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F.

FARINELLI ; ‘’L’INVENZIONE DELLA TERRA’’

1. LE DUE FORME DELLA TERRA

Il primo capitolo dell’opera viene costruito come un ipotetico confronto tra


un filosofo che ha appena letto la ‘’Commedia’’ di Dante e uno storico della
scienza che si oppone alle sue affermazioni.
Al filosofo fin da subito comprende che per Dante la Terra è sferica: nel
viaggio che porta il poeta a visitare i tre regni oltremondani il pianeta ha
senza dubbio una forma sferica.
Questo però non è più vero nel momento in cui si tratta delle azioni descritte
nel poema: il mondo di Dante è quel marchingegno infinito , composto da
sfere , immaginato da Aristotele.
Non è certo il mondo capovolto di molte descrizioni medievali ( e della prima
epoca moderna ) , quello in cui tutto funziona al contrario , dove come dice
Boccaccio le fontane buttano vino , o dove le viti sono legate con le salsicce
come dice Rabelais.
Quello di Dante non è allo stesso tempo il mondo dei paradossi metafisici che
la fisica moderna ci permette di pensare, il suo è il mondo dove le dimensioni
restano tre , come nella vita quotidiana.
Nella realtà di Dante la Terra è piatta e ferma come un tavolo da biliardo ,
non è certo rotonda e in movimento ; se così fosse , osserva il filosofo , come
potremmo avere passioni ? Come potrebbe un’antica opera letteraria suscitare
commozione ?
La prima cosa che permette di riconoscerci nelle creazioni artistiche degli altri
è il fatto che la Terra sia ferma , stabile e piana.
In conclusione per il filosofo , che porta avanti una posizione già sostenuta da
altri nella filosofia del Novecento , sostiene che nell’esperienza quotidiana la
Terra sia un ‘’piatto immobile’’.
A questo punto interviene lo storico della scienza , che sostiene la falsità di
quello che è stato detto dal filosofo.
Egli ricorda infatti che per Cristoforo Colombo la Terra non era piatta , e
quindi la posizione per cui ‘’la scoperta dell’America avrebbe dimostrato la
sfericità della Terra’’ è assolutamente falsa.
Tutti coloro che avessero letto un libro avrebbero saputo che il pianeta era
sferico , e questo da Pitagora ( IV secolo a.C. ) fino a Keplero , passando per
Aristotele , Aristarco , Lattanzio , Sant’Agostino.
Certo alcuni nomi suscitano perplessità , uno su tutti Lattanzio , pensatore
cristiano vissuto tra III e IV secolo d.C. , con la cui posizione dovrà ancora
polemizzare Copernico nel XVI secolo.
Egli rimane a lungo il punto di riferimento di quegli uomini di fede che non
credevano alla agli antipodi , ovvero al quel paradosso ( reso sempre più
necessario dalle scoperte geografiche ) per cui nell’altro emisfero esistevano
uomini che non stavano coi piedi per aria , ma che esattamente come noi
poggiavano i piedi sul suolo terrestre.
Più diplomatica la posizione di Agostino , che il partito della Terra piatta
ascrive a se ( ma che in realtà non negò mai la possibile sfericità del pianeta ) ,
secondo cui era impossibile a livello storico-pratico l’esistenza degli
Antipodi.
L’Oceano era troppo vasto e le terre emerse troppo poche perché l’umanità ,
che doveva discendere tutta da Adamo , potesse attraversare tutta la distesa
d’acqua e insediarsi nell’emisfero opposto al nostro.
In ogni caso però lo storico della scienza conclude dicendo che al tempo di
Dante si credesse che la Terra fosse piatta ; almeno in Occidente infatti si era
sempre saputo che la Terra fosse una sfera ( dal VI secolo d.C. sono state
prodotte sempre nuove prove astronomiche di questo fatto ).
A questo punto riprende parola il filosofo , che sottolinea come egli non abbia
mai detto di pensare che per Dante la Terra fosse piatta.
Egli piuttosto sostiene di aver affermato come il poeta nella sua opera abbia
adottato un punto di vista ecologico , che adotta la prospettiva della vita
ordinaria , senza la quale si potrebbe comunicare ed intendersi.
Oggi ovviamente esiste l’occasione di immaginare il mondo in maniera
diversa , che Dante non avrebbe potuto concepire , ovvero attraverso le scale
della microfisica e della macrofisica.
L’ambivalenza presente in Dante è però presente ancora oggi: sappiamo che
la Terra è una sfera , ma se ci comportassimo nella quotidianità come se lo
fosse non saremmo in grado di intenderci e provare sentimenti.
A questo punto interviene il geografo , che spiega come sia il filosofo che lo
storico della scienza abbiano ragione e torto allo stesso tempo.
Lo storico della scienza ha così ragione che si potrebbe capovolgere il luogo
comune contro cui si scaglia: è proprio Colombo a ridurre la Terra a piatta ,
immaginandola come una distesa da percorrere il più velocemente possibile.
Il mondo di Colombo è ridotto ad un’estensione basata suo principi della
geometria classica di Euclide , che si basa su tre proprietà: continuità ,
isotropismo ( tutte le parti sono voltate nella stessa direzione ) e omogeneità.
Allo stesso tempo ha ragione anche il filosofo quando distingue tra
concezione ideale e punto di vista quotidiano-ordinario.
Il problema in particolar modo riguarda la natura di quest’ultimo , che si
presenta come un mondo abitato da iconoclasti.
Ora , si può anche concordare sul fatto che ognuno di noi nella vita ordinaria
la Terra sia immobile, ma il problema è: perché essa si presenta piatta quando
nella vita quotidiana ci mette di fronte montagne ?
Al Polo Nord come nel Sahara potremmo anche credere che la Terra sia
immobile , ma mai che sia anche piatta, perché ovunque troveremmo qualche
altitudine.
La questione è dunque molto più complessa di quanto la vorrebbero il
filosofo della scienza la vorrebbero , e questo perché essa era già stata in
qualche modo regolata dal VI secolo a.C.
Dunque è a quel momento che bisogna tornare per comprendere in che modo
l’uomo abbia ‘’inventato la Terra’’.
2. IL LOGOS È LA TAVOLA

La questione sull’idea che gli Antichi , gli uomini del Medioevo e i moderni
avessero della forma della Terra è particolarmente complessa , in quanto
decidere tra forma piatta o sferica è l’atto originario su cui si struttura tutta la
riflessione occidentale.
Per ricostruire questa storia è necessario partire dall’origine , quindi da quel
celebre brano con cui si apre il libro della Genesi , in cui è narrata la Creazione
del mondo ad opera di Dio.
Se davvero si tiene conto di quanto è scritto nella Genesi è evidente che la
Creazione non avviene dal nulla , non parte da zero , in quanto quando la
storia inizia ci sono già delle cose ( materiali e immateriali ).
Quando il racconto inizia vi sono le tenebre e l’abisso, oltre allo spirito di Dio;
in particolar modo l’abisso già a questo punto ha un volto , una superficie su
cui il vento divino possa scorrere.
La Creazione non avviene dal vuoto o nel vuoto , ma si poggia su qualcosa e
quando comincia esistono già delle masse elementari dotate di estensione:
acque , tenebre e la terra informe.
Come dirà Aristotele ‘’Non esiste cambiamento senza che esista il luogo’’ , quindi
muovendosi sull’abisso lo spirito divino si sposta già da un ambito.
Inizialmente non c’è il vuoto , ma Dio che ha già tracciato la faccia dell’abisso ,
su cui poi comincia il movimento che dall’indeterminatezza e dall’assenza
delle forme produce formalizzazione.
Tutto ciò però non potrebbe esistere se non esistessero già degli elementi
primordiali come Sopra , Sotto ed Estensione ( che sono presenti prima che il
‘’firmamento’’ separi le acque terrestri da quelle celesti.
Senza Sopra e Sotto non esisterebbe l’Estensione , e dunque nemmeno la
Terra , che riceve il proprio nome solo quando diviene secca e arida , quindi
dopo che sono state divise le acque celesti e quelle terrestri e soprattutto dopo
che le acque terrestri sono state concentrate in un unico luogo.
In questo modo alla ‘’terra’’ ( con la ‘’t’’ minuscola ) , l’entità non determinata
e quindi priva di nome , viene a sostituirsi la ‘’Terra’’ ( con la ‘’T’’ maiuscola ),
la distesa su cui andranno a vivere gli uomini , le piante gli animali.
Dio stesso celebra la nascita della Terra , la distesa dotata di nome e
determinata nelle sue forme.
Il primo giorno Dio ‘’vide che la luce era buona’’ , ma una volta distinta la Terra
dal mare , Egli dice ‘’che questo è buono’’: dove ‘’questo’’ si riferisce all’atto
della separazione , non più ad una cosa ( la luce ) , ma il processo e il risultato
dei tale processo , la logica.
Nella Genesi la Creazione avviene attraverso una logica bivalente , basata sul
raddoppiamento degli ambiti: solo l’interposizione di una distesa riesce a
produrre una superficie piatta , permettendo di separare la Terra dal cielo.
Questo passaggio è spesso trascurato , ma è solo grazie ad esso che si capisce
che la Terra diviene tale per sua virtù: la distesa che ha trasformato l’abisso
nel suo contrario e dopo , su una Terra ancora caotica ed indifferenziata , la
differenzia nella forma che oggi è la sua.
In questo modo la Terra si trasforma nel ‘’luogo dell’educazione umana’’ , come
l’ha definita nell’Ottocento il geografo Karl Ritter.
In questo modo è possibile comprendere un’espressione presente nel ‘’Corpus
Ermeticum’’, opera ascrivibile all’ultimo dei grandi magi, Ermete Trismegisto.
Ermete dice ‘’la Terra è la copia del cielo’’ , proprio quello che è appena stato
detto nella Genesi , dove la Terra è la copia del cielo in quanto la matrice è la
medesima , ovvero quell’abisso che fin dall’inizio esiste.
Carl Schmitt in quella che forse è la sua opera più celebre , ‘’Il Nomos della
Terra’’ , fa ( forse implicitamente ) riferimento a questo processo per indicare
la nascita della ‘’razionalità giudaico-cristiana’’.
Il problema che si presentava a Schmitt era quello di illustrare la nascita della
ragione occidentale a partire da due fenomeni di riferimento: localizzazione
e ordinamento , ovvero la messa in ordine degli elementi sulla faccia della
Terra ( una strutturazione partita ancor prima della localizzazione ).
Schmitt sembra ripetere proprio quanto detto nella Genesi: c’è una distesa
originaria , un’estensione , una superficie e quindi una riduzione a superficie
( in entrambi i casi la Terra è il prodotto della distesa già esistente ).
Solo così si comprende ciò che viene detto nel Vangelo di Giovanni quando si
afferma che ‘’in principio vi era il logos’’ , termine greco ( λòγος ) di solito
tradotto come ‘’ragione verbale’’.
Λογος deriva da λεγειν , verbo che significa ‘’parlare’’ , ma anche ‘’legare’’ o
‘’comprendere/raccogliere’’ ( in questo senso si faccia riferimento alla forma
composta sul-legein=συλλεγειν )
Dunque il logos è proprio ciò che ordina e da forma attraverso la selezione:
quello che succede nella Genesi.
Dalla sua versione latina emergono due parole: la prima è legione , qualcosa
di ordinato , la seconda è elegante , perché la persona elegante è una persona
che seleziona.
Al λòγος i Greci contrapponevano un’altra possibilità e modalità di
conoscenza , l’επιστημη ( episteme ) , termine che significa ‘’mettere sopra’’
qualcosa che già si conosce , già esiste.
Ed è appunto l’invenzione della Terra che sta prendendo le mosse , in quanto
essa procede esattamente in questa maniera , quando sopra il λòγος , la
distesa che contiene già la possibilità della struttura , si dispone la forma
della terra , sicché la Terra stessa risulta l’assimilazione della struttura di tale
estensione ( cosa che vale per l’Oriente quanto per l’Occidente ).
3. IL MANTELLO DEL CIELO E LA LINEA D’ORIZZONTE

L’invenzione della Terra procede in Occidente per via epistemica , ponendo la


forma terrestre sopra il logos , la superficie che l’antropologo britannico
Gregory Bateson ha definito ‘’la struttura che connette’’ , e che allo stesso
tempo ordina e seleziona gli elementi , tirandoli fuori dall’informe.
Un’operazione ideale e materiale, che rappresenta la natura duplice del logos ,
la matrice originaria.
Il termine ebraico per dire ‘’creazione’’ è ‘’baral’’ , che significa sia sezionare
che intagliare , un processo che coinvolge la mente ed il corpo ( quindi ideale
e materiale ).
Nella Genesi , come in tutte le altre cosmogonie , la creazione del mondo
diventa l’arte del dar forma e di controllare quello che nella matrice è ancora
privo di forma.
Si veda l’esempio dell’Enuma Elis , il racconto della creazione prodotto a
Babilonia ( dove veniva recitato per la festa dell’anno che iniziava ) due
millenni prima della nascita di Cristo.
Come nella Genesi , e a differenza della cosmogonia greca raccontata da
Esiodo nella ‘’Teogonia’’ , la creazione non parte dal caos ma da una materia
primordiale.
Secondo i Babilonesi in origine esisteva solo l’acqua , distinta in due
componenti: l’acqua salata , Tiamat , e l’acqua dolce , Apsu.
Ambedue avevano preso origine da un’unica matrice , Mummu ( termine che
ricorda il nostro ‘’mamma’’ ) , la nebbia vaporosa.
Nell’Enuma Elis tutto comincia nell’acqua e con l’acqua , e più precisamente
dalla miscela delle sue componenti ( acqua dolce e salata ) nascono gli dei.
Nel momento in cui acqua dolce e salata si mescolano , anche il fango
precipita in esse e così nascono i primi quattro dei , che diventano grandi
immediatamente , ed è allora che ‘’le linee del cielo e della terra si allungano dove
gli orizzonti si incontrano per separare le nuvole dalla terra’’.
A differenza dell’Antico Testamento, la cosmogonia babilonese narra in modo
esplicito l’emergere della linea dell’orizzonte ( che nella Genesi è invece data
per scontata ).
Per i Babilonesi le linee dell’orizzonte sono il luogo in cui si incontrano Ashar
e Cashar , gli dei che mettono in comunicazione e separano la terra dal cielo.
Da Ashar nasce Anu , dio del cielo vuoto , che mette al mondo Ea , dio delle
acque dolci e di una grandezza più grande dell’orizzonte del cielo.
Ea uccide Apu , che stava tramando contro gli dei appena nati , e in seguito
costruisce la prima abitazione: un tempio dove si celebra lo sconfitto Apsu
( il testo dice che Ea ‘’scandaglia la spira del caos e contro di esca concepisce
l’artificio dell’universo’’ ).
Il tempio è costruito sopra l’abisso , sopra la distanza: Apsu significa infatti
‘’oceano’’ , ‘’abisso profondo’’ o ‘’limite estremo’’.
In questo modo l’abisso diventa l’assenza di misura , la distanza
incommensurabile.
Proprio per ridurre a misura l’abisso nasce Marduk , figlio di Ea e Damkina ,
l’ultimo architetto della creazione e la nemesi di Tiamat ( il cui nome significa
‘’acque primordiali’’ ) , che è matrice di dei e mostri.
Il mito si appresta ora a raccontare lo scontro cosmico tra colui che porta
ordine , Marduk , e l’incommensurabile , Tiamat , che ribadirà ciò che ogni
mito dice: chi comanda non è colui che è nato prima.
Marduk sorprende Tiamat mentre quest’ultima è impegnata a ricercare
qualcosa di cui non potrà mai stabilire la forma: il suo organo genitale , la
matrice con cui essa stessa è identificata.
Questa esplorazione non porterà però mai Tiamat a stabilire una forma ,
perché Tiamat è l’abisso , che cerca un oggetto che di fatto è un non-oggetto ,
un qualcosa che non avrà mai forma.
Impadronendosi di questo non-oggetto Marduk , che ha ucciso Tiamat ,
diventa figlio del Sole e signore della Terra.
La sua freccia trafigge il ventre di Tiamat , ed in seguito Marduk apre a metà
la carcassa del mostro: con la parte superiore costruisce la volta del cielo , poi
abbassa la sbarra e mette la guardia alle acque, ora non più libere di scappare.
Dalla sezione del corpo di Tiamat avviene la creazione della Terra , proprio
come nel baral ebraico , con la differenza ( già ricordata ) della creazione della
linea dell’orizzonte , la prima da tracciare affinché la Terra sia pensabile.
Da Tiamat Marduk trae fuori una topografia: dai suoi occhi sgorgano i
grandi fiumi della Mesopotamia, il Tigri e l’Eufrate, dal vapore del suo corpo
ricava le nuvole , le montagne dal suo seno , e così via.
In questo modo dunque l’immenso corpo di Tiamat , che nemmeno lei poteva
scandagliare , da abisso d’acqua fu mutato in terra , e la Terra non sporgeva
più sull’abisso dunque , ma aveva le sue fondamenta.
La linea d’orizzonte è allo stesso tempo la testimonianza di questa incredibile
metamorfosi , in quanto essa non solo separa e unisce il Cielo e la Terra , ma è
anche la prima linea per la creazione del nostro mondo.
Lungo di essa la realtà si incontra con la sua originale versione , ed è soltanto
in base ad essa che siamo in grado di sostituire oggetti , elementi statici con
cui abbiamo appreso l’abitudine di entrare in rapporto nel corso della nostra
vita quotidiana.
Il compito dell’orizzonte è dunque questo: far coincidere l’ordine locale con
quello cosmico , e questo perché esso configura la cerniera tra due diverse
concezioni del mondo: quella per cui quest’ultimo si compone di processi e
relazioni e quella per cui esso si compone di cose.
L’orizzonte è una cosa che è un processo e un processo che è una cosa:
l’elemento in cui cosa e processo si mescolano fino a non distinguersi , da cui
il suo carattere sfuggente e privo di stabilità , senza però il quale niente di
stabile potrebbe esistere.
Mettere in discussione l’orizzonte sempre ha significato lo sconvolgimento
repentino dell’ordine esistente sulla faccia della Terra , la rivoluzione.
Rivoluzione è un termine che presuppone l’esistenza di un orizzonte , ed il
fatto che nella Modernità sia stato utilizzato per indicare il violento
cambiamento della struttura politica esistente significa che l’orizzonte si
carica anche di un altro valore.
L’orizzonte diviene così il punto d’incontro tra quello che c’è e quello che
ancora non c’è , acquistando valore di prognosi ( se non profetico ).

