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ANNA AIRÒ, ELISABETTA CALDELLI, VALERIA DE FRAJA,

GIAMPAOLO FRANCESCONI*

«ITALIA, ITALIE, ITALICAE GENTES»


PARTICOLARISMI, VARIETÀ E TENSIONI
ALL’UNITAS NELLA CRONISTICA
TARDOMEDIEVALE

Giovanni Sercambi, nel capitolo DLIII del secondo li-


bro delle sue Croniche, tratteggia un quadro «di tucte le
condictioni de’ paezi di Ytalia». Il cronista, tutto immerso
nella stesura di una sorta di diario politico della Lucca se-
condo trecentesca, opera un salto di prospettiva e allarga la
visuale ad un’ottica più generale, che gli consenta di legare
le tormentate vicende cittadine ad un più ampio contesto
sovralocale. Le ragioni di quella scelta narrativa non sono
semplici da ricostruire. La sensazione è però che in Sercam-
bi, come in Villani seppur in una misura più sfumata, pesas-
se la convinzione che per comprendere pienamente e in
profondità quel che accadeva a Lucca fosse necessario guar-
dare anche fuori da quel «sistema città». Era in fondo il

* Il contributo costituisce l’esito di una riflessione e di una imposta-


zione comune. La sua realizzazione ha tuttavia beneficiato di una riparti-
zione sulla base delle sensibilità e delle competenze dei singoli: Anna
Airò si è occupata dei materiali relativi all’Italia del Mezzogiorno,
Elisabetta Caldelli di quelli dell’area romana e laziale, Valeria De Fraja
dell’area veneta, mentre Giampaolo Francesconi si è occupato della
Toscana e della scrittura del testo.
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riconoscimento di un rango internazionale per un centro


che aveva avuto una pluralità di interlocutori politici molto
diversi e di relazioni commerciali con le più importanti
piazze europee. L’osservatorio di Sercambi era cittadino,
ma la sua proiezione ne superava abbondantemente le mu-
ra. Le condizioni dei paesi d’Italia nella scrittura del croni-
sta lucchese erano lo sfondo, la cornice entro la quale inse-
rire le vicende politiche, sociali, economiche della sua città:
con una struttura rigorosamente orientata da ovest a est e
da nord a sud erano passati in rassegna i maggiori centri
urbani della penisola. L’Italia, da Torino a Treviso, e poi da
Genova a Roma e fino alle isole, era un’espressione geogra-
fica, frutto dell’accostamento sequenziale delle sue princi-
pali civitates e della determinazione della sua morfologia e
dei suoi confini. Nel successivo capitolo DLIV alla struttu-
ra espositiva della lista si sostituiva, infatti, una più evocati-
va visione narrativa:

Italia è tracta in forma d’una fronda


di Guercia, lungha e strecta, da tre parti
la chiude e la percuote con sua onda […]
Monte Apennino per mezzo la fende

Con pochi essenziali tratti di penna Sercambi definiva


una forma topografica. La geografia conferiva unità a quello
spazio che conosciamo come Italia: la sua percezione era
ben chiara, addirittura se ne fissavano, in una figura quasi
icastica, i fondamentali elementi costitutivi: il suo disegno
d’insieme, la sua dimensione peninsulare, il taglio dorsale
della catena appenninica. Un’immagine che conservava il
dono dell’immediatezza, ma che aveva, a ben vedere, un
suo lontano e ben radicato retroterra. Il modello retorico-
descrittivo sercambiano poggiava, infatti, i suoi referenti
concettuali nella figura del «triangolo» di Polibio e, ancor
più direttamente, nella «foglia di quercia» di Plinio. Quella
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forma che nel racconto disteso del cronista lucchese poteva


