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1) AUGUSTO

1.1 ANZIO E LA CESURA TRA STORIA REPUBBLICANA E STORIA


DEL PRINCIPATO

Nel 31 a.C., dopo aver sconfitto Antonio e Cleopatra ad Azio, Ottaviano


diveniva di fatto il padrone politico di Roma; si apriva così il problema della
forma di governo.
Poco sensata sembrava l’aspirazione, forse di Cesare, di una restaurazione
dell’ordine monarchico; ma altrettanto insensata sembrava la possibilità di un
normale ritorno all’ordine repubblicano.
Normalmente sulla formazione del principato augusteo si commettono due
errori: pensare che si sia arrivati ad esso in quanto Augusto l’aveva progettato
fin dall’inizio oppure pensare che esso sia stato il risultato finale di azioni
scollegate.
La realtà è che le azioni del primo imperatore furono continui accorgimenti e
ripensamenti, solo che spesso quando si parla di Ottaviano si considera solo il
risultato finale delle sue opere (ma ‘’l’impero’’ è il risultato di un insieme di
fattori).
Per convenzione facciamo cominciare l’impero nel 31 a.C., con Azio, in
quanto emerge la figura del princeps, il reggitore unico del potere.
Veniva così portato a compimento il processo di personalizzazione del
potere che aveva portato, nella tarda età repubblicana, all’emergere di
personaggi (soprattutto generali) che disponevano di eserciti/province (e
quindi risorse) a loro fedeli grazie alla spinta espansionistica.
Durante la fine della Repubblica era emerso il problema di sistemare i
rapporti tra Roma, l’Italia e le altre province; spesso l’amministrazione delle
province conquistate aveva rappresentato l’unica fonte di risorse per
finanziare le carriere politiche di magistrati, appaltatori e ceti dirigenti.
Ottaviano metterà in atto un progetto di razionalizzazione, riuscendo ad
integrare nel senato le élite delle diverse regioni dell’Impero e di assegnare a
governatori ed eserciti un ruolo politico-sociale; con il primo princeps la storia
si fa meno ‘’romana’’ e più ‘’imperiale’’, ovvero storia del rapporto e
dell’integrazione di popoli e territori con il centro del potere.
1.2 IL RAPPORTO CON GLI ORGANISMI REPUBBLICANI E IL POTERE
DEL PRINCIPE: LA TRANSLATIO DELLO STATO AL VOLERE
DECISIONALE DEL SENATO E DEL POPOLO ROMANO NEL 27 a.C.

Ottaviano tornò in Italia nel 29 a.C., venendo festeggiato con tre trionfi: per le
campagne dalmatiche (35-33 a.C.), per la vittoria ad Azio (31 a.C.) e per la
conquista dell’Egitto (30 a.C.).
Tra il 30 e il 27 a.C. si cominciarono a delineare i punti fissi dell’impostazione
del progetto ottavianeo del ritorno alla normalità.
Nel 31-23 a.C. Ottaviano mantenne il consolato, con una posizione
preminente fino al 28 a.C., e condividendo la carica con un sostenitore fidato.
Il processo che condusse alla legittimazione dell’imperium cominciò però solo
nel 27 a.C., quando Ottaviano ottenne il settimo consolato (assieme all’amico
Agrippa): in una seduta del 13 Gennaio infatti, Augusto decise di rinunciare a
tutti i poteri straordinari, accettando un imperium proconsolare solo sulle
province non pacificate (Spagna, Egitto, Cipro, Siria, Gallia e Cilicia).
Qualche giorno dopo il senato lo nominò ‘’Augusto’’ (dal verbo ‘’augere’’, che
significa ‘’innalzare’’), un titolo che insisteva di più sulla dimensione sacrale
che su quella religiosa di Ottaviano.
Oltre a ciò Augusto veniva onorato con una corona di foglie di quercia e
l’onore di uno scudo d’oro (appeso in senato) su cui erano incise le virtù del
princeps: virtù, clemenza, giustizia e pietà verso gli dei e verso la patria.
Dopo il 27 a.C. si deve usare come fonte principale per la vicenda lo stesso
Augusto, autore di un documento intitolato come ‘’Res gestae’’, un testamento
politico che venne fatto affiggere in numerose città dell’Impero.
Ottaviano ricorda come egli fu ‘’superiore a tutti per autorità, pur non possedendo
un potere superiore a quelli che mi furono colleghi nelle magistrature’’: si deve
notare come venga posto l’accento sulla natura carismatica che l’autore
evidentemente si attribuiva.
L’architettura istituzionale creata da Ottaviano si ispirò alla tradizionale
prudenza e al compromesso del senato repubblicano; senza dimenticare che
da esso traeva origine il seme delle guerre civili.
Con il nuovo assetto istituzionale veniva meno la soluzione istituzionale della
città-Stato: il principe diveniva il punto di riferimento ed equilibrio delle
componenti della nuova realtà (in cui era chiaro che il benessere di Roma
dipendesse da quello delle province).
1.3 LA CRISI DEL 23 a.C.

Il periodo 26-23 a.C. è quello della svolta definitiva (Augusto fu eletto console
dall’ottava all’undicesima volta): prima vennero pacificate Spagna e Gallia,
dove Augusto si recò di persona e sconfisse gli Austuri e i Cantabri.
Con questa azione egli consolidava il legame con i veterani e i governatori di
quelle province: ancora negli anni seguenti egli alternerà periodi triennali
nelle province, a periodi biennali a Roma.
In questo modo egli dava l’impressione che nulla fosse cambiato: a Roma
regnavano il popolo/il senato/i magistrati, fuori lui; nel 23 a.C. vi fu però un
momento di grande difficoltà: Augusto, in quel momento in Spagna, si
ammalò gravemente, una situazione che aprì il problema della successione.
Augusto infatti, pur non avendo formalizzato il suo potere personale, aveva
dato vita ad una soluzione in cui solo questa modalità avrebbe avuto senso.
La morte di Augusto nel 23 a.C. avrebbe potuto dunque aprire una
problematica complessa: egli non aveva eredi maschi, ma solo la figlia Giulia
(maggiore), avuta da Scribonia, che assieme a suo genero Marcello era il
fulcro delle speranze augustee.
Tuttavia Marcello morì, e Giulia divenne moglie di Agrippa, che dunque
diveniva un possibile erede; furono in sostanza le circostanze a determinare
la sostanza dei poteri imperiali.
Essi si basavano in sostanza su due poteri repubblicani: il primo era
l’imperium procunsolare, con cui Augusto (dal 31 a.C.) poteva intervenire in
tutte le province (dal 27 a.C. anche in quelle riservate al popolo).
L’altro potere era la tribunicia potestas, con cui poteva intervenire all’interno
della politica romana (convocare comizi e godere dell’inviolabilità); a ciò si
aggiunse la possibilità di convocare il senato.
Si tratta in sostanza di due poteri compatibili con la tradizione repubblicana,
ad essere incompatibile con essa era però il detenerli assieme; la carica di
console divenne invece una prerogativa dell’aristocrazia senatoria (nel 5 d.C.,
con la nascita dei consoli ‘’suffetti’’ essi aumentavano di numero).
Le elezioni erano invece controllate, dal 27 a.C., tramite la nominatio
(accettazione della candidatura da parte del principe) e la commendatio
(raccomandazione del principe).
Il nuovo sistema di compromesso (che poteva dirsi completato nel 5 d.C.)
teneva conto anche dell’assemblea popolare, a cui fu riservato un ruolo
marginale (i comizi ratificavano i candidati scelti da dieci apposite centurie
miste di cavalieri e senatori, che li designavano con l’appoggio imperiale).
1.4 IL PERFEZIONAMENTO DELLA POSIZIONE DI PREMINENZA

Nel 22 a.C. Augusto rifiutò la dittatura offertagli dal popolo e decise di


assunse la cura annonae, l’incarico di provvedere all’approvvigionamento di
Roma, seguendo il modello di Pompeo.
Nel 19-18 d.C. egli assunse il diritto di utilizzare le insegne dei consoli (la sella
curilis e i 12 littori che portavano i fasci) ed esercitò il potere di censore.
Agrippa, che nel 23 a.C. aveva ottenuto un imperium proconsularem di cinque
anni, si mosse verso l’Oriente; Augusto rimase a Roma.
Nel 22-19 a.C. Augusto volle risolvere la questione partico-armena: tramite
delle trattative diplomatiche egli riuscì a farsi riconsegnare le insegne perse
dalle legioni di Crasso e Augusto (poste poi nel tempio di Marte Ultore); nel
frattempo Agrippa sposava Giulia, vedova di Marcello.
Nel 18 a.C. scaderono i mandati di Augusto (10 anni) e di Agrippa (5 anni),
che videro però rinnovati i proprio imperia proconsolares (Agrippa ricevette
anche la tribunicia potestas).
Agrippa si avvicinò ulteriormente al principe quando Giulia generò due figli,
Lucio Cesare (20 a.C.) e Caio (17 a.C.), che vennero adottati da Augusto.
Nel 12 a.C. Augusto ottenne anche il titolo di pontefice massimo (alla morte
di Lepido): in questo modo egli diveniva la massima autorità religiosa dello
Stato; nel 2 a.C. ricevette il titolo di pater patriae dal senato, dal popolo e dai
cavalieri.

1.5 I CETI DIRIGENTI (SENATORI ED EQUITES)

Con la trasformazione di Ottaviano nel princeps, sia nell’iniziativa politica a


Roma e nell’amministrazione delle province si ebbe una duplica sfera di
competenza: quella repubblicana e quella del principe.
Il senato era profondamente mutato nel corso della tarda Repubblica, il suo
numero era infatti passato da 600 a 1000 membri; uno degli obiettivi
principali di Augusto fu quello di restaurare la dignità e il prestigio del
senato, garantendo però l’accesso ad esso anche alle élite delle province più
romanizzate (Gallia Meridionale e Spagna per esempio).
Nel 28 a.C. Augusto, come console, si fece conferire la potestà senatoria e
procedette alla lectio senatus ovvero alla revisione delle liste dei senatori (un
potere dei censori), espellendo gli indegni.
Nel 19 a.C., grazie alla potestà senatoria, egli riportò alla sillana cifra di 600 i
senatori; inoltre rese la dignità senatoria una prerogativa ereditaria.
Il cursus honorum senatorio durante l’età imperiale si poteva sviluppare in
due modi, dall’alto verso il basso e viceversa, ma si sviluppava secondo delle
tappe fisse:

1) Il vigintivirato, non una vera e propria magistratura, ma la denominazione


collettiva di diversi collegi magistraturali: il decemvir stilibus iudicandis (si
occupava delle cause concernenti lo stato civile dei cittadini), il triumvir
caoitalis (amministrava la giustizia e si occupava della pena capitale), il
triumvir auro argento aere flando feriundo o triumvir monetalis (coniava la
moneta in bronzo senatoria), quatuorvir viarum curandarum (sovrintendenza
delle strade).
Il nome vigintivirato deriva dalla somma 10+3+3+4=20.

2) Un anno di servizio militare come tribunus militum laticlavius.


In età imperiale vi erano due diversi tipi di tribunato militare: il tribuno
senatorio, che aveva un toga con larga banda purpurea, e il tribuno equestre,
che aveva la banda purpurea più stretta (detti per questo angustclavii).
Spesso i giovani destinati ad una grande carriera politica venivano nominati
Seviri equitum Romanorum, comandanti di squadroni dei cavalieri romani.

3) Quaestor, carica che aveva diverse forme: quaestor urbanus (tesoriere del
senato), quaestor propraetore provinciae (amministrazione finanziaria delle
province del popolo romano), quaestor principis (portavoce dell’imperatore
presso il senato), quaestor consulis (portavoce del console presso il senato).

4) Tribunus plebis/Aedilis, due magistrature poste sullo stesso piano (per


passare alla carica successiva si potevano fare una o l’altra indifferentemente).
L’edile poteva essere curilis, magistratura aperta anche ai patrizi, o plebis,
carica riservata ai plebei.

5) Praetor, carica di cui esistevano diversi forme: praetor urbanus (cause


giudiziarie per cittadini romani), praetor peregrinus (cause giudiziarie in cui
almeno una delle due parti non aveva la cittadinanza romana), praetor aerarii
(sovrintendente dell’aerarium, la cassa statale).

6) Gli ex pretori rivestivano poi alcune funzioni: legatus legionis (comandante


in capo della legione), legatus Augusti pro praetore provinciae (governatore di
una delle province imperiali minori), proconsul (governatore di una provincia
del popolo romano di minore importanza).