NOTE

- Bella la citazione del filologo classico ungherese Kàroly Kerényi per cui ‘’il
mito va preso a piccole dosi per sopportarlo’’.

- Si noti la somiglianza tra il termine ebraico che indica la Creazione , ‘’baral’’ ,


e la parola ‘’barra’’ , il segno della sezione.
4. IL SERGENTE POLIFEMO

Partendo dall’assunto per cui ‘’nessun mito potrebbe funzionare senza l’analogia’’,
viene presentata un confronto tra la storia di Marduk e Tiamat e il celebre
confronto tra Odisseo e Polifemo nel Canto IX dell’Odissea di Omero.
Tra la stesura dell’Enuma Elis e quella del capolavoro omerico passano più di
mille anni , una distanza cronologica che tende a farci notare più le differenze
delle analogie ( ve ne sono molte tra le cosmogonie orientale ed occidentale ).
L’interpretazione più comune dello scontro tra Odisseo e Polifemo sostiene
che il trucco utilizzato dal re di Itaca per ingannare il gigante dal ‘’pensiero
irrazionale’’ , come dice Omero , consiste nel dare un falso nome.
L’autore rifiuta questa versione , sostenendo che le cose siano andate in
maniera molto diversa: l’invenzione che salva Odisseo e i suoi compagni non
è la scoperta del nominalismo , ma l’invenzione dello spazio.
Il Canto IX dell’Odissea è per l’autore la descrizione di un mondo alla rovescia
e anche di un rovescio delle regole che in genere valgono per il suo
funzionamento.
Il mondo è realmente messo sottosopra da quello che accade, e questo vale sia
per l’eroe greco quanto per il gigante.
Agli occhi di Odisseo il gigante rappresenta il massimo dell’alterità , non
solo per le sue straordinarie dimensioni , ma anche per altri motivi , come
esempio per il fatto che egli beve latte e mangia formaggio.
Solo nel 1000 d.C. circa in Grecia questi alimenti comparvero nella dieta di
tutti i giorni , al tempo di Odisseo bere latte e cibarsi dei suoi derivati era un
costume del tutto estraneo ai Greci , che lo ritenevano proprio dei nomadi
d’Asia.
La dieta greca di allora, molto differente da quella che noi chiameremmo oggi
una ‘’dieta mediterranea’’, si basava soprattutto sul consumo di carne e vino
( questo si desume dai poemi omerici ).
Inoltre Polifemo assume un atteggiamento del tutto opposto a quello dei
Greci in materia di ospitalità: Polifemo uccide e mangia i compagni di
Odisseo , mentre i Greci ospitavano i forestieri senza chiedergli nulla , lo
facevano riposare durante la notte e la mattina successiva gli chiedevano chi
fosse e dove fosse diretto.
A questo punto entra in scena il tronco d’ulivo , che Odisseo fa intagliare ,
sgrossare ed aguzzare ai compagni , al fine di utilizzarlo per accecare il
gigante.
L’episodio risulta decisivo in quanto narra l’atto da cui discende quello che
oggi chiamiamo tecnologia: rendendo dritto il contorto tronco d’ulivo ,
Odisseo e i suoi compagni si produce un qualcosa che non esiste in natura , la
linea retta.
Solo tramite questa soluzione i Greci possono affrontare l’uomo-montagna ,
così come viene presentato il gigante.
L’iconografia sembra non essere allineata sulla stessa posizione per quanto
riguarda il problema del numero degli occhi di Polifemo: a volte ne ha tre ,
altre quattro , altre ancora uno.
Il numero di occhi di Polifemo ha però poca importanza, il vero problema è la
forma circolare dell’occhio ( Κυκλωψ , da κυκλος che vuol dire ‘’cerchio’’ e
ωψ che vuol dire ‘’occhio’’ ).
Polifemo , trafitto dal tronco affilato , invoca l’aiuto degli altri ciclopi , che non
sopraggiungono a causa del famoso trucco del nome falso utilizzato da
Odisseo.
A questo punto resta solo un problema: il masso che chiude l’antro del
ciclope, che solo quest’ultimo è in grado di spostare.
L’espediente che permette ai Greci di salvarsi sta nel nascondersi sotto il
ventre dei montoni , tuttavia viene da chiedersi come Polifemo non si accorga
di quanto succede.
Non si può che provare commozione quando davanti al ciclope , che è seduto
sulla soglia della caverna tasta tutto il gregge in cerca dei nemici , si presenta
l’ariete che è a capo del gregge ( al cui ventre si è aggrappato Odisseo ).
Polifemo accarezzando la bestia dice ‘’Lo so che tu me lo diresti , se lo sapessi ,
dove sono nascosti quei cattivi che mi hanno ridotto in questo stato’’ , ed in effetti
l’ariete lo fa , ponendosi in fondo al gregge , quando era solito uscire per
primo: sta cercando col suo linguaggio di comunicare qualcosa che però
Polifemo non può capire.
Come sosterrà Ludwig Wittgenstein all’inizio del Novecento: se un leone si
mettesse a parlare , non se ne comprenderebbe il linguaggio , in quanto non si
parteciperebbe al suo mondo.
Resta comunque un interrogativo: perché Polifemo non si accorge che sotto il
suo naso i Greci stanno recuperando il loro mondo? Perché Polifemo abita il
mondo , mentre noi dopo Odisseo abitiamo lo spazio.
Per i Greci il mondo è fatto solo di rapporti di forza , di gerarchie e autorità
per cui chi sta sopra domina e chi sta sotto ubbidisce.
Lo spazio invece corrisponde alla riduzione del mondo ad un’estensione
metrico-lineare , ed è Odisseo il primo ad abitarlo , o per meglio dire ad
inventarlo.
Tra Odisseo e Polifemo c’è la stessa incomunicabilità che c’è tra il ciclope ed
il suo ariete.
Ciò che è curioso è però il fatto che Polifemo si limiti a tastare la parte
superiore delle bestie , non quella inferiore ( gesto che gli avrebbe permesso
di catturare i suoi nemici ).
La spiegazione più largamente utilizzata è quella per cui il ciclope non
avrebbe avuto un braccio sufficientemente lungo , ma è evidente che si tratta
di una posizione che non convince.
Non è un’impossibilità fisica che impedisce a Polifemo di trovare l’avversario,
non lo trova perché ritiene inutile l’unico gesto necessario.
Polifemo accerta che il piano superiore non porti il nemico , perché per lui è
impensabile che il livello inferiore ( il ventre ) contraddica il livello
superiore.
Polifemo ragiona attraverso la logica della gerarchia del mondo , dove
nessun caporale può contraddire un sergente ( sistema che funzionava anche
dentro la grotta del gigante ).
Questo è il motivo per cui Polifemo , abitante del mondo-caserma , non si
accorge di quello che sta accadendo.

NOTE

- Nel passo omerico sembra proprio che vedere e toccare siano la stessa cosa , e
l’accecamento di Polifemo sembra proprio voler indicare ciò: nell’Antichità
queste due percezioni diverse si equivalgono.
5. L’INVENZIONE DELLO SPAZIO

Usciti dall’antro di Polifemo , Odisseo e i suoi compagni si dirigono il più


velocemente possibile verso le barche che avevano lasciato sulla spiaggia ,
riempiendole col bestiame sottratto al ciclope accecato.
Per meglio comprendere gli avvenimenti successivi è bene ricordare che le
peripezie in cui i Greci incorrono nel corso del Canto IX dell’Odissea sono in
primo luogo colpa di Odisseo , che aveva insistito per esplorare l’antro del
ciclope.
Per questo motivo , mentre la nave si allontana dalla costa , il re di Itaca non
può che riaffermare la propria identità nei confronti del gigante , e di riflesso
anche nei confronti della propria ciurma.
Inizialmente Odisseo si limita a schernire il ciclope nel momento in cui
‘’fummo tanto lontani quanto si arriva col grido’’ ; il timore sembra quello di non
essere sentiti.
Quando l’accecato Polifemo sente la voce del nemico prende un enorme
masso e lo scaglia in direzione della nave.
Il ciclope è così forte che il masso cade a prua della nave , suscitando un’onda
tanto potente da riportare la nave al punto di partenza , ovvero presso la
spiaggia del gigante.
I Greci ancora una volta fanno forza sui remi e riescono ad allontanarsi dalla
riva , ma ancora una volta Odisseo inveisce contro il gigante , andando
stavolta a rivelare il proprio nome , ma solo quando ‘’due volte tanto di mare
avevamo percorso [ rispetto alla volta precedente ]’’.
Ancora una volta Polifemo scaglia un enorme macigno verso la nave , ma
stavolta la distanza è troppa anche per lui , in quanto stavolta il masso cade a
poppa della nave, generando un’onda che spinge ancora più lontano la barca.
La prima volta dunque Odisseo sceglie il momento del grido valutando la
relazione tra un proprio organo, la gola, e l’orecchio di Polifemo: la distanza
era stata dunque calcolata in base al rapporto tra due funzioni corporee.
A questo punto pare però giusto chiedersi come Odisseo abbia potuto
calcolare il doppio della distanza di prima , in quanto è difficile credere che
egli abbia calcolato i colpi di remi la prima volta ( significherebbe infatti
sostenere che egli già sapeva che sarebbe tornato indietro ).
In realtà ciò che fa qui la sua comparsa , ciò che salva Odisseo e i suoi
compagni dal ciclope e dalla sua forza smisurata è la capacità di astrazione ,
che consentì di raddoppiare istantaneamente la prima distanza , quella
calcolata su base empirica.
L’udito scompare , e con esso la gola e l’orecchio: le uniche parti del corpo
coinvolte sono la mente e l’occhio , che producono un calcolo silenzioso e
privo di ogni interlocuzione.
Si è di fronte al momento in cui viene inventato lo spazio , che presuppone
non solo una distanza e una metrica , m anche uno standard: qualcosa che
valga comunque e ovunque ( in questo contesto il criterio del raddoppio ).
Nel trucco di Odisseo il mondo si traduce in spazio , cosa che permette ai
suoi di salvarsi e alla civiltà occidentale di organizzarsi.
Il calcolo aritmetico sulla tabellina pitagorica che fin da piccoli apprendiamo
per cui da 1 si passa a 2 , da 2 a 3 e così via , è proprio ciò che salva Odisseo e
i suoi compagni dalla morte: l’intervallo regolare , lo standard che applicano
alla faccia della Terra , si chiama spazio*.
Quest’ultimo consiste nella riduzione del processo che conduce da un
termine all’altro del percorso ad una serie di oggetti , degli oggetti a segni
della distanza tra questi segni ad una misura lineare standard.
Queste condizioni sono tutte riunite , alla fine , nello scontro che avviene nel
Canto IX tra Odisseo e Polifemo.
Ciò che accadrà in seguito sarà proprio la prima rappresentazione geografica
di cui la memoria occidentale abbia traccia.
La nostra tradizione assegna ad Anassimandro , nato nel 610 a.C. a Mileto , il
privilegio di aver costruito prima rappresentazione geografica del mondo.
L’uso del condizionale è dovuto al fatto che alcuni , tra cui il filosofo Michel
Serres, sostengono che Anassimandro non sarebbe mai esistito (il suo sarebbe
infatti un nome parlante: ‘’il re del recinto’’ ).
Ciò che però è realmente importante ricordare è che la cultura occidentale
vede la propria origine in Anassimandro , un uomo che visse cinquant’anni in
una grotta e che si rivolgeva in modo teatrale al pubblico, suscitando timore e
rispetto.
A Mileto , culla della filosofia antica , anche dopo Anassimandro si continuò a
ritenere che per reggersi nel cielo la Terra avesse bisogno di un supporto
solido e fisso.
Questo supporto era la cosmogonia , il racconto sulle origini del cosmo , a cui
attingeva anche Talete ( maestro di Anassimandro ) , secondo cui la Terra si
reggeva su un cuscino d’acqua.
Anassimandro fu il primo a passare dalla cosmogonia alla cosmologia , non
raccontò una storia , bensì descrisse una figura ricorrendo al modello
geometrico.
Per comprendere la differenza tra cosmologia e cosmogonia è utile ricordare
una storia che narrava il geografo Alexander Von Humboldt.
La storia è quella del bramino che rivela all’apprendista che la Terra sta ferma
e non cade giù in quanto sorretta da una tartaruga.
L’apprendista risponde a questa affermazione chiedendo che cosa si regga la
tartaruga, interrogativo a cui il bramino risponde dicendo che essa a sua volta
si regge su un elefante.
Quando però l’allievo chiede a cosa allora si regga l’elefante , il bramino
afferma che egli ha ‘’compreso la differenza tra la scienza e la fede’’.
Anassimandro è il primo ad interrompere questa regressione all’infinito ,
per lui infatti la Terra sta ferma non in quanto sorretta da qualche supporto ,
ma perché posta esattamente al centro dell’universo.
Quest’ultimo è circolare e si compone di forze uguali e contrarie tra loro , che
vengono a creare equilibrio assoluto in un punto preciso , quello in cui è
situata la Terra.
Morto Anassimandro , il suo modello di spiegazione venne immediatamente
dimenticato ; tuttavia non venne dimenticata la sua grande operazione , il suo
grande manufatto: la prima rappresentazione geografica , che valse al
filosofo la gravissima accusa di empietà.

NOTE

- Odisseo non aveva certo contato i colpi di remi , al contrario del colonnello
T. E. Lawrence ( meglio noto come Lawrence d’Arabia ) , che nel suo libro ‘’I
sette pilastri della saggezza’’ racconta di come , attaccato da un gruppo di Arabi,
egli riuscì ad eliminare gli assalitori lanciando una bomba da un punto
riparato: cosa che fu possibile in quanto egli aveva contato i passi ( quindi la
distanza ).