rimandare ad una rappresentazione concepita e operante
sullo scorcio del secolo XIV era in realtà l’esito di un’idea,
quasi metastorica, che risaliva all’antichità greco-romana e
che avrebbe trovato una sua lunga continuità negli storici e
negli enciclopedisti altomedievali da Orosio a Paolo Diaco-
no, da Rabano Mauro a Lamberto di Saint-Omer e giù fino
a Gervasio di Tilbury.
L’Italia manteneva, dunque, una sua piena e ben defini-
ta vocazione geografica, distintiva, di lunga, consolidata e
condivisa caratterizzazione: la sua forma naturale, ancor pri-
ma della sua storia, della sua cultura, dei suoi tratti etnici e
antropologici, le conferiva unità e riconoscibilità. Un tratto
fortemente identitario che sarebbe stato ripreso e arricchito
anche più avanti, in pieno Umanesimo e durante la prima
età moderna, da Biondo Flavio nella sua Italia illustrata e da
Leandro Alberti nella Descrittione di tutta Italia. La geogra-
fia era eclatante, identificava e univa, ma non poteva essere
tutto. Rimaneva un collante forte in una storia complessa,
disarticolata e policentrica, in cui gli agenti erosivi erano
stati superiori a quelli coesivi, già a partire dalla spaccatura
longobarda e poi in una lunga continuità fino all’Unità
nazionale del 1861. Fino, appunto, a soli 150 anni fa.
Il colpo d’occhio è possibile: la traiettoria storica appe-
na accennata di un paese diviso, aperto alle dominazioni
straniere e alle spinte centrifughe – è questa una declinazio-
ne d’Italia presente nella percezione di Salimbene de Adam
–, innestato su una forte tradizione cittadina nella sua parte
centrosettentrionale e ancorato alla struttura di un Regno di
marca esogena, coordinato e retto dai normanni fino agli
aragonesi, nel suo Mezzogiorno può avere il pregio della
linearità, della facile comprensibilità, ma i suoi limiti nella
superficialità e nella teleologia. Perché la storia italiana è
una storia divisa, è una storia plurale, è una storia delle varie
«Italie» – come sta scritto nel titolo di questo intervento –
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piuttosto che una storia d’Italia, una storia in cui la presen-


za, l’azione e gli ideali delle due potestà universali, della
Chiesa e dell’Impero, è stata invasiva e condizionante, ma
correremmo il rischio dell’ingenuità e dell’olismo interpre-
tativo, se all’interno di quel percorso non cercassimo di rav-
visarne i momenti di rottura e le asincronie di costruzioni
storiografiche che molto devono alla sete di nazione che
aveva attraversato il nostro Risorgimento. Che è stata una
fase recente e decisiva della nostra storia, ricca di tensione
politica e culturale – per inscriversi nel dettato del nostro
convegno –, una stagione fondativa della comune vicenda
nazionale, ma che ha avuto anche la forza di innalzare co-
struzioni storiografiche distorsive, periodizzanti e, talvolta,
persino egemoni nei confronti del successivo discorso poli-
tico e culturale. I «Medioevi antagonisti», il Medioevo delle
antitesi – evocato di recente seppur in modo diverso da
Enrico Artifoni e da Ilaria Porciani –, il mito del comune
come motore di libertà e di democrazia, il principio della
nazionalità da rintracciare nella contrapposizione romano-
germanica – solo per richiamare alcuni nodi qualificanti –
hanno più spesso imposto servitù che libertà al linguaggio e
al discorso storiografico, hanno più spesso indotto a rin-
tracciare le costanti storiche dominanti e persistenti, piutto-
sto che le zone d’ombra, i progetti falliti, le aspirazioni ri-
correnti ancorché destinate all’insuccesso.
È pur vero che la storia d’Italia è una storia da declina-
re al plurale, è pur vero che si tratta di una storia che ha vis-
suto nella sua plurisecolare vicenda di un «movimento sinu-
soidale», come ricordava Ruggero Romano, dovuto per lo
più alla frequente mancata corrispondenza fra le stagioni
della sua politica e della sua cultura, fra gli alti e i bassi di
una mancata sovrapposizione che ha spesso generato in-
comprensioni, ma è altrettanto vero che di questa fallita
coincidenza i suoi intellettuali e, nel caso specifico, i suoi
cronisti ne sono stati interpreti fedeli, attenti, anche se spes-
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so contradditori e condizionati. E così il panorama com-