7) Consul, una carica che in età imperiale poteva essere ordinaria oppure
suffetta (termine con cui si indicava il console che entravano in carica nel
corso dell’anno sostituendo quelli ordinari).

8) Anche gli ex consoli erano chiamati a rivestire alcune funzioni proprie del
loro rango: legatus Augusti pro praetore (governatore di una delle più
importanti province imperiali), proconsul (governatore di una delle più
importanti province del popolo romano), praefectus Urbis.

9) Censor, una carica che era detenuta direttamente dall’imperatore:


scomparve con Domiziano.

Durante la Repubblica chi possedeva un censo pari a 400.000 sesterzi e


rispondeva ad alcune caratteristiche che ne definivano la dignità apparteneva
al rango equestre.
I figli dei senatori dunque, fino a quando non divenivano questori, erano
semplici cavalieri; i senatori si distinguevano dagli equites solo perché
avevano intrapreso una carriera politica.
Nell’ultima fase della Repubblica molti figli di cavalieri e senatori avevano
usurpato questo diritto portando il laticlavio; Augusto proibì l’uso del
laticlavio ai figli di cavalieri, ma lo consentì ai figli dei senatori (egli inoltre
innalzò il censo minimo per entrare in senato ad un milione di sesterzi).
In alcuni casi Augusto stesso poteva concedere il diritto di entrare in senato a
chi non apparteneva a una famiglia senatoria (rimaneva necessario aver
rivestito una magistratura).
Augusto però si riservava però il diritto di intervenire e privilegiare alcuni
personaggi: egli, tramite l’adlectio, si riservava il potere di inserire coloro che
non avevano rivestito magistrature in senato, tra le file di coloro che invece
l’avevano rivestita (ex consoli, ex pretori ecc..).
In questo modo si realizzò una distinzione tra ordo equester e ordo senatus, e si
creò un ordo senatorius, non vincolato all’effettiva partecipazione al senato,
ma formato dalle famiglie senatorie.
L’appartenenza all’ordo equester fu codificata attraverso principi generali e
appositi senatoconsulti (anche qui l’intervento del princeps era decisivo).
Si formarono così due raggruppamenti da cui veniva reclutata la classe
dirigente dello Stato romano, gli amministratori civili e militari più
importanti e i più importanti ufficiali dell’esercito.
I senatori detenevano le più importanti magistrature a Roma e le maggiori
posizioni di comando civile e militare nelle province; visto che il loro numero
non era sufficiente, vennero impiegati anche membri dell’ordine equestre.
La carriere dei membri dell’ordine equestre non mostra la regolarità che
caratterizzano il cursus honorum senatorio, tuttavia anche esso si svolgeva
attraverso alcune tappe:

1) Comandi militari, come: praefectus cohortis (comandante di un reparto


fanteria ausiliaria, cohors), tribunus militum angusticlavis (comando di un
reparto legionario), praefectus alae (comando di un reparto di cavalleria
ausiliaria, ala).

2) Le procuratele, in particolar modo quelle finanziarie (l’amministrazione dei


grandi uffici centrali, si pensi alla vicesima hereditatium, la tassa del 5% sulle
successioni creata da Augusto).
Vi erano però anche le procuratele-governatorati di alcuni province, come la
Rezia/Norico/Giudea; i due tipi di procuratele non avevano un ordine
prefissato, un equestre poteva essere procurator finanziario in un distretto e
poi procuratore-governatore in un altro distretto.

3) Il comando delle due flotte imperiali di Miseno e Classe, in qualità di


praefetus classis.

4)Le grandi prefetture: praefectus Aegypti (governatore della provincia


d’Egitto), praefectus praetorio (capo della guardia pretoriana, il più
importante cavaliere dell’Impero), praefectus annonae (responsabile dei
servizi di approvvigionamento della città di Roma), praefectus vigilium
(comandante del corso dei vigiles che si occupava della vigilanza notturna e
dello spegnimento degli incendi).

1.6 ROMA, L’ITALIA, LE PROVINCE

Roma, giunta a contare un milione di abitanti, venne razionalizzata e resa


monumentale da Augusto, che non diede mai grande rilievo alla sua
residenza ( che però divenne edificio pubblico , dopo che divenne pontifex
maximus e la casa divenne sede del focolare di Vesta: la moglie Livia divenne
sacerdotessa della dea).
La grande stagione di rinnovamento edilizio riguardò in primo luogo la zona
del Foro, dove vennero completati i progetti di Cesare: nel vecchio Foro
vennero costruiti un tempio per Cesare divinizzato, una tribuna per gli
oratori (ornata coi rostri di Azio) e l’arco partico (su cui erano raffigurate le
insegne di Crasso e Antonio).
Restaurò la sede del senato ed eresse in seguito una basilica in nome di Caio e
Lucio Cesare, i figli di Agrippa e Giulia, venuti a mancare prematuramente.
Venne eretto poi un nuovo Foro, il Forum Augustii, in cui venne collocato il
tempio di Marte Ultore (in cui era celebrata la famiglia del princeps); venne
poi trasformato l’aspetto del Campo Marzio, dove venne edificato il Pantheon
(dedicato ad Agrippa) e il suo mausoleo, in cui veniva celebrata la virtù del
principe.
Davanti al mausoleo erano state fatte incidere, dopo la morte di Ottaviano, le
Res gestae, purtroppo perdute (possediamo una copia proveniente da Ankara,
in Turchia).
Le immagini di Augusto e dei suoi trionfi vennero mantenute vive per tutta
Roma, per esempio nell’Ara pacis.
Durante il principato di Augusto, soprattutto grazie ad Agrippa, furono
restaurati o ricostruiti molti importanti edifici pubblici: acquedotti, teatri e
mercati.
Oltre a questo ci si preoccupò anche di organizzare dei servizi importanti per
l’approvvigionamento alimentare, idrico e la protezione dagli incendi.
La carestia che colpì Roma nel 22 a.C. indusse il principe ad assumere la cura
annonae e riuscì a fronteggiare l’emergenza attraverso le proprie finanze; pare
che il compito di distribuire il grano fra la popolazione fosse stato assegnato
ai senatori.
Solo anni dopo, di fronte ad una nuova crisi alimentare, Augusto istituì un
servizio stabile che si occupasse di provvedere alla distribuzione del grano
dalle province, posto sotto il controllo del praefectus annonae.
Alla morte di Agrippa, la cura dell’approvvigionamento idrico passò a dei
collegi di senatori; mentre per la prevenzione dagli incendi venne creato un
corpo di vigili del fuoco, diviso in sette corti di 500-1000 uomini, ciascuna
delle quali doveva vigilare su due dei quattordici quartieri in cui Roma era
stata divisa.
Il governo di Roma venne invece assunto da un praefectus Urbis, che
apparteneva all’ordine senatorio.
L’Italia non venne interessata dalla riorganizzazione amministrativa: le 400
città che godevano di autonomia interna avevano un governo municipale e
non erano sottoposte all’imposta fondiaria; la Penisola fu divisa in 11 regioni
utili al censimenti di persone e proprietà.
I più importanti provvedimenti furono quelli riguardanti la manutenzione
stradale: venne creata la figura del praefectus vehicolorum; ma vennero anche
rinnovate porte/mura/strade/acquedotti.
L’amministrazione delle province, conobbe una trasformazione politica: le
province sotto il controllo del principe avevano più legioni, in quanto ‘’da
pacificare’’, mentre quelle sottoposte al controllo del popolo romano non ne
avevano, in quanto ‘’pacificate’’.
Le province sotto il controllo di Augusto, che da cinque divennero tredici,
vennero poste sotto il controllo dei legati Augusti pro praetore; una qualifica,
quella di propretore, che indica che essi erano subordinati all’imperium del
principe.
I legati, che avevano mandati di durata variabile, governavano la provincia e
avevano il controllo dell’esercito, ma non potevano riscuotere le tasse (che
erano affidate a procuratori di rango equestre).
Nelle province ‘’pacificate’’ invece, dieci all’inizio del I secolo a.C., non vi
erano di solito legioni, e i governatori erano sempre senatori, scelti a sorte tra
i magistrati che avevano ricoperto il consolato.
Essi governavano la provincia, comandavano piccoli corpi ausiliari (solo in
Africa c’era una legione), ed erano assistiti nel loro mandato, di solito di un
anno, da questori; anche in queste province però, Augusto aveva la possibilità
di intervenire grazie al suo imperium maius.
Un’eccezione è rappresentata dalla provincia d’Egitto, che era assegnata ad
un prefetto di estrazione equestre nominato direttamente da Augusto: questo
aveva il controllo dell’amministrazione e della giustizia.
La natura così particolare dell’Egitto era dovuta quasi certamente alla sua
importanza economica e alimentare; ovviamente il prefetto d’Egitto aveva il
controllo delle legioni, dell’amministrazione e della giustizia.
Spesso i governatori equestri erano subordinati a quelli senatori, come nel
caso della provincia di Giudea, affidata ad un equestre, che era sottomesso al
governatore senatorio della Siria.
Si trattava però di una situazione in continua evoluzione: in caso di disordini
una provincia del popolo poteva divenire del principe, così come una
provincia del principe poteva, una volta pacificata, divenire del popolo.
Ovviamente in questo tipo di contesto divenne necessario creare un sistema
per raccogliere le tasse: Augusto introdusse nuovi criteri volto a determinare
quali fossero le effettive disponibilità di una provincia.
Il sistema si basava sul tributum soli, un’imposta fondiaria, e un censimento
della popolazione, con cui si voleva determinare il numero dei provinciali
non cittadini romani, che dovevano pagare la tassa pro capite.

1.7 L’ESERCITO, LA ‘’PACIFICAZIONE’’ E L’ESPANSIONE

Al tempo di Anzio (31 a.C.) il numero di soldati presenti nell’Impero era


decisamente troppo elevato rispetto al necessario: negli anni successivi, a più
riprese, si provvide a liquidare ben 300.000 uomini.
Il costo dei soldati pesava sulle casse dello Stato, l’aerarium Saturni: all’inizio
si assegnarono ai veterani terre (in Italia o in altre province), mentre a partire
dal 6 d.C. l’erario militare introdusse l’honesta missio, una specie di premio
di congedo.
Il servizio militare sotto Augusto interessava principalmente dei volontari,
soprattutto italici (anche se cominciavano a provenire anche da altre
province).
Si trattava dunque di un esercito di professionisti, pagati 225 denari l’anno e
al servizio dello Stato per circa vent’anni; si formò una forza permanente di
25 legioni (ciascuna con un numero e un nome: in Africa vi era la Legio III
Augusta).
Venne poi introdotto il corpo della guardia pretoriana, che era disposto a
Roma ed era composto da figli di cittadini romani, residenti per lo più in
Italia, pagati molto più dei normali legionari (il totale era di 9000 uomini).
Augusto reclutò anche contingenti regolari di truppe ausiliarie, composti da
figli di capotribù stranieri, che avrebbero ottenuto la cittadinanza romana alla
fine del loro servizio.
La flotta venne invece stanziata a Miseno e Classe; anche i marinai ricevevano
la cittadinanza romana alla fine del servizio.
I successi di Augusto in politica estera sono innegabili, tuttavia si deve notare
che le acquisizioni territoriali furono limitate durante il suo governo, e
questo nonostante campagne lunghe e complesse.
Delle campagne che stridono con la propaganda augustea incentrata sul
ritorno della pace: per tre volte, nel 29/nel 25/nel 10 a.C., Augusto chiuse le
porte del tempio di Giano (un gesto propagandistico che indicava l’inizio di
una stagione di pace).
Augusto preferì affidarsi alla diplomazia ad Oriente: il prefetto d’Egitto
Cornelio Gallo riuscì ad estendere più a Sud i confini della provincia, ed in
seguito si spinse fino allo Yemen (25-24 a.C.), ma solo dopo aver stipulato un
trattato con gli Etiopi (29-27 a.C.).
Successivamente Augusto cominciò a favorire la creazione di regni clienti e
stati cuscinetto tra il mondo romano e il Regno dei Parti: Erode re di Giudea,
Polemone re del Ponto e Archelao re di Cappadocia erano tutti legati con
trattati di amicizia.
Al di là dell’Eufrate venne ristabilito il Regno d’Armenia, di cui divenne re
Tigrane II, incoronato da Tiberio (figlio adottivo di Augusto) nel 20 a.C.; nello
stesso anno Augusto riotteneva dal re dei Parti Fraate IV le insegne perdute
da Antonio e Crasso.
Le grandi campagne militari furono quelle condotte in Occidente: in Spagna
(27-25 a.C. e 19 a.C.), che fu pacificata definitivamente; nell’arco Alpino
vennero sottomessi i Salassi della Valle d’Aosta (qui venne fondata la città-
presidio di Augusta Praetoria).
Nel 21-20 a.C. il proconsole Lucio Cornelio Balbo estese il controllo romano
sull’Africa meridionale e Sud-occidentale, sconfiggendo le tribù dei
Garamanti.
Le grandi campagne furono però portate avanti sul confine reno-danubiano,
dove vennero occupati molti nuovi territorio: nel 16-15 a.C. vennero prese
Rezia, Vindelica e Norico grazie alle campagne di Druso e Tiberio; nel 14-9
a.C. venne occupata la Pannonia (Ungheria) e successivamente la Mesia
(Bulgaria).
La disfatta in Germania non venne però coperta dalla propaganda di
Augusto: infatti l’obiettivo di portare il confine fino al fiume Elba non venne
raggiunto.
I Romani raggiunsero il fiume prima con Druso nel 9 a.C., ma non riuscirono
mai a porre il territorio germanico sotto un controllo stretto, addirittura nel 9
d.C. tre legioni, guidate da Publio Quintilio Varo, vennero distrutte nella
battaglia della selva di Teotoburgo da una coalizione di popoli germani
guidati dal capotribù Arminio.
Nonostante vennero fatte qui ulteriori operazioni, la frontiera rimase al Reno.

