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Letteratura Latina di Fabio Stock

DALLA SCRITTURA ALLA LETTERATURA


Quando ebbe inizio la letteratura latina? >>> Non è certa la data o il periodo in cui ebbe inizio la
letteratura latina per mancanza di documentazione. Cicerone, nel Brutus scritto nel 46 a.C., affermò che la
data coincide con il 240 a.C., quando andò in scena la rappresentazione teatrale di Livio Andronico.
Tuttavia, altri poeti sostennero altre datazioni, come Varrone il 197 a.C. e Accio il 207 a.C. Porcio Licino
presenta l’origine della letteratura latina come il risultato di un’acculturazione greca prodottasi nell’epoca
della seconda guerra punica, un’immagine del tutto adeguata visto che lo stesso Livio Andronico era di
origine greca. Anche il celebre Orazio perseguì l’ipotesi di acculturazione, come possiamo leggere nell’Epist.
2.1.156-157: “la Grecia, conquistata, conquistò il rozzo vincitore ed introdusse le arti nel Lazio agreste”. I
Romani, infatti, si autorappresentavano selvaggi e incolti prima di essere civilizzati dai greci. Una
notazione di Cicerone afferma che l’assenza di una letteratura da parte di una cultura che disponeva
dell’alfabeto da oltre tre secoli, non poteva non essere rozzo.
L’alfabeto >>> la testimonianza più antica dell’alfabeto latino, datata al 620-600 a.C., è considerata quella
che si legge in una coppa, con un augurio rivolto a una certa Tita: “Tita sia in buona saluta”. L’alfabeto
latino sembra che derivi dall’alfabeto greco di Cuma avvenuta con la mediazione etrusca. Per quel che
riguarda l’area urbana di Roma, la testimonianza più antica dell’uso dell’alfabeto è databile al 570-550 a.C.
ed è un’epigrafe, un esempio di scrittura esposta, sul “cippo del foro”. In ogni caso l’introduzione
dell’alfabeto non portò in tempi brevi alla produzione e alla circolazione di testi letterari, come era
avvenuto in Grecia. Dal VI al IV secolo l’uso della scrittura rimase circoscritto alle élite. Il supporto scrittorio
più utilizzato nella Roma arcaica era la tavoletta di legno. In un quadro di progressivo sviluppo
dell’alfabetizzazione va collocata la redazione delle leggi delle 12 tavole effettuata nel 451-450 a.C.
L’acculturazione >>> l’acculturazione greca è un fenomeno molto più antico rispetto alle guerre puniche e
risale all’età micenea e questo è il motivo della connessione cultuale e mitica dei due popoli. Inoltre, i
contatti diretti dell’élite romana con l’area greca determinarono il bilinguismo della cultura romana. Fra
tradizione e traduzione >>> forme di linguaggio poetico sono rilevate nella tradizione orale di pressoché
tutte le culture. Per quanto riguarda quella latina i Carmina riflettono la tradizione orale più antica. I più
noti sono il Carmen Saliare e il Carmen Arvale ambedue scritti con il verso saturnio, l’unico metro latino
privo di riscontro della tradizione greca. La tradizione dei carmina fu introdotta dall’affermazione di forme
letterarie più aderenti ai generi greci, come la letteratura teatrale e l’epica. Il primo autore di letteratura
latina fu Livio Andronico, un ex schiavo greco (i primi autori sono tutti grecofoni). Inoltre, la nascita della
letteratura latina è caratterizzata dal fatto che i primi testi prodotti sono traduzioni dei testi greci. La
traduzione dei testi greci in latino ebbe due motivazioni: l’opportunità di rendere le rappresentazioni
comprensibili ad un pubblico più ampio e aveva anche un valore politico e identitario.
L’invenzione della prosa latina >>> Quando Roma conquistò il Mediterraneo e la Grecia, il suo predominio
stimolò l’uso del latino in ambito letterario. L’invenzione della prosa latina è attribuita a Catone il Censore
nel II secolo a.C., egli con la sua iniziativa politica necessitava del ruolo identitario centrale del latino e
patrocinò la difesa dei valori tradizionali romani, assumendo atteggiamenti a tratti xenofobi. Catone allestì
una storia di Roma in latino, chiamata “le Origines”, e una serie di trattati di argomento tecnico, come “De
Agricoltura”, l’opera più antica che ci è pervenuta.
Libri e lettori >>> la circolazione dei libri in latino a Roma non è precedente al II secolo a.C. e appare
concomitante alla graduale diffusione dell’alfabetizzazione. La circolazione dei libri latini è comunque
affiancata a quelli greci, la cultura dell’élite rimase comunque bilingue.