plesso, vario e diversificato della storiografia medievale può
divenire, pur nelle profonde differenze dei contesti cultura-
li, delle strutture compositive, dei modelli narrativi domi-
nanti, un osservatorio difficile, ma interessante, della perce-
zione e della rappresentazione di una storia che, si è visto,
rischia di essere più sfuggente e più dinamica delle model-
lizzazioni e dei paradigmi postumi. Di una storia plurale e
policentrica anche nella fisionomia, nell’educazione e nella
formazione dei suoi storici – come ci ha insegnato Girola-
mo Arnaldi. Anche per queste ragioni la storiografia medie-
vale, varrà la pena di ricordarlo, non potrà essere seguita
qui che attraverso alcuni nuclei tematici forti e con il ricor-
so limitato ad alcuni autori e a poche opere.
Un percorso diverso ci esporrebbe al rischio evidente
della sterile elencazione e della inevitabile incompletezza,
per lo più nello spazio breve di un intervento congressuale
e di un tema, inutile negarlo, ambiguo quanto cruciale e pe-
ricoloso nella storia italiana come quello della tensione al-
l’unitas, nelle sue più varie accezioni. Perché andrà sgom-
brato il campo da un altro possibile equivoco: cercare le
tracce dell’unità nella storia italiana medievale o d’ancien
régime rischia di essere un viaggio contromano, con tutti i
rischi che esso comporta, ma forse anche con l’ebbrezza e
quel po’ d’incoscienza che lascia intravedere prospettive
meno solite e consuete. L’unità politica – è evidente, e per-
sino tautologico – gioca nel ruolo del grande assente: l’Italia
era disunita, plurima e, lo abbiamo detto e lo ripetiamo,
innestata sul «principio ideale» delle sue città, per richia-
mare la fortunata formula, oggi così risorgente, di Carlo
Cattaneo. Addirittura sul modello persistente del «piccolo
stato» nel grande stato, anche più avanti in età rinascimen-
tale e protomoderna, quando gli assetti politici sembravano
attestarsi su assi di maggiore ampiezza e stabilità, come ha
ricordato anche di recente Luca Mannori.
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L’Italia non esisteva, il termine corrispondeva semmai ad


un sentimento, oppure ad un’idea letteraria. Dante nel De vul-
gari eloquentia, siamo nei primissimi anni del Trecento, scri-
veva che gli italiani, da intendere come latini che vivono in
Italia, erano riconoscibili per alcuni semplicissimi segni distin-
tivi: le abitudini, il modo di vestire e la lingua. Non molti anni
prima, uno dei suoi maestri e concittadino, Brunetto Latini,
che dopo il 1260 da guelfo esiliato si era stabilito Oltralpe,
aveva potuto notare che il francese era la lingua più piacevole
del mondo, la stessa con cui aveva composto il suo Tresor, ma
allo stesso tempo esprimeva la consapevolezza di appartenere
ad una natio italiana, quando pronunciava il giudizio peren-
torio che «Italia è migliore paese che Francia». Pare evidente
che si stesse facendo largo, su un modello che potremmo con
qualche forzatura far risalire alla definizione di Itali, Italici e
Italienses che Liutprando da Cremona aveva trattato in più
parti dell’Antapodosis, ma con evidenti differenze di contesto,
un’idea di italianità, di appartenenza ad uno spazio culturale
e antropologico con suoi caratteri ben connotati. Gli italiani,
le italicae gentes, erano i portatori di una cultura che esprime-
va superiorità, una sorta di paradigma alto della civiltà di più
diretta ascendenza romana e latina: le genti italiane erano, in
qualche modo, eredi dirette di Roma e del suo primato cultu-
rale. I tratti del vivere quotidiano, della più corriva cultura
popolare, come quelli della sapienza letteraria e giuridica con-
correvano a porsi come gli elementi coesivi di una coscienza
nazionale, di un’unità che andava sperimentando nel primato
culturale e nella sua consapevolezza un motore trainante, ma
anche una ragione di persistente scollamento. Era la cultura
ad esprimere esigenze, ad avanzare istanze, a proporre model-
li che la politica stentava, quasi sempre volutamente, a tra-
sporre in programmi di governo. Ma su questo torneremo.
L’Italia appariva schiacciata e svuotata, proprio nel suo
farsi come idea, come coscienza culturale di un’unità, dal
mito di Roma e della translatio imperii, e ancor più spesso,
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dal suo essere il luogo delle meraviglie, una preda e una