1.8 LA SUCCESSIONE

I poteri che Augusto aveva ricevuto dal senato , non potevano semplicemente
essere trasferiti ad un’altra persona: da qui il problema della successione,
aggravato ulteriormente dalla mancanza di figli maschi (c’era infatti solo la
figlia Giulia).
Per far sì che il potere rimanesse all’interno della propria famiglia, Augusto
portò avanti una campagna propagandistica in cui essa era inclusa: riprese la
consuetudine aristocratica della lode rivolta agli antenati, si presentò come
pater familias osservatore delle tradizioni e allargò il prestigio personale anche
ad amici e collaboratori.
Un ruolo centrale venne assunto dalla domus principis, che gli consentiva di
trasferire al proprio erede il prestigio e le clientele che aveva ottenuto; a ciò si
devono aggiungere i meriti ottenuti anche dai membri della famiglia e dagli
amici a lui vicini.
Essere vicino ad Augusto significava in primo luogo, e questo valse
soprattutto per coloro che di volta in volta assunsero il ruolo di ‘’erede
designato’’, una carriera politico-militare accelerata e di successo.
Il primo personaggio che Augusto selezionò come erede fu il genero
Marcello, che aveva sposato sua figlia Giulia: egli morì nel 23 a.C., proprio
dopo che il princeps si riprese dalla malattia che lo aveva colpito in Spagna.
Giulia fu poi data in sposa ad Agrippa, il grande generale e riorganizzatore
urbano di Roma; egli ebbe da Giulia due figli (Caio e Lucio Cesare, nati nel 17
a.C. e adottati dal princeps), ma morì nel 12 a.C.
Augusto si volse allora ai due figli avuti dalla moglie Livia durante il primo
matrimonio, Tiberio e Druso (costui morto nel 9 a.C. in Germania).
Tiberio, che aveva sposato Vipsania (figlia del primo matrimonio di Agrippa),
fu costretto a divorziare da questa e a sposare Giulia nell’11 a.C.; egli ottenne
due volte il consolato e celebrò un trionfo nel 7 a.C. e l’anno seguente
ottenne la tribunicia potestas.
In seguito si autoesiliò a Rodi, forse perché contrariato dal rapporto
privilegiato che Augusto instaurò con i figli di Agrippa, che però morirono
nel 2 d.C. e nel 4 d.C.
Nel 2 d.C. Tiberio tornò a Rome e sciolse il matrimonio con Giulia, coinvolta
in uno scandalo per i numerosi amanti e condannato all’esilio dal padre
(Augusto aveva introdotto leggi moralizzanti).
Augusto pretese da Tiberio che questi adottasse Germanico, figlio del fratello
Druso e di Antonia (figlia di Marco Antonio e Ottavia); lo stesso Tiberio aveva
un figlio di nome Druso (detto minore per distinguerlo dallo zio).
Tiberiò adottò Germanico nel 4 d.C. e contemporaneamente Augusto adottò
Tiberio , a cui furono attribuiti in seguito la potestà tribunicia e l’imperium
proconsolare: in questo modo alla morte di Augusto vi era una persona con
pari poteri militari e civili.

1.9 L’ORGANIZZAZIONE DELLA CULTURA

Il programma edilizio di Augusto, rivolto a completare i progetti di Cesare,


aveva come scopo quello di esaltare la pacificazione e la propria famiglia: una
missione perseguita anche tramite le pubbliche cerimonie, la letteratura e la
monetazione.
Uno dei documenti che più chiaramente aveva questo scopo sono le Res
gestae, l’autobiografia in cui Augusto racconta le tappe della sua scalata al
potere e di come abbia portato pace, prosperità e potere al popolo romano.
Dagli storici come Tito Livio, ma anche dai grandi poeti dell’età augustea,
possiamo comprendere quali fossero i messaggi, le idee e la politica culturale
dell’epoca.
Nelle Ecloghe e poi nelle Georgiche Virgilio celebra la pace garantita dal nuovo
regno, mentre nell’Eneide egli celebra la discendenza di Augusto da Enea.
Ma anche Orazio e Ovidio raccontano nei loro lavori la storia dell’estensione
del potere di Roma fino ai confini dell’ecumene, la vendetta sui Parti e il ruolo
provvidenziale di Augusto.
L’adesione al programma del principato fu permessa dall’intervento di
Mecenate, che persuase, tramite il sostegno economico per esempio, chi,
come Orazio e Virgilio, aveva perso tutto a causa delle guerre civili.
Non si può parlare certo di un’adesione totale degli intellettuali alla
propaganda augustea, infatti vi erano anche numerosi dissidenti: il poeta
Asinio Pollione, lo storico greco Timagene; lo stesso Ovidio venne esiliato a
Tomi, sul Mar Nero, in quanto autore di carmi che stridevano rispetto alla
legislazione moralistica di Augusto.
A ciò si aggiunsero le celebrazioni e l’istituzione di un culto personale: i
laudi seculares del 17 a.C. celebrarono la rigenerazione di Roma, le
celebrazioni a Nicopoli (colonia fondata presso il campo di Ottaviano ad
Azio) ogni quattro anni per celebrare la vittoria nel 31 a.C.
Il nome di Augusto era stato inserito nelle preghiere del collegio sacerdotale
dei Salii, il suo compleanno era celebrato pubblicamente, in Oriente esisteva il
culto dell’imperatore e quello della dea Roma (in Occidente c’era il culto di
Roma e quello del divo Cesare, ma non quello di Augusto, fanno eccezione il
culto di Augusto e Roma a Lugdunum, Lione, e gli altari sul Reno e sull’Elba).
2) I GIULIO CLAUDI

2.1 UNA DINASTIA

La morte di Augusto avvenne in Campania nel 14 d.C.: il suo corpo venne


trasportato a Roma e sepolto in un monumentale mausoleo posto nel Campo
Marzio, dove erano già stati collocati i corpi di Marcello, Caio e Lucio Cesare.
Tiberio fece un discorso in senato in cui spiegò che avrebbe rinunciato
all’eredità del padre, e che avrebbe voluto che i senatori attribuissero la cura
dello Stato a più persone.
I senatori lo spinsero però ad accettare, dimostrando come essi non avessero
idea di come ritornare ad un governo repubblicano.
Tra il 14 e il 68 d.C. il potere rimase dunque all’interno della famiglia Giulio-
Claudia, ovvero dei discendenti degli Iulii (Augusto era stato adottato da
Cesare) e dei Claudii (la famiglia di Tiberio Claudio Nerone, il primo marito e
il padre dei figli di Livia, seconda moglie di Augusto).
Tiberio non associò, nella linea di successione al potere, Germanico al figlio
Druso, questo perché Germanico morì nel 19 d.C.; egli era figlio di Druso
Maggiore e Antonia, figli di Marco Antonio e Ottavia).
Druso Minore morì nel 23 d.C., cosa che rese un figlio di Germanico, Gaio
detto Caligola, l’erede del principato; la successione di Caligola certifica di
fatto la trasformazione istituzionale in principato ereditario, infatti Tiberio
non l’aveva associato al potere, né gli aveva conferito l’imperium proconsolare
o la tribunicia potestas.
Si trattava evidentemente di una designazione basata sulla linea familiare:
Caligola per linea femminile era parente di Augusto (sua nonna era Giulia,
figlia del princeps), per linea maschile dei Claudi (il padre Germanico era
figlio di Druso Maggiore) e sua nonna Antonia Minore era figlia di Marco
Antonio; secondo Cassio Dione Caligola preferiva essere considerato
discendente di Antonio, più che di Augusto.
Alla morte di Caligola il potere rimase nella famiglia di Germanico, infatti fu
il fratello di Germanico, Claudio, ad ereditare il principato (retto per la prima
volta da un personaggio estraneo alla famiglia degli Iulii).
Alla sua morte il potere passò al figlio di sua moglie, Agrippina Minore (la
madre era Agrippina Maggiore, figlia di Agrippa, e il padre Germanico) e del
nobile Cneo Domizio Enobarbo: Nerone.
Nerone discendeva anch’egli da Marco Antonio, infatti suo padre era figlio di
Antonia Maggiore (figlia di Ottavia e del triumviro) e di Lucio Domizio
Enobarbo.
Tra i membri della famiglia di Germanico dunque, solo la moglie Agrippina
aveva ancora legami di sangue con Augusto; un legame che Caligola mise in
secondo piano, favorendo l’ascendenza ‘’antoniana’’: egli fece deporre le
ceneri della nonna Antonia Minore nel mausoleo di Augusto.

2.2 TIBERIO (14-37 d.C.)

Tiberio (42 a.C.-37 d.C.), imperatore tra il 14-37 d.C., viene ricordato con una
certa ostilità nelle fonti filosenatorie: Tacito nel II secolo d.C. in particolare
offre di lui un ritratto molto negativo.
In realtà il governo di Tiberio fu una positiva prosecuzione del principato
augusteo, infatti esattamente come il padre adottivo il nuovo imperatore
cercò di rispettare le forme di governo repubblicane valorizzate da Augusto.
La storiografia odierna cerca dunque di discostarsi dalle fonti tradizionali,
per dare valore anche alla ricostruzione di uno storico messo in secondo
piano come Velleio Patercolo, che loda l’attenta gestione dello Stato del
successore di Augusto.
Tiberio fu un amministratore capace, deciso nell’affrontare anche momenti di
gravi difficoltà economiche; tra l’altro durante il suo principato venne portato
a termine il passaggio delle votazioni dai comizi a partecipazione popolare al
senato.
Lungo tutto il corso della propria vicenda al potere, Tiberio fu costretto ad
affrontare una netta opposizione del Senato, che rivendicava la sua
tradizionale libertas.
All’inizio del suo governo si verificò una stabilizzazione della frontiera
renana, dove Tiberio si accontentò della vittoria su Arminio (16 d.C.).
Un momento di grave tensione fu però determinato dalla morte di
Germanico nel 19 d.C. ad Antiochia, avvenuta in circostanze sospette.
Germanico, a differenza di Tiberio, viene ricordato come ‘’bello e valoroso
senza paragoni’’: per questo motivo l’erede di Augusto lo inviò in Asia, dove
condivise il comando dell’esercito con il proconsole Calpurnio Pisone, che lo
avvelenò.
La morte di Germanico aprì anche un momento di grave tensione tra
Agrippina Maggiore (moglie di Germanico) e Tiberio, causato dal problema
della successione.
Morto Germanico il potere sarebbe dovuto passare a Druso Minore (figlio di
Tiberio), che però morì nel 23 d.C., o ad un uno dei figli di Germanico e
Agrippina.
Il momento decisivo nella storia del principato di Tiberio è senza dubbio
rappresentato dalla scalata al potere del prefetto del pretorio Seiano, un
discendente di cavalieri che concentrò le truppe pretoriane, sparse da
Augusto per il Lazio, a Roma.
Tiberio nel 26 d.C. decise di lasciare Roma per rifugiarsi a Capri, presso la
monumentale villa Iovis: da questo momento Seiano monopolizzò i contatti
tra l’imperatore e Roma, dominando la politica di Roma dalla morte della
sposa di Augusto, Livia (29 d.C.).
Seiano cercò anche di inserirsi nella contesa per la successione: chiese infatti
di sposare Livilla figlia di Tiberio, inoltre condivise con quest’ultimo il
consolato nel 31 d.C., pur non appartenendo al rango senatorio.
Nello stesso anno dichiarò Agrippina Maggiore nemico pubblico: la moglie
di Germanico venne così imprigionata insieme ai figli, accusati di tramare
contro l’imperatore.
La madre di Germanico, Antonia, risvegliò infine Tiberio dal torpore,
spingendolo a processare e giustiziare Seiano.
Gli eventi successivi furono particolarmente infelici: si moltiplicarono, negli
ultimi anni al potere di Tiberio, le condanne contro senatori per lesa maestà; i
sostenitori di Seiano vennero eliminati; Agrippina Maggiore si suicidò e tutti i
suoi figli, tranne Caligola, vennero uccisi.
Tiberio nominò quest’ultimo e il figlio di suo figlio Druso Minore, Tiberio
Gemello, eredi congiunti.
Morto Tiberio nel 37 d.C., il senato e il prefetto del pretorio Macrone, fecero sì
che fosse Caligola ad impossessarsi del potere; il nuovo imperatore promise
di adottare Gemello, ma nello stesso anno lo fece uccidere.

