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STORIE’
Per i lettori d’oggi Valerio Massimo è un autore «minore», per cui
riesce alquanto difficile capire perché Petrarca tenesse in gran conto i
Factorum et dictorum memorabilium libri novem, e non si aspetterebbero
mai di trovarli fra quei suoi «libri peculiares» o libri preferiti che Petrarca
elenca nell’ultima pagina del codice contenente il De anima di Cassiodoro e
il De vera religione di Agostino1. In quell’elenco, che risale al decennio del
13301340 (forse più precisamente agli anni 13351338), si trovano autori
suddivisi in otto gruppi: moralisti, retori, storici, poeti, eruditi, grammatici,
dialettici ed astrologi. Valerio Massimo figura tra gli storici, i quali sono
elencati in un modo che accresce ulteriormente la nostra sorpresa: Valerio
Massimo, Livio, Giustino, Floro, Sallustio, Svetonio, Festo ed Eutropio. Non
sarà un elenco gerarchizzante, e la posizione di Valerio Massimo non
significherà che Petrarca lo metta al primo posto tra gli storici; comunque sta
di fatto che lo associ a storici per noi «maggiori» e a storici «minori»:
secondo la nostra ottica moderna, «maggiori» sono Livio, Sallustio e
Svetonio, mentre «minori» sono gli altri cinque. Ancora più interessante è
1
Il manoscritto fu segnalato per la prima volta da L. Delisle, Notice sur un livre
annoté par Pétrarque (Ms latin 2001 de la Bibliothèque Nationale), in «Notices et
Extracts des Manuscrits de la Bibliotèque Nationale et autres bibliothèques», XXXV,
1896, pp. 393408. L’elenco è poi stato studiato in particolare da B.L. Ullman,
Petrarch’s Favorite Books, in «Transactions and Proceeding of the American
Philological Association», LIV, 1923, pp. 2138. Ullman accetta la lettura di quelle poche
righe proposta da R. Sabbadini (Il primo nucleo della biblioteca del Petrarca, in
«Rendiconti del R. Ist. Lomb. di sc. e lett.», ser. II, vol. XXXIX, 1906, pp. 369388) il
quale modifica la lettura di Delisle «libri mei. Particulares ad religionem ...» in «libri mei
peculiares. Ad religionem ...»; Ullman però non ne accetta l’interpretazione che l’elenco
costituisca il primo nucleo della biblioteca petrarchesca, e, basandosi su riscontri in
Seneca, prova che «peculiares» significhi «speciali», «preferiti» a tutti gli altri.
Fondamentale per lo studio dei codici posseduti o visti da Petrarca per questi storici è G.
Billanovich, Il Petrarca e gli storici latini, in Tra Latino e volgare. Per Carlo Dionisotti,
2 voll., Padova, Antenore, 1974, pp. 67145; per Valerio Massimo in particolare, le pp.
7485.
che i «minori» siano tutti «epitomatori» sia pure in modi diversi: Floro, Rufo
Festo ed Eutropio furono epitomizzatori di Livio (Eutropio addirittura
epitomizzò un’epitome di Livio), mentre Giustino epitomizzò Pompeo
Trogo, e Valerio si servì almeno in parte di tecniche «epitomistiche» 2. Ora,
si può capire l’interesse di Petrarca per gli epitomizzatori di Livio dai quali
poteva ricavare dati utili per l’allestimento della sua edizione, ma più
difficile è capire l’interesse per gli altri due epitomizzatori perché Giustino
raccorcia il perduto testo di Pompeo Trogo e Valerio spigola da vari autori
passi e dati che rifonde in modo originale: forse li accomuna l’interesse per
gli «externi», per una storia non esclusivamente romana, e, come vedremo,
ciò avrà una grande importanza nel Petrarca degli anni successivi. Negli anni
in cui stilava l’elenco Valerio doveva apparirgli diverso dagli altri storici
perché si avvicinava alla storia senza seguire una narrazione unitaria e
continua, senza rispettare alcun criterio cronologico o annalistico, puntando
invece su aneddoti che potevano avere un valore biografico, morale e
retoricodidattico. Erano proprio gli anni in cui motivi di interesse simili
portavano alla riscoperta di Valerio Massimo in ambienti molto vicini a
Petrarca.
Prima di procedere oltre, vediamo i Factorum et dictorum
memorabilium libri novem di Valerio Massimo per capire che cosa poteva
suscitare l’interesse di Petrarca. Atteniamoci a quanto Valerio stesso dice
nella praefatio dichiarando le proprie intenzioni e il suo programma di
lavoro:
Urbis Romae exterarumque gentium facta simul ac dicta memoratu digna,
quae apud alios latius diffusa sunt quam ut breviter cognosci possint, ab
illustribus electa auctoribus digerere constitui, ut documenta sumere volentibus
longae inquisitionis labor absit. Nec mihi cuncta complectendi cupido incessit:
quis enim omnis aevi gesta modico voluminum numero comprehenderit? aut quis
compos domesticae peregrinaeque historiae seriem, felici superiorum stilo
conditam, vel attentiore cura, vel praestantiore facundia traditurum se speravit?3
2
Per gli autori e le tecniche e il genere delle epitomi si veda M. Galdi, L’epitome
nella letteratura Latina, Napoli, P. Federico & G. Ardia, 1922.
3
Si cita dall’ed. di P. Constant, Parigi, Garnier, 1935, p. 3.
Valerio, dunque, raccoglie aneddoti che sono piuttosto «exempla» nel
senso indicato dalla Rhetorica ad Herennium: «exemplum est alicuius facti
aut dicti praeteriti cum certi auctoris nomine propositio» (Rh. ad Her. IV,
62; e cfr. Quintiliano, Inst., XII, 2, 29)4, benché Valerio citi solo raramente
le fonti o gli «auctores certi», assolto forse da tal compito dall’esplicita
dichiarazione proemiale d’aver ripreso i materiali da illustri autori. Egli
distribuisce gli esempi in nove libri raggruppandoli secondo criteri che
possiamo chiamare tematici: religione, cerimonie e doveri, fortezza,
temperanza, amore, giustizia, felicità, equità, e infine vizi ed eccessi.
All’interno di queste nove grandi unità tematiche (altri potrebbe indicare
nuovi lemmi e ulteriori sfumature) troviamo delle sottodivisioni: per
esempio quella che abbiamo chiamato temperanza comprende i seguenti
capitoli (i titoli non sono autentici, e risalgono ad aggiunte tardive): de
moderatione, de reconciliatione, de abstinentia et continentia, de
paupertate, de verecundia, de amore coniugali, de amicitia, de liberalitate;
il libro nono, dedicato per la maggior parte ai vizi, si chiude con tre capitoli
estranei al tema principale: De mortibus non vulgaribus, De cupiditate vitae,
De similitudine formae; ma poi un quarto capitolo, l’ultimo dell’intera opera,
si riallaccia al tema portante del libro reintroducendo un vizio di natura rara
De iis qui infimo loco nati mendacio clarissimis familiis inserere conati sunt
e tale varietà rende approssimativi i raggruppamenti proposti.
Una suddivisione autentica, chiara e sistematica, è invece quella
presente all’interno di ogni capitolo perché Valerio distingue sempre gli
esempi romani dagli esempi stranieri («externi»). Tale suddivisione sarà
importantissima per il nostro discorso; per il momento osserviamo soltanto
che, paradossalmente, la distinzione viene a cancellare la differenza tra le
4
Si veda A. Weileder, Valerius Maximus: Spiegel kaiserlicher Selbstdarstellung,
München, Editio Maris, 1998, p. 38. Sull’esemplarità di Valerio Massimo si veda la
raccolta di contributi Valeur et mémoire à Rome Valère Maxime ou la vertu recomposé,
a cura di J.M. David, Paris, De Boccard, 1998, particolarmente il contributo di C.
Luotsch, Procédés rhétorique de la légitimation des exemples chez Valère Maxime, pp.
2741, in particolare pp. 3032 per l’analisi della prefazione al I libro.
genti nel senso che romani ed «externi» risultano simili per quanto riguarda
l’esercizio delle virtù e dei vizi; la sola differenza è che la cultura romana
produce un maggior numero di persone virtuose e viziose, ma non
certamente uomini più virtuosi o più viziosi di quanto non ne producano le
culture «externae». I parallelismi o le concordanze delle storie mettono in
luce un comune sfondo di umanità.
L’organizzazione e il contenuto aneddotico dei Factorum et dictorum
memorabilium libri si prestavano a usi vari oltre a quello retorico
declamatorio al quale sembra che Valerio li avesse destinati: gli autori di
scritture morali potevano facilmente trovarvi exempla; con altrettanta facilità
gli scrittori di storie potevano trovarvi aneddoti da citare; poeti e narratori
potevano anche loro disporre di un campionario di virtù e vizi legati al nome
di una persona e quindi facilmente memorabili e citabili. Tuttavia,
contrariamente a ciò che si crede, il successo dell’opera arrivò relativamente
tardi al mondo romanzo, che a noi qui interessa; del resto la tradizione
manoscritta e le sporadiche citazioni confermano che la diffusione dell’opera
valeriana fu tutt’altro che robusta anche nel Medioevo latino5. Il Medioevo
curò piuttosto il genere delle cronache universali in cui potevano allinearsi
cronologicamente antichi e cristiani valga per tutti il caso del Mare
historiarum di Giovanni di Colonna6 e non disdegnò di paragonare antichi
e cristiani, quasi sempre a vantaggio di questi ultimi7, e non rifiutò prelievi
5
Cfr. Billanovich, art. cit. Si veda anche L. C. Rossi, «Benvenutus de Ymola
super Valerio Maximo». Ricerca sull’expositio, in «Aevum», LXXVI, 2002, pp. 369423,
il quale apre il saggio negando fondatezza all’idea diffusa che Valerio nel Medioevo
fosse «per importanza e popolarità secondo solo alla Bibbia» (p. 369): è vero soltanto che
vari florilegia contenevano frammenti della sua opera.
6
Capitoli di quest’opera sono editi da G. Waitz nei Monumenta Germaniae
Historica, «Scriptores», XXIV, Hannover 1879, pp. 266284. L’opera di Colonna fu
volgarizzata nel sec. XV in castigliano da Fernán Pérez de Guzmán, Mar de historias, ora
consultabile nella bella edizione di A. Zanato, Padova, Unipress, 1999. Su questo autore,
da non confondere con il Giovanni Colonna amico di Petrarca, si veda l’articolo di F.
Surdich nel Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XXVII, p. 337 sg.
7
Si veda P. von Moos, Geschichte als Topik Das rhetorische Exemplum von der
Antike zur Neuzeit, und die historiae im «Policraticus» Johanns von Salisbury,
occasionali da Valerio, ma ignorò sistematicamente il suo criterio di
«concordare» storie. Il lancio di Valerio e del suo metodo di lavoro si deve
all’Italia e ad un ambiente vicinissimo a Petrarca, grazie soprattutto al
commento di Dionigi di Borgo Sansepolcro 8 (databile tra il 1327 e il 1343) e
al volgarizzamento di Antonio Lancia. L’operazione ebbe risultati di grande
rilievo, e la stima per Valerio si espanse ai circoli più diversi: un canonista
come Giovanni Andrea (m. 1355), insegnante a Bologna, non esitava a
Hildesheim ZürichNew York, Olme, 1988, in particolare il cap. «Exempla im Dienst
der “einen Wahreit” oder der Konkordanz von Antike und Kristentum», pp. 435502. Per
lo più von Moos si interessa alle «concordanze» mai, comunque, sistematiche dal
punto di vista teologico anche perché la sincronia riflette la mente divina in cui il tutto è
simultaneo; a noi interessano invece per la potenzialità retorica. Fra le opere in cui antichi
e cristiani vengono messi a paragone dal punto di vista esemplare, si ricordi almeno
l’Ecloga Theoduli, importante perché inclusa nel canone usato nel curriculum scolastico.
8
Recentemente si sono avuti vari studi sulle vicende dei volgarizzamenti italiani,
primo quello di M.T. Casella, Tra Boccaccio e Petrarca I volgarizzamenti di Tito Livio
e di Valerio Massimo, Padova, Antenore, 1982, e le recensioni di L. Petrucci in
«Rassegna della letteratura italiana», II, 1984, pp. 36987, e di G. Tanturli,
Volgarizzamenti e ricostruzioni dell’antico I casi della terza e quarta deca di Tito Livio
e di Valerio Massimo, in «Studi Medievali», ser. III, XXVII, 1986, pp. 81188; P.
