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Minorenne e reato.

Cenni storici e realt attuale

17/08/11 18.00

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Capitolo III Minorenne e reato. Cenni storici e realt attuale


In quei piccoli mondi in cui i bambini vivono la loro esistenza, nulla viene percepito e avvertito cos acutamente come l'ingiustizia. Charles Dickens Il dibattito intorno al limite da porre come spartiacque tra la responsabilit penale e la mancanza o attenuazione di responsabilit antico e per lo pi il discrimen stato fissato nei paesi di cultura giuridica romanistica sulla base di un criterio cronologico. La situazione del soggetto in crescita e in formazione ha storicamente determinato un trattamento particolare e pi favorevole del minorenne autore di reato, che si concretizzato nella esclusione della stessa assoggettabilit a processo e pena, o nella predisposizione di particolari cautele intorno al processo e ai suoi esiti, prevedendo, ad esempio, misure educative al posto delle pene o attenuando l'entit delle sanzioni. E questo avviene sin dai tempi antichi. Le legislazioni penali dei vari popoli hanno, infatti, attribuito sempre all'et minore l'efficacia di escludere o diminuire l'imputabilit, perch l'esperienza insegna come la formazione fisica e psichica dell'uomo, che al momento della nascita quasi nulla, sia un fenomeno progressivo che si sviluppa gradualmente fino a raggiungere la piena maturit intellettuale: "il concetto che non tutti gli uomini sono responsabili penalmente tard a farsi strada rispetto a certe forme di incapacit, come per esempio rispetto alla infermit di mente, invece presto si afferm per quel che riguarda l'et del soggetto di diritto: ci dipende da quel sentimento di affetto che ogni persona, presso ogni popolo, sente per un bambino". (1) La regola della non imputabilit e di un trattamento meno severo nei confronti dei minori fatta risalire addirittura alla Legge delle XII tavole, che distingueva tra puberi e impuberi, prevedendo che questi ultimi potessero essere passibili soltanto di provvedimenti di polizia (castigatio). Fino al tardo diritto romano il criterio di discriminazione era quello fisico della pubert, senza dubbio pi facilmente accertabile rispetto alla nostra capacit di intendere e di volere. Si riteneva, infatti, che il raggiungimento della maturit sessuale portasse il discernimento, vista la normale corrispondenza tra lo sviluppo fisico e quello psichico. (2) Nel diritto classico si individuavano tre categorie di impuberes, distinguendo tra l'infans - colui che, pur potendo emettere dei suoni articolati, non si rende conto della portata delle sue e delle altrui parole - il quale era sempre esente da pena, l'admodum impubes e il pubertati proximus. Solo questi ultimi, nel diritto post classico e giustinianeo, erano considerati responsabili, qualora fossero stati riconosciuti capaci doli o culpae. Questa ipotesi si avvicina al sistema moderno, in quanto si prende in esame non pi lo stato fisico del soggetto, bens le sue capacit intellettive, accertandosi la sua capacit di discernimento, di scelta e di volont. Ma quali erano i criteri per stabilire quando era raggiunta la pubert? Alle origini la pubert veniva accertata caso per caso, eventualmente, nei casi dubbi, con una inspectio corporis. Durante il principato, mentre i Sabiniani continuavano a richiedere ancora la prova dell'inspectio corporis, i Proculiani, invece, fissavano l'inizio della pubert al compimento dei quattordici anni, per i maschi, e dei dodici per le femmine. Se