2.3 CALIGOLA (37-41 d.C.)

Caligola (12-41 a.C.), imperatore tra il 37-41 d.C., rimase al potere per un
tempo molto breve, e del suo regno si ricordano soprattutto le stravaganze e i
giudizi ostili della storiografia tradizionale.
Caligola (da ‘’piccola Caliga’’, nome delle calzature dei legionari, soprannome
datogli dai soldati del padre) salì al potere tra l’entusiasmo della plebe, che
ancora ricordavano con affetto il valoroso Germanico.
Il senato lo accolse in maniera più fredda, e in effetti molto ostile è la
valutazione che lo storico filosenatorio Svetonio da di lui: un tiranno folle,
che spese tutto il denaro accumulato da Tiberio inaugurando una politica di
donativi e spettacoli, un uomo poco interessato alla politica, ma desideroso di
accrescere il proprio potere personale.
L’inclinazione al dispotismo di Caligola viene giustificata nelle fonti dalla
presenza di una malattia mentale, anche se forse si dovrebbe sostenere che fu
l’influenza ‘’antoniana’’, sensibile al modello orientale, a far emergere una
concezione dispotica della monarchia.
In questo modo assumono un significato nuovo le numerose esecuzioni
ordinate dal nuovo principe, che fece uccidere lo stesso Macrone.
Caligola fece uccidere Tolemeo re di Mauritania (40 d.C.), che era l’ultimo
discendente di Marco Antonio e Cleopatra: infatti egli era figlio di Cleopatra
Selene, moglie della regina d’Egitto e del triumviro.
La morte del re diede inizio ad una guerra che si concluse solo al tempo di
Claudio, con l’annessione del Regno di Mauritania a Roma.
Ad Oriente Caligola ricostruì i defunti regni cuscinetto dipendenti da Roma:
allargò i possedimenti in Galilea dell’amico Erode Agrippa, consegnò la
Commagene (divenuta provincia sotto Tiberio) ad un sovrano cliente.
Complesso fu il rapporto con gli Ebrei: Caligola infatti pose una propria
statua nel Tempio di Gerusalemme, un atto ritenuto sacrilego dai locali, che si
prepararono alla rivolta e allo scontro con le comunità greche.
Per evitare questo cataclisma, i pretoriani lo assassinarono nel 41 d.C.: questi
eventi sono riportati con precisione dallo storico romano-giudaico Flavio
Giuseppe e dal filosofo ebreo di Alessandria Filone (egli, che si trovava a
Roma per chiedere la tutela dei diritti degli Ebrei alessandrini, lasciò un
proprio resoconto).
Il principato di Caligola aveva dunque dimostrato le possibili derive
dispotiche del potere monarchico.

2.4 CLAUDIO (41-54 d.C.)

A succedere a Caligola fu suo zio Claudio (10 a.C.-54 d.C.), imperatore tra il
41-54 d.C., fratello di Germanico scelto dagli assassini dell’imperatore in
quanto ritenuto manipolabile.
Come per Caligola, anche per Claudio non si può parlare di simpatia delle
fonti nei suoi confronti: egli viene ritratto come un debole, un inetto, uno
sciocco interessato solo alle cose erudite.
Claudio in realtà, oltre a mostrare rispetto per il senato, fu anche capace di
razionalizzare lo Stato: l’amministrazione venne divisa in quattro grandi
uffici, un segretariato generale, un ufficio per le finanze (a patrimonio), uno
per le suppliche (ab epistulis) e uno per l’istruzione dei processi da tenersi
davanti all’imperatore (a libellis).
Questi quattro uffici vennero affidati a quattro liberti fedeli a Claudio; per
questo motivo il suo impero è ricordato come ‘’il regno dei liberti’’.
Claudio attuò anche una razionalizzazione dei servizi, andando a migliorare
l’approvvigionamento granario e idrico di Roma: venne costruito un porto
con alto tonnellaggio ad Ostia, modernizzò il sistema della distribuzione
agraria (la cui responsabilità fu probabilmente sottratta al prefetto
dell’annona).
Ottenne poi, tramite un grande orazione, la possibilità per i notabili della
Gallia Comata di entrare in senato; fece inoltre costruire un grande numero di
colonie (in Britannia, in Germania, in Mauritania), inoltre concesse (come
sappiamo da un’iscrizione nota come Tabula Clesiana di Cles, vicino Trento) la
cittadinanza ad alcune popolazioni alpine e anche a numerosi militari a fine
servizio.
Affrontò poi la guerra in Mauritania aperta da Caligola: organizzò il regno
occupato in due province affidate a procuratori equestri; andò poi a
modificare l’assetto orientale lasciato dal suo predecessore, tutelando sia le
πολεις greche che le comunità ebraiche.
Sempre per prevenire possibili disordini Claudio decise anche di espellere
gli Ebrei da Roma nel 49 d.C.
L’impresa militare più importante fu senza dubbio la conquista della
Britannia meridionale nel 43 d.C., dove venne formata una provincia.
La caratteristica principale del regno di Claudio è il numero degli intrighi di
corte: lui stesso aveva sposato in terze nozze la dissoluta Messalina, che
venne messa morte nel 48 d.C. in quanto accusata di tramare contro il marito.
L’imperatore si risposò con Agrippina Minore, sua nipote, di cui adottò il
figlio avuto nel precedente matrimonio,Nerone: proprio per garantire a
questo la successione, ella assassinò Claudio nel 54 d.C.
2.5 LA SOCIETÀ IMPERIALE

Alla base della concezione antica della società vi era la differenza dello status
giuridico delle persone, lo stesso Augusto aveva infatti differenziato i ceti
dirigenti dello Stato, ma allo stesso tempo si era occupato di definire i
rapporti fra tutte le parti della società e i meccanismi di ascesa sociale.
La schiavitù era senza dubbio un fenomeno diffusissimo della società e
dell’economia a partire dalla tarda Repubblica; un fenomeno di cui è difficile
ricostruire la grandezza (c’è chi sostiene che il 40% della popolazione
dell’Italia fosse in schiavitù).
Grandi quantità di schiavi erano impiegati nell’ambito dell’agricoltura, anche
se nel corso degli anni il numero si ridusse per fare spazio all’utilizzo di
liberi coloni; ovviamente gli schiavi erano utilizzati anche in altri ambiti, si
pensi agli schiavi greci (maestri, massaggiatori, segretari ecc..).
Un ruolo molto importante era ricoperto dalla familia Caesaris, gli schiavi
imperiali, di solito impiegati nella gestione amministrativa e finanziaria: essi
potevano raggiungere un alto livello di ricchezza e di potere, cosa che però
non gli garantiva un nuovo status sociale.
Nel mondo romano ricchezza e potere non davano accesso a un ceto
superiore, lo schiavo che otteneva la libertà rimaneva legato al suo ex
padrone (gli schiavi attraverso i soldi fatti durante le loro mansioni, il
peculium, potevano affrancarsi).
Inoltre i liberti avevano delle limitazioni per quanto riguardava la vita
pubblica e l’accesso alle magistrature sia a Roma che nei municipi.
I liberti, soprattutto nel I secolo d.C., furono il ceto più attivo a livello
economico in diversi settori: commercio/artigianato/servizi; essi potevano
raggiungere anche delle mansioni molto elevate a livello sociale.
Nella casa imperiale lo spirito d’iniziativa dei liberti i espresse poi ai massimi
livelli: si pensi alla vicenda dei liberti di Claudio, Narcisso/Callisto/Pallante/
Polibio, che vennero posti al vertice dei nuovi servizi amministrativi.
Un altro gruppo molto importante era quello dei provinciali liberi, una
categoria molto articolata, che comprendeva gli abitanti delle πολεις greche, i
nomadi del deserto e persino gli abitanti dei villaggi della Britannia.
Come sappiamo dalla lettera che Claudio inviò agli abitanti di Alessandria: la
prova che l’imperatore aveva il potere di intervenire nelle questioni relative
allo status e ai privilegi dei diversi gruppi cittadini.
Il princeps poteva promuovere i ceti dirigenti cittadini o intere città
concedendo la cittadinanza romana ai singoli individui , per meriti , o a
categorie di persona.
Coloro che ottenevano la cittadinanza romana si trovavano ad avere una
condizione privilegiata: i cittadini romani erano esentati dalle tasse e da
obblighi che gravavano invece sui provinciali.
Un volta ottenuta la cittadinanza, anche per i provinciali il passo successivo
di promozione sociale era l’accesso alle classi dell’ordo senatorius e della
carriera equestre.
Per arrivare a ciò era però indispensabile l’intervento dell’imperatore, si pensi
all’intervento di Claudio per la classe dirigente della Gallia Comata; allo
stesso tempo il servizio militare era uno strumento utile per attuare una
scalata sociale efficace.
L’esercito rimase a lungo il fattore di promozione sociale più efficace: i
veterani delle legioni, sopratutto se avevano raggiunto la posizione di
sottufficiali, entravano a far parte delle élite municipali e acquisivano
prestigio per se’ e per la propria famiglia, cosa che garantiva a loro e ai loro
figli la possibilità di rivestire magistrature locali.