Zampieri, Per l’edizione critica del volgarizzamento di Valerio Massimo, in «Studi sul
Boccaccio», IX, 197576, pp. 2141, e X, 197778, pp. 55107; Una primitiva redazione
del volgarizzamento di Valerio Massimo, ivi, X, 197778, pp. 4154. Infine l’edizione
curata da V. Lippi Bigazzi, Un volgarizzamento di Valerio Massimo, per i «Quaderni
degli studi di Filologia Italiana», n. 12, Firenze, Accademia della Crusca, 1996. Su
Dionigi di Borgo Sansepolcro, oltre al lavoro sempre valido di G. Di Stefano, Dionigi di
San Sepolcro amico del Petrarca e maestro del Boccaccio, in «Atti dell’Accademia di
Scienze di Torino», XCVI, 196162, pp. 212318; e dello stesso il recentissimo Dionigi
di Borgo Sansepolcro e Valerio Massimo, in Dionigi di Borgo Sansepolcro fra Petrarca
e Boccaccio Atti del convegno, Sansepolcro, 1112 febbraio 2000, a cura di F. Suitner,
Città di Castello, Petruzzi, 2001, pp. 147164. Valerio fu tradotto e commentato anche in
Francia come mettono in luce gli studi di G. Di Stefano, Ricerche su Nicholas de
Gonesse traduttore di Valerio Massimo, in «Studi Francesi», IX, 1963, pp. 201221;
Tradizione, esegetica e traduzioni di Valerio Massimo nel primo Umanesimo francese,
«Studi Francesi», IX, 1965, pp. 401417.
definirlo «il principe dei moralisti»9, e in ambiente umanistico Guarino
Veronese preparando i suoi ascoltatori a leggere Valerio, dopo un notevole
discorso sul ruolo educativo della storia, concludeva: «Valerius quem
legendum desumpsimus, conducere potest, qui ex rebus gestis ita singula
virtutum genera excerpsit, ut non tam erudire mortales quam eos bonos
reddere velle visus sit»10.
9
Cfr. C. Marchesi, Storia della letteratura latina, MilanoMessina, 19558, vol. II,
p. 224.
10
«Prohemium in principio lecturae Valerii», ed. di K. Müllner, Acht
Inauguralreden des Veronesers Guarino und seines Sohnes Battista, in «Wiener
Studien», XVIII, 1896, p. 294. Per Guarino e il suo concetto di storia si veda M.
Regoliosi, Riflessioni umanistiche sullo «scrivere storia», in «Rinascimento», seconda
ser., XXXI (1991), pp. 337, in particolare le pp. 816.
11
Cfr. Familiares, VI, 4: «Exemplis abundo, sed illustribus, sed veris, et quibus,
nisi fallor, cum delectatione insit auctoritas», ed. U. Dotti, Urbino, Donzelli, 1974, vol. II,
p. 665.
biografie di illustri uomini politici; anzi egli addirittura disintegrava le storie
scritte da altri, le «narrationes rerum gestarum», e ne ricombinava i
frammenti entro vari stampi in cui si trovavano a convivere persone di varie
nazioni, e per tal via egli osservava e provava come l’uomo rimanga
ovunque lo stesso nell’adorare gli dei, nel temere la volontà divina, nel
volersela rendere propizia, nel creare istituzioni, nei vizi e nelle virtù ...
insomma in tutto ciò che è umano. È un genere nuovo di storia che
s’incentra su costanti umane che si danno a qualsiasi longitudine, dal non
vicino Gange alla non meno lontana Esperia. Per giunta il fatto che gli
esempi venissero presentati senza sfondo storico e ambientale contribuiva a
dare ai personaggi un’aura di «romanzesco» e di «avventura personale» che
li rendeva sempre moderni12, e per conseguenza Valerio stesso poteva essere
sentito come autore vicino ai contemporanei. Fra questi, però, solo Petrarca
capì che la maggior novità di Valerio consisteva nel metodo di «concordare
le storie», novità che messa a frutto procurò a Valerio una fortuna che
neppure Petrarca stesso avrebbe potuto prevedere.
Petrarca arrivò presto a percepire questa lezione valeriana, e dovette
risultargli evidente in un momento cruciale della sua vita intellettuale. Fin
dal De viris illustribus egli usò Valerio come fonte di aneddoti da inserire
nel tessuto di ampie biografie; ma non pare che sia stato molto più di questo,
né si deve pensare che l’abbia imitato quando nel primo paragrafo del
prohemium ricordava di aver raccolto in un solo libro i fatti memorabili «in
diversis voluminibus tamquam sparsos ac disseminatos»13. La differenza tra i
due libri è immensa perché Valerio Massimo raccoglie fatti e detti singolari,
ma non pensa di scrivere biografie organiche, mentre Petrarca costruisce
biografie vere e proprie contaminando dati che ricava da altri libri, pur
tenendo conto del pregio dei «fatti e detti» dei quali Valerio è forse il
maggior fornitore. C’è però un fatto da tener presente: il De viris illustribus
del quale parliamo risale agli anni 13381340 ed è la redazione per così dire
«romana», cioè dedicata quasi esclusivamente a personaggi romani (vi
12
Cfr. C. Marchesi, Storia della letteratura latina, cit., vol. II, p. 221.
De viris illustribus, ed. di G. Martellotti, vol. I, Firenze, Sansoni [Edizione
13
Nazionale delle opere di Francesco Petrarca, vol. 2], 1964, p. 3.
figurano solo tre biografie di stranieri: Alessandro, Pirro e Annibale14);
mentre la redazione seriore, per altro mai compiuta, allargherà notevolmente
il raggio dei «viri illustres» per includere molti «externi» come insegnava
Valerio Massimo; ma su questa redazione torneremo dopo aver analizzato
un’opera nella quale la presenza di Valerio è evidente e di natura diversa.
3. Attorno agli anni 13431345 Petrarca lavorò con intensità al Rerum
memorandarum libri, opera che non avrebbe mai portato a termine e sulla
quale non sarebbe più tornato, contrariamente al suo uso di rivedere e di
ritoccare, perpetuamente insoddisfatto del proprio lavoro: l’eccezione forse
rivela che l’autore ad un certo punto l’abbia trovata fondamentalmente
sbagliata nell’impianto o nella concezione, e soprattutto, come vedremo,
nella nozione stessa di «esemplarità» che nei Memoranda non viene
assimilata al livello autobiografico. Sarà questo il motivo principale per cui
l’opera rimase praticamente sconosciuta fra i contemporanei (Petrarca non
ne fece circolare parte alcuna, come soleva fare per altri suoi lavori in corso)
fino a quando la rese nota Tedaldo della Casa trascrivendola dall’autografo
nel 1378.
Nella forma in cui ci rimane l’opera, destinata allo studio delle quattro
virtù cardinali, si occupa soltanto della prima, la prudentia, e la sua
trattazione occupa tutti e quattro i libri dell’opera intera. Il primo libro funge
da introduzione generale avente per argomento l’otium, la vita solitaria, lo
studio e la dottrina, considerati i «preludia» 15 della virtù. Il secondo libro si
14
Su questa eccezione si veda M. Aurigemma, La concezione storica del
Petrarca nel primo nucleo del «De viris illustribus», in Miscellanea di studi in onore di
Vittore Branca, Firenze, Olschki, 1983, vol. I, pp. 365388, particolarmente pp. 374378
e 383384.
15
Il termine è di G. Billanovich, nella sua «Introduzione» all’edizione dei Rerum
memorandarum libri, Firenze, Sansoni [Edizione Nazionale delle opere di Francesco
Petrarca, vol. V], 1945, p. CXXIX. Sull’argomento che trattiamo qualche buono spunto si
trova in M. Aurigemma, Problemi e temi della storia nei Rerum memorandarum libri di
Francesco Petrarca, in Letteratura fra centro e periferia Studi in memoria di Pasquale
Alberto di Lisio, a cura di G. Papparelli e S. Martelli, Napoli, Edizioni Scientifiche
Italiane, 1987, pp. 109139, spec. pp. 135137; ma dello stesso anche Petrarca e la
occupa della memoria e dell’intelligenza, e il tema si continua anche per
tutto il terzo libro; il quarto libro tratta della previdenza. Per fortuna
possediamo un indice dell’opera dovuto allo stesso autore; e vale la pena
riportarne i capitoli perché costituiranno dei tituli spesso rivisitati e
riproposti in alcune opere umanistiche di cui ci occuperemo presto. Libro I:
«De otio et solitudine»; «De studio et doctrina». Libro II: «De memoria»;
«De ingenio et eloquentia»; «De facetiis ac salibus illustrium»; «De
mordacibus iocis»; «De ingenio paupertatis». Libro III: «De solertia et
calliditate»; «De sapientia». Libro IV: «De providentia et coniecturis»; «De
oraculis»; «De sibillis»; «De vaticiniis furentum»; «De presagiis
morientium»; «De sompniis»; «De aruspicum et augurum disciplina»; «De
ominibus et portentis»; «De caldeis mathematicis et magis», capitolo di cui
rimane solo il titolo. Segue quello che avrebbe dovuto essere il quinto libro
il cui primo e unico capitolo s’intitola «De modestia», ossia la classica
temperantia. Sotto questo lemma troviamo soltanto due esempi di romani,
Tiberio e Augusto.
Possiamo notare che alcuni capitoli hanno titoli già presenti in
Valerio; e dobbiamo anche notare che, almeno in questi libri sulla
temperantia, tutto si concentra sull’uomo e non si tocca alcun argomento che
riguardi le istituzioni. Comunque l’aspetto più interessante dell’imitazione di
Valerio è che ogni capitolo presenti una sezione riservata ai romani e una
agli «externi»: è un segno che a Petrarca interessi non tanto, o non solo,
l’aneddotica valeriana, quanto invece la struttura dei Factorum et dictorum
memorabilium libri, perché in essa consiste l’originalità della visione storica
di Valerio che rende possibile un modo nuovo di legare la storia alla morale
e all’eloquenza. La riprova è che Petrarca innovi rispetto a Valerio proprio
nel piano strutturale aggiungendo ai «romani» e agli «externi» la nuova
categoria storica dei «moderni»; quindi al disegno, per così dire,
«orizzontale» o «sincronico» valeriano egli aggiunge un elemento che lo
modifica in senso verticale e diacronico. L’idea di moderno implica una
storia: osservazioni sulle biografie del De viris illustribus da Adamo ad Ercole, in
Scrittura e società. Saggi in onore di Gaetano Mariani, Roma, Herder Editrice, 1985, pp.
5374.
nozione di alterità, ma anziché costituire un elemento estraneante, offre un
nuovo genere di esemplarità storica che garantisce una continuità e un pari
potenziale di dignità fra mondo antico e mondo moderno, e giustifica in
modo nuovo la spinta ad imitare gli antichi. La nozione di moderno non era
certamente un’invenzione di Petrarca: basterebbe a farcelo ricordare la
celebre immagine del nano che collocandosi sulle spalle del gigante vede
molto più lontano di quanto al gigante non sia consentito; tuttavia Petrarca
supera di gran lunga la nozione di moderno («modo hodierno») offerta da
Bernardo di Chartres creatore dell’immagine ricordata perché egli è
veramente l’uomo nuovo che aspira non a superare gli antichi bensì a vedere
ciò che essi erano in grado di vedere; e per lui i casi di esempi moderni sono
costituiti da persone che sanno essere virtuose alla maniera degli antichi; per
giunta, a questo punto del suo iter intellettuale, gli antichi non sono più solo
i Romani ma anche i Greci, gli «externi» di qualsiasi regione e i Cristiani.
La scoperta dell’homo novus, avvenuta all’interno della crisi
culturaleesistenziale degli anni quaranta, portava Petrarca ad allontanarsi
dall’esaltazione esclusivistica della «romanitas» che dominava nei suoi
lavori giovanili, ancorati alla ferma convinzione che solo la cultura di Roma
avesse prodotto uomini virtuosi in qualità e in misura impareggiabili. Ora
tale certezza non è più così ferma16, e si profila la nozione che la grandezza
di fatti e detti fiorisca ovunque esista una «umanità» fortemente marcata non
tanto da intellettualismo, dalla «sapienza», quanto da volontarismo, ossia da
amore per il bello, per il grande e per l’eccellenza, ma anche dall’amore
nelle sue forme perverse delle passioni egoistiche, della propensione alla
crudeltà o ad altri vizi. Come poteva un cristiano non trovare esempi
grandissimi di virtù nei Padri della Chiesa o nei Santi? E come non trovarne
anche nella storia del recente passato e perfino nel presente? Che senso ha
parlare della «esemplarità» dei Romani se poi essa cade su un terreno sterile,
se non crea imitatori? Non si viene a negare l’esemplarità romana qualora
16
Si ricordi che ancora nel 1373, nell’Invectiva contra eum qui maledixit Italie,
Petrarca sosteneva dietro un impulso polemico: «Quid est enim aliud omnis historia,
quam romana laus?», in F. Petrarca, Prose, a cura di G. Martellotti P. G. Ricci, E.
