani, i Magi107. Da questa scena nel corso del VI secolo,
s’isoleranno la Vergine e il Bambino in trono dai Magi, sostituiti dal corteo di angeli. La
vergine e il Logos si vestiranno della fastosità imperiale, come espressione della grandezza
del mondo celeste, occupando la conca delle absidi delle chiese in tutte le regioni
dell’impero, come nel caso dei mosaici nella chiesa di Sant’Apollinare Nuovo e nella
Basilica Eufrasiana di Parenzo. Una delle prime icone giunte a noi, ispirate alla Madonna

104
Pentcheva B. V. 1993 P.24.
105
Questo modello del papa in veste di donatore e in ginocchio, sarà replicato nelle immagini prive del loros
commissionate a Roma dai papi Giovanni VII (705-707) e Zaccaria (741-752). Cfr. B. V. Pentcheva, 1993 p. 25
106
Per il Bertelli si tratta di papa Giovanni VII, mentre per l’Andaloro l’opera è da inquadrare intro il VI secolo.
107
Sendler E. 1995, p. 81.
41
Basilissa tra gli angeli, risale al VI secolo e fa parte della collezione del Monastero di Santa
Caterina sul monte Sinai (fig. 11). La vergine in trono appare tra due santi, Demetrio e
Teodoro. Due angeli in fondo guardano la mano di Dio che appare dall’alto. La monumentale
icona (200x133 cm) della Madonna della Clemenza (Fig.10), custodita nella Basilica di
Santa Maria in Trastevere, nella cappella Altempus, a destra dell’altare Maggiore esprime a
pieno questa tipologia d’icona. L’immagine su tela si fissa su tavole di cipresso e la tecnica
utilizzata è l’encausto. Nella cornice, superstite su tre lati, si può leggere: + ASTANT
STYPENTES ANGELORUM PRINCEPS GESTARE NATYM…A…; l’iscrizione trascritta
dal Bertelli,108 fu da lui interpretata come: Poiché Dio stesso si fece dal tuo utero,… i principi
degli angeli ristanno e stupiscono di Te che porti in grembo il Nato...
Anche questa tavola romana è da sempre venerata. Coronata dal capitolo vaticano il 2
novembre del 1659, fu foderata nel XVIII secolo da un prezioso rivestimento d’argento, oggi
custodito nella sacrestia della cappella. Rinnovata nei secoli, come dimostra l’intervento
riparatorio, probabilmente a causa di un incendio, o la ridipintura forse del XIII secolo, che
interessò tutta l’icona109, giunse nel 1953 nell’istituto Centrale del Restauro in pessimo
stato110. L’opera era in gravose condizioni di statica e totalmente ricoperta di colle e vernici
alterate. Solo le figure degli angeli e del Bambino non presentavano rifacimenti sostanziali,
ma anch’esse erano state ricoperte dalle colle e vernici. Il colore in scaglie si separava dalla
tela e questa era quasi del tutto staccata dal supporto. Sotto la croce sostenuta dalla Vergine,
non era più presente la tela originaria, come per tutta la lunghezza dell’icona corrispondente
alla congiunzione delle due tavole. Al di sotto delle aureole degli angeli era mancante la tela
originaria, come per la parte inferiore del trono e del fondo adiacente, ridipinta su una tela
diversa. Anche la parte corrispondente alla figura del committente era oramai compromessa.
Il Restauro, diretto da Giovanni Urbani, procedette nel ripristino della pittura originaria,

108
Bertelli C. 1964, p. 57
109
Aurea Roma 2000, p. 662
110
Urbani G. 1964, pp. 15-24
42
salvando solo alcuni rifacimenti molto antichi111, nel consolidamento del colore e nel
rincollaggio della tela originale. Le lacune riemerse furono lasciate in vista e ugualmente il
legno subì un trattamento conservativo. L’incarnato degli angeli e del Logos, per soluzione
cromatica, ci riconduce alla tavola precedentemente esaminata di Santa Maria Maggiore.
Seppur molto impoverito dal tempo, il volto della Vergine riesce nella sua espressività a
trasmettere una sicurezza degna di una Maestà. La pittura eredita dal mosaico lo stile, senza
rielaborarne eccessivamente i criteri figurativi. Particolare è la simmetria compositiva
dell’Icona: Maria occupa il centro dell’immagine, dietro il trono riccamente impreziosito,
due angeli presentano Maria al fedele. La Vergine regge il Bambino con la mano sinistra,
mentre con la destra tiene un’asta sormontata dalla Croce. Non indossa il maphorion ma una
tunica rossa, ora abbrunitasi, bordata ai polsi da galloni perlati, e stretta da una cintura sopra
la vita. Sul capo poggia una corona ricca di pietre preziose e perle, che termina nella parte
frontale in una croce. La parte superiore della tunica è riccamente decorata da perle e gemme
pendule, come i lembi inferiori, ornati da perle e pietre preziose incastonate nell’oro
(prependoulia). Gli angeli vestono una tunica color acquamarina e un mantello ocra. In basso
a destra, con lo sguardo rivolto verso lo spettatore, vi è la figura di un pontefice ai piedi della
Vergine, nell’atto della proskynesis. La tavola, rispetto alle precedenti è animata da un
significativo dinamismo. Tracciando ipoteticamente due linee rette, percorrenti gli assi delle
figure degli angeli, le vedremo convergere all’altezza della testa del pontefice, appena sotto il
centro della tavola, quindi della Vergine. Non è un caso che l’immagine si focalizzi in quel
punto. La Vergine diversamente dalla Kyrotissa di Santa Maria Antiqua e della Vergine in
Trono del Monastero di Santa Caterina al Sinai, è come colta nell’atto di alzarsi dal trono, e
affermarsi in tutta la sua regalità, come unica sovrana, davanti alla quale il fedele deve
prostrarsi, sotto l’esempio del pontefice, vicario di Cristo e presente al suo seggio. Questo
gesto d’affermazione fa sussultare pure gli angeli, dalle mani con i palmi rivolti verso la
Vergine e dal busto arretrante dall’emozione. L’invenzione del movimento della Vergine è
evidente anche nella posizione del Logos. Rispetto all’icona del Monte Sinai, è anch’esso

111
I rifacimenti riguardano: le parti dorate delle aureole della Madonna e dell’Angelo di destra, il frammento della
cintura della Vergine, la tiara e il nimbo quadrato dell’Offerente e la parte verticale sinistra del trono e tutto il fondo
adiacente. Cfr. Urbani G. 1964.
43
quasi stante, come nell’affresco di recente scoperta nella Basilica di Santa Sabina
all’Aventino, raffigurante la Madonna Basilissa con al centro il Bambino in piedi, ma questa
volta immerso nel nimbo (Fig,13). L’affresco per la presenza di un’iscrizione che ci informa
sul nome dei committenti112, viene datato tra la fine del VII secolo e l’inizio dell’ VIII.
La Chiesa di Roma nel VI secolo si trovò di fronte a un importante scontro interno. A
causarlo fu il secondo Concilio di Costantinopoli del 553, convocato dall’imperatore
bizantino Giustiniano I (527-565), per porre condanna dei Tre Capitoli113.La Chiesa
Occidentale non concordava con la condanna, e per questo il papa Vigilio (537-555) fu
portato con forza alla corte di Costantinopoli, con il pretesto del pericolo Goto capeggiato da
Totila e gli venne fatta pressione per ratificare la condanna. Nel 548 emise uno iudicatum
con il quale riconosceva la condanna dei Tre Capitoli, pur salvando lo “spirito di
Calcedonia”. In occasione del concilio di Costantinopoli del 553, che vide ufficializzata la
condanna dei Tre Capitoli, se pur con continui tentennamenti, il Papa approvò la condanna
stessa. Alcuni vescovi dell’Italia Settentrionale, della Gallia e del Norico, tra i quali Ausano,
occupante la cattedra di Milano e Macedonio quella di Aquileia, si ribellarono
all’accettazione della condanna imposta dal Concilio e, assieme ad altri vescovi si unirono
nello Scisma Tricapitolino, che portò alla formazione di una Chiesa autonoma. Il rapporto tra
i vescovi ribelli e la Chiesa di Roma divennero ancora più freddi col successore Pelagio I
(556-561), e la crisi durò sino al VII secolo. Pelagio I ereditò dal predecessore una difficile
situazione interna e pure la situazione dell’Urbe era gravosa. I continui assedi e le terribili
carestie pesavano sulla popolazione, rendendola sempre più povera. A Pelagio I (556-561),
l’imperatore Giustiniano, rinnovò la prammatica sanctione, riconoscendogli la totale
gestione finanziaria e giuridica di Roma. In tal modo il Papa divenne la massima figura di

112
Le figure dei donatori, sono indicati dall'iscrizione come l'arcipresbitero Teodoro e il presbitero Giorgio e
identificati con i due legati papali al Concilio di Costantinopoli del 680.
113
Con un editto imperiale proclamato nel 543-544, Giustiniano condannò come eretici: l’antiocheno Teodoro di
Mopsuestia (morto intorno al 428), alcuni scritti contro il patriarca di Alessandria Cirillo (370-44) e contro il
Concilio di Efeso, di Teodororeto di Cirro (morto nel 457); una lettera di Iba di Edessa (morto nel 457), in difesa
dello stesso Teodoro di Mopsuestia. Questi scritti, raccolti nei Tre Capitoli, vennero condannati perché negavano
valore al termine Theotokos , mentre difendevano eccessivamente la duplice natura di Cristo. Tutti e tre erano
esponenti della scuola antiochena e morti da tempo.
44
rappresentanza spirituale e laica della Città. Nel suo operato amministrativo, Pelagio si trovò
a dover gestire politicamente le sorti di Roma. Fece aprire numerosi cantieri per la
costruzione di edifici ecclesiastici, divenute le uniche opere pubbliche messe in atto, dando
in questo modo lavoro alla popolazione, trovatasi orfana dell’edilizia pubblica laica. Dopo
quattro anni di pontificato fu sepolto nella Basilica di San Pietro in Vaticano, celebrato
nell’epitaffio come “rector apostolicae fidei”114, capace di tener fede alla Chiesa dei Padri e
di prendersi cura dei fedeli. Potremmo vedere proprio nell’icona della Madonna della
Clemenza il manifesto di questo periodo travagliato. Se da un lato la Chiesa di Roma ha
pieni poteri decisionali sull’Urbe, dall’altro si trova a dover riaffermare la sua autorità sulle
diocesi scismatiche. Per questo motivo la Theotokos in Maestà si slancia in avanti,
ammonendo i vescovi ribelli e affermando l’autorità del papa Pelagio I, l’unico degno di
prostrarsi alla sua corte.

114
“Terrenum corpus claudant haec forte sepulcra, \ nil sancti meritis derogatura viri. \Vivit in arce poli celesti luce
beatus,\vivit et hic cunctis per pia facta locis.\Surgere iudicio certus dextramque tenentem,\angelica parte se rapiente
manu.\Virtutum numeret titulos Ecclesia Dei,\quos ventura velut saecula ferre queant.\Rector apostolicae fidei,
\veneranda retexit\dogmata, quae clari constituere patres.\Eloquio curans errorum scismate lapsos,\ut veram teneant
corde placata fidem. \Sacravit multos divina lege ministros, \nil pretio faciens immaculata manus. \Captivos
redimens, miseris succurrere promptus, \pauperibus nunquam parta negare sibi,\tristia participans, laeti moderator
opimus,\ alterius gemitus credidit esse suos.\Hic requiescit Pelagius P.P. qui sedit an. IIII m. X.D. XVIII D.P. III
nonas Marti.” Da G.B. DE ROSSI, Inscriptiones christianae urbis Romae septimo saeculo antiquiores 1,
Roma1857-1861.
45
46
4. L’immagine di Cristo

La memoria neotestamentaria non ci ha restituito nessuna descrizione fisica precisa di Cristo.


Questa carenza determinò nei primi secoli di timore, durante le più atroci persecuzioni
cristiane115, un modo simbolico di rappresentare il Logos. La vicinanza della catechesi
cristiana dei primi secoli col mondo ebraico teneva a freno qualsiasi altra rappresentazione,
così come la voluta distinzione dal mondo pagano, ricco d’idoli, attenta a non far ricadere
nell'idolatria chi si convertì dal culto pagano. Le testimonianze figurative simboliche e
allegoriche lasciateci prima della pace della Chiesa data da Costantino nel 313, assolvevano
il bisogno di illustrare l’oggettività, la vita e i miracoli del Redentore 116. Di questi simboli
ricordiamo quelli più in uso, come il Chrismon, monogramma del nome di Cristo, il Pesce,
derivato dalla parola greca Ichthus che richiama al suo interno le iniziali di Iesus Christos
Theou Uios Soter (Gesù cristo Figlio di Dio Salvatore), l'Agnello117 o l'Ancora, simbolo
della speranza cristiana118. Tra le allegorie, il più frequente fu il Buon pastore. Derivante dal
moscophoros119, nell’immagine cristiana porta sulle spalle l'agnello, simbolo del gregge dei

