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1) L’UTOPIA DEL CLASSICO TRA RIVOLUZIONE E

IMPERO

1. DALLE REPUBBLICHE GIACOBINE AI REGNO NAPOLEONICI

Ad inizio Ottocento la società e la cultura italiana sono influenzate dalla


Rivoluzione Francese (1789), che ha come prima conseguenza il conflitto tra
la nuova Francia repubblicana e le potenze monarchiche (Russia, Prussia,
Austria e Gran Bretagna).
Nel 1796 il generale Napoleone Bonaparte (1769-1821) entra in Italia al
comando dell’Armée d’Italie, la cui venuta causa la sostituzione dei sovrani e
degli oligarchi degli antichi Stati italiani e la formazione delle cosiddette
‘’repubbliche sorelle’’.
L’illusione di un riscatto nazionale ha però vita breve: con il trattato di
Campoformio (1797) Napoleone cede all’Austria la Repubblica di Venezia,
causando lo sconcerto dei patrioti veneti come Foscolo.
Nelle repubbliche francesi sono aboliti titoli e privilegi nobiliari, e sono anche
incamerati i beni della Chiesa; ciò comunque non determina un processo di
ristrutturazione sociale.
Il ‘’triennio giacobino’’ termina nel 1799 con la calata dei Russi in Italia: le
repubbliche francesi cadono e comincia la repressione dei democratici, che è
durissima soprattutto nella napoletana Repubblica Partenopea.
Gli esuli napoletani si muovono allora verso l’Italia del Nord e l’Europa,
portando con loro le idee e le riflessioni dell’Illuminismo meridionale, ma
soprattutto la filosofia storicista di Gianbattista Vico (1668-1744).
Nel 1804 Napoleone diventa imperatore dei Francesi e nel 1805 crea il Regno
d’Italia, stringendo così ancora di più il cordone che lega la penisola alla
Francia, isolandola di fatto dal resto d’Europa.
La successiva sconfitta di Napoleone, sancita dalla battaglia di Waterloo
(1815), apre in tutta l’Europa continentale l’epoca della Restaurazione.

2. I LETTERATI TRA IMPEGNO E PROPAGANDA

La letteratura del triennio giacobino (1796-1799) non si allontana dal pubblico


dei borghesi/notabili e dallo stile neoclassico, e nemmeno dal primitivismo
alla Ossian.
La nuova stagione politica favorisce lo sviluppo di una poesia civile, che si
ispira all’esempio delle virtuose repubbliche antiche: Atene, Roma, Sparta.
La vera rottura si trova nella condizione sociale dei letterati: scompare per
sempre la figura del ‘’letterato di corte’’, gli intellettuali sono ora costretti a
trovarsi un impiego, cosa in cui sono aiutati dallo sviluppo
dell’amministrazione pubblica.
La libertà di stampa e di associazione offrono ai giovani letterali anche la
nuova prospettiva dell’intellettuale militante, che sulla scorta dei modelli
Parini e Alfieri, rivendicano la capacità delle lettere di dare giudizi morali su
storia e politica.
Questa è anche la stagione della fioritura dei giornali, soprattutti di quelli di
natura politica, destinati a scomparire con la caduta delle repubbliche e con il
successivo dominio napoleonico.
I governi cercano comunque l’appoggio degli intellettuali, che sono utilizzati
come funzionari, utili a legittimare il potere costituito; a dominare questa
categoria è Monti, ‘’poeta e istoriografo’’ del Regno d’Italia.
Il declino vissuto da Venezia e Napoli fa si che sia Milano ad assumere il
ruolo di capitale culturale del paese: qui si verifica un notevole slancio
dell’industria tipografica e libraria, testimoniata dal progetto del 1802 della
Società Tipografica de’Classici, che pubblica le opere ‘’de’geni italici’’.
Nonostante il ruolo verticistico di Milano, capitale del Regno e sede dei vari
ministeri, l’Italia continua a rimanere frazionata politicamente.

3. LINGUA, CULTURA E GUSTO ‘’STILE IMPERO’’

Nel periodo 1796-1814 si deve constatare la notevole influenza del francese


sulla lingua italiana, che era già forte nel XVIII secolo.
Contro l’utilizzo e l’aumento dei francesismi si scaglia l’abate Antonio Cesari
(1760-1828), che propone di allargare il Dizionario della Crusca inserendo una
terminologia proveniente dai volgari antichi e dalle scritture pratiche e
devote del Trecento.
Cesari propone il ritorno ad ‘’un’ingenua spontaneità originaria’’, che non sia
contaminata dalla civiltà e dalla cultura razionalista illuministica, di cui
Cesari (credente e conservatore) è un eversore.
I legami politico-amministrativi con la Francia fanno sì che l’Italia si ponga in
relativo isolamento rispetto al mondo tedesco e a quello inglese, dove in
quegli anni veniva elaborata la nuova esperienza del Romanticismo.
Solo nel 1816 l’Italia si troverà a fare i conti con questa nuova cultura, che
mette in crisi quel codice neoclassico basato sui modelli greco-latini di cui si
era appropriato anche Napoleone nell’elaborazione del cosiddetto ‘’stile
impero’’, esemplificato alla perfezione dai lavori dello scultore di Antonio
Canova (1757-1822).
L’isolamento culturale italiano era aggravato dalla scarsa conoscenza del
tedesco, che ostacolò la diffusione dell’idealismo; si diffuse nella penisola il
sensismo francese, secondo cui l’intera attività psichica dell’uomo si forma
interamente sulla base della sensazioni fisiche e della loro combinazione.
La produzione letteraria non si distacca da premesse neoclassiche, dal gusto
per le celebrazioni e la grandiosa solennità della Roma imperiale: una
tendenza che spiega quella divaricazione, di cui parla Foscolo, tra ‘’letteratura
alta’’, rivolta a pochi ‘’letterati’’, e la produzione narrativa in prosa per un
pubblico medio, ossia a metà tra la vetta e l’enorme massa degli analfabeti.
Per ottenere uno stabile successo letterario è necessario l’appoggio di critici
ed intenditori, che lodano soprattutto l’esercizio della poesia.
Si impone infine un canone neoclassico, che segue i modelli letterari ed il
repertorio mitologico greco-latino, che restano punti di rifermento estetici
fondamentali.
La scena letteraria è dominata da Monti e Foscolo, personaggi vicini eppure
antitetici nell’ambito della carriera.
Monti conquista il vertice letterario con le sue eccezionali capacità tecniche e
la capacità di assecondare il gusto; Foscolo invece sceglie di seguire la strada
dell’intellettuale militante ed indipendente, divenendo spesso un dissidente e
facendo sempre più fatica a riscuotere consenso unanime.
A Foscolo va attribuito il merito di aver proposto anche una gerarchia dei
generi letterari neoclassici, che vede al fondo romanzo e novella (destinati
all’intrattenimento e all’eduzione del lettore meno letterata), mentre sulla
cima ‘’la storia, l’eloquenza, la tragedia, la lirica sublime e l’epopea’’, ossia i generi
dell’Antichità greco-latina, riservati ai letterati ‘’alti’’, come Monti.

4. MONTI, CUOCO E GIORDANI: IL CANONE NEOCLASSICO

La carriera del romagnolo Vincenzo Monti (1754-1828) inizia nel 1797, anno
in cui abbandona la corte papale per spostarsi a Milano.
Monti aveva già raggiunto la fama con il poema In morte di Ugo Basville
(1793), a cui segue una fase di celebrazione della Rivoluzione, in cui emerge
sempre la sua eccezionale abilità tecnica.
Egli elabora una lingua alta, fatta di eleganti gioielli verbali che arricchiscono
la ‘’bellezza ideale’’ dei testi canonici.
La produzione di Monti risente però soprattutto delle vicende politiche: egli
abbandona l’ambizioso poema in onore di Napoleone, Il bardo della selva nera
(1806), per dedicarsi alla traduzione dell’Iliade.
Si tratta senza dubbio del lavoro più celebre, portato avanti tra il 1806 e 1810
sulla base di una traduzione dalle versioni in latino del poema omerico, che
gli permettono, differentemente da Foscolo che traduce dal greco, di costruire
una lingua graziosa, fluida e armonica.
L’Iliade di Monti diventa subito un classico in tutta Europa, venendo lodata
anche dalla romantica Madame de Staël, che definisce Monti ‘’il primo poeta
d’Italia’’.
Caduto Bonaparte, il rientrato governo austriaco affida a Monti la stesura di
inni per il ritorno degli antichi sovrani (Il ritorno di Astrea, 1816) e la direzione
della rivista ‘’Biblioteca Italiana’’, concepita per riguadagnare il supporto
degli intellettuali.
Si ritira dopo poco per dedicarsi alla questione della lingua: nella Proposta di
alcune correzioni ed aggiunte al vocabolario della Crusca (1817-1826) Monti cerca
di superare il purismo di Cesari e si propone di conciliare lo stile neoclassico
con le moderne esigenze di comunicazione.
Quindi si parla di un uso moderato del lessico tecnico-scientifico e del ritorno
all’italiano al massimo del suo fulgore, ossia nella sua fase cinquecentesca.
Nel Sulla Mitologia (1825) Monti tenta di rilanciare la poesia del mito greco-
latino, opposta alla ‘’audace scuola boreal’’ romantica, che aveva puntato invece
sulla mitologia scandinava.
L’ultimo lavoro è la canzone Pel giorno onomastico della mia donna (1826), più
vicina al classicismo moderno, introspettivo e sentimentale di Leopardi in
Alla mia donna.
Monti, per il suo opportunismo politico, verrà in seguito escluso dal canone
letterario risorgimentale.
Per il teatro, che a quest’altezza in Italia si basa ancora sul principio delle tre
unità aristoteliche (spazio, tempo, luogo), si deve fare il nome di Gioacchino
Rossini (1792-1868).
La tragedia di argomento alfieriano, caratterizzata da personaggi lacerati da
contraddizioni insanabili, è ancora molto apprezzata da pubblico e critica.
In storiografia si impone il lavoro di Vincenzo Cuoco (1770-1823), autore del
Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli (1801), pubblicato a Milano.
Nell’opera, che conosce una fortuna notevolissima e che viene tradotta quasi
subito in tedesco e francese, è ispirata nello stile ai lavori dei grandi storici
dell’Antichità (Polibio, Plutarco, Tucidide).
La spiegazione che Vico offre del fallimento della Partenopea, colpevole di
essere figlia di una ‘’rivoluzione passiva’’ e incapace di rendere i propri ideali
‘’popolari’’, fa leva anche sul realismo politico di Machiavelli e sullo
storicismo vichiano.
Il Saggio storico divverrà in seguito uno dei testi fondamentali del moviemnto
unitario; meno fortuna avrà l’opera successiva, il Platone in Italia (1804 e
1806), in cui Cuoco finge di aver tradotto un manoscritto platonico in cui si
racconta di un viaggio del filosofo in Italia, nel corso del quale egli avrebbe
scoperto la ‘’grande civiltà italica preromana’’.
Il primato nell’ambito della saggistica e dell’eloquenza oratoria è invece da
assegnare all’ex-monaco piacentino Pietro Giordani (1774-1848), autore del
Panegirico delle imprese di sua maestà Napoleone il Grande (1804), opera in prosa,
basata su dettami neoclassici, in cui si loda la legislazione riformatrice
napoleonica.
La produzione di Giordani lascia un senso di incompiutezza, dovuta alla
tendenza all’insoddisfazione dell’autore, incaapce di andare oltre i dettami
di perfezione classicisti e di scrivere opere di largo respiro.
Molto più interessante è la sua opera nell’ambito della critica: scrive saggi
sulla letteratura contemporanea e persino sull’arte.
Dopo essere stato cacciato dallo Stato Pontificio si reca a Milano, dove lavora
presso la Biblioteca Italiana, da cui però si dimette in quanto in contrasto con il
governo austriaco.
Nel 1817 conosce Leopardi e ne intuisce le potenzialità letterarie, che ne fanno
per il Giordani, il ‘’perfetto scrittore italiano’’.
Negli anni Venti si trova a Firenze per collaborare all’Antologia del conte Piero
Vieusseux (1779-1863) nonostante sia di simpatie atee.
Negli ultimi anni si dedica alla stesura di lettere aperte semiclandestine in cui
propugna posizioni morali e denuncia empietà, come i maltrattamenti influtti
agli allievi delle scuole religiose.
La sua prosa sarà nel decenni successivi utile per Carducci nel suo recupero
del classicismo.

5. UGO FOSCOLO: L’IO, LA RIBELLIONE E IL MITO

Niccolò Ugo Foscolo (1778-1827) nasce sull’isola greca di Zante, allora parte
del territorio della Repubblica di Venezia.
Alla morte del padre la famiglia Foscolo si trasferisce a Venezia, dove Ugo
riceve un’educazione umanistica e si avvicina alla letteratura di Ossia, Parini,
Alfieri; qui incontra anche il primo amore, l’aristocratica Isabella Teotochi
Albrizzi, che lo introduce nel suo salotto letterario.
La vocazione letteraria lo porterà ad iscriversi all’Università di Padova, dove
frequenta le lezioni di Melchiorre Cesarotti (1730-1808) ed entrerà in contatto
con gli ideali democratici e giacobini.
L’esordio letterario arriva con la tragedia Tieste (1796), che però riceve la
fredda accoglienza del pubblico veneziano, sospettosa delle simpatie frencesi
di Foscolo.
I sospetti lo spingono a spostarsi a Bologna, dove assiste al precipitare degli
eventi e al tradimento napoleonico di Campoformio, che segnerà in maniera
irrimediabile la vita di Foscolo, passato a posizioni democratico-nazionaliste.
Assunta di fronte al mondo la figura di scrittore indipendente, egli continua
a presentarsi come ‘’figlio della Rivoluzione’’ e si arruola nell’esercito della
Repubblica Cisalpina, combattendo contro gli eserciti austro-russi.
Quelli del triennio giacobino sono per lui anni di attività politico-letteraria
frenetica, ma scanditi anche dalle numerose storie d’amore.
Amore e vocazione politico-letteraria si intrecciano nel romanzo epistolare
Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802, edizioni definitive nel 1816-1817), ispirato
dai Dolori del giovane Wether (1774) di Johann Wolfgang Goethe (1749-1832).
Alla trama amorosa tra Jacopo e Teresa, che segue il modello goethiano,
l’autore aggiunge l’elemento politico, che rappresenta una notevole novità.
Il testo è una raccolta delle lettere del protagonista Jacopo, curata dal migliore
amico Lorenzo Alderani.
Jacopo, giovane veneziano di opinioni democratiche ricercato dagli Austriaci
dopo Campoformio, si innamora di Teresa (che lo ricambia), che però il padre
ha promesso al conservatore Odoardo.
Jacopo allora compie un viaggio per l’Italia, constatando le ingiustizie e le
contraddizioni dei nuovi governi repubblicani; al suo ritorno scopre che
Teresa ha sposato Odoardo, cosa che lo spinge a suicidarsi con una lama
come gli eroi dell’Antichità.
L’opera di Foscolo riesce ad andare oltre il canone neoclassico, riuscendo non
solo ad arrivare ad un pubblico più grande senza rinunciare al neoclassico
raggiungimento del sublime, ma anche a produrre uno scambio tra vita
(Teresa è ispirata dall’amata Antonietta Fagnani Arese) e letteratura.
Nella prosa dell’Ortis è possibile cogliere l’eco di poesie antiche e moderne,
della Bibbia, di Rousseau e anche di Ossian, che si combinano nel ‘’concerto di
dissonanze’’ prodotto da Foscolo attraverso periodi spezzati e disarmonici,
ellissi, esclamazioni e su quegli accostamenti paratattici usati dal Cesarotti
per tradurre la poesia primitiva di Ossian; presente, ma non troppo al fine di
non abbassare il livello letterario, il registro realistico.
Sul fronte politico il personaggio di Jacopo Ortis è una metafora della crisi
prodotta dal disvelamento delle illusioni rivoluzionarie e patriottiche, che
hanno fatto posto ad una hobbesiana lotta di tutti contro tutti.
In un mondo su cui non è possibile intervenire non resta che coltivare l’arte,
la letteratura, la bellezza e l’amicizia, che elevano l’uomo dalla squallida
realtà.
Alla fredda ragione si contrappongono le ‘’generose passioni’’: un tema,
quello della squalifica della razionalità a favore del sentimento, che diverrà
portante nel Romanticismo.
Foscolo però va anche a idealizzare il proprio ritratto attraverso Jacopo, la
cui esigenza di assolutà libertà si contrappone alla negatività del presente
storico e al conformismo dei privati (il matrimonio tra Teresa ed Odoardo).
L’Ortis è soprattutto il racconto dell’insanabile conflitto tra l’ingiustizia del
mondo e la nobiltà dell’eroe, che usa come gli antichi stoici il suicidio come
mezzo per affermarsi.
Il romanzo ottiene un successo davvero notevole, riuscendo ad andare oltre la
qualifica letteraria del genere.
Nel 1803 esce la raccolta di Poesie, dodici sonetti e due odi, caratterizzata dalla
ricerca di perfezione formale e dalla ripresa del modello di Parini, capace
però anche di dare nuova vita al repertorio mitologico neoclassico.
Nei Sonetti le figure del mito e gli echi dei poeti antichi si fondono con
l’espressione lirica dell’io e le sue vicissitudini biografiche ed esistenziali: il
suicidio del fratello, l’origine greca, l’esilio da Venezia.
Nei Discorsi introduttivi alla sua traduzione del poemetto ellenistico La chioma
di Berenice (del poeta alessandrino Callimaco, III secolo a.C.) Foscolo chiarisce
la propria poetica.
Rifacendosi allo storicismo vichiano egli spiega che a differenza della poesia
antica, non intaccata dalla ragione, la poesia dei moderni deve riuscire a
‘’colpire il cuore e la mente’’ con il meraviglioso tratto dalla mitologia greca, che
custodisce un patrimonio universale apprezzato e compreso da tutti.
Con il consolidarsi del potere napoleonico, Foscolo decide di tentare di nuovo
la carriera militare, senza però celebrare la cultura ufficiale come invece fa
Monti, con cui ha buoni rapporti.
Nel 1807 esce il carme Dei Sepolcri, la massima espressione della poetica
foscoliana.
Il carme nasce a partire dalla discussione con Ippolito Pindemonte (1753-
1828) sull’editto napoleonico che stabilisce l’impossibilità di seppellire i morti
dentro le città.
Il testo di Foscolo va oltre il semplice lamento elegiaco che caratterizza la
poesia sepolcrale tardosettecentesca di Thomas Gray ed Edward Young, per
aprire una riflessione etica e filosofica sul ruolo del culto dei morti.
Scritta in endecasillabi sciolti secondo l’uso classicista, il testo è caratterizzato
dalla difficoltà nella lettura, dovuta principalmente alla densità di significati.
Il carme è divisibile in quattro momenti:

1) L’importanza privata, affettiva e morale delle tombe, conservatrici della


memoria delle persone oneste, permettendo una ‘’corrispondenza d’amorosi
sensi’’ con chi le ha amate e stimate in vita.

2) Legame tra il culto dei morti e la nascita del legame sociale: alla tenebrosità
del culto cristiano-medievale della morte si contrappone la luminosità delle
tombe degli antichi e dei moderni (il ‘’perenne verde’’).

3) La funzione civile e politica delle tombe, che possono ispirare gli uomini
in vita alle grandi imprese; arriva la lode di Santa Croce a Firenze, dove sono
seppelliti i grandi italiani.

4) La trasmissione della memoria permessa dai sepolcri è associata al ruolo


eternatore della poesia, in primis quella di Omero, che da ‘’onore di pianti’’
anche ai vinti.

Questa struttura argomentativa è addensata da un ricorrente ricorso al mito,


alle descrizioni e ad episodi storici (come la battaglia di Maratona).
Nel carme la lirica filosofica tenta di raggiungere il sublime neoclassico: a
paesaggi idilliaci e sentimenti delicati si contrappongono dunque distese
selvagge e feroci battaglie.
Queste immagini sono legate tra di loro in maniera serrata, eppure la
trasizione da una scena all’altra è improvvisa; Foscolo volutamente cerca di
rifarsi allo stile elevatissimo degli Epinici di Pindaro (518-438 a.C.).
Il repertorio mitologico è insomma calato nel presente, in cui può ancora
dunque assumere un significato.
La poesia assume il compito di resistere alla potenza distruttrice della natura,
andando a tramandare le illussioni (etica e civiltà), assumendo così il ruolo
di valore supremo per un’umanità senza speranza.
I poeti divengono così dei legislatori morali, assumendo il ruolo degli antichi
sacerdoti laici e dei profeti.
I Sepolcri sanciscono in qualche modo la nascita del ruolo civile dello scrittore
indipendente dal potere; essi avranno anche un clamoroso successo grazie
alla loro funzione nazionalista.
Nel 1808 Foscolo ottiene grazie all’aiuto di Monti la cattedra di eloquenza
presso l’Università di Pavia, tuttavia dopo solo un anno il suo insegnamento,
iniziato nel 1809, è soppresso.
Da quest’esperienza nasce però il Dell’origine e dell’ufficio delle letteratura, in
cui si riflette sul ruolo dello scrittore, che assume una posizione intermedia
tra i pochi ‘’signori’’ e la moltitudine dei ‘’servi’’.
Nel 1811 la sua tragedia Ajace viene censurata in quanto il governo la ritiene
anti-napoleonica, viene anche espulso dal Regno d’Italia.
Nel 1812 si sposta a Firenze dove traduce il romanzo umoristico-sentimentale
Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l’Italia dello scrittore inglese
Lawrence Sterne (1713-1768) attribuendo però il lavoro al suo nuovo alter
ego Didimo Chierico, che si pone in totale antitesi con il suo predecessore
Jacopo Ortis.
Nella Notizia intorno a Didimo Chierico, in appendice alla traduzione, troviamo
un personaggio figlio della disillusione della maturità e molto più attento
alla realtà quotidiana, che viene vista anche attraverso una prospettiva molto
più umoristica.
Caratteristiche in realtà presenti anche nell’incompiuta autobiografia Sesto
tomo dell’io.
Nel 1812 Foscolo inizia la stesura della sua opera più ambiziosa: Le Grazie.
Mentre l’Europa è nuovamente travolta dalla guerra, Foscolo propone un
rifugio dal ‘’delirar di battaglie’’, facendo leva sulla potenza civilizzatrice dell’
arte.
Lo stile e la struttura narrativa sono quelli dei Sepolcri, ma l’energia del testo
stavolta si concentrano di più su una serena compostezza e sulla ricerca dell’
eleganza, per avvicinare i versi alle sculture di Canova.
Attigendo al pensiero di Vico, si vuole tracciare una storia ideale della civiltà
umana, attraverso la diffusione delle arti dalla Grecia classica all’Italia
moderna.
Foscolo punta a rievocare il fascino immediato degli antichi Greci attraverso
tre inni:

1) Nel primo si parla della nascita delle Grazie, voluta da Venere per placare
gli istinti bestiali degli uomini.

2) Un rito propiziatorio alle tre dee celebrato a Firenze da tre donne amiche
del poeta.

3) La fuga delle Grazie nell’isola di Atlantide per sottrarsi ai desideri impuri


e dedicarsi alla tessitura del velo miracoloso, che presenta immagini dei
sentimenti più scari e che proteggerà le dee al momento del loro ritorno tra
gli uomini.