per le ragazze gi in et classica non era pi in vigore il sistema dell'accertamento effettivo, per i ragazzi questa soluzione fu prevista in modo definitivo da Giustiniano, e fino ad allora, probabilmente, prevalse, gi in et classica, la tesi intermedia, la quale richiedeva entrambi i requisiti, inspectio corporis e compimento del quattordicesimo anno. (3) Per il diritto canonico l'impubere, (4) qui doli capax non est, doveva essere dichiarato non responsabile al pari del pazzo, ma la decisione sulla capacit o meno di dolo dell'impubere spettava al giudice che, in caso di dubbio, doveva risolvere la questione pro reo. Nel diritto barbarico, inizialmente, quando la pena aveva solo finalit risarcitorie, l'et del delinquente non aveva alcuna rilevanza, perch l'obbligo di risarcire il danno incombeva sul gruppo di appartenenza del reo; successivamente, quando i barbari iniziarono a dare rilevanza all'elemento soggettivo del reato, di solito fissavano il limite dell'impubert a dodici anni e il fatto commesso dal fanciullo privo di discernimento veniva considerato come involontario. Il diritto penale comune tenne in particolare considerazione l'et, perch considerava la conditio delinquentis un'attenuante della responsabilit e l'et era proprio uno degli elementi utili per configurarla. Cos, fra gli impuberi, si distinguevano gli infantes, fino ai sette anni, i proximi infantiae, dai sette ai dieci anni e mezzo, e i proximi pubertati, dai dieci anni e mezzo ai quattordici. Ma gli scrittori avevano opinioni diverse circa la differenziazione del trattamento: da una parte c'era chi riteneva che solo l'infans era completamente irresponsabile, mentre l'impubere appartenente alle altre due categorie poteva essere doli capax, cio moralmente capace di intendere la gravit dei propri atti; dall'altra vi era chi sosteneva che solo il pubertati proximus poteva essere in grado di delinquere, a meno che la stessa natura del reato non fosse tale da escludere la capacit psichica dell'autore; infine alcuno
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considerava i minores non imputabili di reati colposi, mentre per i reati dolosi l'et doveva servire ad attenuare la pena, purch non si trattasse di delitti efferati, nel qual caso nessuna attenzione doveva essere prestata all'et del reo, che doveva essere condannato come se fosse adulto. (5) L'idea che, per poter rispondere penalmente delle proprie azioni e sopportarne le conseguenze sanzionatorie, sia necessario possedere una capacit di discernimento ed autodeterminazione propria di un certa maturazione fisiopsichica ha conosciuto, e tuttora conosce, le sue eccezioni. Sebbene, infatti, tutti gli ordinamenti avessero recepito la regola, propria del diritto romano, per la quale solo il soggetto pubertati proximus era passibile di pena, pi volte il principio malitia supplet aetatem aveva permesso di eluderla, rendendo possibile condannare e punire severamente i ragazzi ritenuti capaces doli. Basti pensare all'Inghilterra dell'Ottocento, dove si possono trovare sentenze di condanna a morte o ai lavori forzati nei confronti di ragazzi di nove anni, colpevoli di aver sfondato vetrine o porte; (6) per non parlare dell'internamento in prigioni o case di correzione di bambini di sei anni, colpevoli di aver suonato per gioco i campanelli di alcune porte. Ma non importa andare tanto indietro nel tempo, se si pensa che tutt'oggi non pochi paesi - e certo non tutti del terzo mondo visto che vi rientrano gli stessi Stati Uniti d'America - mantengono la pena di morte anche per i minorenni.