115
Dichiarata religio illicita, la politica di persecuzioni e repressioni inizio con Nerone nel 64. A seguito di questa
seguono quindi Domiziano (81-96); Traiano (98-117), Adriano (117-138), Antonino Pio (138-161); Marco Aurelio
(161-180); Settimio Severo (193-211), Massimino Trace (m. 238). Seguirono le tre persecuzioni in seguito a editti
sono quelle di Decio (editto del 249-250); Valeriano (editto del 257 e altro successivo); Diocleziano (editti del
febbraio, aprile, novembre 303 e della primavera del 304). Misure ostili, in Oriente, furono prese successivamente
anche da Galerio, Massimino Daia, Licinio. Cfr. Dizionario di Storia Online della Treccani, 2011,
http://www.treccani.it/enciclopedia/persecuzione-dei-cristiani_%28Dizionario-di-Storia%29/
116
Esempi di queste pitture murali dei primi secoli del cristianesimo le si trovano soprattutto negli ambienti
sepolcrali cristiani, come nelle più importanti catacombe di Roma. Degli inizi del III secolo sono pervenute a noi le
articolate raffigurazioni della Domus christiana di Dura Europos, nell’attuale Siria del Nord. Cfr Bernardi P. 2007,
p. 26.
117
Dalle parole del vangelo di Giovanni ‹‹ecco l'agnello di Dio›› Gv 1,29 e dal passo dell’Apocalisse Ap 5,6
118
Si legge in una letterea di San Paolo agli ebrei si legge ‹‹Cristo è l'ancora a cui affidarsi›› (6, 18-9)
119
Derivato dal moscophoros, il pastore che porta in spalle un vitello, per il mondo classico pagano rappresentò
l'aldilà come regno di serenità e di pace e simbolo della philantroipia. l'amore disinteressato verso l'uomo. Cfr
Thoumieu M. 1997 voce: Buon pastore; Turco G. p.35
47
fedeli e prefigurazione del sacrificio di Cristo. Un’altra derivazione dal repertorio pagano è
Orfeo, nel cui viaggio compiuto negli Inferi, si prefigurava la morte e resurrezione di Cristo.
Il Verbo sotto le sue sembianze allegoricamente ricorda le parole del Vangelo che
conquistano i cuori degli uomini120, mentre la sua rappresentazione con la cetra e gli animali
si interpreta come Cristo che vince sulla la natura. In rare rappresentazioni Cristo-Ercole,
diviene l'allegoria della salvezza. Non dobbiamo dimenticare Cristo come “Sole”,
tratteggiato come Apollo sulla quadriga trainata da cavalli. Ereditarie della cultura mitologica
pagana, queste prime immagini allegoriche di Cristo mirano soprattutto ad evidenziare il suo
tratto soprannaturale. Interessante è il caso in cui Cristo fu rappresentato crocefisso in un
graffito, ma col volto di un asino121 (Fig.15). Come abbiamo visto in questi primi secoli del
cristianesimo, se pur duri e ostacolati dalle persecuzioni, la rappresentazione della vita e dei
miracoli di Cristo, vede il superamento dell’aniconismo ebraico dettato dell'Antico
Testamento, si fa forte dell'incarnazione del Logos, trovando argomentazione soprattutto nel
vangelo di Giovanni, dove l'evangelista afferma che nessuno ha mai visto Dio, ma il Figlio lo
ha fatto conoscere in quanto ‹‹il verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi››122 e
lo stesso Giovanni rimarca la fisicità del Verbo quando afferma ‹‹le nostre mani hanno
toccato››123 . Nella difesa delle icone, questa argomentazione verrà maggiormente sviluppata
dagli iconoduli e lo stesso Giovanni Damasceno nel trattato In difesa delle Sacre immagini,
nelle sue eccellenti tesi di difesa, ribadirà che nella rappresentazioni del Logos non vi è il
Dio invisibile ma la carne di Dio che è stata vista124. Se dal lato teologico il superamento
della non rappresentazione avvenne grazie alla stessa incarnazione di Dio, il mondo latino,
ricco di idoli pagani, offriva un ulteriore ostacolo per lo sviluppo delle immagini cristiane.
Lo stesso San Paolo nella lettera ai romani 1,23, ammonisce i pagani per aver ‹‹scambiato la

120
Cfr. Turcio G. p. 36.
121
Accompagnata dalla scritta in greco: ‹‹ Alessameno adora il suo Dio›› è una preziosa testimonianza del II secolo,
ritrovata nella parete di una casa del Palatino, che ci fa capire come i romani pagani deridessero i cristiani adoratori
di un asino. Questa dicitura trova origine in una antica leggenda secondo la quale il Dio dei Giudei era un asino o
aveva la testa d’asino. Cfr. Caroli F. 2008, p. 5.
122
Gv 1,18.
123
Gv 1,1-2.
124
Giovanni Damasceno, In difesa delle Sacre immagini I, 4 pp. 33-34.
48
Gloria di Dio con l'immagine di uomini corruttibili, di uccelli, rettili e di quadrupedi››.
Questo disprezzo per gli idoli si tradusse nella Chiesa d'oriente come un divieto di
rappresentare in scultura la fede, permettendo solo immagini lontane dall'impressione di
carnalità125. In occidente invece la statuaria fu riammessa solo dopo la svolta costantiniana,
quando il pericolo d’idolatria era ormai cessato. Con Costantino I imperatore, si può dire che
ebbe inizio la primavera cristiana. La liberalizzazione del culto, l'editto di Milano del 313 e
di Nicea nel 325, dove si riconobbe la consustanzialità di Cristo col Padre, nel campo della
rappresentazione sacra vi fu un'importante svolta. Non più relegata agli ambienti catacombali
o privati, l'immagine del Salvatore, di nostro interesse, divenuta "pubblica" e posta nelle
tante basiliche di nuova edificazione, divenne una necessità conoscitiva teologica126.
Le prime risposte sulla fisionomia di Cristo, le diedero gli stessi testi del Nuovo Testamento.
Anche se carenti di una reale descrizione sulla fisionomia del Salvatore, fornirono degli
importanti elementi su cui basare dei punti importanti sulle caratteristiche estetiche di Cristo.
Nella Seconda Lettera ai Corinzi (4,4. 6) l'apostolo Paolo ci annuncia che Cristo è immagine
"eikon" di Dio e che la gloria divina rifulge sul Suo volto. Attraverso queste parole si rivela
la verità fondamentale sull'immagine terrena di Dio in Cristo e sul volto risplendente di
gloria. La stessa fisicità dell'immagine di Dio nel Logos, si ritrova nella Lettera ai Colossesi,
dove nel verso 15 dell'Inno cristologico afferma che ‹‹egli è l'immagine del Dio invisibile,
generato prima di ogni creatura››. Altro Inno cristologico per noi importante fa capo alla
Lettera ai Filippesi, dove nel discorso sulla passione, si afferma esplicitamente che Dio
abbandona totalmente la forma divina per diventare un servo e simile agli uomini,
assumendone a pieno le caratteristiche127. Possiamo dire che per definizione paolina Cristo è
un uomo tra gli uomini, il cui volto risplende della gloria divina. Lo stesso prologo del
Vangelo di Giovanni ribadisce questo concetto, vedendolo necessario per far sì che la parola

125
Gharib G. 1993 B, p. 14.
126
Per apprendere le fonti dirette e indirette dal quale furono estratti gli aspetti peculiari dell’immagine del Salvatore
cfr. il saggio del Monsignor P. Iacobone “La bellezza di Cristo nell’arte , dall’antichità al Rinascimento”, in PATH
un’importante guida ricca citazioni e fonti bibliografiche.
127
Lettera ai Filippesi Cap. 2,7-8.
49
del Padre potesse essere ascoltata ed accolta128. Sempre nel Vangelo di Giovanni troviamo di
grande importanza, la risposta data a Filippo da Gesù, al quale fu richiesto di mostrare il
volto del Padre: ‹‹Chi ha visto me, ha visto il Padre››129 . Questa affermazione, dal forte
spessore teologico, fu la risposta anche per la stessa teologia trinitaria e la via da seguire per
l'arte, alla ricerca del modo di raffigurare le tre Persone della trinità, dato che nell'immagine
di Cristo si rispecchiano sia il Padre che lo Spirito. È nel dialogo tra Gesù e Pilato che
troviamo un'altra conferma della sua immagine umana: “ Ecco l'uomo”130. Come abbiamo
precedentemente affermato, nelle parole del nuovo testamento non vi è una vera descrizione
fisica del corpo di Cristo, ma più una attestazione della sua umanità, un inizio fondamentale
per il percorso compiuto sull'immagine del Salvatore. Questa carenza di informazioni nella
cultura cristiana dei primi secoli, venne colmata da tradizioni orali e da convinzioni,
successivamente trascritte, capaci di rispondere alle domande di fedeli abituati ad un mondo
carico di immagini. Queste tradizioni non ebbero nessun fondamento oggettivo, ma risposero
comunque a un'esigenza conoscitiva delle comunità131. Esempio di queste descrizioni è
contenuta nel Discorso Veritiero di Celso, compilato tra il 177 e il 180 e pervenuta a noi
attraverso la citazione fatta da Origene nel Contra Celsum132. Gesù viene descritto da Celso
come un uomo comune, se non addirittura brutto a vedersi e volgare, riferendosi ad una
notizia appresa da “fonti sicure”133. Origene in risposta, guarda alla bruttezza di Cristo come
una visione limitata di chi non ha saputo cogliere, come gli apostoli, la vera bellezza del

128
Gv 1,14“Il verbo si è fatto carne”; Gv1,18 “Il figlio unigenito che è nel seno del padre, lui lo ha rivelato”.
129
Gv 14,9.
130
Gv 19, 5.
131
Cfr. Rizzi M. 2003, pp 158-168.
132
Sappiamo che Celso compilò un’opera di polemica contro i Cristiani, durante l’ultimo decennio della reggenza di
Marco Aurelio col figlio Commodo (171-180), il Discorso veritiero (Alethès lógos). Quest’opera, ci è giunta
parzialmente attraverso Origene che nel 248 decise di confutarne la polemica, scrivendo il Contra Celsum.
133
Origene, Contra Celsum, VI, 75.
50
Signore134. Pure Agostino abbracciò il pensiero origenista, sostenendo che per ammirare la
vera bellezza del Salvatore, fosse necessario essere dotati di una vista pura e spirituale135.
La bruttezza riportata da Celso potrebbe avere origini nei passi dell’Antico Testamento, si
legge, infatti, in Isaia: ‹‹non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non
splendore per potercene compiacere››136. Gli stessi Padri orientali ritenettero che la bellezza
di Cristo fosse sostanziale e andasse ricercata nella sua misericordia e bontà e non nelle
fattezze esteriori, viste come bruttezze apparenti137. L’Antico Testamento oltre che la
profezia di Isaia, offrì un altro passo rivelatorio sulla fisionomia del Messia, il Salmo 45:
‹‹Tu sei il più bello tra i figli dell'uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia e bello e maestoso
avanza138››. Sarà Agostino a porre le basi per una corretta interpretazione dell'apparente
contraddizione scritturistica, affermando che la bruttezza di Cristo annunciata da Isaia si
manifesta nell'incarnazione di Cristo, per questo divenuto uomo tra gli uomini, ma come
recita il Salmo 45 essendo nella gloria di Dio ‹‹il più bello tra gli uomini››139 . Cirillo
d'Alessandria (370 –444) in risposta alle teorie nestoriane140, vedrà proprio nella bellezza del
Salvatore la convivenza col Padre nel corpo incarnato, e con le parole pronunciate dallo

134
Ivi VI, 7 : ‹‹… difronte a così tanta bellezza i tre apostoli…’caddero davanti al suo volto’›› .
135
Il riferimento del ragionamento origenista di Agostino lo si trova nel Nono Trattato della Prima lettera a San
Giovanni. Cfr. Opera di Sant’Agostino, XXIV, Città Nuova, Roma 1968, 1827-1829. Per una lettura in lingua latina,
consultare l’indirizzo: http://www.augustinus.it/latino/commento_lsg/index2.htm.
136
Il verso dell’Antico Testamento è contenuto nella profezia di Isaia riguardo la figura del Servo sofferente di
JHAWH. cfr Isaia, LIII, 2 .
137
La dialettica sulla bruttezza apparente e bellezza sostanziale di Cristo fu argomento trattato da Clemente
Alessandrino della scuola di Alessandria in diverse delle sue opere. Troviamo la stessa giustificazione di Origene ne
Il Pedagogo (III, I) “Che il signore fosse brutto nell’aspetto lo attesta lo stesso Isaia…Chi è meglio del signore?
(Egli) Non mise in mostra l’ingannevole bellezza della carne, bensì la vera bellezza dell’anima e del corpo, la bontà
dell’anima e l’immortalità della carne”. Cfr Il Pedagogo, a cura di A. Boatti, SEI, Torino 1953, 384-388
138
Il salmo profetico è interpretato come inno di nozze tra il Re-Messia con la sposa, figura della Chiesa, nella
versione della Vulgata.
139
Per approfondire la problematica in Agostino Cfr. J. Tscholl, Dio e il bello in Sant’Agostino, Ares, Milano 1996
140
La dottrina prese il nome dal patriarca Nestorio di Costantinopoli. Condannata dal concilio di Efeso nel 431,
sosteneva che in Cristo la natura divina e quella umana non fosse ipostatica, ma solo psicologica e morale attuata nel
pieno delle due volontà, umana e divina. Cfr. Luigi Leone (a cura di), Testi Patristici, Cirillo d’Alessandria, Perché
Cristo è uno, Vol XXXVII Roma, Citta Nuova, 1983.
51
stesso Logos: "Chi vede me, vede il Padre"141, affermerà la convinzione della bellezza di Dio
Padre nella figura del Figlio. Cirillo ritroverà la bruttezza nella sofferenza terrena di Cristo,
capace di sfigurare il volto e di rendere ancor a più visibile la bellezza dell'amore di Dio.
Altri grandi teologi della Chiesa antica chiamati dal Gharib ‹‹partigiani della bellezza di
Gesù›› sostennero appunto la bellezza del Salvatore, fra i quali Gregorio di Nissa Giovanni
Crisostomo, Teodoreto, Girolamo142.
A partire dal VI secolo si compilarono numerosi ritratti letterari, accostabili agli
eikonismòs143, apocrifi di Cristo, contradittori tra loro, che fecero assumere al Salvatore
caratteristiche contrastanti, a seconda delle tradizioni locali e del desiderio di avvicinare le
caratteristiche somatiche del Signore a quelle del proprio gruppo etnico144. Alcune di queste
però divennero poi costanti nella figura di Cristo145: l’alta statura, le sopracciglia congiunte e
gli occhi belli; la memoria sulla statura fu fissata da una singolare croce mensurale voluta da
Giustiniano nella Basilica di Santa Sofia a Costantinopoli, la quale riportava la statura del
Signore, secondo la tradizione, misurata a Gerusalemme da uomini fidati146.
Come accadde per la Madre di Dio, il mondo pagano offrì ispirazione agli artisti intenti a
ricreare l’immagine di Cristo, già richieste nei primi secoli da Gnostici, Carpocraziani147 e