Carrara E. Bianchi, MilanoNapoli, Ricciardi, 1955, p. 790.
non eserciti alcuna influenza sui posteri? A considerazioni del genere si sarà
aggiunta la componente stoica che in Petrarca si veniva accentuando col
passare degli anni, e lo stoicismo gli insegnava che la virtù e l’humanitas
non conoscono confini geografici né barriere sociali.
La scoperta che l’humanitas sia presente ovunque e in qualunque
tempo vivano uomini, sempre potenzialmente capaci di atti e detti
memorabili, porta a modificare la rassegna della storia, a incatenare
aneddoti, a creare delle «concordanze delle storie» che mettano in luce la
costante dell’umano nelle sue molteplici manifestazioni più che la
singolarità degli eventi e delle persone. Ma è anche vero che una
presentazione siffatta della storia richiede un apparato sistematico, una
macchina per così dire enciclopedica e classificatoria, un’operazione
sistematica di tipo quasi scolastico che Petrarca aborriva, e forse per questo i
Memoranda non furono né rivisti né terminati. Comunque l’idea di allargare
l’orizzonte storico dietro l’insegnamento di Valerio Massimo non andò persa
e rispuntò nella nuova redazione del De viris illustribus. Ai primi degli anni
’50 Petrarca riprese in mano l’opera e l’ampliò includendovi personaggi
biblici, mitologici e greci, oltre ad apportarvi alcune modifiche
metodologiche riguardanti l’esposizione su cui per ora non è necessario
soffermarsi. Anche questa seconda e rinnovata redazione del De viris rimase
incompiuta probabilmente per gli stessi motivi menzionati a proposito dei
Rerum memorandarum libri: il completamento avrebbe richiesto
l’inclusione di personaggi illustri moderni, e l’opera sarebbe stata
sterminata. Ma forse il fattore negativo di maggior peso non era tanto la
voluminosità o l’organizzazione «enciclopedica» quanto la difficoltà di
assimilare al livello autobiografico la materia di quelle opere: il Petrarca che,
dopo la crisi degli anni ’40, s’era messo sulla via di «conoscere se stesso»
non trovava risposte sufficienti a questo bisogno scrivendo di Nembroth o
dei sogni della madre di Ezzelino da Romano, e questo limite che nasceva
dall’intimo doveva essere il vero censore di quelle opere. Ciononostante
l’idea di «concordare le storie» rimaneva attiva lo si vede in parte anche
nel De remediis utriusque fortune17 e tentò una nuova forma di realizzarsi
nei Trionfi dove romani e stranieri e moderni sono presenti simultaneamente.
Ma per poter evidenziare in modo drammatico la novità della sua
intelligenza della storia, per vedere antichi e moderni in una specie di
maestoso sinopticon Petrarca capì che doveva coniugare il modello di
Valerio Massimo con quello della visione offertogli da Dante.
17
Sull’uso di esempi nel De remediis ha scritto pagine notevoli C. Delcorno,
Antico e moderno nella narrativa del Petrarca, in Exemplum e letteratura Tra
Medioevo e Rinascimento, Bologna, il Mulino, 1989, pp. 229363. Delcorno si occupa in
generale dell’uso che Petrarca fa degli exempla antichi e degli esempi moderni e
soprattutto delle considerazioni morali che ne trae quando li affianca: il discorso è di
grande interesse, ma si svolge su una linea diversa dalla nostra. Sull’uso degli aneddoti,
specialmente dal punto della «frammentazione» della storia che presuppongono, ma
anche dal punto di vista narrativo, sono notevoli le pagine di G. Martellotti, Momenti
narrativi del Petrarca, in «Studi Petrarcheschi», IV, 1951, pp. 733, poi nei suoi Scritti
petrarcheschi, a cura di M. Feo e S. Rizzo, Padova, Antenore, 1983, pp. 179206.
storia che il visionario vede si interiorizza nel senso che i personaggi visti
diventano testimonianza viva dell’humanitas del poeta.
Le prime due visioni sono farcite (è la parola) di personaggi storici,
divisi in romani, stranieri e moderni; la terza non ha quasi nessun
personaggio (la morte, infatti, trionfa sulla vita in cui si realizza la storia); la
quarta presenta personaggi celebri ma solo antichi e raggruppati ora per
professioni, quasi ad indicare che il sapere supera le nazioni e crea unione
tra i popoli; le ultime due sono del tutto prive di personaggi, perché nello
specchio del tempo che cancella ogni ricordo umano non si dà storia, e tanto
meno può essercene nell’eterno. I primi due trionfi presentano «concordanze
delle storie» in un modo che ricorda i Rerum memorandarum libri; tuttavia
spiccano alcune differenze: la più vistosa è la presenza di donne che sono
invece quasi del tutto assenti nell’opera latina. Altrettanto cospicua è la
differenza nel modo di presentare i personaggi che nell’opera latina sono
sempre legati ad un aneddoto mentre nei Trionfi si danno lunghe teorie di
nomi accompagnati per lo più da qualche aggettivo o da qualche scarna
allusione che può servire ad identificarli. Ancora una differenza: le opere in
latino hanno dei modelli classici che Petrarca utilizza e modifica da par suo;
ma i Trionfi ne son privi. Sono stati indicati alcuni modelli per varie sezioni
dal Roman de la Rose, al Tesoretto di Brunetto, alle Heroides ovidiane
ma non s’è potuto indicare un modello complessivo; del resto anche i
Trionfi di cui parlano alcuni poeti del periodo augusteo hanno poco in
comune con l’opera di Petrarca che sotto questo aspetto risulta affatto
originale. Infine è importante ai nostri fini sottolineare che i personaggi
siano di norma elencati in nuclei tenuti distinti in antichi, cristiani e moderni
per cui rimane operante l’insegnamento di Valerio Massimo ma con
l’integrazione della classe dei «moderni» già presente nei Rerum
memorandarum libri.
Gli elenchi, tanto ostici per i lettori odierni, realizzano l’insegnamento
di Valerio pur allontanandosene. Petrarca rilegge la storia riportandola entro
una griglia formata da quattro maglie fondamentali che si chiamano amore,
pudicizia, morte e fama, maglie simili sotto certi aspetti ai loci communes o
sedes entro cui s’iscrivono alcuni libri dei Factorum et dictorum
memorabilium libri. Molte sono però le differenze, a cominciare dalla
quantità di titoli in cui Valerio frammenta i suoi libri, per finire con la
mancanza di aneddoti presentati per esteso. I luoghi comuni dei Trionfi
indicano valori o forze o concetti che possono toccare tutti gli uomini data la
loro universalità, e per questo gli elenchi possono essere infiniti e i veri
trionfatori ma in ultima analisi anche i grandi sconfitti sono l’amore, la
pudicizia, ecc., e i personaggi non fanno altro che istoriarne il manto: i
trionfi son tanto più maestosi quanto più numerosi sono i prigionieri che
formano il corteo. Sono personaggi ormai passati all’altra vita e sfilano
davanti al visionario, il quale li vede tutti simultaneamente senza più
differenze cronotopiche; non sono più innamorati né casti né assetati di
gloria, pertanto non è necessario narrarne la storia che non avrebbe più
senso, ma basta solo il nome o un accenno per suggerire la storia vissuta che
li destina ad un trionfo anziché ad un altro18 e per questo la loro esemplarità
è più allusa che evidenziata. C’è comunque un personaggio eccezionale ed
esemplare insieme che emerge da queste sterminate rassegne, ed è l’autore
stesso. L’elemento autobiografico, infatti, assente in Valerio e nei
Memorandarum rerum libri, permea profondamente i Trionfi non solo
perché l’autore assume il ruolo del visionario o dell’agens, ma perché i
personaggi storici affastellati nei cataloghi sono stati l’oggetto della sua
meditazione sulla storia letta in controluce di quei valori amore, fama,
tempo dai quali non s’è mai allontanata.
L’accenno alla visione ci porta a quel grande intertesto dei Trionfi
ossia alla Commedia dantesca, un modello che Petrarca contaminò con
quello di Valerio Massimo e gli consentì di dare un senso nuovo alle
«concordanze delle storie». Anche Dante, infatti, annienta la distanza
temporale tra le storie, e nell’Inferno mescola antichi e moderni, benché non
li distingua in gruppi separati e non tenga mai in considerazione criteri
geografici e nazionali. Inoltre Dante distribuisce i peccatori e i beati in
18
Comunque ci sono personaggi che sono memorabili non solo per una ma per
due storie, tanto che il visionario li vede sfilare due volte: Abramo, ad esempio, figura
prima nel trionfo dell’Amore e poi in quello della Fama; lo stesso dicasi di Massinissa e
di vari altri.
cerchi, gironi e cieli che potrebbero avere la funzione dei luoghi comuni,
delle sedes, e perfino dei tituli come in Valerio e in Petrarca; e Dante tocca
anche i temi del tempo e dell’eternità, fondamentali nei Trionfi. Ma le
differenze hanno maggior peso delle similarità. La motivazione del viaggio
dantesco è una chiamata celeste, quindi è un viaggio con una missione
religiosa, mentre la visione petrarchesca si muove da un sogno, da un
accidente, ed è un viaggio a base laica, un modo di ripensare il mondo degli
amori e delle ansie dell’autore. Le sedes dantesche non si annullano nelle
successive, e la loro matrice è teologica e non esistenziale come nei Trionfi.
Ancora: nella Commedia il tempo e la storia di ogni individuo si realizza
pienamente nell’eterno, mentre nei Trionfi l’eternità supera e cancella il
tempo e ciò che ha prodotto. L’impianto della Commedia conferisce ai
personaggi un rilievo che non possono avere nei Trionfi dove invece
tendono a appiattirsi nei cataloghi, e per questo non vi troviamo mai storie
espanse e «narrate» come nel poema dantesco. Infine il disegno generale
della Commedia esalta la giustizia di Dio mentre i Trionfi esaltano il fare
umano davanti alla storia, anche se poi questa è destinata a naufragare nel
mistero del tempo e dell’eterno. Insomma Petrarca ha, come al solito, usato
un modello per riscriverlo in modo diverso e originale.
Eppure queste somiglianze e differenze non ci devono far perdere di
vista il punto centrale del gioco intertestuale. Dante offre a Petrarca il genere
della «visione storica» che rinnova profondamente le visioni medievali
sostituendo profili di personaggi storici alle masse anonime di peccatori o di
santi che si trovano in quelle. Il nuovo genere di visione trasporta questo
mondo nell’aldilà dove è possibile condensare in nuclei omogenei storie di
uomini vissuti in tempi e luoghi diversi. Grazie alla «visione storica»
Petrarca poteva finalmente realizzare quel piano di concordare storie
perseguito nel De viris e nei Memoranda, e che ora nei Trionfi trova nuove
soluzioni che gli consentono di trascurare episodi di cose memorabili e
concentrarsi invece sui temi dell’amore, della gloria e del tempo che
interessavano vitalmente l’autore e l’uomo Petrarca.
5. Nasce così un modo di usare la storia e di riscriverla chiaramente
distinto dalla tradizionale narratio di vite e di eventi. La nuova ricerca punta
su ciò che accomuna detti e fatti, ma non per questo trascura elementi
riguardanti l’individuo o le distanze temporali e nazionali omissioni di tale
entità renderebbero impossibile il progetto di concordare le storie; tuttavia
l’accento batte su ciò che accomuna un individuo ad un altro. La
combinazione è ricca di conseguenze. Intanto il progetto di «concordare
storie» e per storie s’intende per lo più aneddoti presuppone che le storie
vengano frammentate in una miriade di aneddoti e poi ricomposte entro una
serie di stampi le cui rispettive etichette o titoli designano un tratto comune
che lega aneddoti ed eventi simili. Queste due operazioni travasano la storia
in sedes o luoghi predicabili, e in tal modo legano insieme storia e retorica
perché consentono di parlare degli uomini in termini di sostanza e di
accidente, di individui e di classi d’accidenti. Il travaso a sua volta modifica
il valore esemplare della storia perché relativizza la grandezza solitaria dei
personaggi, fatti ancora più grandi dall’iperbole letteraria tanto da apparire
difficilmente imitabili e quindi potenzialmente poco esemplari; al contrario,
la storia parcellizzata in loci capaci di ospitare antichi e moderni riesce a
coinvolgere un’infinita serie di lettori i quali sentono di poter rientrare in
uno o in vari di quei tanti loci storici e sentono più vicini e moderni i grandi
del passato. I loci sono pieni di morti, come del resto le storie tutte, ma sono
disponibili ad un infinito arricchimento e consentono di vedere
simultaneamente eventi e persone che invece una narrazione cronologica
distingue e separa. Essi offrono una conferma di quella vecchia nozione che
nella storia non ci sia mai niente di nuovo, nozione che non a caso trovava
una formulazione pertinente in Coluccio Salutati, di Petrarca profondo
ammiratore, il quale scrivendo a Juan Hernández de Heredia cita
l’Ecclesiaste (I, 9) per sottolineare che l’insegnamento della storia deriva
proprio dalla sua continuità e ripetitività: «Ut sine contentione fatendum sit
concionatoris illud, non solum in naturalibus aut Dei providentia, sed etiam
in rebus gestis: nichil sub sole novum, nec valet quiquam dicere: hoc recens
est; et quantum et quale est ex hystoriarum noticia dare presentibus ordinem
et coniecturam sumere de futuris»19. Siamo ben lontani, dunque, dall’idea
della storia intesa come disegno della Provvidenza e dalla storia teleologica
che finirà con la «plenitudo temporum»20.
