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inferiore rispetto alla magistratura dell’antica capitale che presentava senatori con il titolo di
clarissimi a differenza dei clari del mondo orientale. A Roma, inoltre, i senatori si
indirizzavano verso un reale processo di ereditarietà della carica mentre a Costantinopoli
l’accesso al senato si realizzava in prevalenza tramite l’arruolamento di quei funzionari che
si aggiudicavano il titolo tramite i loro incarichi. In questo modo l’amministrazione centrale
ne esce notevolmente rafforzata: non è più l’appartenenza ad un ceto che ne conferisce il
diritto ad una carica, ma è la carica stessa che ne conferisce il titolo. Il senato di
Costantinopoli, privo di un forte gruppo di famiglie aristocratiche, appare così fin
dall’inizio, strettamente collegato alla corte imperiale e al concistoro del principe.
È importante rendersi conto dei mutamenti a cui è soggetta la composizione della classe
dirigente: mentre in Occidente le cariche supreme appaiono tutte monopolizzate
dall’aristocrazia senatoria, in Oriente prevale un maggior equilibrio tra gli alti funzionari del
rango senatorio e quelli di più modesta estrazione sociale: l’una superiore gli illustres, e
l’altra inferiore gli spectabiles e i clarissimi.
Quando Costantinopoli acquista infine la dignità di capitale, oltre al senato, la duplicazione
sulle rive del Bosforo della prefettura urbana e il riconoscimento dello statuto di popolus
romanus ai suoi abitanti concorrono a precisare il posto privilegiato che la città occupa
nell’impero. Il popolo di Costantinopoli possiede un proprio spazio politico nel quale può
dialogare con l’imperatore consentendo così la creazione di quel consensus omnium su cui
poggia la legittima autorità del principe.
Divenuta residenza stabile dell’imperatore, sede di un senato, con autorità pubbliche proprie
e con un numero di abitanti superiore a quello di Roma, necessaria divenne la consacrazione
dell’importanza di Costantinopoli all’interno dell’organizzazione episcopale cristiana per
poter aspirare ad una dignità superiore alle altre città dell’impero. Dalla metà del secolo II
l’ordinamento ecclesiastico si era formato sullo stampo di quello pubblico: il sistema
episcopale riproduceva così la rete delle antiche città. Dato che alle province in cui era
suddiviso l’impero corrispondevano altrettante circoscrizioni ecclesiastiche, fu quasi
spontaneamente riconosciuta una dignità speciale ai vescovi dei capoluoghi provinciali.
Risultava quindi ovvio che Bisanzio, non ancora divenuta Costantinopoli, avesse in virtù
della sua fisionomia cittadina un vescovo ma non un metropolita. Sul piano religioso non
mano che amministrativo la principale città della regione era Eraclea, dove risiedeva il
governatore della Tracia. Già con il concilio costantinopolitano del 381, però, emergeva un
primo riconoscimento giuridico della nuova e diversa importanza di cui ora godeva il suo
vescovo, un riconoscimento di cui il concilio di Calcedonia del 451 diede una definizione
completa e netta equiparando “l’antica” alla “nuova” Roma.
Eric R. Dodds nel suo studio dal titolo “Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia” sostiene
che la trasformazione dell’identità religiosa del mondo tardoantico si era sviluppata a partire
da una rivoluzione antropologica ed etica in parte già attuata dal popolo ebraico, al cui
interno si era già da tempo sviluppato, unitamente all’abbandono del sacrificio cruento, un
rapporto nuovo con il Libro sacro basato su una distinzione assoluta tra vera fede e false
credenze. Ne deriva un uomo religioso nuovo, affascinato dall’invisibile e assillato dal
principio di verità. La letteratura, retorica e filosofia dei greci divennero parte integrante del
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pensiero e della struttura del discorso cristiano attraverso un decisivo processo di
acculturazione della nuova fede che trovò nel pensiero classico i presupposti per delimitare
e meglio formulare una propria identità dottrinale.
Il cristianesimo delle origini appariva interessato all’affermazione di una “fede” il cui valore
risiedeva non nella definizione concettuale dei suoi contenuti, ma nella realtà salvifica che
questi esprimevano. Nel corso del tempo, tuttavia, la necessità di legittimarsi nei confronti
dei ceti colti dell’Oriente pagano e l’urgenza di definire il proprio corpo dottrinale rispetto
all’ebraismo e alle diverse forme di religiosità pagana, spinsero i cristiani ad indagare e a
riflettere razionalmente sui contenuti della propria fede. Sembrava in grado di distruggere le
fondamenta del credo cristiano la concorrenza dello gnosticismo che reinterpretava i testi
sacri alla luce di un’irriducibile concezione dualistica, ponendo con forza il problema del
male. Il cristianesimo fu quindi costretto a un duplice sforzo: insistere su un canone fissato
sui testi sacri e precisare con chiarezza l’unicità di un creatore esistente ab aeterno. Fu
perciò costretto a fornire una solida base teorica, attraendo a sé quelle élite cittadine che
costituivano l’aristocrazia dell’impero. Fu la perfetta simbiosi tra strutture aristocratiche e
strutture ecclesiastiche a legittimare e rendere possibile nelle dotte e cosmopolite città
dell’impero la diffusione del messaggio cristiano. Nel difficile compito di adattare il
messaggio cristiano alle raffinate concezioni della filosofia classica si riflette anche la
rivalità che opponeva tra loro le maggiori città del Mediterraneo Orientale.
L’esempio più significativo dell’intervento imperiale è dato dal concilio del 325 di Nicea
indetto da Costantino; pochi anni erano trascorsi dall’editto di Milano del 313, durante il
quale l’imperatore aveva concesso ai cristiani libertà di culto ma la chiesa orientale appariva
già lacerata da profondi contrasti. Problema cruciale a Nicea fu il dibattito circa la dottrina
sostenuta da Ario. Questi per risolvere le difficoltà insite nell’affermazione cristiana di
un’unica sostanza divina articolata in tre persone, aveva subordinato il Figlio al Padre
considerandolo un dio minore. Fallito ogni tentativo di mediazione tra sostenitori e
avversari di Ario, il concilio di Nicea trovò un accordo una professione di fede che
proclamava il Figlio “consustanziale” al Padre, cioè della sua stessa sostanza. Il
cristianesimo aveva qui introdotto il concetto di eresia. Il concilio di Nicea fu inoltre
importante sotto l’aspetto amministrativo: si sancì il ruolo centrale dell’imperatore e la sua
immensa responsabilità nel funzionamento dell’episcopato. Il II concilio ecumenico
convocato a Costantinopoli da Teodosio nel 381 vide per la prima volta riconosciuta in
modo formale l’importanza di Costantinopoli quale sede episcopale anteposta a due sedi
apostoliche. Con ciò si proclamava in tutta chiarezza che il vescovo di Costantinopoli
doveva il proprio rango alla maestà imperiale di cui si insigniva la città fondata da
Costantino. Settant’anni separarono il concilio del 381 da quello di Calcedonia del 451: in
questo arco di tempo Costantinopoli trionfa su Alessandria. Fu un settantennio di dispute
teologiche intense e l’oggetto delle controversie fu il tentativo di definire in modo
soddisfacente il rapporto tra natura umana e natura divina del Cristo. I dibattiti teologici del
secolo IV, la meditazione sulla condizione umana, la riflessione intorno al problema del
peccato e del suo riscatto avevano sollecitato, attraverso interpretazioni via via più sottili, le
scuole di Alessandria e di Antiochia a sottolineare nel Cristo, l’una soprattutto la divinità,
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l’altra una dualità di persone. Al culmine di questa divergenza di esemplifica la figura di
Nestorio, patriarca di Costantinopoli nei primi decenni del V secolo. Pur senza negare in
alcun modo la natura divina del Figlio, Nestorio, riconoscendo nella Vergine solo la madre
della natura umana di Cristo, sembrava distinguere troppo nettamente tra umanità e divinità.
Nonostante l’appoggio imperiale Nestorio fu condannato come eretico dal concilio di Efeso
del 431 presieduto da Cirillo, patriarca di Alessandria. La questione della compresenza delle
due nature in Cristo non cessò di agitare le coscienze e a nulla valsero gli sforzi
dell’imperatore Teodosio II affinché l’episcopato superasse i propri dissensi interni. Le
formulazioni monofisite accolte nel concilio di Efeso del 431, furono condannate pochi anni
dopo nel concilio di Calcedoni del 451. In armonia con il pensiero di questa sede, di
Costantinopoli e di Antiochia, e contro quello di Alessandria, il concilio adottò una
soluzione diofisita che riconosceva in Cristo due nature. Dal punto di vista giuridico, invece,
il concilio riconosceva al vescovo di Roma il primato onorifico della chiesa, ma per ogni
altro aspetto sanciva la completa equiparazione tra le sedi di Costantinopoli e di Roma.
Accadde così che il concilio di Calcedonia anziché restituire unità alla chiesa, la scisse in
modo permanente sino a compromettere la stessa integrità politica dell’impero.
Al volgere dal secolo III al IV, uomini iniziarono a ritirarsi nei deserti d’Egitto e di Siria alla
ricerca di una più intima e diretta comunione con una divinità: era il monachesimo degli
anacoreti. Dall’esperienza di tali eremiti si sviluppò in maniera spontanea il monachesimo
cristiano: un movimento multiforme propagatosi con rapido successo nelle regioni
sudorientali del Mediterraneo e passato in seguito, tra i secoli V e VII, in Occidente.
L’originalità del monachesimo cristiano consisteva nell’abbandono di ogni rigido dualismo
tra spirito e materia e nella conseguente forte interdipendenza di anima e corpo tale da
garantire anche a quest’ultimo, a prezzo di severissime privazioni, la beatitudine promessa.
Per molti cristiani la vita monastica divenne la via promessa verso la perfezione; la lotta con
se stessi non è vissuta soltanto come sforzo di autoperfezionamento, bensì come diretta
compartecipazione ad una più ampia guerra cosmica tra il bene ed il male. Si sviluppò,
inoltre, a partire dagli anni venti del secolo IV un modello di vita cenobitica, basato
sull’abbandono della libertà individuale a favore di un’organizzazione di tipo comunitario
sotto la stretta obbedienza ad un abate. Basilio di Cesarea sosteneva che il monachesimo
dovesse combinare la rinuncia ascetica con l’esercizio della carità evangelica. Queste
esperienze cenobitiche conobbero una grande diffusione nei secoli IV e V anche
nell’Europa occidentale, seguendo la regola di San Benedetto e divenendo centri
insostituibili di irradiazione culturale e religiosa.
Mentre Costantinopoli sempre più si definisce come una seconda capitale, tre gravi
questioni agitano la vita dell’impero tra il IV e il V secolo: la fine del paganesimo, le
incertezze costituzionali sulla normativa che deve regolare la successione del principe, il
problema dei barbari.
A cominciare con l’età costantiniana e, in particolare con l’editto di Milano del 313, i
cristiani godettero di un sempre più ampio appoggio da parte dell’autorità imperiale. Mentre
le liberalità del principe e le donazioni dei fedeli di ceti sociali elevati contribuivano a
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dotare di un cospicuo patrimonio fondiario le chiese e le istituzioni ecclesiastiche, la
pubblica autorità si preoccupava di tradurre in legge le immunità e il particolare statuto
fiscale di cui godevano i chierici (es: liberati dai munera= prestazioni obbligatorie per la
manutenzione di strade, ponti…). Insieme al moltiplicarsi dei favori concessi dall’impero
alla chiesa, si aggravarono le misure oppressive nei confronti dei non cristiani.
