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La storiografia romana deve ai Greci l'invenzione di questo genere letterario.

I Romani ebbero
grandi modelli su cui basare le loro opere, come Erodoto e Tucidide. I modelli storiografici romani
sono comunque diversi da quelli greci, e esprimono preoccupazioni tipicamente romane. Il suo stile
si basava sul modello secondo cui venivano registrati gli avvenimenti sugli Annali del Pontifex
maximus (o Annales pontificum). Gli Annales pontificum includono una vasta gamma di
informazioni, comprendenti documenti religiosi, nomi di consoli, morti di sacerdoti, elezioni di
politici, trionfi di generali, importanti fenomeni naturali ecc. sulla vita della città. Tali documenti
consistevano in una serie di tavolette di legno sbiancato, le Tabulae dealbatae (tavolette bianche),
contenenti informazioni sull'origine della repubblica.

Storia della storiografia romana


Genesi della storiografia romana

L'iniziatore più conosciuto della storiografia romana, all'inizio del II secolo a.C. fu Quinto Fabio
Pittore, noto anche come il "Fondatore della Storiografia". Prima della seconda guerra punica, non
dovette forse esistere a Roma una storiografia:[1] essa nacque probabilmente solo nel clima di
fioritura letteraria seguito alla vittoriosa conclusione del conflitto, favorita dal bisogno di celebrare
quell'importante evento in un'ottica interpretativa più consona alla posizione e al prestigio di Roma,
accresciutisi rispetto al secolo precedente.[1]

Fabio Pittore

Negli stessi anni in cui il plebeo Nevio risolveva la materia storica nell'epos poetico del suo Bellum
Poenicum, l'aristocratico Quinto Fabio Pittore si assumeva il compito di scrivere in prosa una storia
di Roma in greco, anziché in latino. L'opera, conosciuta come Annales o Rerum gestarum libri, era
nota anche in versione latina, probabile frutto di una traduzione fatta in seguito da altri.[1][2] La
scelta di scrivere nella koiné greca, la lingua franca del Mar Mediterraneo, nasceva dal bisogno di
rivolgersi ad un pubblico più ampio e poter così più efficacemente contraddire altri autori, come
Timeo, che a sua volta aveva scritto, ma con accento sfavorevole, una storia di Roma fino alla
Seconda Guerra Punica; o come Filino di Agrigento, allievo di Timeo, la cui storia delle guerre
puniche rifletteva un'impostazione filocartaginese.[3] Pertanto, e in difesa dello Stato romano,
Quinto Fabio Pittore scrisse in greco, usando la cronologia greca basata sulle celebrazioni olimpiche
e con accorgimenti e procedimenti dello stile espositivo ellenistico: il suo atteggiamento che egli
poneva nel vaglio e nell'utilizzo dei materiali storici – Annales pontificum, fonti greche e,
soprattutto, locali – era moderno, informato com'era ai criteri appresi dalla storiografia ellenistica.[3]
Da quella tradizione, ad esempio, egli riceveva l'interesse per l'analisi eziologica delle vicende
storiche, da un punto di vista sia politico che psicologico; l'accuratezza nell'esposizione di dati e
notizie sugli spiegamenti di forze; l'attenzione agli aspetti cultuali e cerimoniali, e alla ricerca sulle
loro origini, a cui egli si applicava con diligente sensibilità erudita e antiquaria.[3]

Lo stile di Quinto Fabio Pittore nello scrivere la storia difendendo lo Stato romano e le sue azioni,
ed usando in modo massiccio la propaganda – cosa che gli valse il rimprovero di Polibio per il
trattamento riservato alla prima guerra punica[3] – divenne alla fine una cifra distintiva della
storiografia romana. Ma l'afflato patriottico e l'inclinazione apologetica della sua opera, non vanno
intesi come una cosciente e deliberata tendenziosità: egli sembra piuttosto aver applicato, con
serietà d'intenti, un metodo storiografico corretto ad un repertorio documentale e testimoniale di
impronta e provenienza prevalentemente romana.[3]

Altra caratteristica, destinata a divenire paradigmatica, fu la sua scelta di porre particolare enfasi,
ancor maggiore rispetto al modello greco, sugli avvenimenti meno remoti: un'esigenza
metodologica dettata non solo dalla maggiore disponibilità di documentazione più vicina, ma anche
dall'inclinazione prevalente del pubblico romano, più interessato alla concretezza dell'attualità
rispetto ai trascorsi meno recenti della storia romana, dai contorni spesso mitici e leggendari.[4] A
tali aspetti, peraltro, come ci informa Plutarco, lo stesso Fabio Pittore non si sottraeva quando, nel
narrare la più remota età delle origini, si diffondeva con ampiezza espositiva, dovizia di dettagli e
stile drammatico e fantastico.[3] Fabio Pittore, nel dare inizio alla tradizione storiografica romana, fu
probabilmente, per quanto ne sappiamo, anche il precursore della letteratura in prosa con pretese
artistiche.[5]

Fioritura successiva

A Quinto Fabio Pittore viene attribuita l'introduzione della tradizione storiografica secondo il
criterio dell'"Ab urbe condita", ovvero della scrittura storica "dalla fondazione della città". Dopo
Quinto Fabio Pittore, molti altri autori seguirono il suo esempio, ispirati da questa nuova forma
letteraria:

 Lucio Cincio Alimento, contemporaneo o appena posteriore al precursore, scrisse in greco


gli Annales; la sua opera, a cui gli antichi annettevano doti di onestà e diligenza, non
riscosse però grande successo, forse anche per l'atteggiamento della classe dirigente,
scarsamente interessata ad un'esposizione proveniente da un plebeo.[5]
 Gaio Acilio (141 a.C. circa)
 Aulo Postumio Albino (151 a.C. circa)
 Catone il censore (168 a.C. circa).

Catone il Censore

Marco Porcio Catone è accreditato come il primo storico ad aver scritto in latino, in un'opera, le
Origines, impegnativa per concezione e ampiezza di respiro:[4] essa fu da lui intesa come un mezzo
per insegnare ai romani cosa significasse essere romano, ridimensionando o neutralizzando
l'influenza culturale greca, da lui considerata pericolosa per l'integrità morale di Roma.[4] Altra sua
preoccupazione fu quella di sterilizzare il peso e il fascino di personalità di spicco, come Scipione
l'Africano, i cui nomi egli si risolse addirittura a rimuovere completamente dalla narrazione: un
espediente singolare che, dopo di lui, non avrà però alcun seguito.[4] La sua visione – in termini
moderni definibile come d'impronta «storicista» – tendeva ad oscurare l'importanza delle figure
individuali: l'ascesa di Roma, e il prestigio raggiunto dalle sue istituzioni politiche e militari, erano
da attribuire esclusivamente alla dedizione alla res publica e all'impegno profuso, nel lungo corso
della storia, da generazioni di cittadini romani.[4]

Come Quinto Fabio Pittore, anche Catone il censore scrisse a partire dalla fondazione della città,
mentre la storia primitiva è ricolma di leggenda che celebra le virtù romane. La sua opera Origines
parla anche di come non solo Roma, ma anche le altre città italiane fossero venerabili, e di come i
romani fossero davvero superiori ai greci.

Storiografia, nobilitas e impegno politico

I romani traevano soddisfazione dai cimenti impegnativi e così la stesura della storiografia divenne
molto popolare tra quei membri della nobilitas che volessero spendere il loro tempo libero in
attività considerate meritevoli e virtuose secondo il comune sentire “romano”. Poiché l'indulgere
all'inazione, secondo quella stessa sensibilità, era considerata cosa disdicevole, lo scrivere di storia
divenne presto una degna attività con cui sottrarre all'otium gli intervalli liberi dall'impegno politico
e, in particolare, quelli dell'età del disimpegno politico nell'avanzata maturità.[4] Fu quest'ultimo il
caso già citato della senescenza di Catone, ma anche, ad esempio, di storici come Sallustio e Asinio
Pollione che, già uomini politici, si dedicheranno alla storiografia solo in età avanzata.[4]

Schema annalistico e schema monografico

Non appena i romani acquisirono familiarità con la storiografia, essa si divise in due filoni: quello
condotto secondo lo schema e la tradizione annalistica e quello improntato alla scrittura
monografica.

Tradizione annalistica

Gli autori che usavano la tradizione annalistica scrissero fin dall'inizio le storie di anno in anno, il
più delle volte dalla fondazione della città fino al periodo che stavano vivendo. La gran mole di
materiale disponibile per la trattazione, anche a seguito dalla pubblicazione degli Annales maximi
di Publio Muzio Scevola, richiese la disponibilità di un tempo maggiore da dedicare alla redazione,
determinando la nascita di una nuova figura di storico semi-professionale: pur provenendo dai ceti
elevati, questa lo storico annalista non poté più essere, per circa un secolo, quella di un politico di
spicco come lo era stato Catone il censore.[6]

Alcuni degli annalisti sono:

 Gneo Gellio nel 140 a.C. circa, scrisse la sua storia, in oltre 97 libri, da Enea fino al 146 a.C.
 Lucio Calpurnio Pisone Frugi scrisse nel 133 a.C. circa, tentando di capire perché la società
romana avesse cominciato a declinare. La sua storia fece la cronaca di Roma dalla
fondazione fino al 154 a.C., quando lui ritenne che la società aveva raggiunto il suo punto
più basso.
 Publio Muzio Scevola scrisse nel 133 a.C. circa gli Annales maximi, una storia in 80 libri
dalla fondazione della città.
 Sempronio Asellione scrisse, nel 100 a.C. circa, una storia dalle guerre puniche fino al 100
a.C.
 Quinto Claudio Quadrigario scrisse, in forma annalistica, che tutte le guerre romane sono
giuste, e che il Senato e la condotta romana erano onorevoli.
 Valerio Anziate, verso la fine del I secolo a.C., in epoca post-sillana scrisse una voluminosa
opera in 75 libri.
 Volusio, del quale però non ci rimangono testi.
 Lucio Cassio Emina

Tradizione monografica

Le monografie sono più simili ai libri di storia che usiamo oggigiorno; essi sono in genere
monotematici ma, cosa più importante, non raccontano la storia dall'inizio, e addirittura non sono
necessariamente annalistici. Un'importante sottocategoria che emerse dalla tradizione monografica
fu la biografia.

Alcuni autori monografici:

 Quinto Ennio scrisse gli Annales, narranti la storia romana anno per anno.
 Lucio Celio Antipatro scrisse una monografia sulla Seconda Guerra Punica.
 Gaio Gracco che scrisse una biografia di suo fratello, Tiberio Gracco.
 Gaio Fannio, scrisse anche lui una biografia di Tiberio Gracco, ma mostrandolo sotto una
luce negativa.
 Sallustio scrisse due monografie: Bellum Catilinae (noto anche come De Catilinae
coniuratione) relativo alla cospirazione di Catilina dal 66 al 63 a.C., e il Bellum
Iugurthinum, relativo alla guerra contro Giugurta, che ebbe luogo dal 111 al 105 a.C.

Storiografia e factiones nella tarda repubblica

Spesso, soprattutto in momenti di agitazione politica o di tumulto sociale, gli storici riscrivono la
storia per adattarla alla loro peculiare visione dell'epoca. Pertanto, ci sono stati svariati storici che
hanno rimaneggiato un po' la storia per sostenere la loro opinione. Questo è stato particolarmente
evidente negli anni settanta a.C. quando si stavano svolgendo le guerre sociali tra i populares
condotti da Mario, e gli optimates capeggiati da Silla. Molti autori scrissero storie durante questo
periodo, ognuno con la sua prospettiva. Gaio Licinio Macro era contro Silla e scrisse la sua storia,
basata su Gneo Gellio in 16 libri dalla fondazione della città fino al III secolo a.C., mentre Valerio
Anziate, che era pro-Silla, scrisse una storia in 75 libri, dalla fondazione della città fino al 91 a.C.

Riepilogo
La storiografia che noi identifichiamo più prontamente coi romani, e che ci viene da fonti come
Cesare, Sallustio, Tito Livio, Tacito ed altri autori minori, deve molto alle sue primeve radici e ai
predecessori greci. Comunque, a differenza della forma greca, la forma romana includeva i vari
atteggiamenti e le preoccupazioni che erano considerati tipicamente romani. Mentre la registrazione
della storia romana cominciava ad evolvere e prendere forma, molte caratteristiche vennero a
definire quello che noi conosciamo oggi come storiografia romana, specialmente la difesa forte e la
fedeltà allo Stato romano e all'ampia varietà di ideali morali, la natura faziosa di alcune storie, la
suddivisione della storiografia in due categorie distinte, gli Annali e la Monografia, ed il
rimaneggiamento della storia per adattarsi alle necessità dell'autore.

Caratteristiche
Gli annali rappresentano la trascrizione anno dopo anno degli avvenimenti storici. Nella storiografia
romana gli annali iniziano generalmente dalla fondazione di Roma. Gli annali compilati
correttamente riportano qualunque evento fosse importante in ogni anno, come pure altre
informazioni, come i nomi dei consoli di quell'anno, che costituiva il criterio col quale in genere i
romani identificavano gli anni. Sembra che l'annale venisse originariamente usato dalla classe
sacerdotale per annotare i presagi ed i prodigi.

Il termine annalista graccano sembra indicare storici che adottarono il modello annalistico che si
cominciò a utilizzare dopo il periodo graccano. Paragonate ad altre forme di storia annalistica,
queste sembrano più romanzate poiché gli storici romani usavano le loro storie per descrivere temi
del loro tempo, e non erano necessariamente propensi a raccontare i fatti nudi e crudi. Si aggiunga
che gli annalisti graccani hanno generato una percezione profonda riferita all'epoca vissuta dallo
scrittore, meno relativamente al tempo del quale loro scrissero. Sallustio e Tacito sono esempi di
spicco di annalisti graccani.

Una monografia è un lavoro esaustivo su un singolo argomento. La monografia poteva riguardare


un singolo evento, una tecnica, la retorica o uno qualsiasi di numerosi altri argomenti. Ad esempio,
Plinio il Vecchio una volta pubblicò una monografia sulle lance in uso dalla cavalleria. Le
monografie erano fra i lavori storici e più comuni ritrovati negli scritti romani.
L'espressione Ab urbe condita, letteralmente "dalla fondazione della città" descrive la tradizione
romana di cominciare la storia dalla fondazione della città di Roma come, ad esempio, in Tacito,
Tito Livio, Sallustio ed altri. Nell'opera Ab Urbe condita di Tito Livio, la maggior parte del tempo è
dedicato alla prima storia di Roma e alla fondazione della città stessa. Nelle storie di Sallustio, la
fondazione e la storia antica di Roma viene trattata in poche frasi. Pertanto il modello 'Ab urbe
condita' assume un'estrema variabilità mentre continua a sfornare storie romane.

Con "Storia senatoriale" s'intende la storia che è stata scritta direttamente, o le cui fonti provengono,
dal Senato romano. Le storie senatoriali sono in genere considerate attendibili visto che si
originavano da "addetti ai lavori". Un modello comune delle storie senatoriali è che esse sembrano
invariabilmente indicare una ragione per cui l'autore si sta dedicando ad esse invece di occuparsi di
politica.

Gli annalisti sillani diedero una linea politica al loro passato. Essi, attraverso le loro storie, che
spesso rimaneggiavano per adattarle alle proprie convinzioni, erano sostenitori della fazione di Silla
che portava avanti il conflitto con Mario. Alcuni annalisti sillani potrebbero aver rappresentato delle
fonti per Tito Livio. Anche Valerio Anziate era un annalista sillano, ma non era ritenuto uno storico
credibile. Si crede che abbia tentato di contrapporsi allo storico filo-Mariano Gaio Licinio Macro.
La storia di Valerio Anziate, scritta in settantasei libri, è melodrammatica e spesso infarcita di
esagerazioni e bugie. Nella sua storia, chiunque si chiami Cornelio è considerato un eroe e chiunque
si chiami Claudio è un nemico e gli oppositori ai populares non ebbero mai un nome vero e proprio,
ma furono chiamati invece boni, optime o optimates, sottintendendo che quelli fossero i bravi
ragazzi.

La storiografia romana è anche ben conosciuta per gli stili di scrittura sovversivi. Le informazioni
nelle antiche storie romane sono spesso comunicate attraverso la suggestione, l'allusione,
l'implicazione e l'insinuazione perché i loro atteggiamenti non sarebbero stati sempre ben compresi.
Tacito si oppose agli imperatori ritenendo che essi fossero una delle ragioni del declino di Roma.
Tacito scrisse, denigrandolo, persino di Augusto, il più celebre ed adorato degli imperatori.
Naturalmente, queste opinioni dovevano essere tenute celate, dato che non sarebbero state molto
ben accolte.

Nella storiografia romana i commentarii rappresentano semplicemente una lista di appunti grezzi
non destinati alla pubblicazione. Non erano considerati storia nel senso "tradizionale" del termine
perché mancavano del linguaggio necessario e dell'abbellimento letterario. In seguito, i
Commentarii venivano di solito trasformati in "storia". Molti ritengono che il resoconto di Cesare
delle guerre galliche, il Commentarii Rerum Gestarum venne chiamato commentarii per scopi
propagandistici. Si ritiene che si tratti realmente di "storia", dato che è scritta così bene, è filo-
romana e si adatta molto bene ai modelli tradizionali della storiografia.

Gli antichi storici romani non scrivevano nell'interesse di scrivere, ma sforzandosi di convincere i
loro lettori. La propaganda è sempre presente ed è la base della storiografia romana. Gli antichi
storici romani avevano tradizionalmente un bagaglio personale e politico e non erano osservatori
neutrali. I loro resoconti venivano scritti secondo le proprie convinzioni morali e politiche. Ad
esempio Quinto Fabio Pittore avviò la tradizione della storiografia che si preoccupava della
moralità e della storia, ed affermava il prestigio dello Stato romano e della sua gente.

Gli antichi storici romani scrissero storie pragmatiche allo scopo di arrecare benefici ai politici
futuri. La filosofia della storia pragmatica tratta gli eventi storici con particolare riferimento alle
cause, alle condizioni e ai risultati. Nella storiografia romana vengono presentati i fatti e
l'impressione di quello che i fatti significano. L'interpretazione fa sempre parte della storiografia; i
romani non fecero mai delle simulazioni al riguardo. Anzi, il contrasto tra i fatti e l'interpretazione
di quei fatti è indice di un bravo storico. Polibio fu il primo storico pragmatico. Le sue storie hanno
un ethos aristocratico e rivelano le sue opinioni sull'onore, la ricchezza e la guerra. Anche Tacito
era un pragmatico. Le sue storie hanno qualità letteraria ed interpretazioni di fatti ed eventi. Lui non
era propriamente obiettivo, piuttosto i suoi giudizi servivano da funzione morale.

