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Riassunto La conquista dell'America. Ediz. integrale -


Tzvetan Todorov
Storia contemporanea (Università degli Studi di Milano-Bicocca)

Downloaded by Michela Pandolfi (pande-93@hotmail.it)


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La conquista dell'America e il problema dell'altro: con essa il Todorov vuole mostrare attraverso il
racconto della "storia esemplare" della conquista, il comportamento dell'uomo quand'esso è
messo di fronte all'altro assoluto. L'opera è rigidamente suddivisa nelle seguenti sezioni, che
abbiamo ritenuto opportuno mantenere anche nel nostro lavoro:

Queste sezioni coprono il periodo storico compreso tra la scoperta vera e propria, nel 1492, e la
fine del XVI° secolo, presentando alcuni personaggi emblematici di queste fasi: nella sezione
Scoprire, il protagonista è Colombo, di cui l'autore cerca di scoprire l'universo mentale e le sue
idee circa la nuova terra ed i suoi abitanti; in Conquistare, i protagonisti diventano due, cioè
Moctezuma e Cortés, attraverso i quali vengono analizzati i due contrapposti schieramenti, indiani
e spagnoli, che si affrontano nella conquista del Messico. La sezione Amare vuole invece
presentare il periodo storico successivo alla conquista, dominato dal problema dell'eguaglianza o
ineguaglianza tra spagnoli e indiani; oltre a questo dibattito, è presentata la figura di Las Casas, il
grande difensore degli indiani; in Conoscere poi, il Todorov effettua una interessante analisi della
"tipologia dei rapporti con l'altro", presentando anche due figure di studiosi degli indios, Duràn e
Sahagùn, che hanno raccolto le conoscenze, la storia, la cultura e tutto ciò che era possibile
trovare sul popolo azteco, prima che finissero per sempre nell’oblio. Il loro gigantesco lavoro di
raccolta, durato in entrambi i casi fino alla morte, ci permette oggi di conoscere qualcosa,
praticamente tutto quello che sappiamo viene da queste fonti, sulla civiltà azteca e sui suoi
costumi. Infine, nella sezione La profezia di Las Casas, il Todorov, partendo da una profezia
maledizione del frate domenicano, ci conduce ad una profonda riflessione sul nostro modo di
rapportarci all'altro, al diverso; questo argomento, secondo l'autore, è per il nostro mondo
assolutamente vitale, giacché ormai ci stiamo tutti avviando, volenti o nolenti, ad una
globalizzazione totale. L'altro, conclude il Todorov, "deve essere scoperto", poiché, nel caso
contrario, la storia delle conquiste dell'America dovrebbe mostrarci, con sufficiente chiarezza, le
conseguenze di questo mancato riconoscimento.

SCOPRIRE

Il primo personaggio presentato da Todorov è Colombo, lo scopritore dell’America,


paradossalmente mai accortosi di averla scoperta, l’uomo che per primo osò sfidare le radicate
credenze che descrivevano il tragitto tra Europa ed Asia come immenso, ed il mare popolato di
sirene e mostri di ogni tipo. I primi dubbi su Colombo li abbiamo non appena cerchiamo di capire
perché è partito, quali scopi aveva e quali teorie lo hanno convinto a lasciare la Spagna per una
terra la cui esistenza appariva ai suoi contemporanei quanto meno dubbia. Scorrendo le pagine
del suo diario di bordo, abbiamo l’impressione che Colombo abbia un unico obiettivo nella
spedizione, e cioè l’oro, e che tutto il suo agire abbia questo esclusivo fine; E’ però sufficiente
leggere per intero i suoi scritti per accorgersi che è vero semmai il contrario: a Colombo le
ricchezze interessano in quanto ne conosce il valore di esca per gli altri, e sa utilizzarle per tenere
legati a sé i suoi uomini durante tutti i viaggi; ad essere interessati alle ricchezze sono i suoi
uomini, ma non solo i marinai, anche i gentiluomini che lo accompagnano nei viaggi successivi e
gli stessi sovrani spagnoli che hanno finanziato la spedizione. Malgrado la controversia scoppiata
poi tra gli eredi del navigatore e la Corona, a Colombo il denaro interessava relativamente, e solo
in quanto faceva parte del riconoscimento del suo ruolo di scopritore: ciò che gli stava davvero a
cuore, era la diffusione della fede cristiana in tutto il mondo, come dice egli stesso nel febbraio del
1502, La religiosità di Colombo non è solo di facciata, ma è autenticamente vissuta, tanto che, ad
esempio, egli non viaggiava mai la domenica, e il suo bisogno di denaro è anch’esso al servizio
della diffusione del vero Dio: Colombo coltiva il sogno, in ritardo di diversi secoli, di bandire con i
denari guadagnati nelle Americhe una nuova Crociata per liberare i luoghi santi di Gerusalemme.

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Questa idea è ben documentata dagli scritti personali del navigatore, e ci dà notizie di un uomo
niente affatto moderno, ed ancora legato ad un’idea ormai morta nei suoi conterranei europei
almeno dal XIII^ secolo: può suonare paradossale che l’America sia stata scoperta da un uomo
che ci è difficile definire moderno, a cui i contatti con Dio interessano più di quelli con gli uomini, e
con una forma di religiosità ancora di tipo medioevale, e che sia proprio tale scoperta, fatta da un
medioevale, a proiettarci nell’età moderna. La figura di Colombo è però troppo complessa per
poter essere abbracciata tutta da un unico aggettivo: da un lato, infatti, egli subordina tutto a un
ideale esteriore ed assoluto, la religione cristiana, mentre dall’altro la scoperta della natura,
l’attività in cui meglio è riuscito, diviene per lui non un mezzo, ma un fine: per Colombo, come per
noi moderni, "scoprire" è un’azione intransitiva:Pare perfino che i profitti interessino a Colombo
solo secondariamente: ciò che conta sono le terre e la loro scoperta, e si direbbe quasi che tale
scoperta sia a sua volta subordinata al resoconto del viaggio stesso: la cosa non ci sorprenda, in
un uomo che è partito per l’ignoto per aver letto il racconto di Marco Polo. Per conoscere meglio la
controversa personalità di Colombo, è interessante è un episodio raccontato da Las Casas nella
sua Historia, in cui è riportato il diario del terzo viaggio del navigatore: per dimostrare che la terra
che aveva scoperto era il continente, e non un’altra isola, La convinzione di Colombo si fonda
dunque su tre argomenti, cioè l’abbondanza di acqua dolce, l’autorità dei libri santi e l’opinione di
altri uomini da lui incontrati, e questi argomenti rivelano che il suo mondo si articolava in tre sfere,
una naturale, una divina ed una umana, sfere che corrispondono, niente affatto casualmente, ai
tre moventi all’origine della conquista: uno umano (cioè la ricchezza), un altro divino (l’espansione
del cristianesimo) ed infine uno legato al godimento della natura. Per noi queste tre sfere non
possono essere messe sullo stesso piano, e per giunta Colombo, in questa specifica circostanza,
se ha ragione, ce l’ha soltanto in relazione al primo argomento, poiché non capiva nulla di quanto
gli indiani dicessero, né questi capivano lui, e per quanto riguarda Dio, noi non consideriamo
questo rapporto, come invece chiaramente faceva Colombo, facente parte del mondo della
comunicazione; questa "comunicazione" con Dio è però assai importante nel suo mondo
concettuale, come dimostra, ad esempio, il suo credere all’esistenza del paradiso terrestre. Egli
ha infatti letto, nell’Imago mundi dello scrittore Pierre d’Ailly che il paradiso terrestre deve trovarsi
in una zona temperata oltre l’equatore, e, specie durante il terzo viaggio, continua ad annotare
particolari che dimostrano il suo approssimarsi ad esso; riportiamo un brano per noi
particolarmente spassoso: Questa elevazione, descritta come un capezzolo su una pera, diventa
un argomento in più per affermare che si tratta del paradiso terrestre; Colombo si comporta
analogamente nel caso delle sirene, vedendo che in realtà non si tratta di belle donne, ma
rifiutandosi di concludere che esse non esistono, e concludendo invece che in realtà non sono
belle come si racconta. Il modo con cui Colombo interpreta ciò che si trova di fronte, è analogo al
modo adottato dai Padri della Chiesa nell’interpretare la Bibbia: il senso finale è dato subito, di
primo acchito, e ciò che si cerca è il percorso che collega il senso iniziale (il significato apparente
delle parole, nel caso del testo biblico) con quel significato ultimo; egli non è affatto un empirista
moderno, poiché l’argomento decisivo non è certo dato dall’autorità, bensì dall’esperienza. Egli sa
già in anticipo cosa troverà, e l’esperienza concreta non viene interrogata per ricercare la verità,
ma semplicemente per illustrare una verità che già si possiede prima. Colombo, tuttavia, non
applica sempre questa strategia finalistica, e nell’osservazione della natura rivela, come abbiamo
osservato prima a proposito del suo concetto di "scoprire", alcuni aspetti incontestabilmente
moderni: egli, anzitutto, è curiosissimo, e per accorgersene è sufficiente leggere qualche pagina
del suo diario, in cui si dilunga spesso e volentieri in elaborate descrizioni degli animali visti e dei
loro comportamenti, ed anche in una situazione assai delicata, cioè mentre la sua nave è arenata
sulle coste della Giamaica, trova il tempo di descrivere il combattimento di un pecari ed una
scimmia. Se egli è molto attento agli animali ed alle piante, lo è ancora di più a tutto ciò che

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riguarda la navigazione, e ciò gli permette di compiere delle vere e proprie prodezze, scoprendo
nozioni fino ad allora sconosciute, quali la declinazione magnetica, ed inaugurando il sistema di
navigazione con le stelle. Quando però Colombo cessa di essere il navigatore o il naturalista
dilettante, ecco che subito la strategia finalistica ha il sopravvento, e tutta la ricerca serve a
cercare conferme ad una verità giù conosciuta in anticipo: egli infatti, sebbene impieghi circa un
mese a raggiungere l’America una volta lasciate le Canarie, trova già a partire dal 16 settembre gli
indizi di cui è alla ricerca, che gli indichino cioè la prossimità della terra:ancora il 18, il 19, il 20 ed il
21 settembre, e poi sempre, tutti i giorni, Colombo avvista segni della presenza della terra,
malgrado essa sia ancora distante centinaia di miglia, tanto che vi giungerà solo il 12 ottobre: in
mare, tutti i segni indicano la prossimità della terra poiché tale è il suo desiderio. Analogamente, a
terra tutti i segni rivelano la presenza dell’oro, anche se questo non si trova; uno dei suoi
corrispondenti, e dunque non ci stupiamo che egli faccia sempre notare l’abbondanza di
pappagalli, il colore nero della pelle degli indiani e l’intensità del calore: Si può notare lo stesso
tipo di comportamento anche nella ricerca del continente: quando gli indigeni gli dicono che Cuba
è un’isola, e non il contrario, come egli invece credeva, prima mette in dubbio l’attendibilità della
testimonianza. finisce per scoprire il continente vero e proprio, ciò accade perché sta cercando
quella che noi chiamiamo America meridionale, convinto che, per ragioni di simmetria, vi debbano
essere sulla Terra quattro continenti, divisi in due coppie, la prima formata dall’Europa e
dall’Africa, mentre l’Asia è l’elemento settentrionale della seconda. Ognuno si avvede che questo
tipo di interpretazione, fondata sulla prescienza e sull’autorità non ha nulla di moderno, ma tale
atteggiamento è compensato, come dicevamo sopra, da un altro a noi più famigliare, cioè
l’ammirazione intransitiva della natura, un godimento della natura che non obbedisce ad alcuna
finalità: il verde degli alberi diviene così talmente intenso da non essere più verde, ed ogni isola è
la cosa più deliziosa che esista al mondo- Per riassumere, dunque, l’osservazione attenta della
natura conduce Colombo a tre diversi esiti, cioè all’interpretazione pragmatica nel caso di
questioni di navigazione, all’interpretazione finalistica quando i segni confermano le credenze e le
speranze già possedute, e a quel rifiuto di ogni interpretazione che è l’ammirazione intransitiva.
Occupandoci ora, invece, della comunicazione umana, dobbiamo premettere che, a differenza dei
segni della natura, che sono associazioni stabili, i segni umani, cioè le parole di una lingua, non
collegano direttamente un suono (il significante) e l’oggetto (il referente, per intenderci), ma
passano attraverso la mediazione del significato. Colombo, che abbiamo detto essere più portato
alla comunicazione con la natura, presta infatti un’attenzione pressoché esclusiva ai nomi propri,
cioè a quanto vi è di più simile agli indizi naturali. Egli poi, nel corso di tutta la sua vita, dedicò al
suo nome ed alla sua firma una attenzione quasi feticistica: non solo infatti cambiò il suo cognome
in Colòn (che significa ripopolatore) ed il suo nome in Cristòbal (cioè portatore di Cristo), convinto
che, come diceva Aristotele, i nomi dovessero convenire alle qualità e agli usi delle cose, ma
addirittura impone la sua firma, così complessa che non siamo ancora giunti a penetrarne il
segreto, ai suoi discendenti. È perciò assai naturale che Colombo si dedichi con grande vigore,
quasi da novello Adamo nel paradiso terrestre, ad assegnare ai luoghi che incontra i nomi "giusti":
il battesimo dei luoghi segue l’ordine di importanza degli oggetti assegnati a quei nomi, e dunque,
se la successione è Dio, la Madonna, il re di Spagna, la regina, l’infanta erede al trono, la prima
isola è chiamata San Salvador, la seconda Santa Maria de la Concepciòn, la terza Fernandina, la
quarta Isabela e la quinta Juana. Colombo sa benissimo che quei luoghi hanno già dei nomi, che
sono in un certo senso più naturali, ma egli vuole attribuire i nomi "giusti", e contemporaneamente,
attraverso il battesimo, prenderne possesso; la sua furia nominatrice raggiunge in certi giorni livelli
incredibili:. Se egli pare preoccuparsi molto dei nomi propri, vediamo che invece è assai poco
interessato agli altri settori del vocabolario, e mostra la sua concezione ancora ingenua del
linguaggio, confondendo sempre i nomi con le cose che essi designano, senza che gli si riveli, per

