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PREMESSA

Fino a trent’anni fa la storia era per l’antropologia un terreno da evitare, un


luogo liminare buio e pericoloso; allo stesso modo gli storici nutrivano molta
diffidenza nei confronti delle ambizioni teoriche dell’antropologia.
Non mancavano ovviamente le eccezioni, soprattutto nel campo della storia
antica, il settore storiografico che ad inizio Novecento aveva intrattenuto un
dialogo positivo con l’antropologia, prima della separazione.
Il termine ‘’antropologia storica’’ aleggiava invece, pur senza esser mai
espresso, fin dagli anni Settanta, per esempio nei lavori sulla stregoneria e i
santi siriaci della Tarda Antichità di Peter Brown (1935).
Anche se egli non si è mai definito ‘’antropologo storico’’, leggendo i suoi lavori
ci si dimentica che non sono risultati di una ricerca sul campo.
I primi a parlare apertamente di ‘’antropologia storica’’ furono alcuni membri
della scuola dell’Annales, primo fra tutti Jacques Le Goff (1924-2014).
Come molti antropologi anche l’autore del libro ammette di essersi reso conto
delle potenzialità dell’archivio, come luogo che permette di reperire delle
fonti che, se interrogate correttamente, permettevano di studiare le società del
passato con metodi simili a quelli dell’antropologo.
A partire dagli anni Ottanta il numero di antropologi impegnati in ricerche
d’archivio è rapidamente cresciuto: una svolta che ha riguardato tanto gli
antropologi attivi in Europa, che i loro colleghi interessati a popolazioni
extra-europee.
Oggi, anche grazie all’importante filone della microstoria, gli antropologi
danno per scontata la necessità di coniugare storia e antropologia; allo stesso
tempo molti storici usano oggi strumenti antropologici.
Non è però facile per studenti e studiosi muoversi all’interno di questo ‘’filone
di frontiera’’, e questo per vari motivi, come la sterminata bibliografia e le
differenze nazionali.
Questo volume ha come scopo quello di fornire una guida agli antropologi e
agli storici.
Per arrivare a questa sarà però necessario ricostruire i rapporti tra la storia e
l’antropologia, analizzando le cause di quel clima di separazione che ha
dominato fino agli anni Sessanta e il successivo riavvicinamento.
Un riavvicinamento che è però oggi messo in discussione dalla critica post-
modernista, che ci ha reso consapevoli del fatto che non è tanto il passato a
creare il presente, quanto il presente a creare il passato secondo i propri
interessi.
Le argomentazioni postmoderniste vogliono soprattutto ‘’desacralizzare il
documento d’archivio’’, che però difficilmente verrà del tutto messo in secondo
piano dagli storici.
Al contrario però vi è il rischio che siano gli antropologi ad abbandonare
l’archivio, rompendo così il sodalizio che ha dato vita all’antropologia storica
e facendo venire meno lo scopo di quest’ultima: quello di comprendere i
comportamenti e le credenze di esseri umani lontani da noi nel tempo.
I) L’ANTROPOLOGIA STORICA:
NUOVA DISCIPLINA O TERRENO DI FRONTIERA?

Nel 1899 lo storico del diritto inglese Frederic William Maitland (1850-1906),
arrivò a sostenere durante una conferenza che l’antropologia si sarebbe
trovata di fronte alla scelta ‘’tra essere storia o essere nulla’’.
Nel cinquantennio successivo l’antropologia, soprattutto in Gran Bretagna e
Stati Uniti, decise di non essere storia, producendo risultati che portarono nel
1963 un giovane storico, Keith Thomas, a sostenere che era ora la storia a
dover scegliere se ‘’essere antropologia o essere nulla’’.
Con queste parole Thomas voleva invitare i colleghi a prestare più attenzione
al lavoro degli antropologi, e ad adottarne metodi e prospettive teoriche; un
consiglio che venne colto al balzo da uno storico eminente come Le Goff, che
definì l’antropologia come l’interlocutrice privilegiata della ‘’nuova storia’’.
Anche se l’esigenza di riavvicinarsi alla storia è stata sentita forse più dagli
antropologi, quello che importa è che questi scambi hanno portato
all’emergere di una nuova disciplina: l’antropologia storica.

1. UN’IDENTITÀ VARIEGATA: DIFFERENZE DISCIPLINARI E CONTESTI


NAZIONALI

È necessario osservare che il termine ‘’antropologia storica’’ è utilizzato più


dagli storici che dagli antropologi.
Il caso più eclatante è quello della Francia, dove già nel 1978 si fa riferimento
ad esso; in Inghilterra uno storico autorevole come Peter Burke non ha avuto
problemi ad adottarlo nel suo Historical Anthropology of Early Modern Italy del
1987; stessa situazione per l’Italia e la Russia.
Diverso il caso della Germania, dove l’antropologia storica ha conosciuto uno
sviluppo precoce, si pensi che già nel 1973 a Friburgo venne fondato un
Institut fur Historische Anthropologie.
Sempre in area tedesca si deve ricordare l’esperienza del 1976 del gruppo di
ricercatori (Berdahl, Medick, Sabean, Ludtke) dell’Istitut Max Plank di
Gottinga, guidati dall’antropologo britannico Jack Goody (1919-2005), che
elaborò una proposta per definire gli obiettivi dell’antropologia storica.
Un contributo importante è pervenuto anche dall’Istituto di storia economica e
sociale di Vienna.
Le scuole tedesche e austriache sono confluite poi nell’importante rivista
‘’Historische Anthropologie’’; purtroppo però la barriera linguistica costituita
dal tedesco rende ancora poco accessibile l’attività di questi gruppi.
I motivi dietro la propensione degli storici per il termine ‘’antropologia storica’’
va ricercato in almeno due diverse ragioni: il timore che questa diventi solo
un altro settore in cui si divide l’antropologia; nella tendenza della storia ad
impadronirsi di oggetti e metodi di ricerca delle altre discipline percepite
come rivali nella pretesa di dare una spiegazione globale della società.
Le differenze tra i vari paesi sono però ancora molto sensibili.
In Francia la tendenza ‘’annessionista’’ è indubbiamente un retaggio della
scuola dell’Annales, creando una continuità che ha favorito lo sviluppo
dell’antropologia storica.
In Austria e Germania invece essa si è fin da subito posta in antitesi con la
tradizione storiografica locale, meno innovativa rispetto a quella dell’Annales
(a cui si è guardato a lungo con freddezza).
In Austria e Germania si vuole dunque dare vita ad una disciplina capace di
separarsi dalla cosiddetta ‘’scienza storica’’.
I diversi orientamenti dipendono molto dal tipo di antropologia con cui gli
storici si sono confrontati.
Quando Thomas disse che la storia doveva divenire antropologia per salvarsi,
egli aveva in mente l’antropologia sociale britannica (e americana), che si era
allontanata dall’antropologia ‘’fisica’’, o come si preferisce dire oggi
‘’biologica’’, tipica del periodo tra XIX e XX secolo.
In Francia quanto in Germania ancora negli anni Sessanta il termine
‘’antropologia’’ indicava ancora quella ‘’fisica’’, che si occupava dell’uomo
come organismo fisico e della sua posizione nell’evoluzione biologica,
affrontando dunque temi come la differenza tra le razze.
In Francia si usava soprattutto il termine ‘’ethnologie’’, mentre nel mondo
tedesco si parlava di ‘’Volkerkunde’’ e ‘’Ethnologie’’; pare giusto chiedersi
dunque come mai nei due ambiti si sia imposto la definizione di antropologia
storica anziché quella di ‘’etnologia storica’’.
Le ragioni sono complesse e differenti: in Francia i primi storici che decisero
di seguire il suggerimento di Bloch e Febvre di avvicinare storia e
antropologia si avvicinarono all’ethnologie proprio quando questa veniva
rinnovata dallo strutturalismo di Claude Lévi-Strauss (1908-2009), che stava
adottando una dizione più anglosassone di antropologia.
Il progetto era quello di produrre una disciplina in grado di indagare tutta la
società, non solo i gruppi primitivi o contadini.
In Austria e Germania invece si era arrivati ad una situazione differente, che
vedeva le grandi scuole (Berlino, Vienna, Francoforte) in pieno declino, cosa
che costringeva gli storici tedeschi a rivolgersi alla Francia e al mondo anglo-
sassone, dal quale importarono il termine ‘’anthropologie’’.
Ancora oggi nei lavori degli antropologi storici tedeschi/austriaci si tende a
specificare questi non hanno nulla a che spartire con quanto in Germania sia
stato indicato come ‘’Anthropologie’’.
Questa infatti nel corso del regime nazista si era trasformata in una ‘’scienza
delle razze’’, accusata non senza fondamento di aver ‘’spianato la via verso
Aushwitz’’.
Per questo motivo l’antropologia storica in Germania e Austria si tiene
lontana da qualsiasi tipo di parentela con quella fisica; al contrario in Francia
alcuni temi di questa sono entrati anche nell’antropologia storica.
Il caso più significativo rimane ad oggi l’indagine condotta da Emmanuel Le
Roy Ladurie (1929) e da un gruppo di collaboratori sulle schede
antropometriche dei coscritti dell’Ottocento, conservate negli archivi militari.
Il progetto ha avuto come esito naturale la pubblicazione di un volume,
Anthropologie du conscrit français (1972), ma soprattutto ha permesso di
ottenere informazioni dirette e indirette sui coscritti: le loro professioni, il loro
grado di alfabetizzazione, la loro alimentazione.
Sembrava divenuto possibile, anche grazie alle allora più recenti tecniche
informatiche (Ladurie nutrì fin dall’inizio un notevole entusiasmo per il
computer, a tal punto da sostenere che lo storico del futuro avrebbe dovuto
‘’trasformarsi in un programmatore’’) ‘’storicizzare la biologia’’.
Quanto detto non deve però far pensare che si sia fatta antropologia storica
solo in Germania/Austria e Francia.
Un altro caso notevole è stato quello dell’Italia, dove storia e antropologia
hanno trovato un efficace connubio nei lavori della scuola microstorica,
rappresentata da Carlo Ginzburg, Giovanni Levi ed Edoardo Grendi.
Non si deve pensare inoltre che la reticenza di molti antropologi ad utilizzare
la definizione di ‘’antropologia storica’’ abbia impedito a questi di pubblicare
volumi di una certa importanza.
Sempre in Italia per esempio è stata costituita negli anni Novanta in seno
all’Associazione italiana di Scienze Etno-Antropologiche (AISEA) una Sezione di
Antropologia Storica.

2. LA CRESCITA DELL’ANTROPOLOGIA STORICA

L’antropologo britannico Edward Evans-Pritchard (1902-1973) si era fatto


paladino, fin dalla sua conferenza del 1961 intitolata ‘’Athropology and
History’’, di un riavvicinamento tra le due discipline.
Al di là dell’Atlantico era invece un altro antropologo, Bernard Cohn (1928-
2003), tentava un riavvicinamento con la storia; tanto Cohn, quanto Evans-
Pritchard, rimasero però molto isolati nel loro tentativo.
Una ventina d’anni più tardi il clima era invece cambiato notevolmente, in
quanto i libri di etnografia con un’indagine storica erano notevolmente
aumentati.
Addirittura nel 1984 Sherry Ortner profetizzò che, purtroppo per lei, molti
antropologi avrebbero avuto come simbolo focale proprio la storia.
Negli anni Ottanta effettivamente l’antropologia storica conobbe uno
sviluppo impressionante e imprevisto, al punto che già nel 1991 era
possibile citare quasi 300 studi pubblicati negli anni precedenti; studi che in
alcuni casi peccavano di ingenuità, ma condotti nel complesso con una certa
serietà.
Si trattava di una generazione di antropologi che entrava negli archivi con
molto rispetto e scrupolo.
Ad inizio del XXI secolo le cose erano cambiate ulteriormente: in primo luogo
a causa dell’espansione geografica dell’antropologia storica; in secondo si
doveva notare che la maggior parte delle ricerche erano condotte dagli
antropologi in Europa.
Il rinnovato legame storia-antropologia si accompagnò infatti alla crescita
degli studi di antropologia delle società complesse; cosa che era stata
predetta da Evans Pritchard già nel 1951.
Negli anni Settanta e ancora di più negli anni Ottanta gli antropologi si
accorsero della necessità di conoscere il passato delle comunità che erano
loro oggetto di studio.
Negli anni Novanta questa crescita si trasformò in un’esplosione, e questo
perché emerse la consapevolezza di poter studiare il passato anche di popoli
che si pensava non avessero una ‘’storia documentata’’.
Un esempio molto celebre sono gli studi di Marshall Sahlins (1930-2021)
sulle Hawaii, sulle Figi e sulla Nuova Zelanda, che dimostrarono come
esistesse una documentazione archivistica anche per gli abitanti dei mari del
Sud.
Il motto di Sahlins ‘’a diverse culture, diverse storicità’’ ha molto influenzato
l’antropologia storica degli anni Novanta, dilatandone gli orizzonti, che
cominciarono a coinvolgere anche la categoria dei subalterni (come donne e
bambini).
I confini tra antropologia e storia negli anni Ottanta rimasero comunque
abbastanza netti, al contrario di quanto accade negli ultimi anni, in cui per gli
antropologi è diventato necessario associare la ricerca etnografica con
indagini storiche più o meno approfondite.
La battaglia iniziata da Evans-Pritchard sembra dunque vinta oggi: ‘’[la
storia] ora si trova molto più vicina al centro dell’immaginazione etnografica e
antropologica’’ (James Faubion).
Eppure continuano a permanere delle problematiche: sul versante
antropologico vi è infatti il rischio già intravisto da Shelly Ortner nel 1984,
ovvero che questa estesa tendenza a coniugare antropologia e storia generi
genericità e ‘’pseudointegrazione’’.
Sul fronte degli storici si sente invece il timore che le tendenze interpretative e
postmoderniste che oggi influenzano l’antropologia possano influenzare
anche la professione storica.
Per questo motivo è possibile che molti storici negli anni a venire guardino
sempre con maggiore diffidenza all’antropologia.

3. STORIA, ANTROPOLOGIA E TEORIA

Si deve sapere che il già citato Bernard Cohn era inizialmente professore in
un dipartimento di storia, cosa che gli diede modo di osservare usi e costumi
della ‘’tribù degli storici’’.
Ciò che più lo colpì fu l’aurea di sacralità assegnata all’archivio, luogo in cui si
celebrava il ‘’culto dei fatti’’.
Addirittura l’antropologo Orvar Lofgren, quando ancora era studente di
storia, raccontava che molti storici ‘’cercavano prima le fonti e poi i problemi’’.
Questo atteggiamento positivista era più accentuato in alcuni paesi piuttosto
che in altri, tuttavia le differenti esperienze geografiche di Lofgren e Cohn ci
dimostrano che , intorno agli anni Sessanta del XX secolo , era il disinteresse
degli storici per la teoria a differenziare questi dagli antropologi.
Questo disinteresse creò un ambiente stagnante, che spinse molti ad
allontanarsi dalla storia, e che invece generò in altri un desiderio di
rinnovamento.
A quest’ultima categoria si deve ascrivere Eric Hobsbawm (1917-2012), che
già nel 1972 raccomandava agli storici di seguire dei modelli analitici e di
avere la propensione alla teoria dell’antropologia sociale.
Negli anni successivi però lo stesso Hobsbawm si è fatto più critico anche
della teoria, individuando come minaccia i ‘’branchi di teorici che si aggirano
intorno alle pacifiche mandrie degli storici’’.
Oggi gli storici attribuiscono alla critica letteraria la responsabilità della crisi
che sta vivendo la disciplina, dimenticando che fu l’influenza di alcune
correnti antropologiche, come lo strutturalismo di Lévi-Strauss e
l’antropologia interpretativa di Geertz, a spingerli su questa strada.
Gli stessi storici che anni fa suggerivano, pur senza particolare convinzione la
‘’fecondazione interdisciplinare’’, oggi sono i primi ad arroccarsi; un esempio
molto valido è proprio Hobsbawm, uno dei ‘’padri’’ dell’antropologia storica.
La situazione di oggi è assolutamente antitetica rispetto al passato: se una
volta antropologi come Malinowski e Lévi-Strauss erano indicati come nemici
della storia, essi vengono ora presentati come antesignani dell’antropologia
storica.
Anche il terreno in cui si muove l’antropologia è però oggi in via di
trasformazione, in quanto anche esso è stato travolto dal dibattito post-
modernista.
Il dibattito aperto da Clifford Geertz (1926-2006) ha portato a mettere in
discussione la stessa figura dell’etnografo.
Un momento di svolta importante è rappresentato dalla pubblicazione nel
1986 di Writing Culture di James Clifford e George Marcus, che hanno
sottolineato le affinità tra la produzione letteraria e quella antropologica,
mettendo dunque in luce la natura partigiana e incompleta di quest’ultima.
I critici della storia scientifica hanno invece sottolineato che la narrazione
storica necessita di un salto immaginativo al fine di collocare eventi e fatti
all’interno di una vicenda coerente.
Si arriva così al rimettere in discussioni i presupposti che avevano portato alla
nascita della storia intesa come disciplina accademica e professionalizzata nel
corso dell’Ottocento, oltre al precetto stesso che lo storico potesse ricostruire
la verità.
Rispetto a quanto accade nell’antropologia però , queste discussioni sono in
ambiente storico molto meno centrali: in Italia e Gran Bretagna l’attenzione
posta su questo è superficiale, in Francia c’è una situazione simile, mentre
negli Stati Uniti è stato molto acceso per merito dei lavori di Hayden White
(1928-2018).
Si deve notare che negli U.S.A. sono molti gli storici che considerano
l’antropologia corresponsabile della crisi aperta dal postomdernismo.
Sui primi lavori di White ebbe una netta influenza il pensiero di Lévi-Strauss,
egli in seguito ha rivolto a Geertz l’accusa di aver introdotto un eccessivo
soggettivismo e un relativismo estremo (in questo senso non appare più
come necessariamente conciliante la posizione di Sahlins sulle ‘’differenti
storicità’’).
Va detto in effetti che oggi anche tra gli antropologi storici vi è una tendenza
negativa al leggere sempre meno lavori storici, rispetto a quanto si faceva
fino a qualche anno fa.
Come ha osservato l’antropologo Anton Blok, oggi i suoi colleghi fanno
riferimento ‘’primariamente alle idee di altri antropologi’’.
Da queste informazioni è possibile comprendere quanto difficile sia definire
con esattezza il campo e le caratteristiche dell’antropologia storica.
A queste differenze si devono poi aggiungere quelle presenti in una stessa
disciplina: in Francia l’antropologia storica è stata da sempre vista come una
prosecuzione dell’attività dell’Annales, mentre nel mondo tedesco si è posta
in antitesi con la tradizione storica dominante.
L’antropologia storica pare dunque un terreno di frontiera, posta a metà tra
storia e antropologia: un terreno in cui, seppur non siano mancati gli scontri,
è emersa un’identità collettiva, legata comunque alla specificità dei singoli
contesti e delle situazioni.
Questa identità trova espressione in un canone non rigidamente definito, ma
condiviso, di letture; in definitiva si può affermare che l’antropologia storica
rimane un cantiere aperto a cui si sta cercando di costruire una stabile
impalcatura, che permetta di rifiutare quel dilettantismo che sembrava un
tempo superato.

4. ANTROPOLOGIA STORICA E STORIA DELL’ANTROPOLOGIA

L’obiettivo più urgente che l’antropologia storica dovrebbe porsi, a detta di


molti studiosi (in primis Gert Dressel), sarebbe quello di esplorare la propria
storia.
Questo compito pare per l’antropologia storica ancora più urgente rispetto ad
altre discipline in quanto una ricognizione del proprio passato aiuterebbe a
capire meglio le proprie caratteristiche peculiari.
Ogni sintesi è però complicata dal carattere interdisciplinare della disciplina:
è storia degli storici o degli antropologi? Quali storici? Quali antropologi?
Questo ‘’orizzonte di problemi’’ è complicato dal fatto che la stessa antropologia
non ha ancora raggiunto un livello soddisfacente riguardo la ricostruzione
della propria storia.
Fin dai primi decenni del XX secolo non sono mancati i tentativi di
riassumere la storia del pensiero antropologico, tuttavia queste ‘’storie’’
avevano soprattutto carattere pedagogico e persuasivo.
Un esempio può essere The Rise of Anthropological Theory (1968) di Marvin
Harris, una storia dell’antropologia scandita da un tono fortemente critico.
In antitesi al volume di Harris si pose invece Race, Culture, and Evolution
dell’americano George Stocking (1928-2013), storico di formazione.
Il confronto tra questi due volumi può risultarci molto utile: Harris infatti
privilegiò nel suo testo gli scritti degli autori più famosi, mentre Stocking
adottò una strategia diversa, basata sulla raccolta di tutta la letteratura
pubblicata nelle riviste americane di scienze sociali tra il 1890 e il 1915 (alla
fine analizzò 552 articoli, scritti da 228 autori diversi).
Stocking offriva in sostanza una più decisa lezione di metodo, sostituendo al
‘’presentismo’’ delle storie dell’antropologia (che tendevano ad interpretare il
passato in base al modello teorico impostosi in un dato periodo) uno
‘’storicismo’’ di stampo kuhniano.
Nei trent’anni che separano il 1968 dalla pubblicazione del testo di Viazzo
(uscito nel 2000) i termini ‘’storicismo’’ e ‘’presentismo’’ hanno cominciato ad
essere utilizzati per indicare modalità diverse di fare storia dell’antropologia;
anche se gli studi di stampo ‘’presentista’’ sono però stati accusati di
propagandismo, dilettantismo e ingenuità.
Il modello di Stocking venne ripreso da altri storici della scienza, che hanno
fornito un quadro complessivo sulle scuole evoluzionista e diffusionista, che
molte generazioni di studenti avevano conosciuto sotto la ‘’lente deformante’’
delle narrazioni diffusioniste.
Anche tra gli antropologi professionisti ci si è rifatti al modello di Stocking,
facendo sì che il numero di coloro che si occupavano di storia
dell’antropologia aumentasse; lo stesso Stocking fu tra i fondatori, nel 1983,
della rivista ‘’History of Anthropology’’.
La situazione odierna non è però ancora soddisfacente, in primo luogo poiché
gli studi procedono con lentezza, nonostante come detto il numero degli
storici dell’antropologia sia aumentato.
Il programma proposto da Stocking nel 1968 si reggeva su un deciso
realismo, ponendosi come obiettivo la sostituzione della ‘’storia’’ al ‘’mito’’.
Un programma che prestava ovviamente il fianco alle critiche
postmodernsiste, che non solo negano che lo storico possa arrivare a stabilire
quanto realmente è accaduto, ma che ritengono anche che il passato sia una
creazione del presente e che la storia non sia altro che lo strumento di
legittimazione/delegittimazione dell’attualità.
Nonostante Stocking fin da subito avesse individuato un ‘’problema storico’’
meritevole di essere discusso, è innegabile che le sue ricerche abbiano avuto
una ricaduta seria sulla didattica dell’antropologia.
Il suo programma ‘’storicista’’ presenta in definitiva molte più limitazioni di
quanto non sembrasse trent’anni fa; nonostante ciò Stocking fino all’ultimo ha
continuato a preferire la ricostruzione alla decostruzione.
Un atteggiamento sorto forse dalla volontà di arginare il ritorno ad un
‘’presentismo’’ non tanto diverso da quello dominante nella storia
dell’antropologia alla fine degli anni Sessanta del XIX secolo.
In qualche modo è dunque allarmante la denuncia presente in un articolo di
Herbert Lewis (1934) verso la tendenza di molte opere antropologiche a
ridurre tutta la storia del pensiero antropologico ad un ristretto numero di
autori famosi (Malinowski, Radcliffe-Brown, Geertz, Lévi-Strauss).
Lewis ha osservato che ‘’l’innalzamento del livello di autocoscienza storica’’ non si
è tradotto in un ampliamento delle conoscenze lungo la traiettoria disegnata
da Stocking.
La sfida postmodernista ha reso gli antropologi coscienti degli usi a cui si
presta la storia per la definizione di un campo disciplinare, eppure Lewis ha
dimostrato quanto facilmente in opere di storia dell’antropologia si possano
smentire posizioni polemiche che si basano su riferimenti del tutto erronei.
L’articolo di Lewis arriva a denunciare come miti delle rappresentazioni
dell’antropologia della prima metà del XX secolo, arrivando a sostenere che
l’idea che essa ad inizio del Novecento si sia costituita in opposizione alla
storia sia totalmente falsa.
L’articolo di Lewis ci mette di fronte alla necessità di riconsiderare i rapporti
tra antropologia e storia nei primi decenni del XX secolo, ma allo stesso
tempo ci dimostra anche quanto difficile possa essere il compito che Dressel
ha assegnato all’antropologia storica, ovvero l’esplorazione della sua storia.
II) ANTROPOLOGIA E STORIA: GLI ANNI DELLA
SEPARAZIONE (1922-1950)

Ogni storia richiede una periodizzazione, anche quella dell’antropologia.


