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LETTERATURA

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LA MAPPA DELLA POESIA ITALIANA: LIRICI,


PERFORMER E SPERIMENTATORI

LUCA VAGLIO
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:

26 Agosto 2017

Come sta la poesia italiana? Qual è la sua condizione attuale? Si tratta di domande a cui
non è semplice o immediato rispondere, poiché il fenomeno da considerare è complesso e
difficile da circoscrivere. E però qualche indicazione la si può restituire. Si potrebbe dire che
si tratta di un genere letterario al tempo stesso marginalizzato e in fermento, con rilevanti
elementi di novità rispetto al recente passato.

Le vendite dei libri di poesia, verosimilmente mai troppo elevate, nel 2014 totalizzavano lo
0,59% del mercato, e tuttavia soltanto qualche decennio fa i poeti avevano un’influenza e
una visibilità maggiori all’interno dell’industria culturale (vedi, sempre su Stati Generali, Un
popolo di poeti, ma chi li legge oggi? (http://www.glistatigenerali.com/letteratura/poesia-
italiana-contemporanea/)). Però, non si può negare che l’avvento di internet e di nuovi spazi
editoriali, come i blog e le riviste online prima e i social network in seguito, abbiano offerto ai
testi poetici luoghi ulteriori di pubblicazione e di diffusione.

In questa esplosione internettiana c’è spazio per fenomeni contrastanti e così online si
trovano sia sfoghi acerbi ed estemporanei, alcuni dei quali però domani potrebbero evolvere
in qualcosa di più profondo e maturo, sia spazi gestiti da poeti, studiosi e appassionati che
pubblicano poesia di qualità. Provando a tracciare una mappa estetica della poesia italiana,
non si può non notare un grado significativo di vitalità e un’interessante divaricazione di
forme e di stili. Le forme della poesia italiana oggi sono molteplici e non sono rari in casi
in cui gli autori delle diverse tendenze maturano percorsi e visioni così radicalmente
distanti tra loro da finire per disconoscersi gli uni con gli altri, per negare o contestare,
apertamente o meno, le ragioni d’essere delle scritture poetiche altrui.

Volendo tracciare uno schema, o restituire una sintesi, una visione che mostri con
una certa chiarezza le cose, a costo forse di qualche semplificazione, si possono
indicare tre macroaree riferibili al genere letterario della poesia: una poesia, pur con molte
differenze al suo interno, che ripercorre e rinnova la tradizione scritta del nostro ‘900, che da
Ungaretti e Montale arriva a Sereni, a Luzi, a Zanzotto, fino ai contemporanei Milo De
Angelis, Maurizio Cucchi, Cesare Viviani, Umberto Fiori e Valerio Magrelli; una poesia, che si
definisce di ricerca, fortemente connotata da una scrittura, che si manifesta spesso nelle
forme della prosa, di tipo non assertivo, dove si nota l’assenza o l’attenuazione della
presenza del soggetto, e animata da una critica, anche politica, agli schemi attuali del
linguaggio e dei significati e alle logiche di potere che vi sarebbero contenute; una poesia,
identificata come orale e performativa, i cui testi di norma sono scritti con l’idea di essere
rappresentati e letti ad alta voce, con o senza un accompagnamento musicale. Per
completezza, si può aggiungere che esiste anche, soprattutto nei contesti più sperimentali e
di ricerca, un ambito della poesia che fa uso, combinandoli con il testo, di elementi visivi,
grafici o fotografici. Questa idea tripartita delle forme attuali della poesia è presente nel
libro, pubblicato dall’editore Carocci, Poesia italiana degli anni duemila – Un percorso
di lettura di Paolo Giovannetti, professore di letteratura italiana allo Iulm. In particolare,
Giovannetti, che sulle diverse forme della poesia si era soffermato già in quest’intervista su
Stati Generali, (http://www.glistatigenerali.com/letteratura/la-poesia-oggi-e-unarte-
concettuale-come-la-pittura/) ci parla di poesia lirica, orale e di ricerca.