Gli storici più importanti


Cesare

Giulio Cesare nacque il 12 luglio del 100 a.C. da una famiglia patrizia. Da giovane, fu nominato
Flamen Dialis da suo suocero, Lucio Cornelio Cinna. Quando questa carica gli venne portata via da
Silla, Cesare passò un decennio in Asia, guadagnandosi una grande reputazione in ambito militare.
Al suo ritorno a Roma, venne eletto sia tribunus militum che pontifex maximus. Mentre ricopriva
queste cariche, Cesare strinse amicizia con Pompeo e Crasso, i due uomini con cui più tardi avrebbe
formato il primo triumvirato. Man mano che gli anni passavano, il riconoscimento dell'abilità
politica, militare, ed oratoria di Cesare crebbe ed egli ottenne facilmente le cariche di pretore e di
console. Successivamente al suo consolato, Cesare ottenne il controllo delle province dell'Illyricum,
della Gallia Cisalpina e Transalpina. Nel 58 a.C. sorsero problemi nelle province galliche,
accendendo la scintilla di una delle più importanti guerre della carriera di Cesare.

Il De bello Gallico è il resoconto di Cesare delle Guerre galliche. Mentre la Guerra infuriava,
Cesare dovette subire un'ondata di critiche da Roma. Il De bello Gallico è una risposta a queste
critiche, ed un modo con cui Cesare giustificò queste Guerre. Nelle sue argomentazioni asseriva che
le Guerre erano sia legittime che pie, e che lui ed il suo esercito avevano attaccato la Gallia per
autodifesa. Gli Elvezi stavano organizzando una massiccia migrazione che avrebbe potuto
minacciare la provincia Narbonense. Quando un gruppo di suoi alleati gallici venne da Cesare a
chiedere aiuto contro questi Elvezi invasori, offrirono a Cesare la giustificazione necessaria per
radunare il suo esercito. Creando un resoconto che lo ritraeva come un superbo eroe militare,
Cesare riuscì a fugare tutti i dubbi sorti a Roma sulle sue abilità di condottiero.

Mentre è ovvio che Cesare usò questo resoconto per suo proprio tornaconto, non si può comunque
affermare che il De bello Gallico sia del tutto inattendibile. Molte delle vittorie di cui ha scritto
Cesare, infatti, hanno avuto luogo. Dettagli minori potrebbero essere stati alterati, e la scelta delle
parole crea nel lettore una maggior sintonia alla causa di Cesare. Il De bello Gallico è un esempio
eccellente del modo in cui, presentandoli sotto altra luce, gli eventi reali possano essere rigirati a
vantaggio di una persona. È questa la ragione per cui il De bello Gallico viene spesso ritenuto un
commentario, piuttosto che una parte della storiografia attuale.

Tito Livio

Tito Livio, noto anche come Livio, fu uno storico romano conosciuto soprattutto per la sua opera
intitolata Ab Urbe Condita (Le origini di Roma) che è una storia di Roma a partire "dalla
fondazione della città". Era nato a Patavium, l'antica Padova, nel 59 a.C. e ove morì nell'anno 17.
Alcuni riferirono del suo stile come permeato di "patavinità". Poco si sa della sua vita, ma
basandosi su un epitaffio trovato a Padova, sappiamo che ebbe una moglie e due figli. Sappiamo
anche che era in buoni rapporti con Augusto e che incoraggiò Claudio a scrivere di storia.

L'opera Ab Urbe Condita copre la storia romana dalla sua fondazione, comunemente fissata nel 753
a.C., fino al 9 a.C. Consisteva di 142 libri, sebbene solamente i primi dieci e i libri dal 21 al 45 ci
siano giunti, insieme a pochi altri frammenti. I libri erano stati suddivisi in "decadi", perché dieci
libri potevano costituire un codice pergamenaceo. Le decadi furono ulteriormente suddivise in
pentadi:

 I libri da 1 a 5 coprono dalla fondazione di Roma al 390 a.C.


 I libri dal 6 al 10 vanno dal 390 al 293 a.C.
 Sebbene non disponiamo dei libri dall'11 al 20, ci sono testimonianze che attestano che i
primi cinque libri trattavano di Pirro e gli altri cinque della Prima guerra punica.
 I libri dal 21 al 30 riguardano la seconda guerra punica:
o dal 21 al 25 trattano di Annibale;
o dal 26 al 30 trattano di Scipione l'Africano.
 Le guerre contro Filippo V di Macedonia si trovano nei libri dal 31 al 35.
 Le guerre contro Antioco III sono nei libri dal 36 al 40.
 La terza guerra macedonica è trattata nei libri dal 41 al 45.
 I libri dal 45 al 121 sono andati perduti.
 Gli scarsi frammenti restanti, dei libri dal 122 al 142, trattano degli avvenimenti dal 42 a.C.
fino al 9 a.C.

L'obiettivo con cui Livio scrisse l'Ab Urbe Condita fu duplice: il primo era stato di commemorare la
storia ed il secondo di sfidare la sua generazione per assurgere a quello stesso livello. Lui era
impensierito dalla moralità, e usava la storia come fondamento morale. Tito Livio mette in
correlazione il successo di una nazione col suo alto livello di moralità e, al contrario, il fallimento di
una nazione col suo declino morale. Livio riteneva che a Roma ci fosse stato un declino morale, e
gli mancò la fiducia che Augusto potesse invertire tale tendenza. Sebbene condividesse gli ideali di
Augusto, non funse da "portavoce del regime". Lui ebbe a credere che Augusto fosse necessario, ma
solamente come rimedio a breve termine.

Secondo Quintiliano, Livio scrisse con lactea ubertas, ovvero abbellì la sua opera con ricchezza di
linguaggio, includendovi termini poetici ed arcaici. Introdusse molti anacronismi nel suo lavoro,
come tribuni dotati di poteri che vennero loro assegnati molto più tardi. Livio usò anche tecniche
retoriche, attribuendo discorsi a personaggi i cui discorsi non erano probabilmente conosciuti.
Sebbene lui non sia ritenuto uno storico di prima categoria, il suo lavoro è stato così esteso che le
altre fonti storiche sono state abbandonate per quella di Livio. È una disdetta che queste altre storie
siano state abbandonate, soprattutto perché buona parte dell'opera di Livio è andata perduta,
lasciando grosse lacune nella nostra conoscenza della storia romana.

Sallustio

Gaio Sallustio Crispo, più comunemente noto come Sallustio, fu uno storico romano del primo
secolo a.C., nato nell'86 a.C. in un centro sabino del Sannio, Amiternum. Esistono delle
testimonianze che la famiglia di Sallustio appartenesse all'aristocrazia locale, ma sappiamo anche
che non faceva parte della classe governante di Roma. Intraprese quindi la carriera politica come
homo novus, in qualità di tribuno militare negli anni sessanta, questore dal 55 a.C. al 54 a.C. e
tribuno della plebe nel 52 a.C. Sallustio fu espulso dal Senato nel 50 a.C. per motivazioni morali,
ma ravvivò rapidamente la sua carriera legandosi a Giulio Cesare. Fu nuovamente nominato
questore nel 48 a.C., fu pretore nel 46 a.C. e, fino al 44 a.C., governò la nuova provincia romana
sorta nel territorio della Numidia. La carriera politica di Sallustio finì dopo il suo ritorno a Roma e
l'assassinio di Cesare, nel 44 a.C.

Ci sono pervenute intatte due opere storiche che sono state convincentemente attribuite a Sallustio,
le monografie Bellum Catilinae e Bellum Iugurthinum. Abbiamo invece solo frammenti di una terza
opera, le Historiae. C'è meno accordo sulla paternità di altre opere che gli sono state talvolta
attribuite. Nel Bellum Catilinae, Sallustio delinea la cospirazione di Catilina, un patrizio impudente
ed ambizioso che tentò di salire al potere a Roma nel 63 a.C. Nell'altra monografia Sallustio usò
come sfondo la guerra giugurtina per esaminare l'evoluzione delle lotte partitiche a Roma, nel corso
del I secolo a.C. Le Historiae descrivono in generale la storia degli anni 78-67 a.C.

Anche se le reali intenzioni dello scrittore Sallustio sono state a lungo discusse, sembra logico
classificarlo come uno storico senatoriale che adottò l'atteggiamento di un censore. I dettagli storici
delineati nelle sue monografie servono da paradigma per Sallustio. Nel Bellum Catilinae, Sallustio
usa la figura di Catilina come simbolo della nobiltà romana corrotta. Per la verità, molto di quello
che Sallustio scrive in questo lavoro nemmeno riguarda Catilina. Il contenuto del Bellum
Jugurthinum suggerisce anche che Sallustio era più interessato allo studio dei personaggi (ad es.
Mario) che ai dettagli della guerra stessa. Riguardo al suo stile, le influenze principali sul lavoro di
Sallustio vanno attribuite a Tucidide e a Catone il censore. L'influenza del primo è testimoniata
dall'enfasi in politica, dall'uso delle arcaicità, dall'analisi dei personaggi e dall'omissione selettiva
dei dettagli. L'uso di figure retoriche quali l'asindeto, l'anafora e il chiasmo riflette la sua preferenza
per il vecchio stile latino di Catone al periodare strutturato ciceroniano della sua era.

Che Sallustio sia considerato o meno una fonte affidabile, a lui è largamente ascrivibile la nostra
immagine corrente di Roma nella tarda repubblica. Indubbiamente, lui incorpora nei suoi lavori
elementi di esagerazione ed è talvolta stato descritto più come un artista o uno statista che come uno
storico. Ma la nostra comprensione delle realtà morali ed etiche di Roma nel primo secolo a.C.
sarebbe stata molto inferiore se non avessimo potuto disporre dei lavori di Sallustio.

Tacito

Publio Cornelio Tacito nacque nell'anno 55, probabilmente nella Gallia Cisalpina o nella Gallia
Narbonense. La sua carriera politica cominciò rapidamente a delinearsi non appena arrivato a
Roma, intorno al 75. Nell'88 venne nominato pretore sotto Domiziano, mentre era anche membro
del collegio romano dei quindecemviri sacris faciundis. Sposato da poco con la figlia del generale
Agricola, Tacito ebbe incarichi fuori Roma dall'89 al 93. Nel 97, durante il regno di Nerva, Tacito
fu nominato consul suffectus. È probabile che Tacito sia stato proconsole della provincia d'Asia. La
sua morte è databile intorno all'anno 125.

Gli studiosi hanno dibattuto a lungo riguardo all'ordine di pubblicazione delle opere di Tacito; le
date tradizionali sono elencate nel seguito:

 98 - Agricola (De vita et moribus Iulii Agricolae). Si trattava di un elogio del suocero
dell'autore, il citato generale Gneo Giulio Agricola. Comunque, dall'Agricola si desume ben
più di una biografia: Tacito vi include parole pungenti e frasi taglienti destinate
all'imperatore Domiziano.
 98 - Germania (De Origine et situ Germanorum), è un'opera etnografica sulle tribù
germaniche che vivevano al di fuori dei confini romani. L'opera, che contiene sia tratti
moraleggianti che politici, ha probabilmente lo scopo di mettere in luce il pericolo
rappresentato per Roma da questi popoli, soprattutto da quelli confinanti con l'Impero.
 101/102 - Dialogo (Dialogus de oratoribus). Questo è un commentario sullo stato dell'arte
oratoria come la vede Tacito.
 109 - Historiae. Questo lavoro abbraccia il periodo dalla fine del regno di Nerone alla morte
di Domiziano. Sfortunatamente, gli unici libri ancora esistenti di questa opera, composta da
12 (o 14) volumi, sono i primi quattro ed una parte del quinto libro.
 117 - Annales (o Ab excessu divi Augusti). Questa è l'opera finale e più vasta di Tacito.
Alcuni studiosi la ritengono anche il suo lavoro più straordinario. Se sia stata realmente
completata o quando sia stata pubblicata è tuttora ignoto. Gli Annales riguardano i regni di
Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone. Come le Historiae, solo alcune parti degli Annales
sono giunte a noi: i libri dal 7 al 10 sono andati perduti, ma anche parti dei libri 5, 6, 11 e 16
sono mancanti. L'invettiva personale di Tacito è presente anche in questo lavoro.

Lo stile di Tacito è molto simile a quello di Sallustio. Frasi corte e acute che vanno dirette al punto,
né Tacito si faceva problemi per trasmettere il suo pensiero. La sua affermazione che lui scrive la
storia sine ira et studio ('senza rabbia né parzialità') (Annales I.1) non è propriamente vera. Molti
dei suoi passaggi trasudano odio verso gli imperatori. La sua abilità oratoria, che fu elogiata dal suo
buon amico Plinio, contribuì certamente alla sua indubbia maestria della lingua latina. Non era
solito misurare le parole, né sprecava tempo raccontando la storia di Roma ab urbe condita.
Piuttosto, esponeva una breve sinossi dei momenti chiave prima di iniziare il lungo resoconto del
regno di Augusto, lanciandosi negli aspri resoconti di storia e ricollegandosi là dove Livio aveva
smesso la narrazione.

Svetonio

Gaio Svetonio Tranquillo noto anche come Svetonio, è molto famoso per le sue biografie degli
imperatori delle dinastie Giulio-Claudia e Flavia e di altre importanti figure storiche. Nacque
intorno all'anno settanta da una famiglia di ceto equestre. Vissuto al tempo dell'Imperatore Traiano
e molto legato a Plinio il Giovane, Svetonio iniziò a salire di rango nell'amministrazione imperiale.
Intorno all'anno 102 gli venne affidata una posizione di tribuno militare in Britannia che finì per
rifiutare. Tuttavia lo troviamo al seguito di Plinio quando questi divenne governatore della Bitinia.
Durante l'ultimo periodo del regno di Traiano e poi sotto Adriano ebbe vari incarichi, dai quali fu
poi rimosso, probabilmente dopo la morte del suo protettore, Plinio. La sua posizione gli garantì
una stretta vicinanza col governo così come l'accesso agli archivi imperiali, fatti verificabili dalle
sue biografie storiche.

Svetonio scrisse un gran numero di biografie su importanti figure letterarie del passato (De Viris
Illustribus). Facevano parte della raccolta personaggi di rilievo, quali poeti, grammatici, oratori,
storici e filosofi. Questa raccolta, come altri suoi lavori, non fu però organizzata cronologicamente.
Non tutto questo lavoro è giunto ai giorni nostri, ma ci sono vari riferimenti in altre fonti che ci
fanno attribuire frammenti a questa raccolta.

Il suo lavoro più famoso resta tuttavia il De Vita Caesarum. Questa raccolta di dodici biografie
riguarda le vite degli imperatori Giulio-Claudi e Flavi, partendo da Giulio Cesare fino a Domiziano.
A differenza di una genealogia introduttiva e di un breve riassunto della vita e della morte del
personaggio, queste biografie non seguono un modello cronologico. Piuttosto che fare la cronaca
degli eventi come accaddero nel corso del tempo, Svetonio li presenta per argomento. Questo stile
gli permise di paragonare i successi e i rovesci di ogni imperatore usando vari esempi delle
responsabilità imperiali, dai progetti edilizi ai pubblici divertimenti, ma rende gli aspetti cronologici
della vita di ogni imperatore e gli eventi del primo Impero romano di difficile collocazione. Rende
anche completamente inutile la capacità di estrapolare una sequenza causale dalle opere. Lo scopo
di Svetonio non era la narrazione storica degli eventi, ma piuttosto la valutazione degli imperatori
stessi.

Lo stile di Svetonio è semplice; spesso inserisce citazioni direttamente dalle fonti che sono state
usate, per lui il linguaggio e l'organizzazione artistica non sembrano esistere. Si rivolge alle
questioni direttamente, senza ricorrere a un linguaggio elaborato o fuorviante, e cita spesso le sue
fonti. Viene spesso criticato per il suo spiccato interesse rivolto più alle dicerie sugli imperatori che
non agli eventi reali dei loro regni. Lo stile col quale scrive si origina principalmente dal suo
proposito primario, catalogare le vite dei suoi personaggi. Egli non stava scrivendo una storia
annalistica, né stava tentando di creare un resoconto: il suo scopo era la valutazione degli
imperatori, ritraendo eventi ed azioni della persona durante lo svolgimento delle loro attività. Si
concentra sull'adempimento dei doveri, criticando quelli che non sono all'altezza delle aspettative,
giungendo a lodare i cattivi imperatori nel momento in cui adempiono ai loro doveri.

C'è una gran varietà di altre opere perdute o incomplete di Svetonio molte delle quali descrivono
ambiti culturali e di società, come il calendario romano o i nomi di mari. Tuttavia, tutto quello che
sappiamo su di esse è solamente attraverso riferimenti esterni a tali opere.