Secondo alcuni studiosi la data di nascita dell’antropologia sarebbe il 1799,
anno in cui venne fondata a Parigi la Société des Observateurs de l’Homme, che
si proponeva di studiare l’uomo nella sua variabilità fisica/geografica/sociale/
linguistica.
Per altri il momento iniziale va collocato al 1871, quando sulle due sponde
dell’Atlantico venne pubblicati System of Consanguinity and Affinity of the
Human Family dell’americano Lewis Henry Morgan (1818-1881) e Primitive
Culture dell’inglese Edward Bunnet Tylor (1832-1917).
Indubbia è invece la data di nascita dell’antropologia moderna, collocata al
1922, considerato ‘’annus mirabilis del funzionalismo’’ in quanto i caposcuola
di questa corrente, Bronislaw Malinowski (1884-1942) e Alfred Radcliffe-
Brown (1881-1955) pubblicarono le loro monografie Argonauts of the Western
Pacific (il primo) e The Adaman Islanders (il secondo).
Sempre nel 1922 moriva anche il principale antropologo pre-funzionalista,
William Rivers (1864-1922).
Il 1922 rappresenta dunque il momento di rottura con il filone
dell’antropologia evoluzionistica di Morgan e Tylor e con i critici di questi,
Rivers in Gran Bretagna e Franz Boas (1858-1942) negli U.S.A, costoro fautori
del filone ‘’diffusionista’’.
Malinowski e Radcliffe-Brown contribuirono in maniera decisiva alla
rifondazione dell’antropologia su nuove basi e sull’esclusione della storia.

1. LA NASCITA DELL’ANTROPOLOGIA SOCIALE BRITANNICA E


‘’L’ESCLUSIONE DELLA STORIA’’

Il programma dell’antropologia evoluzionista del XIX secolo è perfettamente


espresso nel testo di Morgan Ancient Society.
Gli antropologi evoluzionisti cercavano di ricavare dallo studio della società
le leggi fondamentali che portavano dalla barbarie all’evoluzione.
Come notava anche Franz Boas, questo programma aveva alla sua base un
genuino interesse, che in seguito si sarebbe però limitato alla semplice
registrazione di curiose abitudini e credenze di popolazioni lontane.
Questo modo di fare antropologia poggiava però su un presupposto
discutibile, ovvero l’accettazione di un’evoluzione lineare, che conosceva gli
stessi passaggi ovunque.
Per Boas invece gli stessi fenomeni si sviluppavano in modalità differenti in
luoghi differenti.
Il metodo comparativo degli evoluzionisti era pertanto rifiutato da Boas, che
notava nei lavori di questi una tendenza alla semplificazione che rendeva
astoriche le loro grandi ricostruzioni.
L’antropologo tedesco, ma naturalizzato statunitense, proponeva invece un
modello capace di descrivere la vita umana nella sua variabilità e
complessità.
Questo metodo era proprio il metodo storico, che gli evoluzionisti avevano
abbandonato per andare alla ricerca delle leggi universali che regolavano la
società.
La proposta di Boas è vicina tra l’altro alla celebre profezia di Maitland, che
parlando di antropologia, voleva riferirsi proprio a quella degli evoluzionisti.
Maitland aveva esposto la sua posizione in modo molto chiaro all’interno di
una celebre opera, il Domesday Book and Beyond (1897), in cui aveva analizzato
il Domesday Book (lett. ‘’libro del giorno del giudizio’’), il più antico catasto
terriero inglese, voluto da Guglielmo il Conquistatore.
Analizzando questa straordinaria fonte Maitland ebbe modo di recuperare
numerose informazioni sulla popolazione inglese e i suoi usi/costumi.
Egli andò però anche al di là (‘’beyond’’ per l’appunto) il Domesday Book,
andando a studiare anche l’Inghilterra degli precedenti alla conquista
normanna.
Maitland notò così che l’Inghilterra anglo-sassone non aveva conosciuto una
lineare evoluzione nelle idee giuridiche, ma che spesso si era arrivati alla
retrointegrazione di concetti antichi.
Notando questo diveniva per lui ovvio che il paradigma evoluzionista fosse
‘’pigro e poco scientifico’’, in quanto ‘’I nostri antenati anglo-sassoni non arrivarono
all’alfabeto, o al Credo niceno, attraversando una lunga <<serie>> di stadi; essi
saltarono all’uno e all’altro’’.
Il testo di Maitland costituisce un vero e proprio manifesto diffusionista,
anche se sarebbe stato riconosciuto come tale solo una ventina d’anni più
tardi.
Questo manifesto prevedeva in primo luogo di non allontanarsi troppo dal
paese o dal periodo oggetto di studio, andando dunque a circoscrivere
l’indagine ad un’area limitata (come sosteneva Boas).
Nonostante anche gli antropologi evoluzionisti, come Morgan e Tylor,
avessero avuto delle esperienze sul campo, era divenuto sempre maggiore il
numero di ‘’antropologi da tavolino’’, più concentrati sulla ricerca delle leggi
fondamentali dell’evoluzione che sulla raccolta sul campo di dati etnografici.
L’obiettivo era quello di ridurre la distanza tra lavoro etnografico e teorico.
Uno dei primi importanti sostenitori del diffusionismo fu il geografo tedesco
Friedrich Ratzel (1844-1904), che a seguito di alcuni viaggi in Africa cominciò
a dubitare delle teorie evoluzioniste; Boas aveva invece condotto ricerche
sugli Eschimesi e sulle popolazioni amerindiane della costa Nord-occidentale.
Un ruolo di spartiacque va attribuito anche alla celebre spedizione allo
Stretto di Torres del 1898, quella guidata dal Alfred Haldon, docente di
zoologia a Dublino e di antropologia fisica a Cambridge.
Le ricerche antropologiche, condotte nel braccio di mare che separa Nuova
Zelanda e Australia, vennero condotte sulla base di un modello di indagine
‘’estensivo’’.
Questo però avrebbe mostrato tutti i suoi limiti (largo uso di interpreti, uso
di tecniche particolari per raccogliere dati nel minor tempo possibile) già
negli anni precedenti alla Grande Guerra, venendo criticato persino dallo
stesso Rivers, che ne era stato tra i principali fautori.
Nel 1913 Rivers parlava già di una nuova modalità di fare ricerca, che
prevedeva che l’antropologo vivesse per un anno nella comunità che si
prefiggeva di studiare.
Il metodo ‘’intensivo’’ non venne dunque inventato da Malinowski, furono
delle particolari circostanze che in qualche modo lo obbligarono ad adottare
questo modello (egli fu costretto a rimanere alle Trobriand per tutta la durata
della Grande Guerra).
Il testo prodotto dalla sua fondamentale esperienze, Argonauts of the Western
Pacific, mostrò vantaggi e potenzialità del metodo e intensivo con una
persuasività maggiore rispetto ai lavori di chi prima della guerra aveva già
adottato la proposta di Rivers.
Argonauts of the Western Pacific contiene la codificazione del concetto di
‘’osservazione partecipante’’.
Malinowski indicò nuovi obiettivi per l’etnografia, che avrebbe dovuto
seguire tre linee di indagine: ricostruzione dell’ordine sociale del gruppo
sociale studiato; trascrizione di testi in lingua locale; registrazione dei
comportamenti dei locali, per come si manifestavano di fronte alla vita reale.
Ciò che Malinowski proponeva era di ‘’afferrare il punto di vista dell’indigeno…
rendendosi conto della sua visione del suo mondo’’.
L’esempio di Malinowski dimostrava che seguendo il metodo di Rivers si
poteva cogliere la complessità della vita sociale osservata dall’etnografo, ad
assegnare alle emozioni e ai problemi esistenziali dei nativi una posizione
centrale, a ripercorrere la rete di relazioni sociali che davano senso a rituali/
istituzioni/funzioni sociali anche senza la genesi storica.
Lo studioso polacco manifestò più volte una certa ostilità per l’uso di metodi
storici in antropologia, arrivando ad affermare addirittura l’inutilità delle
fonti d’archivio, affermando che fosse importante solo ‘’la storia che sopravvive
o in tradizioni ancora vitali o nel funzionamento delle istituzioni’’.
Il rifiuto della storia in Malinowski non si manifesta con un aperto rigetto,
ma con un atteggiamento di sottile persuasione che vuole convincere il lettore
che la ricostruzione storica non è importante per spiegare il funzionamento di
un’istituzione.
Eppure anche in Argonauts of the Western Pacific vi è un passo che rivela un
debito metodologico nei confronti della scienza storica, quando si afferma
che l’etnografo è ‘’cronista e storico allo stesso tempo’’.
Questo ha a sua disposizioni fonti di facile accesso, ma pericolosamente
elusive in quanto non fissate su documenti, bensì presenti nella memoria
degli uomini.
L’etnografo era dunque costretto ad indicare le sue fonti, ma solo dopo
averle analizzate criticamente.
Nonostante dunque Malinowski si fosse dimostrato già nel 1913, in The
Family among the Australian Aborigenes, critico delle teorie storiche, egli
riconosceva alla storia un certo rigore metodologico.
Le fonti etnografiche infatti ‘’non differiscono essenzialmente da quelle storiche….
Le regole di critica delle fonti che si applicano alla nostra disciplina così come a
qualsiasi altra scienza storica’’.
Oltre a Malinowski anche Marcel Mauss (1872-1950) si lamentava, all’interno
di uno studio sulla preghiera del 1909, che anche all’interno della ricerca
sociologica si sarebbe dovuto adottare l’approccio che la storia utilizzava con
le sue fonti.
Questi esempi ci dimostrano che negli anni ‘’formativi’’ dell’antropologia
sociale, i suoi pionieri non erano ignari e sprezzanti del metodo storico.
Nel suo plurimenzionato discorso del 1899, Maitland aveva rimproverato
all’antropologia proprio lo scarso rigore nella critica delle fonti.
Si deve comunque ricordare che Mauss nutriva una certa avversione nei
confronti della tendenza degli storici di rendere la critica lo scopo della
ricerca; Malinowski avrebbe invece sempre distinto le fonti dello storico da
quelle ‘’elusive e complesse’’ dell’etnografo.
Sarebbe giusto domandarsi se proprio questa dimestichezza con la critica
storica di fine Ottocento abbia contribuito all’allontanamento delle due
discipline nel periodo tra i due conflitti mondiali.
L’avversione fu resa esplicita nel 1922, anno in cui Radcliffe-Brown pubblicò
The Adaman Islanders, in cui venivano descritti gli studi sulle popolazioni
dell’arcipelago bengalese delle isole Andamane.
L’opera di Radcliffe-Brown fu fortemente influenzata dall’ultimo lavoro di
Emile Durkheim (1958-1917), Le forme elementari della vita religiosa del 1912.
Per Radcliffe-Brown i costumi delle popolazioni andamanesi non erano altro
che il prodotto di un lungo processo evolutivo, che sarebbe stato impossibile
da ricostruire ‘’in assenza di qualsiasi documentazione storica’’.
Pertanto risultava più promettente lo studio sul ‘’significato’’ (‘’meaning’’) di
un costume, della sua funzione sociale.
L’antropologo era chiamato a spiegare il significato che un costume aveva
all’interno dell’organismo sociale.
L’assenza di documentazione storica e l’inutilità di ricostruzioni ipotetiche
del passato divennero negli anni due punti cardini del pensiero di Radcliffe-
Brown.
In un importante articolo de 1923 sui metodi dell’antropologia sociale e
dell’etnologia, Radcliffe-Brown lamentava la sua insofferenza per la mancata
distinzione tra etnologia e antropologia sociale.
Nel testo, destinato a divenire una carta di rifondazione dell’antropologia
sociale, l’antropologo britannico distingueva due metodi: quello ‘’induttivo’’
e quello ‘’storico’’.
Radcliffe-Brown proponeva di usare il termine ‘’etnologia’’ per indicare gli
studi che si servivano del metodo storico, e quello di ‘’antropologia storica’’ per
indicare quelli che si servivano del metodo induttivo.
Egli non nascondeva una scarsa empatia per il metodo storico, ma non poteva
negare che in presenza di dati storici adeguati esso potesse essere usato per
studiare i fatti di una cultura.
Tuttavia questo era inadatto per lo studio dei popoli non civilizzati, poiché
su di essi ovviamente non si possedevano dati storici.
Ciò che rese l’articolo del 1923 la carta di fondazione dell’antropologia sociale
fu però soprattutto l’ardore nel voler proporre questa come scienza
indipendente e dotata di un proprio campo di indagine; la stessa
rivendicazione fatta da Durkheim per la sociologia sin dal 1895.
Radcliffe-Brown voleva distinguere etnologia e antropologia sociale, creando
una chiara gerarchia: l’etnologia poteva infatti offrire all’antropologia sociale
solo pochi elementi nuovi, in quanto disciplina antiquaria e priva di utilità.
Al contrario l’antropologia sociale poteva fare a meno dell’etnologia: una
visione egemonica che avrebbe trionfato in Gran Bretagna e negli altri paesi
del Commonwealth, venendo invece respinta totalmente in Germania, Italia,
Francia e nel resto dell’Europa continentale.
Diverso il caso degli Stati Uniti, dove molti antropologi di spicco non
avevano problemi farsi chiamare etnologi e rimanevano fedeli al metodo
storico.
Fu proprio qui che si spostò Radcliffe-Brown nel 1931, anno in cui cominciò
ad insegnare antropologia presso l’Università di Chicago.

2. IN AMERICA: BOAS, KROEBER E RADCLIFFE-BROWN

Se è vero che fu Malinowski che fornì all’antropologia sociale i suoi metodi di


ricerca, allo stesso tempo è innegabile che fu Radcliffe-Brown a darle una
decisa impronta teorica.
Egli si formò presso la scuola antropologica di Cambridge, dove in seguito
tenne anche dei corsi.
Tra il 1921-1926 egli divenne professore di antropologia presso l’Università di
Città del Capo; poi si spostò a Sidney, dove rimase fino al 1931, anno in cui fu
chiamato a Chicago.
Nel 1937 ottenne la cattedra di antropologia sociale ad Oxford, dove insegnò
sino al 1946, quando decise di ritirarsi; morì nel 1955.
A Chicago l’antropologia aveva conosciuto un’anomala vicenda istituzionale
e intellettuale: nel 1892, assieme alla stessa Università, era sorto anche il
‘’Departmente of Sociology and Anthropology’’.
Nel 1929 venne costituito un dipartimento di antropologia autonomo, e nel
1931 venne chiamato proprio Radcliffe-Brown, che si trovò in un ambiente
per lui congeniale, nonostante nell’ateneo avessero ancora molto peso le
teorie e gli allievi di Boas.
Il pensiero di Boas non solo ancora dominante negli U.S.A., ma soprattutto si
poneva in antitesi rispetto a quello dell’antropologo britannico, visto che
presupponeva la possibilità di studiare il passato anche quando le fonti
convenzionali erano scarse o addirittura inesistenti.
Quando Radcliffe-Brown giunse a Chicago, Boas aveva appena ribadito
l’essenzialità della ricerca storica: ‘’il materiale dell’antropologia è tale che essa
deve di necessità essere una scienza storica’’.
Nel 1932 Boas aveva ormai superato i settant’anni, ma la sua era una voce
ancora dotata di una tale autorità che spinse Radcliffe-Brown ad organizzare
una ‘’tavola rotonda’’ proprio su questo tema.
Si arrivò ad una disputa pubblica solo nel 1934, quando il più importante
allievo di Boas, Alfred Kroeber, pubblicò un breve saggio sui sistemi di
parentela (per lui ‘’immagini più che imperfette delle organizzazioni sociali’’),
affermando che essi fossero anche sistemi di pensiero dotati di un’esistenza
storica.
Radcliffe-Brown replicò nel 1935, parlando della necessità di distinguere fra
due tipi di storia: una documentata dallo storico; l’altra quella ‘’ipotetica’’ di
cui si occupa l’etnologo.
I problemi portati avanti da Kroeber potevano essere affrontati attraverso la
storia autentica, di cui però i sociologi non erano in possesso, condizione che
però non doveva spingerli ad accettare la ‘’storia ipotetica offerta dall’etnologo’’.
Radcliffe-Brown sosteneva poi che ogni tipo di confusione sarebbe venuta
meno nel momento in cui antropologia sociale e etnologia sarebbero state
riconosciute come discipline differenti, che avevano differenti obiettivi e
interessi.
Nella sua apparentemente conciliante risposta, Kroeber si dimostrava non
disponibile ad accettare la superiorità dell’antropologia sociale sull’etnografia.
Sul tema delle terminologie di parentela Radcliffe-Brown tornò invece nel
1941, quando, per dimostrare la superficialità delle posizioni di Kroeber,
utilizzò i nuovi materiali etnografici raccolti dai suoi allievi americani.
Anche se a quest’ultima data era già rientrato in Inghilterra, l’impatto del
pensiero di Radcliffe-Brown negli Stati Uniti avrebbe esercitato un’influenza
molto forte nel corso degli anni Trenta, soprattutto su quegli studiosi che da li
a poco avrebbero dato impulso allo studio delle ‘’società complesse’’.
Robert Redfield venne colpito dalle posizioni di Radcliffe-Brown, di cui è
possibile avvertire l’influenza nell’impostazione astorica dei suoi lavori.
William Lloyd Warner venne invece convinto da Radcliffe-Brown a compiere
ricerche sugli Aborigeni australiani.
Warner diresse anche un progetto di studio incentrato sulla contea di Clare,
nell’Irlanda centro-occidentale; da questo emersero i primi ‘’classici’’
dell’antropologia delle società complesse: The Irish Countryman (1937) di
Conrad Arensber e Family and Community in Ireland (1940) di Solon Kinball e
Arensberg.
Sono due i motivi per cui è importante ricordare l’attività di Warner e dei suoi
allievi:

1) Essa fu caratterizzata da totale indifferenza per la storia, nonostante essi si


occuparono di società complesse in cui non mancava documentazione.

2) Questa dimostra che negli U.S.A., e non solo a Chicago, l’antropologia


fosse molto più variegata di quanto si possa pensare.