141
Mt 11,2.
142
Gharib G. 1993, pp. 60-73.
143
Questo genere letterario descrittivo era molto simile agli identikit odierni e utilizzata sin dall’età ellenistica per
schematizzare i tratti somatici di una persona fuggitiva come ad esempio uno schiavo. In seguito venne sviluppata
dai cronachisti che la utilizzarono per la descrizione fisica degli Imperatori. Cfr. Bacci M. 2009 p. 9
144
Fozio nell’epistola 65, la lettera a Teodoro Santabarenos (c. 864/865) dopo la crisi iconoclasta fece risalire
proprio a queste motivazioni la differenziazione della rappresentazione di Cristo.
145
Nel lavoro della Fogliadini, Il Volto di Cristo. Gli acheropiti del Salvatore nella tradizione dell’oriente cristiano,
a p 83, troviamo una esaustiva tavola sinottica sulla descrizione fisionomica di Cristo tra il VI e il XIV secolo.
146
Il fatto venne trascritto da Procopio di Cesarea, storico di Giustiniano, nel Libro VIII delle Storie, ora perduto. La
notizia la ritroviamo comunque nello scritto di un autore anonimo del XIII. Cfr Anonymi de antiquitatibus
Costantinopolitanis, Liber Quartus contines historium et descriptionem templi Sanctae Sophiae, in PG 122, 1289-
1316; il testo viene citato dal Gharib G. 1993, a p 18.
147
Di queste immagini, considerate eretiche, abbiamo notizia attraverso Sant’Ireneo,(Ad. Haeres 1. I, c. 25,6), che
riferisce di immagini di Cristo in possesso degli Gnostici; mentre Sant’Agostino (De Haeresies VIII), Sant’Epifanio
(Haeresias XXVII, 6.), Ippolito (refuu VII, 32), San Giovanni Damasceno (De Haeresies 7,4) e Fozio (Ad
Auphilochium, 197) riferiscono di simili immagini in mano ai Carpocraziani.
52
Imperatori come Alessandro Severo (222-235), il quale, come ci informa Lampridio148, era in
possesso di un’immagine di Cristo privata. Un altro esempio di queste immagini è quella
attribuita, secondo la leggenda, al volere dello stesso Costantino (274-337), e posta nella
Porta di Bronzo, Chalké, di Costantinopoli come protettrice della città contro pestilenze e
invasioni nemiche. Rimase sulla Porta sino all’intervento iconoclasta del 726 circa, quando
fu distrutta dai soldati sotto il comando di Leone III149. Si deve pensare a queste immagini
come incerte raffigurazioni di Cristo, formate sotto l’influenza delle immagini di divinità
pagane, come può indicarci il passo all’interno della Storia ecclesiastica di Teodoro il
Lettore, che a proposito del Patriarca di Costantinopoli Gennadio I (458-471), ci riporta la
notizia del risanamento della mano di un pittore che osò raffigurare Cristo con alcuni tratti
del dio pagano Zeus150.
I capelli lunghi, separati a metà della testa, la barba lunga e curata, recentemente sono state
reinterpretate come un voler rappresentare Cristo nella figura dell’intellettuale ben curato di
età imperiale, che usavano folte barbe e lunghe chiome per ‹‹affermare il loro status elitario
di “uomini divini” (theioi andres), depositari di una sapienza superiore ed esclusiva151››.
L’interessante studio del Bacci152 mette l’attenzione proprio sulla scelta della raffigurazione
di Cristo con la barba e i capelli lunghi. Nell’epoca tardoantica avere la barba significava
distinguersi dalla moda che voleva il volto maschile glabro. Sotto l’aspetto religioso
assumeva il significato di devozione resa all’opera creatrice di Dio e nel Salvatore ne
conferiva una connotazione sacerdotale. La stessa parola Nazareno divenne una
giustificazione per la rappresentazione di Cristo con capelli lunghi. L’assonanza

148
Ad Elio Lampridio, forse del IV secolo, è attribuita l’opera riguardante la vita di Alessandro Severo dove
leggiamo nel XXIX capitolo: “In larario suo…Christum,Abraham et Orpheum et huiuscomodi certeros habebat ac
maiorum effiges rem divinam faciebat”.
149
Gharib G. 1993, p. 22.
150
Come esempio di questa tipologia si può prendere il busto di Cristo della metà del IV secolo ritrovata a Roma
nelle catacombe di Commodilla.
151
Bacci M. 2009. p.12.
152
Bacci M. L’invenzione del volto d Cristo: osservazioni sulle interazioni fra iconografia e letteratura
prosopografica prima e dopo l’Iconoclastia in in: A.C. Quintavalle (ed.), Medioevo: immagine e memoria,
proceedings of a congress (Parma, 23-28 September 2008), Milan: Electa, 2009, pp. 93-108.
53
dell’espressione con la parola ebraica nazir “Santo di Dio” e nazer “corona” riferita
all’offerta a Dio dei propri capelli nello scioglimento del voto,153 portò nel V secolo a
designare “lungochiomati” gli abitanti di Nazareth e i giudaico-cristiani della Palestina154.
Abbiamo visto il volto di Cristo che si plasma nei primi secoli secondo l’invenzione o
l’assimilazione di connotati delle divinità preesistenti, da caratteristiche specifiche di etnie, o
da tratti distintivi delle classi sociali cui l’immagine era diretta. Quest’impegno nel
raffigurare l’immagine di Cristo, se pur in modi esteticamente differenti, come scrisse
Giovanni Damasceno nei Discorsi sulle immagini sacre155, va oltre la raffigurazione stessa,
usando le parole del Lingua ‹‹divenendo un canale di comunicazione con Dio156›› per sempre
più un carattere sacro che si tramuta, soprattutto nell’Oriente cristiano, nell’attestazione
teologico-dogmatica dell’incarnazione del Verbo. Attraverso l’immagine di Cristo, ‹‹la

contemplazione del volto di Dio diviene per l’uomo una possibilità reale157››.

4.1 Sulle immagini Acheropite

Abbiamo visto come l’immagine di Cristo si sia evoluta nel corso dei primi secoli secondo le
inclinazioni dell’esigenza devozionale. L’episodio raccontato da Teodoro il Lettore, sul
pittore ustionato alla mano per volere divino, perché rappresentò Cristo nelle vesti di Zeus, è
un segnale di quanto era poco gradito il “polimorfismo” del volto di Gesù. Se nella Chiesa
d’occidente l’immagine era vista come un aiuto alla comprensione dei Testi Sacri,
nell’Oriente assunse sempre più un’importanza teologica attestante lo Spirito Santo, infuso
nell’uomo miracoloso di Dio e in particolare nell’incarnazione di Dio nel Figlio158.

153
Libro dei Numeri (6,18). Era concesso a una persona di rendersi nazir “santo di Dio” a patto che non consumasse
bevande alcoliche e che si lasciasse crescere i capelli per portarli poi come nazer “corona” in offerta una volta
sciolto il voto, all’Onnipotente.
154
Bacci M., p. 15.
155
Cfr Giovanni Damasceno, Difesa delle Immagini Sacre, III, 12.
156
Lingua G., 2006, p. 10.
157
Bernardi P., L’icona l’estetica e teologia, cit. p. 90.
158
Fogliadini E.2011 p. 60
54
L’immagine di Cristo non può più dunque avere dei caratteri mobili nel suo profilarsi, ma
deve assumere una fisionomia unica e ben delineata, incisa nella storia per volere dello stesso
Salvatore. Questi requisiti vennero assunti appieno dalle immagini acheropite, prendendo ‹‹

una funzione istitutiva per il concetto cristiano di immagine di culto ››159. Come indica lo
stesso termine di derivazione greca ἀχειροποίητος, sono immagini “non fatte da mano
umana”, provenienti dunque nel nostro caso, da azioni dirette di Cristo, ‹‹autorizzate e
garantite da Dio››160. Con questa tipologia d’immagine viene a se il superamento del divieto
Testamentario sulla rappresentabilità del divino161. Facendo da modello imprescindibile
l’immagine Acheropita si fissa come unica matrice reale del volto di Cristo, da seguire per le
rappresentazioni future. Tornando all’origine del termine, troviamo la sua derivazione
direttamente dalla lingua della comunità cristiana delle origini, l’aggettivo χειροποίητος si
ritrova già in Erodoto (484 a.C.- 425 a.C.) che lo utilizzò per mettere in contrasto l’operato
dell’uomo con quello della natura. Nella traduzione greca delle Sacre Scritture fu ripreso per
la trascrizione del termine ebraico ‘élil, usato per esprimere in modo ironico l’idolatria162.
Nel Nuovo Testamento il termine χειροποίητος è utilizzato per mettere in opposizione tra
l’opera dell’uomo e l’operato di Dio. Viediamo invece l’utilizzo del termine ἀχειροποίητος
nella Lettera agli Ebrei163, dove si esalta il santuario celeste, ‹‹una Tenda più grande e più
perfetta››, alle costruzioni dell’uomo. Ugualmente l’evangelista Marco utilizza il termine in
positivo, χειροποίητος per indicare il confronto dei templi costruiti dall’uomo e il corpo di
Cristo stesso164. Troviamo invece ἀχειροποίητος nel Nuovo Testamento in tre ricorrenze: Nel

159
Lingua G.: Le acheropite e i fondamenti della teoria dell’immagine Cristiana p. 115.
160
Ibidem.
161
Esodo 20
162
Fogliadini E., 2011, p.47.
163
Nella Lettera agli Ebrei, nel versetto 11 leggiamo, ‹‹Cristo invece, venuto come sommo sacerdote di beni futuri,
attraverso una Tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa
creazione››, mentre nel versetto 24 ‹‹Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo, figura di quello
vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore›› .
164
Marco 14, 58: ‹‹Noi lo abbiamo udito mentre diceva: Io distruggerò questo tempio fatto da mano d’uomo e in tre
giorni ne edificherò un altro non fatto da mano d’uomo ››.
55
Vangelo di Marco165, negli Atti degli Apostoli166, e nella letteratura paolina167 . In tutti e tre i
casi, il termine si riferisce a circostanze che derivano direttamente da un intervento diretto di
Dio.
L’affermazione del termine nelle Sacre Scritture fece sì che il suo utilizzo divenne comune
anche nelle comunità greco-cristiane, soprattutto durante l’epoca bizantina, quando definì
principalmente le immagini168.
Il diverso materiale sul quale queste particolari immagini si impressero, venne messo in
secondo piano rispetto al volere stesso di Cristo che le lasciò alla storia. Questa varietà di
materiali, stravolse le regole di rappresentazione iconografica cui erano abituati gli
iconografi, ritrovandosi a dover replicare fedelmente i tratti del volto del Salvatore e pure il
materiale in cui miracolosamente si trasferirono169. Le stesse immagini saranno capaci di
autoriprodursi, come vedremo nel caso del Mandylion, (Fig. 18) replicatosi miracolosamente
nella tegola detta poi Keramion (Fig.19) o della Camuliana che generò immediatamente una
copia sul tessuto in cui era stata avvolta170.
Nel corso dei secoli le copie delle acheropite furono sempre fedeli alla fisionomia del volto
del Salvatore, divergendo solo in alcuni dettagli del materiale in cui queste furono
prodigiosamente trasferite. La rilevanza dogmatica data dalla Chiesa Orientale a questa
tipologia di ritratti-reliquie, fissò in maniera inequivocabile i tratti del Salvatore, vietandone
qualsiasi fantasiosa modifica, preservandone la storicità della prova dell’Incarnazione di
Cristo171. In questo modo le acheropite entrano pienamente in un discorso legato alla

165
Marco 14,58.
166
Atti 7,48.
167
Efesini 2,11; Colossesi 2,11.
168
Fogliadini E. ci spiega che grazie all’uso nella Bibbia I.XX nella forma positiva, indicando gli idoli pagani, l’uso
del lemma contrario ἀχειροποίητος venne usato per ‹‹indicare una determinata categoria di immagini e di
rappresentazioni con un’origine soprannaturale, ponend le basi per la successiva identificazione del termine con le
rappresentazioni miracolose di Cristo, della Madre di Dio e dei santi ›› Cfr. Fogliadini E., 2011, p. 49; E. Kitzinger,
Il culto delle Imamgini, p. 93-94.
169
Le stesse immagini saranno capaci di autoriprodursi, come vedremo nel caso del Mandylion, replicatosi
miracolosamente nella tegola detta poi Keramion.
170
Cfr cap. 4.2 p.; Kitzinger E. 2000, p.46 : Lingua G., p. 126.
171
Vedi P. Evdokìmov: Teologia della Bellezza, L’arte dell’icona. San Paolo edizioni, 2002.
56
cristologia delle immagini: come reliquie legittimano storicamente Cristo, e come immagini
da Lui volute, ne giustificano la rappresentazione172.
Cercando un antecedente pagano delle acheropite, possiamo trovare riscontro nei διιπετής,
simulacri ‹‹caduti dal cielo›› o ‹‹scagliati da Zeus››. Inizialmente il termine diipetés stava ad
indicare letteralmente le pietre meteoritiche a cui venivano attribuiti dei poteri divini. Con
l’impreziosirsi della mitologia greca queste pietre nella leggenda mutarono in ceppi di legno,
facilmente modellabili in figure antropomorfe. In tale trasformazione, i diipetés mantennero
inalterata la loro origine celeste173. Esempi di questi simulacri sono il Palladio di Troia,
l’Artemide di Efeso, l’Artemide Tauropolos e il Serapide di Alessandria. Temuti e adorati,
capaci di garantire ai propri fedeli la protezione da invasioni e da attacchi nemici, furono
venerati con dei riti dedicati, che consistettero in ornamenti di fiori, abluzioni, unzioni e pasti
a loro serviti174. Tra i diipetés più noti dell’antichità, troviamo il Palladio di Troia, al quale
nell’epica greca, fu attribuito lo stesso destino della città175. La statua alta tre cubiti (circa
133 cm), raffigurante la dea Pallade Atena armata, con la lancia sollevata nella destra, e nella
sinistra lo scudo, (o in altre rappresentazioni, un fuso e una conocchia), venne nascosta in un
luogo inaccessibile del tempio, mentre una replica assolutamente perfetta fu posta alla
venerazione dei fedeli. Durante la guerra di Troia gli achei seppero da Eleno, Figlio di
Priamo, che la fortezza di Ilio non sarebbe caduta sino a che il Palladio fosse rimasto al suo
interno. Virgilio nell’Eneide176, riferisce che gli eroi achei Diomede e Odisseo trafugarono
proprio la copia esposta al popolo e non l’originale. In questo modo, Enea in fuga da Troia,
portò a Roma il vero palladio, conservato nel Tempio di Vesta poi nel Palatino177.