* La storia di Odisseo e Polifemo ci è stata raccontata alle elementari , proprio


quando abbiamo imparato a calcolare sulla tabellina pitagorica , ma ‘’nessuno
ci aveva detto che si trattava della stessa cosa’’.
6. IL MANTELLO DELLA TERRA

Anassimandro viene tradizionalmente inserito tra quei pensatori che a scuola


vengono indicati come ‘’presocratici’’ , e che Giorgio Colli* chiamava invece i
‘’sapienti greci’’.
Secondo Strabone i primi grandi pensatori occidentali erano in realtà dei
semplici geografi.
Se i Babilonesi avevano inventato il mantello del cielo , la cui esistenza e
visibilità dipendevano dalla linea d’orizzonte , un greco di nome Fociride
invece , ha narrato del mantello della Terra.
Di Feciride , ricordato da Aristotele come vero e proprio mago vissuto a Siro (
isoletta del Mar Egeo ), possediamo solo un preziosissimo frammento , quello
delle nozze sacre , in cui si raccontano le prime nozze del mondo.
A sposarsi sono il Cielo e la Terra , mentre l’Oceano fa da sacerdote del rito.
La Terra non si chiamava ancora Υε ( gé ) , ma χτον ( ctòn ) , termine che oggi
sopravvive nell’aggettivo ctonio , che significa ‘’sotterraneo’’ o ‘’oscuro’’.
Il rito consiste in un primo momento nel svelamento della sposa , che rimane
nuda soltanto per un attimo ( quello in cui per i Greci era possibile cogliere la
verità ) , prima di essere coperta dal mantello dello sposo.
Quest’ultimo come si è detto è il Cielo , che però altri non è che Ζας ( Zas ) ,
ovvero Zeus.
Nel momento in cui indossa il nuovo mantello , simbolo che sancisce il
matrimonio , la Terra cambia nome , o meglio , aggiunge al suo nome un altro
nome , diventando anche Υαια ( Gaia ).
Sul mantello lo sposo ha ricavato dei disegni , fiumi/laghi/montagne/castelli:
in altri termini su questo mantello è per la prima volta rappresentata la forma
della Terra.
La verità come detto compare solo un istante brevissimo e inafferrabile ,
quello in cui la sposa rimane nuda: l’abisso rimane scoperto solo un attimo ,
può essere visto solo per poco.
In quel momento non si può distinguere nulla , in quanto Cielo e Terra sono
divenuti un’indifferenziata e indeterminata unità.
Alla fine delle nozze sacre ciò che vediamo è solo l’immagine delle montagne
sul manto sacro , non le montagne: non la cosa , ma solo un’immagine della
cosa.
Le cose vere stanno sotto il mantello , e purtroppo per noi rimarranno
inaccessibili , la condanna è quella di accontentarsi di ciò che si vede: una
metafora che sta a significare che la verità rimarrà a noi celata per sempre , e
ci dovremo accontentare sempre di illusioni.
La posizione è quella che in seguito adotteranno anche pensatori come Kant e
Heidegger , ma che Ferecide sei secoli prima di Cristo aveva già sostenuto:
noi non possiamo conoscere le cose per davvero.
Chi sembra più di tutti avere coscienza di ciò è proprio Anassimandro , colui
a cui è attribuita l’invenzione del modello terrestre che ancora oggi è il nostro.
Come riporta Agatemero , Anassimandro fu colui che ‘’per primo osò inscrivere
l’Ecumene’’ , quest’ultima parola usata dai Greci per indicare la Terra
conosciuta e abitata.
Quest’operazione fu percepita come talmente audace da essere condannata
come sacrilega a tal punto da far meritare ad Anassimandro il disprezzo dei
contemporanei.
Goethe sosteneva che all’inizio non ci fosse il logos , come invece voleva il
Vangelo di Giovanni , ma l’azione: in questo caso l’azione di Anassimandro
nel fabbricare la prima tavola della Terra , la prima tappa di tutta la cultura
occidentale ( quindi di fatto la nascita dell’Occidente ).
Non si sa di che materiale fosse questo modello , se di bronzo , di pietra o di
terracotta , si trattava di quello che potremmo oggi definire un hardware ,
diverso dal mantello di Ferecide.
Un tessuto non è rigido , ha delle pieghe che cadono di volta in volta in
maniera diversa , soprattutto se la superficie (come nel caso delle nozze sacre)
è una stoffa addossata ad un corpo.
Nessuno nelle nozze sacre penserebbe che la Terra sia piatta o immobile ,
come è invece nella scultura di Anassimandro.
Il mantello di Ferecide è qualcosa che copriva la Terra , e di profilo
corrispondeva all’orizzonte , mentre la tavola di Anassimandro è qualcosa di
diverso: non sta sopra la Terra , ma la sorregge e ne permette la riduzione a
forma geometrica.
Anassimandro applica alla Terra il modello circolare che vale per l’universo:
la Terra è un cerchio e al suo centro vi è la Grecia.
Come però sottolineava lo scrittore Elias Canetti, non esiste un modello senza
un metamodello che è sempre in grado di dare origine al modello.
In questo senso il metamodello a cui faceva riferimento Anassimandro
derivava dalla pratica dell’assemblea , quella descritta tante volte nei poemi
omerici , e che consiste in un circolo di uomini che si ritengono uguali.
Questi , guerrieri o cittadini , a turno occupano il centro finché parlano e
dunque esercitano potere sugli altri e, una volta terminato il proprio discorso,
tornano nei ranghi.
Dalla pratica dell’assemblea tra i simili discende qualcosa che ancora oggi ci
avvolge: la democrazia.
Quello che rimane ancora da spiegare è l’ostilità che i contemporanei
nutrivano nei confronti di Anassimandro.
Il motivo di questa ostilità è dato dall’aver rappresentato il mondo dall’alto ,
come soltanto la divinità poteva guardarlo ; in sostanza egli era si era spinto
oltre la potestà degli uomini.
In realtà il vero peccato è se possibile ancora più grave: egli avrebbe ridotto la
φυσις ( physis = natura ) ad uno schema.
Egli avrebbe in sostanza cristallizzato il processo , anzi i processi , di cui il
mondo si compone ; una colpa da cui Anassimandro non si liberò mai.
Un secolo dopo un altro greco , Erodoto , ironizzò apertamente sulle mappe
ioniche , tutte derivanti dal primo modello di Anassimandro.
Le mappe ioniche secondo Erodoto erano tutte tonde e geometriche , ‘’come se
fossero uscite dalle mani di un vasaio’’ ; egli però non dice la verità sul motivo
del suo riso , così come i commentatori non dicono la verità quando dicono
che Anassimandro venne accusato di tracotanza.
Il peccato è ancora più grave , e ad esso si deve sia la nascita dell’Occidente
sia l’invenzione della Terra come noi la conosciamo.

NOTE

*Giorgio Colli ( 1917-1979 ) è stato un filosofo, , storico della filosofia ,


accademico e traduttore italiano che ha insegnato per trent'anni Storia della
Filosofi antica all'Università di Pisa.
7. SALOMÈ

Sia per la cosmogonia greca che per la cosmologia di Anassimandro la


conoscenza è qualcosa che inganna , è un’illusione: come per Ferecide non
possiamo conoscere la Terra , ma solo la sua immagine , così Anassimandro
distingue tra cose che possiamo conoscere e cose che non possiamo
conoscere.
Anassimandro era perfettamente consapevole che anche il fatto che la Terra
appaia come piatta era una semplice parvenza , e che le cose vere erano
purtroppo inafferrabili.
La distesa , l’ideale superficie piatta di cui si era parlato a proposito della
Genesi , con Anassimandro diventa un hardware , un modello concreto non
imposto alla Terra , ma a cui la Terra deve adattarsi.
Il prezzo di tutto ciò avviene ad altissimo prezzo , come racconta la storia di
Salomé.
La storia è celebre almeno quanto quella già ricordata di Odisseo e Polifemo ,
ma esattamente come nel caso di quest’ultima ci illudiamo che di sapere il
suo reale significato.
Mettere la storia solo sul piano sessuale significa precludersi la possibilità di
comprendere , in quanto tra Salomè ed il re Erode c’è in gioco molto più
importante del semplice desiderio.
In gioco c’è il meccanismo di funzionamento del mondo e il suo controllo ,
cioè il potere ; di fronte a queste considerazioni preliminari risulta evidente la
possibilità di comprendere la storia in una nuova maniera.
Noi chiamiamo Salomè questa ragazza solo perché uno storico , Flavio
Giuseppe ( autore delle ‘’Antichità Giudaiche’’ ), racconta che Erodiade* aveva
una figlia chiamata Salomé.
La storia di quest’ultima è raccontata nei Vangeli di Marco e Matteo , ma
nessuno dei due evangelisti ricorda il nome della ragazza ( quindi è evidente
che c’è già una prima invenzione ).
Quando Salomè danza di fronte al re , i due protagonisti principali di questa
storia sono assenti: Giovanni Battista ed Erodiade infatti sono invisibili , non
appaiono.
La donna è fuori dalla sala , in attesa che il suo piano abbia esito favorevole ,
mentre il predicatore si trova in prigione , dove il re lo ha messo per
proteggerlo dalle mire di Erodiade.
Il rapporto tra il re Erode e il Battista è in effetti molto complesso , come
riporta infatti l’evangelista Marco , il re ascolta volentieri Giovanni , anche se
quando lo fa rimane spesso perplesso.
Erode infatti teme il potere di Giovanni , quello che è ricordato anche dal suo
nome , il ‘’Battista’’ , colui che da nome alle cose.
Quello di Giovanni è il potere del λογος , inteso come parola o verbo , il
potere dunque di assegnare nomi a ciò che esiste , stabilendo in questo modo
l’ambito in cui il potere del re può essere esercitato.
Il potere del re infatti si esercita su ciò che è , ma Giovanni stabilisce ciò che è
tramite il potere della nominazione , che in qualche modo precede quello di
Erode.
Salomè dunque non è la protagonista di questa storia fatta di passioni
innaturali , come invece ci ha fatto credere Oscar Wilde.
La storia di Salomé è quella della passione più naturale di tutti gli uomini e le
donne: il potere ( che può passare attraverso il sesso certo , ma solo per
servirsene come strumento ).
È il potere che Erodiade** vuole , e per raggiungerlo si serve della figlia e del
fascino che essa esercita su Erode , che infatti promette alla giovane metà del
suo regno se continuerà a danzare per lui.
Danzare significa muoversi vorticosamente senza mai perdere l’equilibrio ,
eppure rischiando continuamente di potere , e cosa se non la stabilità è da
sempre il principale cruccio degli uomini di potere.
Non esiste potente che non debba in qualche modo confrontarsi col fatto che
il mondo cambia continuamente e vorticosamente ; solo comprendendo
questo si capirà la vera proposta di Erode: metà del suo regno in cambio del
segreto per conservare per sempre il proprio potere.
A questo punto Salomè si reca dalla madre per chiedere consiglio , e quando
torna indietro pronuncia la terribile frase: ‘’Voglio subito su un vassoio la testa
del Battista’’.
Nessuno racconta cosa Salomè abbia raccontato ad Erodiade , l’attimo della
verità , lo stesso attimo già incontrato nel corso delle nozze sacre tra il Cielo e
la Terra.
La supposizione più plausibile su ciò che si siano dette l’ha avanzata
l’antropologo René Girard.
Secondo quest’ultimo Erodiade si limita a dire a Salomè di chiedere al re la
testa del Battista: la madre si esprime nel linguaggio di tutti i giorni , che non
può funzionare senza metafore (il meccanismo per cui una parola significa
più di una cosa , in questo caso la ‘’chiedere la testa’’ sta per ‘’voler vedere
morto’’).
Quando la madre parla di testa essa chiede solo che Giovanni sia messo a
morte , ma la figlia non comprende la logica del linguaggio naturale ,
prendendo alla lettera ciò che la madre dice.
Nell’interpretazione di Girard manca però qualcosa , in quanto manca la
spiegazione del perché il vassoio sul quale dovrebbe essere posta la testa.
Così come la storia di Odisseo e Polifemo è sorretta dalla comparsa del tronco
d’ulivo, allo stesso modo la storia di Salomè ed Erode si regge sulla comparsa
del vassoio.
Si deve ricordare che per rappresentare una testa decapitata non è necessario
un piatto.
L’altro grande riferimento iconografico occidentale che mostra l’esito di una
decapitazione è quello di Giuditta e Oloferne , in cui l’eroina ebraica tiene
sempre la testa del generale nemico per i capelli.
Allo stesso tempo nell’iconografia della vicenda di Salomè , la testa del
Battista è sempre su un piatto.
La storia della vicenda di Salomè è dunque la comparsa di questo piatto , la
spiegazione della necessità dell’esistenza di questo supporto che entra nella
cultura occidentale in maniera decisa , dopo essersi già insinuato al tempo di
Anassimandro.
Il lato veramente tragico di questa vicenda è il fatto che nessuno chiede
consapevolmente su un piatto la testa del Battista , lo fa Salomè , ma solo
perché non distingue il significato letterale da quello metaforico ( è questo
che fa comparire il piatto e lo rende assoluto protagonista ).
In nessun caso si può mettere su un piatto una cosa che sia viva , in questo
caso si tratta della testa , la cui scissione comporta la lacerazione della fonte
del potere del Battista: la gola , la fonte del linguaggio.
Niente può essere messo su un piatto senza ridurre quello che è sul piatto a
segno , a qualcosa che sta per qualcos’altro , come nella definizione della
scolastica medievale.
Senza la tavola piatta non si darebbero segni , e questo è proprio questo il
significato della storia di Salomé: la sostituzione del logos del linguaggio con
quello della tavola.
Questa storia illustra il prezzo e la tecnica dell’invenzione della Terra piatta ;
non a caso il termine greco usato per riferirsi all’invenzione di Anassimandro
e al piatto di Salomè è lo stesso: πιναξ ( pinax ).
Dunque la storia di Salomè e quella di Anassimandro raccontano la
medesima storia , solo che la prima sacrifica la testa di Giovanni Battista ,
mentre il secondo il corpo vivente della Terra intera.
NOTE

* Erodiade fu moglie di due dei figli di Erode il Grande , dal primo ebbe la
figlia Salomè , mentre il secondo fu proprio l’Erode Antipa protagonista della
storia appena narrata.

** Erodiade sceglie di sfruttare la figlia consapevole di non esercitare più lo


stesso fascino di una volta sul marito.

- Molto interessante notare come la vicenda della morte di Giovanni Battista


abbia prodotto una vivanda , qualcosa di cui ci si alimenta per vivere: ancora
oggi si chiama ‘’battista‘’ la figura del maggiordomo che reca a tavola i piatti.
8. LA TERRA È UNA TESTA

Che la Terra sia una testa lo afferma il più grande geografo dell’antichità ,
l’alessandrino Claudio Tolomeo ( 100-175 d.C. ).
Tolomeo era un egiziano che scriveva in greco , ma era anche un suddito
dell’Impero Romano nel II secolo d.C. , il momento di massimo splendore del
potere imperiale.
Alessandria era la più straordinaria delle città del Mediterraneo , luogo
d’incontro di diverse culture , fedi , teorie: un luogo in cui tutti i modelli del
mondo si mescolavano.
Tolomeo è l’ultimo dei sapienti greci , il custode di una tradizione che nella
sua figura si deposita in maniera assolutamente esemplare.
È proprio Tolomeo a rivelare all’Occidente uno dei suoi massimi segreti: l’arte
di trasformare il globo in una mappa , in una carta geografica.
L’opera del geografo alessandrino è chiamata per tradizione col nome di
‘’Geografia’’ , nel Cinquecento invece era nota come ‘’Cosmografia’’ , tuttavia la
traduzione letterale dell’opera dal greco sarebbe ‘’Guida al disegno della carta
geografica della Terra’’.
Tolomeo fu infatti il primo a produrre mappe sofisticate a tal punto da dare
l’impressione visiva della curvatura terrestre , un’arte che è insieme una
tecnica , in quanto la sua è una operazione matematica.
Quest’operazione è nota oggi col nome di ‘’proiezione’’ , anche se Tolomeo le
indicava col nome di ‘’modi di conoscenza’’.
‘’Proiezione’’ è un termine inventato dai traduttori del Quattrocento del testo
tolemaico ( scomparso nella cultura occidentale con il crollo dell’Impero
Romano e riscoperto dopo la caduta di Bisanzio e la fuga dei sapienti greci ) ,
che però deriva dal mondo dell’alchimia , l’arte di trasformare le cose.
Nel procedimento alchemico , soppiantato tra XVII e XVIII secolo , la polvere
di proiezione entrava nel momento decisivo , quello finale: sparsa sul metallo
lo trasformava in oro.
La proiezione era l’agente della trasformazione più grande che si potesse
concepire , quella della mutazione del globo in una mappa ( in questo modo
essi lessero Tolomeo , alla ricerca di un segreto in grado di trasformare il
globo in una mappa ).
Oggi riteniamo di non essere più tolemaici solo perché non crediamo che la
Terra sia al centro dell’universo , come l’alessandrino sosteneva nel suo
‘’Almagesto’’ , ma ci sbagliamo.
Ogni volta che apriamo un atlante siamo infatti tolemaici: non per l’immagine
del cosmo , ma di quella della Terra.
Per l’immagine della Terra non c’è mai stato nessun Copernico , Keplero o
Galileo Galilei , insomma uno scienziato che ha reinventato i modelli del
cielo e smantellato il sistema geocentrico.
È stato infatti Tolomeo ad inventare il sistema delle coordinate ( latitudine e
longitudine) calcolate rispetto all’Equatore e ad un meridiano convenzionale ,
di cui ancora oggi ci serviamo per identificare un punto sulla superficie
terrestre.
Tolomeo fu il primo a ridurre ad un insieme di punti geometrici la faccia
della Terra , in base alla regola dell’equivalenza generale tra le varie località.
Egli ha inventato di fatto il reticolo geografico , il sistema attraverso cui
abbiamo addomesticato il globo e tradotto in spazio ; in questo senso dunque
l’alessandrino è il principale tra i geografi moderni ( anche se il mondo da lui
cartografato si limitava alle terre intorno al Mediterraneo ).
Si continuò a stampare Tolomeo fino al 1570 , quando fece la sua comparsa il
primo atlante moderno , il ‘’Theatrum orbis terrarum’’ del fiammingo Abraham
Ortelius.
Questo è in effetti sorprendente se si pensa che la Geografia di Tolomeo si
limitava a descrivere l’Impero Romano (nelle sue carte l’estensione dell’Africa
era equivalente a quella dell’Europa e dell’Asia).
Questo apparente paradosso è comprensibile quando si ragiona sul fatto che
Tolomeo è il primo a descrivere la Terra in termini spaziali , secondo il
sistema che in ogni epoca moderna inizia a regolamentare il mondo interno
in maniera sistematica.
Ecco perché Tolomeo è il geografo di Colombo , non perché contenesse
informazioni sul mare Oceano , ma perché forniva il principio ( la logica ) che
consentiva di pensare le terre americane in termini di continuità e omogeneità
rispetto a quelle note.
È già stato ricordato come la regola dello spazio è che qualsiasi parte è
perfettamente equivalente a qualsiasi altra , indipendentemente dalla sua
natura.
L’affermazione di Tolomeo per cui la Terra è una testa rende finalmente
comprensibile l’avventura di Colombo.
Come detto ovunque in Europa nel Quattrocento il fatto che la Terra fosse
piatta era un’affermazione banale , ma prima di Colombo , navigatori come
Vasco da Gama si limitavano a costruire materialmente o idealmente un
modello sferico , cercando di provare che esso funzionasse.
Colombo fa invece il contrario , e per questo scopre un nuovo mondo: prende
un globo e cerca di mostrare che la Terra funziona secondo il modello , ma
non che il modello s’adegua alla Terra.
Mentre dunque gli altri tentavano di raggiungere le Indie attraverso la punta
dell’Africa , Colombo procede in senso opposto ed inventa l’Occidente.
Torna dunque in mente la logica di Salomè: una testa è una testa.
Tre secoli dopo Colombo , Immanuel Kant (1724-1804) scrive che la ‘’sicura
via della scienza’’ fu una scoperta molto più importante di quella del ‘’famoso
Capo di Buona Speranza’’.
La ‘’sicura via della scienza’’ consiste non nel seguire le tracce di una figura ,
ma nel trarre fuori dalla figura quello che noi stesso vi abbiamo messo
dentro.
Riprendendo Kant nella prefazione alla seconda edizione della ‘’Critica della
Ragion Pura’’: Galilei , Torricelli e tutti gli altri moderni compresero che ‘’la
ragione scorge soltanto ciò che essa stessa produce secondo il su disegno’’.
Questo passo, sebbene commentato mille volte, riserva ancora molte sorprese
se si riflette che anche in esso non c’è metafora che tenga: una via è una via , e
questa via è prima disegnata e poi praticata.
Kant in questo passo non dice soltanto che ciò che chiamiamo conoscenza è il
risultato dell’effettivo processo di conoscenza della Terra , ma anche che
quest’ultima dipende da uno ‘’schizzo preliminare’’ , un modello originario
composto da una materiale struttura e da un’espressione grafica che già
contengono la logica del processo in questione.
Dunque vi è un’assoluta continuità tra Anassimandro e Kant: il primo riduce
la Terra al suo cadavere grafico , il secondo riconosce la priorità di tale
cadavere rispetto al corpo vivo della Terra , e fa discendere dalla costituzione
di quello le regole per la conoscenza di questo.
A questo punto l’autore polemizza con un filosofo parigino del secolo scorso ,
colpevole di aver distinto Modernità e Postmodernità in base al fatto che nella
prima le carte erano copie del territorio , mentre nella seconda il rapporto è
inverso: il simulacro ( la rappresentazione geografica ) precede il territorio.
In questo senso allora Kant sarebbe un postmoderno , per non parlare di
Anassimandro e Colombo , con quest’ultimo che sarebbe il più postmoderno
di tutti.
Ma se così fosse modernità e postmodernità inizierebbero nello stesso
momento , con Colombo infatti la rappresentazione geografica prende il
posto del mondo , ricopre e assorbe tutto ciò che esiste.
La carta , cioè lo spazio , è il primo degli strumenti della Modernità , che si
afferma proprio con Colombo.
9. DI CHE È L’UOVO ?