Le diversità all’interno della letteratura ci sono sempre state, come pure le rivalità tra
gli autori. Ma la differenziazione attuale delle forme della poesia è singolare e per molti
versi nuova, se si considera che l’ambito della ricerca, raccogliendo, insieme ad altre
influenze, l’eredità di autori come Nanni Balestrini, Francis Ponge ed Edoardo Sanguineti ha
raggiunto un grado di esasperazione assai accentuato e che le scritture orali e performative
hanno mostrato di recente un dinamismo significativo. Differenze che, come si è detto, di
frequente generano distanze e forme di disconoscimento tra gli autori delle diverse
tendenze. In breve, e semplificando un po’ il discorso, gli esponenti delle scritture di ricerca
spesso, che lo esternino o meno, ritengono gli altri poeti, lirici o performativi, con inevitabili
eccezioni, attardati dentro forme superate e incapaci di leggere l’attuale universo politico e
mediatico, e quindi di scrivere testi pertinenti in questo contesto. E un buon numero di poeti
performativi a sua volta e per altre ragioni considera i poeti lirici o comunque fedeli alla
tradizione di una poesia scritta per la pagina e per essere letta in silenzio troppo debitori di
forme novecentesche ormai stantie e, verosimilmente, reputa troppo intellettualistici, freddi e
astratti molti tra i poeti di ricerca. Opinione quest’ultima, tacitamente o apertamente,
condivisa da molti poeti lirici, che dall’altra parte di frequente accusano i poeti orali e
performativi di un eccesso di spettacolarizzazione, ovvero di piegare la scrittura poetica alle
logiche del palco e dell’applauso del pubblico, a scapito del significato, del rigore e della cura
della parola. Per chiarezza, giova forse precisare che, sebbene sia cosa ovvia, anche per la
poesia lirica è quasi sempre ammessa, e in molti casi opportuna e utile ad amplificare
l’efficacia dei testi, la possibilità di una lettura ad alta voce. E conviene precisare che la
categoria della poesia orale è funzionale a identificare alcuni autori che fanno del momento
performativo una fase fondamentale del loro lavoro. E, però, va detto che strutturalmente,
ontologicamente, in termini di teoria della poesia, le scritture performative non sono
estranee ai modi della lirica, essendone anzi, quasi sempre, naturalmente partecipi. E,
ovviamente, una ricerca e una tensione verso l’innovazione della scrittura è possibile
in tutti i modi della poesia indicati qui sopra, e non soltanto in quello identificato
come poesia di ricerca.

L’ambito della poesia, in senso esteso, lirica o in qualche modo erede della tradizione
novecentesca è assai ampio, ricco di differenze al suo interno e, forse
paradossalmente, assai difficile da circoscrivere. Nella generazione dei nati tra la fine degli
anni ’60 e gli anni ’80 si possono segnalare, insieme a molti altri, alcuni dei quali sono citati
in altre parti di questo articolo, e in un elenco in evoluzione ed espansione costante Guido
Mazzoni, Massimo Gezzi, Luciano Mazziotta, Giovanna Marmo, Maria Grazia Calandrone,
Tommaso Di Dio, Andrea De Alberti, Giovanna Frene, Stefano Raimondi, Carmen Gallo, Vito
Bonito, Franca Mancinelli, il ticinese Yari Bernasconi e Damiano Sinfonico.

Va da sé, che ci siano anche, e non pochi, poeti appartenenti a tendenze diverse che
si leggono e si stimano, riconoscendo la validità dei rispettivi testi e lavori. E dall’altra
parte, inevitabilmente, pure all’interno delle singole tendenze indicate non mancano tra
diversi autori forti distanze di opinione e differenze di visione. Le categorie e le distinzioni
appena enunciate non vanno intese in modo troppo rigido e schematico, sebbene possano
essere una fotografia o, se si preferisce, una serie di immagini in movimento abbastanza
vicine allo stato del reale. E non mancano autori più difficili da catalogare e che nei loro testi
accolgono modi di scrittura e influenze provenienti da tendenze differenti. Del resto, di sicuro
non è un caso che l’ultima antologia capace di fare il punto sulla poesia italiana
contemporanea, ormai risalente a più di due lustri fa, sia intitolata Parola Plurale (Luca
Sossella Editore, 2005).