Altri storici di rilievo


 Polibio (206 a.C. – 124 a.C.) era un greco eminente che credeva fermamente nella Lega
achea. Dopo essere stato catturato dai romani e condotto a Roma, Polibio s'incaricò di
documentare la storia di Roma per spiegare le tradizioni romane ai suoi connazionali.
Voleva convincerli ad accettare la dominazione di Roma come una verità universale. Del
suo lavoro principale, le Storie, ci sono pervenuti i primi cinque libri e lunghi frammenti ed
epitomi del resto.
 Diodoro Siculo fu uno storico greco del primo secolo a.C. La sua opera principale fu la
Bibliotheca historica, che consisteva di quaranta libri e fu concepita come una storia
universale dall'epoca mitologica fino al primo secolo a.C. Diodoro utilizzò uno stile
semplice e diretto nello scrivere, e per le sue informazioni si basò abbondantemente su
resoconti scritti, la maggior parte dei quali sono ora andati perduti. Spesso criticato per la
sua mancanza di originalità e ritenuto uno storico "taglia e cuci", Diodoro si sforzò di
presentare una storia umana e comprensiva in una forma adeguata e leggibile.
 Dionigi di Alicarnasso (60 a.C. circa – 7 a.C.) fu uno storico e critico greco che visse a
Roma. La sua storia più importante fu Antichità romane, la storia di Roma dagli inizi mitici
fino alla prima guerra punica, composta da 20 libri, che riempie delle lacune nei racconti di
Tito Livio. Altri suoi lavori includono: Sulla mimesi, Su Dinarco, Su Tucidide e Sulla
disposizione delle parole.
 Cornelio Nepote fu uno storico romano del I secolo.a.C. Scrisse un'opera in sedici libri, il
De viris illustribus. L'opera dipende molto dagli storici greci e da fonti spesso consultate
troppo superficialmente dall'autore, così che sono presenti diversi errori. A Cornelio Nepote,
tuttavia, va il merito di aver saputo costruire, pur non avendo ricreato il contesto storico in
cui essi vissero, una serie di personaggi-protagonisti che esprimono le diverse finalità morali
dell'autore. Infatti egli, come del resto quasi tutti gli storici latini, scrisse quasi sempre le sue
opere per fini morali.
 Velleio Patercolo fu uno storico romano che visse dal 19 a.C. a dopo l'anno 30. Scrisse le
Historiae Romanae, che è un riassunto di storia romana dalla fondazione della città all'anno
30. Sebbene quasi tutto il suo lavoro sia andato perduto, è tuttora una fonte preziosa sui
regni di Augusto e Tiberio. Rappresenta il tipo adulatorio di storia condannato da Tacito che
ignora Velleio alla pari delle autorità del tempo.
 Valerio Massimo scrisse un manuale di esempi retorico-morali Factorum et dictorum
memorabilium libri IX (31). Opera erudita di carattere divulgativo, raccoglieva fatti e
aneddoti ripresi da fonti diverse (tra le quali Cicerone, Tito Livio, Varrone e, fra i greci,
Erodoto e Senofonte in particolare), suddivisi in 9 libri (un ipotetico decimo libro potrebbe
essere andato perduto) e 95 categorie di vizi e virtù, al loro interno suddivisi in romani ed
esterni. Tratti per la maggior parte dalla storia romana e, in misura minore, da quella greca,
gli aneddoti hanno un carattere moraleggiante. La modesta finalità dell'autore è infatti quella
di portare al lettore exempla (esempi) attraverso i comportamenti virtuosi (oppure tramite
quelli più sleali) dei grandi uomini del passato, di modo che i retori, a cui questa opera
sembra essere indirizzata, potessero farne uso nei loro discorsi per dare peso alle loro
argomentazioni.
 Plinio il Vecchio, lo zio di Plinio il Giovane, scrisse nel primo secolo d.C. Lui era un
ufficiale dell'esercito romano e morì nell'eruzione del Vesuvio. I suoi lavori noti includono
Naturalis Historia, che è una raccolta di libri sulla storia naturale, Bella Germaniae, una
storia in 21 libri delle guerre germaniche che ebbero luogo nel corso della sua vita ed una
storia in 31 libri della Roma Giulio-Claudia.
 Flavio Giuseppe (37 circa – 100 circa) fu uno storico ed apologeta ebreo. Le sue opere
includono la Guerra giudaica (dal 75 al 79), le Antichità giudaiche (nel 93), la Vita (95) e
Contra Apionem (data di pubblicazione ignota). Fu influenzato da Tucidide e da Polibio e fu
appoggiato dall'Imperatore Tito. Sebbene molti critici pensano che sia stato un traditore
della sua gente, i suoi scritti mostrano che fu un difensore zelante della fede e della cultura
ebree.
 Curzio Rufo fu autore di una Storie di Alessandro Magno il Macedone in dieci libri, di cui i
primi otto pervenutici. Non è certa l'epoca in cui visse.
 Cassio Dione fu un distinto senatore greco. Dopo essersi affermato nella carriera politica,
Cassio Dione cominciò a scrivere varie opere letterarie. Il suo lavoro più famoso e
riconosciuto è intitolato la Storia romana, composta da 80 libri. In quest'opera predomina il
cambiamento dalla repubblica romana ad una monarchia di imperatori, l'unica, secondo
Cassio Dione, che poteva consentire a Roma di avere un governo stabile. Oggi, l'unica parte
rimastaci della Storia romana è quella dal 69 a.C. al 46 d.C.
 Nella sua storia composta da 31 libri (Res gestae libri XXXI), Ammiano Marcellino
descrisse il periodo storico dal regno di Nerva alla Battaglia di Adrianopoli, ma i primi
tredici libri sono andati perduti. Avendo apportato nei rimanenti libri le proprie esperienze
personali nel servizio militare, i suoi scritti presentavano una qualità descrittiva unica, della
geografia, degli eventi, e persino della reputazione dei personaggi. C'è un acceso dibattito se
la sua storia rappresentasse la continuazione di quella di Tacito.
 La Historia Augusta è una raccolta di biografie degli imperatori romani dal 117 al 284.
Sebbene si sia sostenuto che si tratta di un'opera scritta da svariati autori, ricerche
contemporanee hanno mostrato che l'autore potrebbe essere stato uno solo. Costui potrebbe
aver avuto buone ragioni per celare la propria identità, poiché la maggior parte delle
informazioni riportate in quest'opera si è rivelata piuttosto inattendibile.
 Nella Tarda antichità, una gran quantità di breviaria, ovvero brevi opere storiche, venne
pubblicata da autori quali Aurelio Vittore, Eutropio (Breviarium ab Urbe condita) e Festo.
Essi ebbero una fonte comune, individuata con il titolo moderno di Enmannsche
Kaisergeschichte, che è andata perduta.
 Zosimo fu uno storico pagano che scrisse intorno al 500 una storia di Roma in sei libri
(Storia nuova), fino all'anno 410. Sebbene non possa essere paragonato ad Ammiano
Marcellino, il suo lavoro risulta importante per gli eventi dopo il 378.

Le importanti storie di Prisco di Panion e di Olimpiodoro di Tebe (Discorsi storici, in 22 libri) sono
andate perdute, ad eccezione di pochi frammenti.

QUINTO FABIO PITTORE

Quinto Fabio Pittore (in latino: Quinctus Fabius Pictor; 260 a.C. circa – 190 a.C.) è stato un
politico e storico romano, appartenente alla gens Fabia.

Biografia
Il suo cognome deriva dall'attività esercitata dal nonno, il patrizio Gaio Fabio Pittore (Gaius Fabius
Pictor), autore nel 304 a.C. di pitture nel tempio della Salute, al Quirinale.

Senatore e magistrato, Quinto Fabio combatté contro i Galli Insubri ed Annibale Barca ed ebbe
l'incarico di un'ambasceria sacra a Delfi nel 216 per cercare consigli da Apollo dopo la sconfitta dei
Romani a Canne nella seconda guerra punica.[1] Sconfisse i Messapi, alleati di Annibale, ponendo
fine alla loro autonomia. Era presente alla presa di Ozan, l'odierna Ugento.

Opere letterarie

Annales

Pittore scrisse degli Annales verso la fine del III secolo a.C. e narrò la storia di Roma dal tempo di
Enea fino al 217, anno precedente la battaglia di Canne, ponendo la fondazione di Roma al 747 a.C.
Il testo, Ῥωμαίων πράξεις, è scritto in lingua greca e prende posizione contro le accuse di
espansionismo imperialistico lanciate in quel periodo dagli storiografi greci parteggianti per
Annibale. Dell'opera esisteva una versione in lingua latina, la Rerum gestarum libri, non si sa se
scritta da lui stesso.

Un punto di vista aristocratico prevale nell'opera di Pittore, caratterizzato particolarmente da un


acceso nazionalismo ed un gusto particolare per la descrizione delle origini di Roma, l'età regia e gli
inizi della Repubblica di Roma, epoche alle quali risalivano molte istituzioni e costumi religiosi e
civili del suo tempo.

Della sua opera, che fu una delle fonti di Polibio, di Tito Livio e di Dionigi di Alicarnasso, non
restano che scarsi frammenti e le poche notizie che abbiamo di essa ci sono state tramandate da
Dionigi di Alicarnasso. Non è certo che si ispirasse agli scrittori ellenistici del suo tempo (Sileno,
Timeo ecc.), come taluno ha asserito.

Altre opere

A Fabio Pittore fu attribuito anche un De iure pontificio, citato da Nonio Marcello, che viene però
prevalentemente assegnato a Quinto Fabio Massimo Serviliano.[2]

CURZIO RUFO

Quinto Curzio Rufo (in latino: Quintus Curtius Rufus; fl. I - II secolo d.C. o III - IV secolo d.C. –
...) è stato uno storico romano dell'età imperiale.

(LA) (IT)

« India tota spectat orientem. Indiae fluvii e « Tutta l'India è rivolta verso oriente. I fiumi
Caucaso profluunt et per campos fluunt: dell'India sorgono dal Caucaso, e scorrono
Indus gelidas et caeruleas aquas vehit; per i campi: l'Indo trasporta acque gelide e
Ganges a meridiana terra decurrit; Diardines cerulee; il Gange decorre da una terra più che
per ultimas terras Indiae currit; non vasta; il Diardine corre per l'ultime terre
crocodilos modo, sed etiam delphinos dell'India; non soltanto i coccodrilli, ma pure
mirasque populis beluas alit. Fluviis tota i delfini si meravigliano dei popoli e delle
India dividitur. Agri lini magnam copiam bestie ch'[essi] allevano. L'india è per intero
producunt: nam Indiae incolae linteas tunicas divisa dai fiumi. I campi di lino generano
habent. Aurum fluvii vehunt. Gemmas copiosa abbondanza: difatti, gli abitanti
margaritasque pelagus oris infundit. Virorum dell'India posseggono tuniche di tela di lino.
capita lintea vinciunt; lapilli ex auriculis I fiumi trasportano oro: l'acque fluviali
pendent; bracchia quoque et lacerti auro irrigano i germogli e le margherite. Col lino
ornantur. Capillum pectunt saepe sed raro legano le teste degli uomini; i gioielli pendon
tondent. Rex magnificam vitam degit: in dalle orecchie; pure le braccia e le
aurea lectica recubat, in regia cum permultis avambraccia son d'oro ornate. I capelli
ministris vivit. Regia auratas columnas cardano spesso, ma di raro si rasano. Il re
habet: argenteis statuis regia ornatur. Iunonis trascorre una vita splendida: riposa in una
Laciniae tegulis marmoreis spoliavit » lettiga d'oro e vive nel real palazzo con
moltissimi funzionari. Quest'ultimo possiede
colonne dorate, ed è decorato con statue
d'argento. »
(Quinto Curzio Rufo, Storie di Alessandro Magno, I, 11, 7-8)

Indice
 1 Biografia
o 1.1 La trama delle Storie di Alessandro Magno
 2 Stile
 3 Opere
 4 Note
 5 Bibliografia
 6 Altri progetti
 7 Collegamenti esterni

Biografia
Lo stesso argomento in dettaglio: Storia della letteratura latina (14 - 68).

Fu l'autore delle celebri Historiae Alexandri Magni Macedonis (Storie di Alessandro Magno il
Macedone), divise in dieci libri, giunte mutile dei primi due. Nelle Historiae elogia la monarchia
macedone, sostenendo che la morte di Alessandro Magno provocò la frantumazione dell'impero,
che avrebbe potuto reggersi solo sotto il comando di una sola forte personalità. Nella stessa maniera
Curzio afferma che i romani debbono essere grati al nuovo princeps, che secondo molti storici
sarebbe Claudio o Vespasiano, per altri Traiano o Alessandro Severo, comunque un sovrano del
periodo successivo a Caligola. Edward Gibbon ipotizza invece Gordiano III, mentre altri ancora si
spingono fino a Costantino I[1], ipotesi quest'ultima che ha effettivamente dei fondamenti[2]. È
incerto se sia possibile identificarlo con l'omonimo politico citato da Tacito nelle Historiae.
All'epoca di Curzio Rufo la letteratura storiografica o romanzesca su Alessandro Magno era ormai
cospicua. Lo stesso Alessandro, spinto dal desiderio di gloria e di immortalità aveva dato a
Callistene, nipote di Aristotele, l'incarico di descrivere la sua vita e dopo la morte la sua figura
assunse colori sempre più favolosi e leggendari.

La trama delle Storie di Alessandro Magno

Storia di Alessandro Magno in un codice parigino del 1450-1500 circa, Biblioteca Medicea
Laurenziana, med. pal. 155
Historiae Alexandri Magni, 1478

L'opera di Curzio Rufo narra la vita e le imprese fino alla morte del sovrano macedone, avvenuta
nel 323 a.C., e le dispute tra i Diadochi.

Alessandro Magno ha già da tempo abbandonato la Macedonia e si appresta allo scontro con
l'imperatore persiano Dario, che viene gravemente ferito nella battaglia di Isso e costretto alla fuga,
mentre i familiari divengono prigionieri dei macedoni. Alessandro espugna la città di Tiro, assediata
per sette mesi, e si inoltra in Terra d'Egitto, facendo tappa all'oasi di Giove Ammone, dove i
sacerdoti riconoscono l'origine divina di costui. Dopo aver fondato Alessandria si reca nuovamente
in Mesopotamia e marcia attraverso Babilonia, Susa ed Ecbatana. Dario cade vittima di una
cospirazione guidata da Besso, satrapo della Battriana. Mentre pone fine alle ultime resistenze
persiane Alessandro deve reprimere una congiura interna. Cresce il malcontento di quanti gli
rimproverano di aver abbandonato i costumi macedoni e vorrebbero tornare in patria. Alessandro
durante un convito uccide l'amico Clito e in questo periodo pretende che i suoi uomini si
inginocchino davanti a lui come davanti a un dio. Si invaghisce di una fanciulla orientale, Rossane,
e la sposa. Marcia verso l'India ma anche i soldati si ribellano e costringono il re a tornare indietro.
Il re riesce a convincerli a procedere fino all'oceano dove un'improvvisa marea uccide i partecipanti
alla spedizione. Il libro si chiude sull'immagine dell'esercito trasformato in un corteo. Aumentano le
stravaganze, le collere brutali, e crudeltà. Infine Alessandro ritorna in Babilonia, dove si ammala e
muore. Si apre a questo punto la lotta per la successione.

Con l'opera di Curzio Rufo la storiografia latina fa il suo ingresso nei territori fino a quel momento
inesplorati del romanzo esotico e avventuroso. Protagonista non è più il popolo romano, ma un eroe
macedone che si inoltra in regioni ignote di un mondo barbaro. Curzio Rufo sa appagare la fantasia
del popolo romano e d'altra parte è la materia stessa piena di cose meravigliose e fuori dal comune.
Il modello prevalente è senza dubbio quello della storiografia mimetica e drammatica, in cui il
destino e gli uomini sono travolti dal potere della fortuna. Naturalmente al centro di tutto c'è la
figura di Alessandro Magno, straordinaria nei vizi come nelle virtù. L'autore traccia alla fine
dell'opera una valutazione su Alessandro, che risente profondamente della mentalità romana,
fondata sui concetti di modus (misura); al di là delle singole considerazioni moralistiche il
personaggio di Alessandro risulta sempre affascinante. Come Curzio Rufo osserva non avevano la
stessa disposizione d'animo Alessandro e i suoi soldati, perché mentre l'imperatore sognava un
impero universale i soldati desideravano cogliere immediatamente i frutti delle loro fatiche.

Stile
Lo stile di Curzio Rufo è nel complesso piano e scorrevole e ricorda quello di Tito Livio, che è il
modello di numerosi discorsi. Non mancano influenze di Pompeo Trogo, Orazio, Virgilio e Seneca,
rintracciate nelle Historiae dai vari studiosi. Altra caratteristica, a dir poco peculiare, che lo
distingue dagli altri storici latini, è l'impiego della prosa ritmica, rintracciabile soltanto in autori
tardi, come Simmaco, Ausonio e San Girolamo, che farebbe pensare a una collocazione dell'opera e
della vita di Curzio Rufo in età costantiniana (IV secolo d.C.). Le storie di Curzio presto
alimentarono il fascinoso immaginario del sovrano macedone, confluito poi nel celeberrimo
Romanzo di Alessandro, che influenzerà l'intero Medioevo.

HISTORIA AUGUSTA

La Storia Augusta (in latino: Historia Augusta) è una raccolta di biografie di imperatori e
usurpatori romani comprendente l'arco di tempo che va da Adriano a Numeriano. Sia pur con
qualche considerevole lacuna, fra le quali si segnala per estensione quella relativa agli anni 244-
253, essa è l'unica fonte letteraria continua per questo periodo, il cui contenuto coincide a volte con
quello di epigrafi e di altro materiale documentario pervenutoci e quindi, pur con tutti i suoi limiti, è
di interesse considerevole.

Indice
 1 Autori o autore, destinatari ed epoca di composizione della Historia Augusta
 2 I modelli ai quali si ispira
 3 Contenuto della lista degli imperatori narrati
o 3.1 Dinastia degli Antonino Antonini
 3.1.1 Guerra civile romana (193)
o 3.2 Declino del Principato (193-284)
 3.2.1 Dinastia dei Severi (193-235)
 3.2.2 Anarchia militare fino a Gallieno (235-268)
 3.2.3 Imperatori illirici (268-284)
 4 Il vero filo conduttore
 5 La svolta augustea, il declino e il risentimento dell'ordine senatorio
 6 Note
 7 Bibliografia
o 7.1 Fonti primarie
o 7.2 Fonti secondarie
 8 Voci correlate
 9 Altri progetti
 10 Collegamenti esterni

Autori o autore, destinatari ed epoca di composizione della


Historia Augusta
Pur sembrando che la Historia Augusta sia un insieme di vite redatta da sei scrittori differenti -
rispondenti ai nomi di "Aelius Spartianus", "Iulius Capitolinus", "Vulcacius Gallicanus", "Aelius
Lampridius", "Trebellius Pollio" e "Flavius Vopiscus" - indirizzata a cesari e imperatori dell'età
dioclezianeo-costantiniana, come si evince dalle dediche, tuttavia una serie di incongruenze,
anacronismi, falsificazione di dati, termini tecnico-amministrativi e nomi di personaggi
riconducibili e in auge in epoche più tarde, dà adito a una serie di perplessità e forti dubbi non
soltanto sulla paternità dell'opera stessa, ma anche sull'attendibilità del suo contenuto, sui destinatari
dell'opera e conseguentemente sulla data di composizione.

A smontare le certezze su cui si reggeva il tradizionale impianto basato sulla convinzione che la
H.A. fosse opera di sei autori vissuti nel sopraddetto periodo fu uno studio del 1889 di Hermann
Dessau nel quale, per la prima volta, fu avanzata l'ipotesi che i nomi dei sei Scriptores fossero tutti
fittizi e che il lavoro fosse stato composto da un singolo autore, all'epoca di Teodosio I; a supporto
di questa intuizione, H. Dessau addusse come prova il fatto che la vita di Settimio Severo è copiata
da Aurelio Vittore e che quella di Marco Aurelio è intrisa di elementi che fanno pensare a Eutropio:
fonti entrambe, com'è noto, riconducibili alla fine del IV secolo. La tesi del Dessau, che metteva a
nudo le varie incongruenze sopra dette, fu condivisa, fra gli altri, da Otto Seeck, ma trovò fieri
oppositori in altri storici "conservatori" del calibro di Elemir Klebs, Heinrich Wölfflin e H. Peter
che collocavano, invece, la composizione della Historia Augusta all'epoca dioclezianea-
costantiniana, attribuendola ai sei citati autori.

Una posizione intermedia veniva assunta da Theodor Mommsen che faceva risalire le varie
incongruenze, presenti nella H.A., all'opera di interpolatori che avrebbero modificato, nel V secolo,
il contenuto della prima redazione dell'opera, risalente, a suo modo di vedere, al 330. Il XX secolo
fu caratterizzato dalle prese di posizioni pro o contro le opposte tesi, e mentre per l'arco di tempo
della composizione dell'opera le congetture oscillano tra il 392 il 423 (per quest'ultima datazione
propende Johannes Straub, per il 420 Santo Mazzarino). Per quanto riguarda l'autore o gli autori, si
è sempre più diffusa fra gli studiosi la convinzione che a comporla fosse stato soltanto un biografo.
Rimette tutto in discussione Arnaldo Momigliano con un invito alla comunità scientifica a
riconsiderare l'insieme della problematica venutasi sempre più a stratificarsi attorno a ipotesi che,
per quanto suggestive, privilegiano più spesso soluzioni di fantasia discostandosi dai dati reali dei
singoli problemi.