6. Prima di procedere a considerare la fortuna di questo nuovo modo
di scrivere storia, è opportuno aprire una parentesi e chiamare in campo un
altro autore di «visioni storiche» al quale la nuova moda dovette molto.
Parliamo ovviamente di Giovanni Boccaccio che indipendentemente da
Petrarca e da Valerio Massimo, ma non da Dante, concordò storie ricorrendo
anche lui al genere della visione: evidentemente la moda delle future
«visioni storiche» trovava ampie basi in quel Trecento italiano che si
muoveva alla ricerca di un’esemplarità diversa da quella astratta e astorica,
tipica degli exempla medievali21. Boccaccio compose l’Amorosa visione
attorno al 1338, quando ancora poco sapeva del grande Aretino in quegli
anni ancora inflessibile cultore della «romanitas» ma conosceva certamente
la Commedia dalla quale forse trasse l’impeto a cimentarsi nel genere della
«visione storica». L’Amorosa visione è un sogno narrato in due parti: la
prima (capitoli IXXXVII) in cui l’autore/personaggio descrive un grande
affresco in un palazzo dove entra guidato da una donna; la seconda (capitoli
XXXVIIIL) dove l’autore/personaggio entra in un giardino in cui trova
molte donne quasi tutte moderne. L’affresco è stipato di figure storiche e
mitologiche del mondo antico nonché di personaggi letterari romanzi e
19
Coluccio Salutati, Epistolario, ed. da F. Novati, Roma, Forzani e C., 1893, vol.
II, p. 294 sg.
20
Si veda su questo punto C. Vasoli, Il modello teorico, ne La storiografia
umanistica (Convegno Internazionale di Studi, Messina 2225 Ottobre 1987), Messina,
Sicania, 1992, vol. I, pp. 538, in particolare p. 9 sg. in cui commenta il passo di Coluccio
Salutati sopra citato. Vasoli traccia, da par suo, una sintesi dei problemi posti e affrontati
dalla storiografia umanistica, argomento su cui la bibliografia è sterminata, ma orientata
in una direzione che riguarda solo indirettamente il nostro argomento. Comunque gli atti
del convegno citato raccolti in tre volumi offrono un’ampia base di orientamento.
21
Indicazioni bibliografiche sulla vasta letteratura riguardante l’esemplarità
medievale si trovano in C. Bremond J. Le Goff J.C. Schmitt, L’ «exemplum»,
TurnhoutBelgium, Brepols, 1982.
storici moderni. Nella parte iniziale le arti liberali fungono da sedes occupate
ciascuna dalle persone che le hanno illustrate, in particolare filosofi e poeti,
fra questi ultimi spicca Dante. Si illustra quindi la Fama e la Gloria,
l’Avarizia, l’Amore e la Fortuna. La prima parte è una specie di vestibolo
dottrinale e storicoesemplare alla «visione amorosa» vera e propria che avrà
luogo nel giardino. Possiamo vedervi «concordanze delle storie»?
Certamente sì, benché solo in modo parziale e senza un programma definito
e chiaro. Nelle varie sezioni dell’affresco i personaggi sono raggruppati in
antichi e in moderni, divisi però quasi sempre in capitoli diversi; talvolta un
capitolo è dedicato ad un solo personaggio o a un episodio mitico o storico.
L’Amorosa visione conserva ancora elementi dell’allegorismo medievale e
duplica, pur con varianti, i palazzi della Fama di un Claudiano. Ciò non
costituirebbe un impedimento a concordare le storie, che in effetti Boccaccio
concorda; ma il limite maggiore sta nella mancanza di un sostrato filosofico
che porti a meditare sul voisinage di antichi e moderni, nella mancanza di un
programma che porti ad una sistematica perlustrazione storica alla ricerca di
luoghi comuni. Siamo al livello della «storia illustrata», all’ecphraseis
piuttosto che al programma della storia concordata.
Diversa è l’altra visione boccacciana, ben più robusta e fortunata
dell’opera giovanile. Il De casibus virorum illustrium, concepito verso il
1355 e steso nel 1360, è a suo modo una visione: all’autore, seduto nel suo
studio, appaiono in vesti lacere i personaggi che riempiono l’opera. Questi
sono altrettanti esempi di ciò che «Deus omnipotens seu ut eorum loquar
more Fortuna in elatos possit et fecerit». Se questo è il tema, il piano della
presentazione degli exempla è annunciato a continuazione nel Proemio: «Et,
ne in tempus aut sexum cadat obiectio a mundi primordio in nostrum usque
evum, consternatus duces illustresque alios, tam viros quam mulieres,
passim disiectos, in medium succinte deducere mens est»22. Fedele a questo
programma, Boccaccio comincia con Adamo ed Eva e finisce con Filippa di
Catania, il cui ricordo era ancor vivo al tempo della sua permanenza a
Napoli. Il principio che regola la rassegna è la cronologia, nemica capitale
22
Ed. a cura di P. G. Ricci e V. Zaccaria, vol. IX di Tutte le opere di Boccaccio, a
cura di V. Branca, Milano, Mondadori, 1983, I, «Proemio», p. 10.
della sinossi e della simultaneità richiesta dalle concordanze; tuttavia l’unità
del luogo (lo studio dell’autore) in cui avviene la visione traduce in una
qualche simultaneità la presentazione che sarebbe altrimenti affatto lineare;
inoltre la concordanza si dà al livello del locus unico rappresentato dalla
«caduta» dei grandi per opera della fortuna. Gli esempi sono infiniti perché
la storia si ripete in quanto manifestazione perenne dell’umano: ogni caduta
è individuale e può avere cause diverse, ma il «cadere» le accomuna. Il De
casibus, imitatissimo nel Quattrocento europeo, costituisce un caso singolare
di «concordanze» storiche, e se anche l’aspetto monotematico impedì che si
imponesse come modello a chi intendeva ridurre la storia a luoghi comuni,
contribuì notevolmente a creare il ponte tra antico e moderno mettendo in
luce la costante umana.
7. Nel Trecento nasce dunque il genere letterario nuovo e tutto italiano
delle «visioni storiche» che sarà uno dei contributi più vistosi della cultura
italiana a quella europea. Fiorirono un po’ dappertutto le imitazioni della
Commedia, dei Trionfi e soprattutto del De casibus ad opera di autori
notevolissimi quali Pedro López de Ayala, Juan de Mena, Christine de
Pizan, vari autori di dits francesi, e John Lydgate. Anche in Italia non
mancarono gli imitatori, anzi furono numerosi, ma nel complesso mediocri,
appartenenti tutti al novero degli autori dimenticati. Su di loro incombeva
gigantesca la statura delle tre corone, e per giunta in un momento in cui
anche le sorti del volgare non erano brillanti specialmente quando si
trattavano argomenti di natura storicoretorica. Tuttavia è interessante notare
che il metodo di raccontare la storia distribuendola in luoghi comuni registra
i suoi titoli anche nella letteratura in volgare. Viene a mente il veronese
maestro Marzagaia (m. prima del 1433) autore di un De modernis gestis23 in
23
L’opera, abbastanza voluminosa, è pubblicata da C. Cipolla nelle Antiche
cronache veronesi (Deputazione Veneta di Storia Patria, s. III, Cronache e diarii, vol. II,
1890, pp. 1338). La relazione con Valerio Massimo fu notata da R. Sabbadini, La scuola
e gli studi di Guarino Veronese, Catania, Galati, 1896, p. 3, e da C. Marchesi, Di alcuni
volgarizzamenti toscani in codici fiorentini, in «Studj Romanzi», V(1907), pp. 123236;
oltre alla segnalazione del maestro Marzagaia (p. 158), Marchesi dà indicazioni sulla
fortuna (rifacimenti, imitazioni, volgarizzamenti vari e parziali) di Valerio nel Trecento,
cui il modello di Valerio Massimo è evidente fin dai titoli dei vari capitoli
nonché nella sequenza degli argomenti. Così nel primo libro troviamo, e
proprio in apertura, «De religione observata», e quindi «De miraculis», «De
prodigiis», «De auguriis», «De somniis», titoli chiaramente ripresi da
Valerio; nel secondo libro «Qui humili loco nati clari evaserunt», «De
paupertate illustrium»; nel terzo troviamo rubriche presenti anche in Valerio
benché i titoli non siano uguali: «De cautellis et fraude», «De constanti
proposito», «De deditis luxurie fede»; nel quarto libro troviamo «De
fortitudine», «De jocose dictis aut factis impie» e vari altri. Tuttavia
l’imitazione di Valerio è limitata soltanto al modo di raggruppare dati, che
riguardano soltanto i «moderni»: in Marzagaia manca del tutto l’idea di
concordanza delle storie moderne non si dice con le antiche anche se non
sono rare le menzioni di personaggi antichi in senso comparativo ma con le
altre di città non comprese nella sfera degli Scaligeri.
La Commedia ebbe il numero maggiore di imitazioni24, ma non tutte
sono interessanti per il tema della concordanza delle storie. A cavallo tra il
Tre e il Quattrocento appartiene il Quadriregio di Federico Frezzi dove
appaiono con una certa frequenza personaggi antichi e moderni raggruppati
insieme. Consideriamo ad esempio il cap. VII del quarto «regno», quello
delle virtù, capitolo dedicato ai «magnanimi e valentissimi, ne’ quali
risplendette la virtù della fortezza»25. Vi troviamo in ordine: Ercole, Cesare,
Ettore, Alessandro, Ottaviano, Enea, Romolo, Catone, Scipione, Torquato,
Camillo, Cincinnato, Carlo Magno, Goffredo di Buglione, Arturo, Trince.
La rassegna è interessante per la mescolanza di personaggi mitici e
leggendari e storici; mescolati sono romani e greci ma solo fino a Carlo
Magno dopo il quale appaiono personaggi non più appartenenti al mondo
antico; fra i modernissimi vi è solo Trinci il «cortese signor» che si schierò
fortuna in buona parte ancora inesplorata perché sepolta in manoscritti.
24
Uno studio d’insieme è quello di V. Zabughin, L'oltretomba classico medievale
dantesco nel Rinascimento. Parte 1, Italia, secoli XIV e XV, Roma, Pontificia Accademia
degli Arcadi, 1922. Un corpus di imitazioni della Commedia è quello allestito da C. del
Balzo, Poesie di mille autori intorno a Dante Alighieri, 15 voll., Roma, Forzani, 1889
1909.
25
Si legge nell’edizione di E. Filippini, Bari, Laterza, 1914, pp. 310315.
con Urbano VI quando si aprì lo scisma. La rassegna segue un ordine
cronologico approssimativo che, comunque, separa chiaramente antichi da
moderni. Non mancano elenchi di soli moderni, quando è inevitabile che
così sia come nel caso dei «canonisti e legisti» (IV, 13). In altri casi
troviamo rassegne soltanto di personaggi antichi. Tuttavia tali rassegne poco
sistematiche non attingono un valore di meditazione sulla storia, e si direbbe
che Frezzi imiti senza rendersi conto della grande innovazione apportata dal
suo modello. In ogni modo egli continua, sia pur inconsapevolmente, l’idea
di ridurre la storia in sedes, di contaminare i tempi, di appiattire il tempo
nella sinossi della visione.
