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MODULO - LETTERATURA LATINA I

UNITÀ DIDATTICA 1 - LA STORIOGRAFIA

1 a Lezione - Le origini della storiografia e Sallustio

Lo sviluppo della storiografia a Roma avviene certamente in un periodo successivo alla nascita
della poesia, segno non tanto di un interesse tardivo, ma del fatto che nella preistoria della
storiografia latina vi erano forme alternative di registrazione degli eventi, che venivano
considerate bastevoli. Era infatti il pontefice massimo ad avere il compito di annotare eventi e
documenti della vita della civiltà, il che vuol dire che almeno fino al 254 a.C., quando fu
nominato il primo pontifex maximus plebeo, questo compito rientrava tra le prerogative
esclusive della nobilitas. Al tempo di Catone il Censore, e cioè tra la fine del terzo e l’inizio del
secondo secolo, il pontefice affiggeva una tabula dealbata in cui venivano registrati gli eventi
fondamentali di quell’anno, aggiungendo il nome dei consoli e degli alti magistrati.
Probabilmente, l’uso di affiggere la tabula fu inaugurato con il 254 e il primo pontefice plebeo,
Tiberio Coruncanio; essa finì intorno al 130 con il pontificato di Publio Mucio Scevola, che la
sostituì con la redazione degli annales maximi, opera composta di 80 libri. Essi dovevano
certamente contenere la storia repubblicana fino ad allora, ma forse anche la storia relativa al
periodo monarchico.
La storiografia latina nasce poi con Fabio Pittore che scrive in greco, probabilmente per la
inadeguatezza di una prosa letteraria latina ancora poco sviluppata, oppure perché l’opera
doveva rivolgersi al pubblico più ampio di popoli stranieri, nonché anche agli storici greci con
cui lo scritto probabilmente doveva entrare in polemica. L’opera doveva seguire l’andamento
annalistico in qualche modo determinato dallo svolgimento annuale delle magistrature e
mostrare grande interesse anche per le pratiche religiose, oltre che per gli eventi principali della
storia, la cui narrazione sarà stata certamente più accurata in relazione ai tempi più vicini a lui.
Dopo di lui, anche Lucio Cincio Alimento fu esponente della nobilitas e partecipò in primo
piano alla seconda guerra punica, essendo anche prigioniero di Annibale, cosa che
probabilmente gli dette la possibilità di conoscere da vicino l’organizzazione dell’esercito
cartaginese.

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Ma la vera novità in ambito storiografico è determinata dalla figura di Catone, almeno per due
fattori fondamentali. Intanto perché, benché senatore e uomo politico di primo piano, egli era
un homo novus. In lui vi era dunque una dimensione di eccezionalità perché, per quanto
incarnasse gli ideali dell’aristocrazia, era ben consapevole dei valori legati alle campagne
italiche. D’altra parte, i frammenti e le testimonianze di cui siamo in possesso ci consegnano il
ritratto di un intellettuale particolarmente consapevole della missione sociale, consistente nella
composizione di opere storiche, cui certo si sarà dedicato nei momenti di otium o, più
probabilmente, nella fase della vecchiaia, fase che non rappresentò tuttavia il ritiro dalla politica
attiva.
Ulteriore elemento di novità è però già nel titolo dell’opera, origines e non più annales. Esso
sembrerebbe più confacente ai primi tre libri, che dovevano parlare in effetti dell’origine di
Roma e delle città italiche, ma è più probabile che Catone seguisse il modello di analoghe opere
storiografiche greche (La Penna, 1978). Gli altri libri erano incentrati invece sulla prima guerra
punica, sulla seconda e, infine, gli ultimi due libri (il sesto ed il settimo) ricostruivano gli eventi
riguardanti gli ultimi due decenni della politica romana. Anche in questo caso, si denota un
‘salto’ notevole di tutta la storia romana del quinto e del quarto secolo ed un’attenzione
specifica agli eventi contemporanei. È poi evidente quanto Catone si riservasse un certo ruolo
da protagonista, come conferma il fatto che, dove poté, aggiunse anche le orazioni da lui tenute
nel corso di eventi particolarmente importanti della vita politica della città. Il suo impegno
polemico emerge con chiarezza dall’attenzione riservata al mutamento e alla degenerazione dei
mores. Si ritiene che proprio questa attenzione ‘moralistica’ della sua scrittura inaugurerà un
filone destinato a permanere nella tradizione storiografica successiva. La sua prosa è certo
molto asciutta ma, pur nell’esiguità dei frammenti, lascia emergere un’attenzione specifica alla
collettività, piuttosto che ai singoli protagonisti della storia.
È però con Sallustio che la storiografia a Roma conosce sul finire dell’età repubblicana un
cambiamento di grande significato. Il valore della scrittura storiografica è per Sallustio
connaturato al desiderio di compensare una carriera politica con molti alti e bassi e
sostanzialmente non adeguata alle sue aspettative. Come vedremo, egli chiarisce molto bene
che la scrittura, rientrando nell’otium, va intesa come subordinata all’azione politica; eppure,
con lui il ruolo dello storico acquisisce a Roma uno status di grande importanza.
Nella sua visione, la ricerca storica è ancora una volta, come in Catone, indagine sulla
corruzione morale che attanaglia la città e con la scelta della forma monografia essa intende
produrre un’osservazione del fenomeno nel suo complesso, visto nella prospettiva ristretta di
un momento storico. Per Sallustio, responsabile delle degenerazioni che portano alla crisi delle

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istituzioni è la nobilitas, che ha perseguito la strada dell’ambizione e dell’avidità senza più porsi
limiti di sorta. Nel caso del Bellum Catilinae, Sallustio giustifica dunque la durissima
repressione attuata da Cicerone: di lui non si tesse un’esplicita lode, ma i suoi meriti sono
comunque ben evidenziati. Da convinto sostenitore di Cesare, Sallustio è molto attento ad
allontanare da lui il sospetto di qualche forma di connivenza verso i congiurati: questo è forse
il punto che maggiormente gli sta a cuore. Su questa strada egli, dunque, dimostra
accuratamente che l’atteggiamento di Cesare e dei Cesariani, tiepidi nei confronti delle
punizioni da prendere contro i congiurati, nulla aveva a che fare con progetti eversivi. Infine, il
giudizio particolarmente positivo era destinato a Catone, il cui comportamento veniva
considerato esemplare.
Differente è il progetto storiografico del Bellum Iugurthinum: qui, infatti, Sallustio volgeva lo
sguardo indietro, ad un passato certo non remoto ma concepito come esemplare. La facile ascesa
di Giugurta era infatti avvenuta per la corruzione della nobilitas, che non aveva saputo frenare
le sue ambizioni, lasciandosi comprare dal re. D’altra parte, l’affaire relativo a Giugurta aveva
evidenziato un altro elemento di forte criticità sociale, derivante dall’ostinata volontà della
nobilitas di respingere l’ascesa di uomini come gli homines novi. Esemplare la storia di Gaio
Mario frenato da Metello: un’incapacità ancora di vedere, al di là degli steccati di parte, al bene
comune al fine di arginare le crepe sempre più profonde che s’insinuavano nello stato.
La scelta di seguire un disegno monografico identifica naturalmente degli episodi, ritenuti
significativi, ma non li isola. Sallustio, infatti, affida ai proemi e agli excursus il compito di
raccordare l’evento che fa da soggetto della narrazione (Catilina, Giugurta) al fluire degli eventi
della storia di Roma (La Penna 1991). In questa maniera, i singoli eventi vengono riassorbiti
nella storia di Roma, la cui linea evolutiva viene per così dire spezzata dall’acquisizione di una
potenza eccezionale, che Sallustio pone all’origine della deriva della politica romana. Al centro
della sua indagine lo storico pone infatti la cessazione del metus hostilis come causa della
degenerazione morale della classe dirigente romana.
Per quel che riguarda la narrazione, anche se Sallustio guarda sempre alla dimensione corale
della storia di Roma, mostra particolare attenzione per le singole personalità protagoniste, nel
bene e nel male, degli episodi scelti. Nel corso della monografia, Sallustio dà prova di
particolare abilità nel rappresentare la grandezza degli uomini, identificando in questo aspetto
un modo per esaltare la dimensione tragica della storia. Notevole da questo punto di vista la
tecnica a cui fa ampio ricorso del cosiddetto ritratto paradossale, consistente nel rappresentare
la ‘grandezza’ dei singoli personaggi, anche quando essa sia rivolta al male.

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In merito allo stile, va poi osservato che esso risulta ben lontano dalle contemporanee tendenze
espressive ciceroniane. Il periodare di Sallustio è intriso di stile arcaizzante: il risultato è una
prosa densa di gravitas, ma lontana dal fluido periodare di Cicerone.
Dopo le due monografie, Sallustio si dedicò alle Historiae, un prolungamento dell’opera di
Lucio Cornelio Sisenna, delle quali sono sopravvissuti pochi frammenti, alcuni dei quali danno
prova dell’ispirazione tucididea del suo autore. L’opera prendeva a narrare gli eventi a partire
dal 78 a.C. e dovevano giungere probabilmente almeno al 67 a.C. Anche in quest’opera, che si
rifaceva al metodo annalistico, Sallustio doveva esprimere una condanna netta per la classe
nobiliare; e tuttavia, accanto alle critiche per la nobilitas, lo storico doveva esprimere un rifiuto
radicale per la politica dei tribuni, le cui tendenze demagogiche erano altrettanto gravi per la
stabilità dell’ordine pubblico. D’altra parte, la faziosità sallustiana derivante dalla simpatia per
le posizioni cesariane emerge nell’esaltazione entusiastica per figure come quella di Sertorio,
che grazie al suo eroico ardire aveva raggiunto massima notorietà. Sertorio è da questo punto
di vista esemplare dal momento che, perfetto homo novus, si contrapponeva alla demagogia
imperante. Va poi osservato che qualche frammento superstite lascia emergere con chiarezza
l’atteggiamento anti-pompeiano di Sallustio: in particolare, del Magno viene denunziato
l’atteggiamento politico disinvolto, che lo portava a più riprese a cercare di estorcere con mezzi
bassi il consenso del popolo.
Poco dopo la sua morte, un altro storico di rilievo per noi scarsamente documentabile condivise
con Sallustio l’origine non nobiliare. Si trattava di Asinio Pollione.
Egli prese le distanze dallo stile arcaizzante di Sallustio, proponendo uno stile asciutto.
Anch’egli fu autore di Historiae, partendo dal 60 a.C., anno del primo triumvirato, fino al 42,
con la battaglia di Filippi. Si trattava dunque di una materia incandescente, quella delle guerre
civili, i cui esiti erano in qualche modo ancora in discussione, per la serie di eventi che ne erano
derivati. Egli partecipò in prima persona ad alcuni drammatici momenti della storia romana del
tempo, come il passaggio al seguito di Cesare del Rubicone: probabile che proprio la scrittura
di Asinio Pollione abbia influenzato la tradizione che di quegli eventi si consolidò ben presto.

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UNITÀ DIDATTICA 1 - LA STORIOGRAFIA

2 a Lezione - Sallustio, i testi

Tappa obbligata per chiunque voglia approcciarsi all’opera sallustiana sono i proemi delle due
monografie, perché essi sono intanto caratterizzati da una evidente intenzione complessiva che
li accomuna in un disegno organico; entrambi sono poi costruiti come fossero degli ‘a parte’
rispetto alle rispettive opere, il che pone l’autore nel filone nobile della storiografia ellenistica.
D’altra parte, la loro funzione, proprio in ragione di questa singolarissima autonomia rispetto
al prosieguo della narrazione, serve ad offrire al lettore una sorta di ‘antefatto metodologico’ ,
nel senso che essi danno coordinate non tanto degli avvenimenti quanto, piuttosto, del pensiero
dell’autore oltre che della maniera con cui accostarsi alla sua opera.
Emblematico da questo punto di vista il proemio del Bellum Catilinae nel quale Sallustio si
trova a dar conto della sua scelta di dedicarsi alla scrittura dopo essersi allontanato dalla vita
politica attiva (parr. 1-2):

Omnis homines, qui sese student praestare ceteris animalibus, summa ope niti decet, ne vitam
silentio transeant veluti pecora, quae natura prona atque ventri oboedientia finxit. [2] sed
nostra omnis vis in animo et corpore sita est: animi imperio, corporis servitio magis utimur;
alterum nobis cum dis, alterum cum beluis commune est. [3] quo mihi rectius videtur ingeni
quam virium opibus gloriam quaerere, et quoniam vita ipsa qua fruimur brevis est, memoriam
nostri quam maxume longam efficere. [4] nam divitiarum et formae gloria fluxa atque fragilis
est, virtus clara aeternaque habetur.
[5] Sed diu magnum inter mortalis certamen fuit, vine corporis an virtute animi res militaris
magis procederet. [6] nam et prius quam incipias consulto et ubi consulueris mature facto opus
est. [7] ita utrumque per [p. 3] se indigens alterum alterius auxilio eget. 2. igitur initio r eges
— nam in terris nomen imperi id primum fuit— divorsi pars ingenium, alii corpus exercebant:
etiam tum vita hominum sine cupiditate agitabatur; sua quoique satis placebant. [2] postea
vero quam in Asia Cyrus, in Graecia Lacedaemonii et Athenienses coep ere urbis atque nationes
subigere, lubidinem dominandi causam belli habere, maxumam gloriam in maxumo imperio

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putare, tum demum periculo atque negotiis compertum est in bello plurumum ingenium posse.
[3] quod si regum atque imperatorum animi virtus in pace ita ut in bello valeret, aequabilius
atque constantius sese res humanae haberent, neque aliud alio ferri neque mutari ac misceri
omnia cerneres. [4] nam imperium facile iis artibus retinetur, quibus initio partum est. [5]
verum ubi pro labore desidia, pro continentia et aequitate lubido atque superbia invasere,
fortuna simul cum moribus inmutatur. [6] ita imperium semper ad optumum quemque a minus
bono transfertur.

«Tutti gli uomini che mirano a emergere sugli altri esseri animati debbono impegnarsi con il
massimo sforzo, se non vogliono trascorrere l’esistenza oscuri, a guisa di pecore, che la natura
ha create prone a terra e schiave del ventre. Nell’uomo, peraltro, le facoltà risiedono tanto
nell’animo quanto nel corpo: il primo serve da guida, il secondo da strumento, poiché l’animo
l’abbiamo in comune con gli dèi, il corpo con gli esseri bruti. Perciò mi sembra più giusto cercar
la gloria con le doti dell’intelletto che con la forza fisica e, poiché il tempo che abbiamo da
vivere è tanto breve, far sì che duri più possibile a lungo memoria di noi. Fugace, fragile è la
rinomanza che deriva dalla ricchezza e dai pregi del volto, ma la nobiltà dell’animo splende di
vivo lume per sempre. Molto s’è dibattuto e a lungo tra i mortali se la scienza militare dipenda
dal vigore fisico o dall’intelletto. A ben guardare, prima d’intraprendere un’azione è necessario
riflettere e poi agire prontamente; sicché sia al pensiero sia all’azione, che, soli, sono inadeguati,
è necessario l’ausilio reciproco»

In questa notissima pagina Sallustio costruisce una contrapposizione marcata tra il momento
dell’impegno politico attivo, il negotium, e la dimensione intellettuale (ivi compresa la ricerca
storica) dell’otium, a cui attribuisce – ed è questa la novità metodologica di questo proemio –
analoga importanza al primo. Il modo con cui conduce tali riflessioni è poi reso particolarmente
sostenuto dalla riflessione su temi più generali e astrattamente filosofici come quelli relativi
alla superiorità della natura umana rispetto a quella degli animali, cui corrisponde una sincera
sottolineatura del ruolo della virtus, qualità tipicamente romana che nella considerazione
sallustiana è il dato che deriva che da un insieme di qualità intrinseche all’uomo.

Non meno importante è poi il ruolo affidato ai proemi di giustificare la scelta del soggetto
prescelto, come avviene nel capitolo 5 del Bellum Iugurthinum. Qui, infatti, Sallustio entra in
argomento, dando dimostrazione di perizia da storico nel ricostruire gli eventi che hanno
condotto alle evoluzioni del regno di Numidia a partire dal secondo conflitto punico.

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Bellum scripturus sum, quod populus Romanus cum Iugurtha rege Numidarum gessit, primum
quia magnum et atrox variaque victora fuit, dehinc quia tunc primum superbiae nobilitatis
obviam itum est; [2] quae contentio divina et humana cuncta permiscuit eoque vecordiae
processit, [3] ut studiis civilibus bellum atque vastitas Italiae finem faceret. sed prius quam
huiusce modi rei initium expedio, pauca supra repetam, quo ad cognoscund um omnia illustria
magis magisque in aperto sint. [4] Bello Punico secundo, quo dux Carthaginiensium Hannibal
post magnitudinem nominis Romani Italiae opes maxume adtriverat, Masinissa rex Numidarum
in amicitiam receptus a P. Scipione, quoi postea Africano cognomen ex virtute fuit, multa et
praeclara rei militaris facinora fecerat. ob quae victis Carthaginiensibus et capto Syphace,
quoius in Africa magnum atque late imperium valuit, populus Romanus, quascumque urbis et
agros manu ceperat, regi dono dedit. [5] igitur amicitia Masinissae bona atque honesta nobis
permansit. sed imperi vitaeque eius finis idem fuit. [6] Dein Micipsa filius regnum solus obtinuit
Mastanabale et Gulussa fratribus morbo absumptis. [7] is Adherbalem et Hiempsalem ex sese
genuit Iugurthamque filium Mastanabalis fratris, quem Masinissa, quod ortus ex concubina
erat, privatum dereliquerat, eodem cultu quo liberos suos domi habuit.

«Intendo narrare la guerra combattuta dal popolo romano contro il re dei Numidi Giugurta; in
primo luogo perché essa fu lunga, sanguinosa e dall’esito incerto; poi perché allora per la prima
volta si fece fronte all’arroganza dei nobili. 2 Questo conflitto, che sconvolse leggi umane e
divine, giunse a tale follia, che soltanto la guerra e la devastazione dell’Italia posero fine alle
discordie civili. 3 Ma prima di iniziare questa narrazione, mi rifarò un po’ indietro, perché il
complesso degli avvenimenti risulti più chiaro e comprensibile. 4 Nella seconda guerra punica,
in cui il comandante cartaginese Annibale aveva logorato più di ogni altro le forze italiche da
quando si era imposta la grandezza del nome di Roma, il re di Numidia Massinissa, riconosciuto
nostro alleato da quel Publio Scipione che fu poi detto l’Africano per il suo valore, si era distinto
in molte e gloriose azioni di guerra. Perciò, quando furono vinti i Cartaginesi e fu fatto
prigioniero Siface, signore in Africa di un vasto e potente impero, il popolo romano fece dono
al re di tutte le città e le terre da lui conquistate. 5 Da allora Massinissa fu per noi sicuro e fedele
alleato, ma con la sua vita finì anche il suo impero. 6 In seguito regnò da solo suo figlio Micipsa,
poiché erano morti di malattia i suoi fratelli Mastanabale e Gulussa. 7 Egli ebbe due figli,
Aderbale e Iempsale, e accolse in casa, educandolo come i propri figli, il figlio del fratello
Mastanabale, Giugurta, che Massinissa aveva escluso dalla successione perché nato da una
concubina».

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Strutturalmente rilevante è poi la tecnica con cui Sallustio costruisce i suoi personaggi. Attratto
dalla possibilità di ricostruire le differenti pulsioni che animano i protagonisti delle storie, egli
fa ricorso a quella che è stata definita tecnica del “ritratto paradossale”, consistente nel
rappresentare attraverso un’efficacissima scrittura la compresenza di bene e male nell’animo di
un singolo personaggio: così avviene ad esempio per Giugurta o per il celebre ritratto di Catilina
in Cat. 5, 1-8.

L. Catilina, nobili genere natus, fuit magna vi et animi et corporis sed ingenio malo pravoque.
[2] huic ab adulescentia bella intestina caedes rapinae discordia civilis grata fuere, ibique
iuventutem suam exercuit. [3] corpus patiens inediae algoris vigiliae supra quam quoiquam
credibile est. [4] animus audax subdolus varius, quoius rei lubet simulator ac dissimulator,
alieni adpetens sui profusus, ardens in cupiditatibus; satis eloquentiae, sapientiae parum. [5]
vastus animus inmoderata incredibilia nimis alta semper cupiebat. [6] hunc post dominationem
[p. 6] L. Sullae lubido maxuma invaserat rei publicae capiundae; neque id quibus modis
adsequeretur, dum sibi regnum pararet, quicquam pensi habebat. [7] agitabatur magis
magisque in dies animus ferox inopia rei familiaris et conscientia scelerum, quae utraque iis
artibus auxerat, quas supra memoravi. [8] incitabant praeterea corrupti civitatis mores, quos
pessuma ac divorsa inter se mala, luxuria atque avaritia, vexabant.

«Lucio Catilina, di nobile stirpe, fu d’ingegno vivace e di corpo vigoroso, ma d’animo perverso
e depravato. Sin da giovane era portato ai disordini, alle violenze, alle rapine, alla discordia
civile; in tali esercizi trascorse i suoi giovani anni. Aveva un fisico incredibilmente resistente
ai digiuni, al freddo, alle veglie, uno spirito intrepido, subdolo, incostante, abile a simulare e a
dissimulare. Avido
dell’altrui, prodigo del suo; ardente nelle passioni non privo d’eloquenza, ma di poco giudizio;
un animo sfrenato, sempre teso a cose smisurate, incredibili, estreme. Finito il dispotismo di
Silla, fu preso dalla smania d’impadronirsi del potere; pur di raggiungerlo, non aveva scrupoli;
quell’animo impavido era turbato ogni giorno di più dalla penuria di denaro e da cattiva
coscienza, rese più gravi dalle male abitudini cui ho accennato. Lo spingeva inoltre su quella
china la corruzione della città, nella quale imperavano due vizi diversi ma parimenti funesti,
lusso e cupidigia. E poiché son venuto a parlare dei costumi di Roma, si direbbe che
l’argomento stesso m’induca a riandare indietro ed esporre in breve le istituzioni civiche e
militari degli avi nostri, in che modo abbiano governato la repubblica, quanto grande ce

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l’abbiano trasmessa e come poco a poco sia diventata, da splendida e insigne che era, corrotta
e turbolenta».

Questo è forse uno dei ritratti più famosi dell’intera produzione letteraria latina. In esso si
apprezza in particolare la capacità di anticipare il racconto degli eventi attraverso un’efficace
rappresentazione dei protagonisti, le cui inclinazioni più recondite sono riprodotte nel loro
ritratto. Un ritratto che, come si può facilmente apprezzare nel caso di Catilina, è certo a tinte
fosche. Un elemento però centrale dell’arte sallustiana del ritratto è la capacità di offrire al
lettore una pagina retoricamente e artisticamente ben costruita: la narrazione storica è anche
storia dei protagonisti, dei loro vissuti interiori, del loro giganteggiare anche e soprattutto nel
male. Nel caso di Catilina, viene dunque fuori con sapiente maestria un vero e proprio eroe
nero: il giudizio di condanna per l’uomo è certamente netto; i suoi progetti malvagi, che passano
dal coinvolgimento di uomini indeboliti dalla corruzione e dalla degradazione morale,
analogamente condannati. Eppure, il fascino del racconto coinvolge e trascina il lettore: ogni
elemento dell’animo di Catilina viene come scomposto con una tecnica che potremmo dire
‘fotografica’. Il sopravanzare di una descrizione così minuta torna però ad unità, senza cedere
al rischio di una narrazione eccentrica: ciò avviene quando Sallustio dimostra come le passioni
abbiano il sopravvento e dominino del tutto l’uomo. Ogni singola ‘fibra’ così acutamente
descritta è infatti radicalmente trascinata e stravolta dalle passioni insane, che lo divorano, il
cui effetto, come per contagio, ammorba e colpisce la città.

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3 a Lezione - Cesare - testi

Dal punto di vista letterario, a Cesare dobbiamo l’indubbio merito di aver dato forma e valore
al genere del commentarius. Ben inteso, tale forma di scrittura è certamente molto più antica di
quanto non appaia: a Roma essa designa sulle orme di un equivalente greco una sorta di abbozzo
di scrittura dal carattere preparatorio o alternativamente un ‘diario’ in cui si registrano gli eventi
che caratterizzano l’attività di un magistrato o di un uomo politico. Con Cesare, però, il genere
sembra assumere una configurazione differente e dietro tale termine all’apparenza dimesso si
cela una complessa operazione storiografica. Più che di brevi note o di raccolta di materiale
utile a chi volesse in seguito elaborare scritti di grande respiro sulle campagne galliche o sulla
guerra civile, i commentarii cesariani risultano concepiti con finalità che sono anche artistiche.
L’asciutta sobrietà della scrittura accoglie infatti quelle tecniche proprie della più matura
scrittura storiografica, come dimostra il ricorso frequente al discorso diretto, oppure la tendenza
ad enfatizzare certe scene, cui è attribuita particolare importanza, attraverso ben identificabili
tecniche di drammatizzazione.
In merito alla prima delle due opere a noi pervenute, il de bello Gallico, si osserva ad esempio
come esso nel suo dispiegarsi in sette libri (l’ottavo è infatti di Aulo Irzio, luogotenente di
Cesare) si colga una sorta di evoluzione compositiva che va proprio nella direzione di un
accentuarsi di certi fenomeni linguistici ed espressivi, come il ricorso sempre più insistente alla
forma diretta. Noi non sappiamo quando e in che tempi Cesare si dedicò all’opera. Si ritiene
comunemente una composizione molto rapida, tra il 52 e il 51 a.C., subito a ridosso, dunque,
della conclusione della campagna gallica; il che dimostrerebbe una rapida acquisizione delle
tecniche di scrittura storiografica secondo un ben preciso progetto compositivo, consolidatosi
in breve tempo.
Tra le pagine da questo punto di vista più interessanti, vi è certamente il discorso del nobile
arverno Critognato. Questi, nel contesto del lungo assedio della città di Alesia, in cui Cesare è
riuscito a bloccare l’ultima resistenza gallica guidata dal re Vercingetorige, incita gli uomini ad
opporsi alla resa, che da più parti si richiedeva per la privazione di tutti gli elementi di

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sostentamento. Tale discorso, che Cesare stesso cita considerandolo al contempo eccezionale e
feroce insieme, è certamente esemplare per l’ampio utilizzo dell’oratio recta, oltre che per la
qualità delle argomentazioni. Alla considerazione relativa alla necessità di non arrendersi, fa
seguito infatti l’esortazione a cibarsi dei corpi di quanti per età fossero inadatti alla guerra. La
tensione emotiva della pagina giunge al suo vertice nella considerazione dell’antropofagia come
pratica necessaria, anzi addirittura auspicabile perché direttamente collegata al desiderio di no n
arrendersi e di non limitare la propria libertà (Gall. 7, 73).