Un tentativo di restaurazione del politeismo venne adottato dall’imperatore Giuliano, uno
tra gli uomini più colti del suo tempo, che si convinse che il cristianesimo avesse minato
l’impero e il progresso civile. Sosteneva una fede politeista da ripristinare in forma nuove,
tramite una gerarchizzazione dei sacerdoti pagani a imitazione del clero cristiano e, più
ancora, grazie all’esclusione dei cristiani dall’insegnamento. Dopo la morte di Giuliano,
l’impero cristiano provvide a codificare in apposite leggi la repressione del paganesimo e a
respingere una possibile coesistenza religiosa. Con l’editto di Tessalonica del 380 si negò ai
non cristiani la possibilità di riunirsi in templi o santuari pubblici. Da perseguitati divenuti
oppressori, i cristiani adottarono misure sempre più intransigenti fino a che nel 392
l’imperatore Teodosio, deciso sostenitore della cristianizzazione della società, vietò il culto
pagano privato e domestico.
L’assetto statale bizantino aveva mutuato da Roma un sistema di trasmissione del potere che
appariva quanto mai instabile. Permanevano le norme varate nel III secolo da Diocleziano,
che prevedevano da parte del principe regnante la designazione di un Caesar, scelto tra i
suoi collaboratori più capaci. Successivamente Diocleziano per facilitare un controllo più
efficace dell’impero e delle sue province attuò la tetrarchia (= due augusti e due cesari), che
sembrò raggiungere un grado di perfezione istituzionale. Fu Costantino a perfezionare quel
sistema ammnistrativo ereditato da Diocleziano e contraddistinto dalla netta separazione tra
incarichi ministeriali e mansioni civili. I limitanei, unità dislocate sul confine, reclutate su
base locale e sottoposte al comando dei duchi, furono integrate da un potente esercito
mobile, l’exercitus comitatensis alle dipendenze di un potere centrale tramite un magister
militum e un magister equitum. L’amministrazione civile fu organizzata sulla base delle
province, a loro volta raggruppate in dodici diocesi che vennero riunite in quattro prefetture:
dell’Oriente, dell’Illirico, dell’Italia e delle Gallie, ciascuna sotto l’eminente autorità di
prefetti. Ai prefetti del pretorio si affiancavano i titolari dei grandi dicasteri di corte: il
magister officiorum che controllava l’intero apparato amministrativo dell’impero e
provvedeva alla sicurezza del sovrano, il comes sacrarum largitionum e il comes rei privatae
responsabile dei ministeri finanziari. Per assicurare il mantenimento di una così elaborata
burocrazia, dislocata stabilmente per tutta l’estensione dell’impero, e più ancora per
garantire il soldo dell’esercito, Diocleziano non aveva esitato ad aumentare la pressione
fiscale imposta alle campagne e la tassazione con l’introduzione dell’annona; tale prelievo
combinava un’imposizione di carattere personale (capitatio) con un’imposizione di carattere
fondiario (iugatio). L’obbligo che legava il coltivatore alla terra fu ulteriormente aggravato
dall’introduzione della adiectio steriluim, per cui le terre incolte erano aggiunte ai fondi
produttivi con l’obbligo di coltivarle affinché anche su di esse si pagasse l’imposta
fondiaria. Tale generale disegno di riorganizzazione istituzionale e di pianificazione
economica garantì nel IV secolo un periodo di relativa stabilità e, nel complesso, di ripresa.
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All’inizio del IV secolo il mondo romano sembrava ancora in grado di resistere all’avanzata
delle popolazioni germaniche stanziate a nord del Reno e del Danubio. L’impero non
rinunciava però ad accogliere parte di questa gente per rendere più combattivo l’esercito
romano. Vennero anche accolti pacificamente nelle campagne dove contribuirono a
ripopolare le terre abbandonate, in altre situazioni si inserirono anche nella stessa
amministrazione civile. Ne consegue una duplice reazione: da una parte un’opinione
pubblica pronta a trarre soddisfazione e vanto dai servizi che i barbari elargivano all’impero
che aveva pur sempre missione civilizzatrice e pacificatrice, dall’altra si contrappone un
sentimento di ostilità etnica e culturale di chi ne teme la radicalizzazione nella società.
Questo antagonismo coinvolse anche l’intero senato di Costantinopoli. Alla fine del IV
secolo una grandiosa migrazione nel nord Europa e sotto la spinta degli Unni, i Visigoti
riuscirono ad attraversare il Danubio stanziandosi nella Tracia ma giungendo poi allo
scontro aperto con le forze imperiali a cui inflissero una durissima sconfitta e dove fu ucciso
lo stesso imperatore Valente. Questa sconfitta convinse Teodosio ad adottare una nuova
politica verso i Visigoti che mirava ad accogliere queste tribù entro i confini romani tra il
Danubio e i Balcani, come nazione dotata di una sua autonomia giuridica e amministrativa,
in cambio essi si impegnavano alla difesa dei confini romani. Con la morte di Teodosio nel
395 egli assegna la parte orientale dell’impero al figlio Arcadio e quella occidentale al
secondogenito Onorio. Tale suddivisione non apportava però sul piano giuridico
istituzionale alcun elemento di novità in quanto comunque coerente con l’idea di impero
unitario, suddiviso in due sedi. La preponderanza ottenuta però dai germanici in ampi settori
dell’esercito iniziò ad apparire nella sua gravità per la solidità dell’impero. Il vandalo
Stilicone, a cui era stata affidata da Teodosio la tutela di Onorio, agiva come capo supremo
delle truppe e signore della parte occidentale sino a generare il sospetto che egli volesse
privilegiare questa a discapito di quella orientale. Tant’è che Stilicone sembrò accordarsi
con Alarico, potente capo dei Visigoti nella speranza di recuperare un vasto territorio
conteso tra le due parti dell’impero. Per fronteggiare il pericolo, Arcadio fu costretto a
nominare Alarico magister militum per Illiricum e ciò mentre a Costantinopoli si affermava
nell’opinione pubblica una corrente ortodossa fortemente ostile ai barbari che portò ad una
violente reazione antigermanica dell’anno 400.
I visigoti, eliminati dalle strutture dello stato e cacciati dall’Illiricum si diressero verso
l’Italia; qui la reazione antigermanica era meno radicale ed aveva determinato la rovina di
Stilicone, privando così l’Occidente del suo migliore difensore. La via dell’Italia si apriva
ad Alarico che nel 410 giunse a conquistare e saccheggiare Roma.
In Oriente, all’inizio del V secolo era nel suo complesso superata la crisi barbarica per le
maggiori risorse e possibilità di difesa. In Occidente invece si iniziò ad allontanare i barbari
dalle magistrature e furono arruolati nell’esercito come milizie ausiliarie senza alcuna
autonomia. Tale successo, però, ebbe un prezzo assai elevato: il tracollo delle regioni
occidentali verso la fine del V secolo venne scongiurato secondo uno schema già
sperimentato con i Visigoti: gli Ostrogoti di Teoderico si installarono nella penisola
balcanica. L’Oriente, invece, sentì solo marginalmente di tali grandi spostamenti di popoli
anche perché, essendo privi di flotte, non potevano raggiungere Costantinopoli, al contrario
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l’Occidente ne fu come sommerso poiché, superato il Reno, nessun ostacolo si frapponeva
al dilagare di tali genti attraverso la Gallia. È opportuno sottolineare che, contrariamente
all’opinione diffusa, capi di queste popolazioni non volevano rovesciare l’Impero ma
sentivano il bisogno di cooperare a livello politico e amministrativo. Quando Odoacre,
generale di origine barbarica a servizio dei romani, nel 476 depose Romolo Augustolo
mettendo fine “senza rumore” all’impero romano d’occidente, non ne ebbe coscienza poiché
l’avvento dei governi barbarici non comportò alcun collasso delle strutture tradizionali.
Odoacre, principe goto, si poneva formalmente come restauratore dell’unità romana. Di
fatto Odoacre resse per 13 anni l’Italia con potere autonomo, senza pretese imperiali, in
virtù dell’accordo operato tra le milizie germaniche, cristiane ma di credo ariano, e
l’aristocrazia romano-italica di ascendenza senatoria la cui ortodossia cattolica fu
rigorosamente rispettata. Il modello di governo elaborato da Odoacre sopravvisse anche
quando nel 488 Zenone, per allontanare da Costantinopoli gli Ostrogoti, federati con
l’impero ma divenuti col tempo oltremodo minacciosi, li dirottò verso la penisola italica,
non senza aver concesso al loro capo Teoderico la dignità di magister militum, nella
speranza che i due principi germanici si neutralizzassero a vicenda. Teodorico, dopo aver
posto fine al regime di Odoacre nel 493, proseguì l’opera di adattamento romano-
germanico. Al pari di Odoacre, Teodorico fu rex per le sue genti e nei confronti dei romani
agì come rappresentante del potere imperiale, affidando la maggior parte degli incarichi
pubblici ai vecchi ceti dominanti, di cui era esponente di spicco Cassiodoro. La raccolta
delle sue lettere di Stato, le Variae, dimostra che si potesse continuare a governare mettendo
tutta la raffinatezza burocratica romana al servizio di un re barbaro.
L’unità dell’impero era da tempo compromessa allorché nel 527 Giustiniano, ufficiale di
lingua latina, fu formalmente associato al potere imperiale dallo zio Giustino, eletto
imperatore nel 518 per scelta del senato. Mentre le regioni occidentali dell’impero si erano
frammentate in una pluralità di regni: ostrogoto in Italia, franco in Gallia, visigoto nella
restante parte di quella regione e in Spagna, vandalo in Africa, le province orientali invece
rimanevano organizzate intorno all’autocrazia di Costantinopoli. In verità però anche nella
pars orientis emergevano le difficoltà del governo imperiale: l’instabilità religiosa e
l’irrequietezza sociale minavano la solidità interna. Ancor più grave era la tensione esistente
a livello cristiano: anche se il paganesimo stava scomparendo, l’unità dei fedeli voluta
dall’imperatore e dai concili non era del tutto realizzata.
Giustiniano cercò di porre freno a questa dissoluzione interna grazie anche alla sua solida
cultura classica. Durante i 40 anni del suo lungo regno fu guidato da due principi tra loro
complementari: la tradizione romana e l’universalismo ortodosso. La sua politica estera
mirò al recupero dei territori un tempo appartenuti a Roma e all’interno cercò attraverso
un’intensa attività legislativa di rafforzare il potere centrale. Egli governò la chiesa con
intransigenza in nome di un’unità spirituale e politica, ossequioso nei confronti del vescovo
di Roma il cui appoggio gli era indispensabile.
Al tempo di Giustiniano la discordia teologica era molto viva e attuale, soprattutto tra
calcedonesi e monofisiti. Egli indisse nel 553 il V concilio ecumenico a Costantinopoli
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ottenendo anche l’adesione del vescovo di Roma che, però, creò un ulteriore frattura con la
chiesa occidentale risolutamente diofisita. Col suo agire Giustiniano diede impulso a quel
processo di integrazione tra stato e chiesa. Ne conseguì per la definizione di un impero
ortodosso fuso con la chiesa: solo partecipando alla vita dell’impero e osservando i precetti
della religione si viveva un’autentica vita cristiana e si raggiungeva la salvezza eterna con la
conseguenza di trasformare tutti coloro che non fossero ortodossi in sudditi di seconda serie.
La salvaguardia dell’unità del cristianesimo si poneva come un obiettivo primario e
ancorché gravoso per i principi e la persecuzione religiosa diveniva lo strumento necessario
dell’agire politico. L’editto di Giustiniano obbligava gli ebrei a convertirsi.