Nel testo di Foscolo si note un uso insistente dell’allegoria, come mezzo per
ricreare la bellezza assoluta dell’antico; si può parlare di una cosmogonia
poetica all’altezza di quelle eleborate dai vari Hölderlin, Goethe, Keats,
Shelley.
Al crollo dell’Impero Napoleonico Foscolo è tra colo che tentano di tenere in
vita il Regno d’Italia, motivo per cui le autorità austriche, desiderose di
ottenere il supporto degli intellettuali, gli offrono nel 1815 la direzione della
Biblioteca Italiana, che però Foscolo rifiuta.
Si reca allora dapprima in Svizzera ed in seguito in Inghilterra, a Londra: qui
gode di notevole fama, ma il suo comportamento estraneo ai codici della
nobiltà inglese gli rende del tutto impossibile integrarsi.
Anche il rapporto con gli altri esuli italiani e i letterati locali è molto difficile a
causa della sua dichiarata ostilità al Romanticismo; nel frattempo il suo stile
di vita lussuoso lo riduce velocemente in miseria.
Le condizioni avverse gli impediscono di lavorare con continuità alle Grazie e
alla traduzione dell’Iliade, cominciata in parallelo con Monti; più ampia è la
produzione in prosa.
Nelle Lettere scritte dall’ Inghilterra mette a confronto la civiltà inglese con
quella italiana, ma scrive anche saggi sulla letteratura italiana, su quella più
recente, su Dante, Petrarca, Boccaccio e sul poema cavalleresco.
La critica foscoliana risente senza dubbio dell’impostazione filosofica
mutuata da Vico e dai sensisti.
Dai sensisti ricava l’idea che la letteratura offra al lettore il ‘’piacere di
moltiplicare sensazioni ed idee’’; da Vico riprende invece la concezione storica
e antropologica della poesia, che lo conduce a collocare i vari autori entro il
loro tempo storico.
I saggi di Foscolo su Dante avranno nel corso dell’Ottocento particolare
fortuna, e anche i saggi sulla letteratura contemporanea rappresentano una
fonte notevole in quanto scritti da una persona a conoscenza dei meccanismi
del mondo letterario.
Da questi ultimi si ricavano ancora utili informazioni sulla geografia dei
centri culturali ed editoriali e sul rapporto tra il sistema dei generi e la
composizione sociale del pubblico.
Dopo la sua morte nel 1827, la figura di Foscolo assume un ruolo realmente
impressionante nell’immaginario delle generazioni risorgimentali, a tal punto
che nel 1871 i suoi resti sono traslati nella Chiesa di Santa Croce a Firenze.
Foscolo ottine così la canonizzazione laica da parte di quella religione civile
del patriottismo di cui si era fatto promotore e su cui l’Italia postunitaria
proverà a fondare la sua nuova identità collettiva.
2) LA SVOLTA ROMANTICA SOTTO LA
RESTAURAZIONE (1816-1840)

1. LA RESTAURAZIONE E I SUOI NEMICI

Dopo la definitiva sconfitta di Napoleone, le potenze vincitrici si riunirono


nel Consiglio di Vienna (1814-1815) per ridefinire gli assetti geopolitici del
continente e ristabilire le monarchie assulute basate sull’investitura divina.
Si operò ovunque il restauro dei sovrani che erano stati cacciati del furore
rivoluzionario (anche se non fu sempre così, si vede Venezia, che fu annessa
all’Austria) e si affidò la tutela del nuovo ordine alla ‘’Santa Alleanza’’, in cui
figuravano Austria, Prussia e Russia, ossia le potenze della Restaurazione.
In tutta Europa crescono la censura della stampa e la repressione degli
oppositori, mentre cala il peso politico della borghesia.
L’Italia è di nuovo frazionata in diversi Stati e viene nuovamente imposto un
protezionismo economico che rallenta la crescita economica italiana.
Nel continente oltre alle idee liberali emergono anche le ‘’identità
nazionali’’; anche in Italia imprenditori e proprietari terrieri premono per
l’unificazione del paese e per il superamento del protezionismo.
L’opposizione ai governi restaurati è guidata da associazioni segrete, come la
Carboneria, che entra in azione sia nel corso dei moti del 1820-1821 che in
quelli del 1830-1831, che però in Italia vanno in contro alla disfatta a causa
dell’intervento austriaco.
Solo nel mondo sudamericano, in Francia (dove sorge la monarchia liberale e
costituzionale di Luigi Filippo d’Orleans), in Grecia e in Belgio le rivolte
hanno successo.
Il fallimento della Carboneria fa sì che sorgano anche nuove società
nazionaliste, come la democratica Giovine Italia, fondata nel 1831 a
Marsiglia da Giuseppe Mazzini (1805-1872).

2. LA CULTURA ALL’OPPOSIZIONE

Questi anni di rivolte represse nel sangue sono caratterizzati in Italia


dall’allenaza tra il potere politico e la Chiesa cattolica.
Domina quasi ovunque la censura (più tollerante in Toscana), le università
decadono, crolla l’istruzione pubblica laica e torna dominante quella affidata
agli enti ecclesiastici, i livelli di alfabetizzazione restano bassissimi.
Si deve poi ricordare la situazione di precariato vissuta dagli intellettuali, che
dopo il crollo delle istituzioni napoleoniche si vedono privati di numerosi
sbocchi lavorativi, eccetto l’attività editoriale e l’insegnamento privato.
La penisola rimane policentrica culturalmente, anche se Milano, come nella
stagione precedente, resta il centro apicale, la sede della prima moderna
idustria editoriale in Italia.
Qui nasce la figura del letterato di professione, che deve il suo benessere
economico al successo delle proprie opere e all’attività giornalistica.
Sempre a Milano alcuni giovani romantici lanciano nel 1816 un attacco alla
tradizione classicista, rappresentata dalla filogovernativa Biblioteca Italiana, e
fondano la rivista Il Conciliatore nel 1818, che si ispira al settecentesco Caffè e
che riprende da esso l’idea di ‘’utilità generale’’, ma che afferma anche di
volersi rivolgere non solo ai ‘’dotti’’, ma ad un ‘’ampio pubblico giudicante’’.
A contendere il ruolo di egemone a Milano è Firenze, dove l’eredità del
Conciliatore (chiuso nel 1819) viene raccolta dall’Antologia, fondata dal gruppo
facente riferimento al già citato Vieussieux.
La rivista, di chiara ispirazione liberale, resta attiva dal 1821 al 1833, quando
viene costretta alla chiusura dall’Austria, sempre più repressiva dopo i moti
del ‘30/’31.
Tra i collaboratori dell’Antologia meritano di essere menzionati Niccolò
Tommaseo e Giuseppe Montani (1789-1833).
A Roma prevalgono invece l’antiquaria e un clima classicista e conservatore,
in cui lo Stato Pontificio combatte ogni forma di innovazione.
La rete dei centri culturali italiani si estende anche all’estero: nella rete
formata dalle città di Parigi, Londra, Bruxelles e Ginevra agiscono diversi
esuli, che stampano e vendono a basso prezzo le opere italiane più importanti
del periodo (come i Promessi Sposi).

3. POETICHE ROMANTICHE E INNOVAZIONI LETTERARIE IN EUROPA

Tra fine Settecento e inizio Ottocento in Europa si sviluppano nuove forme di


sensibilità e gusto che si scagliano contro la razionalità illuminista,
opponendole la forza dei sentimenti e la dimensione religiosa.
Questo tipo di esperienze vengono riunite dalla critica nel filone, impossibile
da definire univocamente (in quanto molto differente a seconda dei diversi
contesti), del Romanticismo.
Le premesse di questo sono poste alla metà del XVIII secolo in Germania e
Inghilterra, dove si sviluppa un filone talvolta indicato col nome di ‘’Pre-
Romanticismo’’, a cui vengono ascritti i generi del romanzo gotico, della
poesia sepolcrale e l’esperienza dei Canti di Ossian dello scozzese James
Macpherson (1736-1796).
Queste tendenze sono rielaborate in Germania dal più importante degli
allievi di Kant, ossia Johann Herder (1744-1803), il quale si avvale di un
approccio storico-genetico alle opere del passato.
Per Herder il valore di una cultura dipende dalla sua originalità e dalla sua
capacità di esprimere il ‘’Volkgeist’’, lo ‘’spirito del popolo’’, ossia il carattere
profondo della nazione.
Le sue posizioni sono riprese da una serie di giovani autori che creano una
nuova tendenza letteraria, in seguito chiamata ‘’Sturm und Drang’’ (‘’tempesta
e impeto’’).
A questo filone si ascrivono le monumentali figure di Goethe e di Friedrich
Schiller (1759-1805), che scrivono romanzi e soprattutto tragedie d’isprazione
shakespiriana senza rispettare i principi di unità aristotelica.
Gottfried Burger (1747-1794) fa invece rivivere le leggende spettrali del
medioevo nel nuovo genere della ballata narrativa: la Leonora (1774) ed il
Cacciatore feroce (1778).
Queste tendenze convivono inizialmente con i principi illuministici e
classicisti, con i quali arrivano all’inevitabile scontro solo dopo il 1789,
quando la fase del Terrore mette in evidenza le contraddizioni della ragione
illuminista.
Uno dei promotori della critica a questa è il francese François René de
Chateaubriand (1768-1848), che nel suo Il genio del Cristianesimo (1802) parla
delle ‘’bellezze della religione cristiana’’, tanto svalutata dall’Illuminismo; nel
romanzo René (1802) ritrae invece le inquietudini del suo presente.
La Francia illuminista viene in sostanza scalzata dalla sua posizione di
egemonia intellettuale dalla Germania, dove si assiste a cavallo tra Sette-
Ottocento all’elaborazione della filosofia dell’idealismo.
Con l’opera di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) l’idealismo, nella
sua forma dialettica, arriverà ad imporsi come filosofia dominante in tutto il
continente: nella Fenomenologia dello Spirito (1807) Hegel traccia l’intero
sviluppo storico della civiltà umana (o ‘’spirito’’).
Rifacendosi ad Hegel, Schiller scrive il Sulla poesia ingenua e sentimentale
(1794), in cui raffronta la poesia degli antichi, pura in quanto in diretto
contatto con la natura, e la poesia dei moderni, che ha perso quest’armonia e
che pertanto non può più essere ‘’ingenua’’, ma solo ‘’sentimentale’’.
La poesia romantica non può imitare la natura, ma solo fornirne un ritratto
parziale, a cui però non riesce a rinunciare: la ‘’sehnsucht’’, il ‘’desiderio di
desiderare’’.
Il poeta deve dunque trasformare la sua tensione (streben) verso la natura in
un’aspirazione più alta, che lo porti a cogliere ‘’l’arte dell’infinito’’.
Autori vicini alle idee schilleriane sono riuniti nel Circolo di Jena dai fratelli
August Wilhelm (1767-1845) e Friedrich Schlegel (1772-1829), loro stessi
autori di opere letterarie e teatrali.
I membri del circolo oppongono alla luminosa tradizione greco-latina tutta la
gotica oscurità del Medioevo, ovvero l’epoca in cui ha avuto origine la
poesia sentimentale del moderni, che dunque è ispirata anche dalla fede
cristiana.
L’arte un’attività individuale e non meccanica e sostiene che la differenza tra
l’atemporale poesia degli antichi e quella dei moderni sia che quest’ultima
tende all’infinito.
Nel suo Corso di letteratura drammatica (1811) August Wilhelm Schlegel si
serve di queste considerazioni per aprire la dicotomia classico-romantica,
che ha nel teatro il suo primo terreno di scontro.
Il merito di aver diffuso in Europa le idee dei romanticisti tedeschi si deve
assegnare al Circolo di Coppet (castello vicino Ginevra in Svizzera), riunito
dall’esule politica antinapoleonica Germaine de Staël (1766-1817), il cui
saggio ‘’La Germania’’ (1813) incontra un notevole successo.
L’importante opera di traduzione operata dalla de Staël fa sì che nel resto del
continente le nuove generazioni trovino nelle poetiche romantiche uno
strumento di dissenso.
In Italia e Francia i romantici cercheranno di abbattere le roccaforti classiciste,
mentre in Inghilterra l’adesione al canone romantico non è politica quanto
piuttosto stilistica.
La data incipiale del romanticismo inglese è fissata al 1798, anno in cui
William Wordsworth (1770-1850) e Samuel Taylor Coleridge (1772-1834)
pubblicano le Ballate liriche, arricchite nell’edizione del 1800 dalla Prefazione di
Wordsworth, in cui si propone un’estetica dell’espressione oggettiva.
Temi fin da subito cari all’ambiente romantico inglese sono il soprannaturale,
il mistero e il fantastico; allo stesso tempo però è proprio in Inghilterra che
nasce il mercato editoriale, che favorisce quelo processo di sacralizzazione
del poeta-profeta che si fa portatore di ideali liberali ed egualitari.
L’importanza assunta dalla dimensione individuale determina un’esplosione
della lirica, in cui sempre più importanza hanno le pulsioni dell’io, che
mettono in definitivo secondo piano l’epica e gli aspetti più argomentativi.
Emerge la tradizione popolare, al centro di opere come quella di George
Gordon conte di Byron (1788-1824): Pellegrinaggio del giovane Aroldo (1812) e
Giaur (1813).
Le opere di Byron introducono un nuovo tipo di eroe, travolto dalle passioni
più estreme che sfidano le regole della morale e che sono straziati da colpe
spaventose ed indicibili: è la figura dell’eroe titano/demoniaco, destinato ad
avere enorme successo per tutto l’Ottocento.
Il genere del romanzo arriva invece a dominare nella prosa in quanto molto
libero, mobile e privo di modelli costrittivi.
Lo scozzese Walter Scott (1771-1832) ottiene un successo gigantesco in tutta
Europa con Waverley (1814) e Ivanhoe (1820), che introducono nel continente il
nuovo genere del romanzo storico, capace di unire l’elemento cavalleresco e
medievale degli antichi romance con il la narrazione prosaico-realistica della
novel (l’effetto finale è la creazione di un mondo pittoresco e romantico).
I romanzi di Scott diventano dei bestsellers subito e divengono il modello
dominante per tutta la narrativa europea, solo con la generazione successiva
di romanzieri, quella di Stendhal (1783-1842)/Balzac (1799-1850)/ Dickens
(1812-1870) si cominciano a mettere in mostra anche i risvolti più prosaici e
sgradevoli che caratterizzano il mondo contemporaneo.

4. L’AFFERMAZIONE DEI ROMANTICI IN ITALIA

In Italia la polemica classico-romantica si apre a Milano nel 1816, anno in cui


la Biblioteca Italiana pubblica una lettera di Madame de Staël intitolata Sulla
maniera e utilità delle traduzioni, in cui la donna invita gli intellettuali italiani a
tradurre le poesie romantiche inglesi e tedesche per creare opere scaturite dal
‘’cuore’’.
Alla proposta della de Staël risponde il classicista Pietro Giordani, che
difende il canone classicista e critica la ripresa del Medioevo in quanto età di
superstizioni e pregiudizi: siamo di fronte all’apetura del decennale dibattito
classicista-romantico.
Sono soprattutto giovani scrittori attivi a Milano i primi a presentare se’ stessi
volutamente ‘’romantici’’ in un paese neolatino.
L’aristocratico Ludovico di Breme (1780-1820) scrive dei saggi, ai quali
risponderà Leopardi nel suo Discorso sulla poesia romantica, in cui oppone ai
precetti classicisti il ‘’furor poetico’’ e la forza demonicaca dei personaggi di
Byron.
Il nobile milanese Ermes Visconti (1784-1841), nelle Idee elementari sulla poesia
romantica (1818) uscite sul Conciliatore sistematizza le idee di August Schlegel
e della de Staël, ma prende le distanze dalla rivalutazione del Medioevo.
Ciò che accumuna tutti gli scrittori romantici attivi a Milano è senza dubbio la
comune matrice illuminista, e pertanto la fiducia nel progresso, combinata
però anche con la fede cattolica; elementi che tengono l’Italia distante dalle
ambientazioni oniriche e irrazionali dell’immaginario settentrionale.
Il borghese Giovanni Berchet (1783-1851) sostiene nella sua Lettera semiseria
di Grisostomo al suo figliuolo (1816) che la poesia deve avvicinarsi ora ad un
pubblico intermedio, a metà tra il ‘’parigino’’ (i letterati) e gli ‘’ottentotti’’ (la
plebe).
Per questo egli suggerisce di prendere come modelli le poesie di Burger.
L’offensiva dei romantici porta, nel ventennio 1820-1840, allo sviluppo di una
generazione capace di rinnovare il sistema dei generi e soprattutto capace di
vincere nella disputa coi classicisti in quanto più capace di andare in contro
ai processi di trasformazione della società.
I classicisti partivano da una posizione effettivamente limitante: la letteratura
deve imitare le forme degli antichi, anche se ciò significa limitare il pubblico
che fruisce delle lettere; per i romantici invece è l’esatto opposto: si deve
andare in contro alla mentalità contemporanea.
Sulla scena letteraria si impone Manzoni, considerato il capofila dei romantici
italiani per la sua poesia religiosa e patriottica, che gli permette di assurgere
al ruolo di scrittore ‘’nazionale’’.
Le innovazioni romantiche sono recepite in primis dal teatro, dove crolla la
regola delle tre unità e compaiono ora anche ambientazioni storiche (di età
medievale o rinascimentale), che puntano sull’elemento tragico, patetico e
passionale per coinvlgere il pubblico.
L’autore più celebre e apprezzato è Silvio Pellico (1789-1854), che combina
religiosità e sensibilità patriottica.
Nel melodramma la mediocrità dei librettisti è compensata dal talento
musicale dei compositori, come Gaetano Donizetti (1797-1848) e Vincenzo
Bellini (1801-1835), che attingono alle nuove suggestioni del teatro romantico
e alle scene di vendetta/adulterio delle opere di Scott, Schiller, Byron, che
sono coniugate poi con la tradizione italiana del ‘’bel canto’’.
In poesia le suggestioni leopardiane sono colte da pochi, mentre molto più
successo hanno poeti che puntano sul dialetto e coloro che praticano i generi
della ballata e della novella sentimentale in versi: vale la pena ricordare
Tommaso Grossi (1790-1853) e Berchet, i cui lavori sono caratterizzati da tono
patetico, da ambientazioni pittoresche ed esotiche, dalla figura dell’esiliato
per amor di patria, dal tema dell’amore/della fede/della famiglia.
Nel campo della prosa domina il romanzo storico, in cui si distinguono una
serie di scrittori epigoni del capolavoro manzoniano, che raccolgono dunque
la maggiore attenzione alla ricostruzione storica rispetto a Scott.
In Italia il romanzo storico continua a godere di immenso successo anche
quando ormai in Francia ed Inghilterra esso era già stato relegato in secondo
piano.
La maggior parte di questi lavori è priva di originalità e tende a seguire lo
stesso schema oltre che ad avere per ambientazioni i soliti episodi
rinascimentali/medievali indentificati come esemplari nella lotta per
l’indipendenza.
Questi romanzi, caratterizzati dalla presenza del manzoniano narratore
onniscente, hanno dunque una spiccata funzione propagandistica o di
intrattenimento, di solito canalizzato in un canale privo di varianti.
La svolta repressiva del 1820-1821 garantisce un notevolissimo successo al
genere dei libri di memorie, all’interno del quale svetta il capolavoro di
Pellico Le mie prigioni (1832), in cui vengono raccontati, in modo dimesso e
commosso, le sofferenze da recluso nelle carceri austriache.

5. LA RIVOLUZIONE DIALETTALE: PORTA E BELLI

Dalla parte dei romantici si schiera anche il poeta dialettale Carlo Porta (1775-
1821), continuatore di quella lirica in dialetto milanese che nel Seicento e nel
Settecento si era opposta all’Arcadia e al Barocco.
Porta, borghese, trae i suoi riferimenti dai membri della classe media, dipinta
come pragmatica, disincantata e moderatamente egualitaria.
Nel 1816, al massimo della maturità artistica, disputa con Giordani, che aveva
stroncato il lavoro dialettale di Porta, colpevole di rendere più difficile la
formazione di una lingua italica.
Si tratta di una disputa linguistica, destinata a protrarsi anche in fase post-
unitaria, in cui a scontrarsi sono i dialetti, lingue ‘’municipali’’ e vive, e il
fiorentino arcaico, lingua più pura ma conosciuta solo dagli intellettuali.
Nei testi di Porta i personaggi sono spesso anche frati gaudenti e preti, di cui
vengono messi in scena i desideri carnali (sulla scia di Boccaccio e Voltaire) e
la dimensione fisica dei protagonisti.
Porta va in sostanza a rovesciare la morale perbenista, cosa che produce le
sequenze comiche e surreali.
Parallela a questo tipo di produzione esiste però una seconda traiettoria del
lavoro portiano (La Ninetta del Verzee, Lament del Marchionn di gamb avert), in
cui sono i popolani a narrare in prima persona la loro storia.
Porta restituisce così la parola agli umili, che attraverso il monologo parlano
la loro lingua piena di invettive, incongruenze sintattiche e intercalari.
Si tratta stavolta di una svolta radicale: la letteratura dando parola al popolo
gli restituisce dignità umana e spessore psicologico.
Quelle che il popolo racconta con grande ingenuità sono storie amare ma non
lacrimose, che portano il lettore ad immedesimarsi con gli aspetti più reali
della vita: sensualità, passione, sesso, lavoro bisogni economici.
All’opera di Porta si ispira il poeta romano Giuseppe Gioacchino Belli (1791-
1863), che parallelamente ad una pubblica attività come rimatore satirico,
conduce in forma semiclandestina l’attività di rimatore dialettale.
Di formazione illuminista ma reazionario a partire dal 1848, Belli non
pubblicò mai in vita la sua monumentale opera dialettale: i 2000 Sonetti in
romanesco, composti tra il 1830-1839 e il 1842-1847.
Come scrive nell’Introduzione, le sue poesie sono un ‘’monumento alla plebe di
Roma’’, ossia a quella che è la parte più umile della città, che si esprime con
vivacità in un lingua ‘’guasta e corrotta’’.
Il ‘’romanesco’’ è la lingua che il governo papale ha relegato all’ingnoranza e
alla miseria, per cui chi ne fa uso a mala pena conosce le parole italiane nella
loro forma corretta (filosofo diventa ‘’fisolofo’’).
Belli abbandona l’elemento narrativo di Porta, a cui preferisce forme teatrali
come monologhi e dialoghi, che gli permettono di dare alle sue poesie un
tono di spregiudicato realismo.
I Sonetti si presentano come una polifonia di prospettive differenti, alle quali
Belli decide di lasciare tutto lo spazio, relegando la sua voce in uno spazio del
tutto secondario per non dire minimo.
Il ‘’filo occulto’’ che lega i vari sonetti, come spiega Belli nell’Introduzione, sta
nel punto di osservazione dal basso, che fa saltare del tutto la prospettiva
della classe medio-alta del mondo.
La plebe di Belli vive in un mondo molto fisico, di cui i ‘’Siggnori’’ non
conoscono niente; un mondo senza tempo e che sembra non cambiare mai, in
quanto al suo vertice vi è da sempre il ‘’Visceddio’’ (il papa) che ‘’comanna e sse
ne frega’’.

6. ALESSANDRO MANZONI: LETTERATURA ROMANTICA E ‘’VERITÀ’’


CRISTIANA

Il conte Alessandro Manzoni (1785-1873), nato dal matriomonio tra il conte


Pietro e Giulia Beccaria (figlia dell’illuminista Cesare Beccaria, autore di Dei
delitti e delle pene, 1764), è il più importante erede della più prestigiosa
tradizione culturale milanese.
Nel 1805, dieci anni dopo la traumatica separazione dei genitori, va a vivere
dalla madre a Parigi, dove conosce lo storico Claude Fauriel e dove scrive
anche la sua prima opera, il carme In morte di Carlo Imbonati (1806).
Il momento decisivo nella sua vita arriva tra il 1808-1810: dopo aver sposato
la calvinista Enrichetta Blondel, si converte al cattolicesimo.
La svolta religiosa si traduce velocemente anche in una svolta letteraria: tra il
1815 e il 1822 escono i cinque Inni Sacri: La Risurrezione, Il nome di Maria, Il
Natale, La Passione, La Pentecoste (quest’ultimo del 1822).
Si tratta di poesie antiliriche, a metà tra preghiera e predica, in cui l’autore
lascia l’io da parte per mettere in piano quelle che per lui sono verità
universali.
L’anno prima che in Italia abbia inizio la disputa classico-romantica (i primi
quattro Inni sono del 1815), Manzoni abbandona l’elemento mitologico e si
rifà alla poesia dei Salmi.
Il lessico degli Inni è quello della letteratura alta, eppure allo stesso tempo
trova spazio la dimensione emotiva con le esclamazioni, gli interrogativi, gli
appelli e le ripetizioni.
Anche le scelte metriche vanno in controtendenza con lo stile neoclassico: agli
endecasillabi sciolti, Manzoni preferisce il decasillabo, più capace di dare
ritmo al tema della fede, che è ritmata, percussiva e cantabile.
Abituato all’internazionale prospettiva parigina, Manzoni è più disposto e
capace degli altri letterati ad allinearsi alle nuove tendenze romantiche, senza
però che ciò significhi prendere parte al dibattito classico-romantico.
Le opere che chiudono questa prima fase della produzione manzoniana sono:

- Le Osservazioni sulla morale cattolica (1819), in cui l’autore replica al teologo


calvinista Jean Charles de Sismondi, che aveva accusato la Chiesa cattolica di
aver causato la rovina etica degli Italiani.
Manzoni dimostria di aver perso fiducia nella razionalità illuministica, alla
quale ora oppone l’esigenza di un sistema di valori superiore, che trova nella
fede cristiana.