Un imitatore di maggior rilievo fu l’umanista Matteo Palmieri con la
sua Città di vita. L’autore immagina un lungo viaggio nell’altro mondo
dietro la guida di Sibilla; e con tale pretesto abbiamo una rassegna di gruppi
di persone quasi mai identificate e ridotte alla funzione di rappresentare
genericamente un vizio o una virtù. Ma qualche volta questi personaggi
acquistano una fisionomia storica. Ecco, ad esempio, i legisti26: vediamo in
ordine: Dracone, Solone, Lisia, Licurgo, Aristide, Caronda, e Demostene;
seguono i latini: Numa Pompilio, i Decemviri, Catone il censore, Ortensio,
Scevola e Sulpicio, Lelio, Tullio, Paulo, Antonio e Ulpiano, e da lontano li
segue Quintiliano. Nessun moderno in questa rassegna, e ciò in linea con
quello che Palmieri fa in tutta l’opera dove non si trova alcun moderno nel
mondo dei morti: la concordanza si dà solo, quando ha luogo, tra antichi
greci e latini.
Nel De anima peregrina del domenicano Tomaso Sardi27 troviamo
sedes per gli avari, per gli amanti, per gli invidiosi ecc., ma pochi sono i
personaggi storici o identificabili e quei pochi che lo sono provengono quasi
sempre dalle storie della Bibbia, e di solito la loro presenza è legata a
26
M. Palmieri, Città di vita, ed. di M. Rooke, Northhampton, Massachusetts
[«Smith College Studies in Modern Languages»], 1927 è un’edizione semidiplomatica
del ms. Laurenziano XL, 53 ; le terzine relative ai legisti si trovano nel lib. III, cap. 14,
pp. 156159.
27
Il poema in ventitré canti si può consultare nell’ed. di M. Rooke,
Northhampton, Massachusetts [«Smith College Studies in Modern Languages»], 1929,
che trascrive in forma semidiplomatica il ms. Magliabechiano I, 87.
qualche paragone e non alla visione diretta; per questo mancano le rassegne
che vanno normalmente col progetto di concordare storie. Eppure anche
questo poema del tardo Quattrocento, che meritò un commento in latino di
Piero Dati, presenta uno schema di loci potenzialmente capace di accogliere
molte anime del passato e del presente. Comunque anche questo «vuoto»
rafforza l’idea che sia possibile omologare storie nel genere della visione; e
in questo senso contano anche poemetti invero modesti come El giardeno di
Marino Jonata28.
I Trionfi ebbero varie imitazioni, a partire dalla Fimerodia di Jacopo
del Pecora da Montepulciano, composta in carcere tra il 1390 e il 1405. In
questa visione non pochi sono i casi di elenchi in cui antichi e moderni si
trovano insieme. Prendiamo ad esempio il capitolo secondo del secondo
libro, dove insieme agli antichi di grande fama, non esclusi i personaggi
mitologici, troviamo Alfonso el Sabio accanto a Tolomeo, e Arturo e i
cavalieri della tavola rotonda accanto ad Orazio; o prendiamo il capitolo
successivo e troviamo affastellati i grandi fiorentini da Giotto e Dante a
Filippo Villani, a Coluccio Salutati e a Francesco degli organi29. Elenchi di
personaggi storici, soprattutto moderni, si trovano nei poemetti La buca di
Monteferrato, Lo studio di Atene e il Gagno di Stefano Finiguerri detto il
Za30. Sempre come imitazioni dei Trionfi dovremmo vedere Il libro
chiamato Ambitione (ca. 1485) di Bastiano Foresi, invero non ricco di
cataloghi di personaggi storici; forse ne troveremmo molti nel suo Trionfo di
virtù se potessimo consultarlo, visto che giace ancora inedito.
Nutrite liste di personaggi storici principi, condottieri, artisti,
filosofi si rinvengono nel «preambolo» a Federico da Montefeltro
Cronaca di Giovanni Santi. Questo preambolo si estende per ben nove
capitoli prima di arrivare alla cronaca del Duca d’Urbino, ed è una «visione
storica» affollata di personaggi non meno dei Trionfi petrarcheschi, modello
28
Si legge nell’ed. di F. Ettari, New York, Columbia University Press, 1924.
29
La Fimerodia si può vedere oggi nell’ed. curata da M. Corsetti, Roma, Bulzoni,
1992.
30
I suoi testi si possono consultare in S. Finiguerri, Poemetti, ed. a cura di A.
Lanza, Roma, Zauli arti grafiche, 1994.
di Giovanni Santi. L’autore è consapevole di aver messo insieme antichi e
moderni, e lo dichiara in una terzina del capitolo finale:
Et tucte l’ombra antiche io gli narrai
Et tucte le moderne et poi la chiara gloria
31
Coi spirti ellecti et li coelesti rai .
31
Si cita dall’ed. di H. Holtzinger, «nach dem Cod. Vat. Ottob. 1305 zum ersten
Male herausgegeben», Stuttgart, Kohlhammer, 1893; è la terzina 5 del capitolo IX, p. 16.
questo genere troviamo la Margarita poetarum di Albrecht von Eyb (1472)
costituita da sezioni diverse alcune delle quali offrono modelli epistolari,
altre raccolgono «auctoritates» su temi particolari e altre scerpano sentenze
da autori classici e contemporanei. Si tratta dunque di un manuale
interessante per il suo contenuto, per l’organizzazione, e soprattutto per il
fatto che venga prodotto fuori dall’ambiente italiano (anche se l’autore era
stato in parte educato in Italia) perché indica un bisogno di manuali nuovi, di
prontuari di citazioni per studenti ai primi passi, ancora incapaci di dominare
la lingua e la cultura degli umanisti. È un’esigenza che sembra più viva oltre
le Alpi, ma anche in Italia comincia a farsi sentire la necessità di raccogliere
in sintesi e in repertori esaustivi e facilmente consultabili i materiali che un
secolo di scavi nel mondo classico era venuto accumulando attraverso tanti
studi, materiali dispersi in un’infinità di commenti e di scholia. È un
momento in cui l’Umanesimo ha raggiunto quel livello di classicità tipico di
ogni grande movimento culturale, al quale corrisponde sempre una
produzione di manuali e di sistemazioni, mentre nella fase ascendente
prevale di norma la produzione di «manifesti». Ricordiamo alcune di queste
opere per avere un’idea della ricchezza di temi e di forme in cui si realizzano
tali compilazioni. Il primato rimane ancora all’Italia con opere come il
Supplementum chronicarum (1497) di Jacopo Filippo Foresti il Bergomense
o Bergamasco che incrociava un sistema annalistico con un’apertura a tutte
le storie, così che sotto la rubrica di un certo anno esponeva gli eventi
accaduti dal Portogallo alla Sarmazia. Nel 1499 Polidoro Vergilio dava alla
luce la sua raccolta di Adagia classici, e qualche anno più tardi, e del tutto
indipendentemente, Erasmo presentava la prima chiliade dei suoi Adagia.
Già con un piede nel Cinquecento troviamo la Polyanthea di Domenico
Nanni Mirabelli (1503) che sotto lemmi filosofici (amore, verecondia,
divinità, ecc.) raccoglie citazioni pertinenti di classici, di teologi e persino di
Dante e Petrarca riportati in italiano e quindi tradotti in latino 32. Sulla stessa
32
Sulla fortuna e imitazioni della Polyanthea, nonché sulla sua funzione euristica
e pedagogica nella cultura dei «luoghi comuni», si veda B. Beugnot, Florilèges et
Polyantheae Diffusion et statut du lieu commun à l’époque classique, in «Études
françaises», XIII, 1977, pp. 119141. Il numero della rivista canadese appena citata è
linea si pongono i Commentarii urbani (1506) di Raffaele Maffei, il
Volterrano, sui quali torneremo. Sono opere fortunatissime, sempre citate e
utilizzate, e perfino imitate: l’opera di Foresti sarà imitata da Marco Guazzo
e da Laurentius Surius, la Polyanthea sarà il modello, ormai verso la fine del
secolo, dei Beyerlinck e dei Theodor Zwinger, gli Adagia di Erasmo
troveranno imitatori in Lychostene e altri.
9. Ma la congiuntura culturale è ancora più complessa per il fatto che
al bisogno di repertoriare e sistemare il sapere si aggiunge il bisogno di non
lasciarlo inerte, e di utilizzarlo invece nella creazione letteraria, nella
retorica e nella ricerca storica. Ed è un bisogno che ci porta nel cuore della
complessa discussione relativa all’inventio che coinvolgeva la logica, la
dialettica, la retorica, la topica in genere, l’idea e la pratica dell’imitazione,
della creazione letteraria e delle artes sermocinales in generale. Le proposte
di allargare il numero dei loci, di distinguere nettamente l’inventio logico
dialettica da quella retorica, discussioni che si protrassero da Rodolfo
Agricola a Ludovico Carbone e oltre sono molto complesse e questa non è la
sede per esaminarle. Tuttavia è indispensabile accennarvi almeno nella
misura in cui ci permette di capire come le concordanze delle storie trovino
in questa discussione una certa legittimità teorica e lo stimolo a produrle.
Possiamo dire che la grande discussione sull’inventio non arrivò a
conclusioni definitive, ma rimase sempre dibattuta da una parte fra la cura di
evitare una definizione troppo astratta delle sedes e insieme poco concreta
sui contenuti sui quali non riesce a decretare parametri e, dall’altra, la cura di
non essere troppo concretamente orientata verso i contenuti in modo da
mettere in penombra la presenza delle forme. In questa discussione si
elaborarono nozioni che potevano ridurre di molto l’astrattezza dei loci,
rendendoli specifici con molteplici sfumature e distinzioni. Fino ad ora noi
abbiamo parlato di loci, di sedes e di luoghi comuni, entro cui si concordano
le storie; ma è chiaro da quel che siamo venuti dicendo che non si tratta né
dei loci communes della retorica e della logica nel senso classico, né dei
topoi intesi alla maniera di Curtius: i primi costituiscono o puntano a
dedicato al tema «Le lieu commun».
costituire un’ ars ovvero un metodo di organizzare un argomento a fini
persuasivi; i topoi, invece, nella maniera in cui li formulano Curtius e i suoi
seguaci33, hanno una qualità empirica che non consente di costruire una ars.
È ugualmente chiaro che nel concordare storie non contano i loci come il
giusto e l’ingiusto, l’onesto e l’utile, il piacevole, il facile, ecc., perché
offrono sussidi troppo generici che mal si coniugano con la specificità della
storia; né servono a molto topoi quali puer/senex, fortitudo/sapientia o
dell’invocazione alle Muse e simili. Gli autori che si occupano dell’inventio
nel Cinquecento ci offrono il termine che definisce con maggior precisione
ciò che andiamo cercando e che abbiamo visto in Valerio Massimo e in
Petrarca. Così troviamo in Pietro Ramo34 il termine notae che ricavava da
Cicerone (Orator, 46 e Topica, 35) per indicare un luogo comune più
ristretto, una specie di etichetta applicabile ad una serie di soggetti simili ma
particolari. Troviamo i termini di tituli o capita (kephalaion direbbe Dionigi
di Alicarnasso nella sua Rhetorica, X, 15), ossia rubriche sotto le quali si
raggruppano dati aventi qualche elemento in comune 35. Grazie a questi tituli
è il termine che preferiamo perché ha riscontro concreto nei titoli di
capitoli come quelli visti in Petrarca le grandi sedes vengono frammentate
in una serie di entità che sono minori per quel che riguarda la capacità di
accogliere campi vastissimi, ma sono poi di gran lunga superiori per la
concretezza dei dati. Si tratta in effetti non di veri luoghi comuni, ma di
luoghi «propri» o «specifici», come direbbe Aristotele (Rhetorica, I, 2;
33
Si veda soprattutto L. Arbusow, Colores rhetorici: eine Auswahl rhetorischen
Figuren und Gemeinplätze, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1948 e 1963, il più
impegnato teoricamente nel definire i topoi.
34
Dialectique, Paris, Wechel, 1555, lib. I. p. 5: «ores les preceptes d’iceux topoi,
c’est a dire lieux et notes».
35
Lo studio migliore sul problema dei loci communes e del vario modo di
intenderli è quello di F. Goyet, Le sublime du «lieu commun», Paris, Champion, 1996, dal
quale dipendono i dati presenti in questo nostro paragrafo. Tuttavia si consulta ancora con
profitto M.J. Lechner, Sr., Renaissance Concepts of the Common Places, New York,
Pageant, 1962. Si vedano anche i contributi in Lieux communs, topoi, stéréotypes,
clichés. Linguistique, Argumentation rhétorique, Analyse des discours littéraires et
sociaux. Actes du Colloque de LyonII, may 1992, a cura di C. Plantin, Paris, Kimé, 1994.
