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ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO

NUOVI STUDI STORICI – 63

GIULIANO MILANI

L’ESCLUSIONE DAL COMUNE


Conflitti e bandi politici a Bologna e in altre città italiane
tra XII e XIV secolo

ROMA
NELLA SEDE DELL’ISTITUTO
PALAZZO BORROMINI
2003
Nuovi Studi Storici
collana diretta da
Girolamo Arnaldi e Massimo Miglio

ISSN 0391 - 8475

Stabilimento Tipografico « Pliniana » - V.le F. Nardi, 12 - Selci-Lama (Perugia) - 2003

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La polis è più importante delle sue parti.
La parte è più importante d’ogni sua parte.
Il predicato lo è più del predicante
e l’arrestato lo è meno dell’arrestante.
(…)

Eugenio Montale, Gerarchie, in « Satura I »

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VI GIULIANO MILANI

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INTRODUZIONE VII

INTRODUZIONE

1. Tracce e questioni

Questo libro parla del modo in cui i governi di alcuni comuni ita-
liani alla fine del XIII secolo punirono migliaia di nemici interni esclu-
dendoli dalla città e privandoli dei diritti di cittadinanza. Il tema pre-
senta uno statuto contraddittorio nella produzione storiografica. Da un
lato lo scarso numero di studi specifici non consente di valutarne rapi-
damente dimensioni e caratteristiche e costringe a ricerche lunghe e di-
spersive; dall’altro, la maggior parte delle sintesi di storia comunale con-
ferisce grande importanza a queste esclusioni, mettendo in campo ipote-
si che tuttavia, in assenza di riscontri puntuali, non si allontanano dalla
semplice impressione soggettiva.
Per spiegare la scarsità di lavori significativi esistono senz’altro ra-
gioni strutturali, legate cioè alle fonti conservate. Se tentiamo di avvici-
narci all’esclusione attraverso quel materiale che normalmente si impie-
ga negli studi sugli altri aspetti della politica comunale, vale a dire le
fonti amministrative, ci troviamo alle prese con un panorama estrema-
mente spoglio, in cui spiccano qua e là alcuni elementi isolati fin trop-
po famosi come il Libro del chiodo fiorentino, celebre soprattutto per-
ché menziona Dante. I processi politici e le liste di proscrizione, così
come gli elenchi di beni sequestrati e i registri relativi al loro affitto e
vendita, ebbero geneticamente una scarsissima probabilità di essere tra-
mandati poiché si provvide a distruggerli una volta che l’esclusione era
finita, e di fatto si conservarono solo in quei casi in cui i regimi poste-
riori tentarono di stabilire una continuità ideologica forte con il pro-
prio passato. A Firenze come anche a Bologna – lo si vedrà da vicino
– la relativa longevità delle istituzioni repubblicane da un lato e il ri-
chiamo offerto dall’ ideologia guelfa duecentesca dall’altro furono alla
base, nei secoli XIV e XV di un recupero dell’antico materiale. I docu-
menti di cui disponiamo, in altri termini, sono perlopiù copie tre-o
quattrocentesche.
A fronte di questa fortissima selezione delle scritture amministra-
tive che genera una notevole difficoltà di lettura diretta si colloca la

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VIII GIULIANO MILANI

forte presenza di bandi, confische ed esilii nelle fonti cronachistiche


dell’Italia tardomedievale. Qui il panorama cambia nettamente: le te-
stimonianze degli episodi di esclusione si fanno fittissime, venendo a
costituire uno degli assi portanti della memoria urbana già dalla fine
del Duecento. Su quest’asse sembrano poi conformarsi gli annalisti
trecenteschi, sia quando interpretano le grandi esclusioni come prin-
cipio di un lungo declino della propria città, sia quando invece le
leggono quale sollecitazione agli interventi dei signori pacificatori e
dunque inizio di una nuova età. La canonizzazione varia da una
città all’altra, risentendo di volta in volta delle cesure della vita po-
litica e del loro legame più o meno diretto con quelle della trasmis-
sione testuale, ma nel suo complesso, al di là dei giudizi di valore,
fornisce un’immagine omogenea in cui le lotte e le esclusioni hanno
un ruolo di primo piano. È vero però che se si cerca di superare il
livello della notizia per trovare nella cronachistica informazioni su
modalità e forme dell’esclusione si rimane delusi. Le differenze geo-
grafiche e cronologiche non si rivelano affatto, schiacciate come sono
dall’adozione di un lessico tanto famoso quanto generico. Pars, ban-
num, extrinseci-intrinseci, le parole chiave dell’esclusione, presentano
un altissimo grado di vaghezza che non permette di distinguerne sfu-
mature e valenze e che, tuttavia, le rende particolarmente atte a de-
lineare un fenomeno unitario, semplice da comprendere, utile a spie-
gare tante cose.
La scarsità della documentazione amministrativa da una parte e il
peso dato all’esclusione dalle narrazioni cronachistiche dall’altra hanno
costituito le condizioni di partenza per la storiografia scientifica dell’Ot-
to e del Novecento. Sensibili alle suggestioni delle cronache, gli studiosi
del comune italiano hanno postulato l’esclusione, o meglio quell’imma-
gine dell’esclusione semplificata e univoca fornita dalle cronache, come
il segno più evidente della congenita incapacità dei gruppi in competi-
zione, le partes, di pervenire a una conciliazione, e come la prova della
strutturale inadeguatezza del sistema politico comunale a pacificarsi,
dunque a sopravvivere. La diagnosi sulla fine di un’importante espe-
rienza politica della storia italiana ed europea ha così chiamato in causa
un sintomo molto difficile da definire. In questo libro non si intende
formulare una nuova diagnosi, ma provare a definire e a comprendere
meglio quel sintomo. Per farlo tuttavia occorrerà partire proprio dai
protagonisti di quella storia clinica: il malato, cioè il comune, e il mor-
bo, cioè le partes.

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INTRODUZIONE IX

La vicenda comunale fu canonizzata secondo questo paradigma me-


dico da Ludovico Antonio Muratori alla fine del XVIII secolo 1, nel-
l’epoca fondante che vide, oltre all’apparizione delle grandi collezioni di
fonti nazionali, l’uscita delle maggiori compilazioni annalistiche di storia
cittadina spesso accompagnate da quei « codici diplomatici » ancora oggi
utilizzati da chi studia le città medievali 2. Alla base di una simile defi-
nizione vi erano illustri autorità che risalivano nel tempo fino ad inclu-
dere quanti alla morte del comune avevano assistito con i loro occhi: il
Machiavelli delle Istorie fiorentine che aveva distinto le lotte tra nobili e
popolo, benigne, da quelle tra guelfi e ghibellini, maligne e mortali 3;
Bartolo da Sassoferrato che a Todi aveva suggerito la terapia omeopati-
ca della distribuzione delle cariche 4; e naturalmente quel Dante che
all’inizio dell’Ottocento andava destando un nuovo interesse civile5. Più
di ogni altro il poeta aveva esecrato il morbo della divisione politica da
cui era stato affetto egli per primo e che lo aveva colpito con l’esilio,
se ne era disintossicato facendo « parte parte per sé stesso », e aveva
acquisito così agli occhi dei posteri il carisma dell’esperto 6. La forza di
questi riferimenti, cui si aggiunse l’autorità muratoriana, generò uno
schema interpretativo solidissimo.
In questa sede non si vuole ripercorrere la storia di questo schema,
ma metterne in luce la forza nel conferire ai due termini che lo com-

1 Muratori, Antiquitates, IV, col. 605: « Mortalium animos, non minus quam cor-
pora, innumeris perturbationibus ac morbis obnoxios esse, nemo est qui nesciat aut
qui facile, si in mores et acta hominum attente inquirat, agnoscere continuo non possit
(...). Ex his popularibus animorum morbis nullum fortasse parem, neque pernicioso-
rem, neque diuturniorem Italia peperit atque experta est qua teterrimas Gibellinorum
& Guelforum factiones ». Su Muratori in generale v. almeno Bertelli, Erudizione e sto-
ria in Ludovico Antonio Muratori. Su Muratori medievista e storico delle città comuna-
li v. Tabacco, Muratori medievista; Artifoni, Cives Dissidentes atque Feroces; Von Moos,
Muratori und die Anfänge der italienischen Mediävistik.
2 Tra i frutti più importanti di quella stagione storiografica vi furono per esempio:

Ildefonso di San Luigi, Delizie degli eruditi toscani; Tiraboschi,


Memorie storiche modenesi; Savioli,
Annali Bolognesi.
3 Machiavelli, Istorie fiorentine, III, 1, pp. 212-213. Sull’argomento v. almeno Bock,

Civil discord in Machiavelli’s Istorie Fiorentine, pp. 186-196 e Sasso,


4 Tractatus de Guelphis et gebellinis, in Quaglioni, Politica e diritto nel Trecento

italiano, pp. 131-146, p. 131: « In illa vero civitate Tudertina repperi duas affectiones:
quidam enim vocabantur Guelphi, quidam Gebellini ».
5 Su questo risveglio d’interesse v. Dionisotti, Varia fortuna di Dante, pp. 262 e ss.
6 Su Dante e le partes v. Peters, Pars, parte.

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X GIULIANO MILANI

ponevano (comune e partes) due ruoli opposti e nel separarne quindi le


declinazioni storiografiche. Come si cercherà rapidamente di provare,
nell’Ottocento prevalse un approccio, per così dire, fisiologico, volto
cioè allo studio del corpo politico comunale e tendente quindi a legge-
re le partes come elementi ad esso subordinati, capaci solo di agire al
suo interno e, a lungo andare appunto, di indebolirlo fino a provocar-
ne la fine. Nel Novecento si passò a un approccio patologico, volto a
individuare le caratteristiche indipendenti delle partes e dunque tenden-
te a fare del comune un ambiente praticabile come terreno di scontro,
ma privo di un ruolo attivo. In un caso come nell’altro, non si abban-
donò quasi mai l’idea secondo cui erano state la partes a uccidere il
comune e con essa l’implicita convinzione che si trattasse di due ogget-
ti di studio posti su piani distinti, connessi solo dall’univocità della loro
relazione.

2. Partes come partiti: lo studio del comune nell’Ottocento

In realtà, all’inizio dell’Ottocento vi fu chi propose uno schema


nuovo. Nel suo breve compendio del 1832 Jean Charles Leonarde Si-
monde de Sismondi scrisse che la fine della gloriosa forma repubblica-
na non era da attribuire alle discordie di fazione, come avevano soste-
nuto – chiamando in causa la malattia morale della divisione – « Mura-
tori, Denina e Tiraboschi », ma semmai alla volontà di autonomia di
quella stessa nobiltà che in precedenza aveva favorito e accompagnato
lo sviluppo delle istituzioni civili 7. Una simile affermazione trovava spa-
zio nel quadro di una visione del comune come piccolo stato repubbli-
cano, ed era riconducibile all’intento pedagogico di fornire un esempio
agli italiani del XIX secolo, presentando loro una storia comunale in
cui si potessero ritrovare le origini dello spirito repubblicano moder-
no 8. In quest’ottica la lotta che si era svolta nelle città duecentesche
doveva conservare una dimensione alta, in cui i motivi generali e ideali
prevalessero su quelli locali e materiali. Così le fazioni dei guelfi e dei
ghibellini divenivano « fedi » tramandate di padre in figlio, elementi for-

7 Simonde de Sismondi, Storia delle repubbliche italiane, p. 94. Si cita dalla recen-

te riedizione italiana del compendio con presentazione di Pierangelo Schiera.


8 È rilevante il titolo originale del « compendio »: Del rinascimento della libertà in

Italia, i suoi progressi, la sua decadenza e la sua caduta. Il carattere pedagogico di


questa opera è rilevato in Moretti, Sismondi, pp. 129-130. Sulla connotazione pedago-
gica dell’opera dello storico svizzero cfr. anche Schiera, Presentazione.

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INTRODUZIONE XI

mativi dello spirito di partecipazione; e l’esclusione stessa perdeva quel-


l’aspetto di pericolosa manifestazione di discordia per assumere una
colorazione addirittura educativa 9.
La proposta sismondiana non ebbe successo. Cesare Balbo nel suo
Sommario della storia d’Italia (1846), che riscosse vasta fortuna quale
testo scolastico per più di tre generazioni di italiani, provvide a riporta-
re l’interpretazione dell’ultima età comunale su binari più tradizionali 10.
All’idea già machiavelliana secondo cui a provocare la morte del comu-
ne erano state le parti illegittime dei favorevoli e dei contrari al domi-
nio imperiale e non quelle legittime dei nobili e dei plebei, Balbo ag-
giunse il valore dell’indipendenza 11, affermando che era stato proprio il
carattere di organismi politici « dipendenti » (cioè legati a potenze stra-
niere o universali) che avevano i comuni a favorire la creazione delle
parti più pericolose. Si trattava di un’opposizione più generale a quanto
aveva affermato Sismondi, che nel Sommario veniva direttamente chia-
mato in causa. Affermando di preferire l’espressione « comuni » rispetto
a quella di « repubbliche » Balbo contrappose allo storico ginevrino, im-
pegnato ad affermare il primato italiano nell’elaborazione dell’ideale re-
pubblicano, i severi censori dei vizi comunali, da lui identificati in Dante,
Machiavelli e Botta 12. Con lo stesso Machiavelli si confrontava esplicita-
mente un altro grande sistematizzatore della storia comunale, Karl He-
gel, che alla fine della sua Storia dei municipi italiani (1847) sostenne
che le ragioni della fine di Firenze andavano ricercate proprio in quel
conflitto sociale che a Machiavelli era parso positivo. La divisione della
nobiltà nelle parti dei guelfi e dei ghibellini aveva determinato la for-
mazione del Popolo, un’entità politica separata, che, attraverso le nor-
me antimagnatizie aveva esasperato il clima di discordia 13.
Vi era però qualcosa che univa chi, come Sismondi, cercava di ridi-
mensionare il ruolo negativo delle partes, e chi come Balbo e Hegel, lo
esaltava con nuovi argomenti. Si trattava della visione del comune come
modello di Stato dotato delle medesime caratteristiche dei sistemi poli-

9 Simonde de Sismondi, Storia delle repubbliche italiane, p. 134: « Gli emigrati

delle repubbliche italiane – egli scrisse – acquisivano spesso nuove ricchezze e nuova
influenza durante l’esilio, perché il bisogno le costringeva a dedicarsi con raddoppiato
ardore, al lavoro, al commercio o agli studi militari».
10 Su Balbo v. Fubini-Leuzi, Gli studi storici, pp. 162 e ss.
11 Per la centralità dell’indipendenza nella storiografia di Balbo, v. Croce, Storia

della Storiografia, I, p. 136.


12 Balbo, Sommario, pp. 171-173.
13 Hegel, Storia della costituzione dei municipi italiani, pp. 536-537.

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XII GIULIANO MILANI

tici in cui vivevano quegli studiosi 14. Il fatto che fosse forte e repubbli-
cano o debole e assoggettato non inficiava la sua natura di sistema
politico compiuto, al cui interno non potevano muoversi che partiti.
Nella percezione degli storici, i gruppi che nel comune si erano scon-
trati non erano differenti da quelli che si combattevano negli stati otto-
centeschi: per questo la storia comunale poteva offrire un monito al
presente. Rarissimi furono coloro che – come fece Carlo Cattaneo 15 –
si distaccarono da quest’assimilazione attualizzante. Per gli altri l’assimi-
lazione del comune a uno stato rese necessario interrogarsi sulle parti
che in questo stato avevano agito, al fine di comprenderne le ragioni.
Questa domanda impegnò gli studiosi italiani nella seconda metà del-
l’Ottocento, generando una serie di risposte diverse.
Nell’identificazione della sostanza dei partiti pesarono i due filoni
più rilevanti della ricerca storica nazionale: la questione longobarda, con
cui si cercò di stabilire se l’invasione del 569 avesse o meno interrotto
la continuità romana in Italia e, come si è accennato, la tematica citta-
dina, con la quale si volle rinvenire nell’età comunale un modello a cui
ispirarsi per costruire un’Italia libera e indipendente dallo straniero 16. Il
conflitto politico dei comuni medievali fu interpretato combinando que-
sti due approcci attraverso le antitesi suggerite dal dibattito sulla conti-
nuità (latini/germani; istituzioni ecclesiastiche/istituzioni civili) e quelle
presenti nelle cronache (guelfi/ghibellini; nobili/popolari). Rispetto alla
prima metà del secolo, tuttavia, in cui queste analogie erano state fatte
con una certa disinvoltura, dopo l’Unità si cominciò a mettere in cam-
po una volontà di spiegare queste « antitesi » con metodologie che si
volevano scientifiche 17. La « scoperta » della lotta tra strutture romano-
ecclesiastiche e germanico-imperiali come tratto fondamentale della sto-

14 Il tema del comune come modello di stato è stato affrontato, per un periodo

leggermente posteriore in Vallerani, Modelli di comune.


15 Cfr. la recensione di Cattaneo alla Vita di Dante

di Balbo, in cui ironizzava sull’imperante « dantismo » e criticava i « supposti


attualizzanti » nell’interpretazione dei gruppi politici comunali (Cattaneo, La vita di Dante
di Cesare Balbo, pp. 96-104). Sull’attualizzazione ottocentesca delle parti medievali v.
Herde, Guelfen und Neoguelfen.
16 Il collegamento tra queste due tematiche della medievistica ottocentesca è de-

scritto in Tabacco, La città italiana fra germanesimo e latinità, pp. 23-24. Sullo stesso
argomento v. anche Artifoni, Il medioevo nel romanticismo, con bibliografia.
17 L’espressione « Medioevo delle antitesi » che qualifica la produzione comunalisti-

ca ottocentesca è di Enrico Artifoni la ricava da N. Ottokar, Osservazioni sulle condi-


zioni presenti (Artifoni, Salvemini e il Medioevo, p. 27).

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INTRODUZIONE XIII

ria italiana compiuta da Giuseppe Ferrari 18 o la proposta avanzata da


Marco Tabarrini di un’interpretazione etnica delle parti dei guelfi e dei
ghibellini 19, andavano per strade diverse in questa direzione.
Proprio partendo da ipotesi come queste, il maggiore storico del-
l’Italia unita, Pasquale Villari, introdusse nello studio del comune, se-
condo un processo graduale che recentemente è stato ricostruito in
maniera analitica 20, l’attenzione ai movimenti dei gruppi sociali, lascian-
do in eredità alla successiva generazione di studiosi temi di indagine
nuovi e fertili di sviluppi. È vero, lo spostamento del significato dei
conflitti dalla sfera etnica a quella sociale non incrinava la certezza che
quei conflitti erano stati combattuti da partiti veri e propri. Ma il pro-
gredire delle conoscenze dovuto all’edizione di nuove fonti e alle sem-
pre più praticate « spigolature d’archivio » suggeriva di abbandonare una
visione fondata sulla schematica presenza di due blocchi, e considerare
invece un più complesso alternarsi di contrapposizioni differenti che
generavano partiti sempre nuovi 21. Da questa visione più attenta Villari
trasse l’idea del comune come stato imperfetto, tendente alla divisione
del potere, ma non in grado di regolare compiutamente questa divisio-
ne; capace di immaginare la fusione tra il senso dello stato romano e
l’individualismo germanico, ma non di portarla a fino in fondo 22.
I maggiori esponenti della cosiddetta scuola economico-giuridica,
Gaetano Salvemini e Gioacchino Volpe, restarono fedeli all’idea del co-
mune come Stato e delle partes come partiti, ma, rispetto alla genera-
zione precedente, l’interesse per i gruppi cominciò a prevalere rispetto
a quello per le istituzioni in cui i gruppi agivano 23. Per Salvemini il

18 Ferrari, Storia delle rivoluzioni d’Italia, vol. 1, p. 8.


19 Tabarrini, Del veltro allegorico, p. 298.
20 Moretti, « L’Italia, la civiltà latina e la civiltà germanica », che peraltro nota (p. 329)

la netta differenza di piani tra la scarna proposta di Tabarrini e la ricca teoria villariana.
21 Il dato si ricava da una serie di articoli. Il primo, L’Italia, la civiltà latina e la

civiltà germanica, fu pubblicato nel 1861. Gli altri saggi relativi alla storia fiorentina ap-
parvero negli anni 1866-1869 sulle riviste « Il Politecnico » e « Nuova Antologia » prima
di essere raccolti in volume , talvolta con sostanziali modifiche, nel 1893-94, sotto il ti-
tolo: I primi due secoli della storia di Firenze. Per la consultazione di questi testi ci siamo
rifatti sostanzialmente all’edizione in volume, andando a verificare, sulla base dei saggi di
Moretti e Artifoni citati, le eventuali variazioni rispetto alle edizioni originali.
22 Villari, I primi due secoli, vol. 2, p. 61-62 (l’articolo è La famiglia e lo Stato

nella storia italiana).


23 Su questa « scuola » storiografica si rimanda a Artifoni, Salvemini e il Medioevo.

Sulla visione del comune come stato in Salvemini e Volpe v. Vallerani, Modelli di comune.

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XIV GIULIANO MILANI

tema centrale fu sin dall’inizio quello dei partiti che si erano mossi a
Firenze alla fine del Duecento 24. Com’è noto egli rinvenne il fonda-
mento delle contese nell’opposizione tra produttori e consumatori teo-
rizzata da Achille Loria, e catalizzata dallo sviluppo demografico 25. Lo
studioso però ricostruì analiticamente i vari passaggi con i quali questa
contrapposizione aveva fatto gemmare tutte le altre (quella tra arti mag-
giori e minori nel popolo, quella tra parte guelfa e ghibellina nei mili-
tes 26, e infine la ricomposizione sotto le insegne dei magnati e dei
popolani ) e i modi in cui nel corso del tempo si erano formati e
disfatti gli equilibri 27. In queste ricostruzioni, rimanendo aderente alle
fonti e dunque non esasperando né il determinismo sociale, né il ca-
rattere democratico del sistema comunale, Salvemini esaltò l’esperienza
del comune di Popolo di fine Duecento rilevando la diffusa cultura
istituzionale che a suo parere era stata introdotta dal priorato, al pun-
to che quando dovette affrontare il problema della fine dell’esperienza
comunale per molti dovuta alle contraddizioni presenti in quel regime,
nei fatti lo eluse 28.
Il tratto unificante della produzione di Gioacchino Volpe è stato
individuato in uno stile storiografico fondato sul fluire della storia, sulla
dinamica della trasformazione dalla società allo stato, con una netta
prevalenza della dimensione diacronica su quella morfologica 29. Risulta
quindi impossibile trovare nelle sue opere un modello unitario di con-
flitto 30. Lo sforzo di Volpe fu volto piuttosto all’individuazione di mo-
vimenti secolari di costruzione politica, anche attraverso la sistematica
decostruzione delle « antitesi » ottocentesche. Da questa operazione ne
uscì un comune che aveva ricomposto, dopo un lungo periodo di caos,

24Il titolo della prima stesura di Magnati e popolani, quella discussa nel 1895
come tesi di perfezionamento presso l’Istituto di Studi Superiori di Firenze era La
lotta fra i partiti firentini dal 1280 al 1295 e la formazione dei primi Ordinamenti di
Giustizia (Artifoni, Un carteggio Salvemini-Loria, p. 246). Nello stesso periodo Salvemi-
ni scrisse anche Partiti politici milanesi nel secolo XIX. Sulla contemporaneità tra i due
saggi v. Berengo, Salvemini storico, pp. 71-72.
25 Artifoni, Salvemini e il Medioevo, pp. 124-138.
26 Salvemini, La dignità cavalleresca
27 Per un esempio Salvemini, Magnati e Popolani, pp. 6-8.
28 Come nota Vallerani, Modelli di comune, p. 77 si trattava di un’interpretazione

tautologica in cui la fine del comune si attribuiva al « tarlo della decadenza ».


29 Cervelli, Gioacchino Volpe, p. 143: « Genesi e carattere di uno stile storiografico ».
30 Sulla cangiante visione delle parti in Volpe v. Violante, Condizioni esterne e

processi costituzionali.

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INTRODUZIONE XV

ceti e ruoli sociali, un organismo volto alla liberazione dai legami di


dipendenza, capace di « rivitalizzare » gli elementi già presenti, renden-
do volontarie e basate sul « libero consenso » le relazioni esistenti 31. In
questo organismo, che, superate le sue origini « privatistiche » si avviave
a divenire fondamentalmente pubblico e statale, le parti dei guelfi e dei
ghibellini si muovevano quali « prodotti di secondo grado dell’attività
umana ». Non semplici partiti, dunque, ma partiti dotati di « contenuto
morale » e di una « certa idealità », indice e causa di una grande spinta
verso l’unità nella vita italiana, di un riunificarsi del particolarismo che
aveva caratterizzato il XII secolo 32.
Con la prima generazione del Novecento dunque, pur sopravviven-
do (e per certi versi esaltandosi) l’idea che rinveniva nel comune un
modello di Stato e nelle partes una forma di partiti, l’attenzione si spo-
stò dal primo alle seconde, che furono giudicate per la prima volta
meritevoli di uno studio al tempo stesso autonomo e fondato su una
solida base documentaria. Forse a questo spostamento di attenzione
contribuì il fatto che per i giovani storici che lavoravano negli anni a
cavallo del secolo, ancor più che per i loro predecessori, la questione
della fine del comune e dunque del ruolo che in essa avevano avuto le
discordie non era così centrale e urgente come, per esempio, quella re-
lativa al processo di trasformazione dei conflitti sociali in lotte politiche
suggerita dall’affacciarsi dei movimenti di massa. I primi decenni del
Novecento tuttavia avrebbero provvisto a riportarla al centro dell’inte-
resse degli studiosi.

3. Partes come fazioni: lo studio dei gruppi nel Novecento

Il modo in cui gli storici del nuovo secolo si accostarono al tema


della fine del comune non poteva essere lo stesso dei Balbo, dei Ferra-
ri e dei Villari. Non solo l’erudizione e la professionalizzazione degli
studi storici avevano raggiunto livelli che non consentivano più di elu-
dere il rapporto con le fonti documentarie 33, ma negli anni che prece-
dettero la Grande Guerra vi era una nuova urgenza politica che spin-
geva a interrogarsi sui meccanismi di torsione delle istituzioni. In que-

31 Vallerani, Modelli di comune, p. 80-85.


32 Volpe, Studi sulle istituzioni, p 447-449.
33 Su questo aspetto v. almeno Sestan, L’erudizione storica; Moretti, storici accade-

mici e cumtura storica.

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XVI GIULIANO MILANI

sto senso vanno lette le ricerche di Antonio Anzilotti sulla crisi che
aveva comportato la fine della repubblica fiorentina e l’instaurazione
del principato mediceo alla fine del Quattrocento, che, pur insistendo
su un periodo posteriore a quello strettamente comunale influenzarono
notevolmente lo studio delle città due-trecentesche 34. Per la prima volta
in questo studio la morte del comune per mano delle partes (in questo
caso della consorteria medicea) era studiata nei suoi meccanismi specifi-
ci: la modifica a proprio vantaggio delle procedure elettorali; la convo-
cazione delle balìe, i consigli ristretti che potevano creare nuovi magi-
strati favorevoli al gruppo vincente; il controllo sugli « accoppiatori », i
magistrati addetti a formare le liste di eleggibili 35. Rispetto agli schemi
precedenti il libro di Anzilotti introduceva due importantissime propo-
ste: il sistema politico appariva più permeabile alle forze che si muove-
vano al suo interno, latrici in molti casi di progetti di riformulazione
istituzionale; le partes perdevano l’aspetto di veri e propri partiti per
divenire gruppi di interesse, guidati e tenute insieme da motivi persona-
li e clientelari.
Queste proposte furono accolte con entusiasmo da quanti studiava-
no il periodo a cavallo dei secoli XIII e XIV. Lo si nota bene dalla
celebre rassegna che Federico Chabod dedicò ad Alcuni studi recenti
sull’età comunale e signorile (1925) 36. Analizzando i lavori di Simeoni
su Verona e su Modena 37, di Picotti su Treviso 38 di Schupfer su Mila-
no 39, e infine di Ottokar su Firenze, Chabod scrisse che la fine della
concordia cittadina e la chiamata dei signori erano state favorite da
organizzazioni in cui « gli interessi personali o famigliari hanno, per lo
meno, importanza uguale a quella degli interessi generali e di classe ».
Tutti gli studi presi in esame fornivano puntelli a questa impressione,
ma in maniera diversa. Nello studio modenese di Simeoni, ad esempio,
si faceva riferimento ad elementi che Chabod nel suo resoconto tende-
va a passare sotto silenzio, come la presenza di un Popolo ben organiz-
zato, sottovalutata dal recensore in favore di aspetti come lo schiera-
mento guelfo del primo capitano del popolo eletto a Modena. Al con-

34Anzilotti, La crisi costituzionale, eIl tramonto dello stato cittadino.


35Anzilotti, La crisi costituzionale; pp. 15-30. Per le relazioni tra studi sulle signo-
rie e successivi studi sul comune v. Vallerani, La città e le sue istituzioni, pp. 189-200.
36 Chabod, Di alcuni studi recenti.
37 Simeoni, Il comune veronese; Simeoni, Ricerche sulle origini della signoria esten-

se a Modena.
38 Picotti, I Caminesi.
39 Schupfer, …

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INTRODUZIONE XVII

trario, nello studio fiorentino di Ottokar, che costituiva il primo nucleo


di quello studio che sarebbe uscito nel 1926 con il titolo di Il comune
di Firenze alla fine del Dugento, Chabod trovò maggiore sintonia 40.
Partendo da una serrata critica alle ricostruzioni di Salvemini, nel
frattempo sostanzialmente accolte anche da Davidsohn, e proseguendo
attraverso la compilazione di saggi comparativi come le voci per l’Enci-
clopedia Italiana, Ottokar provvide a staccarsi dall’idea ottocentesca che
identificava il comune come uno stato repubblicano 41. A quello schema
egli sostituì la nozione di « regime accentuato », esplicitamente derivata
dalle teorie élitistiche di Mosca e Pareto 42, secondo cui il comune era
stato dominato da gruppi che lo avevano sfruttato per far trionfare le
proprie necessità e aspirazioni, pur mantenendone formalmente l’ordi-
namento entro « le linee generali della costituzione tradizionale » 43. Questi
gruppi, nella nuova visione di Ottokar, non potevano più essere consi-
derati dei partiti. La sistematica indagine prosopografica condotta sul
caso fiorentino dimostrava infatti che un insieme consistente di famiglie
e personaggi, influenti nei loro ambienti di provenienza al punto da
costituirne le élites, aveva cambiato parte con grande disinvoltura ade-
rendo alla tendenza politica che nei vari momenti aveva occupato, « ac-
centuandole », le istituzioni comunali 44. La scoperta che i regimi ghibel-
lino, guelfo e popolare susseguitisi a Firenze erano stati sostenuti dallo
stesso gruppo di persone minava un’altra certezza della storiografia pre-
cedente: la profonda differenza tra le partes dei guelfi e dei ghibellini,
considerate prima meno legittime e, a partire da Salvemini, sostanzial-
mente aristocratiche, e quelle dei magnati e del popolo, lette, secondo
una tradizione che risaliva alla lettura machiavelliana di Livio, come più
naturali e potenzialmente in grado di promuovere, con la loro stessa
contrapposizione, uno sviluppo positivo della vita politica 45. In questo

40 Ottokar, Il comune di Firenze, uscì con la significativa dedica a Antonio Anzilotti.


40 Anzilotti, La crisi costituzionale; pp. 15-30.
41 Ottokar, Il comune di Firenze. Le voci treccaniane sono state raccolte in Otto-

kar, Studi comunali e fiorentini.


42 Vallerani, La città e le sue istituzioni.
43 Ottokar, Studi comunali e fiorentini, p. 77: « Ora, la prevalenza di un partito in

una data città assume la forma di un regime partigiano accentuato, in quanto il partito
dominante tende ad indentificarsi col Comune e ad erigere i propri organi a organi
del governo normale della città. Tale regime è interessante anche per l’analogia coi
sistemi vigenti negli stati cosiddetti “totalitari” dei nostri tempi ».
44 Ottokar, Il comune di Firenze, pp. 56-57.
45 Bock, Civil discords.

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XVIII GIULIANO MILANI

aspetto Ottokar si spingeva oltre la posizione del suo ispiratore Anzi-


lotti, che non aveva mancato di sottolineare la diversità tra il progetto
popolare di pressione sulle istituzioni, volto all’ampliamento della parte-
cipazione politica, e quello aristocratico volto alla restrizione 46.
Lo schema ottokariano influì notevolmente sulla visione del comune
venendosi a configurare come il paradigma dominante per molti decen-
ni. A ciò contribuì all’inizio una certa crisi delle ricerche sulle città
medievali accompagnata dal successo degli studi di storia del rinasci-
mento. Sin dagli anni Trenta alcuni studi verificarono le potenzialità
della proposta di Ottokar: John Plesner nel 1933 ne trasse ispirazione
per osservare come l’immigrazione dalla campagna, che aveva modifica-
to la società fiorentina nel corso del XII e XIII, aveva avuto una netta
prevalenza di aristocratici 47. Ma, come notò Federico Chabod, tuttavia,
questa tesi, che « poco più di un decennio prima avrebbe scatenato una
guerra di penne », non suscitò quasi reazioni, mostrando che l’interesse
per il comune si era sostanzialmente attenuato 48. Gli studi prodotti nel
successivo trentennio, pur se di buon livello, si concentrarono su singo-
li momenti, senza apportare novità alla visione d’insieme. Fu solo in
seguito che il modello cominciò a generare nuovi frutti. Nello stesso
anno, il 1962, apparvero due ricerche che dimostravano quali potessero
essere le conseguenze della visione ottokariana, rispettivamente, nella
lettura delle partes e in quella del comune: il libro di Emilio Cristiani
su Pisa, e l’articolo di Ernesto Sestan sull’origine della signoria 49.
Nobiltà e popolo nel comune di Pisa muoveva dalla sistematica con-
futazione delle tesi di Volpe relative alla storia pisana, ma relativamente
alle partes era un altro il punto determinante. Anche sulla base degli
studi sulla legislazione antimagnatizia condotti da Gina Fasoli, Cristiani
metteva in risalto quanto poco gli Ordinamenti di giustizia pisani aves-
sero espresso una contrapposizione di interessi economici. Sostenitore
della continuità tra periodo aristocratico e periodo « popolare », egli at-
tribuì grande importanza al « criterio di fazione », cioè alla ritorsione
compiuta dal ceto al potere contro i propri avversari. Dal momento
però che questo ceto si rivelava mutevole, e non bastavano a definirlo

46 Anzilotti, La crisi costituzionale; pp. 15-30. Su questo punto avevano espresso

dubbi i più entusiasti tra i sostenitori della signoria. V. Solmi, Recensione a Anzilotti,
La crisi costituzionale, p. 170-172 e Ercole, Dal comune al principato, p. 370.
47 Plesner, L’emigrazione dalla campagna. Per alcuni esempi cfr. pp. 136-138.
48 Chabod, L’età del Rinascimento, pp. 174-175.
49 Cristiani, Nobiltà e popolo e Sestan, Le origini delle signorie cittadine.

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INTRODUZIONE XIX

le opposizioni basate sulle lotte interne « ufficialmente dichiarate: Guelfi


e Ghibellini, Bianchi e Neri, Bergolini e Raspanti », Cristiani assumeva
come motivazioni di fondo quelle questioni personali e private che Sal-
vemini aveva rifiutato di prendere in considerazione quando aveva defi-
nito il conflitto in termini di « partiti » 50. La « fazione » diveniva così,
accanto all’importanza del legame parentale, alla pratica della vendetta
e alla proprietà immobiliare indivisa, uno degli aspetti fondamentali del
ceto nobiliare. Il comportamento violento e vendicativo dei nobili aveva
fatto sì che essi non avessero potuto mantenere stabili alleanze dotate
di valore politico. In assenza di queste alleanze erano stati i conflitti
privati – non l’azione delle partes ufficiali – a pesare sulla vicenda del
comune.
Nel quadro di una rilettura a distanza delle varie ipotesi sulla crisi
dei regimi comunali formulate dall’inizio del secolo, Sestan affermava il
netto rifiuto delle spiegazioni formali e sottolineava come alla fine del
XII secolo si fosse verificata una frattura dell’equilibrio politico, attra-
verso lo sgretolamento del ceto consolare. Questa frattura aveva aperto
un secolo di profondi conflitti, rimarginati solo all’inizio del Trecento,
quando i signori avevano saputo ricostruire attorno a sé una nuova rete
di relazioni, capace di ridare stabilità alla politica cittadina 51. Proprio
nel tentativo di leggere l’intero secolo tredicesimo come una lunga tran-
sizione da un equilibrio all’altro Sestan faceva riemergere le partes nobi-
liari dei guelfi e dei ghibellini, che, se avevano in effetti ucciso il comu-
ne, avevano anche fatto (ri)nascere lo Stato. Queste strutture clientelari,
basate su relazioni feudali e non regolabili dalle istituzioni cittadine,
rompendo la sostanziale parità di accesso al consolato, avevano minato
in partenza anche la funzione superiore del podestà forestiero, generan-
do una lotta estrema fatta di esili e fuoriuscitismo, che aveva posto le
condizioni per il ricorso a forze esterne al comune, e aprendo così la
strada alla signoria. Egli affermava con vigore il carattere fallace della
caratterizzazione guelfa o ghibellina delle signorie, ma esaltava la fun-
zione della « parte » in quanto tale, nel produrre il bisogno di stabilità
che aveva portato alla signoria e nel dar vita alla rete di contatti che
aveva condotto allo stato territoriale 52.

50 Cristiani, Nobiltà e popolo, p. 80.


51 Sestan, Le origini delle signorie cittadine, pp. 53-64.
52 Sestan, Le origini delle signorie cittadine, p. 73: « Certo è un fatto ben singola-

re, e se vogliamo paradossale, che guelfismo e ghibellinismo, additati e deprecati e


abominati dalle geremiadi di generazioni come il malanno capitale, la tare ereditaria e

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XX GIULIANO MILANI

Le due proposte non erano incompatibili. A determinare l’apparen-


te divergenza rispetto alla valutazione delle partes era la scelta della
prospettiva. Se per Cristiani le partes dei guelfi e dei ghibellini si scio-
glievano nel magma dei conflitti privati e per Sestan divenivano l’ele-
mento fondante del sistema degli stati territoriali era perché il primo
assumeva il punto di vista di ciò che i sociologi chiamano l’organizza-
zione e il secondo privilegiava l’istituzione. Così quei legami rinsaldati
dal fuoriuscitismo che Sestan vedeva alle origini dello stato regionale
non erano certo fondati su una comune idealità politica, ma sulla me-
desima concretezza di interessi personali e familiari che Cristiani rinve-
niva alla base dei cangianti schieramenti pisani. Questa condivisa sensi-
bilità per la sostanza delle relazioni, che trovava un sostegno nella com-
plementare sfiducia nelle istituzioni formali del comune duecentesco,
costituì la base attraverso cui lo schema elaborato da Ottokar qua-
rant’anni prima si rigenerò nel corso degli anni Settanta. Lo si nota
particolarmente bene scorrendo gli studi di early modern history scritti
a partire da quel decennio. Alcuni di essi, sulla base della medesima
tradizione da cui aveva preso le mosse Ottokar, quella degli studi sulle
signorie dei primi decenni del Novecento, eleggevano lo stato territoria-
le a principio della statualità nella storia italiana, rinvenendovi, non solo
il momento in cui era stato raggiunto il controllo di un territorio final-
mente consistente, ma anche il primo consolidamento di « un ente al di
sopra dei partiti in lotta, che non si identifichi con essi, e che possa
porsi come stabile centro di organizzazione delle forze politiche attive
in un determinato ambito territoriale » 53. Altri, più tardi, soprattutto
sulla base di suggestioni desunte dall’antropologia politica rinvenivano
proprio nella fazione uno dei fattori più importanti di organizzazione
della società, nonché, storicamente, il contraltare al governo centrale
degli stati regionali di antico regime e, dunque, in ultima analisi, la prova
del carattere composito se non incompiuto di questi sistemi politici 54.
Anche nello studio dei comuni vi sono state importanti ricadute.
Una parte degli studiosi, facendo tesoro della lezione élitistica e della

inguaribile della storia italiana, abbiano poi rappresentato la via o una delle vie attra-
verso le quali il frammentarismo politico comunale si venne riducendo e componendo
in organismi regionali: questo paradosso dei paradossi farebbe fremere nella fossa il già
ricordato Giuseppe Ferrari, che proprio con i Guelfi e con i Ghibellini di paradossi
storici ne ha sparati tanti; ma non questo ».
53 Chittolini, La formazione dello Stato regionale, p. 3, 7-8.
54 Torre, Faide, fazioni e partiti; Raggio, Faide e parentele; Grendi, Il cervo e la

repubblica.

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INTRODUZIONE XXI

sua traduzione nel contesto storiografico comunale, ha condotto ricer-


che prosopografiche analitiche, dalle quali il ruolo dei legami informali
nella società cittadina è uscito rafforzato. In pochi casi questa strada ha
portato alla luce un Popolo più presente nei ruoli di governo di quan-
to era parso a Ottokar 55. Nella maggior parte degli altri ha prodotto
monografie in cui i legami clientelari prevalevano rispetto a quelli poli-
tici. Da questi studi il Popolo ne è uscito complessivamente ridimensio-
nato nella sua partecipazione alle istituzioni di vertice. I populares, cioè
in ultima analisi quanti non sono risultati appartenere alle famiglie del-
l’aristocrazia consolare, militare o magnatizia, sono stati così ascritti ai
ranghi delle clientele nobiliari 56. A questa serie di analisi locali si sono
aggiunte un paio di sintesi decisamente orientate. Nel suo celebre con-
tributo sul « mito della borghesia » apparso nel primo volume degli An-
nali della Storia d’Italia Einaudi 57, Philip Jones ha affermato con forza
la tesi di una continuità della città italiana antica nel medioevo negan-
do il carattere mercantile che una lunga tradizione di studi le aveva
attribuito. Secondo il giudizio di Jones, solo in parte attenuato nella
grande sintesi The Italian City-State apparsa nel 1997, vi fu sempre una
forte persistenza dei rapporti feudali e in base a queste relazioni si
formarono le fazioni. Nel suo pamphlet Sergio Bertelli ha inteso dimo-
strare more geometrico il carattere oligarchico del comune medievale 58.
Nel quadro di un’argomentazione per « tesi », Bertelli ha sostenuto l’ipo-
tesi da tempo abbandonata di un’origine privatistica dell’istituzione co-
munale, connettendola alla ristrettezza del nucleo originario dei coniura-
tores, che diviene, nella sua descrizione, esso stesso una « parte che
agisce politicamente per l’assunzione del potere », e nella stessa chiave
strettamente oligarchica ha provato a spiegare la presenza del podestà,
il Popolo, le fazioni 59.
Nel corso degli anni Ottanta e Novanta del Novecento, tuttavia, a
questo approccio se n’è andato affiancando un altro, che, riprendendo

55 Raveggi e altri, Gibellini guelfi e popolo grasso; Bortolami, Fra « alte domus » e

« populares homines ».
56 Cracco, Da comune di famiglie a città satellite, Racine, Plaisance, Collodo, Il

ceto dominante.
57 Il saggio è poi confluito in Jones, Economia e società nell’Italia medievale.
58 Bertelli, Il potere oligarchico.
59 Bertelli, Il potere oligarchico, pp. 17-20: « Il carattere privatistico del Comune

(associazione giurata) lo circoscrive ad una minorità all’interno della cerchia urbana. Le


decisioni comuni sono prese in funzione di questo gruppo, che detiene potere all’inter-
no della città ».

Introduzione.pmd 21 09/11/2009, 16.31


XXII GIULIANO MILANI

su basi nuove lo studio delle istituzioni, ha fatto emergere un comune


non « statale » in senso ottocentesco, ma governato – soprattutto (ma
non solo) nella sua fase « popolare » – da regole meno informali di
quanto era sembrato in precedenza, un comune che, anche nel momen-
to del profondo scontro di fazione non aveva visto i suoi meccanismi
fondamentali di partecipazione venire meno, ma, semmai, mutare aspet-
to. Due sono state le strade che hanno condotto a questa nuova lettura
del comune tardoduecentesco come regime capace di disciplinare e or-
ganizzare con interventi pubblici la vita sociale: le interpretazioni forni-
te dalle ricerche e dalle sintesi di Giovanni Tabacco e un nuovo ap-
proccio alle fonti prodotte dal comune.
Nel suo contributo alla Storia d’Italia einaudiana Tabacco ha affer-
mato che il profondo intreccio tra lotta sociale e lotta di fazione (nel-
l’accezione « privatistica » di Cristiani), visibile nei comuni maturi, non
poteva condurre alla totale negazione del carattere di classe di alcune
delle tensioni esistenti. Ma, soprattutto, egli ha posto le basi per una
connotazione specificamente istituzionale dell’operato del « popolo ».
Questo raggruppamento, a suo parere, non poteva essere valutato sol-
tanto come un « terzo » partito in grado di occupare il comune, ma
quale movimento largo e spontaneo, sostenuto da una forte legittima-
zione giuridica e teso a contrastare la vocazione al dominio signorile
che aveva caratterizzato il quadro del potere nobiliare 60. Solo tenendo
conto di questo contesto era possile tornare a definire le partes di ori-
gine aristocratica. Le fazioni guelfa e ghibellina avevano rappresentato
gli aspetti locali di una coordinazione sovracittadina basata sull’alleanza
larga, sulla capacità di coordinare tra di loro ceti di differenti città, con
funzioni analoghe a quelle che aveva avuto in precedenza il legame
vassallatico, ma in un contesto necessariamente mutato, più aperto e
mutevole 61.
Una serie di ricerche, soprattutto monografiche, in cui la documen-
tazione è stata sottoposta a una nuova verifica diplomatistica e anche,
in alcuni casi, retorica (registri comunali, delibere, statuti, liste ammini-
strative), ha messo in luce l’alta consapevolezza politica, visibile nelle
modalità di organizzazione del consenso, presente nell’elaborazione di
un sistema, per quanto diversissimo da quello moderno, di partecipa-
zione, e infine nella capacità di progettare e rendere operativi i com-
parti più diversi dell’amministrazione. Attraverso queste ricerche si è

60 Tabacco, Egemonie sociali, pp. 330-340.


61 L’argomento è stato ripreso in Tabacco, Ghibellinismo e lotte di partito.

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INTRODUZIONE XXIII

delineata una scansione della vicenda comunale in cui ha assunto gran-


de importanza il sistema fondato sulla presenza del podestà forestiero e
lo sviluppo di questo sistema guidato dal « popolo » 62. Nel contesto di
questo sistema sono stati individuati profondi cambiamenti: l’invenzione
di un nuovo linguaggio politico e la sua formalizzazione 63; l’elaborazio-
ne di un sistema di regole per il controllo reciproco tra diverse compo-
nenti organizzate della società 64; la stabilizzazione di nuove forme di
giustizia pubblica in grado di comprendere e mediare i conflitti priva-
ti 65; la nascita di nuove tipologie documentarie come il registro e le
liste, espressione di un innovativo uso politico della scrittura sostenuto
dalle competenze di giuristi e notai 66.
In alcune occasioni, tra i sostenitori di un comune popolare etero-
diretto dalle parti nobiliari e quelli di un comune segnato dalla consa-
pevolezza politica diffusa dal podestà e dal « popolo » sono scaturite
discussioni anche molto accese 67. Ma leggendole si ha l’impressione che
gli argomenti non siano sullo stesso piano: i primi si ritengono soddi-
sfatti di dimostrare il legame clintelare di membri del « popolo » o la
presenza di nobili alla guida degli schieramenti popolari, mentre i se-
condi, giustamente, non ritengono questi elementi una prova sufficiente
della mancanza di un progetto politico del tutto sganciato, anzi posto
in aperto contrasto con le logiche del consenso cavalleresco 68. Oggi,
visto anche il successo di ricerche dedicate agli aspetti propagandistici
e culturali della politica comunale, non sembra più possibile negare la
presenza di un simile progetto. Risulta semmai strano che nella storia

62 Artifoni, Città e comuni, ma cfr. ora anche I podestà itineranti e l’area comunale
piemontese e più in generale I podestà dell’Italia comunale.
63 Artifoni, I podestà professionali; Artifoni, Sull’eloquenza politica nel Duecento;

Artifoni, Retorica e organizzazione politica: « Sapientia Salomonis »; Giansante, Retorica


e politica nel Duecento; Cammarosano, Il ricambio e l’evoluzione dei ceti dirigenti.
64 Artifoni, Tensioni sociali; Artifoni, Una società di « popolo »; Grundmann, The

« Popolo » at Perugia 1139-1309; Koenig, Il « popolo » nell’Italia del Nord; Vallerani,


L’affermazione del sistema podestarile.
65 Vallerani, Sfere di Giustizia; Vallerani, Zorzi, « Ius erat in armis »; Sbriccoli, « Vidi

communiter observari ».
66 Bartoli Langeli, La documentazione degli stati italiani, Cammarosano, Italia me-

dievale; Maire Vigueur, Révolution documentaire et revolution scripturaire; Vallerani,


L’affermazione del sistema podestarile; Albini, Introduzione, Baietto, Scrittura e politica.
67 Il caso più noto è quello della reazione di Pierre Racine al libro di Koenig, Il

« popolo » nell’Italia del Nord (Racine, Le « Popolo », groupe social ou groupe de pression).
68 Si tratta di considerazioni condotte in Artifoni, Città e comuni, e Vallerani, la

cittàe le sue istituzioni.

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XXIV GIULIANO MILANI

politica e istituzionale non ci sia stata la riformulazione che invece si è


avuta presso gli studiosi di storia del pensiero politico, che hanno pro-
vato a indagare sistematicamente la relazione tra quanto le forme di
elaborazione politica dei tardi comuni podestarili e popolari e quelle
dei secoli successivi 69. I tempi sembrerebbero maturi per una simile
impresa, dal momento che gli studiosi della prima età moderna hanno
nel frattempo attenuato di molto il giudizio sullo stato territoriale come
prima fase di una costruzione politica moderna. Da un lato, si dà un
maggiore rilievo al ruolo dei poteri periferici quali poli di organizzazio-
ne politica (città dominate, comunità, fazioni) con cui la dominante
dovette continuare per molto tempo a fare i conti 70; dall’altro, tende
ad attenuare il carattere principesco o signorile delle nuove formazioni
statali, considerando la permanente centralità delle istituzioni di matrice
cittadina negli stati regionali 71.
Per la prima volta, dunque, sembra scricchiolare il longevo schema
mentale secondo cui le parti uccisero il comune, e cioè i legami privati
provocarono, attraverso il moltiplicarsi dei conflitti e/o l’esautorazione
delle forme partecipative, la fine dei rapporti pubblici così come si
erano venuti sviluppando. Nella visione corrente, piuttosto, le parti sono
percepite come qualcosa che lungi dal corrodere le istituzioni riuscì in
molti casi a rinforzarle72, il comune come un insieme di legami politici
che non scomparve, ma subì un processo di rimodellamento73. Forse i
tempi sono maturi per ipotizzare un altro tipo di relazione tra presenza
delle parti e vitalità del comune cittadino.

4. La costruzione comunale delle partes e l’esclusione

La strada per una simile impresa non può essere cercata nelle me-
todologie che sono state, per così dire, generate dallo schema fondato
sulla morte del comune per mano delle parti. Non può rivelarsi utile la
semplice prosopografia, che tende naturalmente ad attenuare la portata

69 Per gli studi di storia del pensiero politico dedicati alla fortuna del repubblica-

nesimov. Ad esempio: Skinner, Machiavelli’s Discorsi; Skinner, Le origini del pensiero


politico moderno, J. A. Pocock, Il momento machiavelliano.
70 Per citare solo un esempio recente Della Misericordia, Dividersi per governarsi.
71 Chittolini, Poteri urbani e poteri feudali-signorili; Chittolini, Premessa.
72 Chittolini, Il ‘privato’, il ‘pubblico’ lo ‘Stato’.
73 Najemy, Stato, comune e « universitas »; Berengo, Stato e corpi intermedi.

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INTRODUZIONE XXV

dei rapporti politici, ma nemmeno la sola storia istituzionale classica, e


cioè la ricostruzione degli assetti amministrativi, che di per sé non esau-
risce la sfera di quei rapporti. Una combinazione delle due prospettive,
resa possibile dall’ormai ingente quantità di studi accumulata, sembra
più promettente, ma costituisce un sentiero appena aperto 74. Una possi-
bilità maggiore è offerta da quella prospettiva al tempo stesso semanti-
ca e pragmatica, volta all’accertamento degli strumenti culturali e ideo-
logici – in senso lato – allestiti dagli stati, che Giuseppe Petralia ha
recentemente indicato come l’unica possibile via d’uscita dalla « casa
infestata » degli studi sull’Italia del tardo medioevo 75. Una strada non
del tutto inesplorata in ambito comunalistico, se, come afferma questo
studioso, le sue origini vanno ricercate in quel programma di ricerca
sulla Genèse de l’Êtat moderne organizzato dal CNRS, che vide nelle
sue prime sessioni alcuni interventi estremamente significativi per i suc-
cessivi sviluppi della linea di rivalutazione dei regimi cittadini italiani
del Duecento 76.
La discrepanza tra le due linee di storia comunale prima descritte
mostra peraltro che anche per il Duecento, citando Petralia, « conosce-
re gli apparati che per interesse delle élites si sforzavano di imbrigliare
la politica è essenziale, ma non è sufficiente. Dobbiamo provare a rico-
struire il nesso fra progetti e azioni e le convinzioni, gli schemi mentali
consapevoli e inconsapevoli, che costituirono la vera griglia di possibili-
tà politiche in cui si muovevano gli uomini e le comunità » 77. Un simile
programma sottintende un’interpretazione del « linguaggio » (politico) non
tanto nel senso di strumento per comunicare, quanto di sistema per
interpretare, attraverso definizioni, la realtà. Gli oggetti di studio che
autorizza a indagare sono pratiche che non si limitano a rappresentare
il mondo, ma lo creano. Un’indagine di questo tipo sembra quindi
particolarmente promettente per cercare una nuova lettura della relazio-
ne tra il comune e le sue parti, poiché consente di abbandonare la
tendenza a considerare le partes come oggetti di studio noti e presup-
posti – « partiti » o « fazioni » che siano – e spinge a scoprirle attraver-

74 Cammarosano, Il ricambio e l’evoluzione dei ceti dirigenti.


75 Petralia, « Stato » e « moderno » in Italia nel Rinascimento, p. 41.
76 Culture et idéologie dans la genèse de l’état moderne conteneva, oltre alla prefa-

zione di J.P. Genet citata da Petralia, Bartoli Langeli, La documentazione degli stati
italiani; Clanchy, Literacy, Law and the Power of the State e Maire Vigueur, Représenta-
tion et expression des pouvoirs.
77 Petralia, « Stato » e « moderno » in Italia nel Rinascimento, p. 44.

Introduzione.pmd 25 09/11/2009, 16.31


XXVI GIULIANO MILANI

so la definizione che ne diedero all’epoca i governi cittadini nella loro


documentazione. Da questo punto di vista le partes non sono state quasi
mai analizzate. In rari casi si è cercato di problematizzarne il significato
attraverso lo studio dell’immagine che ne diedero osservatori contempo-
ranei. Quando ciò è avvenuto vi sono stati risultati sorprendenti e inte-
ressanti, come il giudizio di Peters secondo cui la diffusa – e in origine
neutra – constatazione dell’esistenza di gruppi organizzati e conflittuali
nel comune influenzò il pensiero politico più dello stesso aristotelismo,
prima di tramutarsi in giudizio fortemente negativo 78. Anche al di qua
di una simile prospettiva di storia del pensiero politico sembrano tutta-
via esserci varie strade per tracciare una storia esterna delle partes, e
cioè una ricostruzione dei modi in cui le partes furono definite dal
comune e dal Popolo. Questi modi sembrano essere tre. Vediamoli ra-
pidamente, dal più astratto al più concreto, che è poi quello che qui
interessa maggiormente.
In primo luogo si può condurre un’analisi dei meccanismi della
definizione linguistica. Essa può essere volta innanzitutto ad appurare
come nel sistema podestarile, sorto proprio per costituire un centro di
potere superiore agli interessi organizzati, si vennero a definire le orga-
nizzazioni che rappresentavano questi interessi. Non mancano di certo,
per quanto siano conservati in maniera frammentaria, documenti che lo
attestino: sentenze podestarili, arbitrati, patti, discorsi e lettere in cui si
tratta delle fazioni. Un’analisi simile, e in questo caso i documenti sono
ancora più numerosi, la merita il « popolo », un gruppo politico che
volle presentarsi come istituzione cittadina proprio per riuscire dove il
podestà aveva fallito, e cioè nel contenimento e nella repressione dei
disordini scatenati da quelle fazioni che, nel regime podestarile, invece
di esaurirsi si erano riforzate. Complessivamente sarebbe interessante
valutare quale fu il contributo delle definizioni affermatesi nel contesto
di questi progetti politici alla percezione che i cittadini ebbero delle
partes che si scontravano e alla stessa autodefinizione delle partes così
come emerge da poche ma significative testimonianze.
In secondo luogo si può procedere a uno studio della definizione
politica. I sistemi di parecipazione prodotti dalla continua sperimenta-
zione istituzionale che avvenne nelle città italiana a partire dalla fine
del XII secolo dovettero per forza condizionare le forme in cui si orga-
nizzarono i vari gruppi sociali. Per quanto nascosto dalla prospettiva
storico-giuridica, volta all’accertamento della proiezione istituzionale de-

78 Peters, Pars, parte; ma v. anche Hyde, Contemporary views.

Introduzione.pmd 26 09/11/2009, 16.31


INTRODUZIONE XXVII

gli interessi sociali, il processo di segno contrario, tramite il quale le


modifiche delle istituzioni costrinsero i gruppi a cambiare le proprie
forme organizzative per adattarsi e rimanere efficienti nel nuovo conte-
sto istituzionale non può essere ignorato. Alla tesi sostenuta anni fa da
Sergio Bertelli, secondo cui solo nella Firenze successiva al 1494 alle
partes meramente clientelari si sarebbero sostituite aggregazioni più estese
e trasversali, volte a rappresentare interessi in consiglio, che « travalica-
vano i confini dei quartieri » e dividevano le famiglie al loro interno, si
potrebbe rispondere (sulla base della documentazione comunale, che
– lo si vedrà da vicino – prova come gli schieramenti fossero diffusi a
livello individuale oltre che familiare o societario) che fu questa la si-
tuazione ordinaria in cui vivevano i cives nei regimi di « popolo » del
tardo Duecento poiché i sistemi di rotazione previsti, facevano sì che
in media ogni due anni ogni maschio adulto si trovasse a far parte di
un consiglio e che dunque sviluppasse un proprio orientamento politico
capace poi di trovare ascolto e accoglienza in partes che, per perseguire
i propri interessi, dovevano tenere conto di questa larga partecipazione
e reclutare di conseguenza i loro adepti.
Di queste due possibilità questo libro terrà conto, anche se non in
maniera sistematica. Al centro dell’attenzione si è voluto porre un terzo
modo con il quale, in un senso ancora più letterale, i comuni definiro-
no le partes, e cioè i procedimenti che misero in atto nel momento in
cui vollero escludere i membri di un gruppo dichiarandoli nemici. In
questa accezione, l’esclusione politica, tradizionalmente letta quale se-
gno della sopraffazione di una pars, e dunque sintomo della fine del
comune, acquista una centralità finora insospettata quale occasione per
conoscere il modo in cui il governo cittadino esercitò al massimo livello
possibile il proprio potere di definizione, selezionando, al fine di esclu-
dere i nemici interni, i propri cittadini e dunque tracciando una nuova
linea di demarcazione, reinventando, insomma, nello specchio dei pro-
pri ribelli, sé stesso.
Questa prospettiva non è stata considerata negli studi dedicati al-
l’esclusione nel corso della prima metà del XX secolo, che pur racco-
gliendo una serie di dati interessanti 79, sono rimasti pochi e hanno illu-

79 Piattoli, I ghibellini del comune di Prato; Simeoni, Le proporzioni e le forme. Al


di là di questi contributi innovativi l’insieme degli studi dedicati specificamente al con-
flito delle partes in età comunale nel Novecento risulta costituito in primo luogo dagli
studi di « dantistica » o derivati direttamente dalla tradizione di costruzione e aggiorna-
mento dell’apparato alla Commedia; in secondo luogo da contributi originati dal rinve-

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XXVIII GIULIANO MILANI

minato solo singole realtà. Forse in questo disinteresse ha avuto il suo


peso l’insofferenza dei primi storici « di mestiere » nei confronti di un
tema che nasceva già vecchio, segnato dall’eccessiva attenzione che gli
era stata rivolta dagli annalisti dei secoli XVI-XIX. Alcune sintesi ap-
parse negli ultimi decenni non hanno contribuito a far emergere le
potenzialità dell’esclusione come tema storiografico 80. Gli autori di que-
sti saggi hanno cercato di cogliere le caratteristiche generali della lotta
di fazione, soffermandosi poco sulle specificità cronologiche e geografi-
che che tale fenomeno presenta. Sono giunti in tal modo a ricostruire
un unico modello astratto di conflitto in virtù del quale gli scontri e gli
episodi di esclusione vengono descritti e interpretati sostanzialmente negli
stessi termini dei cronisti due-trecenteschi 81. Questi storici inoltre han-
no accettato in maniera quasi sempre passiva dati e problemi depositati
in un processo di stratificazione secolare. In tal modo hanno valorizza-
to casi già noti in precedenza, non hanno segnalato la necessità del-
l’esplorazione di nuove fonti, e talvolta hanno anche riproposto ipotesi
già da tempo abbandonate 82. Essi inoltre appaiono fortemente segnati,

nimento e dalla pubblicazione di documentazione inedita; e, infine, dagli studi sulle


città nei secoli XIII e XIV.
80 Recentemente sono apparsi: Heers, Partiti e vita politica; Starn, Contrary Com-

monwealth; Exil et civilisation en Italie; Heers, L’esilio, la vita politica, la società.


81 Il carattere « tematico » delle sintesi recenti è visibile già scorrendo gli indici.

Starn, Contrary Commonwealth, per la parte medievale, è composto da un capitolo


sulle origini del fenomeno, rinvenute nelle pene romane di allontanamento e quelle
germaniche di perdita della pace (Premises and Vestiges, pp. 1-30); da un capitolo di
raccolta di dati (Fact of Exclusion and Exile in Medieval Italy, pp. 31- 59), distinto in
paragrafi relativi all’azione dei poteri universali, alla forma delle compagnie di esuli,
alle modalità di rientro degli esiliati e agli eventi legati al viaggio di Enrico VII. Infine
vi è un capitolo monografico dedicato alla vicenda dell’esilio di Dante, così come la si
può ricavare dai documenti del Codice Diplomatico Dantesco (Dante and His Judges:
Rules of exclusion in the Early Fourteenth Century, pp. 60-85). Ancora più « trattatisti-
ca » risulta la scansione del libro di Heers, Partiti e vita politica, articolato per grandi
blocchi sincronici relativi a singoli argomenti come ad esempio Reclutamento e struttu-
ra dei partiti (pp. 95-134), suddiviso in Famiglie e clientele, Città e campagna, Il gover-
no dei partiti. Oppure, immediatamente dopo, L’Italia, le forme della guerra e della
pace, diviso in La città in armi: la guerra civile; la sorte dei vinti; la pace e il popolo.
Analoga la scansione di Heers, L’esilio, la vita politica, la società.
82 Per limitarsi ed alcuni esempi evidenti, come si può ricavare dalla nota prece-

dente, Starn ha scelto il caso di Dante per spiegare il meccanismo dell’esclusione,


continuando così a indagare sull’unico episodio che aveva attratto sin dall’inizio del
XIX secolo l’interesse degli studiosi. Sempre rimanendo sulla vicenda di Dante, Heers
fa alcune considerazioni sulla integrità del Libro del chiodo riprendendo le conclusioni

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INTRODUZIONE XXIX

seppure in maniere diverse, da un’ipotesi evolutiva che, in ultima anali-


si, non può che produrre conclusioni tautologiche per mezzo delle qua-
li lo studio dell’esclusione dimostra che il comune risulta un organismo
primitivo proprio perché pratica l’esclusione. Tale impronta appare so-
prattutto nelle opere di Jacques Heers in cui l’esclusione è presentata
come il massimo sintomo di una politica comunale dominata solo ed
esclusivamente da una pervasiva « gara d’uffici », che ha il suo culmine
nella pratica dell’esilio. E in misura minore è presenta anche nel libro
di Randolph Starn dove si tenta un’analisi diacronica volta a dimostrare
il carattere medievale dell’esclusione trecentesca e quello rinascimentale
dell’esclusione praticata nel Quattrocento.
A tenere fuori l’esclusione dallo studio dei sistemi di esercizio del
potere ha contribuito infine anche un elemento, per così dire, tecnico:
l’uso sinonimico di parole come bando, esilio, esclusione, espulsione,
che sottintende a sua volta una confusione fuorviante, quella tra l’allon-
tanamento fisico dalla città della pars perdente, leggibile come pratica
politica solo in un senso molto ampio e inquadrabile piuttosto in un
contesto di storia militare, e la ritorsione attuata nei confronti degli
usciti dal potere cittadino, questa, sì, vero e proprio strumento di go-
verno e momento di definizione nel senso accennato più sopra. Se in-
fatti risulta importante valutare di volta in volta quanto la separazione
fu percepita come spontanea o come forzata dagli eventi, appare sicu-
ramente falsante la distinzione tra esclusioni « ambigue » o « semivolon-
tarie » e esclusioni « d’autorità » 83. Essa sovrappone due fenomeni diver-
si: poiché una cosa fu l’atto stesso dell’uscita e un’altra fu la ritorsione
attuata dall’autorità in seguito e in conseguenza dell’uscita. La secessio-
ne avvenne per ragioni differenti a seconda delle circostanze, e in que-
sto aspetto, a quanto attestano le fonti narrative, vi furono variazioni
significative. Per quanto spinte da motivazioni varie, tuttavia per tutto
il Duecento le partes si allontanarono di propria iniziativa dalla città,
manifestando sempre – e per questo aspetto ci sembra possibile acco-
gliere ed estendere un’altra affermazione di Heers – il rifiuto « di la-

– errate – a cui era giunto Isidoro del Lungo in alcuni articoli apparsi sull’« Archivio
Storico Italiano » nella seconda metà del secolo scorso (in particolare: Del Lungo, Una
vendetta in Firenze), ma non tiene conto delle più recenti conclusioni a cui, in merito
alla stessa fonte, è giunto nel frattempo Brattö, Liber Extimationum, pp. 15-17.
83 Su questa distinzione si basa la divisione dei capitoli 2 (« La fuga nella sera dei

combattimenti ») e 3 (« Esclusi e Proscritti ») della prima parte di Heers, L’Esilio la


vita politica e la Società, pp. 23-71.

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XXX GIULIANO MILANI

sciarsi governare dagli avversari » e dunque il disconoscimento della loro


legittimità 84. L’uscita, la secessione, costituì dunque un azione comples-
sa, per certi aspetti ritualizzata, volta non solo a fuggire, ma anche a
rifiutare, anche simbolicamente, l’obbedienza, a raccogliere le forzein
vista di una futura rivincita e del conseguente rientro, a promuovere
dall’esterno la guerra contro il comune. La ritorsione ufficiale contro
gli usciti, che intese contrastare con vigore, dall’alto di un’autorità pub-
blica, attraverso l’esclusione dalla cittadinanza, l’azione delegittimante
rappresentata dalla secessione di un gruppo di cittadini, subì nel corso
del tempo un’evoluzione più significativa poiché lungo il corso del
Duecento si andarono allestendo e utilizzando nuovi strumenti e nuovi
sistemi di legittimazione.

5. Al di là delle partes: esclusione e cittadinanza


Alla base di questo studio dell’esclusione politica vi è dunque la
volontà di cogliere la definizione delle partes ad opera dei sistemi poli-
tici in cui queste si mossero. Questo progetto ha reso necessaria la
distinzione tra pratica dell’uscita e esercizio della ritorsione, tramite la
quale ciò che appariva come un fenomeno militare proprio della guerra
civile si è rivelato come un processo conflittuale tra chi escludeva e chi
era escluso. Questo rapporto dialettico è stato inquadrato in una pro-
spettiva diacronica, censendo episodi precisamente collocati nello spazio
e nel tempo, comparandoli a episodi simili e contemporanei, e infine
traendone considerazioni di natura più generale. Nel corso del censi-
mento di questi episodi sono tuttavia emersi elementi che hanno fatto
apparire la definizione della pars come un punto di vista più limitato di
quanto non era sembrato in principio. Al termine del lavoro le grandi
esclusioni tardoduecentesche, quelle che coinvolsero migliaia di indivi-
dui, che sembravano in principio semplicemente momenti della defini-
zione della pars compiuta dai regimi comunali, sono apparse come il
culmine di altri processi: l’invenzione di un tipo nuovo, caratteristica-
mente comunale, di reato politico e l’allestimento di procedure tese al
censimento individuale della popolazione politicamente attiva della città
– complessivamente, quindi, come momenti di una più ampia ridefini-
zione della cittadinanza.
La lettura dei dispositivi di condanna dei nemici politici allestiti tra
fine XII e inizio XIV secolo ha rivelato una lunga preistoria della no-

84 Heers, L’Esilio la vita politica e la Società, p. 33.

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INTRODUZIONE XXXI

zione di delitto politico. Alla fine del XII si identificava ancora nella
iurisdictio la sfera del potere più importante e più bisognosa di prote-
zione, e solo chi metteva in dubbio questa capacità del comune subìva
i provvedimenti più gravi e carichi di significato politico, come il ban-
do. Un secolo dopo, la componente dell’autorità considerata a rischio e
dunque protetta attraverso le pene più significative era divenuta quella
dell’appoggio attivo alla linea politica seguìta dal governo e alla rete di
schieramenti cui il governo aderiva. Questa trasformazione non era av-
venuta tramite la semplice sostituzione di alcune leggi ad altre, ma at-
traverso l’evoluzione e il consolidamento di un ordinamento giuridico
sempre più articolato, che all’inizio si sostanziava soprattutto in singole
delibere e alla fine si fondava su sistemi complessi di gerarchie tra le
fonti dello ius proprium, all’interno delle quali l’attacco al comune nelle
sue varie forme era configurato in diverse fattispecie criminose.
L’evoluzione dell’idea di delitto politico si rivela dunque connessa a
quella delle scritture attraverso cui fu definito, collegata a sua volta alla
più generale evoluzione dei documenti che il potere comunale produsse
per affermare le proprie istanze politiche. Nella stessa direzione in cui,
come segnala Paolo Grossi, a partire dal XII secolo, si muoveva la
costruzione di un « laboratorio sapienziale » per contemperare e riporta-
re a unità i molti diritti esistenti, ebbe anche luogo il movimento che
fissò nelle codificazioni statutarie le consuetudini cittadine e avviò il
processo della loro continua reformatio; e, con esso, anche lo sforzo di
rendere verificabili (ed eventualmente contestabili) i diritti di alcuni grup-
pi sociali e di alcuni individui, attraverso il ricorso a tecniche sempre
più analitiche di registrazione amministrativa degli atti e dei nomi da
parte non solo del comune ma anche delle organizzazioni che si muo-
vevano al suo interno, prime tra tutte quelle « popolari ». Così, nel campo
dell’esclusione, attraverso numerosi passaggi, si passò dalla scrittura dei
primi atti di bando giudiziario, redatti nel XII ancora su carte sciolte,
alla redazione di registri processuali, registri amministrativi ed enormi
liste di proscrizione, fondamento a loro volta per la creazione di un
numero potenzialmente infinito di elenchi che da queste liste derivavano.
Presi insieme, lo studio del controllo giuridico e quello del control-
lo amministrativo della popolazione politicamente attiva concorrono a
formare una nuova possibilità per accedere alla nozione di cittadinanza
in età comunale. Gli studi che hanno affrontato questo tema, quando
non hanno costituito semplici compilazioni di diversi statuti cittadini
nella prospettiva di delineare un’unica immagine dei diritti e degli oneri
legati allo status di cittadino, hanno spesso insistito sul momento di

Introduzione.pmd 31 09/11/2009, 16.31


XXXII GIULIANO MILANI

ingresso nella cittadinanza al fine di vedere questa nozione all’opera. In


questa ottica sono stati analizzati i patti di cittadinatico e le inclusioni
di immigrati del contado 85. Un approccio simile, benché speculare, lo
offrono i meccanismi di esclusione che illuminano il momento di uscita
dalla comunità dei cives. La più recente e illuminante sintesi sulla citta-
dinanza comunale prevede esplicitamente questa possibilità metodologi-
ca 86, ed è tenendo conto di un simile spunto che vanno lette le pagine
che seguono.

6. La struttura di questo libro

L’ampiezza del tema ha imposto una drastica riduzione degli appa-


rati bibliografici, che sono stati limitati all’indispensabile, e una selezio-
ne preliminare delle fonti. Lo spettro potenzialmente infinito di scrittu-
re utili è stato così brutalmente ristretto a tre tipologie: patti intercitta-
dini, statuti e fonti amministrative. Le prime due, le uniche per le quali
si può disporre di un consistente corpus a stampa, sono state analizzate
per condurre l’analisi comparativa condotta nei capitoli II-V e XI. Le
fonti amministrative inedite, relative all’esclusione di una parte, hanno
invece costituito la base su cui si è svolta l’analisi del caso assunto
come centrale in questo libro, quello bolognese, analizzato nei capitoli
VI-X. La centralità di Bologna ha in una certa misura condizionato la
scelta delle città, per molti versi ingiustificata, su cui è stata compiuta
la comparazione: maggiore attenzione si è prestata all’area emiliana, ve-
neta, lombarda e toscana, più fuggevolmente sono state considerate aree
come il Piemonte o la Romagna signorile, mentre non è stata presa in
esame l’area laziale-umbro-marchigiana.
Quanto ai limiti cronologici, si è optato per una scansione diacroni-
ca fondata su intervalli corrispondenti a una generazione, pur nella con-
sapevolezza dell’arbitrarietà connessa all’uso di tale strumento di com-
puto degli anni. Sulla base di impressioni ricavate dalla consultazione
delle fonti bolognesi si è postulato che le grandi esclusioni tardodue-

85 Bowsky, Cives Silvestres; Reisenberg, Citizenship at Law in Late Medioeval Italy;

Quaglioni, The legal Definition of Citizenship.


86 Costa, Civitas. Tra gli altri studi dedicati alla cittadinanza comunale vanno se-

gnalati Bizzarri, Ricerche sul diritto di cittadinanza, Cortese, Cittadinanza (diritto inter-
medio); Ullmann, The Individual and Society in the Middle Ages; Bowsky, Medioeval
Citizenship.

Introduzione.pmd 32 09/11/2009, 16.31


INTRODUZIONE XXXIII

centesche furono vissute da individui ascrivibili a due generazioni: i


padri, nati attorno al 1230 e affacciatisi alla politica negli anni Cin-
quanta e i figli, nati attorno al 1260 e venuti alla ribalta nei consigli
agli anni Ottanta. Del modo in cui queste due generazioni vissero la
fase tardoduecentesca dell’esclusione trattano i capitoli centrali, che vanno
dal V (dedicato a una descrizione comparativa) al IX (dedicato come i
tre che lo precedono a Bologna).
A partire da questo postulato arbitrario, ma utile, si è cercato, nei
tre prossimi capitoli (II-IV) di rendere conto della formazione del siste-
ma dell’esclusione due-trecentesco analizzando le specificità che caratte-
rizzarono le tre generazioni precedenti a quelle appena menzionate: gli
individui nati attorno al 1140, i loro figli, nati attorno al 1170, e i loro
nipoti, nati attorno al 1200. In ognuno di questi capitoli lo schema
seguito è lo stesso: analisi della documentazione bolognese, comparazio-
ne con le altre città, ritorno alla documentazione di Bologna. I capitoli
successivi (X e XI), cui tiene dietro un capitolo conclusivo, sono dedi-
cati all’eredità dell’esclusione tardoduecentesca e passano rapidamente
in rassegna le fonti (rispettivamente bolognesi e italiane) prodotte dal-
l’ultima generazione che visse le grandi esclusioni, quella che attorno
agli anni Novanta entrò nella vita politica e vi trovò l’esclusione che
giocava un ruolo determinante.

7. Ringraziamenti

Grazie a Marco Folin, Tiziana Lazzari, Sara Menzinger, Marino Zab-


bia che in momenti diversi hanno discusso con me alcuni degli argo-
menti trattati in questo libro; a Enrico Artifoni, Jean Claude Maire-
Vigueur e Antonio Ivan Pini, che hanno letto il manoscritto e sono
stati generosi con i loro consigli; a Gilmo Arnaldi, che ci si è voluto
immergere, domandolo e rendendolo migliore; a Massimo Vallerani che
me l’ha fatto cominciare, a Caterina che me l’ha fatto continuare, a
Nico, che me l’ha fatto finire.

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XXXIV GIULIANO MILANI

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Capitolo I

LA COMPARSA DEL REATO POLITICO COMUNALE


LA GENERAZIONE DEL 1140

1. L’esclusione dalla civitas

Il 19 maggio 1149 i bolognesi giurarono di punire un omicida me-


diante l’allontanamento e il sequestro dei beni 1. In seguito allo scanda-
lo perpetrato da Grasso de Randuino uccidendo Ottolino suo genero,
l’assemblea plenaria dei concives (un organismo che assume qui e in
altri documenti coevi il nome di populus 2) si impegnò a impedire a lui
e ai suoi complici di essere concives della città di Bologna o habitatores
di qualunque zona del suo territorio 3 e a far sì che i loro beni rima-
nessero per sempre abbandonati e infruttuosi, in quanto sequestrati.
Possiamo definire questo episodio come un’esclusione politica co-
munale? Certamente si tratta di un’esclusione, certamente essa è ema-
nata da un organismo che può essere definito comune, visto che la

1 « Quartodecimo kalendas iunii, indictione .xii. Nos inquam Bononiensis populus,

propter perpetuatum scelus a Grasso de Randuino comissum quod Ottolinum suum


videlicet generum occulte nocte interfecit, iuramus predictum Grassum et qui cum eo
conscii et participes fuerunt mortis prefati Octolini, deinceps in perpetuum neque con-
cives civitatis fore Bononie neque habitatores castri sive burgi sive ville vel cuiuslibet
alterius loci territorii sive comitatus Bononiensis, eorumque bona in nullius bonis esse
volumus, sed vacua semper atque deserta velut publicata et proscripta in commune
totius populi Bononiensis civitatis permaneant ». Utilizzo la trascrizione di Rabotti, Note
sull’ordinamento costituzionale., p. 65, n. 48. Il testo era stato già pubblicato, con alcu-
ne varianti, in Fasoli, Gli statuti di Bologna pp. 56-57, e in Savioli, Annali bolognesi, I,
1, p. 221.
2 L’espressione populus per indicare l’assemblea plenaria si trova per la prima vol-

ta a Bologna in un patto di alleanza con Nonantola del 1131 (Savioli, Annali bologne-
si, I, 1, p. 178 (num. 113).
3 Un diverso uso di questi termini per connotare gli abitanti della città si ebbe in

età altomedievale. Violante, La società milanese, pp. 309-316 stabilisce la differenza tra
cives e habitatores identificando nei primi gli abitanti stabili, nei secondi quelli provvi-
sori. Per una trattazione più generale v. Bizzarri, Ricerche sul diritto di cittadinanza,
pp. 20-27.

Capitolo 1.pmd 1 09/11/2009, 16.24


2 GIULIANO MILANI

prima menzione dei consoli bolognesi è del 1123 4. È il suo carattere


politico a porre i maggiori interrogativi. Dell’episodio ricordato non sap-
piamo nulla. Non è affatto detto – come pure si è ipotizzato sulla base
del riferimento ai complici 5 – che il provvedimento sia da interpretare
come una ritorsione attuata dall’élite al potere contro i propri nemici,
travestita da condanna per omicidio. Anche perché, nonostante qualche
tentativo, resta piuttosto disagevole indentificarne i protagonisti 6. La
delibera non sembra dunque adottata sulla base dell’accertamento di
un delitto politico nel senso in cui oggi lo intendiamo. E tuttavia vi è
qualcosa di intrinsecamente politico se a emanarla, tramite un giura-
mento, è l’espressione più diretta del consorzio dei cives, l’assemblea
plenaria, la cui esistenza precede di molto quella del comune 7. Secondo
quest’assemblea, il comportamento di Grasso di Randuino è politica-
mente rilevante dal momento che merita di essere punito con la pena
più politica, l’esclusione, che prevede l’uscita dal gruppo dei cives, il
divieto di residenza in un’area sottoposta al controllo di quegli stessi
cives, la immissione nel possesso comune di tutto il popolo (publicatio)
dei beni. Pur non rimandando ad alcun tipo di ribellione, quest’atto ci
appare politico poiché testimonia come sin dall’inizio esclusione e citta-
dinanza siano le due facce della stessa medaglia.
Nelle pagine che seguono si cercherà di mostrare come nel corso
della seconda metà del secolo XII i comuni cominciarono a ricorrere
all’esclusione dalla civitas per colpire, oltre ad azioni come questa, an-
che comportamenti qualificabili come reati politici in un senso più vici-

4 Sulle premesse per la costituzione del comune a Bologna la migliore introduzio-


ne è quella fornita da Fried, Die Entstehung des Juristenstandes, 73-87. Ancora utili
Hessel, Storia della città di Bologna, pp. 3-46 e i due saggi, Simeoni, La lotta per le
investiture, e Simeoni, Bologna e la politica italiana di Enrico V, e le prime pagine di
Rabotti, Note sull’ordinamento costituzionale. Sulla società bolognese (e del comitato)
nel secolo XI v. Lazzari « Comitato » senza città.
5 Rabotti, Note sull’ordinamento costituzionale, p. 67.
6 Il nome Grasso sembra tipico della famiglia Clarissimi, che sin dal secolo XI

esercita la professione del diritto. Il patronimico potrebbe essere accostato per ragioni
esclusivamente onomastiche al Randoinus f. Segnoritti de Franco che compare in un
documento del monastero di S. Stefano citato in Lazzari, « Comitato » senza città, p.
190. Ma non si tratta di dati che, allo stato attuale delle conoscenze, consentano di
contestualizzare socialmente o prosopograficamente l’omicidio di Octolinus.
7 È noto come le assemblee non elettive abbiano costituito l’istituzione più conti-

nua della città nel medioevo. Per Bologna, Mengozzi, La città Italiana nell’alto medio-
evo, p. 266 ha ravvisato un segno di presenza di una simile struttura nel formulario di
un documento del 1056 citato in Muratori Antiquitates, t. I, coll. 853-855.

Capitolo 1.pmd 2 09/11/2009, 16.24


LA COMPARSA DEL REATO POLITICO COMUNALE. LA GENERAZIONE DEL 1140 3

no a quello nostro di oggi. L’analisi sarà distinta in quattro parti che


prenderanno in esame il ricorso all’esclusione prima dello scontro con
Federico I, l’evoluzione nella definizione dei nemici interni durante gli
anni dello scontro tra i comuni e l’impero, le ragioni della dissidenza
filoimperiale e infine gli effetti dello scontro a Bologna. Come risulta
chiaro già da questa scansione, il punto di svolta è stato rinvenuto
attorno agli anni Sessanta del XII secolo, nel contesto di quel momen-
to di ridefinizione generale del potere comunale (e dunque anche della
sua capacità di individuare i propri nemici) che si ebbe in occasione
delle guerre con il Barbarossa. Non è sorprendente che proprio allora
si affacciò una nuova idea del reato politico nel comune. Più interes-
sante è cogliere alcune delle modalità di quel cambiamento.

2. La logica dell’esclusione nelle fonti normative dell’età consolare

Come hanno messo in risalto alcuni studi recenti la normativa co-


munale fu raccolta in libri solo a partire dagli anni 1210-1220 8. Prima
di allora era registrata in carte sciolte o in piccoli quaderni e fu questo
materiale che di li a poco confluì nelle compilazioni successive, i libri
iurium e gli statuti veri e propri. Si tratta di un dato che mostra il
carattere non sistematico della statuizione del secolo XII, un elemento
che occorre tenere presente quando si vogliano cogliere aspetti della
politica e dell’amministrazione comunale attraverso queste fonti. I testi
normativi dell’età consolare, lungi dall’offrire un quadro coerente dello
ius proprium cittadino, riportano, in sostanza, due tipi di atti: i giura-
menti prestati in prima persona dai consoli (e talvolta da altri magistra-
ti) all’atto dell’insediamento in carica, spesso non standardizzati e desti-
nati a subire profondi mutamenti da un anno all’altro, e le delibere del
consiglio, che vengono a precisare consuetudini o a stabilire deroghe in
merito a contingenze occorrenti 9. Cercare di cogliere attraverso questo
materiale la natura dell’esclusione politica nel primo comune significa
dunque cercare di cogliere indizi in un corpus strutturalmente frammen-
tario e geneticamente incompleto, in cui coesistono antichissime con-

8 Il primo a formulare questa cronologia, sulla base delle analisi delle città di

Bergamo, Lodi, Como, Novara, Pavia e Vercelli è stato Busch, Einleitung: Schriftkultur
und Recht. Baietto, Scrittura e politica, p. 134, afferma che tale cronologia è estendibile
anche ad altri comuni.
9 Mette in rilievo questo doppio registro Lütke-Westhues, Beobachtungen zum Cha-

rakter, pp. 55-60, ripreso poi da Baietto, Scrittura e politica, p. 135.

Capitolo 1.pmd 3 09/11/2009, 16.24


4 GIULIANO MILANI

suetudini della comunità e nuovi spunti dovuti alle suggestioni della


dottrina e della pratica 10.
Se si analizzano in base alle premesse appena esposte i brevi conso-
lari più antichi e ricchi di suggestioni, quelli di Pistoia (1140-1180) e di
Genova (1143) 11, vi si trova un comune principio generale al quale si
ispira anche la sentenza bolognese contro Grasso di Randuino: quello
secondo cui nel XII secolo l’esclusione colpiva i comportamenti lesivi
della pace garantita dal comune. Lo si comprende bene a Pistoia dove
l’esclusione è prevista per gli omicidi, ma con un’importante specifica-
zione: da essa sono esenti coloro che hanno fatto pace con la famiglia
dell’offeso. Il console si impegna a esiliare dalla città, dai borghi e dal
raggio di tre miglia, nonché a distruggere la sua casa migliore, chiun-
que uccida intenzionalmente un suo concittadino, « a meno che non
abbia fatto pace con colui con il quale è in lite » 12. Al centro del
provvedimento vi è dunque l’accordo raggiunto tra i cittadini in conflit-
to, come appare da un’altra rubrica dello stesso breve, secondo la qua-
le « chi romperà un accordo di conciliazione o pace già stabilito davan-
ti ai consoli, al podestà o ai rettori, ai vicini, o agli amici, o anche
fatto semplicemente tra due persone, non potrà abitare nella città, nei
borghi e nel raggio di tre miglia » 13. Il ricorso all’esclusione, quindi, si

10 Questa frammentarietà distingue le città italiane da quelle del resto d’Europa,

dove sono conservati documenti fondanti come le carte di comune. Il dato è messo in
evidenza da Ascheri, Istituzioni medievali, p. 217.
11 Codice Diplomatico della Repubblica di Genova, pp. 155-156. Statuti pistoiesi del

secolo XII, pp. 162-165. Le introduzioni alle due edizioni costituiscono importanti av-
viamenti alla storia della composizione di brevi e statuti nelle due città. Su Genova cfr.
anche Niccolai, Contributo allo studio dei più antichi brevi, e Piegiovanni, Gli statuti
civili e criminali. Su Pistoia, v. Lütke-Westhues, Beobachtungen zum Charakter e Maire
Vigueur, Osservazioni sugli statuti pistoiesi.
12 Statuti pistoiesi del secolo XII, p. 163: « Si cognovero aliquem civem alterum

concivem studiose interfecisse, nisi pro se defendendo fecerit, si habuerit turrim vel
partem turris meliorem casam ei faciam destrui et de civitate illum expellam et per
quinquennium in civitate Pist(ori)a eum habitare non permittam nec in suis burgis nec
infra tria miliaria prope civitatem, [me] sciente, nisi pacificatus fuerit cum eo cum quo
litem habuerit [...] ».
13 Statuti pistoiesi del secolo XII, p. 140(?): « Item si quis finem vel pacem ante

consules vel potestatem aut rectores seu vicinos aut amicos, seu facta(m) inter se, stu-
diose feriendo ruperit, non permittam illum habitare in civitate Pist(ori)a me sciente
nec in suis burgis in meo dominio nec infra tria miliaria prope civitatem et puniam
eum sicut infra de homicidio continetur, excepto quam de casa et turri [...] ». Cfr.
anche p. 164.

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LA COMPARSA DEL REATO POLITICO COMUNALE. LA GENERAZIONE DEL 1140 5

attivava nel momento in cui i meccanismi di soluzione dei conflitti pro-


tetti dal comune si inceppavano, affinché, una volta espulso dall’oriz-
zonte pacificato del comune il responsabile del loro momentaneo arre-
sto, tornassero a funzionare. La punizione del responsabile di quell’in-
ceppamento, che ai nostri occhi sembra costituire la ragione dell’esclu-
sione, appare meno importante rispetto alla volontà di ristabilire l’equi-
librio. Sempre a Pistoia, per chi provochi scontri armati in città, parte-
cipi armato a un tumulto, esegua vendetta su qualcuno che deve com-
battere per il comune, giuri di non volersi riconciliare con una pace, o
infine dichiari pubblicamente di non volersi assoggettare ai consoli, è
prevista innanzitutto una pena pecuniaria; nel caso in cui il colpevole
non possa pagarla, avrà luogo il sequestro di beni per un valore dop-
pio; in caso di mancanza di beni, e solo a questo punto, interverrà
l’esclusione 14, che serve quindi a colpire non chi ha compiuto una di
quelle azioni criminose, ma chi, una volta compiutala, non abbia segui-
to il percorso conciliativo previsto dal comune.
Da questo principio generale di esclusione così chiaramente attesta-
to nei brevi pistoiesi, una volta che l’esercizio della giurisdizione comin-
ciò ad accentrarsi nel tribunale del comune, si precisò il bando giudi-
ziario, la pratica, data per scontata già dal tardo XII secolo 15, per cui i
contumaci che non si presentavano in giudizio erano colpiti appunto
con l’allontanamento dalla città e la privazione della protezione che la
città forniva, misure revocate in caso di pace con l’offeso. Gli storici
del diritto sin dal secolo scorso hanno studiato la presenza del bando
giudiziario nella documentazione medievale italiana. Julius Ficker la de-
finì come la condizione in cui era posto il contumace dal tribunale 16;
Augusto Pertile, nella sua Storia del diritto italiano, come una procedu-
ra particolare, strettamente connessa alla « civile estimazione » e dunque
leggibile nei termini di una « scomunica civile » 17. Aderendo a questa
definizione Carlo Calisse nel 1895 e Pier Silverio Leicht nel 1941 so-
stennero con vigore che il bando giudiziario derivava direttamente dal

14 Statuti pistoiesi del secolo XII, pp. 175, 177, 187, 261.
15 Pillio da Medicina, scrivendo poco prima del 1170 il Libellus de preparatoriis
litium et earum preambulis, dedicò una rubrica al caso in cui il convenuto non si fosse
presentato in giudizio, e indicò la soluzione nel bando giudiziario previsto dal diritto
statutario: « Sed quid si ille contumax, etiam multa indicta, non veniat nec in ea pre-
standa pareat? respondeo quod ponat eum in banno sue civitatis secundum loci con-
suetudine que pro lege habetur ». Citato in Ghisalberti, La condanna al bando, p. 15.
16 Ficker, Forschungen, I, pp. 94-95
17 Pertile, Storia del diritto italiano, V, pp. 309-341.

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6 GIULIANO MILANI

diritto germanico 18. Nel 1960 Sessanta Carlo Ghisalberti arricchì questa
tesi di ulteriori argomentazioni, mostrando come i glossatori avevano
provato a inquadrare il bando di origine germanica nelle categorie ro-
mane senza però riuscirvi, a causa della irriducibile estraneità di questa
pratica al diritto comune 19.
In queste analisi si riscontra una certa confusione, dovuta al fatto
che le fonti usano il termine bannum per indicare sia questa pratica,
sia l’esclusione dalla città esplicitamente prevista per alcuni delitti che,
per i quali, a differenza di quanto avveniva nel primo caso, il bannum
costituiva una vera e propria pena 20. Alcuni storici, sulla base di questa
sovrapposizione terminologica, hanno voluto schiacciare tutti gli usi del
bando su una sola accezione del termine, forzando i termini della que-
stione e facendo perdere distinzioni essenziali 21. È invece importante
considerare, come del resto aveva già chiarito Julius Ficker, che, pro-
prio attorno alla metà del XII secolo, mentre « si assisteva alla nascita
della scienza penalistica con una sempre maggiore individuazione degli

18 Calisse, Storia del diritto, p. 106. Leicht, Storia del diritto, I, pp. 25-26.
19 Ghisalberti, La condanna al bando.
20 A questa confusione ha contribuito la sovrapposizione tra la contrapposizione

procedura/pena e la contrapposizione origine germanica/origine romana del bando. Alla


linea Pertile-Calisse-Leicht-Ghisalberti, che ha connotato il bando come una procedura
di ispirazione germanica, si è opposto Desiderio Cavalca (Cavalca, Il bando) sostenen-
do che questi storici del diritto non avevano considerat che anche nel mondo romano
esistevano pratiche come la aquae et ignis interdictio, poi sviluppata come deportatio,
che presentavano le caratteristiche dell’esclusione dalla comunità e del coinvolgimento
dei privati nella persecuzione del reo.
21 Pur essendo riuscito a fornire, attraverso l’analisi degli statuti, un’immagine vi-

vida delle pratiche di esclusione medievale, al momento di scegliere una definizione di


riferimento, Cavalca, Il bando ha di fatto deciso di prendere in considerazione pro-
grammaticamente una sola delle accezioni del bando contemplate dal pensiero medie-
vale, quella di pena dell’esilio. In questo modo si è ritrovato con una definizione
incapace di spiegare alcuni tra gli aspetti più salienti del bando giudiziario come la sua
reversibilità.
Rispetto agli studi precedenti, basati sulla trattatistica dottrinale e gli statuti, la
ricerca di Peter Raymond Pazzaglini, The Communal ban, frutto di uno spoglio dei
registri giudiziari duecenteschi del comune di Siena, ha rappresentato un’importante
novità mostrando la normalità del ricorso al bando da parte dei regimi comunali e la
natura ad un tempo punitiva, preventiva e coercitiva del bando. Ciò non toglie che
anche Pazzaglini sia caduto nella stessa contraddizione di Cavalca. Pur definendo nella
sua introduzione il bando solo ed esclusivamente nei termini di una ejectio a civitate,
cioè, in sostanza di una pena dell’esilio, è proprio nella sua opera che vengono forniti
gli elementi che portano a giudicare tale definizione come insufficiente. Su questi temi
v. Milani, Prime note su disciplina e pratica del bando.

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LA COMPARSA DEL REATO POLITICO COMUNALE. LA GENERAZIONE DEL 1140 7

elementi di reato e alla definitiva prevalenza dell’autorità dell’ordina-


mento nella repressione dei fatti-reato » 22, i comuni, senza smettere di
usare l’esclusione in un senso « medicinale », cioè come sistema per ri-
stabilire l’equilibrio pacifico, cominciarono a servirsene anche in un’ac-
cezione « mortale », vale a dire come pena deterrente, definendo alcuni
fatti specifici come direttamente passibili di esclusione 23. Il breve dei
consoli di Genova mostra bene quali potessero essere questi fatti speci-
fici. L’allontanamento dalla città è stabilito per coloro che si fossero
macchiati di un omicidio volontario (oltre che per quanti si fossero
trovati a soccombere nel corso di un duello giudiziario originato da
un’accusa di omicidio) 24. Sempre a Genova, nel 1139, i consoli avevano
deliberato che i falsificatori della moneta comunale sarebbero stati pu-
niti con il taglio della mano, la confisca dei beni e l’esilio perpetuo25.

22 Diurni, Pena criminale, p. 762.


23 La coesistenza tra queste due definizioni durerà a lungo. Spetta a Massimo
Vallerani il merito di averla nuovamente esplicitata: « L’exbannimentum è un atto inter-
medio della procedura, e non va confuso con il bando/esilio di natura politica, che in
senso stretto è una pena » (Vallerani, Il sistema giudiziario del comune di Perugia, p.
28). E anche: Il bando resta comunque una condizione transitoria, eccetto i casi di
bandi mortali [tra i quali talvolta rientrano quelli politici. N.d. R.], nei quali il confine
tra bando e condanna si riduce fino a scomparire: il reo infatti non solo può essere
ucciso impunemente, ma in caso di cattura sarà comunque giustiziato » (Vallerani, L’am-
ministrazione della giustizia a Bologna, p. 309).
24 Codice diplomatico della Repubblica di Genova, p. 155: « Si aliquis homo vel

femina specialiter et meditative in homine nostre Compagne homicidium fecerit. vel in


illis qui non fuerint vocati, vel quos cognoverimus non esse utiles intrare in nostram
Compagnam, vel in clerico sive in minore qui habitant in nostra Compagna. homici-
dam illum exiliabimus bona fide. et omnia bona illius que invenire poterimus diripie-
mus. Et devastabimus. [...] ». E, a p. 156 (a proposito degli omicidi occulti, dei quali
non si conosce il colpevole, dopo una serie di indicazioni procedurali): « [...] si autem
ille cui crimen opponitur per bataliam se defendere noluerit, tamquam de homicidio
palam facto penam sustineat. si vero ille qui incriminatus fuerit, mundus de ea pugna
exierit. ille qui crimen obiecit. penam homicidii paciatur. et personam illius qui victus
fuerit in laude nostra exiliabimus [...] ».
25 Codice diplomatico della Repubblica di Genova, p. 115-116: « [...] si ego invenero

ullum hominem testibus qui sint recipendi ad tam magnum crimen vel sua confessione
qui falset monetam ianuensem vel qui eam falsatam habeat, aut qui eam falsare faciat,
vel qui eam falsari consentiat, vel cuius consilio, falsetur, omnes res suas mobiles et im-
mobiles comuni Ianue laudabo et res eius quas invenero, ita quod eas capere possim,
capiam ad comune Ianue et amplius ei non reddam nec ulli alteri persone pro eo. si
enim personam eius habere potero manum eius obtruncare faciam atque in parlamento
publice laudabo ut eius persona perpetim exilietur [...] ». È interessante notare che come
nel caso bolognese è l’assemblea (qui parlamentum) a ratificare questa pena.

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8 GIULIANO MILANI

Come è facile notare con l’esclusione si perseguivano azioni che mette-


vano in dubbio quella medesima iurisdictio del comune sottintesa dalla
pratica del bando giudiziario. Nella logica dei consoli genovesi, gli omi-
cidi volontari si arrogavano il diritto di farsi giustizia da sé, privando il
comune di un monopolio, così come, in tutt’altra sfera, i falsari. In
questo non erano diversi da quanti, secondo i consoli pistoiesi, indebo-
livano quello stesso monopolio rifiutando la pace o alla sottraendosi al
giudizio. Ma il fatto che a Genova si potesse procedere direttamente
nei loro confronti, senza aspettare (come avveniva ancora a Pistoia) che
i rei rifiutassero di sottoporsi alle pratiche conciliative o processuali
previste dall’ordinamento, testimonia un importante momento nel pro-
cesso di istituzionalizzazione della sanzione: il passaggio da una situa-
zione in cui il comune reagiva tramite l’esclusione a un comportamento
che veniva in questo modo condannato 26 a una in cui agiva mediante
la minaccia dell’esclusione per costringere i cittadini all’osservanza di
alcune norme 27.
Anche così la sanzione giuridica dell’esclusione continuava a tutelare
un interesse pubblico (quello della pacifica convivenza dei cives), e non
l’esistenza di un ente particolare, il comune 28. Lo dimostra il fatto che
nei brevi consolari di quest’epoca la pena dell’esclusione dalla città non
è mai prevista per i delitti che colpivano direttamente il comune e che
oggi definiamo politici (sovversione, tradimento, sommossa). Il primo
editore del breve dei consoli genovesi, l’abate Raggio, che lo consegnò
alle stampe degli Historiae Patriae Monumenta alla fine dell’Ottocento,
scriveva nell’introduzione: « in questo breve assai volte non tanto son
notabili le cose che ci sono, quanto quelle che non ci sono. E qui
singolarmente che non si faccia menzione alcuna dei delitti d’alto tradi-
mento o di fellonia è notabilissimo. Traditori della patria » – conclude-
va – « non ebbe né si pensò potesse averne Genova nel secolo XII » 29.
In realtà, come mostra il Codice diplomatico della Repubblica di Genova,
l’abate Raggio si sbagliava. Anche nel XII secolo vi furono traditori
della patria: persone che giurarono fedeltà a potenze straniere, renitenti
alla leva e altro. Essi però non vennero colpiti con la pena dell’esclu-
sione dalla città, ma con la privazione dagli uffici publici. Nel Liber
iurium genovese un decreto consolare del 1145 stabilisce che se un

26 Si parafrasa Radcliffe-Brown, Social Sanction, p. 187.


27 Si parafrasa Weber, Economia e Società, II, p. 680.
28 D’Agostino, Sanzione (teoria generale), p. 315.
29 Leges Municipales, vol. II, col. 273.

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LA COMPARSA DEL REATO POLITICO COMUNALE. LA GENERAZIONE DEL 1140 9

genovese si fa vassallo di una persona privata non potrà ricoprire inca-


richi a Genova 30. Nel 1147 questo provvedimento fu adottato nei con-
fronti del console Filippo di Lamberto, in seguito graziato 31. Lo stesso
anno i consoli del comune privarono dei diritti politici quanti si erano
assentati da Genova per non prendere parte alla guerra. Nel 1154 per
lo stesso comportamento si previde l’arresto e la confisca dei beni, ma
non l’esilio 32. Il breve di Pistoia conferma questa impressione: chi pro-
voca tumulti a danno della città, come ha fatto un certo Paris 33, deve
essere privato dell’accesso alle cariche pubbliche.
Le fonti più antiche della normativa comunale mostrano, dunque,
che a questa altezza cronologica, l’esclusione colpisce chi mette in dub-
bio la giurisdizione del comune, l’organismo politico, che per quanto
provvisoriamente o senza una tradizione stabile alle proprie spalle 34,
afferma di voler garantire la convivenza all’interno delle mura cittadine
e di stabilire chi merita la qualifica di civis. Quando ad essere minata
non è la iurisdictio, ma, direi quella componente dell’autorità che gli
scienziati politici definiscono l’« appoggio », e cioè il sostegno volontario
e attivo a una linea di governo 35, la sanzione consiste nella perdita del

30 Codice diplomatico della Repubblica di Genova, p. 182.


31 Codice diplomatico della Repubblica di Genova, p. 224.
32 Codice diplomatico della Repubblica di Genova, p. 299.
33 Statuti pistoiesi del secolo XII, p. 164.
34 Chris Wickham sulla base della documentazione giudiziaria italiana (Id. Justice

in the Kingdom of Italy, pp. 249 e ss. ha messo l’accento sulla carenza di legittimità
dei comuni nell’età precedente allo scontro con Federico Barbarossa. Lo stesso autore
aveva svolto considerazioni simili a partire dalle fonti narrative, in particolare genovesi,
in The Sense of the Past, p. 189.
35 La politologia ci viene in soccorso quando distingue nell’autorità due compo-

nenti principali: l’obbedienza e l’appoggio. Il primo termine, secondo alcuni studiosi,


designa la capacità di un regime di indurre i suoi sudditi nominali a comportarsi come
sudditi effettivi, rispettando quotidianamente le regole; il secondo designa la durevole e
diffusa base di adesione volontaria, in altre parole, il sostegno dei cittadini, visibile ad
esempio (ma non solo) in un momento di crisi come una guerra. Sulla base di questa
distinzione è possibile separare, da un lato, alcune leggi ordinarie che rientrano nella
sfera dell’obbedienza, la cui violazione è considerata antisociale ed è punita, ma in
modo diverso da quello che oggi definiamo come un crimine contro lo Stato, e alcune
regole politiche che proteggono l’appoggio, la cui violazione è considerata sovversiva e
punita appunto come un crimine contro lo Stato. Non si tratta di una distinzione
assoluta, dal momento che, come gli stessi studiosi fanno notare, il potere di decidere
quali forme di disobbedienza colpiscono l’appoggio, e dunque sono sovversive, spetta
al regime stesso (Rose, Tendenze dinamiche nell’autorità, p. 237-238). Essa è tuttavia
utile poiché permette di distinguere in maniera più precisa quei comportamenti che

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10 GIULIANO MILANI

diritto di accedere alle istituzioni, ma non di rimanere in città o di far


parte della cittadinanza. Evidentemente l’appoggio è ancora percepito
come meno bisognoso di una protezione straordinaria.

3. Il nuovo reato politico: l’impero e i comuni

L’arrivo di Federico Barbarossa in Italia innescò una generale rifles-


sione sulla natura della iurisdictio e quindi sul potere di escludere i
propri nemici che ebbe l’effetto di lasciare numerose testimonianze scrit-
te 36. Nel costitutum pacis di Roncaglia del 1158, a cui volle conferire
un valore quanto più possibile generale, l’imperatore tentò di definire il
potere di esclusione dell’impero, quello dei comuni e la loro relazione
reciproca. Prima e dopo la stipulazione di questa pace territoriale, Fe-
derico rilasciò numerosi diplomi particolari alle città che gliene fecero
richiesta, in cui apparivano clausole sui nemici interni. I comuni, dal
canto loro, confederandosi nella Lega lombarda, provvidero alla stipula
di una serie di patti intercittadini, anch’essi comportanti clausole che
riguardavano i nemici interni. A partire dagli anni Sessanta del XII
secolo, quando lo scontro cominciò a farsi diretto, sia l’impero sia i
comuni giunsero a configurare un reato politico che, a differenza di
quanto era avvenuto in precedenza, usava la pena dell’esclusione per

anche oggi qualificheremmo come reati politici da altre azioni che oggi non definirem-
mo normalmente come tali, e che tuttavia, come si è cercato di chiarire, costituivano
nelle città italiane del secolo XII comportamenti percepiti come lesivi dell’essenza del
potere comunale, cioè della iurisdictio.
36 Sull’importanza dello scontro con Federico I e della formazione della Lega Lom-

barda per l’evoluzione dei regimi comunali italiani ha insistito più volte Renato Bordo-
ne: V. Bordone, La società cittadina, pp. 130-141; Id., L’influenza culturale e istituziona-
le e Id., I comuni italiani nella prima Lega Lombarda, e infine Id., La Lombardia
nell’età di Federico I, pp. 387-426. Sulle città italiane nell’epoca di Federico I è neces-
sario fare riferimento soprattutto agli interventi contenuti negli atti di quattro grandi
convegni: Popolo e Stato in Italia nell’età di Federico Barbarossa, in particolare i saggi
di Marongiu, La concezione imperiale, Tabacco, La costituzione del regno italico; Brezzi,
Gli uomini che hanno creato la Lega, Vismara, Struttura e istituzioni, Manselli, La gran-
de Feudalità; Fasoli, La politica di Federico Barbarossa dopo Costanza. In secondo luogo
I problemi della cività comunale, in part.: Cristiani, Le alternanze. In terzo luogo Fede-
rico Barbarossa nel dibattito Storiografico (in particolare i saggi Fasoli, Aspirazioni citta-
dine, Brezzi, Gli alleati Italiani). Infine, Federico I Barbarossa e l’Italia, in particolare i
saggi Engels, Federico Barbarossa e l’Italia nella storiografia più recente, Tabacco, I rap-
porti tra Federico Barbarossa e l’aristocrazia; Oppl, La politica cittadina; Bordone, L’am-
ministrazione del regno d’Italia.

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LA COMPARSA DEL REATO POLITICO COMUNALE. LA GENERAZIONE DEL 1140 11

colpire coloro che avevano minacciato l’appoggio alla linea di governo.


In entrambi i casi, l’evoluzione fu il frutto dell’introduzione di strumen-
ti giuridici che si vennero a combinare con quelli già esistenti: rispetti-
vamente, il bando imperiale e la pena dell’esclusione.
Prima di Federico I la parola bannum aveva indicato, oltre a un
generico ordine del re o del signore, la pena prevista per l’eventuale
infrazione di una sentenza giudiziaria. Nella documentazione pubblica
del XII secolo a questo significato se ne aggiunse un altro. Bannum
non comparve più solo nel significato di minaccia potenziale contro chi
aveva leso i diritti stabiliti da una sentenza dell’imperatore, ma anche
in quello di pena emanata contro chi aveva già disubbidito a un ordine
imperiale. In questa nuova accezione il bannum comportava la perdita,
provvisoria o definitiva, di alcuni diritti fondamentali, come quello di
chiedere all’imperatore giustizia per un danno subìto nella persona o
negli averi. In Germania per riferirsi a questa « caduta in disgrazia »
presso l’imperatore che colpiva chi rifiutava una procedura regia volta
a stabilire la pace, si usò il termine Acht. In Italia le stesse autorità,
cioè il sovrano e i suoi legati, privilegiarono appunto la parola ban-
num 37. Federico I, com’è noto, fece frequente ricorso a questo stru-
mento nei primi diplomi che emanò contro i comuni durante le sue
spedizioni. Nel settembre 1155, scrivendo ai cremonesi, dichiarò di aver
emanato un « bannum imperiale » nei confronti dei milanesi, che aveva-
no abusato della sua pazienza non rispondendo alle numerose citazio-
ni 38. Collegò così il bando alla mancata risposta alla citazione, e ne
specificò le conseguenze penali: la privazione dei diritti di moneta, fi-
scali, di giurisdizione e di quelli derivati da ogni altra regalìa. A giudi-
care dalla costituzione Regalia sunt hec, tra questi diritti vi era anche la
possibilità per i comuni di imporre il pagamento di multe e di seque-
strare i beni dei condannati e dei banditi (« proscripti » secondo il lin-

37 Per questa evoluzione la trattazione più sistematica resta quella in Ficker, For-
schungen, pp. 45; 62-74.
38 Friderici I Diplomata, I, p. 203: « Imperialis excellentia nichil magis proprium

habere debet, quam ut contumaces iusta severitate puniat, humiles vero et Romano
imperio devotos consueta benignitate pro[veat et honoret]. Huius itaque rationis intui-
tu Medilanenses ob immania eorum scelera á nostra gratia penitus removimus et, quia
ausu temerario et spiritu sacrilego preclares Ytalie civitates Cumas et Laudam sua iniu-
sta potestate impiissime destruxerunt et eas relevari violenter prohibuerunt, [cum se-
pius] solemnibus edictis ad nostram presentiam citati de iusticia diffidentes se absenta-
re presumerent, pro tantis excessibus dictante iusticia ex sententia principum nostro-
rum imperiali banno eos subiecimus ». V. anche Friderici I Diplomata, I, p. 204.

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12 GIULIANO MILANI

guaggio classicheggiante dei maestri bolognesi) 39. Nel 1158 a Roncaglia,


con la costituzione omnis iurisdictio, Federico decretò che tutte le azio-
ni di questo tipo erano di spettanza del principe e che tutti i giudici
avrebbero dovuto ricevere dal principe il diritto di bannum e prestare
un giuramento secondo il tenore della legge 40.
A Roncaglia l’imperatore non provvide solamente a definire gli iuria
regalia spettanti all’impero, ma cercò, con la costitutio pacis, di procla-
mare una pace territoriale generale che lo vedeva come supremo garan-
te della soluzione dei conflitti interni al regno d’Italia. In quella occa-
sione stabilì il sequestro dei beni, la distruzione delle case e la « perdita
della pace » (cioè la fine della possibilità di accedere a un tribunale e
denunciare danni nella persona o nell’avere) per chi non avesse giurato
e mantenuto quanto pattuito. Allo stesso fine invocò l’applicazione del-
le sanzioni ecclesiastiche contando sull’appoggio di un pontefice ancora
non schierato contro di lui 41. Nello stesso testo, infine, egli fece riferi-
mento alla pena dell’esclusione temporanea per rinforzare la giurisdizio-
ne dei poteri a lui sottoposti: nel caso in cui un giudice o un magistra-
to non avesse fatto giustizia e si fosse trovato nella condizione di non
poter pagare la multa stabilita per l’inadempienza, avrebbe dovuto subi-
re la flagellazione e abitare per cinque anni a una distanza di cinquanta
miglia dal proprio luogo di residenza 42. Le sanzioni connesse alla perdi-
ta della pace e la pena dell’esclusione furono dunque applicate dall’im-
peratore nel momento in cui egli volle presentarsi come potere territo-
riale stabile e presente.
Sempre nel 1158, nel quadro della generale riconciliazione sottesa
dal constitutum pacis Federico concesse ai Milanesi di rientrare nella

39 La costituzione fu pubblicata in Colorni, Le tre leggi perdute di Roncaglia, ma


si può legere anche in Friderici I Diplomata, II, p. 29: « Regalia sunt hec: [...] mulcta-
rum penarumque compendia, bona vacantia, et que indignis legibus auferuntur, nisi
que spetialiter quibusdam conceduntur, et bona contrahentium incestas nuptias et dam-
natorum et proscriptorum, secundum quod in novis costitutionibus cavetur, [...] et
bona commitentium crimen maiestatis [...] ».
40 Proprio nel senso di bannum Finsterwalder, Die Gesetze des Reichstag von Ron-

calia interpretò l’espressione « administratio » presente nella legge Omnis iurisdictio.


41 Friderici I Diplomata, II, p. 34: « Preterea bona eius publicentur et domus de-

struantur qui pacem iurare et tenere noluerit et lege pacis non fruatur ».
42 Friderici I Diplomata, II, p. 33: « Qui vero ad predictam penam [= la sanzione

pecuniaria] persolvendam inopia dinoscitur laborare, sui corporis coercionem cum ver-
beribus patiatur et procul ab eo loco, quem inhabitat, L miliaria per quinquennium
vitam agat ».

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LA COMPARSA DEL REATO POLITICO COMUNALE. LA GENERAZIONE DEL 1140 13

sua grazia ed essere assolti dal bannum pagando una multa 43. Ma nel
1159 emanò un nuovo bannum contro cremesi, milanesi e bresciani,
affermando che costoro e quanti altri si trovavano a Crema a combat-
terlo erano stati ufficialmente dichiarati « hostes imperii » e per questo
privati di feudi e allodi, e che le loro persone, come le loro cose,
erano state publicatae, cioè « sequestrate » 44. L’atto costituiva un passo
ulteriore rispetto a quanto stabilito a Roncaglia: chi fosse stato giudica-
to nemico dell’imperatore avrebbe subìto per questo stesso fatto le pene
legate alla rottura della pace 45. Si trattava di un’acquisizione destinata a
durare, creando un nuovo tipo di crimine politico in cui disobbidienza
all’ordine imperiale, perdita della pace connessa all’impossibilità di ac-
cedere alla giustizia imperiale e all’allontanamento dalla città di residen-
za, e qualifica di hostis imperii venivano di fatto a coincidere. Fu in
questa accezione che il bando imperiale fu citato posteriormente alla
distruzione di Milano, per esempio quando Federico minacciò di ban-
num, della qualifica di nemico dell’impero e del sequestro dei beni,
chiunque – città o singolo individuo che fosse – avesse molestato i
pisani 46, e lo stesso fece, due anni dopo, con i potenziali nemici degli

43 Friderici I Diplomata, II, p. 10: « Hoc pacto et ordine domnus imperator Me-

diolanenses et Cremonenses cum CXX marcarum emendatione in gratiam suam reci-


piet et eos et amicos eorum in plena curia publice a banno absolvet [...] ».
44 Friderici I Diplomata, II, p. 94: Eapropter, cum ob rebellionem Cremensium

ipsum Castrum Creme obsedissimus et cum principibus nostri die quadam sub papilio-
ne ducis Henrici nepotis nostri consedissemus, consilio et iuditio principum nostrorum
et omnium Lombardorum, qui nobiscum aderant, ipsos Cremenses hostes imperii iudi-
cavimus et de ipsis talem legem promulgavimus: Quoniam Crema et omnes Cremenses
sub nostro sunt banno positi, statuimus et imperiali auctoritate nostra confirmamus, ut
omnes tam Cremenses quam Mediolanenses seu Brixienses sive cetere undecumque sint
persone, que in tempore hoc in Crema sunt, tam feudum quam etiam allodium totum
amittant et feudum ad dominos revertatur et domini liberam amodo habeant potesta-
tem feodum intromittendi nostra auctoritate ac tenendi et quiete possidendi. Nos enim
et personas eorum et bona publicavimus.
45 Altri diplomi mostrano come i possessi dei banditi cremaschi e milanesi vennero

utilizzati da Federico per ricompensare i suoi alleati Friderici I Diplomata, II, p. 99: « Quo-
niam bona Cremensium et omnium eorum qui sunt in Crema tempore huius obsidionis,
veluti imperii hostium publicavimus et nostri commodis assignavimus... »; p. 100: « Pre-
terea quia Mediolanenses imperii nostri similiter hostes adiudicavimus et in banno pos-
suimus, licet generaliter omnium illorum bona publicavissemus... »; p. 104: « Pretera quo-
niam Mediolanenses hostes imperii iudicati sunt et bona eorum publicata... ».
46 Friderici I Diplomata, II, p. 204: « vobis promittimus et constanter teneatis quod,

si aliqua civitas vel persona interim, dum pro honore imperii werram habueritis vel
expeditionem feceritis, aliquam iniuriam vobis intulerit vel in aliquo vos offenderit, nos

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14 GIULIANO MILANI

astigiani 47. Nel 1162 quando Federico sottomise Piacenza, introdusse


nel patto di soggezione un capitolo secondo il quale se un cittadino
piacentino e i suoi complici non si fossero presentati in giudizio per
rispondere di un omicidio, avrebbero subìto il bannum imperiale, meri-
tato la qualifica di nemici dell’impero, comportante la confisca dei beni
e l’allontanamento dalla città e dal distretto diocesano 48.

Fu a partire da allora che anche i comuni impegnati nella forma-


zione della Lega Lombarda cominciarono ad allestire una nuova im-
magine del reato politico. Pur presentando alcuni punti di contatto,
l’attrezzatura giuridica a cui i comuni uniti nell’allenza facevano ricor-
so era diversa da quella dell’imperatore. Il nuovo reato fu in primo
luogo influenzato dal contesto dell’alleanza stessa, dal patto giurato
che prevedeva sanzioni per la sua rottura. Il potere di emanare tali
sanzioni, però, non fu acquisito dai rettori della Lega, ma rimase alle
singole città, anzi a quelle assemblee plenarie di cittadini che, come si
è visto dalla sentenza bolognese del 1149, detenevano anche in prece-
denza il diritto di ratificare la pena dell’esclusione. Tale pena fu dun-
que il modello che i comuni della Lega assunsero per punire la dissi-
denza filoimperiale.
In quest’ottica può essere letta per esempio la sanctio finale del
patto stipulato il 4 aprile del 1167 tra Milano, Bergamo e Cremona,
alla vigilia della formazione della Lega. I milanesi si impegnarono a
non riedificare castelli nei territori di Cremona e Bergamo, a non im-
porre negli stessi confini alcun tributo, a conquistare il castello di Trez-
zo e a distruggerlo senza timore dell’imperatore, nonché ad adoprarsi
perche fosse stipulata la pace tra i signori Landolfo e Lanfranco da
una parte e gli uomini di Garzago dall’altra. Per rafforzare quest’ultimo
punto i milanesi si impegnarono a espellere dalla propria giurisdizione

ipsam civitatem vel personam in banno nostro statim ponemus et sicut hostem imperii
publicabimus ».
47 Friderici I Diplomata, II, p 374: « Si quis igitur prefatos Astenses in hac conces-

sione nostra molestare vel inquietare presumpserit, offensam nostram incuret gravissime
et persona et possessione banni imperialis pene subiacebit ».
48 Friderici I Diplomata, II, p 213: « Si Amizo Sacco Amizonem Bataliam vel ali-

quos alios appellaverit de morte filiorum suorum et illi ad curiam venire noluerint
facturi et recepturi iusticiam, erunt in banno domini imperatoris et Placentini eos ei-
cient extra civitatem et episcopatum eorum et persequentur eos tamquam hostes et
omnia bona eorum mobilia et inmobilia fisco applicabuntur ». Per le implicazioni del
bando imperiale e per il sequestro dei beni v. oltre.

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LA COMPARSA DEL REATO POLITICO COMUNALE. LA GENERAZIONE DEL 1140 15

chi non avesse voluto stipulare quella tregua 49. Il passo attesta il ricor-
so alla pena dell’allontanamento fisico dalla città e dal suo contado
come risposta alla rottura di una tregua, secondo una logica simile a
quella dei brevi genovesi e pistoiesi. Fu dunque naturale che l’esclusio-
ne fosse richiamata anche nel momento in cui il patto in oggetto co-
minciò a essere l’alleanza contro Federico.
Nel maggio del 1167, momentanemente libera dalla presenza dei
legati imperiali, Piacenza chiese ai cremonesi di impegnarsi a interveni-
re militarmente nel caso Federico si fosse ripresentato nel contado 50. Il
primo dicembre, nel patto che riunificava le alleanze lombarde con
quelle, precedenti, della Marca, nonché con Venezia e Ferrara, si definì
per la prima volta proditor chi fosse venuto meno alla concordia giura-
ta, e si decretò che chi fosse giunto a conoscenza di atti di proditio li
avrebbe dovuti denunciare al più presto al consiglio o all’assemblea del
proprio comune 51. Si trattava di una prima generalizzazione che defini-
va la dissidenza filoimperiale come un grave tradimento dovuto alla
rottura di un trattato di pace, apparentemente senza stabilire una pena
specifica. Che tuttavia nei fatti tale pena consistesse nel sequestro e
nella distruzione dei beni dei dissenzienti che avevano abbandonato
– si direbbe volontariamente – la città, escludendosi dal suo spazio
giurisdizionale, lo mostra con ogni evidenza il più antico breve piacen-
tino. Proprio nel 1167 i consoli di Piacenza inclusero nel giuramento
che erano tenuti a pronunciare in occasione dell’entrata in carica un
capitolo nuovo. Essi si impegnarono a sequestrare a nome del comu-
ne tutti i redditi in natura e in denaro ricavabili dai possessi di « co-
loro che erano usciti da Piacenza e che appartenevano alla parte del-
l’imperatore », e a non riedificarne i beni danneggiati, fatto salvo per

49 Gli Atti del Comune di Milano, p. 76: « […] et illa persona que hanc finem
facere noluerit, ego expellam eum de mea civitate et comitatu, nec eum permittam ibi
habitare donec hanc finem non fecerit ».
50 Gli Atti del Comune di Milano, p. 82: « Et si imperator vel eius pars in

comitatu Placentino venire voluerit, Cremonenses et alie civitates, cum eis requisitum
fuerit a consulibus Placentie, vel litteris sigillo publico sigillatis, ad deffendendum
eum comitatum et civitatem comuniter venire debent, bona fide et sine fraude, et
moram ibi facere donec opus fuerit sine fraude; et Placentini aliis civitatibus similiter
facere debent ».
51 Gli Atti del Comune di Milano, p. 84: « Et non ero proditor alicuius supra-

scriptorum locorum vel alterius qui nobiscum fuerit in hac concordia. Et si scivero
aliquam personam que velit hoc facere, vel si quis me de hoc interpellavit, quam citius
potero in comuni conscilio vel in concione manifestabo ».

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16 GIULIANO MILANI

ciò che riguardava gli eventuali diritti e crediti vantati nei confronti
degli usciti 52.
Una volta formata, nel dicembre 1167, la Lega cominciò a estender-
si, coinvolgendo anche città che avevano manifestato più volte il pro-
prio appoggio all’imperatore. Nei patti che presero corpo da questi
ampliamenti il riferimento ai dissidenti si faceva tanto più necessario.
Fu così che nel 1168 il reato politico consistente nella rottura del patto
e la pena dell’esclusione confluirono insieme in un provvedimento do-
tato ormai di valore preventivo. Il giuramento prestato a Lodi il 3
maggio 1168 stabilì che le città collegate (e il marchese Obizzo Mala-
spina) avrebbero dovuto espellere dai territori sottoposti alla propria
giurisdizione (virtus) chiunque avessero dichiarato proditor, e che nessu-
na altra città avrebbe dovuto accogliere scientemente l’escluso. Se l’avesse
accolto, entro i quindici giorni decorrenti da quando gliene era stata
fatta richiesta dai consoli della città del proditor, avrebbe dovuto espel-
lerlo dal proprio territorio e non riammetercelo più 53. Dunque, pur
trattandosi di una decisione presa collegialmente dai rectores della Lega,
la giurisdizione in materia di nemici politici resto ancora alle magistra-
ture fino a quel momento responsabili del mantenimento della pace,
ora anche del mantenimento dell’allenza. Significativa della continuità
tra questi due impegni risulta la presenza dell’espressione ut supra, che
non può che riferirsi a un precedente capitolo del giuramento che trat-
tava, con disposizioni identiche, la materia dei banditi. Poche righe so-
pra il passo citato si legge infatti che nessuna città (o il marchese)
avrebbero dovuto accogliere chi era stato bandito. Nel caso lo avessero
fatto, lo avrebbero dovuto scacciare entro quindici giorni dalla richiesta
dei consoli della città che lo aveva esclusoe non riammetterlo in futuro,
a meno che il bando non fosse stato revocato dagli stessi magistrati che
lo avevano emesso 54. Con ogni probabilità i rettori della Lega inten-

52 Il giuramento è pubblicato in Solmi, Le leggi più antiche del comune di Piacen-

za, p. 63: « Et omnes fructus redditusque possessionum illorum qui Placentiam exie-
runt et ex parte imperatoris sunt, colligere faciam et in comuni mittam, vel eas guastas
manere faciam, salvo eo quod pro isto sacramento non cogas alicui domino vel credi-
tori eorum contra rationem facere ».
53 Gli Atti del Comune di Milano, p. 95: « Illum quoque quem aliqua civitatum

vel marchio de sua terra proditorem decreverit, nec ipsa civitas vel marchio de cetero
teneat in sua virtute, nec alia eum sciens recipiat, et si receperit, infra .xv. dies po-
stquam ei requisitum fuerit a consulibus illius civitatis cuius proditor fuerat ut supra
inventus, de sua virtute de cetero eum non recepturus expellet ».
54 Gli Atti del Comune di Milano, p. 94: « Item decreverunt ut nulla civitas vel

suprascriptus marchio aliquem a suis consulibus bannitum recipiat, et si receperit vel

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LA COMPARSA DEL REATO POLITICO COMUNALE. LA GENERAZIONE DEL 1140 17

devano rifersirsi a due categorie di persone: sia a quanti erano stati


colpiti dalla pena del bando, cioè agli esiliati, sia ai contumaci posti
nella condizione di provvisoria privazione dei diritti di cittadinanza.
Quando si presentò la necessità di far fronte alla ribellione dei filoim-
periali i comuni fecero quindi ricorso a una pratica già consolidatasi in
due diverse forme, il bando, piegandola a una terza esigenza, di carat-
tere squisitamente politico.
Si trattava di un punto d’arrivo importante. Anche perché, come
mostra la documentazione piacentina, i princìpi della Lega erano siste-
maticamente applicati nelle singole città confederate. Questi documenti
e i patti che i comuni della Lega continuarono a siglare negli anni
successivi al 1170 ci consentono di cogliere altri due punti interessanti:
la forte cautela formale manifestata dai comuni nel qualificare i propri
nemici politici, e il fatto che, nonostante questa cautela, i comuni con-
tinuarono nella strada intrapresa, quella di qualificare come nemico non
più solo chi si sottraeva ai percorsi conciliativi decretati dalla comunità,
ma anche chi minacciava il sostegno al governo cittadino, non condivi-
dendone le scelte politiche e militari. Ma, nel contesto delle relazioni
gerarchiche stabilite a Roncaglia, che legavano i comuni all’impero, af-
fermare l’esistenza di un crimine di tradimento mosso nei confronti
dell’autorità del comune, in quel momento tanto contestata dall’impera-
tore, fonte del diritto, costituiva un atto giuridicamente illegittimo. De-
finire il comune come l’oggetto di una proditio passibile di punizione
significava presentarlo come autorità dotata di un potere maggiore di
quello che la maggior parte dei giuristi dell’epoca potevano accettare.
Gli istituti della giustizia comunale potevano, come si è visto, fornire il
modello per la nuova esigenza, a patto che si mantenesse una connota-
zione straordinaria nella definizione del reato politico perpetrato nei
confronti del comune. Questa necessità di mantenersi in equilibrio tra
vigore e legittimità aiuta a comprendere perché nei documenti comuna-
li di quest’epoca si conservò sempre una distinzione formale tra banniti
comunis e proditores, mentre Federico non aveva esitato a sovrapporre
banniti e hostes imperii. L’insistenza sul termine proditor, usato da cro-
nache e documenti, ma completamente assente dai diplomi imperiali di
questi anni, e l’uso di circonlocuzioni come « illi qui sunt processi ad
imperatorem », visibile nel caso piacentino segnalano la volontà dei giu-

in suam virtutem venerit, infra .xv. dies postquam a consulibus vel marchione a quibus
bannitus fuerit eis requisitum fuerit, de sua potestate et virtute eum eicient, nec de
cetero recipient eum nisi de banno tractus fuerit a suis consulibus ».

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18 GIULIANO MILANI

risti comunali di giungere alla definizione del reato politico attraverso


un percorso più tortuoso e tuttavia più legittimo di quanto sarebbe
stato un semplice calco della terminologia imperiale.
A questo fine un contributo importante fu dato dallo stesso potere
pontificio. Con la bolla Non est dubium emanata nel marzo del 1170,
Alessandro III decretò che le città e i singoli uomini che avessero tra-
mato una coniuratio (lo stesso termine che era stato usato nel costitu-
tum pacis di Roncaglia) ai danni della Lega, sarebbero stati sottoposti
all’interdetto, che i loro fautori avrebbero subìto la scomunica, e che,
in caso di contumacia alle citazioni dei consoli delle città collegate,
l’arcivescovo di Milano e il Patriarca di Aquileia avrebbero potuto ema-
nare la più grave delle pene ecclesiastiche, l’anatema. Tali sanzioni, che
peraltro si fondavano su logiche simili a quelle del bannum, vennero
così ad affiancare la nuova giustizia politica comunale 55.
Quando nel 1170 entrò nell’alleanza anche Pavia, un altro comune
che aveva avuto rapporti stretti con l’imperatore, i suoi consoli dovette-
ro giurare, tra l’altro, di espellere dalla città e dai borghi coloro che
erano passati alla parte imperiale, di distruggere e far distruggere i loro
possedimenti e di non accogliere i banditi delle altre città 56. Anche in
questo caso, dunque, pur essendo giustapposti in un’endiadi che li con-
netteva in maniera più forte che in precedenza, nemici politici e bandi-
ti venivano tenuti formalmente distinti. Anche perché nel diritto roma-

55 Nel trattato del 24 ottobre del 1169 la Lega compì un ulteriore passaggio di-

chiarando che le persone che avessero aderito alla pars imperii sarebbero state cacciate
dalle città e dai territori, mentre i loro beni sarebbero stati distrutti. Questa norma fu
accompagnata da una serie di clausole preventive, relative a questo punto non solo ai
proditores, ma ai loro favoreggiatori. Si dichiarò che non era consentito stringere accor-
di segreti con l’imperatore, essere « spia vel guida ad dampnum nostre partis », inviare
lettere e ambasciatori o ricevere doni da Federico. Gli Atti del Comune di Milano, p.
99: « Et si aliqua civitas vel ulla persona societatis adheserit parti imperatoris Frederici,
ita quod sit contra hanc societatem nostram, ego bona fide operam dabo ad eum
expellendum de suo habitaculo et res eius deguastandas; nec ero ultra in consilio ut
receptus sit a nobis, nisi comuni consilio omnium rectorum civitatum vel maioris par-
tis; et si erit de mea civitate, bona fide operam dabo ut domus eius quam habuerit in
civitate destruatur et de civitate expellatur ».
56 Gli Atti del Comune di Milano, p. 115: « Et bona fide, sine fraude depellam

illos qui sunt processi ad imperatorem de civitate e de burgis, et de omnibus illis locis
in quibus virtutem habuero; et eorum bona destruam et destrui faciam, et milites et
pedites bandiçatos a sua civitate non recipiam in mea civitate, nec in illis locis in
quibus virtutem habuero, postquam requisitum fuerit a consulibus vel a sigillo publico
sue civitatis ».

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LA COMPARSA DEL REATO POLITICO COMUNALE. LA GENERAZIONE DEL 1140 19

no, che i giuristi comunali andavano riscoprendo, il bannum non esiste-


va affatto ed anzi, nel suo significato di misura attuata contro i contu-
maci, era in netto contrasto con il principio della non punibilità dell’as-
sente. Lo stesso principio che, sette anni dopo il patto con Pavia, gio-
cando sul significato della parola sententia, un giurista scaltrito come il
milanese Gerardo Cagapisto avrebbe invocato di fronte a Federico per
affermare che la condanna contro i milanesi emessa a Roncaglia non
aveva avuto nessun valore 57. Anche in virtù di questa incompatibilità
con il diritto romano, quando nel 1170 il giuramento dei consoli pia-
centini emanato tre anni prima contro i fuoriusciti filoimperiali fu rin-
novato con alcuni piccoli aggiornamenti, si continuò a evitare la parola
bannum. L’impegno al sequestro però fu esteso anche nei confronti di
coloro che avevano contatti con l’imperatore o i suoi legati, così come
era stato stabilito dal patto del 24 ottobre 1169. Saltò invece l’impegno
a mantenere le devastazioni, sostituito da un’allusione a eventuali frau-
des nei confronti di magne vel parve persone, che il console si impegna-
va a scongiurare 58.
Forse – ma si tratta soltanto di un ipotesi – il comune aveva inizia-
to a mettere a frutto i terreni sequestrati attraverso un sistema di con-
cessioni che aveva generato fenomeni di speculazione o di gestione in-
diretta da parte dei fuoriusciti. In ogni caso era avvenuto qualcosa che
aveva minato la communis hutilitas invocata nei brevi. Quella stessa
« utilità comune », si badi, che era stata citata in apertura ai primi patti
giurati dalla Lega. Il riferimento al sequestro dei beni, peraltro, trova
una corrispondenza in altre fonti coeve, che ci indicano che tale pratica
aveva un rilievo notevolissimo per le finanze cittadine. I frammenti di
un bilancio comunale piacentino mostrano che proprio nel 1170 il 42%
delle entrate annuali era dovuto a confische, riscossioni di multe e re-

57 L’argomento è riportato dalla cronaca di Romualdo Salernitano: « Quod autem

dixisti apud Roncaliam a Bononiensibus iudicibus contra nos sententiam fuisse prola-
tam, plane inficiamur, eam non fuisse sententiam, set imperatoriam iussionem. Cum
enim plures ex nobis, nec per contumaciam, fuissemus absentes, quidquid tunc contra
nos dictum fuit, nobis nocere non debet, nec pro sententia reputari; secundum leges
enim in absentes prolata sententia nullius est roboris vel valoris » (Romoaldi II. Archie-
piscopi salernitani Annales, p. 447).
58 Solmi, Le leggi più antiche del comune di Piacenza, p. 67: « Et omnes fru[ctus

redditusque possessionum illorum qui cum imperatore] ex Placentia exierunt et ex sua


parte aut cum eo vel cum eius nunciis adhuc sunt [colligere faciam et ad communem
huti]litatem eos mittam, [nec magne vel par]ve persone fraudem facere permittam,
salvo iure et ratione alicui eorum domini vel creditoris ».

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20 GIULIANO MILANI

cupero di crediti forzosi, a fronte di un 50% dovuto a colta e boacte-


ria, e di un misero 8% ricavato da dazi (6%) e imposte dirette (2%) 59.
È possibile che i sequestri a cui accenna il bilancio siano ascrivibili a
condanne politiche. Non vi sono prove dirette che il Bulioccus, condan-
nato a morte e al sequestro dei beni menzionato nel bilancio del 1170,
fosse tra i filoimperiali. Racine e Castignoli lo hanno identificato come
un eretico poiché la sua condanna a morte fu pronunciata da un eccle-
siastico 60. Ma, anche accettando questa spiegazione, il sospetto che la
sua condanna fosse in qualche modo legata alla lotta con l’imperatore
non svanisce del tutto. L’alleanza tra Alessandro III e i comuni di fron-
te al Barbarossa aveva portato a una certa sovrapposizione tra crimine
politico ed eresia, dal momento che l’appoggio all’imperatore, secondo
quanto prevedeva la bolla « Non est dubium », era passibile di scomu-
nica. Nello stesso 1170, quando a Milano si volle eternare la memoria
della lotta con l’imperatore nei bassorilievi che decoravano gli archi di
porta Romana, si scolpì, accanto alle immagini che ricordavano la di-
struzione della città e la sua ricostruzione, la cacciata degli ariani ad
opera di sant’Ambrogio 61. Questo stesso legame tra eresia e appoggio a
Federico I è testimoniato, nella Piacenza di questi anni, anche sul pia-
no degli individui. Colui che, come si vedrà tra breve, fu a Piacenza
uno dei leader della fazione filoimperiale, Ugo Speroni, avrebbe fonda-
to di lì a poco – con ogni probabilità in seguito a un suo ritiro dalla
politica attiva – una corrente ereticale basata sulla predestinazione, che,
pur non ottenendo molto successo, venne inclusa negli elenchi di eresie
fino all’inizio del Duecento 62.
Nel 1181-82 a Piacenza esisteva ancora un gruppo di fuoriusciti.
Come attesta il breve consolare, in quegli anni, oltre a pronunciare
l’usuale impegno a pubblicarne i beni, i consoli giurarono di non per-
mettere alle mogli e ai figli dei fuoriusciti filoimperiali di risiedere nel
distretto cittadino 63. Quest’aggiunta possiede un doppio valore: da un
lato permette di affermare che la pena emanata nei riguardi dei fuoriu-

59 Castignoli e Racine, Due documenti contabili del comune di Piacenza, pp. 50-54.
60 Castignoli e Racine, Due documenti contabili del comune di Piacenza, p. 53. Il
comune spende 23 soldi per pagare un sacerdos Sancti Leonardi per il suo iudicamentum.
61 Giulini, Memorie, VI, pp. 234-345.
62 Sullo « speronismo » v. da Milano, L’eresia di Ugo Speroni e Merlo, Eretici ed

eresie, pp. 63-67 con bibliografia.


63 Solmi, Le leggi più antiche del comune di Piacenza, p. 76: « Et uxores et filios

eorum qui de Placentia pro imperatore exierunt et in eius parte perseverant, in di-
stricto placentino per totum meum consolatum habitare non sinam ».

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LA COMPARSA DEL REATO POLITICO COMUNALE. LA GENERAZIONE DEL 1140 21

sciti era stata estesa ai loro familiari, dall’altro consente di ipotizzare


che a distanza ormai di quindici anni dall’allontanamento dei filoimpe-
riali, cominciassero a verificarsi i primi rientri, che il comune tentava di
arginare. La stessa esclusione dal territorio sottoposto alla giurisdizione
comunale che sino a una trentina di anni prima era stata usata per
mantenere la pace era divenuta un mezzo per vincere la guerra.

4. Espansione del potere comunale e dissidenza politica nel XII secolo

La ricostruzione prosopografica della dissidenza politica nella prima


età del Barbarossa è un lavoro che attende ancora di essere compiu-
to 64. Il pionieristico lavoro di Livia Fasola su Milano 65 e i contributi di
altri studiosi su Piacenza 66 costituiscono la base su cui condurre una
simile fatica. Da queste ricerche è possibile notare come in favore di
Federico I e contro il proprio comune si schierarono soprattutto, anche
se non esclusivamente, individui già in possesso di diritti che il comune
cercava di acquisire e che l’imperatore invece provvedeva (o avrebbe
potuto provvedere) a confermare. In questo senso la conflittualità inter-
na ai comuni del XII secolo si rivela nei termini di una concorrenza
politico-giurisdizionale tra comuni in espansione e titolari di residui giu-
risdizionali di tradizione pubblica.
Una celebre sentenza emanata nel 1154 dai consoli pisani per dis-
suadere i cittadini dal prestare aiuto ai membri ribelli della famiglia
Visconti consente di comprendere bene questo aspetto in una fase ap-
pena precedente agli anni dello scontro più intenso con il Barbarossa67.
I Visconti di Pisa a metà del XII secolo avevano perso quasi completa-
mente i propri poteri giurisdizionali, ma detenevano ancora i diritti con-
nessi all’ufficio di gastaldo da tempo unito a quello di visconte68. Come

64 Sulla scarsezza di informazioni sugli scontri interni alle città nell’età del Barba-

rossa mette l’accento Banti, Forme di governo personale.


65 Fasola, Una famiglia di sostenitori milanesi.
66 Güterbock, Alla vigilia della Lega Lombarda; Haverkamp, I rapporti di Piacenza

con l’autorità imperiale; Castignoli, Piacenza di fronte al Barbarossa.


67 Il documento già pubblicato in appendice a Statuti inediti di Pisa dal XII al

XIV secolo, è oradisponibile in I brevi dei consoli del comune di Pisa, pp. 117-119. Su
Pisa in questa fase v. AA.VV., Pisa nei secoli XI e XII, con ampia bibliografia.
68 L’ultimo atto in cui a Pisa è testimoniato il visconte nell’esercizio dei suoi pote-

ri è del 1116. Per questa notizia, Leicht, Visconti e comune a Pisa. Per alcune conside-
razioni comparative rispetto alle altre città in cui esistevano famiglie vicecomitali v.
Bordone, I visconti cittadini.

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22 GIULIANO MILANI

consorteria, occupavano posti nel consolato, e nel 1153 Alberto viceco-


mes major scese in guerra con i consoli per difendere ed accrescere i
propri poteri 69. L’anno successivo per ritorsione i consoli emanarono
un ordinamento, in cui, da un lato, rivendicavano al comune ogni dirit-
to già di pertinenza vicecomitale, dall’altro minacciavano i cittadini che
avessero appoggiato i Visconti.
Il documento è noto in quanto elenca, ai fini del sequestro e del
trasferimento al comune, i diritti già detenuti dalla famiglia (pedaggi,
dazio sulla pesa del ferro, sulla vendita del pane, del vino e dell’olio e
altro). Ma il decreto di acquisizione dei diritti tradizionalmente detenuti
dalla famiglia vicecomitale è solo uno dei punti in cui si articola l’ordi-
namento. Complessivamente risulta stabilito dai sette consoli in carica,
ratificato dal consiglio cittadino e infine approvato dalla contio plenaria
che, come a Bologna e altrove, riunisce tutti i capifamiglia, insomma
emanato dall’intero spettro delle istituzioni partecipative del comune
pisano. La disubbidienza al comune è definita come aiuto prestato alla
dissidente stirpe vicecomitale e come rifiuto di cedere la propria abita-
zione ai consoli al fine di combattere la guerra con gli stessi Visconti.
Concordemente a quanto risulta anche dai brevi di Genova e Pistoia
questo comportamento è punito non con l’allontamento fisico dalla cit-
tà, ma con la sottrazione di alcuni tra i fondamentali diritti di cittadi-
nanza: partecipazione al consolato e agli altri uffici comunali, tutela dei
diritti di proprietà (che vengono sequestrati e concessi ad altri cittadi-
ni), accesso alla giustizia comunale (che viene proibito, sotto pena di
cento soldi per il console che lo consentirà).
Prima della lotta con Federico I, l’unico documento che testimonia
un’esclusione politica in atto – non in potenza, come nella previsione dei
brevi consolari – è questo testo in cui il comune si trova ad affermare il
proprio potere rispetto a un’autorità tradizionale, quella vicecomitale,
privandola degli ultimi diritti pubblici in suo possesso. È dunque la crisi
aperta dalla lotta tra il comune e un’autorità concorrente a favorire la
redazione la conservazione di un documento relativo all’esclusione. Con
l’acuirsi dello scontro con l’imperatore, questa crisi sembra generalizzarsi:
anche nelle città in cui non esistevano più residui giurisdizionali l’impe-
ratore offrì a segmenti della cittadinanza e del ceto dirigente una possibi-
lità per presentarsi in posizione concorrenziale al comune.
Così a Piacenza il giudice imperiale Ugo Speroni, che aveva un
contenziono con il comune a proposito di alcuni diritti di passaggio, si
69 Pratesi, I Visconti.

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LA COMPARSA DEL REATO POLITICO COMUNALE. LA GENERAZIONE DEL 1140 23

schierò con l’imperatore 70. Ma nella stessa città l’imperatore seppe por-
tare dalla sua parte anche persone che non potevano vantare diritti
minacciati dal comune. Nel 1162, redigendo la concordia con cui la
città accettava di pagargli 6.000 marche d’argento, l’imperatore esentò
dal pagamento coloro, tra i piacentini, che lo avevano appoggiato du-
rante la guerra con la città o che erano tornati nelle sue grazie dopo
averlo combattuto, quanti insomma si erano schierati « in parte domini
imperatoris » 71. Una divisione interna al comune piacentino era dunque
già in atto nel momento in cui venne imposto alla città il podestà
tedesco Arnaldo di Darmstadt. Come hanno mostrato Güterbock e
Castagnoli, nel periodo 1162-1164, l’imperatore, nonostante la durezza
del suo magistrato, riuscì ad attirarsi nuovi favori nella cittadinanza pia-
centina. Non solo si prestarono a esercitare la giustizia per il podestà
imperiale individui che con ogni probabilità facevano già parte della
schiera dei suoi seguaci 72, ma, specialmente negli incarichi minori legati
alla riscossione delle imposte nella città e nel contado, trovarono posto
anche funzionari comunali (dazieri, ispettori, messi) non inseriti nel con-
solato 73. Nel 1163 i Piacentini furono costretti al pagamento di altre

70 Alcuni riscontri indiretti mostrano che tra i fuoriusciti piacentini dovevano trovar-
si almeno Oddo Novello, che aveva ricoperto la carica di console nel 1158 per poi eser-
citare l’ufficio di giudice imperiale nella corte di Federico I, e Ugo Speroni, anch’esso
giudice imperiale, formatosi allo studio di Bologna (Racine, Plaisance, II, p. 699). La bio-
grafia di quest’ultimo è ricostruita in Güterbock, Piacenza Beziehungen zu Barbarossa; pp.
64-89, e, con alcune puntualizzazioni, in Haverkamp, Herrschaftsformen der Frühstaufer,
pp. 532-536 e in Haverkamp, I rapporti di Piacenza con l’Impero, pp. 87-88 e 90-95.
71 Friderici I. Diplomata, II, p. 214 (n. 362).
72 Si trattava di domini loci come Alberto de Andito; uomini di legge e iudices

come Riccardo Sordo, Oddo Novello, Gerardo de Porta, Oberto Paucaterra de Fonta-
na, Alberto Speroni, Malus Nepos, Tedaldo de Roncoveteri, che già in passato avevano
ricoperto incarichi consolari. La collocazione nell’aristocrazia consolare è desumibile
dalla Chronica rectorum civitatis Placentie, coll. 611-613. Su questa fonte v. ora Bulla,
Famiglie dirigenti nella Piacenza del XII secolo.
73 È il caso di individui come Salvus de Carmiano, Guillelmus villanus, Villanus de

Homodeo, tutti esattori di pedaggi; Guido Airelde, che riscuoteva il « teloneo », e molti
altri. I nomi dei funzionari maggiori e minori impiegati negli anni del dominio del
Barbarossa sono ricavati da alcune pergamene della chiesa di S. Antonino relative a
un’inchiesta sulle vessazioni fiscali promossa in seguito all’abbandono della città da
parte del Barbavaria pubblicati in Güterbock, Alla vigilia della Lega Lombarda, pp. 65-
75. Castagnoli, Piacenza di fronte al Barbarossa, p. 130, leggendo questi nomi afferma
che il partito dei sostenitori del Barbarossa è formato da « uomini di legge, giudici,
mercanti, proprietari terrieri con castelli nel contado, e soprattutto la piccola borghesia
impiegatizia del comune: dazieri, ispettori fiscali, corrieri, messi ».

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24 GIULIANO MILANI

undicimila marche d’argento a titolo di risarcimento per l’usurpazione


di alcuni diritti. Cifre minori, ma comunque cospicue, vennero pagate
dalla città negli anni successivi. Questa pressione fiscale, che fece di
Piacenza la città che sostenne il massimo onere dell’impresa federiciana,
fu una ragione importante perché nel 1167 la città si schierasse con la
Lega Lombarda, facendo fuggire quanti tra i cittadini non approvarono
questa ulteriore svolta. Tra le motivazioni che condussero nel 1167 alla
uscita dalla città un gruppo di piacentini è possibile dunque annoverare
in primo luogo la presenza di interessi patrimoniali e giurisdizionali
tendenti a sovrapporsi con quelli, in via d’espansione, del comune. Ma
accanto a questo giocò un ruolo un’affinità latamente culturale con l’im-
pero, visibile nella presenza di iudices tra i seguaci di Federico e, non
ultima, la speranza, per altri ceti, di una possibile affermazione sociale
offerta dal rivolgimento causato dall’occupazione.
Ragioni simili sembrano aver giocato negli stessi anni a Milano. Come
ha mostrato Livia Fasola, nella metropoli lombarda, subito dopo la con-
clusione del primo assedio di Federico I, alcuni cittadini cominciarono
a esprimere in modi differenti il distacco dalla linea politica di resisten-
za all’imperatore che (sebbene in quel momento in maniera lievemente
attenuata) continuava a caratterizzare il comune 74. Alcuni si avvicinaro-
no alle città schierate con Federico 75. Si trattava di persone dotate di
differente prestigio sociale, ma accomunate dal rapporto con alcuni enti
ecclesiastici beneficiati da Federico (come il monastero di San Dionigi),
e soprattutto dal legame con il Seprio e la Martesana, zone di antica
tradizione indipendente, create distretto autonomo per decreto imperia-
le nel 1158. In seguito alla disastrosa sconfitta della città, culminata
con la distruzione del 1162, anche alcuni iudices cominciarono a mani-
festare una più netta opzione per l’imperatore 76. Un altro funzionario

74 Fasola, Una famiglia di sostenitori milanesi di Federico I; Brezzi, Gli alleati ita-

liani di Federico Barbarossa, pp. 172-177.


75 Arialdo da Arsago e due de Pita divennero cittadini lodigiani. Si consideri che

Arsago è una località del Seprio. Sulla famiglia dei capitanei de Arsago v. Keller, Si-
gnori e vassalli, pp. 175-177. I de Pita sono valvassori che appartengono al ceppo dei
de Puteobonello (Keller, Signori e vassalli, p. 366). Moscardo de Antegrate andò a
Cremona; Giovanni da Gavirate, Giovanni de Sancto Blatore, Bragamita e Ottone da
Sormano abbandonarono Milano attorno al 1161, mentre l’esercito imperiale si era
riposizionato all’assedio.
76 Arnaldo, Ugo e Alberto da Carate si recarono a esercitare le loro funzioni per

Federico I a Como, come anche Arderico da Bonate, che era stato console durante
l’assedio. Bellotto da Desio acquisì un’investitura dal vescovo di Lodi. Nel 1164 altri

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LA COMPARSA DEL REATO POLITICO COMUNALE. LA GENERAZIONE DEL 1140 25

scelto fu Giordano Scacabarozzi, già console, esperto di annona e pro-


prietario di un forno, che nel 1162, secondo gli anonimi Gesta Friderici
imperatoris de rebus gestis in Lonbardia, ripresi da Giovanni Codagnel-
lo, aveva comunicato segretamente all’imperatore che i viveri si stavano
esaurendo e che dunque avrebbe potuto chiedere la resa incondiziona-
ta, guadagnandosi per questo gesto il significativo epiteto di proditor,
traditor nefandissimus et sceleratissimus omnium 77. È interessante che tutti
questi personaggi, i quali avevano resistito, e spesso in posizione emi-
nente, all’attacco imperiale, passarono rapidamente a guadagnarsi la fi-
ducia di Federico. È dunque possibile che proprio loro fossero stati
quei cittadini « de maioribus » che, secondo l’anonimo autore dei Gesta
nel 1162 avevano organizzzato una congiura « ut de civitate egredieren-
tur » 78. Va tuttavia ricordato che, anche a Milano, accanto ai maiores si
schierarono con Federico persone di rilievo minore, anch’esse legate a
zone e istituzioni di tradizione indipendente, che approfittarono proprio
del nuovo governo imperiale per tentare di affermarsi 79.

5. Gli effetti della lotta con l’imperatore a Bologna

A Bologna le tenebre sono ancora più fitte. Nonostante un certo


numero di ricerche risulta ancora difficile comprendere cosa successe in
città negli anni del conflitto con l’imperatore 80. Vi sono però alcune

due tra i consoli del 1162, Anselmo da Orto (figlio del feudista Oberto più volte
console di Milano dagli anni 30 del XII secolo. Keller, Signori e vassalli, p. 3 e n.) e
il giudice Ariprando furono scelti da Federico assieme all’abate pavese di San Pietro in
Ciel d’Oro per esercitare funzioni amministrative e fiscali nei borghi in cui avevano
trovato riparo i milanesi dopo la distruzione della città.
77 Il testo è edito in Annales Mediolanenses, p. 373. Non sappiamo con precisione

quale fu la punizione del traditore Giordano Scaccabarozzi e dei suoi seguaci filoimpe-
riali dopo che Milano riuscì a emanciparsi dalla soggezione di Federico. L’analisi dei
mandati consolari porta a credere che come minimo gli vennero preclusi gli offici
pubblici, dal momento che scompare dalla documentazione fino alla morte, avvenuta
con ogni probabilità tra il 1198 e il 1200. Mentre la Fasola giunge a queste conclusio-
ni, Brezzi, Gli alleati italiani di Federico Barbarossa, p. 174 rileva la permanenza degli
Scaccabarozzi nel consolato, ma senza distinguere tra i diversi rami della famiglia.
78 Gesta Friderici I in Lombardia, p. 50.
79 Fasola, Una famiglia di sostenitori milanesi di Federico I, pp. 121-132.
80 Hessel, Storia della città di Bologna, pp. 47-77, Rabotti, Note sull’ordinamento

costituzionale, e prima ancora, ma quasi inservibile Bosdari, Bologna nella prima Lega
Lombarda.

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26 GIULIANO MILANI

tracce che spingono a ritenere che, anche in questo caso, il piccolo


gruppo che maggiormente aveva collaborato con il Barbarossa, fu esclu-
so, se non dalla città, almeno dal consolato e dal consiglio cittadino.
La cronologia degli eventi è stata assimilata, non senza ragioni, a
quella piacentina. Sin dal 1158 manca nella documentazione qualsiasi
accenno a un autonomo governo comunale. In quell’anno si ha notizia
di un podestà inviato a governare per conto dell’imperatore. Si tratta
di Guido da Canossa, reggiano, sotto il quale (come avviene per il
primo podestà imperiale di Piacenza, Aginulfo di Urslingen) non è te-
stimoniata alcuna forma di conflitto. Solo con il secondo podestà impe-
riale che iniziano i maggiori problemi. Se tuttavia a Piacenza Arnaldo
Barbavaria fu cacciato, a Bologna Bezo, giudice, in carica a Bologna
dal 1162 al 1164 fu ucciso – secondo la maggioranza delle fonti –
nell’autunno 1164. A questa prima violenta ribellione fece seguito, nel
1165, un nuovo incarico conferito a Guido da Canossa, assistito da
alcuni consoli cittadini. Dopo questa data cessano i segni della presenza
di rappresentanti imperiali e nel dicembre 1167 Bologna entrò nella
Lega Lombarda.
Un documento del giugno 1164 riporta 48 nomi di membri di un
consiglio cittadino e 6 nomi di consoli. Scorrendo questi elenchi se ne
ricava l’impressione di un’ampia rappresentatività sociale: compaiono
membri della nobiltà di provenienza rurale, della milizia cittadina e an-
che personaggi di estrazione più bassa 81. È possibile però che nel 1164,

81 Il consiglio tenutosi il 30 giugno 1164 è pubblicato in Savioli, Annali bolognesi,

II, 1, p. 271, (num. 181). Se 14 nomi appartengono a perfetti sconosciuti, gli altri 34
sono individui raggruppabili in 25 famiglie su cui possediamo qualche altra notizia. Con
certezza possiamo affermare che questo primo organo collegiale attestato nominalmente
comprende: i membri della più antica milizia cittadina, come i Garisendi, Guarini, Lam-
bertini, Lambertazzi, Prendiparti, Auselitti, de Urso; i lignaggi provenienti dagli strati
più alti della società del contado già bene integrati, come i conti dell’Albero, i da Sala,
i da Vetrana e gli Albari; le famiglie che forniscono al comune giudici come Pegolotti,
Tigrini, Guidotti, Buvalelli, Romanzi. Ma anche famiglie che con ogni probabilità già
esercitano quelle attività mercantili e finiziarie che si affermano soprattutto nel secolo
successivo come Negosanti e Zovenzoni, oppure che sono qui ricordate con la qualifica
di una professione artigianale come i figli di Teuzius, calegarius. La minore rappresen-
tanza dei segmenti inferiori della società dev’essere inoltre contestualizzata con il tipo di
fonte. Non solo l’elenco non riporta tutti i componenti, ma tende anche a disporli in
un ordine che è anche e soprattutto un’ordine di preminenza: si apre con le menzioni
dei Lambertini e dei Lambertazzi – famiglie discendenti dal duca bizantino Petrone
vissuto nel secolo VIII – e dei da Sala, capitanei del contado, e si chiude verso la fine
con i nomi di cittadini sconosciuti come Arardinus e Flaccamercatus.

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LA COMPARSA DEL REATO POLITICO COMUNALE. LA GENERAZIONE DEL 1140 27

dopo tre anni di podesteria di un vicario imperiale, l’accesso a un simi-


le collegio fosse regolato da una selezione politica. Lo suggerirebbe il
fatto che alcune famiglie bolognesi ben note dalla documentazione pub-
blica e privata coeva non vi siano affatto rappresentate. Parliamo dei
Carbonesi, immigrati nel secolo undicesimo, ma rapidamente balzati al
vertice della società cittadina grazie all’esercizio della professione di iu-
dices, dei Galluzzi e degli Asinelli, milites cittadini, dei Da Baysio, pro-
venienti dal contado. Lo confermerebbe il fatto che si tratta delle stes-
se famiglie da cui provengono gli uomini che rappresenteranno Bologna
alle assemblee della Lega Lombarda. Il dato risulta ancora più significa-
tivo se si osserva la composizione del consolato negli anni successivi: le
famiglie assenti in questo consiglio appaiono le più presenti nel conso-
lato, e quelle che nel consiglio del 1164 appaiono in posizione eminen-
te, cioè all’inizio della lista al consolato accedono solo tardi, come se,
appunto, avessero subito un esclusione 82.

82 Sappiamo che i consoli esistono almeno dal 1123 quando in un documento


agiscono insieme al populus e al vescovo (i puntelli attraverso i quali la nuova istituzio-
ne si legittima), ma, come ha notato Lazzari, Bologna, prima degli anni Cinquanta,
quando avviene il primo esperimento podestarile con la chiamata del forestiero Guido
da Sasso, i documenti non riportano i loro nomi. Nell’ unico caso in cui possediamo
notizie cronachistiche troviamo Azzo Torelli (1142 e 1153), membro di un ramo del-
l’importante famiglia che troverà la sua fortuna a Ferrara e dunque discendente dal-
l’unione tra una discendente della stirpe dei cosiddetti « conti di Bologna », la più rile-
vante famiglia signorile del territorio nei secoli IX-XI, e la stirpe dei discendenti dal
duca bizantino Petrone. Gli studi prosopografici sulla Bologna comunale sono in qual-
che misura condizionati dal fatto che l’unica ricerca sistematica, Wandruszka, Die Ober-
schichte Bolognas tende talvolta a considerare il coinvolgimento nei legami feudo-vassal-
latici di alcune famiglie urbane una prova inequivocabile di appartenenza al ceto capita-
neale. Lo stesso studioso, tornando sull’argomento (in Wandruszka, Städtische Sozialstruk-
tur und « Inurbamento »), ha proposto importanti puntualizzazioni alla teoria di un co-
mune di Bologna dominato da famiglie capitaneali così com’era uscita dal suo libro.
Dagli anni Cinquanta alla fine degli anni Sessanta le testimonianze si fanno più
significative e per quattro anni diversi (1153, 1156, 1157 e 1164) possediamo 17 nomi.
Si tratta per lo più di individui legati al vertice dell’aristocrazia del territorio, come
Trepaldus e Albertus, conti di Lamola (1157), o Ugo di Ildebrando de Riosto e Acca-
risius Lamberti Curte, che a giudizio di Nicolai Wandruszka, sono legati a famiglie che
hanno giurisdizioni nel contado, e ancora Isnardo di Riccardo Attonis (1157), con ogni
probabilità ascrivibile a quella famiglia degli Attonidi che sin dal secolo XI risulta
politicamente vicina ai conti. Non si tratta però di un monopolio. Troviamo infatti
milites cittadini provenienti da famiglie di grande tradizione e prestigio, ma non al
vertice assoluto della società urbana, quello delle stirpi che hanno le abitazioni all’in-
terno della cerchia delle mura più antiche, come i Lambertini, i Lambertazzi, i Gere-
mei, i Prendiparte o i Guarini. Si tratta di Ugo Garisendi (1157) o Auselitto (1156), o

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28 GIULIANO MILANI

Di sicuro l’esperienza con la Lega Lombarda lasciò a Bologna una


maggiore consapevolezza nell’uso dell’esclusione politica. Nel 1175, ven-
tisei anni dopo la sentenza contro Grasso di Randuino da cui si sono
prese le mosse 83, il comune colpì tramite il sequestro dei beni alcuni
nobili del contado, i capitani del Frignano, che in precedenza avevano
giurato patti di cittadinanza divenendo cives bolognesi e che in seguito,
per ragioni che in parte ci sfuggono – forse per essersi schierati con
l’impero, forse per avere preferito la cittadinanza modenese a quella di
Bologna, forse infine, per entrambe le ragioni – erano stati giudicati
nemici. L’atto, conservato anch’esso nel Registro Grosso, è un nuovo
giuramento, compiuto sempre dalla concio plenaria, che si impegna a
difendere le alienazioni e le concessioni che il comune ha compiuto a
spese dei beni di tredici persone nominate e di chiunque altro il comu-
ne abbia giudicato o giudicherà inimicum: 84. Rispetto al giuramento del

Artenisio Beccadelli, che sin da quest’epoca hanno comunque torri a ridosso di questa
cerchia. Con il consolato del 1164 l’immagine di una certa apertura sociale permane.
Ma la netta svolta nella storia del consolato si rende visibile nel quarto di secolo
(1168-1194) in cui – grazie alla documentazione, analizzata negli studi di Nicolai Wan-
druszka – possiamo conoscerne la composizione continuativamente. Si tratta di un pe-
riodo che inizia significativamente l’anno stesso in cui Bologna aderisce alla Lega Lom-
barda e la cui continuità appare interrotta quà e là quasi esclusivamente a causa della
chiamata di podestà, forestieri e cittadini (1177; 1183-1184; 1188, 1191-92). Complessi-
vamente, il bacino di reclutamento, pur presentando dimensioni analoghe a quelle del
consilium del 1164 (36 famiglie in tutto forniscono consoli, contro le 39 che sono
testimoniate per il consiglio), appare più omogeneo: i consoli sono quasi sempre mili-
tes, quasi sempre cittadini, talvolta come nel caso dei da Vetrana, immigrati, ma con
rapporti cognatizi con famiglie cittadine. Non tutte le famiglie di milites però contri-
buiscono in maniera eguale. Delle 36 famiglie , 22 forniscono un solo console una sola
volta in tutto il periodo, altre quattro lo fanno due volte e solo dieci costituiscono un
nucleo forte di questa aristocrazia consolare, essendo attestate nel consolato in tre o
più occasioni: Albari e Perticoni (3 volte), Garisendi e da Vetrana (4), Prendiparti (5),
Buvalelli, Carbonesi e Guarini (6), Asinelli e Galluzzi (7). Un dato di grande interesse
è il fatto che alcune famiglie di prestigio dell’aristocrazia urbana, che avevamo trovato
in posizione eminente nel consilium filofedericiano del 1164 (Lambertini, de Urso),
entrino nel consolato solo attorno al 1180, senza che tale ingresso dia inizio a una
partecipazione frequente, e che altre, di livello senz’altro paragonabile (Lambertazzi,
Caccianemici, Geremei), compiano lo stesso percorso, e raccolgano lo stesso relativo
insuccesso, solo all’alba del decennio successivo.
83 Cfr. supra, cap. II, par. 1.
84 Savioli, Annali bolognesi, II, 2, p. 55: « Anno Domini milles. centes. septuages.

quinto Imperante Federico Romanorum Imperatore. octavo decimo Kal. octob. Indict.
octava. Pop. Bonon. in plena concione in curia Sancti Ambrosii fecit jurare super suas
animas manellum portonarium Comunis parabola ei data quod omnes alienationes vel

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LA COMPARSA DEL REATO POLITICO COMUNALE. LA GENERAZIONE DEL 1140 29

1149 la differenza più significativa è il riferimento a una categoria ge-


nerale, i nemici del comune, che rende facoltativa l’indicazione dell’atto
che ha scatenato la ritorsione. È probabile che tale categoria costituisca
un adattamento locale del termine, altrettanto generale, di proditor, che
compare nei documenti della Lega negli anni immediatamente prece-
denti. Sembra in ogni caso plausibile che il passaggio a una terminolo-
gia più generale e meno contingente sia stato influenzato dall’elabora-
zione politica e giuridica del periodo di formazione della Societas Lom-
bardie 85. Un’altra differenza, rispetto al 1149 è il fatto che la concio
non giura più di conservare vacua semper atque deserta i beni seque-
strati, ma piuttosto di salvaguardare le vendite e gli affitti di case e
terreni che il comune, dunque, ha deciso di mettere a frutto coinvol-
gendo la cittadinanza, come era avvenuto a Piacenza nel 1170.
Non è corretto enfatizzare queste differenze al fine di rinvenirvi le
tappe di uno sviluppo progressivo. È vero che esse suggeriscono il pas-
saggio verso forme di esclusione più razionali e sistematiche. Ma sareb-
be una forzatura equiparare l’esclusione di un civis omicida a quella di
un gruppo di capitanei ribelli ponendole su gradi diversi della stessa
linea evolutiva. Tra i due atti vi sono però, oltre alle differenze, delle
continuità: la procedura attuata nel 1175 non sembra snaturare il fon-
damento su cui si era basato il giuramento contro Grasso di Randuino.
Come in quell’occasione, la comunità, attraverso la propria voce più
autorevole e legittima, l’assemblea plenaria, stabilisce che un gruppo di
persone ha agito in maniera tale da minacciare la città e decreta di
eliminarle dalla cittadinanza mettendone le ricchezze a disposizione de-

obligationes quas Consules Bon. qui nunc sunt vel in antea fuerint fecerint de domi-
bus aut de aliis possessionibus alidoxi vel ejus uxoris & palmeri vel ejus uxoris &
ottolini vel ejus uxoris & baruffaldi & Parisii & Bartholomei & Ubertini Salomonis &
filiorum rivelli aut eorum uxorum & Aigonum sive alicujus hominis quem Comune
Bononie iudicaverit inimicum omnibus accipientibus in perpetuum adjuvabunt defen-
dere [...] ».
85 Quando nel 1202 Milano strinse un trattato di pace con Piacenza e Pavia in-

trodusse una clausola che stabiliva: « Bannitum abhinc in antea vel inimicum publicum
alicuius suprascriptarum trium civitatum, vel alterius civitatis que hoc idem sacramen-
tum suprascriptis tribus civitatibus fecerit et aliis civitatibus que[…] hoc idem sacra-
mentum facerent, in mea civitate vel districtu scienter non retinebo, et infra octo dies
postquam mihi dinuntiatum fuerit expellam » (Gli Atti del Comune di Milano, p. 344)
La stessa clausola fu inserita nel patto che dieci anni dopo Milano e Piacenza stipula-
rono con Guglielmo e Corrado Malaspina e in quello che la metropoli lombarda siglò
con Vercelli nel 1215 (Gli Atti del Comune di Milano, pp. 480 e 482 (n. CCCLXI);
pp. 508, 512 e 514 (nn. CCCLXXXVII e CCCLXXXVIII).

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30 GIULIANO MILANI

gli altri. Semplicemente, e in questo sta la vera novità, ci si permette di


giustificare il procedimento attraverso una motivazione che ai nostri occhi
appare più politica.

6. Conclusioni

In quest’ultimo passaggio sembra di poter rinvenire la più significa-


tiva eredità di questi decenni. Come si è cercato di dimostrare, pur di
fronte alla scarsezza dei riscontri effettivi, è ragionevole supporre che
l’esclusione dalla comunità di chi si sottraeva ai sistemi di soluzione
delle dispute controllati dal comune fosse un istituto consuetudinario
coevo se non precedente alla nascita dei comuni, un elementare e al
tempo stesso razionale principio legato all’esistenza di comunità delimi-
tate territorialmente e tenute insieme da una qualche forma di giura-
mento della pace. Nel corso del secolo XII, però, qualcosa cominciò a
cambiare. Nella generazione di Graziano e dei quattro dottori, nel giro
di decenni in cui in Europa cambiò il modo di leggere e di scrivere,
questa pratica iniziò a presentare aspetti nuovi. La presenza di un go-
verno comunale più combattivo e legittimo costituisce la premessa per
la crescente autonomia di un’esclusione nuova, in quanto originata non
più da una contestazione implicita, ma da un tradimento, una ribellio-
ne, un attacco diretto al governo del comune.
Il processo che conduce a questa novità, pur non apparendo anco-
ra compiuto, risulta in quest’epoca già avviato in virtù di un doppio
ordine di fattori: endogeni ed esogeni. L’ampliamento quantitativo della
popolazione cittadina e l’aumento generale delle risorse disponibili creò
una società urbana più complessa e rese necessaria la formalizzazione
di una serie di rapporti sino a quel momento dati per scontati. La
necessità di inserire i diritti di chi viveva in città all’interno di una
gerarchia che aveva il comune al proprio vertice fu il contesto in cui si
svolse lo scontro tra Alberto Visconti e il comune di Pisa, relativo alla
detenzione di alcuni diritti che i consoli intendevano acquisire e che i
Visconti, che a quel consolato partecipavano attivamente, rivendicarono.
In modo simile si possono leggere anche il conflitto tra Ugo Speroni e
Piacenza e quello tra Giordano Scaccabarozzi e Milano. Mentre questi
scontri si svolgevano al livello locale, il confronto con Federico I, vero
e proprio avvenimento fondante per i suoi contemporanei italiani, non
solo venne ad aggiungervi nuovi elementi e nuove validazioni d’autori-
tà, ma fece anche sì che comuni e imperatore, per mezzo dei propri

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LA COMPARSA DEL REATO POLITICO COMUNALE. LA GENERAZIONE DEL 1140 31

intellettuali, riflessero sulla natura del potere dei governi cittadini. Si


innescò in questo modo, sia tra comuni e impero, sia tra comuni e
comuni, un’intensa circolazione di termini, materiali giuridici, pratiche,
che complessivamente consegnava ai governi successivi una nuova pos-
sibilità.
Che questa possibilità fosse qualcosa di nuovo è provato dalla cau-
tela con cui coloro che scrissero le sentenze e i patti, che abbiamo
passato in rassegna, definirono la capacità del comune di escludere.
Una cautela visibile in particolare nella volontà di tenere separati i ban-
diti dai condannati politici. Nel 1149, decretando l’esclusione dell’omi-
cida bolognese Grasso di Randuino, il comune non usò la parola ban-
num che, come attestano alcune fonti coeve, indicava in alcuni luoghi
già il procedimento attuato contro i contumaci, forse per stornare la
possibilità di un’interpretazione provvisoria della condanna. Nella serie
di attestazioni degli anni 1167-1180 i rettori della Lega non unificarono
i ribelli e i banditi, pur ponendo di fatto i primi nella condizione dei
secondi. Se la possibilità di bandire per comportamenti e crimini con-
tro la giurisdizione era qualcosa di tradizionalmente accettabile, la capa-
cità di escludere i ribelli risultava meno scontata. È proprio nella ten-
sione tra una pratica tanto consolidata e lo sforzo di usarla in base a
nuovi princìpi politici che consiste la caratteristica più interessante di
questa seconda metà del secolo. È la nozione stessa di potere che sta
cambiando se, per proteggere il potere comunale in sé, e non più la
sua capacità di monopolizzare alcune funzioni politiche, si sente il biso-
gno di escludere qualcuno.

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32 GIULIANO MILANI

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Capitolo II

IL NUOVO VALORE DELL’USCITA


LA GENERAZIONE DEL 1170

1. L’avvento del podestà forestiero e le sue conseguenze

Nel dicembre del 1195 il milanese Guido da Vimercate, podestà di


Bologna, ordinò a sei ufficiali del comune, i cognitores rationis, di rive-
dere le spese e le entrate del comune compiute durante gli otto mesi
della propria podesteria e nel periodo coperto dai regimi che lo aveva-
no preceduto: il governo podestarile di Guidottino da Pistoia e i due
ancora precedenti, affidati a consoli 1. Nella sezione relativa a questi
ultimi la revisione costituisce un documento di grande interesse poiché
mostra quanto i consoli avessero sfruttato la propria posizione per met-

1 L’atto è edito con ampi commenti in Orlandelli, La revisione del bilancio e Or-
landelli, Il sindacato del podestà. Egli afferma che la revisione riguarda solo i quattro
mesi (gennaio-aprile 1195) della podesteria di Guidottino da Pistoia e gli otto della
podesteria di Guido da Vimercate stesso (Orlandelli, La revisione del bilancio, pp. 158-
159). Ci sono invece ottime ragioni per credere che tale revisione riguardò anche i due
anni precedenti (1193 e 1194), amministrati da consoli. Orlandelli stesso, descrivendo
l’atto, notò che, mentre per la podesteria di Guido erano nominati due massari (come
sarebbe avvenuto nel corso del Duecento) per quella di Guidottino ne erano nominati
di più (cioè tre) e spiegò questa anomalia affermando che l’eccezione « doveva rientra-
re negli arbitrii di Guidottino » (ibidem, p. 159, n. 8). In realtà al nome di Guidotti-
no, nella sezione dell’atto che precede la revisione del bilancio per la podesteria di
Guido da Vimercate, è associato il nome di un solo massaro: Iacobus (ibidem, p. 190:
« In nomine Domini. Hec est ratio Guitoncini et Iacobi eius massari »). I due massari
nominati precedentemente sono nell’ordine Lambertus e Victorius (Ibidem, p. 189: « [...]
in primis invenimus [...] pervenisse apud Lambertum tempore sue massarie [...] »; « Item
apud Victorium invenimus pervenisse [...] tempore sue massarie [...] »). Il secondo di
costoro compare in un atto datato 11 febbraio 1194 come Vittorius massarius (ASBo,
Comune, Governo, Diritti e Oneri del comune, Registro Grosso, c. 69v) Si tratta dun-
que del massaro del governo consolare in carica in quell’anno. È ragionevole pensare
che Lambertus, del quale, come si è visto, viene indicato un differente tempus massa-
rie, fosse il massaro in carica l’anno precedente. Accettando questa spiegazione si rica-
va che la prassi di chiamare due massari fu introdotta solo con la podesteria di Gui-
do, mentre in precedenza per ogni governo vi era un solo massaro.