172
Cfr. Lingua G., 2010, p. 117.
173
Cfr. Fogliadini E., 2011, p.51.
174
Come vedremo, questo stesso potere protettivo dei διιπετής venne poi attribuito alle Acheropite.
175
Donata da Zeus a Dardano, antenato dei troiani, padre di Erittonio, che a sua volta generò Tros, ne era pegno
dell’estrema salute di Troia. Cfr E. Paribeni, Enciclopedia dell' Arte Antica, 1963, s.v. “palladio”.
176
Virgilio Aen. II 163 ss.
177
Troviamo corrispondenza di questa versione nella raffigurazione di monete forgiate durante il governo di Cesare
(101-44 a.C.), dove nel dritto troviamo la testa di Venere con diadema e nel verso Enea, raffigurato in cammino
nell’atto di salvare il padre Anchise, mentre regge con la mano destra il Palladio. Cfr il sito http://numismatica-
classica.lamoneta.it/moneta/R-I2/7.
57
L’importanza di questo diopetés fece si che molte tradizioni del mondo antico attestassero la
provenienza del proprio palladio dalla stessa Troia178. Una tradizione di età bizantina affermò
che da Roma venne trasferita a Costantinopoli al tempo di Costntino I (336-337) e nascosto
sotto la Colonna di Costantino. Possiamo capire attraverso la storia di questi diipetes, quanto
la loro caratteristica predominante, l’essere ‹‹scagliati da Zeus›› e il loro potere tutelare, fosse
di fondamentale importanza per la comunità cui erano protettrici. Testimonianza cristiana di
quanto fosse radicato e forte il culto pagano verso questi simulacri, l’abbiamo attraverso il
tentativo di San Paolo diopporsi a queste venerazioni. Giunto ad Efeso e professata la parola
di Gesù e insegnato ai cittadini loro di non adorare idoli se non la parola di Dio, si trovò
contro una folla di efesini, richiamati da ‹‹un tale, chiamato Demetrio, orefice che facea dei
tempietti di Diana in argento››179. La predica di Paolo andando contro l’idolatria e
screditando la natura divina del simulacro, suscitò la completa avversione degli artigiani e
della folla devota alla dea, ‹‹e voi vedete che questo Paolo ha persuaso e sviato gran
moltitudine non solo in Efeso, ma quasi in tutta l’Asia dicendo che quelli fatti con le mani
non sono dei››180. Demetrio sentiva nelle parole del Santo la fine della sua arte e un pericolo
per lo stesso culto181 e del tempio della dea, una delle sette meraviglie del mondo antico. La
disputa venne considerata talmente di elevata importanza che si corse al teatro a discuterne e
l’arringa di Alessandro, scelto dai giudei, cercò di calmare gli animi infuriati degli efesini,
‹‹Uomini di Efeso, chi è che non sappia che la citta degli Efesini è la guardiana del tempio
della gran Dea e dell’immagine caduta da Giove?››182. Messo in chiaro questa importante e
richiesta “verità” l’assemblea si sciolse e Paolo partì per la Macedonia183. Questa vicenda
degli Atti ci fa comprendere quanto fosse radicato e importante il culto dei diipétes, e pure
quanta ricchezza economica portava alla comunità cui erano legati.

178
Cfr Paribeni E. Enciclopedia dell' Arte Antica, 1963, s.v. “palladio”.
179
Atti, 19.24.
180
Atti, 19.26.
181
‹‹E non v’è solo pericolo che la nostra arte cada in discredito, ma che anche il tempio della nostra dea Diana sia
reputato per nulla, e che sia perfino spogliata della sua maestà colei, che tutta l’Asia e il mondo adorano›› Cfr. Atti
19,27
182
Atti, 19.35.
183
Atti, 20.1.
58
Dai diipétes cogliamo un confronto pagano di contenuto con gli Acheropiti, ma non di forma.
Come abbiamo visto in questi due casi, i simulacri erano delle statue, idoli del tutto lontani
dalla approvazione cristiana. Le acheropite, infatti, erano “immagini” non fatte dalla mano
dell’uomo, più precisamente, per quanto riguarda quelle di Cristo, delle impronte miracolose
del solo volto divino, in supporti non consueti184.
Come ci suggerisce lo storico Grabar A.185, questa forma d’immagine trova il suo possibile
modello pagano nelle Gorgoni186. Il Gorgoneion, la testa della gorgone187 (Fig.17) dal forte
potere apotropaico e protettivo, addolcita e umanizzata verso la fine del VI secolo a.C, venne
usata come motivo decorativo in edifici privati e templi. Allo stesso modo, il Mandylion
inizialmente fu posto sulla porta della città di Edessa come un talismano dai poteri
profilattici, tanto da intimorire i nemici più bellicosi. Oltre all’aspetto esteriore e al potere
apotropaico protettivo che accomuna per lo storico Grabar A., il Mandylion alla
raffigurazione del Gorgoneion, ancora presente sugli oggetti di epoca bizantina188, un'altra
caratteristica accostabile è che la capacità della gorgone Medusa, ovvero pietrificare ogni
mortale che l’avesse vista in volto, non svanì con la morte della stessa, avvenuta attraverso la
spada di Perseo, ma la testa continuò a pietrificare, anche se priva di vita. In un certo senso il
suo potere, nel mito, vinse la morte. In maniera analoga nelle leggende sulle Acheropite di
Cristo, le immagini conservarono le capacità miracolose che in vita furono del Salvatore,

184
Sia il Mandylion di Edessa che quello di Camuliana, riportano miracolosamente il volto di Cristo su teli usati
come asciugatoi o sudari. Il termine stesso è di derivazione araba ( mandil o mendil) che vuole dire per l’appunto
asciugatoio, sudario. Cfr. Enciclopedia dell’arte Medievale, 1991, J. Lafontaine-Dosogne, s.v. “Acheropita”
185
Grabar A., La Saint Face de Laon. Le Mandylion dans l’art orthodox, Seminarium Kondakovianum, Prague
1931, p. 34.
186
Le gorgoni, nella mitologia greca, erano tre sorelle, Steno (la forte), Euriale (la vastità del mare) e Medusa (la
sovrana). Il loro aspetto arcaico era mostruoso: ali d’oro, mani con artigli di bronzo, zanne di cinghiale e serpenti al
posto dei capelli. La loro bruttezza era tale da impietrire chiunque le guardasse. Delle tre sorelle Medusa era la più
nota, dato il suo compito di custode degli inferi. Cfr Grande Dizionario Enciclopedico UTET, 1991, s.v. “gorgone”;
Fogliadini E., p. 54.
187
Parliamo principalmente del modello fidiaco che visse sino alla tarda antichità, utilizzato come elemento
decorativo nella decorazione di fregi, mensole, chiavi di archi, scudi, armature, specchi, gemme, in età ellenistica e
romana in ambiente asiatico. Cfr Enciclopedia dell’Arte Antica, 1960, S. Tucchi, s. v. “gorgone”.
188
Grabar A., La Saint Face de Lao, Le Mandylion dans l’art orthodoxe, p. 34
59
trasferite per suo volere nei ritratti-reliquie, e pure dopo la vittoria di Cristo sulla morte,
continuarono ad avere poteri protettivi e miracolosi.
Lo studio delle immagini Acheropite nell’occidente ha sempre avuto un approccio storico-
critico, vedendo “l’invenzione” e l’affiorare di queste immagini nell’epoca di Giustiniano
(483-565), come necessità fissativa dei tratti del volto di Cristo, comprendendo una
giustificazione alla rappresentazione del Salvatore. L’analisi del teologo liberale E. von
Dobschüz189, vide nelle acheropite il risultato di forte ellenizzazione del pensiero cristiano,
durante il regno di Giustiniano e l’allontanarsi dalla matrice ebraica. Questa teoria fu
influente in tutta l’analisi successiva sulle Acheropite ‹‹facendo scuola tra i Teologi e gli
storici dell’arte occidentale190››. Il criterio storico-critico occidentale non tenne conto della
carica dogmatica data nell’Oriente cristiano a queste particolari impronte. Il loro significato
teologico si fonda sulla prova visiva di tangibilità del Logos191, divenendo vere reliquie dalle
origini miracolose e capaci di compiere dei miracoli, per volontà di Dio. Se dunque
l’Occidente cristiano è dubbioso su come nacquero le immagini Acheropite, e trova risposta
solo nella necessità di fissazione del volto di Cristo nella storia -avvenuta nel VI secolo-, ne
accetta l’icona con il solo scopo funzionale-didascalico192. La teologia della chiesa
Ortodossa invece, prende per verità la nascita di queste preziose immagini per volere divino
e ne fa un fondamento teologico193.

189
Cfr. Doschütz E. 2006.
190
Fogliadini E., cit. pag. 59.
191
Giovanni Damasceno nell’Adversus Constantinum Cabalicum ( PG 95, 326) dirà ‹‹Se un pagano viene da te
dicendo: “Mostrami la tua fede”, tu conducilo in una chiesa e mettilo davanti alle immagini sacre››.
192
Dopo che il vescovo Sereno di Marsiglia distrusse delle immagini sacre, Gregrio Magno scrisse che ‹‹non si
dovevano distruffere le icone, bensì esporle nelle chiese affinchè gli analfabeti, guardando le pareti, possano leggere
ciò che non possono leggere nei libri››. Queste parole si fissarono come punto imprescendibile nella riflessione
sull’immagine. Gregorio Magno, Lettere, a cura di V. Recchia, 4 voll., Citta Nuova, Roma 1996-1999, III, 439.
193
Per approfondire il discorso sulle diversità di interpretazione delle Sacre immagini tra l’Occidente e l’Oriente
cristiano, si veda l’esaustivo articolo pubblicato nella Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione e scritto da
Emanuela Fogliadini: Gi Acheropiti di Cristo in Prospettiva Teologica, RTE, XV, 2011,30, pp. 469-482.
60
4.2 Le Acheropite per eccellenza

Se il dibattito sulla rappresentabilità di Cristo si risolse con l’incarnazione, il modo in cui


doveva essere rappresentato, si risolse con le Acheropite.
Le immagini-reliquie per eccellenza, che si diffusero maggiormente nell’Oriente cristiano,
furono i volti della Camuliana e del Mandylion di Edessa. Le impronte del Volto, inquadrato
da una lunga capigliatura conclusa in riccioli, si stagliano sull’inconsueto supporto,
asciugatoio o sudario, senza nessun altro dettaglio del corpo. In questo modo il risalto va
soprattutto allo sguardo, che racchiude la verità dogmatica dell’incarnazione, divenendo il
primo luogo di accesso allo Spirito194, il collegamento tra il fedele e lo Spirito Santo e la
prova ontologica dell’esistenza di Dio195.
Nel pensiero teologico dell’Oriente cristiano, i segni della natura di Cristo, furono presenti
nel Suo volto sin dalla sua incarnazione196. Questa stessa natura si fissò nel Volto impresso
nelle Acheropite, di cui i tratti somatici raccolsero gli elementi caratteristici e distintivi delle
icone orientali, colmandosi di significati simbolici della mistica ortodossa 197: sul volto
maturo, dai lineamenti regolari, è assente qualsiasi segno di sofferenza. Gli occhi neri, grandi
e aperti, fissano chi li contempla; la barba biforcuta; il naso lungo e stretto; i capelli
perfettamente divisi prima lisci e poi ondulati alle estremità, terminanti in due ciuffi a
simboleggiare la doppia natura di Cristo e la Trinità; caratteristiche capaci di renderci
dunque partecipi di una ‹‹natura umana assolutamente pura, che accoglie tutte le sofferenze
del mondo decaduto››198.