In questo contesto occorre collocare l’ostilità di Giustiniano verso la filosofia ellenica,
contraria al cristianesimo e principale responsabile delle eresie. Per questo ordinò la
chiusura della scuola filosofica di Atene, reputata affiliata al paganesimo e al
neoplatonismo. Una preparazione giuridica di carattere universitario costituiva la via più
affidabile per una promozione nell’amministrazione imperiale e scuole superiori di diritto
esistevano a Roma, Costantinopoli e Beirut. Giustiniano riorganizzò il diritto romano
mettendo ordine all’attività legislativa e alla giustizia che inspirò il Codex, una raccolta
delle principali costituzioni imperiali dal 195 al 529.al Codex seguirono nel 533 i Digesta e
le Institutiones. L’attività legislativa di Giustiniano trovò infine il suo compimento nelle
Novellae, singole costituzione promulgate per rispondere concretamente ai problemi del suo
tempo.
Il disegno giustinianeo di perseguire l’unità in campo giuridico e religioso si completò con
naturalezza nell’impegno di ricostruire l’unità politica dell’Orbis Romanus, attraverso il
recupero delle posizioni perdute in Occidente. La riconquista dell’Occidente cominciò dal
regno fondato dai vandali nelle terre opulente dell’Africa romana tra Tunisi e Cartagine.
Privi di istituzioni dinamiche e ulteriormente indeboliti dagli attacchi delle confederazioni
berbere all’interno del proprio territorio, i vandali non furono in grado di opporsi alle forze
dell’impero d’Oriente che sotto la fine di Belisario posero fine tra il 533-534 al regno
fondato da Genserico. Ben più lunga fu la guerra condotta in Italia contro il regno ostrogoto;
una resistenza che durò 20 anni.
Restaurata l’autorità imperiale in Africa e in Italia, le mire di Giustiniano si volsero infine
alla penisola iberica dove una crisi dinastica all’interno del regno visigoto fornì al sovrano il
pretesto per un intervento armato che si concluse nel 554 con la riconquista della Spagna
sudorientale. Alla metà del secolo VI il sogno di una Renovatio imperii sembrava dunque
una realtà tangibile. Come osserva Paolo Cesaretti: “La seconda Roma aveva vinto la guerra
contro i goti, si era riannessa la prima Roma. Ma soprattutto aveva vinto a danno
dell’Italia.” Lo comprova la riduzione dell’Italia a semplice provincia, privata degli antichi
privilegi e governata con scarsa attenzione. Inoltre il processo secondo cui la progressiva
cristianizzazione dell’impero non faceva che accrescere il suo prestigio poteva dirsi
compiuto: nella sovranità dell’unico impero romano e dell’unica chiesa cristiana si
realizzava in modo compiuto l’ordine divino sulla terra, la pax christiana si sovrapponeva
alla pax romana e in quella l’impero trovava l’identità e unità culturale.
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Pur segnando l’apogeo dell’idea imperiale romana, l’impero di Giustiniano conteneva al
contempo i germi che lo avrebbero minato. Fatta eccezione per il settore del diritto, effimeri
furono i successi ottenuti. Giustiniano commise un grave errore di prospettiva
sottovalutando sia il pericolo sassanide sul fronte orientale sia la minaccia arrecata con
sempre maggior consistenza dalle forze slavo-bulgare nei territori balcanici.
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e all’esarcato di Ravenna. In seguito alle riforme di Maurizio, inoltre, le amministrazioni
militari subentrarono a quelle civili accentrando i loro poteri e soprattutto coinvolgendo
nella difesa le popolazioni locali. La militarizzazione della struttura politico-amministrativa
dell’esarcato si accompagnò ad una rimarchevole alterazione dell’assetto sociale di
ascendenza tardoantica e all’esaurimento dell’élite senatoria che di quell’ordine era
depositaria. Le impellenti necessità difensive inoltre, e con esse l’impossibilità di ricevere
aiuti dall’impero orientale impegnato su altri fronti, avevano condotto all’organizzazione di
milizie italo-bizantine reclutate su base locale tra i cosiddetti arconti, ceto medio di
possessori. Dal raccordo istituzionale tra possessori fondiari e gerarchie militari emerse una
nuova aristocrazia capace di esprimere una propria originalità provinciale, insofferente nei
confronti del governo imperale come della chiesa di Roma. Di qui sorsero ambizioni di
autonomia ecclesiastica dalle quali conseguirà nel 666 il riconoscimento per la chiesa
ravennate del principio dell’autocefalia, vale a dire dell’indipendenza giurisdizionale dal
patriarcato romano.
Le invasioni delle tribù slave e bulgare segnarono un evento basilare per la storia di
Bisanzio e dell’Europa. Iniziate nel VI secolo, si intensificarono pericolosamente tanto che
alla fine del VI secolo dilagarono per l’intera Ellade e vi si stanziarono “come se fosse terra
loro” (da un celebre passo della storia della Chiesa di Efeso). Essi però furono sì devastanti
per l’alto numero di partecipanti ma non essendo sostenute da un efficace organizzazione
politica non erano in grado di dare origine ad una conquista duratura. Per questo
gradatamente i bulgari e ancor più le popolazioni di origine turca che agivano in Europa, le
tribù slave grazie a loro infransero in modo definitivo la frontiera dei Balcani. Nel 610 gli
slavi si apprestarono ad occupare in modo permanente i territori a sud del Danubio. In breve
essi dilagarono verso l’Adriatico, l’Egeo ed il Bosforo giungendo minacciosi nel 626 sotto
le mura di Costantinopoli. La capitale si salvò grazie alle fortificazioni di terraferma e alla
superiorità navale delle flotte. I bulgari, nonostante le sconfitte sotto le mura di
Costantinopoli, non cessarono però di crescere e di imporsi sulla penisola balcanica.
Nel VII secolo, nonostante il successo di Eraclio contro i persiani, un’altra insidia si
imponeva sull’impero. Le controversie religiose e il sorgere dell’islamismo nel vicino
oriente. In Siria, in Egitto ed in Palestina la fedeltà delle popolazioni monofisite al proprio
culto e l’avversione per il patriarca ortodosso, spesso imposto da Costantinopoli, ispirarono
un’accesa ostilità nei confronti del potere centrale. Eraclio ed il vescovo di Roma Onorio
offrirono una soluzione religiosa attraverso un “esposto di fede” in cui si imponeva ai
sudditi la dottrina del monotelismo. Lungi dal risolvere il problema questo riaccese invece
gli animi scontenti dei sudditi ed accelerò anche il processo di separazione tra Oriente ed
Occidente in atto nella cristianità. Solo nel 680-681 il VI concilio ecumenico di
Costantinopoli riuscirà a restaurare l’unità religiosa. Con il pieno accordo delle chiese di
Costantinopoli e di Roma il monotelismo sarà condannato, sarà affermata la doppia natura
divina e umana di Cristo. Ma i contrasti tra oriente ed occidente erano solo sopiti,
soprattutto perché c’era una diversa concezione del posto spettante all’imperatore all’interno
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della Chiesa. Per i bizantini a capo della res publica christiana si trovava il sovrano che
vegliava anche sulla fede, a Roma invece si era più persuasi dell’autorità della Chiesa in
materia di fede (Chiesa dell’impero vs Chiesa del papato).
Alla fine del primo trentennio del VII secolo, conclusa la minaccia persiana, un altro nemico
si abbatteva sull’Oriente. Le tribù arabe iniziarono ad uscire dai loro confini e l’Islam nei
secoli successivi si espanderà in modo irreversibile.
Fino al VII secolo l’Arabia si presentava come territorio nel quale le popolazioni non
avevano raggiunto una matura organizzazione politica. All’organizzazione elementare delle
tribù nomadi dedite all’allevamento si contrapponevano i più evoluti rapporti esistenti tra gli
abitanti dell’oasi di Yathrib, la futura Medina e della Mecca. La Mecca era prospera per
numero di abitanti e fortune private ed era divenuta il più importante centro del mondo
arabo. Ad accrescere ancor di più il prestigio di questa città concorreva il remoto culto
pagano della Ka’ba, una pietra nera di provenienza meteoritica.
Le popolazioni arabe, alla vigilia dell’islamismo, apparivano pronte ad esperienze religiose
meno elementari. Gli arabi, inoltre, erano indirizzati anche da una discreta conoscenza delle
credenze bibliche e cristiane. Ad orientare ulteriormente gli spiriti verso la credenza di un
dio unico e invisibile cooperava la predicazione degli hanife, ovvero cercatori di Dio, arabi
che non erano né ebrei né cristiani ma “musulmani ante litteram” che delusi da un
politeismo tradizionale, aspiravano ad una fede più pura. Tra il 569 e il 571 nacque
Muhammad, il futuro profeta che con il suo insegnamento conferì omogeneità religiosa e
unità politica a tribù sino ad allora prive di coscienza di stato. Fu verso i 40 anni, intorno al
612, che Muhammad ebbe in una grotta la prima rivelazione divina e con essa la
convinzione di essere un predestinato inviato da Dio. In seguito a questo incontro vi è la
stesura del Corano, libro sacro suddiviso in 114 sure o capitoli, libro che è esso stesso libro
di Dio manifestatosi nella storia attraverso il profeta. Estesasi a più vaste zone della società
meccana, la predicazione di Muhammad venne in contrasto con l’azione e gli interessi dei
ricchi mercanti Quaraishiti che cercavano di realizzare intorno a La Mecca una sorta di unità
politica ed economica su cui esercitare il proprio potere oligarchico. Escluso dai diritti
tribali Muhammad fu costretto nel 622 ad abbandonare la città per trasferirsi (=egira o
migrazione) a Yathrib, che assumerà il nuovo nome di Medina= città del profeta.da tale
evento si dà inizio alla computazione islamica del tempo; la sua predicazioni cessa di essere
essenzialmente religiosa e morale per acquisire più precisi connotati politici e sociali.
Muhammad divenne guida e capo di una comunità destinata a estendersi indefinitamente. A
partire dall’Egira, infatti, l’Islam sviluppò un nuovo genere di comunità: la Umma, nucleo
essenziale attorno a cui si sviluppò il potere politico islamico. Muhammad, inoltre, sancì che
le “Genti del Libro”, ebrei e cristiani, miscredenti fuori dalla verità ma non pagani, fossero
liberi di praticare la loro fede purché accettassero di sottomettersi e di pagare una tassa. Non
solo quindi si riconobbe alle agli abitanti del nascente impero musulmano di scegliere il
proprio credo religioso ma in Muhammad rimase sempre vive l’idea che ebrei e cristiani
partecipassero ad una religione unica ed eterna di cui egli era l’ultimo e più antico profeta.
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Fondendo l’entusiasmo religioso con il ricorso alla razzia, ossia al tradizionale ed endemico
attacco degli arabi alle carovane, Muhammad seppe conquistarsi il sostegno di tribù beduine
sino ad allora ostili tra loro e fu così in grado nel 630 di rientrare trionfalmente alla Mecca.
Altra importante caratteristica dell’Islam è la determinazione dei cinque pilastri: la preghiera
rituale e collettiva nella consapevolezza che non vi è alcuna divinità al di fuori di Dio e
Muhammad è il suo inviato, l’obbligo dell’elemosina per l’assistenza ai poveri, il digiuno
diurno nel mese sacro del Ramadan, il pellegrinaggio obbligatorio alla Mecca. Tra questi
cinque pilastri non è esplicitamente menzionato il Gihad, un termine che erroneamente
tradotto con guerra santa, sta ad indicare la lotta, la tensione verso la divinità, vale a dire lo
sforzo morale che ogni credente deve fare con se stesso per avvicinarsi a Dio. Quando nel
632 Muhammad morì, al primitivo arabismo era dunque subentrato uno stato islamico di
impronta urbana e capace di reinterpretare le tradizionali strutture tribali operando un
efficace simbiosi tra nomadismo e vita sedentaria.