Capitolo 2.pmd 33 09/11/2009, 16.24


34 GIULIANO MILANI

tere le mani su beni e diritti di pertinenza pubblica. La stessa esistenza


dell’atto, tuttavia, segnala la volontà di intervenire retrospettivamente su
questo tipo di reggimento, stabilendo con precisione le responsabilità
personali prima di abolirlo definitivamente.
Nel trentennio che separa il 1167 (adesione alla Lega) dal 1195
(inizio della serie continua dei magistrati itineranti) Bologna visse come
molte altre città comunali l’alternanza di consoli, podestà forestieri e
rettori locali: una varietà di esperienze istituzionali che testimonia una
realtà attraversata da conflittti i cui contorni per lo più ci sfuggono 2.
Solo sugli scontri che si svolsero a partire dal 1193, quando un gruppo
di cittadini contestò violentemente il vescovo-podestà Gerardo di Gisla,
le notizie sono più numerose 3. A quanto sembra la prima fase terminò
con un accordo che vedeva la presenza contemporanea del vescovo-
podestà e di un nuovo collegio consolare. Nel luglio del 1194 però i
disordini ricominciarono, portando all’elezione di nuovi consoli e alla
caccciata del vescovo e di alcuni suoi seguaci. Grazie alla revisione del
bilancio menzionata sappiamo che nel corso di questi due mandati più
di venti persone, in larga maggioranza gli stessi consoli, intascarono,
secondo modalità che di lì a due anni parvero indebite, la cifra non
indifferente di circa 700 lire, oltre ai beni in natura. Tra loro è possibi-
le contare persone di diversa estrazione. Maio Carbonesi, erede della
famiglia di iudices che con ogni probabilità aveva guidato la ribellione

2 Alla prima serie di mandati consolari (1167-1176) segue un triennio in cui go-

verna il podestà milanese Pinamonte da Vimercate, asssistito da consoli bolognesi. Una


questione di Pillio da Medicina segnala in questi anni uno scontro tra debitori e credi-
tori, con ogni probabilità intensificato da una carestia, risolto con una sentenza pode-
starile favorevole ai debitori (Cortese, Mutui ebraici usurari, pp. 208-212). Dopo un
altro triennio di consolato, nel 1183, l’anno di Costanza, comincia una serie di quattro
podestà: il piacentino Antonino Landi, il milanese Ottolino da Mandello, Prendiparte,
per alcuni appartenente alla famiglia Prendiparti, e dunque bolognese, per altri al li-
gnaggio modenese dei Pizi (Guyotjeannin, Podestats d’Èmilie centrale, p. 396), e infine
Ildebrandinus Gualfredi, sicuramente di Bologna. Dopo un anno di ritorno al consola-
to, nel 1188 è chiamato il milanese Guglielmo da Osa (che alcune cronache attribui-
scono erroneamente al 1194 come mostra Hessel, Storia della città di Bologna, p. 76),
al quale fa seguito, dopo altri due anni di consoli, Angiolo da Mantova nel 1191. Nel
1192 il vescovo bolognese Gerardo di Gisla è nominato podestà. Come attestano con-
cordemente le cronache, dopo un primo anno di buon governo, nel 1193 scoppia una
ribellione. Per questi dati v. Hessel, Storia della città di Bologna, pp. 48-77. Cfr. anche
Vallerani, Ufficiali forestieri a Bologna, pp. 291-293.
3 Hessel, Storia della città di Bologna, pp. 74-77. V. inoltre Wandruszka, Die Ober-

schichte Bolognas, pp. 330-334.

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IL NUOVO VALORE DELL’USCITA. LA GENERAZIONE DEL 1170 35

di Bologna a Federico I, affermandosi nel consolato solo negli anni


della Lega, compare nel documento insieme a Guido Lambertini, di-
scendente da una delle famiglie più antiche della città, probabile soste-
nitrice di Barbarossa 4. I due sono menzionati insieme per essersi inta-
scati con la connivenza del massaro in carica due carri di grano che gli
uomini di una comunità del contado avevano fornito in pagamento di
un’imposta comunale. I figli di Prendiparte, antichi milites cittadini, ri-
sultano aver tenuto per sé senza consegnare al comune due macine di
mulino 5. La lettura segnala insommma come nessun capitolo di spesa
– dal risarcimento delle spese militari a quello dei danni di guerra,
dalla riscossione delle multe ai diritti di traffico – fosse rimasto immu-
ne dalle spoliazioni compiute dal ceto dirigente consolare: e come a tali
spoliazioni contribuiscano i discendenti di famiglie vecchie e nuove, cit-
tadine e immigrate 6.
Non sappiamo quanto questo testo, piuttosto eccezionale nel pano-
rama dell’epoca, rispecchi fedelmente il tardo sistema consolare. Di si-
curo esso testimonia l’atteggiamento con cui si guardò a quel sistema
nel momento del passaggio al podestà forestiero. Da questo punto di
vista la revisione del bilancio – in sé stessa, al di là di ciò che contiene –
può essere considerata un manifesto politico, una presa di distanza dal
passato compiuta dal nuovo magistrato. Il dato non sorprende. È noto

4 Per questa ipotesi sulla collocazione politica dei Carbonesi e dei Lambertini v.
Capitolo II.
5 Orlandelli, La revisione del bilancio, p. 189: « Item apud Victorium invenimus

pervenisse inter expensas que non videntur nobis bene facte et dicta rusticorum et res
que ad eum non debuerunt pervenerunt tempore sue massarie .xxxv. libras imperii et
.iiij. solidos et .iiij. denarios imperii que in utilitatem communis Bononie non processe-
runt et .l. currus lignorum que homines Castelli de Brittis dicto Victorio dare iurave-
runt et ipse ea Madio et Guidoni Lambertini dare fecit et tres molas agostanas que
filii Prindepartis de molendinis Savine abstulerunt et ei dederunt e duas sibi retinue-
runt que in utilitatem comunis Bononie non processerunt ».
6 Tra coloro che compaiono in veste di beneficiari di spese non bene facte vi sono

Oseph (Toschi), Egidio Pritoni (forse Geremei), Alberto Scarpa, Guglielmo Malavolta,
Terçobonus, Peldericcio, Rodulfus Romei, di cui nessun parente stretto sembra aver
ricoperto il consolato negli anni precedenti. Accanto ad essi, nella stessa veste si rico-
noscono membri dei lignaggi consolari degli Albari, Alberici, Carbonesi, Guarini, Lam-
bertini, Milanzoli, Orsi, Prendiparti, Ramisini. In base a questi dati la rivolta contro il
vescovo Gerardo non può essere più interpretata semplicisticamente come una reazione
dell’aristocrazia consolare contro il nuovo regime podestarile (come sostiene Hessel).
Per maggiori informazioni su queste famiglie v. Wandruszka, Die Oberschichte Bolo-
gnas, pp. 330-334, pur con le riserve espresse nel cap. II, par. 5.

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36 GIULIANO MILANI

da tempo che l’avvento del podestà forestiero coincise con una prima
intensificazione della produzione e della conservazione di scritture poli-
ticamente significative 7. Oggi, grazie a una ormai nutrita serie di studi
ci si può spingere oltre e dichiarare che l’affermazione del podestà fo-
restiero e la moltiplicazione dei documenti costituirono due conseguen-
ze del medesimo fenomeno: la manifestazione di una nuova domanda
di controllo dei meccanismi di esercizio del potere.
Attilio Bartoli Langeli ha posto attorno agli anni Venti del Duecen-
to il culmine del fondamentale passaggio che condusse dalla produzio-
ne di « scritture elementari », le carte sciolte, alla documentazione in
registro: una svolta che interessò ambienti e paesi diversi, e che per
l’Italia comunale avvenne in stretta connessione con l’avvento dei magi-
strati itineranti 8. Jean-Claude Maire Vigueur ha chiarito bene come tale
processo, in questa fase coincidente con i primi anni del secolo (defini-
ta come « prima rivoluzione documentaria »), trovò la sua principale ra-
gion d’essere nel « risveglio di una vera e propria coscienza archivistica
da parte dei comuni ». Questa coscienza si manifestò tanto nella crea-
zione di nuove tipologie di documenti quanto nell’elaborazione di nuo-
vi sistemi di ordinamento e conservazione delle carte disponibili 9. Come
lo stesso Maire Vigueur ha sottolineato, proprio a questa « rivoluzione »
ha dedicato i suoi sforzi il gruppo riunito a Münster sotto la guida di
Hagen Keller che per un decennio ha sottoposto diverse tipologie do-
cumentarie prodotte nell’Italia comunale dei secoli XII-XIII ad analisi
fondate sul concetto di scrittura pragmatica (pragmatische Schriftlichkeit) 10.
Trattando dell’imponente produzione di questo gruppo di lavoro, Laura
Baietto ha sottolineato di recente il legame tra queste analisi e l’inter-
pretazione kelleriana del comune consolare come tradimento di un pre-

7 Cammarosano, Italia medievale, pp. 113 e ss. Vallerani, L’affermazione del siste-

ma podestarile, pp. 414-416.


8 Bartoli Langeli, Codice diplomatico del comune di Perugia, pp. I-XVII; Bartoli

Langeli, La documentazione degli stati italiani; Bartoli Langeli, Le fonti per la storia di
un comune.
9 Maire Vigueur, Révolution documentaire et révolution scripturaire, p. 183.
10 Per una rassegna complessiva della ingente produzione del Sonderforschungbe-

reich 41 « Träger, Felder, Formen pragmatischer Schriftlichkeit im Mittelalter », sezione


dedicata a « Der Verschriftlichungsprozess und seine Träger in Oberitalien. 11.-13.
Jahrhundert », si rimanda a Baietto, Scrittura e politica, p. 112, n. 21. Qui sembra
comunque necessario ricordare almeno i volumi collettivi Statutencodices des 13. Jahrhun-
derts; Pragmatischer Schriftlichkeit im Mittelalter; Kommunales Schriftgut in Oberitalien;
Der Codex in Gebrauch.

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IL NUOVO VALORE DELL’USCITA. LA GENERAZIONE DEL 1170 37

cedente patto giurato collettivo ed egualitario. Dalla rottura di questo


patto nascerebbe il bisogno di « assicurare un principio generale di ugua-
glianza dei cives mediante l’istituzione di meccanismi di controllo » e
dunque l’uso della scrittura – visibile appunto nel comune podestarile –
per fissare la legge, gli affari amministrativi e in generale tutte le proce-
dure svolte dal personale politico 11.
Di questo processo complessivo svoltosi tra la fine del secolo XII e
gli anni Venti del Duecento – come ha sintetizzato ancora una volta la
Baietto sulla scorta delle analisi di Massimo Vallerani 12 – costituiscono
oggi la traccia visibile tre tipologie documentarie: i documenti seriali
relativi al censimento, recupero e redistribuzione dei beni comuni 13, i
libri iurium 14 e i primi libri di statuti 15. In nessuna di queste tre serie si
trovano tracce consistenti della ritorsione attuata contro i nemici inter-
ni. Il dato risulta tanto più sorprendente dal momento che le cronache
di quest’epoca menzionano conflitti che culminano con l’uscita di una
parte dalla città ed episodi di esclusione in misura maggiore rispetto al
periodo precedente. Questa assenza, inoltre, non può essere spiegata in
termini meramente tipologici. In altre parole non si può affermare che
non possediamo tracce dell’esclusione protoduecentesca perché il tipo
di documenti in nostro possesso di per sé non poteva contenerle. Il
sequestro dei beni degli esclusi avrebbe potuto lasciare traccia nei cen-
simenti di beni e nei libri iurium, e i decreti contro i dissidenti avreb-
bero potuto confluire negli statuti com’era avvenuto nei brevia della
generazione precedente. La spiegazione sembra doversi allora ricercare
nella differente natura dei nuovi documenti in registro e nella loro atti-
tudine a includere il tipo di atti che in questa sede ci interessano. Gli
statuti del primo XIII secolo, a differenza dei giuramenti dei consoli
del XII, non costituivano scritture provvisorie destinate ad essere sosti-
tuite l’anno successivo, ma raccolte più stabili sottoposte a una selezio-

11 Baietto, Scrittura e politica, p. 114, con riferimento, tra l’altro, a Keller, Die
Entstehung der italienischen Stadtkommune; Keller, Einwohngemeinde und Kommune;
Keller, Gli inizi del comune in Lombardia.
12 Baietto, Scrittura e politica, p. 118; Vallerani, L’affermazione del sistema podesta-

rile, pp. 416-17.


13 Su questi documenti insiste anche Varanini, L’organizzazione del distretto cittadi-

no, p. 138. Per le liste di centri soggetti della fine del XII secolo v., oltre a questo
articolo, anche Vallerani, L’affermazione del sistema podestarile, pp. 116-117.
14 Sui libri iurium v. Rovere, I libri iurium dell’Italia comunale; Cammarosano, I

libri iurium e la memoria storica, e da ultimo Rovere, Tipologie documentali nei Libri
iurium, con ampia bibliografia.

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38 GIULIANO MILANI

ne preliminare. In momenti che non sempre siamo in grado di stabilire


ma che spesso dovettero coincidere con il rientro degli esclusi, gli sta-
tutari provvidero a eliminare i provvedimenti di esclusione, e così av-
venne per la documentazione relativa al sequestro dei beni.
Di più, i regimi podestarili nell’ambito dei quali si promuovevano le
operazioni di risistemazione archivistica e si incentivava la produzione
dei nuovi documenti in registro, erano sorti proprio dalla volontà di
mediare i conflitti interni che avevano caratterizzato l’ultimo sistema
consolare e che continuarono a manifestarsi nella prima fase podestari-
le. I podestà forestieri dunque si prestarono solo in rari casi a legitti-
mare, attraverso una sua fissazione per iscritto, un esito così poco me-
diato come l’esclusione di uno dei gruppi contendenti. Gli statuti più
antichi che possediamo contengono spesso l’auspicio di una concordia
generale e il timore che questa sia minata dalle partes in cui la cittadi-
nanza tende a dividersi 16. Non sorprende dunque che in questi testi le
tracce delle esclusioni originate dai conflitti di quelle parti siano accura-
tamente espunte. Il caso dello statuto veronese del 1228 è rivelatore,
anche se collocato ai margini del periodo qui preso in esame, poiché
contiene l’impegno del podestà a distruggere tutte le parti esistenti in
città (esplicitamente enumerate) e a far solennemente giurare i veronesi
di non unirsi a queste parti, definite, secondo lo stesso formulario ado-
perato da Federico I nel Constitutum Pacis di Roncaglia, conventiculas
et cospirationes 17. Per quanto straordinario nella sua chiarezza (come si
vedrà, questo statuto fu scritto proprio in occasione di una pacificazio-
ne generale delle discordie interne, peraltro promossa da un movimento
di « popolo »), il testo veronese esprime bene l’immagine delle parti che
ebbero i podestà del primo Duecento: organizzazioni sostanzialmente
illegittime tendenti a sottrarsi al giuramento di pace della comunità ga-
rantito dal magistrato forestiero.
Dunque, pur non prodighi di informazioni sul funzionamento e su-
gli obiettivi delle parti cittadine, gli statuti del primo Duecento conten-
gono un riflesso importante del giudizio che su quelle parti e sui loro

15 A Bologna le prime due tipologie sembrano strettamente collegate. Il più antico


liber iurium comunale, il Registro Grosso, fu secondo l’autorevole parere di Giorgio
Tamba strettamente connesso all’ufficio dei Procuratori del comune, che avevano l’in-
carico di difendere i diritti comunali: Tamba, Note per una diplomatica del Registro
Grosso.
16 Liber Juris Civilis Urbis Verone, p. 2 (giuramento del podestà): « Et in causis

omnibus aequitatem servabo, vel servare faciam, et aequus utrique parti ero ».
17 Liber Juris Civilis Urbis Verone, p. 190.

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IL NUOVO VALORE DELL’USCITA. LA GENERAZIONE DEL 1170 39

conflitti diedero i podestà forestieri e i movimenti che ne auspicarono


l’avvento. Così, indirettamente utili si rivelano anche le altre due tipolo-
gie di documenti che segnano questa fase. Libri iurium ed elenchi mo-
strano l’ampliarsi della giurisdizione comunale sulla città e sul territorio
in forme ancora sconosciute una generazione prima. Questi testi così
come appaiono nell’ultimo ventennio del XII secolo esprimono la vo-
lontà della città di presentarsi quale autorità esclusiva, in grado di rom-
pere « il legame consequenziale e diretto tra detenzione di un castello
ed esercizio del poteri pubblici, in ambiti territoriali il più possibile
estesi » 18. In questo senso emerge una profonda differenza con la gene-
razione precedente. Nei conflitti dell’epoca di Barbarossa è riscontrabile
una vera e propria concorrenza tra comune e singoli detentori di diritti
che il comune intende rivendicare(Visconti, Speroni) 19. Una generazione
dopo, il comune non è più in competizione con i detentori di diritti
tradizionali. Ha acquisito definitivamente una posizione dominante, di
cui fanno fede, oltre agli elenchi di beni menzionati, anche i patti di
cittadinatico che riempiono le prime carte dei libri iurium. Rispetto al-
l’epoca dei padri le sedi alternative del potere si sono ridotte drastica-
mente. Per i figli dell’aristocrazia cittadina di tradizione pubblica il co-
mune comincia a costituire l’unica possibilità di reale affermazione.
Risulta quindi comprensibile come proprio in questo periodo l’usci-
ta dalla città, esprimendo radicalmente il rifiuto di lasciarsi governare
dal comune, acquistò un nuovo significato politico. Lo si nota bene
analizzando le menzioni cronachistiche che mostrano come gli episodi
di fuoriuscitismo verificatisi in molte città tra 1180 e 1220 siano leggi-
bili più come azioni tese a delegittimare e a minacciare il governo citta-
dino, che come semplici esclusioni ordinate dalla parte vincitrice. Le
notizie fornite dagli autori di cronache nel corso di questa generazione
e della successiva 20 sono infatti riconducibili grosso modo a due tipolo-
gie. Nella maggior parte dei casi gli autori si limitano a segnalare l’usci-
ta dalla città di una pars o di un gruppo, mettendo in rilievo il caratte-
re attivo del gesto: usano in questo senso esclusivamente il verbo exire

18 Varanini, L’organizzazione del distretto cittadino, p. 138.


19 V. Capitolo II.
20 Si tratta dell’autore degli Annales Mediolanenses Minores, del canonico autore

degli Annales brixienses; dell’autore degli Annales Cremonenses, del vescovo di Cremo-
na Siccardo (Siccardi episcopi cremonensis Cronica), di Giovanni Codagnello (Iohannis
Codagnelli Annales placentini) e infine del vicentino Gerardo Maurisio (Gerardi Mauri-
sii Chronica).

Capitolo 2.pmd 39 09/11/2009, 16.24


40 GIULIANO MILANI

e qualificano gli esuli come exiti 21. In pochi altri casi i cronisti usano
invece il verbo expellere (o talvolta fugare), attribuito alla parte vincitri-
ce, mettendo l’accento sulla passività dell’uscita, ma quasi sempre conti-
nuando a qualificare comunque la pars perdente come « coloro che usci-
rono dalla città » 22. La scelta dell’uno o dell’altro verbo (exire, cioè,

21 L’esclusione dei milites bresciani nel 1200 è definita in negativo dagli Annales
Brixienses (p. 816), che fanno riferimento per contrasto alla parte di coloro che rima-
sero in città: « Alio anno de mense Agusti capta est magna pars eorum qui remanse-
runt in civitate ». Relativamente allo stesso evento le cronache cremonesi menzionano
solo l’accordo tra i milites fuoriusciti (che non vengono definiti esplicitamente tali) e
Cremona (Annales Cremonenses, p. 804: « Eodem anno ipsi milites Brixienses contra
populum suum nobiscum sunt iurati et concordati »; Siccardi Episcopi Cremonensis
Cronica, p. 176: « Milites autem cum Cremonensibus confederati sunt et plebeios, qui-
bus comes Narisius preerat, artaverunt »). Solo Giovanni Codagnello menziona esplici-
tamente l’uscita dei milites, nei termini di una defezione dall’esercito comunale: « Qua-
dam vero vice cum populus Brixie cum carocio extra civitatem cum militibus eorum
ad pugnandum exierunt, dicti milites illico Cremonam pergentes, auxilium ab eis, prout
tenebantur, petientes » (Johannis Codagnelli Annales, p. 33).
L’esclusione dei milites di Leno da Brescia nel 1207 è data come uscita dagli
Annales Brixienses, p. 816, che si limitano a osservare come « 1207. illa pars comitis
Alberti atque Vifredi confanorii intraverunt in Leno, [...] ».
La stessa fonte narrando dell’anno successivo afferma che « 1208. de mense Madii
Vuido Lupus recessit et dereliquid potestatum et fugit Cremonam, et cum omnibus
Cremonensibus et cum una parte militum Brixie et Parme venerunt circa Pontevicum,
[...] ». Poco oltre si riferisce alla pars uscita come « Vido Lupus » e i « milites qui de
civitate exiverant ». Mentre Codagnello spiega che « Unde tam milites quam pedites
eiusdem civitatis Brixie commoti nimiumque turbati predictum iuramentum [alla Lega]
omnes concorditer fecere, preter XXX vel XL eiusdem terre milites, qui cum eadem
potestate de ea civitate turpiter exiere » (Johannis Codagnelli Annales, p. 34).
Fedeli al modello della semplice uscita sono anche cronache più tarde: gli Annales
Mediolanenses minores, p. 398, narrando i fatti del 1204 affermano che « [...] Galiardi
exiverunt de civitate Mediolani pro suprascripta discordia ». Il Liber de Temporibus di
Alberto Milioli, p. 454, sostiene che nel 1200 « In millesimo CC. anno fuit maxima
discordia inter Maçaperlinos et Scopaçatos in civitate Reg.; et fuerunt inventi V consu-
les pro comuni: Ugonem Coradi, Arduinum de Sesso et socios; et exiverunt civitatem
et stabant per castra Regii; [...] ».
22 L’esclusione dei da Vivaro da Vicenza nel 1194 è testimoniata da Gerardo Mau-

risio come un’espulsione: « [...] et sic inter ipsos orta discordia partes insimul pugnave-
runt et, tunc pro magna parte civitate combusta, tandem pars Vivaren’sium cum ipso
domino Ecelino expulsa est de civitate, cum qua pars exivit tunc bone memorie Pistor
episcopus vicentinus » (Gerardi Maurisii Cronica, p. 6). L’esclusione dei sostenitori del-
la pars populi da Brescia è descritta con questi termini dagli Annales Brixenses, p. 816:
« 1203. rupta est inter milites et societatem Bruzele de mense Februarii, et Verzius
Tempesta deiectus de potestatu, et magna pars societatis capti sunt et in carcere positi,
et multi in banno perpetuati ». La stessa fonte, più oltre « [...] eodem anno, de mense

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IL NUOVO VALORE DELL’USCITA. LA GENERAZIONE DEL 1170 41

oppure expellere) può testimoniare l’attenzione dell’autore alle circostan-


ze che hanno portato all’uscita, a seconda che venga percepita come
più o meno forzata e cioè provocata o meno da una concreta minaccia.
La compresenza che in due casi si ritrova tra i due termini rispetto allo
stesso episodio segnala quanto talvolta potesse risultare difficile qualifi-
care in un senso o nell’altro gli esiti delle battaglie 23. Ma ciò non toglie
che, anche quando l’uscita avviene in conseguenza a un’azione militare,
e dunque nei fatti sia sollecitata dalla parte vincitrice, essa rimanga
qualcosa di diverso da un decreto di espulsione emanato dal governo.
Dunque, come si è già accennato nel primo capitolo, la distinzione
terminologica tra esclusioni più attive e più passive non può essere
tradotta nel discrimine che secondo Jacques Heers separerebbe le esclu-
sioni « ambigue » o « semivolontarie » dalle esclusioni « d’autorità ». L’unica
differenza che le fonti consentono di rilevare è quella tra l’atto stesso
dell’uscita e la ritorsione promossa dall’autorità comunale in seguito e
– nell’ottica dell’esclusione più antica, quella rivolta contro chi colpisce
la pace – in conseguenza dell’uscita 24.
Già nell’epoca dei conflitti di Federico I è riscontrabile tale distin-
zione: i giuramenti della lega prevedono la pena dell’espulsione per chi
sarà sentenziato come proditor, ma a Piacenza tale pena è stabilita pro-

Octubris deiectus fuit de potestate et reversi et restituti sunt in civitate illi qui deiecti
et capti erant, per Narisium comitem et Pizium et Iacobum confanonerium et pro
eorum parte ». Simile il racconto di Codagnello: « Qui [i cremonesi alleati ai milites]
eos quos voluere de populo ceperunt et in carcere recluserunt, alios vero extra civitate
expulerunt » (Johannis Codagnelli Annales, p. 34).
23 Le azioni condotte dai Vivaresi nel 1209 sembrano avere il carattere dell’espul-

sione: « Tunc domos et turres quamplures amicorum domini Ecelini, ipsis fugatis, de-
struxerunt », ma subito dopo il cronista si riferisce a costoro come « amicos domini
Ecelini qui de civitate exierant » (Gerardi Maurisii Cronica, p. 12).
Simile il vocabolario usato dagli Annales Brixienses a proposito dei fatti bresciani
del 1210: « [...] et circa festum sancti Faustini expulsi sunt de civitate Iacobus confa-
nonerius cum filiis Bocacii et cum societate eorum et Thomas potestas, et acceperunt
Vielminum de Lendera pro potestate, et omnes tures eorum et eorum dificia dirupta
sunt, et reducti sunt in Gavardo et Rodingo et Montreundo et Terenzano et Palazolo »
(Annales Brixienses, p. 817). Poco oltre, tuttavia, a proposito degli stessi, viene usato il
campo semantico dell’uscita: « [...] fuit bellum magnum inter Mediolanenses et pars
illorum qui exierant de civitate Brixie ex una parte, et Cremonenses et Brixienses qui
remanserunt in civitate ex altera [...] », e « [...] facta est pax inter filios domni Bocaci
cum omnibus illis qui exierunt de civitate ex una parte et illi qui remanserunt ex
altera, [...] ». Così anche Johannis Codagnelli Annales, p. 43 che si riferisce ai « [...]
milites extrinseci Brixie [...] ».
24 V. Capitolo I.

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42 GIULIANO MILANI

prio nei confronti di coloro che, uscendo dalla città, si sono uniti a
Federico. In questo senso la scarna formula con cui il breve piacenti-
no aveva definito i nemici interni (« illi qui cum imperatore exiverunt »)
non costituisce soltanto, in negativo, una traccia della cautela con cui
il comune della metà del XII secolo volle presentarsi come istituzione
capace di definire il reato politico perpetrato nei suoi confronti 25. Essa
testimonia anche la grande importanza conferita a uno degli aspetti
della ribellione dei cives filoimperiali: l’uscita dalla città invocata dal
comune per privare dei diritti di residenza e di proprietà coloro che
l’hanno compiuta. Osservando la diffusione che il ricorso all’uscita as-
sume in questa nuova fase si è tentati di concludere che fu proprio il
consolidamento del potere comunale sulla città e sul territorio avvenu-
to nel ventennio che separa la pace di Costanza dai primi decenni del
Duecento a spingere molti gruppi che intendevano manifestare il pro-
prio dissenso al governo comunale a scegliere, tra le possibili forme di
protesta, l’uscita dalla città, innescando a loro volta una reazione co-
munale più consistente.
In maniera analoga l’introduzione del podestà forestiero, fondata
sull’idea di un unico magistrato superiore riconosciuto, capace di « sot-
trarre il vertice alla competizione » 26, provocò una complessiva necessità
di definirsi dei gruppi in conflitto, che per la prima volta si presentaro-
no come organizzazioni dotate di un’esplicita finalità politica. È vero
che i conflitti che vedevano opporsi queste organizzazioni – fondamen-
tali per comprendere la stessa affermazione del comune podestarile –
affondavano le loro radici nei mutamenti della società cittadina. Paolo
Cammarosano ha indicato al proposito negli anni 1175-1220, dunque
esattamente in questa generazione, il momento di compresenza di tre
fenomeni tra loro interconnessi: la confluenza al vertice della società
cittadina di un gruppo di famiglie diverse dalle precedenti, destinate a
rimanere in una posizione elevata fino alla fine del Duecento; la mani-
festazione di nuovi conflitti, connessi a questa « saturazione » del vertice
della società cittadina; l’esigenza di trovare un raccordo superiore, che
si esprime nell’affermazione del podestà forestiero 27. Jean-Claude Maire

25 V. Capitolo II.
26 Per questa interpretazione, ormai largamente condivisa dell’avvento del podestà
forestiero si rimanda ai lavori di Enrico Artifoni, Tensioni sociali; Artifoni, I podestà
professionali; Artifoni, Città e Comuni; Artifoni, I podestà itineranti e l’area comunale
piemontese.
27 Cammarosano, Il ricambio e l’evoluzione dei ceti dirigenti, pp. 22-30.

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IL NUOVO VALORE DELL’USCITA. LA GENERAZIONE DEL 1170 43

Vigueur, da parte sua, ha messo in risalto la grande estensione della


milizia cittadina in questa fase – a suo giudizio pari al 10-15% della
popolazione – definendola come un ceto dotato di privilegi, rituali e
abitudini che non si esauriscono né nella stipulazione di legami feudali,
né nell’attribuzione del cingolo cavalleresco. Tra queste abitudini egli
menziona la propensione a ricorrere alla violenza, capace di spiegare,
da un lato, la presenza di una serie di microconflitti, dall’altro le rea-
zioni pubbliche a questa ingombrante presenza, tra cui il ricorso al
podestà forestiero 28. Ma è anche vero che fu solo quando il comune si
affermò come potere superiore agli interessi dei gruppi, che questi stes-
si gruppi cominciarono a emergere con una propria struttura e con un
proprio nome. Solo una volta chiarita l’esistenza di un intero, insomma,
si cominciò a parlare delle parti che, combattendosi, lo componevano.
Nelle pagine che seguono il percorso sin qui delineato verrà espo-
sto a ritroso. Si partirà dalla forma che nelle varie città assunsero i
conflitti e dall’organizzazione dei gruppi che parteciparono a questi scon-
tri. Si passerà in seguito a rendere conto del ricorso all’uscita da parte
di questi nuovi gruppi in conflitto. Si proverà quindi a valutare il
ruolo dell’avvento del podestà nella ritorsione che queste uscite scate-
narono. Solo a questo punto si tornerà al caso bolognese, per osser-
varne le specificità nei primi decenni del Duecento alla luce dell’analisi
comparativa.

2. Tipi di gruppi e tipi di conflitti

Al silenzio dei primi registri e dei primi statuti fa riscontro il frago-


re delle cronache. Il censimento dei conflitti interni condotto sulla base
delle fonti narrative di quest’epoca ne rivela l’addensarsi nel periodo
1190-1210 in coincidenza con il momento di massima incertezza del
potere imperiale, quello che va dalla morte di Federico I a quella di
Ottone IV con una netta intensificazione in occasione della fine prema-
tura di Enrico VI nel 1198. Come si è accennato, rispetto all’età di
Barbarossa la novità più rilevante è costituita dalla presenza di gruppi
organizzati che pur manifestando una stessa necessità di associarsi per
sostenere rivendicazioni politiche assumono forme differenti. La prova
del carattere generale di questi fenomeni risiede nella contemporaneità
con cui i conflitti si manifestano e i gruppi si formano o si esplicitano,

28 Maire Vigueur, Flussi, circuiti e profili, pp. 1045-1049.

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44 GIULIANO MILANI

ma le peculiarità locali della configurazione sociale e della posizione


politico-diplomatica pesano nella vicenda di ogni comune. In particola-
re tali forme variano con il mutare delle tradizioni politiche locali e
delle specificità della composizione aristocratica. In molte città della
Marca trevigiana 29 (Treviso, Vicenza, Verona, Ferrara), dove esistono forti
differenze economiche e sociali tra pochissime famiglie e il resto della
società, sono queste famiglie a condurre il gioco tendendo alla « forma-
zione di veri e propri partiti a dimensione regionale » con a capo « le
due potenti casate feudali dei da Romano e dei Marchesi d’Este » 30.
Nelle altre città dell’Italia padana e cioè nell’area lombarda, piemontese
ed emiliana, dove le famiglie più importanti sono raccolte intorno al
vescovo o dove il ceto militare è caratterizzato da una maggiore omo-
geneità, le componenti non-aristocratiche della società cittadina entrano
negli scontri e contribuiscono ad articolare il conflitto secondo la fedel-
tà a societates connotate in senso sociale (di cavalieri e di fanti, di
« grandi » e « piccoli », di milites e populus). Tra questi due idealtipi
vengono poi a collocarsi, specialmente nelle città che, come Mantova e
soprattutto Brescia, si trovano al confine tra le due aree, situazioni in-
termedie, di grande interesse, in cui il conflitto sociale e quello delle
grandi casate si intrecciano in maniera esplicita.
Nella Marca trevigiana è comunque significativo che, al di là delle
risalenti tradizioni dei lignaggi comitali delle città, solo alla fine del XII
secolo tali lignaggi si comincino a presentare come partes. Il caso di
Vicenza, sul quale possediamo meno notizie dal punto di vista proso-
pografico, segnala solo a partire dagli anni Ottanta del XII secolo una
polarizzazione delle famiglie intorno al lignaggio comitale cittadino, i
conti Maltraversi, da un lato, e alla stirpe dei da Vivaro, advocati del
vescovo e collegati alla stirpe signorile dei da Romano, dall’altro 31.
Un’illustre tradizione di studi comprensiva della celebre lezione se-
staniana sull’origine delle signorie permette di seguire in maniera più
analitica la vicenda ferrarese. Le due famiglie dei Torelli, di antichissi-
ma tradizione cittadina, e dei marchesi d’Este, eredi della fortuna dei
da Marchesella-Adelardi, elevandosi di molto al di sopra di tutte le
altre per ricchezza e prestigio, presero rapidamente le redini del conflit-

29 Insiste sulle specificità della Marca trevigiana Bortolami, Frontiere politiche e

frontiere religiose, ripreso in Bortolami, Politica e cultura, pp. 206-216.


30 Bortolami, Politica e cultura, p. 208.
31 Ma cfr. almeno Lampertico, I podestà di Vicenza; Cracco, Da comune di fami-

glie a città satellite, pp. 85 e ss. e Castagnetti, I conti.

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IL NUOVO VALORE DELL’USCITA. LA GENERAZIONE DEL 1170 45

to che venne ad articolarsi secondo fedeltà rigidamente verticali 32. Gli


studi di Andrea Castagnetti consentono però di notare come anche qui
lo scontro non si manifestò prima dei decenni a cavallo tra XII e XIII
secolo e fanno pensare che fu sollecitato dall’evoluzione del resto della
società cittadina e delle relazioni diplomatiche. Forse già l’arrivo degli
Estensi verso la metà del XII secolo aveva cominciato a scompaginare
le fedeltà alle famiglie Torelli e da Marchesella Adelardi 33. Ma furono i
nuovi scontri di inizio Duecento a costringere a schierarsi, secondo scelte
non leggibili univocamente, un gran numero di famiglie che solo da
poco erano entrate nell’aristocrazia consolare 34.
L’impressione è confermata dalla vicenda veronese. Secondo Luigi
Simeoni a Verona le partes che si erano aggregate nell’età di Federico I
sulla fedeltà a due lignaggi comitali – quello dei conti cittadini, i San
Bonifacio, e quello dei conti di Garda, i Turrisendi – si ristrutturarono,
una generazione dopo, sulla rivalità tra San Bonifacio e Monticoli, una
stirpe militare di mercatores che aveva acquisito diritti signorili35. Allo
sfaldamento delle alleanze aveva contribuito il passaggio della città al
fronte antiimperiale. Questo rimescolamento, che era avvenuto a tutti i
livelli, si intensificò nei primi anni del Duecento quando le parti citta-
dine cominciarono a delinearsi con maggiore precisione 36.
Fuori dalla Marca trevigiana la mancanza di punti di riferimento
altrettanto forti fa sì che il conflitto presenti forme più variegate. Nelle
realtà più piccole, laddove la società è meno articolata, il conflitto è
presentato ancora nella forma dell’opposizione tra due famiglie. Talvol-
ta, come a Mantova, la differenza con il Veneto si riduce alla presenza

32 Sestan, Le origini delle signorie cittadine, pp. 62-63.


33 Castagnetti, Società e politica a Ferrara, pp. 197-201 censisce i fedeli delle due
parti sulla base del giuramento dei fideiussori di Azzo d’Este per il possesso di Argen-
ta, prestato nell’aprile 1212, pubblicato in appendice (per gli Estensi) e della presenza
nella documentazione cittadina fino al 1209, e della ricomparsa nel 1211 dopo l’assen-
za coincidente con il periodo in cui Salinguerra Torelli era fuoriuscito (per i Torelli,
appunto). La famiglia dei Turchi, imparentata con i da Marchesella, risulta per esem-
pio sul fronte dei Torelli.
34 Castagnetti, Società e politica a Ferrara. Si tratta dei Trotti, dei da Fontana, sul

fronte filoestense, e dei Guidaldi, Guizzardi, Misotti, Susinelli e Tornaimparte sul fron-
te dei Torelli.
35 Simeoni, Il comune veronese fino a Ezzelino, pp. 26-35.
36 Simeoni, Il comune veronese fino a Ezzelino. Si ebbe per esempio il passaggio

di fronte di alcune grandi famiglie come i Crescenzi, milites, e i dalle Carceri, di stirpe
capitaneale, dai Monticoli alla pars Comitis, e quello dei figli di Turrisendo Turrisendi,
già legato al conte, ai Monticoli.

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46 GIULIANO MILANI

di accordi tra le famiglie a guida delle parti, i Poltroni e i Calorosi, e le


famiglie appartenenti alla clientela degli uni e degli altri 37. In altri casi,
una delle due famiglie si presenta quale tutrice degli interessi del comu-
ne (e quindi dei ceti che confidano nell’istituzione comunale, in assenza
di legami familiari forti), mentre l’altra vi si oppone, in uno schema che
ricorda i conflitti della generazione precedente. Così a Bergamo, dove
nel 1207 i testimoni interrogati nella vicinia di San Pancrazio affermano
che il conflitto tra Rivola e Suardi è in realtà un conflitto tra Suardi e
comune 38. È inoltre attestato che la famiglia che al comune si oppone
tenta di costituire, negli stessi anni, un comune alternativo 39.
Nelle città più sviluppate, in cui è presente un’articolazione sociale
maggiore, dovuta soprattutto alla presenza di un’aristocrazia immigrata
nella seconda metà del XII secolo, e di un resto della società capace di
organizzarsi, la menzione delle famiglie cede il posto a quella delle so-
cietates dei milites e del populus. Così a Pavia con la presenza di una
societas Sancti Siri, popolare, e una societas militum 40; così anche a
Reggio, con la parte degli Scopaçati, militare, e quella dei Maçaperlini,
popolare 41. A Cremona la divisione si manifesta anche topograficamen-
te, tra una città nuova, popolare e la città vecchia nobiliare 42. Milano,
infine, che in quest’epoca è la maggiore città italiana, e la cui società è
quindi particolarmente complessa nelle sue articolazioni, vede la presen-
za di ben quattro società, una a composizione militare, la Societas capi-
taneorum et vavassorum, due a composizione popolare, la Credenza di
Sant’Ambrogio e la societas mercatorum, detta « popolo », e una quarta,
la Motta, caratterizzata da una forte ambiguità, in quanto formata da
personaggi che provengono dal novero dei milites e che tuttavia com-
battono a fianco del popolo 43.
Quella tra lepartes venete e le societates del resto della valle Padana
non è una semplice variante tipologica ma una differenza cruciale. Non
deve ingannare su questo punto il fatto che nelle pagine precedenti i

37 Vaini, Dal comune alla signoria, che tuttavia per questa fase non supera molto
il livello della narrazione cronachistica.
38 Mazzi, La pergamena Mantovani. Per un inquadramento Sala, Problemi, avveni-

menti, aspetti della vita civile a Bergamo.


39 Secondo Sala, il Comune suardorum era dotato di consoli e collegium.
40 Vaccari, Pavia nell’alto medioevo ertà comunale, pp. 55-65.
41 Alberti Milioli notarii regini, Liber de Temporibus, p. 454.
42 Astegiano, Ricerche sulla storia civile, pp. 290-300.
43 Per una sintesi, con bibliografia, Vallerani, Le città Italiane nell’epoca di Federi-

co II, pp. 393-399.

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IL NUOVO VALORE DELL’USCITA. LA GENERAZIONE DEL 1170 47

due tipi di associazioni siano state presentate come prodotte dallo stesso
movimento di trasformazione della vita politica innescato dall’affermazio-
ne del podestà forestiero. Come ha scritto recentemente Enrico Artifoni,
il regime podestarile « da un lato, precludendo lo stanziamento diretto
al vertice istituzionale di famiglie (...) induce una trasformazione delle
strategie di accesso alla scena politica che devono farsi più raffinate ed
elaborare soluzioni nuove (...). Dall’altro ciò si traduce in una maggiore
mobilità dell’attività politica, nella quale lo strumento del raggruppamen-
to organizzato si affianca ora, senza sostituirli, ai tradizionali strumenti
della forza militare e della potenza sociale » 44. Tenendo conto di ciò si
può comprendere come la formazione delle partes della Marca, che pure
avvenne solo in questi decenni, costituì il semplice processo di adatta-
mento delle stirpi che occupavano il vertice della società urbana al nuo-
vo sistema, mentre la costituzione delle società nelle altre città padane
rappresentò un’innovazione profonda e fu la premessa per la nascita di
un movimento di « popolo » destinato a mutare profondamente la vicen-
da comunale.
Non è un caso che nelle due aree delle partes-lignaggi e delle par-
tes-societates fu profondamente diversa la funzione svolta in questa pri-
ma fase dagli stessi podestà forestieri. Com’è stato ricordato recente-
mente le podesterie di molte città della terraferma veneta furono per lo
più occupate da esponenti dei grandi lignaggi degli Este e dei da Ro-
mano o da altri personaggi ad essi legati, e non beneficiarono se non
in misura minore della funzione di mediazione dei conflitti cittadini
svolta dai podestà lombardi 45. Particolarmente significativo, in quanto
intermedio, appare quindi il caso bresciano. A Brescia la presenza, da
un lato, di una società cittadina capace di trovare ragioni nella contrap-
posizione tra milites epopulus, e, dall’altro, di stirpi comitali ben inseri-
te nel ceto dirigente cittadino provocò la formazione di parti mutevoli
e cangianti, in cui di volta in volta venivano a intrecciarsi solidarietà
politiche e fedeltà clientelari. I conflitti si accesero nel 1200 in occasio-
ne di un intervento militare a Bergamo e proseguirono fino al 1201.
Essi videro opporsi la societas militum, guidata dal conte Alberto di
Martinengo, a una società « popolare », la societas Sancti Faustini, guida-
ta dal conte Narisio di Montichiaro. Nel 1203 i conflitti si riaprirono,
ma stavolta la societas militum si oppose alla societas Bruzele, una socie-
tà il cui nome, forse connesso al carroccio, rimandava comunque al-

44 Artifoni, I podestà itineranti, pp. 41-42.


45 Bortolami, Politica e cultura, pp. 210-211.

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48 GIULIANO MILANI

l’ideologia della difesa delle istituzioni comunali 46. Nel 1207 si aprì un
fronte ulteriore: la lotta tra la parte del conte Alberto di Casaloldo,
alleata ai milites del monastero benedettino di Leno, e la parte di Gia-
como Confalonieri, miles cittadino, già filopopolare, ma alleato con altri
cavalieri transfughi dalla societas militum.
È significativo che, come appare dalla seguente tabella, le fonti che
testimoniarono questi avvenimenti (una cronaca locale, due cronache di
altre città, e infine un corpus di patti con Cremona, città che, come si
vederà nel prossimo paragrafo, ebbe stretti contatti con le parti brescia-
ne) divergano nei nomi attribuiti agli schieramenti contendenti. Il pia-
centino Giovanni Codagnello e l’autore degli Annali cremonesi, prove-
nienti da città fortemente segnate dal conflitto milites/populus, interpre-
tano sempre il conflirtto bresciano in termini a loro familiari. La crona-
ca locale usa definizioni più specifiche e fa largamente ricorso ai nomi
dei capi, mentre i patti con Cremona, dotati di un valore giuridico,
sembrano fissare i nomi che le parti si sono attribuiti.
Sulla presenza di un corpus di patti stipulati con Cremona si ritor-
nerà presto. Per ora basti dire che essa indica come alle due ragioni
principali che dividevano la società bresciana (fedeltà a grandi aristocrati-
ci, in particolare conti, e conflitto milites/populus) venne presto ad ag-
giungersene una terza, di ordine diplomatico. La Marca e il resto del-
l’Italia padana retta a comune rappresentarono in quest’epoca anche due
sistemi di alleanze, in origine distinti, ma tendenti a entrare in contatto e
a comunicare, condizionando, come avvenne a Brescia, i conflitti interni.
La generazione che si trovò a vivere nella Padania occidentale dopo
la pace di Costanza assistette allo sviluppo di un sistema di dominazio-
ne promosso da Milano. Uscita rafforzata dall’esperienza della guerra
con Federico I, la metropoli lombarda si trovò a coordinare attorno a
sé, soprattutto per mezzo dello sviluppo di una rete di podestà, un
gran numero di comuni, prima intervenendo direttamente sui centri
più vicini (Lodi, Como, Monza), poi cercando di arginare l’espansione
delle città nemiche con l’aiuto di poche alleate fedeli (Brescia, Piacen-
za, Vercelli, in parte Bologna) 47. Tale sistema era volto fondamental-
mente ad arrestare la potenza di Cremona, che pur non disponendo di

46Pochi anni dopo a Bergamo si chiama Cominella o comunella, la parte che si


oppone ai Suardi difendendo il comune, come ricorda Belotti, Storia di Bergamo, II,
p. 22, dal quale tuttavia non è possibile trarre altro che pochi dati.
47 Vallerani, Modi e forme della politica pattizia di Milano. Per il periodo prece-

dente v. Haverkamp, La lega lombarda sotto la guida di Milano.

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IL NUOVO VALORE DELL’USCITA. LA GENERAZIONE DEL 1170 49

Tabella 1 – La definizione delle parti bresciane nelle fonti.

Annales Annales Johannes Patti con


Anno
Brixienses Cremonenses Codagnellus Cremona

1200 – Societas Sancti – Populus – Populus – Societas comitis


Faustini Narixii que so-
cietas dicitur esse
Sancti Faustini et
esse illos qui el-
ligerunt eum po-
testatem
– Milites – Milites – Milites – Societas Militum

1201 – Populus Brixie – Populus – Societas Sancti


Faustini
– Milites – Milites – Societas Militum

1203 – Societas Bruzele – Populus


– Milites – Milites

1207 – Pars Iacobi qui – Populus – Pars Iacomi Con-


fuit consul cum fanonerii
filiis Boccati de
Manervio
– Pars comitis Al- – Milites – Societas illorum
berti atque Vi- qui intraverunt in
fredi confanorii castrum Leonense
et militum Lene

1208 – Populus – Populus – ?


– Milites – XXX vel XL – Milites Brixie
milites

1210 – Ilii de civitate


– Illi qui diceban-
tur de Leno

1211 – Brixienses – Brixienses


– Iacobus Confa- – Pars Bruzelle
nonerius cum
filiis Boccacii
et cum societa-
te eorum

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50 GIULIANO MILANI

un sistema di coordinazione politica altrettanto sviluppato, riuscì ad


allestire un circuito di alleanze e a scambiarsi podestà con Bergamo,
Parma, Asti, Modena e Reggio 48. In tal modo la maggior parte dei
conflitti tra città confinanti che si erano riaccesi alla morte di Enrico
VI (Bergamo vs. Brescia; Piacenza vs. Parma; Cremona vs. Piacenza;
Asti vs. Vercelli; Bologna vs. Modena) si trovarono ad ricadere in due
reti imperniate sulla rivalità che opponeva Milano e Cremona. Nella
Marca, per quanto già tracciata in precedenza, la rete delle alleanze
sembra prendere forma più stabile dal 1195 quando per sedare gli
scontri interni vicentini furono inviati due podestà veronesi 49. Negli
ultimi anni del XII secolo la stipulazione della pace tra Verona e Fer-
rara (1199) intensificò i contatti tra le partes veronesi e quelle ferraresi,
fino a quel momento frenati dalla rivalità tra le due città. I Turrisendi
e i Monticoli si allearono così con i Torelli, i conti di San Bonifacio
con gli Estensi. La firma della pace tra Verona e Mantova (1202), che
giungeva anch’essa al termine di un lungo conflitto, avvicinò invece le
contese veronesi alla disputa tra Milano e Cremona (Mantova era alle-
ata con Cremona) 50. In questo modo i conti si avvicinarono a Cremo-
na, i loro avversari a Milano 51.
L’entrata in contatto della contesa Milano-Cremona con la rivalità
delle partes-lignaggi della Marca costituì la prima premessa per la for-
mazione di due grandi schieramenti potenzialmente in grado di fornire
nuovi motivi di scontro ai gruppi che si combattevano all’interno di
ogni comune. A Brescia l’influenza degli schieramenti lombardi era sta-
ta precoce poiché già nel 1200 la societas militum aveva stretto un’alle-
anza con Cremona. In virtù di quest’alleanza il « popolo » e le parti che
lo sostennero entrarono in contatto con Milano. Nel 1208, mentre Mi-
lano chiedeva a Brescia di entrare nella Lega e di abbandonare l’allean-

48 Per la politica cremonese v. Vallerani, Cremona nel quadro conflittuale delle città

padane, e Vallerani, I patti tra Cremona e le città.


49 Si tratta di Ottonello Turrisendi, futuro alleato dei Monticoli per tutelare i da

Vivaro; Vermilio dei Crescenzi, futuro alleato dei San Bonifacio, per rappresentare i
conti Maltraversi. Cracco, Da comune di famiglie a città satellite, p. 85.
50 Documenti per la storia delle relazioni diplomatiche fra Verona e Mantova, pp.

17 e ss.
51 Nel 1205 Turrisendi e Monticoli allontanarono il podestà di Verona per inse-

diarci il milanese Robaconte da Mandello. Questi attacca il borgo di San Bonifacio.


Per ritorsione i Conti lo allontanano e chiamano Azzo d’Este. Per cacciare Azzo d’Este,
nel 1206 i Monticoli si rivolgono a Ezzelino II da Romano, e così anche Vicenza si
trova inserita nella contesa (Simeoni, Il comune veronese, pp. 30 e ss.)

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IL NUOVO VALORE DELL’USCITA. LA GENERAZIONE DEL 1170 51

za con Cremona, furono stipulati una serie di patti che mettevano in


risalto una contrapposizione ormai estesa: Estensi, San Bonifacio, Cre-
mona, Mantova e gli esuli bresciani contro rispettivamente, Torelli,
Monticoli, Milano, da Romano e Brescia. In questa cornice si svolse il
viaggio italiano di Ottone IV. La scomunica papale che lo colpì nel
novembre del 1210 provocò un ulteriore motivo di scontro tra gli schie-
ramenti: Salinguerra Torelli, con Ezzelino II, mantenne la sua fedeltà a
Ottone, Azzo d’Este si schierò con il giovane Federico II. Alle parti
che combattevano all’interno, insomma vennero a collegarsi quelle che
cominciavano a opporsi al di fuori dalla città, su una scala, ormai, più
che regionale.

3. Il ricorso all’uscita dalla città

Albert O. Hirschmann ha elaborato un modello di descrizione dei


fenomeni di dissenso basato su due possibilità alternative: la protesta
(voice) e la defezione (exit). Nel primo caso chi intende manifestare la
propria divergenza e cerca di ottenere una modifica si fa sentire, nel
secondo caso semplicemente abbandona il campo e si rivolge altrove52.
La forza del modello risiede nella semplicità del suo funzionamento,
nel carattere « idraulico » che, secondo il suo creatore, presenta: aumen-
tando il ricorso alla protesta diminuisce, di converso, quello alla defe-
zione, e viceversa. Tentando di applicare questo semplice modello ai
conflitti che hanno luogo nei comuni in questa generazione, è facile
notare come la definizione del campo di fenomeni classificabili sotto
l’etichetta « protesta » non presenti alcun problema: cronache e docu-
menti attestano come spesso in questi anni gruppi organizzati protesti-
no contro alcuni aspetti della politica del comune. Le proteste delle
societates « popolari » contro i privilegi della milizia non sono che uno
degli esempi possibili. Più complesso è definire le manifestazioni del
ricorso alla « defezione ». In apparenza si tratta di una possibilità che
pertiene alla sfera dell’economia più che della politica, in quanto pre-
suppone un regime di concorrenza in cui esiste un’alternativa possibile
a cui fare ricorso. D’altra parte, lo stesso Hirschmann suggerisce una
possibilità di applicazione introducendo nel modello la « lealtà ». Nei
sistemi dotati della componente « lealtà », come appunto le istituzioni
politiche, è rara la presenza di defezione pura. Al suo posto tendono a

52 Hirschmann, Lealtà, Defezione, Protesta.

Capitolo 2.pmd 51 09/11/2009, 16.24


52 GIULIANO MILANI

presentarsi forme di comportamento come la minaccia di defezione o il


boicottaggio 53.
L’uscita dalla città, che come si è accennato, assume in questa fase
un significato politico anche in quei pochi casi in cui è il risultato di
una sconfitta militare, può essere descritta quasi sempre come una for-
ma di boicottaggio, condotto da chi esce, nei confronti del comune. È
per indebolire il comune con il quale si trovano in disaccordo che i
membri dei gruppi perdenti escono dalla città, privandola delle loro
risorse, combattendola dall’esterno, e sperando di tornare vincitori in
un comune che, a quel punto, persegua l’indirizzo che essi sostengono.
Questo elemento di fondo, spesso misconosciuto da quanti hanno mes-
so l’accenno sulla passività dell’uscita, è utile per comprendere la diffe-
renza nel ricorso a questa strategia (boicottaggio e al tempo stesso ex-
trema ratio) tra città della Marca e di altre regioni negli anni 1194-
1213. Fuori dalla regione divisa tra Estensi e da Romano uscirono dalla
città per brevi periodi soltanto la parte reggiana degli Scopaçati (cioè i
milites), nel 1199-1200 54, e la societas galiardorum, ovvero la punta di
diamante della milizia milanese, tra 1204 e 1205 55. Non si registrano
uscite rilevanti in nessun altro centro interessato da conflitti (Cremona,
Pavia, Bergamo per citare quelli di cui più estesamente conosciamo i
conflitti). Negli stessi anni nella Marca e nelle sue propaggini l’uscita
era al contrario un opzione praticatissima. A Vicenza uscirono i da
Vivaro tra 1194 e 1195 56, Ezzelino II tra 1208 e 1209 57, e nuovamente
i da Vivaro tra 1210 e 1213 58. A Verona i Monticoli abbandonarono la
città tra 1207 e 1213 59. A Ferrara i Torelli tra 1207 e 1208 e poi tra
1210 e 1212 60. A Mantova i Poltroni nel 1213 61.
53 Hirschmann, Lealtà, Defezione, Protesta, pp. 71 e ss.: « Il boicottaggio è spesso

un arma dei clienti che sono privi, almeno in quel momento, di una fonte alternativa
di approvvigionamento dei beni o dei servizi che generalmente acquistano dall’azienda
o organizzazione boicottata, ma che possono temporaneamente farne a meno. È per-
tanto un’uscita temporanea senza una corrispondente entrata altrove, ed è costosa per
entrambe le parti, più o meno come uno sciopero. Anche da questo punto di vista il
boicottaggio combina caratteristiche dell’uscita, che causa perdite all’azienda o organiz-
zazione, e della voce, che costa tempo e denaro ai membri ».
54 Alberti Milioli notarii regini liber de temporibus, p. 204.
55 Annales Mediolanenses minores, p. 398.
56 Gerardi Maurisi Cronica dominorum Ecelini, p. 6.
57 Gerardi Maurisi Cronica dominorum Ecelini, p. 6-7.
58 Gerardi Maurisi Cronica dominorum Ecelini, p. 7.
59 Simeoni, il comune veronese fino a Ezzelino, pp. 27-33.
60 Castagnetti, società e politica a Ferrara, p. 192.
61 Amidei, Cronaca Universale, p. 334.

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IL NUOVO VALORE DELL’USCITA. LA GENERAZIONE DEL 1170 53

Fino al secondo decennio del Duecento si nota dunque una certa


corrispondenza tra tipo delle organizzazioni in conflitto e presenza del-
l’uscita. Nella Marca, dove i conflitti sono articolati in partes-lignaggi, si
ricorre all’uscita. Altrove, dove sono caratterizzati dalla presenza delle
partes-societates, tendenzialmente non lo si fa. Viene spontaneo conside-
rare la presenza di un’aristocrazia dotata di una serie di risorse che la
rendono più adatta a utilizzare questa opzione. Da questo punto di
vista la differenza sembra legata non tanto alla presenza di un’aristocra-
zia capitaneale 62, quanto all’esistenza di lignaggi ancora detentori di qua-
lifiche (non importa quanto usurpate o prive di corrispondenza con la
realtà) legate all’esercizio di poteri pubblici: comites e marchiones, forte-
mente ancorati al territorio. Sono soprattutto questi aristocratici a usci-
re per lunghi periodi dalla città potendo contare su centri del contado
in cui rifugiarsi e reclutare sostenitori.
Ma è ovvio che la qualifica comitale o marchionale costituiva solo
una delle precondizioni per ricorrere all’uscita. Perché ciò si realizzasse
occorreva un motivo scatenante, un conflitto non risolvibile in maniera
diversa, uno scontro particolarmente difficile da mediare. Occorre dun-
que considerare il grado di negoziabilità che possedevano i conflitti
nelle varie città. Torniamo per un momento al più antico degli episodi
di esclusione ricordati dalle fonti. A Vicenza la polarizzazione di due
partes, che facevano riferimento da un lato al conte cittadino, dall’altro
alla famiglia dei da Vivaro, avvocati dell’episcopio e collegati alla stirpe
dei da Romano, risulta visibile già nel 1184 63. Tale processo condusse
nel 1194 alla designazione di due iudices, uno per ognuna delle partes,
affinché eleggessero un podestà. La carica era stata detenuta negli anni
precedenti soprattutto da personaggi molto legati alle fazioni (nel 1181
dal conte Ugezzone, nel 1183-84 da Ezzelino I da Romano). Stavolta fu
chiamato il miles bolognese Giacomo di Bernardo. A quanto riporta
Gerardo Maurisio, il nuovo podestà stipulò tuttavia un accordo scritto
per favorire la parte del conte e bandì pertanto Ezzelino dalla città. Da
tale azione sarebbe scaturito un conflitto civile durante il quale i da
Vivaro, il vescovo, Ezzelino e i loro fideles abbandonarono Vicenza. Il
loro ritorno fu patrocinato l’anno successivo grazie all’intervento vero-
nese che impose due podestà in rappresentanza delle due fazioni locali.

62 Per l’uso di queste categorie desunte da Keller, Signori e vassalli, v. ora Maire

Vigueur, Flussi circuiti e profili, pp. 1009-1013.


63 In quell’anno venne ucciso il vescovo Cacciafronte e dell’omicidio fu accusato

lo stesso conte che per questo venne privato dei beni che teneva in concessione dal-
l’episcopio (Cracco, Da comune di famiglie a città satellite, p. 85).

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54 GIULIANO MILANI

Nell’interpretazione di un cronista della generazione successiva la


vicenda della prima esclusione politica vicentina è dunque letta quale
conseguenza di una crisi nella funzione super partes del nuovo magistra-
to. Non si tratta di un dato sorprendente; le cronache di questi anni
sono piene di podestà cacciati perché incapaci di mediare. Le stesse
fonti peraltro mettono bene in evidenza il fatto che, a seconda delle
circostanze, i magistrati forestieri si trovassero di fronte a questioni di-
verse. Le differenze strutturali tra Veneto e Lombardia generavano dif-
ferenze nelle occasioni di scontro. È evidente che per un podestà era
più semplice trovare una soluzione laddove gruppi diversi si opponeva-
no sul pagamento dei crediti (come avvenne a Milano nel 1198 e a
Bologna nel 1176) o dove si chiedeva una diversa ripartizione delle
spese fiscali (come a Milano nel 1211) o di quelle dei lavori pubblici
(come a Cremona nel 1198) 64. Si trattava di conflitti del tipo che gli
scienziati sociali definiscono « divisibili », più facili da mediare poiché
rendono possibile alle parti in causa incontrarsi a metà strada. Ben
diverso era trovare una soluzione quando in discussione era l’opportu-
nità di compiere una spedizione contro Bergamo (come a Brescia nel
1200), associarsi alla Lega o rimanere alleati di Cremona (come a Bre-
scia nel 1207) e più in generale consegnare il comune all’una o all’altra
delle partes come a Verona, Vicenza e Ferrara tra 1206 e 1213. Qui il
compromesso era impossibile poiché si trattava di conflitti « indivisibi-
li », in cui accettare un’opzione significava non concedere nulla ai soste-
nitori dell’altra 65.
Dunque per spiegare la differenza nel ricorso all’uscita in quest’epo-
ca tra la Marca e il resto dell’Italia comunale padana non ci si può
limitare a fare riferimento a fattori relativi alla differenza nella composi-
zione sociale o nella distribuzione di risorse e prestigio, occorre chia-
mare in causa i motivi dello scontro. Il formulario di una serie di patti
stipulati da Cremona con Verona, Mantova e Ferrara mostra che la
differenza tra i conflitti che si svolgevano nelle due aree era percepita
anche dai contemporanei. Nel 1208 il comune di Cremona decise di
coinvolgere contro la crescente potenza di Milano le città venete. In
quel momento Azzo d’Este controllava Ferrara, mentre Verona era in
mano ai San Bonifacio. Salinguerra Torelli e i Monticoli erano fuori
città. Cremona si volle tutelare chiedendo esplicitamente che, nel caso
in cui le due parti estrinseche fossero rientrate in città in virtù di una

64 Per una rassegna v. Vallerani, Le città lombarde, pp. 393 e ss.


65 Su questa distinzione v. Hirschmann, A propensity to self-subversion, pp. 231-249.

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IL NUOVO VALORE DELL’USCITA. LA GENERAZIONE DEL 1170 55

concordia, queste avrebbero dovuto giurare una pace con Cremona.


Qualora, dopo questa concordia, i Monticoli e i Torelli fossero entrati
in conflitto con Cremona, il marchese d’Este e i San Bonifacio si impe-
gnavano a schierarsi con Cremona, contro i loro concittadini nemici 66.
Tre anni dopo, nel 1211, quando i disordini tra milites e populus a
Cremona avevano raggiunto un’intensità che non permetteva più di igno-
rarli, Cremona si trovò a stringere un trattato con le stesse città, che si
trovavano nella medesima condizione (con Azzo d’Este e i conti di San
Bonifacio al potere e i loro nemici fuoriusciti). La città lombarda impo-
se una clausola in cui si stabiliva che nel caso in cui nella stessa Cre-
mona fosse scoppiata una discordia tra la società dei milites e quella
del populus, Ferrara e Verona non avrebbero dovuto prendervi parte,
ma aiutare i combattenti a trovare un accordo. Le divisioni interne alle
città venete erano dunque considerate come date, non risolvibili e pre-
ferite alla rottura della pace con Cremona, quelle interne a Cremona
erano invece considerate transitorie e risolvibili: ai contraenti si impone-
va di contribuire a sanarle.
Questa differenza costituisce la ragione più importante dello scarso
ricorso all’uscita nelle città della Padania occidentale, in cui a quest’al-
tezza cronologica il conflitto milites/populus prevaleva nettamente ri-
spetto agli altri tipi di scontro. Accanto a ciò vi sono altre due ragio-
ni, testimoniate dalle eccezioni di Milano e di Reggio, che, pur appar-
tenendo a tale area, videro il ricorso all’uscita.In primo luogo non
sembra che il « popolo » fosse ancora sufficientemente forte da costrin-
gere i milites all’uscita. Ciò avvenne solo in quei casi in cui riuscì a
convogliare contro i propri nemici, mettendoli in minoranza, parti qua-
litativamente significative dell’aristocrazia. Le organizzazioni del populus
milanese, e cioè la Credenza di Sant’Ambrogio e la società dei Mer-
canti (peraltro attestata solo in questa occasione) con l’ausilio della
Motta, riuscirono a ottenere un risultato analogo solo nel 1204-1205,
quando lo schieramento rivale si divise. Uscì allora dalla città solo la
sua frangia più estremista, la società dei Gagliardi, che non accettando
la soluzione di compromesso costituita dalla triplice podesteria sostenu-
ta da popolo e societas capitaneorum et vavassorum, aveva eletto altri
tre podestà 67. In secondo luogo, per quanto attestato, non sembra che
fosse ancora stabile e diffuso il raccordo tra populus e personaggi di
stirpi aristocratiche capaci di mettere a disposizione dello schieramento

66 I patti tra Cremona e le città, p. 151.


67 Menant, La trasformation des institutions, p. 117.

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56 GIULIANO MILANI

popolare una base nel contado in cui fosse possibile rifugiarsi. Quando
la pars populi uscì sconfitta dagli scontri furono soprattutto i suoi lea-
ders aristocratici ad abbandonare la città. Nel 1200 a Reggio dovette
accadere qualcosa di simile. Secondo ciò che è possibile ricavare dalla
cronaca tardoduecentesca di Alberto Milioli, in un primo momento
uscirono dalla città per ritirarsi nei castelli del contado alcuni consoli
della pars militum. Il loro rientro, patrocinato dal vescovo cittadino,
portò all’uscita di altri personaggi di livello sociale elevato che si erano
schierati con il popolo 68.
La vicenda di Brescia, città di confine fortemente caratterizzata dal-
l’uscita in questi anni, sembra infine confermare l’importanza delle va-
riabili identificate (presenza di conti e marchesi, scarsa negoziabilità
dei conflitti e abbandono del ruolo super partes dei podestà, mancato
coinvolgimento del « popolo » nella secessione). Come appare dal se-
guente schema a Brescia sono testimoniate molte più uscite che in qual-
cunque altra città: qui uscirono i milites nel 1200, la Societas Sancti
Faustini nel 1201, la societas Bruzele dal 1203 al 1206, i milites vicini a
Leno nel 1207, i milites filocremonesi nel 1208-1209, e nuovamente la
pars Bruzella tra 1208 e 1213 69.
Rispetto alle città della Marca, a Brescia vi erano più conti e la
loro area di influenza era più legata al territorio di quanto non lo fosse
alla città. Nel gruppo che comprendeva i conti di Casaloldo, di Redal-
desco, di S. Martino e di Montichiari non era compreso un lignaggio
di conti « di Brescia », paragonabile a quelli dei San Bonifacio di Vero-
na o dei Maltraversi di Vicenza. Le stirpi comitali inoltre, erano ben
lontane da assorbire interamente il complesso reticolo di fedeltà che
innervava la società del primo comune. Tre istituzioni ecclesiastiche di
grande rilievo esercitavano ancora potere e raccoglievano clientele: il
vescovo di Brescia, il monastero femminile cittadino di Santa Giulia e
quello di San Benedetto di Leno, ognuno con il suo gruppo di capita-
nei nel ceto dirigente comunale. Infine esisteva un cospicuo gruppo di
milites cittadini, che non detenevano giurisdizioni nel contado, e la cui
prevalenza nel ceto dirigente comunale cominciava a essere minacciata
dalle rivendicazioni del populus. A Brescia, in quattro casi su sei a
uscire fu almeno uno dei quattro comites, e i luoghi scelti furono sem-
pre connessi alle giurisdizioni che i comites e i loro alleati detenevano
nel territorio. Nel 1201 il conte Narisio di Montichiari, guida della

68 Alberti Milioli notarii regini, Liber de Temporibus, p. 454.


69 Annales brixienses, pp. 815 e ss.

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IL NUOVO VALORE DELL’USCITA. LA GENERAZIONE DEL 1170 57

Tabella 2 – Il ricorso all’uscita a Brescia (1200-1213).

Parte che resta Parte che abbandona


Data
in città la città

1 Societas S. Faustini Milites > 1200 ante dic.


(alleati con Cremona) < 1201 agi- set.

2 Milites Societas S. Faustini > 1201 ago.-set.


(alleati con Mialno) < 1201 nov.

3 Milites Societas Bruzele > 1203 ?


(alleati con Milano) < 1206 ott.

4 Pars Iacomi Pars Alberti et milites de Leno > 1207 ?


< 1207 ott.

5 Populus 30-40 Milites > 1208 mag.


(alleati con Cremona) < 1209 apr.

6 Brixienses Pars Iacobi e Boccacci e pars > 1210 ago.


poi c’è il doc. 2271 de Lendinara anche 2279 Ia- < 1211 ott.-nov.
1212 per C. cobi (alleati con Milano

7 Illi qui in civitate Illi qui exiverunt > 1213 ante feb.
remanserunt (alleati con Milano) < 1213 ott. 5

parte « popolare », si rifugiò proprio nel castello di Montichiari. Secon-


do una trascrizione moderna di una fonte testimoniale perduta, in que-
sta occasione gli uomini del castello provvidero ad approvvigionare i
conti e a fornire la propria disponibilità per combattere al loro fian-
co 70. Pochi anni dopo un altro conte, Alberto di Casaloldo, poté fare
70 Fé d’Ostiani, I conti rurali bresciani nel Medioevo, p. 54: « Un teste affermò che
al tempo della prima Bresella era stato col conte Azzone, Zilio e Zippo a Monichiaro
sopra il palazzo del comune, nel quale gli stessi conti e il teste [Egidio Riccobono di
Redaldesco] erano ospitati ed ove furono fatti più consigli coi conti onde salvare Mon-
tichiaro dalla distruzione che volevano di esso fare i cremonesi, e ciò perché sarebbe
stata una gran perdita pei conti, i quali riposero allora ciò esser vero, e che avevano
fatto il possibile per premunirsi e che coll’ajuto di Dio speravano ciò non avvenisse; ed
in quella occasione dal Comune furono approvvigionati i conti di legna, di fieno, d’an-
nona, di letti, di carne, pane vino che era necessario e quindi stettero a lungo coi
consoli della terra con un milite che ministrava. Ancora al tempo della Brusella vide il
conte Zippo e il signor Vajano di Montichiaro che parlavano insieme ed ambedue sta-
vano decidendo di correre alle armi e gli uomini del paese andavano di poi dai conti in
grande guantità [sic] dicendo loro: ‘Voi che siete nella nostra casa e questa terra è casa
vostra, dite quel che volete che facciamo e noi siamo apparecchiati a fare’ ».

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58 GIULIANO MILANI

affidamento sull’abate del monastero di Leno e sugli uomini di questo


centro 71. A questa presenza comitale nelle uscite fa riscontro una assen-
za popolare. Se a Brescia la parte filopopolare uscì nel 1201, nel 1203,
è significativo che le fonti ricordino come solo i capi scelsero di allon-
tanarsi dalla città: il conte Narisio da Montichiari, alcuni suoi congiun-
ti, e il capitaneus Giacomo Confalonieri 72. Al « popolo » in quanto tale
l’uscita era ancora una strada preclusa. Quanto alla negoziabilità dei
conflitti e al ruolo dei podestà, Brescia offre un esempio illuminanti.
Nel 1200 gli scontri si aprirono su una scelta impossibile da mediare:
l’opportunità di inviare l’esercito a Bergamo. Fu in questa occasione
che i milites fuoriusciti strinsero un primo accordo separato con Cre-
mona, dando il via a una sequela di scontri che, coinvolgendo l’allean-
za con le due città guida degli schieramenti padani, non potevano tro-
vare nei podestà, che da quelle città provenivano, politici in grado di
mediare le istanze delle parti.

4. I bandi politici del podestà

Il caso di Brescia, testimoniato da quattro cronache e numerosi


documenti, oltre a fornire come si è appena visto preziose indicazioni
relativamente alle ragioni scatenanti dell’uscita, mostra anche quanto le
fonti cronachistiche riescano a cogliere un’importante differenza tra gli
episodi conflittuali di questi anni: quella tra esclusioni in cui, come
nella generazione precedente, non si impiega il termine « bando » ed
esclusioni in cui, con atteggiamento nuovo, ciò avviene. La scarsità di
informazioni che connota le fonti di quest’epoca impone di mantenere
comunque una certa cautela, ma resta vero il fatto che, pur dando
conto di ben sei casi di uscita di una pars da Brescia, solo in uno di
essi gli Annales Brixienses riportano che fu emanato il bando: contro i
fuoriusciti della parte guidata dal conte Narisio e da Giacomo Confalo-
nieri nel 1203 73. Anche in altre città sappiamo che il bando fu emanato
grazie a un solo tipo di fonte. Un passo degli statuti veronesi del 1227

71 Annales brixienses, p. 816.


72 Quando nel 1210 si trovarono a uscire lo stesso Confalonieri con i Boccacci da
Manervio, il conflitto era stato influenzato dalla contrapposizione tra milites di Leno e
milites cittadini e non riguardava più il « popolo » (cfr. Annales brixienses, p. 817).
73 Questo dato trova un certo riscontro nei documenti: nel patto stretto da Cre-

mona con i milites bresciani nel 1201 si specificò che i cremonesi si impegnavano a
bandire e a tenere fuori dalla città chiunque si fosse opposto alla pars militum.

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IL NUOVO VALORE DELL’USCITA. LA GENERAZIONE DEL 1170 59

attesta indirettamente che in seguito all’uscita da Verona della pars


Monticulorum nel 1207, il comune emise speciali sentenze che lasciano
pensare a un ricorso al bando, ma nessuna cronaca ricorda questo ele-
mento. La cronaca di Gerardo Maurisio testimonia che Ezzelino emanò
il bando nei confronti dei Vivaresi nel 1210 senza che alcun altro do-
cumento lo possa confermare. Pur mantenendo una certa prudenza,
essendo possibile che il bando sia stato emanato senza che nessuna tra
le fonti conservate ne rechi testimonianza, possiamo ipotizzare che solo
in una minoranza di casi una simile condanna abbia avuto davvero
luogo e che negli altri casi l’uscita non abbia generato questo tipo di
provvedimento.
Trattando delle esclusioni nell’epoca di Federico I, si è voluta rile-
vare la cautela che i comuni, attraverso i propri giuristi, manifestarono
nell’assimilare i proditores filoimperiali ai banditi giudiziari. Rispetto a
quest’assimilazione, una generazione dopo, sembra di assistere a un
movimento contraddittorio. Da un lato occorre considerare che lo svi-
luppo delle istituzioni comunali tendeva a far abbandonare le remore
del secolo XII. Dall’altro, la legittimità nel ricorso a una misura forte,
fornita dalla Lega Lombarda (e dal papato) nel momento dello scontro
con l’imperatore era venuta meno. A essere colpiti dalle condanne po-
litiche ora non erano più gruppi che, con la loro uscita, avevano messo
in dubbio l’autorità stessa su cui si fondava il potere comunale e ave-
vano tentato di sottoporre il governo cittadino alla soggezione imperia-
le, ma partes che contestavano alcune scelte compiute dal comune, sen-
za per questo volerlo assoggettare ad altri poteri. Anche nella percezio-
ne dei contemporanei, visibile dalle cronache, la rebellio dei filoimperia-
li milanesi e dei piacentini contro quanto stabilito dalla Lega a partire
dal 1176 aveva avuto un carattere di rottura e di sottrazione di obbe-
dienza infinitamente più grave di quella – per esempio – dei milites
bresciani che scelsero di far gravitare su Cremona la fedeltà della loro
città, o di quella dei Monticoli veronesi che optarono per l’alleanza con
Ezzelino II da Romano invece che con Azzo d’Este.
Tra le conseguenze della rivoluzione podestarile vi fu comunque il
conferimento al bando di un ruolo più rilevante nella ritorsione contro
i nemici politici. Rispetto alla cautela della generazione precedente, vi
fu un certo progresso. Gli statuti dell’inizio Duecento non recano trac-
ce di esclusioni politiche esplicitamente definite come bandi, ma comin-
ciano a usare il termine bannum per indicare ciò che nei testi genovesi
e pistoiesi della generazione precedente è definito exilium e cioè la

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60 GIULIANO MILANI

pena dell’allontanamento 74. Un provvedimento milanese del 1202 relati-


vo alla falsificazione della moneta non fa che ripetere quanto stabilito a
Genova trent’anni prima, prevedendo l’esilio perpetuo 75. A Bergamo, in
una rubrica dello statuto del 1215, troviamo una norma che, come a
Pistoia una generazione prima, stabilisce esplicitamente una grave pena
pecuniaria per chi avesse ospitato persone che avevano subito il ban-
num perpetuale 76. Lo statuto veronese del 1228, a cui si è già fatto
riferimento, indica che nel 1207 fu emanata una serie di sentenze che
contemplavano la pena dell’allontanamento, il sequestro dei beni e quello
dei crediti 77. Considerando lo scarso numero di statuti conservati in
quest’epoca queste tracce spingono a credere che il “bando”, nella nuova
accezione di pena dell’allontanamento, fosse una risorsa disponibile ai
regimi del primo Duecento.
Nonostante questa possibilità, al bando dei nemici politici si fece
ricorso raramente. I patti di Brescia con Cremona e alcune menzioni
cronachistiche della cronaca di Gerardo Maurisio ci mostrano con ogni
evidenza che, in questi casi, sentenze come quella emanata nel 1207 a
Verona e poi cassata nel 1213 erano effettivamente chiamate con il
nome di bannum 78. Ma applicare questa condanna a quanti si erano
allontanati dalla città significava assimilarli agli autori dei delitti più gravi

74 V. Capitolo II.
75 Gli Atti del Comune di Milano, p. 344 (n. CCLXIV).
76 Antiquae collationes statuti veteris civitatis Pergami, col. 1922. Sul bando perpe-

tuale v. Capitolo V. Si tratta di un’espressione che si stabilizzerà nella generazione


successiva e che definisce ora quanti erano stati puniti per quei reati che intaccavano
la giurisdizione comunale: l’omicidio e la rottura della pace, vale a dire la violazione,
nell’ambito di una faida, della concordia stipulata.
77 Si tratta di una fonte indiretta: lo statuto riporta solo le rettifiche che furono

apportate alle disposizioni precedenti nel 1213, in occasione del rientro dei Monticoli,
patrocinato da Venezia. Una rubrica « De sententiis latis contra eos qui sunt ex parte
Monticulorum » annullò in quell’anno i provvedimenti (Liber Juris Civilis Urbis Vero-
nae, p. 17). Un’altra rubrica stabilì che a chi aveva ricevuto in concessione dal comune
beni sequestrati ai Monticoli spettava un risarcimento da parte dei proprietari rientrati
per i melioramenta effettuati sulle terre durante l’esilio (Liber Juris Civilis Urbis Vero-
nae, p. 121: « De expensis factis in possessionibus restitutis alicui ex parte Monticulo-
rum »). Dunque le terre sequestrate erano state concesse, con modalità che non cono-
sciamo, ad alcuni cittadini. Questa norma, che costringeva i riammessi ad ulteriori
gravami, venne in qualche misura attenuata poiché nella stessa rubrica si affermò che i
debiti contratti da coloro che erano usciti dalla città con i Monticoli sarebbero stati
pagati dal comune.
78 Leoni-Vallerani, I patti tra Cremona e le città della regione padana, pp. 124-125.

Gerardi Maurisii cronica dominorum Ecelini, pp. 6, 16, 19.

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IL NUOVO VALORE DELL’USCITA. LA GENERAZIONE DEL 1170 61

(quelli contro la iurisdictio) e di questa estensione si ha testimonianza


solo in pochi casi, da parte di podestà che avevano rinunciato in par-
tenza alla propria funzione di mediazione. A Brescia l’emanazione del
bando appare chiaramente legata a un esplicito schieramento del pode-
stà. Quando il conte Narisio di Montichiari fu minacciato del bando
nel 1201, era podestà il bolognese Rambertino Lambertini. Questi si
trovò a dover attuare quanto era stato stabilito nel trattato stretto l’an-
no precedente tra la societas militum bresciana e Cremona, e cioè che
in caso di concordia civile si sarebbe dovuta favorire la società dei
cavalieri 79. Due anni dopo, quando fu emanato il bando nei confronti
di alcuni membri della pars Bruzella, il trattato era ancora in vigore e
alcune clausole ne rendevano possibile l’applicazione anche alla nuova
società filopopolare 80. Negli anni successivi la menzione del bando non
si trova più nelle cronache e nei patti di Brescia. Ciò non avviene
perché i podestà smettano di schierarsi, ma perché gli ufficiali più schie-
rati vengono sconfitti Così avviene nel 1203 quando la tregua sbilancia-
ta in favore dei milites viene rotta e il podestà trevigiano Guercio Tem-
pesta, decisamente schierato con la società « popolare », viene allontana-
to 81, e nel 1208 quando, come scrive Giovanni Codagnello, l’alleanza
con Milano venne stipulata concordemente da milites e pedites, « con
l’eccezione di trenta o quaranta milites che vergognosamente se ne an-
darono da quella terra » assieme al podestà, il marchese cremonese Guido
Lupo, schieratissimo con questi cavalieri.
Le città della Marca confermano questa impressione di un netto
legame tra abbandono dellafunzione super partes del podestà ed eman-
zione del bando. Per Vicenza l’emanazione del bando nei confronti dei
nemici di Ezzelino II nel 1210 si inquadra bene, a giudicare dalla cro-

79 Leoni-Vallerani, I patti tra Cremona e le città della regione padana, pp. 116-117.
80 Leoni-Vallerani, I patti tra Cremona e le città della regione padana, pp. 117-118.
81 Annales Brixienses, p. 816: « rupta est inter milites et societate bruzele de men-

se februarii, et Verzius Tempesta deiectus de potestatu, et magna pars societatis capti


sunt et in carcere positi, et multi in banno perpetuati ». Iohannis Codagnelli Annales,
pp. 33-34 non distingue i disordini del 1201 da quelli del 1203 e pone l’incarcerazione
e il bando della pars Bruzella nel 1201. La menzione, frammentaria, degli Annales
Brixienses, e la mancanza di riferimenti alla pars Bruzella nel documento del settembre
1201 spingono a credere che in quell’anno, se la parte popolare esisteva già, essa
strinse un accordo con i milites rientrati e che quest’accordo fu rotto solo due anni
dopo. Odorici e Bosisio, accettando in pieno la versione di Codagnello, hanno sovrap-
posto completamente la societas Bruzele, scon la societas Sancti Faustini: vi è invece
ragione di credere che le due entità restarono separate anche se si allearono contro i
milites.

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62 GIULIANO MILANI

naca di Gerardo Maurisio, in una tradizione di strumentalizzazione del


bando giudiziario visibile sin dal 1194 82. Anche l’emanazione del bando
contro i Monticoli a Verona a partire dal 1207 costituì con ogni proba-
bilità il segno di un incontro tra una cultura giuridica dovuta all’impor-
tazione di podestà lombardi e una esigenza di strumentalizzazione ma-
turata dalle parti cittadine 83. Solo in queste occasioni trovò dunque
modo di compiersi quel processo che, come si è visto, si era comincia-
to a registrare negli anni 1167-1181, tra cautele e precauzioni, dovute
al percepito pericolo di una carenza di legittimità. All’alba del Duecen-
to qualificare i fuoriusciti come banniti costituiva ancora una forzatura
in quanto comportava l’esplicita affermazione della capacità dei comuni
di definirsi quali autorità capaci di utilizzare uno strumento giudiziario
« ordinario » per punire i propri nemici interni. Non è dunque un caso
che ciò sia avvenuto solo in circostanze di evidente squilibrio.
A frenare il ricorso al bando contribuì poi anche un motivo prati-
co. I tre casi in cui è attestato l’uso del bando sono i soli in cui la
pars rimase fuori città per un periodo consistente (a Brescia 3 anni, a
Verona 6, a Vicenza 3), mentre negli altri episodi il rientro si ebbe
l’anno immediatamente successivo a quello dell’uscita. Con ogni proba-
bilità, perché la ritorsione sui nemici fosse formalizzata in forme giuri-
dicamente solenni era necessario un certo margine di tempo. Una con-
ferma indiretta a questa supposizione viene dal tenore dei patti stretti
da Cremona con le città venete nel 1208. Se è vero che in quel mo-
mento Verona, Ferrara e Brescia avevano ognuna una pars fuori città si
trattava di esclusioni recenti, ed è forse per questa ragione che nei
patti non si fa alcun riferimento all’emanazione dei bandi, ma soltanto
a generiche discordie.
Nonostante la scarsità delle fonti, gli statuti veronesi sembrano sug-
gerire che quando il bando ci fu, esso contemplò la pena dell’allonta-
namento e, in caso di cattura, il carcere, il sequestro dei beni (che,
come in precedenza, vennero in una certa misura redistribuiti) e quel-
lo dei crediti 84. Tali provvedimenti non riguardarono però ampie quo-
te di popolazione. Nei giuramenti di pace bresciani, gli unici docu-
menti da cui sia possibile farsi un’idea dell’entità numerica di queste
prime esclusioni, sono coinvolti gruppi di persone che raramente su-
perano il centinaio di maschi adulti. Nel 1200 i milites fuoriusciti che

82 Gerardi Maurisii cronica a dominorum Ecelini, p. 16.


83 V. in generale Varanini, Reclutamento e circolazione.
84 Liber Juris Civilis Urbis Veronae, p. 17.

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IL NUOVO VALORE DELL’USCITA. LA GENERAZIONE DEL 1170 63

giurarono il trattato con Cremona furono 24; nel 1207 il gruppo dei
cavalieri che si era ritirato a Leno, era rappresentato da 33 persone
nel giuramento della pace; e la cifra di trenta o quaranta milites for-
nita da Giovanni Codagnello a proposito dei milites filocremonesi usciti
nel 1209 sembra comprovata dalle fonti documentarie. Più numerosi
appaiono i fuoriusciti bresciani del 1210: l’anno successivo con i Boc-
cacci da Manervio rientrarono e giurarono ben 125 persone, mentre
nel 1212 con Giacomo Confalonieri se ne aggiunsero altre 44 85. L’uscita
dunque e, a maggior ragione, la ritorsione che ne conseguì, riguarda-
rono gruppi limitati.

5. I conflitti a Bologna nella prima età podestarile

Non sono molte le fonti che consentono di comprendere quali con-


flitti ebbero luogo a Bologna in questi anni e in che maniera si orga-
nizzarono i gruppi che li promuovevano. La comparazione con il resto
d’Italia fa però risaltare alcune evidenze negative. In primo luogo in
questa generazione non si delineano con chiarezza una societas militum
e una societas populi. Nel locale liber iurium, il Registro Grosso, si
riesce però congetturalmente a rinvenire alcuni elementi tipici delle ri-
vendicazioni « popolari ». Già nel 1194 è nominato un rector societatum,
da alcuni interpretato come magistratura « popolare » sollecitata dalla
presenza del vescovo podestà Gerardo di Gisla 86. Nel 1219 un gruppo
di societates corporative e territoriali riuscì a entrare in alcune sessioni
del consilium cittadino, salvo uscirne l’anno successivo 87, nel corso di
una nuova fase di chiusura aristocratica delle istituzioni. In secondo
luogo non appaiono partes stabili appoggiate su grandi famiglie come
nelle città della Marca nello stesso periodo. Il dato desta minore stupo-
re dal momento che a Bologna – nonostante quanto sia stato sostenuto

85 Leoni-Vallerani, I patti tra Cremona e le città della regione padana, pp. 119

(1200), 134-136 (1207), 142-144 (1209); ASCr, Fondo segreto, 2317 (1211); 2265 (1212).
86 ASBo, Comune, Diritti e oneri del Comune, Registro Grosso, c. 69v. Il rector

societatum è Guido de Tarrafogolis, membro di una famiglia che più tardi entrerà nella
società dei cambiatori. Il suo nome segue, nella lista dei presenti quello di Calanchinus
consul mercatorum.
87 Il primo a rendersi conto di questa anticipazione della partecipazione del « po-

polo » al comune fu Giovanni De Vergottini (De Vergottini, Il « popolo » nella costitu-


zione del comune di Modena, p. 314, n. 137). Lo stesso studioso dichiara «enigmatico»
il rector societatum del 1194.

Capitolo 2.pmd 63 09/11/2009, 16.24


64 GIULIANO MILANI

in tempi recenti 88 – non si ha né la presenza di grandi signori del


contado nel ceto dirigente cittadino 89, né tantomeno quella di famiglie
eredi di tradizioni pubbliche di esercizio del potere 90.
La società bolognese, al contrario, sembra caratterizzata da un’am-
pia e omogeneizzante presenza di milites cittadini. Cronache e docu-
menti si rivelano pieni di indicazioni riguardo alle pratiche e allo stile
di vita di questo ceto. Nel 1198 Uspinello Carbonesi 91 rimane ucciso
nel corso di una giostra solenne organizzata alla presenza del podestà
piacentino Umberto Visconti 92. Un’altra festa militare è testimoniata nel
1209, ma, a quanto sembra, stavolta si combatte con armi di legno 93. E
infine, nel 1212, in occasione dell’ingresso di Ottone IV in città, il
ludus batalie si risolve ancora una volta con una morte, stavolta quella
di Geremia Malavolti, membro di una famiglia militare 94. Oltre a questi
combattimenti rituali, i milites combattono anche sul serio, singolo con-
tro singolo e famiglia contro famiglia. È quanto avviene nel 1194, quan-
do, secondo il racconto dell’erudito cinquecentesco Ghirardacci, Olivie-

88 Come si è già accennato Nicolai Wandruszka, Die Oberschichten Bolognas, ha

cercato di interpretare in termini cetuali il ceto dirigente bolognese di età comunale,


notando al suo interno una rilevante presenza di stirpi inquadrate in legami feudo-
vassallatici. Il suo lavoro ha avuto il merito di far progredire notevolmente la cono-
scenza delle famiglie bolognesi soprattutto sul piano genealogico. A questa opera tutta-
via sono stati imputati alcuni importanti rilievi. In particolare Lazzari, « Comitato »
senza città, ha criticato alcune conclusioni in merito ai livelli più antichi di queste
genealogie, mostrando l’impossibilità di raggiungere una sicura definizione signorile per
la maggior parte delle famiglie bolognesi identificate come tali da Wandruszka. Tali
conclusioni sono state riprese in Maire Vigueur, Flussi, circuiti e profili, pp. 1068-1069,
e lo stesso Wandruszka, Sozialstruktur und « inurbamento », è ritornato sulla questione
affermando, sulla scorta di un caso esemplare, quello dei capitanei di Nonantola, dal
quale derivano alcune famiglie bolognesi, la netta distinzione tra origine genalogica,
che può affondare nella nobiltà comitatina, e profilo sociale, che, nonostante questa
origine, può essere del tutto assimilato a quello dei lignaggi cittadini non feudalizzati.
89 Per l’adattamento di famiglie inurbate alle regole della politica urbana cfr. Wan-

druszka, Sozialstruktur und « Inurbamento ».


90 Su questi aspettisi rinvia a Lazzari, « Comitato » senza città.
91 Sui Carbonesi, v. oltre Capitolo VI.
92 Cronaca Villola, in Corpus chronicorum bononiensium, p. 60.
93 Cronaca Villola, in Corpus chronicorum bononiensium, p. 71. La testimonianza è

analizzata in Gasparri, I milites cittadini, pp. 2 e ss.


94 Cronaca Villola, in Corpus chronicorum bononiensium, p. 76. La famiglia Mala-

volti non compare nelle liste di consoli, ma è attestata nella revisione del bilancio del
1193, con Guillelminus che risulta miles iustitie nel 1206 (Wandruszka, Die Oberschi-
chten Bolognas, p. 332).

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IL NUOVO VALORE DELL’USCITA. LA GENERAZIONE DEL 1170 65

ro Garisendi uccide il figlio di Tommaso Bulgari. La cosa si ripete nel


1202, quando Giovanni Tettalasina uccide Guido Pepoli nel contesto di
una battaglia tra Asinelli e Scannabecchi, e nel 1207 quando il conflitto
tra Garisendi e Bulgari riprende, in occasione del rientro dal bando di
Oliviero Garisendi per la morte di Tommaso Bulgari 95. Anche qualora
si trattasse di notizie con nomi interpolati, frutto della sete di origini
che caratterizza i lignaggi bolognesi dell’inizio dell’età moderna, non
cambia la sostanza, e cioè la presenza di conflitti e faide tendenti ad
alimentare l’ostilità di una famiglia nei confronti di un’altra. È quanto
si ricava dalla presenza di tre patti di torre compilati tra 1177 e 1196.
Nell’ultimo di questi patti, quello stretto tra i vari rami della domus dei
Carbonesi nel 1196, vi è una clausola che specifica come i contraenti si
impegnino esplicitamente a combattere i figli di Pietro di Enrico e cioè
i più antichi membri conosciuti della famiglia Galluzzi, che abitano a
pochi isolati di distanza 96.
Di fronte a queste faide e ai conflitti più complessi che da queste
derivano, la giustizia comunale inizia a prendere provvedimenti signifi-
cativi proprio in questo periodo. Il 1198 è l’anno in cui – a quanto
attestano le cronache trecentesche – si cominciò a « dire giustizia nella
casa dei Bulgari »: venne cioè, in forme che ci sfuggono, regolarizzato
l’esercizio della giurisdizione comunale. Pochi anni prima, secondo lo
storico cinquecentesco Cherubino Ghirardacci, vi sono le più antiche
testimonianze di provvedimenti del podestà per contenere la presenza
aristocratica. Nel 1195, per esempio, il podestà fece abbassare la torre
dei Sabbatini 97.
In questa dialettica tra milites litigiosi e interventi podestarili vanno
collocate due importanti testimonianze: una lettera inviata dai bolognesi
al legato pontificio nel 1211 e alcuni statuti emanati nello stesso anno
dal podestà di Bologna, il milanese Guglielmo di Pusterla. Sulla base di
queste fonti possiamo comprendere come le partes regionali che in quel
momento andavano innervando le relazioni tra le città della Marca tre-
vigiana avessero trovato proseliti anche a Bologna. Il 27 aprile del 1211,
e cioè l’anno successivo alla scomunica di Ottone IV da parte di Inno-
cenzo III, quattro ambasciatori del comune scrissero al legato pontificio
che intendeva entrare a Bologna, pregandolo di non farlo, in quanto
– affermavano – il suo arrivo avrebbe generato discordia tra i cittadini.

95 Ghirardacci, Della Istoria di Bologna, p. 112.


96 Gozzadini, Delle torri di Bologna, p. 263.
97 Ghirardacci, Della Istoria di Bologna, p. 165.

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66 GIULIANO MILANI

Alcuni bolognesi – essi proseguivano – in ottemperanza alle richieste


dell’imperatore scomunicato, intendevano aiutare Salinguerra Torelli, al-
l’epoca esule dalla città, a tornare a Ferrara, reinsediando il podestà
imperiale Ugo di Worms, e dando così esecuzione al trattato di pace
tra Salinguerra e Azzo d’Este abbozzato dal legato nel marzo 1210.
Altri – sempre secondo la narratio dell’epistola – giudicavano le ragioni
di quella pace insufficienti, non volevano affatto aiutare i Torelli e so-
prattutto apparivano intimoriti da una lettera inviata dal legato al ve-
scovo di Bologna, in cui si imponeva di minacciare di scomunica chiun-
que avesse prestato aiuto a Ugo di Worms nel riprendere il controllo
su Ferrara 98. Anche a Bologna, dunque, una parte della popolazione
intendeva schierarsi, a seguito della scomunica, con Ottone, i Monticoli
veronesi e Milano, mentre un’altra abbracciava le ragioni della Chiesa,
dei San Bonifacio e di Cremona. Come a Brescia, la microconflittualità
interna all’esteso ceto militare poteva facilmente alimentare una divisio-
ne di portata più generale, in occasione di sollecitazioni esterne. Secon-
do la cronaca dei Villola nel 1210 alcuni disordini avevano provocato

98 Savioli, Annali bolognesi, II, 2 p. 311: « [...] In camera domini Episcopi

Mutinensis.Dominus Azzo legum Doctor & dominus Albertus Guidonis Buualelli &
dominus Ubertinus Judex & dominus Guido Alberici de Scanabici Communis Bon.
Ambaxatores ex parte domini Will. De Pusterla Pot. Bon. & Communis illius terre
supplicaverunt domino G. Albanesi electo ac domini Pape Legato ut ad presens non
deberet intrare Civitatem Bon. & de hoc plures rationes assignauerunt, sc. quia ejus
adventus poterat generare discordiam & scandalum magnum inter Cives. Cum enim
certum sit & notorium quod quidam Civium Bonn. diligunt dominum Azzonem Mar-
chionem estensem alii vero diligunt dominum Salinguerram & in hoc ardore nimium
sint accensi velintque plures eorum prestare auxilium Ugoni de Guarmasio ad recupe-
randam Ferrariam Civitatem tum ex precepto domini Imp. tum quia sacramentis factis
in concordia de pace domini Marchionis & domini Salenguerre manutenendam putant
se teneri. Alii vero Cives putant non esse dandum auxilium rationibus quibusdam pre-
tensis ab eis & quia non credunt se teneri ex sacramentis factis de pace domini Mar-
chionis & domini Salinguerre manutenenda & quia non credunt predictum dominum
Marchionem pacem fregisse & specialiter pretextu quarumdam literarum destinatarum
a predicto domino Legato domino Episcopo Bon. in quibus continebantur quod nullus
Civium Bon. debeat dare auxilium Ugoni de Guarmasio vel alii ad recuperandam Fer-
rariam civitatem & si hoc facere attemptaverint quod excommunicationi a predicto
episcopo subjicentur. ne ergo ex talibus oriretur discordia et destructio Civit. Bon.
supplicaverunt ut dictum est jam dicto Legato ut ad presens si ei placeret non veniret
ad dictam Civitatem Bon. & specialiter hoc dicebant quod non uetabant venire ad
dictam Civitatem set ut si placeret ei interim se abstineret. tempore autem alio con-
gruo si ei placuerit dictam Civitatem visitare omnem honorem et reverentiam ei exhibi-
rent [...] ».

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IL NUOVO VALORE DELL’USCITA. LA GENERAZIONE DEL 1170 67

incendi in tutto il quadrante orientale della città, delimitato dalle strade


Maggiore, San Vitale, San Donato e Santo Stefano 99. È probabile che
si trattasse di conflitti in cui agivano le stesse parti che nei documenti
si rendono visibili l’anno successivo.
Riuscire a sapere qualcosa in più su queste parti è un compito
difficile. Il rischio è quello di sovrapporre a queste aggregazioni quelle
che, nella generazione successiva, costituiranno le parti dei lambertazzi
e dei geremei, vale a dire la versione locale dei guelfi e dei ghibellini.
L’unica possibilità è offerta dalla valutazione degli impegni ricoperti dai
bolognesi all’estero come podestà. In questo modo riusciamo a sapere
che Iacobus Bernardi, con ogni probabilità membro della domus dei
Carbonesi, forse discendente dal legame cognatizio di questa famiglia
con quella rurale dei da Vetrana, non solo era stato podestà a Vicenza
nel 1194, quando, secondo Gerardo Maurisio, si era accordato con la
locale parte dei Conti per bandire Ezzelino II, ma aveva ricoperto lo
stesso incarico a Cremona nel 1206 100. È dunque probabile che almeno
lui fosse schierato con decisione sul fronte dei sostenitori cremonesi di
Azzo d’Este e della Chiesa. Sul fronte opposto possiamo annoverare,
sempre attraverso simili congetture, Rambertinus Geremei, podestà di
Milano nel 1199 e Rambertinus Buvalelli, podestà della stessa città nel
1208. Sul penultimo nome vale la pena di soffermarsi. È quello di una
famiglia che, come si è detto, nella generazione successiva darà il nome
alla parte guelfa bolognese. Senza voler cedere alla tentazione di una
lettura continuista, si potrebbe ipotizzare che a Bologna sia successo
qualcosa di simile a ciò che accadde a Firenze, e cioè che le parti di
metà Duecento trassero i propri nomi da quelle che una generazione
prima avevano combattuto a favore del guelfo (perché della casa di
Welf) Ottone IV e del ghibellino (perché del castello di Weiblingen)
Federico II 101. Anche nel caso in cui una simile ipotesi fosse conferma-
ta, vale comunque la pena di notare che si trattò di una continuità
indotta, ricostruita a posteriori, non di una continuità reale 102. Troppi
eventi e troppi rivolgimenti scandirono quel passaggio di consegne per

99 Villola, in Corpus Chronicorum bononiensium, pp. 71.


100 Wandruszka, Die Oberschichten Bolognas, p. 321.
101 Davidsohn, Forschungen, pp. 29-67.
102 In questo senso è possibile precisare quanto sostenuto in Pini, Guelfes et Gi-

belins à Bologne, che ravvisa in questo episodio l’origine delle parti. Questo studio ha
il merito di segnalare questo conflitto bolognese, in precedenza poco considerato, ma
spiega lo scontro esclusivamente con la diversa reazione alla minaccia pontificia di
togliere lo studio, senza considerare che la divisione è precedente a questa minaccia.

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68 GIULIANO MILANI

poter supporre un collegamento diretto. Dal punto di vista dei legami


intercittadini basti pensare che i da Romano, la stirpe che fornirà un
fondamentale appoggio a Federico II, nel 1211 erano ancora con il
guelfo Ottone. Dal punto di vista locale è sufficiente ricordare che nel
momento in cui i nomi di lambertazzi e geremei appaiono nella crona-
chistica bolognese, la famiglia Geremei risulta già estinta 103.
A differenza di quanto avvenne nelle città venete, a Bologna i di-
sordini del 1210 e del 1211 non condussero all’uscita. Se le considera-
zioni sviluppate in precedenza sono corrette, è possibile affermare che
ciò avvenne per un doppio ordine di ragioni. In primo luogo, la milizia
bolognese non aveva quel legame con le signorie del contado che si era
costitutio più a nord-est. In secondo luogo, a Bologna reggeva in quel
momento il massimo mediatore della sua generazione, il podestà più
celebre della prima età podestarile, il peritissimus laicorum Guglielmo di
Pusterla 104. Fu lui, nel 1211 a emanare una serie di ordinamenti che a
Bologna acquisirono un valore fondante, come dimostra il fatto che
furono conservati per i successivi quarant’anni nel codice degli statuti.
Il piccolo complesso normativo sorgeva evidentemente dalla necessità
contingente di evitare che i cives di Bologna fossero coinvolti nei con-
flitti che da circa un decennio infiammavano la Marca trevigiana e le
città limitrofe, una zona insomma confinante con il contado di Bolo-
gna. Per un milanese doveva essere particolarmente importante che lo
scontro non si estendesse anche a una città che, pur rimanendo a lun-
go fedele alleata di Milano, con gli scontri del 1192-1193 aveva addirit-
tura anticipato le altre nella manifestazione di conflitti interni, e che in
seguito, attraverso l’invio di propri podestà, si era dovuta interessare ai
rumores veneti.
Guglielmo di Pusterla decretò che chiunque avesse ricevuto danaro
da uno dei capoparte della Marca per incentivare una divisione a Bolo-
gna, non solo avrebbe dovuto consegnare immediatamente quel denaro
al comune, accompagnandolo con ulteriori sanzioni pecuniarie, ma sa-
rebbe stato escluso da ogni ufficio comunale e dalla possibilità di eser-
citare ambasciate per conto del comune di Bologna 105. Come già nella
103 Milani, Geremei Baruffaldino.
104 Per la famiglia da Pusterla cfr. Occhipinti, Podestà « da Milano » e « a Mila-
no », pp. 63-64.
105 Frati, Statudi di Bologna, II, pp. 197: « In nomine domini amen. Anno eiu-

sdem M.CC.xj. die dominico x. jntrante aprili jndictione terciadecima facta sunt hec
statuta a domino guilelmo de posterla potestate bon. jn pleno conscilio facto ad Cam-
panam conscilii. Statuimus et ordinamus quod si quis de Civitate bon. vel eius distric-

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IL NUOVO VALORE DELL’USCITA. LA GENERAZIONE DEL 1170 69

Pisa di sessant’anni prima 106 si decise dunque di vietare a chiunque


fosse entrato in collegamento con un conflitto di cui si intendeva evita-
re l’allargamento la possibilità di rivestire cariche di ufficiale e di amba-
sciatore del comune. Non si trattava più però di una decisione provo-
cata dalla necessità di espellere gli eventuali membri di un gruppo ne-
mico. La sfera politica infatti risultò interdetta in generale a tutti coloro
che fossero entrati in contatto con quanti – fossero appartenuti a una
parte o all’altra – in una regione vicina stavano cercando di estendere
la propria influenza, così da irretire il maggior numero di città in una
trama di alleanze. Non siamo dunque sul piano di una giustizia politica
elementare, tendente a rivestire di forme legittimanti il bisogno di col-
pire l’avversario, ma su quello di una normativa preventiva che tenta di
allargare il campo di intervento dell’autorità comunale verso aspetti sino
a quel momento non regolati, come appunto il raccordo politico con
una parte esterna, eventualmente mediato dal danaro. Un tale collega-
mento, se attuato nei confronti di coloro che stanno combattendo nella
Marca, è definito incompatibile con l’esercizio di un’attività politica per
conto del comune di Bologna.
L’impressione di una netta presa di posizione rispetto a quelli che
sono presentati come comportamenti non accettati dal governo pode-
starile bolognese è confermata dalla lettura dei restanti ordinamenti. Gli
altri paragrafi infatti, allontanandosi in qualche modo dalla contingenza
dello scontro nella Marca, tendono a regolamentare altri due possibili
modi di raccordo interpresonale dotato di un valore politico: il legame
feudale 107 e quello che più genericamente potremmo definire di cliente-
la, fondato sulla promessa, il pegno o il giuramento 108. In tutti questi
casi si specifica che chi da quel momento in poi stringerà simili relazio-
ni dovrà scioglierle, pagare una pena pecuniaria e, come nel caso del

tu amodo in antea per se vel per alium aliquam peccuniam acceperit a domino Mar-
chione hestense vel a domino Sallinguerra vel a domino ycilino vel a comite sancti
bonifacij vel aliqua alia persona ad detrimentum alicuius partis vel alicuius hominis in
diviso civitatis bon. vel districtus causa adiuvandi vel deffendendi aliquem seu aliquo
modo vel ingenio sive permissu et voluntate potestatis ubi causam juxtam vel hone-
stam non fraudolentam ostenderit quare ipsam peccuniam acceperit totam amittat et jn
comune deveniat, et tantumdem de suo et plus arbitrio potestatis et jnsuper ad ali-
quod officium comunis Bononie deinde in anum non admittatur sive ad aliquam anba-
xatam communis faciendam ».
106 V. Capitolo II.
107 Frati, Statuti di Bologna, II, p. 199.
108 Frati, Statuti di Bologna, II, p. 200.

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70 GIULIANO MILANI

primo ordinamento, non potrà in nessun caso ricoprire incarichi da


ufficiale o ambasciatore del comune.
L’ultimo ordinamento del piccolo complesso normativo presenta un
ulteriore aspetto significativo 109. Si tratta delle norme per così dire di
attuazione, dalle quali emerge che gli statuti appena emanati sono per-
cepiti come disposizioni di emergenza: si stabilisce che chiunque lo vor-
rà potrà presentare accuse relative a questi crimini, che otterrà la metà
della pena pecuniaria imposta dal comune, e che il podestà sarà tenuto
a difendere l’eventuale accusatore da ogni possibile ritorsione dell’accu-
sato e a spingere questi verso una pronta pacificazione. Solo a questo
punto, per punire gli eventuali trasgressori di questa pacificazione tra
accusatore e accusato, e quanti non pagheranno le dovute multe all’au-
torità, lo statuto menziona il bando e la distruzione dei beni, dalla
quale condizione il reo non potrà uscire se non dopo aver soddisfatto
il comune e il suo accusatore. È degno di rilievo che la pena del ban-
do non sia prevista per quanti stringeranno legami definiti come proibi-
ti, ma indirettamente, per quanti, una volta scoperti non vorranno ac-
cettare la pena che il comune ha decretato nei loro confronti. Il carat-
tere originario del bando, e cioè la valenza di mezzo per il ristabilimen-
to dell’equilibrio garantito dal comune pacificatore, continua infatti ad
essere presente.
Una simile serie di deroghe alla prassi processuale ordinaria (l’esten-
sione dell’accusa a chiunque, e gli incentivi pecuniari connessi) sembra-
no giustificate non ancora da un progetto di generale riforma dei prin-
cipi di convivenza, come avverrà nei regimi di « popolo » del secondo
Duecento, ma dalla percezione di un pericolo concreto e imminente,
quello di una divisione dell’aristocrazia in due fazioni e dell’eventuale
coinvolgimento di ceti non aristocratici in questa nuova polarizzazione,
un pericolo che, come si cercherà di chiarire, costituirà la base di par-
tenza per la normativa antimagnatizia 110. Il fatto che tali condizioni si
stessero in effetti verificando a Bologna nello stesso anno in cui questi
ordinamenti furono emanati è comprovato, oltre che dalle notizie cro-
nachistiche relative ai fatti del 1210, da un importante dato. Nel 1212
vennero chiamati a governare la città due podestà fiorentini, che in
seguito si sarebbero schierati l’uno con i guelfi, l’altro con i ghibellini.
La doppia podesteria costituisce un elemento molto insolito, anzi un
unicum nella vicenda costituzionale bolognese del Duecento. Il fatto

109 Frati, Statuti di Bologna, II, p. 201.


110 V. Capitolo V.

Capitolo 2.pmd 70 09/11/2009, 16.24


IL NUOVO VALORE DELL’USCITA. LA GENERAZIONE DEL 1170 71

che nel 1211, ma solo in seguito all’emanazione di questi ordinamenti,


il papa minacciò di togliere a Bologna un elemento fondamentale per
la produzione di ricchezza e di prestigio come lo Studium, contribuì
certamente ad aggravvare il conflitto 111.

6. Conclusioni

L’affermazione del sistema podestarile costituisce la cornice in cui


vanno collocate le diverse novità apportate da questa generazione e tra
queste la più significativa, il nuovo valore assunto dall’uscita fisica dal-
la città. Tale sistema è il risultato di una serie di fenomeni e ne pro-
muove altri.
Tra i fenomeni da cui origina il passaggio al podestà forestiero vi è
senza dubbio la maggiore complessità assunta dalla società urbana e,
dunque, la moltiplicazione dei conflitti sia all’interno del consolato sia
tra l’aristocrazia e le altri componenti della società. Le parti che in
questi conflitti agiscono sono ancora gruppi ristretti e non in grado di
organizzarsi precisamente nelle istituzioni, ma vi è comunque qualcosa
di nuovo. Al’epoca di Federico I avevano agito schieramenti già esi-
stenti mobilitati dalla contingenza dello scontro con l’impero. Ora si
trovano parti che sembrano voler sopravvivere ai singoli conflitti. Non
sempre queste parti riescono a controllare gli individui che le compon-
gono, e mutano frequentemente la propria composizione sotto la pres-
sione dei conflitti che le attraversano, ma mantengono una identità più
durevole dotandosi di consoli e (al termine del processo, negli anni
Dieci) addirittura di podestà.
Rispetto all’età di Barbarossa però non c’è solo una differenza di
organizzazione, esiste anche e, soprattutto, una differenza di atteggia-
mento. Pur avendo origini diversissime, tutti coloro che combattono a
cavallo tra XII e XIII secolo si comportano come cittadini a pieno
titolo, non vedono più, come era avvenuto in precedenza, il comune
come un avversario o un concorrente nell’accumulo di diritti, ma come
una struttura politica in cui muoversi, magari da strumentalizzare, ma
sempre collocata a un livello superiore. Per questa ragione l’affermazio-
ne del podestà e il nuovo valore attribuito al’uscita dalla città costitu-
iscono, per così dire, due facce della stessa medaglia. Il nuovo senso
di identità civica di inizio Duecento determina, da un lato, il fatto che

111 Pini, Guelfes et Gibelins à Bologne, pp. 161-164.

Capitolo 2.pmd 71 09/11/2009, 16.24


72 GIULIANO MILANI

il segno più tangibile della delegittimazione sia la secessione, il boicot-


taggio attuato attraverso la scelta di una residenza temporanea alterna-
tiva. D’altro lato, lo stesso senso di identità che condividono tutti i
cives intensifica la domanda di un’istituzione strutturalmente diversa
dal consolato, che sia in grado di mediare gli interessi e di prevenire
i conflitti.
Alla chiamata del podestà, si accompagnano ovunque fenomeni in
parte già avviati in precedenza: la sistemazione dei diritti scritti del
comune, simbolo della sua capacità giurisdizionale, e la sistemazione
delle leggi che regolano il diritto cittadino, gli statuti. All’interno di
questo processo generale riusciamo a intravedere fuggevolmente alcune
differenze nelle modalità di ritorsione contro i nemici interni rispetto
alla generazione precedente. Comincia, soprattutto nella Marca trevigia-
na e a Brescia, laddove il funzionario forestiero è un capoparte ricono-
sciuto più che un ufficiale professionale, a incrinarsi quella cautela che
impone di separare il piano della giustizia tesa a risolvere le dispute
(fortemente legittima) da quello della giustiza tesa perseguitare i nemici
(scarsamente legittima). I due piani, senza fondersi, vanno avvicinando-
si. Laddove la guerra interna si collega a quella esterna, rendendo sem-
pre più difficile la mediazione dei conflitti, non si esita più a ricorrere
al bando – politico – di quanti sono usciti dalla città.

Capitolo 2.pmd 72 09/11/2009, 16.24


Capitolo III

LA FORMAZIONE DELLE PARTI


LA GENERAZIONE DEL 1200

1. L’accesso del « popolo » alle istituzioni comunali

Per la storiografia bolognese l’anno 1228 rappresenta una svolta.


Storici di opinioni diverse si sono trovati d’accordo nell’interpretare i
disordini di quell’anno come un discrimine tra due epoche, e l’inizio
della penetrazione « popolare » nelle istituzioni comunali bolognesi 1. Il
classico studio di De Vergottini e la recente ricostruzione condotta da
Nicolai Wandruszka 2 permettono di seguire gli eventi: l’11 febbraio
1228 Bologna perse una battaglia contro il Conte di Romagna a Maz-
zincollo. Con ogni probabilità questa sconfitta aizzò contro la milizia il
resto della popolazione. La ribellione portò alla costituzione provviso-
ria di una società unitaria di « popolo », formata dalle società delle
Arti. Tra i rappresentanti di questo primo populus si trovava di sicuro,
e in posizione eminente, Giuseppe Toschi, un miles discendente da
una famiglia di giudici e mercanti che avevano rivestito incarichi nel-
l’ultima età consolare. Il « popolo » chiese al podestà la convocazione
di un consilium generale, un consiglio più largo del consiglio di cre-
denza, ottenendone un rifiuto. Per ritorsione i « popolari », invadendo
il palazzo comunale, ruppero gli armaria nei quali era conservata la
documentazione, e incendiarono gli statuti e i libri di banditi lì custo-
diti. La richiesta relativa al nuovo consiglio fu a quel punto esaudita.
Alla fine dell’anno è già testimoniato un consilium generale che si riu-
nisce anche l’anno successivo 3.

1 Hessel, Storia della città di Bologna, pp. 328 e ss. Pini, Magnati e popolani a

Bologna, Fasoli, Appunti sulle torri, Wandruszka, Die Revolte des Popolo.
2 Wandruszka, Die Revolte des Popolo, p. 55.
3 De Vergottini, Arti e « popolo », p. 411. La testimonianza del consilium generale

del 1245 è in Frati, Statuti di Bologna, II, p. 50. Il consilium generale del 1229 è in
Savioli, Annali bolognesi, II, 2, p. 575.

Capitolo 3.pmd 73 09/11/2009, 16.25


74 GIULIANO MILANI

La rivolta popolare del 1228 porto, dunque, a un ampliamento del-


la partecipazione al consiglio. A giudicare dai documenti conservati 4,
rispetto agli organi collegiali precedenti, che non superano mai i 250
individui, il nuovo consiglio che si riunisce con continuità dal dicembre
1228 rappresenta una svolta, essendo composto da 402 uomini 5. Il
mutamento non fu solamente quantitativo. Basta dare un’occhiata ai
nomi di coloro che partecipano ai consigli: la presenza di individui
discendenti da famiglie che avevano ricoperto incarichi consolari subi-
sce proprio in occasione del consilium generale del 1229 una netta ri-
duzione percentuale. Se in precedenza costoro avevano costituito una
proporzione rilevante dei consiglieri (all’inizio del Duecento erano un
terzo) 6, dopo il tumulto del 1228, la gli aristocratici di tradizione con-
solare erano in proporzione molti meno (circa un sesto). Un dato tanto

4 L’unico precedente per il consilium generale a Bologna risale agli anni 1217-
1219. Allora, quando sembrano incrociarsi tensioni su numerosi fronti (una parte della
cavalleria comunale è partita per la crociata; da parte papale si riapre il problema della
minaccia di togliere al comune il controllo sullo Studium, poi in parte attuata attraver-
so il conferimento all’arcidiacono, quindi a un’autorità ecclesiastica, di conferire la li-
centia docendi) è attestata in maniera intermittente l’esistenza di un consilium generale
del quale tuttavia non è possibile definire l’estensione (Pini, Magnati e popolani a Bolo-
gna). Ma con il fallimento della lotta per lo studium e il ritorno di Federico II in
Italia, dal 1220, questo consiglio non è più convocato (De Vergottini, Il « popolo » a
Modena, pp. 282). Il consiglio del 2 gennaio 1219, che le fonti non chiamano con
l’aggettivo generale conta 247 membri (Savioli, Annali Bolognesi, vol. II, 2, pp. 394-
396, n.457), qualcuno in più rispetto ai 226 del 1216 (Savioli, Annali Bolognesi, II, 2,
pp. 364-367, n. 436). Forse si tratta di un segno del fatto che la convocazione del
consilium generale in quel periodo aveva lasciato comunque qualche traccia. Ma l’incre-
mento potrebbe essere anche dovuto al fatto che nel 1216 il consilium è costituito dal
solo consiglio di credenza, mente tre anni dopo con esso è riunita la curia, cioè gli
ufficiali del comune, senza che tuttavia il documento lo specifichi. L’ipotesi è suggerita
dalla somiglianza tra la cifra del gennaio 1219 (247 membri) con quella del luglio
1220 (229 membri). Nel 1220 un consiglio non generale di 248 persone è composto
per il 70% dal consiglio di credenza (il consiglio segreto) e per il restante 30% dalla
curia, cioè dall’insieme degli ufficiali comunali (giudici e milites della città e del conta-
do (Savioli, Annali Bolognesi, vol. II, 2, pp. 435-438, n. 490).
5 Savioli, Annali Bolognesi, III, 2, pp 90-95, n. 575.
6 Nel primo consiglio del XIII secolo quello composto da 71 persone nel 1203 il

peso dell’aristocrazia di tradizione consolare è del 40%. La percentuale scende netta-


mente nel 1214 (27%) e nel 1216 (25%) raggiungendouna cifra ancora inferiore nel
1219 (19%) e risalendo in concomitanza con la stretta aristocratica nel 1220 (22%). I
dati sono desunti dai consigli conservati in Savioli, Annali Bolognesi, citati alla nota
precedente. Per la partecipazione al consolato dei membri attestati ci si è basati su
Wandruszka, Die Oberschichte Bolognas, pp. 269-377.

Capitolo 3.pmd 74 09/11/2009, 16.25


LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 75

più significativo se si tiene conto della frequenza con cui in questi


organismi erano richieste maggioranze qualificate 7. L’espansione della
milizia cittadina 8 non toglie valore alla rivoluzione del 1228. L’amplia-
mento dei seggi in consiglio e la nuova presenza in questa sede di
famiglie che individui che, nonostante fossero milites, in precedenza non
erano stati coinvolti negli organi decisionali, fu un fattore che impresse
una netta accelerazione al processo iniziato con l’affermazione del po-
destà forestiero.
L’ampliamento dei consigli della città infatti non fu l’unico risultato
della spinta impressa da questa prima costituzione di una società unita-
ria del « popolo » in seno al regime podestarile. La tendenza al control-
lo dell’amministrazione politica attraverso la registrazione scritta fu in-
crementata in maniera sostanziale a partire dagli anni Trenta. Tra le
prime rivendicazioni del « popolo » vi erano state la trasparente riparti-
zione dei carichi fiscali e la corretta amministrazione della giustizia. Nel
momento in cui alcuni « popolari » poterono partecipare alle istituzioni
in maniera stabile, queste istanze furono trasformate in delibere e pro-
grammi politici. Non è dunque un caso che proprio dagli anni Trenta
si trovino tracce di significative operazioni amministrativo-documentarie
come la divisione del contado in quartieri, la riorganizzazione delle cir-
coscrizioni urbane, la scrittura del più antico liber iurium, l’istituzione
del più antico estimo, la sistemazione dei libri di banditi e dei registri
economici e finanziari 9. I provvedimenti istitutivi di tutte queste opera-
zioni – talvolta dopo un processo di selezione – venero a confluire
nelle compilazioni statutarie che, a Bologna come altrove, divennero in
questa fase l’elemento centrale e il punto di raccordo generale della
documentazione del comune. Per quanto gli statuti bolognesi più anti-
chi giunti sino a noi siano di poco successivi, è dalle carte di questi
testi che riusciamo a farci un’idea dello sforzo di sistematizzazione lega-
to alla prima fase della partecipazione popolare 10. È, dunque, in primo
7 Ruffini, La ragione dei più. Il forte abbassamento della percentuale aristocratica
di quest’anno sembra confermare la tendenza popolare di questo periodo già visibile
da altri indizi (convocazione di un consiglio generale, presenza di societates popolari in
riunioni del consiglio di credenza, come appare in Savioli, Annali Bolognesi, II, 2,
p. 430, n. 479).
8 Tabacco, Nobili e cavalieri a Bologna.
9 Rispettivamente analizzate in Casini, Il conttado bolognese; Pini, Le ripartizioni

territoriali; Tamba, Note per una diplomatica del Registro Grosso; Bocchi, Le imposte
dirette; Milani, Prime note su disciplina e pratica del Bando; Tamba, « Libri », « Libri
contractum », « Memorialia ».
10 Fasoli, Catalogo descrittivo.

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76 GIULIANO MILANI

luogo agli statuti che occorrerà rivolgere l’attenzione per valutare il modo
in cui, nel corso di questa generazione, cambiarono le forme dello scon-
tro politico e il i modo in cui si reagì al dissenso dei nemici interni.
Negli statuti, in particolare nei libri dedicati alla giustizia relativa ai
crimini straordinari (quelli per i quali non era esplicitamente prevista
una pena), si trovano infatti numerosi provvedimenti in materia di con-
flitti interni.
Questi conflitti furono profondamente modificati dal processo di
ampliamento dei consigli e dal primo accesso del « popolo ». Ritrovan-
dosi per la prima volta all’interno delle medesime istituzioni tutti i sog-
getti coinvolti, milites e pedites, aristocratici e « popolari », furono co-
stretti a formalizzare le proprie alleanze e a formare reti più estese che
in precedenza per difendere i propri interessi privati e di categoria. A
Bologna sul fronte del « popolo », rappresentato fino al 1231 soltanto
dalle Arti, a partire dal 1231 si riorganizzarono anche le società territo-
riali delle Armi 11. Sul fronte aristocratico, l’ampliamento del consiglio
sollecitò il superamento della microconflittualità nella direzione di una
polarizzazione in partes vere e proprie (un processo che fino a quel
momento era avvenuto solo occasionalmente, come nel 1211) e l’aper-
tura di queste partes a elementi socialmente inferiori, in precedenza
non cooptati, indispensabili a questo punto per poter difendere in con-
siglio interessi e ragioni.
Queste partes aristocratiche furono immediatamente osteggiate in
maniera forte dal « popolo », che anche in questo portava avanti, radi-
calizzandole, istanze che – lo si è visto – erano state già espresse nella
fase d’impianto del sistema del podestà forestiero. Si moltiplicarono i
provvedimenti che tentavano di porre un freno alla presenza di partes
aristocratiche, talvolta limitando il reclutamento da parte di queste dei
popolari iscritti alle società territoriali o di mestiere, pena l’esclusione
da queste società (come avvenne più volte secondo lo schema giunto
sino a noi in una redazione del 1248), talvolta regolandone la presenza
attraverso una distribuzione fissata di alcune cariche tra le stesse partes,
talvolta infine proibendone, con decreti magari poco efficaci, ma signi-
ficativi, l’esistenza tout court. Più in generale, nel corso di questa gene-
razione si cominciò a stabilizzare l’equivalenza tra iscrizione alle fazioni
nobiliari e messa a repentaglio del « buono stato del comune », che nei
provvedimenti scritti da Guglielmo Pusterla nel 1211 era ancora legata
all’emergenza di avvenimenti contingenti. In virtù di questo nuovo at-
teggiamento del governo bolognese, influenzato dalla presenza popolare
11 De Vergottini, Arti e « popolo », pp. 412-416.

Capitolo 3.pmd 76 09/11/2009, 16.25


LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 77

e redicalmente ostile alle partes aristocratiche, la tendenza a colpire con


l’esclusione chi si opponeva alla linea politica stabilita dal comune, già
manifestatasi ai tempi della lotta contro il Barbarossa e proseguita tra
XII e XIII, assunse una forma nuova: quella che colpiva con un bando
aggravato chi, commettendo crimini connessi al proprio stile di vita
metteva a in pericolo il piano di buona amministrazione della giustizia
e di bonum comune portato avanti dal « popolo ».
A questo doppio movimento di crescita e di repressione delle partes
si collegò dall’esterno il conflitto tra i comuni e Federico II, che con-
tribuì a intensificarne ulteriormente le due contraddittorie componenti.
La presenza di due fronti intercittadini sempre più stabili e organizzati
schierati a favore e contro l’imperatore, venne a costituire un nuovo
potenziale punto di riferimento per le parti che all’interno, sulla base
di ragioni differenti, si combattevano. L’urgenza di un conflitto combat-
tuto – in maniera cruenta, soprattutto a partire dagli anni Trenta –
portò il comune ad allestire procedure più severe per punire i disordini
interni. La polemica divampata tra l’imperatore e il papa mise inoltre
in circolo nuove giustificazioni giuridiche per la punizione dei ribelli
che avvicinavano il crimine politico all’eresia e potevano essere utilizza-
te per punire ogni dissidenza possibile. Tali motivazioni divennero ordi-
narie, a Bologna e altrove, contribuendo a diffondere nei comuni forme
nuove di ritorsione, fondate ormai su strategie preventive e tendenti a
comportare pene non più revocabili. Si trattò di un processo generale,
dal momento che quanto era avvenuto a Bologna nel 1228 si verificò
in forme diverse e con tempi differenti in molti altri comuni. L’amplia-
mento dei consigli del comune, l’ingresso di soggetti in precedenza esclusi
e la conseguente formazione di nuove partes stimolata dal conflitto ester-
no, capace a sua volta di innescare nuove forme di ritorsione, furono
processi con cui tutte le città, quale che fosse la tradizione aristocratica
precedente, dovettero fare i conti.
Nelle pagine che seguono si cercherà, in primo luogo, di mostrare
quali furono le conseguenze dell’incremento della partecipazione sul
conflitto politico interno e sul ricorso all’uscita dalla città in alcuni co-
muni. In secondo luogo, si proverà a rendere conto delle novità in
materia di partes e di ritorsione messe in atto dall’imperatore e dal
papa nel corso della loro polemica. In terzo luogo, si valuterà la rica-
duta di queste novità nei comuni, in particolare alla luce di un esempio
vercellese, la cui analisi occuperà un paragrafo. Come nei capitoli pre-
cedenti, si tornerà infine al caso di Bologna per valutarne le peculiarità
sul piano comparativo.

Capitolo 3.pmd 77 09/11/2009, 16.25


78 GIULIANO MILANI

2. Gli effetti della nuova partecipazione sui conflitti: lo scontro tra i co-
muni e Federico

Dagli anni Venti del Duecento, in virtù dell’apertura dei consigli a


componenti sociali non presenti in precedenza, i caratteri originali delle
singole realtà, dovuti alle differenti configurazioni delle aristocrazie lo-
cali, cominciarono a stemperarsi. In alcune città della Marca cominciò
a manifestarsi la presenza di un « popolo », che in precedenza non ave-
va avuto nessuna voce, mentre in altre città dell’Italia comunale i con-
flitti tra milites e populus, anche sulla spinta delle alleanze esterne gui-
date da Milano e da Cremona, cominciarono ad assumere alcune carat-
teristiche tipiche degli scontri di parte, comportando, ad esempio, in
misura notevolmente più intensa, il ricorso all’uscita dalla città. Il rin-
novo della Lega Lombarda, nel 1226, mettendo in contatto molti co-
muni, facilitò ulteriormente il processo di assimilazione tra le organizza-
zioni che si scontravano all’interno di ogni città.
La penetrazione del « popolo » fu più precoce in Lombardia. A Mi-
lano la spartizione degli uffici comunali tra « popolari » e aristocratici fu
sancita una prima volta dalla pace del 1214 12, poi ripresa nel lodo del
1225 13. A Cremona il « popolo » conquistò un terzo degli uffici e un
terzo dei seggi consiliari nel 1210, in seguito al lodo del vescovo Sic-
cardo 14. A Piacenza il « popolo » richiese la metà delle cariche nel 1220,
ottenendola, e perdendola negli anni successivi 15. Ad Alba ciò avvenne
nel 1222 16. Mentre a Bergamo la partecipazione del « popolo » fu previ-
sta solo nel 1230 17. Nella Marca il processo non è altrettanto uniforme,
ma inizia con le paci tra le fazioni cittadine promosse nel 1213 dal
podestà veneziano di Padova Marino Zeno, che promosse una sparti-
zione delle cariche tra le partes 18. A Vicenza, con l’aiuto del podestà
bolognese (filomilanese) Rambertino Rambertini, i populares, costituitisi
in « comune », ottennero un terzo delle cariche già nel 1216. Il « comu-
ne » rimase attivo fino al 1219 e poi riemerse, sotto la guida dell’aristo-
cratico locale Uguccione dei Pilii, tra 1222 e 1225 19. A Verona la co-

12 Corio, Storia di Milano, pp. 311-312.


13 Gli atti del comune di Milano nel secolo XIII, pp. 213-216.
14 Astegiano, Ricerche sulla storia civile del comune di Cremona, II, pp. 297-300.
15 Koenig, Il « Popolo » dell’Italia del Nord, p. 55-58.
16 Rigestum Comunis Albe, p. 360.
17 Storti Storchi, Diritto e istituzioni a Bergamo, pp. 279-300.
18 Annales Sancte Justine, p. 151.
19 De Vergottini, Il « popolo » di Vicenza nella cronaca ezzeliniana, pp. 342-347.

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LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 79

munancia sorse solo nel 1227 e parteciparono alle istituzioni, attraverso


di essa, personaggi in precedenza non attestati come presenti nelle isti-
tuzioni stesse 20. Altrove il « popolo » non raggiunse risultati altrettanto
importanti.
Questa nuova presenza ebbe l’effetto di separare ulteriormente lo
sviluppo dei conflitti veronesi e vicentini da quello delle altre città della
Marca. A Ferrara, città in cui non abbiamo, com’è noto, alcuna traccia
dell’allargamento delle istituzioni comunali, gli scontri continuano a pre-
sentarsi secondo le stesse modalità. Si continuò a far perno sulla rivali-
tà tra Torelli ed Estensi, capace di tenere insieme il gioco delle allean-
ze. Il ricorso all’uscita dalla città non subì sostanziali modifiche. Gli
estensi risultano fuoriusciti dal 1223 al 1224 21. Dopo il loro rientro
tuttavia si pervenne a una forma di spartizione delle cariche sul model-
lo di quanto era avvenuto in alcune città venete dopo la pace del 1213,
e il marchese, pur essendo in qualche misura posto a margine della
vita politica, non subì più l’esilio 22. Anche a Brescia l’organizzazione
degli scontri non sembra aver subito cambiamenti rilevanti. Nel 1224 e
1225 si verificarono disordini civili che assunsero però la forma di una
persecuzione, da parte delle autorità comunali, di un gruppo di fami-
glie aristocratiche accusate di eresia (Ugoni, Gambara, Lavellolongo,
Mosi, Maleghette). Su ordine del pontefice Onorio III si procedette
alla distruzione delle loro torri. Ma durante il processo, uno degli accu-
sati si difese affermando che, in realtà, gli scontri erano legati a motiva-
zioni politiche e che gli indagati non andavano definiti eretici, « sed
socios sue partis » 23.
A Verona vi sono tracce di una complicazione maggiore rispetto
alla generazione precedente anche prima dell’apparizione della comu-
nanza popolare 24. Qui le lotte subirono un’evoluzione decisiva nel di-
cembre del 1225 quando un gruppo di seguaci del conte Rizzardo di
San Bonifacio abbandonò la pars comitis, mantenendo tuttavia (rispetto
ai Monticoli) il distinto appellativo di Quattuorviginti. Nel 1227 dalla
reazione al conflitto delle parti prese forma il « popolo » cittadino. La
costituzione in una « comunanza » condusse alla scrittura di importanti
20 Oltre a Simeoni, Il comune veronese, v. ora anche Varanini, Primi contributi alla
storia della classe dirigente veronese.
21 Castagnetti, Società e politica a Ferrara, pp. 204-206.
22 Castagnetti, Società e politica a Ferrara, pp. 204-206.
23 Bosisio, Storia di Brescia, pp. 657-658. Sull’episodio v. anche Volpe, Movimenti

religiosi e sette ereticali.


24 Simeoni, Il comune veronese sino a Ezzelino.

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80 GIULIANO MILANI

norme che per la prima volta tentavano di limitare radicalmente la pre-


senza delle fazioni aristocratiche. A Vicenza fu la presenza di un po-
pulus organizzato a far sì che si interrompesse provvisoriamente (fino al
1226) la catena di esclusioni iniziata nel 1194. I procedimenti di divi-
sione delle cariche iniziati nel 1213 dalle due parti tradizionali furono
estesi nel 1216 al « popolo ». Le controversie che sino a quel momento
erano state risolte esclusivamente con la lotta violenta cominciarono a
essere discusse anche nei consigli. L’istituzionalizzazione degli scontri
che aveva tenuto dietro ai disordini dei primi decenni del secolo e
l’inizio della partecipazione popolare alle istituzioni contribuì in questo
caso alla riduzione del ricorso all’uscita dalla città. Forse anche questa
istituzionalizzazione dei conflitti contribuì allo spostamento dei da Ro-
mano, che proprio dal 1223, in concomitanza con la rinascita « popola-
re » vicentina, cominciarono a gravitare su Treviso.
Fuori dalla Marca in un primo momento i conflitti proseguirono
lungo le linee tracciate in precedenza. A Cremona si continuò a com-
battere, come risulta dal fatto che nel 1229 si ritornò al consolato, ma
non si giunse ancora all’uscita dalla città di nessuna delle due parti. A
Milano il conflitto di giurisdizione tra comune ed episcopio fu alla base,
nel 1219-1225, di nuovi scontri che videro le organizzazioni popolari
della Credenza di S. Ambrogio e della Motta combattere la Societas
Capitaneorum et Vavassorum, che fuggì dalla città, assieme al vescovo
tra 1221 e 1222 25. Nel 1221 l’intervento di Ugolino da Ostia, legato di
Onorio III, venne sollecitato proprio dall’inaudito bando che l’arcive-
scovo si era attirato con la sua fuga. A Piacenza fino al 1225 gli scon-
tri seguirono sempre lo stesso schema: richieste popolari di partecipa-
zione politica e riforma fiscale; scontro con la societas militum che even-
tualmente esce dalla città, mediazione di un’autorità esterna che inizia
con la revoca del bando e il rientro dei milites 26. Solo dal 1225 le cose

25 I registri dei cardinali, pp. 46-48. Rodemberg, Epistulae, p. 132, 170.


26 La prima volta, nel 1220, a mediare fu il podestà Andalò, e la sua decisione di
accogliere gran parte delle richieste popolari provocò l’allontanamento volontario dei
milites a Potenzano (Iohannis Codagnelli Annales Placentini, p. 69-70). La seconda
volta, nell’ottobre del 1220, fu Corrado di Metz, legato imperiale, a promuovere una
pacificazione, ma stavolta favorevole ai milites, che rimasero quindi in città (ASCr,
Fondo Segreto, 555; Iohannis Codagnelli, Annales Placentini, p. 71). La terza volta,
nella tarda primavera del 1221, la mediazione fu condotta dal legato pontificio Ugolino
da Ostia che, dopo un primo tentativo di equidistanza, si schierò decisamente con i
milites. Nello stipulare la pace tra le due societates cittadine si affrettò a concedere ai
milites la torre e il ciborio della cattedrale affinché potessero tornare in città, in un

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LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 81

cominciarono a cambiare. A partire da questo momento le fonti coeve


cominciano a porre all’origine dei conflitti che avvengono nelle città la
scelta di aderire a una delle due alleanze intercittadine guidate da Mila-
no e da Cremona. Se già in precedenza, almeno dal 1208, è riscontra-
bile un processo di proiezione esterna dei conflitti interni, a partire da
questo momento la direzione comincia gradualmente a invertirsi. L’esi-
stenza di due fronti intercittadini più stabili e riconoscibili diviene in
alcuni casi il fondamento e la causa del divampare degli scontri, e in
particolare del ricorso all’uscita che catalizza le tensioni accumulate e
fornisce al tempo stesso una solida base d’appoggio per condurre la
guerra contro la propria città.
Un’importante traccia del cambiamento è costituita dall’atteggiamen-
to con cui Milano e Cremona, le città guida degli schieramenti padani,
affrontarono i gruppi che si combattevano nelle città sottoposte alla
loro egemonia. La differenza messa in luce da Massimo Vallerani tra
un sistema « pattizio », con cui Cremona amministrava la propria rete
di alleanze, e un sistema « giurisdizionale », che caratterizzò la politica
milanese sembra trovare una conferma nell’azione delle due città sulle
parti nei primi anni Venti. Ma tale differenza viene meno nel 1225, alla
vigilia della formazione della Lega, quando il conflitto regionale si in-
tensifica. In principio Cremona, attraverso i suoi podestà, riconobbe le
parti piacentine, cercò di far loro raggiungere dei compromessi per poter
godere dell’alleanza di una città capace di un equilibrio interno. In
questo senso si spiega la mediazione compiuta da Sozzo Colleoni nel
1221, e, una volta fallita questa mediazione nel 1222, l’invio di un
podestà per la parte del « popolo » (Gerardo da Dovara) e di uno per
i milites (Isacco de Burgo). Solo dal settembre 1225 Cremona mutò
atteggiamento. Mentre Milano coordinava attorno a sé un numero cre-
scente di città, decise di puntare decisamente su una delle parti in

luogo immune, e far decadere così la contumacia, ossia la condizione su cui si basava
il bando emanato contro di loro dal comune (I registri dei cardinali, p. 56: « Item
precepimus et laudamus ut turrim et ciborium maioris ecclesie Placentine pro securita-
te sua tenent milites Placentini, ita quod propter hoc milites ipsi potestatibus vel con-
sulibus placentinis inobedientes et contumaces aliquatenus non existant »). La quarta
volta, nel novembre 1221, fu il podestà di Cremona, il bergamasco Sozzo Colleoni, a
stabilire una tregua, che accoglieva nuovamente le richieste del popolo (Iohannis Coda-
gnelli Annales Placentini, p. 71. Iohannis Mussi Chronicon Placentinum, col. 459). La
quinta volta, nell’agosto del 1222, bastò la nomina del podestà, il cremonese Gerardo
da Dovara, a provocare l’allontanamento dei milites a Potenzano e la loro chiamata di
un altro cremonese, Isacco de Burgo, a proprio podestà (Iohannis Codagnelli Annales
Placentini, p. 71).

Capitolo 3.pmd 81 09/11/2009, 16.25


82 GIULIANO MILANI

causa: stringendo un trattato che la legava alla sola parte dei milites
piacentini, allora in esilio, impegnandosi a osteggiare il « popolo » e il
suo capo Guglielmo Landi 27. A Milano, interessatissima a coinvolgere
Piacenza nella Lega, restò in tal modo l’arma della pacificazione, che
venne condotta con l’appoggio della Chiesa e condusse all’adesione di
Piacenza alla Lega 28.
Al contrario l’atteggiamento di Milano prima della formazione della
Lega, ben visibile a Lodi, è caratterizzato da una decisa scelta di cam-
po tesa a eliminare una delle due parti per rendere possibile un’egemo-
nia più compiuta. Già nel 1221 alcune cronache lodigiane menzionano
gli scontri tra la parte guidata dalla famiglia Sommariva e quella che
aveva a capo gli Overgnaghi. In seguito i disordini si rinnovarono e
con ogni probabilità nel 1223 i secondi vennero banditi per aver rifiu-
tato di sottostare agli ordini del podestà milanese Niger Prealonus, alle-
andosi, anch’essi, con un gruppo di signori di tradizione autonomista
rispetto a Milano, provenienti da Vaprio e Vistarino 29. Con una vera e
propria sentenza, che fu inserita negli statuti lodigiani, si impose agli
Overgnaghi di abbattere le torri, di non costituire una societas superio-
re alle otto persone e di sistemare alcune controversie di confine con i
Sommariva. Alla pars perdente era concesso di entrare due volte all’an-
no, per un periodo non superiore ai venti giorni, nel contado lodigiano
al fine di controllare i propri possedimenti, ma gli Overgnaghi non
potevano stipulare alienazioni e contratti. Questa sentenza, che prende-
va decisamente le parti dei Sommariva, condannando i loro nemici come
disubbidienti fu modificata dalla pace promossa nel 1225 dal podestà
Avenno di Mantova, che nello stesso anno aveva stabilito la pace anche

27 Iohannis Codagnelli Annales Placentini, p. 73.


28 Iohannis Mussi Chronicon Placentinum, col. 460.
29 Vignati, Lodi e il suo territorio, pp. 34-36. Caretta-Samarati, Lodi, p. 124. Nel

marzo di quell’anno lo stesso podestà provvide a emanare un instrumentum che preve-


deva che i danni prodotti dagli Overgnaghi contro la città di Lodi fossero rifusi attra-
verso il sequestro dei beni dei banditi e che la stessa procedura si sarebbe dovuta
attuare in futuro contro chiunque fosse stato bandito a causa della lotta tra le partes.
L’atto definiva come danni arrecati, passibili di rifusione, i terreni che per effetto della
devastazione o degli incendi appiccati dai fuoriusciti non avessero dato frutti e stabili-
va che per l’ammontare dell’assegnazione dei beni sequestrati alle vittime dei banditi
fosse sufficiente il giuramento del danneggiato, obbligando inoltre i debitori dei bandi-
ti a pagare al loro posto i danneggiati. Il podestà inoltre incaricò gli stimatori del
comune di Lodi di provvedere alla stima dei beni dei banditi e annullò tutti i contrat-
ti stipulati dagli Overgnaghi a partire dal 10 marzo, data probabile del bando (Statuti
vecchi di Lodi, pp. 60-63).

Capitolo 3.pmd 82 09/11/2009, 16.25


LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 83

a Milano 30. Si trattava di una mediazione comunque vantaggiosa per i


Sommariva, dal momento che stabiliva che i membri della parte avver-
sa e la loro discendenza maschile, con alcune eccezioni, dovessero risie-
dere a Milano per cinque anni e, in caso di ritorno, sarebbero stati i
milanesi a stabilire i luoghi di residenza a Lodi, ma si trattava comun-
que di una mediazione, di un compromesso che derogava alla sentenza
di due anni prima. In maniera analoga, ma speculare a quanto contem-
poraneamente Cremona faceva a Piacenza, anche Milano insomma rom-
peva con la propria tradizione di intervento.
L’evoluzione della politica milanese verso una maggiore mediazio-
ne tra le parti presenti all’interno delle altre città risulta confermata
dalla lettura dei primi atti della seconda Lega, stretta, come la prima,
sotto la guida di Milano 31. In essi appare chiaramente come la nuova
alleanza non promosse affatto l’esclusione di gruppi potenzialmente
ostili, ma lavorò in primo luogo sulla pacificazione dei conflitti. Po-
chissime tra le città confederate nel 1226 potevano gloriarsi di una
qualche stabilità interna 32. Alcune, come Piacenza, Bergamo 33 e Vero-

30 Gli atti del comune di Milano nel secolo XIII, I, pp. 213-216).
31 Su questa alleanza v. Chiodi, Istituzioni e attività della seconda Lega Lombarda,
ma resta ancora utile, per un primo approccio, Simeoni, Note sulla formazione della
seconda lega lombarda.
32 Le città confederate erano Milano, Brescia, Bergamo, Lodi, Crema, Vercelli,

Alessandria, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Piacenza, Bologna e Faenza. Al veneto


e a Brescia si è fatto già riferimento. Da Alessandria, nel 1225, le famiglie dei Guaschi
e dei Pozzi si erano allontanate per attaccare da fuori la città con l’aiuto dei genovesi
(Ghillini, Annali di Alessandria, I, p. 176. Ma v. in generale Pistarino, Alessandria.)
33 A Bergamo, sempre nel 1225, si verificarono disordini proprio in seguito alle

richieste di adesione alla Lega avanzate da Milano. La città già da alcuni anni penco-
lava tra il fronte milanese, cui tradizionalmente era legata, e quello di Cremona, che
fornì propri podestà nel 1225 e nel 1226. Nel gennaio di quell’anno, mentre si allesti-
vano i preparativi per il rinnovo della Lega (che si sarebbe riunita per la prima volta
a marzo), fu emesso uno statuto che prevedeva il bando perpetuo e la confisca dei
beni per chiunque si fosse recato in territorio milanese. Il conflitto scoppiò in maggio,
quando i Colleoni, assieme ai Suardi (la famiglia che nel 1207 si era schierata contro il
comune e le vicinie), alleati con il podestà cremonese, combatterono contro i Rivola (il
lignaggio che vent’anni prima aveva preso le parti delle organizzazioni territoriali), fau-
tori di una politica filomilanese. Ma anche in questo caso si raggiunse rapidamente
una tregua che portò all’adesione di Bergamo alla Lega. Non sembra che in questa
occasione si fosse giunti all’uscita, che tuttavia avvenne nel 1228, quando i Rivola
procedettero alla distruzione di una torre dei Mozzi, alleati con i Colleoni, e questi si
allontanarono, spostando la battaglia fuori dalla città che aveva ricominciato a importa-
re podestà milanesi, e coinvolgendo contro Bergamo la stirpe rurale dei de Sexo. Le

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84 GIULIANO MILANI

na 34, manifestavano esplicite tendenze antimilanesi. Per alcuni anni tut-


tavia la Lega continuò a mediare, mantenendo la politica di relativa
equidistanza dalle parti cittadine. Proprio sulla base del caso veronese,
che in quel momento era di stretta attualità, in una riunione dei confe-
derati del 5 giugno 1226 fu stabilito che, se una persona o una città
della Lega ne avessa attaccata un’altra, sarebbe stata bandita, e si con-
centrò nelle mani dei rettori della Lega stessa (togliendolo dunque alle
autorità cittadine, com’era avvenuto all’epoca di Barbarossa) il potere
di far uscire dal bando i colpevoli, nonché quello di allontanare dalle
città della Lega le persone sospette di tramare contro di essa 35. Nella
primavera del 1227 i collegati, nell’intenzione di presentarsi come corpo
unito dinnanzi all’imperatore, emanarono altre due norme in materia di
relazioni tra Lega, comuni membri e partes estrinseche. Il 20 aprile si
stabilì che non sarebbe stata ricevuta alcuna singola persona appartene-
nente a una città collegata (è evidente che si pensava soprattutto alla
pars comitis fuoriuscita da Verona), senza il consenso del podestà della
sua città, e che, in generale, i rettori dovessero mediare tra i comuni,
senza intromettersi nelle loro lotte intestine. Una settimana dopo venne
dibattuto l’atteggiamento da adottare nei confronti di una pars esclusa
da un comune non inserito nella Lega, che avesse chiesto l’appoggio
della nuova alleanza per rientrare in città; i rettori stabilirono che nes-
suna delle città collegate avrebbe potuto prestare a città non collegate
aiuti contro i fuoriusciti. Come è stato notato, si trattava di un tentati-

due antiche famiglie che in passato, probabilmente sulla base di una rivalità « privata »,
si erano scontrate nell’ambito della contrapposizione milites/populus si trovarono dal
1226 a combattere sui due fronti che dividevano l’Italia padana e tale scontro coinvol-
se nella contesa, intensificandone l’unione con una delle parti cittadine, alcuni signori
del territorio. Su questi avvenimenti la fonte di riferimento è costituita da alcuni ellit-
tici passi degli Annales Bergomates, analizzati in Belotti, Storia di Bergamo, II, p. 22.
Di scarso ausilio risulta Capasso, Guelfi e ghibellini a Bergamo, mentre ancora utili
Mazzi, Le vicinie di Bergamo e La pergamena Mantovani.
34 Come si è accennato, proprio nel 1225 da un gruppo di aderenti al conte

Rizzardo di San Bonifacio si staccarono i Quattuorviginti. Questo passaggio provocò la


presa di potere dei nemici del conte che, dopo aver promosso l’adesione della città
alla lega, nel giugno 1226, chiamando Ezzelino III da Romano a podestà della città,
bandirono da Verona la parte dei Conti (Un’analisi minuziosa degli avvenimenti e una
serrata critica delle fonti sono in Simeoni, Il comune veronese). L’azione si ripercosse
in tutta la Marca: a Vicenza la pars dei da Romano riuscì a cacciare quella dei da
Vivaro (Gerardi Maurisi Cronica, p. 27). Anche a Treviso nel 1226 i conti da Camino
vennero allontanati dai da Romano.
35 Simeoni, Note sulla formazione della Seconda Lega Lombarda, p. 25.

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LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 85

vo di indurre le città ancora non inserite nell’alleanza ad aderire alla


lega giocando sul timore dei fuoriusciti 36. Nella più stringente temperie
politica, Milano (e con lei le altre città antiimperiali) abbandonava l’at-
teggiamento decisamente punitivo manifestato negli anni precedenti a
proposito delle controversie di Lodi. Se in precedenza aveva sacrificato
l’unità in favore di una maggiore stabilità ora diveniva necessario favo-
rire una pacificazione per poter disporre, come interlocutori e alleati, di
organismi politici il più possibile uniti 37.
Si trattava però di una tendenza destinata ad esaurirsi di fronte
all’aggravarsi degli scontri 38. Nel 1231, in occasione dell’intensificarsi
dello scontro con l’imperatore, i conflitti interni cominciarono a farsi
espliciti ovunque e la pace sempre più difficile da raggiungere. Fu a
partire da allora che i legati papali cominciarono ad appoggiare le
richieste che i comuni avevano presentato all’imperatore, basate sulla
difesa dei privilegi di Costanza, e che anche Federico (che fino a quel
momento non aveva favorito sistematicamente la formazione di una
rete di parti a lui favorevoli) cominciò a mutare politica appoggiando
un po’ ovunque defezioni dalle città della Lega, col privilegiare una
delle partes in conflitto e con lo spingere, in alcuni casi, i suoi nemici
a ricorrere all’uscita 39. In questo modo gli schieramenti che si erano
manifestati in precedenza all’interno delle varie città, già venuti pro-
gressivamente ad assimilarsi in virtù del generale processo di amplia-
mento della partecipazione, cominciarono a dialogare tra loro, in quanto

36 Simeoni, Note sulla formazione della Seconda Lega Lombarda, p. 26.


37 Così nel 1227 la Lega fece ritornare i Conti a Verona, mentre anche i Caminesi
tornavano a Treviso. E nel 1231 la Lega promosse una nuova pace tra le parti verone-
si che erano tornate a scontrarsi (Simeoni, Note sulla formazione della Seconda Lega
Lombarda, pp. 24-27).
38 Sulle relazioni tra Federico II e la lega v. Fasoli, Federico II e la Lega lombarda;

Fasoli, Federico II e le città dell’Italia padana; Soldi Rondini, « Ad Honorem Imperii... »;


e soprattutto Vallerani, Le leghe cittadine.
39 Quasi automatica perché ben preparata dal ruolo di raccordo tra le grandi

casate assunto da Ezzelino III da Romano, fu la defezione del Veneto. A Verona nel
1232 – poco dopo, dunque, l’ulteriore pacificazione tra le partes operata dalla Lega –
Ezzelino e i Monticoli giurarono l’alleanza con Federico II, provocando l’allontanamen-
to dei conti e della loro parte da Verona e la rottura con i Caminesi a Treviso. Nei
cinque anni successivi l’adesione all’imperatore si allargò: si ribadì l’esclusione della
pars comitis da Vicenza, mentre a Treviso, dopo una prima fase di prevalenza dei
Caminesi (coincidente con l’allontanamento di Ezzelino nel 1235), la città venne ricon-
quistata al fronte imperiale assieme a Padova nel 1237 (per un primo orientamento
Castagnetti, La marca Veronese-trevigiana, pp. 235-237).

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86 GIULIANO MILANI

coinvolti in uno scontro più grande che andava assumendo dimensio-


ni sovraregionali. Da situazioni di partenza differenti, attraverso pro-
cessi altrettanto diversificati, si produssero così partes trasversali desti-
nate ad allearsi.
Particolarmente interessante appare ancora la vicenda di Piacenza.
Qui nel 1232 si riaccese il conflitto che vide stavolta la cacciata del
podestà milanese da parte di un fronte costituito da milites e popolari.
In seguito all’istituzione di quattro podestà divisi equamente tra i due
schieramenti, i milites, con una reazione ormai divenuta canonica, si
ritirarono nella loro base di Potenzano 40. Fu quindi incaricato della
mediazione il frate minore milanese Leone da Perego che tuttavia, dopo
essere riuscito a richiamare i fuoriusciti, riproponendo la divisione delle
cariche provocò l’ennesima uscita della societas militum. Fu allora che il
governo popolare – come otto anni prima i milites in esilio – allacciò i
rapporti con lo schieramento cremonese, inviando a Cremona Gugliel-
mo Landi come podestà e nominando alla stessa carica per Piacenza
un pavese. In una prima fase l’accordo impegnava Cremona alla perse-
cuzione dei milites, ma presto la stessa Cremona riuscì a riportare la
pace tra le parti piacentine. Segno del fatto che, nonostante la polariz-
zazione dello scontro, ancora nel 1236 la volontà di far aderire all’alle-
anza tutti gli schieramenti cittadini in conflitto prevaleva ancora rispetto
alla necessità di escludere i potenziali nemici. Proprio quell’anno tutta-
via tale prevalenza venne meno, prima perché il conflitto tra « popolo »
e milites si riaccese e condusse come sempre questi ultimi alla fuga,
poi perché il papa intervenne inviando Giacomo da Recoara, vescovo
di Palestrina, il quale, a quanto attestano gli Annali Piacentini Ghibelli-
ni, accordandosi con alcuni nobili confluiti nella pars populi, impose il
ritorno dei milites. Per la prima volta fu allora il Landi, con i suoi
sostenitori della pars populi, a ritirarsi, rifugiandosi nella filoimperiale
Cremona, mentre Piacenza si schierava con la pars ecclesiae 41.
Due aspetti rendono l’analisi di questi avvenimenti piacentini parti-
colarmente significativa. Innanzitutto, la traduzione degli schieramenti
populus/milites nella nuova contrapposizione « parte della Chiesa »/« par-
te dell’Impero » emerge come un processo che si compie in molti pas-
saggi, fino alla fine non irreversibili. La prima contrapposizione viene a
mano a mano complicata da nuovi contrasti che generano inedite alle-
anze: prima, il conflitto tra comune (in quel momento occupato dalla

40 Iohannis Mussi Chronicon Placentinum, col. 460.


41 Iohanis Mussi Chronicon Placentinum, coll. 461-462.

Capitolo 3.pmd 86 09/11/2009, 16.25


LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 87

pars populi) e papato, poi, per l’alleanza del comune con Cremona,
quello tra Cremona e i milites in esilio; in seguito, quello risorto tra
milites rientrati e populus, e, infine, quello tra aristocratici all’interno
della pars populi fomentato dal Recoara. È l’inserimento di tutte queste
tensioni nel nuovo contesto della guerra sempre più intensa tra Federi-
co e i comuni che conduce all’uscita e al bando di Guglielmo Landi e
dei suoi aderenti. In questi aderenti è il secondo aspetto degno di nota.
Per la prima volta appare in maniera forte come alcuni populares – e
non aristocratici alleati con il popolo, su questo punto le testimonianze
sono evidenti 42 – siano disposti a seguire, in un’avventura tutto somma-
to inedita come quella dell’esilio volontario e dell’appoggio alla causa
imperiale, quel potente signore territoriale che li ha spalleggiati per molti
anni in una battaglia volta alla modifica delle istituzioni. Le ragioni
clientelari che spieghino una simile scelta non sono difficili da immagi-
nare, ma si tratta di un’opzione nuova e ancora in gran parte inedita
nel panorama delle città italiane 43.
Più semplice l’evoluzione degli schieramenti cittadini a Brescia 44. Qui
le tensioni interne culminarono nel fuoriuscitismo nel 1238, quando la
città era stretta dall’assedio dell’imperatore. In principio il vescovo, un
bergamasco, favorì dall’interno della città Federico, concedendogli i ca-
stelli del contado di sua pertinenza. A questi si aggiunsero rapidamente
alcuni grandi signori del territorio. Tra questi vi erano i figli di Alberto
di Casaloldo e Narisio di Montechiaro, vale a dire di due personaggi
che all’inizio del Duecento avevano guidato, rispettivamente, le due par-
tes cittadine dei milites e della societas Bruzele 45. A Brescia dei molti
processi visibili a Piacenza se ne riesce a identificare solo uno: al fronte
imperiale aderiscono alcuni signori del contado, che in un primo mo-
mento hanno cercato di intromettersi nella dialettica urbana, ma che in
seguito ne sono usciti, per promuovere, con l’ampliarsi della giurisdizio-
ne cittadina, un politica anticomunale. Dall’inizio del grande conflitto,
le partes interne subiscono quindi una profonda riformulazione in virtù
del rinnovato antagonismo tra comune e potere signorile.

42 Cfr. Koenig, Il « popolo » dell’Italia del Nord, pp. 78-81.


43 Sui conflitti piacentini si è seguita in questa sede la letteratura fornita da Koe-
nig, Il « popolo » dell’Italia del Nord, pp. 53-94. Non altrettanto convincenti appaiono
le interpretazioni che tendono ad attenuare la presenza popolare fornite da Racine, Le
« popolo » groupe social ou groupe de pression? E Le Popolo à Plaisance.
44 Per queste vicende occorre ancora rifarsi a Bosisio, Il comune.
45 Fé d’Ostiani, I conti rurali bresciani del Medio Evo, pp. 5-53. Ma su Brescia v.

supra Capitolo III.

Capitolo 3.pmd 87 09/11/2009, 16.25


88 GIULIANO MILANI

Il coinvolgimento dei domini loci costituisce quindi un dato utile


per comprendere la serie di adesioni che Federico II registrò negli anni
1236-1239, ma più in generale per cogliere il ruolo svolto, nella crea-
zione dei fronti della pars ecclesiae e della pars imperii, dalla dialettica
tra città e poteri del contado. Bergamo, che come si è visto aveva
aderito alla lega con una certa riluttanza, e che aveva con la Sede
Pontificia un contenzioso in materia di eresia, giurò fedeltà a Federico
II nel 1236. Tale decisione provocò immediatamente la defezione dei
conti di Cortenuova, località compresa nel contado cittadino. Fu nella
battaglia scaturita da questa ribellione che Federico ottenne il suo pri-
mo grande successo 46. Mantova si era arresa nel 1236, sopratutto per-
ché Federico poté trattare con Rizzardo di San Bonifacio, in quel mo-
mento egemone in città. L’adesione di Lodi si dovette anche all’appog-
gio degli esuli Overgnaghi, come abbiamo visto ben radicati nel territo-
rio, che, divenuti da antimilanesi esplicitamente filoimperiali, rientraro-
no in città assieme all’imperatore scacciandone i Sommariva 47. A Ver-
celli, che aderì all’impero nel gennaio 1238, giocò un ruolo fondamen-
tale la promessa dell’imperatore di concedere alla città i diritti sui beni
vescovili del contado 48. Ad Alessandria nello stesso anno alcuni milites
si allontanarono e con l’aiuto, prima di Federico e poi dei pavesi, asse-
diarono la città conquistandola due anni dopo all’obbedienza imperia-
le 49. Como passò alla pars imperii per liberarsi dalla presenza milanese
nel 1239 e vennero banditi i cives rimasti filomilanesi 50. Infine anche
Milano e Genova registrarono l’uscita di alcuni milites di tradizione
autonomista. Sul fronte della Lega tornò soltanto Treviso, grazie al tra-
dimento di Alberico da Romano avvenuto nel 1239 che portò alla cac-
ciata di suo fratello Ezzelino 51.
L’aspetto comune a tutti questi rivolgimenti di fronte fu proprio un
primo scollamento del contado, frutto di una tensione tra comune e
domini loci accumulata in mezzo secolo di espansione della giurisdizio-
ne comunale e catalizzata dalla presenza imperiale. Ciò non significa

46 Annales Bergomates, p. 809.


47 Caretta-Samarati, Lodi, p. 134.
48 Mandelli, Il comune di Vercelli nel Medioevo, pp. 216 e ss.
49 Ghillini, Annali di Alessandria, I, p. 138.
50 Rovelli, Storia di Como, p. II, p. 226; Campiche, Die Comunalverfassung von

Como, p. 205.
51 Su questi avvenimenti e l’inizio del dominio imperiale sulla Marca: Varanini, La

marca trevigiana. Per una ricostruzione degli avvenimenti, Verci, Storia degli Ecelini,
vol. II, pp. 181-197.

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LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 89

che non vi fossero varianti locali. Come mostrano le città della Marca,
sulle quali le ricerche prosopografiche sono più avanzate, se ovunque,
tra quanti si vennero a ribellare al comune, vi furono aristocratici dota-
ti di giurisdizioni nel contado, variò, a seconda della composizione del-
la società locale, la presenza di altri ceti 52. In conseguenza di ciò variò
il anche grado di mobilità interna alle partes. Anche nelle realtà urbane
in cui le partes costituivano da tempo aggregazioni stabili vi fu un cer-
to movimento di persone tra gli schieramenti in prossimità delle esclu-
sioni che caratterizzarono l’età di Federico II, ma tale movimento fu
più intenso laddove il « popolo » aveva raggiunto una qualche forma di
partecipazione 53.
Nel corso degli anni Trenta si venne, dunque, complessivamente a
catalizzare e a diffondere il processo di stabilizzazione dell’identità –
non della composizione – di due partes, che raccoglievano persone che
avevano partecipato al governo del comune e che, con intensità e fre-
quenza diverse, si erano scontrate tra loro in materia di configurazione
istituzionale o di scelte militari e di politica estera in sedi politico-
istituzionali oltre che in conflitti civili. Alla fine degli anni Venti erano
aumentate di molto le città che avevano fatto l’esperienza di una divi-

52 A Verona nel 1239 furono banditi, insieme ai conti di San Bonifacio, più di

novanta maschi adulti (il bando imperiale è edito in Verci, Storia degli Ecelini, III, pp.
270-271). Tra costoro si trovavano stirpi capitaneali come i Lendinara e i Turrisendi,
lignaggi signorili come i da Monzmbano, i Crescenzi, i da Villimprenta, i da Moratica
e un grande numero di cives veronesi, alcuni dei quali avevano sostenuto esplicitamen-
te la comunantia populi negli anni 1227-1230 (Varanini, Primi contributi alla storia della
classe dirigente veronese, pp. 301, 213. Lo stesso bando del 1239 segnala, come ha
notato Castagnetti, quanto diversa fosse la situazione nelle altre città della Marca: a
Ferrara il provvedimento imperiale si rivolse contro il solo marchese d’Este, senza coin-
volgere nessun altro cittadino. Non molto diverso, del resto, doveva essere il fronte
opposto. Quando, nel 1240 Azzo VII strinse d’assedio la città costringendo alla fuga
Salinguerra Torelli, moltissimi sostenitori dei Torelli passarono dalla sua parte (Casta-
gnetti, Società e politica a Ferrara, pp. 210-215. Poco dissimile infine doveva essere la
composizione delle partes vicentine, dal momento che nel bando del 1239 compaiono,
oltre ai conti, solo i loro vecchi alleati Pili, famiglia di giudici di recente tradizione
signorile.
53 A Verona i rivolgimenti furono dovuti dapprima al distacco dei Quattuorviginti

dalla pars comitis (1225), poi alla costituzione della comunancia populi (1227-1228) (Si-
meoni, Il comune veronese fino a Ezzelino, pp. 63-64). A Ferrara nel 1240 tornarono
con Azzo famiglie tradizionalmente filoestensi che si erano allontanate solo negli anni
venti (Giocoli, Fontana) e anche tradizionali alleati dei Torelli (Turchi, Guidoberti,
Constabili e singoli personaggi come Partenopeo di Egidio dei Guizzardi, Susinello
Susinelli, Galvano dei Misotti) (Castagnetti, Società e politica a Ferrara, p. 213.

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90 GIULIANO MILANI

sione di questo tipo, sperimentando l’uscita di una delle partes e il


bando emanato nei loro confronti. Nel decennio successivo iniziò anche
qualcosa di più rilevante di questa estensione quantitativa. La scelta di
aderire o meno all’alleanza rinnovata, che prese il nome di pars ecclesi-
ae in virtù del coinvolgimento del papa, si sovrappose ai diversi conflit-
ti esistenti traducendoli e omologandoli in tutta l’Italia comunale. In
virtù della nascita della coordinazione guelfo/ghibellina, i diversi conflit-
ti locali entrarono in comunicazione reciproca e vennero a contatto con
i materiali culturali prodotti dalla corte imperiale e dalla curia papale
che quella coordinazione dirigevano: agli strumenti diplomatici e giudi-
ziari allestiti dai comuni stessi vennero ad aggiungersi quelli elaborati
dall’imperatore e dal papa.

3. Il contributo dell’impero e del papato: la dissidenza come eresia


A partire dalla fine degli anni Venti, mentre l’impero poneva le basi
per entrare in conflitto con i comuni, andò ampliandosi lo scontro tra
Federico II e i pontefici. Le tappe di questo scontro (iniziato con il
rinvio della crociata da parte dell’imperatore e dalla conseguente sco-
munica emanata da Gregorio IX nel 1229) costituiscono un capitolo
noto della storia politica italiana 54. Più recentemente si è notato quanto
i papi e l’imperatore attinsero al medesimo armamentario ideologico
per attaccarsi reciprocamente, giungendo anzi a costruire, attraverso la
dialettica polemica, un modello politico nuovo 55. L’aspetto più impor-
tante di questo nuovo modello per il discorso che stiamo conducendo
fu la caratterizzazione della disobbedienza politica come eresia. Pur es-
sendo il frutto di un’evoluzione anteriore, tale equazione caratterizzò in
maniera sistematica gli scritti delle cancellerie pontificia e imperiale solo
dagli anni Trenta e Quaranta 56.

54 Ma restano divergenti le interpretazioni del fondamento del conflitto tra papa e


imperatore, in particolare in merito all’intenzione federiciana di estendere le costituzioni
di Melfi all’Italia settentrionale, che Elze, Papato, impero e regno, considera probabile e,
dunque, in grado di sollecitare l’opposizione pontificia, mentre Pennington, Gregory IX,
Emperor Frederick II, la ritiene improbabile, data la mancanza di tale opposizione.
55 Il dato era stato messo in risalto in Capitani, Legislazione antiereticale. Ritorna-

no sul tema dei rapporti tra concezione federiciana del potere e modelli pontifici Lan-
dau, Federico II e la sacralità e Abulafia, Federico II, pp. 170-172.
56 Sulla cancelleria imperiale v. Schaller, Die Kanzlei Kaiser Friederichs II; Enzen-

berger, La struttura del regno; e Herde, Federico II e il papato. La lotta delle cancelle-
rie va contestualizzata con Capitani, Problemi di giurisdizione.

Capitolo 3.pmd 90 09/11/2009, 16.25


LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 91

La connessione tra crimen lesae maiestatis ed eresia era già presente


nella canonistica dell’età di Innocenzo III, ma, nei testi di inizio Due-
cento, come la « Vergentis in senium », era stato il crimine politico più
grave del diritto romano, la lesa maestà appunto, a essere chiamata in
causa come un puntello su cui appoggiare la persecuzione degli eretici.
A distanza di una generazione, dopo trent’anni di crescita del potere
pontificio e di sempre più intensa persecuzione dell’eresia (sostenuta
fortemente dallo stesso Federico II, autore di una normativa antieretica-
le accolta negli statuti di molti comuni) 57, il rapporto di legittimazione
si era invertito. Attorno agli anni Trenta la menzione dell’eresia divenne
l’elemento addotto per aggravare la colpa della disubbidienza politica.
Tramite fondamentale di questo capovolgimento fu la definizione come
eresia dell’attacco alla libertas ecclesiae (ovvero della disubbidienza alla
giurisdizione ecclesiastica), così come appare ad esempio in un testo di
Gregorio IX nel 1227 58. L’accettazione di una simile prospettiva da parte
di Federico – testimoniato tra l’altro da una lettera al re d’Inghilterra
in cui, su questa base, l’imperatore definiva il papa quale precipuus
receptator haereticorum per essersi alleato con i comuni della Seconda
Lega 59, i quali, secondo il paradigma delle lettere papali dei decenni
precedenti, costituivano una minaccia permanente alle giurisdizioni ec-
clesiastiche –, per quanto strumentale alla polemica in corso, costituiva
un passo ulteriore nell’assimilazione concettuale tra attacco al potere ed
eresia. Un simile collegamento conferiva alla disubbidienza politica aspetti
tipici della disubbidienza religiosa: in questo modo essa diveniva un
attentato all’unità del corpo sociale, una divisione perniciosa, in grado
di separare al suo interno il popolo cristiano, mettendo gli uni contro
gli altri. Quando nel 1231 Federico emanò il Liber Augustalis, utilizzan-
do anche in altri campi schemi concettuali desunti dalla tradizione pon-
tificia, questa assimilazione fu affermata con vigore e i ribelli all’impera-
tore furono definiti come eretici.
Non stupisce che questa prospettiva, così solennemente sancita nella
più importante raccolta legislativa dell’imperatore, sia stata adottata da
Federico a partire dalla metà degli anni Trenta quando, una volta occu-
patosi della riorganizzazione del regno di Germania, tornò a rivolgere
la propria attenzione ai comuni. Nella dieta di Piacenza del 1236 affer-

57 Alcuni comuni espressero resistenze, come segnala Padovani, L’inquisizione del


podestà.
58 Il passo è citato in Merlo, Federico II, gli eretici, i frati, p. 53.
59 Oltre a Merlo, Federico II, gli eretici, i frati, v. anche Orioli, Eresia e ghibellinismo.

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92 GIULIANO MILANI

mò, con un formulario che ricordava da vicino quello di Gregorio IX,


il programma di eradicare dall’Italia settentrionale la heretica pravitas,
definendola tuttavia, con un’integrazione rispetto al pontefice, nei ter-
mini di una duplice « mancanza di rispetto », a Dio e all’impero, mo-
strata dalle città lombarde 60. Com’è stato notato di recente 61, se si tie-
ne conto di questo passaggio, la definizione dei nemici dell’impero qua-
li infideles, che caratterizza la produzione federiciana degli anni succes-
sivi, viene ad apparire fondata su una voluta ambiguità tra fidelitas e
fides, mostrando che Federico volle caratterizzare quanti si schieravano
contro di lui non solo come ribelli, ma anche come pericolosi scismati-
ci. Tale concezione ebbe importanti conseguenze pratiche, come mostra
la Costitutio contra infideles imperii emanata da Federico nel febbraio
1239, dopo che la vittoria di Cortenuova del 1237 lo aveva reso ege-
mone sulla maggior parte dei comuni. Inserito d’autorità negli statuti
delle città alleate, e sopravvissuto – lo si vedrà da vicino nel prossimo
paragrafo – nelle codificazioni di Bergamo e Vercelli, questo editto fe-
dericiano costituì un fondamento per tutta la successiva normativa poli-
tica dei comuni. Se nel difendere la fidelitas esso si limitava, secondo la
tradizione, a stabilire punizioni fondate sulla privazione dei diritti già
concessi dall’imperatore, nell’aggiungere a tutto ciò la difesa della fides
introduceva elementi nuovi (come la durissima persecuzione dei favo-
reggiatori, assimilati di fatto ai ribelli), desunti dalla lotta all’eresia e
tesi alla limitazione del fenomeno in un’ottica dell’emergenza.
Con forme che si richiamavano esplicitamente alle più illustri fonti
del diritto (« ...sicut antiquis legibus est inductum »), Federico II stabilì
che città e signori a lui fedeli dovessero muovere guerra ai suoi nemici,
interrompendo con questi ogni contatto, pena l’equiparazione ai colpe-
voli di lesa maestà e il sequestro integrale di tutti i beni e dei i diritti
concessi che aveva loro concesso 62. Nel caso i traditori fossero stati

60 Friderici II. Constitutiones, p. 266. Già Kantorowicz, Federico II, pp. 422 e ss.

rinvenne in questo documento la svolta sacralizzante della polemica tra Federico e i


comuni.
61 Vallerani, Le città lombarde, pp. 462-466.
62 Friderici II. Constitutiones, p. 286: « 1. In primis volumus, quod omnes fideles

nostri, tam universitates locorum quam marchiones, comites et omnes alii, vivam et
instantem guerram faciant omnibus inimicis nostris et quod omnes modos et vias inve-
niant qualiter ipsis cum instancia guerra fiat.
2. Volumus etiam et mandamus, quod nullus omnino nostrorum fidelium cum infi-
delibus nostris aliquo modo vel ingenio per se vel per aliquem alium habeat omnino
tractatum, nullas ab eis litteras, nullum nuncium signumve recipiat; quod qui fecerit,
sicut antiquis legibus est inductum velut lese maiestatis reus ab omnibus habeatur ».