Negli Stati Uniti le scuole boasiane esercitarono senza dubbio una sorta di
egemonia, tuttavia è innegabile che studiosi formatesi in esse si aprirono alle
novità (si pensi all’utilizzo dei metodi statistici, di cui Boas dubitava, nei suoi
studi sulla famiglia e la parentela di George Peter Murdock).
Le generazioni più giovani si allontanarono pian piano dall’analisi
diffusionista: esemplare la vicenda di Margaret Mead (1901-1978), allieva di
Boas fortemente influenzata dal pensiero di Radcliffe-Brown.
La Mead pubblicò un celeberrimo studio sull’adolescenza nelle isole Samoa in
cui utilizzò un metodo certamente non storico, cosa che in seguito le sarebbe
stata duramente rimproverata.
A questo punto bisogna tornare all’interrogativo di partenza: nel periodo tra
le due guerre l’antropologia attuò un vero ‘’rifiuto della storia’’, oppure questo
non è altro che una costruzione a posteriori, come dice Herbert Lewis?
È indubbio l’antropologia sociale accantonò la storia in maniera più decisa
ed evidente, e altrettanto innegabile è il fatto che il pensiero di Radcliffe-
Brown influenzò anche l’antropologia americana, dove il fervore storico degli
antropologi boasiani venne fortemente ridimensionato.
Anche negli Stati Uniti, dove si era professata apertamente una certa fedeltà
al metodo storico, in realtà si può parlare, per il periodo tra le due guerre, di
un allontanamento; si veda la constatazione malinconica contenuta in un
articolo di Kroeber del 1935, in cui spiega che non bisogna essere stupiti del
fatto che ‘’gli storici si curino poco di noi...non disponiamo nemmeno di un
documento scritto prima dei nostri giorni’’.
3. GLI STORICI

Quando si parla di allontanamento tra antropologia e storia nel periodo tra le


due guerre, si intende soprattutto la storia antica, poiché la rottura in questo
ambito fu decisamente più brusca e repentina.
Nel periodo tra la seconda metà del XIX secolo e i primi decenni del XX la
storia antica aveva coltivato un forte legame con l’antropologia, inoltre molti
dei primi antropologi avevano una formazione classica.
Morgan per esempio, che in Ancient Society scrive di essersi servito della sua
conoscenza del mondo greco e romano per interpretare quanto aveva visto
tra gli Irochesi.
Questa età dell’oro si sviluppò soprattutto tra il 1850 e il 1890, quando ormai
la documentazione etnografica era giunta in ogni parte del mondo.
Fu a questo punto che gli antropologi assunsero sempre di più il ruolo di
teorici, e questo a causa soprattutto dell’impetuosa crescita della letteratura
etnografica e della professionalizzazione del mestiere antropologico.
Nel 1908 Robert Marett, antropologo britannico di formazione classica,
sosteneva che l’antropologia doveva studiare le forme più semplici della
cultura; nonostante questo rimanevano dei punti di contatto, in primo luogo
nei cosiddetti ‘’fenomeni di transizione’’, come l’epica greca e il mondo omerico.
Negli anni immediatamente precedenti all’inizio della Grande Guerra i
rapporti tra antropologia e storia antica furono ravvivati nuovamente da Jane
Harrison (1850-1928), storica delle religioni di formazione durkeimiana
influenzata anche da Radcliffe-Brown, e dalla ‘’Scuola di Cambridge’’.
Dopo la guerra, come ha notato anche Arnaldo Momigliano (1908-1957),
questa collaborazione si dissolse rapidamente.
Le cause di ciò furono probabilmente molteplici: per lo storico statunitense
Moses Finley la rottura fu una reazione agli eccessi della Harrison e della
Scuola di Cambridge; per Momigliano furono determinanti i conflitti sociali
ed il cambiamento dei regimi politici.
Il connubio tra storia antica e antropologia non era comunque più visto di
buon occhio da entrambe le parti: gli antropologi infatti vedevano
nell’applicazione del metodo comparativo al mondo antico una
sopravvivenza evoluzionista; gli studiosi dell’Antichità cominciarono invece
a provare ripugnanza per un metodo che attenuava il confine tra le
eccezionali civiltà classiche e i selvaggi studiati dagli antropologi.
Scriveva il filologo classico Werner Jaeger: ‘’noi siamo soliti applicare il concetto
di cultura…..alla sola umanità postgreca, ma l’applichiamo, con significato reso assai
banale, generalizzando, a tutti i popoli della terra, compresi i primitivi’’.
Anche in questa situazione non mancarono le eccezioni, come il gruppo del
Forshungsinstitut fur Kulturmorphologie di Monaco in Germania, o il classicista
Louis Gernet in Francia.
Tutte queste figure erano però poste in una posizione marginale, quindi a
risaltare era soprattutto la profonda rottura tra le due discipline.
Per la storia medievale e la storia moderna la rottura fu molto meno decisa,
anche perché i legami erano stati in precedenza sporadici e deboli; inoltre si
trattava di due ambiti caratterizzati dal disinteresse per le scienze sociali.
A cercare un dialogo con l’antropologia furono studiosi provenienti da
ambienti marginali, come Bloch e Febvre, che all’inizio degli anni Venti
insegnavano all’Università di Strasburgo.
In una conferenza su storia e antropologia tenuta nel 1983, Levi-Strauss aveva
spiegato che un primo momento di riavvicinamento avvenne già nel 1924,
anno in cui March Bloch (1886-1944) pubblicò I re taumaturghi, un’opera che
era in grado di ‘’sedurre l’etnologo’’.
Gli studi di Bloch sulla credenza che i re di Francia e Inghilterra avessero il
potere di guarire la scrofola tramite imposizione delle mani, riguardavano un
tema che aveva già interessato un celebre antropologo: James George Frazer
(1854-1941).
Nel suo Il ramo d’oro, Frazer aveva constato che la stessa credenza era
presente anche nelle isole polinesiane di Tonga, dove si credeva che la
scrofola potesse essere curata tramite imposizione del piede regale.
Lo studio di questo tipo di credenza aveva suscitato ben poco interesse nella
produzione storiografica precedente a Bloch, che invece era convinto che per
comprendere appieno le monarchie del passato fosse necessario comprendere
quello che era stato elaborato attorno alle casate principesche.
L’enorme quantità di documentazione relativa a questa vicenda spinse Bloch
a voler rendere ciò che fino ad allora era stata considerata aneddotica in
storia.
Egli non si servì però del metodo comparativo di Frazer, che non permetteva
di uscire dal generico.
Allo stesso tempo lo storico francese voleva andare oltre la posizione
positivista esposta nel manuale di Langlois e Seignobos (gli storici positivisti
autori del più importante manuale di studi storici prodotto sino ad allora).
L’obiettivo di Bloch era quello di inquadrare le testimonianze relative al
‘’meraviglioso monarchico’’, nella convinzione che questo ‘’folklore’’ potesse
dire di più di ogni trattato dottrinale.
Per Bloch era importante arrivare a capire come fosse possibile credere che i
re guarissero davvero, cercando di andare oltre la spiegazione di Frazer, che
attribuiva tutto alla stupidità di re e popoli.
Nella sua trattazione Bloch venne molto influenzato dalle posizioni di Lucien
Lévy-Bruhl (1857-1939), che due anni prima del 1924 aveva pubblicato La
mentalità primitiva (1922), secondo cui questa accettazione dell’azione
miracolosa come elemento reale era una caratteristica specifica della
‘’mentalità primitiva’’.
Il testo di Bloch costituisce un momento decisivo, in quanto in qualche modo
esso tracciò la via e soprattutto rimane uno dei modelli per l’antropologia
storica.
Si deve inoltre notare che esso venne scritto prima che la rivista ‘’Annales
d’historie économique et sociale’’ venisse fondata nel 1929 da Bloch e Febvre; nel
1939 divenne ‘’Annales d’histoire sociale’’, arrivando poi al nome definitivo
‘’Annales. Economies, Sociétés, Civilisations’’ dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Come detto però i due fondatori occupavano a livello europeo una posizione
al quanto marginale: come nota Peter Burke, Bloch era noto in Gran Bretagna
come storico economico del Medioevo, mentre Febvre era quasi sconosciuto.
Erano pochi gli storici britannici che sostennero apertamente il programma
dell’Annales, tra questi vanno però ricordati Michael Postane e soprattutto
Richard Tawney (1880-1962).
Tawney aveva dimostrato di apprezzare l’antropologia sin dal 1929, quando
aveva scritto una prefazione per un volume di Raimond Firth, il più
importante allievo di Malinowski, a cui successe alla London School of
Economics.
Tawney aveva individuato nell’antropologia la cura al fondamentalismo
economico che si era imposto a livello storiografico.
Egli dunque si collocava in perfetta armonia con le posizioni di Bloch e
Febvre, augurandosi l’avvento in futuro di una ‘’storia globale’’.
Studiosi come Tawney erano però delle eccezioni, anch’esse confinate ad
ambienti periferici e particolari a livello intellettuale e accademico, proprio
come la London School of Economics.
Pare lecito domandarsi se negli le cose andassero diversamente negli Stati
Uniti, dove negli anni subito precedenti alla Seconda Guerra Mondiale era
sorta la cosiddetta ‘’New History’’, un movimento guidato soprattutto da
storici economici.
Gli intenti della New History erano stati esposti in una lettera scritta da
Frederik Jackson Turner (1861-1932) , l’ideatore del mito della ‘’frontiera’’
come fattore originale della storia americana, a J. Franklin Jameson.
Turner suggeriva a Jameson un approccio più interdisciplinare, che sarebbe
in seguito diventato uno degli elementi distintivi della New History, che aveva
come vero denominatore comune proprio la collaborazione con altre
discipline.
Ad attirare l’attenzione degli storici americani erano però le discipline che si
occupavano della vita moderna: economia, sociologia, psicologia; con
l’etnologia i contatti furono quasi inesistenti.
Obiettivi e metodi della New History vennero messi in discussione già due
decenni dopo il 1945, creando un clima in cui si generò un maggiore
interesse per l’antropologia.
I primi segnali di svolta potevano essere colti già nel Dicembre del 1939,
quando l’American Historical Association decise di organizzare una serie di
incontri dedicati all’approccio culturale.
Il volume che raccoglie questi interventi venne pubblicato nel 1940, ma risulta
oggi quasi totalmente dimenticato.
La curatrice del volume era Caroline Ware (1899-1990), che si fece portatrice
di una visione critica e sfiduciata non solo nei confronti della storiografia
scientifica, ma anche nei confronti della società occidentale, travolta dalla
crisi di cui avevano parlato diversi autori (Pareto, Marx, Spengler).
La Ware aveva compreso che nemmeno le proposte avanzate dal New Deal,
di cui essa era stata una fervente sostenitrice, potevano bastare: era necessaria
una nuova modalità di fare storia.
Questa avrebbe dovuto guardare anche a quella scienza sociale che la New
History aveva totalmente messo da parte: l’antropologia.
La proposta della Mead consisteva nell’adozione del concetto di cultura
elaborato dall’antropologia e sulla prospettiva relativistica propria delle sue
pubblicazioni e dei testi dell’antropologa Ruth Benedict (1887-1948).
La storiografia americana del periodo tra le due guerre era stata caratterizzata
da un profondo relativismo, perfettamente espresso nel concetto di ‘’quadro
di riferimento mentale’’, elaborato da Charles Beard, uno dei principali
esponenti della New History e consistente nell’idea che esistevano dei
condizionamenti sulla scelta e disposizione narrativa dei fatti.
Questo relativismo era però rimasto distante da quello ‘’culturale’’ elaborato
dagli antropologi; quindi anche i membri della New History, al pari degli
storici della vecchia scuola, erano rimasti incastrati in dei pregiudizi.
Pur essendo riusciti ad andare oltre i condizionamenti esercitati dai
pregiudizi nazionali , essi non avevano trascurato quelli che erano imposti
dall’appartenenza alla società occidentale.
Per questo la Ware suggeriva di avvicinarsi all’antropologia, l’unica disciplina
che era stata capace di liberarsi dell’Occidente come quadro di riferimento
culturale.
La Ware riuscì ad anticipare molti degli obiettivi dell’antropologia storica:
l’impegno per una storia locale più feconda, la necessità di studiare quelle
componenti della società i cui valori differivano da quelli del gruppo
dominante (la categoria dei ‘’subalterni’’, totalmente ignorata dalla New
History), la possibilità di avere una storia più fecondata dall’antropologia.
Questi temi vengono accennati nel volume all’interno dell’introduzione,
trovando maggiore spazio nei vari saggi.
Su tutti forse quello più meritevole di attenzione è quello di Geoffrey Gorer
(1905-1985), l’antropologo a cui venne richiesto di scrivere un saggio in cui
avrebbe dovuto esporre agli storici tutti i benefici che potevano provenire
dalla propria disciplina.
Gorer, allievo di Boas, scelse di utilizzare l’espressione ‘’antropologia sociale’’
rispetto a quella di ‘’antropologia culturale’’, che andava per la maggiore negli
U.S.A.
Egli si dimostra per molti versi debitore di Gerge Peter Murdock, altro allievo
di Boas che si era allontanato dal sentiero tracciato dal maestro.
Da Murdock Gorer eredita il concetto di cultura come ‘’insieme di
atteggiamenti non biologici e di norme comportamentali statisticamente comuni
ai membri di una comunità’’.
Dietro una definizione così inconsueta si nascondeva però un approccio che
avrebbe comportato molte implicazioni anche per la ricerca storica.
L’antropologo infatti per Gorer era più libero dello storico, che invece era in
qualche modo sospinto a dare maggiore importanza alle categorie dotate di
maggiore potere e visibilità.
È la critica anticipata prima, quella che aveva come tema l’esclusione degli
‘’underlying groups’’, i famosi ‘’subalterni’’ a cui si era accennato.
Gorer andava poi a suggerire i testi di Margaret Murray (1863-1963) sulla
stregoneria in Europa, indicati come ‘’buon esempio di approccio antropologico
alla storia’’.
La Murray, egittologa formatasi in Germania ed India ed insegnante presso lo
University College di Londra, era degna di lode per Gorer in quanto con la
sua opera aveva dato attenzione ad un gruppo che era stato messo da parte in
quanto aderente ad una serie di valori differenti rispetto a quelli della classe
dominante.
La Murray raggiunse la notorietà con il volume The Witch-Cult in Western
Europe. A study in Anthropology (1921).
Le sue tesi furono oggetto di pesanti critiche, e anzi del tutto screditate al
momento della pubblicazione del secondo volume sulla stregoneria The God
of the Witches (1931).
Dobbiamo notare che a colpire non è tanto lo spirito profetico di Gorer,
quanto piuttosto l’introduzione di una novità metodologica che avrebbe
permesso la nascita dell’antropologia storica solo tre decenni più tardi.
Il cammino era ancora lungo, è infatti palpabile una differenza tra questi
tentativi di coniugare antropologia e storia e la disciplina dell’antropologia
storica vera e propria.
In conclusione sembra giusto poter affermare che per tutta la prima metà del
XX secolo antropologia e storia, su entrambe le sponde dell’Atlantico,
rimasero estranee l’una all’altra.
III) ANTROPOLOGIA E STORIA: GLI ANNI DEL
RIAVVICINAMENTO (1950-1968)

Negli anni tra i due conflitti mondiali gli antropologi, specialmente quelli di
scuola britannica, maturarono una notevole indifferenza, e in alcuni casi una
aperta ostilità, nei confronti della storia; questo per tre ragioni principali.

1) Una reazione alla storia speculativa di evoluzionisti e diffusionisti.


2) La necessità di creare un’identità disciplinare per l’antropologia.
3) La mancanza di documentazione storica per le società studiate dagli
antropologi.

Questa posizione sembrò uscire rafforzata dopo il conflitto grazie alla


pubblicazione nel 1945 di un’opera postuma di Malinowski in cui emergeva
grande disapprovazione per ogni ricostruzione fittizia.
Al testo dell’antropologo polacco si aggiunse un’opera collettiva sui sistemi
africani di parentela (1950) in cui Radcliffe-Brown ribadiva che non era
possibile studiare le istituzioni africane, in quanto non vi era
documentazione degli eventi.
Intorno al 1950 questa posizione cominciò a divenire scomoda a molti
antropologi, anche a chi, come Meyer Fortes (1906-1983), che (spinto da
Radcliffe-Brown a studiare una tribù del Ghana) aveva in principio sostenuto
il funzionalismo.
Nel 1940 l’antropologia sociale era stata indirizzata dagli stessi Radcliffe-
Brown, Fortes e Evans-Pritchard verso una nuova restrizione di campo.
Si suggerì infatti che per ‘’struttura sociale’’ si dovessero intendere solo le
relazioni tra gruppi dotati di grande coerenza e costanza, una definizione che
a molti parve riduttiva e statica (lo stesso Fortes arrivò a sostenere ciò in un
suo lavoro sugli Ashanti del Ghana).
Fortes cercò di arricchire il concetto di struttura sociale dotandolo di una
dimensione temporale e formulando la nozione di ‘’ciclo di sviluppo del
gruppo domestico’’.
Critiche analoghe vennero portate anche da Raymond Firth, secondo cui il
termine ‘’struttura sociale’’ doveva essere indicato per riferirsi alle
permanenze, mentre quello di ‘’organizzazione sociale’’ per studiare il
mutamento sociale prodotto da atti individuali capaci di modificare la stessa
struttura sociale.
Firth ebbe anche il merito di introdurre nel vocabolario antropologico una
serie di nozioni tratte dal bagaglio economico dell’economia.
Altro momento importante, anche si di risonanza non particolarmente ampia,
fu l’articolo del 1947 di Max Gluckman (1911-1975), che si scagliò
apertamente contro ‘’l’ossessione antistorica’’ di Malinowski, che a suo parere
aveva ignorato completamente la lezione di grandi storici come Weber e
Marx.
Nonostante il tono molto duro, l’articolo di Gluckman non suscitò grandi
reazioni, a differenza della conferenza commemorativa tenuta da Evans-
Pritchard nel 1950 presso l’Exeter College di Oxford in onore di Robert
Marett.

1. ANTROPOLOGIA E STORIA TRA ARTE E SCIENZA: LA ‘’MARETT


LECTURE’’ DI EVANS-PRITCHARD

Evans-Pritchard nel 1946 era succeduto a Radcliffe-Brown come professore di


antropologia sociale ad Oxford, nello stesso anno aveva fondato l’Association
of Social Anthropologists (di cui fu il primo presidente) e dal 1950 divenne
anche presidente del Royal Anthropological Institute.
Nel momento in cui pronunciò dunque la Marett Lecture, Evans-Pritchard era
il più importante antropologo britannico.
Egli decise di intitolare il suo intervento ‘’Social Anthropology: Past and
Present’’, spiegando di volersi concentrare sui progressi della disciplina, sulla
sua identità e sul rapporto tra antropologia e storia.
Quello che avrebbe pronunciato sarebbe stato duramente contestato dai suoi
colleghi, che rimasero enormemente stupiti dalle due principali tesi che
l’allievo di Radcliffe-Brown portò avanti.
La prima era di carattere teorico e metodologico: una società non poteva
essere studiata se non se ne conosceva adeguatamente la storia.
La seconda tesi era invece di carattere epistemologico, e riguardava l’identità
dell’antropologia sociale: per Evans-Pritchard tra gli evoluzionisti e Radcliffe-
Brown vi erano più somiglianze che differenze (i primi cercavano le grandi
leggi universali che governavano lo sviluppo della società, mentre il secondo
era convinto che si potesse ignorare il passato di una società e arrivare lo
stesso ad una comprensione soddisfacente).
Secondo Evans-Pritchard l’antropologia aveva il compito di esplorare il
passato delle società, posizione che lo accomunava al pensiero di Kroeber.
L’antropologia sociale non era una ‘’scienza naturale della società’’, come aveva
sostenuto Radcliffe-Brown (che dunque aveva in qualche modo costituito un
nuovo positivismo ‘’anemico’’): il suo compito era ‘’interpretare piuttosto
che spiegare’’.
Il testo dell’intervento di Evans-Pritchard comparve nel Settembre del 1950 su
‘’Man’’, la più importante rivista antropologica britannica, assieme ad una
nota del direttore di questa, William Fagg, che si augurava di poter aprire una
discussione.
Questa però si tramutò velocemente in un feroce dibattito, che avrebbe
portato due schieramenti a confrontarsi: quello dei sostenitori di Evans-
Pritchard e quello dei suoi eversori, come Daryll Forde e Edmund Leach.
Per comprendere ‘’l’apostasia’’ di Evans-Pritchard bisogna però ricordare i
fattori che lo portarono a pronunciare quel discorso.
Prima di dedicarsi all’antropologia, il giovare Evans-Pritchard si era laureato
in storia moderna, andando in seguito alla London School of Economics per
studiare non tanto con Malinowski (con cui non ebbe un gran rapporto),
quanto piuttosto con Charles Gabriel Seligman, membro della spedizione allo
Stretto di Torres del 1898.
Al contrario di quanto si potrebbe pensare, Evans-Pritchard fin dall’inizio
nutrì grande interesse e rispetto per l’antropologia dei diffusionisti, dicendosi
molto dispiaciuto che essi non avessero avuto un impatti così forte in Gran
Bretagna.
Già nella recensione fatta nel 1932 alla nuova edizione del Roman Britain di R.
G. Collingwood, Evans-Pritchard spiegava che gli antropologi si sbagliavano
nel credere che i problemi del contatto culturale potessero essere studiati solo
tramite ricerche tra popolazioni primitive.
Evans-Pritchard era forse l’unico antropologo con delle solide competenze
storiografiche, che fino al 1942 non ebbe però mai la possibilità di mettere alla
prova.
A consentirgli di farlo fu paradossalmente la guerra: egli infatti fu impegnato
sul fronte africano come ufficiale addetto agli affari tribali, posizione che gli
diede modo di attraversare la regione libica della Cirenaica , abbandonata
dagli Italiani dopo la battaglia di El-Alamein (1942).
In Cirenaica Evans-Pritchard ebbe modo di approfondire la sua conoscenza
della confraternita della Senussia, fondata nel 1837 dal mistico algerino
Muhammad ibn Ali al-Sanusi.
Questa aveva conosciuto uno sviluppo impressionante nell’area compresa tra
il Ciad e l’Egitto, ma si era radicata soprattutto in Cirenaica; addirittura il
capo di quest’ordine religioso, leader della resistenza anti-italiana, sarebbe
divenuto re di Libia nel 1951.
Evans-Pritchard cominciò ad appassionarsi alla storia della Senussia negli
anni Trenta, quando insegnava all’Università del Cairo.
La possibilità di avere un’esperienza sul campo, unita alla raccolta di una
grande quantità di fonti documentarie, portò alla pubblicazione del testo The
Sanusi of Cirenaica (1949), in cui veniva ricostruita l’evoluzione politica delle
tribù beduine.
Se dalla sua esperienza Evans-Pritchard aveva avuto la possibilità di notare in
prima persona l’utilità di coniugare esperienza etnografica con l’indagine
storico-archivistica, molto più fredde furono le reazioni dei colleghi.
Da una lettera del Febbraio 1950 a Kroeber sappiamo che l’amico Fortes e il
maestro Rafcliffe-Brown non furono particolarmente entusiasmati dal suo
lavoro.
Molto più interessante è però una lettera del Settembre 1950, indirizzata
sempre a Kroeber, in cui Evans-Pritchard spiega quale fosse il fine della
Marett Lecture (pronunciata nel Giugno di quell’anno): costringere
l’antropologia sociale a ‘’riconsiderare le ipotesi su cui stava lavorando’’.
Egli proponeva dunque di utilizzare i metodi più caldi e intuitivi delle
discipline umanistiche, poiché l’antropologia non era una scienza, ma
un’arte.
Se la prima tesi, quella che una società non potesse essere compresa senza lo
studio del suo passato, aveva generato sconcerto tra gli antropologi sociali, la
svolta umanistica era percepita invece come soggettivistica.
Lo stesso Evans-Pritchard negli anni Trenta aveva infatti sostenuto Radcliffe-
Brown nella sua ricerca di una maggiore astrazione per l’antropologia sociale,
che doveva progredire come scienza.
Ad anni di distanza arrivò poi la svolta, l’assunzione di una posizione più
vicina a quella di Kroeber, secondo cui il vantaggio principale del metodo
storico non era la relazione cronologica degli eventi, ma la loro integrazione
descrittiva.
Evans-Pritchard, come Kroeber, si era dunque avvicinato alle posizioni neo-
kantiane di fine Ottocento , che avevano distinto le ‘’scienze della natura’’
dalle ‘’scienze della cultura’’, dette anche ‘’dello spirito’’.
Uno dei capisaldi della concezione neokantiana era l’idea che le scienze della
cultura avessero il compito di comprendere e non spiegare.
Molti antropologi si dimostrarono però ostili a questa posizione, ritenendo
del tutto ingiustificabile anche la scelta di inserire la storia, che si serviva di
metodologie scientifiche, tra le scienze dello spirito.
Probabilmente Evans-Pritchard inserì nel suo discorso, da cui traspare una
forte componente emotiva, anche delle argomentazioni non perfettamente
legate l’una all’altra, lasciando spazio dunque a delle ambiguità.
Radcliffe-Brown partì proprio da queste nella sua risposta, comparsa anche
questa su ‘’Man’’.
Egli negò di aver affermato che lo studio della storia di un’istituzione non
fosse d’aiuto, e osservava che il discorso di Evans-Pritchard si inseriva
all’interno del ‘’Methodenstreit’’: il dibattito sulla natura della storia
scoppiato in Germania.
Ciò che colpisce del discorso di Radcliffe-Brown è la grande tranquillità, che
si apriva ad un dialogo e ad un incontro con le divergenze espresse da Evans-
Pritchard.
Molti antropologi, tra cui Evans-Pritchard, non erano però disposti ad andare
oltre le divergenze.
Di fatto ancora oggi è vivo il dibattito sulla natura e i metodi della storia e
dell’antropologia, in termini non molto differenti da quelli posti nel 1950 da
Evans-Pritchard.