At ei, qui Alesiae obsidebantur praeterita die, qua auxilia suorum exspectaverant, consumpto
omni frumento, inscii quid in Aeduis gereretur, concilio coacto de exitu suarum fortunarum
consultabant. Ac variis dictis sententiis, quarum pars deditionem, pars, dum vires suppeterent,
eruptionem censebat, non praetereunda oratio Critognati videtur propter eius singularem et
nefariam crudelitatem. Hic summo in Arvernis ortus loco et magnae habitus a uctoritatis,
“Nihil,” inquit, “de eorum sententia dicturus sum, qui turpissimam servitutem deditionis
nomine appellant, neque hos habendos civium loco neque ad concilium adhibendos censeo.
Cum his mihi res sit, qui eruptionem probant; quorum in consilio omnium vestrum consensu
pristinae residere virtutis memoria videtur. Animi est ista mollitia, non virtus, paulisper
inopiam ferre non posse. Qui se ultro morti offerant facilius reperiuntur quam qui dolorem
patienter ferant. Atque ego hanc sententiam probarem (tantum apud me dignitas potest), si
nullam praeterquam vitae nostrae iacturam fieri viderem: sed in consilio capiendo omnem
Galliam respiciamus, quam ad nostrum auxilium concitavimus. Quid hominum milibus LXXX
uno loco interfectis propinquis consanguineisque nostris animi fore existimatis, si paene in ipsis
cadaveribus proelio decertare cogentur? Nolite hos vestro auxilio exspoliare, qui vestrae
salutis causa suum periculum neglexerunt, nec stultitia ac temeritate vestra aut animi
imbecillitate omnem Galliam prosternere et perpetuae servituti subicere. An, quod ad diem non
venerunt, de eorum fide constantiaque dubitatis? Quid ergo? Romanos in illis ulterioribus
munitionibus animine causa cotidie exerceri putatis? Si illorum nuntiis confirmari non potestis
omni aditu praesaepto, his utimini testibus appropinquare eorum adventum; cuius rei timore
exterriti diem noctemque in opere versantur. Quid ergo mei consili est? Facere, quod nostri
maiores nequaquam pari bello Cimbrorum Teutonumque fecerunt; qui in oppida compulsi ac
simili inopia subacti eorum corporibus qui aetate ad bellum inutiles videbantur vitam
toleraverunt neque se hostibus tradiderunt. Cuius rei si exemplum non haberemus, tamen
libertatis causa institui et posteris prodi pulcherrimum iudicarem. Nam quid illi simile bello
fuit? Depopulata Gallia Cimbri magnaque illata calamitate finibus quidem nostris aliquando

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excesserunt atque alias terras petierunt; iura, leges, agros, libertatem nobis reliquerunt.
Romani vero quid petunt aliud aut quid volunt, nisi invidia adducti, quos fama nobiles
potentesque bello cognoverunt, horum in agris civitatibusque considere atque his aeternam
iniungere servitutem? Neque enim ulla alia condicione bella gesserunt. Quod si ea quae in
longinquis nationibus geruntur ignoratis, respicite finitimam Galliam, quae in provinciam
redacta iure et legibus commutatis securibus subiecta perpetua premitur servitute. ”

«Ma gli assediati in Alesia, scaduto il giorno previsto per l’arrivo dei rinforzi ed esaurite tutte
le scorte di grano, ignari di ciò che stava accadendo nelle terre degli Edui, convocarono
un’assemblea e si consultarono sull’esito della propria sorte. E tra i vari pareri - c’era chi
propendeva per la resa, chi per una sortita, finché le forze bastavano - crediamo di non dover
tralasciare il discorso di Critognato per la sua straordinaria ed empia crudeltà. Persona di
altissimo lignaggio tra gli Arverni e molto autorevole, così parlò: “Non spenderò una parola
riguardo al parere di chi chiama resa una vergognosissima schiavitù: costoro non li considero
cittadini e non dovrebbero avere neppure il diritto di partecipare all’assemblea? Mia intenzione
rivolgermi a chi approva la sortita, soluzione che conserva l’impronta dell’antico valore, tutti
voi ne convenite. Non essere minimamente capaci di sopportare le privazioni, non è valore, ma
debolezza d’animo. È più facile trovare volontari pronti alla morte piuttosto che gente disposta
a sopportare pazientemente il dolore. E anch’io - tanto è forte in me il senso dell’onore - sarei
dello stesso avviso, se vedessi derivare un danno solo per la nostra vita. Ma nel prendere la
decisione, rivolgiamo gli occhi a tutta la Gallia, che abbiamo chiamato in soccorso. Quale sarà,
secondo voi, lo stato d’animo dei nostri parenti e consanguinei, quando vedranno ottantamila
uomini uccisi in un sol luogo e dovranno combattere quasi sui nostri cadaveri? Non negate il
vostro aiuto a chi, per salvare voi, non ha curato pericoli. Non prostrate la Gallia intera, non
piegatela a una servitù perpetua a causa della vostra stoltezza e imprudenza o per colpa della
fragilità del vostro animo. Sì, i rinforzi non sono giunti nel giorno fissato, ma per questo dubitate
della loro lealtà e costanza? E allora? Credete che ogni giorno i Romani là, nelle fortificazioni
esterne, lavorino per divertimento? Se non potete ricevere una conferma perché le vie sono tutte
tagliate, prendete allora i Romani come testimonianza del loro imminente arrivo: è il timore dei
nostri rinforzi che li spinge a lavorare giorno e notte alle fortificazioni. Che cosa suggerisco,
dunque? Di imitare i nostri padri quando combattevano contro i Cimbri e i Teutoni, in una
guerra che non aveva nulla a che vedere con la nostra: costretti a chiudersi nelle città e a patire
come noi dure privazioni, si mantennero in vita con i corpi di chi, per ragioni d’età, sembrava
inutile alla guerra, e non si arresero ai nemici. Se non avessimo già un precedente del genere,

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giudicherei giusto istituirlo per la nostra libertà e tramandarlo ai posteri come fulgido esempio.
E poi, quali somiglianze ci sono tra la loro guerra e la nostra? I Cimbri, devastata la Gallia e
seminata rovina, si allontanarono una buona volta dalle nostre campagne e si diressero verso
altre terre, lasciandoci il nostro diritto, le leggi, i campi, la libertà. I Romani, invece, che altro
cercano o vogliono, se non stanziarsi nelle campagne e città di qualche popolo, spinti
dall’invidia, appena sanno che è nobile e forte in guerra? Oppure che altro, se non assoggettarlo
in un’eterna schiavitù? Non hanno mai mosso guerra con altre intenzioni. E se ignorate le
vicende delle regioni più lontane, volgete gli occhi alla Gallia limitrofa, ridotta a provincia: ha
mutato il diritto e le leggi, è soggetta alle scuri e piegata in una perpetua servitù”».

Come risulta evidente, si tratta di un discorso retoricamente ben costruito, nel quale si distingue
una qualche forma di concessione alle ragioni del nemico assediato. L’anelito libertario è infatti
il tema centrale del discorso di Critognato. D’altra parte, tale discorso si distingue per la sua
eccezionale proposta che lo rende meritevole di essere riportato (non praetereunda oratio
Critognati videtur propter eius singularem et nefariam crudelitatem). Mentre dunque sembra
dare una qualche importanza alle ragioni del nemico, attraverso il ricorso al discorso diretto
Cesare presenta in forme drammatizzate lo scontro tra civiltà tra i Romani e i Galli. La proposta
di cibarsi dei cadaveri dei caduti o, per di più, di quanti siano inadatti alla guerra (qui in oppida
compulsi ac simili inopia subacti eorum corporibus qui aetate ad bellum inutiles videbantur
vitam toleraverunt neque se hostibus tradiderunt) è infatti indegna di un popolo civile. Lo stesso
Critognato, d’altra parte, rivendica una pratica che era già stata utilizzata dai Galli al tempo
della guerra contro Cimbri e Teutoni, un modo cioè per sottolineare il suo carattere quasi
consuetudinario. La risposta dei Romani è dunque auspicabile e necessaria in considerazione
di un nemico talmente efferato ed empio.
Passando invece al de bello civili, andrà osservato il modo con cui Cesare tende ad una
narrazione all’apparenza oggettiva per offrire la propria ricostruzione degli eventi.
Caratteristica è ad esempio la ricostruzione di un incontro, successivo alla seduta del senato del
primo gennaio del 49, in cui Pompeo incontra tutti i maggiorenti politici in vista di una
successiva seduta che dovrà sancire le ragioni del Magno (civ. 1, 3-4):

Misso ad vesperum senatu omnes, qui sunt eius ordinis, a Pompeio evocantur. Laudat promptos
Pompeius atque in posterum confirmat, segniores castigat atque incitat. Multi undique ex
veteribus Pompei exercitibus spe praemiorum atque ordinum evocantur, multi ex duabus
legionibus, quae sunt traditae a Caesare, arcessuntur. Completur urbs et ipsum comitium

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tribunis, centurionibus, evocatis. Omnes amici consulum, necessarii Pompei atque eorum, qui
veteres inimicitias cum Caesare gerebant, in senatum coguntur; quorum vocibus et concursu
terrentur infirmiores, dubii confirmantur, plerisque vero libere decernendi potestas eripitur.
Pollicetur L. Piso censor sese iturum ad Caesarem, item L. Roscius praetor, qui de his rebus
eum doceant: sex dies ad eam rem conficiendam spatii postulant. Dicuntur etiam ab nonnullis
sententiae, ut legati ad Caesarem mittantur, qui voluntatem senatus ei proponant. Omnibus his
resistitur, omnibusque oratio consulis, Scipionis, Catonis opponitur. Catonem veteres
inimicitiae Caesaris incitant et dolor repulsae. Lentulus aeris alieni magnitudine et spe
exercitus ac provinciarum et regum appellandorum largitionibus movetur, seque alterum fore
Sullam inter suos gloriatur, ad quem summa imperii redeat. Scipionem eadem spes provinciae
atque exercituum impellit, quos se pro necessitudine partiturum cum Pompeio arbitratur, simul
iudiciorum metus, adulatio atque ostentatia sui et potentium, qui in re publica iudiciisque tum
plurimum pollebant. Ipse Pompeius, ab inimicis Caesaris incitatus, et quod neminem dignitate
secum exaequari volebat, totum se ab eius amicitia averterat et cum communibus inimicis in
gratiam redierat, quorum ipse maximam partem illo affinitatis tempore iniunxerat Caesari;
simul infamia duarum legionum permotus, quas ab itinere Asiae Syriaeque ad suam potentiam
dominatumque converterat, rem ad arma deduci studebat.

«Conclusa verso sera la seduta del senato, tutta la classe dei senatori viene convocata da
Pompeo fuori della città. Pompeo loda i risoluti e li incoraggia per l’avvenire, rimprovera e
sprona quelli troppo esitanti. Da ogni parte, con la speranza di ricompense e di promozioni,
vengono richiamati alle armi molti soldati delle vecchie truppe di Pompeo; sono richiamati in
servizio molti soldati provenienti dalle due legioni consegnate da Cesare. La città si riempie di
commilitoni di Pompeo, di tribuni, di centurioni, richiamati in servizio. Tutti gli amici dei
consoli, i clienti di Pompeo e coloro che avevano vecchi rancori verso Cesare vengono radunati
nel senato; le loro grida e il loro accorrere in massa atterriscono i più deboli, rassicurano gli
incerti; ai più invero è sottratto il potere di deliberare liberamente. Il censore L. Pisone, e
parimenti il pretore L. Roscio, si dichiarano disponibili ad andare da Cesare, per metterlo al
corrente di questi avvenimenti; chiedono sei giorni di tempo per portare a termine la missione.
Da alcuni viene anche proposto di inviare ambasciatori a Cesare, che gli espongano il volere
del senato. A tutte queste proposte fa resistenza e opposizione l’intervento del console, di
Scipione e di Catone. Vecchi rancori nei riguardi di Cesare e il dolore del suo insuccesso
elettorale aizzano Catone. Lentulo è mosso dalla grande quantità di debiti, dalla speranza di
avere un esercito e delle province e dai doni degli aspiranti al titolo di re. Tra i suoi si vanta di

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star per diventare un secondo Silla nelle cui mani ritornerà il potere supremo. Stimola Scipione
una medesima speranza di governo di province e di comando di eserciti che, per legami di
parentela, pensa di potere dividere con Pompeo; e nello stesso tempo lo stimolano il timore di
processi e la propria vanità e l’adulazione dei potenti che in quel tempo avevano grandissima
influenza nello stato e nei tribunali. Lo stesso Pompeo, incitato dagli avversari di Cesare e
poiché non voleva che nessuno gli fosse pari per prestigio, si era del tutto allontanato dalla sua
amicizia e si era riconciliato con comuni avversari, che, in gran parte, egli stesso aveva
procurato a Cesare al tempo della loro parentela. Contemporaneamente, indotto dal disonore di
avere trattenuto a sostegno della propria influenza e supremazia politica due legioni destinate
all’Asia e alla Siria, manovrava affinché la contesa fosse condotta a un confronto armato».

La tensione argomentativa di questo passaggio appare particolarmente meritevole di


considerazione. Attraverso una lettura orientata degli eventi avvenuti in città, Cesare dà conto
dell’attivismo di Pompeo; ma tale attivismo è in realtà il segno di un comportamento
dittatoriale. Infatti, Cesare sottolinea il fatto che Pompeo convoca personalmente i senatori
dopo la fine della seduta regolarmente convocata (misso ad vesperum senatu omnes, qui sunt
eius ordinis, a Pompeio evocantur); d’altra parte, egli sottolinea la natura sostanzialmente a lui
ostile di questa unione di politici che si è coagulata contro di lui (omnes amici consulum,
necessarii Pompei atque eorum, qui veteres inimicitias cum Caesare gerebant, in senatum
coguntur; quorum vocibus et concursu terrentur infirmiores, dubii confirmantur, plerisque vero
libere decernendi potestas eripitur). La seconda parta del brano approfondisce poi questa linea
interpretativa, passando in rassegna i vari protagonisti di questi incontri, tra i quali Catone, il
futuro Uticense, i quali sono presentati alla luce della lente deformata della scrittura cesariana
come mossi da ragioni personali e per nulla interessati al bene della collettività.

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MODULO - LETTERATURA LATINA I

UNITÀ DIDATTICA 1 - LA STORIOGRAFIA

4 a Lezione - Livio e la storiografia in età tardo-repubblicana e imperiale

Il passaggio dalla repubblica al principato determina profondi mutamenti nell’articolazione dei


generi letterari. La storiografia asseconda la riflessione sulla crisi dello stato, come dimostra
l’opera monumentale di Tito Livio (142 libri dei quali sono pervenuti i libri 1-10, 21-45, mentre
dei restanti possiamo leggere le periochae, una raccolta di sommari di epoca incerta) composta
probabilmente negli anni in cui Ottaviano prendeva il potere, subito dopo la battaglia di Azio.
Dalle notizie che possiamo desumere dalle periochae, si comprende che l’ultimo secolo di storia
romana occupava più di metà dell’opera: segno dell’importanza che l’autore accordava al
precipitare degli eventi e alla crisi della repubblica. Questa acuta percezione è perfettamente
rappresentata dalla praefatio, nella quale Livio denuncia l’involuzione della politica romana e
di uno stato che crolla su se stesso. D’altra parte, Livio guarda con grande ammirazione al
passato di Roma, di cui esalta la capacità di espansione nel Mediterraneo così come il rispetto
per i vinti, di cui ha fornito innumerevoli prove. Lo storico è poi particolarmente attento a
rappresentare gli elementi su cui poggia l’originale grandezza dell’impero: in questa
prospettiva, religione, leggende di fondazione, morale e ruolo provvidenziale trovano nella sua
opera una meticolosa trattazione; su questa strada, egli è attento a celebrare le virtù del popolo
romano, senza tuttavia trascurare gli eroi protagonisti delle gloriose vicende della città.
Forse anche in ragione della relativa libertà derivante dal suo essere un provinciale, poco
interessato a fare carriera presso le famiglie illustri di Roma, Livio mostra una relativa
indipendenza verso Augusto. Alcuni luoghi noti dell’opera dimostrano che il suo atteggiamento
nei confronti del principe era rispettoso e anche pronto a recepire versioni ufficiali della storia
romana così come Augusto stesso li aveva interpretati; spesso, infatti, il taglio ideologico con
cui interpreta gli eventi rientra nell’orizzonte della propaganda augustea: doveva essere molto
gradita al princeps infatti la concezione finalistica e provvidenzialistica per cui la storia di Roma
è un ciclo iniziato per volere degli dei e conclusosi con la pax Augusta all’indomani della
battaglia di Azio.

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Ciò non toglie però che Livio si mostrò particolarmente prudente a pubblicare i libri a partire
dal 120, in cui veniva descritta la morte di Cicerone. Si trattava infatti di un tema caldo, a causa
del ruolo di Augusto nelle proscrizioni volute da Antonio, ma da lui sostanzialmente avallate.
Dal punto di vista compositivo, è chiaro che in un’opera di così vasta estensione vengono
utilizzate moltissime fonti, molte delle quali sono per noi perdute. Per il periodo più antico, egli
fece ricorso agli Annales Maximi, in cui venivano riportati i fatti storici salienti di Roma, e che
vennero trascritti e raccolti in 80 libri già nel II sec. a.C., ma anche agli annalisti più rece nti,
come Valerio Anziate e Claudio Quadrigario. Per il periodo successivo, egli segue certamente
Polibio, vicino agli Scipioni, e le Origines di Catone. Spesso è stato osservato che Livio non ha
particolare scrupolo nel vaglio delle fonti, non consulta quelle documentarie come atti ufficiali,
leggi o trattati, né probabilmente ha un metodo sufficientemente raffinato per discernere la
verità fattuale.
Solitamente, è stata operata una distinzione tra la storiografia liviana e quella ‘senatoria’ di
Tacito o Sallustio: Livio, infatti, non avendo mai ricoperto incarichi politici o militari, è
considerato uno storico ‘letterario’, attento particolarmente a rielaborare in forma letteraria i
fatti di cui veniva a conoscenza e a darne una interpretazione moralistica. Una prova di ciò è
certamente l’attenzione per la storiografia tragica, che portava Livio a guardare con grande
interesse a personaggi di particolare rilievo. Non tutti i critici, tuttavia, concordano con tale
distinzione, sottolineando che il taglio letterario caratterizza tutto il genere letterario della
storiografia antica.

Per quel che concerne lo stile, è celeberrima l’accusa di provincialismo padovano mossa a Livio
già da Asinio Pollione e riferita da Quintiliano I 5,56 e VIII 1,3:
et in Tito Livio, mirae facundiae viro, putat inesse Pollio Asinius quandam Patavinitatem
“e in Tito Livio, scrittore meravigliosamente facondo, Asinio Pollione pensa che ci sia una certa
dose di patavinità” (P. Pecchiura).
Nonostante tale provincialismo, Quintiliano apprezzerà moltissimo la nitidezza dello stile
liviano, l’eloquenza mostrata nei discorsi e l’eleganza luminosissima. Livio si distacca
deliberatamente dal modello sallustiano: tende, infatti, a riprodurre le caratteristiche formali
dello stile ciceroniano, col merito di saper rendere la prosa ciceroniana adatta alla scrittura
storica, conferendo alla pagina una drammaticità che ricorda alcuni passaggi del
contemporaneo epos virgiliano. La storia, per Livio, è una narrazione drammatica, che ha lo
scopo di colpire, persuadere ed educare i lettori, e per questo l’autore si inserisce pienamente
nel filone della storiografia ‘tragica’ di ascendenza ellenistica, ma non solo. Egli modula

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sapientemente strategie narrative e toni tipici dell’epica con trame e personaggi di sapore
teatrale. Di tutto questo è prova la pagina dedicata ad un episodio che si trova nel contesto della
narrazione dell’invasione gallica del 361 a.C. Il protagonista della scena è Tito Manlio, che in
seguito alle vicende acquisirà il cognomen di Torquato, che si scontra -unico tra i Romani- con
un soldato Gallo. L’aspetto interessante di questa pagina liviana riguarda essenzialmente le
tecniche narrative. Posto che Livio riconosce all’episodio un ruolo simbolico di primaria
importanza, in quanto consente di dare dimostrazione dell’eroismo di singoli individui nei
momenti cruciali della storia di Roma, la scena è ricostruita con particolare riguardo per gli
aspetti epici. Risultano da questo punto di vista significativi l’attenzione alla descrizione dei
personaggi, la loro caratterizzazione, il loro incedere con decisione e prontezza. Altro elemento
fondamentale è poi nel ricorso insistente al discorso diretto. Tale tecnica narrativa ha certamente
la finalità di accrescere il pathos della rappresentazione, che si giova delle posizioni
contrapposte dei due principali interlocutori, il soldato Gallo e Tito Torquato. Va infine
segnalato che tale pagina liviana consente un confronto esplicito con Claudio Quadrigario:
grazie infatti ad Aulo Gellio, noi abbiamo un ampio frammento (Notti Attiche 9, 13) di
Quadrigario che descrive lo stesso episodio e al quale Livio ha certamente attinto. Il confronto
tra i due testi consente di apprezzare la qualità della scrittura liviana e soprattutto lo sforzo del
Patavino di aumentare il pathos della rappresentazione. Questo il testo (ab urbe condita 7, 9,8-
10):

[8] tum eximia corporis magnitudine in vacuum pontem Gallus processit et, quantum maxima
voce potuit, ‘quem nunc’ inquit ‘Roma virum fortissimum habet, procedat, agedum, ad pugnam,
ut noster duorum eventus ostendat, utra gens bello sit melior.’ diu inter primores iuvenum
Romanorum silentium fuit, cum et abnuere certamen vererentur et praecipuam sortem periculi
petere nollent; [2] tum T. Manlius L. f., qui patrem a vexatione tribunicia vindicaverat, ex
statione ad dictatorem pergit. ‘iniussu tuo’ inquit, ‘imperator, extra ordinem numquam
pugnaverim, non si certam victoriam videam; [3] si tu permittis, volo ego illi beluae ostendere,
quando adeo ferox praesultat hostium signis, me ex ea familia ortum, quae Gallorum agmen ex
rupe Tarpeia deiecit.’ [4] tum dictator ‘macte virtute’ inquit ‘ac pietate in patrem patriamque,
T. Manli, esto. perge et nomen Romanum invictum iuvantibus dis praesta’. armant inde iuvenem
aequales; [5] pedestre scutum capit, Hispano cingitur gladio ad propiorem habili pugnam;
armatum adornatumque adversus Gallum stolide laetum et—quoniam id quoque memoria
dignum antiquis visum est—linguam etiam ab inrisu exserentem producunt. [6] recipiunt inde
se ad stationem, et duo in medio armati spectaculi magis more quam lege belli destituuntur,

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nequaquam visu ac specie aestimantibus pares. [7] corpus alteri magnitudine eximium,
versicolori veste pictisque et auro caelatis refulgens armis; media in altero militaris statura
modicaque in armis habilibus magis quam decoris species. [8] non cantus, non exsultatio
armorumque agitatio vana, sed pectus animorum iraeque tacitae plenum; omnem ferociam in
discrimen ipsum certaminis distulerat. [9] ubi constitere inter duas acies, tot circa mortalium
animis spe metuque pendentibus, Gallus velut moles superne inminens proiecto laeva scuto in
advenientis arma hostis vanum caesim cum ingenti sonitu ensem deiecit; [10] Romanus
mucrone subrecto, cum scuto scutum imum perculisset totoque corpore interior periculo
vulneris factus insinuasset se inter corpus armaque, uno alteroque subinde ictu ventrem atque
inguina hausit et in spatium ingens ruentem porrexit hostem. [11] iacentis inde corpus ab omni
alia vexatione intactum uno torque spoliavit, quem respersum cruore collo circumdedit suo.
[12] defixerat pavor cum admiratione Gallos; Romani alacres ab statione obviam militi suo
progressi, gratulantes laudantesque ad dictatorem perducunt. [13] inter carminum prope in
modum incondita quaedam militariter ioculantes Torquati cognomen auditum; celebratum
deinde posteris etiam familiaeque honori fuit. [14] dictator coronam auream addidit donum
mirisque pro contione eam pugnam laudibus tulit.

«Fu allora che un soldato gallico dal fisico possente si fece avanti sul ponte deserto e urlò con
quanta voce aveva in gola: “Si faccia avanti a combattere il guerriero più forte che c’è adesso a
Roma, così che l’esito del nostro duello stabilisca quale dei due popoli è superiore in guerra”.
Tra i giovani patrizi romani ci fu un lungo silenzio dovuto alla vergogna di non poter raccogliere
la sfida e alla paura di offrirsi volontari per una missione tanto rischiosa. Allora Tito Manlio,
figlio di Lucio, il giovane che aveva salvato il padre dalle accuse del tribuno, lasciò la sua
posizione e si avviò verso il dittatore. “Senza un tuo ordine, o comandante”, disse “non
combatterei mai fuori dal mio posto, neppure se vedessi che la vittoria è sicura. Se tu me lo
concedi, a quella bestia che ora fa tanto lo spavaldo davanti alle insegne nemiche io vorrei dare
la prova di discendere da quella famiglia che cacciò giù dalla rupe Tarpea le schiere dei Galli”.
Allora il dittatore rispose: “Onore e gloria al tuo coraggio e al tuo attaccamento al padre e alla
patria, o Tito Manlio. Vai e con l’aiuto degli dei prova che il nome di Roma è invincibile”. Poi
i compagni lo aiutarono ad armarsi: prese uno scudo da fante e si cinse in vita una spada
ispanica, più adatta per lo scontro ravvicinato. Dopo averlo armato di tutto punto, lo
accompagnarono verso il soldato gallico che stava stolidamente esultando e che (particolare
anche questo ritenuto degno di menzione da parte degli antichi) si faceva beffe di lui tirando
fuori la lingua dalla bocca. Poi rientrarono ai loro posti, mentre i due uomini armati restarono

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soli in mezzo al ponte, più simili in verità a gladiatori che a soldati regolari. Nulla li rendeva
pari, almeno a giudicare dall’aspetto esterno: l’uno aveva un fisico di straordinaria prestanza,
portava vesti sgargianti e rifulgeva di armi cesellate in oro. L’altro era un soldato di media
statura e portava armi più maneggevoli che belle: non cantava, non gesticolava con tracotanza
né faceva vana esibizione delle proprie armi, ma aveva il petto che fremeva di palpiti di coraggio
e di rabbia repressa e riservava tutta la sua aggressività per il culmine dello scontro. Quando
essi presero posizione tra i due eserciti, mentre intorno i cuori di tutti i soldati erano sospesi tra
la speranza e la paura, il campione dei Galli, la cui massa imponente sovrastava dall’alto
l’avversario, avanzando con lo scudo proteso al braccio sinistro, sferrò un fendente di taglio
sull’armatura del Romano che gli veniva incontro, ma lo mancò, con un grande rimbombo. Il
Romano, tenendo alta la punta della spada, colpì col proprio scudo la parte bassa di quello
dell’avversario; poi, insinuatosi tra il corpo e le armi di quest’ultimo in modo tale da non correre
il rischio di essere ferito, con due colpi sferrati uno dopo l’altro gli trapassò il ventre e l’inguine
facendolo stramazzare a terra, disteso in tutta la sua mole. Tito Manlio si astenne dall’infier ire
sul corpo del nemico crollato al suolo, limitandosi a spogliarlo della sola collana, che indossò
a sua volta, coperta com’era di sangue. I Galli erano paralizzati dalla paura mista
all’ammirazione. I Romani, invece, abbandonando la posizione, corsero festanti incontro al loro
commilitone e lo portarono dal dittatore, tra congratulazioni ed elogi. Tra le rozze battute che i
soldati inserivano nei loro cori più o meno simili a versi si sentì anche l’appellativo di Torquato,
soprannome che in seguito rimase famoso e fu anche motivo di onore per i discendenti della
sua famiglia. Il dittatore aggiunse in dono una corona d’oro e di fronte alle truppe in adunata
celebrò con le lodi più alte quel combattimento».

Si è già detto che l’atteggiamento di Livio nei confronti di Augusto fu sempre ispirato alla
prudenza. Non così avvenne per la generazione di storici immediatamente successivi come Tito
Labieno, che compose un’opera storica legata ai tempi convulsi del principato augusteo, in cui
doveva attaccare il potere costituito. Ne derivò una delle prime applicazioni della prassi della
damnatio memoriae: le sue opere furono infatti bruciate nel 12 d.C., evento che portò l’autore
al suicidio.
Il rapporto con il potere cambia radicalmente con lo storico Velleio Patercolo, che rappresentò
nella sua opera storiografica la crisi della repubblica, come punto di partenza su cui innestare
la ricostruzione promossa da Augusto prima, da Tiberio poi. La sua opera storica è infatti
dichiaratamente celebrativa del nuovo principe.

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Quando prese forma una nuova frattura del principato, coincidente con la morte di Domiziano
e l’estinzione della dinastia flavia, la storiografia trovò nuove autorevoli voci. Si trattava di un
ulteriore momento di crisi, che imponeva una seria riflessione sulla gestione di un potere
tirannico e sul diverso atteggiamento degli uomini che questo potere avevano in qualche misura
fronteggiato o silenziosamente assecondato.

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MODULO - LETTERATURA LATINA I

UNITÀ DIDATTICA 1 - LA STORIOGRAFIA

5 a Lezione - Tacito e Svetonio

Quando Tacito si accosta al genere storiografico a partire dal 98, lo fa con due saggi
monografici. Il primo è una biografia del suocero, Giulio Agricola, in cui dedica gran parte
della trattazione alle imprese di conquista della Britannia, lasciando spazio finale ad una
commossa rievocazione dell’uomo che sfiora i toni della laudatio funebris (Audano 2019).
Poco tempo dopo, affronta nella seconda opera storiografica una questione di etnografia legata
ai Germani; si è lungamente dibattuto se la Germania in realtà non fosse una parte di un’opera
storica più ampia, ma la critica, contro questa ipotesi, osserva una compiuta autonomia
dell’opera.
Solo successivamente Tacito si dedica alla composizione di un più ampio progetto
storiografico: nel 105 i primi libri delle Historiae risultano certamente già composti. Il progetto
originario prevedeva verosimilmente 12 libri che coprivano il periodo tra il 69 ed il 96.
Nell’analisi di tale periodo storico, il primo problema che Tacito si pone è relativo alla forma
di governo. Egli ha ben chiara la necessità del principato, ritenuto una forma di governo ormai
insostituibile, ma nell’ambito di tale istituzione egli predilige la formula del principato
d’adozione – l’esempio di Nerva che adotta Traiano è forse al centro dei suoi pensieri – che gli
appare la modalità migliore di trasmissione del potere, in quanto capace di evitarne forme
degenerate. Un altro tema di grande rilevanza nelle Historiae è quello della corte e del gruppo
di uomini che contorna il principe: Tacito mostra con grande chiarezza quanto tale gruppo di
persone vicine al potere orienti di fatto e condizioni fortemente l’operato del principe. Dall’altra
parte c’è la considerazione delle istituzioni come il senato, cui Tacito guarda con atteggiamenti
ambivalenti: esso è infatti il depositario dei valori tradizionali, ma, consapevole del peso che il
principe ha nelle scelte di governo, non ne sopravvaluta la funzione. Buone osservazioni Tacito
indirizza poi all’amministrazione delle province e soprattutto a quelle figure di generali che si
sono distinti in imprese eroiche di acquisizione di nuovi territori e di contenimento
dell’avanzata di popoli stranieri. Poco interessato è invece nella rappresentazione delle masse

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e della plebe urbana; assecondando un’interpretazione sostanzialmente negativa delle passioni
malsane delle masse, Tacito è più interessato a rappresentarne gli istinti negativi.
Come si diceva, lo sguardo di Tacito è particolarmente lucido nella rappresentazione
dell’impero come condizione ineludibile di stabilità e ordine sociale. Solo con l’impero può
esserci sicurezza dalle pressioni che si andavano addensando in varie parti dell’impero. Il che
porta Tacito a concludere che, anche a costo di dover sopportare un cattivo imperatore, non c’è
alternativa alla necessità storica dell’impero. Su questo tema appare interessante osservare
quanto Tacito fa dire a Galba a proposito dell’adozione di Pisone in qualità di suo successore
in Hist. 1, 16:

‘Si immensum imperii corpus stare ac librari sine rectore posset, dignus eram a quo res publica
inciperet: nunc eo necessitatis iam pridem ventum est ut nec mea senectus conferre plus populo
Romano possit quam bonum successorem, nec tua plus iuventa quam bonum principem. sub
Tiberio et Gaio et Claudio unius familiae quasi hereditas fui- mus: loco libertatis erit quod
eligi coepimus; et finita Iuliorum Claudiorumque domo optimum quemque adoptio inveniet.
nam generari et nasci a principibus fortuitum, nec ultra aestimatur: adoptandi iudicium
integrum et, si velis eligere, consensu monstratur. sit ante oculos Nero quem longa Caesarum
serie tumentem non Vindex cum inermi provincia aut ego cum una legione, sed sua immanitas,
sua luxuria cervicibus publicis depulerunt; neque erat adhuc damnati principis exemplum. nos
bello et ab aestimantibus adsciti cum invidia quamvis egregii erimus. ne tamen territus fu eris
si duae legiones in hoc concussi orbis motu nondum quiescunt: ne ipse quidem ad securas res
accessi, et audita adoptione desinam videri senex, quod nunc mihi unum obicitur. Nero a
pessimo quoque semper desiderabitur: mihi ac tibi providendum est ne etiam a bonis
desideretur. monere diutius neque temporis huius, et impletum est omne consilium si te bene
elegi. utilissimus idem ac brevissimus bonarum malarumque rerum dilectus est, cogitare quid
aut volueris sub alio principe aut nolueris; neque enim hic, ut gentibus quae regnantur, certa
dominorum domus et ceteri servi, sed imperaturus es hominibus qui nec totam servitutem pati
possunt nec totam libertatem.’ et Galba quidem haec ac talia, tamquam principem faceret,
ceteri tamquam cum facto loquebantur.