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LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 93

interi comuni, si prevedeva l’annullamento di diritti e privilegi; nell’ipo-


tesi del tradimento di singole persone, all’annullamento dei privilegi
imperiali doveva essere aggiunta la perdita dei diritti concessi da comu-
ni o signori e la condanna a morte. Sempre secondo le antiche norme
sul crimen lesae maiestatis, l’imperatore regolò le pene per i figli dei
traditori escludendoli dalla successione e provvide inoltre a tutelarsi da
eventuali contestazioni dei banditi. Ai comuni che non avessero provve-
duto all’applicazione di questo bando imperiale venne minacciata la pri-
vatio iurisdictionis; podestà e giudici che non avessero messo in atto
quanto stabilito sarebbero incorsi nella perdita dell’ufficio e del diritto
di testimoniare. Infine, precisando i contenuti del bando contro i ribel-
li, Federico sottolineò come tale bando comportasse l’uscita dalla città,
la perdita del diritto di promuovere cause civili e criminali, la perdita
della possibilità di esercitare cariche pubbliche. Distaccandosi più netta-
mente dalla tradizione, stabilì precise modalità per la delazione: estese
indiscriminatamente la concessione del diritto di accusare e previde un
premio per gli accusatori che variava a seconda del patrimonio dell’ac-
cusato. Infine decretò che il bandito che avesse provveduto all’uccisio-
ne di un altro ribelle, o di un favoreggiatore, la cui colpa fosse stata
pari o maggiore, sarebbe divenuto immune in perpetuo dalla condanna.
La Constitutio contra infedeles imperii fu il fondamento della giusti-
zia politica federiciana in Italia. Lo dimostra il bando emanato nel giu-
gno dello stesso 1239 contro i ribelli della Marca trevigiana. Il testo
recitava che, se le persone citate non si fossero presentate entro il ter-
mine di otto giorni, sarebbero state private di ogni diritto, i loro vas-
salli e servi sarebbero stati sciolti da ogni vincolo, e i legittimi detentori
avrebbero potuto riacquisire benefici e beni concessi ai banditi. Stabili-
va, inoltre, sempre in consonanza con il provvedimento di febbraio, di
bandire e pubblicare i beni di coloro che avessero favorito i banditi.
Imponeva infine a Ezzelino da Romano di giurare l’osservanza del ban-
do e di farla giurare a tutti i cittadini veronesi, tenuti a dimostrare
l’avvenuto sacramentum attraverso un atto notarile 63. In questo docu-

63 Verci, Storia degli Ecelini, III, p. 274 (in corsivo sono segnalate le formule più

vicine alla tradizione comunale): « [...] Citati coram ejusdem presentia comparere con-
tumaciter recusantes perpetuo banno Imperii tanquam proditores Corone precipimus
subjacere, ut eorum vassallos & servos a mandatis imperialibus se obtulerint parituros,
cujuslibet fidelitatis & servitutis nodo quo ejus tenerentur, omnino absolvimus, ut eis
de cetero nullius fidelitatis, vel conditionis vinculo sint adstricti, ac ipsos proditores
eorumque filios & sequaces atque universos qui potestatis et Comunis Verone non pa-
rent preceptis & extra Civitatem Verone morantur ad sententiam faciendam Communita-

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mento, attenendosi strettamente alla costituzione del febbraio, ma usan-


do anche espressioni che sembrano desunte dalle codificazioni statutarie
veronesi l’imperatore citò i ribelli del comune di Verona e altri aderenti
alla pars ecclesiae come proditores corone, ma impose loro di presentarsi
« agli ordini del podestà e del comune cittadino ». Federico giustappo-
neva in tal modo la normativa imperiale a quella già presente nei co-
muni e applicava, come si vedrà, ai suoi rebelles le pene previste per i
traditori dei castelli già passibili di grave punizione negli ordinamenti
cittadini. La proditio imperii si fondeva con la proditio comunis. I due
linguaggi si sovrapponevano integrandosi l’uno con l’altro.
Queste costituzioni furono emanate nel momento in cui Federico
viveva il momento di massimo successo militare. Nel 1239 la Lega era
ormai ridotta alle città di Milano, Piacenza, Brescia e Bologna, ma fu
da quel punto che le cose cominciarono a cambiare. Contro l’impera-
tore confluirono di lì a poco Genova e Venezia, che firmarono un
trattato con il papa Gregorio IX, nonché Treviso e Ferrara, dominate
rispettivamente da Alberico da Romano e Azzo d’Este 64. La svolta si
dovette alla rete diplomatica pontificia messa in opera in un primo
momento da Gregorio IX, specialmente dal suo legato Gregorio di
Montelongo, e, a partire dal 1243, da Innocenzo IV 65. La sua azione,
attuata ovunque, ma particolarmente visibile nelle città emiliane, rive-
lò da un lato processi di formazione delle partes decisamente più in-
dotti e artificiali di quelli precedenti, destinati peraltro a lasciare im-
portanti eredità66. D’altro canto, dal punto di vista ideologico, l’in-
fluenza del papato, che dal 1239 aveva promosso una seconda scomu-
nica di Federico, scatenando contro di lui una crociata e accettando
così di sacralizzare definitivamente la lotta, contribuì a radicare nelle
città che passarono alla pars ecclesiae l’assimilazione tra crimine politi-

ti et intrinsecis de Verona. Omni honore, omni dominio, omnique jurisdictione quam


obtinerent, vel obtinuerint ab imperio sive ab aliis qui spectarent ad imperium, priva-
mus et penitus spoliamus, & cuncta eorum bona et possessiones ubicumque fuerint
que a Dominis tenent, in eos Dominos reverti precipimus, & que ab Imperio, Imperia-
li Camere confiscamus, ita ut nullum de cetero possit habere regressum, nisi hinc ad
octo dies proximos veniant preceptis imperialibus & suorum Nuntiorum obedire parati
ubicumque Imperialis Majestas, vel ejus nuncii aderunt in tota Monarchia [per « mar-
chia »?], vel etiam Lombardia [...] ».
64 Su questi e i successivi avvenimenti militari cfr. da ultimo Vallerani, Le città

lombarde, con bibliografia.


65 Sull’azione pontificia v. Pacaut, La papauté; Rigon, Il ruolo delle chiese locali.
66 Sull’opera di Innocenzo IV v. Bernini, Innocenzo IV e il suo parentado; Melloni,

Innocenzo IV; Ullman Frederick II’s opponent.

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LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 95

co ed eresia e a diffonderla nei comuni che non avevano subìto diret-


tamente l’egemonia di Federico.
Com’è noto uno degli elementi nuovi del papato duecentesco fu la
sua intromissione nel controllo delle elezioni vescovili. Già sotto il pon-
tificato di Gregorio IX essa fu tesa a favorire presuli antiimperiali 67. La
lotta fu proseguita da Innocenzo IV su una base più solida, quella dei
contatti diretti con alcuni prestigiosi casati che costituivano il fulcro del
controllo imperiale sulle città emiliane poiché svolgevano funzioni di
podestà in tutti i centri della pars imperii 68. Per questa ragione il vasto
movimento di costituzione delle partes ecclesiae degli anni Quaranta
cominciò da Parma. Qui Innocenzo riuscì a far eleggere alla cattedra
vescovile un suo nipote. Attraverso di lui riuscì a imporre un presule
anche a Reggio. Sfruttando le rivalità che in queste città si erano anda-
te accumulate in seno a una società caratterizzata da un’ampia presenza
di milites vecchi e nuovi, riuscì a portare dalla sua parte un drappello
consistente di cavalieri 69. La stessa scelta di agire su un nucleo unito

67 A Parma, una delle alleate più fedeli all’imperatore, Gregorio da Montelongo


cominciò ad agire già nei primi mesi del 1241 facendo scrivere dal marchese di Mon-
ferrato una lettera ai suoi « amici » parmigiani invitandoli alla rivolta contro Federico
II. Si trattava di una delle possibilità offerte da una strategia antiimperiale più vasta
che la curia pontificia aveva promosso in seguito all’esplosione del conflitto tra l’impe-
ratore e i vescovi del Regnum. Essa trovava realizzazioni più efficaci attraverso la no-
mina di presuli antifedericiani in caso di vacanza della sede episcopale. Su questi avve-
nimenti ancora utile Bernini, Come si preparò la rovina di Federico II.
68 Il pontefice proveniva dalla famiglia signorile dei Fieschi di Lavagna, dotata di

una giurisdizione confinante con il contado parmigiano (oltre che piacentino e genove-
se), e trovò quindi in Parma, città che la aveva visto membro del capitolo, il suo
territorio d’elezione. Dapprima il nuovo papa agì secondo linee di condotta più tradi-
zionali: pochi giorni dopo la sua elezione sospese il vescovo parmigiano Bernardo Vi-
zio, trasferendo all’abate del monastero di S. Giovanni evangelista l’amministrazione
della chiesa cittadina.
69 Si trattava di Bernardo di Rolando Rossi, Bernardo da Cornazzano e membri

delle famiglie da Correggio e Lupi. Nei Rossi la fedeltà all’imperatore era antica: Rolan-
do era stato podestà imperiale in Emilia, Lombardia e Toscana, e Bernardo aveva spo-
sato una sorella dell’allora cardinale « ghibellino » Sinibaldo Fieschi. I da Correggio,
detentori di diritti nella bassa reggiana, erano stati anch’essi filoimperiali, ma Gherardo
aveva preso la guida di uno dei due raggruppamenti aristocratici cittadini che si erano
scontrati nel 1239. I Lupi costituivano invece una famiglia signorile di minore rilievo.
Parenti dei Pelavicino con i quali avevano contese, esercitavano il loro potere su Sora-
gna, nella bassa parmense. Recentemente tuttavia avevano stretto anche loro matrimoni
politicamente rilevanti: Guido aveva sposato una sorella di Bernardo di Rolando Rossi,
mentre suo figlio, una nipote di Innocenzo IV. Nel 1246 dalla città uscirono inoltre
altre due famiglie di milites: gli Arcili, e i da Beneceto. Con loro si schierò anche

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non solo da fedeltà familiari, ma anche da rilevanti responsabilità poli-


tiche comuni, sull’élite, insomma, della pars imperii , diede i suoi frutti
anche a Reggio e a Modena 70. Le partes ecclesiae emiliane furono dun-
que ristretti gruppi di aristocratici dotati di diritti signorili, ma sopra-
tutto politicamente molto consapevoli: quasi tutti i loro membri di rilie-
vo (Rossi, da Cornazzano o da Correggio, Sesso, da Enzola e i Lupi di
Soragna) appaiono tra i più illustri podestà imperiali degli anni prece-
denti 71. Essi vennero cooptati direttamente dal papa nel più ampio qua-
dro di una sollecitazione alla ribellione dei vicari federiciani che coin-
volse Pandolfo di Fasanella, capitano in Toscana, e Giacomo Morra,
vicario nelle Marche, e che venne attuata con altri mezzi in città carat-
terizzate da una vicenda e da una struttura sociale differenti, come
Cremona 72 e Vercelli 73. Nel complesso, non sembra che la defezione di
queste grandi famiglie abbia coinvolto nella militanza attiva molte altre
persone 74. Come mostrano le epistole pontificie di questo periodo, pie-
ne di elenchi di nomi, si trattò insomma di una politica mirata, estre-
mamente consapevole, che puntava a spostare l’equilibrio politico, indi-
viduando i gangli vitali dell’egemonia imperiale e procedendo attraverso
contatti con lignaggi e individui.

Ghiberto da Gente, cavaliere di antica tradizione imparentato con i Rossi, la cui fami-
glia, probabilmente in declino economico, ancora nel 1240 risultava fedele a Federico.
Su queste famiglie v. ora Guyotjeannin, I podestà imperiali e Podestats d’Èmilie centrale.
70 A Reggio la traduzione dei conflitti aristocratici in senso politico era avvenuta

su influsso parmigiano già nel 1245, quando alcune grandi stirpi signorili cittadine: i
Roberti, i da Fogliano, i da Sesso, i Lupicini e pochi altri lignaggi si erano allontanati
dalla città e avevano subito il bando imperiale. A Modena il processo fu più comples-
so. Anche qui si erano manifestate tensioni in seno alle famiglie aristocratiche nel
corso degli ultimi anni Trenta e dei primi anni Quaranta. Sebbene già nel 1244, men-
tre il papa guadagnava terreno a Parma e Reggio, alcuni cittadini lasciarono la città
per aderire al fronte della Chiesa. fu soltanto nel 1247, in pieno assedio di Parma, che
la spaccatura si aprì nel seno dei più illustri sostenitori di Federico: i Rangoni e una
quindicina di milites de sua parte, che stavano combattendo assieme all’imperatore,
abbandonarono il campo.
71 Guyotjeannin, I podestà imperiali, pp. 124-125.
72 Nello stesso momento venne bandita da Cremona la fazione filopontificia dei

« Cappelletti ». Di essa facevano parte i Sommi, famiglia investita all’inizio del secolo
di numerosi diritti sulla riva destra del Po, e dotata probabilmente di un ramo anche
a Parma, i marchesi Cavalcabò, gli Amati, i Conti, gli Oldovini e i Casanova, tutte
famiglie che Innocenzo IV mise sotto la propria protezione. Indicazioni in Astegiano,
Ricerche sulla storia civile.
73 V. oltre par. 5.
74 Per fare un esempio, il giuramento prestato dagli estrinseci modenesi nel 1249

a Bologna contiene solo 74 nomi (Tiraboschi, Memorie storiche modenesi, V, p. 30).

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LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 97

Anche in Toscana, dove fino a quel momento le strutture politico-


amministrative imperiali avevano sostanzialmente tenuto, le partes inter-
ne alle città acquisirono importanza solo a partire dagli anni Quaranta.
Anche qui fu sopratutto alla fine dell’età federiciana che vi furono esclu-
sioni 75. A giudicare dalle scarse testimonianze in merito al più noto di
questi episodi, l’esclusione dei guelfi fiorentini del 1248, si trattò di un
atto promosso e amministrato fondamentalmente dall’impero per mano
dei suoi rappresentanti contro un gruppo sicuramente più compatto e
dotato di autonomia rispetto alle neonate parti antimperiali emiliane,
ma comunque spinto ad agire dalla diplomazia papale. Nel 1247 fu
infatti il legato pontificio Ottaviano degli Ubaldini, che in quel momen-
to dimorava a Bologna a fare pressione sul gruppo di famiglie che
avrebbe preso il nome di parte guelfa per farli ribellare ai vicari impe-

75 A Firenze i guelfi furono scacciati la prima volta nel 1239. Per molto tempo la
storiografia relativa ai comuni toscani ha considerato come un dato sostanzialmente
scontato che tale esclusione fosse fondata sull’esistenza di due fazioni di estensione
regionale già mature e organizzate. In realtà questa tesi sembra possibile solo nel caso
del tutto particolare di Pisa. Qui un’esclusione non incanalabile nello schema guelfi/
ghibellini era avvenuta già nel 1233-34, quando, in occasione di alcuni conflitti di
giurisdizione sui giudicati sardi di Cagliari e Torres tra il comune e la famiglia Viscon-
ti, quest’ultima era stata messa al bando, aprendo in Sardegna il territorio di formazio-
ne delle partes pisane (Petrucci, Re in Sardegna, pp. 39-47. Ronzani, Pisa e la Toscana,
pp. 71-72). Quanto a Firenze, sia nelle cronache più antiche, sia nella documentazione,
si comincia a trovare attestazione di queste due parti soltanto a partire dall’epoca di
Federico II. L’approfondito rastrellamento di Davidsohn ha rinvenuto la prima menzio-
ne cronachistica dei due termini « guelfi » e « ghibellini » in un passo dei cosiddetti
Annales Florentini II, scritti attorno all’inizio degli anni Quaranta. Il passo tratta del
conflitto avvenuto negli anni 1237-1239 tra un gruppo di cittadini favorevoli alla riele-
zione del podestà milanese Robaconte da Mandello, guidati con ogni probabilità dalla
famiglia Giandonati, e un’altra porzione di cittadinanza, al cui vertice si intravedono i
Fifanti, che invece caldeggia una più stretta adesione di Firenze al fronte imperiale,
concedendo all’imperatore la nomina del podestà. La lotta, complicata peraltro dalla
tensione tra il vescovo e il da Mandello, si sarebbe conclusa secondo la stessa fonte
nel 1239 sotto la podesteria del pavese Guglielmo Usimbardi, con la sconfitta dei
guelfi, la loro cacciata, seguita poi dalla pacificazione interna. Più che dimostrare l’esi-
stenza di due parti già stabili e organizzate, l’episodio segnala quindi il nuovo valore
politico che, come altrove, assumono le divisioni nell’aristocrazia cittadina alla fine de-
gli anni Trenta, mentre si intensifica la lotta con Federico II. È quindi solo verso la
fine degli anni Quaranta, in prossimità dell’altro apice della tensione tra pars imperii e
pars ecclesiae, successivo alla deposizione del 1245, che si rinvengono attestazioni docu-
mentarie dei nomi degli schieramenti e narrazioni cronachistiche (come quella di Gio-
vanni Villani, Nuova Cronica, I, pp. 315-320) che attestano la raggiunta maturità delle
fazioni cittadine.

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riali. Alla fine dell’anno scoppiarono i tumulti che condussero al bando


dei capi guelfi come rebelles imperii 76. I fuoriusciti si ritirarono a Ca-
praia dove vennero attaccati dall’esercito imperiale e sconfitti. Federico
II prese alcuni prigionieri, tra cui i capitanei partis guelfe Ranieri di
Zingane dei Buondelmonti e Buonaccorso Bellincioni degli Adimari, e
secondo una prassi visibile nello stesso periodo a Padova, a Ravenna e
altrove, li deportò in Puglia 77. Gli esuli non deportati rimasero fuori di
Firenze fino al 1250, quando vennero riaccolti in città in seguito ad un
rivolgimento promosso dalla societas populi cittadina 78.
Le partes ecclesiae degli anni Quaranta del Duecento rappresentaro-
no insomma un’importante novità per varie ragioni. Se, come si è visto,
il denominatore comune delle adesioni al fronte imperiale degli anni
Venti e Trenta era stato il sentimento anticomunale di una parte del-
l’aristocrazia rurale, magari coinvolta nel ceto dirigente cittadino, come
nella Marca, o addirittura alla guida delle società di Popolo, come a
Piacenza, le nuove aggregazioni degli anni Quaranta sorgevano o me-
glio erano, per così dire, estratte dal governo stesso della città. Se Fe-
derico era riuscito a scollare pezzi di contado attraverso privilegi e di-
plomi, Innocenzo IV stava scollando, attraverso favori, denaro e benefi-
ci ecclesiastici, porzioni di ceto dirigente che apparentemente non ave-
vano alcuna ragione strutturale per divenire fuoriusciti. In questa nuova
autonomia della dimensione politica risiede un’altro aspetto caratteristi-
co. A differenza delle partes che si erano formate fino agli anni Venti,
questi gruppi non si fondavano su relazioni tradizionali che affondava-
no le loro radici nelle generazioni precedenti (come avveniva nelle città
della Lombardia in cui le parti della Chiesa e dell’Impero ereditavano
la tradizione delle societates di inizio Duecento e nella Marca dove si
sovrapponevano alla fedeltà alle magnae domus), ma costituivano allean-
ze del tutto inedite. Le nuove parti tuttavia potevano allearsi e combat-

76 Nel febbraio Federico scriveva a suoi fedeli commentando l’accaduto: « [...] li-
teras Friderici comitis Albe dilecti filii nostri recepimus, continentes qualiter in virtute
Dei et nostre felicitate fortune partem Guelphorum Florentie, cui dudum nostra maie-
stas pepercerat, cum juste ad ipsius exterminium procedere potuisset, que velut fami-
liaris et pestilentis cardinalis Octaviani tractatibus exposita, Bononiensibus nostris pro-
ditoribus advocatis civitatem Florentie per intestinum bellum nobis subtrahere intende-
bat, fidelium nostrorum assistentibus sibi suffragiis debellavit, et nonnullis captis quo-
sdam de civitate ipsa violenter ejecit [...] » (Huillard Breholles, Historia diplomatica
Frederici II, VI, 2, p. 586).
77 Tholomei Lucensis, Annales, pp. 75-76.
78 Ad Arezzo i guelfi esclusi nel 1249 rientrarono solo nel 1254.

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LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 99

tere con quelle vecchie della Lombardia e della Marca perché ormai
erano impegnate nella stessa guerra.

4. La ricaduta sui comuni. Le trasformazioni dell’esclusione

Gli statuti comunali mostrano come alla fine degli anni Quaranta la
ritorsione attuata contro i nemici interni subì significativi cambiamenti
rispetto a una ventina di anni prima. Alcune tendenze evolutive già
visibili verso il 1220 si andarono definitivamente affermando nell’inten-
sificarsi del conflitto con Federico II e nel diffondersi della sovrapposi-
zione tra dissidenza politica ed eresia. Si diffuse in tutta l’area padana
un medesimo termine, malexardi, per indicare i nemici politici. Teorici
e pratici del diritto cominciarono ad aggiungere sempre più frequente-
mente l’aggettivo « perpetuo » al termine bando (come si è visto da
oltre un secolo fondamento della giustizia comunale), dimostrando che
la pena dell’allontanamento per motivi politici non costituiva più un
provvedimento eccezionale che, proprio per la sua novità doveva essere
legittimato con il nome di uno strumento (il bando appunto) fonda-
mentale nell’esercizio della giustizia cittadina, ma era divenuta una spe-
cie particolare di quello strumento. Il sempre maggior peso che i bandi
perpetui assunsero venne così a minare il carattere revocabile del ban-
do, avvicinandolo sempre più alla pena dell’esilio. Accanto all’esclusione
punitiva, infine, – e questo fu il contributo più significativo che que-
st’epoca diede alla vicenda dell’esclusione – si fece strada un’esclusione
preventiva con la quale, nel tentativo di purificare preventivamente la
città dalla presenza di elementi pericolosi, i governi comunali inviavano
al « confino », cioè al soggiorno obbligato in alcuni luoghi del contado,
i propri cittadini. Complessivamente, ma in maniera ancora molto gra-
duale (l’evoluzione si compirà solo nel secolo successivo), l’esclusione
politica cominciò a perdere il carattere di misura eccezionale, di rispo-
sta del comune ad un’azione di ribellione comunque straordinaria e
dunque non prevista, per assumere quello di strumento più usuale di
governo, applicabile a diverse fattispecie di comportamenti e come tale
previsto dalla normativa. La maggiore presenza di rubriche dedicate al-
l’esclusione politica negli statuti successivi al 1230 non è dunque sem-
plicemente la passiva ricaduta sulle codificazioni statutarie del dilagare
di un conflitto, ma il segno di una nuova consapevolezza nella defini-
zione dei nemici interni: non più trascurabili eccezioni all’ordine pacifi-
cato, delle quali può recare traccia la sola sentenza, ma presenza stabi-

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100 GIULIANO MILANI

le, che, come tale, richiede l’inserimento negli statuti di casi precedenti
a cui ispirarsi e di delibere in base alle quali agire.
Come si è accennato in apertura di capitolo, dagli anni Venti, in
concomitanza con la prima penetrazione popolare, si affermò definitiva-
mente la conservazione di un insieme organico di documenti in regi-
stro: libri iurium, libri di statuti, libri di ambasciate e di ufficiali, regi-
stri amministrativi. Questa necessità di verifica fondata sulla scrittura si
accompagnò al progredire della riflessione giuridica, portando comples-
sivamente a una nuova formalizzazione nell’amministrazione della giusti-
zia visibile, a questa altezza, sopratutto nella proliferazione di libri di
banditi. È in questo generale diffondersi di nuove definizioni scritte e
di ricorso sempre più sistematico allo strumento del bando che va col-
locata la bipartizione tra bandi ordinari e bandi perpetui. Questa bipar-
tizione segnò il riconoscimento definitivo da parte dei giuristi dell’epo-
ca della contiguità esistente tra due istituti da lungo tempo presenti
nella normativa e nella pratica dei comuni: il bando giudiziario revoca-
bile, attuato contro i contumaci che non si presentavano in giudizio e
contro i debitori insolventi, e la pena dell’esclusione, l’exilium dei brevi
consolari, dotato di un profondo significato politico, che assunse ap-
punto il nome di bando perpetuo. I teorizzatori del XIV secolo avreb-
bero scritto che il bando perpetuo differiva dal bando ordinario in
quanto non era revocabile tramite la pace con l’offeso, ma soltanto con
il pagamento di una pena pecuniaria, spesso altissima 79. Esso aveva dun-
que un carattere in qualche modo giuspubblicistico poiché la parte of-
fesa era identificata con il comune. Un secolo prima, per gli statutari
della prima metà del Duecento, riportare definitivamente la pena del-
l’esilio nel campo del bannum significò tracciare una linea continua ca-
pace di congiungere tutti i tipi di sanzione, dalla più lieve alla più
grave, dalla multa per la mancata esecuzione di una stentenza alla esclu-
sione conseguente a una ribellione politica. Specificare che in quest’ulti-
mo caso si trattava di bandi « perpetui » significò tuttavia il manteni-
mento di una distinzione importante all’interno di questa linea conti-
nua, una distinzione tra provvedimento giudiziario e atto politico.
Come ha messo in rilievo Sara Menzinger, in un anno imprecisato
anteriore al 1234, Accursio inserì nella Glossa alle Istituzioni giustinia-
nee un passo in cui equiparò le pene romane della deportatio e della
relegatio a due differenti forme di bando. La deportatio era interpretata

79 Cavalca, Il bando, pp. 239-240: « tutti i bandi, anche quelli perpetui, si estin-

guevano quando il reo avesse espiato la pena inflittagli nel bando e nella condanna ».

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LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 101

dal glossatore come un bando più pesante, che implicava la confisca


del patrimonio e la totale perdita dei diritti di cittadinanza; la relegatio,
come un bando più leggero, che poteva essere agevolmente revocato 80.
Considerando la coeva bipartizione tra bando provvisorio e bando per-
petuo, sembra posibile leggere nella nota del giurista un tentativo di
suffragare tramite il diritto romano l’importanza crescente che andava
prendendo l’istituto del bando « perpetuo ». Alcuni statuti comunali il-
lustrano bene l’aspetto di questo istituto prima dell’acuirsi dei conflitti
con Federico. Il più antico statuto bergamasco riporta una norma del
1215 che, pur essendo riferita a delitti previsti in precedenza da altri
statuti e puniti con l’esclusione (exilium), costituisce la più antica testi-
monianza normativa dell’uso congiunto dell’aggettivo « perpetuo » e del
termine « bando ». Essa prevede che chiunque ospiti un condannato al
bannum perpetuale per omicidio, o rottura di tregua, vale a dire viola-
zione della pace stabilita a conclusione di una faida, debba essere con-
dannato alla pena di venti soldi imperiali. Altre norme che stabiliscono
il dovere per il podestà di cercare e condannare i banditi « perpetui »,
per quanto non databili con certezza, sono probabilmente coeve 81.
Con l’accendersi degli scontri in età federiciana il ricorso a questa
misura si estese ben oltre il campo dei delitti contro la iurisdictio che
almeno dal XII secolo erano puniti con l’exilium. Nel 1226, quando il
comune di Bergamo, conteso tra le due alleanze padane, era momenta-
neamente retto da podestà cremonesi, la pena del bando perpetuo fu
estesa a quanti si fossero allontanati per recarsi in territorio milanese e
non fossero tornati entro un mese. A due anni dopo risale lo statuto
veronese emanato in seguito alla prima affermazione della comunantia
populi, che mostra come il bando perpetuo potesse essere invocato an-
che dalle società di « popolo » per punire i nemici del comune e coloro
che facevano parte delle fazioni che minavano la pace interna. Questa
pena fu infatti prevista per coloro che si fossero impossessati di alcuni
importanti castelli del contado senza consegnarli al podestà. Chi si fos-
se macchiato di questo crimine sarebbe stato estromesso dalla protezio-
ne comunale (« eximatur de treva »), avrebbe subito la pubblicazione e
la distruzione dei beni e non avrebbe più potuto abitare nella città o
nel distretto 82. La distruzione della casa e l’allontanamento definitivo
furono inoltre stabiliti per chi avesse attaccato il palazzo comunale e

80 Menzinger di Preussenthal, La pena del bando, pp. 46-47.


81 Antiquae collationes, coll. 1949-1950.
82 Liber Juris Civilis Urbis Veronae, p. 48.

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102 GIULIANO MILANI

– a ridosso della dieta di Piacenza – per gli eretici 83. Infine il bando
« pepetuo », ma solo in caso di mancato pagamento di una altissima
multa (200 lire se miles, 50 se pedes, 100 se notaio), fu decretato per
tutti coloro che avessero tentato di riunirsi in partes, tanto quella del
conte Bonifacio, quanto quella dei Monticoli e Quattuorviginti, nomina-
te assieme a tutti gli alleati esterni.
La configurazione degli scontri interni nei come scontri fra la « par-
te della chiesa » e la « parte dell’impero » affermataso negli anni Trenta,
non intaccò, anzi favorì il ricorso al bando perpetuo, che divenne lo
strumento abituale per punire la dissidenza. Alcune scarne menzioni
piacentine segnalano l’uso dell’espressione banniti pepetuales per indica-
re sia i milites che si allontanarono nel 1233, sia la pars imperii, che
subì la stessa sorte nel 1236 e che certamente subì il sequestro dei
beni 84. Inoltre, analogamente a quanto stava avvenendo nella politica
federiciana dell’esclusione (che si sarebbe concretizzata di li a poco nel-
la Constitutio contra infideles imperii), la sempre maggiore sovrapposi-
zione tra disubbidienza politica ed eresia spinse verso l’equiparazione
tra i rei e i favoreggiatori. Rivelatore al proposito è lo statuto bergama-
sco. Nel 1215, come si è appena accennato, per coloro che ospitavano
i banditi perpetui era stata prevista solo una pena di venti soldi. Nel
1237 furono banditi da Bergamo i signori rurali che avevano consegna-
to a Milano i castelli di Cortenuova e Mura. Il comune stabilì allora,
fissando precise multe, che nessuno doveva chiamare comites, ma sem-
plicemente proditores, Zilio, Guifredo e gli altri signori di Cortenuova;
che nessuno dovesse più sentirsi stretto a legami feudali con i conti
stessi e che nessun cittadino di Bergamo potesse recarsi nei luoghi da
loro controllati senza il permesso del comune, pena il bannum perpetua-
le, la distruzione dei beni immobili e il sequestro. Si provvide inoltre a
fissare delle ricompense per chi avesse catturato i traditori 85. È facile
notare in questi provvedimenti alcune similitudini con quanto due anni
dopo Federico inserì nella sua costituzione contro gli infideles imperii e
non è dunque improbabile che queste misure – visto anche il significa-
to del tradimento per Federico I – abbiano subìto direttamente l’in-
fluenza della diplomazia imperiale.
Lo stesso inserimento della Constitutio contra infideles imperii nello
statuto bergamasco mostra come questo intervento normativo federicia-

83Liber Juris Civilis Urbis Veronae, p. 116.


84Archivio di Stato di Piacenza, Ospizi civili, XVI, nn. 80-81, cit. in Koenig, Il
« popolo » nell’Italia del Nord, p. 81.
85 Antiquae collationes, coll. 1921-1926.

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LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 103

no stimolò l’emanazione di norme di carattere generale da parte del


comune lombardo. Subito in calce alla costituzione federiciana si trova
infatti una norma che stabilisce il bando perpetuo per chi fosse entrato
in contatto con i luoghi vietati dal comune in tempo di guerra 86. Non
si trattava soltanto di impedire i commerci da parte degli uomini del
contado, che la constitutio pure richiamava, tanto è vero che, di segui-
to, viene specificato che sarebbero incorsi nel bando perpetuo i cittadi-
ni che fuggendo dalla città avessero manifestato la propria ribellione 87.
In questo modo, in termini nuovi e generali, anche se ancorati alla
contingenza della guerra, si esprimeva il principio antichissimo dell’esclu-
sione dalla città di chi aveva scelto il ricorso all’uscita.
Diverso il caso del « confino », che, già prima di Federico, espri-
meva un principio nuovo, quello della prevenzione del disordine della
lotta di fazione mediante l’allontanamento temporaneo dalla città di
personaggi considerati pericolosi 88. Il confino poteva anche trasformar-
si in un allontanamento duraturo dalla città, ma non comportava mai
la perdita dei beni, né la possibilità controllata di temporanei rientri.
Per chi si sottraeva a esso molti statuti prevedevano tuttavia il bando
perpetuo. A Modena il confino era stato inflitto nel 1225 a Lanfrancus
de Petrezanis, che aveva tentato l’anno precedente di impadronirsi del-
la torre di S. Geminiano, gesto che aveva innescato un tumulto. Al
termine degli scontri, il podestà aveva emesso una serie di condanne
pecuniarie e aveva inviato al confino a Cremona i capi di entrambi gli
schieramenti. Non abbiamo notizie degli altri confinati, ma Lanfrancus
trascorse a Cremona con i suoi quattro figli i vent’anni successivi 89.
Nello stesso anno, come si è visto, anche gli Overgnaghi lodigiani era-
no stati confinati a Milano. Nel 1230, in seguito al magnus rumor
conclusosi con la pacificazione della Lega, il podestà di Verona confi-

86 Antiquae collationes, col. 1946: Item statuimus quod si aliquis homo virtutis

Pergami tensabit [Sic, forse per « tentabit »] aliquod mercatum illis terris vel locis qui-
bus vetitum erit per comune Pergami, vel dederit seu traxerit vel dari seu trahi fecerit
tempore guerre, vel trahere seu dare facere temptaverit versus inimicos et in itinere
repertus fuerit, ipso facto sit in banno perpetuali et guastum de omnibus suis bonis
teneatur Rector ei facere ».
87 Antiquae collationes, coll. 1946-1947: « Item statuimus quod omnes nostrates

qui a tempore inceptionis guerre a nobis ad hostes fugierunt pro offensione comunis
Pergami vel divisorum, vel de cetero fugient, quod eorum persone perpetuo sint in
banno et res eorum perpetuo publicentur et in comune deveniant, [...] ».
88 Cavalca, Il Bando, p. 150.
89 Simeoni, Ricerche sulle origini della signoria estense, p. 19.

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104 GIULIANO MILANI

nò alcuni membri delle partes veronesi a Venezia 90. Infine, per essersi
sottratti al confino cui erano stati condannati per avere provocato scon-
tri, nel 1241 furono condannati al bando i filoimperiali genovesi. Per
quanto potenzialmente collegabile all’idea di separare i dissidenti-eretici
dal resto della popolazione, in quest’epoca al confino si fece ancora
poco ricorso, in primo luogo per effetto della breve durata delle esclu-
sioni 91. Solo nella generazione successiva sarebbe divenuto un provve-
dimento largamente diffuso.
La definizione della dissidenza elaborata nelle cancellerie del papa e
dell’imperatore pesò nell’adozione di un unico termine usato specifica-
mente per i colpevoli di reati politici. A Brescia e a Milano i nemici
filoimperiali vennero definiti come malexardi, un termine dispregiativo
di origine incerta, ma sicuramente connesso con l’aggettivo malus, che
indicò da lì in avanti i banditi politici in tutta l’area padana, così come
il termine malexardia (usato nelle espressioni banniti pro malexardia,
confinati pro malexardia) fu usato per definire specificamente il delitto
politico. Delle esclusioni dei malexardi da Brescia e Milano sappiamo
pochissimo, e come d’abitudine rimangono testimonianze esclusivamente
legate al sequestro dei beni. A Brescia, nel Liber Potheris è conservato
un documento relativo al sequestro dei diritti dei conti territoriali, che
contiene, oltre a una ventina di menzioni di banditi (la stragrande mag-
gioranza delle quali sono individuali), anche una breve formula eccet-
tuativa da cui si ricava che la colpa perseguita in quell’occasione fu
anche quella della fellonia feudale 92. A Como pochi anni dopo, ma-
lexardi fu usato per indicare i banditi antiimperiali dei cui beni i vicari
federiciani cedevano gli introiti al comune 93.
Precisazione del concetto di bando politico attraverso la distinzione
del bannum perpetuale, comparsa di atteggiamenti preventivi mediante
l’adozione del confino, impiego di termini unificanti sono tutti sintomi
del passaggio a una prospettiva più generale nella politica dell’esclusio-
ne dei comuni. Un passaggio non improvviso come mostra la docu-
mentazione vercellese degli anni Quaranta.

90Parisii da Cereta, Annales Veronenses, col. 27. Ma v. anche Varanini, Primi


contributi alla storia della classe dirigente veronese.
91 In alcuni casi, tuttavia, come a Padova, vi fece ricorso lo stesso Federico II:

Rippe, La logica della proscrizione.


92 Liber potheris, p. 291, d. 61. Fé d’Ostiani, I conti rurali bresciani del Medioevo,

pp. 37-39.
93 Campiche, Die Comunalverfassung von Como, p. 200-205.

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LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 105

5. Dalla sentenza alla norma: il caso di Pietro Bicchieri a Vercelli

L’azione diplomatica pontificia già dal 1243 si era estesa anche a


Vercelli. La città, che nel 1227 aveva giurato la Lega, era passata al
fronte imperiale unitariamente e senza tensioni interne nel 1238, quan-
do Federico II promise al comune il districtus sul contado. Nel 1243 il
passaggio di questo diritto non era ancora avvenuto. Il legato papale
Gregorio da Montelongo trattò allora con due consoli cittadini che ave-
vano rimpiazzato il rappresentante federiciano, promettendo anch’egli la
concessione dei beni nel contado in cambio del ritorno all’obbedienza
pontificia. Alcuni studi 94 ci consentono di estendere anche a Vercelli
quella generale impressione di novità che le partes cittadine presentano
negli anni Quaranta. Sin dalla seconda metà del XII secolo Bicchieri e
Avogadri appaiono in posizione di rilievo nella vita economica, politica
ed ecclesiastica della città: fornendo consoli, detenendo possessi e giuri-
sdizioni nel contado, facendo parte della clientela vescovile. Solo all’ini-
zio del Duecento le due famiglie cominciarono a differenziarsi: i Bic-
chieri divennero i principali clienti di un ente di nuova fondazione, la
canonica di S. Andrea, che reclutava anche altre famiglie signorili; gli
Avogadri seguirono e incoraggiarono l’affermazione istituzionale del « po-
polo » nel comune. Avogadri e « popolo » si impegnarono perché il co-
mune acquisisse la giurisdizione sul contado, ancora in mano all’episco-
pio. La promessa della concessione di questa giurisdizione fu il punto
su cui impero e papato insistettero per promuovere il passaggio di Ver-
celli alle loro alleanze interregionali. Fu solo con questa intromissione
che il conflitto tra le due parti si accese: gli Avogadri restarono con il
comune e promossero i contatti con la curia pontificia, mentre i Bic-
chieri e la clientela nobiliare della canonica di S. Andrea abbandonaro-
no la città e subirono una ritorsione 95. Trattandosi di uno dei pochissi-
mi provvedimenti di esclusione propriamente comunali attestanti questa
importante fase dell’evoluzione del bando politico, vale la pena di os-
servarlo da vicino. L’azione si svolse in tre tempi.
Nel 1243, in seguito alle trattative con Gregorio da Montelongo,
Pietro Bicchieri fu inviato come ambasciatore a Milano, ma egli, dopo
essere aver compiuto una parte del percorso si fermò avviando i con-
tatti con membri della parte filoimperiale lombarda. Fu allora emanato
nei suoi confronti un bando che sebbene prevedesse una pena pecunia-

94 Fonseca, I Bicchieri; Panero, Particolarismo ed esigenze comunitarie.


95 Mandelli, Il comune di Vercelli, pp. 226-237.

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106 GIULIANO MILANI

ria altissima (500 lire) non menzionava la ribellione, ma semplicemente


la mancata esecuzione del mandato impartitogli:
« Quoniam Petrus Bicherius, cum praeceptum ei esset per Dominum
Guillelmum de Surexina Potestatem Vercell. per sacramentum et in banno
librarum CCCCC. p. p., quod iret Mediolanum cum Ruffino Advocato et
Guillelmo de Arborio et Nicolao Alzato, pro quadam ambaxata comunis
Vercell... cum ivisset usque in valle Sicida et ibi per multum tempus ste-
stisset, et iterum praeceptum ei fuisset... quod iret pro dicta ambaxata...
complenda cum praedictis ambaxatoribus, qui eum Mediolani expectabant,
et etiam cum plures dilationes essent ei datae ad peticionem amicorum
suorum et ad superandam maliciam ejus ut iret Mediolanum.. non ivit sed
ire penitus recusavit. Ideo dictus Potestas ponit ipso in banno lib. CCCCC.
p. p., de quo non exeat nisi prius solverit dictum bannum » 96.

Questa formulazione presenta alcune peculiarità. La pena prevista


supera quella di un omicidio e dipende direttamente da una garanzia
preventiva, indice dell’originaria percezione di un pericolo nell’affidare
la missione al Bicchieri. La malicia costituisce un altro indizio rilevante,
ma si tratta comunque di un documento che, se isolato, non lascerebbe
molto spazio a una lettura in chiave di parte. Ma Pietro subì un altro
bando che lo accusava di un vero e proprio atto di ostilità. Egli fu
accusato di aver posto una guarnigione ad alcuni castelli di confine e
di aver rifiutato la consegna di questi luoghi fortificati al comune disat-
tendendo a una serie di citazioni e precetti: di avere, dunque, prestato
appoggio all’esercito imperiale, che in quel momento aveva invaso il
contado vercellese. La pena pecuniaria fu quindi stabilita in ragione di
ben diecimila lire, ma nello stesso bando si precisava, secondo l’ordina-
ria prassi, che, in seguito al pagamento di questa cifra e al ritorno
all’obbedienza del comune, il Bicchieri sarebbe potuto rientrare.
« Quoniam Petrus Biccherium guarnivit et munivit castra sancti Ger-
mani et Alicis et Veveroni et Ropoli et Azelii contra honorem comunis
Vercellarum... et ipsa castra Potestati Vercell... reddere et in ejus forcia
ponere recusavit et dicto Potestati et ipsi Comuni restitit, et etiam ad
Regem et Marchionem Lanceam, qui super terram Comunis Vercell… ho-
stiliter venerant, Episcopatum Vercell. concremantes et deguastantes et ho-
mines Vercell. capientes et occidentes armata manu ivit, et in eorum acie,
cum predicta facient, dicitur fuisse, et etiam dicitur dictos Regem et Lan-
ceam cum exercitu ad eius instigationem et inductum venisse in Episcopa-
tum Vercell., et per plures servitores requisitus fuerit pluribus vicibus...

96 Mandelli, Il comune di Vercelli, p. 255.

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LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 107

quod praedicta castra in virtute et forcia Comunis Vercell. daret et pone-


ret et de eis discederet, et illos, qui in eis erant pro eo, recedere faceret,
et quod cum ejus familia Vercellis veniret, stare mandatis Potestatis, et hoc
per sacramentum et sub banno de avere et persona, et non venit nec dicta
castra reddidit Comuni Vercell. sed reddere recusavit. Ideo dictus Potestas
ponit eum in banno, et dat ei bannum maleficii pro praedictis maleficiis,
et ultra decem millium librarum pp., de quo banno non exeat; nisi prius
solverit Comuni Vercell. praedictas libras decem milia pp. et juraverit stare
mandatis predictae Potestatis » 97.

Alla mancata esecuzione dell’ordine fu quindi sostituita la menzione


di due reati tipicamente in grado, come si è visto per Bergamo, di com-
portare il bando perpetuo: la sottrazione di castelli alla giurisdizione co-
munale e l’alleanza con i nemici del comune. A Vercelli, che agiva con-
tro un ribelle filofedericiano non si poteva invocare come a Bergamo la
Constitutio contra infideles imperii che pure federico aveva fatto inserire
negli statuti nel 1239 quando la città era sua alleata. Per questo gli statu-
tari vercellesi ricorsero a un formulario tipico dei libelli accusatori per
crimini ordinari (« armata manu ») e al richiamo alla pubblica fama, non
invocata direttamente, ma suggerita dai vari dicitur che sottolineano le
aggravanti – è per esempio « ad eius istigationem » che il re e il marche-
se Lancia si sono rivolti contro la città. Ma tutto ciò non bastava ancora,
occorreva il rinforzo dato dalla menzione delle citazioni dei nunzi comu-
nali e del reiterato rifiuto a eseguire gli ordini per sancire questo grave
« bannum pro maleficio ». Che si tratti però di un maleficio particolare si
ricava dall’aggiunta che segue a questo secondo bando:
« Insuper dictus Potestas statuit et ordinat et pronunciat quod omnes
ejus homines, quos habet in districtu Vercell. vel alibi, (questo vel alibi
doveva almeno tralasciarsi) sint liberi et franchi, ut eos et eorum res libe-
rat et franchitat ab ejus dominio et potestate et jurisdictione: ita quod
amplius dominium vel potestatem vel jurisdictionem vel honorem vel jus
aliquod in ipsis, nec in eorum bonis et rebus non habeat nec exerceat,
nec exercere possit, et bona omnia ipsius Petri publicat, et publicata esse
pronunciat, et quod in Comune Verrcell. perveniant et reducantur ad uti-
litatem Comunis, et quod praedicta castra dextruantur et dextructa tenean-
tur, ita quod perpetuo non reaedificentur. Insuper statuit ut ejus domus et
turris, quas habet in Civitate Vercell. dextruantur funditus et reducte et
dextructae teneantur in Comuni publicatae » 98.

97 Mandelli Il comune di Vercelli, p. 257.


98 Mandelli Il comune di Vercelli, p. 258.

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108 GIULIANO MILANI

L’enunciazione dei delitti già previsti dagli statuti apriva la strada


alla pubblicazione dei beni, alla distruzione delle case e infine allo scio-
glimento dei servi dal vincolo signorile e alla loro liberazione da ogni
onore e giurisdizione. È difficile non pensare che, pur non potendola
citare direttamente per ragioni di opportunità politica, gli statutari ver-
cellesi non avessero sottomano proprio quella costituzione federiciana
che, pochi anni prima, aveva insistito molto sulla componente giurisdi-
zionale del bando imperiale, cioè sulla privazione dei diritti signorili
concessi dall’imperatore. Molte erano, dunque, le strade per cui Vercelli
giungeva alla formazione di questa normativa politica: la giustizia crimi-
nale, il già presente bando perpetuo, il formulario imperiale e, infine, la
nuova politica contro i signori del contado visibile in due statuti pro-
mulgati quello stesso anno: quello che stabiliva che non è saggio acqui-
sire i castelli dei signori ribelli, ma è meglio distruggerli e quello, famo-
sissimo, relativo alla liberazione dei loro servi 99.
Nel 1247, mentre la riscossa della pars ecclesiae andava prendendo
ovunque carattere organizzato, il bando a Pietro Bicchieri venne ribadi-
to, ma non più come provvedimento isolato. Esso apparve (è in questa
versione che confluì negli statuti cittadini posteriori) nel contesto di
una delibera di carattere generale che stabilì che chiunque avesse tra-
mato l’attacco al comune o fosse andato a combattere aderendo al-
l’esercito dei nemici sarebbe stato bandito.
« In primis statuit et ordinavit quod si quis de civitate vel districtu
Vercellarum tractaverit malum vel detrimentum vel incomodum seu mino-
ranciam communis Vercellarum (*). vel eciam si quis de civitate vel districtu
Vercellarum alteri parti seu parti inimicorum adheserit vel communi Ver-
cellarum rebellis et inobediens et contrarius estiterit. vel si quis de civitate
Vercellarum vel de locis et burgis communi Vercellarum faventibus exierit
et ad alteram partem seu ad inimicos communis Vercellarum iverit et se
transtulerit et cum eis steterit. quod ipse et eius filii qui cum eo habitave-
rint et eius uxor perpetuo banniantur. de quo exire nullo modo possint
nisi prius mandatis potestatis steterint et communi Vercellarum soluerint
libras mille ultra aliam penam seu bannum ei in banno datam seu datum
et impositum. et bona eius mobilia publicentur et immobilia destruantur
et dissipentur et devastentur. et presertim turres et castra et alie forcie
[...] »100.
(*)
nel 1249 corretto in « domini imperatoris vel communis Vercellarum ».

99 Panero, Schiavi, servi e villani, pp. 284-287.


100 Statuta comunis Vercellarum, coll. 1306-1312.

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LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 109

Sulla correzione del 1249 torneremo tra breve. Per ora vale la pena
di notare il procedimento di astrazione compiuto dai legislatori sul com-
portamento tenuto pochi anni prima dal rebellis Pietro Bicchieri. Ognu-
na delle sue azioni, già censurate con i bandi precedenti, divenne nel
1247 una delle componenti che concorrevano a formare l’immagine com-
plessiva di ogni futura ribellione. La congiura ai danni del comune e
della sua giurisdizione; l’aperta ribellione e inobbedienza; l’uscita dalla
città; l’alleanza con il nemico e persino la permanenza in compagnia
degli hostes furono assunte come singole azioni perseguibili in maniera
indipendente. Ma non fu solo questo a mutare, poiché, come la norma,
anche la pena, prevista ora anche per i familiari più prossimi, si affran-
cò dal caso particolare, dall’eventuale bando, e fu fissata a mille lire in
più della condanna comminata.
Dopo questi provvedimenti il nome di Pietro Bicchieri veniva cita-
to ancora esplicitamente, accompagnato da quello dei suoi familiari,
ma ormai quale specificazione della norma generale. Il suo bando ve-
niva giustificato retroattivamente in base alla validità dell’ordinamento
generale.
« Item statuit e ordinavit quod Petrus Biccherius (*) cum contra com-
mune Vercellarum de predictis omnibus fecerit et in predictis omnibus
comiserit. quod penis istorum statutorum ipse et eius filii et uxor subia-
ceant. et supradicte omnes pene ipse et eius filii et uxor subiaceant et
supradicte omnes pene in eo et eis et in quolibet casu locum habeant et
sibi vendicent. et si in virtute potestatis vel communis Vercellarum per-
venerit capite puniatur. nisi hinc ad diem jovis proximi venerit stare
mandatis potestatis »101.
(*)
nel 1249 corretto in « Advocati et omnes de eorum progenie tam clerici
quam laici et Vbertus de Bulgaro et filii et ablatici quondam domini Ferracani
de Arborio tam clerici quam laici. et omnes eorum sequaces et fautores et
adiutores existentes rebelles domino Imperatori et communi Vercellarum ».

Nella pratica veniva lasciato aperto ancora uno spiraglio: se Pietro


si fosse presentato di lì al giovedì successivo, gli sarebbe stata rispar-
miata la pena capitale. Ma su tutti gli altri fronti il comune si tutelava.
Nonostante il carattere generale, si esplicitarono tutte le possibili appli-
cazioni: si provvide a estendere la nuova « pena superiore » a coloro
che si erano effettivamente allontanati insieme al Bicchieri, così come ai
favoreggiatori, e a chiunque avesse trattato con i ribelli per mezzo di
101 Statuta comunis Vercellarum, col. 1310.

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110 GIULIANO MILANI

lettere, nunzi o ambasciatori. Si confermarono infine tutte le vendite


fatte dei beni dei banditi, prevenendo le eventuali contestazioni, e ven-
nero liberati i debitori di Pietro Bicchieri e degli altri ribelli dalle loro
incombenze; si ribadì che queste pene superiori non inficiavano quelle
già comminate e infine si stabilì il divieto di modifica dello statuto nel
suo complesso 102.
I tre bandi di Pietro Bicchieri costituiscono una testimonianza im-
portante di come, anche in questa fase in cui era forte l’elaborazione
giuridica delle potestates universali e la loro trasmissione di un vocabo-
lario giuridico-politico ai comuni, l’esclusione politica passasse necessa-
riamente per un adattamento delle procedure già esistenti nella norma-
tiva cittadina. Nel loro svolgimento però essi riassumono bene, e in un
arco di tempo relativamente ristretto, la volontà di superare il bando
comunale. Questo istituto, dalla sua apparizione, era sempre stato
un’azione a posteriori in quanto costituiva una risposta alla mancata
esecuzione di un precetto. Il punto di arrivo dell’elaborazione vercelle-
se, il bando del 1247, ruppe questa tradizione poiché creò un provve-
dimento preventivo. Non si trattava in sé di un elemento assolutamente
originale. Alcuni elementi di prevenzione sono infatti riscontrabili anche
nelle norme genovesi che nel XII secolo stabilivano l’esilio per i falsifi-
catori di moneta, ma esso ci testimonia come l’urgenza preventiva si
andava estendendo dalle sfere più interne al potere comunale (la sua
capacità di giurisdizione, il monopolio di battere moneta) verso sfere
più vicine a ciò che oggi definiamo con il termine di crimine politico,
e cioè un attacco diretto al potere costituito che si manifesta attraverso
la ribellione al comune e il passaggio alla parte nemica.
Ma al tempo stesso i bandi vercellesi mostrano quanto tale estensio-
ne fu graduale. Solo a partire dal 1247, la ribellione « di parte » fu
assunta come categoria penalistica indipendente e la pena superiore che
gli statuti avevano stabilito iniziò a risultare potenzialmente estendibile
a tutti coloro che in futuro avessero compiuto azioni assimilabili al
crimine del primo ribelle politico, Pietro Bicchieri. Come mostrano le
correzioni riportate, due anni dopo, quando i Bicchieri rientrarono in
città e cacciarono la famiglia che più delle altre si era esposta nell’ade-
sione alla pars ecclesiae, gli Avogadri, non si fece altro che sostituire,
nello statuto, i passi che indicavano il soggetto e l’oggetto della rebellio,
mantenendo sostanzialmente inalterato il resto del provvedimento. I nomi
di Pietro Bicchieri e dei suoi familiari vennero sostituiti con quelli degli

102 Statuta comunis Vercellarum, col. 1311-12.

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LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 111

Avogadri, e la menzione del semplice « communis Vercellarum » fu era-


sa e rimpiazzata dall’endiadi « domini imperatoris vel communis Vercel-
larum » 103. Lo statuto del 1247, con il quale si era voluto superare la
contingenza della singola rebellio e creare un diritto ordinario in mate-
ria di ribellione filoimperiale, acquisì un carattere ancora più generale,
divenendo il riferimento fondamentale di ogni provvedimento di giusti-
zia politica, indipendentemente dalla parte che l’avesse promosso.

6. Parti ed esclusione senza chiesa e impero: Bologna nell’età di Federico II

Il processo di formazione e chiusura delle parti che in molte città


della Marca e della Lombardia costituisce un fenomeno degli anni Ven-
ti e Trenta, a Bologna, come in altre città emiliane si rende visibile solo
negli anni Quaranta. Rispetto a Parma, Reggio e Modena, tuttavia Bo-
logna presenta una particolarità: la polarizzazione dell’aristocrazia citta-
dina non è dovuta all’intervento della diplomazia pontificia. Di più, a
Bologna non appare nemmeno connessa alla lotta tra la pars imperi e la
pars ecclesiae, ma rappresenta ancora un elemento tipicamente locale, a
riprova del fatto che il conflitto sovraregionale fornì l’occasione, ma
non la causa, al formarsi dei nuovi gruppi in conflitto, oltre che, come
si vedrà, alle nuove modalità di esclusione.
Il segno dell’esistenza di una divisione stabilizzata in due partes è
rinvenibile nel primo statuto unitario del popolo, scritto nel 1248, sul
quale occorrerà tornare. Una norma relativa all’elezione del consiglio
comunale stabilisce che il podestà ha il dovere di scegliere quaranta
elettori, « bonos et legales », costituiti da venti popolari e « .xx. de ma-
ioribus, .x. de unaquaque parte ». Con questa norma le parti vengono
dunque definite come pertinenti al ceto dei maiores e riconosciute nel
numero di due 104. Il tentativo di dare un senso all’esistenza di queste
due parti e collegarle alla divisione che in questi anni attraversò l’Italia
comunale non dà però alcun frutto concreto. Nessuna cronaca menzio-
na l’esistenza a Bologna di un’opposizione filoimperiale alla linea politi-
ca di fedeltà alla Lega che caratterizza il comune di questi anni. Non è
nemmeno utile, da questo punto di vista, il frammento di un registro
processuale del 1242 che contiene alcune testimonianze rese nel corso

103 Statuta comunis Vercellarum, coll. 1306-1312, il testo viene riportato sinottica-

mente a quello dell’altra condanna.


104 Statuti delle società del popolo di Bologna, II, p. 527.

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112 GIULIANO MILANI

di un’inquisizione per l’invio di lettere al fronte nemico, rappresentato


da Enzo – il figlio di Federico che nel 1249 sarà catturato proprio dai
bolognesi – e dal capitano dell’esercito federiciano di stanza a Imola.
Non solo gli accusati sono studenti fiorentini e pisani, ma emerge an-
che che le lettere sono false, confezionate apposta per infamare il per-
sonaggio al quale sono attribuite, e che a tale scopo sono state conse-
gnate direttamente alla familia del podestà 105. Infine, alcune liste di mi-
lites che risalgono agli anni Quaranta ci mostrano che contro l’esercito
imperiale combatterono i membri delle maggiori famiglie dell’aristocra-
zia cittadina: sia di quelle che nella generazione successiva avrebbero
mantenuto il loro orientamento politico confluendo nella parte « guel-
fa » e filoangioina dei geremei, sia di quelle che, al contrario, si sareb-
bero schierate con i ghibellini lambertazzi 106.
Oltre a questo sganciamento dai conflitti intercittadini, un altro ele-
mento che differenzia le parti bolognesi da quelle che si combattevano
nelle altre città è la mancanza di un legame forte e visibile con l’aristo-
crazia del contado. Nel 1243, come attestano numerose cronache, un
dominus della montagna, Azzo di Gualdradina, dopo aver ucciso un
altro nobile del contado occupò il castello di Roffeno dove ospitò alcu-
ni banditi cittadini. La spedizione inviata dal comune pose l’assedio al
castello occupato, riuscì a riprenderlo, catturò i ribelli, e dopo averli
condannati nella pubblica concio punì il capo e i suoi stretti collabora-
tori trascinandoli per la città e decapitandoli 107. Il podestà provvide
inoltre a fortificare Roffeno per evitare che divenisse un ricettacolo dei

105Le deposizioni sono edite con alcune inesattezze in Savioli, Annali Bolognesi,
III, 2, p. 196, num. 639. L’originale è conservato in ASBo, Comune, Curia del Podestà,
Giudici « ad maleficia », Accusationes, b. 1, fasc. 7.
106 Mi riferisco a una lista dei prigionieri a Parma conservata in ASBo, Comune,

Soprastanti alle prigioni, reg. 1241 e a due liste di presentazioni di cavalli del 1249
(ASBo, Estimi di città e contado, s. III, estimi restaurati, b. 57, reg 3D (1249); ASBo,
Estimi di città e contado, s. III, estimi restaurati, b. 3, reg B (1248).
107 La testimonianza più antica è in Petri Cantinelli Chronicon, p. 4. Ma v. anche

Corpus Chronicorum Bononinensium, II, p. 115-118. Oltre ai resoconti dei cronisti, di


questo episodio restano alcune menzioni confluite negli statuti, una relativa ai beni di
Gualdradina, moglie di Azzo, di cui si ordina il sequestro (Frati, Statuti di Bologna,
vol. 1, p. 518; vol. 2, p. 421), le altre relativi alle pitture infamanti relative al capitano
frignanese fatte fare nel palazzo comunale, al centro di una disputa tra comune e
popolo negli anni successivi (Statuti delle società del popolo di Bologna, II, p. 522). Da
queste fonti si ricava che, anteriormente al 1248, si ordinò la distruzione delle pitture
infamanti relative alla ribellione, salvo poi salvarle quell’anno e distruggerne una parte
nel 1250. Sulla pittura infamante v. Ortalli, Pingatur in palacio.

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LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 113

suoi banditi 108, segno che, in caso di bando, anche a Bologna i legami
tra aristocrazie urbane e rurali tendevano a stringersi. È dunque in
questo elemento, nel bando, che emerge un punto importante della
peculiarità dei conflitti bolognesi nell’età federiciana. Mentre nella Mar-
ca, in Lombardia e anche nell’Emilia filoimperiale, sembra prevalere il
volontario ricorso all’uscita da parte dei nobili cittadini, a Bologna ap-
pare più frequente il ricorso al bando da parte del comune, a sua volta
originato dalla volontà di intervento istituzionale nei conflitti violenti
della milizia. Se a Milano insomma i nobili si accordano con i domini
loci e per questo vengono banditi, a Bologna essi vengono banditi e
per questo si accordano con i signori rurali.
La grande quantità di documentazione bolognese conservata spinge
a pensare, per quanto riguarda il ricorso al bando dei nobili violenti,
una certa precocità, ma è probabile che si tratti di una deformazione
dovuta a ragioni esclusivamente archivistiche. Proprio a questa genera-
zione, nel contesto della più antica documentazione in registro, risalgo-
no i primi libri di banditi, e, all’interno di essi, alcuni bandi politici di
tipo nuovo. Il già nominato Registro Grosso, il più antico liber iurium,
è degli anni Venti. La prima raccolta di statuti in un corpus unitario,
che è andata perduta, daterebbe invece al 1237, ma sono molti gli sta-
tuti che risalgono al decennio precedente. I primi libri di amministrazio-
ne finanziaria (« Libri », « Libri contractuum », « Memorialia ») sono atte-
stati egualmente per gli anni Venti e Trenta del Duecento 109. Non stupi-
sce che in questa generale volontà di documentare e conservare i diritti
trovi spazio anche, nello stesso periodo, la documentazione giudiziaria
relativa alle procedure di esclusione. Restano importanti frammenti di
un registro con il quale nel 1226 (prima ancora della rivolta di popolo),
sotto la podesteria del veneziano Ranieri Zeno furono ordinati alfabeti-
camente i nomi dei banditi di tutti gli anni precedenti. Il dato indica
che a quell’altezza cronologica la pratica di registrare scrupolosamente i
banditi giudiziari di ogni anno fosse già largamente diffusa, al punto
che il grande numero di registri rendeva necessari strumenti di secondo
livello, come appunto l’indice alfabetico, che si è in parte conservato.
Al 1234 risale invece il più antico registro di banditi conservato
integralmente 110. Esso risulta diviso in quattro sezioni: bandi per malefi-

108 Oltre alle fonti citate v; anche Ghirardacci, Della Historia di Bologna, I, p. 164.
109 Tamba, « Libri », « Libri contractuum », « Memorialia ».
110 Un’analisi in Milani, Prime note su disciplina e pratica del bando. Ma cfr. an-

che i contributi nati dalla stessa ricerca: Gaulin, Les registres de bannis; Mehu, Structu-
re et utilisation, e Tamba, Per atto di notaio.

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114 GIULIANO MILANI

cio, bandi per debito, bandi per condanna, bandi alle comunità. In
tutti e quattro i casi, il meccanismo è lo stesso. Il bando costituisce la
risposta fornita dal comune alla mancata esecuzione di un precetto.
Rispettivamente, per le sezioni indicate, il precetto corrisponde all’ordi-
ne di presentarsi in giudizio a difendersi, a quello di eseguire il precet-
to di pagamento emanato dal giudice, a quello di pagare una condanna
stabilita da una sentenza e infine a quello di eseguire alcuni lavori pub-
blici. In tutti i casi il soggetto che non si è attenuto all’esecuzione del
precetto viene posto in una condizione che comporta la perdita di al-
cuni diritti, non sempre menzionati. Da questa condizione potrà uscire
solo ed esclusivamente se porterà a compimento l’ordine originario e se
si sottoporrà a una serie di altri oneri, come il pagamento di multe o
di diritti fissi. Una serie di annotazioni presenti nel registro stesso mo-
strano come i banditi di tutte le categorie poterono rientrare attraverso
le procedure previste dalla normativa statutaria.
Tra i bandi per maleficia contenuti in questo registro se ne osserva
uno diverso dagli altri. Si tratta del caso di Alberto Lambertazzi, di-
scendente di una delle famiglie più antiche della milizia urbana, il qua-
le non si era presentato a rispondere dell’accusa di omicidio sporta da
Andrea de’Amabili, padre della vittima 111.
Non sappiamo in quali circostanze si perpetrò il crimine. Certo è
che di fronte alla contumacia di Alberto il tribunale provvide all’ema-
nazione di uno strumento straordinario, il cui carattere fu accuratamen-
te esplicitato nella formula di bando. Il testo della condanna di Alberto
Lambertazzi è infatti costituito da una serie di clausole con le quali la
caratteristica di irrevocabilità del bando viene specificata in maniera estre-
mamente analitica. Vengono escluse, una dopo l’altra, tutte le possibili-
tà di assolvere il condannato: innanzitutto la pace con l’offeso; in se-

111 Frati, Statuti, I, p. 361: « In nomine domini nostri ihesu christi amen. In pleno

conscilio comunis bon. generali et speciali coadunato ad sonum campanarm in pallatio


comunis voluntate ipsius conscilio, dominus guido raulis potestas bon. et ipsum consci-
lium statuerunt et ordinaverunt quod Albertus filius domini lanbertini de lanbertaciis
sit in perpetuo banno comunis secundum formam banni dati sibi et contra ipsum.
Que talis est: jn nomine domini nostri ihesu christi amen. Quia Albertus condam
domini lanbertini de lanbertaciis filius fuit denuntiatus sive accusatus ab andrea de
amabili quod culpabilis esset morte gabrielis filii eius, et dictus albertus est homo
rixosus et timetur ne per ipsum et sua facta scandalum jn civitate oriatur, ne civitas
malum statum haberet; jdeo dominus guido raulis bononie potestas et totum comune
pro predictis et publica utilitate tocius comunis et civitatis posint ipsum albertus jn
banno perpetuo civitatis et districtus ipsius [...] ».

Capitolo 3.pmd 114 09/11/2009, 16.25


LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 115

condo luogo la revoca da parte del consiglio di cui si passano in rasse-


gna, al fine di escluderle, le varie modalità possibili (nuova legge fatta
ad hoc, assoluzione generale dei condannati, cassazione della parte dello
statuto che contiene questo bando). Per chi tenti una revoca della con-
danna sono previste pene pecuniarie specifiche e notevolmente gravose.
Di seguito vengono stabilite le modalità del bando perpetuo: impossibi-
lità di abitare a Bologna e nel suo distretto; iscrizione nel libro dei
banditi; distruzione della abitazione nella quale venga eventualmente
ospitato; bando – ma in questo caso non perpetuo – per chi si renda
favoreggiatore con la protezione o l’occultamento del reo. Due punti
sono però importanti: ad Alberto vengono lasciate la possibiltà di di-
fendersi in materia civile, e, soprattutto, la potestà sui suoi beni, che
egli può vendere per mezzo di un procuratore bolognese. Queste ulti-
me precisazioni segnano il limite dell’intervento punitivo del comune, e
testimoniano come, al di là del carattere declamatorio della sua formu-
lazione, questo bando sia caratterizzato da un certo compromesso. Al-
berto Lambertazzi è punito nella sfera dei rapporti che intrattiene con
la istituzione cittadina: nella partecipazione istituzionale al governo della
città (implicitamente) e in quella extraistituzionale alle lotte cittadine
(esplicitamente per mezzo dell’allontanamento). Gli resta il diritto di
agire privatamente tramite la gestione – seppur mediata – della sua
proprietà 112.
Rispetto alla sentenza, per certi versi analoga di quasi cent’anni pri-
ma, che aveva escluso nel 1149 Grasso di Randuino, risultano chiara-
mente alcune differenze. Evidentissima è la presenza di una serie di
nuove istituzioni chiamate in causa, e in primo luogo il consiglio gene-
rale e speciale, un organismo che se, da un lato, assolve la funzione di
legittimare la procedura straordinaria, dall’altro costituisce anche un or-
gano in grado di intervenire per cassare le condanne. Come tale rende
necessaria, nel caso in cui il bando si voglia affermare come perpetuo,
l’imposizione di una serie di clausole volte a renderlo, appunto, irrevo-
cabile. Ma altrettanto chiaro è lo spostamento concettuale relativo alle
motivazioni del bando, che rimanda alle nuove conseguenze della coa-
bitazione politica tra milites e popolo. Se nel giuramento del 1149 la
motivazione principale del provvedimento era stata rinvenuta nello scan-
dalo già avvenuto (il delitto di omicidio), in questo del 1234 lo scanda-

112 Il dato è interessante poiché costituisce una modifica del formulario ordinario

del bando perpetuo. La distruzione delle proprietà rappresenta infatti un corollario


consueto per questo tipo di provvedimenti.

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116 GIULIANO MILANI

lum che determina il bando è quello ipotizzabile per il futuro, una


volta determinata la qualifica di rixosus del contumace. La presenza,
nello stesso registro di banditi, di numerosi casi di omicidi contumaci,
per il quale venne emanato il bando ordinario, mostra con ogni eviden-
za che quello che a determinare nei giudici la convinzione della neces-
sità di una deroga dalla prassi ordinaria non fu il tipo di delitto, ma
piuttosto il tipo di persona.
Se è probabile che Alberto riuscì a rientrare dal suo bando perpe-
tuo, è certo che il suo bando costituì un precedente importante per la
persecuzione del comportamento violento dei milites. Come si è visto,
nove anni dopo, nel 1243, esisteva un gruppo di aristocratici banditi
capace di partecipare alla ribellione promossa da Azzo di Roffeno. È
possibile immaginare che si trattasse di milites che erano stati allonta-
nati perché ritenuti pericolosi. Lo stesso anno, inoltre, nuovi scontri
videro protagonista la famiglia Lambertazzi, arrivando a coinvolgere di
fatto larga parte dell’aristocrazia bolognese. In quell’anno Guiduzzo
Lambertazzi fu ucciso da Ameo Soldani (figlio del giurista Azzone). La
famiglia Lambertazzi reagì attaccando le case dei Lambertini, evidente-
mente alleati dei Soldani, nonché vicini dei Lambertazzi sulla piazza del
Comune. Il podestà provvide quindi a condannare il reo alla decapita-
zione, i Lambertazzi al pagamento di una multa altissima di quatttromi-
la lire, e fece confinare a Milano dodici responsabili di ognuna delle
due parti che si erano scontrate. L’applicazione della pena del confino
è segnata da quella medesima volontà preventiva leggibile nella condan-
na di Alberto Lambertazzi. E la medesima volontà appare alla base
della pacificazione dell’anno successivo: officianti il vescovo e il pode-
stà, i confinati furono richiamati e si provvide alla stipula di una serie
di paci a due tra le famiglie che erano venute a conflitto, ulteriormente
garantite attraverso fidanzamenti 113. Il provvedimento fu accompagnato
dalla minaccia di bando perpetuo e di confisca dei beni per chi non si
fosse sottoposto alla pacificazione 114.
È la dialettica tra questa volontà preventiva sempre più organizzata
e la permanenza di un comportamento aristocratico violento, tra confini
e bandi da un lato e nuovi conflitti dall’altro, che caratterizza la storia
interna di Bologna negli anni Quaranta. Una dialettica che viene effet-

113 Secondo la cronaca Villola, i Dalfini giurarono pace ai Malatacchi, gli Andalò

ai Torelli, i Griffoni agli Andalò, gli Artenisi ai Castel de’Britti, i Galluzzi ai Carbone-
si, i Lambertini agli Scannabecchi e molti altri (Corpus Chronicorum Bononiensium, II,
p. 120).
114 Savioli, Annali bolognesi, III, 1, p. 182.

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LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 117

tivamente a intersecarsi con la guerra che oppone Bologna e la Lega a


Federico II, ma in maniera del tutto particolare. Nel 1245 gli scontri
ripresero conducendo, nonostante la pace patrocinata l’anno preceden-
te, a nuovi bandi di singoli, tra i quali alcuni appartenenti alla famiglia
Lambertazzi 115. Ma lo stesso anno il comune provvede a richiamare in
città, revocando la loro condanna, un gruppo di banditi che avevano
prestato aiuto nella difesa di alcuni castelli dall’esercito imperiale 116. I
delitti per i quali il provvedimento di riammissione non era valido (fal-
sificazione, rottura della composizione, indebita acquisizione di danaro
pubblico, rapina e omicidio) sono in larga misura gli stessi per i quali
è testimoniata, a Bologna come altrove, e da almeno un secolo, la pos-
sibilità di emanare la pena dell’esclusione. Anche nell’emergenza bellica
occorre mantenere questo punto fermo. Si tratta della manifestazione di
una volontà sempre più visibile di estendere la sfera del controllo del
comune sui comportamenti che possono danneggiarlo. Tra questi com-
portamenti, anche in questo momento di crisi, resta centrale la lotta
delle fazioni aristocratiche. È all’interno di questo processo che trova
spazio anche la volontà di destinare una parte dello statuto comunale
del 1250, il terzo libro, non solo alle norme sul bando ordinario, ma
anche a una serie di sentenze straordinarie e dunque politiche (quella
contro Alberto Lambertazzi, l’amnistia del 1245, e altre). Se, da un
lato, si tratta di atti degni di essere conservati in una sede particolar-
mente prestigiosa, che si elevi per solennità al di sopra del registro
giudiziario ordinario, dall’altro, questi testi possono costituire la base
per ordinamenti ancora da fare, tendenti a prevenire comportamenti
sempre meno accettabili.
115 Credo che sia in questa chiave di famiglia e non ancora di parte che vada

letta la sorprendente annotazione di un bando dei Lambertazzi avvenuto nel 1245,


fatta dall’anonimo cronista, autore del frammento pubblicato assieme alla cronaca di
Pientro Cantinelli. Ma su questo v. oltre Capitolo V.
116 Frati, Statuti, I, p. 370: « Quia ad presens comuni credimus expedire ut civitas

civibus sit munita, quia decet etiam non solum privatos, sed etiam rem esse publicam
pacta et convenciones servare, et ut si deinceps oportunum fuerit res sit boni exempli,
statuimus et ordinamus quod potestas teneatur jnfra unum mensem ab ingressu sui
regiminis extrahere vel extrahi facere de banno libere omnes bannitos qui intraverunt
plumacium vel crepalcore et steterint ad eius deffensionem tempore obsessionis Impe-
ratoris non obstante aliquo statuto vel ordinamento; exceptis bannitis pro falso, et
pace rupta, vel pro avere comunis malo modo accepto, vel strata robata, vel pro homi-
cidio si pacem non haberet et hoc quia per plures reformationes conscliliorum fuerit
ordinatum atque promissum: et de hoc potestas non possit petere absolucionem. hoc
statutum lectum et firmatum sub anno domini Millesimo. Ducentesimo. Quadragesimo.
V. die tercio exeunte Agusto (...) ».

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118 GIULIANO MILANI

Nello stesso contesto prende forma l’elaborazione di una originale


politica di « popolo » che si manifesta per la prima volta con vigore
nello statuto dal quale siamo partiti, quello che nel 1248 contiene an-
che la divisione delle cariche tra le due parti aristocratiche. Molte nor-
me riguardano infatti l’eventualità del rumor cittadino: viene proibito ai
popolani di partecipare agli scontri 117, ma anche e soprattutto di giura-
re fedeltà a qualsiasi parte cittadina 118. Ecco dunque un altro riconosci-
mento delle parti. Cinque anni prima, come si è visto, due gruppi era-
no stati implicitamente identificati, nell’occasione contingente di uno
scontro, mediante l’esilio di dodici personaggi per parte. Ora le orga-
nizzazioni popolari, dichiarando la loro estraneità, menzionano i partiti
in un testo normativo, dotato di valore generale. Nello stesso statuto si
trovano alcune leggi che proibiscono la partecipazione dei nobili alle
società popolari. Appare quindi chiaramente come l’evoluzione popola-
re della politica bolognese tenda a bloccare la reciproca compenetrazio-
ne tra le strutture semi-istituzionali nelle quali la popolazione agisce,
che rappresentano canali paralleli di accesso al potere (partes e populus).
Il Popolo, scoraggiando la doppia appartenenza a società nobiliari e
popolari, tenta di imporre una scelta.
È difficile resistere alla tentazione di spiegare proprio con questa
chiara volontà di affermazione di una politica di « popolo » la peculiari-
tà di Bologna nell’età federiciana. Qui gli elementi che altrove compa-
iono associati risultano ancora separati alla vigilia della morte di Fede-
rico II. Esiste un contatto tra l’aristocrazia della città e le stirpi del
territorio, esistono due parti in cui gli aristocratici sono divisi, esiste
un’ampia disponibilità del bando, esiste, all’esterno, la lotta con l’Impe-
ratore, ma non esiste un fronte della chiesa e un fronte dell’impero,
una parte « guelfa » e un’altra « ghibellina ». La congiunzione di tutti
questi fattori e l’affermazione di due parti capaci di collegarsi a quelle
che agiscono negli altri comuni sono fenomeni non percepibili ancora.
Non aspetteranno molto a palesarsi.

7. Conclusioni
Quale eredità si trasmise dunque alla generazione che prenderemo
in esame nei prossimi capitoli, quella che nacque attorno agli anni Trenta
del Duecento e morì verso la fine del secolo, che si affacciò alla politi-
117 Statuti delle società del popolo di Bologna, II, pp. 96-99.
118 Statuti delle società del popolo di Bologna, II, p. 526.

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LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 119

ca negli anni Cinquanta e visse sulla propria pelle il periodo più inten-
so dell’esclusione comunale tra gli anni Sessanta e Novanta?
Dalla metà del XII secolo le città italiane avevano visto un generale
e progressivo aumento della partecipazione. Il numero di persone coin-
volte nella politica cittadina si ampliò fortemente dall’epoca di Federico
I a quella di suo nipote Federico II. Un simile aumento, determinato
dal generale movimento di crescita demografica ed economica, costituì
la ragione principale dell’intenso mutamento istituzionale delle città co-
munali tra XII e XIII secolo. A sua volta questo mutamento istituzio-
nale condizionò l’organizzazione dei conflitti che videro opporsi gruppi
sempre più ampi di cittadini. Nella generazione di Federico I le forme
tradizionali di partecipazione, l’assemblea plenaria e il consiglio, comin-
ciarono a manifestare i propri limiti. Nella generazione successiva tali
limiti si fecero manifesti ovunque, portando al successo il sistema, sorto
per varie ragioni in diversi luoghi, del podestà forestiero. Tale sistema,
fondato sulla presenza di un magistrato super partes e su quella di un
consiglio in cui valeva il principio di maggioranza, subì un allargamento
con il primo accesso del « popolo », che si ebbe – non ovunque –
nell’età di Federico II. L’ampliamento delle istituzioni consiliari condus-
se a una parallela estensione dei gruppi che si andavano organizzando
per far prevalere le proprie istanze all’interno di quelle istituzioni. Alla
fine degli anni Quaranta i gruppi che combattevano presentavano or-
mai una forma simile nelle diverse città: non solo in virtù di ragioni
esogene, come la formazione delle partes intercittadine dell’Impero e
della Chiesa, ma anche perché esisteva una tendenza alla polarizzazione
dei conflitti, dovuta a ragioni strutturali come il principio di maggio-
ranza che faceva tendere alla produzione di due schieramenti e, per
così dire, cronologiche, come il fatto che in molte città della Lombar-
dia e dela Marca parti e societates fossero ormai alla loro seconda ge-
nerazione e la loro esistenza fosse ormai data per scontata. Il peso di
queste ragioni variava da una città all’altra con il mutare dei caratteri
originali dell’aristocrazia, della presenza di scontri più antichi, dell’azio-
ne del papato e dell’impero, del successo di politiche « popolari » tese
alla repressione della conflittualità aristocratica e della sua potenziale
organizzazione in partes. Si andava da parti antiche e stabili come quel-
le di Ferrara, a parti che avevano appena subìto una trasformazione
come quelle di Piacenza, che dallo scontro milites-populus erano passate
a quello Federico II-comuni, fino a parti create artificialmente come
quelle di Parma, e a quelle già radicate, ma ancora non agganciate alla
contesa tra Impero e papato, come quelle di Bologna. Solo queste ulti-

Capitolo 3.pmd 119 09/11/2009, 16.25


120 GIULIANO MILANI

me restavano ancora fuori dal nuovo collegamento che innervava tutta


l’Italia comunale e che costituiva la più importante novità dell’ultima
generazione.
Si trattava di un collegamento che al di là delle contingenze dello
scontro era reso possibile da una sostanziale omogenità di sviluppi,
pur nella varietà delle forme. Un’omogeneità scandita in primo luogo
dalla progressiva crescita di legittimità dell’istituzione comunale, in par-
ticolare per ciò che concerne l’esercizio della giurisdizione. È quanto
appare chiaramente dalla vicenda del delitto politico comunale. Nel
Capitolo secondo si è cercato di mostrare come prima dell’età di Fe-
derico Barbarossa, i comuni si ritenessero legittimamente autorizzati a
punire gli autori di delitti comuni (omicidio, falsificazione, rottura del-
la pace), mentre usavano una forte cautela nel punire i delitti di dissi-
denza politica (ribellione, sedizione, tradimento). La generazione suc-
cessiva superò questa cautela, ma fece un uso ancora occasionale del
bando dei ribelli. Nell’età di Federico II, a causa della nuova guerra,
la punizione dei delitti politici si fece sempre più frequente. Ad essa si
accompagnarono misure preventive come il confino. Le sentenze inol-
tre tesero a sganciarsi dalla contingenza per divenire precedenti in gra-
do di pesare in futuro, come mostrano bene i casi di Alberto Lamber-
tazzi e di Pietro Bicchieri.
Inoltre i diversi comuni si trovarono a condividere sempre più una
dottrina della sovranità comunale sulla città e sul suo territorio. Si trat-
ta di un elemento che traspare dagli esempi finora analizzati, se si os-
serva la definizione compiuta dal comune dei suoi nemici interni. Nel
XII secolo, quando ancora esiste un residuo di contestabilità del gover-
no comunale, il conflitto tra il comune e i suoi nemici è definito nei
termini di una concorrenza fra eguali: così a Pisa per i Visconti, così a
Piacenza per Ugo Speroni, così anche altrove. È nella generazione suc-
cessiva che avviene il cambiamento più notevole. Il divario tra il comu-
ne e i suoi nemici si amplia enormemente, l’equilibrio precario cede il
posto a uno squilibrio marcato. È in questo contesto che diviene signi-
ficativa l’uscita dalla città, vale a dire la sottrazione volontaria allo spa-
zio di esercizio del potere comunale e il boicottaggio condotto dal-
l’esterno. Sulla base di questo nuovo significato della secessione si co-
minciano a colpire i ribelli con uno strumento di persecuzione dei di-
sobbedienti, il bando, qualificandoli appunto come fuoriusciti banditi.
Si tratta di un discrimine forte, che non viene meno quando, una gene-
razione dopo, grazie all’importazione del vocabolario federiciano e allo
sviluppo di una sorta di diritto di guerra nei comuni della pars ecclesi-

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LA FORMAZIONE DELLE PARTI. LA GENERAZIONE DEL 1200 121

ae, questi fuoriusciti banditi si cominciano a chiamare con i nomi di


infideles e malexardi e il provvedimento emanato contro di loro viene
definito nei termini di un bando aggravato, perpetuo.
Un elemento culturale aveva infine accompagnato e consentito que-
sta evoluzione politica dei comuni, ricevendo notevoli impulsi nell’ulti-
ma generazione. Si trattava di quello che è stato definito come il primo
fenomeno di massa della società moderna: l’alfabetizzazione e il conse-
guente ricorso alla scrittura. Lo sviluppo era iniziato anche in questo
caso verso la fine del XII secolo. Nella prima generazione del Duecen-
to vi era stato tuttavia un primo notevole incremento, dovuto all’inten-
sificazione della conservazione della documentazione da parte del co-
mune. Fu tuttavia nella seconda generazione del XIII secolo che in
ambito comunale si ebbe un’accelerazione improvvisa, grazie all’affer-
mazione della documentazione in registro. Solo allora si importò nel
contesto amministrativo quella grammatica della leggibilità che era nata
originariamente nella produzione dei libri, si organizzarono serie docu-
mentarie, divenne sistematica, intensa e articolata la produzione di qua-
derni, al punto da imporre nuove tecniche di archiviazione.
Divisioni interne capaci di collegarsi sul piano delle relazioni ester-
ne, legittimità politica che consente al comune di punire gravemente i
suoi ribelli, dottrina della sovranità comunale che rende ancora più gra-
ve l’uscita, e infine la novità della scrittura in registro. Questi furono i
quattro elementi che si trovarono a ereditare coloro che si affacciavano
nei consigli cittadini dopo la morte di Federico.

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122 GIULIANO MILANI

Capitolo 3.pmd 122 09/11/2009, 16.25


Capitolo IV

IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE
LA GENERAZIONE DEL 1230

1. Una generazione-spartiacque: l’escalation dei conflitti e dell’esclusione

Un bolognese nato attorno agli anni Trenta del Duecento e forma-


tosi durante la fase più intensa del conflitto federiciano si affacciava
alla scena politica dando per scontato qualcosa che né suo padre né i
suoi antenati avevano mai considerato in modo altrettanto pacifico: la
presenza di due parti in conflitto all’interno della città. Si tratta di un
dato importante per comprendere perché lo stesso ipotetico personag-
gio visse l’inizio della sua esperienza pubblica in una città che non
aveva assistito a esclusioni, mentre suo figlio, si trovò, alla stessa età e
dunque attorno all’inizio degli anni Ottanta, senza provarne sorpresa, in
un comune che aveva più di quattromila dei suoi maschi adulti scheda-
ti come nemici ed esclusi a livelli differenti dal godimento dei diritti
civili. La costante presenza e la sempre maggiore asprezza dei conflitti
interni organizzati costituì la ragione determinante per l’aumento delle
esclusioni.
Non si tratta di un dato limitato a Bologna. Nelle città che avevano
già sperimentato il fenomeno l’esclusione tornò a ripetersi. In quelle
che in precedenza non lo avevano vissuto, si manifestò per la prima
volta. Così, se nel 1247, al culmine dell’epoca federiciana, tra le 36
maggiori città comunali italiane 1, solo 18 avevano una parte esclusa, nel
1280 le città con una parte esclusa erano divenute 25. Si tratta di un
incremento notevole che si coglie in maniera più evidente accorpando i
dati annuali su periodi più lunghi. Se si osserva il numero medio per
quinquennio di città con parti escluse, sempre sul totale di 36 città,

1 Il calcolo è stato compiuto sulla base dei dati desumibili dalle cronache e dagli

studi per le seguenti città: Alba; Alessandria; Arezzo; Asti; Bergamo; Bologna; Brescia;
Como, Cremona; Faenza; Ferrara; Firenze; Forlì; Genova; Imola; Lodi; Lucca; Manto-
va; Milano; Modena; Novara; Padova; Parma; Pavia; Piacenza; Pisa; Pistoia; Prato; Ra-
venna; Reggio Emilia; San Gimignano; Siena; Treviso; Vercelli; Verona; Vicenza.

Capitolo 4.pmd 123 09/11/2009, 16.25


124 GIULIANO MILANI

tale numero passa da 16 per gli anni 1245-1250 a 23 per gli anni
1275-1280. Ancora più drammatico appare il contrasto se viene calcola-
to lungo l’arco di un trentennio: tra 1220 e 1250 le città ad avere una
parte esclusa erano in media 8, cioè una su quattro nel trentennio
successivo erano ben 17, cioè quasi una su due. Si può dunque affer-
mare che in questa generazione ebbe luogo lo snodo fondamentale nel-
la vicenda che ci interessa.
Il confronto tra le cronache di quest’epoca e quelle scritte nel peri-
odo precedente segnala quanto i contemporanei si resero conto di que-
sto cambiamento. Complessivamente, pur riportando un numero di esclu-
sioni notevolmente maggiore di quello del trentennio ancora precedente
(1190-1220), i cronisti che arrestano le loro narrazioni prima del 1250
non possiedono ancora quella consuetudine con l’esclusione e con la
presenza di partes organizzate, che nella generazione successiva avrebbe
portato addirittura a sviluppare embrionali teorie generali in proposito
a un osservatore attento come Salimbene de Adam 2. Prima della morte
di Federico non vi era ancora l’abitudine alla presenza di due alleanze
intercittadine capaci di escludersi reciprocamente in nome della Chiesa
e dell’Impero. Girolamo Arnaldi ha osservato che Giovanni Codagnello
– nonostante la qualifica di annalista guelfo attribuitagli da Pertz – non
faccia mai uso nei suoi annali non solo dei termini di guelfi e ghibelli-
ni, ma nemmeno di quelli di pars imperii e pars ecclesiae 3. Il cronista
piacentino si colloca quindi al di qua di una linea di separazione oltre
la quale la stabile presenza di partes sovracittadine costituisce un’inelu-
dibile chiave di spiegazione degli eventi vissuti dalla propria città. E
come lui si comportano scrittori e compilatori coevi. Cronache più scar-
ne, il più delle volte continuazioni di annali cominciati in precedenza,
come i brevissimi Annales Bergomates o gli appena più consistenti An-
nales Brixienses non riportano nemmeno tutti gli episodi di esclusione
avvenuti nelle rispettive città e noti da altre fonti. Mentre una narrazio-
ne sistematica e ricchissima come quella degli Annali Genovesi, pur
facendo esplicito riferimento alla « parte dell’impero », descrive l’esclu-
sione dei filoimperiali genovesi del 1240 connettendola ai precedenti
bandi emanati dal comune contro signori del contado e comunità ribel-
li, collocandola, insomma, in un contesto ancora strettamente locale,
non influenzato nemmeno indirettamente dalle città circostanti4. Riflet-

2Salimbene De Adam, Cronica, p. 737 dove si rileva la similitudine di vicende tra


le diverse città emiliane.
3 Arnaldi, Codagnello Giovanni, pp. 567-568.
4 Annali genovesi, vol. II, p. 194.

Capitolo 4.pmd 124 09/11/2009, 16.25


IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 125

tendo sulla percezione della vicenda federiciana da parte dei cronisti


cittadini, Gherardo Ortalli ha individuato attorno agli anni 1237-1247
lo spartiacque che separa la visione ancora ben ancorata ai conflitti
locali di cronisti come Codagnello da quella più allargata, ma anche
più semplificata lungo l’asse della contrapposizione chiesa-impero, degli
scrittori successivi 5. Questa periodizzazione nello sviluppo della memo-
ria storica costituisce il sintomo di un mutamento nella percezione dei
conflitti interni.
Il caso di Bologna mostra in maniera lampante come, insieme ai
conflitti, cambiarono le istituzioni. Qui, come si è visto nello scorso
capitolo, attorno alla fine degli anni Quaranta si registra la presenza di
due « parti » ancora non collegate alla contesa pars imperii /pars ecclesi-
ae 6 e di un « popolo » forte, che tenta di frenarne lo sviluppo. Trent’an-
ni più tardi, come si vedrà nei prossimi capitoli, gli atti del governo
cittadino risultano emanati a onore del comune, del « popolo » e della
parte geremea, filopapale, mentre la parte lambertazza, filoimperiale, è
esclusa con il fondamentale appoggio di quel medesimo « popolo » cit-
tadino che prima del 1274 aveva mantenuto una rigida equidistanza. Il
problema dell’affermarsi dell’esclusione risulta quindi strettamente con-
nesso a quello del mutamento del comune podestarile e in maniera
particolare del ruolo avuto dal « popolo » in questo mutamento. Si trat-
ta di un passaggio fondamentale della vicenda dei comuni duecenteschi,
sul quale vale la pena di soffermarsi, anche perché per molto tempo
l’indagine in merito è rimasta condizionata dall’ingombrante presenza di
un giudizio di valore. Con poche eccezioni gli storici hanno valutato
negativamente la presa di potere di una pars e/o quella del « popolo »
leggendola come un tradimento dell’ideale di concordia affermato nel
primo comune podestarile. In questo senso l’ultimo quarto del Duecen-
to e i primi decenni del secolo successivo sono stati identificati come il
momento-chiave del fallimento dell’esperienza comunale. Una simile pro-
spettiva si coglie nella struttura stessa di quello che a tutt’oggi rimane
il più completo e documentato studio su Bologna medievale, la Storia
di Alfred Hessel, che termina ufficialmente al 1280, anno della seconda
esclusione dei lambertazzi e inizio, per questo, della « decadenza » che
consente allo storico di abbandonare il proprio oggetto di studio 7. Per
quanto legata a una tradizione antica e per molti versi gloriosa, questa

5 Ortalli, Federico II e la cronachistica cittadina.


6 V. Capitolo IV.
7 Hessel, Storia della città di Bologna, pp. 243 e ss.

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126 GIULIANO MILANI

visione ha il difetto di dare per acquisito il giudizio negativo sul cam-


biamento legato all’affermazione di una pars, spiegandolo con un con-
cetto semplice e intuitivo: l’« occupazione » del governo da parte di un
gruppo. Gli storici, che talora inconsapevolmente hanno messo mano a
questo schema, nella maggior parte dei casi non hanno ritenuto utile
definire la natura del governo occupato o quella del gruppo occupante,
accontentandosi di rilevare la permeabilità del primo e la intraprenden-
za del secondo. Essi, inoltre, si sono astenuti dal porre la questione
delle ragioni, dei modi e degli effetti dell’occupazione, ritenendosi sod-
disfatti di spiegarla con l’interesse della parte occupante e il suo preva-
lere nelle contingenze dell’epoca, che avrebbero comportato, in ultima
analisi, la fine del comune.
Rispetto a queste carenze non è mancato chi ha ritenuto necessario
soffermarsi sulla natura di queste contingenze e, al di là del giudizio
negativo, si è interrogato sui fattori scatenanti dell’evoluzione che portò
alla formazione dei regimi che escludevano. Tra questi fattori sono state
chiamate in causa in primo luogo la diffusione delle alleanze guelfo e
ghibellina nell’assetto sovracittadino e interregionale, e soprattutto la
nascita – in seguito all’arrivo in Italia di Carlo I d’Angiò – di una
formidabile coordinazione guelfo-angioina dotata di grandi mezzi eco-
nomici e culturali, capace di favorire l’affermarsi del regime di parte
nei governi cittadini che ad essa aderivano e di costringere quelli rivali
a modificare le istituzioni nella stessa direzione 8. Recentemente a questa
spiegazione di natura politica se ne è aggiunta una economica. Paolo
Cammarosano ha rinvenuto nel Duecento, da un lato, il progressivo
assottigliamento del vertice sociale che, alla fine del secolo, fa registra-
re, in tutte le città, la presenza di un gruppo ristretto di ricchissimi e,
dall’altro, la presenza di una larga classe media che cerca, senza riuscir-
ci, di raggiungere questo vertice. Su questa base ha spiegato tanto l’esplo-
sione di conflitti di fazione, interni al vertice, quanto la nascita di ordi-
namenti antimagnatizi, espressione della reazione della classe media contro
il vertice9. Si tratta di elementi di grande interesse che d’ora innanzi
dovranno essere sempre tenuti presenti per cogliere il contesto in cui si
svolsero le trasformazioni istituzionali di fine Duecento. Ma, al tempo
stesso, si tratta pur sempre di spiegazioni esogene e generali, che pos-
sono chiarire quali fossero i problemi con i quali ogni città dovette
fare i conti adattando e modificando le proprie istituzioni, non il modo

8 Tabacco, Ghibellinismo e lotte di partito.


9 Cammarosano, Il ricambio e l’evoluzione dei ceti dirigenti.

Capitolo 4.pmd 126 09/11/2009, 16.25


IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 127

in cui le istituzioni esistenti furono modificate, o le ragioni per cui i


governi, che pure avevano a disposizione una vasta gamma di opzioni,
compirono determinate scelte. Per cominciare a rispondere a queste
domande, occorre considerare dall’interno i meccanismi che determina-
rono il passaggio da un sistema come quello podestarile, nato per con-
temperare gli interessi delle varie componenti della società, a regimi
che si fondavano sull’esclusione di una porzione della cittadinanza. A
questo scopo si procederà, in primo luogo, concentrandosi sul processo
con cui attorno agli anni Cinquanta, le ormai mature istituzioni del
comune podestarile si trovarono dinnanzi a organizzazioni consolidate
come il « popolo » e le partes; in secondo luogo, si esaminerà quale fu
il programma politico della più forte di queste organizzazioni, il « po-
polo », e quali strumenti allestì per realizzarlo; in terzo luogo si osserve-
rà come tale programma riuscì ad essere portato avanti nelle varie real-
tà fino al momento in cui l’arrivo di Carlo d’Angiò modificò brutal-
mente i termini del dibattito politico. Infine, si proverà a descrivere
prima in sintesi poi analiticamente, per aree regionali, il tipo di regime
che sorse dalle nuove esclusioni che questo evento aveva provocato.

2. Il rinsaldarsi delle organizzazioni nel sistema podestarile maturo

La fortunatissima e produttiva definizione dell’esperienza comunale


come « sperimentazione istituzionale » 10 tende a far trascurare il fatto
che, in una fase avanzata di quell’esperienza, la metà del Duecento,
alcuni esperimenti avevano avuto successo e che alcune delle istituzioni
che la sperimentazione aveva prodotto, in primo luogo il podestà, si
erano ormai affermate in maniera stabile e costituivano un elemento
imprescindibile dell’esperienza dei cittadini dell’Italia centro-settentrio-
nale. Proprio in questo successo e in questa stabilizzazione dell’orizzon-
te politico si possono rinvenire i motivi fondamentali della trasforma-
zione che esso subì dalla metà del Duecento.
In primo luogo il trionfo del sistema del podestà forestiero contri-
buì a rinforzare le organizzazioni che si combattevano al suo interno,
poiché, come è stato spesso osservato, fornì loro un modello efficace di
organizzazione 11. A Bologna risale al 1255 la prima menzione di un

10 L’espressione si deve a Giovanni Tabacco. Oggi risulta diffusa anche a livello

manualistico.
11 Artifoni, Tensioni sociali.

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128 GIULIANO MILANI

capitaneus populi e al 1257 quella di un capitaneus partis 12. Altrove è lo


stesso termine di podestà ad essere impiegato, mostrando in maniera
ancora più chiara il processo di imitazione 13. La riorganizzazione del
« popolo » e delle « parti » secondo il modello offerto dal comune, fon-
dato su un vertice e su uno o più consigli, contribuì a favorire l’inte-
grazione di queste strutture. Ma vi era qualcosa di più profondo.
Sin dal suo primo apparire, il governo del podestà forestiero aveva
dato una spinta verso la formalizzazione dei gruppi esistenti. Come si è
detto più sopra, sulla scorta di Enrico Artifoni 14, ciò era avvenuto per
due ordini di motivi: la fine della possibilità di accesso diretto al verti-
ce del comune per le famiglie egemoni aveva portato le stesse famiglie
a riorganizzarsi in strutture più complesse; la crescita della partecipazio-
ne politica aveva fatto riunire in organizzazioni formalizzate anche indi-
vidui e famiglie in precedenza estranei al governo. In questo senso il
pullulare di società nella vita politica cittadina duecentesca può essere
interpretato complessivamente come la risposta al bisogno di partecipa-
zione favorito dall’introduzione del nuovo sistema politico. Nel corso
della prima metà del XIII secolo a questa proliferazione delle organiz-
zazioni (che non si arrestò, ma andò ulteriormente sviluppandosi) si
aggiunse un altro fenomeno: il comune podestarile si affermò come
unico spazio possibile dell’attività politica. Nel tardo XII secolo il con-
solato aveva rappresentato solo uno dei poli di potere esistenti nella
città (come mostra per esempio il caso dello scontro tra i Visconti e i
consoli di Pisa); nel cinquantennio successivo si arrivò al punto in cui
nessun gruppo, per quanto eversivo o impegnato nella protesta contro
un certo podestà, contestava la presenza del podestà in quanto tale,
cioè di un’istituzione superiore alle singole consorterie o associazioni.
Proprio il successo del sistema podestarile portò, dunque, prima,
alla formazione di organizzazioni come il « popolo » e le partes, poi alla
loro evoluzione in quelli che potrebbero essere definiti « embrioni di
partiti » 15, cioè strutture politiche destinate a sostenere interessi all’inter-
no dei consigli e di fronte al podestà. Piuttosto raramente però, prima
dell’ultimo quarto del secolo XIII, si arrivò a provvedimenti come quello
bolognese del 1248, che, dividendo le cariche, riconosceva le organizza-
zioni esistenti e ne fissava il numero 16. A questa linea, come si vedrà,

12 Hessel, Storia della città di Bologna, pp. 143-???.


13 Artifoni, Una società di « popolo ».
14 V. Capitolo III.
15 Bertelli, Embrioni di partiti alle soglie dell’età moderna.
16 V. Capitolo IV.

Capitolo 4.pmd 128 09/11/2009, 16.25


IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 129

ostava l’idea fortemente rilanciata dal « popolo » secondo cui solo l’uni-
tà e la concordia generale poteva essere assunta come obiettivo politi-
co 17. Così, anche quando furono presi questi provvedimenti, non dura-
rono a lungo e non si ebbe quasi mai l’ulteriore trasformazione delle
« parti » in « partiti » legittimi 18. Da un lato, quindi, i gruppi organizzati
prodotti dal sistema podestarile continuarono a evolversi e a sviluppare
strategie per farsi valere nel corso dei conflitti, dall’altro, la loro azione
non fu veramente disciplinata dall’alto e si lasciò che fossero i rapporti
di forza a condizionare lo scontro. Così furono le stesse organizzazioni
in conflitto a premere per far passare modifiche istituzionali che li fa-
vorissero, mettendo in discussione l’assetto esistente. Mentre, all’inizio
del Duecento, si trovano solo richieste di ampliamento del numero dei
membri dei consigli, alla fine del secolo si registrano una serie di lotte
in merito a più strutturali spostamenti nell’equilibrio tra i consigli, con
l’inserimento di alcuni collegi e la cassazione di altri 19.
La compresenza tra un podestà debole, ma più legittimo, e una
serie di organizzazioni forti, ma meno legittime, si coglie bene scorren-
do la più antica cronaca bolognese conservata, che termina attorno al
1278 e fu quindi composta verosimilmente proprio da un esponente
della generazione che qui c’interessa. Pur nella sinteticità delle sue note,
questo breve testo rivela un autore estremamente sensibile al tema del
conflitto interno, chiaramente schierato con la parte filoimperiale dei
lambertazzi, assieme alla quale – come sembra – egli dovette abbando-
nare Bologna nel 1274, portando con sé la sua cronachetta 20. La scan-
sione annalistica deriva dagli scarni elenchi di podestà, ma le notizie
aggiunte ai nomi dei rettori sono molto più numerose e politicamente
caratterizzate rispetto al di poco posteriore Chronicon Bononiense (o
cronaca Lolliniana) 21. Fino agli anni Cinquanta le menzioni riguardano

17 Peters, Pars, parte. V. oltre par. 3.


18 L’esperimento più noto in questo senso fu compiuto a San Gimignano ed è
stato studiato in Waley, Guelph and Ghibellines in San Gimignano.
19 Si è insomma alle soglie di quel processo che, come è stato studiato per Firen-

ze in Najemi, Corporativism and Consensus, continuerà per tutto il XIV secolo nelle
realtà repubblicane.
20 Ortalli, Aspetti e motivi di cronachistica romagnola.
21 Questa interessantissima cronachetta frammentaria, pubblicata in in Petri Canti-

nelli Chronicon, pp. 1-13 (da cui si citerà nelle seguenti note, pur non trattandosi
dell’opera di Cantinelli) non è stata considerata sufficientemente dalla storiografia, al
punto che il repertorio della cronachistica emiliano-romagnola non le dedica una scheda
autonoma. Sul suo autor e su quello della Lolliniana v. Ortalli, Aspetti e motivi di
cronachistica romagnola e Ortalli, Alle origini della cronachistica bolognese.

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130 GIULIANO MILANI

scontri tra famiglie e piccoli gruppi consortili. Il termine « lambertazzi »


indica ancora la famiglia, non la parte. In generale il termine pars non
compare affatto in riferimento a Bologna fino al 1257. Solo allora, trat-
tando dei disordini avvenuti a Faenza, il cronista afferma che, in soc-
corso di entrambe le parti faentine, intervennero le due parti corrispon-
denti di Ferrara e di Bologna 22. Si tratta di un brusco cambio di pro-
spettiva, che indica forse – se l’ipotesi non è troppo azzardata – il
passaggio da una scrittura basata su una fonte a una scrittura fondata
sull’esperienza diretta, l’ingresso dell’autore nel testo, peraltro compati-
bile con la biografia ipotizzata.
A partire da quest’anno le menzioni dei conflitti interni si fanno
sempre più frequenti. La struttura annalistica dell’opera, che per ogni
anno fornisce almeno il nome del podestà e del capitano del « popo-
lo », mette in risalto l’immediata ricaduta dei conflitti di parte sulla
contestazione dei magistrati forestieri. Già nel 1256, il secondo anno in
cui era in carica il nuovo magistrato popolare, si erano verificati alcuni
disordini, dovuti al fatto che il milanese Bonaccorso da Soresina, dopo
il suo mandato capitaneale non aveva lasciato l’incarico e si era fatto
eleggere podestà per l’anno successivo 23. Nel 1265 si aggiunge un ele-
mento in più: il reggiano Guglielmo da Sexo, scrive il cronista, fu de-
stituito dai geremei, anche se, come prova il fatto che il salario gli fu
versato integralmente, non c’era niente di cui lo si potesse rimprovera-
re 24. Il motivo fondamentale della destituzione (il presunto favore ac-
cordato dal magistrato alla parte lambertazza) è contestato dal cronista
tramite una prova (l’esito positivo del sindacato, testimoniato dal paga-
mento integrale del salario), che mira a dimostrare l’equidistanza del
podestà 25. La natura della prova testimonia di per sé la piena legittimi-

22 Petri Cantinelli Chronicon, pp. 7-8: « Hoc anno fuerunt maximi rumores in

civitate Favencie, inter partes Acharixiorum et Manfredorum, et amici cuiuslibet partis


traxerunt Faventiam, scilicet de Ferraria et de Bononia anbe partes ».
23 Petri Cantinelli Chronicon, p. 7: « [...] dominus Bonacurxius de Surixina de

Mediolano fuit capitaneus populi. Hoc anno civitas Bononie fuit in magno periculo, et
magni fuerunt ibi rumores, dolo et fraude capitanei, qui tractavit et feci se [eligi] in
potestatem anno futuro, contra sacramentum suum, et contra formam statuti comunis
Bononie ».
24 Petri Cantinelli Chronicon, p. 9: « Hoc anno pars Geremiorum de Bononia tali-

ter operata est, quod expulsus fuit de potestaria, et solutus fuit integre de feudo suo,
et fuit licenciatus de regimine ».
25 Il medesimo schema interpretativo (e narrativo) è applicato ai fatti del 1267:

« Hoc anno dictus potestas fuit solutus de feudo suo et expulsus de potestaria propter

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 131

tà assunta dai principi sui quali si basava il sistema del podestà fore-
stiero. Ma il ricorso ad essa nella polemica politica mostra che il pode-
stà poteva essere strumentalizzato dalle parti che, proprio perché si trat-
tava di una istituzione di per sé autorevole, cercavano di guadagnare il
favore del magistrato forestiero.
Un episodio di questo tipo ebbe luogo a Bologna nel 1258. In
quell’anno vi furono a Bologna gravi rumores tra le parti, in particolare
tra la famiglia Galluzzi, schierata sul fronte geremeo, e la famiglia An-
dalò, che fino al 1274 avrebbe avuto la guida della parte lambertazza 26.
Il podestà Alberto Greco prese posizione per quest’ultima. Come appa-
re da un documento si era infatti preventivamente accordato con Bran-
caleone Andalò, in quel momento senatore a Roma, per favorirne la
parte 27. Trattando di quell’anno, l’anonimo cronista, che come si è det-
to seguiva la parte lambertazza, si limitò a scrivere: « Dominus Albertus
de Grego de Mantua fuit potestas Bononie, et fuit bonus et comunis
potestas, et multos malefactores interemit tempore suo ». Proprio per-
ché riteneva che l’abbandono dell’equidistanza da parte dei magistrati
foresteri fosse qualcosa di profondamente negativo, qualcosa da rimpro-
verare ai propri avversari, passò sotto silenzio il conflitto in cui il po-
destà aveva programmaticamente favorito la parte a cui era legato.
Tra gli altri elementi che questo attento e partecipe osservatore del-
la vita politica dava per scontati va rilevata la presenza delle istituzioni
popolari accanto a quelle del comune. Si è appena accennato al fatto
che egli denuncia in termini simili a quelli adoperati per il podestà le
pressioni esercitate dai geremei sui capitani del « popolo ». Ciò dimostra
che nella sua visione le magistrature del « popolo » erano altrettanto
legittime di quelle comunali, mentre lo stesso non si poteva dire per

potentiam partis Geremiorum de Bononia » (Petri Cantinelli Chronicon, p. 9); e a quelli


del 1269: « [...], dominus Riçardus de Villa de Mediolano capitaneus populi Bononie;
qui capitaneus fuit expulsus per forciam et potentiam partis Geremiorum, nam bene et
legaliter ac comuniter suum regimen faciebat » (Petri Cantinelli Chronicon, p. 10).
26 Chronicon Bononiense, in Ortalli, Alle origini della cronachistica bolognese, p.

57: « MCCLVIII. Dominus Albertus Gresius de Mantua potestas. Eo anno fuit ma-
gnum prelium inter Galucios et illos de Andalo »).
27 Savioli, Annali Bolognesi, III, 2, p. 354: il podestà Alberto Greco promette a

« [...] d. Branchaleonem de Andalo Civem Bon. presentem et d. Castellanume et d.


Lodringum et d. Fabrum Cives Bon. licet absentes et omnes de eorum domibus ac
omnes de eorum parte in Civit. Bon. et extra ipsos in eorum iuribus iuuare et manu-
tenere ac defendere bona fide sine fraude secundum iustitiam in Civitate Bon. et alibi
tota eorum fortia et posse et virtute toto tempore ipsius d. Alberti [...] ».

Capitolo 4.pmd 131 09/11/2009, 16.25


132 GIULIANO MILANI

quelle delle due partes dei lambertazzi e dei geremei. Rispetto a una
ventina di anni prima, quando un ordinamento aveva cercato di divide-
re tra tre soggetti politici (il « popolo » e le due partes) la composizione
del consiglio comunale, attorno al 1270 il « popolo » costituiva ormai
una porzione importante dell’ordinamento politico bolognese, mentre le
partes, pur essendo fortemente presenti, proprio in virtù dell’egemonia
popolare, non erano più riconosciute ufficialmente. Tra le varie organiz-
zazioni che avevano cominciato ad agire all’interno del comune pode-
starile, favorite dallo sviluppo di questo sistema di governo, una, il « po-
polo », era stata accettata e introdotta nel novero delle istituzioni ordi-
narie, le altre, le partes, rimanevano al di fuori. Le ragioni di questo
sviluppo vanno cercate nell’esito di un conflitto e segnalano un nuovo
rapporto di forza. Ma a questo esito aveva contribuito il fatto che il
« popolo », a differenza delle partes, sin dalla sua prima costittuzione
unitaria si era presentato come una struttura sorta per sostenere non
per occupare il comune, a cui aveva giurato fedeltà 28. Il « popolo »,
inoltre, intraprese sin dalla sua nascita una lotta contro i conflitti dei
gruppi aristocratici, e venne quindi a convergere sui principi di equidi-
stanza che caratterizzavano, come si è visto, il regime podestarile sin
dalla sua origine. Per queste ragioni, e non solo a Bologna, riuscì a
penentrare e a ottenere grandi successi nel terzo quarto del Duecento.
Per cogliere appieno le modalità del passaggio dal regime inclusivo
degli anni Cinquanta ai regimi esclusivistici degli anni Settanta non
basta quindi osservare le ragioni che avevano condotto alla formazione
e alla stabilizzazione di organizzazioni indipendenti nel comune pode-
starile, occorre anche considerare in che modo la più forte di quelle
organizzazioni, il « popolo », fornì al comune strumenti capaci di con-
dizionarne profondamente lo sviluppo, in particolare in materia di esclu-
sione politica.

28 Lo statuto generale delle società delle Arti e delle Armi del 1248 si apre così:

« In nomine domini nostri Ihesu Christi amen. Ad honorem Dei et gloriosissime virgi-
nis marie et omnium santorum et bonum statum communis Bononie et omnium socie-
tatum civitatis eiusdem, tam Artium quam Armorum ». Il giuramento degli anziani, che
segue immediantamente recita: « Iuro ego ançianus populi Bononie ad santa Dei evan-
gelia regere et conducere, manutenere, defendere et consiliari societates Armorum et
Artium civitatis Bononie et omnes et singullos ipsarum societatum, et salvare et guar-
dare bene et bona fide ad maiorem honorem et bonum statum dicti populi ipsaru-
mque societatum et hominum toçius communis Bononie. Et fortiam, auxilium et con-
sillium pro meo posse bona fide dabo potestati Bononie vel rectori ad regendum et
manutenendum et defendendum civitatem Bononie et districtum ac episcopatum in
bonu statu » (Statuti delle società del popolo di Bologna, II, p. 501).

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 133

3. Il programma del « popolo » contro la lotta di fazione e l’esclusione dei


magnati

La seconda metà del Duecento vide il costituirsi nella maggior par-


te delle città comunali delle società di « popolo », cioè delle istituzioni
sorte dalla unione, o meglio dalla complessiva ristrutturazione in un’unico
organismo politico delle società corporative e territoriali che sin dall’ini-
zio del Duecento sono testimoniate nelle varie città 29, e l’integrazione
tra queste nuove istituzioni unitarie e il comune podestarile 30. Questa
integrazione avvenne in modi diversi. Il caso semplice è rappresentato
da quelle città (Bologna fino al 1274, Padova fino agli anni Novanta)
in cui le società unitarie di « popolo » si affiancarono al comune e giun-
sero progressivamente a riformarlo senza coinvolgere, almeno in un pri-
mo periodo, altri soggetti. Nella maggior parte degli altri casi – Milano,
Piacenza, Cremona, Modena e Parma; larga parte della Marca trevigia-
na postezzeliniana, come anche molte città della Toscana, se si conside-
ra l’importantissima presenza di Carlo I d’Angiò – il processo fu più

29 Sulle società di « popolo », oltre alla letteratura citata alla nota precedente, è

essenziale, anche se talvolta semplificante Koenig, Il « popolo » dell’Italia del Nord. Per
una contestualizzazione si può vedere Artifoni, Corporazioni e società di « popolo ».
Ancora molto utili i saggi di De Vergottini, Il « popolo » nella costituzione del comune
di Modena; De Vergottini, Il « popolo » di Vicenza; De Vergottini, Note sulla formazione
degli statuti di « popolo », e soprattutto De Vergottini, Arti e « popolo » nella prima
metà del secolo XIII; e sulla legislazione antimagnatizia Fasoli, Ricerche sulla legislazio-
ne antimagnatizia.
30 Il punto di partenza per comprendere l’evoluzione politico istituzionale dei co-

muni nella seconda metà del secolo XIII è costituito da Artifoni, Tensioni sociali. Lo
stesso argomento è stato ripreso nella recente sintesi Artifoni, Città e comuni, pp. 375-
379, e da un punto di vista differente in Maire Vigueur, Représentation et expression
des pouvoirs. Numerosi gli spunti offerti dal volume collettivo Magnati e popolani nel-
l’Italia comunale (in particolare, per una prospettiva comparativa nei saggi di Camma-
rosano, Ricambio ed evoluzione dei ceti dirigenti; Maire Vigueur, Il problema storiografi-
co: Firenze come modello; Bortolami, Le forme societarie). Altre sintesi dotate di vaste
rassegne bibliografiche sull’argomento sono costituite da Pini, Dal comune città-stato al
comune ente amministrativo, da Bordone, La società urbana nell’Italia comunale; da
alcuni saggi contenuti in Forme di potere e struttura sociale in Italia (in particolare
Sestan, La città comunale italiana e Cassandro, Un bilancio storiografico); da alcuni
saggi contenuti in La crisi degli ordinamenti comunali (in particolare Sestan, Le origini
delle signorie cittadine; Ventura, La vocazione aristocratica della signoria; e Jones, Co-
muni e Signorie); e dai capitoli V e VI di Tabacco, Egemonie sociali. Risultano utili in
una prospettiva di inquadramento generale, anche se per certi versi superate, le sintesi
di Hyde, Società e politica nell’Italia medievale; Waley, Le città-repubblica dell’Italia
medievale.

Capitolo 4.pmd 133 09/11/2009, 16.25


134 GIULIANO MILANI

complesso e vi ebbe un ruolo importante l’avvento di figure di riferi-


mento, signori che per periodi più o meno lunghi presero la città sotto
la propria protezione, presentandosi a capo di una pars, o del « popo-
lo », o di entrambi. In altri casi ancora il processo di penetrazione di
una politica « popolare » fu l’effetto dell’imposizione esterna da parte di
un’autorità o di un’altra città, come nella Vicenza egemonizzata da Pa-
dova, nelle città emiliane e romagnole controllate da Bologna, e nella
costellazione di comuni lombardi e piemontesi gravitanti su Milano.
In tutte queste realtà le organizzazioni di « popolo » perseguirono
un progetto politico comune, la cui esistenza non può essere contestata
né dalla constatazione della diversità dei percorsi e degli esiti successivi,
né dal rilievo della differenza nel grado di egemonia che il « popolo »
riuscì a raggiungere nei diversi comuni, né tantomeno da annotazioni di
carattere prosopografico tese a dimostrare che le posizioni di vertice
furono occupate da individui di estrazione aristocratica. Questo pro-
gramma sosteneva la necessità di rendere il comune un organismo poli-
tico sganciato dai condizionamenti della potenza militare, liberato dalla
lotta nobiliare, capace di comprendere le tensioni esistenti in una « rete
di condizionamenti formali » 31, riconducendole dall’esterno all’interno
delle istituzioni. La lotta fra partes aristocratiche che si svolgeva attra-
verso mezzi militari, che tendeva a intensificare la conflittualità interna
collegandola con quella esterna e che minava l’equidistanza dei magi-
strati forestieri, fu sin dall’inizio il principale obbiettivo polemico del
« popolo ». Per combattere la lotta di fazione, insomma, il « popolo »
allestì un sistema di esclusione che teneva conto degli ultimi sviluppi
raggiunti dai comuni attorno alla metà del Duecento e ne portava al-
l’estremo le conseguenze 32.

31Artifoni, Città e comuni.


32Per molto tempo gli storici hanno messo in ombra questo aspetto, interpretan-
do le norme sollecitate dal « popolo » come semplici provvedimenti di ritorsione ema-
nati dal « popolo » (o da chi si celava dietro questo nome) contro i propri nemici (V.
Capitolo I). La prova che non si tratti di una chiave interpretativa sufficiente risiede
nel fatto che il « popolo » non si limitò a condannare la violenza dei magnati contro i
« popolari », ma cercò di contenere e contrastare la lotta dei magnati tra di loro, e in
particolare la lotta di fazione. Se è stato opportunamento osservato che, a differenza di
quanto si riteneva in passato, « i comuni duecenteschi non proibivano affatto la ven-
detta » (Zorzi, Ius erat in armis, p. 617), proprio in questa generazione tuttavia si
assiste al tentativo, certamente promosso dal « popolo », di « enucleare il conflitto per-
sonale e marginalizzare il ruolo delle solidarietà parentali, per evitare il coinvolgimento
di schieramenti più ampi » (Zorzi, Ius erat in armis, p. 618), cioè di frenare il processo
che conduceva da una serie di scontri privati a una più ampia lotta di schieramenti.

Capitolo 4.pmd 134 09/11/2009, 16.25


IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 135

Il caso bolognese è, ancora una volta, rivelatore: sin dall’inizio, come


mostra il frammento del primo statuto generale del « popolo » (1248),
si cercò di limitare il ricorso dell’aristocrazia alle proprie armi tradizio-
nali, intervenendo sulla solidarietà parentale, sui contratti di dipendenza
e sui legami vassallatici, attraverso i quali i milites potevano disporre di
clientele armate, e che tuttavia il comune non aveva mai proibito in
maniera esplicita. Per ottenere questo risultato, i legislatori del « popo-
lo » stabilirono di negare l’accesso alla massima carica direttiva popola-
re, l’anzianato, a quanti fossero stati stretti da simili legami ai nobili e
a quanti avessero preso parte ai tumulti delle fazioni aristocratiche. Una
simile politica, tesa a escludere dalle proprie fila quanti si fossero resi
partecipi dei tumulti, fu giustificata da un’idea forte: quella secondo cui
il massimo pericolo per la stabilità della città era la divisione, la parzia-
lità, il conflitto violento che inquinava l’ordine pubblico collocandosi
fuori dall’orizzonte del bonum statum comunis, così come il « popolo »
lo stava tracciando. Esistevano indubbiamente dei precedenti: come si è
visto, anche testi del XII secolo invocano termini come scelus o scanda-
lum a proposito di alcuni omicidi. Nella stessa Bologna i legami di
fedeltà erano stati colpiti sin dal 1211 dagli ordinamenti che Guglielmo
di Pusterla aveva emanato per impedire il dilagare in città delle « par-
ti » provenienti dalla Marca. Ma si trattava di episodi isolati, di provve-
dimenti straordinari, mossi appunto dall’emergenza. A partire dalla metà
del secolo si tese a renderli ordinari, sostenendo che chiunque avesse
preso parte ai disordini – a qualsiasi disordine – avrebbe dovuto ab-
bandonare la propria militanza nelle società e negli organismi di coor-
dinamento superiore del « popolo ».
Compiendo un salto di questo tipo, il « popolo » esaltò e fissò quel-
la svolta nel ricorso all’esclusione politica che era stata favorita dal con-
flitto con Federico II e che, come si è visto, aveva modificato i fonda-
menti dell’esclusione precedente. Se Federico II e Innocenzo IV aveva-
no definito i dissidenti come eretici, in quanto attentavano all’unità del
corpo sociale, negli statuti del « popolo », in nome della lotta contro la
pars – un termine che cominciava a perdere il suo carattere neutro e
acquisiva connotazioni pesantemente negative – si cominciarono a defi-
nire come pericolosi seminatori di divisione tutti coloro che partecipa-
vano ai conflitti o che, stringendo legami di fedeltà, dichiaravano la
propria disponibilità a parteciparvi. Se anche per influsso delle costitu-
zioni imperiali e papali i comuni avevano cominciato a ricorrere in
maniera più sistematica al bando perpetuo, il « popolo » canonizzò que-
sta misura adattandola al proprio ordinamento giuridico nella forma di

Capitolo 4.pmd 135 09/11/2009, 16.25


136 GIULIANO MILANI

cancellazione dalle matricole delle società. Infine l’influenza del « popo-


lo » fu determinante nello stabilizzare il ricorso a un’esclusione preven-
tiva. Due furono i livelli su cui si svolse l’opera di prevenzione dei
disordini di fazione: uno contro le azioni, l’altro contro le persone.
Sul primo livello si possono collocare le norme tese alla preven-
zione dei disordini attraverso la definizione di una serie di azioni come
proibite: le norme anti-tumulto 33. È in questa categoria che si posso-
no far rientrare le disposizioni tese a limitare il porto d’armi, la co-
struzione di fortezze, torri e altri edifici utili allo scontro. In caso di
rumor, come il tumulto è definito dalle fonti, gli statuti sono prodighi
di indicazioni che specificano come nessuno debba avvicinarsi ai luo-
ghi in cui si combatte, nessuno possa arrivare in città da fuori. Per lo
stesso motivo si costituirono speciali milizie popolari, spesso definite
« di giustizia » 34.
Sul secondo livello si collocano invece le norme tese a prevenire i
disordini attraverso un intervento sullo status personale che trovò nel
termine « magnate » il suo elemento caratteristico. Coloro che in ragio-
ne del proprio stile di vita violento sancito dalla pubblica fama, furono
identificati come magnati furono sottoposti all’obbligo di prestare spe-
ciali garanzie preventive di rimanere tranquilli 35 e fu loro diminuita la
capacità processuale. Se la distinzione quantitativa delle pene pecuniarie
tra milites e populus costituiva un aspetto fondante della giustizia co-
munale, illuminato ampiamente dalle poche fonti dei secoli precedenti36,
non altrettanto si può dire della distinzione nella capacità processuale
tra popolari e magnati. In virtù di questa evoluzione, a partire dagli
anni Sessanta non solo i milites continuarono ad essere costretti in ra-
gione del loro status a pagare multe più alte, ma coloro che tra i
milites erano stati connotati come magnati, furono regolarmente collo-
cati, nel processo contro un popolare, in una posizione di inferiorità,
dovendo arrecare più prove, più testimoni, più fideiussioni 37.

33
Fasoli, Ricerche sulla normativa antimagnatizia, pp. 252-255.
34
Fasoli, Ricerche sulla normativa antimagnatizia, ricorda al proposito gli statuti di
Padova, Parma e Prato.
35 Fasoli, Ricerche sulla normativa antimagnatizia, ricorda al proposito gli statuti di

Verona Padova, Vicenza, Modena, Reggio e Volterra.


36 Basti ricordare che la differenza di pene è stata una delle prove impiegate da

Hagen Keller per mostrare in atto l’esustenza di una distinzione cetuale nell’Italia pie-
nomedievale (Keller, Signori e vassalli nell’Italia delle città, p. 8).
37 Per limitarsi agli statuti di questa generazione, provvedimenti di questo tipo

appaiono a Lucca, Cremona, Chieri, Siena, Alba, Padova, Parma, Bergamo, Verona,
Bologna (Fasoli, Ricerche sulla legislazione antimagnatizia).

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 137

In principio per qualificare gli individui come magnati si costituro-


no commissioni speciali, come avvenne a Parma sin dagli anni Sessan-
ta 38, a Bologna dal 1270. Ma, col passare del tempo, i nomi dei ma-
gnati – sempre decretati come tali sulla base della pericolosità nota,
cioè del potenziale coinvolgimento in conflitti – cominciarono a essere
elencati in appositi registri 39. Così il programma popolare di eradicazio-
ne del conflitto extraistituzionale generò un più ampio processo di ri-
definizione della cittadinanza condotto a diversi livelli. Già in preceden-
za si erano cominciati a produrre documenti in forma di lista tendenti
a censire, per scopi differenti (militari, fiscali, anagrafici), l’intera popo-
lazione politicamente attiva. Dalla metà del secolo queste liste si comin-
ciarono a incrociare tra di loro. Liste di appartenenza alle società del
« popolo », liste militari e liste fiscali iniziarono ad essere confrontate
l’una con l’altra per integrarle e compiere verifiche. Esse inoltre furono
accostate con le liste di banditi pro maleficio, cioè con gli elenchi di
persone che si erano rifiutate di presentarsi in tribunale per difendersi
di un’accusa, al fine di accertare la compatibiltà tra le appartenenze
(all’esercito, al bacino dei contribuenti, e alle società del « popolo »)
che rendevano un uomo un cittadino a pieno titolo dotandolo di diritti
e l’eventuale esclusione giudiziaria che quei diritti sospendeva. La com-
pilazione di elenchi di magnati si inserì in questo contesto. Dalle liste
del « popolo » (e in alcuni casi anche da quelle del comune) furono
espunti effettivamente i cittadini potenzialmente pericolosi. A Padova il
processo raggiunse il suo limite massimo. Nel 1278 in questa città esi-
stevano un libro di magnati e un libro dei popolari, che comprendeva-
no assieme il numero totale dei cives, ma distinto ormai in base al
criterio dell’inserimento o dell’esclusione dal « popolo ».
Per riuscrire a raggiungere simili risultati, il « popolo » cercò di pro-
muovere riforme istituzionali interne ed esterne. Le organizzazioni po-
polari andarono così assumendo progressivamente una fisionomia simile
in molte città, attraverso la costituzione di una struttura dotata di tre
elementi: un « capitano del popolo », spesso ma non sempre forestiero,
il cui incarico a tempo venne spesso rinnovato; un « consiglio del po-
polo » largo, composto da alcuni membri delle società corporative, di
quelle territoriali o di entrambe; un consiglio ristretto (i cui membri

38 Fasoli, Ricerche sulla normativa antimagnatizia, p. 283 ricorda che negli statuti
parmigiani è prevista a questo scopo una commissione di 100 sapienti.
39 Nel corso di questa generazione le tracce si trovano solo negli statuti di Pado-

va. A Modena è testimoniato dal 1306.

Capitolo 4.pmd 137 09/11/2009, 16.25


138 GIULIANO MILANI

assunsero spesso il nome di « anziani », talvolta quello di « priori »), non


reclutato, come il « consiglio del popolo », automaticamente dai vertici
delle società, ma formato attraverso complessi meccanismi di selezione.
Il « popolo » inoltre mise in atto particolari meccanismi per influire nel-
la politica comunale, riuscendo in alcuni momenti e luoghi a far rico-
noscere alle proprie magistrature, specialmente ai consigli ristretti, il ca-
rattere di organismi di governo. Si procedette per lo più per mezzo di
delibere e riformagioni, che attribuirono a questi consigli il potere di
presentare l’ordine del giorno, la lista delle « proposte » da discutere e
approvare nel consiglio comunale, un potere che sino a quel momento
era privilegio del podestà. Si diffuse, inoltre, la pratica di convocare
« balìe » straordinarie e ristrette, e di dotarle dell’arbitrium providendi,
cioè della capacità di emanare delibere su argomenti particolarmente
urgenti. Dapprima l’arbitrium fu limitato a temi come la carenza cerea-
licola o la guerra, ma sempre più spesso fu invocato con una motiva-
zione di carattere generale, come il bonus status comunis.
Solo in pochi luoghi il « popolo » riuscì ad esercitare una simile
egemonia sul comune. Dove ciò avvenne, come a Bologna, a Padova, a
Pistoia, i provvedimenti « antimagnatizi » non si limitarono a rendere i
magnati giuridicamente inferiori e ad escluderli dalle cariche del « po-
polo », ma giunsero a sancirne l’esclusione da quelle del comune 40. Dove
ciò non avvenne il « popolo » introdusse comunque nel comune pode-
starile di metà Duecento elementi nuovi e destinati a durare sia dal
punto di vista della politica di selezione della cittadinanza (definizione
dei magnati), sia dal punto di vista dell’affermazione della propria ege-
monia (controllo dei consigli esistenti e giustapposizione di nuove isti-
tuzioni capaci di prendere il sopravvento). Molti dei regimi politici che
si ebbero in Italia nel secolo XIV e oltre avrebbero fatto ricorso ad
alcune invenzioni del « popolo » duecentesco in precedenza sconosciute
come le commissioni di governo, che rompevano la esclusiva rappresen-
tanza del consiglio tipica del comune podestarile, o il potere di modifi-
care lo status giuridico dei cives, le cui origini vanno rinvenute nell’in-
venzione della qualifica di magnate e nella capacità di farla agire sia
nella prassi giudiziaria, attraverso la distinzione della capacità proces-
suale, sia nella sfera politica, attraverso l’esclusione dalle cariche. Ma
queste significative elaborazioni concettuali trovarono, come si vedrà, la

40 Per l’esclusione dal « popolo » v. Fasoli, Ricerche sulla normativa antimagnatizia,


ricorda gli statuti di Padova, Chieri, Reggio, Pistoia, Pisa, Firenze; per quella dalle
istituzioni del comune, menziona gli statuti di Padova e Pistoia.

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 139

propria applicazione in sistemi politici che si discostavano molto dal-


l’ideale comunità pacificata e priva di conflitti vagheggiata nei più anti-
chi statuti del « popolo » duecentesco.

4. La resistenza delle partes

Se le testimonianze relative al primo agire del « popolo » sono mol-


te, non si può dire lo stesso delle organizzazioni aristocratiche, che non
ebbero un progetto e un’autocoscienza altrettanto sviluppati e non sen-
tirono in maniera altrettanto forte la necessità di lasciare tracce scritte.
Con poche eccezioni, le « parti » degli anni Cinquanta ci sono note più
dal ritratto in negativo che di loro diede il « popolo » che da documen-
ti autonomi. Al punto che si sarebbe tentati di pensare che l’irrompere
di queste organizzazioni sulla scena politica – e, come si è detto in
apertura di capitolo, nella percezione dei contemporanei – negli anni
Cinquanta, prima cioè delle grandi esclusioni che ne sancirono l’ingres-
so in veste di soggetto nella documentazione di governo, sia stato de-
terminato proprio dal diffondersi di un linguaggio dell’emergenza di
matrice popolare, teso a contrastare i conflitti aristocratici. A una simile
ipotesi osta la circostanza per cui, in alcuni contesti, soprattutto in To-
scana, le « parti » produssero una documentazione autonoma. Rimane il
fatto che le partes furono definite nei termini (negativi) che ci sono
familiari proprio dall’elaborazione ideologica del « popolo », poi ripresa
dalle signorie di inizio Trecento.
Di sicuro in questo decennio fu soprattutto la pressione popolare a
determinare le sorti politiche delle partes. Fu la presenza del « popolo »
a ostacolare il conseguimento dei loro obiettivi, riducibili, forse anche
per effetto di questa scarsa quantità di tesimonianze superstiti, a una
logica elementare, consistente – a seconda delle situazioni – nello scac-
ciare gli avversari, nell’uscire dalla città per poterla minacciare dall’ester-
no, e nel rientrarvi una volta bandite. A questo ricorso all’esclusione si
oppose in tutti i luoghi in cui poté farlo il « popolo », che, coerente-
mente al proprio programma volto a spostare all’interno della sfera isti-
tuzionale i conflitti, contribuì a favorire rientri e pacificazioni. Laddove
ciò avvenne si determinò un equilibrio interno che, per quanto preca-
rio, contribuì a formare alcuni sistemi egemonici gravitanti su città o su
figure protosignorili più larghi di quelli visibili prima delle guerre con
Federico II. Estesero e rafforzarono il loro potere sia gli ex-fedeli del-
l’imperatore, come Ezzelino da Romano o Oberto Pallavicino, sia i comu-

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140 GIULIANO MILANI

ni che lo avevano combattuto, come Milano, Bologna, e nell’ultima fase


dello scontro, Firenze. Questa espansione generale si attuò per lo più
attraverso opere di pacificazione condotte dai comuni maggiori, nei quali
il « popolo» era più presente, nei confronti dei centri minori dove il
« popolo » non si era sviluppato in maniera altrettanto consistente e in
cui le partes trovavano meno ostacoli alla loro lotta.
Così a Bologna la forza del « popolo » non consentì solo di tenere
a freno gli intensi conflitti interni, mantenendo in piedi l’unità dimo-
strata dalla città durante la lotta con Federico, ma anche di estendere
il controllo, attraverso pacificazioni, su città divise al loro interno come
Imola, Faenza, Ravenna, Modena. Nel 1257 furono varate importanti
norme in materia di relazioni intercittadine, con le quali si stabilì che
nessuna città romagnola potesse attuare ritorsioni o intervenire militar-
mente in un altro comune, e che in nessuna città una parte potesse
bandire i propri avversari. Nel caso in cui, a Bologna, qualcuno avesse
cercato di abrogare questi ordinamenti nel consiglio, sarebbe stato mul-
tato con un’alta sanzione 41. Il controllo su queste città-satellite fu inol-
tre messo a frutto per incanalare lo scontro interno attraverso la prati-
ca delle doppie podesterie, cioè dell’invio di due podestà bolognesi
che garantissero, uno per « parte », la tutela degli interessi delle fazioni
locali, e dunque il mantenimento della pace. Così avvenne a Modena
dal 1249 in poi, con due bolognesi che ogni anno proteggevano uno i
Graisolfi, l’altro gli Aigoni 42, e così si ripeté in Romagna nei decenni
successivi. Nelle intenzioni, il provvedimento intendeva far raggiungere
un compromesso alle parti locali attraverso la presenza di uomini che,
pur militando a Bologna in schieramenti ad esse collegate, erano anche
esperti nella mediazione. In pratica però, minando alla base la funzio-
ne del podestà unico e neutrale confermava l’idea secondo cui la divi-
sione era scontata. I doppi incarichi, inoltre, costituirono un modo
attraverso cui si fissarono le appartenenze degli stessi bolognesi inviati
a fare i podestà 43.
Altrove, organizzazioni di « popolo » meno potenti riuscirono comun-
que a far revocare le esclusioni iniziate durante i conflitti degli anni
Trenta e Quaranta. Nel 1253 gli esuli rientrarono a Reggio e a Parma,
in virtù di una concomitanza di azioni tra società di « popolo » locali e
politica « nepotistica » di Innocenzo IV 44. A Piacenza nel 1250, quando

41 Frati, Statuti di Bologna, III, p. 282-289; 291.


42 Gaulin, Ufficiali forestieri a Bologne, p. 321.
43 V. oltre Capitolo VI.
44 Chronicon Parmense, p. 17.

Capitolo 4.pmd 140 09/11/2009, 16.25


IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 141

ancora vi erano dei fuoriusciti scoppiò un conflitto tra milites e po-


pulus. Tra la richieste della pars populi, che nel 1236 aveva subito una
sconfitta, vi fu proprio il rientro dei fuoriusciti filoimperiali 45. Dappri-
ma furono riaccolti i soli di loro che erano anche popolani, ma in
seguito, con il ritorno dei Landi, avvenuto nell’aprile del 1251, e il
passaggio di Piacenza al fronte cremonese guidato dal vicario imperiale
Oberto Pallavicino, che nel « popolo » aveva appoggi, si procedette alla
pacificazione delle partes, avvenuta nel 1252 sotto il segno della fedeltà
a Corrado IV 46. Movimenti simili ebbero luogo nel 1251 a Lodi, dove,
sempre per mezzo di una rivolta popolare, fu riaccolta la parte esialiata
dei Sommariva e si compì il passaggio, della città allo schieramento
della Chiesa, dovuto all’intervento di Innocenzo IV 47.
A Milano l’esito della guerra contro Federico II contribuì a pro-
muovere un’azione di pacificazione nelle città-satelliti. Nell’anno di Fos-
salta si provvide a far rientrare gli antiimperiali banditi da Como,
rinnovando, con il podestà della communitas plebis comasca, la pace
che era stata giurata tra le due città nel 1237 48. Nel 1254 Milano
attaccò Vercelli, che continuava a tenere in esilio la parte antiimperia-
le degli Avogadri, promuovendo anche qui una pacificazione genera-
le 49 e, infine, anche ad Alessandria gli esuli rientrarono. Queste azioni
potrebbero essere spiegate anche con la sola vocazione egemonica di
Milano, senza bisogno di scomodare l’intervento del « popolo », che
tuttavia riuscì a raggiungere importanti risultati a partire dalla pace di
Sant’Ambrogio (1258), che segnò l’inizio della criptosignoria filopopo-
lare dei Della Torre.
In altri casi il « popolo » non riuscì a temperare i conflitti interni,
che si risolsero, spesso sulla spinta di situazioni regionali più turbolen-
te, con delle esclusioni. Così Brescia, che rimase coinvolta nelle tensioni
originate dalla scomunica per eresia lanciata nel 1254 da Innocenzo IV
nei confronti di Ezzelino e Oberto Pallavicino, che nello stesso anno
avevano stretto un accordo di spartizione delle città della Lombardia e
della Marca. Brescia subì l’attacco di Ezzelino e dovette per un breve
periodo assistere alla fuga di alcuni cives filopapali, per poi cacciare,
nel 1257, in occasione del loro rientro, quanti avevano favorito il da

45 Annales placentini ghibellini, p. 499.


46 Annales placentini ghibellini, p. 501.
47 Vignati, Lodi e il suo territorio, p. 40.
48 ASCo, Vetera Monumenta; cc. 43-44.
49 Mandelli, Il comune di Vercelli, p. 53.

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142 GIULIANO MILANI

Romano. E così anche il celebre « primo popolo » fiorentino, che si


trovò alla guida del comune maggiore di una regione in cui le « parti »
formatesi durante il conflitto con Federico II non solo resistevano, ma
erano in grado di condurre il gioco delle alleanze e dei conflitti esterni.
Esso riuscì a tenere sotto controllo la situazione interna (e a promuove-
re paci ad Arezzo e Siena) fino al 1258, quando alcune famiglie ghibel-
line, in seguito al fallimento del tentativo di rovesciare il governo popo-
lare, fuggirono a Siena. Nella sentenza di bando, che seguì a questa
secessione, non si utilizzò la parola « ghibellini », ma i nemici furono
qualificati semplicemente come proditores 50.
Si tratta di un segno importante, che indica come il comune « po-
polare » tentava di delegittimare i suoi nemici non riconoscendo loro la
qualifica di universitas autonoma, in un contesto in cui le partes agiva-
no in totale autonomia rispetto ai comuni di provenienza 51. Lo dimo-
stra chiaramente il formulario pattizio di questi anni, in cui sono ap-
punto le partes, e non le città, a costituire i soggetti degli accordi. Nel
1251, la parte ghibellina di Arezzo che sottoscrive il trattato con Siena
non è una parte fuoriuscita, ma semplicemente una societas organizzata
che firma le alleanze al posto del comune, si impegna a bandire i ne-
mici dell’alleanza, nonché si tutela dalla possibilità di essere estromessa
in caso di rientro dei guelfi fuoriusciti 52. E lo stesso fa la parte ghibel-

50Scrivendo al comune di Siena per chiedere che fossero rispettati i patti, già
stipulati in seguito alle vittorie fiorentine, in cui era stato stabilito che la città ghibelli-
na non potesse accogliere banditi di Firenze, si affermò « (...) quod non recipiatur in
eorum civitatem et terris aliqua persona que guerram faceretur vel facere vellet civitati
Florentie. Item quod non recipiatur ne teneantur in eorum fovea vel districtu aliquem
exbannitum a comuni Florentie pro proditione vel feritis unde sanguis exiret vel pro
seditione vel conspiratione vel pro aliquo malefitio [...] Et quod debeat ipsos exbannitos
expellere de civitate et districtus Senarum. Item quod non recipiatur aliquam perso-
nam que faceat vel seditione, vel conspiratione contra comune Florentie vel comitatum
eius vel que sit rebellis vel inimica comunis Florentie et quod debeat ipsum expellere
et exbannire de civitatem Senarum et districtum et quod non permittat eos ibi morari
secundum tenorem scripture pacis et concordie habite et facte inter ipsa comunia et
etiam secundum tenorem sotietatis et carte societatis et pactorum facte et factorum et
compositorum inter ipsa comunia et nominatim infrascriptos qui sunt exbanniti a co-
mune Florentie in anno presenti pro proditione, seditione, conspiratione et feritis unde
sanguis exivit et maleficio enormi, videlicet: [seguono 40 nomi] » (ASFi, Capitoli, XXIX,
c. 318r).
51 Per i fatti narrati, v. Davidsohn, Storia di Firenze, II, p. 544. Per la documenta-

zione Pasqui, Documenti, p. 268 e Il Caleffo vecchio, II, p. 747.


52 Pasqui, Documenti, p. 270: « Et si contigerit quod Ghibellini de Aritio expelle-

rentur, quod Deus avertat, de ipsa civitate, [Siena] debeat eis providere in soldis se-

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 143

lina di Prato. Solo Pisa, pur ammettendo l’esistenza al suo interno di


due parti, forse perché non ancora identificate con i guelfi e i ghibelli-
ni, intese precisare la sostanziale diversità tra le proprie discordie inter-
ne e quelle degli altri comuni. Pisa ottenne che i ghibellini di Firenze
si impegnassero a non prestare aiuto né apertamente, né nascostamente
a nessuna delle fazioni pisane, ma al tempo stesso auspicò che nessuna
di esse richiedesse l’aiuto dei guelfi di qualsiasi città per cacciare l’altra.
Infine, nella Marca dominata da Ezzelino, dove il « popolo » come
organizzazione autonoma non era riuscito a sopravvivere ai conflitti le
cose andarono ancora in un altro modo. Mentre altrove, con sfumature
diverse – che andavano dal trionfo delle parti in Toscana alla loro com-
plesssa e difficile regolamentazione nelle aree bolognese e milanese –, le
parti continuavano a vivere, in Veneto, nel luogo cioè in cui le parti
erano sorte prima, già alla fine del XII secolo, esse erano state comple-
tamente sradicate, in virtù di un uso spregiudicato dell’esclusione che si
discostava nettamente dal programma « popolare ». Durante l’ultimo de-
cennio del suo predominio, Ezzelino da Romano diede vita a un tipo
di regime che, nella realtà comunale italiana, non aveva né avrebbe
avuto paragoni per quasi tutto il cinquantennio successivo. In questo
contesto furono, dunque, del tutto particolari sia le forme del dissenso
sia quelle dell’esclusione. Questo nuovo scenario prese forma a partire
dalla fine degli anni Quaranta, mentre andava mutando l’azione di go-
verno, fino a quel momento sostanzialmente aderente ai modelli che
Ezzelino aveva trovato nelle città occupate. A Verona, sebbene sia testi-
moniato che alcuni membri della pars comitis vennero individualmente
riammessi in città, si formò per la prima volta un regime capace non
solo di escludere una pars sconfitta, ma anche altri individui, che alla
parte sconfitta e fuoriuscita non erano affatto collegati, identificandoli
come autori di pretese congiure. Furono emanati, insomma, provvedi-
menti definibili più propriamente come epurazioni, nettamente differen-
ti dagli allontanamenti della prima metà del Duecento, sempre sostan-
zialmente volontari, anche se poi seguiti da bandi contro i fuoriusciti.

cundum modum et formam quibus providetur Ghibellinis de civitate Florentie ». Non


si tratta di una specificità delle parti ghibelline: vi sono tracce di una protezione attua-
ta dalla Firenze del primo « popolo » sui fuoriusciti guelfi aretini. Un documento del
dicembre 1251 attesta come questi ultimi, anch’essi organizzati per mezzo di un capi-
tano e alcuni consiliarii, contrassero un prestito di 650 lire con il comune fiorentino
Nel 1254 i guelfi aretini, con ogni probabilità già rientrati, firmarono indipendente-
mente un trattato di aiuto reciproco con Firenze, che lo stesso anno era riuscita a far
rientrare gli esuli guelfi di Siena e a far uscire Pistoia dalla lega ghibellina.

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144 GIULIANO MILANI

L’eventuale realtà di queste congiure, se effettivamente tali, non toglie


valore alla novità del fatto, poiché anche la congiura veniva a costituire
una modalità di azione inedita rispetto alle precedenti rebelliones. I pri-
mi complotti ebbero luogo nel 1246-47 53. A partire dagli anni imme-
diatamente successivi vennero poste in atto « operazioni di preventiva
repressione », che culminarono in veri e propri processi politici. Nel
1252 furono citati diciassette membri del consilium minus, l’organismo
cittadino che collaborava più strettamente con Ezzelino, tutti attivi mili-
tanti della pars al potere, e dieci dei consiliarii furono giustiziati 54. È
poi significativo che, nello stesso momento in cui emerge questa nuova
tendenza, segno esplicito di una diversa modalità nell’esercizio del pote-
re, scompaiano nella documentazione i riferimenti alla pars Monticulo-
rum, cioè alla parte cittadina che aveva appoggiato e sostenuto Ezzeli-
no 55. All’inizio del suo dominio in Padova, Ezzelino aveva promosso
nei confronti della fazione padovana rimasta filoestense esclusioni di
natura molto simile a quelle che Federico II attuava un pò ovunque 56.
Bandi, confische, esili emanati in accordo con l’imperatore durante gli
anni Trenta e Quaranta non avevano rappresentato una novità rispetto
a quanto aveva fatto lo stesso Azzo d’Este fino al 1236, anche se la
presenza imperiale aveva intensificato le condanne capitali e le deporta-
zioni nel regnum 57. Ma dopo il 1249 prese forma una giustizia politica
nuova, che aveva il suo carattere principale nell’epurazione dei collabo-
ratori identificati come traditori, più che nella persecuzione dei nemici
dichiarati. Anche a Padova essa cominciò con il colpire la famiglia che
maggiormente aveva sostenuto Ezzelino in città, i Dalesmanini, per pro-
seguire in forme simili, se non più intense, a quelle visibili a Verona.
La stessa cosa avvenne a Vicenza, dove proprio dall’epurazione della

53Mor, « Dominus Eccerinus », p. 112: nel 1246 furono giustiziati i de Bonicis e


alcuni altri. Nel 1247 subirono la stessa sorte Natale, Bonaventura e Ongarello della
Scala, Prete Gallo e Deodato de Bencis, Corbenario da Lendinara e Uberto Fantisaro.
54 Varanini, Il comune di Verona, pp. 152-154.
55 Sino ad allora la parte dei Monticoli risulta menzionata due volte (nel 1240 e

nel 1245) in atti relativi alla spartizione dei beni dei banditi, in qualità di destinataria
delle confische. Varanini, Il comune di Verona, pp. 148-149.
56 Per un’analisi di tali condanne v. Rippe, La logica della proscrizione.
57 Bortolami, Honor Civitatis, p. 180-181: « [...] l’esercizio dell’enorme potere che

Ezzelino si trovò ad avere nella terraferma veneta in quanto capo militare e consigliere
dello schieramento politico filoimperiale [...] non si esplicò affatto, almeno fino al 1243
e specialmente nei primi tre anni di presenza in città, in forme gran che dissonanti da
logiche e pratiche tradizionali [...] ».

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 145

famiglia dei Pleo, che aveva sostenuto Ezzelino, ebbe inizio nel 1252
l’escalation autoritaria 58. Solo qui, dunque, nel Veneto dell’ultima età
ezzeliniana, si osserva una trasformazione della struttura politica basata
su un sistema podestarile e sulla presenza di due partes che all’interno
di questo sistema si fronteggiano, in un regime di parte vero e proprio.
E tale trasformazione, con un paradosso soltanto apparente, comporta
proprio la decapitazione della pars intrinseca per mano dello stesso si-
gnore della città 59.

Affermare che il « popolo » sosteneva con vigore un programma di


lotta contro le lotte interne e che in molti casi riuscì ad attuarlo, non
significa sostenere che all’interno del « popolo » non si manifestassero
tensioni. La trasformazione del panorama appena delineato, quello degli
anni Cinquanta, in cui con poche eccezioni le parti si pacificavano e gli
esuli rientravano, in quello degli anni Sessanta e Settanta, in cui si
scatenarono le esclusioni più significative del Duecento, non si spieghe-
rebbe nemmeno attribuendo un’importanza straordinaria alla capacità
di coercizione di Carlo d’Angiò. Carlo riuscì a trionfare nei comuni e a
bandire i suoi nemici perché trovò parti locali interessate a sostenerlo,
parti che non si limitavano solo al vertice dell’aristocrazia, ma che era-
no ben radicate anche nel bacino di reclutamento del « popolo ».
I conflitti interni al « popolo » non sorgevano solamente dall’even-
tuale presenza di aristocratici nelle file delle organizzazioni popolari (con-
sentita dal fatto che il controllo più stretto era esercitato solo sulle
istituzioni di vertice, in particolare l’anzianato) 60, ma anche all’interno
della componente propriamente popolare della popolazione. In partico-
lare, nella normativa bolognese degli anni Cinquanta si notano le tracce
di una tensione tra le arti più ricche: Cambio e Mercanzia e il resto
delle società. Dalla seconda metà degli anni Cinquanta il peso di queste
due società nell’anzianato subì un ridimensionamento attraverso l’au-
mento dei membri provenienti dalle altre società corporative e territo-
riali 61. Ma, più in generale, la stessa istituzionalizzazione del « popolo »
come organismo unitario favoriva l’ampliarsi della distanza tra il vertice
e la base, formata dalle singole organizzazioni, e dunque tra le rispetti-

58 Morsoletto, Il regime ezzeliniano a Padova, p. 305.


59 L’efficace espressione è usata in Varanini, Primi contributi allo studio della classe
dirigente veronese, p. 192.
60 Frati, Statuti, III, 386-400.
61 Gaudenzi, Statuti delle società, II, p. 108.

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146 GIULIANO MILANI

ve scelte politiche. Anche in questo senso va interpretata l’importante


norma che dal 1255 in poi stabilì che ogni anno le massime autorità
del « popolo » divevano approvare gli statuti di tutte le societates 62. Come
ha notato Enrico Artifoni, « il confluire progressivo delle societates in
un organismo di scala cittadina non può essere considerato una pura
giustapposizione di parti che sommate pervengono a costituire un parti-
to. È piuttosto un processo combinato fatto dapprima di impulsi che
muovono dalla periferia verso il centro in direzione dell’unificazione; e
immediatamente dopo di una corrente di ritorno dal centro alla perife-
ria che depotenzia (...) le autonomie politiche comunitarie » 63, innescan-
do, si potrebbe aggiungere, nuove tensioni.
Un secondo processo strutturalmente connesso all’istituzionalizzazio-
ne del « popolo » è costituito dal coinvolgimento di soggetti politici ne-
cessari per legittimare questo organismo, ma potenzialmente in grado
di minacciarne i principi attraverso la manifestazione di propri interessi
indipendenti, come avvenne in modo molto diverso, con i giuristi, e i
capitani del popolo. Ai giuristi, che provenivano dalle file dell’aristocra-
zia, il « popolo » chiese di fornire una serie di argomenti atti a sostener-
ne le battaglie politiche nei consigli larghi e ristretti, al punto da ren-
derne indispnesabile il vasto coinvolgimento in qualità di consulenti. Il
prezzo che pagò fu il conferimento di vaste porzioni di arbitrium nel-
l’interpretazione degli statuti e nella emanazione di provvedimenti che
in alcuni casi minò le politiche del « popolo », in particolare quelle an-
timagnatizie. Quanto ai capitani del popolo basta citare la testimonian-
za della più antica cronaca bolognese a proposito del pencolare di que-
sti magistrati tra l’una e l’altra delle fazioni aristocratiche cittadine.
A ben vedere, infine, la stessa istituzione del capitano del popolo,
giustamente interpretata come elemento di consolidamento del « popo-
lo », una volta che questo si costituì come organismo unitario, sorgeva
comunque dalla necessità di rinvenire un magistrato di vertice che, ana-
logamente a quanto faceva il podestà, l’indiscutibile modello cui era
ispirato, mediasse tra i conflitti di un ceto dirigente popolare già attra-
versato da tensioni. In alcuni casi, tali tensioni sorgevano dall’ascesa
sociale di famiglie che, aristocratizzandosi, assumevano lo stile di vita
violento della milizia. Lo scontro testimoniato nel 1251 a Bologna tra
Magarotti e Basacomari mostra due famiglie di « popolo », rispettiva-
mente di mercanti e di cambiatori, ormai alleate delle famiglie deell’ari-

62 Gaudenzi, Statuti delle società, I, p. 2.


63 Artifoni, Città e comuni, p. 381.

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 147

stocrazia consolare e coinvolte in una faida 64. Ma non si trattava solo


di questo, dal momento che la stessa affermazione delle istituzioni po-
polari in posizione rilevante, se non egemone, nel comune comportava
che, all’interno delle società di « popolo », si cominciasse a discutere di
politica interna ed estera, e che la partecipazione diretta delle società
delle Armi nell’esercito comunale costringesse i membri di queste socie-
tà a prendere posizione in materia di alleanze, di spese militari, di
collocazione nel gioco degli schieramenti interregionali. Insomma, le di-
visioni tra i membri del « popolo » non costituiscono tanto il segno del
tradimento della missione che si erano assunti, ma la prova dell’effetti-
va partecipazione politica dei non aristocratici, con tutto ciò che questa
partecipazione poteva comportare.
Per questo, dagli anni Sessanta le partes raccolsero membri nel « po-
polo » e si estesero così su tutta la società urbana provocando una
nuova ondata di scontri e di esclusioni in occasione dell’arrivo di Carlo
I d’Angiò 65. L’intervento di coordinamento del re di Sicilia fu fonda-
mentale per l’unificazione del vocabolario politico nei comuni italiani.
Durante il breve quindicennio tra la battaglia di Benevento e i Vespri
siciliani si gettarono le basi per l’equiparazione e il collegamento tra le
partes italiane nella direzione che avrebbe consentito nei due secoli suc-
cessivi di parlare ovunque in termini di guelfi e ghibellini, e di intende-
re con le espressioni banniti e confinati gli esiti di procedure ovunque
sostanzialmente simili.

5. Il nuovo regime fondato sull’esclusione

Dopo il 1267 dunque la possibilità di frenare il dilagare del conflit-


to delle partes divenne sempre meno praticabile. Il conflitto tra il re di
Sicilia e gli eredi di Federico scatenò una vasta serie di esclusioni in
cui appariva chiaramente l’influenza della strumentazione allestita dal
« popolo ». Grazie al contributo della propaganda pontificia e angioina i
nuovi regimi cittadini definirono sempre più sistematicamente i loro
nemici come « eretici » portatori di scompiglio. Quanti avevano mani-

64 Petri Cantinelli Chronicon, p. 6.


65 L’importanza dell’arrivo di Carlo I d’Angiò per i comuni dell’Italia centro-set-
tentrionale non è stata ancora valutata pienamente. Nell’attesa di uno studio occorre ci
si può ancora rifare a Jordan, Les origines de la domination angevine e ai comodi
regesti di Minieri Riccio editi, per il periodo che qui interessa in Minieri Riccio, Alcu-
ni fatti.

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148 GIULIANO MILANI

festato chiaramente la loro opposizione schierandosi nei conflitti civili e


scegliendo la strada dell’uscita furono tutti colpiti da bandi decretati
come perpetui che li privavano dei loro beni. E soprattutto, attraverso
l’uso del confino, si attuò un’esclusione preventiva nei confronti dei
potenziali favoreggiatori, che non aveva precedenti nemmeno nell’imma-
ginazione dei più radicali persecutori di magnati. In questa moltiplica-
zione enorme del numero dei confinati risiede la novità più importante
di queste nuove ritorsioni che complessivamente vennero a colpire mi-
gliaia di individui e che misero al servizio delle partes quel marchio
d’infamia, quel controprivilegio, che i legislatori del « popolo » avevano
inventato per colpirle. Il sistema fondato sulle due liste che a Padova
– uno dei pochi comuni che non furono attraversati da questa nuova
ondata di esclusioni – suddivideva l’intera popolazione politicamente
attiva sulla base dell’appartenenza/non appartenenza al « popolo » si dif-
fuse a macchia d’olio, ma per separare i fedeli alleati del regime dai
traditori effettivi o potenziali.
Per questo anche le grandi esclusioni, come e più di quanto avven-
ne per la normativa antimagnatizia, costituirono una ridefinizione gene-
rale della cittadinanza in base a nuove regole. Rispetto all’esclusione
immaginata dal « popolo », quella elaborata dai regimi del ultimo Due-
cento, forse perché effettivamente attuata, contemplò una maggiore fles-
sibilità. Nel momento in cui Carlo d’Angiò o i suoi vicari si trovarono
a stringere un patto di alleanza e soggezione con i comuni, di solito
esisteva già un gruppo di fuoriusciti. Tra i primi atti del nuovo regime
vi fu spesso l’offerta a questi fuoriusciti della possibilità di tornare in
città e mettersi agli ordini del comune, accompagnata dalla minaccia di
ritorsioni ben più gravi in caso di resistenza. In alcuni casi, a testimo-
nianza del valore di ridefinizione totale che fu dato alle nuove esclusio-
ni, i regimi nel momento in cui si insediarono imposero a tutti i citta-
dini un nuovo sacramentum sequimentis, un patto di fedeltà che in pre-
cedenza era stato richiesto solo nei comuni soggiogati da Federico II e
dai suoi vicari, forti della protezione imperiale. Quasi sempre la possi-
bilità di rientrare fu offerta a banditi e confinati, ma a patto di garan-
tire la propria fedeltà con un giuramento che, per quanto formale, cre-
ava una nuova immagine dello statuto di civis.
Al fine di amministrare questo ingente numero di condannati e di
registrarne le fluttuazioni fu allestito un sistema di controllo dotato di
caratteristiche comuni nelle varie città. Vennero quindi elaborate proce-
dure amministrative per controllare il gruppo dei nemici: incentivando

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 149

le accuse con premi pecuniari come era stato già suggerito dalle ritor-
sioni dell’età federiciana, ma anche inviando nunzi e notai nei luoghi di
soggiorno obbligato, e inserendo tra i doveri del podestà e delle altre
magistrature la persecuzione dei banditi e la tenuta dei registri di esclu-
sione. Si avviò così la produzione di una documentazione di tipo nuo-
vo, necessaria all’espletamento di queste procedure, che si fondò in
gran parte su tecniche già acquisite dai primi regimi a partecipazione
« popolare » e applicate per la riscossione delle imposte dirette, la par-
tecipazione militare e il reclutamento dei consigli comunali. In tutti questi
ambiti i comuni avevano iniziato a produrre documenti di riferimento
in forma di elenco nominale. Le competenze notarili che avevano con-
sentito la produzione di queste liste furono messe al servizio della nuo-
va esigenza politica, e si pervenne in molte città alla formazione di liste
di banditi e confinati. Come si vedrà chiaramente dall’analisi dagli elen-
chi fiorentini, questi elenchi non vennero assunti come elenchi chiusi e
immodificabili, ma come registri di riferimento provvisori e aggiornabili.
Il mantenimento della possibilità di rientri condizionati, di assoluzioni,
di aggravamento della pena del confino in caso di mancata presentazio-
ne, fecero sì che le stesse condizioni penali del bando e del confino
non si configurassero come perpetue, ma come elementi provvisori di
un sistema di esclusione complesso, all’interno del quale si poteva pas-
sare dall’una all’altra categoria penale a seconda del proprio comporta-
mento o della dimostrazione in sede processuale di una maggiore o
minore pericolosità.
L’esclusione giunse così a condizionare tutti gli aspetti della vita
pubblica, in primo luogo la politica economica e la normativa. Una
parte rilevante della persecuzione fu rappresentata dall’amministrazione
dei beni dei banditi, che in un primo momento (e anche questo costi-
tuisce un segnale della novità) scatenò una serie di dibattiti in merito
alle modalità della sua attuazione, e in seguito fu resa più complessa
proprio dai rientri e dalle modifiche delle condizioni. Al fine di far
fruttare i beni dei banditi si provvide alla scrittura di altri elenchi che
costituivano basi su cui produrre ulteriore documentazione relativa al-
l’affitto e alle altre forme di concessione. È molto difficile valutare qua-
le fu il peso che tali introiti ebbero nelle finanze dei comuni, ma a
giudicare dall’insistenza degli statuti non si trattò di entrate marginali.
Come mostrano bene le città lombarde, i nuovi regimi formalizzarono
la propria prevalenza e quella dei gruppi organizzati che li sostenevano
attraverso una rilevante opera di riscrittura e riforma degli statuti citta-

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150 GIULIANO MILANI

dini. Oltre alle nuove pene, anche le nuove regole, vennero dunque
fissate dalla scrittura.
Anche sotto un altro aspetto i nuovi regimi risultavano eredi dei
regimi di « popolo ». La direzione delle procedure che la nuova per-
secuzione dei banditi e dei confinati richiedeva venne normalmente
accentrata in una societas « di parte », che spesso fondò la propria
legittimità istituzionale sul fatto che i suoi membri avevano in prece-
denza subito un’esclusione. Questo iniziale monopolio sulla persecu-
zione dei nemici, fondato sul mendum, sul risarcimento dovuto in
ragione dell’antica esclusione, restò a lungo un elemento di legittima-
zione delle partes intrinseche, che giunsero in alcuni casi a esercitare
la propria egemonia sul comune attraverso gli stessi sistemi che aveva
utilizzato il « popolo »: costituzione di consigli separati, magistrati di
vertice, commissioni speciali. La penetrazione di queste strutture fu
però condizionata dalla tradizione politica locale. Nella conformazio-
ne dei nuovi regimi pesarono le precedenti esperienze di « popolo »
come quelle signorili.
In base a queste varianti l’esclusione assunse forme più dure o
più morbide. Ovunque, tuttavia, nel momento della sua affermazione,
l’idea di una divisione netta ed esclusiva della cittadinanza incontrò
delle resistenze. Non fu immediatamente accettata da quanti – soprat-
tutto all’interno del « popolo » – erano ancora convinti che, al di là
delle adesioni a uno dei due schieramenti, potesse esistere una zona
franca di estraneità al conflitto. Ma non fu solo il « popolo » a mani-
festare una tendenza conciliativa rispetto alle procedure che si anda-
vano diffondendo. Un altro gruppo sembra complessivamente mostra-
re scarso entusiasmo per le nuove forme di giustizia politica: i giuristi
e i pratici del diritto. Degli effetti di tale resistenza, in qualche misu-
ra testimoniati anche da questi processi pratesi di cui si dirà nel pros-
simo paragrafo, si parlerà più diffusamente nei prossimi capitoli, poi-
ché a Bologna essi appaiono con grande chiarezza. Qui basti notare
che la resistenza dei giurisperiti sembra ben conciliabile con quella
che si manifestò all’interno dei consigli cittadini: sapientes e consigli
del comune costituivano due elementi tipici di quel comune podesta-
rile che le nuove forme di esclusioni e la presenza delle partes orga-
nizzate nelle istituzioni stavano vigorosamente riformando senza tutta-
via riuscire ad annullare 66.

66 Sul ruolo dei giuristi in qualità di sapientes nella politica comunale v. ora Men-

zinger di Preussenthal, La funzione politica del giudice.

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 151

6. Le città toscane (Firenze, Prato, Pistoia)

All’indomani della battaglia di Benevento che nel 1266 lo portò


alla conquista del Regno, il re di Sicilia cominciò a promuovere l’esclu-
sione dei nemici. I guelfi sino a quel momento in esilio rientrarono a
Firenze, Prato, Pistoia e San Gimignano. L’anno successivo i ghibelli-
ni uscirono dalle stesse città per subire una ritorsione ben più signifi-
cativa 67.
Sull’esilio patito dai guelfi nel periodo « ghibellino » della storia di
Firenze (1260-1267) sappiamo pochissimo. Dal Liber Extimationum, una
fonte importantissima su cui ci soffermeremo più oltre, ricaviamo che
le persone che dal 1267 si presentarono a chiedere indennizzi per aver
subìto la distruzione delle case durante il settennio precedente furono
626. Dunque come minimo altrettanti furono i capifamiglia banditi. Essi
risultano ripartiti tra una sessantina di grandi famiglie. Se i coefficienti
di moltiplicazione adottati da Sergio Raveggi sono esatti, è possibile
affermare che tra capifamiglia e familiari vennero colpite circa 1500
persone, corrispondenti al 2% della popolazione 68. La stessa fonte mo-
stra come la ritorsione fu attuata anche sui beni del contado 69. I terre-
ni furono sequestrati dal comune, che procedette ad amministrarli, pro-
babilmente concedendoli in affitto 70. A prova del fatto che, anche pri-
ma dell’avvento angioino, le pratiche elaborate dal « popolo » erano sta-
te utilizzate dalle partes va notato che il comune ghibellino provvide
anche a confinare alcuni esponenti del partito guelfo, che pur non es-
sendosi allontanati dalla città erano da considerarsi particolarmente pe-
ricolosi 71. Sia dal punto di vista dell’esclusione, sia da quello della ri-
forma istituzionale, il periodo ghibellino non vide una vera rivoluzione
dell’assetto precedente.
Le cose cambiarono nel 1267 in occasione dell’instaurazione del
governo guelfo-angioino. A partire dalla fuga dei ghibellini e dall’ingres-
so delle truppe angioine in città, l’istituzionalizzazione della parte guelfa

67 A Siena lo stesso movimento sarebbe avvenuto pochi anni dopo, tra 1269 e

1270, quando solo Arezzo e Pisa rimasero ghibelline.


68 Raveggi et al., Ghibellini, Guelfi e popolo grasso, p. 15.
69 Brattö, Liber Extimationum.
70 Davidsohn, Forschungen, IV, 157-162.
71 Solo nei confronti degli usciti tuttavia venne emanato il bando perpetuo che

implicava la confisca e, in caso di cattura, la condanna a morte (Davidsohn, Forschun-


gen, II, regesto 864).

Capitolo 4.pmd 151 09/11/2009, 16.25


152 GIULIANO MILANI

e l’esclusione politica dei ghibellini procedettero parallelamente 72. Il pri-


mo passo fu l’accordo di soggezione a Carlo d’Angiò. Non possediamo
questo documento ma del suo contenuto conosciamo alcuni importanti
elementi. Di lì alla fine dell’anno, e per i seguenti sei anni, l’angioino
avrebbe formalmente ricoperto il titolo di podestà di Firenze inviando
un suo vicario. La città avrebbe conservato l’autonomia amministrativa,
ma si sarebbe incaricata di stipendiare i vicari angioini, impegnandosi a
combattere i nemici del re e i seguaci di Corradino 73. La signoria an-
gioina consistette dunque in un affidamento a termine della massima
magistratura cittadina.
Non conosciamo i criteri del censimento degli appartenenti al parti-
to perdente 74. In ogni caso i ghibellini, ripartiti per sestiere, vennero
convocati a giurare fedeltà al nuovo regime nel palazzo del comune,
dove alcuni notai provvidero a registrare l’avvenuto giuramento e la
fideiussione di due persone per ogni ghibellino 75. La pena per la rottu-

72 Sulla sequenza cronologica degli avvenimenti v. Davidsohn, Forschungen, IV, pp.


174-197, che mosse importanti rilievi alla ricostruzione di Salvemini, Magnati e popola-
ni, pp. 239-286, attraverso una minuziosa analisi di cronache e documenti.
73 Accettiamo su questo quanto scritto da Davidsohn, Storia di Firenze, II, 1, pp.

848-849. È interessante notare che questi particolari (la durata della carica, l’impegno
militare) li conosciamo grazie a una sorta di sacramentum sequimentis potestatis che
nello stesso 1267 venne fatto giurare a tutti i ghibellini rimasti in città. Un estratto dal
libro dei sacramenta dei ghibellini fu pubblicato in Del Lungo, Una vendetta in Firen-
ze, pp. 396-397.
74 Non si dovette trattare però di un’operazione troppo complessa. Fino a poco

tempo prima la maggior parte dei guelfi erano stati fuori città, soggiacendo alle pene
del bando e del confino. La divisione quindi era stata già formalizzata da un’esclusio-
ne, sicuramente documentata. Inoltre, in seguito al loro rientro, avvenuto dopo il no-
vembre 1266, si era provveduto alla creazione della magistratura dei « trentasei uomini
eletti alla riforma della città », i cui componenti dovevano essere egualmente ripartiti
tra le due partes. Davidsohn, Forschungen, IV, pp. 175-177 dimostra che la magistratu-
ra dei Trentasei venne istituita solo dopo il novembre 1266 e cita come sua ultima
attestazione un atto notarile del 24 marzo 1267, che menziona i « trigintasex viri electi
ad reformationem civitatis ». Tale commissione, preposta in primo luogo alla pacifica-
zione interna, era rimasta attiva fino agli scontri di aprile. È dunque molto probabile
che si fossero stilate liste di eleggibili dei due partiti, in base a dichiarazioni individua-
li o presentazioni dei vicini di parrocchia.
75 I convocati promisero di essere fedeli e obbedienti agli ordini del papa, di

mantenere il re Carlo e i suoi vicari come signori e rettori di Firenze fino al 1274, di
consigliarli e aiutarli in ogni modo a conservare il loro incarico e di evitare loro ogni
danno, o in caso di impossibilità, di avvertirli. Essi si impegnarono inoltre a combatte-
re i nemici del re o del comune di Firenze, facendo loro guerra quando fosse stato
ordinato, in particolare contro quanti tenevano prigionieri o controllavano castelli del

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 153

ra del giuramento fu stabilita in mille lire di fiorini piccoli et plus et


minus ad arbitrium domini pape et domini regis et eius vicarii. Due
fideiussori per ogni ghibellino si impegnarono a fargli mantenere il giu-
ramento sotto precetto di guarentigia, promettendo quindi di pagare
direttamente in caso di inadempienza 76. I fideiussori dovettero essere
approvati dall’apposito « approvatore dei fideiussori », carica visibile in
molti comuni in quest’epoca, e ricevettero il benestare anche cittadini
censiti come ghibellini 77.
Una volta stabilito chi fossero i ghibellini, si procedette a suddivi-
derli nelle diverse categorie di confinati 78. Prima del dicembre del 1268
l’operazione fu affidata a un comitato ristretto, composto da ventiquat-
tro persone 79. Accanto a questa magistratura furono preposti alla com-

comune o delle città fedeli alla pars Ecclesie. Infine essi giurarono di combattere Cor-
radino, di non ricevere da lui lettere o ambasciatori, di catturarli nel caso in cui fosse-
ro giunti, di non ricevere in città alcun imperatore eletto senza un consenso unanime
fino a che non fosse stato approvato dalla Chiesa (Del Lungo, Una vendetta in Firen-
ze, p. 396).
76 Del Lungo, Una vendetta in Firenze, p. 397: « [...] quibus Lapo et fideiussori-

bus predictis, volentibus et confitentibus se predicta omnia et singula promisisse et


attendere et observare debere, precepi ego Notarius infrascriptus, nomine sacramenti
per guarentigiam, secundum formam capituli Constituti Florentini, quatenus predicta
omnia et singula, prout superius scripta sunt et iuraverunt et promiserunt, in totum
observent et attendant ».
77 Dell’unico giuramento che possediamo, quello di Lapo Sapadarius, ricaviamo

che almeno uno dei fideiussori (Nasus f. Bencini risulta inserito nelle condanne conte-
nute in ASFi, Capitani di parte, Numeri rossi, 20, p. 102 (Il Libro del chiodo, p. 212).
78 Non sappiamo quando l’operazione ebbe inizio, ma certamente era già avviata

alla fine del 1268 e continuò per una parte del 1269. Il termine iniziale si ricava dal
documento del 12 dicembre 1268 pubblicato in Del Lungo, Una vendetta in Firenze,
p. 292. Le pene menzionate nel Libro del chiodo in alcuni casi vengono esplicitamente
stabilite in base alla delibera del 12 dicembre 1268, come a esempio, ASFi, Capitani di
parte, Numeri rossi, 20, p. 81 (Il Libro del chiodo, p. 171): « Hii sunt ghibellini suspec-
ti de sextu Ultrarni qui, secundum ordinationem factam anno Dominice incarnationis
millesimo ducentesimo sexagesimo octavo, die mercurii duodecimo decembris, indictio-
ne duodecima, tempore domini Isnardi Ugolini regii vicarii Florentie, debent ad confi-
nes extra civitatem et comitatum Florentie commorari »); in altri ancora sono datate
1269, come a esempio, ASFi, Capitani di parte, Numeri rossi, 20, p. 112 (Il Libro del
chiodo, p. 231): « Isti sunt ghibellini confinati tempore domini Isnardi Ugolini regi
vicarii Florentie, tempore nobilis viri domini Malateste de Veraculo, excellentissimi do-
mini Karuli, Sicilie Regis, vicarii in regimine florentino, qui debent extra civitatem
Florentie comitatum et totum districtum ad confines morari, sub annis Domini milesi-
mo duecentesimo sexagesimo nono, duodecima indictione. Florentie »).
79 Esso comprendeva: i dodici boni viri super bono statu et custodia civitatis et

super violentiis reprimendis deputati, una balia straordinaria, composta di due uomini

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154 GIULIANO MILANI

minazione delle pene ai ghibellini anche i sei capitani di parte guelfa,


vale a dire il consiglio esecutivo del fronte vincitore, e i sei capitani
della società dei confinati, una società composta dai guelfi che avevano
subìto il confino durante il periodo del governo ghibellino 80. Questi
personaggi, equamente ripartiti tra i sestieri cittadini, agendo quindi sulla
base dei libri e degli atti dei giuramenti, provvidero ad assolvere dal
confino alcuni tra i ghibellini che avevano giurato, e a dividere gli altri
in tre categorie penali, distinte a seconda dalla maggiore lontananza
delle località di soggiorno obbligato rispetto alla città: i confinati fuori
dalla città e dal contado, quelli nel contado ma fuori dalla città e,
infine, quelli a cui fu concesso di restare in città, ma con l’obbligo di
allontanarsi ogni volta fosse stato loro richiesto dal vicario angioino.
Ogni decisione fu quindi approvata dal vicario regio e dal conte Guido
Guerra, inviato come legato angioino in città 81. Sembra probabile, an-
che se non certo, che questa complessa operazione, gestita da una ma-
gistratura notevolmente accentrata e condotta in base al principio del-
l’unanimità, venne iniziata soltanto in seguito alla definitiva vittoria di
Carlo su Corradino, quando cominciarono a venire a Firenze, in qualità
di vicari, non più ufficiali francesi, ma affidabili funzionari italiani, re-
clutati nelle città della pars Ecclesie. Accettando questa ipotesi, l’opera-
zione venne quindi diretta da Isnardo di Ugolino di Reggio per il 1268
e da Malatesta da Verrucchio, riminese, per l’anno successivo.
Il risultato fu la compilazione di alcuni grandi elenchi di condanne,
successivamente copiati nel Libro del chiodo, in cui i nomi dei ghibelli-
ni erano ripartiti per categorie penali (il bando e i tre gradi di confino)

per sestiere, che aveva sostituito nelle funzioni di governo la precedente magistratura
mista dei Trentasei, e che si mantenne a Firenze fino alla pace del cardinale Latino
(1280). L’unico personaggio di cui possiamo dire con certezza che fece parte dei « do-
dici » fu Guglielmo Sgualze, un guelfo che aveva subìto la distruzione delle case e che
venne rimborsato per ben duecento lire (Brattö, Liber Extimationum, p. 21).
80 Sulla base della lettura erronea di un documento contenuto nel Libro del chio-

do, Davidsohn ha voluto vedere in essi i rappresentati dei confinati ghibellini, a cui
sarebbe stata data dai guelfi la possibilità di partecipare, evidentemente con una rap-
presentanza minoritaria, alla selezione dei loro compagni di partito (Davidsohn, Storia
di Firenze, II, 2, pp. 850-851). Che si trattasse di una società di guelfi lo attesta in
maniera evidente il nome dell’unico nome della società dei confinati giunto fino a noi:
Toccus de Ricco Bardi, che naturalmente non compare in alcuna lista di confinati ghi-
bellini, mentre appartiene a una delle più potenti famiglie di mercanti guelfi, danneg-
giati nel periodo 1260-1266 (Raveggi et al., Ghibellini, Guelfi e popolo grasso, p. 107.
Brattö, Liber Extimationum, pp. 39 e 42).
81 Del Lungo, Una vendetta in Firenze, p. 398.