Provando a interrogarsi sulle motivazioni di questo stato delle cose, Giovannetti afferma
che “dalla rivoluzione del verso libero in poi, tutto cospira alla moltiplicazione degli
stili, delle tecniche, delle procedure. Tutto incoraggia la definizione di dispositivi formali il
più possibile individualizzati, personalizzati. Dovremmo – e chi ne ha la voglia, in questo
momento? – ripercorrere con pazienza la storia delle avanguardie per venire a capo di certe
proliferazioni. Parole in libertà, tavole parolibere, scrittura automatica, cadaveri squisiti,
lettrismo, poesia asemantica, poetronica, eccetera eccetera. La verità, forse, è che, una
volta messa in crisi la struttura ereditata delle forme poetiche, nel giro di poche stagioni
anything went, tutto è stato possibile; e indietro non si torna più. Si tratta “solo” di capire
volta per volta perché un poeta o un gruppo di poeti hanno fatto uso di quella forma e non di
un’altra, perché hanno scelto di scrivere in un determinato modo. La metricologia è spesso
una disciplina stilistica. Si orienta all’individuale, all’individuo. Ci si impegni dunque, si studi,
si capisca: e le forme divaricate si disporranno come nella tavola di Mendeleev. In attesa che
qualcun altro la metta in crisi con un monstrum inaudito. Dopodiché si ricomincerà a fare
tassonomie. Ad infinitum. Com’è giusto che sia. Per concludere: le forme sono plurali,
diverse e divaricate, e va bene. Quello che non va bene è che davanti alla babele di
linguaggi si continui a fare l’elogio del latino, dimenticandosi che non solo ci sono le
lingue romanze, ma che tutti i popoli son fra di noi – qui e ora. E sbraitano, strillano,
cinguettano il loro latino. E noi dovremmo (provare a) capirli”. Posta l’attuale pluralità e
proliferazione di forme poetiche, cosa non eliminabile e di per sé interessante e
apprezzabile, capire quale sia la ragione che determina una precisa scelta di stile o di
contenuto, come sottolinea Giovannetti, è una chiave preziosa per entrare in relazione con la
condizione del presente. E la ragione in questione richiama a motivazioni sostanziali, per
così dire complessive, generali, e non necessariamente, o non del tutto, razionalizzabili.

Provando a fare il punto, il poeta Umberto Fiori concorda sulla diversificazione degli
stili e sulla distanza delle diverse personalità, ma considera il fenomeno simile ad altri
già conosciuti in letteratura: “È vero: i poeti che si rifanno a tendenze differenti tendono a
ignorarsi. Forse è inevitabile: le distanze, le differenze di prospettiva, di atteggiamento, sono
molto profonde; ognuno ha fatto la sua scelta e non credo che un confronto servirebbe a
molto. Si ignorano, ma conoscono fin troppo bene, o credono di conoscere le posizioni
diverse dalle loro, perché le hanno prese in considerazione, valutate e accantonate. Non mi
pare che sia una novità. All’inizio del Novecento tra Gozzano, Sbarbaro e Marinetti –
tanto per nominare tre prospettive contrapposte – è difficile immaginare un dibattito.
Ognuno di questi autori lavorava nella propria direzione, e ognuno di noi è libero di leggere
oggi quelli che più lo emozionano. Io non credo molto all’utilità di un confronto “teorico”, di un
ragionamento sulle poetiche, sui loro fondamenti, sulla loro maggiore o minore adeguatezza;
la poesia – almeno quella che mi appassiona – non nasce da riflessioni estetiche
generali, ma da una necessità forte dell’autore, che poi può anche fornire delle ragioni,
ma solo quando l’opera c’è. Spesso, invece, ci sono le estetiche, le poetiche, ma l’opera è
inconsistente. La condizione attuale della poesia italiana mostra una frammentazione, ma
soprattutto risente di una perdita complessiva di prestigio, che investe quasi tutte le
tendenze. Personalmente, credo che, se una scrittura ha senso, in un modo o nell’altro, col
tempo, farà la sua strada. Leopardi aveva molti argomenti contro la poesia romantica a
lui contemporanea, ma è la sua poesia, non certo la validità “oggettiva” di quegli
argomenti, ad avere finito per prevalere”.