A partire dal 633 dopo la morte del Profeta tre furono le direttrici lungo le quali si svolse la
straordinaria avventura militare degli arabi: 1) in direzione dell’Eufrate= l’impero persiano
ne venne annientato, 2) attacco verso nord contro l’impero bizantino= il 636 vide al
contempo la sconfitta persiana e la disfatta bizantina di Yarmuk he spalancò le vie della
Palestina e della Siria, 3) nel 642 la conquista dell’Egitto consentì infine all’Islam di
affacciarsi sull’Africa romana. La conquista della costa africana fece maturare per la prima
volta negli arabi una cosciente vocazione mediterranea. Le flotte musulmane devastarono
Cipro e Rodi, spingendosi in Sicilia. Secondo lo studioso belga Henri Pirenne l’invasione
islamica avrebbe distrutto l’unità del Mediterraneo, sconvolto gli antichi modi di vita,
paralizzato i traffici tra Oriente e Occidente. L’Egira aprì un’era nuova ed i conflitti armati
con l’Islam affrettarono il compimento di rilevanti trasformazioni e in primo luogo del
trasferimento dei grandi centri urbani dal Mediterraneo verso l’Europa centrale e
settentrionale. Lo stesso sovrano greco Costante I fu ancora in grado negli anni sessanta del
VII secolo di contrastare l’ambizione espansiva dell’Islam con una controffensiva politico e
militare di stampo romano-mediterraneo volta a rispondere con maggiore efficacia alla sfida
musulmana e nel contempo a restaurare il potere bizantino nell’Italia minacciata dai
Longobardi. Nondimeno dopo la morte del sovrano, il baricentro politico dell’impero
bizantino si spostò nuovamente verso Oriente. Ne conseguì che la Sicilia e l’Africa
nordoccidentale si trovarono esposte alle aggressioni degli arabi, la cui avanzata non si
interruppe neppure in seguito al conflitto interno che nella seconda metà del VII secolo
investì il mondo arabo.
Nello stato islamico cominciarono ad affiorare tre diverse concezioni circa la legittimità del
potere di chi doveva dirigere l’Umma. Il gruppo di maggioranza, ovvero la sunna= circa il
90% dei musulmani, riteneva che il diritto al califfato dovesse esercitarsi nell’ambito della
tribù di Muhammad, per contro gli sciiti, ossia i seguaci del partito di Alì= cugino e genero
di Muhammad, reputavano che la scelta del califfo dovesse essere intrapresa all’interno
della famiglia del Profeta. Infine i kharigiti affermavano che il califfo dovesse essere scelto
tra i musulmani migliori. Ne conseguirono discordie e guerre civili destinate a scindere in
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modo permanente la comunità musulmana e culminate nel 661 con l’assassinio di Alì.
Nonostante l’opposizione degli sciiti, un aristocratico meccano riuscì a prendere il
sopravvento ponendo fine al califfato elettivo.
La stessa sopravvivenza di Costantinopoli rischiò di essere compromessa in seguito ad un
attacco sferrato dalla marina di guerra araba sotto le sue mura dal 674 al 678. Costantino IV,
però, riuscì a vanificare l’offensiva islamica precludendo così i Balcani all’espansionismo
musulmano. Lungi dall’intimare conversioni forzate, l’Islam si limitò ad imporre alle
popolazioni sottomesse i tributi previsti per i non musulmani e una condizione di inferiorità
giuridica rispetto agli altri sudditi, ma conservò inalterati i loro modi di vita. Ai suoi
primordi anche l’apparato statale si servì dei funzionari dell’impero bizantino sino all’VIII
secolo quando una progressiva islamizzazione pose a capo dell’amministrazione provinciale
gli emiri che disponevano di ampi poteri civili e militari, il greco come lingua ufficiale
venne sostituito dall’arabo e le sagome delle moschee iniziarono a definire i profili delle
città.
Gli arabi non riuscirono tuttavia a conquistare Costantinopoli e ad annetterla all’impero
anzi, in seguito alla sconfitta patita dalla flotta islamica nel 678 gli arabi furono costretti a
concludere una pace trentennale con Bisanzio la cui situazione in Oriente appariva ora
rinsaldata.
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servizio nell’esercito fu l’esito di un processo graduale e quasi spontaneo. Si venne così a
formare un esercito indigeno e reclutato su base locale, il cui mantenimento gravava in
misura assai ridotta sulle finanze pubbliche e che era composto da un ceto sociale ben
preciso: gli stratioti, piccoli e medi contadini in grado di supplire al modesto salario ricevuto
nell’esercito con i profitti dei beni patrimoniali a statuto speciale da trasmettere in eredità ai
figli unitamente all’obbligo della prestazione militare.
Le città scomparvero nella quasi totalità, travolte dalla catastrofe che investì Bisanzio nel
secolo VII e che raggiunse il suo apice nella metà del secolo successivo. Venne meno
l’antico sistema di legami sociali che contraddistingueva la dimensione urbana e con esso il
carattere pubblico della vita quotidiana. L’impero non fu più una costellazione di città, bensì
un aggregato di kastra ossia di fortezze strutturate soprattutto per divenire rifugio
provvisorio in caso d’invasione nemica. La mescolanza di case ricche e di dimore povere, il
riuso di centri civili, la frequenza nelle abitazioni di locali ad uso di atelier e di botteghe
testimoniarono la convivenza di ceti sociali assai diversi e la presenza di poveri nei centri
della città e mostrarono, inoltre, quanto profondo e definitivo fosse il mutamento avvenuto
nello stile di vita. Emerse quindi una nuova organizzazione dello spazio urbano e sociale in
cui decisiva risultò la persona del vescovo, unica figura in grado di inserire la città in una
gerarchia istituzionale e di mediare tra una civiltà urbana in rapido declino e un apparato
statale il cui ruolo era ora soprattutto fiscale e militare.
Dalla seconda metà del secolo VIII si assistette ad un innovativo ricupero di una cultura
profana. Inoltre si perse a Bisanzio ogni tipo di insegnamento universitario; sopravvisse per
contro la tradizionale struttura del sistema educativo, articolato in una scuola elementare ed
in una secondaria, ma ne mutarono i contenuti, volta ora alla formazione pratica di
funzionari statali. Si chiudeva così la fase romana dell’impero a favore di quella più
propriamente bizantina. Il greco, mutato nella pronuncia e nella struttura rispetto al modello
classico, s’imponeva nello stato e nella diplomazia, mettendo fine al bilinguismo con il
latino che fino ad allora era stata la lingua dell’esercito e dell’amministrazione.
Per comprendere l’entità delle trasformazioni avvenute a Bisanzio nel secolo di Eraclio
bisogna considerare un ulteriore elemento: la ruralizzazione dell’impero. Due fattori
contribuirono a spiegare cause e strutture di un rinnovamento rurale: 1) lo sconvolgimento
demografico causato dai movimenti etnici che hanno fornito abbondanza di braccia per
lavorare la terra, 2) la liberazione della servitù della gleba.
Lungo tutto il corso del secolo VII fu messa in atto una politica di colonizzazione
demografica che pur non coinvolgendo le sole popolazioni slave riguardò di preferenza
queste. Divenne necessaria la definizione di nuovi meccanismi sociali ed economici come
l’enfiteusi, del tutto differente dal semplice contratto di locazione si caratterizza per la quasi
totale indipendenza del coltivatore. Purché versi il proprio canone e paghi le imposte sulla
terra, l’enfiteuta non solo è libero di decidere la gestione del fondo ma diviene proprietario
delle migliorie apportate. Simile situazione, mentre favorisce il formarsi di un gruppo
sempre più numeroso di piccoli proprietari terrieri indipendenti, contribuisce ad aumentare
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le entrate fiscali dell’impero. Il Codice Rurale o Legge Agraria testimonia come alla base di
tutta l’organizzazione agraria vi fosse il Chorion o comunità di villaggio che determina sia
la struttura dello spazio e dell’agro lavorativo, sia la forma socio-economica destinata a
prevalere nelle campagne bizantine. Il Chorion si definisce come un habitat raggruppato
dove risiedono per lo più contadini liberi le cui dimore sono circondate da orti e proprietà
individuali. È peculiare del Chorion bizantino che i contadini traggano sostentamento da
fondi personali in loro possesso. Sotto l’aspetto economico vi è una certa diseguaglianza tra
gli abitanti delle comunità di villaggio che spinge gli uni alla fuga dalla propria terra per
trasferirsi nel dominio di un grande proprietario, permettendo agli altri di impegare le
risorse in eccedenza nello sfruttamento degli appezzamenti abbandonati. Il Chorion
rappresenta dunque l’elemento costitutivo della società rurale bizantina pur non
dimenticando che a livello produttivo il quadro di base non è il villaggio ma l’azienda
famigliare. La casa contadina sembra formare nel suo insieme un’unità chiusa in se stessa,
distinta dal villaggio. Accanto ai beni dei contadini liberi permangono le grandi fortune
dello stato e i domini della chiesa. Queste sono per lo più affidate tramite affittanze a
contadini dipendenti, i paroikoi, che in cambio dell’uso del suolo devono al proprietario del
fondo prestazioni, canoni, tasse e servizi. Legati alla terra da coltivare essi hanno, a
differenza dei servi, una larga capacità giuridica grazie alla quale possono spostarsi
liberamente e testimoniare. Più ancora essi hanno la facoltà di possedere animali da lavoro o
terreni propri. Mentre la maggioranza dell’aristocrazia tradizionale non fu in grado di
sopravvivere alla rovina finanziaria, un’altra si affermò con vigore, formando il primo
nucleo di un nuovo ceto aristocratico di origine provinciale per lo più di derivazione
armena, siriaca o persiana.
L’ultimo ventennio del secolo VII ed i primi decenni del secolo VIII furono segnati da una
situazione di estrema debolezza interna e da pericoli esterni sempre più minacciosi a cui,
solo momentaneamente, aveva posto freno Giustiniano II. Questi dopo aver conquistato una
fortunata ed effimera vittoria nell’area balcanica, optò per una politica tesa a privilegiare
l’intesa più che lo scontro, insignendo nel 705 il khan bulgaro del titolo di Cesare. Era la
prima volta che tale dignità veniva conferita a uno straniero e per di più pagano. Gli eserciti
bizantini inoltre erano duramente impegnati a fronteggiare la persistente offensiva araba.
Nel 717 Leone III, un ufficiale probabilmente di origini sira elevatosi a rango di stratega.
Riuscì a farsi proclamare imperatore dalle truppe del thema anatolico. Unendo abilità
militari elevate a qualità diplomatiche. Leone III riuscì con l’appoggio dei cazari,
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popolazione di origine turca, a respingere gli arabi salvando nel 718 la città. È pur vero che
quasi tutta l’Asia Minore dovette in quel momento essere abbandonata agli invasori islamici
ma la loro spinta offensiva andò da quel momento esaurendosi. La caduta degli Omayyadi
alla metà del secolo VIII comportò inoltre la definitiva orientalizzazione del califfato che si
presentava ora come uno stato continentale. In questo particolare contesto storico si situa
l’editto contro le immagini sacre con cui Leone III aprì ufficialmente la controversia
iconoclastica, un conflitto che lacerò la chiesa e l’impero bizantino per circa un secolo, fino
a quando nel 843 il culto delle icone fu infine riconosciuto come patrimonio integrante
dell’ortodossia cristiana. Circa l’effettivo contributo dell’islamismo al nascente iconoclasmo
bizantino occorre procedere con molta cautela. Senza dubbio questi giudicavano l’arte
figurativa inadatta a esprimere l’essenza trascendente di Dio, ma tale atteggiamento non fu
prerogativa esclusiva né del mondo arabo né dell’ebraismo. È altrettanto certa l’esistenza
presso alcune élite ecclesiastiche bizantine di un’estesa disposizione aniconica di matrice
genuinamente e spontaneamente cristiana. Alla tesi tradizionale che interpreta dunque
l’iconoclastia come il prevalere di elementi orientali e comunque non autenticamente
bizantini, si contrappongono le argomentazioni di chi invece la considera un movimento
tutto interno alla religiosità ortodossa e originato dal sincero intento di placare la collera
divina manifestatasi nelle catastrofi militari che avevano preceduto il regno di Leone III o in
terribili calamità naturali quali l’eruzione vulcanica di Thera nel 726. Ciò avrebbe spinto
Leone III a purificare la chiesa dalle degenerazioni superstiziose connesse al culto delle
icone.