donna da conquistare. Se per Arno Borst, alla fine del seco-
lo XII l’orgoglio nazionale dell’Italia era ancora prevalente-
mente «latino», non si potrà negare che un secolo dopo le
cose erano cambiate o, almeno, si erano arricchite di sfu-
mature. Il cosmopolitismo dei mercanti, il movimento degli
studenti, il trasferimento della sede papale ad Avignone
avevano aperto i canali di una mobilità di uomini e di cul-
ture che consentiva di costruire profili per differenza, di
tracciare identità in negativo, sulla base cioè del confronto
e della comparazione. Quello che in parte si è detto per
Brunetto Latini, acquista uno spessore ancor più denso nel-
l’idiosincrasia che Francesco Petrarca aveva maturato per la
Francia, nella cerchia degli italiani residenti alla corte papa-
le, e nella correlata coscienza della sua diversità, persino
della sua superiorità di italiano.
A quello stesso ambiente e a quelle stesse esperienze
dovette attingere anche Giovanni Cavallini de’ Cerroni. Il
Cavallini, infatti, romano, canonico di Santa Maria Ro-
tonda, scriptor papale, risiedette ad Avignone almeno dal
novembre del 1325. Lettore attento e curioso, il Cavallini
dovette essere anche un appassionato bibliofilo come dimo-
strano il possesso del prezioso Liber pontificalis appartenu-
to a Landolfo Colonna (Vat. lat. 3762) e il Valerio Massimo
(Vat. lat. 1927) fittamente postillato sui margini dalla sua
mano, oltre che il prolifico scrittore della Polistoria, un’o-
pera ibrida, redatta poco dopo il 1345, a metà strada fra una
guida di Roma, sulla scorta dei mirabilia, e un’opera storica
di erudizione. Ed è proprio in una nota marginale del com-
mento a Valerio Massimo che il Cavallini appose, fra le
molte chiose di carattere storico-erudito, un’osservazione
alla frase quibus Ytalia noverca est, contenuta nel libro VI.
Una nota che si profilava come una vera e propria lode degli
italici e delle loro qualità, un’esaltazione dei loro costumi e
delle loro tradizioni: i quali, nelle parole del Cavallini, erano
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descritti come abili in mare e nelle battaglie marine, mode-


rati nel cibo, sobri nel bere, curati nel parlare, prodighi nel
consigliare, attenti nelle cose pubbliche e nella difesa delle
loro libertà. Era davvero un passaggio dai tratti encomiasti-
ci che sarebbe rifluito nel libro X della Polistoria e che si
sarebbe esteso alle innumerevoli qualità del Regno Italico –
Italie regio nella variatio sintattica del testo – con una lunga
lista di bellezze e di attributi che andavano dalle località e
dai porti marini, ai fiumi, agli stagni, alla ricchezza delle
acque termali, fino alla presenza di metalli come il ferro, il
piombo, l’oro e l’argento e poi di ogni genere di armi, ma
anche di selve, di paludi, di animali da cacciare, di ogni ge-
nere di uccelli e di cavalli, di buoi e di animali selvaggi; per
finire con l’abbondanza di latte, vino e olio.
L’Italia del Cavallini era davvero un paese ideale: era
ricca di ogni bendiddio, non mancava di nulla e tutte que-
ste qualità avevano, probabilmente, contribuito a formare
l’animo e il carattere dei suoi abitanti – gli «ytalici» – tutto
calibrato sulla misura e sulla saggezza. Il giudizio, per quan-
to avesse indubbi connotati realistici, soprattutto dal punto
di vista paesaggistico e naturalistico, non si potrà negare
che riusciva esagerato e iperbolico. Ma quel che doveva
aver giocato in quell’iperbole era proprio il senso della no-
stalgia, la voglia di riappropriarsi della propria terra da par-
te di chi, come il Cavallini, ne era stato distante e, soprat-
tutto, di difenderla orgogliosamente dalle cattiverie e dalle
invidie altrui. Seppur non sia da escludere che in quel pri-
mato italiano potesse giocare proprio il ruolo di Roma, la
sua città, che, non diversamente da Petrarca, riteneva
dovesse essere la sede naturale del papato e della cristiani-
tà. Era il senso di appartenenza ad uno spazio culturale e a
una dimensione fisica, nella declinazione delle sue meravi-
glie, ma forse anche il ruolo unitario della Chiesa cristiana,
che conferiva spessore a quell’idea d’Italia. Una variante di
non poco conto, invece, all’idea centralizzante di Roma, più
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avvertita in termini politici, era quella espressa dall’Ano-