«Se l’immensa mole di questo impero potesse reggersi e bilanciarsi senza una guida, saprei
essere all’altezza di ridare inizio alla repubblica, ma la realtà, e non da oggi, è così compromessa
che la mia vecchiaia altro non può dare al popolo romano se non un buon successore, e non
altro la tua giovinezza se non un buon principe. Sotto Tiberio, Gaio, Claudio noi Romani siamo

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stati, per così dire, proprietà ereditaria di una sola famiglia: sostituisca, in qualche modo, la
libertà l’applicazione che noi facciamo del principio della libera scelta, sicché, finita la casa
Giulia e Claudia, toccherà all’adozione scegliere il più degno. Perché nascere da sangue di
principe? Solo un caso, e niente altro si chiede; l’adozione implica un giudizio imparziale e, al
momento della scelta, il consenso dei cittadini costituisce un’indicazione. Abbiamo davanti agli
occhi Nerone: lui, superbo di una lunga serie di Cesari, l’hanno spazzato dalle spalle del popolo
non Vindice e la sua inerme provincia, non io con la mia sola legione, ma la sua ferocia e le sue
turpitudini; e ancora mancava il precedente di un principe condannato. Noi invece, portati al
potere dalla guerra e da una scelta di stima, non ci salveranno dall’invidia i meriti, per quanto
grandi. Tuttavia, non ti abbattere se, dopo una scossa che ha sconvolto il mondo, due legioni
non sono ancora tranquille: neppure io ho raggiunto il potere in un quadro di pace e, con la
notizia della tua adozione, smetterà di sembrare vecchio, unico rimprovero che attualmente mi
muovono. Le canaglie rimpiangeranno sempre Nerone: mio e tuo compito è evitare che lo stesso
accada alle persone oneste. Ma non è tempo di altre parole: la mia missione è compiuta, se tu
sarai una scelta felice. Il sistema più rapido per distinguere il bene e il male? Pensare a ciò che
sotto un altro principe avresti o voluto o rifiutato. Perché qui non esiste, come dove c’è un re,
un casato di padroni e un popolo di schiavi; tu sei chiamato a comandare su uomini incapaci di
essere schiavi fino in fondo e fino in fondo liberi? Così, o a un dipresso, parlò Galba a Pisone,
come doveva a uno che stava per fare principe; gli parlavano gli altri come se già lo fosse».

Dell’ampia pagina dedicata alle questioni relative alla successione imperiale, emerge in
particolare l’arte del racconto, affidata ad un’ampia sequenza di discorsi diretti, che mirano a
drammatizzare l’evento. Emerge poi la concezione del principato come necessità storica ormai
non più sostituibile. Galba ammette infatti di essere uomo da ‘vecchia Repubblica’, che coltiva
in animo antiche passioni repubblicane, se solo ci fosse ancora la possibilità di uno stato
repubblicano; ormai, tuttavia, la lunga esperienza monarchica sembra non ammettere
alternative (‘Si immensum imperii corpus stare ac librari sine rectore posset, dignus eram a
quo res publica inciperet: nunc eo necessitatis iam pridem ventum est ut nec mea senectus
conferre plus populo Romano possit quam bonum successorem).
In merito poi alla qualità della narrazione, Tacito ha per modello tanto Sallustio quanto Livio,
anche se sembra più vicino al secondo che non al primo, per la netta accentuazione dello spazio
conferito alle passioni umane e ai drammi che esse suscitano. Rispetto ai due modelli, egli
lavora molto sulla concentrazione dell’espressione, superando talune asperità dello stile
arcaizzante sallustiano.

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Come si è già osservato a proposito dell’Agricola, l’esperienza della scrittura biografica si
approfondisce particolarmente nella prima età imperiale, forse anche in considerazione del
ruolo sempre più importante che le figure dei principi e di alti dignitari di corte avevano via via
assunto.

Da questo punto di vista, è particolarmente importante la figura di Gaio Svetonio Tranquillo,


che passerà alla storia come il biografo per eccellenza. Forte dei suoi larghi interessi culturali,
oltre che di una vastissima conoscenza di documenti e atti riservati degli organi di governo,
catalogati e conservati negli archivi del senato, egli concepisce un’opera de viris illustribus,
della quale possiamo farci un’idea molto parziale per via del quasi totale naufragio dell’opera,
tranne che per alcune sezioni de rhetoribus et grammaticis, particolarmente pregevoli. Ma
accanto a quest’opera egli compose anche un de vita Caesarum, una raccolta di biografie degli
imperatori che va da Cesare a Domiziano. Particolarmente interessante appare il fatto che
Svetonio scelga di cominciare da Cesare: il che è già un’interpretazione ragguardevole della
storia delle trasformazioni tardo-repubblicane. La perdita di opere biografiche antecedenti
rende per noi molto difficile valutare se e in che misura Svetonio si distacchi dalla tradizione e
come, per altro verso, egli si ponga in termini di innovazione. Molta attenzione è data a singole
vicende entro le quali l’autore posiziona i fatti e gli eventi più caratteristici della vita dei singoli
personaggi. Uno schema, dunque, in qualche modo fisso, che lascia però molto spazio ad
aneddoti e rievocazioni che paiono tutto sommato attendibili. Lo si desume in molti casi da
comuni attestazioni in Plutarco. La voce dell’autore non è mai per così dire assente: egli, al
contrario, prende spesso posizione, ma senza che un peso eccessivamente moralistico
comprometta la buona tenuta della pagina svetoniana. Il racconto inclina così a recepire molte
curiosità, senza tuttavia smarrire la finalità informativa. Ne deriva l’esigenza di una via di
mezzo che non tocca mai i vertici del pathos, ma neppure scende troppo in basso, in una
narrazione che tende ad informare il lettore, fornendo con un certo compiacimento narrativo
particolari attendibili circa la ricostruzione di eventi, i cui contorni potevano in taluni casi non
essere del tutto chiari. A differenza di quello tacitiano, il suo stile appare certamente più ricco,
anche se egli sembra rinunciare a certi effetti espressivi che probabilmente, in forza
dell’esperienza delle contemporanee scuole di declamazione, si andavano a quel tempo
affermando. Non c’è forse particolare emozione nelle sue pagine, anche se alcune paiono
particolarmente curate come quelle, ad esempio, tratte dalla vita di Nerone, nelle quali
ricostruisce con precisione e un certo compiacimento narrativo gli eventi che portarono alla
morte del principe.

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MODULO - LETTERATURA LATINA I

UNITÀ DIDATTICA 1 - LA STORIOGRAFIA

BIBLIOGRAFIA

Audano, S. (2019). Tacito. Agricola. Sant’Arcangelo di Romagna: Rusconi.


Audano, S. (2020). Tacito. La Germania. Sant’Arcangelo di Romagna: Rusconi.
Canfora, L. (1979). La Germania di Tacito da Engels al Nazismo. Napoli.
Cipriani, Giovanni (1988). Sallustio e l’immaginario. Per una biografia eroica di Giugurta.
Bari: Adriatica Ed.
Cipriani, G, Masselli, G.M., Montanari, L. and Introna, F. (Eds.). (2008). La guerra civile:
testo latino a fronte. Siena: Lorenzo Barbera Editore.
Della Corte, F. (1969). Catone Censore. La vita e la fortuna. Firenze: La Nuova Italia.
Frier, B.W. (1999). Libri annales pontificum maximorum: the origins of the annalistic
tradition. Ann Arbor (Mich.): University of Michigan Pr.
La Penna, A. (1978). Aspetti del pensiero storico latino. Torino: Einaudi.
Mazza, M. (1967). Storia e ideologia in Livio. Per un’analisi storiografica della praefatio ai
Libri ab Urbe condita. Roma: Ed. Bonanno.
Rambaud, M. (1953). L’art de la déformation historique dans les Commentaires de César.
Paris: Les Belles Lettres.
Syme, R. (1968). Sallustio. Brescia: Paideia Ed.

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MODULO - LETTERATURA LATINA I

UNITÀ DIDATTICA 2 - ORATORIA E RETORICA

1 a Lezione - La nascita dell’oratoria e della retorica

Tra tutti i generi letterari, l’eloquenza è quello che forse a buon diritto può esser considerato tra
i più caratteristici dell’antica Roma. Eppure, del suo originario affermarsi poche sono le
testimonianze, a tal punto che quando un esperto della materia prova in una delle sue opere più
rappresentative, il Brutus, a ricostruire la storia dell’affermarsi del genere a Roma, non può che
ribadire a più riprese di non poter provare con sicurezza le qualità oratorie dei protagonisti della
storia romana ed anzi di procedere per congetture e ipotesi. Tipico del modo di ricostruire
l’evoluzione stessa del genere è ad esempio un breve inciso riguardante Scipione l’Africano
maggiore, del quale Cicerone afferma non infantem video, «vedo che non dev’esser stato del
tutto inesperto dell’arte del dire», una maniera dunque inferenziale di ricostruire qualcosa di
cui non si hanno altre certezze. D’altra parte, proprio il riferimento alla presunta eloquenza di
Scipione l’Africano consente di osservare un tratto particolarmente significativo dell’eloquenza
a Roma in età arcaica. Attraverso due testimonianze, di Tito Livio e di Gellio, sappiamo di
un’accusa pesante di corruzione che gli sarebbe stata rivolta, a cui, convocato a processo in una
pubblica assemblea, si sarebbe rifiutato di rispondere, invitando piuttosto il popolo ad andare
insieme a lui ad offrire sacrifici a Giove Ottimo Massimo. L’aneddoto appare interessante
perché mette in chiaro il ruolo della auctoritas, elemento fondamentale della nobilitas, ma
anche principio costitutivo dell’eloquenza di età arcaica. Come confermano le testimonianze in
nostro possesso relative al processo di età arcaica, i detentori delle formule da pronunciare
presso il iudex erano una cerchia eletta di uomini depositari di un sapere elitario.
Qualcosa di analogo si dimostra a proposito delle resistenze opposte ancora a metà del primo
secolo rispetto alla progressiva penetrazione di retori e filosofi greci. Due testimonianze
provenienti dal de grammaticis et rhetoribus di Svetonio documentano con precisione una serie
di iniziative del senato contro la presenza a Roma di esperti greci che insegnavano retorica; ma
proprio queste iniziative volte a proibire dimostrano, sia pur ancora una volta in maniera
indiretta, che questi insegnamenti dovevano essere piuttosto diffusi, ancorché avversati da vari

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gruppi di potere. Qualcosa del genere avverrà poi intorno alla metà degli anni 90 a.C. quando
– lo apprendiamo sempre da Svetonio – una iniziativa analoga fu presa da parte dei censori
volta a chiudere la cosiddetta scuola dei rhetores Latini. Un esperto di retorica, Plozio Gallo,
aveva infatti aperto una scuola in cui si impartivano insegnamenti di retorica, probabilmente in
lingua latina. Questa scuola doveva aver avuto grande successo, testimoniato dall’accorrere in
massa di giovani desiderosi di apprendere i precetti della retorica.
Riferisce Svetonio nel de grammaticis 25,4 (Gell. 15,11,2) che nel 92 a.C., quando Crasso e
Domizio Enobardo ricoprirono la censura, promulgarono un editto che aveva il chiaro obiettivo
di chiudere la scuola di Plozio Gallo:

Renuntiatum est nobis esse homines, qui novum genus disciplinae instituerunt, ad quos iuventus
in ludum conveniat; eos sibi nomen inposuisse Latinos rhetores; ibi homines adulescentulos
dies totos desidere. Maiores nostri, quae liberos suos discere et quos in ludos itare vellent,
instituerunt. Haec nova, quae praeter consuetudinem ac morem maiorum fiunt, neque placent
neque recta videntur. Quapropter et his, qui eos ludos habent, et his, qui eo venire consuerunt,
visum est faciundum, ut ostenderemus nostram sententiam nobis non placere.

«Ci è stato riferito di persone che hanno istituito un nuovo genere d’insegnamento, e la gioventù
va a scuola da loro; che costoro si sono dati il nome di retori latini; che li i giovani passano in
ozio le giornate intere. I nostri antenati hanno fissato quali materie volevano imparate dai loro
figli, quali scuole frequentate. Queste novità che vanno oltre l’uso e la tradizione degli antenati
non sono gradite e non risultano corrette. Perciò sia a chi tiene queste scuole sia a chi ha preso
l’abitudine di frequentarle, è parso opportuno far presente la nostra opinione assolutamente
negativa» (G. Bernardi Perini)

Proprio le resistenze del potere politico, testimoniate in questo passo, ancorate al modello
pedagogico tradizionale, dimostrano che questa scuola si poneva in una linea di netta
discontinuità rispetto alle prassi allora consolidate di trasmissione del sapere. Si ritiene infatti
che l’apertura di questa scuola fosse percepita dalla nobilitas come una sorta di attentato alle
modalità tradizionali di insegnamento/apprendimento della retorica. La dura reazione della
nobilitas si spiega infatti facilmente come paura della perdita della auctoritas. Ciò che
costituiva il maggior pericolo fino a costituire un attentato all’auctoritas era il fatto che
l’insegnamento si ergeva a sostituto delle pratiche tradizionali di insegnamento della retorica
che prevedevano il tirocinium fori. Esso era infatti una conferma stessa del principio di

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auctoritas in quanto il giovane in formazione veniva di fatto affidato alle cure di un riconosciuto
principe del foro, al cui seguito apprendeva i segreti della pratica forense. L’insegnamento, per
di più condotto in latino, si poneva come alternativo a questa antica modalità e dunque contro
una tradizione centenaria.
Ma la chiusura della scuola, che dovette avvenire poco dopo il 92 a.C., fu forse uno degli ultimi
momenti di una reazione di tipo conservativo da parte del potere costituito, perché in realtà alla
metà degli anni 50 a.C. che ciò che veniva inizialmente considerato inammissibile divenne una
prassi consolidata: sappiamo infatti che varie scuole si aprirono in varie parti dell’impero,
avviando una tendenza che, pur con qualche variazione, resterà invariata nel corso dei secoli.
Per tracciare una storia dell’eloquenza è necessario fare comunque un passo indietro ed
individuare quello che, secondo la ricostruzione operata da Cicerone, è il personaggio con cui
«si chiude la preistoria e comincia la vera storia dell’eloquenza romana» (Barchiesi 1981): gli
riconosce infatti la capacità di utilizzare tropoi e schemata e tutte le virtù necessarie, oltre che
dei contenuti tecnici irrinunciabili.
Per cogliere la grande competenza catoniana, un punto di osservazione privilegiato è il
frammento dell’orazione de sumptu suo, in cui egli si difende dall’accusa di aver adottato uno
stile di vita ben lontano dai principi difesi caparbiamente per tutta una vita:

«Mi feci portare il libro in cui era scritto il mio discorso riguardante l’impegno preso con Marco
Cornelio. Si produssero le tavolette. Fu data lettura dei servizi resi dai miei antenati; di seguito
si leggono le azioni che io personalmente avevo compiuto per la repubblica. Letti che furono
gli uni e le altre, nel passo dell’orazione immediatamente seguente si trovava scritto: «Mai i
miei denari e quelli degli alleati io ho profuso per brogli». Via, via, codesto non lo scrivere: non
lo vogliono udire. Continuò a leggere: «Mai nelle città dei vostri alleati ho imposto prefetti, che
mettessero mano sui loro beni e sui loro figli». Cancella anche questo; non lo vogliono udire.
Seguita a leggere. «Mai del bottino né di altro preso ai nemici né del denaro che ne proveniva
feci parte a pochi amici miei, per spogliarne quelli che l’avevano preso». Cancella anche questo:
non c’è nulla che meno vogliano si dica; non occorre se ne dia lettura. «Mai ho firmato licenze
di viaggio, perché i miei amici, forniti di credenziali ufficiali, facessero quattrini». Anche
questo seguita quanto ti è possibile a cancellarlo. «Mai ho distribuito denaro ai miei amici e
subalterni in cambio dell’assegnazione di vino, né li ho fatti ricchi con danno dello Stato». In
fede mia, anche questo cancellalo, fino al legno della tavoletta. Vedi un po’ in che condizioni è
lo Stato. Quel che gli ho fatto di bene, quello da cui io traevo il favore, proprio quello oggi non

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oso ricordarlo, perché non sia causa di malanimo. Tanto ormai è invalso l’uso di fare il male
impunemente, ma il bene impunemente poi no!» (M.T. Sblendorio Cugusi)
Catone riprende con sguardo attento le azioni che egli stesso compie per preparare un’orazione,
con la collaborazione di un segretario a cui chiede di leggere parti di un’orazione già scritta e
conservata, di trascriverne alcune, di ometterne altre. Interessante notare, inoltre, come Catone
scriva le sue orazioni concependole come un testo ‘orale’, escludendo del tutto la prassi
dell’improvvisazione, non solo con accurata attenzione alla sintassi ma anche con la
consapevolezza che il ritmo, le pause e le ripetizioni, le intonazioni sono strumento
fondamentale di persuasione.
Dopo l’esperienza catoniana, nel corso del primo secolo anche a Roma cominciò
progressivamente ad affermarsi una riflessione teorica sul genere letterario dell’oratoria: agli
anni ‘80 si datano infatti i due pressoché coevi trattati della Rhetorica ad Herennium e del de
inventione.
Se di quest’ultimo si avrà modo di parlare nell’unità successiva, vale la pena spendere qualche
parola per la Rhetorica ad Herennium, trattato di autore anonimo da taluni identificato con
Cornificio, che testimonia l’interesse a Roma, nel primo secolo a.C., per la formalizzazione di
un sapere tecnico latino sull’eloquenza: l’autore lascia a più riprese intendere, infatti, un certo
fastidio per la manualistica greca. Per questa ragione, redige un vero e proprio corso di retorica,
imperniato sull’assunto fondamentale che il compito dell’oratore è saper parlare di tutto ciò che
nella società è normato da consuetudini e da leggi; lo fa, tuttavia, traendo la sua dottrina retorica
proprio dalla criticata manualistica greca, sforzandosi di esporla con una terminologia del tutto
latinizzata.
L’opera è impostata come trattazione sistematica e percorre la divisione nei tre generi di cause,
dimostrativo, deliberativo e giudiziale, formalizza le cinque parti costituenti la tecnica
(inventio, dispositio, elocutio, memoria, pronuntiatio) e, per ciò che concerne l’elocutio, si
sofferma a descrivere i tre stili (figura gravis, mediocris, extenuata) e le loro qualità (elegantia,
compositio, dignitas).
L’autore, tuttavia, non si configura come un mero tecnico, ma è un retore professionista,
probabilmente di rango equestre, dotato di un’ampia cultura filosofica, di notevole originalità
e capacità critica, soprattutto nel selezionare esempi significativi e nel distinguere gli aspetti
più rilevanti dei gusti che dominavano nell’arte retorica dell’epoca.

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MODULO - LETTERATURA LATINA I

UNITÀ DIDATTICA 2 - ORATORIA E RETORICA

2 a Lezione - Cicerone, le opere retoriche

Durante il corso dell’intera sua vita, Cicerone affiancò la pratica politica e giudiziaria con la
riflessione teorica sull’arte oratoria, che non solo esplorava le tecniche e gli strumenti necessari
ad un bravo oratore ma, con una prospettiva di più ampio respiro, delineava le caratteristiche
che un perfectus orator doveva possedere.
Il merito storico di tale riflessione è stato prima di tutto quello di far passare alla cultura latina
i precetti e la sapienza della cultura greca a quella latina, ma anche di individuare il perfectus
orator come un cittadino di saldi principi etici, che pone la sua vastissima cultura al servizio
della collettività, finalizzata al benessere dello Stato.
Come si è avuto modo di anticipare, la prima tappa della ricerca ciceroniana in ambito retorico
è il de inventione, un denso trattato giovanile in due libri, composto intorno all’84 a.C.,
incentrato sulla inventio, la prima fase di composizione delle orazioni.
Il trattato doveva probabilmente far parte di un progetto più ampio, in cui un giovane Cicerone
progettava un’opera complessiva sulla retorica, affrontando tutte le parti della retorica: non solo
l’inventio, dunque, ma anche dispositio, elocutio, memoria e pronuntiatio o actio. Alla fine del
secondo libro, l’autore promette infatti la trattazione completa ed esaustiva: quoniam et una
pars ad exitum hoc ac superiore libro perducta est et hic liber non parum continet litterarum,
quae restant, in reliquis dicemus (II 178) “Pertanto, poiché in questo libro e nel precedente è
stata sviluppata una sola parte della materia, e poiché questo secondo libro è venuto fuori
piuttosto ampio, tratteremo ciò che resta da dire nei libri seguenti”. Per ragioni non note, invece,
Cicerone si ferma invece alla prima parte relativa all’inventio, abbandonando il progetto.
Quello che distingue particolarmente il de inventione dalla rhetorica ad Herennium è
certamente il costante interesse ciceroniano a porre in evidenza il legame tra eloquenza e
sapientia, istituendo un legame profondo tra etica e politica.
Fin dal proemio, infatti, l’autore riflettendo sul difficile rapporto fra sapientia ed eloquentia,
pone come necessario armonizzare i due aspetti, constatando che la sapientia senza l’eloquentia

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non contribuisce efficacemente al benessere dello stato, mentre l’eloquentia, qualora sia priva
della sapientia, risulta dannosa per la collettività: saepe et multum hoc mecum cogitavi, bonine
an mali plus attulerit hominibus et civitatibus copia dicendi ac summum eloquentiae studium.
Nam cum et nostrae rei publicae detrimenta considero et maximarum civitatum veteres animo
calamitates colligo, non minimam video per disertissimos homines invectam partem
incommodorum (I, 1).

Cicerone tornerà in seguito alla trattatistica di argomento retorico, segno di un interesse


avvertito come molto forte, una trentina di anni dopo, nel periodo immediatamente successivo
all’esilio. Del 55 è infatti il de oratore, un trattato di ampio respiro in tre libri, di impostazione
dialogica, in cui vengono delineate le caratteristiche del buon oratore.
La scelta della forma del dialogo non è senza significato, perché manifesta il desiderio
dell’autore di un’opera che si presenti non dogmatica, ma aperta ad un’affermazione della verità
progressiva e frutto di una mediazione. Il dialogo è ambientato in una villa nei pressi di Frascati,
nel 91 a.C. e i protagonisti indiscussi dell’opera sono i due principi del foro, Licinio Crasso,
padrone di casa, e Marco Antonio, morti da tempo all’epoca della composizione, che Cicerone
considera suoi maestri. Si è spesso insistito nell’affermare che Crasso sarebbe il portavoce del
pensiero di Cicerone: per certi versi questa idea è vera: Crasso esprime la concezione altissima
di una eloquenza che si nutre di una cultura altissima, fatta di filosofia, competenze tecniche,
diritto, cui Cicerone crede fermamente. Tuttavia, anche Antonio svolge una parte fondamentale,
che non può essere ridotta a semplice contraltare di Crasso: Antonio richiama alla concretezza
di una discussione e di un argomento che necessita di rigore e precisione. Come deve essere,
dunque, un buon oratore, nella prospettiva ciceroniana? Deve avere una conoscenza vasta, un
buon sapere enciclopedico, con particolare riguardo al diritto e alla filosofia, ed infine deve
conoscere gli artifici della tecnica retorica. Cicerone, tuttavia, accanto a tali caratteristiche pone
come principio fondamentale che l’oratore sia un vir bonus dicendi peritus, rinsaldando di fatto
il legame tra etica e professione, già individuato nella produzione giovanile.
Vediamo adesso nel dettaglio nuclei concettuali più rilevanti del dialogo.
Il primo libro esordisce con l’elogio dell’eloquenza, come strumento di elevazione dell’uomo
dallo stato ferino alla vita associata, normata da leggi e diritto. Sebbene il discorso attinga alla
matrice isocratea, Cicerone vi innesta ampie riflessioni sul legame tra eloquenza, pace sociale
e libertà. Con il contributo degli altri interlocutori, poi, come Scevola e Antonio, viene
introdotto quello che costituisce un fil rouge del de oratore: il rapporto tra retorica e filosofia,
secondo la concezione per cui la capacità di persuadere l’uditorio non poteva prescindere dalla

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conoscenza delle dinamiche che muovono l’animo degli uditori e di tutta una serie di altri
concetti filosofici normalmente assenti nell’insegnamento retorico.
Viene poi affrontata una questione con cui esordivano spesso i trattati di retorica: se essa sia o
meno un’arte. Nel confronto tra le diverse opinioni, sembra prevalere la soluzione proposta da
Crasso, a cui la controversia appare una mera questione di terminologia. Se per arte si intende
un sistema dottrinale strutturato, compatto, ‘duro’, allora non si tratta di ‘mera’ arte: l’oratore
infatti non può fare a meno di conoscere ed utilizzare varie conoscenze ‘empiriche’, che hanno
spesso le loro basi nel comune sentire delle persone.
Ma, concludendo, che cos’è realmente l’eloquenza? Cicerone, attraverso l’opinione espressa da
Crasso, evita la definizione di semplice ‘arte della persuasione’, preferendo una visione più
ampia, che guardi al bene dicere come un’arte affiancata da una componente morale, dalla
capacità di suscitare o placare le emozioni, da una solida conoscenza delle leggi che fondano la
vita comunitaria.
Nove anni dopo la scrittura del de oratore, Cicerone torna ad occuparsi di trattatistica retorica
in un ben diverso clima storico-politico. Del 46 sono infatti Brutus e Orator. La prima in
particolare è il frutto di un progetto ambiziosissimo: Cicerone disegna infatti una storia
dell’eloquenza greca e latina partendo dalle origini del genere e fino ai tempi suoi. Ma l’opera
ha anche un’altra finalità: in quegli stessi anni, acquisiva sempre più credito il movimento
atticista; una nuova generazione di oratori aveva preso il sopravvento, polemizzando
apertamente contro Cicerone e i suoi eccessi asiani. Così la composizione stessa di un’opera
che ricostruisca l’affermarsi di un genere offre anche la possibilità di una sottile ma puntigliosa
autodifesa. Come è stato più volte notato, il trattato ha una singolare costruzione ‘architettonica’
(Romano 2016): il dialogo riproduce alla maniera platonica la conversazione stimolata da due
giovani oratori ancora in formazione, Gaio Aurelio Cotta e Servio Sulpicio Rufo, che si
rivolgono ai due ‘principi del foro’, Antonio e Crasso. Ancora una volta, la cornice è dunque
chiave di lettura fondamentale: l’autore presenta l’argomento non in maniera dogmatica, ma
aperta e, per così dire, presentata ‘dal basso’. È poi significativa la scelta di retrodatare l’opera,
ambientandola agli anni ‘90, prima appunto della morte di Crasso. Negli ultimi paragrafi del
terzo libro, infatti, si prefigura intanto la morte di Crasso, ma soprattutto si anticipa con toni
particolarmente entusiastici la nascita in un tempo ancora non definito di qualcuno che possa
portare in alto la visione ideale dell’oratore come leader politico. È chiaro che Cicerone, senza
nominarsi, sta pensando a se stesso, prefigurando la sua prossima ascesa.
La struttura del Brutus è, tutto sommato, chiara: dopo un appassionato proemio in cui si esalta
la figura dell’oratore amico e rivale Ortensio Ortalo, adombrando però dietro la morte

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dell’uomo la scomparsa ben più pesante della res publica (si è giustamente parlato di ‘notte
della repubblica’: vd. Narducci 1998), la composizione procede tentando di ricostruire le origini
greche del genere letterario. Quando poi la narrazione si sposta dalla Grecia a Roma, procede
per generazioni di oratori, fornendo spesso coppie di oratori contrapposti, al fine di illustrare le
caratteristiche differenti di varie tipologie di oratoria. La narrazione culmina con l’affermarsi
della generazione dell’autore stesso: qui Cicerone decide di fermarsi con il successo giovanile
delle Verrine, l’appassionata difesa dei Siciliani che egli identifica come il punto di svolta della
sua carriera.
Nel coevo Orator, Cicerone approfondisce poi un concetto a lui molto caro, relativo al fatto che
il metro su cui misurare l’eloquenza è il successo del pubblico. Più che al parere degli esperti,
l’oratore deve dunque valutare le opinioni degli ascoltatori. Sempre nell’Orator è poi la
riflessione sui tria genera dicendi, umile, piano ed elevato, cui Cicerone associa in una maniera
che resterà nella tradizione seriore i tria officia dell’oratore: lo stile umile è quello del docere;
il medio al delectare, l’elevato al movere. Ancora nell’Orator è poi un’originale trattazione sul
ritmo e sulle clausole: si tratta di un tema appena sfiorato nel terzo del libro del de oratore, cui
Cicerone attribuiva evidentemente grande valore. La trattazione è particolarmente pregevole
perché essa attinge pressoché esclusivamente a fonti greche, che Cicerone ha cura di arricchire
con esempi da lui prodotti. Molto probabilmente, d’altra parte, egli tiene particolarmente al
tema, identificandovi un aspetto assai trascurato dagli Atticisti: era evidentemente anch’esso un
motivo polemico di contrapposizione con questa tendenza oratoria sempre più in auge.