Nel diario della prima spedizione di Colombo, sotto la data del 25 Settembre
1492 viene riportata la storia di un’allucinazione collettiva , che vede come
protagonista il capitano della ‘’Pinta’’ Martìn Pinzòn.
Quest’ultimo infatti al tramonto , salito a poppa della nave , grida di aver
avvistato Terra ; a quel punto tutti salgono sull’albero maestro e confermano
l’avvistamento , compreso Colombo.
Il giorno dopo tuttavia , si scopre che quella che era sembrata Terra era in
realtà il Cielo.
Era successo che tutti avevano sostituito alla faccia della Terra l’immagine
cartografica, la carta: la carta disegnata dal più grande e misterioso cartografo
del Quattrocento , il fiorentino Paolo dal Pozzo Toscanello (1397-1482) , di
cui Colombo aveva probabilmente una copia.
L’esistenza della carta di Toscanelli non è più oggetto di disputa , mentre
permangono dubbi sull’effettiva conoscenza di Colombo di quest’ultima.
Gli storici spagnoli sono certi dell’esistenza di un rapporto epistolare tra
Colombo e Toscanelli , favorito dal canonico Martinéz, corrispondente
portoghese del cosmografo.
Altri sostengono invece che che questo sia solo un falso allestito dai
Portoghesi , allo scopo di poter anche loro rivendicare la scoperta del Nuovo
Mondo.
Altri ancora ritengono che sia un’invenzione di Bartolomé de Las Casas ,
l’ultimo che avrebbe avuto in mano il diario colombiano.
Quest’ipotesi , se verificata , potrebbe estendersi anche al testo del 25
Settembre , in cui , senza mai citare Toscanelli , si racconta che in quel giorno
Colombo e Pinzòn si interrogavano su come non si fossero ancora incontrate
certe isole in cui si sarebbero già dovuti imbattere.
Questo spiega perché il 25 Settembre , al grido d’avvistamento , tutti fossero
effettivamente convinti dell’esistenza della Terra in quel punto , e questo solo
perché è la carta a dirlo.
Sulla spedizione di Colombo rimangono ancora oggi numerosi interrogativi e
momenti poco chiari , come il famoso episodio dell’uovo di Colombo.
In realtà l’ammiraglio non schiacciò mai un uovo sul tavolo per mostrare la
forma della Terra , e questo perché come è già stato ribadito , anche a quei
tempi , tutti quelli che potevano leggere Seneca/Agostino/Tommaso d’Aquino
sapevano che la Terra fosse piatta.
Di fatto è vero proprio il contrario: Colombo non ha il merito di aver mostrato
la forma sferica della Terra , quando piuttosto quello di averla ridotta ad un
gigantesco spazio , anzi alla serie di innumerevoli spazi.
Per dare un senso corretto al fittizio episodio di Colombo bisognerebbe
capovolgerlo completamente , ponendo attenzione non sull’uovo , ma sul
tavolo: l’impresa colombiana si risolve nella trasformazione dell’uovo
terrestre in un’estensione piatta , una tavola per l’appunto.
In realtà , come riporta Giorgio Vasari nelle sue ‘’Vite’’ , fu Filippo
Brunelleschi a schiacciare un uovo su un tavolo per mostrare al governo
fiorentino come intendeva fare reggere su se’ stessa la cupola del Duomo di
Santa Maria del Fiore ( ‘’che fece ombra a tutti i popoli della Toscana’’ citando
Leon Battista Alberti ).
Ciò che collega , in maniera invisibile , Brunneleschi e Colombo è proprio il
già citato Toscanelli.
Sempre Vasari ci ricorda che Brunelleschi avrebbe appreso le arti
matematiche presso Toscanelli: ‘’egli imparò la geometria da lui’’ , anche se in
effetti non si capisce chi sia allievo e chi maestro , sembra solamente che
entrambi i soggetti al cospetto della geometria svolgano il loro compito
trasmettendosela l’un l’altro.
L’opera di Toscanelli attraversa tutto il Quattrocento fiorentino e si staglia
dietro tutte le grandi imprese e le grandi opere del tempo , senza però che ci
siano giunte sue testimonianze scritte rilevanti.
Non ci è pervenuta nemmeno la sua carta dell’Oceano , di cui esistono solo
delle ricostruzioni e che doveva essere una vera e propria sintesi di tutto il
suo sapere: di astrologo , di matematico , di cosmografo , di speziale e di
filosofo neoplatonico.
Il suo è il bagaglio di un umanista , composto da una cultura teorica e pratica,
tipica di un uomo incline allo studio dei classici ma anche all’interrogare
tutti i viaggiatori giunti a Firenze da terre lontane.
Per tutto il periodo che va dal Quattrocento al Seicento la penisola italiana è il
cuore delle informazioni e dei modelli che riguardavano il funzionamento del
mondo.
L’Italia per qualche secolo è il massimo dell’intelligence planetaria , negli
archivi e nelle biblioteche di Roma , Venezia , Genova , Firenze era custodito
un patrimonio di sapienza, documenti , conoscenza del mondo che non aveva
rivali , e lo stesso si poteva dire per i capitali custoditi dai mercanti delle città.
L’ultima a detenere questo primato è Venezia , che lo lascia simbolicamente
nel 1681 , quando il veneziano Vincenzo Coronelli , uno degli ultimi
cartografi italiani , si reca in Francia alla corte del Re Sole per costruire i
grandi globi che in Italia , per mancanza di mezzi , non poteva realizzare.
Con la chiamata a Versailles di Coronelli , ultimo erede della tradizione
cartografica e cosmografica della penisola , il sapere relativo all’arte della
modellizzazione del mondo attraversa le Alpi e si sposta nelle grandi capitali
e nei maggiori centri d’Europa.
Si tratta di centri impegnati nella costruzione statale , nell’espansione
coloniale o nel controllo delle ultime organizzazioni imperiali: Parigi ,
Amsterdam , Vienna.
Ai tempi di Toscanelli però il primato è ancora italiano , e non a caso egli
dunque ha tra i suoi committenti anche il Re del Portogallo Alfonso V del
Portogallo.
A quest’ultimo Toscanelli scrive nel 1474 per comunicargli l’invio di una delle
sue carte , in cui descrive il litorale portoghese e il grande mare Oceano , con
le varie isole che si incontrano andando verso ovest.
Il fatto che Toscanelli fosse conosciuto da Colombo risulta evidente da questo
passo della lettera di Toscanelli: ‘’non vi meravigliate se chiamo porti occidentali
quelli dove sono gli aromi [ le spezie dell’Oriente ] , mentre quelli comunemente si
chiamano orientali , perché quelli che navigheranno continuamente a ponente…..
raggiungeranno dette regioni’’.

NOTE

- Bella la citazione di Riccardo Bacchelli (1891-1985): ‘’Noi Europei conosciamo


troppo mondo. Colombo non s’accorse del male che faceva. La storia procedendo da
Occidente si ritroverà dov’era partita. Dunque la Terra è tonda per ironia?’’
10. PERCHÉ IL RINASCIMENTO SI CHIAMA COSÌ

Il made in Italy è tutto ciò che resta dell’antico primato italiano relativo al fare
e al saper fare , ai modelli che riguardano le cose del mondo , tra i quali il più
potente e fortunato dei quali fu: la prospettiva lineare, detta anche fiorentina.
La costruzione del mondo attraverso il modello della prospettiva lineare è ciò
che veramente accomuna Toscanelli , Colombo e Brunelleschi: tutti e tre sono
uniti dall’idea che le dimensioni di un oggetto dipendono dalla distanza
dell’osservatore.
Ovviamente non è così , tuttavia se noi crediamo in ciò che dice la prospettiva
lineare è soltanto perché perché vi sono stati un secolo ( il XVIo ) e una città
( Firenze ) hanno inventato questo modello , il punto di vista spaziale.
Anche gli Antichi avevano la loro prospettiva , ma sapevano perfettamente
che la dimensione degli oggetti non dipende dalla loro distanza/vicinanza ,
ma anche dall’angolo visivo.
Di fatto la storia della conoscenza del mondo è una storia in cui due globi ,
due sfere ( quella della Terra e quella del nostro occhio ) fanno fatica a
riconoscersi , a mettersi in contatto.
Ciò che realmente produce il cambiamento decisivo nella vista è l’angolo
visivo: il Sole allo zenit ci sembra più piccolo di quando si trova all’orizzonte,
e questo non perché è cambiata la distanza , ma proprio l’angolo visivo.
È proprio a Firenze nel Quattrocento che la maniera di vedere il mondo
cambia rispetto a quella degli Antichi: a Firenze si cominciano a vedere le
cose come non sono.
La figura che meglio rappresenta questa rivoluzione è l’emblema del
massimo teorico della prospettiva lineare , Leon Battista Alberti: un occhio
con le ali separato dal resto del corpo , e sotto il quale vi è il motto ‘’Quid
tum?’’ , traducibile ‘’e adesso?’’.
Il senso dell’interrogativo è ‘’che cosa diventa ora il mondo’’ se uno dei
cinque sensi non è più costretto a mettersi in accordo con gli altri ?
La risposta per l’autore si deve ancora dare , ma più il tempo passa , più è
difficile tentare di risanare il divorzio tra il corpo e il corpo.
Gli storici dell’arte sono concordi nel ritenere che la prospettiva lineare
moderna non sia altro che la copia della proiezione di Tolomeo , con la
differenza che la prima lavora orizzontalmente , mentre la seconda lavora
verticalmente.
Questa discendenza è provata cronologicamente: solo ad inizio Quattrocento
infatti il fiorentino Iacopo Angelo traduce dal greco la ‘’Geografia’’ tolemaica ,
riportandola in Occidente , dove era scomparsa fin dal tempo della caduta di
Roma.
Solo qualche anno dopo Filippo Brunelleschi costruisce la prima architettura
costruita secondo il principio prospettico moderno: il Portico dell’Ospedale
degli Innocenti.
Qui si comincia per la prima volta a percepire un vero e proprio stacco
generazionale , paragonato dall’autore a quello introdotto dal regista dei
videoclip dei Beatles , Richard Lester.
Chi è più giovane percepisce più fotogrammi al minuto , al prezzo di saper
cogliere in maniera più faticosa le sfumature ; tutto questo sotto il Portico è
più che evidente.
Oggi facciamo più o meno fatica a cogliere il filo di pochi millimetri su cui si è
giocata la nascita della Modernità , ma ovviamente per il fiorentino di inizio
Quattrocento questo doveva essere clamorosamente evidente.
Il modello è quello proprio della tragedia: comincia bene , procedendo poi
inevitabilmente verso il disastro.
Inizialmente si entra sotto il portico , andando a collocarsi proprio dove
Brunelleschi voleva che un ipotetico spettatore si ponesse: in corrispondenza
della porta cieca che è ad una delle due estremità ; fino a qui , tra le rette
parallele del pavimento , siamo ancora nel mondo classico.
Ma alla fine , sul fondo del portico , in corrispondenza del punto di fuga di
fronte all’osservatore , le linee appaiono a convergere lievemente , dando
l’impressione che se le si prolungasse all’infinito , le rette parallele del
pavimento finirebbero per toccarsi.
Affinché l’Occidente potesse accettare questa cosa , si sarebbe dovuto
aspettare l’Ottocento , quando vennero scoperte le geometrie non-euclidee.
Ma nel Quattrocento , e anche nei tre secoli successivi , l’occhio dice qualcosa
che il tatto assolutamente non registra.
Se facessimo scorrere due dita lungo i bordi paralleli del tavolo , e ci
chiedessimo se essi , allungati all’infinito si allungassero , la risposta sarebbe
ovviamente no.
Se però ci facessimo la stessa domanda di fronte ad un’immagine prospettica,
non potremmo non ammettere che le due linee si tocchino.
Dunque per la prima volta sotto il portico degli Innocenti la vista afferma
qualcosa che il tatto non dice , e le dirette conseguenze di queste
dissociazioni sono la schizofrenia ( la mente non sa che senso seguire ) e la
pornografia ( tra il vedere e il toccare si crea un abisso ).
La culla della crisi dell’uomo moderno si genera sotto il portico degli
Innocenti , ed è proprio questo uno dei due motivi per cui ad esso viene data
meno importanza di quanto meriterebbe.
L’altro motivo per cui il Portico è un posto poco frequentato è la collocazione
del primo punto di fuga materialmente installato al mondo: vicino alla cassa
continua , quel finestrino in cui fino al 1875 continuarono ad essere infilati i
trovatelli ( gli ‘’innocenti’’ per l’appunto ).
Il vertice della prima concreta prospettiva era dunque un pertugio che
immetteva concretamente da un mondo all’altro , un luogo che segnava un
passaggio materiale da una condizione ad un’altra.
Il fanciullo abbandonato infatti , passava dall’anonimia biologica del neonato
che non poteva (o non voleva) essere riconosciuto, all’assunzione di una reale
identità politica: quella di figlio , o cittadino , di Firenze.
Questa uscita dall’oscurità , questa assunzione di visibilità , avveniva solo
essendo inghiottiti in un altro mondo , in cui gli ‘’innocenti’’ , chiunque essi
fossero , acquisivano lo stesso nome e divenivano ‘’Innocenti’’.
Si trattava dunque di una rinascita , di una seconda nascita del neonato ; e da
quale rinascita , se non da questa , prende il nome il Rinascimento ?