- La tragedia Il Conte di Carmagnola (1820), in cui Manzoni sperimenta i nuovi


modelli drammaturgici estranei al neoclassicismo, e allo stesso tempo (fa ciò
nell’Introduzione) prende le distanze dagli scrittori cattolici più rigorosi, che
condannavano il teatro.
Nel testo viene rappresentata la drammatica vicenda del coraggioso conte di
Carmagnola, che viene condannato a morte dal Gran Consiglio di Venezia,
che è convinto del suo tradimento.
Il conte viene catturato tramite un inganno di cui è artefice l’amico fraterno
Marco, costretto a scegliere tra la patria e l’amico: ‘’qualunque io scelga, è
colpa’’.
Il tema discusso è quello della frattura tra azione politica e regole morali,
tema di cui è il coro (che parla in endasillabi) a farsi portavoce.
Conquista e dominio sono per Manzoni ugualmente ingiusti, perché, e qui
viene recuperato il cosmopolitismo illuminista, rompono la fratellanza
universale tra gli uomini, uniti dal sacrificio di Cristo.
Il linguaggio e lo stile dell’opera sono solenni ed aulici, ma volutamente non
ricercati alla maniera neoclassica in quanto il desiderio delll’autore è quello di
parlare ad un ampio pubblico.

Il successo del Carmagnola inaugura una fase di straordinario successo


creativo: è infatti tra il 1820 e il 1823 che Manzoni inizia le sue due opere più
importanti.
Questa è però anche la stagione della durissima repressione austriaca del
1820-1821 , che causa la perdita di molti amici e che offre l’occasione per
comporre il Marzo 1821, che verrà pubblicato solo nel 1848.
L’altra grande opera di questo periodo è senza dubbio Il Cinque Maggio, il
componimento poetico composto alla morte di Napoleone, in cui si riflette sul
personaggio dell’imperatore, grande condottiero e politico.
La grandezza di Napoleone, che si confronta con l’imperscrutabile destino di
Dio, si interessa solo dell’eternità, senza che però questo significhi rinunciare
alla fede: Manzoni si immagina infatti che nel suo esilio a Sant’Elena il grande
generale si sia affidato alla misericordia divina.
Lo schema metrico è quello di sestine di settenari, ritmati attraverso il gioco
degli accenti.
Il rapporto tra etica cristiana e violenza della storia, posto sullo sfondo della
lotta per l’unità, è il tema principale dell’Adelchi (1822), la cui lavorazione è
preceduta da un attento lavoro sulle fonti storiche, che sfocia nell’appendice
della tragedia: Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia.
Nel Discorso cerca di guardare non solo ai grandi personaggi, ma anche a
quella ‘’immensa moltitudine’’ che nella storia e nei documenti ufficiali non
lascia traccia.
Egli confuta così la teoria che i ‘’Latini’’ al momento della conquista franca
dell’Italia si fossero già fusi con i Longobardi: essi in realtà sono spettatori
impotenti destinati solo a cambiare padrone (il parallelo con gli Italiani è qui
ovvio).
La vicenda del testo si sviluppa tra 772 e 774 d.C. e ha per protagonista il
principe Adelchi, figlio del re dei Longobardi Desiderio, che non vuole
restituire a papa Adriano le terre che gli ha sottratto e che progetta ora di
conquistare Roma.
Adelchi, da bravo figlio, non può che obbedire al padre e muoversi verso
Roma, cosa che però causa l’intervento di Carlo Magno, re dei Franchi, che
ripudia la moglie Ermengarda (sorella di Adelchi), che muore affidandosi a
Dio.
Carlo riesce a vincere i Longobardi grazie all’aiuto del diacono Martino, che
rappresenta il sostegno divino al franco, sostegno che però non deve essere
letto come un aiuto al giusto.
Carlo è un sovrano deciso, autoritario e senza scrupoli, mosso dalla brama di
potere e dall’ambizione, il quale non ha alcuna intenzione di ‘’liberare’’ i
poveri Latini (il primo coro), ma a dominarli.
Desiderio, Ermengarda e soprattutto Adelchi una volta sconfitti emergono in
tutta la loro fragilità: Ermengarda è vittima della Provvidenza, che l’ha
condannata alla ‘’sventurata sorte’’ a cui sono condannati coloro che prima
dominava; Adelchi in punto di morte invita il padre a non essere triste per la
perdita del trono, ‘’Godi che re non sei’’, in quanto chi governa da
conquistatore non potrà fare nessuna azione gentile.
Il consenso raccolto dall’Adelchi toglie alla tragedia neoclassica il primato nel
teatro italiano.
Nella Lettera al Sig. Chauvet sull’unità di tempo e di luogo nella tragedia, posta
come intruduzione all’edizione francese della sua opera del 1823, Manzoni va
a delineare la sua poetica del dramma storico.
Per Manzoni la rottura delle unità classiciste di tempo e di spazio erano il
mezzo attraverso il quale il tragediografo riusciva a restuire realisticamente i
rapporti che legano gli eventi.
Nel frattempo già dal 1821 Manzoni aveva cominciato a scrivere un romanzo
storico, un genere che più della tragedia poteva permettergli di rivolgersi ad
un pubblico più esteso.
Il testo nel 1823 viene temporaneamente chiamato Fermo e Lucia, e con essa
Manzoni si proponeva di comporre un romanzo più attento alla verità storica
rispetto a quelli di Scott.
La trama è ambientata tra Lombardia e Veneto tra 1628 e 1631, un periodo che
l’autore definisce di ‘’malgoverno, guerra, soprusi, pestilenza’’.
Privo di una tradizione nazionale a cui fare rifermineto, Manzoni riparte dalle
basi europee del genere, dal Don Chisciotte della Mancha (1615) di Miguel de
Cervantes (1547-1616) e ovviamente dai più recenti romanzi di Walter Scott.
L’innovazione rispetto ai romanzi di quest’ultimo sta nel dare più concretezza
all’azione reale delle persone, dando quindi spazio a ciò che era opposto allo
‘’spirito romanzesco’’.
Manzoni parte dunque dall’analisi di fonti del periodo, per poter far
emergere lo spirito del tempo e dunque far sì che la storia non sia un
ingrediente, ma un contesto reale.
La più grande difficoltà è la ‘’povertà della lingua italiana’’, quasi
esclusivamente scritta e fissata all’interno del defunto canone purista; inoltre
non essendoci né unità linguistica né politica è difficile indicare quale sia la
lingua nazionale.
Manzoni ha dunque il merito di essersi inventato una lingua capace di
coniugare la dignità dello scritto con la spontaneità del parlato: tuttavia il
primo risultato del Fermo e Lucia lo lascia insoddisfatto.
Per questo egli vira sulla parlata toscana contemporanea, che è una lingua
viva e soprattutto l’erede della più autorevole tradizione letteraria nazionale.
Il romanzo esce nel 1827 (edizione nota come ‘’ventisettana’’) con il titolo I
Promessi Sposi. Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da Alessandro
Manzoni.
L’autore fa finta di aver ritrovato il testo di un anonimo seicentesco, vero
autore della storia, che avrebbe copiato in uno stile differente dall’originale
ampolloso e barocco.
Il rapporto dialogico con l’anonimo permette a Manzoni di parodiare gli
aspetti più irrazionali e retrivi della cultura seicentesca, ma allo stesso tempo
anche di porre una distanza tra se’ e gli eventi rappresentati, rispetto ai quali
si pone come narratore onnisciente, che va a lasciarsi delle sequenze in cui
dare giudizi morali e politiche (intrise di ironia talvolta sorridente e talvolta
amara).
Nel testo si incontra un numero di personaggi veramente ampio: fra’
Cristoforo, personificazione della Chiesa fedele alla vocazione di soccorrere
gli oppressi; Suor Gertrude, la ‘’monaca di Monza’’, grazie al quale ritorna il
tema illuminista della lotta alla monacazione forzata; l’Innominato e il suo
‘’castellaccio’’ gotico, un personaggio ispirato dai ‘’titani’’ di Byron.
Alle vicende singole dei personaggi si intrecciano le grandi sventure del
tempo: la Guerra dei Trent’anni, la peste, i lanzichenecchi che saccheggiano il
paese natale dei protagonisti, la carestia.
La conclusione del romanzo va a simboleggiare sia la fine del percorso di
formazione di Renzo come cristiano, sia ad offrire un giudizio sul senso della
storia: anche chi si comporta nel modo più irreprensibile può affrontare dei
‘’guai’’, ai quali l’unica risposta è la ‘’fiducia in Dio’’.
La Provvidenza è un personaggio ultraterreno, invocato più volte nel corso
della storia, che però non si caratterizza come un disegno precisio: il
narratore resta in silenzio nel momento in cui dovrebbe offrire il senso della
vicenda.
Alla fine ad emergere è soprattutto l’antitesi tra il finale positivo dei due
protagonisti, trasferitisi in Veneto, e il crollo del mondo che li circonda, dove
la guerra continua.
La trama intricatissima rende impossibile individuare ogni tipo di schema
semplificatorio.
Manzoni offre al lettore un complesso affresco dei comportamenti e della
mentalità dei diversi strati sociali della Lombardia, lasciando però proprio a
chi legge la prospettiva del giudizio etico in ambito della morale cristiana.
Recuperando la lezione di Pascal del ‘’Deus absconditus’’, lo scrittore
milanese ricorda che anche nei tempi più duri è possibile comportarsi con
onestà e umanità.
Il testo offre soprattutto il punto di osservazione dei dominati, di quelle
‘’genti meccaniche, e di piccol affare’’, ossia di lavoratori del popolo.
Povertà, analfabetismo, fame e soprusi dei potenti sono elementi che entrano
con forza nel testo; questo però non si tramuta in una lingua scorretta, anzi,
Manzoni in questo senso attua una rivoluzione concettuale e linguistica.
Gli umili protagonisti parlano in un italiano impeccabile e si esprimono
attraverso forme di ragionamento molto articolate.
In questo, e nella scelta di escludere le passioni amorose (inutili nell’ottica di
una maturazione cristiana), si pone il limite del realismo manzoniano.
Il romanzo ottenne fin dalla prima edizione un successo straordinario, anche
all’estero, facendo sì che Manzoni si ponesse come successore di Monti al
vertice del mondo letterario italiano.
Questo trionfo comporta però anche la fine della stagione creativa, frustrata
dalla riflessione sull’incompatibilità tra rigore storico e immaginazione
romanzesca.
Manzoni si dedica anche al problema della lingua, che lo porta per qualche
mese a Firenze, per eliminare con una ‘’risciacquatura in Arno’’ i residui
lombardi e dotare allo stesso tempo i Promessi Sposi di una lingua viva che
possa fungere da modello linguistico adatto a tutte le esigenze comunicative.
Il romanzo viene così ripubblicato nel 1840 (edizione ‘’quarantana’’), stavolta
dodato di illustrazioni e di appendice saggistica, la Storia della colonna infame,
in cui viene riesaminato il processo contro gli untori milanesi del 1630.
Andando contro l’opinione dell’illuminista Pietro Verri, che aveva sostenuto
che il processo contro gli untori fosse dovuto all’al fanatismo e all’ignoranza
dei tempi, Manzoni sostiene invece che i colpevoli furono usati dal governo
spagnolo come capri espiatori.
Ancora una volta viene messo in primo piano l’agire morale dell’individuo,
che anche in un’epoca difficile può scegliere di agire con giustizia.
L’esisgenza religiosa, morale e scientifica si fa in quest’ultima fase sempre più
forte, cosa che porta il nobile milanese a sconfessare il suo itinerario creativo
nel Del romanzo storico, e in genere, de’componimenti misti di storia e d’invenzione
(1850).
Il romanzo storico appare ormai all’autore ‘’intrinsecamente contraddittorio’’
in quanto appare impossibile non considerarlo ‘’un inganno….che contraffà e
confonde’’ la verità storica; l’unica cura a questo male appare proprio la critica
storica.
Manzoni, nonostante il ritiro dalla scena letteraria, rimane fino alla morte la
personalità più autorevole e l’unico autore canonico del panorama letterario
italiano.

7. GIACOMO LEOPARDI: LA RAGIONE, LA LIRICA E IL RISO DEI


MODERNI

Giacomo Leopardi (1798-1837) nasce a Recanati, nello Stato Pontificio, da una


famiglia aristocratica dalle scarse risorse economiche.
Viene formato da una serie di precettori religiosi aderenti ad un cattolicesimo
conservatore, anche se intriso di principi illumisti.
A quattordici anni inizia a studiare da solo: impara il latino, il greco e persino
l’ebraico, maturando così capacità da erudito e filologo; questi anni di ‘’studio
matto e disperatissimo’’ influiscono però sulla sua costituzione (diviene
infatti rachitico e gobbo).
Stringe amicizia con il classicista Pietro Giordani, che lo avvicina ad opinioni
laiche ed antilegittimiste, che lo spingeranno a rifiutare il proposito della
famiglia di fargli intraprendere la carriera ecclesiastica al fine di poter
ottenere una rendita.
Lo scontro coi genitori renderà in seguito del tutto sgradevole il soggiorno a
Recanati, dove comincia a dedicarsi alla poesia e alla riflessione filosofica.
Nel 1818 scrive il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (rimasto
inedito), in cui si schiera dalla parte dei classicisti e si scaglia contro le pretese
romantiche.
Nonostante sostenga la necessità di imitare gli antichi, Leopardi rileva anche
una frattura tra la sensibilità degli antichi e quella dei moderni; imitare gli
antichi è necessario per liberare i moderni dalla ‘’corruzione’’ prodotta dal
processo di ‘’incivilimento’’ cantato dai romantici.
Dal 1817 Leopardi comincia ad annontare nello Zibaldone di pensieri le proprie
riflessioni filosofiche; il testo, non pensato per la pubblicazione, viene steso
soprattutto tra il 1821-1823 ed è caratterizzato da uno stile sintetico e
scorrevole.
Inizialmente Leopardi vede nella ragione la causa dell’infelicità umana, che
deriva dall’avanzamento della civiltà, che avrebbe fatto crollare le illusioni
generate negli uomini dalla natura.
La ragione è nemica della natura, in quanto ‘’annienta immaginazione, virtù,
amor patrio ed eroismo’’, sentimenti senza cui la vita è ‘’arida’’.
Gli antichi e gli uomini del Medioevo, a differenza dei moderni, risultano per
Leopardi superiori in quanto capaci di ritenere reali i sogni prodotti dalla
immaginazione.
Si tratta di un ragionamento paradossale, in cui Leopardi critica la ragione
ma allo stesso tempo ammette la verità delle sue scoperte; essa si presenta
dunque come un acquisto negativo ed irreversibile.
Gradualmente si avvicina anche a teorie empiriste e sensiste, che lo portano
ad elaborare la ‘’teoria del piacere’’, secondo cui la condizione di perpetua
infelicità del genere umano è dovuta all’incapacità di soddisfare un desiderio
che non ha limiti.
La teoria del piacere spinge Leopardi ad elaborare una poetica con al centro i
limiti della condizione dei moderni, per i quali è difficile poetare a causa della
decadenza delle illusioni e del dominio della ragione sull’immaginazione.
La poesia di Leopardi assume allora le ‘’sembianze dell’infinito’’, anche
grazie ad un attenta distinzione lessicale, che sulla scorta della riflessione
illumista distingue i ‘’termini’’, ossia parole con significato univoco, dalle
‘’parole proprie’’, che non hanno un significato univoco e riescono ad evocare
una moltitudine di concezioni.
Tra il 1818 e il 1823, Leopardi esplora due generi lirici: la canzone e l’idillio,
che lo orientano verso i classicisti e dalle quali prendono vita le due prime
raccolte poetiche.
Le Canzoni (1824) tentano la via della poesia difficile, quella fatta di metafore
complesse e similitudini, di latinismi arcaizzanti e di inversioni sintattiche:
sono le poesie destinate alla meditazione filosofica e che si rifanno in
maniera implicita ai Sepolcri di Foscolo, con i quali condividono l’ispirazione
al sublime pindarico.
Simboli della raccolta sono l’Ultimo canto di Saffo, che inveisce contro l’amaro
destino che le ha negato l’amore dell’uomo amato, e il Bruto minore, che si
uccide quando la repubblica viene abbattuta da Cesare.
L’infelicità degli antichi rieccheggia nelle due liriche leopardiane, che si
servono del monologo per dare voce all’infelicità degli antichi, inserita in
entrambi i casi nel contesto di un immenso notturno lunare.
Dalle liriche emerge l’amarezza per il rapporto irreversibilmente perduto con
la natura, di cui gli antichi potevano ancora sentire la voce; la raccolta si
chiude con Alla sua donna, che tratta dell’amore per una donna perfetta ed
irraggiungibile in quanto abitante del perfetto mondo delle idee platoniche.
Leopardi reinventa così l’estetica neoclassica declinante, esperimento però
poco apprezzato dai contemporanei, che preferiscono di gran lunga le liriche
di ispirazione patriottica.
Stessa sorte è riservata ai Versi (1826), dove escono i primi idilli, nei quali
prende vita una reinvenzione creativa dell’antico.
L’idillio è un genere lirico della poesia ellenistica: brevi bozzetti di vita di
campagna, ritratta dal vero, molto imitato dai poeti settecenteschi
dell’Arcadia.
Gli idilli a differenza delle Canzoni puntano sulla semplicità e giocano su un
abbasamento dei toni: sintassi più lineare, ambientazioni quotidiane, lessico
meno elevato.
Il metro è quello degli endecasillabi sciolti cari al mondo classicista, forma
ripresa forse da una serie di componimenti del Monti di fine settecento, dai
quali però Leopardi si distacca (egli considera infatti Monti un poeta ‘’non del
cuore’’, ma ‘’dell’udito’’).
Ne La sera del dì di festa e in Alla luna ritornano temi cari come l’antinomia tra
l’angoscia dell’io-poetante e la calma della notte.
Notturni illuminati dalla luna, sogni, ricordi, meditazioni solitarie di fronte
alla natura evocano grandezze perdute e sensazioni di annullamento e di
infinitezza come nel più famoso idillio: L’Infinito.
Qui l’io-poetante espirme ed esplora sensazioni e sentimenti che sgorgano
nell’atto stesso di fantasticare.
Tramite l’introspezione lirica il fantasticare si tramuta in una sensazione-
emozione di dolce fusione con l’immensità, rappresentata da quel ‘’mare’’ di
richiamo dantesco in cui l’autore ‘’naufraga’’.
La tensione verso l’infinito è virtuale, rappresenta un’illimitata apertura di
significati possibili.
Dal 1823 Leopardi si allontana da Recanati e vive dapprima a Milano e poi a
Bologna, dove lavora per un editore milanese riuscendo ad emanciparsi dalla
famiglia economicamente.
La vocazione lirica viene momentaneamente meno, mentre si fa sempre più
intensa la lettura dei filosofi materialisti francesi del Settecento (d’Holbach,
Helvetius ecc…).
Il conflitto tra ragione e natura cambia definitivamente di connotato: ora per
Leopardi tutto ciò che esiste è composto solo da aggregazioni di materia, che
è in grado di sentire e pensare.
Ciò espone però la materia degli individui con sentimenti (uomini, animali e
piante) alle mutazioni della materia inorganica, che è dunque causa del tutto
il dolore umano, in quanto il ‘’sistema della natura’’ pone tutti nella condizione
di soffrire.
La ‘’santa natura’’ di Alla primavera lascia ora spazio ad un cieco meccanismo
indifferente, governato dal caso o da leggi assurde/nefaste se osservate dal
punto di vista di coloro che la popolano.
Alla nostalgia per i tempi antichi subentra l’idea che ‘’non v’è altra bene che il
non essere’’; solo essere animali o dei selvaggi allieva, seppur di poco, questo
amaro destino.
Questa nuova consapevolezza emerge nelle Operette morali del 1827, in cui il
titolo vuole alludere ad un’apparente leggerezza, stemperata dalle convizioni
sul significato dell’esistenza e dell’agire umano.
Il testo gioca sulla contrapposizione tra la tragicità delle considerazioni e la
comicità dei procedimenti stilistici; notevole è anche l’intento di servirsi di
una ‘’buona lingua italiana’’ nella rivalutazione della filosofia del XVIII secolo.
Le Operette sono un’opera di filosofia in stile illuminista-settecentesco, cioè
una riflessione razionale non sistematica scritta in generi tra loro differenti; i
modelli in questo senso sono ovviamente Voltaire (1694-1778) per i moderni e
Luciano di Samosata (120-180 d.C.) per gli antichi.
I generi presenti nel testo (dal dialogo alla semplice prosa narrativa) trovano
un punto in comune nel gusto per il paradosso.
Lo svolgimento romanzesco, i viaggi, il ritorno in vita dei morti, la biografia
fittizzia sono presentati con toni di volta in volta fantastici, grotteschi o
surreali al fine di presentare un mondo materialista disincantato e negativo
in cui ‘’tutto è degno di riso, fuorché il ridersi di tutto’’.
Il libro si apre con il racconto mitologico Storia del genere umano, in cui si narra
il graduale sviluppo della civiltà umana, destinata all’inevitabile scoperta
della ‘’Verità’’, cioè dell’assurdità dell’esistenza.
Emblemi dell’opera sono senza dubbio:

- Il Dialogo della Moda e della Morte, in cui la prima convince la seconda di


essere sua sorella in quanto essa di continuo stravolge idee, gusti, mentalità
facendo invecchiare ogni cosa con una velocità vertiginosa; in questo senso
l’età contemporanea, adoratrice della moda, è il ‘’secolo della morte’’.

- Il Dialogo della Natura e di un Islandese, in cui un islandese, dopo aver passato


tutta la vita a sottrarsi ai pericoli e alle asprezze del mondo naturale, incontra
infine la Natura, che gli rivela che il mondo non è fatto per gli uomini, che le
sono del tutto indifferenti e che l’universo è un continuo ciclo di produzione
distruzione, che funziona con il ‘’patimento dei viventi’’.