Il poeta Italo Testa, in armonia, se si vuole, con il suo percorso poetico, che comprende
aspetti lirici e modi più vicini alle scritture di ricerca, e che in certe forme iterate visibili nella
produzione recente pare contenere in nuce elementi di oralità, invece ipotizza che questa
specie di diversificazione poetica sia più apparente che reale: “Quelle che a prima
vista possono sembrare differenze profonde, generando forme di disconoscimento anche
radicale tra diverse bande letterarie, sono probabilmente meri effetti di superficie, che
hanno a che fare con la sociologia letteraria più che con la comprensione
dell’effettività della poesia attuale. Viviamo in una situazione piuttosto paradossale. Mai
come oggi un osservatore fuori dai giochi, non socializzato all’interno del campo letterario
italiano, potrebbe riscontrare un terreno comune piuttosto esteso per quanto riguarda gli
strumenti formali, i nuclei dell’immaginario, gli aspetti tematici. Eppure siamo tutt’ora
ostaggio di modelli critici tarati su una situazione antecedente, e che riproducono dicotomie
che distorcono la lettura dei fenomeni poetici attuali. Di conseguenza, categorie quali poesia
lirica e poesia di ricerca, poesia orale e poesia scritta, soprattutto laddove siano usate in
forma dicotomica, finiscono per generare fenomeni distorsivi dal punto di vista descrittivo –
perché sfigurano e rendono irriconoscibili i fenomeni che dovrebbero descrivere – e per molti
aspetti sono basate su punti di vista normativi non più giustificabili, se non su modelli teorici
fraintesi. Mario Benedetti – non solo quello di Pitture nere su carta (Mondadori, 2008) –
non mi sembra meno di ricerca di Alessandro Broggi, o più lirico di Marco Giovenale.
Certo permangono posizionamenti legittimi all’interno del campo letterario, che rispondono a
certe storie biografiche e di gruppo, e generano effetti pragmatici sul breve periodo. Tuttavia
sono convinto che nel lungo periodo dovremo arrivare a una comprensione più profonda, e
che questo richiederà delle categorie del tutto trasversali rispetto a tali posizionamenti”. E,
sempre Testa, anche quando si tratta di indicare quale sia il perimetro della poesia invita a
prendere come metro di paragone ed esempio le singole opere: “Per quanto riguarda il
rapporto tra oralità e scrittura, credo che le polemiche generate dal fenomeno degli slam da
un lato, e dal premio Nobel a Dylan dall’altro, siano piuttosto fuorvianti, e ingenerino,
soprattutto nel campo letterario tradizionale – avanguardista e non – formazioni difensive di
tipo regressivo, che in modo curioso rinnovano inconsapevolmente una forma di distinzione
crociana tra poesia e non poesia. Le discussioni di principio circa il fatto se lo slam sia
poesia o no, se Dylan sia o meno un poeta, mi sembrano francamente poco
interessanti e di retroguardia, perché in definitiva ciò che è la poesia di volta in volta
lo decidono le opere importanti, che ne ridefiniscono l’idea”.

Gabriele Frasca, poeta e intellettuale autore di un’opera, La letteratura nel reticolo


mediale – La lettera che muore (Luca Sossella Editore, 2015), assai significativa in
relazione al tema della storia e della teoria del testo tra oralità e scrittura, a sua volta
contesta l’ipotesi di una campo della scrittura poetica composto da mondi distanti tra
loro: “A fronte anche delle diverse scelte di posizionamento e delle divergenti risoluzioni
formali, mi sembra che oggi i poeti siano più propensi a dialogare gli uni con gli altri, e a
riconoscersi vicendevolmente quel quid che li accomuna, fosse anche soltanto la sostanziale
marginalità. Basta dare un’occhiata alle collane di poesia nate di recente, dove spesso
convivono autori che in passato sarebbero stati ritenuti quanto meno incompossibili, se non
apertamente belligeranti. D’altra parte nemmeno più gli steccati ideologici sussistono,
anche se di questo mi rallegrerei meno, perché l’assenza di ideologie vuol dire invero
che ve n’è una sola, e soffocante. Non bisogna dunque lasciarsi ingannare dalla maggiore
propensione alla rissa che riguarda solo le frange più periferiche di un fenomeno del resto
già residuale. Ogni epoca si riflette nel suo medium trainante, e al momento siamo ancora
(per poco) assorbiti dalla rete. E nella comunicazione in rete sappiamo quanta energia si
sprechi nel flaming. La rete, come il mondo che vi è al momento impigliato, ivi compreso
quello che ha a che fare con la poesia, è un unico assordare di sussurri: ovvio che si cerchi
di fare la voce grossa, se non altro per provare a sentirsi in tanto brusio. Non son mica i
ceffoni che minacciavano d’infliggere i futuristi, fino a riceverne come càpita altrettanti. Solo
gli schiaffi con cui si cerca di risvegliare un arto intorpidito”. E, ancora Frasca, in merito allo
stato della poesia nell’ambito nella letteratura italiana restituisce un’impressione positiva:
“A me non pare che la poesia in Italia sia messa tanto male. Mi preoccuperei di più
della prosa narrativa, e persino della saggistica, a partire, duole dirlo, da quella
universitaria. Dipenderà magari dal fatto che la pratica della poesia costringe a riflettere sulla
lingua, e a provare e riprovare il canale di contatto, ma ogni qual volta ci s’imbatte in una
composizione in versi, e dunque congegnata per inglobare persino i silenzi delle pause, la
nostra lingua torna a scalciare come se fosse appena nata. Quale che sia la tendenza più o
meno dichiarata dal poeta, la lingua resta una, ed è una lingua viva. Viva per statuto persino
se si è solo alle prime armi, a patto che si mòlino di già gli strumenti. Non è purtroppo lecito
dire lo stesso per gli attuali narratori, che, esclusi i casi eccelsi, parrebbero nel lessico come
nella sintassi avere a che fare con una variante d’italiano artatamente semplificata, se non
con una lingua appresa straniera in tarda età. Mi rendo conto che si tratta di una precisa
strategia editoriale, ma gli effetti finiscono con l’essere devastanti, e come recitano le
statistiche persino controproducenti. Ad assemblare di séguito pagine e pagine equitonali,
nella speranza di non smarrire il presunto lettore sprovveduto, si annoia quello smaliziato,
che magari in queste congiunture resta il solo che metterebbe mano al portafoglio per
acquistare libri fra l’altro tipograficamente sempre più scadenti. Quanto alla saggistica
universitaria la situazione è ancora più deprimente, e non solo per la rinuncia alla lingua
italiana di tanti settori disciplinari immessi a suon di riforme nell’immaginario libero mercato
delle idee che sarebbe garantito da un inglese poco più che adamitico. Persino nelle
discipline che si alimentano dell’italiano, storico-letterarie o linguistiche che siano, si
privilegia un tono dimesso, quando non sciatto, appannaggio per i più dell’esattezza della
scienza, disdegnosa di suo delle fumisterie dello stile”.