194
Brambilla F.G. Chi è Gesù? Alla ricerca del volto, p. 17.
195
Floflorenkji P.le porte regali. Saggio sull’icona p. 43.
196
Fogliadini E. 2011, p.44.
197
Come riporta O. Clement ‹‹Il simbolismo dell’icona è fondato in tal modo sull’esperienza della mistica
ortodossa: gli occhi immensi, le labbra sottili e pure, la sapienza della fronte dilatata, tutto sta a indicare un essere
unificato, pacificato, illuminato dalla grazia››, in La Chiesa ortodossa, Querinina, Brescia 2005, p.114.
198
Uspenskji L., Losskij V., Il senso delle icone, Jaca Book, Milano, 2007, cit. p. 81.
61
4.3 La Camuliana

La prima immagine Acheropita di cui si ha notizia, porta il nome del villaggio Camulia nella
Cappadocia. La piccola città, iscritta nelle liste episcopali come quarto luogo di suffragio di
Cesarea, venne chiamata poi nel VI secolo Giustinianopoli, in onore all’imperatore
Giustiniano199. Le vicende narrate sull’origine di questa Acheropita, sono molto
frammentarie e si intrecciano con le narrazioni delle successive riproduzioni e con le
personalizzazioni dei vari autori che ne riportarono le notizie200. La cronaca più antica risale
agli anni tra il 560 e il 574. Una donna pagana di nome Ipazia, desiderosa di credere in
Cristo, voleva una prova visiva della sua fisicità. A lei fu concesso di trovare in una piscina
del suo parco un’immagine dipinta su un telo di lino, nel quale Ipazia riconobbe
immediatamente i tratti del viso di Cristo. Dopo averla tirata fuori dall’acqua, l’avvolse con
cura nelle vesti. L’immagine se pur ritrovata immersa non si bagnò, e miracolosamente si
duplicò nella veste di Ipazia. L’origine miracolosa dell’immagine, che in questa leggenda
non è legata a un intervento diretto di Cristo, probabilmente per un rimaneggiamento tardivo
della leggenda, attesta la prodigiosità e la veridicità di questa Acheropita. La copia generata
sulla veste di Ipazia, essendo di natura miracolosa come l’originale, ne manterrà le
prodigiosità curative e la medesima capacità di rappresentare il prototipo201. Nella leggenda
delle Acheropite il duplicarsi in maniera miracolosa, sarà un tratto comune a tutte le
leggende riguardanti questi particolari ritratti-reliquie. Sempre secondo le cronache antiche,
l’originale apparsa alla donna pagana rimase a Camulia, mentre la replica fu trasferita a
Cesarea. Il racconto, sull’Acheropita, viene attribuito a Gregorio vescovo di Nissa, celato
sotto il nome di Nisseno, presentandosi nella cronaca come protagonista. Venne redatto tra il
600 e il 750, e contenuto nel libro liturgico Sinassario202. Il racconto ha per tema l’origine

199
Gharib G. 1993, p.36.
200
Per approfondimenti sulla storia della Camuliana, vedansi E. Fogliadni pp. 125-134.
201
Come sarà poi dettato dal secondo concilio di Nicea del 787.
202
I Sinassari sono dei libri liturgici che contengono delle raccolte di lezioni, in gran parte, sulle vite di santi ridotte
a "legenda”. Da Giuseppe De Luca, in Enciclopedia Italiana Treccani, 1936, voce “sinassari”; Troviamo il testo in
62
miracolosa dell’Acheropita della città di Camulia, chiamata da Gregorio “la nuova
Betlemme”, accentuandone in questo modo il legame tra l’incarnazione di Cristo e la
manifestazione dell’Acheropita, apparsa al tempo di Diocleziano (284-305) e traslato poi a
Cesarea sotto Teodosio I (379-395). Come nella narrazione precedente a trovare l’immagine
è una donna, ma questa volta di nome Bassa, ribattezzata poi col nome di Aquilina 203.
Timorosa del marito, persecutore dei cristiani, non si sentiva sicura di professare la fede
apertamente. A infonderle sicurezza fu una voce dal cielo che le diede disposizione per
l’imminente apparizione di Cristo. La richiesta fu di far trovare dentro una stanza un panno
bianco su un piatto pulito, e acqua in un recipiente di vetro intatto. Ad Aquilina venne detto
di prostrarsi a terra. Solo in quell’atto di preghiera Cristo si sarebbe rivelato. Il Salvatore
apparve circondato da una schiera di angeli e si lavò il volto e lo asciugò nel panno, in questo
modo comparvero miracolosamente i sui tratti nel telo. Dopo la morte della donna, Gregorio
di Nissa racconta di aver avuto una visione, nella quale gli venne rivelato il luogo dove la
donna nascose l’immagine del Sacro Volto. Trovata, la portò con sé a Cesarea. Qui
l’Acheropita compì numerose guarigioni e molti miracoli. Questa versione dell’origine
dell’icona è secondo E. Von. Dobschutz, ‹‹insufficentemente motivata e descritta in modo
grottesco, in base allo stile di un epoca posteriore››204, rispetto al primo racconto sulla
Camuliana, mentre la Fogliadini205 considera la cristofania finalizzata unicamente alla
fabbricazione dell’icona di Cristo e il racconto ‹‹costruito ad hoc per legittimare l’immagine
miracolosa di Cesarea››206. Il racconto si conclude con la datazione della riapparizione,

greco della parte riguardante il racconto sulla Camuliana in Nicodemo Hagiorita, Synaxaristes, Atene, 1929, vol. II
pp. 307-308.
203
Scrive Gregorio: «Ascoltate, fratelli e padri, e racconterò a voi tutti che siete timorati di Dio le cose successe
nella nuova Betlemme di Camuliani, e io, l’umile Gregorio, metterò sotto gli occhi di tutti le cose che riguardano la
veneranda immagine e la beata Bassa, il cui nome è stato cambiato in Aquilina, cose mostrate dal Santo Spirito a
me, che ne sono indegno».
204
Dobschutz E. 2006, Immagini di Cristo, Medusa, Milano 2006, cit., p. 53.
205
Fogliadini E., 2011, p.126
206
Ivi, p.127.
63
avvenuta ‹‹sotto il regno del pio Teodosio il Grande, nell’anno 392, per la gloria
dell’Unigenito Figlio di Dio Padre››207.
Dalla cronaca di Giorgio Cedreno208 possiamo apprendere che la Camuliana fu trasferita da
Cesarea di Cappadocia a Costantinopoli, nel 574, insieme ad altre reliquie di grande valore
devozionale, come un pezzo della vera Croce proveniente da Apamea209. Inserita dunque nel
piano di valorizzazione della nuova capitale dell’Impero sotto Giustino II (565-578), la
Camuliana divenne un vero palladio, capace di garantire protezione alla capitale e alle
milizie. Portata in battaglia, soprattutto nelle campagne contro l’Impero Persiano210,
l’immagine Acheropita del Volto del Salvatore, vittorioso sulla morte e sulla sofferenza,
rafforzava gli animi delle truppe, infondendovi coraggio e certezza sulla vittoria. Sotto
Eraclio (575-640), ebbe un’importante ruolo. L’Acheropita venne portata dall’imperatore
nella campagna militare del 610 dall’Africa a Costantinopoli. Negli addii solenni al popolo,
prima della partenza per la campagna contro la Persia del 622, l’imperatore teneva in mano
uno stendardo nel quale fece ricamare l’immagine dell’Acheropita, servendosene come
palladio. Nel 626 il patriarca Sergio (610-638), vedendo la città sotto assedio da parte degli
Avari, supplicò l’intervento divino portando con sé in processione attorno alle mura
difensive, le immagini della Santissima Madre di Dio con il Bambino e l’Acheropita del
Salvatore 211.
Nei racconti sull’origine della Camuliana si è visto come la capacità miracolosa di
duplicazione dell’immagine, non fatta da mano dell’uomo, sia una caratteristica peculiare.
Oltre alla copia generata nel giorno stesso della miracolosa apparizione, la Camuliana nel

207
Nicodemo Hagiorita, op. cit., p. 308.
208
Giorgio Cedreno visse tra la fine del IX e l’inizio dell’XII secolo. Non abbiamo notizie sulla sua vita, se non che
fu autore di una cronaca universale che si estende dalla creazione del mondo, sino al 1057.
209
Gharib G. 1993 p. 38.
210
Le fonti riportano la partecipazione dell’acheropita nelle guerre contro l’Impero persiano sotto Tiberio II (578-
582), Maurizio II (582-602) e Eraclio II 8610-640) di cui sappiamo attraverso il poeta Giorgio di Pisidia (VI-VII
sec.) dell’efficacia dell’Acheropita nellle battaglie imperiali dal canto riportato nel De expedizione Persia I, p. 139
ss. Ed. Bon.
211
Cfr. p.26.
64
576, come riportato nei Menea212 dell’11 agosto, ne generò un’ulteriore ai tempi di Tiberio
II a Costantinopoli. Una donna patrizia di nome Maria si ammalò e avendo fallito le cure
prestate dai medici, chiese ai sacerdoti di poter tenere per quaranta giorni in casa sua l’icona
della Camuliana. Il Clero vista la profonda devozione della donna, esaudì il suo desiderio; la
patrizia accolse l’immagine e l’avvolse in un lenzuolo di cotone e la pose in una cassa vuota,
venerandola a lume di candela per quaranta giorni. Le condizioni della donna peggiorarono
comunque, a tal punto che non potè più alzarsi dal letto. Sempre devota alla Sacra immagine,
Maria chiese alla domestica di portarle la cassa, ma questa prese fuoco. Le grida di spavento
della donna attirarono i sacerdoti, che accorsi, si misero a pregare. Grazie alle preghiere
l’incendio si placò. Dopo che svolsero dal lenzuolo l’Icona, essa risultò miracolosamente
intatta e per loro stupore l’Immagine si era miracolosamente duplicata sul telo di cotone. La
patrizia guarì non appena entrò in contatto con essa, e prima di morire, la offrì in dono alle
monache del Monastero dell’Ascensione di Melitene nella Cappadocia orientale. Le
monache in fuga, durante la guerra di Eraclio II contro la Persia (626-641), si recarono a
Costantinopoli. Nella capitale furono accolte dal patriarca Sergio, e mise loro a disposizione
un monastero. Come il patriarca venne a sapere della preziosa Icona, la volle per se. Per
quest’atto venne colpito da ogni malattia e ebbe ricorrenti visioni sulla ingiusta sottrazione.
Solo quando ebbe restituito alle monache l’Acheropita, tutti i mali cessarono213.
Se pur nessuna cronaca riporta la fine della Camuliana e delle miracolose riproduzioni,
possiamo supporre che andò distrutto durante la prima ondata iconoclasta, iniziata nel 726 da
Leone III. Nelle deposizioni riportate durante il secondo concilio di Nicea del 787, vengono
elencati i duri gesti iconoclasti sulle icone e sui libri liturgici che riportavano le miniature di
Sacre immagini214. Per quanto riguarda la Camuliana rimane nelle deposizioni del Concilio,

212
I Menea o Menaion ( Menologio), ‹‹sono un tipo di calendario ortodosso in cui sono riportate tutte le feste fisse
dell'anno liturgico secondo la loro cadenza, mese per mese…I primi calendari conservati riflettono consuetudini
gerosolimitane del V secolo, sebbene i testi siano in lingua siriaca, armena o georgiana e non in greco ››. Da N.P.
evcenko, Enciclopedia dell’Arte Medievale, Treccani, 1991, s. v. “menologio”.
213
Cfr. Fogliadini E. 2011, pp. 129-130 e Gharib G.. 1993, pp. 39-40.
214
Demetrio, diacono e skeuophylax ( sacrestano e guardiano dei vasi sacri e dei paramenti liturgici), riferì che gli
eretici bruciarono due libri con miniature in argento. Scoprì pure che vennero tagliate dal l libro del chartophylax di
Costantino, le pagine contenenti degli scritti sulle venerande icone. Cfr. Terza sessione del Concilio di Nicea II, in
65
la testimonianza di Cosma, tesoriere della cappella del patriarca, mostrante un martirologio
nel quale era chiaramente strappata ‹‹la parte della storia dell’icona miracolosa della
Camuliana››215 . Nonostante la distruzione della Camuliana, la diffusione del culto delle
Acheropite, non si arrestò e alla Camuliana subentrò il Mandylion di Esssa, ‹‹forte di un
documento diretto di Cristo, difficilmente confutabile da parte iconoclasta››216.

4.4 Il Mandylion di Edessa

Per descrivere le vicende narrate sulla creazione del Mandylion è d’uopo introdurre
l’argomento con la precedente presenza nella città di Edessa, attuale Urfa in Turchia, ai
tempi del re Agbar V ( 4-7d.C.; 13-50 d.C.), della corrispondenza tra lo stesso re e il
Salvatore. Lo scambio di lettere, riportate da Eusebio di Cesarea, nella Storia Ecclesiastica,
avvenne quando il re, gravemente ammalato, inviò a Cristo una richiesta di guarigione.
Saputo dei prodigiosi miracoli compiuti da Cristo, ‹‹il re Agbar che regnava sulle
popolazioni dell’Eufrate, comportandosi molto nobilmente, poiché lo consumava un male
terribile217, e che non poteva essere curato con mezzi umani, quando venne a conoscenza del
nome di Gesù, ormai molto noto, e del suo potere miracoloso, attestato concordemente da
tutti, lo supplicò per mezzo di una lettera, chiedendogli che lo liberasse dalla sua malattia.
Ma Egli, pur non prestando orecchio a quell’invito, lo degnò di una lettera personale,
promettendogli di inviargli uno dei suoi discepoli per guarirlo dalla sua malattia e nello
stesso tempo per portare la salvezza a lui e ai suoi cari››218. Lo stesso Eusebio garantì
l’autenticità di questa corrispondenza, raccolta negli archivi della stessa città, allora retta da

Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto dell’immagine, presentazione e cura di Luigi Russo , Palermo, Aesthetica,
1999, p, 54.
215
Dobschutz E. 2009, cit. p.62.
216
Fogliadini E., 2011, cit. p. 132.
217
Secondo lo stesso Eusebio il re soffriva di podagra. Per i Siri invece, avendo come soprannome Ukama, il Nero,
il male che lo aflisse fu la peste nera. L’immagine della tradizione, derivata dall’unione delle due possibili malattie,
fu quella di un uomo paralizzato dalla gotta e contemporaneamente consumato dalla lebbra Cfr. E Von Dobschutz,
Immagini di Cristo, p.107.
218
Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica, Citta Nuova, Roma, 2001 p.85.
66
un sistema monarchico219. Il re Agbar consapevole ‹‹delle insidie che…i Giudei ordiscono››
contro Cristo, lo invitò a rifugiarsi nella sua ‹‹piccolissima, ma santa›› cittadina. Gesù se pur
elogiando il re, perché capace di credere in lui senza averlo mai visto, rifiutò l’invito, ma gli
promise, dopo aver compiuto la sua missione di salvezza, di fa arrivare da lui un discepolo, a
guarirlo e a dare la vita a lui e ai suoi cari220.
La presenza delle lettere è testimoniata pure dalla pellegina Egeria, una colta galiziana, che
dotata di beni consistenti, compì il suo pellegrinaggio alla fine del IV secolo, in tutti i luoghi
menzionati nelle Sacre Scritture. Avuta l’occasione di visitare Edessa, vide le la
corrispondenza tra il Cristo al re Agbar, venerate con profonda devozione221.
La lettera contenente la promessa di Cristo di inviare un discepolo, a dare vita al re e ai suoi
cari, divenne per la popolazione di Edessa un vero Palladio. Per questo nelle trascrizioni
successive delle lettere, riportate pure dallo storico Procopio di Cesarea (500-560), critico nei
confronti degli Edesseni, alla conclusione della lettera inviata da Cristo appare che ‹‹la città
sarebbe stata inespugnabile da parte dei barbari››222 . La corrispondenza tra il re e Cristo fu
creduta talmente vera, dalla chiesa orientale, che venne letta come testo liturgico accanto ai
vangeli, tradotta dalla versione siriana dal Santo Euthymios223. Diffusa in tutto l’oriente,
venne usata come talismano contro le malattie e le guerre224.
Nei resoconti del Chronicon Edessenum225, scritto dopo l’assedio dei persiani del 544, viene
fatta menzione solo di una protezione divina data alla città di Edessa, ma non tratta né
dell’immagine Acheropita, ne della corrispondenza tra il re Agbar e Cristo. La motivazione
potrebbe essere che per il cronista, essendo all’interno della città, fosse scontato il
riferimento al potere protettivo delle reliquie di Cristo, che invece non mancano nelle
testimonianze di Eusebio e Egeria.