2. ANTROPOLOGIA E STORIA CULTURALE

La ‘’rivolta’’ di Evans-Pritchard contro il maestro Radcliffe-Brown aveva


avuto un precedente nell’articolo del 1935 scritto da Kroeber contro Boas, che
venne accusato, assieme l’intera antropologia americana, di aver dimostrato
interesse per lo studio scientifico piuttosto che per lo studio culturale.
Kroeber contestava dunque quella che per lui era la ‘’tendenza antistorica’’
di Boas, che negli stessi anni veniva accusato di ‘’storicismo’’ da Radcliffe-
Brown.
Se però gli attacchi di questo e dei suoi allievi erano prevedibili, quello di
Kroeber lo colse più di sorpresa , e infatti la risposta fu molto forte (Boas disse
che le posizioni e le accuse di Boas erano totalmente prive di senso).
Nel mondo antropologico anglosassone dunque il dibattito sui rapporti tra
storia e antropologia era vivace e confuso; anche Kroeber, che si era
dichiarato d’accordo con le posizioni Evans-Pritchard, intervenne su ‘’Man’’
per spiegare la sua riluttanza a classificare l’antropologia inequivocabilmente
tra le discipline umanistiche.
Per lui molte discipline scientifiche, come biologia e astrofisica, potevano dirsi
‘’scienze storiche’’, in quanto si ponevano come scopo la ricostruzione
diacronica e utilizzavano metodi adatti per raggiungere questo obiettivo.
Egli era anche convinto che antropologia e storia non potessero fare a meno
dell’apporto di tecniche e metodi delle scienze naturali.
Le oscillazioni e le incertezze di Kroeber nel tracciare confini tra antropologia,
storia e scienza generarono una certa attività esegetica, che però non
attirarono l’interesse degli storici.
Una notevole influenza venne esercitata dal volume che Kroeber pubblicò
con Clyde Kluckhohn nel 1952.
Un lavoro ampio, che voleva essere una decisa risposta a The Social System di
Talcott Parsons (1902-1979), che aveva affermato che non sembrava esistere
un accordo perfetto sulla definizione del concetto di cultura nella teoria
antropologica.
Il grande prestigio di cui godeva Parsons nei primi due decenni successivi
alla guerra favorirono il diffondersi di un concetto antropologico di cultura
anche all’interno della storiografia americana, che nello stesso periodo
cercava di rinnovarsi e andare oltre la fase apertasi con la New History.
Si passò da una storiografia del conflitto ad una storiografia del consenso,
desiderosa di indagare i valori e le idee comuni a tutti gli Americani nel corso
della loro storia.
Furono gli storici delle idee i primi che si riavvicinarono all’antropologia,
anche se l’idea relativista del concetto antropologico di cultura portò con se
numerose problematiche, che spinsero ad un ritorno ad una storia sociale più
che culturale.
Molto meno effimeri furono gli effetti del consolidamento di un’area di
ricerca a metà tra storia e antropologia: l’etnostoria.
3. NUOVE STORIE: LA NASCITA DELL’ETNOSTORIA E DELLA STORIA
AFRICANA

Il primo a parlare apertamente di etnostoria era stato l’etnologo statunitense


Clark Wissler (1870-1947) , che nel 1909 aveva organizzato a New York una
mostra sulle culture indiane della regione inferiore del corso del fiume
Hudson.
Nell’introduzione al volume illustrativo della mostra, Wissler spiegava che si
poteva ricostruire il passato preistorico e protostorico delle società studiate
dagli etnologi attraverso l’utilizzo ‘’dell’etno-storia e dell’antropologia’’.
L’etnologia non era per forza obbligata ad utilizzare metodo indiretti, ma
poteva valersi anche di fonti dirette, reperibili nel caso americano nella
documentazione archivistica creata nel corso dei contatti con le tribù indiane.
Tra il 1910 e la fine della Seconda Guerra Mondiale si assistette in effetti alla
produzione di testi che integravano alla ricerca etnografica anche materiali
storico-archivistici, come i lavori di Swanton e Speck.
Solo nel Secondo Dopoguerra però si assistette alla formazione di una
disciplina a metà tra storia e antropologia con contorni definiti e una matura
metodologia, che si sviluppò anche grazie all’aumento della richiesta di storia
da parte delle autorità governative statunitense e delle popolazioni native.
Con l’approvazione dell’Indian Act nel 1946 si arrivava a concedere alle tribù
indiane la possibilità di fare causa al governo e di ottenere dunque un
indennizzo in caso di espropriazioni territoriali avvenute dopo la firma di
trattati.
L’India Act aprì un’enorme disputa legale, all’interno della quale il numero
delle cause intentate fu di 852.
Durante i processi intervennero, chiamati dalle tribù o dal governi, numerosi
antropologi, i quali con l’andare delle cose si resero conto che per risolvere la
questione era necessario ricorrere all’evidenza storica.
Furono molti gli etnografi che decisero di recarsi negli archivi federali e in
quelli statali: furono queste esperienze e gli interessi comuni che portarono
nel 1952 alla nascita dell’American Indian Ethnohistoric Conference, durante la
quale si decise la creazione della rivista ‘’Ethnohistory’’.
Nel secondo volume di questa, l’allora direttrice Ermine Wheeler-Voegelin la
definiva ‘’lo studio delle identità, delle collocazioni geografiche, dei contatti, dei
movimenti….dei popoli primitivi a partire dai più antichi scritti che li riguardano’’.
Questo atteggiamento di assoluta preferenza per le fonti scritte, unito alla
diffidenza per le fonti orali, era in qualche modo paradossale.
Negli anni Cinquanta la maggior parte della produzione etnostorica fu in
mano ad antropologi ed etnologi, mentre dagli anni Sessanta anche numerosi
storici si avvicinarono al genere, incuriositi dalla possibilità di costruire un
nuovo tipo di narrazione relativa al ‘’mito della frontiera’’.
La grande difficoltà di questa prospettiva stava nel fatto che la metodologia
etnostorica richiedeva competenze multiple, mentre la formazione
accademica ne offriva solo una.
Anche se ‘’Ethnohistory’’ sosteneva di interessarsi a tutti i ‘’popoli primitivi’’, di
fatto la maggior parte degli studi riguardava gli Indiani del Nord America.
Fu il crescente desiderio di allargare il campo che portò nel 1966 ad un
cambiamento di prospettive: l’American Indian Ethnohistorical Conference
divenne l’American Society of Ethnohistory.
Essa si apriva così a nuove realtà, pur continuando a privilegiare contributi
su popolazioni preindustriali.
L’apertura era però avvenuta troppo tardi, nella seconda metà degli anni
Sessanta erano avvenuti cambiamenti decisivi: in primo luogo il processo di
decolonizzazione.
Erano sorte storiografie specialistiche sulle popolazioni eredi delle grandi
civiltà precolombiane, sull’Africa, sul subcontinente indiano; il termine
‘’etnostoria’’ cominciava a risultare sempre più limitante.
Esso venne adottato da quegli storici/antropologi che si servivano anche di
dati archeologici, mentre veniva visto con una certa diffidenza dai membri di
una nuova branca della storiografia, la storia dell’Africa.
Quando nel 1947 Gluckman aveva criticato Malinowski, egli aveva dovuto
ammettere che la letteratura sul continente africano era davvero poca cosa.
Vent’anni dopo la situazione era totalmente cambiata: il processo di
decolonizzazione, iniziato nel 1957 con l’indipendenza del Ghana, nel 1962
era ormai quasi del tutto arrivato a conclusione.
I nuovi Stati erano tutti molto attenti alla necessità di preservare la propria
storia, creando così le condizioni ideali per quegli storici desiderosi di attuare
anche una ‘’decolonizzazione della storia’’ (dalla narrativa occidentale in
questo caso).
Nel 1960 venne fondato il ‘’Journaal of African Studies’’, e nel suo primo
numero compariva un articolo dell’americano Philip Curtin (1922-2009) sullo
stato degli archivi coloniali.
Questi erano stati nella maggior parte dei casi messi in ordine e ingranditi
tramite l’acquisizione di nuovi fondi, tuttavia molto del materiale era andato
perduto.
Un’altra problematica era poi rappresentata dal fatto che gli archivi coloniali
delle capitali europee conservavano più documenti di interesse per il potere
centrale, più che informazioni sulla colonia e la sua popolazione.
Curtin si vedeva costretto a constatare che ‘’la storia dei dispacci è la storia
degli Europei in Africa piuttosto che la storia dell’Africa stessa’’.
L’obiettivo che si posero i primi storici dell’Africa era quello di ricavare dagli
archivi informazioni sull’organizzazione sociale e politica delle popolazioni
locali, andando dunque contro lo scetticismo degli antropologi, che avevano
ritenuto impossibile un’operazione di questo tipo.
Come spiegava Curtin, era possibile ricavare dagli archivi informazioni sui
decenni che avevano preceduto la conquista da parte degli Europei.
L’utilizzo di fonti scritte nuovissime/ignorate parzialmente/ignorate del tutto
non fu l’unico tratto peculiare della storiografia sull’Africa, essa infatti
assegnò una notevole importanza anche alle fonti orali.
L’importanza di queste veniva spiegata in un articolo del belga Jan Vansina
(1929-2017) comparso sul ‘’Journal of African History’’ nel 1960; i concetti qui
espressi avrebbero trovato una sistematizzazione più ampia nel successivo
lavoro di Vansina, De la tradition orale, uscito nel 1961.
Secondo Vansina per lo storico una fonte orale non era meno valida di una
scritta, essa andava semplicemente sottoposta allo stesso trattamento di
collazione e analisi critica utilizzato anche per le fonti scritte.
Utilizzando fonti orali e fonti scritte, Vansina era stato in grado, attraverso
l’utilizzo di punti di riferimento cronologici esterni (come un’eclissi di sole),
di costruire una cronologia precisa dalla fine del XVI secolo.
In precedenza si era visto invece di come gli etnostorici americani (quasi tutti
antropologi), a differenza di Vansina (storico di formazione), avessero nutrito
una certa diffidenza nei confronti delle fonti orali.
Negli anni Sessanta anche l’etnografia iniziò a dare più spazio alle fonti orali.
Il precetto metodologico più importante per Vansina era l’impossibilità di
studiare qualsiasi storia, in qualsiasi luogo, se non si fosse acquisita piena
familiarità con la cultura della popolazione studiata, con la modalità con cui
essa rappresenta il suo passato, se non si è in grado di comprendere le sue
fonti scritte/orali nella loro lingua originale.
In base a quanto detto non è difficile comprendere che ancora oggi vi è
grande difficoltà nel dare una classificazione disciplinare all’opera di Vansina.
Gli storici lo vedono come un antropologo, gli antropologi come uno storico,
e lui stesso non gradiva essere chiamato etnostorico, poiché per lui la ricerca
storica condotta su società senza scrittura non era diverso da quella condotta
in società dotate di scrittura.
L’etnostoria era nata inizialmente per studiare i Nativi Americani, finendo poi
per comprendere tutte quelle società che erano state tradizionalmente
studiate dagli antropologi, relegate dunque in una sorta di ‘’serie B della
storia’’.
Ciò che accomunava la storia dell’Africa all’etnostoria era la straordinaria
interdisciplinarità, ricordata anche all’interno di un articolo comparso sul
Journal of Interdisciplinariy History (fondato negli anni Settanta).
In questo si diceva che ‘’gli storici dell’Africa non possono permettersi di lavorare
da soli come gli storici in altre parti del mondo’’, in quanto per loro era necessario
avere aiuti anche da parte degli antropologi per esempio (fornivano allo
storico ‘’l’occhio etnografico’’ necessario nel lavoro sul campo).
Sempre all’interno dell’articolo si spiegava che proprio dall’antropologia
provenivano i migliori contributi alla storia dell’Africa.
Vansina aveva insistito molto anche sulla critica delle tradizioni orali,
sollecitando gli storici a prestare attenzione alla funzione che queste avevano
nelle società in cui erano trasmesse.
Vansina concordava con molte delle critiche mosse da Evans-Pritchard al
funzionalismo britannico, ma allo stesso tempo egli recuperava da esso
l’atteggiamento simpatetico, necessario per non porsi come investigatore che
tenta di scoprire le imperfezioni di un testo per condannarlo.
Nella Marett Lecture, a cui Vansina si rifà spesso, Evans-Pritchard distingueva
tra la storia che ha una funzione in una società e la storia ‘’vera’’, quella che
lo storico deve ricostruire mediante l’analisi critica della documentazione
disponibile.
La consapevolezza dell’esistenza di queste due storie aveva dato origine alla
vivace produzione di Vansina, in cui metodo storico e teoria antropologica
avevano trovato una sintesi feconda.

4. VERSO IL RIAVVICINAMENTO

Durante la conferenza su Anthropology and History tenuta a Manchester nel


1961, Evans-Pritchard aveva incoraggiato gli storici a studiare la storia dei
popoli extreuropei e le loro culture.
Questa affermazione ci fa capire che Evans-Pritchard aveva deciso di tornare
sul tema della Marett Lecture con un atteggiamento del tutto differente
rispetto a dieci anni prima.
Nel suo intervento l’antropologo britannico accusava i colleghi di aver non
solo ignorato la documentazione storica, ma anche i lavori degli storici.
Allo stesso tempo egli spiegava che ‘’anche gli storici hanno da perdere tanto
quanto noi, se non di più, dalla caduta del ponte fra le due discipline’’.
Per Evans-Pritchard era un peccato che fossero pochi gli storici che avevano
dimestichezza con la letteratura antropologica, poiché questa poteva fornire
loro numerosi vantaggi.
Gli antropologi provavano disinteresse per la storia poiché sopravvalutavano
la ricerca sul campo, che secondo Evans-Pritchard sarebbe comunque stata
un mezzo utile alla comprensione delle istituzioni e delle società più antiche.
Una preparazione antropologica avrebbe senza dubbio aiutato gli storici ad
apprezzare il lavoro sul campo e probabilmente li avrebbe spinti a studiare
anche le popolazioni extraeuropee.
L’antropologo britannico voleva però evitare che il suo discorso venisse
percepito come un invito a fare etnostoria, che era percepita da molti come un
‘’ghetto riservato alle popolazioni esotiche e primitive’’.
Evans-Pritchard era consapevole che argomenti come magia e stregoneria
potessero risultare poco interessanti per gli storici, che si interessavano in
primo luogo di avvenimenti politici o al massimo di istituzioni politiche.
Egli dunque chiedeva provocatoriamente se esistesse ‘’qualsiasi storia del
matrimonio, della famiglia o della parentela in Inghilterra?’’; era qui forte l’eco del
programma dell’Annales.
La ricerca storica rischiava di rimanere sterile se non fossero state poste le
domande giuste, domande che poteva porre l’antropologia.
Riprendendo la profezia di Maitland, Evans-Pritchard sosteneva che essa
fosse ancora valida, ma così come lo era per l’antropologia sociale, allora lo
era anche per la storia.
A differenza della Marett Lecture, che aveva suscitato reazioni molto decise, la
conferenza del 1961 generò solo una reazione forte ‘’a caldo’’, quella del
sudafricano Isaac Schapera, che nel 1962 scrisse un articolo intitolato ‘’Should
Anthropologists be Historians?’’ in cui ribadiva il ruolo centrale della ricerca sul
campo e indicava la storia come ‘’un mezzo per la compresione, e non l’unico
mezzo di comprensione’’.
La provocazione di Evans-Pritchard era stata raccolta anche da uno storico
dell’età moderna, Keith Thomas, che aveva scritto un articolo intitolato
‘’Should Historians be Anthropologists?’’.
Thomas andò a ribaltare la profezia di Maitland, sostenendo che ora fossero
gli storici posti di fronte al bivio: divenire antropologi sociali o divenire nulla.
Bisogna ricordare comunque che negli anni Cinquanta, in ambienti adiacenti
all’etnostoria e alla storia africana, fossero avvenuti dei contatti tra storia e
antropologia.
Se per questi casi si può parlare di eccezioni, al contrario nel 1951 si riavviò il
legame tra storia antica e antropologia con la pubblicazione del discusso
volume di E. R. Dodds The Greeks and the Irrational.
Al di là della posizione affermata da Dodds, secondo cui i culti dionisiaci
sarebbero giunti in Grecia tramite il contatto con rituali sciamanici propri
delle popolazioni del Mar Nero, è necessario constatare che il suo lavoro è
caratterizzato da una profonda apertura ai metodi antropologici.
Lodato dalla critica classicista e dagli antropologici fu invece The World of
Odysseus di Moses Finley (1912-1986), in cui venivano usati gli strumenti
concettuali dell’antropologia sociale per analizzare le informazioni presenti
nell’Iliade e nell’Odissea sui gruppi domestici e di parentela.
Allontanatosi dall’America per colpa del maccartismo, Finley nella sua opera
era stato fortemente influenzato dal pensiero dello storico economico
ungherese Karl Polanyi (1886-1964), che aveva conosciuto quando entrambi
insegnavano presso la Columbia University di New York.
Con gli storici del Medioevo e dell’età moderna il riavvicinamento avvenne in
modo più graduale: segni di riavvicinamento arrivarono con la fondazione
nel 1952, ad opera di storici marxisti inglesi, della rivista ‘’Past and Present’’, in
cui intervennero numerosi antropologi, come Jack Goody.
Un’altra rivista fondamentale fu ‘’Comparative Studies in Society and History’’,
di cui la storica dell’economica Sylvia Thrupp (1903-1997) fu la prima
direttrice.
Per la Thrupp il metodo comparativo, che gli storici avevano messo da parte
nei decenni precedenti, era nuovamente richiesto dai tempi: il periodo del
Secondo Dopoguerra aveva messo in croce l’etnocentrismo e aveva rafforzato
il senso di una comune umanità.
Fin dagli inizi su ‘’Comparative Studies’’ comparvero interventi di celebri
antropologi, come Geertz e Kroeber.
Il legame tra storia e antropologia sulla rivista si consolidò definitivamente
nel 1969, quando l’antropologo Eric Wolf (1923-1999) divenne condirettore
della rivista assieme a Sylvia Thrupp.
Anche l’Annales aveva negli anni mantenuto un vivo interesse per le scienze
sociali, anche se per diversi anni l’obiettivo principale del direttore della
rivista, Lucien Febvre, fu quello di ricostruire in seguito alla scomparsa di
Marc Bloch, catturato e ucciso dai Tedeschi nel 1944.
Il volume più importante prodotto da uno storico dell’Annales nell’immediato
Secondo Dopoguerra fu Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’epoca di Filippo II
(1949), scritto da Fernand Braudel (1902-1985) il più importante allievo di
Febvre.
Alla morte di quest’ultimo nel 1956 Braudel divenne la guida dell’Annales , a
cui diede una nuova e decisiva svolta.
Con Civiltà e imperi del Mediterraneo (scritto nei cinque anni di prigionia in
Germania) Braudel arrivava ad introdurre un nuovo modello di storiografia,
illustrato per la prima volta ai suoi compagni di prigionia.
Il modello di storia proposto da Braudel prevedeva anche di ‘’saccheggiare le
ricchezze delle vicine scienze sociali’’, andando oltre gli avvenimenti (scontri,
elezione di papi e imperatori, successioni reali ecc..), il cui valore doveva
essere irrisorio per gli storici.
Il fatto, anche quello più straordinario (come la battaglia di Lepanto del
1571), non produce mai importati conseguenze, per questo lo storico si deve
concentrare sul ‘’lungo periodo’’, ovvero i cambiamenti economici/sociali/
politici.
Questo paradigma storiografico basato sull’invocazione di Braudel ‘’abbasso il
fatto!’’ sarebbe divenuto il marchio di fabbrica della nuova storia, che si
doveva concentrare sulla capacità delle relazioni sociali di mantenere
continuità strutturali al di sotto di mutamenti effimeri (una posizione che
avrebbe pesato molto sugli sviluppi dell’antropologia storica).
Mentre in Francia succedeva questo, paradossalmente in Gran Bretagna gli
antropologi sociali cercavano il riavvicinamento con la storia per sottrarsi
agli aspetti collettivi e persistenti della vita sociale.
Quella di Braudel era una posizione che per molti versi si avvicinava a quella
di Levi-Strauss, che nel 1949 aveva pubblicato Le strutture elementari della
parentela.
Nello stesso anno egli pubblicò un articolo in cui metteva in discussione la
tradizionale distinzione tra storia e antropologia, basata sulla disponibilità o
men di fonti scritte.
L’assenza di fonti scritte poteva essere superata da Levi-Strauss attraverso le
fonti orali, pertanto egli cercava altrove la vera distinzione tra le due
discipline.
Per Levi-Strauss la differenza stava nelle prospettive complementari: la storia
organizzava infatti i suoi dati in base ad espressioni coscienti, mentre
l’etnologia, in base alle condizioni, conosceva la vita sociale.
L’obiettivo dell’etnologia doveva essere quello di andare al di là
dell’immagine cosciente offerta dalla storia, al fine di arrivare a ‘’inventariare
il numero non illimitato di possibilità inconsce che danno un’architettura logica a
sviluppi storici’’.
Nella sua opera sui sistemi di parentela, Levi-Strauss era andato contro le
teorie evoluzioniste/diffusioniste , secondo cui le differenze erano dovute a
differenze storiche, quando invece la pluralità dei sistemi di parentela era
dovuta ad un piccolo insieme di principi strutturali e ad alcune ‘’leggi di
decomposizione’’, che generavano un numero non illimitato di permutazioni.
Per molti Levi-Strauss, indicando differenti obiettivi per etnologia e storia,
avrebbe allontanato le due discipline, tuttavia fin da subito il suo pensiero
affascinò gli storici dell’Annales.
La posizione strutturalista di Levi-Strauss piacque enormemente a quel
gruppo di storici che stava cercando di andare oltre il fatto per arrivare ad
una comprensione più profonda del passato.
Sostenendo che ‘’l’etnologo s’interessava soprattutto a ciò che non è scritto’’ e
che ‘’ciò che lo interessa è diverso da tutto ciò che gli uomini pensano solitamente di
fissare su pietra’’ egli attirò l’attenzione dell’Annales.
Con la sua opera Levi-Strauss apriva alla storia nuovi spazi, proprio quelli
che Braudel aveva rivendicato per la disciplina, ma che tradizionalmente
avevano interessato etnografia e geografia: alimentazione, generi di vita, la
relazione tra popolazione e ambiente.
Il primo contatto tra la storiografia dell’Annales e Levi-Strauss avvenne nel
1949, quando quest’ultimo lodò apertamente il volume di Febvre
sull’incredulità, gesto che venne ricambiato dallo storico, che nel 1951 recensì
positivamente un articolo dell’antropologo.
Da questo momento Levi-Strauss e George Dumézil (1898-1986), altro
studioso che affascinò molto Febvre, divennero dei punti di riferimento per
l’Annales.
Il saggio di Braudel sulla ‘’lunga durata’’ fu una risposta ad Anthropologie
structurale, una raccolta di scritti di Levi-Strauss sul legame tra storia ed
etnologia.
Lo stesso Levi-Strauss, nella sua lezione inaugurale come professore di
antropologia sociale al Collège de France nel 1960, espose una relazione
intitolata ‘’L’Anthropologie sociale devant l’Histoire’’, in cui affermava la
necessità di studiare la dimensione storica per fare buona sociologia.
Il rapporto tra gli storici francesi e Levi-Strauss (che era stato più volte
accusato di riservare alla storia un ruolo marginale nei suoi lavori) fu però
virtuale, destinato a non lasciare segni profondi sulla ricerca.
Il confronto con lo strutturalismo divenne una tappa obbligatoria solo alla
fine degli anni Sessanta, quando sarebbero emersi i primi lavori di
antropologia storica.
Un saggio del 1978 di André Burguière fornisce un conteggio degli articoli di
‘’argomento antropologico’’ comparsi su Annales dal 1960: se nel periodo tra
1960-1963 essi non raggiungono solo il 12,5% del totale, nel periodo tra 1969-
1976 essi arrivano al 34% (178 articoli su 522).
La periodizzazione offerta da Burguiére coincide tra l’altro con gli sviluppi
avvenuti al di fuori della Francia, soprattutto in Gran Bretagna.
Alla metà degli anni Sessanta l’antropologia britannica era ormai in crisi, sia
per cause interne (lo stagnamento del funzionalismo), sia per cause esterne
(la decolonizzazione e lo sfaldamento dell’Impero).
Una situazione di stagnamento da cui si uscì proprio portando a termine il
riavvicinamento con la storia, sancito alla data simbolica del 1968, anno in
cui venne pubblicato History adn Social Anthropology, un volume che
raccoglieva le relazioni tenute al convegno dell’ASA (Associazione degli
antropologi sociali britannici) del 1966.
Il volume non aveva certo il merito di saper conquistare il lettore, ma aveva
quello di ratificare il rinnovato contatto.
Ancora più importante fu però il convegno dell’ASA del 1968, tenutosi al
King’s College di Cambridge e avente come tema le accuse e le confessioni di
stregoneria.
Ciò che deve essere ricordato è che al convegno parteciparono anche degli
storici: l’antichista Peter Brown, i modernisti Keith Thomas e Alan Macfarlane
e lo studioso delle radici psicologiche e antropologiche delle persecuzioni
razziali e religiose Norman Cohn.
Per la prima volta dunque degli storici raccoglievano apertamente l’invito di
Evans-Pritchard a porre alle fonti le domande usate sul campo dagli
antropologi.
E sempre per la prima volta il tema della stregoneria, di gusto chiaramente
più antropologico, diveniva d’interesse anche per gli storici.
E sarà proprio la stregoneria ad offrire all’antropologia storica il suo primo, e
forse più esemplare, terreno d’indagine.
IV) ANTROPOLOGI, STORICI E STREGONI