METTERE IN SCENA: TRAGEDIA, COMMEDIA E ALTRI GENERI TEATRALI


Dallo spettacolo alla letteratura >>> La parola “teatro” è di origine greca e proviene dal verbo greco vedo.
Il teatro è quindi uno spettacolo, un’azione che viene assistita ed evidenzia il termine “dramma” che
significa azione. Il teatro si riscontra nelle culture più diverse e sono spesso legate a pratiche religiose o
propiziatorie, sovente all’uso di forme di mascheramento. Il teatro diventa letteratura quando le parole
pronunciate sulla scena diventano testo, analogamente accade nell’epica quando avviene il passaggio
dall’oralità alla scrittura. Nel caso del teatro parlano solo i protagonisti e l’autore può parlare in prima
persona solo nel prologo oppure nelle istruzioni fornite nelle didascalie, sulla messa in scena,
l’accompagnamento e altro (ma nei testi teatrali antichi non resta pressoché nulla). L’origine religiosa
appare evidente anche nel caso del teatro greco. Il termine “tragedia” deriva dalla parola greca “capro” ed
evidenzia l’origine religiosa delle rappresentazioni teatrali essendo il capretto un animale sacro a Dioniso.
Aristotele, nella Poetica, presenta la tragedia come lo sviluppo del ditirambo (=antica forma lirica corale
nell’ambito di riti dionisiaci a carattere tumultuoso e orgiastico eseguito da danzatori mascherati e da
satiri). La tragedia sarebbe nata nel momento in cui capocoro assunse un ruolo autonomo, dialogando con
il coro e poi con altri personaggi e dando forma alla struttura tipica della tragedia greca,  basata
sull’alternanza di scene dialogate e interventi del coro. Per quanto concerne la commedia invece, si
sviluppò ad Atene più tardi della tragedia (entrò a far parte delle celebrazioni dionisiache nel 486 a.C.). Le
origini del genere erano poco chiare anche ad Aristotele che era consapevole di tradizioni diverse di
rappresentazione comica sia nell’Attica sia nell’area dorica. Il contesto religioso fu centrale nello sviluppo
del teatro anche a Roma= Livio Tito (59 a.C.-17 d.C.) fa risalire l’introduzione di ludi scaenici al 364 a.C.,
anno in cui un’epidemia avrebbe suggerito l’iniziativa a scopo propiziatorio nei ludi romani in onore di
Giove. Si sarebbe tratta to di uno spettacolo di danza, ad opera di ballerini provenienti dall’Etruria. Più
problematica appare la fase successiva delineata da Livio Tito, caratterizzata da spettacoli che egli
denominava saturae nelle quali gli attori recitavano versi in metri diversi accompagnati dal flauto e da
movimenti appropriati. L’influenza etrusca sulle più antiche pratiche teatrali è comunque indubbia,
evidenziata da Livio Tito dall’origine etrusco del termine “histrio” ossia attore, ma anche “persona” cioè
maschera “scaena” ossia palcoscenico, quest’ultimo dal greco ma giunto tramite l’etrusco. Queste forme
diverse di teatro furono ecclissate negli ultimi decenni del III secolo a.C. lasciando spazio solo ai due
principali generi del teatro greco, commedia e tragedia che nei due secoli successivi avrebbero dominato le
scene romane.
Una scena diversa >>> Livio Andronico (280-200 a.C) e i suoi successori realizzarono traduzioni di testi
greci. Diversamente dalla Grecia e dalle città greche della Sicilia e dell’Italia Meridionale, a Roma non
esistevano teatri. Le rappresentazioni teatrali si avvalevano di strutture provvisorie, in legno, costruite in
imminenza dei ludi. Le strutture comprendevano il palcoscenico e le gradinate, ma non l’orchestra greca
cioè lo spazio riservato al coro, posto più in basso rispetto al palcoscenico. Questa circostanza obbligò nei
testi teatrali latini, a un ridimensionamento del ruolo del coro e ad assegnare un rilievo maggiore alle parti
cantata dagli attori. Ciò porto nel teatro latino all’assunzione di un carattere fortemente musicale, con
numerose scene in cui gli attori cantavano accompagnati dal suono del flauto (più vicino forse all’opera
lirica che al teatro in prosa). Un’ulteriore differenza tra la tradizione romana e quella ateniese (nonostante
entrambe venissero svolte nell’ambito delle festività religiose) riguardava lo statuto e l’organizzazione degli
spettacoli, che ad Atene erano regolamentati e gestiti dalle autorità pubbliche mentre a Roma gli spettacoli
erano promossi dai personaggi politici delle famiglie aristocratiche e affidati agli impresari che gestivano le
compagnie teatrali (es. Tito Publilio Pellione all’epoca di Plauto). Il gradimento da parte del pubblico
costituiva di conseguenza un fattore importante, per il consenso politico ed economico, per gli impresari.
Anche gli autori dovevano tener conto di questo fattore, nella scelta dei testi da tradurre e nelle modalità di
adattamento infatti il pubblico romano, specie nella fase iniziale era non solo in larga parte analfabeta ma
anche meno colto e sofisticato di quello ateniese.
Anche la traduzione dei testi costituiva un problema specie nell’adattamento del metro greco a quello
latino, il passaggio da trimetro giambico (per le parti dialogate) e del tetrametro trocaico per i recitativi
(con accompagnamento musicale) e dei metri lirici (per il coro) alla lingua latina dove il numero di sillabe
lunghe è maggiore di quanto non accada nel greco, e quindi ad una trasformazione dei due versi latini
canonici dei testi teatrali, cioè il senario giambico e il settenario trocaico. Commedia e tragedia ebbero un
grande successo nel III secolo a.C. e con l’istituzione di nuove festività religiose aumentò anche la possibilità
di rappresentare opere teatrali, da ciò si deduce anche che nel successo del teatro a Roma giocarono vari
fattori sociali e politici. In particolare, negli anni della seconda guerra punica il teatro costituì probabilmente
un fattore di coesione sociale e di consenso politico;
La tragedia in frammenti >>> La produzione tragica latina è basata in larga parte su quella ateniese e in
particolar modo sui 3 grandi poeti del V secolo a.C.: Eschilo, Sofocle ed Euripide. I 3 autori ateniesi
delineano un’evoluzione del genere della tragedia e delle sue caratteristiche sceniche. Le tragedie di Eschilo
sono caratterizzate da un forte senso di religiosità (ZEUS=GARANTE DELL’ORDINE MORALE), Sofocle
aumenta il numero degli attori e dei coreuti, rese non obbligatoria la trilogia e introdusse le scenografie,
inoltre attenuò il ruolo del coro, ampliando l’aspetto drammatico e pessimistico, Euripide continuò con
l’attenuazione del coro, introducendo invece la monodia cantata dai personaggi, il “deus ex machina” (la
divinità fatta calare dall’alto sul palcoscenico) e mise in rilievo le condizioni sentimentali e psicologiche dei
personaggi.
Autori latini: Livio Andronico in epoca romana privilegiò le tragedie relative al ciclo troiano, poiché era il
più conosciuto a Roma e da quanto ci risulta dai frammenti il suo era un linguaggio enfatico e ricco di
allitterazioni, anafore e altri espedienti retorici, eredità della tragedia greca, elementi volti a suscitare
emozioni e partecipazione negli spettatori. Il secondo autore di tragedie a Roma fu Gneo Nevio (275-201
a.C.), la cui prima rappresentazione avvenne nel 235 a.C., scriveva tragedie ma anche il genere delle
“praetextae” cioè delle tragedie ad ambientazione romana, denominata così per il costume indossato dagli
attori cioè la praetexta che era la toga orlata di porpora riservata ai magistrati. Le tragedie di ambientazione
greca invece erano chiamate “cothurnatae”, dai cothurni ossia i tipici calzari greci indossati dagli attori. La
praetextae restò comunque un fenomeno marginale probabilmente per il sensibile condizionamento
politico a Roma. Un maggiore successo lo ebbero le tragedie di ambientazione mitica, come emerge dalla
produzione di Ennio (239-169 a.C). Anche lui come Livio Andronico privilegiò il ciclo troiano e proseguì in
modo più efficace la ricerca del patetico e del sublime, ispirandosi ad Euripide. Andronico, Nevio ed Ennio
scrissero sia tragedie che commedie. In seguito, però si specializzarono nella tragedia. A dedicarsi
unicamente a questa fu invece Marco Pacuvio, nipote di Ennio e attivo nella seconda metà del II secolo
a.C., si interessò di miti noti e meno noti ispirato dai 3 grandi poeti della tradizione greca e ampliò nelle sue
opere la discussione filosofica e la psicologia dei personaggi. L’ultimo tragico di età repubblicana fu Lucio
Accio, figlio di un liberto di Pesaro, le sue opere mettevano in scena figure eccezionali e dominanti, aspetto
definito come TITANISMO, e si ispirò principalmente a Sofocle. Concludo con asserire che il primo teatro di
Roma fu quello di Pompeo inaugurato nel 55 a.C. con la rappresentazione di una sua tragedia, la
Clytaemestra.
La commedia >>> La storia della commedia greca inizia con la “commedia antica” del V secolo a.C.
testimoniateci dalle commedie di Aristofane che mostrano una forte comicità correlata al contesto politico
ateniese. Seguì poi la “commedia di mezzo” e dopo ancora quella “nuova” che ha inizio nella seconda metà
del IV secolo a.C. e vede protagonisti Menandro, Filemone e Difilo. Il primo è l’unico autore di cui ci sono
rimaste commedie o perlomeno parti consistenti di esse. La commedia nuova è caratterizzata da un ruolo
più limitata del coro e dalla prevalenza di parti dialogate, con trame complesse e una spiccata attenzione
per la psicologia dei personaggi. Le trame riguardano amori contrastati, bambini perduti e poi ritrovati, figli
creduti illegittimi e vicende analoghe, vengono meno però i riferimenti all’Atene contemporanea e la