219
Ivi p.85
220
Troviamo le trascrizioni di entrambe le lettere sempre nella Storia Ecclesiastica, pp. 85-86
221
Cfr. Egeria, Pellegrinaggio in Terra Santa, Città Nuova, Roma, 2000, pp. 108-114.
222

223
Ancora oggi la Chiesa naronita fa memoria delle lettere di Agbar e Cristo il 18 agosto. Cfr Gharib G. 1993, p. 47.
224
Gli ostraka del V-VI ritrovati in Egitto ne testimoniano l’uso come amuleto. Gharib G. 1993, p. 44.
225
Una Cronaca siriaca scritta di autore ignoto, riguardante gli eventi di Edessa dal primo re 133/2 a.C. fino al 544,
anno dell’assedio dei Persiani.
67
Nella storia, la fama della corrispondenza fu soppiantata dalla riscoperta da parte del vescovo
Eulalio del Mandylion, nascosto nelle mura della città. Le lettere furono comunque venerate
e conservate, poi come accadde per il Mandylion e per la sua miracolosa riproduzione, il
Santo Keramion, trasferite a Costantinopoli come vere reliquie di Cristo.
Le numerose e svariate testimonianze, spesso contradittorie, accompagnano dall’antichità la
storia sull’Acheropita di Edessa. Nonostante ciò, la Chiesa ortodossa vede la veridicità e
l’autenticità in questi racconti sulla immagine-reliquia, allontanandosi dall’approccio
occidentale che le interpreta come una unica strategia creativa attorno alla creazione dell’
icona226. La vicenda che ne narra la genesi della sacra immagine, segue i fatti legati alla
corrispondenza tra il re Agbar V e Cristo, ambientata negli ultimi giorni prima della passione
di Gesù, dove il re gravemente malato, inviò degli ambasciatori dal Salvatore, per riceverne
la guarigione. Le due fonti che principalmente riportano i fatti, ne attestano la creazione in
due modi differenti. La Dottrina di Addai227 attesta, infatti, che la raffigurazione del volto
avvenne per mano dell’uomo, ad opera dell’archivista pittore Anania, inviato appositamente
dal re per dipingere il volto di Cristo: ‹‹Avendogli Gesù parlato così, l’archivista Hannan, che
era pittore del re, dipinse l’immagine di Gesù con pigmenti di pregio e la portò al re Agbar
suo maestro. Quando costui la vide, la ricevette con grande gioia e la pose con grande onore
in una delle stanze del suo palazzo. E l’archivista Hannan raccontò ad Agbar tutto quello che
aveva sentito dire da Gesù, poiché egli aveva fissato nei suoi libri, le parole di
quest’ultimo››228 (Fig..20). Questa versione rientra in quella tradizione consueta di possedere
all’interno dei palazzi dei reggenti, i ritratti di personaggi illustri, come conferma la stessa
Dottrina, riportando la notizia della collocazione del ritratto all’interno del palazzo di
Edessa229. Negli Atti di Taddeo le modalità di genesi dell’immagine cambiano radicalmente.
In questa versione è Cristo stesso che sceglie di lasciare impressi i tratti del proprio volto su
un panno, in soccorso all’incapacità di Anania di ritrare il suo volto: ‹‹Anania per quanto

226
Fogliadini E., 2011, p. 140.
227
La dottrina di Addai è il racconto di uno dei 70 discepoli di Cristo, scritto tra il IV e il V secolo, inviato
dall’apostolo Giuda Taddeo al re di Edessa. Arivato nella città avrebbe evangelizzata.
228
A. Desreumaux, Historie du roi Abgar et de Jesus, Brepols, Turnhout-Belgique 1993, p.59.
229
Fogliadini E., Gli Acheropiti di Cristo in prospettiva Teologica, p. 479.
68
fissasse Cristo non lo poteva afferrare. Questo allora, buon conoscitore di cuori, chiese di
lavarsi. Gli fu dato un panno, e lavatosi, si asciugò la faccia. Essendo rimasta disegnata la sua
immagine nella sindone, la consegnò ad Anania dicendogli: Va’ e dalla a chi ti ha inviato.
Digli, la pace sia con te e con la tua città.››230. Dopo che Anania consegnò al re il Mandylion,
esso venne posto in una nicchia della porta della città al posto di una statua pagana, con la
scritta ‹‹Cristo, chi in te spera, non si perderà››. Il racconto continua con la notizia della salita
in trono nel 57, del nipote di Agbar, Manu V, quando l’Acheropita fu minacciata
dall’intenzione del nuovo regnante di restaurare il paganesimo. Il vescovo di Edessa,
vedendo il Santo Volto in pericolo, dopo un sogno di avvertimento, lo murò in una nicchia
proteggendolo con una tegola. Col passare del tempo il Mandylion fu dimenticato. La
riscoperta dell’icona miracolosa avvenne in occasione dell’assedio del 544 da parte del re
persiano Cosroe, che rese allo stremo delle forze la popolazione Edessina. Interessante è
notare che se pur molte cronache riportarono la scoperta dell’Acheropita proprio in occasione
dell’assedio, Procopio non ne riferisce notizia. Questa assenza secondo A. Cameron231,fu
giustificata dal fatto che egli non era a conoscenza dell’immagine. Evagrio, invece, nella
Storia Ecclesiastica, attribuisce proprio ad essa la svolta vittoriosa della città, rivestendo il
Mandylion del ruolo di Palladio, e sostituendolo alle lettere232. L’importanza data alla Sacra
immagine, posta come unico mezzo miracoloso per la vittoria, ci fa comprendere quanto per
Evagrio fosse importante riconoscerne la prodigiosità233.
A riscoprire il Mandylion dopo cinque secoli, fu il vescovo Eulalio – anche se la Fogliadini,
riportando la nota del E. von. Dobschutz, precisa che non vi è traccia storica di questo nome
a Edessa – avvertito nel sogno da una donna, dalla figura non umana. Indicatogli il luogo del

230
Atti di Taddeo, in L. Morandi, Apocrifi del nuovo Testamento, 1: Vangeli, 3 voll UTET, Torino 1994, 577.m
231
A. Cameron, The Mandylion and Bizantine Iconoclas, in The holy Face and the Paradox of Representation p. 38
232
Dopo aver accennato al resoconto di Procopio sulle lettere tra il re Agbar e Cristo, introdusse l’icona miracolosa
nella fase cruciale del racconto: ‹‹ Ridotti ad un totale stato di impotenza, si rivolsero all’immagine fatta da
dio…ecco allora che, essendo scesa la potenza divina in soccorso alla fede di quanti avevano agito in quel modo, si
compì ciò che prima era stato impossibile, subito infatti le travi [d’assedio dei persiani] si incendiarono e ridotte in
carbone in minor tempo di quanto si possa dire, trasmisero la fiamma alle parti più alte, finchè il fuoco non avvolse
tutta la costruzione››in Evagrio di Epifania, Storia Ecclesiastica, IV, 27, cit. pp 232-233.
233
Cfr. Dobschutz E. immagine di Cristo, p.95.
69
nascondiglio, il mattino seguente, il vescovo trovò il Mandylion intatto e la lampada che gli
era stata messa davanti ancora accesa. La tegola messa a protezione, riportava
miracolosamente l’impressione del Volto di Cristo, e fu chiamata poi Santo Keramion.
È probabile, come riporta la Fogliadini234, che in realtà l’immagine sia stata riscoperta
durante i lavori di ricostruzione dopo l’esondazione del fiume Dajsan, affluente dell’Eufrate,
avvenuta nel 525, che causò la morte di trentamila persone235. Ad occuparsi della
ricostruzione della città fu Giustiniano, non ancora imperatore. Durante la ricostruzione delle
mura fu probabilmente ritrovata l’Acheropita, e posta nella basilica di Santa Sofia di Edessa,
fatta costruire da Giustiniano su esempio della Santa Sofia di Costantinopoli, durante la
ricostruzione della città.
Seguendo il racconto del Sinissario del 16 agosto236, nella chiesa venne custodita da una
comunità Calcedonese-Melchita, ceduta poi ai Giacobiti-Monofisiti. Il re persiano Cosroe I
conquistò nel 609 la città, deportò in massa i cristiani Melchiti e i Giacobiti, imponendo un
vescovo nestoriano. Dal 622 al 627 l’imperatore bizantino Eraclio sconfisse Cosroe I, che nel
628 venne assassinato dal figlio. Il Mandylion dunque passò nuovamente in mano Melchita.
Con l’espansione in Mesopotamia del 20 agosto del 63, gli arabi musulmani mettono fine
alle dispute tra i persiani e i bizantini e nel 639 Edessa cade in loro potere. Inizialmente il
cristianesimo melchita venne tollerato, e il Mandylion venerato. Nel 700 la popolazione
cristiana melchita fu gravemente tassata. Per poter far fronte alle tasse loro inflitte i cristiani
melchiti diedero in pegno ad un ricco monofisita, la sacra icona, ma la sostituirono con una
copia ben fatta. Se questi dati riportati dal Sinissario del 16 agosto, sono veri, il Mandylion
venne deposto nella chiesa dei Giacobiti. Quando vennero distrutta la Camuliana, durante
l’ondata iconoclasta (726-843), gli iconoduli presero come testimonianza della scelta di

234
Fogliadini E., 2011, p.143.
235
La notizia si ritrova in Procopio di Cesarea, Le Guerra, 2.16, p.132; la citta di Edessa, come riporta il Chronicon
siriaco, era soggetta a violente inondazioni, capaci di distruggere le mura di fortificazioni e causare la morte di
migliaia di persone.
236
Il Sinissario letto il 16 agosto, letto in occasione della festa della traslazione del Mandylion a Costantinopoli, ha
per autore Simeone Metafraste, scrittore sotto l’imperatore Leone VI (886-912).Scrisse numerosi trattati di storia,
teologia e liturgia, tra cui i Sinissari per tutto l’anno liturgico. Cfr Gharib G. 1993, p.41.
70
Cristo di lasciare sulla terra, come prova visiva della sua incarnazione, una immagine
miracolosa del suo Volto impresso su un panno, il Mandylion di Edessa.237.
Ristabilito il culto delle immagine sacre, con la definitiva abolizione da parte di Gregorio IV
dell’iconoclastia nell’843, si volle portare nella capitale l’unica immagine Acheropita ancora
esistente, il Mandylion. Caduta Edessa sotto il dominio arabo, fu organizzata una spedizione
dall’Imperatore Romano I Lecapeno (620-944), e messa sotto assedio, dopo difficili trattative
con i governanti musulmani, fu stabilito un accordo di scambio: il pagamento di dodicimila
dinari d’argento, la liberazione di 200 prigionieri saraceni e la promessa che l’impero
bizantino non avrebbe più tentato la presa di Edessa238.Oltre alla Acheropita, il Sinissario
precisa che fu portata via pure la corrispondenza tra Cristo e il re Agbar. Sempre il Sinissario
ci informa che durante il corteo di rientro l’Acheropita compì numerosi miracoli, guarendo
numerosi infermi. Giunti a Costantinopoli il 15 agosto del 944 il corteo depose le reliquie
nella chiesa di Santa Maria delle Blacherne. Il giorno dopo, in un grande corteo
processionale, l’Icona di Edessa, passando per la Porta d’oro, fu portata nella chiesa di Santa
Sofia e venerata da tutti. La processione riprese e, passando attraverso il palazzo imperiale,
fu posta definitivamente nella chiesa di Santa Maria madre di Dio detta ‹‹del Faro››.
Da allora l’Acheropita fece parte attiva della liturgia Costantinopolitana, divenendo una delle
reliquie più care e visitate della città e venne istituita la festa della traslazione sotto modello
desseno.
Per quanto riguarda la fine di questa reliquia dobbiamo annotare che alcuni studiosi, come
J.Wilson239 , vedono nel racconto di un cavaliere piccardo240 partecipante alla quarta Crociata
avvenuta nel 1204, in cui fu saccheggiata Costantinopoli, l’ ultima menzione del Mandylion.
Il Cavaliere ammaliato delle meraviglie della città, ne prende nota, segnando tra queste la

237
Arcomento trattato dai difensori delle Sacre Immagini come Germano di Costantinopoli, (+ 783), Andrea di
Creta (+740), Giovanni Damasceno (+749) Giorgio di Cipro (+764) e in occidente, papa Gregorio Magno (715-731)
238
Cfr. Gharib G. 1993, p.50.
239
Jon Wilson, the shroud of Turin. The burial Cloth of JesusChrist, 1978
240
Il racconto lo si trova in A.-M Dubarle, Historie ancienne du linceul de Turin, Paris 1985, pp. 37-41 ; parti del
racconto citate da Gharib G. 1993, pp55-56.
71
mancanza di una reliquia, posta nella chiesa di Santa Maria delle Blacherne, chiamata la
Sindone del Nostro Signore.
Proprio in questa Sindone il Wilson vede il Mandylion, in realtà piegato e reso visibile solo
nel volto, trafugato e portato poi in Italia. In realtà è molto probabile che la Sindone citata dal
Cavaliere piccardo, ospitata nella chiesa delle Blacherne, fosse un’altra reliquia, diversa dal
Santo Volto di Edessa. Basti pensare che la vitalità del Mandylion, rappresentante il volto del
Cristo in piena salute, sia del tutto lontana dall’immagine riportata sulla Sindone, ritraente
Cristo morto e segnato dalla sofferenza della passione.