Una severa imposizione iconoclastica avvenne con l’editto sinodale di Leone III nel 730.
Leone III non era di per sé contrario alla tradizione figurativa in quanto tale, ma alle
superstizioni e al contenuto idolatrico assunto dal culto delle icone, come dimostra il fatto
che l’iconografia imperiale sostituì quella sacra negli edifici pubblici e nelle chiese. Lungi
dall’essere un’innovazione, l’iconoclasmo si configurava piuttosto come un ritorno alla
tradizione teso a rafforzare il culto della croce quale genuina espressione della pietà
cristiana e al contempo garanzia della vittoria imperiale contro i nemici di Cristo. Almeno
all’inizio l’iconoclasmo non si presentò con i caratteri di un’eresia ma come movimento di
restaurazione politica destinato a riaffermare il valore dell’autocrazia e a ribadire quel
carattere sacerdotale del potere regio. Il bisogno di ripristinare il prestigio e l’autorità del
potere politico si manifestò anche nella ripresa ufficiale dell’attività legislativa con la
pubblicazione voluta da Leone III e da suo figlio della Ecloga. Questa deve essere
considerata come una sorta di mediazione tra il diritto giustinianeo del Corpus Iuris Civilis e
la legislazione assai più intransigente della dinastia di Basilio I. l’imperatore e suo figlio
non esitarono a rivendicare a sé qualsiasi potere, civile e religioso, anche a costo di spezzare
quell’armonico accordo tra imperium e sacerdotium e rendere ancora più difficili le
relazioni con la chiesa romana.
Fu solo con Costantino V che la questione delle immagini religiose si complicò di contenuti
dogmatiche. Lo scontro tra iconoclasti ed iconoduli (a favore delle immagini sacre)
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raggiunse in quegli anni il suo apice e all’imperatore occorse più di un decennio per ottenere
nel 754 la formale condanna del culto delle immagini da parte di un concilio riunitosi a
Hierea. L’opposizione maggiore venne dagli ambienti monastici poiché per un monastero
possedere un’icona assai venerata per i suoi miracoli equivaleva ad una certa garanzia di
prosperità grazie a donazioni e lasciti dei fedeli. Furono questi gli anni delle persecuzioni
più dure, durante le quali l’immagine del monaco venne screditata presso il popolo. Fu
probabilmente Costantino V a trasformare la lotta per le immagini da semplice problema di
disciplina ecclesiastica e di culto in questione teologico-dogmatica, accusando gli iconoduli
di nestrorianesimo. L’imperatore poneva in forma di sillogismo disgiuntivo un dilemma
secco: o il pittore presumeva di dipingere simultaneamente la divino-umanità di Cristo, e
allora la sua pretesa era assurda e volta a circoscrivere l’incircoscrivibile. O pretendeva di
rappresentare la sola umanità macchiandosi così di nestrorianesimo poiché separava l’unità
delle due persone. Nel respingere gli addebiti dei loro avversari, gli iconoduli li incolpavano
di monofisismo, accusandoli di non ammettere la perfezione dell’unione ipostatica che
contemplava nella persona del Cristo l’unione “senza confusione” della natura umana e di
quella divina.
L’avvento al trono nel 775 di Leone IV, figlio di Costantino V, segnò un primo attenuarsi
della pressione religiosa degli iconoclasti, quasi un’anticipazione di quanto avverrà dopo la
sua morte quando la consorte Irene assunse la reggenza e si prodigò nel ripristinare il
tradizionale culto delle immagini destituendo ed intimorendo i vescovi contrari. Fino ad
arrivare al nuovo concilio ecumenico convocato a Nicea nel 787, con il consenso anche del
pontefice romano, durante il quale il valore attribuito alle icone fu formalmente
riconosciuto. Successivamente con il secondo concilio di Nicea con Teodoro e i suoi
seguaci si aprì la cosiddetta età scolastica della controversia, in cui essi animati da un
profondo fervore iconodulo affermavano l’inconoscibilità e l’indescrivibilità dell’archetipo
e al contempo la possibilità e necessità di una sua raffigurazione concreta e sensibile. I
rapporti con l’Occidente si erano complicati non solo a causa dei contrasti dottrinali ma
soprattutto per l’incoronazione di Carlo Magno (nella notte di natale dell’800). Una rivolta
di palazzo nel quale fu deposta ed esiliata Irene, nel 802, insedierà sul trono di
Costantinopoli il ministro Niceforo I, sovrano accorto e capace ma non in grado di sanare il
conflitto tra il partito patriarcale e i sostenitori dell’intransigenza studita le cui
rivendicazioni al primato ecclesiastico rispetto al potere autocratico si accrebbero a fronte
della nuova politica dell’imperatore. Ben presto però, nell’811 i Bulgari dilagarono in
territorio bizantino e giunsero nei pressi di Costantinopoli.
La crisi apertasi con la caduta in battaglia contro i Bulgari di Niceforo I sembrava aver
lasciato campo libero al partito monastico, in effetti il suo successore Michele I non esitò a
chiamare i monaci esiliati, tra cui Teodoro Studita che operò attivamente per la
riconciliazione tra l’elemento monastico ed il patriarcato. Con l’elezione nell’813 di Leone
V l’Armeno si assistette alla ripresa ufficiale dell’iconoclastia. Con il sinodo
costantinopolitano dell’815 l’iconoclasmo fu ufficialmente ripristinato in forme più
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tolleranti. Le immagini ammesse per il loro valore educativo e non come oggetto di culto,
dovevano essere collocate lontano da ogni possibile pratica di venerazione, alla portata degli
sguardi ma non dei baci dei fedeli.
La funzione storica dell’iconoclasmo si era ormai esaurita sia all’interno dell’impero sia nei
confronti dei nemici esterni, avendo permesso all’autocrazia bizantina di superare la crisi
del VII secolo. Inevitabilmente l’iconoclasmo scomparve. Le sconfitte militari degli ultimi
imperatori iconoclasti aumentarono le difficoltà militari dell’impero, soprattutto nella
penisola balcanica. Un sinodo convocato a Costantinopoli nell’843 proclamava il trionfo
sull’iconoclastia la cui sconfitta fu interpretata come il fallimento dell’ultima grande eresia,
commemorata fino ai giorni nostri della prima domenica di quaresima come la festa
dell’ortodossia. Sconfitti sul piano religioso gli imperatori iconoclasti lasciarono tuttavia
all’impero come preziosa eredità un rinnovato equilibrio tra ortodossia e potere politico che
portò alla cristianizzazione delle popolazioni slavo-bulgare e un nuovo fervore intellettuale.
A partire dalla metà del secolo VIII fino al secolo IX si sviluppa la rinascita bizantina
contraddistinta da due indirizzi innovatori della cultura monastica. Il primo si rivolge alla
cultura ellenistica e precristiana per riscoprirne le conoscenza scientifico matematiche (è
l’umanesimo di Giovanni il Grammatico e Leone il Matematico). Il secondo, che ebbe
maggio fortuna, è di carattere grammatico retorico e filosofico teologico.
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ecclesiastica da tempo in atto tra il regno franco e l’autorità pontificia. Ciò segnò la nascita
del potere imperiale in Occidente e accrebbe l’autonomia del pontefice nei confronti
dell’impero bizantino. Bisanzio riconobbe a Carlo il titolo imperiale in cambio della
restituzione delle città costiere e delle Isole Dalmate. Nel mezzogiorno dell’Italia si
contrappose invece una diversa capacità di controllo politico-militare e di egemonia
religiosa e culturale.
Nel califfato la capitale fu trasferita da Damasco a Bagdad, per la sua posizione strategica
all’incrocio delle vie commerciali. Il califfato abbaside, contraddistinto dalla supremazia
nella vita amministrativa e culturale degli elementi iracheni-iraniani, si ritirò verso oriente
per riscoprire fasti imperiali ed imporre una rigida ortodossia sunnita. Gli Abbasidi non
esitarono, infatti, a regolamentare l’ortodossia religiosa secondo la tradizione con esclusivo
richiamo al Corano e alla Sunna. Quello fu un periodo della storia islamica di splendore
culturale senza precedenti, nel quale la cultura greca, lungi dall’essere considerata contraria
al Corano, fu invece reputata attraente e necessaria. L’avvento degli Abbasidi segnò quindi
per il califfato una svolta: lo stato islamico si ritirò verso la Persia. In tal modo nel bacino
del Mediterraneo si profilò uno sfaldamento politico della compagine califfale. Il
frazionamento politico non fu però accompagnato da quello socio-culturale, grazie
all’egemonia della lingua araba che assorbì anche le lingue dei popoli cristiani del vicino
Oriente e si insinuò persino nella liturgia cristiana, al punto che ancora oggi in quei luoghi
parte della funzione religiosa viene recitata in Arabo. Non per questo però vennero meno le
aspirazioni mediterranee arabo-islamiche ma con più limitati mezzi e scopi. Nel primo
trentennio del secolo IX si arrivò alla conquista della Sicilia bizantina che fu per circa due
secoli e mezzo occupata in modo permanente dagli arabi, i quali elessero Palermo come
fastoso centro della propria dominazione. Malgrado i successi riportati in Sicilia però gli
arabi non riuscirono ad impadronirsi dell’Italia peninsulare.
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Nell’855 Michele III riuscì ad emanciparsi dalla reggenza della madre Teodora, affidando
allo zio Barda la direzione degli affari. Con lui la situazione mutò radicalmente: non esitò a
bandire Ignazio, patriarca di Costantinopoli, e sostituirlo con Fozio malgrado fosse un laico.
Di famiglia aristocratica e nipote di un patriarca, Fozio prima di ascendere al seggio
patriarcale fu un brillante funzionario della cancelleria imperiale e si distinse come letterato
e filologo, avendo raccolto attorno a sé una sorta di cenacolo culturale aperto ad amici e
discepoli. Egli fu un vero umanista capace di rivolgersi ai classici con spirito e linguaggio
nuovi; frutto splendido di questo atteggiamento furono il Lessico, opera in cui Fozio annotò
ogni parola che gli suscitasse interesse o perplessità e la Biblioteca, raccolta di 279 “schede”
di lettura di opere della letteratura classica. Questo intellettuale risultava però sgradito al
partito monastico che dichiarò nulla l’ordinazione del nuova patriarca in quanto
amministrata ad un laico. A Fozio non restò che impegnare le sue energie nella difesa della
posizione assunta e proclamare a sua volta la nullità delle elezioni di Ignazio. La pace
raggiunta all’interno della chiesa sembrava ora compromessa; venne offerta a papa Niccolò
I (papa a Roma) un’inaspettata occasione per rivendicare la propria supremazia disciplinare
sull’intera cristianità. Nell’863 Niccolò I riconobbe la legittimità di Ignazio, anatemizzando
Fozio, il quale reagì con la convocazione a Costantinopoli di un sinodo generale
dell’Oriente mirante alla condanna del pontefice romano, accusato sia di aver violato il
principio della collegialità nella direzione ecclesiastica sia di aver alterato la liturgia
conciliare. Lo scontro che oppose Niccolò I a Fozio fu la manifestazione della separazione
tra le due cristianità. Difendendo se stesso Fozio si poneva come il difensore dell’autonomia
greca contro l’universalismo romano.