comicità non è più volgare e la morale rispettata (molte vicende si concludono con il matrimonio).
Anche Livio Andronico, in epoca romana, scrisse commedie ma il genere comico si affermò soprattutto con
Nevio. Diversamente dalla tragedia attica (Eschilo, Sofocle ed Euripide), i comici latini recuperarono la
commedia nuova poiché i riferimenti di Aristofane alla vita politica ateniese sarebbero stati incomprensibili
al pubblico romano e quindi non sarebbe stato possibile riprodurre un atteggiamento critico verso il mondo
latino. I comici latini evitarono riferimenti che potessero essere letti in chiave politica e privilegiarono le
trame borghesi della commedia nuova che avevano come tema le relazioni familiari e piccoli intrighi della
vita quotidiana dei Greci. Allusioni e riferimenti al mondo romano erano evitati grazie anche
all’ambientazione delle commedie che era la stessa degli originali greci utilizzando quindi città della Grecia
o della Magna Grecia. Basti pensare a questo proposito che una delle commedie di Nevio era la “Tarentilla”
(=la ragazza di Taranto). L’ambientazione esotica aiutava gli autori a mettere in scena le vicende senza
urtare la suscettibilità delle idee tradizionali e conservatrici. Figura tipica nelle commedie è quella del
“Servus currens”, lo schiavo che si presenta trafelato, impegnato a organizzare trame e stratagemmi,
l’ambientazione greca gioca un ruolo fondamentale con questo personaggio, il cui ruolo sarebbe stato
impensabile nel mondo romano. Un altro grandissimo commediografo romano è sicuramente Plauto
(255/250-184 a.C.) a cui sono state attribuite oltre un centinaio di commedie, di cui sicuramente 21 sono
autentiche (quelle pervenuteci), famoso specialmente per la “CONTAMINATIO” cioè i comici latini
innestavano in una commedia scene tratte da più commedie greche, adattando personaggi e situazioni.
Inoltre, egli è famoso per una comicità immediata basata spesso sugli equivoci verbali, e per le varietà di
vicende come quelle dei giovani scapestrati, avventati ed irriflessivi, alle prese con amori irregolari,
ingannano i padri con l’aiuto di schiavi intraprendenti per estorcere loro denaro, in altre commedie padri e
figli sono rivali in amore per la stessa fanciulla, spesso con esito negativo per il padre, punito dalla moglie
che lo scopre. Altra tipologia di commedie è quella basata su personaggi quali l’avaro (Aulularia), il soldato
fanfarone (Miles glorius), il lenone spietato (Pseudolus) e la prostituta avida (Truculentus). La comicità della
commedia verrà attribuita spesso a equivoci e dalle battute ad effetto. Nella scena plautina, la figura
femminile è ridotta (21 commedie= 151 maschi; 45 femmine), le rappresentazioni femminili erano nulle, gli
attori maschi si adattavano ai ruoli femminili tramite maschere. I personaggi femminili sono
principalmente 2 in Plauto: la moglie, bisbetica e brontolona, e le prostitute, personaggi avidi e
intraprendenti che lavorano per ottenere maggior profitto possibile, a volte ingenue che si innamorano di
un uomo libero, scoprendo alla fine di essere loro stesse libere. Un elemento non secondario in Plauto è
quello dell’impianto musicale, i dialoghi si alternano a parti cantate (non dal coro, pressoché assente come
già detto, ma dagli stessi attori). Forse questa tendenza era tipica anche di Livio Andronico e Nevio. Cambiò
invece con Terenzio (190/185-159 a.C.);
Il teatro dell’humanitas >>> Il solo altro autore comico che ci è pervenuto oltre a Plauto è Terenzio.
Possiamo prendere solo atto della distanza che separa Terenzio da Plauto, riflesso anche dalle mutazioni
culturali romane del II secolo a.C. rispetto a quelle della seconda guerra punica. Le commedie di Terenzio
sono tratte in gran parte da Menandro con operazioni contaminatio. Terenzio morì in giovane età
naufragando di ritorno dalla Grecia. Diversamente da Plauto, Terenzio evita la comicità scurrile, è attento
alla psicologia dei personaggi, prendendo d’esempio la commedia nuova, le sue opere sono intrise della
cultura filoellenica del circolo degli Scipioni di cui egli stesso era membro. All’interno delle sue opere fa
rientrare uno dei valori cardini del circolo, quello dell’HUMANITAS (concezione etica basata sull’ideale di
un’umanità positiva, fiduciosa nelle proprie capacità, sensibile e attenta ai valori interpersonali e ai
sentimenti, un valore universale, senza distinzioni, una cultura letteraria, di civiltà): “Homo sum: humani
nihil a me alienum puto”= “sono uomo: non mi è estraneo nulla di ciò che è umano” (l’uomo rivendica il
diritto/dovere di interessarsi ai problemi altrui con un atteggiamento di solidarietà e di condivisione). Idea
che ingloba Roma dopo la conquista della Grecia, dove Roma si appropria della cultura greca e viceversa.
L’idea di humanitas è rilevabile nel modo in cui Terenzio rappresenta le proprie commedie, gli schiavi e le
donne, volta ad essere un’idea educativa. È assente il personaggio del servus currens, lo schiavo trafelato,
che così perde il suo ruolo centrale che invece aveva nelle commedie plautine, ma la sua presenza assume
umanità, considerazione e spessore psicologico: analoga considerazione vale per le donne, in particolare le
prostitute che acquistano una consapevolezza, assente nei personaggi plautini. Terenzio ebbe una fortuna
letteraria straordinaria ben oltre il suo impatto teatrale che ne ha permesso la trasmissione nel Medioevo.
Dalla togata al pantomimo >>> Durante il suo tempo le commedie di Terenzio risultarono di esito incerto,
le prime 2 rappresentazioni infatti furono un fiasco. Il suo genere era in declino e il gusto del pubblico
andava cambiando, desideroso di una maggiore e rozza comicità, di ciò ci sono testimoni i generi teatrali
che si imposero sulla scena a partire dalla tarda repubblica. Il primo fra questi fu la “Togata”, ossia la
commedia di ambientazione romana, già sperimentata da Nevio ma fino ad allora rimasta marginale, fu
riattivata tra il III e il I secolo a.C. da 3 autori (Titinio, Afranio e Atta), rispetto al genere di Terenzio, questa
era la minor importanza dello schiavo, che nelle commedie di ambientazione greca risultata invece
intelligente e furbo. La togata prediligeva gli ambienti popolari dei mestieri e delle professioni ma anche dei
rapporti familiari, oggetto di intrighi ed equivoci. L’ambientazione come già detto era romana però spesso
provinciale. Una variazione della togata fu la “trabeata”, denominata dalla trabea cioè la toga indossata dai
cavalieri, un genere ambientata tra i ceti medi. L’unico autore noto è Gaio Melisso, bibliotecario di Augusto.
Coeva alla stagione della togata troviamo l’atellana, il teatro di origine osca noto già precedentemente
come un teatro improvvisato, incentrato su poche maschere fisse (fanfarone, gobbo, sciocco, vecchio
stupido) con una comicità scurrile e farsesca. Un’altra forma comica che si affermò sulle scene romane fu il
“Mimo”, un genere che era già apparso in Sicilia nel V secolo a.C. con Sofrone. Esso si presenta con vicende
di adulterio o comunque di valenza sessuale ad opera di attori e attrici privi di maschera. l’autore che
meglio conosciamo è Decimo Laberio. Ma la vera novità del teatro, però in età imperiale, fu il pantomimo,
introdotto in età augustea da Pilade di Cilicia e Battillo di Alessandria, al cui centro c’è un a performace
gestuale di un attore vestito di tunica e mascherato che danzava a suono della musica mentre il coro/solista
leggevano il testo della vicenda spesso un mito o un tema tragica, in misura minore comico. Tale genere
poteva interpretato anche da donne (nel VI secolo Teodora moglie di Giustiniano a Costantinopoli).
Rappresentazione o lettura? >>> Anche la tragedia declina nel I secolo a.C. e dopo Lucio Accio, ultimo
grande tragico di età repubblicana non vi sono altri autori di un tale successo scenico. In età augustea il
genere fu rilanciato nell’ambito della politica di riscoperta delle tradizioni di Augusto, di ciò ci è testimone
Orazio con la sua Ars Poetica e da Vario Rufo, membro del circolo di Mecenate. Le tragedie, nonostante il
declino, restano non solo oggetto di lettura, ma anche di imitazione e scrittura. È possibile che le tragedie
fossero rappresentate ma nella maggior parte dei casi erano oggetto di recitazioni o letture. La recitazione
della tragedia in età imperiale aveva maggior successo della semplice lettura ed era meno costosa della
rappresentazione. Ciò vale anche per le tragedie di Seneca, autore di opere filosofiche e scientifiche, i
personaggi mitici vengono proiettati in chiave della filosofia stoica. Seneca inoltre delinea un mondo
dominato dalle forze oscure, dall’irrazionalità e dalle passioni, un mondo di tiranni sanguinari ove il vero
protagonista è il furor, la passione che diventa follia. Tragedie che assegnano al potere una connotazione
negativa specie verso il ruolo del tiranno (Nerone-altra opera il De Clementia: speranza governo illuminato).
Tragedie caratterizzate da aspetti macabri, orride che riprende anche il nipote Lucano;
Eclissi e riscoperta del teatro >>> Il teatro fu polemizzato dall’emergente cultura cristiana che individuò in
esso un potente strumento per la trasmissione popolare del culto religioso ma dall’altra contestò
l’immoralità specie contro gli spettacoli più diffusi all’epoca ma risucchiando in tale condanna anche la
tragedia e la commedia. Uno smantellamento che non fu immediato ma ci mise 2 secoli, un declino che
coincise con il collasso delle strutture statali ed urbane in Occidente tra V e VI secolo.