Di una poesia inevitabilmente polimorfica ci parla il poeta Lello Voce, figura di


riferimento nell’ambito della poesia orale: “Oggi la poesia può stare su differenti
supporti, c’è quella che si può leggere in un libro, e che ha una storia più breve di quella
che la precede, poiché la poesia esisteva prima che ci fosse la scrittura, e c’è una poesia
che si realizza per mezzo di una performance, o anche attraverso le forme della
videopoesia. In questo momento c’è un ritorno dell’oralità, e quando parlo di poesia
orale intendo l’oralità secondaria (ndr. Walter Ong nel suo saggio Oralità e scrittura del 1982
teorizza che i media elettronici favoriscano un ritorno a una nuova forma di oralità, appunto
secondaria), oppure l’oratura, ovvero l’esecuzione. È ovvio che un testo che viene
composto per essere eseguito, secondo ritmi o prosodie, sarà un testo diverso da
quello che è nato per una lettura silenziosa, ma non capisco perchè chi scrive libri si
debba sentire attaccato da questa cosa e di conseguenza debba sentire il bisogno di
contestare la poesia orale. La poesia è l’unica arte che ha cambiato il suo medium di
trasmissione, passando dall’oralità alla scrittura, questa è una cosa enorme, e lo sta
cambiando di nuovo, attraverso un ritorno all’oralità, ma non è che quando subentra un
nuovo medium quello di prima scompaia. Del resto, anche la lettura sta cambiando, i
meccanismi di comunicazione si sono radicalmente trasformati, c’è la rete, forme di dettatura
diretta, e ancora ci sono mutamenti vistosi del modo di scrivere, messaggi inviati attraverso
gli smatphone, segni iconici… E poi, bisogna valutare con attenzione caso per caso: si
trovano cose pessime nell’ambito della spoken word come ci sono libri di pessima qualità.
Ad esempio, Kate Tempest e Iolanda Castaño, sono autrici di assoluta qualità e che
producono testi di valore letterario, ma che si dicono e si eseguono ad alta voce”.

Lello Voce, inoltre, nel marzo del 2001 ha introdotto in Italia il poetry slam, una
competizione in cui i poeti recitato i loro versi, che poi vengono valutati da una giuria di
persone estratte a sorte tra il pubblico. Attorno al poetry slam, di cui qui non si può trattare
diffusamente, si sono alimentate numerose polemiche: i critici sostengono che il
meccanismo della gara favorisca modalità più affini a quelle del mondo dello spettacolo che
a quelle della poesia; i sostenitori ritengono fuorviante focalizzare l’attenzione sulla
competizione e dicono che l’importanza del poetry slam sta soprattutto nelle sue potenzialità
di aggregazione di una comunità di autori e di appassionati. Probabilmente, c’è del vero in
entrambe le tesi. Sul tema il poeta Dome Bulfaro ha scritto un libro, guida liquida al poetry
slam – la rivincita della poesia (Agenzia X, 2016), che è anche una sorta di manifesto del
fenomeno, senza mancare però di accogliere alcune opinioni critiche. Oltre ai già citati
Bulfaro e Voce, l’ambito della poesia orale raccoglie numerosi autori, tra cui pure si
possono notare differenze di stile e di ricerca. Tra questi si possono indicare Giacomo
Sandron, Alfonso Maria Petrosino, Chiara Daino, Alessandra Racca, Gabriele Stera,
Alessandro Burbank, Julian Zhara e Paolo Agrati. In questo contesto si è imposto anche un
autore come Guido Catalano, di recente capace di attirare da un lato l’attenzione di un
pubblico relativamente ampio e dall’altro le critiche di chi vede in certi suoi testi un
abbassamento eccessivo del livello espressivo. L’uso della voce e dell’oralità nell’esecuzione
dei testi è in vario modo importante anche per poeti come Rosaria Lo Russo, Paolo
Gentiluomo, già componente del gruppo ’93 e con una scrittura portata verso tecniche
combinatorie e associazioni foniche, Luigi Socci, Sara Ventroni, a modo suo in bilico tra
scrittura e oralità, e Ida Travi, per cui l’esecuzione del testo sembra essere in relazione con
una dimensione creatrice e ancestrale della lingua stessa.