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MODULO - LETTERATURA LATINA I

UNITÀ DIDATTICA 2 - ORATORIA E RETORICA

3 a Lezione - Cicerone e le orazioni: ritratto di un uomo politico

Cicerone è l’oratore latino a noi più noto, in quanto ci è stato tramandato un corpus di 58
orazioni, appartenenti sia al genere deliberativo sia giudiziario. Questo poiché lo stesso autore
pubblicò i testi delle proprie orazioni, avvalendosi con ogni probabilità dell’aiuto del suo liberto
Tirone e dell’amico Attico.
A differenza di quanto accade oggi, gli oratori latini non leggevano i propri discorsi ma, dopo
aver elaborato il testo, si sforzavano di memorizzarlo e lo recitavano davanti al pubblico. Da
molte fonti sappiamo che il testo elaborato dagli oratori era costituito da appunti che
delineavano una traccia del discorso e soltanto i passaggi più complessi venivano stesi con
precisione e poi imparati a memoria. In particolare, Tirone pubblicò postumo un quaderno di
appunti di Cicerone, i commentarii causarum, che ci mostrano come l’oratore concedeva ampio
spazio all’improvvisazione, soprattutto per rispondere ad eventuali nuove contestazioni degli
avversari o per virare rispetto alle argomentazioni preparate.
La scrittura e la pratica oratoria per Cicerone, anche quando era impegnata in cause di diritto
privato, era da lui concepita come strumento attivo per intervenire nella vita politica: questo
assunto risulta chiaro già dalle prime orazioni che risalgono al tempo della dittatura sillana e
che restituiscono un primo profilo ideologico dell’Arpinate: egli, sebbene apprezzasse nelle sue
linee fondamentali la politica sillana, ne censurava gli abusi e le proscrizioni: non era disposto,
infatti, a pagare un simile prezzo per riportare la società all’ordine e restituire prestigio alla
nobilitas.
La pro Quinctio e la pro Roscio Amerino sono le prime cause in cui Cicerone affronta
un’impresa impegnativa: non solo l’accusa era sostenuta da Ortensio Ortalo, oratore di
grandissimo prestigio, ma la dimostrazione ciceroniana era rivolta contro personaggi di orbita
sillana, come il potente liberto Cornelio Crisogono; l’oratore riesce nel difficile intento di
escludere Silla da ogni responsabilità nelle cause, cominciando a costruire l’immagine di sé che
lo connoterà in tutta la sua carriera: un homo novus schierato con le classi conservatrici ma
capace di difendere la giustizia al di sopra degli interessi dei singoli.

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Così, già nelle sette Verrine, in cui sosteneva l’accusa contro Gaio Verre, rapace governatore
in Sicilia, in una causa de repetundis (cioè per la restituzione di denaro illegalmente estorto),
Cicerone si pose non come accusatore di un rappresentante del senato ma come difensore del
suo prestigio contro personaggi che ne offuscavano l’immagine e quindi l’autorevolezza
politica. Aggiunge qui un tassello alla propria immagine: un homo novus che auspica la
collaborazione tra gli ordini senatorio ed equestre nella difesa dell’ordine repubblicano.
Comincia quindi la teorizzazione della concordia ordinum, il progetto di una coalizione tra
senatori e cavalieri allo scopo di tutelare l’ordine dello stato, minata dalle tensioni che
sorgevano in seno ai ceti più poveri, sostenuti dai populares: proprio questo profilo complesso
dell’ideologia politica ciceroniana rese possibile la sua elezione a console, un incarico che egli
esercitò nell’interesse dei ceti possidenti, anche opponendosi all’approvazione della nuova
legge agraria con le quattro orazioni deliberative de lege agraria.
Il malcontento dei ceti più poveri per il fallimento della riforma agraria trovò presto espressione
nella congiura architettata dal nobile Lucio Sergio Catilina, nobile popularis che riunì intorno
a sé persone di ogni ceto sociale, che speravano nel cambiamento per il tramite di una
rivoluzione. Cicerone, venuto a conoscenza della congiura, chiese al senato ed ottenne poteri
eccezionali e attaccò al senato Catilina, mostrando apertis verbis nella prima delle quattro
Catilinarie le sue trame cospiratrici. Catilina fuggì da Roma per raggiungere i propri seguaci in
Etruria, Cicerone frattanto pronunciò la seconda orazione, con la quale svelò al popolo le
intenzioni di Catilina. Quando venne a sapere che i catilinari stavano tentando di ricevere armi
dagli Allòbrogi, Cicerone li fece arrestare e si propose come salvatore della patria nella terza
catilinaria, pronunciata davanti al popolo. Infine, quando il senato si riunì per deliberare sulla
sorte dei congiurati, si opposero Cesare, che richiedeva una condanna più mite, e Catone
l’Uticense, che parlò in favore di una condanna esemplare. Cicerone pronunciò allora la quarta
catilinaria, schierandosi a sostegno della richiesta catoniana.
Con la repressione della congiura, Cicerone consolidò definitivamente la propria immagine di
difensore delle istituzioni repubblicane, ma questo fu anche il primo passo verso il declino
politico, complice la stipula del primo triumvirato, che sancì l’indebolimento del potere del
senato e il conseguente isolamento di Cicerone. Prima conseguenza di questo cambiamento
dell’assetto politico fu la condanna all’esilio, che egli trascorse in Grecia tra il 58 ed il 57 a.C.:
dopo un anno e mezzo venne richiamato a Roma da Pompeo e pronunciò le orazioni cosiddette
post reditum, nelle quali ringrazia il senato e il popolo di averlo riaccolto (post reditum in senatu
e post reditum ad Quirites) e perora la causa di restituzione dei propri beni (de domo sua ad
pontifices e de haruspicum responso).

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L’esilio costituisce un vero e proprio spartiacque nella carriera politica di Cicerone, in quanto
egli trovò la città in una situazione di grave incertezza e disordine e con l’occasione della difesa
dell’amico Sestio, traccia le linee di un nuovo pensiero politico: il consensus omnium bonorum.

Duo genera semper in hac civitate fuerunt eorum qui versari in re publica atque in ea se
excellentius gerere studuerunt; quibus ex generibus alteri se popularis, alteri optimates et
haberi et esse voluerunt. qui ea quae faciebant quaeque dicebant multitud ini iucunda volebant
esse, populares, qui autem ita se gerebant ut sua consilia optimo cuique probarent, optimates
habebantur.
Quis ergo iste optimus quisque? numero, si quaeris, innumerabiles, neque enim aliter stare
possemus; sunt principes consili publici, sunt qui eorum sectam sequuntur, sunt maximorum
ordinum homines, quibus patet curia, sunt municipales rusticique Romani, sunt negoti gerentes,
sunt etiam libertini optimates. numerus, ut dixi, huius generis late et varie diffusus est; sed
genus universum, ut tollatur error, brevi circumscribi et definiri potest. omnes optimates sunt
qui neque nocentes sunt nec natura improbi nec furiosi nec malis domesticis impediti. esto
igitur ut ii sint, quam tu ‘nationem’ appellasti, qui et integri sunt et sani et bene de rebus
domesticis constituti. Horum qui voluntati, commodis, opinionibus in gubernanda re publica
serviunt, defensores optimatium ipsique optimates gravissimi et clarissimi cives numerantur et
principes civitatis. Quid est igitur propositum his rei publicae gubernatoribus quod intueri et
quo cursum suum derigere debeant? id quod est praestantissimum maximeque optabile
omnibus sanis et bonis et beatis, cum dignitate otium. hoc qui volunt, omnes optimates, qui
efficiunt, summi viri et conservatores civitatis putantur.

«Sempre in Roma ci furono due categorie di persone, fra coloro che si son dati alla vita politica
col proposito di condurvisi nel modo migliore: l’una fu, e volle esser qualificata popolare;
l’altra, degli ottimati. Popolari, quelli che attuavano e predicavano le cose che sapevano gradite
alla moltitudine; ottimati, quelli che agivano in modo da provocare sulla condotta propria
l’approvazione dei cittadini migliori. Ma chi sono questi cittadini migliori? Sono, se vuoi
saperlo, innumerevoli (senza di che non ci reggeremmo in piedi): sono i più autorevoli membri
del senato, son coloro che ne seguono l’indirizzo, coloro che appartengono agli ordini maggiori
ed ai quali è aperto l’accesso alla curia; abbondano tra i cittadini romani dei municipi e delle
campagne, tra gli uomini d’affari, tra i figli stessi dei liberti. Per quantità, come dissi, dei suoi
appartenenti, questa categoria è ampia e diffusa; qualitativamente, per togliere di mezzo ogni
equivoco, può esser rapidamente circoscritta e definita. Sono ottimati tutti coloro che non fanno

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del male, che non sono per natura disonesti o squilibrati, né impacciati da domestiche difficoltà.
Son questi, dunque, coloro che formano quella che tu chiamasti «una razza»; uomini integri,
moralmente sani, di benestante famiglia. E coloro che nel governo dello Stato secondano la
volontà, gli interessi e le opinioni di quelli, fautori degli ottimati ed ottimati essi stessi, sono
considerati fra i cittadini più autorevoli e illustri, e come i maggiorenti della città. Qual è il fine
a cui devono tendere questi reggitori della cosa pubblica, quale l’indirizzo del loro cammino?
È quello che appare il più nobile, il più desiderabile per ogni uomo di buon senso, probo,
fortunato: una vita tranquilla e dignitosa. Quanti vogliono ciò, sono considerati ottimati, quanti
lo realizzano, uomini di primo piano e protettori della città.»

Nell’orazione, l’opposizione tra populares e optimates viene interpretata come scontro tra
coloro che difendono la legalità, il benessere e l’ordine e coloro che invece ricercano la
sovversione per il tramite della violenza. Come sottolinea Narducci 1992, Cicerone nella pro
Sestio 96-98 appena citata si spinge oltre la concordia ordinum e dilata il concetto di ottimati,
fino a comprendere uno spettro amplissimo di persone provenienti da tutti i ceti sociali, purché
disposti a contribuire alla sanità economica e morale della Repubblica nella condizione del cum
dignitate otium, tranquillità e dignità sociale e individuale guidata da figure particolarmente
carismatiche, principes capaci di anteporre a tutto l’interesse dello Stato.
Con la celeberrima orazione pro Celio, particolarmente riuscita per la vivacità delle
argomentazioni e popolata da personaggi ‘da commedia’, Cicerone continua a modellare la
propria idea di homines boni chiamati a contribuire attivamente, ognuno per la propria piccola
parte, al bene comune; il clima di incertezza del nuovo assetto politico viene ben fotografato
dalle orazioni in Pisonem e in Vatinium, che mostrano come Cicerone cerchi di ritagliarsi un
nuovo spazio nell’equilibrio dei poteri, spazio che egli trova al seguito di Cesare: lo
testimoniano l’orazione de provinciis consularibus, in cui ne elogia l’operato, e la pro Balbo,
pronunciata in difesa di un seguace cesariano. Ma l’orazione più nota di questo difficile periodo
politico è certamente la pro Milone, accusato di aver ucciso Clodio in uno scontro armato nel
52 a.C.: il processo fu turbato da agitazioni e proteste di piazza, orchestrate innanzitutto dai
populares, che avevano visto ucciso uno dei loro più importanti rappresentanti; in questo clima,
Pompeo ritenne opportuno porre un presidio militare a difesa del tribunale e Cicerone subì la
pressione di tale assetto. Pronunciando l’orazione in tale clima teso, l’oratore non ebbe la
consueta prontezza e vivacità, per cui il suo difeso fu condannato all’esilio. Il testo che leggiamo
noi oggi è il frutto di una importante rielaborazione che rese la pro Milone una delle miglior i
orazioni ciceroniane.

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Durante la guerra civile che scoppiò nel 49 a.C., Cicerone si schierò dalla parte di Pompeo e
dopo la battaglia di Farsalo chiese il perdono a Cesare. Esito di questo riavvicinamento sono le
orazioni cosiddette ‘cesariane’, in cui Cicerone si adoperò per difendere presso Cesare diversi
pompeiani esiliati, ma presto l’Arpinate, temendo le conseguenze del potere cesariano, si tenne
in disparte dalla vita politica.
Sebbene la morte di Cesare sia stata salutata come una liberazione, Cicerone individuò una
nuova minaccia per le libertà repubblicane in Antonio, che già nel 44 a.C. volle porsi come
l’erede ideale di Cesare: il clima di tensioni, di incertezze e di trasformazioni che caratterizza
il periodo immediatamente successivo alla morte di Cesare è ben testimoniato nelle quattordici
orazioni contro Antonio che l’autore stesso definisce scherzosamente Philippicae, ricordando i
discorsi di Demostene pronunciati contro Filippo di Macedonia. In essi Cicerone si scaglia
duramente contro Antonio, che propone di nominare ‘nemico pubblico’, mentre chiede di
tributare onori ad Ottaviano, che con iniziativa personale aveva radunato un esercito per tutelare
la libertà dello Stato.

Quae exspectas, Marci Antoni, iudicia graviora? Caesar fertur in caelum qui contra te
exercitum comparavit; laudantur exquisitissimis verbis legiones quae te reliquerunt, quae a te
arcessitae sunt, quae essent, si te consulem quam hostem maluisses, tuae; quorum legionum
fortissimum verissimumque iudicium confirmat senatus, comprobat universus populus
Romanus, nisi forte vos, Quirites, consulem, non hostem iudicatis Antonium. Sic arbitrabar,
Quirites, vos iudicare ut ostenditis. Quid? Municipia, colonias, praefecturas num aliter
iudicare censetis? Omnes mortales una mente consentiunt; omnia arma eorum qui haec salva
velint contra illam pestem esse capienda. Quid? Decimi Bruti iudicium, Quirites, quod ex
hodierno eius edicto perspicere potuistis, num cui tandem contemnendum videtur? Recte et vere
negatis, Quirites. Est enim quasi deorum immortalium beneficio et munere datum rei publicae
Brutorum genus et nomen ad libertatem populi Romani vel constituendam vel recipiendam.
Quid igitur Decimus Brutus de Marco Antonio iudicavit? Excludit provincia; ex ercitu osistit;
Galliam totam hortatur ad bellum, ipsam sua sponte suoque iudicio excitatam. Si consul
Antonius, Brutus hostis: si conservator rei publicae Brutus, hostis Antonius.

«Quali giudizi più severi, o Marco Antonio, ti aspetti? Cesare, che ha portato un esercito contro
di te, è innalzato alle stelle, sono elogiate con parole altissime di lode le legioni che ti hanno
lasciato, quelle che tu avevi fatto venire, che sarebbero sotto il tuo comando se tu avessi
preferito essere console piuttosto che nemico della patria; e il senato conferma il giudizio

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estremamente coraggioso e veritiero di quelle legioni, lo approva tutto il popolo romano, a meno
che, o cittadini, voi non consideriate Antonio console e non nemico. Ero del parere, o cittadini,
che voi la pensaste come mostrate. Che dire? Ritenete forse che municipi, colonie, prefetture
giudichino diversamente? Tutti gli uomini all’unanimità si trovano d’accordo: tutti coloro che
vogliono che le istituzioni repubblicane siano salve devono prendere le armi contro quella
rovina. Che dire? Forse a qualcuno sembra da disprezzare il giudizio di Decimo Bruno, che
avete potuto conoscere dal suo editto di oggi? Giustamente dite di no, Quiriti. Fu concesso
infatti allo Stato per dono speciale degli dei immortali il nome e la stirpe dei Bruti, sia per
istituire la libertà, sia per recuperarla. Che giudizio ha dato Bruto su Antonio? Lo tiene lontano
dalla provincia, gli si oppone con l’esercito, esorta alla guerra tutta la Gallia, che già si è
sollevata di sua spontanea volontà. Se Antonio è console, Bruto è nemico; se Bruto è salvatore
della Repubblica, il nemico è Antonio.» (trad. mia)

Qui Cicerone si appella ad un concetto di legalità vasto e condiviso dal popolo romano, italiano
e provinciale, mentre Antonio viene identificato come la minaccia dei valori fondanti della
cultura romana. Una simile strategia, volta a isolare Antonio e a considerarlo nemico di ogni
compagine sociale e politica di Roma, si rivelò tuttavia fallimentare. Furono proprio tali
orazioni a determinare la morte dell’oratore, infatti, non appena l’assetto politico lo permise:
all’indomani del voltafaccia di Ottaviano, che con il secondo triumvirato si alleò con Antonio
e Lepido, Antonio ottenne l’inserimento di Cicerone nelle liste di proscrizione e gli inviò dei
sicari che lo uccisero presso Formia nel 43 a.C.

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MODULO - LETTERATURA LATINA I

UNITÀ DIDATTICA 2 - ORATORIA E RETORICA

4 a Lezione - Le scuole di declamazione

Il primo secolo a.C. si era aperto con l’editto dei censori Licinio Crasso e Domizio Enobarbo,
che avevano disposto la chiusura della scuola dei cosiddetti Rhetores Latini. Durante il primo
secolo le forme pubbliche di insegnamento retorico devono esser divenute probabilmente una
realtà. Abbiamo peraltro svariate testimonianze relative a lezioni più o meno private impartite
da illustri oratori presso le proprie abitazioni. Lo stesso Cicerone dichiara a più riprese in varie
sue opere di tenere insegnamenti ad alcuni allievi come, ad esempio, a Bruto e Dolabella.
Ben presto, però, l’insegnamento retorico divenne un fatto culturalmente accettato e anzi
conobbe una diffusione larghissima. Questo fenomeno ha una datazione precisa: tra gli anni ‘40
e ‘30 dell’età repubblicana in pressoché tutte le principali città dell’impero sorsero scuole di
declamazione dove i giovani andavano a seguire le lezioni di un maestro. È molto interessante
osservare che queste scuole furono fin da subito caratterizzate da ampio successo. Si hanno
molte notizie di spostamenti anche da una città all’altra per seguire gli insegnamenti di un
maestro particolarmente noto. D’altra parte, alcune testimonianze ci offrono il quadro di una
certa competizione tra scuole alimentata da qualche diversità culturale o anche da fatti
contingenti o addirittura da mode del momento. Insomma, nel giro di qualche decennio, le
scuole di declamazione divennero un vero centro di attrazione culturale, dove si alimentavano
dibattiti e costruivano occasioni d’incontro tra persone di provenienza molto diversa.
Oggi siamo ben informati sulle pratiche didattiche delle scuole: il maestro di scuola dettava il
tema da sviluppare e probabilmente suggeriva prima il modo con cui impostare il caso, dando
informazioni di massima. Gli allievi dovevano elaborare le strategie argomentative più efficaci.
C’è però da precisare che la caratteristica principale di questo di esercizio era il fatto che i
declamatori dovevano esercitarsi in utramque partem, dovevano cioè in altri termini trovare
tutte le strategie argomentative più efficaci a favore e contro un determinato il caso. Dato il
thema, il nodo del contendere doveva essere dunque sviluppato nella doppia prospettiva
possibile ed anzi era questo il requisito fondamentale che faceva di un argomento un buon

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argomento e cioè il fatto che esso fosse in qualche modo divisivo, consentendo la possibilità di
polarizzare due ‘verità’ alternative.
Va però osservato che all’interno delle scuole di declamazione non andavano solo giovani in
formazione affidati alle cure di un maestro, perché dalle molteplici informazioni di cui siamo
in possesso si desume agevolmente che oltre allo scholasticus, le scuole erano frequentate da
appassionati, spettatori interessati ad assistere ad uno ‘spettacolo’, semplici curiosi (Berti
2007). Le scuole erano un fenomeno sociale di particolare rilievo e proprio per questo
attraevano un pubblico eterogeneo, che non coincideva esattamente con il giovane in
formazione. Questa doppia dimensione ebbe una ricaduta immediata: proprio la dimensione
‘spettacolare’, la presenza di un pubblico che giudicava e acclamava con il proprio consenso o
biasimava con pubbliche riprovazioni alimentò una tendenza all’esibizione spettacolare, che
ebbe notevoli conseguenze. Gli scholastici dovettero preparare con cura sempre maggiore le
loro performances per attrarre il plauso degli spettatori; inoltre, la competizione alimentò una
tendenza ad esaltare gli aspetti più spettacolari, le trovate più ingegnose e talora strampalate, le
soluzioni più improbabili. Come è stato osservato dalla critica (Homke 2006), nelle scuole di
declamazione, da una retorica del probare si passò ad una retorica del delectare. La necessità
di inclinare verso i gusti del pubblico finì per determinare un eccesso di soluzioni spesso slegate
dalla realtà; il che determinava anche la selezione dei temi, in cui venivano privilegiati spunti
novellistici (complesse storie amorose, amori impossibili, situazioni al limite dell’incesto),
esotici (prigioniere in catene, rapimenti da parte di pirati) o vicende allusive a temi storici o a
spunti tragici.
Gli esercizi praticati all’interno delle scuole erano di due tipi: la suasoria era un esercizio
giudiziario più semplice e dunque privilegiato per i giovani che avevano appena iniziato il loro
percorso di formazione. Esso prevedeva un thema tratto dalla storia o dal mito, in una forma di
esercizio, che doveva persuadere o dissuadere un personaggio appunto della storia o del mito a
compiere o a non compiere qualcosa: tra i casi a noi noti sembrano aver avuto grande fortuna
temi relativi ad Alessandro Magno, ma abbiamo anche temi riguardanti la storia romana, come
due suasoriae presenti nell’opera di Seneca il Vecchio riguardanti i tragici fatti relativi alla
condanna a morte di Cicerone. Se questa forma di esercizio si approssimava al genere
deliberativo, la controversia apparteneva a quello giudiziario: essa prevedeva un caso
giudiziario rispetto al quale gli scholastici dovevano trovare tutte le soluzioni possibili.
Nell’impostazione, una parte importante era riservata alle leggi che venivano chiamate in causa;
vere, rispondenti al diritto romano oppure al diritto greco o del tutto inventate (in questo caso

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le definisce leges declamatoriae) esse venivano costantemente chiamate in causa e citate fin
dall’esposizione del thema.
Come si è già detto, il fenomeno declamatorio fu in un certo senso dilagante, determinando un
sicuro successo di pubblico ed anche una moda incontrastata. Non mancarono però le critiche
che fin dal primo secolo si levarono da parte di molti contro gli eccessi praticati nelle scuole.
Quintiliano, ad esempio, nella sua Institutio oratoria esprimerà una valutazione critica per gli
eccessi della pratica declamatoria, sottolineando in particolar modo l’eccessiva lontananza dei
themata, su cui i giovani dovevano esercitarsi, dalla realtà e dunque anche da ciò che nelle vere
aule dei tribunali o nel foro essi sarebbero stati chiamati a discutere.
Questa linea di interpretazione critica si è nel corso dei secoli perpetuata pressoché invariata.
In realtà, una vera rivalutazione del fenomeno è avvenuta a partire solo dall’ultimo ventennio
del ventesimo secolo (vd. Lentano 1998; Casamento 2002): essa ha consentito in particolar
modo di valorizzare le complesse questioni giuridiche, etiche, antropologiche che i temi in
nostro possesso permettono di approfondire. Si è ad esempio osservato che gli esercizi praticati
all’interno delle scuole di declamazione sono il frutto di una continua opera di riflessione e di
mediazione culturale dei valori tipici della romanità. Non è da questo punto di vista un caso che
tra i temi più presenti nelle raccolte di declamazioni latine sia accordato grande spazio ai
conflitti intergenerazionali, e in particolar modo a quelli tra padre e figli. Vero nervo scoperto
dei Romani, il rapporto padre/figlio anima innumerevoli dibattiti all’interno della scuola: con
una ricca e sfaccettata casistica, esso consente di offrire uno sguardo nuovo al tema, che i
Romani dovevano avvertire come palesemente problematico. Così, mentre nel pensiero dei
Latini l’autorità del padre non può mai essere messa in discussione, le sue decisioni sono
inviolabili né contrattabili, nel mondo fittizio delle declamazioni potrà accadere che non sempre
i padri abbiano ragione o che, ad esempio, possano emergere posizioni alternative più inclini a
valorizzare le ragioni dei figli. Se certo si potrà obiettare che questo accade solo nel ‘mondo di
carta’ della declamazione, eppure si dovrà osservare che tali verità alternative corrispondono a
idee in qualche modo circolanti e non solo entro i confini ristretti delle scuole. D’altra parte,
una recente impostazione critica ha molto opportunamente osservato una certa rispondenza tra
alcune posizioni enunciate e discusse dai testi declamatori e l’analogo sviluppo di alcuni temi
nell’ambito del diritto: il che appare non del tutto senza senso ove si rifletta sul fatto che molti
degli scholastici saranno poi divenuti oratori o esperti del diritto e in questa veste potranno aver
influenzato un aggiornamento del dibattito critico.
Inoltre, al di là delle criticità, a più riprese evidenziate dai detrattori del fenomeno relativamente
alla scarsa consistenza dei temi o della loro lontananza dalla realtà, andrà poi osservato quanto

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la cultura declamatoria, gli esercizi stessi praticati dentro le scuole, abbiano influenzato la
letteratura di età imperiale. Poeti satirici come Persio o Giovenale non si comprenderebbero a
fondo se non si valorizzassero i legami profondi con le declamazioni. Così, ad esempio, un
importante saggio uscito a metà degli anni ‘90 (Conte 1995), ha analizzato la presenza
fondamentale, a tratti addirittura incombente, delle scuole di declamazione nel Satyricon di
Petronio. Stesse considerazioni si potranno fare per la produzione di Seneca e per la poesia
epica di Lucano.
Delle raccolte di declamazioni in lingua latina, quella più rilevante è probabilmente l’opera di
Seneca il Vecchio: essa non raccoglie singole declamazioni ma costruisce una sorta di antologia
del meglio e del peggio dei singoli interventi dei declamatori. Una sorta di manuale di scuola
doveva essere invece la raccolta incompleta delle cosiddette declamationes minores dello
Pseudo-Quintiliano: un maestro di retorica probabilmente si servì dei testi raccolti (ma la
raccolta è comunque monca per un guasto nella tradizione manoscritta) come strumento di
pratica didattica. Unico e per questa ragione importantissimo esempio di declamazioni
complete sono invece le 19 declamationes maiores attribuite sempre allo Pseudo-Quintiliano.
Non va infine dimenticato che le scuole di declamazione furono una vera e duratura pratica
scolastica che sopravvisse per secoli in tutte le regioni dell’impero. Abbiamo innumerevoli
notizie di scuole di declamazione particolarmente fiorenti ancora nel IV, nel V e addirittura nel
VI secolo. Località come Gaza o Cartagine erano note per ospitare importanti scuole di
declamazione da cui provenivano maestri che diffondevano i loro insegnamenti spesso
spostandosi di città in città.