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 155

e per zona di residenza (sestiere e « popolo », cioè quartiere e parroc-


chia). Una prima lista di confinati fu portata a termine nella prima
metà del 1269. Essa comprendeva i nomi di 216 maschi adulti condan-
nati a risiedere al di fuori del contado, 181 a cui era concesso di
risiedere nel contado, e 662 confinati in città 82. Una seconda lista di
confinati fu invece prodotta durante il vicariato di Malatesta da Verruc-
chio, a partire dalla seconda metà dell’anno. I nuovi confini riguardaro-
no con poche eccezioni le persone già censite, che in larga parte subi-
rono un aggravamento della loro condizione. Nelle tre categorie venne-
ro infatti collocati, rispettivamente, 400, 210 e 446 individui 83. Con ogni
probabilità a quest’altezza cronologica erano state già redatte le prime
liste di banditi. Quella giunta fino a noi, anch’essa confluita nel Libro
del chiodo, dovette invece costituire una sorta di aggiornamento genera-
le compiuto anch’esso sotto Malatesta da Verrucchio, poiché riporta
alcuni nomi presenti nelle liste di confinati. In essa dunque confluirono
sia coloro che si erano allontanati dalla città nella Pasqua del 1266, sia
quanti tra i giuranti avevano « rotto il confino » fuggendo, per un tota-
le di 1185 maschi adulti 84.
Sempre nella seconda metà del 1269 si provvide a portare a termi-
ne la stima dei beni che nella città e nel contado erano stati danneggia-
ti durante il periodo di prevalenza ghibellina. Nella categoria dei dan-
neggiati vennero compresi tutti « i guelfi ribelli e usciti, e coloro che
erano stati a Lucca e nel suo distretto, o in altri luoghi del contado
fiorentino, a fare la guerra assieme ai guelfi, dal 5 settembre del 1260
[il giorno successivo alla battaglia di Montaperti] fino all’undici novem-
bre del 1267 » 85. I loro danni furono stimati per un totale di 12.594
lire, 4 soldi e 4 denari. Alla stima avevano provveduto un giudice del
podestà, Gabriele di Ranieri Gabrieli di Cesena, e sei ufficiali cittadini,

82 Tali liste sono conservate nel Libro del chiodo sotto il nome del vicario Isnardo

di Ugolino, v. per un esempio ASFi, Capitani di parte, Numeri rossi, 20, p. 81 (Il
Libro del chiodo, p. 171). Il computo è stato effettuato, prima dell’edizione, diretta-
mente sulle 3 copie del Libro del chiodo conservate in: ASFi, Capitani di parte, Numeri
rossi, 21; ASFi, Capitoli di Firenze, Registri, 19 a; e ASFi, Capitani di Parte, Numeri
rossi, 20.
83 Queste liste sono conservate nel Libro del chiodo sotto il nome del vicario

Malatesta da Verrucchio (v. per un esempio ASFi, Capitani di parte, Numeri rossi, 20,
p. 112 (Il Libro del chiodo, p. 231).
84 V. per un esempio ASFi, Capitani di parte, Numeri rossi, 20, p. 106 (Libro del

chiodo, p. 218).
85 Brattö, Liber Extimationum, p. 18.

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156 GIULIANO MILANI

a ciò espressamente destinati dal consiglio comunale. Anche per risarci-


re tali danni si provvide sin dall’inizio al sequestro dei beni dei banditi
ghibellini 86. Per il 1268 sappiamo che il giudice reggiano preposto la-
sciò l’incarico, per il quale era stato pattuito un salario di 300 lire, al
termine del suo mandato. Egli affermò di non aver in nessun modo
esercitato le sue funzioni e ottenne una buonuscita di sole 160 lire a
condizione di rinunciare a ogni altro diritto 87. Si tratta di un indizio
che spinge a ipotizzare un contrasto di qualche tipo sorto intorno a
una materia estremamente delicata. Il dato concorderebbe con quanto
attesta un notissimo passo di Giovanni Villani, che narra di come i
guelfi rimasti padroni della città inviarono al papa e a Carlo d’Angiò
un ambasceria per chiedere come avrebbero dovuto amministrare i beni
dei proscritti. Costoro avrebbero risposto di dividere i beni in tre parti
da destinare rispettivamente al comune, alla parte guelfa e infine alla
rifusione dei danni subiti dai guelfi esiliati negli anni precedenti. In
seguito tuttavia la parte avrebbe messo le mani sul totale dei beni e
avrebbe cominciato a procedere con alienazioni (a « fare mobile ») per
reinvestire e far fruttare il ricavato 88. D’altra parte, come ha notato
Davidsohn sulla base di documentazione degli anni successivi, non tutti
i beni furono venduti. Una parte, probabilmente soprattutto i terreni
interni alle mura cittadine, rimase in mano al comune che procedette
ad amministrarla negli anni successivi, redistribuendola attraverso affitti
e concessioni 89.
Ci siamo soffermati su questi aspetti poiché mostrano bene quanto
la costituzione del nuovo regime fu fondata sull’esclusione politica. La
magistratura dei Dodici, che nel numero riprendeva quella degli « an-
ziani » promossa dal « breve ed effimero periodo popolare » 90, venne
affiancata al fine di procedere all’esclusione dei ghibellini dai sei capita-
ni di parte e dai sei capitani dei confinati, vale a dire da quanti si
erano guadagnati sul campo l’attestato di appartenenza alla parte vinci-

86Sulle procedure di sequestro dei beni è possibile ora rimandare a Mazzoni,


Note sulla confisca dei beni dei ghibellini.
87 ASFi, Capitoli del comune, Registri, 19, c. 289r.
88 Villani, Nuova Cronica, I, p. 440. L’importanza della parte guelfa nella gestione

dei sequestri è messa in rilievo sulla base di un’analisi della documentazione superstite
in Mazzoni, Note sulla confisca dei beni dei ghibellini, p. 28.
89 Davidsohn, Forschungen, IV, pp. 194-195. La prima redistribuzione compiuta

dal comune è confermata in Mazzoni, Note sulla confisca dei beni dei ghibellini, p. 16,
che tuttavia segnala il condizionamento delle operazioni ad opera della parte guelfa.
90 Raveggi et al., Ghibellini, Guelfi e popolo grasso, p. 75.

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 157

trice subendone le conseguenze. In maniera analoga la trasformazione


delle istituzioni venne promossa non più, come era avvenuto nel 1260,
attraverso l’abolizione delle istituzioni popolari e la sostanziale occupa-
zione di quelle del comune, ma per mezzo della trasformazione delle
istituzioni popolari (gli « anziani »), in istituzioni della parte (i Dodici e
i capitani della parte guelfa) 91.
L’importanza assunta dalla parte guelfa nell’assetto istituzionale fio-
rentino fu dunque legittimata dall’esclusione che questa aveva subito
nel periodo 1260-1266. In tal modo acquisì una forte rilevanza il con-
cetto di mendum, la « riparazione » economica e politica, che fu alla
base della compilazione del Liber Extimationum, ma più in generale
costituì il fondamento per la scrittura di liste di beni e di condannati
che non solo servivano a colpire e ad allontanare una quota rilevante
di cittadini, ma anche ad escluderne altri dalla partecipazione politica.
Tutto ciò fu reso possibile dalla convergenza di interessi tra Carlo d’An-
giò e i guelfi. Il sovrano individuò nella carica podestarile lo strumento
indispensabile per orientare a suo vantaggio l’istituzione esistente, men-
tre i guelfi trovarono nel re di Sicilia un’autorità che consentì loro di
promuovere un’esclusione senza precedenti. Ben presto, per colpire i
propri nemici e promuovere Firenze a stabile alleata del suo potere,
Carlo fece ricorso a vicari italiani, ben consapevoli della complessa strut-
tura istituzionale del comune, che provvidero a riformare le istituzioni
agendo con gli stessi strumenti e le stesse modalità di cui si era servito
il « popolo ». La compilazione dei giuramenti dei ghibellini, come anche
le complesse procedure di ripartizione e correzione degli elenchi di
banditi e confinati, furono certo operazioni tese a creare una solida
base economica al nuovo governo di Firenze, che Carlo aveva conti-
nuato a spremere per la sua impresa siciliana. Ma non sarebbero state
possibili se non vi fosse stata una preeesistente struttura amministrativa
e tecnica che fu assorbita e in qualche misura esaltata dalla signoria
angioina. Una signoria basata sull’idea di non sopprimere il sistema esi-
stente, ma di continuare, ancora una volta, ora con intensità e scopi
differenti, a riformarlo.
Strette analogie con Firenze sono percepibili nell’azione di Carlo I
nelle altre città toscane che allora o poco dopo lo scelsero come signo-

91 A Firenze in questa fase furono queste magistrature che si affiancarono al co-


mune, come altrove, in quello stesso momento faceva il « popolo ». Come i capitani
del « popolo », anche i capitani della parte guelfa fiorentina si trovarono al vertice di
due consigli della parte, uno maggiore e uno minore.

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158 GIULIANO MILANI

re. Un caso ricchissimo di documentazione è costituito da Prato. Il


piccolo comune aveva attraversato le stesse fasi politico-istituzionali del-
la vicina Firenze. Anche qui in seguito alla battaglia di Montaperti si
era provveduto a bandire e confinare i guelfi, a sequestrarne i beni per
concederli in affitto a privati 92. Così come erano state abolite le istitu-
zioni popolari esistenti, ma al tempo stesso si era integrata nel ceto
dirigente una porzione di individui e famiglie emerse durante il « primo
popolo ». Anche a Prato, in seguito al rientro dei guelfi patrocinato dal
papa nel 1266, vi era stato un tentativo di restaurazione del governo
popolare 93. Con l’arrivo di Carlo d’Angiò le cose presero una nuova
piega. Come a Firenze, il sovrano inviò un suo vicario e impose un
sacramentum fidelitatis che impegnava i cittadini a combattere i seguaci
dell’imperatore 94. Dapprima prese forma un’istituzione straordinaria e
politicamente affidabile, analoga ai Dodici fiorentini: gli otto capitani
della guerra, detentori dell’officium et auctoritatem super guerram et of-
fensione ac defensione 95. Accanto a essa si stabilizzò anche a Prato una
più esplicita società di parte guelfa, formata dai capitanei partis guelfo-
rum e dai capitanei confinatorum, vale a dire dalle due categorie di
esclusi previste dalla normativa ghibellina 96.
Non sappiamo se a Prato queste magistrature provvidero a redigere
un primo elenco di banditi con i nomi di quanti avevano abbandonato
la città nel 1267 97, mentre è certo che nel 1269 erano pronte liste

92Piattoli, I ghibellini del comune di Prato, p. 214.


93Il « popolo » tuttavia non aveva istituito nuovamente il capitano, ma favorito
semmai la formazione di una magistratura di governo: i quattro custodi dell’avere del
comune, vertice esecutivo del consiglio popolare in cui confluivano i rappresentanti
delle società di mestiere e delle organizzazioni territoriali (Raveggi, Protagonisti e anta-
gonisti nel libero Comune, p. 631).
94 Non sappiamo se, come a Firenze, tale sacramentum venne fatto giurare separa-

tamente ai ghibellini, ma spinge a crederlo il fatto che, nel corso degli anni 1267-1269,
in cui esercitarono il mandato podestarile il piacentino Rinaldo da Lavandaio, Guido
Salvatico e, infine, il fiorentino Gualterotto de Bardi, lo sviluppo istituzionale di Prato
fu strettamente parallelo a quello di Firenze. Piattoli, I ghibellini del comune di Prato,
p. 201. Un simile giuramento è attestato anche a Pistoia (Liber Censuum, pp. 255-57).
95 La prima attestazione della magistratura è del 31 maggio 1268.
96 L’attestazione di queste magistrature è del 31 dicembre 1268. Quella delle ana-

loghe magistrature fiorentine risale al 12 dicembre dello stesso anno.


97 Non può essere infatti accettata la notizia di un bando comminato alle princi-

pali casate ghibelline nel settembre del 1267, riportata da Piattoli, I ghibellini del co-
mune di Prato, I , p. 201, in quanto basata su un documento che lo stesso Piattoli
dieci anni dopo dimostrò essere un falso. Cfr. Raveggi, Protagonisti e antagonisti nel
libero Comune, p. 717, n. 266 e testo corrispondente.

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 159

analoghe a quelle fiorentine con i nomi dei banditi e dei confinati,


nonché un elenco dei possessi sequestrati 98. Elenchi provvisori di confi-
nati, in ogni caso, dovevano essere già in uso nel 1267 99. Nel giugno
1268 il consiglio stabilì in due occasioni che tutti coloro che erano stati
censiti come ghibellini dovessero abbandonare la città per recarsi nei
luoghi che avvessero desiderato. Si trattava di provvedimenti d’emer-
genza, che con ogni probabilità non erano ancora fondati su liste di
confinati ripartiti in differenti categorie. Di simili liste abbiamo traccia
a Prato solo dal 1287, ma è molto probabile che anche qui come a
Firenze si provvedesse a redigerle sin dal 1269 100.
I frammenti statutari rimasti mostrano poi che ai cittadini censiti
come ghibellini era vietato ricoprire, sotto pena di dieci lire, qualunque
ufficio comunale, eccetto quello di custode 101. I molti ghibellini rimasti
in città o comunque in possesso dei propri beni subirono dunque una
grave limitazione in materia di partecipazione politica, a differenza di
quanto era avvenuto per i simpatizzanti dei guelfi nel 1260. In tal modo
la qualifica di ghibellino cominciò a essere utilizzata, sin dagli anni Set-
tanta, al fine di screditare gli avversari nel corso di cause e processi,
mentre l’appartenenza ai guelfi andava divenendo un elemento in grado
di pesare favorevolmente in caso di bando per reati comuni. In alcuni
frammenti di documentazione giudiziaria pratese si trovano difese com-
piute da banditi accusati di reati comuni, come il furto, che, per otte-
nere la riammissione e la revoca del bando, si professano guelfi in base
ad attestati concessi dai capitani di parte, anche qui sorti accanto alla
magistratura degli Otto di guerra 102. Così come comincia a comparire

98 Carlo stesso chiese alle autorità cittadine di accedere a questo materiale (« petit

sibi exibiri omnia nomina rebellium et confinatorum et possessiones ipsorum rebel-


lium », cit. in Piattoli, Consigli del Comune, p. 38, ante 30 giugno 1269).
99 Lo attesta un processo del 1270 nel corso del quale un testimone affermò che

nel 1267 un tale Maccarone era stato deunciato da un certo Zamputo per rottura del
confino che gli era stato assegnato in quanto ghibellino. In base a tale denuncia Mac-
carone era stato arrestato e per questo aveva cominciato a odiare il suo accusatore
(Piattoli, I ghibellini del comune di Prato, II, pp. 215-217).
100 Il fatto che il Maccarone, confinato nel 1267, risulti libero da carichi penali

nel 1270 lascia supporre non tanto che il confino fu sempre una pena transitoria come
sembrò a Piattoli, quanto che Maccarone non venne più incluso nelle liste redatte in
seguito, come avvenne ad alcuni fiorentini tra 1268 e 1269 (Piattoli, I ghibellini del
comune di Prato, II, p. 235).
101 Piattoli, I ghibellini del comune di Prato, II, p. 226. Gli statuti trecenteschi

mostrano che questa proibizione era presente anche a Firenze, dove la pena stabilita
fu di 25 lire (50 in caso di magistrature delle Arti).
102 Piattoli, I ghibellini del comune di Prato, II, pp. 223-225.

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160 GIULIANO MILANI

la definizione dell’avversario come ghibellino per aggravare accuse per


reati comuni, quale il porto di armi proibite 103.
Tali attestazioni sono comprensibili solo considerando il tentativo,
promosso dalla parte guelfa locale in accordo con Carlo I d’Angiò, di
suddividere la cittadinanza in due categorie ben distinte: i guelfi, dotati
di pienezza di diritti politici, e i ghibellini, destituibili dagli incarichi,
condannati a pene più gravi in caso di condanna e potenzialmente sog-
getti a tassazioni speciali 104. Questo progetto, volto alla cristallizzazione
delle appartenenze, si scontrò con la resistenza del sistema giudiziario e
dell’apparato politico. Il primo consentì che i banditi e gli accusati
fossero assolti, il secondo, incarnato dai consigli comunali, decretò la
cancellazione dagli elenchi di condannati di alcuni ghibellini che aveva-
no sporto petizione 105. Tali provvedimenti, che attenuavano l’esclusione
si intensificarono nel corso degli anni Settanta. Nel 1276, per esempio,
Bolsetto di Jacopo inviò una petizione al consiglio del comune affer-
mando che « nuovamente, malvagiamente e contro giustizia » l’anno pri-
ma era stato scritto tra i ghibellini. In base al parere di un consigliere
si decretò che il petitore fosse esentato dal confino e che fosse trattato
e reputato come guelfo e iscritto alla parte guelfa pratese 106. Non tutti
i cittadini rimasti in città dunque condividevano le istanze più radicali
in materia di esclusione politica.Tra le due porzioni di cittadinanza cre-
ate dal regime guelfo si era conservata una certa zona grigia di cui
facevano parte per esempio alcuni imputati accusati di essere ghibellini
nel 1270, che provarono con testimoni di essersi comportati da buoni
cittadini pagando le imposte e affermando « quod ipsi vel aliquis eorum

103Piattoli, I ghibellini del comune di Prato, II, p. 227.


104Nel 1276 un consiglio speciale, formato dai capitani della parte e da ventisette
sapienti, stabilì che, al fine di finanziare una spedizione militare, si provvedesse a eleg-
gere alcuni impositori ghibellini che stimassero e ripartissero l’imposta diretta straordi-
naria esclusivamente tra i loro compagni di partito (Piattoli, I ghibellini del comune di
Prato, II, pp. 237-238). Simili attestazioni compaiono a Firenze due anni dopo e a San
Gimignano nello stesso 1276, dove, nonostante si stesse provvedendo a una pacifica-
zione che divideva le cariche cittadine tra le due partes (su cui v. Waley, Guelf and
Ghibellines at San Gimignano), nelle dichiarazioni d’estimo i cittadini iniziarono a de-
nunciare la propria appartenenza di partito. Per Firenze v. Davidsohn, Storia di Firen-
ze, vol. II, II, pp. 163-164. Per San Gimignano v. Fiumi, Storia economica e sociale di
San Gimignano, p. 112. Pecori, Storia della terra di S. Gimignano attesta che prestanze
divise tra le parti furono bandite anche nel 1273 e 1275.
105 Piattoli, I ghibellini del comune di Prato, II, p. 221.
106 Piattoli, I ghibellini del comune di Prato, II, p. 221.

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 161

non sunt expresse ghibellini nec expresse tenent aliquam partem » 107. L’esi-
stenza di queste sacche di resistenza tendenti a una maggiore equanimi-
tà con i nemici scatenò a sua volta la necessità di frapporre una barrie-
ra più resistente tra guelfi e ghibellini, ma anche a questo tentativo si
rispose nelle sedi consiliari 108.
In un certo senso il caso di Prato mostra che fu proprio la presen-
za di questa zona grigia nella cittadinanza a rendere necessari la reda-
zione, l’aggiornamento e talvolta la completa riscrittura di elenchi estesi
ed esaustivi di nemici politici che funzionassero da fonte politica, mili-
tare e fiscale 109. La prima normativa sui banditi a Prato venne emanata
anteriormente al novembre 1270 sulla base delle istruzioni impartite da
Carlo d’Angiò: si introdusse nel giuramento del podestà l’impegno a
proclamare entro il primo mese dall’entrata in carica il divieto di resi-
denza nel contado per tutti i ghibellini fuoriusciti e per le loro fami-
glie, pena l’arresto perpetuo nelle carceri del comune. A ogni cittadino
fu vietato di ospitarli e concedere loro aiuto o favore sotto pena di
cinquanta lire e della distruzione della casa in cui era stato ospitato il
bandito 110. I processi conservati consentono però di comprendere che
la normativa venne applicata in maniera flessibile 111.

107 Piattoli, I ghibellini del comune di Prato, IV, p. 231.


108 Il dato emerge chiaramente dall’evoluzione di alcune norme pratesi sul matri-
monio. In un primo momento si proibì ai cittadini di sposare figlie, sorelle e madri
dei banditi, stabilendo un’altissima pena pecuniaria, e in caso di non pagamento, il
bando; in seguito, nel novembre 1270, dopo che i banditi ghibellini avevano cercato di
riottenere la riammissione in città scrivendo al re di Sicilia, si legiferò che chiunque
avesse sposato la figlia, la sorella o la madre di un bandito, pur non subendo il
bando, sarebbe stato considerato ghibellino, e dunque passibile di tutte le limitazioni
che tale qualifica comportava. Ma nella stessa occasione si confermò anche che non
dovesse considerarsi ribelle chi avesse pagato le imposte dirette dal gennaio 1269 e chi
avesse ottenuto l’assoluzione dal consiglio del comune o da quello della parte guelfa
(Piattoli, I ghibellini del comune di Prato, IV, p. 239).
109 Sebbene sia probabile che il giuramento del podestà di scrivere ogni anno in

due copie un elenco di ghibellini non fosse rispettato, è sicuro che a Prato, almeno
nel 1270 e nel 1280, vennero scritte nuove liste (Piattoli, I ghibellini del comune di
Prato, IV, p. 240).
110 Piattoli, I ghibellini del comune di Prato, IV, p. 233.
111 Nell’aprile del 1271 Berardaccio di Rustichello accusò Braccio da Castelnuovo

di aver ospitato e nutrito Mazzeo di Castelnuovo, bandito ghibellino, assieme a Gotti-


fredo di messer Tebaldo. Gli accusati si presentarono e negarono l’accusa e il denun-
ciatore fu costretto a pagare quanto aveva stabilito all’atto di presentare il libello. Gli
atti processuali pratesi meriterebbero di essere analizzati direttamente, ma, a quanto
attesta lo studio di Piattoli, la maggior parte delle accuse di questo tipo ebbero un

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162 GIULIANO MILANI

A Prato, infine, grazie alla maggiore documentazione conservata, riu-


sciamo a cogliere anche la difficoltà di pervenire al « mendum », di
risarcire quei guelfi che, durante il loro esilio negli anni 1260-1266,
avevano subìto un sequestro di beni ad opera del regime ghibellino.
Nel 1268, in seguito a discussioni che si svolsero tra i quattro Custodi
dell’Avere e il consiglio del « popolo », si stabilì che i guelfi danneggiati
potessero godere non solo dei redditi provenienti dai beni sequestrati
ai banditi ghibellini dell’anno in corso e del precedente, ma dei terreni
stessi 112. La delicata questione tuttavia fu ripresa nel 1269, quando i
terreni furono sottratti ai guelfi che li avevano avuti in assegnazione e
si ripartirono in due categorie: i terreni coltivati in economia, che già
dai proprietari ghibellini erano stati concessi per mezzo di contratti di
affitto a breve termine, e quelli affidati ai concessionari attraverso con-
tratti a lungo termine (livelli ed enfiteusi). I secondi rimasero al comu-
ne, i primi furono redistribuiti per mezzo di contratti annuali ai cittadi-
ni che ne fecero richiesta 113. Nel 1270, infine, la procedurà subì un’ul-
teriore evoluzione: i terreni già affittati in economia furono concessi ai
responsabili delle comunità del contado che ne avevano la giurisdizione
a un prezzo politico; e negli anni successivi fu questo sistema a soprav-
vivere. Quanto ai terreni già amministrati per mezzo di concessioni a
lungo termine, l’acquisizione da parte del comune fu più complessa,
ma mossa da un’analoga volontà di non alienarli. Ai beneficiari guelfi

esito assolutorio. Nella nuova temperie politica continuavano a vigere le regole che
fino a quel momento avevano caratterizzato il sistema processuale accusatorio, in cui
l’esito dipendeva dalla capacità di poter contare su testimoni e fideiussori affidabili,
più che dall’intenzione del giudice di pervenire alla verità. Su questi aspetti della giu-
stizia comunale cfr. Vallerani, Il sistema giudiziario del comune di Perugia. In virtù
della medesima vischiosità del sistema giudiziario cittadino subirono attenuazioni i pro-
cedimenti contro gli stessi banditi, oltre che quelli contro i loro favoreggiatori. Lo
mostra un altro caso riportato da Piattoli, quello di Berricordato di messer Gentile
Frescobaldi, bandito ghibellino, arrestato come ribelle e incarcerato, ma in seguito rila-
sciato in base a una solenne promessa di obbedire ai precetti del podestà vicario, di
presentarsi in caso di ordine, di non uscire dalla città se non con espressa licenza delle
autorità e di rinunziare a ogni protezione pubblica sia nella persona sia nell’avere,
sotto pena di diecimila lire. L’ultima clausola dell’impegno è significativa e mostra come
anche nella nuova accezione di parte, la pena del bando, quando non fosse connessa
alla pena capitale (di cui tuttavia in questo primo periodo angioino non vi è traccia
nemmeno a Firenze), continuasse a mantenere in sostanza l’originaria valenza di esclu-
sione dalla possibilità di rivolgersi alla giustizia comunale (Piattoli, I ghibellini del co-
mune di Prato, IV, p. 260).
112 Piattoli, I ghibellini del comune di Prato, II, pp. 14 e ss.
113 Piattoli, I ghibellini del comune di Prato, II.

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 163

vennero infatti concessi i soli canoni stabiliti nei precedenti contratti,


che via via vennero detratti dalla quota stabilita nel 1269 come risarci-
mento. Infine le case, gli orti, i terreni edificabili, i mulini vennero
affittati dal comune a privati, stabilendo di volta in volta le modalità, il
prezzo e la durata dell’affitto. La decisione favorevole ai guelfi presa a
ridosso dell’instaurazione del regime nel 1268 fu rapidamente revocata,
non senza il contributo di alcuni dei possibili beneficiari. Il dominio
eminente rimase al comune, che progressivamente, mentre andavano
esaurendosi le cifre dei risarcimenti, acquisì sempre più danaro. Se le
entrate nel 1271 ammontavano alla somma di 200 lire, nove anni dopo
si giunse a ben 1154 lire, che per un comune come Prato doveva esse-
re una percentuale non indifferente del bilancio complessivo 114.
La lettura dello statuto di Pistoia permette di estendere anche a
questa città l’impressione di una stretta coordinazione tra il re di Sicilia
e la parte guelfa locale nel promuovere la modifica delle istituzioni e
l’esclusione dei nemici ghibellini, ma offre una terza variante del siste-
ma, in cui risulta particolarmente evidente l’influenza di una politica
« popolare ». In questa città, che nel 1267, come le altre due, si impe-
gnò in un giuramento di fedeltà e di concessione della carica podesta-
rile a Carlo d’Angiò, la parte guelfa fu coinvolta nella decisione in
merito al risarcimento per i danni subiti dai ghibellini. I guelfi pistoiesi
chiesero a tal fine un prestito di 800 lire a quelli fiorentini, per saldar-
lo nel 1269 grazie agli introiti dei beni sequestrati 115. Nel frattempo, le
operazioni standard che abbiamo visto negli stessi anni a Firenze e a
Prato (censimento dei ghibellini rimasti, allestimento di liste di banditi
e confinati, scrittura di un libro di beni), dovevano essere state com-
piute anche a Pistoia: sappiamo infatti che vennero redatti dei libri
rebellium nel 1268-69 116, e che, in seguito ad alcuni rientri, venne scrit-
114 Alla luce di quanto è possibile capire, si comprende bene come la mancanza,

a Prato, di una procedura certa per l’assegnazione dei beni dei banditi, e soprattutto
la sua applicazione a un patrimonio ben maggiore di quello che era stato amministrato
precedentemente, dovette generare all’inizio una certa tensione, capace di concretizzar-
si, come era avvenuto a Firenze, in conflitti di cui i contorni in parte ci sfuggono. La
concessione dei terreni da parte del consiglio del « popolo » che, di fatto, la parte
guelfa pratese rifiutò, fu invece con ogni probabilità accolta a Firenze, dove i guelfi,
anche al di là dei risarcimenti legittimi, poterono procedere ad alienare una parte
vieppiù consistente dei terreni acquisiti.
115 Zdekauer, Breve et ordinamenta populi Pistorii, p. XXVII.
116 La notizia di Libri rebellium redatti sotto la podesteria vicariale di Pagano di

Terzago è riportata in Zdekauer, Breve et ordinamenta populi Pistorii, p. XXIV. I libri


rimasero nella sacrestia di San Iacopo per quarant’anni, poi nel 1302 vennero recupe-
rati « ad cancellandum rebelles predictos de dicto libro ».

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164 GIULIANO MILANI

to un nuovo libro che riportava i sodamenti, vale a dire le garanzie


pecuniarie fornite dai ghibellini usciti dal bando. Sempre nel 1268, come
era avvenuto a Firenze, si istituì un ufficio « super bonis rebellium »
che censisse i beni dei ghibellini e i loro frutti117. Anche qui probabil-
mente sorsero conflitti tra la parte guelfa e le altre istituzioni sull’acqui-
sizione dei beni, ma si risolsero presto a favore del « popolo ». Lo sta-
tuto stabilì che i risarcimenti dovevano essere gestiti integralmente dal
capitano e dai camerari del « popolo », che ebbero il potere di investi-
gare quali beni dei ribelli fossero stati acquisiti direttamente dai guelfi
e procedere a sequestri, impegnandosi d’altro canto a non favorire al-
cun ghibellino rimasto in città 118.
Pur non essendo attestato con altrettanta chiarezza, sembra che an-
che a Pistoia questi ultimi furono divisi in categorie penali distinte. A
giudicare dallo statuto del « popolo », però, qui il confino costituì una
misura meno grave, poiché venne contemplato come strumento di emer-
genza, da applicarsi solo in caso di disordini. In queste occasioni i
confinati destinati a recarsi nelle località più lontane, fuori dalla città e
dal contado, avrebbero dovuto spostarsi temporaneamente nei luoghi di
soggiorno obbligato 119, mentre altri, giudicati più inoffensivi, avrebbero

117 Nel giuramento del capitano del « popolo » redatto nel 1267 (Zdekauer, Breve

et ordinamenta populi Pistorii, p. 42) è scritto « Item ordinamus quod capitaneus et


anziani teneantur facere extrahi et registrari et poni in registro populi, quod servetur
in scrineo populi, bona rebellium inventa et eorum reditus et proventus ».
118 Zdekauer, Breve et ordinamenta populi Pistorii, p. 79: « LII. De ratione tenen-

da guelfis petentibus rationem super bonis rebellium. Ordinamus pro evitandis scanda-
lis et brighis inter homines partis Guelfe, et pro utilitate ipsius partis et pro unione
servanda inter homines ipsius partis quod capitaneus et eius iudex teneantur et debe-
ant vinculo iuramenti facere et tenere summariam rationem de bonis rebellium comu-
nis Pistorii personis dicte partis, debentibus recipere vel habere aliquam pecunie quan-
titatem a dictis rebellibus vel altero eorum vel super eorum bonis. Et habeat locum
dictum capitulum tam in masculis, quam de feminis, natis de aliqua domo vel stirpe
seu homine partis guelfe Et si contigerit aliquam suprascriptarum personarum habuisse
vel habere in solutum vel pagamentum bonos rebellium, quod dominus capitaneus et
eius iudex teneantur precise et sine remedio bona data et danda in solutum eis et ei,
cui data fuerint, absque molestia dimittere et pacifice tenere et possidere [...]. Salvo
quod nulli, qui haberet iura cessa ab aliqua persona partis Ghibelline prosit hoc capi-
tulum ». Cfr. anche pp. 64-65: « XXIII. De redditibus rebellium dandis et solvendis
camerariis populi Pistorii vel alii persone ad voluntatem potestatis, capitanei et anzia-
norum ».
119 Zdekauer, Breve et ordinamenta populi Pistorii, p. 122: « [CLX]. = De ponen-

do Ghibellinos confinatos ad confines. = Item ordinaverunt quod domini potestas et


capitaneus teneatur [sic] et possint mittere et ponere ad confinia et confinare extra

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 165

subìto una sorta di arresto domiciliare, limitandosi a rimanere nelle loro


parrocchie di residenza 120. Si provvide inoltre a reintegrare i confinati
dei beni che erano stati loro indebitamente sottratti, a patto che dimo-
strassero di obbedire al comune, e di aver contribuito alle imposizioni
dirette dal 1268 121. Anche qui la parte guelfa era riuscita in qualche
misura a suddividere la cittadinanza in due categorie dotate di differen-
ti status giuridici. Negli statuti confluì una norma che in caso di rissa
tra un guelfo e un ghibellino prevedeva che quest’ultimo si sarebbe
dovuto allontanare dalla città e non risiedere entro il raggio di cento
miglia 122. Le istanze più repressive e accentratrici della pars tuttavia fu-
rono più mitigate rispetto a quanto era avvenuto a Firenze o a Pra-
to 123. Queste differenze tra le città toscane andarono ampliandosi al-
l’inizio degli anni Ottanta per effetto dell’indebolimento della presenza
angioina dovuto alla rivolta del Vespro e alla perdita della Sicilia 124. Il

civitatem Pistorii et districtum omnes Ghibellinos confinatos et qui consueverunt ire


ad confines, tempore quod (sic) rumor esset in civitate Pistorii, [...] ».
120 Zdekauer, Breve et ordinamenta populi Pistorii, p. 122-123.
121 Zdekauer, Breve et ordinamenta populi Pistorii, p. 84: « [LXIX]. Quod bona

indebite detempta per populum Pistorii tanquam de bonis rebellium restituantur per-
sone stanti ad mandata comunis et solventi datia ».
122 Zdekauer, Breve et ordinamenta populi Pistorii, p. 80: « Quod Ghibellinus fa-

ciens brigam vel feritam vel rumorem cum Guelfo vel contra Guelfum ponatur ad
confines, extra districtum Pistorii, per .C. milia ».
123 Un indizio della maggiore clemenza visibile a Pistoia è costituito dalle norme

sulle vedove dei ghibellini che stabilirono la restituzione integrale dei beni dotali se-
questrati (Zdekauer, Breve et ordinamenta populi Pistorii, p. 85).
124 A Firenze la parte guelfa, probabilmente anche per effetto del capitale accu-

mulato con le vendite dei beni sequestrati, venne a inserirsi pienamente, e in posizione
di rilievo, nel novero delle istituzioni cittadine. Così addirittura nel 1271 Carlo dovette
intervenire per frenare gli eccessi attuati dai guelfi nella proscrizione di ex-ghibellini
rientrati (Davidsohn, Storia di Firenze, II, 2, p. 99). Tre anni dopo, in seguito al fallito
tentativo di tentativo di pacificazione tra le partes di Gregorio X, la parte guelfa fio-
rentina si sganciò dall’influenza di Carlo riorganizzandosi completamente. I sei capitani
vennero sostituiti con un magistrato forestiero: il Capitano della massa di parte dei
guelfi che fu dotato di poteri giurisdizionali e fiscali (Davidsohn, Storia di Firenze, II,
2, pp. 159-162). A Pistoia l’influenza della parte fu meno pregnante sul lungo periodo:
le pacificazioni promosse dai pontefici nel 1274, 1278, 1280 riuscirono a ricondurre i
fuoriusciti in città, anche se ogni volta dovettero riallontanarsi dopo poco tempo. A
San Gimignano, che nel 1267 aveva dovuto accettare il governo angioino, si pervenne
addirittura, attorno alla metà degli anni Settanta, a un originale sistema di distribuzio-
ne delle cariche, negoziandolo con Carlo e accettando il pagamento delle sanzioni da
lui comminate (Brogi, Il comune di San Gimignano, pp. 17-20 e Waley, Guelfs and
Ghibellines at San Gimignano).

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166 GIULIANO MILANI

sistema dell’esclusione era stato tuttavia introdotto. Il ritorno a una si-


tuazione di equidistanza dalle partes, all’assenza di una riconoscibile di-
stinzione tra guelfi e ghibellini si sarebbe rivelato lungo e complesso.

7. L’Italia settentrionale filoangioina (Brescia, Cremona, Piacenza, Parma,


Modena, Reggio)

La soggezione a Carlo I d’Angiò in seguito alla sua conquista del


regno di Sicilia non riguardò la sola Toscana. Nel 1269, mentre nelle
città toscane erano ormai redatti gli elenchi dei banditi, dei confinati e
dei loro beni, e cominciava a prendere forma differente a seconda dei
luoghi l’accentramento politico della pars guelfa, Carlo ricevette le sot-
tomissioni delle città lombarde ed emiliane Come attestano gli Annales
Placentini Ghibellini, unica fonte sull’avvenimento, le città riunite si di-
visero sul tipo di relazione da impostare con il nuovo sovrano, manife-
stando anche qui interpretazioni differenti della relazione con il nuovo
potere. Un gruppo (Cremona, Piacenza, Parma, Modena, Mantova, Fer-
rara e Reggio) si pronunziò in favore di una soggezione vera e pro-
pria, accettando Carlo come dominus. Un altro gruppo (Bologna, Mila-
no, Como, Vercelli, Novara, Alessandria, Bergamo, i signori di Monfer-
rato e i Falabrini di Pavia) affermarono di voler tenere il sovrano
come amicus, ma senza concedergli la signoria. Questa scissione è di
grande in teresse e mostra in maniera evidente il margine di indipen-
denza che vollero mantenere alcuni tra i principali comuni del Nord.
Le città che promisero la signoria a Carlo erano soprattutto quelle che
avevano vissuto per più di un decennio la presenza di una « protosi-
gnoria » personale 125.
In Toscana Carlo aveva fondato il proprio dominio incentivando
l’istituzionalizzazione della parte guelfa e assumendo le nuove magistra-
ture « di parte » quali diretti interlocutori dei suoi vicari. Tale operazio-
ne era stata possibile grazie allo sviluppo delle locali parti guelfe, visibi-
le già nella documentazione degli anni Cinquanta. In Lombardia e in
Emilia, tale siviluppo non vi era stato. Le fasi di predominio della pars
imperii a partire dal periodo delle guerre con Federico II si erano al-
ternate con maggiore intensità con le fasi di sconfitta e di esilio. Le
partes si erano più volte riformulate in seguito a cambiamenti di fronte
e defezioni. Le protosignorie postfedericiane (quelle di Oberto Pallavi-

125 Annales Placentini Ghibellini, pp. ???

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 167

cino, Gilberto da Gente, Buoso da Dovara) su impulso del « popolo »


avevano programmaticamente cercato di reintegrare una quota degli esclu-
si della pars Ecclesie, non consentendo, come era avvenuto in Toscana,
il rafforzamento di un’identità politica antagonista rispetto a quella del
comune. Le condizioni per la creazione di nuovi organi decisionali che
potessero porsi come interlocutori diretti dei vicari angioini si presenta-
vano dunque più remote. Carlo dovette di fatto « inventare » delle par-
tes intrinseche per promuovere il passaggio a un regime più affidabile.
Se talvolta (come a Parma), si prestarono bene allo scopo quelle socie-
tà d’ispirazione « crociata » che i legati pontifici avevano introdotto ne-
gli anni Sessanta per promuovere la lotta contro Manfredi e i suoi
seguaci, in altri casi, fu necessaria una riforma più radicale. Così avven-
ne a Brescia.
Gli statuti della pars Ecclesiae, compilati in seguito all’avvento del-
l’angioino « in onore della Vergine, della Chiesa e di Carlo re di Sicilia,
per il buono stato della parte e la confusione e l’offesa dei nemici, dei
traditori del comune e dei loro fautori » 126, mostrano al tempo stesso la
forte intenzione di promuovere anche in questa città la formazione di
una vera e propria pars Ecclesie e le difficoltà contro cui si dovette
scontrare 127. Il primo capitolo specificava con espressioni che forse sa-
rebbero risultate pleonastiche in Toscana che gli anziani della parte – la
scelta del termine esprimeva la volontà di collegarsi alle magistrature di
matrice popolare – si sarebbero dovuti produrre per innalzarla e per
opprimerne i nemici e i loro complici, osservando gli statuti della parte
che in seguito sarebbero stati promulgati 128. Si doveva quindi procedere
a stilare regole ex novo, dal momento che tale magistratura non era
esistita prima dell’avvento angioino. Fu pertanto stabilito che i quattro
anziani della parte dovessero essere scelti ogni mese e che, almeno una
volta al mese, dovessero riunirsi nel palazzo del comune o altrove per
valutare il suo stato di salute. Almeno una volta la settimana doveva

126 Le compilazioni statutarie bresciane meriterebbero una nuova edizione, visto

che quella allestita più di un secolo fa da Odorici fu condotta sulla copia parziale di
un codice completo ancora inedito. In attesa di una tale opera occorre servirsi della
vecchia edizione, integrandola con altro materiale emerso nel frattempo, e orientandosi
grazie ad alcuni importanti studi (Roberti e Tovini, La parte inedita del più antico
codice statutario bresciano). Essi mostrano comunque che nel 1272, due anni dopo la
concessione della signoria cittadina a Carlo, fu allestita un’imponente opera di risiste-
mazione normativa, in particolare delle delibere contro i nemici.
127 Statuti di Brescia del secolo XIII, col. 196.
128 Statuti di Brescia del secolo XIII, col. 197.

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168 GIULIANO MILANI

essere poi convocato il consiglio della pars formato da 100 uomini pro-
venienti da tutte le contrade che fossero risultati « veri amici » della
Chiesa e del re di Sicilia. Colui che, eletto a far parte del consiglio,
non si fosse recato alle riunioni avrebbe dovuto pagare una multa di
tre soldi 129, mentre il membro della pars Ecclesie che avesse congiurato
o stretto accordi senza autorizzazione del consiglio generale sarebbe stato
multato con 4 lire ed espulso dal consiglio. Queste sanzioni per la
mancata partecipazione alle riunioni del consiglio segnalano bene le dif-
ficoltà di impiantare una nuova parte. La stessa difficoltà del resto ap-
pare dall’attribuzione al capitano del « popolo » del compito di sedare
entro un mese le liti che fossero sorte all’interno di essa 130.
Come in Toscana, Carlo incentrò l’operato della nuova istituzione
sulla repressione dei nemici interni e l’amministrazione dei beni dei
banditi 131. Questa riorganizzazione delle procedure di esclusione si svol-
se tuttavia nel corso degli anni Settanta attraverso il recupero della
normativa precedente all’avvento del Pallavicino 132, che fu affiancata da

129 Statuti di Brescia del secolo XIII, coll. 197-198.


130 Statuti di Brescia del secolo XIII, col. 199. Le preoccupazioni non erano infon-
date: poco dopo l’emanazione di questi primi e « artificiali » statuti, il consiglio cittadi-
no ritornò sulle paventate discordie, deliberando che il vicario e il capitano del « po-
polo » dovessero costringere, entro due mesi dal loro ingresso, sotto pena di 25 lire,
tutti gli « amici della parte » a fare pace tra loro, ricorrendo, in caso di necessità, al
carcere e ad ammende di 100 lire (Statuti di Brescia del secolo XIII, col. 211).
131 Come appare chiaramente analizzando il caso fiorentino, il re di Sicilia tentava

in tal modo di introdurre nei bilanci dei comuni un nuovo rilevante cespite di entrate
che consentisse non solo di affrontare le spese ordinarie, ma anche di concedergli
denaro per finanziare le sue guerre. A Brescia fu stabilito che i beni e i redditi dei
banditi, per i quali si continuò ad usare l’espressione lombarda di malexardi, sarebbero
stati amministrati dagli anziani della parte. Questi avrebbero concesso i ricavi al comu-
ne, che in tal modo avrebbe potuto pagare i soldati angioini secondo le modalità
previste dal patto di soggezione. Gli stessi anziani, inoltre, avrebbero dovuto provvede-
re al pagamento dei milites cittadini che avevano combattuto a partire dal 1267, quan-
do Brescia, sottraendosi alla signoria pallaviciniana, si era alleata con Francesco della
Torre (Statuti di Brescia del secolo XIII, col. 198).
132 Si trattava dei provvedimenti emanati durante gli anni Cinquanta che avevano

visto Brescia alleata a Milano nell’osteggiare il fronte filoimperiale formato dagli ex-
vicari federiciani. Innanzitutto si provvide a rafforzare, introducendoli negli statuti, quegli
ordinamenta che avevano cassato i provvedimenti punitivi nei confronti degli extrinseci
filomilanesi. Negli Statuti di Brescia del secolo XIII, col. 199 si afferma che le condan-
ne degli amici della parte emesse prima del tempo di Francesco della Torre dovevano
essere cancellate dai libri e annullate, a meno che i bandi non fossero stati dati per
l’offesa di qualche amico, nel qual caso la decisione sarebbe stata vincolata all’approva-
zione dell’offeso. Sempre negli Statuti di Brescia del secolo XIII, col. 153, si dichiara

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 169

nuovi provvedimenti di aggiornamento 133. Rispetto a quanto è possibile


notare in Toscana, a Brescia si coglie la necessità di stabilire una conti-
nuità con il regime precedente alla fase di dominio della pars imperii,
di legittimare il nuovo assetto politico attraverso un richiamo a magi-
strature precedenti (gli anziani, dunque, e non, come a Firenze e Prato,
i capitani della parte), e una rivisitazione aggiornata della normativa
emanata nell’epoca filotorriana. Più che il mendum degli ex-fuoriusciti,
risulta centrale l’identificazione del nuovo regime con la tradizione filo-
milanese e « popolare », restaurata dopo la parentesi della soggezione a
Pallavicino.
Una vera e propria novità fu invece rappresentata dalla normativa
sul confino. Come era avvenuto in Toscana, anche a Brescia, nei primi
anni della signoria angioina, una commissione composta dal vicario an-
gioino, dagli anziani della parte, e qui anche dal capitano del « popo-
lo » fu preposta a stilare elenchi di confinati 134. Fu stabilito che i con-
finati dovessero recarsi nei luoghi destinati entro 15 giorni dalla compi-
lazione dei registri e presentare entro le due settimane successive atte-
stati di residenza negli stessi luoghi. Non sappiamo se anche a Brescia

che i provvedimenti e le riformagioni del consiglio fatti al tempo di Ezzelino (1258) e


Oberto (1259-1266) contro quelli della pars Ecclesie dovevano essere annullati. Nella
stessa fonte, a col. 152, si stabilisce invece che i futuri podestà dovevano provvedere
con capitani, anziani e sapienti in merito a vendite, garanzie prestate, e altri contratti
fatti dagli amici della parte della Chiesa al tempo di Ezzelino e Pallavicino, quando
erano fuoriusciti, poiché risultava che in questi contratti fosse stata commessa una
grande frode nei confronti di chi era spinto dalla necessità. Infine, furono reintrodotte
nel codice le norme emanate nel 1252 e nel 1254 contro i malexardi filoimperiali che
contemplavano, per chi si fosse allontanato dalla città, il bando, la distruzione delle
case e il sequestro dei beni, nonché gravi pene corporali in caso di cattura (Odorici,
Storie bresciane, VII, p. 124: « Hec sunt statuta ulterius per dictos correctores statuto-
rum etc. de novo condita per correctores ad hoc electos de voluntate consilii gener.
MCCLXXVII »). Anche le delibere sulla buona tenuta dei libri dei banditi furono
riprese per soddisfare le nuove esigenze politiche (Statuti di Brescia del secolo XIII,
coll. 160 e 132).
133 Si specificò a esempio che valessero per i fautori di Corradino e per i nemici

di re Carlo; che con i nuovi fuoriusciti non si dovessero scambiare ambasciate né


lettere, né contrarre matrimonio; che sarebbe stato premiato chi avesse proceduto alla
loro cattura. Venne deliberato inoltre che le norme sulla distruzione delle case e quelle
sulla delazione dovessero essere proclamate ogni tre mesi dal vicario angioino nell’aren-
go o durante una riunione del consiglio comunale; e infine che il vicario procedesse
entro quindici giorni dalla sua entrata in carica a computare esattamente l’ammontare
dei beni dei banditi (Odorici, Storie bresciane, VII, p. 123).
134 Statuti di Brescia del secolo XIII, col. 146.

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170 GIULIANO MILANI

vennero stabiliti differenti gradi di confino a seconda della distanza dalla


città; più probabilmente i confinati vennero inviati tutti a Cremona e
nelle altre città lombarde fedeli alla pars Ecclesie 135, mentre i loro fami-
liari poterono risiedere nel contado a una distanza di 10 miglia dalla
città. È certo però che, proprio in base al criterio della lontananza
dalla città, tipico della normativa guelfo-angioina, si provvide a regolare
l’ammontare delle pene pecuniarie per la rottura del confino 136. Ai con-
finati rimase la possibilità di godere dei propri beni a patto di pagare
le tasse, che anche qui dovettero costituire un ulteriore nuovo cespite
di entrata, oltre a quello rappresentato dallo sfruttamento dei beni se-
questrati. Il vicario avrebbe inviato ogni tre mesi uomini « fedeli e di-
screti » a controllare l’effettiva presenza dei confinati nei luoghi di sog-
giorno. In caso contrario sarebbe stato tenuto al pagamento di un’am-
menda di 100 lire.
Come in Toscana, a mano che la presenza angioina diminuì e l’ur-
genza del conflitto cominciò a essere superata, gli organismi comunali
provvidero in qualche modo ad attenuare quanto era stato stabilito in
occasione della soggezione a Carlo. Con un provvedimento di grande
significato, che mostra chiaramente il limite che la cittadinanza politica-
mente attiva di Brescia volle fissare alle procedure di esclusione di im-
portazione angioina, negli anni Ottanta il consiglio comunale restrinse il
numero dei confinati a duecento e stabilì che solo per questi duecento
avrebbero avuto valore le pene stabilite in precedenza 137. Lo stesso con-
siglio tolse alle autorità direttamente nominate da Carlo d’Angiò il po-
tere di concedere ai confinati licenze per venire in città e lo trasferì al
« consiglio di credenza », un organo esecutivo comunale ristabilito alla
fine degli anni Settanta 138. La normalizzazione riguardò anche il fronte
dei banditi: con ogni probabilità, nel 1279, venne decretato che non si
procedesse più alla distruzione dei loro beni 139. La più limitata adesio-
ne di Brescia alla versione più radicale del nuovo sistema dell’esclusio-
ne si rivela anche dalle tracce tutto sommato scarse che tale sistema

135Statuti di Brescia del secolo XIII, col. 145 (aggiunta del 1277).
136Chi fosse entrato nel districtus sarebbe stato punito per 25 lire se miles, con
10 se pedes; chi fosse entrato nel contado avrebbe dovuto pagare, a seconda della sua
condizione, 50 o 25 lire; chi infine fosse entrato in città sarebbe stato unito con la
pena capitale, o in caso di fuga con il bando perpetuo (Statuti di Brescia del secolo
XIII, col. 146).
137 Statuti di Brescia del secolo XIII, col. 202.
138 Statuti di Brescia del secolo XIII, col. 212.
139 Statuti di Brescia del secolo XIII, col. 96.

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 171

lasciò nel periodo successivo. Nel 1288, quando a causa di una nuova
ribellione della Valle Camonica, zona da sempre difficile da assoggetta-
re, Brescia dovette procedere a compilare degli statuti contro i nuovi
ribelli, ci si riallacciò alle forme tradizionali. Si procedette a stilare una
piccola lista dei ribelli, vennero stabiliti premi pecuniari per la loro
cattura, si proibì ogni contatto con essi, ma nient’altro. Quest’operazio-
ne riprendeva in sostanza la normativa comunale della prima metà del
secolo contro i concorrenti poteri del comitatus 140.
Nelle altre città lombarde le testimonianze sono più scarse, ma
vanno nella stessa direzione riscontrabile a Brescia: a partire dalla sog-
gezione a Carlo, l’esclusione dei nemici procedette di pari passo con
l’istituzionalizzazione di una parte intrinseca, che lasciò tuttavia larghi
margini di tolleranza. A Cremona la fine del dominio di Pallavicino e
Buoso da Dovara si dovette all’intervento dei legati pontifici, che nel
1266 trattarono la pace della città con gli estrinseci Cappelletti e,
attraverso complesse manovre, riuscirono a far espellere tra quell’anno
e il 1268 i due « tiranni » e i loro seguaci della parte dei Barbarasi. È
significativo tuttavia che le tracce della ritorsione sui malexardi filoim-
periali e dell’esistenza di un giudice ai beni dei banditi si facciano
più frequenti proprio a partire dal 1270, quando la città accolse la
signoria angioina, procedendo a promuovere un governo dotato di
esplicite caratteristiche di « popolo » 141, destinato a consolidarsi negli
anni Ottanta 142.

140 Questi statuti sui ribelli della Val Camonica, presenti nel codice inedito degli

statuti bresciani, vennero pubblicati nel 1898 in Valentini, Gli statuti di Brescia del
secolo XIII.
141 Specificamente le tracce dell’esclusione sono costituite da una richiesta sporta

nel 1270 dalla famiglia Sommi, in passato leader della pars Ecclesie cremonese, al giu-
dice ai beni dei malexardi, affinché restituisse loro le decime della Pieve di Ottoville,
sequestrate assieme ai beni di Uberto Pallavicino, ma, a giudizio dei petitori, da questi
confiscate in precedenza a loro. La richiesta venne accolta (Astegiano, Codex Diploma-
ticus Cremonae, II, dd. 908-909. Altri atti del giudice ai beni dei malexardi del 1279
sono in Astegiano, Codex Diplomaticus Cremonae, II, dd. 963-966).
142 Nei frammenti statutari del 1288 è stabilito « [...] quod si velint potentiores et

majores et fratres eorum et filii eorum intelligantur de populo et societate populi Cre-
monae, dum tamen non sint banniti, confinati vel rebelles partis ecclesiae de Cremo-
na » (Gualazzini, Il « populus » di Cremona, p. 336). Un registro di affitti dei beni dei
banditi dal 1288 al 1293 è conservato nell’Archivio Gonzaga e mostra procedure simili
a quelle adottate nelle città del circuito guelfo (regestato in Astegiano, Codex Diploma-
ticus Cremonae, II, doc. 1084). Anche l’esistenza di reformatores partis spingerebbe ad
avvicinare la vicenda istituzionale di questa città a quelle che abbiamo delineato per
Brescia e la Toscana (Astegiano, Codex Diplomaticus Cremonae, II, p. 318).

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172 GIULIANO MILANI

A Piacenza la soggezione al dominio angioino ebbe luogo nel 1271


e coincise con l’affermazione istituzionale del consorzio dei paratici e
dei mercanti. Carlo promise di aiutare il comune contro tutti i suoi
nemici purché non fossero al tempo stesso « amici del re e della Chie-
sa », e soprattutto diede libero accesso ai mercanti piacentini nel Re-
gno. Inoltre si impegnò a fornire duecento armati da utilizzare nella
guerra contro i fuoriusciti, da stipendiare mediante un’imposta diretta
straordinaria. In cambio, i piacentini concessero al re la nomina del
podestà e del capitaneus societatis paraticorum et mercatorum, magistra-
tura dotata di competenze giudiziarie che veniva ad affiancarsi per la
prima volta a Piacenza al podestà, e che nei successivi vent’anni avreb-
be costituito la via piacentina alla signoria – quella « popolare » degli
Scotti. È interessante notare che tra gli introiti regolari del comune che
i piacentini concessero a Carlo in questa occasione, fatte salve le neces-
sità della regolare amministrazione urbana, vi furono redditus et proven-
tus et bona bannitorum de malexarchia qui non venerunt ad mandato
[sic] domini Regis et comunis Placentie ad terminum conventionis mensis
unius. Si tratta di un accenno che conferma quanto scritto dall’autore
degli Annales Placentini Guelfi. Secondo questo cronista, il re stabilì
assieme al comune piacentino che i fuoriusciti che entro un mese si
fossero sottoposti al patto avrebbero avuti salvi la vita e gli averi 143. A
tale possibilità di reintegrazione si posero tuttavia delle limitazioni che
spingono a ritenere che essi confluirono nella categoria dei confinati 144.
Nel patto infine il re si impegnò ad annullare tutte le alienazioni, le
concessioni e gli affitti contratti dai fuoriusciti affinché il comune po-
tesse liberamente godere di questi beni.
Nelle città lombarde l’obiettivo di costituire una pars Ecclesie ac-
centrata fu comunque più difficile da realizzare rispetto a quanto era
avvenuto in Toscana. A Brescia l’operazione sembra aver dato, nono-
stante le difficoltà iniziali, i frutti migliori. A Cremona vi fu una pars
Ecclesie locale, ma il ruolo che a Firenze ricopriva la parte guelfa fu
assunto dal « popolo ». E così a Piacenza, dove, proprio in virtù del-
l’occasione fornita dall’angioino, il potente ceto mercantile riuscì ad
affermare politicamente una sua struttura di partecipazione parallela a
quella comunale. Quello che differì meno fu il modo in cui tutte que-
ste istituzioni di raccordo gestirono l’esclusione dei nemici, promuo-
vendo ovunque, con dimensioni e accuratezza in precedenza non per-

143 Castignoli, L’alleanza tra Carlo d’Angiò e Piacenza, pp. 29-30.


144 Castignoli, L’alleanza tra Carlo d’Angiò e Piacenza, pp. 33-34.

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 173

cepibili, bandi, confini, sequestri e affitti, e pervenendo a redigere elen-


chi di condannati e di beni.
In Emilia invece la funzione di raccordo tra comune e corona an-
gioina fu assunta da quelle societates « crociate » che avevano promosso
il passaggio delle città alla pars Ecclesie. A Parma dal 1266 questo ruo-
lo fu della Societas cruxatorum, organizzata per primicerii e dotata di un
capitaneus. Questa milizia « di parte », nata, a quanto sembra, spontane-
amente, ma entrata rapidamente in contatto con Carlo I, acquisì le
competenze di un’organizzazione guida della pars populi e gli venne
riconosciuto il potere di imporre le proprie delibere e sentenze al po-
destà. Essa risulta sempre nominata nelle norme statutarie relative ai
beni dei banditi e al controllo dei nemici interni 145. Sin dal 1266 pro-
cedette, come altrove le parti guelfe, a far giurare ai cittadini un sacra-
mentum sequimentis della parte della Chiesa. Su questa base promulgò
confini e distrusse le case di quanti non avevano giurato 146. Gli statuti
emanati successivamente alla vittoria non consentono di osservare anali-
ticamente le modalità delle ritorsioni. È certo tuttavia che, come altro-
ve, furono vietati i matrimoni con i cittadini identificati come membri
della pars imperii e le loro famiglie; che agli stessi si vietò di ricoprire
l’intero spettro della cariche comunali; e che costoro subirono riduzioni
nella possibilità di avere beni in concessione dagli enti ecclesiastici 147.
L’esclusione andò di pari passo con una ristrutturazione istituzionale
che concesse ai magistrati della Societas cruxatorum poteri analoghi e
superiori a quelli degli anziani del « popolo » 148. Infine la Societas cruxa-
torum diede inizio a una ridefinizione della cittadinanza simile a quella
attuata altrove attraverso la compilazione di un registro di riferimento
in cui elencò tutti i suoi membri. Nel corso degli anni successivi, anche
quando la centralità del capitaneus cruxatorum fu sostituita da quella
del capitaneus populi, la funzione di tale registro non venne meno: esso
fu oggetto nel 1287 e nel 1293 di interpolazioni, in seguito severamente
punite 149.

145 Statuta comunis Parmae, I, p. 470 (concessione a Iohannes Barixellus de capite

pontis di 25 lire tratte dalle rendite dei beni sequestrati).


146 Affò, Storia della città di Parma, III, p. 273.
147 Statuta comunis Parmae, I, pp. 480; II, pp. 41-251-259.
148 E con la promozione del culto di due santi: Giovanni Battista e Ilario di

Poitiers, quest’ultimo forse per influenza angioina, come attesta Canetti, Un santo per
una città.
149 Chronicon Parmense, pp. 52 e 64. La prima volta si decretò che il libro fosse

addirittura bruciato per essere sostituito da un nuovo esemplare mondato delle aggiun-

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174 GIULIANO MILANI

A Reggio, le cui vicende in questi anni sono molto simili a quelle


parmigiane, lo statuto è più esplicito. Sebbene in tema di esclusione vi
fossero molti ordinamenti precedenti 150, solo nel 1270 – in occasione
della soggezione alla corona angioina – furono inseriti nella codificazio-
ne statutaria i decreti che stabilirono una netta distinzione della cittadi-
nanza, affermando che non si potesse intendere della parte intrinseca
nessuno che non fosse rimasto in città nel momento in cui i de Sesso e
i loro fautori avevano abbandonato Reggio e che – come anche a Prato
e a Pistoia – a tale criterio andasse accostato, in funzione di correttivo,
il pagamento delle imposte dirette 151. Nello stesso libro degli statuti in
cui confluirono gli ordinamenti di parte, si trovano poi numerosi prov-
vedimenti di assoluzione dai bandi e dai confini 152.
Pur con notevoli differenze locali dalle fonti normative dei comuni
che accolsero Carlo I d’Angiò emerge un medesimo sistema dell’esclu-
sione. Questo sistema è volto alla divisione della cittadinanza in due
gruppi dotati di diritti diversi, al bando dei fuoriusciti e allo sfrutta-
mento dei loro beni. A questi fini si mobilita una quantità ingente di
risorse tecniche e culturali, giungendo alla scrittura di elenchi, norme e
disposizioni che direttamente o indirettamente (attraverso le cassazioni
e le attenuazioni degli anni successivi) lasciarono tracce evidenti di sé.

te illegittime, la seconda volta proprio la falsificazione del registro da parte di un


notaio cittadino condusse a una rivolta e alla cacciata del podestà, accusato di conni-
venza. Non sappiamo se il libro della società contenesse anche i nomi dei banditi e
confinati, o se a tale scopo, come è probabile, fossero stati redatti altri registri. Queste
attestazioni cronachistiche indicano tuttavia che la distinzione della cittadinanza in due
gruppi ben riconoscibili passò anche a Parma per la scrittura di grandi elenchi di
riferimento.
150 Nello statuto si trova l’impegno per il podestà di riscuotere le pene pecuniarie

inflitte ai da Sesso; quello per il giudice ai beni dei banditi di amministrare i beni dei
fuoriusciti del 1265 (Consuetudini e statuti reggiani, p. 153), nonché le norme contro i
favoreggiatori dei banditi in occasione della ribellione di Guazolo, e quelle sullo sfrut-
tamento dei loro beni e la distruzione delle abitazioni. Sono presenti inoltre i provve-
dimenti che cassano le alienazioni fatte dagli ex fuoriusciti. Si tratta di ordinamenta
scritti a ridosso degli eventi che avevano condotto anche qui a bandire la pars imperii
negli anni 1266-67 (Consuetudini e statuti reggiani, pp. 199-200).
151 Consuetudini e statuti reggiani, pp. 210-211.
152 A Modena, per la quale non si conservano statuti duecenteschi, sappiamo che

fu la societas popolare di San Gemignano a occuparsi del rientro dei banditi facendo
loro giurare la fedeltà alla parte (Simeoni, Le origini della signoria estense a Modena,
Appendice). È dunque probabile che si fosse occupata anche dell’avviamento delle
procedure di esclusione.

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 175

8. I comuni gravitanti su Milano e la Marca trevigiana

Fino al 1266-67 nei comuni lombardi l’esclusione si presenta con le


caratteristiche tipiche del periodo preangioino (numero di persone coin-
volte, in particolare confinati, relativamente ridotto, dunque assenza di
grandi elenchi di riferimento e di altre tracce amministrative e normati-
ve). A partire da quegli anni l’influsso del sistema di esclusione angioi-
no si rende maggiormente percepibile nel circuito milanese-torriano. Si
tratta di un’influenza che permane anche dopo al passaggio di Milano
allo schieramento opposto e che, attraverso vie diverse, si manifesta
anche nella Marca 153. La forza innovativa del sistema di esclusione inau-
gurato nel circuito guelfo-angioino fu quindi tale che anche i governi
ghibellini che non avevano avuto esperienze di ricambio di orientamen-
to politico assunsero in maniera consapevole tecniche elaborate nelle
città nemiche.
A Milano le tracce più consistenti di una ritorsione organizzata contro
i malexardi nemici dei Torriani appaiono negli anni dell’affermazione
angioina. I Torriani e le città da essi controllate (Como, Bergamo, No-
vara e Vercelli) non avevano accettato Carlo d’Angiò come dominus,
ma soltanto come amicus, e questa distinzione appare un elemento im-
portante per valutare la scarsezza delle testimonianze in merito all’esclu-
sione politica negli anni della loro prevalenza. L’assenza di un dominio
diretto dell’angioino, che solo in alcuni anni inviò suoi podestà a Mila-
no, ebbe con ogni probabilità l’effetto di lasciare una traccia più debo-
le delle procedure che da Carlo erano state promosse e organizzate, ma
non impedì che in questa città si procedesse alle ritorsioni secondo
modalità simili a quelle attuate in Toscana, Emilia e nella Lombardia
angioina. È nel quadro del sistema « guelfo-angioino » che acquista rilie-
vo la presenza a Milano di un giudice ai beni dei malexardi che si fa

153 Come abbiamo accennato, a partire dalla metà degli anni Settanta il fronte

compatto del circuito guelfo-angioino cominciò a incrinarsi per una serie concomitante
di cause: in Toscana per i tentativi di pacificazione tra le parti promossi da Gregorio
X a partire dal 1273, che in molti casi ebbero, almeno temporaneamente, effetto. In
Emilia, dapprima a causa dei nuovi disordini scoppiati a Bologna e il riversarsi della
parte Lambertazza nelle città romagnole (1274), in seguito per l’estendersi del dominio
di Azzo d’Este su Modena e Reggio. In Lombardia il cambiamento coincise con la
battaglia di Desio (1277), che provocò fine il periodo dell’egemonia torriana, con con-
seguenze importanti nelle città che attorno a Milano continuavano a gravitare; in Vene-
to, infine, con passaggio di Mantova al fronte imperiale in occasione della presa di
potere di Pinamonte Bonaccolsi (1274), seguita di lì a poco dalla congiura che portò
alla morte di Mastino della Scala a Verona (1277).

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176 GIULIANO MILANI

intensa proprio a partire dal periodo 1266-76 154. E come reazione alle
forti incentivazioni alla denuncia dei nemici politici promosse da Carlo
può forse essere letto il provvedimento milanese che, nel 1267, in un
momento di tensione con il re di Sicilia, stabilì che il futuro podestà
non avrebbe dovuto prendere in considerazione le denunce anonime,
ma soltanto quelle « palesi », convalidate per mezzo di una fideiussione
con cui il promuovente si fosse impegnato a dimostrare la propria ac-
cusa 155. Anche il sacramentum del podestà Visconte Visconti, riportato
da Corio al 1272, contiene in forma embrionale alcuni elementi che
mostrano la vicinanza al re di Sicilia 156. Nel 1274, in seguito all’allarme
suscitato dalla notizia che Buoso da Dovara con gli esuli milanesi e
alcune milizie inviate da Alfonso di Castiglia stavano marciando su Mi-
lano, si procedette a bandire come ribelli molti milanesi, e a promuo-
vere inquisizioni generali per verificare la presenza di favoreggiatori dei
malexardi. In seguito a tali inchieste furono inviati al confine 200 citta-
dini, tra i quali Guglielmo Pusterla 157. Simili provvedimenti si ritrovano
nelle città che gravitavano sotto l’egida milanese 158.

154 Gli atti del comune di Milano, II, alle date 1266, dicembre 2; 1268, dicembre

5; 1273, giugno 12; 1273, novembre 20; 1276, maggio 5; settembre 26; novembre 12.
155 Corio, Storia di Milano, p. 448.
156 Il rettore infatti si impegnò « a honore de la beata Vergine et il divo Ambro-

sio, di questa città potentissimo patrone, ad exaltatione di Sancta Chiesia e di Carlo,


excellentissimo re di Sicilia, et a bono stato della città et destricto de Milano e de la
Turriana famiglia, inscieme con gli amici de quella », e promise che « con la famiglia
observarebbe tutti li statuti facti contra li heretici e similmente li ordini et statuti facti
contra li banniti e treditori della patria » (Corio, Storia di Milano, p. 475).
157 Corio, Storia di Milano, p. 487.
158 A Como nel 1259 un compromesso tra le due parti dei Rusconi e dei Vittani

promosso da Martino della Torre sancì il predominio dei Vittani (filotorriani) per i
diciotto anni successivi, durante i quali uscì dalla città per brevi periodi la parte « ghi-
bellina » di Giordano Rusca. Gli atti di questo compromesso, conservati nell’inedito
liber iurium comasco, prevedono la distruzione della torre di famiglia dei Rusconi e la
possibilità per i Vittani di veder rimborsate le condanne emesse nei loro confronti, e
di poter edificare liberamente una propria torre (Liber statutorum comunis Novocomi,
Appendice, coll. 441-442). Si tratta di provvedimenti tutto sommato non molto innova-
tivi, ancora non improntati a quella necessità di censimento dei nemici che è visibile a
partire dalla metà del decennio successivo. Solo nel 1263, del resto, i Torriani assunse-
ro la signoria a Como, e nello stesso anno, i Rusconi uscirono dalla città e si rifugia-
rono a Chiavenna dopo alcuni disordini seguiti alla morte di Martino della Torre (Ar-
chivio Capitolare Laurenziano, Chiavenna, Quaternus expensarum comunis (1264), cc.
5r-v). Ringrazio Claudia Becker per avermi messo a disposizione le riproduzioni di
questo materiale.

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 177

Nel 1276, poco prima della battaglia di Desio che avrebbe condot-
to Ottone Visconti a Milano, i ghibellini Rusconi riuscirono a prevale-
re a Como cacciando i guelfi Vittani. L’anno successivo furono intro-
dotte negli statuti alcune norme che costituiscono un’importante trac-
cia della ritorsione operata da Milano nei confronti degli sconfitti del-
la Torre. Lo spunto era offerto dalla detenzione dei Torriani catturati
nel corso delle battaglie. I comaschi vicini ai Visconti, che nella guerra
avevano avuto un ruolo importante, deliberarono che chi avesse tratta-
to della liberazione dei prigionieri sarebbe stato considerato « in per-
petuum malexardus et bannitus de maleficio » con tutta la sua famiglia,
che i suoi beni sarebbero stati distrutti e pubblicati, e non avrebbe
avuto la possibilità di recuperare credito o dote. Chi fosse stato cattu-
rato sarebbe stato condannato a morte. Venne quindi concesso al po-
destà l’arbitrio di indagare e mettere sotto tortura chiunque fosse so-
spettato di volere la liberazione dei della Torre. Si vietò qualsiasi for-
ma di contatto con i reclusi, e si concesse a chiunque la possibilità di
catturare e tenere prigionieri i parenti e i sostenitori della famiglia,
stabilendo premi in denaro a chi avesse accusato coloro che contrav-
venivano a tali disposizioni. Si specificò, infine, che potesse ricoprire
l’incarico di carceriere solo un amicus domini Episcopi Cumarum et
partis Rusconorum che avesse prestato servicia in guera civitatis Cuma-
rum proxime preterita159. Queste disposizioni, e il fatto che uno dei
primi provvedimenti del nuovo governo insediato fu la riforma degli
statuti, mostrano come il regime ghibellino di Como utilizzò alcune
delle modalità che, a partire dagli anni Sessanta, avevano caratterizzato
le esclusioni nel circuito « guelfo-angioino », e che forse erano già state
impiegate anche nella Como filo-torriana. L’impressione è confermata
da quanto rimane degli statuti comaschi emanati in quel periodo, che
prevedevano il divieto di portare armi durante la festa di sant’Abbon-
dio per tutti coloro che fossero stati identificati come simpatizzanti
della fazione dei Vittani, segno di un’avvenuta bipartizione della citta-
dinanza 160.
Simile a Como è la vicenda di Novara. Anche qui, dopo un perio-
do filotorriano, i clan filoviscontei dei Tornielli e dei Cavallazzi riusciro-
no a cacciare nel 1273 quello opposto dei Brusati, portando il comune
dalla parte degli esuli di Milano. Anche qui il nuovo governo promosse

159Monti, Riforme degli statuti comaschi in odio ai Torriani, pp. 103-105.


160Liber statutorum comunis Novocomi, col. 136. La norma è analizzata diffusa-
mente in Becker, Statutekodifizierung und Parteikampfe in Como.

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178 GIULIANO MILANI

una sistematica riforma degli statuti 161. In essi si stabilì che le condanne
emesse contro Torniello Tornielli e la sua parte fossero annullate e che
i beni sequestrati fossero restituiti 162 ed emetteva nuove condanne di
malexardia contro i vecchi dominatori del comune 163. Ma accanto a
queste procedure standard, che compaiono in ogni statuto compilato
posteriormente ad un rientro, vi sono nella codificazione novarese altri
aspetti di maggiore significato. È interessante a esempio che tra le pri-
me norme se ne trovi una che stabilisce che il podestà è tenuto a far
scrivere in due volumi « nomina et tempus omnium interdictorum et
abhominatorum et restitutorum et defectorum tam preteritorum quam
futurorum » 164. Non viene specificato che si tratti dei banditi politici,
ma l’ampiezza delle possibilità previste lascia credere che in ogni caso
il bisogno di una tenuta rigorosa delle registrazioni individuali fosse
sentito con più forza che in precedenza, dopo un periodo in cui pro-
prio quelle scritture erano state uno dei mezzi usati per l’esclusione
politica. Un altro provvedimento mostra una prima conseguenza di questa
preminenza della scrittura nelle procedure di esclusione, poiché afferma
che nessun bandito possa essere denunciato se il suo nome non risulta
scritto nel « libro comunis ». È evidente che si trattava del tentativo di
frenare l’indiscriminato ricorso all’accusa di eterodossia politica generata
dal sistema di esclusione « guelfo-angioino », che stabiliva premi pecu-
niari per gli accusatori 165.

161Nel 1276 venne ultimata la codificazione che servì da antigrafo alla copia che
possediamo, scritta l’anno successivo.
162 Statuta comunitatis Novarie, coll. 609; 710; 713; 716; 784. Su questi statuti v.

Lizier, Gli Statuti novaresi, e Drewniock-Sasse Tateo, Novareser Kommunalstatuten.


163 Statuta comunitatis Novarie, p. 786.
164 Statuta comunitatis Novarie, col. 607.
165 Un altro aspetto interessante è la presenza di correzioni, scritte tra 1278 e

1287, che modificarono o cassarono alcune delle statuizioni. Una norma che nel 1276
prevedeva il divieto per il podestà di procedere alla distruzione delle case dei nemici
venne a esempio corretta più tardi, con ogni probabilità in seguito al primo rafforzarsi
della signoria viscontea a Milano, specificando la sua eccepibilità in caso di banniti pro
malexartia. E così anche le delibere che nel 1276, in un momento che a quanto risulta
era di relativa stabilità, avevano stabilito che nessuno potesse essere più condannato
alla pena del confino e che le sicurtates sequestrate ai confinati che si erano allontanati
dai luoghi di soggiorno obbligato andavano abolite. Il notaio che sulla base di questo
codice provvide alla risistemazione degli statuti siglò queste norma con un significativo
« non ponatur » (Statuta comunitatis Novarie, coll. 608-609), che attesta quanto fosse
necessario ricorrere nuovamente a quei sistemi che in precedenza si era tentato di
attenuare. Venne infatti approbatum lo statuto che prevedeva le pene per i favoreggia-
tori dei malexardi, e l’altro, che stabiliva le remunerazioni per i denunciatori (Statuta

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 179

Tra 1272 e 1276 si sentì infine il bisogno di riordinare la materia


statutaria anche nella filoimperiale Verona, che in seguito alla fine di
Ezzelino aveva consentito ai Sanbonifacio e ai Turrisendi di tornare in
città, cacciando i primi già nel 1260, i secondi nel 1261 e poi, definiti-
vamente, nel 1268, quando avevano tentato di frenare l’ascesa di Masti-
no della Scala. Quando gli Scaligeri decisero di creare un sistema re-
pressivo nei confronti dei loro nemici fuoriusciti, essi conferirono un
larghissimo arbitrium al podestà bolognese Andalò Andalò, alleato per
tradizione familiare e impegno personale alla pars di Manfredi e Corra-
dino, ma proveniente da una città che pur riuscendo fino a quel mo-
mento a mantenere l’equilibrio tra le proprie fazioni, aveva intrattenuto
strette relazioni con il circuito guelfo 166. Verona richiamò Andalò anche
nel 1274 e non sembra azzardato ipotizzare che alla base di queste
chiamate vi fosse la necessità di adeguare la propria strumentazione
giuridico-amministrativa alle esigenze di un’esclusione politica aggiornata
alle efficaci forme che da qualche anno si erano diffuse nelle città to-
scane, lombarde e emiliane del fronte guelfo.
Nel primo libro degli statuti, dedicato come in molte altre città
all’apparato politico del comune, si specificò che nessun nemico potesse
accedere al consiglio, né esercitare alcun ufficio per il comune, stabilen-
do le pene per gli elettori che non avessero rispettato questo precet-
to 167. Si previdero pene gravi per tutti i possibili nemici politici168. Si

comunitatis Novarie, coll. 611-612). E così si mantenne a favore della società dei para-
tici, dei milites, dei Cavallazzi e dei Tornielli l’eccezione che escludeva dall’obbligo di
ottemperare allo statuto che proibiva le riunioni (Statuta comunitatis Novarie, col. 684).
Sorprende maggiormente che fu cassata la delibera che conferiva agli uomini di Nova-
ra e del distretto della parte intrinseca il diritto di portare liberamente le armi, ma
probabilmente si trattò di un tentativo di riformulare quel privilegio, restringendo il
beneficio ai novaresi più affidabili. In sostanza gli statuti novaresi testimoniano come
in una prima fase successiva alla vittoria sui Brusati, il governo dei Tornielli avesse
cercato di attuare un esclusione in qualche misura « moderata », per poi ricorrere, nel
giro di una decina di anni, alle stesse tecniche adottate durante il predominio della
fazione filotorriana, che in un primo momento erano state cassate.
166 Gli statuti veronesi del 1276, p. 57.
167 Gli statuti veronesi del 1276, pp. 72; 105; 107. La proibizione di pronunciare

consilia ai giudici della parte del Conte è a p. 305.


168 Uno statuto (poi esteso anche agli uccisori di Alberto della Scala) stabilì che

chiunque si fosse allontanato dalla città con la parte del conte di San Bonifacio o con
quella dei Turrisendi sarebbe incorso nel bando perpetuo del comune di Verona, « uscen-
do dalla tregua, come nemico e traditore del comune anche se non era stato in prece-
denza scritto nel registro dei banditi ». I suoi beni sarebbero stati del comune anche

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180 GIULIANO MILANI

decretò che i favoreggiatori dei banditi sarebbero stati perseguiti, men-


tre sarebbe stato incoraggiato chi avesse provveduto alla loro cattura.
Nel suo giuramento, il giudice deputatus super possessionibus et bonis
inimicorum et bannitorum si impegnò a recuperare tutti i terreni e i
possessi dei banditi, a metterli in comune e provvedere al loro sfrutta-
mento affittandoli ad maiorem utilitatem comunis, nonché a riscuotere
gli affitti dei terreni già assegnati, sotto pena di cento lire per ogni
affitto non riscosso 169. Da un aggiunta del 1278 sappiamo che i lotti da
affittare venivano messi all’incanto nel consiglio del « popolo », esatta-
mente come avveniva in quel momento a Bologna 170. Come nei regimi
angioini, anche qui venne stabilito di restituire i beni ai nemici che
fossero venuti ad mandata 171, e gli stessi statuti contengono alcuni ordi-
namenta fatti in applicazione di questo principio 172. Questi confluirono
con ogni probabilità nella categoria dei recombiati (=confinati), ai quali,
in caso di rottura del confino, sarebbe stato comminato il bando per-
petuo, con tutte le sue conseguenze 173.
A Verona risulta però percepibile una particolare tensione ideologi-
ca: la proibizione di promuovere una tregua con la pars extrinseca, azione
per cui viene stabilita la pena di morte, viene estesa anche a chi pro-
porrà l’argomento in consiglio o a chi nella stessa sede griderà « Pace,
pace! ». E in questa tensione si coglie uno degli elementi che rende
questa normativa più radicale della media dei comuni coevi. Le pene
sul favoreggiamento risultano più dettagliate e gravi che in ogni altra
compilazione 174, si minacciano pene non soltanto a chi presta consilium
ai banditi, ma anche a chi non si impegna al massimo delle proprie
possibilità per catturarli 175. In pochi altri luoghi è possibile rinvenire

in assenza di una sentenza di pubblicazione. Il podestà entro due mesi avrebbe dovuto
indagare al riguardo e aggiornare i libri dei banditi. Le case sarebbero state distrutte.
Il comune non avrebbe riconosciuto alcuna alienazione compiuta dai banditi, né altro
contratto (Gli statuti veronesi del 1276, pp. 451-454).
169 Gli statuti veronesi del 1276, pp. 111-112. A questo giudice vennero inoltre

assegnate tutte le vertenze in materia di beni concessi e fu lui a dover giudicare se le


richieste di derubricazione dei beni fatte da cittadini intrinseci fossero legittime o mosse
per interposta persona dagli stessi banditi (Gli statuti veronesi del 1276, pp. 114-116).
170 V. oltre Capitolo IX.
171 Gli statuti veronesi del 1276, pp. 117.
172 Gli statuti veronesi del 1276, p. 121 (restituzione dei beni a Nicolò Turrisendi,

Antonio de Sardenellis, Bartolomeo de Hostilia).


173 Gli statuti veronesi del 1276, p. 458.
174 Gli statuti veronesi del 1276, pp. 458-460.
175 Gli statuti veronesi del 1276, p. 470.

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 181

norme come quella veronese sui figli dei banditi, a cui è vietato venire
in città sotto pena dell’amputazione del piede (se maschio) o del naso
(se femmina), oppure del carcere per i minori di quattordici anni 176.
Anche se tali norme non vennero fatte scrupolosamente rispettare rima-
ne il fatto che esse rappresentino un programmatico giro di vite dato
alle modalità dell’esclusione politica.
A tale intensificazione delle componenti punitive, che costituisce a
questa altezza ancora un unicum ideologico, si accompagna negli statuti
veronesi un altro elemento originale. Spesso le norme sui nemici fuo-
riusciti vengono specificate e talvolta adattate alla speciale porzione di
rebelles che si intende colpire. Alcuni provvedimenti sono generali, ma
in altri si specifica che l’attuazione è ristretta (o estesa) alla parte del
conte di San Bonifacio, a quella di Pulcinella e Macono Turrisendi, agli
autori dell’uccisione di Alberto. Si tratta di un segno importante che
differenzia questi statuti da quelli finora osservati. L’esclusione e la pu-
nizione non riguardano una sola parte, quella che in seguito alla vitto-
ria riportata nel conflitto civile è stata dichiarata nemica, ma più parti,
che in momenti diversi, anche se spesso in collegamento tra loro, han-
no cercato di combattere e scalzare coloro che dominano il comune e
che soprattutto tendono a identificarsi con esso. Gli statuti di Verona
del 1276 acquisiscono così un doppio valore per la storia dell’esclusio-
ne politica: da un lato costuiscono la prima codificazione in cui è rile-
vabile con chiarezza l’acquisizione nel circuito « ghibellino » di procedu-
re e modalità elaborate e rese ordinarie nei comuni « guelfi », dall’altro
esprimono già la volontà di convertire tali procedure alle esigenze di
un governo più gerarchizzato, in cui la pars – e il termine comincia a
divenire improprio – non è più uno degli elementi che nel gioco delle
giustapposizioni delle istituzioni comunali riesce a controllare provviso-
riamente gli altri, ma il vertice indiscutibile del comune stesso.

9. Conclusioni
Le grandi esclusioni dell’ultimo quarto del Duecento non furono il
risultato dell’improvvisa ingerenza nel comune da parte di fazioni più
strutturate ed estese di quelle precedenti, ma il frutto della lunga evo-
luzione subìta dal regime podestarile.
Per comprenderle occorre considerare la compresenza realizzatasi
verso la metà del secolo tra due fenomeni: la definitiva e incontestata

176 Gli statuti veronesi del 1276, p. pp. 466.

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182 GIULIANO MILANI

affermazione del comune come sistema politico presieduto dal podestà,


e dunque aperto alla presenza di gruppi in conflitto, e l’uso abituale,
da parte di questo sistema, di una serie di strategie volte all’esercizio
della violenza contro gli avversari politici nate all’interno del comune
dalla fine del XII secolo, rinnovate in occasione dei conflitti con Fede-
rico II, rese sistematiche e dotate di maggiore efficacia dai movimenti
di « popolo ». Il doppio movimento osservabile a partire dagli anni Cin-
quanta comprende da un lato la polarizzazione dei conflitti e il trionfo
di partes legittimate dall’esterno e dall’interno, dall’altro la definitiva
affermazione, se non del programma popolare, almeno degli strumenti
elaborati per attuarlo.
L’ascesa di Carlo d’Angiò al regno di Sicilia e il conflitto che inne-
scò, un evento sovraregionale che coinvolse in misura maggiore di quanto
non fosse mai avvenuto in età comunale tutte le città e tutti i sistemi
politici italiani, catalizzò la tensione che covava all’interno dei comuni
podestarili, affiancati, in modo differente da caso a caso, dalle istitu-
zioni popolari e attraversati, anche in questo in maniera diversificata,
dalla lotta delle partes. Il risultato fu la rifondazione del comune se-
condo un modello che prevedeva per la prima volta sistematicamente,
come dati strutturali, l’esclusione di una parte e la verifica dell’esplici-
to appoggio al governo di tutta la cittadinanza. Se tale esclusione ave-
va avuto luogo molte altre volte, solo adesso cominciò ad essere consi-
derata il fondamento della legittimità del regime, l’atto di nascita del
governo, il criterio determinante per una verifica della fedeltà dei ci-
ves. Se già alla fine del XII secolo si era proceduto contro chi si era
ribellato alla linea politica decretata dal regime (o dall’alleanza cui era
stretto), alla fine del XIII si giunse a censire la cittadinanza per verifi-
care che non ne facesse parte a pieno titolo chi non appoggiava espli-
citamente quella linea. E si rese questo censimento permanente attra-
verso l’allestimento di un sistema di schedatura e di amministrazione
giudiziaria delle condanne.
A riprova del fatto che tale trasformazione interessò le strutture
profonde della partecipazione politica e non fu il risultato di una con-
tingenza esterna, o che interessava la sola élite dirigente, è possibile
notare come la cittadinanza partecipò alla costruzione del nuovo regime
esplicitamente e implicitamente. Essa agì esplicitamente, nelle commis-
sioni e nei consigli, adattando il modello alle proprie tradizioni e smus-
sandone gli aspetti più punitivi, laddove il « popolo » aveva sostenuto
con successo un’ideologia della pacificazione, o esasperandoli in quei
comuni che avevano fatto prova di esperimenti protosignorili. Ma essa

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IL SISTEMA DELL’ESCLUSIONE. LA GENERAZIONE DEL 1230 183

rispose anche implicitamente, per effetto sua della partecipazione al


nuovo sistema di controllo, di volta in volta, approfittando, per ragioni
private, degli incentivi alla delazione promossi dai regimi, oppure con-
tribuendo attraverso consilia e testimonianze a scagionare gli accusati.
Anticipando quanto si dimostrerà più diffusamente nei prossimi ca-
pitoli, si può dire che coloro che nacquero attorno al 1260, i figli cioè
di quanti avevano vissuto il grande trionfo delle esclusioni, si trovarono
ad agire attorono al 1280 in sistemi politici che complessivamente at-
tuavano un’esclusione dei nemici politici più limitata e attenuata rispet-
to a quella sancita durante la prima diffusione del sistema guelfo-an-
gioino, ma che ciononostante non avevano rinunciato a conservarla quale
fondamento del regime, quale principio ormai irrinunciabile dell’eserci-
zio del potere.

Lo schema seguito finora imporrebbe a questo punto di ripren-


dere il filo della vicenda a Bologna. Le fonti per studiare l’esclusione
bolognese di questi anni sono però incomparabilmente più numerose di
quelle delle altre città e richiedono pertanto di essere trattate separata-
mente. È quanto si farà nei prossimi cinque capitoli, nel tentativo di
comprendere, attraverso l’analisi ravvicinata di una città, quegli aspetti
che le sole fonti cronachistiche e normative prese in esame in queste
pagine lasciano in silenzio: la composizione sociale della parte esclusa,
le oscillazioni diacroniche del gruppo dei colpiti in termini di nuove
condanne e rientri, l’adattamento alla nuova realtà del sistema giudizia-
rio e di quello dell’amministrazione economica del comune. Dopo ave-
re, insomma, cercato di dimostrare, nei comuni italiani di quest’epoca,
la presenza di un sistema di governo fondato sull’esclusione si proverà
a descriverne, alla luce di un caso ben testimoniato, i funzionamenti
concreti.

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184 GIULIANO MILANI

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Capitolo V

BOLOGNA 1274-1277
LA PARTE ESCLUSA

1. L’esclusione a Bologna

All’indomani della battaglia di Benevento, mentre in Toscana, nella


Marca trevigiana e in Lombardia cominciavano a crearsi le condizioni
per l’affermazione del sistema dell’esclusione 1, Bologna fece un ultimo
tentativo per rimanerne fuori. Nelle trattative che seguirono la vittoria
di Carlo d’Angiò, il comune, per voce del suo podestà veneziano, af-
fermò la volontà di restare neutrale tra gli schieramenti 2. Ma già nel
1267 le partes cittadine tornarono a scontrarsi chiamando aiuti dal-
l’esterno. Nonostante la presenza di un’aristocrazia che attraverso l’eser-
cizio di incarichi da ufficiale forestiero aveva maturato una spiccata
consapevolezza dei problemi di politica interna, e di un « popolo »
ampio e organizzato, il mantenimento dell’ordine si faceva sempre più
difficile. Talvolta le due componenti sociali riuscivano ad agire in per-
fetto accordo nella repressione dei conflitti faziosi: lo mostrano bene
gli statuti promossi dai frati gaudenti della Milizia di Maria Vergine 3,
Loderigo degli Andalò e Catalano di madonna Ostia, con cui nel 1265
fu stabilita la costituzione di una milizia di 1200 « popolari » per fre-
nare le risse 4. Ma le stesse relazioni verticali che avvicinavano magnae
domus e populares homines spingevano i membri del popolo tra le fila
dei geremei – è questo il nome che assunse la parte « guelfa » bolo-
gnese – o dei ghibellini lambertazzi nel promuovere, per esempio, la
cacciata di un podestà 5.
Alla fine degli anni Sessanta l’economia attraversava un momento di
recessione. L’indebolimento del ruolo dei mercanti bolognesi sulle piaz-

1 V. Capitolo V.
2 Hessel, Storia della città di Bologna, p. 252.
3 Sui « frati gaudenti » v. almeno Roversi, L’ordine della Milizia di Maria Vergine.
4 Frati, Statuti, III, p. 595.
5 Corpus Chronicorum, pp. 170-179. Ma v. Capitolo V, 1.

Capitolo 5.pmd 185 09/11/2009, 16.26


186 GIULIANO MILANI

ze internazionali li spingeva a ripiegare su attività creditizie come il


prestito agli studenti 6, pure contrastato dalle compagnie toscane 7. Nello
stesso periodo si apriva la crisi dei mercanti del settore tessile che, non
riuscendo più a competere con la concorrenza fiorentina, passarono a
svolgere attività di intermediazione tra i commercianti stranieri che ten-
devano a occupare la piazza bolognese 8. Nel 1264 il tentativo di conia-
re una lira aurea bolognese per contrastare il fiorino fallì e la nuova
moneta fu rapidamente ritirata 9. L’espansione della prima metà del se-
colo appariva insomma esaurita nel 1270, quando una carestia innescò
problemi ancora maggiori. La mancanza di riserve cerealicole, segno
delle difficoltà nello sfruttamento del contado, spinse i bolognesi a co-
struire una fortezza alla foce del Po di Primaro per togliere a Venezia
il controllo del traffico di biade nella regione, ma Venezia si oppose,
approfittando del fatto che nel 1271 Bologna aveva accolto i da Fonta-
na, banditi da Ferrara con l’accusa di tramare contro la signoria esten-
se 10. Nello stesso anno si riaprì un antico contenzioso con Modena11.
All’interno della società bolognese, in cui ormai da più di un decennio
agivano due partes, questi nuovi conflitti imposero scelte precise, condi-
zionate dalle alleanze ormai stabilizzate tra le fazioni di Bologna e quel-
le delle città circonvicine: inviare l’esercito a Modena o in Romagna, in
aiuto delle parti locali, significava spingere Bologna in uno dei due
sistemi di alleanze che dalla regione coinvolgevano tutta l’Italia comu-
nale, facendole perdere la sua conclamata neutralità.
Per effetto di nuovi scontri, nel 1271 furono emanati una serie di
ordinamenti contro i tumulti e si procedette a scrivere due liste di
magnati 12. In esse erano raccolti i nomi di venticinque uomini per ognu-
na delle due partes individuati come particolarmente pericolosi e co-
stretti pertanto ad allontanarsi e a recarsi al soggiorno obbligato 13. Nel
1272, nonostante queste misure, gli scontri si riaprirono a proposito
della decisione di intervenire militarmente a Modena. I geremei fecero

6 Dal Pane, Vita economica, pp. 115-118.


7 Pini, L’arte del Cambio, p. 73.
8 Pini, Produzione, artigianato e commercio, p. 536.
9 Hessel, Storia della città di Bologna, p. 198.
10 Hessel, Storia della città di Bologna, pp. 263-267. Sulla guerra con Venezia v.

anche A. I. Pini, Ravenna, Venezia e Bologna dal Marcamò al Primaro.


11 Hessel, Storia della città di Bologna, p. 259.
12 Fasoli, La legislazione antimagnatizia; ma soprattutto Koenig, Il « popolo » del-

l’Italia del Nord, pp. 373-377 e ora Milani, Da milites a magnati.


13 V. Capitolo VII.

Capitolo 5.pmd 186 09/11/2009, 16.26


BOLOGNA 1274-1277. LA PARTE ESCLUSA 187

rimuovere dal palazzo comunale l’epigrafe che riportava il « privilegio


teodosiano », il falso documento alla base delle rivendicazioni antimode-
nesi 14. Ma il conflitto con Venezia imponeva prestiti pubblici sempre
più ingenti che aggravavano la crisi finanziaria attraversata dal comune
e che non furono in grado di impedire la definitiva sconfitta di Bolo-
gna, che avvenne nel 1273, quando Venezia la obbligò a un trattato nel
quale rinunciava a ogni privilegio sul controllo delle importazioni di
grano 15. La crisi che si aprì a Forlì nel 1274 in occasione della cacciata
della pars guelfa locale provocò lo scontro finale: i geremei premevano
per soccorrere gli alleati forlivesi, i lambertazzi si opposero chiedendo
di dirottare il contingente su Modena.
Gli scontri che scaturirono vedevano schierata una larga porzione
della cittadinanza. Tali rumores furono davvero percepiti come l’occasio-
ne per decidere definitivamente in merito alla posizione del comune di
Bologna nell’assetto intercittadino, tanto che accorsero alleati delle due
fazioni: per i geremei dalle maggiori città del sistema « guelfo-angioi-
no », per i lambertazzi dalla Romagna. In un primo momento si rag-
giunse una mediazione, ma i tumulti ripresero in maggio quando fu
organizzata una nuova spedizione contro le città romagnole. Al termine
di una battaglia lunghissima, il 2 giugno 1274 un gran numero di lam-
bertazzi abbandonò la città fuggendo a Faenza 16.
Pochi giorni dopo, il comune e il popolo di Bologna formalizzaro-
no la loro esclusione attraverso la scrittura di un primo elenco di più
700 banditi 17. Allo scopo di censire i ghibellini rimasti a Bologna si
utilizzarono inoltre una serie di liste stilate negli anni precedenti (elen-
chi fiscali, « venticinquine » militari e matricole societarie). Nella miglio-

14 A. I. Pini, Bologna lo studio e il falso privilegio teodosiano.


15 Hessel, Storia della città di Bologna, p. 261.
16 I più analitici resoconti dei disordini del 1274 sono Hessel, Storia della città di

Bologna , pp. 265-268 e Pellegrini, Il Serventese dei Lambertazzi e dei Geremei. Ma v.


anche Ghirardacci, Della historia di Bologna, I, capp. V-X; Savioli, Annali Bolognesi; V.
Vitale, Il dominio della Parte Guelfa in Bologna. Tra le cronache vanno segnalate alme-
no le quattro (« Rampona », « Varignana », Bolognetti, Villola) contenute nel Corpus
Chronicorum; Mathaei de Griffonibus Memoriale historicum e soprattutto Petri Canti-
nelli, Chronicon, l’unica coeva assieme al Serventese dei Lambertazzi e dei Geremei,
edito per la prima volta in F. Pellegrini, Il Serventese dei Lambertazzi e dei Geremei.
Su queste fonti cronistiche v. le schede relative contenute in Repertorio della cronachi-
stica emiliano-romagnola, Zabbia, I notai e la memoria storica, e Milani, La memoria dei
rumores.
17 V. Capitolo VII.

Capitolo 5.pmd 187 09/11/2009, 16.26


188 GIULIANO MILANI

re tradizione del sistema di esclusione guelfo-angioino ogni elenco fu


accuratamente vagliato per distinguere i lambertazzi dai geremei. Tre
anni dopo, nel 1277, sulla base di questo lavoro si produsse una lista
completa di banditi e confinati contenente quasi quattromila menzioni,
tra individuali e collettive 18. In questo modo il comune pose la base
del sistema di controllo dei nemici politici che avrebbe utilizzato nei
decenni successivi: un sistema, come altrove, fondato sulle pene del
bando e del confino.
Al fine di controllare che queste pene venissero eseguite, che i ban-
diti rimanessero tali e non venissero in città e che i confinati inadem-
pienti fossero puniti con il bando, la competenza sui lambertazzi fu
trasferita al tribunale del capitano del popolo. In questa sede si provvi-
de ad accogliere le accuse che i cittadini, sollecitati dalla garanzia di
segretezza e da consistenti premi pecuniari, cominciarono a presentare
contro lambertazzi non censiti, o persone che avevano infranto il bando
e il confino 19. Un ufficio speciale del tribunale fu destinato all’ammini-
strazione dei beni dei banditi. A questo ufficio si affidò la scrittura
degli elenchi di possessi, e si attribuì la competenza sulle cause civili
generate dai sequestri 20. Contemporaneamente alla schedatura dei ban-
diti procedeva infatti quella dei loro beni. Dapprima sulla base delle
dichiarazioni d’estimo precedenti al bando e delle denunce richieste alle
autorità preposte alla loro raccolta, i terreni dei lambertazzi furono sti-
mati affinché i loro frutti liberassero il comune dai debiti con i presta-
tori che negli anni precedenti avevano finanziato la disastrosa guerra
con Venezia. Una buona parte di questi debiti, peraltro, fu cancellata
poiché i creditori erano stati identificati come lambertazzi. Dal 1275 al
1277, mentre le operazioni volte a censire e a punire i lambertazzi non
banditi segnavano il passaggio da un bando contingente a un progetto
di maggiore portata, si compilavano grandi libri ordinati alfabeticamen-
te, in cui erano elencati i beni dei banditi, affinché fossero affittati (nel
caso dei terreni) o venduti per essere distrutti (case e alberi) 21.
Grazie alla scrittura di elenchi di banditi e confinati e di liste di beni
dei banditi, e alla riforma del tribunale del capitano del popolo incarica-
to di amministrare i vari aspetti dell’esclusione, nei primi tre anni suc-
cessivi alla cacciata il comune e il « popolo » di Bologna, non senza l’aiu-

18 Milani, Il governo delle liste.


19 V. Capitolo IX.
20 V. Capitolo VIII.
21 V. Capitolo IX.

Capitolo 5.pmd 188 09/11/2009, 16.26


BOLOGNA 1274-1277. LA PARTE ESCLUSA 189

to di alcuni magistrati forestieri inviati direttamente o meno dalla corte


angioina, trasformarono l’esclusione dei lambertazzi in una grande occa-
sione di riscossa politica ed economica. La cacciata dei nemici politici e
le operazioni che ne seguirono acquisirono l’aspetto di un progetto lun-
gimirante sostenuto in primo luogo dal ceto notarile in cui era confluita
la porzione politicamente più consapevole del populus di Bologna.
Il breve rientro dei lambertazzi, avvenuto tra settembre e dicembre
del 1279 per effetto della pacificazione tentata dal legato pontificio
Bertoldo Orsini, non modificò il sistema instaurato due anni prima. A
tale rientro si opposero con vigore tutti i gruppi che avevano investito
sulla cacciata dei lambertazzi: i magnati geremei, raccolti in una parte
istituzionalizzata, alcune delle società del popolo più radicali (come i
beccai e i drappieri), la Società della Croce, un organismo politico-
militare che proprio in tale occasione fa una fugace apparizione nella
documentazione comunale, ma il cui nome richiamava l’omologa com-
pagnia parmigiana che aveva sostenuto il primo regime popolare-an-
gioino 22. Tutte queste organizzazioni si coalizzarono per stornare i ten-
tativi di Bertoldo, facendoli naufragare definitivamente in occasione della
morte di papa Nicolò IV, zio del legato. A partire dall’agosto del 1280
il sistema dell’esclusione ricominciò quindi a funzionare. Gli elenchi di
condannati e di beni stilati nel 1277 vennero aggiornati, soprattutto
sulla base dei rientri individuali e dei giuramenti di fedeltà alla parte
geremea che la crisi del 1279 aveva favorito, e si produssero nuove
liste 23. L’ufficio ai beni dei banditi ricominciò ad annotare i suoi elen-
chi sulla base dei nuovi affitti dei terreni e a promuovere nel consiglio
del popolo le messe all’incanto (sempre destinate alla locazione) degli
appezzamenti non ancora sfruttati. Nella curia del capitano si condu-
cevano periodicamente le inquisizioni generali nel corso delle quali i
responsabili delle parrocchie urbane erano interrogati sulla presenza di
banditi e confinati in città 24; si inviavano notai nelle località di confino
affinché registrassero l’effettiva presenza dei condannati; si istruirono
processi, soprattutto sulla base di denunce di cittadini, per i reati di
appartenenza alla parte lambertazza, di favoreggiamento, di infrazione
del bando e del confino 25.

22 Su questi avvenimenti v. Fasoli, la pace del 1279, e Fasoli, Guelfi e Ghibellini

in Romagna. Sulle loro ripercussioni regionali Vasina, I Romagnoli. Sulla società della
Croce v. ora Pini, Manovre di regime.
23 V. Capitolo VII.
24 V. Capitolo VIII.
25 V. Capitolo VIII.

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190 GIULIANO MILANI

Negli anni in cui questo sistema funzionò, e cioè dal 1279 al rien-
tro dei lambertazzi patrocinato da Bonifacio VIII nel 1299, il controllo
dei ghibellini subì alcuni adattamenti e modifiche. In un primo mo-
mento l’esclusione di una quota consistente dell’aristocrazia e lo sfrutta-
mento dei suoi beni contribuirono assieme a una serie di altri fattori a
risollevare Bologna dalla stagnazione del decennio precedente. Negli anni
Ottanta del Duecento la città visse la fase più intensa dell’egemonia del
popolo sul comune e del rilievo politico della società dei notai 26. In
tale contesto Bologna, lungi dal divenire un regime « accentuato » sotto
la guida della pars geremea, promosse l’emanazione di nuovi e più cir-
costanziati ordinamenti antimagnatizi, gli Ordinamenti Sacrati del 1282
e quelli Sacratissimi del 1284. Nel 1288 si compilò un nuovo statuto
del comune e del popolo 27. In questo statuto confluirono molte norme
contro i nemici politici, ma esso divenne anche la sede in cui furono
inseriti e dotati di maggiore stabilità i provvedimenti presi per attenua-
re o adattare la portata dell’esclusione.
A favorire la progressiva attenuazione dell’esclusione concorrevano
differenti elementi. La società bolognese manifestò una complessiva re-
sistenza alle istanze più repressive e di parte, e la espresse negli organi
deliberativi e giurisdizionali di cui nel corso del Ducento si era dotata,
attraverso meccanismi consentiti dalle procedure mediatorie e negoziali
del comune « popolare », che il bando del 1274 non aveva modificato.
Dal punto di vista normativo, acquisì un ruolo determinante la possibi-
lità di sottoporre al consiglio del popolo proposte relative ai differenti
aspetti della persecuzione (procedure giudiziarie, revocabilità dei bandi,
modalità di sfruttamento dei beni), solitamente giustificate con la neces-
sità di perfezionare il sistema e di risolvere gli inconvenienti derivati
dalla sua applicazione 28. I lambertazzi inoltre, o i loro patrocinatori,
furono di fatto dotati della possibilità di presentare petizioni ai consigli
cittadini, in cui chiedevano revisioni delle condizioni penali, permessi
temporanei, deroghe di vario genere. Dal punto di vista giurisdizionale,
la sede deputata al mantenimento dell’esclusione, ossia la curia del ca-
pitano del popolo, lungi dall’elaborare procedure inquisitorie rigide,
continuava a privilegiare il sistema accusatorio, in virtù del quale gli
accusati, non senza l’ausilio di numerosi sapientes ben disposti a fornire

26 Pini, Magnati e popolani a Bologna.


27 Statuti di Bologna del 1288
28 V. Capitolo VIII.

Capitolo 5.pmd 190 09/11/2009, 16.26


BOLOGNA 1274-1277. LA PARTE ESCLUSA 191

consilia favorevoli, riuscirono nella maggior parte dei casi a ottenere


l’assoluzione 29. Altri sapientes cittadini provvidero a rispondere favore-
volmente alle richieste di derubricazione presentate all’ufficio dei beni
dei banditi da geremei o da parenti dei banditi in grado di dimostrare
i propri diritti sui beni sequestrati 30.
Tutti questi fenomeni, che, come cercheremo di dimostrare, non
vanno letti quali distorsioni del sistema dell’esclusione, ma piuttosto
come caratteristiche intrinseche al sistema stesso, resero necessaria una
prima revisione completa delle liste, che avvenne nel 1287 ad opera
di una commissione di sapientes cittadini, e diede luogo alla scrittura
di un nuovo registro di banditi e confinati notevolmente ridotto ri-
spetto a quello precedente. La scrittura di questo nuovo elenco appa-
re improntata al principio per cui i banditi lambertazzi che avessero
deciso di rientrare sottoponendosi agli ordini del comune (ad mandata
comunis, secondo un formulario che si è già incontrato e si incontrerà
spesso), potessero farlo, a patto – ma non sempre – di rimanere al
confino, di prestare opportune garanzie, di impegnarsi a pagare le
tasse e a non ricoprire incarichi politici 31. La stessa logica fu seguita
in maniera ancora più massiccia dal 1292, e ricondusse in patria nu-
merosissimi esuli32. Il grande afflusso dei rientri e la naturale con-
fluenza di molti lambertazzi, specialmente di coloro che avevano subi-
to le pene più lievi, nel novero dei cittadini politicamente attivi, con-
dussero alla fine del sistema dell’esclusione inaugurato dalla cacciata
del 1274. Per alcuni anni, tuttavia, mentre Bologna si trovava impe-
gnata in una nuova guerra lacerante contro la signoria estense, non si
sancì ufficalmente la fine dell’esclusione dei lambertazzi, ridotti ormai
a gruppo scarsamente significativo, benché ancora in guerra contro la
città. Solo nel 1299 l’estenuato regime bolognese accettò un lodo cal-
deggiato da Bonifacio VIII in cui si prevedeva il definitivo rientro
della pars esclusa.
I differenti aspetti della ritorsione del comune contro i lambertaz-
zi saranno l’oggetto dei prossimi tre capitoli, dedicati rispettivamente
alla compilazione delle liste, alla giustizia e all’economia dell’esclusio-
ne bolognese. Nei prossimi paragrafi si cercherà invece di fornire

29 V. Capitolo VIII.
30 V. Capitolo IX.
31 V. Capitolo VII.
32 V. Capitolo VII.

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192 GIULIANO MILANI

un’idea del gruppo coinvolto da questa duratura esclusione per enu-


clearne alcuni caratteri originali capaci di incidere in profondità sulla
vicenda dell’esclusione stessa. Dapprima ci si soffermerà sul nocciolo
duro della pars esclusa, quello formato dai casati magnatizi, per se-
guirne il ruolo politico e la configurazione sociale nel corso delle tre
generazioni precedenti a quelle colpite nel 1274, le stesse generazioni
di cui si è trattato in una prospettiva comparativa nei capitoli secon-
do, terzo e quarto. Si passerà quindi a esemplificare, attraverso alcuni
casi più facilmente ricostruibili, i livelli di prestigio e di ricchezza dei
lambertazzi così come appaiono degli elenchi di beni sequestrati e
dalle liste dell’appartenenza all società di popolo. Si passerà infine
all’analisi del coinvolgimento dei lambertazzi nella pars così come lo
si può desumere dalle pene che subirono. Come si cercherà di mo-
strare, infatti, il comune provvide a colpire con pene più gravi i citta-
dini più attivi nella militanza, mentre riservò misure più blande ai
semplici simpatizzanti.

2. Il nucleo magnatizio della parte

Con l’eccezione delle liste fiorentine confluite nel Libro del Chiodo,
le fonti trattate nel capitolo precedente non consentono di capire quan-
te e quali persone subirono l’esclusione in questi anni. A Bologna que-
sta possibilità è offerta dalla presenza di un notevole numero di elenchi
superstiti in originale e in copia. Come si è accennato e si potrà segui-
re più distintamente nel prossimo capitolo, tra questi elenchi spicca per
completezza e antichità un registro compilato nel 1277 che riporta poco
meno di quattromila menzioni di cittadini maschi adulti censiti come
appartenenti alla pars lambertatiorum, la parte ghibellina bolognese ban-
dita nel 1274.
La cifra è notevole, paragonabile – anche se più ampia – a quella
desumibile dalle liste fiorentine 33. Essa va interpretata tenendo conto
che poco più di un terzo delle menzioni si riferisce a banditi, cioè a
cittadini privati di tutti i diritti, mentre un altro terzo è relativo ai
confinati fuori città, e poco meno di un altro terzo a confinati in città,
obbligati ad allontanarsi solo in caso di ordine del capitano del popolo.

33 Che sono circa tremila come risulta dai dati contenuti in Il Libro del chiodo

sottoposti alle considerazioni svolte nel Capitolo V.

Capitolo 5.pmd 192 09/11/2009, 16.26


BOLOGNA 1274-1277. LA PARTE ESCLUSA 193

Ma anche con queste precisazioni la quantità dei colpiti resta grande,


considerando che Bologna all’epoca poteva avere cinquantamila abitanti,
di cui circa dodicimila erano cittadini maschi adulti politicamente attivi.
Il fatto che nel giro di poco tempo il bacino di reclutamento dei con-
sigli comunali si possa essere ridotto di un terzo, in virtù della non
eleggibilità dei lambertazzi anche condannati alle pene più lievi, è di
per sé significativo. Da un lato, consente di capire come il sistema
dell’esclusione dell’epoca tenne conto del fortissimo incremento della
partecipazione politica che si era registrato nell’ultima generazione. Dal-
l’altro, permette di immaginare che esclusioni come questa vennero a
ridisegnare radicalmente, e secondo parametri nuovi, l’insieme dei par-
tecipanti alle istituzioni.
Per quanto riguarda la qualità delle persone colpite, il discorso è
più complesso. Uno studio prosopografico su quattromila menzioni è
improponibile. Occorre cercare indizi che consentano di scremare la
parte esclusa e isolarne il vertice, il ristretto gruppo aristocratico che
caratterizza storicamente la pars e la comanda nel momento dell’esclu-
sione. A questo fine si rivelano utili le due liste già menzionate di
magnati costretti a recarsi temporaneamente al confino, scritte nel 1271
e nel 1272 nel corso degli scontri che culmineranno nella cacciata34. A
queste due liste va aggiunto un frammento di registro compilato nella
primavera del 1274 durante gli scontri che condussero al bando35. In
esso sono riportati i precetti emanati dal podestà affinché alcuni cittadi-
ni delle due parti si recassero al confino per aver avuto una parte
attiva durante il conflitto e consente di aggiungere altre due famiglie
all’elenco.
Nella seguente tabella sono riportate le famiglie magnatizie lamber-
tazze così come appaiono dallo spoglio della lista del 1271 (A); del
1272 (B) e dai precetti del 1274 (C).

34 ASBo, Comune, Governo, Riformagioni dei consigli minori, vol. I, reg. A+, cc.
13v e 38v. La seconda lista riporta 40 nomi elencati in due gruppi di 20 che, come
risulta evidente da un confronto con gli elenchi di lambertazzi scritti a partire da due
anni dopo, corrispondono anch’essi alle due parti cittadine. Nelle prima lista i nomi
sono invece divisi per quartiere di residenza, ma la delibera che ne decretò la redazio-
ne stabiliva che vi fossero riportati 25 magnati « pro qualibet parte »; l’analisi dei nomi
illuminata dalla restante documentazione anteriore e posteriore al bando, mostra che
l’indicazione fu rispettata.
35 Il testo, conservato in ASBo, Accusationes, b. 1, reg. 1274, è edito in Savioli,

Annali Bolognesi, III, II, pp. 465-470.

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194 GIULIANO MILANI

Tabella 1 – Famiglie e singoli individui lambertazzi attestati nei documenti del


1271, 1272 e 1274.

Famiglia Individui Fonti

Accarisi Ardicio (A, B); Bencevenne (B) A, B


Albari Minus Soldani (A); Aldrevandinus (A) Sol- A, B
danus (B)
Andalò (<Carbonesi) Castellanus (A, B) A, B
Asinelli Petrus (A); Iacobus Auliverii (B) A, B
Baisio Girardus (A, B); Maius (B) A, B
Boccacci (<Lambertazzi) Gullelmus (A) A
Boccaderonco Iacobinus Guidonis (A) A
Carbonesi Petrus Bergadani (A); Uspinellus (A); Pe- A, B
trus Arriveri (B)
Curioni Guillelmus Ugolini (A) A
Fratta Gruamons (A, B) A, B
Gisso Laigonus (A, B) A, B
Guarini Fulco Arriverii (A), Petronius (A) A
Guezzi Montanarius Nevi Ranieri (A) A
Lambertazzi Castellanus Fabri (A, B); Bonifacius Bulga- A, B
rini (A); Rozinus (B)
Maccagnani Gualterinus (B) B
Magarotti Fredizonus (C); Scannabiccus (C); Thoma- C
xinus (C); Laurentius (C); Nicola (C); Bran-
ca (C) Iacobus (C); Borghettus (C)
Orsi Siripere (A); Angelellus (C); Guglielmus A, C
Angelelli (C); Misottus (C); Guidottus Mi-
sotti (C); Benvenutus (C); Apollonius (C)
Pizoli Aldrevandinus Iacobi (A) A
Pizzigotti Iacobus (C) C
Principi Bartolomeus (B) B
Ramiximi Parisius (A) A
Rustigani Simon Armanini (A); Pax (A) A
Scannabecchi Scannabiccus (A; B); Castellanus Piperati (A) A, B
Uguccioni (<Guarini) Ugutio Guidoni (B) B

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BOLOGNA 1274-1277. LA PARTE ESCLUSA 195

Proviamo innanzitutto a verificare, grazie alla prosopografia elabora-


ta da Nicolai Wandruszka, quali posizioni avevano ricoperto nel comu-
ne consolare i bisavoli dei personaggi che un secolo dopo vennero iden-
tificati come magnati di parte lambertazza. A quanto risulta, alcuni dei
lignaggi che abbiamo isolato appartenevano allora alla stessa domus. In
tal modo i 25 casati si riducono a 22 36. Tra questi la metà, 11 lignaggi,
sono attestati tra i consoli prima del 1194 37. Tutti questi casati 38 posse-
devano torri 39 e molti anche parrocchie private in città 40.
Sebbene la tradizione erudita, a cominciare da Savioli, sia prodiga
nell’attribuire a molti casati titoli e giurisdizioni, una semplice verifica
sulle fonti accessibili e sulla stessa ricerca di Wandruszka mostra che, a
questa altezza cronologica (seconda metà del XII secolo), per la mag-
gior parte dei lignaggi che stiamo prendendo in considerazione non vi
sono tracce né della detenzione di diritti signorili sul territorio, né del-
l’inquadramento in una rete di rapporti vassallatico-beneficiari 41. Il de-

36 Gli Andalò non si erano ancora distaccati dai Carbonesi, cosa che avverrà
solo con Andalò di Pietro di Lovello Carbonesi, attestato tra 1202 e 1222, padre del
magnate Castellano. Wandruszka, Die Oberschichten Bolognas, p. 353. Sulla genealo-
gia degli Andalò v. anche Cristiani, Una vicenda dell’eredità matildina, pp. 294-296. I
Boccacci non si erano separati dai Lambertazzi, dal momento che trassero la loro
origine da Ardicio Lambertazzi, « qui dicitur Boccatius », attestato tra 1194 e 1234, e
quindi ascrivibile alla stessa generazione di Andalò (Wandruszka, Die Oberschichten
Bolognas, p. 364). Gli antenati dei Boccaderonco infine erano ancora attestati come
Guarini, dalla quale si separarono negli stessi anni (Wandruszka, Die Oberschichten
Bolognas, p. 325).
37 Sono Accarisi, Albari, Asinelli, Carbonesi, Fratta, Guarini, Lambertazzi, Orsi,

Ramisini, Rustigani e Scannabecchi. Diverso risulta tuttavia il loro peso in termini di


incarichi. I Carbonesi risultano i più attivi (8 incarichi), seguiti dagli Asinelli (7), quin-
di dai Guarini (4). Altre tre famiglie (Albari, Lambertazzi e Orsi) sono attestate con 3
incarichi ognuna, gli Accarisi con 2, tutti gli altri con un solo incarico Wandruszka,
Die Oberschichten Bolognas, pp 269-279.
38 Eccettuati gli Accarisi e i Ramisini, ma potrebbe trattarsi di una lacuna nella

documentazione.
39 Dai dati ricavabili da Gozzadini, Delle Torri, pp. 60; 95; 184; 242; 318; 328;

461; 463.
40 Le eccezioni sono Asinelli, della Fratta, Orsi e Ramisini. Nella documentazione

duecentesca sono censite come cappelle cittadine: S. Matteo degli Accarisi, S. Nicolò
degli Albari, S. Giovanni dei Carbonesi, S. Lorenzo dei Guarini, S. Tecla, S. Vito e S.
Michele dei Lambertazzi, S. Maria dei Rustigani, S. Dalmasio degli Scannabecchi. Su
questi aspetti v. Fasoli, Appunti sulle torri, cappelle gentilizie e grandi casate.
41 Difficile risulta per esempio aderire all’ipotesi di un titolo vicecomitale all’origi-

ne degli Accarisi. Wandruszka, Die Oberschichten Bolognas, p. 286 ipotizza l’identità di


Accarisius f. Lamberti de Curte, capostipite degli Accarisi, console nel 1162 con Acari-

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196 GIULIANO MILANI

nominatore comune di queste famiglie appare piuttosto la presenza nel-


la milizia urbana e la pratica del diritto connessa a un’attiva partecipa-
zione politica nella città e fuori. Si tratta di elementi già visibili in
questa generazione, ma ancora di più in quella successiva, negli uomini
che nacquero attorno al 1170 e agirono nel primo comune podestarile
tra l’ultimo decennio del XII secolo e il terzo del XIII.
Nella nuova generazione, che segnò per alcuni lignaggi il distacco
di alcuni importanti rami (Andalò, Boccacci, Boccaderonco, Uguccioni),
è possibile notare come molti esponenti di queste famiglie esercitino la
professione di giudice e ricoprano incarichi di console di giustizia o di
miles iustitiae, mentre i loro congiunti sono frequentemente attestati nei
consigli cittadini, nei patti con i comuni circonvicini e cominciano (o
continuano) a esercitare incarichi come podestà in altri comuni 42. Meno

sius vicecomes Galerie, ma non sembrano esserci sufficienti elementi di prova, dato che
il nome Accarisius era piuttosto diffuso. Così come non sembra probante, per conferire
una valenza signorile ai Carbonesi, il fatto che essi abbiano stretto un patto per la
costruzione di una torre con i da Vetrana, « capitanei » inurbati del paese omonimo,
anche nel caso in cui tra i due casati fossero avvenuti matrimoni. Un’ipotesi, quest’ul-
tima, largamente accettabile e indirettamente confermata dall’esistenza nelle generazioni
successive di un ramo della famiglia Carbonesi attestato come « Iacobi Bernardi », ori-
ginato probabilmente dalla linea cognatizia con i Da Vetrana (Gozzadini Delle Torri,
pp. 523-525). Solo per la famiglia della Fratta, attestata in precedenza a Ferrara, è
possibile affermare che concesse nel 1189 una terra in feudo ad un ferrarese, ma il
titolo che nel contratto è riportato (Henrico de Frata, nobili cive Bononie) non sembra
provare che si trattasse di signori (Wandruszka, Die Oberschichten Bolognas, p. 306). E
un’analoga situazione sembra caratterizzare gli Storlitti. La menzione di un contratto
con cui un membro di questa famiglia infeuda una vigna a Talgardo degli Ariosti è in
Ranieri Perusini Summa Totius Artis Notarie, p. 57. Il primo membro testimoniato è
Sturtilictus, riscossore dei dazi per il comune nel 1195, e i cui figli compaiono nei
patti con Firenze e con la Romagna (Savioli, Annali Bolognesi, II, 2, pp. 189, 365,
373) Il loro profilo professionale si precisa nella generazione successiva, a partire da
Piperata, da cui deriva una stirpe di giuristi.
42 Non si tratta di una novità per i Carbonesi, il cui antenato-fondatore Witerno

di Carbone appare come iudex già nel 1116 nel contesto del patto tra il comune di
Bologna e Enrico V (Simeoni, Bologna e la politica Italiana di Enrico V, p. 149), o il
cui esponente Uspinello si reca per il comune di Bologna a trattare nel 1185 con
Federico I (Savioli, Annali Bolognesi, II, 2, p. 142). In questa fase tuttavia simili atte-
stazioni si fanno più frequenti. Uspinello continua a svolgere missioni diplomatiche per
il comune, così come i suoi congiunti Pietro di Lovello e Timone, già entrambi consoli
e ora membri del consiglio cittadino (Savioli, Annali Bolognesi, II, 2, pp. 148, 198,
213, 241, 365, 395). I loro figli ne proseguono l’attività, come Dotto di Timone, con-
sole di giustizia, inserito nel consiglio cittadino nel 1203, procuratore del comune l’an-
no successivo e nuovamente attestato nel consiglio maggiore nel 1216 e nel 1219 e in

Capitolo 5.pmd 196 09/11/2009, 16.26


BOLOGNA 1274-1277. LA PARTE ESCLUSA 197

impegnate all’estero, ma saldamente insediate nelle istituzioni cittadine e


nell’esercizio di carriere giuridiche, sono altre famiglie di ascendenza

quello di credenza nel 1220 (Savioli, Annali Bolognesi, II, 2, pp. 158; 243; 256; 366;
438). I figli del console Maio Carbonesi, ucciso nell’esercizio della carica podestarile a
Rimini, nel 1206 si accordano con quel comune per un risarcimento di 800 lire. Uno
di loro, Alberto, già ufficiale della Curia del comune nel 1199, risulta presente in
alcune paci giurate dal comune di Bologna con Reggio e Rimini, rispettivamente nel
1203 e nel 1206, e, assieme ai fratelli, nel 1216 (Savioli, Annali Bolognesi, II, 2, pp.
216; 241; 279; 373). Membri del consiglio appaiono anche Bartolomeo, Arriverio, Egi-
dio, Azzolino. Godescalco è console di giustizia nel 1208 e nel 1212 (Savioli, Annali
Bolognesi, II, 2, pp. 297; 329). Bulgarino, Enrigettus, Carboncellus e Madiolinus, Pipi-
nus e Simoncinus sono nel consiglio maggiore nel 1229 (Savioli, Annali Bolognesi, III,
2, p. 94).
Secondo Jean Louis Gaulin nel periodo 1194-1250 i Carbonesi (assieme a Lamber-
tazzi e Buvalelli) sono tra le pochissime famiglie bolognesi a ricoprire più di 10 incari-
chi podestarili (Gaulin, Ufficiali forestieri bolonais, p. 333). Andalò di Pietro Lovello
Carbonesi, capostipite del celebre lignaggio funzionariale, risulta aver ricoperto per il
comune la carica di podestà della montagna nel 1205 (Savioli, Annali Bolognesi, II, 1,
p. 278), nonché aver presenziaro a vari patti e sottomissioni di altre città (Savioli,
Annali Bolognesi, II, 2, p. 345; e III, 2, 31).
Egli è inoltre podestà, nel 1202 a Cesena, e durante il secondo decennio del
Duecento, a Firenze, Milano, Ferrara, Genova e Piacenza (Savioli, Annali Bolognesi, II,
1, pp. 360, 367, 386). Iacopo di Bernardo Carbonesi, forse discendente dal ramo più
vicino ai capitani di Vetrana, è anche lui un funzionario itinerante attivissimo (Savioli,
Annali Bolognesi, II, 2, pp. 271, 304, 305).
Anche i Lambertazzi, il cui cognome si comincia a trovare proprio in questa gene-
razione, procedono in parallelo con l’esercizio di incarichi podestarili e con la presenza
nelle più importanti cariche militari e politiche della città. Tra gli eredi di Guido di
Guizzardo di Lambertazzo, console, c’è Bonifacio, podestà di Padova nel 1215 e capo-
stipite del ramo principale della famiglia (Wandruszka, Die Oberschichten Bolognas, p.
336). Tra i figli di Madio, c’è Arditio qui dicitur Boccatius, consul iustitie nel 1220, che
sposa Maria figlia di Guglielmo di Gosia, nipote di uno dei quattro giuristi presenti a
Roncaglia, dando discendenza al ramo che da lui prenderà il nome di Boccacci (Wan-
druszka, Die Oberschichten Bolognas, p. 361), e Brancaleone, miles iustitie nel 1219. I
due assieme vendono nel 1201 alcune case al comune per ampliare la piazza maggiore
(Bergonzoni, Le origini e i primi tre secoli).
Assimilabili sotto il profilo dell’attività politica sono gli Asinelli e in misura mi-
nore gli Scannabecchi. Nel 1206, Alberto Asinelli, figlio di quel Munso che nel 1168
aveva rappresentato la città alla riunione della Lega Lombarda, è podestà a Brescia,
e nello stesso periodo è attestato in atti pubblici (Savioli, Annali Bolognesi, II, 1, p.
21). Ugolino, suo fratello, è console di giustizia nel 1220; Munsarello appare in una
seduta consiliare del 1216 (Savioli, Annali Bolognesi, II, 2, pp. 364-365). Zinus, è
presente assieme ad Alberto ad alcuni patti con le città romagnole (Savioli, Annali
Bolognesi, II, 2, pp. 253; 370). Tra gli Scannabecchi, che esercitano con ogni proba-
bilità la mercatura, si segnala Guido, figlio di Alberigo console, ambasciatore a Reg-

Capitolo 5.pmd 197 09/11/2009, 16.26


198 GIULIANO MILANI

consolare 43. Un dato rilevante di questa generazione degli avi di quanti


nel 1271-72 verranno censiti tra i più vecchi magnati lambertazzi è
l’inserimento nelle cariche giudiziarie comunali di un gruppo eteroge-
neo di famiglie che non avevano fatto parte del consolato. In alcuni
casi si tratta di casate discendenti da lignaggi capitaneali 44. Accanto a

gio nel 1211, e testimone nei patti con Modena (Savioli, Annali Bolognesi, II, 2,
pp. 255; 311). Arpinello, attestato nel 1216 assieme a Albrigitto e Scannabiccus, rive-
ste nei decenni successivi un incarico podestarile ad Arezzo (Savioli, Annali Bologne-
si, II, 2, pp. 366; III, 1, 14).
43 Innanzitutto gli Accarisi con Guido, console e figlio del console Accarisius, con-

sole di Giustizia nel 1198 (Savioli, Annali Bolognesi, II, 1, p. 229), con Lambertus
iudex, impegnato nella diplomazia in Romagna negli anni 1214-1218 (Savioli, Annali
Bolognesi, II, 1, p. 377; II, 2, pp. 370; 382), assieme ad un nuovo Accarisio, che
appare come consigliere anche nel 1234 (Savioli, Annali Bolognesi, II, 2, p. 150). Simi-
le la vicenda dei Guarini, famiglia di giuristi, da cui si distaccano, oltre al ramo che
origina da Boccadironco, anche quello degli Uguccioni (Gozzadini, Delle torri, p. 510).
Tra loro compaiono Rolando di Rodolfo, miles iustitie nel 1209 (Wandruszka, Die
Oberschichten Bolognas, p. 348); suo figlio Alberto, consul iustitie nel 1214 (Wandru-
szka, Die Oberschichten Bolognas, p. 354), e Arriverius, che ricopre la stessa carica nel
1220 (Wandruszka, Die Oberschichten Bolognas, p. 360). Meno attivi, ma comunque
attestati negli stessi incarichi, sono gli Orsi, con Siripere console di giustizia nel 1214
(Wandruszka, Die Oberschichten Bolognas, p. 354) e i Guezi, da cui dirameranno i
discendenti di Nevo di Raniero, presenti nelle istituzioni per la prima volta con Guezo
console nel 1193 (Wandruszka, Die Oberschichten Bolognas, p. 330).
Non ricoprono cariche « civili » legate all’esercizio della giustizia, ma sono comun-
que attestate in posizione rilevante all’interno dei consigli cittadini altre famiglie già
ben inserite nel consolato e che sembrano tuttavia presentare una tradizione cittadina
meno antica. I Rustigani, milites, con Ardizzone presente al giuramento con Reggio nel
1214 (Savioli, Annali Bolognesi, II, 2, p. 382). Gli Albari, probabilmente provenienti
dalla nobiltà rurale dei capitani di Castel dell’albero, non hanno alcun console di giu-
stizia. Wandruszka, Die Oberschichten Bolognas, pp. 348 e 352 non offre prove suffi-
cienti per collocare in questa famiglia Corvolinus e Geremia Parmexanis. Il primo sem-
brerebbe piuttosto derivare da « illi qui appellantur Corvoli », capitanei del Frignano,
su cui v. Rölker, Nobiltà e comune a Modena, p. 43. I da Fratta, come abbiamo accen-
nato, originari di Ferrara, pervengono a ricoprire la massima carica ecclesiastica cittadi-
na con Enrico, già console, poi arcidiacono, quindi vescovo a partire dal 1213. Altri
membri della stessa famiglia sono presenti nei consigli e nei patti (Savioli, Annali Bolo-
gnesi, II, 2, pp. 352, 395, 438).
44 È il caso dei da Baisio, originari del Frignano e dunque già vassalli matildici

(Rölker, Nobiltà e comune a Modena, pp. 77-80), gravitanti nei decenni precedenti tra
Modena e Reggio, dove giurarono cittadinatici, avvicinatisi poi a Bologna con Ubertus,
che nel 1195 rappresenta la città alla Lega lombarda e che tre anni dopo ricopre la
carica di miles iustitie (Savioli, Annali Bolognesi, II, 2, p. 203) Tra 1215 e 1219 è
attestato nel consiglio cittadino un Fredericus de Baysio, che nel 1220 compare anche

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BOLOGNA 1274-1277. LA PARTE ESCLUSA 199

queste famiglie entrano per la prima volta nelle istituzioni futuri casati
magnatizi che in questa fase non sembrano appartenere all’aristocrazia,
ma svolgono soprattutto attività creditizie e mercantili 45.
Come altrove, però, la generazione più importante per la formazio-
ne delle parti fu quella successiva. Per costoro, che nacquero attorno al
1200, la vita pubblica si aprì con lo scontro con Federico II e culminò
con la necessità di adattarsi alla nuova società e alle nuove istituzioni
della seconda metà del secolo, quando Bologna divenne un « regime di
popolo » forte e organizzato. Cerchiamo dunque di capire che profilo
sociale ebbero e quale attività politica svolsero le famiglie che abbiamo
seguito finora in questo passaggio cruciale, nel quarantennio in cui co-
minciò a farsi sentire più forte l’urgenza delle scelte.

nel consiglio di credenza (Savioli, Annali Bolognesi, II, 2, pp. 353; 366; 395; 437).
Altri da Baisio ricoprono incarichi diplomatici e sono presenti ai patti (Savioli, Annali
Bolognesi, II, 2, pp. 365; 373; III, 1, 71).
Simile carriera sembrano avere in questa fase i da Gesso, valvassori del castello
omonimo situato sull’Appennino bolognese, assoggettatisi nel 1164 al comune, e in
seguito inurbatisi riuscendo a mantenere un forte controllo del comune rurale. Gerar-
dino da Gesso fu incaricato nel 1219 di trattare con Federico II che aveva bandito
Bologna, pronta a combattere Imola (Savioli, Annali Bolognesi, II, 1, p. 382). Dalla
nobiltà rurale sembrano provenire anche i Maccagnani, forse caratterizzati da un lega-
me cognatizio con il ramo bolognese dei Torelli. L’ipotesi, fondata sulla presenza di
alcuni nomi tipici dei Torelli, come Salinguerra, Torello, o Pietro Torello nella genealo-
gia dei Maccagnani, è stata avanzata da Hessel, Storia di Bologna, è ripresa con alcune
cautele da Wandruszka, Die Oberschichten Bolognas, p. 338. I Maccagnani appaiono
dotati a metà del secolo XII di un diritto di ripaticum nel porto di Trecenta (Savioli,
Annali Bolognesi, I, 2, pp. 230-231). Marsiliotto dei Maccagnani è consul iustitie nel
1198, compare quindi nel consiglio cittadino nel 1203, nel 1211, nel 1216 e nel 1219
(Savioli, Annali Bolognesi, II, 2, pp. 203; 241; 293; 311; 366). In quest’ultima occasio-
ne sono con lui anche Maccagnano e Simone. Nel 1206 è consul iustitie Tommaso
(Wandruszka, Die Oberschichten Bolognas, p. 345). Nel 1222 Iacopo di Maccagnano è
miles iustitie (Wandruszka, Die Oberschichten Bolognas, p. 368).
45 È il caso dei Principi, una delle poche famiglie bolognesi studiate con accura-

tezza (Greci, Una famiglia mercantile) Attestati in documenti pubblici nel 1199 e nel
1208, dal secondo decennio del Duecento la loro presenza si fa più consistente: Barto-
lomeo compare come console dei Mercanti nel 1212 e nel 1218, mentre altri membri
della famiglia sono nel consiglio cittadino. Nel 1222 Bartolomeo diviene miles iustitie e
in seguito è presente nel consiglio cittadino anche nel 1229 e nel 1234 (Wandruszka,
Die Oberschichten Bolognas, p. 368).
Partecipano agli organi consiliari anche famiglie che per il momento non esercita-
no cariche giudiziarie per il comune, ma che al tempo stesso risultano in posizione
economicamente rilevante, come i Magarotti, anch’essi più volte nel consiglio (Savioli,
Annali Bolognesi, II, 2, pp. 189 e 421) e i Pizzigotti, che compariranno in seguito
nella società del Cambio (Pini, La società del cambio).

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200 GIULIANO MILANI

Due registri del 1248 riportano i nomi di quanti dichiararono di


possedere un cavallo e di utilizzarlo nell’esercito comunale nei quartieri
di porta Procola e porta Ravennate 46. Si tratta di una testimonianza
importante, legata a uno degli aspetti più rilevanti della milizia cittadi-
na, il risarcimento delle spese di guerra, e quindi utile per ricostruire la
composizione sociale di questo gruppo cittadino in una fase cruciale
della sua evoluzione. Tutti i magnati lambertazzi degli anni Settanta,
quando non siano registrati essi stessi, hanno i loro padri tra questi
milites della metà del secolo che, dotati di prestigio e origine differen-
te, hanno in comune il servizio a cavallo nell’esercito 47.
Rispetto a questi dati omogenei che accreditano tutti i magnati lam-
bertazzi alla milizia, il Liber Paradisus, vale a dire l’elenco dei servi
che il comune riscattò nel 1256 acquistandoli dai loro proprietari, con-
sente di differenziare al proprio interno il gruppo dei magnati lamber-
tazzi 48. Il primo dato rilevante è che complessivamente questi magnati
possiedono circa un terzo dei servi liberati a Bologna 49, e costituiscono
quindi una porzione di cittadinanza in ottima salute economica. Gran-
di tuttavia appaiono le differenze interne 50. Come peraltro risulta chia-

46 ASBo, Estimi, s. III, b. 3, reg. B (Ravennate 1248) e reg. C (Procola 1248). I


milites del quartiere di porta Ravennate sono stati ricontrollati anche in un registro del
1247 (ASBo, Estimi, s. III, b. 57, reg 3 D).
47 Gli Asinelli vi militano con otto cavalieri, gli Scannabecchi con sette, gli Accarisi

con sei, i da Baysio con cinque, così come i Principi. I Ramixini e i Carbonesi con
quattro, gli Andalò con tre, come i da Fratta, i Lambertazzi, i Maccagnani; Magarotti
con due. I Guarini-Uguccioni, i Pizzoli, i Curioni e i Guezzi con uno. Le uniche assen-
ze sono relative a quelle famiglie che risiedevano in quartieri di residenza di cui non ci
è pervenuto l’elenco dei milites: Boccadironco (Piera); da Gesso (Stiera); Orsi (Piera),
Pizzigotti (Piera); Rustigani (Stiera); Storlitti (Stiera). In generale, il dato non stupisce
per quelle famiglie che risultano attestate tra i consoli, che possono vantare una tradi-
zione risalente di esercizio del diritto, o che provengono dagli strati più alti della socie-
tà rurale, ma risulta significativo per quei casati la cui principale attività è il prestito di
danaro (come i Magarotti), il commercio (come i Principi), e soprattutto che non com-
paiono affatto nelle cariche e nei consigli della generazione precedente, come i Piccioli,
notai, o i Curioni, probabilmente in origine conciatori, ossia semplici populares.
48 Sul Liber Paradisus v. Vaccari, L’affrancazione dei servi; Simeoni, La liberazione

dei servi; Kotelnikova L’emancipazione dei servi; Pini, Un aspetto dei rapporti tra città e
territorio.
49 Il numero complessivo di servi liberati è 5855. Quelli liberati dai magnati lam-

bertazzi sono 1918, pari al 32,7%.


50 Tre famiglie consolari e i loro rami derivati hanno in mano da sole il 40% dei

servi di tutto il gruppo dei magnati lambertazzi: i Carbonesi, con il loro ramo ormai
autonomo degli Andalò, i Lambertazzi, assieme al meno facoltoso lignaggio dei Boc-

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BOLOGNA 1274-1277. LA PARTE ESCLUSA 201

ramente dalla normativa, il confronto fra l’elenco dei proprietari di


servi e quello dei cavalieri mostra come verso la metà del Duecento
nel largo gruppo dei milites pro comune vadano affiancandosi, accanto
all’aristocrazia consolare, famiglie di antica tradizione urbana che non
godono di grandi ricchezze fondiarie, e popolani di precoce ascesa, in
quanto ben presenti già da una generazione nelle istituzioni, ma che
non hanno ancora investito le loro ricchezze nell’acquisto di porzioni
consistenti di terra, o almeno in quello di servi. La maggiore consape-
volezza « di parte » che questa generazione presenta rispetto a quella
dei suoi padri si coglie bene analizzando non tanto la loro partecipa-
zione ai conflitti civili, troppo mediata dalle cronache per essere credi-
bile, quanto i loro incarichi podestarili, che li mostrano ben attivi nel
circuito filoimperiale 51.

cacci, e gli Albari, che rispetto a queste stirpi sembrano possedere un’origine rurale.
Le segue, ben distanziato, un gruppetto di altre famiglie dell’aristocrazia consolare po-
liticamente molto attive anche nella generazione procedente: i Guarini, e il loro ramo
degli Uguccioni, gli Accarisi, i da Fratta, i Ramisini e gli Scannabecchi. Sullo stesso
livello si collocano famiglie di inurbazione più recente, non presenti nel consolato, e
delle quali sembra più probabile l’esercizio di poteri signorili, come i da Gesso e i da
Baysio. Fin qui niente di sorprendente. Più rilevante il fatto che altri lignaggi cittadini,
ben attestati nel consolato nonché negli incarichi politico-diplomatici della prima metà
sel secolo appaiono possedere un numero di servi sensibilmente inferiore: si tratta de-
gli Orsi, dei Rustigani e degli Asinelli, che sembrano essere nella stessa condizione di
famiglie di tradizione meno antica, ma comunque dotate di competenze giuridiche (Nevi
Ranieri, cioè Guezzi; Storlitti) o di piccole porzioni di diritti signorili (Maccagnani,
forse anche gli Storlitti). I futuri magnati di origine popolare (Principi, Magarotti, Cu-
rioni, Pizzigotti) o chiudono il gruppo detenendo pochissimi servi.
51 Oltre alle podesterie che Carbonesi, Lambertazzi e Andalò ricoprono nelle città

della lega ghibellina toscana, occorre ricordare che nel 1255 a parlamentare a Roma
per la liberazione di Brancaleone Andalò, tenuto prigioniero dai baroni della città,
viene inviato Oliviero degli Asinelli, i cui figli sarebbero stati compagni dei figli di
Brancaleone nella militanza lambertazza (Savioli, Annali Bolognesi, III, 1, p. 283). Il
fatto che proprio quei legami tra domus che si stabilizzano negli anni cinquanta assu-
mano valore nelle relazioni internazionali del comune è poi testimoniato dalla già men-
zionata serie dei podestà di Modena. Per la parte « filoimperiale » modenese ricoprono
l’incarico sempre « padri » dei magnati lambertazzi: nel 1249 Bonifacio di Castellano
Lambertazzi; nel 1251 Loderigo Andalò; nel 1252 Iacopo Buglioni Lambertazzi; nel
1253 Oliviero Asinelli, nel 1254 Fabbro di Bonifacio Lambertazzi; nel 1257 Pellegrino
da Baysio; nel 1258 Arimondo di Giacomo di Bernardo Carbonesi. Nel 1252, mentre
Oliviero Asinelli regge Modena per la parte filoimperiale dei Graisolfi, il suo congiun-
to Filippo governa per conto degli Aigoni, antiimperiali. Si tratta del primo segno
della scissione intrafamiliare tra i due rami degli Asinelli: quello principale, che sarà
geremeo, e quello di Oliviero, i cui figli si schiereranno con i lambertazzi.

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202 GIULIANO MILANI

All’indomani del bando che la escluse da Bologna, la parte lamber-


tazza censita si estendeva ben oltre i trentaquattro casati magnatizi su
cui abbiamo cercato di raccogliere alcuni elementi salienti. Nell’elenco
del 1277 gli uomini che provenivano da questi casati, ripartiti tra le
pene loro assegnate, costituivano a malapena il 10% delle persone sche-
date. Per comprendere in che modo il restante 90% fosse confluito
nella fazione occorre estendere l’analisi e provare a utilizzare le liste di
lambertazzi posteriori alla cacciata.

3. Livelli di prestigio e di ricchezza

La fonte più importante per cogliere alcune caratteristiche dell’enor-


me gruppo di persone che nel Liber dei banditi e confinati del 1277
vennero identificate come lambertazze è il Liber stesso 52. Come si è
accennato, esso contiene poco meno di quattromila menzioni di perso-
ne condannate al bando e alle quattro categorie di confino 53. Come
vedremo più accuratamente nel prossimo capitolo, le menzioni (indivi-

52 Il Liber del 1277 è conservato in ASBo, Elenchi, vol. III, reg. II. Esso è mutilo
delle prime carte, relative ai banditi, e ai confinati delle prime tre categorie del quar-
tiere di porta Piera. Per queste menzioni occorre quindi ricorrere a una copia. In
Milani, Il governo delle liste, p. 224, avevamo scelto, in base a ragioni di leggibilità la
copia contenuta in ASBo, Elenchi, reg. I. Con il progredire della ricerca, ci siamo
accorti che questa copia, che ritenevamo affidabile, è in realtà più incompleta di quella
contenuta in ASBo, Elenchi, vol. III, reg. I, cc. 67r-117v, che presenta 54 menzioni in
più. Per questa ragione, e poiché questa altra copia, a differenza di quella precedente-
mente selezionata, presenta la specificazione della condizione penale di tutte le menzio-
ni, abbiamo deciso di assumerla come copia più affidabile. A causa di questa scelta la
cifra totale di 3907 menzioni , riducibile, una volta eliminate le ripetizioni a 3895
differisce lievemente da quella di 3841 da noi proposta in quella sede.
53 Si tratta per la precisione di 3907 menzioni di cui 58 sotto la forma compren-

siva « omnes de domo ... » (relativi a uno stesso cognome) o « omnes filii ... » (relativi
a uno stesso padre). Altre 156 sono individuali ma specificano, per mezzo dell’aggiunta
« et filii », o « et fratres » che la pena viene estesa anche ai parenti nominati. La metà
di queste menzioni collettive risulta tuttavia, a una lettura ravvicinata, pleonastica: in
altre parole, i nomi dei parenti sottintesi dalle menzioni collettive appaiono anche come
menzioni individuali. Un piccolissimo gruppo (12 menzioni) è infine rappresentato da
persone che compaiono sotto differenti cappelle, spesso vicine, ma condannati alla stessa
pena, e che vanno pertanto eliminate dal totale (Il governo delle liste, p. 224). Vista la
loro relativamente scarsa rilevanza sul totale e le notevoli difficoltà di separarle, soprat-
tutto nel confrontare differenti liste, d’ora in avanti le menzioni collettive e quelle
individuali verrano considerate assieme.

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BOLOGNA 1274-1277. LA PARTE ESCLUSA 203

duali e collettive) relative ai condannati al bando e al confino sono


ripartite per quartiere e per parrocchia di residenza. L’indicazione del
quartiere fornisce già alcuni elementi utili: le quasi quattromila « poste »
sono distribuite in maniera piuttosto ineguale. La porzione più consi-
stente dei condannati, il 39%, risiede nel quartiere di porta Ravennate,
il meno esteso di Bologna, i cui confini sono costituiti, al centro della
città, dal lato orientale della Piazza, a nord dalla Strata Sancti Vitalis, a
ovest dalla Strata Castilionis. Una porzione meno consistente di lamber-
tazzi, il 27%, abita nel confinante quartiere di porta Procola, a cui
afferisce la zona sudoccidentale della città, delimitata ad est dalla Strata
Castilionis, a nord dalla strata sancti Felicis. Nel quartiere di porta Pie-
ra, situato a nord-est e delimitato a sud-est dalla Strata sancti Vitalis e
a ovest, all’incirca, dall’attuale via Indipendenza, risulta abitare una quota
simile, il 22% dei condannati, mentre nel quartiere di porta Stiera, che
si estende a nord-ovest, inglobando una porzione minore di centro,
abita soltanto il 12% dei lambertazzi censiti 54. Si tratta di dati difficil-
mente interpretabili alla luce degli studi disponibili. È vero che a que-
sta altezza cronologica appare tra queste zone una differenziazione di
tipo economico-sociale che vede la ricchezza e il prestigio aristocratico
maggiormente concentrati nel quartiere di porta Ravennate e meno pre-
senti in quello di porta Stiera. Una simile caratterizzazione corrisponde
bene ai dati sulla distribuzione dei lambertazzi, più alta nel primo quar-
tiere e più bassa nell’ultimo. Si tratta però di considerazioni troppo
generiche perché possano essere utilizzate da sole al fine di trarne indi-
cazioni sulle caratteristiche sociali della larghissima pars lambertaciorum.
Più utile risulta da questo punto di vista l’analisi della distribuzione
nelle parrocchie. Servendosi della metodologia e dei dati elaborati da
Antonio Ivan Pini in uno studio sulla distribuzione topografica degli
artigiani e poi da Roberto Greci in una ricerca sulle matricole dei no-
tai 55, è possibile distinguere tutte le parrocchie bolognesi in quattro
zone concentriche, delimitate dalle tre cerchie murarie che scandirono

54 Sui confini dei quartieri cittadini v. Pini, Le ripartizioni topografiche urbane.

Una confinazione leggermente differente è proposta in Bocchi, Bologna, ma è corretta


dallo stesso Pini in Un prefabbricato rosa.
55 Pini, La ripartizione topografica; Greci, Professioni e « crisi » bassomedievali. Si

tratta di due studi che, per la loro rilevanza, sarebbe stato importante incrociare con i
dati sui lambertazzi forniti dal Liber del 1277, cosa che tuttavia non è stato possibile
fare se non in parte, poiché si basano entrambi su documenti posteriori alla cacciata e
che quindi rendono conto di una situazione in gran parte modificata dallo stesso ban-
do del 1274.

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204 GIULIANO MILANI

nel corso del medioevo l’espansione della città: si ricava in tal modo
una prima zona, corrispondente alla piccola porzione di centro circo-
scritta dalle mura altomedievali e dalla sua addizione longobarda, cioè
l’area imediatamente circostante la Piazza e la zona che collega la Piaz-
za alle attuali « due torri »; una seconda zona situata tra la prima e la
seconda cerchia, la cerchia dei torresotti del XII secolo; una terza zona
tra questa e la cerchia di mura del XIV secolo, visibile negli attuali
viali di circonvallazione; e una quarta zona esterna ad essa. Come spie-
ga Greci, « le 99 cappelle cittadine sono variamente ripartite sul territo-
rio urbano giàcché nel nucleo più antico, in poco spazio, si addensano
ben 34 parrocchie, 40 nella seconda fascia, 20 nella terza e solo 5 oltre
l’ultimo giro della cinta urbana » 56. Tenendo conto della forte relazione
esistente tra residenza nel centro, antichità della famiglia e prestigio
sociale, l’analisi delle parrocchie appare quindi come un indicatore no-
tevolmente più solido rispetto a quella dei quartieri.
I dati relativi alla ripartizione delle 3895 attestazioni effettive di
lambertazzi indicano che nella zona più centrale sono attestate 392
menzioni (10% del totale), nella seconda zona 2032 (52%), nella ter-
za 1235 (32%); nella quarta soltanto 214 (5,5%). Il restante 0,5%è
costituito dalle 22 attestazioni che i notai trascrissero sotto la rubrica
cappella ignota 57.
Come si può notare, la grande maggioranza dei condannati risiede
tra la prima e la terza cerchia di mura, in particolare nella zona situata
tra la prima e la seconda, in cui abita più della metà dei lambertazzi.
Quest’ultima è l’area in cui si sono stabilite le famiglie e gli individui
inurbatisi fino al XII secolo e in cui tende con ogni probabilità a con-
fluire anche l’immigrazione più recente che preferisce e ha la possibilità
di oltrepassare la zona dei burgi (zona 3). Piuttosto scarsa appare la
presenza di lambertazzi nelle parrocchie più periferiche (zona 4), e meno
consistente di quello che ci si potrebbe attendere dal censimento di
una parte « aristocratica », è il dato relativo alle parrocchie più antiche
e centrali, anche se va ricordato che la presenza demica complessiva,
visto lo spazio (soltanto 21 ettari), non poteva essere molto estesa.
In questa zona, ripartita tra le parrocchie, quasi tutte gentilizie, che
si affacciano sulla Piazza, in cui ha sede il comune, e nelle sue imme-
diate vicinanze, sono raggruppate innanzituto le case, quasi sempre do-

56Greci, Professioni e « crisi » bassomedievali, p. 716.


57Per i dati sulla distribuzione nelle singole cappelle v. Tabella generale delle con-
dizioni penali e delle cappelle pubblicata in Appendice.

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BOLOGNA 1274-1277. LA PARTE ESCLUSA 205

tate di torri, delle famiglie già definite come lambertazze e al tempo


stesso magnatizie prima della cacciata, vale a dire la maggior parte di
quei lignaggi di cui abbiamo seguito le vicende politiche lungo il corso
del Duecento 58. È significativo che le cifre più alte di banditi e confi-

58 La più alta presenza di colpiti dalle condanne di questa zona si registra nella
cappella di S. Matteo degli Accarisi, posta all’estremità orientale della zona, verso la
Porta Ravennate. In questa parrocchia, alle relativamente poche menzioni relative al
lignaggio che detiene il patronato (9), si affiancano quelle ben più numerose (35) dei
membri della famiglia Principi, come abbiamo visto non altrettanto antica, non inserita
nel consolato, ma ben attiva sin dai primi anni del Duecento nella societas mercatorum,
e quindi nelle istitutizioni del comune podestarile. I Principi sconfinano nella cappella
di S. Dalmasio, intestata a un’altra famiglia magnatizia lambertazza: gli Scannabecchi,
che vi convivono accanto agli eredi del vescovo podestà di ottant’anni prima: i Gisla.
Allo stesso livello di presenza lambertazza si trova la cappella di Nicolò degli Albari,
dove la famiglia patrona, probabilmente detentrice di poteri nel contado, è presente
con i suoi diversi rami: i da Castello e i Corvolini. Segue, in ordine decrescente, con
30 lambertazzi, la parrocchia di S.Maria dei Carrari, situata dietro al lato orientale
della Piazza, intestata a un’altra famiglia di fortuna risalente almeno all’ultimo venten-
nio del XII secolo (Savioli, Annali Bolognesi, I, 2, p. 158). ma non censita tra quelle
magnatizie del 1271-72. Qui i Carrari vivono accanto ai Curioni, di origine molto più
recente, ma che evidentemente avevano praticato uno stile di vita, e un coinvolgimento
nei conflitti interni, passibile della censura antimagnatizia. Registra un ventina di colpi-
ti S. Vito, una delle parrocchie in mano alla famiglia Lambertazzi che controlla diretta-
mente l’angolo sud-orientale della Piazza, avendo a disposizione, oltre a questa, anche
le cappelle di S. Tecla, situata dove nel secolo successivo sorgerà la basilica di S.
Petronio, nonché quella di S. Michele, sul lato est, dove abita il loro ramo dei Boccac-
ci. I membri della famiglia Lambertazzi del resto sono ben presenti anche sul fronte
opposto della Piazza, con il ramo dei Mulnaroli, che risiede nella cappella di S. Anto-
lino. Allo stesso ordine di grandezza, per presenza di condannati, è ascrivibile la par-
rocchia di S. Tecla di Portanuova, non gentilizia, ma abitata dai Guezzi, che vi posseg-
gono una torre. E così la parrocchia di S. Simone e Giuda, dove abitano altri Accarisi
oltre ai Guarini; quella di S. Maria dei Gudescalchi, ove sono i da Baysio. Lievemente
inferiori quanto a numero di lambertazzi sono altre tre cappelle tutte attestate con 16
colpiti: S. Maria della Chiavica, S. Martino dei Caccianemici, S. Michele del Mercato,
tutte situate in una fascia lievemente più esterna rispetto alla Piazza e in alcuni casi di
proprietà di famiglie leader dello schieramento geremeo, come appunto i Caccianemici.
Anche le altre cappelle di questa prima zona con poche eccezioni sembrano registrare
un numero vieppiù inferiore di condannati, a mano a mano che ci si allontana dalla
Piazza verso le zone esterne della cerchia più antica: a est, la porta Nuova, a nord gli
isolati posti a settentrione della via Emilia, sui quali era stato l’antico palazzo imperiale
e ancora si trovava la cattedrale di S. Pietro, a sud verso le cappelle attigue a quella
insula dei Galluzzi, probabilmente la famiglia più prestigiosa tra quelle magnatizie ge-
remee, di cui la torre e la corte sono ancora ben visibili. È interessante che proprio in
questa zona di parrocchie strettamente controllate dalle famiglie si situino ben otto
delle nove cappelle cittadine di cui grazie ad altre fonti conosciamo l’esistenza, ma che

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206 GIULIANO MILANI

nati si trovino proprio nelle cappelle di cui hanno il giuspadronato le


domus magnatizie 59.
Per farci un’idea dei possessi in città e in campagna dei casati ari-
stocratici lambertazzi che abitano questa prima zona, ci possiamo basa-
re solamente su una fonte parziale: il registro dei beni sequestrati posti
nel quartiere di porta Ravennate, sia in città, sia nel contado. Di que-
sto registro tratteremo ampiamente nel Capitolo nono, ma vale la pena
anticipare che, in virtù del suo stato di conservazione, esso costituisce
una fonte particolarmente affidabile. È d’altra parte ovvio che non può
essere assunto come una fonte completa, poiché recensisce soltanto i
beni posti in uno dei quattro quartieri del contado. Occorrerà mante-
nere quindi una certa prudenza: molte famiglie che da questa fonte
risultano avere pochi terreni li possedevano con ogni probabilità in altri
quartieri del contado.
È evidente, a esempio, che non possiamo ritenerci soddisfatti dal-
l’unica menzione di una casa posta a Medicina, detenuta in compro-
prietà da tre membri della famiglia Accarisi, che probabilmente aveva-
no in altri quartieri del contado il loro raggio d’azione 60. Capace di
maggiore approssimazione alla realtà complessiva, anche se anch’esso
sicuramente non esaustivo, appare l’insieme delle proprietà dei Principi,
caratterizzato da un’elevata produttività 61. Di dimensioni quantitativa-

non compaiono nel nostro registro poiché non vi abita nessun individuo identificato
come lambertazzo.
59 Si tratta di S. Maria Rotonda dei Galluzzi, S. Bartolomeo in Palazzo, S. Catal-

do, S. Ippolito, S. Maria dei Bulgari, S. Maria di Castello. Ma v. Fasoli, Appunti sulle
torri, cappelle gentilizie e grandi casate.
60 Il riferimento alla casa degli Accarisi a Medicina si trova in ASBo, Beni, vol.

VI, c. 25v. Come è probabile che si situassero lontane da altri possedimenti le terre
detenute da Soldano Albari in località Camaldoli, vale a dire presso Ponte Maggiore
(ASBo, Beni, vol. VI, c. 68v), o anche quelle di Pietro dei Curioni a Fossole, consi-
stenti in qualche ettaro di canneto, una casa e una vigna (ASBo, Beni, vol. VI, c. 58r).
I sedici ettari di proprietà dei Guarini, anzi del loro ramo degli Uguccioni, posti a
Fiesso e a Castenaso, lungo il corso del Savena (ASBo, Beni, vol. VI, cc. 41r; 46r),
potrebbero essere l’appendice registrata nel quartiere di porta Ravennate di più ampi
possessi che si estendevano in quello di porta Piera.
61 Esso comprende varie case e varie torri nella cappella di S. Dalmasio, altre in

quella di Matteo degli Accarisi, le beccarie situate al livello stradale delle stesse case,
alcune quote della beccaria magna ad esse attigua, nonché quindici casamenta, vale a
dire terreni edificabili, situati nella periferica parrocchia di S. Giuliano, in prossimità
del luogo dove sorgerà la terza cerchia di mura, alla fine della strada di Santo Stefano,
affittati a privati per 20 lire ognuno. Anche l’insieme delle proprietà rurali, che com-
prende quindici ettari di vigne, altrettanti di arativo, e un esteso bosco a Medicina,

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BOLOGNA 1274-1277. LA PARTE ESCLUSA 207

mente superiori appaiono i possedimenti, mantenuti però a colture meno


intensive, della famiglia Lambertazzi 62. Complessivamente si delineano
due atteggiamenti differenti rispetto alla gestione del patrimonio fondia-
rio e più in generale dell’attività economica delle famiglie coinvolte:
uno maggiormente teso allo sfruttamento e alla diversificazione, che ca-
ratterizza domus come i Principi o gli Scannabecchi, non presenti o
presenti pochissimo nel consolato e dotate di un numero inferiore di
servi nel 1256; l’altro legato a possessi economicamente meno redditizi,
anche se più estesi, caratterizzati da una forte presenza di incolto.
Ma le casate magnatizie non sono le sole ad abitare nella zona di
più antico popolamento della città. Sebbene i personaggi ascrivibili ed
esse, ai loro rami o ad altre domus di cui è attestato almeno il possesso
di una torre, costituiscano complessivamente più della metà dei banditi
e dei confinati 63, l’altra metà è costituita da persone più difficilmente
analizzabili in quanto mai studiate e quasi sempre prive del cognome.
Una prima sgrossatura di questo gruppo di « anonimi » ci consente co-
munque di affermare che almeno un terzo può essere identificato per

lascia supporre una strategia diversificata di investimenti economici del danaro ricavato
dall’attività mercantile (ASBo, Beni, vol. VI, cc. 5v; 6r; 32r-v; 47r-v; 48r; 56v; 69v; 70r.
Ma sulle proprietà fondiarie dei Principi v. anche Greci, Una famiglia mercantile nella
bologna del Duecento).
Simile risulta l’assetto proprietario degli Scannabecchi, che vede quattro case, di
cui alcune turrite, nella loro parrocchia di S. Dalmasio, una in quella attigua di S.
Maria in Solario e un’altra più distante, nella parrocchia di S. Biagio, nella stessa zona
di investimento praticata dai Principi con i loro casamenta, simile anche nella pluralità
di colture e di appezzamenti, che complessivamente contano dieci ettari di vigna, tre-
dici di arativo e tre di prato (ASBo, Beni, vol. VI, cc. 7r; 32v; 37v: 62r; 66v; 68r; 70r-
v; vol VIII, reg. 6, c. 9r).
62 ASBo, Beni, vol. VI, c. 6v; 18v; 19r-v; 20r-v; 21r-v; 22r; 36r-v; 56r; 58r; 75r; vol

VIII, reg. 6, c. 41v; 48v; 49r. Complessivamente contano una casa con torre nella
parrocchia di S. Remedio, altre due a S. Tecla, e altre cinque a S. Vito. Nella guardia
civitatis e nella zona di campagna immediatamente esterna alla città possiedono alcune
vigne, a cui affiancano, più lontano, grandi quantità di terreno a Medicina (119 ha) e
a S. Martino in Argile (46 ha), e in altre zone per un totale di circa 200 ha, di cui
tuttavia solo 10 coltivati a vigna, 75 arativo, 7 a prato, altri 2 a incolto e ben 109 di
bosco. È evidente che, almeno a giudicare dal quartiere per cui disponiamo di questi
dati, si tratta di una gestione notevolmente meno produttiva di quella praticata da
famiglie economicamente più dinamiche come i Principi.
63 I personaggi riferibili ai casati analizzati nel precedente paragrafo sono 148 (pari

al 37% dei 392 lambertazzi censiti nella prima zona), che, assieme a quelli che pro-
vengono da altre famiglie aristocratiche dotate di cognome, ma non censite nel 1271-
72 e nel 1274 come magnati di parte lambertazza, costituiscono il 51% del totale.

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208 GIULIANO MILANI

mezzo della professione, e che un altro 5%, circa, può essere invece
identificato attraverso un toponimo di provenienza. Anche questi « ano-
nimi » che abitano nella zona più centrale della città sembrano costitu-
ire un gruppo socialmente medio-alto. Tra i professionisti vi sono figure
prestigio: sette medici e tre speziali, otto sarti, altrettanti beccai, cinque
notai. Anche tra quei personaggi che sono identificati attraverso il nome
di una località, di cui pertanto è possibile supporre la recente immigra-
zione, la maggioranza proviene da altre città più o meno vicine piutto-
sto che da località del contado, e si tratta di città che lasciano suppor-
re attività economiche come il credito, la mercatura, e in un caso
anche il commercio della lana: dominano infatti Firenze, Reggio, Par-
ma 64. In questa zona, infine, anche gli individui designati con toponi-
mo del contado sembrano appartenere alle classi più facoltose della
società rurale 65.
Nella seconda zona si concentrano, come abbiamo già accennato,
più della metà dei lambertazzi censiti. Le cause che concorrono a spie-
gare una prevalenza così forte sono varie, ma tra queste due sembrano
potersi isolare rispetto alle altre: la maggiore presenza demica rispetto
alla prima zona, inferiore di circa sei volte per estensione, e la residen-
za di alcune tra le famiglie magnatizie più potenti in seno alla fazione
lambertazza. È per esempio proprio in queste cappelle, situate appena

64La presenza fiorentina si ha nelle cappelle di S. Michele del Mercato dove si


trova Neri fratris Vani Lanerii de Florentia nonché in quelle di S. Maria della Baron-
cella, S. Maria dei Carrari, S. Ambrogio, S. Maria della Chiavica. I reggiani risiedono a
S. Sinesio, S. Ambrogio, S. Pietro del Vescovato. I parmigiani si ritrovano a S. Tecla
di Portanuova, S. Antolino, S. Maria della Chiavica.
65 Un esempio per tutti è dato da Soldaderius de Liglano, proveniente dal picco-

lo centro collinare di Liano, e ben integrato in città, dal momento che risulta, nello
stesso 1274, iscritto alla società territoriale dei Rastrelli (ASBo, Matricole, b. 1, reg.
1, c. 1r). Dal libro dei beni sequestrati del 1277 egli risulta possedere nel solo
quartiere di porta Ravvennate, dove si trova il suo paese d’origine, un totale di più
di 190 ha di terreno (ASBo, Beni, vol. VI, c. 64r-v; 65r-v; 66r-v; 67r-v). Questo
« sconosciuto » viene così a collocarsi, per estensione del patrimonio posseduto in
questo quarto del territorio controllato dal comune, allo stesso livello dell’intera fa-
miglia Lambertazzi. Le terre di Soldaderius, a differenza di quelle della famiglia citta-
dina, risultano inoltre concentrate in un’area piuttosto ristretta, posta nelle pertinen-
ze di Liano e dei due comuni vicini di Casalecchio dei Conti e di Castel San Pietro,
con una piccola quota allibrata sotto il comune di Varignana, appena più distante. E
grande risulta la qualità e la varietà nel tipo di colture, che comprendono per lo più
l’arativo (101 ha) e l’arativo misto ad altre coltivazioni come la vigna, l’incolto, il
prato (in tutto 50 ha); ma anche la vigna da sola (3 ettari); il prato (15ha); l’incolto
(10 ha) e il bosco (altri 10 ha).

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BOLOGNA 1274-1277. LA PARTE ESCLUSA 209

al di fuori del primo giro di mura, che abitano i Carbonesi, gli Andalò,
larga parte dei da Baysio, quei lignaggi cioè che sin dalla fine degli
anni Cinquanta – a giudicare dal patto del pubblicato da Savioli 66 –
sono attestati, a fianco della famiglia Lambertazzi, alla guida della pars
cittadina che da questi ultimi prende il nome. L’enorme numero di
condannati che risultano risiedere in quest’area appare così il risultato
di una convergenza tra la capacità manifestata da alcuni casati nel co-
struire relazioni politicamente significative con i loro vicini di parroc-
chia e lo spessore quantitativo del gruppo di cittadini, non magnati,
coinvolti in queste relazioni. L’importanza di questo aspetto risulta bene
dai dati relativi alla presenza di individui definibili come « magnati »:
mentre nella prima zona il 37% delle attestazioni riguarda personaggi
riconducibili alle domus magnatizie di parte lambertazza e un altro 14%
si può attribuire ad altre famiglie che, pur non essendo censite tra i
magnati del 1271, 1272 e 1274, vantano comunque il possesso di una
torre, per un totale di menzioni « aristocratiche » del 51%, in questa
seconda zona tali menzioni non ammontano che al 14%, con solamente
il 4,5% che fa parte della famiglie magnatizie « ufficiali » prima della
cacciata. Ciò significa che attorno al gruppo numericamente piccolo rap-
presentato dalle famiglie che già abbiamo osservato si era stretto un
insieme di persone grande più di sei volte tanto, che sicuramente, come
attestano le stesse condizioni penali su cui ci soffermeremo nel prossi-
mo paragrafo, esprimeva a livelli diversi la propria solidarietà, ma al
punto da essere comunque coinvolto nella punizione.
L’enorme numero dei colpiti non consente di proseguire l’analisi dei
lambertazzi censiti sul totale delle attestazioni, come abbiamo fatto os-
servando la prima zona, ma rende necessario isolare un campione signi-
ficativo. Ci atterremo qui ai lambertazzi residenti in alcune parrocchie
che continueremo ad analizzare nel corso dei capitoli seguenti 67. La
prima è la cappella gentilizia di S. Giacomo dei Carbonesi, situata al-
l’incrocio tra la via S. Mamolo e il trebbio dei Carbonesi (attuali via
d’Azeglio e via Carbonesi). In uno spazio non troppo esteso si affianca-
no qui le case della famiglia Carbonesi e quelle della famiglia Andalò,
da essa derivata. Si tratta di domus note in tutta l’Italia comunale per
l’attività dei loro membri come ufficiali forestieri particolarmente com-

66 V. Capitolo V, par. 2.
67 Si tratta delle parrocchie di S. Giacomo dei Carbonesi, S. Giovanni in Monte,
S. Michele del Lebbroseto, S. Vitale, che sono incluse nel campione che abbiamo
scelto di isolare. Su questo campione v. Capitolo VII.

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210 GIULIANO MILANI

petenti. Accanto a queste case si trovano quelle della famiglia da Bay-


sio. Come abbiamo visto in precedenza, se per quest’ultima casata sem-
bra più probabile un’origine rurale e signorile, i tratti più significativi
dei Carbonesi e dei loro rami derivati (Andalò, Bergadani, eredi di
Giacomo Bernardi) sono l’antica presenza in città, l’altrettanto risalente
presenza nella milizia, il pieno inserimento nel consolato, la tradizione
di competenze giuridiche che si esplicano prima nell’esercizio di cariche
pubbliche legate alla giustizia (iudex, consul iustitie, miles iustitie) e in
seguito proprio nell’esercizio di ambasciate e podesterie.
Il possesso di diritti e giurisdizioni, che non sembra attestato per il
periodo più antico, comincia tuttavia ad apparire, a esempio per gli
Andalò, verso la metà del Duecento, configurandosi quindi più come
il punto di arrivo di un’affermazione sociale che come un antichissimo
retaggio. A queste caratteristiche l’analisi del libro dei beni sequestrati
del 1277 consente di aggiungere anche un notevolissimo possesso fon-
diario 68. Il profilo possessorio degli Andalò, l’unica famiglia magnatizia
residente nella seconda zona per la quale possiamo farci un’idea non
troppo incompleta, sembra assimilabile per tipo di colture e di accura-
tezza negli investimenti a quello di famiglie di più recente prestigio o
legate all’esercizio della mercatura, come i Principio o gli Scannabec-
chi. Rispetto a queste famiglie, tuttavia, il patrimonio degli Andalò è

68 ASBo, Beni, vol. VI, c. 3v; 15r-v; 16r-v; 17r-v; 72v; 73v; 75r; vol VIII, reg. 6, c.
28r-v; 29v Nel solo quartiere di porta Ravennate, che non è il loro quartiere di resi-
denza, gli Andalò posseggono 22 tra case e terreni edificabili, e beni fondiari per un
totale di più di 149 ettari. Si tratta di terreni differenti, posti in zone anche distanti
tra loro. Gli Andalò hanno possessi a Ponte Maggiore, a Ronchoveto, a Farneto, posti
nelle vicinanze della città tra l’Idice e il Savena; a Bixano, una località nella montagna
vicino a Monterenzio, dove hanno altri terreni, a Casalecchio dei Conti, e a Varignana,
sulla collina, a Cazzano e a Ozzano, in pianura. Con un’estensione media di 3 ha, in
cui l’arativo occupa la parte preponderante (più dell’80%), ma quote non indifferenti
(ognuna, circa il 4%) hanno la vigna, il prato, il bosco, e la coltura mista (arativo-
vigna; arativo-bosco). Si tratta inoltre di terreni gestiti oculatamente, dal momento che
l’incolto ne costituisce una percentuale non quantificabile, ma bassa, e che in alcune
zone, come a Cazzano, sulla riva sinistra del Savena, o a Ozzano nell’Emilia, i singoli
appezzamenti afferiscono a « poderi », vale a dire a grandi aziende agricole. Accanto a
questi beni fondiari gli Andalò risultano possedere, oltre alle case in cui abitano, an-
che alcune abitazioni poste a Ponte maggiore, nella circla civitatis, che concedono in
affitto a privati. Sull’uso del termine « podere » nel bolognese a quest’altezza cronologi-
ca, che non indica una azienda assimilabile al podere toscano, ma una di maggiori
dimensioni e non legata alla coltura promiscua, v. Gaulin, Les terres des Guastavillani,
pp. 51 e ss.

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BOLOGNA 1274-1277. LA PARTE ESCLUSA 211

quantitativamente molto superiore e include al tempo stesso un grup-


po di abitazioni concesse in affitto nell’estrema periferia della città, e
diritti signorili di recente acquisizione come quelli sulla pieve di S.
Maria di Gisso, ottenuti grazie al matrimonio di Brancaleone Andalò,
padre dei banditi del 1277, con Iacoba erede della famiglia Samaritani
(una domus che si schiererà con i geremei), a cui erano stati concessi
dal vescovo di Pisa 69. Tra i grandi possessori di queste fasce interme-
die della città sono poi attestati alcuni casati provenienti dagli strati
più alti della società rurale, che, essendo indentificati ancora per mez-
zo del toponimo di provenienza, è possibile supporre di immigrazione
relativamente recente 70.
Ma, come abbiamo notato, la caratteristica di questa seconda zona
rispetto alla prima è il fatto che le famiglie magnatizie, o le grandi
famiglie del contado che tendono ad assimilarsi ad esse, costituiscono
una quota nettamente minoritaria dei lambertazzi censiti. Lo si può
ricavare bene dall’analisi ravvicinata di due parrocchie: S. Giovanni in
Monte, situata al confine tra il quartiere di porta Procola e porta Ra-
vennate, tra la strada di Castiglione e la strada Maggiore, e S. Michele
dei Leprosetti, posta nel settore delimitato dalle vie S. Vitale e S. Stefa-
no, in un punto appena più esterno rispetto alle due cappelle che si
affacciano sulla porta Ravennate, cioè sull’area delle attuali « due torri ».
In queste due parrocchie non mancano alcuni nomi noti, come i Cla-
rissimi, una stirpe di giuristi cittadini attestata fin dal secolo XI, o

69 Cristiani, Una vicenda dell’eredità matildina nel contado bolognese.


70 È il caso della famiglia dei Castel’ de’ Britti, evidentemente originaria dell’omo-
nima località della collina a sud-est della città, sulle rive del medio corso dell’Idice,
che nella loro parrocchia hanno il numero di menzioni più alto di tutta la seconda
zona, soprattutto in virtù di quanti sono attestati come de Castrobrittonum e dunque
ascrivibili all’omonima consorteria. A costoro, di cui sono documentati rapporti di pa-
rentela, sono ascrivibili complessivamente 121 ettari di terra nel quartiere di porta
Ravennate, per lo più concentrati nella località di provenienza e nelle zone immediata-
mente limitrofe, costituiti da un 43% di arativo, da un rilevante 40% di prato, e da
un 12% di vigna (ASBo, Beni, vol VI, c.1r-v; 2r; 6v; 7r-v; 26r-v; 27r; 36r; vol VIII,
reg. 6, c. 58r). Meno facoltosi, ma egualmente collocabili alla fascia medio-alta delle
famiglie provenienti dal contado, sono i Calamoni di Budrio, non a caso residenti nella
porzione più periferica della seconda zona, in prossimità del burgum Sancti Vitalis. Essi
detengono a Budrio un totale di 17 ettari di terreno, di cui il 70% arativo (ASBo,
Beni, vol VI, c. 29v; 44v; 45r; vol VIII, reg. 6, c. 4r). I Castel de’ Britti vennero
presentati dall’autore del Serventese dei lambertazzi e dei geremei, ma più in generale
dalla cronachistica trecentesca come una delle famiglie di spicco della parte lambertaz-
za. V. ad esempio Il Serventese dei Lambertazzi e dei Geremei, p. 89.