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un attimo solo, tutta la dimensione della intersoggettività, del valore reciproco delle parole, cioè
del carattere umano, e dunque arbitrario dei segni; non a caso, infatti, appena appresa la parola
indiana "cacicco", Colombo non cerca di capire che cosa esattamente significa nella gerarchia
degli indiani, ma si preoccupa di trovare a quale parola spagnola essa corrisponda: egli non dubita
che anche gli indiani distinguano, come gli spagnoli, tra un gentiluomo, un governatore o un
giudice. Una volta mostrato come gli uomini, nella concezione della comunicazione di Colombo,
non abbiano un ruolo a parte, non desta affatto meraviglia la scarsa attenzione che egli dedica
alle lingue straniere: la sua convinzione della vicinanza dell’Europa all’Asia, e dunque circa la
praticabilità della sua impresa, è anzi basata proprio su un malinteso linguistico, cagionato dal
fatto che, Colombo, mentre tutti quanti pensano, peraltro giustamente, che la distanza sia
insuperabile per via occidentale, prende come autorità un celebre astronomo arabo, che fornisce
una misura della circonferenza terrestre abbastanza esatta, esprimendola però in miglia arabe:
esse sono superiori di un terzo alle miglia italiane cui egli è abituato, e dunque la distanza gli
appare non eccessiva. Ecco ancora una dimostrazione di come Colombo non riesca a concepire
che neppure le misure siano un fatto convenzionale, così come le parole di una lingua. Trovatosi
di fronte ad una lingua diversa, egli non può fare altro che riconoscere che è una lingua e rifiutarsi
di credere che sia diversa, o ritenerla diversa ma negare che si tratti di una lingua: è proprio
quest’ultima la sua reazione all’incontro con gli indiani, in seguito ammette che gli indiani abbiano
una lingua, rifiutandosi però di crederla diversa, e continuando a trovare nei loro discorsi parole
famigliari e rimproverandoli per la loro cattiva pronuncia. Il risultato di tutto ciò fu che, durante il
primo viaggio, vi fu una totale incomprensione fra spagnoli ed indiani, fatto peraltro non
scandaloso e che non ci sorprenderebbe affatto, se però Colombo non pretendesse di capire
quanto gli veniva detto fornendo contemporaneamente le prove della sua incomprensione ciò che
egli sente dire, dunque, non è altro che il riassunto dei libri di Marco Polo e Pierre D’Ailly. Gli esiti
negativi nella comunicazione umana non sono però attribuibili solo all’ignoranza della lingua, dato
che le cose non migliorano nei rapporti con gli europei: Colombo, ad esempio, commette sulla via
del ritorno l’errore di fidarsi di un capitano portoghese, trovandosi così con la ciurma messa agli
arresti e non riuscendo, da grossolano dissimulatore qual era, ad attirare sulla sua nave quel
capitano, per arrestarlo a sua volta; egli commette gli stessi errori circa gli individui che lo
circondano, fidandosi di persone che presto gli si rivolteranno contro e diffidando invece di quanti
gli sono seriamente devoti. La comunicazione umana non riesce bene a Colombo perché non gli
interessa, a cominciare dalla sommaria percezione che egli ha degli indiani, alla incomprensione
che ha della loro lingua, fino alla preferenza che egli ha per le terre rispetto agli uomini, uomini
che sono nominati solo perché sono anch’essi, in fondo, parte del paesaggio, come dimostra il
fatto che i suoi accenni agli abitanti delle isole sono inframmezzati alle sue notazioni sulla
natura,Gli indiani, che si presentano come fisicamente nudi, sono anche privi di ogni proprietà
culturale, e sono caratterizzati dalla mancanza di costumi, di riti e di religioni: l’atteggiamento di
Colombo nei confronti di questa cultura è, nel migliore dei casi, quello del collezionista di curiosità,
tanto che, trovando per la prima volta delle costruzioni in pietra in occasione del suo quarto
viaggio, si accontenta che ne venga staccato un pezzo per ricordo. È naturale che questi indiani si
somiglino tutti fra loro, privi come sono di ogni identità culturale la cultura degli indiani è quindi
misconosciuta, ed essi sono assimilati alla natura, venendo perciò ammirati, analogamente a
quanto Colombo faceva con le piante, i fiori e gli animali, e tale ammirazione, decisa a priori, si
estende anche al campo morale: egli, ad esempio, mai si stanca di lodare la generosità degli
indiani, che danno tutto per niente:Colombo non capisce che, come le lingue e le unità di misura,
anche i valori sono convenzionali, e che, in sé, l’oro non è più prezioso del vetro; sulla base di
questi scambi, però, egli conclude che gli indiani sono la gente più generosa del mondo, fornendo
così un notevole contributo al mito del buon selvaggio. Dopo che abbiamo osservato come

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Colombo vedeva gli indiani, cerchiamo di capire se attraverso le sue note possiamo intuire come
gli indiani vedessero a loro volta gli spagnoli: l’informazione è però, anche in questo caso, viziata
dal fatto che egli ha deciso tutto a priori, e che se il suo tono è di ammirazione, allora anche gli
indiani debbono ammirarli: Colombo, nell’atteggiamento che ha verso gli indiani, non riesce a
superare queste due posizioni: o gli indiani sono degli esseri umani completi, con gli stessi suoi
diritti, ma sono visti non come uguali ma come identici, e dunque egli sbocca
nell’assimilazionismo, cioè nella proiezione dei propri valori sugli altri, oppure parte dalla
differenza, ma questa viene subito tradotta in inferiorità. Il proposito di fare adottare i costumi
spagnoli alle popolazioni indigene, pur continuamente ribadito, non viene mai giustificato, poiché è
una cosa che viene da sé, così come il desiderio di cristianizzarle; in questo secondo caso, poi, il
discorso è più complesso, e si fonda sull’equilibrio tra il dare la religione e il prendersi l’oro,
equilibrio che appare però piuttosto precario, dato che diffondere la religione presuppone che gli
indiani siano considerati, almeno di fronte a Dio, come uguali, mentre per prendere l’oro, se essi
non vogliono darlo, sarà necessario sottometterli per poterglielo prendere con la forza, ponendoli
così in una chiara posizione di inferiorità. Colombo però, gradatamente, passa
dall’assimilazionismo all’ideologia schiavista, che parte dall’affermazione di principio della
inferiorità degli indiani, anche se egli continua a fare distinzioni, per una sorta di coerenza con sé
stesso, tra indiani buoni, potenzialmente cristiani ed indiani bellicosi da sottomettere: resta però il
fatto che coloro che non sono già cristiani non possono essere altro che schiavi, senza che esista
una terza possibilità. Egli, come è noto, fu un fermo sostenitore della schiavitù degli indiani, ma,
anche quando non si trattava di schiavi, il suo comportamento nei confronti degli indiani indica che
egli li considera, in fondo, una sorta di oggetti viventi: nella sua passione naturalistica, Colombo,
vuole riportare in Spagna esemplari di ogni genere, alberi, uccelli, animali e indiani
La cifra è già stata decisa in anticipo, una mezza dozzina, e gli individui, se ci è permesso il gioco
di parole, non contano, ma vengono contati. Come può dunque Colombo essere associato alla
nascita di due miti apparentemente così contraddittori, come quello in cui l’altro è il "buon
selvaggio" e quello in cui, invece, l’altro è uno "sporco cane", cioè uno schiavo potenziale? Il
legame tra posizioni così diverse è dato dal fatto che, in realtà, entrambe si fondano sul
disconoscimento degli indiani e sul rifiuto di considerarli un soggetto con i nostri stessi diritti, ma
diverso da noi. Bene ha osservato chi ha detto che Colombo, in fondo, ha scoperto l’America, ma
non gli Americani.

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CONQUISTARE

Limitando la nostra attenzione alla conquista del Messico, vediamo anzitutto le tappe della
definitiva sconfitta dell’impero azteco. La spedizione di Cortés, iniziata nel 1519, è la terza che
tocca le coste messicane, e vi partecipano alcune centinaia di uomini; Cortés è inviato dal
governatore di Cuba, che però, ad un certo momento, dopo la partenza, cambia idea, e cerca di
farlo tornare indietro, ma Cortés, di fronte a questo tentativo, si rifiuta di obbedire, dichiarandosi
sotto la diretta autorità del re di Spagna; venuto a conoscenza della esistenza dell’impero azteco,
decide di sottometterlo ed inizia a penetrare verso l’interno, guadagnando alla sua causa le
popolazioni di cui attraversa i territori, in particolare i tlxcaltechi, che diverranno i suoi migliori
alleati, ed arrivando infine a Città del Messico; dopo essere stato ben ricevuto, decide di far
prigioniero il sovrano azteco Moctezuma, riuscendovi; venuto a conoscenza dell’arrivo di una
spedizione spagnola inviata sulla costa contro di lui da parte del governatore di Cuba, Cortés
lascia una parte dei suoi soldati nella capitale, e con gli altri muove contro i suoi compatrioti,
sconfiggendoli e prendendo il loro capo Narvàez prigioniero; viene però a sapere che a Città del
Messico è scoppiata la guerra, a causa del massacro di alcuni messicani compiuto dalle sue
truppe, rimaste sotto il comando di Alvarado; ricongiuntosi con le sue truppe assediate, ed in
seguito alla morte di Moctezuma prigioniero, Cortés decide di abbandonare nottetempo la città, a
causa della intensità degli attacchi aztechi, ma viene scoperto e metà del suo esercito annientata:
è la cosiddetta Noche triste; egli allora si ritira tra i suoi alleati a Tlaxcala e ricostruisce il suo
esercito, tornando ad assediare la città, e tagliando inoltre tutte le vie di accesso alla capitale
grazie a veloci brigantini (la città all’epoca si trova, infatti, in mezzo ai laghi); Città del Messico,
dopo alcuni mesi d’assedio cade: la conquista è durata poco più di due anni. Circa la controversa
questione della conquista, la prima domanda che sorge spontanea è il modo in cui un numero
assai ridotto di uomini, non più di alcune centinaia, ha avuto ragione di quello che probabilmente
era lo Stato più potente del continente, che poteva disporre di centinaia di migliaia di guerrieri, che
per giunta si battevano sulla loro terra, in luoghi a loro famigliari, sconosciuti invece ai
conquistadores spagnoli. Vengono date a questa domanda diverse risposte: una prima ragione è
sicuramente il comportamento esitante di Moctezuma, che, fino al momento della sua morte, non
oppone quasi nessuna resistenza a Cortés; in molte cronache il sovrano azteco è rappresentato
come un uomo malinconico e rassegnato, che probabilmente sente di espiare di persona un
episodio poco glorioso della storia azteca: gli aztechi, infatti, malgrado amino presentarsi come i
legittimi successori della precedente dinastia dei toltechi, in realtà sono degli usurpatori, ed è
plausibile che questo "senso di colpa" collettivo abbia fatto immaginare a Moctezuma che gli
spagnoli fossero i legittimi discendenti dei toltechi, venuti a riprendersi i loro domini. Il
comportamento di Moctezuma diviene veramente singolare all’arrivo dei soldati di Cortés a Città
del Messico: non solo egli si lascia imprigionare, ma, una volta prigioniero, cerca soltanto di
evitare ogni spargimento di sangue, senza cercare di approfittare della situazione per sbarazzarsi
degli spagnoli neanche quando Cortés è costretto ad allontanarsi con una parte delle sue truppe
per affrontare la spedizione di Narvàez: ci mancano purtroppo i documenti per meglio
comprendere l’universo mentale di Moctezuma, ed è quindi impossibile esprimere un giudizio
definitivo. L’operato del sovrano azteco ebbe sicuramente la sua grande importanza in questa
mancata resistenza agli invasori, ma non dimentichiamo che egli morì nel bel mezzo della guerra,
e che i suoi successori dichiararono immediatamente una guerra totale contro gli spagnoli: in
questa seconda fase del conflitto, però, un ruolo decisivo viene giocato dai contrasti tra le diverse
popolazioni che abitano il Messico, contrasti che Cortés sa sfruttare con grande abilità, tanto da
avere, nella fase finale della campagna, un esercito di alleati indiani numericamente equivalente a
quello azteco, in cui gli spagnoli svolgono solo un ruolo logistico e di comando. Dopo aver

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mostrato che alcune popolazioni messicane, invece di combattere con tutte le energie contro gli
invasori, li appoggiano e ne rendono possibile la vittoria, possiamo legittimamente domandarci per
quale ragione essi non hanno resistito di più, invece di consegnare la loro terra ad una
dominazione che si dimostrerà foriera di misfatti incredibili. Ma in realtà, il comportamento degli
spagnoli non è affatto atipico, ed essi, anzi, si comportano esattamente come gli aztechi, a cui
queste altre popolazioni sono sottomesse, Le donne, l’oro e le pietre preziose, che attirano la
rapacità degli spagnoli, erano già prelevati dai funzionari di Moctezuma, e Cortés, per delle
popolazioni che già hanno subito la colonizzazione azteca, non incarnerà certo il male assoluto,
ma anzi il male minore, quasi un salvatore in grado di liberare dal giogo della tirannia presente. Vi
sono dunque moltissime somiglianze tra vecchi e nuovi conquistatori, così come ve ne sono
sempre, anche se implicite, tra ogni conquistatore ed il suo predecessore: gli spagnoli, ad
esempio, bruceranno i libri dei messicani e distruggeranno i loro monumenti per eliminare ogni
ricordo della passata grandezza, ma anche gli aztechi avevano distrutto i libri antichi, per poter
riscrivere a modo loro la storia; gli aztechi poi, mostrano spesso di considerarsi i continuatori dei
toltechi, ed allo stesso modo gli spagnoli manifestano una certa fedeltà al passato, conservando,
ad esempio, la stessa capitale, Città del Messico, e utilizzando i registri fiscali dell’impero azteco:
Cortés pare quasi cercare una legittimità agli occhi della popolazione locale, conservando anche
gli stessi luoghi di culto, e limitandosi a sostituire gli idoli con statue cristiane. Tornando alle cause
della sconfitta azteca, aggiungiamo, oltre alle esitazioni di Moctezuma nella prima fase della
guerra ed alle divisioni in campo messicano nella seconda, anche la superiorità degli spagnoli in
materia di armi, giacché gli aztechi non conoscono la lavorazione dei metalli, e dunque le loro
spade e le loro corazze sono poco efficaci, così come non conoscono archibugi e cannoni; essi
poi sono sempre più lenti, a terra perché gli spagnoli hanno i cavalli, e sull’acqua perché hanno i
brigantini; senza saperlo poi, gli spagnoli conducono una sorta di guerra batteriologica,
diffondendo tra gli indiani il vaiolo, che compie nelle file nemiche delle stragi enormi. Ma tale
superiorità, per quanto innegabile, non è ancora sufficiente a spiegare tutto, poiché la potenza
delle armi da fuoco non è neanche lontanamente paragonabile a quella cui siamo abituati a
pensare noi oggi, le polveri sono spesso bagnate, e poi il rapporto numerico tra i due campi non
può essere riequilibrato da questi fattori. I racconti indiani danno alla domanda sulle ragioni della
sconfitta una risposta diversa: tutto è avvenuto perché gli aztechi hanno perso il controllo della
comunicazione, e la parola degli dei è divenuta inintelligibile, viene dunque il sospetto che, tra le
ragioni della vittoria degli spagnoli, vi sia anche la loro padronanza dei segni. Analizzando questo
aspetto, vediamo subito che spagnoli ed indiani praticano la comunicazione in modo diverso:
guardiamo prima alla comunicazione indiana, e poi andremo ad esaminare quella degli invasori
spagnoli. Dobbiamo anzitutto premettere che, malgrado si sia precedentemente detto che una
delle ragioni della sconfitta indiana è stata la padronanza spagnola dei segni, non possiamo
parlare sic et sempliciter di inferiorità indiana nel campo della comunicazione, né tantomeno di
scarso interesse nella comunicazione, almeno nella comunicazione umana, come era invece nel
caso di Colombo. Gli indiani dedicano, infatti, moltissimo tempo ed energia alla interpretazione dei
messaggi, con tecniche notevolmente elaborate e legate ad una specie di divinazione: gli aztechi
possiedono un calendario religioso composto di tredici mesi di venti giorni ciascuno, ed ognuno di
questi giorni ha un suo carattere, fasto o nefasto che si trasmette, ad esempio, alle persone nate
in quel giorno, tanto che, sapere il giorno in cui qualcuno è nato, significa conoscere il suo destino,
ed ecco che comprendiamo il perché, appena nasce un bambino, egli venga portato da un
professionista dell’interpretazione, in genere il sacerdote. A questa forma di divinazione, data dalla
interpretazione di ciascun giorno del calendario, si affiancano i presagi: è sufficiente leggere
qualche cronaca indiana per vedere che molti personaggi affermano di essere stati in
comunicazione con gli dèi e profetizzano l’avvenire, e che, addirittura, tutta la storia degli aztechi è