Per ciò che riguarda il problema della paternità dell'opera e l'epoca di composizione, studi recenti
mostrano, uniformità di stile in buona parte dell'opera, orientando la quasi totalità degli eruditi
contemporanei verso l'accettazione della teoria che a comporre l'opera sia stato un singolo autore,
tardo e di identità sconosciuta, anche se l'analisi stilistica del lavoro, effettuata con l'ausilio del
computer ha dato risultati incerti: alcuni elementi di stile, infatti, sono abbastanza uniformi in tutta
l'opera, rendendo legittima l'ipotesi di un unico biografo, mentre altri variano in una direzione che
ne suggerisce la molteplicità. In merito alla individuazione degli obbiettivi della Historia c'è da dire
che le opinioni, fino al XX secolo, sono, nella loro non univocità, settoriali: per alcuni si tratta di un
lavoro di pura evasione o di satira, concepito al solo scopo di intrattenere, per altri, invece, esso è un
attacco di parte pagana contro il Cristianesimo che induce l'autore a celare la sua identità per motivi
di sicurezza personale. Una lettura più attenta ha indirizzato però gli studiosi su una tematica
decisiva, in quanto presente e costantemente portata avanti in ogni biografia.

I modelli ai quali si ispira


Che nell'opera si riscontrino queste caratteristiche messe assieme è cosa abbastanza evidente, tanto
più che essa, nel complesso, si presenta come cronaca della vita, soprattutto privata, degli
imperatori, aderendo, ma in modo esagerato, dichiaratamente, al modello svetoniano, a cui si era già
ispirato Mario Massimo, discostandosene, però, quest'ultimo alquanto, per aver messo in netta
preminenza, rispetto al dato storico a cui invece si atteneva Svetonio, il lato privato e domestico, il
pettegolezzo di corte, fine a sé stesso, sino alla calunnia: in merito vedasi il trattamento, per aver
tolto ai senatori il comando delle legioni affidandolo al ceto equestre, riservato a Gallieno, buon
imperatore secondo altre fonti. Pertanto l'autore (o gli autori) della Historia Augusta pur prendendo
le mosse da Svetonio, nello sviluppo delle argomentazioni fa riferimento, si basa e segue Mario
Massimo, citato come fonte ben 18 volte e della cui opera non ci rimane altro. Di fondamentale
importanza è la testimonianza dello storico Ammiano Marcellino, fra altre, il quale sostiene che
l'opera di Mario Massimo dilettasse parecchio i suoi lettori: altro che Sallustio, Livio e Tacito,
storici accurati e severi, all'epoca in cui fu scritta la Historia Augusta, e ancor prima, a tenere banco,
tra gli aristocratici era proprio l'opera storica, o per meglio dire, romanzesca di Mario Massimo,
unitamente alle satire di Giovenale, autore quest'ultimo quasi dimenticato, prima di questo periodo,
e ritornato di gran moda in seguito, probabilmente, ai commenti che ne fece il grammatico Servio.

Contenuto della lista degli imperatori narrati


Dinastia degli Antonino Antonini

Regno
Ritratto Nome Nascita Morte Note
Inizio Fine
Non è chiaro se fu mai
Adriano
adottato ufficialmente
Publio Elio 24 11
10 luglio morte da Traiano (forse fu
Adriano gennaio agosto naturale
138 scelto dall'augusta
Publio Elio 76 117
Plotina, vedova di
Traiano Adriano
Traiano)
Antonino Pio
Tito Aurelio Fulvo Figlio adottivo di
19
Boionio Arrio 10 luglio 7 marzo morte Adriano; primo della
settembre naturale
Antonino 138 161 dinastia degli
86
Tito Elio Adriano Antonini
Antonino
Figlio adottivo di
Antonino Pio, nonché
suo genero e nipote;
Marco Aurelio regnò assieme a Lucio
Marco Annio Vero sino al 169, e
Catilio Severo 26 aprile 17 marzo insieme a Commodo a
malattia
Marco Annio Vero 121 180 partire dal 177;
Marco Aurelio secondo della dinastia
Antonino degli antonini.
7 marzo Gaio Avidio Cassio
161 usurpatore in Siria nel
175

Figlio adottivo di
Lucio Vero 15 ictus
gennaio Antonino Pio;
Lucio Ceionio dicembre oppure
169 peste regnò assieme a
Commodo Vero 130
Marco Aurelio
Figlio di Marco
Commodo Aurelio;
31
Marco Aurelio 31 agosto 17 marzo regnò insieme al padre
dicembre assassinato
Commodo 161 180 dal 177 al 180. Terzo
192
Antonino e ultimo degli
antonini.

Guerra civile romana (193)

Regno
Ritratto Nome Nascita Morte Note
Inizio Fine
Pertinace 1º Comandante militare,
1º agosto 28 marzo assassinato
Publio Elvio gennaio dai scelto dal Senato e
126 193 pretoriani
Pertinace 193 dalle legioni.

Acquistò il titolo dai


assassinato pretoriani e fu
Didio Giuliano 30 1º
28 marzo da un riconosciuto
Marco Didio gennaio giugno sicario del
193 inizialmente anche dal
Severo Giuliano 133 193 Senato Senato, ma non dalle
legioni

Declino del Principato (193-284)

Dinastia dei Severi (193-235)

Regno
Ritratto Nome Nascita Morte Note
Inizio Fine
Conquistò il potere in
lotta con Pescennio
Nigro (193-194) e
Settimio Severo 4 con Clodio Albino
11 aprile 9 aprile morte
Lucio Settimio febbraio naturale
(193-197),
146 193
Severo 211 quest'ultimo
inizialmente associato
al potere come
Cesare

Caracalla assassinato Figlio di Settimio


Lucio Settimio 4
4 aprile 8 aprile durante Severo;
Bassiano febbraio una
188 217 spedizione fu associato al trono
Marco Aurelio 211
in Partia dal padre nel 209
Severo Antonino
Figlio di Settimio
Geta 19 assassinato
7 marzo Severo;
Publio Settimio dicembre dal fratello
189 Caracalla fu associato al trono
Geta 211
dal padre nel 209

Macrino
8 aprile giugno Non dinastico, era
Marco Opellio 164 circa assassinato
217 218 prefetto del pretorio
Macrino
Associato al trono
Diadumeniano
giugno Figlio e co-augusto di
Marco Opellio 200 circa 218 assassinato
218 Macrino
Antonino
Diadumeniano

Eliogabalo assassinato
a Roma Regnò sotto la tutela
Sesto Vario Avito 16
20 marzo 11 marzo insieme della nonna Giulia
Bassiano maggio alla madre
204 222 Mesa e della madre
Marco Aurelio 218 Giulia Giulia Soemia
Antonino Soemia

Alessandro assassinato
Severo Cugino di Eliogabalo,
1º 18/19 a Magonza
Marco Bassiano 13 marzo insieme da questi adottato.
ottobre marzo alla madre
Alessiano 222 Regnò con la madre
208 235 Giulia
Marco Aurelio Giulia Mamea
Mamea
Severo Alessandro

Anarchia militare fino a Gallieno (235-268)

Lo stesso argomento in dettaglio: Crisi del III secolo.

Regno
Ritratto Nome Nascita Morte Note
Inizio Fine

Primo imperatore di
origine barbarica e
Massimino Trace 10
173 20 marzo che non venne mai a
Gaio Giulio Vero maggio assassinato
circa 235 Roma, essendo
Massimino 238
impegnato in guerra.
Nel 238 fu dichiarato
dal Senato "nemico
pubblico"

Gordiano I
Marco Antonio
159 fine aprile Regnò insieme al
Gordiano suicida
circa 238 figlio, Gordiano II
Semproniano
Romano Africano 22 marzo
238

Gordiano II
Marco Antonio
192 12 aprile caduto in Regnò insieme al
Gordiano battaglia
circa 238 padre, Gordiano I
Semproniano
Romano Africano

Pupieno
170
Marco Clodio
circa
Pupieno Massimo

Pupieno e Balbino
1º 11 assassinati
furono eletti dal
febbraio maggio dai
pretoriani Senato e regnarono
238 238
insieme
Balbino
178
Decimo Celio
circa
Calvino Balbino

caduto in
battaglia
oppure
Gordiano III 20 11 assassinato Figlio di Antonia
29 luglio
Marco Antonio gennaio febbraio dal Gordiana, figlia di
238 prefetto
Gordiano Pio 225 244 Gordiano I
del
pretorio
Filippo

Marco Silbannaco
usurpatore in
Germania nel 248;
Filippo l'Arabo Tiberio Claudio
204 febbraio primavera caduto in
Marco Giulio battaglia
Marino Pacaziano
circa 244 249
Filippo usurpatore in Mesia e
Pannonia nel 248-
249;
Marco Fulvio Rufo
Iotapiano usurpatore
in Siria nel 249
Associato al trono
Filippo II 238 primavera assassinato Figlio e co-augusto di
247 dai
Marco Giulio circa 249 pretoriani Filippo l'Arabo
Severo Filippo

Tito Giulio Prisco


Decio usurpatore in
Gaio Messio 201 primavera 1º luglio caduto in Macedonia nel 250;
Quinto Traiano circa 249 251 battaglia Giulio Valente
Decio Liciniano usurpatore
a Roma nel 250

Associato al trono
Erennio Etrusco
220 1º luglio caduto in Figlio e co-augusto di
Quinto Erennio 251 battaglia
circa 251 Decio
Etrusco Messio
Decio

Treboniano Lucio Giulio Sulpicio


assassinato
Gallo 206 1º luglio agosto Uranio Antonino
dai
Gaio Vibio circa 251 253 pretoriani usurpatore in Siria nel
Treboniano Gallo 253-254

Associato al trono
Ostiliano Figlio di Decio e co-
230 1º luglio novembre
Gaio Valente peste augusto di
circa 251 251
Ostiliano Messio Treboniano
Quinto

Associato al trono
Volusiano
assassinato
Gaio Vibio Afinio novembre agosto Figlio e co-augusto di
? dai
Gallo 251 253 pretoriani Treboniano
Veldumniano
Volusiano
Emiliano
207 luglio settembre assassinato
Marco Emilio dai suoi
circa 253 253 soldati
Emiliano

Usurpatori:
In Pannonia: Ingenuo
(258-260) e Regaliano
(263)
morto in
In Egitto: Mussio
circostanze
Emiliano (258-259)
Valeriano aprile o mai
In Siria: Macriano
200 settembre verificate,
Publio Licinio maggio prigioniero
Maggiore, Macriano
circa 253 Minore e Quieto (260-
Valeriano 260 dal re
261)
sasanide
In Rezia: Aureolo (268)
Sapore I
Nelle Gallie: Postumo
(259-268), Leliano (268),
Aurelio Mario (268) e
Vittorino (268-271)
Figlio di Valeriano,
regnò insieme al
padre fino alla sua
Gallieno
ucciso a cattura;
Publio Licinio 218 fine 253 268 tradimento nominò correctior
Egnazio Gallieno
totius Orientis
Settimio Odenato di
Palmira (260-267)
Associato al trono
Figlio di Gallieno,
Cornelio
non è chiaro se sia
Valeriano ucciso a
? 258 circa tradimento
stato o meno co-
Publio Licinio
augusto di suo padre
Cornelio
e di suo nonno
Valeriano
Associato al trono
Cornelio
Salonino Figlio di Gallieno e
243
Publio Licinio 260 circa assassinato co-augusto di suo
circa
Cornelio padre e di suo nonno
Valeriano
Salonino

Imperatori illirici (268-284)

Regno
Ritratto Nome Nascita Morte Note
Inizio Fine
10
Claudio il Gotico settembre Marco Piavonio
maggio luglio
Marco Aurelio o ottobre peste Vittorino usurpatore
213 o 270
Claudio 268 nelle Gallie (268-271)
214

Quintillo
forse Fratello di Claudio;
Marco Aurelio 220 circa 270 suicida fu deposto
Claudio Quintillo

Dopo la morte, vi fu
un interregno di due
mesi in cui l'impero
venne probabilmente
governato dalla
vedova, l'augusta
Ulpia Severina[1]
Aureliano 9 25 Usurpatori:
Lucio Domizio settembre 270 settembre assassinato Nelle Gallie: Vittorino
(268-271), Domiziano II
Aureliano 214 275 (271 ?), Tetrico I (271-
274), Tetrico II (271-274)
e Faustino (273-274)
In Dalmazia: Settimio
(271-272)
In Siria e in Oriente:
Vaballato, figlio di
Zenobia di Palmira (271-
274)

Tacito forse
novembre giugno avvelenato
Marco Claudio 200 circa o
275 276
Tacito soffocato

Floriano
giugno agosto assassinato Probabilmente
Marco Annio ? dai suoi
276 276 soldati fratellastro di Tacito
Floriano
Usurpatori in Gallia:
Tito Ilio Proculo
Probo settembre ucciso in (280) e Gaio Quinto
9 agosto agosto
Marco Aurelio o ottobre una rivolta Bonoso (280);
232 276 militare
Probo 282 usurpatore in Asia:
Gaio Giulio Saturnino
(280)

Caro settembre luglio o malattia


Marco Aurelio 230 circa o ottobre agosto oppure
Caro 282 283 incidente

Figlio di Caro;
Carino regnò in Occidente;
luglio caduto in
Marco Aurelio 250 circa battaglia
Giuliano usurpatore
285
Carino in Pannonia
luglio o (284/285)
agosto
283
Numeriano
Marco Aurelio novembre assassinato Figlio di Caro;
254 circa da Arrio
Numerio 284 Apro regnò in Oriente
Numeriano

Il vero filo conduttore


Dall'incertezza generale, che tuttavia caratterizza l'intera opera, emerge un unico dato sicuro: essa è,
senz'ombra di dubbio, espressione dell'opposizione senatoria all'istituto imperiale del quale si dà
una rappresentazione ora banalizzata, con l'indugiare su particolari a volte esageratamente falsi e in
ogni caso tendenziosi, che riguardano la vita privata dei singoli imperatori, ora un resoconto a
fosche tinte con descrizioni aventi per oggetto la crudelitas, l'ebrietas e tutta la sequela delle umane
aberrazioni: e ogni qual volta qualche notizia era estremamente esagerata fino all'inverosimile, se ne
attribuiva la paternità a un certo Cordus, storico, si fa per dire, non altrimenti noto, sicuramente ad
hoc inventato. La controprova che il filo conduttore dell'opera sia da ricercare nell'avversione
all'istituto imperiale sta nel fatto che pochi imperatori, come Settimio Severo e Marco Aurelio
Probo sono oggetto di lodi, lodi che danno agli autori (o all'autore) occasione di parlare di un
ritorno dei vecchi tempi, sotto forma di laudatio temporis acti (rimpianto del tempo passato), di
quella res publica romana dei tempi d'oro, quando a decidere delle sorti dello stato era la
prestigiosa classe senatoria e non il capriccio o l'estrosità, come spesso è dato leggere in
quest'opera, degli odiati imperatori: persino i rigidi appartenenti alla gens Catoniana, dice l'autore
della Historia Augusta, sarebbero stati lieti di vivere sotto i suddetti imperatori, lodati per il loro
comportamento deferente nei confronti del senato.

E, a ben considerare, l'atteggiamento ostile della classe senatoria nei confronti dell'istituto imperiale
trovava una sua motivazione precisa, dovuta al fatto che in epoca repubblicana il ruolo di guida
dello stato era esclusivamente nelle mani dell'aristocrazia senatoriale, e con esso tutta una serie di
interessi che vedeva cointeressati alcuni clan di una ristretta oligarchia nella spartizione di incarichi,
altamente remunerativi, sia in patria che soprattutto in territorio provinciale; i sudditi, paragonati a
pecore da tosare a zero, erano spesso sottoposti a gravami e soprusi di ogni genere tali da generare
malcontenti e da alimentare movimenti di ribellione: nella migliore delle ipotesi i provinciali
avevano la possibilità di denunciare i governatori di province corrotti che, appartenendo alla classe
aristocratica, venivano sistematicamente assolti da tribunali le cui giurie, se si eccettua qualche
decennio, erano rigorosamente di estrazione aristocratica. Ma questo era solo uno degli aspetti:
l'oligarchia senatoria dei tempi d'oro della repubblica aveva un potere illimitato e distribuiva cariche
onori e incarichi avendo il delicato compito di condurre la direzione della politica sia interna che
estera.

La svolta augustea, il declino e il risentimento dell'ordine


senatorio
Con l'avvento dell'impero vennero meno al senato quasi tutte queste prerogative, pur se
formalmente continuava a svolgere il proprio ruolo. Ma da Augusto in poi, il suo prestigio e
soprattutto il suo potere decisionale subì un improvviso drastico ridimensionamento. Una serie di
provvedimenti presi da Augusto in materia di governatorato delle province che gli garantivano il
controllo degli eserciti, rese inoffensivo il consesso senatorio, ridotto a mite e mero strumento di
approvazione della volontà del sovrano in ogni campo della vita pubblica. Stretto nella dura morsa
tra l'imperatore da una parte e l'esercito, a questi fedelissimo, dall'altra, il senato perdette
progressivamente il suo ruolo e dovette accontentarsi di svolgere compiti subordinati al volere e
spesso al capriccio di imperatori non sempre illuminati. Costretta a subire, la classe senatoria trovò
modo di sfogare tutto il suo risentimento in opere pseudo storiche quale quella, come detto di Mario
Massimo che, prendendo le mosse da Svetonio, ma solo per ciò che riguardava l'aspetto della vita
privata degli imperatori, ridicolizzava e colpevolizzava gli imperatori per i mali dai quali era affetto
l'Impero, nell'approssimarsi del proprio declino.

E a Mario Massimo, come già detto, molto deve la Historia Augusta soprattutto per ciò che di
infamante, di ridicolo, di falso e anche di tragicamente vero nei confronti di taluni imperatori si
potesse dire. Rimarrebbe da parlare della presenza di parecchie ed evidenti contraddizioni interne
nella Historia Augusta, di cui qui non è il caso nemmeno di far cenno, e per il cui approfondimento
si rimanda il lettore all'introduzione al lavoro di Paolo Soverini citato, qui appresso, in bibliografia.
La H. A. continua ad essere ancora al centro di importanti convegni che annualmente si tengono su
tematiche che ne riguardano esclusivamente i molteplici aspetti.

APPIANO

Appiano di Alessandria (in greco antico: Ἀππιανὸς Ἀλεξανδρεύς, Appianòs Alexandreýs; in latino:
Appianus Alexandrinus; Alessandria d'Egitto, 95 circa – 165 circa) è stato uno storico e filosofo
greco antico del periodo romano, vissuto durante i regni di Traiano, Adriano e Antonino Pio.

Visse in Egitto e a Roma, fu avvocato ed ottenne la carica di procuratore nella provincia


d'Alessandria ed Egitto.

Indice
 1 Biografia
 2 Opere
 3 Note
 4 Bibliografia
 5 Altri progetti
 6 Collegamenti esterni

Biografia
Non sono molte le notizie relative alla vita di Appiano, perché la sua autobiografia, menzionata alla
fine della prefazione della sua opera, è andata perduta.

Le uniche informazioni su Appiano che abbiamo oggi provengono, dunque, dai suoi scritti e una
lettera dal suo amico Marco Cornelio Frontone.[1] Allo stato, è certo che Appiano fosse nato intorno
all'anno 95 d.C. ad Alessandria d'Egitto e che si sarebbe trasferito intorno al 120 a Roma, dove
divenne un avvocato.