Roberto Batisti, studioso di filologia classica presso l’Università di Bologna, sembra voler
contestare la distinzione tra poesia orale e poesia scritta o pensata prevalentemente
per una lettura silenziosa, ravvisandovi un potenziale fattore di confusione: “Trovo
sbagliato e pericoloso voler costruire dicotomie, negare la simbiosi di scritto e orale che vige
da che esiste l’alfabeto. Anche una poesia destinata a non uscire dal foglio di carta
deve far attenzione ai valori fonici e ritmici; soprattutto, una poesia composta in vista del
palco e dell’impatto orale tende a esibire un basso grado di complessità strutturale e
stratificazione. Si rischia allora di trascendere in forme d’arte altre: teatro e performance, per
la poesia troppo marcatamente orale; arti visive, per quella che al contrario vive tutta
d’espedienti grafici e non sarebbe recitabile a voce. Nobilissime arti, ma non poesia”.
Visione condivisa dal poeta Bernardo Pacini secondo cui un testo di poesia orale
andrebbe sottoposto alla “prova della lettura silenziosa”, ovvero della pagina, così
come una qualunque poesia, verosimilmente lirica, pubblicata o meno su carta o su altri
supporti, dovrebbe suonare, avere una sua musicalità.

Nell’ambito della poesia di ricerca, tra gli altri, operano Marco Giovenale, Giulio Marzaioli,
Gherardo Bortolotti, Michele Zaffarano, Alessandro Broggi e Vincenzo Ostuni.  Non ancora
trentenni, in questo contesto sono attivi anche Daniele Bellomi e Manuel Micaletto, nei testi
del quale è però visibile una tensione lirica. Questi poeti pur in una significativa varietà di
modi e posizioni, argomentano che una sperimentazione spesso radicale e di confine
sia giustificata anche da un mutamento profondo del contesto linguistico, e quindi
culturale. Posizione che Giovenale spiega ed esplicita così: “Il contesto in cui
tenderebbero a collocarsi le molte forme di poesia presenti oggi in Italia è profondamente
mutato negli ultimi 20/30 anni per via di un cambiamento ampio e strutturale nella vita e nelle
percezioni delle persone, che si può dire sia iniziato intorno agli anni Sessanta. Parlerei
addirittura di un cambio di paradigma, che coinvolge, sconvolge e mette in crisi la
categoria stessa del letterario e perfino i generi letterari, tanto da far debordare la prosa
nella poesia, rendendo le due pressoché indistinguibili. All’interno di questo contesto,
mutato in tutto il mondo, e di cui in Italia arrivano a volte solo echi, parlare di forme e modi e
correnti è sempre più difficile, perché il concetto stesso di poesia si è fatto perfino più labile
che in passato. In particolare, nel nostro paese, è vero quello che la domanda annota: le
aree e i campi che si richiamano a una idea definita di poesia lavorano e strutturano il
proprio operare in maniera a volte molto concentrata su sé, “fingendo” la permanenza di
categorie e versanti che – come detto – si sono chiusi al chiudersi del XX secolo. Per
questo, soprattutto in riferimento all’ultimo ventennio mi è difficile parlare di correnti, forme e
modi della scrittura che siano complanari e più o meno paralleli e/o in conflitto o in dialogo.
Di fatto, un campo unico e comune non esiste più. Semplificando molto, a me sembra che si
possa dire che individuiamo semmai sociologicamente un campo “poesia” all’interno
del quale varie correnti continuano lo spettacolo del (defunto) Novecento, e le sue
tensioni. All’esterno di questo, al di fuori della “poesia” (talvolta casualmente
attraversandola), si estende ovunque un territorio sterminato che non ha invece
assolutamente nessun parametro di definizione, ancora, ma che possiede già decine se
non centinaia di migliaia di situazioni, eventi, riviste, letture, festival, editori, collane, blog, siti,
luoghi e sedi che fanno tutt’altra cosa da ciò che in Italia comunemente si intende per
letteratura e specificamente – appunto – poesia. È in questo territorio ancora in
formazione, plastico e ignoto che si muovono e operano le scritture di ricerca”.