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considerata come la realizzazione di profezie antecedenti, quasi come se un evento non potesse
aver luogo senza essere stato prima profetizzato. Non sorprendiamoci, dunque, che il mondo sia
posto fin da principio come determinato, e che gli uomini si adeguino a tale determinazione
regolamentando la loro vita sociale nel modo più minuzioso: la parola chiave delle società indiana
è "ordine", tale regolamentazione investe dunque anche i minimi particolari della vita quotidiana.
Gli aztechi poi non apprezzano certo l’opinione personale e l’iniziativa individuale, come si evince
dalla importanza attribuita alla famiglia, importanza che permette bene di capire la preminenza del
sociale sull’individuale; anche la solidarietà famigliare non è però il valore supremo, poiché la
famiglia non è ancora tutta la società: i legami famigliari passano in secondo piani rispetto agli
obblighi verso la società, tanto che i genitori accettano di buon grado le punizioni che colpiscono
le infrazioni dei figli, che pure essi amano sopra ogni cosa: Possiamo dire che, date le due forme
di comunicazione, una tra uomo e uomo e l’altra tra uomo e mondo, gli spagnoli coltivano
soprattutto la prima e gli indiani la seconda? L’affermazione del Todorov è maggiormente
accettabile se intendiamo per "comunicazione tra uomo e mondo" la comunicazione tra individuo e
gruppo sociale, individuo e natura ed individuo e mondo religioso: questo secondo tipo di
comunicazione è dunque predominante nella vita dell’uomo azteco, il quale interpreta il divino, il
naturale e il sociale attraverso indizi e presagi, con l’ausilio di un professionista, il sacerdote-
indovino. Non bisogna però pensare che il predominio di tale forma di comunicazione escluda la
conoscenza dei fatti, cioè la raccolta di informazioni: è vero semmai il contrario, poiché per gli
indiani una guerra deve essere sempre preceduta dall’invio di spie, e lo stesso Moctezuma, dopo
l’arrivo degli spagnoli, non manca mai di inviare le sue spie nel campo nemico ed è sempre al
corrente dei fatti, e conosce l’arrivo delle spedizioni mentre esse ancora non sanno nulla della sua
esistenza; anche quando Cortès si trova a Città del Messico, Moctezuma è informato dell’arrivo
della spedizione di Narvàez, mentre gli spagnoli ancora la ignorano. I pur notevoli e costanti buoni
risultati nella raccolta delle informazioni, non vanno però di pari passo con la padronanza della
comunicazione interumana, come si vede, ad esempio, dal costante rifiuto di Moctezuma di
comunicare con gli spagnoli: in lui, infatti, si associano la paura dell’informazione ricevuta e la
paura dell’informazione richiesta dagli altri, specie quando essa riguardava la sua persona; egli
inoltre, quando riceve l’informazione, il più delle volte punisce coloro che gliela recano, fallendo
così costantemente sul piano dei rapporti umani. Quand’anche poi l’informazione arrivi a
Moctezuma, la sua interpretazione avviene nel quadro della -comunicazione col mondo, non di
quella con gli uomini: egli infatti, per avere consigli su come comportarsi con gli spagnoli, cioè in
questioni che noi riteniamo totalmente umane, si rivolge ai suoi dèi. Perché questo modo
inspiegabile di comportarsi? Moctezuma sapeva bene informarsi sui suoi nemici quando essi
erano taraschi o tlaxcaltechi (cioè due delle popolazioni che abitavano il Messico all’epoca
dell’impero azteco), poiché in questo caso si trattava di un sistema di informazioni definito;
l’identità degli spagnoli è, invece, così diversa ed il loro comportamento così imprevedibile, che
l’intero sistema di comunicazione azteco è sconvolto, ed essi falliscono in pieno proprio nel campo
nel quale prima ottenevano ottimi risultati, cioè la raccolta di informazioni: Bernal Dìaz si chiede
più volte cosa sarebbe stato di loro se gli indiani avessero saputo quanto erano pochi, deboli e
spossati. Una conferma di questo atteggiamento la vediamo nella costruzione, da parte degli
indiani, dei racconti della conquista: esse cominciano tutte invariabilmente con l’enumerazione dei
molti presagi che annunciano la venuta degli spagnoli, così invariabilmente che si sospetta
fortemente che siano tutte posteriori agli effettivi anni della conquista: ma proprio il fatto che tali
cronache siano state scritte a cose avvenute, ci permette di capire molte cose, cioè che gli aztechi
devono percepire la conquista, perché essa risulti spiegabile, inserendola in una rete di rapporti
sovrannaturali, di modo che il presente, annunciato già dal passato, divenga intelligibile e meno
inammissibile: ma proprio queste profezie sortiscono un effetto paralizzante sugli indiani e ne

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indeboliscono la resistenza. Questo comportamento contrasta fortemente con quello di Cortés,


come poi vedremo, ma è invece assai vicino a quello, ad esempio di Colombo, che, come
Moctezuma, raccoglie attentamente informazioni concernenti le cose ma fallisce nella
comunicazione con gli uomini: Colombo inoltre, subito dopo il ritorno dal primo viaggio, si affrettò a
scrivere una sorta di Chilam Balam, il Libro delle profezie, costituito da formule estratte dalla
Sacre Scritture che predicevano la sua scoperta. Per la sua struttura mentale, dunque, Colombo è
assai più vicino agli uomini da lui scoperti che non ad alcuni dei suoi compagni, Al modo di
comunicare degli aztechi, che trascura la comunicazione interumana per privilegiare il contatto
con il mondo, è da ricondurre l’immagine che essi ebbero degli spagnoli, ed in particolare l’idea
che essi fossero degli dèi. La cosa ci stupisce, anche perché siamo abituati a pensare che la
prima reazione spontanea nei confronti dello straniero sia di immaginarlo come inferiore, cioè
come un "non-essere umano" o, al più, come un barbaro inferiore, che, se non sa la nostra lingua,
non ne parla alcuna e non sa parlare, come pensava Colombo; per questo gli slavi europei
chiamano il vicino tedesco nemec, cioè "il muto", e i maya dello Yucatàn chiamano gli invasori
toltechi nunob, cioè "i muti", e la nostra stessa parola barbaro, indicava in origine chi non sapeva
pronunciare la lingua greca e dunque si esprimeva con un incomprensibile "bar-bar". Mentre gli
aztechi riuscivano senza fatica a percepire le differenze tra loro stessi e i tlaxcaltechi, cioè li
giudicavano i sottomessi, l’alterità degli spagnoli è terribilmente radicale, Non riuscendo ad
assimilare gli spagnoli agli altri popoli di cui avevano conoscenza, gli aztechi rinunciano al loro
sistema di alterità umane e si sentono spinti a ricorrere all’unico altro dispositivo possibile, cioè la
comunicazione con gli dèi: l’errore degli indiani non durerà a lungo, ma abbastanza da far perdere
loro la battaglia in modo irrimediabile, e rendere l’America sottomessa all’Europa; Dicevamo sopra
che gli aztechi dedicano grande importanza e spazio alla interpretazione dei segni, ma essi fanno
altrettanto anche per ciò che riguarda la produzione degli stessi, come dimostra il fatto che
imparare a parlar bene fa parte dell’educazione impartita dalla famiglia ed è la prima cosa a cui
pensano i genitori: ci sono rimaste infinite testimonianze della attentissima cura riservata a tale
educazione, che non viene certo lasciata ai soli genitori, ma viene impartita anche in scuole
speciali, dette calmecac; gli alti funzionari aztechi, poi, sono scelti in funzione delle loro doti di
eloquenza. Il legame tra potere e padronanza del linguaggio è infatti ben chiaro agli indiani, che
chiamano il loro capo di Stato tlatoani, parola che letteralmente significa "colui che possiede la
parola", analogamente alla nostra parola dittatore; la abilità oratoria che raggiungono, è così
grande che gli spagnoli, anche dopo la conquista, non possono fare a meno di ammirarla. Il tipo di
discorso privilegiato dagli aztechi è, però, quello rituale, memorizzato, che assume il più delle
volte le forme degli huehuetlatolli, cioè di discorsi imparati a memoria che coprono un vasto arco
di temi e di situazioni sociali: essi hanno la funzione di conservare, in una società priva di scrittura,
le leggi, le norme e i valori che vanno trasmessi alle future generazioni. È proprio la mancanza di
scrittura l’elemento forse più importante della situazione, tanto che le tre grandi civiltà americane
incontrate dagli spagnoli non si trovano allo stesso livello di evoluzione della scrittura (gli incas ne
sono completamente privi, ed usano un elaborato sistema di cordicelle, gli aztechi usano i
pittogrammi ed i maya hanno qualche rudimento di scrittura fonetica), ed infatti non reagiranno
nello stesso modo alla credenza che gli spagnoli fossero degli dèi: gli incas vi credono
fermamente, mentre gli aztechi vi credono solo in un primo momento ed i maya si pongono la
domanda ma vi rispondono negativamente; i maya poi, sono l’unica fra queste tre civiltà ad avere
subito una invasione, quella dei messicani, e sanno cosa sia una civiltà diversa e superiore.
Tornando però al discorso sugli huehuetlatolli, possiamo dire che la loro caratteristica essenziale
è, dunque, la loro provenienza dal passato, e la subordinazione del presente al passato, così
come quelle già esaminate dell’individuo rispetto alla famiglia e della famiglia alla società, è una
delle caratteristiche della mentalità azteca dell’epoca.

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in questo mondo che abbiamo definito rivolto al passato e dominato dalla tradizione, sopraggiunge
la conquista, cioè un evento imprevedibile ed unico, e di fronte a tale imprevisto tutta la
conoscenza rituale degli aztechi è assolutamente inutile, ed essi non sanno adattarsi ad una
situazione che richiede molta capacità di improvvisazione piuttosto che di arte rituale. Le
comunicazioni rivolte dagli aztechi agli spagnoli, infatti, colpiscono a prima vista per la loro
inefficacia: per convincerli a lasciare il paese, ad esempio, Moctezuma invia agli spagnoli dell’oro,
che era proprio ciò che più di ogni altra cosa poteva indurli a restare; per scoraggiare gli invasori,
poi, i guerrieri aztechi dichiarano che essi saranno tutti sacrificati o mangiati, e, per dimostrarlo,
quando prendono dei prigionieri, si apprestano a sacrificarli sotto gli occhi dei soldati di Cortés: ma
proprio questa azione non può sortire altro effetto sugli spagnoli che quello di spingerli a battersi
con una determinazione ancora maggiore, poiché l’alternativa alla vittoria è una non invidiabile
morte "in pentola". Accanto a questi messaggi volontari, che sortiscono effetti decisamente diversi
da quanto i loro autori avrebbero voluto, ve ne sono altri non volontari, ma che producono effetti
altrettanto sgradevoli: ci riferiamo in sostanza alla incapacità degli aztechi di dissimulare la verità.
Questa incapacità si vede bene, ad esempio, dal fatto che essi, prima di impegnarsi in battaglia,
lanciano un grido di guerra, che ottiene in pratica solo l’effetto di rivelare la loro presenza, o dalle
circostanze dell’arresto di Cuauhtemoc, succeduto a Moctezuma sul trono azteca, arresto
avvenuto solo perché egli tentò la fuga su una nave riccamente ornata con le insegne reali. Il
gesto di Cuauhtemoc non è dovuto alla ingenuità di un singolo, tanto che un intero capitolo del
Codice fiorentino è dedicato agli ornamenti portati dai sovrani in battaglia, ornamenti invero
tutt’altro che modesti; non desta meraviglia, dunque, che Cortés, poco dopo la sua fuga da Città
del Messico, riesca a vincere una battaglia decisiva proprio grazie a questa incapacità di
dissimulazione degli indiani:Tutto questo avviene come se i segni, per gli aztechi, derivassero in
modo automatico e necessario dal mondo che essi designano, anziché essere un arma di
manipolazione degli altri; tale caratteristica della comunicazione azteca è all’origine della leggenda
secondo la quale gli indiani sono un popolo che ignora la menzogna: Las Casas, per citare un
nome, insiste sulla totale mancanza di doppiezza da parte degli indiani. Un esempio del diverso
modo di comportarsi di indiani e spagnoli si vede da questo racconto: gli spagnoli, quando entrano
per la prima volta in contatto con gli indiani, dichiararono ipocritamente loro che non cercavano la
guerra, ma la pace, e gli indiani non si rendono conto del fatto che, in realtà, le parole possono
essere un’arma pericolosa almeno quanto le frecce, se non di più, e questo si vede anche alcuni
giorni prima della caduta di Città del Messico, quando Cortés, ormai inevitabilmente vincitore,
formula proposte di pace ai pochi superstiti aztechi, ed essi rispondono di non parlare più di pace,
La divisione concettuale azteca è chiara: le parole alle donne e le armi agli uomini. La guerra poi,
è in fondo soggetta agli stessi principi che si possono osservare in tempo di pace, e dunque non
stupisce che gli aztechi conducano, almeno all’inizio, una guerra soggetta alla ritualizzazione e al
cerimoniale, con il combattimento che inizia ad una certa ora e finisce ad un’altra: gli aztechi,
dunque, non sono in grado neppure di concepire la guerra totale di assimilazione che gli spagnoli
conducono nei loro confronti, poiché per loro la guerra deve terminare con un trattato che fissi la
misura del tributo che il vinto dovrà pagare al vincitore. Gli spagnoli vincono la guerra, in quanto
indiscutibilmente superiori agli indiani nella comunicazione interumana: l’incontro tra Moctezuma e
Cortés, tra indiani e spagnoli, è un incontro umano, e dunque non vi è da stupirsi se gli specialisti
della comunicazione umana riportano la vittoria; ma tale vittoria arreca contemporaneamente un
grave colpo alla nostra capacità di sentirci in armonia con il mondo, e di appartenere ad un ordine
prestabilito. Vincendo da un lato, gli europei perdevano dall’altro, ed imponendo il loro dominio su
tutto il globo in forza della loro superiorità, schiacciavano in loro stessi la capacità di integrazione
col mondo: nei secoli successivi l’europeo sognerà il buon selvaggio, ma il selvaggio era morto o
era stato assimilato, e quel sogno era destinato a restare sterile:

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Parlando ora della comunicazione degli spagnoli, diciamo anzitutto che non si può dire che tutti
loro comunichino in un modo completamente diverso da quello azteco: Colombo, come abbiamo
visto, in molte circostanze andrebbe posto sullo stesso piano degli indiani, e lo stesso discorso si
potrebbe fare per quei gruppi di spagnoli che cercano di raccogliere la maggior quantità d’oro nel
minor tempo possibile, senza preoccuparsi di che cosa siano gli indiani. Questi spagnoli ci
ricordano appunto Colombo, sia in questo non curarsi dei contatti umani, in cambio della ricerca
dell’oro, o, nel caso del navigatore genovese, di nuove isole, sia nella loro ignoranza della lingua
degli indiani: esempio di tale ignoranza è il nome della provincia dello Yucatàn, che viene sempre
considerato di origine precolombiana e rivelatore, almeno per una volta, del nome dato dagli
indigeni; in realtà la genesi di questo nome è quasi comica, dato che esso viene dalla frase "Ma
c’ubah than" (Non comprendiamo le vostre parole), che viene pronunciata dagli indiani non
appena incontrano gli spagnoli , e viene da essi interpretata come "Yucatàn", che essi
considerano il nome di quel luogo. Il contrasto forte tra spagnoli ed aztechi si vede non appena
entra in scena la figura di Cortés, il primo, fra tutti i conquistadores, ad avere una coscienza
politica e storica dei suoi atti: alla vigilia della partenza da Cuba egli, probabilmente, era in tutto e
per tutto simile agli altri avventurieri avidi di ricchezze; le cose cambiano però non appena è
nominato comandante della terza spedizione verso il Messico, e proprio in questo cambiamento
noi osserviamo quello straordinario spirito di adattamento da cui egli sarà sempre caratterizzato:
sbarcato in Messico, di fronte a coloro che gli suggeriscono di mandare un gruppo nell’interno alla
ricerca di oro,non appena sente parlare dell’esistenza del regno di Moctezuma, decide di non
accontentarsi di estorcere ricchezze, ma di sottomettere quel regno. La prima cosa che egli vuole
non è prendere, ma comprendere: la sua spedizione comincia, infatti, con la ricerca di
informazioni, non di oro; il primo atto che compie è proprio cercarsi un interprete, deducendo, dal
fatto che alcuni indiani usano parole spagnole, che vi siano spagnoli naufraghi fra loro, e che
dunque essi parlino la lingua degli indigeni; inviati messaggi a quei potenziali interpreti, è aiutato
dalla fortuna e dopo pochi giorni arriva al suo campo un certo Jerònimo de Aguilar, che, divenuto
interprete ufficiale di Cortés, gli renderà servigi inestimabili. Ma Aguilar conosce solo la lingua dei
maya, e non il nahuatl, la lingua degli aztechi: altrettanto fondamentale, se non di più, è la figura di
Dona Marina, o Malintzin per gli indiani, più comunemente conosciuta come "la Malinche", una
indiana offerta in dono agli spagnoli, che diventa una intima collaboratrice di Cortés: il suo ruolo è
ben superiore a quello di una semplice interprete, poiché ella fu indispensabile agli spagnoli per la
sua conoscenza delle usanze e dei costumi aztechi, e bene lo mostrano, oltre alle testimonianze
europee, anche i racconti indiani, che spesso la raffigurano, durante gli incontri tra Moctezuma e
Cortés, al centro dell’immagine e molto più grande dei due personaggi. Essa è, secondo il
Todorov, il primo esempio della ibridazione delle culture, né azteca né spagnola, ma sia azteca
che spagnola, tale cioè da anticipare il moderno Stato messicano. Cortés, dunque, una volta
postosi nelle condizioni di comprendere la lingua degli indiani, non perde nessuna occasione per
raccogliere nuove informazioni, e grazie a questo sistema informativo efficientissimo viene presto
a sapere dell’esistenza di dissensi interni fra gli indiani, fatto che avrà una importanza decisiva per
la vittoria finale; è emblematico poi, che la cattura di Cuauhtemoc, che causerà la caduta definitiva
dell’impero azteco, sia stata possibile solo grazie alle informazioni raccolte dagli spagnoli,
malgrado fossero occupati a saccheggiare Città del Messico: la conquista delle informazioni,
possiamo dire, porta alla conquista del regno.
Abbiamo parlato prima del tipo di comunicazione praticato dagli indiani, ed ora vediamo, a
confronto, il comportamento di Cortés, durante l’avvicinamento a Città del Messico, ed un
racconto azteco su un fatto simile. Cortés, in marcia per raggiungere la capitale azteca, si trova a
dover attraversare un passo in cui teme un’imboscata; proprio in quel momento, cioè mentre
dovrebbe essere esclusivamente preoccupato per la propria sicurezza e per quella di tutta la

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spedizione, egli scorge le cime dei vulcani vicini, in piena attività, e la sete di conoscere gli fa
dimenticare le preoccupazioni immediate: Confrontiamo ora un racconto di un’altra ascensione ad
un vulcano, compiuta da un gruppo di indiani, e raccontata negli Annales de los Cackchiquelses:
arrivati di fronte al vulcano, i guerrieri vorrebbero scendere nel cratere per portare via il fuoco, ma
nessuno ha il coraggio di farlo, finché il loro capo non decide di tentare, si inoltra nel cratere e
porta fuori il fuoco; In entrambi i casi osserviamo curiosità e coraggio, ma la percezione del fatto è
diversa: mentre per Cortés si tratta di un singolare fenomeno naturale, e la sua curiosità è
intransitiva, per gli indiani si tratta di combattere con lo spirito della montagna: Cortés resta su un
piano totalmente umano, mentre l’impresa degli indiani mette subito in moto tutta una rete di
riferimenti naturali e soprannaturali. Per gli aztechi, come abbiamo già più volte detto, la
comunicazione è anzitutto comunicazione con il mondo, e le rappresentazioni religiose vi
rivestono un ruolo essenziale; anche in campo spagnolo, però, la religione è presente, ed ha, nel
caso di Colombo, una importanza decisiva, ma vi sono due importantissime differenze. La prima
differenza riguarda il carattere specifico della religione cristiana, che è prima di tutto una religione
universalistica ed egualitaria, in cui Dio non è un certo dio, ma il dio: il cristianesimo, così, diviene
da universale ad intollerante, e Cortés rifiuta la proposta di Moctezuma di mettere da un lato del
tempio le immagini degli dei pagani e dall’altro le immagini cristiane: questo perché, mentre il dio
della religione azteca è uno e molteplice, e dunque permette ad essa di aggiungere nuove divinità,
il dio cristiano non è una divinità che possa aggiungersi alle altre, poiché esso è uno, e non lascia
spazio agli altri dèi: Questa concezione contribuisce in modo notevole alla vittoria spagnola, dato
che l’intransigenza ha sempre battuto la tolleranza. L’egualitarismo del cristianesimo è
strettamente legato al suo universalismo: poiché Dio è il Dio di tutti, così tutti sono figli di Dio,
senza differenze di popoli o di individui, i problemi sollevati dall’egualitarismo del cristianesimo
saranno assai discussi già immediatamente dopo la conquista. La seconda differenza, invece,
deriva dalle forme che assume il sentimento religioso degli spagnoli: il loro dio è più un ausiliario
che un Signore, e mentre in teoria lo scopo della conquista è la diffusione del cristianesimo, in
pratica il discorso religioso è uno dei mezzi che garantiscono la conquista. Gli spagnoli, per
esempio, ascoltano i consigli divini solo quando coincidono con i suggerimenti degli informatori o
con i propri interessi; Cortés poi, quando si getta in battaglia gridando "Santiago", non è certo per
la speranza di un aiuto da parte del santo protettore degli spagnoli, quanto per farsi coraggio e
spaventare gli avversari;
Un altro episodio è significativo: durante la campagna contro i tlaxcaltechi, Cortés fa una sortita
notturna con un gruppo di cavalli, due dei quali barcollano e vengono rispediti al campo: mentre i
suoi compagni lo considerano come un cattivo presagio e vorrebbero tornare indietro, egli rispose
loro:Mentre dunque per gli aztechi l’arrivo degli spagnoli è l’adempimento di una serie di cattivi
presagi, con conseguente diminuzione della loro combattività, in analoghe circostanze Cortés si
rifiuta di vedere in certi segni la prova dell’intervento divino, ed è interessante osservare come
invece, nella fase discendente della sua vita, egli inizia a credere ai presagi ed il successo non lo
accompagna più. La comunicazione limitata degli indiani, dedicata esclusivamente allo scambio
con dio, lascia negli spagnoli il posto ad una comunicazione umana, in cui l’altro è chiaramente
riconosciuto, anche se non stimato eguale: la presenza di uno spazio chiaramente riservato agli
altri, nell’universo mentale degli spagnoli, è emblematicamente dimostrato dal loro costante
desiderio di comunicare, che si contrappone alle reticenze di Moctezuma.

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Il solo fatto di assumere un ruolo attivo nel processo di comunicazione, assicura agli spagnoli una
superiorità incontestabile: essi sono i soli ad agire, mentre gli aztechi si limitano a reagire.
Considerando poi la produzione dei discorsi, vediamo chiaramente che Cortés si preoccupa
continuamente della interpretazione che gli indiani daranno ai suoi gesti: egli punisce
severamente i saccheggiatori nel suo esercito perché costoro, contemporaneamente, prendono
ciò che non bisogna prendere, e danno una cattiva impressione di loro stessi: appare evidente in
questo brano l’importanza della finzione, "apparenza" e "reputazione". Anche i messaggi che
Cortés rivolge agli indiani obbediscono ad una strategia coerente: per esempio, all’inizio gli indiani
non sono sicuri che i cavalli degli spagnoli siano mortali; per mantenerli in questa incertezza, egli,
la notte dopo la battaglia, fa accuratamente seppellire i cadaveri dei cavalli uccisi. Il
comportamento di Moctezuma è invece contraddittorio, poiché egli non sa se accogliere o non
accogliere gli spagnoli; anche Cortés compie atti altrettanto contraddittori, non perché sia
realmente incerto, ma piuttosto perché vuole lasciare perplessi e dubbiosi i suoi interlocutori. Un
episodio della marcia verso Città del Messico è esemplare al riguardo: Cortés si trova ospite in un
villaggio, ricevuto dal cacicco locale che spera di essere aiutato nel rovesciare il giogo azteco; in
quel mentre arrivano i messi inviati da Moctezuma ed incaricati di prelevare i tributi, e Cortés
consiglia il cacicco di arrestare gli esattori, cosa che egli farà prontamente; ma quando gli abitanti
del villaggio si preparano a sacrificare i prigionieri, Cortés si oppone e mette i suoi soldati a
guardia della prigione, convincendoli poi di essere sorpreso di vederli imprigionati e dichiarando di
volerli liberare; egli infatti li fa arrivare sani e salvi fuori dal territorio pericoloso, ed essi giungono
incolumi da Moctezuma; il cacicco locale a quel punto, sapendo che gli aztechi saranno informati
della sua ribellione, giura fedeltà a Cortés e si impegna ad aiutarlo nella lotta contro gli aztechi. Le
manovre di Cortés hanno due destinatari: da una parte gli indiani del posto, che vengono indotti
ad impegnarsi in modo irreversibile al suo fianco, dato che, mentre il re di Spagna è lontano ed
una pura astrazione, gli aztechi ed i loro gravosi tributi sono vicinissimi; dall’altra parte,
Moctezuma, che sa che i suoi messi sono stati maltrattati per la presenza degli spagnoli, ma sa
anche che essi sono vivi grazie a loro: Cortés si presenta dunque, contemporaneamente, come
nemico e come alleato, obbligando ad assumere ulteriori informazioni perché non sa più come
regolarsi. La prima preoccupazione di Cortés, quando è debole, è di non far scoprire agli altri la
verità, e di far credere agli altri che è forte: Egli è poi un uomo sensibile alle apparenze, tanto che,
appena nominato capo della spedizione, spende i primi denari per comprarsi un abito che incuta
rispetto ’attenzione alla reputazione non riguarda solo la sua persona, ma anche il suo esercito,
come dice egli stesso ed infatti la sua tattica militare preferita consiste nel farsi credere forte
quando è debole e debole quando è forte, di modo da attirare gli aztechi in imboscate mortali. Nel
corso della campagna, Cortés rivela il suo gusto per le azioni spettacolari, ben consapevole del
loro valore simbolico, badando bene, ad esempio, a vincere la prima battaglia e il primo scontro
tra brigantini e canoe, a dare alle fiamme un certo palazzo all’interno della città per mostrare
quanto è grande il suo vantaggio; egli punisce di rado, ma in modo esemplare, facendo sì che tutti
lo sappiano: Anche l’uso delle armi ha una efficacia più simbolica che pratica, come si vede bene
dall’episodio della non funzionante catapulta a trabocco, che Cortés dichiara servirà ugualmente
ad intimorire i nemici (3), o dal fatto che, agli inizi della campagna, egli impiega cannoni e cavalli
per veri e propri spettacoli
La migliore prova della capacità di Cortés di comprendere ed utilizzare il linguaggio dell’altro, è
comunque data dalla sua partecipazione all’elaborazione del mito del ritorno di Quetzalcoatl. Nei
racconti indiani anteriori alla conquista, questi è contemporaneamente un personaggio storico ed
una divinità, ed è costretto, ad un certo punto, ad abbandonare il suo regno e a partire verso est,
ma, scomparendo, promette di tornare un giorno per riprendere possesso dei suoi beni; il suo mito
non aveva, nell’antica mitologia indiana, un ruolo essenziale, in quanto egli era solo una divinità