In seguito, Appiano sarebbe tornato in Egitto, almeno fino alla fine del regno di Traiano (117).
Nella lettera di Cornelio Frontone, viene rivelato che una richiesta per conto di Appiano per
ricevere il rango di Procuratore si è verificato durante la co-reggenza di Marco Aurelio e Antonino
Pio, tra 147 e 161. Anche se Appiano ottenne questo incarico, non è chiaro se sia stato un vero e
proprio lavoro o un titolo onorifico. Questo il testo della lettera:

« <Antonino Pio Augusto Fronto>.


1
<Accepi, Caesar>

equitis Romani unius contubernalis mei Sexti Calpurnii dignitatem rogatu meo exornasti
duabus iam procurationibus datis. Ea ego duarum procurationum beneficia quater numero: bis
cum dedisti procurationes itemque bis cum excusationes recepisti.
2
Supplicavi tibi iam per biennium pro Appiano amico meo, cum quo mihi et vetus consuetudo
et studiorum usus prope cotidianus intercedit. Quin ipsum quoque certum habeo et adfirmare
ausim eadem modestia usurum, qua Calpurnius Iulianus meus usus est. Dignitatis enim suae
in senectute ornandae causa, non ambitione aut procuratoris stipendii cupiditate optat adipisci
hunc honorem. Quom primum pro Appiano petivi, ita benigne admisisti preces meas, ut
sperare deberem.
3
Proximo superiore anno petenti mihi propitius multa respondisti, illud vero etiam comiter,
futurum ut, cum Appiano me rogante procurationem dedisses, causidicorum scatebra
exoreretur idem petentium. Meministi etiam quem de Graecia propitius et ridens nominaveris.
Sed multa distant: Aetas, orbitas, cui leniendae solaciis opus est. Ausim dicere honestatem
quoque et probitatem inter duos bonos viros nonnihil tamen distare; quod propterea facilius
dico, quoniam illum, cui amicum meum antepono, non nominavi.
4
Postremo dicam, quomodo simplicitas mea et veritas me dicere hortantur et fiducia amoris
erga te mei, profecto aequius esse illum quoque propter me impetrare. Memento etiam,
domine imperator, cum ille meo exemplo petet, me biennio hoc petisse: igitur illei quoque, sei
videbitur, post biennium dato. Fecerit exemplo nostro, si ipse quoque se tibi impetraverit
excusare. »
(Ad Antoninum Pium, X[1])

Nell'introduzione alla sua Storia romana, inoltre, si vanta di aver perorato varie cause davanti agli
imperatori, probabilmente Antonino Pio e Marco Aurelio.
Opere
Lo stesso argomento in dettaglio: Storia romana (Appiano).

 Autobiografia: perduta, citata nella prefazione alla sua Storia Romana.


 Storia romana: L'opera principale di Appiano, nonché l'unica conservatasi, è la Storia
Romana (Ῥωμαικά), in 24 libri, conclusa intorno al 160 d.C. In essa, che è più un insieme di
scritti monografici che un'opera unitaria, egli espone la storia di Roma dalle origini alla
morte dell'imperatore Traiano (98-117).

CASSIO DIONE

Lucio Cassio Dione (Cocceiano?)[1] (in latino: Lucius Claudius Cassius Dio (Cocceianus?); Nicea,
155[2] – 235[3][4]) è stato uno storico e senatore romano di lingua greca, noto principalmente come
Cassio Dione o Dione Cassio.

Biografia
Figlio di Cassio Aproniano, un senatore romano, nacque a Nicea in Bitinia. Stando a fonti
epigrafiche, il suo praenomen sarebbe stato Lucius. Il suo nome gentilizio era Cassio, e assunse gli
altri due nomi (cognomen e agnomen) in onore del nonno materno Dione Crisostomo, che per primo
aveva portato il cognome di Cocceiano dal suo prottettore Cocceio Nerva.[5] Quindi, benché fosse
da parte di madre di discendenza greca e benché, nei suoi scritti, abbia adottato in prevalenza la
lingua greca della sua provincia natale, deve essere considerato come un romano, in quanto
cittadino romano e senatore.[6] Altre fonti epigrafiche aggiungono il nomen "Claudio".[7] Secondo
un'altra interpretazione,[8] "Claudio" sarebbe il praenomen, mentre l'agnomen "Cocceiano"
deriverebbe da una errata tradizione bizantina che lo confondeva con lo zio. La questione sul suo
nome rimane controversa, e gli unici punti saldi sono i nomi Cassio e Dione.

Cassio Dione ha passato la maggior parte della sua vita nel servizio pubblico. Fu senatore sotto
Commodo e governatore di Smirne dopo la morte di Settimio Severo. In seguito fu console suffetto
verso il 205, e proconsole in Africa e in Pannonia. Alessandro Severo lo tenne in grande stima e lo
fece eleggere console per la seconda volta, nel 229 insieme a lui, benché la Guardia pretoriana,
irritata contro di lui per la sua severità, avesse richiesto la sua testa. Dopo il suo secondo consolato,
raggiunta la vecchiaia, si ritirò nel suo paese natale, dove morì.

Opere
Lo stesso argomento in dettaglio: Storia romana (Cassio Dione).

Cassio Dione pubblicò una Storia romana in ottanta libri, scritti in lingua greca, frutto delle sue
ricerche e del lavoro di ventidue anni. Abbracciava un periodo di 983 anni, dall'arrivo di Enea in
Italia e la successiva fondazione di Roma fino al 229. Fino al periodo di Giulio Cesare, egli dà solo
un resoconto degli eventi. Dopo, invece, entra più nei particolari, e a partire dal periodo di
Commodo è molto più attento e accurato.
Ci sono rimasti frammenti dei primi trentasei libri: ma c'è una parte considerevole del
trentacinquesimo libro, sulla guerra di Lucullo contro Mitridate e del trentaseiesimo, sulla guerra
contro i pirati e la spedizione di Pompeo Magno contro il re del Ponto. I libri che seguono, fino al
LIV compreso, sono quasi tutti completi: riguardano il periodo dal 65 a.C. al 12 a.C., o dalla
campagna orientale di Pompeo e la morte di Mitridate alla morte di Marco Vipsanio Agrippa. Il
libro LV presenta una considerevole lacuna. Dal cinquantasei al sessanta, entrambi inclusi, che
comprendono il periodo dal 9 al 54, sono completi e contengono gli eventi dalla sconfitta di Varo in
Germania alla morte di Claudio. Dei seguenti venti libri abbiamo soltanto frammenti ed un magro
compendio di Giovanni Xifilino, un monaco dell'XI secolo. L'ottantesimo ed ultimo libro
comprende il periodo da 222 al 229, durante il principato di Alessandro Severo. Il compendio di
Xifilino conservato comincia con il trentacinquesimo e continua alla fine dell'ottantesimo libro. È
molto mediocre e fu composto per ordine dell'imperatore Michele VII Parapinace.

I frammenti dei primi trentasei libri, come sono ora raccolti, sono di quattro generi:

1. Fragmenta Valesiana, come erano dispersi tra vari scrittori, scoliasti, grammatici e
lessicografi, ecc. e che sono stati raccolti da Henri de Valois.
2. Fragmenta Peiresciana, contenente grandi estratti, trovati nella sezione intitolata "Delle
virtù e dei vizi," nella grande raccolta o biblioteca portatile compilata per ordine di
Costantino VII Porfirogenito. Il manoscritto è appartenuto a Nicolas-Claude Fabri de
Peiresc, uno studioso del XVII secolo.
3. Frammenti dei primi del 34 libri, conservati nella seconda sezione dello stesso lavoro di
Costantino, intitolati "Delle ambasciate." Questi sono conosciuti con il nome di Fragmenta
Ursiniana, perché il manoscritto che le contiene fu trovato in Sicilia da Fulvio Orsini.
4. Excerpta Vaticana, raccolti da Angelo Mai, che contengono frammenti dei libri dall'uno al
trentacinque e dal sessantuno all'ottanta. A questi sono aggiunti i frammenti di un
continuatore sconosciuto di Dione, che arriva fino al periodo di Costantino I. Altri
frammenti di Dione, che appartengono principalmente ai primi trentacinque libri, sono stati
trovati da Mai in due MSS Vaticani e contengono l'antologia di Planude. Gli annali di
Giovanni Zonara contengono inoltre numerosi estratti da Cassio Dione.

Lo stile
Cassio Dione ha preso Tucidide a suo modello, ma l'imitatore non è paragonabile con l'originale
nella disposizione e nella distribuzione dei materiali o nella solidità della visione e nel
ragionamento accurato. Il suo stile è generalmente chiaro, almeno dove non sembra che ci sia
corruzione del testo, tuttavia pieno di latinismi. La sua diligenza è fuor di dubbio e grazie alle sue
opportunità è ben informato delle circostanze dell'impero durante il periodo in cui è un
contemporaneo.

AMMIANO MARCELLINO

« Queste vicende, da ex militare e da greco, ho esposto secondo la misura delle mie forze, a
partire dal principato dell'imperatore Nerva, fino alla morte di Valente; mai - credo -
scientemente ho osato corrompere con silenzi o menzogne la mia opera, che fa professione di
verità. Il resto lo scriva chi di me è più bravo, nel fiore dell'età e della cultura. »
(Ammiano Marcellino, Rerum gestarum libri, XXXI, 16, 9)
Frontespizio di un'edizione del 1533 delle Storie di Marcellino

Ammiano Marcellino (in latino: Ammianus Marcellinus; Antiochia di Siria, 330 - 332 circa –
Roma, attorno al 397 ma prima del 400) è stato uno storico romano di età tardo-imperiale. Sebbene
nato in Siria nel seno di una famiglia ellenofona, scrisse la sua opera interamente in latino. È il
maggiore degli storici romani del IV secolo la cui opera sia stata preservata, seppure in parte. I suoi
Rerum gestarum libri XXXI, o semplicemente Res gestae, descrivono gli anni che vanno dal 96 al
378, continuando l'opera del grande storico Tacito.

Indice
 1 Biografia
o 1.1 Nascita
o 1.2 Carriera militare
o 1.3 Gli anni romani
 2 Opera letteraria
 3 Critica moderna
 4 Note
 5 Bibliografia
 6 Altri progetti

Biografia
Nascita

Non si conosce né la sua data di nascita né quella di morte con precisione. Il suo luogo di nascita fu
quasi certamente la città di Antiochia, in Siria,[1] anche se alcuni storici, fra cui Charles W. Fornara,
hanno recentemente avanzato dei dubbi in proposito. Tali dubbi si fondano sulla supposizione che
le sue origini siano menzionate solo in una lettera inviatagli nel 392 dal suo concittadino Libanio
che, secondo gli storici citati, non era probabilmente diretta ad Ammiano Marcellino bensì ad altro
destinatario non ben identificato (anch'egli di nome Marcellino e originario di Antiochia). La
missiva in questione, che si è sempre ritenuto indirizzata ad Ammiano,[2] non è tuttavia l'unica
prova del suo luogo di origine, come hanno messo in evidenza John Matthews e Guy Sabbah nel
rispondere alle critiche menzionate.[3]

Carriera militare

Obelisco di Teodosio: alti ufficiali con un torque che riporta un emblema a forma di cuore. Nella
Notitia dignitatum degli emblemi simili sono riportati sugli scudi dei protectores domestici, di cui
Ammiano Marcellino era membro.

«Militare e greco», si autodefinì Ammiano nelle sue Storie[4], ma allo stesso tempo si sentì sempre e
profondamente romano, convinto come pochi altri della missione civilizzatrice di Roma e del suo
impero. Scrive di lui uno storico francese: «...Si forgiò un'anima tutta romana, costituendosi, in
qualche modo, difensore di una civiltà che appariva tanto più preziosa quanto più si trovava
minacciata...».[5] La sua iscrizione fra l'élite dei protectores domestici mostra che era nobile di
nascita. Entrò nell'esercito in giovane età, sotto l'imperatore Costanzo II, e venne distaccato alle
dirette dipendenze di Ursicino, governatore di Nisibis nella Mesopotamia romana e magister
militum.

Fu inviato in Italia con Ursicino quando questi fu richiamato da Costanzo e lo accompagnò nella
spedizione contro Claudio Silvano, che era stato spinto, per una ingiusta accusa dei suoi nemici, a
proclamarsi imperatore in Gallia. Con Ursicino si recò per due volte nell'Oriente romano ed a
malapena riuscì a fuggire, salvando la vita da Amida (la moderna Diyarbakir in Turchia) allorché fu
espugnata dal re persiano Sapore II. Quando Ursicino perse, a seguito della caduta della città, il
proprio incarico ed il favore di Costanzo, sembra che Ammiano ne abbia condiviso la caduta
abbandonando l'esercito. Con l'ascesa al potere di Giuliano, che egli stesso aveva precedentemente
conosciuto in Gallia nelle campagne contro gli Alamanni e che era succeduto a Costanzo come
imperatore, riacquistò tuttavia i propri gradi e posizione. Prese parte al seguito di Giuliano, per il
quale espresse profonda ammirazione, alla tentata conquista della Persia sasanide e, dopo la morte
dell'imperatore, fu coinvolto nella ritirata di Gioviano fino ad Antiochia.

Gli anni romani

Lasciato definitivamente il servizio attivo nell'esercito risedette in questa e in altre città dell'Oriente
romano (fra cui, per un breve periodo, anche ad Atene), fino a quando, attorno al 380, si trasferì a
Roma. Quivi trascorse il resto della sua esistenza, occupandosi della redazione del proprio
capolavoro (Res Gestae) e della diffusione dei suoi contenuti mediante letture pubbliche, il cui
successo provocò l'ammirazione di Libanio che, nella già citata epistola del 392, inviata da
Antiochia, ebbe parole di elogio per lo storico. Non si conosce con certezza né il luogo né l'anno
della morte di Ammiano. Secondo alcune fonti Ammiano sarebbe stato ancora in vita nel 397, anno
in cui, verosimilmente, terminò di scrivere le Res Gestae,[6], secondo altre, non sarebbe
probabilmente deceduto prima del 400.[7]
Opera letteraria
I libri della sua storia giunti fino a noi riguardano gli anni 353 - 378 e costituiscono la fonte più
affidabile ed importante riguardo a quel periodo.

L'opera, nota sia con il titolo latino di Res Gestae (da non confondere tuttavia con le Res Gestae
Divi Augusti) sia con quello di Storie, fu scritta dopo il trasferimento dello storico a Roma agli inizi
degli anni ottanta del IV secolo e divulgata tramite letture pubbliche, come già si è accennato, nel
decennio successivo. In essa venivano prese in esame le vicende dell'impero romano dall'ascesa di
Nerva (96) alla morte di Valente nella Battaglia di Adrianopoli (378). Tale Storia, nelle intenzioni
dell'autore, doveva costituire la continuazione del lavoro portato a termine circa tre secoli prima da
Tacito. Le Rerum Gestarum Libri XXXI si articolavano originalmente, come appare evidente dal
titolo, in trentuno libri, ma i primi tredici sono andati perduti. I rimanenti diciotto libri riguardano il
periodo compreso dal 353 al 378. Nell'insieme è stata ed è tuttora considerata un'opera di
eccezionale valore storico e documentario e un resoconto libero, completo ed imparziale degli
eventi, scritti da un protagonista dotato di onestà intellettuale, preparazione militare, giudizio
indipendente e ampie letture. Gli studi recenti hanno anche messo in luce la forza retorica della sua
narrazione.

Le Storie di Ammiano, dato il periodo preso in esame, possono essere anche viste come un lungo
prologo alla narrazione della guerra contro i Goti, culminata, nel 378, con la disastrosa sconfitta
militare di Adrianopoli subita dall'imperatore Valente, rimasto ucciso nel corso della battaglia, che
causò una profonda impressione nell'autore e in tutto il mondo romano. Pochi decenni più tardi,
dopo un'effimera ripresa prodottasi durante il regno di Teodosio I (379-395) e l'età di Stilicone
(395-408), in Occidente sarebbe iniziato un processo di smembramento irreversibile che avrebbe
portato alla piena indipendenza i vari stati indipendenti romano-germanici che si erano andati
costituendo al suo interno e che saranno all'origine dell'Europa moderna, mentre in Oriente si
sarebbe col tempo sviluppato un impero romano-greco o bizantino. Ammiano ci descrive una
romanità ancora vigorosa e unitaria in cui egli stesso continuava a riporre le proprie speranze ma in
cui si intravvedevano già i segni del futuro disfacimento: l'eccessiva pressione fiscale, la decadenza
economica e finanziaria delle classi medie e, soprattutto, il declino progressivo dello spirito militare
e patriotico di un esercito costituito in gran parte da barbari.

Ammiano, profondo interprete dei suoi tempi, concentra la sua opera intorno alla figura
dell'imperatore e degli alti dignitari intorno a lui: i funzionari, i generali, l'aristocrazia. Il popolo
rimane sullo sfondo ed è guardato con disprezzo. L'autorità dei potenti è celebrata con venerazione
quando si astiene dall'avversare i privilegi dell'aristocrazia. Si rispecchia qui una società avviata
verso la scomparsa delle classi medie e con un popolo ridotto a servitù della gleba (struttura che
sarà caratteristica dell'Alto Medioevo). La società rappresentata ha costumi barbarico-feudali, dove
dominano ferocia, violenza, malafede, tradimenti, agguati, torture, delazione, sospetti, adulazioni e
mormorazioni dei potenti cortigiani, denunce degli agentes in rebus ("agenti in missione", il
servizio di spionaggio). In Ammiano gli uomini sono soggetti ad impulsi irrazionali e mutevoli e
tutti gli eventi del mondo sono sotto il dominio dell'irrazionale, del magico, del demoniaco, della
magia, dell'astrologia. Egli accoglie altresì nella sua opera dottrine che vanno dal fatalismo al
neoplatonismo.[8]

Critica moderna
Lo storico del XVIII secolo, Edward Gibbon, ha così giudicato Ammiano:
(EN) (IT)

« an accurate and faithful guide, who « una guida esatta e degna di fede, che ha
composed the history of his own times composto la storia del suo tempo senza
without indulging the prejudices and indulgere nei pregiudizi e nelle passioni che
passions which usually affect the mind of a affliggono solitamente la mente di un
contemporary » contemporaneo »
(Edward Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire[9])

Benché Ammiano fosse un pagano, egli, nella sua opera, scrive del Cristianesimo senza alcuna
animosità. Particolarmente importante è la testimonianza che ci fornisce della persecuzione dei
difensori della definizione di Nicea da parte dell'imperatore Costanzo, cristiano ma di confessione
ariana, sia per i fatti narrati sia per il ruolo di assoluto rilievo ricoperto dal vescovo di Roma
(all'epoca della persecuzione, papa Liberio). Il Papa veniva fin da allora percepito dallo storico e dai
suoi contemporanei come la massima autorità ecclesiastica, sia nell'Occidente che nell'Oriente
romano.

Lo stile di Ammiano, molto elaborato, spesso ricercato, e non sempre di agevole interpretazione,
presenta tuttavia, come si è già accennato, un notevole vigore retorico e una grande espressività.
Dobbiamo a tale proposito ricordare che la sua opera era stata progettata per una pubblica lettura e
che questa richiedeva spesso l'uso dei necessari abbellimenti retorici, anche a scapito, talvolta, della
linearità narrativa. Alcune costruzioni e locuzioni utilizzate da Ammiano tradiscono inoltre
l'influsso della lingua e della cultura elleniche.