1. L'evoluzione storica del diritto minorile


L'affermazione dei diritti dei minori una conquista piuttosto recente Gian Paolo Meucci, giudice minorile presso il Tribunale di Firenze, a questo proposito, dice: non posso dimenticare che i colleghi dell'Ottocento, i quali vivevano in uno stato borghese, in uno stato di diritto, consideravano il ragazzino alla stessa stregua dell'adulto. Questa societ ignorava totalmente il bambino, salvo nel momento repressivo, in cui interveniva facendolo per adulto a tutti gli effetti, nel momento in cui - senza considerare l'et - giungeva fino a mandarlo a morte [...]. C' voluto un secolo [...] perch la societ giungesse alla presa di coscienza del ragazzo, come portatore di una situazione giuridica diversa da quella dell'adulto e, in quanto tale, da guardarsi in una certa maniera. Il ragazzo, dunque, emerso, a livello della tutela dei suoi diritti, solo attraverso la nequizia della repressione: il suo diritto e la sua autonoma tutela non sono stati enucleati attraverso la presa di coscienza del suo esistere, del suo vissuto; bens per il fatto che a un certo momento la societ si accorta, con stupore, del controllo repressivo che (da sempre) veniva svolto contro i ragazzi. (7) , infatti, solo nel '900 che si assiste ad un lento e graduale passaggio della condizione del bambino da quella di 'suddito' a quella di 'cittadino'; (8) ed proprio nell'evoluzione dell'intervento penale sul minore che si percepisce questo passaggio. Il sistema penale minorile si pone al termine di un cammino della coscienza civile verso il riconoscimento della specificit della condizione minorile. Una volta raggiunta questa presa di coscienza, la politica penale ha cercato di costruire un sistema di diritto penale differenziato, finalizzato alla tutela dei diritti dei minori. L'esigenza di differenziare la risposta istituzionale nei confronti di un reato commesso da un minore ha dovuto non solo individuare lo stadio evolutivo in corrispondenza del quale il ragazzo non capace di percepire la illiceit del suo comportamento, ma anche graduare l'intervento nei suoi confronti, a causa delle caratteristiche fisiche e psichiche proprie di un soggetto in evoluzione. Secondo Lorena Milani, l'affermazione dei diritti dei minori il risultato di un percorso iniziato con la pi generale 'scoperta dell'infanzia', che mostra i suoi primi segni gi dal XII secolo, ma che si fa pi evidente solo nei secoli XVI e XVII. (9) L'immagine del minore non stata costante nel tempo, ma gradualmente mutata a causa, oltre che delle elaborazioni socioculturali e scientifiche, anche del cambiamento dei costumi, dei mutamenti economici e demografici e delle condizioni igienico-sanitarie ed alimentari. "A rivelarci quanto diverso sia l'attuale sentimento dell'infanzia da quello delle epoche passate sicuramente - afferma Milani - l'atteggiamento di condanna della cultura contemporanea di fronte agli ancora presenti comportamenti di violazione, di abuso, di maltrattamenti, di abbandono, di compravendita, di violenza, di negazione e di indifferenza nei confronti dei minori". La nostra condanna nei confronti della pedofilia, ad esempio, certamente sconosciuta nel Medioevo, durante il quale bambini piccolissimi erano normalmente oggetto di attenzioni sessuali da parte dell'adulto. Cos come il caso di Anna Maria Franzoni, accusata di aver ucciso suo figlio, non avrebbe destato particolare clamore nell'antichit, poich fino alle soglie del Medioevo l'infanticidio stato un evento relativamente frequente, ai danni di figli sia illegittimi che legittimi, di bambini malati o deformi ma anche sani. (10) Anche quando iniziarono a levarsi delle voci di difesa nei confronti del bambino e di condanna verso le pratiche dell'infanticidio e dell'abbandono, a ci non corrispose una presa di coscienza della diversit delle caratteristiche del soggetto nelle differenti et evolutive, e non si elabor una concezione dell'infanzia come periodo a s da rispettare: nel Medioevo [...] i bambini andavano confondendosi con gli adulti appena erano ritenuti capaci di fare a meno delle madri o delle nutrici. Da questo momento essi entravano di colpo nella grande comunit degli uomini [...]. La civilt medievale aveva dimenticato la paideia degli antichi e non conosceva ancora l'educazione dei moderni. questo il fatto essenziale: non aveva l'idea di educazione. (11) La concezione dell'infanzia propria della societ del Medioevo si caratterizza, infatti, per la totale promiscuit tra adulti e bambini e per l'assenza di un preciso intervento educativo.