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tra molte altre. Ma i racconti indiani posteriori alla conquista, invece, ci informano che Moctezuma
scambiò Cortés per Quetzalcoatl, tornato a riprendersi il suo regno, ed attribuiscono a questa
identificazione un ruolo decisivo nella mancata resistenza all’avanzata degli spagnoli: vediamo
dunque che, tra il primo stadio del mito, quello antico, in cui Quetzalcoatl aveva un ruolo
secondario ed il suo ritorno era incerto, ed il secondo stadio, in cui il suo ruolo è invece dominante
ed il suo ritorno sicuro, è avvenuta una grossa trasformazione, causata essenzialmente
dall’operato di Cortés. Egli, consapevole che la radicale differenza tra spagnoli ed indiani faceva
nascere l’idea che essi fossero degli dèi, seppe inserire l’anello mancante, spiegando anche "quali
dèi" fossero, e mettendo in rapporto il mito marginale del ritorno di Quetzalcoatl con la loro venuta.
Da cosa possiamo dedurre quest’opera di Cortés? Riguardo alla sua concezione del linguaggio,
vediamo subito che egli ha a cuore anzitutto la nozione del "conveniente", e il suo discorso è
regolato chiaramente dal suo fine, non dal suo oggetto: Cortés infatti interviene affermando
esplicitamente l’identità dei due personaggi (Carlo e Quetzalcoatl), e dunque possiamo dire con
certezza che se egli non è stato il responsabile della identificazione tra Quetzalcoatl e gli spagnoli,
dato che di questo non possiamo essere sicuri, ha sicuramente fatto del suo meglio perché la
cosa fosse creduta. Tale credenza, infatti, legittima Cortés agli occhi degli indiani, e fornisce loro
un mezzo per razionalizzare la loro storia, giacché, altrimenti, la sua venuta sarebbe apparsa
inspiegabile e la resistenza sarebbe stata sicuramente ben più accanita: Cortés, come vediamo
ancora una volta, si assicura il controllo dell’impero azteco in virtù della sua padronanza dei segni
degli uomini. Abbiamo più volte detto che la comunicazione degli indiani è legata al predominio,
nella loro società, del sociale sull’individuale, e possiamo ben arguire ciò proprio da un confronto
tra i racconti della conquista spagnoli e quelli indiani: consideriamo da un lato la cronaca di Bernal
Dìaz, e dall’altro il Codice fiorentino, la cronaca raccolta da Sahagùn. Vediamo subito ad una
prima lettura che la prima, quella di Dìaz, è la storia di alcuni uomini raccontata da un uomo,
mentre quella di Sahagùn è la storia di un popolo raccontata dal popolo stesso: questo non perché
nel Codice fiorentino manchino le identificazioni o i generali non siano chiamati per nome, ma
perché gli individui presenti non divengono mai dei "personaggi", cioè non hanno una loro
psicologia individuale che li caratterizzi e li distingua dagli altri; Dìaz, invece, racconta la storia di
alcuni uomini, tutti diversi tra loro, e ciascuno con sue personali caratteristiche. Possiamo fare la
medesima osservazione per ciò che riguarda la rappresentazione delle immagini operata dagli
indiani: i personaggi rappresentati nei disegni indiani non sono individualizzati interiormente, e se
il disegno deve riferirsi ad un personaggio particolare, compare accanto alla immagine un
pittogramma che lo identifica. Ogni idea di prospettiva, e dunque di un punto di vista individuale è
assente, e gli oggetti sono rappresentati in sé stessi, senza rapporti tra loro e come se non
fossero visti da qualcuno: ciò è chiaramente mostrato da questa immagine, che raffigura il
massacro perpetrato da Alvarado in un tempio di Città del Messico. Ciascun muro è visto di faccia,
e il tutto è subordinato al piano del suolo, con dei personaggi più grandi dei muri. Le figure
azteche, inoltre, sono lavorate da tutti i lati, ed anche sulla base, sebbene alcune di esse pesino
diverse tonnellate: non v’è nulla di neanche lontanamente paragonabile alla nascente prospettiva
lineare europea, che, malgrado non nasca proponendosi di valorizzare un punto di vista unico ed
individuale, diventa il simbolo di questo, e si coniuga con il carattere individuale degli oggetti
rappresentati. Il rapporto tra scoperta della prospettiva e scoperta e conquista dell’America non è,
secondo il Todorov, temerario, non perché Toscanelli, che ispirò Colombo, sia stato amico di
Brunelleschi o dell’Alberti, i pionieri della prospettiva, né perché Piero della Francesca, altro
fondatore della prospettiva, sia morto il 12 ottobre 1492, ma perché entrambi i fatti rivelano e
contemporaneamente producono delle profonde trasformazioni nelle coscienze. Nel campo della
comunicazione, il comportamento di Cortés appartiene al suo tempo, poiché, dato che il
linguaggio serve sia per integrarsi in seno ad una comunità sia per manipolare gli altri, Cortés,

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mentre Moctezuma è più legato alla prima funzione, privilegia la seconda, e questo privilegio è
chiaramente figlio di una nuova concezione del linguaggio, che chiamiamo non più "metafisica",
ma "retorica". Gli indiani poi, non sembrano aver compreso l’importanza politica di una lingua
comune, e saranno proprio gli spagnoli ad instaurare il nahuatl come lingua nazionale indigena nel
Messico, prima di compiere l’ispanizzazione, così come saranno i frati francescani a gettarsi nello
studio delle lingue indigene e nell’insegnamento dello spagnolo. Il 1492 è, infatti, l’anno di
pubblicazione della prima grammatica di una moderna lingua europea, la grammatica spagnola
del de Nebrija, e proprio questa pubblicazione dimostra un atteggiamento nuovo, in cui la lingua
non è più oggetto di venerazione, ma di analisi e di presa di coscienza della sua utilità pratica.

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AMARE

Cortés comprende il mondo azteco certamente meglio di quanto Moctezuma comprenda quello
spagnolo, ma pare proprio che questa comprensione abbia avuto come conseguenza la conquista
e la distruzione della civiltà messicana e non certo rispetto per essa. Questa terribile
concatenazione dal comprendere al prendere, e dal prendere al distruggere, non pare ineluttabile
ma è stata responsabile del più grande genocidio della storia dell’umanità; questo non ci
stupirebbe se in realtà gli spagnoli avessero espresso un giudizio critico totalmente negativo sugli
aztechi, Lungi dal dissiparsi, dunque, il mistero si infittisce: gli spagnoli non solo comprendevano
piuttosto bene gli aztechi, ma addirittura li ammiravano, e tuttavia li hanno annientati; rileggendo le
frasi di Cortés, una cosa ci colpisce, cioè che le sue esclamazioni di ammirazione riguardano
quasi tutte degli oggetti. Egli va in estasi davanti alle produzioni azteche, ma non riconosce i loro
autori come individui umani da porre sul suo stesso piano: quando fa ritorno in Spagna, infatti,
mette insieme un campionario di tutto ciò che vi era di notevole nel paese conquistato, e
nell’elenco vediamo scritti insieme tigri, uccelli, botti di balsami, ed indiani danzatori, gobbi e nani.
Rispetto a Colombo, che riportava in Spagna indiani a gruppi di mezze dozzine, sei uomini e sei
donne qualunque, riducendoli così al rango di oggetto, le cose sono cambiate, dato che Cortés
considera che occupino uno statuto intermedio, cioè sì dei soggetti, ma ridotti al ruolo di produttori
di oggetti, e non certo dei soggetti paragonabili all’io che li concepisce Per riassumere, dunque,
nel migliore dei casi gli autori spagnoli parlano bene degli indiani ma non parlano mai agli indiani,
non riconoscendo loro la qualità di soggetto, cosa che si può fare solamente parlando all’altro; in
mancanza di tale riconoscimento, il comprendere diventa solo uno strumento del prendere.
L’esistenza del genocidio degli indiani non può essere ormai assolutamente negata, e le sue
proporzioni, circa 70 milioni di individui, lo fanno diventare il più grande della storia: le sue cause
sono fondamentalmente di tre tipi, cioè per uccisione diretta, durante le guerre o al di fuori di esse,
con responsabilità diretta, in seguito a maltrattamenti, e per malattie, causa della morte della
maggioranza della popolazione. Quali sono le motivazioni di questo comportamento? Una è
incontestabilmente il desiderio di arricchirsi presto e molto senza curarsi del benessere e della
stessa vita altrui; questo perché il denaro può tutto. Il desiderio di arricchirsi non è certo una
novità, e la passione per l’oro non ha nulla di moderno; lo è invece questa subordinazione ad essa
di ogni altro valore: il conquistador non ha cessato di aspirare ai titoli nobiliari agli onori e alla
stima, ma ha capito perfettamente che tutto può essere ottenuto col denaro. Comunque il
desiderio di arricchirsi non spiega tutto, e si potrebbero richiamare alcune caratteristiche
immutabili della natura umana, che la psicanalisi definisce con i termini di "aggressività", "pulsione
di morte", "istinto di padronanza". Si potrebbe anche sostenere che ogni popolo possiede le sue
vittime e conosce la follia omicida, e discriminare tra società del sacrificio e società del massacro:
è ormai indubbio che gli aztechi compissero sacrifici umani di proporzioni anche notevoli, ma il
sacrificio è un delitto religioso e pubblico, mentre i delitti degli spagnoli sono diversi, sono
massacri, delitti atei, non rivendicati, la cui esistenza viene negata, e la cui giustificazione si trova
negli stessi: si maneggia la sciabola per il piacere di maneggiarla, così come si mozzano il naso,
la lingua e il sesso degli indiani.

Lontani dal potere centrale, tutti i divieti cadono, ed il legame sociale si sfalda e rivela non una
natura primitiva ma un essere moderno, che non ha alcuna morale e che uccide perché e quando
gli piace.
Il desiderio di arricchirsi e l’istinto di padronanza sono dunque all’origine del comportamento degli
spagnoli, ma esso è condizionato dall’idea che i conquistatori si fanno degli indiani, idea secondo

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la quale questi ultimi sono degli esseri inferiori, delle creature a mezza strada tra gli uomini e gli
animali: senza questa premessa essenziale la distruzione non avrebbe potuto aver luogo.
Andiamo ora ad esaminare più da vicino il dibattito, scoppiato già all’indomani della scoperta, tra i
sostenitori dell’eguaglianza e quelli dell’ineguaglianza tra indiani ed europei. Il primo documento
interessante in proposito è il celebre Requerimiento, un’ingiunzione indirizzata agli indiani, opera
del 1514 del giurista regio Palacios Rubios, testo nato dalla necessità di regolamentare le
conquiste: da allora, prima di conquistare un paese, sarebbe stato necessario dare ai suoi abitanti
lettura di questo testo. Esso comincia con una breve storia dell’umanità, il cui punto culminante è
rappresentato dall’apparizione di Gesù Cristo, definito "capo della stirpe umana"; Gesù ha
trasmesso il suo potere a San Pietro e questi ai papi suoi successori, uno degli ultimi dei quali ha
fatto dono del continente americano parte agli spagnoli, parte ai portoghesi (il riferimento è qui al
trattato di Tordesillas stipulato nel 1494 con la benedizione del papa Alessandro VI).

Dopo aver così stabilito le ragioni giuridiche della dominazione spagnola, resta da assicurarsi che
gli indiani siano informati della situazione, e a questo scopo, è prevista la lettura del
Requerimiento, fatta in presenza di un funzionario regio, mentre non viene menzionato neppure
un interprete; se gli indiani non si fossero sottomessi dopo questa lettura, gli spagnoli avrebbero
potuto costringerli con le armi "con l’aiuto di Dio" e ridurli in schiavitù.
C’è un’evidente contraddizione tra l’essenza della religione su cui gli spagnoli fondano i loro diritti
e le conseguenze di questa pubblica lettura: il cristianesimo è una religione egualitaria e in suo
nome gli uomini sono ridotti in schiavitù.
Il testo di Palacios Rubios non sarà mantenuto come base giuridica della conquista, ma tracce del
suo spirito si trovano anche negli avversari dei conquistadores.

Ad esempio, vediamo l’opinione del de Vitoria: egli demolisce le giustificazioni correnti delle guerre
condotte in America, ma ritiene tuttavia che delle guerre giuste siano possibili: nel caso in cui
venga violato il "diritto naturale di socievolezza e comunicazione", oppure qualora l’intervento
venga fatto per proteggere degli innocenti contro la tirannia dei capi e delle leggi indigene, che
consiste ad esempio "nel sacrificare uomini innocenti o addirittura nel mettere a morte persone
non colpevoli per mangiarle". Non vi è ancora, naturalmente, una vera eguaglianza fra spagnoli e
indiani,
È dunque lecito intervenire nel loro paese per esercitarvi un diritto di tutela; si vede così che
Vitoria, a lungo considerato un difensore degli indiani, in realtà fornisce una base legale alle
guerre di colonizzazione.
Accanto alle formulazioni giuridiche della dottrina dell’ineguaglianza se ne trovano moltissime
d’altro genere che tendono tutte a presentare gli indiani come esseri umani imperfetti. Due
testimonianze esplicano a pieno questo atteggiamento, testimonianze tra l’altro di un religioso e di
un uomo di lettere e di scienze, cioè i rappresentanti dei due gruppi sociali che, in generale, sono
più benevoli nei confronti degli indiani: la prima è del domenicano Tomàs Ortiz, la seconda di
Oviedo: Oviedo poi, non abbassa gli indiani al livello dei cavalli o degli asini, ma li considera più o
meno simili a materiali da costruzione, non desta meraviglia che egli sostenga che molto presto
Dio stesso verrà a distruggere questa razza,
Il dibattito tra sostenitori dell'uguaglianza e i partigiani dell'ineguaglianza tra indiani e Spagnoli
tocca il culmine e al tempo stesso trova un'incarnazione concreta nella celebre controversia di
Valladolid, che oppone, nel 1550, Bartolomé de Las Casas, abate domenicano e vescovo di
Chiapas e Ginés de Sepùlveda, erudito e filosofo.
A Sepùlveda era stato negato il diritto di stampare il suo trattato che ha per argomento le giuste
cause delle guerre contro gli indiani, e quindi pensò di cercare una sorta di giudizio di appello; alla
fine, dopo aver ascoltato un

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discorso di Las Casas durato cinque giorni, i giudici non prendono alcuna decisione e a
Sepùlveda, dunque, è ancora negato l'imprimatur.

Egli si appoggia, nelle sue argomentazioni ad Aristotele, precisamente all’Aristotele della Politica,
il quale stabilisce una netta distinzione tra coloro che sono nati padroni e quelli che invece sono
nati schiavi (1254b); una analoga posizione era riscontrabile nel trattato De regimine, opera di
Tolomeo da Lucca ma attribuito all'epoca a san Tommaso d'Aquino.
Sepùlveda crede che non l’eguaglianza ma la gerarchia sia lo stato naturale della società umana,
e l'unica relazione gerarchica che egli conosce è la semplice relazione superiorità-inferiorità;
ispirandosi alla Politica, egli dichiara che tutte le gerarchie si basano su un unico e medesimo
principio, e che il corpo dev’essere sottomesso all’anima, la materia alla forma, i figli ai genitori, la
donna all'uomo e gli schiavi ai padroni (cioè gli indiani agli spagnoli); in un pensiero così
schematico, non ci stupisce vedere gli indiani e le donne accanto ai corpi e agli animali, poiché
l'altro è anzitutto il nostro corpo.