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212 GIULIANO MILANI

alcuni membri del ramo lambertazzo degli Asinelli, ma si tratta di una


netta minoranza. Il resto dei censiti appartiene a casate popolari di
varia origine e provenienza. Un gruppo relativamente consistente è co-
stituito da 15 mercanti, che da soli rappresentano più dell’8% dei lam-
bertazzi residenti in queste parrocchie 71.
In generale i mercanti lambertazzi residenti in questa seconda zona
presentano un profilo economico minore rispetto ai tenutari dei grandi
banchi, come quello dei Principi, pur essendo a essi collegati e appa-
rendo nelle loro staciones in veste di apprendisti o anche di soci. Quei
casi che sono illuminati dal registro dei beni sequestrati nel quartiere di
porta Ravennate ci mostrano un possesso fondiario molto ridotto, an-
che se magari diversificato, segno di una quantità di capitale destinato
a questo tipo di investimento sostanzialmente scarsa 72.

71 Grazie alla matricola della loro società scritta nel 1274 anteriormente alla cac-

ciata, siamo in grado di sapere che essi afferiscono a cinque staciones (banchi) diffe-
renti (ASBo, Matricole, b. 1, Società dei mercanti, cc. 1r-4v). Tre di questi banchi,
quello dei Principi, quella di Guglielmo da San Giorgio e quella di Iacobus Bernardini,
sono tenute da proprietari residenti nella zona più centrale. Il banco dei Principi è
composto da 8 soci e 8 servientes (apprendisti). Tra i primi, 6 risultano scritti negli
elenchi di lambertazzi mentre due (membri della famiglia de Lamandinis) non lo sono.
Tra i servientes ben 7 risultano lambertazzi. Nel banco dei de Sancto Georgio appaiono
5 soci (di cui 4 lambertazzi) e 11 servientes (di cui 10 lambertazzi). Nel banco, ancora
più ridotto, di Iacobus Bernardini, i soci sono due (e solo Iacobus è censito come
lambertazzo), i servientes 5 (e tra questi solo uno risulta lambertazzo). Altri due sono
in mano a tenutari che abitano in queste stesse parrocchie: si tratta della stacio di
Rolando Benvignoni, e di quella di Consilius Bolnisini, due personaggi che danno lavo-
ro oltre a parenti stretti anche a persone dotate di differente cognome, come un mem-
bro della famiglia Cavalli, i cui familiari sono attestati come drappieri, e come mercan-
ti che afferiscono ad altri banchi, o Leonardus de Fortesonaglo, che ha un fratello
notaio. La stacio di Consilius Bolnisini è composta da cinque soci (di cui 4 lambertaz-
zi), che appartengono alla famiglia di Consilius e a quella dei Blanchi Superbe, e da
due servientes (di cui solo uno lambertazzo).
72 Valga a titolo di esempio il caso del già citato Consilius Bolnisini, che sembra

possedere soltanto la casa in cui abita, un orto e alcune vigne poste nella circla civita-
tis, per un totale di poco più di 6 ettari (ASBo, Beni, vol VI, cc. 22v, 23r). Di
maggiore peso sembra essere il patrimonio dei Foscardi, una famiglia di mercanti tenu-
taria di un banco e distribuita tra la seconda e la terza zona, che risultano avere nello
stesso quartiere, oltre alle proprie case, un totale di 46 ettari di terreno, di cui il 76%
di arativo e il resto distribuito tra vigna e prato (ASBo, Beni, vol VI, c. 46v, 55r; 63r;
76r). Il fatto che tutte le terre si trovino a Budrio tuttavia, assieme ad altri fattori (non
è presente nelle istituzioni cittadine della prima metà del secolo), è spiegabile in due
modi non necessariamente incompatibili: i Foscardi potrebbero essere stati una famiglia
di proprietari terrieri del contado che trovò nell’esercizio della mercatura in città una

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BOLOGNA 1274-1277. LA PARTE ESCLUSA 213

Proprio per le differenze economiche e sociali che è dato rinvenire


al suo interno, la società dei mercanti sembra in ogni caso stagliarsi
come uno dei canali principali in cui si formò la rete di relazioni che
sosteneva la parte lambertazza. Essa infatti, più di altri ambiti profes-
sionali, metteva in comunicazione famiglie e individui dotati di differen-
te prestigio e ricchezza. Nelle singole staciones confluivano soci e ap-
prendisti che risultano risiedere in zone differenti della città, che si
trovavano in tal modo a condividere trasversalmente fedeltà « clientela-
ri » e programmi politici. La società dei mercanti ebbe una componente
lambertazza più consistente rispetto ad altre società professionali, quan-
tificabile nel 43% dei suoi membri, e questo si spiega con ogni proba-
bilità per la crisi che la mercatura bolognese attraversava negli anni
Settanta a causa della concorrenza dei mercanti fiorentini, sostenuti dal-
le relazioni privilegiate con il regno di Sicilia. Fu forse la rivalità con i
toscani che spinse i mercanti bolognesi a rompere con il tradizionale
« antiimperialismo » bolognese e a osteggiare l’adesione alla politica ita-
liana di Carlo d’Angiò.
Molto meno chiara appare la situazione dei lambertazzi cambiatori,
dal momento che non sono conservate le matricole della società ante-
riori alla cacciata e che risulta dunque difficile attribuire con precisione
l’esercizio di attività finanziarie e creditizie ai personaggi banditi e con-
finati. L’impressione ricavabile dall’analisi di alcune famiglie che sicura-
mente svolsero una simile attività, è che a questa altezza cronologica
non vi fossero tra i lambertazzi i maggiori esponenti della società del
Cambio. Quando si trovano nomi di cambiatori attivi, il controllo delle
loro proprietà fa ipotizzare che attraversassero una fase di decadenza
economica 73.

fonte di guadagno, oppure una famiglia che derivò in un primo momento le sue entra-
te principali dal commercio e che in seguito reinvestì il capitale in un acquisto di terra
concentrato in una zona, anzi in un solo comune rurale. Più probabilmente giocarono
entrambi i fattori e l’origine rurale della famiglia mercantile pesò nell’orientarne gli
acquisti. La stacio dei Foscardi è composta da 13 soci, tutti della famiglia e tutti
lambertazzi, e da nessun serviens.
73 Nel quartiere di porta Ravennate Tommasino Magarotti, cambiatore di una cer-

ta rilevanza sembra possedere soltanto due case, una nella terza zona, nella parrocchia
di S. Maria in Torleone, un’altra a ridosso della prima cerchia di mura, in quella di S.
Bartolomeo di porta Ravennate (ASBo, Beni, vol VI, c. 70r). Nel contado, da alcuni
affondi condotti sugli altri registri frammentari di beni sequestrati, sembra che siano in
possesso di questa famiglia solo alcune vigne in prossimità della città. Simile la situa-
zione dei Tonsi e di altri cambiatori noti, come i Tettalasina, come vedremo destinati a
rientrare e a ricoprire un ruolo importante nel regime di popolo. In questo caso però

Capitolo 5.pmd 213 09/11/2009, 16.26


214 GIULIANO MILANI

Al di là di alcune affinità, legate tuttavia alla singola famiglia, è


dunque possibile affermare che nel contesto della loro società i presta-
tori « ghibellini » non occupano posizioni così alte come quelle dei mer-
canti lambertazzi, né dal punto di vista politico, né da quello economi-
co. I grandi cambiatori, famiglie come i Pepoli, gli Zovenzoni, i Rodal-
di, sono attestate, e in grande rilevanza, sul fronte dei geremei.
Una certa quota di lambertazzi censiti in questa zona era poi costi-
tuita da notai. Se le persone esplicitamente definite come tali negli elen-
chi di banditi e confinati del nostro campione rappresentano meno del
2% del totale, in quanto riportano la menzione notarius solamente 84
individui sui quasi quattromila censiti, è molto probabile che fossero
notai anche altri personaggi, che tuttavia, essendo dotati di un cogno-
me o di un patronimico sufficientemente noto, risparmiarono agli esten-
sori degli elenchi la menzione del loro titolo. Anche considerando que-
sta possibilità non si può negare che rispetto ad altri gruppi professio-
nali, come quello dei mercanti, il ceto dei notai fu colpito in misura
nettamente inferiore dalla proscrizione. Si tratta di un dato importante:
nella Bologna degli anni precedenti al bando la professione notarile
costituì il principale canale di affermazione politica dei ceti medio-bassi
della società. Come ha messo in luce di recente Roberto Greci, nel
decennio 1265-1274 venivano approvati come membri della societas no-
tariorum quasi 100 notai l’anno, con una media che risulta la maggiore

la scarsezza delle proprietà potrebbe dipendere dal campione. Dal momento che costo-
ro, pur risiedendo in città anche nel quartiere di porta Ravennate, avevano la maggior
parte delle case in quello di porta Procola, è possibile che avessero la maggior parte
dei beni nello stesso quartiere del contado, per il quale l’elenco dei beni sequestrati
non è giunto fino a noi che in forma estremamente frammentaria. I Pizzigotti, che
risiedono nella cappella di San Donato in porta Piera, hanno 10 ettari di terra a porta
Ravennate, ma non è chiaro quale quota rappresenti dei loro possessi complessivi.
Fanno invece eccezione, registrando un possesso fondiario appena più consistente, i
Terrafocoli, una famiglia di mercanti-cambiatori attiva nelle istituzioni cittadine sin dal-
l’inizio del Duecento, ma non attestata tra i mercanti del 1274, residente nelle cappelle
poste attorno al tratto più centrale della via S. Vitale, che risulta avere ben 55 ettari di
terreno, tutti situati a Medexano (oggi S. Martino), una località di pianura a sud di
Medicina (ASBo, Beni, vol VI, cc. 58r; 60v; 61r-v; 62r; 69r; 70r). Per questa famiglia è
possibile avanzare un’ipotesi simile a quella che abbiamo formulato per i Foscardi:
probabilmente essa fu originaria della località in cui risulta avere i beni, e nella stessa
località reinvestì i proventi dell’attività economica svolta in città. Gaulin, Une nouvelle
source pour l’histoire de l’endettement, p. 497, segnala come i Magarotti rappresentino
nel 1250 una delle poche famiglie che presta denaro sia in città che nel contado e
come continuino ad essere tra i creditori più attivi anche nel 1270.

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BOLOGNA 1274-1277. LA PARTE ESCLUSA 215

in assoluto di tutto il periodo 1220-1284 74. Il successo di questa pro-


fessione, strettamente connesso allo sviluppo istituzionale del comune e
del « popolo », spiega, da un lato, come inevitabilmente alcuni notai
finirono nelle liste di proscrizione, ma, dall’altro, segnala anche che la
maggior parte di loro non venne coinvolta nel bando e nel confino e,
come vedremo nel prossimo capitolo, contribuì alla creazione del regi-
me popolare e geremeo. I pochi notai censiti si concentrano comunque
in questa seconda zona, dove risiedono per il 70%, a fronte di un
23% censito nella terza zona e di un restante 7% che risulta abitare
nella prima. In generale, il profilo dei loro possessi sembra essere di
norma piuttosto basso: per lo più detengono soltanto la casa in cui
abitano e al massimo qualche vigna, con quote di terra, in media, pic-
colissime, molto inferiori a quelle dei mercanti e dei cambiatori. Vi
sono eccezioni, come quella rappresentata da Nicolaus de Butrio, che
possiede, non solo a Budrio, ma anche a Fiesso e a Croara, una serie
di appezzamenti caratterizzata da una consistente porzione di prato, per
un totale di 28 ettari. Ma simili casi sono molto rari.
Con la terza zona il panorama sociale cambia nettamente. La note-
vole porzione di lambertazzi che abita al di fuori della cerchia dei tor-
resotti (32% del totale) vede una presenza aristocratica del tutto margi-
nale. Qui solo il 14% delle attestazioni rimanda a persone imparentate
con le famiglie che possiedono una torre, e solo il 4,5% risulta far
parte di quell’elite della parte costituita dai magnati lambertazzi. Si trat-
ta ovviamente della famiglie meno antiche, giunte tardivamente a far
parte di questo gruppo, come i cambiatori Magarotti. Tolti questi pochi
magnati, la porzione rimanente delle attestazioni è costituita per una
piccola quota da notai (sulle 1325 attestazioni totali, solo 20, pari
all’1,5%); e per una quota di poco superiore da alcuni mercanti, tra
cui i Foscardi (30 attestazioni, poco più del 2%), che risultano dispersi
in ben 11 compagnie differenti, intestate talvolta anche a personaggi
non censiti come lambertazzi 75. Ma il resto delle attestazioni riguarda

74 Greci, Professioni e « crisi » bassomedevali, pp. 708-720.


75 I banchi a cui afferiscono i mercanti della terza zona sono quello di Boniohan-
nes Ungarelli, lambertazzo, residente nella seconda zona; quello di Borghexanus de Ca-
vrara, non lambertazzo; quello di Caccianemicus Grilli, lambertazzo residente nella pri-
ma zona; quello di Consilius Bolnisini, lambertazzo e residente nella seconda zona;
quello dei Foscardi, che abitano sia nella seconda zona che nella terza; quella di Ge-
rardus de Corviis, lambertazzo residente nella terza zona; quelle di Guillelmus e di
Victorinus de Sancto Georgio, lambertazzi residenti nella seconda zona; quella dei da
Medicina, anch’essi lambertazzi e residenti nella seconda zona; quella di Martinus Alexi,

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216 GIULIANO MILANI

soprattutto artigiani che lavorano in tutti i settori economici (266 men-


zioni, pari al 20% del totale, riportano come elemento di identificazio-
ne un mestiere), e da individui identificati per mezzo del toponimo di
provenienza (265 menzioni). Tra questi poco illustri sconosciuti, un in-
sieme di proprietà che superi quello della sola casa si riscontra solo
occasionalmente. È il caso del pescivendolo Rolandinus che con i suoi
figli possiede 11 ettari di terra a porta Ravennate, di cui ben 7 coltivati
a vigna 76; in misura minore costituisce un’eccezione anche Raynettus da
Varignana, fabbro, le cui terre ammontano a 4 ettari complessivi, tutti
ad arativo e tutti posti nelle pertinenze della località di provenienza,
situata sulle colline tra Idice e Silaro 77. Ma la schiacciante maggioranza
risulta possedere solo la propria casa o, più spesso, neanche quella.
Una situazione simile infine, caratterizza i pochissimi lambertazzi
censiti nella quarta zona, con la differenza che qui non abita nessun
magnate, nessun personaggio inquadrabile in una famiglia aristocratica,
nessun mercante, e forse nemmeno un cambiatore. Qui la percentuale
di persone identificate esclusivamente in base al toponimo di apparte-
nenza cresce sensibilmente (dal 20% della terza zona al 30%). Per
questi e per gli altri lambertazzi che abitano la periferia della città, il
possesso è in genere rappresentato dalla sola casa. In rarissimi casi vi
sono altri beni attorno all’abitazione: Deulay de Calegata, che risiede
nella parrocchia suburbana di S. Omobono, possiede per esempio un
totale di cinque ettari di terra tra arativo, vigna e orto. Eppure anche
qui le 219 attestazioni segnalano che riuscirono ad estendersi in qual-
che forma quei legami di parte che avevano stretto gli abitanti delle
zone più interne. Non conosciamo la consistenza demografica di questa
zona in questo periodo e quindi non sappiamo quanto peso ebbe la
cacciata sulla popolazione di questa periferia urbana. A giudicare dalla
lista degli atti alle armi della parrocchia di S. Omobono, tra le poche
compilate anteriormente al 1274 e giunte integralmente fino a noi, sem-
bra che non si trattò di una porzione irrilevante: il 17% dei pedites
subì una condanna in quanto lambertazzo 78.

non lambertazzo; quella di Salvestre da Tignano, residente nella terza zona. Sebbene
numericamente poco consistenti, i mercanti della terza zona evidenziano quindi l’im-
portanza della società dei mercanti nella creazione di una rete di solidarietà politica
trasversale.
76 ASBo, Beni, vol. VI, c. 60r-v.
77 ASBo, Beni, vol. VI, c. 63r.
78 ASBo, Venticinquine, b. 7 (Procola), S. Omobono.

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BOLOGNA 1274-1277. LA PARTE ESCLUSA 217

Complessivamente dunque il profilo sociale delle famiglie e degli


individui censiti come lambertazzi risulta estremamente variegato. Sa-
rebbe del resto un’ingenuità attendersi un risultato differente da un
censimento che coinvolse più di quattromila persone. Con una simile
base furono identificati ovviamente personaggi di origine, estrazione,
fortuna molto differenti. La parte lambertazza appare in tal modo come
una parte trasversale da molti punti di vista. Essa coinvolgeva persone
ricchissime e nullatenenti, passando per una gamma infinita di variazio-
ni nel possesso: tanto i discendenti dei consoli del XII secolo quanto
gli immigrati di prima generazione; sia i residenti nelle parrocchie più
centrali, sia quanti abitavano nella periferia più estrema.
Pochi elementi caratteristici sembrano emergere a specificare meglio
questa generale eterogeneità. In primo luogo la posizione rilevante che
nella parte presentano alcuni tra i maggiori lignaggi di professionisti
della politica, coloro che esercitano gli incarichi di funzionari forestieri
nelle maggiori città dell’Italia comunale. Sebbene vi siano famiglie di
podestà e capitani del popolo anche tra i geremei, è indubbio che sono
le famiglie lambertazze (Carbonesi, Andalò, Lambertazzi) a poter vanta-
re al tempo stesso una presenza maggiore per numero di incarichi e
una tradizione più risalente di pratica del funzionariato itinerante. Sono
queste famiglie ad aver contribuito a definire, fin dal suo apparire, la
figura del podestà e sono le stesse che in questi anni Settanta del Du-
ecento hanno fornito alcuni tra i più illustri ufficiali forestieri del mon-
do comunale. Si tratta di stirpi cittadine antiche, che tuttavia, a diffe-
renza di altri lignaggi di eguale livello sociale che esercitano podesterie
all’estero, non sembrano possedere nel XII secolo diritti signorili. In
secondo luogo si nota tra i lambertazzi una diffusa e consistente pre-
senza di membri della società della mercanzia, collegati sia alle famiglie
aristocratiche sia a quelle popolari, da cui in gran parte ormai proven-
gono. Anche in questo caso si nota, se non un’assenza, almeno una
presenza nettamente minore di altri ceti fondamentali nella costruzione
del regime popolare: cambiatori e notai.
Queste due caratteristiche rivelate dal Liber bannitorum et confinato-
rum del 1277 forniscono almeno un punto di partenza per poter com-
prendere le ragioni della scelta lambertazza compiuta lentamente da una
parte del vertice sociale della società bolognese. Considerando che at-
traverso tale scelta si manifestò un’opposizione agli indirizzi emergenti
nella politica cittadina, è possibile ipotizzare che grandi podestà e mer-
canti fossero i gruppi in cui potesse più facilmente radicalizzarsi una
visione alternativa alle tendenze filoangioine di politica estera e interna

Capitolo 5.pmd 217 09/11/2009, 16.26


218 GIULIANO MILANI

che si andarono precisando a partire dal 1267. Fu forse allora che,


mentre si compiva il processo di formazione della parte lambertazza,
sul fronte opposto la convergenza di un’altra parte dell’aristocrazia ur-
bana, delle grandi famiglie di cambiatori e della società dei notai, ela-
borò il piano di inserire compiutamente Bologna nella rete guelfo-an-
gioina, anche a costo di ridurne le possibilità di espansione in Roma-
gna, e in parte il suo primato in Emilia, e di cedere definitivamente ai
mercanti fiorentini e pistoiesi le entrate del commercio in città e nel
contado. Questo sviluppo, se confermato, spiegherebbe la scarsa pre-
senza di cambiatori e notai. Ma anche nel caso in cui venisse smentito
da nuove ricerche, non toglierebbe valore alla natura podestarile e mer-
cantile del vertice della parte esclusa. Questo vertice, in cui i personag-
gi di spicco erano collegati tra loro da interessi, parentele, attività eco-
nomiche e visioni politiche, riuscì a coinvolgere dalla propria parte un
numero di persone che, stando a quanto attesta il Liber del 1277, co-
stituiva una quota estremamente rilevante della cittadinanza politicamente
attiva. È evidente tuttavia che tale coinvolgimento non si esprimeva in
maniera uniforme, ma a livelli di partecipazione differenti, che andava-
no dall’esplicito appoggio militare al sostegno politico all’interno dei
consigli e delle istituzioni, via via fino a comprendere relazioni sempre
più indirette e deboli. Per capire in che modo il grande gruppo che
finora abbiamo considerato nel suo insieme fosse organizzato al proprio
interno, occorre dunque considerare un altro importantissimo elemento
fornito dal Liber del 1277: la menzione delle condizioni penali.

4. Famiglie, individui e condizioni penali


Come vedremo approfonditamente nel prossimo capitolo, l’insieme
dei lambertazzi censiti venne suddiviso dai redattori dell’elenco del 1277
in cinque distinte condizioni penali, simili a quelle che erano state uti-
lizzate a Firenze e nelle altre città toscane nel 1267 e anche in seguito
nelle altre città del circuito « guelfo-angioino » 79. Come era avvenuto in
queste città, con la prima condizione penale, il bando, si vollero punire
sia coloro che si erano allontanati dalla città nel giugno del 1274, sia
quanti in seguito si erano mostrati disobbedienti agli ordini loro impar-
titi dalle autorità comunali 80. Con le altre tre categorie, quelle del con-
fino, vennero condannati a risiedere in luoghi più o meno distanti dalla

79 Per le attestazioni di questa suddivisione in altre città v. Capitolo V.


80 V. Capitolo V.

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BOLOGNA 1274-1277. LA PARTE ESCLUSA 219

città (fuori dal distretto, fuori dal comitato, fuori dalla città) gli altri
individui identificati come lambertazzi che non avevano manifestato una
simile disobbedienza, ma che al tempo stesso erano stati giudicati suffi-
cientemente responsabili. Con l’ultima categoria infine, quella del confi-
no di quarta condizione, o confino de garnata, vennero condannati a
risiedere in città, ma ad allontanarsene ogniqualvolta l’ordine fosse stato
loro impartito dal capitano del popolo, i lambertazzi meno responsabili.
La tripartizione tra banditi, confinati fuori dalla città e confinatide gar-
nata, fu solennemente sancita dal proemio del Liber del 1277 81.
Al di là di questa chiara relazione tra responsabilità e condizioni
penali, dobbiamo riconoscere che non possediamo informazioni su qua-
li furono i criteri concreti che ispirarono le autorità comunali e i consi-
gli speciali che procedettero a questa selezione. In altre parole, è piut-
tosto complesso cercare di stabilire in base a quali elementi un cittadi-
no venne condannato al confino di prima, seconda, terza o quarta con-
dizione. Più intellegibile appare la selezione dei banditi, poiché sappia-
mo che, anche a questa altezza cronologica, il bando continuava ad
essere giustificato sulla base della mancata presentazione in tribunale di
un accusato in seguito a una citazione. Per quanto intesa estensivamen-
te, strumentalizzata in senso politico, proprio questa motivazione venne
invocata nel giugno 1274 per attuare la prima ritorsione contro i lam-
bertazzi fuggiti a Faenza82 ed è altamente probabile che venne chiamata
in causa anche per punire quanti a partire dal 1274 erano stati identi-
ficati come lambertazzi e per questo condannati al confino, ma non si

81 Una copia trecentesca, in parte corrotta, di questo proemio è conservata in

ASBo, Archivio Lambertini, b. 1 e mi è stata segnalata da Armando Antonelli. In essa


si legge il passo: « [...] ergo edictum a popullo ut trina deberet fieri compilacio libri,
quorum unus in publico, alter in sacrario et tertius aput eiusdem populi capitaneum
consistetur. In quorum quolibet primo illorum nomina scribentur quos propter maiores
excessus perpetui pena dapnantur exillii; secundario, autem, aliorum qui vulgo confina-
ti dicuntur, qui predictorum morbi contagione dampnatorum inferti; eorum visi sunt
erroneis et nefandis actibus consensisse in tertii. In hiis omnibus continue distinctionis
ordo servetur ».
82 Nel testo del primo bando dei lambertazzi si fa esplicitamente riferimento alla

mancata presentazione. ASBo, Demaniale, S. Francesco, busta 336/5079, doc n. 204: « et


pro predictis occasionibus fuerunt cytati et requisiti per nuncios comunis Bononie de
mandato potestatis et comunis Bononie ut venirent ad mandata potestatis et ad se excu-
sandum, et non venerunt ipsi nec alii pro eis ad se defendendum et excusandum a
predictis sed venire ad eius mandata et comunis Bononie penitus contempserunt; idcirca
positi et cetera fuerunt in banno comunis Bononie et lecti et publicati in publica con-
cione super arengeria comunis Bononie de mandato potestatis et comunis Bononie ».

Capitolo 5.pmd 219 09/11/2009, 16.26


220 GIULIANO MILANI

erano presentati ai controlli dei notai inviati dal capitano 83. Dal mo-
mento che – anche su questo ci soffermeremo nel prossimo capitolo –
possediamo molte delle liste per mezzo delle quali si pervenne tra 1274
e 1277 a identificare l’insieme di lambertazzi passibili di punizione, sia-
mo in grado di ricostruire con una certa approssimazione anche chi
furono i lambertazzi banditi già nel 1274 e quanti invece lo furono
soltanto nei tre anni successivi. Si tratta di un elemento importante per
valutare la gerarchia interna della fazione esclusa, distinguendo due grup-
pi tra quanti vennero inclusi nell’elenco del 1277: un gruppo « di verti-
ce », impegnato a tal punto nei conflitti civili da allontanarsi volontaria-
mente di fronte alla sconfitta imminente; e un altro gruppo che compì
questa scelta solo in un secondo momento, dopo essere stato identifica-
to come nemico dalle commissioni deputate e, dunque, dopo aver per
un periodo più o meno lungo interagito ancora con le autorità, pagan-
do la colletta speciale che ai lambertazzi venne imposta nel 1274 o
fornendo un cavallo al comune, come separatamente lambertazzi e ge-
remei dovettero fare nel 1274 e nel 1275.
Al primo gruppo, quello dei banditi del 1274, sono riconducibili
735 attestazioni 84. Tra questi banditi della prima ora, 143 (pari al 19,7%)
sono magnati lambertazzi, cioè i membri di quelle famiglie attestate
come lambertazze nelle liste che abbiamo analizzato nel primo paragra-
fo di questo capitolo. Altri 58 (8%) sono membri di altre famiglie
importanti che, tuttavia, non appaiono nelle liste di magnati del 1271-
72. Si tratta di alcuni lignaggi cittadini non presenti nel consolato, ma
che vantano in alcuni casi giuristi e che sono tutti attestati nella milizia
del 1249, come gli Accursi, figli del famoso glossatore, i Boschetti, i
Bombelli, i Vandoli, gli Arienti, i Castel de’ Britti. Tra queste vi sono
inoltre famiglie di cambiatori, ma già iscritti come milites a metà del
secolo XIII, come i Terrafocoli, i Tettalasini, i Tonsi, e altri dediti alla
mercatura, come gli Abbati (beneficiati largamente nel testamento di
Enzo, figlio di Federico II). Infine completano il gruppo importantissi-
me stirpi di signori del contado, come il ramo lambertazzo dei conti di
Panico, detentori della più rilevante isola signorile della montagna bolo-
gnese. Tutti costoro non compongono assieme ai magnati lambertazzi
che il 28% banditi del 1274. Le rimanenti 534 attestazioni si riferisco-
no a individui e famiglie meno chiaramente valutabili. Tra questi, 120

83
Sui controlli dei confinati v. Capitolo VIII.
84
La cifra è ricavata sottraendo alle 1387 menzioni di banditi del Liber del 1277,
le 652 menzioni che compaiono nelle liste superstiti prodotte durante gli anni 1274 e
1275. Su queste liste v. Capitolo VI.

Capitolo 5.pmd 220 09/11/2009, 16.26


BOLOGNA 1274-1277. LA PARTE ESCLUSA 221

risultano identificati tramite l’esercizio della professione, 170 tramite il


toponimo di provenienza, mentre dei restanti è possibile affermare che
non hanno parenti inclusi nelle liste delle milizia del 1249: si tratta
quindi di persone di condizione più bassa. È interessante notare che vi
è una rilevante presenza fiorentina, composta da 13 personaggi, che
con ogni probabilità erano sfuggiti come ghibellini alle proscrizioni del-
la loro città rifugiandosi a Bologna. Benché in molti casi non sia possi-
bile effettuare un vero e proprio confronto tra questo elenco bolognese
e le liste di ghibellini scritte a Firenze tra 1268 e 1269, in un caso si
trova una corrispondenza: Neri Barucci, che risulta confinato di secon-
do grado a Firenze, è bandito da Bologna. Il nucleo più attivo della
parte lambertazza si profila dunque composto, per poco più di un quarto
da famiglie magnatizie o comunque di grande rilevanza sociale, per il
resto da persone di origine estramamente varia: artigiani, immigrati re-
centi, ghibellini provenienti da altre città.
Come abbiamo accennato, tra 1274 e 1277, altre persone vennero ad
ampliare il numero dei banditi, allontanandosi da Bologna, con ogni pro-
babilità volontariamente, dopo essere state identificate come lambertazze.
Per la maggior parte si trattò di personaggi non appartenenti a grandi
casati. Se si osserva la seguente tabella, in cui i due gruppi di banditi
lambertazzi, quelli del 1274 e quelli degli anni successivi, sono posti a
confronto attraverso la ripartizione in zone di residenza, si conferma la
separazione di un nucleo più attivo, pronto ad abbandonare la città sin
dall’esito della guerra civile, in cui è più presente la componente di
popolazione che risiede all’interno della prima cerchia di mura, cioè quella
aristocratica, da un gruppo quasi altrettanto ampio di persone, bandito
nei due anni successivi, in cui più forte risulta la componente socialmen-
te intermedia, che abita nelle zone appena più esterne della città.

Tabella 2 – Banditi del 1274, del 1275-76 e del 1277 distinti per zona cittadina.

Zona Banditi di zona % Banditi 1275-76 % Banditi tot. (1277) %

1 152 21 57 8 57 14
2 351 47,7 322 49,8 322 49,5
3 192 26,1 247 39,3 247 31,6
4 35 4,6 24 3,6 24 4,4
Ignota 5 0,6 2 0,3 2 0,5
Totale 735 100 652 100 652 100

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222 GIULIANO MILANI

Come si vede, nel gruppo che ha abbandonato immediatamente la


città i banditi che abitavano nella prima zona costituiscono quasi un
quarto del totale, mentre nel gruppo di quanti lo hanno fatto in seguito
scendono all’8%. Da questa stessa tabella tuttavia emerge un altro dato
forte. Al di là di questa caratterizzazione maggiormente aristocratica dei
lambertazzi più precocemente attivi, il gruppo dei banditi non variò dal
punto di vista sociale in maniera così rilevante nel corso dei primi tre
anni dell’esclusione: i banditi del 1274 risultano distribuiti nelle varie
zone concentriche della città secondo percentuali piuttosto simili a quel-
le del totale dei lambertazzi censiti, che abbiamo già indicato nel para-
grafo precedente e che a questo punto è necessario richiamare in una
tabella che indichi anche la ripartizione delle altre categorie penali.

Tabella 3 – I lambertazzi del 1277 distinti per condizione penale e per zona di
residenza.

Zona B % C1 % C2 % C3 % C4 % Totale %

1 193 14 76 17 31 7 34 7 58 5 392 10
2 689 49,5 305 68 262 62 245 50,5 531 46,7 2032 52
3 439 31,6 56 12,5 116 27,8 157 32,5 467 40 1235 32
4 59 4,4 11 2,5 12 3 36 7,5 96 8,3 214 5,5
non attribuita 7 0,5 0 0 1 0,2 14 2,5 0 0 22 0,5
Totale 1387 100 448 100 422 100 486 100 1152 100 3895 100

La distribuzione dei condannati in base alla gravità della pena loro


assegnato, incrociata con quella per zona di residenza, permette di preci-
sare ulteriormente le impressioni fornite dall’analisi della distribuzione
dei banditi. In generale, nel contesto delle condizioni penali più lievi
(confino nel distretto, nel contado e in città), le variazioni in percentuale
tra le diverse zone restano abbastanza simili. La schedatura di lambertaz-
zi meno implicati nel legame di parte appare così largamente trasversale
e individua un gruppo così ben distribuito da sembrare tutto sommato
ben rappresentativo delle diverse componenti sociali presenti nel conte-
sto del populus cittadino. In particolare la distribuzione topografica dei
lambertazzi condannati alle pene del confino più lievi (nel contado e in
città, ma non nel distretto) rivela in luce percentuali rafforza l’impressio-
ne che, ai livelli di partecipazione più bassa, confluirono nella parte lam-

Capitolo 5.pmd 222 09/11/2009, 16.26


BOLOGNA 1274-1277. LA PARTE ESCLUSA 223

bertazza famiglie e individui provenienti da gran parte della società bolo-


gnese. Nettamente diversa appare la distribuzione zonale dei confinati di
prima condizione, che appaiono divisi nella varie zone in maniera più
simile ai banditi, anche se meno concentrati nella porzione di città inter-
na alla cerchia più antica. La differenza riscontrata conferma il fatto che
i compilatori del Liber del 1277 graduarono le pene a seconda della
responsabilità dei lambertazzi nei disordini di parte, condannando, anche
nel contesto del confino, gli aristocratici, più attivi, alle pene più gravi e
gli altri a quelle più lievi. Si osservi al riguardo la seguente tabella, che
accorpa le percentuali delle condizioni penali riducendole a due (da un
lato banditi e confinati di prima condizione, dall’altro altri confinati), al
fine di paragonarle con le percentuali generali.

Tabella 4 – I lambertazzi del 1277 per condizioni penali accorpate.

Zona B + C1 (%) C2 + C3 + C4 (%) Tot. 1277 (%)

1 15 6,5 10
2 54 50 52
3 27 36 32
4 3,8 7 5,5
non attribuita 0,2 0,5 0,5
Totale 100 100 100

Di fronte a simili dati si ricava l’impressione che chi censì la parte


lambertazza nel 1277 non fu spinto se non in misura minima a ragio-
nare in base a criteri generali, ma piuttosto esaminò i comportamenti
individuali e si regolò di conseguenza. Resta da chiedersi quanto pesò
in queste decisioni l’appartenenza di un individuo identificato come lam-
bertazzo a una certa famiglia, in altre parole quanto fu condizionante
per coloro che assegnarono le pene (ma prima ancora per i cives che
decisero di schierarsi con la parte lambertazza) la parentela.
Per rispondere a questa domanda occorre abbandonare l’analisi com-
plessiva del gruppo dei colpiti e restringerla ad un campione che sia il
più possibile rappresentativo del totale. A tale scopo abbiamo selezio-
nato sette parrocchie cittadine le cui attestazioni complessivamente am-
montano a 379 (circa il 10% del totale) e che vedono una simile corri-

Capitolo 5.pmd 223 09/11/2009, 16.26


224 GIULIANO MILANI

spondenza in percentuale anche nel tipo di condizioni penali accorpa-


te 85. Lo stesso campione si rivela rappresentativo anche per quanto ri-
guarda la componente di famiglie magnatizie rispetto al totale delle at-
testazioni 86. Una rappresentatività meno stretta si registra nel numero
di persone identificate per mezzo della professione 87 e del toponimo di
provenienza 88, ma una simile discrepanza non ci ha spinto ad abbando-
nare il campione prescelto, dal momento che si tratta di elementi di
significato relativo, più legato alla casualità della registrazione. Un altro
vantaggio offerto da questo campione è la relativa abbondanza di docu-
mentazione per il periodo successivo alla lista del 1277. Cosicché, con
alcuni adattamenti, le stesse parrocchie possono essere utilizzate per
seguire l’andamento dei nuovi bandi e dei rientri lungo tutto l’arco del
periodo 1274-1327, cosa che verrà fatta nel prossimo capitolo.
Le sette parrocchie prescelte sono situate tutte nella prima e nella
seconda zona, ma presentano via via che ci si allontana dal centro
una maggiore presenza di condannati. Nella centralissima cappella di
S. Tecla dei Lambertazzi che si affaccia da oriente sulla Piazza non vi
sono che 9 menzioni di lambertazzi condannati, in quella attigua di S.
Michele dei Lambertazzi, 15, in quella di S. Antolino, situata appena
dietro il lato opposto della Piazza, solo 12. Il numero cresce già nella
parrocchia di S. Giacomo dei Carbonesi (41 menzioni), posta imme-
diatamente al di fuori della prima cerchia di mura, divenendo ancora
più consistente nelle due parrocchie di S. Giovanni in Monte e S.
Michele dei Leprosetti (rispettivamente 73 e 101 menzioni) e si fa
ancora maggiore a S. Vitale, posta nella parte più esterna della secon-
da zona (129 menzioni).
Per comprendere, sulla base di questo corpus di lambertazzi più
ridotto e quindi più maneggevole, quale interferenza vi fu tra pene
inflitte e legami familiari, è possibile utilizzare i dati forniti dal Liber
del 1277, che segnala tali legami attraverso espressioni come « filius ... »;
« filii ... », « nepos ... », ma anche per mezzo dell’indicazione contestuale
del patronimico e del cognome. Al fine di estendere il più possibile la

85 I banditi risultano essere il 38% nel campione, a fronte di un 37% nel totale.

I confinati fuori dalla città, presi assieme costituiscono il 33% nel campione contro il
35% del totale; i confinati in città rappresentano il 29% sia nel campione che nel
totale.
86 Si tratta del 10% sia nel campione, sia nel totale.
87 24% nel campione, 19% nel totale.
88 11% nel campione, 19% nel totale.

Capitolo 5.pmd 224 09/11/2009, 16.26


BOLOGNA 1274-1277. LA PARTE ESCLUSA 225

ricostruzione delle famiglie abbiamo considerato anche le liste stilate tra


1274 e 1275, che presentano, per le stesse parrocchie, menzioni relative
ad individui censiti come lambertazzi in questi due anni, ma poi non
presenti nel Liber del 1277. Alle 380 menzioni presenti nel Liber del
1277 ne abbiamo così aggiunte altre 124, per un totale di 504. Sulla
base di tutte queste menzioni abbiamo potuto ricostruire un folto grup-
po di piccoli alberi genalogici in cui compiono i maschi puniti di al-
trettante famiglie « nucleari » (formati, dunque, dal padre e dai figli). In
alcuni casi è stato possibile collegare tra di loro questi piccoli alberi
genealogici e ricostruire lignaggi, cioè alberi più ampi in cui appaiono i
membri di diverse famiglie nucleari dotate dello stesso cognome.
Non tutti i condannati, tuttavia, presentano uno o più parenti negli
elenchi. Le 497 89 attestazioni relative a queste parrocchie si possono
distinguere in due sottoinsiemi: le 158 attestazioni da cui non risulta
alcun legame di parentela con altri colpiti e altre 339 raggruppabili in
92 alberi genealogici, composti ognuno in media da 3,7 individui. Si
tratta già di un dato significativo: il 67% dei lambertazzi risulta impa-
rentato con altri condannati, ma il restante 33% non presenta alcun
parente punito 90. Occorre quindi considerare con attenzione il dato re-

89 Abbiamo sottratto le 7 menzioni che rimandano a tutti i membri di un certo


casato che risiedono nella cappella in questione.
90 Si potrebbe pensare che i nomi dei parenti non sono menzionati, ma sono in

qualche modo sottintesi dagli schedatori, come sembrerebbero suggerire alcune delibe-
re dei consigli in cui si afferma per i confinati l’estensione della pena a tutta la discen-
denza maschile, e, per i banditi, talvolta, anche agli ascendenti e ai fratelli, ma a una
simile ipotesi contrastano molti fattori. In primo luogo la struttura stessa della lista
che, attraverso elencazioni quasi sempre individuali, menziona meticolosamente figli,
fratelli, e nipoti di personaggi già menzionati, o attraverso il nome o attraverso espres-
sioni collettive come « figli di » ecc. Una simile precisione risulterebbe eccessiva se si
trattasse di una lista di capifamiglia, mentre trova senso se si intende questo elenco
come una lista di individui puniti. Come si ricava dalle liste successive, l’estensione
« automatica » della condanna avveniva solo nei confronti dei figli, nel momento in cui
avessero superato l’età minima per essere condannati e, cioè, quattordici o quindici
anni. In quel caso tuttavia, i nomi venivano scritti nelle nuove liste. In base a ciò è
molto probabile che, in generale, i figli scritti nel Liber del 1277 fossero solo i figli
maggiori, mentre quelli non scritti fossero ancora troppo piccoli e quindi non passibili
di punizioni (una conferma di questo si ha nelle richieste di cancellazione presentate a
partire dal 1281 dai procuratori dei lambertazzi minorenni, su cui v. Capitolo VII). In
secondo luogo, in molti processi registrati dopo il 1281 si vedono agire personaggi che
affermano e riescono a provare di non essere condannati, sebbene alcuni loro stretti
parenti (fratelli, zii, nipoti, in alcuni casi anche figli, v. Capitolo VII) lo siano. Infine,
come vedremo tra breve, un terzo elemento è fornito dall’analisi degli stessi alberi

Capitolo 5.pmd 225 09/11/2009, 16.26


226 GIULIANO MILANI

lativo alla presenza di condannati che non hanno parenti lambertazzi.


Supponendo che costoro non abitassero a Bologna in totale isolamento
familiare, senza alcun parente maschio, occorrerà ammettere che i loro
parenti non vennero puniti, e che quindi in questo terzo dei condanna-
ti l’appartenenza a un certo gruppo parentale non costituì, né, per i
cives, il canale attraverso cui passò la scelta dello schieramento politico,
né per le autorità, un motivo per iscriverli nelle liste di condannati.
Per i restanti due terzi, quale peso ebbero i legami familiari? Osser-
viamo da vicino i piccoli alberi genealogici che abbiamo ricostruito. La
situazione delle due cappelle confinanti di S. Tecla e S. Michele, en-
trambe sotto lo giuspadronato della famiglia Lambertazzi, fa pensare ad
un forte peso di tali relazioni. Complessivamente solo una delle sei
famiglie ricostruite contiene parenti condannati a pene differenti, men-
tre le altre cinque, famiglie nucleari interne alla consorteria dei Lam-
bertazzi, presentano parenti condannati tutti al bando. Nella cappella
di S. Giacomo dei Carbonesi, dove risiedono molti importanti lignaggi
che occupano posizioni di vertice nella pars, abbiamo ben sei famiglie
i cui membri maschi sono condannati tutti al bando 91. Stessa situazio-
ne presentano altre due famiglie 92, ma con una peculiarità: la presenza
di nipoti, ascrivibili dunque a un’altra famiglia nucleare, ma molto vi-
cina, condannati a pene differenti 93. Due famiglie meno aristocratiche,

genealogici ricavabili dal Liber del 1277: in circa metà di queste « famiglie », i parenti
(padri, figli, fratelli) non sono condannati alla stessa pena, ma a pene diverse. Per le
stesse ragioni che mostrano in maniera chiara come le pene dei lambertazzi fossero
fortemente percepite come pene individuali, non riteniamo che gli elementi in nostro
possesso siano sufficienti per tentare di calcolare quanti altri cittadini (e cioè figli mi-
nori, mogli e figlie) uscirono dalla città assieme ai banditi e ai confinati lambertazzi,
come invece fa Montagnani, I Libri bannitorum del comune di Bologna. I registri giudi-
ziari mostrano una notevole presenza in città di figlie, mogli e vedove dei banditi negli
anni Ottanta del Duecento.
91 Si tratta degli Andalò; della famiglia di Alberto di Aliserio Carbonesi; di quella

di Uspinello Carbonesi, di quella di Bernardo di Arimondo Iacobi Bernardi, cioè il


ramo dei Carbonesi derivato dal matrimonio con i da Vetrana, e di quella di Gerardo
Mariscotti.
92 I figli del fu Gerardo Pelato da Baisio, e Pietro di Bergadano Carbonesi e i

suoi figli.
93 Pellegrino da Baisio, anche egli figlio di Gerardo pelato, non compare negli

elenchi, probabilmente perché è morto, ma i suoi figli, nipoti di banditi, sono tutti
condannati al confino di prima categoria. Stessa situazione per Rolandino di Lorenzo
di Bergadano, anch’egli nipote di un bandito, condannato al confino fuori dal di-
stretto.

Capitolo 5.pmd 226 09/11/2009, 16.26


BOLOGNA 1274-1277. LA PARTE ESCLUSA 227

infine, presentano differenze per ciò che concerne le pene impartite al


loro interno: un certo Filippino notaio è confinato di seconda catego-
ria (dentro il distretto, ma fuori dal comitato), i suoi due figli sono
invece banditi; Rolandino di Gabriele Mariscotti, di cui non è rico-
struibile il grado di parentela con il Gerardo bandito, è condannato di
terza categoria (nel contado), mentre i suoi fratelli, pur comparendo
nelle liste del 1274-75, non sono puniti nel 1277. In queste tre cappel-
le aristocratiche siamo, dunque, in presenza di una corrispondenza non
assoluta, ma abbastanza frequente tra unità di famiglia nucleare e uni-
tà di pena, corretta tuttavia dalla possibilità di condanne di tipo diver-
so sia per membri della stessa unità familiare, qualora non si tratti di
una famiglia aristocratica, e sia per nuclei famigliari diversi dello stesso
grande lignaggio.
Nella parrocchia centrale, ma non gentilizia, di S. Antolino, la si-
tuazione appare differente: qui è stato possibile ricostruire quattro al-
beri composti da due attestazioni e uno composto da tre attestazioni.
In due casi, le persone che compaiono nello stesso albero genealogico
sono condannate alla stessa pena 94. Negli altri tre casi, siamo in pre-
senza di persone che appartengono alla stessa famiglia condannate a
pene differenti. Iacobinus Mulnaroli, appartenente a un ramo distacca-
to della famiglia Lambertazzi, è condannato al confino in città assie-
me a suo nipote Vanne di Guglielmo, ma i suoi figli, censiti nella
assignatio equorum del 1274, non compaiono nell’elenco del 1277. Gli
altri due casi riguardano famiglie nucleari interne alla consorteria dei
Rustigani: in un caso, Ariverius di Lambertino risulta bandito, mentre
i suoi fratelli, che appaiono come lambertazzi nella colletta del 1274,
sono puniti nel 1277 con il confino di terza categoria (nel contado);
in un altro caso, Ardicio dei Rustigani è bandito, mentre suo padre
Armaninus appare condannato al confino di prima categoria (fuori dal
distretto).
Con il dirardarsi delle grandi domus, a mano a mano che ci si
allontana dal centro, decresce anche la prevalenza di famiglie i cui mem-
bri sono puniti con la stessa pena. Sia nella cappella di S. Vitale, sia in
quella di San Michele dei Leprosetti, tali famiglie sono 12, mentre in
altre 13 i membri sono condannati a pene differenti. Il notaio Bona-
ventura Viviani, ad esempio, non risulta punito, anche se censito come

94 Si tratta di Bonagratia tabernarius, già censito nella colletta del 1274 e poi tra i

sospetti del 1275, condannato al confino in città come suo figlio Benvenuto; e di
Bonaventura Omoboni, punito con la stessa pena assieme a suo figlio Iacobinus.

Capitolo 5.pmd 227 09/11/2009, 16.26


228 GIULIANO MILANI

lambertazzo nelle liste del 1274-75, e lo ritroveremo addirittura come


sapiens, a cui vengono richiesti consilia negli anni successivi; suo figlio
Maxe è invece condannato al confino in città. Tra i figli di Guido
Tomarii due vengono condannati al confino di seconda categoria, uno a
quello in città. Un caso interessante è poi costituito dalle quattro fami-
glie nucleari che su tre generazioni compongono il lignaggio derivato
da Mateus Agoclarii, uno dei pochi « lignaggi » non aristocratici che è
dato riscontrare nel nostro elenco. Nella prima generazione, due fratelli
sono banditi, il terzo confinato in città. Nella seconda generazione, i
figli hanno le stesse pene dei padri, mentre nella terza i figli di uno dei
banditi sono condannati al confino di seconda categoria. Nella cappella
di S. Giovanni in Monte il rapporto risulta nettamente in favore delle
famiglie che presentano differenze di pena al loro interno, che sono 14,
contro 7, nelle quali i diversi individui sono condannati alla stessa pena.
Tirando le somme, si ricava che complessivamente le « famiglie » identi-
ficabili sono suddivise in due gruppi numericamente quasi equivalenti:
nel primo gruppo (formato da 45 famiglie) gli individui sono condan-
nati alla stessa pena; nel secondo gruppo (47 famiglie) sono condannati
a pene diverse.
Tenendo conto delle attestazioni di lambertazzi privi di parenti col-
piti e osservando che la corrispondenza tra famiglia e pena riguardò
soprattutto, ma non esclusivamente, le famiglie aristocratiche, che pure
talvolta furono colpite da pene differenti nel contesto dello stesso li-
gnaggio, è possibile concludere che complessivamente, se, per i cittadi-
ni, nella scelta dello schieramento, il legame familiare fu in una certa
misura determinante, per le autorità, nella scelta delle pene, lo fu mol-
to meno. Nel 1277 solo un terzo dei lambertazzi censiti ebbe parenti
stretti (fratelli, padri, figli maggiorenni) puniti con la stessa pena. Un
altro terzo ebbe congiunti colpiti con pene differenti, oppure non col-
piti da pene, ma censiti in precedenza (negli anni 1274-1275) come
sospetti lambertazzi e poi scagionati; e, infine, per un altro terzo i lam-
bertazzi furono colpiti isolatamente, mentre i loro parenti, per quanto è
possibile ricostruire, non vennero puniti affatto. Si tratta di dati che
mostrano in maniera evidente la volontà di procedere per lo più a un
livello individuale, e che sembrano suggerire che le autorità intesero
procedere sulla base di informazioni relative al comportamento dei sin-
goli durante i conflitti civili, diversificando la punizione a seconda della
gravità di questo comportamento, e non lasciando che i legami parenta-
li influissero sulla decisione finale.

Capitolo 5.pmd 228 09/11/2009, 16.26


BOLOGNA 1274-1277. LA PARTE ESCLUSA 229

5. Conclusioni

L’analisi prosopografica che abbiamo potuto compiere sulla base


delle indicazioni fornite dalla più antica e completa lista di condannati
mette in evidenza sotto ogni punto di vista il carattere fortemente tra-
sversale e diffuso della pars lambertazza. Le famiglie che, già prima
della cacciata, sono attestate come militanti comprendono attorno a un
nucleo rappresentato da due consorterie di origine urbana e legate
all’esercizio del diritto, i Lambertazzi e i Carbonesi, altri lignaggi. Al-
cuni di questi risultano simili per profilo sociale e partecipazione poli-
tica (Guarini, Asinelli, Orsi, Rustigani, Scannabecchi), altri provengono
dagli strati più medi e alti della società rurale (Albari, da Baisio, da
Gesso, da Fratta, Maccagnani), che tuttavia risultano inurbati all’inizio
del Duecento. Altri ancora cominciano ad affermarsi proprio nella pri-
ma metà del secolo attraverso l’esercizio di attività legate al diritto e/o
per mezzo della pratica del commercio e del prestito di danaro (Prin-
cipi, Storlitti, Guezzi). Con la seconda metà del secolo la trasformazio-
ne definitiva in senso « popolare » delle istituzioni cittadine va di pari
passo con il contatto tra queste famiglie e altri casati sia legati alle
società del cambio e della mercatura (Magarotti, Pizzigotti), sia eserci-
tanti attività artigianali (i Curioni).
Nel 1274, quando il conflitto civile esplose a tal punto da provoca-
re per la prima volta l’abbandono della città da parte di un gruppo di
più di settecento persone, la rete che vede al suo centro queste fami-
glie di varia origine, ma ormai accomunate dalla connotazione « magna-
tizia », risultava enormemente estesa. Accanto ai magnati lambertazzi
apparivano in primo luogo altre famiglie aristocratiche della città (Bo-
schetti, Bombelli, Vandoli, Arienti), in secondo luogo famiglie cittadine
di origine non aristocratica ma che occupavano posizioni di rilievo nel-
le società del cambio e della mercatura (Abati, Terrafocoli, Tettalasini,
Tonsi), infine famiglie del contado detentrici di vere e proprie signorie
territoriali (Conti di Panico) o fondiarie (da Castel de Britti). Ma so-
prattutto la rete risultava ben radicata negli strati medio-bassi della so-
cietà con una serie rilevante di presenze individuali di artigiani e di
persone di inurbazione recente, che numericamente superarono nel cen-
simento quelle dei magnati. Così, all’indomani del primo bando del
1274, quando il comune decise di schedare individualmente tutti coloro
che avrebbero potuto appoggiare i ribelli dall’interno si trovò ad iden-
tificare non solo un numero enorme di persone, ma anche un gruppo
estremamente eterogeneo per ricchezza, prestigio e collocazione sociale.

Capitolo 5.pmd 229 09/11/2009, 16.26


230 GIULIANO MILANI

Una minoranza di questo gruppo, che abitava in genere al di fuori


della più antica cerchia di mura, decise di abbandonare la città nei due
anni successivi e per questo fu bandita. Il resto dei lambertazzi accettò
la condanna al confino, mantenendo il controllo sui propri beni ma
subendo gravi limitazioni alla propria libertà di agire, e rischiando il
bando, e con esso il sequestro dei beni, nel caso in cui non fosse stato
trovato nella località di soggiorno obbligato. La scelta fatta dal comune
di censire i lambertazzi uno per uno e di punire ognuno in maniera
proporzionale alla sua colpa, benché con ogni probabilità suggerita an-
che dalla struttura larga, trasversale e intrafamiliare della divisione e dai
diversi gradi di partecipazione che essa comportava, recava con sé due
importanti conseguenze. In primo luogo, moltissime famiglie furono
colpite con provvedimenti diversi, quando addirittura non videro al loro
interno cittadini identificati come lambertazzi accanto a parenti stretti
ancora dotati di pieni diritti. Le relazioni familiari costituirono così sin
dall’inizio un ponte che metteva in contatto reciproco banditi, confina-
ti, lambertazzi ancora in città e buoni cittadini geremei, minando alla
base l’isolamento sottinteso da queste pene. In secondo luogo, divenne
necessario allestire per il comune un complesso sistema dell’esclusione
che potesse continuare ad adattare le varie pene a seconda del compor-
tamento dei puniti: promulgando il bando nei confronti di chi si fosse
allontanato dai luoghi di confino, ma anche, come vedremo, confinan-
do banditi che si fossero sottoposti agli ordini del comune, e spostando
i confinati da una categoria all’altra fino a reintegrarli nel novero dei
cittadini dotati di pieni diritti. Per come era stata progettata e allestita,
la redazione dell’elenco del 1277, lungi dal porre fine al censimento dei
nemici, scatenava così il bisogno di una vera e propria contabilità del-
l’esclusione.

Capitolo 5.pmd 230 09/11/2009, 16.26


Capitolo VI

BOLOGNA 1274-1300
LISTE E CONDIZIONI PENALI

1. Il governo delle liste

Come fu possibile censire la parte nemica e giungere, tre anni dopo


l’uscita dei lambertazzi, alla redazione di un elenco che comprendeva,
tra individuali e collettive, quasi quattromila menzioni di condannati?
Sulla base di quali informazioni i notai procedettero a scrivere i loro
nomi? Nel 1274 era disponibile una serie di documenti redatti in for-
ma di lista, frutto della tendenza, sviluppata dal comune di Bologna
durante tutto il corso del Duecento, a descrivere e delimitare indivi-
dualmente il gruppo dei cives e quello dei populares. Il nuovo regime
geremeo, sulla base di quanto era avvenuto negli altri comuni del cir-
cuito guelfo-angioino, scelse consapevolmente di usare queste liste re-
datte in precedenza per escludere in maniera analitica ed estesa la par-
te lambertazza 1.
Il Liber del 1277, come del resto gli altri elenchi di proscrizione
redatti nell’Italia comunale, non nasceva dal nulla. Alcuni studi recenti
hanno messo in risalto quanto fu importante la scrittura di liste per
soddisfare le esigenze amministrative dei regimi comunali 2. A Bologna,
in particolare, quando nel 1274 si procedette al bando dei lambertazzi i
notai avevano a disposizione gli estimi, liste fiscali allestite per riscuote-
re le imposte dirette, che raccoglievano i nomi di tutti i capofamiglia
corredati dalla stima complessiva del loro capitale; le « venticinquine » e
le « decine », ovvero liste militari, che elencavano tutti i maschi adulti

1 Ho cercato di descrivere estesamente questo processo in Milani, Il governo delle


liste. Il seguente paragrafo costituisce un resoconto sintetico e aggiornato di quanto
esposto in quella sede.
2 Ha messo in risalto l’importanza della produzione di liste Vallerani, Le città

lombarde nell’età di Federico II, pp. 419-426. Particolarmente dedicati alla produzione
e all’impiego delle liste sono Blattman, Wahlen und Schrifteinsatz in Bergamo, Lütke
Westhues - Koch, Die Kommunale Vermögenssteuer (‘Estimo’).

Capitolo 6.pmd 231 09/11/2009, 16.26


232 GIULIANO MILANI

tenuti al servizio militare, rispettivamente a piedi e a cavallo, in ogni


parrocchia; le matricole delle società popolari delle Arti e delle Armi,
liste di appartenenza, che costituivano anche il bacino di reclutamento
delle istituzioni popolari. Tutte queste liste erano state raccolte in volu-
mi completi, di facile consultazione, periodicamente aggiornati, che
complessivamente raccoglievano i nomi di tutti gli individui che com-
ponevano il comune e il popolo. I criteri per ottenere la cittadinanza
includevano infatti, oltre che un certo numero di anni di residenza in
città, la partecipazione militare e il pagamento delle imposte dirette.
La qualifica di membro del popolo era concessa attraverso l’iscrizione
a una societas.
Parallelamente, nel corso del Duecento, si sviluppò la produzione
di liste di esclusione, a queste complementari. Ciò avvenne soprattutto
in virtù dell’estensiva funzione acquisita dall’istituto del bando nel pro-
cesso civile e penale 3. Banditi per maleficio, per debito, per mancato
pagamento delle imposte dirette cominciarono a essere trascritti in grandi
registri annuali che vennero a costituire un primo complemento delle
liste di cittadinanza. Come queste ultime, i libri di banditi accorpavano
in un unico volumen quaderni diversi, in cui comparivano i cittadini
banditi per varie ragioni in un dato anno o semestre. In tal modo i
registri di banditi acquisirono il valore di utili strumenti per verificare
l’effettiva possibilità di godimento dei diritti di cittadinanza 4.
Attorno agli anni Settanta del Duecento alcuni rilevanti novità ven-
nero a condizionare la scrittura delle liste di esclusione. Si provvide
infatti a cancellare dalle matricole delle società « popolari » individui
appartenenti a categorie particolarmente « indesiderabili » per il regime
di popolo: persone inquadrate in rapporti feudali (vassalli, scutiferi) e
ritenute perciò incompatibili con la fedeltà al « popolo », o capaci di
comportamenti in grado di destabilizzare l’equilibrio socio-politico, il
bonus status comunis et populi (assassini, rixosi). Nello stesso periodo
si cominciarono a produrre le liste di magnati. A differenza delle liste
di banditi, che raccoglievano i nomi di persone non presentatesi in
seguito a una citazione e per questo assimilate ai rei confessi, gli elen-
chi di magnati sono liste « preventive », che raccolgono nomi di perso-
ne suscettibili di commettere un delitto. Sebbene parziali e ancora cir-

3
Milani, Prime note sulla disciplina e la pratica del bando, con riferimenti alla
presenza di libri di banditi nell’ASBo.
4 Vallerani, Le città lombarde nell’età di Federico II, pp 420-426; Blattman, Wahlen

und Schrifteinsatz in Bergamo.

Capitolo 6.pmd 232 09/11/2009, 16.26


BOLOGNA 1274-1300. LISTE E CONDIZIONI PENALI 233

coscritte, queste liste preventive vennero utilizzate nei primi mesi del
1274 per la revisione delle liste di cittadinanza, entrando nel sistema
di verifica e amministrazione della popolazione attiva. La decisione di
escludere i lambertazzi utilizzando le liste preesistenti fu dunque pre-
parata dal ricorso a pratiche simili nel periodo immediatamente a ri-
dosso della cacciata.
Nelle pagine che seguono le liste di lambertazzi prodotte a Bologna
nel trentennio 1274-1300 saranno analizzate per raggiungere due obiet-
tivi: da un lato ricostruire, sulla base degli elenchi superstiti, le varia-
zioni quantitative del gruppo dei condannati; dall’altro, cogliere i criteri
soggiacenti alle produzione delle liste stesse, e la loro variazione nel
corso del tempo. Quest’analisi sarà scandita da due momenti di siste-
mazione generale, due anni in cui il comune produsse grandi liste di
riferimento destinate a durare: il 1277 e il 1287.

2. La selezione della cittadinanza. Prima e dopo la lista del 1277

Come abbiamo già accennato nel capitolo precedente, il 7 agosto


del 1274 venne emessa una sentenza di bando contro il gruppo che
materialmente e volontariamente aveva abbandonato la città, quantifica-
bile in più di settecento persone 5. Non sappiamo come i loro nomi
vennero censiti, ma non sembra improbabile che, come è scritto nel
testo di questo primo bando, i lambertazzi fuggitivi furono citati nelle
loro case 6. Questo elemento lascia supporre che, all’indomani della loro
fuga, fu istruita un’inquisizione che identificò quanti si erano allontanati
sulla base di una serie di testimonianze. È interessante notare che la
sentenza di bando venne emanata dalla curia del podestà che si occu-
pava dell’amministrazione della giustizia civile e criminale ordinaria. Di
lì a poco, ogni competenza in materia di lambertazzi sarebbe stata tra-
sferita al tribunale del capitano del popolo, ma questo primo grande
bando collettivo venne ancora connotato come un atto, per quanto estre-
mo, inserito nel contesto della giustizia sino a quel momento ammini-
strata. In tal modo si cercò di legittimare la nuova misura penale se-
condo le regole esistenti. Di questo tentativo reca traccia anche il testo
del bando, in cui il delitto da punire non fu identificato nell’apparte-
nenza alla fazione sconfitta, ma nella particolare aggressione perpetrata
nei confronti del comune, aggravata da una serie di crimini già previsti

5 V. Capitolo VI.

Capitolo 6.pmd 233 09/11/2009, 16.26


234 GIULIANO MILANI

dagli statuti, come il porto di armi proibite. Inoltre fu specificato che


la fama di tale azione delittuosa si era estesa non solo nella città di
Bologna, ma « in ogni parte e luogo d’Italia », rafforzando l’accusa – se-
condo un formulario tipico del libello accusatorio – per mezzo del ricor-
so alla pubblica fama del fatto criminoso 7.
Questo bando, pur quantitativamente incomparabile con quelli fino
a quel momento emanati, non costituiva di per sé un atto innovativo.
Anche in precedenza, sebbene su scala notevolmente più ridotta, era
stato conferito un significato politico e dunque aggravante ad alcuni
comportamenti delittuosi, interpretati non soltanto come infrazioni delle
leggi, ma come episodi portatori di una potenziale messa in crisi del
« buono stato del comune », da censurare con particolare severità attra-

6V. nota seguente.


7Il primo bando dei lambertazzi è giunto fino a noi grazie all’estratto che ne fece
un notaio in una carta sciolta, conservata in ASBo, Demaniale, S. Francesco, busta
336/5079, I, doc. n. 54: « Reperitur in libro rebellium bannitorum comunis Bononie
pro tempore domini Rolandi Putagli potestatis Bononie inter alia in hunc modum:
Beonaventura de Lacocha et filius et omnes et singuli superius nominati de parte
lambertaciorum fuerunt ad preliandum cum armis vetitis et non vetitis et balistris con-
tra homines et societates populi Bononie et contra carcerem et palacium comunis Bo-
nonie, balistrando lapides et langeas proyciendo, vulnerando et hocidendo homines po-
puli Bononie et comunis Bononie, et venerunt et steterunt contra honorem dicti popu-
li et comunis Bononie, et inquietaverunt et turbaverunt et dampnificaverunt tranqui-
lum pacificum et quietum statum comunis Bononie civitatis et districtus ipsius, tam in
platea comunis Bononie quam alibi per civitates et burgos; cuius occasione populus et
comune Bononie civitatis et districtus in periculo maximo mortis fuit, sicut plubicum
et notum est per civitates, non solum in dicta civitate, ipsius et districto, etiam in
omnibus partibus et locis Ytalie plubice divulgatum; et pro predictis occasionibus fue-
runt cytati et requisiti per nuncios comunis Bononie de mandato potestatis et comunis
Bononie ut venirent ad mandata potestatis et comunis Bononie ad se excusandum, et
non venerunt ipsi nec alii, nec alii pro eis ad se defendendum et excusandum a pre-
dictis sed venire ad eius mandata et comunis Bononie penitus contepserunt; idcirca
positi et cetera fuerunt in banno comunis Bononie et lecti et plubicati in plubica
concione super arengeria comunis Bononie de mandato potestatis et comunis Bononie;
a dicta die in antea sint in banno comunis Bononie tamquam malexardi rebelles et
prodictores comunis Bononie, de quo banno perpetuo exire non possint, et quod om-
nia bona ipsorum et cuiuslibet ipsorum plubicata sint in comune Bononie ita quod
integlaliter debeant pervenire; cuius bannum datum fuit de mandato potestatis ex arbi-
trio sibi dato et concesso per comune Bononie de voluntate comunis Bononie et de
voluntate ministralium et duorum sapientium pro qualibet societate et quattuor sapien-
tium pro qualibet societate, sub anno Domini millesimo ducentesimo septuagesimo quar-
to, indicione secunda, die dominico decimo intrante iunio.

Capitolo 6.pmd 234 09/11/2009, 16.26


BOLOGNA 1274-1300. LISTE E CONDIZIONI PENALI 235

verso il bando perpetuo 8. Di ben altra portata, dal punto di vista delle
procedure, fu quanto si cominciò a fare nei confronti dei cives che
erano rimasti in città ma potevano essere identificati come simpatizzanti
dei banditi lambertazzi. La guerra con i ghibellini romagnoli, a cui i
lambertazzi si erano uniti nella loro fuga a Faenza, rendeva indispensa-
bili al comune, fiaccato dalla guerra con Venezia, nuove imposizioni
straordinarie per finanziare le spedizioni dell’esercito cittadino. D’altra
parte, occorreva anche evitare la potenziale presenza in questo esercito
di simpatizzanti della fazione sconfitta, ancora in pieno possesso dei
diritti di cittadinanza e quindi inclusi nella leva. Si provvide dunque a
riformulare le normali procedure attuate in caso di guerra: l’imposizio-
ne di una colletta straordinaria basata sull’estimo e la stima dei cavalli
necessaria per i risarcimenti ai milites.
Nel luglio del 1274, soltanto un mese dopo la fuga, ancora prima
che il bando venisse formalizzato, fu bandita una colletta di quattromi-
la lire riservata esclusivamente ai cittadini di parte lambertazza rimasti a
Bologna 9. Non sappiamo esattamente chi procedette a identificarli, ma
è possibile che tale compito venne conferito ai ministrali delle cappelle,
cioè ai responsabili delle più piccole ripartizioni urbane, o ad altri uo-

Ego Iachobus domini Rodaldini de Surdis nunc notarius officio bannitorum dictos
bannitos in libro bannitorum exemplavi et scripsi, die septimo intrante augusto.
Ego Marchixinus Bardelle nunc notarius officio bannitorum dictum bannum dicti
Bonaventure de Chocha et filii ut invenii cum conclusione ita exemplavi et scripsi ».
8 Sul bando perpetuo v. cap. IV.
9 ASBo, Disco dell’Orso, b. 11, reg. 5 (relativo a porta Ravennate, molto rovinato),

c. 9r: « Hec est impositio collecte hominibus partis lambertatiorum pro quarterio porte
Ravennatis, data et diligenter examinata per duodecim offitiales ad hoc specialiter de-
putatos. Sub anno domini millesimo ducentesimo septuagesimo quarto inditione secun-
da ». Segue l’elencon quindi, a c. 15v: « Ego [...] notarius dictam collectam impositam
lambertaciis pro quarterio porte Ravennatis scriptam manu mei [...] et Bencevenis
Amadoris notario, cum domino Ventura Morato notario potestatis, cum exemplo scrip-
tu manu Ansaldini notari et sumpto de dicto autetico, diligenter et fildeliter auscultavi
et quia utrumque concordari inveni ideo me subscripsi ».
ASBo, Disco dell’Orso, b. 11, reg. 4 (relativo a porta Stiera, restaurato, con mon-
taggio, errato, dell’ultima carta al posto della prima), c. 6v: « Autenticum. De quarterio
porte Sterii. Impositio collecte per offitiales ad hoc specialiter constitutos ». Segue l’elen-
co, quindi, a c. 5v: « Ego Jacobus Petri de Unçola, notarius, dictam collectam imposi-
tam lambertaciis pro quarterio porte Steri scriptam manu mei notarii una cum domino
Aygulfo notario domini potestatis et domino Ubaldino de Stigliano notario et Ansaldi-
no Alberti Ansaldini notario, cum exemplo scriptu manu dicti Ansaldini et sumpto de
dicto autentico diligenter et fidelter auscultavi et quia utrumque concordare inveni
contentum, ideoque me subscripsi ».

Capitolo 6.pmd 235 09/11/2009, 16.26


236 GIULIANO MILANI

mini che nelle singole parrocchie fossero stati reputati particolarmente


affidabili 10. Vista la rapidità dei tempi sembra difficile che si fosse pro-
ceduto a redigere un nuovo estimo. Più probabilmente i nomi vennero
presi dagli estimi precedenti, in base ai suggerimenti forniti dai mini-
strali. Nei tre quartieri di porta Procola, Stiera e Ravennate (per quello
di porta Piera mancano le liste di questa prima colletta) furono allibra-
te 1232 persone, vale a dire più del doppio degli individui che negli
stessi tre quartieri sarebbero stati banditi come lambertazzi nell’agosto
1274. Si trattò, dunque, di un’operazione di vasto respiro e soprattutto
di grande rilievo, poiché non ci si limitò semplicemente a individuare i
responsabili di un’azione, ma si decise di setacciare una lista generale
come l’estimo, per verificare se i cives in essa registrati fossero o meno
identificabili come potenziali nemici e come tali sottoposti alla colletta
speciale. A simili collette si ricorse anche l’anno successivo e i lamber-
tazzi divennero così un bacino fiscale a sé.
Il secondo atto del censimento dei nemici rimasti in città fu la
distinzione della milizia cittadina in due gruppi: i cavalieri geremei e i
cavalieri lambertazzi. Questi ultimi, come stabilì una delibera del consi-
glio del comune, avrebbero dovuto consegnare i propri cavalli a un
cavaliere fedele alla parte vincente che lo avrebbe tenuto al suo servizio
per un anno, impegnandosi a custodirlo, proteggerlo e riconsegnarlo al
termine del mandato 11. Come per la colletta, anche in questo caso,
alcuni vicini, all’interno di ogni parrocchia, furono incaricati, in qualità
di impositores equorum, di distinguere i cavalieri, compilando per ognu-

10In un processo del 1275 fu accusato di connivenza con i lambertazzi uno dei
responsabili per la riscossione delle collette speciali nella cappella di S. Lucia: « Co-
ram domino Hondesanti iudice domini capitanei venit dominus Petriçolus Çoenis et
dicit sacramentum denuntiando Thomaxinum Michaelis de Cavrara qui facit pecitas
de capella Sancte Lucie esse et fuisse semper lambertatium et de parte lambertatio-
rum et electum fuisse tempore presentis potestatis tamquam lambertacium ad impo-
nendum colectam lambertaciorum ». ASBo, Giudici, reg 1 c. 20r. Su questo processo
v. Capitolo VIII.
11 Non possediamo la delibera comunale, ma è richiamata in un contratto tra un

cavaliere lambertazzo e uno geremeo conservato nei memoriali del comune. ASBo,
Memoriali, Memoriale 24 (Ugolini de Rigaçi), c. 211r: « Eodem die [20 agosto]. Pro-
sperinus condam Benvenuti recepit a domino Bolnesio condam domini Feliciani, dante
pro se et fratribus, unum equum baium scurum cum alquot piliis albis in frunte et
cum freno et sella pro servitio comunis cum ipso equo faciendo per unum annum,
secundum modum et formam reformationis comunis tractantis de equis lambertacio-
rum dandis hominibus partis geremensium, quem equum promisit salvare et guardare
et restituere in fine termini [...] ».

Capitolo 6.pmd 236 09/11/2009, 16.26


BOLOGNA 1274-1300. LISTE E CONDIZIONI PENALI 237

no di essi una cedula che ne specificava la parte politica. Alcuni exti-


matores provvidero quindi a rivedere queste cedule, correggendo in al-
cuni casi le decisioni degli impositores. I cavalli vennero infine stimati e
ogni cavallo dei lambertazzi venne affidato a un cavaliere geremeo 12. In
tal modo si giunse alla scrittura di liste separate di cavalieri lambertazzi
e geremei. Di queste ci rimangono due elenchi relativi a singoli quartie-
ri e un terzo elenco frammentario, concernente tutta la città. I milites
lambertazzi censiti furono 601. La pratica si ripeté l’anno successivo
portando alla scrittura di altre liste 13.
Da queste liste appare evidente come i lambertazzi rimasti in città
non fossero stati ancora colpiti da vere e proprie pene, ma piuttosto da
provvedimenti particolari che, senza abolire i diritti legati alla cittadi-
nanza, li limitavano per fronteggiare la guerra che il comune stava com-
battendo contro i loro alleati banditi. Alla punizione si pervenne solo
verso la fine del 1274, quando le operazioni iniziate con le liste della
colletta e quelle della assignatio equorum proseguirono e si passò a un
censimento meno contingente e più generalizzato: una prima lista di
lambertazzi sospetti.
A tale scopo fu incaricata una commissione composta da due esperti
(sapientes) forniti da ognuna delle quarantuno società di Armi e di

12 La pratica è ricavabile da alcune testimonianze processuali del 1275 che saran-


no analizzate più estesamente nel prossimo capitolo. ASBo, Giudici, reg. 1, c. 2r: « Iohan-
ninus Boncompagni [...] dicit quod equus impositus fuit ei a principio pro Çeremeo,
sed postea, per examinatores qui examinabant equos, impositus fuit sibi tamquam lam-
bertaçio tamen per errorem [...]. Suprascriptus Iohanninus induxit instrumentum scrip-
tum per Iacobum de Lastignano notarium continens [sic] quod in cedula porrecta per
impositores equorum sue capelle impositus fuit sibi equus tamquam homini de parte
ecclesie [...] »; ASBo, Giudici, reg. 1, c. 13v: « Symon Iohannis Martignani suprascripte
capelle […] dicit quod ipse testis fuit impositor equorum suprascripte cappelle [...] ».
Cfr. ASBo, Cavalli, b. 1, reg 5 (1274), c. 1r: « Infrascripti sunt milites de quarterio
porte Ravennatis de parte lambertaciorum et illi qui debent equitare pro ipsis seu illi
quibus consignati sunt equi eorum »; e ASBo, Cavalli, b. 1, reg. 6 (1274), c. 7r: « De
quarterio porte sancti Petri. Isti sunt milites de parte ecclesie quibus est co[n]cessum
equitare equos lambertaciorum ». La procedura della stima è ricavabile da alcuni regi-
stri del 1275.
13 Per il 1274: ASBo, Cavalli, b. 1, regg. 5, 6, 7 (1274). Per il 1275: ASBo,

Cavalli, b. 1, regg. G, G bis, R. Il registro segnato « R » è intestato, sulla copertina,


« Liber in quo scripte sunt extimationes et consignationes equorum et equarum impo-
sitionis antique et nove de civitate et comitatu et districtu Bononie de omnibus quarte-
riis, facte tempore domini Malateste capitanei populi et comunis Bononie de mense
madii et est liber iste centum octuaginta sex cartarum de quibus vigintisex carte sunt
non scripte ».

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238 GIULIANO MILANI

Arti, e dai diciassette anziani e consoli. Questa commissione, relativa-


mente larga, composta da cento persone, fra cui il podestà che coa-
diuvò con la sua familia, fu dotata dell’arbitrium di provvedere « circa
ius redendum et bonum statum comunis et populli », vale a dire ac-
quisì la capacità legislativa su un settore vastissimo. Nel frattempo al-
l’interno delle singole società di popolo si provvide a distinguere i
membri lambertazzi da quelli geremei, rilasciando a questi ultimi un
attestato di buona fede 14. Al massimo entro dicembre, la prima lista di
sospetti era pronta 15.
Con la lista dei sospetti del 1274 si verificò un’importante evoluzio-
ne nel censimento della parte lambertazza. Dal punto di vista ammini-
strativo si passò da liste contingenti, finalizzate a un solo utilizzo, a una

14 Secondo Gaudenzi, Gli statuti delle società delle Armi, p. 40, che riprese ed

elaborò un’indicazione di Savioli, nel 1274, nell’ambito della revisione successiva al


bando dei lambertazzi, furono abolite quattro società delle Armi particolarmente com-
promesse con la fazione esclusa: le Traverse di Val d’Aposa, le Branche di S. Stefano,
i Rastrelli, e i Delfini. Lo studioso suffragò la sua tesi mostrando come gli statuti di
due di queste società (le Traverse di Val d’Aposa e i Delfini) recassero annotazioni del
tipo « Cassata et annulata fuerunt quia Lambertacia » (Statuti delle società del popolo,
I, pp. 135 e 149). Un controllo effettuato sulle matricole di Delfini e Rastrelli, redatte
nel 1274 anteriormente alla cacciata e conservate in ASBo, Matricole, b. 1, fasc. 2,
mostra tuttavia che il numero di membri di queste due società inclusi nelle liste di
lambertazzi redatte tra 1274 e 1277 non è affatto superiore alla media, attestandosi, in
entrambi i casi, attorno al 10%, e rimanendo dunque notevolmente inferiore rispetto
ad altre società popolari non abolite. Il dato sembra quindi indicare che l’abolizione
delle quattro società nel 1274 avvenne nel contesto di una più generale riorganizzazio-
ne del « popolo », e che la connotazione di tali società come lambertazze, pur non
basandosi su dati oggettivi, servì a giustificare tale riorganizzazione.
15 ASBo, Elenchi, vol. IV, c. 1r: (porta Procola) « In nomine Domini Amen. Anno

eiusdem millesimo ducentesimo septuagesimo quinto, indicione tercia. Exemplum cuiu-


sdam libri de quarterio porte sancti Proculli in quo libro scripta sunt nomina homi-
num partis lambertaciorum de dicto quarterio, qui liber sigillatus erat et dicitur esse
factus tempore domini Rolandi Putalii olim potestatis Bononie, per dominos duos sa-
pientes pro qualibet societate et per antianos et consulles populi Bononie, qui liber
dicti quarterii cum libris aliorum quartierorum datus et sigillatus fuit per familiam
dicti domini potestatis dominis duobus sapientibus pro qualibet societate et antianis et
consulibus populli Bononie quibus concessum fuit arbitrium provvidendi et ordinandi
circa ius redendum et bonum statum comunis et populli Bononie et postea per eos
aprobatus et disigillatus in domo fabbrorum causa addendi ipso libro lambertatios dic-
ti quarterii qui non erant in eo libro conscriptos; tenor cuius libri inferius declaratus
et sic incipit [...] », segue l’elenco dei nomi. Gli elenchi degli altri quartieri sono con-
servati in ASBo, Elenchi, vol. IV, c. 14r (porta Stiera); ASBo, Elenchi, vol. IV, c. 22r
(porta Ravennate); ASBo, Elenchi, vol. IV, c. 41v (porta Piera). Queste altre intestazio-
ni non differiscono da quella riportata.

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BOLOGNA 1274-1300. LISTE E CONDIZIONI PENALI 239

lista dotata di un valore più duraturo, a cui attingere i nomi ogni volta
che fosse stato necessario. Dal punto di vista giudiziario, definendo i
lambertazzi rimasti in città come suspecti si posero le condizioni per
aprire una vera e propria persecuzione penale nei loro confronti. Dal
punto di vista politico, il compito dell’identificazione, sino a quel mo-
mento detenuto dalle vicinie, dalle parrocchie e dai loro ufficiali, cioè
dal comune, passò integralmente ai rappresentanti delle società di Arti
e di Armi, agli incaricati, sempre interni alle società, di cassare i nomi
dei lambertazzi dalle matricole, e all’anzianato: complessivamente, dun-
que, al « popolo ».
Nelle liste dei sospetti del 1274 compaiono 1795 menzioni. In quel-
le della colletta e delle assignationes equorum giunte sino a noi (che
costituiscono una parte, anche se non indifferente, di quelle effettiva-
mente prodotte) se ne trovano 152316. Nella lista dei sospetti tuttavia
compaiono 1132 menzioni non presenti nelle liste della colletta e in
quelle dei cavalieri. E altre 904 menzioni, presenti nelle liste fiscali e
militari non si trovavano nella nuova lista di sospetti. Dunque l’elenco
prodotto dalla commissione dei cento costituì un lavoro autonomo, che
tenne conto solo relativamente di quanto era stato fatto nelle vicinie e
negli uffici fiscali. I membri di questa commissione si basarono innanzi-
tutto sulle proprie informazioni, che erano di per sé già molte. Per
ogni maschio adulto appartenente al « popolo » esistevano infatti, nella
commissione, un membro iscritto alla sua stessa società di Arti e un
altro suo consocio in una società di Armi, quindi suo vicino. Grazie
all’appartenenza territoriale, poi, i membri avevano informazioni anche
sugli aristocratici non iscritti al popolo. Infine i numerosi canali di co-
municazione (parentali, clientelari, di mestiere e di « consiglio ») di cui
potevano disporre cento persone equamente distribuite in una società
face to face come quella bolognese del Duecento costituivano un mezzo
idoneo a stabilirne la pubblica fama. Al termine della selezione vi fu
una votazione che portò alla cancellazione di alcuni nomi. La stessa
operazione fu ripetuta nel 1275 17.

16 Il dato è ricavabile sommando il numero delle menzioni di lambertazzi presenti


nelle collette del 1274 (1238) a quello delle menzioni di cavalieri (601) e sottraendo al
totale le ripetizioni (316), quelle menzioni, cioè, che si trovano sia nell’elenco per la
colletta, sia negli elenchi dei cavalieri lambertazzi). Va ricordato che, come si mostrato
sopra, sia per la colletta, sia per le liste di cavalieri del 1274 possediamo i dati relativi
a circa tre quartieri su quattro, mentre dei sospetti possediamo la lista completa.
17 Le aggiunte dei sospetti per porta Procola (9 maggio 1275) sono in: ASBo,

Elenchi, reg. IV, c. 9r. Quelle per Porta Stiera, datate 8 maggio 1275, sono in: ASBo,

Capitolo 6.pmd 239 09/11/2009, 16.26


240 GIULIANO MILANI

Nell’anno successivo alla cacciata non si attuò tuttavia una semplice


replica di quanto era avvenuto nel 1274, promuovendo cioè collette,
assignationes equorum, e nuove liste di sospetti 18. Si provvide piuttosto
a completare il processo iniziato nella seconda metà del 1274 e ad
elaborare per i nemici rimasti in città una forma speciale di punizione.
Risale infatti agli ultimi giorni del 1274 la prima, isolata, attestazione di
lambertazzi confinati 19. La scelta di questa pena costituì una naturale
conseguenza di quanto iniziato con la redazione della prima lista di
sospetti, di per sé animata dallo stesso spirito di controllo preventivo.
Visto il numero delle persone coinvolte, però, si rese necessario un
adattamento del sistema giudiziario. La competenza in materia di giusti-
zia politica fu conferita alla curia del capitano del popolo che tenne
proprio nel 1275 i primi processi contro i nemici 20.
È degno di nota che tutto ciò avvenne sotto la capitaneria di Mala-
testa da Verrucchio da Rimini, lo stesso ufficiale forestiero che alcuni
anni prima, nel 1268, aveva contribuito a istituzionalizzare l’esclusione
dei ghibellini fiorentini, facendo scrivere le liste di banditi e confinati
che sono giunte fino a noi attraverso il Libro del chiodo 21. Nel febbraio
1275 Malatesta emanò a Bologna alcuni precetti tipici del sistema guel-
fo angioino, in cui si stabilivano multe esemplari per chi avesse ospita-
to banditi e confinati. Un mese dopo i confinati, di cui non conoscia-
mo il numero a questa altezza cronologica, furono sollecitati a recarsi
nei luoghi di confino assegnati. Nel giugno, mentre scadeva il primo
anno dell’esclusione, si proclamò che tutti coloro che erano stati iscritti
nella lista di sospetti dovevano allontanarsi dalla città, e recarsi nel luo-
go stabilito per il loro quartiere. In caso contrario sarebbero stati ban-
diti. Se invece si fossero allontanati da quel luogo avrebbero dovuto

Elenchi, reg. IV, c. 17r. Quelle di Porta Ravennate (6 maggio 1275) in: ASBo, Elenchi,
reg. IV, c. 33r. Quelle di Porta Piera (6 aprile 1275) in ASBo, Elenchi, reg. IV, c. 50r.
18 Per il 1275 la presenza di collette è testimoniata dalle deposizioni processuali

analizzate nel paragrafo precedente. Per il 1276 v. ASBo, Riformagioni, vol. I/1, c. 57v:
« Item licentiam concessam in eodem consilio Henrigipto de Abaixio vendendi dece-
octo tornaturas terre aratorie positas in terra Urbiçani in loco qui dicitur Ronco Brex-
to iuxta viam publicam, iuxta dominum Petrum Bergadani et iuxta dominum Ardicio-
nem de Acharixiis, domino Bartolomeo de Pavanensibus, vel alii qui eas voluerint emere
ad rationem quadraginta solidos bononinorum pro tornatura; pro solvendis collectis ei
impositis pro parte lambertatiorum ». In margine si legge: « Tempore domini Riçardi de
Bellovidere potestatis in millesimo ducentesimo septuagesimo sexto, inditione quarta ».
19 ASBo, Riformagioni, I/ 1, c. 37v.
20 V Capitolo VIII.
21 V. Capitolo IV.

Capitolo 6.pmd 240 09/11/2009, 16.26


BOLOGNA 1274-1300. LISTE E CONDIZIONI PENALI 241

pagare una multa di 200 lire 22. D’altra parte, tra 1275 e 1276 comin-
ciarono ad apparire anche, nella serie delle riformagioni del consiglio
del popolo, i provvedimenti di reintegrazione con cui confinati, sospetti
e, in alcuni casi, banditi lambertazzi erano riaccolti in città, cancellati
dalle liste, e dichiarati « buoni cittadini di parte geremea », talvolta, in
seguito a un loro giuramento ufficiale 23. Come a Prato, a Firenze, a
Brescia, i provvedimenti di questo tipo vennero presi all’interno delle
grandi assemblee, specificamente dal consiglio del popolo, dove la ritor-
sione contro i nuovi nemici aveva maggiori possibilità di stemperarsi.
Tra la fine del 1276 e l’inizio del 1277 il processo di progressiva
penalizzazione dei lambertazzi non banditi raggiunse il suo compimento
con la redazione del Liber del 1277. Si trattò del primo elenco di
riferimento in cui una larghissima selezione dei nomi censiti sino a quel
momento in vari modi e in varie sedi fu ordinata secondo cinque con-
dizioni penali: il bando e quattro differenti condiciones di confino, di-
stinte in base alla lontananza dalla città. Il modello fornito dalle liste
fiorentine e toscane, basato sul bando e su tre analoghe categorie di
confino, venne quindi leggermente ampliato, al fine di includere una
quota di persone, in proporzione, più estesa, nel tentativo di adattare
in maniera ancora più analitica le pene ai gradi di partecipazione fazio-
sa. Non siamo in grado di sapere quali autorità ordinarono l’operazio-
ne, ma possiamo affermare con sicurezza che il ruolo dei tre notai che
materialmente provvidero alla scrittura di questo registro non fu affatto
marginale. In posizione principale appare Rolandino Passageri, autore
della Summa di arte notarile più diffusa del tempo, maestro dello Stu-
dio nella stessa materia, di lì a poco primo preconsole, la massima cari-
ca della società dei notai. Il suo ruolo nell’esclusione dei lambertazzi e
più in generale nel nuovo regime geremeo, fu centrale, come dimostra
il fatto che fu notaio degli anziani nel dicembre del 1274, vale a dire
ricoprì un incarico chiave all’epoca del conferimento alla balìa dei cen-
to sapientes dell’arbitrium di legiferare e del compito di provvedere alla
redazione della prima lista di sospetti. Accanto a lui, come redattori
del Liber del 1277, appaiono Lorenzo Bonacatti e Antonio di Auliviero,
notai che in futuro occuperanno posti chiave nella loro società e saran-
no spesso membri delle balìe deputate a provvedere sulle diverse que-
stioni 24. Considerato il loro spessore politico è dunque lecito supporre

22V. Capitolo VIII.


23ASBo, Riformagioni, I/1, c. 37v; 51r; 59r.
24 I loro nomi sono ricavabili da una nota marginale apposta al Liber del 1277.

ASBo, Elenchi, vol. III, reg. 2, c. 59 r. Su Rolandino cfr. almeno Palmieri, Rolandino

Capitolo 6.pmd 241 09/11/2009, 16.26


242 GIULIANO MILANI

che i tre notai non lavorarono passivamente sul materiale già esistente,
ma provvidero a un’ulteriore selezione dei personaggi fino a quel mo-
mento censiti, escludendone alcuni e includendone altri.
Per quanto lungamente concepito, e pensato per essere un elenco
di riferimento, il Liber del 1277 risultava già superato pochissimo tem-
po dopo la sua ultimazione. Da un registro di beni sequestrati, compo-
sto poco dopo, sappiamo che alcuni personaggi che erano stati condan-
nati al confino furono banditi nei mesi immediatamente successivi 25.
Questa fonte consente di ipotizzare che nel periodo trascorso tra la
compilazione del Liber del 1277 e il dicembre 1278 il gruppo dei ban-
diti lambertazzi si fosse ampliato complessivamente di quasi il 50%, in
seguito ai bandi dei confinati 26. Dallo stesso registro ricaviamo che nel-
lo stesso periodo alcuni banditi e confinati cominciarono ad essere riac-
colti. Sulla base di attestazioni frammentarie e indirette che non con-
sentono di stabilire termini quantitativi attendibili, possiamo dire che il
flusso di uscita e quello di entrata nel gruppo dei lambertazzi non si
esaurirono nel corso degli anni 1277-1279 27. Le condizioni fissate dal

Passageri, Cencetti, Rolandino dal mito alla storia, Rolandino 1215-1300, Pini, Un prin-
cipe dei notai, e ora Rolandino.
25 ASBo, Beni, vol. VI, cc. 1-87. Su questo registro ci soffermeremo a lungo nel

Capitolo IX. Esso venne redatto sotto la capitaneria di Garsindonio dei Luvicini, che
ricoprì la carica dal novembre del 1276 fino all’aprile del 1277. Come vedremo meglio
oltre, in questo registro i beni appaiono ripartiti innanzitutto per nome del bandito
proprietario. Tra i 296 proprietari censiti, ben 60 non risultano banditi nel Liber del
1277. Tale discrepanza può essere spiegata ricorrendo a due considerazioni. Innanzitut-
to i due elenchi vennero elaborati in due sedi differenti e sulla base di diverse infor-
mazioni: quello dei condannati fu scritto, come si è visto, da tre notai incaricati dal
podestà sulla base di tutte le liste prodotte sino a quel momento, e in particolare delle
liste di banditi del 1274 e di quelle di sospetti del 1274 e del 1275; quello dei beni
venne invece scritto partendo dalle dichiarazioni d’estimo consegnate prima della cac-
ciata dai lambertazzi, di cui si occupò un collegio di otto sapientes e dalle « denunce »
dei beni dei lambertazzi che vennero presentate dai ministrali delle parrocchie nel
corso del 1276, risistemando il tutto durante il periodo novembre 1276 – aprile 1277.
26 Il dato è stato ricavato in questo modo: dal gruppo dei banditi proprietari

attestati nel libro dei beni (296) sono state sottratte le 60 menzioni non presenti nel
Liber del 1277. In tal modo si ottiene la consistenza del gruppo dei banditi proprietari
di beni nel quartiere di porta Ravennate all’epoca della compilazione del Liber del
1277: 236 persone. Abbiamo quindi sommato i 60 proprietari banditi entro l’aprile del
1277 (termine ante quem del libro dei beni) e i 57 banditi entro il dicembre 1278,
ricavando la cifra di 117, pari al 49,5% dei 236 proprietari banditi all’epoca della
compilazione del Liber del 1277.
27 Contemporaneamente, alcuni lambertazzi banditi videro migliorare la propria

condizione penale sottoponendosi agli ordini del comune. Non siamo in grado di quan-

Capitolo 6.pmd 242 09/11/2009, 16.26


BOLOGNA 1274-1300. LISTE E CONDIZIONI PENALI 243

registro del 1277, dunque, non erano affatto fisse, ma sin dall’inizio
passibili di modifica.

3. La selezione dei condannati. Prima e dopo le liste del 1287

Dopo il 28 settembre del 1279, non appena i lambertazzi furono


rientrati in città, alcuni di essi giurarono la parte geremea. Ciò avvenne
nel quadro di una significativa azione organizzata da Rolandino Passa-
geri e dalla parte geremea 28 per tutelarsi di fronte al rientro dei nemici:
l’adesione alla parte geremea dei più tiepidi tra i nemici consentiva di
affrontare con una base di consenso più solida le inevitabili dispute
recate dalla fine dell’esclusione. Non possiamo affermare, ma nemmeno
escludere, che nei piani dei geremei vi fosse già il progetto di costrin-
gere i lambertazzi ad allontanarsi nuovamente. Il fatto che, in una si-
tuazione ufficialmente pacificata, cercarono di garantirsi nuove fedeltà
« di parte », segnala comunque che il rientro voluto dal legato continua-
va a essere malvisto. Come attesta un processo del 1287, tra ottobre e
dicembre 1279, Rolandino si recò nelle parrocchie affinché i lambertaz-
zi che intendevano entrare nella parte geremea potessero prestare i giu-
ramenti di adesione, alla presenza sua, in qualità di capitano della par-

tificare il peso di questi rientri. Quarantuno note marginali apposte al libro dei beni di
porta Ravennate specificano come le case e i terreni in questione siano uscite dal
possesso del comune nel periodo 1277-1279, ma esse non ci consentono di distinguere
i beni derubricati, perché restituiti a banditi rientrati, da quelli cancellati dagli elenchi
perché concessi a geremei che avevano dimostrato che case e terreni erano in realtà di
loro pertinenza. In entrambi i casi, successivamente al 1280, un notaio appose la nota
« ante tempus secundorum rumorum », e cioè, cancellati prima del dicembre 1279. Le
note di questo tipo sono in tutto 39 nell’elenco e 2 nell’aggiornamento del 1278. La
notizia di questi primi rientri è confermata da altre fonti. Le riformagioni del consiglio
del popolo, che per il periodo succesivo forniscono molte attestazioni di rientro, sono
conservate in maniera estremamente frammentaria per questo periodo. Una di esse
indica che il 29 settembre del 1277 due persone vennero approvate in questa sede
come « buoni cittadini di parte geremea », con ogni probabilità in seguito a una peti-
zione (ASBo, Riformagioni, vol. I/1, c. 39r). Dalla correzione al Liber del 1277, che ci
permette di datare questo registro a prima del marzo 1277, si ricava inoltre che sicura-
mente, nel marzo del 1277 due confinati avevano giurato la parte geremea ed erano
stati assolti dalla loro pena (ASBo, Elenchi, vol. III, reg. 2, c. 59r).
28 Come ha rilevato Fasoli, La legislazione antimagnatizia, la parte geremea, sulla

quale al principio del Novecento discussero animatamente Vitale, Il dominio della parte
guelfa e Caggese, Su l’origine della Parte guelfa, compare direttamente, come istituzio-
ne, nella documentazione bolognese duecentesca, soltanto in questa occasione.

Capitolo 6.pmd 243 09/11/2009, 16.26


244 GIULIANO MILANI

te, e dei propri vicini 29. Le liste di questi giuramenti non sono giunte
fino a noi che attraverso occasionali citazioni e quindi non è possibile
stabilirne l’entità numerica 30. Grazie a queste citazioni, siamo però in
grado di farci un idea, per quanto vaga, delle persone che giurarono: si
trattò soprattutto di populares, residenti nella seconda e nella terza zona31,
che nel 1277 erano stati inclusi nelle categorie più leggere dei confinati.
Tra di loro si riconoscono beccai, artigiani, tintori e immigrati recenti.
Spesso i padri di famiglia fecero giurare anche i figli minori che non
erano stati inclusi nel libro del 1277.
Dopo il nuovo tumulto provocato alla fine del dicembre dalla so-
cietà dei beccai, e in particolare dal suo leader militare, il barixellus

29 Il riferimento si trova all’interno della serie di argomenti da verificare mediante

testimonianze (intentio), presentata da Iacobus Milaniti per dimostrare di essere gere-


meo. ASBo, Giudici, reg. 89 (1287), c. 26r: « Intendit probare dominus Iacobus Mila-
niti capelle sancti Iohannis in Monte ad suam defensionem [...] dictus dominus Iaco-
bus Milaniti et multi alii qui vere erant et fuerant de parte ieremiensium et ecclesie
civitatis Bononie pro maiori firmitate dicte partis et pro manutenenda et defendenda
dictam partem ieremiensium civitatis Bononie ante secundos rumores habitos et factos
in civitate Bononie coram domino Rolandino Passagerio et coram multis aliis homini-
bus dicte partis iermiensium per capellas qui dictum iuramentum recipiebant ». Le
procedure e i tempi di giuramento, che vedono la partecipazione dei vicini, sono con-
fermate da una delle correzioni apposte al Liber del 1277: « Cancellatus fuit nomen
infrascripti Laurencius Caccianimicis de Cacciptis et Açoni sui fratris eo quod recepti
fuerunt per capitaneum partis ieremensium dominum Rolandinum Passagerium et vici-
niam strate Castellionis ad partem ieremensium predictam iurandam per pluries dies
ante tempus rumorum venitorum ercenter [sic] in civitate Bononie de mense decem-
bris millesimo ducentesimo septuagesimo nono, .VII. indictione » ASBo, Elenchi, vol.
III, reg. 2, c. 77r.
30 Si tratta in primo luogo delle poche note apposte al Liber del 1277 datate tra

il settembre e il dicembre 1279: ASBo, Elenchi, vol. III, reg. 2, cc. 18v (Gandulfinus
domini Barbi); 42v (Iohanninus Iacobi de Parma); 43v (Martinus tintor); 44r (Iacobinus
de Açonibus); 68r (Petrus Caccianemicis de Cacciptis); 77r (Laurencius et Aço Cacciane-
mici de Cacciptis); 77r (Benvenutus de Sabatinis); 77r (Nicolaus Guillelmi de Arientis).
Altre menzioni di « illos qui iuraverunt ante tempus secundorum rumorum » sono ri-
portate in copia nell’elenco miscellaneo del 1308 conservato in ASBo, Elenchi, vol. III,
reg. 1, cc. 53v-54r (p. Stiera); c. 169v (p. Procola); c. 240 (p. Ravennate). Grazie a
queste aggiunte sappiamo che giurarono in quei tre mesi anche: Nicolaus Gerardi;
Mathiolus e Maxe Ugolini Mathioli; suo figlio Ugolinus; Ungarellus de Gargognano;
Arriverius de Caccianemicis; Michael Benvenuti Butrigari e suo fratello Iacobus; Domini-
cus Guidonis de Bagnarola; Bombolognus e Gerardus figli di Iacobinus de Açonibus;
Bonacosa di Bonacosa Taconis; Bonaccursius Petroboni sartori.
31 L’unica persona che giurò la parte e risulta residente nella prima zona è Arrive-

rius Caccianemici, membro eterodosso di un ramo minore di questa grande famiglia


geremea. Egli era stato confinato fuori dal distretto nel 1277.

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BOLOGNA 1274-1300. LISTE E CONDIZIONI PENALI 245

Giovanni Summa, che portò alla nuova fuga dei lambertazzi, i giura-
menti della parte geremea, lungi dall’esaurirsi, si intensificarono. Con la
fine degli scontri venne stabilita una nuova procedura, secondo la quale
i lambertazzi potevano giurare nel consiglio comunale. Nel corso del
1280 giurarono così la parte almeno 657 persone, di cui ben 470 erano
stati inclusi nel registro del 1277. Gli altri 187 (il 31%) o erano stati
censiti nelle liste di sospetti, nelle collette o nelle assignationes equorum
del 1274-75, oppure si trattava di familiari di lambertazzi condannati,
che, come era avvenuto negli ultimi mesi del 1279, venivano fatti giura-
re cautelativamente affinché non potessero in futuro subire le conse-
guenze dell’esclusione. Nel complesso si trattò comunque di una prima
erosione del gruppo dei condannati, che riportò nella condizione di
cittadini dotati di pieni diritti circa il 12% dei lambertazzi. Tra i giu-
ranti che avevano subito condanne, il 42% era stato soltanto confinato
in città, una percentuale analoga (41%) era stata confinata al di fuori
dalla città, nelle altre tre categorie 32, e il restante 17% era stato bandi-
to. Se si osserva il gruppo dei giuranti dal punto di vista sociale si
nota che in esso la percentuale di famiglie dotate di una torre è bassa
(14%) e quella di magnati è minima (solo 5 su 657) e composta da
membri di rami minori o « periferici » di casati lambertazzi (i Mulnaro-
li, parenti dei Lambertazzi, i da Castello parenti degli Albari, oltre a un
Accarisi, un Albari e uno Scannabecchi), residenti per lo più lontano
dal resto della famiglia nelle parrocchie attorno all’antico palazzo impe-
riale. Considerando che anche nel 1279 l’unico personaggio appartenen-
te a un’alta classe sociale a giurare era stato un Caccianemici, residente
nella stessa zona e appartenente a una famiglia geremea, appare chiara-
mente come in questi giuramenti ebbe un ruolo rilevante la « presenta-
zione » dei vicini di parrocchia, che in queste aree a maggiore presenza
geremea tendevano a far riavvicinare parenti e amici eterodossi. Attra-
verso questi giuramenti alcuni dei lignaggi toccati dalla persecuzione,
come i Carrari, o i Tettalasini i Vandoli, rientrarono definitivamente a
Bologna e non subirono negli anni successivi l’esclusione. Altre famiglie
lambertazze (come Corradi, Garisendi, Maccagnani, Piatesi, Poeti, To-
schi) videro importanti defezioni al proprio interno. Ma soprattutto
moltissimi populares riuscirono a rimediare alla scelta politica che li aveva
privati per alcuni anni della pienezza dei propri diritti. Nelle cappelle

32 Specificamente, tra i giuranti il 10% era stato condannato alla prima condizio-

ne, fuori dal distretto; il 17% alla seconda condizione, fuori dal comitato; il 14% alla
terza condizione, fuori dalla città, ma nel comitato.

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246 GIULIANO MILANI

del nostro campione 33 giurarono la parte 89 individui, di cui ben 64


puniti nel 1277. Di questi il 12% era rappresentato da cambiatori, il
31% da artigiani, il 14% da immigrati recenti, identificati dal solo to-
ponimo di provenienza. I giuramenti del 1280 rappresentarono dunque
una strada per il rientro che fu percorsa dalla porzione socialmente
inferiore della fazione condannata, in particolare da coloro che avevano
subito le condanne meno gravi e che dunque erano probabilmente meno
implicati nell’appartenza di fazione. Anche per questo ottennero l’indi-
spensabile garanzia dei vicini geremei.
Ma i giuramenti del 1279-1280 costituirono il primo atto di un più
ampio processo con cui, all’indomani della seconda esclusione, il grup-
po dei condannati venne notevolmente ridimensionato, e le stesse con-
dizioni penali subirono un generale miglioramento. Dalle liste superstiti
possiamo farci un’idea abbastanza precisa delle modifiche quantitative e
qualitative subite dal gruppo dei confinati. Nel corso del 1280 vennero
infatti corretti gli elenchi del 1277 attraverso annotazioni marginali po-
ste accanto ai nomi di tutti i confinati 34. Dalla lettura di queste note si
ricava che le categorie di confino vennero riformate: alle quattro condi-
ciones precedenti si sostituì una ripartizione in tre gradus: i confinati
del primo grado, come già quelli della prima condicio, dovevano risie-
dere fuori dal distretto cittadino; i confinati di secondo grado erano
tenuti a scegliersi località di confino poste ad almeno sei miglia dalla
città, cioè entro il comitatus; quelli del terzo (come quelli della quarta
condicio) dovevano uscire dalla città solo nel caso in cui avessero rice-
vuto un ordine al riguardo, e recarsi in luoghi lontani almeno quattro
miglia da Bologna. Non sappiamo esattamente su quali basi vennero
attribuite le nuove condanne al confino. Possiamo tuttavia affermare
che i nuovi schedatori tennero conto dei giuramenti e anche delle asso-
luzioni, cioè di quei provvedimenti speciali, con cui, sulla base di una
petizione, si provvedeva a esimere dalla condanna i minori, gli anziani
e i chierici, o coloro che avevano dimostrato di essere da sempre gere-

33V Capitolo VI.


34 La datazione di queste correzioni si ricava da due elementi: la loro posizione
rispetto ad altre annotazioni datate, che suggerisce un termine post quem (il maggio
del 1280) e un termine ante quem (il gennaio del 1282); e la presenza di registri di
confinati sicuramente posteriori a queste annotazioni (lo si arguisce dal fatto che non
compaiono, in quanto assolti, alcuni dei confinati presenti in queste annotazioni)
scritti tra il febbraio e i luglio 1281 sotto la capitaneria di Ugolino Rossi (ASBo,
Elenchi, b. X, reg. s.d. 1). Le annotazioni risalgono dunque al periodo maggio 1280
– gennaio 1281.

Capitolo 6.pmd 246 09/11/2009, 16.26


BOLOGNA 1274-1300. LISTE E CONDIZIONI PENALI 247

mei e dunque condannati ingiustamente, anch’esse registrate per mezzo


di annotazioni marginali nel Liber del 1277.
Gli schedatori del 1280, inoltre, probabilmente sulla base di una
nuova stima della pericolosità dei lambertazzi, procedettero a sistemare
quanti non avevano giurato la parte nelle nuove categorie di soggiorno
obbligato. Nel corso di questa nuova schedatura, altre persone proce-
dettero a giurare e ottennero assoluzioni, al punto da ridurre il gruppo
dei confinati almeno del 16,5% rispetto al 1277 35. Tra coloro che rima-
sero confinati, in virtù della riforma delle categorie di confino, cioè del
passaggio dalle quattro condiciones ai tre gradus, il 22% ebbe un mi-
glioramento della propria condizione 36; il 9,5% un peggioramento 37,
mentre il restante 68,5% non anò incontro, nel passaggio alle nuove
categorie penali, ad alcun effettivo cambiamento 38. In pratica quindi
solo una minoranza dei confinati venne costretta a risiedere in luoghi
più lontani rispetto a quelli pattuiti nel 1277.
Nella prima metà del 1281 l’aggiornamento del gruppo dei confina-
ti procedette ulteriormente. Sotto la capitaneria di Ugolino Rossi, che

35 Anche queste nuove condizioni si ricavano dalle correzioni al Liber del 1277.

Come abbiamo ricordato nel Capitolo precedente, il Liber del 1277 ci è giunto mutilo
delle prime carte, relative al quartiere di porta Piera. Per le menzioni scritte nel 1277
tale lacuna è stata integrata grazie a una copia trecentesca che tuttavia non riporta le
note marginali apposte a questo registro nel 1280. Non è quindi possibile conteggiare
le persone che giurarono o vennero assolte sulla base di queste annotazioni per tutti i
2508 confinati, ma solo per i 2046 che sono riportati dal registro originale, e che non
comprendono la quasi totalità dei confinati di porta Piera. Tra questi 2046, 337 ripor-
tano correzioni come « iur[avit partem] » oppure « abs[olutus] ». Si tratta del 16,5%.
La percentuale dei confinati assolti o giuranti varia notevolmente a seconda dei quar-
tieri attestati: a porta Ravvennate è del 12%, a porta Procola del 19,5%, a porta
Stiera del 22%. A giudicare dalla fisionomia socio politica dei confinati di porta Piera
la percentuale in questo quartiere dovette essere più vicina a quelle di Procola e di
Stiera cha a qualla di porta Ravennate. Se così fosse si otterrebbe una percentuale
complessiva superiore. Nelle cappelle del nostro campione, il gruppo dei confinati si
ridusse del 25%.
36 Si trattò dei confinati che nel 1277 erano stati condannati nella prima condicio

(fuori dal distretto), nella seconda condicio (fuori dal comitato) e nella terza condicio
(fuori dalla città) e che nelle note del 1280 vennero spostati al terzo gradus (in città).
37 Videro peggiorare la propria pena i confinati che nel 1277 erano stati inclusi

nella seconda, terza e quarta condicio e che nel 1280 furono spostati nel primo gradus,
e coloro che nel 1277 erano stati inseriti nella terza e nella quarta condicio e nel 1280
furono spostati nel secondo gradus.
38 Rimasero, di fatto, nella stessa condizione coloro che passarono dalla prima

condicio al primo gradus, quanti passarono dalla seconda condicio al secondo gradus e
quanti passarono dalla quarta condicio al terzo gradus.

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248 GIULIANO MILANI

fu in carica dal febbraio al luglio di quell’anno, si provvide a scrivere


un nuovo elenco dei confinati lambertazzi che fu il risultato finale del
lavoro iniziato con le correzioni al Liber del 1277 39. Vista la frammen-
taria conservazione di questa lista, come delle altre che d’ora in poi
menzioneremo, per avere un’idea attendibile delle variazioni nel gruppo
dei lambertazzi utilizzeremo le sette parrocchie del campione a cui ab-
biamo fatto riferimento nel capitolo precedente. Stando a queste par-
rocchie, nel nuovo registro il numero dei confinati era ulteriormente
diminuito. In queste zone già nel 1279-80 i giuramenti avevano condot-
to a un erosione del gruppo dei confinati particolarmente consistente 40.
Nell’elenco del 1281 i confinati erano complessivamente 139 (cioè solo
il 59% dei 235 condannati al confino nel 1277), ripartiti tra 55 confi-
nati fuori dal distretto, 36 fuori dalla città e 48 in città. In larga mag-
gioranza (110) essi provenivano dal gruppo dei confinati del 1277, per
una piccola quota si trattava di nuovi personaggi (5) e per un altra
porzione, più consistente (24), si trattava di ex-banditi.
Dunque in seguito alla seconda esclusione alcuni personaggi banditi
nella prima si erano sottomessi agli ordini del comune ed erano stati
inseriti nel gruppo dei confinati. Non si trattava solo di artigiani (come
per esempio i discendenti di Matteo agoclarius, o Azzolino di Iacopello
sartore), ma anche di alcuni membri dei grandi casati lambertazzi. Tra
gli ex banditi ora confinati comparivano tutti e cinque i componenti
della famiglia Boccacci, il ramo dei Lambertazzi residente nella parroc-
chia di S. Tecla, un Carbonesi, due Clarissimi, due Rustigani. Con po-
chissime eccezioni, un tratto comune ai magnati e ai popolani banditi
nel 1277 che nel 1281 avevano compiuto questo percorso di riavvicina-
mento al comune geremeo, era il fatto di avere avuto già nel 1277
alcuni familiari confinati. Il contatto di questi personaggi con i parenti
non banditi costituì con ogni probabilità un’importante precondizione
per uscire dal bando.
Nelle parrocchie del nostro campione i banditi nel 1277 erano stati
ben 146. Tralasciando a questo punto i 24 divenuti confinati, cosa era
avvenuto agli altri? Sicuramente altri 17 avevano giurato nel corso del

39 ASBo, Elenchi, b. X, reg. s.d. 1. Il registro non è datato, poiché manca della

prima carta, ma una sua copia trecentesca relativa al quartiere di porta Procola (ASBo,
Elenchi, vol. III, reg. 1, cc. 169-175) e un estratto di questo libro conservato in un
registro del Capitano del Popolo (ASBo, Giudici, reg 11, c. 1) permettono di attribuir-
lo alla capitaneria del Rossi.
40 Il 25% dei confinati aveva giurato la parte o si era fatto assolvere.

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BOLOGNA 1274-1300. LISTE E CONDIZIONI PENALI 249

1280 ed erano così rientrati nel pieno possesso dei loro diritti. Come i
confinati, anche i banditi che avevano giurato erano per lo più popula-
res, in questo caso dotati di un buon prestigio sociale (notai, cambiato-
ri), che spesso avevano parenti condannati a pene più lievi. Questi dati
da soli testimoniano che il gruppo dei banditi era diminuito almeno del
28%, secondo una percentuale minore a quella dei confinati nelle stes-
se « cappelle », ma comunque consistente. Inoltre con ogni probabilità
vi furono altri rientri di banditi 41. Non ci sono giunte tuttavia le nuove
liste complete dei banditi che, analogamente a quelle dei confinati, do-
vettero essere prodotte.
Dopo la redazione di queste liste, sempre durante la capitaneria di
Ugolino Rossi, si continuò a lavorare sugli elenchi, apponendo accanto
ai nomi dei confinati alcune annotazioni che segnalavano i luoghi di
confino prescelti 42; altre che indicavano i confinati che avevano giurato
la parte dopo essere stati iscritti nella nuova lista; e, infine, altre ancora
per indicare i confinati assolti dopo l’assegnazione dei confini per aver
dimostrato di avere un’età incompatibile con la pena (maggiori di 70
anni, minori), o per aver presentato documenti che comprovavano la
loro appartenenza al clero 43. Per queste ragioni, nel nostro campione,
dopo la compilazione delle liste dei confinati del 1281, altri 14 indivi-
dui, tutti confinati, vennero esentati dalla loro pena. Ma la capitaneria
di Ugolino Rossi non fu solamente un susseguirsi di occasioni di rien-
tro. Una volta fissato per mezzo delle liste il gruppo dei nuovi confina-
ti, si provvide ad ampliarlo secondo modalità che non siamo in grado
di stabilire, ma che lo riportarono quasi alle dimensioni che aveva nel

41 Esiste infatti un estimo del 1281 relativo agli allibrati nel quartiere di porta
Ravennate in cui appaiono, solo per il nostro campione, 3 menzioni di banditi del
1277 che non sono riportati né nelle liste dei giuramenti del 1280, né nelle liste di
confinati redatte l’anno successivo (BCA, ms. Gozzadini 80, cc. 27v; 28v, 30v). Si
tratta di Petrus Petri de Medicina, Boniohannes Rodulphi Datari e Martinus Liaçari de
Crescentiis.
42 Questi luoghi furono Padova, Ferrara; Argenta; Pistoia; Firenze, Un numero

minore di persone scelse Pisa, Massa Trabaria; Cumiatus, nella diocesi di Pisa; Aquile-
ia; Orvieto; Oristano, Monselice; Monpellerio, Solaria, Porto nel contado di Ferrara,
Cavacla, Modena, Ancona.
43 Note marginali all’elenco dei confinati conservato in ASBo, Elenchi, b. X, reg.

s. d. 1. Da queste annotazioni vennero ricavate delle liste autonome che ci sono giunte
in copia per il solo quartiere di porta Procola in ASBo, Elenchi, vol. III, reg. 1, cc.
142v-143r; 159r; 160r; 170r.

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250 GIULIANO MILANI

1277 (218 menzioni, a fronte delle 235 di allora) 44. Come previsto dagli
statuti vennero quindi inviati dei notai a controllare l’effettiva perma-
nenza dei condannati nei luoghi di soggiorno obbligato. Coloro che non
furono trovati vennero banditi e i loro nomi furono copiati in un appo-
sita lista 45. Nelle cappelle del nostro campione vennero in tal modo
bandite più di 138 persone. Il 1281, che si era aperto con una grande
riduzione del numero dei lambertazzi e con una complessiva attenuazio-
ne delle condizioni, si concludeva quindi in apparenza con una serie di
operazioni che riportavano il gruppo dei condannati ai livelli del 1277.
Negli anni successivi sappiamo con certezza che vennero emanati
nuovi bandi, sempre sulla base del mancato compimento di obblighi
legati alla condizione di confinato. Tra fine 1281 e inizio 1282 il capita-
no Aimerico de Ansandri fece bandire i confinati che non avevano
prestato la fideiussione di rimanere al confino 46. Ma si trattò di una
misura che coinvolse un gruppo piuttosto ristretto di lambertazzi. Nel
nostro campione solo 4 individui vennero banditi per questa ragione.
Nel 1283 e nel 1284, quando i capitani Giovanni da Pescarolo e Tom-
masino da Enzola procedettero a nuovi bandi sulla stessa base, le con-
danne testimoniate, solo per il quartiere di porta Procola, sono ben
54 47. Sotto il capitano successivo, Tigrino dei Sighibuldi, vi fu un pri-
mo tentativo di aggiornamento volto ad includere negli elenchi dei con-
dannati i discendenti divenuti maggiorenni. Corso Donati, capitano dal-
l’aprile all’ottobre del 1286, fece scrivere almeno una lista di lambertaz-
zi non trovati ai confini 48 e una di lambertazzi approvati e respinti
dalle società popolari 49. I suoi due successori fecero scrivere liste di
confinati non trovati. Si tratta di dati che sembrerebbero testimoniare,
per questi anni, il ritorno a un’esclusione dura, e un netto aumento del
numero dei banditi. Tale impressione è soltanto apparente, e si deve al

44 Questo dato si ricava dal fatto che nelle liste di lambertazzi banditi per non

essersi presentati alle ispezioni dei notai scritte nel 1281 (su cui v. nota successiva) vi
sono 79 personaggi che non appaiono nelle liste di confinati del 1281. Sommando
questi nomi a quelli presenti nelle liste di confinati (139) si ricava la cifra di 218
menzioni.
45 ASBo, Elenchi, vol. IV, cc. 88r-95v. Una copia di questa lista relativa a porta

Procola è in ASBo, Elenchi, vol. III, reg. 1, cc. 138-142.


46 ASBo, Elenchi, vol. IV, cc. 85r-87v.
47 ASBo, Elenchi, vol. III, reg. 1, cc. 136r-138v. Altri bandi di Tommasino da

Unzola sono in ASBo, Elenchi, b. X, r. s. d. IV.


48 ASBo, Giudici, reg. 72.
49 ASBo, Giudici, reg. 70.

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BOLOGNA 1274-1300. LISTE E CONDIZIONI PENALI 251

fatto che per questo periodo possediamo solo liste di banditi, mentre
sono andate perdute quelle dei confinati e soprattutto quelle di quanti
procedettero a giurare la parte.
Come era avvenuto sin dal 1277, anche attorno alla metà degli anni
Ottanta del Duecento il flusso dei nuovi bandi venne affiancato da un
flusso di rientri, altrettanto se non più consistente. A questi concorsero
alcuni meccanismi che andavano consolidandosi, minando alla base il
principio dell’irrevocabilità del bando per i lambertazzi, solennemente
sancito nel 1274. In moltissimi casi, ad esempio, i confinati banditi per
non aver prestato la fideiussione uscirono dal bando dopo aver pagato,
anche in ritardo, questa garanzia pecuniaria. I confinati banditi per non
essersi presentati alle ispezioni poterono difendersi in tribunale dall’ac-
cusa di violazione del confino, e rientrarono dopo aver vinto il proces-
so. Sempre attraverso il tribunale oppure per mezzo della presentazione
di petizioni nel consiglio del popolo molti personaggi inclusi nelle liste
riuscirono a dimostrare con gli espedienti più diversi che tale inclusio-
ne era stata illegittima e rientrarono nella pienezza dei propri diritti.
Per effetto di tutti questi spostamenti di status, i limiti tra le diverse
condizioni penali (bando e confino) e tra le pene più lievi (come il
confino in città) e il riconoscimento dello status di geremeo si fecero
sempre più labili, ingenerando una forte confusione sullo status giuridi-
co di molti cittadini. A tale situazione si cercò di porre riparo nel
1286. Nell’ottobre di quell’anno venne affidato a una commissione di
40 sapientes il compito di regolamentare la scrittura di nuove liste di
lambertazzi condannati. I sapientes, che in maggioranza avevano parteci-
pato attivamente sin dal primo momento alla schedatura dei lambertaz-
zi e che al tempo stesso venivano ordinariamente consultati dal tribuna-
le capitaneale per formulare le sentenze in merito ai processi contro
banditi, confinati e sospetti, decisero di procedere analiticamente, rico-
struendo le carriere penali e i passaggi di condizione di tutti i lamber-
tazzi censiti, e ricollocandoli, sulla base di un regolamento da loro stes-
si elaborato, nelle diverse categorie. Le delibere con cui venne formula-
to questo regolamento mostrano in maniera evidente come i legislatori
si sforzarono di prevedere tutti i percorsi possibili che i lambertazzi
avevano potuto compiere all’interno della selva delle differenti condizio-
ni penali. Meritano per questo di essere analizzate da vicino, confron-
tando le vicende penali previste da questi legislatori con quelle testimo-
niate dalle liste in nostro possesso, e verificando, con l’ausilio degli
elenchi che vennero redatti nel 1287, al termine della revisione iniziata
con queste provvisioni, se le norme furono effettivamente applicate.

Capitolo 6.pmd 251 09/11/2009, 16.26


252 GIULIANO MILANI

Le delibere dei quaranta sapientes si aprivano con l’affermazione di


un principio fino a quel momento applicato, ma mai formulato in sede
normativa con altrettanta chiarezza: i lambertazzi che avevano giurato la
parte geremea potevano essere cancellati dagli elenchi precedenti. Tale
affermazione era tuttavia limitata da due precisazioni. In primo luogo,
come era stato affermato sin dal 1284, i lambertazzi non avrebbero
potuto ricoprire cariche pubbliche. In secondo luogo, la cancellazione
non avrebbe avuto valore per quanti, dopo aver giurato la parte, si
erano allontanati dalla città e avevano combattuto contro il comune 50.
Quella dei lambertazzi che avevano giurato era tuttavia un categoria
eterogenea, poiché molte erano state le modalità con cui tali giuramenti
erano stati prestati, peraltro in momenti differenti. Si provvide quindi a
specificare la prima delibera. Innanzitutto si affermò che chi avesse giu-
rato la parte, ma non nel consiglio, doveva sottoporre ai sapienti le
prove dell’avvenuto giuramento 51. Tale precisazione riguardava a esem-
pio coloro che avevano giurato la parte negli ultimi mesi del 1279 alla
presenza di Rolandino Passageri e dei capitani della parte geremea, come
il beccaio Iacopino de Açonibus, confinato di quarta categoria nel 1277,
e i suoi due figli Bombologno e Gerardo 52, che, dopo aver giurato nel
1279, nel 1280 non avevano provveduto a confermare il giuramento nel
consiglio. Evidentemente riuscirono a difendere la loro posizione poiché
non campaiono nelle liste del 1287. In questo caso le cose si erano
sistemate facilmente, poiché i figli, con ogni probabilità minori, avevano

50 ASBo, Giudici, reg. 97, c. 1v: « In primis providerunt predicti ançiani et consu-
les et sapientes quod omnes et singuli de parte lambertatiorum qui iuraverunt partem
Ecclesie et geremensium civitatis Bononie secundum formam alicuius specialis aut ge-
neralis reformationis consili comunis vel populi Bononie extrahantur et cancellentur de
libris bannitorum et confinatorum comunis Bononie pro parte lambertatiorum; exceptis
illis qui post iuramentum partis geremiensium fuissent [rebelles] comunis Bononie vel
discessissent de civitate Bononie et ivissent ad standum Faventiam vel [Forlivi] vel
alibi cum inimicis et rebellibus comunis Bononie; salvo et [excepto ...] quod reforma-
tio populi facta tempore domini Gerardini de Buschitis olim capitanei populi que lo-
quitur quod nullus qui fuit lambertatius tempori primorum rumorum possit eligi in
consillio vel habere officium et cetera sit firma et rata in omnibus et pro omnia prout
in ea continetur inviolabiliter debeat observari ».
51 ASBo, Giudici, reg. 97, c. 1v: « Item quod omnes illi qui iuraverunt partem set

non iuraverunt in consilio veneant [ad] faciendum se scribi coram iudice domini capi-
tanei et defferant reformationes, instrumenta et iura que habent de ipsorum iuramento
et postea examinentur reformationes, instrumenta et iura per dictos sapientes ».
52 I loro nomi infatti appaiono nelle correzioni al Liber del 1277 ma non negli

elenchi dei giuranti.

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BOLOGNA 1274-1300. LISTE E CONDIZIONI PENALI 253

giurato assieme al padre. Ma cosa fare in quei casi in cui ciò non era
avvenuto? Anche su questo legiferarono i sapientes affermando che i
figli di coloro che avevano giurato la parte, che all’epoca del giuramen-
to erano minori, sarebbero stati collocati nella stessa categoria del loro
padre (cioè sarebbero stati assolti dalle pene), purché procedessero a
un nuovo giuramento nel caso fossero divenuti maggiorenni nel frat-
tempo 53. Chiaruccio di Giovanni Cavalli, un drappiere, aveva a esempio
giurato nel 1280, ma senza i suoi figli, che conosciamo grazie a un
elenco successivo. Essi in ogni caso dovettero prestare un nuovo giura-
mento e non vennero inclusi tra i puniti del 1287 54. Ma poteva darsi il
caso che i figli di coloro che avevano giurato la parte non avessero
giurato pur essendo maggiorenni all’epoca del giuramento dei padri.
Costoro, stabilirono i sapienti, avrebbero dovuto motivare opportuna-
mente il loro mancato giuramento, altrimenti non sarebbero stati riam-
messi 55. Dalle liste successive sappiamo che anche questa regola venne
applicata. Meglus salarolus, confinato di quarta condizione, aveva giura-
to nel 1280, senza i suoi figli Benvenuto e Michele 56. Costoro doveva-
no aver compiuto quindici anni nel 1284, poiché in quell’anno vennero
segnalati in una lista di discendenti di lambertazzi condannati al confi-
no nella quarta condizione 57. Quando, in seguito all’emanazione di que-
ste delibere, ebbero la possibilità di giurare, lo fecero e scomparirono
dalle liste del 1287. Ma non per tutti andò così: Pietro di Iacopino di
Bolognetto, confinato nel 1277, aveva giurato nel 1280, ma senza suo
figlio Iacopino che pertanto venne incluso già dal 1281 nelle liste di
confinati. Evidentemente, tra 1286 e 1287, egli non riuscì a fornire
spiegazioni valide per questa sua negligenza e per questo fu scritto tra
i confinati di terza categoria nel 1287 58. Con altre due delibere i sa-
pientes estesero questo provvedimento anche ai fratelli e ai figli dei
fratelli (in questo caso orfani di padre, e come tali sottoposti alla tutela

53 ASBo, Giudici, reg. 97, c. 2r: « Item quod filii illorum qui iuraverunt partem
qui tempore quo patres iuraverunt erant minores quindecim annis, sint in eo casu quo
patres set si nunc sunt maiores quindecim annis debeant iurare partem ».
54 ASBo, Elenchi, vol. I, c. 50r.
55 ASBo, Giudici, reg. 97, c. 2r: « Item quod filii illorum qui iuraverunt partem

qui tempore quo patres iuraverunt erant maiores quindecim annos et non iuraverunt
partem cum patribus non extrahantur de libris bannitorum vel confinatorum si non
habent legyptima excusationem ex eo quod non iuraverunt cum patribus ».
56 ASBo, Elenchi, vol. IV, c. 55r.
57 ASBo, Elenchi, vol. III, reg. 1, c. 78r.
58 ASBo, Elenchi, b. 10, reg. s. d. 1, c. 60r. ASBo, Elenchi, vol. III, reg. 1, c. 172r.

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dello zio paterno) di quanti avevano giurato la parte. Anche costoro,


nel caso fossero stati ancora minori, sarebbero stati esentati automati-
camente, mentre avrebbero dovuto giurare nuovamente la parte qua-
lora fossero divenuti maggiorenni 59. In questa regola ricadde ad esem-
pio Iacopo del fu Petrizzolo Vandoli, che, in quanto minore, a diffe-
renza di suo fratello Filippo non aveva giurato nel 1280. Evidente-
mente egli giurò in seguito, dal momento che non venne incluso negli
elenchi del 1287 60.
Più delicata si rivelò l’elaborazione dei criteri per definire il gruppo
dei confinati e dei banditi. Le delibere che ne trattano risultano datate
il giorno successivo (il quindici ottobre) rispetto a quelle relative agli
esentati dalle condanne, che sinora abbiamo analizzato, il che lascia
supporre che i quaranta sapientes rinviarono la discussione 61. Fu in que-
sto campo che vennero prese le decisioni più significative, e non è
difficile immaginare che tali decisioni suscitarono un dibattito più in-
tenso. Al termine di tale dibattito si stabilì che quanti erano stati ban-
diti nella prima esclusione e che in seguito avevano obbedito agli ordi-
ni del comune sarebbero stati inclusi nella categoria dei confinati, a
patto che fossero sempre rimasti obbedienti, fossero stati allibrati nel-
l’estimo e avessero pagato le collette 62. Un simile percorso, più infor-
male rispetto a quello compiuto dai lambertazzi che avevano giurato,
era stato un importante canale per la reintegrazione. Il mercante Bon-
giovanni di Rodolfo Datari, bandito nel 1277, non aveva giurato nel
1280, ma il suo nome appare nell’estimo del 1281 con la rispettabile

59 ASBo, Giudici, reg. 97, c. 2r: « Item quod fratres illorum qui iuraverunt partem

qui tempore quo fratres iuraverunt erant minores quindecim annis sint in eo casu quo
fratres qui iuraverunt dum tamen si nunc sunt maiores quindecim annis iurentur par-
tem de novo ».
« Item quod filii fratrum illorum qui iuraverunt partem qui tempore quo patrui
iuraverunt erant minores quindecim annis et ipsorum patres tunc erant mortui sint in
eo casu quo patrui eorum qui iuraverunt dum tamen modo iuretur partem de novo si
nunc sunt maiores quindecim annis ».
60 ASBo, Elenchi, vol. IV, c. 58v.
61 ASBo, Giudici, reg. 97, c. 2r: Die .XV. octubris.
62 ASBo, Giudici, reg. 97, c. 2r: « Item providerunt quod banniti pro parte lam-

bertatiorum tempore prime guerre qui postea venerunt ad mandata comunis Bononie
extrahantur de libris bannitorum et [...] ponantur in libris confinatorum et confinentur
in illis locis qui placuerint consillio populi si postquam venerunt ad mandata comunis
Bononie [fueru]nt et steterunt obedientes continui comuni Bononie habendo extimum
in civitatem et solvendo collectas ».

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stima di 733 lire 63. Egli inoltre era assente dalle liste dei confinati com-
pilate nel 1281, cosa che lascia immaginare che fosse riuscito non solo
a uscire dalla condizione di bandito, ma anche a risparmiarsi il confino.
Fu per sanare situazioni come questa che nel 1287 si provvide a ema-
nare la delibera a cui abbiamo fatto riferimento. La sua applicazione
non fu però rigorosa: Bongiovanni e le altre persone che, come lui,
avevano seguito la strada dell’iscrizione all’estimo non appaiono affatto
come confinati (né tantomeno come banditi) nelle liste del 1287. È
possibile che nel frattempo fossero morti, ma è possibile anche che essi
riuscirono in qualche modo a provare di non meritare più la pena.
Con un’altra delibera i sapientes decretarono che quanti comparivano
nelle liste scritte in seguito alla prima guerra (quelle del 1277) e poi
non erano stati inclusi nelle liste successive alla seconda cacciata dove-
vano essere considerati banditi, a meno di non aver giurato la parte o
di non essere passati agli ordini del comune. Nel caso in cui fossero
morti e avessero lasciato dei figli, che nel frattempo erano rimasti agli
ordini del comune, pagando le imposte, questi figli non dovevano esse-
re considerati banditi 64. Si trattava di una delibera che istituiva definiti-
vamente una procedura già attuata da tempo, l’uscita dal bando degli
orfani ubbidienti 65 – per i quali venne stabilito in ogni caso che doves-
sero subire il confino 66 –, ma che al tempo stesso tentava di porre un
argine ai rientri informali dei banditi, ottenuti per effetto della distra-
zione o della connivenza di un notaio addetto a scrivere gli elenchi.

63 BCA, ms. Gozzadini 80, c. 28v.


64 ASBo, Giudici, reg. 97, c. 3r: « Item quod illi qui fuerunt conscripti in libris
bannitorum tempore prime guerre et postea non fuerunt scripti in libris tempore se-
cunde guerre sint banniti sicut erant in primis libris, exceptis hiis qui iuraverunt par-
tem et hiis qui steterunt ad mandata comunis, et si aliquis ex eis sint mortus et
remaneant filii qui steterint ad mandata comunis Bononie habendo extimum et solven-
do collectas, illi tales filii non sint nec habeant pro bannitis ».
65 L’argomento basato sull’ubbidenza e il pagamento delle tasse degli orfani dei

banditi si ritrova nelle petizioni presentate al giudice ai beni dei banditi già dal 1281
(su questo v. cap. V). Visto il largo utilizzo che ne facevano vedove e altri parenti al
fine di riottenere dal comune i beni sequestrati, è possibile ipotizzare che già all’indo-
mani della seconda cacciata fosse stata emanata una delibera al riguardo.
66 ASBo, Giudici, reg. 97, c. 2v: « Item quod liberi ex linea masculina bannitorum

mortuorum qui sunt obedientes et stant ad mandata comunis Bononie et habent exti-
mum in civitatem Bononie et solverunt collectas extrahantur de libris bannitorum et
ponantur in libris confinatorum et confinentur in locis qui placuerint consilio populi
et dando securitatem de novo de obediendo et stando mandatis comunis Bononie co-
ram domino capitaneo ».

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Per quanto riusciamo a capire dalle liste che possediamo tali norme
vennero attuate compiutamente: abbiamo moltissime prove del fatto che
alcuni banditi « dimenticati » dagli schedatori dopo il 1277, come Arri-
verio di Nicolò Lambertazzi, o Pietro di Iacopello Sartore, un artigiano
residente nella cappella gentilizia di S. Tecla dei Lambertazzi, furono
scritti nelle nuove liste del 1287. Risulta anche che molti orfani dei
banditi furono schedati come banditi nelle nuove liste del 1287. Così
avvenne ad esempio per Bianchino, figlio naturale di Castellano Anda-
lò, che era morto bandito, in carcere, nel 1276. O per Carbonese e
Spinello del fu Uspinello Carbonesi, che pur essendo stati riconosciuti
come minori nel 1281, vennero nuovamente banditi nel 1287 67. In mol-
ti altri casi i figli orfani dei banditi vennero condannati al solo confino,
evidentemente perché si erano sottoposti agli ordini del comune. In
altri casi ancora, come avvenne ai figli di Çanrobertus Clarissimi, venne-
ro scritti tra i banditi solo i figli, evidentemente inobbedienti, mentre il
padre, che era rimasto ad mandata, subì il confino. Questi differenti
percorsi appaiono tutti inquadrabili nelle tipologie previste dai quaranta
sapientes, e l’analisi delle liste mostra in maniera evidente che vennero
trattati sulla base delle delibere che li disciplinavano.
Infine, altre delibere fissarono il da farsi in merito ai confinati e ai
loro figli. Coloro che fossero stati assolti dalla pena a partire dal 1281
avrebbero dovuto essere riesaminati e approvati sulla base delle liste di
assoluzioni dai sapientes e dagli anziani, prima di veder cancellata defi-
nitivamente la loro pena 68; e così anche si sarebbe dovuto procedere
per i confinati del 1277 che non erano entrati nelle liste posteriori alla
seconda cacciata 69 e per quei figli che all’epoca in cui i loro padri

67 ASBo, Elenchi, b. X, reg. s.d. 1, cc. 44r; ASBo, Elenchi, vol. III, reg. 1, c.
138r.
68 ASBo, Giudici, reg. 97, c. 2v: « Item quod illi qui fuerunt confinati tempore

prime guerre et fuerunt absoluti a confinibus tempore domini Ugolini de Rubeis olim
capitanei populi Bononie ad scruptinium fabarum albarum et nigrarum vel tempore
Gerardini de Buschittis vel alterius [...] capitanei populi Bononie extrahantur de libris
confinatorum dummodo: prius debeant per dominum capitaneum haberi libri et refor-
mationes in quibus sunt dicte abrasiones et per dictos sapientes debeant videri et
examinari et aprobari predicti libri et reformationes et causae propter quas fuerunt
predicti confinati absoluti qui ançiani et sapientes postea examinaverunt et approbave-
runt illos qui absoluti fuerunt de confinibus tempore domini Ugolini de Rubeis olim
capitanei populi Bononie qui sunt in libro scripto pro Iohannem Butrigarium notarium
die .XVIo. octubris ».
69 ASBo, Giudici, reg. 97, c. 3r: « Item quod illi qui fuerunt conscripti in libris

confinatorum tempore prime guerre et postea non fuerunt scripti in libris tempore

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erano stati condannati al confino avevano già più di vent’anni e tuttavia


non avevano subìto la stessa condanna, combattendo per il comune 70.
Infine, i figli degli altri confinati morti sarebbero stati registrati nella
stessa condizione dei loro padri 71. La lettura delle liste del 1287 mostra
che anche queste regole vennero sostanzialmente rispettate. Dei confi-
nati assolti nel 1281 la maggior parte vide confermata la propria asso-
luzione, ma la presenza nel nostro campione di due di loro nuovamen-
te confinati nel 1287 indica che una minima selezione vi fu72, come vi
fu del resto per i figli.
I sapientes non si limitarono a fissare queste regole, ma istituirono
un criterio completamente nuovo per ripartire i confinati nelle varie
categorie. Con un delibera di grande significato politico decretarono
che i confinati lambertazzi appartenenti alle grandi casate, sia dei ma-
gnati che del popolo, sarebbero stati puniti con il confino fuori dal
distretto di Bologna, non più nei luoghi che avessero deciso loro, ma
in sedi scelte dal comune. Quanto agli altri confinati, gli artigiani e gli
uomini di vile condizione che non potevano turbare l’equilibrio del
comune, avrebbero potuto rimanere in città, allontanandosi quando fos-
se stato loro ordinato 73. In tal modo l’appartenenza a un grande casato
avrebbe pesato per la prima volta in maniera determinante sulla condi-

secunde guerre et steterunt nobiscum tamquam geremienses debeant examinari et re-


duci in scriptis et eorum nomina et cognomina legi inter dictos sapientes et approbari
per eos et postea reduci ad consilium populi ».
70 ASBo, Giudici, reg. 97, c. 3r: « Item quod ilii qui tempore primorum rumorum

erant maiores viginti annis et patres eorum fuerunt confinati et ipsi non et immo se
aprobaverunt in omnibus tamquam geremienses venendo in exsercitibus et cavalcatis
nobiscum vel qui habuerunt equos pro comuni Bononie pro parte geremiensium et
quod habuerunt extimum in civitate Bononie et solverunt collectas, sive sint de socie-
tatibus sive non, faciant se scribi coram domino capitaneo et postea nomina et cogno-
mina predictorum legantur et examinantur inter dictos sapientes ».
71 ASBo, Giudici, reg. 97, c. 2v: « Item quod liberi ex linea masculina confinato-

rum mortuorum qui sunt maiores quindecim annis et qui obediunt comuni Bononie
sint in eo casu quo reperiunt fuisse patres eorum mortuorum ».
72 Si trattò di Lambertinus di Gualdradina degli Arienti (ASBo, Elenchi, vol. IV,

c. 112v) e di Conradinus Michelis (ASBo Elenchi, vol. IV, c. 172r).


73 ASBo, Giudici, reg. 97, c. 2r-v: « Item quod confinati de parte lambertatiorum

qui sunt de casalibus et magnatum populi debeant confinari ad presentem extra di-
strictum Bononie in illis locis qui placuerint consillio populi, tamen confinati qui sunt
artifices et sunt homnes vili conditionis et qui sunt homines qui non possunt turbare
statum comunis vel populi Bononie nec partis geremiensium modo non debeant confi-
nari set ipsorum nomina et cognomina scribi de[beant ...] ita quod expedite possent
mitti extra civitatem Bononie in [locis qui placerentur]comuni Bononie ».

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zione penale, e non vi sarebbe più stata la possibilità per un membro


di una grande domus di continuare a risiedere in città. Non era stato
questo criterio a pesare nel 1277, quando si erano previste addirittura
quattro categorie di confino, come a voler scrupolosamente rispettare le
diverse gradazioni (individuali) di responsabilità, e i membri delle gran-
di casate erano stati distribuiti nelle differenti fasce concentriche di lon-
tananza dalla città. Ma nel 1287 questa delibera venne scrupolosamente
applicata: tra i 116 confinati fuori dal distretto residenti nel quartiere
di porta Procola, solo cinque non hanno un cognome riconoscibile 74.
Ci siamo voluti soffermare su queste delibere e controllarne il valore
e l’applicazione, calandoci, in un certo senso, nei panni di coloro che
esaminarono e fissarono le condizioni dei lambertazzi nel corso del 1286
e del 1287, poiché esse mostrano come, prima di procedere a un tale
lavoro, fu istituito un sistema di regole complesso che rivoluzionò di
fatto le categorie fino a quel momento utilizzate. Nel 1277 il criterio
per identificare un cittadino come lambertazzo era stato la pubblica fama
e quello per collocarlo in una delle categorie penali, in primo luogo, la
responsabilità. Dieci anni dopo, sulla scorta di un’importante decisione
presa nel 1284 75, il criterio di base diventò la presenza nelle liste e, per
l’attribuzione della categoria penale, l’appartenenza o meno a un grande
casato. Il controllo effettuato sulle liste che da queste delibere furono
originate, consente di affermare che in generale i sapientes e i notai, che
in seguito le applicarono si attennero ai criteri da loro stessi decretati e
poterono agire arbitrariamente solo all’interno dei margini che si erano
concessi: la revisione dei giuramenti e quella dell’effettiva « ubbidienza »
che i lambertazzi avevano dimostrato negli anni precedenti. L’analisi del-
le delibere dell’ottobre 1286 segnala inoltre un altro elemento di grande
rilevanza. Dopo dieci anni di esclusione, interrotti soltanto da una bre-
vissima pausa, i lambertazzi banditi e confinati che avevano deciso di
rientrare sottoponendosi « agli ordini » del comune avevano avuto la
possibilità di farlo. Le possibili strade per il rientro che i sapientes elen-
carono minuziosamente, rendendole in alcuni casi per la prima volta
legali, in altri casi riservandosi la possibilità di ricontrollare nome per
nome, erano state molte e diverse: il giuramento, l’assoluzione, l’inseri-
mento negli estimi, la scomparsa più o meno legittima dalle liste, la
partecipazione militare in favore del comune. Non si era trattato di

74
ASBo Elenchi, vol. IV, cc. 105 e ss.
75
Allora venne stabilito che non potevano essere accusati di appartenenza alla
pars lambertaciorum quanti non inclusi nelle liste v. Statuti di Bologna del 1288, p. 524.

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BOLOGNA 1274-1300. LISTE E CONDIZIONI PENALI 259

strade facili o accessibili a tutti: per giurare occorreva il favore dei vici-
ni, per farsi assolvere quello di un giudice o di una maggioranza del
consiglio; per essere iscritto negli estimi, nelle liste militari o per essere
cancellati dalle liste, si doveva contare almeno su un notaio amico. Nel
1286 i sapientes resero di fatto legittime tutte queste strategie. Se un’idea
comune è possibile rinvenire nelle differenti e specifiche norme che al-
lora vennero approvate è quella per cui dovevano restare puniti solo
coloro che, non cogliendo nessuna delle opportunità che si erano pre-
sentate, avevano mostrato di non volere o non potere rientrare.
Naturalmente per applicare le decisioni prese occorsero alcuni mesi
e numerosi passaggi. Nel corso della stessa capitaneria di Corrado da
Montemagno, che terminò nel marzo del 1287, vennero stilate una lista
di persone definitivamente approvate 76, e una di discendenti di banditi
da aggiungere ai nomi già censiti 77. Si procedette quindi, forse sotto la
successiva capitaneria di Iacobus de Rivola (maggio-settembre 1287), a
dividere coloro che appartenevano alle magne domus dagli altri 78. Tale
lavoro condusse da un lato alla scrittura di una lista di membri dei
grandi casati, non ancora ripartita in banditi e confinati 79, dall’altro alla

76 Ci rimane una copia di questa lista per il quartiere di porta Stiera in ASBo,
Elenchi, vol. III, reg. 1, c. 54v: « Sub hoc titulo continentur nomina illorum qui exa-
minati et aprobati fuerunt tempore domini Coradi de Montemagno olim capitanei po-
puli Bononie qui erant de parte lambertatiorum ».
77 Ci rimane una traccia di questa lista in un’intestazione in ASBo, Elenchi, vol.

III, reg. 1, c. 160r: « Infrascripti sunt nomina bannitorum et rebellium comunis Bono-
nie pro parte lambertaciorum et eorum filiorum sumpta et exemplata de libris veteri-
bus et de adicionibus factis per sapientes tempore domini Corradi de Montemagno
olim capitanei populli Bononie qui sunt in libro signato per X ».
78 L’indagine era stata decretata nell’ottobre del 1287: « Item quod cridetur per

civitate Bononie quod quilibet qui scit aliquem de casalibus magnatum nobilium seu
de casalibus magnatum populi qui sit de parte lambertatiorum et non sit conscriptus
in libris bannitorum vel confinatorum veniat ad denuntiandum domino capitaneo si
vult palam aut secrete ponendo scriptum in cassa que est in pallatio novo ad termi-
num ordinandum per dominum capitaneum et elapso dicto termino debeant predicti
denuntiati legi et examinari inter dictos sapientes et postmodum reducantur ad consi-
lium populi et banniantur vel confinentur illi tales ad voluntatem consilii populi » (ASBo,
Giudici, reg. 97, c. 3v). Una copia trecentesca della lista intermedia scritta al termine
di questa indagine è in ASBo, Elenchi, vol. III, reg. 1, c. 162v: « Inquixicio facta per
dictos dominos de nominibus et cognominibus omnium illorum de parte lambertacio-
rum et ipsorum descendentium masculorum tam de domibus magnis nobilium quam
popularium, quam de aliis, de quartierio sancti Proculi ».
79 Una copia trecentesca di questa lista intermedia, sempre relativa a porta Proco-

la è in ASBo, Elenchi, vol. III, reg. 1, c. 184v: « Infrascripte sunt domus tam magna-

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260 GIULIANO MILANI

scrittura di un elenco di coloro che la delibera dell’ottobre 1286 aveva


definito « artifices et homines vili condicionis » 80. Infine, durante la ca-
pitaneria di Bartolomeo Maggi (ottobre 1287-marzo 1288), si decise di
reintrodurre la categoria del confino nel comitato, non prevista dalle
norme del 1286, e sulla base di tutte le liste precedenti venne scritto
un libro contenente i nomi di tutti i lambertazzi, ripartiti tra banditi e
confinati nelle tre categorie 81. Ma, sempre sulla base di una decisione
presa dai quaranta sapientes, si provvide anche a scrivere un libro che
conteneva i nomi di tutti i lambertazzi riaccolti in città, che assunse
significativamente il nome di Liber Misericordie e venne cucito assieme
al libro dei condannati 82.

tum quam popularium de parte lambertaciorum que sunt confinate extra comitatum
Bononie et districtum Bononie secundum forma ordinamentorum provisionum et refor-
mationionum comunis et populi Bononie, et bannite pro dicta parte ».
80 Una copia per il quartiere di porta Stiera è conservata in ASBo, Elenchi, vol.

III, reg. 1, c. 59v: « Infrascripti sunt de parte lambertatiorum qui non sunt conscriptis
in magnis domibus militum vel popularium tam banniti, quam confinati et cuiuscu-
mque conditionis existant et eorum descendentes ». Una copia per porta Procola in
ASBo, Elenchi, b. X, reg. s. d. II.
81 Della presenza di questo libro negli archivi del comune ancora nel 1290 testi-

moniano gli inventari redatti quell’anno e pubblicati in Fasoli, Due inventari, p. 238:
« Item unum librum in cartis pecudinis cum alipis ligneis continens in se octuaginta
cartas inter scriptas et non, in quo continentur nomina bannitorum et rebellium pro
parte lambertacciorum et confinatorum dicte partis tam extra districtum Bononie quam
in comitatu Bononie et de garnata factum tempore Bertholini de Madiis capitanei po-
puli Bononie sub annis domini millesimo ducentesimo LXXXVII, indictione XV, signa-
tum per B ». Di questo registro originale sono conservate soltanto otto carte relative ai
confinati di primo grado in ASBo, Elenchi, vol. IV, c. 105r, che recano l’intestazione:
« Liber confinatorum primi gradus partis lambertaciorum civitatis Bononie qui stare
debent ad confinia extra civitatem comitatum et districtum Bononie qui sunt de domi-
bus magnatum, nobilium et popularium dicte partis, factus et editus sub anno Domini
millesimo [ducentesimo] octuaçesimo septimo, indictione quintadecima, de mense octu-
bris ». Una copia di questo elenco è in ASBo, Elenchi, b. X, reg. 1287. Una copia di
questa copia è in ASBo, Elenchi, vol. III, reg. 1, c. 86v. Una copia del grande elenco
del 1287 relativa ai banditi, ma solo di porta Procola è in ASBo, Elenchi, vol. III, reg.
1; c. 160v: « Infrascripti sunt nomina banitorum et rebellium comunis Bononie pro
parte lambertaciorum et eorum filiorum sumpta et exemplata de libris veteribus et de
adicionibus factis per sapientibus tempore Corradi de Montemagno olim capitanei Bo-
nonie qui sunt in libro signato per X ». Una copia dei banditi di porta Stiera è forse
in ASBo, Elenchi, vol. III, reg. 1, c. 44v, ma riporta un intitolazione più concisa « In-
frascripti sunt banniti et inobedientes comunis Bononie pro parte lambertatiorum qui
sunt de domibus magnatum et de nobili progenie ». Una copia dei confinati di secon-
do grado residenti nel quartiere di porta Procola è in ASBo, Elenchi, vol. III, reg. 1,
c. 186r; una copia relativa agli stessi confinati, ma residenti nel quartiere di porta

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BOLOGNA 1274-1300. LISTE E CONDIZIONI PENALI 261

Il nuovo elenco del 1287 è andato perduto. Di esso sono sopravvis-


sute solo poche copie posteriori e parziali. Queste copie non ci infor-
mano sul numero dei colpiti residenti nelle parrocchie del nostro cam-
pione, ma su quello dei lambertazzi censiti in uno dei quattro quartieri
cittadini: il quartiere di porta Procola, di cui ci sono giunte copie delle
liste di tutte le categorie di pena. Rispetto al 1277 in questo quartiere
il gruppo dei condannati si ridusse di circa un quarto: le menzioni
totali nel 1287 furono 806, quelle di dieci anni prima erano state 1044.
Ma soprattutto variò notevolmente il peso delle differenti condizioni
penali. Le menzioni dei banditi furono 146 contro le 387 di dieci anni
prima. Vi fu quindi una riduzione del 63%. Per i confinati, complessi-
vamente il gruppo rimase lo stesso, anzi subì semmai un leggerissimo
aumento. Nel 1277 erano state registrate 657 menzioni, mentre nel 1287
le menzioni furono 660. Nelle singole categorie il panorama era cam-
biato: non per i confinati di primo grado, i più lontani dalla città, che
aumentarono leggermente (da 112 a 116), ma per quelli delle altre con-
dizioni. I confinati nel contado e nel distretto, considerati assieme, si
ridussero drasticamente da 275 a 31; i confinati in città aumentarono
da 270 a 512. Tirando le somme, nel 1277 in questo quartiere erano
registrati 387 banditi (37% del totale), altrettanti confinati fuori dalla
città, e 270 (26%) confinati in città. Dieci anni dopo i banditi costitu-
ivano il 18% del totale, i confinati fuori città altrettanti, e i confinati in
città il 63%. Le condizioni penali più gravi avevano dimezzato il loro
peso sul totale, quella meno grave lo aveva quasi triplicato.
Come mostrano le liste di questo quartiere i banditi erano costituiti
quasi esclusivamente da personaggi appartenenti a famiglie magnatizie,
anche di origine « popolare », ma comunque dotate di grande prestigio
sociale. Per avere un’idea della netta modifica in senso aristocratico del
gruppo dei banditi del 1287 può essere utile confrontarlo dal punto di
vista onomastico con quello del 1277. In quell’anno il 31% delle menzio-
ni si riferiva a individui non dotati di cognome. Nel 1287 questa percen-
tuale si ridusse al 6%. Le due cappelle del nostro campione per le quali
possediamo le liste di banditi del 1287 consentono di comprendere me-
glio la netta aristocratizzazione dei lambertazzi puniti con il bando. Nella
cappella di S. Giovanni in Monte, in cui netta era la prevalenza di popu-

Stiera è in ASBo, Elenchi, vol. III, reg. 1, c. 47v. Una copia dei confinati in città
relativa al quartiere di porta Procola è in ASBo, Elenchi, vol. III, reg. 1, c. 171v; una
copia relativa agli stessi confinati, ma residenti nel quartiere di porta Stiera è in ASBo,
Elenchi, vol. III, reg. 1, c. 48v.

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262 GIULIANO MILANI

lares, nel 1277 erano stati censiti 28 banditi, nel 1287 lo furono soltanto
11. Nella parrocchia gentilizia di S. Giacomo dei Carbonesi, nel 1277 le
menzioni relative a banditi erano state 21, nel 1287 furono 46. Tra le 57
menzioni di banditi del 1287, ben 52 riguardavano i membri di 6 lignag-
gi, tutti definibili come magnatizi (Andalò, da Baisio, Carbonesi, Clarissi-
mi, Lambertazzi, Marcheselli). Le altre cinque menzioni indicavano con
ogni probabilità i pochi individui di più bassa condizione che avevano
deciso di seguire questi lignaggi nella lunga avventura dell’esilio. Si noti
che le delibere che nell’ottobre 1286 avevano inserito un criterio di di-
stinzione sociale non riguardavano i banditi, ma i confinati. La quasi as-
soluta prevalenza degli aristocratici tra i banditi del 1287 non si dovette
quindi alla scelta degli schedatori, ma a quella degli schedati.
Diversamente era stato deciso per i confinati della prima condizio-
ne, costretti a risiedere al di fuori del distretto e del comitato. In que-
sto caso i sapientes avevano stabilito un criterio preciso, costringendo a
questa pena proprio i membri dei lignaggi. Nell’agosto del 1287, quan-
do le liste che distinguevano le magne domus dei lambertazzi dal resto
dei colpiti erano pronte, ma non era stato ancora redatto l’elenco defi-
nitivo ripartito secondo le condizioni penali, i giudici del capitano del
popolo fecero diffondere una cridacio in cui stabilivano che i compo-
nenti delle magne domus si sarebbero dovuti recare al confino in quat-
tro differenti città, a seconda del quartiere di residenza 83. Da questa

82La riformagione è in ASBo, Giudici, reg. 97, c. 3r: « Item providerunt quod illi
qui sunt cancellati vel subscrpti in libris veteribus tam pro reformatione consiliorum
quam pro sententiis et certis iuribus eorum veniant ad fatiendum se scribi coram dicto
capitaneo et quod dominus capitaneus debeat penes se habeat omnes libros in quibus
sunt dicte cancellature et subscriptiones et examinentur per dictos sapientes predicte
cancellature et subscriptiones ». Il Liber Misericordie è conservato in copia per porta
Procola in ASBo, Elenchi, vol. III, reg. 1, c. 61v: « Infrascripti sunt qui reperiuntur in
quodam libro cartarum pecudis qui Liber Misericordie nominatur continens nomina et
cognomina filiorum illorum qui iuraverunt actenus partem ecclesie et ieremensium civi-
tatis Bononie et filiorum suorum et filiorum fratrum et fratrum eorum et patruum
ipsorum in conscillio octigentorum et populi vel altero eorum. Item nomina et cogno-
mina omnium et singuloum confinatorum de garnata pro parte lambertaciorum civitatis
Bononie et alliarum plurium conditionum, qui liber est in camara actorum comunis et
populi Bononie, scriptus et compositus tempore domini Bertholini de Madiis honorabi-
lis capitanei populi per dominum Michaelem Tomaxii secundum formam reformationis
conscilii populi scripta manu ipsius Michaelis sub anno Domini millesimo ducentesimo
octuagesimo septimo, indictione quintadecima, die vigesimo octubris ».
83 ASBO, Giudici, reg. 101, cc. 76v e ss. Quelli di porta Ravennate dovevano

andare a Lucca; quelli di porta Stiera ad Ancona; quelli di porta Piera a Padova,
quelli di porta Procola a Piacenza.

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BOLOGNA 1274-1300. LISTE E CONDIZIONI PENALI 263

stessa lista veniamo a conoscenza delle famiglie costrette a risiedere lon-


tano da Bologna. In totale venivano nominati 103 cognomi di famiglia
tra magnati e popolari 84. Tra queste famiglie, accanto ai grandi magnati
lambertazzi e alle grandi famiglie del cambio e della mercanzia della
stessa fazione, vi erano anche persone di condizione e prestigio più
modesti, segno che si volle colpire più la presenza di un legame fami-
liare forte che la connotazione magnatizia in sé. Moltissimi confinati in
questa categoria, come anche nel secondo grado, che prevedeva la resi-
denza in luoghi del contado o del distretto, avevano parenti tra i ban-
diti. Nella terza condizione, il confino in città, confluirono tutti gli al-
tri, in grandissima parte artigiani a cui, nonostante vedessero banditi i
propri parenti più stretti, non venne riconosciuta la rilevanza dei legami
familiari. Non costituisce un elemento di rilievo il fatto che forse riuscì
a inserirsi tra questi confinati anche uno sparutissimo gruppo di mem-
bri dei casati censiti come tali dal comune. Tra le centinaia di beccai,
notai e calzolai spunta qua e là un Tettalasina, un Curioni (ma potreb-
be trattarsi anche di un semplice conciatore), un da S. Giorgio (che
forse, tuttavia, proveniva dalla stessa località che aveva dato il nome
alla famiglia mercantile, ma non ne faceva parte).
Così, dunque, con un insieme di colpiti formato da alcuni aristocra-
tici recidivi condannati al bando, da tutte le persone capaci di poter

84 ASBO, Giudici, reg. 101, cc. 76v e ss: per porta Ravennate vennero indicati:
Abati, Accarisi, Agoclari, di Amedeo Pizoli, Angelelli, Arienti, Asinelli (« dicte partis »),
di Azzone Alberti; Boccadiragno, Boschetti, Boccacci, da Calegata, Calamoni di Bu-
drio, Carletti, da Castel de’ Britti, Ciuffoli, Corradi, Foscardi, Gozoli (« excepto Capa-
no »), Grilli, Lamberazzi, Landolfi di Imola, Maffi, Magarotti, Melloni, Mulnaroli, di
Nicolò da Boccafugaza, Novelloni, Passavanti, Pellaci, di Pietro Corradini, da Pontec-
chio e Sicchi, da Pedramala, Principi, Raccorgitti, Scannabecchi e Gisla, Soldaneri da
Liano, Stampellini, Tettalasina ( « scilicet Petriçoli et Lambertini ») Tomari, Tonsi. Per
porta Stiera: Accursi, Agnella, Balugani e di Pietro Cavalli, da Crevalcore, Benci, Cac-
cianemici piccoli, di Geminiano da Castagnolo, Greci, Malatachi, di Martino Boatteri,
Nipoti di Guinizzello Magnani, da Roncore, Rustigani, Savioli (« qui non iuraverunt
partem excepto Bertolino »), Storlitti e Piperati, da Tizzano, Toschi, di Ubaldo da Fer-
rara. Per porta Piera: Abati, Albari, di Alberto di Frugerio da Marano, Albertoni, di
Ardizzone conte, Avenati e Fruffi, Baruffati, Calamoni di Budrio, Castaldi, Curioni, di
Giovannino Bonaggiunta da Bagnarola, Guizoni, di Gruamonte da Boccadironco, Gu-
glielmi, di Guglielmo da S. Giorgio, Maranesi, Milanzoli, Orsi, Passarini, Pelle, Pizzi-
gotti, Radici, di Rolandino da Marano, da Saliceto, Terrafocoli, Tregoli, da Villanova.
Per porta Procola: Andalò, Balbi, Baisio, Beccapane, di Bongerardo Marcheselli, da
Brigola, Calamoni, Fassarini, Fratta, di Geremia da Saragozza, Greci, Guezzi, Lamber-
tini, Maccagnani, Magni, Mascherati, Mariscotti, Merolini, Montasigo, Muchitti, Nasini,
conti di Panico, Parisini, Radici, di Solimano beccaio, Teuci, Zanroberti.

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264 GIULIANO MILANI

contare su un casato esteso e riconoscibile condannate al confino lonta-


no da Bologna, e infine dagli altri lambertazzi sottoposti al confino in
città, si concluse nell’ottobre del 1287 la risistemazione iniziata un anno
prima con le delibere dei quaranta sapienti. Della redazione dell’elenco
finale furono incaricati ben nove notai di grande prestigio 85. Si trattava
di un’élite interna alla società: quattro di essi ricoprirono la carica do
precosnole della società dei notai 86. Al termine dei loro elenchi, i notai
apposero due specificazioni. Con una, posta in calce alle liste di confi-
nati, specificarono che i confinati non avrebbero potuto utilizzare tale
lista per difendersi nel caso in cui fossero stati rinvenuti tra i banditi 87.
Con l’altra, posta al termine della lista dei banditi e dotata di maggiore
valore, i notai affermarono, sulla base di una riformagione, che nel
caso in cui i lambertazzi condannati al bando o i loro figli si fossero
mostrati obbedienti al comune di Bologna avendo l’estimo e pagando
la colletta, non dovevano essere considerati più banditi 88. In questo

85 I loro nomi si ricavano da una rubrica dello statuto del popolo scritto nel

1288, pubblicata, con alcuni error in Montorsi, Plebiscita Bononiae, p. 266. Si tratta di
Çamboninus Ursolini; Lombardus Rayneri Salaroli, dominus Iacobus de Lastignano,
Anthonius de Policino, Iohannes Guillelmi de Sancto Georgio, Iacobus Bitterni, Henri-
gettus Feliciani, Matiolus de Roncore.
86 Per citare solo le cariche esercitate all’interno della società, tacendo dei nume-

rosissimi incarichi come sapientes, Anthonius de Policino fu console nel 1286 (ASBo,
Società dei notai, reg. 22, c. 3r), Iohannes de Sancto Georgio fu console nel 1289
(ASBo, Società dei notai, reg. 22, c. 5v). Lombardus Rayneri Salaroli fu notaio della
società nel 1288 (ASBo, Società dei notai, reg. 22, c. 5r). Icobus Biterni fu sindaco nel
1284 (ASBo, Società dei notai, reg. 22, c. 2r). Çamboninus Ursolini fu preconsole nel
1288 (ASBo, Società dei notai, reg. 22, c. 5r). Henrigettus Feliciani fu preconsole nel
1289 ASBo, Società dei notai, reg. 22, c. 5v), Iacobus de Lastignano fu preconsole nel
1285 (ASBo, Società dei notai, reg. 22, c. 2v), Matiolus de Roncore fu preconsole nel
1287 (ASBo, Società dei notai, reg. 22, c. 4v).
87 Questa specificazione si legge ancora in una copia trecentesca di questo elenco,

conservate in ASBo, Elenchi vol. III, reg. 1, c. 51v: « Salvo quod predictis vel alicui
eorum, cuiuscumque condicionis sint, predicta confinium consignacio vel descritio non
prosit, nec ex ea quidcquam iuris vel emolumenti ei vel eis, si invirentur conscriptus
in libro bannitorum vel rebellium partis lambertaciorum, acquiratur ».
88 Quest’altra specifica non venne copiata nelle liste trecentesche, ma la conoscia-

mo grazie a un processo tenutosi nella curia del capitano nel 1289 durante il quale
vennero interrogati i notai che avevano redatto l’elenco, i quali affermarono e provaro-
no che nel libro si poteva leggere: « salvo quod si reperietur aliquem vel aliquos ex
supradictis bannitis vel eorum filiis nuper conscriptis in hoc presenti libro bannitorum
obedisse et obedire comuni Bononie habendo extimum in comune Bononie et solven-
do collectas et alia honera subendo, illi vel illis bannum vel banna non obsit nec
possit predictis preiudicium in aliquo gravare » (ASBo, Giudici, reg. 136, c. 106r). Su
questo v. oltre, Capitolo VIII.

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BOLOGNA 1274-1300. LISTE E CONDIZIONI PENALI 265

modo la tendenza a considerare banditi solo i lambertazzi che manife-


stamente esprimevano la volontà di non rientrare venne confermata ul-
teriormente e aprì ai nemici del comune non più intenzionati a esserlo
una nuova e agevole possibilità di rientro. La stessa tendenza ispirò del
resto nel 1288 un provvedimento con cui il capitano Bertolino Maggi
propose a tutti i confinati de garnata, cioè in città, di giurare la parte
geremea, ed essere così definitivamente cancellati dalle liste di condan-
nati, opportunità che tuttavia non tutti colsero 89.
L’ultimo decennio del Duecento vide un progressivo assottigliamen-
to del gruppo dei lambertazzi, in particolare dei banditi. Pur non es-
sendo quantificabile con precisione a causa della perdita di liste com-
plete, questa riduzione dovette essere radicale. Gli anni Ottanta si era-
no chiusi sulla scia delle scelte compiute nel 1287 tese a incoraggiare
il rientro di tutti i condannati che lo avessero desiderato. I primissimi
anni Novanta sembrano a prima vista aprirsi con un momentaneo ri-
pristino degli atteggiamenti più punitivi, ma potrebbe essere un’im-
pressione suggerita dalla conservazione delle fonti. Possediamo infatti
una lista di lambertazzi banditi, perché non trovati nei luoghi di con-
fino negli anni 1290 e 1291 90, che contiene, per il nostro campione, la
cifra rilevante di 87 menzioni. Almeno due di queste menzioni riguar-
dano individui (Nicolò di Guglielmo Boccacci e Buongerardo di Buon-
gerardo Marchesella) che nella lista del 1287 erano stati inclusi tra i
banditi, testimoniando che nel periodo 1287-1291, questi due perso-
naggi si erano sottoposti agli ordini del comune ed erano stati condan-
nati al solo confino. Per il resto, si tratta di membri delle grandi do-
mus lambertazze costretti a risiedere fuori dal distretto. Evidentemente,
dunque, molti confinati, legati da rapporti di parentela con i banditi,
scelsero ancora una volta la via della ribellione al costo di confluire
nuovamente – per lo più si trattava di persone che almeno una volta

89 Ci rimane la prima carta di un lista in cui vennero scritti i nomi di coloro che
non giurarono la parte pur avendone la possibilità: ASBo, Elenchi, vol. IV, c. 113r:
« Hic est liber continens in se nomina et cognomina omnium et singulorum confinato-
rum de garnata partis lambertaciorum quibus concessum erat posse iurare partem ec-
clesie et ieremensium civitatis Bononie, ut constat ex reformatione conscilii populi Bo-
nonie scripta manu Micahelis Thomaxii notarii et etiam, ex approbatione scripta manu
eiusdem notarii, qui non venerunt ad iurandum dictam partem terminis ordinatis se-
cundum quod poterant, et exemplatus per me Mathiolum de Ronchore notarium tem
pore nobilis et potentis militis domini Berthollini de Madiis capitanei populi Bo-
nonie, currente anno Domini millesimo .CCo. octuagesimo octavo. Indictione prima ».
90 ASBo, Elenchi, vol. IV, cc. 136-142.

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266 GIULIANO MILANI

dal 1277 avevano subìto il bando, e soprattutto dei loro discendenti –


nel gruppo dei banditi. Nello stesso 1291 si provvide tuttavia, come
era avvenuto almeno nel 1281 e nel 1287, ad assolvere dal confino i
minori di 14 anni e i maggiori di 70. Nel nostro campione tale prov-
vedimento ebbe una scarsissima incidenza poiché ridusse il gruppo dei
confinati di solo 4 individui 91.
Nel 1292 lo scoppio di un conflitto politico latente contribuì a con-
fermare la tendenza del comune all’apertura nei confronti dei lamber-
tazzi disposti a rientrare. In quell’anno scadevano gli Ordinamenti Sa-
crati che nel 1282, istituzionalizzando la normativa antimagnatizia a
Bologna, erano stati giurati per dieci anni. Dalla loro istituzione queste
norme, in seguito precisate nel 1284 attraverso l’emanazione degli Ordi-
namenti Sacratissimi, avevano scatenato un’esclusione parallela a quella
dei lambertazzi, che aveva portato a bandire un congruo numero di
persone in base alle accuse di omicidio, ferite e percosse contro gli
uomini delle società di popolo. Nel corso degli anni Ottanta si era
manifestata a più riprese una resistenza verso questa nuova esclusione,
che aveva trovato il suo luogo di espressione nei consigli del popolo,
nelle balìe di sapientes, in alcuni casi, come nel 1287, mediante l’orga-
nizzazione di complotti per sopprimere il regime popolare 92. La reazio-
ne a tali resistenze aveva tra le altre cose contribuito a rendere stabile,
nelle riunioni del collegio degli anziani, la presenza di sapientes prove-
nienti da due società popolari (una di Armi e una di Arti, a rotazione),
incaricati di proteggere e far rispettare gli Ordinamenti Sacrati. Come
sarebbe avvenuto a Firenze pochi anni dopo, in occasione degli Ordi-
namenti di Giustizia del 1292, si era inoltre diffusa sempre più la pra-
tica di costringere i magnati individuati come particolarmente pericolosi
a prestare una garanzia pecuniaria, spesso molto alta, a tutela del loro
comportamento futuro. Le tensioni contro questi indirizzi della politica
comunale scoppiarono nel marzo 1292, quando il fronte ormai social-
mente trasversale che si opponeva all’esasperazione della normativa an-
timagnatizia riuscì a ottenere il predominio nell’anzianato e cassò gli
Ordinamenti, sostituendoli con un gruppo di leggi che ne attutivano la
portata, non solo contro i magnati, ma anche contro i lambertazzi. Nel
caso specifico, veniva ribadito e ampliato il principio sancito dalla clau-
sola apposta alla lista del 1287: in virtù di una delibera, i lambertazzi

91
ASBo, b. X, reg. II (1291).
92
Su questo episodio v. Palmieri, Rolandino Passageri e Fasoli, La legislazione
antimagnatizia.

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BOLOGNA 1274-1300. LISTE E CONDIZIONI PENALI 267

banditi, intenzionati a rientrare, si videro aperta la possibilità di non


subire più alcuna pena, nemmeno il confino come era stato stabilito
nel 1287 93. La promulgazione di questa legge e in generale il mutato
clima politico scatenò a partire dall’aprile 1292 un grande numero di
rientri, che non venne significativamente frenato dal ripristino degli
Ordinamenti Sacrati, avvenuto nel maggio, in seguito a una sollevazione
delle società di popolo. Molte delle delibere moderatrici dell’aprile ven-
nero cassate. Per i lambertazzi banditi intenzionati a rientrare si rein-
trodusse la pena del confino e l’imposizione di garanzie pecuniarie, ma
tali modifiche non arginarono il flusso di rientri che divenne sempre
più consistente.
L’unico elemento che possediamo per farci un’idea dell’entità e del
profilo dei banditi lambertazzi rientrati in questo periodo è dato dal
frammento di un registro in cui, nell’agosto del 1292, vennero registra-
te le solenni promesse di stare ad mandata e le fideiussioni prestate da
alcuni di loro 94. Tale elenco contiene 113 menzioni. Considerando che
il frammento di cui disponiamo reca soltanto gli impegni prestati dai
lambertazzi nel mese di agosto, mentre sappiamo che vi furono rientri
già dall’aprile e che tali rientri continuarono con un ritmo intenso an-
che nell’anno successivo, è lecito supporre che almeno il doppio se non
di più dei banditi approfittarono dell’occasione presentatasi nel 1292.
Purtoppo non possediamo liste successive a questa e l’elenco conserva-
to più vicino risale a ben cinque anni dopo 95. Si tratta di un frammen-
to di registro in cui 28 banditi rientrati dopo il 1292 e condannati al
confino presentarono le loro difese. Il fatto che tra questi 28 nomi
solamente due corrispondano a quelli riportati nel frammento di elenco
dei rientrati nel 1292 ci fa immaginare che le menzioni in esso attestate
costituiscano una quota piuttosto ristretta rispetto all’insieme dei bandi-
ti lambertazzi che rientrarono nella prima metà degli anni Novanta.
Occorre poi ricordare che, dopo le liste del 1287, nella categoria dei
banditi era rimasta una quota di persone piuttosto ristretta, calcolabile

93 La delibera affermava che tutti i banditi, anche quelli di parte lambertazza, che

avessero avuto la pace dall’offeso potevano rientrare. Si trattava di una formulazione


ambigua poiché per i banditi lambertazzi l’offeso era il comune. Essa poteva essere
interpretata in senso restrittivo, sostenendo che fosse valida solo per i confinati lamber-
tazzi banditi in seguito a un processo criminale, ma evidentemente, come mostrano i
rientri venne invece interpretata in modo estensivo e consentì di rientrare a molti
lambertazzi banditi per ragioni politiche (Statuti di Bologna del 1288, pp. 360-366).
94 ASBo, Giudici, reg. 186, cc. 1r-39v.
95 ASBo, Giudici, reg. 302.