Il materialismo e lo stile ironico/sfuggente delle Operette non riscontra il


consenso dei contemporanei; inoltre la parallela uscita dei Promessi Sposi (e la
conseguente proliferazione di romanzi storici di ispirazione scottiana) fa sì
che esse siano relegate ad un pubblico molto ristretto, fatto di eruditi.
Leopardi si sposta a Firenze, dove è vicino al gruppo di liberali che frequenta
gli ambienti dell’Antologia di Vieussieux; a Pisa torna invece a scrivere poesie
‘’con il cuore di una volta’’.
Nella città toscana prendono forma i Canti (1831-1835), in cui sono raccolte le
liriche che corrispondono ai nuovi criteri poetici e filosofici dell’autore,
incluse le canzoni e gli idilli.
Il titolo dell’opera allude all’identità tra poesia e musica, teorizzata da
Leopardi nelle sue riflessioni sulla lirica, genere poetico ‘’eterno ed universale’’.
I Canti rompono le tradizionali partizioni del genere lirico neoclassico, che
invece erano state rispettate nelle raccolte giovanili.
La successione delle poesie sembra costituire un romanzo autobiografico in
versi, che cresce con il proseguire della vita dell’autore, risultando dunque la
‘’storia di un’anima’’, in cui si istituiscono analogie, rinvii e contrasti tra i
diversi momenti.
Il libro è aperto dalle canzoni e dagli idilli, che rimandano alla gioventù, che
ormai ha il sapore di rimpianto: in questo filone iniziale compare una
canzone più tarda, Il passero solitario, in cui emerge la similitudine tra un
passero che non gioca con gli altri uccelli e il poeta che studia e non gioca con
gli altri ragazzi.
Si tratta però di una similitudine sconsolata in quanto quello del passero è
un comportamento naturale, mentre quello dell’io no, cosa che fa aumentare
il senso di rimpianto futuro per la gioventù e la bellezza sprecate.
Le nuove esigenze filosofiche spingono Leopardi ad elaborare una nuova
forma metrica, la canzone ‘’leopardiana’’, composta dal libero alternarsi di
endecasillabi e settenari.
Per Leopardi è una forma più capace di evocare la musicalità e di modulare
l’armoniosità antica, una struttura totalmente opposta ai ritmi martellanti e
alle rime obbligatorie dei romantici italiani.
In A Silvia e ne Le Ricordanze ritorna in vita la Recanati giovanile, ormai però
anch’essa inserita nel nuovo orizzonte filosofico, nel quale la prematura
morte di Silvia assume una valenza positiva, in quanto previene un ‘’vago
avvenir’’.
La disillusione della maturità lascia poi spazio al mistero dell’esistenza
umana, tema del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, in cui l’io fa
spazio alla commovente ingenuità del nomade, che si rivolge alla Luna come
ad un’antica divinità.
Scene bucoliche e fatte di simplecità riemergono nella Recanati de La quiete
dopo la tempesta e Il sabato del villaggio: emerge un sollievo momentaneo, che
sembra rievocare la dolcezza della speranza.
Per meglio comprendere la struttura dei Canti ha senso ricordare che a
Firenze Leopardi stringe due relazioni cruciali: l’amicizia con Antonio
Ranieri (1806-1888), che lo assisterà sino alla morte, e l’amore non corrisposto
con la nobile Fanny Targioni Tozzetti (1801-1889).
Il sentimento per quest’ultima, ancora più della donna stessa, ispira una serie
di poesie presenti nella seconda edizione dei Canti (1835) e raggruppate nel
cosiddetto ‘’Ciclo di Aspasia’’.
Tra di esse vale la pena ricordare Il pensiero dominante e Amore e morte, dove la
morte viene raffigurata come una bellissiama giovane, a cui viene dedicato il
componimento affinché possa rapire, ‘’pietosa’’, il sofferente io-poetante.
La fine dell’amore emerge nella poesia A se stesso, in cui assistiamo ad un
ritorno di affermazioni recise e senza speranza.
A disagio nell’ambiente fiorentino dell’Antologia, Leopardi si sposta a Napoli
con Ranieri, dove viene composta la Ginestra, un lungo poemetto pubblicato
nel 1845 (edizione postuma dei Canti).
Qui trovano spazio l’argomentazione filosofica e l’invettiva polemica contro
le teorie antropologiche e l’ottimismo spiritualista del ‘’secol superbo e
sciocco’’.
Il contrasto tra la possente maestosità del Vesuvio e la precarietà della
ginestra, che col suo ‘’dolcissimo’’ profumo ‘’i deserti consola’’, rievoca la
condizione degli uomini.
Alle pretese di questi ultimi di centralità universale Leopardi oppone il
coraggio della ‘’lenta’’ ginestra, pronta a farsi travolgere dalla lava senza
chiedere al ‘’futuro oppressor’’ di essere risparmiata.
A differenza di Manzoni e degli altri romantici, che scrivono per il proprio
tempo, Leopardi seceglie consapevolmente di andare contro le tendenze
egemoni delle propria epoca; questo anche nel linguaggio della poesia,
piacevolmente ‘’indefinito’’ e capace di distinguersi dal ‘’parlar prosaico e
volgare’’.
Tramite una musica antica Leopardi modula problemi antichi e moderni: in
un’epoca in cui a dominare sono i ragionamenti sulla felicità delle masse e il
romanzo storico, egli sceglie il materialismo e riflette sulle contraddizioni di
un’umanità fatta di individui che soffrono.
La concezione di lirica come effusione spontanea del sentimento segna una
frattura rispetto agli stessi poeti romantici, dai quali lo separa la concezione
materialista e illuminista del mondo.
L’idea di una poesia filosofeggiante come rimedio parziale della sofferenza
umana è in totale conflitto con le istituzioni culturali del proprio tempo, cosa
che renderanno Leopardi sgradito e osteggiato sia dalla sensibilità cristiana
sia dall’opinione pubblica, cosa che spiega il disinteresse dei contemporanei.
Sarà riscoperto e pienamente riconosciuto solo dalla seconda metà del secolo.
3) DOPO IL ROMANTICISMO: LETTERATURA E
UNIFICAZIONE NAZIONALE (1840-1860)

1. ALLA CONQUISTA DELL’UNITÀ

Intorno al 1840 nelle nazioni più sviluppate d’Europa la crescita frenetica del
capitalismo industriale fa sì che i regimi assolutisti entrino in conflitto con la
borghesia imprenditoriale, attestata su posizioni liberali, e la nuova classe
sociale del proletariato industriale, che rivendica una radicale rivoluzione
sociale a partire dalle posizioni di espresse da Karl Marx (1818-1883) e
Friedrich Engels (1820-1895) ne Il manifesto del partito comunista (1848).
In Italia quest’ultimo dibattito resta sullo sfondo, in quanto gli intellettuali
sono impegnati nella discussione sull’unificazione.
Per Giuseppe Mazzini (1805-1872) essa deve avvenire in senso democratico e
sulla base di valori cristiani, condensati però con posizioni socialiste.
La nazione è per lui un patrimonio di memorie storiche/culturali a cui Dio ha
dato il compito di far progredire l’umanità; per questo sulla scia di Victor
Hugo elabora lo slogan ‘’Dio e patria’’.
Il sacerdote torinese Vincenzo Gioberti (1801-1852) sostiene nel suo Del
primato morale e civile degli Italiani (1843), stampato a Bruxelles per evitare la
censura, che data l’anima cattolica della penisola l’unico modo per arrivare
all’unificazione sia costituire una federazione con a capo il papa.
All’ipotesi neogulefa di Gioberti si oppone quella neoghibellina del nobile
piemontese Cesare Balbo (1789-1853) che ne Le speranze d’Italia (Parigi 1844)
adotta una posizione politicamente più realistica e propone la costituzione di
una federazione con al vertice la dinastia dei Savoia.
Per Carlo Cattaneo (1801-1869) l’unificazione deve invece avvenire nella
forma di una repubblica federale come in Svizzera e negli Stati Uniti, per lui il
capitalismo liberale è il motore per sviluppare una società in cui gli interessi
conflittuali vanno moderati giuridicamente.
Il napoletano Carlo Pisacane (1818-1857) si attesta su posizioni socialiste e
afferma che l’unità dovrebbe essere raggiunta tramite un esercito popolare
rivoluzionario che instauri un ordinamento sociale egualitario.
Nel decennio 1840-1850 molte insurrezioni mazziniane falliscono, tuttavia
l’elezione del papa liberale Pio IX (1846-1878) e i moti del 1848-1849 aprono
nuove possibilità.
Nel 1848 Carlo Alberto di Savoia (1831-1849) dichiara guerra all’Austria: egli
conquista la Lombardia, ma nel 1848 viene sconfitto a Custoza e nel 1849 a
Novara: la Prima Guerra d’Indipendenza finisce con la sua abdicazione e il
ritorno ad un clima repressivo in tutta la pensiola.
Solo in Piemonte il nuovo re Vittorio Emanuele II (1849-1878) mantiene la
costituzione: egli affida al conte Camillo Benso di Cavour (1810-1861) il
compito di modernizzare lo Stato.
Cavour ottine l’alleanza della Francia di Napoleone III, decisiva per la vittoria
nella Seconda Guerra d’Indipendenza (1859), durante la quale è presa la
Lombardia e in seguito tramite plebisciti sono annesse anche Toscana ed
Emilia-Romagna.
Nel 1860 la spedizione di volontari democratici al comando del generale
Giuseppe Garibaldi (1807-1882) porta alla conquista di tutto il Regno delle
Due Sicilie: Cavour invia l’esercito regolare a conquistare Marche e Umbria.
Il 17 Marzo 1861 nasce ufficialmente il Regno d’Italia, che comprende tutta la
penisola ad eccezione del Lazio, rimasto al papa, e dell’area veneta, dominata
dall’Austria.

2. MILITANZA PATRIOTTICA E MERCATO EDITORIALE

Nel corso della stagione del Risorgimento tutti gli intellettuali sono coinvolti
direttamente nella lotta politica: l’intellettuale-militante si afferma portando
lui stesso avanti il dibattio politico e civile, prendendo a propria volta parte ai
moti risorgimentali, in cui molti perdono la vita/sono esiliati o imprigionati.
Nelle città questo fervento fa sì che torni in voga il giornalismo politico, cosa
che determina un’espansione del pubblico che spinge le piccole aziende
librarie a divenire delle grandi società editrici.
La svolta parte dagli Stati più liberali, quindi il Regno di Sardegna (Torino) e
dal Granduca di Toscana (Firenze).
Dopo il 1848 la Torino di Cavour diviene il centro culturale più importante
della penisola, dove fluiscono moltissimi intellettuali attirati dall’industria
editoriale e dal Parlamento.
A Milano sorgono le più iniziative culturali contro il governo austriaco; si
segnale il Politecnico (1839-1844, 1859-1866) fondato da Carlo Cattaneo, che
propugna una cultura laica e razionalista, presentando ai lettori le nuove
pratiche della scienza e gli sviluppi negli studi umanistici.
Cattaneo aggiorna il classicismo laico di Giordani e Leopardi proponendo
una lingua comunicativa che sintetizza i diversi filoni linguistici della
tradizione letteraria nazionale, andando dunque ad indicare una proposta
alternativa a quella di Manzoni.
Vicino a Cattaneo è Carlo Tenca (1816-1883), che fonda il Crepuscolo (1850-
1859), che propone una linea patriottico-liberale e propone una critica
militante.
Tra i saggi di Tenca si deve segnalare Delle condizioni della oderna letteratura in
Italia (1846), uno dei primi tentativi in Italia di una critica sociologica della
letteratura.
3. SVILUPPI E CRISI DELLE PROPOSTE ROMANTICHE

Acquisisce in questa fase molta importanza la saggistica (storica, politica,


civile), mentre all’interno di generi di finzione domina la produzione medio-
bassa.
Manzoni resta lo scrittore più autorevole, anche se ormai si è esaurita la sua
fase di creatività letteraria.
Si sviluppa una letteratura stereotipata di propaganda patriottica, che ricalca
i generi e i motivi della grande poesia romantica, cosa che favorisce in tutti gli
ambiti una scelta di soluzioni espressive semplici e schematiche.
La poesia è il genere simbolo della produzione risorgimentale, modellata sui
metri ritmati e cantabili di Manzoni e Berchet: in questo ambito si distingue
Giovanni Mameli (1827-1849), mazziniano genovese autore del Canto
nazionale (1849).
I lettori apprezzano soprattutti il sentimentalismo estenuato, le atmosfere da
sogno, le descrizioni estetizzanti, ambiti in cui primeggia Giovanni Prati
(1814-1884), che sperimenta il genere della novella in versi.
La sua Ermenegarda (1841) abbandona il tema storico per concentrarsi sulla
contemporaneità; la storia è un dramma borghese tratto dalla cronaca: una
moglie adultera abbandona sposo e figli per scappare con l’amante, salvo poi
tornare umiliata chiedendo il perdono del marito.
Il più autorevole autore di queste tendenze spiritualiste è Niccolò Tommaseo
(1802-1874), che nelle sue Poesie (1872) sperimenta motivi e generi, ispirati ai
Salmi biblici e a Dante.
A legare i componimenti sono i tormenti dell’autore, cattolico inquieto.
La raccolta Canti popolari corsi illirici e greci (1842) si stacca invece dalle forme
metriche codificate anticipa l’introduzione del verso libero.
Si distingue da questa produzione il filone comico-realistico del toscano
Giuseppe Giusti (1809-1850), che rivisita in chiave satirica gli eventi e i
malcostumi contemporanei, senza però mai uscire dalle logiche del buon
senso.
Dopo due decenni di successi crolla nella narrativa europea il romanzo
storico-scottiano, mentre vengono letti/tradotti/discussi i romanzi di Balzac,
incentrati sulla realtà sociale contemporanea.
Anche in Italia si impone la tendenza di porre il presente al centro della
narrazione letteraria: la svolta arriva con Fede e bellezza (1842) di Tommaseo,
in cui l’autore si dà anche all’analisi psicologica.
Lo spazio del narratore onnisciente è ridotto, al fine di rappresentare
dall’interno gli ‘’affetti’’ dei due protagonisti; il linguaggio è quello invece del
fiorentino popolare, portando all’estremo la proposta di Manzoni.
Il romanzo storico resta però in Italia molto vivo: Giuseppe Rovani (1818-
1874) è il primo romanziere d’appendice di successo in Italia con il suo Cento
anni, uscito a puntate sulla Gazzetta di Milano tra il 1856 e il 1863.
Il romanzo d’appendice, già di successo in Francia con le opere di Eugène
Sue (1804-1857) e di Alexandre Dumas (1802-1870), è fatto di trame intricate,
avventurose, colpi di scena e contrasti manichei tra bene e male esasperati.
Il prestigio raggiunto in Europa dai romanzi idilliaci di George Sand (1804-
1876) fa sì che vi siano degli epigoni del genere anche in Italia, dove si
comincia a discutere della necessità di porre al centro della letteratura il
proletariato contadino.
Manifesto della letteratura rusticale è il Della letteratura rusticale, rivolta nel
1846 al romanziere Giulio Carcano (1812-1884) dal liberale Cesare Correnti
(1815-1888); l’invito è quello di raccontare le sofferenze dei ‘’poverelli’’.
La narravita rusticale si sviluppa soprattutto in area veneta, dove opera
l’aristocratica Caterina Percoto (1812-1887), che mette in scena in maniera
drammatica le durissime condizioni di vita del mondo rurale.
Il realismo è limitato dagli schematismi ideologici, che disegnano opposizioni
manichee tra la corruzione e l’egoismo dei cittadini moderni e un arcaico
universo contadino, dipinto in toni idilliaci.

4. LA ‘’PAROLA SCENICA’’ DI GIUSEPPE VERDI

Sulle scene teatrali domina il melodramma del parmense Giuseppe Verdi


(1813-1901), l’unico che riesce ad appassionare tutti le classi sociali.
Verdi esordisce con una serie di opere che si allineano alla vocazione
letteraria: con il Nabucco (1842) diviene assieme a Manzoni l’artista simbolo
della lotta per l’unificazione.
Al centro della prima produzione di Verdi vi sono i rapporti dei padri-
padroni coi figli, l’amore assoluto che si scontra le convenzioni sociali, gli
eccessi e le colpe.
Verdi però non si limita solo alla ricerca musicale, ma dirige anche il lavoro
dei librettisti perché pieghino il linguaggio alla messa appunto di una
‘’parola scenica’’.
Dopo le delusioni del 1848 la produzione di Verdi si concentra sempre di più
sulla psicologia conflittuale degli affetti privati: è la stagione dei capolavori
della maturià come Rigoletto (1851), Il trovatore (1853) e La traviata (1853).
Il suo percorso creativo si sviluppa ulteriormente in queste direzioni negli
anni post-unitari, tratteggiando personaggi sempre più complessi come Don
Carlos (1867), l’Aida (1871), Otello (1887) e Falstaff (1893).
Per gli ultimi libretti Verdi si serve di uno dei protagonisti della Scapigliatura,
Arrigo Boito, ma soprattutto decide di andare oltre le tradizionali divisioni
tra arie e recitativi, per creare un’inedita recitazione melodica continua.

5. IPPOLITO NIEVO: LE AVVENTURE DELL’IO E LA NASCITA DELLA


NAZIONE

Nel caotico e confusionario panorama letterario italiano a cavallo dell’unità,


si sviluppa il fulmineo percorso creativo di Ippolito Nievo (1831-1861), unico
scrittore in grado di dialogare a distanza coi grandi romanzieri europei.
Figlio di un magistrato mantovano e di una nobile veneziana, egli cresce nel
castello di Colloredo in Friuli.
Nel 1848 partecipa ai moti e si avvicina all’ambiente mazziniano; nello stesso
periodo ha una storia d’amore con Matilde Ferrari (1830-1838), che, una volta
finita, autoparodia nel breve romanzo umoristico d’ispirazione sterniana
l’Antiafrodisiaco per l’amor platonico (1851).
Nievo si dedica a tutti i generi letterari, dal giornalismo alla saggistica, dal
teatro alla lirica.
Scrive anche novelle di argomento rusticale, in cui dipinge con realismo la
vita dei contadini, un romanzo storico (Angelo di bontà del 1856), il racconto
umoristico-filosofico Le disgrazie del numero due (1857), stavolta ispirato dai
lavori di Voltaire e di Sterne.
Tra il 1857 e il 1858 si dedica interamente ad un romanzo molto più ambizioso
e importante: Le confessioni di un italiano, in cui riprende soluzioni già
sperimentate in precedenza, ma si allontana dalle convenzioni e dai generi
prevalenti.
Come scrive in un articolo del 1858 in cui prende le distanze da Carcano, che
accusa di ritrarre una ‘’società artificiosa e personale’’, Nievo sostiene di voler
rappresentare senza censure moralistiche la società contemporanea, sulla
scorta dei procedimenti dei romanzieri francesi.
Il romanzo è l’autobiograffia fittizia, raccontata in prima persona, dell’ormai
ottantatreenne Carlino Altoviti, che scrive le sue memorie dall’anno di
nascita, il 1755, sino al 1858.
La sua è soprattutto la storia di una presa di consapevolezza politica: ‘’Nacqui
veneziani…. e morrò per la grazia di Dio Italiano’’.
Le sue peripezie avventurose sono però contrappesate dalla scandalosa storia
d’amore con la cugina Pisana, con la quale trascorre un’infanzia fiabesca a
Fratta.
Col passare degli arriva la scoperta della società e dei suoi meccanismi, con
le grandi contraddizioni dell’Antico Regime e il suo crollo sotto il peso delle
nuove istituzioni liberali.
Carlino dapprima combatte nell’esercito della Partenopea, evitando però di
servire sotto la Repubblica Cisalpina del tiranno Napoleone; torna dunque a
Fratta con l’amata Pisana.
Carlino in seguito partecipa ai moti del 1820-1821, finendo arrestato e messo
in prigione, dove perde la vista; in seguito si sposta a Londra, dove recupera
la vista grazie a Pisana, che per accudirlo si ammala e muore.
Tornato a Venezia, Carlino educa i figli agli ideali patriottici e combatte nel
corso della Rivoluzione del 1848.
Il libro si conclude riportando il diario del figlio Giulio, morto combattendo
per la libertà dell’Argentina: l’autore ammette di essere sereno e consapevole
di aver vissuto ‘’un bel capitolo di storia’’, augurandosi infine di poter ritrovare
Pisana nell’aldilà.
L’imponente romanzo-fiume di Nievo (circa mille pagine) si presenta tanto
come un romanzo storico quanto come un romanzo di formazione, che tratta
della maturazione privata del protagonista, che è parallela allo sviluppo
collettivo dell’identità nazionale.
A dominare la trama sono senza dubbio i due protagonisti, Carlino e Pisana,
che però sono circondati da un infinito numero di personaggi e di destini
diversi.
Pisana è ritratta come un personaggio fuori dal convenzionale: provocatoria
e inafferrabile, ella assume tratti aderenti agli imperativi moralistici del suo
tempo solo alla fine del romanzo.
Inizialmente egli ha una mobilità e una libertà d’azione che stupisce tanto il
protagonista quanto il lettore, solo la sua ’’conversione’’ finale le permette di
ottenere il riscatto di fronte al codice culturale femminile e antropologico
dominante.
Anche Carlino è però un personaggio che sfugge agli schemi tradizionali in
cui ricondurre la figura del protagonista: egli è in effetti un antieroe, del tutto
opposto Jacopo Ortis in quanto più capace di far immedesimare il lettore (il
che lo rende il personaggio di una narrativa davvero ‘’popolare’’).
Carlino da un lato non rinuncia mai agli ideali civili e patriottici, rispondendo
così alla funzione politico-pedagogica richiesta i personaggi letterari
dell’epoca, dall’altro egli commette errori, finisce in situazioni comiche o
tragiche, ha illussioni, speranze.
Egli svolge una doppia funzione: una mobile, in quanto protagonista che
cresce assieme alla storia; una statica, in quanto narratore che commenta la
propria storia sapendo già l’esito degli eventi, sui quali si staglia spesso un
velo di nostalgia.
La permanenza di questo io-narrante, che anticipa e analizza con distanza le
situazioni (talvolta ironicamente, talvolta commosso) permette a Nievo di
relativizzare la figura del narratore.
Esso infatti resta onnisciente, eppure allo stesso tempo dotato di un forte
connotato ideologico.
Inoltre presentadolo come un ‘’non letterato’’, permette all’autore a Nievo (che
amava definirsi uno ‘’straccivendolo di letteratura’’) di mettere a punto uno stile
spigliato e diretto, capace di ‘’farsi intendere da molti’’.
Nievo si distacca dal modello manzoniano basato sul fiorentino, preferendo
mescolare modi di dire veneti, lombardi, emiliani in un plurilinguismo
vivace e comunicativo.
Il romanzo è troppo scabroso, politicamente e per la morale dei tempi, per
trovare subito un editore; Nievo nel frattempo partecipa alla seconda guerra
d’indipendenza e la racconta in versi (Gli amori garibaldini, 1860).
La politica entra di peso negli scritti degli ultimi anni: depreca l’abbandono
del Veneto agli Austriaci e afferma la necessità di coinvolgere il ceto rurale
nell’unità (e di non lasciare il compito agli avversi socialisti, ma ai parroci di
campagna).
Partecipa nel 1860-1861 alla spedizione dei Mille e torna in Sicilia nel 1861 per
recuperare dei documenti necessari a Garibaldi per difendersi dalle insidie di
Cavour: purtroppo il piroscafo su cui è imbarcato scompare nel Tirreno.
Le Confessioni escono nel 1867 a cura dell’amica poetessa Erminia Fuà
Fusinato, che le rimaneggia molto, e cambia il titolo su pressioni dell’editore
in Storia di un ottuagenario.
La figura troppo trasgressiva di Pisana fa sì che il lavoro sia condannato dai
contemporanei, solo nel Novecento, complice il cambiamento di gusti, l’opera
ottertà il plauso della critica e del pubblico.
4) L’EPOCA POSTUNITARIA E LE SFIDE DELLA
MODERNITÀ (1861-1889)

1. COSTRUIRE LA NAZIONE

I primi governi del Regno d’Italia, con Cavour e la Destra Storica, cercando
di completare l’unificazione della penisola: nel 1864 la capitale è trasferita a
Firenze per avvicinarsi a Roma; nel 1866 l’Italia, alleata della Prussia, dichiara
guerra all’Austria: è la Terza Guerra d’Indipendenza, in cui l’esercito italiano
è sconfitto, ma le vittorie prussiane fanno sì che sia preso il Veneto; la guerra
franco-prussiana del 1870 permette invece all’Italia di prendere Roma.
La conquista della città crea una frattura netta con il mondo clericale: Pio IX
scomunica i re d’Italia e vieta ai fedeli di partecipare alla vita politica dello
Stato (‘’Non expedit’’).
La borghesia reagisce aderendo alla massoneria, che fa propaganda anti-
clericale e repubblicana; nel frattempo il governo elimina i dazi e unifica le
leggi, che però sfavoriscono il Sud, rurale e poco industriale.
Si pone il problema del ‘’fare gli Italiani’’, ossia di creare un’identità
nazionale; problema non da poco a causa dell’enorme tasso di analfabetismo,
combattuto introducendo l’istruzione pubblica a carico dello Stato.
Il dibattito sulla lingua diventa problema istituzionale: il governo crea una
commissione, presieduta da Manzoni, che arriverà a produrre un testo
(Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla), in cui si ripropone il modello
del fiorentino contemporaneo, cosa che trasforma i Promessi Sposi nel punto di
riferimento per la lingua scolastica.
Nel 1876 il governo passa alla Sinistra Storica di Agostino de Pretis (1813-
1887), che si allea con la Destra nel 1882 (politica del ‘’trasformismo’’),
coinvolta nel processo di creazione di una religione laica dello Stato.
A questa viene educata la borghesia urbana, ormai classe dirigente della
nazione, che si dota di una propria identità culturale basata su patriottismo,
laicità e paternalismo verso il proletariato.
Dura la vira dei contadini, che a causa delle crisi del mondo rurale, sono
spinti all’inurbamento, contribuendo all’aumento di popolarità di anarchici e
socialisti.
2. GLI SCRITTORI CONTRO IL MERCATO: LA BOHÈME, L’ARTE PER
L’ARTE, IL NATURALISMO