Se all’inizio del secolo IX l’arresto dell’invasione araba in Asia Minore era un fatto
compiuto, non altrettanto poteva dirsi per l’espansione dello stato bulgaro. I khan bulgari,
infatti, non avevano cessato di perseguire una politica antibizantina, malgrado la pace
trentennale conclusa con l’impero nel 816. Fu Fozio a formulare l’idea che la conversione
all’ortodossia delle popolazioni slave avrebbe recato vantaggi alla stabilità dell’impero così
come al prestigio del patriarcato di Costantinopoli. La cristianizzazione non implicava
soltanto l’accettazione di un nuovo credo religioso ma significava anche e soprattutto
l’introduzione di una complessa gerarchia ecclesiastica composta da metropoliti e vescovi.
La conversione al cristianesimo appariva quindi efficace per superare l’elementarità degli
ordinamenti e dell’organizzazione statale tribale. L’impero di Bisanzio, inoltre, non poteva
accettare ai suoi confini nazioni ostili e religiosamente orientate verso il patriarcato di
Roma. Fu così che mentre Boris di Bulgaria si era progressivamente avvicinato al regno dei
franchi orientali di Ludovico il Germanico, Rotislao principe della Gran Moravia per
sfuggire alle pressioni del clero germanico e dalla minaccia dei Franchi, non aveva esitato a
rivolgersi a Bisanzio chiedendo di istruire il suo popolo nella fede cristiana in lingua slava.
L’importanza di un missionario che conoscesse la lingua slava fu compresa da Bisanzio che
inviò Costantino e Metodio; il loro nome sarà inseparabilmente legato all’introduzione
presso le popolazioni balcaniche di una liturgia in dialetto slavo. Invero la liturgia slava dei
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due fratelli fu presto abbandonata in Moravia per l’incalzare della potenza episcopale
bavaro-francese, sostenuta dall’impero germanico e dalle autorità della chiesa romana
timorose che una vasta area dell’Europa centrale potesse cadere sotto la potenza del
patriarcato d’Oriente. Mentre la Moravia tornava ad orientarsi verso l’Occidente, gli slavi
dell’Europa sud-orientale, i bulgari in particolare, si apprestavano ad entrare stabilmente
dell’orbita bizantina. Il patriarcato ortodosso riconobbe all’arcivescovo di Bulgaria una
qualche indipendenza e un rango privilegiato all’interno della gerarchia ecclesiastica
orientale. La Bulgaria divenne così parte integrante di una fluida comunità sovranazionale
costituita dai paesi ortodossi che gravitavano nell’orbita politica e civile di Bisanzio. In
questi anni i patriarcati di Roma e Costantinopoli si scontrarono più volte sul tema
dell’evangelizzazione degli altri stati slavi in via di formazione nei Balcani nord-occidentali.
Alle diverse sfere di influenza delle chiese di Roma e di Costantinopoli corrisponderanno
infatti le due differenti aree di diffusione degli alfabeti cirillico e latino destinate a segnare il
confine pressoché definitivo tra la cristianità cattolica e quella ortodossa, tra una cultura
greco-bizantina ed una romano-germanica.
Il patriarcato di Fozio segnò un momento importante nella definizione dei rapporti tra potere
secolare e autorità religiosa. La riflessione più sistematica e più nuova sul rapporto tra i due
poteri si trova nell’ Epanagoghé, un piccolo codice di leggi risalenti all’età di Basilio. Dal
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prologo emerge una nuova definizione dei poteri sacerdotali del patriarca e delle
responsabilità regali del principe. Il basileus è “l’autorità legittima” a cui spetta provvedere
al bene comune di tutti i sudditi. Al patriarca, immagine vivente e animata di Cristo, spetta
innanzitutto custodire coloro che ricevette da Dio con la pietà e la santità della sua vita, poi
attrarre all’ortodossia tutti gli eretici. In questo modo Fozio, a livello concettuale, sottraeva
all’istituzione imperiale una parte della sua sacralità, in realtà l’imperatore continuava ad
esercitare una stretta vigilanza sul patriarca anche se quest’ultimo godrà di un’effettiva
autonomia spirituale, riuscendo talvolta a far prevalere le ragioni dell’ortodossia su quelle
della corte. Il rinsaldamento della collaborazione tra potere secolare ed autorità religiosa si
manifestò nell’impegno della chiesa ortodossa a legittimare ulteriormente la sovranità
imperiale, così da rafforzare la concezione dell’origine divina della regalità rispetto al
principio elettivo. Fu con Costantino Porfirogenito che il sovrano bizantino acquisì una
sacralità che gli permetteva di agire da tramite tra il mondo terreno ed il cielo; inaccessibile
ed isolato all’interno del palazzo quasi come in un santuario, egli divenne oggetto di un
culto che riguardava sì la sua persona ma soprattutto l’istituzione da lui rappresenta.
Gli sviluppi istituzionali che contraddistinsero il periodo basilide ebbero come esito
l’affermarsi del principio dinastico basato sulla parentela imperiale per assicurare la
successione al trono. Nacque così il concetto tipicamente bizantino di “porfirogenito”,
ovvero “generato dalla porpora”, applicato ai principi che, dopo l’assunzione al trono del
padre, erano nati nella Porphyra, vale a dire in un padiglione all’interno del palazzo
imperiale rivestito di porfido e appositamente riservato al parto delle imperatrici. La potestà
concessa da Dio all’imperatore non derivava più da un’elezione da parte del senato o
dell’esercito, ma si trasmetteva ora attraverso le donne.
La continuità della dinastia basilide fu soprattutto l’esito di un complicato equilibrio
istituzionale tra la famiglia dei Basilidi e un’aristocrazia provinciale. Leone VI, figlio di
Basilio I, sposato tre volte e per tre volte erede senza discendenza, pur di consolidare la
dinastia non esitò ad entrare in aperto conflitto con gli ambienti ecclesiastici di cui aveva già
sfidato le disposizioni contraendo più di due matrimoni contemplati dal diritto canonico.
Avendo avuto finalmente un figlio si poneva per Leone il problema della legittimazione
dell’erede; il patriarca Nicola il Mistico acconsentì a battezzare il futuro Costantino VII ma
si dimostrò inflessibile nell’interdire il quarto matrimonio che l’imperatore riteneva
indispensabile per garantire pienamente i diritti del figlio. Grazie ad un sacerdote, però, le
nozze furono ugualmente celebrate, Zoe venne proclamata imperatrice ma Leone VI dovette
affrontare l’opposizione di Nicola. Il conflitto tra autorità religiosa e potere politico si
riproponeva: questa volta era il sovrano a rivolgersi al pontefice romano per ottenere la
deposizione del patriarca. Infine il matrimonio venne convalidato e, con la morte di Leone
VI nel 912, le prime tensioni caratterizzarono la casata di Basilio. Nel 912 Romano I
Lecapeno si impadronì del trono grazie anche all’aiuto del patriarcato e relegò il legittimo
sovrano Costantino VII in una posizione secondaria, dandogli in sposa la propria figlia. Alla
sua morte gli successe il figlio Romano II che, deceduto solo dopo 4 anni di regno, lasciava
due eredi: Basilio II e Costantino VIII, di cui il maggiore non aveva che 4 anni. Con una
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situazione simile a quella avvenuta con Costantino VII, ancora una volta un lignaggio di
primo piano accedette al trono nella persona di Niceforo Foca; ancora una volta si scelse la
via della legittimismo sposando Teofano, vedova di Romano II, e promettendo di rispettare i
diritti dei due figli. L’imperatrice, inoltre, tornerà ad essere il tramite della continuità
dinastica quando sposerà l’uccisore di Niceforo Foca, Giovanni Zimisce, nipote di Niceforo.
Anche quest’ultimo usurpatore lasciò nominalmente regnare i figli di Romano II così che
alla sua morte il potere tornò di nuovo ai legittimi rappresentanti della dinastia macedone.
Il generale orientamento della politica di Basilio tesa a rinsaldare l’impero sotto il segno
unificante di un rinnovato potere autocratico doveva quasi inevitabilmente indurre il
sovrano ad intraprendere un ambizioso progetto di codificazione legislativa. Si trattava di
riesaminare l’intera legislazione precedente apportando le necessarie correzioni, così da
redigere un nuovo codice che fosse effettivamente applicabile in tutto l’impero. Tale
poderoso sforzo verso l’unificazione del diritto venne completato durante il regno di Leone
VI con la pubblicazione dei sessanta libri dei Basilici, ovvero “le leggi imperiali”. Per
quanto concerne la volontà di applicare a tutto l’impero l’unità e l’universalità del diritto
così “purificato”, tale ideale non riuscì a realizzarsi pienamente sia per la mole stessa
dell’opera sia per la persistente forza del costume locale. L’attività dei Basilidi non fu
dunque una semplice restaurazione del corpus giustinianeo ma fu un’originale attività di
correzione e di miglioramento.
Sin dai tempi di Leone III la riforma tematica assunse contorni più precisi e oltre che nelle
province dell’Asia Minore, raggiunse anche le parti occidentali dell’impero. Verso la fine
del secolo IX questo processo, accompagnato dalla creazione delle kleisurai, piccoli distretti
militari di frontiera indipendenti dagli strateghi e istituiti per difendere i passi di montagna,
potrà dirsi sostanzialmente compiuto. Tale sistema però non fu l’esito di un processo di
decentralizzazione, in quanto il basileus impediva allo stratega di disporre liberamente degli
introiti fiscali del proprio thema ma, soprattutto, l’apparato periferico doveva operare in
simultaneità con l’amministrazione centrale dello stato.
Al tempo di Filoteo si distinguevano due tipi di “dignità”: quelle puramente onorifiche,
senza l’obbligo cioè di uffizi e funzioni, accordate dall’imperatore mediante la concessione
delle relative insegne e le dignità conferite oralmente, vale a dire mediante l’annuncio della
nomina, corrispondenti all’esercizio effettivo di cariche pubbliche sia civili sia militari. Nel
sistema descritto da Filoteo l’intero apparato burocratico, giunto ormai al suo completo
sviluppo e accentrato intorno al palazzo, risulta essenzialmente suddiviso in 4 grandi
dipartimenti: finanze, posta e affari esteri, cancelleria imperiale, giustizia.
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equipaggiano con la rendita di proprietà terriere e una forte aristocrazia a vocazione
militare, dislocata anche nel territorio balcanico. Entrambe queste forze erano interessate ad
una politica di espansione tramite la guerra.
Fin dal secolo VIII gli slavi assunsero un’importanza determinante nell’orizzonte politico
bizantino, così che l’impero per fronteggiare il pericolo bulgaro dovette procedere alla fine
del secolo ad un accorpamento delle province europee e quindi ad una loro ristrutturazione
in distretti tematici. La pressione bulgara aveva continuato ad inasprirsi specie in prossimità
di Tessalonica sino a quando nel IX secolo la conversione di Boris e il conseguente ingresso
del regno nella sfera di interesse bizantina non sembravano porre fine a quel pericolo. Boris,
che si era ritirato a vita religiosa, lasciò la corona al figlio maggiore Vladimir e
successivamente al figlio Simeone che completò l’azione del padre assicurando al proprio
paese, oltre alla piena indipendenza nazionale ed ecclesiastica, una completa egemonia
sull’intera regione balcanica. Egli, lungi dal voler annientare l’impero greco, era
determinato a creare un nuovo impero universale capace di assorbire quello bizantino. Egli
giunse a minacciare la stessa Costantinopoli ottenendo in cambio della pace da Nicola
Mistico la promessa di un prossimo matrimonio tra sua figlia ed il giovane imperatore
Costantino VII ancora minorenne. Questo progetto non si realizzò poiché il generale
bizantino Romano Lecapeno aveva dato in moglie a Costantino VII la proprio figlia Elena.