NOTE

- Guardando alla conclusione del capitolo viene in mente Goethe, che nel suo
‘’Viaggio in Italia’’ , parla di una ‘’seconda natura che opera a fini civili’’ mentre
guarda le rovine dell’antica Roma , le stesse che Brunelleschi aveva ammirato
insieme all’amico Donatello.
11. TERRA, SPAZIO, TERRITORIO

Leon Battista Alberti intuisce subito cosa si celi dietro il punto di fuga del
Portico dell’Ospedale degli Innocenti , anche se ancora fa fatica a nominarlo:
l’infinito , l’assenza di un centro stabile e fisso.
In sostanza si tratta del contrario dello spazio , il contrario della grande figura
moderna del mondo , di cui la prospettiva lineare è lo strumento.
Gilbert Keith Chesterton* , lo scrittore inglese , sosteneva che il modello
della croce contenesse una collisione e una contraddizione , ed è proprio
questo ad assicurarne la vitalità e la forza.
La stessa cosa vale per la prospettiva: da un lato essa implica l’infinito, una
cosa che la cultura occidentale riesce a pensare senza difficoltà solo nel XVIII
secolo , dall’altro la sua forma è la matrice di un progetto , di un piano di
trasformazione , anche in senso politico , dell’esistente.
Si tratta dell’intervento su tutto quello che è finito , la sua trasformazione per
mezzo dell’infinito: quella che è la grande contraddizione dell’età moderna.
Di questa contraddizione ha coscienza il più grande degli artisti fiorentini del
tempo: Michelangelo.
Sempre nelle ‘’Storie’’ del Vasari si riporta che nella data del 1504 , circa
ottanta anni dopo la costruzione del Portico degli Innocenti , il grande artista
fiorentino presenta al popolo il David , una delle sue sculture più celebri.
Il Vasari riporta anche il parere dato dall’allora gonfaloniere della città , Pier
Soderini , secondo il quale il naso della scultura era un po’ troppo grande
rispetto al dovuto.
Si tratta di un commento in apparenza futile , ma in realtà di straordinaria
importanza , in quanto ci mostra come nella Firenze del XVI secolo , una città
di mercanti/artigiani/artisti , nessuno poteva sottrarsi alla critica.
Il gonfaloniere si accinge a commentare immediatamente l’opera , azione alla
quale Michelangelo reagisce con un gesto divenuto assolutamente iconico:
raccoglie un po’ di marmo rimasta sull’impalcatura , prende gli attrezzi e sale
sulla scala, accertandosi che Soderini non possa controllare il suo movimento.
A questo punto fa finta di colpire il naso , facendo cadere poco a poco la
polvere di marmo che ha raccolto , infine scende e chiede a Soderini cosa
adesso ne pensi.
Il gonfaloniere risponderà dicendo: ‘’A me mi piace di più, gli avete dato vita’’.
L’episodio raccontato dal Vasari , che si presta a numerose modalità di
commento , è straordinariamente significativo.
Ciò che bisogna chiedersi è perché le statue di Michelangelo apparissero così
grandi , quasi deformi.
La risposta è che egli è il primo a concepire le sue opere per un osservatore
che le guardi a 360 gradi, come se poste in uno spazio vuoto e infinito, quello
della piazza: la stessa cosa che premeva anche dietro il punto di fuga della
prospettiva.
Questo è il motivo per cui i contemporanei percepivano le dimensioni delle
opere di Michelangelo come insolite.
Un’altra interpretazione , più immediata ed evidente , riguarda lo strettissimo
legame tra pratica economica e politica.
Se esso non vi fosse infatti , Pier Soderini farebbe la figura dell’arrogante che
vuole parlare di cose che non capisce.
Ora , pur non volendo attribuire al gonfaloniere un particolare gusto in senso
artistico , si deve comprendere che nella Firenze del Cinquecento il discorso
artistico era strettamente legato a quello politico.
Gli storici dell’economia , uno su tutti Giovanni Arrighi** , sostengono che il
primo ciclo sistemico di accumulazione sia stato quello messo in atto a
Genova , che sarebbe dunque il luogo di nascita del capitalismo finanziario
moderno.
Nel Quattrocento i mercanti-banchieri genovesi si accorsero che potevano
trarre vantaggi dalle oscillazioni delle monete in circolazione , compresa
quella genovese.
In sostanza si accorsero di poter trarre vantaggio dalle differenze di valore
relative alla moneta corrente.
Ciò mediante l’introduzione di una supermoneta il cui valore non variasse ,
per questo nel 1447 fu approvata a Genova una legge che imponeva che tutti i
conti relativi alle operazioni di cambio fossero tenuti in moneta d’oro di peso
stabile , chiamata ‘’lira di buona moneta’’ o ‘’moneta di cambio’’ , che divenne
unità standard di riferimento.
In questo modo nacque l’ideologia della moneta stabile , della stabilità
monetaria.
Senza la lira di buona moneta i banchieri-mercanti genovesi non sarebbero mai
riusciti a controllare il commercio della Castiglia , ovvero a controllare
finanziariamente la conquista dell’America Latina.
Furono sempre i banchieri genovesi che nel 1519 permisero a Carlo
d’Asburgo , già re di Spagna dal 1516 , di ottenere il titolo imperiale , e questo
a discapito del re di Francia Francesco I.
I principi tedeschi non avrebbero mai scelto l’Asburgo se i Genovesi ,
mobilitando le loro lettere di cambio , non avessero consentito ai banchieri
tedeschi ( Fugger e Welser ) di avere a disposizione con poco e preavviso e in
luoghi diversi il denaro sufficiente ad acquistare il voto dei grandi elettori.
Anticipo e tempestività, unite alla regolarità dell’anticipo sono i fattori che
permisero a Genova , piuttosto che alla corona spagnola , di mettere le mani
su gran parte del Nuovo Mondo ( alla Castiglia di fatto rimase solo il ‘’lavoro
sporco’’ ).
Se Genova fu dunque il luogo in cui nacque il capitalismo moderno, tra il XIV
e il XV secolo l’alta finanza moderna fu invece un’invenzione fiorentina.
La strategia fiorentina differisce da quella genovese , in quanto privilegia una
logica d’accumulazione sistemica del capitale completamente opposta , in
apparenza.
Nel Quattrocento Firenze optò per una politica territorialista, che si distingue
da quella genovese definita semplicemente capitalistica.
Firenze decise di investire i propri denari nel territorio, andando ad annettere
il contando e le popolazioni che lo abitavano , spodestando dunque i
precedenti poteri feudali.
Il progetto fiorentino fu quello di creare uno Stato comunale , o addirittura
uno Stato regionale , con un contado politicamente ed economicamente
integrato alla città ( un modello che per noi oggi è scontato , ma che al tempo
non lo era affatto ).
Lo stesso Ospedale degli Innocenti rientra in questo progetto , esso è infatti
un servizio pensato non solo per la città , ma anche per tutti gli abitanti della
campagna , con lo scopo di fare di Firenze un centro di richiamo.
Ogni analogia col funzionamento attuale del mondo trova riscontro:
trapiantato nella Francia del Seicento il modello fiorentino diviene il modello
dello Stato territoriale e centralizzato moderno , lo Stato come noi lo
conosciamo.
Come ricorda il grande storico svizzero del Rinascimento Jakob Burckhardt
‘’lo Stato è un’opera d’arte’’.
La sua è una riflessione che va intesa alla lettera: senza prospettiva lo Stato
moderno non esisterebbe , perché proprio la rettilinea sintassi prospettica
garantisce la traduzione in spazio del territorio.

NOTE

* Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) , scrittore e giornalista britannico.


** Giovanni Arrighi (1937-2009) , economista e sociologo italiano.
12. NASCITA DI UNA NAZIONE

Il Portico degli Innocenti ci ha condotti a parlare del capitalismo moderno:


nella strategia genovese il capitale resta liquido , mentre in quella fiorentina
viene investita nel territorio.
Il nesso tra tutto questo ( il territorio e le opere d’arte ) e la prospettiva non è
certo evidente , ma comunque netto , e a guardare le cose da vicino si tratta
dello stesso problema e della stessa soluzione.
La storia dell’arte italiana è ricca di artisti che ricordano con rammarico
l’illusione dell’avventura all’estero ; anche se richiesti nelle maggiori corti
europee , gli artisti italiani si rendevano conto di non essere ricercati per la
fama delle loro opere , ma perché in possesso della tecnica della prospettiva.
Gli artisti italiani erano in sostanza erano a conoscenza dell’unico mezzo
attraverso cui trasformare la terra in territorio , e questo almeno fino al XVIII
secolo ( si pensi alla costruzione di San Pietroburgo ).
Pittori e architetti non erano però gli unici ad espatriare , un’altra figura nata
in Italia ebbe grande successo: l’ingegnere militare , il cui compito era quello
di diffondere negli stati nazionali in via di formazione la cosiddetta ‘’traccia
italica’’.
Si tratta in sostanza del disegno della fortificazione moderna: schema
quadrilineare , spesse muraglie in terra , massicci bastioni ai quattro angoli
per il di fiancheggiamento lungo tutte le mura.
La ‘’traccia italiana’’ è dunque un altro modo per dire prospettiva , in quanto
ogni città da guerra era costruita in base al principio prospettico.
‘’Territorio’’ è infatti una parola che non deriva solo da ‘’terra’’ , ma anche da
‘’terrore’’ , quello che solo il potere politico può esercitare.
Il processo che traduce il territorio in spazio avviene nella stessa maniera in
cui a Genova la moneta corrente si tramutava in ‘’lira di buona moneta’’.
A farci caso la strategia fiorentina e quella genovese agiscono nello stesso
modo: attraverso il principio spaziale , uno standard in grado di riassumere
e controllare in anticipo ogni espressione di valore locale.
La ‘’lira di buona moneta’’ genovese è dunque il corrispondente sul piano
finanziario di ciò che sul piano territoriale è rappresentato dalla prospettiva
lineare fiorentina.
Quel che cambia è la forma e lo strumento , ma non la logica: in entrami i casi
si tratta di un formidabile ed inaudito ordigno , che ha lo scopo di stabilire un
criterio di equivalenza generale , in grado di cancellare ogni equivalenza
qualitativa.
E riesce a fare ciò grazie ad uno standard che trasforma ogni valore in
quantità , cioè in frazione di una quantità astratta.
La prospettiva non si limita però a questo, non solo colonizza il territorio , che
in età moderna assume una forma spaziale , essa colonizza anche
l’immaginario delle persone.
Dall’età di Pericle in poi ‘’colonizzare’’ significa occupare materialmente una
porzione di terra , ma anche controllare a distanza , attraverso modelli
mentali che la gente opera.
Proprio a Firenze , tra Ottocento e Novecento , si ha una straordinaria
testimonianza di tutto ciò.
Picasso ha cercato di spiegare il perché la gente adoperi un modello mentale
rispetto ad un altro.
Il pittore spagnolo ha osservato che tutte le generazioni sono affannate dagli
stessi problemi: le persone hanno le stesse paure , gli stessi dolori e le stesse
speranze ; eppure ogni generazione si differenzia dalla precedente in quanto
vede cose diverse da quella che precede e da quella che la segue.
Da questo punto di vista la prospettiva è il più straordinario modello mentale
( oltre che totalitario ) che esista , proprio perché è un modello di costruzione
del mondo , di percezione del mondo e di rappresentazione del mondo.
La Firenze dell’Ottocento testimonia la straordinaria tenuta e validità della
sua capacità di plasmare l’immaginario della gente , e questo non solo a
Firenze , ma in tutta Italia.
Le fotografie dei fratelli Alinari* sono il mezzo che ha configurato la
conoscenza dell’Italia da parte degli Italiani.
Per decenni ci siamo scambiati le loro cartoline e abbiamo pregato sotto le
loro riproduzione artistiche senza sapere che , così facendo , introiettavamo il
modello prospettico.
E anche quando nel Secondo Dopoguerra l’immaginario televisivo si è
sostituito a quello dell’immagine fissa , le foto degli Alinari sono rimaste in
televisione fino agli anni Settanta.
La fortuna degli Alinari e delle loro foto stanno nell’aver operato in maniera
completamente opposta ai fotografi non professionisti , che si trovano davanti
al problema di interpretare ciò che hanno di fronte.
Nel corso dell’Ottocento infatti , gli Alinari affrontarono il problema del
passaggio dalla produzione artigianale alla produzione industriale del
documento fotografico.
Gli Alinari e la loro squadra di operatori proposero come obiettivo quello
di produrre un’immagine omogenea , tale da non riconoscere l’opera di un
fotografo da quella di un altro ; il loro scopo era quello di produrre una
fotografia analoga alle altre migliaia.
Tutte queste foto dovevano essere riconoscibili , avere il loro stile , e avere la
capacità di trasmettere la stessa idea ; si trattava insomma di un canone
rigidissimo: uno schema standard di lettura e la soggettività di chi era dietro
la macchina.
In questo risiede la ragione del successo degli Alinari negli anni in cui la
produzione fotografica passa dallo stadio artigianale a quello industriale.
Il problema si poneva come paradossale , si cercava infatti di elaborare uno
stile che non sembrasse tale , che attraverso l’obiettivo sottomettesse in forma
artistica le ragioni del soggetto a quelle dell’oggetto , conciliandole.
Questa è la grande lezione della prospettiva: tutte le immagini degli Alinari
sono impiantate in maniera prospettica: al centro un monumento
architettonico , ai lati alcuni edifici alti/alberi/pali dell’illuminazione che
costituiscono una fuga prospettica.
Si trattava dunque di uno stile soggettivo che era divenuto uno stile
oggettivo , nazionale ( proprio come l’idioma fiorentino ).
Uno stile soggettivo in quanto inconsapevolmente assorbito attraverso
l’educazione fiorentina degli Alinari , uno stile oggettivo in quanto tutta
l’Italia venne fotografata secondo questo canone.
Più di tre secoli prima il Vasari aveva convinto tutta la cultura europea che
tutte le città somigliano a Firenze, o meglio che tutte le città somigliano a
Firenze , o meglio che il modello fiorentino è l’unico modello possibile di città
occidentale.
In questo modo gli Alinari hanno imposto delle foto oggettive , in quanto
risultato di una certa visione del mondo ( quella prospettica ) , che regola in
termini moderni il rapporto tra soggettività e oggettività.
Soltanto guardando queste foto gli Italiani si sono riconosciuti come dotati di
una cultura comune , nel senso di unitaria.
‘’L’oggettività non è nient’altro che la soggettività trasferita su un piano
trascendentale’’ diceva Kant , che parte proprio dal prospettico , nella ‘’Critica
della Ragio pura’’.

NOTE
* I fratelli Leopoldo (1832-1865) , Giuseppe (1836-1890) e Romualdo Alinari
(1830-1890) fondarono nel 1852 a Firenze l’azienda fotografica ‘’Fratelli
Alinari’’ , che ad oggi risulta la più antica del mondo.
13. IPOTESI SU UTOPIA