La Francia di Luigi Filippo vive un periodo di espansione notevole, anche dal


punto di vista culturale-letterario: qui nascono i procedimenti più innovativi,
che però si trovano a fare i conti con la modernizzazione sociale e dunque
delle nuove esigenze letterarie delle classi piccolo-borghesi.
La già ricordata vicenda di successo del romanzo d’appendice permette di
introdurre una distinzione fondamentale tra quegli scrittori che assecondano
le esigenze del pubblico, scrivendo testi spesso stereotipati, e autori che
sfidano il mercato e che possono contare solo sul supporto della critica.
Il prestigio attribuito alla romantica figura dell’artista/scrittore attira a Parigi
un impressionante numero di giovani letterati, che adottano uno stile di vita
disordinato e anticonformista: la vita cosiddetta ‘’bohème’’ (‘’vita zingaresca’’),
caratterizzata da insofferenza e disprezzo per il conformismo borghese.
I bohémiens e la loro tendenza a perseguire l’eccentricità, sono resi famosi dal
romanzo Scene della vita di bohème (1851) di Henri Murger (1822-1861), in cui
emerge con forza il tema della rivolta generazionale.
Il rifiuto di piegarsi ai valori morali e ideologici borghesi è espresso da altri
artisti tramite l’autocontrollo e il rifiuto di tutto ciò che è estraneo all’arte.
Questo ideale emerge con forza nel romanzo Mademoiselle Maupin (1835) di
Théophile Gautier (1811-1872), che introduce il concetto de ‘’l’arte per l’arte’’
a cui si rifaranno poi i poeti cosiddetti ‘’parnassiani’’, interessati alla ricerca
della bellezza sopra ogni cosa.
Il poeta Charles Baudelaire (1821-1867) porta alle estreme conseguenze le
contraddizioni causate dalla lotta tra l’artista e il mondo borghese: coltivando
l’idea di una bellezza ‘’sinistra e fredda’’ egli tratteggia la condizione
dell’artista ‘’maledetto e sbeffeggiato come un albatros’’ dalla società con toni di
grandezza.
Ne I Fiori del Male (1857) egli si rifà all’impeccabile stile dei parnassiani,
dotandolo però degli elementi gotici propri dei lavori dell’americano Edgar
Allan Poe (1809-1849).
Emergono dunque temi come la bellezza per il bizzarro, che demistifica gli
idealizzati amori romantici, a cui sono contrapposti l’amore per le prostitute
e toni perversi/sadisti.
Prende voce un nuovo stato d’animo, lo ‘’spleen’’, ossia un senso i nausea
astratta che esprime il disagio per la perdita di significato e di punti di
riferimento causate dalla vita spersonalizzata nelle moderne metropoli.
Baudelaire opera anche una rivoluzione del linguaggio poetico, in cui ad un
lessico perfetto e alto si accompagnano termini bassi e crudemente realistici.
In questa poesia intesa come ‘’stregoneria evocatoria’’ domina la figura retorica
della sinestesia, che giustappone percezioni appartenenti a sensi diversi.
Nello stesso periodo Gustave Flaubert (1821-1880) elabora una rivoluzione
narrativa con il suo romanzo Madame Bovary (1857), in cui ritrae la meschinità
della società piccolo-borghese tramite la storia di una donna che, tediata dalla
vita di campagna, da sfogo alle sue insoddisfazioni tramite l’adulterio.
Flaubert nel testo elimina completamente gli interventi diretti del narratore,
al fine di far emergere la più assoluta impersonalità; introduce poi anche il
discorso indiretto libero.
Alcuni tratti dell’opera di Flaubert si avvicinano ai lavori degli autori vicini al
positivismo di Auguste Comnte (1798-1857), secondo cui la scienza della
natura e il metodo sperimentale erano gli unici strumenti conoscitivi certi.
Queste posizioni si mischieranno nel corso dell’Ottocento a quelle del biologo
e naturalista inglese Charles Darwin (1809-1882), che nei suoi L’origine della
specie (1859) e L’origine dell’uomo (1871) elabora la teoria evoluzionista basata
sui concetti di selezione naturale e lotta per l’esistenza.
Lo storico Hyppolite Taine (1828-1893) si serve delle posizioni positiviste per
leggere anche i fenomeni artistico-letterari, per lui condizionati da tre fattori
determinanti: razza (trasmissione ereditaria di caratteristiche fisico-mentali),
ambiente (contesto sociale/naturale), momento (contesto storico).
Émile Zola (1840-1902) porta invece all’estremo le posizioni di impersonalità
e oggettività di Flaubert nel ciclo dei Rougon-Macquart (1871-1893), con cui
lancia la corrente letteraria del naturalismo.
Proponendosi di descrivere il mondo sociale tramite l’oggettività della ‘’storia
naturale’’, nel saggio Il romanzo sperimentale (1880) egli sostiene che il compito
del romanziere è quello di analizzare i fenomeni psicologici-sociali.
Si devono dunque replicare i modi di parlare reali dei personaggi, anche nelle
forme più volgari e scurrili; le personalità e i destini devono essere inseriti
nella prospettiva darwiniana della lotta per l’esistenza, il cui esito viene
determinato dalla razza, dall’ambiente e dal momento.
Nei suoi romanzi, che riscossero un enorme successo e che influenzarono una
intera generazione di romanzieri in tutt’Europa, Zola presenta le conseguenze
più atroci dell’organizzazione sociale capitalistica, che egli vuole arrivare a
correggere tramite la rappresentazione delle sue contraddizioni.

3. INTELLETTUALI INTEGRATI E RIBELLI ANTIBORGHESI

Il Risorgimento diventa subito un mito di fondazione, da tramandare alla


nuove generazioni tramite il genere della memorialistica, in cui si segnala Da
Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille (1880) di Giulio Cesare Abba
(1838-1910), che racconta l’epopea garibaldina tramite il suo diario.
In seguito al raggiungimento dell’unità, alle contrapposizioni tra i patrioti di
diversi orientamente seguono quelle tra i nuovi raggruppamenti politici.
Lo sviluppo invece dell’insegnamento pubblico offre agli intellettuali un
nuovo spazio di lavoro, grazie al quale possono sostentarsi e allo stesso
tempo coltivare i proprio studi senza dover dipendere dal mercato editoriale.
Si affacciano sulla scena letteraria anche le donne, relegate però in secondo
piano sia sul fronte della produzione (romanzi d’intrattenimento) che su
quello lavorativo (maestre elementari).
Agli uomini, custodi del patrimonio culturale italiano, spettano le cattedre
dei licei e delle università, che li trasformano in sacerdoti laici.
Con questo ingresso nell’insegnamento superiore si viene a creare la figura
del poeta-professore, che assume posizione dominante in campo letterario: si
pensi a Carducci, insegnante a Bologna, ateneo che diverrà capisaldo della
successiva offensiva positivista.
L’industria editoriale, dominata in questi anni da generi meno prestigiosi
come narrativa/teatro, si allarga soprattutto sul versante del giornalismo: la
nascita dei quotidiani contribuisce alla nascita di un’opinione pubblica.
Si apre anche in Italia quel dilemma tra autonomia e mercato, che porterà alla
nascita a Milano (circa vent’anni dopo l’esperienza francese), del movimento
della ‘’scapigliatura’’.
Il termine è usato per la prima volta da Cletto Arrighi (pseudonimo di Carlo
Righetti, 1828-1906) nel romanzo La Scapigliatura e il 6 Febbraio (1862), in cui
egli traduce in un contesto italiano l’esperienza della bohème parigina.
Anche la città meneghina comincia infatti a riempirsi di giovani autori, per lo
più lombardi e piemontesi, accumunati dalla programmatica trasgressione
dei codici culturali di condotta imposti dal ceto borghese.
La rivolta scapigliata non travolge però le istituzioni letterarie, e già dopo il
1880 il movimento si spegne.
Il panorama letterario italiano resta comunque molto variegato e complesso:
se infatti da un lato poesia e saggistica sono i mezzi prediletti per costruire
l’identità culturale, la narrativa si presta di più ai nuovi bisogni di evasione e
intrattenimento.
Nella seconda metà del secolo lo sviluppo dell’industria editoriale obbliga gli
scrittori a porsi il dilemma tra autonomia artistica e adeguamento al mercato.
In generale assistiamo ad una vera e propria competizione letteraria, in cui il
primato viene continuamente rivendicato da diverse scuole poetiche, che si
contendono soprattutto il consenso critico.
Ciò spiega perché in Italia si trovino ad esistere, nei medesimi anni, i lavori di
Verga e quelli di Fogazzaro.

4. LA SAGGISTICA LETTERARIA DA DE SANCTIS AI POSITIVISTI

Lo studio e l’insegnamento della letteratura italiana hanno un ruolo cruciale


nei primi decenni postunitari; l’opera di valorizzazione attualizzante e di
riscoperta condotta in questi anni va inserita all’interno del clima di
competizione culturale tra i grandi Stati.
L’intera attività del critico Francesco De Sanctis (1817-1883), dal tempo della
lotta risorgimentale a quello dei ruoli istituzionali nell’Italia unita, è dedicata
al tentativo di creare un legame tra valori risorgimentali e interpretazione
critica della letteratura (finalizzata poi all’insegnamento).
Nato in provincia di Avellino, De Sanctis si forma a Napoli, dove insegnerà
l’Estetica e la Filosofia della storia di Hegel.
Riprendendo l’idea di evoluzione storica dello spirito, De Sanctis individua
nella dimensione estetica una dimensione autonoma e insostituibile, capace
di dare concretezza sensibile agli astratti contenuti culturali di un’epoca.
Nel 1860 De Sanctis diviene ministro della pubblica istruzione del primo
governo unitario e provvede a rinnovare l’università cooptando intellettuali
di formazione laica ed idealistica.
Con i Saggi critici (1866) e il Saggio critico sul Petrarca (1869) egli rinnova il
genere saggistico, inaugurando in Italia il modello della moderna monografia
critica.
Insoddisfatto dei manuali in circolazione, nel 1870-1871 fa uscire la Storia della
letteratura italiana, in cui ricostruisce attraverso il filtro dell’idealismo la vita
dei grandi autori, che contribuirono alla costruzione della ‘’coscienza
nazionale’’.
La narrazione è pensata come un ‘’romanzo di formazione della coscienza
italiana’’, basato su scelte stilistiche che conferiscono ai vari autori il ruolo di
personaggi emblematici, che riassumo in se’ il senso di un’epoca e i destini
alterni della nazione.
La letteratura italiana arriva ad una sintesi italiana ideale con Manzoni e
Leopardi, dopo i quali si ‘’comparisce il socialismo nell’ordine politico, il
positivismo nell’ordine intellettuale’’.
Nelle successive letture sull’Ottocento italiano, De Sanctis distingue il
conflitto tra la scuola ‘’cattolico-liberale’’, a cui si rifà Manzoni, e quella
‘’democratica’’, che si rifà a Mazzini; l’eccentrico Leopardi resta fuori da
questa disputa.
Con la vittoria della Sinistra Storica De Sanctis lascia l’insegnamento per
tornare alla pubblica istruzione, ma continua ad interessarsi alle correnti
letterarie ormai dominanti in Italia: positivismo e naturalismo.
Arrivano cosè La scienza e la vita (1872) e Studio sopra Emilio Zola (1878), in cui
lo sforzo di una lettura dialettica è ritentato, nonostante il naturalismo abbia
messo in crisi la sua idea di letteratura come luogo di formazione della
coscienza nazionale.
I successori di De Sanctis, come lui stesso aveva previsto, spingono la critica
letteraria nell’alveo del positivismo: Pasquale Villari (1826-1917), docente a
Firenze, inaugura la stagione del positivismo italiano con il suo La filosofia
positiva e il metodo storico del 1866.
Notevolissima è l’influenza internazionale raggiunta in questi anni dalle
teorie dello psichiatra Cesare Lombroso (1835-1909), professore a Torino e
autore de L’uomo delinquente (1876).
La nuova disciplina dell’antropologia criminale, d’ispirazione chiaramente
lombrosiana, è destinata ad influenzare anche la rappresentazione letteraria
del crimianle e dei marginali.
L’indirizzo positivista è applicato dagli studiosi della cosiddetta ‘’scuola
storica’’, che si afferma dopo il 1880 e che si propone di realizzare un
sistematico inventario scientifico del patrimonio culturale della nazione
attraverso la filologia, il restauro dei testi e lo studio di antichi manoscritti
inediti.

5. LA POESIA: LA RIBELLIONE SCAPIGLIATA E IL CLASSICISMO DI


CARDUCCI

Per scelta al di fuori del mondo universitario, gli scapigliati portarono avanti
una rivolta letteraria e culturale contro lo stile di vita e la mentalità borghese.
Ispirato come tutti gli scapigliati da Baudelaire, Emilio Praga (1839-1875) è
autore della raccolta poetica Penombre (1864), in cui descrive il senso di
smarrimento storico attraverso una ‘’violenza blasfema’’ alle due maggiori
istituzioni culturali del tempo: Manzoni e la religione, aggredita tramite
elementi satanici.
Con Praga entrano anche nella poesia italiana elementi provenienti
dall’ambito del brutto, del macabro e del grottesco.
Un passo in avanti rispetto al lavoro di Praga venne fatto dall’amico Arrigo
Boito (1842-1918), poeta e musicista che lavora a diversi libretti d’opera usati
da Verdi.
La trasizione bohémiene è molto più decisa nell’opera di Boito rispetto a quella
di Praga, rispetto al quale arricchisce la gamma delle provocazioni e delle
rime dissacranti.
L’assoluto dominatore della scena poetica negli ultimi trent’anni del secolo è
però senza dubbio Giosuè Carducci (1835-1907), il cui successo è dovuto: sia
alla sintonia tra produzione letteraria e immaginario della classe dirigente; sia
alla convergenza tra la sua figura di professore-vate e le esigenze culturali
della nuova Italia.
Il merito di Carducci è quello di aver restaurato gli antichi istituti letterari e di
aver rilanciato un’etica borghese legata alla religione laica del patriottismo.
Carducci si forma in Toscana negli anni delle rivolte risorgimentali, a cui però
non partecipa, concentrandosi sullo studio filologico-erudito della letteratura
italiana.
In quegli anni la poesia è dominata dal gusto sentimentale e spirituale di
Prati, a cui però Carducci, da laico e democratico radicale, si sente estraneo;
ciò lo spinge a recuperare il materialismo di Giordani e Leopardi nelle Rime
(1857).
Nel 1860 il primo governo unitario lo nomina professore di eloquenza presso
l’Università di Bologna, dove rimane per il resto della sua vita.
Ispirato dall’ambiente democratico-repubblicano della Seconda Repubblica,
in questi anni divine mazziniano e aderisce alla massoneria, divenendo un
fervente anticlericale.
I testi di questo periodo, inizialmente confluiti nei Levia Gravia (1868) e nelle
Poesie (1871), trovano collocazione definitiva nei Levia Gravia e Giambi ed Epodi
(1882), caratterizzati da una retorica classicista.
In questa raccolta Carducci riesce a realizzare un nuovo genere di poesia
civile, che trae la propria bellezza dal patrimonio culturale/ideale della
nazione.
Carducci si fa portavoce della razionalità laica e materialista del progresso
sociale, ma allo stesso tempo attacca il Cristianesimo e rievoca i grandi
episodi storici, letti in chiave mazziniana/massonica come tappe del grande
percorso umano nella lotta contro tirannia ed oscurantismo.
Nel 1879 una storia extraconiugale gli permette di ravvivare la propria vita
privata, devastata dalla morte del figlio Dante nel 1879; nel frattempo si lega
agli ambienti della Sinistra Storica e soprattutto si avvicina alla monarchia,
divenendo così il ‘’vate’’ della nazione.
Anche in ambito letterario emergono novità , in primis l’adesione ad una
poetica dell’arte pura ispirata dal movimento parnassiano.
Ora Carducci si propone di comporre una poesia ‘’oggettiva’’, in grando di
riprodurre l’armonia e la perfezione degli antichi e immune dal
sentimentalismo romantico.
Questo rinnovato classicismo si tramuta nella raccolta delle Odi barbare
(1887), dove Carducci attinge alla metrica del Rinascimento, che a sua volta
poggiava sulla metrica quantitativa antica.
Influenzato dalle grandi scoperte archeologiche del tempo, il poeta toscano fa
risuonare nella lingua e negli spazi dei moderni (come la ferrovia) la perduta
musica della poesia greco-latina, creando un ordine e delle sonorità nuove.
Il nome ‘’odi’’ è un richiamo alla raccolta del più grande poeta latino, Orazio
(65 a.C.-8 a.C.), a cui si richiama anche riprendendo il nome dell’amata: Lidia.
Nel testo emerge chiaramente una concezione aristocratica della poesia, in
questo caso mutuata da Leopardi.
Si afferma in conclusione un classicismo estitico-etico, che adora in chiave
neo-pagana la vitalità della natura, i concreti piaceri della vita, la luce e
l’amore per Lidia.
Il poeta-vate parla così ai contemporanei, offrendo loro un neopaganesimo
idealizzato, fatto di patriottismo, di un ethos laico e di autocontrollo razionale
da contrapporre alla crisi scapigliata e alla morale cristiana.
Sul versante politico recupera la grandezza della Roma antica per costruire il
mito nazionalista dell’Italia come l’erede del prestigio e del dominio romano.
Le Odi barbare hanno un successo enorme proprio presso la borghesia, anche
per la familiarità di questa con la poesia classica.
Anche nelle successiva Rime nuove Carducci si sforza di esprimere sentimenti
intimi in modo oggettivo: nel Pianto antico, componimento per la morte del
figlio Dante, non usa mai la parola ‘’io’’ e per rendere il dolore utilizza la
metafora dell’albero prosciugato dalla linfa vitale: ‘’mia pianta/percossa e
inaridita’’.
Le Rime nuove esplorano le moderne misure romanze della rima e del verso,
ma attraverso la stessa matrice patriottica e parnassiana delle Odi barbare; il
richiamo a vicende epiche/antiche serve invece a compensare l’assenza di un
patrimonio epico medievale italiano.
Carducci si presenta in sostanza come l’assoluto dominatore del mondo
letterario italiano e autore culminante della tradizione letteraria nazionale; la
nomina a senatore nel 1890 va letta come un riconoscimento del prestigio e
come il segno dell’adesione alla politica reazionaria di Crispi.
Nel 1906 riceve anche il premio Nobel, ma a quest’altezza egli è ormai il
simbolo di un mondo scomparso.

6. IL DECOLLO INDUSTRIALE DELLA NARRATIVA E LA LETTERATURA


PER L’INFANZIA

L’industria editoriale punta ormai sempre più sul romanzo, che apre agli
autori italiani un mercato immenso, fino ad allora dominato da autori inglesi
e francesi.
La figura del romanziere va sempre più professionalizzandosi: si svecchia lo
stile, la sintassi diventa semplice e scorrevole, si punta sulle avvenuture e su
elementi esotici o fantastici per compiacere tutti i vari gusti.
La narrativa di consumo si sgancia così sempre di più da quella più
ambiziosa a livello letterario; si è più volte parlato dello straordinario
successo dei romanzi d’appendice.
Sulla scia del romanzo di Sue I misteri di Parigi (1843), si scrivono sempre più
storie macabre di delitti ambientate nei bassifondi delle grandi metropoli.
I lettori borghesi preferiscono invece romanzi mondani caratterizzati da un
moderato realismo, e che spesso hanno come fulcro degli amori impossibili
dell’alta società; temi frequenti sono donne fatali, storie d’adulterio,
corruzione, speculazioni finanziarie.
La crescita dell’alfabetizzazione femminile fa sì che anche le donne entrino
nell’industria editoriale come romanziere e come lettrici; a queste ultime
sono loro dedicate racconti edificanti e il nuovo genere del romanzo rosa.
Le scrittrici narrano invece la condizione più realistica, ritraendo protagoniste
costrette a fare i conti con il codice culturale del tempo che le vuole madri
pronte a sopportare qualsiasi cosa per la famiglia.
Anche bambini e adolescenti divengono parte del pubblico: nasce infatti la
narrativa per l’infanzia, che coniuga divertimento ed intento educativo.
Il romanzo Cuore (1886) di Edmondo di Amicis (1846-1908) diviene il vero
best seller del proprio tempo, divendo il romanzo giovanile per eccellenza per
diverse generazioni di Italiani.
Il romanzo segue un anno di una classe di scuola elementare a Torino, nella
quale confluiscono bambini e personaggi provenienti da tutte le classi
sociali, alle quali è rivolto l’invito ad adottare un comportamento umanitario,
di collaborazione, patriottico, orientato al lavoro e al sacrificio (secondo i
principi dell’etica borghese).
L’altro capolavoro per ragazzi di quest’epoca è Le avventure di Pinocchio (1883)
del fiorentino Carlo Collodi (pseudonimo di Carlo Lorenzini, 1826-1890).
Nel testo si coniugano elementi fiabeschi all’anarchica vogli di libertà dei
bambini, legati però assieme da una macrostruttura narrativa che si attiene ad
un progetto educativo: i tratta di un’inedita sintesi tra il genere adulto e
realistico dei romanzi di formazione, con l’elemento fantastico della favola
(fate, orchi, esseri antropomorfi).
L’opera diventa un capolavoro involontario, che all’epoca ebbe meno
successo di Cuore, ma divenendo in seguito una delle favole per ragazzi più
amata di sempre.
Ciò è dovuto soprattutto alla fusione di motivi romanzeschi, situazioni della
gothic novel, del mito biblico (la balena), della leggenda popolare (il Paese dei
Balocchi), i miti classici (le metamorfosi).
Questo però non offusca lo sguardo crudemente realistico sulla vita sociale
contemporanea: Pinocchio vive la miseria, la fame e i soprusi delle autorità.
Tuttavia le sue peripezie, anche nei momenti più drammatici, non risultano
mai lacrimose in quanto a prevalere è sempre la gioiosa voglia di divertirsi
tipica della mentalità ribelle dei bambini e la loro distanza dal mondo degli
adulti.
7. L’ARTE DEL ROMANZO: GLI SCAPIGLIATI, DOSSI, I VERISTI

Gli scapigliati sono i primi ad affacciarsi sulla scena letteraria italiana ad


unità ormai compiuta.
Essi seguono itinerari creativi differenti, eppure partecipano ad un’atmosfera
comune, ossia quella propensione a trasgredire i codici narrativi, linguistici e
letterari.
Gli scapigliati esplorano gli ambiti del morboso, dello sporco e del perverso,
sviluppando al massimo la vocazione irrazionale del Romanticismo europeo,
rovesciandone però allo stesso tempo i modelli linguistici.
Apripista è Iginio Ugo Tarchetti (1839-1869), che nel suo romanzo Tosca
(1869) racconta dell’amore del protagonista-narratore per una donna brutta,
per il quale emerge una passione morbosa e contraddittoria.
La passione per la macabra bruttezza di Fosca, rappresenta al meglio
l’ambigua fascinazione scapigliata per la perversione.
Tarchetti ha il merito di tradurre in Italia il filone del fantastico e quello
dell’orrore (quindi le esperienze di Hoffmann e Poe): nei suoi Racconti
fantastici (1869) irrompono il mistero, l’incubo e il soprannaturale.
Camillo Boito (1836-1914), fratello di Arrigo, nelle sue Storielle vane (1876 e
1883) traduce il repertorio scapigliato in situazioni meno estreme e surreali.
In Senso (1883), la sua novella più nota, parla della storia d’amore tra una
nobildonna veneziana ed un militare austriaco, che in realtà si concede a lei
solo per poter mettere le mani sui suoi soldi.
Si tratta di un amore anti-risorgimentale, scandito dalla bassezza morale
dell’amato; lo stesso finale, con la vendetta crudele della donna, è quanto di
più lontano dalle idealità romantiche della generazione precedente.
Il pavese Carlo Alberto Pisani Dossi (1849-1910) intraprende in modo ancora
più radicale la strada della rivolta ai codici letterari correnti.
Nobile di famiglia, Dossi è vicino all’ambiente della scapigliatura milanese ed
esordisce nel 1868 con il romanzo autobiografico L’Altrieri, in cui assume il
nome fittizio di Guido Etelredi per parlare della sua infanzia e adolescenza.
Il secondo romanzo, la Vita di Alberto Pisani scritta da Carlo Dossi (1870), vede
questo continuo gioco di specchi ancora più esasperato.
Le convinzioni narrative sono scardinate da digressioni, da battute meta-
letterarie del narratore, incastri di tempo e persino inversione dei capitoli.
A catturare l’attenzione è però soprattutto l’eccentro impianto linguistico,
fatto di parole che scardinano la norma manzoniana: arcaismi, locuzioni
dialettali, calchi di lingue straniere.
Ne emerge un’ortografia tutta propria, per cui parole non piane sono
accentate e sono introdotti nuovi segni di punteggiatura: l’effetto è una
grottesca deformazione talvolta, o una icastica nitidezza delle percezioni.
Il lavoro di Dossi è troppo sperimentale per essere apprezzato dal grande
pubblico, mentre la critica più raffinata ne apprezza notevolmente l’alto
grado di sperimentalismo.
Dopo il 1870 il successo internazionale dei romanzi di Zola fa sì che anche in
Italia si apra il filone del realismo, che si concentra soprattutto a Milano negli
ambienti della scapigliatura detta ‘’democratica’’.
Il portavoce di questa nuova tendenza è Felice Cameroni (1844-1913), il quale
sostiene la necessità di rifarsi al naturalismo francese per denunciare tutte le
ingiustizie della società oderna; una proposta che si traduce però in una solo
superficiale imitazione dei temi zoliani.
Giovanni Verga e Luigi Capuana (1839-1915), entrambi siciliani, sono i due
scrittori che arrivano ai risultati più interessanti.
Entrambi iniziano con il romanzo d’intrattenimento borghese, che decidono
di abbandonare dopo la lettura dei romanzi di Zola.
Il romanzo di Capuana Giacinta (1878) diviene fin da subito il manifesto del
verismo italiano: la storia è quella di una donna che subisce uno stupro, e che
per questo vive una vita segnata dall’onta del disonore, che cerca di riottenere
sposando un uomo che non ama, che però tradisce la notte delle nozze,
rimanendo in seguito incinta e abbandonata dal marito.
I temi che emergono dalla storia sono il malessere psicologico della
protagonista e il disagio sociale che è costretta a vivere.
L’opera si inserisce subito all’interno della disputa tra sostenitori del verismo-
naturalismo e tra i suoi detrattori, i primi sostenuti dagli scapigliati, i secondi
dalla critica tradizionale (a cui si aggiunge anche Carducci, ostile al romanzo
e alla minaccia verista per le sue liriche classiciste/storiche).
Capuana nel 1880 pubblica gli Studii sulla letteratura contemporanea, in cui
sostiene la necessità di un ‘’metodo scientifico e impersonale’’; parallelamente
Verga attua la più grande rivoluzione narrativa dai tempi di Manzoni.
L’egemonia positivista e l’interesse per gli studi popolare, uniti al prestigio
di Zola (e a quello raggiunto faticosamente da Verga e Capuana) fanno sì che
tra 1870-1880 si diffonda in tutta la penisola la narrativa verista.
I differenti squilibri dell’Italia fanno sì che si diffonda un verismo
‘’regionale’’, nel senso di profondamente vincolato alla realtà di riferimento.
La rivoluzione operata da Verga resta però priva di imitatori, e in realtà la
stessa adesione al codice verista si rivela molto superficiale.