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MODULO - LETTERATURA LATINA I

UNITÀ DIDATTICA 2 - ORATORIA E RETORICA

5 a Lezione - La retorica in età imperiale: Tacito, Quintiliano, Plinio

Alcune tendenze oratorie sviluppatesi nell’età di Augusto si accentuarono poi con i suoi
successori. La concentrazione del potere nelle mani del principe e di una corte composta da
pochi dignitari su cui si concentravano tutte le facoltà decisionali, assottigliò sempre di più lo
spazio per l’eloquenza. In particolare, vennero progressivamente meno le opportunità per la
grande eloquenza deliberativa in concomitanza con la progressiva perdita d’importanza del
senato. Analogamente, l’oratoria epidittica vide diminuire enormemente i suoi spazi d’azione,
in considerazione del fatto che per ragioni di opportunità politica le laudations funebres di
uomini in vista cessarono prudentemente, per non offrire occasioni di ostilità da parte del
principe. L’unica forma di eloquenza praticata pressoché senza interruzione né intensità fu
quella giudiziaria, anche se anche per questa si registrarono notevoli mutamenti. In ragione
dell’accrescersi della pratica della delazione, la figura del pubblico accusatore, il delator, ebbe
sempre più spazio, contribuendo a logorare anche le pratiche abituali connesse all’eloquenza
forense.
Presso gli stessi principi, che pure continuavano a ricevere un’ampia istruzione che
comprendeva anche i precetti dell’oratoria, invalse sempre più l’abitudine dei discorsi scritti da
altri: abbiamo innumerevoli testimonianze che almeno a partire da Nerone, il quale si faceva
preparare i discorsi da Seneca, questa pratica divenne abituale.
In questo spazio di progressivo restringimento dell’eloquenza, come si è visto nella precedente
Lezione, assume invece valore autonomo l’oratoria praticata nelle scuole di declamazione, che
pur con tutti i limiti prima descritti, costituì per lungo tempo l’unico canale di diffusione
dell’oratoria stessa.
Che però l’eloquenza continuasse ad esser percepita come centrale nell’iter di formazione della
classe dirigente risulta confermato dalla scelta dell’imperatore Vespasiano di istituire la prima
cattedra pubblica di eloquenza affidandola a Quintiliano. La cosa è chiaramente molto
significativa per il valore culturale che tale istituzione manifesta, anche in considerazione del
fatto che si trattava di una decisione dettata da una scelta politica dell’imperatore.

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Sappiamo che Quintiliano esercitò il suo magistero per una ventina d’anni e che subito dopo,
ritiratosi dall’insegnamento attivo (ma frattanto continuò ad occuparsi dell’educazione privata
dei rampolli della casa imperiale), stese rapidamente l’Institutio oratoria, che dunque dovette
risentire della sua diretta esperienza di docente.
Tra le principali problematiche che l’opera affronta, vi è quella della degenerazione
dell’eloquenza. Quintiliano dimostra in questo uno sguardo non molto diverso da quello degli
storici latini, interpretando in termini di mutamento in peggio le trasformazioni dell’oratoria a
Roma. Egli è ben attento a identificare alcune cause sociologiche come l’indebolimento delle
strutture sociali e familiari oltre che, naturalmente, lo sviluppo delle scuole di declamazione. A
questo proposito, va osservato che il suo sguardo sul fenomeno appare particolarmente lucido:
in particolare il capitolo 2,10 offre un’accurata disamina della pratica declamatoria, di cui
evidenzia i limiti (soprattutto nella scarsa vicinanza alla realtà forense) ma sottolinea i pregi,
invitando ad alcune correzioni di tiro che rendono gli esercizi declamatori di particolare utilità
(Winterbottom 2006). Analogamente, egli prende le distanze da quel modello di oratore la cui
preparazione troppo tecnica non contempla invece quel modello di cultura ampia già teorizzata
da Cicerone, le cui considerazioni Quintiliano riprende, elevandolo a modello.
Questo riferimento preciso al pensiero di Cicerone è costante nell’opera: la produzione
ciceroniana è costantemente evocata e non soltanto gli scritti teorici, perché moltissime
appaiono nel corso di tutta l’opera le citazioni desunte dalle orazioni, di cui l’oratore si serve
per ricostruire esempi, spiegare passaggi ardui o anche semplicemente per contestualizzare
taluni passaggi. Il tributo in termini di omaggio che Quintiliano volge a Cicerone può essere
d’altra parte letto come una risposta alle inclinazioni maturate nella prima età imperiale che
guardavano a Seneca e alla filosofia in genere. Proprio verso Seneca, infatti, Quintiliano
esprime il massimo dissenso possibile, sia pur celandolo dietro generici apprezzamenti. Non
bisogna tuttavia esagerare nella valutazione di Quintiliano come portavoce di una reazione
classicista, perché se è vero che egli volge lo sguardo indietro verso Cicerone, netto è il suo
rifiuto per l’arcaismo. Egli, dunque, si fa teorizzatore di una via di mezzo che evita tanto le
posizioni moderniste incarnate da Seneca quanto quelle eccessivamente volte verso il passato.
Da segnalare infine la ricerca quintilianea dell’oratore ideale: influenzato probabilmente dalla
sua impronta moralista, egli non riesce a concepire la retorica come arte volta esclusivamente
alla persuasione. Nella sua definizione di ars bene dicendi si avverte una concezione fortemente
correlata alla dimensione etica dell’oratore che mal si concilia con gli atteggiamenti
spregiudicati dei delatores. Non stupisce peraltro la mancanza di riferimenti espliciti
all’impegno politico dell’oratore. Se infatti per Cicerone oratoria e politica erano

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inscindibilmente legati (il leader politico non poteva non esser anche valente oratore), per
Quintiliano tale rapporto non è certamente annullato, ma appare fortemente limitato, in
conseguenza del mutato assetto politico e dell’accentramento preponderante del potere nelle
mani del princeps. Da questo punto di vista si deve forse sottolineare che egli è ben consapevole
del fatto che il Principato è ormai una necessità storica ineludibile e in conseguenza di ciò, oltre
che dei rapporti stretti che lo legavano alla casa regnante, egli vede probabilmente nell’oratore
che il suo trattato intende tratteggiare un professionista solidamente provvisto degli strumenti
del mestiere, ma prima di tutto onesto, ispirato da principi di correttezza che lo pongono agli
antipodi rispetto al modello incarnato dai delatores.
Legata alla complessa sulla crisi dell’eloquenza è poi l’opera, oggi quasi certamente attribuita
a Tacito, nota come dialogus de oratoribus. In essa, l’autore dimostra certo la conoscenza
dell’Insitutio oratoria ma sembra prenderne programmaticamente le distanze: la spiegazione
che si suole dare per questo rifiuto programmatico risiede nel fatto che Quintiliano appariva a
giudizio di Tacito come troppo compromesso con il regime dei Flavi da cui egli intendeva
prendere fermamente le distanze (Narducci 1991). A differenza di Quintiliano, Tacito si mostra
piuttosto sfiduciato sul destino dell’eloquenza, che ritiene non avere spazi di libertà sufficienti.
All’interno del dialogo, non tutti i protagonisti la pensano così, ma appare evidente come Tacito
si identifichi nella posizione di Curiazio Materno, che abbandona la scena forense per dedicarsi,
non senza polemica, alla composizione di tragedie. Al contrario, Apro, che fa da contraltare alle
posizioni di Materno, continua ostinatamente a credere all’eloquenza e non vede neppure crisi
all’orizzonte. A queste problematiche si legano poi quelle relative alla differente valutazione
degli oratori antichi rispetto a quelli delle nuove generazioni. È questa la posizione portata
avanti da un altro protagonista del dialogus, Messalla, che esalta non soltanto gli oratori antichi
ma anche i metodi di formazione degli oratori di età repubblicana, esaltando in particolare la
pratica nobile, sia pur improntata a principi elitari, del tirocinium fori.
Amara è invece la conclusione del dialogus perché Materno, pur celebrando gli oratori del
passato, non può non constatare come la Roma repubblicana fosse sostanzialmente stata una
sequenza di lotte fratricide e guerre civili e che dunque il grande favore di cui godette allora
l’eloquenza andava ricondotto ai profondi disordini sociali oggi in qualche modo ‘sedati’ dalla
pax garantita dall’imperatore.
Per quel che concerne il genere epidittico, va infine ricordato il panegyricus di Traiano
composto da Plinio il giovane. Si tratta di una gratiarum actio, un discorso per ringraziare
l’imperatore per l’incarico ricevuto di consul suffectus. L’opera è certamente una rielaborazione
molto articolata del discorso effettivamente pronunciato dall’autore: alcuni studi hanno

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dimostrato che la lettura integrale del testo così come esso è stato tramandato è del tutto
incompatibile con la normale estensione di un discorso di lode che aveva tempi piuttosto
contingentati. Ciò testimonia che Plinio sottopose ad una complessiva revisione il testo della
performance; il che dà dunque prova di un processo di letterarizzazione che coinvolge tutti gli
aspetti dell’opera. Plinio è in particolare attento a valorizzare gli aspetti retorici e la patina
letteraria: le figure retoriche sono sovrabbondanti, così come la presenza di raffinatezze formali:
poetismi e frequenti arcaismi da un lato impreziosiscono la pagina, dall’altro la appesantiscono
nuocendo alla perspicuità del messaggio.
Emerge tuttavia un aspetto certamente interessante: Plinio il giovane deve molto a Traiano, cui
lo lega sincera amicizia oltre che un debito di riconoscenza per gli importanti incarichi
accordati. Al di là di questo aspetto, certo dominante nel panegirico, emerge tuttavia il desiderio
dell’autore di far emergere il ruolo del senato. Plinio sa bene che il senato ha ormai perso da
tempo le sue funzioni di guida e ispirazione dell’azione politica e che anche se a tutti gli effetti
Traiano incarna ai suoi occhi la figura dell’optimus princeps, il suo potere lascia poco spazio
all’autonomia dell’antica istituzione senatoriale. Mediante il panegirico, Plinio tenta dunque di
sommare con un’operazione forse non del tutto riuscita la celebrazione del princeps alle lodi
del senato, la cui funzione egli ribadisce all’imperatore.

48
MODULO - LETTERATURA LATINA I

UNITÀ DIDATTICA 2 - ORATORIA E RETORICA

BIBLIOGRAFIA

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50
MODULO - LETTERATURA LATINA I

UNITÀ DIDATTICA 3 - LA PROSA FILOSOFICA, L’EPISTOLOGRAFIA

1 a Lezione - La nascita della prosa filosofica

A Roma l’interesse per la filosofia si sviluppa tardi. Si può ragionevolmente supporre che ciò
sia avvenuto soltanto a partire dal III sec. a.C. e in diretta dipendenza dalle dottrine filosofiche
di età ellenistica. Tale attenzione per la filosofia nasce dunque all’interno di quel più ampio
fenomeno di ellenizzazione della società e della cultura latine; che qualche interesse per la
filosofia possa esser databile ad un periodo precedente si può solo supporre e d’altra parte i
rapporti di cui innumerevoli fonti parlano tra personalità autorevoli come Numa Pompilio e
Pitagora non è altro che il tentativo condotto a posteriori di «nobilitare con una patente
filosofica le origini di Roma» (Mazzoli 1991).
Come per altri generi, come, ad esempio, avviene per la retorica, il giudizio di Cicerone fornisce
un’interpretazione chiara al riguardo. In un passaggio di Tusc. 4, 5, egli infatti commenta: «lo
studio della filosofia è antico presso di noi, ma tuttavia non sono in grado di documentare
qualcuno che io possa nominare prima dell’età in cui vissero Lelio e Scipione» (sapientiae
studium vetus id quidem in nostris, sed tamen ante Laelii aetatem et Scipionis non reperio quos
appellare possim nominatim). Se in questa affermazione il termine sapientia può destare una
qualche ambiguità interpretativa, nessun dubbio lascia invece un altro passaggio tratto sempre
dalle Tusculanae: in 1, 5 Cicerone infatti osserva che «la filosofia languì fino ad ora né è stata
rischiarata dalla luce delle lettere latine; deve essere dunque illustrata e destata da noi, in
maniera tale che, se da occupati abbiamo giovato in qualche modo ai concittadini, possiamo
giovare loro ancora anche in ozio. Bisogna dunque darsi da fare perché molti libri sono stati
realizzati in latino in maniera sconsiderata da uomini certamente eccezionali ma non abbastanza
colti… Perciò se abbiamo prodotto una qualche lode nell’eloquenza con la nostra fatica, con
molto più zelo apriremo le sorgenti della filosofia dalle quali anche quelle promanavano» (trad.
Narducci) (philosophia iacuit usque ad hanc aetatem nec ullum habuit lumen litterarum
Latinarum; quae inlustranda et excitanda nobis est, ut, si occupati profuimus aliquid civibus
nostris, prosimus etiam, si possumus, otiosi. in quo eo magis nobis est elaborandum, quod multi
iam esse libri Latini dicuntur scripti inconsiderate ab optimis illis quidem viris, sed non satis

51
eruditis quare si aliquid oratoriae laudis nostra attulimus industria, multo studiosius
philosophiae fontis aperiemus, e quibus etiam illa manabant).
La lettura combinata di questi due passi appare particolarmente importante perché consente
alcune considerazioni preliminari: intanto dimostra la consapevolezza ciceroniana di non poter
nominare singole personalità che si siano dedicate alla filosofia. A questo proposito tale
testimonianza non chiude del tutto la possibilità al fatto che sia esistito un interesse per la
filosofia prima dell’età degli Scipioni, ma chiarisce che a Cicerone non sono noti nomi
significativi di personalità che si siano distinte nel genere. Per altro verso, ciò che emerge con
grande chiarezza è l’orgoglio dell’autore di illustrare un genere mai prima adeguatamente
trattato, orgoglio unito alla consapevolezza di dover dare del proprio meglio.
Altrettanto interessante l’altra notizia relativa a Numa Pompilio. Una testimonianza che a noi
giunge per il tramite di Livio 40, 29, 3-14, ma che doveva essere certamente risalente ad altri
storici, tramanda della scoperta avvenuta nel 181 a.C. di alcuni libri di Numa dissotterrati presso
il Gianicolo. Di questi sette, in latino, era de iure pontificio e sette, in greco, de disciplina
sapientiae. La pagina liviana informa del fatto che a giudizio dello storico Valerio Anziate essi
furono considerati pitagorici (adicit Antias Valerius Pythagoricos fuisse, vulgatae opinioni, qua
creditur Pythagorae auditorem fuisse Numam, mendacio probabili adcommodata fide , 40, 29,
8) e che per questa ragione si ritenne opportuno distruggerli. Anche in questo caso l’attribuzione
a Numa è certamente un falso, ma la testimonianza è comunque preziosa perché documenta
come all’inizio del secondo secolo a.C. volumi genericamente ‘filosofici’ fossero ritenuti
eversivi; d’altra parte, anche i libri all’apparenza più neutri concernenti il diritto pontificale
furono considerati forse pericolosi in ragione del coté filosofico che poteva contraddistinguer li.
Anche questa seconda testimonianza, dunque, pone in essere una valutazione sostanzialmente
negativa della filosofia a Roma, la cui pericolosità era probabilmente correlata alla capacità di
penetrazione nei più antichi istituti romani.
Molto poco possiamo dire dell’elaborazione di un pensiero filosofico a Roma nel II secolo a.C.,
stante l’esiguità di testimonianze in nostro possesso. Catone scrisse un carmen de moribus, di
cui si discute peraltro se fosse o meno in prosa; Ennio sembra aver intrapreso la strada di un
certo eclettismo, in cui non si è stentato a riconoscere un legame con la tradizione alessandrina
(Mariotti 1951). Richiami alla metempsicosi di ascendenza pitagorica si legano ad altri che
sembrano derivare dal pensiero di Epicuro. Una tendenza, dunque, alla sperimentazione che
però aprirà a soluzione fortemente innovative come ad esempio comprova l’Euhemerus, in cui,
allontanandosi dagli atteggiamenti propri della religione tradizionale, Ennio dimostra di credere
ad una nuova forma di immortalità destinata alle anime dei grandi protagonisti della storia.

52
Emerge però un dato significativo, pur nell’esiguità di testi: e cioè che gli opposti percorsi di
Catone e di Ennio consentono di identificare due linee di tendenza filosofiche. L’una, quella
rappresentata da Catone, improntata al tradizionalismo e alla difesa dei valori connessi al mos,
l’altra, quella di Ennio, aperta alla cultura greca e pronta a discutere le basi stesse della cultura
romana, aprendola a nuove concezioni. Se poi questo faccia di Ennio una sorta di primus
inventor del discorso filosofico, non è facile dirlo. Ennio però vive in un tempo in cui le
occasioni di penetrazione della filosofia a Roma si moltiplicano, sia pur in maniera controversa.
Sappiamo ad esempio che dopo la battaglia di Pidna, il vincitore Lucio Emilio Paolo portò a
Roma la biblioteca appartenuta al re Perseo perché dovesse arricchire la sua casa, accrescendo
le possibilità di educazione dei figli. D’altra parte, però, è nota la notizia di un’ambasceria
condotta nel 155 da tre filosofi, Carneade, Diogene e Critolao, il primo seguace
dell’Accademia, il secondo stoico, il terzo peripatetico. Essi erano arrivati a Roma per chiedere
al Senato la cancellazione di una multa a nome degli Ateniesi. L’aspetto interessante della
testimonianza è relativa al fatto che per la prima volta i Romani ebbero modo di confrontarsi
con le abilità dialettiche di tre filosofi, anche se già da qualche tempo a Roma i filosofi greci
dovevano far sentire la loro voce, stando alla notizia, che ci giunge per il tramite del de
grammaticis et rhetoribus di Svetonio, di un senatoconsulto del 161 con cui si decretava la
cacciata di filosofi e retori da Roma. Ancora una volta siamo dunque in grado di evidenziare
una duplicità di atteggiamenti: interesse per la novità rappresentata dal pensiero filosofico e
dalle abilità dialettiche dei filosofi greci da una parte; diffidenza, ostilità, ferma intenzione di
respingere idee potenzialmente in grado di intaccare i principi del mos, dall’altra.
Poco si può dire sul peso di queste correnti filosofiche a Roma. Si è ad esempio sempre
valorizzata una vicinanza tra lo Stoicismo e il pensiero romano, il che è certamente vero, anche
se si tratta di un dato da non ingigantire. Ne sono una testimonianza autoevidente i profili dei
due stoici più noti, Quinto Elio Tuberone e Publio Rutilio Rufo. Di entrambi Cicerone manifesta
parole di grande comprensione e rispetto, ma non sembra che abbiano inciso particolarmente
nella politica del loro tempo.
Più determinante appare invece il peso dell’Epicureismo, che però per la nota lontananza dal
pensiero politico romano ha subito il pressoché totale naufragio della produzione in prosa
precedente a Lucrezio (Garbarino 1973). Del nome più importante, quello di Gaio Amafinio,
Cicerone dirà che fu un malus verborum interpres.
Ed invece, con il primo secolo si assisterà al maturo attestarsi delle altre dottrine ellenistiche,
spesso caratterizzate da interessanti operazioni sincretistiche, fatte di confronti proficui.
Antioco e Posidonio, ad esempio, si fecero intensi promotori di scambi tra Accademia, Peripato

53
e Stoicismo, realizzando forme di mediazione che finirono per influenzare profondamente
Cicerone. Ma prima di Cicerone, altri furono certamente influenzati da queste nuove sintesi
filosofiche, come dimostra ad esempio il pensiero di Lucio Licinio Crasso, che esprime i più
alti prodotti di questa cultura nelle idee espresse nel de oratore.
Altra personalità di particolare complessità sembra essere stato Publio Nigidio Figulo, che
sembra aver avuto una certa vicinanza con Cicerone, di cui condivideva le posizioni politiche
filopompeiane. Una testimonianza tarda di San Girolamo ce ne parla come di pythagoricus et
magus, ed in effetti sembra che alle tendenze pitagoriche si avvicinassero forme di misticismo
esoterico, che ne facevano un autore temuto ed apprezzato. Sembra abbia scritto di auspici,
extispicia, linguaggio augurale; ma anche di teologia. Altro nome influente fu poi quello di
Marco Terenzio Varrone, presso il quale gli interessi filosofici furono forse tangenziali,
schiacciati da quelli enciclopedici. È tuttavia interessante osservare che Varrone fa mostra di
un interesse che lo porta a recepire svariate influenze provenienti dal pensiero greco. Seguace
dell’accademico Antioco, a lui Cicerone destina particolare attenzione negli Academica
posteriora, nel quale tuttavia gli si obietta che, benché sia scrittore raffinato, trascuri la prosa
filosofica in latino.

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MODULO - LETTERATURA LATINA I

UNITÀ DIDATTICA 3 - LA PROSA FILOSOFICA, L’EPISTOLOGRAFIA

2 a Lezione - La prosa filosofica: Cicerone - testi

Il primo secolo a.C. vede ormai un netto cambiamento negli influssi derivanti dalla cultura
greca, la cui presenza a Roma si fa sempre più massiccia, fino a costituire parte integrante del
curricolo dei Romani colti. Sulla base di questo profondo cambiamento culturale, si può
valutare adeguatamente la portata della produzione ciceroniana. Dopo la produzione retorica
che si sviluppa in particolare a metà degli anni Cinquanta, si distingue una produzione di scritti
di teoria politica e giuridica con i sei libri del de re publica (databili al 54-51 a.C.) e il de legibus
(databile al 52 a.C.) e infine una cospicua produzione di testi di argomento prettamente
filosofico concentrata nell’ultimo biennio di vita dell’autore (45-43).
Va subito sottolineato che la produzione prettamente filosofica origina dall’evento traumatico
della morte della figlia Tullia del febbraio 45 a.C., cui fanno eccezione solo i Paradoxa
Stoicorum del 46 a.C. La scrittura filosofica è dunque uno strumento di cui Cicerone si serve
per reagire al dolore della perdita, che coincideva con un momento critico per lo Stato,
determinato dall’ascesa al potere di Cesare e al conseguente sbandamento politico che ne
derivò. Le opere realizzate in questo periodo sono in sequenza l’Hortensius, gli Academici
priores (in due libri poi riplasmati in quattro libri negli Academici posteriores), De finibus
bonorum et malorum in cinque libri, Tusculanae disputationes in cinque libri. Tutte queste
opere sono più o meno databili entro il 45 a.C., ai primi mesi del 44 a.C. si datano invece il
Timaeus, i tre libri del de natura deorum, il Cato maior de senectute, il de divinatione e il de
fato. Di poco successivi sono invece il Laelius de amicitia e il de officiis completati entro il 44
a.C.
Tra le opere superstiti, si distingue innanzitutto il de finibus bonorum et malorum per la forte
centratura sul problema etico a partire dallo studio comparato delle opinioni delle varie scuole
filosofiche in merito alla questione centrale del sommo bene. A fronte della scrittura del de
finibus, che offre una prospettiva eminentemente teorica, i cinque libri delle Tusculanae
disputationes scelgono una prospettiva pratica, che mira ad un progetto per così dire
terapeutico. I temi affrontati sono concretamente vicini all’esperienza dei singoli, nell’ottica di
indagare sui grandi mali o paure dell’uomo cui si tenta di offrire una risposta. Vengono così
affrontati il timore della morte (primo libro), il dolore (secondo libro), le sofferenze spirituali

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(terzo libro), il peso delle passioni come elementi destabilizzanti l’equilibrio dell’uomo (quarto
libro); il quinto libro, infine, esalta infine il valore del sapiens, che, provvisto della forza
derivante dalla filosofia, si erge sulle difficoltà e le domina, trovando nella virtus la strada per
la felicità.
Nel de natura deorum, invece, Cicerone affronta la questione teologica, confrontando le
posizioni dell’epicureo Velleio, nel primo libro, che esalta il pensiero di Epicuro volto alla
necessità di liberare l’uomo dalle superstizioni; nel secondo libro, Balbo espone il punto di vista
degli Stoici, che crede ad una visione provvidenziale del divino; nel terzo, infine Cotta critica
il pensiero stoico, così come avviene nel de divinatione.
Fondamentale è poi la trattazione del de officiis: inquadrata nella prospettiva autocentrata degli
optimates, la scrittura del de officiis mette in evidenza alcuni temi fondamentali per il pensiero
dei Romani come avviene con la dottrina dell’honestum nel primo libro, dell’utile del secondo,
per poi procedere nel terzo ad una sintesi tra le due posizioni che giunga ad una forma di
conciliazione.
Andrà poi osservata come la forma dialogica sia quella preferita da Cicerone; si tratta
ovviamente di un’eredità del pensiero greco, in special modo platonico. Il dialogo somiglia
molto alla scrittura drammatica, ma ha alla sua base una dimensione retorica, basata sul concetto
del convincere l’interlocutore. Si tratta insomma di una scelta basata su un principio socratico,
che Cicerone sceglie consapevolmente di seguire.
Tra i testi che meglio di altri esemplificano la scelta ciceroniana di dedicarsi alla realizzazione
di opere filosofiche vi è certamente il proemio delle Tusculanae disputationes (1, 1-2):

Cum defensionum laboribus senatoriisque muneribus aut omnino aut magna ex parte e ssem
aliquando liberatus, rettuli me, Brute, te hortante maxime ad ea studia, quae retenta animo,
remissa temporibus, longo intervallo intermissa revocavi, et cum omnium artium, quae ad
rectam vivendi viam pertinerent, ratio et disciplina studio sapientiae, quae philosophia dicitur,
contineretur, hoc mihi Latinis litteris inlustrandum putavi, non quia philosophia Graecis et
litteris et doctoribus percipi non posset, sed meum semper iudicium fuit omnia nostros aut
invenisse per se sapientius quam Graecos aut accepta ab illis fecisse meliora, quae quidem
digna statuissent, in quibus elaborarent. Nam mores et instituta vitae resque domesticas ac
familiaris nos profecto et melius tuemur et lautius, rem vero publicam nostri maiores certe
melioribus temperaverunt et institutis et legibus. quid loquar de re militari? in qua cum virtute
nostri multum valuerunt, tum plus etiam disciplina. iam illa, quae natura, non litteris adsecuti2
sunt, neque cum Graecia neque ulla cum gente sunt conferenda. quae enim tanta gravita s, quae

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tanta constantia, magnitudo animi, probitas, fides, quae tam excellens in omni genere virtus in
ullis fuit, ut sit cum maioribus nostris comparanda?

«Trovandomi finalmente libero, se non completamente, almeno in gran parte, dalle fatiche del
patronato giudiziario e dai doveri di senatore, sono ritornato, Bruto, soprattutto per tua
esortazione, a quegli studi che, sempre presenti nel mio animo, ma rinviati per le circostanze,
ho ora ripreso, dopo averli tralasciati per un lungo periodo; e siccome il metodo e
l’insegnamento di tutte le discipline che riguardano la retta norma del vivere rientrano nello
studio della sapienza, che viene detta “filosofia”, ho ritenuto necessario trattare questo
argomento in latino, non certo perché io pensi che la filosofia non si possa imparare in greco
da maestri greci, ma sono sempre stato convinto che in ogni campo i Romani o hanno
dimostrato maggior sapienza inventiva dei Greci o hanno saputo perfezionare quanto avevano
da loro appreso, naturalmente nei campi ai quali avessero ritenuto opportuno dedicare i loro
sforzi. Dei costumi e delle istituzioni del vivere infatti, e della gestione della casa e della
famiglia noi ci occupiamo certamente meglio di loro e con maggior decoro, mentre allo stato i
nostri antenati hanno saputo provvedere con leggi e istituzioni indubbiamente migliori. E nel
campo militare? Qui i nostri connazionali si sono sempre distinti sia per il valore, sia, ancor di
più, per la disciplina. Per quanto poi riguarda i risultati conseguiti con le doti naturali e non con
lo studio, né i greci né altre genti possono reggere il confronto con noi. In chi mai ci fu tanta
gravità, tanta fermezza, grandezza d’animo, onestà, lealtà, dove si vide una virtù così
straordinaria in ogni campo da poter essere paragonata con quella dei nostri antenati?» (trad.
Narducci)

In questa importante pagina Cicerone chiarisce la scelta di dedicarsi alla filosofia, che è studium
sapientiae, osservando che essa ha sempre costituito ragione d’interesse nella sua vita, ma che
soltanto adesso, libero dagli impegni derivanti dalla vita politica attiva, ha scelto finalmente di
dedicarsi alla scrittura filosofica. A questa affermazione di carattere personale, Cicerone ne
affianca poi un’altra, volta a rivendicare l’importanza di una filosofia in latino. La lingua latina
è infatti a suo giudizio ormai pronta ad affrontare anche la riflessione filosofica. Non è però
solo la lingua a fare la differenza, perché – e qui la rivendicazione ciceroniana appare
particolarmente orgogliosa – i Romani fanno mostra di aver superato i Greci in molti campi del
sapere, il che legittima pienamente l’urgenza di una riflessione filosofica in latino (mores et
instituta vitae resque domesticas ac familiaris nos profecto et melius tuemur et lautius, rem
vero publicam nostri maiores certe melioribus temperaverunt et institutis et legibus).

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Altrettanto appassionato è poi l’elogio, sempre nelle Tusculanae, della filosofia. In un
passaggio significativo del quinto libro, Cicerone ne parla come di un “porto” in cui trovare
rifugio nella tempesta politica e personale che egli attraversa (5, 5):

Sed et huius culpae et ceterorum vitiorum peccatorumque nostrorum omnis a philosophia


petenda correctio est. cuius in sinum cum a primis temporibus aetatis nostra voluntas
studiumque nos compulisset, his gravissimis casibus in eundem portum, ex quo eramus egressi,
magna iactati tempestate confugimus. o vitae philosophia dux, o virtutis indagatrix
expultrixque vitiorum! quid non modo nos, sed omnino vita hominum sine te esse potu isset? tu
urbis peperisti, tu dissipatos homines in societatem vitae convocasti, tu eos inter se primo
domiciliis, deinde coniugiis, tum litterarum et vocum communione iunxisti, tu inventrix legum,
tu magistra morum et disciplinae fuisti; ad te confugimus, a te opem petimus, tibi nos, ut antea
magna ex parte, sic nunc penitus totosque tradimus. est autem unus dies bene et ex praeceptis
tuis actus peccanti inmortalitati anteponendus.