Egli ci fornisce inoltre quattro argomentazioni a favore della guerra giusta condotta dagli spagnoli:

1. è legittimo assoggettare uomini la cui condizione naturale è quella di dover obbedire agli
altri, e se essi rifiutano tale obbedienza non vi è altro rimedio cui ricorrere

2. è legittimo mettere al bando il crimine abominevole consistente nel mangiare carne umana,
e mettere fine al culto dei demoni e al rito mostruoso dei sacrifici umani

3. è legittimo salvare gli innumerevoli innocenti che quei barbari immolavano ogni anno per
placare l’ira dei loro dei con l’offerta dei loro cuori

4. la guerra contro gli infedeli è giustificata perché apre la via alla propagazione della religione
cristiana e facilita il compito dei missionari

Le quattro proposizioni, riassunte, dicono: gli indiani hanno una natura subalterna, praticano il
cannibalismo, sacrificano esseri umani, ignorano la religione cristiana: ergo, noi abbiamo il diritto,
anzi il dovere, di imporre agli altri il bene, cioè quello che noi consideriamo il bene, senza chiedere
loro se lo sia anche dal loro punto di vista.
Per Sepùlveda esiste chiaramente un valore assoluto, cioè la religione cristiana e la sua
appartenenza ad essa, e l'acquisizione di tale valore pesa molto di più di quello che la persona
singola considera il suo bene.
Per quanto riguarda poi la sua percezione dei tratti specifici della società indiana c’è da dire che
egli è sensibile alle differenze ed anzi le ricerca: da lui veniamo a sapere molte cose riguardo ai riti
e alle credenze azteche, e sarebbe allettante vedere in lui i germi di una descrizione etnologica
degli indiani, facilitata dall'attenzione che egli rivolge alle differenze, ma la sua descrizione perde
molto del suo interesse, poiché la differenza si riduce sempre in lui in inferiorità: le sue
informazioni sono dunque falsate da giudizi di valore, dall’identificazione della differenza con
l’inferiorità, ma, nonostante ciò, il suo ritratto degli indiani non è privo di interesse.
Se la concezione gerarchica di Sepùlveda risente delle influenze del pensiero aristotelico,
la concezione egualitaria di Las Casas dev’essere presentata come una derivazione
dall’insegnamento di Cristo: è lo stesso Las Casas che ce lo dice, nel suo discorso di Valladolid:
nfatti, anche se il cristianesimo non ignora le opposizioni e ineguaglianze, le riduce tutte alla
opposizione fondamentale tra il cristiano e il non cristiano, e chiunque può diventarlo; al contrario,
nel caso dell’opposizione tra padrone e schiavo in Aristotele, lo schiavo è un essere

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intrinsecamente inferiore, dato che gli manca la ragione, che non si può acquisire, come invece
può avvenire con la fede.

Las Casas non è comunque il solo a difendere i diritti degli indiani e a proclamare che essi non
possono essere ridotti in schiavitù, anzi, anche gli stessi documenti ufficiali della corona si
pronunciano in questo modo; affermazione deriva dai fondamentali princìpi cristiani, poiché, se
Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, offendere l’uomo significa offendere Dio
stesso.
Las Casas adotta questa posizione, arrivando ad affermare non solo una eguaglianza astratta, ma
precisando persino che si tratta di una eguaglianza tra noi e gli altri, cioè tra spagnoli e indiani

Quest’affermazione dell’eguaglianza di tutti gli uomini, però, è fatta in nome di una religione
particolare, il cristianesimo, senza che questo particolarismo sia riconosciuto: vi è dunque il
pericolo di vedere affermare non solo la natura umana degli indiani, ma anche la loro natura
cristiana; il pericolo dell’assimilazione è sempre costante, poiché l’identità biologica porta quasi ad
una sorta d’identità culturale dinanzi alla religione.
Egli infatti, inizia con il constatare che la religione cristiana può essere adottata da tutti, ma
afferma subito dopo che tutte le nazioni sono destinate alla religione cristiana, ripetendo poi
instancabilmente che gli indiani sono già dotati di caratteristiche cristiane, sono obbedienti e
pacifici.
La percezione di Las Casas non è dunque più sfumata di quella di Colombo, quando questi
credeva all’esistenza del "buon selvaggio":
La sua Apologetica Historia contiene invero una massa d’informazioni sulla vita materiale e
spirituale degli indiani, ma se essa ha il valore di un documento etnografico, si ha la sensazione
che ciò avvenga contro le intenzioni dell’autore, sempre impegnato a distruggere ogni differenza: il
ritratto degli indiani che possiamo ricavare dalle opere di Las Casas è in realtà molto più povero di
quello lasciatoci da Sepùlveda.

Infatti egli, nella maggior parte dei casi disconosce le differenze tra indiani e spagnoli, e
quand’anche le riconosca, subito le riconduce ad un unico schema evolutivo (essi sono ora come
noi eravamo una volta): il postulato d’eguaglianza sbocca così in un’affermazione d’identità, e la
seconda grande figura "dell’alterità", sebbene più simpatica, ci fornisce una conoscenza dell’altro
ancora minore di quella fornitaci dalla prima.
Las Casas ama gli indiani ed è cristiano, ed ama gli indiani proprio perché è cristiano, senza che
le due cose siano in contrasto: il suo amore illustra la sua fede, ma la questione non è proprio così
semplice: proprio perché cristiano, Las Casas non aveva una buona percezione degli indiani, e
viene spontaneo chiedersi se si può davvero amare qualcuno se si ignora la sua identità, oppure
se non si rischi di voler trasformare l’altro in nome della propria personalità, e quindi sottometterlo.
Il titolo del primo trattato da lui dedicato alla causa indiana, De unico vocationis modo omnium
gentium ad veram religionem, bene esprime l’ambivalenza della posizione del suo autore: l'unico
modo è naturalmente la dolcezza, e Las Casas rifiuta la violenza dei conquistadores, che
giustificano le guerre in considerazione del fine perseguito, l’evangelizzazione, ma nello stesso
tempo per lui esiste una vera religione, cioè la sua, che non è solo personale ma universale. Tutta
la sua vita è ricca di iniziative a favore degli indiani, ma alcune di queste ci appaiono quanto mai
ambigue, come ad esempio il massacro di Caonao, di cui fu testimone quand'era al seguito delle
truppe di Narvàez: per alleviare il dolore degli indiani massacrati egli, mentre un indios ha subito
un colpo al fianco, agli occhi di un credente non è indifferente sapere se un'anima andrà in

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paradiso, perché battezzata, o All'inferno, ma quel battesimo in extremis, come riconosce in più
occasioni lo stesso Las Casas, ha qualcosa di derisorio.

Dopo la conversione poi, Las Casas si lancia nella colonizzazione pacifica della regione di
Cumanà, in Venezuela: al posto dei soldati dovevano esserci dei religiosi e dei contadini venuti
dalla Spagna, ma la spedizione si dimostra un fallimento completo, poiché da un lato egli è
costretto a dover fare concessioni sempre maggiori agli spagnoli e, dall’altro, gli indiani non si
mostrano così docili come egli aveva sperato: la spedizione, quindi, si conclude nel sangue, ma
ciò non lo dissuaderà dal fare un altro tentativo analogo, quindici anni più tardi, che finirà allo
stesso modo.

Las Casas dunque non vuole porre fine all'annessione degli indiani, ma vuole soltanto che sia
compiuta da religiosi e non da soldati: il suo sogno è quello di uno Stato teocratico, nel quale il
potere spirituale sovrasti il potere temporale.
E' illuminante un paragone che egli stesso fa, in una lettera al vescovo di Santa Maria: la colonia è
dunque come una donna, e non si parla affatto di emancipazione, ma di sostituire il0 padre,
dimostratosi crudele, con un marito che si dimostrerà ragionevole.
La colonizzazione e la sottomissione devono restare, ma gestite altrimenti, di modo che a
guadagnarci saranno sia gli indiani, che non verranno più torturati o sterminati, sia il re di Spagna,
che potrà godere di utili maggiori: questo non significa dare un giudizio totalmente negativo su Las
Casas, anzi, se vi è qualcuno che ha contribuito a migliorare la sorte degli indiani, è stato proprio
lui.
Non toglie nulla alla grandezza del personaggio riconoscere che l'ideologia di Las Casas e di altri
difensori degli indiani è colonialista, mentre quella di altri indiani è schiavista: la differenza non è di
poco conto, giacché nel secondo caso l'altro è soltanto un oggetto, un essere inferiore, che può
essere ucciso per nutrire degli altri indiani o addirittura i cani, oppure per estrarne il grasso, a cui
si mozzano tutte le estremità, dal naso, alle mani, ai seni, alla lingua, al sesso, così come si pota
un albero, di cui si usa il sangue per innaffiare i campi come fosse l'acqua di un fiume. Questo
modo di utilizzare l'uomo non è però il più redditizio: se anziché ridurre l’uomo al rango di oggetto
lo si ritiene un soggetto intermedio capace di produrre oggetti, diventerà allora possibile
moltiplicare all’infinito il numero degli oggetti appropriabili, e dunque il profitto crescerà: il soggetto
deve rimanere intermedio e gli deve essere vietato di diventare come noi, ed a ciò penserà
l'esercito, e il soggetto sarà tanto più produttivo quanto meglio sarà curato, scopo a cui sono
preposti i religiosi: l'efficacia del colonialismo è superiore a quella dello schiavismo.
Se Colombo è da annoverare tra le fila degli schiavisti, possiamo dire che due
personaggi tra loro diversissimi (come dimostra anche questo affresco, conservato al Palazzo
Nazionale di Città del Messico) come Cortés e Las Casas, sono legati entrambi alla ideologia
colonialista: anche se molte cose li dividono, a cominciare dal fatto che Las Casas ama gli indiani
ma non li conosce e Cortés invece li conosce ma non prova per loro alcun amore particolare,
entrambi sono d’accordo su un punto essenziale: la sottomissione dell’America alla Spagna,
l’assimilazione degli indiani alla religione cristiana, la preferenza per il colonialismo a danno dello
schiavismo. Si potrebbe dire che è scorretto definire con il termine colonialismo, che oggi ha
assunto valenza negativa, tutte le forme assunte dalla presenza spagnola in America, anche se
queste hanno eliminato i sacrifici umani, il cannibalismo, la poligamia, hanno introdotto il
cristianesimo, le usanze europee, animali domestici ed utensili: è innegabile che, sebbene certi
doni siano stati pagati a caro prezzo, alcuni di tali apporti siano stati positivi.
Se il colonialismo, da un lato, si contrappone allo

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schiavismo, dall'altro si oppone ad una pura e semplice comunicazione, il diritto della quale è
sancito dal principio di Vitoria, secondo cui bisogna permettere una libera circolazione degli
uomini, delle idee e dei beni

È però possibile stabilire un criterio etico in base al quale esprimere un giudizio sulla forma delle
influenze, basandosi sul fatto che esse siano imposte o proposte, cioè, alla lunga, riconoscano o
rifiutino di riconoscere agli altri una libera volontà e la stessa umanità: non è dunque necessario
rinchiudersi nella sterile alternativa della giustificazione delle guerre coloniali nel nome della
superiorità della civiltà occidentale, o del rifiuto di ogni comunicazione con lo straniero nel nome
della propria identità: esiste sempre, secondo il Todorov, e va difesa come un valore, la
comunicazione non violenta, di modo che la triade schiavismo-colonialismo-comunicazione possa
essere non solo uno strumento di analisi concettuale, ma anche una successione nel tempo.

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CONOSCERE

Abbiamo detto nella sezione precedente che il comportamento di Las Casas e quello di Cortés nei
confronti degli indiani, possono essere assimilati: ciò suona paradossale solo se non si
comprende che il rapporto con l'altro non si costruisce entro una sola dimensione, giacché si
possono individuare almeno tre assi: il giudizio di valore o piano assiologico (l'altro mi piace o non
mi piace, è mio pari o è un mio inferiore), l'azione di avvicinamento o di allontanamento nei
confronti dell'altro o piano prasseologico (io abbraccio i valori dell'altro e mi identifico con lui
oppure assimilo l'altro a me stesso), e la conoscenza o la non conoscenza dell'identità dell'altro o
piano epistemologico (conosco o ignoro l'identità dell'altro).
Las Casas conosce gli indiani meno di Cortés e li ama di più, ma entrambi si riconoscono in una
stessa politica di assimilazione, poiché la conoscenza non implica amore né questo quella:
conquistare, amare, conoscere sono comportamenti del tutto autonomi.

Per quanto riguarda il primo di questi assi, il piano assiologico, la figura emblematica è Las Casas,
anche se bisogna premettere che, nel corso della sua lunga vita, egli attraversò una serie di crisi e
trasformazioni, che lo portarono ad assumere posizioni tra loro distinte nei confronti degli indiani: il
suo atteggiamento nei loro confronti non è lo stesso prima o dopo la sua rinuncia agli schiavi che
possedeva, nel 1514, ma neppure prima e dopo il 1523, anno in cui diventa domenicano, ed
ancora, cambia nel 1550, dopo il fallimento di molti dei suoi progetti politici, in seguito allo studio
dei sacrifici umani presso gli aztechi.
E' interessante aggiungere che, per Sepùlveda, erano proprio questi riti che dimostravano nel
modo più inequivocabile la inferiorità degli indiani.

Il suo ragionamento, in un un primo lo porta a dire che, sebbene il cannibalismo ed i sacrifici


umani fossero condannabili, ciò non significava che si dovesse muovere guerra a coloro che li
praticavano, affermando poi che è necessario anche considerare il rispetto per le leggi, uguale sia
per gli spagnoli sia per gli indiani, che evidentemente imponevano, nella civiltà indiana, il
sacrificio: se la legge imponeva il sacrificio, ovviamente non si poteva biasimare il singolo per
questo; egli ricorda inoltre che il sacrificio umano non è poi così estraneo neppure alla religione
cristiana, come dimostra il comando dato da Dio ad Abramo di sacrificare suo figlio Isacco
(Apologia, 37), o il sacrificio della figlia di Jefte in Giudici, 11, 30-40.Analogamente, Las Casas
rendeva più vicino agli spagnoli il cannibalismo ricordando i casi in cui gli stessi soldati di Cortés, a
causa della fame, erano stati costretti a mangiare chi il fegato chi la coscia di un compatriota. Las
Casas poi, dopo aver mostrato la non eccezionalità sia dei sacrifici sia del cannibalismo, si spinge
a dire che il sacrificio umano è accettabile non solo per ragioni di fatto, ma anche per ragioni di
diritto: il suo ragionamento si articola in tre punti:

• Ogni essere umano ha una conoscenza intuitiva di Dio

• Gli uomini adorano Dio secondo le loro capacità e a modo loro, cercando sempre di fare il
meglio che possono

• La più grande prova d'amore che si possa dare a Dio, consiste nell'offrirgli ciò che si ha di
più prezioso, e cioè la stessa vita umana

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• Il sacrificio, dunque, esiste per una legge naturale, e le sue caratteristiche saranno
regolate, per quanto concerne la natura dell'oggetto sacrificato, dalle leggi umane

Las Casas finisce, con tali ragionamenti, per adottare una nuova posizione, inventando quello che
oggi si chiama "prospettivismo" religioso: ciò che è ora in comune non è il dio cristiano, ma l'idea
di divinità, quella che noi chiameremmo religiosità, più che religione.
Egli, dunque, pur affermando l'esistenza di un unico Dio, non privilegia a priori la via cristiana a
Dio, e l'eguaglianza non si paga più, come invece capitava nelle fasi precedenti della sua vita, al
prezzo dell'identità, poiché ciascuno ha il diritto di avvicinarsi a Dio per la strada che più gli si
confà.
Una volta applicato questo principio alla religione, risulterà assai facile a Las Casas provare la
relatività della nozione di "barbarie", poiché ognuno è il barbaro di un altro, se parla una lingua che
l'altro ignora: in questa affermazione dell'eguaglianza a danno della gerarchia, Las Casas si
ricollega ad un tema cristiano classico, come dimostra il riferimento a san Paolo.
Giova notare però che questo tema dell'egualitarismo cristiano era all'epoca assai ambiguo,
poiché tutti si richiamavano allo spirito del cristianesimo, sia i cattolici, lo stesso Las Casas in
primis, che partendo da questo presupposto vedevano gli indiani come propri uguali e dunque
tentavano di assimilarli, sia i protestanti, che mettevano in luce le differenze ed isolavano le loro
comunità da quelle degli indigeni: questi casi, benché antitetici, negano una identità all'altro, sul
piano dell'esistenza, per i cattolici, o sul piano dei giudizi di valore, per i protestanti. Las Casas
invece, negli ultimi anni della sua vita, scopre quella forma superiore di egualitarismo che è il
prospettivismo, nel quale ognuno è messo in rapporto con i propri valori, anziché essere
commisurato ad un ideale unico.