Ammiano, benché militare di carriera, è riuscito ad analizzare con notevole spirito critico i problemi
sociali ed economici che travagliavano il mondo romano del tempo. Il suo approccio verso le
popolazioni non romane dell'impero è stato generalmente contraddistinto da una maggiore
tolleranza e flessibilità di quello di altri storici che lo avevano preceduto. Di grande interesse
risultano le sue digressioni sui vari paesi che aveva visitato sia come militare, sia come privato
cittadino, dopo aver lasciato, all'età di circa quarant'anni, il servizio attivo nell'esercito.

Scritti dei Padri in greco antico (II - V secolo d.C.)

Atenagora di Atene

Lo stesso argomento in dettaglio: Atenagora di Atene.

La Supplica è una apologia di 30 capitoli indirizzata "agli imperatori Marco Aurelio e Lucio
Aurelio Commodo, conquistatori dell'Armenia e della Sarmazia, e, quel che più conta, filosofi" tesa
a difendere i Cristiani dalla triplice accusa, rivolta già agli ebrei, di ateismo (la mancanza di fede
nelle divinità pagane), incesto e cannibalismo (bambini come cibo nei banchetti). In base alla dedica
e alla citazione della pace nel primo capitolo, la data di composizione della Supplica è stata fissata
fra la fine del 176 e il principio del 177. Gli argomenti utilizzati da Atenagora per ribattere ai tre
capi di accusa sono di natura razionale.

1. Circa l'accusa di ateismo e di sacrifici rituali di bambini Atenagora argomentava che i


Cristiani adoravano un solo Dio e che i loro rituali erano non cruenti, non prevedendo
versamento di sangue. Inoltre, diversamente dall'idolatria pagana, che prevedeva la
sottomissione dell'uomo a numerose divinità capricciose e immorali, i Cristiani riverivano
una divinità perfetta ed eterna la cui triplice espressione non era di natura politeistica, in
quanto si trattava di tre persone in una sola natura e potenza. Atenagora addusse pertanto la
prima giustificazione razionale dell'unicità di Dio[8].
2. Atenagora confutava l'accusa di immoralità e depravazione sessuale rendendo nota la rigida
morale cristiana, con la proibizione addirittura dei cattivi pensieri, della poligamia, del
divorzio e dell'aborto;
3. quanto all'accusa di antropofagia, Atenagora ribatteva che si trattava di una calunnia: i
Cristiani condannavano non solo l'omicidio, ma delitti giudicati meno gravi dagli altri quali
la partecipazione agli spettacoli dei gladiatori e l'esposizione dei neonati; nel contempo i
Cristiani prescrivevano l'obbedienza civile e l'adozione di un'etica improntata all'esistenza di
una vita futura, dopo la morte fisica.

Ai due imperatori pertanto Atenagora chiedeva per i Cristiani gli stessi diritti riconosciuti a tutti gli
altri cittadini romani.

Ad Atenagora, ma con molte riserve, è attribuito un secondo lavoro intitolato "Περί αναστάσεως
νεκρών" (La Risurrezione dei Morti). Il trattato è diviso in due parti, nella prima vengono confutate
le obiezioni contro la tesi della risurrezione, nella seconda si dimostra che la resurrezione è
possibile. Rifiutando il dogma platonico del corpo come prigione dell'anima, ed affermando la
complementarità tra materia e spirito, Atenagora accetta la risurrezione fisica dei morti sulla base
dell'onnipotenza di Dio allo scopo di rendere manifesta per l'eternità l'immagine umana.

Il più antico testo di quest'opera di Atenagora si trovava nel Codex parisinus graecus (anno 914),
immediatamente dopo al testo della Supplica per i Cristiani, copiato per Areta di Cesarea dal suo
segretario Baanes[9]. L'attribuzione ad Atenagora di quest'opera viene tuttavia di solito negata per
motivi di stile e di contenuto[10].

Origene di Alessandria

Lo stesso argomento in dettaglio: Origene.

È considerato uno tra i principali scrittori e teologi cristiani dei primi tre secoli. Di famiglia greca,
fu direttore della «scuola catechetica» di Alessandria (Didaskaleion). Interpretò la transizione dalla
filosofia pagana al cristianesimo e fu l'ideatore del primo grande sistema di filosofia cristiana.

Pochi autori furono fecondi come Origene. Epifanio stimava in 6.000 il numero delle sue opere,
sicuramente considerando separatamente i diversi libri di un'unica opera, le omelie, le lettere, e i
suoi più piccoli trattati (Haereses, LXIV, LXIII). Questa cifra, pur riportata da molti scrittori
ecclesiastici sembra, tuttavia, grandemente esagerata. Girolamo assicurava che l'elenco delle opere
di Origene steso da Panfilo non contenesse più di 2.000 titoli (Contra Rufinum, II, XXII; III,
XXIII); ma questo elenco era evidentemente incompleto.

Origene dedicò tre generi di scritti all'interpretazione delle Sacre Scritture: commentari, omelie, e
scholia (San Girolamo, Prologus interpret. homiliar. Orig. in Ezechiel).

 I commentari (tomoi, libri, volumina) sono l'esito di un'approfondita lettura dell'Antico e del
Nuovo Testamento. Un'idea della loro estensione si può avere dal fatto che le parole di
Giovanni: «All'inizio era il Verbo», fornirono materiale per un intero rotolo. Di questi
sopravvivono, in greco, solamente otto libri del Commentario su San Matteo, e nove libri
del Commentario su San Giovanni; in latino, una traduzione anonima del Commentario su
San Matteo che comincia con il capitolo XVI, tre libri e mezzo del Commentario sul
Cantico dei Cantici tradotto da Tirannio Rufino, e un compendio del Commentario sulla
Lettera ai Romani dello stesso traduttore.
 Le omelie (homiliai, homiliae, tractatus) sono discorsi pubblici sui testi delle Sacre scritture,
spesso estemporanee e registrate così come veniva dagli stenografi. L'elenco è lungo e
indubbiamente doveva essere più lungo se era vero che Origene, come Panfilo dichiarava
nella sua Apologia, predicava pressoché ogni giorno. Ne rimangono 21 in greco (venti sul
Libro di Geremia, più la celebre omelia sulla Strega di Endor); mentre in latino ne
sopravvivono 118 tradotte da Rufino, 78 tradotte da san Girolamo e alcune altre di dubbia
autenticità, conservate in una raccolta di omelie. Il Tractatus Origenis recentemente
scoperto non è opera di Origene, sebbene si avvalga dei suoi scritti. Origene fu chiamato
padre dell'omelia perché fu colui che maggiormente rese popolare questo tipo di letteratura,
nella quale si trovano così tanti istruttivi dettagli sui costumi della Chiesa primitiva, sulle
sue istituzioni, sulla disciplina, sulla liturgia, e sui sacramenti. Il 5 aprile 2012, la filologa
Marina Molin Pradel ha ritrovato ventinove omelie inedite di Origene in un codice bizantino
dell'XI secolo, il Monacense greco 314, conservate alla Bayerische Staatsbibliothek di
Monaco di Baviera[11].
 Gli scholia (scholia, excerpta, commaticum interpretandi genus) sono note esegetiche,
filologiche, o storiche su parole o brani della Bibbia, come le annotazioni dei grammatici
alessandrini in calce agli scrittori profani. A parte pochi brevi frammenti, gli scholia sono
tutti perduti.
 De principiis, opera giunta a noi soltanto nella traduzione latina di Rufino e nelle citazioni
della Philocalia (che potrebbe contenere circa un sesto dell'opera). Il De principiis,
composto ad Alessandria in quattro libri, tratta, in successione, lasciando spazio a numerose
digressioni, di: (a) Dio e la Trinità, (b) il mondo e la sua relazione con Dio, (c) l'uomo e il
libero arbitrio, (d) le Sacre scritture, la loro ispirazione e interpretazione. Quest'ultimo è il
cosiddetto Trattato di ermeneutica biblica, nel quale Origene fornisce una sistematizzazione
dei criteri interpretativi dell'Antico Testamento.

Era evidenza comune che per i cristiani l'A.T. andava letto come opera che prefigurava l'avvento
salvifico di Cristo. Ma non si riusciva a codificare questo principio con una regola[12]. Origene
affermò che si poteva rintracciare nel testo stesso il senso “spirituale” cercato dai cristiani. L'Antico
Testamento è espresso in due forme: letterale ed allegorico. Nel De Principiis IV,2,4 Origene
afferma: «Il metodo che a noi sembra imporsi per lo studio delle Scritture e la comprensione del
loro senso è il seguente; esso è già indicato dagli scritti stessi. […] Bisogna dunque scrivere tre
volte nella propria anima i pensieri delle Sacre Scritture, affinché il più semplice sia edificato da ciò
che è come la carne (sarx) della Scrittura – definiamo così l'accezione immediata – e colui che è un
po' esaltato lo sia per effetto di ciò che è come la sua anima (psyche) e colui che è perfetto (…) lo
sia della legge spirituale (pneuma) che contiene l'ombra dei beni futuri».

 Sulla preghiera, un opuscolum giuntoci per intero nella sua forma originale, che fu inviato
da Origene al suo amico Ambrogio, che in seguito sarebbe stato imprigionato a causa della
Fede.
 Contra Celsum. Negli otto libri dell'opera, Origene segue il suo avversario, il filosofo
neoplatonico Celso, punto su punto, confutando dettagliatamente ognuna delle sue
affermazioni. È un modello di ragionamento, erudizione e onesta polemica. L'opera ci
permette anche di ricostruire nel dettaglio il pensiero del filosofo pagano. Origene adottò un
tipo di apologia seriamente costruita, che investiva i vari aspetti del rapporto tra paganesimo
e cristianesimo, non escluso quello politico: l'autore affermava infatti quell'autonomia della
religione dal potere che sarà poi sviluppata con decisione da Ambrogio da Milano in ambito
latino[13];
 Esortazione al martirio, un opuscolum giuntoci per intero nella sua forma originale, che fu
inviato da Origene al suo amico Ambrogio, che in seguito sarebbe stato imprigionato a
causa della Fede.

Il merito più importante di Origene fu quello di iniziare lo studio filologico del testo biblico nella
scuola di Cesarea. Tale tecnica avrebbe, in seguito, influenzato anche Girolamo.

Il prodotto di tale attività furono gli Exapla, una vera e propria edizione critica della Bibbia redatta
per offrire alle varie comunità un testo unitario e attendibile, con un metodo non dissimile da quello
filologico ellenistico (cui si richiamava anche per i segni con cui si indicavano parti notevoli o
difficili del testo). Il titolo dell'opera indica le "sei versioni" del testo disposte su sei colonne:

1. testo ebraico originale;


2. Testo ebraico traslitterato in greco (per facilitarne la comprensione, visto che l'ebraico non
ha vocali almeno fino al VII secolo ed è perciò poco comprensibile);
3. Traduzione greca di Aquila (età di Adriano, estremamente fedele all'originale);
4. Traduzione greca di Simmaco l'Ebionita;
5. Traduzione dei Settanta;
6. Traduzione greca di Teodozione.

Nel caso dei Salmi, l'edizione diventava un Oktapla, cioè presentava altre due colonne con
altrettante traduzioni supplementari. Vista la mole dell'opera, essa era disponibile in un solo
esemplare ed era un lavoro di scuola a cui Origene fece da sovrintendente. Purtroppo di questo
lavoro esistono pochissimi frammenti, ma, grazie a scrittori successivi, se ne conosce il piano.

San Teofilo di Antiochia

Lo stesso argomento in dettaglio: Teofilo di Antiochia.

L'Apologia ad Autolico è il più antico scritto a noi pervenuto in cui compare (II,15) il termine
"τριας" (triás). Teofilo ne parla commentando i primi tre giorni della creazione, che egli pone in
corrispondenza con la Trinità composta da Dio Padre, dal Logos (= il Verbo) e dalla Sapienza. La
corrispondenza fra Gesù e il Logos è evidente nel prologo del vangelo di Giovanni. Benché nel
Nuovo Testamento si utilizzi generalmente il termine Spirito Santo per indicare la Sapienza di Dio,
la scelta di quest'ultimo termine costituisce un riferimento alla radice veterotestamentaria della
dottrina sullo Spirito Santo e in particolare all'ottavo capitolo del Libro dei Proverbi. Questa scelta
terminologica è coerente con il resto dello scritto di Teofilo, in cui si citano quasi esclusivamente i
libri dell'Antico Testamento.

Clemente Alessandrino

Lo stesso argomento in dettaglio: Clemente Alessandrino.


Clemente Alessandrino

Per gli studiosi non è stato facile riassumere i punti principali degli insegnamenti di Clemente,
infatti, mancava di precisione tecnica e non ricercò mai un'esposizione ordinata. È facile, perciò,
mal giudicarlo. Attualmente, viene accettato il giudizio di Tixeront: le regole della fede di Clemente
erano ortodosse; accettava l'autorità delle tradizioni della Chiesa, inoltre, prima di tutto, era un
cristiano che accettava "la legge ecclesiastica", tuttavia, si sforzava anche di rimanere filosofo, e
portava la speculazione sul perché della vita nelle materie religiose. "Sono pochi", affermava
"coloro i quali avendo fatto bottino dei tesori degli egiziani, ne fanno arredi per il Tabernacolo."
Egli si predispose, perciò, ad usare la filosofia come strumento per trasformare la fede in scienza, e
la rivelazione in teologia. Clemente non aveva nulla, se non la fede come base per le sue
speculazioni. Per questo motivo non può essere accusato di aver volontariamente sviluppato
posizioni non ortodosse. Ma Clemente era un pioniere in un'impresa difficile e si deve ammettere
che fallì nel suo alto intendimento. Era cauto nell'accostarsi alle Sacre Scritture per sviluppare la
sua dottrina, tuttavia adoperò male il testo e ne uscì una esegesi difettosa. Aveva letto tutti i libri del
Nuovo Testamento ad eccezione della Seconda lettera di Pietro e della Terza lettera di Giovanni.
"Infatti", dice Tixeront, i "suoi studi sulla forma primitiva delle scritture Apostoliche sono del
valore più alto." Sfortunatamente, interpretò le Sacre Scritture secondo lo stile di Filone, pronto a
trovare allegorie dappertutto. I fatti narrati nell'Antico Testamento divennero, così, puramente
simbolici. Tuttavia, non si permise tale ampia libertà col Nuovo Testamento.

Lo speciale interesse che Clemente coltivava lo condusse ad insistere sulla differenza tra la fede del
cristiano ordinario e la scienza del perfetto, tanto che i suoi insegnamenti su questo punto sono
proprio la sua caratteristica principale. Il cristiano perfetto ha una comprensione particolare dei
"grandi misteri" dell'uomo, della natura, della virtù, che il cristiano ordinario accetta senza
comprendere. Ad alcuni è sembrato che Clemente esagerasse il valore morale della conoscenza
religiosa; si deve tuttavia ricordare che non lodava la mera conoscenza fine a sé stessa, ma la
conoscenza che si trasformava in amore. È la perfezione cristiana che egli celebrava. Il cristiano
perfetto, il vero gnostico, che Clemente amava descrivere, deve condurre una vita di calma
inalterabile. E qui il pensiero clementino è indubbiamente intriso di Stoicismo. In questo caso,
infatti, non stava realmente descrivendo il cristiano, con i suoi sentimenti e i suoi desideri sotto il
dovuto controllo, ma l'ideale Stoico che ha sopito i suoi sentimenti. Il perfetto cristiano, quindi,
doveva condurre una vita di devozione assoluta; l'amore nel suo cuore lo avrebbe dovuto incitare a
vivere in una unione sempre più stretta con Dio attraverso la preghiera, a lavorare per la
conversione delle anime, ad amare i suoi nemici e, persino, a sopportare il martirio stesso.

Clemente fu anche un precursore della controversia Trinitaria. Insegnò che nella Divinità erano
presenti tre Termini. Alcuni critici dubitano se li distinguesse come Persone, ma un'attenta lettura
delle sue opere lo prova. Il Secondo Termine della Trinità era il Verbo. Fozio credeva che Clemente
professasse una molteplicità di Verbi mentre, in realtà, Clemente tratteggiava soltanto una
distinzione tra l'attributo immanente dell'intelligenza del Padre Divino ed il Verbo fatto Persona che
era il Figlio, eternamente generato ed in possesso di tutti gli attributi del Padre. Essi, insieme, erano
un unico Dio. Fino a questo punto, infatti, questa nozione di unità proposta da Clemente sembrava
avvicinarsi al Modalismo, o, addirittura all'errore opposto del Subordinazionismo. Ciò, tuttavia può
essere spiegato altrimenti: Clemente dovrebbe essere giudicato, a differenza di quanto si fa
generalmente con gli altri scrittori, non da una frase colta qui o là, ma dalla globalità dei suoi
insegnamenti. Dello Spirito Santo non parlò molto e, quando si riferiva alla terza Persona della
Trinità, si basava strettamente su quanto riportato dalle Sacre Scritture. Era, inoltre, un convinto
assertore della duplice natura di Cristo. Cristo era l'Uomo-Dio che ci beneficia sia come Dio che
come uomo. Clemente, evidentemente, vedeva Cristo come una Persona (il Verbo). Fozio accusava
Clemente anche di Docetismo. Tuttavia, Clemente riconosceva chiaramente in Cristo un vero corpo,
ma lo credeva immune dalle necessità comuni della vita, come mangiare e bere e pensava che
l'anima di Cristo fosse esente dalle passioni, dalla gioia e dalla tristezza.

Per questi motivi Clemente è considerato il primo gnostico cristiano. Per Clemente era problema
essenziale mostrare come il cristianesimo fosse superiore a qualsiasi filosofia, tuttavia cercava
anche di spiegare che nella fede cristiana era contenuto quanto di meglio la filosofia avesse prodotto
prima di Cristo. Egli distingueva tra la funzione svolta dalla filosofia prima di Cristo e la funzione
che avrebbe dovuto svolgere dopo di lui. Sottolineava come, attraverso la filosofia, fosse possibile
avvicinarsi alla verità che comunque si sarebbe completata solo attraverso la rivelazione. Come
Giustino, Clemente individuava in tutti gli uomini la presenza di una scintilla divina che permetteva
di accedere alla fede. Secondo questa prospettiva, il cristianesimo appariva non come la negazione,
bensì come il completamento della tradizione filosofica: esso non ha il carattere settario attribuito
alle scuole filosofiche o ai gruppi gnostici, non è prerogativa di una minoranza, Dio chiama a sé
tutti indistintamente. Questa lettura della fede attraverso la filosofia potrebbe essere stata scelta da
Clemente per avvicinare le classi colte dell'Alessandria del suo tempo, presso le quali la filosofia
godeva di molto prestigio.

Eusebio di Cesarea

Lo stesso argomento in dettaglio: Eusebio di Cesarea.


Tavole di concordanza. Il sistema delle tavole di concordanza fu messo a punto da Eusebio.