2.6 NERONE (54-68 d.C.)

Con Nerone (37-68 d.C.), imperatore tra il 54-68 d.C., il principato venne
impostato su delle premesse diametralmente opposte a quelle elaborate da
Augusto.
In un certo senso con Nerone divenne evidente la debolezza dei residui del
potere repubblicano, che già avevano potuto poco al tempo del dispotismo
senza criterio di Caligola.
Questa trasformazione è evidente già nel 55 d.C., quando Seneca compone il
De clementia, opera dedicata a Nerone in cui viene indicato il comportamento
ideale del principe, che deve comportarsi secondo virtus e clementia.
Per Seneca l’ideologia augustea, basata sul permanere di responsabilità di
governo in mano a senato e popolo, non era più possibile in alcun modo.
La prima fase del principato neroniano fu caratterizzata dall’influsso positivo
che sul sovrano avevano Seneca e il prefetto del pretorio Afranio Burro, che
spinsero il giovane principe a cercare l’intesa con il senato.
Nel corso del tempo però Nerone si distaccò da questa prospettiva, adottando
un’idea teocratica e assoluta del potere imperiale, influenzata senza dubbio
dal suo amore per la Grecia e l’Egitto: la monarchia egiziana e quelle
ellenistiche gli fornirono in qualche modo il modello a cui rifarsi.
Nerone si rese dunque protagonista di gesti propagandistici clamorosi, come
l’esenzione fiscale concessa all’intera Grecia: mosse come questa riscuotevano
grande riscontro tra la plebe, che apprezzava lo spirito demagogico del
sovrano.
Nerone si macchiò anche di gravi delitti: nel 54 d.C. uccise Britannico, figlio
di Claudio e Messalina (suo fratellastro per adozione); nel 59 d.C. uccise la
madre Agrippina poiché ostacolava la sua relazione con Poppea Sabina e si
opponeva al desiderio del figlio di divorziare da Ottavia, figlia di Claudio.
Nel 62 d.C. Nerone divorziò infine da Ottavia e sposò Poppea; sempre in
quest’anno cominciarono i numerosissimi processi per lesa maestà, che
portarono alla morte di numerosi senatori.
Il dispotismo neroniano toccò però il suo apice con l’incendio di Roma del 64
d.C., di cui furono incolpati i cristiani e che eliminò un altro grande numero
di senatori.
Nonostante non si possa per certo attribuire lo scoppio dell’incendio al
principe, è invece chiaro che dopo questo egli fu costretto ad affrontare
numerose questioni, anche di natura economica.
Nel 64 d.C. Nerone, per far fronte alla tragedia, decise di ridurre il peso e il
fino della moneta d’argento, il ‘’denario’’, un provvedimento che aveva come
fine il rinnovamento edilizio e la costruzione della ‘’domus aurea’’, l’enorme
palazzo imperiale voluto da Nerone nel centro di Roma.
La situazione nelle provincie non era certo meno tesa: nel 60 d.C. scoppiò una
rivolta in Britannia; nel 66 d.C., dopo aver deciso di confiscare parte del
Tempio di Gerusalemme, scoppiò una rivolta anche in Giudea.
Per sopperire alle spese di queste dure campagne, Nerone cominciò a
confiscare proprietà ai senatori condannati: per questo motivo alcuni di loro
complottarono alle sue spalle.
La celebre ‘’congiura dei Pisoni’’, risalente al 65 d.C. e guidata da Lucio
Calpurnio Pisone, coinvolse numerosi membri delle élite.
Ad Oriente Nerone ottenne invece qualche vittoria: il generale Domizio
Corbulone riuscì a sconfiggere i Parti e a riportare l’Armenia sotto l’influenza
romana (nel 66 d.C. Nerone incoronò Tiridate come re d’Armenia).
Nerone partì poi per la Grecia, dove partecipò e vinse qualche premio per il
proprio talento artistico negli agoni delle varie città, ma soprattutto dichiarò,
a Corinto, l’autonomia di tutte le città greche.
Nel frattempo era scoppiata una nuova rivolta giudaica, sedata stavolta dalla
truppe del legato della Syria, Maciano, e da quelle di Vespasiano.
Mentre quest’ultimo riduceva al mal partito gli Ebrei, scoppiò nel 67-68 d.C.
una rivolta in Gallia Lugdunensis guidata dal legato Cneo Giulio Vindice.
Sedata velocemente questa rivolta, ne scoppiarono delle altre, guidate: dal
governatore della Spagna (Servio Sulpicio Galba), dal governatore
dell’Africa e dalle truppe sul Reno.
Nerone venne abbandonato persino dai pretoriano; in questo modo il senato
poté dichiararlo ‘’hostis publicus’’ e riconoscere Galba come nuovo princeps.
A quel punto Nerone non poté fare altro che suicidarsi: con lui finivano le
vicende al potere per la famiglia Giulio-Claudia, la cui reale colpa fu quella di
non aver indicato un metodo di selezione dell’erede (un problema, quello
dell’ascensore sociale)che fece rievocare i giorni delle guerre civili.
3) L’ANNO DEI QUATTRO IMPERATORI E I FLAVI

3.1 L’ANNO DEI QUATTRO IMPERATORI: IL 68/69 d.C.

La morte di Nerone e gli avvenimenti che l’avevano causata crearono le


condizioni per una nuova stagione di guerre civili, in cui si affrontarono
senatori, comandanti dell’esercito e governatori provinciali.
Come spiega Tacito, al termine dell’anno dei quattro imperatori si arrivò alla
costruzione di un ‘’arcanum imperii’’ (un ‘’caposaldo del potere’’), ovvero la
proclamazione di un imperatore da parte dell’esercito.
L’ascesa al potere di un uomo che solo da poco aveva raggiunto il rango
senatorio dimostra come ormai l’impero fosse raggiungibile anche da chi
avesse un’estrazione umile.
La storiografia tradizionale si concentra soprattutto sulle vicende private dei
Giulio-Claudi, non prestando abbastanza attenzione sull’evoluzione del ruolo
delle province, dei loro governatori e dell’esercito.
Con lo spostamento dell’asse di potere da Roma, divenne evidente che
l’Impero non potesse più essere ad appannaggio di una sola famiglia: proprio
quello che Tacito fa spiegare a Galba, mentre adottando Lucio Calpurnio
Pisone lo candida alla guida dell’Impero.
Nel suo discorso Galba spiega che solo un principio di successione basato
sull’adozione può portare il migliore al governo: ‘’l’adozione sceglierà il
migliore...essere generati principi è frutto del caso….nell’adozione il giudizio è libero
e nella scelta ci orienta il pubblico consenso’’.
Come ricordato brevemente in alto, mentre Nerone viveva i suoi ultimi giorni
al comando, il senato e i pretoriani proclamarono imperatore Servio Sulpicio
Galba, che era governatore della Spagna Tarragonese e aveva già rifiutato il
potere offertogli dai suoi soldati al tempo della rivolta di Vindice.
In seguito però egli ottenne l’appoggio del prefetto del pretorio Nimfidio
Sabino, grazie al quale ottenne il potere, ma che in seguito fece eliminare in
quanto stava tramando contro di lui.
Galba, che cercò di ristabilire la libertas senatoria, si rifiutò di dare ai
pretoriani i 30.000 sesterzi promessi e si rese inviso alla plebe; inoltre egli
scelse di nominare suo erede Calpurnio Pisone, un esponente dell’ordine
senatore, che però era inviso ai soldati e a Otone, giovane governatore della
Lusitania che lo aveva aiutato nella sua ascesa al potere.
Dopo che Galba venne ucciso dai pretoriani nel Foro (69 d.C.), proprio Marco
Salvio Otone (amico di Nerone e primo marito di Poppea) ottenne l’appoggio
del senato, dei pretoriani e delle legioni danubiane/orientali, riuscendo così a
essere nominato imperatore (Gennaio 69 d.C.), in seguito però le legioni del
Reno proclamarono imperatore il proprio comandante, il legato Aulo
Vitellio.
Le truppe di Vitellio, senatore di rango consolare, riuscirono a sconfiggere
Otone nella battaglia di Bedriaco (14 Aprile 69 d.C.), vicino Cremona;
decisivo fu il mancato arrivo delle legioni danubiane alleate di Otone.
Dopo il suicidio di Otone, Vitellio divenne imperatore, ma non riuscì a
frenare i suoi soldati dal saccheggiare l’Italia.
Dopo aver sostituito i pretoriani con membri delle legioni renane, gli eserciti
della frontiera danubiana e dell’Oriente gli si ribellarono, nominando
imperatore Tito Flavio Vespasiano (9-79 d.C.).
Vespasiano apparteneva ad una famiglia italica di Rieti, il padre era un
publicano entrato in senato sotto Tiberio.
Nerone, che lo considerava un fedele comandante e ne rispettava il talento, lo
inviò in Giudea nel 66 d.C. per frenare la ribellione locale; si trovava ancora lì
quando nel Luglio del 69 d.C. il prefetto d’Egitto Tiberio Giulio Alessandro
organizza la sua proclamazione imperiale.
In seguito anche le legioni della Giudea, della Siria (guidate da Lucio Licinio
Muciano) a cui si aggiunsero quelle danubiane: queste marciarono verso
l’Italia e sconfiggono Vitellio nella seconda battaglia di Bedriaco, dopo la
quale a Roma si aprirono violenti scontri tra i sostenitori di Vitellio e quelli di
Vespasiano.
Dopo che Vitellio fu ucciso (21 Dicembre 69 d.C.): mentre si trovava ancora in
Egitto, Vespasiano fu riconosciuto imperatore dal senato, anche grazie
all’intervento di Muciano, che governò Roma assieme Domiziano (figlio
minore di Vespasiano).

3.2 LA DINASTIA FLAVIA (69-96 d.C.)

La dinastia dei Flavi comprende, oltre a Vespasiano, anche i figli Tito e


Domiziano; senza dubbio il fatto che il vincitore del 69 d.C. potesse assicurare
degli eredi ebbe una notevole importanza nella sua ascesa.
L’idea di trasmissione dinastica del potere venne celebrata attraverso
l’esaltazione della aeternita imperii, ovvero della stabilità dell’istituzione
imperiale.
La dinastia durò fino al 96 d.C., quando la politica di Domiziano, invisa ai
senatori e alla sua stessa corte, portò alla sua uccisione e alla proclamazione
di un nuovo principe.

3.3 VESPASIANO (69-79 d.C.)

I tre imperatori della dinastia flavia ebbero indole molto diversa tra di loro,
tuttavia ad accomunarli fu senza dubbio il rigido impegno
nell’amministrazione.
Il principato di Vespasiano portò ad una grande razionalizzazione del potere
imperiale e nel consolidamento definitivo dell’Impero come l’istituzione;
importante è in questo senso il fatto che già nel 71 d.C. si associò al potere il
figlio Tito con il titolo di Cesare.
L’autorità del nuovo principe venne sancita da un decreto del senato noto
come lex de imperio Vespasiani, di cui possediamo una copia (ai musei
Capitolini) su una tavola di bronzo.
Nel decreto si ricordano tutti i poteri in possesso del principe, anche se in
realtà dovremmo guardare ad esso come ad una ricapitolazione delle
prerogative dell’imperatore acquisite da Augusto e dai suoi successori.
‘’Diritto di convocare il senato, concludere trattato, a trattare e fare qualunque cosa
divina, pubblica e privata egli pensi utile allo Stato’’.
Vespasiano fronteggiò il grave deficit nel bilancio causato dalle folli ed enormi
spese di Nerone e dalle guerre civili: egli dimostrò di essere un ottimo
amministratore, riuscendo a stabilizzare la situazione.
In seguito estese ai cavalieri la responsabilità di alcuni uffici, che vennero tolti
ai liberti, fece fronte alla crisi del reclutamento, dovuta alle condizioni di
crisi socio-economiche d’Italia.
Vespasiano favorì poi l’estensione della cittadinanza ai provinciali e reclutò
sempre più legionari dalle provincie: questa politica di integrazione tocco il
proprio apice con l’estensione del diritto latino alle città peregrine della
Spagna e con l’immissione in senato di numerosi esponenti delle èlite
provinciali.
Il denaro per la ricostruzione del Campidoglio (distrutto al tempo dei conflitti
tra i sostenitori di Vitellio e quelli di Vespasiano) e per la costruzione del
Colosseo e del Foro della pace provennero soprattutto dal bottino di guerra,
specialmente di quella giudaica.
Nel 70 d.C. Tito si impadronì di Gerusalemme e ne distrusse il tempio; gli
ultimi focolai di rivolta furono spenti nel 73/74 d.C., quando venne presa la
fortezza di Masada.
I difensori della cittadella, per non farsi catturare dai Romani, si uccisero:
questo racconta lo storico Flavio Giuseppe, un ribelle catturato e passato poi
dalla parte dei Romani (Vespasiano gli concesse la cittadinanza).
Vespasiano sconfisse anche il capo batavo Giulio Civile, che nel 70 d.C. aveva
dato vita ad un impero gallico che occupava la valle del Reno, da Magonza al
mare.
Venne anche estese l’influenza romana sul Danubio e in Britannia: in
quest’ultima in particolare venne ripresa la politica di espansione territoriale,
portata a compimento da Cneo Giulio Agricola (40-93 d.C.) al tempo di
Domiziano.
In Germania vennero invece occupati gli acri decumates, lungo il corso dei
fiumi Reno e Danubio, che servirono come base (ai tempi di Domiziano) per
la costruzione delle fortificazioni del limes germanico.
In Oriente venne invece abbandonata la politica dei regni clienti: il nuovo
imperatore si preoccupò di aggregare questi territori allo Stato riducendoli a
province.
Vespasiano godette in generale di un certo consenso, l’unico vero elemento di
opposizione era rappresentato da filosofi cinici e stoici, come lo stoico Elvidio
Prisco (allontanato da Roma), ostili al principato ereditario.

3.4 TITO (79-81 d.C.)

Tito (39-81 d.C.), imperatore tra il 79-81 d.C., venne avvicinato al potere dal
padre secondo la modalità che aveva progettato Augusto: aveva svolto alcune
magistrature, era stato prefetto del pretorio, nel 71 d.C. aveva ottenuto
l’imperium proconsolare e la tribunicia potestas.
Succeduto senza problemi al padre nel 79 d.C., il breve regno di Tito (indicato
dagli antichi come ‘’amore e delizia del genere umano’’), fu caratterizzato da
gravi calamità naturali: l’eruzione del Vesuvio che distrusse le città di
Pompei ed Ercolano; costò la vita anche al naturalista Plinio il Vecchio.
La popolarità di Tito, anche nelle fonti, è dovuta probabilmente ad una
politica di munificenza, giustificata da questi eventi catastrofici.