nimo romano nella ben nota immagine de «lo ogliardino de
Roma, cioène Italia»: dove l’Italia figurava come il giardino
di Roma, sede naturale dell’Impero.
La rivendicazione di un livello alto di civiltà, la consa-
pevolezza di un’eredità esaltante come quella latina erano i
vettori di una cifra culturale che, sebbene in forma discon-
tinua, si era sedimentata ed era andata a costituire il patri-
monio condiviso di una natio degli intellettuali. Si trattava,
in una qualche misura, di un’idea immanente che faceva
dell’Italia la terra di quel preumanesimo e di quel più matu-
ro Umanesimo che fra la fine del Duecento e il pieno
Quattrocento avrebbe costituito un faro assoluto di civiliz-
zazione, a tutti i livelli del sapere e dell’espressione artistica.
Se la proposta culturale, pur nel policromo paesaggio dei
centri di produzione – dalle città comunali, alle aule del Re-
gnum, alla curia papale, alle corti signorili – poteva rispon-
dere di un’istanza assimilabile, la politica esprimeva uno
scenario di differenze, di diversità, di particolarismi. Le
forme di autogoverno comunale, sull’impianto di una trama
insediativa urbana che non aveva eguali nell’Europa medie-
vale, si erano ben presto imposte – come aveva precocemen-
te notato Ottone di Frisinga – come i modelli spesso imitati
e invidiati di una funzionalità istituzionale, sociale, econo-
mica che aveva reso le civitates italiche protagoniste di un
primato indiscusso in termini di crescita e di sviluppo.
L’esperienza delle cosiddette città-stato, per usare una
formula un po’ logora, era stato un vertice irripetibile di
partecipazione e di coesione fra le forme della politica e
quelle dell’economia, di prodigiosa sincronia di tutte le
forze – produttive, sociali, culturali – che interagivano nello
spazio ristretto della civitas. Era questo un tratto forte e
qualificante dell’esperienza politica due e trecentesca – va
ricordato che stiamo semplificando molto – che aveva la sua
trasposizione, ma anche la sua codificazione e il suo rac-
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conto negli annali e nelle cronache di produzione urbana.