Magia e stregoneria nel corso della storia dell’Occidente si sono configurate


come antitesi diabolica della religione, una condanna che sarebbe venuta
meno solo con la Rivoluzione Scientifica e l’Illuminismo, che le condannarono
però a livello intellettuale come superstizione.
Nella sua conferenza su History and Antrhopology, Evans-Pritchard aveva
notato che gli antropologi si erano occupati più degli storici di stregoneria e
magia, che avrebbero dovuto vederle come legittimi oggetti di indagine.
Il primo storico ad occuparsi di queste fu il pluricitato Keith Thomas, il quale
scrisse un articolo nel 1963 in cui spiegava che magia e stregoneria sarebbero
sembrati agli storici più di un residuo irrazionale, qualora questi avessero
cominciato ad avere confidenza con la letteratura antropologica su di esse.
Thomas notava nel 1968 che per gli storici la stregoneria era ancora un
argomento periferico.
La situazione, a vent’anni da quest’affermazione, era completamente cambiata
all’interno della storiografia, come testimoniato da Carlo Ginzburg, che
vedeva nell’importanza assunta dalla stregoneria la prova ‘’dell’influenza
crescente esercitata dall’antropologia sulla storia’’.

1. LO STUDIO ANTROPOLOGICO DELLA MAGIA E DELLA STREGONERIA


DA FRAZER A EVANS-PRITCHARD

Evans-Pritchard si occupò di magia e stregoneria nel suo volume sugli


Azande del 1937, Witchcraf, Oracles and Magic among the Azande, il risultato di
un lavoro di ricerca sul campo compiuto tra il 1927-1930.
Il testo si propone all’apparenza come una semplice ricerca etnografica, ma in
realtà esso vuole rendere comprensibile al lettore occidentale comportamenti
e credenze lontane dalla sua mentalità.
La domanda che si era posto Evans-Pritchard era in effetti la stessa che a loro
volta si erano posti gli antropologi evoluzionisti, Tylor e Frazer, che avevano
studiato la magia: ‘’il pensiero degli Azande è talmente diverso dal nostro….oppure
è essenzialmente analogo, benché espresso in un idioma al quale non siamo
abituati?’’.
Il rapporto tra magia, scienza e religione aveva dominato nei primi anni di
vita dell’antropologia.
Frazer, ne Il ramo d’oro, aveva sostenuto che tra le popolazioni primitive vi era
una pervasività di comportamenti e credenze magiche, riconducibili tutti a
due principi:

1) La ‘’magia omeopatica’’, per cui ‘’il simile produce il simile’’: principio


metaforico.
Esempio: ‘’Pungere una bambola di cera con un ago equivale a tirare una pugnalata
ad un nemico’’.

2) La ‘’magia contagiosa’’, principio metonimico.


Esempio: ‘’Posso danneggiare un nemico agendo sui suoi capelli’’.

Secondo Frazer questa visione del mondo si contrapponeva alla religione e


si avvicinava ad un atteggiamento scientifico.
Questa somiglianza permetteva anche di cogliere le differenze con la scienza
stessa: al pari delle leggi scientifiche infatti, i due principi della magia (‘’legge
di similarità’’ e ‘’legge del contatto’’) costituivano una modalità di guardare alla
natura, ma a differenza delle leggi scientifiche esse si basavano su
associazioni di idee erronee.
Nello stesso anno in cui Frazer pubblicò l’ultima edizione del suo lavoro
(1922), venivano pubblicati anche La mentalità primitiva di Lévy-Bruhl e
Argonauts of the Western Pacific di Malinowski.
Lévy-Bruhl, influenzato da Durkheim, sosteneva che la mentalità del
primitivo, a differenza di quella del civilizzato, fosse caratterizzata da un
pensiero ‘’prelogico’’ che ignorava i principi di identità, contraddizione e
causalità e che permetteva dunque di accettare l’evento miracoloso/magico;
una posizione che come si è detto avrebbe influenzato anche Marc Bloch.
Questa posizione non trovava d’accordo Malinowski, che accusava Frazer e
Lévy-Bruhl di essere studiosi da tavolino, che ignoravano la grigia normalità
della maggior parte dell’esistenza dei popoli primitivi.
Per Malinowski il primitivo distingueva perfettamente la sfera della magia da
quelle delle attività empiriche, sapeva perfettamente che in condizioni
normali il buon esito di un raccolto dipendeva dalla sua abilità ed esperienza:
la magia era utilizzata solo per imprese incerte e pericolose oppure per
fronteggiare eventi eccezionali contro i quali non potevano nulla le proprie
competenze magico-scientifiche.
Con Malinowski concordava anche Evans-Pritchard, anche se egli apprezzava
alcuni aspetti della riflessione di Lévy-Bruhl, in primo luogo il suo
orientamento sociologico, che si contrapponeva alle spiegazioni in termini di
psicologia individuale date dagli evoluzionisti.
Evans-Pritchard aveva apprezzato soprattutto che Lévy-Bruhl, a differenza
degli evoluzionisti, non avesse tracciato lo sviluppo della razionalità umana
da forme primitive, ma avesse cercato di ricostruire il funzionamento di una
razionalità diversa dalla nostra: ‘’Lévy-Bruhl non sostiene che i primitivi
mancano di intelligenza, ma che le loro credenze sono incomprensibili per noi’’.
Evans-Pritchard andò ad arricchire le considerazioni di Lévy-Bruhl, cercando
di applicarle al suo caso di studio, gli Azande.
Egli aveva notato che tra questa popolazione il concetto di ‘’mangu’’ (che si
può rendere in inglese con ‘’witchcraft’’) era realmente pervasivo, arrivando
addirittura ad indicare una sostanza materiale che si poteva trovare nei corpi
di certe persone.
Il mangu poteva essere trovato attraverso un’autopsia del morto, oppure
tramite il ricorso ad un oracolo (‘’soroka’’), che poteva individuare il
colpevole, che poteva essere affrontato direttamente dalla famiglia del morto
o accusato di fronte alla corte di un principe.
Questo meccanismo mistico rivelava che gli Azande non percepivano gli
eventi in maniera diversa dalla nostra: se un uomo con mangu muore perché
gli crolla addosso un soffitto, i parenti sanno perfettamente che questo è
successo per colpa delle termiti.
Essi però si ponevano la domanda ulteriore di carattere esistenziale ‘’perché
proprio a lui?’’: era qui che interviene la stregoneria.
Il testo di Evans-Pritchard permise di cogliere il punto debole delle altre
monografie sulla magia/stregoneria, che da quel momento non sarebbero più
state descritte in termini astratti.
Con il suo studio sulla stregoneria fra gli Azande, Evans-Pritchard voleva
spiegare che il concetto di mangu era inserito in un sistema dotato di
razionalità propria: anche le posizioni apparentemente più assurde
acquisivano senso all’interno dell’universo degli Azande.
Il materiale raccolto da Evans-Pritchard dimostrava tutta la grande plasticità
del sistema di razionalità azande, che reagiva con successo anche quando un
occhio occidentale avrebbe potuto cogliere una contraddizione o una
falsificazione.
Il pensiero di Lévy-Bruhl avrebbe influenzato anche altri pensatori oltre ad
Evans-Pritchard, come l’epistemologo Michael Polany, che anticipò alcuni
aspetti della riflessione di Thomas Kuhn sostenendo che anche il pensiero
scientifico occidentale avesse meccanismi di difesa come quelli degli
Azande.
Il testo di Evans-Pritchard sugli Azande non ebbe solo il merito di dimostrare
l’esistenza di meccanismi di difesa capaci di dare omeostasi ad un sistema di
pensiero, ma aprì anche gli studi sulle connessioni tra le credenze mistiche
e la struttura sociale.
Analizzando il mangu degli Azande, l’antropologo britannico si era accorto
che gli accusati erano sempre persone note ai parenti delle vittime.
In una società rigidamente stratificata come quella azande, nessuna accusa
era mossa dall’alto verso il basso o viceversa, ma si muovevano
orizzontalmente.
Ad essere accusati potevano essere uomini e donne, ma nella maggior parte
dei casi erano gli anziani a suscitare sospetti; i bambini erano invece ritenuti
incapaci di stregoneria.
Analizzando le accuse, Evans-Pritchard fu in grado di ricostruire la rete delle
tensioni interpersonali e il livello di tensione sociale che attraversavano la
struttura sociale di una comunità.
Questo tipo di studi conobbe una fioritura impressionante negli anni seguenti
alla Seconda Guerra Mondiale, divenendo uno degli ambiti più fiorenti
dell’antropologia sociale.
Le ricerche hanno dimostrato che le accuse venivano rivolte principalmente a
persone con cui in teoria si dovrebbero intrattenere rapporti amichevoli,
come i vicini, con i quali capitava però di trovarsi più spesso in disaccordo.
L’accusa di stregoneria era utilizzata nella maggior parte dei casi per portare
all’estremo un conflitto interpersonale, producendo così degli effetti politici.
Mary Douglas nel 1968 scriveva di essere rimasta delusa dal fatto che gli studi
sulla stregoneria di Evans-Pritchard avessero generato quasi esclusivamente
‘’studi di micropolitica’’, tuttavia fu proprio il quadro analitico creato da questi
studi lo strumento di cui si servirono gli storici per costruire un nuovo
paradigma dello studio della stregoneria.
2. DUE PARADIGMI NELLO STUDIO STORICO DELLA STREGONERIA