3.5 DOMIZIANO (81-96 d.C.)

La fama di Domiziano (51-96 d.C) risente dell’ostilità della tradizione


storiografica, ma in realtà il suo regno (di una certa durata, 81-96 d.C.) fu
caratterizzato da un’azione politica efficace e benefica per l’Impero.
Domiziano represse gli abusi dei governatori provinciali e sostituì ai liberti
con competenze burocratiche membri della classe equestre.
Sullo scenario estero, il regno di Domiziano fu caratterizzato dall’abbandono
di grandi operazioni di conquista, preferendo concentrarsi sul rafforzamento
delle frontiere: in Britannia, sul Danubio e in Germania in primo luogo.
Dopo una campagna nell’83 d.C. in Germania contro i Chatti, Domiziano
decise di costruire accampamenti fortificati per controllare il territorio
conquistato.
Questi accampamenti erano collegati tra di loro tramite strade, lungo le quali
erano dislocati dei forti: questo componeva il limes.
In questi anni si cominciò a costruire, lungo il confine renano, un imponente
sistema difensivo composto da torri di guardia in legno e terrapieni, che
collegavano i vari accampamenti dove vi erano gli auxiliari.
Questa linea avanzata aveva alle spalle i castra in cui stazionavano i
legionari: in questo modo si provvedeva alla sicurezza di tutto il limes.
L’opera di Domiziano inaugurò una stagione di costruzione di sistemi
difensivi; in questo modo il termine ‘’limes’’, che nel I secolo d.C. indicava le
strade poste nei territori non conquistati, assunse quello di ‘’frontiera
artificiale’’.
In alcune zone, specie in Oriente e in Africa, il limes era composto da strade e
accampamenti posti a rete: in questo modo si provvedeva alla sorveglianza
delle linee carovaniere, delle piste della transumanza, delle oasi e delle
coltivazioni agricole.
In altri casi il limes era costituito da una linea di castra fortificati e da un vero
e proprio muro in pietra (con fossato) davanti a questi, a delimitare il confine
provinciale.
Nell’85 d.C. si cominciò a profilare il problema della Dacia, una regione al di
là del Danubio corrispondente all’attuale Romania, nella quale un sovrano di
nome Decebalo era riuscito a riunire le varie tribù e a compiere scorrerie in
territorio romano.
Ad una prima campagna fallimentare, ne seguì una seconda guidata da
Domiziano stesso, che però venne interrotta a causa della rivolta di Lucio
Antonio Saturno, governatore della Germania Superiore, nominato
imperatore dalle sue legioni.
Domiziano stipulò con Decebalo un trattato di pace che le fonti indicano
come ‘’comperato’’, un espressione che vuole riflettere la precarietà del foedus,
che non poneva limiti alle ambizioni del re dei Daci.
La rivolta di Saturnino fu domata dal legato della Germania Inferiore, in
seguito Domiziano, che rimandò la campagna contro gli Iazigi, andò a punire
i rivoltosi.
La rivolta di Saturnino rappresentò un momento di svolta nella vicenda di
Domiziano, che cominciando a sentirsi minacciato, diede inizio ad un periodo
di persecuzione ed eliminazione di ogni possibile sospetto traditore.
Numerose le condanne contro i senatori, i presunti simpatizzanti del culto
ebraico e di quello cristiano; addirittura le fonti riportano che l’imperatore si
faceva chiamare ‘’dominus et deus’’ (‘’signore e imperatore’’).
Nel 96 d.C. Domiziano venne assassinato da una congiura a cui partecipò
forse anche sua moglie: contro di lui il senato proclamò la damnatio
memoriae, la cancellazione del ricordo del sovrano (abbattute le statue,
cancellato il suo nome dalle iscrizioni).
Per questo motivo la storiografia di matrice senatoria, soprattutto Tacito e
Plinio il Giovane, ci lasciano un’immagine profondamente negativa di
Domiziano.

3.6 IL SORGERE DEL CRISTIANESIMO

Il Cristianesimo è la fede religiosa nata dalla predicazione di Gesù Cristo,


figlio di Dio, nato sotto Augusto a Nazareth in Galilea e morto in croce sotto
Tiberio (4 a.C.-29 d.C.).
Le prime comunità cristiane sorsero in seguito alla predicazione di Gesù e dei
suoi apostoli nella regione della Giudea; dunque il Cristianesimo si sviluppò
in primo luogo in seno al giudaismo.
Tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del I secolo d.C. il mondo giudaico era
frammentato in varie sette: vi erano gli aristocratici e conservatori sadducei, e
i più popolari e liberali farisei.
A queste sette si aggiunse quella degli esseni, un gruppo che conduceva una
vita rigorosa , vivendo isolato dal resto della società ebraica ; si deve a questa
setta la produzione dei testi sacri noti come ‘’rotoli del Mar Morto’’, scoperti a
Qumran nel deserto di Giuda a metà del XIX secolo.
Le condizioni politiche e sociali del tempo influirono molto sulle prospettive
dei sadducei, ma anche su quelle degli zeloti, un partito di rivoluzionari che
voleva l’indipendenza da Roma.
Ogni tentativo di rivolta si concluse però con delle vere e proprie stragi: la
rivolta del 66-70 d.C. si concluse con la distruzione del Tempio di
Gerusalemme, mentre la rivolta del 132-135 d.C. con la distruzione di
Gerusalemme stessa.
Di fatto al mondo ebraico non restava che scegliere tra i farisei ed il
Cristianesimo: i primi seguivano meticolosamente la Legge di Mosè, mentre i
secondi sostenevano che il messaggio di Cristo avesse valore universale.
Gli apostoli e i loro successori, i diaconi, cominciarono a predicare la parola e
gli insegnamenti del loro maestro prima in Palestina, poi anche nelle grandi
città dell’Impero: Antiochia, Efeso, Alessandria, Cartagine e anche Roma.
Una figura fondamentale fu senza dubbio San Paolo, o Saulo di Tarso (I
secolo d.C.), che, convertitosi sulla via di Damasco, divenne il simbolo della
necessità di diffondere il Cristianesimo tra i ‘’gentili’’ (i non Ebrei).
Dalle sue lettere, confluite nel Nuovo Testamento, emerge la consapevolezza
di una missione universale della Chiesa, rivolta all’umanità intera e dunque
inconciliabile con le posizioni del giudaismo tradizionale.
Le comunità cristiane inizialmente si organizzarono in forme diverse nelle
varie città, ma nel corso del II secolo a.C. a capo di queste cominciò ad esservi
un episcopus (un vescovo).
L’autorità romana non si rapportò mai alla questione giudaica come ad una
problematica religiosa, ma come ad una problematica nazionalistica.
Augusto aveva concesso alle comunità ebraiche di mantenere le proprie
tradizioni, quindi anche di potere guardare a Gerusalemme come ad un
luogo sacro.
Esse erano escluse dal resto della cittadinanza, erano percepite come un
elemento estraneo: sotto Tiberio gli Ebrei furono espulsi da Roma assieme ai
seguaci di culti egizi (la diffusione di culti stranieri era vista come un affronto
del mos maiorum).
Sotto Caligola c’erano poi stati momenti di tensione a causa della scelta
dell’imperatore di porre una sua statua nel Tempio; Claudio restituì alle
comunità ebraiche le proprie prerogative , ma in seguito le ricacciò da Roma
(i disordini che spinsero Claudio a fare ciò , 49 d.C. , furono attribuiti ad un
tale Chrestus: per la prima volta Ebrei e Cristiani venivano accomunati ).
Sotto Nerone divenne evidente il contrasto tra l’autorità imperiale e la nuova
religione cristiana, che era considerata pericolosa in quanto non poteva
essere integrata con la religione ufficiale.
Gli imperatori temevano probabilmente l’aspetto messianico del culto
cristiano: l’attesa del regno di Dio rappresentava una minaccia per l’autorità
imperiale; a ciò vanno aggiunte le dicerie e le pratiche orrende (bere sangue)
che erano accomunate a questo culto.
Nerone ne approfittò per incolpare i Cristiani dell’incendio del 64 d.C., cosa
che diede vita ad una stagione di persecuzioni, nelle quali perirono anche
San Pietro e San Paolo.
Ebrei e Cristiani furono particolarmente invisi a Domiziano, la cui visione del
principe come rappresentante di Giove in terra non poteva convivere con i
culti monoteisti.
I Cristiani e gli Ebrei, assieme a coloro che mostravano interesse per le loro
pratiche e i loro costumi, vennero dunque accusati e condannati per lesa
maestà e tradimento; il cugino dell’imperatore, Flavio Clemente (console
onorario nel 95 d.C.), assieme alla moglie Domizia (nipote di Domiziano),
venne accusato di essere αθεος, ovvero di non credere nella religione della
tradizione; secondo alcuni storici Domiziano perseguitò i Cristiani solo per
recuperare il favore dei membri conservatori del senato, che aveva
tormentato negli anni precedenti.
Non sappiamo se esistesse un fondamento giuridico per le persecuzioni, o se
praticare il Cristianesimo fosse reato, tuttavia possediamo un’importante
lettera inviata da Plinio il Giovane all’imperatore Traiano, risalente al tempo
in cui il primo era governatore di Bitinia (111 d.C.).
Alla domanda di Plinio, che chiedeva come comportarsi con i Cristiani, il
principe rispondeva che si dovevano punire i cristiani solo se denunciati, ma
allo stesso tempo non si doveva punire chi negava di essere cristiano e
provava ciò facendo sacrifici agli dei.
Nel corso del II secolo d.C. il fenomeno cristiano non poteva più essere
ignorato: nonostante l’atteggiamento moderato degli Antonini, si continuò a
perseguitare le comunità cristiane, spesso per iniziativa della folla o di
autorità locali (una vicenda famosa è quella dei martiri di Lione, condannati
a morte sotto Marco Aurelio).
La vicenda dei martiri cominciò però ad essere raccontata dai Cristiani stessi
come esempio di sacrificio; sempre nel II secolo d.C. cominciarono ad essere
prodotti testi (come quelli di Tertulliano) che avevano il fine di far conoscere
e accettare la fede all’opinione pubblica e ai circoli culturali dell’Impero.
IL II SECOLO

Il II secolo d.C. viene considerato tradizionalmente il momento aureo della


compagine imperiale, che rese i proprio confini sicuri e pertanto poté godere
di un notevole sviluppo economico e culturale.
Questa visione, a cui si possono apportare alcune correzioni e limitazioni,
trova nelle fonti una sostanziale conferma: si racconta di una stabilità dovuta
in primo luogo alla scelta dell’adozione del migliore come pratica di
successione.
Una soluzione a cui in realtà non si arrivò in maniera tranquilla, furono infatti
le tensioni che caratterizzarono gli ultimi momenti del principato di Nerva,
che potenzialmente avrebbero potuto portare ad una nuova guerra civile,
spinsero l’imperatore ad adottare e associare al potere Traiano (97 d.C.).
Il gesto venne accolto con favorevolmente da parte dell’aristocrazia senatoria:
il Panegirico, opera di Plinio il Giovane, pronunciato nel 100 d.C., è il segno
eloquente del consenso verso il nuovo regime.

4.1 NERVA (96-98 d.C.)

Nerva (30-98 d.C.), imperatore tra il 96-98 d.C., venne scelto come successore
di Domiziano, e nel suo biennio al potere egli restaurò le prerogative del
senato e tentò di riassestare gli equilibri interni.
Le fonti per questo periodo sono in realtà molto limitate: oltre all’opera dello
storico severiano Cassio Dione, alcuni passi di Plinio il Giovane, epitomi di
storia romana del IV secolo d.C. e i messaggi propagandistici sulle monete
(fonte straordinariamente importante per la vicenda di Nerva).
La prima preoccupazione di Nerva fu quella di scongiurare il pericolo
dell’anarchia: egli ricevette i giuramenti di fedeltà delle truppe provinciali, ed
in seguito abolì le severe disposizioni di Domiziano.
L’accusa di lesa maestà venne sospesa e i delatori sotto il regno di Domiziano
avevano causato processi e condanne subirono la pena capitale.
Nerva cercò poi di riassestare la situazione politico-finanziaria di Roma e
dell’Italia: venne votata una legge agraria per assegnare ai cittadini
nullatenenti e venne probabilmente varato anche il programma delle
‘’istituzioni alimentari’’, di cui però si hanno le prime testimonianze solo
sotto Traiano.
Questo programma consisteva in prestiti concessi dallo Stato agli
agricoltori, che ne beneficiavano accettando di ipotecare i propri terreni;
l’interesse dell’ipoteca veniva versato ai municipi locali o ad appositi
funzionari e serviva per sostentare i bambini bisognosi: si arrivava così ad un
netto miglioramento della produttività dei fondi sia un sostegno alle famiglie
per contrastare la tendenza in atto al calo demografico.
Nerva trasferì poi alla cassa imperiale il cursus publicus, cioè del
mantenimento delle strade e delle stazioni di cambio per i messaggeri
imperiali.
Altri provvedimenti votati all’utilità pubblica furono quelli legati alla
riorganizzazione del sistema di approvvigionamento idrico di Roma, affidati
a Sesto Giulio Frontino, i cui scritti relativi agli acquedotti di Roma sono
giunti sino a noi.
Nel 97 d.C. si manifestarono però i primi sintomi di crisi: si trattava di
problemi economici e politico-militari.
Gli sgravi fiscali introdotti da Nerva non rimediarono la pressione tributaria
che aveva contraddistinto la dinastia Flavia, bensì aumentarono le difficoltà
economiche.
Sul fronte politico invece vi era la pressione dei pretoriani, che spinsero
Nerva ad eliminare gli assassini di Domiziano, ovvero le persone che avevano
garantito all’imperatore il suo titolo.
Per questo motivo il sovrano decise di associare al potere un personaggio che
avrebbe avuto l’influenza militare per controllare i pretoriani: il senatore di
origine ispanica Marco Ulpio Traiano, che nel 97 d.C. era governatore della
Germania Superiore.
Alla morte di Nerva nel 98 d.C., Traiano salì al potere con l’appoggio e la
ratifica del senato; il nuovo sovrano eliminò subito il prefetto del pretorio.