8. GIOVANNI VERGA: I VINTI E ‘’L’ILLUSIONE COMPLETA DELLA


REALTÀ’’

Giovanni Verga (1840-1922) nasce a Catania da una famiglia di proprietari


terrieri: compie studi privati e si unisce ai garibaldini nel 1860, esperienza
dopo la quale si dedica alla scrittura assiduamente.
Nel 1865 si trasferisce a Firenze, dove esordisce con il romanzo epistolare
Storia di una capinera (1871), in cui si parla di monacazione forzata, tema che
lo allinea alla stagione anticlericale forte in quegli anni in letteratura.
Nel 1872 si sposta a Milano, ormai miglior centro editoriale del paese, dove si
inserisce negli ambienti mondani e letterari, riuscendo ad affidare alla grande
editrice Treves il suo romanzo Eva (1873), storia di un pittore catanese che va
a Firenze per cercare la fortuna, fallendo però sia nell’arte che in amore.
Lo stile resta quello del romanzo borghese d’intrattenimento, mentre nuovo è
il tema dell’involuzione del protagonista, che segna un allineamento con le
posizioni scapigliate (alle quali è confermata l’adesione nella prefazione).
Con i due successivi romanzi Tigre reale (1874) ed Eros (1875), anche questi di
ambientazione mondana, Verga diviene uno scrittore professionista, capace
di assecondare i gusti del pubblico.
Verga compone anche diverse novelle, tra le quali a quest’altezza merita di
essere ricordata Nedda (1874), storia di una contadina siciliana rimasta orfana
ed incinta, che incapace di mantenersi vede morire la figlia di stenti; vengono
qui riproposti i toni patetici della narrativa rusticale.
Tra 1878 e 1880 Verga elabora una radicale svolta creativa che porta ad un
defintivo salto di qualità della sua scrittura.
Si tratta di un cambiamento così repentino che ancora oggi stimola diverse
ipotesi nella critica, e che molto probabilmente fu dovuta alla novità prodotta
dall’Assommoir di Zola (1877).
Dal 1878 Verga adotta sempre di più i procedimenti stilistici del romanzo
sperimentale di Zola, rappresentando le sue scene attraverso forme il più
impersonali ed oggettive possibile.
Il confronto con lo scrittore francese lo spinge ad andare oltre le richieste del
mercato, presentando così ai lettori un mondo agli antipodi rispetto a quello
delle metropoli: la natia Sicilia, con il suo mondo fatto di contadini, pescatori,
minatori e braccianti.
Un universo arcaico ed immobile, primitivo e selvaggio per chi lo osserva da
fuori.
La svolta avviene dapprima nelle novelle: nel 1880 esce la raccolta Vita dei
campi, in cui emergono soprattutto due testi, ‘’programmatici’’ in qualche
modo in quanto contenenti delle sorte di linee guida per la lettura.
Il primo testo è la novella Fantasticheria, in cui lo scrittore affronta un ‘’dramma
modesto e ignoto’’ nel quale emerge ‘’l’ideale dell’ostrica’’, secondo cui l’unica
possibilità per la gente di questo mondo arrestrato di sopravvivere al mondo
contemporaneo, pronto a divorare chi ‘’si stacca per curiosità’’.
La seconda novella-manifesto è la dedica a Salvatore Farina della novella
l’Amante di Gramigna, in cui scrive di aver scelto il metodo dell’impersonalità
per poter dare l’idea che l’opera sembri ‘’fatta da se’’’.
Nei racconti la mano dell’artista resta effettivamente invisibile, lasciando che
siano altre voci a narrare le vicende, voci che utilizzano modi di dire e
metafore della parlata popolare e del dialetto; impasto rafforzato dall’uso del
discorso indiretto libero.
L’impersonalità dell’autore è resa tramite la mimesi dietro le voci popolari,
ma anche attraverso la rottura la tradizione, che aveva escluso sempre dalla
letteratura le vere voce degli umili (solo Porta e Belli avevano svolto una
operazione simile, utilizzando però il discorso diretto).
L’eclissi del narratore permette a Verga di ottenere effetti drammatici con
pochi dettagli essenziali, senza dunque l’elemento melodrammatico degli
scapigliati.
Esempi sono le novelle La lupa, storia della passione erotica che travolge una
donna matura, e Rosso Malpelo, storia di un giovane minatore pieno di voglia
di ribellarsi e sfruttato dai suoi compagni come una bestia.
L’elemento malinconico e patetico è totalmente eliminato, cosa che lascia
spazio all’oggettività di considerazioni crudeli e spietate.
L’approdo più radicale di questo procedimento arriva con il romanzo I
Malavoglia (1881), storia delle disgrazie vissute da una famiglia di pescatori di
Aci Trezza.
Nella Prefazione Verga spiega che il romanzo farà parte di un ciclo di cinque
romanzi destinati al racconto delle diverse aspirazioni che muovono verso la
‘’ricerca del meglio’’.
Si passerà dunque dalla ‘’lotta pei bisogni materiali’’ nei Malavoglia, alla ‘’avidità
di ricchezze’’ borghese in Mastro don-Gesualdo, poi alla ‘’avidità aristocratica’’
nella Duchessa di Leyra, alla ‘’ambizione’’ politica nell’Onorevole Scipioni e infine
all’artista, che ‘’sente tutte coteste bramosie’’ nell’Uomo di lusso.
Si tratta dell’unico coerente tentativo di tradurre in maniera ridotta nel
contesto italiano il ciclo dei Rougon-Macquart di Zola.
Nel ‘’ciclo dei vinti’’ Verga dimostrerà che il cammino verso l’evoluzione ed il
progresso è bello solo se visto da fuori, motivo per cui lo scrittore deve
interessarsi a questa inarrestabile ‘’fiumana’’ e di interessarsi ai ‘’vinti’’,
travolti da questa nuova ‘’lotta per l’esistenza’’.
La trama dei Malavoglia ruota intorno allo scontro tra due universi che sono
del tutto inconciliabili: l’integrità dell’etica popolare, fatta di rassegnazione,
duro lavoro, sacrificio e solidarietà; la tensione all’ascesa sociale, fatta di
egoismo, lotta di tutti contro tutti, favorita dalla storia e dal cambiamento.
La Terza Guerra d’Indipendenza del 1866 entra nella storia giusto per offrire
una visione disincantata e amara del mondo contemporaneo.
Sul versante linguistico troviamo scelte totalmente opposte al modello offerto
da Manzoni: tutti i protagonisti e i loro compaesani parlano attraverso
formule dialettali.
La presenza dell’autore è invece nascosta tramite l’utilizzo del coro dei
paesani, che esprime giudizi, racconta antefatti e commenta le diverse
situazioni al posto dell’autore.
Le voci offrono anche prospettive ideologiche differenti, facendo emergere i
due assi etici dell’intera vicenda: solidarietà arcaica e interesse moderno per
onore e denaro.
La narrazione corale è possibile grazie all’enorme numero di personaggi, che
produce una ‘’confusione’’ in grado di dare ‘’l’illusione completa della realtà’’.
Verga scrive a Capuana che i Malavoglia sono stati a livello editoriale un
‘’fiasco completo’’, che spinge Verga a scendere a compromessi con il mercato,
motivo per cui il romanzo successivo, Il marito di Elena (1882) è di
ambientazione borghese e ottiene un buon riscontro dal pubblico.
A riaffermare la rivoluzione verista, fermata dalle contraddizioni letteratura
moderna, sono le raccolte di novelle Per le vie e Novelle rusticane (1883).
Verga apre poi un ciclo zoliano anche in teatro, per cui concepisce una trilogia
di opere ambientate tra i contadini del Meridione, nel proletariato di Milano e
nei salotti aristocratico-borghesi.
Il primo tassello è l’atto unico Cavalleria rusticana (1884), tratto da una novella
di Vita dei campi: si presenta il dramma che porta alla morte di Turiddu, un
bracciante ritornato dal servizio militare, accusato per vendetta dall’amante
Santuzza (che ha messo incinta) di essere l’amante di Lola, moglie del ricco
carrettiere Alfio.
Per rendere appetibile al pubblico la vicenda che porta infine alla morte di
Turiddu, Verga decide di adottare il modello linguistico basato sul
fiorentino, riservando ai dialoghi il trattamento verista (sono eliminate le
‘’tirate’’, che gli attori facevano alla platea per esprimere sentimenti/emozioni
nascoste).
Si ricava una tragedia fatta di passioni elementari e universali (amore, odio,
vendetta, gelosia e pietà), di motivazioni e cause religiose/economiche/
morali, unite alla tradizionale trama amorosa del teatro borghese.
L’opera ha un successo clamoroso in tutte le più grandi città italiane e anche
all’estero, ma dopo il fiasco della seconda opera, Verga torna al ciclo dei vinti e
scrive il secondo romanzo verista: Mastro-don Gesualdo, ambientato tra il 1820
e il 1848 a Vizzini, piccolo centro del catanese.
Verga riduce qui le novità stilistiche introdotte nei Malavoglia, mettendo a
fuoco non più una comunità, ma un solo uomo, un rapace individualista che
si arricchisce enormemente, anche a costo di sacrificare l’unico rapporto
affettivo sincero (quello per l’amante Diodata).
Quella di Gesualdo Motta è la storia di un uomo mosso dalla brama di
possesso, presentata come motore occulto della società, che conduce alla lotta
di tutti contro tutti.
La colpa pagata dal protagonista è soprattutto quello di non riuscirsi ad
integrare nella società, di soffrire del male di vivere nella società, un tipo di
redicale negatività che ricorda Leopardi.
I moti del 1821 e del 1848 appaiono sullo sfondo di questa vicenda: essi hanno
come scopo quello di abbattere i regimi assolutisti e instaurare moderne
democrazie.
Di questi elementi di positività nel romanzo di Verga non vi è però traccia: nel
romanzo la lotta liberale e i suoi ideali sono visti come squallidi strumenti di
un gioco delle parti.
Così Gesualdo diverrà rivoluzionario nel 1821, al fine di arricchirsi, e allo
stesso tempo nel 1848, per tutelare il suo patrimonio, diviene conservatore.
Rispetto ai Malavoglia Verga restituisce spazio alla parola esterna del
narratore: si espandono i momenti descrittivi, con valenza talvolta suggestiva
e talvolta simbolica.
Lo sguardo del narratore è però totalmente distaccato, e persino crudele in
alcune occasione quando va ad offrire dettagli grotteschi e squallidi.
La maggiore varietà di ambienti e l’unità garantita dal protagonista rendono
il romanzo più facile per i lettori rispetto ai Malavoglia, decretandone così il
successo.
Tuttavia in tutt’Europa è iniziata una nuova stagione, che fa crollare il peso
del naturalismo/verismo, e che trova in Italia il suo massimo esponente
nell’esteta D’Annunzio, che con il suo romanzo Il Piacere (1889) offre un
manifesto della nuova tendenza estetizzante.
Verga, costretto ora a rappresentare un universo sociale molto più variegato,
abbandona il progetto del ciclo dei vinti e si dedica alla scrittura
saltuariamente, fino all’esaurimento della creatività: il valore della sua opera
verrà riconosciuto dalla critica solo ad inizio Novecento, quando s’imporrà
come un classico della narrativa naturalista europea.
5) ESTETI, DECADENTI, SIMBOLISTI NELLA CRISI DI
FINE SECOLO (1889-1903)

1. LA CRISI DI FINE SECOLO DA CRISPI A GIOLITTI

Nel 1887 sale al governo il leader della Sinistra Francesco Crispi (1818-1901),
che domina la scena politica per un decennio.
Gli ultimi quindic’anni dell’Ottocento fanno emergere tutte le contraddizioni
dell’epoca post-unitaria, precipitando il paese nella ‘’crisi di fine secolo’’.
La crescita demografica italiana si scontra con un’economia stagnante, con la
miseria dei contadini, costretti ad emigrare.
La massiccia scolarizzazione e l’allargamento sel suffragio ha immerso nel
sistema politico nuovi cittadini, desiderosi di allargare i loro diritti: si
diffondono così i sindacati e viene fondato il Partito Socialista Italiano (PSI),
in cui convivono i ‘’riformisti’’, sostenitori della lotta parlamentare, e i
‘’massimalisti’’, fautori della rivoluzione; sempre in questa stagione si
diffonde notevolmente l’anarchismo.
Anche la Chiesa prende posizione: con l’enciclica Rerum Novarum (1891) papa
Leone XIII (1878-1903) critica le ingiustizie del capitalismo e condanna i
socialisti; nascono così cooperative e associazioni cattoliche.
Il sacerdote marchigiano Romolo Murri (1870-1944), dirigente di una di
queste organizzazioni cattoliche, punta ad una democratizzazione della
società italiana secondo principi cristiani.
Le sue posizioni si allineano a quelle dei cristiani ‘’modernisti’’, che cercano
di coinciliare teologia cristiana e scienza; nel 1903 questi vengono condannati
dal nuovo papa Pio X (1903-1914).
In questi anni emerge la figura dell’intellettuale polemista, capace di
orientare il dibattito politico-culturale attraverso formule e provocazioni
tipiche del giornalismo.
La maggior parte di questi adotta posizioni ultra-conservatrici, ostili alla
massa incolta e alle sue rivendicazioni sociali e fautori di un nuovo tipo di
patriottismo: il nazionalismo, che li porta ad identificare lo Stato come un
organismo che per sopravvivere è costretto a cercare potenza ed espansione.
Crispi, pressato da socialisti e nazionalisti, opta per una via autoritaria che
assecondi entrambi: cerca di favorire la colonizzazione e di accrescere il
prestigio internazionale del paese sostenendo l’imperialismo coloniale in
Africa.
Gli Italiani sono però sconfitti dagli Abissini nella battaglia di Adua (1896),
che costa il governo a Crispi, costretto a dimettersi; l’umiliazione subita non
fa altro che alimentare il sentimento imperialista e autoritario dei nazionalisti.
L’apice della crisi è toccato con il triennio 1898-1900, quando si susseguono la
rivolta di Milano (1898) contro il rincaro sul prezzo del pane e l’assassinio
del re Umberto I (1878-1900) compiuto a Monza dall’anarchico Gaetano
Bresci (1869-1901).
Il nuovo re Vittorio Emanuele III (1900-1946) promette di ripristinare la pace
interna, affidando il compito al liberale Giovanni Giolitti (1842-1928), che
promuove il compromesso tra le parti sociali e coinvolge nella gestione dello
Stato i socialisti e i cattolici.

2. ESTETI, DECADENTI E SIMBOLISTI TRA EUROPA E ITALIA

Molti intellettuali reagiscono alla crisi di fine secolo mettendo sotto accusa la
cultura positivista, a cui viene opposta la teoria della decadenza, capace di
rappresentare al meglio le angosce di ceti medi ed élites di fronte alle nuove
rivendicazioni socialiste.
Il nuovo clima favorisce la rivalutazione dello spiritualismo d’epoca
romantica, e allo stesso tempo il mondo artistico-letterario viene investito da
una comune inclinazione all’estetismo, dal frequente tema della decadenza e
il richiamo ai procedimenti stilistici del simbolismo francese.
Con ‘’estetismo’’ si intende la propensione ad estremizzare l’ideale
parnassiano di ‘’arte per l’arte’’: il culto del bello diviene il valore supremo di
un fenomeno di costume, rappresentato dall’eccentrica figura del ‘’dandy’’,
che modella la propria vita come un’opera d’arte.
Il gusto decadente si rifà alle poetiche di Baudelaire e Flaubert, proponendo
una bellezza bizzarra e corrotta dal cruciale elemento del vizio, presentato
spesso sotto forma di erotismo raffinato e perverso.
Letteratura e arti figurative rievocano lo sfarzo, il culto del piacere e la
corruzione morale dei grandi imperi decadenti: Roma, Costantinopoli,
Alessandria.
In opposizione al primato parnassiano dell’oggettività personale però, si
impone in questi anni l’esigenza dell’unicità della vita interiore attraverso
un linguaggio inafferrabile.
In Inghilterra il punto di partenza del nuovo ideale estetista è da collocare nel
gruppo letterario-artistico costituitosi attorno al poeta/pittore Dante Gabriel
Rossetti (1828-1882), che si richiama al Medioevo e al Quattrocento italiano.
Nel 1848 egli fonda la ‘’Fratellanza Preraffaelita’’, che eleva a posizione
egemone l’epoca pre-rinascimentale, facendo così emergere atmosfere
rarefatte e sognanti, ricche di dettagli raffinati e preziosi.
Il poeta Algernon Charles Swinburne (1837-1909) innesta l’ideale di bellezza
femminile prerafaellita sull’immaginario erotico braudeliana, creando così la
figura della donna fatale, luogo comune della letteratura di quest’epoca.
A Walter Pater (1839-1894) si deve invece attribuire l’elaborazione di una
teoria dell’estetismo, che crea un canone estetico, che da Platone va ai quadri
di Leonardo da Vinci.
Nella Germania del secondo Ottocento si impone invece l’irrazionalismo, che
fiorisce in ambito filosofico-musicale, in primo luogo grazie al recupero
dell’opera di Arthur Schopenauer (1788-1860), soprattutto Il mondo come
volontà e rappresentazione (1819).
Schopenauer presenta un mondo dominato dall’incosciente impulso vitate
della ‘’Volontà di vivere’’, che spinge uomini e animali a conservarsi in vita
ricercando il piacere, che però non viene mai soddisfatto.
Il filosofo tedesco individua nell’arte, ma soprattutto nella musica, il mezzo
privilegiato per liberarsi dalle pulsioni della Volontà di vivere, che è del tutto
indifferente alla sofferenza causata all’uomo dal mancato soddisfacimento dei
propri piaceri.
Il pensiero di Schopenauer, schiacciato da quello del contemporaneo Hegel,
influenza il lavoro di Richard Wagner (1813-1883), che espone la propria
poetica ne L’opera d’arte dell’avvenire (1849).
Il compositore tedesco sogna di restituire alla musica quel valore ‘’sacra’’ che
aveva nella tragedia greca: progetta così una ‘’opera d’arte totale’’, capace di
unire parole, musica e azione drammatica.
L’obiettivo del teatro wagneriano è quello di muovere le emozioni degli
spettatori, ponendoli in comunione con il mito.
Questo risultato è perseguito con la tetralogia L’anello del Nibelungo (1854-
1872), in cui Wagner fonde il canto degli spettatori e la sinfonia dell’orchestra
in un unico impasto sonoro da cui emergono i ‘’Leitmotiv’’ (‘’motivi
conduttori’’), che devono imprimere delle atmosfere emotive nella memoria
degli spettatori.
Il fascino di Wagner e Schopenauer conquista anche Friedrich Nietzsche
(1844-1900), filologo e filosofo che nella Nascita della tragedia (1872) propone
una modalità rivoluzionaria di concepire la tragedia greca, concepita come la
perfetta sintesi tra la perfezione classica e armonica dell’apollineo e
l’incomprensibile forza del dionisiaco (ossia ‘’gioia, dolore e conoscenza’’).
Nietzsche propone così una visione di grecità totalemente opposta a quella
allora dominante (elaborata dal Wilamowitz), basata sulla compresenza di
pulsioni antitetiche: armonia e disordinatà vitalità/ebrezza.
In seguito però Nietzsche si allontana da Schopenauer e Wagner, per arrivare
ad una critica delle ‘’illusioni’’ artistiche, religiose e filosofiche su cui si
basano i valori etici della civiltà occidentale.
In Così parlo Zarathustra (1885) e nella Genealogia della morale (1887) il filosofo
tedesco parte dalla posizione della ‘’morte di Dio’’ per affermare la caduta dei
valori della religione, abbattuti dalla razionalità scientifica del positivismo
scientifico, che però è essa stessa un’illusione.
Vivere senza i valori morali della religione significa accettare l’eterna
ripetizione dei propri atti, andando al di là dei limiti umani e trasformandosi
così in un ‘’Ubermensch’’ (‘’oltre uomo’’), capace di imporre sugli altri la
propria ‘’volontà di potenza’’, ossia una tensione all’affermazione del se’ e al
possesso.
A fine secolo Nietzsche diviene una leggenda vivente in Europa, e alla sua
morte le sue teorie, purtroppo spesso stravolte ed estremizzate, divengono
strumenti ideologici impiegati in polemiche antipositiviste e antiliberali.
In Francia è attiva invece una nuova generazione di poeti capace di portare
all’estremo le posizioni di Baudelaire.
Il primo e più radicale di questi innovatori è Arthur Rimbaud (1854-1891),
secondo cui chi crea non è realmente consapevole di se’, motivo per cui è
necessario diventare ‘’veggente’’ attraverso un sregolamento di tutti i sensi.
Il viaggio nell’irrazionale e nel proibito è basato sulla capacità del veggente di
attingere a ‘’visioni’’ che trascendono la realtà; ciò è reso nella lingua
attraverso un ricorrente uso della sinestesia.
Quella di Rimbaud è una poesia basata su sensazioni, stati d’animo e
percezioni che si associano liberamente in una poesia dotata di grande potere
evocativo.
La sua opera, nota a pochissimi, viene valorizzata dall’amico-amante Paul
Verlaine (1844-1896), che contribuirà a sua volta alla trasformazione del
linguaggio poetico ottocentesco, sempre più legato all’indefinitezza della
musica.
La sua raccolta Romanze senza parole (1874) si oppone allo stile parnassiano e
adotta registri confidenziali e dimessi e descrivono oggetti e e situazioni
quotidiane, esprimendo in prima persona affetti ingenui, il languore della
decadenza e sfumature.
Con Stéphane Mallarmé (1842) questa ricerca di una nuova lingua poetica
raggiunge livelli nuovi.
Nelle sue poche e complesse liriche Mallarmé aspira ad una lingua suprema,
che si allontani dalla lingua indegna della quotidianità e superi la normale
connessione tra suono e significato.
Per Mallarmé la poesia deve abbandonare l’esattezza parnassiana e ricercare
il ‘’senso misterioso dell’esistenza’’, una suggestione percorsa tramite il
‘’simbolo’’, non interpretabile tramite un codice predefinito, ma perché e
scelto arbitrariamente in base alle idee/sensazioni suscitate.
Nel 1883, con la raccolta I poeti maledetti (1883), Verlaine valorizza la radicale
della poesia sua, di Mallarmé e Rimbaud, creando così una letteratura
d’avanguardia, a cui si adeguano anche gli altri generi.
Joris-Karl Huysmans (1848-1907) scrive il romanzo manifesto A rebours (noto
in italiano con il titolo di Controcorrente, 1884), in cui racconta la vicenda di un
dandy esteta e decadente, Jean des Esseintes.
La mescolanza di estetismo inclusivo e misticismo si accorda perfettamente
alla rinascita spiritualista in atto nelle classi medio-alte.
La ricerca permanente di novità ed esigenza di differenziazione portano però
i principali scrittori a differenziarsi in vari gruppi:

- I decadenti si richiamano a Verlaine, quindi ricercano una poesia musicale,


basata su emozioni semplici e vicine a quelle dei bohémiens.
- I simbolisti si richiamano a Mallarmé e vivono la poesia come una religione
suprema, a cui votare un linguaggio complesso, sofisticato ed ermetico, che è
accessibile a pochi.