Nel 1701 Christian Thomas, giurista tedesco meglio noto come Thomasius
(1655-1728) pubblicò il De crimine magiae, inaugurando un secolo di dibattito
illuminista su magia, stregoneria e demonologia.
La ‘’caccia alle streghe’’ si era conclusa solo da pochi anni, spingendo gli
intellettuali europei ad interrogarsi se la stregoneria fosse ‘’un crimine da
punire o una fantasia da compatire’’.
Un secolo e mezzo più tardi le credenze magiche apparivano ormai confinate
ai popoli primitivi, mentre i processi di stregoneria erano visti come una
macchia nella storia europea di cui dovevano occuparsi gli storici.
Il primo lavoro importante prodotto da questi studi fu La Sorcière (1862) di
Jules Michelet (1798-1874), storico della Rivoluzione Francese, che studiò la
figura della strega da ‘’l’età leggendaria’’ fino alla sua epoca storica.
Al momento della pubblicazione del testo Michelet era caduto in disgrazia a
causa della sua decisione di non giurare fedeltà al governo di Napolene III,
quindi la scelta di dedicarsi ad un argomento scabroso come quello della
stregoneria non giocava di certo a suo favore.
Si trattava di un’opera di difficile classificazione, in quanto scritta a modello
di romanzo, caratteristica che venne lodata prima da Victor Hugo e in seguito
dalla storiografia dell’Annales.
La Sorcière è un libro indubbiamente protofemminista, una storia della figura
femminile della strega che ha una scrittura molto vicina ai canoni post-
modernisti; esso tuttavia non lasciò un segno immediato.
Molta più fortuna ebbe il teologo liberale tedesco Wilhelm Gottlieb Soldan
(1803-1869), che nel 1843 pubblicò una raccolta sistematica di processi alle
streghe, inserita all’interno di un volume in cui queste fonti erano
interpretate.
Il modello di Soldan venne ripreso da storici come Lea, Lincoln Burr, Hansen
e Notestein (quest’ultimo autore di un’opera sulla stregoneria che avrebbe
influenzato almeno tre generazioni di studiosi).
Questi storici, assieme ovviamente a Soldan, costituirono un nuovo modo di
avvicinarsi allo studio della caccia alle streghe, definito il ‘’paradigma
soldaniano’’.
Nelle opere di coloro che aderivano a questo modello interpretativo le
streghe erano donne accusate e processate secondo procedure arbitrarie, che
confessavano solo per far terminare la tortura: in alcun modo nelle loro
confessioni poteva esservi traccia di una qualche minima verità.
La continuità di questo filone venne interrotta dal volume già citato di
Margaret Murray, The Witch-Cult in Western Europe. A study in Anthropology
(1921).
La Murray si approcciò alle carte con una sensibilità antropologica che
aveva impressionato Geoffrey Gorer, che infatti aveva consigliato agli storici
il suo volume come esempio del contributo che l’antropologia poteva dare
alla storia.
A differenza degli storici soldaniani, la Murray prese le distanze dagli storici
che sostenevano che coloro che venivano accusati di stregoneria fossero per
forza persone che soffrivano di isteria o in preda ad allucinazioni.
L’incredulità dei contemporanei non doveva far dimenticare che nel passato
anche le menti più brillanti avevano creduto alla stregoneria, mentre gli
scettici erano spesso ‘’personaggi grigi e mediocri’’.
Lo stesso Jean Bodin (1529-1596) nel 1580 scrisse un volume, intitolato
Démonomanie des Sorciers, in cui incitava alla repressione della stregoneria.
Dalle confessioni di streghe e stregoni si ricavava qualcosa di nuovo, una
realtà dimenticata e perduta fatta di culti della fertilità animale e vegetale
risalenti all’età precristiana (se non preromana).
Questi culti rimasero la religione dominante fra le masse rurali per tutto il
Medioevo e la prima età moderna al di sotto della facciata cristiana.
Questi culti vennero spazzati via dalla Controriforma, ma le loro tracce sono
sopravvissute proprio nelle descrizioni fatte agli inquisitori, che vedevano
nella descrizione di questi proprio il ‘’sabba’’ satanico.
Nonostante fossero molti gli accusati che dichiaravano di aver partecipato a
culti notturni, la Murray era a conoscenza della principale obiezione che
sarebbe stata mossa al suo lavoro: le confessioni erano state estorte con la
tortura.
Ma anche ammettendo che ciò fosse vero, vi erano troppi dettagli di cui non
si poteva ignorare la presenza.
Le posizioni proposte da The Witch-Cult in Western Europe conobbero un vasto
e rapido successo, garantendo alla Murray un’autorevolezza notevole, a tal
punto che le venne chiesto di compilare la voce ‘’Witchcraft’’ all’interno
dell’Encyclopedia Britannica (IVa edizione, 1929).
Secondo Ginzburg le tesi della Murray persero però di peso in quanto essa
aveva omesso le descrizioni più imbarazzanti, quelle che riguardavano il
volo notturno o la trasformazione in animali.
Il libro pubblicato dalla Murray nel 1931, The God of the Witches, fu un fiasco e
già nel 1940 la sua voce era per lo più ignorata.
La caccia alle streghe continuò a lungo ad essere considerata una pagina
dolorosa e secondaria della storia d’Europa, oltre che un argomento di
secondo piano per la storiografia.
Rimase ancora a lungo un argomento affidato a folkloristi e antropologi,
salvo qualche rara eccezione, come l’articolo scritto nel 1948 da Lucien Febvre
sui processi di stregoneria nella Franca Contea nei primi anni del Seicento.
Febvre poneva sull’Annales il quesito ultimo: com’era possibile che gli uomini
più brillanti del Seicento avessero potuto credere davvero alla stregoneria?
Se la Murray, ‘’credente’’ nella stregoneria, non era rimasta stupita da questo
fatto, al contrario Febvre, ‘’non credente’’ nella stregoneria, suggeriva che la
causa di ciò stava nella differenza di mentalità: ‘’Tra noi e loro devono aver
avuto luogo delle rivoluzioni; di quelle rivoluzioni dello spirito che avvengono
senza rumore e che nessuno storico si cura di registrare’’.
La considerazione di Febvre ravvivò gli studi sul tema stregonesco, rinnovati
da due volumi: Magistrats et sorciers en France au XVII siecle (1968)di Robert
Mandrou (1921-1984) e The European Witch-Craze of the Sixteen and Seventeenth
Centuries (1967) di Hugh Trevor-Roper (1914-2003).
Se il testo di Mandrou si occupa principalmente della psicologia collettiva di
un preciso gruppo sociale (i magistrati), quello di Trevor-Roper cerca prova a
spiegare per quali ragioni le credenze nella stregoneria si fossero trasformate
in una forza esplosiva capace di scatenare una selvaggia persecuzione.
Per Trevor-Roper streghe e stregoni erano ‘’capri espiatori’’ a cui era
assegnata la responsabilità per le sventure e le tensioni che nel Seicento
stavano attraversando l’Europa: la peste, le guerre di religione, i rigorismi
della Riforma e Controriforma.
La stregoneria sarebbe stata una forma di nevrosi collettiva di cui le donne e
gli uomini accusati di stregoneria avrebbero pagato il prezzo.
Il merito più grande dei libri di Mandrou e di Trevor-Roper fu però quello di
aver dato dignità alla stregoneria come tema storiografico.
Il saggio di Trevor-Roper appare oggi del tutto estraneo all’impostazione
delle ricerche storiche sulla stregoneria, in primo luogo perché privo di una
prospettiva antropologica.
Trevor-Roper non nascose mai la sua poca empatia per l’antropologia e per
quegli ‘’storici attivi nel dirci che dovremmo introdurre più antropologia nello
studio della storia’’.
A differenza della Murray dunque, Trevor-Roper nella sua trattazione aveva
deciso di ignorare quelle che per lui erano delle ‘’credulità contadine’’; nella
sua impostazione egli era dunque più fedele al paradigma soldaniano.
Gli storici a cui alludeva Trevor-Roper nel suo discorso del 1973 citato poco fa
erano Keith Thomas e Alan Macfarlane (1941), i due modernisti che erano
intervenuti nel 1968 al convegno degli antropologi sociali britannici (ASA).
Entrambi avevano effettivamente espresso la loro insoddisfazione per il
saggio di Trevor-Roper, che avevano trovato una semplice esposizione
generale.
Nel 1967 Macfarlane aveva completato la sua tesi di dottorato, sotto la guida
di Thomas, ad Oxford, un lavoro incentrato sugli atti processuali conservati
negli archivi dell’Essex.
A differenza di Trevor-Roper, che aveva sostenuto che non si potesse sapere
della stregoneria più di quanto vi era nel suo volume, secondo Macfarlane su
di essa si sapeva pochissimo.
Dati e informazioni nuovi sarebbero però emerse solo interrogando le fonti
con il metodo dell’antropologia, che avrebbe portato ad elaborare domande
nuove, diverse dalle solite (‘’La responsabilità delle persecuzioni ricade più sui
cattolici o sui protestanti? Sulle autorità religiose o su quelle civili?’’).
Nelle relazioni che presentarono al convegno el 1968, Thomas e Macfarlane
sostenevano che in archivi totalmente inesplorati vi era un’enorme quantità
di materiale nuovo.
La relazione esposta da Thomas era destinata ad espandersi negli anni
successivi, divenendo parte di Religion and the Decline of Magic (1971),
imponente opera che documenta la ‘’rivoluzione senza rumore’’ che aveva
portato al declino delle credenze magiche e prodotto il ‘’disincantamento’’
tipico della società occidentale (il concetto weberiano di ‘’Entzauberung’’).
I lavori di Thomas e Macfarlane costituirono il primo esempio del nuovo
paradigma storiografico sullo studio della stregoneria.
Questo è caratterizzato in primo luogo dall’applicazione della teoria
antropologica, grazie alla quale i due erano riusciti a dimostrare per esempio
che anche nei villaggi inglesi d’età elisabettiana la credenza nella stregoneria
serviva a spiegare disgrazie, proprio come tra gli Azande di Evans-Pritchard.
I due avevano dimostrato anche che le accuse erano usate metodicamente per
risolvere un conflitto, e che i sospetti appartenevano a precise categorie:
donne, anziane/sole/vedove e in ogni caso povere e residenti nello stesso
vicinato dei loro accusatori.
Queste erano sempre descritte come persone cattive e malvagie, dall’aspetto
minaccioso e nemiche di chi non prestava loro aiuto.
Secondo Thomas e Macfarlane questo tipo di persone venivano accusate
principalmente perché nella società inglese di metà Cinquecento era avvenuta
una decisiva rivoluzione, che aveva portato alla sostituzione di un sistema
assistenziale basato sull’iniziativa della comunità di villaggio con uno di tipo
nazionale.
Emergeva dunque una profonda tensione tra il sentimento di carità cristiana
e quello che invece imponevano di fare le autorità, che scoraggiavano le
tradizionali pratiche assistenziali.
Il senso di colpa che emergeva da questa situazione, in cui i capifamiglia
erano obbligati a cacciare i mendicanti che bussavano alla porta per chiedere
sostegno, forniva terreno fertile per la caccia alle streghe.
La teoria della ‘’carità rifiutata’’ è stata oggetto di pesanti critiche nel corso
degli ultimi anni, tuttavia è innegabile che essa abbia avuto il merito di
andare oltre la precedente idea di stregoneria intesa come delirio propagatosi
misteriosamente in Europa, per introdurne una che la vedeva come credenza
dotata di razionalità propria.
Altrettanto importanti erano le novità metodologiche, basate in primo luogo
sull’abbandono del livello ‘’anatomico-macroscopico’’ di Trevor-Roper e
sull’utilizzo di quello ‘’istologico-microscopico’’ della contea/villaggio.
Gli altri tratti distintivi del rinnovato paradigma storiografico sulla
stregoneria erano l’identificazione di materiale d’archivi e l’analisi intensiva
di questo, non più considerato dagli storici come ‘’poco attraente’’ (Ginzburg).
Studiare in profondità i documenti processuali dava allo storico la possibilità
di ricostruire cosa per i nativi rappresentasse la stregoneria.
È indubbio che le confessioni siano qualcosa di ripetitivo, tuttavia leggendole
ci si accorge che si è di fronte ad un vero e proprio dialogo tra voci diverse e
contrastanti.
La scelta metodologica di Macfarlane, e poi di Ginzburg e di altri pionieri
dell’antropologia storica, fu quella di immergersi in profondità in una
documentazione che a molti storici era risultata poco attraente al fine di
renderla più profonda.
L’enorme quantità di informazioni presenti nei fondi archivistici poneva gli
storici in una posizione di vantaggio sugli antropologi, avendo la possibilità
di poter contare su una quantità di materiale più abbondante (Julio Caro
Baroja).
Il vantaggio dato dalla documentazione storica era la possibilità di registrare
le variazioni nel tempo (si poteva dunque valutare l’oscillazione del numero
dei processi di stregoneria); un rinnovamento parallelo alla crisi che stava
vivendo l’antropologia sociale, troppo concentrata sugli aspetti statici della
società.
La difficoltà principale che lo storico doveva affrontare in questa situazione
era invece la necessità di ricreare il contesto etnografico, che l’antropologo
poteva invece vivere in prima persona dall’antropologo.
Tra la possibilità di far emergere la dimensione microscopica del villaggio
tramite quanto detto negli atti processuali o selezionare un gruppo di villaggi
e applicare ad essi procedimenti analoghi a quelli adottati dagli antropologi
sul terreno, Macfarlane aveva scelto quest’ultima opzione, arrivando a
ricostruire i rapporti di vicinato/parentela/affinità, il censo degli abitanti, la
topografia del villaggio, la loro religione.
Macfarlane, uno degli ideatori del procedimento di ‘’ricostruzione totale’’,
era anche attento ad una ricostruzione del contesto etnografico guidato dalle
preoccupazioni teoriche dell’antropologia sociale.
A differenziare il lavoro di Macfarlane da quello di Ginzburg era l’interesse
che quest’ultimo aveva per altri tipi di fonti oltre agli atti processuali e la
maggiore attenzione alle confessioni di stregoneria piuttosto che sulle
accuse.
Ginzburg era stato ispirato non tanto dal volume di Evans-Pritchard (che
Thomas e Macfarlane avevano preso a modello), quanto piuttosto dai lavori
dell’antropologo italiano Ernesto De Martino (1908-1965), in particolar modo
Mondo magico (1948).
Ginzuburg era stato spinto dai lavori di De Martino a vedere nelle credenze
nella stregoneria un’origine popolare e a credere che nei processi si fossero
verificati degli scontri tra culture differenti.
Questa ipotesi sembrò confermata dalla sua prima grande monografia, I
Benandanti (1966), uno studio compiuto da Ginzburg su alcuni processi,
trovati nell’Archivio Arcivescovile di Udine, ad una sorta di associazione o
confraternita rurale a cui appartenevano per destino tutti coloro che erano
‘’nati con la camisciola’’, ovvero avvolti dalla membrana amniotica.
Il termine ‘’benandante’’ in friulano significa ‘’stregone’’, ma Ginzburg notava
che nei processi condotti dall’Inquisizione contro i benandanti questi ultimi
non si definirono mai stregoni.
Essi erano infatti convinti di combattere gli stregoni, e questo in quattro
occasioni durante l’anno (le notti delle ‘’quattro tempora’’, i giorni ad inizio di
ogni stagione in cui la Chiesa prescriveva il digiuno).
Durante queste notti i benandanti abbandonavano il proprio corpo, che
giaceva come morto, e chiamati da un messaggero divino essi si recavano in
un prato a combattere ‘’li stregoni del diavolo’’, ma questo ‘’in favore di
Christo’’ e ‘’per amor delle biave’’, ovvero a protezione dei raccolti.
Ammettere di fare questo non costituiva per i benandanti una confessione di
stregoneria, allo stesso tempo gli inquisitori rimanevano sconcertati da questi
racconti; solo dopo mezzo secolo di processi l’Inquisizione riuscì a far sì che i
benandanti ammettessero apertamente di essere stregoni.
Nell’anno in cui Ginzburg pubblicava il suo volume veniva anche ridata alle
stampe la più importante opera sulla stregoneria di Margaret Murray, The
Witch-Cult in Western Europe, da cui lo storico piemontese prendeva le debite
distanze, ma nel quale dichiarava di vedere un ‘’nocciolo di verità’’.
A stupire Ginzburg era che le battaglie descritte dai benandanti avevano un
incredibile parallelo nella confessione fatta ai giudici di una città della
Livonia (Jurgensburg) da un certo Thiess.
Quest’ultimo aveva dichiarato di essere un lupo mannaro, che in tre occasioni
durante l’anno (le notti di Santa Lucia, di Pentecoste e di San Giovanni) si
recava in un luogo solitario per combattere contro il diavolo e gli stregoni
assieme ad altri lupi mannari,
La scoperta di credenze così simili ad una distanza geografica così vasta
suggeriva a Ginzburg l’esistenza di una connessione reale tra i benandanti e
gli sciamani, con i quali sembravano condividere credenze e pratiche.
Rintracciare i fili che legavano i benandanti ad aree così lontane nello spazio
era però molto complesso, cosa che spinse Ginzburg a non spingersi troppo
in là con la comparazione (come consigliato da Bloch).
Tuttavia egli portò a lungo avanti questo interesse, che riemerse con forza in
uno dei suoi lavori più celebri e discussi: Storia notturna (1989), un’opera che
venne accusata di ‘’murraismo’’ in quanto indicava nei rituali sciamanici di
area siberiana le radici dei culti agrari friulani del Cinquecento.
Il ‘’nocciolo di verità’’ di cui aveva parlato Ginzburg riferendosi al lavoro della
Murray (egittologa di formazione) stava proprio nella scelta di aver preso sul
serio le confessioni delle streghe, che poi sono giunte a noi tramite il filtro
inquisitorio.
La pubblicazione dei benandanti aveva avverato di fatto la profezia di Gorer,
che aveva consigliato agli storici di seguire il modello della Murray, secondo
il quale si doveva credere alla verità delle confessioni per arrivare a riscoprire
le pratiche e l’εθος dei gruppi/delle popolazioni subalterne.

3. STREGONERIA, INQUISIZIONE E ETNOGRAFIA

A trent’anni dalle relazioni tenute da Thomas e Macfarlane al convegno del


1968 dell’ASA, gli studi sulla stregoneria avevano conosciuto uno sviluppo
impressionante, fornendo un modello perfetto dell’utilità di coniugare storia
e antropologia.
Una delle ragioni principali del successo era stata la dimostrazione delle
potenzialità dei fondi archivistici prodotti dall’attività inquisitoriale in
Europa e nel Nuovo Mondo.
La scelta di Macfarlane di adottare delle tecniche di analisi quantitativa usate
dagli storici economici venne ripresa anche da altri studiosi, aprendo così un
filone di ricerca che era stato capace di legarsi alle fortune della storia
quantitativa, che dopo aver conosciuto un notevole successo tra gli anni
Settanta/Ottanta, ha conosciuto più recentemente una fase di ripiego.
Nell’ambito della stregoneria ha avuto però senza dubbio maggiore successo
un approccio qualitativo, basato sull’utilizzo dell’archivio come terreno di
carattere etnografico (le domande dell’inquisitore divenivano quelle rivolte
dall’antropologo ai suoi informatori sul campo).
Il trionfo di questa modalità fu segnato dall’enorme successo di vendite a
livello globale avuto da Montaillou, village occitane (1975) di Emmanuel Le Roy
Ladurie.
In Montaillou non si parla di stregoneria, quanto piuttosto di eresia partendo
dagli atti d’inchiesta che l’inquisitore Jacques Fournier (poi papa Benedetto
XII, 1334-1342) aprì nel 1320 per appuntare se gli abitanti di un piccolo
villaggio occitano avessero propagato l’eresia catara.
Nell’introduzione, intitolata Dall’Inquisizione all’etnografia, Ladurie dichiarava
di aver preso a modello gli studi sulle comunità contadine di Robert Redfield,
ed effettivamente il suo volume seguiva i canoni della letteratura etnografica:
all’inizio capitoli dedicati all’ambiente naturale e in seguito una descrizione
della mentalità.
Montaillou fu senza dubbio l’esperimento di antropologia storica più
soddisfacente fino ad allora tentato, tuttavia anch’esso presentava dei difetti,
dovuti soprattutto ad un imperfetto controllo della letteratura antropologica.
Un decennio dopo la sua pubblicazione, il lavoro di Ladurie era già oggetto
delle prime critiche postmoderniste.
Ladurie, storico dell’Annales, si era posto con la sua monografia di far
emergere delle testimonianze dirette che avrebbero permesso di studiare
anche gli strati più umili della società medievale con la loro cultura, di solito
ignorati dagli storici, che anzi tendevano ad assegnarle poca dignità.
In un saggio presente in Writing Culture, la carta di fondazione
dell’antropologia postmodernista, Renato Rosaldo (1941) accusava Ladurie di
aver presentato le sue testimonianze come oggettive e non problematiche, e
questo nonostante esse fossero state estorte dagli inquisitori.
Lo storico francese aveva dato per scontato che le voci non fossero state
deformate, ma soprattutto aveva presupposto che queste sarebbero risultate
immediatamente comprensibili al lettore contemporaneo.
Alle critiche, forse troppo severe, di Rosaldo rispose Ginzburg in un saggio
intitolato L’inquisitore come antropologo, all’interno del quale lo storico italiano
ammetteva che fonti come i processi ai benandanti o il processo di Fournier
erano di parte.
Tuttavia era possibile, grazie ad una lettura intensiva della fonte, andare al di
là della superficie del testo, di per se’ un ‘’sottile gioco di minacce, di paure, di
assalti e di ritirate’’.
Rimaneva però l’altro problema presentato da Rosaldo, quello relativo alla
‘’traduzione’’ delle fonti, un tema già toccato da Evans-Pritchard nel suo
libro sugli Azande, ma presente già in Lévy-Bruhl e Bloch.
Il problema si presentava come particolarmente cruciale soprattutto quando
si trattava di studiare quelle che Lèvy-Bruhl aveva definito credenze
‘’mistiche’’.
Verso la metà degli anni Settanta le nozioni di ‘’magia’’ e di ‘’stregoneria’’
furono oggetto di un importante dibattito tra Keith Thomas ed Hildred
Geertz (1927), moglie di Clifford Geertz.
Secondo la Geertz lo storico inglese aveva commesso un errore
epistemologico usando ‘’religione’’, ‘’magia’’, ‘’stregoneria’’ come termini
analitici che rimandavano a fenomeni simili nelle diverse culture.
Si trattava per la Geertz di un uso scorretto del lavoro di Evans-Pritchard, che
ella voleva lievemente forzare verso le posizioni del marito; lievemente
perché l’antropologia semantica aveva la sua roccaforte proprio ad Oxford
tra gli allievi di Evans-Pritchard.
Allo stesso tempo pare giusto ricordare il mutato atteggiamento di Thomas,
che, se nel 1968 invitava ad una maggiore apertura con l’antropologia, si
dichiarava ora preoccupato dalle tendenze relativistiche della nuova
antropologia.
Per Thomas ‘’la prospettiva più ampia dell’antropologo odierno….distingue
inevitabilmente i suoi metodi da quelli dello storico’’: una posizione che sarebbe
stata contraddetta dalla grande popolarità che l’antropologia di Geertz
avrebbe conosciuto tra gli storici.
V) ALTRE STORIE, STORIE ALTRE

In un articolo del 1977 Arnaldo Momigliano notava che tra i tratti distintivi
della storiografia degli anni Sessanta-primi Settanta era il crescente interesse
per le condizioni sociali e culturali subalterne (gruppi oppressi o minoritari,
contadini, eretici, donne, operai, schiavi, uomini/donne di colore ecc…).
Momigliano sembrava soprattutto denunciare la ‘’sparizione dei confini fra
storia e sociologia (o antropologia)’’.
Aveva notato che gli antropologi avevano ormai raggiunto un prestigio senza
precedenti tra gli storici, qualcosa che aveva colto anche un altro importante
storico, Lawrence Stone (1919-1999).
Secondo Stone, inglese ma professore all’Università di Princeton negli U.S.A.,
nella storiografia americana tutte le ricerche avevano per tema gli oppressi e
i diseredati.
Il prestigio raggiunto dalla sociologia era per lui la principale motivazione di
questo slittamento di interessi, anche se si vedeva costretto ad ammettere che
‘’l’influenza più potente viene dalla demografia e dall’antropologia sociale e
simbolica’’.
Gli antropologi non erano più dunque i ‘’parenti sfortunati’’ di cui parlava
Kroeber, al contrario erano sempre più cercati per ottenere indicazioni
teoriche necessarie per non sprecare la ricchezza del materiale storico.

1. ‘’PRODUTTORI’’ E ‘’CONSUMATORI’’ DI STORIA

Anche se Momigliano e Stone sottolineavano il nuovo prestigio di cui gli


antropologi godevano fra gli storici, essi non guardavano ad essi come a dei
possibili contributori in ambito storiografico.
Il venire meno dei confini non significava l’unificazione delle due discipline,
ma la caduta di una barriera doganale che in precedenza impediva i contatti.
Presentare il rapporto tra le due discipline in termini di sola l’influenza
voleva dire vedere negli antropologi dei semplici ‘’consumatori’’ di storia.
Evans-Prtichard aveva indicato però anche un’altra modalità di contatto
quando aveva spinto gli antropologi ad indagare anche le società complesse,
che effettivamente cominciarono ad essere studiate sempre con maggiore
attenzione dagli antropologi, specialmente gli ‘’europeisti’’.
Un caso molto noto ed interessante rimane quello rappresentato da The
Hidden Frontier, testo del 1974 di Eric Wolf e John Cole basato sulle ricerche di
campo compiute in due villaggi della Val di Non tra il 1960 e il 1969.
Prima di presentare il materiale etnografico vero e proprio però, i due
antropologi avevano inserito dei capitoli ‘’storici’’ in cui raccontavano il
processo di formazione dell’identità tirolese dagli insediamenti preistorici
fino all’Ottocento.
I due specificavano nell’introduzione di aver ‘’collocato questo studio nel quadro
di una storia più generale’’ e che ‘’Se [il lettore] vorrà evitare di essere
appesantito da questo interesse per il passato, potrà saltare direttamente al capitolo
6’’.
Questo passo aiuta capire che ancora per molti antropologi l’interesse per il
passato rimaneva qualcosa di superfluo e inutilmente pesante.
Il testo di Cole e Wolf aderiva pienamente al programma dell’Annales (rifiuto
dell’avvenimento, ricerca di strutture più profonde) e allo stesso tempo si
presentava come una storia antropologica nel senso di ‘’microscopica’’.
Lavori antropologici come questo non avevano comunque attirato molto
l’attenzione degli storici, come notava l’antropologo John Davis (1938-2017).
Davis aveva notato che anche se gli autori di questi libri si erano avventurati
in delle ricerche d’archivio (più o meno estese), i dati originali che avevano
raccolto erano meno interessanti di quelli desunti da fonti secondarie.
La chiusura di Davis lasciava poco spazio ad una fusione: ‘’si è produttori in
una disciplina, consumatori nell’altra’’.
Le riflessioni Davis sono utili per mettere in luce un’importante caratteristica
dell’antropologia storica: l’asimmetria tra storici e antropologi, che ha nella
storia antica il suo caso più evidente.
Si era visto come i primi antropologi avessero alle spalle una formazione
classica, tuttavia questa a partire dagli anni Venti del XX secolo era
totalmente venuta a mancare tra gli antropologi.
L’asimmetria si può cogliere anche all’interno degli studi sulla stregoneria,
dove l’antropologia ha fornito nuove domande e strumenti, lasciando poi la
colonizzazione di questo settore dell’antropologia storica a storici , come i già
citati Thomas/Ginzburg/Macfarlane.
Ruoli e identità si sono comunque rivelati meno rigidi di quanto avesse
ritenuto Davis.
Vi sono stati infatti casi in cui alcuni storici hanno acquisito una qualifica
professionale come antropologi; il caso di Macfarlane è stato quello più
eclatante: dopo il dottorato in storia egli infatti si laureò in antropologia
sociale.
La maggiore considerazione in cui è tenuta ora la storia ha spinto gli
antropologi a guardare con meno diffidenza la figura dell’antropologo da
tavolino, figura che l’antropologo storico ovviamente tende ad essere.
Questo nuovo clima ha permesso a qualche antropologo di portare contributi
significativi a campi che sembravano vietati; si vedano i lavori di Adriana
Destro sull’ebraismo mishanaico e talmudico.
Molti sono oggi gli antropologi che si sono guadagnati il rispetto degli storici
professionisti, favoriti senza dubbio dalla nascita di un nuovo orizzonte
storiografico, che minimizza le differenze, e dal successo della ‘’storia
analitica’’, che ha favorito lo sviluppo dell’antropologia storica.
Non mancano però nemmeno ora degli atteggiamenti scettici verso questo
modo di fare storia e verso lo stesso connubio tra storia ed antropologia.
Come aveva ricordato Stone gli storici non erano attirati solo da discipline
‘’qualitative’’ come l’antropologia, ma anche da scienze ‘’quantitative’’ come
l’economia e la demografia.
I lavori di Thomas e Macfarlane sulla stregoneria offrivano una chiara
dimostrazione dell’influenza dell’antropologia sociale.
Negli Stati Uniti conobbe invece uno straordinario successo l’antropologia
simbolica di Geertz, le cui opere erano apprezzate dalla pressoché totalità
degli storici americani.
Tra antropologia sociale classica e antropologia simbolica emergevano chiare
differenze, che permangono tutt’ora (forse ancora più radicalizzate); un tipo
di tensione differente dunque, interna stavolta alla stessa antropologia.