COSTRUIRE IL PASSATO: L’EPICA


L’epica del saturnio >>> Il saturnio (o faunio) (in latino versus saturnius o versus faunius) è un verso della
poesia latina arcaica. È considerato essere un verso indigeno laziale o italico, la cui struttura si sviluppò
forse nello stesso Latium. Un primo, arcaico influsso dalla metrica greca è comunque possibile. Le più
antiche composizioni letterarie a noi pervenute e composte, per certo, in saturni sono la traduzione
dell’Odissea di Livio Andronico e il Bellum Punicum di Nevio. Di entrambe le opere sono conservati
unicamente frammenti. Fu il verso con cui vide la luce la letteratura latina: in questo metro, infatti, furono
composte l'Odusia di Livio Andronico e il Bellum Poenicum di Gneo Nevio, ossia i primi due poemi nella
storia letteraria di Roma antica. Già dopo questi due autori, però, il saturnio cadde in disuso, soprattutto
per la scelta del poeta Ennio di comporre le sue opere utilizzando il più raffinato esametro, di origine greca.
Lo stesso Ennio affermò inoltre che i poeti a lui precedenti si erano espressi nella lingua dei Fauni e dei vati,
il che conferma che il saturnio fosse un verso antichissimo e tipico del linguaggio sacerdotale. Nel I secolo
a.C., Orazio parlò del verso saturnio come di un metro particolarmente rozzo, paragonandolo invece ai più
raffinati metri utilizzati alla sua epoca e derivanti dalla metrica greca.
Ennio e l’esametro >>> Ennio è un autore celebrato di tragedie, operò a Roma sotto la protezione di Fulvio
Nobiliore. Si dedicò all’epica in tarda età, scrivendo un poema che voleva celebrare insieme la storia
nazionale e quella dei suoi protettori. Non è chiaro se è stato lo stesso Ennio ad intitolare l’opera Annales,
viene percorsa la storia romana nella sua interezza, da Enea all’epoca recente, oltre alla tradizione fra epica
ed epica storica. La scelta di adattare al latino l’esametro omerico si configura come l’affermazione di
Roma nel Mediterraneo (quindi anche conquista greca), essa comportava un’appropriazione del
patrimonio culturale greco, anche rilevabile nell’adozione del culto delle Muse anziché delle Camene (
ninfe profetiche, che derivavano da un antico culto italico). Inoltre, la scelta di usare l’esametro rientrava in
una strategia di rinnovamento, evidenziata anche dalla polemica verso Nevio di usare il verso saturnio per
trattare le guerre puniche. Dell’opera di Ennio conserviamo molti frammenti (Nonostante sia perduta), il
progetto prevedeva 15 libri che diventarono 18. Il libro 1 narrava le vicende mitiche di Enea da Troia alla
morte e assunzione in cielo (divinizzazione/apoteosi) di Romolo (tuttavia fece di Romolo e Remo i nipoti di
Enea: scorretto e già segnalato da Fabio Pittore che aveva scritto degli Annales con la storia di Enea fino al
217). Nel proemio della sua opera Ennio, dopo aver invocato le Muse, narra di un proprio sogno dove gli
sarebbe comparso Omero che gli avrebbe rivelato di essersi reincarnato nello stesso autore
(metempsicosi=trasmigrazione delle anime), nell’opera quindi Ennio si presenta come un Omero romano
che aveva raccolto l’eredità greca. Nella sua epica Ennio recupera tratti della sensibilità ellenistica, indulge
spesso in allitterazioni e giochi stilistici.
L’epica dell’impero >>> Il genere epico dopo Ennio, ebbe numerosi soggetti sia nel filone storico che
mitico. Nel I secolo a.C. ambedue i generi furono praticati da Varrone Atacino, nello stesso secolo Gneo
Mazio propose una traduzione in latino dell’Iliade. In ambito dell’epica storica Cicerone, in giovane età,
scrisse un poema sul suo concittadino Gaio Mario. Questa produzione di età tardorepubblicana è
interamente persa, offuscata dal successo dell’Eneide, il poema epico per eccellenza dell’età augustea.
Publio Virgilio Marone nasce a Mantova nel 70 a.C., nel 39 a.C. pubblica una raccolta poetica “Le
Bucoliche”, all’epoca Virgilio operava sotto la protezione di Asinio Pollione esponente politico che in quegli
anni si era schierato con Marco Antonio ma che in seguito si era ritirato dalla vita politica attiva,
dedicandosi invece alla storiografia. Negli stessi anni Virgilio aveva frequentato gli epicurei in Campania
come ci testimonia un papiro rinvenuto ad Ercolano. Virgilio, in seguito, entrò in contatto con Mecenate,
potente esponente del regime augusteo e sotto la sua protezione scrisse le “Georghiche”, un poema
didascalico sull’agricoltura, l’allevamento, l’apicoltura e la vita dei campi che appare funzionale alla politica
di pacificazione e di rilancio dell’agricoltura italica promossa da Augusto. Il condizionamento politico non fu
estraneo a Virgilio dalla poetica precedente a quella epica. La presenza di Ottaviano è percettibile infatti già
nelle Bucoliche nella figura del giovane dio che nel canto I mette il pastore Titiro al riparo dalle confische.
Nelle Georgiche emerge la figura di Mecenate, potente collaboratore di Ottaviano e animatore del suo
circolo, un ambiente che offriva a scrittori e poeti protezione, sostegno economico e favori. Tutti e 3 i poeti
più noti del circolo Virgilio, Orazio e Properzio sono protagonisti però di forme di maggiore impegno civile e
politico. All’Eneide, Virgilio lavorò nell’ultimo decennio della sua vita, morì nel 19 a.C. senza aver ancora
divulgato l’opera che fu pubblicata da Vario Rufo. Parlando dell’Eneide Properzio annuncia in un’elegia che
sta per nascere qualcosa di più grande dell’Iliade. Il riferimento di Properzio all’Iliade non era generico
poiché Virgilio ricalca i poemi omerici, già nell’intelaiatura complessiva del poema: dei 12 libri, 6 sono
“Odissiaci”, la narrazione del viaggio di Enea da Troia al Lazio, e la seconda metà è “Iliadica” e narra la
guerra nel Lazio. L’eco di Omero è palese fin dal proemio: le armi riecheggiano l’incipit dell’Iliade, il virum
ossia l’uomo quello dell’Odissea. Manca nel primo verso la tradizionale invocazione della Musa, che Virgilio
pospone al verso 8, nell’interrogativo rivolto alla Musa di ricordagli le cause dell’ostilità riservata dalla dea
Giunone al pio Enea. Analoga la collocazione dell’invocazione alla Musa che introduce la seconda metà del
poema, collocata da Virgilio non all’inizio del libro, ma oltre la metà, ai vv.641-647=il proemio al mezzo.
Nella parte odissiaca Virgilio recupera il procedimento omerico del flashback, dove buona parte del viaggio
è narrata da Ulisse dopo esser approdato nella terra dei Feaci: la narrazione dell’Eneide inizia con le navi
troiani spinte verso la costa dell’Africa (libro I). Accolto a Cartagine da Didone, Enea narra le vicende
precedenti, cioè la fuga da Troia (libro II) e la prima parte del viaggio (libro III). Dopo la tappa a Cartagine
(libro IV) i Troiani sostano in Sicilia per i giochi in memoria del padre Anchise (libro V) e si dirigono poi in
direzione del Lazio, con una sosta in Campania nel corso della quale Enea discende nel mondo degli inferi
(libro VI), un altro episodio di ascendenza odissiaca. La seconda metà del poema ricalca la vicenda iliadica
mettendo al centro della contesa un matrimonio, quello fra Enea e Lavinia, che è contrastato da Turno,
anche lui pretendente a Lavinia (una guerra contesa per una donna come Paride ed Elena). Attorno ai due
contendenti si coalizzano le varie forze in campo: con Turno i popoli italici, una guerriera ossia Camilla e
l’esule etrusco Mezenio (ma non Diomede il greco invano chiamato da Turno); con Enea gli Arcadi di
Evandro e di suo figlio Pallante, assieme agli etruschi avversari di Mezenio. La guerra ha esiti alterni e morte
eroiche (Pallante, Camilla, Eurialo e Niso…). Gli dei sono divisi tra Venere che parteggia per Enea, e Giunone
protettrice di Turno. Il conflitto è risolto alla fine da Giove che decide la vittoria di Enea ma sancisce una
sorta di compromesso per cui i Latini verranno sconfitti, ma i troiani ne adotteranno la lingua e i costumi. Il
poema si conclude con il duello fra i 2 eroi, nel quale Turno soccombe in modo analogo a quanto avviene
nell’Iliade con Ettore sconfitto da Achille. Turno in quanto antagonista di Enea si presenta come un nuovo
Achille (nel libro VI la Sibilla afferma “è già nato nel Lazio un nuovo Achille”). Ma nel finale i ruoli si
invertono ed Enea ad avere il ruolo di vincitore assegnato nell’Iliade ad Achille. Quella dell’Eneide come si
vede è un’epica mitica cioè ambientata nel passato remoto della guerra di Troia. Un brano delle
Georgiche nel quale Virgilio scrive di voler erigere un tempio sulle rive del Mincio e cantare le battaglie di
Ottaviano ha fatto pensare che il poeta progettasse inizialmente un’epica storica, negli anni successivi alla
battaglia di Azio (31 a.C.) ma ipotesi di questo tipo non appaiono necessarie: un poema su Enea era di per
sé un poema su Ottaviano. L’Eneide si pone come un poema nazionale (come già fatto prima da Nevio ed
Ennio) e dinastico (riguardava la stirpe del princeps). Pur ambientato nell’epoca di Enea, il poema include
espedienti narrativi, excursus in direzione della storia più recente e contemporanea: nel libro I Giove
annuncia il futuro romano e il dominio illimitato a cui è destinata la città, nel libro VI Enea incontra il padre
Anchise nell’oltretomba che gli presenta le anime dei futuri eroi romani con una sfilata che culmina con
Marcello, il nipote di Augusto morto in giovane età, e nella stessa occasione annuncia anche al figlio una
sorta di programma di dominio imperiale di Roma. Nell’VIII libro Venere induce Vulcano a forgiare uno
scudo per Enea su sono incise le immagini della storia di Roma. L’impianto encomiastico e “augusteo” del
poema fu certamente uno dei fattori di fortuna del poema, utilizzato spesso come prototipo di poesia
celebrativa e imperiale. Uno dei fattori del pessimismo virgiliano lo troviamo in Enea che vive in sofferenza
il compito provvidenziale che gli è stato assegnato, nel libro IV obbedisce all’ordine di abbandonare Didone
ma nel VI incontra l’ombra della regina cartaginese nell’oltretomba dove esprimerà il suo dolore. Notevole
in questo libro è anche il debito di Virgilio verso il maggior poeta epico di età ellenistica ossia Apollonio
Rodio (Giasone e Medea). L’ambiguità dello statuto epico che Virgilio assegna alla figura di Enea è
evidenziata dal duello finale dove uccide Turno senza risparmiarlo nonostante gli avesse domandato pietà
(vedendo la cintura tolta a Pallante, figlio di Evandro). Il ricordo suscita un’ira furibondo nell’eroe pio.
Questo finale è stato variamente interpretato, un duello omerico con una prospettiva achillea di Enea,
colmo di menin come Achille per l’amato Patroclo. Lo stile di Virgilio è lontano come abbiamo visto
dall’espressionismo enniano; limitato il ricorso all’arcaismo e moderata la ricerca per l’allitterazione, usa
invece una sintassi paratattica per elaborare periodi elaborati.
La sperimentazione ovidiana >>> La ricezione dell’Eneide soffrì anche del mutato clima che caratterizzò la
fase più tarda del principato augusteo: il poema era stato composto nella fase di ascesa del regime, in cui
l’enfatizzazione propagandistica sulla nuova era inaugurata dal regime era favorita dal consenso
determinata dalla pacificazione garantita da Augusto dopo la lunga fase delle guerre civili. Questo consenso
andò esaurendosi con l’involuzione autocratica del regime, e anche con l’avvento delle generazioni che
non avevano vissuto direttamente l’epoca delle guerre civili. A una generazione più giovane di quella di
Virgilio apparteneva Publio Ovidio Nasone (Sulmona, 43 a.C.- Tomi, 17/18 d.C.). Dopo aver esordito come
poeta elegiaco, sulla scia di Properzio e Tibullo, Ovidio si caratterizzò presto come poeta sperimentale e fra
il 2 e l’8 d.C. si dedicò a un ponderoso poema in esametri, le Metamorfosi. Dopo essere stato relegato a
Tomi (8 d.C.), Ovidio scriverà di non aver potuto completare l’opera ma il poema non sembra incompiuta, le
Metamorfosi sono difficilmente catalogabili ma l’intento di competere con l’epica e in particolare con
l’Eneide appare piuttosto evidente, per il metro (assolutamente inusuale per Ovidio) e per le dimensioni. Il
poema, infatti, comprende infatti 16 libri, per un totale di 12.000 versi. Le Metamorfosi si presentano come
una sorta di storia dell’universo, dalla creazione del cosmo al presente. Il filo conduttore di questa storia è
costituito dalle trasformazioni di un corpo in un altro. L’invocazione degli dei ricalca quella tradizionale della
Musa nella poesia epica, giustificata dal fatto che sono gli stessi dei a provocare le metamorfosi. La
successiva trattazione della formazione del cosmo dei quattro elementi, proposta in toni esiodei (racconti
di episodi mitici slegati tra di loro ma uniti da un unico tema) e didascalici, rielabora temi cosmogonici che
troveranno un seguito nel discorso che Ovidio attribuisce a Pitagora nel libro XV. Nel corso del poema si
susseguono circa 250 metamorfosi con complesse intelaiature narrative che ripercorrono i principali miti
della tradizione greca, per arrivare nel libro XIII in una dimensione più vicina alla storia, nella rievocazione
della guerra di Troia e poi del viaggio di Enea e della storia di Roma. La carrellata si conclude con l’apoteosi
in astro di Giulio Cesare (ultima metamorfosi) e l’elogio conclusivo di Augusto. Nel libro XV in cui è narrata
la vicenda di Enea, Ovidio si confronta con l’Eneide virgiliana. L’assenza di pathos segna in modo
appariscente la distanza di Ovidio da Virgilio: le Metamorfosi sono in larga parte una narrazione,
tratteggiata tutt’al più da ironia. Il metro è coerente con l’intento narrativo, l’esametro. Anche la lingua
ovidiana è del tutto diversa da quella virgiliana: chiara e regolare, priva di ambiguità, si esplicita nella
dimensione sintagmatica del racconto, laddove Virgilio privilegia la dimensione paradigmatica del
significato e della sua profondità. Resta problematico il senso politico delle Metamorfosi, in apparenza è
un’opera augustea, che Ovidio intraprende forse per ammansire un principe irritato dalla produzione
erotica e in particolare dall’Ars Amatoria, opera che gli costerà la relegazione a Tomi.
L’anti-Eneide di Lucano >>> In età Neroniana troviamo Marco Anneo Lucano nipote di Seneca filosofo,
autore del Pharsalia o il Bellum Civile, una vera e propria anti-Eneide. Nacque nel 39 d.C. fu protagonista di
un brillante esordio poetico, in occasione dei Neronia nel 60 d.C. Lucano si trovò coinvolto nello scontro fra
l’imperatore e l’aristocrazia senatoria e fu implicato come lo zio Seneca nella congiura dei Pisoni. In seguito
a ciò fu costretto al suicidio nel 65 d.C. Negli anni precedenti alla morte aveva intrapreso la stesura del
poema epico sulla guerra civile fra Cesare e Pompeo che si concluse con lo scontro a Farsalo nel 48 a.C. Il
poema si apre con una dedica encomiastica dell’imperatore Nerone (forse sarcastica) e si sviluppa poi su
linee narrative fortemente avverse all’imperatore, che in quanto esponente della dinastia giulio-claudia era
discendente di Cesare. Il poema si prospettava infatti come anti-cesarino e quindi anti-augusteo, esalta
invece la figura di Pompeo Magno, tratteggiata in chiaroscuro, l’eroe più noto della resistenza
repubblicana, Catone Uticense, suicida dopo la vittoria di Cesare. La narrazione ha inizio con il passaggio del
Rubicone da parte di Cesare e dopo le diverse vicende belliche successive (fuga Pompeo, assedio di
Marsiglia, assedio di Durazzo), nel libro VII arriva la battaglia di Farsalo, a cui segue l’uccisione di Pompeo in
Egitto nel libro VIII, la morte di Catone in Africa nel IX, e la rivolta in Alessandria contro Cesare nel X. Il
poema si interrompe al verso 546 del decimo, probabilmente prevedeva 12 libri come l’Eneide.
All’orientamento anti-augusteo corrispondono scelte anti-virgiliane, che caratterizzano la trama, le figure,
la lingua e lo stile. Lucano elimina la dimensione divina del poema epico (stoicismo). Lucano propone
l’immagine di un’Italia devastata dalla guerra, si focalizza sulle passioni dei protagonisti e i loro effetti
devastanti, focalizza l’attenzione del lettore sull’atrocità dell’evento e propone un giudizio di tipo morale,
con una condanna del comportamento descritto. Quintiliano riteneva Lucano più uno storico che un poeta.
Gli epici flavi >>> Dopo l’uccisione di Nerone nel 68 d.C. e quindi l’avvento della dinastia flavia: Vespasiano,
Tito e Domiziano. Si presenta un’ultima grande stagione dell’epica nella letteratura latina. Troviamo Stazio
 che scrive la Tebaide in 12 libri secondo il canone virgiliana, narra la guerra tra Tebe e Argo, determinata
dall’insanabile odio tra i 2 fratelli Eteocle e Polinice, figli dell’incesto di Edipo con la madre Giocasta. I primi
6 libri costituiscono una preparazione al conflitto che scoppia nel libro VII e si conclude con l’intervento del
re di Atene, Teseo che impone l’esecuzione dei riti funebri anche per i caduti argivi. Stazio riprende Omero
e Virgilio. Troviamo anche Valerio Flacco  che scrive le Argonautiche, opera incompiuta in 8 libri, che
narra il viaggio per mare di Giasone e dei maggiori eroi della sua generazione alla ricerca del vello d’oro fino
alla remota Colchide, riprendendo le Argonautiche di Apollonio Rodio. La trama è più complessa e pone la
navigazione in luce ottimistica vista come l’invenzione che apre l’epoca del progresso, celebra anche la
politica di esplorazione geografiche e di conquiste della dinastia flavia. Silio Italico  scrive i Punica (2°
guerra punica), un lungo poema basato su diverse fonti storiche relative al conflitto come Tito Livio, prende
anche come modello Virgilio, Omero e Ovidio.