Non è evidentemente casuale che alcune fra le opere più si-
gnificative della storiografia cittadina italiana dei secoli XIII
e XIV abbiano il contrassegno e lo stigma dell’orizzonte
municipale. Quello era il privilegiato ambito di riferimento
delle cosiddette laudes civitatum, di quelle scritture di sto-
ria che funzionavano spesso come veri e propri monumenti
di propaganda e di encomio dei regimi comunali. L’ottica,
pertanto, e ci limitiamo a pochi sparuti e sparsi rimandi,
degli Annali di Caffaro o della Cronique des Veniciens di
Martino da Canal, del De magnalibus Mediolani di Bon-
vesin de la Riva o del Chronicon Ianuense di Iacopo da Va-
razze, degli Annales Lucenses di Tolomeo o della cronaca
aquilana di Buccio da Ranallo, delle cronache ferraresi di
Riccobaldo o di una buona parte della cronistica fiorentina,
da Compagni a Marchionne, era per forza di cose legata allo
spirito cittadino e alla traiettoria d’azione del sistema urba-
no. Vi troveremmo a fatica, e quasi sempre in un’ottica di
mero rimando comparativo o di generica contestualizzazio-
ne delle vicende cittadine, i riferimenti a entità sovralocali.
L’Italia vi giocava spesso nel ruolo di generica cornice.
Il papato e l’Impero, il Regnum Sicilie, le più vaste coor-
dinazioni politiche e dinastiche, non si dovrà dimenticarlo,
erano altrettanti protagonisti, e non secondari, delle vicende
politiche italiane. Non solo: ma proprio la politica cittadina,
con i suoi primati e le sue strutturali fragilità, con i suoi suc-
cessi e le sue conflittualità permanenti, fu uno dei canali di
complicazione delle dinamiche istituzionali e di allargamen-
to del quadro d’intervento alla potenza imperiale, al potere
papale e alla monarchia angioina. Il sistema degli stati italia-
ni – per usare un’espressione che era stata cara a Raoul
Manselli – agiva come una membrana macchinosa di insta-
bilità e di possibilità sperimentali. La costituzione comunale
era stata più spesso in crisi e sul punto di rottura di quanto
la «grande narrazione» storiografica abbia voluto – lo hanno
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ricordato Ovidio Capitani e Giovanni Tabacco – e così la


fluidità politica, lo si va pian piano riconsiderando, dava
spazio alla concorrenza e all’azione di interlocutori diversi e
di forme politiche anche concorrenti, ma non antagoniste.
Le stesse esperienze di potere signorile ebbero una funzione
più incisiva di quanto l’invalsa lettura tirannica e il profilo
antisismondiano abbiano sin qui consentito di accettare.
Rimaneva operante, poi, anche se ad un livello più sfu-
mato, l’ideologia imperiale e la connessa tensione alla con-
figurazione unitaria del Regnum, di cui si conservava il ri-
cordo, di cui si era contrastata l’efficacia, ma che riemerge-
va e s’imponeva come una costante carsica. Così va inter-
pretato il progetto di Federico II di pacificare e di riporta-
re all’unità e alla concordia totam Italiam, così si era frantu-
mata quella prospettiva nell’Italie factiosa collectio, delle
divisioni fra i sostenitori del Regno e gli oppositori dell’im-
peratore. Così, in una direzione opposta, potremmo inter-
pretare – come ricordava Massimo Miglio – la rappresenta-
zione dell’Ytalia che Cimabue aveva affrescato, fra il 1277 e
il 1280, nella basilica superiore di Assisi, con quello che
voleva essere un manifesto dell’ideologia orsiniana e ponti-
ficia. Così, più avanti, potremmo cogliere le aspettative di
pace e le aspirazioni all’unitas che riuscirono ad evocare
personaggi come Enrico VII e Giovanni di Boemia, in una
dialettica complessa e divaricata come quella della politica
italiana dei primi decenni del Trecento. Le lacerazioni
interne al mondo cittadino, infatti, le prime corpose espe-
rienze signorili nell’Italia padana, l’instabilità complessiva
degli assetti di potere furono il banco di prova di disegni
più ampi e di raccordi politici che s’inscrivevano in proget-
ti sovralocali. La spedizione in Italia di Enrico VII di Lus-
semburgo, con il conferimento dei vicariato imperiale ai
signori ghibellini dell’Italia settentrionale (Visconti,
Bonacolsi, Scaligeri), il successivo contrasto fra Federico
d’Asburgo e Ludovico il Bavaro, nonché il progetto guelfo-
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angioino, coordinato da papa Giovanni XXII, ma ancor di