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268 GIULIANO MILANI

attorno alle cinquecento persone, e che, dunque, al termine del com-


plessivo processo avviatosi nel decennio precedente restavano ormai
poche centinaia di banditi. Più che l’aspetto quantitativo, i rientri degli
anni Novanta e, in particolare, del 1292 colpiscono per l’aspetto quali-
tativo. In questo più che nelle procedure o nel numero si ebbe una
vera rivoluzione. Tra i 113 banditi sicuramente rientrati nel 1292 si
trovano infatti moltissimi membri di quei casati magnatizi lambertazzi
che avevano di fatto cominciato a costruire cinquant’anni prima la fa-
zione e che, in seguito alla cacciata, ne avevano rappresentato l’elemen-
to più irriducibile, il meno disposto sino a quel momento a cogliere le
possibilità prima implicitamente, poi esplicitamente offerte dal comune.
Evidentemente, a vent’anni dall’esclusione, mentre andavano morendo i
protagonisti sopravvissuti degli scontri del 1274, rimpiazzati da persone
più giovani, molte delle quali di quegli scontri non avevano memoria
diretta, anche le famiglie più implicate nella guerra e nel fuoriuscitismo
optarono per il rientro e per il recupero dei propri beni. Scorrendo la
lista appaiono nomi di eredi non ancora inclusi nelle liste del 1287, e
si tratta di grandi nomi, come i Lambertazzi del ramo principale, deri-
vato da Castellano di Fabbro, i discendenti di Enrico da Baisio, gli
Scannabecchi, i da Fratta, gli Andalò, gli Albari, i Guarini e gli Uguc-
cioni, i Rustigani i Castel de’ Britti, i Conti di Panico, i Principi e con
loro gli alleati di livello sociale appena inferiore, come i Magarotti, i
Terrafocoli, i figli di Soldaderio da Liano, gli Arienti. Accanto ai loro
nomi si trovano quelli dei loro fideiussori, vale a dire di quanti garan-
tirono per loro nel momento del rientro. Osservando tali nomi, risulta
chiaramente come essi poterono rientrare anche grazie alla presenza di
familiari e amici ormai sciolti dalle condanne penali. Tra i fideiussori
appare una quota maggiore di lambertazzi di seconda generazione, mai
inclusi nelle liste, ma che nel cognome rivelano la provenienza dai me-
desimi casati a cui appartengono i banditi (Albari, Castel de’ Britti,
Fratta, Magarotti, Rustigani, Terrafocoli), oppure provenienti da altri
casati, in larga parte rientrati con la riforma del 1287 o addirittura in
precedenza, solitamente, ma non sempre, di livello sociale inferiore (Ca-
lamoni di Budrio, Magnani, Asinelli, Radici, Toschi).
Il flusso dei rientri procedette ininterrotto fino al 1297. In questi
anni i banditi lambertazzi praticamente spariscono dai registri di rifor-
magioni del consiglio del popolo e da quelli degli altri organismi consi-
liari quali soggetti di delibere. Gli argomenti che si dibattono in merito
alla fazione ancora formalmente esclusa riguardano per lo più i confi-
nati, il cui gruppo era stato rinfoltito dai nuovi rientri, ma al tempo

Capitolo 6.pmd 268 09/11/2009, 16.26


BOLOGNA 1274-1300. LISTE E CONDIZIONI PENALI 269

stesso andava assottigliandosi per effetto dei giuramenti alla parte gere-
mea. Questi giuramenti vennero favoriti anche dalla necessità di uomi-
ni da impiegare nella guerra che Bologna si trovò a combattere contro
Azzo VIII d’Este a partire dal 1295 96. Nel gennaio 1297, alcuni dei
casati lambertazzi di tradizione più antica furono ammessi a giurare e
divennero « veri geremei » 97. Nell’agosto di quell’anno il podestà richia-
mò altri banditi 98. La stessa guerra, d’altra parte, occasionò altre con-
danne al bando, poiché dalla parte del Marchese si schierarono alcuni
dei lambertazzi rientrati. Gli alleati di Bologna iniziarono a premere
perché i lambertazzi rientrassero a rimpolpare le fila dell’esercito, ma
la grande necessità di danaro imposta dalla guerra spinse le speciali
balìe di sapienti, a cui si faceva sempre più ricorso, a tentare di rior-
ganizzare lo sfruttamento dei beni dei banditi, che da molti anni, a

96 A questa guerra è dedicato Gorreta, La lotta tra il comune bolognese e la signo-


ria estense; ma cfr. anche Vitale, il dominio di parte Guelfa.
97 ASBo, Elenchi, vol. IV, cc. 144. In quell’occasione giurarono 91 persone prove-

nienti dalle famiglie Asinelli, da Saliceto, Radici, Ligapasseri, da Marano, Uguccioni,


Guarini, Scannabecchi, Guezi. Sul verso della carta è riportata la formula del giura-
mento: « Existentes omnes predicti et quilibet predictorum in conscilio populli et mas-
sa populli civitatis Bononie in palacio novo ipsius comunis, sono campane et voce
preconia more solito congregato declarato eis et cuilibet eorum sacramento per domi-
num Nicholaum domini Boniohannis de Lastiglano precon sullem societatis notariorum
civitatis Bononie et ançianum populli Bononie in presencia prudentis viri domini Ugo-
lini iudicis et vicarii domini Neçoli de Saxoferato honorabilis capitanei populli civitatis
Bononie et ançianorum et consullum et de ipsorum voluntate et totius conscilii et
masse populli nemine contradicente, iuraverunt ipsi et quilibet eorum corporaliter ad
sancta Dei evangelia tacto libro partem ecclesie sive ieremiensium civitatis Bononie et
ipsam partem et homines dicte partis favere et amicos ipsius partis pro amicis habere
et tenere et inimicos comunis et populli Bononie et dicte partis pro inimicis habere et
tenere et ipsorum seguaces et eis inimicatis guerram facere ad voluntatem comunis
Bononie et dicte partis ieremiensum et ecclesie civitatis Bononie sicuti alii veri cives
civitatis Bononie ». Nella stessa carta, più oltre, si legge che il giudice del capitano
convocò il consilio con più che i due terzi degli anziani e consoli e « [...] de voluntate
ipsius domini Ugolini et ançianorum et consullum vocati fuerunt infrascripti per Alber-
tum Raynerii de Tholomeis notarium ançianorum et consullum et quibus vocatis et
nominatis interrogavit predictus dominus Ugolinus consciliarios de dicto conscilio si
aliquis esset qui vellet contradicere vel oponere quod ipsi vel aliquis eorum non admi-
terentur seu non essent admittendi ad iurandum partem ecclesie et ieremiensium civi-
tatis Bononie secundum promixiones eorum scriptas manu Venetici Michaelis Aymerii
notarii, et nemine de dicto consilio contradicente sed potius consenciente de dicto
consilio amissi fuerunt predicti omnes quod iuraverunt partem ecclesie et ieremiensium
civitatis Bononie secundum eorum promixiones [...] ».
98 Vitale, Il dominio della parte Guelfa, p. 70.

Capitolo 6.pmd 269 09/11/2009, 16.26


270 GIULIANO MILANI

causa dei diversi effetti sortiti dai rientri (riduzione del patrimonio,
restituzione dei beni ancora detenuti ai parenti rientrati), versava in
grave crisi 99. Grazie ai nuovi bandi provocati dalla guerra il potenziale
sfruttabile era di nuovo cresciuto. Tra 1298 e 1299, mentre Bonifacio
VIII cercava in ogni modo di far rientrare i lambertazzi e convocava
come mediatori Alberto della Scala e Matteo Visconti, si provvide dopo
molto tempo alla redazione di registri di locazioni dei beni sequestrati,
in cui apparivano come proprietari banditi solo 153 persone, aristocra-
tiche e, almeno in origine, dotate di grandi patrimoni. L’idea di ripro-
porre nelle forme del decennio precedente l’affitto dei beni dei banditi
in un momento in cui alcuni tra i massimi poteri italiani premevano
affinché quei banditi fossero riaccolti, si rivelò fallimentare. La guerra
privava il comune della possibilità materiale di organizzare un control-
lo dei terreni e, del resto, da qualche anno, i notai non potevano più
recarsi nei luoghi di soggiorno obbligato a controllare il rispetto del
confino. In queste condizioni il lodo proposto da Bonifacio VIII ven-
ne accettato. Esso previde una clausola secondo la quale duecento lam-
bertazzi, con ogni probabilità l’intero gruppo dei banditi, sarebbero
dovuti rimanere al confino.
Nel settembre 1299 i lambertazzi per la seconda volta dopo vent’anni
esatti entravano a Bologna ufficialmente. Si trattava tuttavia di un grup-
po ormai piuttosto circoscritto se, come sembra dagli indizi che abbia-
mo passato in rassegna nelle pagine precedenti, le tendenze al rientro
continuarono. Per quel che riguarda i banditi, riepilogando le congettu-
re che è possibile azzardare sulla base della documentazione superstite,
il loro numero di banditi subì una prima crescita subito dopo la scrit-
tura del primo elenco completo, quello del 1277, per poi calare in
occasione del rientro del 1279, rialzarsi nel 1281, con la ripresa della
ritorsione, e iniziare tuttavia una lunga ma inesorabile diminuzione per
tutto il ventennio successivo.
Per i confinati lo svolgimento è in qualche modo complementare
anche se i dati sono complicati dalle diverse condizioni. Il processo
ipotizzabile è simile e vede una sostanziale tendenza alla diminuzione
contraddetta tuttavia, in alcuni momenti, come nel 1287, dal fatto che
il gruppo dei confinati tende ad ampliarsi in virtù dei rientri dei bandi-
ti. Il dato mostra come questa condizione potesse prestarsi a costituire
occasionalmente anche una pena di « decantazione » degli ex-banditi ed
è lecito immaginare che qualcosa di simile avvenne nel 1292, ma su
99 V. Capitolo IX.

Capitolo 6.pmd 270 09/11/2009, 16.26


BOLOGNA 1274-1300. LISTE E CONDIZIONI PENALI 271

scala notevolmente ridotta, visto il numero ormai ridotto dei banditi. Il


fatto, poi, che già nel 1287 i confinati in città costituivano più dei tre
quarti dell’intero gruppo, lascia trasparire la netta tendenza alla diminu-
zione del numero di persone effettivamente fuori da Bologna.

Tabella 1 – Ipotesi sul numero di lambertazzi banditi (1274-1292) [x]= con-


getturale 100.

Anno Lambertazzi banditi

1274 [850]
1277 1387
1278 [2000]
1279 [1780]
1280 [1000]
1281 [1380]
1287 [584]
1292 [300]

Tabella 2 – Ipotesi sul numero dei confinati (1274-1287) [x]= congetturale 101.

Anno Conf. 1 Conf. 2 Conf. 3 Conf. 4 Totale

1274 ? ? ? ? 1794
1275 ? ? ? ? 1157
1277 448 422 486 115 2508
1281 [500] [360] – [480] [1340]
1287 [464] [124] – [2048] [2640]

100 In questa e nella prossima tabella i dati congetturali di tutti gli anni meno il
1287 sono ricavati da una moltiplicazione per dieci dei dati del campione discusso nel
Capitolo VI. Per il 1287 sono invece ricavati da una moltiplicazione per quattro dei
dati del quartiere di porta Procola.
101 Per gli anni 1274 e 1275 si è inserito nella colonna Totale il numero dei sospet-

ti. Per gli anni successivi al 1281 le condizioni si riducono da 4 a 3. La condizione terza
scompare in quanto inizia a contemplare i confinati « de garnata », a cui era consentito
di risiedere in città che in precedenza erano censiti sotto la condizione quarta.

Capitolo 6.pmd 271 09/11/2009, 16.26


272 GIULIANO MILANI

4. Conclusioni

Sia dal punto di vista dei criteri di redazione delle liste, sia da
quello del numero dei condannati si osserva dunque una forte disconti-
nuità tra i due momenti di ripartizione del gruppo dei lambertazzi esclu-
si. Sui criteri abbiamo avuto modo di soffermarci analiticamente. Se nel
1277 alla base delle divisioni dei lambertazzi nelle diverse categorie era
stato solo il comportamento dei condannati, nel 1287 a questo criterio
si affiancò un altro elemento: la connotazione magnatizia, discriminante
per dividere i confinati in città da quelli nelle località più lontane. Si
affermò, inoltre, il principio destinato ad avere grande successo, secon-
do il quale chi intendesse rientrare aveva la possibilità di farlo, giuran-
do la parte e reinserendosi nella cittadinanza
Questi criteri costituiscono un elemento importantissimo per spiega-
re le curve discendenti nel numero dei colpiti desumibili dalla docu-
mentazione, ma sarebbe sbagliato non collocarli nel contesto di un ri-
cambio generazionale che avvenne nel corso della lunga esclusione bo-
lognese. La lettura delle norme istitutive della lista del 1287 mostra con
grande evidenza che, tra gli scopi della nuova operazione, vi era pro-
prio la necessità di adattare la ritorsione al passaggio di generazione.
Rispetto a dieci anni prima, nel 1287 molti lambertazzi erano morti e i
loro figli erano divenuti maggiorenni e come tali perseguibili. Questa
evoluzione del gruppo dei nemici politici innescò due processi paralleli:
da un lato, le loro pene subirono una netta attenuazione; dall’altro, la
persecuzione si istituzionalizzò.
I lambertazzi non erano più coloro che si erano violentemente
opposti alla politica bolognese nelle defatiganti guerre combattute ne-
gli anni 1274-1279, ma i loro figli, politicamente più inoffensivi per-
ché più deboli. Per questo si provvide a uscire dall’emergenza, ad
attenuare i provvedimenti più duri. Per la stessa ragione passò in
generale il principio secondo il quale chi avesse voluto rientrare lo
avrebbe potuto fare e si chiuse un occhio su molti rientri informali,
che di per sé dimostravano una volontà dei perseguitati di mettersi
agli ordini del comune.
Ma vi era anche un altro aspetto di questa evoluzione. A differenza
dei loro padri, questi bolognesi erano nati già schedati come lambertaz-
zi e con questa condizione dovettero fare i conti sottoponendosi ad
accertamenti, presentando petizioni, giurando la parte, o accedendo a
strategie più informali per rientrare: furono insomma costretti a guada-
gnarsi una cittadinanza a pieno titolo, cosa che i loro padri non aveva-

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BOLOGNA 1274-1300. LISTE E CONDIZIONI PENALI 273

no dovuto fare. Pur attenuata nei numeri e nelle condizioni penali,


l’esclusione, sopravvivendo alla morte della maggior parte degli esclusi,
diveniva una risorsa stabile del sistema politico. Se, come si osservava
nel Capitolo quarto, coloro che si erano affacciati sulla scena politica
attorno agli anni Cinquanta del Duecento, avevano sempre dato per
scontata l’esistenza delle parti, quanti lo facevano negli anni Ottanta
davano per scontata la presenza di esclusioni, con la conseguenza di
perpetuare schemi mentali, vendette e volontà di risarcimenti. Il proces-
so si sarebbe compiuto definitivamente all’inizio del Trecento, in occa-
sione del ricambio generazionale successivo, come si mostrerà nei capi-
toli decimo e undicesimo. Prima, tuttavia, proviamo a seguire il perio-
do 1274-1300 secondo altri due punti di vista, quello della giustizia e
quello dell’economia.

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274 GIULIANO MILANI

Capitolo 6.pmd 274 09/11/2009, 16.26


Capitolo VIII

BOLOGNA 1274-1300
PROCESSI E OPERAZIONI DI POLIZIA

1. Dalla giustizia straordinaria alla giustizia normalizzata

L’analisi della documentazione giudiziaria conferma la discontinuità


riscontrabile alla fine degli anni Ottanta. È importante chiarire sin dal-
l’inizio che il sistema giudiziario non fu impiegato tanto per porre i
lambertazzi nelle condizioni penali del bando e del confino – a questo
scopo agirono le commissioni speciali descritte nel capitolo precedente –
quanto per farceli restare. I processi servirono quindi a colpire chi si
era allontanato dal luogo di soggiorno obbligato, chi, pur essendo ban-
dito, era stato visto in città. Anche quando qualcuno fu accusato di
favorire la parte lambertazza o appartenere ad essa, il giudice – fore-
stiero – non si occupò di colpirlo con la pena del bando o del confi-
no, ma solo di fargli pagare la multa prevista. Nel campo della perse-
cuzione dei lambertazzi, la giustizia, rivestì insomma una funzione ac-
cessoria e, come si vedrà, relativamente marginale.
D’altra parte, l’analisi dei processi superstiti mostra che questa giu-
stizia politica fu influenzata in maniera determinante dai meccanismi
con i quali la giustizia penale era normalmente amministrata. Da alcuni
anni, grazie ad alcuni importanti studi, sappiamo come nei comuni ita-
liani la maggior parte dei processi penali terminava in assoluzione, in
quanto alla maggior parte degli imputati era sufficiente presentarsi in
giudizio, portare con sé fideiussori e testimoni, e magari richiedere il
consilium di un sapiente, per evitare una condanna. Per quanto vi fos-
sero già i primi elementi di un sistema inquisitorio l’interesse principale
dei magistrati non risiedeva nella persecuzione dei crimini previsti dallo
statuto, ma piuttosto nella mediazione dei conflitti. Anche se potrebbe
apparire a prima vista incongruo, questo stesso atteggiamento fu tenuto
anche nella gestione dei criminali politici lambertazzi.
Ciò avvenne soprattutto nel momento in cui i lambertazzi della pri-
ma ora, coloro che avevano partecipato in prima persona ai rumores
del 1274, cominciarono a morire, e i loro figli, facendosi maggiorenni,

Capitolo 7.pmd 275 09/11/2009, 16.27


276 GIULIANO MILANI

ne raccolsero la gravosa eredità. Complessivamente, lo svolgimento del-


la giustizia politica bolognese è leggibile nei termini del passaggio da
un momento di costruzione della giustizia per i ribelli, a un più lungo
periodo di normalizzazione della stessa giustizia. Sulla base di questa
sommaria periodizzazione se ne darà conto nelle pagine che seguono.

2. La costruzione della giustizia politica (1275-1282)

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, tra 1274 e 1275, men-
tre andava precisandosi la criminalizzazione dell’appartenenza alla fazio-
ne sconfitta, la competenza in merito alla persecuzione dei lambertazzi
passò dal podestà al capitano del popolo. Vale la pena di ricordare che
tale passaggio venne senza dubbio favorito dal fatto che a esercitare la
capitaneria nel 1275 fu Malatesta da Verrucchio, già podestà-vicario di
Carlo I d’Angiò a Firenze nel 1268. L’anno successivo, il 1276, un
ufficiale angioino vero e proprio, il provenzale Richard de Beauvoir,
ricoprì congiuntamente le due massime cariche cittadine. Vi fu dunque
una netta influenza della rete intercittadina controllata dal re di Sicilia
nella costruzione di un apparato di ritorsione contro la fazione sconfit-
ta bolognese. D’altra parte, tale influenza non venne recepita passiva-
mente dalla città, ma piuttosto accolta e progressivamente adattata ai
bisogni del regime popolare e geremeo scaturito dalla cacciata del 1274.
Sul momento iniziale, quello della costruzione del nuovo sistema di
giustizia politica, ci informano tre registri prodotti dalla curia del capi-
tano nel corso del 1275 che contengono alcuni processi e alcune crida-
ciones, ossia precetti che il magistrato fece bandire in tutta la città 1.
Il primo registro risulta particolarmente interessante per osservare la
giustizia politica in questo momento di passaggio, in cui l’appartenenza
individuale alle parti lambertazza e geremea non era stata ancora defi-
nita con chiarezza e soprattutto non contemplava ancora, con l’eccezio-
ne dei banditi, vere e proprie condizioni penali. Esso contiene la regi-
strazione di alcune fasi (soprattutto testimonianze e fideiussioni degli
imputati) di 15 procedimenti contro individui accusati di appartenere
alla pars sconfitta, e pochi altri atti 2. L’analisi di questi processi mostra

1
ASBo, Giudici, regg. 1; 2; 3.
2
Gli atti che non riguardano i lambertazzi sono: un’inquisizione promossa con-
tro un cavaliere che ha dato false generalità a un notaio del capitano del popolo
(ASBo, Giudici, regg. 1, c. 22v); un processo per aggressione (c. 24r); un elenco di

Capitolo 7.pmd 276 09/11/2009, 16.27


BOLOGNA 1274-1300. PROCESSI E OPERAZIONI DI POLIZIA 277

chiaramente come nel tribunale si condusse una peculiarissima azione


di censimento dei lambertazzi, in larga parte indipendente, o meglio,
complementare, rispetto alla schedatura che contemporaneamente veni-
va portata avanti nel consiglio dei cento sapienti, nelle società e nelle
vicinie. In realtà non siamo in grado di dire esattamente quali accuse
vennero presentate al capitano. Ci è infatti giunta la fase iniziale del
procedimento, il libello accusatorio, per uno solo dei quindici processi.
In quel caso un cittadino venne accusato di aver occupato illegittima-
mente la carica di riscossore delle imposte speciali, essendo egli stesso
lambertazzo 3. È possibile che anche negli altri casi l’accusa fosse basata
sull’incompatibilità tra l’esercizio di una carica, o la non-cassazione dal-
le matricole di una società, e la qualifica di lambertazzo. Ma è ugual-
mente possibile che si trattò di semplici accuse di appartenenza alla
pars lambertaciorum, senza altre aggravanti. Certo è che nell’ascoltare i
testimoni, i giudici si concentrarono proprio sulla connotazione politica
degli imputati. Venne passato in rassegna il comportamento dei quindi-
ci accusati durante i disordini del 1274, ma anche il loro coinvolgimen-
to nelle operazioni di schedatura compiute sino a quel momento, e
quindi l’eventuale iscrizione nelle collette speciali, nelle assegnazioni di
cavalli, nelle liste di sospetti 4, nonché la partecipazione alle spedizioni
condotte dal comune contro l’esercito ghibellino 5, incompatibile con la
cassazione dei lambertazzi dagli elenchi di armati sancita dal consiglio
dei cento sapientes nell’anno precedente.
Sia sul fronte dei fatti, relativamente al comportamento degli impu-
tati durante i rumores, sia sul fronte dei diritti, relativamente alla loro

persone trovate dai berrovieri mentre si aggiravano in città la notte del 19 febbraio,
con le difese e le fideiussioni (c. 22v-23r); un elenco di custodi delle mura non
trovati nelle loro postazioni la stessa notte (c. 23r-v) e un processo per l’assenza da
una cavalcata (c. 25v).
3 ASBo, Giudici, reg. 1, c. 20 r: « Coram domino Hondesanti iudice domini capi-

tanei venit dominus Petriçolus Çoenis et dicit sacramentum denuntiando Thomaxinum


Michaelis de Cavrara qui facit pecitas de capella Sancte Lucie esse et fuisse semper
lambertatium et de parte lambertatiorum et electum fuisse tempore presentis potestatis
tamquam lambertacium ad imponendum colectam lambertaciorum et dicit ipsum esse
secundum reformationem populi in societate Castellorum ».
4 ASBo, Giudici, reg. 1, c. 18r: « Dominus Petrus Billinus de Donçellis [...] inter-

rogatus si a tempore rumorum citra vidit vel audivit quod dictus Antonius vel pater
eius substinuit honus confinium vel equitis vel collecte pro parte lambertaciorum, re-
spondit quod non [...] ».
5 ASBo, Giudici, reg. 1, c. 12r: « Dominus Lambertus de Rodaldis [...] dicit quod

[...] vidit predictum in exercitu Faventie Ymole et Bagnacavalli tamquam ieremensem ».

Capitolo 7.pmd 277 09/11/2009, 16.27


278 GIULIANO MILANI

presenza nelle liste, le deposizioni dei testi e degli imputati aprirono


larghi squarci di incertezza. In molti casi, è vero, i testimoni si sforza-
rono di suffragare le proprie accuse e difese con resoconti in grado di
rivelare lo schieramento politico degli accusati: alcuni si appellarono
all’impegno militare, citando le famiglie con cui l’imputato aveva com-
battuto nella primavera del 1274 6; altri, in veste di consoci della stessa
corporazione, segnalarono come l’imputato avesse sostenuto le ragioni
dell’una o dell’altra parte durante le assemblee societarie 7; altri ancora
denunciarono come avesse esplicitamente appoggiato una parte nel con-
siglio cittadino 8, o addirittura sostenuto in discussioni di strada le ra-

6 ASBo, Giudici, reg. 1, c. 4v. « Ansaldus fornarius cappelle Sancte Tecle [...] re-

spondit quod tempore rumorum vidit predictum cum armis et sine cum parte gere-
miensium ad domum de Basacomatribus in strata Stefani et ad domum de Artenesiis
sic fatiebant alii ieremienses et dicit quod vidit eum in esercitu facto contra faventi-
nos ». ASBo, Giudici, reg. 1, c. 5v: « Iacominus Minarellus [...] dicit quod [...] tempo-
re rumorurm vidit eum trahere cum armis ad stratam Sancti Stephani et proeliari
contra lambertacios et specialiter ad domum Passavantium ». ASBo, Giudici, reg. 1, c.
6v: « Franciscus Maymelllini [...] dicit [...] quod ipse testis tempore rumorum vidit
predictum Bonvisinum cum armis esse cum illi de Castrobrittonum qui sunt de parte
lambertaciorum et rebellium comunis Bononie proeliari ad rostam sive stellatam contra
Artemisios et alios amicos partis ieremiensium [...]; item dicit quod audivit [...] ei
dicere quod mitteret ignem in domibus ieremiensium [...] ». ASBo, Giudici, reg. 1, c.
8r: « Vivianus de Rodaldis [...] dicit quod [...] tempore rumorum predictus utebatur
cum Rodaldis et cum aliis de parte ieremiensium. Interrogatus si vidit eum cum armis
cum aliquam partem [sic], respondit quod illo tempore predictus venit ad Rodaldos et
dixit sibi testi et aliis de domo sua quod si lambertaci vellent sibi auffere domum
suam ipse incontinenti daret ea Rodaldis pro sua defensione ».
7 ASBo, Giudici, reg. 1, c. 8r: « Iacobus Ammonitti notarius [...] dicit quod ipse

testis tempore primorum et secundorum rumorum fuit ministralis sotietatis Lombardo-


rum de quam etiam predictus est et pater et frater et cum tractabant in ipsa sotietate
de aliquibus negotiis que tangerent partem geremiensium predictus et pater et frater
erant in peractis cum ipso ministrale et aliis facentibus partem ecclesie contra lamber-
tacios et etiam cum tractatum fuit de fatiendo vel nec fatiendo exercitu contra faventi-
nos, suprascriptus et pater et frater fuerunt de partito quod exercitum fieret contra
lambertacios qui resistebant in totum. Item dicit quod tempore primorum et secundo-
rum rumorum suprascriptus pater predictus venit ad ipsum ministralem et ad socios
qui erant de parte ieremiensium et dixit eis quod cum ipse non erat tam potens per
se quod posset defendere domum et turrem suam contra lambertacios quod placeret
eis mittere aliquos de sotietate predicta de parte ieremiensium qui custodirent pre-
dictam domum et turrem et ipse tunc una cum sotiis misit illuc [...] ».
8 ASBo, Giudici, reg. 1, c. 10r: « Dominus Michel Zambrasii capelle predicte [...]

dicit quod ipse testis fuit vicinus predicti Iohannis iam sunt .XV. annos et ultra et toto
predicto tempore audivit et vidit predictum esse de parte ieremiensium et numquam

Capitolo 7.pmd 278 09/11/2009, 16.27


BOLOGNA 1274-1300. PROCESSI E OPERAZIONI DI POLIZIA 279

gioni favorevoli o contrarie all’invio della spedizione bolognese in Ro-


magna, l’evento scatenante del primo conflitto civile 9. Ma in altri casi
testimoni e imputati si limitarono ad ammettere la neutralità durante il
conflitto 10, rivelando l’esistenza di quella stessa zona grigia tra le due
fazioni che è ben testimoniata dai coevi processi pratesi.
Ancora più problematico si rivelò verificare l’appartenenza politica
sulla base della documentazione prodotta dal comune. Gli imputati,
sostenuti dai propri testi, protestarono spesso di essere stati iscritti ne-
gli elenchi per errore, presentarono documentazioni contrastanti che
mettevano in luce come, ad esempio, la stessa persona potesse esser
stata censita come lambertazzo nella colletta e nell’assignatio equorum,

audivit contrarium. Item dicit quod anno proximo preterito, tempore Guillelmi de
Posterla potestatis et Marchi Iustiniani capitanei Bononie ipse testis erat ancianus et
predictus Iohannes etiam erat ancianus cum eo et semper cum tractabant de negotiis
tangentibus partem, idem Iohannes una cum ipso teste et aliis anzianis qui erant iere-
mienses concordabat in eligendo et fatiendo singula que partem ieremiensium respitie-
bant, et dicit quod predictus est de conscilio Bononie tamquam ieremensis et quod de
hiis est publica fama. Item dicit quod predictus Iohannes cum ipso teste fuit armatus
hoc anno ad preliandum contra lambertaçios tempore rumoris in plateis comunis ».
9 ASBo, Giudici, reg. 1, c. 18r: « Dominus Saxolinus cartolarius [...] dicit quod

annno proximo preterito quando tractabant de civitate Faventie et Forlivi quod veni-
rent ad precepta comunis et de aliis que respicierent comune Bononie, audivit predic-
tum Antonium et patrem et maxime Antonium dicere quod isti qui sunt hodie in
Bononie semper defendebant honorem comunis Bononie et in omnibus locis quibus
ipse testis vidit unquam predictum Antonium audivit eum tractantem de honore comu-
nis Bononie et defendere cum suis verbis et ratiotinationibus istos qui sunt in Bononia
nunc et maxime contendendo contra Blasium suum patruum qui defendebat lamberta-
cios ». L’espressione « isti qui sunt hodie in Bononia » sembra riferirsi al partito gere-
meo, poiché l’hodie è il 1275. Alla stessa carta un altro testimone sullo stesso episodio,
applica immediatamente l’equazione nemico dei lambertazzi = amico dei Geremei: « Pe-
trus Billinus de Donçellis [...] dicit [...] quod Çovaninus pater dicti Antonii et ipse
Antonius fuerunt amici de parte ieremensium; item dicit quod vidit et audivit tempore
quo tractabant de facto Mutine dictum Çovaninum ad bancham suam cambii conten-
dere pro parte ieremensium contra Blasium suum fratrem qui contendebat pro parte
lambertaciorum dicendum sibi: ‘o nasu marçu! [...]’ ».
10 ASBo, Giudici, reg. 1, c. 12v: « Guarinus de Vetrana de cappella Sancti Vitalis

[…] dicit quod per ea que vidit predictum Iacobinum facere tempore rumorum et
post et ante credit eum potius ieremensem quam lambertacium ». ASBo, Giudici, reg.
1, c. 18r: Dominus Saxolinus cartolarius [...] dicit quod tempore rumorum predictus
Antonius venebat cum ipso teste et filiis suos ad plateam comunis ad defendendum
bonum statum comunis Bononie. Interrogatus si vidit eum trahere ad aliquam partem
dixit quod ipse nec pater suus sunt homines qui habuerint intentionem suam ad dan-
dum favorem alicui partium nisi ad defendendum comune Bononie [...] ».

Capitolo 7.pmd 279 09/11/2009, 16.27


280 GIULIANO MILANI

ma come geremeo nella propria società di mestiere; oppure potesse


aver subito per due volte l’onere della consegna del cavallo, ma una
come lambertazzo e una come geremeo 11. In un caso un imputato citò
una riformagione del consiglio del popolo che stabiliva che le identifi-
cazioni di appartenenza condotte nelle società avevano maggior peso di
quelle destinate all’assegnazione dei cavalli 12. Anche dall’esame dei do-
cumenti, dunque, appariva una zona grigia composta da persone in grado
di provare la propria apparentenza alla parte vincitrice, ma dotate di
una vicenda politico-amministrativa che offriva spunti anche a chi vo-
lesse accusarle di legami con i lambertazzi.
Proprio l’eliminazione di questa zona grigia, e cioè la soluzione di
tutti i dubbi che potessero sorgere relativamente alla connotazione degli
individui nel momento in cui occorreva distinguerli in due gruppi (at-
traverso liste sempre più complete), appare il fondamento sul quale fu
costruita la giurisdizione politica del capitano del popolo. In questa
prospettiva appaiono con maggiore chiarezza le ragioni del conferimen-
to a questo magistrato della giustizia sui lambertazzi. Fino al bando del
1274 il capitano si era occupato di una serie di reati inquadrabili come
conflitti interni al « popolo » e, al tempo stesso, attacchi all’istituzione
popolare in quanto organismo politico e militare. Tra i registri si trova-
no denunce e accuse per illecito esercizio delle cariche popolari, corru-
zione, frode elettorale (ma sempre relative alle cariche del « popolo » e
non a quelle del comune), mancata partecipazione alle cavalcate e alle
altre imprese belliche 13. Come abbiamo visto, nel 1274 si decise di

11ASBo, Giudici, reg. 1, c. 1r-v: « Introduxit ad eius defensionem dominus Gerar-


dus de Surcis advocatus eius instrumentum continens quod est dictus Germiolus ap-
probatus de sotietate merçariorum subscriptum per Guidonem Romey notarium; item
unum alium continens quod est absque eo quod solvitur primam collectam, subscrip-
tum per Laurentium Gerardini; item alium in quo impositum fuit equus domino Paci
patri eius tamquam homini de parte ecclesie subscriptum per dictum notarium; et sunt
penes nos ».
12 ASBo, Giudici, reg. 1, c. 2r: « Suprascriptus Iohanninus introduxit instrumen-

tum subscriptum per Iacobum de Lastignano notarium continens quod in cedula por-
recta per impositores equorum suprascripte sue cappelle impositus fuit sibi equus
tamquam homini de parte ecclesie; item quamdam reformationem scriptam per Pacem
de Brayna que continens ipsum approbatum esse de parte ecclesie in societate Balça-
norum; item quamdam reformationem populi subscriptam per Bonacosam de Tuschis
in qua continetur quod non preiudicaret alicui si assignaret equum in parte lamberta-
tiorum dum modo approbatus est; et sunt penes me ».
13 Sul tribunale del capitano del popolo bolognese v. Kantorowicz, Albertus Gan-

dinus, II. Die Praxis.

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BOLOGNA 1274-1300. PROCESSI E OPERAZIONI DI POLIZIA 281

concentrare la schedatura dei lambertazzi rimasti in città nelle mani del


« popolo », affermando con forza che il fatto di avere un legame con la
fazione bandita costituiva di per sé un attacco al « popolo » oltre che al
comune. Il conferimento al capitano del compito di indagare su quanti
erano sfuggiti alla schedatura o su quanti, ancora all’interno delle istitu-
zioni « popolari », potevano minarne la salute appoggiandone i nemici,
costituì una naturale applicazione di questo principio. Ma al tempo stes-
so, tale conferimento diede al capitano il compito di risolvere i conflitti
che all’interno del « popolo » rimasto in città dopo la fuga e il bando
dei lambertazzi potevano sorgere in occasione della nuova schedatura.
In perfetta consonanza con quanto era avvenuto fino a quel momento
relativamente ad altri problemi, il tribunale capitaneale si affermò come
la sede ufficiale a cui, da una parte potevano rivolgersi i membri delle
società che non fossero riusciti a far valere le proprie ragioni in merito
al definire colleghi, vicini e conoscenti come lambertazzi e quindi a
estrometterli dal « popolo »; dall’altra, potevano presentarsi a difendersi,
nel quadro di un sistema dotato di garanzie, i cives accusati di intratte-
nere relazioni con i nuovi nemici.
Proprio perché nato come istituzione addetta alla risoluzione dei con-
flitti interni al « popolo », il tribunale capitaneale, come il tribunale pode-
starile, utilizzava in primo luogo procedure derivate dalla lunghissima tra-
dizione del processo pubblico triadico, che avevano raggiunto un’assetto
stabile nel corso della prima metà del Duecento nella forma del procedi-
mento accusatorio. Il registro del 1275 mostra con ogni evidenza che
acquisire la competenza sui nemici politici non comportò affatto una ri-
nunzia a questo tipo di procedure. Per quanto se ne può comprendere i
processi celebrati in quell’anno costituiscono procedimenti sostanzialmen-
te accusatori. Entrambe le parti, il geremeo accusatore e il sospetto lam-
bertazzo accusato, sono obbligate a prestare una fideiussione14 e a porta-

14 ASBo, Giudici, reg. 1, c. 20r: « Die .XV. februarii. Coram domino Hondesanti
iudice domini capitanei venit dominus Petriçolus Çoenis et dicit sacramentum denun-
tiando Thomaxinum Michaelis de Cavrara qui facit pecitas de capella Sancte Lucie
esse et fuisse semper lambertatium et de parte lambertatiorum et electum fuisse tem-
pore presentis potestatis tamquam lambertacium ad imponendum colectam lamberta-
ciorum et dicit ipsum esse secundum reformationem populi in societate Castellorum.
Item dicit illud idem de filio predicti Thomaxini, Michaele.
Die .XVIIII. februarii. Preceptum est suprascripto domino Petriçolo ad bannum
.XXV. librarum bononinorum quod hic ad .III. dies ostendat et probet cum effectu
predicta omnia vera esse ». ASBo, Giudici, reg. 1, c. 20r: « Magister Thomaxinus iurat
preceptum et cetera. Interrogatus sacramento et ad bannum .L. librarum bononinorum

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282 GIULIANO MILANI

re testimoni 15, vengono vagliati dai giudici, insomma, sulla base dei
medesimi criteri. L’unica differenza riscontrabile consiste nell’imposizio-
ne, per l’accusato, di un’ulteriore garanzia pecuniaria da prestare nel
momento in cui, ottenuto il termine entro cui allestire la propria difesa,
si allontani dal palazzo del comune 16. Un’importante conseguenza del
carattere accusatorio della procedura è poi la netta prevalenza delle
assoluzioni 17. L’esito di questi processi è noto solo in sei casi 18, ma solo
in uno di essi si tratta di una condanna.
Con ciò non si intende affatto sostenere che la curia del capitano
del popolo fosse strutturalmente estranea alle procedure di tipo inquisi-
torio. Come vedremo tra breve, in questo tribunale furono al contrario
promosse inquisizioni e altri procedimenti indirizzati più all’attuazione
di obiettivi politici che alla risoluzione dei conflitti 19, come a esempio
le periodiche operazioni di polizia tese al reperimento dei banditi e dei
confinati in città. L’assenza di questi aspetti, pur sottintesi nelle disposi-

quod dicat veritatem in omnibus dicit ad excusationem suam quod ipse est ieremensis
er numquam fuit lambertatius et est in societate Castellorum approbatus de parte iere-
mensium et dicit quod tempore rumorum fuit in saragoçia ad preliandum contra lam-
bertacios cum Bayetto confalonerio quarterii porte sancti Proculi et dicit quod tempore
exercitus Faventie preliando cum inimicis comunis fuit in fovea dicte terre cum filio et
aliis [...].
Suprascriptus Michael eius filius iurat precepta et cetera. Interrogatus sacramento
et ad dictum bannum dicit in omnibus et per omnia id quod pater ad eius defensio-
nem [...].
15 ASBo, Giudici, reg. 1, c. 20r: « Bolnisius Iohannis de capella Sancti Felicis,

nuntium comunis Bononie [dicit] se hodie, mandato domini iudicis, citasse Iacobum
domini Iohannis de Çovençonibus, Accarisium Bonaventure cappelle Sancte Lucie pre-
sentialiter quod incontinenti compareant coram iudice ad testificandum pro suprascrip-
to Thomasino et filio » [...]. ASBo, Giudici, reg. 1, c. 19r: « Prescriptus iudex pronun-
tiavit testes producti ab Antonio ex una parte et ab Guidone ex altera, in causa intra
eos vertenti, presentibus et petentibus partibus, apertos, presentibus domino Cabrio
notario et domino Beccadino de Artinisiis ».
16 ASBo, Giudici, reg. 1, c. 20r: « Pro eo et eius filio infrascripto fideiussit in .C.

librarum bononinorum Guilielmus Buccadefurno cappelle Sancte Marie porte Ravenna-


tis. Terminus ad eorum defensionem .III. dierum ».
17 Sulla netta prevalenza delle assoluzioni nei processi accusatori comunali v. Val-

lerani, Il sistema giudiziario del comune di Perugia, pp. 31-33 e Vallerani, I processi
accusatori a Bologna fra Due e Trecento.
18 La sentenza è registrata in margine all’interrogatorio dell’imputato con le for-

mule « absol[utus] » oppure « con[dempnatus] in .X. libris pro lambertacio ».


19 Per questa distinzione ci siamo serviti dei modelli di Damaska, I volti della

giustizia e del potere.

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BOLOGNA 1274-1300. PROCESSI E OPERAZIONI DI POLIZIA 283

zioni dello stesso anno 20, nel registro del 1275, è dovuta in parte al
fatto che, a questa altezza cronologica, la condizione di lambertazzo
non si era ancora compiutamente evoluta in senso penale. Crediamo
tuttavia importante notare, anche per valutare appieno le inquisizioni
capitaneali condotte negli anni successivi, che la competenza in materia
di ritorsione politica venne affidata a un organismo giudiziario già dota-
to di procedure autonomamente costruite, e costruite sulla base del
modello accusatorio.
I registri conservati consentono di seguire l’attività del tribunale del
capitano del popolo con continuità solo a partire dal 1281. Si è già
accennato al fatto che durante i secundi rumores che precedettero la
nuova esclusione del 1279 e nel periodo immediatamente successivo,
vennero alla luce nuove istituzioni, segnate da un carattere più marcata-
mente di parte, come la società della Croce, il cui nome echeggiava
quello della confraternita parmigiana dotata di funzioni di governo da
Carlo I d’Angiò. Un simile prestito lessicale si riscontra anche all’inter-
no della curia del capitano del popolo. Il giudice che in questa sede
esercitava la giustizia penale, e dunque si occupava della repressione
dei lambertazzi, assunse infatti il titolo di « vicario » che non aveva pre-
cedenti nelle istituzioni bolognesi 21. È possibile che nella scelta di que-
sto nome abbia pesato il modello dei podestà-vicari angioini che nel
corso degli anni Sessanta e Settanta del Duecento avevano ricoperto la
massima carica cittadina nei comuni sottomessi al re di Sicilia. Se una
tale ipotesi fosse esatta, potremmo affermare che, come era avvenuto
nel 1275 attraverso la chiamata di Malatesta da Verrucchio, anche nel
1280 si intese collegare la giustizia politica all’esperienza della coordina-
zione guelfa.
Nello stesso periodo venne redatto un sacramentum che il capitano
entrante era tenuto a prestare all’atto del suo insediamento. Tale docu-
mento costituisce un buon punto di partenza per osservare quali com-
piti gli venivano assegnati in materia di giustizia politica in un momen-
to in cui ormai il gruppo dei lambertazzi risultava chiaramente distinto

20 I registri di « cridaciones » del 1275 conservano una traccia delle ricerche dei
confinati. ASBo, Giudici, reg. 3, c. 5r: « Item cridatum fuit quod omnes confinati de
parte lambertatiorum incontinenti ad eorum confinia ire debeant in banno .C. librarum
bononinorum pro quolibet et plus et minus arbitrio domini capitanei, sciendo quod
notarii ibunt ad circandum ».
21 Nei processi del 1275 il giudice Hondesanti, non appare mai qualificato come

vicarius. Su Malatesta da Verrucchio v. Capitolo V.

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284 GIULIANO MILANI

secondo precise condizioni penali22. Il generale compito di perseguitare


i nemici e ribelli del comune della parte dei lambertazzi e le loro fami-
glie fu specificato nell’obbligodi proibire ai banditi la residenza in città;
di promuovere mensilmente un’inquisizione contro i banditi e i loro
favoreggiatori, e in caso di cattura, di carcerarli e punire i ricettatori;
di impedire che i banditi traessero direttamente o indirettamente van-
taggi economici dai loro beni. Si affermò inoltre che per banditi lam-
bertazzi si dovevano intendere quanti erano stati condannati al bando
nel 1280 e quanti avevano combattuto il comune stando a Faenza e a
Forlì. Il capitano si impegnò ad aggiornare ogni mese gli elenchi, fatti
salvi coloro che avevano giurato la parte geremea. Malauguratamente

22 Questo giuramento doveva essere stato inserito negli statuti del popolo che,

come ha dimostrato W. Montorsi, Plebiscita Bononiae, sono andati perduti. Se ne con-


serva una copia, incompleta, in ASBo, Demaniale, S. Francesco, 336/5079, doc n. 43:
« Reperitur in sacramento domini capitanei infrascriptum capitulum inter cetera in hunc
modum:
Item persequar omnes qui erunt inimmici et rebelles comunis Bononie pro parte
lambertatiorum et eorum familias et non sinam eos vel aliquem eorum stare et morari
in civitate Bononie vel districtu; et solempnem inquisicionem faciam per civitatem Bo-
nonie et districtum contra eos omni mense et contra receptores eorum vel dantes sibi
auxilium vel consilium; et si aliquis eorum reperiretur vel aliquis de eorum familiis
capi et detineri faciam bona fide toto posse et in carcere ponam et poni faciam salvis
aliis penis que in reformationibus et ordinamentis comunis et populi Bononie conti-
nentur et continebuntur. Et contra ipsos receptores vel dantes auxilium vel consilium
procedam secundum formam statutorum ordinamentorum et provisionum et reforma-
tionum comunis vel populi Bononie. Et procurabo toto posse meo quod ipsi non
habeant aliquam utilitatem de bonis eorum que in comune venire faciam toto posse
nec de alienis. Et omnia et singula statuta et ordinamenta, reformationes et provisiones
comunis et populi Bononie factas et faciendas et contra eos et eorum familias et re-
ceptores eorum et eorum familias et que in eis continentur et continebuntur observabo
et essecutioni mandabo et observari et executioni mandari faciam precise. Banniti au-
tem et rebelles pro parte lambertaciorum sint et intelligantur omnes tam de civitate
Bononie quam de comitatu de parte lambertaciorum qui tempore rebellionis facte per
lambertacios contra romanam Ecclesiam in .MCCLXXX., indictione octava, de mense
augusti vel ab inde citra guerifficaverunt comuni Bononie vel fuerunt Favencie vel
Forlvi vel alibi cum imnimicis et rebellibus comunis Bononie vel qui sunt inhobedien-
tes comuni Bononie et omnia [nomina] et cognomina ipsorum, facta dilligenti inquisi-
cione per me vel meam familiam poni et scribi faciam in libris bannitorum comunis
infra duos [dies] ab ingressu mei regiminis qui taliter baniti et scripti possint impune
in personis et rebus offendi salvo quod predicta non intelligantur in hiis qui hobe-
diunt comuni Bononie et recepti sint ad partem geremiensium et cetera.
Ego Petrus de Bambagliolis imperiali auctoritate notarius ut in dicto libro inveni
ita scripsi et exemplavi ».

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BOLOGNA 1274-1300. PROCESSI E OPERAZIONI DI POLIZIA 285

questo documento è giunto a noi mutilo, privo della parte relativa ai


doveri nei confronti dei confinati. I registri giudiziari superstiti tuttavia
consentono di colmare questa lacuna e di distinguere complessivamente
i doveri del capitano del popolo relativi alla parte esclusa in tre com-
prensive categorie: le inquisizioni generali, le ricerche dei confinati e
l’istruzione di processi particolari.
Come stabiliva il sacramentum, ogni mese il capitano era tenuto a
indagare sui lambertazzi. Per questo doveva procedere agli interrogato-
ri dei ministrali delle parrocchie, responsabili delle più piccole riparti-
zioni amministrative della città, e talvolta anche di altri cittadini, sulla
base di un questionario. Le domande erano volte solitamente ad accer-
tare la presenza dei banditi e dei loro discendenti in città, il rispetto
dei luoghi di confino da parte dei confinati, l’esistenza di fenomeni di
favoreggiamento, la presenza di beni dei banditi non ancora passati
sotto il controllo del comune. I risultati di queste indagini venivano
raccolti nei registri della curia del capitano, che testimoniano con po-
che lacune come la pratica fu costante, sebbene non attuata ogni mese,
fino al 1300 23.
Parallela all’inquisizione generale fu l’attività di controllo dei confi-
nati. In osservanza di alcune disposizioni frequentemente reiterate 24, il
capitano inviava periodicamente due o più notai nei luoghi di confino
interni al contado di Bologna e nelle città in cui risedevano i confinati
considerati più pericolosi, distinti per quartiere di residenza. Gli inviati
prendevano nota di quanti non erano presenti e li citavano a presenta-
re le loro difese. Una volta raccolte le difese, il tribunale procedeva
all’assoluzione o alla condanna del reo.
Se con queste attività era il comune stesso a sollecitare la popola-
zione per ottenere informazioni, con le accuse e le inquisizioni partico-
lari i singoli cittadini denunciavano i ghibellini di propria iniziativa,
partecipando, come era già avvenuto nel 1275, all’attività di controllo. I
registri attestano come la denuncia poteva essere presentata palesemen-
te fornendo le proprie generalità, quelle del reo, specificando il delitto
di cui lo si accusava (rottura del bando, del confino, favoreggiamento,

23 Tutte le inquisizioni generali testimoniate per il periodo 1281-1282 sono conser-

vate in ASBo, Giudici, reg. 34, cc. 1r-4v.


24 Le prime disposizioni in materia di controllo dei confinati sono già nelle crida-

ciones del 1275. su cui v. sopra. Altre « cridaciones » vennero emanate nel 1281 e sono
registrate in ASBo, Giudici, reg. 8. I verbali delle ricerche dei confinati per il periodo
1281-1282 sono in ASBo, Giudici, reg. 10, cc. 28r-29v; reg. 34, cc. 33-40; 76r.

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286 GIULIANO MILANI

accusa generica di essere lambertazzo), eventualmente aggravato da cir-


costanze particolari (come il fatto di detenere una carica pubblica). Il
giudice capitaneale istruiva allora un procedimento di tipo accusatorio
convocando le parti, facendo loro prestare fideiussioni in danaro e pas-
sando in rassegna i testimoni presentati dalle due parti. Al termine de-
gli interrogatori – di cui le parti venivano reciprocamente informate
attraverso la pubblicatio – emetteva la sentenza, con o senza il ricorso a
un consilium sapientis. Le procedure erano in parte differenti quando
l’inquisizione era promossa direttamente dal giudice sulla base di voci
diffuse, informazioni o notificationes anonime depositate in un’apposita
cassetta di cui era dotato il palazzo comunale. In questo caso si proce-
deva all’interrogatorio dell’imputato e dei testimoni, spesso indicati nel-
la notifica stessa, invitando gli accusati a provare la propria innocenza
per mezzo di testimonianze e documentazione 25.
Nel condurre tutte queste attività, il capitano e i suoi giudici erano
tenuti a rispettare scrupolosamente quanto stabilito dagli statuti e so-
prattutto deliberato nei consigli 26. Per poter ricostruire la giustizia poli-

25 Per raccogliere i processi condotti contro i lambertazzi sono stati schedati tutti
i registri dell’ufficio del vicario per il periodo 1275-1300. Si tratta di registri distingui-
bili in due tipologie: libri di precetti, e libri processuali, anche se talvolta questa di-
stinzione tende a sfumare. La forma di registrazione dei procedimenti è infatti quella
del « registro giornaliero » in cui vengono accumulati i diversi atti secondo una scan-
sione cronologica che non rispetta sempre la separazione tra i processi. La quasi totale
mancanza dei libri di sentenze costringe a utilizzare le annotazioni con[dempnatus] e
ab[solutus] che compaiono spesso, ma non sempre, accanto al libello accusatorio. Per
il periodo 1275-1300 sono conservati 189 registri dell’Ufficio del Vicario, con un’unica
lacuna significativa per gli anni 1276-1281. Per il periodo successivo al 1281 si ha
dunque una media di 9, 25 registri all’anno. Per valutare quale sia la consistenza delle
perdite si rivela preziosa la conservazione, anche se frammentaria, di un inventario
dell’antico archivio del « popolo », l’armarium populi della camera actorum (edito in G.
Fasoli, Due inventari, pp. 173-277), che riporta l’elenco dei registri prodotti dalla curia
capitaneale distinti in base all’anno di produzione per gli anni 1281-85. Per il primo
semestre del 1281 sono conservati 9 pezzi sui 13 attestati dall’inventario; per i succes-
sivi due semestri rimangono solo 5 registri su 19, ma in seguito lo scarto va sensibil-
mente attenuandosi: per il secondo semestre del 1282 abbiamo 5 registri su otto, e in
seguito il rapporto è di 7 su 9, di 6 su 8 e infine di 4 su 5. Il grande numero di
registri conservati per gli anni successivi, non confrontabili con questo inventario, indi-
ca che la differenza tra registri prodotti e conservati rimane esigua e che la disparità
del 1282 costituisce l’eccezione più che la regola. Questi registri riportano 294 processi
celebrati in materia di lambertazzi negli anni 1281-1300.
26 Nel sacramentum il capitano affermava: « Et omnia et singula statuta et ordina-

menta reformationes et provisiones comunis Bononie factas et faciendas et contra eos

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BOLOGNA 1274-1300. PROCESSI E OPERAZIONI DI POLIZIA 287

tica del capitano del popolo occorre dunque prestare attenzione all’atti-
vità normativa del comune, e in particolare del « popolo ». Riguardo ai
lambertazzi i consigli emanarono nel corso del tempo moltissime deli-
bere attraverso procedure sia ordinarie sia straordinarie. La discussione,
che costituiva il carattere precipuo di queste procedure, non avvenne
soltanto all’interno dei singoli consigli, ma anche tra i diversi organi e
ancora tra questi e le altre sedi deputate al controllo dei lambertazzi,
come lo stesso tribunale capitaneale. Le norme in materia cambiarono
spesso, dando luogo tanto a dibattiti che si protraevano nel tempo,
quanto a progressivi adattamenti al mutare delle circostanze. In questa
prima fase di costruzione della giustizia politica alcuni argomenti venne-
ro privilegiati rispetto agli altri, sollecitati in parte dal coevo processo
di ricostruzione delle liste di condannati, avviato in seguito alla nuova
esclusione del 1280.
Particolarmente legate ai postumi del rientro del 1279 appaiono le
riformagioni che stabilirono, sicuramente nel 1281, ma probabilmente
anche prima, che coloro che erano venuti ad mandata comunis doves-
sero prestare delle garanzie pecuniarie, pena il rinnovo del bando 27.
Lo stesso vale per le riformagioni che, inaugurando una serie che sa-
rebbe proseguita fino ai primi decenni del Trecento, sollecitarono l’al-
lontanamento dei confinati dalla città, minacciando il bando in caso di
mancata esecuzione 28. Meno contingenti furono altre norme già ema-
nate nel 1275 e implicitamente riprese nel sacramentum, con cui si

et contra eorum familias et receptores eorum et eorum familias et que in eis continen-
tur et continebuntur observabo et esecutioni mandabo et observari et esecutioni man-
dari faciam precise ».
27 ASBo, Giudici, reg. 10, c. 21r: « Çocholus bannitor populi pro se et aliis banni-

toribus populi respondit mihi Amadori notario se publice banuisse per civitatem et
burgos, in locis consuetis quod omnes homines et persone qui venerunt ad mandata
comunis et qui postea, infra tempus infra quem ordinatum fuit omnes lambertacios
posse venire ad mandata comunis qui postea per forma reformationis consiliorum po-
puli et masse venerunt ad mandata comunis qui nundum securitates comuni prestite-
runt hinc ad terciam diem debeant dictas securitates prestare alioquin a dicto termino
in antea pro bannitis haberentur et eorum bona pubblicarentur ».
28 ASBo, Giudici, reg. 10, c. 23r: « Çocholus banitor populi respondit mihi nota-

rio pro se et sociis se publice banuisse quod omnes homines de parte lambertaciorum
confinati in secundo et tertio gradu incontinenti debeant se partire de civitate et comi-
tato Bononie et ire ad confinia in terris Masse et Codeguro et de inde nullatenus se
partire sine licentia domini capitanei et quod qualibet die faciant fieri instrumenta
publica qualiter se presentarent in dictis terris coram rectoribus ipsarum terrarum et
hec ad penam arbitrio domini capitanei tollendam ».

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288 GIULIANO MILANI

ribadirono due fondamentali capisaldi della giustizia antilambertazza: le


gravi pene per i favoreggiatori dei banditi 29 e il premio pecuniario per
i denunciatori dei banditi, dei confinati e dei loro favoreggiatori 30. Non

29 ASBo, Giudici, reg. 10, c. 21r: « Çocholus bannitor populi pro se et sociis

bannitoribus populi respondit mihi Amadori notario se publice banuisse eodem modo
quod nullus audeat vel presumat aliquem bannitum pro parte lambertaciorum seu re-
bellem nec eorum familiares tenere in domibus suis nec eis dare aliquid consilium,
auxilium vel favorem in pena et banno .C. librarum bon et plus ad voluntatem capita-
nei et in dirruptionem domus in qua vel in quibus eos tenerent et quilibet possit
accusare et denunciare et habebit medietatem banni ».
30 Non possediamo riformagioni o cridaciones relative a questa materia per il 1281,

ma sappiamo che furono emanate poiché ne recano traccia i processi di questi anni. A
titolo di esempio riportiamo quanto venne stabilito già nel 1275.
ASBo, Giudici, reg. 3, c. 8v: « Item quod aliqua persona non teneat in eorum
domibus curia vel curtilibus aliquem bannitum vel confinatum vel aliquem qui stetisset
in civitate Faventie. .Vc. libras bononinorum cuilibet militi et .CC. libras bononinorum
cuilibet pediti et plus et minus ad voluntatem domini capitanei et quilibet possit accu-
sare contrafacientes, medietatis cuius banni sit comunis et alia medietas accusantis ».
ASBo, Giudici, reg. 2, c. 1r: « Cridatum fuit per dictos bannitores quod omnes
confinati et illi de garnata et suspecti de parte lambertaciorum cuiuscumque condicionis
existant, incontinenti debeant exire de civitate Bononie et districtu sub pena et banno
averis et persone et quod quilibet possit eos sua autoritate ab hodie in antea capere et
detinere et in fortia domini capitanei presentare et habebit medietatem bani ordenati ».
ASBo, Giudici, reg. 2, c. 1r: « Item quod alliquis de civitate vel districtu Bononie
non teneat alliquem de predictis confinatis et de illis de garanata et suspetis in eorum
domibus vel conductis vel curtile ad penam et banum quingentarum librarum bononi-
norum cuilibet militi vel filio militis et ducentarum librarum bononinorum cuilibet
pediti et quilibet possit accusare et denunciare et habebit medietatem banni ordenati ».
ASBo, Giudici, reg. 2, c. 2r: « Cridatum fuit per dictos bannitores quod omnes
setuagenarii de parte lambertaciorum hodie per totam diem debeant exire de civitate
Bononie et ire ad confinia in comitatu Bononie longe a civitate Bononie per .V. millia-
ria ubi voluerint ad pena .XXV. libras bononinorum et quod quillibet possit eos cape-
re et presentare et in fortia comunis reducere et quicumque aliquem presentaverit ha-
bebit medietatem bani ».
ASBo, Giudici, reg. 2, c. 4r: « Cridatum fuit per dictos bannitores quod omnes et
singuli confinati de garnata quibus non fuit certa confinia destinata incontinenti sine
mora vadant ad eorum confinia silicet illi de quarterio porte Sancti Petri ad Balughul-
lam comitatis Mutine et illi de quarterio porte Sancti Proculi ad Curigiam de Fregna-
no et illi de quarterio porte Sterii ad Campum comitatis Mutine et illi de quarterio
porte Ravennatis ad Sanctum Felice in massa et ibi continue stare debeant et se qua-
libet die presentare coram illis officialibus qui sunt comuni Bononie deputati et hoc
ad penam et bannum cuilibet contrafacienti .CC. librarum bononinorum pro quolibet
et qualibet vice et insuper si alliquis fuerit inventus extra loca predicta possit a quibu-
scumque in avere et persona offendi impune et quilibet possit eos accusare et deuncia-
re et habebit medietatem banni ».

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BOLOGNA 1274-1300. PROCESSI E OPERAZIONI DI POLIZIA 289

possediamo riformagioni o cridaciones relative a questa materia per il


1281, ma sappiamo che furono emanate poiché ne recano traccia i
processi di questi anni. A titolo di esempio riportiamo quanto venne
stabilito già nel 1275.
Con questi due principi complementari si entra per così dire nel
vivo della giustizia politica antilambertazza. Proprio in virtù di tali
norme, tenute logicamente assieme della necessità di arrestare e non
far proliferare la malattia costituita dalla presenza dei nemici, il tribu-
nale acquisisce il ruolo di fondamentale organismo di controllo. È
infatti il giudice che viene dotato del potere di estendere una puni-
zione altrettanto grave di quella riservata ai lambertazzi a quanti non
contribuiscono alla loro repressione e al tempo stesso di dispensare
ricompense a coloro che la favoriscono. È attraverso questi canali che
la giustizia da reattiva comincia a farsi attiva (e dunque propriamente
politica), sollecitando i tiepidi, premiando gli zelanti ed estendendo la
pena ai negligenti.
I registri mostrano bene quale risposta ebbero queste sollecitazioni
nella cittadinanza bolognese. Complessivamente, anche in questa fase
iniziale per altri versi caratterizzata da un certo vigore, si trattò di una
risposta scarsamente significativa. Nonostante gli incentivi all’accusa, la
possibilità di delazione e il periodico coinvolgimento delle inquisizioni
generali, i cittadini contribuirono in misura molto marginale all’identifi-
cazione dei criminali politici. Il numero delle azioni intraprese nei

ASBo, Giudici, reg. 2, c. 4r: « Cridatum fuit per dictos bannitores quod nulla
persona de civitate vel districtu Bononie audeat vel presumat in sua domo propria
vel conducta tenere vel alliquem de predictis confinatis aceptare pena et banno con-
trafacienti .C. librarum bononinorum et destrutionis domus in qua erant reperti et
quilibet possit predictos contrafacientes acusare et tenebitur in credentia et habebit
medietatem banni ».
ASBo, Giudici, reg. 2, c. 5r: « Cridatum fuit per dictos bannitores quod omnes
confinati suspecti et de de garnata pro parte lambertaciorum civitatis Bononie et cuiu-
scumque conditionis incontinenti debeant se separare de civitate Bononie et districtu
et quilibet possit eos capere et detinere et offendere ad suam voluntatem et in fortia
comunis reducere et quod alliquis de civitate Bononie in suis domibus, curtilis vel
albergis eos non debeant tenere, siendo quod quicumque eos tenuerit quod domos
eorum destruerentur usque in fundamentum cum et quilibet possit eos denuntiare et
accusare, medietatis banni sit accusantis et alia comunis ».
ASBo, Giudici, reg. 2, c. 5v: « Cridatum fuit per dictos bannitores quod omnes
homines civitatis Bononie de parte Ecclesie qui invenerit alliquem de parte lamberta-
ciorum eos possint capere et detinere et facere redimere et offendere in avere et per-
sona ad eorum voluntatem sine pena et quicumque potuit alliquem presentare, medie-
tas eorumbonorum sit sua et alia comunis ».

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290 GIULIANO MILANI

confronti dei lambertazzi nel corso degli anni 1281-1300 è di molto


inferiore a quello dei processi relativi a crimini comuni. Se in quel
periodo nella curia del podestà venivano celebrate una media di circa
100-150 inquisizioni per semestre, la cifra dei processi politici, tra accu-
se, notificationes e inquisizioni ex officio, supera di poco i venti l’anno.
Inoltre, nella curia del capitano del popolo, la spinta alla politiciz-
zazione suggerita dalla normativa venne tradotta solo parzialmente in
forme procedurali adeguate. Tra 1281 e 1282 si tennero 43 processi di
cui poco più della metà (26) sulla base di accuse palesi, poco meno
(17) sulla base di notifiche anonime, ma non vi furono differenze rile-
vanti nella conduzione del processo. Il crimine di gran lunga più perse-
guito fu l’infrazione del confino (31 processi), seguito a distanza note-
vole dalla semplice appartenenza alla pars lambertazza (7), e poi dall’in-
frazione del bando (3) e dal favoreggiamento (2).
In ben 20 dei 26 processi scaturiti da un’accusa palese (tutti per
infrazione del confino o del bando) manca qualsiasi registrazione relati-
va alla presenza dell’imputato: né interrogatorio, né fideussioni, né testi-
monianze, solo il libello accusatorio e la fideiussione dell’accusatore.
Non possiamo del tutto escludere che ciò sia dovuto alla mancata regi-
strazione da parte del notaio, ma è più probabile che si tratti di una
registrazione indiretta della mancata presentazione del convenuto. Negli
altri 6 casi in cui è attestato che l’accusato reagisce presentandosi o
inviando un procuratore legale, in tre la registrazione si interrompe dopo
la fideiussione dell’imputato, in altri tre prosegue con le testimonianze.
Se queste lacune corrispondono a effettive interruzioni del processo non
è facile da stabilire. Qualora così fosse, come sembra dimostrare l’ana-
lisi dei registri podestarili che riportano svolgimenti simili, si tratterebbe
di meccanismi tipici del processo accusatorio che evidenziano il rag-
giungimento di accordi tra le parti al di fuori del tribunale, il che
trattandosi di processi politici costituisce un dato interessante. L’esito
finale di questi 26 processi è noto soltanto in 19 casi. In 15 si tratta di
una condanna a 100 lire di multa e, tra questi, ben 13 costituiscono
processi condotti in assenza dell’imputato, cosa che fa pensare che si
tratti di condanne in contumacia, in altre parole di bandi giudiziari. In
altri due casi il processo viene sospeso; in soli due casi l’esito è assolu-
torio. Dunque in questi anni chi accusò i lambertazzi di rottura del
confino o del bando ebbe ottime possibilità di vederli condannare, ma
trattandosi per lo più di condanne in contumacia riuscì difficilmente a
incamerare il premio promesso dalla normativa.
Nei 17 processi scaturiti da denunce anonime (relative a infrazione
del confino favoreggiamento, e appartenenza alla pars lambertaciorum),

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BOLOGNA 1274-1300. PROCESSI E OPERAZIONI DI POLIZIA 291

e dunque condotti ex offitio dalla curia del capitano, la quota di pro-


cessi almeno apparentemente condotti in assenza dell’imputato è infe-
riore, ma comunque consistente (9 processi). Solo in tre casi si arriva
alla presentazione di testi a difesa, negli altri sei è registrata solo la
fideiussione o addirittura solo l’interrogatorio dell’imputato. Ma il dato
più interessante è costituito dall’esito finale, che, nei 9 casi in cui è
noto, rivela una prevalenza di assoluzioni (6) sulle condanne (3). Di
queste ultime, solo una è emanata in contumacia, mentre le altre due
giungono al termine di un procedimento completo, con interrogatori di
accusati e testimoni. In un caso si tratta di un processo condotto con-
tro un cittadino accusato di aver fatto cancellare il suo nome da un
registro di lambertazzi con la complicità di un notaio, che, incalzato
dal giudice, confessa e viene temporaneamente incarcerato 31. Nell’altro
si tratta di un’accusa anonima che segnala come due bolognesi un pa-
dre e suo figlio, che esercita l’incarico di extimator per il comune a
Varignana, siano in realtà lambertazzi 32. La condanna giunge al termine
della spontanea presentazione di alcuni abitanti di quella terra. Sono
questi casi interessanti a mostrare come la giustizia inquisitoria del ca-
pitano agisca con particolare vigore di fronte a notifiche politiche ag-
gravate da comportamenti puniti dalla curia capitaneale anche prima
della cacciata: l’occupazione indebita di una carica, la corruzione a fini
di falsificazione. Ma si tratta pur sempre di eccezioni, che avvengono
in un contesto inquisitorio del tutto particolare, in cui sostanzialmente
è sufficiente che l’accusato si presenti e neghi ciò che nella notifica
anonima gli viene rimproverato, perché possa uscire indenne dal pro-
cesso. La mancanza di un accusatore palese e presente, dunque, inde-
bolisce notevolmente la carica potenziale della denuncia.
Una verifica condotta sulle liste di questi anni mostra, per l’unico
caso in cui è possibile effettuarla, che i fratelli Francesco e Pietro di
Giovanni Castaldi, condannati in contumacia a 100 lire di multa per
infrazione del confino in seguito all’accusa presentata da Vicarius Barto-
lomei, vennero scritti nello stesso anno nella lista dei banditi33. Per un
confinato non presentarsi in tribunale in seguito a una citazione poteva
significare dunque nel 1281 passare alla condizione di bandito. La stes-
sa cosa capitò a quei confinati che, senza essere stati denunciati, non
vennero rinvenuti dai notai inviati a controllarli nei luoghi di confino, e
che, ulteriormente citati, non presentarono le proprie difese. Gli altri
31 ASBo, Giudici, reg. 22, c. 5r.
32 ASBo, Giudici, reg. 16, c. 41r.
33 ASBo, Giudici, reg. 22, c. 34r. ASBo, Elenchi, vol. IV, c. 84r.

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292 GIULIANO MILANI

scamparono al bando dichiarando di essere ultrasettuagenari o minori


di quindici anni, cosa che venne appurata sulla base di testimonianze;
oppure presentando strumenti che ne attestavano lo status di chierici 34.
Un’incidenza nettamente minore ebbero le inquisizioni generali: nessuno
dei 12 ministrali di cappella interrogati nel 1282 diede una risposta
affermativa riguardo alla presenza di banditi e confinati. Pur con ecce-
zioni come questa, che confermano l’impressione di una cittadinanza
tiepida di fronte alle sollecitazioni del comune, in questo periodo la
giustizia contro i lambertazzi, nei casi in cui diede luogo a procedimen-
ti, fu caratterizzata da un certo rigore, soprattutto se paragonata con
quella del periodo successivo.

3. La normalizzazione della giustizia politica (1283-1303)

Dopo il 1282 il numero dei processi tenuti nella curia capitaneale


per crimini legati al censimento e alla punizione dei lambertazzi creb-
be leggermente, rimanendo però piuttosto basso. Negli anni Ottanta
del Duecento è testimoniata una media di circa 26 processi l’anno.
Nel decennio successivo tale media si dimezza, assestandosi sulla cifra
– irrisoria se paragonata ad altri ambiti della giustizia cittadina – di 10
procedimenti. Si tratta di elementi che mettono in risalto il generale
calo di attività nella giustizia politica, ma che d’altra parte non rendono
conto di un dato altrettanto importante: le variazioni annuali che si
ebbero in concomitanza con le risistemazioni degli elenchi di condanna-
ti. Tenendo conto di questo aspetto, l’andamento assoluto dei processi
attestati può essere letto come una serie di « ondate » successive. La
Tabella 1 mostra chiaramente la presenza di tre ondate: una prima on-
data coincidente con l’elaborazione degli elenchi di banditi e confinati
del 1281-82, che raggiunge il suo culmine nel 1282 con trentuno pro-
cedimenti e si assottiglia nei tre anni successivi (20, 24 e 11 processi );
una seconda ondata, più consistente, coeva alla risistemazione – an-
ch’essa più rilevante – delle liste del 1286-87, che vede un picco nel
1286, con 57 processi, e l’anno successivo (49 processi), per poi calare
dopo il 1288 (13, 4 e ancora 4 processi); e infine una terza, modesta
ondata, che inizia assieme al rientro del 1292 e vede negli anni imme-
diatamente successivi una media di poco più di dieci processi l’anno,
prima del silenzio, quasi totale, e soprattutto, definitivo.

34 ASBo, Giudici, reg. 34, cc. 32-40.

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BOLOGNA 1274-1300. PROCESSI E OPERAZIONI DI POLIZIA 293

Tabella 1 – I processi contro singoli.

Anno Notifiche anonime Accuse palesi Totale

1281 9 3 12
1282 8 23 31
1283 9 11 20
1284 18 6 24
1285 6 5 11
1286 34 23 57
1287 17 25 42
1288 3 16 19
1289 8 5 13
1290 2 2 4
1291 2 2 4
1292 2 6 8
1293 8 6 14
1294 4 10 14
1295 7 5 12
1296 2 2
1297
1298 1 1
1299 2 2 4
1300 2 2
Totale 139 155 294

Questa stretta corrispondenza tra incremento del numero dei processi


e redazione di liste generali (ossia momenti di variazione rilevanti nel
gruppo dei condannati) attesta come, anche dopo la seconda esclusione,
il tribunale del vicario continuò a essere percepito quale sede di controllo
dei nemici politici, complementare rispetto ai collegi (come quello dei 40
sapienti del 1286-87) in cui si procedeva alla schedatura vera e propria.
In generale, rispetto alla situazione penale definita dalle liste, i cives gere-
mei a cui era garantito l’accesso al tribunale potevano agire in due ma-

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294 GIULIANO MILANI

niere. O presentare accuse di infrazione del bando e del confino, e dun-


que manifestare la volontà di corroborare il valore di riferimento degli
elenchi. Oppure rivelarne l’inadeguatezza, presentando accuse e notifiche
relative all’appartenenza alla pars o al favoreggiamento. Rispetto alla situa-
zione degli anni 1281-82, in cui avevano prevalso le accuse del primo
tipo, negli anni Ottanta e Novanta del Duecento, prevalsero quelle del
secondo tipo. Presentare un’accusa o una notifica anonima divenne so-
prattutto un modo per connotare come lambertazzo, e dunque cercare di
inserirlo nel sistema di pene e condizioni previsto dal comune, chi non vi
era mai entrato o vi era entrato per poi uscirne. Il dato è facilmente
percepibile dalla Tabella 2 che riporta il tipo di reati perseguiti.

Tabella 2 – I reati perseguiti.

Anno Rottura del Rottura del Appartenenza Favoreggia- Altri Totale


confino bando alla pars mento
1281 7 1 2 2 12
1282 24 2 5 31
1283 7 1 2 9 1 20
1284 4 3 11 5 1 24
1285 5 2 3 1 11
1286 8 2 17 21 9 57
1287 12 3 9 15 3 42
1288 14 1 1 2 1 19
1289 6 3 2 2 13
1290 1 1 2 4
1291 2 2 4
1292 5 3 8
1293 6 1 3 3 1 14
1294 6 2 6 14
1295 6 4 2 12
1296 2 2
1297
1298 1 1
1299 4 4
1300 1 1 2
Totale 114 24 76 62 18 294

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BOLOGNA 1274-1300. PROCESSI E OPERAZIONI DI POLIZIA 295

Mentre nel 1281-1282 a subire processi erano stati soprattutto lam-


bertazzi inclusi nelle liste, a partire dal 1283 l’azione antighibellina co-
minciò, dunque, a riguardare quello stesso gruppo di cives abituato a
mediare i propri conflitti attraverso la strumentazione giudiziaria. Fu in
tal modo che la giustizia politica tese sempre più ad assumere il carat-
tere di una prassi procedurale « normale ». Così, per esempio, diveniva
possibile interrompere la causa in qualsiasi momento, oppure muovere
eccezioni procedurali sulla legittimità dell’azione o dei testimoni. Più in
generale, acquisiva maggiore importanza, ai fini della sentenza, il com-
portamento procedurale dell’accusato, la sua capacità di compiere i passi
previsti e necessari. Anche nella difesa da accuse politiche assunse quindi
particolare rilievo la dimostrazione di un certo grado di coinvolgimento
nelle relazioni sociali. Contribuiva a ciò la necessità di fideiussori dispo-
sti ad anticipare somme rilevanti, di testimoni in grado di provare la
buona fama dell’accusato, di procuratori capaci di formulare eccezioni
ed elaborare le intentiones – le liste di domande da sottoporre ai testi –,
e infine, in alcuni casi, il ricorso a sapientes di chiara fama, che poteva-
no concedere consilia, determinanti per l’esito processuale. Come nella
giustizia amministrata dal podestà studiata da Massimo Vallerani 35, la
presenza di uno o più di questi fattori costituiva già un importante
viatico per l’assoluzione. Nei processi che coinvolgevano i lambertazzi,
agiva però un elemento ulteriore: l’estrema variabilità degli strumenti di
riferimento, ossia l’ampio margine per interpretare liste e normativa.
Per quanto riguarda l’uso delle liste nei processi, si osserva che nel
corso del tempo la stratificazione della normativa le trasformò da me-
moria scritta della condanna in vera e propria fonte della procedura. In
un primo momento le norme che definirono chi andasse considerato
lambertazzo si soffermavano su vari aspetti concomitanti: nel 1274 era
definibile come lambertazzo chi avesse partecipato ai disordini in cit-
tà 36; nel 1281-82 chi aveva condotto dall’esterno la guerra contro Bolo-
gna 37. Ma dal 1284 in poi una delibera affermò che non poteva essere
accusato di appartenere alla pars lambertaciorum nessuno che non fosse
stato già scritto negli elenchi 38. Prima di questa importante decisione le
liste avevano delimitato il gruppo di quanti (in passato) erano stati già
condannati; dopo, quello di quanti (in futuro) avrebbero potuto essere

35 Vallerani, Sfere di Giustizia.


36 V. supra il testo del bando del 1274.
37 V. supra il testo del Sacramentum del capitano del popolo.
38 Statuti di Bologna del 1288, II, r. VIII.

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296 GIULIANO MILANI

condannati. Negli anni successivi tale principio, per cui le liste assume-
vano la valenza di prova unica per dimostrare l’appartenenza faziosa,
rimase stabilmente in vigore. Esso fu accolto negli statuti del 1288, e
nel 1290 una norma confermò che non si potesse procedere alla con-
danna di un bandito trovato in città se questi non era inserito negli
elenchi 39. In tal modo le fonti per qualificare i cittadini come ghibellini
vennero ristrette a quelle prodotte dal comune stesso, e l’azione contro
i lambertazzi acquisì un carattere autoreferenziale.
La lettura dei registri processuali mostra bene l’importanza acquisita
dopo il 1284 dalla menzione degli elenchi come elemento di prova.
Prima di questa data nelle accuse e nelle difese il riferimento alla docu-
mentazione si trova, ma è affiancato da argomenti di altro tipo. Così a
esempio nel dicembre del 1282, Bencevene Bonaventure de Mellonis si
difendeva dall’accusa di essere lambertazzo con una serie di dichiarazio-
ni in cui alternava alcuni argomenti « di fatto » a lui favorevoli (« egli
era agli ordini del comune e pagava le collette »; « faceva parte del
consiglio dei quattromila ») alla semplice negazione degli argomenti del
suo accusatore (« è vero che era iscritto negli estimi speciali per i lam-
bertazzi, ma lo era a torto »; « è vero che non compariva nella lista di
coloro che avevano giurato la parte geremea, ma perché ne era stato
cancellato senza alcun diritto »). Grazie all’intervento di un sapiente,
che produsse un semplice strumento notarile in cui era riportato il suo
giuramento, egli fu assolto 40.
Dopo il 1284 in conseguenza della modifica normativa, anche nei
processi il riferimento alle liste tende a farsi quasi esclusivo. Ma la pre-
senza di diversi elenchi, spesso in contrasto tra loro, fornì argomenti
contrastanti alle due parti. Il 18 aprile 1287 Andriolus Petriçoli Alberti-
ni de Badolo denunciò Petronius Petri Beliti, confinato di garnata, per-
ché non si era allontanato dalla città in seguito all’ordine del capita-
no 41. Dopo aver pagato la fideiussione in cui si impegnava a portare
avanti la propria accusa, egli fece citare Petronius, che, dopo una lunga
serie di inviti a presentarsi, finalmente venne in tribunale e negò le
accuse a suo carico. Fu a quel punto, dopo che alle parti erano stati
dati i termini per sostenere le proprie ragioni, che Andriolus presentò
un’intentio in sette punti, tutti ricavati dalla consultazione delle liste
redatte fino a quel momento. In essa si affermava che: 1) Petronius

39 Statuti di Bologna del 1288, p. 524.


40 ASBo, Giudici, reg. 34, c. 66r.
41 ASBo, Giudici, reg. 99, c. 37r.

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BOLOGNA 1274-1300. PROCESSI E OPERAZIONI DI POLIZIA 297

abitava nella cappella di San Bartolomeo di porta Ravennate al tempo


dei primi rumori (cioè nel 1274); 2) a quel tempo era lambertazzo (il
dato era forse ricavato dalle collette o dalle assignationes equorum del
1274); 3) era stato scritto nel libro degli uomini di parte lambertazza
che si trovava nell’armarium comunis (cioè, le liste dei sospetti del 1274-
75); 4) era stato scritto nel libro cartaceo posseduto da Laurencius Bo-
nacapti (il notaio che aveva tra l’altro registrato i giuramenti della parte
nel 1280); 5) il suo nome si trovava « conscriptum in libro pecudinis
Iohannis Summe olim persecutoris lambertaciorum in quo continentur
nomina hominum partis lambertaciorum » (una copia del Liber del 1277
o, forse, un elenco del 1279-1280); 6) il suo nome si trovava nel libro
di carta « qui dicitur campionus » in cui erano scritti i nomi e i cogno-
mi dei banditi e confinati redatto al tempo di Alighierus de Senaza (il
Liber del 1277); 7) il suo nome compariva nel libro di pergamena « qui
erat penes Rolandinum Pasagerium in quo continentur nomina et co-
gnomina bannitorum et confinatorum » (probabilmente, un’altra copia
del Liber del 1277).
A questa serie di argomentazioni, Petronius rispose con una difesa
sostanzialmente analoga, sebbene meno articolata, affermando semplice-
mente che il suo nome non si trovava nella lista di banditi e confinati
compilata al tempo di Ugolinus de Rubeis [1281]. Il giudice forestiero,
forse spiazzato da un conflitto non risolvibile per mezzo della normati-
va esistente, decise quindi di incaricare due sapientes di fornire un pa-
rere al riguardo. Le parti si accordarono sui nomi di giuristi estrema-
mente prestigiosi come Pax de Pacibus e Tancredinus de Sabatinis, che
diedero ragione a Petronius, il quale venne assolto 42.
Nel capitolo precedente abbiamo osservato come i quaranta sapien-
tes che scrissero la lista del 1287 resero legittimi i rientri informali
avvenuti in precedenza, e di fatto, grazie alla specificazione della non
punibilità di quanti vivevano in città pagando le collette, li incoraggia-
rono per il futuro 43. I registri processuali mostrano quanto gli accusati
ricorsero a questa nuova possibilità per ottenere l’assoluzione. Il caso
più eclatante è costituito da un processo. Nel 1286 si sparse la voce
che il bandito lambertazzo Pactualdo Pactualdi era stato trovato in cit-
tà 44. Il giudice del capitano del popolo decise di aprire un’inquisizione

42 ASBo, Giudici, reg. 99, c. 58r.


43 V. supra Parte III cap. 3.2.
44 Questo personaggio non non compare tra i banditi del 1277, ma è incluso in

una menzione collettiva (i parenti e discendenti di Thebaldinus beccarius, suo suocero)

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298 GIULIANO MILANI

ex offitio contro di lui e lo citò a comparire. Il suo procuratore, una


volta giunto in tribunale, presentò un’intentio difensiva in cui sosteneva
che non si trattava affatto di Pactualdo, che il suo assistito si chiamava
Rolandino Buonsignori e presentò sei testimoni che confermarono di
averlo sempre conosciuto come Rolandino e mai come Pactualdo. Dopo
aver ascoltato queste testimonianze, il giudice chiese un consilium a tre
illustri giuristi. Costoro sostennero che appariva chiaramente che non si
trattava di Pactualdo e che, dal momento che un recente ordinamento
prevedeva che non si potesse punire chi non risultava iscritto nelle liste
dei banditi, anche nel caso in cui avesse effettivamente combattuto contro
il comune, l’imputato andava assolto. Il giudice prese atto del parere e
procedette con l’assoluzione 45.
Tre anni dopo, un nuovo giudice del capitano ricevette una notifica
anonima sullo stesso personaggio e aprì una nuova inquisizione. Dopo
aver ascoltato i testi d’ufficio, indicati nella notifica, fece citare l’impu-
tato, il quale, mediante il suo procuratore, reimpostò la propria linea di
difesa. Nella nuova intentio continuò a sostenere di chiamarsi Rolandi-
no Bonsignori, ma senza dargli molto peso. Sostenne invece con vigore
di risiedere a Bologna da cinque anni, di essere iscritto all’estimo e di
pagare le collette relative. Per questa ragione – egli affermò sulla base
di una clausola delle liste di banditi compilate nel 1287 – anche se il
suo nome (che a questo punto non poteva essere che « Pactualdo »)
appariva nelle liste, egli non doveva essere punito 46.
Fu quest’ultimo argomento, la non punibilità dei lambertazzi iscritti
all’estimo, che sollevò maggiori perplessità nel giudice forestiero. Per
verificarlo convocò sedici testimoni tra i quali comparivano i sapientes
e i notai che avevano redatto le liste citate. A tutti costoro il giudice
pose domande sempre più generali, rendendo l’interrogatorio un’occa-
sione per definire i principi in base ai quali un cittadino potesse essere
considerato nemico e per questo punito. I primi otto affermarono di
non sapere né voler dire nulla. Il nono teste parlò. Si trattava di uno
dei notai che avevano scritto l’elenco del 1287, Mathiolo da Roncore.

nella sezione relativa ai confinati di secondo grado (ASBo, Elenchi, vol. III, reg. 2, c.
70v). Probabilmente dunque fu bandito in anni successivi per non essere rimasto ai
confini.
45 ASBo, Giudici, reg. 95, c. 31r-35r.
46 ASBo, Giudici, reg. 136, c. 101r: « Item quod illi quorum nomina que scripta

sunt in libris bannitorum de parte lambertatiorum, comuni opinione hominum civitatis


Bononie habentur pro bannitis de dicta parte, salvo quod non preiudicet illa scriptura
alicui qui habet extimum et solvat collectas et est obediens comuni Bononie ».

Capitolo 7.pmd 298 09/11/2009, 16.27


BOLOGNA 1274-1300. PROCESSI E OPERAZIONI DI POLIZIA 299

Egli si espresse in forma dubitativa, affermando che in effetti coloro


che erano stati scriti nei libri di banditi dovevano essere considerati
tali. D’altra parte, egli disse di non sapere se una tale iscrizione nel
libro potesse pregiudicare chi fosse iscritto all’estimo e pagasse le col-
lette 47. Un secondo notaio interrogato, Ivano Brunitti, rispose più deci-
samente che, anche pagando l’estimo, i banditi scritti nel libro rimane-
vano banditi, mentre un terzo testimone, Paulus Venture manifestò
un’opinione contraria, sostenendo le ragioni dell’accusato 48. Dello stesso
parere apparvero anche altri otto sapientes, tra cui tre compilatori della
lista del 1287 e cinque che nello stesso anno erano stati tra i quaranta
sapientes. A costoro il giudice forestiero rivolse domande sempre più
generali, trasformando l’interrogatorio contingente in un’occasione per
comprendere quali fossero i riferimenti normativi in base ai quali un
cittadino potesse esere definito lambertazzo e in base a quali ragioni
tali principi erano stati stabiliti 49.

47 ASBo, Giudici, reg. 136, c. 105v: « Dominus Mathiolus de Ronchore testis [...]

dixit quod nomina illorum que scripta sunt in libris bannitorum de parte lambertacio-
rum credit quod comuni oppinione habentur pro bannitis de dicta parte lambertacio-
rum secundum formam reformationum factarum tempore Bertolini de Madio quondam
capitanei populli Bononie et scriptarum manu Michelis Thomaxii notarii et secundum
quod continetur in libris bannitorum scriptorum manu domini Cambonini Ursolini
notarii et aliorum sociorum super hoc assumptorum per comune Bononie; dicit etiam
quod nescit si illa scriptura preiudicet alicui qui habet extimum et solvat collectas et
sit obediens comuni Bononie nisi continetur in illa reformatione [...] ».
48 ASBo, Giudici, reg. 136, c. 106r: « Paullus Venture [...] dixit quod comuni

opinione hominum civitatis Bononie non habentur pro bannitis de parte lambertatio-
rum habentes extimum et solventes collectas comuni Bononie et alia honera et publi-
cas fationes, et si nomina ipsorum reperientur in libris bannitorum per errorem con-
scripta sunt. Interrogatus quomodo sit predicta, respondit quia publice dicitur et credi-
tur per homines civitatis Bononie cuiuscumque condicionis quod non habentur pro
bannitis extimum habentes. Interrogatus que est causa quare ita creditur publice per
homines civitatis Bononie, respondit quod sapientes qui fuerunt ad scribendum cuius
scripturam tenor talis est: ‘salvo quod si reperietur aliquem vel aliquos ex supradictis
bannitis vel eorum filiis nuper conscriptis in hoc presenti libro bannitorum obedisse et
obedire comuni Bononie habendo extimum in comune Bononie et solvendo collectas
et alia honera subendo, illi vel illis bannum vel banna non obsit nec possit predictis
preiudicium in aliquo gravare’ qui liber factus fuit et conditus tempore domini Bertho-
lini de Madiis capitanei populi Bononie ».
49 ASBo, Giudici, reg. 136, c. 106v: « Dominus Henregiptus quondam domini Fe-

liciani […] dixit quod fuit cum aliis quibusdam sapientibus super determinationem et
examinationem bannitorum et confinatorum partis lambertaciorum tempore Bertolini
de Madiis capitanei populi Bononie et tempore confetionis librorum dictorum bannito-
rum et confinatorum; dicti sapientes addiderunt et scribi fecerunt post nomina banni-

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300 GIULIANO MILANI

Come le liste, del resto, anche la normativa aveva subito nel corso
del tempo variazioni, cassazioni, rispristini e deroghe. Lo si nota bene
osservando quento si era deliberato in merito a quello che abbiamo
definito come uno dei principi fondatori della giustizia politica: l’accusa

torum illud ‘salvo’ quod scriptum est in libris et aliud ‘salvo’ quod est post nomina
confinatorum, et credit quod de predictis que dixit sit publica fama per civitatem
Bononie. Interrogatus que fuit causa quare dicti sapientes poni fecerunt dictum ‘salvo’
in dicto libro bannitorum, respondit quia non fuit eorum intentionis quod illa scriptu-
ra banni obesset vel preiudicium gravaret alicui vel aliquibus ibi conscriptis qui repe-
rientur obedisse et obedire comuni Bononie habendo extimum in comuni et solvendo
collectas et alia honera subendo, cum de iure non debetur preiudicare predictis. Inter-
rogatus si dicti sapientes habuerunt potestatem vel bayliam faciendi predicta, respondit
quod non videtur sibi quod habuerunt potestatem ab initio nisi transcribendi et deter-
minandi libros veteres bannitorum et confinatorum eisdem sapientibus datos, tamen
postea per reformationem populi confirmate fuerunt omnes scripture et libri facti de
predictis per dictos sapientes ». ASBo, Giudici, reg. 136, c. 106v: « Dominus Iacobus
domini Bittini [...] dixit quod credit quod omnes qui sunt conscrpti in libris bannito-
rum pro parte lambertaciorum facti tempore domini Bertholini de Madiis capitanei
populi Bononie reservato eo ‘salvo’ quod scriptum est in ipsis libris ad quos libros
faciendos fuit cum sociis dicto tempore. Interrogatus si ipse et socii sui habuerunt
potestatem et bayliam ordinandi et determinandi dictos libros et ipsum ‘salvum’ re-
spondit quod credit ut sibi videtur et credit quod quicquid factum et ordinatum fuit
per eos in predictis et circa predictia fuerit aprobatum et confirmatum per reformatio-
nem populi. Interrogatus que fuit causa quare ipse testis et socios fecerunt poni et
scribi in dictis libris dictum ‘salvo’, respondit quod credit quod poni et scribi fecerunt
predictum salvo pro meliori statu civitatis Bononie [...] ». ASBo, Giudici, reg. 136, c.
107r: « Dominus Iohannes de Sancto Georgio [...] dixit quod ipse testis tempore do-
mini Bertholini de Madiis capitanei populi Bononie cum quibusdam aliis sapientibus
fuit ad ordinandum et disponendum nomina bannitorum et confinatorum partis lam-
bertaciorum in dictis libris scribi fecerunt dicti sapientes post nomina bannitorum dicte
partis ‘salvum’ quod ibi scriptum reperitur et ipse, manu propria scripsit. Interrogatus
que fuit causa quare dicti sapientes fecerunt poni et scribi in dictis et post dicta
nomina dictum ‘salvo’, respondit quia ipsi nolebant quod preiudicaret scriptura banni
ibi positi alicui qui haberet extimum et solveret collectas et foret obediens comuni
Bononie ». ASBo, Giudici, reg. 136, c. 107r: « Dominus Iacobus de Baldoynis [...] dixit
quod ipse et quidam alii sapientes qui elleti fuerunt per comune Bononie tempore
domini Bartholini de Madiis capitanei populi Bononie ad fatiendum et compilandum
libros bannitorum et confinatorum partis lambertaciorum fecerunt scribi post nomina
bannitorum dicte partis illud ‘salvo’ quod ibi in dicto libro bannitorum. Interrogatus
que fuit causa quare ibi scribi fecerunt dictum ‘salvo’, respondit quia nolebant preiudi-
tium gravare propter scripturam banni alicui qui habuisset et haberet extimum et obe-
diret comuni Bononie et quia hoc videbatur eis esse ius. Interrogatus si predicti sa-
pientes habuerunt autoritatem et bayliam ordinandi et disponendi ac scribi fatiendi
predicta, respondit quod sibi videtur quod aprobatum et confirmatum fuerit per refor-
mationem conscilii populli quicquid per eos factus fuit ».

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BOLOGNA 1274-1300. PROCESSI E OPERAZIONI DI POLIZIA 301

ai favoreggiatori. Su questo argomento tra 1282 e 1298 differenti organi


comunali diedero vita a norme diverse e contrastanti, recependo ed
elaborando indicazioni che provenivano dalla stessa curia del capitano
del popolo. La prima versione della legge sull’accusa dei favoreggiatori
apparve nel 1282 all’interno degli Ordinamenti Sacrati, la massima cre-
azione legislativa del comune popolare. I membri della commissione
stabilirono che chiunque avrebbe potuto accusare un cittadino di aver
favorito un lambertazzo, che il nome dell’accusatore sarebbe stato tenu-
to segreto e che questi avrebbe avuto diritto a metà della pena pecu-
niaria comminata al reo. Due anni dopo la norma fu modificata su
richiesta di un altro organo collegiale, le due società che in quel mo-
mento erano preposte alla conservazione degli Ordinamenti. Sostenendo
che troppe denunce intralciavano il lavoro del tribunale capitaneale, si
provvide a elaborare una serie di requisiti necessari per presentare l’ac-
cusa (età legittima, fedeltà alla parte geremea, appartenenza al « popo-
lo », iscrizione all’estimo), si eliminò la segretezza e il premio in danaro,
e soprattutto si affermò fortemente il potere discrezionale del capitano
in materia di selezione delle denunce. Ma dopo solo due mesi la modi-
fica fu cassata e la prima versione ristabilita. Nel novembre 1286 una
terza commissione, formata dal consiglio degli Anziani e Consoli e dalle
due società preposte all’osservanza degli Ordinamenti, giunse a una
mediazione, riaffermando la discrezionalità del capitano e i requisiti
dell’accusatore, ma mantenendo la ricompensa. Nel 1298 una riforma-
gione del consiglio del popolo, pur continuando a rivendicare il con-
trollo capitaneale sulle accuse presentate, non menzionò più questi re-
quisiti 50. Queste cinque variazioni possono essere ricondotte a un con-

50 La norma del 1282 è in Statuti di Bologna del 1288, pp. 300-301: « (...) et
quilibet possit accusare et denuntiare tales contrafacientes et habeat medietatem banni
et teneatur in credentia ». La modifica del settembre 1284 è ibidem, pp. 435-440: « et
non petierit dimidium condempnationum, et non petierit quod teneatur in secreto, sed
possit hoc facere infrascripto modo et forma, videlicet quod ille et talis accusator seu
denuntiator sit legittime etatis, et de parte Ecclesie et ieremensium, et societatum po-
puli Bononie artium et armorum, cambii et mercadandie et habeat extimum aut sit de
fumantibus alicuius terre districtus Bononie. (...) et idem et eo modo [ex suo officio et
suo modo tantum inquirere] possit de tali delicto dominus capitaneus et sua familia de
bannitis pro parte lambertatiorum ». La norma del dicembre 1284 che cassa la prece-
dente è ibidem, pp. 450-451. La norma del 1286 è ibidem, pp. 485-489: « quod domi-
nus capitaneus habeat merum, generale et liberum arbitrium super omnibus et singulis
accusationibus, denunciationibus et notifficationibus et inquisitionibus factis tempore
domini Mathei de Madiis [1282] et ab inde citra [...]. In primis quod persona accu-

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302 GIULIANO MILANI

flitto tra due atteggiamenti differenti: uno interessato all’incentivazione


delle denunce attraverso procedure d’emergenza, l’altro più preoccupa-
to del controllo istituzionale della delazione. Appare chiaramente come
i consigli tendano a coordinare interessi e pareri diversi garantendo ampie
possibilità di revisione, ma risulterebbe semplificante vedere in ciò il
semplice agire di due fazioni più o meno filoghibelline. Anche posto
che tali fazioni ci fossero, esse furono costrette a mediazioni per tra-
durre le loro istanze in norme.
Un’ulteriore mediazione avvenne nella curia capitaneale, in cui oc-
correva tenere conto anche dei condizionamenti operati dalle parti du-
rante i processi. Nel novembre del 1285, quando già tre delle cinque
versioni della legge sulle accuse ai favoreggiatori erano state emanate,
Iohanes quondam Iohannini de Lixano chiese alla curia capitaneale di
poter riscuotere la metà della condanna imposta a un favoreggiatore
che egli aveva denunciato, in osservanza a quanto stabilito nel 1282 e
nel dicembre del 1284. Il condannato, Petrus Vitaliani iudex, si oppose
affermando che per una serie di ragioni il premio pecuniario non dove-
va essere pagato: tra queste, una sentenza secondo cui nei casi di favo-
reggiamento il denaro doveva andare integralmente al comune che ap-
plicava quanto deliberato nel settembre 1284 51. Tre anni dopo, nel no-
vembre 1287, il capitano istruì un’inquisizione ex offitio sulla base di
una notifica anonima in cui un Matteo frater domini Gandaleonis veni-
va accusato di aver ospitato nella sua casa turrita numerosi banditi 52.
L’accusato intervenne e contestò sia la possibilità di indagare sulla sola
base di una notifica anonima, sia quella di ascoltare i testimoni segnala-
ti in quella notifica. Venne allora richiesto un consilium sapientis a una
commissione di quattro giuristi, che menzionando tutte le norme sul
favoreggiamento fino a quel momento emanate, stabilì che il capitano

sans, denunctians seu nottificans sit legitime etatis, integre fame et oppinionis et ha-
bens extimum in civitate Bononie et de parte Ecclesie [...] et sit probaverit habeat
medietatem condempnationis ». La riformagione del 1298 è in ASBo, Riformagioni, Ri-
formagioni del consiglio del popolo, vol. IV, reg. 5, c. 288: « Item quod quilibet possit
acusare vel denunciare publice vel occulte omnes et singulos qui predictis rebellibus
darent auxilium, consilium vel favorem et habeat medietatem condempnationis que sit
in arbitrio domini capitanei populi Bononie [...] ».
51 ASBo, Giudici, reg. 75, c. 69v. Tra le altre ragioni addotte da Petrus vi era il

fatto che il capitano aveva affermato che nulla della condanna doveva pervenire a
Iohannes; che il danaro era già nelle casse comunali; e che Iohannes non era un buon
cittadino perché non pagava le tasse.
52 ASBo, Giudici, reg. 104, c. 14r.

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BOLOGNA 1274-1300. PROCESSI E OPERAZIONI DI POLIZIA 303

potesse procedere all’indagine ma lo privò della possibilità di ascoltare


testimoni 53.
L’analisi della struttura e dell’esito finale dei procedimenti condotti
nella curia del capitano tra il 1283 e il 1300 mostra quale fu la ricadu-
ta dei differenti fattori che contribuirono a normalizzare la giustizia
contro i lambertazzi. Per questo periodo abbiamo un totale di 245 pro-
cessi, separabili in due gruppi quasi uguali di accuse (125) e di inquisi-
zioni ex offitio originate da una denuncia anonima (120).
In un terzo delle accuse (40) è registrato solo il libello accusatorio,
senza nessun atto ulteriore. Dunque, con ogni probabilità, in questi casi
vennero celebrati processi in assenza dell’imputato. Il dato significativo,
anche rispetto ai processi degli anni 1281-1282, è che, anche in questi
processi « in assenza », l’assoluzione fu l’esito prevalente: dei 28 casi in
cui, grazie alle note marginali, è possibile stabilirlo, 19 videro l’assolu-
zione, 8 la condanna (ma in assenza, dunque il bando giudiziario), e
infine un processo fu sospeso. Si trattò con ogni probabilità di episodi
in cui l’accusatore stesso, non riuscendo a convocare l’accusato in tri-
bunale, trovò con lui un accordo privato e decise quindi di ritirare
l’accusa, oppure di casi in cui il controllo sulle liste effettuato dal capi-
tano e dai suoi giudici rivelò l’infondatezza dell’accusa sin dal momento
iniziale e non rese necessaria la convocazione dell’imputato. Negli altri
due terzi delle accuse l’imputato si presentò e poté ancora più facil-
mente scagionarsi. In 19 casi la registrazione si arrestò all’interrogatorio
dell’imputato e, nei 10 casi in cui è possibile appurarlo, l’assoluzione
costituì la soluzione nettamente più praticata (8, contro 2 condanne).
In altri 46 casi l’imputato giunse a prestare una fideiussione e riuscì ad
essere assolto in misura ancora maggiore (21 assoluzioni contro 4 con-
danne, nei 25 processi di cui conosciamo l’esito). In quindici casi infine
si giunse alla presentazione di testimoni e, a quanto ci risulta, l’accusa-
tore non riuscì mai a ottenere una sentenza di condanna (gli 8 casi di
cui conosciamo l’esito terminarono tutti con l’assoluzione). In questi
ultimi casi, in cui l’accusa politica generò un procedimento più lungo e
articolato, si ricorse quasi sempre al consilium sapientis, che fu sempre
favorevole all’imputato.
L’analisi delle 125 inquisizioni scaturite da denunce anonime mette
in evidenza la strutturale somiglianza di questi processi con quelli sca-

53 ASBo, Giudici, reg. 104, c. 14v. I sapientes consultati furono Lambertino Ram-
poni, Nicolò Zovenzoni, il notaio Antonio da Manzolino e Bernabò Gozzadini. Essi
citarono: 1) la norma del 1282 sulle accuse a i favoreggiatori; 2) la norma del 1284
che lo modificava; 3) il sacramentum del capitano del popolo; 4) la norma del 1286.

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304 GIULIANO MILANI

turiti da accuse palesi. Non solo l’esito finale risulta distribuito tra as-
soluzioni e condanne in maniera analoga, ma si riscontrano dati simili
anche osservando i diversi momenti in cui i processi vennero interrotti.
Anche nelle inquisizioni, un terzo dei casi (42) vedono soltanto la regi-
strazione della notifica (in questo caso anonima) e non contengono al-
cuna traccia della presenza dell’imputato. Rispetto alle accuse, la per-
centuale di condanne sembra leggermente più alta: nei 26 casi « in as-
senza », di cui conosciamo l’esito, vi sono 14 assoluzioni e 12 condan-
ne. Si tratta dell’unico elemento che ci permette di affermare che l’in-
quisizione contro i lambertazzi costituiva un procedimento più duro
dell’accusa, ma solo nel caso in cui l’imputato non si presentasse. Dal
momento in cui si presentava, anche se le sue accuse erano state for-
mulate anonimamente e dunque venivano sostenute in maniera autono-
ma dal tribunale, la possibilità di essere assolto cresceva assieme al
protrarsi del processo. Ci è noto l’esito di 7 processi dei 14 in cui
l’imputato si presentò e venne sottoposto all’interrogatorio ma non pre-
stò una fideiussione: in 5 casi fu assolto, in 2 condannato. Con la
prestazione della fideiussione le possibilità di assoluzione crescevano.
Dei 31 casi di cui conosciamo l’esito sui 57 totali in cui si giunse a
questa fase, ben 25 terminarono con l’assoluzione e solo 6 con la con-
danna. E l’assoluzione diveniva ancora più sicura nel caso in cui l’im-
putato giungesse a produrre testimoni. Sui dodici casi di questo tipo
conosciamo l’esito solo per 9 processi e si tratta di 9 assoluzioni. An-
che nelle inquisizioni, infine, ebbe un ruolo importante la richiesta dei
consilia, che fu sempre il tramite per un’esito assolutorio. La tabella 3,
che riassume i dati sugli esiti nel complesso dei procedimenti attestati,
mostra chiaramente la prevalenza delle accuse.
Anche le ricerche dei confinati vennero in questi anni ad avere
un’incidenza più bassa che in precedenza. Sebbene, come si è visto nel
capitolo precedente, in alcuni casi furono l’occasione per condurre a
nuovi bandi, a partire dagli anni Novanta, e specialmente dal 1295, la
capacità di promuoverle, per effetto della guerra con Ferrara, si ridusse
notevolmente. Quanto alle « inquisizioni generali », con il passare degli
anni i questionari subirono alcune modifiche giungendo talvolta a com-
prendere attività criminose estranee al controllo dei ghibellini: i notai
inviati dal capitano raccoglievano in questi casi informazioni anche su
assassini, Anziani e Consoli che avevano contravvenuto alle regole per
la loro elezione, persone di cattiva fama, ghibellini di altre città. Non
cambiò tuttavia l’atteggiamento degli interrogati, che nella grande mag-
gioranza dei casi affermarono di non sapere nulla riguardo a ciò che

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BOLOGNA 1274-1300. PROCESSI E OPERAZIONI DI POLIZIA 305

Tabella 3 – Gli esiti dei processi

Anno Condanne Assoluzioni Sospensioni Esito Totale


sconosciuto
1281 3 1 12
1282 15 7 2 2 31
1283 3 11 20
1284 1 11 24
1285 1 9 11
1286 12 24 3 3 57
1287 2 30 2 2 42
1288 8 6 4 4 19
1289 2 5 1 1 13
1290 2 4
1291 3 4
1292 1 3 8
1293 2 4 14
1294 1 9 1 1 14
1295 2 4 12
1296 1 1 2
1297
1298 1 1
1299 3 1 1 4
1300 2 2
Totale 53 135 15 15 294

veniva loro richiesto. Come testimonia la tabella 4, i registri che con-


tengono i verbali di queste azioni di polizia promosse dalla curia del
capitano consistono essenzialmente in lunghe teorie di nomi dei mini-
strali della parrocchie che rispondono di non sapere nulla, interrotte da
rarissime eccezioni.
Nel periodo che andò dal rientro del 1299 alla nuova esclusione
del 1306 la giustizia contro i lambertazzi rappresentò un aspetto ancora
più marginale dell’attività della curia del capitano del popolo. I proces-
si promossi contro i lambertazzi divennero ancora più rari fino al 1300.
In questi ultimi procedimenti lo iato tra il controllo generale dei con-

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306 GIULIANO MILANI

Tabella 4 – I processi contro singoli.

Anno Numero inquisizioni Persone interrogate Risposte affermative

1281
1282 4 12
1283 14 540 2
1284
1285 8 240 2
1286 5 192 1
1287 8 160 7
1288 6 162 3
1289 2 3 1
1290
1291
1292
1293 2 6
1294 3 8
1295 1 116 23
1296
1297 3 46 1
1298 1 3
1300 5 ? ?
Totale 62 1488 40

dannati e la giustizia politica amministrata contro di loro si ampliò ul-


teriormente. Di fronte all’« inerziale » tendenza ad accusare i lambertaz-
zi i giudici reagirono depoliticizzando le accuse e trattando accusati e
accusatori in maniera fortemente paritaria. In questo senso i quattro
processi conservati per questo periodo sono illuminanti 54. Dopo il rien-
tro dei banditi – avvenuto nel settembre 1299 – rimasero solo due

54 ASBo, Giudici, reg. 362, cc. 19r; 45r; 93r; 106r.

Capitolo 7.pmd 306 09/11/2009, 16.27


BOLOGNA 1274-1300. PROCESSI E OPERAZIONI DI POLIZIA 307

possibilità a chi inteneva screditare i propri avversari in base alla nor-


mativa antilambertazza: l’accusa di occupazione indebita di un ufficio
da parte di un lambertazzo, che violava la norma emanata al riguardo
nel 1284 e in seguito continuamente rinnovata; e l’accusa di rottura del
confino che era stato assegnato ai duecento lambertazzi banditi giudica-
ti particolarmente pericolosi. Di questi due crimini si trovarono dunque
a dover giudicare i giudici del capitano.
Il 28 settembre 1299 giunse alla curia una notifica anonima in cui
si diceva che Martinus tintor, residente nella cappella di S. Vitale, lam-
bertazzo notorio e scritto nei libri, aveva accettato l’ufficio di anziano
del popolo. Mai – che sia dato sapere – fino a quel momento una
simile accusa aveva riguardato una carica così alta. In ottemperanza a
quanto stabilito dagli statuti, si istruì quindi un’inquisizione contro di
lui e contro quanti lo avevano eletto 55. Una volta citato, il primo di
ottobre l’imputato si presentò negando di essere lambertazzo e si impe-
gnò quindi alla sua difesa attraverso un’altissima fideiussione di 200
lire. Nella sua intentio dichiarò di essere un artigiano di buona fama e
geremeo e di essere stato scelto come anziano all’epoca del capitano
precedente. I testimoni da lui indicati vennero quindi citati e con loro
anche due individui che nella notifica anonima erano stati definiti come
informati sui fatti. Prima di sentire i testimoni il giudice diede ordine
di consultare i libri dei lambertazzi e in particolare il Liber del 1277.
In questo libro risultava chiaramente che in quell’anno Martinus era
stato condannato al confino in città, ma una nota marginale specificava
che egli aveva giurato la parte nel 1279 prima dei secondi rumores.56
Interrogati al riguardo, i testi indicati nella notifica dichiararono di non
ricordare che Martinus avesse giurato la parte, mentre Tranchedinus de
Sabatinis, teste della difesa, non solo confermò la intentio, ma aggiunse
che durante gli scontri del dicembre 1279 Martinus aveva combattuto
contro i lambertazzi nelle case della sua famiglia. Con una dichiarazio-
ne curiosa, fatta evidentemente per soddisfare alcuni requisiti normativi,
egli dichiarò inoltre che l’imputato era geremeo da quindici anni e che
la sua fama di geremeo era addirittura precedente, risalendo a diciotto
anni prima57. Dopo l’ascolto di altre testimonianze, il giudice procedette

55 ASBo, Giudici, reg. 362, c. 19v.


56 ASBo, Giudici, reg. 362, c. 21v. Un controllo effettuato sull’originale conferma
che Martinus Tintor era tra i confinati di garnata e che aveva giurato la parte nel
1279. ASBo, Elenchi, vol. III, reg. 2, c. 43r.
57 ASBo, Giudici, reg. 362, c. 22r.

Capitolo 7.pmd 307 09/11/2009, 16.27


308 GIULIANO MILANI

quindi alla pubblicazione dei testi e alla convocazione di un sapiente (il


giudice Nicolaus del Laurentiis) per il consilium. In base a questo pare-
re, l’imputato, che nel frattempo aveva portato alcuni statuti, relativi
allo status dei lambertazzi e all’elezione degli anziani, venne assolto. Le
relazioni personali e la competenza giuridica che poteva vantare un ex-
lambertazzo giunto a farsi eleggere come anziano consentirono di fron-
teggiare facilmente, e su più fronti (fideiussione, testimonianze, normati-
va, sapiente), le accuse che gli erano state rivolte.
In una situazione analoga, ma più complessa, si trovò Pietro di
Caccianemico dei Cazzetti, un cambiatore di un certo rilievo. Come
Martinus, egli venne accusato per mezzo di una denuncia anonima, e
scritta in volgare, di occupare indebitamente la carica di consigliere del
popolo e consigliere dei quattromila, essendo già incluso nelle liste di
lambertazzi 58. La denuncia era però più circostanziata, poiché l’anoni-
mo citava direttamente il libro del 1277, sebbene forzando un po’ i
termini (affermava infatti che Pietro era stato « sbandegao », mentre in
quel libro risulta confinato di prima condizione) 59, aggravava l’accusa
sostenendo che l’accusato compiva operazioni di spionaggio, riferendo a
Maghinardo Pagani e ai suoi alleati lambertazzi tutto ciò che nel consi-
glio veniva deciso; e mostrava di conoscere bene sia la sua posizione
istituzionale (specificò per quali uffici comunali era stato sorteggiato
come elettore nel consiglio del quattromila), sia la normativa a cui ap-
pellarsi, vale a dire gli Ordinamenti Sacrati e Sacratissimi. Pietro, una
volta citato, negò e affermò di avere un privilegio giudiziario che gli
consentiva di non dover prestare fideiussione. Gli venne dunque con-

58 ASBo, Giudici, reg. 362, c. 75r: « Manifesta cosa scia a vui miseri podesta et a

vui miseri capetaneo et agli segnori anciani che Pero de ser Caçanemigo de gli Caçepti
de la capella de Sancta Agata de porta sancto Proculo foe sbandegao per la parte de
lambertaçi al tempo de miser Rolando Putaglo e questo apare in suso gli libri de lo
comuno a la chamera di gl’ati et la o suno scriti quili che sono et eno de quela parte.
Conçosia cosa che ‘l ditto Pero sia a presente de lo consiglo del povolo e lo dicto
consiglo avi çurato et vene continuamenti al dicto consiglo e che in lo dicto consiglo
no se po fare cosa che ‘l dicto Pero no mandi a dire a Maghinardo da Sosenana et
agli lambertaci ch’eno nimisi del camuno de Bologna. Onde plaça a vui signori sovra-
dicti lo dicto Pero punire et condenare e ‘l dicto Pero casare dal dicto consiglo secon-
do che se contene in gli statuti sagrati, sagratissimi sovra gli quali statuti voi miseri
podestai et vui miseri chapitaneo avi çurai cha dii çaschuno daviri pena de livri .CCC.
si voi non campli le predicte cose.
Item che l dicto Pero ave al consiglo di quattromilia dui brevi: una potestaria da
bandera et uno notaro a lu memoriale ».
59 ASBo, Elenchi, vol. III, reg. 2, c. 68r.

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BOLOGNA 1274-1300. PROCESSI E OPERAZIONI DI POLIZIA 309

cesso un termine di soli due giorni, allo scadere dei quali egli, eviden-
temente non pronto, si impegnò a difendersi entro cinque giorni sbor-
sando la cifra, comunque rilevante, di 100 lire. Fu a quel punto che si
presentò Princivalle di Iacopo Pizzigotti – un altro cambiatore di livello
sociale e prestigio inferiore, figlio di un giudice che nel 1277 era stato
bandito come lambertazzo – rivelando con ogni evidenza di essere l’au-
tore della denuncia anonima. Egli dichiarò di voler aiutare la curia a
procedere e presentò un estratto dal Liber del 1277 60.
Di lì a pochi giorni l’accusato Pietro si presentò portando con sé
un dossier impressionante di documenti a difesa, in cui erano raccolti:
1) un privilegio concesso a lui e a suo fratello nel 1282 (data di pro-
mulgazione degli Ordinamenti Sacrati) in cui si specificava che erano
sempre stati geremei; 2) un atto notarile con cui si dichiarava che « in-
vestigatis libris bannitorum et confinatorum non reperitur nomen et
cognomen »; 3) una riformagione del 1284 (data di promulgazione degli
Ordinamenti Sacratissimi) che confermava i privilegi emanati due anni
prima; 4) un capitolo degli statuti relativo ai crimini contro gli Ordina-
menti Sacrati e Sacratissimi; 5) una copia autentica del privilegio otte-
nuto; 6) una sentenza emanata in base a un consilium collettivo di
sapienti molto importanti 61 al termine di un processo scaturito da una
notifica in cui lo si accusava di aver illegitimamente eletto suo fratello
al consiglio del popolo; 7) un estratto dei primi libri dello statuto del
popolo relativo ai casi in cui il capitano aveva il potere di procedere ex
offitio, dal quale risultava che nel caso di una semplice notifica trovata
nella capsa comunis non era possibile procedere in questa forma 62.
Per rispondere a quest’ultimo argomento, basato sull’illegitimità del-
la procedure ex offitio in caso di denuncia anonima, Percivalle presentò
una denuncia palese recando con sé un estratto del libro delle assigna-
tiones equorum del 1274 dal quale risultava che Pietro aveva contribui-
to all’epoca con due cavalli in quanto lambertazzo, e impegnandosi a

60 ASBo, Giudici, reg. 362, c. 76r. Il nome di Iacobus de Piççigottis si trova tra i
banditi del 1277 della cappella di S. Donato in ASBo, Elenchi, vol. II, c. 98r.
61 I sapientes erano stati Alberto di Odofredo, Tommaso di Guidone Ubaldini,

Pace de Pacibus, Ubaldino dei Malavolti e Gardino dei Gardini.


62 ASBo, Giudici, reg. 362, c. 76v: « Item produxit statum primi libri statuti po-

puli in quo continetur in quibus casibus dominus capitaneus habet et potest inquirere;
quibus nominibus visis non habet nec potest se intromitere ad procedendum contra
dictum dominum Petrum ex cedula posita in cassa seu denunciatione quia casus con-
tentus in dicta denunciatione non est de casibus ex quibus possit inquiri offitio case,
imo expresse prohibitum est dominum capitaneum in ipso casu posse inquirere ».

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310 GIULIANO MILANI

sostenere le proprie ragioni con una fideiussione 63. In tal modo all’ano-
malo processo per inquisizione, scaturito da una denuncia anonima ma
proseguito in maniera aperta da Percivalle, si sovrappose un processo
accusatorio vero e proprio. Quando venne nuovamente convocato, Pie-
tro, forte di questa anomalia procedurale, ma cambiando completamen-
te tattica, sostenne che sulla nuova accusa non era possibile procedere
poiché era già in corso un’inquisizione. Il giudice decise quindi di affi-
dare la questione al sapiente Nicolaus de Lameriis, che emise un parere
favorevole a Pietro: occorreva procedere solo con l’inquisizione 64. Perci-
valle chiese allora la revoca del consilium, che venne accettata. Il giudi-
ce convocò un nuovo sapiens, Azo Grignoli, che tuttavia espresse un
parere analogo a quello precedente. Forte della posizione raggiunta,
Pietro chiese che Percivalle fosse costretto al pagamento delle spese
legali dei consilia. Il suo rifiuto scatenò la richiesta di un ulteriore con-
silium relativo a questo nuovo problema. Il sapiens si mostrò favorevole
a Pietro, che in breve tempo ottenne una sentenza di assoluzione, men-
tre il suo avversario fu costretto con un precetto a sborsare il compen-
so ai tre sapientes convocati 65.
Ci siamo voluti soffermare a lungo su questo processo poiché me-
glio di altri mostra a che punto fosse giunto il processo di normalizza-
zione della giustizia politica nel momento in cui anche gli ultimi lam-
bertazzi stavano uscendo dal bando. Il vero e proprio duello che si
scatena nel tribunale tra due cambiatori ex-lambertazzi sorge è vero da
un’accusa legata alla normativa politica ma assume presto l’aspetto di
un conflitto tra due persone in cui il giudice si presenta e si mantiene
quale terza parte. Pietro, dimostrando una notevole perizia giudiziaria,
costringe il suo accusatore a recedere e utilizza a proprio vantaggio gli
errori di Percivalle: dapprima spingendolo a palesarsi attraverso una
norma popolare che sostiene la forza dell’accusa palese rispetto alla
notifica anonima (forse la scelta più sicura per il figlio di un bandito);
poi, spostando tutta l’attenzione sull’anomalia procedurale della com-
presenza tra accusa e inquisizione, confermata da ben tre sapientes; mai,
però, chiamando in causa il fatto che Percivalle può essere considerato
più lambertazzo di lui.
Il ricorso alla normativa antilambertazza assume quindi l’aspetto di
una scelta sempre meno conveniente. Nel 1299 non è che una delle

63 ASBo, Giudici, reg. 362, c. 75r.


64 ASBo, Giudici, reg. 362, c. 82r.
65 ASBo, Giudici, reg. 362, c. 84r.

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BOLOGNA 1274-1300. PROCESSI E OPERAZIONI DI POLIZIA 311

armi disponibili – e una delle più spuntate – per sostenere un conflit-


to nel tribunale del capitano del popolo, che a sua volta rappresenta
uno dei contesti possibili, e uno dei meno favorevoli agli accusatori, in
cui uno scontro tra due persone, anche lambertazze 66, può essere con-
dotto. In queste condizioni si trovava la giustizia politica nel momento
in cui, con gli ulteriori provvedimenti di riammissione del 1303, essa
perse la sua fondamentale ragione d’essere. Lo stesso anno tuttavia
venne promossa una grande inquisizione generale in cui i notai chiese-
ro ai ministrali se nella loro parrocchia dimorassero lambertazzi bandi-
ti o confinati. Quest’operazione di polizia testimonia come, anche mentre
si inaugurava il triennio in cui, più che in ogni altra epoca, il comune
si riavvicinava ai suoi nemici, esso non si privava completamente del-
l’ideologia che lo aveva sostenuto per un quarto di secolo. Come avve-
niva ormai da molti anni, nessuno degli interrogati rispose affermativa-
mente 67.

4. Conclusioni

L’immagine che emerge dalla lettura dei registri processuali bolo-


gnesi non rivela dunque solo un comune politicamente schierato e i
suoi oppositori, ma una realtà più sfaccettata in cui un ruolo determi-
nante è detenuto dalla cittadinanza, che di volta in volta appare restia
a cogliere l’occasione offerta dalla nuova giustizia politica (come nei
primi processi, quelli del 1275), completamente disinteressata a rendere
un servizio al comune (come avviene nelle inquisizioni generali), o en-
tusiasta nell’accusare cittadini non censiti tra i nemici per sfruttare a
proprio vantaggio il nuovo assetto politico (come di tanto in tanto si
riesce a cogliere).
Questa cittadinanza, a cui è delegata gran parte dell’attivazione dei
processi contro i nemici, sembra muoversi soprattutto in prossimità del-
le grandi operazioni di schedatura. In queste occasioni, in cui con ogni

66 Il caso non è unico: nel gennaio 1300 venne celebrato un processo che ebbe
uno svolgimento molto simile contro Domenico e Tommasino figli di Giovanni dei
Caccianemici piccoli, registrato come confinato lambertazzo nel Liber del 1277. Dopo
che gli imputati ebbero obiettato, come Pietro, l’insostenibilità della procedura ex offi-
tio in caso di semplice notifica anonima, venne allo scoperto il giurista Bonaccursio di
Viviano Toschi, anch’egli ex lambertazzo (su questo personaggio v. anche Capitolo IX).
Naturalmente i due vennero assolti. ASBo, Giudici, reg. 362, cc. 106-107 e 118r-119v.
67 ASBo, Giudici, reg. 416, cc. 22 e ss.

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312 GIULIANO MILANI

evidenza vengono sollecitati maggiormente, i privati presentano le loro


accuse mettendo in atto strategie sottili per incastrare i propri avversa-
ri. Ma la complessità delle operazioni di schedatura e la quantità dei
riferimenti accumulati rende difficilissimo riuscire a portare a termine
un atto per colpire un lambertazzo vero o presunto. Ogni attestazione
in una lista può essere combattuta con la menzione di un’assenza, e a
questa incertezza si aggiunge quella dei riferimenti normativi.
Di fronte a quanti giungono in tribunale a denunciare un lamber-
tazzo, i giudici, che per tutto il periodo studiato rimangono sempre
rigorosamente forestieri, al seguito della famiglia del capitano del popo-
lo, si mantengono neutrali, non fanno pendere da nessuna delle due
parti il proprio favore né tantomeno si gettano all’inseguimento delle
persone accusate. Queste perloppiù restano latitanti, come si ricava dal-
la grande quantità di procedimenti che si aprono e si chiudono senza
che l’imputato sia mai comparso, e quando si presentano, la maggior
parte delle volte ne ricavano addirittura dei vantaggi riuscendo a tra-
sformare l’accusa loro rivoltagli in un precedente capace di risparmiar-
gli il confino o – in alcuni casi rari ma significativi – di farli addirittura
rientrare dal bando.
Ci si chiede quindi quali potessero essere le ragioni che conduceva-
no un numero non ampio ma comunque significativo di persone a de-
cidere di usare la normativa antilambertazza per colpire i propri nemi-
ci, dal momento che ricavare il premio promesso era nei fatti così dif-
ficile, e che con ogni probabilità non mancavano altri sistemi, formaliz-
zati o meno. Per rispondere occorre innanzitutto considerare che l’ac-
cusa di appartenenza al partito lambertazzo doveva costituire solo parte
di una strategia conflittuale più ampia le cui coordinate in larga parte
ci sfuggono. La strutturale vischiosità della parte lambertazza bolognese,
il fatto cioè che coinvolgeva individui per altri canali (familiari, profes-
sionali, territoriali, sociali) ben collegati ai geremei, fa supporre che una
serie di rivalità potessero continuare a sopravvivere prima, durante e
dopo la cacciata e che in queste rivalità si fosse inserita la nuova arma
fornita dal regime. Nel prossimo capitolo si osserverà più da vicino il
problema della gestione dei beni sequestrati e si osserverà come a que-
sta vischiosità di relazioni corrispondesse anche una prossimità di beni
immobili – case e terreni – capace anch’essa di innescare conflitti in
cui si poteva anche ricorrere all’accusa presso il tribunale del vicario.
Di fatto però, il ricorso a quest’arma tese a diminuire, come mostrano
con chiarezza i numeri dei processi contro i singoli. Quella che era
sorta come una giustizia per sorvegliare e mantenere, attraverso il coin-

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BOLOGNA 1274-1300. PROCESSI E OPERAZIONI DI POLIZIA 313

volgimento della popolazione, la separazione sancita dalle grandi liste di


lambertazzi, divenne una sede per portare avanti conflitti di natura pri-
vata che aveva – rispetto a moltissimi svantaggi – un solo grande pre-
gio: il fatto di essere facilmente accessibile. Mentre il tribunale non
faceva che assolvere, le norme d’emergenza prescrivevano che chiunque
potesse presentare accuse e notifiche contro i lambertazzi e che la sua
testimonianza sarebbe stata tenuta da conto. Si trattava di qualcosa che
non era facile trovare nel tribunale podestarile o altrove, dove le risorse
richieste per aprire un procedimento contro qualcuno erano molto su-
periori. La giustizia politica si trasformava così, inaspettatamente, in una
giustizia per poveri.

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314 GIULIANO MILANI

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Capitolo IX

BOLOGNA 1274-1300
SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI

1. Il sequestro condiviso

Il 10 giugno del 1274, come sappiamo, si emanò la condanna dei


lambertazzi che otto giorni prima si erano allontanati dalla città. In
quell’occasione il comune stabilì tra le altre cose che « omnia bona
ipsorum et cuiuslibet ipsorum publicata sint in comune Bononie ita
quod integraliter debeant pervenire » 1. Si trattava di una conseguen-
za naturale del ricorso al bando perpetuo per punire i nuovi rebel-
les: da quando possiamo seguirla, questa forma di bando aveva sem-
pre comportato la confisca del patrimonio da parte delle autorità
comunali 2. L’inedita estensione del gruppo dei banditi politici porta-
va però con sé alcune specificità: da un lato metteva nelle mani del
comune un patrimonio enorme, dall’altro poneva una serie di pro-
blemi nuovi relativi al censimento, all’amministrazione, e all’utilizzo
delle confische.
Se si passa a considerare la situazione trent’anni dopo, e cioè alla
fine del Duecento, appena prima del rientro, appare chiaramente che
il comune di Bologna non era riuscito a sfruttare il nuovo patrimonio
che si era assottigliato fin quasi a scomparire. Dal punto di vista eco-
nomico, la grande occasione offerta dal sequestro dei beni sul lungo
periodo, fu mancata per due motivi già emersi nei precedenti capitoli:
il progressivo assottigliamento del gruppo dei banditi dovuto ai rientri
e la rete a maglie larghe della giustizia antilambertazza, in virtù della
quale si provvide a stornare ai privati una quota consistente dei terre-
ni e delle case sequestrate.
Questi due motivi appaiono incomprensibili se non si considera
un terzo elemento che è venuto precisandosi a partire dall’analisi delle

1 ASBo, Demaniale, S. Francesco, 336/5079, doc. n. 204.


2 Sul bando perpetuo v. Capitolo IV.

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316 GIULIANO MILANI

liste e che ha preso maggiore consistenza in quella della giustizia poli-


tica compiuta nel capitolo precedente: la presenza, in posizione inter-
media tra il comune e i lambertazzi, di una cittadinanza che intervie-
ne nelle operazioni di ritorsione e le modifica in profondità. Trattando
di liste, si è visto come in numerose occasioni ebbe un ruolo prepon-
derante nei giuramenti, e dunque nei rientri, la testimonianza dei vici-
ni, a cui era attribuito il compito di approvare preventivamente i lam-
bertazzi. Anche le strategie di rientro più informali, come la dimostra-
zionne dell’inserimento nelle liste d’estimo, che ebbero grande peso
nel processo di erosione del gruppo dei banditi e confinati lambertaz-
zi, erano in pratica affidate alla testimonianza dei vicini. Nell’analisi
dei processi il ruolo dei cittadini è ancora più visibile: sono i cittadini
che, reagendo agli stimoli dell’autorità, decidono quale direzione deb-
ba prendere la giustizia politica; sono ancora i cittadini che, con le
loro denunce anonime e palesi, trasformano progressivamente questa
giustizia, da strumento relativamente efficace per il mantenimento del-
l’esclusione in risorsa facilmente accessibile, ma inutile, per colpire i
propri nemici.
La parte avuta dalla cittadinanza nella persecuzione politica – che
non appare a chi si limita a osservare fonti normative e cronache –
emerge ancora meglio seguendo la vicenda dei beni sequestrati. I
cives geremei si trovarono coinvolti nell’economia dell’esclusione in
primo luogo per ragioni strutturali: a causa della capillare ramifica-
zione delle partes bolognesi, i terreni dei lambertazzi confinavano con
molti terreni detenuti a pieno titolo da privati. Questa situazione
favorì le acquisizioni indebite dei beni sequestrati da parte dei confi-
nanti. A questa tendenza si cercò di porre freno, mediante un censi-
mento continuo dei terreni e una rigida regolamentazione delle mo-
dalità di gestione, fondata sull’affitto a breve termine. Si decise quindi
di affrontare la piaga della appropriazione indebita coinvolgendo in
maniera diretta un grande numero di cittadini in un progetto di sfrut-
tamento dei beni, cointeressandoli all’esclusione. Ma, ancora una vol-
ta, la cittadinanza manifestò attraverso vari comportamenti una certa
resistenza e finì per distorcere e riadattare il progetto ai propri fini.
Nelle pagine che seguono si tratterano questi aspetti separatamente:
in primo luogo si darà conto delle prime operazioni di censimento
dei beni; ci si soffermerà quindi sulla consistenza e le caratteristiche
del patrimonio sequestrato, sulla erosione di questo patrimonio e,
infine, sul sistema degli affitti.

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BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 317

2. Dalla giustizia all’amministrazione (1274-1277)

All’indomani della fuga dei lambertazzi, il podestà parmigiano Ro-


lando Putaglia si trovava nella necessità di riportare l’ordine dopo al-
cuni mesi di aperto conflitto civile, durante i quali si era assistito a
occupazioni di case e terreni condotte dai due schieramenti per esi-
genze militari, nonché, dopo la cacciata vera e propria, a episodi di
distruzione e accaparramento informale sui possessi degli usciti 3. La
prima corsa ai beni dei lambertazzi si era svolta, come altrove, nel
contesto di una più ampia serie di robarie e invaxiones, scatenate dalla
guerra civile, di cui conservano tracce alcuni ordinamenti emanati un
mese dopo la fuga dei lambertazzi, il 4 luglio 1274 4.
In quell’occasione, la balìa dei cento sapienti, in base al arbitrium
legislativo di cui era stata dotata, decretò che in generale tutti i beni
che erano stati in precedenza occupati dovessero essere restituiti. Si
precisò tuttavia che, nel caso in cui i beni fossero stati sottratti ai
lambertazzi, gli occupanti avrebbero dovuto riconsegnarli ai legittimi
proprietari solo se questi avessero mostrato di essere agli ordini del
podestà e del comune – in altre parole, non fossero banditi. In caso
contrario, coloro che detenevano illegittimamente i beni dei lambertaz-
zi li avrebbero dovuti consegnare direttamente al comune 5. Come si
ricava dallo stesso documento, l’imminenza della cacciata aveva favori-
to la scrittura di una serie di contratti di vendita e altri passaggi di
proprietà, probabilmente stretti dai futuri fuoriusciti al fine di tutelarsi
preventivamente dalle confische. Anche su questo la balìa straordinaria

3 Hessel, Storia di Bologna, p. 268.


4 Gli ordinamenti sono conservati in un frammento di registro giudiziario (ASBo,
Demaniale, S. Francesco, 13/4145 doc. 12). Un’altra traccia delle occupazioni avvenute
nella primavera del 1274 è contenuta in alcune lettere scritte ai suoi superiori dal-
l’abate del monastero camaldolese di S. Michele di Castel de’Britti conservate in ASFi,
Diplomatico, Provenienza Camaldoli, sec. XIII (cass. 657) pergamene nn. 26 e 29.
5 ASBo, Demaniale, S. Francesco, 13/4145 doc. 12, c. 2r: « In primis ordinave-

runt providerunt quod omnes possessiones et ecclesie et hospitalia [sic] et res ablate
et ablata alicui persone collegio vel universitati per aliquam personam collegium uni-
versitatem, clericum vel laycum debeant restitui et libere relaxari usque ad quarta die
cum omnibus fructibus in pena et banno mille librarum bononinorum cuilibet militi
vel filio militis, .Vc. librarum bononinorum cuilibet pediti, et plus et minus ad vo-
luntate domini potestatis, et nichilominus teneatur restituere res aceptas salvo si acep-
ta essent dicta bona alicui de parte lambertaciorum debeant restitui si venerit et
steterit ad mandata domini potestatis et comuni Bononie, alioquin restituantur et per-
veniant ad comune Bononie [...] ».

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318 GIULIANO MILANI

legiferò, decretando la loro cassazione 6. Molti erano dunque i proble-


mi che attendevano i magistrati deputati a censire i beni dei banditi.
Tali problemi cominciarono a essere affrontati con maggior vigore
a partire dal 1275. Il dato è significativo poiché coincide con la capi-
taneria di Malatesta da Verrucchio, il riminese che qualche anno pri-
ma, nel 1269, aveva esercitato la carica di podestà-vicario angioino a
Firenze contribuendo in maniera fondamentale alla schedatura dei ghi-
bellini e all’allestimento del Liber extimationum dei danni subiti dai
guelfi esiliati. Come abbiamo già notato a proposito del primo censi-
mento dei lambertazzi, il suo ruolo di professionista dell’esclusione nel
coordinamento delle operazioni bolognesi appare in maniera evidente
in alcuni registri della sua curia. Gli stessi libri che conservano i primi
processi contro i cittadini accusati di essere lambertazzi contengono
alcune laconiche ma significative « gride » relative al sequestro dei beni.
Il 16 marzo, per esempio, il giudice capitaneale Hondesanti fece di-
chiarare da un suo banditore che, in ottemperanza a quanto stabilito
da una riformagione del consiglio del popolo, tutti gli uomini interes-
sati ad acquisire le case poste nella platea palatii comunis – l’attuale
piazza Maggiore – sequestrate alle famiglie Principi, Scannabecchi e
altre avrebbero dovuto recarsi presso il giudice del capitano 7. Ma al

6 ASBo, Demaniale, S. Francesco, 13/4145 doc. 12, c. 3r: « Item ordinaverunt et

providerunt quod omnes contractus facti in quacumque persona a qualibet singolaria


persona collegio vel universitate a die penultimo madii et ipsa die sint cassi et vani
et nullus valoris sive momenti cum dicti contractus videantur esse contra veritatem et
per vim et fiticie et simulati. Et quod nullus contractus fieri possit vel debeat in
civitate Bononie vel districtu per totum mensem iunii nisi fiant in presencia duorum
iudicum domini potestatis Bononie in palatio veteri comunis Bononie et nisi sint ibi
septem testes. Et hoc habeat locum tam in clericis quam in laycis, de hiis excipimus
contracus sindacarie, procuratie, curarie et actorie ».
7 ASBo, Giudici, reg. 3, c. 6r-v: « Die XVI intrante martio [...]. Item quod om-

nes homines qui volunt accipere et tenere domos que sunt circa plateam palatii co-
munis et que fuerunt Principium et Scannabicchorum et cuiuslibet alterius persone
secundum quod continetur in reformatione populi et comunis Bononie vadant coram
domino Hondesanti iudice domini capitanei ». Non è chiaro se in tal modo si inten-
desse promuovere un affitto di tali abitazioni, una semplice vendita a privati, o infi-
ne, come sarebbe avvenuto in seguito, una vendita particolare, destinata alla distru-
zione delle case, limitata quindi al materiale edilizio ricavabile dalla smantellamento,
che non intaccava il diritto di proprietà del comune sul casamentum, il terreno edifi-
cabile. Almeno in un caso, tuttavia, sembra che l’alienazione non si limitò al solo
materiale. Questo tipo di vendita vera e propria – assimilabile al primo « fare mobi-
le » dei beni sequestrati ai ghibellini fiorentini – non sarebbe stata promossa dal
comune bolognese negli anni successivi, ma forse, in questa prima fase, ebbe un

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BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 319

di là di episodi come questo, che probabilmente non furono molto


comuni, si procedette a valutare la situazione dei possessi dei banditi
al fine di poterne riscuotere gli affitti e i frutti. Il giudice Hondesanti,
sempre nel marzo 1275, invitò a presentarsi quanti avevano in affitto
case e terreni edificabili di proprietà di banditi, probabilmente per
stimare, come era stato fatto a Prato una decina di anni prima, quali
fossero le forme di concessione delle proprietà sequestrate 8. Un mese
dopo chiamò nuovamente a presentarsi, stavolta nel consiglio del po-
polo, quanti fossero interessati ad accipere – l’espressione è ancora
ambigua – i beni dei banditi, non più soltanto le case della piazza 9.
In questo la situazione bolognese non differiva molto rispetto ad
altre realtà urbane. Nell’estate del 1274 Bologna viveva per la prima
volta un’esperienza che negli anni precedenti avevano conosciuto mol-
te altre città italiane. Le difficoltà che si trovava ad affrontare (ristabi-
limento dell’ordine, censimento dei fuoriusciti e dei loro beni, annulla-
mento di vendite e contratti fittizi, acquisizione da parte del comune
dei diritti d’affitto) erano molto simili a quelle che in quegli stessi
decenni dovevano risolvere ad esempio i governi di Firenze o Mila-
no10. Sotto un altro aspetto, Bologna presentava però una peculiarità:
la cacciata dei lambertazzi non era stata provocata dal rientro di una
parte già in precedenza esiliata, come i guelfi fiorentini nel 1267 o la
pars nobilium milanese dieci anni dopo. La prima grande esclusione
bolognese era scaturita dalla vittoria di un gruppo di cittadini che

certo ruolo. Un gruppo di sei persone acquistò infatti dal comune che le aveva poste
all’incanto, alcune case-torri intorno alla Piazza Maggiore già appartenenti ai banditi
Folco dei Guarini, Giambuglione dei Lambertazzi, e Guglielmo Boccacci, per un to-
tale di più di duecento lire (il contratto è conservato in ASBo, Memoriali, 26 (An-
thonii de Pollicino), c. XVIII e edito in Gozzadini, Delle Torri, p. 601). Il prezzo
sembra indicare un vero passaggio di proprietà, ma più tardi alcune di queste abita-
zioni si ritrovano negli elenchi di beni sequestrati destinati all’affitto. In particolare la
casatorre di Guglielmo Boccacci appare in ASBo, Beni, vol. VI, c. 33v. Si può dun-
que suppore che subito dopo questa prima fase il comune provvide a cassare le
alienazioni di beni dei banditi che in precedenza erano state contratte.
8 ASBo, Giudici, reg. 3, c. 6v: « Die XIV exeunte martio [...]. Item quod omnes

persone que habent vel tenent ad pensionem vel ad affittum de domibus vel casa-
mentis bannitorum de parte lambertatiorum hinc ad terciam diem coram domino
Hondesanti iudice domini capitanei debeant comparire in banno .xxv. librarum pro
quolibet ».
9 ASBo, Giudici, reg. 3, c. 3v: « Die quarto intrante martio. Item quod omnes

qui volunt accipere de bonis bannitorum veniant ad consilium populi ».


10 Sul censimento dei banditi e dei beni a Firenze e altrove v. cap V.

Capitolo 8.pmd 319 09/11/2009, 16.27


320 GIULIANO MILANI

non poteva vantare il diritto a quel mendum, il risarcimento politico,


e soprattutto economico, che altrove costituiva un elemento fondante
dell’esclusione. L’impossibilità di connotare la parte geremea come parte
lesa, e quindi la difficoltà di autorizzarla a gestire – come a Firenze, a
Prato o altrove – le prime fasi del sequestro dei beni, condizionarono
la costruzione di un sistema di sfruttamento delle confische.
Eppure anche a Bologna tra i primi atti del nuovo regime si ritro-
va un problema di risarcimenti, quasi a significare che la circolazione
di modelli di azione politica nell’Italia comunale non si arrestava ne-
anche di fronte alla profonda differenza delle contingenze locali. Pur
non avendo subìto alcuna ritorsione, alcuni cittadini geremei potevano
ambire anche loro a un risarcimento analogo al mendum fiorentino.
Come abbiamo più volte accennato, nel 1270, il comune di Bologna,
provato da una carestia cerealicola, aveva chiesto ad alcuni cambiatori
e mercanti un prestito di 5.000 lire 11. L’anno successivo, pressato dalla
necessità di danaro imposta dallla disastrosa guerra con Venezia per il
controllo delle vie di comunicazione con l’Adriatico, aveva ottenuto
da un insieme di 34 cambiatori un ulteriore prestito di 33.000 lire. Si
è già segnalata l’importanza, per l’aggravarsi della situazione politica
interna, del conflitto con Venezia e del disastroso trattato che Bolo-
gna, sconfitta, fu costretta a firmare nel 1273 12. Anche nella storia del
sequestro dei beni la guerra del 1271-73 e soprattutto il prestito da
essa generato ebbero un ruolo notevole. Nel 1275 il debito contratto
nel 1271, rinnovato nel 1273, non era stato ancora pagato 13. Alcuni
dei creditori, definendosi come « illi qui sunt de parte ieremiensium
seu ecclesie qui fecerunt prestanciam comuni Bononie pro parte de
trigintatribus milia libris bononinorum tempore domini Lanfranchini
de Maloxellis olim potestatis Bononie [nel 1271] », chiesero allora al
capitano del popolo che la loro quota fosse restituita entro quattro
anni, suggerendo di utilizzare, oltre alle rendite dei mulini del comu-
ne, il denaro ricavato dall’affitto dei beni dei banditi Lambertazzi 14.
Dal testo della petizione si ricava che tale suggerimento fu avanzato
sulla base di un decreto di quella stessa balìa, composta da due uomi-
ni per ogni società, che nel luglio 1274 aveva stabilito le prime norme

11Hessel, Storia di Bologna, p. 260.


12V. Capitolo VI.
13 ASBo, Comune, Riformagioni, vol. I/1, c. 1r per il rinnovo del 1273, 5v per

il 1275.
14 ASBo, Riformagioni, vol. I/1, c. 5v.

Capitolo 8.pmd 320 09/11/2009, 16.27


BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 321

sui possessi occupati 15. Nel 1271 i banchieri geremei avevano contri-
buito complessivamente per circa 8.000 lire, poco più di un quarto
del totale. Il resto era stato versato da cambiatori in seguito identifi-
cati come lambertazzi. Accogliere la petizione dei cambiatori geremei
innescò quindi un duplice processo per il comune: la riduzione del
debito esistente e l’organizzazione di procedure per sanarlo. Venne
infatti precisato che la notevole quota sborsata dai cambiatori lamber-
tazzi (che ammontava a circa 25.000 lire, più gli interessi) non sareb-
be stata restituita 16. Ma si stabilirono le prime modalità di ammini-
strazione dei terreni sequestrati. In ottemperanza a quanto richiesto, il
comune affermò che i redditi degli appezzamenti confiscati sarebbero
stati consegnati a due importanti cambiatori: Zoene de Pepoli e Bon-
giovanni Zovenzoni 17, i quali li avrebbero a loro volta suddivisi tra
coloro che ne avevano diritto 18.
15 ASBo, Riformagioni, vol. I/1, c. 5v: « Cum multe reformationes populi et co-

munis Bononie facte fuerunt de predictis quantitatibus solvendis et restituendis et


adhuc eis non sit satisfactum, quod vobis placeat in vestro consilio reformare quod
predictis de quarta parte annuatim satisfiant, secundum formam ordinamenti domino-
rum duorum sapientum pro qualibet societate et satisfieri debeat de reditibus posses-
sionum et pensionum bonorum bannitorum et rebellium comunis Bononie de parte
lambertaciorum et de denariis furmenti molendinorum comunis Bononie [...] ».
16 La petizione dei cambiatori geremei fu infatti approvata ma specificando che

essi non avrebbero potuto ricevere nessuna quota già prestata dai lambertazzi, nem-
meno se avessero dimostrato di aver acquisito il titolo di credito. ASBo, Riformagio-
ni, vol. I/1, c. 6r: « [...] Salvo quod nullus predictorum possit vel debeat petere,
recipere vel habere ex vigore dicte reformationis aliquam quantitatem peccunie seu
partem aliquis de parte lambertaciorum comuni Bononie mutuisset, de qua quantitate
seu quantitatibus aliquis de parte ecclesie vel ieremiensium haberet instrumentum vel
sentenciam quoque modo vel titullo factam ».
17 Come si ricava da ASBo, Riformagioni, vol. I/1, cc. 1v-5v, che contiene la

riformagione di rinnovo del debito del 1271 emanata nel 1273, in cui sono elencate
le singole quote dei prestatori del 1271, Zoene aveva contribuito al prestito per più
di 1500 lire (c. 5r), Bongiovanni per quasi 2000 lire (c. 3v). Sull’attività economica di
Zoene del Pepoli v. Giansante, Patrimonio familiare e potere, pp. 25-33. È interessan-
te notare che nel 1270 lo stesso Zoene, assieme al fratello Ugolino (il padre di Ro-
meo Pepoli, futuro « protosignore » di Bologna) prestò al comune di Imola 1000 lire
per allestire l’esercito cittadino, alleato a quello bolognese, contro Venezia.
18 ASBo, Riformagioni, vol. I/1, c. 5v: « [...] Quod furmentum vendi debeat in

kalendis madii cuiuslibet anni ad voluntatem populi et quod predicti reditus et pos-
sesiones et furmentum seu denarium dicti furmenti dentur et deponantur penes do-
minum Çoenem de Pepolis et dominum Boniohannem de Çovençonibus campsores
qui dictos reditus et pensiones et furmentum seu denarium in quindecim dies po-
stquam ad eorum manus pervenerint dare et dividere teneantur pro libris inter pre-
dictos de parte Ieremiensium [...] ».

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322 GIULIANO MILANI

Dal luglio del 1274, quando il comune provvide a stabilire le quo-


te delle prime collette sui lambertazzi non banditi, vi fu anche un
primo censimento dei beni di quanti risultavano già banditi, attestati
nelle stesse dichiarazioni d’estimo 19. Tuttavia, il fatto che nel dicembre
del 1275 si fosse decretato di raccogliere entro l’anno una somma
notevole di danaro per iniziare la restituzione ai creditori geremei sti-
molò da un lato una maggiore coordinazione 20, dall’altro la formazio-
ne di una balìa apposita che controllasse per conto del comune la
gestione dei terreni sequestrati condotta dai responsabili dei creditori
geremei (Zoene Pepoli e Hostexanus de Plantavineis, che aveva sostitu-
ito Bongiovanni dei Zovenzoni) 21. Nel corso del 1276 questa commis-
sione ristretta, formata da otto sapientes, provvide a elencare su regi-
stri cartacei i terreni dei banditi già censiti 22 e a stimare il valore in

19 Le tracce di questa « naturale » confluenza sugli estimi sia di coloro che erano
deputati a tassare i lambertazzi rimasti in città, sia di quanti iniziavano a censire i
beni di quanti si erano allontanati il due giugno 1274 o in seguito, appaiono anche
in una riformagione del 1276. Nel luglio di quell’anno il comune provvide a riam-
mettere in città il dominus loci Ubaldino di Loiano, in precedenza bandito come
lambertazzo. Dal provvedimento di riammissione ricaviamo che in occasione del ban-
do il suo estimo era stato separato da quello della moglie, non bandita, ma confina-
ta. I beni di Ubaldino erano stati quindi concessi in affitto, mentre quelli della mo-
glie Bolnixia erano stati stimati al fine di stabilire quanto essa dovesse pagare nelle
collette speciali promosse nel 1274 e 1275. Una volta riammesso in città Ubaldino, il
comune aveva provveduto a riunificare i due estimi, assolvendo a questo punto la
coppia anche dalle collette (ASBo, Riformagioni, vol. I/1, c. 38r). Da operazioni come
questa, che tra 1274 e 1277 dovevano essere tutt’altro che infrequenti visto il flusso
dei rientri, si comprende bene come i dati in possesso del comune sul patrimonio di
un lambertazzo potevano servire al duplice scopo di tassarlo o valutarne il patrimo-
nio da incamerare.
20 Riscontrabile nel precetto, testimoniato per la prima volta nel 1276, di de-

nunziare i beni emanato dal capitano del popolo nei confronti dei ministrales cap-
pellarum.
21 ASBo, Riformagioni, vol. I/1, c. 6v: « Cum hoc sit quod in consillio sexcento-

rum ançianorum et consulum et masse populi Bononie et sex sapientium pro quali-
bet societate reformatum fuerit quod per ançianos et consules elligantur duo sapien-
tes pro quolibet quarterio qui esse deberent cum domino potestate, capitaneo et qua-
tuor sapientibus qui deputati sunt ad defendendum iura comunis Bononie cum duo-
bus ex ancianis et totidem consullibus ad sciendum omnia que facere volunt illis de
prestancia .XXXIIIm. librarum bononinorum et de debito usurario [...] ». Sulla figura
di Hosetxanus v. Castagnini, Il patrimonio di un frate gaudente.
22 La scrittura di questi registri cartacei si ricava da ASBo, Beni, vol. 6, c. 1:

« [...] que possessiones et bona exemplata et extracta fuerunt de libro dominorum


octo qui erat in cartis bonbicinis ».

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BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 323

denaro che i raccolti avrebbero dato per l’anno presente. In dicembre


i domini octo 23 stabilirono che ai creditori del comune spettasse un
totale di 13.387 lire, totalizzato sommando la metà del capitale presta-
to dai cambiatori geremei nel 1271 (circa 4.000 lire) e l’ammontare di
un altro debito 24. I creditori avrebbero potuto ricavare tale importo
sia allora sia in futuro dalla vendita dei frutti dei terreni che essi
gestivano direttamente. Il consiglio comunale, riunito in seduta con-
giunta assieme agli anziani del popolo, decretò inoltre che il podestà e
il capitano del popolo, come anche il massaro, il depositario e gli altri
ufficiali del comune, rinunziassero a ogni diritto di riscossione su tali
beni fino alla completa soddisfazione dei creditori. Agli stessi creditori
fu riservata la possibilità di compensare la somma ricevuta, in ragione
del capitale rimanente, degli interessi, delle spese di concessione e di
laboratura dei terreni, anche attingendo ad altri introiti della finanza
pubblica come collette, condanne, prestanze. Si trattava di una con-
cessione ampia, anche se legittima. Essa testimonia che anche a Bolo-
gna, dove mancava la legittimazione del mendum, il comune, accingen-
dosi a sfruttare le risorse economiche appena acquisite con l’esclusio-
ne, si trovava a patteggiare, per l’estinzione dei propri debiti, con un
gruppo ristretto, che si identificava, anche se indirettamente, come l’élite
della parte vincente.
Si trattava però di una concessione a termine. Una volta pagato il
suo debito, il comune avrebbe potuto godere liberamente dei beni
confiscati. Anche in questo si tratta di una vicenda per alcuni versi
simile ad altre città, come Prato, dove, una volta risarciti gli ex fuo-
riusciti, il comune cominciò a ricavare cifre sempre più consistenti
dall’affitto dei beni dei banditi 25. A Bologna il passaggio fu piuttosto

23 La formazione di balìe di otto sapientes (due per quartiere) risulta frequente


nella storia istituzionale di Bologna in questo periodo. Altri domini octo sono testi-
moniati nel dicembre del 1274 (ASBo, Memoriali, 24, c. 29r). E altri ancora sono
attestati per il 1296, quando in occasione della guerra con Ferrara si provvide a fare
un nuovo estimo.
24 ASBo, Riformagioni, vol. I/ 1, c. 6v: « [...] quod fiat solucio illis de prestancia

.XXXIII m. librararum bononinorum et illis de debito usurario de medietate totius


quod habere et recipere debent a comuni Bononie, de sorte eorum que dicitur esse
.XIIImIIIcLXXXVII. librarum bononinorum secundum rationem factam per dominos
octo, scriptam manu Ghiberti Guidolini notarii per dominos Çohhenem de Pepollis
et Hostexanum de Plantavignis de avere et pecunia que est vel erit penes eos de
bonis et redittibus bannitorum et rebellium comunis et populi Bononie de parte lam-
bertatiorum [...] ».
25 V. Capitolo V.

Capitolo 8.pmd 323 09/11/2009, 16.27


324 GIULIANO MILANI

rapido. Dopo il 1276 non troviamo più tracce della necessità di sod-
disfare i creditori geremei 26, mentre si assiste all’avvio di un organico
sistema di sfruttamento da parte del comune. Già nella prima metà
del 1276, i ministrali delle parrocchie dovettero presentare al giudice
del capitano del popolo, che si occupava dei sequestri, elenchi dei
beni dei lambertazzi residenti nelle loro cappelle. Tali beni vennero a
integrare quelli già censiti dai domini octo. Su tutte le proprietà così
individuate, come anche sulle case della città e del contado, il capita-
no del popolo inviò appositi extimatores, che correggessero in base a
nuove misurazioni quelle vecchie, con ogni probabilità tratte da prece-
denti dichiarazioni d’estimo. Il risultato complessivo di questa impo-
nente operazione amministrativa fu la scrittura, completata tra la fine
del 1276 e l’inizio del 1277, di quattro grandi registri, uno per ogni
quartiere della città e del contado 27, che contenevano tutti i possedi-
menti sequestrati.
L’analisi di questi documenti rivela la portata dell’operazione alle-
stita dal comune. Si tratta di grandi elenchi in cui le « poste » relative
ai singoli beni sono in primo luogo ordinate alfabeticamente secondo
il nome del bandito proprietario. I beni (fondi rustici, terreni edifica-
bili, case, in alcuni casi anche debiti, mulini, animali) di ogni bandito
(o di più banditi, nel caso di comproprietà) risultano poi ulteriormen-
te ripartiti secondo la località (parrocchia o località cittadina e comu-
ne del contado). Un opera, dunque, di alta tecnica notarile e contabi-
le, finalizzata a un’inventariazione delle nuove risorse quantomai accu-
rata e precisa 28. Una simile accuratezza nella schedatura delle risorse

26 Forse la rimanente metà del debito fu versata l’anno successivo.


27 L’intestazione dei registri, a parte il nome del quartiere, è la stessa. Riportia-
mo di seguito quella del registro relativo al quartiere di porta Ravennate. ASBo,
Beni, vol. 6, c. 1r: « Hoc est liber bonorum et possessionum omnium bannitorum et
inhobedientium comunis Bononie pro parte lambertaciorum et positorum in quarterio
porte Ravennatis. Que possessiones et bona exemplata et extracta fuerunt de libro
dominorum octo qui erat in cartis bombicinis et de denuntiationibus datis scriptis
coram domino Armanino iudice domini Riçardi de Bellovidere potestatis Bononie [nel
1276], quod opus factum fuit tempore nobilis militis et potentis viri domini Garsin-
doni de Luvixiniis honorabilis capitanei populi Bononie [nel 1276-77] et domini Pe-
tri de Guiçardis eius assessori iudicis ad bona predictorum bannitorum recuperanda.
Sub anno Domini millesimo ducentesimo septuagesimo septimo. Indictione quinta ».
28 Di ogni lambertazzo, il cui nome è richiamato nel margine sinistro, viene spe-

cificato che possidet vari beni, elencati separatamente e separati da larghe spaziature,
utili a riportare le correzioni relative alle successive concessioni in affitto o alle deru-
bricazioni, in caso di rientro. Come negli estimi, per le case cittadine è specificata

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BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 325

sequestrate segnala di per sé quanto fosse alto l’investimento del co-


mune, che a tre anni dalla cacciata intendeva raccogliere il tesoro nuo-
vamente acquisito. L’analisi del contenuto dell’unico registro ricostrui-
bile nella sua interezza mostra quanto giustificata fosse una simile im-
presa, ma anche quanto essa di per sé non potesse bastare a garantire
uno sfruttamento veramente efficace. Cosa aveva acquisito il comune
di Bologna?

3. Una patrimonio ricco e disperso. I beni sequestrati nel quartiere di


porta Ravennate

L’analisi dell’elenco dei beni sequestrati nel quartiere di porta Ra-


vennate, l’unico per il quale possediamo notizie certe 29, mostra in manie-

quasi sempre la cappella, o altre coordinate di identificazione toponomastica (il « bur-


go », la via), le misure della facciata sul fronte stradale espresse in piedi, i confini;
per le case del contado sono indicati la zona ed eventualmente il microtoponimo, il
materiale di costruzione (cuppata, se di mattoni, oppure de pallea), se siano su un
terreno sopraelevato (tumba), e i confini. Per i fondi rurali si ricava il comune di
pertinenza, molto spesso il microtoponimo della località, l’estensione espressa in tor-
nature bolognesi (= 0,20802 ha), il tipo o i tipi di coltura, i confini. Al termine di
ognuna delle descrizioni è riportata, infine, dalla stessa mano, la correzione apposta
dagli extimatores relativa all’estensione del fondo o la specificazione delle colture,
segno del fatto che non si trattò di una mera trascrizione delle dichiarazioni d’esti-
mo, ma di un’operazione più complessa, in cui la documentazione disponibile fu
sottoposta a ulteriori verifiche.
29 Il criterio fondamentale che ha guidato la scelta del registro da analizzare è

stato quello della fedeltà alla natura della fonte: un elenco finalizzato allo sfruttamen-
to economico dei beni censiti. Per questo abbiamo preferito schedare interamente il
libro del quartiere relativo ai beni censiti nel quartiere di porta Ravennate, piuttosto
che selezionare alcuni proprietari e censirne le proprietà anche negli altri quartieri.
L’operazione avrebbe consentito di acquisire più dati sul possesso prima della caccia-
ta, ma meno sull’entità complessiva dei sequestri. La scelta è caduta su questo regi-
stro poiché si tratta dell’elenco di beni scritto nel 1277 giunto in forma più completa
fino a noi. Dei registri relativi agli altri tre quartieri ci rimangono frammenti notevol-
mente consistenti, conservati in maniera piuttosto disordinata in ASBo, Beni, voll. 6;
7; b. 8. Fortunatamente ogni registro, secondo una consuetudine piuttosto diffusa,
venne scritto in due copie, cosicché almeno in un caso, quello appunto di porta
Ravennate, siamo in grado di ricostruire, dal confrontro tra le due copie, un intero
registro con pochissime lacune: una copia, meno frammentaria, è conservata in ASBo,
Beni, vol. 6, cc. 1-70; l’altra, più frammentaria, in ASBo, Beni, b. 8, fasc. 9. La
ricostruzione codicologica da noi condotta ha permesso di ricostruire un registro di
88 cc., formato da 11 quaderni di 8 cc. ciascuno. Le lacune sono limitate alle 3 cc.

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326 GIULIANO MILANI

ra evidente due dati. In primo luogo, le confische permisero al comu-


ne di disporre di un patrimonio estremamente ricco e differenziato:
grazie al bando dei lambertazzi, Bologna acquisì un complesso di beni
fondiari tale che non sembra improprio parlare di una nuova comu-
nanza, incamerata dal comune per ragioni politiche. Ma – ed è è que-
sto il secondo dato – a differenza di una vera comunanza, il patrimo-
nio sequestrato non costituiva affatto un assieme coeso di terreni, ma
una pletora di appezzamenti, per lo più piccolissimi, e come tali diffi-
cili da amministrare per rimpinguare le sempre più bisognose finanze
comunali.
Pur nella sua parzialità, il registro relativo ai beni di Porta Raven-
nate costituisce una fonte per molti versi eccezionale: è piuttosto raro,
specialmente per il Duecento, disporre di fonti sul possesso agrario in
forma di registro e dunque concepite come tendenzialmente esaustive.
Ciononostante esso non può essere assunto come una sorta di « tavola
delle possessioni »: è facilmente ipotizzabile, quando non sia dimostra-
to, che i posessori banditi avevano beni anche negli altri tre quartieri
e, sebbene tra loro siano maggioritari quelli residenti nello stesso quar-
tiere cittadino di Porta Ravennate, compaiono anche personaggi che
dagli elenchi di banditi e confinati sappiamo aver risieduto altrove e
che con ogni probabilità avevano, appunto, altrove la maggior parte
delle case e delle terre. Infine un problema è dato dalla rappresentati-
vità di questo registro. È evidente che i suoi dati non possono essere
automaticamente assunti come un vero e proprio « campione » del to-
tale calcolabile con semplici moltiplicazioni. D’altra parte, si tratta sempre
di un punto di partenza per potersi almeno fare un’idea dell’entità
complessiva del sequestro. I quartieri, con cui il comune di Bologna
aveva esteso al contado (senza una corrispondenza assoluta) le proprie
ripartizioni urbane, presentavano cararatteristiche differenti: vi erano
quartieri tendenzialmente di montagna, come porta Procola, quartieri
di pianura e collina, come quello di porta Stiera, e infine quartieri
misti, come porta Piera e, appunto, il quartiere di porta Ravennate,
un’area per lo più pianeggiante che si estendeva a nord-est verso Ar-
genta e a est verso Imola, comprendendo anche una porzione di mon-

finali. Il registro relativo al quartiere di Porta Piera è conservato frammentariamente


e disordinatamente, assieme a carte tratte da altri registri in ASBo, Beni, vol. 7, cc.
1-180. Del registro di porta Procola restano alcune carte in ASBo, Beni, vol. 7, cc.
181-188, e in ASBo, Beni, vol. 8, fasc. 7. Infine, in ASBo, Beni, vol. 6, cc. 87-120 è
conservato un registro di beni dei banditi nel quartiere di porta Stiera, ma, mancan-
do della prima carta, non è certo che sia stato scritto nel 1277 come gli altri.

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BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 327

tagna appenninica. Nei suoi confini, secondo l’atto di creazione dei


quartieri del contado del 1223, confluivano « tutte le terre poste infe-
riormente e superiormente alla strada Emilia alla destra dell’Idice, e
superiormente alla strada medesima fra la sinistra dell’Idice e la destra
della Savena » 30. La sua natura composita (pianura con una porzione
di collina e di montagna) rende quindi il quartiere di Porta Ravvenna-
te del contado più rappresentativo rispetto ad altri. Simile il discorso
per i beni sequestrati in città, essendo quello di Porta Ravennate un
quartiere denso di parrocchie aristocratiche (comprendeva la maggior
parte delle cappelle comprese all’interno della più antica cerchia di
mura), ma esteso anche sugli ultimi borghi, e verso il suburbio (guar-
dia civitatis), cioè su parrocchie abitate per lo più da recenti immigra-
ti. Per quel che riguarda l’aspetto quantitativo si può solo lavorare
per ipotesi, ammettendo, in attesa di riscontri più oggettivi, che a
porta Ravennate siano stati censiti da un quarto a un terzo del totale
dei beni.
La tabella 1 intende fornire un’idea complessiva del patrimonio
sequestrato a porta Ravennate, suddividendolo in tipi di beni, poste
del registro relative ad ogni tipo di beni, e fornendo i totali per i vari
tipi. Le poste relative alle terre riguardano ognuna un fondo differen-
te suddiviso però sempre dai notai in appezzamenti monoculturali pre-
senti sul fondo 31.
Pochissime dunque le menzioni di animali. L’unica posta relativa a
bestiame riguarda un gregge di pecore e capre di proprietà di Castel-
lano Andalò tenuto da un certo Bencevenne Geteue, non bandito. Po-
chissimi anche i riferimenti a mulini 32.

30 Casini, Il contado Bolognese, pp. 29-30.


31 Nella categoria « misto » abbiamo fatto confluire sia i pochi terreni indicati a
conduzione mista (arativo e vigna, arativo e incolto, vigna e incolto, arativo, vigna e
incolto), sia il canneto (berleta), sia infine i pochi terreni di cui non è specificata la
coltura.
32 Un mulino è situato a Cazzano, località posta sulla riva sinistra del Savena di

fronte a Budrio, in teoria pertinente al quartiere di Porta Piera (ASBo, Beni, vol. VI,
c. 15v). In realtà questo mulino non ha una posta autonoma, ma è menzionato nella
posta di una casa di Castellano Andalò. Un altro mulino risulta complessivamente
dalle quattro diverse quote sequestrate a Puccicalvoli, nel basso corso dell’Idice, al-
l’ospedale di ponte sull’Idice. Si tratta di un ente evidentemente appartenente a uno
dei banditi che tuttavia non è specificato, ma risulta possedere anche numerosi ap-
pezzamenti di terra (ASBo, Beni, vol. VI, c. 38v). La restante trentaeseisima parte di
mulino è allibrata a Bittino di Petrone degli Uguccione e risulta collocata sul primo
tratto del Savena, a Castenaso (ASBo, Beni, vol. VI, c. 8v).

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328 GIULIANO MILANI

Tabella 1 – I beni sequestrati a porta Ravenne.

Beni Poste Totali

Terre 699 tot. appezzamenti (a)


829
in tornature bolognesi (t) 12.367,69
vigna arativo misto prato incolto bosco
a 212 a 391 a 51 a 94 a 26 a 53
t 906,15 t 5.719,66 t 3354,32 t 863,35 t 131,5 t 1392,41

ha. 188,52 ha. 1,189,97 ha. 697,8 ha. 179,6 ha. 27,358 ha 289,69
Terreni 110 terreni edificabili terreni edificabili contado
edificabili 32 78
Abitazioni 320 case città case contado
205 115
Crediti 20 tot. debiti in denaro tot. debitiin frumento tot. debiti in animali
1.278. s. 40 22 corbe; 33 coppe 1 cavalla con puledro
Mulini 5 tot. mulini
(quote) 2 + 36a parte
Animali 1 pecore e capre: 50

Appena più numerose le poste relative a crediti dei banditi. La


loro esistenza costituisce una prova ulteriore del fatto che, per allesti-
re il registro, vennero utilizzate le dichiarazioni d’estimo, ma la loro
scarsità rispetto alla notevole presenza di attestazioni di credito e de-
bito in questo tipo di documenti sta a dimostrare che sui crediti ven-
ne condotta una drastica selezione. Le norme sulla cassazione dei cre-
diti vantati dai banditi politici nei confronti di altri cittadini o conta-
dini, che ovunque venivano emanate in seguito alle esclusioni politi-
che, dovevano essere state già approntate a Bologna, anche se ne ab-
biamo menzione esplicita solo in un momento successivo 33. Nel regi-
stro dei beni confluirono quindi solo quei crediti immediatamente le-
gati a possedimenti sequestrati, che il comune, nuovo proprietario, si
riservava la possibilità di riscuotere 34.

33 Ma un indizio è costituito dalla decisione di cassare i diritti dei banditi relati-


vi al prestito attuato nei confronti del comune nel 1271, su cui v. supra.
34 Delle venti poste di questo tipo, nove riguardano crediti di Castellano Andalò

relativi alla riscossione di affitti di cui non sono specificati né l’oggetto né l’ammon-

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BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 329

Con le poste relative alle case e ai terreni edificabili il nuovo teso-


ro del comune comincia finalmente ad apparire. Il notevole numero
di 430 tra case in città, case nel contado e casamenta (terreni edifica-
bili) costituisce un dato di per sé significativo, specialmente quando si
consideri che si tratta di uno solo dei quattro quartieri. Molte case,
soprattutto quelle poste nel centro della città, come rivelano le prime
norme sul bando e le prime attestazioni di utilizzo, erano teoricamen-
te destinate alla distruzione al fine di recuperarne il materiale. In que-
sto senso, per gli schedatori dei sequestri, le abitazioni assumevano il
doppio valore di « riserve » di legname e mattoni, e soprattutto, qualo-
ra il terreno in cui erano costruite fosse dello stesso proprietario, di
terreni destinati all’affitto. Immaginando una simile prospettiva (che
solo in parte poté essere messa in pratica) si comprende perché, in
molti casi, nel registro venne indicata l’estensione dell’area edificabile
(specialmente nel contado), anche in presenza di un’abitazione. Quello
dei casamenta era un mercato notevolmente fiorente nella Bologna di
fine Duecento, come mostrano gli studi condotti sulle lottizzazioni pro-
mosse in città e in campagna dai monasteri cittadini 35. Attraverso il
grande sequestro del 1275-77, anche al comune si apriva la possibilità
di entrare nel mercato, e su solide basi 36. Per il solo fatto di insistere

tare (ASBo, Beni, vol. VI, c. 22v). Stessa situazione per i crediti di Corrado, conte di
Panico, di Soldaderio di Liano e di Gaiducius da Medicina (ASBo, Beni, vol. VI, cc.
22r; 55r; 66v). Una posta ricorda una cavalla con puledro ceduta in soccida dallo
stesso Gaiducius da Medicina precedentemente alla cacciata, ma in seguito venduta
illegittimamente dal concessionario (ASBo, Beni, vol. VI, c. 31v: « Item reperitur ip-
sum Gaiducium dedisset in soccidam quamdam equam cum pullo Albertino Bonpetri
in pascate resurectionis proxime et ipsum Albertinum vendidisse dictam equam .XL-
VIII. librarum bononinorum depulsa parte a civitate Bononie et predicta reperta fue-
runt per dominum Casalinum et Bonacosa domini Montanarii notarios »).
Tra le restanti sette poste relative a debiti, cinque menzionano quantità di fru-
mento di proprietà di banditi detenute da cittadini non identificati come lambertazzi
(ASBo, Beni, vol. VI, cc. 50r; 55r; 58r; 64r). altre due, crediti in denaro che vedono
come debitori lambertazzi confinati (ASBo, Beni, vol. VI, cc. 50r; 66r).
35 Fanti, Le lottizzazioni e lo sviluppo urbano di Bologna. Pini, L’azienda agraria

del monastero di S. Procolo, con bibliografia.


36 Attorno al 1269 i monaci di San Procolo affittavano casamenta urbani otte-

nendo all’incirca 9 lire a tornatura, mentre per quelli del contado potevano esigere
20-25 soldi (Pini, L’azienda agraria del monastero di S. Procolo, p. 113). Non posse-
diamo dati sull’estensione dei terreni da costruzione cittadini, ma per quelli del con-
tado la media è di una tornatura. Se il comune avesse deciso di affittare i casamenta
sequestrati allo stesso prezzo, solo nel nostro quartiere si sarebbero potute in teoria
ricavare dunque almeno un paio di centinaia di lire l’anno, per il solo contado.

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330 GIULIANO MILANI

su un casamentum le abitazioni rurali rappresentavano già una piccola


risorsa potenziale non indifferente, anche nel caso in cui le si fosse
effettivamente rase al suolo tutte, cosa che non avvenne. In caso con-
trario, è evidente, avrebbero potuto fruttare ancora di più 37.
Un introito notevolmente superiore poteva essere stimato per la
città, poiché le case sequestrate costituivano beni di grandissimo valo-
re soprattutto dal punto di vista dell’ubicazione 38. Molte erano infatti
le abitazioni poste nel centro. Sequestrandole, il comune diveniva po-
tenzialmente in grado di avviare una politica di riassetto urbanistico.
La distruzione di interi isolati avrebbe potuto consentire di ricavare
terreni prestigiosi. Man mano che ci si spostava, però, verso la perife-
ria, la forte frammentazione dell’insieme delle case sequestrate, nonché
probabilmente il fatto che molte delle case di proprietà dei banditi si
trovavano su terreni non sequestrabili, come quelli dei monasteri, ren-
deva lo sfruttamento più difficile e meno vantaggioso 39.
Alcune poste significative conservano traccia dell’intervento degli
extimatores. Esse consentono di fare alcune considerazioni sulle case

37 Delle 115 case censite nel contado, ben 43 risultano essere cuppate cioè in

mattoni, una addirittura dotata di torre (Si tratta di una casa posseduta da Castellano
Andalò a Bixano, nell’appennino), 10 sono costruite su terreno sopraelevato. Solo 8
sono esplicitamente indicate come de pallea, e 3 come domunculae.
38 Suddividendo l’area urbana del quartiere di porta Ravennate nelle quattro zone

concentriche scandite dalle successive cerchie murarie, possiamo farci un’idea appros-
simativa della qualità delle abitazioni sequestrate. Nella prima zona, interna alla cer-
chia muraria altomedievale, corrispondente all’area immediatamente a est della piazza
Maggiore, sono censite 35 case (corrispondenti al 19% delle 170 abitazioni urbane di
cui è possibile accertare la parrocchia di appartenenza). Nella seconda zona, posta tra
la prima cerchia e la seconda, troviamo 41 case (23%). Nella terza zona, quella dei
borghi delle strade di San Vitale, Maggiore, Santo Stefano e Castiglione, ma ancora
interna alla cerchia di mura trecentesca, troviamo ben 80 case (45%). Nell’ultima
zona, infine, esterna all’attuale cerchia dei viali, 24 case (13%). Si tratta di dati facil-
mente spiegabili considerando che i molti banditi aristocratici facevano capo a un
numero relativamente basso di lignaggi (domus) residenti nel centro cittadino, mentre
i banditi « borghesi » afferivano a molte più famiglie, meno estese, che abitavano
appunto nei borghi.
39 Delle 32 poste relative esclusivamente a casamenta registrati come tali, seque-

strati in città, solo 6 sono nella zona più centrale, altrettanti nella seconda zona, 20
nella terza. Dalle stesse attestazioni veniamo a sapere che alcuni tra i banditi lamber-
tazzi lucravano sull’affitto dei terreni edificabili. È il caso di Michele Principi, appar-
tenente alla grande famiglia di mercanti aristocratici studiata da Roberto Greci, che
risulta avere 15 lotti nella parrocchia di S. Giuliano (posta nella terza zona, quella
dei burgi). Prima della cacciata, i conduttori, che sul terreno hanno un loro « edifi-
cium », gli versavano 20 soldi l’anno (ASBo, Beni, vol. VI, c. 47v).