In base a quanto detto fino ad ora , si potrebbe dire che la Terra l’hanno
inventata i mitografi , gli evangelisti , gli artisti e i filosofi , tutti fuorché i
geografi.
Ovviamente non è così , la verità è che dal punto di vista storico i geografi
sono preceduti dai cosmografi , che raccolgono l’eredità della cosmogonia e
della cosmologia ( i geografi entrano in scena solo all’inizio del Seicento ).
Sono i cosmografi , nel Quattrocento e nel Cinquecento , a porsi le domande
che noi ci poniamo tutt’ora riguardo la vera forma della Terra.
Come già detto tutti sapevano che la Terra fosse sferica , e soprattutto nessuno
credeva che fosse piatta ; i problemi sorgevano invece si doveva conciliare il
modello sferico con tutto il resto del mondo che si conosceva , e questo
secondo due direzioni: le opinioni degli Antichi e le scoperte dei marinai nel
XV e nel XVI secolo , con queste ultime che costringono a demolire molte
delle convinzioni e delle teorie esistenti.
La prima regione terrestre a ricevere descrizione da questa tensione è Utopia,
posta a metà tra realtà e irrealtà.
L’umanista francese Paludanus* ( al secolo Jean Desmarais ) lodava tanto
l’Utopia di Tommaso Moro , quanto l’Elogio della Saggezza di Erasmo da
Rotterdam.
Tra la follia ( il racconto di Moro ) e la saggezza ( l’opera di Erasmo ) non
esiste però solo un rapporto d’opposizione e contrasto.
Tra l’Utopia e l’Elogio vi è una stretta relazione: si pensi che la seconda parte
dell’opera di Moro viene scritta , a qualche settimana di distanza , sotto lo
stesso tetto che aveva visto la stesura della prima.
La prima parte dell’Elogio è concepita nel 1509 , e si fonda su un’idea
principale: che non si dà una ragione astratta, ma che al contrario ogni forma
di razionalità dipende dal contesto.
In sostanza non esiste una ragione fondata su regole che possano pretendere
di valere ovunque e comunque.
Lo spazio dunque , il regno dell’equivalenza generale , non c’è , e al suo posto
esistono soltanto i luoghi , irriducibili in quanto dotati di specifiche qualità.
Il ‘’Moriae Encomium’’ di Erasmo non si riferisce solo alla follia , ma anche al
termine ‘’moiré’’ , che indica un tessuto che riflette la luce secondo versi
differenti , che trascendono l’isotropismo.
Erasmo e Moro dicono in sostanza la stessa cosa e descrivono lo stesso paese,
rivendicando il diritto dei luoghi a continuare ad esistere , a dispetto
dell’inesorabile avvento dello spazio e della sua logica omologante.
Se nel caso di Moro si tratta di un sogno , allora è il sogno della conciliazione
tra logica spaziale e logica locale , di un luogo che diventa spazio senza per
questo cessare di essere luogo ( qualcosa di irriducibile a qualsiasi
omologazione ).
Utopia non esiste proprio per queste ragioni , anche se possiamo pensarla ; su
questo duplice livello si fonda l’ambiguità di Utopia , che spiega come essa
possa esserci come non esserci.
Interessante la lettura del poeta utopico Veneto-Insignificante che Moro pone
sul rovescio del secondo foglio del volume.
Nel testo Utopia parla di se’ stessa , e si definisce ‘’la città filosofica , pur non
avendo nulla di filosofico’’.
Per comprendere cosa effettivamente sia Utopia si deve far riferimento al
finale della ‘’Repubblica’’ di Platone , in cui è descritto il famoso mito di Er , il
soldato che racconta del cammino che i morti compiono nell’Ade.
La descrizione che Er fa dell’Ade ricorda molto quella che Raffaele Itlodeo , il
marinaio protagonista dell’opera di Moro , fa di Utopia.
Utopia , nel racconto di Itlodeo , era una ‘’penisola’’ , una quasi-isola: le manca
dunque qualcosa per essere un’isola , e questo qualcosa non ha nulla di
filosofico , bensì risulta essere molto concreto.
La cosa che manca è l’unica che può rappresentare la ‘’città della filosofia’’, in
cui quel che essa detiene viene trasmesso agli uomini , ‘’da cui prende solo le
cose migliori’’.
In origine dunque vi è qualcosa che ha bisogno di una lieve modifica , che
avviene quando quel che è interno è mutato in quel che è esterno e
viceversa: in questo modo ciò che è concreto si tramuta in ciò che di più
filosofico e ideale si possa concepire.
Il matematico indiano del IX secolo d.C. Mahavira sosteneva che ‘’lo zero
diventa ciò che gli si aggiunge’’ , per Utopia vale la stessa cosa , anche se il suo
caso è più complesso.
Quel che possiamo rappresentare e pensare , e quindi realizzare , dipende
dalla nostra mente e anche da una struttura concreta , artificiale , che in
qualche modo lo incorpora.
Rappresentare qualcosa è un atto che mette allo scoperto la forma latente di
tale struttura , che si trasmette alla forma di quel che viene rappresentato , e
allo stesso tempo esso modifica la forma e la natura del piano materiale sul
quale la rappresentazione si svolge , pur lasciandolo apparentemente
inalterato.
Questo piano non equivale allo zero , perché non si limita a divenire figura
rappresentata , ma la co-determina.
Esso costituisce l’unica possibilità perché la rappresentazione stessa possa
avere luogo , e poiché nel caso di Utopia si tratta di una forma urbana , il
piano in questione è quello della tavola , della rappresentazione cartografica
(della mappa).
Questo è il piano in cui si compie il viaggio dei defunti nella ‘’Repubblica’’: gli
alberi sono descritti su una mappa , ma non fanno ombra , ci sono anche le
acque dei fiumi , ma non si possono bere.
Il paese c’è , ma allo stesso tempo non c’è ; la stessa cosa può dirsi per i luoghi
di Utopia.
Il filosofo francese Louis Marin sosteneva liricamente che utopia è un ‘’non-
luogo dove i nomi non designano propriamente…disappropriazione nell’appellazione,
assenza nell’indicazione….decostruzione realizzata dai nomi propri utopici’’.
Il discorso di Marin risulta essere troppo lirico , se fosse realmente come dice
lui allora i nomi di Utopia si limiterebbero ad indicare la natura cartografica
del paese in cui si riferiscono.
Il fiume si chiama ‘’Anidro’’ ( lo stesso nome del fiume descritto da Er nel
mito platonico ) , che significa ‘’senz’acqua’’ , il primo nome di Utopia è
‘’Abraxa’’, che significa ‘’su cui non piove’’, a sud-est di Utopia si trova il paese
degli ‘’Acori’’ , che significa ‘’senza regione’’ , il principe si chiama ‘’Ademo’’ ,
che significa ‘’senza popolo’’.
In una lettera indirizzata all’umanista francese Pierre Gilles (1490-1555) ,
Moro spiega che i nomi di Utopia affermano la loro realtà storica nella misura
in cui il loro significato ha ‘’nihil significantia’’ ( ‘’privo di significato’’ ).
Questo non significa che questi nomi non hanno senso , ma che non si
riferiscono a realia , sono semplici segni grafici , e proprio in tale riferimento
esibiscono il loro carattere storicamente deteminato.
Come lo stesso Gilles spiega all’amico Hieronymus van Busleyden (1470-
1517) , nel libro di Moro il lettore crede di vedere l’isola ‘’dipinta come se fosse
sotto i suoi stessi occhi’’.
Moro è dunque tra i primi a comprendere il carattere incipiente e ineluttabile
di tale riduzione , che con Hobbes assumerà un tono irreversibile: tutta la
descrizione di Utopia è animata dalla tensione tra spazio e luogo.
Le cinquantaquattro città dell’isola sono ‘’quasi tutte uguali’’ , identiche nella
posizione , nei trasporti e nell’aspetto.
Rigidità , uniformità e serialità del piano sono temperate dal rispetto per il
dato naturale , sicché nessuna città , nessuna piazza e nessuna via obbedisce
al criterio dello standard che è la marca spaziale definitiva e per eccellenza ,
ma ogni costruzione riflette valori locali.
Se come voleva Desmarais , per l’Utopia si trattava di un sogno , allora esso
riguardava la conciliazione tra spazio e luogo, tra i poli opposti della
materiale costituzione della Modernità.
Utopia è il luogo che diventa spazio senza cessare di essere luogo , essa non
esiste perché è una mappa, e come tutte le mappe può stare ovunque e quindi
non sta davvero da nessuna parte.
È un’isola perché ogni mappa è un’isola , rappresenta una parte della Terra a
se’ stante , e in questa sua separatezza consiste l’origine del suo carattere
artificiale.
Utopia esiste e insieme non esiste perché la sua esistenza si limita
all’immagine cartografica , essa dunque c’è e allo stesso tempo non c’è.
È la sua natura cartografica la rende congegno spaziale , nel senso che è lo
spazio il prodotto che il piano della tavola , la struttura tabulare che accoglie
il disegno , comunica , ‘’impartisce’’ dall’interno.
Il meglio che essa riceve dall’esterno , dalla mente di Moro , si condensa non
soltanto nel valore del luogo , ma nell’idea , o meglio nella speranza , che
luogo e spazio non fossero per sempre e ovunque l’un l’altro antagonisti e
protagonisti.

NOTE

* Paludanus , al secolo l’umanista Jean Desmarais , fu amico personale di


Erasmo , che gli dedicò la propria versione di Luciano.
Dopo varie esperienze cortigiane egli divenne professore di retorica presso
l’Università di Lovanio , morì infine nel 1525.
14. COMPLICAZIONI MEDIEVALI

Tutta l’età medievale si era impegnata in un unico progetto: conciliare il mito


biblico della Terra piatta, intesa come distesa/estensione, con l’idea della Terra
rotonda elaborata grazie alle osservazioni astronomiche greche.
La soluzione a questo complesso problema consisteva nella messa a punto di
una doppia concezione: di Terra come ecumene , come ambito abitato e
conosciuto , ma considerata in senso astronomico , come corpo celeste e non
terrestre.
La conciliazione tra queste due punti di vista si attuava in una sola materia: la
concezione ristretta e limitata dell’ecumene , cioè della terra emersa in quanto
distesa piatta.
Questa concezione venne messa in crisi e scardinata tra XV e XVI secolo non
dagli studiosi e dai professori universitari , ma dalle imprese dei naviganti.
I due schemi che il Medioevo cercava di conciliare erano quello biblico e
quello della filosofia stoica del II secolo a.C. ; per quanto riguarda l’idea di
Terra sferica si faceva particolare riferimento al filosofo Cratete di Mallo , che
fu anche direttore della biblioteca di Pergamo.
La figura di Cratete si accompagnava a quella , ben più importante , di
Aristotele.
Per conciliare la tradizione aristotelica con quella di Cratete si immaginava la
Terra come una sfera ricoperta per la maggior parte d’acqua , su cui erano
presenti quattro piccolissime isolette ( definite ‘’macchie’’ da Cicerone e
Macrobio ).
Queste quattro isolette erano diametralmente opposte l’una con l’altra ,
separate dall’immensità del grande mare Oceano ; su questo punto erano
molto attenti i padri della Chiesa , che appellandosi alla vastità dell’Oceano
potevano difendere l’unicità dell’umanità discesa da Adamo e riscattata da
Cristo.
Vista l’impossibilità di comunicazione tra le quattro isole , una sola di esse
ospitava l’umanità , ed era l’ecumene vera e propria ( le altre tre erano
considerate inabitabili e deserte ).
In questo modo l’ecumene cristiana , raggruppata su una piccola isoletta
sperduta , poteva sembrare piatta.
I problemi subentravano quando in questa visione ci si riferiva alla versione
medievale di Aristotele.
Il modello aristotelico si componeva infatti di quattro sfere concentriche
( terra , acqua , aria e fuoco ) a cui era assegnata la proporzione di uno a dieci
tra il volume di un elemento ( di una sfera ) e l’altro.
Il rapporto tra il volume di un elemento e quello del successivo spiegava non
solo l’ordine decrescente della loro densità , ma anche quello crescente della
loro estensione , cosa che si conciliava la piccolezza della superficie terrestre
rispetto all’estensione delle acque.
Rimaneva però una questione insoluta, quella riguardante il come la sfera più
interna di tutte emergesse dalle acque.
Per questo interrogativo l’uomo medievale aveva una sola risposta: grazie
alla Provvidenza divina , di cui era eco il racconto biblico del progressivo
ritiro delle acque del diluvio universale.
Tuttavia il discorso della Terra piatta in quanto ecumene e della Terra sferica
come corpo celeste si complica , perché nel Medioevo anche un’altra teoria
determina la visione della Terra: lo schema delle zone abitabili della sfera
elaborato nel V secolo a.C. da Parmenide.
Questa teoria divideva la sfera orizzontalmente in cinque regioni: due
ghiacciate , inabitabili , ai poli , una a cavallo dell’equatore , anch’essa
inabitabile in quanto troppo torrida , che sarebbe proprio quella che le anime
devono affrontare nel mito di Er.
Quest’ultima regione divideva le due zone temperate , una per emisfero , le
sole in grado di accogliere la popolazione.
Questa tradizione non si accorda immediatamente con la posizione di
Cratete, cosa a cui i dotti medievali provano a porre rimedio nei loro trattati
(un esempio celebre è il ‘’Trattato della Sfera’’ dell’astronomo inglese Giovanni
di Sacrobosco).
Postulando che le zone abitabili sono due, una posta nell’emisfero superiore e
una nell’emisfero inferiore, si pone il problema degli antipodi , che tormentò
tutti i dotti medievali, in quanto metteva insieme esigenze teoriche, da quelle
teologiche alla conoscenza della filosofia di Aristotele.
Dall’inizio del Duecento fino alla fine del Trecento , sulla scorta del mito
cristiano , si accettavano entrambe le dottrine , che pur essendo in
contraddizione si facevano passare come una soltanto: la teoria corografica
dell’ecumene da un lato , e la Terra degli astronomi ( quella rotonda ).
Le variazioni su questo tema furono infinite , e nonostante i dotti cercassero
di mettere insieme le due posizioni , alla fine essi erano perfettamente
consapevoli del fatto che i problemi venivano nascosti e non affrontati.
L’ecumene del Medioevo cristiano era quella descritta dai cosiddetti
mappamondi OT , dove il corpo della ‘’T’’ va a dividere i tre continenti
abitabili: l’Asia a Nord , l’Europa e Sud-Ovest e l’Africa.
I tre segmenti che compongono la T corrispondono a tre corsi d’acqua: il
fiume Don , che indica il settentrione ; il fiume Nilo , che indica il meridione ;
tra l’Europa e l’Africa ( dove si trova l’asta verticale della T ) vi è invece il
Mediterraneo.
In alto dunque non vi era il Nord , come noi invece pensiamo oggi , bensì
l’Oriente , ed al di là di quest’ultimo si trovava il Paradiso Terrrestre.
Per gli uomini del Medioevo l’Asia era il regno di mostri , un universo
favoloso composto di meraviglie , come la mitica terra del prete Gianni , oltre
la quale si trovava la sede celeste.
Tutti i racconti di viaggio e tutte le descrizioni del mondo del Medioevo
passano attraverso tre tappe: l’Asia , il Paradiso e Gerusalemme , la città che
era posta al centro del mondo ( al centro del cerchio ).
È evidente che questo modello , che immaginava la Terra come piatta ,
sarebbe entrato in crisi se si fosse concepita come sferica , in quanto il centro
del mondo sarebbe divenuto sotterraneo , invisibile , cosa che avrebbe fatto
venire meno l’orientamento basato sulla posizione dei centri sacri.
La prova della resilienza di questa visione è data dal fatto che ancora durante
i suoi viaggi Colombo , pensava che la foce del fiume Orinoco fosse il
Paradiso Terrestre.
Ma tra l’immagine medievale del mondo e quella di Colombo c’è nel mezzo
una rivoluzione , imputabile al ritorno di Tolomeo in Occidente.
15. IL RITORNO DI TOLOMEO

Nella storia della concezione della Terra , la Modernità inizia con la


rivoluzione copernicana.
Il rilievo dato a questa rivoluzione pone però nell’oscurità un’altra precedente
rivoluzione , decisamente troppo trascurata se si pensa che essa costituisce la
base per l’invenzione della Terra come essa è per noi oggi.
La rivoluzione in questione è quella causata dalla riscoperta di Tolomeo , il
cui modello dell’universo verrà superato all’inizio del XVI secolo da quello
proposto da Copernico.
È dunque con il ritorno dell’opera di Tolomeo che si può parlare di inizio
della Modernità, in quanto proprio con l’affermazione del suo modello si poté
superare lo schema medievale , impostato sulle sfere aristoteliche.
Il ritorno della ‘’Geografia’’ di Tolomeo in Occidente , nel XV secolo , rende
possibile la sintesi di ciò che prima era inconciliabile: la concezione
astronomica della Terra, come sfera , e la concezione regionale , che riduceva
la Terra ad isola piatta.
Tolomeo insegna come ‘’ridurre la sfera a piano’’ , introducendo l’equivalenza
tra globo e superficie piatta.
La tecnica che consente tale equivalenza torna di pubblico dominio quando le
scoperte geografiche oltre le Colonne d’Ercole costringono a dilatare
l’estensione piatta dell’ecumene.
Solo con la Geografia tolemaica può iniziare l’invenzione moderna della
Terra, un processo libero da ogni eredità medievale.
L’innovazione dirompente portata dal modello tolemaico si può cogliere nel
destino di Gerusalemme, prima centro della Terra, e successivamente privata
del proprio primato ; se la Terra diventa la superficie di una sfera, tutti i punti
possono essere il centro.
I mari nella Geografia tolemaica diventano dei grandi laghi , che occupano
delle aree circoscritte ( cosa che ribalta la formalizzazione precedente ).
Al contrario di tutta la tradizione omerica e biblico-aristotelica , che indicava
la Terra come giacente sull’acqua , con Tolomeo il rapporto è rovesciato , sono
i mari ( ora distinti tra di loro ) a poggiare sulla Terra.
Ne consegue che ciò che non si conosce della superficie terrestre non è acqua,
bensì terre emerse.
Mentre a Firenze veniva riscoperta la lezione tolemaica , i viaggi dei
navigatori portoghesi mettevano in crisi la teoria delle cinque zone
climatiche , che terrorizzava i marinai nel momento in cui si avvicinavano
alla ‘’linea dell’equinozio’’ ( nome che indicava l’equatore ) in quanto erano
preoccupati dalla possibilità di essere bruciati dal forte calore.
Tutto ciò nonostante più di un uomo potesse dire di aver già raggiunto la
zona torrida e di essere tornato salvo indietro: già ad inizio Trecento Pietro
d’Abano riferisce di aver interrogato Marco Polo sull’emisfero australe.
Un conto era però l’Oceano Indiano , un altro l’Atlantico , ancora guardato
come il ‘’gran mare delle tenebre’’.
Solo alla fine del XV secolo , in tutti gli ambienti universitari d’Europa , i
professori cominciarono davvero a credere alle esperienze dei navigatori che
avevano solcato l’Atlantico , che dimostravano la falsità della teoria delle
cinque zone ( che in pochissimi avrebbero continuato a difendere , mentre
altri , come il matematico e geografo Pietro Appiano , ne avrebbero notato le
stonature ).
Si trattò di quello che W. G. L. Randles definisce un ‘’abbandono esemplare per
la sua rapidità , nella storia dei modelli scientifici’’: tra la fine del XV e l’inizio del
XVI secolo l’ecumene cristiano è raddoppiato , in quanto è quadruplicata la
superficie abitabile.
Il problema che però emergeva con l’impresa di Colombo non consisteva
nella sfericità della Terra , bensì nell’estensione e nella sfericizzazione della
sua superficie abitabile.
Dunque è nei primi anni del XVI secolo che nasce il nostro modo di concepire
la Terra , definita da un’espressione che risale proprio in quegli anni: ‘’globo
terracqueo’’ , in cui si riflette appieno la modernità tolemaica.
Nell’espressione ‘’globo terracqueo’’ si riflette la supremazia che la sfera solida
ha ottenuto sulle acque ( anche se di fatto non è così , visto che i 2/3 del
pianeta sono occupati dalle acque ).
Il primo ad aver adoperato quest’espressione è un personaggio minore ,
l’umanista svizzero Joachim von Watt (1484-1551)* , noto anche come
‘’Vadianus’’ , che per primo riesce ad integrare la vecchia teoria aristotelica
con le nuove conoscenze offerte dalle esplorazioni marittime.
Nel 1515 egli scrive ad un amico più celebre , l’umanista tedesco Rodolfo
Agricola , il pensatore svizzero , perfettamente consapevole delle scoperte dei
naviganti spagnoli/portoghesi, definisce la Terra una ‘’zolla’’, di cui una parte
emerge dalle acque.
La definizione dell’umanista svizzero è caratterizzata da una forte cautela ,
anche perché non originale , infatti ricorda molto da vicino il modello di
Cratete di Mallo.
La grande novità sta nel contesto , non si è più nel sistema delle sfere
aristoteliche, ma in una dimensione finalmente geografica , che riguarda solo
la configurazione della Terra.
Si tratta di un duro colpo , sia al modello di Aristotele , sia all’interpretazione
che la filosofia medievale ne aveva dato.
Più i marinai si spingevano a lungo la costa africana , più si era costretti a
riconoscere che in quella direzione si incontrava terra , che tra l’altro era
abitabile: era ormai certo che il rapporto tra terra ed acque non era di 1:10.
Questo aveva però una conseguenza fondamentale , che andava a colpire una
questione delicatissima: la nuova visione della Terra rende non necessaria la
presenza dell’intervento divino , che prima permetteva l’esistenza
dell’ecumene cristiana , che era dunque l’eccezione della regola aristotelica.
All’inizio del Cinquecento era ormai chiaro ai marinai che non esistevano due
sfere , ma che terra e acqua costituivano una sola sfera , il cui centro era il
centro della Terra.
Inoltre diveniva evidente che quello che non si vedeva non era più
importante di quello che non si vedeva.
Sarà poi Copernico, che polemizza con Lattanzio sugli antipodi, a dimostrare
matematicamente l’infondatezza del modello di derivazione aristotelica.