INSEGNARE IN VERSI: LA POESIA DIDASCALICA


L’epica didascalica >>> l’accostamento dei due generi, l’epica e la poesia didascalica, è motivato dall’uso
dell’esametro, dal linguaggio elevato, dal valore sapienziale e dalle tracce di oralità che si intravedono nelle
Opere e giorni di Esiodo, il capostipite del genere didascalico. L’opera di Esiodo, infatti presenta già alcuni
tratti caratteristici della poesia didascalica: l’intento didattico, la trattazione in versi di una disciplina
scientifica, una tecnica e un sapere spesso uniti da un insegnamento morale. Nella letteratura latina il
genere fu introdotto da Ennio, che scrisse l’opera ormai perduta “i cibi prelibati”. La maggiore fortuna del
genere didascalico inizia nella tarda età repubblicana, l’unico poema didascalico che ci è pervenuto è quello
di Lucrezio.
Il poema epicureo >>> poco si sa sulla figura di Lucrezio, un poeta e filosofo latino che riprese l’ideologia di
Epicuro e l’espose nel suo poema didascalico “de rerum natura”, probabilmente era originario della
Campania, luogo in cui si trovavano le scuole epicuree. La filosofia di Epicuro (341270 a.C.) aveva suscitato
scandalo già nel mondo greco: per la sua teoria religiosa interpretabile come atea, per il suo materialismo,
per l’etica basata sulla ricerca del piacere e dell’imperturbabilità. I Romani trovarono inaccettabili anche
altri aspetti di essa: l’esortazione al disimpegno politico “vivi nascosto”, l’apertura culturale nei confronti
dei ceti subalterni come le donne e gli schiavi e l’avversione nei confronti della vita militare. Nel De rerum
natura Lucrezio espone le quattro disposizioni epicuree per condurre una vita soddisfacente (non avere
paura degli dei, non temere la morte, la felicità è facilmente perseguibile, ciò che è doloroso è facile da
sopportare) tramite la metafora della filosofia come medicina. Il poema è composto da sei libri, che
riprendono la struttura sistematica di “Sulla natura” dello stesso Epicuro: i primi due libri sono dedicati alla
teoria atomica e alla fisica (Epicuro è presentato come liberatore dell’umanità), il terzo e il quarto libro
all’uomo, gli ultimi due al cosmo. Nel libro terzo vengono trattati i temi sull’anima, sulla materialità e sulla
mortalità dell’uomo. Nel libro quarto è proposta la spiegazione atomistica delle sensazioni e del pensiero
dell’uomo. Ad esempio, l’istinto sessuale è considerato come una ferita, ricalcando l’immagine tradizionale
dell’innamorato colpito dalle frecce di Venere. Nella visione materialistica di Lucrezio il desiderio sessuale è
istinto naturale, mentre l’amore è il sentimento che ne consegue che è da evitare in quanto provoca ansia.
Nel libro quinto Lucrezio tratta della formazione del mondo, mentre nel libro sesto della demistificazione
dei fenomeni naturali, tradizionalmente attribuiti alle divinità. Lucrezio trovò delle difficoltà a tradurre delle
idee filosofiche greche in latino, a causa della povertà della lingua, infatti ricorre spesso alla retorica,
utilizzando metafore, similitudini e personificazioni. Elemento particolare è l’uso dell’invocazione della
musa, una strategia raffinata volta a rendere accettabile l’epicureismo al pubblico romano. Anche la cultura
cristiana ebbe un atteggiamento ambivalente nei confronti di questa scuola filosofica: da una parte la
condanna per la sua cultura ateistica, dall’altra l’utilizzò come critica al paganesimo. A partire dal V secolo
d.C. la condanna prevalse e il poema restò sconosciuto per tutto il medioevo fino al XV secolo.
Il poema dei campi >>> l’agricoltura era una tematica familiare ai romani a partire dal trattato di Catone il
Censore. Negli anni della stabilizzazione augustea essa era oggetto di particolare attenzione da parte del
principe, che la mise al centro del suo programma di sviluppo dell’Italia. In quest’epoca si fecero interpreti
gli scrittori Varrone, con il De re rustica, e Virgilio con le Georgiche, composto tra il 37 e il 30 a.C. Il poema
virgiliano è composto da quattro libri dedicati rispettivamente al lavoro nei campi, all’arboricoltura,
all’allevamento del bestiame e all’apicoltura. Oltre alla tradizione didascalica greca, Virgilio si confronta
anche con quella latina del De rerum natura di Lucrezio, con cui condivide degli aspetti. Ad esempio,
l’accenno alla malattia della peste è presente sia in Lucrezio che in Virgilio, soltanto che, mentre in Lucrezio
appare come la conclusione dell’intero poema, in Virgilio conclude il libro terzo. Interessante è il quarto
libro dedicato alle api, società ideale e utopica, che diversamente all’attività dell’allevamento del bestiame,
che comporta lavoro e fatica, l’apicoltura e il lavoro delle stesse api si proietta in una dimensione spirituale
e filosofica.
La poesia astronomica >>> Arato di Soli è un poeta greco che ebbe un notevole successo nella letteratura
latina, il suo poema infatti venne tradotto molteplici volte, tra i traduttori vi furono Varrone, Cicerone e
Ovidio. Questo lavoro di rifacimento delle opere di Arato è spiegato dalla popolarità che aveva l’astrologia a
Roma, ovvero la predizione del futuro effettuata sulla base del segno zodiacale degli individui. La poesia
astronomia diventò tale con il suo utilizzo nella politica di Cesare e soprattutto di Ottaviano Augusto. Oltre
alle traduzioni di Arato, la letteratura latina conosce anche un poema originale, gli Astronomica di Marco
Manilio, in cui descrive l’influenza che le costellazioni esercitano sulla vita degli uomini.
Poemi didascalici di età imperiale >>> oltre alle Georgiche di Virgilio, in età imperiale emersero le opere
didascaliche di Ovidio, il quale propose una commistione tra il genere didascalico e il genere elegiaco. I due
poemi sono l’Ars amatoria e i Remedia, testi di insegnamento che trattano dell’arte di sedurre e quella di
liberarsi dalle pene d’amore. Inoltre Ovidio scrisse in distico elegiaco invece che in esametro. Un altro
poema didascalico è l’Ars poetica di Orazio un’epistola in versi in cui parla di teatro. Successo ebbe l’Aetna
attribuito a Virgilio, che riguarda l’attività vulcanica dell’Etna, il poema è probabilmente scritto prima del 79
in quanto non cita l’eruzione del Vesuvio.
LA MEMORIA DEL PASSATO: STORIOGRAFIA, MEMORIALISTICA, BIOGRAFIA
Fra epica e storia >>> nell’Antichità era presente una convergenza tra l’epica e la storiografia. I due generi
hanno temi in comune: molte vicende narrate nell’epica sono considerate comunemente storiche. La
differenziazione tra i due generi sta nella maggiore libertà di selezione e di invenzione accordata al poema
epico. Infatti, i due tratti distintivi dell’epica sono la storia, cioè i fatti accaduti, e i fatti immaginari, come le
vicende relative agli dei.
Dai Sicilioti agli annalisti >>> qualche accenno a Roma in relazione al viaggio di Enea e a quello di Ulisse è
rilevabile nella storiografia greca del V a.C., alla grecizzazione di Roma si oppose la storiografia siciliota, i
quali preferivano ascrivere la fondazione di Roma all’ambito etrusco. Dopo la conquista della Sicilia, Fabio
Pittore scrisse una storia di Roma in lingua greca, ma scrivere la storia di Roma presentava problemi diversi
in relazione alle diverse fasi della storia stessa. La soluzione adottata da Pittore era analoga a quella verrà
ripresa nell’Eneide di Virgilio, per cui fra Enea e Romolo-Remo sono collocati i re di Alba Longa. Scritti
importanti per la ricostruzione della storia di Roma furono gli annales sacerdotali, i quali favorivano la
tendenza a narrare la storia anno per anno. La storiografia romana in greco ebbe termine con Catone il
Censore, in seguito al quale il latino si impose come scrittura in prosa d’uso corrente. L’operazione di
catone aveva motivazioni di carattere politico e mirava a rimarcare il ruolo di dominio e supremazia
acquisito da Roma. Origines è l’opera perduta dello stesso in cui scrisse la storia di Roma. Sulla scia di
Catone diversi esponenti dell’élite si dedicarono alla stesura di storie in lingua latina, ma si preferirono
comunque gli annales. Nel complesso quella degli annalisti fu una produzione imponente, parte notevole
della letteratura latina perduta.
La monografia storica >>> alla fortuna del genere annalistico si affiancarono a partire dal II secolo a.C. le
monografie storiche, le quali trattavano di un evento o di periodi circoscritti, di solito recenti o
contemporanei lo scrittore. Il primo autore latino di Monografie fu Celio Antipatro, egli scrisse una storia
della seconda guerra punica. Lo stesso Cicerone scrisse testi storiografici fortemente influenzati dalla
retorica. Ci furono molti storici che scrissero monografie del quale però non si ha traccia, l’unico autore di
cui si ha ancora i testi è Sallustio, nato nel 86 a.C.. Sallustio fu un oppositore di Cicerone e la sua fortuna è
legata proprio all’innovazione stilistica rispetto a quella di Cicerone.
La storia all’epoca di Augusto >>> i due importanti storici dell’età augustea sono Asinio Pollione, che può
essere considerato il continuatore di Sallustio, e Tito Livio, che oltre a godere dell’appoggio di Augusto era
più filo-ciceroniano. Pollione nelle sue historiae narrò le vicende della guerra civile a partire dal 60 a.C.,
quindi si occupò, come era normale all’epoca, di storia recente. Al contrario Tito Livio, essendo protetto da
Augusto, narrò una storia complessiva di Roma in 142 libri, arrivando fino alla morte di Druso. La scelta di
scrivere una storia di Roma e evitare quella più recente è da mettere in relazione con l’idea che il regime
stava promuovendo, ovvero di un’era che si lasciava alle spalle le guerre civili tornando a far rivivere le
origini gloriose di Roma, cosa che perseguì anche Virgilio con la stesura dell’Eneide. Dagli scritti ne
ricaviamo che Livio scrisse la storia del principato augusteo dopo la morte dello stesso Augusto, per evitare
il controllo severo su quello che stava scrivendo. La lingua con cui Livio scrisse l’opera è caratterizzata da
chiarezza e fluidità, più simile alla lingua di Cicerone che di Sallustio, evitando però la pomposità e la
solennità.
La storiografia dell’impero >>> nel panorama scarno di ciò che ci resta della storiografia latina, Tacito è
quello che ha riscontrato più successo in epoca moderna. Come la maggior parte degli storici anche Tacito
era attivo in politica e arrivò sotto Traiano alla carica di governatore della provincia asiatica. Una delle sue
opere storiche maggiori sono le Historiae, in cui narra le vicende dalla morte di Nerone nel 69 d.C. alla
caduta di Domiziano 96 d.C. (a noi però sono pervenuti gli scritti fino alla guerra giudaica, 70 d.C.).
Successivamente si dedicò all’Annales in 16 libri che narravano le vicende dal 14, la morte di Augusto, al 69,
la morte di Nerone. Come la maggior parte degli storici Tacito ritiene che la storia abbia una funzione
morale, ma quello che lo contraddistingue è il pessimismo, che riflette la situazione incerta del senato
romano. Il pessimismo si traduce però in una visione realistica e distaccata delle vicende storiche.
Interessanti sono anche i ritratti che fa di alcuni personaggi come Tiberio e Petronio. Interessante è un
passo dell’Agricola, in cui tramite la denuncia al capo britannico Calgaco, denuncia ciò che veramente fanno
i romani nelle terre conquistate: “dove passano, creano deserto, e lo chiamano pace”.
Tacito e l’etnografia >>> l’interessa della storiografia per usi e costumi dei popoli risale ad Erodoto. Nella
tradizione latina excursus etnografici si leggono, ad esempio, nel De bello Gallico di Cesare. Tacito riprese
questa tradizione in un’opera autonoma dedicata ad un’area etnica specifica, la Germania. L’opera è
strutturata in due parti: nella prima sono descritte le caratteristiche generali delle popolazioni barbariche,
mentre nella seconda sono passate in rassegna le singole popolazioni. Il clima e l’ambiente inospitale porta
Tacito a pensare che quei popoli sono autoctoni. Il ritratto che fa è “primitivista”, questi popoli non hanno
conosciuto i vizi e la ricchezza e perciò godono di un’integrità morale che i romani hanno perduto.
La memorialistica >>> la memorialistica antica costituisce un precedente importante dell’autobiografia,
questo tipo di opere nel mondo latino venivano chiamati commentarii. L’unico autore di cui ci sono
pervenute le opere è Giulio Cesare, e sono il De Bello Gallico (campagna gallica tra il 58-51 a.C.) e il De
bello Civili (conflitto con Pompeo 48-47 a.C.). La lingua usata da Cesare è semplice, precisa e lineare e
grazie all’utilizzo della terza persona da al lettore un’impressione di oggettività, anche se ovviamente cesare
manipolò dati a favore di quello che voleva comunicare.