Simeone tuttavia non desistette all’aspirazione del titolo di basileus e anzi, autoproclamatosi
“imperatore dei bulgari e dei romani” convocò un concilio di tutti i vescovi bulgari così da
affermare la piena autorevolezza di quella chiesa ed elevare l’arcivescovo di Bulgaria al
rango di patriarca. Simeone morì nel 927 senza aver realizzato i propri progetti di unità
balcanica ma lasciando in eredità alla Bulgaria una forte identità politica e culturale che
aveva come centro Preslav. Con i successori di Simeone la Bulgaria conobbe una rapida
decadenza. A questo contribuì il bogomilismo, un movimento di ispirazione dualista e di
origine orientale. Lo zar Boris II nel 969, succeduto a Pietro, fu pubblicamente costretto in
Santa Sofia a rinunciare all’impero e ad abdicare. Il suo regno fu proclamato provincia
bizantina. Così dopo quasi 400 anni Bisanzio aveva riconquistato le province balcaniche a
sua del Danubio e raggiunto la sua massima estensione territoriale. Nel 1018 lo stato
bulgaro, dopo aver conteso per tre secoli a Bisanzio il dominio sulla penisola balcanica
cessò di esistere.
A partire dal secolo VIII e con intensità sempre maggiore, il continente europeo venne
travolto da una nuova ondata aggressiva con vocazione marittima e proveniente da terre
scandinave. Si trattava dei normanni o vichinghi. Essi raggiunsero via mare l’Irlanda
orientale, il nord dell’Inghilterra e la Scozia e si spinsero sin all’interno della Germania e
della Francia e lungo le rive atlantiche spagnole e dell’Africa settentrionale. Inizialmente
caratterizzate da scorreria e saccheggi, l’espansione normanna durante il IX e X secolo,
diede talvolta origine a signorie territoriali di breve durata. Più importante ancora per le
sorti di Bisanzio e la storia dell’Europa orientale fu l’incontro con i Vareghi, discesi dal mar
Baltico attraverso le vie fluviali russe e stanziatisi intorno al mar Nero e al mar Caspio. Si
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andò formando già negli ultimi decenni del IX secolo il principato di Kiev. Dapprima
pacifici i rapporti con le colonie variago-russe stabilitesi a Kiev e l’impero bizantino
peggiorarono in modo inaspettato durante il regno di Michele III. Bisanzio svolse un ruolo
essenziale nel condizionare la vita culturale e religiosa dei russi con l’introduzione del
cristianesimo ortodosso. Solo nel secolo X una nuova conversione vincolò in modo
definitivo il cristianesimo ortodosso al principato di Kiev e tramite questo al futuro della
Russia. Il riconoscimento di Costantinopoli quale nuova Gerusalemme e centro indiscusso
dell’ecumene cristiana rimase intatto fino al concilio di Ferrara-Firenze nel 1349, quando
l’autocrazia bizantina riuscì a far sottoscrivere un atto di unione tra le chiesa greca e quella
latina.
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A partire dalla fine dell’VIII secolo la struttura delle campagne bizantine apparve segnata da
rilevanti trasformazioni, particolarmente evidenti nell’alterarsi dell’equilibrio tra piccola e
grande proprietà fondiaria creatosi nei secoli precedenti. I monasteri, usciti vittoriosi
dall’iconoclasmo, si affermarono a partire dal secolo VIII come centri di potenza sociale ed
economica. Sempre più numerosi sono i monasteri divenuti indipendenti ed autogestiti, in
cui i monaci diventano abili nell’accrescere il proprio patrimonio fondiario.
Si comprendono meglio i significati della lotta per il controllo della piccola proprietà e dei
mutamenti dell’assetto delle campagne bizantine se si definiscono i concetti di potenti e di
deboli. I primi, nuovo ceto formato dai magnati provinciali per lo più originari dell’Asia
Minore, in virtù di un’autorità di impronta “signorile”, hanno la possibilità nei confronti dei
contadini liberi di combinare l’esercizio violento della forza, con la pratica del patronato che
mirava a garantire a chi vendeva i propri beni protezione ed esenzioni fiscali. Sottraggono
dunque terre ai più “deboli” ed entrano in conflitto con lo stato grazie alla capacità di
ottenere per i propri fondi anche esenzioni fiscali. I piccoli proprietari, intimoriti dalle
minacce signorili ma allettati dalla tutela loro offerta, scelgono di rinunciare alla piena
proprietà sulle loro terre cedendole al signore e riottenendole in affitto. Essi si trasformano
così in contadini economicamente dipendenti dal signore nella cui tenuta sono insediati.
I “deboli” sono lontani dal rappresentare un ceto economicamente omogeneo, costituiti da
contadini medi e agiati e da famiglie povere e prive di terra.
Leone VI cercò di porre un freno alla politica selvaggia dei “potenti” che permetteva loro di
acquisire in maniera fraudolenta i fondi dei piccoli proprietari per favorire una più razionale
forma di economia contadina. Il peso fiscale che gravava però sulle piccole proprietà
contadine innescò una crisi che risultò irreversibili. I villaggi rurali situati nei territori
comunali furono gradatamente annessi ai grandi patrimoni fondiari.
Scomparso senza eredi Basilio II, che aveva rinunciato a contrarre matrimonio per un
modello di vita di tipo ascetico, il trono passò al fratello Costantino VIII e quindi alle figlie
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di costui: Zoe e poi Teodora, con cui la dinastia basilide si estinse definitivamente (1056). Il
passaggio dalla politica di difesa dei confini nazionali voluta dagli imperatori iconoclasti a
quella espansionista perseguita dai sovrani della dinastia basilide non fu senza conseguenze
sul piano dell’organizzazione interna. Il regime dei themata sembrava meno adatto ad una
politica espansionistica che richiedeva un’ampia mobilità degli eserciti su tutto il territorio.
Fin dal X secolo si era provveduto all’istituzionalizzazione di incarichi che concentravano
nelle mani di pochi e fidati collaboratori dell’imperatore il comando militare. Si alterò
radicalmente il regime della strateia, ovvero della prestazione di un servizio militare in
cambio del godimento di una quantità di terra fiscalmente agevolata. Al processo di
smobilitazione dell’armata thematica, giudicata superflua ed inefficiente fece riscontro un
accresciuto arruolamento delle milizie tagmatiche, composte da soldati di professione
comprendenti anche truppe etniche quali ad esempio i Vareghi.
Il fallimento della politica dei Basilidi a tutela della piccola proprietà agraria aveva
comportato una diminuzione della rendita fiscale derivante dalla terra. Anche le entrate
provenienti dalle dogane e dalle tasse sul commercio cominciavano ad indebolirsi e, per
questo, fu indispensabile ricorrere ad una nuova politica finanziaria. Due elementi
concomitanti contribuirono alla crisi di questo periodo: il crollo della potenza bizantina in
Italia e una sempre più diffusa inquietudine sociale e politica che fu la causa della guerra
civile scoppiata a Costantinopoli nel 1071. Nel 1071 infine i Normanni, impadronendosi di
Bari, il caposaldo dell’Italia Bizantina mettevano termine alla plurisecolare dominazione
greca nell’Italia meridionale. Il 1071 divenne uno dei momenti cruciali della storia
bizantina, ciò fu dovuto oltre che a causa degli insuccessi militari, all’impossibilità di
disgiungere la politica estera da quella interna, ciò causò i conseguenti disordini e la guerra
civile. Dopo quasi due millenni di insediamento ero il tracollo dell’ellenismo in Anatolia.
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6) La dinastia dei Comneni: l’aristocrazia del sangue al potere
Quando nel 1081 Alessandro Comneno con un composito esercito formato da mercenari
stranieri, soldati nazionali e turchi entrò in Costantinopoli per essere incoronato imperatore,
lo stato bizantino era sull’orlo della catastrofe. Con l’ascesa dei Comneni che seppero
mantenersi sul trono per più di cento anni, il potere si concentrò interamente nella mani del
sovrano e nella cerchia dei suoi congiunti. Per rafforzare ulteriormente il proprio casato,
Alessio I Comneno sposò Irene Ducas e provvide a farsi adottare da Maria da Lania, vedova
dell’imperatore Michele VIII e riuscì ad assicurarsi l’appoggio del cognato Niceforo
Melissimo. Grazie a tale fitto intreccio di relazioni Alessio riuscì non solo ad accedere al
trono ma assicurò alla sua famiglia una solida base di consenso.
Quando nell’aprile del 1081 Alessio divenne imperatore il potere risiedeva in un ristretto e
circoscritto gruppo di famiglie convergenti intorno alla corte di Costantinopoli e coordinate
dai Comneni. Ad una gerarchia della funzione si sostituiva così una gerarchia del sangue.
Solo attraverso il sistema di relazioni ed alleanze istituito dalla famiglia regnante fu
possibile restaurare il potere dell’autocrazia e difendere, grazie ai mercenari, le frontiere
dell’impero. Non si ebbe dispersione di poteri bensì un loro accentramento.
A partire dal regno di Manuele Comneno si avviò una pratica amministrativa detta pronoia
in cui si provvedeva a remunerare un certo numero di ufficiali bizantini o stranieri
assegnando loro dei lotti di terra statale. Grazie a tale sistema l’autorità pubblica concedeva,
in cambio di prestazioni militari, delle fonti di reddito. La pronoia non era altro che il
conferimento del diritto di riscuotere a proprio vantaggio le imposte in sostituzione di una
retribuzione pubblica, senza che ciò intaccasse l’integrità dei beni dello stato o le sue
funzioni.
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remissione della colpe senza dover sottostare ad alcuna penitenza. La crociata sembrava una
sorta di pellegrinaggio, un esodo verso la terra promessa. La pretesa della chiesa militante di
dirigere pellegrinaggi armati per la liberazione di luoghi sacri lasciava trasparire la volontà
della cristianità latina di sostituirsi all’impero nella difesa della fede. Nel 1204 la quarta
crociata fu deviata verso Costantinopoli dove pregiudizi e rancori ormai consolidatosi
impedirono un accordo tra greci e latini contro i turchi e musulmani.
Era trascorso circa un anno dall’appello di Urbano II quando le varie forze che avevano
aderito alla crociata iniziarono il viaggio verso la Terra Santa. Alessio Comnero si
preoccupò di farli sorvegliare e scortare durante il cammino sul territorio imperiale al fine di
ridurre le razzie. Il problema posto alla diplomazia bizantina della presenza nell’impero di
principi crociati venne risolto chiedendo loro di giurare al basileus fedeltà, riconoscendosi
suoi vassalli e impegnandosi a restituire città e territori sottratti ai musulmani e che un
tempo appartenevano all’impero. Alessio era disposto ad offrire la collaborazione militare
indispensabile ai crociati per giungere a Costantinopoli, a patto che questi combattessero i
turchi insediatisi in Asia Minore. Nel 1099 l’esercito crociato conquistò finalmente
Gerusalemme ma le stragi compiute dalle milizie crociate finirono per suscitare nel mondo
musulmano un autentico spirito di anticrociata. Sul piano politico la situazione appariva
altrettanto complicata e i rapporti tra latini e greci erano lungi dall’essersi risolti in modo
soddisfacente. Alessio aveva recuperato grazie all’aiuto dei crociati una parte del litorale
occidentale dell’Anatolia ma si era dovuto rassegnare alla costituzione di quattro principati
franchi in territorio asiatico e l’istituzione di un potentato normanno da parte di Boemondo,
cugino di Tancredi, che voltate le spalle al giuramento prestato al basileus cercava di
convincere papato e regno di Francia ad intraprendere un’azione militare contro i greci.
Questi, però, sconfitto nei pressi di Durazzo fu costretto nel 1108 a riconoscersi vassallo di
Alessio. Nondimeno la crescente propaganda antibizantina esprimeva con chiarezza la
crescente diffidenza dei latini verso il mondo greco e il profondo antagonismo esistente tra
le due cristianità.