1.1. Le prime istituzioni per i minori


Tra il XVI e il XVII secolo si iniziarono ad attuare delle differenziazioni tra il mondo degli adulti e quello dei bambini, e fu allora che emerse un nuovo sentimento dell'infanzia. Ma proprio in questo periodo, quando per la prima volta sembrava nascere questo nuovo atteggiamento riguardo al mondo dei pi piccoli, contemporaneamente si hanno anche i primi tentativi di controllo nei confronti di quella parte della popolazione considerata pericolosa per l'ordine pubblico: si tratta degli emarginati, dei vagabondi, dei folli e degli abbandonati. Tutti questi soggetti, che all'epoca
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rientravano nella categoria dei 'poveri', vengono cos segregati in istituti, quali ospedali, opifici o case di correzione, caratterizzati dalla disciplina e dal lavoro come imperativi pedagogici attraverso i quali ci si proponeva di regolare la vita dei reclusi. (12) All'inizio, questa pratica dell'internamento in case di correzione fu messa in atto anche nei confronti dei minori 'traviati' o 'discoli', con il preciso intento di moralizzare l'infanzia e di recuperare socialmente il ragazzo. La storia delle istituzioni per minorenni " parte integrante della storia dei poveri e degli indesiderati nella prima fase dell'industrializzazione capitalistica; in particolare, di quegli strati di poveri sradicati, spostati e straniati che si sono inseriti in condizioni di svantaggio nel violento processo di proletarizzazione e di urbanizzazione di masse contadine". (13) Nel 1650 nasce, proprio a Firenze, la prima istituzione di tipo assistenziale-correzionale, fondata da Ippolito Francini, per il recupero dei ragazzi abbandonati o vagabondi, attraverso l'azione educativa di scuola e lavoro. (14) Alla morte di Francini, un gruppo di religiosi guidati dall'abate Filippo Franci, continu quanto da lui iniziato e diede vita allo "Spedale di San Filippo Neri" (successivamente chiamato "Casa pia del rifugio di poveri fanciulli", comunemente detta "Casa dei Monellini"), che, secondo quanto prevedeva il regolamento, accoglieva i minori di sedici anni "che la notte dormivano per le strade, nei cimiteri, nelle osterie" allo scopo di "rivestirli, nutrirli, medicarli, trovar loro un lavoro in botteghe esterne o in officine interne e istruirli nel santo timore di Dio". (15) All'interno dello Spedale, in una zona separata, erano state allestite delle piccole celle dove venivano rinchiusi i ragazzini ospiti pi disobbedienti e indisciplinati, ormai "corrotti dalla strada e dall'ozio", (16) perch non fossero di cattivo esempio per gli altri. Nelle stesse cellette venivano anche fatti imprigionare, dai padri, i propri figli, ribelli all'autorit paterna, quando non riuscivano in altro modo ad ottenere la loro obbedienza. Pare che col passare del tempo questa seconda funzione sia diventata quella prevalente, anche per la segretezza e la riservatezza garantite dai religiosi alle famiglie pi benestanti che chiedevano il loro aiuto. Cos, nel 1677, "questa istituzione diviene vera e propria casa di correzione per i ribelli all'autorit paterna con l'intento di separare tali soggetti dai veri e propri delinquenti che ne avrebbero corrotto l'animo con il proprio esempio". (17) A Roma, presso l'ospizio San Michele in Ripa, su iniziativa di papa Clemente XI, fu fondato, col Motu proprio del 14 novembre del 1703, (18) un istituto simile a quello fiorentino. L'Istituto S. Michele rappresenta il primo tentativo di trattamento differenziato per minorenni, sul piano legislativo e istituzionale: il Motu proprio disponeva che tutti i minorenni condannati da un qualsiasi tribunale per motivi penali, invece di essere condotti nelle pubbliche carceri, venissero internati in tale Istituto. Presso lo stesso potevano essere ricoverati i ragazzi e giovani discoli inobbedienti [...] che per i loro cattivi principi dimostrano pessima inclinazione ai vizi, su richiesta dei loro genitori o degli amministratori. Mentre i ragazzi internati per motivi penali venivano detti carcerati, quelli ricoverati su richiesta delle famiglie erano definiti custoditi. Lo scopo dell'Istituto era quello di correggere ed emendare i giovani reclusi, non solo attraverso la pratica della religione, ma anche attraverso l'insegnamento di qualche arte meccanica, acci che con l'esercizio lascino l'ozio, e intraprendino affatto con nuovo modo di ben vivere. (19) la prima volta che, con un documento ufficiale, si delinea un trattamento differenziato per i minori, se ne indica la finalit educativa e preventiva, e si parla di 'Casa di correzione'. (20) Dalla seconda met del XVIII secolo altri istituti simili a quelli di Firenze e Roma furono aperti nei diversi Stati italiani: nel 1759, a Milano, fu fondata una Casa di correzione; nello stesso periodo, a Napoli, vennero alla luce le prigioni speciali per giovani; nel 1786, a Palermo, nacque la 'Real casa di correzione per donne e minori traviati'. Pi tardi, nel 1827, l'Istituto San Michele di Roma fu destinato alle donne detenute, mentre i minori corrigendi furono trasferiti in un edificio presso le carceri di Villa Giulia, fatto costruire appositamente da papa Leone XII, dove vennero mutuati dal sistema penitenziario americano di Auburn l'assoluto silenzio durante il lavoro obbligatorio e la segregazione cellulare notturna. Sempre nella prima met dell'Ottocento, a Torino venne istituito 'La Generale', un riformatorio noto per la sua ferrea disciplina.