LETTERATURA DELLA COMUNICAZIONE: ORATORIA, DECLAMAZIONI,


EPISTOLOGRAFIA
Oratoria e retorica >>> la storia dell’oratoria è strettamente legata a quella della retorica, la disciplina che
insegna a parlare in pubblico. Le testimonianze più antiche sulla retorica riportano alle città greche siciliane.
Il contesto politico ha un ruolo rilevante nello sviluppo della pratica oratoria, che è favorita da contesti che
prevedano un certo pluralismo. Infatti, l’oratorio a Roma ebbe successo in età repubblicana. Una
strutturazione disciplinare della retorica è attribuita a Ermagora di Temno, attivo nel II seco a.C., al quale
sembra risalire la suddivisione della retorica in cinque parti: INVENTIO (ricerca delle idee e degli argomenti
da usare per sostenere le tesi), DISPOSITIO (organizzazione degli elementi del discorso), ELOCUTIO
(linguaggio, esposizione verbale del discorso), MEMORIA (memorizzazione del discorso), ACTIO O
RECITATIO (declamazione orale del discorso).
L’oratoria in età repubblicana >>> la retorica si diffuse a Roma grazie allo sviluppo dell’attività giudiziaria.
Secondo Cicerone la prima forma scritta di oratoria appartiene ad Appio, ma è difficile pensare che
circolassero orazioni scritte prima di Catone il Censore, che sembra essere il primo oratore romano ad aver
dato una forma scritta alle sue orazioni. Una tradizione oratoria romana è quella delle laudationes funebres,
discorsi pronunciati in occasione della morte di personaggi illustri. Lo stile delle orazioni di Catone era
pacato e solenne, faceva leva sulla ragionevolezza dei senatori, ma con stilemi ricercati, che miravano a
dare efficacia e incisività al discorso: allitterazioni, parallelismi e antitesi. Nella prima metà del I secolo a.C.,
l’indirizzo oratorio che andò diffondendosi a Roma fu quelle “asiano”. La denominazione asianesimo deriva
dal fatto che gli esponenti venivano dall’asia minore.
Fra asianesimo e atticismo >>> Le accese lotte civili del sec. I a.C. contribuirono, ancor più che nell'età
arcaica, a dare un peso rilevante all'eloquenza, politica e giudiziaria, nella vita pubblica romana: ogni
personaggio politico era tenuto a pronunciare discorsi in pubblico. Cicerone nel Brutus ha tramandato i
nomi e le caratteristiche di numerosi oratori, ma non è pervenuto praticamente nulla delle loro orazioni,
perché la perfezione di quelle ciceroniane le ha cancellate dalla tradizione letteraria. Due scuole di
ispirazione ellenistica, l'asiana e l'attica, si disputavano l'egemonia nel campo della retorica.
L'asianesimoLo stile asiano, elaborato dal retore greco Egesio di Magnesia nel sec. III a.C., si impose a
Roma dalla fine del sec. II a.C., in opposizione allo stile sobrio seguito dagli atticisti. La scuola asiana dava
ampio spazio agli elementi patetici e sentimentali per meglio carpire l'attenzione e l'approvazione del
pubblico, per suscitarne l'emozione e la commozione. Lo stile era ampolloso ed esuberante, cercava la
musicalità delle frasi con assonanze e parallelismi; l'abbondanza di artifici e di regole retoriche distraevano
in parte gli ascoltatori dal contenuto. Grande esponente dell'asianesimo fu Quinto Ortensio Ortalo, vissuto
tra il 114 e il 50 a.C., tanto creativo e brillante da affascinare il giovane Cicerone che ne seguì l'indirizzo
nelle sue prime orazioni, come egli stesso racconta nel Brutus. Soltanto in un secondo tempo Cicerone si
allontanò dall'asianesimo per indirizzarsi, sotto l'influenza di Apollonio Molone di Rodi, verso lo stile
mediano, detto appunto "rodio".
L'atticismoAlla corrente asiana si contrapponeva quella dell'atticismo, così chiamato perché erano
assunti come modelli di perfezione stilistica da imitare gli oratori ateniesi dei secoli V e IV a.C., Lisia, in
special modo, che aveva svolto la sua attività in Attica. I seguaci dell'atticismo usavano uno stile scarno e
severo, attento soprattutto a chiarire i concetti piuttosto che la forma, il che non escludeva però la cura
dell'eleganza espositiva: essi si limitavano piuttosto alla scelta dei termini più appropriati perché il discorso
fluisse naturale e i fatti fossero esposti in modo chiaro e semplice. La corrente atticista ebbe come
rappresentanti, tra gli altri, Licinio Calvo, Marco Giunio Bruto e Giulio Cesare, e alla lunga essa si impose
per il costante mutamento del gusto del pubblico.
Le cause della decadenza di Roma >>> Quintiliano arrivò a Roma nel 69 e fu il principale autore di retorica
dopo Cicerone. Egli scrisse Institutio Oratoria, in cui riprese la struttura portante dei tradizionali trattati di
retorica della suddivisione nelle cinque fasi. Secondo l’autore, anche se non lo esplicitò, la decadenza
dell’oratoria derivò dalla decadenza morale più generale della società romana.
L’oratoria della Seconda Sofista >>> fenomeno culturale che si sviluppo nel II secolo nella parte grecofona
dell’Impero. Il fenomeno interessa anche la letteratura latina in quanto Apuleio ne fece parte. Il primo che
parlò di seconda sofistica fu anche uno dei suoi massimi rappresentanti, Flavio Filostrato. Nelle Vite dei
Sofisti, scritte probabilmente tra il II ed il III sec. d.C., c'è la testimonianza più completa e preziosa di questo
fenomeno culturale tratteggiato da Filostrato attraverso il confronto con la filosofia dei sofisti del V e IV
sec. a.C. Se la prima e la seconda sofistica si fondano entrambe sull'arte del discorso, si distinguono però
per la diversità degli argomenti trattati: non più temi filosofici come gli dei, la giustizia, la virtù, il
contrasto nómos (legge) - fýsis (natura), ma “tutti i soggetti particolari che la vita ci mette davanti” (Vite
dei Sofisti, libro I).
La seconda sofistica si identifica con la retorica, disciplina fondamentale nella formazione delle classi
dominanti greco-romane, e con l'oratoria, tecnica insegnata nelle scuole d'età imperiale e utilizzata nelle
declamazioni pubbliche. Nate come esercitazioni scolastiche, le conferenze eseguite dai neosofisti sono
esempi di un culto per la dissertazione elaborata e sapientemente costruita, rivolta non più al ristretto
pubblico degli allievi ma alle folle presenti agli spettacoli ed alle gare di retorica. A questa finalità
divulgativa risponde una produzione ricca ed eterogenea, accomunata dall'importante funzione affidata
al potere comunicativo della parola. Le svariate opere concepite nell'ambito della seconda sofistica –
dialoghi, trattati, libelli satirici, novelle, encomi ecc. – proseguono la strada intrapresa dalla letteratura
greca, sviluppatasi sin dalle origini sotto il segno dell'oralità.
L’epistolografia >>> la lettera è una delle forme di scrittura e di comunicazione più antiche. Il ruolo della
lettera si esaurisce generalmente nella lettura che ne fa il destinatario. La lettera diventa letteratura
quando viene conservata dal destinatario e la fa leggere ad altri lettori.

IL POETA E LA SOCIETA’: SATIRA, GIAMBO, LIRICA, FAVOLA


La poesia della polis >>> in Grecia, tra il VII e il VI secolo a.C., pratiche poetiche che vennero codificate in
seguito sulla base del metro o dello strumento musicale dell’accompagnamento: la lirica (cantata con
l’accompagnamento della lira), il giambo (caratterizzato dal metro giambico) e l’elegia (caratterizzata dal
metro il distico e dall’accompagnamento con il flauto). Queste varie forme poetiche appaiono connesse
all’esperienza greca della polis. Nella più antica tradizione romana la cultura delle élite restò più a lungo
nell’ambito dell’oralità, ma comunque i primi generi letterari praticati furono quelli teatrali e l’epica.
Storia e preistoria del genere satirico >>> uno dei primi scrittori di satira fu Lucilio, il quale diversamente
dagli altri poeti era cittadino romano e benestante. La sua opera non riproduceva un genere greco
codificato e anche la denominazione è di origine latina, da satura. Un tratto caratteristico del genere è la
rappresentazione della vita quotidiana, e quindi di un linguaggio non elevato, che prende spunto dal lessico
quotidiano, dalla tradizione comica, ma anche da quella epica-tragica, spesso con effetto parodico.
Inizialmente la satira era scritta con un metro vario, successivamente si delineò l’esametro. I temi sono vari,
ritratti grotteschi di personaggi avidi di denaro e parodie di temi elevati ed epici.
La satira menippea >>> oltre alla satura poetica, la letteratura latina conobbe un altro genere di satira
mutuato in modo più diretto dalla tradizione greca. Si tratta della satira menippea, introdotta a Roma da
Varrone, con le Saturae Menippeae. Il modello dell’opera era Menippo di Gara (III sec a.C.), il cui tratto
caratterizzante delle opere era la mescolanza del tono serio e del tono faceto e a livello formale
dell’alternarsi di parti in prosa e parti in versi, il cosiddetto prosimetro.
Orazio e Il giambo >>> Nella metrica antica, piede di ritmo ascendente formato da una sillaba breve e una
lunga. Orazio può essere considerato il massimo scrittore di epodi sul modello del giambo di Archiloco della
letteratura latina. Nacque nel 65 a.C., nel 38 viene accolto sotto la protezione di Mecenate e dopo la morte
di Virgilio divenne il poeta più autorevole della cerchia imperiale augustea.
Orazio e La satira oraziana >>> nelle Satire Orazio si presenta sia come continuatore di Lucilio sia come
innovatore, ovvero si presenta come emulo di un autore illustre, ma segnala la propria autonomia dal
modello. Cominciò a lavorare alle Satire nel 40 a.C. e fra le satire databili spicca le 1.5, l’iter Brundisinum,
descrizione di un viaggio da Roma a Brindisi assieme a Mecenate, poi raggiunti da Virgilio. La satira si
sofferma sui disagi e sugli aspetti più o meno piacevoli del viaggio. Lo stile pacato e ironico della satira 1.5
caratterizza anche le satire propriamente “satiriche”, quelle che prendono di mira personaggi e
comportamenti. Rispetto a Lucilio, il quale prendeva di mira esponenti politici della sua epoca, Orazio non
lo fa, in quanto è protetto di Mecenate e quindi non aveva l’indipendenza dell’altro.
Orazio e Il genere lirico >>> Orazio è anche uno scrittore lirico e prese come modello letterario Alceo, con
cui condivideva le tematiche soprattutto nella raccolta lirica delle Odi: il simposio, la politica e l’amore. Un
tema prediletto da Orazio è quello del tempo che scorre, di cui è celebre l’imperativo carpe diem.
Indipendente dalle Odi è il Carmen saeculares, composto da Orazio su richiesta di Augusto in occasione dei
ludi saeculares, celebrati nel giugno del 17 a.C.
Orazio e L’epistola in versi >>> un altro genere di cui si fa portatore Orazio è l’epistola in versi. Le Epistole
vengono datate attorno al 19 a.C. e presenta continuità con il metro (l’esametro) e i contenuti della raccolta
delle Satire. Nelle epistole alle tematiche morali si alternano lettere in cui è in primo piano il rapporto
dell’autore con i destinatari, che documentano la rete di rapporti che Orazio aveva vissuto negli anni
precedenti.
La satira nell’età imperiale >>> nell’età imperiale la satira torna a essere satira del potere, gli esponenti
sono Persio e Giovenale. Persio nacque nel 34 e di lui ci rimane una raccolta di 6 satire. Lui aderì alla
filosofia stoica e nelle sue opere è nota una decisa opposizione nei confronti del potere imperiale.
Interessante è “il ritorno di Lucilio” in cui il poeta nega di aver avuto ispirazioni divine, rivendica la libertà
morale, intesa come indipendenza dai beni materiali, dai vizi e dalle passioni e prende di mira la religiosità
ipocrita. La lingua utilizzata è oscura, usa un lessico comune, ma ricerca accostamenti inusuali che rendono
il suo linguaggio più criptico. L’ultimo poeta della letteratura latina classica è Giovenale, il quale scrisse
satire all’epoca di Traiano e di Adriano. Le sue satire sono 16 e come Persio critica la convenzionalità della
poesia di successo. Il poeta non ha una filosofia su cui basare la propria satira, è significativa la scelta del
passato come ambientazione dei propri scritti, in particolare l’epoca di Domiziano. Con la sua satira il poeta
attacca le donne e la pratica dell’aborto e l’omosessualità. I temi filosofici riguardano soprattutto il bene a
cui gli uomini possono aspirare. La lingua utilizzata è chiara, elegante e ben strutturata e questo gli diede
maggiore fortuna rispetto a Persio, comunque entrambi apprezzati per il loro moralismo.
Uomini e animali: la favola >>> l’approccio del poeta alla società può essere critico, accondiscendente,
descrittivo, e può adottare forme letterarie diverse, più dirette come nella satira oppure di registro più
elevato come nella lirica. Un altro modo di rappresentare la società è di adottare il punto di vista degli
animali, come nella favola. Il genere favola viene ricondotta al leggendario Esopo, uno schiavo vissuto in
Grecia nel VI secolo a.C., sotto cui nome si formò un corpus di circa 400 favole. L’emulo latino di Esopo fu
Fedro, anch’esso schiavo. Pubblicò le Fabulae Aesopiae in cui espone il duplice obiettivo della favola,
divertire e dare consigli utili alla vita. Le favole includono una parte narrativa e una breve morale.