«Ma sia per correggere questo sbaglio sia per tutti gli altri nostri errori e manchevolezze ci si
deve rivolgere alla filosofia. E io, che fin da bambino mi ero gettato tra le sue braccia per scelta
volontaria e con grande zelo, ora, sconvolto dalla tempesta di queste gravissime vicende, mi
sono rifugiato nel medesimo porto da cui mi ero allontanato. Oh filosofia, che sei guida nella
vita, che ricerchi la virtù e scacci i vizi! Senza di te, che cosa sarebbe potuto accadere, non dico
di me, ma dell’intera esistenza umana? Tu hai dato origine alle città, tu hai chiamato a vita
comune gli uomini dispersi, tu hai creato dei vincoli tra loro: prima l’abitazione, poi le nozze,
poi la comunanza della scrittura e del linguaggio; tu hai istituito le leggi, tu sei stata maestra di
morale e di civiltà; in te cerco rifugio, a te chiedo aiuto, a te mi affido, se già prima in gran
parte, ora completamente, con tutto me stesso. Un solo giorno vissuto bene e seguendo i tuoi
principi è da anteporre a una vita immortale trascorsa nell’errore». (trad. Narducci)

Dopo Cicerone, nel passaggio tra la tarda repubblica e la prima età imperiale non sembra che
le acquisizioni dell’Arpinate abbiano avuto particolare seguito, forse anche in considerazione
delle vicende che riguardavano la sua fine a causa delle proscrizioni. Seneca testimonia peraltro
a più riprese la crisi che contraddistinguerà le scuole filosofiche in età imperiale e in particolare
per quel che riguarda i Pitagorici, l’Accademia e la scuola dei Sesti. Proprio da un esponente di
quest’ultima, Papirio Fabiano, si deve il decisivo allontanamento di Seneca dagli studi retorici
e l’avvicinamento a quello filosofico.

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MODULO - LETTERATURA LATINA I

UNITÀ DIDATTICA 3 - LA PROSA FILOSOFICA, L’EPISTOLOGRAFIA

3 a Lezione - La prosa filosofica: Seneca - testi

Nell’ambito dell’ampia produzione senecana, le opere filosofiche occupano, come noto, uno
spazio prioritario. In un tempo non meglio precisabile, comunque successivo alla morte del
filosofo, esse sono state raccolte in larga parte in dodici dialogi, che dal nome doveva prevedere
un richiamo alla tradizione platonica, anche se in realtà, soprattutto in alcuni casi, essi poco
hanno di effettivamente dialogico, mentre dal punto di vista tematico affrontano questioni
relative alla morale e all’etica. Accanto ai dialogi e oltre alle epistulae ad Lucilium, andranno
poi ricordati i sette libri del de beneficiis e il de clementia, opera destinata a Nerone, contenente
suggerimenti di buon governo.
A proposito dei dialogi va intanto osservato che essi affrontano con approfondimenti specifici
temi propri della riflessione stoica. Non è possibile fornire una datazione sicura di tutti i
componimenti e, eccezion fatta per qualche labile riferimento, non è neppure possibile una
precisa successione cronologica dei dialogi stessi, che dovremo d’altra parte immaginare
distribuiti lungo l’arco dell’intera esistenza del filosofo. All’interno del corpus, si distinguono
tre consolationes che mostrano contiguità e compattezza tematica, essendo peraltro accomunate
dal comune ricorso ad un genere, quello della consolatio, molto antico essendo già praticato
dalla filosofia greca. Gli altri dialoghi affrontano questioni singole che Seneca affronta sempre
con impostazioni di grande respiro. I tre libri de ira, ad esempio, dei quali è possibile ipotizzare
una data precedente al lungo esilio in Corsica, affrontano con ricchezza di esempi tratti dalla
storia e dal mito aspetti relativi a questa passione, nei confronti della quale nettissima è la
condanna. Complessa la trattazione poi del de vita beata, in cui Seneca si sforza di dimostrare
il ruolo marginale che le ricchezze hanno nella conquista e nel mantenimento della felicità,
anche se dinnanzi alle accuse che da più parti gli vengono mosse egli obietta che sapientia e
ricchezza non sono in assoluto inconciliabili.
Tra i principali temi che la proposta filosofia senecana elabora vi è quello relativo alla figura
del sapiens. Si tratta di un tema che il filosofo sviluppa in più dialogi, accomunati dal fatto di
avere un un unico interlocutore, l’amico Sereno. Essi sono il de constantia sapientis, il de otio,

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il de tranquillitate animi. Come Seneca precisa in una pagina del de constantia sapientis (5, 3-
5), il saggio non può compiere nessun tipo di ingiustizia e non può nemmeno subirne, perché
egli è oltre ogni possibilità di subire iniuriae dalla sorte avversa.

Si iniuria sine malo nulla est, malum nisi turpe nullum est, turpe autem ad honestis occupatum
pervenire non potest, iniuria ad sapientem non pervenit. Nam si iniuria alicuius mali patientia
est, sapiens autem nullius mali est patiens, nulla ad sapientem iniuria pertinet. [4] Omnis
iniuria deminutio eius est in quem incurrit, nec potest quisquam iniuriam accipere sine aliquo
detrimento vel dignitatis vel corporis vel rerum extra nos positarum. Sapiens autem nihil
perdere potest; omnia in se reposuit, nihil fortunae credit, bona sua in solido habet contentus
virtute, quae fortuitis non indiget ideoque nec augeri nec minui potest; nam et in summum
perducta incrementi non habent locum et nihil eripit fortuna nisi quod dedit; virtutem autem
non dat, ideo nec detrahit; libera est, inviolabilis, immota, inconcussa, sic contra casus indurat,
ut ne inclinari quidem, nedum vinci possit; [5] adversus adparatus terribilium rectos oculos
tenet, nihil ex vultu mutat, sive illi dura sive secunda ostentantur. Itaque nihil perdet quod
perire sensurus sit; unius enim in possessione virtutis est, ex qua depelli numquam potest,
ceteris precario utitur quis autem iactura movetur alieni? Quodsi iniuria nih il laedere potest
ex his quae propria sapientis sunt, quia virtute salva 1 sua salva sunt, iniuria sapienti non
potest fieri.

«Se nessuna offesa esiste senza un male, ma non esiste nessun male che non sia infame, e
l’infamia non può toccare chi è impegnato in attività oneste, allora l’offesa non giunge al saggio.
Ogni offesa è uno sminuire l’oggetto di essa, né alcuno può ricevere un’offesa senza qualche
danno relativo all’onore, al corpo o ai beni esteriori. Il saggio però non può perdere nulla: ha
riposto ogni cosa in se stesso, non affida nulla alla sorte, mantiene i suoi beni ben saldi
accontentandosi della virtù che non ha bisogno di beni fortuiti e dunque non può essere
diminuita né aumentata; infatti le cose giunte al massimo grado non hanno la possibilità di
essere incrementate, e la sorte non porta via nulla se non ciò che ha dato; ma la sorte non dà la
virtù, perciò non la toglie neppure: essa è libera, inviolabile, immobile, intoccabile, tanto
indurita contro le avversità che non è possibile non dico vincerla, ma neppure piegarla: contro
un apparato di cose terribili mantiene lo sguardo fermo, non cambia nulla nella sua espressione,
sia che gli si presentino cose difficili, sia favorevoli. Dunque il saggio non perde nulla di ciò
che potrebbe percepire di perdere; infatti ha la proprietà della sola virtù, da cui nessuno può
estrometterlo; di tutto il resto dispone in modo precario: chi infatti si preoccuperebbe per la

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perdita di ciò che non è suo? Perciò, se l’offesa non può colpire nulla dei benefici propri del
saggio – dal momento che se la virtù è integra essi sono integri – allora al saggio non si può
arrecare offesa» (trad. Berno).

In questa brillante pagina, Seneca esprime con chiarezza l’idea dell’imperturbabilità del sapiens
davanti agli eventi della sorte, osservando che egli non può perdere nulla, perché ha in sé ogni
cosa (sapiens autem nihil perdere potest; omnia in se reposuit, nihil fortunae credit). Egli,
d’altra parte, ha il pieno possesso dell’unica cosa veramente importante e cioè la virtus: nihil
perdet quod perire sensurus sit; unius enim in possessione virtutis est.
Altro nucleo centrale del pensiero senecano è poi costituito dalla riflessione sul tempo che
Seneca affronta nel celebre de brevitate vitae, ma la cui importanza è confermata dalla
‘trasversalità con cui essa compare in pressoché tutti gli altri trattati. Connessa alla riflessione
sul sapiens è ad esempio una pagina del de tranquillitate animi (11, 3-6), in cui Seneca riflette
sulla necessità di vivere con serenità la vita che ci è stata assegnata, consapevoli del fatto che
bisognerà prima o poi separarsi da essa.

[3] Magna quidem res tuas mercede colui, sed quia ita imperas, do, cedo gratus libensque. Si
quid habere me tui volueris etiamnunc, servabo; si aliud placet, ego vero factum signatumque
argentum, domum familiamque meam reddo, restitue.” Appellaverit natura quae prior nobis
credidit, et huic dicemus: “Recipe animum meliorem quam dedisti. Non tergiversor nec
refugio; paratum habes a volente quod non sentienti dedisti: aufer.” [4] Reverti unde veneris
quid grave est? Male vivet quisquis nesciet bene mori… [5] Fortuna illa, quae ludos sibi facit:
“ Quo,” inquit, “ te reservem, malum et trepidum animal ? Eo magis convulneraberis et
confodieris, quia nescis praebere iugulum At tu et vives diutius et morieris expeditius, qui
ferrum non subducta cervice nec manibus oppositis sed animose recipis. ” [6] Qui mortem
timebit, nihil umquam pro homine vivo faciet. At qui sciet hoc sibi cum conciperetur statim
condictum, vivet ad formulam et simul illud quoque eodem animi robore praestabit, ne quid ex
iis, quae eveniunt, subitum sit. Quicquid enim fieri potest, quasi futurum sit, prospiciendo
malorum omnium impetus molliet, qui ad praeparatos expectantesque nihil adferunt novi;
securis et beata tantum spectantibus graves veniunt. Morbus est, captivitas, ruina, ignis; nihil
horum repentinum est.

«“Ti ringrazio per ciò che ho posseduto e ho avuto in uso; ho avuto cura delle cose tue con
grande compenso; ma poiché così comandi, do, cedo, grato e con piacere. E vorrai che io abbia

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in uso ancora qualche cosa di tuo, lo conserverò; se decidi diversamente, io l’argento cesellato
e coniato, la casa e la servitù mia li rendo, li restituisco”. Se la natura avrà chiesto la restituzione
di ciò che per prima ci ha affidato, anche a costei diremo: “Riprenditi un animo migliore di
quello che hai dato; non cerco scuse né mi faccio indietro; hai bello e pronto, da parte di chi
vuole così, ciò che hai dato a chi non se ne accorgeva: portalo via”. Ritornare là dove sei venuto,
che c’è di grave? Vivrà male, chi non saprà morire bene… Quella fortuna, che offre a se stessa
lo spettacolo dei giochi, dice: “Per qual scopo dovrei risparmiarti, o animale di poco valore e
pauroso? Riceverai ferite più numerose e sarai trafitto più a fondo, proprio perché non sai offrire
la gola; invece vivrai più a lungo e morirai con maggiore facilità tu che accogli il ferro con
forza d’animo”. Chi avrà paura della morte non farà mai nulla degno di un uomo vivo; chi
invece sa ciò che gli è stato stabilito con decreto subito quando veniva concepito, vivrà in base
alla regola del patto e con la medesima forza d’animo farà contemporaneamente in modo che
nulla delle cose che capitano sia improvviso. Prevedendo, infatti, tutto ciò che può accadere
come se dovesse fatalmente accadere, addolcirà gli slanci aggressivi di tutti i mali: quasi nulla
portano di inatteso a chi è preparato e se li aspetta: a chi se ne sta senza preoccupazioni e guarda
solo ciò che è motivo di felicità, giungono invece pesanti. Malattia, prigionia, crollo, fuoco:
nulla di tutto ciò è improvviso» (trad. Viansino)

Seneca rivolge all’amico Sereno, destinatario del dialogus, l’invito a fare come il saggio stoico,
che vive consapevole della fragilità intrinseca alla condizione umana, guardando con animo
distaccato alle perdite che quotidianamente toccano la vita di ogni uomo. Solo non avendo paura
della morte (reverti unde veneris quid grave est? Male vivet quisquis nesciet bene mori), delle
privazioni e delle disgrazie si può veramente pienamente la vita che ci viene data (quicquid
enim fieri potest, quasi futurum sit, prospiciendo malorum omnium impetus molliet, qui ad
praeparatos expectantesque nihil adferunt novi), suggerisce Seneca. Solo imparando a morir
bene si può vivere bene.

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MODULO - LETTERATURA LATINA I

UNITÀ DIDATTICA 3 - LA PROSA FILOSOFICA, L’EPISTOLOGRAFIA

4 a Lezione - L’epistolografia

Quando parliamo di epistolografia nell’antica Roma è d’obbligo una premessa concernente


indistintamente la produzione greco-latina. Essa riguarda l’ambiguo statuto del genere. È infatti
forse non del tutto appropriato parlare di genere epistolografico, in considerazione del fatto che
la trattatistica antica, tanto quella greca quanto quella latina, non conoscono regole precise o
codificate e già questa è forse la dimostrazione più significativa del fatto che parlare di
epistolografia incontra notevoli questioni e problemi. Se infatti si colgono alcune regole
comuni, quali la presenza del destinatario e la imprescindibile necessità del discorso diretto e
la presenza altrettanto fondamentale del destinatario, oltre a questi elementi mancano regole
generali e anzi, come avremo modo di osservare, accade più di frequente che sia l’argomento
della lettera ad imporre regole proprie piuttosto che la lettera stessa. Come ha a tal proposito
efficacemente osservato Bernardi Perini, manca infatti una ‘retorica epistolare’ così come
risulta del tutto assente una manualistica che farà le sue prime apparizioni molto tardi e solo
come fenomeno a posteriori, esemplato sulle raccolte epistolari che hanno frattanto riscosso
riscontro di pubblico e larghi favori. Se invece si guarda alla manualistica moderna, si dovrà
quanto meno osservare come essa tradizionalmente distingua la ‘lettera breve’, diretta ad un
destinatario reale, e l’epistola, propriamente detta, che si distingue per un articolato livello di
perfezione formale, elaborata artisticamente e indirizzata ad un pubblico ampio, al di là della
presenza di un destinatario reale. Agli studi di Cugusi (1983, 1985, 1987) si devono oggi alcune
considerazioni più generali, che, come vedremo, troveranno puntuali riscontri nelle raccolte
epistolari in nostro possesso. Intanto possiamo osservare che la lettera in quanto forma di
colloquio tra assenti riproduce le modalità proprie del dialogo, conservando di questo il ricorso
al sermo cotidianus ed una certa franchezza di toni. In ragione dei differenti destinatari, la
lettera potrà avere carattere privato o pubblico, con conseguente adozione di differenti registri
stilistici. Inoltre, in ragione dei differenti destinatari e della destinazione stessa della lettera
cambieranno anche le formule relative all’inscriptio e alla subscriptio finale. A seconda poi
della tipologia del messaggio e della destinazione si potranno avere lettere informativa,

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gratulatorie, consolatorie, erotiche, letterarie per quel che concerne le lettere private; sul
versante delle lettere pubbliche ci saranno lettere politiche, filosofiche, artistiche, poetiche,
letterarie.
Prima dell’imponente raccolta di epistole ciceroniane, in nostro possesso ci sono soltanto poche
testimonianze giunteci per il tramite di tradizione indiretta o che pongono irrisolti problemi di
autenticità. Se ad esempio abbiamo alcuni frammenti di lettere di Cornelia ai figli Tiberio e
Gaio Gracco, particolarmente interessanti per le questioni politiche che pongono, ben poche
certezze si possono avere sulle due Epistulae ad Caesarem senem attribuite con molti dubbi a
Sallustio. Problemi di autenticità pone inoltre il celebre Commentariolum petitionis che Quinto
Cicerone avrebbe indirizzato al più noto fratello Marco Tullio.
Ma del periodo tardorepubblicano l’opera certamente più significativa è il ricchissimo
epistolario ciceroniano di cui ci sono giunti 16 libri di Epistulae ad Atticum, altri 16 di Epistulae
ad familiares con destinatari vari, tre ad Quintum fratrem, e due ad Marcum Brutum, che
pongono notevoli dubbi in relazione all’autenticità.
Si tratta di un corpus che supera le novecento lettere distribuite in un arco cronologico che va
dal 68 al 43 a.C. Già solo questo dato dimostra quanto sia difficile condurre un discorso unitario
eppure, ad entrare un po’ più da vicino dentro il laboratorio ciceroniano si potrà osservare che
le familiares appaiono certamente meno coese per via della presenza di più destinatari, che
dunque a seconda dello loro condizione e del loro rapporto con il mittente determinano la
differente caratura delle lettere; molto compatte e coerenti invece sono le epistulae ad Atticum.
Questa seconda raccolta mostra intanto la lunga esperienza di amicizia e consonanza politica
che caratterizza i due uomini, avvicinati dal comune sentire verso le grandi problematiche che
attraversano lo stato, così come da questioni più minute che li vedono spesso appassionarsi
all’unisono.
Un tratto accomuna però le due raccolte: esso riguarda la consapevolezza dell’autore di
mantenere sempre elevato il discorso, anche quando la corrispondenza affronta questioni
minute e fatti della vita quotidiana. Ciò riguarda il fatto che Cicerone è ben consapevole del
ruolo culturale che l’epistolario aveva via via assunto ed anzi negli ultimi anni sembra come
trasparire sotto traccia un progetto più ampio che non esclude l’idea di una pubblicazione.
Difficile dire quando tale epistolario sia stato poi effettivamente pubblicato: mentre un tempo
si riteneva che la pubblicazione fosse avvenuta nel primo secolo d.C., dopo la morte di Augusto,
oggi si ritiene con ottimi argomenti che essa possa essere avvenuta più o meno subito dopo la
morte di Cicerone per opera di Attico o forse meglio di Tirone, il liberto di Cicerone che si curò
di conservare e difendere la memoria del maestro. Certo non sappiamo in che modo l’opera sia

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stata pubblicata, è evidente che lo stato in cui l’opera ci è giunta non segue un criterio del tutto
cronologico e d’altra parte molte delle lettere sono difficilmente databili con sicurezza perché
manca la data e perché i riferimenti contenuti non consentono un sicuro ancoraggio ad un
preciso momento storico.
Se poi da Cicerone si passa a Seneca, le 124 epistulae ad Lucilium pongono questioni in qualche
modo più complesse. Nel caso di Seneca la questione fondamentale è comprendere se le spinte
alla divulgazione filosofica abbiano per così dire il sopravvento su quelle proprie del genere
epistolare stesso. in questa prospettiva, già Giusto Lipsio propendeva per una natura epistolare
fittizia. In buona sostanza, sulla scia del modello epicureo, che viene peraltro più volte
esplicitato soprattutto nei primi libri dell’opera, Seneca sceglierebbe il modello epistolare come
cornice adatta a dare il giusto rilievo alla riflessione filosofica.
Oggi non mancano posizioni come quella di Cugusi 1983, che a partire dalla considerazione
che nella raccolta si registra la compresenza di ‘lettere’ ed ‘epistole’, esprime l’idea che essa
sia un insieme molto articolato e complesso in cui a lettere di formazione più che di
informazione si affiancano lettere che hanno un carattere più letterario. Dietro alla figura del
dedicatario, esse prevedono un destinatario più ampio da identificare con la posterità tutta.
Proprio in relazione alla figura del destinatario, Lucilio, non molto si può dire, se non che
apparteneva all’ordine equestre. Si è perfino discusso della concretezza storica del personaggio,
ma al di là del fatto che non siamo in grado di esprimere certezza in tal senso, dobbiamo
considerare come inopportune le certezze di quanti hanno perfino ricostruito la biografia
spirituale del personaggio a partire dai riferimenti presenti nel carteggio: si tratta di
un’operazione tanto pericolosa quanto sostanzialmente inutile, stante la scarsa attendibilità che
le caratterizza. Questa posizione appare certamente ingenua, ma d’altra parte non pare
ragionevole negare l’esistenza stessa del personaggio, in linea con gli altri destinatari della
produzione senecana. Certo però è innegabile che Seneca si serve di lui, ‘piegando’ carattere e
consistenza stessa di Lucilio ai suoi fini.
Difficile poi dire se l’opera per come ci è giunta segua un’architettura originale, attribuibile
all’autore o se, al contrario, essa sia sprovvista di un’articolazione precisa che segua una
scansione logica. A questo proposito, tra quanti credono alla natura fittizia dell’epistolario è
spesso invalsa l’abitudine di considerare come la ‘sovrastruttura’ celi l’intento di frammentare
volutamente il discorso filosofico. È però forse più prudente concentrarsi a riflettere sul
rapporto che passa tra forma epistolare e riflessione filosofica: questo tipo di riflessione
consente dunque di rivalutare la presenza dell’epistolografia greca e latina da Platone ad
Epicuro al Cicerone dell’epistolario ad Attico. In particolare, se la presenza delle lettere di

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Cicerone all’amico di una vita può costituire un indubbio precedente, va però osservato il deciso
scarto che Seneca mette in atto rispetto a quel precedente. Com’è noto, l’epistolario ciceroniano
è infatti pieno di riferimenti al quotidiano: Seneca opera invece non tanto nella direzione di
eliminarli del tutto, quanto, piuttosto, di ‘assottigliarne’ la presenza, riducendone peso e valore.
Questo però non significa che la cornice epistolare non eserciti il suo peso nella doppia
direzione di un messaggio fortemente interessato al dialogo con se stesso e di una proiezione
verso il destinatario, che coinvolga il suo progresso interiore.
Si giunge così alla imprescindibile riflessione su lingua e stile delle epistole. Tra gli strumenti
maggiormente utilizzati, è importante sottolineare, dopo le fondamentali indagini di Traina
1987, il valore assunto dalla sententia, strumento versatile dello stile senecano, che consente
una solida concentrazione espressiva così come una ribalta dei contenuti efficacemente
sintetizzati da ‘slogan’ ad effetto che raccolgono vere e proprie perle di saggezza. La sententia,
d’altra parte, si presta inoltre ad accogliere espressioni del linguaggio poetico così come termini
del sermo cotidianus, che egli risemantizza con brillanti trovate espressive. Questo genere di
approccio, che mette insieme in un linguaggio particolarissimo le istanze più diverse, rende
l’idea di una lingua plasticamente modellata al fine di evitare pose filosoficamente troppo
connotate, che possano respingere il lettore piuttosto che accoglierlo dentro quel percorso di
formazione che lo coinvolge profondamente.
È questa in fondo una delle principali motivazioni che hanno fatto la fortuna di questo
epistolario, garantendogli già in età cristiana e poi nel Medioevo un successo stabile e di lungo
corso, che finirà per altro verso per influenzare la grande stagione degli epistolari cristiani.

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MODULO - LETTERATURA LATINA I

UNITÀ DIDATTICA 3 - LA PROSA FILOSOFICA, L’EPISTOLOGRAFIA

5 a Lezione - La prosa epistolare - testi

Come si è già avuto modo di osservare, l’epistolario ciceroniano è una vera miniera di
testimonianze dal valore molto diverso che spazia da preziosissime osservazioni sulla vita di
Cicerone, sul suo rapporto con il potere, così come sulle traversie della sua esistenza anche in
relazione ad un quadro politico in continua trasformazione e fibrillazione quale fu quello della
tarda età repubblicana. Una testimonianza significativa in tal senso è quella di ad fam. 1, 8.
Datata al 55 a.C, la lettera, dedicata a Lentulo, offre un quadro assai desolato del degradarsi
della politica. Subito dopo gli accordi di Lucca che dettero vita al cosiddetto primo triumvirato,
un accordo privato di ‘spartizione’ politica, Cicerone tenta un difficile equilibrio, dichiarando
da una parte la propria fiducia nell’operato di Pompeo, dall’altra tradendo la propria delusione
per una politica ormai degradata.

Ego quidem, ut debeo et ut tute mihi praecepisti et ut me pietas utilitasque cogit, me ad eius
rationes adiungo, quem tu in meis rationibus tibi esse adiungendum putasti sed te non praeterit,
quam sit difficile sensum in re publica, praesertim rectum et co nfirmatum, deponere. verum
tamen ipse me conformo ad eius voluntatem, a quo honeste dissentire non possum, neque id
facio, ut forsitan quibusdam videar, simulatione; tantum enim animi inductio et me hercule
amor erga Pompeium apud me valet, ut, quae illi utilia sunt, et quae ille vult, ea mihi omnia
iam et recta et vera videantur; neque, ut ego arbitror, errarent ne adversarii quidem eius, si,
cum pares esse non possent, pugnare desisterent. me quidem etiam illa res consolatur, quod
ego is sum, cui vel maxime concedant omnes, ut vel ea defendam, quae Pompeius velit, vel
taceam vel etiam, id quod mihi maxime libet, ad nostra me studia referam litterarum; quod
profecto faciam, si mihi per eiusdem amicitiam licebit. quae enim proposita fuerat nobis, cum
et honoribus amplissimis et laboribus maximis perfuncti essemus, dignitas in sententiis
dicendis, libertas in re publica capessenda, ea sublata totast, nec mihi magis quam omnibus;
nam aut adsentiendum est nulla cum gravitate paucis aut frustra dissentiendum. hae c ego ad
te ob eam causam maxime scribo, ut iam de tua quoque ratione meditere. commutata tota ratio

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est senatus, iudiciorum, rei totius publicae; otium nobis exoptandum est, quod ii, qui potiuntur
rerum, praestaturi videntur, si quidam homines patientius eorum potentiam ferre potuerint;
dignitatem quidem illam consularem fortis et constantis senatoris nihil est quod cogitemus;
amissa culpa est eorum, qui a senatu et ordinem coniunctissimum et hominem clarissimum
abalienarunt. sed ut ad ea, quae coniunctiora rebus tuis sunt, revertar, Pompeium tibi valde
amicum esse cognovi, et eo tu consule, quantum ego perspicio, omnia, quae voles, obtinebis,
quibus in rebus me sibi ille adfixum habebit, neque a me ulla res, quae ad te pertineat,
neglegetur; neque enim verebor, ne sim ei molestus, cui iucundum erit etiam propter se ipsum,
quom me esse gratum videbit.

«Io poi, come devo, come proprio tu mi hai consigliato e come mi impongono il senso
dell’amicizia e l’opportunità, mi affido agli interessi del personaggio al quale tu hai ritenuto di
doverti affidare quand’erano in gioco i miei interessi. Non ti sfugge però quanto sia difficile
abbandonare le proprie convinzioni politiche, soprattutto se giuste e radicate. Tuttavia, come
non potrei onestamente essere in disaccordo con lui, così io personalmente mi adeguo alla sua
volontà. E non lo faccio, come forse potrebbe sembrare a qualcuno, per simulazione; perché la
mia simpatia e, lo giuro il mio affetto per Pompeo sono per me tanto importanti che tutto quello
che torna utile a lui e che egli vuole, pare giusto e vero anche a me. E perfino i suoi avversari,
a parer mio, farebbero bene, non potendo essere alla pari con lui, a rinunciare a combatterlo.
Personalmente, ho anche un altro motivo di consolazione. Tutti ammettono senz’altro che a me
solo debba esser concesso di appoggiare i voleri di Pompeo, o di starmene zitto o ancora, ed è
la cosa che mi piace di più, di tornare ai miei studi letterari; cosa che farò certamente se
l’amicizia per lui me lo permetterà. Gli obiettivi che mi ero proposto, dopo aver ricoperto le più
alte cariche dello stato ed essere passato attraverso le prove più severe, ovvero una posizione
di rilievo nei dibattiti in senato e l’indipendenza nella vita pubblica, mi sono stati
completamente sottratti, e non a me in particolare, ma a tutti. Si è costretti infatti o dire di sì a
pochi individui privi di dignità o a una sterile opposizione. Ti scrivo queste cose soprattutto
perché tu ti ponga fin d’ora anche il problema del tuo comportamento. È tutto il sistema a essere
cambiato: il ruolo del senato, l’impianto processuale, l’assetto istituzionale. Dobbiamo
auspicare la pace, e coloro che detengono il potere sembrano pronti a garantirla, a condizione
che certi personaggi arrivino a sopportare con minor insofferenza la loro autorità. Certo, l’antica
immagine di un consolare che sostiene con coraggio e coerenza il proprio ruolo in senato
dobbiamo togliercela dalla testa. Essa è andata perduta per colpa di quanti hanno fatto perdere
al senato la simpatia di un ordine che gli era straordinariamente devoto e quella del più illustre

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degli uomini. Ma per tornare a ciò che ti tocca più da vicino, ho verificato che Pompeo ti è
molto amico. A quanto posso giudicare, sotto il tuo consolato potrai ottenere tutto quel che
vorrai; e nel tutelare questi tuoi interessi egli mi avrà sempre al tuo fianco e nulla di ciò che ti
riguarda sarà da me trascurato: non avrò neppure da temere di essergli importuno, anzi egli sarà
soddisfatto anche per se stesso, quando vedrà che io gli sono grato».