Capitolo 8.pmd 330 09/11/2009, 16.27


BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 331

sequestrate. Esse riportano infatti il valore delle case in sé, integre o


come riserva di materiale edile ricavabile dalle distruzioni, ma sgancia-
to dal terreno edificabile. Sappiamo così che la casa di Lambertino
Mulnaroli, appartenente a un ramo separato della famiglia Lambertaz-
zi, veniva stimata 25 lire « integra », 10 nel caso in cui fosse stata
alienata « ad destruendum ». La sua torre fu stimata 31 lire in caso di
vendita finalizzata alla distruzione 40. La casa-torre di Castellano Anda-
lò fu valutata 25 lire, ma non sappiamo se intera o a pezzi 41. Che il
comune non disdegnasse di lucrare anche da questa fonte possiamo
supporlo poi dalla meticolosità con cui i notai registrarono lo stato di
conservazione. Di una casa dei Principi situata nella cappella di S.
Matteo viene specificato che il lignamen e i cuppa, ricavati dalla de-
molizione dei piani superiori, sono stati raccolti nel cortile. Una casa
di Pietro Boschetti è descritta « tota [...] destructa excepta una spon-
da muri » 42. Un’altra viene censita come « destructam et combustam
sine aliquo lignamine » 43. Da questi dati risulta difficile quantificare le
potenziali entrate che simili beni potevano garantire al comune. Ma
l’impressione è che in questo settore le scelte non furono affatto orientate
a una massimizzazione del profitto. Da altre fonti sappiamo che i prezzi
di mercato delle case a Bologna erano nettamente più alti di quelli
che appaiono nelle stime sopra citate. Se la media era di 40-70 lire,
nel caso di abitazioni grandi, come le case-torri, poteva spingersi oltre
le 400. Le case dei lambertazzi risultano quindi gravemente sottosti-
mate ed è probabile che tale fenomeno fosse dovuto proprio al tipo
di utilizzo che se ne intendeva fare. La svendita della casa in sé, so-
prattutto a fini di distruzione, non poteva costituire un’entrata vantag-
giosa sul lungo periodo, ma rappresentava d’altra parte un’importante
operazione giuridica e ideologica, una risorsa in termini di immagine e
propaganda politica. Maggiori vantaggi economici avrebbe potuto dare
l’affitto, in grado di fornire rendite fruttuose e stabili, ma notevolmen-
te meno incisivo sul piano della retorica di guerra su cui il nuovo
comune veniva a fondare la propria comunicazione politica. Che an-
che in questa prima fase, specialmente per le abitazioni poste in zone
più periferiche, la soluzione dell’affitto non fosse del tutto rigettata si
può supporre da alcune poste, relative ad abitazioni di proprietà di

40 ASBo, Beni, vol. VI, c. 45r.


41 ASBo, Beni, vol. VI, c. 36v.
42 ASBo, Beni, vol. VI, c. 56v.
43 ASBo, Beni, vol. VI, c. 56v.

Capitolo 8.pmd 331 09/11/2009, 16.27


332 GIULIANO MILANI

Castellano Andalò, situate a Ponte Maggiore, una località nel suburbio


(guardia civitatis), che riportano l’ammontare degli affitti, un dato che
manca quasi sempre per le case nella città. Prima della cacciata, tali
abitazioni risultavano tutte affittate a privati, che pagavano pensioni
annue piuttosto cospicue, attorno alle 6 lire 44. È probabile che, in
quest’area più periferica, il comune sentisse meno la necessità di mo-
strare quanto vasta era stata la distruzione delle case dei nemici, e
che, di conseguenza, privilegiasse (registrandola) l’entità del vantaggio
economico che avrebbe potuto trarre dall’affitto dei loro beni 45.
Tra i beni sequestrati sono i terreni a svolgere il ruolo più rilevan-
te. L’entità dei sequestri assunse da questo punto di vista dimensioni

44ASBo, Beni, vol. VI, c. 56v.


45L’impressione di una minore presenza di distruzioni nella zona più periferica
è confermata dalla lettura di un censimento delle devastazioni, compilato nella prima-
vera del 1286 dal notaio Michele, comandato alla sezione fanghi dell’ufficio alle ac-
que e alle strade del comune di Bologna, conservato in ASBo, Comune, Curia del
podestà, Ufficio delle acque e strade, ponti e calancati, b. 1, cc. 37v-30. Dopo aver
scritto sul primo foglio del suo quaternus, l’intestazioni « Guasta lambertatiorum ban-
nitorum per comuni Bononie scripta per magistrum Michaelem notarium domini Te-
baldi Brusati potestatis comunis Bononie ad officium fangorum », Michele cominciò a
descrivere le distrutte abitazioni dei ghibellini che andava incontrando nel suo giro di
ispezione, ma, scoprendo che vi erano altri guasta, non attribuibili ai lambertazzi,
decise di capovolgere il quaternus e inaugurarne, a partire dalla quarta di copertina
rovesciata, una seconda sezione, intitolata più sinteticamente Çermi (=geremei), in cui
elencò case construite in contrasto con le norme statutarie e abitazioni distrutte, cioè
guasta veri propri. Sia Heers, Espaces publiques, espaces privés dans la ville, pp. 96 e
ss., sia Bocchi, Bologna, pp. 95-96, che pure hanno utilizzato ampiamente questo
registro per verificare quanta parte avesse avuto il sequestro dei beni dei lambertazzi
nel rinnovamento urbanistico di Bologna, non hanno notato la distinzione in due
sezioni del registro. Per questa ragione i dati numerici sui guasti dei lambertazzi da
loro forniti non possono essere accettati. Il conteggio effettuato a partire da questo
dato mostra che le menzioni nella sezione di guasti dei lambertazzi sono 129, quelle
nella sezione relativa ai geremei sono 101. Di queste, tuttavia, poco meno della metà
(42) riguardano case che risultarono non essere a norma perché prive della grondaia
o con portici di dimensioni non regolamentari, per le quali l’espressione guasta appa-
re dunque per molti versi impropria. Tra le restanti 59 non poche sono attribuibili in
realtà a banditi lambertazzi e, in una minoranza di casi (16), l’errore di collocazione
tra le due sezioni del registro risulta corretto per mezzo di apposite annotazioni.
Restano così poco più di una ventina di distruzioni relative ad abitazioni di grandi
lignaggi geremei, tra i quali Prendiparte e Torelli. Questa precisazione non toglie
valore alle conclusioni della Bocchi secondo cui, a differenza di quanto sostenuto da
Heers, le modificazioni urbanistiche duecentesche non furono una conseguenza del
sequestro dei beni dei banditi. Sul dibattito Heers-Bocchi in merito a questa fonte v.
anche Pini, Un prefabbricato rosa, p. 251.

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BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 333

impressionanti. Il patrimonio fondiario sequestrato dal comune nel solo


quartiere che stiamo osservando è stimabile in più di 2500 ettari. Per
avere alcuni termini di paragone immediati basti pensare che alla stes-
sa altezza cronologica il monastero di S. Procolo possedeva solo 340
ettari. Il convento di San Domenico alla vigilia della peste del 1348
ne aveva 135, due ricchi beccai come Casella e Dondiego Piantavigne
nel 1296 ne dichiararono circa 200 ciascuno, la famiglia Guastavillani
ne avevano circa 1470, mentre nel 1315 il banchiere Romeo Pepoli,
per alcuni suoi contemporanei l’uomo più ricco d’Italia, ne denunciò
circa 3000 46. Oltre a essere un patrimonio enormemente esteso era
anche un patrimonio ricco, in cui l’incolto rappresentava meno del
10% del totale, e dove terreni di grande pregio come la vigna aveva-
no una parte di tutto rilievo. Se pensiamo che i prezzi annuali dell’af-
fitto di una vigna potevano andare, in media, da una a due lire l’anno
per tornatura 47, possiamo affermare che potenzialmente, nell’ipotesi
peregrina che si fosse riuscito ad affittare tutto il sequestrato, il comu-
ne avrebbe potuto contare su introiti di almeno 1000-2000 lire l’anno,
solo dalle vigne di porta Ravennate. Secondo calcoli analoghi, dall’ara-
tivo avrebbe potuto ricevere 4500-6500 lire, e così via. Come vedremo
oltre, si tratta però di semplici speculazioni, che non trovarono riscon-
tro non solo nella realtà degli anni successivi, ma nemmeno nelle fan-
tasie più ottimiste dei pianificatori delle finanze comunali che nel 1277
contribuirono a censire il patrimonio dei banditi. Per ragioni diverse,
si trattava di un patrimonio difficilissimo da gestire in maniera unita-
ria e al tempo stesso adeguata. Ciononostante i notai vollero stabilire
per ognuno dei 699 terreni posti nel quartiere di porta Ravennate il
tipo di colture presenti e la loro estensione, facendola ricontrollare
rispetto alle stime precedenti e ricavando in tal modo 829 menzioni di
singole parcelle coltivate. L’idea alla base di una simile impresa era
quella di poter affittare anche separatamente le singole porzioni di
ogni fondo. Essa dimostrava una notevole dose di ottimismo ammini-
strativo, una volontà di intervenire sull’esistente per razionalizzare lo
sfruttamento.
Ma il problema più consistente era proprio l’estremo frazionamen-
to dei terreni sequestrati. L’ampiezza media dei fondi isolati risulta di
circa 18 tornature, pari a poco più di 3 ettari, ma si tratta di un dato
poco significativo. Considerando infatti gli appezzamenti ricavati dagli

46 Pini, L’azienda agraria del monastero di S. Procolo, p. 119.


47 Pini, L’azienda agraria del monastero di S. Procolo, p. 123.

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334 GIULIANO MILANI

stimatori comunali, si nota che quasi il 50% dei terreni è inferiore


all’ettaro. Con il crescere delle classi d’ampiezza diminuisce vertigino-
samente la percentuale di terreni.

Tabella 2 – Appezzamenti sequestrati per classi di ampiezza.

Ampiezza (forature) Ampiezza (ettari) N. appezzamenti %

0-5 0-1 396 48


6-10 1-2 169 20
11-25 2-5 132 16
25-50 5-10 43 5
51-100 10-20 17 2
> 100 > 20 16 2
non misurati 56 7
Totale 829 100

Il dato complessivo non può stupire. Un simile frazionamento del


paesaggio agrario era diffuso ovunque in quest’epoca. Tale elemento
tuttavia assumeva una rilevanza particolare dal momento in cui un
solo proprietario, il comune, si trovava a dover amministrare i singoli
appezzamenti. Le poste del registro non ci informano sul tipo di con-
duzione praticato dai proprietari banditi, ma è evidente che il passag-
gio alla gestione comunale avrebbe in ogni caso provocato problemi
maggiori di quanto non avvenisse per le abitazioni. Ogni terreno pre-
sentava una situazione differente che doveva necessariamente essere
normalizzata per raggiungere una certa uniformità su cui impostare lo
sfruttamento. Se i beni sequestrati fossero stati poche grandi aziende
agricole, tale processo di uniformazione si sarebbe rivelato più sempli-
ce, invece, non solo in generale i fondi erano molti e dispersi, ma,
anche all’interno della medesima località, i banditi possedevano terre
per lo più isolate, confinanti con altri proprietari che per la maggior
parte non erano stati banditi come lambertazzi.
Proviamo a illustrare questo fenomeno con un caso concreto. Scor-
rendo le poste relative alla località di Casalecchio oltre l’Idice (oggi
Casalecchio dei Conti), un piccolo centro collinare situato nelle vici-
nanze di Castel S. Pietro, in un primo momento si è tentati di sup-

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BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 335

porre che fosse una zona relativamente facile da gestire in maniera


unitaria. Qui il comune aveva sequestrato ben 26 appezzamenti isolati,
che tuttavia afferivano a solo tre proprietari differenti: Milidoxius Ge-
rardi Filocari, un mercante bolognese, vi deteneva un podere che si
estendeva su 50 tornature, coltivato ad arativo e a prato. Castellano
Andalò vi possedeva, oltre a 2 case e 3 casamenta, 8 diversi fondi per
un totale di 62 tornature (13 ettari), coltivate per l’83 % ad arativo,
per il resto a prato, vigna e orto; infine, Soldaderius da Liano vi pos-
sedeva 17 fondi diversi. In totale si trattava di 174 tornature (circa 36
ettari), coltivate per il 60% ad arativo, per il 33% a prato, e per il
resto a vigna e altro, con un piccolissima porzione di bosco. In appa-
renza, dunque, terra buona, in forte efficenza produttiva (solo 1,5 tor-
nature d’incolto) e apparentemente ben concentrata.
L’immagine cambia nettamente se si osservano i confini indicati
nelle poste. Con il podere di Milidoxius confinano tre diversi perso-
naggi, tra cui il conte di Casalecchio oltre l’Idice, detentore di una
piccola signoria territoriale. Nessuno di questi tre è bandito come
lambertazzo. Con i fondi di Castellano confinano complessivamente
13 differenti proprietari, di cui solamente 2 risultano banditi, uno
dei quali è Soldaderius da Liano. Con quest’ultimo infine confinano
ben 23 diversi proprietari, di cui solo tre confinano a loro volta con
gli altri banditi lambertazzi, e di cui solamente 2 risultano banditi.
Tra i possessi sequestrati in questa zona esistevano dunque moltissi-
mi altri proprietari, eterogenei nel patrimonio (grandi, piccoli, medi)
e nella composizione sociale (cittadini, enti ecclesiastici, un signore),
che il sequestro non scalfiva minimamente, e che anzi avrebbero senza
dubbio tentato di allargare le proprie possessioni, a spese dei fondi
sequestrati.
La situazione di Casalecchio è la stessa della grandissima parte
delle località toccate dai sequestri. È rarissimo il caso di possedimenti
larghi e coesi, gestibili in maniera unitaria e fruttuosa. Esistono tutta-
via delle eccezioni. L’esempio più chiaro in questo senso è costituito
dalla località di Baratino, un piccolo centro di pianura posto sulla riva
sinistra del Savena, oltre San Martino in Argile. Qui effettivamente
troviamo un estesissimo patrimonio sequestrato tutto raccolto nelle mani
di una stessa famiglia, i Rustigani, anche se suddiviso tra differenti
gruppi di parenti. All’intera famiglia è attribuita dalle poste un enor-
me « podere » definito come berleta, vale a dire un terreno di soda-
glia, in buona parte occupato da canneto, che si estende per 2600
tornature (più di 540 ettari), e che costituisce, di gran lunga, il più

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336 GIULIANO MILANI

grande fondo attestato nel nostro registro. Armanino Rustigani possie-


de da solo una casa, un casamentum e 398 tornature di terra (82
ettari), suddivisi in 104 tornature di arativo, 265 di bosco e 29 di
incolto. Albizzo Rustigani possiede un’altra casa con relativo casamen-
tum. L’elenco dei confinanti rivela una situazione esattamente inversa
a quella di Casalecchio: per la maggior parte si tratta dei Rustigani
stessi, per una minima parte della chiesa di S. Giovanni in Monte e
in un solo caso di un cittadino non bandito, un Malavolti. Questo
esempio estremo e, ripetiamolo, assolutamente eccezionale nel panora-
ma offerto dalla nostra fonte, rivela peraltro come l’estensione dei « po-
deri » larghi e non frazionati potesse essere inversamente proporziona-
le alla loro qualità. I beni compresi nelle vaste proprietà dei Rustigani,
sono infatti per lo più boschi, incolti e sodaglie.
Utilizzando i dati risultanti dall’analisi del registro, possiamo dun-
que farci un’idea di quali fossero le minacce che sin dal momento
della prima schedatura si addensavano sulla possibilità di sfruttare in
maniera proficua i beni sequestrati. Innanzitutto l’affitto dei beni dei
lambertazzi avrebbe incontrato le resistenza di quanti potevano sentirsi
minacciati da un loro ritorno. Soprattutto in questa prima fase, il ti-
more di un ritorno dei banditi poteva distogliere molti dall’investire
del capitale nei beni pubblicati. In secondo luogo, come si è visto,
l’estremo frazionamento della sparsa, ancorché ingentissima, eredità
costituita dai sequestri stimolava di per sé l’aquisizione furtiva dei con-
finanti geremei, naturalmente interessati ad allargarsi. Non è un caso
che il comune avesse voluto misurare e rimisurare tutti gli appezza-
menti acquisiti. Infine, un terzo pericolo gravava sul nuovo tesoro co-
munale: l’assottigliamento provocato dai rientri, solo in parte compen-
sati dai nuovi bandi. Per questa ragione, l’insieme del patrimonio se-
questrato assumeva un aspetto quantitativamente e qualitativamente
mobile, oltre che ricco e disperso. Come si sarebbe amministrato un
patrimonio pubblico dotato di caratterstiche così particolari?
Alcune serie archivistiche consentono di seguire l’amministrazione
dei beni dei banditi nel corso del periodo che va dalla compilazione
dei registri del 1277 fino alla prima sistematica revisione, avvenuta
dieci anni dopo. Nel corso degli anni 1285-86, mentre si decideva di
riscrivere i nuovi registri di banditi e confinati in seguito ai numerosi
rientri, si sentì infatti la necessità di produrre anche nuovi elenchi
aggiornati dei loro beni. Gli elenchi di beni scritti nel periodo inter-
medio tra questi due momenti di risistemazione generale e i registri
processuali prodotti dall’ufficio ai beni dei banditi della curia del ca-

Capitolo 8.pmd 336 09/11/2009, 16.27


BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 337

pitano del popolo testimoniano come nel corso di questo denso de-
cennio ebbe luogo un censimento continuo. I registri di locazioni per-
mettono invece di farsi un’idea delle modalità con cui i beni dei ban-
diti vennero affittati ai privati, del tipo di contratti che vennero stretti
tra il comune e gli affittuari, dell’identità sociale di quanti affittarono i
beni e dei prezzi di affitto. Assieme ad essi, una particolare tipologia
di registri scarsamente conservata per questa fase, molto più presente
nel periodo successivo, quello dei registri di introiti ricavati dai beni
dei banditi, autorizza alcune ipotesi sulla consistenza economica dello
sfruttamento dei beni sequestrati. Questi due ambiti tematici – consi-
stenza del patrimonio e sistema degli affitti – si tratteranno separata-
mente cominciando dal primo.

4. Poche denunce e molte petizioni. L’erosione del patrimonio sequestrato


Dopo la scrittura degli elenchi di beni del 1277 la loro inventaria-
zione non si arrestò. Innanzitutto si cercò di registrare beni dei bandi-
ti non censiti in precedenza, o perché sfuggiti alla prima schedatura
sistematica o perché appartenenti a persone bandite solo in un secon-
do momento. Si agì sia attraverso strumenti di polizia (periodicamente
i ministrali delle cappelle e i massari delle comunità del contado ven-
nero sottoposti a inquisizioni generali, affinché dichiarassero quanti e
quali beni dei banditi non censiti si trovassero nelle loro pertinenze);
sia attraverso l’accoglimento e la verifica di denunce, anonime o pale-
si, presentate dai privati, in cui venivano segnalati beni dei banditi,
quindi di pertinenza del comune, illegittimamente detenuti da cittadini
e abitanti del contado. In secondo luogo, si provvide ad accogliere le
petizioni presentate alla curia del capitano da quanti fossero riusciti a
dimostrare i propri diritti su beni detenuti dal comune come seque-
strati ai lambertazzi, e a restituire, sempre in seguito alla presentazio-
ne di una petizione, i beni sequestrati a quei banditi (o ai loro eredi)
che erano stati riaccolti in città. Molte delle operazioni con cui si
aggiunsero o si derubricarono i beni vennero registrate nei libri di
beni del 1277: nel primo caso (l’aggiunta), attraverso la compilazione
di nuovi elenchi su quaderni pergamenacei che vennero cuciti assieme
a quello del 1277 così da formare libri sempre più grandi e completi;
nel secondo caso (la derubricazione), attraverso note marginali alle singole
« poste », spesso introdotte dalla formula non locetur, in cui si spiega-
vano le ragioni per le quali il comune non disponeva più di quel tale
terreno o casa.

Capitolo 8.pmd 337 09/11/2009, 16.27


338 GIULIANO MILANI

I registri cuciti in appendice a quelli del 1277 sono conservati


frammentariamente per il quartiere di Porta piera e lasciano ipotiz-
zare che si procedette agli « aggiornamenti » sia nel 1278, sia nel
127948. Per il quartiere di porta Ravennate, l’unico per il quale ab-
biamo il registro del 1277 completo così da poter fare un confronto,
possediamo soltanto uno di questi inventari di « aggiornamento », scritto
nel 1278 49. Esso riporta 164 poste, che sono aggiunte alle 1155 del
registro del 1277) per un totale di beni notevole: alcune case e circa
1300 tornature di terra sequestrate a nuovi e vecchi banditi. In real-
tà, tuttavia, un terzo di queste terre risulta già censita nell’elenco del
1277 come risulta, del resto, da alcune annotazioni marginali aggiun-
te sulla base di una verifica successiva 50. Dal computo dei beni re-
stanti è possibile affermare che, per il quartiere che ci interessa, il
patrimonio di terre sequestrate nel 1277 ebbe l’anno successivo un
aumento abbastanza rilevante, pari a circa il 15% del totale prece-
dentemente acquisito 51.
Per gli anni successivi al rientro e alla nuova cacciata del 1279
non possediamo simili registri di aggiornamento. La pratica del censi-
mento continuo dei beni dei banditi fu tuttavia istituzionalizzata e in-
serita tra i compiti ordinari del capitano del popolo. Tra gli impegni
che questi doveva assumere all’atto del suo insediamento si specificò
quello di recuperare e mantenere in comune i possedimenti dei lam-
bertazzi, vale a dire tutto ciò che essi possedevano al momento della

48I registri di « aggiornamento » conservati per il quartiere di porta Piera sono


due, le loro carte sono rilegate in maniera disordinata in ASBo, Beni, VII, cc. 101-
134 e b.VIII, fasc. 8, cc. 3-8. Fortunatamente una cartulazione delle carte e dei
quaderni consente di ricostruirne l’ordine. Il loro carattere di aggiornamento si desu-
me dal fatto che, analogamente a quello di porta Ravennate citato alla nota successi-
va, vennero rilegati in appendice all’elenco del 1277 e che a differenza dei registri
successivi ne imitano la forma. Le date di compilazione sono ricavabili da numerose
note marginali apposte alle singole « poste ».
49 ASBo, Beni, VI, cc. 71-86. Il registro non è datato ma riporta note marginali

relative ad alcuni affitti triennali scritte dalla mano dello stesso notaio che scrisse le
poste. Nei registri di locazioni del 1281 si fa riferimento agli stessi affittuari citati in
queste poste, specificando che il loro termine di affitto è scaduto. L’intestazione, in
parte corrrotta ma ricostruibile dalla formula degli inventari relativi agli altri quartieri
è: « Hoc est ilber possessionum inventarum [per denunciationes datas ministralibus
cappellarum de dicto quarterio porte Ravennatis] »: (ASBo, Beni, VI, cc. 71r).
50 Per un esempio, v. ASBo, Beni, VI, c. 72.
51 I dati sono ricavati dal computo del registro in ASBo, Beni, VI, cc. 71r-86v.

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BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 339

loro nuova « ribellione » avvenuta nell’agosto 1280 52. I registri giudizia-


ri mostrano che si proseguì a raccogliere le denunce dei ministrali di
cappella relative a beni non ancora registrati 53. Come abbiamo già
accennato, furono inoltre promosse inquisizioni generali in cui si chie-
deva ai massari delle comunità del contado di denunciare beni dei
banditi non censiti, e si procedette infine a inquisizioni particolari sui
beni di singoli banditi. L’impressione ricavabile dai registri del capita-
no del popolo è che, in seguito alla seconda cacciata, nella maggior
parte dei casi tali operazioni non riuscirono ad ampliare significativa-
mente il patrimonio sequestrato: pochissime furono le risposte positive
dei responsabili locali della città e del contado 54.
Le stesse fonti testimoniano inoltre che alcuni privati provarono a
denunciare beni non censiti nella speranza di riceverne la quarta par-
te, come promesso dalla normativa 55. Si trattava di una misura tipica,
riscontrabile anche in altre città, volta a incentivare il censimento e la
messa in comune dei beni al di là delle resistenze di affittuari, confi-
nanti e parenti non banditi dei lambertazzi 56. Da quel che è possibile
ricavare dai registri i cittadini a conoscenza di beni non censiti pote-
vano renderlo noto in maniera palese o anonima, deponendo un bi-
gliettino nell’apposita cassetta posta sulla facciata del palazzo comuna-
le. Nella denuncia era indicato il terreno o la casa in questione, il

52 Montorsi, Plebiscita Bononiae, p. 263: « Item iuro bona eorum qui sunt baniti

pro parte lambertatiorum recuperare et in comuni manutenere redditus ipsorum bo-


norum et fructus a quolibet possessore sine titulo perceptos, que bona tenebant dicti
baniti et possidebant tempore regiminis domini comitis Bertoldi quando lambertatii
fuerunt Ecclesie Romane et ipsi domino comiti inobedientes sub millesimo ducentesi-
mo octuagesimo indictione octava de mense augusti, quando dominus papa obiit, et
ipsa bona et redditus ipsorum bonorum cum fructibus predictis, salvo quod [non]
preiudicet his qui medio tempore habuerunt in solutum de bonis dictorum lamberta-
tiorum pro vero et iusto credito ».
53 Per un esempio, v. ASBo, Locazioni, regg 3; 4; 5 (1281).
54 Per i dati sulla scaristà di risposte positive alle inquisizioni generali cfr. par. 5.
55 Una norma confluita negli statuti del 1288 (Statuti di Bologna del 1288, vol I,

p. 492) stabilisce che chiunque denunci beni dei lambertazzi non censiti dal comune
ne otterrà la quarta parte entro 8 giorni dal capitano del popolo. Sebbene sia datata
al dicembre del 1286 dalle denunce conservate nei registri del capitano del popolo si
ricava che era già in vigore all’inizio degli anni Ottanta.
56 A Milano la ricompensa promessa dal comune era un terzo del valore del

bene denunciato. Al fine di denunciare beni di malexardi non censiti e spartirsi la


ricompensa vennero costituite apposite societates di denunciatori. Biscaro, Gli estimi
del comune di Milano, pp. 466-469.

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340 GIULIANO MILANI

nome del bandito proprietario e quello di chi illegittimamente lo dete-


neva. Molto spesso assieme a queste notizie veniva fornito anche il
nome di alcuni testimoni « qui sciunt veritatem ». Il giudice procedeva
quindi alla citazione del detentore illegittimo, sovente anche del mas-
saro della terra nelle cui pertinenze l’appezzamento si trovava, e degli
eventuali testimoni. In base agli interrogatori e alla consultazione degli
elenchi di beni, stabiliva quindi l’esito della denuncia, attribuendo, nel
caso, la ricompensa al denunciatore. Talvolta il giudice forestiero dele-
gava un sapiens cittadino, affinché prestasse un consilium al riguardo.
Neppure questa pratica ebbe però il successo sperato 57. I sette pro-
cessi che si conservano completi finirono in tre casi con l’accoglimen-
to della denuncia e il premio per l’accusatore, mentre in quattro casi
il giudice ritenne di non dover procedere 58.
Una notifica trovata nella capsa comunis il 3 aprile del 1287 mo-
stra bene quanto in questo genere di procedimenti – come avveniva
nel tribunale del vicario – il ricorso al consilium sapientis tendesse in
genere a indebolire l’azione di controllo dei lambertazzi, in questo
caso dei loro beni. L’anonimo ma scrupoloso delatore dichiarava che
il bandito Henrigettus Caldararius aveva a Zola Predosa un appezza-
mento di terra aratoria e vineata, che non era stata inclusa tra i suoi

57 Nei trentasei registri da noi interamente schedati per il periodo 1281-1288 si

trova un totale, invero piuttosto scarso, di 69 denunce, tra anonime e palesi, presen-
tate alla curia del capitano del popolo. Nella quasi totalità dei casi (62) non è ripor-
tato l’esito finale. Non sappiamo se tale lacuna sia dovuta all’interruzione del proces-
so, oppure, come è più probabile, all’assenza di registrazione regolare delle fasi im-
mediatamente successive alla presentazione della notifica al giudice. Anche se così
fosse, i dati che possediamo costituiscono di per sé un indizio dell’impatto relativa-
mente debole che ebbe l’incentivazione del censimento dei beni.
58 Nel 1281 una notifica anonima segnalò all’ufficio ai beni dei banditi che

Uberto Curioni deteneva illegittimamente la casa di Ghigus, situata nella cappella


di San Vitale. Il giudice ai beni citò quindi Uberto, il quale riuscì a dimostrare che
Ghigus non era un bandito lambertazzo, ma un debitore insolvente che egli aveva
per questa ragione fatto bandire (ASBo, Giudici, reg. 7, c. 11v). Lo stesso anno
risultò che un’altro supposto lambertazzo era in realtà un bandito pro maleficio
(ASBo, Giudici, reg. 7, c. 12r). Nel 1283 la denuncia di un terreno arativo di 12
tornature venne cassata perché dalla consultazione dei registri risultò che il suppo-
sto bandito era rientrato e obbediva al comune (ASBo, Giudici, reg. 33, c. 10r;
28v). Nel 1287 nel trattare una delicata questione scaturita dalla denuncia contro
Iohannes de Crevalcore per possesso indebito di case dei Rustigani, il giudice chiese
un consilium a tre importanti giuristi, i quali stabilirono di assolvere il denunciato
(ASBo, Giudici, reg. 100, c. 4. Si trattava di Alberto di Odofredo, Iacopino dei
Foscarari e Nicolò Zovenzoni).

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BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 341

beni annotati dal comune. Dopo aver fornito un elenco di testimoni,


nonché l’indicazione della cappella di residenza del bandito al fine di
facilitarne il reperimento negli elenchi, egli scriveva: « Et si aliqua questio
coram vobis de dictis petiis terre mota fuit per colusionem [= “se
qualche confinante ha rivendicato diritti su questo appezzamento”] et
si aliqui sapientes accepti sunt ad consulendum questionem motam,
partes sunt in discordia et nolunt procedere, quod rem placeat vobis
per vos terminare et non [per] sapientes civitatis Bononie, eo quia
bene non deffendunt ius comunis Bononie si habet » 59. È evidente
che il denunciatore conosceva la vicenda processuale legata a questo
appezzamento di dubbia attribuzione, che, come si ricava dalla sua
notifica, era già stato denunciato, conteso e aggiudicato in base al-
l’esito di un consilium, salvo poi divenire l’oggetto di un’altra lite, al
momento pendente. Indirettamente, con la sua segnalazione, egli mo-
strava di essere molto vicino al primo denunciatore (con ogni proba-
bilità lui stesso) e, minacciando una nuova denuncia, non più anoni-
ma, si mostrava disposto a trattare con la controparte. Concludeva
infatti la sua « notificazione » con la frase: « Et dicit quod denunciator
debet habere a quodam qui vult defendere dicta bona libras xxv bo-
noninorum ut desistat » 60.
Attorno ai possessi non censiti dal comune si era dunque scatena-
ta una corsa all’accaparramento, che aveva a sua volta generato una
reazione comunale: l’istituzione di premi in natura per chi ne avesse
favorito il recupero. In base a questo provvedimento non solo si era
aperta l’opportunità di acquisire direttamente nuovi appezzamenti, ma
anche la possibilità di un guadagno indiretto, ottenuto ricattando chi
aveva ottenuto beni sequestrati sotto la minaccia di una denuncia 61.
Ad amministrare questa complessa situazione erano poi magistrati fo-
restieri in carica per sei mesi, i giudici ai beni dei banditi, i quali, il
più delle volte, nel verificare la consistenza di una denuncia di beni
non censiti, si trovarono a fare i conti con i diritti vantati dai denun-
ciati. In tal modo diveniva usuale il ricorso al consilium di un sapien-
te bolognese, dotato del potere di determinare l’esito del procedimen-
to, conosciuto dalle parti e, dunque, potenzialmente orientabile. Da
qui la possibilità di ritornare su decisioni già prese, insinuando il so-
spetto (non sempre infondato) di corruzione, che in altri casi non
risparmiò neppure i magistrati forestieri. Nel 1283 una denuncia ano-

59 ASBo, Giudici, reg. 98, c. 3r.


60 ASBo, Giudici, reg. 98, c. 3v.

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342 GIULIANO MILANI

nima fece scaturire un’inquisizione contro Guidottinus Falecase e Sem-


pre Saglimbeni Riccardi, accusati di aver illegittimamente acquisito un
« podere » del giurista bandito Tommaso di Piperata degli Sorlitti du-
rante la precedente capitaneria del cremonese Giovanni da Pescarolo.
Costoro, interrogati, confessarono di aver fatto falsificare il registro in
cui i terreni erano registrati, facendo dimezzare la stima del « podere »
confiscato da 100 a 50 lire, e ottenendone così l’affitto a un prezzo di
favore. A tale scopo essi avevano corrotto per la cifra di 16 lire un
notaio del capitano, avvicinato grazie all’aiuto di un certo Cante da
Cremona, che evidentemente per la sua provenienza vantava entrature
nella famiglia capitaneale. Dimostrata così la colpevolezza, i due furo-
no arrestati, e poterono riacquisire la libertà in seguito al pagamento
di una multa di 200 lire e alla prestazione di ulteriori fideiussioni 62.
Lungi dal segnalare un effettivo incremento del patrimonio seque-
strato, l’analisi delle denunce sollecitate dal comune rivela quindi le
difficoltà di applicare quella recuperatio a cui era tenuto il capitano
del popolo. A testimoniare l’importanza che si attribuiva a tale aspet-
to, vi sono i provvedimenti con cui nel 1284 venne conferito uno
speciale privilegium a quanti avevano promulgato ordinamenti contro i
detentori illegittimi dei beni dei banditi 63. Nel 1288 l’obbligo alla messa
in comune dei beni venne ribadito nel nuovo Statuto del Popolo, in
cui il capitano era obbligato, fra l’altro, a « procurare quod ipsi [i
banditi lambertazzi] non habeant aliquam utilitatem de bonis eorum
nec de alienis, et ipsorum bona pro posse in comuni facere deveni-
ri » 64. Ma l’anno successivo, probabilmente a causa di nuove difficoltà
sorte nell’espletamento di questo compito, il capitano fu assolto pro-

61Nel 1283 una denuncia anonima accusò il massaro di Casole sopra Sirano di
Panico. Questi, secondo la notificazione si era appropriato di alcuni possessi seque-
strati. « Vobis domino Manfredino iudice domini capitanei facio manifestum quod
masarius terre casole supra Syranum de Panico accepit possessiones domini Castellani
de Andalo et retinuit per duos annos, quidam non solvit affictum comuni Bononie,
et habuit de dictis affictibus sexagintas quinque libras bononinorum quas fecit de
frumento et de vino dictarum possessionum. Et dictas sexaginta quinque libras reti-
nuit asconsas comuni Bononie ». L’anonimo suggeriva quindi al capitano di procedere
circostanziando ulteriormente le sue accuse: « Unde mittatis pro eo et faciatis quid
habetis facere. Et sciatis quod tempore preteriti capitanei non fuit dictum aliquid sibi
quia denarium expendit » (ASBo, Giudici, reg. 38, c. 9v).
62 ASBo, Giudici, reg. 38, cc. 15v-20r.
63 Statuti di Bologna del 1288, I, pp. 399-413.
64 Montorsi, Plebiscita Bononiae, p. 265.

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BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 343

prio da questo capitolo del suo sacramentum 65. Si trattava di problemi


rilevanti, ma il mancato guadagno che avrebbe potuto offrire il recu-
pero dei beni non censiti era ben poca cosa rispetto al danno oggetti-
vo inferto dall’emorragia di case e terre già incluse nel patrimonio
sequestrato: un’erosione lenta ma crescente che si svolse per tutto l’ul-
timo quarto del Duecento.
Nel corso degli anni 90, l’accresciuto numero dei rientrati rese
sempre più complesso distinguere tra i diritti che sui beni sequestrati
vantavano i banditi (quindi il comune), e quelli che sugli stessi posse-
dimenti potevano invocare i loro parenti non banditi. Nel 1298, al
termine della guerra con Ferrara, che aveva prostrato le finanze comu-
nali, nonché alla vigilia del grande rientro del 1299, una commissione
stabilì di promuovere un’indagine per chiarire meglio questi aspetti 66.
L’ingiustizia e l’abominio che i legislatori citavano in apertura degli
ordinamenta erano in quel momento resi particolarmente insopportabi-
li dalla guerra esterna, ma costituivano la conseguenza di un problema
già noto da tempo. L’analisi delle note marginali apposte agli inventari
del 1277 mostra come il comune avesse cominciato a cedere, sin dal-
l’indomani della registrazione del proprio nuovo patrimonio, quote dei
beni sequestrati a banditi rientrati, loro parenti non banditi, o cittadi-
ni in grado di dimostrare i propri diritti 67. Il ritmo delle derubricazio-

65 ASBo, Riformagioni, vol. I/4, c. 231v: « In reformatione cuius consilii et masse


populi placuit maiori parti [...] quod dominus capitaneus et eius familia, anciani et
consulles et omnes quos tangere posset sint auctoritate presenti consilii absoluti a
capitulo statutorum quod est in sacramento domini capitanei quod incipit: ‘Item iuro
bona eorum qui sunt banniti pro parte lambertaciorum recuperare et in comuni Bo-
nonie manutenere et cetera [...] ».
66 « Item cum dicatur quod pater banniti vel bannitorum partis lambertatiorum

et frater consanguineus aut alie coniuncte persone, que sint vel fuerint de parte lam-
bertatiorum et habent vel habebunt bona comunia cum dictis bannitis et sunt ad
mandata comunis Bononie et habent, tenent et possident omnia et singula suprascrip-
ta bona, vel partem ipsorum, spectantia ad bannitos supradictos, que tenebatur et
possidebantur per eos vel alios eorum nomine a dicto tempore citra, et fructus et
reditus dictarum possessionum dant dictis bannitis cum quibus guerram faciunt co-
muni Bononie, quod est iniquum et abuminabile Deo et mundo providerunt sapien-
tes predicti quod predicti officiales et iudex possint, teneantur et debeant inquirere
de predictis et quolibet predictorum, et facere fieri divisionem dictorum bonorum
[...] » (Montorsi, Plebiscita Bononiae, p. 292).
67 Su 34 poste dell’elenco relativo al quartiere di porta Ravennate e su due del

suo aggiornamento del 1278 risulta vergata l’annotazione « ante tempore secundorum
rumorum » Con essa, come è possibile dimostrare in base ad alcune note marginali

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344 GIULIANO MILANI

ni si fece però particolarmente intenso successivamente al rientro del


1279, in occasione del quale i beni erano stati formalmente restituiti 68.
Con il nuovo bando ratificato nell’agosto del 1280 i beni dei lamber-
tazzi furono nuovamente posti sotto sequestro. Come si è visto tutta-
via trattando delle condizioni penali, molti dei lambertazzi che nel
1277 erano stati scritti tra i banditi non lo furono più dopo il 1280.
A quell’altezza cronologica essi risultavano confinati, addirittura non
più lambertazzi, in quanto avevano giurato la parte, in ogni caso non
più passibili di espropriazione. Fu in tal modo che il patrimonio se-
questrato censito nel 1277 cominciò a diminuire sensibilmente.
Lo strumento principale che portò a questa riduzione fu la richie-
sta di derubricazione. Chi riteneva di poter godere di beni scritti nei
libri delle confische presentava al giudice del capitano, nella grande
maggioranza dei casi per mezzo di un suo rappresentante legale (pro-
curator, actor, coniuncta persona), una petizione scritta in cui erano
specificati i nomi e la cappella di residenza del procuratore e degli
assistiti, una descrizione circostanziata del terreno o della casa (misu-
ra, località, talvolta anche confini), nonché la ragione per la quale
riteneva che il possedimento in questione dovesse « tolli et revocari de
libris possessionum bannitorum et rebellium pro parte Lambertatio-
rum », annullando in tal modo i diritti del comune sul possesso, ed
eventualmente anche dai registri di locazioni, cassando così il contrat-
to di affitto che il comune aveva stretto con un privato. Il giudice
chiedeva a questo punto una fideiussione in denaro, con cui il petito-
re si impegnava a dimostrare le proprie ragioni, e procedeva alla cita-
zione di persone a conoscenza dei fatti, menzionate o meno nella pe-
tizione (il massaro della località del contado in cui il bene si trovava,
l’affittuario stesso, talvolta alcuni confinanti). A costoro esponeva le
circostanze chiedendo se avessero qualcosa da dire al riguardo. In caso
di risposta affermativa (in verità molto raro) iniziava una vera e pro-
pria causa civile in cui le due parti (il petitore e il suo eventuale
oppositore) dovevano dimostrare i loro diritti per mezzo di testimo-

più circostanziate della stessa mano, si stabiliva di non considerare più la singola
posta come bene pertinente al comune perché già derubricata prima della seconda
cacciata. ASBo, Beni, vol. VI, cc. 2v, 5r; 6r-v; 7v; 11r; 19r e passim.
68 Un petitore nel 1282 chiese che alcuni beni gli fossero restituiti poiché li aveva

acquisiti da un bandito rientrato « postquam pars Lambertaciorum recessit, intravit in


civitate Bononie secundum sentenciam d. Nicholay pape postquam bona Lambertcio-
rum restituta fuerunt eis secundum ordinamenta facta per dominum fratrem Latinum
cardinalem legatum dicti domini Pape » (ASBo, Giudici, reg. 18, c. 123r).

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BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 345

nianze e documentazione. In caso di risposta negativa, era il solo pe-


titore a dover sostenere le proprie ragioni compilando un’intentio in
cui i singoli argomenti della petizione erano elencati e venivano a co-
stituire le domande sulle quali i testimoni, forniti dall’attore, erano
interrogati. Al termine dell’interrogatorio, ed eventualmente dell’acqui-
sizione di documentazione relativa, il giudice incaricava sempre un sa-
piens cittadino di emettere un parere (consilium), che provvedeva poi
a trasformare in sentenza.
A partire dal 1281, data in cui inizia la serie dei registri del
giudice ai beni dei banditi, sporsero petizioni secondo questa proce-
dura moltissime persone. Lo mostrano i registri del capitano, che
tuttavia presentano alcune peculiarità da considerare se interpretati
correttamente. In primo luogo sono conservati in maniera irregolare
per i diversi semestri, cosicché il numero di petizioni da essi ricava-
bile non può essere identificato con il numero di petizioni effettiva-
mente sporte. In secondo luogo, poiché normalmente le diverse fasi
dei processi di derubricazione venivano registrate separatamente in
registri distinti per tipologia di atti (libri petitionum, libri testium,
libri consiliorum et sententiarum), ci è possibile conoscere l’esito fi-
nale soltanto quando possediamo il registro delle sentenze, oppure
quando il notaio decise di scrivere il consilium e la sentenza relativi
in calce alle petizioni presentate. Per questa ragione nella tabella 3
abbiamo segnalato come petizioni accolte o non accolte soltanto quelle
che è possibile definire certamente come tali in quanto è conservata
la fase finale del processo 69.
Dallo spoglio delle petizioni presentate si ricavano alcuni dati im-
portanti. Innanzitutto, le richieste di derubricazione – come anche i
processi condotti nella curia del vicario – tendono a concentrarsi negli
anni immediatamente successivi alle risistemazioni documentarie relati-
ve ai banditi. Si fanno infatti più numerose dopo il secondo bando
del 1280, e in particolare dopo la riscrittura degli elenchi di banditi e
confinati del 1281; vanno quindi diminuendo negli anni successivi per
impennarsi di nuovo in seguito alla scrittura degli elenchi di lamber-
tazzi del 1286-87. Il dato è facilmente spiegabile dal momento che
tendevano a presentare petizioni quanti vedevano riconosciuta grazie
alle nuove liste la propria condizione di non banditi. In secondo luo-

69 I dati sono ricavati da ASBo, Giudici. regg. 13; 14; 18; 20; 38; 40; 43; 54; 65;

76; 86; 98; 100. Il numero romano indica il semestre di carica del capitano: 1281, I
indica ad esempio il primo semestre (febbraio-luglio) del 1281.

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346 GIULIANO MILANI

Tabella 3 – Esito delle petizioni presentate per derubricare i beni sequestrati


dai lambertazzi.

Reg. Petizioni Petizioni di Petizioni di Petizioni Petizioni non


(semestre) totali lambertazzi altri cittadini accolte accolte

1281, I 26 22 4 11
1281, II 77 41 36 ? 2
1282, I 24 20 4 24
1283, I 51 20 31 42
1284, II 1 1 0 ?
1286, I 3 1 2 ?
1287, I 20 6 14 19
Totale 202 111 91 96 2

go il numero delle petizioni è nettamente maggiore (con un rapporto


di uno a tre) di quello delle denunce di beni non censiti presentate
nello stesso periodo (il dato non è riportato nella tabella). Ciò signifi-
ca che, anche nel caso paradossale di un tribunale capitaneale comple-
tamente passivo che avesse accettato indiscriminatamente ogni azione
promossa dai cittadini, il rapporto tra beni in entrata (ricavati dalle
denunce) e beni in uscita (riconsegnati in base alle petizioni) sarebbe
comunque nettamente sbilanciato in favore di questi ultimi. Trattando
delle denunce, abbiamo visto che per varie ragioni i giudici del capi-
tano non promossero (o non riuscirono a promuovere) una politica di
recuperatio efficace, che includesse nel patrimonio tutti i beni denun-
ciati. I dati relativi alle petizioni confermano quest’impressione, segna-
landosi come un importante complemento. I registri che possediamo
mostrano la nettissima prevalenza di petizioni accolte rispetto a quelle
rifiutate, e dunque la tendenza a non arrestare il flusso di uscita dei
beni sequestrati. La generale rappresentatività dei registri conservati
non consente di ipotizzare che questo dato sia dovuto a una selezione
documentaria. Occorre dunque osservare più da vicino alcuni casi spe-
cifici per comprendere quali furono le ragioni e i meccanismi giuridici
che favorirono l’erosione del patrimonio sequestrato.
Nella tabella abbiamo voluto distinguere le petizioni sporte da
individui che esplicitamente si presentavano come lambertazzi rien-

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BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 347

trati o loro parenti, da quelle presentate da altri personaggi. La mag-


gioranza delle richieste presentate dalla prima categoria di cittadini è
concentrata all’inizio del periodo attestato, mentre va riducendosi con
il passare degli anni. Si tratta con ogni probabilità di un effetto
« naturale »: mano a mano che i lambertazzi rientrati raggiungevano
l’obiettivo del recupero dei propri beni lasciarono il posto a quanti
intendevano dimostrare i propri diritti per ragioni differenti. Tratte-
remo quindi separatamente le motivazioni addotte dalle due catego-
rie dei petitori.
Nel 1281 presentarono domanda di restituzione 63 lambertazzi. Si
trattò per la maggior parte di vedove e orfani di banditi morti nel
periodo 1277-1281. Osserviamo da vicino alcuni esempi. Maddalena
vedova di Gandolfo di Michele Gandolfi, un personaggio che nel 1277
era stato condannato al confino di primo grado e in seguito era stato
bandito per rottura del confino, si presentò come tutrice del figlio
Michele, assistita dal procuratore Lambertus Iohannini. Essa chiese di
cancellare dai libri una vigna censita come bene del marito, in quanto
questi era morto. Dimostrò a questo scopo che Michele, suo unico
erede, aveva prestato la garanzia pecuniaria « de parendo mandatis co-
munis », era scritto nell’estimo e pagava le collette. Il giudice procedet-
te, quindi, senza citare nessuno, ad ascoltare i testimoni recati da Mad-
dalena. Questi confermarono semplicemente come Gandolfo fosse morto
durante gli scontri tra lambertazzi e geremei che avevano avuto luogo
poco prima del Natale 1279. A quel punto venne richiesto il parere di
Accarisius Viviani Osepi, dottore in legge, che stabilì che Michele non
doveva essere più molestato per il possesso della vigna in questione, in
quanto tale appezzamento gli spettava per diritto di successione e il
fatto di essere « ad mandata comunis » impediva il sequestro. Ricalcan-
do il consilium, il giudice emanò la sentenza con cui concesse la vigna
ai petitori 70. È interessante soffermarsi un momento sulla figura del
consulente: il doctor legum interpellato risulta essere nipote di Giusep-
pe Toschi, il console dei mercanti indicato da molti cronisti come lea-
der della rivolta popolare del 1228, padre di Viviano, anch’esso giuri-
sta, e di Tommasino giudice 71. Nel Liber del 1277 Accarisio Toschi si
trova censito tra i lambertazzi condannati al confino in città, assieme
ai suoi due fratelli Silvestro e Tommasino 72. Ma, come loro, risulta

70 ASBo, Giudici, reg. 13, c. 1r.


71 Sulla famiglia Toschi v. Wandruszka, Die Revolte des Popolo, pp. 56-61.
72 ASBo, Elenchi, vol. III, reg. 2, c. 77v.

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348 GIULIANO MILANI

aver giurato la parte nel 128073. Il giudice capitaneale dunque da un


lato non esitò a interpellare come sapiente un ex-lambertazzo, dall’al-
tro accettò pacificamente che l’erede di un bandito potesse godere dei
suoi beni e non assimilò il suo status giuridico a quello del padre
defunto. Se infine, come è probabile, si vuole identificare il procurato-
re Lambertus Iohannini con Lamberto di Giovannino Tettalasina, cam-
biatore lambertazzo già confinato di primo grado nel 1277, la restitu-
zione assume l’aspetto di una procedura completamente gestita da ex-
lambertazzi con il beneplacito del giudice capitaneale.
Non sempre è possibile riscontrare una simile omogeneità politi-
ca nell’insieme di procuratori, attori e sapientes consultati. Resta, tut-
tavia, l’impressione di una forte componente amministrativa nelle
operazioni di restituzione dei beni, in grado di attenuare le ragioni
legate alla difesa della parte geremea che avrebbero potuto indurre a
sottolineare l’inferiorità giuridica di quanti erano stati censiti in pas-
sato come lambertazzi 74.
Sarebbe tuttavia una semplificazione spiegare la generalità dei con-
silia favorevoli esclusivamente con una informale e nascosta solidarietà
di parte tra ex-lambertazzi rientrati. Vi fu senza dubbio anche questo
elemento, ma all’interno di un contesto più largo, che coinvolgeva anche
e geremei di provata fede. Scorrendo i nomi dei sapientes autori di
consilia si trovano in posizione rilevante due lambertazzi, come il già
citato Accarisio Toschi (con 8 consilia), e Tommaso dei Maloxelli (3
consilia), che addirittura nel Liber del 1277 risulta bandito. Ma, accan-
to a loro, vi sono giuristi e in generale pratici del diritto che costitu-
irono colonne portanti del regime popolare e geremeo bolognese: i
doctores legum Giuliano di Cambio Graidani (7 consilia), Iacopo da
Ignano (6); Brandelisio Gozzadini (5), quest’ultimo appartenente al-
l’importantissima famiglia di cambiatori, che aveva gestito direttamente
il primo censimento dei beni nel 1275; il prestigioso notaio Giovanni

73ASBo, Elenchi, vol. IV, p. 58.


74Lo stesso Accarisio Toschi venne consultato in altre occasioni ed espresse re-
golarmente parere favorevole. In una petizione sporta da Amadore Pelati (già confi-
nato di secondo grado) in cui chiedeva la restituzione dei beni ai suoi nipoti, Tom-
masino e Filippo, orfani di Giovanni, i testi affermarono che Giovanni era morto tre
anni prima (in piena guerra, dunque), a Faenza, e che del fatto erano a conoscenza
lambertazzi notori come Guizzardino dei Lambertazzi e Uguccione di Rolando Tetta-
lasini. Essi sostennero, inoltre, che a quel tempo i nipoti erano a Bologna pagando
regolarmente le imposte e tutto ciò non inficiò affatto la restituzione (ASBo, Giudici,
reg. 13, c. 2v).

Capitolo 8.pmd 348 09/11/2009, 16.27


BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 349

Gatti (5), il dottore Lambertino Ramponi (4); Pace de Pacibus (3),


autore nel 1286 di una riforma normativa contro l’appropriazione in-
debita di beni dei Lambertazzi; Basacomater de Bascomatribus, impe-
gnatissimo giurista sempre presente nelle commissioni bolognesi (3); il
giurista Alberto di Odofredo (2); i notai Alberto di Lorenzo Bonacatti
(2) e Francesco Gatti (2), solo per citare i nomi più presenti e più
noti. La frequenza di simili figure segnala come le restituzioni di beni
ai lambertazzi furono consapevolmente favorite dall’élite del ceto fun-
zionariale del regime, con ogni probabilità anche per assicurarsi il con-
senso dei lambertazzi rientrati. La restituzione veniva a costituire il
necessario complemento alla politica di progressivo recupero di quella
larga porzione di cittadinanza politicamente attiva che era stata colpita
dalla schedatura promossa negli stessi anni, e dalle stesse persone at-
traverso la promozione dei rientri, dei giuramenti della parte geremea,
delle assoluzioni nei processi per appartenenza alla fazione sconfitta 75.
Accanto a questo generale movimento delle istituzioni verso i lam-
bertazzi disposti a rientrare, favorito e guidato dalla porzione più con-
sapevole del ceto politico, nello specifico ambito dei beni pesarono
anche fattori giuridici, in particolare l’intangibilità dei diritti legati alla
restituzione della dote. Moltissime petizioni vennero avanzate da vedo-
ve, mogli o suoceri di banditi che affermavano di vantare diritti su
beni sequestrati, in quanto parte del patrimonio portato in dote all’at-
to del matrimonio. Da queste petizioni è possibile ricavare che, alme-
no a partire dal 1277, il comune concesse esplicitamente alle mogli
dei banditi risarcimenti in natura per i beni dotali, a patto che le
mogli versassero un depositum in denaro che sarebbe stato trattenuto
se il terreno in questione fosse stato legittimamente contestato da al-
tri. Alcuni anni dopo, molte mogli chiesero e ottennero la restituzione
di questo deposito 76. La notevole presenza femminile nel gruppo dei
petitori lascia immaginare che, per molti figli di banditi, la strada per
il rientro fu aperta proprio dalle madri e dalle loro famiglie, che,
rimaste in città, provvidero a prestare le garanzie necessarie di rima-
nere ad mandata comunis e crearono in questo modo precedenti im-
portanti affinché i loro figli uscissero dalla condizione di lambertazzi.
Meno rilevanti dal punto di vista politico, ma egualmente interes-
santi, sono le motivazioni che è dato rinvenire nelle petizioni sporte

75 V. capitoli VII e VIII.


76 ASBo, Giudici, regg. 18, cc. 54r; 57r; 57v. Ma v. anche reg. 43, c. 31v. L’enti-
tà del deposito sembra corrispondere a una stima del terreno.

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350 GIULIANO MILANI

dai non lambertazzi. Molto spesso i petitori geremei riuscirono ad ac-


quisire terre provando che il comune aveva commesso un errore, e
cioè che terre censite come appartenenti ai banditi erano in realtà di
loro proprietà; per far questo, in alcuni casi, dimostrarono di aver
acquistato gli appezzamenti o le case prima della cacciata dei lamber-
tazzi, quando questi ultimi avevano ancora il pieno diritto sui propri
beni e dunque anche la facoltà di alienarli. Il 25 ottobre del 1281,
per esempio, Lazzaro di Deutifé di Villola chiese la restituzione di un
certo terreno affermando che suo padre l’aveva comperato quindici
anni prima da Michele di Bartolomeo dei Principi e ciononostante era
stato censito e dunque affittato come proprietà del bandito Michele77.
In un caso molto simile dibattuto due anni dopo, Federico di Enri-
chetto dei Tebaldi affermò di possedere un appezzamento di arativo
che aveva acquistato tre anni prima dal bandito Aldrevandino de Ma-
latachis (probabilmente in un momento in cui questi era rientrato in
città), al fine di ampliare il proprio possedimento che confinava con
quello di Aldrevandino. Il terreno venduto tuttavia risultava ancora
censito tra i beni di questo bandito ed era stato dato in affitto. Il
giudice precettò Enrichetto a provare le sue affermazioni, e questi recò
alcuni testimoni. Venne richiesto quindi il consilium sapientis che, come
d’abitudine, fu favorevole alla derubricazione 78. Non sappiamo quanto
simili petizioni fossero pretestuose o si basassero su prove effettive.
Ciò che è certo è che non sempre fu chiesto ai petitori di provare le
loro affermazioni per mezzo di documenti. Quasi sempre bastò la « pub-
blica fama » attestata dalla testimonianza di tre o quattro persone, e il
consilium sapientis.
Questi due elementi, che svolgevano una parte così rilevante nel-
l’intero sistema giudiziario bolognese, mostrano come anche nella ge-
stione dei beni sequestrati pesarono in maniera evidente i meccanismi
che caratterizzavano l’amministrazione della giustizia (in questo caso
civile) cittadina, anche precedentemente al bando del 1274. Per acqui-
sire un terreno confinante diveniva importante soprattutto disporre di
una rete di conoscenze che poteva garantire procuratori, testimoni,
sapientes. La presenza di un notevole patrimonio comunale, come del
resto l’esistenza di un gran numero di persone bandite, non scatenò
quindi una chiusura delle pratiche giudiziarie preesistenti. Al contra-
rio, proprio l’esistenza di queste modalità di amministrazione della giu-

77 ASBo, Giudici, reg. 18, c. 115r.


78 ASBo, Giudici, reg. 38, c. 64r-v.

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BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 351

stizia modificò in maniera sostanziale l’entità del patrimonio sequestra-


to. Per certi versi è possibile affermare che la vera e propria redistri-
buzione di beni che ebbe luogo attraverso il sistema delle petizioni
non costituì in assoluto uno scacco per il comune, anzi per certi versi
fu una forma peculiare, più informale, di sfruttamento delle risorse
acquisite, condotta sul piano politico parallelamente a quella palese
degli affitti. Si trattava di due differenti modalità, solo apparentemen-
te incompatibili, con cui il regime mirava a garantirsi un consenso:
da un lato, affermando la capacità di controllare l’insieme dei beni
sequestrati redigendo liste e incrementando il censimento attraverso
l’incentivazione delle denunce, dall’altro, lasciando aperto un rilevante
canale di comunicazione con quei lambertazzi che, ufficialmente o
meno, avessero dimostrato la propria volontà di essere reintegrati nel
sistema di relazioni cittadine, e con gli altri cives più abili nel muo-
versi in questo sistema.
Il risultato finale di questo complessivo processo fu comunque una
sensibile riduzione del patrimonio sequestrato nel 1277. La mancanza
di indicazioni quantitative nei registri processuali e la loro conserva-
zione lacunosa non ci consentono di esprimere in termini precisi que-
sta erosione del tesoro comunale. Ci viene però in aiuto ancora una
volta il registro di beni relativo al quartiere di porta Ravennate. Quando
nel 1285 venne decretato di formare nuovi libri di beni, un notaio
provvide ad apporre su quelli vecchi, già riempiti di note marginali
relative ad affitti, concessioni, derubricazioni, una nuova indicazione.
Egli scrisse accanto a tutte le poste che nel corso degli anni preceden-
ti erano state per varie ragioni derubricate e redistribuite: « non ex[
empletur] », al fine di segnalare che tali poste non andavano copiate
nei nuovi registri. Sappiamo così che verso la metà degli anni Ottanta,
nel quartiere di porta Ravennate 490 poste, pari al 38% del totale
censito in precedenza, non erano più di pertinenza del comune. Tra
questi beni restituiti o redistribuiti vi erano 155 abitazioni (36% ri-
spetto al censito nel 1277), di cui la metà in città, e 321 appezzamen-
ti, per un totale di 3569 tornature pari a 742 ettari (28% rispetto al
censito nel 1277). All’incirca un terzo del patrimonio sequestrato dal
comune era dunque ormai fuori dal suo controllo. Negli anni succes-
sivi, numerosi indizi testimoniano che il processo, lungi dall’arrestarsi,
si intensificò. Non possediamo fonti che ci permettano un’analisi al-
trettanto precisa, ma un’idea parziale la dà il confronto tra due inven-
tari di beni relativi al quartiere di Porta Stiera. Nel 1277 erano state
censite nel quartiere di porta Stiera poco più di 253 poste. Nello

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352 GIULIANO MILANI

stesso quartiere, un registro del 1298, redatto per ordine di quella


stessa commissione che lamentava l’abominio delle restituzioni, censiva
solamente 53 poste, testimoniando un’erosione dell’80% a distanza di
vent’anni. Il flusso di rientri iniziato nel 1292 aveva minato definitiva-
mente la ricca eredità che i lambertazzi avevano lasciato al comune.

5. Il sistema degli affitti tra pianificazione economica ed esigenze politiche

Il patrimonio sequestrato subì dunque nel corso dell’ultimo ven-


tennio del Duecento una rilevantissima erosione. Si trattò però di un
processo graduale, che consentì a lungo uno sfruttamento economico
vero e proprio, capace di dare frutti non indifferenti per le finanze
comunali. Per quanto consistente, l’emorragia di case e terre non poté
vanificare troppo presto il valore economico di un insieme di beni
vasto e ricco come quello censito nel 1277. Per farlo fruttare vi fu
una strada maestra, praticata, sebbene in forme differenti, per tutta la
durata dell’esclusione duecentesca: l’affitto a breve termine.
Pur testimoniato sin dal 1275, è solo a partire dal 1281, grazie ai
registri di locazioni, che l’affitto dei beni sequestrati diventa chiara-
mente visibile come attività istituzionalizzata, regolarmente svolta dalla
curia del capitano del Popolo, caratterizzata da procedure tipiche e da
un suo calendario. Ogni anno, all’inizio del mese di aprile, il giudice
ai beni dei banditi cominciava a citare attraverso banditori tutti coloro
che fossero stati interessati ad affittare beni dei banditi a presentarsi
nel consiglio del popolo. Le citazioni si protraevano di solito per i tre
mesi successivi, esaurendosi nel mese di luglio. Durante questo perio-
do nel palazzo del comune veniva data lettura, secondo la pratica
dell’incantum, dei diversi appezzamenti ancora sfitti, o dei quali l’affit-
to era scaduto. Per ogni tipo di terreno (vigna, arativo, boschivo, in-
colto etc.) era stabilito un prezzo-base annuo in ragione di ogni torna-
tura, fissato da uno speciale ordinamentum, ma i cittadini interessati
potevano alzare questo prezzo di partenza, a volte in maniera conside-
revole. Il terreno veniva quindi concesso a chi aveva proposto il prez-
zo più alto. Normalmente, nel corso di ognuna di queste aste si pro-
ponevano i beni di un solo quartiere.
Anche le case in città venivano poste all’incanto, ma, almeno nei
primi anni, solo affinché fossero distrutte e al compratore restasse l’usu-
frutto dei materiali da costruzione. A tale peculiare forma di utilizzo
che giustificava la modica entità dei prezzi se paragonata alle stime

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BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 353

coeve, i compratori erano tenuti sotto la minaccia di altissime pene. A


Vincentius Boniohannis de Vincentiis, che per 51 lire complessive ac-
quistò tutte le case dei da Baisio situate nella cappella di S. Giacomo
dei Carbonesi venne minacciata una pena di 500 lire se non avesse
provveduto allo smantellamento entro 5 giorni 79. A tal fine era possi-
bile acquistare una casa in città o nel contado per quote che andava-
no dalle 3 alle 12 lire 80. Molto più basso era ovviamente il prezzo per
l’acquisto di alberi da tagliare. Per due soldi furono concessi a esem-
pio 9 salici, per prezzi di poco superiori tutti gli alberi di una deter-
minata località del contado già detenuti da un singolo bandito.
Diverso era il caso dei terreni. Ogni volta che un appezzamento
era assegnato si redigeva un vero e proprio contratto d’affitto tra il
comune e il conduttore, in cui si specificava la località e l’estensione
del terreno, il nome del bandito a cui era stato sequestrato, il tipo di
coltura, il prezzo del canone annuo, la durata della concessione, nor-
malmente uguale per tutti, e infine il termine di pagamento, che ogni
anno doveva essere effettuato nella festività di San Michele, ossia il 29
settembre. Il conduttore si impegnava contestualmente a non coltivare
il terreno per conto del bandito proprietario, né di qualche altro lam-
bertazzo o magnate, nonché a mantenere il terreno in buono stato,
non utilizzandolo impropriamente, ad esempio tagliando le vigne e
vendendole come legname, senza averne avuto il permesso dal giudice
ai beni dei banditi. In cambio di questo impegno, garantito da uno o
più fideiussori, il giudice, agendo per sé e per i suoi successori nel-
l’ufficio, garantiva al conduttore, a nome del comune di Bologna, di
poterne ricavare liberamente i frutti 81.

79 ASBo, Locazioni, b.1, reg. 8 c. 52.


80 ASBo, Locazioni, b.1, regg. 7-8 passim.
81 ASBo, Locazioni, b.1, reg. 1, c. 1r (l’ultima parte del contratto, l’unico conser-

vato in forma integrale per questo periodo, è rovinata): « Consilium populi civitatis
Bononie fecit dominus Bernardinus de Medicis iudex et assessor dicti domini capita-
nei deputatus ad officium bonorum bannitorum rebellium comunis Bononie pro par-
te lambertaciorum in pallatio novo comunis Bononie ad sonum campanee et voce
preconia, ut moris est. Ad quem consilium vocati fuerunt pro precones populi omnes
volentes conduxere ad pensionem seu ad affictum de bonis dictorum bannitorum et
rebellium civitatis Bononie. In quo quidem consilio, in presentia domini Guidonis de
Boateris et domini Iuliani Cambi Gratiadey, iudicum officio procuratorum, dicti do-
mini Guidonis militis predicto offitio, predictus dominus Bernardinus alta et preconia
voce proclamari fecit si in dicto consilio esset aliquis qui vellet conducere ad affic-
tum seu ad pensionem hinc ad duos annos proxime venturos infrascriptam peciam
terre vineate positam in pertinenciis de Sancta Maria Magdalena iuxta stratam de

Capitolo 8.pmd 353 09/11/2009, 16.27


354 GIULIANO MILANI

I fideiussori avevano un ruolo molto importante. Dovendo garanti-


re non solo per il pagamento dell’affitto, ma anche per la buona tenu-
ta del terreno, si trovavano a essere impegnati per somme considere-
voli 82. Nel più antico registro di locazioni conservato, relativo ai beni
affittati nel 1281, è possibile notare come alcuni personaggi si fossero
inseriti con grande consapevolezza nel mercato delle fideiussioni, rin-
saldando con ogni probabilità rapporti già esistenti per meglio sfrutta-
re su più fronti la nuova opportunità messa a disposizione dal comu-
ne. Osserviamo per esempio il caso di Damiano Villani, che da altre
fonti sappiamo essere stato anziano per la società dei linaioli ed esti-
mato per la somma non indifferente di 266 lire, un artigiano ricco,
dunque, e attivo politicamente all’interno della sua società 83. Solo nel
1281 egli risulta aver prestato fideiussione in ben 8 casi di affitti di
beni sequestrati, mentre in altri tre casi risulta affittuario egli stesso 84.
Spesso il suo nome è accostato a quello di Bartolomeo Carbonis, nota-
io, ma esercitante all’interno della stessa società dei linaioli. In due

supra et iuxta andronam a sero et computat esse duarum tornaturarum et duarum


partium alie tornature, que fuit dominus Bolognituus Beccapanis bannitus et rebellis
comunis pro dicta parte lambertaciorum. Qua proclamatione fuit per bannitores po-
puli pluries et pluries facta, nullus alius comparuit qui vellet conducere dictam vine-
am pro maiori pensione seu affictu preter quam Iacobus Venture de capella Sancti
Dominici qui obtulit se velle conducere dictam vineam pro pensione et afficto .XXVI.
solidorum bonononorum pro qualibet tornatura solvendo comuni Bononie quolibet
anno in festa beati Michelis de mense septembris. Qui dominus Bernardinus, recepto
a dicto Iacopo sacramento quod predicta vinea non conducebat ad utilitatem dicti
Bolognitti vel alterius persone de parte lambertatiorum seu pro aliquo magnate civita-
tis Bononie set pro se tantum et ad suam utilitatem et quod de dicta vinea non
vendet lignamina seu extirpabit arbores maliciose, in presentia dictorum procurato-
rum, per se et suos successores et vice et nomine comunis Bononie in dicto conscilio
et de voluntate dicti conscilii concessit et locavit predicto Iacobo dictam vineam hinc
ad duos annos proxime venturos ita quod hinc ad dictum terminum ipse Iacobus
possit et debeat dictam vineam uti et frui et fructus ex ipsa percipere ad suam
voluntatem, dum tamen non liceat ei lignamina, arbores sive vites ipsius malitiose
incidere vel extirpari facere sine expressa ipsius iudicis licentia vel eius successoris
[...] ». Segue l’impegno dei due fideiussori.
82 Nei registri di locazioni non sono riportati gli importi delle fideiussioni, ma

alcuni dati sono ricavabili dai registri giudiziari del giudice ai beni dei banditi. Ad
esempio in ASBo, Giudici, reg. 18, c. 69r, il massaro del comune di Corvaria chiese
la restituzione di un deposito di 13 lire che aveva dovuto versare per una vigna di
12 tornature, poi attribuita a un petitore e dunque non sfruttabile. Si tratta di un
prezzo superiore all canone d’affitto di un anno.
83 ASBo, Giudici, reg. 68, c. 15v.
84 ASBo, Locazioni, b.1, reg. 1, cc. 4r; 5r; 8r-v; 11v; 12r; 12v; 17r; 19v.

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BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 355

occasioni, Damiano e Bartolomeo sono assieme fideiussori per altri


personaggi. In un terzo caso Bartolomeo, assieme a un altro notaio,
presta la fideiussione per Damiano, in un quarto Damiano, assieme ad
altri cinque fideiussori, presta un’alta fideiussione che consente a Bar-
tolomeo di affittare tutti i mulini e le decime già detenute dall’ospe-
dale di Ponte sull’Idice, sequestrate assieme ai possessi dei lambertaz-
zi. Ben visibile dunque risulta la « società » stretta tra i due al fine di
poter intervenire di volta in volta come affittuari o fideiussori, scam-
biandosi sovente i ruoli. Tale rapporto a due non era peraltro esclusi-
vo, ma veniva ad inserirsi all’interno di una rete più vasta, di cui
facevano parte personaggi accomunati da una buona disponibilità di
danaro, come Alberghetto Pepoli, cambiatore, o Guidalotto Toschi,
mercante, appartenente al ramo geremeo della famiglia, che si trovaro-
no assieme a fare da fideiussori per Damiano. L’intensa attività di
questo linaiolo nel campo dello sfruttamento dei beni sequestrati pro-
seguì negli anni successivi: nel 1283 venne addirittura arrestato per
non aver pagato 48 lire di affitto dei beni che aveva avuto in conces-
sione e fu liberato solo dopo che i suoi cinque fideiussori, tra i quali
si ritrovava ancora Bartolomeo Carbonis, effettuarono il pagamento 85.
Relazioni analoghe sembrano aver avuto i due fratelli Filippo e Gru-
gno, cambiatori, figli di Gabriele di Grugno, dei quali sappiamo che
il secondo, più volte attestato come anziano per la società di Arme
delle Sbarre, era stimato per ben 800 lire 86. Sempre nel 1281 egli
risulta fideiussore in due occasioni e affittuario in una, mentre suo
fratello appare affittuario sette volte e fideiussore tre 87. Quest’ultimo a
sua volta intrattiene rapporti privilegiati con alcuni personaggi, come
il notaio Giovanni di Benedetto da Budrio, che presta per lui fideius-
sione in numerose occasioni, o con un certo Benvenutus Tinelli, il
quale affitta assieme a lui alcuni beni e si fa prestare fideiussioni rela-
tivamente ad altri appezzamenti.
Una disponibilità di liquidi notevolmente minore consentiva di en-
trare nel mercato degli affitti dei beni di lambertazzi in qualità di
semplice conduttore. I prezzi degli affitti furono sempre notevolmente
inferiori a quelli di mercato, anche se subirono variazioni consistenti.
Per il periodo precedente al 1281 è possibile stabilire con precisione
solo l’ammontare del canone annuo per una tornatura di arativo, che

85 ASBo, Giudici, reg. 38, c. 4r.


86 ASBo, Giudici, reg. 70, c. 58r.
87 ASBo, Locazioni, b.1, reg. 1, cc. 3r; 4v; 8v; 12v; 13r; 15v; 16r; 16r-v; 17r.

Capitolo 8.pmd 355 09/11/2009, 16.27


356 GIULIANO MILANI

partiva da una base d’asta di 6 soldi e, in virtù dei rilanci che subiva
nel corso dell’incantum, poteva essere maggiorato di uno o due soldi
raggiungendo al massimo una cifra corrispondente a circa un terzo del
prezzo ordinario 88. Nel 1281 il prezzo di partenza per una tornatura
di arativo era stato abbassato a 5 soldi 89. Per le vigne messe all’incan-
to nel 1281 il prezzo di partenza era di 18 soldi all’anno per tornatu-
ra, un prezzo inferiore a quello rinvenibile nei contratti tra privati (3
lire) 90, ma più vicino a quello stabilito per i propri possedimenti dal
monastero di San Procolo (1 o 2 lire, a seconda delle località). Va
peraltro osservato che se, in due terzi dei casi, il prezzo d’affitto ri-
mase quello di partenza, compreso cioè tra i 20 e i 30 soldi, occasio-
nalmente (per alcune vigne già di proprietà di Lambertinus Mulnaroli
Lambertazzi poste a San Ruffillo) raggiunse le cifre di 38, 40 e in un
caso di 50 soldi per tornatura, aumentando quindi di due volte e
mezzo nel corso dell’asta 91. In queste – rare – occasioni l’affitto delle
vigne sequestrate poteva quindi sfiorare il prezzo di mercato, a tutto
vantaggio del comune. Il singolo affitto faceva comunque entrare una
piccola quantità di denaro, che diveniva più consistente solo quando
il comune stabiliva di mettere all’incanto forfettariamente tutti i beni
detenuti da un certo bandito in una data località del contado. Parteci-
pavano a queste aste privati cittadini particolarmente interessati ad al-
largare le proprie possessioni già esistenti, i quali versavano cifre non
indifferenti, che superavano spesso complessivamente, per ogni gruppo
di beni, le 30 lire l’anno, raggiungendo in un caso ben 91 lire, pagate
da Bartolomeo di Bellondino, a quanto sembra un ricco cartolaio 92,
per affittare i beni del bandito Pietro di Bergadano Carbonesi a Ga-
vaseto 93. I terreni che rimanevano sfitti attraverso questi canali ordina-
ri erano imposti in affitto ai massari delle comunità, che si dovevano
poi incaricare di ripartire tra i propri fumanti i lavori di conduzione
dei terreni affittati e pagare l’affitto al comune. Anche in questi casi,
in cui veniva specificato appunto che i responsabili dei comunia terra-
rum affittavano tutti i beni posti nelle loro pertinenza ad eccezione di

88 I dati sono ricavati dalle note marginali apposte al registro di aggiornamento

del 1278 (ASBo, Beni, vol. VI, cc. 71-86).


89 ASBo, Locazioni, b.1, reg. 1, cc. 14r-18v.
90 Tamba, Consigli elettorali, p. 68. Pini, Campagne bolognesi, p. 123.
91 ASBo, Locazioni, b. 1, reg. 1, cc. 1v-6v.
92 Risulta eletto anziano dalla società dei cartolai in ASBo, Giudici, reg 70, c. 52r.
93 ASBo, Locazioni, b.1, reg. 1, cc. 6v-9r. I prezzi pagati per i singoli insiemi di

beni furono nelle varie occasioni di lire 32, 58, 50, 9, 23, 31, 91, 3, 5.

Capitolo 8.pmd 356 09/11/2009, 16.27


BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 357

quelli già concessi, il comune ricavava introiti variabili, ma talvolta


consistenti, come le 146 lire per cui si impegnò il massaro di Santa
Maria in Donis, o le 106 riscosse ad Argelata 94. Per il periodo 1277-
1279 sappiamo che la maggior parte dei terreni furono concessi se-
condo affitti triennali, in seguito si passò a contratti biennali. Nei po-
chi casi in cui si riesce a seguire la sorte di un singolo appezzamento
per un periodo superiore a un contratto di affitto cambia il nome del
conduttore, il che lascia pensare che le concessioni non fossero rinno-
vabili, forse al fine di non legare troppo un concessionario a un terre-
no ed arginare quindi la possibilità che riuscisse per mezzo di una
petizione ad aggiudicarsene definitivamente la proprietà 95.
Nonostante queste cautele, il sistema non dava i frutti sperati. Nel
1285-86, dopo aver deciso di affidare a una commissione di cinque
sapientes, capitanata dal giurista Pax de Pacibus, il compito di censire
nuovamente il patrimonio sequestrato e di promulgare alcuni ordina-
menta, purtroppo non conservati, relativi al possesso indebito dei beni
dei lambertazzi, fu stabilita una sostanziale modifica del sistema degli
affitti. Innanzitutto si provvide a mutare le condizioni di assegnazione
dei terreni 96. In precedenza, come si è visto, chiunque fosse stato in-

94 ASBo, Locazioni, b. 1, reg. 1, cc. 9v e 10r.


95 I registri di locazioni relativi al 1281 sono in ASBo, Locazioni, b.1, regg. 1-5.
Quelli del 1282 in ASBo, Locazioni, b. 1, reg. 6; quelli dell’aprile 1283 in ASBo,
Locazioni, b. 1, regg. 3-4.
96 ASBo, Riformagioni, reg. I/1, c. 19r: « Item ad hoc ut cessent multa mala et

fraudes que comitebantur super bonis et in bonis bannitorum et rebellium pro parte
lambertatiorum et omnis invidia cesset, et non ignorentur redditus ipsorum bannito-
rum bonorum, qui et quot fuit que perveniant comuni, providerunt quod bona om-
nia et singula dictorum bannitorum que reperiuntur conscripta in libris bonorum
bannitorum de parte lambertatiorum novis, et de quibus non est data sententia per
dominum Pacem et sotios quod extrahantur de comuni, vel de quibus non dabitur
sententia de consiliio dicti domini Pacis et sotiorum quod debeant extrahi de comuni
ex comissione eis facta per consillium populli vel sine consilio ipsorum que reservata
sunt per dominum Pacem et socios, iudici domini capitanei, quas questiones teneatur
dictus dominus iudex expedire infra quindecim dies post publicationem ipsius ordi-
namenti, dividantur particulariter et equaliter pro ut mellius fieri potest per iugera,
sive per tornaturas vel pro redditus, ita quod fiant .VIIIc. brevia que coequari debe-
ant per quarteria, ita quod quolibet quarterio habeant ducenta brevia et dictis brevi-
bus scriptis ponantur dicta brevia in consilio duorum millium et in galletis et vocen-
tur consiliarii dicti consilii pro ut votantur in ellectione offitialium comunis Bononie
quando elliguntur, et quicumque habuerit breve possit sibi retinere possessiones vel
reditus qui vel que continebuntur in dicto breve et alii dare et concedere ad volun-
tatem suam. Et possint et debeant habentes dicta brevia vel hii quibus concedentur,

Capitolo 8.pmd 357 09/11/2009, 16.27


358 GIULIANO MILANI

teressato ad affittare beni poteva recarsi nel consiglio del popolo e


fare la sua offerta. Si trattava di un sistema apparentemente equo che
tuttavia tendeva a favorire, per effetto del meccanismo dell’incantum,
la porzione di cittadinanza più ricca e organizzata (come i notai e i
cambiatori a cui si è fatto riferimento), salvo poi far gravare sulle
comunità del contado l’onere di coltivare e far fruttare i terreni meno
interessanti. Nel novembre del 1286 – nella stessa seduta del consiglio
del popolo con cui si stabilì di porre fine alla piaga delle false accuse
di favoreggiamento mosse al fine di estorsione ai comunia terrarum –
si decretò che dei beni rimasti al comune in seguito al lavoro di risi-
stemazione compiuto da Pax de Pacibus e soci si facesse un’equa divi-
sione in 800 lotti (brevia), duecento per quartiere, simili tra loro per
estensione complessiva dei terreni e per reddito ricavabile. Della divi-
sione si sarebbero dovute incaricare apposite commissioni scelte dagli
anziani, di cui avrebbero fatto parte per ogni quartiere due « boni et
legales viri », altri due tra mercanti e cambiatori, e otto notai. Una
volta divisi i beni, i lotti risultanti sarebbero stati copiati su pezzi di
carta ed estratti tra i membri del consiglio dei Duemila. I beneficiari
avrebbero quindi potuto godere dei frutti direttamente o subaffittare i
terreni. Nella stessa occasione, si provvide anche ad adattare alla nuo-
va forma di redistribuzione il prezzo degli affitti, abbassandolo in maniera
considerevole. Ogni ufficiale beneficiato di un lotto avrebbe dovuto
pagare per ogni terra arativa due soldi per tornatura, per ogni vigna
4, per il prato 2, per l’orto 5, per il terreno edificabile 5, per il bosco
niente. Si tratta di prezzi notevolmente inferiori alle basi d’asta stabili-
te in precedenza. Infine si abbassò nuovamente la durata degli affitti

ut dictum est, rectinere dicta bona vel reddictus per duos annos, incipientes a kalen-
dis Ianuarii proximi venturi in antea [...]. Et habeat lochum in possessionibus que
sunt in districtus Bononie vel in curia civitatis, extra civitatem et burgos, et in hiis
bonis que per sententiam vel consilia Pacis de Pace legum doctoris vel sotiorum
debeant vel debebunt remanere seu describi in dictis libris et locationes facte de
dictis possessionibus ad tempus supradictum kalendis ianuarii in antea sint casse, vane
et nullius valloris et pro cassis et iritis habeant. Predicta autem divisio sive brevia
fieri debeant per duos bonos et legales homines pro quolibet quarterio, inter quos
sint duos camsores vel merchatores, et per unum notarium bonum et legalem pro
quartererio elligendos per ançianos et consules ad scruptinium inter eos. Et salvo
quod iuddex habens breve vel cui concedetur de dictis possessionibus ad brevia te-
natur et debeat reficere conductori qui retinebat dictas possessiones a comuni expen-
sas legitimas pro tota possessione factas in dictis possessionibus, pro melioramento
ipsarum vel pro seminibus vel alia iusta de caussis salvo iure laboratorum ».

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BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 359

così concessi, che l’anno precedente era stata portata da due a quat-
tro anni 97. Non si abolì però la prestazione di fideiussioni: per ogni
assegnatario dei brevi due fideiussori dovettero garantire il pagamento
dell’affitto attraverso un impegno per 100 lire 98.
Complessivamente si trattò quindi di un tentativo di politicizzare il
sistema di concessione dei beni sequestrati affidando la selezione dei
conduttori al più allargato organismo di partecipazione del variegato
panorama consiliare bolognese, il consiglio dei Duemila. Deputato nor-
malmente all’elezione di 1800 ufficiali l’anno tra responsabili delle co-
munità del contado, messi, nunzi, e moltissime altre cariche, era aper-
to non solo alla partecipazione di quel bacino formato dai membri
delle società, ma anche di parte delle famiglie magnatizie e di quote
di cittadinanza socialmente più marginali e non inserite nelle organiz-
zazioni di popolo 99. La distribuzione dall’alto dei beni sequestrati
implicò necessariamente un abbassamento dei canoni d’affitto, quale
incentivo alla creazione di un gruppo di proprietari provvisori più
allargato, che non riuscisse a controllare i terreni finendo per acqui-
sirli in proprietà attraverso vari escamotages. Le motivazioni con cui
la riforma venne emanata facevano riferimento alla necessità di far
cessare i « multa mala et fraudes que comitebantur super bonis et in
bonis bannitorum et rebellium pro parte lambertatiorum », di mettere
fine all’invidia e alla necessità di conoscere con certezza i redditi ri-
cavabili dai beni. Alla luce dei dati che abbiamo messo in rilievo
finora, non sembra troppo azzardato leggere, dietro queste ragioni
generali, quelle procedure « informali » che da una decina d’anni ca-
ratterizzavano l’amministrazione dei beni sequestrati: il sistema di ac-
quisizione dei beni comunali da parte dei petitori capaci di raccoglie-
re testimoni, procuratori e sapientes; il complesso gioco che consenti-
va a una rete di cambiatori, notai e artigiani facoltosi di aggiudicarsi,
non senza una serie di accordi preliminari, i più consistenti tra i beni
posti all’incanto; e infine la relativa facilità con cui eredi e parenti
dei lambertazzi riuscivano a rientrare in possesso di case e terreni. Il
consiglio dei Duemila costituiva infatti pur sempre un organismo a
cui era vietato l’accesso a chiunque fosse stato mai incluso in un
elenco di lambertazzi.

97 Il termine di quattro anni è attestato in ASBo, Locazioni, b. IV, reg. 1286.


98 ASBo, Locazioni, b. 14. reg. (1287), c. 1r.
99 Tamba, Consigli elettorali a Bologna.

Capitolo 8.pmd 359 09/11/2009, 16.27


360 GIULIANO MILANI

La soluzione tuttavia non durò molto. Il 13 ottobre del 1288 si


decise che, poiché era scaduto il termine dell’affitto di molti beni
dei lambertazzi e questi non erano stati concessi né affittati, occor-
reva tornare al sistema tradizionale e affittare per i successivi due
anni i beni ponendoli all’incanto nel consiglio del popolo 100. In re-
altà le ragioni erano più complesse. Il comune, in ottemperanza a
quanto stabilito due anni prima, aveva di fatto provveduto alla divi-
sione dei beni in lotti, compilando al riguardo appositi registri, in
parte conservati 101. Ma i beneficiari di questi lotti, proprio perché
interessati a pianificare un’amministrazione di quattro anni, avevano
cominciato a riscontrare errori e imprecisioni, e al riguardo avevano
mosso proteste al giudice capitaneale addetto ai beni dei banditi 102.
In particolare, si erano rivolti al magistrato quanti avevano avuto
difficoltà a prendere possesso dei terreni loro assegnati e vi avevano
trovato ben impiantati cittadini certi dei loro diritti. L’istruzione di
cause, per le quali si era proceduto come d’abitudine a delegare il
giudizio finale a sapientes, aveva quindi sortito un effetto perverso,
accelerando l’erosione del patrimonio comunale e stabilizzando piut-
tosto che mettere in crisi i diritti degli illegittimi detentori. La con-
fusione generale data dall’impianto di un nuovo sistema di redistri-
buzione aveva inoltre assottigliato in maniera notevole le entrate
comunali.
A partire dal secondo semestre del 1286 ci viene in aiuto una
fonte importantissima per valutare il significato del sequestro dei beni:
una serie di libri, prodotti durante le singole capitanerie, in cui sono
registrate le poste relative ai pagamenti degli affitti, che specificano
l’ammontare, il terreno, il nome del bandito proprietario e l’ubica-
zione. Il primo dato che emerge da questi registri riguarda proprio
l’esperimento intrapreso nel 1286 e conclusosi definitivamente due
anni dopo. I registri che riportano gli affitti pagati dal settembre

100Montorsi, Plebiscita Bononiae, p. 267.


101Si tratta di alcuni registri ultimati nel 1287, che costituirono probabilmnte
registri preparatori alla definitiva sistemazione dei brevia. Sono conservati in ASBo,
Locazioni, b. 2, regg. 12 (con divisione dei beni dei quartieri di p. Ravennate,
Stiera e Piera); reg. 13 (p. Procola), reg. 14 (Stiera e Piera). In ASBo, Locazioni, b.
14, reg. n. d. (1287) sono conservati due registri di securitates prestate dai benefi-
ciati dei brevia.
102 Molti esempi di petizioni in merito alle imprecisioni dei brevia sono in ASBo,

Giudici, reg. 98, cc. 16r, 17r, 22r e ss.

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BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 361

1286 al novembre dello stesso anno, relativi dunque a concessioni


dei terreni svoltesi secondo modalità « tradizionali », attraverso l’in-
canto nel consiglio del popolo, attestano che quell’anno il comune
ricavò più di 4.748 lire 103. Quelli compilati esattamente un anno dopo,
in pieno regime di concessione attraverso i brevia del consiglio dei
Duemila, testimoniano una drastica riduzione: la somma delle poste,
in cui è scrupolosamente registrato il numero del breve corrispon-
dente, ammonta a 1.999 lire 104. Questa grave diminuzione era stata
la conseguenza dell’abbandono di un sistema che tendeva a privile-
giare una fascia più ristretta in favore di una partecipazione più al-
largata, processo ben testimoniato dal numero delle poste che i regi-
stri riportano: nel 1286-87, le poste sono 482, un anno dopo 844,
vale a dire gli ottocento beneficiari di brevia più, con ogni probabi-
lità, altre poste che riportano pagamenti di affitti precedenti. La tra-
sformazione dunque aveva avuto effetto nel modificare il bacino de-
gli affittuari. Se prima della riforma il nostro linaiolo Damiano Villa-
ni aveva versato circa 12 lire, l’anno dopo aveva pagato solo 30
soldi. Il suo antico sodale nell’affitto dei beni, Bartolomeo di Carbo-
ne, era passato da 20 lire a 2; Grugno di Gabriele di Grugno da 37
lire a 4. Anche le comunità del contado si erano scaricate del ruolo
di correttivo che avevano avuto nel sistema degli incanti. Se nel 1286-
87 avevano contribuito per più di 1000 lire, nel nuovo corso non
comparivano più tra gli affittuari. Ma, come mostra la tabella 4, che
riassume questi dati, il prezzo di una tale riforma, politicamente molto
rilevante, era stato economicamente molto alto.
Si riprese dunque con l’incanto nel consiglio del popolo. Dopo
un anno in cui le entrate furono sostanzialmente le stesse, poiché
occorreva ancora finire di riscuotere gli affitti dei brevia, l’entità com-
plessiva degli introiti cominciò a risalire raggiungendo i livelli di due
anni prima e in breve tempo superandoli, anche grazie a un proces-
so di allargamento del bacino degli affittuari. La tendenza positiva
doveva tuttavia scontrarsi con i rientri del 1292 e dei due anni suc-
cessivi, che assottigliarono di molto il patrimonio del comune. A partire
da allora le entrate del comune dovute allo sfruttamento dei beni
sequestrati subirono un tracollo definitivo. Non è chiaro se i registri
degli anni 1294-1299 riportino effettivamente gli introiti incassati dal
comune in tutti i quartieri, ma è evidente, considerando l’affidabile

103 ASBo, Giudici, regg. 92 e 93.


104 ASBo, Giudici, regg. 103 e 105.

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362 GIULIANO MILANI

Tabella 4 – Gli introiti degli affitti dei beni sequestrati.

Quartieri Totale introiti


Semestre Semestre
attestati (in lire di bolognini)

1286, II Stie; Pie; Pro; Rav 482 4748,43


1287, II Stie; Pie; Pro; Rav 844 1999,42
12,88 II Stie; Pie; Pro; Rav 803 1977,34
1289, II Stie; Pie 271 4600,66
1290, II Stie; Pie 457 4080
1291, II Stie; Pie; Pro; Rav 746 6683,71
1292, I Stie; Pie 221 2438
1293, I Stie; Pie 211 574
1293, II Stie; Pie 74 469,63
1294, I Stie; Pie; Pro; Rav? 3 25,52
1294, II Stie; Pie; Pro; Rav? 8 25,61
1295, I Stie; Pie; Pro; Rav? 31 40,65
1295, II Stie; Pie; Pro; Rav? 12 20,31
12,96, I Stie; Pie; Pro; Rav? 7 5,85
1296, II Stie; Pie; Pro; Rav? 2 8,22
12,98, II Stie; Pie; Pro; Rav 22 152,57

registro del 1298-1299, che assieme al patrimonio si erano radical-


mente ridotte le entrate. Se come sembra, in virtù dei provvedimenti
presi quell’anno per cercare di razionalizzare il sistema di sfrutta-
mento, vi fu un lieve incremento, esso fu arrestato definitivamente
dal rientro del 1299. Si giungeva così allo smantellamento di un si-
stema che, per un quarto di secolo, aveva costituito, nonostante le
minacce e le erosioni, un solido cespite per le finanze comunali, e
che in alcuni momenti era arrivato a rappresentare qualcosa come il
10% delle entrate complessive 105.

105 L’ordine di grandezza delle entrate comunali si ricava da alcuni registri del

giudice al sindacato conservati per gli anni 1288-1293 (ASBo, Comune, Governo, Cu-
ria del Podestà, Giudice al sindacato, bb. 5-10).

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BOLOGNA 1274-1300. SEQUESTRO E SFRUTTAMENTO DEI BENI 363

6. Conclusioni

Nel corso di più un quarto di secolo l’economia dell’esclusione


vide quindi il passaggio dall’esercizio di una pratica informale, la sem-
plice occupazione dei terreni dei banditi fuggitivi, all’allestimento di
una macchina amministrativa e giudiziaria che, attraverso procedure
formalizzate, redistribuiva risorse e le faceva fruttare. Si trattò però di
uno sviluppo progressivo, poiché continua fu la volontà dei cittadini
di penetrare negli ingranaggi del sistema e farli lavorare a proprio
vantaggio, al punto che l’intera vicenda dell’economia dell’esclusione è
leggibile nei termini di una risposta del comune sempre rinnovata ai
tentativi di penetrazione dei privati.
Così è interpretabile la prima schedatura di beni, presto convalida-
ta dall’invio in loco di extimatores, evidentemente compiuta al fine di
fissare e rendere verificabile il patrimonio incamerato evitando di di-
sperderlo per l’avidità dei confinanti; così anche la scelta di un siste-
ma degli affitti che, rispetto ai sistemi attuati altrove nell’Italia comu-
nale, tendeva sin dall’inizio a rendere trasparenti le procedure di asse-
gnazione e a beneficiare una quota comunque ampia di cittadini attra-
verso l’incanto nel consiglio del popolo; così, ancora più chiaramente,
gli interventi che si fecero su questo sistema di base, attraverso la
diminuzione della durata della locazione (tesa a scoraggiare la forma-
zione di un legame forte tra affittuario e terreno) e in seguito la divi-
sione dei terreni nei lotti da sorteggiare nel consiglio dei Duemila
(tesa ad allargare il gruppo dei conduttori, prendendo come base l’or-
ganismo di partecipazione più vasto a disposizione). I tentativi privati
di volgere a proprio vantaggio il grande sequestro dei beni non solo,
dunque, furono riscontrati e affrontati da quanti progettarono e adat-
tarono il sistema di sfruttamento economico dei beni lambertazzi, ma
costituirono, per così dire, l’obiettivo fondamentale di quel progetto,
la ragione più profonda che ne determinò le scelte.
Se le cose stanno così, la vicenda dello sfruttamento dei beni ac-
quista un aspetto inedito: se non fu la ricerca del massimo profitto a
guidare il comune, ma piuttosto la realizzazione di un vantaggio quanto
più possibile condiviso e sganciato dagli interessi di gruppi ristretti,
non sembra corretto leggere il venticinquennio 1274-1300 come un
fallimento. Si tratta di un punto importante, poiché permette di co-
gliere nel suo stesso manifestarsi uno degli obbiettivi che i promotori
delle esclusioni, cioè, a dire, coloro che stabilivano le linee politiche
del comune, si prefiggevano. Nella stessa ottica diviene possibile in-

Capitolo 8.pmd 363 09/11/2009, 16.27


364 GIULIANO MILANI

terpretare altri aspetti emersi dall’analisi delle fonti economiche. La


grande parte che ebbero, nell’erosione del patrimonio sequestrato, le
petizioni sporte dai lambertazzi rientrati o dalle loro vedove e orfani,
mette in luce una volta di più che a Bologna in quest’epoca dimo-
strare di essere inseriti in una rete di relazioni sociali, in primo luogo
accedendo alle pratiche messe a disposizione dal comune (ad esempio
sporgendo petizioni) era considerato un elemento più importante del-
la parentela con un lambertazzo. Più in generale la volontà di conser-
vare memoria del diritto di proprietà dei banditi (negli elenchi di
beni non scompare mai il nome del proprietario lambertazzo) e l’alle-
stimento di un sistema come quello delle petizioni, atto a rimediare
al turbamento della proprietà occasionato dal sequestro, indicano chia-
ramente come nella scala dei valori condivisi il rispetto della proprie-
tà privata prevalesse nettamente rispetto alle esigenze della persecu-
zione dei nemici politici.
Si tratta di aspetti sui quali si tornerà, e che tuttavia può essere
utile richiamare alla fine di questo capitolo, con cui si chiude l’analisi
delle esclusioni duecentesche e si passa a trattare il periodo del primo
Trecento, quando era ormai scomparsa la generazione di coloro che
avevano vissuto da adulti l’epoca delle grandi esclusioni, si affacciava
alla vita politica un gruppo di bolognesi che non aveva vissuto i fatti
del 1274 e molte cose cominciarono a cambiare.

Capitolo 8.pmd 364 09/11/2009, 16.27


Capitolo X

BOLOGNA 1300-1326
LA NUOVA ESCLUSIONE

1. Cambiamenti istituzionali e cambiamenti nell’esclusione

Il cambiamento più evidente nella vicenda dell’esclusione bolognese


si ebbe con il nuovo secolo. Alla cesura generazionale rappresentata
dall’ingresso nella vita politica dei nipoti di quanti avevano vissuto da
protagonisti gli eventi del 1274 si aggiunse una cesura politica: il quin-
quennio di convivenza tra lambertazzi e geremei, che seguì al rientro
del 1299. I due cambiamenti concorsero a far sì che la persecuzione
dei lambertazzi, che iniziò nel 1306 in seguito alla rottura di questa
tregua, presentasse caratteristiche diverse in tutti gli aspetti della ritor-
sione: la maggiore arbitrarietà nella compilazione delle liste, l’inaspri-
mento della giustizia amministrata per reati politici rispetto a quella
amministrata per reati comuni, la progressiva attenuazione del progetto
di sfruttamento allargato dei beni dei banditi a vantaggio di una ridu-
zione del numero dei beneficiari.
Il quinquennio di convivenza delle due partes fu caratterizzato dalla
divisione della parte geremea in due fazioni che dai raggruppamenti
fiorentini assunsero il nome di bianchi e neri. I nuovi conflitti, compli-
cati dalle alleanze che le parti stringevano (i bianchi con i lambertazzi
rientrati, i neri con il marchese Azzo VIII d’Este), sconvolsero l’ordine
politico che aveva tenuto unito il regime di popolo nel quarto di seco-
lo precedente, fondato proprio sull’esclusione dei nemici interni e, a
partire dagli anni Novanta, sulla resistenza della città rispetto alle mire
espansionistiche dell’estense 1. Dopo alcuni anni di predominio della fa-
zione bianca, segnati dalle figure di prestigiosi sapientes del comune,
come Bonincontro dagli Spedali e Iacobus de Ygnano, nel 1306 i neri
presero il sopravvento emanando un bando nei confronti di poco più
di duecento persone Si trattava dei più importanti membri della parte
avversaria e dei lambertazzi che avevano partecipato al governo bianco.

1 V. Capitolo VI.

Capitolo 9.pmd 365 09/11/2009, 16.28


366 GIULIANO MILANI

Un altro centinaio di persone, tra ghibellini e bianchi, furono condan-


nate al confino. Ma, in questa nuova esclusione politica confini e bandi
vennero a costituire un aspetto quantitativamente marginale. Rispetto al
precedente trentennio, l’attività del capitano del popolo si ridusse sia
sul fronte della giustizia, che venne in breve affidata a una nuova ma-
gistratura, sia soprattutto su quello dello sfruttamento dei beni, che
assunse l’aspetto di una risorsa scarsamente significativa. L’attenzione si
spostò sui nemici non condannati alle pene del bando e del confino. Si
stabilì infatti di considerare interdetti, oltre ad alcuni guelfi bianchi,
tutti i discendenti dei lambertazzi censiti dal comune a partire dal 1274,
nonché i loro diretti discendenti maschi. Gli interdetti, a cui era vietata
la partecipazione politica e militare, vennero a costituire un vasto baci-
no a cui il comune attingeva denaro tramite ingenti collette speciali,
bandite con regolarità molto maggiore di quanto non fosse avvento in
precedenza 2.
Il progetto sotteso a questa nuova esclusione rielaborava dunque
alcuni elementi del sistema precedente, ma in una chiave completamen-
te diversa, dovuta in primo luogo alla progressiva ridefinizione degli
apparati di governo. Gli anziani e consoli del « popolo », che negli ulti-
mi decenni del tredicesimo secolo avevano raggiunto il massimo livello
di egemonia politica, si videro affiancati da nuove magistrature. Il pre-
console dei notai, che già nel secolo precedente aveva avuto funzioni
politicamente rilevanti, cominciò nel Trecento a presentarsi sempre as-
sieme a loro nelle balìe formalmente straordinarie che deliberavano su
una vasta gamma di argomenti. Nel 1302 nelle stesse balie comparve il
Difensore delle venti società di popolo. Nel 1307, dopo la presa del
potere dei neri, si aggiunsero gli otto conservatori del comune e del
popolo, gli otto capitani di guerra, i dodici capitani di parte guelfa, il
barisello. Ad alcuni anni più tardi risale la prima attestazione del consi-
lium partis santis Ecclesie et Yeremensium et Guelforum civitatis Bono-
nie3. Uno sguardo alla composizione di questo consiglio mostra che
non si trattava dell’ennesima magistratura straordinaria che si giustap-
poneva alle istituzioni comunali, ma di qualcosa di differente. In esso
infatti confluivano gli anziani e consoli, il preconsole dei notai, il bari-
sello dei beccai, i preministrali delle sette società (una magistratura che
proveniva dall’élite del popolo), il banchiere Romeo Pepoli, e duecento
consiglieri (cinquanta per quartiere). Al dispetto del suo nome, dunque,

2 V. Capitolo VII.
3 Vitale, Il dominio della parte guelfa.

Capitolo 9.pmd 366 09/11/2009, 16.28


BOLOGNA 1300-1326. LA NUOVA ESCLUSIONE 367

il consiglio della parte raccoglieva insieme tutte quelle istituzioni che


nel corso degli ultimi anni avevano raggiunto posizioni egemoniche. La
formale separazione del comune dal « popolo » e dalla parte fu in que-
sto modo definitivamente superata perché il nuovo consiglio veniva a
creare un vertice ristretto del comune convogliandovi il « popolo » e la
parte, privandoli della loro autonomia istituzionale.
Questa riduzione delle sedi politiche ebbe importanti conseguenze
sull’esclusione. Negli anni successivi al 1310 il sistema che era stato
elaborato per i lambertazzi fu applicato, senza che subisse cambiamenti
di rilievo, a nuovi gruppi che il comune rinnovato nelle magistrature di
vertice andava progressivamente definendo come nemici: la cosiddetta
fazione « maltraversa », che comprendeva i magnati ostili alla crescente
potenza del Pepoli, e in seguito all’esilio di quest’ultimo avvenuto nel
1321, la stessa fazione « pepolesca », definita la parte degli « scacchesi ».
In ogni occasione di conflitto il comune provvide ad aggiungere alle
liste già esistenti nuovi banditi, nuovi confinati, e nuovi interdetti tassa-
bili con le collette speciali 4. La riunificazione delle sedi politiche che
nel Duecento erano rimaste distinte e il ricomporsi della pluralità istitu-
zionale non fu dunque la conseguenza di una rinnovata armonia politi-
ca, ma si svolse in un clima fortemente conflittuale.
La progressiva riduzione di stabilità e di consenso innescata da
questo clima fu affrontata attraverso una concessione estremamente ge-
nerosa di privilegi, che, sulla base di una generica fedeltà al regime,
dotarono un numero crescente di persone di particolari diritti in cam-
po processuale (come la possibilità di non prestare fideiussione, quella
di non essere accusato di alcuni reati, di essere favorito nelle cause e
nei procedimenti contro i non privilegiati) e talvolta di seggi fissi nel
consiglio del popolo. La relativa facilità di ottenere un privilegio e
l’altrettanto alta probabilità di essere inclusi tra gli interdetti che con-
tinuarono a essere qualificati come « lambertazzi » minarono l’applica-
zione effettiva del nuovo sistema di esclusione: il rinnovato tentativo di
distinguere la cittadinanza intera in due componenti separate e non
comunicanti da un certo punto di vista fallì, poiché non si riuscì a
tenere separati i discendenti dei geremei da quelli dei lambertazzi e
perché, più in generale, forme più dure di ritorsione consentirono in
maniera minore al regime di recepire le istanze della società cittadina.
Ma per altri versi ebbe conseguenze durature. Quando nel 1327 il
legato pontificio Bertrando del Poggetto fu chiamato a prendere pos-
4 V. Capitolo VII.

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368 GIULIANO MILANI

sesso della città si trovò di fronte a un sistema politico molto diverso


da quello duecentesco, un regime in cui nessuno metteva più in dub-
bio che una quota della popolazione fosse in uno status di minorità
giuridica, che magistrati speciali del comune si occupassero a tempo
pieno della ritorsione dei nemici del regime al potere, che questo regi-
me attribuisse a un vertice ristretto come quello rappresentato da Con-
siglio della Parte, a cui si è fatto appena riferimento, il compito di
esprimere l’indirizzo politico della città.
Nelle pagine che seguono, le forme assunte dall’esclusione trecente-
sca si presenteranno secondo la scansione utilizzata nei capitoli prece-
denti: analisi del gruppo dei colpiti e delle liste, qui trattate insieme,
analisi dei procedimenti di giustizia e analisi dello sfruttamento dei beni.

2. Interdizioni e privilegi. Le nuove liste trecentesche e il recupero degli


elenchi precedenti

Con il rientro del 1299 le attività di controllo e di punizione dei


lambertazzi non si esaurirono, ma proseguirono in qualche modo per
inerzia nei tre anni successivi. Come abbiamo accennato, negli accordi
di pacificazione era stato stabilito che duecento fuoriusciti rimanessero
al confino. Nel 1300 e nel 1301, il mancato pagamento delle garanzie
pecuniarie con cui questi confinati si sarebbero dovuti impegnare a
obbedire ai precetti del comune portò ancora una una volta all’emana-
zione di condanne al bando e alla scrittura di liste di banditi, in cui,
per quanto è possibile ricostruire, confluì praticamente l’intero gruppo
dei lambertazzi confinati 5. Vari elementi tuttavia, mostrano come le con-

5I bandi del 1300, emanati sotto la podesteria di Fulcieri dei Calboli sono
conservati in copia in ASBo, Elenchi, vol. III. Per il quartiere di porta Stiera sono
riportate 23 menzioni (c. 60v). Per porta Piera i bandi del 1300 sono divisi tra le
varie parrocchie (cc. 67-117) e ammontano complessivamente a 14 menzioni. Non
sono conservati bandi per porta Ravennate e per porta Procola. I Bandi del 1301,
emanati sotto la capitaneria di Goffredeo dei Vergiolesi, sono conservati in copia in
ASBo, Elenchi, vol. III, c. 61r (porta Stiera, 8 menzioni); cc. 67-117 (porta Piera, 20
menzioni); cc. 216 (porta Ravennate, 77 menzioni). Non sono conservati bandi per
porta Procola.
Paragonando, sia sulla base del campione, sia su quella del totale dei quartieri
attestati, il numero di queste menzioni con quelle delle menzioni presenti nel Liber del
1277 si ottiene un risultato simile. Per i quartieri attestati, i banditi che risultano
risiedere nelle cappelle del nostro campione sono 11, pari al 14% dei 77 banditi
censiti nelle stesse parrocchie nel 1277. Sempre per i quartieri attestati, sommando

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BOLOGNA 1300-1326. LA NUOVA ESCLUSIONE 369

dizioni politiche generali fossero cambiate, e come questi bandi non


ebbero né la forza 6, né la durata di quelli emanati in precedenza. Dal
punto di vista giuridico essi costituivano per lo più la semplice conse-
guenza amministrativa della mancata prestazione del pegno pecuniario,
destinata a estinguersi assieme al pagamento. I restanti banditi, coloro
che fino a questo momento si erano mostrati particolarmente recidivi
(come i Carbonesi), vennero graziati nel 1303 7, quando anche i lamber-
tazzi condannati al confino erano ormai ridotti a 21 persone 8.
I bandi del 1301 e del 1302, pur nel loro scarso peso, mettono in
evidenza un dato interessante. Anche dopo la pace del 1299 il comune
non aveva rinunziato ufficialmente alla persecuzione dei lambertazzi, che
per tanto tempo aveva costituito uno dei suoi punti di forza. Già da
alcuni anni quest’attività aveva perso il carattere di grande provvedi-
mento penale collettivo, trasformandosi nel più modesto e sempre più
superficiale controllo di un gruppo ormai marginale. Dal punto di vista
ideologico tuttavia, il mantenimento dell’ identità geremea e la manife-
stazione di ostilità nei confronti dei lambertazzi costituiva ancora una
risorsa troppo importante perché vi si potesse rinunciare, completamen-
te e all’improvviso. Fulcieri de Calboli, il podestà che nel 1300 proce-

tutti i banditi del 1300 e quelli del 1301, si ottiene un totale di 142 banditi, pari al
14,2% dei banditi censiti negli stessi quartieri nel 1277. In base a questa rispondenza
è possibile ipotizzare che complessivamente i due bandi del 1300 e del 1301 coinvolse-
ro un numero di banditi pari a circa il 14% di quelli del 1277, cioè 194 banditi.
Sapendo da altre fonti che i lambertazzi ancora obbligati al confino erano circa due-
cento e che i bandi del 1300 e del 1301 furono giustificati attraverso il mancato
pagamento della garanzia pecuniaria (ASBo, Elenchi, vol. III, c. 61r), appare chiara-
mente che tali bandi riguardarono tutti o quasi tutti i duecento confinati.
6 Il primo elemento è dato dal fatto stesso che i confinati subirono il bando, che

mostra come tutti i lambertazzi ancora sottoposti a una limitazione della libertà non
sentì affatto il bisogno di prestare una garanzia. Il secondo elemento è dato dal proe-
mio dei bandi del 1300 che indica come tali bandi vennero emanati dal capitano « de
conscilio suorum iudicum secundum formam provvisionis de hoc loquente de quibu-
sdam actis seu processibus ventilatis coram ipso et sua curiam ». Il bando, dunque,
non non fu come in precedenza una conseguenza automatica dell’infrazione del confi-
no, ma venne emanato attraverso una procedura complessa: i notai deputati alla riscos-
sione delle garanzie presentarono le loro denunce ai giudici del capitano; questi a loro
volta avevano proposero una posta al consiglio degli anziani, e questo emanò una
provvisione con cui si ordinava di bandire i confinati inadempienti.
7 ASBo, Giudici, reg. 417, cc. 1r-2r. Si tratta di un frammento di solo due carte

in cui appaiono i nomi di Iacobus, Spinellus e Henrigittus figlio di Pietro Carbonesi; di


Manfredo di Gruamonte di Fratta e di Bonaventura di Boniolo e suo figlio Ruffino.
8 Vitale, Il dominio della parte guelfa, p. 94.

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370 GIULIANO MILANI

dette al bando dei confinati insolventi, introdusse la sua lista con un


breve proemio in cui opponeva l’humilitas manifestata dai bolognesi
nel riaccogliere i loro fuoriusciti, alla superbia di coloro che, sebbene
così benevolmente richiamati, indotti dal demonio, avevano rifiutato
l’obbedienza e scelto la contumacia 9. Un simile accenno, per quanto
richiamasse il fondamento giuridico (la contumacia) dell’esclusione dei
lambertazzi, costituiva solo un residuo del linguaggio politico prodotto
da un conflitto ormai superato, in quanto evoluto in nuove e più ur-
genti tensioni.
Proprio nel 1300 infatti, mentre si procedeva a un più generale
recupero di alcuni degli elementi che avevano caratterizzato il comune
popolare, attraverso l’emanazione di provvedimenti antimagnatizi e la
creazione di una nuova milizia di 2000 pedites 10, si aprì un nuovo con-
flitto interno. Esso si manifestò con una lunga serie di congiure, che
tentarono ripetutamente, nei successivi sei anni, di consegnare la città a
Azzo VIII d’Este 11. Ogni volta i responsabili vennero individuati e pu-
niti tramite sentenze di condanna al bando e al confino, che nelle loro
formule mostrano il passaggio a una giustizia politica di tipo nuovo.

9 ASBo, Elenchi, vol. III, c. 60v: « In nomine Domini nostri Yhesu Christi amen.

Hec sunt quedam banna data per nobilem et potentem virum dominum Fulcerium de
Calbulo laudabilem capitaneum civitatis et populi Bononie de conscilio suorum iudi-
cum secundum formam provvisionis de hoc loquentis de quibusdam actis seu processi-
bus ventilatis coram ipso et sua curia. Sub examine sapientis et discreti viri domini
Nicholai de Roçanis de Parma, iudice [sic] dicti domini capitanei ad bona bannitorum
pro parte lambertatorum deputati, et scripta per me Benvenutum domini Ferulfi et
nunc ofitialem et scribam dicti domini capitanei, curentibus annis domini millesimo
trecentesimo, inditione tertiadecima.
Nos Fulcerius de Calbulo capitaneus antedictus, cum innicium cuiuscumque pec-
cati dicatur superbia secundum quod sapiens attestatur et reperiatur in iure descrip-
tum, quod parum prodesset humilitas humilibus si contumacia contumacibus non obesset
et isti qui infra sunt scripti suadente humani generis inimico ac etiam iniquitatis et
superbie spiritum assumentes videantur adversus obedientiam errigere cornu suum. Ideo
eos et quemlibet eorum bannimus et in banno ponimus in hac forma ».
10 Vitale, Il dominio della parte guelfa, p. 75.
11 Un primo complotto filoestense ebbe luogo nel 1300 (Ghirardacci, Della histo-

ria di Bologna, pp. 412-413). Un secondo complotto si ebbe nel marzo 1301 (Vitale, Il
dominio della parte guelfa, p. 81). Nel 1302 si provvide a richiamare dal confino e dal
bando i cittadini condannati negli anni precedenti (Ghirardacci, Della historia di Bolo-
gna, pp. 420 e ss). Nel gennaio 1303 si scoprì una nuova congiura per consegnare la
città nelle mani di Azzo VIII (Ghirardacci, Della historia di Bologna, p. 422), e nel
marzo dello stesso anno l’inchiesta che sacaturì da questa scoperta coinvolse molte
altre persone che vennero bandite e confinate (Ghirardacci, Della historia di Bologna,
pp. 423 e ss.).

Capitolo 9.pmd 370 09/11/2009, 16.28


BOLOGNA 1300-1326. LA NUOVA ESCLUSIONE 371

In queste sentenze, che, a differenza di quelle promulgate in prece-


denza contro i lambertazzi, costituiscono il risultato finale di un pro-
cesso criminale, le pene risultano notevolmente più gravi del bando
politico fino a quel momento comminato. Sia per i banditi veri e pro-
pri che per i confinati non trovati e per questo banditi, è prevista,
oltre alla distruzione della casa e al sequestro dei beni, la pena capita-
le, aggravata talvolta da ulteriori elementi infamanti come il trascina-
mento del corpo legato a un cavallo prima dell’impiccagione 12. Anche
nell’identificazione del delitto queste condanne rappresentano un evo-
luzione. Dopo venticinque anni in cui per punire i lambertazzi era
bastata solo la generica menzione dell’appartenenza alla fazione scon-
fitta, si ritornò a fare esplicito riferimento alla proditio, specificata e
contestualizzata dalle circostanze in cui era avvenuta. Infine, si menzio-
nò sempre il tentativo di dedizione della città al marchese d’Este come
espressione della volontà di rendere schiavo il popolo bolognese e dan-
neggiarlo gravemente 13.
Vito Vitale si è soffermato su questo importante momento di pas-
saggio nella storia bolognese e ha identificato questi complotti come il
risultato di una scissione interna alla parte geremea del tutto corrispon-
dente a quella che si realizzò contemporaneamente a Firenze all’interno
della parte guelfa. Anche a Bologna si sarebbero formate due differenti

12 Sono giunte fino a noi alcune sentenze con cui vennero puniti gli autori della
congiura del 1303 e del 1304 copiate dai registri dei podestà di quegli anni in un
quaderno « antologico », con l’indicazione del registro podestraile di provenienza. Que-
sto quaderno è conservato in ASBo, Elenchi, b. X, reg. V (1303-04). Sulla pena capi-
tale cfr. c. 1v (sentenze di condanna di Mathiolus Zanochi de Becchadellis; Minus Benni
de Bechadellis; Philippus qui dic. Lipuus Iohannis de Meçovillanis): « (...) Ideo in banno
tamquam proditores comunis et populi Bononie et subvertatores boni et pacifici status
comunis et populi Bononie et societatum artium eiusdem comunis et populi et pro
gravi mallefitio turbarie et de .X.m libris bononinorum pro quolibet ipsorum, de quo
banno perpetuo exire non possunt cum pace vel sine pace Et quod si aliquo tempori
pervenerint in fortiam comunis et populi Bononie quod ea die vel sequenti trahi et
traxinari debeant per civitatem Bononie ad cauda equitis et postea comburantur in
campo fori ita quod moriantur ». Ma v. anche c. 1v per il caso di confinati non trovati
al confine e banditi con la minaccia di pena capitale, nel caso in cui vengano trovati
in città, e c. 2v per la condanna all’impiccagione.
13 ASBo, Elenchi, b. X, reg. V (1303-04), c. 1: « Contra quos processum fuit

tamquam contra personas qui intendebant et ordinabant et continue ordinare non ces-
sabant, tam in civitate Bononie quam alibi, proditorie et malitiose et per modum pro-
ditionis subvertere presentem bonum statum et pacificum comunis et populi Bononie,
[...] et ipsam civitatem Bononie in servitudine deducere et prodere et tradere et in
fortiam domini marchionis Extensis et alia multa enormia committere et cetera ».

Capitolo 9.pmd 371 09/11/2009, 16.28


372 GIULIANO MILANI

correnti: l’una, bianca, più moderata, favorevole a coinvolgere nel go-


verno i lambertazzi, l’altra « nera », intransigente. I complotti filoestensi
del 1300-1305 sarebbero stati compiuti dalla parte nera contro la parte
bianca allora dominante assieme ai lambertazzi rientrati. Questa corri-
spondenza tra storia fiorentina e bolognese è in qualche misura accetta-
bile, soprattutto considerando che tra le diverse parti delle due città vi
furono importanti contatti in grado di favorire la diffusione dello stesso
lessico politico. La meno nota vicenda di Bologna presentò tuttavia anche
le sue peculiarità, date innanzitutto dalla differente posizione nello scac-
chiere intercittadino, e in secondo luogo dalla maggiore mutabilità nella
composizione delle sue partes interne, che videro, nel giro di pochi
anni, importanti defezioni e cambiamenti di fronte. Negli anni 1300-
1301, il regime posteriore al rientro dei lambertazzi subì gli attacchi
esterni e interni di Azzo VIII d’Este. Nella cittadinanza si delineò un
contrasto: il gruppo di famiglie e individui disposti ad appoggiare la
soggezione della città al marchese venne isolato e punito, mentre quella
parte del ceto politico che aveva caldeggiato il rientro dei lambertazzi
entrò per reazione in contatto con Firenze, in quel momento egemoniz-
zata dai « bianchi ». A differenza dei lambertazzi del Duecento, i « mar-
chesani » che appoggiarono l’Estense in questi primi anni del Trecento
non erano una porzione larga ed eterogenea della cittadinanza 14, ma
una parte compatta e coesa, formata da grandi casati magnatizi geremei
(Caccianemici, Garisendi, Galluzzi, provenienti dall’aristocrazia consola-
re, e i Gozzadini, di tradizione più recente) 15, importanti personalità
della società del cambio (Beccadelli-Artenisi, Buvalelli, Zovenzoni) e
potentissimi notai (tra gli altri, da Bisano, Cossa, di Guido speziale,
Spiolaria, Battagliucci). L’altra parte, quella che tra 1302 e 1306 riuscì a
orientare il comune e a difenderlo dagli attacchi dei filoestensi, fu inve-
ce guidata soprattutto da giuristi attivi come sapientes del comune (Bo-
nincontro dagli Spedali, Giacomo da Ignano) e da alcuni lambertazzi
rientrati (Andalò, Guastavillani).
La definitiva sconfitta dei bianchi fiorentini, avvenuta nell’ottobre
del 1301, assicurò alla parte dei « marchesani » l’appoggio del nuovo
regime nero di Firenze, modificando quindi gli equilibri interni nel co-

14V. Capitolo VI.


15Venetico Caccianemici e Ugolino Garisendi compaiono nell’elenco di richiamati
dal confino nel 1302 tratto dai registri podestarili e pubblicato in Ghirardacci, Della
historia di Bologna, p. 439. I Galluzzi e i Gozzadini sono invece nell’elenco degli
accusati del marzo 1303, pubblicato in Ghirardacci, Della historia di Bologna, p. 443.

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BOLOGNA 1300-1326. LA NUOVA ESCLUSIONE 373

mune di Bologna. Dapprima (1302) si reagì richiamando i marchesani


condannati, ma in seguito (1303), quando un nuovo complotto mise in
luce l’alleanza tra questi, i neri fiorentini, l’Estense e Carlo di Valois, si
promosse la formazione di una balìa speciale, guidata dal giurista Bo-
nincontro dagli Spedali, che assieme al banchiere Romeo Pepoli provvi-
de a punire duramente i ribelli attraverso le condanne a cui abbiamo
fatto riferimento. Nel 1304 la divisione si radicalizzò. Dopo l’ingresso
di Bologna nella lega antiestense, formata da parmigiani, bresciani, man-
tovani, veronesi e correggiani, e il definitivo richiamo dei lambertazzi,
altre persone manifestarono la loro opposizione e furono punite dalle
balìe speciali. Tra 1305 e 1306 due nuovi elementi vennero a turbare
ulteriormente il gioco delle parti bolognesi: da un lato, la crescente
potenza della parte nera fiorentina e toscana, che si manifestò, prima,
nella vittoria della battaglia della Lastra e, poi, nella presa di Pistoia;
dall’altro, l’improvviso indebolimento di Azzo d’Este, che dovette assi-
stere alla ribellione di Modena e Reggio e ai successi della lega che gli
si opponeva. La concorrenza di questi due fattori e l’urgenza del con-
flitto intercittadino, che rendeva sempre più difficile mantenere una
posizione neutrale ed evitare la penetrazione delle due potenze incom-
benti sulla città (quella più indiretta della Firenze « nera » e quella espli-
cita di Ferrara estense), provocò una trasformazione nella composizione
delle parti bolognesi. All’interno delle file dei « bianchi », che sino ad
allora erano riusciti a evitare entrambi i pericoli di soggezione, alcuni
dei sapientes, come lo stesso Bonincontro dagli Spedali, Giacomo da
Ignano, Francesco dei Preti, preferirono il debole Azzo alla forte Firen-
ze e, cambiando completamente linea politica, promisero al marchese di
consegnargli Bologna; altri, come il cambiatore Romeo Pepoli, saltarono
sul carro del vincitore e passarono alla parte filofiorentina. Tra i neri,
alcuni magnati, come i Galluzzi, restarono fedeli alla casa Estense e
confluirono quindi con quei bianchi che li avevano in precedenza con-
dannati, mentre la maggior parte degli altri decisero di sostenere più
direttamente Firenze. Le due parti rinnovate al proprio interno si scon-
trarono tra la fine del 1305 e l’inizio del 1306, e nel febbraio 1306 la
parte nera già filoestense, ora filofiorentina, riuscì a scacciare e a ban-
dire con l’accusa di tradimento l’eterogeneo gruppo formato dai sapien-
tes bianchi già alla guida delle potenti balìe degli anni precedenti, dai
lambertazzi rientrati, che avevano goduto del loro appoggio, e dalla
porzione più filoferrarese degli stessi neri.
Con questo complesso movimento di famiglie e individui si aprì
una nuova fase della vicenda comunale bolognese, che vedeva un regi-

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374 GIULIANO MILANI

me ormai compiutamente inserito nel circuito guelfo-nero capeggiato da


Firenze, in lotta con i nemici di questo circuito, nonché scomunicato
dal papa in seguito alla cacciata di Napoleone Orsini, il legato pontifi-
cio giunto nel 1306 in veste di pacificatore e accusato di aver favorito
la parte « bianca ». Rispetto a quanto era avvenuto nei precedenti cin-
que anni, il nuovo regime conferì un ruolo più rilevante all’esclusione
politica, affermando, anche sull’esempio di Firenze, la sua ostilità radi-
cale nei confronti dei fuoriusciti « bianchi » e « lambertazzi ».
Già nel gennaio del 1307 fu promossa un’inquisizione contro coloro
che avevano favorito Napoleone Orsini, e in generale i ribelli. Per la
prima volta inoltre si stabilì che, nel caso in cui un bandito lambertaz-
zo fosse stato trovato in città, avrebbe subìto la pena capitale. Per i
favoreggiatori si fissarono multe altissime di 300 o 500 lire, a seconda
della condizione sociale 16. Per comprendere chi e quanti erano questi
nuovi banditi siamo costretti, in assenza di liste conservate, a usare un
registro di beni sequestrati scritto nel 1307, che il notaio volle dotare
di un indice alfabetico dei banditi propietari 17. In questo indice, che,
da un controllo, appare completo, si leggono i nomi di 209 banditi 18.
In poco meno della metà dei casi (102), si tratta di discendenti di
lambertazzi inclusi nelle liste duecentesche 19, negli altri si tratta di gere-
mei attivi nel regime « bianco » del 1300-1306, ma già in precedenza
ben attestati nell’anzianato e nelle commissioni (mercanti come gli Al-
gardi, sapientes come i da Ignano e i Simonpiccioli, oltre che magnati
geremei, come i Galluzzi). Lo stesso registro, accanto ad alcuni nomi,
reca cancellature di altra mano, con le quali viene specificato che il
personaggio in questione non doveva più essere considerato bandito.
Queste annotazioni non sono datate, ed è quindi impossibile capire in
che periodo avvennero tali rientri. È interessante notare che, su 21
cancellazioni, ben 16 sono relative a lambertazzi (appartenenti alle fami-
glie Arenti, Lambertazzi, de Fratta, Principi, Baisio, Orsi, Albari). Nel
periodo successivo al 1307 poterono quindi rientrare più facilmente i
discendenti degli antichi leader lambertazzi che i nuovi rebelles bianchi.

16 Ghirardacci, Della historia di Bologna, p. 496.


17 ASBo, Giudici, reg. 501 cc. 1-4.
18 In base a un controllo effettuato sul periodo precedente, la percentuale dei

banditi nullatenenti e che, quindi, non sono inclusi nei registri dei beni sequestrati
sembra aggirarsi attorno al 10%. Applicando la stessa percentuale, si ricava che nel
1305 vennero bandite circa 230 persone.
19 Per le famiglie presenti nel nostro campione compaiono gli Andalò, i Carbone-

si, i da Baisio, i Lambertazzi, gli Arienti, un Asinelli.

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BOLOGNA 1300-1326. LA NUOVA ESCLUSIONE 375

Come era avvenuto nel 1274 la lista dei confinati venne redatta
dopo quella dei banditi. La minore consistenza del numero dei puniti
rese più celeri le procedure e nel 1308 era già pronta una lista di
lambertazzi condannati al confino in città vicine, redatta da una com-
missione larga in cui, accanto alle istituzioni tradizionali, come il pode-
stà e il capitano, gli anziani e i consoli, comparivano anche cariche di
nuova istituzione come il barisello dei beccai, gli otto capitani di guerra
e alcuni sapienti tra cui Romeo Pepoli. Una commissione, dunque, che
in pratica coincideva con il governo cittadino secondo le stesse linee di
coinvolgimento di tutti i gruppi egemoni nello stesso vertice che avreb-
bero cartterizzato il Consiglio della Parte. Per quanto introdotto da un
mirabolante proemio in cui si faceva riferimento al nefasto proposito
del lambertazzi, rivelato al popolo bolognese affinché potesse provvede-
re a stornarne il pericolo, l’elenco conteneva solo 87 menzioni relative
per lo più a magnati 20. Già dal 1307 si era stabilito nel consiglio del
popolo il divieto per i confinati di allontanarsi dai luoghi di residenza.
Si trattava del primo passo verso un inasprimento della condizione di
confinato, testimoniato dalle delibere che vietarono a chiunque di di-
fendere in tribunale i lambertazzi (anche quelli non banditi) e ai confi-
nati di alienare i loro beni 21.
Pur essendo sottoposti a un regime penale più duro, complessiva-
mente, tra banditi e confinati, i nuovi condannati costituivano un grup-
po molto più piccolo rispetto a quelli dei lambertazzi puniti nel Due-
cento 22. Molto probabilmente tale gruppo non venne ampliato signifi-
cativamente negli anni successivi, anche se vi furono tentativi in tal
senso. Nel 1309 il consiglio del popolo stabilì che dovevano essere con-

20 Conservata in ASBo, Elenchi, vol. IV, cc. 146-151: « Pensatum in odium et


conceptum in scandallum pacifici status et quietis bononiensis populi, devotorum pie
matris ecclesie detestandum et nephandum lambertatiorum civitatis iam dicte proposi-
tum [...] ». Come appare bene dall’analisi dei confinati residenti nelle cappelle del
nostro campione si trattava per lo più di discendenti dagli antichi casati magnatizi. Al
confino vennero condannati tutti i Rustigani, che avevano al tempo stesso un loro
membro bandito (ASBo, Elenchi, vol. IV, c. 147r. Manus di Lambertino Rustigani è
invece nell’indice dei banditi proprietari in ASBo, Giudici, reg. 501, c. 3r), un Arienti,
che aveva tre parenti banditi (ASBo, Elenchi, vol. IV, c. 148r), i tre figli di Nascimbe-
ne di Guido Tomari, banditi giovani nel 1277, poi confinati nel 1287; cinque da Bai-
sio, di cui alcuni erano stati banditi nel 1287, altri confinati nello stesso anno, e poi
erano rientrati negli anni Novanta; Iacopo di Giovanni Guglielmi che aveva seguito lo
stesso percorso.
21 ASBo, Riformagioni, vol. VIII/3, c. 81r.
22 Essi ammontavano a circa trecento persone contro le circa tremila del 1274.

Capitolo 9.pmd 375 09/11/2009, 16.28


376 GIULIANO MILANI

siderati banditi tutti coloro che lo erano stati trent’anni prima, nelle
liste del 1287-88; che i processi per mezzo dei quali costoro erano stati
riaccolti andavano annullati così come le cancellazioni; e che l’unica
autorità che da quel momento in poi se ne sarebbe dovuta occupare
sarebbe stato il barisello dei beccai 23. In tal modo, come si vedrà nel

23 ASBo, Riformagioni, vol. IX/3, c. 66v: « Cum hoc sit quod multe fraudes ap-
pareant commisse circha libros bampnitorum seu rebellium partis lambertatiorum co-
munis et populi Bononie, equum sit quod dictis fraudibus debeat obviari et potissime
ad officium domini barixelli spectet providere super talibus fraudibus tollendis et ex-
tirpandis; et per ipsum dominum barixellum et ipsius consilium societatis becchario-
rum deliberatum sit et provisum quod infrascripta eorum deliberatio et provisio pro-
ponatur ad consilium populi, videlicet: quod omnes qui conscripti sunt vel fuerunt
pro bampnitis et rebellibus in libro seu libris factis tempore domini Bertholini de
Madiis olim capitanei populi Bononie scriptis manu dominorum Mathioli de Roncho-
re, Çambonini Orsolini, Lonbardi Raynerii Salaroli, Jacobi de Lastignano, Anthoni de
Policino, Iohannis Guillelmi de Sancto Georgio, Iacobi de Biterno, Guillelmo [sic] de
Canuto, Henrigepti de Feliçiano notarii, vel alterius ipsorum vel alterius notarii vel
scriptoris, sint et esse intelligantur fore et fuisse bampniti et rebelles pro ipsa parte
lambertatiorum, non obstante aliqua cancellatione vel subscriptione facta de nomine
vel nominibus alicuius eorum in aliquo ex dictis libris per quamcumque personam;
que omnes cancellationes censeantur ipso iure nulle esse et fuisse et casse et vane et
quod potuerint et possint impune offendi in persona et rebus; et quod dominus pote-
stas, dominus capitaneus et eorum familie, aliquis officialis comunis Bononie non pos-
sint nec valeant presentialiter vel infuturum non poterint nec valuerint in preteritum
facere aliquem processum contra aliquam personam, collegium, universitatem que in
personas, res, vel bona predictorum quoque modo delinquerunt, delinquerint vel de-
linquissent vel delinquebunt in futurum vel adiutorium vel consilium prestiterant, pre-
stiterunt in preteritum vel prestantur in futurum ad delinquendum in eos modo ali-
quo; et quod per quencumque personam coram domino potestati seu domino capita-
neo et coram quocumque officiali comunis Bononie predicta opponi valeant per
quamcumque personam ita et taliter quod offendens vel qui prestant auxilium vel
consilium nullo modo possit citari, inquietari vel agravari occasione predictorum of-
fensa [lapsus per « ostensa »] scriptura bampni in aliquo dictorum librorum per quamcu-
mque personam prout dictum est.
Et quod omnis processus factus in preterito vel qui fieret in futurum per ipsum
dominum potestatem vel aliquem eorum aliqua ex causis predictis vel occasionum pre-
dictorum sit ipso iure nullus, vanus cassus et nullius valoris atque momenti . Et quod
omnia et singula statuta, ordinamenta, provvisiones contra lambertacios loquentia sint
firma et innovata et observari debeant simpliciter ut eorum lictera iacet, quod si pre-
dicta omnia et singula ita non fuerint observata in totum per quoscunque rectores et
officiales comunis et populi Bononie tam presentes quam futuros ad quos spectarent
executio vel prosecutio ex nunc prout ex tunc priventur et privati esse intelligantur
suis officiis et nichilominus condamnentur in quingentis libris bononinorum eis per
syndacatum auferendis; et quod nullus iudex, advocatus, vel procurator vel aliqua alia
persona ecclesiastica vel secularis et cuiuscumque conditionis et status existat audet vel

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BOLOGNA 1300-1326. LA NUOVA ESCLUSIONE 377

prossimo paragrafo, la giustizia politica fu demandata a una magistratu-


ra cittadina specializzata, politicamente affidabile, cooptata direttamente
dalla parte, cioè – in ultima analisi – dal governo. Sempre nel 1309 il
barisello fu quindi incaricato di provvedere a punire i confinati lamber-
tazzi che si erano allontanati da Ancona e da Venezia, e gli fu proibito
di accettare le difese presentate da procuratori e avvocati 24. Non posse-
dendo liste di lambertazzi banditi e confinati successive al 1309, non
sappiamo se queste importanti decisioni furono effettivamente messe in
pratica. Alcuni elementi sembrano negarlo: l’assenza stessa delle liste,
alcune petizioni presentate al consiglio del popolo e da questo accetta-
te, in cui i banditi del 1307 chiesero di essere riaccolti, e soprattutto la
presenza tra le liste di lambertazzi tassati dal comune (quindi non ban-
diti) di molti discendenti dei banditi del 1287.
Ben più consistente fu il gruppo di persone che pur risiedendo in
città potevano essere identificate come discendenti degli antichi lamber-
tazzi. Su di loro si concentrò l’attenzione del nuovo regime geremeo.
Sin dal 1307, sulla falsariga di quanto era avvenuto all’indomani del
bando del 1274, si decise di promuovere una colletta speciale contro i
nuovi nemici politici. L’otto gennaio si propose che questa colletta (di
3 denari per lira) avrebbe dovuto riguardare « omnes quos consilium
populi declaraverit esse lambertatios ». Nella decisione finale venne però
specificato che sarebbero stati reputati tassabili tutti coloro a cui fosse-
ro state in precedenza imposte le altre collette « di parte » e che si
trovavano scritti nei libri delle collette dei lambertazzi, nonché i confi-

presumat contra presentem provvisionem, reformationem vel aliquam aliam quem ip-
sam corroboratur aliquid dicere, proponere vel alegare palam vel caute vel in favore
predictorum venire pena et bampno cuilibet iudici et advocato vel procuratori quin-
gentarum librarum bononinorum et totidem cuilibet alteri singulari persone eisdem
auferendarum per dominum potestatem presentem vel qui pro tempore fuerit infra
tertiam diem postquam eidem vel sue familie aliquid fuerit, aliquem contra predicta
venisse, quod si non fecerit incidat in supradictas penas eidem per syndacatores tem-
pore sindacati auferendas et predictam reformationem vel provisionem teneatur et de-
beat executioni mandare contra supradictos superius nominatos qui in aliqua parte
ipsius contrafaceret dominus barixellus una cum ministralibus illarum duarum sotieta-
tum que sunt vel pro tempore fuerint ad conservationem Ordinamentorum Sacratorum
sub pena domino barixello predicta non observanti trecentarum librarum bononinorum
et cuilibet ministralium centum librararum pro qualibet vice, eisdem aufferenda per
dominum capitaneum infra tertiam diem postquam predicta fuerint manifesta non ob-
stante et cetera ».
24 ASBo, Riformagioni, vol. IX/3, c. 70r.

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378 GIULIANO MILANI

nati, non lambertazzi, del febbraio del 1306 25. Già cinque giorni dopo
si tornò su questa decisione. L’estensione del gruppo potenzialmente
imponibile, si affermò, avrebbe potuto arrecare danno alla parte della
Chiesa, includendo tra i nemici molti « uomini del popolo ». Si decretò
pertanto che il capitano del popolo, gli anziani e consoli, il difensore
delle venti società (una nuova carica istituita nei primi anni del Trecen-
to), il preconsole dei notai, nonché i sapientes Romeo Pepoli e France-
sco de Roti avrebbero eletto 10 uomini per quartiere deputati a redige-
re nuovi elenchi di lambertazzi, soprattutto magnati 26.
Un simile lavoro si dimostrò delicatissimo. La complessa trasforma-
zione subita nel corso degli anni dalle parti bolognesi metteva in risalto
sin dall’inizio una serie di problemi: chi erano i lambertazzi da include-
re negli elenchi fiscali? In tali elenchi sarebbero confluiti anche quanti
nel corso del tempo erano stati assolti? I bianchi che si erano ribellati
nel febbraio 1306 andavano omologati nella lista ai lambertazzi? Di
questi aspetti si discusse in molte riunioni del consiglio del popolo: la
redazione di una nuova lista di lambertazzi tassabili, già pronta alla fine
del gennaio 1307, sollevò numerose proteste. Il 13 febbraio si accolse
una petizione in cui si sosteneva che le nuove liste contenevano moltis-
simi nomi di geremei, e che dunque le stesse autorità che avevano
nominato i quaranta sapienti addetti al censimento dovessero tornare
sul proprio lavoro ed eliminare queste ingiustizie 27. Ma neanche questa
revisione bastò e in aprile vennero richiamati dai confini altri geremei
che erano stati coinvolti nella nuova proscrizione. In novembre, quando
era stata imposta una nuova colletta speciale, sorsero nuove lamentele
in merito al lavoro che avevano condotto i quattro impositores che in
ogni quartiere avevano selezionato i tassabili. Si disse che costoro, scelti
tra i lambertazzi affinché potessero selezionare i loro compagni di par-
tito, avevano agito spinti dall’odio nei confronti dei geremei, includen-
do persone non lambertazze e derubricando dalle liste già preparate i
loro parenti e amici 28. Per sanare questa situazione che contribuiva a
creare discordia nella parte dei geremei, si decise di procedere così: gli
anziani, i consoli ed alcuni sapienti avrebbero esaminato le liste fiscali,
al fine di isolare i nomi di quanti fossero sembrati totalmente estranei

25 ASBo, Riformagioni, vol. VIII/3, c. 68r: « et predicti tales intelligantur lamberta-

ciii et pro lambertaciis reputentur ».


26 ASBo, Riformagioni, vol. VIII/3, c. 69r.
27 ASBo, Riformagioni, vol. VIII/3, c. 89v.
28 ASBo, Riformagioni, vol. VIII/5, c. 168r.

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BOLOGNA 1300-1326. LA NUOVA ESCLUSIONE 379

alla parte lambertazza; avrebbero quindi portato questi nomi nel consi-
glio del popolo, dove sarebbero stati sottoposti a votazione e derubri-
cati a maggioranza dagli elenchi di tassati lambertazzi. Dal 1 dicembre
sono attestate queste votazioni 29.
Il 1308 si aprì con nuove votazioni nel consiglio del popolo finaliz-
zate a cancellare alcune persone dagli elenchi dei lambertazzi e con
l’accoglimento di petizioni presentate da individui inclusi nelle liste che
affermavano di essere sempre stati geremei 30. Ciononostante venne scel-
ta una linea « dura », stabilendo che il criterio di iscrizione alle collette
speciali sarebbe stato quello dell’inclusione in una qualsiasi delle liste di
lambertazzi 31. Secondo questa visione estensiva si provvide alla redazio-
ne di un voluminoso elenco, terminato appunto nel 1308 32.
Questa lista presentava caratteristiche del tutto nuove: non si trat-
tava di un elenco ordinato, ma di una grande centone diviso per quar-
tiere, in cui erano stati ricopiati sotto intitolazioni, che facevano riferi-
mento alla lista originale, tutti gli elenchi di lambertazzi prodotti fino
a quel momento e disponibili nell’archivio del comune: da quelli rela-
tivi alle collette e alle assignationes equorum del 1274 fino agli ultimi
bandi emanati nel 1301 e 1302, passando per gli elenchi di condanna
generali, come quelli del 1277 o del 1287, ma anche per le liste di
assolti prodotte negli anni Ottanta del Duecento. La scarsa familiarità
dei notai che scrissero questo grande « elenco degli elenchi » con il
materiale che avevano a disposizione è dimostrata dal fatto che essi
copiarono spesso due volte la stessa lista, probabilmente perché ne
trovarono due copie differenti; nonché dalla diversità dei criteri con
cui i nomi vennero ordinati nei differenti quartieri, talvolta per lista di
origine, talvolta per cappella, accorpando i nomi tratti da liste diffe-
renti. Gli stessi segnali di una perdita di confidenza con le procedure
duecentesche si ritrovano, del resto, nelle copie Tre-Quattrocentesche
delle liste fiorentine del 1268-69, come il Libro del chiodo e i registri a
questo apparentati.
Questo nuovo elenco del 1308, benché radunasse in forma leggibile
le sparse membra del censimento dei lambertazzi, non forniva di per sé
criteri per stabilire chi effettivamente doveva essere tassato. Inoltre, rac-
cogliendo nomi censiti trenta-quarant’anni prima, costituiva soprattutto

29 ASBo, Riformagioni, vol. VIII/5, c. 192v.


30 ASBo, Riformagioni, vol. VIII/5, cc. 192v; 221r-222v.
31 ASBo, Riformagioni, vol. VIII/6, c. 243r.
32 ASBo, Elenchi, vol. III, reg. I. La data è contenuta nella completio notarile.

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380 GIULIANO MILANI

un elenco di morti. Il barisello dei beccai fu incaricato di condurre una


speciale ricerca volta ad appurare chi fossero i discendenti dei lamber-
tazzi. Dopo la redazione delle liste di confinati del 1307, che tuttavia
aveva compiuto assieme ad altri magistrati, il primo incarico del barisel-
lo nell’esclusione fu proprio la compilazione delle liste dei discendenti
dei lambertazzi, che egli ultimò entro il 1308 e allegò, in segno di
continuità, alle liste del 1287 33.
In queste liste, che non riportavano alcuna menzione di condanna
penale (bando o confino), proprio perché il loro uso era eminente-
mente fiscale, compariva un numero impressionante di discendenti. Solo
nelle cappelle del nostro campione vennero censite 183 persone, il che
fa pensare, supponendo una rappresentatività del 10%, che poco meno
di duemila persone furono considerate lambertazze, pur non essendo
né banditi ne confinati. Tra loro vi erano i discendenti dei banditi
duecenteschi più recidivi (come alcuni membri delle casate Andalò,
Baisio, Rustigani, Arienti, Tomari), che avevano parenti tra i banditi e
i confinati; ma vi erano anche i figli di banditi del 1277 e 1287 che
non erano stati affatto inclusi tra i nuovi banditi del 1307, e anche i
figli di personaggi che erano stati condannati a pene ben più lievi e
che erano presto rientrati a Bologna, giurando la parte e sottoponen-
dosi agli ordini del capitano. Il nipote di Iohannes Rumioli Vandoli,
che era incappato solo nella colletta del 1275, in seguito al rientro del
1279 aveva giurato la parte e il suo nome non era comparso in nessu-
na lista successiva, dovette pagare le collette come lambertazzo 34. I

33 La lista ci è giunta in copia in un elenco del 1310 su cui si riferirà più oltre

(ASBo, Elenchi, vol. I, c. 82r). La intitolazione è: « Sub hoc titullo continentur nomina
filiorum et desendentium per lineam masculinam tam legitimorum quam naturalium
omnium et syngullorum de supradicta capella et tam abrasorum quam cançellatorum
ex inquisitione facta per quarteria et capellas per dominum Jacobum de Raminghis
barixellum et socios suprascriptos ad hoc per comune Bononie deputatos vigore ar-
bitrii et baylie eis concesse secundum formam reformationis conscilii populli super
hoc facte ».
Cfr. anche ASBo, Elenchi, vol. II, c. 100r: « Infrascripti sunt qui creati fuerunt
lambertacii per Iulianum de Raminghis barixellum populi Bononie secundum formam
reformationis de hoc loquentis scripta manu Bonifacii de Goçadinis sive Comacii do-
mini Alberti notarii ancianorum et consulum mensis aprelis millesimi trecentesimi octa-
vi, indictione sexta, qui ligati e[t] adiunti sunt in libro lambertaciorum facti tempore
domini Bertholini de Madiis capitanei populi Bononie [1287. Secondo semestre] scripto
per Naximbenem Marchixiii Restani notarii domini barixelli ».
34 Il suo nome si trova in questa lista di discendenti (ASBo, Elenchi, vol. I, c.

50r) e anche in un estimo di lambertazzi del 1307 (ASBo, Comune, Disco dell’Orso,
reg. 6, c. 15r).

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BOLOGNA 1300-1326. LA NUOVA ESCLUSIONE 381

figli di Iacopino di Alberto Benvignoni, nel 1277 confinato di terza


categoria, poi rientrato, furono costretti alle stesse imposizioni 35. Pro-
prio a causa della vastità del censimento i problemi di applicazione
della nuova esclusione esplosero. Nel marzo del 1308, la situazione si
fece addirittura paradossale quando si scoprì che nel gruppo dei lam-
bertazzi si trovavano alcuni cittadini che godevano dei privilegi speciali
conferiti nel 1306 a quanti erano stati identificati come geremei parti-
colarmente affidabili 36.
Questi privilegi furono il frutto di un processo complementare a
quello del censimento dei nuovi lambertazzi. Subito dopo la cacciata
del 1306, il nuovo regime aveva introdotto diverse importanti riforme
basate proprio sul conferimento di poteri straordinari a persone politi-
camente affidabili. Questa tendenza ebbe le conseguenze più importanti
nella riforma del sistema di reclutamento del consiglio del popolo. Come
ha mostrato recentemente Giorgio Tamba, fino al 1305 facevano parte
di questo consiglio esclusivamente membri ordinari, cioè i componenti
del consiglio direttivo delle società di armi e di arti (i ministrali in
tutte le società, i consoli nel cambio e nella mercanzia) e i sapienti
delle stesse società, ogni semestre eletti dalle singole compagnie. Nel
secondo semestre del 1305, e cioè alla vigilia dello scontro che avrebbe
portato alla fine del regime « bianco », una provvisione decretò l’aggre-
gazione al consiglio del popolo di tutti coloro che avevano ricoperto le
cariche di anziano, console, notaio degli anziani, difensore dell’avere e
difensore delle venti società, dal luglio 1304 al giugno 1305. Si trattava
di una misura del tutto inedita, che allargava il consiglio politicamente
più importante della città, composto fino a quel momento da 280 mem-
bri, con l’inserimento di più di duecento nuovi consiglieri che avevano
di fatto coperto l’intero apparato istituzionale dell’anno precedente, ri-
velandosi politicamente affidabili. Nel febbraio 1306, quando i « neri »
presero il potere e cacciarono i loro avversari, queste aggregazioni ven-
nero cassate, ma non si rinunziò all’espediente in sé. Poco tempo dopo
furono aggregati al consiglio del popolo tutti gli anziani e i loro notai
che erano rimasti in carica dal marzo al maggio 1306, nei mesi succes-
sivi alla presa del potere dei « neri », e vennero anche dotati di partico-
lari privilegi giudiziari. Le aggregazioni di questo tipo, basate sulla pro-
gressiva inclusione nel consiglio del popolo di anziani e altre figure
istituzionali che avevano dimostrato la loro affidabilità politica, conti-

35 ASBo, Elenchi, vol. II, c. 98r.


36 ASBo, Riformagioni, vol. VIII/5, c. 232.

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382 GIULIANO MILANI

nuarono. A esse si affiancarono aggregazioni di diverso tipo che tende-


vano, da un lato, a rendere ancora più rilevante la quota degli aggrega-
ti, facendo eleggere due membri aggregati a ogni ex-anziano, e, dall’al-
tro, ad aumentare anche il gruppo dei membri ordinari, espressi dalle
società popolari. I nuovi membri aggregati, inoltre, a differenza di quel-
li ordinari espressi dalle società, non perdevano la loro carica allo sca-
dere dei sei mesi. In tal modo si arrivò nel 1309 a un consiglio del
popolo formato da 1200 persone, in cui la maggioranza era costituita
da membri aggregati, cioè permanenti 37. La completa ridefinizione della
cittadinanza secondo la chiave della fedeltà/infedeltà al regime, che ave-
vano immaginato i creatori del sistema-guelfo angioino alla fine del
Duecento, si trovò così, nella generazione successiva, a condizionare
pesantemente le istituzioni partecipative. Il nuovo strumento dell’inclu-
sione di membri aggregati nei consigli costituì un’importante traduzione
istituzionale di quel progetto.
Le aggregazioni al consiglio del popolo, inoltre, pur riguardando
una quota enorme di cittadini, non esaurivano la gamma dei privilegi
riservati ai cittadini fedeli. In questi anni furono conferiti molti altri
attestati di privilegio, soprattutto giudiziari, che consentivano di vincere
nelle cause civili e criminali contro magnati, nobili, potenti, interdetti
dai consigli e dall’esercito a causa della militanza con i lambertazzi o
con i bianchi, vale a dire contro l’intero spettro dei cittadini che per
una ragione o per l’altra erano stati inclusi nelle categorie infamate 38.
Al punto che, nel 1310, mentre procedeva l’enorme censimento di tutti
i lambertazzi possibili, fu redatto un elenco di privilegiati che raccoglie-
va più di 5600 persone 39.
Viste le dimensioni di questo allargamento non stupisce che nelle
liste dei privilegiati, che comprendevano al loro interno anche le qua-
si mille persone che per una ragione o per l’altra erano state cooptate
nel consiglio del popolo a partire dal 1306, vi fossero anche alcune
persone che nel frattempo, sulla base del lavoro di sapientes e imposi-
tores, erano state censite nei vasti e contestati elenchi dei lambertazzi
tassabili. Un cittadino che avesse avuto antenati tra i lambertazzi, ma

37 Tamba, Il consiglio del popolo di Bologna, pp. 73-90.


38 ASBo, Provvigioni, vol III, c. 289r (1309). Sulle modalità di assegnazioni di
questi privilegi giudiziari le fonti tacciono, ma è ipotizzabile che vigesse anche per
questo il meccanismo con cui si privilegiavano coloro che erano stati membri dei con-
sigli in alcuni anni particolarmente caldi.
39 ASBo, Provvigioni, vol III, cc. 295 e ss.

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BOLOGNA 1300-1326. LA NUOVA ESCLUSIONE 383

che al tempo stesso, si fosse trovato ad essere ben inserito, anche


indirettamente, nella rete di relazioni del nuovo regime avrebbe potu-
to essere selezionato come lambertazzo e l’anno successivo, poniamo,
scelto da un ex anziano come membro da aggregare al consiglio del
popolo, oppure ottenere per altre vie, un privilegio giudiziario. Certo
è che la scala su cui queste selezioni venivano compiute generava di
per sé confusioni di ogni tipo, e da qui il ricorso a petizioni, revisio-
ni, derubricazioni.
Nello stesso 1309 si provò a porre un freno a questa confusione
generale, e si decise perlomeno di rendere istituzionale la presenza
di membri aggregati. Si cassarono le aggregazioni precedenti e si
stabilì che quaranta sapientes nominati dagli anziani selezionassero
quattrocento persone « di provata moralità e di sicura fede guelfa »,
che, una volta approvate dagli stessi anziani, sarebbero rimaste in
carica per un intero anno, per essere sostituite da altrettanti « aggre-
gati annuali » 40. Ma al tempo stesso il bisogno di danaro generato
dalla ripresa della guerra rendeva improrogabili nuove imposizioni
di collette. Cosicché il regime comunale si trovava stretto tra la ne-
cessità di includere sempre più persone negli elenchi di tassabili per
ragioni politiche e quella di garantirsi una base di consenso suffi-
cientemente ampia per mezzo delle varie forme di privilegio 41. Il 24
settembre 1309 si decise di bandire una colletta di settemila lire che
avrebbero pagato i lambertazzi, anche quelli inclusi negli elenchi « no-
viter facti », ma si esentò chiunque avesse avuto un privilegio dopo
il 1306 42. Un mese dopo, 39 persone sporsero petizione e riuscirono
ad essere derubricate dagli elenchi di lambertazzi 43. Fu a quel punto
che il comune, cercando di tamponare le possibili difficoltà future,
decretò con una deliberazione apparentemente bizzarra che i lam-
bertazzi e i loro parenti non avrebbero potuto godere di alcun pri-

40 Tamba, Il consiglio del popolo di Bologna, pp. 31-32.


41 Tale necessità risulta bene da una riformagione del 1311 con cui su richiesta di
alcuni geremei si decise di ridurre l’entità della loro colletta e scaricare il rimanente
sui lambertazzi (ASBo, Riformagioni, vol. X/2, c. 110r).
42 ASBo, Riformagioni, vol. VIIII/3, c. 66r. L’estimo dei lambertazzi redatto in

quest’anno è conservato in una capia per il solo quartiere di porta Procola in ASBo,
Comune, Disco dell’Orso, reg. 7, cc. 27 e ss. Esso riporta 405 poste di estimati. Nello
stesso registro sono conservati frammentariamente altri estimi e collette bandite nei
confronti dei lambertazzi nel 1307 e nel 1315.
43 ASBo, Riformagioni, vol. VIIII/3, c. 96r.

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384 GIULIANO MILANI

vilegio 44. E nonostante tutto, mentre i lambertazzi in molti casi con-


tinuavano a rifiutarsi di pagare le collette in cui erano stati inclusi 45,
si continuò a recuperare e copiare antichi elenchi, giungendo attor-
no al 1310 alla redazione di un nuovo elenco miscellaneo, analogo a
quello del 1308, ma aggiornato con le liste di discendenti redatte in
quell’anno 46.
Nel 1311, mentre il comune combatteva contro i ghibellini che in
Enrico VII avevano trovato il loro campione, venne stilata una nuova
lista di confinati con cui, al fine di evitare disordini in città, si inclu-
sero nel gruppo dei confinati lambertazzi cinque lignaggi, di cui due
avevano avuto parenti condannati nella generazione precedente (Gua-
stavillani, Magnani), ma gli altri avevano fornito sino a quel momento
affidabili geremei (Ricci, Marcelloni, da Unzola) 47. Appare chiaramen-
te come le differenti componenti del gruppo dei nemici del regime
(nuovi magnati, discendenti di lambertazzi, bianchi) tendevano a con-
fluire sotto l’unica e comprensiva menzione di « lambertazzi », dotata,
in quanto ben radicata nella tradizione politica bolognese, di un valo-
re ideologico più facilmente riconoscibile. Si cominciarono così a de-
cretare provvedimenti di ascrizione alla parte lambertazza nei confron-
ti di molti nuovi nemici 48.
Negli anni seguenti il comune procedette sugli stessi binari, attra-
verso il bando di collette sempre più gravose 49 che tutttavia non riu-

44ASBo, Riformagioni, vol. VIIII/3, c. 113r.


45La difficoltà con cui i discendenti di lambertazzi rientrati accettarono l’inseri-
mento nelle liste di lambertazzi è riscontrabile, oltre che nelle numerose richieste di
esenzione dalle collette speciali anche nel rifiuto di cancellare debiti contratti con i
geremei. Su questo aspetto il consiglio del popolo deliberò nel 1309 stabilendo che i
lambertazzi e i confinati del 1306 non dovessero più chiedere i soldi ai loro debitori
minacciando il ricorso in tribunale. ASBo, Riformagioni, vol. VIIII/3, c. 112v.
46 Tale elenco è conservato, diviso in due parti, in ASBo, Elenchi, voll. I e II.
47 ASBo, Elenchi, vol. IV cc. 152-153. Le riformagioni che ordinano al notaio del

barisello la compilazione di queste liste sono in ASBo, Riformagioni, vol. X/2, c. 35r.
48 ASBo, Riformagioni, vol. X/2, c. 102v. Il provvedimento è attuato contro Barto-

lomeo de Varignana, Giovanni da Ignano, Giovanni da Calcina e contro i loro discen-


dneti maschi maggiori di 12 anni.
49 ASBo, Riformagioni, vol. X/2, c. 106v: imposizione ai lambertazzi confinati e

interdetti di una colletta di 6.000 lire (1311). ASBo, Riformagioni, vol. X/4, c. 258:
imposizione di una colletta ai lambertazzi (1312); ASBo, Riformagioni, vol. XI/1, c. 3r
(1314) proposta di una colletta per i lambertazzi con cui si possano pagare i 1300
fiorini dovuti a Roberto d’Angiò; ASBo, Riformagioni, vol. XI/2, c. 7. (1314) colletta
di 2.000 lire imposta ai lambertazzi.

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BOLOGNA 1300-1326. LA NUOVA ESCLUSIONE 385

scivano a colmare le necessità finanziarie del comune 50, e attraverso


l’emanazione di decreti sempre più punitivi nei confronti dei condan-
nati politici che evidentemente non sortivano l’effetto sperato 51. L’im-
potenza del comune procedeva di pari passo con l’esasperazione del
linguaggio utilizzato nelle delibere 52. La ripetuta proibizione di cancel-
lare i lambertazzi dalla loro condizione testimonia indirettamente che
si trattava di una pratica corrente 53. Dal punto di vista della scheda-
tura non fu determinante l’introduzione, par altri versi importante,
del « Consiglio della parte della Chiesa e dei Geremei e dei Guelfi »,
che informalmente già esisteva, ma che, a partire da allora, comprese,
oltre a tutte le istituzioni che erano sorte o avevano acquisito una
valenza di governo a partire dal regime instaurato nel 1306 (anziani,
barisello, preconsole dei notai, preministrali delle sette società di po-
polo, Romeo Pepoli), anche cinquanta membri per quartiere. A tale
consiglio venne conferita la possibilità di decidere per tutta la durata
della guerra in merito a numerose questioni, tra cui l’ordine pubblico
interno 54. Ma nello stesso anno il notaio addetto alla ricerca dei con-
finati fu assolto dal suo compito poiché, come si decretò, l’attuazione
dell’incarico risultava impossibile55. Pochi anni dopo, il consiglio della
parte dovette istituire indagini sul furto di numerose liste di lamber-
tazzi e decretare per l’ennesima volta che le cancellazioni fossero rivi-
ste e ricontrollate 56. Mentre stabiliva di punire chi avesse parlato male

50 Nell’ottobre del 1312 si decretò di rinvenire il denaro per pagare gli stipendiari

inviati in Tuscia, ma nel febbraio successivo i soldi non erano stati ancora reperiti
(ASBo, Riformagioni, vol. X/4, cc. 188 e 266).
51 ASBo, Riformagioni, vol. X/5, c. 303 (1313) dove si conferisce al barisello e al

preconsole dei notai la possibilità di proporre in consiglio del popolo norme contro i
lambertazzi. ASBo, Riformagioni, vol. X/5, c. 328 dove si vieta ai lambertazzi di parte-
cipare alle riunioni del consiglio del Duemila.
52 ASBo, Riformagioni, vol. X/5, c. 330r in cui si fa riferimento alla necessità di

un « finalis exterminium » dei lambertazzi.


53 Per esempi di queste proibizioni v. ASBo, Riformagioni, vol. XI/2, c. 8r (1314);

ASBo, Riformagioni, vol. XI/3, c. 170v; 184v; 145 (1315).


54 Tamba, Il consiglio del popolo di Bologna, pp. 38-39.
55 ASBo, Riformagioni, vol. X/3, c. 202r.
56 ASBo, Riformagioni, vol. XII/3, c. 147v (1318). Pochi mesi prima era stata

denunciata la sparizione di un libro di riformagioni del 1307 insieme a quella di « unus


liber qui vocabatur liber misericordie in quo scripta sunt nomina hominum de parte
lambertacciorum qui iuraverunt partem, item multi et multi veteres quaterni et libri in
quibus sunt scripta nomina predictorum hominum lambertacciorum »: ASBo, Riforma-
gioni, vol. XII/2, c. 91r (1318).

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386 GIULIANO MILANI

della parte « guelfa » – il termine tende a questo punto a sostituire


quello di « geremea » –, una balìa si trovava costretta a formulare un
nuovo ordine relativo alla cancellazione dei lambertazzi dalle matrico-
le delle società e dagli uffici comunali 57.
A questa situazione, già di per sé critica, si aggiunse dal 1316 l’in-
tensificarsi di un nuovo conflitto interno, quello tra gli oppositori (« mal-
traversi ») e i fautori (« scacchesi ») del potere di Romeo Pepoli, il ban-
chiere che, dopo aver sostenuto il comune nel periodo bianco, era di-
venuto una delle colonne portanti del regime successivo all’esclusione
del 1307, soprattutto attraverso ingenti prestiti pubblici. In seguito alla
liberazione di Pietro Garisendi dall’incarcerazione per omicidio, favorita
da Romeo Pepoli, vi furono alcuni tumulti che portarono a un breve
allontanamento dalla città dello stesso Pepoli. Nella stessa occasione,
mettendo in evidenza come ormai tutti i nemici del comune fossero
potenzialmente includibili nella categoria dei « lambertazzi » – la dilata-
zione semantica della parola impone le virgolette – fu stabilito che tutti
i lambertazzi puniti dovessero allontanarsi dalla città 58 e che gli altri
« lambertazzi » fossero multati se fossero stati trovati in possesso di armi
ed espunti dalla milizia 59. Inoltre venne istituita un’indagine anche con-
tro i « lambertazzi » che avessero cambiato nome al fine di sfuggire alle
proscrizioni e si decretò di scrivere nuovi elenchi, che cancellassero
quanti avessero ottenuto una speciale delibera dal consiglio del popolo
o un privilegio 60. Ma, come ormai era usuale, questi provvedimenti eb-
bero un complemento nell’emanazione di nuovi privilegi: nel 1317 a
ben 1000 persone si concesse la possibilità di portare armi in città,
nonostante le proibizioni statutarie 61. Pochi anni dopo venne concessa
ai privilegiati la possibilità di accusare i « lambertazzi » di « grave offesa
e morte », e di vedere vagliata la propria accusa, non da un tribunale,
ma prima dalle società di appartenenza, poi dal consiglio del popolo
che avrebbe espresso il proprio giudizio a maggioranza 62.
Si manifestava la cronica incapacità di risolvere una crisi ormai evi-
dente. La volontà di distinguere l’intera cittadinanza in un gruppo di
infamati e uno di privilegiati non riusciva a tradursi in pratica, poiché le
possibilità di passare da un gruppo all’altro, in caso di riavvicinamento

57 Vitale, Il dominio della parte guelfa, p. 145.


58 ASBo, Provvigioni, vol. III, cc. 222r-228r; e 237r.
59 ASBo, Provvigioni, vol. III, cc. 229v.
60 ASBo, Provvigioni, vol. III, cc. 229v.
61 ASBo, Provvigioni, vol. IV, cc. 80-85.
62 ASBo, Riformagioni, vol. XII/4, c. 206.

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BOLOGNA 1300-1326. LA NUOVA ESCLUSIONE 387

o allontanamento alla linea politica di un governo instabile, rimanevano


completamente aperte 63. Ma al tempo stesso rafforzava il passaggio ver-
so un sistema politico in cui il vertice deliberava in merito allo status
giuridico degli individui, fomentando nuovi conflitti e creando in conti-
nuazione nuovi nemici. Così, quando nel 1321, in occasione del riacu-
tizzarsi degli scontri tra gli « scacchesi » e i « maltraversi » 64, Romeo fug-
gì nel luglio assieme ai suoi alleati, si provvide ad adattare le istituzioni
alla mutata temperie politica, senza modificare però i principi su cui
erano fondate. Il barisello Giuliano Raminghi, troppo legato al banchie-
re cacciato, fu sostituito nella medesima carica da Giovanni Bisanelli, a
cui si diede il compito di occuparsi dei banditi lambertazzi e di quelli
« scacchesi » 65. Vennero dunque emanati nuovi bandi (31 persone), nuo-
vi confini (43) e nuove « interdizioni » (4) 66. Nella stessa delibera i Pe-
poli e i loro seguaci venivano « creati » – testualmente – lambertazzi 67.
Per alcuni aspetti questa nuova equiparazione coglieva nel segno,
dal momento che i Pepoli, i Gozzadini e le altre famiglie « scacchesi »,
una volta fuoriuscite, cercarono di attaccare la città con l’aiuto dei « veri »
lambertazzi ancora esuli 68. Ma al tempo stesso la percezione di una
profonda differenza tra le nuove partes che l’instabile comune di Bolo-
gna continuava a generare nel Trecento e l’antica divisione tra lamber-
tazzi e geremei che aveva caratterizzato la fine del Duecento, era netta.
Al punto che, nel 1322, quando ormai molti erano i nomi con cui gli
schieramenti politici si definivano reciprocamente, una significativa deli-
bera stabilì che nessuno potesse pronunciare, pena il taglio della lingua,
nomi di parte che non fossero quelli di lambertazzi e di geremei 69. Il
tentativo segnava la necessità disperata di schiacciare su un unico piano
differenze percepite come evidenti: un tabù linguistico era invocato per
restaurare un ordine bipolare ormai chiaramente perduto.

63 ASBo, Riformagioni, vol. XII/4, c. 212 (1319) viene richiesta altra pergamena

per rifare i libri di lambertazzi, dal momento che tali libri comprendono venti volumi-
na, cinque per quartiere. Nella stessa carta si stabiliscono nuovi privilegi.
64 Gli scontri del gennaio videro opporsi sul fronte scacchese, oltre ai Pepoli, gli

Albiroli, e sul fronte opposto un gruppo di grandi magnati geremei uniti dall’antica
tradizione (Beccadelli, Galluzzi, Rodaldi).
65 Si riconfermò al capitano del popolo la sola competenza sui confinati
66 ASBo, Provvigioni, vol. IV, c. 139. Un elenco di banditi scacchesi è conservato

in ASBo, Elenchi, vol. IV, c. 154r.


67 ASBo, Provvigioni, vol. IV, c. 148r.
68 Vitale, Il dominio della parte guelfa, p. 174.
69 Vitale, Il dominio della parte guelfa, p. 175.

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388 GIULIANO MILANI

3. L’eclissi del capitano del popolo e la specializzazione della giustizia po-


litica (1303-1316)

Con l’esclusione del 1306, assieme alla ripresa del censimento dei
lambertazzi, vi fu il tentativo di rimettere in vigore, attraverso alcune
delibere del consiglio del popolo, le regole che avevano fondato la giu-
stizia politica geremea. L’esperienza delle condanne contro i « marchesa-
ni » emanate al principio del secolo, tuttavia, suggeriva al nuovo regime
di adottare una linea nettamente più dura rispetto a quanto era avve-
nuto nel Duecento. Così, da un lato, si cercò di promuovere nella
curia del capitano del popolo tutte quelle operazioni che consentivano
di presentare la nuova esclusione come una ripresa di quella interrottasi
nel 1299 (ricerche dei confinati, inquisizioni generali contro i lamber-
tazzi, sollecitazione di accuse e denunce); dall’altro, si adottò il formu-
lario che era stato utilizzato nelle sentenze politiche prodotte durante il
regime bianco, che, prevendendo la pena di morte e riferendosi a un
gravissimo tradimento perpetrato nei confronti del comune, apparivano
nettamente diverse da quella giustizia a maglie larghe emanata nel tri-
bunale del capitano del popolo 70.
Mentre nel tribunale capitaneale si riorganizzavano le ricerche dei
nuovi confinati 71 e le domande delle inquisizioni generali venivano fo-
calizzate nuovamente sui lambertazzi 72, le balìe di recente istituzione
proponevano e facevano approvare dal consiglio del popolo princìpi
giurisdizionali inediti, come il conferimento al podestà dell’arbitrio di
procedere nei crimini commessi dai lambertazzi, scritti o meno nelle
liste contro i geremei, istruendo inquisizioni, processi « sine solempnita-
te », cioè al di fuori delle procedure ordinarie, comminando multe, pene,
confini e bandi. Nella stessa occasione si stabilì che sarebbe stato puni-
to con una multa di 1000 lire chiunque avesse osato difendere un lam-
bertazzo in tribunale 73. In questo modo si cercava di affermare in ma-
niera forte il principio secondo cui, nel perseguimento della giustizia
criminale, occorreva tenere nel debito conto lo status politico-giuridico
dei cittadini, colpendo più duramente gli imputati dei quali si fosse
dimostrata l’appartenenza alla pars lambertaciorum. Non solo si rendeva

70
È bene ricordare che tali condanne erano state emesse dalla curia del podestà.
71
ASBo, Giudici, reg. 452 (II semestre del 1306). Nuove ricerche dei confinati
sono attestate in ASBo, Giudici, reg. 460.
72 ASBo, Giudici, reg. 472.
73 ASBo, Riformagioni, vol VIII/3, c. 75r.

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BOLOGNA 1300-1326. LA NUOVA ESCLUSIONE 389

più dura la giustizia politica, ma si politicizzava quella penale. Nel rag-


giungimento di un tale obiettivo la curia del capitano rappresentava un
ostacolo. Quei cittadini che, per effetto della nuova tendenza a creare
liste di lambertazzi sempre più larghe, destinate principalmente a un
uso fiscale, si venivano a trovare nella difficile condizione di lamber-
tazzomalgré lui, trovavano proprio nel tribunale capitaneale una strada
per uscirne. Come era avvenuto per tutto il corso dell’esclusione due-
centesca, ancora nel 1308, presentando all’ufficio deputato ai beni dei
banditi una petizione, era molto facile ottenere una sentenza di cancel-
lazione dalle liste, grazie ai buoni uffici di un sapiens compiacente 74.
Con la notevole differenza che in base alle nuove norme la cancellazio-
ne dagli elenchi costituiva un vantaggio maggiore. Anche nel persegui-
mento dei crimini « tradizionalmente » legati all’appartenenza di fazione
(rottura del confino, elezione illecita di un lambertazzo in un consiglio),
i giudici della famiglia capitaneale non mostravano di adattare le proce-
dure dei loro predecessori al mutato clima politico. Come in preceden-
za, i processi venivano interrotti o terminavano in assoluzione 75.
Fu con ogni probabilità per ovviare a questi inconvenienti che si
provvide a trasferire alla nuova magistratura del barisello dei beccai,
oltre al potere di scrivere gli elenchi, anche quello di perseguitare i
lambertazzi. Si trattava di un passaggio importante, che minava alle fon-
damenta la tradizione di continuità che il regime voleva istituire tra il
bando del 1274 e quello del 1307. Il capitano, ufficiale forestiero dota-
to di un mandato semestrale non rinnovabile, espressione dell’autono-
mia e risultato del processo di coordinazione del « popolo » bolognese,
fu sostituito nella persecuzione dei nemici politici dalla magistratura del
« barisello », trasmessa di padre in figlio, affidata a un cittadino bolo-
gnese vicinissimo a Romeo Pepoli e quindi cooptato direttamente dalla
parte « nera » che occupava le cariche più alte del governo del comune.
Le differenze già evidenti dal confronto delle modalità di reclutamento
sono confermate dall’analisi delle funzioni rivestite dalle due magistratu-
re. Oltre alle competenze sui nemici politici, il capitano possedeva fun-
zioni militari, politiche e giudiziarie: comandava l’esercito popolare, rac-
coglieva le proposte da presentare nel consiglio del popolo, che presie-
deva, e coordinava il tribunale deputato alla persecuzione dei crimini

74 Sul ruolo dei consilia sapientium nella giustizia civile amministrata dal giudice ai
beni dei banditi v. cap. 5.3. Le petizione del 1308 sono conservate in ASBo, Giudici,
reg. 477, cc. 11 e ss. e ASBo, Giudici, reg. 478, cc. 25 e ss.
75 ASBo, Giudici, reg. 492, c. 1r. e ASBo, Giudici, reg. 495 (I semestre del 1307).

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390 GIULIANO MILANI

commessi ai danni dell’organizzazione del « popolo ». Il barisello finora


aveva avuto nell’assetto istituzionale cittadino un ruolo infinitamente
minore. Come abbiamo già accennato nei capitoli precedenti, le uniche
attestazioni relative a questa carica che possediamo per il Duecento
sono riferite a un leader della componente geremea della società dei
beccai: Giovanni Summa, appunto barixellus, il quale negli ultimi giorni
del dicembre 1279 si era segnalato nel promuovere la seconda cacciata
dei lambertazzi 76. Nel Trecento acquisì questo titolo Giuliano Ramen-
ghi, un beccaio fedelissimo a Romeo Pepoli 77. Le competenze sui lam-
bertazzi passarono dunque da una figura (il capitano) che, seppur vena-
ta di connotazioni militari, trovava le sue funzioni fondamentali nella
mediazione delle controversie interne al « popolo » e nella rappresentan-
za del « popolo » dinnanzi al comune, a un’altra (il barisello) che si
distingueva per la sua preparazione logistica nella guerriglia urbana e
nelle relazioni diplomatiche con il re di Sicilia. La nuova figura del
persecutore veniva dunque selezionata dal lessico politico sorto durante
il regime duecentesco, ma tendeva ad esaltare il carattere di parte di
quel regime, un aspetto che all’epoca, eccettuati alcuni momenti di ten-
sione, il « popolo » era riuscito a smorzare.
Il passaggio di competenze dal capitano al barisello avvenne attorno
al 1310. Fino a quel momento le due magistrature si occuparono en-
trambe delle repressione dei lambertazzi, manifestando però indirizzi
vieppiù divergenti. Nell’ottobre del 1309 il consiglio del popolo stabilì
che i confinati lambertazzi dovevano rimanere a Venezia e ad Ancona
secondo quanto era stato stabilito nel 1306, senza allontanarsi come di
fatto stava avvenendo, e decretò che il capitano o il barisello avrebbero
dovuto indagare, punire, scegliere nuovi luoghi di soggiorno obbligato,
facendo rispettare gli ordini e non consentendo ad alcun procuratore di
allegare difese 78. Non sappiamo come si comportò il barisello, ma i
giudici che indagarono nella curia del capitano riguardo a questi fatti e
ad altri, non seguirono affatto l’indirizzo suggerito, e continuarono a
delegare puntualmente ai sapientes cittadini il loro giudizio, e quindi ad

76 Su questa figura sta svolgendo una ricerca Antonio Ivan Pini. Per il suo impe-

gno nel 1279 v. Fasoli, La pace del 1279.


77 ASBo, Riformagioni, vol. VIII/5, c. 224r (il barixellus Iulianus Raminghi trova

in una balia deputata a decidere sulla guerra con i ghibellini romagnoli l’11 marzo
1308); c. 227r (il barixellus chiede al comune l’uso di una casa e la concessione di 200
lire per spese di rappresentanza in occasione dell’arrivo della figlia di Carlo II d’Angiò
a Bologna).
78 ASBo, Riformagioni, vol. VIIII/3, c. 70r.