NOTE

- La trasformazione nel modo di percepire la Terra comincia ad essere visto


come irreversibile proprio negli anni in che intercorrono tra l’Elogio della
Follia di Erasmo , e la stampa nel 1516 dell’Utopia di Tommaso Moro.

* Joachim von Watt (1484-1551)* , detto anche ‘’Validanus’’ , fu un umanista


svizzero.
La sua opera è intrecciata anche all’importante vicenda politico-religiosa , egli
infatti fu colui che introdusse la riforma a San Gallo.
16. IL FONDO DELL’ABISSO E IL POSTO DEL CORALLO

Il Seicento è il secolo del globo terracqueo, quello in cui terra e acqua sono
insieme al centro del mondo.
Questa rivoluzione , che si spinge anche al Settecento , comporta delle
modifiche sostanziali, in quanto le cose si fecero ovviamente più complesse.
È nel Seicento che nasce la figura del geografo, colui che era in grado di
scegliere gli strumenti più adatti per la definizione dei lineamenti e della
composizione mista della Terra.
Già nel Settecento tuttavia l’espressione ‘’globo terracqueo’’ , che sarebbe la più
appropriata, viene abbandonata.
Riferendoci alla Terra oggi diciamo ‘’globo terrestre’’, un’espressione nata nel
Settecento che va a sostituire quella precedente ( che in teoria è più corretta ) e
che vuole sottolineare l’opposizione tra un globo celeste ed uno ‘’terrestre’’
per l’appunto ( con quest’ultimo che mostra le relazioni tra le parti della Terra
che sono emerse ).
In sostanza una volta ammesso che il pianeta si compone di terra e acqua, si
va ad escludere quest’ultima tramite l’espressione ‘’globo terrestre’’ per paura
dell’abisso liquido: come se ancora oggi credessimo che la Terra sia una
tavola.
Nel Settecento torna a far paura Tiamat, l’entità abissale del mito babilonese,
contro la quale si sente il bisogno di un eroe , un novello Marduk che possa
sconfiggere l’oscurità dell’abisso.
Quella dell’invenzione della Terra è un’operazione collettiva , a cui hanno
partecipato migliaia di protagonisti , spesso dimenticati.
Per quanto riguarda però la misurazione dell’abisso non vi sono dubbi: il
primo ad averlo misurato , ad aver cercato di comprendere e misurare la
profondità dei mare , è stato il conte bolognese Luigi Ferdinando Marsigli
(1658-1730).
Egli è autore di una ‘’Histoire Physique de la Mer’’ (1725) , opera pubblicata ad
Amsterdam e oggi riconosciuta come il primo manuale di oceanografia mai
apparso.
Intorno al 1680 , in quel momento che Paul Hazard (1878-1944)* ha definito
come quello della ‘’crisi della coscienza europea’’ ( causata dal dover scegliere
tra il dovere verso il sovrano e quello verso Dio ), Marsigli si arruola
nell’esercito di Leopoldo I d’Austria (1640-1705) per combattere contro i
Turchi.
Marsigli stesso ci dice però che anche durante la guerra egli non ha smesso di
‘’investigare col fondamento…l’ordinata disposizione delle parti che l’Eterno facitore
dar volle alla gran fabbrica del mondo’’.
Fare la guerra e conoscere la faccia della Terra sono dunque per Marsigli
un’unica attività , nel senso che si realizza attraverso le stesse operazioni e che
obbedisce ad un’unica logica e ad un unico senso.
Marsigli , al tempo della pace di Carlowitz (1699) , dice di aver ‘’scandagliato
province per fare la guerra, e la pace’’: in effetti egli ha combattuto lungo il corso
del Danubio , ma è anche stato il primo a misurare sistematicamente e
perlustrare il grande fiume.
Nell’ Histoire Physique de la Mer Marsigli , scritta durante un soggiorno in
Provenza , Marsigli va invece a scandagliare il fondo dell’abisso marino ,
sostenendo una posizione opposta a quella dei pescatori di corallo che
abitavano quelle zone.
I corallari il mare non aveva fondo perché essi con i loro strumenti non erano
mai riusciti a toccarlo ; Marsigli invece , non soltanto trova il fondo , ma fa
dire allo scandaglio proprio ciò che egli decide di dire.
Come Galileo ad inizio del Seicento aveva ‘’abolito il cielo’’ , riprendendo
l’immagine offerta da Bertolt Brecht , allo stesso modo Marsigli abolisce
l’abisso.
Al posto di quest’ultimo egli inventa la scarpata , quella che oggi chiamiamo
piattaforma continentale, e non si limita ad affermare che il fondo del mare è
unito alle rive, ma decide che esso ne è la ‘’molto regolata continuazione’’.
Scandagliando dal golfo del Leone (dal confine franco-spagnolo a Marsiglia)
alla costa africana si troverebbe in sostanza una struttura simile in tutto e per
tutto a quella della costa provenzale.
A lavorare è sempre la stessa logica della tavola , che impone anche a ciò che
non si vede (l’abisso) omogeneità e continuità , a cui aggiunge Marsigli la
simmetria.
Come spiegherà Kant nelle sue lezioni di Geografia fisica: Marsigli dà al
Mediterraneo la stessa profondità delle catene montuose che lo circondano.
La novità che Marsigli introduce è dunque non il considerare la Terra una
tavola, ma il considerare l’abisso come tale.
Nel suo ordine c’è però qualcosa che non trova posto, e questo perché non si
sa quale cosa sia, e dove sia: si tratta del corallo , che i pescatori portano a
riva con i loro ordigni.
Ancora ad inizio Settecento non si sapeva come classificare il corallo, se come
vegetale o come minerale; in sostanza la sua natura rimaneva un mistero.
Inizialmente Marsigli guarda al corallo come ad un minerale, in quanto la sua
forma e la disposizione dei suoi rami gli ricordavano le formazioni cristalline
proprie dei minerali.
Tuttavia una mattina del 1706 Marsigli scopre, con sua grande sorpresa, che
un ramo del corallo che era stato immerso nell’acqua tutta la notte si era
coperto di ‘’fiori bianchi’’ (madrepore*).
Marsigli cambia la propria opinione, indicando il corallo come pianta marina,
perché per lui , un uomo del Seicento , la Terra è un globo terracqueo: non
soltanto nella Terra c’è mare , ma anche nella Terra c’è il mare.
Cartesio aveva stabilito che Cielo e Terra sono fatti della stessa materia,
Marsigli invece arriva a sostenere la stessa cosa per Terra e mare.
Il fondale marino e la Terra sono identici , è solo la presenza dell’acqua che ci
impedisce di notare questa evidenza.
Tuttavia la conca del mare non è solo la sede delle ‘’belle vegetazioni’’ , ma
anche il luogo in cui abitano i mostri che ancora custodiscono il segreto che si
cela dietro l’espressione ‘’globo terracqueo’’.

NOTE

*Paul Hazard (1878-1944) è stato uno storico francese, studioso di letteratura


e storia delle idee.
La sua opera storiografica più famosa è ‘’La Crisi della coscienza europea’’
(1935), in cui descrive il passaggio in Europa da una società basata sui
‘’doveri’’ a una basata sui ‘’diritti’’, passaggio collocato nel periodo tra il 1685
(revoca dell’editto di Nantes) e il 1715 (morte di Luigi XIV).

** Le madrepore sono un ordine di coralli.


17. ALL’INSEGNA DEL PESCE CHE SPUTA

Nel Settecento al globo terracqueo si sostituisce quello terrestre, che si


contrappone a quello celeste.
Questo però in qualche modo stupisce, in quanto, come dice il geografo
francese François de Dainville (1909-1971), nel Settecento ‘’è più importante
per un marinaio sapere quanti piedi è profondo il mare, che per il contadino quante
tese di montagna sovrastano la sua testa’’.
A metà del Seicento Thomas Hobbes (1588-1679), autore dell’opera che fonda
la territorialità dello Stato moderno, trasforma in mostro terrestre il
Leviatano, l’enorme mostro marino della Bibbia.
Con Hobbes il mostro diventa tutto di terra, tutto ‘’terrestre’’, esattamente
come qualche decennio dopo si verrà a rappresentare il globo.
Riducendo la Terra alla sua componente piatta, eliminando il mare dalla sua
immagine, si elimina l’abisso e gli insolubili interrogativi che esso racchiude
in se’.
Privando la Terra della sua natura ctonia, quella oscura ed invisibile, il suo
centro sarebbe inaccessibile (in quanto coinciderebbe con il centro della
Terra), e così non ci sarebbe spazio per l’intervento divino.
In questo contesto non vi è spazio per alcuna Geografia, ed il mondo sarebbe
il luogo di un’immensa tragedia corale, quella che descrive Herman Melville
(1819-1891) nel suo capolavoro: ‘’Moby Dick’’ (1851).
La storia di Jorge Luis Borges (1899-1986), che commuove ogni geografo, in
cui un uomo che ha passato tutta la vita a disegnare la terra si accorge alla
fine dei suoi giorni di aver ritratto il suo volto, è presa proprio da Melville.
Nel capitolo 44 di ‘’Moby Dick’’ il capitano Achab riempie tutte le sere le carte
nautiche di segni, al fine di raggiungere al più presto l’odiata balena.
Achab rappresenta la mappa, la ragione strumentale e la razionalità volta
allo scopo, al piano, al progetto che incorpora e produce.
Al contrario la balena bianca è il mondo come globo, irriducibile ed
incomprensibile, a cui non è possibile dare forma.
Per avere ragione di questa enorme balena si deve toccarla, saltare dalla
lancia su di essa per finirla.
Tra il globo-Moby Dick e la carta-Achab, sta il doblone d’oro di Quito, il
talismano della balena, che il capitano ha inchiodato all’albero della nave
come ricompensa per chi avvisterà la balena bianca.
Questo doblone rotondo è la forma del mondo, l’immagine del mondo che
nello specchio del mago vede il ritratto del suo io più profondo.
Una moneta non è però una vera e propria sfera, in quanto a differenza del
globo essa riduce il mondo a due facce, quella relazione frontale fondata sulla
staticità di oggetto e soggetto a cui Achab vuole ridurre la balena.
Per una moneta il mondo è ambiguo, ha un verso e un rovescio, e per
decidere quale sia la versione si deve decidere arbitrariamente una faccia o
un’altra.
Esempio: ‘’quando non sappiamo che decidere, lanciamo la moneta in aria (andando
ad imprimere movimento al globo) e vediamo se è uscita testa o croce’’.
Una carta ha invece solo una faccia, quindi riduce il mondo ad un qualcosa
che non solo è statico, ma che è assolutamente normativo, che non ammette
alternative.
Per questo ancora oggi ci fidiamo ciecamente delle carte geografiche; una
fiducia sulla quale si interrogava Ludwig Wittgenstein (1889-1951): ‘’quello
che trovo nei manuali dei geografi, lo ritengo vero. Perché?’’.
Come quella di Wittgenstein, anche quella di Achab è la tragedia di un uomo
che cerca di far entrare il mondo in una sola immagine.
Il risultato di questo tentativo, narrato nel finale del libro, è così terribile che
raramente lo si rappresenta nelle trasposizioni televisive/cinematografiche.
La cima dell’albero maestro, l’ultima parte della nave fuori dall’acqua, va a
posarsi un falco, che improvvisamente viene tirato in fondo all’abisso
dall’indiano Tashtengo: ‘’il bastimento, come Satana, non volle andare a fondo
finché non ebbe portato con se’ una parte del cielo’’.
Dopo questa scena tutto va a fondo definitivamente, e ‘’il gran sudario d’acqua’’
torna a coprire tutto come all’inizio del mondo.
Solo Ismaele, che s’aggrappa alla bara di Quiqueg, si salva dall’abisso:
sopravvive grazie ad una struttura tridimensionale che galleggia su un mare
piatto.
Il finale vuole ribadire il fatto che per l’uomo non vi sia salvezza, non vi sia
vita sulla Terra senza lo schermo fornito dalla riduzione a tavola del mondo,
tavola che allo stesso tempo è anche la bara della vita.
Per comprendere quest’ultimo spunto bisogna ricordare i due termini che i
Greci avevano per indicare la vita: Βιος e Ζωη (Bios e Zoe ).
Il primo indicava la vita come totalità e assenza di limiti, una vita che
coincide con le caratteristiche tipologiche della sfera: la vita degli dei,
esemplificata da Dioniso (che Melville rappresenta nella figura della balena
bianca).
Le altre forme di vita, a partire da quella umana, rientrano nella biologia,
quindi sono limitate e finite, mortali anche quando le divinità non le fanno a
pezzi.
A salvare Ismaele è ancora una volta l’intervento divino, la provvidenza, che
si darà nella forma della piatta estensione marina e della bara.
Solo in questa configurazione tabulare del mondo era dunque possibile per
l’uomo trovare salvezza e conoscenza.
18. IL FASCINO DEL SERPENTE A SONAGLI