Eusebio fu il vescovo più erudito della sua epoca: oratore, esegeta, apologista, teologo e storico,
tipografo e bibliofilo. Va ricordata anche la sua attività di reperimento e collezione di fonti letterarie
ed archivistiche.[14]

Della sua vastissima produzione letteraria si ricordano la Cronaca (Chronicon), che venne
considerata un archetipo per tutte le opere cronologiche seguenti, e la Storia ecclesiastica, che tratta
dei primi secoli dello sviluppo del Cristianesimo, dalla costituzione della Chiesa sino alla vittoria di
Costantino su Licinio (324). Nella stesura della Cronaca utilizzò, per quanto riguarda la storia
dell'Egitto, le opere di Manetone ora perdute.

Eusebio mise a punto un sistema di dieci tavole-canoni, note come Tavole canoniche o Tavole di
concordanza, ove si raffrontano i passi uguali dei quattro vangeli: una tabella con l'episodio (es. il
battesimo) indica il riferimento alla sezione interessata di ogni vangelo, con centinaia di sezioni
indicate (oltre mille in area siriaca); in un foglio del Codex Rossanensis è stata rinvenuta una lettera
di Eusebio a Carpiano sull'uso delle tavole. Tra le sue opere vi è anche una biografia di Costantino,
la Vita di Costantino.

Didimo il Cieco di Alessandria

Lo stesso argomento in dettaglio: Didimo il Cieco.


Didimo

Benché non fosse un brillante pensatore, Didimo contribuì notevolmente alla comprensione della
Trinità con la sua formula: «Una sostanza e tre ipostasi». Difese anche l'esistenza di un'anima
umana nella persona di Cristo, ma non parlò di fusione della natura umana con quella divina, bensì
dell'esistenza di due nature e di due volontà. Partendo dalla cristologia, Didimo si occupò della
dottrina dello Spirito Santo, che considera increato come il Figlio: Esso è Dio ed è uguale al Padre.
Per Didimo, lo Spirito Santo è il dispensatore di grazie divine nella Chiesa. Grazie a lui, la Chiesa si
trasforma in Mater dei cristiani, ai quali dispensa la luce di Cristo mediante il Battesimo. Ciò
nonostante, Didimo preferisce chiamare la Chiesa «Corpo di Cristo», anziché «Madre». L'asceta,
seguendo la dottrina cattolica ortodossa, afferma che il peccato originale consiste nella caduta di
Adamo ed Eva, e viene trasmesso dai genitori ai figli attraverso l'atto sessuale ed il concepimento, il
che spiega perché Gesù dovesse essere partorito da una vergine. Il Battesimo cancella il peccato
originale ed ha come conseguenza l'adozione a figli di Dio. Per questo motivo il Battesimo è
indispensabile per la salvezza, sebbene possa venire sostituito dal martirio. Didimo nega inoltre la
validità del Battesimo dato dagli eretici. La mariologia di Didimo insiste sul fatto che Maria fu
sempre vergine, sia prima che dopo la nascita di Gesù; inoltre, insiste nel chiamarla Madre di Dio
(Theotokos). Sul piano antropologico, Didimo condivideva l'eresia origenista di sostenere che
l'anima fosse stata rinchiusa nel corpo come castigo per i precedenti peccati, appoggiando in questo
modo l'idea platonico-origenista della preesistenza. Sul piano escatologico, benché Girolamo (Adv.
Ruf., I, 6) sostenesse che Didimo era anche origenista, credendo in una salvezza universale alla fine
dei tempi, è certo che a partire dai suoi scritti risulta difficile accettare una tale opinione. D'altronde
è innegabile che negli stessi scritti Didimo parli ripetutamente dell'inferno e dell'eterno castigo (De
Trin., II, 12; II, 26). Il professor Johannes Quasten ha sottolineato che la testimonianza di Girolamo
può considerarsi corretta posto che Didimo intendesse per "salvezza universale" che nel mondo
futuro non vi sarà più peccato e che gli angeli ribelli desiderino essere redenti, ma entrambe le
affermazioni non necessariamente devono vedersi contrapposte alla tesi di un castigo eterno per i
condannati[15]. Da Origene, infine, Didimo sembra aver ereditato anche l'idea di Purgatorio.

Gregorio Nazianzeno
Lo stesso argomento in dettaglio: Gregorio Nazianzeno.

Nacque a Arianzo, cittadina presso Nazianzo, attuale Güzelyurt in Cappadocia. Figlio di Gregorio e
Nonna. Il padre, che era ebreo della setta degli Ipsistari, fu convertito dalla moglie al cristianesimo
e divenne vescovo di Nazianzo. Il fratello Cesario (morto nel 368) fu dottore presso la corte
dell'imperatore Giuliano e governatore di Bitinia.

Gregorio Nazianzeno

Gregorio, nato qualche anno dopo il concilio di Nicea nel quale si condannò l'eresia ariana, fu
fortemente condizionato per tutta la vita dalle lotte che si scatenarono attorno alla definizione della
vera natura della Trinità. Studiò prima a Cesarea in Cappadocia, dove conobbe e divenne amico di
Basilio, poi a Cesarea marittima e ad Alessandria presso il Didaskaleion, infine, tra il 350 e il 358,
ad Atene, sotto Imerio; qui conobbe il futuro imperatore Giuliano.

Raggiunse poi l'amico Basilio nel monastero di Annisoi, nel Ponto. Ma abbandonò presto questa
esperienza per tornare a casa, dove sperava di condurre una vita ancora più ritirata e contemplativa.
Nel 361 fu ordinato sacerdote suo malgrado, dal padre, Vescovo di Nazianzo. Dapprima reagì
fuggendo, ma poi accettò di buon grado la decisione paterna. "Mi piegò con la forza", ricorderà
nella sua autobiografia. Nel 372 l'amico Basilio, allora Vescovo di Cesarea, costretto dalla politica
ariana dell'imperatore Flavio Valente a moltiplicare il numero delle diocesi sotto la sua
giurisdizione per sottrarle all'influenza ariana, lo nominò vescovo di Sasima. Gregorio non
raggiunse mai la sua sede vescovile in quanto solo con le armi in pugno sarebbe potuto entrarvi.
Morto il padre, tornò a Nazianzo, dove diresse la comunità cristiana. Nel 379, salito al trono
Teodosio I, Gregorio fu chiamato a dirigere la piccola comunità cristiana che a Costantinopoli era
rimasta fedele a Nicea. Nella capitale dei cristiani di Oriente pronunciò i cinque discorsi che gli
meritarono l'appellativo di "Teologo". Fu lui stesso a precisare che la "Teologia" non è
"tecnologia", essa non è un'argomentazione umana, ma nasce da una vita di preghiera e da un
dialogo assiduo con il Signore. Nel 380 Teodosio lo insediò vescovo di Costantinopoli e lo fece
riconoscere come tale dal Concilio di Costantinopoli I nel maggio del 381.
Mosaico palermitano di Gregorio

Dipinto di Gregorio a Chora

Le discussioni conciliari furono quanto mai accese e lo stesso Gregorio fu accusato di occupare
illegittimamente, in quanto vescovo di Sasima, la sede di Costantinopoli, a proposito ebbe a dire:

« Abbiamo diviso Cristo, noi che tanto amavamo Dio e Cristo! Abbiamo mentito gli uni agli
altri a motivo della Verità, abbiamo nutrito sentimenti di odio a causa dell'Amore, ci siamo
divisi l'uno dall'altro!” (Discorsi 6, 3) »

infine, confessandosi incapace di mediare tra le opposte fazioni, abbandonò il concilio nel giugno
del 381

« Lasciatemi riposare dalle mie lunghe fatiche, abbiate rispetto dei miei capelli bianchi ...
Sono stanco di sentirmi rimproverare la mia condiscendenza, sono stanco di lottare contro i
pettegolezzi e contro l'invidia, contro i nemici e contro i nostri. Gli uni mi colpiscono al petto,
e fanno un danno minore, perché è facile guardarsi da un nemico che sta di fronte. Gli altri mi
spiano alle spalle e arrecano una sofferenza maggiore, perché il colpo inatteso procura una
ferita più grave ... Come potrò sopportare questa guerra santa? Bisogna parlare di guerra santa
così come si parla di guerra barbara. Come potrei riunire e conciliare questa gente? Levano gli
uni contro gli altri le loro sedi e la loro autorità pastorale e il popolo è diviso in due partiti
opposti ... Ma non è tutto: anche i continenti li hanno raggiunti nel loro dissenso, e così
Oriente e Occidente si sono separati in campi avversi” (Discorsi 42, 20-21) »

Di lui rimangono una rappresentazione sacra, La Passione di Cristo, lettere, numerosi poemi sacri
(tra cui un poema autobiografico-spirituale di quasi duemila versi Sulla sua vita), ma soprattutto 45
discorsi od omelie, per la maggior parte risalenti al vescovado costantinopolitano; tra essi possiamo
ricordare gli elogi funebri dell'amico Basilio e del padre Gregorio, una giustificazione della sua fuga
dalla sede vescovile di Sasima, due discorsi contro l'imperatore Giuliano, che influenzarono molto il
giudizio dei bizantini su questo sovrano,[16] e soprattutto i discorsi "teologici" (27-31), che gli
valsero presto il titolo di "Teologo", precedentemente assegnato al solo Giovanni evangelista.

 Sermoni liturgici redatti per le principali festività tra cui la Pasqua, la Pentecoste, il Natale,
l'Epifania.
 Discorsi d'occasione con vari elogi funebri come quello per sant'Atanasio, per l'amico san
Basilio e per suoi famigliari, il padre, il fratello Cesario e la sorella Gorgonia. Altri
concernono discorsi ufficiali agli imperatori o veri e propri manifesti catechetici.
 Discorsi teologici di cui ci sono pervenuti cinque scritti redatti tra il 379 e il 380. Questi
testi sono tutti incentrati sulla definizione teologica della Trinità e andavano a combattere le
varie eresie presenti al suo tempo. L'ariana, che negava la divinità di Cristo. Quella degli
Eunomiani per i quali il Cristo non ha la stessa essenza del Padre e dei Macedoniani che
negavano la piena divinità dello Spirito Santo. In questi scritti Gregorio afferma l'unica
natura delle tre Persone che vanno distinte solo per origine e rapporti reciproci.
 Epistolario con 245 lettere scritte tra il 383 e il 389.

Giovanni Cristostomo: Omelie contro i Giudei

Lo stesso argomento in dettaglio: Giovanni Crisostomo.

L'imperatore bizantino Niceforo III Botaniate con Giovanni Crisostomo e l'arcangelo Michele.
Nei primi due anni dopo la sua ordinazione sacerdotale Crisostomo scrisse anche otto omelie sui
giudei e i "giudaizzanti" dal titolo Contro i Giudei.[17] Dato che la seconda omelia è circa un terzo
delle altre gli studiosi hanno sospettato che l'unico manoscritto a noi pervenuto fosse incompleto.
Infatti nel 1999 Wendy Pradels scoprì a Lesbo un manoscritto con il testo completo.

Queste omelie di Crisostomo sono considerate da alcuni studiosi «la più orribile e violenta denuncia
del giudaismo negli scritti di un teologo cristiano».[18] La loro notorietà è legata al fatto che furono
prese, pretestuosamente, dai nazisti in Germania nel tentativo di legittimare l'Olocausto e utilizzate
in generale dagli antisemiti per giustificare la persecuzione degli ebrei,[19] così come diffusero
l'opinione che gli ebrei fossero collettivamente responsabili della morte di Gesù,[20] mettendo a
rischio di pogrom le minoritarie comunità ebraiche che vivevano nelle città cristiane.[21]

Secondo Rodney Stark[22] l'intento di Crisostomo è di separare nettamente cristianesimo e


giudaismo mettendo i cristiani giudaizzanti di fronte alla necessità di una scelta radicale.

Nelle otto omelie, quindi, Crisostomo cerca di dimostrare di quali nefandezze fossero colpevoli i
giudei, secondo il tipico metodo della polemica anti-giudaica e anti-ereticale, consistente nella
diffamazione dell'avversario. Per esempio, Crisostomo sostiene che le sinagoghe sono «postriboli,
caverne di ladri e tane di animali rapaci e sanguinari», i giudei sono infatti «animali che non
servono per lavorare ma solo per il macello»,[23] anzi sono animali feroci: «mentre infatti le bestie
danno la vita per salvare i loro piccoli, i giudei li massacrano con le proprie mani per onorare i
demoni, nostri nemici, e ogni loro gesto traduce la loro bestialità».[24] e i cristiani non devono avere
«niente a che fare con quegli abominevoli giudei, gente rapace, bugiarda, ladra e omicida».[25]

Cirillo di Alessandria

Lo stesso argomento in dettaglio: Cirillo di Alessandria.


Cirillo di Alessandria

Come teologo, fu coinvolto nelle dispute cristologiche che infiammarono la sua epoca. Si oppose a
Nestorio durante il concilio di Efeso del 431 (del quale fu la figura centrale). In tale ambito, per
contrastare Nestorio (che negava la maternità divina di Maria), sviluppò una teoria dell'Incarnazione
che gli valse il titolo di doctor Incarnationis e che è considerata ancora valida dai teologi cristiani
contemporanei. Perseguitò i novaziani, gli ebrei[26] ed i pagani[27], sino a quasi annientarne la
presenza nella città. Alcuni storici lo indicano come il mandante dell'omicidio della scienziata e
filosofa neoplatonica Ipazia[28].

Divenuto vescovo e patriarca di Alessandria nel 412, secondo lo storico Socrate Scolastico acquistò
«molto più potere di quanto ne avesse avuto il suo predecessore» e il suo episcopato «andò oltre i
limiti delle sue funzioni sacerdotali». Cirillo giunse a svolgere anche un ruolo dalla forte
connotazione politica e sociale nell'Egitto greco-romano di quel tempo. Le sue azioni sembrano
essersi ispirate al criterio della difesa dell'ortodossia cristiana a ogni costo: espulse gli ebrei dalla
città; chiuse le chiese dei novaziani, confiscandone il vasellame sacro e spogliando il loro vescovo
Teopempto di tutti i suoi possedimenti; entrò in grave conflitto con il prefetto imperiale Oreste.

Le sue opere sono raccolte in dieci volumi della Patrologia Graeca del Migne (PG 68-77).
Sull'adorazione e il culto, 17 libri; Glaphyra, 13 libri; Commento al Vangelo di Giovanni, 12 libri di
cui due perduti; Commenti a Isaia e ai dodici profeti minori. Contro gli ariani scrive il Thesaurus de
sancta et consubstantiali Trinitate e il De sancta et consubstantiali Trinitate. Contro i nestoriani
scrive Adversus Nestorii blasphemias contradictionum libri quinque, Apologeticus pro duodecim
capitibus adversus orientales episcopos, Epístola ad Evoptium adversus impugnationem duodecim
capitum a Theodoreto editam e la Explicatio duodecim capitum Ephesi pronuntiata; si conservano
poi tre lettere a Nestorio, delle quali la seconda e la terza furono approvate nel concilio di Efeso del
431, nel concilio di Calcedonia del 451 e dal Concilio di Costantinopoli II del 553; sua è la lettera
indirizzata a Giovanni di Antiochia, detta Simbolo efesino, approvata nel concilio di Calcedonia.
Degli ultimi anni sono i dieci libri conservatisi della Pro sancta christianorum religione adversus
libros athei Juliani, contro l'imperatore romano Giuliano (360-363).

Epoca latina antica (II - V secolo d.C.)

Gli Acta Martyrum (ca. 180 d.C.)

Lo stesso argomento in dettaglio: Acta Martyrum.

Una classificazione più attenta degli Atti dei Martiri riunisce gli Acta principali in tre categorie:

Ritratto ortodosso di San Policarpo di Smirne, vescovo e martire

1. Rapporti ufficiali degli interrogatori (in latino acta, gesta). Quelli più importanti, come
l'Acta Proconsulis (san Cipriano, Ep. lxxvii), sono pochi di numero, e ci sono giunti soltanto
in edizioni preparate allo scopo di edificare i fedeli. La Passio Cypriani ("passione di
Cipriano") e gli Acta Martyrum Scillitanorum ("Atti dei martiri scillitani") sono tipici
esempi di questa classe. Dei due, il primo è un lavoro composito costituito da tre documenti
con un minimo di aggiunte editoriali consistente in alcune frasi di connessione. Il primo
documento tratta del processo di Cipriano del 257, il secondo del suo arresto e processo del
258, il terzo del suo martirio.
2. Resoconti non ufficiali redatti da testimoni oculari o per lo meno da contemporanei che
pongono per iscritto testimonianze di testimoni oculari. Tale è il Martyrium Polycarpi
("Martirio di san Policarpo"), in gran parte dovuto all'immaginazione dei testimoni oculari.
Gli Acta Perpetuae et Felicitatis ("Atti di Perpetua e Felicita") sono forse i più belli e famosi
di tutti gli Acta che si sono conservati, perché includono le note autografe di Perpetua e di
Saturus e una relazione del martirio risalente a un testimone oculare. A questi poi bisogna
aggiungere l'Epistola Ecclesiarum Viennensis et Lugdunensis ("Lettera delle chiese di
Vienne e Lione"), che racconta la storia dei martiri di Lione, e anche altri Acta non
ugualmente famosi.
3. Documenti più tardivi rispetto alla data del martirio, redatti in base agli Acta del primo o
secondo tipo, e perciò soggetti a revisioni di vario genere. Quella che distingue questi Acta
dalle classi precedenti sono gli aspetti letterari: il redattore non stava scrivendo qualcosa che
doveva essere fedele alla tradizione orale o spiegare un monumento. Stava piuttosto
redigendo un documento letterario a suo proprio gusto e secondo i suoi scopi.

La terza categoria è quella in cui rientrano il maggior numero di Acta. Anche se in base al contenuto
si può discutere molto sull'appartenenza o meno a questa categoria, e anche se studi più
approfonditi potrebbero far passare qualche Acta ad una categoria più alta, molti altri sono chiamati
con il nome di Acta Martyrum, ma la loro storicità è minima o nulla. Sono romanzi, a volte costruiti
attorno ad alcuni fatti veri che sono stati preservati dalla tradizione popolare o letteraria, altre volte
lavori di pura immaginazione, senza nessun fatto vero.

Fra i romanzi storici possiamo citare la storia di Felicita e dei suoi sette figli, che nella sua forma
presente sembra essere una variazione di 2 Mac 7, e ciononostante non ci possono essere dubbi
sulla storicità dei fatti soggiacenti, uno dei quali è stato effettivamente confermato dalla scoperta da
parte di Giovanni Battista de Rossi della tomba di Januarius, il figlio il più vecchio del racconto.

Secondo critici severi come M. Dufourcq[29] e Hippolyte Delehaye[30], il Legendarium romano non
può essere catalogato in una categoria più alta che questa; cosicché, a parte le tradizioni sui
monumenti, la liturgia e la topografia, la maggior parte della testimonianza letteraria sui grandi
martiri di Roma è nascosta in romanzi storici.

Passione di Perpetua e Felicita

Lo stesso argomento in dettaglio: Atti di Perpetua e Felicita.