4.2 IL GOVERNO DELL’IMPERO AFFIDATO AL MIGLIORE:


TRAIANO (98-117 d.C.)

Traiano (53-117 d.C.), imperatore tra il 98-117 d.C., al momento della sua
proclamazione imperiale si trovava ancora sul fronte renano, dove rimase
fino al 99 d.C. per completare il consolidamento del limes.
Nella personalità di Triano si fondevano, esattamente come in Augusto,
esperienza militare e senso di appartenenza al senato: per questo motivo egli
incarnava le caratteristiche dell’optimus princeps (un sovrano sottomesso alle
leggi, virtuoso e rispettato dall’esercito).
Le fonti letterarie su Traiano appartengono tutte ad un ambiente favorevole,
quello senatorio: nei frammenti del libro 68 dell’opera di Cassio Dione
(conservati nell’epitome bizantina di Xifilino) e nel Panegirico di Plinio il
Giovane il successore di Nerva viene ricordato come un sovrano capace.
Plinio, che ricorda Traiano come ‘’uno di noi’’ (un senatore), pronuncia il
Panegirico di fronte al senato nel 100 d.C.: in esso si augura che il nuovo
principe sappia instaurare un rapporto di concordia con l’aristocrazia e il ceto
equestre, e che allo stesso tempo possieda virtù che giustifichino la sua
posizione.
Traiano viene spesso ricordato come un generale dell’età repubblicana, e
questo perché l’espansione territoriale è senza dubbio l’obiettivo principale
della sua politica.
Traiano portò avanti due campagne daciche (101-102 e 105-106 d.C.), i cui
momenti salienti sono riportati nella Colonna traiana collocata nel nuovo Foro
costruito dall’imperatore (nel Panegirico alcune allusioni ci fanno credere che
il senato fosse favorevole a queste azioni).
Le campagne di Traiano, in Dacia e in Oriente, non furono probabilmente
delle soluzioni pensate a tavolino per risolvere la questione economica; anche
perché il problema di Decebalo era molto reale, egli minacciava il limes del
Danubio.
La Dacia venne ridotta a provincia, la popolazione deportata o costretta ad
abbandonare i propri territori; la regione venne velocemente popolata da
numerosi coloni provenienti da varie parti dell’Impero.
La possibilità di sfruttare le miniere della Dacia portò ad una maggiore
circolazione di metallo prezioso: questa immissione contribuì ad avvicinare il
valore reale del denario d’argento al suo valore nominale in rapporto con
l’oro e dunque a garantire la stabilità di questa moneta.
Traiano si interessò anche alla frontiera orientale: concluse le campagne
daciche, Traiano occupò il territorio dei Nabatei (in cui vi erano le città di
Petra e Bostra, importanti centri commerciali): venne così dedotta la
provincia d’Arabia (odierna Giordania).
Nel 114 d.C. Traiano avviò anche una campagna contro i Parti, che portò
all’occupazione dell’Armenia, dell’Assiria e della Mesopotamia: la stessa
Ctesifonte, capitale dei Parti, venne presa.
Nessuna di queste conquiste, eccetto la Dacia, sopravvisse per più di un
secolo e mezzo: Traiano infatti fu costretto ad abbandonare le nuove
conquiste a causa di una rivolta degli Ebrei che si era estesa fino a Cirene;
l’imperatore morì in Cilicia nel 117 d.C.
Le truppe proclamarono imperatore Publio Elio Adriano, un parente
spagnolo dell’imperatore, che forse lo stesso Traiano adottò in punto di morte
(secondo alcune fonti l’adozione sarebbe stata completata dalla moglie del
defunto, Plotina, che tenne segreta qualche giorno la morte del marito).
Il regno traianeo si interessò anche ai bisogni dell’Italia e dell’Impero: egli
diede un’attuazione effettiva ai sussidi alimentari ideati da Nerva (ciò ci viene
testimoniato da due notevoli testi epigrafici: uno a Veleia, appennino
piacentino, e uno vicino a Benevento).
Questa tendenza alla beneficenza viene confermata anche dall’epistolario di
Plinio, lui stesso costruttore a sue spese di una scuola nella propria città
natale (Como).

4.3 ADRIANO (117-138 d.C.)

Anche su Adriano (76-138 d.C.), imperatore tra il 117-138 d.C., non


possediamo numerose fonti: oltre all’epitome di Cassio Dione si ha infatti solo
la biografia contenuta nell’Historia Augusta, una raccolta di biografie di
imperatori del II e del III secolo scritta nel IV secolo d.C.
La famiglia di Adriano, che discendeva da italici trasferitisi in Spagna al
tempo degli Scipioni, si era affermata nell’aristocrazia di Italica, una città
della Betica (odierna Andalusia).
Adriano aveva percorso la carriera senatoriale a Roma, forse grazie all’aiuto
di Traiano, che lo volle al suo fianco durante la prima campagna dacica e poi
di nuovo durante la guerra partica, quando venne nominato governatore
della Siria e poi anche comandante dell’esercito per affrontare i rivoltosi
ebraici.
Adriano, una volta ottenuta la proclamazione delle truppe e il riconoscimento
del senato, abbandonò la politica di espansione traianea e decise di affidare
le province più orientali a sovrani clienti.
Questa decisione non venne certo accettata senza remore: quattro ex consoli
vennero condannati a morte per aver tramato contro il nuovo principe.
Per assicurarsi benevolenza, Adriano cancellò i debiti arretrati a Roma e in
Italia con la cassa imperiale , facendo distribuzioni al popolo e reintegrando il
patrimonio di senatori che avevano perduto il censo (ovviamente proseguì
anche il programma alimentare traianeo).
Adriano non si era disinteressato dell’esercito e delle province, ma anzi, come
riporta l’Historia August, egli introdusse una disciplina ferrea, tenendo i
soldati in esercizio come quando la guerra era imminente.
Oltre a rinvigorire la disciplina, egli favorì il reclutamento dei provinciali
introducendo un nuovo tipo di unità, i numerali, formate da soldati che
conservavano armamenti e sistemi di combattimento delle popolazioni non
romanizzate.
Questa cura per il mantenimento dell’esercito è evidente anche nel discorso
pronunciato a Lambaesis nel 128 d.C. alla legione III Augusta.
Adriano fu uomo di grande cultura: favorì letteratura/tradizioni/culti e fu
grande amante della civiltà ellenica, venne per esempio introdotto ai misteri
eleusini.
Fu anche un appassionato costruttore di palazzi: a Roma fece costruire sulla
riva destra del Tevere il proprio mausoleo, l’odierno Castel Sant’Angelo,
mentre a Tivoli fece edificare una grande villa costruita in due tappe: tra il
118 e il 125 d.C. e il 125 e il 133 d.C.
Adriano volle anche restaurare Atene e le altre grandi πολεις greche, sia
dando impulso alla trasformazione urbanistica, sia rivitalizzando le
istituzioni.
Si occupò anche della situazione finanziaria e incoraggiò l’integrazione delle
élite orientali nel senato di Roma.
Dei ventuno anni del suo regno, Adriano ne trascorse dodici lontano da
Roma: dal 121 al 125 d.C. viaggiò per le provincie, dal Danubio fino alla
Britannia, dove fece iniziare i lavori per la costruzione del famoso vallo
(‘’vallo di Adriano’’) sull’istmo di Tyne-Solway.
Passò poi in Gallia, in Africa, in Asia Minore ed infine in Grecia; tra il 125-129
d.C. si mosse tra Roma e l’Africa, dove fece costruire il fossatum Africae, una
serie di fortificazioni che avevano lo scopo di controllare gli spostamenti delle
popolazioni nomadi.
Durante il secondo dei suoi grandi viaggi, nel 132 d.C., Adriano dovette
affrontare la nuova rivolta ebraica (132-135 d.C.), guidata da un tale Simone
‘’Bar Kochba’’ (lett. ‘’il figlio della stella’’), indicato come un nuovo messia.
La rivolta fu provocata dalla volontà dell’imperatore di assimilare gli Ebrei
alle altre popolazioni dell’Impero, resasi manifesta con la costruzione della
colonia di Aelia Capitolina sul sito dell’antica Gerusalemme, dove lo stesso
Adriano sarebbe stato oggetto di culto all’interno di un tempio dedicato a
Giove.
La ribellione ebraica venne percepita come una grave minaccia all’esistenza
spessa dell’Impero, come dimostra la violentissima e spietata repressione,
che costò un migliaio di villaggi distrutti e la morte di mezzo milione di
morti.
Adriano durante i suoi viaggi ebbe modo di comprendere da vicino i
meccanismi finanziari e giuridici dell’Impero, che andò dunque a
perfezionare: diede forma definitiva alle competenze giurisdizionali dei
governatori provinciali per esempio.
Si dimostrò anche un efficiente amministratore della giustizia: a questo scopo
l’Italia venne divida in quattro distretti giudiziari assegnati a senatori di
rango consolare, alleggerendo il lavoro dei tribunali di Roma.
In questo modo Adriano andò però ad intaccare lo stato privilegiato di cui
godeva l’Italia e lese anche la prerogativa giudiziaria del senato; il
provvedimento venne infatti annullato da Antonino Pio (e ripreso da Marco
Aurelio).
Adriano avvertì poi l’importanza del ceto equestre per l’amministrazione
finanziaria e ne riorganizzò la carriera, attraverso delle tappe di promozione
prefissate.
Introdusse poi una distinzione tra carriera civile e militare, una scalata basata
sul compenso, e allo stesso tempo estese il campo d’azione dei cavalieri.
I nuovi funzionari vennero impiegati in incarichi relativi all’amministrazione
del patrimonio imperiale: dalle miniere alle proprietà fondiarie
all’amministrazione fiscale.
Come successore Adriano scelse Lucio Elio Cesare, console nel 136 d.C., che
però morì nel prematuramente; per questo motivo egli decise di adottare
Arrio Antonino, il quale adottò a sua volta Lucio Vero (figlio di Lucio Elio) e
un nipote di sua moglie, Marco Aurelio.
La complessità di questa procedura ci permette di comprendere la precarietà
di un sistema che non era in grado di resistere a lungo alle sue tensioni
interne.

4.4 ANTONINO PIO (138-161 d.C.)

Antonino Pio (86-161 d.C.), imperatore tra il 138-161 d.C., portò avanti
l’opera di consolidamento avviata da Adriano, rinunciando però ai grandi
viaggi attraverso l’Impero.
La vicenda di Antonino Pio fu caratterizzata da una grande tranquillità: il
principe era benvoluto dal senato (riuscì a far divinizzare Adriano), il
patrimonio venne ben amministrato, non vi furono minacce alla sicurezza;
uniche note militari furono una rivolta in Mauretania e lo spostamento del
vallo (‘’vallo di Antonino Pio’’) britannico più a nord, nella Scozia meridionale.
Durante il regno di Antonino Pio il retore greco Elio Aristide scrisse un elogio
dell’Impero Romano, descritto come un governo ideale dell’universo.