LA POESIA ANEPICA: EPIGRAMMA, EPILLIO, BUCOLICA


Il programma callimacheo >>> nel III secolo a.C. Callimaco di Cirene una poesia di tipo nuovo, fondata sul
rapporto diretto tra poeta e lettore. Una poesia indipendente dai generi classici. Una poesia indipendente si
afferma a Roma alla fine del II secolo a.C. con Lutazio Catulo, ed è l’epigramma ( composizione poetica
breve, ben strutturata, preferibilmente in distici elegiaci, legata a una circostanza particolare).
L’epigramma nell’età repubblicana >>> il termine epigramma deriva da sopra e da lettera, e designa
quindi, in origine, le iscrizioni collocate su un monumento o una tomba. Nella tradizione greca l’epigramma
divenne preso una forma poetica caratterizzata dalla brevità. Anche a Roma, nella tradizione preletteraria,
l’epigramma era di tipo votivo o sepolcrale. L’epigramma letterario latino ebbe inizio con Ennio, e si fecero
strada poi i poeti neoterici. L’unico poeta di cui possiamo leggere le opere è Catullo (considerato anche
poeta protoelegiaco). Catullo aveva un carattere fortemente anticonformista dell’amore, soprattutto in una
società in cui il matrimonio era una concezione rigida. Lui propose un imaginario nel quale i valori
tradizionali romani sono del tutto assenti, in cui sesso e erotismo hanno un ruolo rilevante, anche se non
esclusivo. Un altro tema caro a Catullo è l’amicizia e altri epigrammi prendono spunto da vicende personali
del poeta, come la morte del fratello. La grande raccolta di Catullo è il Liber, redatto post-mortem.
L’epillio >>> nel Liber di Catullo spicca il carme 64, l’esempio latino più significativo di epillio. L’epillio è una
categoria moderna, utilizzata per disegnare poemetti in esametri, di dimensioni medie, per lo più relativi a
temi mitologici, caratterizzati inoltre dalla ricercatezza stilistica. Nel carme 64 Catullo incastona due vicende
mitiche diverse, le nozze di Peleo e Teti e la vicenda di Arianna. La tecnica utilizzata è l’ ecphrasis, la
descrizione di un’opera d’arte: si tratta della coperta nuziale donata per le nozze di Teti, stessa tecnica
utilizzata da Omero per la descrizione dello scudo di Achille in Iliade 18 e in Eneide 12 con la descrizione
dello scudo di Enea.
La poesia bucolica >>> La poesia bucolica è un genere di poesia pastorale, la cui origine viene fatta risalire
al poeta greco Teocrito. Nell'antichità riscosse notevole successo, tanto che si occupò di questo genere il
poeta latino Virgilio. Il poeta greco Teocrito si definì l'inventore del genere della poesia bucolica, cioè di una
poesia in cui i protagonisti erano dei semplici pastori, lo scenario quello sereno e allegro della campagna,
allietato da gare canore fra i pastori poeti. Negli idilli di Teocrito, la scena più frequente, in effetti, è quella
di due pastori che si sfidano in una tenzone canora; l'oggetto privilegiato del loro canto sono vicende
d'amore e, in particolare, i pastori usano il canto per lenire le pene di un amore non corrisposto. Nel mondo
latino il primo poeta a occuparsi del genere bucolico fu il mantovano Virgilio. La sua prima opera furono
appunto le Bucoliche (dette anche ecloghe), raccolta di dieci componimenti in cui l'autore riprende i temi
ormai classici della poesia bucolica greca ma introducendovi decise innovazioni.
La prima differenza che si può notare fra i componimenti di Teocrito e quelli di Virgilio è l'ambiente in cui si
muovono i personaggi: infatti l'atmosfera che si respira nelle poesie greche è quella dell'assolata campagna
mediterranea ripresa solitamente nel pieno della calura (non bisogna dimenticare che Teocrito era
siracusano), mentre in Virgilio (che proveniva da Mantova, quindi dalla pianura padana) non è infrequente
assistere a brumosi tramonti, certo frutto dell'esperienza da settentrionale del poeta.
Ma la differenza che più colpisce il lettore è certamente l'utilizzo allegorico: se argomento privilegiato della
poesia greca era il racconto delle pene d'amore dei pastori, dietro i personaggi virgiliani si possono scorgere
le vicende personali del poeta legate ai fatti militari e politici del suo tempo. Celebre il lamento del pastore
Melibeo, nella prima bucolica, che è stato espropriato delle proprie terre (a seguito della  battaglia di
Filippi). L'altro protagonista dell'ecloga, Titiro, può invece rimanere tranquillamente sdraiato all'ombra,
dato che gode della protezione di un dio (e questo dio è certamente Ottaviano Augusto).
L’Appendix Vergiliana >>> A Virgilio, oltre alle tre opere canoniche, vennero attribuite anche una decina di
altre operette raccolte nell’Appendix Vergiliana. L’attribuzione di questi carmi a Virgilio (molto spesso
errata), grazie alla quale l’Appendix ci è pervenuta, ci ha acconsentito di poter accedere in questo modo a
una produzione poetica minore che diversamente sarebbe andata perduta. L’Appendix nel complesso è il
frutto della costruzione dell’autore Virgilio.
Gli epigrammi di Marziale >>> il genere dell’epigramma godette di una fortuna pressocché ininterrotta in
età imperiale. All’epoca di Augusto il più importante esponente del genere fu Domizio Marso, uno dei poeti
della cerchia di Mecenate. L’unico altro autore di epigrammi di cui ci è pervenuta l’opera è Marziale, che
operò sotto gli imperatori flavi. Gli epigrammi di Marziale sono caratterizzati da satire pungenti di usi e
costumi dell’epoca, descritti con un realismo che prescinde da intenti moralistici e che indulge talora
piuttosto all’effetto comico. Marziale è l’unico testimone dell’evoluzione del genere epigrammatico, che
tende in quest’epoca a forzare il suo stesso carattere costitutivo, quello della brevità, rendendo incerti i
confini del genere. Gli epigrammi erano rivolti alla vita quotidiana e ai suoi aspetti più scabrosi, utilizzando
spesso un linguaggio scurrile. Oltre ai ritratti dei personaggi, il poeta offre squarci sulla Roma dell’epoca, ad
esempio della Suburra, il quartiere malfamato della città. Gli epigrammi di marziale sono ricchi di citazioni
virgiliane.

LA POESIA EROTICA: ELEGIA, PRIAPEA


L’elegia d’amore >>> Diversamente da Catullo gli elegiaci adottarono in modo univoco il distico elegiaco, e
a differenza dei brevi epigrammi, le elegie potevano avere composizioni di uno o più libri, nei quali la
vicenda d’amore ha una più marcata centralità ed è oggetto di variazioni che a tratti accennano a un
discorso narrativo. C’è l’idea che l’elegia d’amore sia un genere originale latino, e questo è sostenuto da
Quintiliano, il quale indica un canone di quattro poeti elegiaci: Cornelio Gallo, Tibullo, Properzio e Ovidio.
La perdita dell’opera di Gallo non consente di ricostruire con precisione l’esordio del genere. Diversamente
dagli altri elegiaci Cornelio Gallo era un personaggio politico di primo piano: schierato con Ottaviano, alla
morte di Cleopatra diventò il governatore d’Egitto. Della poetica di Gallo sappiamo qualcosa grazie al
ritrovamento di un papiro contenente frammenti della sua opera e Virgilio, nelle Bucoliche, gli dedica la
decima egloga, in cui esprime il tema principale narrato dal poeta, ovvero un’idea dell’amore come
malattia inguaribile e follia. Le vicende narrate dai poeti elegiaci sono state spesso considerate reali e
autobiografiche, ma la finzione e il carattere immaginario sono piuttosto evidenti. La finzione dell’elegie
riflette aspetti rilevanti della Roma dell’epoca, tra cui la crisi morale tradizionale nel tormentato passaggio
dalla repubblica all’impero. Resta comunque il problema del giudizio da dare sulla finzione costruita dagli
elegiaci, una risposta possibile è che quello delineato nell’elegia sia un immaginario maschile che proietta
nel discorso poetico pulsioni sia desideranti che nevrotiche.
Servitium amoris, militia amoris, praklausityron (lamento davanti alla porta)
Il romanzo di Cinzia >>> il modello a cui Properzio si ispira è un epigramma di Meleagro (autore greco), ma
la differenza del tema dell’amore tra i due è ben marcata. Mentre nell’epigramma il poeta risponde al
ragazzo amato con una battuta divertita, nell’elegia l’innamoramento visivo provoca infelicità ed è solo
l’inizio di una malattia, in cui il poeta tenta invano di liberarsi dall’amore per Cinzia. Un’altra caratteristica
dell’elegia properziana sono gli excursus mitologici, adattati e manipolati in funzione del discorso elegiaco.
Nei diversi libri in cui il poeta narra l’amore per Cinzia fugaci momenti di felicità si alternano alla sofferenza
dell’amante rifiutato e spesso tradito. Ma come in Catullo, il tradimento non fa venir meno l’intensità
dell’amore del poeta. Successivamente, Properzio divenne protetto di Mecenate e questo lo si può notare
nella sua poesia, ma rimane comunque ambigua la posizione del poeta nei confronti della politica augustea.
Lui si scusa con il regime di non poter offrire una poesia più alta. Nel complesso l’itinerario poetico di
Properzio mostra un progressivo accostamento del poeta alle esigenze del regime augusteo, con quella che
è stata definita un’integrazione difficile.
Nella cerchia di Messalla >>> Tibullo, il quale esordì negli stessi anni di Properzio, si legò ad un altro circolo
letterario, quello di Messalla, un ambiente meno pressante rispetto a quello di Mecenate. Scrisse due libri
di elegie. Lo stile di Tibullo rispetto a quello di Properzio è più lineare e chiaro, inoltre evita le divagazioni
mitologiche e predilige un’ambiente campestre, nel quale il poeta persegue l’amore, la pace, la tranquillità
e una dignitosa povertà. La donna amata di Tibullo è Delia.
L’elegia del seduttore >>> Ovidio è di una generazione più giovane degli altri tre poeti, esordì con una
opera intitolata Amores. Il tema erotico è molto persistente, un tratto caratteristico è l’inconsistenza della
sua passione amorosa, che ne fa più un libertino e un seduttore che innamorato. I motivi topici dell’elegia,
del tipo del servitium amoris e del paraklausityron, sono ripresi in maniera ironica. La rimodulazione a cui
Ovidio sottopone i tratti portanti del genere è rilevabile anche in relazione a un motivo ricorrente negli
elegiaci precedenti, la sofferenza provocata nel poeta dal rifiuto di concedersi da parte della donna amata.
Nella prospettiva ovidiana il diniego diventa un modo per acuire il desiderio.
Il fascino di Priapo >>> la predilezione dell’epigramma per l’erotismo e il sesso trova il suo apice in una
raccolta di un’ottantina di epigrammi di cui non si conosce né l’autore né l’origine: si tratta dei Priapea,
composizioni dedicate a Priapo, il dio fallico della fertilità. Una tradizione poetica legata a Priapo era nata
già in Grecia, nella tradizione latina tre epigrammi sono attribuiti a Virgilio, due a Tibullo e uno a Ovidio,
circostanza che ha suggerito in passato l’attribuzione dell’intera raccolta a uno di questi autori. Nel
complesso essa rivela una fattura poetica di una certa raffinatezza, il cui interesse letterario è stato in
passato oscurato dall’oscenità di molte composizioni.