La testimonianza epistolare lascia emergere l’amara constatazione ciceroniana derivante dalla


consapevolezza di aver perso l’autorità politica di cui aveva goduto al tempo del consolato e
negli anni immediatamente seguenti. D’altra parte, il desiderio di ‘contare qualcosa’ lo porta a
legittimare il nuovo potere triumvirale anche a costo di cedere in merito alle proprie convinzioni
politiche: emblematica la difesa dell’operato di Pompeo, sostenuta da una certa enfasi retorica.
Amare in particolare le considerazioni finali, dalle quali traspare il disincanto per una politica
ormai del tutto mutata (commutata tota ratio est) nella quale entra in crisi l’amicizia stessa con
Pompeo e l’immagine che Cicerone ha di sé.
Per quel che concerne l’epistolario senecano, difficile offrire una sintesi dei molti temi presenti.
Molto significativo, anche in relazione alla riflessione senecana proposta sul tema della filosofia
nella Lezione 3, il monito rivolto a Lucilio a praticare l’esercizio filosofico in ep. ad Luc. 16.

1.Liquere hoc tibi, Lucili, scio, neminem posse beate vivere, ne tolerabiliter quidem sine
sapientiae studio et beatam vitam perfecta sapientia effici, ceterum tolerabilem etiam inchoata.
Sed hoc, quod liquet, firmandum et altius cotidiana meditatione Agendum est; plus operis est
in eo, ut proposita custodias quam ut honesta proponas. Perseverandum est et adsiduo studio
robur addendum, donec bona mens sit quod bona voluntas est… 3. Non est philosophia
populare artificium nec ostentationi paratum. Non in verbis, sed in rebus est. Nec in hoc
adhibetur, ut cum aliqua oblectatione consumatur dies, ut dematur otio nausia. Animum format
et fabricat, vitam disponit, actiones regit, agenda et omittenda demonstrat, sedet ad
gubernaculum et per ancipitia fluctuantium derigit cursum. Sine hac nemo intrepide potest
vivere, nemo secure. Innumerabilia accidunt singulis horis, quae consilium exigant, quod ab
hac petendum est. 4. Dicet aliquis: “ Quid mihi prodest philosophia, si fatum est? Quid prodest,
si deus rector est ? Quid prodest, si casus imperat ? Nam et mutari certa non possunt et nihil
praeparari potest adversus incerta; sed aut consilium meum occupavit deus decrevitque quid
facerem,aut consilio meo nihil fortuna permittit”. 5. Quicquid est ex his, Lucili, vel si omnia
haec sunt, philosophandum est: sive nos inexorabili lege fata constringunt, sive arbiter deus
universi cuncta disposuit, sive casus res humanas sine ordine inpellit et iactat, philosophia nos

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tueri debet. Haec adhortabitur, ut deo libenter pareamus, ut fortunae contumaciter; haec
docebit, ut deum sequaris, feras casum. 6. Sed non est nunc in hanc disputationem
transeundum, quid sit iuris nostri, si providentia in imperio est, a ut si fatorum series inligatos
trahit, aut si repentina ac subita dominantur; illo nunc revertor, ut te moneam et exhorter, ne
patiaris inpetum animi tui delabi et refrigescere. Contine illum et constitue, ut habitus animi
fiat, quod est inpetus.

«Per te è evidente, o mio Lucilio, che nessuno può vivere sereno se non si cura della sapienza,
anzi neppure in modo sopportabile; ed inoltre che la sapienza perfetta rende la vita felice,
mentre anche quando è appena all’inizio la rende tollerabile. Ma ciò che è evidente bisogna
rafforzarlo e con l’assidua meditazione imprimerlo più profondamente nell’animo: è più
difficile mantenere i buoni propositi che farli. Devi preservare e con l’incessante applicazione
accrescere le energie spirituali, finché la buona volontà non si sia trasformata in saggezza… 3.
La filosofia non è già un’arte atta a procacciarsi il favore del popolo e di cui non si possa fare
ostentazione: essa non consiste nelle parole, ma nelle azioni. E non si ricorre a lei per passare
con un certo diletto le giornate, perché il tempo libero non sia rattristato dalla noia: la filosofia
forma e foggia l’animo, regola la vita, governa le azioni, insegna ciò che si deve fare e ciò che
si deve evitare, sta al timone e dirige il corso delle navi in balia delle onde attraverso i pericoli.
Senza questa nessuno può vivere libero da timori e tranquillo; ad ogni istante accadono
innumerevoli fatti, i quali esigono consigli che solo essa può dare. 4. Qualcuno osserverà: “ma
che vantaggio può derivarmi dalla filosofia, se esiste un ordine fatale degli eventi? Se dio è il
reggitore di tutto? Se il caso governa ogni vicenda? Infatti ciò che è stabilito non può cambiare
e niente si può predisporre contro gli avvenimenti incerti; ma o dio ha prevenuto le mie decisioni
ed ha decretato che cosa dovesse fare, o la fortuna non lascia alcuna libertà alla mia iniziativa ”.
5. Qualunque di queste ipotesi sia vera, o mio Lucilio, o anche se tutte quante sono vere, bisogna
attendere alla filosofia: sia che il destino con la sua inesorabile legge ci domini, sia che Dio,
signore del mondo intero, abbia disposto tutti gli eventi, sia che il caso a capriccio produca e
sconvolga le vicende umana, la filosofia deve essere il nostro rifugio. Questa ci esorterà a
sottometterci di buon grado a Dio, con animo sprezzante alla fortuna; questa ci insegnerà a
conformarci alla volontà di Dio, a sopportare con pazienza ciò che è opera del caso. 6 Ma ora
non dobbiamo discutere che cosa sia in nostra facoltà, se la nostra Provvidenza divina governa
il mondo o se la fatale successione degli avvenimenti ci ha in sua balia, o se le vicende repentine
ed improvvise prevalgono; ritorno all’argomento per consigliarti ed incitarti a non lasciare che

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l’ardore del tuo animo cada e si raffreddi. Conservalo e fa sì che l’ardore di oggi diventi abituale
disposizione dell’animo».

In questo testo, dopo aver detto che la filosofia è volta all’azione e non alla speculazione (non
est philosophia populare artificium nec ostentationi paratum. Non in verbis, sed in rebus es t),
Seneca esalta alla maniera di Cicerone la filosofia come porto sicuro dove trovare riparo alle
tempeste, per poi complimentarsi con Lucilio per i pregressi fatti, ma al contempo
sollecitandolo rispetto a quelli che gli restano da compiere. Seneca introduce poi un
interlocutore fittizio, da cui provengono ipotetiche obiezioni che rivendica come gli eventi
appaiono invece in balia del caso o del fato. Ed ecco quindi che anche attraverso questo
espediente narrativo disserta di profondi argomenti filosofici nella forma ‘semplice’
dell’epistola.

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MODULO - LETTERATURA LATINA I

UNITÀ DIDATTICA 3 - LA PROSA FILOSOFICA, L’EPISTOLOGRAFIA

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MODULO - LETTERATURA LATINA I

UNITÀ DIDATTICA 4 - PROSA SCIENTIFICA, ROMANZO

1 a Lezione - La prosa scientifica tra repubblica e primo impero

Nella critica per molto tempo è invalsa un’interpretazione volta a identificare nella produzione
scientifica in latino un qualche regresso rispetto all’ampiezza della riflessione teorica dei Greci.
Questa affermazione coglie per certi versi nel vero, nel senso che nella produzione in greco si
ha modo di osservare ed apprezzare un’attenzione alla scienza maggiore e più puntuale di
quanto non avvenga presso la letteratura latina. Tuttavia, rispetto a posizioni più antiche
sostanzialmente attestate su questa linea interpretativa, in forme estreme arrivate a sostenere
che il disinteresse scientifico dei Romani è stato la causa del ritardo subito dalle scienze proprio
dell’età medievale, la critica più recente ha sì osservato «lo scollamento sussistente tra scienza
e tecnica» (Mazzoli 1991), ma, d’altra parte, ha valorizzato la dimensione enciclopedica, che è
a tutti gli effetti il tratto forse più innovativo della cultura scientifica dei Romani. Tale
dimensione, infatti, è quella che indirizza e immette in un sistema organico la cultura antica,
offrendola alla modernità.
Sulle basi di queste premesse, si può osservare che tradizionalmente è a Catone che si guarda
come capostipite della prosa di argomento scientifico a Roma. Posto che le nostre conoscenze
della produzione catoniana sono piuttosto frammentarie, si può ragionevolmente affermare che
i praecepta ad Marcum filium possano essere stati la prima opera enciclopedica latina, anche
se i frammenti in nostro possesso devono con prudenza indurci a considerarla come una sorta
di compendio che doveva contenere esortazioni e suggerimenti rivolti al figlio su vari temi ed
argomenti del pensiero antico quali medicina, agricoltura, retorica, tecniche militari, diritto.
Non possiamo dire con certezza se ciò basti a farne un’opera di carattere enciclopedico, ma
certo sappiamo che essa ebbe grande fortuna ed eco a Roma, venendo lungamente citata e
celebrata.
D’altra parte, Catone è anche autore del de agricultura, la prima opera in prosa a noi giunta
della latinità. Si tratta intanto di uno scritto certamente della vecchiaia, nel quale, talvolta con
una certa confusione (Della Corte 1969), si fondono esperienze biografiche soprattutto degli
anni giovanili con precetti relativi alla più efficace conduzione della vita nei campi. Gli studiosi

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hanno in particolare evidenziato la mancanza di sistematicità che caratterizza l’opera: in essa,
infatti, la narrazione è raramente fluida, al contrario essa è spesso contraddistinta da frequenti
iterazioni che sono state di volta in volta spiegate come frutto di interpolazioni avvenute nei
secoli successivi o anche rimaneggiamenti messi in atto dallo stesso Catone. Analogamente,
non si può dare una parola definitiva in relazione all’influenza della cultura greca sull’opera:
negata per molto tempo, essa è stata però oggetto di un ripensamento complessivo ed oggi si
ritiene che vi sia più di un legame con la cultura scientifica greca, soprattutto per quel che
riguarda l’organizzazione del discorso e molte scelte lessicali.
L’opera raccoglie la prospettiva del pater familias che guarda con interesse e attenzione alla
principale fonte di reddito del proprietario terriero, interessato a perpetuare e aumentare i propri
guadagni. Che l’agricoltura costituisca poi uno degli ambiti privilegiati dell’enciclopedia latina
è poi confermato dai tre libri di cui si compongono le rus rusticae di Varrone. Opera composta
intorno al 37 a.C., essa testimonia ancora una volta l’interesse che i Romani ripongono
nell’agricoltura, nella quale identificano un valore fondante la civiltà latina. È ovvio e naturale
istituire un confronto tra l’opera catoniana e quella di Varrone, dal momento che la seconda ha
certamente nella prima una fonte privilegiata. Va tuttavia osservato che a differenza di Catone,
Varrone è molto attento a dichiarare le sue molteplici letture: è questo il segno dell’acquisizione
consapevole di un metodo moderno, che scientificamente dichiara i modelli entro cui si
posiziona. Ancora rispetto a Catone, Varrone è molto attento poi a evitare la concentrazione
della prospettiva nella figura del pater familias, offrendo uno sguardo più largo che coinvolge
tutti i ‘protagonisti’ della vita dei campi e dell’allevamento.
Nulla invece possiamo dire della produzione di Nigidio Figulo, a cui si attribuiscono interessi
di carattere naturalistico, come confermano i titoli delle sue opere perdute (de vento, de
hominum naturalibus, de animalibus).
La prima età imperiale si distingue poi per i dieci libri de architectura di Vitruvio. Si tratta di
un progetto editoriale largo che coinvolge tante branche del sapere: dai fondamenti dell’edilizia
urbana agli edifici sacri e a quelli pubblici, da quelli relativi alla decorazione alle questioni
concernenti l’idraulica e alle macchine belliche. Importanti studi, come quello di Romano 1991,
hanno dimostrato come l’opera sia fortemente protesa a dare un posto speciale all’architettura
che per Varrone aveva invece ruolo marginale. I proemi ai singoli libri, in particolare, offrono
una prospettiva inedita sull’architettura e sul ruolo che essa svolge nel progetto rifondativo di
Augusto. La stessa lingua di Vitruvio segna un importante progresso nelle acquisizioni latine
di un lessico tecnico, che contempla tra le altre novità un brillante trattamento di termini greci.

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Come ha giustamente osservato Callebat 1982, la prosa di Vitruvio dà mostra di un sapiente
utilizzo di tutti gli strumenti a sua disposizione, compresa la retorica.
Non mancano poi, sempre nella prima età imperiale, trattati i cui interessi riguardano aspetti
collaterali alla vita dei campi. Si distinguono in questo campo i testi di gromatica, così definiti
dalla groma, lo strumento con cui si effettuavano le misure dei terreni. Tra i trattati agronomici
si distingue poi il trattato de re rustica di Columella. All’ambito militare, altra grande ‘passione’
dei Romani, afferiscono poi i trattati de re militari di Frontino e di Igino, databili tra I e II secolo
d.C.
Nella trattatistica scientifica emergono poi le naturales quaestiones, composte da Seneca
verosimilmente tra il 62 e il 63. L’opera è il culmine di un interesse scientifico che Seneca
coltivò lungo tutta la vita, come dimostrano vari lavori, per noi perduti, ma di cui conosciamo
i titoli. L’opera, divisa in sette libri, affronta le questioni riguardanti astronomia, geologia, fisica
(fuochi celesti; fulmini e tuoni; acque; nubi; venti, terremoti; comete), ma sempre nella
prospettiva di superare la realtà fenomenica cercando di cogliere la dimensione segreta che
sorregge il mondo. Va però osservato che per quanto Seneca sembri dotato di competenza,
fondata soprattutto sulle sue fonti, non mostra interessi da scienziato; la spiegazione di questa
apparente aporia è probabilmente da reperire nella preminenza da lui riconosciuta al momento
etico.
Di una quindicina di anni dopo, precisamente del 77 d.C., è poi la monumentale opera naturalis
historia, che Plinio il Vecchio dedica al giovane Tito, non ancora asceso al ruolo di princeps.
Il collegamento tra le due opere appare immediato, ma va subito detto che il carattere che le
ispira è molto differente. L’opera di Seneca è infatti tesa alla ricerca di una verità che trascende
i fenomeni universali; naturalis historia di Plinio è invece l’apertura ad un mondo che va
descritto in tutti i possibili particolari. Nella sua sterminata estensione, si compone infatti di 37
libri, l’opera mostra chiaramente un carattere disorganico, che, come è stato osservato, sembra
inclinare verso una «disintegrazione del sapere enciclopedico» (Mazzoli 1991). La praefatio
dell’opera, composta in forma epistolare con una dedica a Tito, dà mostra concreta dello
scrupolo che accompagna l’autore nella ricerca e nella schedatura del massimo numero di libri
possibili contenenti notizie utili alla composizione dell’opera. Vi si parla infatti di circa
ventimila notizie meritevoli di essere prese in considerazione, desunte da più di duemila volumi
letti e catalogati.
In questa visione all’apparenza disorganica, c’è un filo conduttore che coincide con la stessa
ragion d’essere del trattato: nella prospettiva di Plinio, l’uomo è al centro del mondo e attorno
a lui tutto ruota in un rapporto di maggiore o minore prossimità. Così, dopo aver introdotto la

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trattazione con cosmologia e geografia, che costituiscono le coordinate entro cui si situano le
azioni dell’uomo, segue l’antropologia, a meglio inquadrarne la centralità. Ad essa, in ideale
prosecuzione si pongono la zoologia e la botanica. L’opera si chiude poi con la mineralogia ,
che apre alle importanti e giustamente celebrate pagine sulle arti.
Difficile cogliere i criteri che tengono uniti le varie successioni di argomenti: come osservato
da Conte 1982, più che di veri e propri legami tra un argomento e l’altro si dovrà parlare di una
giustapposizione in cui emergono di volta in volta fili sottili. Prossimità, lontananza, simpatia,
antipatia, vaghi legami analogici: sono questi alcuni degli elementi che fanno da connessione
delle varie parti dell’opera. Il che costituisce spesso ragione di frequenti cadute: facilmente
l’opera ‘precipita’ da posizioni stoiche, fieramente sostenute, a descrizioni ispirate a
«paralogismi della magia omeopatica» (Mazzoli 1991). Significativo il trattamento dei
cosiddetti mirabilia: essi vengono scartati nella praefatio, venendo definiti narrazioni piacevoli
ma prive di sostanza; poi, però, Plinio vi indulge con costanza nel corso dell’opera ed anzi ad
essi è spesso affidata la funzione di arricchire e colorare la narrazione del reale. D’altra parte,
Plinio riferisce di mirare all’utilitas iuvandi piuttosto che alla gratia placendi, ma la narrazione
segue proprio questo filone ed anzi vi indulge con frequenza.
Al netto però di queste patenti e tutto sommato insanabili contraddizioni, va però osservato che
la naturalis historia è un’opera ambiziosa e certo particolarissima nel panorama delle opere
dell’antichità greco-latina. E anche se il suo stile è stato fortemente criticato per l’incapacità
piuttosto evidente di mantenere un tono unitario (celebri le pagine di Norden che criticava le
sue scelte paragonandole a vere e proprie mostruosità espressive), l’opera ha avuto enorme
fortuna nei secoli contribuendo ad arricchire la narrativa medievale e moderna di racconti e
spunti pieni di curiosità e aneddoti.

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2 a Lezione - Nascita del romanzo e Petronio

Parlare di romanzo antico è notoriamente questione assai difficile. Si tratta infatti di dover
discutere di testi molto importanti, sia in sé sia per quello che hanno costituito, senza però che
siano evidenti le regole del genere. Perché infatti ciò che caratterizza questo importante tassello
della narrativa greca e latina è la mancanza di un canone ben identificabile. Ciò che
contraddistingue tutti gli altri generi letterari, e cioè una precisa codifica entro cui si fondano i
presupposti del genere, manca invece per il romanzo antico. Il che significa che parlare delle
due opere più note della latinità, il Satyricon di Petronio e le Metamorfosi di Apuleio, è
operazione di estrema complessità. Qualcosa del genere accade specularmente per i romanzi
greci, con la differenza che essi, pur in tali casi distanti temporalmente, costituiscono un corpus
tutto sommato abbastanza compatto, con caratteristiche loro proprie che tendono a ripetersi. Lo
stesso non può dirsi esattamente negli stessi termini per i due romani latini; né, d’altra parte, è
possibile tracciare con chiarezza un collegamento tra le due opere. Se infatti si è ciclicamente
postulato che Apuleio conoscesse e leggesse il Satyricon di Petronio, non vi sono evidenze
testuali tali da esser considerate prove inconfutabili di tali rapporti. Che tuttavia non possono
d’altro canto esser esclusi a priori. Perché, per altro verso, anche tra i due romanzi, come
avremo modo di documentare più avanti con maggior precisione, non mancano coincidenze
tematiche di un certo rilievo.
Il confronto con il romanzo greco d’amore è comunque istruttivo perché consente di apprezzare
alcune caratteristiche topiche come quelle relative alla presenza di innamorati che patiscono
disavventure di ogni sorta, le cui vicende invitano il lettore a partecipare con commozione e
interesse autentici. È stato osservato (Barchiesi 1993) che la ‘serietà’ con cui queste storie
vengono raccontate suggerisce un orizzonte condiviso dal pubblico, che in queste vicende
avventurose, caricate frequentemente da paesaggi e personaggi esotici, doveva trovare
narrazioni apprezzate e in qualche modo condivise, anche in relazione all’universo di valori che
tali storie spesso recavano con sé. Se però ci spostiamo dal versante del romanzo greco a quello
latino, si osserva con facilità come a fronte di una condivisione dei temi, essi siano però filtrati

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attraverso una prospettiva del tutto differente: la lente con cui i narratori guardano alle peripezie
dei rispettivi protagonisti è infatti caratterizzata dall’ironia con cui seguono le storie. A fianco
poi dell’impostazione ironica con cui tali storie sono narrate, si osserva una decisa tendenza
alla rappresentazione realistica, molto lontana dalle forme idealizzate e atemporali che
contraddistinguono il romanzo greco. Proprio il tratto realistico, che certamente accomuna i due
romani latini, offre una larga rappresentazione della realtà quotidiana, che è osservata con
sguardo disinibito e senza costruite idealizzazioni. D’altra parte, la cura formale e la
complessità strutturale che caratterizzano i due romanzi invitano a considerare con maggiore
attenzione lo spessore artistico di questi prodotti letterari, consentendo di guardare all’officina
letteraria entro cui è possibile distinguere molteplici echi letterari. È una caratteristica spesso
osservata per entrambi i romanzi il continuo gioco di rimandi all’alta letteratura; un tratto,
quest’ultimo, che non ha pari nei romanzi greci.
Con una sintesi efficace, Barchiesi 1993 ha sottolineato tali differenze, osservando come a
confronto con i romanzi greci «Petronio e Apuleio ci appaiono autori ‘difficili’ per cultura e
consapevolezza tecnica». Tale affermazione non intende certo sminuire l’importanza dei primi,
ma sottolineare la differente caratura dei due romanzi latini, la cui complessità li rende tanto
‘appetibili’ quanto di difficile comprensione.
In merito al Satyricon di Petronio, sono molte le questioni irrisolte. La prima riguarda il fatto
che tutte le affermazioni che oggi possiamo condurre si concentrano su ciò che può esser
considerato come un ‘moncone’, di una certa estensione, di un’opera che doveva essere molto
più estesa, forse addirittura una decina di volte più grande di come si presenti attualmente. Dopo
questa prima fondamentale considerazione, molte incertezze permangono sull’autore, anche se
il nome trasmesso dai manoscritti, quello di Petronio Arbitro, si identifica convenzionalmente
con l’uomo descritto in celebri passaggi del sedicesimo libro degli Annales di Tacito, dove,
tuttavia, in un racconto dettagliato della vita sopra le righe dell’uomo non si fa menzione della
sua attività poetica.
Da questa non del tutto sicura identificazione discendono alcune possibili piste interpretative,
volte ad associare il suicidio storicamente comprovato dell’uomo, compiutamente descritto da
Tacito, e tratti che emergono dalla narrazione del Satyricon. Così, ad esempio, si giustifica la
tendenza alla irriverenza, alla esibizione di cultura particolarmente raffinata, sia pur sopra le
righe. Non convince al contrario l’idea, avanzata soprattutto un tempo, che l’opera celasse un
intento parodico nei confronti di Nerone; più condivisibili appaiono le posizioni di quanti, al
contrario, vedono nel romanzo un riflesso del clima del tempo e delle sue pratiche. D’altra parte,
tutti gli elementi del romanzo, a partire da lingua e stile, appaiono perfettamente compatibili

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con l’età neroniana: il che vale come correzione dell’ipotesi, un tempo largamente
maggioritaria, che la lingua dei servi presente nel romanzo riproducesse una parlata propria di
tempi molto più tardi. La scelta linguistica non va infatti nella direzione di una cronologia tarda,
ma, al contrario, di una voluta utilizzazione di parlate diastraticamente posizionate in basso,
quel latino volgare in uso da tempi antichi.
Il che non risolve tutti i problemi temporali, perché ad esempio non sono chiari i rapporti di
cronologia tra il celebre episodio poetico presente nell’opera – un significativo bellum civile –
e il poema lucaneo. Si è sempre sospettato che l’inserto petroniano riecheggi il poema lucaneo,
ma questo presuppone rapporti cronologici non univocamente interpretabili.
Se poi si passa alla questione relativa al titolo, è chiaro che esso riecheggia modalità tipiche del
romanzo greco e proprio su queste similarità si deve ritenere più corretta la forma Satyrica,
essendo Satyricon da intendersi come genitivo dipendente da libri. A cosa poi alluda il
riferimento a satyroi è tutt’altro che evidente, anche in considerazione del fatto che esso
potrebbe al contrario richiamare il termine satura che a Roma implica spesso opere di carattere
misto tra prosa e poesia.
Il testo è, come si diceva, in uno stato frammentario: oltre ad una serie di frammenti, alcuni dei
quali dubbi, esso consta di un’ampia sequenza che copre i libri 14-16, in cui è tra l’altro ospitato
l’episodio della cena Trimalchionis. Purtroppo, il fatto che l’opera fosse stata esclusa dal novero
dei testi del canone scolastico ha fatto sì che di essa si perdessero rapidamente le tracce forse
già in età tardoantica, tempo nel quale cominciarono a circolare degli estratti di dimensione
variabile ricuciti insieme, probabilmente in maniera maldestra e così circolarono lungament e
tra Medioevo e Umanesimo. Solo nel XVII secolo una scoperta del codice di Traù (codex
Traguriensis), in cui si riporta l’episodio della cena, cambia la prospettiva di lettura dell’opera.
In merito ai rapporti che legano il romanzo alla tradizione letteraria, va intanto osservata la
vecchia tesi di Richard Heinze, che, a partire dall’osservazione delle evidenti simmetrie tra i
temi fondamentali del romanzo greco e le riprese petroniane in forma degradata (peripezie,
reinterpretazione dei temi legati all’amore in senso omosessuale, frustrazione di valori
tradizionali come la fedeltà o la castità), ritenne quella di Petronio come una riuscita parodia
del romanzo greco d’amore. L’affermazione coglie certamente nel vero, anche se non mancano
alcune evidenti contraddizioni: intanto il fatto che Encolpio e Gitone non sembrano esser stati
nel romanzo sempre innamorati (ricordiamo infatti che il nostro sguardo si concentra solo su
un ampio frammento) e che non sono comunque separati come invece accade agli innamora ti
dei romanzi greci.

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D’altra parte, a questo filone più serio si deve affiancare il legame con la tradizione milesia, un
genere novellistico dal tono scherzoso fatto di situazioni comiche così chiamato dalle Storie
Milesie di Aristide, tradotte e diffuse a Roma nel I sec. a.C. Di difficilissima valutazione per
noi moderni stante il pressoché totale naufragio di questa narrativa, essa sarà certamente rifluita
nel Satyricon soprattutto in quegli spunti novellistici come la storia della matrona di Efeso o
del fanciullo di Pergamo.
A fronte di questi richiami bisogna poi osservare la presenza del prosimetro, una delicatissima
miscela di prosa e di versi, molto rara nella tradizione letteraria greco-latina, che si rifarebbe al
genere della cosiddetta satira menippea, dal nome di Menippo di Gadara di cui poco sappiamo,
che a Roma fu illustrata da Varrone. Anche in questo caso, il naufragio dei testi rende assai
difficile identificare rapporti certi. D’altra parte, l’unico altro testo superstite,
l’Apocolocyntosis, mostra come il combinarsi di prosa e di versi offra una continua e strutturale
presenza di alti e bassi, toni seri e improvvise impennate scherzose, che è quanto in effetti
sembra caratterizzare il Satyricon. Il ricorso al prosimetro diventa dunque in Petronio un fatto
strutturale che in quanto precisa tecnica della narrazione restituisce una rappresentazione
compiuta dei personaggi e delle loro ambizioni. Il che conduce all’interpretazione recente
avanza da Conte 1995, che restituisce un’accurata lettura del clima ‘culturale’ entro il quale si
muovono i protagonisti del romanzo, sottolineando lo sguardo critico con cui il narratore
ridicolizza il suo stesso protagonista, Encolpio, le cui ambizioni letterarie, influenzate dalle
scuole di declamazione, appaiono sotto questa lente in tutta la loro piccolezza.

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3 a Lezione - Petronio, i testi

Si è osservato nella precedente lezione come uno dei tratti più caratteristici del romanzo
petroniano sia lo straordinario ‘impasto’ linguistico, in cui la compresenza di ‘alto’ e di ‘basso’
costituisce la grana di questo interessantissimo prodotto letterario.
Una prova significativa viene dai paragrafi 37 e 38, in cui Encolpio appena ammesso al
banchetto offerto da Trimalchione chiede ad un altro commensale, il liberto Ermerote,
informazioni circa i padroni di casa. Il discorso vira subito sulle notevoli fortune del padrone
di casa, di cui il liberto appare perfettamente al corrente. Nel raccontarle con dovizia di
particolari, egli mostra particolare ammirazione per la capacità del padrone di casa di acquisire
enormi fortune.
Questo il testo:
non potui amplius quicquam gustare, sed conversus ad eum, ut quam plurima exciperem, longe
accersere fabulas coepi sciscitarique, quae esset mulier illa, quae huc atque illuc discurreret.
‘uxor’ inquit ‘Trimalchionis, Fortunata appellatur, quae nummos modio metitur. et modo modo
quid fuit? ignoscet mihi genius tuus, noluisses de manu illius panem accipere. nunc, nec quid
nec quare, in caelum abiit et Trimalchionis topanta est. ad summam, mero meridie si d ixerit
illi tenebras esse, credet. ipse nescit quid habeat, adeo saplutus est; sed haec lupatria providet
omnia, est ubi non putes. est sicca, sobria, bonorum consiliorum – tantum auri vides – , est
tamen malae linguae, pica pulvinaris. quem amat, amat; qu em non amat, non amat. ipse
[Trimalchio] fundos habet, qua milvi volant, nummorum nummos. argentum in ostiarii illius
cella plus iacet quam quisquam in fortunis habet. familia vero babae babae, non mehercules
puto decumam partem esse quae dominum suum noverit. Ad summam, quemvis ex istis
babaecalis in rutae folium coniciet. nec est quod putes illum quicquam emere. omnia domi
nascuntur: lana, citrea, piper; lacte gallinaceum si quaesieris, invenies. ad summam, parum
illi bona lana nascebatur: arietes a Tarento emit et eos culavit in gregem. mel Atticum ut domi
nasceretur, apes ab Athenis iussit afferri; obiter et vernaculae quae sunt, meliusculae a
Graeculis fient. ecce intra hos dies scripsit, ut illi ex India semen boletorum mitteretur. nam

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mulam quidem nullam habet quae non ex onagro nata sit. vides tot culcit[r]as: nulla non aut
conchyliatum aut coccineum tomentum habet. tanta est animi beatitudo .