E' interessante, per meglio capire lo spirito di un epoca, occuparci della disputa sulla natura finita
o infinita del mondo, e, di conseguenza, sull'esistenza o meno di una gerarchia interna al mondo:
Giordano Bruno, domenicano come Las Casa, nel suo trattato De l'infinito, universo e mondi,
contrappone le due concezioni, la prima, di matrice aristotelica, che affermava il carattere finito del
mondo e la necessità della gerarchia (difesa, in questo dialogo, da un aristotelico come
Supùlveda), e la seconda che affermava la relatività delle posizioni nello spazio fisico, e negava
l'esistenza di qualsiasi posizione privilegiata:): non solo la terra non è il centro dell'universo (come
già aveva detto, quarant'anni prima, l'astronomo Copernico), ma nessun punto fisico lo è, ed anzi,
la stessa nozione di centro ha senso solo in relazione ad un punto di vista particolare, e sia centro
sia periferia sono nozioni puramente relative, ancora più di quanto lo siano quelle di civiltà e
barbarie:
Mentre Giordano Bruno, non dimentichiamolo, pagò con la vita queste sue affermazioni, Las
Casas non ebbe fastidi, neppure nei suoi ultimi anni: i suoi progetti politici non suscitano obiezioni,
anche se consigliavano al re di Spagna di rinunciare ai suoi possessi oltre l'Atlantico, lasciando
agli Stati indiani i loro vecchi governanti, predicandovi il Vangelo senza l'appoggio degli eserciti:
Las Casas arriva così ad affermare che gli indiani devono decidere autonomamente del loro
destino, così come già aveva detto della loro vita religiosa.
Riguardo al secondo asse, quello dell'assimilazione o di identificazione con l'altro, la prima figura
che prendiamo in esame è quella di Vasco de Quiroga, membro della seconda Udienza del
Messico, ed appartenente cioè al potere amministrativo: egli resta fermo in una posizione
assimilazionista, ma non vuole assimilare gli indiani alla Spagna del suo tempo, ma ad una terza
realtà, ricreando una sorta di età dell'oro sulla base degli insegnamenti dell'Utopia di Tommaso
Moro: il suo assimilazionismo, dunque, è incondizionato, anche se originale.
Gli esempi invece di identificazione totale con la cultura e la società indiane sono assai rari, ed il
più puro è quello di Gonzalo Guerrero,

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naufragato sulle coste del Messico nel 1511 e divenuto, come ci racconta Diego de Landa, un
capo militare indiano, sposato con una donna indiana d'alto rango, egli si rifiutò di raggiungere le
truppe di Cortés quando questi sbarcò nello Yucatàn, e si dice anche che egli combatté a lungo
con gli eserciti dei conquistadores. Il caso di Alvar Nùnez Cabeza de Vaca è invece più
complesso: anch'egli, come Guerrero, si trova ad essere isolato e senza possibilità di contatto con
la Spagna, in seguito ad un naufragio in Florida: con alcuni compagni, allora, si trova costretto a
vivere fra gli indiani e come gli indiani, intraprendendo un viaggio a piedi durato otto anni, al
termine del quale riuscirà a raggiungere il Messico. I suoi giudizi sugli indiani non
sono originali, e appaiono simili a quelli di Las Casas: egli li stima e non vuole far loro dei torti,
ritenendo che l'evangelizzazione deve avvenire senza violenza; la sua diversità dal frate
domenicano sta nel fatto che egli ha una conoscenza precisa e diretta del modo di vivere indiano,
e la sua narrazione dei paesi che via via attraversa, è per noi assai ricca di notizie sulla vita
spirituale e materiale delle popolazioni. Il piano che però
ci interessa di più, nei suoi riguardi, è quello della identificazione, poiché egli, per sopravvivere, è
costretto ad esercitare due mestieri, il primo di venditore ambulante, che percorre
incessantemente l'itinerario tra la costa e l'interno, portando a ciascuno gli oggetti che gli mancano
e che sono invece disponibili presso gli altri, ed il secondo di guaritore: egli dunque adotta i
mestieri degli indiani, si veste o resta nudo come loro, mangia come loro, ma l'identificazione non
è mai completa, poiché c'è una giustificazione europea che gli rende gradevole il mestiere di
guaritore (il potere, con questo sistema, proseguire il viaggio e raggiungere i suoi compatrioti) e vi
sono preghiere cristiane nei riti di guarigione da lui operati; egli, inoltre, tiene un diario, prassi
tipicamente occidentale, e si dimostra, malgrado la forte integrazione con gli indiani
straordinariamente felice di incontrare altri spagnoli.
Egli non ha nulla di un Guerriero, e quando riuscirà a raggiungere il Messico, non rimetterà più
piede in quelle terre; è però assai interessante l'episodio, raccontato da Cabeza de Vaca,
dell'incontro tra indiani, che lo accompagnano, ed un gruppo di spagnoli: egli, dopo aver
assicurato agli indiani che i suoi compatrioti non avevano alcuna intenzione ostile, si vede
ingannato da questi, ed arriva a scrivere in questo caso non ci sono più due parti, noi (i cristiani) e
loro (gli indiani), ma tre, cioè i cristiani, gli indiani e noi, che non sappiamo chi esattamente siano,
se esterni ad entrambi i mondi per averli entrambi vissuti dall'interno.
Un altro ottimo esempio di come si possa andare lontano sulla strada della conoscenza degli
indiani, rimanendo però assai distanti dalla identificazione, ce lo dà Diego de Landa, che deve
infatti la sua fama ad un duplice gesto: egli è, da un lato, l'autore della Relaciòn de las cosas de
Yucatàn, il più prezioso documento sul passato dei maya che noi possediamo, e, dall'altro lato, è
l'istigatore di numerosi autodafé, nel corso dei quali furono bruciati tutti i libri maya esistenti
all'epoca, come egli stesso riferisce, proprio nella sua Relaciòn (41).
Due personaggi, che meritano una trattazione più ampia, ci paiono assai significativi di questo
interesse per la conoscenza degli indiani affiancato però da un totale disconoscimento di ogni
identificazione: Diego Duràn e Bernardino Sahagùn.
Diego Duràn nacque in Spagna verso il 1537, ed andò a vivere in Messico all'età di cinque o sei
anni, ed acquisì una comprensione della cultura indiana, data la sua lunghissima permanenza sul
continente americano, che nessuno poté eguagliare nel XVI° secolo.
Qualche anno prima della sua morte, avvenuta nel 1588, Duràn compilò, per il periodo compreso
tra il 1576 ed il 1581, una monumentale Historia de las Indias de Nueva Espana e Islas de Tierre
Firme, composta di tre sezioni, le prime due sulla religione azteca e la terza sulla loro storia;
quest'opera fu pubblicata sono nel XIX° secolo.
Le motivazioni della stesura di un'opera di tale mole sono molteplici: da un lato, Duràn è il
convinto evangelizzatore, che sostiene che la conversione degli indiani deve passare attraverso

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una migliore conoscenza della loro antica religione, dato che, secondo lui, per imporre la religione
cristiana bisogna estirpare ogni traccia di paganesimo, e per farlo è necessario anzitutto
conoscerlo bene.

Per potere estirpare le idolatrie, dunque, bisogna conoscerle, ma il clero dell'epoca è ignorante, e
spesso i preti si accontentano di una conoscenza della lingua estremamente superficiale: Duràn
racconta che, ad esempio, i monaci scambiavano un certo tipo di tonsura, legato alle pratiche
pagane, con un omaggio nei loro riguardi, perché simile alla loro tonsura.
Egli dunque rimprovera aspramente coloro che avevano bruciato i libri antichi, poiché essi non
avevano fatto altro che rendere più difficile il lavoro di evangelizzazione
Egli non è contrario in linea di principio agli autodafé, cioè ai roghi dei libri degli indiani, e dubita
invece che siano il mezzo più adatto per lottare contro il paganesimo; Duràn, poi, nella lotta tra
domenicani e francescani, sceglie il partito rigorista e sostiene l'idea di una conversione totale.

Quello fino ad ora descritto è uno dei volti di Duràn, quello del cristiano rigido, intransigente,
difensore della purezza religiosa, contrario ad ogni forma di sincretismo: ma vi sono moltissimi
passi, nella sua opera, in cui, con meraviglia dei lettori, egli si dilunga nell'elencare tutti i numerosi
punti di contatto tra spagnoli ed indiani: Duràn arriva a scoprire, negli antichi riti pagani, un
numero di elementi cristiani così numeroso da apparire sconcertante: così, la festa di Tezcatlipoca
assomiglia al nostro giovedì santo, il sacrificio in onore di Chicomecoatl "sembrava quasi la notte
di Natale" (I, 14), la purificazione azteca per mezzo dell'acqua corrisponde al nostro battesimo, e
Tezcatlipoca, con le sue molteplici incarnazioni, altro non è che un travestimento della Trinità:
"Veneravano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, e li chiamavano Tota, Topiltzin e Yolometl.
Queste parole significavano Padre Nostro, Figlio Nostro e Cuore degli dèi: [...] ecco la prova che
questa gente sapeva qualcosa della Trinità" (I, 8).
Duràn dunque si appellava alla Inquisizione e scagliava anatemi contro coloro che mescolavano i
riti, proprio mentre esprimeva in lungo e in largo le infinite somiglianze tra la religione indiana e
quella cristiana.

Di tante somiglianze non potevano che esistere due spiegazioni: o gli indiani hanno ricevuto, in un
lontano passato, un insegnamento cristiano, ad opera di un qualche predicatore, oppure è stato il
demonio stesso a fare loro conoscere i riti cristiani, travestendoli e facendo così adorare lui
stesso.
Chiaramente Duràn propende per la prima ipotesi, individuando addirittura l'immaginario
predicatore in san Tommaso, ed arrivando infine, all'epoca in cui scrive il suo libro di storia, a
stabilire che gli aztechi, in realtà, altro non sono se non una perduta tribù di Israele: il primo
capitolo della sua storia: le prove di tale origine comune sono ancora delle analogie, a cominciare
dal fatto che sia gli ebrei e sia gli aztechi si moltiplicano in gran numero, entrambi hanno avuto un
profeta e dei terremoti, entrambi hanno ricevuto la manna dal cielo e conoscono i sacrifici umani.
Proveniente forse da una famiglia di ebrei convertiti, Duràn doveva già aver cercato di conciliare
religione cristiana e religione ebraica, e dunque vi è già forse in lui una predisposizione
all'ibridazione delle culture, che lo renderà un luogo di incontro tra civiltà europea e civiltà indiana,
l'esempio più compiuto, secondo il Todorov, di "meticcio culturale del XVI° secolo".

La sua ibridazione culturale si manifesta in vari modi, dei quali il primo e più evidente è il fatto che
egli condivide il modo di vita degli indiani, le loro privazioni e le loro difficoltà, e vivendo quella vita,
gli capita di accettare e persino di adottare quei comportamenti di cui sospetta il carattere
idolatrico; inoltre, Duràn è uno dei

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pochi individui in grado di comprendere veramente l'una e l'altra cultura, ed in grado cioè di
tradurre i segni dell'una in quelli dell'altra: il risultato di questa comprensione è l'inestimabile opera
scritta da Duràn sulla religione azteca, inestimabile perché è praticamente l'unica a non
accontentarsi di una descrizione dall'esterno, ma che cerca di capire il perché delle cose.
Un'altra dimostrazione della sua ibridazione culturale è data dalla evoluzione del punto di vista in
base al quale è scritta la sua opera: nei suoi libri sulla religione, ad esempio, i due punti di vista,
quello spagnolo e quello azteco, sono distinti, ma il naturale sincretismo di Duràn mette sempre in
pericolo ogni netta differenziazione; nel libro di storia poi, il discorso è ancora più complesso, dato
che Duràn ha sott'occhio un manoscritto in lingua nahuatl e lo sta traducendo in spagnolo,
confrontandolo se necessario con altre fonti; questo progetto, però, di compiere una pura e
semplice traduzione, non viene mantenuto nel corso del libro, evidentemente qualcosa di più di
una semplice traduzione, giacché Duràn rivendica per sé il ruolo di storico, il cui compito è
perpetuare la gloria degli eroi.

Duràn, da un lato, si è completamente identificato con il punto di vista azteco, ma dall'altro lato,
non è così, dato che non rimette mai in causa la sua fede cristiana: egli non è né spagnolo né
azteco, ma uno dei primi messicani, così come la Malinche.
Non bisogna dunque stupirsi se il giudizio da lui espresso sugli indiani e la loro cultura sia
profondamente contraddittorio: egli di sicuro non vede in essi né i buoni selvaggi né i bruti
sprovvisti di ragione, ma dice che, malgrado possiedano una mirabile organizzazione sociale ed
una notevole intelligenza, tuttavia persistono nella loro fede pagana, decidendo in tutta onestà di
conservare l'ambivalenza dei suoi sentimenti egli resta per noi una figura esemplare di ciò che egli
stesso chiama "il desiderio di sapere"
Bernardino de Sahagùn nacque in Spagna nel 1499, divenne, dopo gli studi all'università di
Salamanca, un frate francescano e, nel 1529, giunse in Messico, dove rimase fino alla morte,
avvenuta nel 1590.
La sua attività segue due grandi direttrici: l'insegnamento e lo scrivere. Appena giunto in Messico
impara a fondo la lingua nahuatl e diventa professore di latino al collegio francescano di Tlateloco;
il livello degli studi diventa, in breve tempo molto alto, ed è lo stesso Sahagùn a dirci che, già
intorno al 1540, dopo pochi anni di studi, i nobili messicani sono in grado di parlare, capire e
scrivere il latino e persino di comporre versi eroici (X, 27).
La seconda direzione lungo cui si orientano gli sforzi di Sahagùn è l'arte dello scrivere, attività in
cui egli sfrutta tutte le conoscenze acquisite nel corso dell'insegnamento: anche questa attività,
così come quella di insegnamento, incontra una serie di ostacoli, tanto che quasi tutte le sue
opere sono andate perdute, ed è quasi un miracolo che la sua Historia si sia conservata fino ai
nostri giorni.
La sua opera principale è la Histora general de las cosas de la Nueva Espana, ed il suo progetto
nasce, come per Duràn, da considerazioni religiose e dal desiderio di facilitare l'espansione del
cristianesimo: è necessario, per Sahagùn, se si vuole estirpare l'idolatria, conoscere a fondo le
usanze pagane, così come per un medico è necessario, per guarire una malattia, conoscere il
malato:
Accanto a questo chiaro motivo, però, ne esiste un altro, e cioè il desiderio di conoscere e
conservare la cultura nahuatl, e tale desiderio, ben più che in Duràn avrà il sopravvento
sull'interesse pragmatico, inducendo Sahagùn a prendere importanti decisioni: il testo della sua
Historia sarà redatto in base alle informazioni acquisite dai testimoni più degni di fede, e sarà
scritto in nahuatl dunque, sceglie bene i propri informatori e si assicura della veridicità dei loro
racconti, consulta gli antichi codici e se li fa spiegare, e, solo dopo aver stabilito definitivamente il
testo in lingua nahuatl, decide di aggiungervi una traduzione in spagnolo: contrariamente poi agli