NARRARE IN PROSA: IL ROMANZO


La letteratura di consumo >>> il termine romanzo è stato introdotto in età moderna, anche se è
anacronistico, l’uso del termine per le letterature greca e latina è consolidato, in quanto questo genere di
testi non hanno una precisa codificazione, e possono essere associati al romanzo moderno per la prosa e il
carattere narrativo. Il romanzo nell’antichità ha una collocazione bassa, è principalmente una letteratura di
consumo. La differenza principale tra i romanzi greci e latini è che il primo è più sentimentale, mentre
quello latino è più interessato al sesso e alle oscenità. Nella letteratura latina l’etichetta romanzo è
utilizzata principalmente per due testi, il Satyricon di Petronio e le Metamorfosi di Apuleio.
Encolpio e gli altri >>> quello che sappiamo su Petronio ci arriva da due fonti diverse, che fecero credere
dell’esistenza di due diversi personaggi. Il Petronio a cui si attribuisce la scrittura del Satyricon e il Petronio
console di cui abbiamo notizia da Tacito, il quale non cita il testo letterario del Satyricon. Vari indizi però
fanno propendere per una figura unica del console-scrittore, possiamo solo ipotizzare che tacito non
ritenne opportuno menzionale l’opera in quanto il romanzo non era ben considerato. Quindi, se
l’identificazione è fondata, il romanzo è stato scritto attorno al 60. Il nome Satyricon ci rimanda sia alle
figure mitologiche dei Satiri sia alla satura e in particolare alla satira menippea con cui condivide il
prosimetro. In origine il Satyricon aveva almeno 16 libri di cui ci sono rimasti il XV e frammenti del XIV e del
XVI. Nel romanzo erano raccontate le avventure, prevalentemente erotiche, di un giovane scapestrato
romano, Encolpio. Il testo presenta frequenti allusioni parodiche alla letteratura di Virgilio e di Omero.
Parodie della vita culturale caratterizzano interi episodi, quali la visita iniziale di Encolpio nella schola di
Agamennone, che include una discussione sulla decadenza dell’oratoria. E la visita alla pinacoteca, che
riecheggia anche la scena dell’Eneide in cui Enea a Cartagine ammira le raffigurazioni della guerra di Troia.
La narrazione di petronio, come la lingua, è aderente al realismo: non propone giudizi morali, né
sentimentalismi, né una satira volta a suscitare sdegno.
L’enigma di Apuleio >>>diversamente dal Satyricon, di cui non si conosce il modello greco diretto, nel caso
delle metamorfosi di Apuleio disponiamo di due possibili fonti. La prima è indicata dall’autore stesso e fa
riferimento alle novelle milesie, riferimento per le oscenità narrate nel romanzo. La seconda fonte greca è
un’opera apocrifa tramandata tra le opere di Luciano, a cui Apuleio si riferisce per la trama. Le
metamorfosi, o L'asino d'oro (Asinus aureus), è un'opera scritta da Lucio Apuleio nel II secolo d.C. Il
secondo titolo è citato da sant'Agostino nel De civitate Dei (XVlll, 18). È l'unico romanzo della letteratura
latina pervenuto interamente fino ad oggi e insieme al Satyricon di Petronio, pervenutoci solo
parzialmente, costituisce l'unica testimonianza del romanzo antico in lingua latina.
Il protagonista del romanzo è il curiosus Lucio: alla fine dell'opera viene rivelato che è nativo di Madauro, la
città della Numidia dove nacque l'autore stesso. Viaggiando in Tessaglia, terra di streghe e incantesimi, egli
prova un insaziabile desiderio di vedere e praticare la magia: dopo essersi spalmato una pomata magica, si
ritrova trasformato accidentalmente in asino. La trama prosegue seguendo Lucio nelle sue peripezie -
attraverso lunghe avventure, vicende e repertori di racconti - portandolo finalmente a ritrovare la forma
umana e una nuova consapevolezza di sé. Il percorso di caduta, sofferenza e redenzione si concluderà
grazie all'intervento della dea Iside, della quale Lucio diverrà un ardente devoto.

SCIENZA, FILOSOFIA, SCUOLA, DIVULGAZIONE: TRATTATI, DIALOGHI,


ENCICLOPEDIA
Trattatistica di agricoltura >>> il testo più antico in prosa latina che ci è rimasto è il De Agricoltura di
Catone il Censore, scritto verso il 160 a.C., e consiste in un elenco di precetti, ricette e consigli che
riguardavano non solo l’agricoltura, ma anche medicina, veterinaria e pratiche religiosi e rimedi magici.
Un’intera sezione è dedicata alle proprietà nutritive e curative del cavolo. Lo stile espositivo è quello tipico
della lingua giuridica, caratterizzato dall’uso insistente dell’imperativo. Al di là degli aspetti più tecnologici, il
trattato si colloca in quella strategia che portò Catone a fondare la prosa latina, per frenare ed esercitare un
maggiore controllo politico sulla diffusione e l’influenza che stavano avendo i testi in greco. L’operazione di
Catone inaugurò, anche nell’ambito della letteratura tecnico-scientifica, una tradizione di opere in prosa
latina, anche se non fermò il processo di ellenizzazione della cultura romana.
Trattatistica grammaticale >>> fra i secoli II e I a.C., la produzione trattatistica latina interessò diversi
ambiti, ma di essa restano solo la Rhetorica ad Herennium e il De lingua latina di Varrone. Suetonio fa
iniziare la tradizione degli studi grammaticali a Roma verso il 168 a.C., con la visita di Cratete di Mallo, un
grammatico e filosofo proveniente da Pergamo. Diversamente da Alessandria, dove era prevalso un
approccio di tipo filologico ai testi, a pergamo l’interpretazione era di tipo allegorico, supportata dallo
stoicismo. Fra il II e il I secolo a.C. emerse a Roma l’esigenza di dare forma libraria e leggibilità ai testi più
antichi, quelli che risalivano all’epoca in cui non c’era ancora una circolazione libraria. Varrone fu allievo di
Stilone, il quale aveva effettuato un lavoro sulle commedie di Plauto. Rispetto al suo maestra Varrone
espanse i suoi interessi in ambiti diversi, come l’Antiquaria. I residui del De Lingua Latina riguardano
l’etimologia e la contesa anomalia/analogia. Nel primo ambito Varrone segue la teoria storica (La dottrina
e la tradizione che, rifacendosi ai principi di Zenone di Cizio (sec. III-II a.C.), considerava il cosmo come un ordine
razionale e provvidenziale, identificando la vera felicità nella virtù, e la sapienza nella serena accettazione degli eventi
e spec. del dolore e della morte, la quale poteva essere volontariamente ricercata quale mezzo per l'affermazione della
dignità e della libertà spirituale individuale ) tesa a individuare il rapporto naturale fra parola e significato; nella
querelle assume una posizione di conciliazione, preferendo l’anomalia in ambito lessicale e adottando
l’analogia in quello grammaticale. Il De lingua latina era un trattato erudito. Non un manuale destinato
all’insegnamento.
L’enciclopedia >>> l’enciclopedia è indicata come un genere prettamente latino, privo di precedenti nella
tradizione greca. Il termine è moderno ed è comunque di origine greca e significa “educazione generale”.
Prototipo del genere sono considerati i Libri ad Marcum Filium di Catone il Censore, ciò che rimane sono
disposizioni di tipo oratorio. L’impressione comunque è che, più che trattazioni sistematiche, questi libri
costituiscono raccolte di consigli e di disposizioni.
Più vicina all’idea di enciclopedia moderna è l’opera di Varrone intitolata Disciplinae, un’enciclopedia in 9
libri, a cui ognuno è collegato ad un argomento diverso: grammatica, dialettica, retorica, geometria,
aritmetica, astronomia, musica, medicina e architettura.
Come terzo enciclopedista ricordiamo Cornelio Celsio, attivo in età tiberiana, nelle sue Ars erano incluse
discipline come: agricoltura, medicina, retorica e arte militare. La sezione della chirurgia è molto dettagliata
e fa pensare che l’autore fosse un medico.
Un dilettante divulgatore >>> Plinio il Vecchio fu protagonista di una brillante carriera politica e militare.
Suetonio lo collocava nel De viris illustribus fra gli storici, ma in età moderna è considerato una sorta di
martire della scienza, visto che morì nel 79 mentre esplorava la zona di eruzione del Vesuvio, e per il fatto
ch el’unica opera che ci è rimasta è la Naturalis historia. Si tratta di una sorta di enciclopedia delle scienze
naturali dedicata all’imperatore Tito, diviso in 37 libri. Il primo elenca gli autori utilizzati per la stesura del
libro, i successivi 18 libri sono dedicati alla descrizione del mondo, mentre nei restanti tratta dei rimedi
ricavati dalla natura. Le discipline interessate sono le scienze naturali, la geografia, l’antropologia, la
medicina, la metallurgia e la storia dell’arte. La lingua di Plinio è ovviamente sciatta e monotona, come ci si
aspetta da uno scrittore che scrive con rapidità senza troppo riflettere. L’opera sembra destinata solo alla
consultazione.
Il dialogo >>> il genere del dialogo risale a Platone, che scrisse una trentina di dialoghi il cui protagonista è
per lo più Socrate. Il genere fu sviluppato da Aristotele nelle sue opere giovanili, le “esoteriche”. Rispetto ai
dialoghi platonici, Aristotele introdusse interventi più lunghi e articolati, nei quali le opinioni sono esposte
in modo argomentato e dettagliato, e incluse anche la propria persona fra gli interlocutori, assegnando a sé
stesso quella che potremmo definire l’ultima parola. Cicerone potrebbe non essere stato il primo a scrivere
dialoghi in latino, ma fu certamente lui a sviluppare e articolare questo genere nella letteratura latina.
Seneca fra trattato ed epistola >>> oltre a Cicerone, l’altro grande autore latino di filosofia è Seneca.
Diversamente dall’academico Cicerone, Seneca era nel complesso uno stoico. Anche Seneca scrisse dei
dialoghi, tra cui il più ampio ed elaborato è il De ire, in cui sviluppa il tema stoico della rimozione delle
passioni e polemizza con gli aristotelici, per i quali le passioni vanno moderate e governate, ma non
possono essere eliminate. L’altra forma letteraria utilizzata da Seneca è l’epistola, un genere ampiamente
utilizzato nella tradizione greca, ad esempio Epicuro. Tra le epistole ricordiamo Epistulae ad Lucilium, in cui
i temi trattati sono svariati e vanno oltre alla sola morale. Fra essi la questione della schiavitù, che Seneca è
uno dei pochissimi autori antichi a mettere in discussione e inoltre l’idea universale di fratellanze che egli
perseguiva.
Altri trattati di età imperiale >>> alcuni trattati dell’età imperiale sono il De Architectura di Vitruvio, di
epoca augustea, unico testo latino relativo a questa disciplina, e il De Chorographia di Pomponio Mela, il
più antico testo latino di geografia che ci è rimasto. Mela descrive i territori che si affacciano sul
Mediterraneo, partendo da Gibilterra e procedendo in senso antiorario.

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