2. STORIA QUANTITATIVA E STORIA INTERPRETATIVA

Nel 1977 Momigliano, oltre ad aver sottolineato l’internazionalizzazione del


lavoro storiografico, notava anche il predominio della storiografia francese
su quella americana.
Le due storiografie erano comunque accomunate dal predominio della storia
quantitativa.
Nei vent’anni successivi al secondo conflitto mondiale era prevalsa in
America una storia culturale influenzata dall’antropologia, la cui attenzione
era stata indirizzata verso lo studio di valori e simboli unificanti (la figura del
‘’self-made man’’ per esempio).
Nel mutato clima politico degli anni Sessanta, caratterizzato dalla lotta per i
diritti sociali da parte di minoranze/donne, gli storici americani
cominciarono ad affidarsi ai numeri per determinare i livelli di stratificazione
e mobilità sociale del passato.
Anche la scuola dell’Annales francese, interessata in primo luogo alla storia
dell’Antico Regime, aveva cominciato a vedere nella quantificazione lo
strumento per studiare il ‘’popolo minuto’’, la cui voce raramente era riuscita
ad emergere dalle fonti.
Tracce di vita materiale si potevano trovare invece in registri parrocchiali e
catasti.
François Furet (1927-1997), uno dei più importati storici dell’Annales, nel 1963
affermò che la massa, destinata al ‘’silenzio’’ nelle fonti, poteva emergere
tramite nel segno ‘’del numero e dell’anonimato’’.
A dare l’impulso decisivo alla storia quantitativa fu la comparsa dei primi
calcolatori, grazie ai quali gli storici potevano dedicarsi a progetti che in
precedenza avrebbero scoraggiato per mole e quantitativo.
Un esempio celeberrimo, quello delle schede antropometriche analizzate da
Ladurie, ci aveva dimostrato non solo il potenziale dell’analisi quantitativa,
ma anche di come essa potesse coniugarsi al programma dell’antropologia
storica.
Le ricerche sulle ‘’masse popolari’’ privilegiavano ovviamente un livello
macroscopico, lontano dall’analisi dei piccoli villaggi e dei piccoli universi
umani.
Non sconvolge che molti dei più grandi (si intende a livello di mole) progetti
storiografici venne condotta negli anni Settanta, i cosiddetti ‘’tirannosauri della
nostra epoca’’ (Stone).
I metodi d’indagine della storia quantitativa erano mutuati dall’ecometria,
dalla demografia, dalla statistica e dalla stessa informatica, cosa che generò
una metodologia che incoraggiò l’utilizzo di modelli dominanti nelle scienze
fisiche e comportamentiste.
I rappresentati della ‘’nuova storia economica’’, quasi tutti economisti di
formazione, si proposero addirittura di ‘’scientifizzare la storia’’.
A differenza della nuova storia economica , la storiografia dell’Annales decise di
non restringere l’uso di metodi statistici solo a ciò che effettivamente era
calcolabile, ma di utilizzarlo anche per studiare fenomeni ‘’sovrastrutturali’’
(numero di persone in grado di scrivere, percentuale di testamenti con
invocazioni alla vergine).
La storia tradizionale si era spesso accontentata di asserzioni imprecise,
basate su evidenze letterarie (diari, resoconti di viaggio, autobiografie ecc…),
al contrario le nuove fonti trovate dalla storia quantitativa costringevano lo
storico a rendere più esplicite le sue affermazioni.
Come arrivò a notare anche Lawrence Stone però, anche l’approccio di tipo
quantitativo si tradusse ad un certo momento in un’ ‘’idolatria dei grafici e
delle tabelle’’.
Si era arrivati addirittura al punto che presentare solo dati ‘’qualitativi’’ era
divenuto motivo d’imbarazzo; addirittura Keith Thomas fu costretto a
scusarsi con il lettore per non essere stato in grado di inserire ‘’precisi dati
statistici’’ nel suo volume sul declino della magia.
Questa deferenza nei confronti del dato quantitativo venne rimproverata a
Thomas da Edward Palmer Thompson (1924-1993), uno dei più importanti
storici marxisti inglesi del Secondo Novecento.
I dati statistici di cui si era servito Thomas erano sostanzialmente quelli usati
anche da Macfarlane, tuttavia questo tipo di quantificazione era agli occhi di
Thompson uno strumento del tutto inadatto da solo a dimostrare un declino
delle credenze nella stregoneria e nella magia.
Anche se per gli storici dell’Annales era possibile quantificare la cultura e le
credenze in una certa misura, per Thompson vi era sempre il rischio di fare
inferenze: ‘’ammesso che le azioni umane possano essere contate in modi sempre più
precisi, è improbabile che il contarle possa svelare sempre il loro significato’’.
Per arrivare al significato e all’esperienza era necessario analizzare anche le
fonti letterarie; Thompson nelle sue osservazioni sul volume di Thomas, si
stupiva del fatto che egli non avesse nemmeno accennato alla critica letteraria,
destinata a tornare molto di moda tra storici e antropologi negli anni seguenti
grazie soprattutto a due volumi: Metahistory (1973) dello storico Hayden
White, e The Interpretations of Cultures (1973) di Clifford Geertz.
Le riflessioni di Thompson presentavano numerosi tratti di convergenza con
le proposte teorico/metodologiche elaborate da Geertz, che si era formato ad
Harvard con Kluckhohn e Parsons, impegnati in quegli anni a rielaborare in
termini weberiani il concetto di cultura, inteso come sistema di simboli e
valori condivisi.
Geertz, prima di pubblicare The Interpretations of Cultures, si era rivelato essere
un appassionato e assiduo etnografo.
La sua prima esperienza sul campo si svolse tra il 1952-1954, periodo in cui
visse in un villaggio giavanese (a cui diede lo pseudonimo di ‘’Modjokuto’’)
con la moglie Hildred.
Geertz tornò nel Sud-Est asiatico tra il 1957-1958, quando condusse ricerche
nell’isola di Bali.
Da questi dati biografici possiamo constatare che Geertz non fu uno studioso
da tavolino, ma un valido etnografo, tra i primi ad essersi impegnato nello
studio di società complesse come quelle dell’Europa o del Sud-Est asiatico.
Il primo testo di Geertz fu Agricultural Involution (1963), definibile un lavoro
di etnostoria con cui voleva offrire una spiegazione dell’arretratezza
economica di Giava e Bali che andasse oltre lo stereotipo della ‘’mentalità
orientale’’.
Introducendo il concetto biologico di ‘’ecosistema’’, Geertz aveva spiegato
cosa distinguesse Sumatra e le altre isole dell’Indonesia esterna, in cui vi era
un tipo di agricoltura nomade che frenava la crescita della popolazione, dalle
isole dell’Indonesia interna (Bali e Giava), in cui prevaleva la coltivazione del
riso.
I tre secoli di dominio olandese (1619-1642) avevano infatti originato una
spaccatura tra il settore delle piantagioni, controllato dagli Olandesi e
orientato all’esportazione, e quello della coltivazione del riso, destinato al
mercato interno e capace di favorire l’aumento della popolazione e il suo
progressivo impoverimento.
Nel 1965 Geertz pubblicò invece The Social History of an Indonesian Town,
dedicato a Modjokuto, dove si analizzavano più da vicino i processi di
trasformazione economica descritti nell’opera precedente.
Molto interessanti erano gli ultimi capitoli del testo, che offrivano un
resoconto delle vicende più recenti della città.
L’antropologo americano era stato testimone di molti di queste vicende,
mentre altre gli erano state riferite, oppure erano di dominio pubblico.
Per non danneggiare la narrazione Geertz li lasciò nel testo, decidendo di
trattarli come fatti storici; una scelta che avrebbe anticipato diverse idee
destinate ad imporsi tra gli storici nel giro di qualche anno.
I testi del 1963 e del 1965 erano i lavori più ‘’storici’’ di Geertz, eppure questi
incontrarono molto meno favore rispetto a The Interpretations of Cultures del
1973, che di storico non aveva nulla.
Il testo conteneva una serie di saggi scritti tra il 1959 e il 1972 , tra i quali
spiccava Thick Description: Toward an Interpretive Theory of Culture , che venne
molto apprezzato dagli storici in quanto in esso l’autore ammetteva che il
concetto di cultura elaborato dagli antropologi da Tylor a Kluckkohn era
divenuto eclettico e confuso.
Questa poca chiarezza aveva spinto gli storici americani ad abbandonare il
terreno della storia culturale per passare alla storia sociale.
Molti erano però gli storici che nutrivano della diffidenza nei confronti della
storia quantitativa e che avrebbero voluto esplorare nuovamente il concetto
di cultura: a questi storici veniva in contro il lavoro di Geertz, che voleva per
l’appunto offrire un concetto di cultura più utile teoricamente.
Il concetto di cultura offerto da Geertz era principalmente di natura
semiotica: l’uomo è un ‘’animale sociale’’ sospeso tra trame di significati che
lui stesso ha tessuto la cultura consiste in queste trame la sua
analisi non deve dunque basarsi su una scienza sperimentale che cerchi leggi,
ma su una scienza interpretativa che cerchi il significato.
La definizione interpretativa di cultura operata da Geertz ricordava molto la
posizione di Evans-Pritchard nella sua Marett Lecture, in cui aveva rifiutato la
posizione di Radcliffe-Brown di un’antropologia come ‘’scienza naturale della
società’’.
Anche Geertz si era scagliato contro un approccio nomotetico, che negli anni
precedenti era tornato egemonico nel mondo antropologico statunitense e che
vedeva in Marvin Harris il massimo esponente.
Geertz, come Evans-Pritchard, può essere inserito in una prospettiva neo-
kantiana, che si pone come antitetica alla visione nomotetica di Radcliffe-
Brown e della frangia più severa della storia quantitativa, attente a dare più
credito all’antropologo (l’osservatore) che all’indigeno (il soggetto).
Geertz era cosciente della necessità di dimostrare l’utilità operativa della sua
definizione di cultura, quindi si apprestò a chiarire cosa per lui significasse
‘’fare etnografia’’.
Per la manualistica tradizionale significava: scegliere informatori, ricostruire
genealogie, censire le famiglie e stabilire i confini delle loro proprietà e tenere
un diario di campo.
Per Geertz corrispondeva invece a fare una ‘’thick description’’, ovvero una
descrizione ‘’profonda’’/’’spessa’’; si trattava di un’espressione coniata dal
filosofo inglese Gilbert Ryle.
Per spiegare che cosa volesse intendere con questa espressione, Geertz riprese
l’esempio fatto da Ryle: vi sono due ragazzi, uno fa l’occhiolino perché ha uno
spasmo, l’altro lo fa volontariamente.
I movimenti possono sembrare in principio totalmente identici , ma in realtà
fra di loro vi sono profonde differenze.
Il primo ragazzo ha un riflesso involontario, mentre il secondo sta
comunicando:

a) Volontariamente.
b) Con qualcuno in particolare.
c) Per trasmettere un messaggio in particolare.
d) Senza che il resto dei presenti lo sappia.

Geertz approfondì ulteriormente il tema della ‘’descrizione spessa’’ nel


capitolo conclusivo del suo testo, Deep play: Notes on the Balinese Cockfight, in
cui viene narrato un aneddoto relativo al combattimento fra galli balinese.
In esso si dimostra come anche dietro ad un piccolo incidente da nulla si
possa celare l’esistenza di codici pubblici da decifrare.
Uno dei problemi che più tormentava gli storici quantitativi era l’omogeneità
dei dati: per attuare una classificazione era infatti necessario che ‘’il simile si
confronti col simile’’.
Tuttavia i documenti relativi alle classificazioni dei censimenti, o ai modi per
calcolare le nascite e le morti subivano dei mutamenti nel corso del tempo; in
una ricerca storico-quantitativa si rivelava necessario anche un processo di
omogenizzazione dei dati.
Questo processo si faceva ancora più complesso quando si voleva
quantificare la cultura; il rischio era quello di accontentarsi di una ‘’thin
description’’, superficiale e semplificata.
La nozione di ‘’thick description’’ offriva dunque agli storici nemici della storia
quantitativa uno strumento utilissimo, soprattutto perché con essa non era
nemmeno necessario andare sul terreno.
Per Geertz infatti l’antropologia era una disciplina meno ‘’osservativa’’ di
quanto si potesse credere, per lui ‘’fare etnografia era come cercare di leggere un
manoscritto – straniero, sbiadito, pieno di ellissi, di incongruenze’’.
Egli dunque avvertiva che la cultura non era un testo scritto in caratteri
alfabetici, e che si poteva studiare solo attraverso fugaci esempi di
comportamento, da penetrare come un testo letterario.
Il primo esempio di thick description avanzato da Geertz era l’analisi di quanto
un informatore marocchino gli aveva raccontato nel 1968 su un furto di
pecore nel 1912.
Il progetto di Geertz aveva un carattere microscopico, ponendosi dunque in
piena antitesi con i grandi progetti della storia quantitativa ; diceva Geertz
‘’Gli antropologi non studiano i villaggi, ma nei villaggi’’.
L’antropologo americano non aveva avuto problemi a confrontarsi con la
macrostoria, ma già in The Agricultural Involution egli aveva messo in primo
piano l’utilità di intuizioni derivate dall’analisi micropsicologica.
The Interpretations of Cultures ha esercitato la propria influenza con maggiore
rapidità negli Stati Uniti rispetto ad altri paesi; lo storico italiano Renato
Gallerano notava, nel 1983, che tra i suoi colleghi il nome di Geertz era
praticamente sconosciuto.
L’onda geertziana avrebbe aiutato a ridimensionare le pretese della storia
quantitativa, che dopo aver conosciuto il proprio apogeo intorno al 1985, ha
conosciuto una fase di impasse.
Negli anni Ottanta cominciarono a comparire i primi classici della storia
interpretativa, come The Trasformation of Virginia, 1740-1790 di Rhys Isaac.
La principale novità di questo tipo di produzione stava nell’utilizzo di
strategie comunicative iconoclaste, come quelle utilizzate da Robert Darton
(1939).
La sua analisi di uno strano massacro di gatti avvenuto nella Francia dei
Lumi nel 1740 e contenuto nel libro di memorie di un certo Nicolas Contat è
forse il lavoro di thick description più celebre.
Contat racconta come gli operai della tipografia di rue Saint-Séverin a Parigi
fecero strage dei gatti del loro padrone per vendicarsi del fatto che costui
trattava meglio gli animali di loro.
In seguito gli operai inscenarono un processo contro i gatti morti, andando a
condannarli e ad impiccarli su delle forche: una scena che Contat descrive
come ‘’la cosa più divertente mai successa nella tipografia’’.
Darton voleva cercare di comprendere perché una scena così macabra avesse
generato il riso in colui che la descriveva (e negli stessi operai); il senso del
massacro di per se’ era invece più comprensibile: un ‘’attacco obliquo’’ ai
padroni, in un’epoca in cui diventare mastri tipografi era divenuto molto più
difficile.
L’incomprensibilità di comprendere questa ilarità era la dimostrazione
evidente che tra noi e gli uomini del passato esisteva una distanza, la cui
percezione poteva essere fruttuosa.
Cercare di comprendere la risata degli operai poteva infatti aprire una strada
alla comprensione di una mentalità ‘’altra’’.
Nella seconda parte del testo di Darton non si parla più di operai, ma di gatti.
Analizzando fonti letterarie e materiale folklorico, Darton scoprì che in
occasioni di baldorie e charivari i gatti erano spesso bruciati e torturati , in
quanto associati universalmente alla stregoneria e alla sessualità.
Darton nella sua riflessione si faceva guidare non solo da Geertz, suo collega
a Princeton, ma anche da Victor Turner/Mary Douglas/Lévi-Strauss; tuttavia è
innegabile che il gatto sia il nuovo gallo, la chiave che permette di
comprendere il comportamento del ‘’popolo minuto’’.
Il saggio di Darton comparve nel 1984, divenendo un caso letterario negli
U.S.A. e suscitando un forte dibattito in Europa, in quanto con le sue
posizioni lo storico statunitense andava ad attaccar i metodi quantitativi
dell’Annales.
Il testo, frutto di una collaborazione con Geertz, offriva una dimostrazione
della thick description e invitava gli storici a ricercare negli archivi episodi che
potessero permettere loro di comprendere una cultura lontana del tempo.
Questa esortazione a ‘’fare dell’esotico e dello straordinario il centro della
storia’’ era parsa ad alcuni avventata e incongruente.
Darton arrivava a sostenere che i simboli abbiano un significato culturale
fisso, sostenendo (partendo dal caso degli operai parigini) l’esistenza di una
‘’mentalità primitiva’’ che pervadeva tutto l’Antico Regime.
Le tecniche quantitative permettevano quantomeno di raccogliere indicazioni
cronologiche sull’adozione e sulla diffusione di una pratica, mentre a Darton
e Geertz veniva rimproverato di aver posto in un rapporto di insanabile
antitesi la storiografia erede del positivismo comtiano e la linea interpretativa
sviluppatasi da Collingwood e arrivata a Dilthey.
La storia quantitativa e quella interpretativa erano entrambe nate con lo
scopo di dare voce ai ‘’brevi e semplici annali dei poveri’’ (citazione dal poeta
inglese Thomas Gray).
La thick description si era presentata come un ottimo modo per levigare le
rudezze della storia quantitativa, tuttavia i due paradigmi si posero in totale
antitesi, facendo sì che le loro posizioni potessero essere accusate di
radicalizzazione: una riduceva il passato a ‘’numeri’’, l’altra invece lo elevava
a ‘’letteratura’’.
Da una parte il saggio di Darton introdusse in Europa le posizioni di Geertz e
permise alla storia interpretativa di consolidarsi, dall’altra esso fu oggetto di
pesanti critiche, in particolar modo in Italia.
Il microstorico Giovanni Levi (1939), sulla rivista ‘’Quaderni storici’’ (la rivista
che ha favorito in Italia la costituzione dell’antropologia storica), parlò dei
‘’pericoli del geertzismo’’.
Il pericolo più grande secondo Levi era rappresentato dalla possibilità di
‘’perdere il senso delle rilevanze’’, il rischio di guardare ai piccoli episodi come
ad elementi importanti solo perché si conosce lo schema comprensivo in cui
inserirli.
La critica di Giovanni Levi deve essere ricordata in quanto avanzata proprio
da un esponente della scuola microstorica, che in teoria avrebbe dovuto
apprezzare l’approccio microscopico proposto da Geertz e utilizzato da
Darton.
Tuttavia costui aveva proposto per Levi un modello di storia ‘’che non si
accorge di usare arnesi teorici discutibili e obsoleti’’.