più il tentativo di Giovanni di Boemia furono appunto alcu-
ne fra le sperimentazioni che avevano addirittura indotto a
rintracciarne (Manselli) il filo conduttore, più o meno
espresso, nell’«unificazione mancata» dell’Italia settentrio-
nale.
Si trattava di pulsioni di segno diverso, talvolta anche
contrastanti, che miravano a semplificare la carta politica
dell’Italia tardomedievale e che assumevano nelle aspettati-
ve e nelle interpretazioni degli uomini di cultura un profilo
pacificatore o, almeno, ordinatore di una conflittualità che
era latente e strutturale. Senza dover ricordare le aspettative
che la discesa di Enrico VII aveva suscitato in Dante, si
dovrà notare che la sua venuta costituì un vero motore di
discorsi, un polo di condensazione di scritture da parte di
polemisti, trattatisti e cronisti. Giovanni da Cermenate, Fer-
reto de’ Ferreti, Alberto Mussato, Dino Compagni, Gio-
vanni Villani, l’anonimo autore della Cronica roncioniana di
Pisa sono probabilmente solo alcuni di coloro che, seppur
con livelli diversi di attenzione e a prescindere dall’apparte-
nenza ideologica, ne registrarono l’iniziativa politica e vi
costruirono il profilo di una tensione all’unitas, sotto il segno
della ricomposizione politica. Se il Mussato arrivò addirittu-
ra a dedicargli un’opera specifica il De gestis Heinrici VII
caesaris historia augusta, altri come il da Cermenate ne segui-
rono con grande attenzione l’arrivo in Italia, la costruzione
dei raccordi politici, le imprese militari – su tutte l’assedio di
Brescia –, i passaggi che lo portarono all’incoronazione
romana del 29 giugno 1312. Ma il segno complessivo era
quello di un uomo d’ordine, di un potere super partes, con
lo stigma dell’universalità. Così il notaio milanese e ghibelli-
no Giovanni da Cermenate nella sua Historia:

Itaque Ambrosianam urbem introivit rex, die mercurii


[...] deinde, multis inter Italicos antiquis atque recentibus
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subito sedatis odiis, ac inhibente clementia tanti regis,


cuius simplex animus totaliter aspirabat dare pacem
mundo, paucis diebus, ut sibi visum est, partibus Lom-
bardiae compositis.

Un tono non molto diverso animò anche il fiorentino,


mercante e guelfo bianco, Dino Compagni che ritrasse la
venuta dell’imperatore quasi come salvifica, di un liberato-
re dalla tirannia:

Idio onnipotente volle la sua venuta fusse per abbattere e


gastigare i tiranni che erano per Lombardia e per Tosca-
na, infino a tanto che ogni tirannia fusse spenta.

L’anonimo autore della Cronica di Pisa metteva l’accen-


to sulla concordia che aveva suscitato la sua venuta e sul-
l’approvazione della chiesa romana:

Messer Arigo Settimo conte di Luzinborgo fue chiamato


in concordia re de’ Romani e aprovato da la Chieza di
Roma e lli suoi anbasciatori, che erano in corte di papa.

Il giudizio, forse, più complesso e anche più posato in


una prospettiva «italiana» fu quello di Giovanni Villani:

Arrigo conte di Luzzimborgo imperiò anni IIII, mesi VII


e dì XVIII, da la prima corona infino a la sua fine. Questi
fue savio e giusto e grazioso, prode e sicuro in arme, one-
sto e cattolico; e di piccolo stato che fosse per suo lignag-
gio, fue di magnanimo cuore, temuto e ridottato; e se
fosse vivuto più lungamente avrebbe fatte grandissime
cose. Questi fu eletto a imperadore [...] e poi tutte le di-
scordie de’ baroni de la Magna pacificò, con sollecito in-
tendimento di venire a Roma per la corona imperiale, e
per pacificare Italia de le diverse discordie e guerre che
v’erano.
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Nel racconto villaniano si evince con chiarezza il ruolo


di Enrico come pacificatore della politica italiana, che di-
venta addirittura rammarico per quello che poteva essere se
non fosse precocemente morto, e con il silenzio che quasi
imponeva la fine di una così grande avventura nel segno
della ricostituzione unitaria del regnum. Conviene far parla-
re ancora Villani:

Questa fu la fine dello ’mperadore Arrigo. E non si mara-


vigli chi legge, perché per noi è continuata la sua storia
senza raccontare altre cose e avenimenti d’Italia e d’altre
province e reami; per due cose: l’una, perché tutti i cri-
stiani [...] guardavano al suo andamento e fortuna, e per
cagione di ciò poche novità notabili erano in nulla parte
altrove; l’altra, per le diverse e varie grandi fortune che
gl’incorsono in sì piccolo tempo ch’egli visse, che di certo
si credea per gli savi che se la sua morte non fosse stata di
sì prossimana, al signore di tanto valore e di sì grandi
imprese com’era egli, avrebbe vinto il Regno e toltolo al
re Ruberto, che piccolo apparecchiamento avea al riparo
suo. Anzi si disse per molti che ’l re Ruberto no ll’avreb-
be atteso, ma itosene per mare in Proenza; e appresso s’a-
vesse vinto il Regno come s’avisava, assai gli era leggere
di vincere tutta Italia, e dell’altre province assai.

In quel «vincere tutta Italia» di Giovanni Villani si


inscriveva un’aspirazione, una tensione centralizzante, dire
unità sarebbe esagerato, che nelle decadi centrali del Tre-
cento avrebbe avuto modo di imporsi in tentativi difficil-
mente accostabili o sovrapponibili, ma che era sicuramente
ben attiva nell’ambizione di un Giovanni di Boemia che
«cercava segretamente col papa d’essere l’uno di loro re in
Italia», nella vocazione regionale della costellazione viscon-
tea o nel sogno popolare di Cola di Rienzo. Erano espe-
rienze diverse, talvolta anche molto distanti, talvolta anche
sopravvalutate, come impone di leggere il più recente ridi-
«ITALIA ITALIE ITALICAE GENTES» 47

mensionamento nazionale dell’iniziativa di Cola all’alveo


romano e così in quella direzione anche la Cronica del-
l’Anonimo, ma erano stati momenti significativi della cri-
stallizzazione di un’idea, quella di un’Italia appunto come
soggetto politico. Un’idea, è bene ribadirlo, non più di un’i-
dea, ma tale da indurre un Galvano Fiamma, predicatore
domenicano e vicino ad Azzone Visconti, ad inventarsi la
Compagnia della Morte e la figura del mitico comandante
Alberto da Giussano come i veri antagonisti delle truppe
imperiali nella battaglia di Legnano del 1176. Quello che
sarebbe diventato uno dei miti del nostro Risorgimento, in
una delle battaglie fondanti dell’identità nazionale, rispon-
deva, con ogni probabilità, al bisogno già avvertito in pieno
secolo XIV di opporre un eroe «nostrano», dal valore uni-
ficante, in quel caso visconteo, alla figura universale del-
l’imperatore. Un’idea che doveva essere un’aspirazione, un
sentimento, nella migliore delle ipotesi, una tensione e che
non doveva essere così distante da quel moto di dissensio-
ne che, più di un secolo dopo e con riferimento a un ben
altro contesto politico come la presa turca di Otranto del
1480, si legge nelle parole di Vespasiano da Bisticci. Il cui
lamento si levava alto per un’Italia metapolitica, per un’Ita-
lia intesa come soggetto collettivo, che si lasciava offendere
«a filo delle spade et il resto a fuoco e fiamma».
Inseguire un’aspirazione, una tensione all’Italia prima
ancora che l’Italia fosse un’entità politica è stata – lo aveva-
mo detto – una corsa contromano, può darsi anche una cor-
sa piena di salti, tematici e cronologici, è stato un po’ come
cercare di dare sostanza fisica al vuoto, ma è stato anche un
viaggio che ci ha rivelato come quel vuoto ogni tanto risuo-
nasse di qualche pieno. È stato, soprattutto, anche il modo
per rispondere all’esigenza di un maestro dei maestri come
Ernesto Sestan che, nel compiere un tentativo analogo nel
suo saggio Per la storia di un’idea storiografica, ammoniva
che si dovesse andare oltre il mero dato geografico, dal quale
48 AIRÒ - CALDELLI - DE FRAJA - FRANCESCONI

siamo partiti, perché «la storia è storia degli uomini, non


della natura terrestre o di una porzione di essa che si pre-
senti con certi caratteri uniformi». E gli uomini si sa vivono
soprattutto di idee, di sogni e di aspirazioni che talvolta sus-
surrano appena e che magari dopo secoli diventano realtà.

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