Simbolisti e decadenti mettono in crisi l’egemonia parnassiana nella poesia e


quella naturalista nella narrativa, in primis attraverso posizioni ideologiche e
culturali conservatrici, diffuse tramite la rivista Revue des deux monde.
Il direttore è Ferdinand Brunetière (1849-1906), che da questo palcoscenico
mette all’ordine del giorno la polemica contro il riformismo liberale e la
laicità in campo politico.
Le sue dichirazioni riguardo la ‘’bancarotta del naturalismo e della scienza’’,
segnano il culmine del successo della mentalità antipositivista.
La Revue traduce e valorizza narratori stranieri alternativi al naturalismo, in
particolar modo i narratori russi, i cui lavori soddisfano le necessità di
religiose e spirituali.
In Delitto e castigo (1866), Fedor Dostoevskij (1821-1881) presenta una storia
in cui ad emergere sono soprattutto i dilemmi che dilaniano l’anima e la
psiche del protagonista; le grandi novità introdotte dagli autori russi sono
però recepite solo parzialmente.
Paul Bourget (1852-1935) porta al sucesso il genere del romanzo psicologico
e imita i romanzieri russi, ma solo per opporre alla ‘’volgarità’’ degli ambienti
naturalisti lo sfarzo e l’eleganza degli ambienti mondani e aristocratici, ma
anche il tema dell’analisi dell’io.
Anche in Italia, poco dopo il 1880, nuove generazioni d’intellettuali, travolte
dalla mentalità decadente, cominciano a mettere in crisi il positivismo: una
svolta che parte dalle città di Firenze e Roma.
A Roma la rivoluzione è introdotta dalla rivista Cronaca bizantina (1881-1885),
che contamina la poesia di Carducci con le posizioni di Schopenhauer e Pater,
elaborando un gusto letterario parnassiano e preraffaellita.
Negli anni seguenti si impone lo stile decadente e simbolista di Pascoli e
D’Annunzio, e la rivista Il Convito (1895-1900) si impone come punto di
riferimento.
Il Prologo della rivista, scritto proprio da D’Annunzio, è un manifesto elitario
e antidemocratico.
La rivista si rivolge ad un pubblico ristretto, di alta estrazione sociale, presso
il quale si diffonde il pensiero ‘’aristocratico’’ di Nietzsche, che favorisce
l’idea di un nuovo ‘’Rinascimento latino’’ capace di opporsi all’egemonia
culturale del Nord Europa.
Il maggior centro di irradiazione è però Firenze, dove è attivo Angelo Conti
(1860-1930), elaboratore di uno spiritualismo neoplatonico e nemico giurato
dei positivisti, accusati di produrre la ‘’putrefazione della cultura’’.
Fondendo Platone e Schopenhauer, Conti elabora una teoria ascetica dell’arte
come strumento di elevazione spirituale, posizione a cui si rifanno le riviste
Vita Nuova (1889-1891) e Il Marzocco (1896-1932), quest’ultimo rivale del
Convito nel ruolo di capofila dell’estetismo italiano.
In queste riviste convivono due tendenze opposte: da un lato il nazionalismo
aggressivo e imperialista, vicino all’elemento estetista e aristocratico di
D’Annunzio e Pascoli; dall’altro il simbolismo umanitario e socialista di
Pascoli, che scrive sul Marzocco poesie e interventi teorici.
3. GABRIELE D’ANNUNZIO: L’ESTETA DI PROFESSIONE

Gabriele d’Annunzio (1863-1938) nasce a Pescara presso una ricca famiglia


borghese, che gli fornisce un’istruzione classicistico-umanista che lo porta, a
soli sedici anni, a pubblicare la sua prima raccolta di rime: Primo Vere (1879),
ispirata alle Odi barbare di Carducci.
Nel 1881 si trasferisce a Roma per gli studi universitari e immediatamente si
inserisce nell’ambiente giornalistico e nei salotti dell’alta società.
Fin da subito egli assume lo stile di vita anticonformista del dandy: gli
scandali erotici, le frequentazioni mondane e gli interventi giornalistici lo
rendono il vero divo della capitale.
Scrive sulla Cronaca bizantina, il cui editore Sommaruga, gli pubblica nel 1882
due libri: la raccolta di poesie Canto novo, in cui emerge un gusto per le
metafore bizzarre e preziose, e la raccolta di novelle Terra vergine, ambientate
nel nativo Abruzzo, mondo primitivo e governato da istinti bestiali, che però
hanno come sfondo una natura sensuale e rigogliosa.
Già in questa prima fase della sua produzione, emergono in D’Annunzio due
punti fermi della sua mutevole personalità: la disposizione narcisistica e
sensuale e la prorompente vitalità.
In ambito pubblico invece egli si dimostra capacissimo di intercettare i gusti
del pubblico di massa, sia attraverso strumenti convenzionali, sia con i nuovi
mezzi di comunicazione (come pubblicità e cinema).
Roma è in quegli anni, assieme a Firenze, il principale centro d’irradiazione
delle nuove poetiche antipositiviste, che D’Annunzio non solo riesce a fare
proprie, ma anche a renderle adatte ad un vasto pubblico attraverso uno stile
aulico, arcaico e persino esotico.
Nella sua produzione si mischiano elementi di moda: dalle seduttrici fatali,
alla leggenda medievale; dagli episodi di perverso erotismo alle situazioni da
favola.
Sono frequenti le allusioni sessuali, che attirano molto i lettori e che
sconvolgono la critica, ancora vicina al modello carducciano.
Il clima culturale d’epoca post-unitaria è ormai superato, e D’Annunzio di ciò
è perfettamente consapevole: il mercato richiede generi d’intrattenimento, e il
poeta abruzzese va in contro a questa necessità.
Nel 1885 egli si dà alla ‘’forma romanzo’’, adattandosi alla nuova atmosfera: è
la genesi de Il Piacere (1889), romanzo in parte autobiografico che introduce in
Italia atmosfere, scelte stilistiche e personaggi del nuovo gusto
antinaturalista.
Ai personaggi e agli ambienti popolari borghesi, D’ Annunzio contrappone
un’alta società idealizzata, che si allinea al gusto conservatore della Revue de
deux monde.
A modelli antinaturalisti si rifà anche la figura del protagonista Andrea
Sperelli (che ha nei personaggi di Huysmans e Bourget i suoi antecedenti),
scisso tra l’ideale di estetismo e autocontrollo, e una psicologia affetta da
‘’potenza volitiva’’ e ipersensibilità nervosa.
Il narratore dannunziano, a differenza dei veristi, non si ecliussa: descrive i
pensieri dei personaggi, i pensieri, le inclinazioni intime e interviene con
commenti, massime e digressioni.
Oggetti e personaggi non sono rappresentati con realismo, ma sono
trasfigurati esteticamente da descrizioni liriche e paragoni nobilitanti.
Il Piacere si dimostra un’abile manipolazione di materiali estetici alla moda,
di ideologie elitarie e situazioni romanzesche stereotipate, poste all’interno di
una cornice narrativa accattivante, basata su continui flashback e anticipazioni.
Si tratta di un prodotto pensato per la moderna industria culturale, che dietro
la pretesa di riferirsi solo al ceto medio-alto, è in realtà assolutamente capace
di sedurre il pubblico di massa.
Il libro, uscito nello stesso anno di Mastro-don Gesualdo, è uno straordinario
successo, anche a causa delle polemiche sull’immoralità del protagonista.
D’Annunzio, ormai poeta e letterato di successo, va sempre più ad imporsi
nella scena letteraria italiana come il successore di Carducci alla carica di
‘’vate’’.
Il punto di riferimento rimane però al di fuori dell’Italia: è a Parigi che egli
guarda per rimanere sempre costantemente aggiornato sulle correnti estetiche
e filosofiche più all’avanguardia.
Il Poema paradasiaco (1893) si allinea alle tendenze del simbolismo francese
attraverso quello che in apparenza sembra un languido diario sentimentale,
ma che in realtà si presenta come una brillante reinvenzione tematico-
musicale finalizzata al recupero dei modelli egemoni in Francia.
Da Verlaine e da Pascoli egli riprende la rielaborazione dei buoni sentimenti e
degli affetti familiari, dai simbolisti invece le statue, i giardini di rose e le
atmosfere eleganti.
Anche in narrativa D’Annunzio recepisce le nuove mode culturali parigine:
arrivano così Giovanni Episcopo (1892) e L’innocente (1892), con cui si riallaccia
ai temi del romanzo russo.
Nei testi dunque trovano spazio sentimenti abnormi e morbosi; l’Innocente si
conclude con l’infanticidio compiuto dal protagonista, incapace di sopportare
il tradimento della moglie, rimasta incinta dell’amante.
Il testo sarà apprezzato soprattutto in Francia, permettendo a D’Annunzio di
raggiungere la fama internazionale.
I romanzi successivi Il Trionfo della Morte (1894) e Le Vergini delle Rocce (1895)
introducono invece nella riflessione dannunziana il pensiero di Nietzsche,
che in realtà il letterato italiano comprende molto poco, dal quale riprende la
nozione di superuomo, che trasforma in un modello ideologico-letterario su
cui basare i suoi alter-ego letterari (più vicini ai personaggi di Byron che allo
Zarathustra).
Si tratta dell’ennesima scelta di successo, che avvicina D’Annunzio all’élites
conservatrice e antidemocratica e che lo spinge nel 1897 a farsi eleggere in
Parlamento con idee ultrareazionarie e imperialiste vicine alla destra, che
però abbadonerà per sostenere l’ostruzionismo antiautoritario della Sinistra
nel 1900.
La crociera in Grecia a fianco dell’amante Eleonora Duse (1858-1924), attrice
di fama internazionale, lo riavvicina all’ideale mitologico dell’Antichità e lo
spinge a teorizzare una rinascenza latina (limitata a Francia e Italia, eredi di
Roma) che si opponga al prestigio culturale nordeuropeo , impersonificato da
Wagner.
Questa posizione trova sistemazione nel romanzo-poema Il fuoco (1900),
ambientato in una Venezia sontuosa e malinconica, che crea un’atmosfera che
esalta gli effetti della prosa lirica, che cerca di ricreare i leitmotive wagneriani.
Il protagonista del testo, Stelio Effrena, è l’ennesimo alter ego dell’autore, che è
stavolta lo strumento per esprimere una nuova poetica d’ispirazione
schopenaueriana basata sul concetto di ‘’arte-oblio’’.
Effrena/D’Annunzio sogna un nuovo genere di opera, in grado di rimettere
al centro la ‘’parola’’, rilegata da Wagner in secondo piano; il romanzo si
chiude con una scena emblematica: Stelio che porta in spalle la bara di
Wagner.
Gli ideali espressi ne Il Fuoco sono ripresi nel dramma di ambientazione
pastorale La figlia di Jorio (1904): una rivisitazione delle antiche trilogie degli
agoni della classicità greca.
L’opera è infatti concepita in tre atti, ognuno dei quali è autoconclusivo e
autosufficiente, oltre che basato sul principio aristotelico di unità di spazio,
tempo e luogo.
I protagonisti non sono però quelli del mito, ma i pastori del folklore
abruzzese, abitanti di una terra antica e fuori dal tempo, colorata però dalle
principali tendenze contemporanee.
La storia racconta dello scontro tra l’autorità patriarcale di Lazaro e i
sentimenti di suo figlio Aligi, innamorato della straniera Mila.
Lo scontro culmina con il parricidio, tema tipico della tragedia greca, che era
stato attualizzato già da Dostoevskij ne I fratelli Karamazov (1880).
La colpa individuale di Aligi è contrappesata dalla violenza e dalla volontà di
possesso carnale a cui si abbandona il popolo dopo la morte di Lazaro, una
situazione drammatica a cui solo il sacrificio ‘’spirituale’’ di Mila pone
rimedio.
La sua ultima battuta, ‘’la fiamma è bella’’ (gridata ad Aligi mentre si getta tra
le fiamme), riassume l’ambiguità della situazione: è forse la consacrazione
della vita al dionisiaco? O una forma esaltata di delirio?
Il richiamo ad elementi indecifrabili è tradotto in un linguaggio astratto ed
indecifrabile, che conferisce ai personaggi una sorta di ritualità.
D’Annunzio torna anche alla poesia, unico campo in cui può dire di
conoscere un concorrente (Pascoli) in grado di contendergli l’eredità di
Carducci.
In ambito lirico il progetto di ‘’Rinascimento latino’’ si tramuta nell’ambizioso
ciclo di poemi intitolato Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi.
Il termine ‘’Laudi’’ si richiama alla medievale poesia religiosa di San
Francesco d’Assisi (1181/1182-1226), ma si rifà anche all’immaginario
spirituale dei pre-raffaelliti.
La nuova poesia dannunziana, ispirata dalle teorie anticristiane di Nietzsche,
si fa portatrice di un culto pagano, sensuale e superomistico della natura e
della volontà di potenza degli eroi.
Il mondo classico, esempio di ordine morale e fisico, viene trasfigurato in un
modello di sfrenata esaltazione di istinti e sensi.
I libri delle Laudi nei progetti iniziali sono sette, intitolati ciascuno col nome
di una delle Pleiadi, tuttavia solo cinque sono portati a termine: Maia, Elettra,
Alcyone (1903), Merope (1912) e Asterope (1933).
I temi neopagani e superomistici sono trattati in Maia, dove compare la Laus
vitae, un esperimento di poema epico moderno, in cui sono celebrate le
imprese del poeta.
D’Annunzio, ritraendosi come un novello Odisseo in viaggio per la Grecia,
presenta così un ritorno rigenerante alle sorgenti del mito; arriva così la
consacrazione pubblica a nuovo poeta-vate della nazione, anche grazie alla
dedica a Carducci presente nel testo.
Il secondo libro, Elettra, è dedicato alla celebrazione degli eroi e dunque volto
all’ispirazione di una nuova poesia civile, in linea con le aspirazioni
nazionalistiche e imperialistiche dell’autore.
Il terzo libro, Alcyone, vede un accantonamento della maschera di ‘’vate’’ e la
celebrazione della natura, condotta tramite la rivisitazione lirica del genere
bucolico e della mitologia classica.
Il tema centrale è la celebrazione della comunione tra superuomo e universo
naturale, condotta tramite il ricorso ad un’apollinea eleganza formale e una
forte vitalità dionisiaca.
Le poesie seguono un ordine preciso: D’Annunzio le ha collocate in modo tale
che esse, diverse in metrica e temi nel corso dei vari momenti, rappresentino
lo sbocciare, il rigoglio e la fine dell’estate (‘’oasi dell’arte che ritempra l’aritista
dalle durezze dell’esistenza).
Il passare della stagione è scandito dalla presenza dei ‘’ditirambi’’, ossia
lunghe sequenze di versi liberi che hanno la funzione di cornice oramentale e
quella di rendere chiaro/dominante l’elemento dionisiaco.
Le poesie ‘’preditirambiche’’ costituiscono una fonte d’ispirazione per i poeti
del Novecento, eppure rappresentano un’eccezione.
D’Annunzio riduce gli elementi simbolisti della raccolta, dando invece più
spazio agli elementi e alle sensazioni (visive, tattili, uditive, gustative).
Piuttosto che montare ideologie come fa Pascoli, D’Annunzio preferisce usare
similitudini, grazie alle quali giustappone una multiforme gamma di
apparenze incantevoli.
La sua attitudine alla sensualità e al piacere, di matrice estetista, offre in
Alcyone i suoi risultati migliori: si tratta senza dubbio di un lavoro da
collezionista professionale di sensazioni.
D’Annunzio però collezione anche parole, attingendo a lessici specializzati,
arcaici, esotici, rari, d’antiquariato, inseriti però in un moderno e raffinato
codice poetico.
Fin da subito Alcyone si presenta come il capolavoro di D’Annunzio, capace
di avere un enorme impatto sui contemporanei.
Mentre dunque in Europa egli è apprezzato per i romanzi e il teatro,
nell’Italia del primo Novecento è famoso per il suo codice poetico e per la sua
immagine da esteta-vate-superuomo, che lo renderanno il modello assoluto
nella poesia.
Un modello, che sarà sì messo in crisi e addirittura parodiato in seguito, ma
che resta passaggio obbligatorio per la poesia novecentesca.
4. GIOVANNI PASCOLI: LA VIA INTIMISTA AL SIMBOLISMO