1358a1435), nel senso che sono propri di una disciplina, ad esempio la
storia, come nel nostro caso. Erasmo, per citare una auctoritas, consiglia di
ricorrere ai tituli per organizzare i materiali dell’inventio in modo poi
facilmente consultabile:
Verum ne indigesta rerum turba pariat confusionem, profuerit titulos qui
latius patent in aliquot secare partes. Liberalitatis titulum, ut exempli causa
loquamur, ita licebit partiri, si subieceris: “Beneficium prompte citoque datum”;
“Beneficium aptum”; “Beneficium digno aut indigno collatum”; “Beneficium
exprobratum”; “Beneficium mutuum”. Et si qua iudicabuntur magis idonea, nam
36
nos indicandi gratia duntaxat haec ponimus .
36
De copia verborum ac rerum, ed. B.I. Knott (vol. I6 dell’Opera omnia di
Erasmo, North Holland, Amsterdam), 1988, lib. II, 578583, p. 260, sotto il titolo «Ratio
colligendi exempla».
37
Ivi, l. 586. Si noti che «locus communis» ha il significato di «massima», di frase
fatta, non molto lontano dal senso moderno di «cliché». L’accezione mette in rilievo la
difficoltà e la possibile confusione che nasce quando si parla di «luogo comune» perché il
significato tecnico originario retorico e dialettico convive con quello generico: lo osserva
uno specialista come Goyet, op. cit., «Introduction».
potenziale di credibilità (non esiste il caso «unico» perché l’idea di titulus
non lo consente) e di persuasione retorica (derivata dalla concretezza
dell’individuo) di gran lunga superiore a quello che legava eloquenza e
storia. Le concordanze delle storie rappresentano un compromesso
impareggiabile nelle discussioni sull’inventio perché da una parte offrono
una via per moderare l’astrattezza delle sedes, e dall’altra mantengono viva
una rete di loci che prevengono il pericolo di soccombere davanti a oceani di
materiali qualora non li organizzi una tipologia o una topica particolare,
fatta, appunto, di loci particulares.
Si capisce come in questa congiuntura di sollecitazioni pedagogiche,
archivistiche e inventive fioriscano i grandi empori di luoghi
comuni/specifici che favoriscono l’inventio alla quale si affida il compito
principale della copia nelle scritture. In questa congiuntura riaffiora anche il
modello di Valerio Massimo e di Petrarca che lo media: non più il Petrarca
dei Trionfi bensì quello del Rerum memorandarum libri, perché nei nuovi
empori di citazioni e di esempi non ha più luogo l’elemento autobiografico.
L’opera che Petrarca aveva voluto nascondere ai suoi contemporanei assurge
ora a valore di modello sia per la struttura che consentiva l’incorporazione di
storie infinite, sia perché conservava un minimo di racconto storico
nell’aneddoto, sia perché il latino parlava con maggior autorità alla
repubblica letteraria degli umanisti.
10. Un tentativo originale di concordare storie lo troviamo nei già
ricordati Commentarii urbani (1506) di Raffaele Maffei, il Volterrano. Nella
seconda e terza sezione di questa voluminosa opera, intitolate
rispettivamente «Anthropologia» e «Philologia», si danno sterminate
rassegne di uomini illustri di tutti i tempi: gli antichi indicati in ordine
alfabetico, e i «neoterici» divisi in categorie (teologi, principi, autori, ecc.).
La sezione terza è ripartita in molti tituli (del tipo de honesto et eius
partibus, apophtegmata sapientum, de ocio, de memoria, ecc.) sotto i quali
si raccolgono aneddoti e detti di antichi e di moderni.
Più vicini al modello petrarchesco sono gli Exemplorum libri decem di
Marco Antonio Coccio, meglio noto come il Sabellico. Questa raccolta
pubblicata a Venezia (Bartolomeo Astense, 1507) da Giovanni Battista
Egnazio concorda storie in modo singolare: sotto vari tituli alcuni simili a
quelli di Valerio riporta prima aneddoti ricavati dalla Bibbia e dalla storia
del cristianesimo e quindi aneddoti del mondo «ethnicus». Qualche esempio:
il primo capitolo «De insigni ortu» presenta Cristo, Mosè, G. Battista, San
Domenico, San Niccolò e Pio II; fra i pagani o gli «ethnici» troviamo
Romolo, Alessandro Magno, Ottaviano Augusto, Tiberio, Achille, Paride e
Ciro. Un altro esempio ripreso dalle pagine finali (ca. 141v142r) e dal
capitolo «De memoria»: troviamo Antonio Ravennate (dell’età di Antonio
Sabellico), Mitridate, Ciro, Scipione, Cinea, Cesare, Carmide, dove si vede
che mancano i personaggi scritturali o santi. Sabellico include i moderni
sotto i cristiani e li separa dai pagani.
L’idea di concordare storie aneddotiche riappare con consapevolezza
programmatica in un palinsesto di Valerio Massimo dovuto a Battista
Fregoso (Fulgosus) autore di un De dictis factisque memorabilibus libri
collectanea, pubblicato a Milano presso Ferrari (Ferrarius) nel 1509. In
realtà il testo fu originariamente scritto in volgare, ma a noi rimane una
versione latina curata da Camillo Gilini episodio significativo del fatto che
il volgare fosse ormai pronto ad avere il suo Valerio Massimo, ma il
successo dell’opera era garantito ancora dal latino. Fregoso dedica il libro al
figlio esortandolo ad amare le lettere, sempre benefiche per chi le frequenta;
e ritiene che l’iniziazione alla letteratura abbia maggior successo se parte
con letture di opere ricche di aneddoti, come appunto quella di Valerio, e per
questo egli lo imita nell’ordinare la materia: «In iis autem rationem illam
secutus sum: ut Valerium Maximum mihi quo ad rerum titulos capitaque ac
numerum librorum proponerem, sed in exemplis rebusque ea tantum
sumerem quae vel ipsum prateriissent vel post eum gesta nullo modo in eius
noticia esse potuissent»38. In effetti Fregoso segue l’ordine di Valerio
Massimo sia nei libri (nove come nel modello) sia nei capitoli (identici in
tutto al modello) creando così un palinsesto di notevole interesse. Sennonché
è un Valerio Massimo passato attraverso l’adattamento di Petrarca poiché
anche Fregoso aggiunge esempi moderni agli esempi degli antichi: «verum
38
«Epist. ad Petrum filium» preposta all’ed. citata, ca. A2 verso.
etiam habebis illud quo recentior historia quanto presentibus moribus magis
congruit, tanto etiam facilius legentium animos tamquam ea quae pene ipsi
aut patres eorum viderint referri intelligant»39. Se vediamo il brevissimo
capitolo quarto (forse il più breve di tutta l’opera) dell’ottavo libro, intitolato
«De disquisitione per tormenta», troviamo un aneddoto su Esopo liberto di
Demostene, uno «De Tirone et filio», uno «De Aretaphila graeca», e quindi
uno «De Ferione Aegyptio», ai quali fanno seguito «Recentiora de duobus
adulterii accusatis» e «De Iacobo Fuscaro patricio veneto». Mancano esempi
romani, ma è un’eccezione perché gli exempla Romanorum sono presenti
ovunque. Per Fregoso il mondo «più recente» copre il periodo che va grosso
modo dal sec. III fino ai suoi contemporanei: lo si deduce dai personaggi che
stanno con gli antichi: ad esempio, nel capitolo sesto («De perfidia et
proditione») dell’ottavo libro troviamo esempi «recentiores» che vanno da
Costantino al Cardinale Fulgoso e a Bernardino Curzio; in ciò Fregoso si
allontana da Petrarca per il quale il moderno comincia grosso modo col
nuovo millennio, però d’altra parte estende l’epoca classica almeno fino a
Boezio. Fregoso è originale nella scelta degli aneddoti e se compulsava gli
stessi autori utilizzati da Valerio (ma sappiamo pochissimo delle fonti di
Valerio) riprendeva aneddoti che questi aveva trascurato. Il che accresce
pregio ad un testo che ci offre un fulgido esempio di concordanza delle
storie ispirato al modello valeriano e petrarchesco. Di quei modelli manca la
costante divisione tra romani ed «externi», benché i romani vengano spesso
raggruppati e separati dagli altri. In compenso aggiunge una componente
pedagogica del tutto assente in Valerio e in Petrarca — alla funzione
retoricoesemplaristica — dei modelli. L’idea di «concordanza delle storie»
arriva così alle scuole, e può entrare ormai appieno nella manualistica
cinquecentesca.
11. Il culmine di questo processo venne qualche anno più tardi e non
in Italia, benché italiani siano i modelli. Alludiamo all’Officina di Jean
Tixier de Ravisy meglio noto col nome umanistico di Ravisius Textor,
italianizzato come Ravisio Testore, insegnante di retorica. L’Officina partim
39
Ivi, A 3 recto.
historiis partim poeticis referta disciplinis (1520) deve molto ai
Commentarii del Volterrano, a Fregoso e al Petrarca del Memorandarum
rerum libri, ma grazie alla sua maggiore agilità e consultabilità rispetto a
quelle fonti ebbe un successo di gran lunga superiore, quantificabile in oltre
cinquanta edizioni nel Cinquecento. L’utenza di questo repertorio fu
incalcolabile: probabilmente stava sullo scrittoio di tutti i letterati i quali ad
esso ricorrevano ogni volta che dovevano avvalersi di copiosi dati storici,
antropologici e anche naturalistici. L’Officina conobbe varie redazioni
arricchite e rassettate fino a quando, a partire dalla sistemazione fattane da
Corrado Lycosthene (Wolfhart) nel 1550, la tradizione si stabilizzò alquanto,
e nell’assetto definitivo si presentava con un totale di circa trecentocinquanta
tituli suddivisi in sette libri: il primo è normalmente dedicato alle divinità, e i
successivi al mondo fisico con i suoi fiumi, laghi, mari, monti ecc. La parte
più cospicua riguarda l’uomo includendo non solo vizi e virtù, ma anche
tanti aspetti che potremmo dire antropologici nel senso che riguardano
creazioni umane (misure del tempo, leggi, istituzioni, arti e mestieri); e vasta
è la tipologia storica di ogni tipo di uomo e di eventi: uomini che puzzano,
uomini morti perché uccisi da mogli gelose, uomini morti perché dilaniati
dai cani o morsi da serpenti, donne fedeli e donne che si distinsero nelle arti,
meraviglie del mondo ... Evidentemente siamo alquanto lontani e da Valerio
Massimo e da Petrarca ai quali non interessavano materie fisiche e naturali, e
si occuparono quasi esclusivamente (Petrarca più di Valerio) di vizi e di
virtù, cioè di quanto poteva rientrare nel discorso etico: i modelli
dell’Officina nell’insieme sono piuttosto i Commentari di Maffei. Eppure dei
modelli valeriani e petrarcheschi rimane immutato il metodo di «concordare
le storie», anzi ne risulta rafforzato grazie alla copiosità dei materiali e alla
sistematicità dell’applicazione. Da Valerio e da Petrarca riprende, oltre a
numerosi aneddoti, molti tituli: per esempio il capitolo di quelli che pur
essendo di umili origini arrivarono ad ottenere grandi onori; di quelli che
onorarono i genitori, di quelli che si distinsero per la magnanimità e per
varie altre virtù, di coloro che si distinsero per l’ingratitudine e per vari altri
vizi e così via dicendo. Da Petrarca e dai suoi imitatori riprende l’uso di
chiudere le liste degli aneddoti con esempi di personaggi moderni. Per dare
un’idea di come Ravisio organizzi il materiale riportiamo un breve capitolo
dell’Officina, in cui ritroviamo in forma espansa e accresciuta gli esempi di
uomini dotati di memoria straordinaria riportati da Marco Antonio Sabellico:
Memoria clari
Esdras sacerdos universas Hebraeorum doctrinas habuit in memoria.
Themistocles tanta fuit memoria, ut Simonidi artem memoriae pollicenti,
dixerit se malle artem oblivionis, quod etiam meminisset, quae nollet, et oblivisci
non posset quae vellet. autor Cicero l. 2 de Finibus
Carmides in Graecia, quae quis exegisset volumina in bibliothecis,
legentis modo repraesentabat. autor Plinius.
Aiunt et Theodetem Aristotelis discipulum multae fuisse memoriae.
Cyrus rex nomina cunctorum militum in exercitu tenebat.
Cyneas Pyrrhi legatus Romam a domino missus, omnium senatorum
nomina edidicit uno die, quorum consessum totidem regum sibi videri retulit
Pyrrho.
Mithridates duarum et viginti gentium, quas habuit subditione linguas
percalluit, earumque gentium viris sine interprete locutus. autores Plin. et Gell.
Scipio in exercitu Romanorum tenebat nomina.