Sul rovescio del doblone di Quito, quello che Achab inchioda all’albero della
nave, sono raffigurate montagne e vulcani: le uniche due cose di cui si sapeva
ancora meno che dei mari più lontani.
Si cominciò a misurare l’altezza delle montagne solo tra Seicento e Settecento,
ed inizialmente tramite il sistema di corde e scandagli usato per misurare la
profondità del mare; paradossalmente nell’invenzione della Terra si è prima
cercato di misurare ciò che non si vede, e poi ciò che si vede.
Nel Settecento l’immagine della montagna entra nella cultura europea tramite
i protagonisti del viaggio pittoresco, aggettivo che oggi rimanda alla pittura,
ma che negli anni precedenti alla Rivoluzione Francese rimanda ad
un’immagine dalle caratteristiche precise e definite, e animata da un’esplicita
intenzione.
Nell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert si legge che la cosa che importa
nella composizione pittorica è l’effetto, mentre ciò che è fondamentale è che
non vi sia l’ingombro di figure umane, che potrebbe ostacolare la resa più
precisa e fedele possibile degli oggetti, delle cose e dei luoghi.
Questo tipo di direttive riguardava però alcuni luoghi/oggetti/cose: quelli
descritti negli album che riassumono i i viaggi pittoreschi di Jean-Claude
Richard (1727-1791)*, abate di Saint-Non, e di Jean Houel (1735-1813)**.
Si tratta di illustrazioni dedicate al Mezzogiorno italiano e alle sue isole; i
viaggiatori pittoreschi precedono i romantici tedeschi, quando indicano
l’Italia come ‘’terra promessa dell’arte’’.
Nell’iniziale elenco delle doti del regno di Napoli il Saint-Non cita
esplicitamente la ‘’moltitudine di fenomeni che interessano ai Fisici ed ai
Naturalisti’’.
L’itinerario pittoresco nel Mezzogiorno è dunque caratterizzato dalla tensione
per il polo monumentale (simboleggiato dalle rovine di Pompei ed Ercolano)
e per quello naturalistico (rappresentato dai vulcani).
Questi disegni vanno a codificare una figura del meridione italiano che
resterà unica per più di un secolo, anticipando quello stile che mescola
archeologia ed esotico che sarà proprio della pittura romantica del XIX
secolo (paesaggi della Grecia, dell’Albania, della Siria e dell’Egitto ).
Gli oggetti naturali che suscitano più interesse sono i vulcani e i fenomeni
geologici a loro connessi (come i basalti).
Sull’origine e la natura del vulcanesimo si aprirà un grande dibattito a fine
Settecento , che vedrà coinvolti tutti gli scienziati d’Europa, divisi in due
principali schieramenti: i nettunisti e i plutonisti.
I primi, in accordo con il racconto biblico del Diluvio, difendevano l’idea di
un primogenito Oceano universale, che si sarebbe ritirato progressivamente,
causando la formazione dei fenomeni vulcanici.
I secondi invece, poco curanti della verità rivelata, postulavano l’esistenza di
un fuoco centrale capace di azione orogenica: mettevano così in discussione
l’idea stessa di Creazione, in quanto immaginavano, non un mondo dato una
volta per tutte, bensì un mondo suscettibile di progressive alterazioni e
modificazioni.
Il Vesuvio, l’Etna e lo Stromboli rappresentavano dunque le ultime sfide per
un discorso scientifico che ‘’doveva ancora impossessarsi del meraviglioso’’,
ovvero di quell’ambito produttore di segni e miracoli, cose che per
definizione sfuggono ad ogni spiegazione razionale.
Gli storici hanno dimostrato che il segreto dell’Illuminismo fu il fatto di
basarsi su concetti politici, ma senza mostrarlo (in sostanza la loro politica
consisteva nell’apoliticità).
Il piano segreto degli illuministi, per cui la borghesia avrebbe dovuto scalzare
lo Stato assoluto, spingeva i viaggiatori pittoreschi nel Mezzogiorno.
Questo segreto, per cui un cataclisma naturale corrisponde ad uno politico
(la Rivoluzione francese), conferiva alle eruzioni vulcaniche quello che
Goethe definì un ‘’fascino da serpenti a sonagli’’.
Lo scopo dell’immagine pittoresca fu dunque quello di predisporre la
diffusione dell’immagine scientifica del mondo, senza realizzarla, ma solo
suggerendola.
Questo non significa che la produzione di queste immagini non abbia
qualcosa di scientifico: i disegnatori al seguito di Saint-Non, per ritrarre le
rovine di Pompei ed Ercolano, utilizzano una serie di espedienti come la
ricostruzione di una pianta generale utile alla collocazione dei loro schizzi.
La forma pittoresca si compone dunque di un lavoro preliminare che di
pittoresco non ha davvero nulla, ma che funziona come natura nascosta e da
intima meta (una specie di ‘’anima di metallo’’).
La raffigurazione geometrico-topografica della pianta generale garantisce la
precisione delle vedute, in modo tale che la natura e l’opera dell’uomo
vengano assimilate in un unico grande denominatore: il criterio di
misurabilità.
La matematizzazione galileiana della natura viene così sotterraneamente
estesa anche ai prodotti della storia umana: questa è la vera meta del viaggio
pittoresco, sottoporre allo sguardo della misurabilità (unico criterio oggettivo)
i prodotti naturali e quelli storici, in modo tale da poterli porre in analogia.
Dunque tra terremoti/eruzioni e rivolte politiche/sociali c’è una sorta di
connessione.
La storia del Mezzogirono è questo per Saint-Non, una storia di rivoluzioni;
allo stesso tempo Houel dice che ‘’nessun paese ha sperimentato più rivoluzioni
della Sicilia’’.
L’immagine pittoresca arriva dunque vicina al superamento dell’iniziale
contraddizione tra viaggio e racconto da cui muove, rappresentando in ogni
caso molto di più degli oggetti che riproduce.
È da essa che nasce quel modello di percezione e comprensione della faccia
della Terra che chiamiamo paesaggio.

NOTE

*Jean-Claude Richard (1727-1791) è stato un incisore, disegnatore, mecenate


e archeologo francese, autore di una celebre storia illustrata del Mezzogiorno
intitolata ‘’Voyage pittoresque ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile’’.

**Jean Houel (1735-1813) è stato un incisore, pittore ed accademico francese.


La sua opera conosce come momento decisivo il Grand Tour compiuto nel
1776 in Sicilia e nelle isole vicine.
Nel corso del viaggio realizza più di 200 tavole, che vengono poi raccolte nel
suo ‘’Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Malta et de Lipari‘’.
19. IL PAESAGGIO E L’ECONOMIA DELLA NATURA

Il paesaggio, tra Settecento e Ottocento, è l’invenzione di quella straordinaria


figura di geognosta (termine con cui allora si indicavano gli ‘’inventori della
Terra’’) che è Alexander Von Humboldt (1769-1859)*.
La fama di cui Humboldt ha goduto in vita è straordinaria, e non a caso
dunque egli appare agli scienziati di mezza Europa come un ‘’novello
Aristotele’’.
Il motivo dell’interesse della società borghese verso i monti è esplicato dal
grande poeta e drammaturgo Friedrich Schiller (1759-1805)**, secondo cui
‘’la montagna significa libertà’’.
Alla montagna viene dunque data tutta questa importanza in quanto è il
luogo in cui la borghesia non avvertiva il freno, esercitato dal dispotismo
aristocratico-feudale (e questo soprattutto in Germania), alle proprie volontà
di espressione/realizzazione.
Humboldt, che cita il motto di Schiller, si muove proprio in quest’ultima
direzione, concependo una strategia che si basa sul concetto di paesaggio.
L’obiettivo dell’opera di Humboldt è quello di strappare la borghesia tedesca
dalla contemplazione (‘’il regno dell’apparenza estetica’’), per dotarla di un
sapere che le garantisca il dominio della Terra; in sostanza quello che
avverrà nel 1789-1790 con la Rivoluzione Francese.
Il piano di Humboldt si basa dunque sulla trasformazione del sapere
borghese attraverso una serie di mediazioni.
La più potente di queste mediazioni è quella del paesaggio, che nell’opera di
Humboldt si trasforma da idea estetica a modello scientifico (da produzione a
artistico-letterale a Geografia/scienza naturale), assumendo una funzione
rivoluzionaria.
Per Humboldt, affinché il sapere pittorico si trasformi in sapere naturale, la
matrice estetica borghese richiede la mediazione della ‘’veduta’’ intesa come
paesaggio, che diviene poi ‘’veduta’’ intesa come opinione, che divine infine
‘’veduta’’ intesa come critica politica.
Per Humboldt, stratega del pensiero critico borghese, l’uscita dal dominio
dell’apparenza estetica comporta il fatto che il paesaggio divenga il mezzo
con cui la società civile otterrà la conoscenza e il dominio del mondo.
A farci caso il paesaggio non è nient’altro che ciò che resta della Terra dopo
che la carta ha rappresentato ciò che può rappresentare.
Il paesaggio è la versione opposta e reciproca del mondo, è il mondo privato
di ciò che viene rappresentato nella carta.
Il paesaggio è il residuo, ciò che resta al di fuori dalla logica cartografica e
dalla riduzione della del mondo a tavola.
Esso prevede un punto di vantaggio dell’osservatore, un rilievo da cui
guardare: questo perché esso è il contrario di ogni forma di riduzione ad
un’estensione piatta della faccia della Terra.
Proprio perché rovescio dell’immagine cartografica, nel paesaggio non si
danno oggetti definiti, delimitati o dotati di confini chiari, bensì orizzonti
brumosi.
Se la Terra è un paesaggio, anche gli oggetti vicini non si distinguono l’uno
dall’altro, e questo perché tutto è avvolto da un’armonia di tipo estetico-
sentimentale estranea ad ogni analisi razionale.
Nel paesaggio non esistono dunque nemmeno i singoli oggetti, nel senso che
non esiste in esso alcun tipo di separazione interna, nemmeno quella tra
soggetto e oggetto: un’impossibilità che era indicata con il termine romantico
Stimmung, che significa ‘’accordo, vibrazione all’unisono tra soggetto e oggetto’’.
Se dunque la Terra è un paesaggio, non solo le cose stanno l’una accanto
all’altra e non possono essere distinte, ma questa impossibilità include anche
il genere umano.
Su questa questione decisiva si interroga Kant nella sua ‘’Geografia fisica’’, in
cui distingue due tipi di classificazione: logica e fisica.
La prima, quella logica, costituisce i ‘’sistemi naturali’’ come quello di
Linneo***, che esamina le cose una dopo l’altra unendole logicamente
secondo somiglianze, ed in seguito dividendole in nomi e classi.
La classificazione fisica invece va a descrivere le cose naturali ‘’secondo i luoghi
della loro nascita’’, quelli in cui la natura le ha collocate insomma.
L’opposizione tra queste due modalità non è solo metodologica, ma
epistemologica, in quanto dietro le due diverse pratiche operano due
contrastanti principi conoscitivi.
Kant riconosce il vantaggio del metodo di Linneo, definito ‘’economia della
natura’’ in quanto capace di ridurre in termini sintetico-economici la grande
varietà delle forme vegetali e animali.
Linneo riesce a fare ciò procedendo logicamente, riunendo ad esempio le
piante nel loro contesto originario ed infine classificandole; in questo modo si
può scoprire che piante provenienti da angoli opposti del pianeta rientrano
nella stessa famiglia.
Esiste però un’altra possibilità, quella della classificazione fisica, tipica della
Geografia, che non è una scienza, ma un sapere che rappresenta le cose in
maniera completamente diversa.
Esempio del criterio di Linneo: ‘’le componenti della macchia mediterranea
appartengono a famiglie completamente diverse’’.
Esempio del criterio geografico: ‘’anche se le sue componenti provengono da
famiglie diverse, niente ci impedisce di vedere la macchia mediterranea come
un’unica grande famiglia, in quanto così si offre al nostro sguardo’’.
Se il criterio fisico si fosse affermato, oggi non vi sarebbe nessuna differenza
tra l’immagine del mondo dello scienziato e quella che noi abbiamo quando
apriamo la finestra: non sarebbe mai esistita quella differenza che invece
esiste e che ogni giorno sperimentiamo.
Linneo stesso ci informa che la sua classificazione deriva dalla logica
cartografica; ancora una volta ci si trova di fronte alle conseguenze della
riduzione del mondo ad un tavola.
Kant scrive invece, nella ‘’Geografia fisica’’, che ‘’tutta la descrizione del mondo e
della Terra, se vuol essere sistema, deve cominciare con l’idea dell’insieme, e
riportarsi sempre ad essa’’, ma questo sistema non è la tavola, ma il globo.
La classificazione fisica di Kant non si fonda sulla tavola come l’economia
naturale di Linneo , ma si basa sul modello che rovescia la struttura implicita
di questa economia: il paesaggio.
Di questo ci importerebbe poco, tuttavia oggi si continua ad indicare il
mondo per ciò che non è (un ‘’villaggio’’); oggi il mondo è un gigantesco
paesaggio.
Se il mondo è una tavola, esso ha un unico e immobile centro, ma se il mondo
è un globo allora tutti i punti possono essere centro: proprio quello che
pensiamo quando guardiamo come paesaggio un brano della faccia della
Terra.

NOTE

*Alexander Von Humboldt (1769-1859) è stato un celebre naturalista,


scienziato ed esploratore tedesco.

**Friedrich Schiller (1759-1805), insieme a Goethe, è stato il più importante


letterati del panorama culturale tedesco della seconda metà del XVIII secolo.

***Linneo, pseudonimo di Carl Nilsson Linnaeus (1707-1778), è stato un


celebre naturalista/accademico/botanico svedese, inventore del moderno
metodo di classificazione scientifica.
20. GIROGIROTONDO

Se il mondo è una sfera o un paesaggio, è evidente che non è più una carta
geografica, e di conseguenza spazio e tempo non esistono più.
Di questo ci importerebbe molto poco, se non fosse che il mondo oggi
funziona proprio così, e questo per merito di qualcosa che noi chiamiamo
globalizzazione.
Questo termine, qualunque cosa esso significhi, ci mette di fronte
all’impossibilità di continuare a far finta che il mondo non sia un globo
(ovvero un qualcosa di discontinuo, anisotropico, non un universo, ma un
‘’pluriverso’’, come dice Edgar Morin*).
Il ‘’villaggio globale’’ di cui parla Marshall McLuhan (1911-1980)** è però
una contraddizione in termini, in quanto il villaggio ha un solo centro,
mentre il globo ne ha innumerevoli.
Quella di McLuhan si presenta allora come una metafora non molto ben
riuscita.
Egli distingueva tra spazio visivo e spazio acustico, concepiti come ambiti
complementari e inseparabili, ma allo stesso tempo incommensurabili.
Lo spazio visivo era prodotto dall’alfabetizzazione fonetica greca, che
mutando la parola in qualcosa di visibile, aveva trasformato i criteri della
concezione stessa del mondo.
Lo spazio acustico era invece figlio dei mezzi di comunicazione elettrici, che
avevano permesso all’uomo di ritornare al tempo che precedette
l’alfabetizzazione: l’ambito dei rapporti di natura sonora (che non sono
successivi, come nello spazio visivo, bensì simultanei).
Già all’inizio degli anni Sessanta del Novecento dunque, prima dell’avvento
della ‘’comodità di rete’’, McLuhan registrava la presenza di ‘’tamburi tribali
elettromagnetici’’ che risuonavano allo stesso tempo in una pluralità di centri
ubiqui: una situazione non proprio da villaggio.
Il ‘’villaggio’’ serviva in realtà a McLuhan per evocare quella condizione per
cui alla distanza interpersonale minimizzata corrisponde la massimizzazione
della comunicazione (come si pensa avvenga in un villaggio, dove tutti
parlano con tutti).
Nei fatti però non è così, visto che soprattutto oggi la comunicazione è un
processo logico, lineare e sequenziale.
Guardando al caso delle città, risulta impossibile continuare oggi a parlare di
‘’città globali’’, locuzione con cui si vorrebbe indicare quelle città che
comandano l’economia mondiale.
Queste città non sono necessariamente quelle più grandi (in questo elenco è
presente per esempio Zurigo), ma quelle in grado di controllare l’attività
finanziaria e le sue innovazioni.
Nessuna città è però effettivamente ‘’globale’’, nel senso che le funzioni di
comando non risiedono mai all’interno di un’intera città, ma solo in una
parte ristretta.
Non sapere quale sia il centro, e chi siamo, appartiene all’esperienza
individuale di tutti noi.
Se si pensa a quella filastrocca che tutti noi cantavamo sin da piccoli, ‘’Giro
giro tondo, casca il mondo’’, già in quel linguaggio disarticolato era presente la
mimesi perfetta del mondo e del suo funzionamento.
Quando finiva la filastrocca, tutti ci abbassavamo per toccare con entrambe le
mani la terra, una tavola piatta che garantiva la nostra stabilità e la nostra
identità.
Oggi però questa filastrocca non rispecchia più il funzionamento del mondo,
troppo in questi anni è cambiato: la materia intorno a noi è divenuta
immateriale unità d’informazione ,il cyberspazio, che è impossibile da
rappresentare su una carta.
Date queste premesse è evidente che l’espressione ‘’autostrada
dell’informazione’’ sia assolutamente fuorviante, in quanto le cose solide
obbediscono a immutabili leggi di conservazione, mentre le informazioni
sono parte di un invisibile antimondo.
Nel mondo materiale e consumo si devono sempre bilanciare, per cui
ognuno mangia la quantità di cibo che produce, mentre nel mondo delle
informazioni tutto può essere replicato ad un costo quasi nullo.
L’atto che ha fondato la conoscenza occidentale è stata la riduzione del
mondo ad una carta geografica, al punto che ancora oggi si crede che la
mappa sia la copia della Terra, ma è esattamente il contrario: è la Terra che ha
assunto fin dagli albori la forma di una mappa.
Se il mondo è una mappa, ogni direzione sarebbe stabile e univoca, proprio
come è stato nell’epoca moderna.
Il fenomeno della globalizzazione ci costringe però a comprendere davvero il
significato del termine, che significa che non è più possibile ridurre la Terra
ad una tavola, ma si deve guardarla per quello che è: un globo.
In un globo però le direzioni non corrispondono più a relazioni fisse, il
soggetto di fronte al globo è costretto a muoversi, non resta immobile come
sulla carta.
Non possiamo più ignorare tutto ciò, dobbiamo urgentemente reinventare la
Terra, anche se oggi è più difficile ‘’orientarsi nel pensare’’, come diceva Kant.
Si deve reinventare la Terra ‘’in nome di tutti gli esseri umani che tenendosi per
mano continuano a girare in tondo e sono l’umanità.

NOTE

*Edgar Morin (1921) è un filosofo e sociologo francese, autore di celebri saggi


caratterizzati da un approccio transdisciplinare.

**Marshall McLuhan (1911-1980), considerato il padre della globalizzazione,


è stato un filosofo, sociologo e critico letterario canadese.

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