4.5 LO STATUTO DELLE CITTÀ

Durante il regno di Antonino Pio l’impero conobbe l’apogeo del proprio


sviluppo, una crescita che Elio Aristide attribuisce a due elementi
fondamentali: il processo d’integrazione dei ceti provinciali tramite il
conferimento della cittadinanza, ed il valore attribuito alla vita cittadina in
cui la cultura greca raggiungeva la sua massima espressione.
La città nel mondo antico era il segno distintivo della civiltà, che si opponeva
alla rozzezza della barbarie: i Romani portarono ovunque questa forma
associativa, tramite la creazione di comunità civiche nelle colonie.
Nell’Impero Romano esistevano diversi tipi di città e soprattutto un gran
numero di statuti; civitates in Occidente e πολεις in Oriente erano distinte in
tre tipologie fondamentali, a seconda del loro grado di integrazione con il
mondo romano:

- Città peregrine: città preesistenti alla conquista, all’inizio erano le più


numerose; al loro interno si distinguono in base allo status giuridico: le città
stipendiarie (sottomesse a Roma, a cui pagano un tributo); le città libere (con
diritti speciali concessi da Roma); le città libere federate (città che hanno con
Roma dei trattati basati sull’eguaglianza).

- Municipi: città che Roma ha elevato dal precedente status peregrino, agli
abitanti di questi era concesso il diritto latino o quello romano; un esempio di
municipio è Italica, fondata in Spagna nel III secolo a.C., che divenne
municipio sotto Cesare.

- Colonie: città di nuova fondazione i cui coloni avevano cittadinanza romana;


a partire da Claudio le città potevano ricevere lo status di colonia come
privilegio onorario.
Questo tipo di gerarchia aveva come fine quello di favorire lo spirito di
emulazione, visto che tutte le città peregrine ambivano a divenire municipi
dotati di diritto latino.
L’evoluzione dello statuto delle singole comunità comportava l’integrazione
dei provinciali nell’Impero, cosa che poteva avvenire per gradi:
privilegiando i ceti dirigenti (membri dei consigli municipali), oppure
attraverso il riconoscimento di uno statuto superiore accordato a singole città
o a intere regioni (quello che fece Vespasiano concedendo il diritto latino a
tutte le città peregrine della Spagna).
Le città costituirono il punto di riferimento delle attività economiche e i nuclei
della vita culturale, anche se si dovrà notare che il rapporto tra le città e il
territorio variava da provincia a provincia.
Nell’Oriente ellenistico l’esperienza cittadina si basava sul modello greco,
mentre in Spagna/Africa/Sicilia questo modello si mischiava a quello punico;
in Gallia vi erano le tradizioni celtiche, mentre in Germania non vi era alcun
tipo di cultura urbana.
La complessità delle situazioni giuridiche è un riflesso della molteplicità
delle culture/tradizioni/lingue/religioni/identità che convivevano
nell’Impero.
Le città fungevano da raccordo tra Roma e le diverse realtà locali dell’Impero:
la conquista infatti non significò un immediato livellamento di tutti gli aspetti
culturali e sociali.
Roma, diffondendo la cultura urbana e promuovendo l’ascesa economico-
sociale delle élite, favorì l’ordine e il controllo su tutte le popolazioni
comprese nel suo sistema di potere.

4.6 MARCO AURELIO (161-180 d.C.)

Marco Aurelio (121-180 d.C.), imperatore tra il 161-180 d.C., succedette senza
incontrare problematiche ad Antonino Pio; non sembra che fosse previsto che
egli dividesse il potere con il fratello adottivo Lucio Vero.
Si tratta dunque della prima forma di ‘’doppio Principato’’ della storia della
Roma imperiale.
All’inizio del proprio regno Marco Aurelio si mosse verso Oriente per
combattere i Parti: la guerra venne vinta da Lucio Vero nel 166 d.C., tuttavia
dalla Partia le legioni portarono con se’ la peste.
La frontiera settentrionale , rimasta sguarnita , venne superata dai Barbari del
Nord: le popolazioni dei Quadi e dei Marcomanni.
Superato il Danubio, questi invasero la Pannonia, la Rezia e il Norico,
giungendo ad assediare Aquileia; da questo momento i due imperatori
furono impegnati quasi esclusivamente sulla frontiera danubiana.
Per rispondere all’emergenza venne costituita la praetura Italiae et Alpium,
la ‘’difesa avanzata dell’Italia e delle Alpi’’.
Nonostante Lucio Vero morì nel 169 d.C. mentre tornava dall’Illirico, Marco
Aurelio riuscì dopo dieci anni di campagne a frenare la pressione dei popoli
esterni, ricacciati a Nord del Danubio nel 175 d.C. (le sue imprese sono incise
sulla sua colonna in piazza Colonna a Roma).
Un momento molto complesso fu senza dubbio rappresentato dalla rivolta
del governatore della Siria Avidio Cassio, che però venne ucciso dalle sue
truppe.
Marco Aurelio, seguace della filosofia stoica, è autore di una stupenda opera
filosofica intitolata Τα εις αυτον (‘’Meditazioni per se’ stesso’’), in cui si riflette
sul dovere verso i sudditi e su altri temi universali.
Marco Aurelio fu anche il sovrano che reintrodusse il principio dinastico,
visto che nominò come erede l’indegno figlio Commodo, coreggente già nel
177 d.C.
Marco Aurelio morì infine a Vindobona nel 180 d.C.; si deve ricordare che fu
proprio durante il suo regno che avvenne la tragica vicenda dei ‘’martiri di
Lione’’, che vennero dati in pasto ai leoni.

4.7 COMMODO (180-192 d.C.)

Commodo (161-192 d.C.), imperatore tra il 180-192 d.C., divenne imperatore


a soli diciannove anni, dimostrandosi fin da subito una personalità dispotica
e predisposta ad ogni tipo di degenerazione.
Commodo decise di concludere la pace con le popolazioni combattute dal
padre, abbandonando dunque il sogno di quest’ultimo di occupare le zone a
Nord.
Cominciò a farsi chiamare ‘’Ercole’’ e pretese addirittura di rifondare Roma
dandole il nome di ‘’Colonia Commodiana’’: atteggiamenti di questo tipo
determinarono la rottura con il senato, di cui infatti furono perseguitati
diversi membri.
Dal 182 al 185 d.C. il potere venne detenuto di fatto dal prefetto del pretorio
Tigidio Perenne , ucciso nel 185 d.C. e sostituito dal liberto Cleandro , che nel
189 d.C. riuscì ad accedere all’ordine equestre e a farsi nominare prefetto del
pretorio senza aver percorso le precedenti tappe.
Cleandro rappresentava la nuova supremazia del palazzo sullo Stato:
approfittò del disinteresse di Commodo per l’amministrazione per svendere
le magistrature e il titolo di console.
Inoltre il potere centrale, per sopperire alle folle spesi di Commodo per
spettacoli e giochi offerti alla plebe, fu costretto a sequestrare i beni dei
processati per tradimento.
A determinare la caduta di Cleandro fu una grave carestia ne 190 d.C.; il
liberto venne offerto alla plebe come capro espiatorio.
Tra il 190 e il 192 d.C., anno in cui venne assassinato, Commodo lasciò il
potere in mano ad un cortigiano, Eclecto, e al prefetto del pretorio Leto, che
dissiparono definitivamente le finanze dello Stato.
Ulteriori segni di inquietudine giunsero a seguito del mancato pagamento
delle truppe, che cominciarono a fremere contro il sovrano; anche all’interno
della domus principis vi era un forte dissenso.
Sotto il principato di Commodo avvennero tuttavia alcuni importanti
fenomeni di aggregazione della cultura provinciale, specialmente per quanto
riguarda l’ingresso di divinità straniere nel pantheon: Magna Matern entrò
nel 188 d.C. e venne nominata protettrice dell’Impero; il dio del sole siriano
Mitra (Iuppiter Dolichenus); Serapide divenne protettore della flotta.
Questa atmosfera sincretica fece sì che intorno a Commodo si sviluppasse
una sorta di carisma divino, a tal punto che lui stesso si propose come
divinità in terra.
Questo tipo di atteggiamento andava ad aumentare il dissenso del senato, che
dipinse Commodo come il peggiore dei tiranni, nemico di Roma e del senato,
un depravato sanguinario su cui si dovette calare la damnatio memoriae.

4.8 L’ECONOMIA ROMANA IN ETÀ IMPERIALE

Una delle caratteristiche principali dell’economia dell’Impero Romano è


senza dubbio l’eccezionale fabbisogno alimentare di Roma, città che merita
l’appellativo di ‘’megalopoli’’.
Un sesto della popolazione della penisola italiana risiedeva a Roma, gli altri
centri erano infinitamente più piccoli; una città media come Pompei contava
al massimo 25.000 abitanti.
Il servizio annonario per la capitale, la cui gestione era affidata ad un prefetto
di rango equestre (il praefectus annonae, dell’approvvigionamento), fu la
causa della più rilevante circolazione di merci nel Mediterraneo.
I viveri essenziali per il sostentamento della capitale erano il grano, il più
importante bisogno primario, il vino, il pane, l’olio e la carne di maiale; il
grano proveniva soprattutto dall’Egitto e dall’Africa Settentrionale, mentre
l’olio dalla Betica (provincia più a Sud dell’Italia).
Il fabbisogno di vino per Roma in età imperiale è stato oggetto di diverse
stime e tentativi di calcolo; secondo una stima attendibile, nel I secolo d.C.,
essa sarebbe ammontato a un milione e mezzo di ettolitri.
Questa quantità non era ottenibile dai soli vigneti tirrenici, quindi altri si
guardava anche ad altre zone la Gallia su tutti; con il vino viaggiavano anche
altri beni di consumo.
Il fabbisogno di grano, secondo stime accreditate, per una popolazione di un
milione di abitanti, si aggirava attorno ai 200kg pro capite: il totale era di
almeno 200.000 tonnellate ogni anno, a fronte di un consumo di 300.000
tonnellate annuali.
Le aree di provenienza del grano erano diverse rispetto a quelle del vino;
ovviamente la quantità importabile di grano dipendeva in primo luogo
dall’andamento dei raccolti.
Si deve prescindere, per il mondo antico, dalla distinzione tra beni primari e
di lusso, bisogna piuttosto considerare la vasta gamma di beni di cui vi era
necessità nel mondo antico.
Il commercio su vasta scala fece sì che anche le province fossero sollecitate
alla produzione commerciale.
Le rotte per terra erano molto costose, motivo per cui erano particolarmente
utilizzate le rotte marittime: si deve dunque comprendere come le linee di
commercio siano determinate dalla collocazione dei mercati e dei centri di
produzione in grado di rifornire Roma.
L’apparato statale fu un importante incentivo per la circolazione dei beni e la
loro produzione.
La spesa maggiore era causata dall’esercito: una compagine armata
permanente obbligava a dirottare una grande quantità di derrate e manufatti.
A metà del I secolo d.C. la forte presenza delle province sul mercato italico è
fuori discussione, risulta piuttosto problematico cercare di comprendere se
ciò sia stato il risultato di una crisi dell’agricoltura italiana; difficile credere
che si sia trattato di una crisi, sembra piuttosto ipotizzabile un boom nella
produzione del vino.
Nelle province si realizzò, attraverso l’urbanizzazione e la monetazione, un
incremento del mercato a spese dell’autoconsumo.
L’intensificazione delle culture e la loro specializzazione sono riconducibili
alla diffusione del sistema della villa, che però in Oriente non basò il suo
sviluppo sulla presenza schiavile come in Occidente.
Ovviamente tra le varie aree esistevano numerose differenziazioni, una
propria storia e un proprio sviluppo economico.
La questione legata alla definizione dell’economia romana come quella di una
società precapitalista risulta essere molto delicata: è indubbio però che nel
Mediterraneo, l’unità politica, abbia favorito la formazione di circuiti regolari
di scambi.
Sicuramente dunque le necessità alimentari, soprattutto di Roma, furono
degli elementi propulsivi, ma anche condizionanti, per lo sviluppo delle
economie provinciali.
Il grado di sviluppo conosciuto dall’economia romana ad inizio dell’età
imperiale appare di tali proporzioni che richiede una categorizzazione a se’
stante.
Essa non conosce, a causa di carenze soprattutto tecniche, un livello
effettivamente capitalistico, ma va comunque indicata come una ‘’peculiare
economia preindustriale’’ (sul mancato sviluppo tecnologico del mondo
antico, attribuito soprattutto alla vasta presenza di schiavi, si sono già spese
molte parole).
La documentazione archeologica ha tuttavia sollecitato lo studio dei testi di
agronomia, che documentalo l’utilizzo di sistemi di rotazione idonee a
soddisfare una domanda accresciuta.
Nel mondo romano ‘’l’invenzione’’ aveva poche probabilità di essere
perseguitata e di trovare applicazione, l’innovazione, finalizzata a modificare
i modi di produzione al fine di renderli più efficienti e meno costosi era
sicuramente percepita.

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