L’incoronazione di Giovanni nel 1118 costituì la prova della ritrovata stabilità del potere
autocratico e dell’egemonia raggiunta dalla famiglia dei Comneni. Sul fronte occidentale
l’imperatore perseguì una politica di contenimento volta a salvaguardare la sovranità
bizantina sulla regione e a garantire la tradizionale linea di confine sul Danubio. Le
popolazioni magiare avevano dato vita ad un regno dalle salde strutture istituzionali il quale
appariva deciso ad imporre la propria egemonia sui Balcani nordoccidentali. A tale
situazione sin dal tempo di Alessio si era cercato di porre rimedio concertando un
matrimonio tra Giovanni Comneno e la figlia di Ladislao, re d’Ungheria, Irene madre del
futuro imperatore Manuele Comneno. Il ripristino del potere bizantino nella regione
balcanica permise a Giovanni di concentrare interessi e sforzi sull’area orientale
dell’impero. Attraverso tali spedizioni Giovanni si propose di riaffermare quella permanente
ed irrinunciabile vocazione ecumenica dell’impero che le crociate e il costituirsi dei
principati latini sembravano aver messo in discussione. Invero l’equilibrio di forze nel
mondo mediterraneo era tale da vanificare ogni pretesa di dominio universale e, per
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assicurarsi libertà d’azione in Oriente, l’imperatore era stato costretto ad intensificare i
negoziati diplomatici in Occidente al fine di arrivare ad una più stretta intesa con l’impero
tedesco e a tale scopo si era anche progettato un matrimonio tra Manuele e Berta, nipote di
Corrado III. Ne conseguiva per Bisanzio, chiusa tra l’espansionismo latino e l’invasione
turca, l’obbligo di essere sempre attiva, in Occidente come in Oriente.
Manuele Comneno, salito al trono nel 1143, fu costretto a spostare il proprio fronte politico
verso quell’Occidente dove oltre ai fermenti normanni e all’ascesa tedesca, stava maturando
lo straordinario sviluppo delle repubbliche italiane. Vero è infatti che non solo veneziani ma
anche pisani e genovesi si apprestavano a giungere sempre più numerosi in territorio
bizantino dopo aver già dato origine ad una fiorente attività mercantile in Egitto e in Siria.
Manuele Comneno agì mosso dall’assoluta necessità di essere ovunque presente in ambito
mediterraneo. Manuele si adoperò nel tentativo di guadagnare a sé gli uomini e le crescenti
risorse di cui disponeva l’Occidente al fine di servirsene per ripristinare il predominio
bizantino nel mediterraneo.
In Occidente, nel frattempo, si stava preparando una nuova crociata in soccorso del
principato latino di Antiochia. Questa era per i bizantini tanto più preoccupante in quanto
guidata dal re di Francia Luigi VII e dall’imperatore tedesco Corrado III. Era evidente che
entrambi i sovrani intendessero presentarsi come difensori della cristianità e difensori della
chiesa di Roma contro gli infedeli, tra i quali era agevole collocare anche l’imperatore
greco. I normanni di Ruggero II, approfittandosi dello stato di inquietudine e confusione
creatosi a Costantinopoli all’annuncio della crociata, si erano impadroniti nel 1147 di Corfù.
I disastri con cui si concluse la seconda crociata però agevolarono i tentativi manueliani di
dare un nuovo inizio alla politica estera, tesa a ricercare in funzione antinormanna una più
stretta alleanza con l’imperatore tedesco. Quest’ultimo, dopo la fuga dalla Terra Santa
grazie a navi bizantine, nel 1148 stipulò con il basileus greco un trattato di alleanza. In
seguito alla morte del normanno Ruggero II, i bizantini si decisero per un intervento armato
in Puglia pur senza l’aiuto tedesco giacché Federico Barbarossa, succeduto allo zio Corrado
III si era mostrato restio a collaborare con l’impero greco. Sostenuto dai baroni normanni
ribelli e ancor più dalle città pugliesi, Manuele riuscì ad occupare i centri costieri da Ancona
fino a Brindisi. Malgrado i primi successi però questa impresa risultava non adeguata alle
reali risorse dell’impero e la tregua trentennale proposta da Guglielmo I di Sicilia nel 1158
dovette sembrare una decisione dolorosa ma realistica.
Lo scisma della chiesa romana che subito dopo la metà del secolo XII oppose il tedesco
Federico Barbarossa, sostenitore dell’antipapa Vittore IV, al pontefice Alessandro III
sembrò aprire spazi inaspettati alle ambizioni bizantine. Papa Alessandro III sollecitava
l’intervento del basileus al fine di costituire con il regno di Francia e quello di Sicilia una
grande coalizione antisveva. Fu l’inizio di un radicale capovolgimento di alleanze
confermato dal matrimonio tra il sovrano bizantino, rimasto vedovo, e la principessa
normanna Maria d’Antiochia. A partire dagli anni sessanta del XII secolo la politica
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bizantina si indirizzò in senso antisvevo e l’imperatore si presentava di volta in volta come
alleato dei normanni, difensore del papato, sostenitore della Lega lombarda nella lotta
contro il Barbarossa. I risultati di questa intensa e dispendiosa attività diplomatica furono
assai deludenti. Il riavvicinamento tra impero occidentale e papato e le concessioni fatte ai
comuni da Federico, dopo la sconfitta nel 1176 a Legnano da parte della lega lombarda,
rendeva superfluo l’aiuto finanziario e politico dell’autocrate greco: la pace di Venezia del
1177 comprometteva così l’universalismo imperiale di Manuele.
Il grande disegno imperiale, inoltre, trovò un ultimo e decisivo ostacolo nella ripresa delle
ostilità contro il turco Kilig Arslan. L’esercito greco venne sopraffatto nei pressi di
Miriocefalo e ciò determinò la rinuncia definitiva dell’Analtolia. Inoltre l’alleanza
matrimoniale tra Enrico VI, successore di Federico Barbarossa, e la presunta erede del regno
di Sicilia, sembrava realizzare una coalizione antibizantina. Quando Manuele morì nel 1180
era del tutto fallito il progetto di coordinare gli stati europei e l’impero si trovava in uno
stato di completo isolamento, accentuato dalla volontà delle gerarchie ecclesiastiche
occidentali di riunificare la cristianità sotto l’autorità papale.
La morte di Manuele segnò nella storia dell’impero una frattura: Bisanzio cessò di essere
una potenza mondiale e l’equilibrio politico-ideologico si spostò verso Occidente. Debole
era infatti la posizione dell’erede designato Alessio II, figlio ancora adolescente di Manuele.
Inoltre l’intensa attività diplomatica e militare dispiegata lungo tutto il secolo XII dalla corte
di Costantinopoli, fu assai onerosa e per questo motivo fu necessario aumentare la pressione
fiscale scontrandosi con l’inevitabile reazione delle popolazioni provinciali contro la
capitale. Altrettanto gravi erano i risentimenti suscitati dalla sempre più numerosa presenza
sul territorio imperiale di mercanti latini il cui controllo sull’economia bizantina si era nel
corso del XII secolo dilatato. Ad accrescere la diffusa ostilità verso il mondo occidentale
aveva contribuito l’oscillante atteggiamento tenuto da Manuele Comneno nei confronti della
chiesa greca. L’imperatore era desideroso di presentarsi come fedele protettore
dell’ortodossia ma in più occasioni si era dimostrato incline a ricercare l’accordo e l’unione
con la chiesa di Roma, reputato indispensabile per il raggiungimento di obiettivi politici.
Dopo un secolo di stabilità interna Bisanzio conobbe nuovamente uno stato di disordine e
anarchia. Il regno di Andronico Comneno lo comprovava con chiarezza. Questi era giunto al
potere eliminando in modo sistematico e brutale tutti i potenziali oppositori, tra cui il figlio
di Manuele. Nel 1182 Andronico aveva cercato di ristabilire relazioni cordiali con i
Veneziani, nel tentativo di ottenere aiuti contro la grande spedizione terrestre e navale che
Guglielmo di Sicilia stava organizzando contro l’impero. Erano sforzi inutili giacché nel
1185 Tessalonica veniva conquistata dai Normanni.
I pericoli maggiori, inoltre, continuavano ad arrivare dall’Occidente dove si stava
preparando una nuova crociata per la conquista di Gerusalemme, occupata nel 1187 dal
sultano curdo Salah-ad-din, il celebre Saladino delle fonti occidentali.
Con l’improvvisa morte di Enrico VI, erede dell’universalismo svevo e delle ambizioni
normanne, sembrava che il pericolo della crociata si fosse allontanato in quanto veniva a
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mancare l’unica guida in grado di conferire unità e disciplina alla spedizione. Troppi
interessi in realtà contribuivano a sollecitare l’idea di una conquista armata di
Costantinopoli che la debolezza politica e militare di Bisanzio lasciava presagire ancor più
agevole. Dal 1198 Alessio III aveva dato inizio ad una fitta corrispondenza epistolare con
papa Innocenzo III destinata a migliorare i rapporti tra la curia di Roma e la corte greca. In
realtà l’alleanza tra il pontefice, intenzionato a servirsi dell’impero greco per raggiungere
l’unificazione della Chiesa e al contempo per controbilanciare l’accresciuto potere svevo, e
Alessio III, deciso a rompere un isolamento politico-diplomatico sempre più accentuato, si
sfaldò per il simultaneo evolversi della situazione in Oriente ed in Occidente. Non vi è
dubbio che gli interessi mercantili e coloniali di Venezia abbiano avuto un ruolo
preponderante nell’orientare la spedizione verso Costantinopoli anziché in direzione della
Terra Santa. Le difficoltà riscontrate nel riscontrare gli impegni economici assunti con
Venezia indussero i capi della crociata ad una prima diversione in direzione di Zara. La città
da poco sottrattasi al dominio veneto e sottoposta al re d’Ungheria fu riconquistata
dall’esercito crociato. Alessio IV, figlio di Isacco II, fuggito dall’impero e riparato in
Germania, aveva raggiunto i crociati a Zara per convincerli a dirigersi sul Bosforo offrendo
loro consistenti compensi economici e promesse di appoggi militari se l’avessero aiutato a
ricuperare il trono da cui il padre era stato deposto. Il pontefice diffidò inizialmente i
crociati dal servirsi di tale pretesto per occupare la terra dei greci, ribadendo che altro era il
fine della crociata. La deviazione decisiva in direzione del Bosforo avvenne nel 1203 ma fu
subito chiaro che Alessio IV non era in grado di rispettare gli accordi presi. Fu l’inizio di
tumulti che videro una sempre più contrapposizione tra Oriente e Occidente. Il 13 aprile
1204 Costantinopoli fu presa dall’esercito crociato che si abbandonò a tre giorni di violenze
e saccheggi. I crociati si impadronirono di uno straordinario bottino e si spartirono il
territorio: Baldovino di Fiandra fu eletto sul trono di Bisanzio; Bonifacio di Monferrato
gettò a Tessalonica le basi per un fragile regno; la Tessaglia e la Grecia furono governate da
signori appartenenti prevalentemente all’aristocrazia franca.
Frantumatasi per la prima volta in modo irreversibile l’unità dell’impero, la diaspora
bizantina si organizzò intorno a tre poli: 1) nell’area occidentale della penisola balcanica, in
Epiro, la resistenza ai latini trovò una guida in Michele Angelo Ducas, cugino
dell’imperatore Isacco II. 2) in Asia Minore si formò sotto la guida di Teodoro Lascaris una
robusta compagine statale avente per capitale Nicea. 3) sul litorale del Mar Nero infine la
dinastia dei “Grandi Comneni”, Alessio e Davide, diede inizio all’impero di Trebisonda.
Bisanzio cessava così di essere un impero universale e, privo ormai di grandi ambizioni
mediterranee, diveniva nella nuova definizione dei rapporti internazionali semplice stato tra
gli stati.
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