Gli Atti di Perpetua e Felicita (latino: Acta Perpetuae et Felicitatis; composto nel 203 circa) sono
un resoconto di testimoni oculari della morte di Perpetua e Felicita (oltre ai loro compagni Saturo,
Revocato, Saturnino e Secondino), due donne cristiane messe a morte a Cartagine il 7 marzo 203;
parte dei racconti sono opera di Tertulliano, ma alcuni capitoli sono i diari di Perpetua stessa. Di
questi Atti si sono conservate due edizioni, una in latino e l'altra in greco.

Gli Atti, una delle pagine migliori dell'antica letteratura cristiana, sono composti da tre parti:

 i capitoli 3-10 sono tratti dai diari autografi di Perpetua;


 i capitoli 11 e 13 furono scritti da Saturo;
 restanti capitoli (1-2, 12, 14-21) furono composti da un terzo autore, testimone oculare dei
fatti, che alcuni studiosi identificano con Tertulliano.[31]

Questa opera ebbe un tale successo che due secoli dopo i fatti Agostino d'Ippona volle avvertire i
propri lettori di non avere per gli Atti la stessa considerazione che avevano per le scritture.[32]

L'edizione in lingua latina fu scoperta da Luca Olstenio e pubblicata da Pierre Poussines nel 1663.
Nel 1890 Rendel Harris scoprì un altro resoconto scritto in greco, che pubblicò in collaborazione
con Seth Gifford.

Minucio Felice
Lo stesso argomento in dettaglio: Minucio Felice.

Quasi nulla è noto della vita di Minucio Felice. Il suo Octavius è simile all'Apologeticum di
Tertulliano, e la datazione della vita di Felice dipende dal rapporto tra la sua opera e quella dello
scrittore africano morto nel 230. Nelle citazioni degli autori antichi (Seneca, Varrone, Cicerone)
viene considerato più preciso di Tertulliano e questo concorderebbe col suo essere anteriore ad esso,
come afferma anche Lattanzio; Sofronio Eusebio Girolamo lo vuole invece posteriore a Tertulliano,
sebbene si contraddica dicendolo posteriore a Tascio Cecilio Cipriano in una lettera e anteriore in
un'opera. Per quanto riguarda gli estremi della sua esistenza, Felice menziona Marco Cornelio
Frontone, morto nel 170; il trattato Quod idola dii non sint è basato sull'Octavius; dunque se quello
è di Cipriano (morto nel 258), Minucio Felice non fu attivo oltre il 260, altrimenti il termine ante
quem è Lattanzio, attorno al 300.

Anche la zona d'origine di Felice è sconosciuta. Lo si ritiene talvolta di origine africana, sia per la
sua dipendenza da Tertulliano, sia per i riferimenti alla realtà africana: la prima ragione, però, non è
indicativa, in quanto dovuta al fatto che all'epoca i principali autori di lingua latina erano africani, e
dunque il loro era lo stile cui ispirarsi; la seconda, inoltre, potrebbe dipendere esclusivamente dal
fatto che il personaggio pagano dell'Octavius, Cecilio Natale, era africano, come attestato da alcune
iscrizioni. Cionondimeno, è significativo che entrambi i personaggi dell'Octavius abbiano nomi
citati in iscrizioni africane,[33] e che lo stesso valga per il nome Minucio Felice.[34]

I personaggi dell'Octavius sono reali, tutti e tre avvocati. Il pagano, Cecilio Natale, era nativo di
Cirta (dove l'omonimo registrato dalle iscrizioni aveva ricoperto cariche sacerdotali) e viveva a
Roma, come Minucio, di cui seguiva l'attività forense; Ottavio, invece, è appena arrivato nella
capitale all'epoca in cui è ambientata l'opera, e ha lasciato la propria famiglia nella provincia
d'origine.

Octavius

Lo stesso argomento in dettaglio: Octavius.

L'Octavius è un dialogo che ha per protagonisti lo stesso scrittore, Cecilio e Ottavio e che si svolge
sulla spiaggia di Ostia. Mentre i tre passeggiano sul litorale, Cecilio, di origine pagana, compie un
atto di omaggio nei confronti della statua di Serapide. Da ciò nasce una discussione in cui Cecilio
attacca la religione cristiana ed esalta la funzione civile della religione tradizionale, mentre Ottavio,
cristiano, attacca i culti idolatrici pagani ed esalta la tendenza dei Cristiani alla carità e all'amore per
il prossimo. Alla fine del dialogo Cecilio si dichiara vinto e si converte al Cristianesimo, mentre
Minucio, che funge da arbitro, assegna ovviamente la vittoria ad Ottavio.

Tertulliano

Lo stesso argomento in dettaglio: Tertulliano.

Tertulliano nacque a Cartagine verso la metà del II secolo (intorno al 155) da genitori pagani (patre
centurione proconsulari[35], figlio di un centurione proconsolare) e, dopo essere stato
verosimilmente iniziato ai misteri di Mitra, compì gli studi di retorica e diritto nelle scuole
tradizionali imparando il greco. Visse durante l'impero di Settimio Severo e Caracalla.
Tertulliano

Dopo aver esercitato la professione di avvocato dapprima in Africa e in seguito a Roma, ritornò
nella città natale e probabilmente verso il 195, dopo una giovinezza dissipata, si convertì al
cristianesimo, attratto forse dall'esempio dei martiri (Cfr. Apol. 50,15; Ad Scap. 5,4) Nel 197 scrisse
la sua prima opera, Ad nationes ("Ai pagani").

È il primo teologo sistematico di lingua latina.

Importantissima risulta storicamente e dogmaticamente la sua opera De praescriptione


haereticorum, in cui egli giunge alla conclusione fondamentale che è inutile disputare con gli eretici
sulla base della Scrittura, poiché essi continueranno a loro volta a fare lo stesso. La regula fidei
contiene l'interpretazione autorevole della Scrittura ed essa è trasmessa integralmente e fedelmente
solo dove sussiste la successione apostolica, cioè dai vescovi legittimi, appartenenti all'unica Chiesa
cattolica e ortodossa; il ruolo primaziale nella conservazione dell'autentico deposito della fede lo ha
la sede vescovile di Roma.

Presi gli ordini sacerdotali, adottò posizioni religiose molto intransigenti e nel 213 aderì alla setta
religiosa dei montanisti, nota proprio per la sua intransigenza e il suo fanatismo[36]; anche nel
periodo montanista, per Tertulliano la Chiesa è sempre "Madre".

Negli ultimi anni della sua vita abbandonò il gruppo per fondarne uno nuovo, quello dei
Tertullianisti. Quest'ultima setta era ancora esistente all'epoca di Sant'Agostino, che riferisce di
averla fatta rientrare nell'alveo dell'ortodossia. Le ultime notizie che si possiedono su Tertulliano
risalgono al 220. La sua morte si data dopo il 230.

Sono pervenute trenta opere teologiche e polemiche contro i pagani, contro gli avversari religiosi e
contro alcuni cristiani che non condividevano le sue tesi.

 Ad nationes (197): in difesa del Cristianesimo contro i pagani;


 Apologeticum (197): una impetuosa difesa in nome della libertà di coscienza, sia contro i
delitti manifesti imputati ai cristiani, sia contro i cosiddetti crimina occulta, come incesti,
infanticidi e altre depravazioni morali pagane;
 De testimonio animae (198/200);
 Adversus Iudaeos (prima del 207); opera di polemica dottrinale contro gli Ebrei;
 Ad martyras: esortazione ad un gruppo di cristiani incarcerati e condannati a morte;
 De spectaculis: opera in cui vengono considerati immorali gli spettacoli teatrali e circensi;
 De oratione;
 De patientia;
 De cultu feminarum;
 Ad uxorem;
 De praescriptione haereticorum: contro i cristiani che contaminano la fede con filosofie
pagane e con interpretazioni troppo libere della Bibbia;
 Adversus Hermogenem;
 Adversus Marcionem;
 Adversus Praxean,
 De baptismo;
 De Paenitentia.

San Cipriano da Cartagine

Lo stesso argomento in dettaglio: Tascio Cecilio Cipriano.

San Cipriano

Il poco che può essere desunto da san Cipriano sulla Trinità e sull'Incarnazione, in base agli
standard successivi, era corretto. Sulla rigenerazione battesimale, sulla reale presenza di Cristo
nell'Eucaristia e sul sacrificio della messa, la sua fede veniva confessata chiaramente e
ripetutamente, particolarmente nell'Ep. LXIV sul battesimo infantile e nell'Ep. LXIII sul calice
misto, scritta contro l'abitudine sacrilega di usare acqua senza vino per la messa. Sulla penitenza è
chiaro, come in tutti gli antichi, che per coloro che furono separati dalla Chiesa dal peccato non ci
potesse essere ritorno senza un'umile confessione (exomologesis apud sacerdotes), seguita dalla
remissio facta per sacerdotes. Il ministro di questo sacramento era il sacerdos per eccellenza, il
vescovo; ma i presbiteri potevano amministrarlo in conformità a quanto da lui stabilito e, in caso di
necessità, i lapsi potevano essere riabilitati da un diacono. Non aggiungeva, come dovremmo fare
oggi, che, in questo caso, non ci sarebbe sacramento; tali distinzioni teologiche non gli erano
confacenti. Nella Chiesa occidentale del III secolo non c'era che un abbozzo di legge canonica.
Secondo Cipriano, ogni vescovo rispondeva solamente a Dio delle sue azioni, anche se si sarebbe
dovuto avvalere della consulenza del clero e del laicato in tutte le questioni importanti. Il vescovo di
Cartagine aveva una posizione privilegiata come capo onorario di tutti i vescovi delle province
dell'Africa Proconsolare, di Numidia e della Mauretania, che erano circa cento; ma non aveva una
reale giurisdizione su di loro. Sembra, inoltre, che si riunissero ad ogni primavera a Cartagine, ma le
loro decisioni conciliari non avevano forza di legge. Se un vescovo fosse caduto nell'apostasia,
fosse diventato eretico o avesse commesso un peccato grave, poteva essere deposto dai suoi
comprovinciali o dal papa stesso. Cipriano, probabilmente, riteneva che le questioni sull'eresia
fossero sempre troppo evidenti per avere bisogno di molte discussioni. Pensava che, dove era
interessata la disciplina interna, Roma non dovesse interferire e che l'uniformità non era
desiderabile.

Nelle sue opere, Cipriano si rivolgeva ad un pubblico cristiano; il suo fervore aveva libero gioco, il
suo stile era semplice, anche se impetuoso e a volte poetico, per non dire fiorito. Pur senza essere
classico, il suo stile era corretto per la sua epoca e il ritmo con cui cadenzava le frasi era rigoroso e
comune a tutte le sue opere migliori. Nel complesso, la bellezza del suo stile raramente fu
eguagliata dai padri latini e fu sorpassata solo dall'energia e dallo spirito di San Girolamo. San
Cipriano fu il primo grande scrittore cristiano in latino, dato che Tertulliano cadde nell'eresia e il
suo stile era aspro e complesso. Fino ai giorni di Girolamo e di Agostino, le opere di Cipriano non
ebbero rivali in tutto l'occidente.

 La prima opera cristiana di Cipriano fu Ad Donatum, un monologo rivolto ad un amico,


seduto sotto una pergola di vite. Qui narrava di come, fino a che la Grazia divina non lo
aveva illuminato e rafforzato, gli era sembrato impossibile vincere il vizio; descriveva la
decadenza della società romana, gli spettacoli gladiatorii, il teatro, i tribunali ingiusti, la
vuotezza del successo politico; e forniva come unica soluzione la mite vita di studio e di
preghiera del cristiano. All'inizio dell'opera dovrebbero essere, probabilmente, posizionate le
poche parole di Donato a Cipriano, che Hartel classificò come lettera spuria. Lo stile di
questo pamphlet è influenzato da quello di Ponzio. Non è brillante come quello di
Tertulliano, ma riflette i preziosismi di Apuleio.
 Una seconda opera degli inizi fu il Testimonia ad Quirinum, in tre libri. L'opera è composta
da brani Scritturali organizzati in capitoli per illustrare il superamento dell'Antico
Testamento ed il relativo compimento in Cristo. Un terzo libro, aggiunto successivamente,
contiene testi sull'etica cristiana. L'opera riveste un'importanza fondamentale per lo studio
della storia delle vecchie versioni latine della Bibbia. Essa fornisce un testo africano
strettamente correlato a quello del manoscritto di Bobbio noto come K (Torino). L'edizione
del Hartel proviene da un manoscritto che contiene una versione modificata, ma la versione
di Cipriano può essere ragionevolmente desunta dal manoscritto citato nelle note come L.
 Un altro libro di brani sul martirio fu Ad Fortunatum, il cui testo esiste solo in antichi
manoscritti.
 Una spiegazione del Padre nostro (De Dominica oratione).
 Un'opera sulla semplicità degli abiti propria delle vergini consacrate (De habitu virginum).
 Un pamphlet intitolato "Della mortalità", composto in occasione della peste che colpì
Cartagine nel 252, quando Cipriano organizzò un gruppo di persone e trovò molti fondi per
la cura dei malati e la sepoltura dei morti.
 Un'altra opera intitolata "Dell'elemosina", in cui spiegava il suo carattere cristiano, la sua
necessità ed il suo valore appagante, forse scritta, secondo Watson, in risposta alla calunnia
che i suoi regali sontuosi erano tentativi di corruzione per portare le persone dalla sua parte.
 Soltanto una delle sue opere si caratterizza come pungente, quella intitolata Ad
Demetrianum, con la quale rispondeva in maniera piuttosto stizzita all'accusa di un pagano
che i cristiani avessero portato la peste sul mondo.
 Una breve opera intitolata "Della pazienza", scritta durante la polemica battesimale.
 Una breve opera intitolata "Della rivalità e dell'invidia", scritta durante la polemica
battesimale.
 La corrispondenza di Cipriano consiste di 81 lettere, 62 delle quali sono sue e tre scritte a
nome di concili. Da questa ampia raccolta si ottiene una chiara fotografia dei suoi tempi. La
prima raccolta dei suoi scritti dovette essere fatta poco prima o subito dopo la sua morte,
poiché era nota a Ponzio. Era composta da dieci trattati e da sette lettere sul martirio. A
questi furono aggiunte, in Africa, una serie di lettere sulla questione battesimale e, a Roma,
sembra, la corrispondenza con Cornelio, tranne l'Ep. XLVII. Altre lettere furono aggiunte
successivamente, comprese le lettere a Cipriano o altre a lui collegate, le sue raccolte di
testimonianze e molte altre opere spurie.

Arnobio

Lo stesso argomento in dettaglio: Arnobio.

Arnobio

Le scarse notizie biografiche provengono da san Girolamo che, (Chronica ad annum; De viris
illustribus, III, 79, 80; Lettera 58), afferma che Arnobio fu un retore pagano di Sicca Veneria,
nell'Africa proconsolare, che avrebbe avuto per discepolo Lattanzio e avrebbe anche scritto contro
la dottrina cristiana. Convertitosi alla fine del III secolo grazie a un sogno, chiese di ricevere il
battesimo per poter far parte della comunità cristiana; allo scopo di superare i dubbi del suo vescovo
sulla sincerità della conversione scrisse, dopo la fine del regno di Diocleziano (284 - 305) e prima
dell'Editto di Milano (313), un'opera apologetica in sette libri, Adversus gentes, intitolata poi
Adversus nationes, nel manoscritto più antico pervenutoci nel IX secolo.

Scritti per lettori ignari dei contenuti della fede cristiana, con lo stile del retore, letterario e
ampolloso ma anche, quando occorre, ironico e realistico, i libri I e II espongono la divinità della
figura di Cristo e della religione cristiana - che egli considera in accordo con le teorie dei migliori
filosofi pagani, rilevando tendenze cristiane già in Platone - trattano una teoria dell'anima e
ribattono le accuse dei pagani al cristianesimo di essere responsabile delle tragedie che colpiscono
l'umanità; i libri III, IV e V attaccano la mitologia pagana, considerata contraddittoria e immorale,
riportando preziose notizie su templi, riti e idoli; i libri VI e VII difendono i cristiani dalle accuse di
empietà.

Scarsi sono i riferimenti al Nuovo Testamento e sembra sorprendente la mancanza di citazioni


dall'Antico Testamento del quale non riconoscerebbe i presupposti al Nuovo; del resto, la sua
concezione del Dio cristiano è del tutto estranea alla visione ebraica: deriva dall'epicureismo
l'inaccessibilità indifferente fra esso, Deus summus, e tutte le altre creature, compresi gli altri dei,
che per Arnobio esistono realmente ma sono subordinati al Deus princeps.
Una derivazione gnostico - platonica si nota nella sua concezione dell'anima, materiale e creata da
un demiurgo (II, 36): l'uomo è un essere cieco che non conosce se stesso ma la convinzione
dell'esistenza del divino è innata nell'anima, malgrado la sua materialità (I, 33) perché la rivelazione
lo ha reso partecipe della sapienza divina, ed essa può pertanto raggiungere l'immortalità attraverso
la grazia di Dio, mentre le anime dei dannati si dissolvono tra le fiamme dell'inferno (II, 32 e 61).

Cecilio Firmiano Lattanzio

Lo stesso argomento in dettaglio: Lattanzio.

Nato da famiglia pagana, fu allievo di Arnobio a Sicca Veneria. Per la propria fama di retore fu
chiamato da Diocleziano, su consiglio di Arnobio, a Nicomedia, in Bitinia, capitale della parte
orientale dell'Impero e residenza ufficiale dell'imperatore, come insegnante di retorica (290 circa).

Pittura murale raffigurante Lattanzio

Fu costretto a lasciare il suo ufficio nel 303 a causa delle persecuzioni contro i cristiani, alla cui
religione si era convertito. Lattanzio abbandonò quindi la Bitinia nel 306, per farvi ritorno cinque
anni dopo, in seguito all'editto di tolleranza di Galerio. Nel 317 Costantino I lo chiamò a Treviri, in
Gallia, come precettore del figlio Crispo. Probabilmente morì a Treviri qualche tempo dopo.

Per il suo stile elegante e il periodare articolato si guadagnò il soprannome di "Cicerone cristiano"
da parte dei più importanti uomini del Rinascimento, come Angelo Poliziano e Giovanni Pico della
Mirandola.

Opere di Lattanzio

Le opere pervenute sono:

 De opificio Dei (L'opera di Dio), sulla Provvidenza divina in rapporto all'uomo;


 De ira Dei (L'ira di Dio), contro la tesi dell'impassibilità di Dio;
 De mortibus persecutorum (Le morti dei persecutori), sulla morte violenta degli imperatori
persecutori del Cristianesimo, da Nerone a Massimino Daia: pone le condizioni per la
nascita di una storiografia cristiana;
 Divinarum institutionum Libri VII o Divinæ institutiones (Istituzioni divine), in sette libri,
delle quali stese anche unepitome (compendio): primo tentativo di sintesi dell'insegnamento
cristiano, alla confutazione del paganesimo segue l'esposizione delle dottrine cristiane nel
tentativo di delineare una continuità tra sapere antico e moderno.
Sono perdute le opere del periodo pagano e le lettere, è incerta l'attribuzione a Lattanzio del
poemetto in ottantacinque distici De ave phœnice (L'uccello fenice), dove il mito della fenice è
assimilato alla passione, morte e resurrezione di Cristo.

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