Il poeta Vincenzo Frungillo, riflettendo su ambiti tra loro distanti come la poesia lirica e le
scritture di ricerca, contesta “sia l’iper-soggettivismo di certa poesia lirica nei cui testi
non viene problematizzato il rapporto tra il soggetto e il mondo e che per questa ragione
risulta distaccata dalla realtà sia alcune scritture di ricerca che, dal mio punto di vista,
sono eccessivamente focalizzate sulla pars destruens, ossia su uno sperimentalismo del
tutto perso nella messa in evidenza della crisi del soggetto. Entrambi i modi mi sembrano
mancare di una relazione con il mondo, e quindi con l’altro”.
La scrittrice e critica letteraria Gilda Policastro in una nota uscita su L’Ulisse del maggio
2015 prova a inquadrare lo stato delle cose e suggerisce una modalità possibile di
azione, o forse di interazione, poetica: “Attualmente, mi pare di poter distinguere un
filone più propriamente lirico che riutilizza, pur con modalità ed esiti molto diversi, le forme
strofiche classiche, l’endecasillabo, la soggettività, la figuratività. Di quest’area i riferimenti
obbligati restano Montale, Sereni, Caproni o al massimo la linea crepuscolare. C’è poi una
nuova area della ricerca che guarda alle altre arti come a un modello di produzione
indiscriminata di linguaggi, e che rinuncia alla centralità della parola e del suo aspetto
referenziale, arrivando all’estremo dei lacerti di senso senza più nemmeno l’avvertimento
della necessità o dell’assenza di un sovrasenso. Sono esperienze parallele, quasi non
comunicanti, che hanno luoghi e momenti distinti e ben perimetrati per esprimersi (i festival e
i premi da un lato, i blog e i ritrovi per pochi iniziati dall’altro). Sarebbe il caso forse che
negli esiti migliori arrivassero a toccarsi, e perchè no a confliggere, e non per giungere a
una sintesi impraticabile, ma per potersi reciprocamente sabotare e rinnovare
vicendevolmente”.

La considerazione che Guido Mazzoni, poeta e professore di critica letteraria e letterature


comparate all’Università di Siena, avanza nel suo saggio Sulla poesia moderna (Il Mulino,
2005) argomentando sulla marginalità recente, e più o meno relativa, del genere letterario
della poesia, per certi versi, sembra prestarsi a spiegare anche l’attuale diversificazione o
pluralità delle scritture poetiche: “La poesia è il più soggettivo ed egocentrico dei generi
letterari, quello che, nella sua forma più comune, parla di contenuti personali in uno stile che
vuole essere personale, cioè lontano dal modo ordinario di dire le cose. Contiene un
elemento narcisistico che, in una società monadica, gremita e divisa in nicchie, finisce per
disturbare il narcisismo altrui, perché ignora i luoghi comuni grazie ai quali gli esseri umani
comunicano, magari sostituendoli con altri luoghi comuni, più settoriali”.

E però, oltre a questo, sono numerosi i poeti, sia vicini all’ambito della ricerca sia sensibili
alla tradizione novecentesca, che in forme variamente liriche o narrative, e affini alla
prosa, o anche poematiche, negli ultimi tempi hanno affrontato temi collettivi, o in
qualche modo pubblici. Che sia possibile parlare di una sorta di nuova poesia civile o
meno, il punto è che con gli strumenti della poesia, assai dissimili da quelli, per esempio, del
romanzo, si è deciso, in opere complesse e che esprimono – va da sè – anche altro, di dire,
spesso combinando sguardo privato e ottica generale, della condizione di incompiutezza e
bisogno dell’uomo contemporaneo, o semplicemente dell’essere umano, e ancora di contesti
criminali, lavoro, scuola, giustizia o idea di ciò che che è giusto, passione politica e crisi
dell’occidente, frammentazione dell’esperienza collettiva, forme del linguaggio nei media e
nella quotidianità. In queste direzioni, con stili e forme differenti, si sono mossi, tra gli
altri, autori come lo stesso Mazzoni, Gherardo Bortolotti, Gilda Policastro, Alessandro
Broggi, Andrea Inglese, Michele Zaffarano, Marco Giovenale, Vincenzo Frungillo, Gianni
Montieri, Corrado Benigni, Francesco Filia, Mario De Santis, Marilena Renda e Francesco
Targhetta. Ci sembra che questa varietà e diversità di modi e di forme nella poesia sia, oltre
che un segno di ricchezza, un’indicazione di vitalità e una specie di assicurazione sul futuro
di questo genere letterario, a dispetto di un rapporto con il pubblico, più o meno, di nicchia.
Poi, di volta in volta, e caso per caso, starà agli autori, alla critica, non soltanto e non
necessariamente accademica, e ai lettori valutare l’efficacia e la riuscita di ciascuna opera.
Conviene dire, che si sente il bisogno di studi critici che si prendano l’impegno di
leggere e di comprendere la complessità del presente, se possibile in tutti i suoi
aspetti e in tutte le sue tendenze.