Habuit Lucullus divinam quandam rerum memoriam, maiorem verborum
Hortensius. autor Cic. l. 4, Quaest. Acad.
Hortensius orationem iisdem verbis scriptitabat, et pronunciabat, quibus
meditabatur.
Tanta fuit Portio Latroni memoria, ut quae dicturus erat ediscendi causa
nunquam relegeret. Edidicerat quae scribebat et licebat ita, ut in nullo unquam
verbo memoria eum deciperet. Iubebat aliquem nominari ducem, statim illius
gesta ad unguem reddebat.
Iulius Caesar eodem tempore quaternas dictabat epistolas. Plinius scribit
eum legere simul dictare, et audire consuesse.
Seneca scribit, memoriam in seipso adeo excelluisse, ut non ad usum
modo sufficeret, sed in miraculum usque procederet. Nam duo millia nominum
recitata, quo ordine erant dicta, referebat. Ducentos versus ab ultimo recipiens
recitabat.
Aelius Adrianus tanta fuit memoria, ut locos, negocia, milites absentes
quoque nominibus recenseret.
Antonius Ravenas aetate Antoni Sabellici multa rerum millia stans
percipiebat animo40.
L’ordine di presentazione vede all’inizio i personaggi biblici, quindi i
greci, i romani e infine i moderni, ed è l’ordine prevalente in tutta l’opera,
benché talvolta subisca delle modifiche spostando i personaggi barbari
(quelli biblici sono rarissimi) al terzo posto, prima dei moderni ai quali è
sempre, immancabilmente, riservato il posto di chiusura. Se vediamo i
personaggi ricordati da Petrarca sotto lo stesso lemma troviamo per i romani
Cesare, Fabio Massimo, Lucullo e Ortensio, e Lucio Scipione; per gli
«externi» Seneca, Latro Porzio, un anonimo, Temistocle, Cinea, Ciro e
Mitridate, Tarmada; per i moderni un anonimo e Clemente VI. In Valerio
Massimo manca un titulus «de memoria», ma nel libro VIII, 7, «externi»
(«De studio et industria») troviamo Temistocle e Ciro: il confronto ci dà
subito l’idea di come viva una tradizione di aneddoti, ossia di quel materiale
al minuto che si ricompone sempre in nuove forme.
Ravisio riduce a termini narrativi minimi, a scheletrici «narremi»,
quelli che già nei modelli erano brevi aneddoti. Il che rispondeva al calcolo
di lasciar spazio a prelievi in misura idealmente esaustiva e tuttavia mai
esauribile grazie all’apporto potenziale del moderno. La brevitas andava
forse a scapito dell’eleganza e anche della perspicuità, ma in compenso,
riducendo la distanza tra le storie, metteva in maggior risalto la catena che le
tiene insieme, condensandole in nuclei di dati comuni. Da questo nasce
l’impressione che i tituli indichino addirittura unità narrative i cui elementi
multipli sono difficilmente scomponibili perché li cimenta il legame del
«luogo comune». La loro compattezza è tale da generare negli utenti
dell’Officina la tentazione di citare per interi blocchi anziché limitarsi
all’aneddoto singolo. Compattezza e brevitas creano un «effetto ciliegia»
un aneddoto se ne tira dietro altri che ha conseguenze retoriche importanti.
Si direbbe, infatti, che un aneddoto exemplum acquisti potenza persuasiva
dagli altri che l’accompagnano perché se la catena gli toglie il carattere di
singolarità sempre stupenda ma priva di conferme analoghe gli conferisce
40
P. 274 sg. dell’ed. citata nella nota seguente.
però nuova forza trasformando la singolarità in una pluralità analogica,
riportandola entro la matrice di un titulus. L’effetto ciliegia doveva
modificare il concetto stesso di esemplarità, tradizionalmente affidato,
almeno in buona parte, all’aneddotica; ed era destinato anche ad avere
conseguenze stilistiche notevoli.
(…) udite che animo è il mio, et forse lo farò anchora. Io volevo fare le
CONCORDANZE DELLE HISTORIE; cio è segnare tutti i medesimi casi accaduti,
così antichi come moderni. Tutti i Signori Tiranni che son stati ammazzati a un
modo; mettergli in un foglio, tutti coloro che sono fatti per forza Principi, et allegare
dove in qual libro, et le parole formate, che dice lo Historiographo41.
Numerose furono le imitazioni di Ravisio Testore, a cominciare da
quella in latino di Giulio Barbarana, Officinae tomi tres (Venezia,
Valvassore 1569), e di quella in italiano di Ortensio Lando, il quale nel
15523 pubblicò Sette libri di cataloghi a varie cose appartenenti, non solo
antiche, ma moderne: opera molto utile alla historia & da cui prender si po
materia da favellare d’ogni proposito che ci occorra (Venezia, Gabriel
Giolito de’ Ferrari), titolo ormai trasparente alla luce della storia che
41
A. F. Doni, I Marmi, II, Venezia, Marcolini, 1552, p. 63. Su questo concetto di
concordanze cfr. G. Masi, «Quelle discordanze sì perfette» Anton Francesco Doni, in
«Atti e Memorie dell’Accademia di Scienze e Lettere la Colombaria», LIII, n. s., 1988,
pp. 9112, particolarmente p. 17 sg. Mi permetto di rimandare anche a P. Cherchi, A. F.
Doni: The «concordanze delle historie» and «The Ideal City», in Postello, Venezia, e il
suo mondo, Firenze, Olschki, 1988, pp. 291304.
abbiamo ricostruito. Lando traduce in gran parte l’Officina per la materia
riguardante il mondo antico, ma ad ogni capitolo aggiunge di suo liste di
personaggi moderni. Ancora ai primi del Seicento l’opera di Ravisio
conosceva una traduzione parziale e un adattamento da parte di Giovan
Felice Astolfi, Della officina historica libri quattro: nella quale si spiegano
essempi antichi e moderni (Venezia 1622) che conobbe varie edizioni nel
corso del secolo. A questa altezza cronologica sorprende che l’Officina, già
vecchia di un secolo, mostri ancora tanta vitalità; ormai ciò sarà dovuto alla
sua agilità più che alle concordanze di antichi e moderni: Astolfi non
intendeva più il moderno come opposizione all’antico (alla maniera della
querelle dibattuta ormai da decenni), bensì come attestazione di una
continuità dell’antico, come ripetizione nei tempi di ciò che è umano. Del
resto potremmo ricordare altri titoli che già da mezzo secolo venivano
collazionando antichi e moderni: pensiamo ad Anton Francesco Doni che ne
Il Cancellieri (Venezia, G. Giolito, 1562) concordava aneddoti e detti di
antichi e di moderni; pensiamo all’opera, dal titolo trasparente, di Tommaso
Porcacchi, Paralleli o essempi simili cavati da gl’istorici (Venezia, G.
Giolito, 1567), o a Gasparo Contarini che nel suo Vago e dilettevole
giardino (Vicenza, Perin 1589) colloca in ampie, generali sedi, antichi e
moderni. Infatti non si vuol dire che l’Officina abbia operato una rivoluzione
culturale; semmai è più corretto affermare che fu essa stessa il risultato di un
nuovo indirizzo culturale, e pertanto bisogna vederla nel contesto di quella
cultura del «luogo comune»42 che fu una caratteristica saliente del
Cinquecento. Compilazioni di luoghi comuni o tituli raccomandavano
Erasmo nel De copia, il Mosellano nel De primis apud rhetorem
exercitationibus praeceptiones, Melanchton nelle Institutiones rhetoricae,
Ludovico Carbone da Costacciaro nel De oratoria inventione, vel de locis
communibus 43... e la cultura del luogo comune penetra il mondo del diritto
42
Sull’argomento può essere utile A. Moss, Printed Commonplacebooks and the
Structuring of Renaissance Thought, Oxford, Clarendon Press; New York, Oxford
University Press, 1996.
43
Su questa letteratura informa abbondantemente F. Goyet, Le sublime du «lieu
commun», cit.
(un solo esempio: Modestino di Pistoia, Loci communes totius juris), della
teologia (si ricordi Melchior Cano col suo De locis theologicis, o Wolfgang
Musculus, Locis communes sacrae theologiae), della storiografia (bastino gli
esempi di Machiavelli44 e di Bodin45) e della filosofia, come si apprende dal
Seminarium totius philosophiae di Giovan Battista Bernardi. Detto tutto
questo, però, non si esagera dicendo che l’Officina brilla perché tradusse in
atto i programmi umanistici di raccogliere tituli e luoghi comuni, e lo fece
con tanta eleganza e ricchezza che stese un ponte tra l’Umanesimo e la
cultura in volgare come poche altre opere umanistiche poterono fare, e
questo perché l’Officina, grazie alla sua organizzazione e dovizia, poteva
essere facilmente usata da autori poco familiari col mondo antico. Perciò
non è sbagliato attribuirle il ruolo di aver creato uno stile, o almeno di aver
contribuito fortemente a crearlo, nelle letterature in volgare. Prendiamo un
esempio ricavato dalla Silva de varia lección dello spagnolo Pedro Mexía,
un’opera che a sua volta ebbe una fortuna immensa; e riprendiamo un passo
dal capitolo «Quán excelente cosa es la memoria», passo che riprende in
grandissima parte gli esempi raccolti sotto il ricordato titulus «memoria
clari» di Ravisio, contaminandolo forse con altri repertori euristici:
De Mitridates, rey de Ponto, leemos que en sus reynos avía veynte y dos
lenguajes; y que a todos oya sin intérprete y respondía hablándoles en su lengua.
Grande fue también la memoria de Temistocles, de quien dize Cicerón, en el libro
44
Si pensi ai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, dove è continuo il
prelievo di esempi antichi affiancati ad esempi moderni. Valga per tutti un solo
campione: «E che questo sia il vero, oltre agli antichi esempli che se ne potrebbono
addurre, ce n’è uno esemplo fresco in Italia [...] Ma che bisogna ire per gli esempli a
Capova ed a Roma, avendone in Firenze ed in Toscana?», II, 21 (p. 277 di N.
Machiavelli, Opere, a cura di M. Bonfantini, MilanoNapoli, Ricciardi, 1954). Il
principio per cui ciò avviene è il seguente: «Tutte le cose del mondo in ogni tempo hanno
il proprio riscontro con gli antichi tempi. Il che nasce perché essendo quelle operate dagli
uomini, che hanno ed ebbono sempre le medesime passioni, conviene di necessità che le
sortischino il medesimo effetto», ivi, III, 43.
45
J. Bodin, Methodus ad facilem historiarum cognitionem, disc. III, «De locis
historiarum recte instituendis», Basilea, Henrici Pernae, 1576, p. 22.
De los fines segundo, que aprendía quanto quería, y que algunas cosas que avía
tomado no buenas, las desseava olvidar y no podía. Y preguntándole una vez
Simónides si quería arte para tener memoria, respondió él que, para olvidar
algunas cosas, la quería; que, para acordarse, no la avía menester. De Marco
Craso dize Quintiliano que, en cinco maneras de lenguas que avía en Grecia, oya
qualquiera y le respondía.
De Porcio Latrón escrive Séneca, en el prólogo de sus Declamaciones
(que, con sus scholias, yllustró el doctíssimo varón Rodolpho Agricola), que por
natura y por arte él tenía tal memoria, que parecía cosa increyble, porque todo
quanto le encomendava, le guardava fielmente; y, con ser grande orador, todas
quantas oraciones avía hecho, dezía de memoria sin errar palabra. Y dezía que era
trabajo en balde escrevir, que en su memoria escrivía sus invenciones. Sabía tan
bien las hystorias y libros que avía leydo, que de qualquier capitán o rey antiguo
que le nombrassen, luego, en el mismo punto, contava su vida y hystoria sin
perder un solo punto dello.
También escrive Cicerón de Ortensio, grande orador, que de la manera
que ymaginava o pensava la oración, la escrivía después; y, assí, la dezía sin
trocar palabra. Y del mismo Ortensio escrive Séneca, en el lugar arriba alegado,
que, estando en un almoneda que duró todo un día, al fin della dixo todas las
cosas que se avían vendido, por la orden que se vendieron, y los nombres de
aquéllos en quien se avían rematado y en qué precio cada cosa, sin errar en la
orden como avía todo passado
Y de sí mesmo, como buen testigo, escrive Séneca que en su mocedad
tuvo tan grande memoria, que, si le dezían dos mil nombres de cosas, por la orden
que se las dezían las tornava a dezir todas, sin errar una sola. Dize más; que, en
tiempo que él aprendía, le acaesció venir dozientos discípulos a su maestro y cada
uno dellos dezirle un verso en su presencia; y, en acabándolos ellos de dezir, los
tornava él a referir desde el postrero hasta el primero, sin perder ninguno.