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altri autori come Motolinia e lo stesso Duràn, il contenuto delle cui opere proviene dagli
informatori, ma il cui punto di vista è sempre quello di loro stessi, Sahagùn sceglie la strada della
fedeltà integrale e riproduce i discorsi da lui effettivamente ascoltati, aggiungendovi e non
sostituendovi la sua traduzione.
Il manoscritto, alla fine, viene illustrato, e tutto questo enorme lavoro dura circa quarant'anni: il
risultato è una enciclopedia della vita spirituale e materiale degli aztechi prima della conquista, il
ritratto di una civiltà destinata a sparire definitivamente nel giro di pochi anni.
Non bisogna pensare, dato che l'opera presenta sia una parte in lingua nahuatl sia una parte in
spagnolo, che nella prima siano solo gli informatori a parlare, e che gli interventi di Sahagùn si
possano riscontrare solo nella seconda: naturalmente la sua presenza è sempre costante, seppur
più discreta nella versione in nahuatl, ma è interessante notare le differenze tra le due versioni,
cioè i passi che in una delle due sono riportati e nell'altra mancano.
Nel testo spagnolo, infatti, subito dopo la descrizione del panteon azteco, Sahagùn aggiunge
questa apostrofe: a questo punto egli trascrive fedelmente in latino quattro capitoli della Bibbia
sulla idolatria ed i suoi nefasti effetti, a cui segue la vera e propria confutazione del paganesimo.
Questi interventi meritano attenzione soprattutto perché sono assai poco numerosi, e poi perché
sono nettamente separati dal testo che li circonda.
Sahagùn infatti, nella descrizione dei riti aztechi, rinuncia a qualsiasi giudizio di valore, e fornisce
soltanto il punto di vista degli indiani;
evidentemente Motolinia ha sotto gli occhi un racconto azteco, ma introduce, nel racconto del rito,
il proprio punto di vista, usando le parole "crudele", "vile" e "poveri infelici".
Vediamo invece come Duràn descrive una scena analoga:nessun aggettivo aggiunto dall'autore,
ma una narrazione in tono tranquillo, senza alcun giudizio di valore; fa invece comparsa
l'interpretazione, che era invece assente in Motolinia, con cui Duràn fa partecipe il lettore delle sue
conoscenze.
Lo stile di Sahagùn è ancora differente: rispetto a Motolinia, sono ancora assenti i giudizi di valore,
ma non troviamo più neanche l'interpretazione: Sahagùn descrive tutto dall'esterno, con molta
precisione tecnica.
Abbiamo visto come, nella descrizione di un sacrificio, Sahagùn non aggiunga nessun giudizio di
valore, ma quando si trova di fronte al panteon azteco, la sua scelta si fa ancora più difficile: egli si
compromette sia traducendo "dio" sia "diavolo", e dunque, non esistendo alcun termine neutro,
sceglie di usarli alternativamente entrambi: se il titolo del capitolo suona "L'origine degli dèi",
Parlando poi dell'acquisizione delle informazioni, ci accade di vedere che i questionari di cui
evidentemente Sahagùn si serviva, chiedendo, ad esempio, i poteri e i riti di un determinato dio,
escludono de facto alcuni temi, che non vengono mai neppure accennati: per fare un esempio
macroscopico, non veniamo a sapere nulla sulla vita sessuale degli aztechi, e, per giunta, fa quasi
sorridere come gli editori del XIX° secolo di questo libro, abbiano esercitato una consapevole
censura dei rari passi dell'opera contenenti dei riferimenti alla sessualità:
Venendo poi alla scelta degli argomenti operata da Sahagùn, gioverà ricordare che, anche se il
suo progetto dichiarato era la evangelizzazione degli indiani attraverso lo studio della loro
religione, non più di un terzo dell'opera tratta di questi argomenti: egli, forse data la ricchezza dei
materiali, decise infine di sostituire il suo vecchio progetto con un altro, cioè la creazione di una
enciclopedia del sapere azteco, in cui trovassero posto sia le cose divine sia le cose umane; se
non accettassimo l'esistenza di questa evoluzione degli intenti, dovremmo chiederci l'utilità
cristiana di una lunga ed approfondita descrizione del serpente acquatico (XI, 4, 3). Sahagùn
evidentemente inserisce tutto ciò che viene a sapere, senza preoccuparsi di quale posto possa
occupare quella informazione nel progetto iniziale: egli, partito dall'idea di utilizzare il sapere degli

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indiani per contribuire alla propagazione della cultura europea, arriva a fare il contrario, mettendo
il suo sapere al servizio della conservazione della cultura indigena.

Non si tratta però di affermare che egli ha abbracciato la causa degli indiani, dato che molti passi
della sua opera ce lo mostrano fermissimo nelle sue convinzioni cristiane, e ciò che sappiamo del
suo operato ci indica che egli si preoccupa della cristianizzazione dei messicani più di qualsiasi
altra cosa: la sua opera è, come quella di Duràn, un luogo di incontro di due voci, due culture e
due punti di vista.
Sul piano dei giudizi di valore, poi, egli aderisce alla posizione cristiana dell'eguaglianza di tutti gli
uomini, senza però che essa porti, come invece accade in Las Casas, ad una affermazione di
identità e ad una idealizzazione degli indiani, che conservano, così come gli spagnoli, i loro difetti.
Le conoscenze che ci fornisce sono ancora oggi una manna per gli etnologi, che effettuano quel
lavoro di interpretazione a cui egli non si è dedicato: Sahagùn non è però un etnologo, bensì un
etnografo, cioè un esperto nella raccolta di quei documenti di cui l'etnologo ha bisogno. In lui le
voci non sono mai sovrapposte, ma affiancate: la Bibbia accanto alla descrizione dei riti aztechi, e,
anche se per lui una sola di queste voci è la verità, tuttavia è possibile trovare nelle sue pagine i
primi abbozzi di un futuro dialogo, che annunciano il nostro odierno presente.

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LA PROFEZIA DI LAS CASAS

In quest'ultima parte del suo libro, il Todorov riprende alcune delle questioni sollevate nei capitoli
precedenti, esprimendo le sue convinzioni circa l'insegnamento che la sua opera può dare, e, più
in generale, circa il modo di rapportarsi all'altro.
Noi, consapevoli che in questo punto, più che in ogni altro del suo lavoro, il Todorov ha espresso
convinzioni ed idee personali, e dunque qualcosa di soggettivo, abbiamo ritenuto opportuno
seguire, come nel resto del lavoro, i suoi ragionamenti e lo sviluppo del discorso, indicando sotto
forma di citazioni le affermazioni che abbiamo ritenuto essere maggiormente "sue".

Queste parole, a mezza strada tra la profezia e la maledizione, sono di Bartolomé de Las Casas;
se i lettori pensano che la questione non li riguardi, sostituiamo a "Spagna" le parole "Europa
occidentale", e vedremo che in realtà ne siamo tutti coinvolti.. Molti avvenimenti della storia
recente paiono dare ragione a Las Casas, la schiavitù è stata abolita da circa cent'anni, e il
colonialismo vecchio stile è scomparso da trenta o quarant'anni. Molte vendette sono state
compiute e vengono compiute ancora, contro i cittadini delle antiche potenze coloniali, spesso
colpevoli solo di avere un certo passaporto: tali atti non potranno mai saldare il bilancio dei crimini
perpetrati dagli europei, ma non fanno altro che riprodurre quanto di più condannabile gli europei
hanno compiuto, ed è sempre triste vedere la storia ripetersi.

La storia della conquista dell'America fa notare come sia avvenuto un grande cambiamento,
all'inizio del XVI° secolo: a partire da quell'epoca, per circa trecentocinquant'anni, l'Europa
occidentale ha cercato di assimilare l'altro, di far scomparire l'alterità esteriore, e in gran parte c'è
riuscita: i suoi valori ed il suo modo di vita si sono diffusi in tutto il mondo, e, come voleva
Colombo, i colonizzati hanno adottato le nostre usanze e si sono vestiti.
Questo successo straordinario è dovuto, fra le altre cose, ad una specifica caratteristica della
civiltà occidentale, cioè alla capacità degli europei di capire gli altri: Cortés ce ne fornisce un
ottimo esempio, consapevole com'era del fatto che l'arte dell'adattamento e dell'improvvisazione
regolava il suo comportamento.
La sua condotta si organizza in due tempi: il primo è l'interesse per l'altro, anche al prezzo di una
certa identificazione provvisoria: Cortés si assicura la comprensione della lingua e la conoscenza
della politica, fino ad inviare messaggi in codice appropriato, facendosi passare per Quetzalcoatl
tornato a vivere sulla terra. Comportandosi in tal modo, però, Cortés non ha mai abbandonato il
suo senso di superiorità, che risulta anzi confermato dalla sua capacità di comprendere l'altro. Nel
secondo momento poi, egli riafferma la propria identità e assimila gli indiani al proprio mondo, così
come fanno i frati francescani, che adottano gli stessi costumi degli indiani, per meglio convertirli
alla religione cristiana.
Gli europei dimostrano notevoli qualità di elasticità e di improvvisazione, che permettono loro di
imporre dovunque con facilità il proprio modo di vita; la civiltà occidentale, dimenticando
l'estraneità dell'altro esteriore, assimilato o distrutto, si trovava un altro interiore, scoprendo la
bestia nell'uomo, l'instaurazione dell'inconscio può essere considerata come il punto culminante di
questa scoperta dell'altro in noi stessi.
Oggi questo periodo della storia europea è, forse, in via di esaurimento, giacché i rappresentanti
della civiltà occidentale non credono più alla sua superiorità, e dunque il movimento di
assimilazione si va spegnendo, anche se i paesi colonizzati continuano a voler vivere come gli
europei: qualcuno può vedere in

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questo la superiorità dei nostri valori, ma sul piano ideologico abbiamo il dovere di combinare
quanto di meglio abbiamo, cercando l'uguaglianza senza identità e la differenza senza che
degeneri in superiorità ed inferiorità. Vivere la differenza
nell'eguaglianza è cosa più facile a dirsi che a farsi, ma, nella storia della conquista dell'America,
molti vi si stavano avvicinando: sul piano assiologico, il vecchio Las Casas era giunto ad amare e
stimare gli indiani non in funzione del proprio ideale, ma del loro, ad un amore "neutro"
[l'espressione "neutro" riferita ad amore, rimanda al pensiero di Blanchot e Barthes]; sul piano
invece della assimilazione dell'altro o della identificazione con lui, Cabeza de Vaca arrivò anche lui
ad un punto neutro, non perché indifferente alle due culture, ma perché le aveva vissute entrambe
dal loro interno: senza diventare indiano, egli non era più spagnolo. La sua esperienza
simboleggia quella del moderno esule, che a sua volta personifica una tendenza tipica della
nostra società: è un essere che ha perduto una patria senza acquistarne un'altra, uno che vive in
una doppia esteriorità; parimenti, la nostra società ha perduto o sta perdendo i suoi vecchi valori,
senza peraltro acquisirne di nuovo. Sul piano conoscitivo, invece, Duràn e Sahagùn
preannunciavano, senza peraltro realizzarlo pienamente, il dialogo delle culture caratteristico del
nostro tempo: l'etnologia è figlia di questo dialogo in cui nessuna delle due voci ha l'ultima parola.
L'altro lato della medaglia è che il prospettivismo porta, nella nostra società, alla indifferenza e alla
rinuncia a qualsiasi valore, alla nascita di una società di esiliati, in cui il dialogo delle culture cessa
per la morte di queste: ad esso si sostituiscono l'eclettismo, il comparativismo, la capacità di
amare di tutto un po' e di simpatizzare per qualsiasi opzione senza abbracciarne mai alcuna.
La storia esemplare della conquista dell'America ci insegna che la civiltà occidentale ha vinto, tra
le altre cose, anche grazie alla sua superiorità nella comunicazione umana, ma ci insegna anche
che questa superiorità si è affermata a spese della comunicazione col mondo: usciti dal periodo
coloniale, proviamo il confuso desiderio di rivalorizzare questa comunicazione col mondo, come
dimostra il boom della new age, o, per fare un esempio un po' più vecchio, l'epoca degli hippies
americani degli anni sessanta, che, come gli indiani di Sepùlveda, volevano fare a meno
deldenaro, dimenticare i libri e la scrittura, mostrare indifferenza per il modo di vestire e rinunciare
all'uso delle macchine.
Queste comunità votate al primitivismo, erano destinate all'insuccesso, poiché coniugavano questi
aspetti primitivi materiali con una mentalità individualistica moderna: maggiore successo, ricorda il
Todorov, ha una formula offerta dal Club Méditerranée, che permette di vivere un tuffo nel mondo
primitivo, con la mancanza di denaro, libri ed eventualmente vestiti, senza mettere in discussione
la propria vita di esseri "civili". Analogamente, i ritorni alle religioni primitive od orientali non si
contano più, ma il ritorno al passato è sempre impossibile.
Il desiderio di superare l'individualismo della nostra società egualitaria e di accedere alla socialità
propria delle società gerarchiche si ritrova, tra l'altro, negli Stati totalitari.
Circa l'identità della sua opera poi, il Todorov osserva che l'adagio historia magistra vitae si sente
ripetere dall'epoca di Cicerone: se si ignora la storia, dice l'adagio, si rischia di ripeterla, ma, oltre
al fatto che noi non siamo più simili a coloro di cui parliamo, non è conoscendola che sappiamo
realmente cosa fare: non possiamo essere sicuri che, non comportandoci come i conquistadores,
non li imiteremo adattandoci alle nuove circostanze. La loro storia è esemplare nel senso che ci
permette di riflettere su noi stessi, di scoprire le somiglianze e le differenze: ancora una volta la
conoscenza di noi stessi passa attraverso quella dell'altro.
A conclusione del lavoro possiamo esprimere la speranza, non sappiamo quanto utopica, che
questa storia sia davvero, come il Todorov si augura, esemplare, e che dunque ciascuno di noi
possa arrivare personalmente, ogni giorno, a scoprire l'altro, ad accettarlo per quello che è, per i
suoi valori e le sue convinzioni, anche quelle che ci paiono le più assurde: sappiamo bene che
non è facile, ma crediamo con altrettanta forza che distruggere l'altro significa riconoscerne la

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pericolosità, e dunque pensare che le sue idee, in realtà, non siano affatto più sbagliate delle
proprie, ma anzi, che rischino concretamente di soppiantarle; riteniamo sia dovere dell'uomo
moderno cercare una strada alternativa, il dialogo invece della distruzione, quotidianamente e con
fatica: auguriamo a tutti noi di riuscirvi.

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