«Non c’era più niente che avesse sapore, ma, giratomi verso di lui, per raccogliere tutte le
informazioni che potevo, incomincio con il prendere le cose alla lontana, informandomi chi sia
quella donna che è sempre di corsa su e giù. “La moglie di Trimalcione, risponde, si chiama
Fortunata, una che i soldi li misura a staia. E adesso cos’era? Con rispetto parlando, un pezzo
di pane dalle sue mani non lo avresti accettato. Ma oggi senza perché e percome è salita ai sette
cieli ed è il factotum di Trimalcione. Alle corte, se a mezzo il mezzodì gli dicesse che fa buio,
lui ci crede. Che lui quanto ha non lo sa, straricco com’è, ma questa lupastra è la prima a veder
tutto e quando meno te lo aspetti. Astemia, sobria, di buoni principi: tutto oro quel che vedi.
Però una linguaccia, una gazza quando è a letto. Chi ama, ama; chi non ama, non ama. E lui,
Trimalcione, ha terreni che ci spaziano i nibbi e soldi che ci crescono i soldi. Vi è più argenteria
nel casotto del suo portinaio che un altro non ne ha con tutto un patrimonio. La servitù, poi,
caspita quella! Per me, per Ercole, non ce n’è uno su dicei che sa com’è fatto il padrone. Alle
corte, uno qualunque di codesti babbalocchi te la fa piccolo così. 38 E non hai da pensare che
lui acquisti qualcosa. Tutto gli nasce in casa: lana, limoni, pepe. A cercare latte di gallina, lo
troveresti. Alle corte, la lana gli riusciva poco buona: lui comprò dei montoni a Taranto e li
mise in culo al gregge. Per avere il miele attico in casa, si fece venire le api da Atene, che
intanto anche quelle nazionali un pochetto miglioreranno quelle grecule. Ecco, proprio in questi
giorni ha scritto in India, che gli spediscano il seme dei funghi. In quanto alle mule, non ce n’è
una che non sia nata da un onagro. Vedi che abbondanza di cuscini: non uno che non abbia
l’imbottitura o di porpora o di scarlatto. Il colmo della beatitudine!» (trad. Aragosti)

Questo brillante brano, che dà voce alla libera conversazione tra Encolpio ed un liberto, appare
di particolare significato, intanto per l’uso della lingua parlata da Ermerote. Il liberto, infatti, si
esprime attraverso il sermo cotodianus, caratterizzato da frequenti termini propri del linguaggio
volgare. Il Satyricon offre infatti un esempio di particolare significato, tanto più prezioso perché
pressoché unico nel panorama dei testi letterari a noi giunti. Attraverso questo espediente,
Petronio conferisce dunque particolari tocchi di realismo, adeguando la lingua alle persone che
la parlano e caratterizzando in maniera netta e immediatamente evidente lo scambio tra i
personaggi, che, come avviene in questo caso, utilizzano due registri linguistici sostanzialmente
differenti. Si potrà intanto sottolineare l’insistente ricorso alla paratassi, marca tipica del
linguaggio parlato, che tende a rifuggire dalla subordinazione: frasi brevi, spesso spezzate

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isolano frammenti del discorso, spesso conferendo una certa enfasi al locutore, che sembra
parlare con tono e verità ‘oracolari’ (vd. ad es. tantum auri vides, 37, 6; omnia domi nascuntur,
38, 1; tanta est animi beatitudo, 39, 5). Naturalmente, la credibilità delle affermazioni è un
modo con cui l’autore si prende gioco dei propri personaggi, ma il modo con cui lo fa è per così
dire condotto dall’interno della narrazione. Tipico poi di questo parlare tronfio, che esalta in
maniera eccessiva la grandezza del padrone di casa, è poi l’uso insistito di espressioni
iperboliche spesso sottolineate da frasi proverbiali (nummos modio metitur, 37, 2, “misura il
denaro con il moggio, cioè con lo strumento con cui si misura il grano. L’espressione tende
all’iperbole, ma mentre lo fa ottiene il doppio effetto di riprodurre quella vicinanza con
l’economia rurale, che caratterizza i personaggi).
Non mancano poi i colloquialismi: tra tutti emerge l’insistente richiamo alla formula ad
summam come nesso di apertura delle frasi. Si tratta chiaramente di forme del parlato che
Petronio utilizza con cura selezionandole al fine di rendere adeguatamente i tratti più confacenti
al personaggio del liberto. La lingua parlata dai vari personaggi diventa insomma la ‘carta
d’identità’ del personaggio stesso, contribuendo attraverso questo riuscitissimo processo
etopeico a dare concretezza ai caratteri. In taluni casi, poi, questo tipo di espressioni giunge a
veri e propri cumuli espressivi di brillantissima finezza. Si noti ad esempio a 37, 4 il periodo
nunc, nec quid nec quare, in caelum abiit et Trimalchionis topanta est, «Ma oggi senza perché
e percome è salita ai sette cieli ed è il factotum di Trimalcione»: in sequenza si osserverà intanto
l’espressione nec quid nec quare, espressione chiaramente colloquiale cui non corrisponde
nessuna finalità sintattica, trattandosi di una incidentale che riproduce movenze del parlato; in
caelum abiit è poi un’altra espressione proverbiale che allude con brillante umorismo al nuovo
ruolo di Fortunata ‘salita al cielo’ per i successi ottenuti e la sua affermazione personale.
Topanta è infine un grecismo, non unico nella pagina (poco più avanti incontriamo saplutus a
37, 6, in cui si distingue un evidente richiamo alla ricchezza): dalla forma plurale di pas, pasa,
pan, ta panta, Ermerote utilizza questo singolarissimo grecismo che tradisce la sua esigua
conoscenza del greco, ma al contempo qualifica il personaggio, le sue ambizioni, le sue mire di
ascesa sociale, che passano anche dal parlare - o meglio dal tentare di parlare - un linguaggio
che si pretende forbito e che invece dichiara la personalità vera del soggetto in questione.
L’originalità della lingua di Petronio si dimostra poi nei frequenti neologismi: il che riguarda
singole espressioni come lupatria, 37, 6, conio derivato dal termine lupa con accezione di
prostituta, cui è probabilmente aggiunto un suffisso tipico della lingua greca, forse vicino al
termine porneutria, che significa appunto prostituta. In altri casi, poi, sono alcune espressioni
a costituire oggetto di grande curiosità. È il caso, per esempio, dell’espressione in rutae folium

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coniciet: l’espressione, che non ha eguali nella lingua latina, almeno nei testi superstiti, indica
certamente uno spazio ristretto come lascia trasparire il riferimento alla foglia di ruta, ma non
è possibile cogliere fino in fondo il senso della battuta a causa della mancanza di termini di
confronto.
Insomma, la pagina petroniana si distingue per questa straordinaria ricchezza linguistica, che
gioca con i differenti registri, identificando proprio nell’urto tra di essi un tratto particolarmente
significativo che comprova le raffinate competenze dello scrittore. D’altra parte, come aveva
già osservato Erich Auerbach in pagine celeberrime di Mimesis, dedicate alla figura di
Fortunata, tecniche in questione si prestano ad importanti considerazioni di carattere letterario.
Intanto, osservava Auerbach, la tecnica narrativa per cui è un personaggio di pari livello a
descrivere i padroni di casa non ha eguali. Lo studioso si sofferma poi sui caratteri precipui del
realismo petroniano, osservando al contempo tanto l’aspetto creativo quanto i suoi stessi limiti.
Se infatti il realismo si lascia apprezzare nella capacità di rappresentazione della realtà
quotidiana senza quelle tendenze alle stilizzazioni che sono proprie di alcune altre opere
realistiche (come, ad esempio, avviene per opere come i mimiambi di Eronda o i componiment i
di Teocrito), Petronio lavora efficacemente a ricostruire scenari e personaggi, consegnando loro
una lingua adeguata alle loro caratteristiche. D’altra parte, in questo si intravede anche un po’
il limite del realismo petroniano che non può sottrarsi ad un’interpretazione esclusivamente
comica.

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UNITÀ DIDATTICA 4 - PROSA SCIENTIFICA, ROMANZO

4 a Lezione - Apuleio

Se da Petronio (vd. Lezioni 3 e 4) ci si sposta ad Apuleio, il quadro delle conoscenze in nostro


possesso appare immediatamente differente. Anche accettando l’identificazione di Petronio con
il Petronius Arbiter di cui Tacito racconta l’exitus, si resta comunque in presenza di notizie
esigue e certo frammentarie e d’altra parte l’opera stessa nello stato in cui ci giunge nulla
consente di aggiungere alla personalità del suo autore. Tutto differente il quadro relativamente
ad Apuleio: molte le notizie che abbiamo su di lui così come cospicue le sue opere giunte in
nostro possesso. D’altra parte, egli è molto generoso nel dare informazioni su se stesso, sicché
la sua cospicua produzione consente di desumere notizie dettagliate sulla sua biografia,
aggiungendo particolari, curiosità, aneddoti su uno degli autori più interessanti del secondo
secolo.
La sua personalità emerge con nettezza, lasciando intravedere il profilo di un intellettuale a tutto
tondo; e d’altra parte, attraverso le sue opere è possibile riconoscere il ritratto a tutto un mondo
di una realtà particolarmente fibrillante e culturalmente viva quale quella delle città africane
(non solo di Cartagine), in cui vive e opera Apuleio.
Sulla base di queste premesse si potrebbe ritenere che il romanzo apuleiano non ponga
particolari problematiche e invece, al contrario, molte sono le questioni aperte di cui è
opportuno dare conto. Andrà intanto osservato come Apuleio sia nella sua produzione minore
molto prodigo di informazioni non soltanto in relazione alla propria biografia, ma anche sulle
sue letture. In merito alle sue passioni letterarie e alla sua competenza di raffinato intellettuale
è dunque opportuno identificare ciò che costituisce il fondamento delle Metamorfosi. Alla base
di quest’opera vi è sicuramente il meglio della letteratura latina, certamente l’Eneide virgiliana
così come le Metamorfosi di Ovidio. Le similarità non riguardano soltanto il titolo comune, ma
anche solo l’analogia dei titoli dimostra una continuità per nulla superficiale. A fronte di tutto
questo, un ruolo fondamentale avranno sicuramente svolto le forme di narrativa novellistica sia
greca sia latina, così come, più in generale, tutte quelle favole comiche o licenziose cui

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attribuiamo il nome di fabula Milesia e che per noi, purtroppo, sono di difficilissima lettura,
stante il pressoché totale naufragio di tale narrativa.
Al di là di questi sicuri precedenti, che danno conto di puntuali e sempre interessanti analogie,
c’è un testo che da sempre torna nella critica come elemento preciso di confronto. Esso ci è
noto dalla tradizione di Luciano di Samosata: dentro il corpus delle sue opere vi è infatti uno
scritto dal titolo Lucio o l’asino, che racconta le disavventure capitate al protagonista, Lucio di
Patre. L’opera mostra indubitabilmente svariati punti di tangenza con le Metamorfosi apuleiane.
Dalla curiosità per le arti magiche come causa di disgrazie alle storie di trasformazione in asino:
già solo questi elementi dimostrano significativi tratti di continuità tra i due testi. Ma tali
similarità potrebbero continuare evidenziando come i due testi si mostrino strettamente
imparentati tra loro. Se poi da questo punto di vista si tenti di indagare quali possano essere i
possibili elementi di tangenza, si dovrà prudentemente osservare che il testo di Luciano
rappresenta soltanto in maniera indiretta la fonte di Apuleio. L’ipotesi oggi più accreditata è
che l’opera di Luciano sia una riduzione di un’opera più estesa, che anche Apuleio avrebbe
conosciuto, traendone ispirazione diretta. Se poi si rifletta sui rapporti intercorsi tra questa
esperienza narrativa e il romanzo greco d’amore, si potrà osservare che essa sembra rielaborare
temi e spunti del romanzo greco con alcune significative variazioni. Così, tra il modello della
crisi iniziale e della salvezza finale si apre un ampio spazio dove avventure di varia natura
possono susseguirsi con una certa libertà.
D’altra parte, a voler sovrapporre le due opere appare subito evidente che la trattazione
apuleiana mostra tratti di grande originalità, il che dimostra come, al di là dei rapporti di
dipendenza, la scrittura di Apuleio abbia saputo assumere caratteri vivacissimi all’insegna di
una grande libertà dal modello, come conferma peraltro il fatto che anche il testo originale, per
noi perduto, doveva essere non molto più lungo della versione di Luciano.
Va forse osservato che per troppo tempo l’impostazione della critica si è quasi ossessivamente
concentrata sull’analisi dei rapporti con il testo di Luciano e con la probabile fonte comune. La
questione è, ovviamente, di grande importanza, solo che essa ha finito per monopolizzare lo
sguardo degli studiosi, rendendo la discussione stessa piuttosto asfittica. Per altro verso, il
confronto tra i due testi potrà forse dire qualcosa su come Apuleio abbia elaborato temi magari
presenti nell’’originale’ perduto, ma poi scartati nella versione lucianea.
Tra gli episodi presenti nel romanzo apuleiano e invece assenti nell’Onos di Luciano (e
presumibilmente, ma la cautela è obbligatoria, nel precedente greco), due soprattutto devono
attrarre l’attenzione del lettore. Essi sono la favola di Amore e Psiche e l’undicesimo libro
caratterizzato da innumerevoli «effusioni liriche» (così Barchiesi 1993) nei confronti della dea

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Iside. Ciascuna delle due sequenze ha da sempre goduto di particolare fortuna critica, ma non
solo; perché, in particolare, la favola di Amore e Psiche ha costantemente avuto il privilegio di
essere stata letta, studiata, interpretata in maniera autonoma, come depositaria di valori e
simbologie a sé stanti. Il che, tuttavia, corre il rischio di nuocere all’interpretazione
complessiva, creando un singolare effetto distorsivo. Godibilissima in sé, essa è però un
elemento strutturale dell’opera già solo per la sua collocazione. Essa si trova dislocata nei libri
V-VI (per esattezza, occupa i parr. finali del quarto libro, tutto il quinto e buona parte del VI).
Va intanto precisato che essa si colloca in una posizione centrale del romanzo e nel bel mezzo
della sequenza denominata comunemente “picaresca” dell’opera, intendendo con questa
definizione l’ampia parte centrale del romanzo, più o meno estesa tra il quarto e il decimo libro,
contraddistinta da una serie di avventure, accostate senza una logica precisa se non quella della
moltiplicazione del racconto, un po’ come avviene nei romanzi propriamente definiti picareschi
e cioè quelli del ‘600 spagnolo, il più noto dei quali è il Don Chisciotte di Cervantes. Dunque,
ad un certo punto di questa sequenza compare una favola che ha per protagonista una fanciulla,
il cui nome, Anima, si lascia immediatamente interpretare in senso allegorico. La lettura della
novella in qualche modo raddoppia l’opera, favorisce di essa una lettura altra, anticipa e disvela
la risoluzione finale. Perché, infatti, essa segue in qualche misura, sia pur in forme trasfigurate,
la stessa sequenza prevista dal plot: avventura erotica, curiositas con conseguente smarrimento
della condizione di benessere iniziale (Lucio viene privato delle fattezze umane, Psiche
dell’amore del dio), disavventure risolte nel finale grazie all’intervento provvidenziale della
divinità. Da questa breve sinossi si ricava dunque la convinzione che esistono simmetrie mirate
che non possono non determinare l’interpretazione complessiva dell’opera.
La novella conduce e guida uno schema d’interpretazione, che con atteggiamento cooperativo
il lettore è chiamato ad estendere a tutto il romanzo per decrittarne il significato complessivo.
Se questo tipo di lettura interpretativa è nelle sue linee generali sostanzialmente corretta, non è
però così lineare come a prima vista potrebbe sembrare. Perché – ed è qui che si deve cogliere
forse uno dei sensi più importanti, se non il principale del romanzo – l’opera è sì un romanzo
in qualche misura di formazione, ma molto lontano da come la tradizione del romanzo
sviluppata tra 1700 e 1800 ha declinato questo concetto. Il romanzo ha infatti una sua cifra
peculiare ed essa è chiaramente da ricercare e identificare nella dimensione affabulatoria del
racconto. Applicare il filtro dell’interpretazione allegorica, se è dunque corretto, risulta però
operazione rischiosissima perché apre a notevoli fraintendimenti. Molte delle vicende che
Lucio vive si sottraggono e perfino lottano contro la lettura allegorica e anzi mostrano cadute e
miserie riconducibili al gusto ed al piacere del racconto fine a se stesso.

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Per altro verso, nel romanzo colpiscono i numerosi riferimenti a fatti e luoghi concreti, così
come a ben precise istituzioni civiche. Questi tratti ‘politici’ allontanano, e non di poco, il
romanzo dai precedenti greci, evocando forse più da vicino il Satyricon petroniano. Anche
questo elemento conduce all’idea di un’operazione complessa che sfugge ad un’interpretazione
univoca o unidirezionale. Se mai si fosse costretti a identificarne una, forse occorrerebbe
nominare la sempre presente competenza retorica. Essa non stupisce di certo in un autore come
Apuleio, che ha fatto del mestiere di retore-conferenziere una professione redditizia e sulla
quale costruire un pieno successo. Nella prospettiva del romano, la retorica è dunque
costantemente presente ed anzi costituisce una sorta di griglia interpretativa, entro la quale i
personaggi e tutta la storia sono perfettamente ‘incastrati’.
Inoltre, a dare ulteriore conferma della raffinatissima operazione letteraria messa in atto da
Apuleio, non si potrà fare a meno di osservare come, dal punto di vista strettamente
narratologico, le Metamorfosi costituiscano uno dei casi più riusciti tra i testi dell’antichità di
compiuta e sollecita interazione tra autore, testo e destinatari. Come si osserverà nella
successiva Lezione 6, Apuleio tiene sempre presente e viva l’attenzione sulla figura del lettore
nella certezza, che emerge a più riprese nel romanzo: in virtù di essa la dimensione spettacolare
intrinseca all’opera va concepita. Il che approssima ancora una volta il romanzo apuleiano a
quello di Petronio, dal momento che entrambi sembrano pensati per un pubblico colto e per
questa ragione più ristretto di quello che aveva caratterizzato il romanzo greco.

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MODULO - LETTERATURA LATINA I

UNITÀ DIDATTICA 4 - PROSA SCIENTIFICA, ROMANZO

5 a Lezione - Apuleio, i testi

Si è osservata nella precedente Lezione (vd. Lezione 4) la modernità dell’atteggiamento con


cui Apuleio guarda al lettore, cercandone il coinvolgimento. Si tratta, lo si è visto, di uno dei
casi più interessanti nella letteratura greca e latina dell’impegno di un autore antico a
coinvolgere i lettori in profondità nelle dinamiche narrative.
Luogo privilegiato che consente di osservare questo singolarissimo intento è il proemio. Di
seguito il testo (Met. 1, 1-3):

At ego tibi sermone isto Milesio uarias fabulas conseram auresque tuas beniuolas lepido
susurro permulceam – modo si papyrum Aegyptiam argutia Nilotici calami inscriptam non
spreueris inspicere – , figuras fortunasque hominum in alias imagines conuersas et in se rursum
mutuo nexu refectas ut mireris. Exordior. ‘Quis ille?’ Paucis accipe. Hymettos Attica et Isthmos
Ephyrea et Taenaros Spartiatica, glebae felices aeternum libris felicioribus conditae, mea uetus
prosapia est; ibi linguam Atthidem primis pueritiae stipendiis merui. Mox in urbe Latia aduena
studiorum Quiritium indigenam sermonem aerumnabili labore nullo magistro praeeunte
aggressus excolui. En ecce praefamur ueniam, siquid exotici ac forensis sermonis rudis locutor
offendero. Iam haec equidem ipsa uocis immutatio desultoriae scientiae stilo quem accessimus
respondet. Fabulam Graecanicam incipimus. Lector intende: laetaberis. Thessaliam – nam et
illic originis maternae nostrae fundamenta a Plutarcho illo inclito ac mox Sexto philosopho
nepote eius prodita gloriam nobis faciunt – eam Thessaliam ex negotio petebam. Postquam
ardua montium et lubrica uallium et roscida cespitum et glebosa camporum <emensus>
emersi, in equo indigena peralbo uehens iam eo quoque admodum fesso, ut ipse etiam
fatigationem sedentariam incessus uegetatione discuterem in pedes desilio, equi sudorem
<fronde detergeo>, frontem curiose exfrico, auris remulceo, frenos detraho, in gradum lenem
sensim proueho, quoad lassitudinis incommodum alui solitum ac naturale praesidium
eliquaret. Ac dum is ientaculum ambulatorium prata quae praeterit ore in latus detorto pronus
adfectat, duobus comitum qui forte paululum processerant tertium me facio. Ac dum ausculto

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quid sermonis agitarent, alter exerto cachinno: ‘Parce’ inquit ‘in uerba ista haec tam absurda
tamque immania mentiendo.’ Isto accepto sititor alioquin nouitatis: ‘Immo uero’ inquam
‘impertite sermone non quidem curiosum sed qui uelim scire uel cuncta uel certe plurima; simul
iugi quod insurgimus aspritudinem fabularum lepida iucunditas leuigabit.’ At ille qui coeperat:
‘Ne’ inquit ‘istud mendacium tam uerum est quam siqui uelit dicere magico susurramine amnes
agiles reuerti, mare pigrum conligari, uentos inanimes exspirare, solem inhiberi, lu nam
despumari, stellas euelli, diem tolli, noctem teneri.’ Tunc ego in uerba fidentior: ‘Heus tu’
inquam ‘qui sermonem ieceras priorem, ne pigeat te uel taedeat reliqua pertexere ’, et ad alium:
‘Tu uero crassis auribus et obstinato corde respuis quae forsitan uere perhibeantur. Minus
hercule calles prauissimis opinionibus ea putari mendacia quae uel auditu noua uel uisu rudia
uel certe supra captum cogitationis ardua uideantur; quae si paulo accuratius exploraris, non
modo compertu euidentia uerum etiam factu facilia senties.

«E in questa conversazione milesia io intreccerò per te storie di ogni genere e incanterò le tue
orecchie benevole con un dolce sussurro; soltanto, tu non rifiutarti di esaminare questo papiro
egizio ingegnosamente vergato con una sottile canna del Nilo. Do inizio, affinché tu ti
meravigli, a una trama di figure e sorti umane che hanno cambiato aspetto e sono poi
vicendevolmente tornate quelle di prima». “E chi è costui?” Te lo spiego in breve. L’Imetto
attico, l’Istmo di Corinto e il Tenaro spartano: queste terre fortunate, cantate in eterno in libri
ancor più fortunati, sono il mio antico lignaggio, ed è lì che da ragazzo alle prime armi mi sono
esercitato nei rudimenti della lingua dell’Attica. Poi a Roma, estraneo com’ero alla cultura dei
Quiriti, con gran fatica e senza la guida di alcun maestro ho conquistato e coltivato la lingua
del posto. Chiedo dunque perdono fin da subito se, inesperto nel parlare, inciamperò in qualche
espressione esotica e straniera; del resto, anche questo cambiamento di lingua corrisponde allo
stile da acrobata equestre che ho adottato. Diamo ora inizio a un racconto alla greca. Lettore,
ascoltami bene: ne sarai felice. Tessaglia. È là che, per parte di madre, affondano le radici della
mia famiglia, che si onora di risalire fino al famoso Plutarco e al filosofo Sesto suo nipote; ed
è proprio là in Tessaglia che mi dirigevo per affari. Avevo superato montagne scoscese e vallate
sdrucciolevoli, prati umidi di rugiada e campi arati di fresco in groppa a un cavallo del posto
dal manto tutto bianco; siccome anche quello era ormai spossato dalla fatica, smonto di sella
per fare due passi e, con l’esercizio, scrollarmi di dosso io stesso la stanchezza di esser stato
seduto tanto a lungo. Sfrego via per bene il sudore del cavallo con le frasche, gli accarezzo le
orecchie, gli levo il morso e lo faccio proseguire adagio e senza fretta, aspettando che il
consueto e naturale sostegno del ventre sciolga i crampi della stanchezza. Mentre lui, chino e

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girando la testa di lato, si allunga verso i prati a cui passa accanto (il suo spuntino da passeggio),
io mi aggrego a due viandanti che si trovavano a precedermi di poco. Mentre ascolto i loro
discorsi, uno scoppia a ridere e dice: “Ma basta con questi discorsi! Menzogne assurde, balle
mostruose!” Sempre assetato di cose insolite, al sentire queste parole mi intrometto: “No, per
favore – anzi, fatemi partecipare alla vostra conversazione. Non è che io sia curioso, ma vorrei
conoscere tutto, o almeno il più possibile; e poi, un racconto piacevole e divertente allevierà la
fatica della salita che stiamo affrontando”. 3 Quello che aveva parlato prima però riprende: “Ma
via, è una frottola incredibile! Proprio come se qualcuno sostenesse che con una formula magica
si può invertire il corso di un fiume impetuoso, imbrigliare il mare fino a renderlo immobile ,
trattenere i venti fino a soffocarli, oscurare il sole, sottrarre alla luna la sua rugiada, schiodare
le stelle dal cielo, eliminare il giorno e prolungare la notte”. Al che io, con parole più decise:
“Senti, tu che avevi iniziato a parlare: se non ti dispiace troppo, racconta anche il seguito”. E
rivolto all’altro: “Tu rifiuti cocciutamente di prestare orecchio a storie che forse sono narrate in
tutta sincerità. Per Ercole, sei proprio uno sprovveduto se ritieni falso qualcosa solo perché non
lo si è mai visto o sentito prima, o sembra al di là della nostra comprensione! Quegli stessi
eventi, se li esamini un po’ più attentamente, ti renderai conto che non solo li si può accertare
al di là di ogni dubbio, ma è anche facile che si verifichino» (trad. Graverini, Nicolini 2019).

Come è evidente, questo brillante proemio pone innumerevoli questioni non tutte facilmente
risolvibili e che infatti hanno avuto non univoche interpretazioni critiche, come quelle relative
all’identità di chi parla (sempre Lucio? O prima Apuleio e poi Lucio? O ancora nel primo
paragrafo è il libro che si autopresenta). È intanto fondamentale osservare che chi parla si
rivolge al lettore, dichiarando che secondo il modello delle fabulae Milesiae saranno raccontate
storie diverse per argomento, accomunate dalla metamorfosi. Queste storie attrarranno il lettore
per il tipo di narrazione brillante che le caratterizza.
Successivamente, il proemio continua offrendo la presentazione del narratore, svelando
informazioni relative alla provenienza, agli studi e alle sue stesse attitudini. Tutte queste
informazioni sono per la verità in taluni casi contraddittorie e in questo si è da parte di taluni
osservata una caratteristica, voluta da parte dello stesso Apuleio, a confondere un po’ le acque.
Il paragrafo 1 si conclude poi con una brillante allocuzione al lettore (lector intende: laetaberis):
se apostrofi di questo tipo sono piuttosto comuni in altri testi latini (Ovidio su tutti, ma lo stesso
Apuleio le utilizza a più riprese), qui essa assume un carattere particolare: Apuleio propone una
sorta di ‘contratto’ con il lettore, promettendo che se il lettore conferirà attenzione all’opera,

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trarrà grande piacere dalla lettura. Al tema del piacere della lettura, che torna più volte nel
romanzo, si lega dunque implicitamente quello dell’interesse che ogni lettore trarrà.
Divertimento garantito e occasione per una crescita personale tornano immediatamente nei
paragrafi successivi, nel corso dei quali inizia il racconto vero e proprio riguardante Lucio.
Viene dunque nominata la Tessaglia come sede di ambientazione delle vicende. L’incontro di
Lucio con i viandanti fa infatti scattare l’elemento intorno al quale si muove la macchina
narrativa del romanzo: la curiositas (‘Immo uero’ inquam ‘impertite sermone non quidem
curiosum sed qui uelim scire uel cuncta uel certe plurima ). I viandanti sono infatti in
conversazioni che attraggono Lucio; entrato a far parte della discussione egli prende posizione
rispetto alle accuse, che uno dei due rivolge all’altro, di dire sciocchezze. Lucio è
particolarmente interessato ai discorsi che hanno a che fare con il tema, che si rivelerà centrale
delle trasformazioni che è possibile ottenere magico susurramine, sussurrando incantamenti.
Proprio il tema della curiositas è naturalmente l’escamotage narrativo che Apuleio applica per
consentire al lettore di acquisire nuove informazioni e dunque di orientare il discorso, ma d’altra
parte in questa circostanza essa consentirà di avviare il romanzo verso il tema per eccellenza,
quello rappresentato dalle metamorfosi, qui evocate da una lunga sequenza, otto per la
precisione, di adynata, situazioni impossibili, direttamente connessi alla descrizione di poteri
soprannaturali in grado di realizzare trasformazioni. Ecco che così anche il tema della
metamorfosi prende forma fin dall’inizio dell’opera.

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MODULO - LETTERATURA LATINA I

UNITÀ DIDATTICA 4 - PROSA SCIENTIFICA, ROMANZO

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