4.5 La tipologia del Santo Volto di Edessa

Sicuri della canonicità della riproduzione delle copie del Mandylion di Edessa e della sua
miracolosa copia, il Keramion, dettata dalla verità dottrinale attribuita a queste immagini-
reliquia nell’Oriente cristiano, possiamo analizzarne le caratteristiche tipologiche distintive,
nonostante la perdita degli originali, sulla base delle copie realizzate successivamente 241 le
caratteristiche tipologiche che le contraddistinguono. Il Mandylion e la miracolosa copia, il
Keramion, rappresentano il volto maturo e frontale di Cristo, perfettamente in salute. Uno
dei dettagli che più sorprende è l’assoluta simmetria delle due parti del volto, dettata dalla
frontalità del volto e dalla perfezione del rappresentato. I capelli leggermente mossi, si
raccolgono in una ipotizzabile coda dietro le orecchie, lasciando libero il lobo esterno.
Spuntano in vece, quattro ciocche, due per lato, più mosse e arricciate, soprattutto nelle punte
che ipoteticamente ricadono davanti al corpo. La barba, lunga, termina in due punte
morbide. La bocca è piccola, serena, pare in procinto di parlare. Il naso stretto e lungo, si
apre verso le sottili sopracciglia, che inquadrano i grandi occhi, centro dello spirito 242. Nelle
copie del Mandylion il volto si staglia su uno sfondo candido, a simboleggiare l’asciugamano

241
Il santo Volto di Edessa riprodotto dalla scuola russa di Norvgood, risalente al XII secolo , Il Santo Volto di
Laon in Francia, del XIII secolo circa, il Santo Volto di Iaroslavl, della prima metà del XIII, il Samto Volto di
Genova del XIV secolo, ne sono le riproduzioni canoniche più perfette. Cfr. Fogliadini E., 2011, p. 158; Gharib G.
1993, p. 87.

72
che accolse l’Acheropita, mentre nel Santo Keramion, il Volto è al centro di un sfondo color
ocra, a simboleggare la tegola. Un’altra caratteristica che contraddistingue le icone derivate
dal Mandylion da quelle derivate dal Santo Keramion, è la direzione dello sguardo. Se nel
Mandylion Cristo guarda verso destra, nel Santo Keramion guarda verso sinistra. Questa
particolarità evidenzia la miracolosa duplicazione speculare che ha generato il Santo
Keramion. In tutte e due le immagini è presente il nimbo rotondo nel quale è inserita una
croce. In alcuni casi, i tre bracci visibili della croce, contengono il trigramma del nome di
Dio.243 Le iscrizioni canoniche contenute nell’icona del Santo Volto di Edessa sono tre. La
prima è costituita dai due diagrammi del nome di Cristo IC, XC, iscritto ai due lati del volto
(fig.18), evidenziando in questo modo l’ipostasi del Figlio di Dio244. La seconda è, come
abbiamo detto, il trigramma del nome di Dio rivelato a Mosè sul Sinai, che mette in risalto la
natura divina di Cristo e la sua consustanzialità con il Padre O ΏN245. La terza è il nome del
Santo Mandylion in greco: ΓΟ ΑΓΙΟΝ ΜΑΝΔΙΛΙΟΝ.
La raffigurazione del Mandylion è nel mondo Orientale, l’archetipo di ogni raffigurazione
del Logos adulto, e si ritroverà come vedremo nella tipologia del Pantocrator.

243
Cfr. Fogliadini E., 2011, p.159
244
Gharib G. 1993, p. 86; Fogliadini E., 2011, p. 159.
245
Ibidem.
73
4.6 La tipologia del Cristo Pantocratore

‹‹Chi è colui nel quale tutte le cose sono state create e nel quale tutto permane, in cui
viviamo, ci muoviamo e siamo? Chi ha in se stesso tutto ciò che del Padre? Non sappiamo
ancora, da quanto è stato detto, che colui che è Dio su tutte le cose, come dice san Paolo. È
nostro Signore Gesù Cristo? Egli ha in mano tutte le cose del Padre, come egli stesso dice;
regge tutte le cose che abbraccia, e nessuno le toglie dalla mano di colui che regge tutto. Se
dunque egli possiede tutto e regge ciò che possiede, chi altro è se non il Pantocrator che tutto
regge?››246
In un clima teologico contraddistinto dalle dispute trinitarie247, Gregorio Nisseno (335-394
circa), con queste parole confutava l’eresia ariana, legittimando la figura di Cristo
Onnipotente. Vittorioso sulla morte, il Cristo Pantocratore diviene nell’arte iconografica
orientale una delle tipologie più diffuse e più significative, venendo riprodotta su sigilli,
monete, libri liturgici e posta all’interno delle chiese uno degli spazi più ambiti: la volta
absidale, la riproduzione metaforica del Cielo che si incontra con la terra, nell’altare.
Il termine Παντογρἅτωρ, Pantocratore, tradotto come Onnipotente o meglio onnireggente,
‹‹colui che tutto regge››, venne usato dai padre della chiesa per tradurre nella prima versione
greca dell’Antico Testamento, il termine ebraico Sabatoh, dandogli il significato di Dio,
dominatore di tutte le potenze celesti e terrestri248. Nell’antico Testamento si trova riferito al

246
Gregorio da Nissa, Contro Eunomio. PG 45, 524D-525°.
247
Ricordiamo che nel 325 sotto volontà di Costantino (272- 337) , vi fu il primo concilio di Nicea in cui si stabilì la
consustanzialità del Padre e del Figlio e scritto il Simbolo niceno-costantinopolitano. Nel Concilio di Nicea del 431,
venne attribuito a Maria il titolo di Theotokos «Madre di Dio», contro le teorie nestoriane che la vedevano madre
solo dell’umanità di Gesù.
248
Gharib G. 1993, p.91.
74
Padre, ma nell’Apocalisse249 si riferisce pure al Verbo incarnato, Redentore, e Giudice
universale. Nella lettera ai Romani, San Paolo afferma che L’Onnipotente ‹‹è resuscitato, per
essere il Signore dei morti e dei vivi››250, ovvero colui che tutto regge. Fu il pensiero dei
Padri della Chiesa infine a confermare il significato del Pantocrator relativamente
all’identità della natura Trinitaria di Dio251, ‹‹Lo stesso Padre per il Verbo nello Spirito opera
e dona Tutto››252.
La rappresentazione del Cristo Pantocratore fa parte delle rappresentazioni di Cristo adulto.
L’aspetto solenne e maestoso, assunto dal Logos in questa tipologia, è derivato dalle
raffigurazioni pagane dei filosofi o dei saggi, e in particolare da alcune divinità pagane, come
Zeus e Apollo253. L’affresco della catacomba di Commodilla, databile tra la fine del IV e i
primi decenni del V secolo, è tra le prime immagini che abbiamo di questa tipologia. In un
pannello affrescato che simula un soffitto a cassettoni, si vede il mezzo busto di Cristo.
(Fig.16) Il volto maturo è contornato da una lunga capigliatura, separata nel mezzo, e da una
folta barba che copre il mento e la gola. Lo sguardo rivolto verso destra è severo e pensante,
circondato da un nimbo, fiancheggiato dalle lettere apocalittiche Α e ω254. La solennità del
volto è dichiarata pure dalla veste che indossa, la toga praetexta, indossata dai magistrati
come consoli e pretori, e dagli alti sacerdoti.
Nelle opere del VI e VII secolo, nell’arte dell’oriente cristiano, ritroviamo questa tipologia
già completa nei suoi particolari. Ne è esempio l’icona del Cristo Pantocratore del monastero
di Santa Caterina del Sinai. In questa immagine, dove la Maestà del Cristo Onnipotente è a
mezza figura, appare solo la parte superiore del trono, che invece, appare integralmente solo

249
Cfr Ap 11, 17 e 21,22.
250
Cfr. Rm 14,9.
251
Carmelo Capizzi riassume il pensiero dei Padri della Chiesa sul concetto di Pantocrator, fondato sull’Antico e
Nuovo Testamento e su alcune nozioni della filosofia ellenistica, scorgendone quattro elementi concettuali:
L’onnidominazione, l’onnicomprensione, l’onnicontinenza e l’onnipresenza. La stessa Patristica ha il merito di aver
esteso l’attribuzione di Pantocrator al Logos come incarnato e allo Spirito Santo.
252
Sant’Anastasio, Epist. III ad Serpionem. PG, 633 B.
253
Cfr. Bacci M. 10; Hans Belting, La fisionomia si cristo nelle testimonianze letterarie del Medioevo. in G. Wolf,
Il volto di Cristo, Electa, Milano, 2000, p. 33.
254
Cfr. Iacobone P., p. 13.
75
nelle figure del giudizio universale, e nella Deesis, che mostrano il Cristo a figura intera,
assiso sul trono di gloria255.
Il volto frontale, allungato, dalle sopracciglia sottili e arcuate, dal naso lungo e sottile, dalle
labbra piccole e serrate contornato dalla folta capigliatura, sono caratteristiche che si
ritrovano anche nelle Acheropite osservate in precedenza256. L 'evoluzione iconografica del
Pantocratore e quella delle Acheropite derivando dalla rappresentazione del Cristo maturo, si
influenzano a vicenda, presentando da subito alcune caratteristiche comuni.
Proprio per questo nell’Oriente cristiano la tipologia del Cristo Pantocratore sarà forte di una
grande venerazione e il volto si unificherà all’archetipo per ecellenza. Alcuni dettagli però
non si perdettero nell’assimilazione del prototipo di Edessa: la chioma non presenta le tipiche
ciocche che si formano nell’Acheropita. Nel Pantocratore viene portata dietro le spalle,
acconciatura chiamata dal Capizzi ‹‹chioma a casco››257, rigonfiandosi nel suo lato sinistro e
al contrario, restringendosi verso il collo nella parte opposta. Anche la parte terminale della
barba, mantiene delle particolarità proprie, non forma, infatti, le convenzionali punte che si
ritrovano nel Santo Volto, seguendo invece la fisionomia del mento.
Lo sfondo oro che circonda l’Onnipotente, nelle absidi, rappresenta la sede celeste del Cristo,
e chiamata nell’iconografia greca ‹‹il cielo››, il nimbo nel quale vi è inscritta la croce, è la sua
‹‹corona››
258
segno di santità. La mano destra è colta nell’atto di benedire alla maniera greca.
La posizione che le dita assumono per questo tipo di benedizione, assumono dei significati
simbologici precisi259, come le iniziali di Cristo IC-XC, formato dalle dita unite nella
euloghia, benedizione. La mano sinistra regge il Vangelo, che può essere chiuso o aperto.
Quando è chiuso, presenta una sovraccoperta in metallo prezioso, decorata con gemme e
cesellata o raffigurante la Croce. Quando è aperto, il verso maggiormente 260 trascritto è la

255
Uspenskij L., Losskij V, Il senso delle icone, Jaka book, Milano,2007, p.82.
256
Cfr. p. 49
257
C. Capizzi, 1964, p.81
258
Cfr. Gharib G. 1993, p.94.
259
Descritti poi in manuali di pittura come nell’Ermeneutica della pittura, scitto dal monaco agiografo e pittore
Dionisio da Furnà, vissuto sul monte Athos tra il 1701- 1730. Cfr Enciclopedia Treccani, s. v. “Dioniso da Furnà”.
260
Nella sua analisi il G, Gharib, op. cit., riporta i diversi passi del vangelo che aiutano a capire l’ulteriore
significato che si vuole dare alla raffigurazione del Cristo Pantocratore. p.101.
76
dichiarazione di Cristo durante la Chanukkah, la festa delle luci nel Tempio di Gerusalemme:
‹‹Io sono la luce del mondo››261.
Come abbiamo visto nel capitolo dedicato alla Madonna del Monasterium Tempuli, nella
Deesis, il Cristo Pantocratore è posto al centro, tra la Theotokos e il San Giovanni Battista
orante, i quali in segno di supplica, gli rivolgono lo sguardo.
Nell’Occidente la tipologia del Pantocratore torna nell’XI secolo, talvolta con i tratti
occidentalizzati, come nel caso dell’abside di Cefalù e Monreale262 (Fig.21-22)

4.7 Il Cristo Pantocratore del Sinai

Un meraviglioso esempio di Cristo Pantocratore è conservato nel Monastero di Santa


Caterina, nel Sinai (Fig.22). La tavola misura 84x45,5 cm, faceva sicuramente parte di
un’iconostasi. Venne in seguito accorciata nella parte superiore e ai lati, maggiormente sul
lato sinistro, facendo risultare la figura del Cristo decentrata, com’è risultato dal restauro
effettuato nel 1962263. La tecnica usata è quella dell’encausto. La figura è a mezzo busto,
assiso sul trono, di cui si intravede la parte superiore dello schienale. Il grande nimbo, nel
qual è inscritta la croce, circonda il volto e si staglia su uno sfondo verde oro, decorato con
stelle a otto punte. Come nei canoni della tipologia del Pantocratore: la figura è frontale,
benedicente con la mano destra che spunta morbidamente dalla tunica. Con la sinistra regge
il Vangelo, chiuso da due fermagli. La sovraccoperta in oro è decorata da una croce centrale,
inquadrata da un decoro fatto da gemme e pietre preziose. Il Logos veste una tunica e un
maphorion, che in origine dovevano esser color porpora, come simbolo della dignità
imperiale. L’alta qualità di esecuzione, ci riporta alla maestria ritrattistica derivata dalla
pittura ellenistica, che si ritrova nei ritratti funerari del El-Fayyum264. Se di primo sguardo il
richiamo al Vero Volto delle Acheropite è quasi istintivo, posando più attentamente
l’attenzione sui particolari, noteremo il movimento causato nel volto dalla perfetta

261
Gv1,9,3,19;8,12.
262
Cfr. Iacobone P.
263
Notizia riportata da Gharib G. 1993, p.95
264
Vedi nota 74, p. 27.
77
asimmetria delle due metà. Tracciando una ipotetica linea che divide perfettamente in due il
volto di Cristo, possiamo notare come nel suo volto vi sia la consustanzialità di due volti. La
naturalezza della parte del volto corrispondente alla mano benedicente è sottolineata da uno
sguardo più mite e consolante. La luce data all’incarnato, disegna morbidamente il volto.
Pure lo sguardo, inquadrato da un sottile sopracciglio disteso, ne afferma la magnanimità. La
parte finale della chioma si incurva verso il centro, dando un senso di leggerezza al volto.
Analizzando invece la parte corrispondente al Vangelo, notiamo come l’inclinazione del
sopracciglio cambia. Lo sguardo è più severo, l’occhio stesso pare più aperto, quasi
ammonente. Il contorno del viso è segnato da una forte ombreggiatura, che rientra all’altezza
dello zigomo, verso il centro del volto. Il labbro è più serrato e marcato. Nel naso l’ombra
più marcata ne accentua l’espressione. Come scrive il Weitzmann ‹‹collegando in questo
modo sottile, lineamenti astratti con lineamenti più naturalistici, l’artista è riuscito a mediare
figurativamente il dogma delle due nature di Cristo: la natura divina e la natura umana››265.
Questo volto, sicuramente anteriore a quello delle Acheropite è il sunto in immagine
dell’affermazione della natura trinitaria del Logos, tanto discussa dai padri della chiesa. In
questo sorprendente artificio simbolico troviamo il Figlio ricongiunto alla destra Padre.