3. STRUTTURA E STRATEGIA

Nel 1980 John Davis aveva sostenuto che i lavori storici degli antropologi
erano poco apprezzati dagli storici in quanto basati ancora su un tipo di
metodologia ‘’antiquata e dilettantesca’’.
Egli dunque consigliava agli antropologi quattro modelli virtuosi: il primo
era ovviamente Ladurie; il secondo David Sabean (1939), che aveva
pubblicato lavori di orientamento antropologico su famiglia e proprietà
nell’Europa preindustriale.
Gli altri due nomi erano invece due demografi storici, Peter Laslett (1915-
2001) e Tony Wrigley (1931-2022).
Laslett era principalmente uno storico del pensiero inglese del Seicento, in
primo luogo di Locke e di Robert Filmer, teorico e apologeta di una visione
patriarcale delle relazioni sociali.
Desideroso di constatare quanto la società inglese corrispondesse al modello
di Filmer, Laslett decise di studiare due elenchi degli abitanti di Clayworth,
una cittadina del Nottinghamshire, redatti tra il 1676 ed il 1688.
I risultati a cui portò la minuziosa analisi dei documenti fu che non vi era
traccia delle grandi famiglie patriarcali di cui aveva parlato Filmer.
Mentre Laslett arrivava a questi risultati, Wrigley andava a studiare la
popolazione di Colyton, un villaggio del Devon, partendo dai registri
parrocchiali, dai quali non emergevano tracce delle spose bambine a cui
alludeva Shakespeare nelle sue tragedie (l’età media con cui si giungeva al
matrimonio si aggirava trai 25/30 anni).
Laslett e Wrigley fondarono nel 1964 il Cambridge Group for the History of
Population and Social Structure , che si sarebbe imposto come uno dei centri
di ricerca storico-demografica più prestigiosi.
Nel 1965 Laslett pubblicò The World We Have Lost, in cui erano presentati i
primi risultati del Gruppo di Cambridge; solo l’anno successivo Ladurie
avrebbe pubblicato un articolo (‘’Da Waterloo a Colyton’’) in cui riassumeva il
percorso dalla storia positivista del XIX secolo fino alla ‘’resurrezione
silenziosa e matematica del passato’’ resa possibile dalla demografia storica.
Gli ‘’storici-matematici’’ del Gruppo di Cambridge vengono giustamente posti
all’interno del filone della storia quantitativa, anche alla luce del fatto che
diressero alcuni dei più monumentali lavori di ricerca del XX secolo: la
ricostruzione della popolazione inglese dal XIV al XIX secolo, che comportò
lo spoglio di 400 archivi parrocchiali.
Ingiustamente si direbbe che il lavoro quantitativo di Laslett e Wrigley non
abbia avuto nulla da offrire agli antropologi.
Essi infatti si occuparono di aree centrali per gli antropologi, ma ignorate
dagli storici, come la storia della famiglia/parentela/matrimonio.
The World We Have Lost fornì un controbuto decisivo alla nascita di un nuovo
campo di studio, la storia della famiglia.
Anche se il Gruppo di Cambridge si sarebbe lanciato negli anni successivi al
1965 in progetti di mole immensa, si deve notare che i suoi studi avevano
sempre nel ‘’piccolo’’ il proprio inizio.
L’essenzialità degli studi microstorici non venne mai rinnegata: per Wrigley a
distinguere una ricerca priva di importanza da una significativa non erano le
‘’dimensioni dell’unità studiata’’.
Un altro tipo di documentazione di cui si cominciò ad apprezzare il
contributo furono gli ‘’status animarum’’ (gli ‘’stati delle anime’’), che dal 1614
tutti i parroci erano obbligati a redigere.
Questi consistono in un elenco di nomi dei parrocchiani, raggruppati però in
base al criterio della coresidenza; questo tipo di fonte, che gli antropologi
aveva a lungo ignorato, a partire dagli anni Settanta divenne ricercatissima.
Intorno al 1950 il numero di antropologi che imitava Laslett era divenuto così
numeroso soprattutto perché quello lo studio della famiglia era un ambito di
contatto interdisciplinare con la storia.
Anche se gli storici continuavano ad utilizzare una documentazione più
varia, nell’ambito della famiglia le ricerche storiche degli antropologi non
erano più discriminate.
Gli stati delle anime, e altri censimenti simili, erano fonti che permettevano
un’esposizione analitica delle ricerche, come avveniva in tutti gli altri settori
della storia quantitativa.
Essendosi occupati da sempre dell’argomento della famiglia, gli antropologi
avevano acquisito un prestigio notevole; questo può essere notato nell’analisi
del numero di articoli scritti da antropologi negli ultimi vent’anni sul ‘’Journal
of Family History’’, la più importante rivista del settore.
Molto più utilizzati degli stati delle anime sono i registri parrocchiali, che lo
stesso Wrigley aveva interrogato attraverso il metodo della ‘’ricostruzione
delle famiglie’’ elaborato da un archivista, Michel Fleury, e da un demografo
Luis Henry.
Questo consisteva sostanzialmente nel raccogliere in un’unica scheda tutte le
informazioni contenute nei registri riguardo una coppia sposata.
La forza di questo modello sta nella possibilità, ricostruendo storie
individuali, di calcolare le misure dei principali fenomeni demografici.
Esempio: ‘’combinando le esperienze di fecondità di tutte le donne appartenenti a un
determinato insieme, si potrà calcolare il tasso di fecondità per le donne di quella
coorte in quella particolare classe di età’’.
Anche se i progressi teorici hanno reso più rapide operazioni come questa, al
demografo/allo storico/all’antropologo si impone ancora oggi di valutare pro
e contro.
Le stesse ipotesi ‘’ecosistemiche’’ avanzate da Geertz e Roy Rappaport arrivano
ad una verifica soddisfacente in un sistema demografico che sia seguito sul
lungo periodo, potenzialmente per due o tre secoli; uno studio esemplare
rimane quello di Robert Netting sulla comunità Torbel, nel cantone svizzero
del Vallese.
Questo metodo, così squisitamente demografico, poteva essere utile anche
all’antropologia storica secondo John Davis, secondo cui il metodo utilizzato
da Davis poteva essere usato anche per informazioni rinvenute in altri
documenti.
Un tentativo importate era stato quello portato avanti da Alan Macfarlane nel
suo lavoro sulla stregoneria, che avevamo definito un’anticipazione della
‘’ricostruzione totale’’.
Fu lo stesso Macfarlane a perfezionare questo metodo di ‘’record-linkage’’,
che nel 1977 aveva suscitato l’interesse anche dello stesso Davis; anche nel
resto d’Europa questo metodo riscosse successo: in Italia per esempio era
consigliato dai microstorici.
Ginzburg e Carlo Poni (1927), in un breve saggio del 1979 destinato a
divenire il più lucido manifesto del programma della microstoria italiana,
spiegavano che a differenziare storia e antropologia era soprattutto la
documentazione.
Lo storico infatti, a differenza dell’antropologo che aveva la possibilità di
ricostruire le reti dei rapporti sociali sul campo, doveva accontentarsi di
fonti unilaterali.
Anche fonti ricche di informazioni come i processi inquisitoriali, ‘’quanto di
più vicino abbiamo all’inchiesta sul campo di un moderno antropologo’’ (Ginzburg-
Poni), erano in realtà insoddisfacenti.
Questo tipo di problematica era stato avanzato in precedenza da Bernard
Cohn, che non vedeva per essa alcuna soluzione.
Al contrario Ginzburg e Poni credevano che a suggerire l’esistenza di una
soluzione era proprio il metodo di ricostruzione delle famiglie, che essi al
pari di Davis ritenevano estendibile anche a fonti non demografiche.
‘’Se l’ambito della ricerca è sufficientemente circoscritto, le singole serie documentarie
possono sovrapporsi nel tempo e nello spazio in modo tale da permetterci di ritrovare
lo stesso individuo in contesti sociali diversi’’.
Ciò che permetteva di ricollegare i documenti era ovviamente il nome: è
evidente dunque che si trattava di un metodo ‘’nominativo’’, necessario nella
ricostruzione delle famiglie.
Questo metodo si differenzia totalmente dal metodo ‘’aggregativo’’, in cui i
dati vengono raccolti senza il filo conduttore rappresentato dal nome.
I due metodi sono anche asimmetrici: mentre i dati nominativi possono
venire raggruppati e trasformati in dati aggregati, non vale l’inverso.
Il metodo nominativo suggerito da Ginzburg e Poni permette di raggruppare
intorno ad un nome dati quantitativi e qualitativi, un sistema che ricorda
quello della prosopografia, un metodo elaborato dagli storici dell’Antichità.
La prosopografia antica si concentrava però su individui appartenenti alle
élites, ma per il mondo moderno vi era una documentazione differente, che
permetteva l’esistenza di una ‘’prosopografia dal basso’’.
Questi metodi di ricostruzione potevano funzionare però per i due storici
italiani solo in un contesto circoscritto a sufficienza: si imponeva così quella
riduzione a scala propria della microstoria.
È stato rilevato che da un punto di vista teorico che ad essere importante non
è tanto la riduzione, ma la variazione della scala; allo stesso tempo si deve
ammettere che la ricostruzione totale è possibile solo a livello microscopico.
Nella scelta della microstoria italiana, come ha fatto notare anche Edoardo
Grendi (1932-1999), era implicata però anche la volontà di far appropriare la
lezione dell’antropologia sociale al lavoro storico.
L’antropologia a cui Grendi guardava con ammirazione era quella elaborata
da Firth negli anni Cinquanta , che avrebbe conosciuto uno sviluppo decisivo
con il lavoro di Barth, Bailey e soprattutto di Jeremy Boissevain (1928-2015),
che avrebbe opposto al modello strutturalista il paradigma ‘’individualista’’,
basato sul concetto di ‘’homo strategicus’’, il quale era in grado di sottrarsi
alle norme sociali tramite le proprie scelte.
L’attore sociale cerca sempre dunque di agire a proprio vantaggio.
A livello teorico questo modello prevedeva l’analisi dei reticoli sociali di cui
un individuo era al centro, e a livello metodologico imponeva all’antropologo
di ricostruire questi reticoli.
Il principale testo di Boissevain, Friends of Friends (1974), costituiva un vero e
proprio manuale di antropologia ‘’transazionalista’’.
Non a caso i microstorici videro nella ricostruzione nominativa uno
strumento analogo a queste tecniche di ricerca sul terreno.
Ad attirare questi era soprattutto l’idea di potersi concentrare su una pluralità
di punti di vista/obiettivi e sulle contraddizioni che rendevano fluido un
sistema.
Per Levi ‘’I mutamenti avvengono per mezzo di strategie e scelte’’, una posizione
che l’aveva naturalmente messo in contrapposizione con Geertz e Darton, che
si muovevano in un sistema culturale immobile.
Critiche pesanti vennero rivolte anche a Laslett, accusato di utilizzare una
nozione statica di struttura sociale/familiare.
Laslett aveva proposto nel 1972 di classificare i gruppi domestici in cinque
tipi per analizzare le informazioni presenti in fonti come gli stati delle anime:
semplice (nucleare), esteso, multiplo, senza struttura, monopersonale.
Già nel 1972 però lo storico americano Lutz Bekner aveva sostenuto che fosse
scorretto presentare ‘’famiglie nucleari’’ e ‘’famiglie estese’’ (ecc..) come cose
come opzioni esclusive.
Alla staticità di Laslett, Bekner opponeva il concetto dinamico di ‘’ciclo di
sviluppo’’, divenuto fondamentale nella metodologia della storia della
famiglia, oltre che un punto di raccordo per storici e antropologi.
Il confronto decisivo tra le due posizioni avvenne al convegno internazionale
‘’Strutture e rapporti familiari in epoca moderna’’ di Trieste, in cui Laslett e Levi
si scontrarono.
Levi mise in discussione il privilegio concesso alla dimensione strutturale,
proponendo come alternativa il concetto di ‘’strategia’’.
Per il microstorico italiano era necessario indagare il ‘’rapporto tra la famiglia e
il contesto, le scelte di alleanze’’.
Il contrasto tra Levi e Laslett era emblematico delle tensioni che stavano
attraversando l’antropologia storica , che erano a loro volta un riflesso degli
scontri tra lo ‘’strategismo’’ di Bordieu e lo strutturalismo di Lévi-Strauss.
Il paradigma strategico era divenuto in effetti un modo per limitare lo
strapotere dei modelli strutturalisti, come quello che aveva costituito Braudel,
criticato fortemente da un antropologo storico come Gert Dressel che
accusava il modello dello storico dell’Annales di aver ‘’ridotto gli esseri umani a
marionette manovrate da circostanze esterne’’.
La polemica contro una storiografia passivizzante pervadeva uno dei testi
più importanti di Levi, L’eredità immateriale (1985), in cui si narrava
dell’arresto in un piccolo villaggio piemontese di un prete accusato di aver
praticato esorcismi di massa nel 1697.
Questa vicenda permetteva a Levi di ricostruire la rete dei rapporti inter-
personali e di alleanze tra famiglie che ricopriva il villaggio.
Il testo di Levi era la dimostrazione che i modelli strategici necessitavano una
ricostruzione nominativa.
Se in Italia la microstoria ha smesso di essere una moda come era stata negli
anni Ottanta, all’estero (in Francia e nel mondo tedesco soprattutto) essa è al
centro di un interesse crescente.
Il trionfo della microstoria è stato sancito dalla pubblicazione dei testi di
Sabean e del tedesco Hans Medick (1939).
Questo trionfo è stato però un ‘’trionfo europeo’’; esemplificativo il titolo
della raccolta di saggi che permise la diffusione della microstoria italiana
all’estero: Microhistory and the Lost Peoples of Europe.
Il titolo sottolineava quale fosse stato il principale obiettivo (poi raggiunto)
della microstoria: reintegrare le classi inferiori, dimostrando l’esistenza di
una pluralità di storie parallele a quelle dei ‘’grandi’’.

4. LE STORIE DEGLI ALTRI

La rapida crescita dell’etnostoria e della storia africana negli anni Sessanta era
legata all’emergere di nuovi soggetti politici: i paesi dell’Africa, dell’Asia e
dell’America Latina.
Molti di questi paesi erano appena usciti dal contesto coloniale, altri invece
(quelli dell’America Latina) avevano ottenuto l’indipendenza ancora nel XIX
secolo.
Ad accomunare le loro differenti esperienze era la condizione di
sottosviluppo, che economisti/politologi/sociologi avevano attribuito a fattori
culturali come il tradizionalismo, il familismo amorale e il particolarismo.
Questo tipo di visione cominciò ad essere messa in discussione da André
Gunder Frank (1929-2005), economista e sociologo neomarxista che a metà
degli anni Sessanta avanzò la teoria secondo cui sviluppo e sottosviluppo
erano strettamente connessi.
Secondo Frank il capitalismo aveva trasformato le colonie in satelliti
dell’economia europea attraverso una relazione di sfruttamento e di scambio
ineguale: la formula dello ‘’sviluppo del sottosviluppo’’.
La teoria del sistema mondo elaborata qualche anno dopo dall’economista
Immanuel Wallerstein (1930-2019) può essere vista come un’estensione delle
tesi di Frank.
La più importante opera di Wallerstein, The Modern World-System (1974), era
un grande affresco storico di lungo periodo, scritto con un’impostazione
braudeliana.
Molti furono gli antropologi che rielaborarono i loro dati alla luce di queste
nuove considerazioni, e altrettanti quelli che cominciarono a chiedersi quanto
fosse utile condurre ricerche su lontani e piccoli villaggi (che Wallerstein
aveva definito ‘’trascurabili variabili dipendenti’’).
Una visione realmente alternativa venne presentata da Eric Wolf, condirettore
della rivista ‘’Comparative Studies in Society and History’’, nel suo libro Europe
and the People Without History (1982).
Wolf era rimasto stupito della grande resistenza che molte popolazioni
contadine, in primo luogo quella vietnamita, avevano opposto al predominio
militare ed economico occidentale.
Il libro di Wolf si distingue da quello di Frank e Wallerstein (anche se tutti e
tre vengono di solito indicati come testi di storia globale) perché esso si pone
in una prospettiva non eurocentrica.
Wallerstein e Frank avevano analizzato le ragioni che permisero ai centri di
soggiogare le periferie, trascurando le reazioni delle popolazioni locali,
mentre Wolf si era concentrato sul grado di successo avuto da queste ultime
nel contrastare gli Europei.
Wolf si avvalse ovviamente di molti lavori etnostorici: per questo motivo la
sua opera non si presenta come un lavoro minore su popoli esotici, ma come
una storia globale non caratterizzata solo dall’espansione europea.
Non esistevano dunque ‘’popoli senza storia’’ (espressione usata da Lévi-
Strauss) nella visione di Wolf.
Il libro di Wolf sarebbe dovuto diventare il modello teorico di riferimento per
lo studio storico-antropologico delle popolazioni extraeuropee, se non fosse
stato per due conferenze di Marshall Sahlins, confluite poi nel suo Islands of
History (1985).
Il tema di cui trattavano le conferenze era la morte del capitano Cook, ucciso
il 14 Febbraio 1779 presso Kealakekua, nell’isola di Hawaii (la più grande
dell’omonimo arcipelago), durante uno scontro coi nativi.
Lo scopo di Sahlins era quello di trovare il colpevole e soprattutto il movente;
il primo obiettivo venne raggiunto facilmente, il colpevole materiale sarebbe
stato un nobile locale, Nuha.
Mancava però il movente, e soprattutto capire se l’omicidio fosse una
conseguenze dei soprusi dei marinai inglesi oppure un’azione degli
Hawaiani.
Attraverso una ‘’lettura antropologica di testi storici’’ Sahlins era arrivato alla
conclusione che gli Inglesi erano giunti sull’isola assieme ad una serie di
coincidenze uniche.
Cook giunse ad Hawaii il 17 Gennaio 1779, quando ormai era cominciato già
da Novembre/Dicembre il ‘’Makahiki’’, la celebrazione annuale della
rinascita della natura.
Questa cominciava quando divenivano visibili le Pleiadi, assieme alle quali
arrivava anche Lono, il dio della fertilità esiliato nei mesi precedenti, con cui
il re dell’isola avrebbe in seguito inscenato un combattimento rituale al
termine del quale il corpo di Lono morente veniva riportato su una canoa
nella mitica terra di Kahiki.
Cook si era presentato all’orizzonte proprio quando era atteso Lono, e
proprio come lui egli era giunto costeggiando l’isola in senso orario.
Cook era stato accolto trionfalmente dagli Hawaiani, che lo ‘’venerarono come
un dio’’, salutandolo festosamente al momento della sua partenza.
Gli Inglesi furono però costretti a ritornare sull’isola a causa di una tempesta,
suscitando stavolta la reazione contrariata dei locali, per cui il ritorno di
Lono significava la rottura dell’ordine cosmologico.
Il risultato di questo fu l’inevitabile uccisione di Cook, che sarebbe stata
dunque un atto rituale.
Cook per Sahlins rappresentava le forze espansive dell’Occidente, che era
entrato a contatto con una società ‘’periferica’’, che una volta incontrati gli
Inglesi era stata inserita nel sistema mondo dominato dall’Europa.
Con il suo volume Sahlins voleva dimostrare che quella dei testimoni europei
non era l’unica versione della vicenda della morte di Cook: poteva esserci
una diversa storicità, una ‘’codificazione parallela’’ (François Hartog).
Nella vicenda si confrontavano un modello occidentale, che vedeva l’evento
come unico e irripetibile, e il modello hawaiano, che considerava gli eventi
come ripetibili.
Il volume di Sahlins ebbe un’importanza decisiva nel convincere antropologi
e storici che non c’era una storia in cui confluivano tutte le altre, ma che
esisteva una pluralità di modi di pensare.
Queste posizioni fecero preannunciare allo storico Frank Ankersmit (1945)
l’arrivo di quello che lui chiamò ‘’l’autunno della storiografia occidentale’’.
Egli era portato a pensare ciò per due motivi: il primo era l’impossibilità che
gli storici avevano di completare la missione di Ranke di conoscere quanto
fosse realmente avvenuto (Ankersmit paragona la storia ad un albero, le cui
parti sono state oggetto di attenzioni delle diverse scuole storiografiche: gli
storici speculativi guardarono il tronco, gli storici scientifici i rami, quelli
postmodernisti le foglie).
Il secondo motivo che spingeva Ankersmit ad affermare ciò era la nuova
posizione assunta dall’Europa dopo il 1945.
Anche John Davis riprese le posizioni di Sahlins all’interno di un saggio
intitolato History and People Without Europe (1992), in cui è possibile notare
delle sfumature postmoderniste.
Per Davis gli Occidentali erano abituati a guardare alla storia come a ‘’ciò che
realmente è avvenuto’’, quando in realtà le cose potevano essere avvenute in
maniera diversa dalla narrazione occidentale, anche al di fuori di essa.
Le posizioni di Sahlins vennero duramente contestate dall’antropologo dello
Sri Lanka Gananath Obeyesekere (1930).
Le critiche di Obeyesekere furono particolarmente dure e mirate a smontare
del tutto le posizioni di Sahlins, che veniva accusato addirittura di essersi
inventato qualcosa.
La prima critica mossa a Sahlins è quella di aver offerto un’interpretazione
distorta della morte di Cook, che era posta al termine di una straordinaria
serie di coincidenze.
L’identificazione Cook-Lono era stata possibile perché il mito in Polinesia era
una guida per l’azione, un comportamento archetipico continuamente messo
in pratica dai viventi.
Allo stesso tempo l’antropologo statunitense aveva contrapposto una ragione
pratica occidentale ad una ragione simbolica propria delle popolazioni in cui
gli Europei si imbattevano: utilitarsimo storico occidentale contro mito-prassi
polinesiana.
La seconda critica di Obeyesekere riguardava proprio questo punto, che
sembrava all’antropologo singalese una reincarnazione della ‘’mentalità
primitiva’’ di Lévy-Bruhl.
Nella sua feroce risposta Obeseyekere sosteneva che i nativi non avevano mai
venerato Cook come un dio, e che questa era una teoria occidentale creata al
fine di rinforzare il mito della superiorità dell’uomo bianco.
Il dibattito si fece particolarmente acceso, spingendo Sahlins a scrivere un
nuovo volume nel 1995, all’interno del quale difendeva le sue posizioni e
rispondeva a Obeseyekere (il testo era caratterizzato da un uso molto più
preciso e attento delle fonti, cosa che ne diminuiva la leggibilità).
Nel 1997 Obeseyekere attaccò nuovamente Sahlins, invitando gli antropologi
ad ‘’desahlinizzare’’ l’antropologia; l’animosità del dibattito avrebbe offuscato a
lungo il senso della controversia.
Obeseyekere accusava dunque l’avversario di essersi inventato degli eventi,
mentre Sahlins accusava l’antropologo singalese di essere uno studioso di
bassa lega.
Il dibattito tra Sahlins e Obeseyekere ebbe il merito di far riflettere sui rischi e
le conseguenze in cui si incorreva nel progetto di sottrarre le storie degli altri
alla narrativa unica occidentale (la cosiddetta ‘’maitre-récit’’).
Questi tentativi di dimostrare l’esistenza di un pluralismo storico e
storiografico si devono in larga misura agli antropologi, in particolar modo
quelli americani.
Essi però non avevano avuto pieno successo in questo progetto, in quanto la
nozione stessa di ‘’storie degli altri’’ non poteva che suonare eurocentrica a chi,
come Obeseyekere, non era figlio dell’Occidente.
Si sarebbe dovuto parlare piuttosto di una ‘’storia degli altri’’, una condivisa
storia di oppressione che accomunava tutti i popoli soggiogati dagli Europei.
Si pone qui il problema dell’autorità: chi aveva tra Sahlins e Obeseyekere il
diritto di farsi portavoce di una popolazione non occidentale?
Una domanda che potremmo estendere anche al presente.
Sahlins aveva fatto valere la sua autorità di etnografo oceanista, mentre
Obeseyekere aveva rivendicato l’autorità che spetta all’indigeno come
portatore di una particolare cultura.
Questa rivendicazione aveva profondamente irritato Sahlins, che aveva
accusato il rivale di essersi sovrapposto alle voci dei locali e di aver fatto del
‘’pop nativism’’.
Questo problema continua ad esistere, soprattutto alla luce del fatto che
ormai anche nei paesi decolonizzati esistono studiosi in grado di affrontare il
dibattito da una prospettiva interna.
Secondo alcuni questa transizione porterà alla formazione di antropologi in
grado di parlare tra di loro delle proprie culture, mentre per altri erigerà delle
barriere quasi insormontabili per il dialogo.
La controversia sulla morte del capitano Cook si inserisce in un più vasto
processo di ‘’riappropriazione’’ del passato da parte dei popoli che erano stati
a lungo considerati privi di storia, ma rivela anche le profonde tensioni che
scandiscono questo processo.
Si può essere d’accordo sulla necessità di riscrivere la storia, mentre si può
obiettare sulle domande da rivolgere al passato.
Le critiche postmoderniste vedono nel passato soprattutto una costruzione
del presente, ma pare comprensibile che siano stati luoghi come Oceania e
Africa ad offrire esempi di questo fenomeno di ‘’creazione del passato’’.
L’interesse crescente per la storia come mezzo di legittimazione e
delegittimazione del passato pone interrogativi sul futuro dell’antropologia
storica.
Già Evans-Pritchard aveva distinto tra la storia ‘’vera’’, quella che emergeva
dalle fonti storiche, e la storia che era ‘’parte consapevole della vita sociale di una
popolazione e operante sulla vita sociale’’.
Evans-Pritchard aveva invitato gli antropologi a non limitarsi solo allo studio
di quest’ultima, tuttavia gli storici postmodernisti tendono come visto a
ribaltare il quadro.
Si tratta di un paradossale ritorno alle parole di Malinowski, che a cavallo
tra le due guerre mondiali affermava che l’unica storia importante era ‘’quella
che sopravvive’’ e che il passato si formava in base alle necessità del presente.
Se l’antropologia storica si concentrerà solo sull’uso strumentale del passato
allora vi sarà quasi senza dubbio un impoverimento.
Il testo di Viazzo voleva spiegare di come, grazie all’antropologia, gli storici
avessero potuto porre nuove domande alle fonti, grazie alle quali era
possibile ricavare nuove informazioni utili a ricostruire un passato ‘’più
oggettivo’’.
Questa linea non ha caratterizzato solo lo studio di popolazioni europee, ma
si è visto come sia stata utilizzata anche da Sahlins e Obeyesekere.
Il compito che l’antropologia storica si è data è quello di comprendere i
comportamenti e le credenze degli esseri umani lontani nel tempo.
Studiare il passato in funzione del presente è operazione legittima, ma non si
deve dimenticare che questo per l’antropologia storica porta con se’ il rischio
di anacronismi e distorsioni, subordinando ‘’il rispetto dei morti’’ (Ginzburg)
alle passioni dei vivi.

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