Entre los exemplos de <muy> gran capacidad, se puede notar lo de Julio
Céssar; el qual, en un mismo tiempo, escrevía quatro cartas a quatro personas con
quatro secretarios. Y Plinio dize dél que, en un mismo tiempo, le acaescía notar
una carta que otro escreviesse y estar él leyendo en un libro y también oyr a otro
que le hablava, compliendo con todos. Esparciano escrive casi lo mismo del
emperador Adriano.
A este propósito, me acuerdo una notable y aguda respuesta de Scipión
Affricano el Menor; y fue assí: que, competiendo con Apio Claudio sobre la
censoría de Roma, por atraer a sí al pueblo, Claudio nombrava a cada uno de los
vezinos por sus nombres, diziendo que él les tenía amor y memoria de todos, pues
los conoscía y nombrava por su nombre, y que Scipión no conoscía a nadie ne
sabía el nombre de ninguno dellos. Respondió a esto Scipión, diziendo: —»La
verdad es, Apio Claudio, que yo nunca he procurado conoscer a muchos, sino que
ninguno aya que no me conozca a mi».
Muchos más exemplos pudiera dezir de <muy> grandes memorias de
hombres que, por no cansar la memoria del que los lee, quiero dexar. El latino
lector que quisiere ver otras excelencias de la memoria, vea a Cicerón en sus
Tusculanas, y a Quintiliano en el onzeno libro de sus Instituciones, y los auctores
que cita y trae Joanes Camertes sobre el capítulo séptimo de Solino46.
Il testo di Mexía fu ripreso da numerosi autori italiani (ad esempio
Geronimo Giglio e Tomaso Garzoni47) che a loro volta venivano plagiati, e
così si ripeteva in modo esponenziale una confezione di aneddoti concordati.
In modo analogo circolava nel Cinquecento e nell’inoltrato Seicento
un’aneddotica confezionata in tituli facilmente prelevabili e utilizzabili. Le
scritture di quel periodo abbondano di aneddoti storici citati a catena:
raramente si trova la menzione di un uomo dalla grande memoria senza che
gli faccia corteo una serie di altri esempi sullo stesso argomento; raramente
si menzionerà un uomo dalla grande crudeltà e lasciarlo poi isolato, senza la
compagnia dei suoi simili; raramente si menzionerà un uomo con un vizio,
un difetto o una virtù qualsiasi che non gli trovi da mettere accanto uomini a
46
Silva de varia lección, ed. A. Castro, Madrid, Cátedra, 1990, vol. II, pp. 5154.
47
I dati nel mio Polimatia di riuso Mezzo secolo di plagio (15391589), Roma,
Bulzoni, 1998.
lui simili48 ... E l’Officina fu uno dei depositi più frequentati e saccheggiati
per prelevarne aneddoti storici incatenati.
13. Le storie concordate diventarono una componente vistosa della
copia praticata nelle scritture del secondo Cinquecento49. Ma oltre a
costituire un elemento stilistico, le concordanze delle storie modificarono
profondamente il concetto di esemplarità. Abbiamo detto, infatti, ed è cosa
risaputa, che tradizionalmente gli aneddoti avevano una funzione esemplare,
e questa veniva ad essere tanto più forte quanto più coglieva un dato
singolare irripetibile: aneddoto, dopo tutto, significa etimologicamente
«inedito». Ora un aneddoto legato a molti altri simili ricorda ciò che
Montaigne convintissimo che l’esemplarità vada ricercata fuori della
cronotipia osservava a proposito di ogni cosa che si può ripetere
all’infinito:
Comme nul evenement et nulle forme resemble entierment à une autre,
aussi ne differe nulle de l’autre entierement. (c) Ingenieux melange de nature. Si
48
Il gusto dei cataloghi che concordano storie si manifesta anche in poesia: basti
ricordare l’elenco di poeti e artisti sia antichi che moderni ricordati da L. Ariosto
nell’Orlando Furioso:
Timagora, Parrasio, Polignoto,
Protogene, Timante, Appollodoro,
Apelle, più di tutti questi noto,
e Zeusi, e gli altri ch’a quei tempi fôro;
[ ...]
e quei che furo a’ nostri dì, o sono ora,
Leonardo, Andrea Mantegna, Gian Bellino,
duo Dossi, e quel ch’a par sculpe e colora,
Michel più che mortale, Angel divino
Bastiano, Rafael, Tizian, ch’onora
non men Cador, che quei Venezia e Urbino;
e gli altri di cui tal l’opra si vede,
qual de la prisca età si legge e crede (XXXIII, 12)
49
Su questo tema si veda T. Cave, The Cornucopian Text Problems of Writing
in the French Renaissance, Oxford, Clarendon Press, 1979; ho trattato il tema anche nel
mio Polimatia di riuso, cit.
nos faces n’estoient semblables, on ne sçauroit discerner l’homme de la beste; si
elles n’estoient dissemblables, on ne sçauroit discerner l’homme de l’homme. (b)
Toutes choses se tiennent par quelques similitude, toute example cloche, et la
relation qui se tire de l’experience est tousjours defaillante et imparfaicte; on
joinct toutesfois les comparaisons par quelque coin50.
In una situazione del genere l’esemplarità di un aneddoto singolo non
poteva più conservare la stessa forza assegnatagli dalla tradizione: doveva
perderla e/o trovarne un’altra. Accaddero entrambe le cose: se la catena di
aneddoti liquidava l’esemplarità tradizionale legata all’idea della storia
magistra vitae, e quindi all’iperbolizzazione dei personaggi e dei loro fatti e
detti, in compenso la ripetizione accresceva il tasso di credibilità51 e il potere
di persuasione in quanto coinvolgeva il lettore stimolandolo ad aggiungere
altri esempi, e perfino prospettandogli in alcuni casi la vaga possibilità di
poter rientrare in uno di quei tituli ai quali si può ricondurre la storia passata
e presente secondo dei patterns che vigeranno anche nel futuro. Sembra,
insomma, che la concordanza delle storie umanizzi la storia, espungendo da
essa ciò che è singolare perché rischia di apparire superumano o non umano.
In questo senso le concordanze delle storie pongono un’alternativa al
modello plutarcheo delle Vite parallele, e semmai potenziano il Plutarco dei
Moralia. Molto s’è scritto sull’esemplarità umanisticorinascimentale52
50
Essais, III, 13 («De l’experience»), in Oeuvres complètes, ed. A. Thibaudet et
M. Rat, Parigi, Gallimard, 1962, p. 1047. Il passo è citato anche da T. Cave, The
Cornucopian Text, cit., p. 276.
51
Il problema della credibilità o meno dell’exemplum veramente «inedito» era
stato posto, tra gli altri, da Bodin nel quarto discorso della sua Methodus, attaccando
alcuni esempi riportati da Plutarco. Ma si veda la replica di Montaigne, Essais, II, 32
(«Defense de Seneque et de Plutarque»), ed. cit., p. 701 sg.
52
Si vedano i contributi più recenti di J.D. Lyons, Exemplum The Rhetoric of
Example in Early Modern France and Italy, Princeton, Princeton University Press, 1989,
e di T. Hampton, Writing from History Rhetoric of Exemplarity in Renaissance
Literature, Ithaca, Cornell University Press, 1990, entrambi ricchi di informazioni benché
non tocchino il problema dal nostro punto di vista. Molto più pertinente per il nostro
argomento è il saggio di A. Battistini, «Il vento, che le più alte cime più percuote».
L’iperbole letteraria della realtà storica, in «Studi di estetica», XXVI, 1998, pp. 159
vedendovi normalmente un riflesso degli ideali eroici rappresentati da
Plutarco. Ma forse si esagera, perché la civiltà umanisticorinascimentale fu
attenta, e addirittura in misura maggiore, al mondo delle virtù minori e dei
vizi dei quali s’era occupato Plutarco nei suoi opuscoli: quando si studierà la
trattatistica sull’adulazione, sulla maldicenza, sull’ira, sull’amore coniugale
e via dicendo, si scoprirà quale ruolo abbiano avuto i Moralia in una cultura
cortigiana e cittadina in cui l’adulazione e la maldicenza così come l’onore
degli studi e i doveri familiari erano preoccupazioni reali e quotidiane più di
quanto non lo fossero gli ideali eroici cavallereschi, i quali erano per statuto
proiettati nel passato. L’attenzione a una moralità media e quotidiana si
confaceva meglio alle concordanze delle storie perché esse dimostrano che
molti sono gli uomini illustri, nel bene e nel male, pur senza essere
eccezionali o addirittura unici, e predicarli in gruppi numerosi significava in
qualche modo demitizzarli per sentirli più vicini, più efficaci come modelli,
di creare, insomma, quella Verzeitung53 grazie alla quale la distanza dal
mondo antico veniva in grandissima misura ridotta. Viste in tal modo le
concordanze delle storie consentivano di realizzare quel sogno umanistico
rinascimentale di ricreare il mondo antico meglio di quanto non fosse dato
ad un’esemplarità iperbolica ed estraneante: le catene di exempla affini
comprendenti anche esempi moderni provavano che la storia può ripetersi, e
di fatto si ripeteva. In anni recenti s’è parlato di crisi dell’esemplarità nel
Rinascimento54; ed effettivamente le concordanze degli aneddoti dimostrano
175.
53
È il termine e il concetto illustrato da R. Koselleck, Vergangene Zukunft Zur
Semantik geschichtlicher Zeitung, Frankfurt am Mein, Suhrkamp, 1979.
54
Il «Journal of the History of Ideas», LIX, 1998, pp. 557624, ospita vari
contributi sotto il titolo generale di The Crisis of Exemplarity. Vi contribuiscono F.
Rigolot (che scrive una sorta di introduzione), M. Jeannert, T. Hampton, K. Stierle e F.
Cornilliat. Le spiegazioni della crisi variano (per Stierle, ad esempio, la crisi è già
presente in Boccaccio quando con la novella si passa a casi «individuali» e si introduce
l’elemento della «contingenza» non applicabile ad altre situazioni); ma nell’insieme si
concorda nel vedere, oltre alla convivenza di antico e moderno, un senso di relatività che
attingerebbe il suo punto massimo in Montaigne. In queste ricerche focalizzate su autori
maggiori e tese a definire la natura e la funzione dell’exemplum nella cultura
che nel Cinquecento tale crisi era in corso, ma indicano anche come si
rispose ad essa: non con la mancanza di aneddoti ma con grande copia di
esempi incatenati che sostituiva alla qualità e alla vis dimostrativa la quantità
di esempi simili che facevano di tutti i tempi un teatro sulla cui scena
operavano infiniti attori.
Quando Petrarca per primo adattò il modello di Valerio Massimo e lo
rese moderno concordando storie antiche e storie moderne, certamente non
prevedeva di aver lasciato un’eredità o dato l’avvio ad una tradizione
destinata a creare modi nuovi di scritture e a minare, anzi in buona parte a
modificare, il modo in cui si intese l’esemplarità dal mondo antico al
periodo Barocco (il Settecento avrebbe chiuso definitivamente la pagina su
questa tradizione55); ma era certamente consapevole di essere il primo a
presentarsi come un personaggio che dagli esempi antichi sapeva trarre
l’insegnamento per essere a sua volta esempio ai contemporanei e ai posteri.
Nessuno seppe imitarlo nel dare una dimensione autobiografica alla
concordanza delle storie, ma la filologia umanistica e la retorica e la
pedagogia umanisticorinascimentale tesaurizzarono il suo modo di
concordare le storie perché consentiva una fruizione capillare della storia
producendo una risorsa impareggiabile per la inventio e per la copia nelle
scritture, e soprattutto, perché creava la sicurezza che il mondo moderno
poteva ripetere l’antico.
[«Rinascimento», 42 (2002), pp3165; poi riprodotto come “Le concordanze delle
storie”, in Paolo Cherchi, Ministorie di microgeneri, Ravenna, Longo, 2003, pp.
4977]
rinascimentale, incluse le sue potenzialità dal punto di vista del New Historicism non si
fa mai cenno alla storia dei repertori d’esempi che abbiamo qui ricostruito: ciò crea
l’impressione che la crisi sia limitata a pochi autori e che sia legata a improvvise crisi
epistemologiche o a grandi rivoluzioni pedagogiche, mentre la «crisi» o l’innovazione era
cominciata da quando Petrarca capì che le «concordanze delle storie» rendevano
possibile un nuovo uso retorico della storia. Il mutamento fu epocale perché ebbe una
grande diffusione a vari livelli, e ciò fu possibile grazie alla popolarità raggiunta dai
repertori di luoghi comuni.
55
È la tesi di A. Battistini, art. cit.