Giovanni Pascoli (1855-1912) è l’unico autore che contende a D’Annunzio il


primato nella poesia.
Nato a San Mauro di Romagna da una famiglia appartenente alla piccola
borghesia agraria, che gli garantisce una profonda formazione umanistica in
un collegio religioso.
La sua vita è segnata dalla tragica sequenza che lo porta ad affrontare in
sequenza la morte del padre (10 Agosto 1867), rimasto impunito, quella della
madre, di una fratello e di una sorella.
La rottura del nucleo familiare apre in Pascoli delle ferite che gli instillano il
desiderio di ricomporre l’unità perduta, ripristinando la felicità degli anni
infantili.
Nel 1873 comincia a studiare lettere a Bologna, dove frequenta le lezioni di
Carducci e si inserisce nella sua cerchia, senza abbracciare però il neopagano
e ateo anticlericalismo del maestro.
Diviene membro del Partito Socialista, anche se la sua militanza politica ha
fine dopo la partecipazione ad alcune manifestazioni filoanarchiche.
La morte del fratello maggiore e la perdita della borsa di studio spingono
Pascoli alla vita da bohémien, che però abbandona grazie al supporto di
Carducci, che lo spinge a laurearsi in letteratura greca nel 1882.
Diviene così un insegnante nei piccoli licei di campagna, incarico che gli
garantisce uno stipendio col quale mantenere le sorelle Ida e Maria, con le
quale esiste una sorta di tacito accordo per non sposarsi; dal 1885 vive a
Massa.
Il complesso schema di gelosie, inibizioni e desideri repressi causato dal
simbiotico vivere dei tre fratelli si riflette nelle poesie di Pascoli, che proietta
nelle sorelle ruoli materni/coniugali.
Quando Ida si sposa nel 1895, Pascoli cade in uno ‘’squilibrio nervoso’’ e si
rifugia nel legame con Maria; un rapporto che gli permetterà di far evolvere
molti temi della sua produzione poetica.
Le letture del giovane Pascoli sono senza dubbio ‘’carducciane’’: dai classici
greco-latini, alla tradizione italiana, inserendo anche Goethe, Heine, Michelet,
Poe e i parnassiani.
Se però Carducci rilanzia l’imitazione classicista degli antichi, Pascoli decide
di approcciarsi direttamente al loro mondo, anche tramite l’archeologia.
Allontanatosi dal materialismo carducciano, Pascoli preferisce una lettura
spiritualista di Platone, più vicina a quella elaborata dall’irrazionalismo di
Eduard Von Hartmann (1842-1906), autore di una Filosofia dell’inconscio (1869)
in cui sono fusi Hegel e Schopenauer e si sostiene l’esistenza di un principio
‘’inconscio’’ che guida i fenomeni naturali.
Questa passione per l’irrazionalità lo spinge lontano dai temi etici e
risorgimentali, a cui preferisce le atmosfere incantate dell’Orlando Furioso.
Mentre il giovane D’Annunzio ottiene un travolgente successo, Pascoli
conduce una vita ritirata, da insegnante di provincia, lontano dalla
confusione dei ‘’poeti cromolitografici’’ contemporanei.
Questo atteggiamento si traduce in una strategia editoriale specifica, basata in
primis sullo spargere silenziosamente i propri versi su numerose riviste.
I suoi testi presentano una forte componente di radicale novità, dovuta alle
scelte linguistiche, stilistiche e alla musicalità verbale/metrica.
Prende così origine la prima raccolta: Myricae (1891), arricchita nelle varie
edizioni da continue aggiunte fino all’edizione definitiva del 1911.
Il titolo deriva da un passo delle Bucoliche di Virgilio (70-19 a.C.), che parla di
‘’humilesque myricae’’, ossia di ‘’umili arbusti (tamerici)’’, metafora vegetale
ripresa da Pascoli per comporre una poesia ‘’che si eleva poco da terra’’, che
parli di argomenti delicati, semplici e apparentemente antisublimi.
Una poesia ‘’democratica’’, che si oppone a quella aristocratica propugnata
da D’Annunziana e che è estranea ad ogni pretesa di rendere il poeta ‘’vate’’.
L’abbassamento tematico è però reso nella lingua della cultura più alta, il
latino, che si presta qui al progetto di Pascoli di contaminare aulico e umile:
canti popolari rieccheggiano dunque passi omerici per rievocare il fascino di
una contadina; strutture eleganti sono usate per riferirsi a strumenti usati per
lavorare nei campi.
Pascoli non riuncia quindi all’imperativo parnassiano della precisione, che di
fatto caratterizza la raccolta, risultato di un decennio di ricerche creative, di
esplorazione della scena letteraria contemporanea e di scavo nelle zone più
dolenti della propria psiche.
La prima edizione del 1891 è caratterizzata da un limitato spazio di
autonomia creativa, che gli impedisce di trasgredire l’imperativo
dell’oggettività parnassiana rilanciato da Carducci.
Per conciliare l’impersonalità con l’idea di poesia come ‘’sogno’’ (propugnata
dai tardoromantici), Pascoli sceglie di creare una poesia soggettiva in cui però
è l’oggettivo a imporsi.
Ciò si traduce nell’ampio utilizzo di analogie, che sembra quasi richiamare le
posizione artistiche degli impressionisti francesi; dunque nella sua prima
versione, Myricae, è carattarizzata da un’intervento dell’io-poetante ridotto
alla nuda registrazione di come gli elementi del paesaggio si impongano nei
sensi.
La seconda edizione (1892) è caratterizzata dall’inserimento di poesie intime
e private, in cui trova spazio il lutto per la distruzione della famiglia: la storia
dell’assassinio rimasto impunito del padre trova spazio ne Il giorno dei morti,
inizialmente pensata come una prefazione in poesia mescolata a prosa.
Questa decisione conferisce unità alla raccolta, ora caratterizzata da un
comune fondale emotivo, cupo e lacrimoso, che presenta tratti romanzeschi e
melodramamtici.
Il ‘’nido familiare’’, fragile rifugio al male del mondo, si unisce al compianto
per l’abbandono e la solitudine degli orfani: a emergere sono temi cupi e
vicini a quelli di Poe, quindi sogni, apparizioni spettrali, l’inspiegabile
presenza del soprannaturale e le ossessioni personali.
L’edizione del 1892 apre una straordinaria stagione creativa, caratterizzata da
innovazioni stilistiche che portano Pascoli a distaccarsi da rappresentazioni
esatte, dalla musicalità raffinata.
Si tratta di un’inversione che però è nascosta da un sottile gioco di
dissimulazione della radicalità dei cambiamenti.
Metafore preziose e irreali, sinestesie e l’utilizzo di verbi/aggettivi
sostantivati rendono il suo stile più allusivo ed ellittico: la poesia l’Assiuolo,
in cui il canto dell’uccello diviene un lamento luttuoso, è simbolo di questa
novità.
Pascoli importa dal mondo poetico contemporaneo il primato della
musicalità, in questo caso di sonorità povere e tenui: il cinguettio di un
uccello, lo sfruscio delle foglie, i rintocchi delle campane, i sussurri dei
fantasmi.
Una musica intima, sommessa, sgretolata, lontana dall’irruenza maestosa di
D’Annunzio.
Quetsto uso mimetico ed evocativo di sonorità verbali, indicato con il nome
di ‘’fonosimbolismo’’, rompe le frontiere di una lingua codificata, da cui il
ricorso all’onomatopea: il ‘’tio tio tio’’ degli uccelli.
Si tratta di un procedimento antichissimo, utilizzato già nell’Antichità dal
commediografo Aristofane (445-388 a.C.), e da allora caduto in disuso.
Gli esiti a cui arriva Pascoli lo avvicinano in qualche modo ai poeti maledetti e
ai simbolisti francesi, cosa che gli garantisce, oltre che il riscontro della critica
anche quello dei collegi, anche di D’Annunzio, che importerà diverse
suggestioni pascoliane.
Questa rivoluzione discreta esprime con toni sinceri e commoventi la
bellezza di fenomeni naturali, il dolore delle persone qualunque, la presenza
inspiegabile del soprannaturale, temi che si accordano alle sensibilità medio/
piccolo-borghese, di cui Pascoli condivide la religione degli affetti familiari.
Questo successo spiega le numerose riedizioni del testo, ormai divenuto un
poeta apprezzato dal grande pubblico; nel frattempo fa anche carriera: dalla
scuola diviene docente universitario di lettere classiche.
Da piccolo insegnante provinciale ad intellettuale riconosciuto, che pubblica
articoli e saggi sulle riviste più importanti, come il Convito e Il Marzocco; nel
frattempo si trasferisce a Castelvecchio con Ida, dedicandosi allo studio e a
tre filoni di scrittura: poesia in italiano, in latino e critica dantesca.
Pascoli farà uscire in simultanea saggi, interventi e poesie che raccoglierà in
volumi differenti.
Nei saggi, pubblicati con il titolo Miei pensieri di varia umanità (1903), Pascoli
chiarisce la sua opinione sulla crisi di fine secolo, augurandosi che una
‘’fratellanza di tutti gli uomini’’, invitati al recupero dei valori cristiani di
amore e carità, possano vivere in una società senza conflitti.
Il mito della riconciliazione interclassista lo rende però ostile ai socialisti,
che lo ritengono troppo cattolico, e anche ai cattolici stessi, che lo ritengono
troppo poco ortodosso.
L’ideologia di Pascoli non è però tanto ‘’politica’’, quanto piuttosto un’utopia
di società come nido familiare allargato, per lui costituibile tramite il
recupero della funzione civile della poesia, che insegna all’uomo a ricercare la
realtà eterea contenuta nelle piccole cose.
Si tratta di una concezione analoga a quella del simbolismo, declinata però
qui in chiave antielitaria e democratica, perché il poeta affida la sua visione a
tutti gli uomini, che possono cercare la bellezza tramite ‘’occhi nuovi’’.
Questa teoria è espressa nel saggio Il fanciullino (1897), in cui si sostiene che
che esiste un legame diretto tra la poesia e la nostra ‘’psiche primordiale e
perenne’’, ossia quella traccia della propria infanzia che resta per sempre in
ognuno di noi e che è capace di meravigliarsi e illuminare la poeticità delle
cose.
Il fanciullino ‘’vede tutto con maraviglia, tutto come per la prima volta’’, egli
rimette il lettore a contatto con ‘’quell’angolo d’anima’’ trascurato, a cui
restituisce l’incanto perduto.
Pascoli, come Mallarmé, contrappone alla poesia alta, che esprime ideologie,
quella ‘’pura’’, che coincide con la lirica e che ha come compito quello di
rinnovare la percezione umana della natura e ‘’riconfondersi in essa’’.
Per svelare l’eternità delle cose, è necessaria una lingua capace di disvelarle, e
che quindi sia capace di allargare il vocabolario poetico italiano, anche
tramite l’inclusione di termini dialettali, trascurati dalla lingua nazionale.
L’idea di poesia pura distingue Pascoli dai poeti dialettali e realisti del XIX
secolo, perché in lui l’esattezza lessicale è un mezzo per comunicare in via
diretta con la natura.
Pascoli produce come detto anche saggi danteschi, indirizzati al pubblico
universitario; nella sua lettura della Divina Commedia si discosta da analisi
filologiche e storico-costruttive.
Quella di Dante è per lui un’ascensione spirituale verso la libertà interiore e la
riconquista politica della libertà terrena, una lettura che però viene stroncata
dalla critica universitaria, che boccia i suoi saggi Minerva oscura (1898), Sotto il
velame (1900), La mirabile visione (1902).
La poesia dell’ultimo decennio, parallela all’evoluzione di Myricae, tenta
diverse vie nella lirica.
Dai testi più lunghi nascono i Poemetti (1897), la cui epigrafe ‘’paulo maiora’’
premette la trattazione di temi più grandi e complessi, tradotti nella forma,
già tentata da Carducci e D’Annunzio, del poemetto epico.
Si tratta di una moderna rivisitazione dell’epillio, con cui Pascoli si richiama
all’antica poesia alessandrina, trattando però ‘’soggetti umili e campestri’’.
La raccolta ruota attorno a due cicli: La sementa e L’accestire, dove l’amore e il
matrimonio tra due giovani contadini si intrecciano con il corso delle stagioni
e i lavori dei campi sono descritti con esattezza tecnica.
Entrano dunque in gioco i temi della vita/morte e della rinascita della natura,
di cui si rifiuta una visione materialista: essa è ‘’madre non matrigna’’ perché
sa ‘’cavare il bene anche dal male’’.
La narrazione è portata avanti tramite un metro illustre come la terzina
dantesca e condotta secondo le regole dell’epica: in terza persona, da un
narratore onnisciente, con ripetizioni che richiamano le formule fisse
omeriche.
Si tratta di procedimenti nobilitanti, che creano un gioco di dissonanze per
mettere in scena eventi ‘’bassi’’, nel senso di quotidiani; anche la lingua è in
realtà umile: oggetti da cucina, alternanza di vernacolo toscano/inglese e
persino italoamericano (‘’Ghita, state bene!…./Good bye’’).
Questo filone realista si sviluppa parallelamente alla poetica simbolista, da
cui nascono le ultimi liriche di Myricae, caratterizzate da procedimenti
stilistici più complessi e oscuri, tramite i quali il poeta affrontra i turbamenti
più grandi del proprio io.
Il mondo vegetale è caricato di indefinite valenze simboliche in cui si
esprimono tensioni psichice indicibili, come ne Il vischio, dove la pianta
parassitaria allude ad una segreta angoscia che consuma la vitalità del poeta,
che lotta e muore ‘’fuggendo immobilmente’’.
Pascoli nel frattempo crea però anche versi nel più alto canone estetico della
poesia contemporanea: nascono così le poesie in italiano, pubblicate prima
sull’elitario Convito e confluite infine nei Poemi conviviali (1904).
Alla stessa matrice appartiene la produzione in latino con cui dal 1892
ottiene continue vittorie al corcorso internazionale di poesia latina di
Amsterdam, a cui partecipano gli intellettuali più esclusivi e sofisticati.
I versi latini si conquistano una enorme popolarità in Europa, grazie alla loro
rilettura estetizzante del Rinascimento.
Ma per Pascoli la composizione in latino non è solo un esercizio erudito, ma
anche un laboratorio creativo; questa produzione verrà raccolta nel volume
postumo dei Carmina (1914).
I Poemi conviviali sono invece dedicati all’antichità greca, la cui lettura risente
del pensiero di Nietzsche e sui personali studi archeologici.
Le sue poesie rappresentano i Latini e i Greci da vicino, impegnati in azioni
della vita di tutti i giorni, durante le quali si pongono quesiti propri a tutti gli
uomini.
Omero, Saffo, Solone e persino Alessandro Magno si interrogano sul senso
della vita, sull’insensatezza della morte e su temi vicini alla spiritualità
cristiana.
L’epigrafe dei Conviviali è esemplare: ‘’Non omnes arbusta adiuvant’’, un
attestato della superiorità del tema trattato rispetto a quelli di Myricae; questa
poesia alta è dedicata al direttore del Convito, De Bosis (1863-1924).
L’elevatezza dei temi è accompagnata da un lessico nobile e dal metro
classicista degli endecasillabi sciolti, utilizzati però non per emulare
l’Antichità, quanto piuttosto per dare voce alle paure, alla malinconia e alla
sua sensibilità intimista.
Pascoli porta a termine anche i Canti di Castelvecchio (1903), da lui indicati
come una ‘’seconda serie di Myricae’’; il termine ‘’Canti’’ allude a Leopardi, con
cui si dialoga a distanza richiamando una rappresentazione idilliaca della
natura.
La specificazione del luogo lascia però spazio anche al carattere privato della
raccolta: Castelvecchio è il luogo dove si è ricomposta l’unità familiare
perduta, mentre il paese natale è rilegato alle ultime liriche.
L’avvicendarsi di morte e rinascita della vegetazione contrasta, nella
sequenza interrotta inverno-primavera (successione che Pascoli spiega in una
lettera ad un amico), con il dolore e la precarietà della morte.
Nei Canti Pascoli ripercorre con maggiore consapevolezza tecnica tutti i
motivi di Myricae, esplorando però anche nuovi filoni, esplorando tanto la
polarità del quotidiano quanto quella del sublime.
Si trovano così riletture poetiche del folclore contadini, trasformazioni di
proverbi in leggende e usanze rituali.
Pascoli mima i metri cantilenati della musica e della poesia popolare tramite
toni ingenui, che gli permettono anche di denunciare le difficili condizioni del
proletariato.
Allo stesso tempo però si attiva anche in senso leopardiano, ma non
materialista, per raccontare la propria finitudine e piccolenza di fronte
all’immensità del cosmo.
In una conferenza del 1900, L’era nuova, Pascoli aveva rivendicato il ruolo
della poesia di far provare quello che la scienza svela ma non esprime,
propositi che cerca di mettere in pratica nei Canti.
La rivoluzione linguistica e metrica di Myricae è portata a risultati estremi nei
Canti, in cui continua ad essere portata avanti la contrapposizione tra norma e
trasgressione.
L’imperativo di oggettività parnassiano scompare assime al rifiuto del
sentimentalismo romantico: nel paesaggio ora si nasconde na realtà più
profonda e sfumata, spesso enigmatica e indicibile.
Emerge una visione antinaturalistica, basata su un continuo sovrapporsi di
sensazioni, che causano lo spaesamento e la perdita di consistenza del mondo
reale; la stessa musicalità si fa più personale.
All’inizio del Novecento Pascoli è all’apice della maturità creativa ed è
travolto dai riconoscimenti: l’omaggio dannunziano in Alcyone, l’edizione
delle sue opere presso Zannichelli, prestigioso editore di Carducci, e la
successione a quest’ultimo alla cattedra di letteratura italiana a Bologna.
L’autorevolezza guadagnata lo spinge a coltivare anche la poesia civile:
nascono così i Nuovi poemetti (1909), e poi le Odi e inni (1906) e i Poemi italici
(1911), in cui sono affrontati gli snodi etici e politici della storia nazionale.
Anche se il suo sogno di riappacificazione tra le classi trova poco spazio nel
dibattito del tempo, egli cerca comunque di parteciparvi: il celebre discorso
La grande proletaria si è mossa (1911), in cui si sostiene l’invasione della Libia
trasponendo la competizione marxista tra le classi nell’alveo della
competizione tra le nazioni, testimonia più la volontà di allinearsi
all’ideologia del ceto medio-borghese che un’elaborazione ideologica propria.
La sua relativa marginalità fa sì che i nuovi poeti non gli si contrappongano,
a differenza di quanto verrà fatto con D’Annunzio: con Pascoli le nuove leve
mantengono un legame sotterraneo, spesso non dichiarato.
Ma le sue trasgressioni, mutate di funzione, rappresentano il punto di inizio
di molte linee evolutive della poesia italiana del Novecento.

5. ANTONIO FOGAZZARO TRA SPIRITUALISMO E INTRATTENIMENTO

Il percorso del veneto Antonio Fogazzaro (1842-1911) risente delle grandi


trasformazioni culturali della seconda metà del secolo, ma anche
dall’evoluzione del mondo cattolico.
Educato alla fede cattolica e agli ideali patriottici, egli si pone come obiettivo
quello di conciliare il cattolicesimo e la modernità, spingendo dunque la
Chiesa ad andare oltre la condanna reazionaria sancita dal Sillabo.
Negli anni Sessanta frequenta gli scapigliati milanesi e nel 1872 tiene la
conferenza Dell’avvenire del romanzo in Italia, in cui attacca la scuola realista e
propone un ‘’romanzo contemporaneo, psicologico e sociale’’.
Il suo primo romanzo, Malombra (1881), immette in una cornice accattivante e
ricca di colpi di scena, atmosfere fantastiche alla Hoffmann/Poe.
Protagonista della storia è una nobile ragazza dai gusti mondani e raffinati,
Marina di Malombra, che vive nel castello isolato dello zio, sul quale
aleggiano tetre leggende.
Dopo aver ritrovato una lettera della nonna Cecilia, la ragazza si convince di
esserne la reincarnazione e che lo zio sia invece la reincarnazione del nonno,
che aveva segregato fino alla morte la moglie, colpevole di tradimento.
L’altro protagonista è Corrado Silla, uno scrittore fallito, in cui però Marina
vede la reincarnazione dell’amante della nonna.
Inizialmente il giovane si innamora del fascino tetro di Marina, ma in seguito
viene redetto dall’amore ‘’spirituale’’ per Edith, che tenta di redimerlo.
Marina nel frattempo diviene folle: dapprima causa la morte dello zio, ed
infine, quando Corrado sta per abbandonarla per dedicarsi ad una vita di
ascesi cristiana, uccide anche lui e si dilegua come uno spettro.
Il tema al centro della vicenda è senza dubbio il conflitto tra fede e
sensualità, che avviene in mezzo a scenari inquietanti, profonde analisi
psicologiche e attorniato dal fascino per occulto e leggende.
Marina è un’eroina di fascino ambiguo, in cui si fondono congnizioni
positiviste e motivi romantico- scapigliati, caratterizzati in più da un’aura
soprannaturale.
Il narratore è senza dubbio tradizionale: descrive, interviene, inserisce lettere,
carica i registri lessicali, inserisce lettere ed è capace di spingere al massimo la
tensione melodrammatica.
Il successo dell’opera, notevolissimo, trasforma Fogazzaro nel nuovo
romanziere cattolico di riferimento, ereditando il ruolo che era stato di
Manzoni e Tommaseo; persino Verga, che nello stesso anno pubblicava i
Malavoglia, gli scrive per complimentarsi.
Il secondo libro Daniele Cortis (1858) fonde intreccio sentimentale e romanzo
di idee, dando voce alle speranze dei cattolici liberali, ipotizzando quasi una
‘’democrazia cristiana’’.
I romanzi di Fogazzaro hanno molto successo in Europa, dove sono lanciati
dalla Revue des deux mondes, perché si adattano al nuovo climi antipisitivista e
alle tendenze neocattoliche.
In Italia un suo articolo, I cavalieri dello spirito (1894), è ripreso dalla giornalista
Matilde Serao (1856-1927) per propagandare una letteratura ‘’nobile e per la
vita interiore’’.
Fogazzaro non si adegua però alle tendenze estetizzanti, e infatti il suo
secondo grande romanzo di successo Piccolo mondo antico (1895) è lontano
dalle tendenze introdotte da D’Annunzio.
A differenza di Malombra, libro di passioni ed eccesso, Piccolo mondo antico è il
libro della misura, delle emozioni e dei dolori familiari, domestici e
dell’intimità borghese.
Nel testo si narra la storia d’amore tra Luisa Rigey, di estrazione piccolo
borghese, e il marchese Franco Maironi, che ha come sfondo la Seconda
Guerra d’Indipendenza.
Nel testo si mescolano romanzo storico, realistico-borghese e psicologico, che
assieme danno vita ad una ricostruzione nostalgica e lirica di quell’universo
di ideali coltivati dalla borghesia risorgimentale, che l’Italia di fine secolo
dovrebbe ritrovare.
La prosa è scorrevole e caratterizzata dalla forte presenza della voce narrante,
sempre pronta ad offrire sottili analisi psicologiche dei protagonisti.
Il romanzo ripete il successo di Malombra, divenendo un classico nella
formazione della media borghesia italiana e della cultura cattolica del
Novecento.
A fine XIX secolo Fogazzaro affronta il tema della riforma del cattolicesimo,
che fa interagire con il conflitto tra l’amore per la sensualità e la superiorità
dell’ascesa mistica.
I protagonisti di Fogazzaro vivono amori difficili a causa dei vincoli sociali e
religiosi, che però decidono di affrontare come pura comunione d’anime.
Il figlio dei protagonisti di Piccolo mondo antico, Piero, nel successivo romanzo
Il Santo (1905) segue un percorso di rinnovamento spirituale, sottraendosi alla
passione per l’affascinante Jeanne Dessalle, e diviene infine la guida del
movimento per il rinnovamento della Chiesa.
Questi romanzi-manifesto, vicini alle posizioni dei modernisti, ottengono il
consenso dei lettori ma sono diffidati dal clero ufficiale: nel 1906 Il Santo verrà
addirittura inserito nell’Indice dei libri proibiti.

6. IL VERISMO DI CAPUANA E DE ROBERTO

Travolti dall’ondata antinaturalista e antipositivista, gli scrittori veristi sono


spinti a rivedere le proprie tecniche narrative.
Capuana, che assieme a Verga era stato il capofila del verismo, prende
pubblicamente le distante dal naturalismo con il secondo romanzo Profumo
(1892), in cui elementi di psichiatria positivista sono mescolati ad elementi
fantastici.
Dopo alcuni tentativi di inserirsi nei nuovi ambienti letterari, comincia ad
interessarsi allo spiritismo: il successivo lavoro La Sfinge (1895) rappresenta
addirittura una telepatia.
La soluzione convincente arriva però solo con Il marchese di Roccaverdina
(1901), storia di un aristocratico sprofondato nella pazzia dopo aver ucciso
l’uomo che la sua amante contadina aveva sposato, riuscendo a far incolpare
un innocente.
Il romanzo è verista nell’ambientazione (la Sicilia contadina e feudale), ma
moderno nei temi: una storia di colpa, di dannazione e di passioni estreme
che spingono il protagonista alla disgregazione psicotica.
Anche Federico De Roberto (1861-1927) si forma nell’alveo della scuola
verista, per poi approdare all’ambiente editoriale milanese, sviluppando
soluzioni tecniche di stampo verghiano.
I suoi primi tentativi (1886-1900) sono raccolte di novelle: La sorte, Documenti
umani, L’albero della scienza e Processi verbali, in cui porta all’estremo la tecnica
della scomparsa del narratore.
Nei Processi verbali egli rende la narrazione simile ad un documento, da cui il
richiamo al termine che indica le trascrizioni stenografiche degli interrogatori;
non entra mai nel punto di vista dei protagonisti né offre un suo pensiero.
Il suo capolavoro è il romanzo I Vicerè (1894), in cui le straordinarie capacità
tecniche sono al servizio dello sguardo disincantato e amaro con il quale si
ripercorre una fase della storia italiana recente.
Senza abbandonare la tecnica dell’impersonalità, De Roberto narra una storia
di degenerazione fisica e morale, capace dunque di recepire molto della
sensibilità della propria epoca.
Si narra dunque la storia dell’aristocratica famiglia degli Uzeda, capace di
adattarsi rapidamente alla trasizione Borbone-Savoia, che li trasforma da
vicerè d’Antico Regime a detentori di un grande cordata elettorale, che li
rende in grado di influenzare anche la nuova Italia liberale.
De Roberto traccia così una controstoria del Risorgimento, grazie alla quale
smaschera la vacuità degli ideali di rinnovamento risorgimentali e il
persistere nel Meridione di enormi diseguaglianze sociali.
I retroscena meschini e grotteschi della storia ufficiale sono esemplificati nella
frase pronunciata da uno dei protagonisti: ‘’Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare
gli affari nostri’’.
In questi stessi anni, nella periferica area della Trieste austroungarica, scrive i
suoi primi romanzi Italo Svevo (pseudonimo di Aron Hector Schmitz, 1861-
1921), Una vita (1892) e Senilità (1898).
I primi lavori di Svevo sono senza dubbio debitori del verismo, ma allo stesso
tempo propongono una nuova figura letteraria, ‘’l’inetto a vivere’’, una
personalità corrosa da un senso di impotenza ed estraneità alla vita.
Si tratta di due opere che inaugurano un nuovo universo estetico-mentale
destinato a trovare piena espressione e peso in campo letterario solo nel
Novecento.
DATE PIÙ IMPORTANTI

1802: Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis.

1807: Ugo Foscolo, Dei Sepolcri.

1810: Vincenzo Monti, traduzione dal latino dell’Iliade.

1816: inizio in Italia del dibattito classico-romantico.

1820: Walter Scott, Ivanhoe.

1820-1821: moti liberali; Alessandro Manzoni, Il cinque maggio e Marzo 1821.

1822: Alessandro Manzoni, Adelchi.

1827: Alessandro Manzoni, I promessi sposi (edizione prima, la ‘’ventisettana’’),


e Giacomo Leopardi, Operette Morali.

1840: Alessandro Manzoni, edizione definitiva (‘’quarantana’’) de I promessi


sposi, arricchiti con la Storia della colonna infame.

1848-1849: Insurrezioni liberali in tutta Europa, in Italia comincia la Prima


Guerra d’Indipendenza.

1859: Seconda Guerra d’Indipendenza.

1860-1861: Impresa dei Mille, Vittorio Emanuele II è re d’Italia.

1866: Terza Guerra d’Indipendenza e conquista del Veneto.

1867: Ippolito Nievo, Le confessioni di un italiano (edizione rimaneggiata e


postuma).

1870: Guerra franco-prussiane, l’Italia conquista lo Stato della Chiesa, Roma


viene presa diviene capitale del Regno d’Italia.

1872: Friedrich Nietzsche, Nascita della tragedia.

1877: Giosuè Carducci, Odi barbare.


1880: Giovani Verga, Vita de campi.

1881: Giovanni Verga, I Malavoglia e Antonio Fogazzaro, Malombra.

1884: Joris-Karl Huysmans, Controcorrente.

1889: Giovanni Verga, Mastro-don Gesualdo e Gabriele D’Annunzio, Il Piacere.

1891-1892: Giovanni Pascoli, prime due edizioni di Myricae.

1894: Federico De Roberto, I Viceré.

1895: Antonio Fogazzaro, Piccolo mondo antico.

1897: Giovanni Pascoli, Il fanciullino e Poemetti.

1903: Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio e Gabriele D’Annunzio, Alcyone.

1904: Giovanni Pascoli, Poemi conviviali e Gabriele D’Annunzio, La figlia di


Jorio.

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