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BOLOGNA 1300-1326. LA NUOVA ESCLUSIONE 391

assolvere gli imputati dotandoli di importanti sentenze che venivano a


costituire basi sempre più solide per dimostrare il loro status di non-
lambertazzi 79. La paura della liberazione di banditi e confinati lamber-
tazzi costituisce in questi anni un leit-motiv nelle delibere del consiglio
del popolo 80, così come – lo abbiamo visto nel paragrafo precedente –
quella della cancellazione dalle liste di tassabili, e – lo vedremo nel
prossimo paragrafo – quella della derubricazione dei beni sequestrati.
In tutti questi casi si tratta di operazioni che in larga parte si svolgeva-
no o erano favorite dalla curia del capitano del popolo.
La netta diminuzione dei processi contro i lambertazzi nei registri
giudiziari successivi al 1309 mostra che il regime portò a termine il
trasferimento di competenze dal tribunale del capitano alla magistratura
specializzata, privando quello di una delle sue più importanti attribuzio-
ni. Una riformagione del 1313, in cui il capitano chiese che le nuove
magistrature di governo (il barisello, il preconsole dei notai, etc.) gli
conferissero la possibilità di proporre riformagioni e ordinamenti per
frenare i disordini provocati dai banditi lambertazzi nel contado, sem-
bra costituire il sintomo di una reazione di questa magistratura di fron-
te alla perdita di importanti competenze giurisdizionali e normative 81.
La totale assenza nei registri di quello stesso anno di processi contro i
lambertazzi conferma quest’impressione 82. L’anno successivo, nel quadro
delle deliberazioni che, come abbiamo visto nel paragrafo precedente,
si aprivano con l’auspicio del « totale sterminio » dei nemici, non si
fece mai riferimento al capitano del popolo. Come d’abitudine si appo-
se alle delibere la clausola sul divieto di provvedere in favore dei lam-
bertazzi, e si eccettuò da questa clausola soltanto il barisello 83.
La totale mancanza della documentazione prodotta dal barisello non
ci consente di seguire in che modo la giustizia politica venne ammini-
strata da questo magistrato vieppiù specializzato nella ritorsione contro
tutti i nemici che il regime trecentesco di Bologna andava producendo
a ritmi sempre più serrati. È possibile che tale lacuna sia dovuta a
ragioni di conservazione archivistica, ma resta il sospetto che essa testi-

79 ASBo, Giudici, reg. 517, cc. 5r; 10r.


80 Per un esempio v. ASBo, Riformagioni, vol. X/1 c. 1r (8 marzo 1311). Al ter-
mine dell’elezione di un’ennesima balia speciale, deputata a legiferare sui nemici e ad
elaborare strategie per ricavare il denaro dall’esclusione, si specifica, a ogni buon con-
to, che non possa provvedere a liberare banditi e confinati lambertazzi e bianchi.
81 ASBo, Riformagioni, vol. X/5, c. 303r.
82 ASBo, Giudici, regg. 577; 580; 584.
83 ASBo, Riformagioni, vol. XI/1, c. 8r (20 maggio 1314).

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392 GIULIANO MILANI

moni piuttosto il passaggio a una giurisdizione più informale, somma-


ria, meno legata alle procedure che, nel corso del Duecento, avevano
contribuito per varie ragioni alla normalizzazione dei processi ai lam-
bertazzi. La logica con cui il barisello operò è testimoniata da alcune
delibere conservatesi fortuitamente, come quella del 25 ottobre del 1315,
in cui si fa riferimento a una multa di trecento lire che furono costretti
a pagare, vendendo i loro beni, due lambertazzi non confinati, ma tro-
vati nel contado in violazione di una disposizione emanata 84. Ancora
più esplicita è quella del 19 gennaio del 1316, che conferiva al barisello
amplissimi poteri per punire i nemici (lambertazzi scritti nei libri, inter-
detti del 1306, nonché alcuni signori del contado, e in generale tutti i
rebelles ratione partis) che non si fossero allontanati dalla città. In base
a questa delibera il barisello avrebbe dovuto promuovere la riscossione
di condanne pecuniarie fino a 500 lire, con la condanna capitale (per i
magnati) e l’amputazione della mano (per i populares) in caso di man-
cato pagamento. Contro i favoreggiatori di questi banditi egli doveva
provvedere a riscuotere condanne pecuniarie da 300 a 500 lire, e a
distruggere l’abitazione in cui i banditi erano stati ricettati 85. È proba-
bile che queste delibere siano state applicate, e che grazie al barisello
la pena di morte abbia acquisito la funzione di una risposta ordinaria
nella repressione dei nemici politici, come – lo si vedrà nel prossimo
capitolo – avveniva in Toscana nello stesso momento. Di sicuro in que-
sti anni si portò a termine quel processo di politicizzazione della giusti-
zia criminale che il nuovo secolo aveva inaugurato a Bologna. Nelle
molte riformagioni relative alla revoca dei bandi criminali si specificava
che da tali revoche erano eccettuati i lambertazzi. La novità era costitu-
ita dal fatto che in tali esenzioni non rientravano, come nel Duecento,
solo i banditi lambertazzi, ma anche gli interdetti, i semplici discenden-
ti di persone che trent’anni prima erano state condannate in forme
anche lievi. Costoro, che fino a quel momento non erano stati privati
della possibilità di accusare un altro cittadino si videro revocare il dirit-
to di farlo bandire, mentre venivano stabiliti premi pecuniari per chi
avesse fatto bandire loro, sempre per crimini comuni 86.
Il passaggio a una giustizia politica controllata dal governo del co-
mune attraverso una magistratura specializzata non fu inficiato dalla
destituzione del Raminghi dalla carica di barisello, poiché la carica non

84 ASBo, Riformagioni, vol. XI/3, c. 177v.


85 ASBo, Riformagioni, vol XI/3, c. 237.
86 ASBo, Riformagioni, vol XI/3, c. 184.

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BOLOGNA 1300-1326. LA NUOVA ESCLUSIONE 393

venne abolita, ma ricoperta da un cittadino più fedele alla fazione che


nel 1321 aveva spodestato il Pepoli. Tale provvedimento testimonia anzi
la sostanziale accettazione dell’idea che ormai dei nemici dovesse incari-
carsi un funzionario specializzato, e non più, come era avvenuto fino al
1309-1310, un ufficiale del popolo. La differenza riscontrabile tra l’ope-
rato del capitano e quello del nuovo funzionario mostra che definire i
lambertazzi come « nemici del popolo » non aveva rappresentato fino a
quel momento soltanto un espediente propagandistico, ma una perce-
zione diffusa e sentita, in grado di condizionare profondamente la giu-
stizia amministrata nei loro confronti.

4. La difficile riconquista di un’entrata marginale. Lo sfruttamento dei


beni dei banditi nel Trecento

Dopo il rientro del 1299 si assiste a una rottura di continuità anche


nell’amministrazione dei beni dei banditi lambertazzi. Nel periodo del
predominio bianco la documentazione amministrativa tace del tutto (non
sono conservate, né attestate nuove liste di beni), mentre prosegue per
inerzia l’attività giudiziaria e deliberativa, testimoniando però una netta
marginalizzazione dell’argomento. Sulla base di una delibera del 1303, i
lambertazzi rientrati continuarono a presentare petizioni e a riottenere i
beni 87. Nell’ottobre 1304, per esempio, i Foscardi ebbero indietro le
loro terre e i loro banchi sulla piazza del mercato, le staciones 88. L’atti-
vità del giudice ai beni dei banditi, tuttavia, non fu circoscritta alla
restituzione dei possessi ai banditi, e alla soluzione dei conflitti che da
tali restituzioni scaturivano tra i banditi rientrati e quanti erano riusciti
nel frattempo a ottenere in concessione case, staciones e terreni 89. Nel
frattempo erano cominciati i nuovi bandi contro gli alleati bolognesi di
Azzo VIII d’Este. La competenza su questa materia venne assunta in
maniera automatica dall’ufficio capitaneale, che si limitò a promuovere
nel 1303 una inquisizione sui loro beni. A quanto attestano i registri,
l’indagine si interruppe presto, anche perché molti dei « marchesani »
banditi si erano sottoposti agli ordini del comune 90. Il capitano, su

87 ASBo, Giudici, reg. 417, c. 1r.


88 ASBo, Giudici, reg. 443, c. 11r. A c. 12r si trovano altre richieste di derubrica-
zione dei beni.
89 ASBo, Giudici, reg. 443: « Liber causarum civilium vertentium de bonis condam
lambertaciorum ».
90 ASBo, Giudici, reg. 406, c. 1r e ss.

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394 GIULIANO MILANI

richiesta del suo giudice ai beni, affermò che per il momento i nuovi
banditi venuti ad mandata comunis dovevano comunque lasciare i loro
beni alle cure dei privati e di quanti li avevano ancora in affitto 91, ma
non sembra che tale decisione abbia avuto esito.
Con la nuova esclusione del 1306 si tentò di riorganizzare in tempi
brevi il censimento e lo sfruttamento dei beni dei banditi « bianchi » e
lambertazzi. Procedendo anche in questo campo sulla scia di quanto
era avvenuto alla fine degli anni Settanta del Duecento, i massari delle
comunità del contado e i privati cittadini furono sollecitati a denuncia-
re terre e case dei banditi. Come allora, massari e privati avrebbero
avuto diritto a un terzo dei beni denunciati, e i loro nomi sarebbero
stati tenuti segreti 92. Tra la fine del 1306 e l’inizio dell’anno successivo
tali denunce vennero raccolte in appositi registri, sempre ad opera dei
giudici e dei notai del capitano del popolo 93, a cui nel gennaio il con-
siglio del popolo aveva rinnovato la competenza sui beni dei lambertaz-
zi 94. Nelle intenzioni si volle promuovere un censimento dei beni anco-
ra più analitico di quanto era avvenuto in passato, e i beni denunciati
vennero distinti in mobili e immobili 95. Contemporaneamente alle nuo-
ve denunce dei beni giunsero nuove accuse e notifiche relative alla
detenzione illecita e dannosa per gli interessi del comune dei beni se-
questrati. Come nel 1274 e nel 1279, nel corso del conflitto civile vi
erano stati fenomeni di accaparramento 96.
I beni del nuovo sequestro furono dapprincipio sfruttati attraverso
il sistema della divisione in lotti, condotta dall’ufficio ai beni dei bandi-
ti e della concessione biennale ai privati interessati e ai massari delle
comunità del contado 97. Vi furono però difficoltà nella riscossione degli
affitti 98. Le case in città furono vendute all’incanto con il vincolo che
fossero immediatamente distrutte, ma anche su questo sorsero problemi
poiché i cittadini che le comprarono non procedettero alla distruzione,

91ASBo, Giudici, reg. 417, c. 5v.


92ASBo, Giudici, reg. 466.
93 ASBo, Giudici, reg. 462 (denunce dei beni dei banditi presentate dai massari

delle comunità del contado nel quartiere di porta Procola); reg. 463 (stessa cosa per
porta Stiera); reg. 464 (porta Ravennate).
94 ASBo, Riformagioni, reg. VIII/3, c. 81.
95 ASBo, Giudici, reg. 465 (beni immobili); reg. 466 (beni mobili).
96 ASBo, Giudici, reg. 466, c. 1r (febbraio 1307).
97 ASBo, Giudici, reg. 467 (affitti ai massari); ASBo, Giudici, reg. 468 (affitti ai

privati cittadini).
98 ASBo, Giudici, reg. 470, cc. 1r e ss.

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BOLOGNA 1300-1326. LA NUOVA ESCLUSIONE 395

costringendo il capitano all’emanazione di precetti e all’istruzione di


processi 99. La diffusa percezione che i beni denunciati da massari e
cittadini fossero solo una piccola parte di quelli su cui i pochi, ma
facoltosi banditi vantavano diritti di proprietà, provocò nel 1308 l’istru-
zione di nuove inquisizioni generali, che tuttavia non diedero risultati
rilevanti 100.
Si giunse così all’aprile del 1308, quando il capitano riferì nel con-
siglio del popolo che dai beni dei banditi lambertazzi e da quelli degli
altri banditi non si ricavava che una scarsisssima utilità, come del resto
poco si ricavava dalle collette dei lambertazzi, e che dunque il comune
doveva prendere provvedimenti al riguardo. Il consiglio decretò che tutte
le sentenze per mezzo delle quali a partire dal marzo 1307 i beni dei
banditi erano stati derubricati per essere restituiti ai cittadini che li
avevano richiesti dovevano essere presentate nuovamente al capitano. Il
suo giudice vicario le avrebbe riesaminate e avrebbero avuto valore so-
lamente in seguito alla sua approvazione 101. In sostanza per i beni dei
banditi avveniva lo stesso fenomeno che nello stesso periodo interessava
il censimento dei lambertazzi tassabili con le collette speciali: in un
caso come nell’altro, le decisioni generali tese a sfruttare in forme am-
pie la nuova esclusione per risollevare le entrate trovavano un grave
impedimento nell’emanazione di provvedimenti particolari (dispense dalle
collette; derubricazioni di beni sequestrati) in grado di erodere le risor-
se nuovamente acquisite 102. Come per le collette, anche sui beni il pro-
blema si protrasse per i primi anni della nuova esclusione. Una rifor-
magione del marzo 1308 confermò quanto era stato deciso in aprile,
vietando di interrompere il lavoro di revisione del vicario, e stabilì che
una volta finito questo lavoro i nuovi inventari dei sequestri sarebbero
stati portati in consiglio del popolo e approvati a maggioranza 103. Nel
1309 si giunse faticosamente alla compilazione di tre nuovi inventari
dei beni 104. Ma lo stesso criterio di ordinamento mostrava chiaramente

99 ASBo, Giudici, reg. 469. Per i precetti del capitano sulla mancata distruzione

delle case v. anche ASBo, Giudici, reg. 470.


100 ASBo, Giudici, regg. 480; 481; 482.
101 ASBo, Riformagioni, reg. VIII/3, c. 247 (17 aprile 1308).
102 Sulle dispense dalle collette e il danno economico rappresentato dalle revisioni

della schedatura fiscale v. paragrafo 2 di questo capitolo.


103 ASBo, Riformagioni, reg. VIII/3, c. 264v.
104 ASBo, Giudici, regg. 501 (inventario dei beni locati dai massari delle terre) e

502 (inventario dei beni da mettere all’incanto nel consiglio del popolo), e 503 (inven-
tario dei beni in possesso dei geremei).

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come fosse ancora irrisolta la questione della detenzione illegittima: un


registro conteneva i beni affittati dai massari, un altro registro, notevol-
mente più consistente, le terre e le case da affittare nel consiglio del
popolo, e, infine, un terzo i beni concessi ai geremei sui quali occorre-
va condurre nuove inquisizioni 105. Nell’insieme si trattava di un patri-
monio considerevole, pari a circa un decimo di quello del 1277, ma
era l’organizzazione dello sfruttamento a mancare.
Verso la fine del 1310 si presentarono al consiglio del popolo
diverse opzioni sulle modalità dello sfruttamento dei beni che, si di-
ceva, continuava a non dare frutti. La decisione era stata affidata in
un primo momento a una commissione formata dal capitano, dagli
anziani e consoli e da alcuni sapientes, i quali, tuttavia, non essendo
riusciti a raggiungere un parere unanime, decisero di sottoporre al
consiglio del popolo i differenti pareri formulati dai sapienti affinché
fossero votati 106. Il primo sapiente, Arardo Vinti, propose che dai
beni dei nuovi banditi fosse ricavata una rendita per indennizzare
coloro che durante il regime dei « bianchi » erano stati banditi. Si
trattava di quanto era stato fatto nel corso degli anni Settanta del
Duecento a Firenze, Prato e in molte altre città del circuito guelfo-
angioino, sulla base di quel concetto di mendum che aveva sostenuto
lo sviluppo delle parti guelfe come organismi di riferimento politico
ed economico del comune. Ma al tempo stesso si trattava di una
procedura completamente estranea alla tradizione bolognese. Forzan-
do in parte la vicenda dell’ultima esclusione, il regime « bianco » era
assimilato a un regime di lambertazzi. Forse perché consapevole di
questa forzatura, Arardo Vinti limitò la sua proposta al tempo di
pace, precisando che nel caso in cui Bologna si fosse trovata nuova-
mente in guerra i beni sarebbero stati nuovamente pubblicati. Ren-
dendo ancora più evidente il ricorso al modello fiorentino di gestio-

105 ASBo, Giudici, reg. 500 contiene le inquisizioni su questi possedimenti, ma


non riporta gli esiti finali.
106 ASBo, Riformagioni, reg. IX/5, c. 265v: « Item cum reformatum fuerit in con-

silio populi de possessionibus quod super bonis bannitorum et rebellium comunis Bo-
nonie inter milites comunis Bononie dividendis vel in consilio populi Bononie incan-
tandis et locandis ut moris est remaneret in provvixione domini capitanei, ançianorum
et consulum presentis, et sapientum quos secum habere voluerunt et quecquid per
ipsos providerentur reducentur ad consilium populi et secundum voluntatem consilii
populi procedatur, et super predictis, congregatis dominis capitaneo, ançianis et consu-
libus et sapientibus ab eis electis, providetur quod dicta sapientium qui consulerunt
super predictis legantur in consilio populi; quorum sapientum dicta sunt hec ».

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BOLOGNA 1300-1326. LA NUOVA ESCLUSIONE 397

ne dei sequestri chiese che i nuovi registri fossero intitolati ai « beni


della parte dei geremei » 107.
Alla proposta magnatizia di Arardo Vinti si contrappose quella po-
polare di Deolino dei Battagliucci, un sapiens che proveniva da una
famiglia di notai, il quale suggerì di affittare tutti i beni situati nel
contado ai massari delle terre, mettendo all’incanto nel consiglio del
popolo solo i terreni urbani periferici della guardia civitatis 108. Si tratta-
va di un tentativo di scaricare l’intero onere dell’affitto dei fondi rurali,
che dovevano essere ormai in uno stato di abbandono, sulle comunità,
riservando ai cittadini le vigne e gli orti più pregiati. Un altro sapiente,
anch’egli notaio, propose che i beni fossero ripartiti in lotti del valore
stimato di mille lire ciascuno, da concedere attraverso un sorteggio tra
i milites cittadini, i quali li avrebbero avuti in concessione per dieci
anni facendoli coltivare diligentemente e riscuotendone i frutti 109. In
questo modo si tentava di recuperare il valore dei terreni cointeressan-
do un’intera categoria sociale, i cavalieri, e responsabilizzandoli rispetto
al mantenimento dell’esclusione. Infine, un quarto sapiente propose che
i beni fossero incantati al consiglio del popolo come si era sempre
fatto 110. Vinse quest’ultima proposta, con la specificazione che nessun
bandito o discendente di bandito in linea maschile avrebbe potuto rice-
vere un terreno in locazione, pena cento lire ogni volta che ciò fosse

107 ASBo, Riformagioni, reg. IX/5, c. 265v: « Dominus Arardus de Victis con-
suluit quod de bonis bannitorum providatur yndempnitati illorum qui fuerunt banni-
ti condempnati vel confinati tempore illorum receptionis civitatis et duret dicta prov-
visio toto tempore quo civitas Bononie erit sine guerra. Et si contingat civitatem
habere guerram tunc dicta bona remaneant in comuni Bononie, et quod de dictis
bonis fiant libri et intitulentur quod sunt bona et possessiones partis zeremiensium
civitatis Bononie ».
108 ASBo, Riformagioni, reg. IX/5, c. 265v: « Dominus Deolinus de Bataglucis con-

suluit quod dicta bona locentur comunibus terrarum scilicet cuilibet comuni illa que
sunt in curia sua pro eo quod tassata sunt secundum formam statutorum et bona que
sunt in guardia civitatis incantentur et locentur in consilio populi plus offerenti ».
109 ASBo, Riformagioni, reg. IX/5, c. 265v: « Dominus Martinus Vernaça nota-

rius consuluit quod dicta bona dividantur inter milites comunis Bononie equis por-
tionibus eundo ad brevia inter ipsos milites et quis habuerit breve possit se ipsum
eligere vel alium de militibus quem voluerit et dentur talis militibus ad terminem
decem annorum et quod per iudicem domini capitanei fiat inquisitio de valore dicto-
rum bonorum et quod laboratores dictorum bonorum teneantur de fructibus refun-
dere dictis militibus facta dicta divisione et ipsis possessoribus bene et diligenter
facere laborari. Salvo afficto dominorum Bassiani de Mediolano et Petri de Eugubio
iudicum et dentur de dictis bonis cuilibet militi tantum quod valeat mille libris bo-
noninorum pro una parte ».

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avvenuto 111. Dopo una discussione non priva di interesse, in cui si era-
no visti progetti innovativi per risolvere il problema dell’affitto dei beni
sequestrati, si tornava esattamente al punto di partenza.
Lambertazzi e geremei continuarono così a presentare petizioni al
consiglio del popolo per riacquisire i beni sequestrati, e nella maggior
parte dei casi ci riuscirono 112. La risorsa dei sequestri non costituiva
più un cespite di entrate rilevante per le finanze comunali, che conta-
vano sempre di più sui prestiti di Romeo Pepoli. Nel 1311 fu concesso
l’arbitrio di provvedere alla salvaguardia del comune a una balìa specia-
le di diciassette sapienti da lui presieduta. Tra le prime decisioni vi fu
quella di non accogliere più alcuna petizione relativa ai beni dei lam-
bertazzi, dal momento che moltissime frodi erano state compiute al
riguardo, di assolvere il capitano del popolo dal capitolo del suo giura-
mento relativo al recupero dei beni dei banditi, e di dichiarare nulle
tutte le « restituzioni » 113. Ma anche questa volta la decisione sollevò
reazioni di protesta e nel luglio si dovette recedere, stabilendo in un
primo momento che sarebbero state accolte solo petizioni volte a riot-
tenere beni sequestrati ai banditi non lambertazzi 114.
Vista la comprovata incapacità di pervenire a una soluzione nel qua-
dro del sistema tradizionali di sfruttamento, che lasciava aperti vasti
spazi alle restituzioni, nel dicembre del 1311 si cambiò completamente
politica: rispondendo a una petizione di un gruppo di geremei che si
lamentava di non disporre più delle proprie sostanze in seguito ai dan-
ni sofferti durante quella che veniva menzionata come la « tirannia di
Bonincontro dagli Spedali », e cioè il regime « bianco » degli anni 1303-
1306, si decise di cedere ai petitori l’intero patrimonio sequestrato 115.
Per la prima volta a Bologna si gestì il sequestro secondo la prassi del
mendum, risarcendo i danneggiati a ben sei annni dal torto patito, come
aveva proposto l’anno precedente Arardo dei Ricci, ma senza le limita-
zioni e i correttivi che da questo sapiente erano stati suggeriti. I petito-

110 ASBo, Riformagioni, reg. IX/5, c. 265v: « Dominus Thomas de Riccis consuluit

quod dicta bona incantentur et locentur in consilio populi per iudicem domini capita-
nei plus offerenti ut moris est ».
111 ASBo, Riformagioni, reg. IX/5, c. 266v.
112 Per alcuni esempi della restituzione dei beni in questi anni v. ASBo, Giudici,

reg. 518.
113 ASBo, Riformagioni, reg. X/1, cc. 35 e 41.
114 ASBo, Riformagioni, reg. X/1, c. 65.
115 ASBo, Riformagioni, reg. X/2, cc. 122v e ss.

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BOLOGNA 1300-1326. LA NUOVA ESCLUSIONE 399

ri danneggiati furono stimati e si provvide a distribuire proporzional-


mente i beni sequestrati 116.
Ma non si trattò ancora di una soluzione definitiva. La guerra che
si trovò a combattere Bologna dal 1313 e la necessità di danaro e
frumento ad essa connessa provocarono, a soli due anni dalla decisione
e a uno dall’effettiva concessione del mendum, l’emanazione di una ri-
formagione in cui si stabilì che, per provvedere alle necessità della lotta
contro l’imperatore, i suoi seguaci e i nemici della Chiesa, i beni ceduti
ritornassero in posseso del comune senza eccezioni, e che lo stesso
doveva avvenire per quei beni che fossero stati derubricati in seguito a
petizioni o a decisioni del consiglio. Ancora una volta, come sempre,
seguivano le eccezioni, rappresentate dai beni dei banditi concessi a
soggetti dotati di particolari privilegi, come il barisello Giuliano Ramin-
ghi e altri 117.
Sembra tuttavia che, in questa occasione, l’affitto dei beni fu orga-
nizzato in maniera più efficiente, visto che, nel 1315, dopo moltissimi
anni di rendite ridottissime, si giunse a raccogliere una somma di circa
2000 lire 118. Si tornava così, dopo quasi dieci anni di tentativi, a una
situazione che raggiungeva (ma in un contesto economico completa-
mente mutato) la metà nominale delle entrate degli anni 1286-1287,
quando il pessimo risultato raggiunto in seguito all’instaurazione del
sistema dei lotti sorteggiati nel consiglio dei Duemila, aveva scatenato il
ritorno al sistema dell’incanto nel consiglio del popolo. Un risultato
simile si raggiunse l’anno successivo 119.
Dopo questa data, la documentazione normativa non fa più che
brevi cenni ai beni dei banditi, solo per riaffermare che essi non devo-
no essere concessi, ma mantenuti in comune, cosa che evidentemente

116 È giunto fino a noi anche l’estimo sulla base del quale si procedette alla divi-

sione, conservato in ASBo, Beni, vol. VI, cc. cc. 143-148: « In Christi et beate Marie
virginis gloriose matris eius amen. Hoc est extimum et quantitates extimi ac eciam
nomina ipsorum extimatorum quibus concessi sunt et fuerunt per comune et populum
Bononie bona omnia et singula bannitorum rebellium et inhobedientum comunis et
populi Bononie, secundum formam reformationis conscilii populi Bononie scripta manu
Gerardi Guidonis Bontalenti notarii tunc anzianorum et consullum populi Bononie.
Sub annis domini Millesimo trecentesimo duodecimo.
Indicione decima ».
117 ASBo, Riformagioni, reg. X/5, c. 324.
118 La cifra è ricavabile da due registri di introiti dei beni dei banditi conservati

nella serie dei giudici al sindacato ASBo, Sindacato, b. 17, regg. 3 e 5.


119 ASBo, Sindacato, b. 18, regg. 1 e 2.

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400 GIULIANO MILANI

avviene sempre più di rado. Non siamo quindi in grado di ricostruire


quale fu la strategia di sfruttamento applicata ai beni di quanti vennero
banditi come « maltraversi », e in seguito come « scacchesi ». A restare
disponibili furono con ogni probabilità i beni dei lambertazzi più reci-
divi, di quanti si erano definitivamente trasferiti in altre città, ma è
lecito pensare, almeno a giudicare dalle fonti normative, che questo
patrimonio, che nel 1315 consentiva di ricavare una somma comunque
marginale nel quadro del bilancio comunale, venne progressivamente
eroso in seguito a concessioni mosse da petizioni, dationes in solutum,
risarcimenti, e cioè a tutte quelle strategie che andavano prendendo
sempre più importanza, assieme alla concessione di privilegi, nel regime
bolognese trecentesco. Certo è che, nel corso del primo XIV secolo,
l’urgenza della guerra aveva spinto a privilegiare tra le risorse fornite
dall’esclusione quella delle collette speciali, in grado di fornire danaro
in tempi stretti, rispetto alla più difficile sfida di uno sfruttamento dei
beni organizzato e coerente, che necessitava una pianificazione di lungo
periodo, un’ampia capacità di controllo e di amministrazione, nonché
un certo consenso su cui fondare il patto tra comune proprietario e
affittuari-concessionari. Tutte queste condizioni erano progressivamente
venute meno.

5. Conclusioni

L’esclusione trecentesca aveva dunque assunto caratteristiche nuove


rispetto a quella dei decenni precedenti: l’aspetto non selettivo e arbi-
trario delle liste, il carattere criminale e specializzato della giustizia po-
litica, l’introduzione del meccanismo del mendum e il ricorso alla ven-
dita nella gestione dei beni.
L’operazione che aveva condotto alla scrittura del primo elenco
di banditi e confinati, quello del 1277, era consistita in una selezione
dei nomi compresi in tutte le liste dotate di valenza anagrafica pro-
dotte dal comune sino a quel momento. Più tardi, nel 1287, quando
le numerose variazioni di status avevano reso necessario un nuovo
elenco, si procedette stabilendo una serie di regole che prevedessero
ogni possibile vicenda penale individuale e applicando queste regole
agli elenchi da riformare. Nel Trecento, al contrario non avvenne
alcuna selezione: l’operazione più importante divenne l’indiscriminato
recupero. Le singole menzioni di ghibellini presenti negli elenchi sino
a quel momento redatti furono accorpate in grandi libri miscellanei

Capitolo 9.pmd 400 09/11/2009, 16.28


BOLOGNA 1300-1326. LA NUOVA ESCLUSIONE 401

destinati a costituire la base per l’imposizione delle collecte lamberta-


ciorum. Scanditi da rubriche che segnalavano l’elenco di provenienza,
convivevano nello stesso registro i nominativi di condannati vecchi e
nuovi, ma anche quelli di ex condannati, ex sospetti, ex graziati, e
defunti.
Ma il Trecento segnò un’altro passaggio fondamentale nell’elabora-
zione e nell’utilizzo delle liste. Esse persero progressivamente il loro
carattere « descrittivo » e acquisirono una valenza « normativa » che scon-
finava nell’arbitrarietà. Sebbene vi fosse sempre stata una componente
artificiale nell’identificazione dei nemici, tale componente era stata fino
a quel momento inquadrata in una serie di regole. Nel 1277 la decisio-
ne di ripartire i confinati in ben quattro categorie differenti mostrava la
volontà di adattare ad ognuno una pena corrispondente alla sua re-
sponsabilità. In seguito, i criteri erano mutati, includendo, con l’intensi-
ficarsi della normativa antimagnatizia, il grado di pericolosità sociale dei
lambertazzi. Così, nel 1286 era stato decretato che i magnati, più peri-
colosi, soggiacessero a pene più alte dei popolani. A partire dal 1307,
non tanto nelle liste di banditi e confinati, ma in quelle ben più consi-
stenti di tassabili, vennero incluse persone che per impegno personale e
« carriera penale » presentavano storie profondamente differenti, il cui
unico tratto in comune era stato quello di esser state identificate come
lambertazze almeno una volta negli ultimi quarant’anni. Si passava così
da liste « passive » che registravano, punendolo, un comportamento, a
liste « attive » che definivano, a fini fiscali e politici, una condizione, in
base a un criterio che, anche nella percezione dei contemporanei, era
molto più astratto.
Nel campo dell’amministrazione della giustizia politica la prima tra-
sformazione aveva avuto luogo già nei primi anni del Trecento, nel
corso del regime di Bonincontro degli Spedali, quando – lo si nota
dalll’intestazione delle liste – l’esclusione fondata sul perseguimento di
una condizione (quella di lambertazzo) aveva cominciato a cedere il
passo a un’esclusione fondata sull’accertamento di un grave reato, quel-
lo di ribellione. In altre parole, l’orizzonte eccezionale dell’appartenza
al partito sconfitto cominciò a essere inquadrato in un concetto, quello
di rebellio, capace di comprenderlo assieme ad altri comportamenti. In
tal modo si rese « normale » la giustiza politica in un senso molto di-
verso da quello in cui lo si era fatto nel corso degli ultimi venticinque
anni del Duecento. Allora la si era gradualmente assimilata alla giustizia
per i reati « comuni » contribuendo ad attenuarla; ora se ne stabilizzava
il carattere d’emergenza, aggravandola.

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402 GIULIANO MILANI

Su questa base si innestò il cambiamento più rilevante del Trecento,


la sottrazione della competenza in materia di lambertazzi al tribunale
del capitano del popolo e il suo trasferimento al barisello dei beccai.
In tal modo si sottoponeva a un controllo più diretto da parte del
potere politico una sfera giudiziaria che in precedenza aveva goduto di
notevole autonomia. Il barisello dei beccai era strutturalmente diverso
dal capitano del popolo. Esso non godeva di alcuna funzione super
partes e non rappresentava il vertice di un « comune parallelo » come
era stato il « popolo » duecentesco, ma era chiaramente omogeneo al
regime e disposto in una posizione gerarchicamente inferiore ad altri
magistrati. A lui fu affidata la persecuzione dei ribelli politici: non più
solo i lambertazzi, ma anche i bianchi e gli altri dissidenti che, di volta
in volta, i nuovi regimi avrebbero prodotto, mantenendo questa magi-
stratura come elemento di continuità.
Infine, anche in campo economico e finanziario, il sequestro dei
beni cominciò a cambiare forme e destinatari. Dopo una fase di inter-
regno, in cui le contraddizioni già espresse nel Duecento (divaricazione
tra norme generali tendenti a incrementare il patrimonio e provvedi-
menti particolari tesi a concenderne parti ai privati petitori, mancanza
di denunce e crescita delle petizioni) deflagrarono, annullando ogni
possibile vantaggio economico, si passò a gestire i beni secondo princi-
pi differenti. Sin dal 1306 si cercò di cercare un vantaggio economico
nell’indiscriminata (e, dunque, fallimentare) estensione del gruppo dei
tassabili con le collette speciali. Per la prima volta nel 1311 l’intero
ammontare dei sequestri fu ceduto ai geremei, che, secondo il tenore
della loro richiesta erano stati danneggiati durante il regime di Boni-
contro degli Spedali.
Si trattava di soluzioni destinate a durare poco, come dimostra il
fatto che di lì a due anni si tornò al sistema antico. Ma si trattava
anche della caduta di un tabù, quello che sino a quel momento aveva
imposto ai vari regimi che si erano alternati a Bologna di favorire quo-
te larghe di cittadinanza. Il fatto che sul medio e lungo periodo questa
intenzione non aveva portato a risultati economicamente vantaggiosi, non
giustificava il suo abbandono provvisorio da parte di un regime che
non aveva mai usato il sequestro come un investimento speculativo, ma
piuttosto come un’arma politica. Nel Duecento si era tentato di ovviare
a problemi simili con decisioni differenti: era dunque qualcosa di più
generale che stava cambiando.
Anche senza esagerare la contrapposizione, appare in maniera evi-
dente come le varie modifiche che portò il cambiamento di secolo fa-

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BOLOGNA 1300-1326. LA NUOVA ESCLUSIONE 403

cevano capo a un dato comune: il passaggio a una struttura politica


più autoritaria, che tendeva cioè a privilegiare il momento del comando
e a sminuire quello del consenso. Questa struttura rappresentava il ri-
sultato finale del progetto elaborato a partire dalla fine degli anni 1260
nel circuito guelfo-angioino, teso a rendere la « parte » il vero governo
del comune, a dotarla di un controllo sull’esclusione dei nemici talmen-
te esteso da consentirle di filtrare l’accesso a tutte le istituzioni parteci-
pative e, dunque, a ridefinire la cittadinanza secondo criteri radicalmen-
te diversi da quelli del comune podestarile. Due generazioni dopo che
le partes avevano provato per la prima volta a volgere a proprio van-
taggio gli strumenti elaborati dal « popolo » per eliminare la conflittuali-
tà politica, in una città sempre meno pacificata, quel progetto stava
finalmente trionfando.

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404 GIULIANO MILANI

Capitolo 9.pmd 404 09/11/2009, 16.28


Capitolo X

L’ESCLUSIONE NORMALIZZATA
LA GENERAZIONE DEL 1260

1. Nuove pratiche e vecchie giustificazioni


La vicenda dell’esclusione bolognese analizzata nel capitolo appena
concluso offre due utili spunti di riflessione. In primo luogo, i vari
regimi che si alternarono a Bologna nel primo Trecento misero in atto
contro i propri nemici alcune pratiche politiche del tutto nuove. In
secondo luogo, queste novità non furono presentate come tali. Per ren-
derle accettabili i regimi trecenteschi si richiamarono al lessico della
fine del Duecento.
Gli stessi elementi sembrano caratterizzare, in forme differenti a se-
conda dei casi, molte altre realtà italiane, e suggeriscono di considerare
un altro processo visibile a Bologna: l’evoluzione verso strutture di po-
tere più gerarchiche, in cui i diversi elementi istituzionali e i gruppi
presenti in città, che in precedenza apparivano, per così dire, posti
sullo stesso piano e occupati in un reciproco conflitto (comune, parti,
« popolo »), vengono progressivamente a collocarsi in un ordine nuovo,
diverso a seconda delle città, in quanto risultante dai diversi esiti di
quel conflitto, ma ovunque caratterizzato dalla subordinazione di alcune
istituzioni ad altre, di alcuni gruppi ad altri gruppi. Il processo non è
improvviso. L’ordine gerarchico che rende espliciti i rapporti di forza
tra gli elementi che si erano scontrati alla fine del Duecento si presenta
in una prima fase mutevole per poi cominciare a stabilizzarsi solo nella
generazione successiva, quando dagli anni Trenta del Trecento viene
sancito in maniera più solenne dalla riscrittura statutaria 1. Già prima,
tuttavia, le novità che compaiono a Bologna e altrove nella persecuzio-
ne dei nemici (giustificazione attraverso la normativa vigente, passaggio
verso liste più arbitrarie, subordinazione della giustizia contro i nemici
al potere politico, accentramento nella gestione dei beni) costituiscono
un importante segnale (nonché, come si vedrà, una delle cause) di que-
sta prima gerarchizzazione istituzionale.
1 Tabacco, Egemonie sociali, p. 361.

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406 GIULIANO MILANI

A questa evoluzione istituzionale non si accompagnò una parallela


evoluzione del vocabolario e della strumentazione politica. Come appa-
re da un numero crescente di ricerche 2 le forme stattali successive a
quelle del comune podestarile maturo manifestarono una certa difficol-
tà a elaborare « nuovi e accettati linguaggi e pratiche politiche » 3. A
provocare questa inadeguatezza fu, in principio, anche un problema di
legittimazione: il cambiamento che presentava molte delle caratteristi-
che di una svolta autoritaria, ebbe bisogno di essere presentato atte-
nuandone la carica di novità. A questo scopo si promosse in ogni
campo, non solo in quello dell’esclusione il recupero del lessico prece-
dente, a Bologna espresso in maniera palmare dalla materiale copiatura
delle vecchie liste nei nuovi volumi, ma anche altrove, come si vedrà,
chiaramente visibile.
Nelle pagine che seguono, si partirà dall’episodio più testimoniato
al di fuori di Bologna, quello che coivolse i bianchi e i ghibellini fio-
rentini a partire dal 1301, per mettere in luce l’aspetto centrale del-
l’esclusione politica trecentesca: la giustificazione dell’esclusione attraver-
so le leggi ordinarie della città. Si proverà quindi a mostrare, sulla base
della documentazione relativa al viaggio in Italia di Enrico VII, come
questo sviluppo osservabile a Firenze fu presente in molte altre realtà
italiane, anche se subì ulteriori evoluzioni quando, superata la fase della
pacificazione, la presenza imperiale favorì il ritorno a uno schema di
definizione dei conflitti fondato sulla chiave guelfo-ghibellina. Si spie-
gherà, quindi, l’evoluzione alla luce della più generale modifica delle
istituzioni comunali, quella gerarchizzazione delle istituzioni cui si è ac-
cennato. Infine, si cercherà di mostrare come i governi che esclusero i
loro nemici fino a tutto il Quattrocento continuarono a utilizzare la
strumentazione allestita tra Due e Trecento. Fu nel corso di questa
generazione che si chiuse il canone dell’esclusione politica, cristallizzan-
do procedure e terminologie destinate a permanere a lungo.

2. Un’epurazione repubblicana. Le condanne fiorentine del 1302

Il Libro del Chiodo di Firenze costituisce, in virtù del suo carattere


di codice miscellaneo, l’immagine più chiara dell’evoluzione subìta dalla
giustizia politica comunale in quest’epoca. Esso può essere infatti defi-

2 V. Capitolo I.
3 Petralia, « Stato » e « moderno » in Italia, pp. 38-39.

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L’ESCLUSIONE NORMALIZZATA. LA GENERAZIONE DEL 1260 407

nito come il risultato di una giustapposizione, niente affatto ordinata né


sistematica, di copie di documenti di natura diversa prodotti nel corso
di più di un secolo, accomunati dall’idea della difesa della parte guelfa
fiorentina e della lotta contro i ghibellini. Due sezioni occupano la
maggior parte del registro: le liste di ghibellini banditi e confinati, scrit-
te negli anni 1268 e 1269 (analizzate nel Capitolo quarto), e le sentenze
emanate nel 1302 in seguito alla vittoria dei neri 4. Questi due docu-
menti, come anche gli eventi che diedero loro origine, sono stati assi-
milati spesso dalla storiografia nel quadro di un modello di evoluzione
politica già diffuso nella generazione di Dante, fondato sull’alternanza
di fasi scandite dall’esclusione di una pars dal comune e dal predomi-
nio di un’altra (periodo ghibellino, guelfo, « bianco », « nero ») 5. Essi
rivelano tuttavia a un’analisi appena più ravvicinata profonde differenze
formali e sostanziali nella forma documentaria, nell’autorità promuoven-
te, nella legittimazione giuridica, e, infine, nel gruppo dei condannati.
Le liste del 1268-69 costituiscono, come si è visto, elenchi di citta-
dini identificati come membri di una pars, condannati ipso facto alle
pene del bando e del confino da una magistratura eminentemente poli-
tica (i dodici, più i capitani di parte). In esse, come, del resto, nelle
altre liste coeve ad esse assimilabili, come il Liber bolognese del 1277,
non compare alcuna traccia di processi. Le liste del 1302 invece non
sono elenchi di proscrizione, ma sentenze nominali, esiti finali di proce-
dimenti giudiziari formalmente regolari, con cui si è dimostrato che
alcune persone hanno compiuto atti che, nel contesto della normativa
vigente, vanno considerati come trasgressioni particolarmente gravi, pas-

4 ASFi, Capitani di parte, Numeri rossi, 20, pp. 81-135 e 1-77 (Il Libro del chiodo,

pp. 171-282 e pp. 3-167).


5 Uno dei luoghi fondanti di questo modello di evoluzione storico-politica è senza

dubbio la Commedia dantesca. Due passi notissimi costituiscono altrettanti esempi di


questa tendenza a scandire la vicenda cittadina attraverso gli esilii. Nel discorso di
Farinata degli Uberti (If, X, 46-51), il ghibellino e Dante si ricordano reciprocamente,
assimilandole tra loro, le « fiate » in cui le loro « parti » hanno dovuto abbandonare la
città, e collocano nello stesso sviluppo il futuro esilio dei guelfi bianchi e dei ghibellini
del 1302. Nella profezia di Ciacco (If VI, 63-75) il modello basato sull’alternanza delle
parti appare ulteriormente dilatato, al punto di prevedere – si sarebbe tentati di dire
per amor di simmetria – un esilio in realtà non avvenuto. Come ha notato Girolamo
Arnaldi, Ciacco afferma in relazione agli eventi del 1301-1302, che la parte selvaggia
(cioè quella dei bianchi) avrebbe cacciato « l’altra con molta offensione », e che a que-
sta cacciata, che di fatto non ebbe luogo, avrebbe fatto seguito quella dei bianchi,
realmente avvenuta e testimoniata tra l’altro dalle condanne del Libro del chiodo. Cfr.
Arnaldi, Il canto di Ciacco pp. 12-14.

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408 GIULIANO MILANI

sibili quindi di una punizione esemplare. Il formulario con cui si apro-


no e si chiudono le singole condanne spinge a collocare questi testi
all’interno della tipologia dei libri sententiarum conservati per questo
pediodo anche in altre realtà urbane, quei registri giudiziari che conte-
nevano le sole sentenze finali dei procedimenti, i cui atti precedenti
erano riportati su altri quaderni (libri accusationum, libri inquisitionum,
libri preceptorum, libri testium, etc.) 6. A emanare le sentenze sono quasi
sempre giudici del podestà e del capitano, deputati ad amministrare i
delitti di baratteria o, in generale, i crimini 7. Rispetto alle magistrature
di parte del 1268, appena istituite all’epoca dell’esclusione dei ghibelli-
ni, nella fonte da cui promanano queste sentenze del 1302 non è pos-
sibile rinvenire niente di nuovo né di straordinario. Si tratta infatti dei
magistrati che detengono la giurisdizione ordinaria.
Gli stessi testi tuttavia mostrano come si tratti una tipologia parti-
colare di sentenze: condanne, innanzitutto, e condanne emesse per reati
politici. Rispetto alle punizioni, anch’esse politiche, del 1268 e 1269, è
il tipo di legittimazione giuridica ad apparire diversa. Dalle scarne indi-
cazioni che offrono le rubriche degli elenchi di banditi e confinati du-
ecenteschi possiamo affermare che allora l’obiettivo contro cui era stata
compiuta la ribellione era stato individuato fondamentalmente nell’auto-
rità del re Carlo I d’Angiò e del comune da lui signoreggiato 8. Il co-
mune – libero – del 1302 sostanzia invece la propria giustizia politica
facendo ricorso a categorie repubblicane che pongono l’accento sulla
grave messa a repentaglio dell’equilibrio cittadino: la baratteria, il tradi-
mento, l’omicidio politico, la presa di castelli, l’accordo con le città
nemiche. Le prime sentenze, in particolare, colpiscono crimini legati all’
esercizio improprio di pubblici uffici. È su questi reati che ha lavorato
un giudice del tribunale podestarile appena insediato, ed evidentemente

6 ASFi, Capitani di parte, Numeri rossi, 20, pp. 1-77(Il Libro del chiodo, pp. 3-

167). Per una panoramica sulle scritture giudiziarie nei comuni italiani di quest’epoca
v. Kantorowicz, Albertus Gandinus; e Torelli, Studi e Ricerche di Diplomatica comunale.
7 Solo in un caso il notaio sottoscrittore risulta un fiorentino che afferma di aver

copiato il testo da un quaternus di otto carte: ASFi, Capitani di parte, Numeri rossi,
20, p. 12 (Il Libro del chiodo, p. 33). È probabile che il quaternus citato fosse una
copia d’ufficio, che i compilatori del chiodo unirono al corpus formato dalle sentenze
originali da essi rinvenute.
8 ASFi, Capitani di parte, Numeri rossi, 20, p. 93 (Il Libro del chiodo, p. 192):

« Hii sunt ghibellini rebelles exbampniti sacre regie maiestatis et communis Florentie ».
Ma su questo si veda anche il Giuramento di Sottomissione dei ghibellini pubblicato in
Del Lungo, Una vendetta, cit., pp. 396-397.

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L’ESCLUSIONE NORMALIZZATA. LA GENERAZIONE DEL 1260 409

nel quadro di una temperie politica particolare, che ha suggerito di


redigere a mo’ di introduzione del primo gruppo di sentenze emanate
un proemietto dotato di forte rilevanza ideologica. Nel breve testo le
condanne per baratteria sono inquadrate nell’ampio contesto retorico
del corretto funzionamento del regime « popolare » rappresentato me-
diante la longeva metafora pastorale.
Come per disperdere un gregge – si dice – non vi è alcun attacco
di lupo o di peste paragonabile alla iniqua rapacitas del pastore, così
avviene anche nella città, dove il popolo « onora alcuni cittadini am-
mettendoli alla sua custodia, affinché essi, quali pastori solleciti e one-
stissimi custodi, provvedano a governarlo in un ordine appportatore di
salvezza ». È dal tradimento di questa missione, provocato dall’ingeren-
za di interessi economici privati (iniquae extorsiones, lucri illiciti), capaci
di snaturare profondamente il fine della giustizia sotteso al mandato dei
rectores, che origina la divisione dello stesso popolo, l’allontanamento
dall’unità e, dunque, un’immensa confusione. La soluzione a questa ca-
tena viziosa, che dal desiderio di guadagno di pochi conduce alla divi-
sione della città, è rinvenuta nell’emanazione di una pena che sia sti-
molo al ravvedimento dei rei ed esempio per gli altri 9.
È significativo che in molte di queste condanne, passate alla storia
come l’atto fondante del regime filopontificio dei neri, non compaia
alcun accenno alla politica antipapale e antiangioina manifestata dai priori
bianchi nell’esercizio delle loro funzioni 10. Ciò che viene loro imputato
è una corruzione non connotata in senso partitico, ma non per questo
meno grave. Donato di Alberto Ristori, Lapo Ammonitti e Lapo Bion-
do sono accusati di aver ricevuto danaro per favorire l’elezione di alcu-
ni priori e di un vessillifero, nonché di aver contribuito all’emanazione
di ordinamenti, delibere e ordini agli ufficiali del comune, in cambio di
danaro 11. Che tale accusa sia in qualche misura strumentale è un dato
relativamente meno importante del fatto che, proprio per mezzo di una
simile giustificazione, essi vennero colpiti dai loro avversari, ormai sta-
bilmente insediati al potere della città. Se con l’occhio rivolto agli svi-
luppi successivi è facile leggere in questi atti l’inizio dell’ennesima ritor-
sione sui dissidenti al regime, considerando invece il periodo immedia-

9 ASFi, Capitani di parte, Numeri rossi, 20, p. 1 (Il Libro del chiodo, p. 3).
10 Il dato fu rilevato in polemica con la letteratura precedente in Barbadoro, La
condanna di Dante, pp. 5-74.
11 ASFi, Capitani di parte, Numeri rossi, 20, pp. 1-2 (Il Libro del chiodo, cit.

pp. 4-8).

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410 GIULIANO MILANI

tamente precedente – gli anni dal 1299 al 1301, così vivamente illumi-
nati dalla cronaca di Dino Compagni –, essi appaiono come il punto di
arrivo di un conflitto fatto sì di scontri armati, vendette e omicidi, ma
anche e soprattutto di ordinamenti, processi, brogli elettorali e « finte
leggi »: un conflitto, insomma che aveva manifestato il suo carattere
distintivo proprio nella compresenza – solo apparentemente contraddit-
toria – tra forte inquadramento legalistico e tentativi di strumentalizza-
zione della giustizia.
La forte tensione accumulata nel corso dei primissimi anni del se-
colo, del resto, aveva certamente condotto i priori bianchi ad agire
secondo procedure che si prestavano bene a costituire la pezza d’ap-
poggio per accuse di « baratteria ». È, a esempio, noto che nella lotta
tra bianchi e neri ebbe una grande importanza la rissa del Calendimag-
gio 1300, in seguito alla quale furono emesse gravi condanne pecuniarie
contro chi aveva partecipato agli scontri. Il podestà che emise quelle
condanne fu accusato in sindacato di non aver valutato approfondita-
mente le aggravanti politiche che l’uccisione di alcuni neri avevano com-
portato, e costretto a pagare di sua tasca la differenza tra la multa da
lui effettivamente comminata e quella, più gravosa, che secondo gli uf-
ficiali al sindacato avrebbe dovuto comminare 12. Durante il periodo della
loro egemonia, i bianchi, oltre a presentare accuse di baratteria, relati-
vamente facili da dimostrare in un momento conflittuale che lasciava
poco spazio a posizioni neutraliste, avevano in numerose occasioni col-
to la possibilità di denunciare i loro nemici per « tradimento della cit-
tà », un crimine previsto dagli ordinamenti di Giustizia. Già all’inizio
degli scontri, Simone Gherardi e Noffo Quintavalle, due neri, vennero
multati per 2000 lire ciascuno, in base all’accusa di aver tramato contro
Firenze in accordo con Bonifacio VIII 13. E così, più tardi, l’assemblea
segreta « di Santa Trinita », convocata dai neri, scatenò, in seguito a
pressioni dei bianchi, un’inquisizione, che si concluse con la commina-
zione di una multa di 20.000 lire a Simone dei Bardi per tradimento 14.
Anche nel Libro del Chiodo alle condanne emesse dall’ufficio addet-
to alle baratterie si alternano quelle promulgate dai vari giudici che si

12 Davidsohn, Storia di Firenze, III, p. 149. Il fatto si riferisce al delitto di Chieri-

co dei Pazzi già condannato per 5200 lire dal podestà e per 2000 lire dal capitano,
per il quale venne in seguito stabilita una pena superiore alle 8000 lire, che dovette
appunto versare il podestà uscente.
13 Davidsohn, Storia di Firenze, III, p. 141.
14 Compagni, Cronica, pp. 56-57.

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L’ESCLUSIONE NORMALIZZATA. LA GENERAZIONE DEL 1260 411

occupano dei maleficia compiuti dai cives. Scorrendole, è facile notare


come con il passare del tempo si manifesti sempre più precisamente da
parte delle autorità giudiziarie una consapevolezza che spinge a definire
i nemici quali « ghibellini » e traditori del comune e della causa angioi-
na, ma al tempo stesso come non si abbandoni la strada intrapresa
nella direzione della giustificazione legalistica e nell’inquadramento nor-
mativo del reato politico. Le altre condanne riportate nel Chiodo 15 mo-
strano come, lungo il corso del 1302, contro i bianchi si continuò a
procedere in maniera strettamente ordinaria, attraverso accuse e inquisi-
zioni, citazioni e bandi con minaccia di pena capitale. I crimini imputa-
ti furono sempre indicati in maniera circostanziata: costruzione di for-
tezze contro Firenze e la parte guelfa; trattati di alleanza con i ghibel-
lini; assalto all’esercito del comune. E, soprattutto, vennero specificati
ogni volta i particolari: la data della ribellione, il nome dei castelli oc-
cupati, quello degli eventuali alleati e complici.
A questo rispetto delle forme della procedura penale si accompagna
un altro dato significativo. Nel formulare le condanne, la parte al pote-
re, che si definisce vittima dell’attacco, non si presenta mai con il nome
che i contemporanei le attribuiscono (la parte « nera »). Usa il termine
soltanto per i subalterni (e in quel momento in esilio) alleati pistoiesi,
riservando a sé il ruolo di specchio del popolo, del comune e della
parte guelfa 16. Mentre, all’epoca della venuta di Carlo I d’Angiò, a
Firenze come altrove, le parti cittadine vincenti, anche nel caso in cui
fossero di recente formazione, non avevano esitato a palesarsi nel pro-
nunziare l’esclusione dei propri nemici, in questa nuova temperie politi-
ca di inizio Trecento, le nuove partes non si presentarono come tali,
celandosi sotto la cappa legittimante della vecchia e unita parte guelfa.
Tutto ciò avvenne mentre si abbandonava una giustizia formalmente di
parte, come quella che un generazione prima aveva decretato di consi-
derare cittadini di livello inferiore i membri della pars perdente, e si
assumevano quali strumenti di ritorsione le leggi del comune e del Po-
polo, che identificavano nella baratteria e nel tradimento i crimini poli-
tici più gravi e che, dunque, si prestavano bene, meglio delle lunghe
ma scarne liste duecentesche a fondare la nuova esclusione. Un simile
cambiamento comportò tra le sue conseguenze il notevole inasprirsi delle

15 Della maggior parte di queste condanne ha fatto un regesto Fabrizio Ricciardel-


li in Dal Libro del chiodo, pp. 7-30.
16 V. ad esempio la condanna di Andrea Gherardini in ASFi, Capitani di parte,

Numeri rossi, 20, p. 2 (Il Libro del chiodo, p. 5 e ss.).

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412 GIULIANO MILANI

punizioni: nella maggior parte dei casi le condanne previdero infatti la


pena di morte, quasi mai menzionata dalle fonti duecentesche 17.
Tra marzo e aprile del 1302 si inasprirono le condanne contro i
priori barattieri, e si stabilì che subissero la pena capitale. Si comincia-
rono inoltre a emanare nuove condanne da parte dell’ufficio dei malefi-
cia, i delitti veri e propri 18. Fino alla fine della podesteria di Cante
Gabrieli, furono così emanate venti sentenze che coinvolgevano un to-
tale di più di 200 persone. Dai successivi ufficiali che, nel secondo
semestre dell’anno, ricoprirono la carica di podestà e capitano del po-
polo furono condannate, almeno altre 400 persone, cosìcché alla fine
dell’anno a Firenze pendeva la condanna a morte su ben 559 individui,
mentre 180 erano costretti al pagamento di altissime ammende 19. Si
tratta di cifre notevolmente inferiori a quelle di trent’anni prima, quan-
do erano stati emanati bandi nei confronti di più di mille individui e
altrettanti erano stati costretti al soggiorno obbligato. In complesso, tut-
tavia, facendo leva sulle leggi ordinarie del comune, quella del 1302 fu
un’esclusione più feroce. Percependo la novità, l’autore delle Istorie Pi-
storesi ricordando che nel 1303 a Firenze erano state eseguite alcune
decapitazioni di bianchi sull’Isola d’Arno, specificò che si trattava del
luogo in cui normalmente venivano giustiziati i criminali comuni 20.
Anche il sequestro dei beni fu gestito in maniera nuova. Al fine di
non favorire indirettamente i banditi, che continuavano ad avere qual-
che simpatizzante in città benché fossero state emanate numerose sen-
tenze di confino, si impose a tutti coloro che avessero chiesto di deru-
bricare dei terreni sequestrati un pegno di 300 lire, che sarebbe stato
incamerato dal comune se la richiesta non fosse stata ritenuta fondata.

17 Questo salto di qualità della giustizia politica necessitò rispetto al passato di

una serie di strategie più indirette per agire contro i nemici interni. In questa chiave
va letta per esempio la redazione di un finto contratto stretto tra la parte bianca e il
cavaliere Pierre Ferrand d’Alvernia, in cui si concedeva al francese Prato e alcuni ca-
stelli, in cambio dell’appoggio alla distruzione della parte che dominava a Firenze (Da-
vidsohn, Storia di Firenze, III, pp. 288-289).
18 ASFi, Capitani di parte, Numeri rossi, 20, pp. 15-19 (Il Libro del chiodo,

pp. 40-52).
19 Davidsohn, Storia di Firenze, III, pp. 293-294.
20 Istorie pistoresi, p. 35. È significativo che, come ha rilevato Girolamo Arnaldi

(Arnaldi, Dino Compagni, pp. 54-55), nella parte finale dalla sua Cronica Dino Compa-
gni specifichi che le morti violente – e, a suo modo di vedere, provvidenziali – di
« cinque crudeli cittadini » responsabili delle discordie fiorentine siano avvenute nella
zona del Campo di Fiore « dove la giustizia si fa e punisconsi i malifattori di mala
morte » (Compagni, Cronica, p. 196).

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L’ESCLUSIONE NORMALIZZATA. LA GENERAZIONE DEL 1260 413

Per muovere obiezioni sulla liceità dei ricorsi, si reputò sufficiente la


« pubblica fama » dimostrata da tre testimoni 21. L’ufficiale, inoltre, in
maniera analoga a ciò che di lì a poco sarebbe avvenuto con il barisel-
lo di Bologna, accentrò in sé molte altre competenze in materia di
esclusione politica: fu deputato a bandire tutte le mogli e i discendenti
in linea maschile sopra i quattordici anni e a indagare, ricorrendo alla
tortura e al carcere. I beni, almeno a partire dal 1305, furono ammini-
strati affinché producessero il frumento utile a finanziare spedizioni
militari contro i fuoriusciti. Ad alcune grandi casate, che si assunsero
l’onere di queste « cavallate del grano », si concesse l’uso dei terreni
sequestrati. Questa evoluzione complessiva, che faceva compiere un sal-
to di qualità rispetto a quanto era stato attuato nel corso degli anni
Settanta del Duecento, si ebbe anche nella tassazione speciale che, ana-
logamente a quanto avveniva a Bologna, fu imposta ai ghibellini rimasti
in città: proprio sulla base di una supposta simpatia con gli usciti,
vennero lanciati prestiti forzosi, non più solo collette, che tra 1302 e
1303 consentirono di accumulare più di 57.000 fiorini d’oro 22.
Come e più di quanto era avvenuto dalla fine degli anni Sessanta
del Duecento, Firenze appare il luogo di elaborazione di questo nuovo
sistema dell’esclusione che tendeva a definire i propri nemici come ne-
mici della città tout court, e dunque a perseguitarli per mezzo della
giustizia ordinaria. In Toscana l’influenza fiorentina fu diretta. A Lucca,
per esempio nel 1301, tutti gli anziani di santa Zita, la magistratura
popolare, vennero condannati in blocco come « barattieri » 23. A Pistoia
già nel 1300 erano state eseguite condanne a morte sulla pubblica piaz-
za nei confronti dei neri 24. Anche a Bologna a partire dal 1303, come
si è visto, si cominciò a parlare di bianchi e neri e a fare riferimento
nelle accuse ai crimini ordinari. Ma la diffusione fu ancora più vasta:
per rendersene conto basta prendere in esame la documentazione pro-
dotta da Enrico VII durante la sua avventura italiana.

3. Il viaggio di Enrico VII: dalla legalizzazione delle esclusioni alla ripresa


del vocabolario guelfo-ghibellino
Nel 1310 i seicento bianchi fiorentini che, secondo Dino Compagni,
andavano raminghi per l’Italia in seguito alla presa del potere da parte

21 Davidsohn, Storia di Firenze, III, pp. 307-309.


22 Davidsohn, Storia di Firenze, III, p. 333.
23 Manselli, La repubblica di Lucca, p. 660.
24 Istorie pistoresi, p. 17.

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414 GIULIANO MILANI

dei neri 25, non costituivano un eccezione, ma la variante locale di una


tendenza generale che, al termine del primo decennio del Trecento,
vedeva schierati contro moltissime città folti gruppi di esuli, perlopiù
condannati alla pena capitale. Per effetto di questa generale presenza di
regimi di parte costretti a uno stato di guerra continua con i propri
fuoriusciti, la notizia dell’elezione di Enrico VII e della sua intenzione
di scendere in Italia segnarono l’inizio di una resa dei conti. Una nuo-
va guerra capace di coinvolgere l’imperatore avrebbe consentito di pro-
iettare all’esterno e generalizzare su una base più solida quel vocabola-
rio politico basato sui termini guelfo e ghibellino che si richiamava a
una realtà formatasi due generazioni prima, ma che aveva continuato a
costituire il riferimento fondamentale per promuovere l’esclusione dei
nemici. Sulle potenzialità del viaggio imperiale al fine di rinforzare un
simile richiamo erano tutti d’accordo: parti estrinseche, in cerca di una
riscossa, e comuni desiderosi di consolidare definitivamente la propria
legittimità politica. Nel 1310 solo il principe eletto appariva ancora estra-
neo a questo gioco.
La prima relazione dei legati di Enrico VII contiene pochissimi rife-
rimenti alle partes, e nessun accenno ai fuoriusciti. Così le responsiones
inviate all’imperatore dai vari comuni. Solo alcuni comuni guelfi ribadi-
rono la loro fedeltà alla Chiesa, esprimendo la volontà di consultare la
Santa Sede prima di riconoscere Enrico 26. Nella lettera scritta a Enrico
dal comune di Casal Monferrato il tema comincia ad affiorare, ma an-
cora in maniera generica, là dove si auspica l’intervento imperiale « ad
quietandum [Ytalie] christianum populum, qui per discordias hominum
totus dilaniatus cadebat » 27. Nello stesso mese, Asti, dilaniata dalle lotte
tra Solari e da Castello, concesse all’imperatore il potere di pacificare
la città. Enrico ordinò il rilascio dei carcerati e la piena assoluzione di
tutti i banditi, eccettuando tuttavia omicidi, ladri e sottrattori del bene
pubblico (« barattieri », in sostanza). L’assenza di riferimenti a bandi per
causa di parti farebbe pensare che, in quella occasione, si vollero libe-

25Compagni, Cronica, p. 109: « (...) e molti altri che furno più di uomini DC, i
quali andarono stentando per lo mondo, chi qua e chi là ».
26 Henrici VII Constitutiones, pp. 325-331. Soltanto trattando di Como i legati

imperiali specificano che i rettori della città esppressero la speranza che « messirs
[l’imperatore] gardera les drois et les privileges, les chastiaus et les terres du con-
mun de Come, et especialment la partie de Vicane, et en l’estat ou il sont mainte-
nant » (p. 328).
27 Henrici VII Constitutiones, p. 408.

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L’ESCLUSIONE NORMALIZZATA. LA GENERAZIONE DEL 1260 415

rare solo i condannati per reati comuni. Ma le cose andarono diversa-


mente e il provvedimento di riammissione riguardò proprio gli apparte-
nenti alla fazione sconfitta. Lo provano i patti della pacificazione, che
previdero il rientro di tutti coloro che si erano allontanati dal Natale
del 1309 assieme ai da Castello, e che cassarono ogni sentenza emanata
dal comune a partire da otto anni prima, ossia dall’inizio della nuova
lotta di fazione in città. L’imperatore inoltre decretò che tutti i cittadini
potessero accusare, denunciare o essere citati in giudizio, evidentemente
per cassare una normativa che aveva ristretto tale possibilità ai soli cit-
tadini politicamente affidabili. Egli abolì, infine, qualsiasi confederazione
o « setta » e vietò « quod nullus debeat partibus adherere vel partialitate
uti » 28. La pacificazione di Asti fu solo il primo di una lunga serie di
provvedimenti analoghi emanati da Enrico VII negli ultimi mesi del
1310 e nei primi dell’anno successivo. Queste paci appaiono scandite
da un formulario standard, che rivela come un po’ ovunque i bandi
politici erano stati espressi nella forma di sentenze criminali: a Vercelli
si stabilì, per esempio, che si dovessero annullare tutti i bandi « sive
pro contumacia, sive pro offensa magna vel parva » 29. Lo stesso avven-
ne a Novara, Milano, Pavia, Cremona, Piacenza, Lodi e Crema 30, al
punto che, nel gennaio 1311, l’imperatore giunse a emanare un provve-
dimento generale: la lex de cassatione bannorum. Nell’arenga Enrico VII
metteva il dito sulla piaga segnalando esplicitamente il carattere surret-
tizio delle nuove procedure di esclusione. Dopo avere premesso che era
dovere dell’imperatore vigilare affinché gli errori e i torti dei fedeli
fossero riparati, egli scrisse che in Italia aveva trovato la duffusa pratica
secondo cui i cittadini divisi da inimicizie politiche si erano accusati
reciprocamente di gravi crimini e per questa ragione molti innocenti
erano stati condannati. Si rendeva, dunque, necessario distinguere le
condanne legittime da quelle illegittime, quelle giuste da quelle ingiuste.
Ma, proprio per la forma che aveva preso la giustizia politica all’inizio
del nuovo secolo, la strada della separazione dei processi giusti da quelli
ingiusti era risultata impossibile. A tale impossibilità avevano contribui-
to – sono sempre parole della lex – l’enorme quantità di materiale da
vagliare, e l’intrinseca difficoltà del compito di distinguere le sentenze
vere da quelle strumentali alla lotta politica. L’imperatore si era, quindi,
visto costretto a dichiarare vane tutte le condanne promulgate nei con-

28 Henrici VII Constitutiones, pp. 420-423.


29 Henrici VII Constitutiones, p. 445.
30 Henrici VII Constitutiones, pp. 451-502.

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416 GIULIANO MILANI

fronti di intrinseci o estrinseci, non solo « occasione rebellionis vel guer-


re », ma anche per rapina, incendio, omicidio, ferite, furto e per qualsi-
asi altra causa. In base a tale provvedimento, tutti i banditi si sarebbe-
ro dovuti considerare sciolti da qualsiasi pena e nel medesimo status
giuridico in cui si trovavano prima della condanna. Significativamente
Enrico VII stabilì anche la distruzione di tutti i libri che contenvano
bandi e scritture processuali, e decretò l’abolizione di ogni legge che
riguardasse tali condanne 31.
Ma l’opera di pacificazione, per quanto condotta con rimedi estre-
mi come questo, non ebbe successo. In poco tempo il sovrano fu at-
tratto dalle contese degli schieramenti cittadini italiani, perse il suo at-
teggiamento al di sopra delle parti e contribuì con la sua presenza a
una grande ripresa della terminologia politica duecentesca, basata sul
conflitto tra guelfi e ghibellini, e delle procedure che a questo conflitto
erano state legate.
Fu in particolare da Milano, attraverso la sapiente opera di Matteo
Visconti, il quale aveva beneficiato di persona della cassatio bannorum,
che l’imperatore inziò a farsi, per così dire, ghibellino. L’arrivo di Enri-
co VII in città e la pacificazione avevano scatenato una serie di contro-
versie, soprattutto in materia di restituzione dei beni sequestrati. Nono-
stante la cassazione di tutti i provvedimenti di esclusione, rimanevano
dunque aperti complessi problemi legali e amministrativi. Per tentare di
risolverli, Enrico VII stabilì che su tali materie avrebbe giudicato il
Vicarius civitatis da lui nominato. Ma i primi vicari destarono il risenti-
mento della cittadinanza per la cattiva amministrazione e il frequente
ricorso a pene capitali 32. Sulla base di questo crescente malumore, Gui-
do della Torre tentò la strada della ribellione. Dal 12 al 15 gennaio
1311 ebbero luogo alcuni tumulti che si conclusero con la sua fuga 33.
Si promosse un’inquisizione sui disordini che, in un primo momento,
condusse al confino sia i Torriani che i Visconti. Si trattava di una
misura ancora tesa alla pacificazione, come mostra il fatto che furono
stabilite alcune condizioni perché i confinati potessero tornare in città.
Ma la non accettazione di queste condizioni da parte di Guido provo-
cò il bando imperiale e il conseguente sequestro dei beni. Ad ammini-
strare le confische venne chiamato il pistoiese Cione da Bellaste assisti-
to dal notaio Benzo di Alessandria, che alla fine di aprile versarono al

31 Henrici VII Constitutiones, pp. 522-523.


32 Biscaro, Benzo da Alessandria, pp. 296-297.
33 Biscaro, Benzo da Alessandria, pp. 298-302.

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L’ESCLUSIONE NORMALIZZATA. LA GENERAZIONE DEL 1260 417

sovrano, come introito delle confische, 2821 lire, pari a circa 2000 fio-
rini imperiali 34.
La ritorsione imperiale cominciò, dunque, colpendo le partes che
all’interno dei comuni infrangevano la pace. Ma presto divenne una
vera e propria lotta contro quegli schieramenti che tradizionalmente si
definivano antiimperiali. Nel maggio 1311, in occasione della ribellio-
ne di Cremona, Enrico condannò settanta cremonesi, Guido della Torre
e i suoi familiari al bando per lesa maestà, sequestrandone i beni.
Facendo le dovute proprorzioni, è possibile affermare che, usando come
arma contro i suoi nemici il richiamo al delitto politico per eccellen-
za, Enrico VII fece sua la tecnica impiegata dai regimi cittadini e che
aveva cercato di eradicare, con la cancellazione dei bandi, pochi mesi
prima. Nella costituzione relativa a questi fatti l’imperatore elencò i
banditi secondo i quattro quartieri cittadini di residenza, riprendendo
anche nella forma, gli elenchi di banditi di cui aveva decretato la
distruzione 35.
Questo mutamento di rotta nella politica imperiale provocò una re-
azione. Tra novembre e dicembre 1311, Firenze promosse una vasta
alleanza antiimperiale a cui aderirono Bologna, Lucca, Siena, Guido della
Torre con gli esuli di Milano e Cremona, nonché Giberto da Correggio
signore di Parma e Reggio 36. L’imperatore reagì citando Firenze; poi,
trascorso un mese, paragonando i fiorentini a « superbi figli di Lucife-
ro », decretò la fine di ogni diritto all’autogoverno, reclamò il contado
fiorentino e impose una pena pecuniaria di cinquemila lire auree. Nel
gennaio 1312 stabilì inoltre che chiunque avesse avuto un debito con
un fiorentino potesse considerarasi assolto; e che chi avesse catturato e
consegnato cittadini di Firenze, avrebbe avuto in premio i beni del

34 Biscaro, Benzo da Alessandria, pp. 290-292.


35 Henrici VII Constitutiones, pp. 592-593. Di fronte alla ribellione che i « guelfi »
bresciani avevano compiuto una volta rientrati in città per intervento imperiale, Enrico
tentò nel settembre del 1311 ancora una volta la strada della pacificazione, dichiarando
esplicitamente di rinunciare alla possibilità legittima della pena di morte, della mutila-
zione, del carcere, così come a quella del sequestro dei beni. Dinanzi al procrastinarsi
degli scontri, giunse ad emettere una condanna a morte nei confronti del capo dei
ribelli, Tebaldo Brusati, giustificata, romanisticamente, attraverso il riferimento alla lex
iulia maiestatis e alla lex cornelia de Sicariis che prevedevano la pena capitale in caso
di attacco all’imperatore (Henrici VII Constitutiones, pp. 620-623).
36 Il patto impegnava i contraenti a prestarsi reciproco aiuto fino a quando Enri-

co VII non fosse morto o si fosse raggiunta la pace in Lombardia. Bowsky, Henry VII
in Italy, pp. 142-143.

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418 GIULIANO MILANI

prigioniero. Mentre promuoveva processi politici a Parma e Reggio ed


estendeva la condanna a Lucca e Siena, il sovrano esentò naturalmente
dalla ritorsione i fiorentini che facevano parte del suo seguito e quanti
risultavano « exules racione parcium » 37. Per reagire preventivamente a
simili misure, i fiorentini a loro volta avevano richiamato in città molti
condannati, eccettuando tuttavia circa 450 individui, considerati ancora
pericolosi 38.
La concessione del vicariato imperiale ai signori padani fornì – con
importanti differenze locali – ai governi cittadini del fronte filoimperiale
nuove armi per l’esclusione dei nemici. Nel luglio 1311 ottenne il titolo
Matteo Visconti, ma per i due anni successivi a Milano continuarono
ad amministrare i beni dei banditi funzionari di nomina imperiale, pro-
vocando in molti casi malumori e dissapori tra la città e l’imperatore 39.
La concessione del vicariato imperiale fu altrove uno sprone notevole
alla istruzione di processi politici legittimati dal ricorso al crimen lesae
maiestatis. A Vicenza, Cangrande della Scala assunse il vicariato in nome
dell’imperatore nel febbraio 1312 e immediatamente ottenne dal comu-
ne il « plenum et liberum arbitrium circha maleficia et circha delicta
inquirendi procedendi et puniendi » 40. Si fissò per i rei di ribellione la
pena di morte, la distruzione delle case e il bando dei successori fino
al quarto grado. Alcuni statuti emanati a ridosso di quell’incarico ci
informano che venne decretato che nessun cittadino potesse presentare
documenti per rivendicare a sé beni dei fuoriusciti, sotto pena di 500
lire. In caso di contestazione, la documentazione posteriore all’occupa-
zione imperiale sarebbe stata considerata falsa 41. Inoltre, i sei sapienti

37 Bowsky, Henry VII in Italy, p. 148. Per la lista degli eccettuati, ASFi, Capitani

di parte, Numeri rossi, 20, pp. 137-146 (Il Libro del chiodo, pp. 285-309).
38 Sebbene la maggior parte delle sentenze fosse stata motivata in base alla re-

bellio nei confronti del comune e della parte guelfa, in questa occasione vennero
graziati « omnes et singuli vere guelfi, mares et femine tam populares quam magna-
tes », in ASFi, Capitani di parte, Numeri rossi, 20, pp. 141-148 (Il Libro del chiodo,
pp. 294-306).
39 Biscaro, Benzo da Alessandria, p. 309.
40 Sandri, Un « Quaternus condempnationum », pp. 188-189.
41 Sandri, Un « Quaternus condempnationum », p. 199: « Quod nulla persona in

pena et banno quingentarum librarum parv. audeat vel presumat producere aliquod
instrumentum ad defensionem bonorum et possessionum illorum [dei ribelli] vel illa-
rum qui banniti et condempnati erunt ut in provisionibus continetur et nihilominus
instrumentum presumatur ficticium et nullius valoris intelligendo de instrumentis ven-
dicionum, donacionum et alienacionum factarum per huiusmodi condempnatos et ban-
nitos postquam civitas Vicencie venit ad mandata domini Imperatoris vel ante [...] ».

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L’ESCLUSIONE NORMALIZZATA. LA GENERAZIONE DEL 1260 419

« pro stato et honore civitatis » nominati da Cangrande affermarono


che i padri, le figlie, le mogli e le nuore dei fuoriusciti dovessero
essere considerati banditi alla stessa stregua dei loro parenti e quindi
subire il sequestro dei beni 42. Un primo processo contro questi ribelli
era stato celebrato già dal 1311, ma nel marzo 1312 il fallito tentativo
padovano di riprendere Vicenza diede luogo a un altro procedimento
contro ventidue sospetti. Sette furono condannati alla pena capitale,
tre videro commutate le loro sentenze in altissime multe pecuniarie,
mentre altri sedici cittadini furono banditi. Nell’agosto del 1312 il po-
destà venne autorizzato ad agire contro chi fosse sospettato di tramare
contro l’impero o con i padovani. In caso di mancata presentazione, si
sarebbero dovuti considerare confessi e condannare assieme a tutti i
loro parenti 43.
Nel febbraio 1313, prima dell’arrivo a Pisa – dove avrebbe emanato
le celebri « costituzioni pisane » destinate a diventare un importante fon-
damento dell’autorità imperiale – Enrico VII rinnovò i bandi contro le
città ribelli della Toscana e quanti avevano combattuto contro di lui. In
quell’occasione, non fidandosi delle competenze giuridiche della sua curia,
chiese il parere dei giurisperiti bolognesi e toscani. Fu dunque anche
sulla base del parere di questi giuristi comunali (come anche dei più
illustri giurisperiti siciliani) che vennero emanate le sentenze di bando
contro i padovani, i pavesi, gli astigiani, i vercellesi, gli alessandrini e
soprattutto contro ben 616 fiorentini della città e del contado. Rispetto
al bando che la stessa Firenze aveva subìto nel 1311, la nuova sentenza
presentò alcune significative novità. In primo luogo la pena di morte
veniva estesa a tutti i rebelles e non solo ai capi dichiarati. Inoltre,
mentre nel 1311 si era provveduto ad eccettuare dalla condanna i soli
banditi ob partialitate, qui l’assoluzione venne estesa a tutti i condanna-
ti, compresi quelli puniti per reati comuni. Infine, si riformò la materia
dei premi per chi avesse catturato i banditi. In precedenza era stato
garantito in cambio della consegna l’intero patrimonio del condanna-
to, adesso la tariffa veniva fissata a un terzo del totale dei beni, men-
tre i debitori dei banditi non vennero più esentati dal soddisfare la
propria obbligazione, ma furono dichiarati automaticamente debitori
del fisco regio 44.

42 Sandri, Un « Quaternus condempnationum », pp. 200-201.


43 Sandri, Un « Quaternus condempnationum », p. 190.
44 Il confronto tra le due condanne è condotto da Bowsky, Henry VII in Italy,

pp. 180-181.

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420 GIULIANO MILANI

Senza dubbio tali misure erano suggerite dall’impellente bisogno di


denaro dell’imperatore nel momento in cui intendeva recarsi nel re-
gnum e rendere esecutiva la condanna di Roberto d’Angiò. Ma negli
adattamenti che il bando relativo a Firenze presenta è possibile leggere
anche l’influsso della normativa comunale che negli stessi termini aveva
definito i ribelli nei propri statuti. I numerosi condannati fiorentini ven-
nero elencati secondo la tradizionale divisione in sestieri 45, nello stesso
ordine e con gli stessi espedienti grafici utilizzati a partire dal 1268 per
i banditi ghibellini, che solo due anni prima erano serviti a ordinare i
nomi dei destinatari della amnistia. Firenze rispose con un nuovo elen-
co in cui comparvero 434 individui schieratisi con l’imperatore a parti-
re dall’anno precedente e per questo approvati dai capitani della Partee
dal loro consiglio e condannati « tamquam proditores et rebelles dicti
comunis et populi Florentie et partis guelfe », rifacendosi dunque, in
questo caso, ai libri duecenteschi 46.
Proprio perché i regimi cittadini apparivano ormai dotati di un co-
mune arsenale di strumenti di esclusione, la nuova guerra tra i due
schieramenti che avevano potuto « trascinare nuovamente a conflitto un
imperatore e un papa come Enrico VII e Clemente V, concordi nel-
l’idea di una pacificazione d’Italia sotto il segno di una restaurata e
autonoma collaborazione di papato e impero » 47, fu dunque combattuta
ancora una volta a colpi di liste di proscrizione ed elenchi di beni
confiscati. Alla morte di Enrico VII non solo si erano ormai stabilizzate
due alleanze più larghe, compatte e gerarchiche, ma nelle singole città
si era anche uniformato il vocabolario politico basato sull’antica opposi-
zione tra guelfi e ghibellini. Come in ogni revival, tuttavia, le differenze
rispetto al modello sono più interessanti delle analogie. Nonostante le
somiglianze con liste degli anni Sessanta-Settanta del Duecento, i nuovi
elenchi di proscrizione raccoglievano l’eredità più recente: giustificavano
le condanne politiche sulla base delle leggi, comprendevano i familiari e
le donne, prevedevano la pena capitale.

4. L’unificazione delle istituzioni


La documentazione relativa all’epoca del viaggio italiano di Enrico
VII mostra quindi che, al di là delle apparenti differenze, il primo

45
Henrici VII Constitutiones, pp. 937-950.
46
ASFi, Capitani di parte, Numeri rossi, 20, pp. 153-158 (Il Libro del chiodo,
pp. 319 e ss.).
47 Tabacco, Egemonie sociali, p. 325.

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L’ESCLUSIONE NORMALIZZATA. LA GENERAZIONE DEL 1260 421

Trecento rappresentò, dal punto di vista delle esclusioni, un nuovo


momento di uniformazione. Non solo le parti cittadine persero le loro
specificità e cominciarono a condividere, più di quanto fosse mai avve-
nuto, il medesimo vocabolario fondato sui termini « guelfo » e « ghibel-
lino », ma le esclusioni tesero ad assimilarsi nelle dimensioni e nelle
procedure, venendo a formare un nuovo sistema condiviso. Nella mag-
gior parte dei casi, il numero dei colpiti si collocò al massimo nell’ordi-
ne delle centinaia di persone, rimanendo cioè molto al di sotto dei
livelli raggiunti nella generazione precedente soprattutto nei comuni che
avevano avuto consistenti sviluppi del « popolo », come Firenze e Bolo-
gna 48. A queste centinaia di persone vennero imputati ovunque gli stes-
si reati previsti dall’ordinamento: tradimento della città, baratteria, ri-
bellione; e nei loro confronti si procedette con le stesse armi, quelle
più severe della giustizia ordinaria, eventualmente amministrata da ma-
gistrature specializzate.
Questa omologazione nella persecuzione dei nemici si comprende
meglio considerando un processo evolutivo comune ai diversi regimi
che andavano trasformandosi secondo tipologie di governo che erano
invece differenti fra loro (signorie larvate, signorie palesi, repubbliche):
la riduzione a uno solo dei luoghi di partecipazione politica e di eserci-
zio del potere. Nel corso della generazione precedente (1230-1290), in
ogni città si erano sviluppate, ove più ove meno, una pluralità di sedi
politiche (società di Popolo, società « crociate », parti), dotate di larga
autonomia, che avevano affiancato il comune podestarile-consiliare, con-
dizionandolo nel suo funzionamento e nella sua base sociale. Le rile-
vanti differenze che è stato possibile osservare passando in rassegna le
fonti normative della seconda metà del Duecento, nel tentativo di rico-
struire i contorni del primo, largamente diffuso, sistema dell’esclusione
sono riconducibili proprio alla fisionomia di queste strutture politiche e
al loro equilibro reciproco. Laddove, come a Firenze, l’aristocrazia ave-

48 Sullla base di quanto è stato scritto in questo e nel precedente capitolo è pos-

sibile affermare che Bologna e Firenze costituiscono ancora i casi più documentati, gli
unici sui quali possiamo fondarci per azzardare una stima dei colpiti dalle nuove con-
danne. In base alle liste conservate possiamo dire che nella città toscana all’epoca
dell’arrivo di Enrico VII vi erano poco più di 400 persone sottoposte a condanna
politica. A Bologna, pochi anni prima si trattava di circa 300. A Vicenza tra 1311 e
1317 furono condannate 56 persone (Sandri, Un quaternus condempnationum, appendi-
ce), mentre a Padova dagli elenchi di famiglie conservati in Guillelmi de Cortusiis,
Chronicon, pp. 33-34, si può stimare il numero dei colpiti nell’ordine delle poche
centinaia.

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422 GIULIANO MILANI

va saputo costruire una pars forte il sistema angioino era stato recepito
nella sua versione più radicale; laddove invece, come a Pistoia o a
Bologna, era stato il Popolo a prevalere, lo stesso sistema era stato
attenuato in molti suoi aspetti.
Per la generazione nata attorno al 1260, che si affacciò alla ribalta
politica alla fine degli anni Ottanta del Duecento, queste strutture sepa-
rate costituivano ormai i principali canali d’accesso al ceto dirigente
cittadino. Gli organismi in cui parti e società di Popolo si articolavano,
specialmente i rispettivi consigli ristretti, rappresentavano ormai istitu-
zioni riconosciute, a cui larghe porzioni della società cittadina facevano
riferimento per fare valere le proprie istanze. A partire dagli anni Ses-
santa erano stati soprattutto questi organismi, quasi sempre combatten-
do tra loro, a governare la città. A Firenze, la prevalenza dei Capitani
di Parte era stata seguita da quella dei priori delle Arti; a Parma, l’ege-
monia del Capitaneus Cruxatorum, una magistratura di parte, era stata
rimpiazzata da quella del Capitaneus Populi che, come suggerisce il nome,
era selezionata dal « popolo »; a Milano, la « popolare » Credenza di S.
Ambrogio era stata offuscata nel 1279 dall’affermazione dei « Dodici di
provvisione », una magistratura a reclutamento nobiliare, formata da quei
sostenitori dei Visconti che avevano vissuto direttamente l’esilio 49. Al-
trove, « popolo » e pars avevano coesistito, magari sotto l’egida di un
signore che proprio attraverso il « popolo » si era affermato. Così era
avvenuto a Piacenza, in occasione, prima, della signoria di Carlo I e
poi di quella dello Scotti, e in una certa misura anche a Verona nella
prima età scaligera.
Gruppi sociali in competizione avevano prodotto strutture di parte-
cipazione dotate di meccanismi e bacini di reclutamento differenti al
fine di difendere e veder trionfare i propri interessi. A Firenze, nel
periodo che andò dalla emanazione degli Ordinamenti di Giustizia (1293)
fino alla divisione tra bianchi e neri (1302), la sostanza dello scontro
riguardò il ruolo che il « popolo » e la parte guelfa dovevano avere nel
governo comunale 50. Tale sostanza non mutò, anzi si arricchì di impli-

49 Somaini, Processi costitutivi dinamiche politiche e sviluppi istituzionali, p. 689.


50 Come è noto lo scontro esplose quando un nuovo consiglio priorale che, come
è stato osservato, non differiva socialmente da quelli che lo avevano preceduto, comin-
ciò a muovere l’attacco su tre fronti: l’accentramento istituzionale del « popolo », con
l’istituzione di una nuova magistratura di vertice, il Gonfaloniere di Giustizia; la nor-
mativa antimagnatizia, per mezzo della promulgazione degli Ordinamenti di Giustizia,
che facevano compiere un salto alla politica di separazione giuridico-politica dei ma-

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L’ESCLUSIONE NORMALIZZATA. LA GENERAZIONE DEL 1260 423

cazioni « internazionali » in occasione del pontificato di Bonifacio VIII,


quando maturarono le inimicizie tra bianchi e neri. La divisione tra
Donati e Cerchi fece ancora una volta schierare, su un fronte, individui
e famiglie interessati a combattere per far prevalere un modello politico
centrato sulla Parte Guelfa e sulle reti di relazione aristocratiche che la
sostenevano; e, sull’altro, settori della cittadinanza che avevano sostenu-
to le riforme di Giano e che erano intenzionati, se non a proseguirne
l’opera, almeno ad arginare il potere della Parte. Anche dopo il bando
dei bianchi rimase aperta la tensione, che poté essere ricomposta solo
lentamente attraverso un progressivo attenuarsi delle ragioni più esclusi-
ve dei neri e una parallela riforma degli organi di partecipazione. Il
primo processo fu favorito anche da una selezione interna. Il capo del-
la fazione vincitrice, Corso Donati, si alleò addirittura con il ghibellino
Uguccione della Fagiola per assoggettare direttamente Firenze, ma ven-
ne ucciso 51. La riforma delle istituzioni si svolse attraverso una serie di
modifiche che ridiedero importanza al « popolo »: tra 1306 e 1307 ven-
nero ricostituite le compagnie armate e si chiamò un forestiero a eser-
citare la carica di « esecutore degli ordinamenti di giustizia » 52.
A Milano, alla fine del Duecento è possibile cogliere la difficile
costruzione di un nuovo consenso per opera di una pars, quella viscon-
tea, che fonda il proprio potere sul ruolo dell’arcivescovo e della nobil-
tà. Ottone Visconti, tentando di costruire un regime di parte, si trovò
a fronteggiare le spinte centrifughe dei suoi stessi partigiani, che occa-
sionalmente mostrarono di ricollegarsi ai Torriani, e tesero comunque a
negoziare il proprio appoggio al miglior offerente. Ogni tentativo di
pace non fece che condurre a nuovi esilii e portò i nuovi signori a
rilegittimarsi attraverso il « popolo », che all’inizio della signoria viscon-
tea era stato messo in ombra. Se il tentativo di autoaffermazione nau-
fragò provvisoriamente nel 1302, quando Matteo Visconti uscì dalla cit-
tà, mentre vi rientravano gli esiliati della Torre, non si esaurì il ritorno
del « popolo » che aveva segnato l’ultima fase del governo visconteo e
che continuò a costituire una risorsa cui i signori milanesi attinsero nei
momenti di difficoltà. Nel 1305, mentre gli esuli guadagnavano terreno,

gnati, inaugurata a partire dal 1281; e, infine, l’attacco alla legittimità istituzionale della
Parte guelfa, attraverso l’espressa volontà di privarla del sigillo, ossia della personalità
giuridica, e dell’aministrazione dei beni sequestrati ai ghibellini: Raveggi et al., Guelfi,
ghibellini e popolo grasso, pp. 239-326.
51 Compagni, Cronica, p. 162-166.
52 Villani, Nuova Cronica II, pp. 172-173.

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424 GIULIANO MILANI

Guido della Torre dovette emettere provvedimenti contro i milites, che


si erano rifiutati di prestare servizio militare 53. La frattura tra i due
poteri cittadini (civile ed ecclesiastico), che da sempre aveva avuto un
ruolo rilevante nella formazione delle partes milanesi, si ripropose anche
nella signoria torriana, che pure aveva in mano le due massime cariche
di vescovo e signore. Come Matteo Visconti nel 1287, anche Guido
della Torre cercò a questo punto il consenso popolare e, nel 1307, si
fece nominare « capitano del popolo » 54. Quest’azione (che non bastò a
garantirgli il successo) mostra come l’appoggio popolare continuava a
costituire un elemento importante anche e soprattutto nei regimi signo-
rili. Quando Matteo Visconti ritornò al potere grazie all’arrivo di Enri-
co VII, non provvide solo a dotarsi di una legittimazione dall’alto, il
vicariato, e a raccordare attorno a sé nuovamente l’aristocrazia cittadi-
na, ma nel 1313 allargò il consiglio comunale da ottocento a miledue-
cento membri e utilizzò una terminologia popolareggiante, quando ri-
formò la società che si era costituita nel 1311 per sostenere l’imperato-
re dandole il nome di « societas iustitie » 55.
Fra Due e Trecento dunque i regimi che si alternarono alla guida
della città si trovarono a modificare l’assetto istituzionale includendo
gruppi e istituzioni in precedenza non riconosciuti. Così a Verona, dove
la pars scaligera al potere dovette barcamenarsi tra i continui attacchi
da parte dei suoi esuli coalizzati con le città vicine di Padova e Ferra-
ra. Alberto della Scala riuscì a fronteggiare il conflitto regionale anche
favorendo all’interno della città, sin dall’inizio, l’organizzazione del « po-
polo » che era stata completamente smantellata in età ezzeliniana, am-
pliando in tal modo l’accesso alle istituzioni. Quasi opposto il caso di
Padova, dove il comune di « popolo » al principio del Trecento dovette
accettare ufficialmente la presenza di una « parte ». Nel 1313 due comi-
tati straordinari di otto e dodici membri istituiti per affrontare la guer-
ra e la riconquista di Vicenza, furono sostituiti da un consiglio di otto
membri e quattro « conservatores libertatis, status et partis ». Il nome
della magistratura costituiva una novità rilevante. Per la prima volta
veniva affermato ufficialmente che « una pars guelfa era interna alla co-
stituzione della città » 56. Queste modifiche sorgevano dalla debolezza
stessa dei nuovi regimi che si trovavano ad alternarsi tra di loro (come

53 Corio Storia di Milano, p. 580.


54 Somaini, Processi costitutivi, dinamiche politiche e strutture istituzionali, pp. 702 e ss.
55 Somaini, Processi costitutivi, dinamiche politiche e strutture istituzionali, pp. 713 e ss.
56 Hyde, Padova, p. 233.

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L’ESCLUSIONE NORMALIZZATA. LA GENERAZIONE DEL 1260 425

i bianchi e i neri, o i della Torre e i Visconti), non raggiungendo mai


un equilibrio stabile e dunque esprimendo una continua necessità di
consenso. Ma a lungo andare queste inclusioni tendevano a produrre
istituzioni più composite, che accoglievano all’interno della condivisa
cornice comunale e cittadina rappresentanze dei diversi gruppi in con-
flitto o almeno delle loro componenti più disposte al compromesso.
Fu in questo modo che avanzò il processo di gerarchizzazione.
Ciò che nell’evoluzione istituzionale delle città italiane si rende perce-
pibile all’inizio del Trecento e prosegue nei decenni successivi, è stato
spesso interpretato dagli studiosi come un’occupazione del comune ad
opera di una delle strutture che lo avevano affiancato in precedenza
(« popolo » e « parti ») e dunque il passaggio verso un comune « ac-
centuato », egemonizzato, o « di parte ». Non c’è dubbio che questo
giudizio colga un elemento importante, ma rischia anche di dar luogo
a fraintendimenti. In realtà, sul lungo periodo queste strutture furono
fagocitate dal comune stesso e finirono per diventarne dei sottoinsie-
mi, dei canali di accesso. La pluralità delle sedi di partecipazione, tra
loro ordinate in una relazione dialettica, sicuramente conflittuale, tal-
volta (nell’ultimo comune) sottoposte a un sistema di controllo reci-
proco, subì nel corso dei conflitti che si erano aperti negli anni No-
vanta del XIII e che continuarono fino agli anni Venti del XIV una
metamorfosi che si lasciò dietro come risultato la presenza di un uni-
co luogo di azione politica di cui le strutture un tempo antagoniste
erano divenute parti integranti.
A Milano si promossero importanti riforme che andavano in questa
direzione. Il consiglio generale del comune era stato costituito sin dal-
l’inizio del Duecento sulla base delle componenti politiche: 400 membri
provenivano dai capitanei et vavassores, gli altri 400 dalla Motta e dalla
Credenza di Sant’Ambrogio. Con l’elezione di Matteo Visconti nel 1313,
il reclutamento del consigli passò nelle mani dei Dodici (la magistratura
« di parte », che da quell’anno divenne di nomina signorile) e acquisì
una base territoriale. Il processo si compì definitivamente con gli statuti
del 1330, quando il consiglio fu ridotto da milleduecento a novecento
membri, reclutati attraverso una prima selezione, condotta dalle autorità
delle parrocchie cittadine, e un successivo esame svolto dai Dodici 57.
Se è vero che un aspetto importante di queste riforme fu l’assoggetta-
mento al potere del signore, una conseguenza non indifferente di que-
sto assoggettamento fu l’unificazione dei canali di accesso ai consigli,
57 Somaini, Processi costitutivi, dinamiche politiche e strutture istituzionali, pp. 693 e ss.

Capitolo 10.pmd 425 09/11/2009, 16.28


426 GIULIANO MILANI

l’eliminazione delle strutture di partecipazione che si erano stratificate


nel corso del Duecento accanto a quelle propriamente comunali. Nella
stessa ottica è possibile interpretare le modifiche inserite negli statuti
veronesi dai vari signori scaligeri, che si succedettero tra 1302 e 1328,
in merito al Collegio dei Gastaldioni, cioè dei rappresentanti delle Arti.
Dapprima, nel 1302, lo si autorizzò solo se convocato dal Capitano del
Popolo (che era allora Bartolomeo della Scala), poi, nel 1328, lo si
sottopose al controllo del signore cui fu delegato il potere di stabilire
l’ordine del giorno rendendolo, nei fatti, da organo del « popolo » che
era, organo del governo signorile 58. Analogo il caso di Padova dove nel
primo trentennio del Trecento scomparve il ruolo politico dell’unione
delle Fraglie, e cioè delle società corporative, mentre il maggiore consi-
glio diveniva l’unica struttura di partecipazione 59.
A Firenze, il processo appare complicato dalla maggiore conserva-
zione di elementi duecenteschi, ma lo si può notare comunque. È vero
che, in apparenza, il « popolo » e la parte guelfa continuavano a esistere
come strutture distaccate del comune, dotate di statuti autonomi, ma si
andava comunque nella direzione di una sostanziale riduzione della plu-
ralità politica. Nel 1328, in seguito alla fine dell’ultima esperienza si-
gnorile della casa d’Angiò, quella di Carlo di Calabria, si procedette a
riformare gli organi consiliari, abolendo i cinque consigli stratificatisi in
precedenza (speciale e generale, del comune; generale, dei Cento, e della
credenza, del « popolo ») e sostituendoli con due consigli, uno del po-
polo e uno « dei grandi », rispettivamente di trecento e duecentocin-
quanta membri, tutti « sufficienti e guelfi » 60. Parallelamente, subirono
trasformazioni anche le istituzioni della parte guelfa. Gli statuti del 1335
stabilirono che ogni cittadino armato cavaliere sarebbe stato incluso au-
tomaticamente nelle « borse » per l’elezione dei capitani della parte, in-
cludendo così tutta la cittadinanza potenzialmente « magnatizia » nell’an-
tica struttura e, di fatto, legittimandola attraverso questa inclusione 61.
La parte guelfa venne a costituire dunque una riserva aristocratica
non più alternativa al comune, ma necessaria a controbilanciare il di-
vieto di accesso per i cavalieri sancito dagli Ordinamenti di Giustizia.
Pur non dissolvendosi nella cittadinanza, come avveniva nelle signorie,
la parte e il « popolo », i due poli per i quali si era combattuto

58 Rossini, La signoria scaligera, pp. 288-289.


59 Ventura, La vocazione aristocratica della signoria, pp. 86-87.
60 Luzzati, Firenze e l’area Toscana, pp. 715-716.
61 Statuto della Parte Guelfa, p. 7.

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L’ESCLUSIONE NORMALIZZATA. LA GENERAZIONE DEL 1260 427

trent’anni prima, erano divenuti elementi complementari, interni al


medesimo sistema politico.

Questo processo di unificazione delle pluralità e di gerarchizzazione


delle istituzioni fu strettamente connesso all’evoluzione subìta dall’esclu-
sione politica e al suo inasprimento visibile nelle vicende fiorentine e
italiane dell’epoca di Enrico VII. Per un verso ne fu la causa. Afferma-
re che il comune e il « popolo », che il comune e la pars, erano ormai
una cosa sola, come fecero i neri nelle loro sentenze, significò poter
considerare i nemici del popolo e della parte nemici del comune e
quindi superare in maniera definitiva e irreversibile la separazione due-
centesca tra giustizia politica e giustizia per reati « comuni », che, come
si è visto analiticamente a Bologna, quasi sempre aveva consentito un’at-
tenuazione della prima rispetto alla seconda. Si giunse così a persegui-
tare i nemici della parte come traditori dell’unico potere riconosciuto.
Ma, per un altro verso, fu la stessa esclusione a contribuire a quella
gerarchizzazione. Come si è visto trattando della vicenda bolognese, la
generazione nata attorno al 1260 fu la prima che si trovò a convivere
con uno stabile ordinamento giuridico, volto alla protezione del regime
al potere, e basato sull’esclusione. Quell’insieme di provvedimenti che
sancivano il bando di chi non si conformava alle decisioni e alle allean-
ze del ceto dirigente comunale, che per i padri era eccezionale, e in
alcuni casi addirittura criticato come eversivo di un sistema di valori
condiviso, per i figli era – in senso letterale – normale amministrazione.
Verso il 1290 nessuno si permetteva più di difendersi da un’accusa di
dissidenza politica sostenendo di essere equidistante dalle parti come
era accaduto a Prato e a Bologna all’indomani delle grandi esclusioni
negli anni Sessanta e Settanta del Duecento.
I cambiamenti di regime vissuti da questa generazione (a Firenze e
Bologna tra Bianchi e Neri, a Milano tra Della Torre e Visconti, e così
via) non intaccarono affatto il principio secondo il quale chi attaccava
coloro che avevano raggiunto le posizioni di guida nel comune – e non
solo, come in precedenza, chi attaccava il comune in sé – andava puni-
to con un’esclusione tanto più grave quanto maggiore era la loro re-
sponsabilità e potenziale pericolosità. Anzi l’alternanza dei regimi tese a
fissarne e a renderne sistematico il ricorso da parte di quanti accedeva-
no al potere. La stessa alternanza (in un modo simile, a quello visibile
a Vercelli negli anni Cinquanta del Duecento) favorì il passaggio da
una giustificazione dell’esclusione fondata sulla necessità di difesa della
parte a una fondata sulla difesa del governo della città, rendendo la

Capitolo 10.pmd 427 09/11/2009, 16.28


428 GIULIANO MILANI

ritorsione pienamente legittima. Il frequente e vario ricorso all’esclusio-


ne dei nemici insomma rafforzò non solo e non tanto la contingente
parte intrinseca, quanto l’idea secondo cui era legittima l’esistenza di
una parte intrinseca in grado di escludere, ed era accettabile che essa si
presentasse come l’intero comune. Solo considerando questo elemento,
si può cogliere la compresenza – tipicamente prototrecentesca – tra
incremento della forza dei governi e incremento dell’instabilità.

5. Uno sguardo in avanti: la chiusura del canone

Con poche modifiche la riforma dei consigli milanesi portata a ter-


mine nel 1330 sarebbe durata fino al XVI secolo. Lo stesso si potreb-
be dire per ciò che avvenne a Firenze relativamente alla parte guelfa e
alle altre magistrature. Per i due secoli successivi, insomma, la struttura
istituzionale delle città italiane continuò ad articolarsi sugli elementi che
si erano stabilizzati all’inizio del Trecento. Lo stesso accadde per le
procedure di esclusione, almeno a giudicare dai dati che forniscono
due studi sull’argomento.
Per quanto possa apparire paradossale, a suffragio di questa tesi si
possono richiamare gli stessi dati che Randolph Starn ha raccolto in
Contrary Commonwealth per mostrare la radicale differenza tra esclusio-
ni medievali e rinascimentali. L’avere assunto come campione delle esclu-
sioni medievali la condanna di Dante, un provvedimento, come si è
visto, dotato di molti elementi di novità rispetto agli episodi precedenti
(giustificazione attraverso una legge, ricorso alla condanna a morte) ha
portato questo studioso a tratteggiare un’immagine dell’esclusione due-
trecentesca violenta, sostanzialmente illegittima, fondata sulla strumenta-
lizzazione delle leggi disponibili ad opera della parte al potere, un’im-
magine piuttosto diversa, dunque, da quella che emerge da questa ri-
cerca. Se si considerano invece – secondo quanto si è tentato di fare
nelle pagine precedenti – le condanne del 1302 come il punto di arrivo
di un processo secolare, come l’ultimo sviluppo di un’evoluzione lunga
e complessa che appare in tal modo giunta al suo ultimo stadio, non si
può rinunciare a prendere le distanze dalla tesi di fondo del libro di
Starn, secondo cui nel Rinascimento si verificarono esclusioni più legit-
time, razionali, modernamente statali e, per ciò stesso, accettate 62. Nella
stessa direzione di una revisione di questa tesi si è mossa peraltro una

62 Starn, Contrary Commonwealth, p. 97.

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L’ESCLUSIONE NORMALIZZATA. LA GENERAZIONE DEL 1260 429

studiosa anglosassone, Christine Shaw, che ha dedicato all’esclusione


politica in Italia nella seconda metà del Quattrocento un studio ricchis-
simo di informazioni, in cui si dimostra che l’esilio negli stati di que-
st’epoca era un fenomeno ancora molto presente e molto meno accetta-
to di quanto non fosse parso a Starn 63.
I dati che sull’esclusione tre-quattrocentesca è possibile ricavare da
questi due libri, al di là delle tesi dei loro autori, mostrano in ogni
caso che le procedure elaborate nel corso del Duecento continuarono a
fornire una solida base ai governi successivi. I sistemi di esclusione
politica continuarono ad essere articolati in primo luogo sulle pene del
bando e del confino. Pur subendo alcune variazioni terminologiche,
soprattutto dovute al classicismo dei giuristi (il confino assunse talvolta
il nome di exilium o relegatio), continuò la fondamentale distinzione
– come si è visto, ben chiara già al tempo di Federico II 64, ma cano-
nizzata in età angioina 65 – tra la perdita della totalità dei diritti, com-
preso quello di residenza e soggiorno in città, strutturalmente connessa
a un atto di ribellione, il bando, e il soggiorno obbligato in una locali-
tà, il confino. Le altre pratiche duecentesche, come la prestazione di
sanzioni pecuniarie e la sospensione dai pubblici uffici, che a Firenze
prese il nome di « ammonizione », continuarono ad avere un ruolo im-
portante, ma accessorio 66.
A testimoniare che non si trattava di una continuità di facciata, va
osservato che si conservò il carattere non standardizzato di queste pro-
cedure, che di volta in volta vennero adattate alle esigenze emergenti,
secondo le stesse variabili visibili nel XIII e nel XIV secolo. Si manten-
ne, per esempio, l’abitudine di inviare di volta in volta i confinati in
città amiche e nel proprio contado, quella di ricorrere ai notai per
provvedere al loro controllo o per raccogliere le registrazioni di presen-
za, quella di mandare condannati residenti nelle stesse zone della città
nelle stesse località del contado, rispettando per così dire i legami pre-
esistenti alla condanna 67. E, secondo le procedure riscontrate quasi due
secoli prima a Bologna, si accettarono petizioni dei confinati e dei ban-
diti, in base alle quali furono spesso rinegoziate le condizioni penali. La
lettera inviata nel 1396 da Donato Acciaioli alla repubblica di Firenze,

63 Shaw, The politics of exile, pp. 4; 82.


64 V. Capitolo IV.
65 V. Capitolo V.
66 Shaw, The politics of exile, pp. 88 e ss.
67 Shaw, The politics of exile, pp. 145-156. V. Capitolo VII.

Capitolo 10.pmd 429 09/11/2009, 16.28


430 GIULIANO MILANI

che Randolph Starn ha usato per affermare che all’epoca di Dante sa-
rebbe risultato assurdo che un esule si fosse rivolto con un tono così
ubbediente a coloro che lo avevano condannato, ricorda nel contenuto
le petizioni inviate dai lambertazzi ai consigli bolognesi 68.
Una forte similitudine è osservabile anche nelle procedure con cui
si decretava l’emanazione di queste pene. I dati forniti da Starn e dalla
Shaw ci permettono di affermare che la tendenza a giustificare le con-
danne politiche sulla base della normativa esistente, visibile all’inizio del
Trecento nelle condanne fiorentine e degli altri comuni nell’epoca di
Enrico VII, non costituì un punto di non ritorno, la definitiva inclusio-
ne della giustizia politica straordinaria in una dimensione ordinaria, ma
l’elemento più recente di un repertorio cui si continuò ad attingere con
grande libertà. Starn sostiene che, nel maturo secolo XIV, erano le ba-
lìe di sapienti e non più il podestà a emanare le condanne politiche 69,
non cogliendo il proseguire del gioco, tipicamente duecentesco, per cui
le magistrature straordinarie della città decretavano le condanne, men-
tre quelle ordinarie e forestiere come il podestà fornivano il suggello
finale e il controllo. Una simile dialettica istituzionale è invece chiara-
mente percepita dalla Shaw, che, descrivendo l’esclusione senese del
1456, mette in risalto elementi di origine antica come la scrittura dei
nomi su pezzi di pergamena, poi sottoposti all’approvazione di un co-
mitato che ne decreta la condanna votando secondo il sistema dei
due terzi, o la ratifica finale delle condanne più gravi, sancita dall’as-
semblea più ampia 70; un elemento, quest’ultimo, che si trova nella più
antica esclusione politica testimoniata a Bologna, quella del 1149.
Infine, appare chiaramente come tra Due e Quattrocento si osserva-
no le medesime pratiche di amministrazione dei beni sequestrati. Le
procedure che Starn descrive come modular and routine (e, a suo pare-
re, impensabili in precedenza) sulla base dei registri degli Ufficiali della
Torre, la magistratura fiorentina che a partire dal 1367 prese in conse-
gna la gestione dei beni sequestrati ai ghibellini 71, sono del tutto simili
a quelle duecentesche. Elencare i beni sulla base dei vecchi elenchi,
correggerli, aggiornarli, provvederli di riscontri incrociati, e calcolarne
le possibili rendite sono esattamente le operazioni a cui, lo si è visto
nei capitoli scorsi, provvedeva a Bologna l’ufficio ai beni dei banditi

68 Starn, Contrary Commonwealth, p. 102.


69 Starn, Contrary Commonwealth, p. 99.
70 Shaw, The politics of exile, pp. 56-59.
71 Starn, Contrary Commonwealth, p. 111.

Capitolo 10.pmd 430 09/11/2009, 16.28


L’ESCLUSIONE NORMALIZZATA. LA GENERAZIONE DEL 1260 431

lambertazzi. I dati raccolti dalla Shaw confermano questa impressione e


permettono di estenderla anche ad altre realtà urbane (repubblicane e
signorili). Se è vero che la pratica di distruggere i beni dei banditi
sembra diminuire con il passare del tempo e il progredire dell’età mo-
derna (ma non ovunque), è anche vero che molti altri aspetti della
persecuzione restarono gli stessi: così, per esempio, il rispetto per i
beni dotali delle vedove, la tendenza a registrare le proprietà secondo
gli individui e non tanto secondo le famiglie, il congelamento dei credi-
ti e la loro acquisizione da parte del comune 72. Non si trattò semplice-
mente del ricorso a soluzioni obbligate, attuate da sempre in caso di
esclusione politica, ma dell’uso di uno strumentario elaborato nei co-
muni del Duecento e del primo Trecento, trasmessosi pressoché intatto
alle generazioni succcessive.
Non stupisce una simile continuità in un contesto che proseguì per
secoli ad articolare il proprio vocabolario delle fazioni intorno ai termi-
ni guelfo e ghibellino e che, in generale, non riuscì a produrre una
forma statuale decisamente sganciata dalla sua origine comunale e citta-
dina. Al punto che sembra lecito interpretare anche gli elementi che i
due studiosi ritengono veramente nuovi nelle esclusioni del Rinascimen-
to come derivati dall’ultima trasformazione che l’esclusione comunale
aveva subìto, quella dell’inizio del Trecento. Così, per esempio il fatto
che nel Rinascimento (in questo Starn e la Shaw concordano) mutaro-
no le forme organizzative degli esuli. Non si ebbe più la costituzione di
veri e propri comuni estrinseci, che sfidavano la legittimità dell’organiz-
zazione comunale presentandosi come una « città » altrettanto legittima.
Privi di questa organizzazione – resa inconcepibile dal monopolio di
legittimità che i comuni avevano acquisito a partire dal Trecento – que-
sti nuovi fuoriusciti non riuscirono mai a rientrare con la forza, ma
dovettero attendere un momento di pacificazione, un esercito invasore
o, più spesso, il richiamo dei regimi che li avevano esiliati 73. Pur ri-
guardando un aspetto non considerato in questa ricerca, la modifica
nella reazione dei perseguitati suggerisce qualcosa anche in merito al-
l’azione dei persecutori. Il venire meno della possibilità di creare una
città di fuori sembra adombrare l’indiscutibile e definitiva affermazione
della città di dentro.
In questa affermazione appare la terza grande differenza tra l’esclu-
sione del Rinascimento e quella duecentesca che ne aveva costituito il

72 Shaw, The politics of exile, p. 120.


73 Shaw, The politics of exile, p. 204; Starn, Contrary Commonwealth, p. 115-116.

Capitolo 10.pmd 431 09/11/2009, 16.28


432 GIULIANO MILANI

fondamento. Contestando la tesi di Starn secondo cui gli esuli del Quat-
trocento appaiono più pronti dei loro antenati ad accettare la legittimi-
tà dei governi che li avevano espulsi, la Shaw argomenta che, in realtà,
il contrasto con il passato non è così netto e che esisteva ancora spazio
per sfidare il potere. « Gli italiani del Quattrocento » – scrive – « erano
in grado di distinguere tra l’autorità legittima dello Stato, la sua pretesa
di lealtà e obbedienza, e ciò che poteva essere visto come l’illegittima
appropriazione dello Stato da parte dei membri di un regime, la cui
autorità e le cui pretese potevano essere legittimamente sfidate » 74. Questa
differenza tra regime e istituzioni, tra una componente della politica
contingente, e come tale contestabile, e un più ampio quadro perma-
nente, che occorreva lasciare intatto, nel Duecento non poteva essere
altrettanto chiara e non lo fu finché non giunse a termine la gerarchiz-
zazione delle istituzioni che erano andate sedimentandosi le une accan-
to alle altre e la riduzione a unità della pluralità di sedi politiche. Non
è un caso se, come mostrano ancora una volta gli studi menzionati, a
occuparsi degli esclusi, e dei loro beni, non furono più ufficiali della
parte o del popolo. Neanche a Firenze, dove la parte guelfa continuò
ad esistere per molto tempo, essa continuò a occuparsi dei beni dei
ghibellini, che nel 1364 passarono sotto la competenza degli ufficiali
della Torre, addetti all’amministrazione delle gabelle, dei mulini, dei
porti e delle altre proprietà del comune. Non era più disponibile lo
spazio di azione politica che un tempo aveva consentito l’organizzazio-
ne di comuni alternativi di esuli e la loro riconversione istituzionale,
nel momento del rientro, in parti intrinseche organizzate che affianca-
vano il comune.
È, dunque, significativo che, proprio quando questo processo si sta-
va compiendo, negli anni attorno al 1330 in cui, tramite gli statuti, le
nuove istituzioni gerarchicamente disposte ricevevano la loro sanzione
solenne, Bartolo da Sassoferrato prese « definitivamente distanza dalle
idee di Accorso, avanzando un’originalissima interpretazione, alla base
della quale si trova nuovamente l’utilizzazione di una categoria romani-
stica. Nel Tractatus bannitorum egli affermò infatti che la condizione
del bandito doveva identificarsi con quella del transfuga, ossia colui
che, secondo il diritto romano, aveva abbandonato la comunità al cui
governo era sottoposto passando al campo nemico » 75. Come sottolinea

74 Shaw, The politics of exile, pp. 81-82.


75 Menzinger di Preussenthal, Bando e normativa antiereticale.

Capitolo 10.pmd 432 09/11/2009, 16.28


L’ESCLUSIONE NORMALIZZATA. LA GENERAZIONE DEL 1260 433

Sara Menzinger, autrice del passo citato, Bartolo precisò che in tale
categoria non andavano inquadrati tutti i banditi, ma soltanto coloro
che, una volta usciti, avevano promosso un’azione militare contro la
città. In tal modo la giurisprudenza passava da una classificazione tec-
nica dei banditi, quella proposta con successo all’inizio del Duecento
da Accursio, basata su una distinzione degli effetti del bando (deporta-
tio = bando più grave; relegatio = bando più lieve), a una classificazio-
ne politica, basata sulla causa del bando. Con la creazione di questa
categoria, la giurisprudenza riconosceva finalmente alle città la possibili-
tà di esercitare una giustizia contro i propri nemici ribelli. I giuristi
prendevano atto che il bando politico non rappresentava più la conse-
guenza dell’offesa a una « parte », ma la reazione a un attacco alla città,
a un organismo che, oltre che superiori, non riconosceva nemmeno
concorrenti al proprio interno.

6. Conclusioni

Le considerazioni da cui si è partiti per cogliere le specificità della


prima esclusione trecentesca offrono dunque una chiave di lettura utile
anche per l’analisi delle epoche successive. La presenza di elementi nuovi,
capaci di manifestare una più solida (e arbitraria) autorità dei regimi
cittadini e l’assenza di un nuovo lessico della comunicazione politica in
grado di sostenere questa autorità, che provoca il ricorso al modello
comunale e cittadino, sembrano persistere e caratterizzare la vita politi-
ca italiana negli ultimi due secoli del Medioevo.
Le novità trecentesche entrano in circolo, divengono risorse a di-
sposizione dei governi successivi per colpire i loro nuovi nemici, ma
non soppiantano le tecniche già esistenti. L’accusa di baratteria e quella
di ribellione vengono a giustapporsi nel serbatoio degli strumenti di
esclusione accanto alla semplice accusa di malexardia o di ghibellini-
smo. La pena di morte e le punizioni infamanti si affiancano al bando
e al confino. Materialmente, le nuove liste si cuciono o si copiano ac-
canto alle vecchie, capaci ancora di fornire prestigio e legittimità anche
se sono sempre meno coloro che riescono a interpretarle, come mostra
l’assurdo ordine in cui alla fine del Trecento le liste duecentesche furo-
no copiate nel Libro del Chiodo. In tal modo si ha la sensazione di
entrare in un epoca in cui gli elementi girano a vuoto, senza produrre
cambiamenti di rilievo. È evidente che si tratta di un’impressione falsa,
dovuta alla stessa evoluzione politica tardomedievale. Nel Duecento la

Capitolo 10.pmd 433 09/11/2009, 16.28


434 GIULIANO MILANI

pluralità delle organizzazioni in lotta tra loro fa sì che i documenti


rimandino sempre in maniera esplicita alle parti che si scontrano, che
cambiano di volta in volta. Con il passare del tempo i riferimenti ten-
dono a diventare impliciti e sfuggenti, le carte e i cronisti vengono a
comprendere ogni scontro sotto la cappa della generica e uniforme ri-
bellione all’autorità cittadina. Resta però l’impressione che, attorno al
1330, si chiuda il canone dell’esclusione politica, così come era comin-
ciato a formarsi alla fine del XII secolo e che la riflessione sui nemici
interni, divenuta dopo un secolo e mezzo completamente lecita, entri in
una fase di elaborazione sotterranea, più lenta e non più così stretta-
mente legata alle contingenze dello scontro, che porterà, nel Cinque-
cento, all’emergere di un lessico veramente nuovo, quello fondato sul
Crimen lesae maiestatis, e posto a fondamento della punizione del reato
politico in età moderna 76.
Una simile periodizzazione fornisce una chiave per ricapitolare la
storia dell’esclusione politica comunale. Alla luce di quanto si è appena
affermato tale storia appare come la paradossale vicenda della persecu-
zione dei nemici interni in un sistema aperto e non gerarchico, un
sistema che, se non di diritto, ammetteva di fatto la presenza di gruppi
istituzionalizzati formatisi spontaneamente per contestare – anche vio-
lentemente – l’assetto esistente. Viste da questa prospettiva le grandi
esclusioni di fine Duecento, una volta ossevate nella loro concreta ap-
plicazione come si è fatto nei capitoli bolognesi, non appaiono più come
l’irruzione della barbarie capace di portare il comune al fallimento. Esse
sembrano piuttosto l’ultima occasione in cui ebbero modo di agire e di
pesare alcuni meccanismi tipicamente comunali di partecipazione politi-
ca e di relazioni sociali, prima che fossero spazzati via da una violenza
ormai legittima e, come tale, molto meno discutibile.

76 Sbriccoli, Crimen Lesae Maiestatis.

Capitolo 10.pmd 434 09/11/2009, 16.28


Capitolo XI

CONCLUSIONI

1. L’esclusione di fine Duecento come forma originale di persecuzione


politica

Definire la ribellione all’autorità comunale nei termini dell’apparte-


nenza a una pars nemica e punirla con un bando, che comportava la
privazione giuridica del diritto di cittadinanza, e vari gradi di confino,
che prevedevano l’allontanamento fisico dalla città, come avvenne nel-
l’ultimo quarto del secolo XIII, non fu il contingente manifestarsi di
una presunta funzione politica strutturale che la società comunale con-
divideva con sistemi antichi e moderni, ma una forma di persecuzione
politica originale, dotata di una vita relativamente breve e chiaramente
distinguibile sia da quella posta in atto dai regimi precedenti, sia da
quella promossa dai regimi successivi.
L’originalità rispetto ai regimi precomunali emerge chiaramente con-
siderando la forte lentezza dello sviluppo. Così come appare nei bandi
di fine Duecento, l’esclusione costituisce il punto di arrivo di un pro-
cesso più che secolare (qui descritto nei capitoli che vanno dal secon-
do al quarto), scandito dalla lenta acquisizione di princìpi in preceden-
za sconosciuti, bisognosi di tempi lunghi, superiori a una sola genera-
zione, per consolidarsi e divenire pienamente accettati. L’originalità ri-
spetto ai regimi signorili o postcomunali risulta invece dallo stacco
che, a livello locale e generale, si registra al principio del Trecento, il
processo (cui si è fatto riferimento nei capitoli decimo e undicesimo),
che vede, una volta conclusa l’esperienza delle esclusioni duecentesche,
l’apparire di esclusioni giustificate sulla base di nuovi argomenti, meno
negoziabili e più dure.
Detto ciò, l’originalità delle esclusioni duecentesche non è tale da
consentire, per spiegarla, il ricorso all’immagine della « parentesi ». Al
contrario, si è messo in rilievo come alcuni meccanismi preesistenti
(come il bando giudiziario, e cioè la punizione dei contumaci attraver-
so l’allontanamento dalla città e la privazione dei diritti, destinata a
decadere in caso di presentazione e pace con l’offeso) furono determi-

Capitolo 11.pmd 435 09/11/2009, 16.29


436 GIULIANO MILANI

nanti nell’orientarne gli sviluppi. Allo stesso modo, è stato possibile


notare quanto le grandi esclusioni duecentesche offrirono non solo un
vocabolario e un elemento di legittimazione ai regimi successivi che,
proprio perché colpivano in modi nuovi i loro nemici, sentirono la
necessità di rifarsi alle esperienze trascorse, ma anche la base su cui
costruire un sistema politico nuovo rispetto a quello podestarile. Non
episodio tra parentesi, dunque, ma forma originale e significativa di
uno sviluppo coerente nel suo svolgimento. Proviamo a ripercorrerlo,
prendendo in esame tre aspetti generali. In primo luogo, si riassumerà
ancora una volta la fase di formazione, le precondizioni, quei nuovi
princìpi che consentirono il sorgere e tennero in piedi l’esclusione tar-
doduecentesca; in secondo luogo, si segnaleranno i funzionamenti con-
creti di questa esclusione, soprattutto alla luce del ruolo fondamentale
che vi giocò la scrittura; infine, per concludere, ci si soffermerà un’ul-
tima volta su ciò che l’esclusione politica comunale significò nel più
ampio contesto dell’evoluzione politica.

2. Le precondizioni: delitto politico, giurisdizione territoriale del comune,


parti

La prima precondizione dei grandi bandi duecenteschi fu la nascita


di un reato politico propriamente detto, l’affermarsi dell’idea secondo
cui il comune andava protetto con misure consistenti in quanto organi-
smo che prendeva decisioni relativamente all’indirizzo politico e non
solo in quanto proiezione della comunità dei cives.
Per quanto le fonti più antiche siano piuttosto avare, l’analisi con-
dotta nel Capitolo secondo mostra che attorno metà del XII la di-
stinzione tra delitti contro la comunità e delitti contro il governo
comunale esisteva già, ma per i compilatori dei brevi consolari citta-
dini gli interessi della prima erano prevalenti rispetto a quelli del
secondo. Con ogni probabilità, in origine, l’unico atto criminale che
sollecitava la pena dell’esclusione era la volontaria sottrazione alla
giustizia cittadina. Con il progredire delle prerogative del comune,
crebbe il numero delle azioni passibili di questo tipo di ritorsione.
Nei brevi genovesi troviamo già la falsificazione di moneta per la
quale era previsto l’allontanamento. Si trattava del segno che il co-
mune intendeva affermare la detenzione di un altro monopolio oltre
a quello della giurisdizione, il monopolio dell’emissione di moneta.
Ma non si era ancora affermata l’idea secondo cui il tradimento del

Capitolo 11.pmd 436 09/11/2009, 16.29


CONCLUSIONI 437

comune, la ribellione o il favore accordato a poteri esterni meritasse-


ro una punizione altrettanto grave. Perché ciò avvenisse fu necessaria
una guerra come quella che le città si trovarono a combattere con
l’imperatore alla fine del XII secolo. La Lega che combatté Federico
I stabilì patti militari che prevedevano sanzioni in caso di rottura. È
in queste sanzioni che si trova – in un contesto ancora straordinario,
di emergenza – la prima traccia di una definizione forte del delitto
di tradimento politico.
Nella generazione successiva, pur venendo meno l’emergenza della
guerra generale, questa definizione rimase in piedi. Come è possibile
ricavare dal Capitolo terzo, le città continuarono a utilizzarla per puni-
re i traditori e i ribelli che agivano nelle guerre locali e regionali. Si
cominciò, occasionalmente, a chiamare « bando » la pena dell’allontana-
mento che tale azione sollecitava, in parte perché con questo nome che
Federico aveva chiamato la pena contro i suoi ribelli, in parte perché si
trattava del nome che indicava la più antica e legittima delle ritorsioni
comunali, quella attuata contro chi non si presentava in giudizio. Ma
non si trattava ancora di una pratica regolare. In molti casi i ribelli
non furono puniti affatto, oppure per loro non si usò il termine bando:
ciò avvenne solo quando la ribellione durò molto e, contemporanea-
mente, fu presente un podestà intenzionato a ricorrere a uno strumento
nuovo e forte, ma ancora non del tutto accettato.
Lo scontro con Federico II spianò la strada a questa accettazione.
La nuova emergenza bellica produsse sia una diffusa volontà di colpire
in maniera forte i ribelli all’autorità politica del comune, sia un’intensa
circolazione di modelli giuridici cui fare ricorso. La generazione che
visse questa guerra fu la prima ad assistere all’utilizzo sistematico della
misura preventiva del confino e della pena del bando perpetuo in caso
di ribellione. Ma rimanevano ancora molti dubbi relativamente al modo
di qualificare questa ribellione. Il caso vercellese di Pietro Bicchieri,
analizzato nel Capitolo quarto, mostra in maniera chiarissima come alla
definizione del reato di ribellione si giunse in maniera graduale ed em-
pirica attraverso il ricorso a concrete pratiche penali già esistenti (inne-
scate dalla mancata esecuzione di un ordine o dalla consegna di castelli
al nemici) e la progressiva costruzione, sulla base di queste pratiche, di
un modello più astratto e versatile di crimine politico, comprensivo di
comportamenti diversi.
Solo con la generazione ancora successiva, quella che visse effetti-
vamente il sistema dell’esclusione, tale modello di crimine politico fu
associato alla nozione di pars esclusa. Ciò avvenne principalmente at-

Capitolo 11.pmd 437 09/11/2009, 16.29


438 GIULIANO MILANI

traverso la mediazione dell’esclusione dei magnati dalle societates po-


polari promossa dalle società unitarie di « popolo ». Ma che non si
trattasse ancora di un’acquisizione definitiva e pacifica lo stanno a
testimoniare le stesse formulazioni dei bandi emanati, quando gli stru-
menti definitori elaborati dal « popolo » furono impiegati contro le
partes nemiche. Nel 1274, i compilatori del primo bando del lamber-
tazzi, consapevoli di redigere un atto di tipo nuovo, vollero rafforzare
il loro provvedimento rivestendolo delle formule tipiche della sentenza
penale (menzione della citazione, indicazione della pubblica fama del
crimine), facendo riferimento a crimini che, a differenza dall’apparte-
nenza alla pars sconfitta, erano previsti dagli statuti (come il porto di
armi proibite, l’assalto al palazzo comunale) e infine riesumando en
passant un termine (malexardi) caratteristico della lotta antifedericiana
vissuta dai loro padri.

La seconda precondizione fu l’affermazione del carattere territoriale


del potere comunale, senza la quale non sarebbe stato possibile, ai ri-
belli, dotare di significato delegittimante l’uscita volontaria dalla città e,
al comune, reagire ratificandone l’esclusione da quello spazio, fisico e
giuridico.
Tornando per un momento ai brevi consolari del XII secolo si può
notare come in essi appaia nettamente una distinzione tra l’esclusione
giuridica dal collegio dei consoli, prevista nei casi di reati ai nostri
occhi più propriamente politici (ribellione, tradimento, etc.), e l’esclu-
sione fisica dalla città, decretata solo nei casi di attacco alla iurisdictio
nel senso più ampio (sottrazione alla giustizia, falsificazione della mone-
ta). Tale distinzione non illumina solo, come abbiamo appena ricordato,
la posizione dei vari comportamenti lungo la scala della gravità che
avevano in mente i legislatori del XII secolo, ma ci fa capire che per
quei legislatori esistevano due sfere politiche (e dunque due possibilità
di esclusione) ben distinte: quella più limitata occupata dal gruppo dei
consoli e quella, più ampia, costituita dalla comunità dei cives et habita-
tores. Il processo – anche in questo caso graduale – con cui il comune
nel corso delle generazioni succesive affermò il proprio potere sulla
città e sul territorio può essere anche letto nei termini di una progres-
siva sovrapposizione di queste due sfere, che solo alla fine, verso il
XIV secolo, cominciarono a coincidere.
Anche da questo punto di vista fu importante la comparsa del de-
litto politico nel corso dello scontro con Federico I. La sanzione per la
rottura del patto di alleanza della Lega contemplò l’esclusione dalla

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CONCLUSIONI 439

città e dal territorio di quanti non si conformavano a una decisione


politica presa dai governanti. Si trattava di una novità: il costituto pisa-
no emanato pochi anni prima, nel 1154, prevedeva ancora la semplice
esclusione dal consolato per i complici dei Visconti. Ma gli esiti del
conflitto con l’imperatore provvidero a renderla definitiva.
Solo nella generazione successiva tuttavia il collegamento tra uscita
dalla città e pena dell’esclusione si rivela nettamente ai nostri occhi. La
relazione tra i fuoriusciti e il comune si spostò dal piano paritario della
concorrenza verso quello, diseguale, dell’ostacolamento e del boicottag-
gio attuato contro un potere riconosciuto come più legittimo. Il comu-
ne non costituiva più un’istituzione di fatto, come le altre consorterie e
organizzazioni che combattevano nello spazio urbano, ma un’istituzione
di diritto, solennemente garantita dall’alto e in condizione di raccogliere
quello spazio sotto il proprio controllo. Che nei fatti non sempre que-
ste condizioni si realizzassero, e che, specialmente nel territorio, conti-
nuassero a esistere ordinamenti giuridici separati e non facilmente com-
patibili con quello comunale non toglie valore alla volontà del comune
di presentarsi come l’unico potere legittimo. Proprio questa volontà sca-
tenò le contraddizioni e i conflitti.
Verso il 1230 queste contraddizioni si intensificarono. Da un lato, il
comune progrediva nel controllo della città e del territorio, giungendo
a introdurre nel proprio armamentario punitivo uno strumento, come
quello del confino, che presupponeva non solo un certo grado di con-
senso da parte di quanti erano colpiti, che recandosi nel luogo decreta-
to accettavano implicitamente la pena, ma anche la concreta capacità
da parte del comune di rendere operativa la decisione, accertando che
il punito non si allontanasse. Dall’altro, i poteri alternativi al comune
situati nel territorio approfittavano dello scontro tra la seconda Lega e
il secondo Federico per affermare la propria indisponibilità a essere
inclusi stabilmente nella giurisdizione del comune e organizzare dall’ester-
no la propria resistenza.
Il sistema dell’esclusione, prodotto nella generazione successiva ven-
ne a sovrapporsi a tutto ciò. La città era divenuta ormai il principale
soggetto politico con il quale fare i conti. Non è senza significato il
fatto che nella maggior parte dei casi i fuoriusciti degli anni Sessan-
ta-Ottanta si rifugiarono in altri comuni e non più come quelli degli
anni Trenta-Cinquanta nei castelli del contado. Uscire significò boi-
cottare il comune per piegarlo non più ai propri interessi, ma a quello
del sistema di alleanze di cui si faceva parte, che in larga misura
aveva assorbito le spinte centrifughe del territorio. Le ritorsioni che

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440 GIULIANO MILANI

queste uscite sollecitarono riguardarono non più solo gli usciti stessi,
ma per la prima volta i loro favoreggiatori: tutta la cittadinanza do-
vette essere inquadrata attraverso il criterio dell’appoggio/ostilità al
governo. Attraverso questa novità, inventata dalle società di « popo-
lo » e applicata alle parti ghibelline dopo la vittoria di Carlo I d’An-
giò, l’esclusione giuridica dagli uffici e quella fisica dalla città tesero
a saldarsi: tutti i perturbatori reali o potenziali della politica del co-
mune dovettero essere posti, provvisoriamente o definitivamente, fuo-
ri dalle mura. Per certi versi non si trattava di un compimento defi-
nitivo. L’esclusione dai pubblici uffici avrebbe riacquistito di lì a poco
un ruolo importante. Non però come un secolo e mezzo prima, qua-
le misura di ritorsione per un diverso tipo di delitto, ma quale misu-
ra attenuata per gli stessi delitti puniti con l’esclusione dalla città.
L’idea secondo cui lo spazio fisico della città e del suo territorio
coincideva con lo spazio politico del comune, insomma, e il suo co-
rollario secondo cui chi avesse attaccato la parte al potere sarebbe
stato escluso da questo spazio non sarebbe più stata abbandonata
per molto tempo.

La terza precondizione dell’esclusione politica comunale di fine


Duecento fu la formazione di due parti all’interno di ogni città in gra-
do di collegarsi a quelle degli altri centri urbani e di far riferimento a
due reti di alleanze organizzate.
Come e più dell’esclusione le parti non furono realtà eterne. Come
si è cercato di mostrare, i gruppi che promossero o subirono le grandi
esclusioni non risalivano nella loro conformazione molto oltre la gene-
razione precedente. Per quanto le parti bolognesi fossero raggruppa-
menti di formazione particolarmente tarda, anche altrove furono rarissi-
mi i casi in cui questi gruppi si formarono prima della metà del Due-
cento e anche per questa minoranza di parti precoci i cambiamenti
nella composizione prevalsero rispetto alle continuità. Ciò non significa
che le partes che avrebbero fornito i nomi alle fazioni dei due secoli
seguenti sorsero dal nulla. Alcuni cambiamenti avvenuti nelle generazio-
ni precedenti crearono le condizioni per la nascita di queste struttre
politiche così tipiche di quell’epoca.
Alla fine del XII secolo sorse lo spazio politico nel quale le parti
avrebbero agito: il comune consolare, che – lo si è appena visto – si
affermava come entità bisognosa di una protezione straordinaria e co-
struiva in maniera legittima il proprio potere sul territorio. La ristret-
tezza del vertice che governava, tuttavia, impedì la creazione di rag-

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CONCLUSIONI 441

gruppamenti ampi e capaci di collegarsi all’esterno. Anche per questo,


forse, conosciamo poco i gruppi in conflitto nell’età di Federico Barba-
rossa con l’eccezione di qualche personaggio e famiglia. Il gruppo di
quanti accedevano al consolato, che in una città come Bologna non
superava di molto le trenta-quaranta famiglie, tendeva a risolvere al
proprio interno i conflitti, ricercando l’unanimità e trovando accordi,
più che costruendo clientele trasversali ed estese nella società e organiz-
zandosi militarmente.
Ben diversa appariva la situazione all’inizio del XIII secolo quando
una nuova dialettica interna innescò profonde trasformazioni nel comu-
ne. Presero allora il sopravvento i consigli presieduti dal podestà in cui
prevaleva il sistema del voto a maggioranza. Fu quindi spontaneo che
una parte importante delle rivendicazioni di quanti erano esclusi dal
governo comunale vertesse proprio sulla struttura e sul reclutamento di
questi consigli. Lo scontro tra milites e populus, che si diffuse in buona
parte dell’Italia centro-settentrionale (nella parte restante furono le ma-
gne domus a definire i contorni del conflitto), riguardava problemi così
strutturali dell’organizzazione politica (distribuzione del carico fiscale,
spese militari e, appunto, conformazione istituzionale), appariva così
decisivo nell’orientare il futuro delle città, che il dibattito coinvolse un
numero di persone sempre più ampio. I molteplici gruppi di interesse
che agivano in città cominciarono, insomma, a estendersi su una parte
sempre più consistente della società cittadina.
Solo all’epoca dello scontro con Federico II tutti questi gruppi di
interesse si ritrovarono coinvolti nella stessa guerra, collegandosi in for-
me differenti e a mano a mano sovrapponendosi ai due schieramenti
della Chiesa e dell’Impero. Nel giro di una decina d’anni, come testi-
monia anche la memoria cronachistica, questi due fronti vennero ad
assorbire la maggior parte dei conflitti precedenti, fornendo nomi ver-
satili capaci di resistere nel tempo e nello spazio. I più vecchi testimo-
ni di Cortenuova e di Fossalta osservarono il cambiamento in diretta.
I loro figli nacquero con le parti già formate in comuni istituzional-
mente consolidati, capaci di definire in maniera chiara il reato politico
e in grado di ricorrere a una serie molteplici di armi, vecchie e nuove,
di fronte a chi metteva in dubbio la legittimità e le scelte del loro
vertice politico.
Fu questa inedita combinazione di elementi, catalizzata dalle nuove
guerre legate alla conquista del Regno di Sicilia, a produrre le grandi
esclusioni.

Capitolo 11.pmd 441 09/11/2009, 16.29


442 GIULIANO MILANI

3. Il funzionamento dell’esclusione tardoduecentesca: la dialettica delle


scritture

Dunque, nel momento in cui si manifestarono, le grandi esclusioni


rappresentavano elementi dotati di una forte carica di novità e si fon-
davano su princìpi (la definizione del delitto politico, il potere territo-
riale del comune, la presenza di parti) che non godevano ancora di una
completa stabilità. Ovvia l’ostilità che suscitarono nei contemporanei più
consapevoli o più conservatori ed evidente la necessità di elementi che
ne rafforzassero il valore conferendo ad esse la legittimità di cui aveva-
no bisogno.
Da più di un secolo la ricerca di legittimazione dei governi comu-
nali passava attraverso il ricorso alla scrittura. Che essa fosse usata
per difendere i diritti di fronte alle pretese degli imperatori, per strin-
gere le città e i signori in alleanze o per fissare norme consuetudina-
rie, delibere, sentenze, la storia della costruzione dei comuni quali
organismi politici riconosciuti può essere letta come lunga serie di atti
linguistici validati dalla redazione scritta: una serie non uniforme, de-
stinata a crescere in senso quantitativo e qualitativo con il trascorrere
del tempo.
I presupposti della rivoluzione documentaria legata all’affermazione
dei comuni vanno cercati nella rinascita della cultura laica nel secolo
XII e più in generale nella necessità di definizioni giuridiche generata
dalla crescita economica e dalla maggiore complessità della società. È
però alla metà del XII secolo che risalgono i più antichi testi comunali
conservati (come i brevi genovese e pisano in cui si trovano le più
antiche norme sull’esclusione) ed è posteriormente al conflitto con il
Barbarossa che il processo di scritturazione inizia a coinvolgere tutti gli
ambiti della politica comunale. Mentre andava affermandosi la prima
definizione del reato politico, si scrivevano censimenti di beni del co-
mune, libri iurium e leggi, perlopiù ancora in forma di giuramento.
Mentre i conflitti interni si strutturavano lungo la contesa milites-po-
pulus, il bisogno di scritture si moltiplicava per rendere verificabili le
procedure in precedenza gestite all’interno della ristretta cerchia conso-
lare. La revisione del bilancio bolognese del 1195, che segna il punto
d’avvio del comune podestarile, si inscrive in questa tendenza generale.
E la tendenza si affermò in maniera sempre più forte con il progredire
dell’azione del « popolo », sotto la cui influenza, attorno agli anni Venti
e Trenta, i diversi settori amministrativi del comune si organizzarono
attorno a uno o più libri principali, e sotto la cui guida, verso gli anni

Capitolo 11.pmd 442 09/11/2009, 16.29


CONCLUSIONI 443

Quaranta e Cinquanta i libri si moltiplicarono in virtù della nascita di


registri ed elenchi ausilari e secondari.
Questa nuova pratica scrittoria, che permetteva di estendere il con-
trollo del comune sui contesti più disparati, era quindi disponibile quan-
do, negli anni della costruzione del sistema dell’esclusione guelfo-angioi-
na, la si impiegò per costruire un’esclusione nuova, molto più estesa e
capillare, fondata sulla distinzione di condizioni penali e sul controllo
di queste condizioni. Ma anche gli spettatori e soprattutto le vittime
dell’esclusione facevano parte della medesima società cittadina, in cui la
confidenza con le scritture era alta e la cultura amministrativa diffusa.
In virtù di questa larga possibilità di accesso si innescò una dialettica
tra il potere, che con le scritture tentava di escludere, e quanti, con le
scritture, tentavano di rientrare. Questa dialettica fu l’elemento che più
di ogni altro condizionò i funzionamenti delle grandi esclusioni.
Questi funzionamenti ci sono noti nella loro completezza solo per
Bologna, ed è quindi dal caso bolognese che dobbiamo partire per
comprendere come andarono le cose posteriormente all’uscita e al ban-
do, unici dati testimoniati con uniformità dalle cronache. Dagli statuti e
da altri elementi sparsi è tuttavia possibile affermare che Bologna, pur
possedendo alcune specificità, non costituì un’eccezione nel panorama
del periodo. La più importante specificità del contesto bolognese appa-
re in quest’epoca il livello di egemonia raggiunto dalle istituzioni di
« popolo » e con esso il grado di apertura delle istituzioni alla parteci-
pazione della cittadinanza. A un tale ampliamento si accompagnò una
crescita nel numero degli esclusi come dimostra il Liber del 1277, che
continene quasi quattromila menzioni di lambertazzi. Ma l’ampliamento
nell’accesso alle istituzioni, la crescita di confidenza con la politica e i
suoi meccanismi, tra cui le scritture amministrative, e la crescita del
numero dei condannati furono dati condivisi in misura diversa in tutto
il maturo Duecento italiano.
Come si è visto, due gruppi distinti concorrono a formare l’insieme
dei condannati bolognesi: i banditi e i confinati. I primi sono quasi
1400, i secondi più di 2500. Le differenze non si limitano agli aspetti
quantitativi. Nel gruppo dei banditi la percentuale di coloro che abita-
no nella zona più centrale della città e che, dunque, fanno parte delle
famiglie aristicratiche più antiche, oppure vivono a stretto contatto con
esse, è nettamente maggiore rispetto ai secondi. Quanto ai confinati,
come si è cercato di dimostrare nel Capitolo sesto, il profilo socio-
professionale del loro gruppo è notevolmente variegato, al punto che
essi costituiscono un campione significativo della popolazione urbana.

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444 GIULIANO MILANI

Fuori da Bologna, l’unico altro caso per il quale disponiamo di


dati quantitativi affidabili, è quello della ritorsione sui ghibellini fioren-
tini successiva al 1267, attestata dal Libro del chiodo. Il confronto mo-
stra un numero dei banditi sostanzialmente simile (circa 1200 indivi-
dui) e mostra che anche qui, come a Bologna, il nucleo della parte,
quello disposto a ricorrere in prima persona all’uscita dalla città, era
formato da un numero di persone circoscritto, in qualche misura fisio-
logico. Diverso appare il gruppo dei confinati, che a Firenze, città
sicuramente più popolata di Bologna, raccoglie appena un migliaio di
menzioni. Si tratta di un dato che si spiega considerando come i ban-
diti e i confinati furono identificati in maniera diversa. Per i banditi
pesò l’assenza nel momento della citazione. Non presentandosi essi
provocarono la propria schedatura. Per i confinati la decisione fu mol-
to più indiretta e si svolse nelle commissioni addette a passare in ras-
segna le liste « anagrafiche » della popolazione. Dunque per l’ampiezza
del gruppo dei confinati – il tratto distintivo più evidente delle esclu-
sioni tardoduecentesche – molto si dovette alla volontà di censimento
e di controllo che espresse il comune.
Il problema dell’ampiezza della parte esclusa non può dunque esse-
re posto senza considerare le modalità e gli scopi della produzione
delle liste di proscrizione. A Bologna – lo si è visto nel Capitolo setti-
mo – dal 1274 lavorò una commissione larga, formata da cento sapien-
tes scelti nelle società di « popolo », i cui risultati poi vennero vagliati
da alcuni notai molto illustri. Le dimensioni del lavoro compiuto spin-
gono a credere che sin dall’inizio fu intenzione di questa commissione
individuare un gruppo il più ampio possibile di potenziali perturbatori
del nuovo ordine politico. Questa intenzione condizionò fortemente gli
sviluppi successivi. Gli schedatori giunsero a operare distinzioni all’in-
terno della stessa famiglia, oltre che ovviamente, della stessa società e
della stessa parrocchia. Gli individui che, alla fine del primo censimen-
to, erano definiti come lambertazzi confinati, soprattutto quelli confinati
in città, avevano parenti, oltre che colleghi e vicini, non inclusi nella
proscrizione. Di questa prossimità essi approfittarono ogni volta che si
procedette alla redazione di nuove liste o all’aggiornamento delle vec-
chie, presentando, per esempio nel 1280, testimoni in grado di garanti-
re la loro buona fama di cittadini geremei. I banditi e i confinati nelle
zone più lontane non riuscirono a compiere questo percorso in maniera
altrettanto pacifica. La configurazione più aristocratica e clientelare del
loro gruppo li rendeva più isolati nella società e dunque meno capaci
di collegarsi al resto della popolazione per ottenere la cancellazione

Capitolo 11.pmd 444 09/11/2009, 16.29


CONCLUSIONI 445

dagli elenchi. Ciò non significa che essi non riuscissero a rientrare: solo
che dovettero sottoporsi a procedure più complesse. Spesso i banditi
dovettero stare per un certo periodo al confino in luoghi lontani, prima
di rientrare in città. Grazie a questo duplice e differente movimento,
compiuto da confinati e banditi, il gruppo dei colpiti andò assottiglian-
dosi fin quasi a scomparire.
Fuori da Bologna, le commissioni addette al censimento dei confi-
nati furono meno ampie. In alcuni posti, specialmente nelle città tosca-
ne che avevano registrato importanti esperienze di esilio precedenti, fu-
rono formate soprattutto dai membri della parte al potere legittimati
dal precedente esilio. Dove, come a Bologna, non esistevano tradizioni
di parte altrettanto solide si inclusero magistrature del « popolo », come
avvenne a Cremona e a Brescia. Le cifre testimoniate a Firenze portano
a credere che in generale queste commissioni non cercarono di definire
un gruppo ampio come quello bolognese. I pochi dati relativi al nume-
ro dei confinati, come la notizia secondo cui a Milano nel 1274 vi
furono 200 condanne al confino, o il fatto che a Pistoia il confino
fosse una misura straordinaria e il periodo di permanenza dei condan-
nati nei luoghi assegnati era comunque limitato, spingono a pensare
che normalmente i gruppi di confinati erano più piccoli e meno con-
trollati che a Bologna Altri indizi fanno pensare che, nonostante questa
diversità di partenza, anche altrove si verificò il processo di erosione
del gruppo dei colpiti osservabile a Bologna. È significativa a questo
proposito la norma statutaria bresciana che negli anni Ottanta stabilì di
ridurre a solo 200 il numero dei confinati.
La diminuzione del gruppo dei condannati non si dovette quindi
solo alle politiche decretate dall’alto come le risistemazioni delle liste o
gli eventuali decreti sulla diminuzione del numero dei confinati, ma
anche alle strategie poste in atto dai colpiti, che riuscirono ad avere
dalla propria parte una porzione della cittadinanza. Lo stesso processo
è visibile, in maniera ancora più netta, dall’analisi della giustizia per
reati politici, lo strumento principale a cui i comuni delegarono il man-
tenimento delle misure punitive contro i nemici interni. A Bologna, le
fonti giudiziarie conservate consentono di cogliere in maniera particolar-
mente viva il complesso gioco che si instaurò tra comune, lambertazzi e
cittadinanza. Esse testimoniano che i cittadini non reagirono così pron-
tamente, come si potrebbe immaginare, agli inviti alla delazione pro-
mossi dal comune attraverso la garanzia dell’anonimato e la consegna
di premi pecuniari. La discrepanza tra l’assoluto insuccesso delle inqui-
sizioni generali e la presenza di procedimenti contro singoli indica che

Capitolo 11.pmd 445 09/11/2009, 16.29


446 GIULIANO MILANI

a intentare processi contro i lambertazzi furono solo i cittadini che


avevano già altre ragioni per colpirli, e che dunque la giustizia politica
divenne sin dall’inizio una nuova risorsa da utilizzare nei conflitti inter-
personali più che un efficace sistema di controllo.
Quando i processi furono intentati, essi non differirono più di tan-
to da quelli per reati comuni. Anche in questo caso gli accusati per
difendersi dovettero dimostrare il proprio inserimento nella rete delle
relazioni sociali cittadine e lo fecero in vari modi: portarono in giudizio
testimoni, ottennero fideiussioni e talvolta ricorsero ai consilia sapien-
tum, allestirono insomma quelle strategie che nel contesto dell’impianto
accusatorio erano in pratica sufficienti per ottenere un’assoluzione. In
secondo luogo gli accusati risposero alla documentazione portata dagli
accusatori con altra documentazione che li scagionava. Non sempre si
trattò di documentazione falsa, anzi, per quel che si può comprendere,
i casi di questo tipo furono una minoranza. La grande produzione di
liste di condannati, assolti, giuranti e altro consentiva quasi sempre di
trovare un elenco in cui il proprio nome non compariva. Talvolta le
due strategie vennero a concidere, e ciò avvenne quando essi portarono
in giudizio documentazione (liste fiscali, in primo luogo) che certificava
il fatto che la persona continuava a compiere i doveri di un buon
cittadino. Sempre di più mentre si attenuava l’infuriare della guerra
aperta con i banditi, tale documentazione fu ritenuta sufficiente. Nel
1287 si specificò in maniera esplicita che i nuovi elenchi sarebbero stati
considerati validi a meno che qualcuno dei personaggi in essi inseriti
non avesse dimostrato di essere iscritto all’estimo e di pagare le collet-
te. Come per la legge che, nello stesso anno, aveva reso per la prima
volta legale l’uso di comminare pene più gravose ai confinati del ceto
magnatizio, anche in questo caso una pratica informale diveniva ufficia-
le, giungendo ad attenuare la portata dell’esclusione.
Non è facile capire se altrove la popolazione regì con la stessa
freddezza ai tentativi comunali di coinvolgimento nell’esclusione. Solo i
processi pratesi gettano una certa luce sulla giustizia dell’esclusione fuo-
ri da Bologna. Da questa documentazione appare evidente che anche a
Prato la giustizia politica risentì in maniera determinante dell’impianto
accusatorio che caratterizzava la giustizia comune e che dunque anche
qui un buon inserimento sociale e una buona confidenza con la docu-
mentazione prodotta dal comune furono fondamentali per attraversare
le larghe maglie del sistema di controllo allestito e per uscire dalla
condizione di condannato. Alcune testimonianze indirette, come le nor-
me statutarie di Novara, secondo cui non poteva essere accusato nessu-

Capitolo 11.pmd 446 09/11/2009, 16.29


CONCLUSIONI 447

no che non fosse già stato scritto nel registro dei colpiti, o la notizia
secondo cui a Milano si vietò di ricevere notifiche anonime, mostrano
che anche altrove si procedette verso l’attenuazione dell’emergenza.
Considerando che in queste zone, come si è appena detto, si partiva da
gruppi di colpiti notevolmente meno numerosi, si può supporre con un
buon margine di approssimazione che questa attenuazione fu più rapi-
da. Perdendo importanza l’aspetto propriamente punitivo, la condizione
di confinato o di ex bandito divenne un elemento aggravante, una mac-
chia nella reputazione in grado di pesare nel corso di conflitti o pro-
cessi innescati da reati comuni, ancora una volta attraverso il ricorso a
vecchi documenti. A Prato questo elemento è chiaramente visibile e
lascia immaginare sviluppi verso quel complesso gioco fondato sull’infa-
mia e sul privilegio, che caratterizzò il primo Trecento bolognese.
Infine la dialettica delle scritture ebbe un ruolo importantissimo nella
gestione dei patrimoni sequestrati. A Bologna il sequestro, come la sche-
datura dei confinati, fu organizzato su grande scala. A ciò concorsero
due fattori contingenti: la presenza di un consistente gruppo di banditi
e la mancanza di una precedente esperienza di esilio in grado di far
pesare la presenza della parte vincitrice sulle istituzioni del comune e
del « popolo ». Ma a questi fattori si aggiunse la tradizione notarile e
amministrativa del comune di « popolo », che trasformò la gestione di
un grande patrimonio sequestrato in un ambizioso progetto di redistri-
buzione delle risorse, in grado di evitare l’accumulazione di parti consi-
stenti di questo patrimonio da parte dei privati. Per questa ragione si
cercò di mantenere il sistema della concessione in affitto da parte con-
siglio del popolo, a un certo punto si introdusse un sistema ancora più
redistributivo come quello dei brevia, e si mantennero basse le durate
delle concessioni.
Il censimento continuo dei beni fu dunque organizzato attraverso
strumenti simili a quelli della giustizia per reati politici: inquisizioni ge-
nerali, denunce di beni sollecitate attraverso premi e garanzia di anoni-
mato. Anche in questo ambito la popolazione non fu sollecita a reagire:
le denunce non giunsero se non raramente e le inquisizioni generali
non diedero i frutti sperati. Grande successo ebbe al contrario la pre-
sentazione di petizioni, con cui i cittadini che ritenevano di poter van-
tare dei diritti su un certo bene sequestrato chiesero al comune che
fosse derubricato e assegnato loro. Quasi sempre riuscirono a ottenere
il terreno o la casa richiesta, soprattutto in virtù del carattere largamen-
te amministrativo della giustizia amministrata presso il tribunale ai beni
dei banditi, il cui modello era offerto dalla giurisdizione civile del co-

Capitolo 11.pmd 447 09/11/2009, 16.29


448 GIULIANO MILANI

mune. Tale movimento, a cui parteciparono sia i proprietari confinanti


desiderosi di accaparrarsi terreni, sia i lambertazzi rientrati e gli eredi
dei lambertazzi morti provocò un’inesorabile erosione del patrimonio
iniziale, che si svolse parallelamente a quella del gruppo dei condanna-
ti. In virtù di questa erosione, e degli sforzi del comune per favorire
una redistribuzione equa, non dovettero avere grandi conseguenze i ten-
tativi compiuti da affittuari-imprenditori impegnati a formare piccoli
gruppi per ricavare il maggior utile possibile dai terreni. Il sequestro
insomma non dovette provocare se non marginalmente grandi sposta-
menti di capitali destinati a durare.
Altrove le cose andarono diversamente. Se a Bologna non sono re-
gistrate se non in maniera marginale le lotte che scoppiarono tra le
varie componenti sociali e istituzionali in merito alla amministrazione
dei beni sequestrati, altrove questo dato è testimoniato con chiarezza.
Così a Firenze, a Prato e in altri comuni toscani, dove la presenza di
un gruppo consistente di ex-esuli determinò una serie di richieste di
risarcimenti capaci di minare un progetto di redistribuzione come quel-
lo promosso a Bologna. Questa lotta ebbe esiti diversi: a Firenze la
parte riuscì a mettere le mani sui sequestri, prima indirettamente poi
direttamente, ricavandone denaro che reinvestì. Senza i sequestri iniziali
sarebbe impossibile comprendere la lunga durata della parte fiorentina.
A Prato successe il contrario: il « popolo » riuscì a riprendere il con-
trollo sul patrimonio confiscato, dopo averlo messo a frutto per pagare
i risarcimenti agli ex-fuoriusciti. Ovunque vi fu la necessità di formare
libri di beni e di porre in atto procedure come quelle bolognesi. Ma,
con ogni probabilità, solo in quelle città come Firenze, in cui la parte
riuscì a strappare per molto tempo al comune e al « popolo » la gestio-
ne dei beni, il sequestro ebbe effetti di lunga durata sull’economia e la
società cittadina.
Sia nella schedatura, sia nella giustizia e nell’economia, l’esclusione
ducentesca fu dunque una pratica condivisa. La possibilità di accedere
alle scritture della politica e dell’amministrazione, che aveva la cittadi-
nanza colpita e non colpita, attenuò molto la portata dei provvedimenti
di ritorsione contro i nemici interni. Quello che non riuscì a intaccare
fu l’idea secondo cui i nemici del regime andavano esclusi.

4. L’eredità dell’esclusione duecentesca: l’emergenza normale


La ragione principale che consentì alla cittadinanza di intervenire e
condizionare le pratiche di esclusione fu l’apertura del sistema politico

Capitolo 11.pmd 448 09/11/2009, 16.29


CONCLUSIONI 449

del comune. Da tempo gli storici del diritto hanno messo l’accento sul
pluralismo di ordinamenti giuridici che caratterizzò in generale la realtà
medievale e dunque anche l’orizzonte della città comunale. Solo recen-
temente Pietro Costa, nel quadro di una riflessione sulla cittadinanza,
ha posto il problema delle conseguenze di questo pluralismo sulla natu-
ra dei dispositivi di esclusione 1. La sua analisi si presta bene a costitu-
ire il punto di partenza per quest’ultimo paragrafo conclusivo. Vale
dunque la pena di ricapitolarne i tratti essenziali.
Da un certo punto di vista – afferma Costa – la città comunale
praticò, come molte altre realtà, un’esclusione nei confronti di quanti si
situavano al di sotto di un certo livello della scala sociale. Così donne,
servi, comitatini non accedettero alle istituzioni in ragione del basso
grado che occupavano nella gerarchia della società. Si tratta dell’esclu-
sione che, in sede introduttiva, abbiamo chiamato « implicita » e che
più precisamente Costa, sulla base di una distinzione di Ralf Dahren-
dorf, definisce « verticale ». Ma questo tipo di esclusione – prosegue
Costa – non coglie la specificità dei dispositivi esclusivi così come emerge
dal « discorso politico-giuridico medievale » che, prevedendo un’ordinata
gerarchia di funzioni per ogni soggetto, tende ad attribuire un ruolo a
ogni membro del corpo sociale, giungendo al paradosso di un’esclusio-
ne « inclusiva ». Non è, dunque, alla categoria della cittadinanza « verti-
cale », che esclude chi è più in basso di un certo livello, che occorre
far riferimento, ma piuttosto a quella della cittadinanza « spaziale » o
“laterale”, che esclude chi è al di là di una certa soglia. Nell’applicazio-
ne alla realtà comunale, tuttavia, il ricorso a quest’altra nozione dahren-
dorfiana pone un problema. Nello stato moderno studiato da Dahren-
dorf è chiaro quale sia la soglia, e cioè i confini della nazione, nella
città duecentesca lo spazio politico appare molto più « frastagliato e
diversificato ».
Nei capitoli precedenti si è cercato più volte di mettere in rilievo
come il comune duecentesco consentì l’esistenza di organizzazioni e grup-
pi autonomi capaci di evolversi in istituzioni. A fronte della natura
esclusiva che i legami di appartenenza e di obbedienza presentano nella
modernità, nel Duecento vi fu dunque, come scrive Costa, una « molte-
plicità dei vincoli che potevano legare un soggetto a una molteplicità
gerarchicamente ordinata di centri di potere ». La qualifica di « gerar-
chico » conferita a quell’ordine non deve trarre in inganno. Essa non
caratterizzò strutturalmente il comune, dove, come avverte lo stesso au-

1 Costa, Civitas, 1, pp. 42-48.

Capitolo 11.pmd 449 09/11/2009, 16.29


450 GIULIANO MILANI

tore « la molteplicità delle condizioni soggettive si accompagnava a una


grande varietà di centri di potere che, pur idealmente collocati entro il
medesimo ordine gerarchico, rinviavano a realtà politico istituzionali as-
sai diverse ». A tutto il Duecento, la gerarchia fu solo uno degli stru-
menti con cui si i contemporanei cercarono di ordinare una realtà che
gerarchica non era. Solo con il secolo XIV cominciò a divenire, per
strade tortuose, un dato di fatto.
Se infatti la lunga presenza del bando che, come dice Costa, tra-
sformava il cittadino in uno straniero, prova quanto l’esclusione posta
in atto dal comune rinviasse a un tipo di cittadinanza « spaziale » e non
« verticale », la molteplicità dei bandi riscontrabile tra fine XII e inizio
XIV secolo mostra come l’appartenenza alla città prevedesse non uno
ma molti spazi di partecipazione e di obbedienza. Ognuno dei corpi
politici in principio autogestiti e via via riconosciuti in virtù di un’ege-
monia raggiunta al termine di un conflitto ebbe il proprio dispositivo
di esclusione attraverso cui un membro diveniva un estraneo. Lo ebbe
l’aristicrazia consolare, che escludeva dal reclutamento (non ancora dal-
la città) chi, con attacchi e tradimenti, metteva in pericolo la linea
politica decretata. Lo ebbe la Lega lombarda che cominciò a escludere
dalle città e dai territori che ne facevano parte i propri traditori. Lo
ebbero le società corporative e territoriali, come dimostrano le loro
matricole con i nomi di numerosi membri cancellati, e i loro statuti,
con le norme sulla cancellazione. Lo ebbe il « popolo » che, quando
divenne un organismo completamente nuovo, superiore alle società che
lo avevano formato, provvide a escludere dalle proprie fila chi non era
ritenuto idoneo ai principi politici che lo animavano. Ma ebbero dispo-
sitivi di esclusione espliciti anche le societates nobiliari sorte dai patti
per la difesa di una torre, e infine le partes, in esilio o in patria, da cui
si poteva uscire attraverso un provvedimento di bando, e rientrarvi at-
traverso un giuramento.
Per tutti questi gruppi, grandi e piccoli, questi dispositivi rappre-
sentavano un elemento fondamentale della propria organizzazione in cerca
di legittimità. Riuscire a collegare l’esclusione dal proprio ordinamento
giuridico con l’esclusione dalla città rappresentò per alcuni di essi un
importante risultato, attraverso cui non solo il gruppo provvide a dive-
nire più forte e a istituzionalizzarsi, ma anche, per certi aspetti, a fon-
dersi con il comune, ereditandone la carica di legittimità e di consenso.
Furono poche le organizzazioni che raggiunsero un grado di egemonia
tale da riuscirci. In alcuni luoghi, come nella Bologna dei primissimi
anni Settanta, ci riuscirono le società di « popolo » quando si emanaro-

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CONCLUSIONI 451

no le leggi antimagnatizie che stabilivano un confine netto tra magnati,


cioè nemici del popolo, e resto della cittadinanza, e che in molti casi
costringevano questi magnati a risiedere provvisoriamente fuori dalla città
per tutelare preventivamente il bonus et pacificus status. Nella stessa
Bologna e altrove ci riuscirono le partes quando, dopo aver scacciato i
propri nemici per mezzo delle armi o della paura, provvidero a bandir-
li e a confinarli strumentalizzando i crimini esistenti e l’idea stessa di
bonus status. Di certo tali sovrapposizioni tra dispositivi dell’organizza-
zione e dispositivi dell’istituzione cittadina lasciarono ogni volta delle
tracce che furono reimpiegate posteriormente. La vicenda di Bologna,
con le sue prime procedure antimagnatizie del 1271-72, acquisite dal
1274 nella persecuzione dei lambertazzi, poi riscritta nel 1287 in chiave
nuovamente antimagnatizia tramite l’aggravamento delle condizioni dei
lambertazzi « grandi » e il rientro dei lambertazzi « piccoli », e infine,
nel Trecento, acquisita dal vertice della città, indipendentemente dalla
parte che lo dominava, è un caso particolarmente chiaro oltre che ben
documentato. Ma, più in generale, l’intera vicenda dell’esclusione politi-
ca comunale rivela un susseguirsi di strumenti, in origine allestiti per
portare a compimento un progetto, ma in grado di sopravvivere, nelle
generazioni successive, al progetto stesso.
Questo sistematico reimpiego delle armi giuridiche e politiche eredi-
tate costituisce il filo conduttore che conduce dai patti della Lega Lom-
barda fino ai bandi bolognesi degli anni Venti del Trecento. L’esclusione
dalla città dei proditores, elaborata sul modello del bando giudiziario al
fine di tenere saldamente unita l’alleanza antiimperiale sopravvisse alla
pacificazione con il Barbarossa e fu acquisita, come mostrano i casi di
Brescia e di Verona nei primi anni del Duecento, non solo dalle leghe
cittadine guidate da Milano e da Cremona, ma dalle città grandi e pic-
cole, che la fecero diventare, talvolta strumentalizzandola, un’arma per
punire l’uscita dei dissidenti. La definizione di questa sanzione come
bando perpetuo da applicarsi eccezionalmente, solennemente ratificata
dalla figura superiore del podestà, era stata posta in opera per consoli-
dare il potere di questo magistrato e il suo intervento di mantenimento
dell’equilibrio, ma sopravvisse nel momento in cui questo magistrato si
era ormai completamente affermato come istituzione di riferimento, di-
venendo lo strumento di punizione della dissidenza nel corso delle guer-
re tra il papato e Federico II. L’aggravamento di questa sanzione solle-
citato dalle riflessioni di legisti e canonisti, consistente nel connotare i
nemici come eretici e dunque nel considerarli una peste da debellare,
sopravvisse alla lotta tra i due poteri universali sospesa dal grande inter-

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452 GIULIANO MILANI

regno e fu acquisito dal « popolo » cittadino che lo piegò alla persecuzio-


ne del pernicioso disordine dei magnati. E, infine, il censimento comple-
to della cittadinanza, che il « popolo » aveva elaborato al proprio interno
per liberarsi delle componenti che ne avrebbero minato l’unità, soprav-
visse nel momento in cui, con la prevalenza di una parte, il progetto
popolare di contenimento dei conflitti subì un significativo arresto. Nei
nuovi regimi del circuito guelfo-angioino esso fu volto a liberare l’intera
cittadinanza dalla presenza dei nemici e dei loro potenziali sostenitori. In
alcuni casi, come mostra la vicenda bolognese a cui si accennava, vi
furono anche movimenti di ritorno, ma ogni volta che un nuovo sogget-
to politico riuscì a piegare a proprio vantaggio gli strumenti ereditati si
volle presentare come il garante dell’ordine comunale. In questo modo le
varie misure volte all’esclusione vennero ad accumularsi nel repertorio
del sistema politico cittadino. Ogni organizzazione politica che riuscì ad
avere la meglio e a raggiungere una posizione egemonica si trovò a go-
dere di una rendita di posizione, disponendo di misure per escludere più
forti e consolidate rispetto ai regimi che l’avevano preceduta.
Ai primi del Trecento la capacità dei regimi comunali di escludere
gruppi e individui nemici era enormemente cresciuta rispetto a un se-
colo prima. Essa aveva raggiunto un tale livello di potenza, che per
escludere non ci fu più bisogno di invocare misure eccezionali e dero-
ghe alla prassi, poiché le norme vigenti e le pratiche accettate erano
divenute largamente sufficienti. Escludere dalla città e dalla partecipa-
zione divenne così normale che, per la prima volta, si cominciò ad
attenuare la forte proliferazione di organizzazioni politiche capaci di
trasformarsi in istituzioni che aveva caratterizzato il gioco comunale a
partire dal XII secolo. Per manifestare i propri interessi i cittadini do-
vettero sempre di più piegarsi alle regole stabilite dal regime cittadino
poiché la costituzione di poli antagonisti come lo erano stati in origine
il « popolo » e le parti cominciò ad essere percepita per la prima volta
come un atto di per sé eversivo. In questo modo il panorama politico
si cominciò a semplificare, gli elementi che lo componevano si ridusse-
ro, e il rinnovato potere dei governi cittadini – che peraltro continua-
vano a mutare con grande frequenza – favorì la loro disposizione in un
nuovo ordine, adesso sì, gerarchico nei fatti e non solo nella descrizio-
ne teorica. L’invocazione, nelle condanne politiche dei ghibellini, dei
crimini di baratteria e di ribellione al potere comunale che si osserva a
Firenze, a Bologna e altrove entro il primo decennio del XIV secolo
costituisce un’importante traccia del venire meno della pluralità tra « po-
polo », parti e comune che aveva caratterizzato l’ultimo Duecento.

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CONCLUSIONI 453

Questa pluralità era stata garantita dai podestà, finché questi


magistrati avevano mantenuto la propria originale vocazione di mediato-
ri superiori agli schieramenti politici dei quali si trovavano a comporre
gli interessi per la breve durata del loro mandato. Come dimostra l’analisi
del caso bolognese, anche nel momento in cui una delle due partes era
esclusa dalla partecipazione, il sistema fondato sulla presenza di un
magistrato forestiero aveva continuato a funzionare. Era stata la presen-
za del podestà a garantire che alcuni gruppi – interessati ad attenuare
le componenti punitive dell’esclusione nel quadro di un progetto di
ridefinizione complessiva della cittadinanza fondato sulla larga tolleranza
nei confronti degli esclusi che avessero manifestato la volontà di torna-
re a farne parte – potessero sostenere contro altri gruppi questo pro-
getto. Così un altro magistrato forestiero e mediatore, il capitano del
« popolo », aveva fatto sì che il sistema di controllo dell’esclusione si
mantenesse aperto alle riformulazioni sostenute da quanti partecipavano
ai consigli, emanando delibere e accogliendo petizioni, e non si richiu-
desse su se stesso come volevano le componenti più interessate all’eli-
minazione dei nemici. Una volta che queste figure persero la propria
funzione di mediazione e furono esautorate, divenendo semplici stru-
menti al servizio di un signore o di un gruppo, l’esclusione dei nemici
divenne qualcosa di simile a una funzione amminstrativa, capace forse
sul lungo periodo di rinforzare l’organismo politico, facendolo progredi-
re verso forme statutali, certamente non di eliminare il conflitto inter-
no, che fu piuttosto fissato in maniera nuova e irreversibile secondo
uno schema ineguale, in cui una parte, ben lontana dal definirsi tale e
anzi disposta a tutto per far dimenticare questa sua natura, soggiogava
momentaneamente l’altra.

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454 GIULIANO MILANI

Capitolo 11.pmd 454 09/11/2009, 16.29


FONTI E OPERE CITATE IN FORMA ABBREVIATA

Abbreviazioni

AMER « Atti e memorie della Deputazione di storia patria per


l’Emilia e la Romagna »
AMR « Atti e memorie della Deputazione di storia patria per
le province di Romagna »
ASBo Archivio di Stato di Bologna
ASBo, Accusationes ASBo, Comune, Curia del podestà, Giudici ad Malefi-
cia, Accusationes
ASBo, Beni ASBo, Comune, Capitano del popolo, Ufficio del Giudi-
ce ai beni dei banditi e ribelli, Beni dei banditi
ASBo, Cavalli ASBo, Comune, Ufficio per la condotta degli stipendia-
ri, Assegnazioni di cavalli ai soldati
ASBo, Demaniale ASBo, Corporazioni religiose, Conventi e monasteri
ASBo, Disco dell’Orso ASBo, Comune, Curia del podestà, Ufficio del giudice
al disco dell’Orso
ASBo, Elenchi ASBo, Comune, Capitano del popolo, Ufficio del Giudice
ai beni dei banditi e ribelli, Elenchi di banditi e confinati
ASBo, Estimi ASBo, Comune, Estimi del comune
ASBo, Giudici ASBo, Comune, Capitano del popolo, Esecutore e Con-
servatore di Giustizia, Giudici del capitano del popolo
ASBo, Locazioni ASBo, Comune, Capitano del popolo, Ufficio del Giudi-
ce ai beni dei banditi e ribelli, Locazioni e subastazioni
dei beni sequestrati
ASBo, Matricole ASBo, Comune, Capitano del popolo, Società d’Arti
e d’Armi, Libri Matricularum delle società d’Arti e
d’Armi
ASBo, Memoriali ASBo, Comune, Ufficio dei Memoriali.
ASBo, Notai ASBo, Società dei notai
ASBo, Provvigioni ASBo, Comune, Governo, Provvigioni dei consigli minori
ASBo, Riformagioni ASBo, Comune, Governo, Riformagioni del Consiglio del
Popolo e della Massa
ASBo, Sindacato ASBo, Comune, Curia del podestà, Sindacato, Ufficio del
giudice al sindacato

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456 GIULIANO MILANI

ASBo,Venticinquine ASBo, Comune, Capitano del popolo, Venticinquine.


ASCr Archivio di Stato di Cremona
ASFi Archivio di Stato di Firenze
BCA Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio. Bologna
HPM Historiae Patrie Monumenta
MGH Monumenta Germaniae Historica
RIS Rerum Italicarum Scriptores, a c. di L. A. Muratori, 25
voll., Milano 1723-1751.
RIS, n.s. Rerum Italicarum Scriptores, Raccolta degli scrittori stori-
ci italiani dal Cinquecento al Millecinquecento ordinata
da L. A. Muratori, 34 voll. Città di Castello 1900 e ss.

Fonti inedite
Archivio Capitolare Laurenziano, Chiavenna, Quaternus expensarum comunis (1264)
Archivio di Stato di Como, Vetera Monumenta
Archivio di Stato di Piacenza, Ospizi civili, XVI, nn. 80-81
ASBo, Archivio Lambertini, b. 1.
ASBo, Accusationes, bb. 1a; 1b; 2a; 2b.
ASBo, Beni, voll. 6; 7; 8; 9.
ASBo, Cavalli, bb. 10; 11.
ASBo, Comune, Curia del podestà, Ufficio delle acque e strade, ponti e calancati, b. 1.
ASBo, Comune, Curia del Podestà, Giudici « ad maleficia », Accusationes, b. 1, fasc. 7.
ASBo, Comune, Diritti e oneri del Comune, Registro Grosso
ASBo, Comune, Soprastanti alle prigioni, reg. 1241.
ASBo, Demaniale, S. Francesco, b. 336/5079.
ASBo, Disco dell’Orso, Registri delle collette, bb. 3; 7; 9; 11.
ASBo, Elenchi, Sigurtà per i beni del lambertazzi e libri inquisitionum, b. 17.
ASBo, Elenchi, Elenchi di banditi e confinati, voll. 1; 2; 3; 4; 5; b. 10.
ASBo, Elenchi, Fedi di presentazione dei confinati, bb. 18;19; 20.
ASBo, Estimi, serie I, b. 1.
ASBo, Estimi, serie III, bb. 1a; 1b; 1c; 1d; 3; 57.
ASBo, Giudici, regg. 1- 521; 541-544; 555-575; 670-676.
ASBo, Locazioni, subastazioni e concessioni di beni dei banditi, bb. 11; 12; 13; 14;
15; 16.
ASBo, Matricole, vol. 1, fascc. 1; 2; 3; 4.
ASBo, Memoriali, voll. 21; 22; 23; 24; 25; 26; 27; 28; 29.
ASBo, Provvigioni, voll. I-IV.
ASBo, Riformagioni, voll. I-XIII.
ASBo, Sindacato, bb. 5; 6; 7; 8; 9; 10; 12; 17; 18.
ASBo, Società dei notai, Ufficiali della società, reg. 22.
ASBo, Venticinquine, Libri vigintiquinquenarum, bb. XIV; XV; XVI; XVII.
ASBo, Venticinquine, Venticinquine, bb. I; IV; VII; X; XIII.

Capitolo 12.pmd 456 09/11/2009, 16.29


FONTI E OPERE CITATE IN FORMA ABBREVIATA 457

ASCr, Fondo Segreto, Codice A.


ASCr, Fondo Segreto, Pergamene 2263, 2265, 2266, 2238, 2270, 2279, 2280, 2281,
2297, 2298, 2317, 2457.
ASFi, Capitani di parte, Numeri rossi, 20; 21.
ASFi, Capitoli di Firenze, Registri, 19.
ASFi, Diplomatico, Provenienza Camaldoli, sec. XIII (cass. 657) pergamene nn.
26 e 29.
BCA, Fondo Gozzadini, ms. 80.

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tico (anni 1180-1373), Firenze 1916.
Documenti per la storia delle relazioni diplomatiche fra Verona e Mantova nel secolo
XIII, a c. Di C. Cipolla, Milano 1901.
Epistulae saeculi XIII e regestis pontificorum romanorum selectae, a c. di C. Ro-
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Capitolo 12.pmd 457 09/11/2009, 16.29


458 GIULIANO MILANI

Historia diplomatica Frederici II, a c. di D. L. A. Huillard Breholles, I-VI, Paris


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