1.2. Il positivismo
Come abbiamo gi pi volte ricordato, nella prima met dell'Ottocento, grazie a un mutato clima culturale, nasce e si afferma il positivismo, che assegna alle scienze, caratterizzate dall'utilizzo di metodi empirici e sperimentali, il compito di studiare la realt, compresa la natura umana. La fiducia nelle scienze, nella razionalit dell'indagine scientifica basata su dati oggettivi e misurabili, port Cesare Lombroso, padre dell'antropologia criminale, a ritenere che si potesse "studiare l'uomo, l'individuo che delinque con strumentazioni derivate da altre scienze dell'uomo", (21) dando vita a "l'indirizzo individualistico, secondo il quale al centro del problema della criminalit viene posta la persona del delinquente, intesa [...] nei suoi tratti bio-antropologici e costituzionali". (22) Non solo Lombroso, ma anche Ferri e Garofalo, tutti esponenti di spicco della Scuola positiva, tra le altre cose elaborarono anche una serie di proposte concrete in tema di trattamento dei delinquenti, e, in base al principio cardine dell'individualizzazione delle pene, concentrarono la loro attenzione sul problema della delinquenza minorile. Come si gi avuto modo di dire, queste nuove istanze di differenziazione del trattamento nei confronti dei minori non trovarono per applicazione nella pratica, perch si scontrarono con la politica adottata dagli enti minorili, ancora fortemente contenitiva. (23) Tutta l'attivit rivolta ai minori nel corso dell'Ottocento sembra contrassegnata da una "inconciliabile ambiguit": da una parte, infatti, con il positivismo, l'attenzione nei confronti del bambino si era manifestata come necessit di una sua conoscenza scientifica e come interesse educativo e pedagogico finalizzato alla tutela dell'infanzia traviata, abbandonata, derelitta e vagabonda. Questo risveglio di interesse per l'infanzia contagi non solo religiosi o "uomini di scienza che si occupavano specificatamente di educazione", come pedagoghi o psicologi, ma, pi in generale, "personaggi illuminati, appartenenti per lo pi alla borghesia, ispirati da intenti umanitari e animati da idee di progresso sociale", che si impegnarono attivamente per la promozione e la salvaguardia dell'infanzia moralmente abbandonata. Dall'altra parte, per, l'esigenza di controllo sul minore, controllo considerato necessario per la sua protezione, comportava interventi punitivi, in ambito penale, sconosciuti fino ad allora e l'utilizzo di misure coercitive e correzionali "contraddistinte da una concezione dell'infanzia come et subalterna, sottoposta all'autorit, un'et da plasmare e da piegare affinch non si corrompa". (24) Di questo

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secondo aspetto dell'ambiguit dell'attivit rivolta ai minori nell'Ottocento cos parla Nuti: si continu ad applicare nei confronti dei minori quell'ideologia del controllo sociale attraverso la reclusione, l'educazione forzata al lavoro e ai principi morali e religiosi, che si era diffusa in Europa a partire dal Seicento nei confronti dei poveri cattivi [...] anche se l'Ottocento, dominato dall'etica del lavoro imposta dall'ideologia dell'industrialismo, ne esalta il valore di riscatto piuttosto che di penitenza. (25) Per quanto riguarda invece il primo aspetto, bisogna ricordarci che fu proprio l'interesse per l'educazione dei bambini poveri, orfani, maltrattati o delinquenti a spingere uomini e donne a formare movimenti di opinione e progetti di riforma tendenti ad una differenziazione del trattamento del minore, che non doveva essere trattato come un criminale, ma come un pupillo di cui lo Stato si sarebbe dovuto occupare, fornendogli quelle cure e quella educazione che i genitori non erano stati