Per fortuna, molte strade, se non tutte, sono aperte e ammesse. Così, per esempio, si
può forzare una ricerca fino ai confini della scrittura o della lingua, fino a tentare di mostrare
la debolezza, la corruzione e il silenzio del linguaggio comune e delle forme della
comunicazione. E si possono ancora usare, se in linea con la propria sensibilità di autore,
con i significati, l’immaginario poetico e i contenuti a partire da cui si scrive, anche forme
letterarie connesse con un passato lontano. La questione va oltre un’eventuale disputa
sulla liceità o meno di fare uso dell’endecasillabo. È più complessa. C’è che il
linguaggio, soprattutto quello della poesia, e la scrittura nel tempo evolvono, si trasformano,
in fretta oppure più o meno lentamente e inesorabilmente, e lo fanno indipendentemente
dalle forme, o meglio anche all’interno delle forme che si usano. I generi letterari hanno
spesso, pur attraverso mutazioni e diversificazioni, vita plurimillenaria, e anche forme e
modi, se così si può dire, possono essere longevi, possono esistere a lungo,
modificandosi nel tempo. E, ancora, è perfettamente ammissibile una ricerca poetica che
faccia dell’esecuzione orale dei testi un momento significativo o essenziale. E non si tratta di
una novità: questo genere letterario, a più riprese, si è trovato in posizioni di scambio,
confine, vicinanza e osmosi con la musica, la canzone e il teatro. E più in generale, se così
si può dire, con un’espressione sintetica, sono possibili e visibili scritture poetiche
felicemente contemporanee, anche per i lettori futuri, in ognuno dei modi indicati qui. La
qualità di un’opera, quando c’è, si manifesta di volta in volta nella forma più opportuna.

È sempre arduo definire un genere letterario, e definire la poesia è ancora più difficile. E
forse è un bene: quando la teoria, pur importante, non è tutto, la realtà ha una risorsa in più.
Almeno in questo caso. Di sicuro, oggi la poesia è un genere multiforme. E se si può
provare a lasciare una piccola indicazione di massima, è forse bene ricordare che la storia
della poesia, pur attraverso una metamorfosi dei modi, e oltre la fortuna e il successo
contingente, nei casi risolti ci parla sempre di scritture, lineari o articolate, segnate da
tensioni, da accelerazioni di intensità, di volta in volta, concettuali, morali, se si vuole, in
senso lato spirituali, stilistiche, linguistiche, estetiche e filosofiche, che forse, insieme ad altri
fattori, ne sono parte della sostanza profonda. Questo con la scrittura e la parola al centro,
soggetto e oggetto della sfida – poco importa se in positivo o in negativo, se
affermate o negate.

Foto di copertina: Henri Fantin-Latour, Gruppo di poeti riuniti intorno ad un tavolo, 1872

TAG: contenuto, Cultura, forma, letteratura, metrica, Novecento, oralità, performamce,


poesia, ricerca, verso

CAT: Letteratura

dionysos41
(https://www.glistatigenerali.com/users/dionysos41)

5 anni fa
Ma quella è la Francia che ha inventato la poesia moderna! Niente di simile, mai, in Italia. Sull’articolo voglio
il tempo di rifletterci.
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lucavaglio
(https://www.glistatigenerali.com/users/lucavaglio)

4 anni fa
L’articolo è sulla poesia italiana e il quadro-discorso attuale (che ovviamente può essere integrato e
ampliato, poiché non è possibile un articolo che dica tutto) è questo, verosimilmente. L’influenza di alcune
esperienze francesi si vede ad esempio (non esclusiva, ma insieme ad altre esperienze e scritture) in certe
scritture di ricerca, ma qui si parla di letteratura italiana, per quanto è possibile farlo.
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