Abbiamo visto come la mancata menzione nelle Sacre Scritture delle fattezze di Cristo, abbia
generato nella ricerca della rappresentazione del Salvatore, un continuo evolversi di dettagli
fisionomici che nell’Oriente cristiano, si concretò nel volto delle Acheropite. Questa
necessità dogmatica di riavere il Vero Volto, fu dettata dall’esigenza di provare la storicità
della figura di Cristo e del suo disegno di Salvezza. L’Acheropita a questo punto, diventa
verità dogmatica, legittimata dalla stessa volontà del Salvatore. Come accadde per il volto
ritratto nel Cristo Pantocratore, che prototipo quasi definitivo del Santo Volto, venne
affermato e in seguito fuso con l’archetipo per eccellenza.
L’Immagine Sacra da osteggiata, venne assimilata e elevata, nel periodo preiconoclasta, al
ruolo di attestazione e divulgazione dei dogmi cristiani, decretati nei Concili riuniti dal IV

265
Weitzmann K., The Monastery of Saint Catherine at the Mount Sinai. The Icons, Vol. I, Princeton 1973, p.15.
78
alla fine del VII secolo, raggiungendo un livello di importanza talmente alto che fu la causa
di una rovinosa crisi politico-religiosa: la crisi iconoclasta.

79
Conclusioni

Il viaggio intorno alle immagini sacre cristiane non ha mai fine. La tappa che ho scelto è il
periodo che va dalla liberalizzazione del culto cristiano, da parte di Costantino il Grande,
sino ai primi decenni dell’VII secolo, ovvero il periodo Preiconoclasta. Non mi sono
volutamente inoltrato nel vivo della crisi, prefissandola come un’altra possibile futura tappa
in questo affascinante viaggio intorno alle immagini Sacre.
Come punto di partenza, ho affrontato il travagliato periodo storico, passando dalla società
barbarica e il suo stanziamento in Europa, per giungere all’evoluzione della Chiesa, che forte
del potere temporale iniziò a organizzarsi in gerarchie di autorità e di luoghi di culto,
introducendo poi una nuova tipologia di fratellanza nel mondo romano, il monachesimo.
Importante approfondire anche lo studio della situazione nell’Impero d’Oriente, che forte
dell’eredità culturale e politica romana, acquista sempre più potere, in opposto alla terra
italica, che affronta un continuo impoverimento, sino alla caduta dell’ultimo imperatore
d’occidente, Romolo Augusto e all’arrivo dei Longobardi.
Carico di nozioni storiche, il viaggio si è diretto verso l’analisi dell’Immagine sacra,
cercando di capirne le origini, il motivo storico teologico della loro creazione, e le funzioni
che queste immagini hanno avuto nella società cristiana nei secoli presi in esame. Da questa
analisi ho appreso che l’immagine nella cultura romana è sempre stata un supporto per la vita
sociale e spirituale. Statue di Imperatori, divinità, rilievi e decorazioni sacre,
propagandistiche e trionfali, ma anche semplici ornamenti , ricoprivano il tessuto urbano di
ogni centro romano, un po’come oggi nelle nostre città.
Il mondo cristiano, dopo le atroci persecuzioni che subì e la liberalizzazione del proprio
culto, si appropriò di alcuni pensieri filosofici del mondo pagano, per ottenere una risposta
sul problema della rappresentazione sacra, scaturita dai primi padri della chiesa, ereditieri del
divieto testamentario giudaico, ma pure ben apprezzata dell’abitudine per cultura del popolo,
un tempo pagano. Attraverso le teorie filosofiche neoplatoniche, si giunse alla conclusione
che l’immagine sacra doveva essere attraversata dalla luce divina, priva di profondità,
geometrizzata e autonoma. Queste caratteristiche facevano dell’immagine sacra il tramite tra
80
il mondo e Dio. Un tramite più sentito nella chiesa d’Oriente che nella chiesa di Roma, che
sarà capace di vedere nelle immagini uno strumento didascalico più che teologico-
dogmatico, come avvenne per l’Oriente cristiano. Tra le forme di rappresentazione in uso, la
più significativa per questo tipo di analisi è l’icona. Ereditaria dell’effige imperiale, del
dipinto funerario e dell’immagine degli dei, questo dipinto su tavola, prevalentemente in
encausto, non ha sviluppato una propria canonicità, caratterizzando questo periodo con una
diversità di stili.
Avendo acquisito importanti nozioni sulle problematiche riguardanti le immagini sacre, ho
deciso di affrontare direttamente la successiva meta, ovvero, le icone Mariane che si trovano
a Roma. L’immagine di Maria nella lotta alle eresie, che nel corso dei secoli minacciavano la
consustanzialità del Logos col Padre, ebbe un importante ruolo. Dall’attribuzione del titolo di
Theotokos, il culto e le immagini dedicate alla Vergine, si amplificano e per affermazione del
carattere divino dell’incarnazione di Dio, iniziano a differenziarsi in diversi tipi di
rappresentazioni, legate alla maternità divina di Maria. Dal punto di vista politico-religioso
l’immagine della Theotokos si sostituisce la rappresentazione nei sigilli imperiali alla Vittoria
pagana, per poi divenire garante e protettrice del potere imperiale.
Nella raffigurazione preiconoclasta della Vergine col Bambino, dalla tenerezza con cui Maria
mantiene il Logos, trapela l’intenzione di rendere per figura il messaggio dogmatico
dell’Incarnazione, come appare nell’icona della Vergine Hodighitria a Santa Maria Nova,
ora Santa Francesca Romana, e in quella conservata nel Pantheon.
La sorprendente tavola della Madonna della Clemenza mi ha dato spunto per una nuova
teoria di datazione. Vedendo nel movimento complessivo all’interno dell’icona, una volontà
della Vergine di legittimare la sua regalità a Roma, ho legato il significato di questo suo
gesto all’operato di papa Pelagio I, raffigurato nell’icona come unico pontefice degno di
inginocchiarsi al cospetto di Maria Regina, grazie all’opera compiuta verso la popolazione
romana, in un periodo di forte crisi economica e politica, in cui è stato capace di tener fede
alla Chiesa dei Padri e di prendersi cura dei fedeli.
La scelta di concentrare l’attenzione sulle icone romane è stata dettata sia dall’eccellente
qualità, che l’Urbe offre sul panorama storico iconografico Mariano, legato a straordinari
luoghi di culto, sia dall’auspicata possibilità futura di poter ammirare di persona le Icone che
81
in questo viaggio vengono analizzate e a cui ho dato spunto per nuove interpretazioni di
datazione e significato storico-politico.
Come termine del viaggio compiuto sulle immagini sacre, ho affrontato l’iconografia di
Cristo. Dalle prime raffigurazioni, nelle catacombe romane, sino alla straordinaria vicenda
delle Acheropite, che misero fine alla ricerca delle vere fattezze di Cristo, nata dalla necessità
della storicità della rappresentazione di un Dio incarnato nel Figlio, divenendo l’archetipo di
tutte le successive rappresentazioni del volto di Cristo, per giungere alla tipologia più
rappresentata tra le raffigurazioni del Salvatore, il Cristo Pantocratore ‹‹Che tutto regge››
Prototipo quasi definitivo del Santo Volto, immagine dell’Onnipotenza di Dio, incarnato nel
Figlio, racchiude in sé il dogma della Trinità. Dallo sguardo maturo ma avvolgente, la mano
benedicente e il Vangelo annunciante il disegno di Salvezza, troneggia in maestà su tutti i
cristiani e sul mondo. L’icona esaminata del Monastero di Santa Caterina del Sinai, è
testimonianza di questa tipologia, ancora autonoma nella sua funzione documentatrice della
consustanzialità l’identità di sostanza del Padre e del Figlio. Nell’analisi fatta all’icona, ho
visto nel volto una voluta asimmetria, perfetta allegoria dell’unione del Padre col Figlio in un
unico corpo.
In questo percorso si è appreso come l’immagine Sacra sia passata da una totale negazione
del suo uso all’interno della prima cristianità, a un’ammissione con riserva da parte dei padri
della chiesa, per poi darle un ruolo di primaria importanza nell’attestazione e divulgazione
dei dogmi cristiani, decretati nei Concili riuniti dal IV alla fine del VII secolo. Questo ruolo
fece raggiungere all’immagine un livello di rilevanza talmente alto, che fu causa di una
rovinosa crisi politico-religiosa iconoclasta.
Nel viaggio intrapreso, come in ogni primo viaggio, ho dovuto fare i conti con
l’apprendimento di nozioni nuove sull’argomento, di carattere artistico, storico e teologico,
venendo a conoscenza man mano che si compiva il viaggio, di ulteriori importanti elementi ,
troppo vasti per poterli analizzare in un primo approccio sulla materia, come in questo
lavoro. Ripetendo il desiderio che ho espresso all’inizio di questo resoconto, spero in un
possibile ulteriore approfondimento su questi importanti materie d’arte, che mi permetta di
continuare il viaggio sulle immagini sacre.

82
83
Apparato fotografico

84
Fig.1 Lo spostamento dei barbari tra il IV e il V secolo in popoli germanici in Europa (da
Atlante dell'Europa medievale, Novara 1989).

85
Fig.2 L'italia sotti i Longobardi (da Atlante dell'Europa medievale, Novara 1989).

Fig.3 L’Impero di Giustiniano. Impero d’Oriente


(da Atlante dell'europa medievale 1989). 86
Fig.4 El-Fayyum, Ritratto di giovane (da
Velmans T. 2002)

Fig.5 Roma, Catacombe di Priscilla, Madonna della Stella (da


Http://disf.org/files/pic/stella-balaam-priscilla.jpg). 87
88
Fig.6 Roma, S. Maria Nova, Vergine Hodighitria (da Gharib G. 1993 A).
Fig.7 Roma, Pantheon, Vergine Hodighitria (da Gharib G. 1993 A). 89
Fig.8 Larnaka, Mosaico absidale della Vergine con Bambino (da http://it.123rf.com/archivio-
fotografico/byzantine_church.html).

90
Fig,9 Roma, Chiesa di Santa Maria del Rosario e Monte Mario, la Vergine che
Fig. 2 Roma,
Intercede Chiesa G.
(da Ghaib di S.1993 A)
91
Fig.10 Roma, Basilica di Santa Maria in Trastevere. Madonna della Clemenza (da 92
Velmans T. 2002).
Fig.11 Egitto, Monastero di Santa Caterina del Monte Sinai, Madonna in trono con Santi e
Angeli. (da Tania V. 2002).

93
Fig.12 Roma. Santa Maria Antiqua, Maria Regina (da http://archeoroma.beniculturali.it).

Fig. 13 Roma, Basilica di Santa Sabina sull’Aventino, Icona murale di Santa Sabina (da
94
(http://www.repubblica.it/speciali/arte/gallerie/2010/07/20/foto/santa_sabina-5710192/1/#).
95
Fig.14 Roma, Basilica di Santa Maria Maggiore, Salus Populi Romani (da
http://www.reginamundi.info/icone/salus-populi-romani.asp).
Fig.15 Roma, Palatino, Graffito rappresentante
Cristo crocifisso con la testa d’asino (da Caroli
F. 2008).

Fig.16. Roma, Catacombe di


Commodilla, Busto di Cristo (da
http://www.bible-
96
archaeology.info/catacombs.htm).
Fig.17 Hadrumète, Museo archeologico di Sousse in Tunisia. Gorgone (da Guide du Musée de Sousse
Secrétariat d'Etat aux Affaires Culturelles, 1967).

97
Fig.18 Laon, Duomo, Mandylion o 'Sainte face de Laon', XIII secolo (da Fogliadini M. 2011)

98
Fig.19 Mosca, Galleria Tret'jakov, Scuola di Novgorod, Santo Keramion, 1167 ca., (da Fogliadini M. 2011)

99
9

Fig.20 Egitto, Monastero di Santa Caterina del Sina, Particolare del Dittico del Sinai, Re Agbar
riceve il Mandylion ( da Fogliadini M. 2011) 100
Fig.21Cefalù, Duomo, particolare del Cristo Pantocratore, 1170 circa (da Gharib,
G. 1993).

101
Fig.22 Monreale, Duomo, particolare del Cristo Pantocratore, XII.XII
secolo (da Gharib, G. 1993).
Fig,23 Egitto, Monastero di Santa Caterina del Monte Sinai, Cristo 102
Pantocratore (da G. Gharib, 1993)
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