in grado di dargli. Fu cos che, sotto l'influsso degli studi antropologici e sociologici allora diffusi, fu creato negli Stati Uniti il gi menzionato Child-saving movement, il quale diede vita ad un vero e proprio movimento di opinione che spinse verso la creazione di una Commissione, da cui deriv l'idea della istituzione di un Tribunale speciale per l'infanzia, idea che si concretizz a Chicago nel 1899 con il Juvenile Act. (26) Questa prima Juvenile Court aveva una marcata impronta paternalistica: il giudice aveva il ruolo del 'buon padre di famiglia', (27) cio aveva il compito di osservare il minore e di disporre circa la sua educazione o correzione. In seguito altri Tribunali per minorenni nacquero a Boston e a New York, e agli inizi del Novecento se ne registra la nascita anche in Europa, sempre sulla spinta dei movimenti per la tutela e la protezione dell'infanzia. (28) In Inghilterra l'istituzione dei Tribunali per i Minorenni divenne obbligatoria con il Children Act, un vero e proprio statuto per i minori il quale, tra l'altro, oltre a prevedere che nessun ragazzo minore di sedici anni potesse essere incarcerato, abol anche la pena di morte. (29) Rispetto a quanto si verificato in altre nazioni europee ed extraeuropee, in Italia l'istituzione di una giurisdizione specializzata si avuta relativamente tardi: (30) il Tribunale per i Minorenni fu istituito solo nel 1934, perch le istanze di differenziazione del trattamento promosse dal positivismo giuridico, nonostante vari tentativi di riforma, non trovarono applicazione pratica a causa del diverso orientamento della politica contenitiva adottata dagli enti minorili. Se, infatti, il positivismo avvertiva come assolutamente necessaria la conoscenza scientifica del bambino e vedeva nella educazione la finalit primaria della rilettura della problematica della criminalit minorile, il forte controllo sull'infanzia, ritenuto prioritario, faceva s che gli interventi sui minori fossero fortemente punitivi. Ma vediamo come si arriv, in Italia, alla costituzione del Tribunale per i Minorenni. Dal codice penale sardo del 1859 fino al Codice Zanardelli del 1889 si assiste ad un continuo tentativo di unificazione e di sistematizzazione della materia minorile. Gi il codice penale del 1859 conteneva interessanti disposizioni: la responsabilit penale era prevista solo per i ragazzi maggiori di ventuno anni; al di sotto di tale et, sia per i minori di et compresa fra i quattordici e i diciotto anni che per quelli fra i diciotto e i ventuno anni, erano previste solo delle riduzioni di pena, da scontare nelle carceri comuni; i minori di quattordici anni, invece, se erano colpevoli di reati comuni commessi con discernimento venivano sistemati in apposite Case di custodia, se, invece, avevano agito senza discernimento o avevano commesso reati di lieve entit con discernimento venivano ricoverati in stabilimenti pubblici di lavoro. A questi stabilimenti venivano destinati anche i minori di sedici anni dediti all'ozio o al vagabondaggio. Il quadro era completato dal codice civile del Regno d'Italia del 1865, il quale stabiliva la possibilit di internamento, su richiesta anche solo verbale del genitore, di giovani discoli in speciali Case di correzione o di educazione, qualora "il padre [...] non riesca a frenare i traviamenti del figlio". (31) Nel 1862 e nel 1877 vennero emanati rispettivamente il primo e il secondo regolamento per le Case di custodia penali per minorenni, a testimonianza dell'importanza data, a quell'epoca, a questa istituzione minorile. Il secondo regolamento, oltre a prevedere le nuove figure degli istitutori o censori al posto delle guardie carcerarie, stabil la separazione assoluta tra adulti e minorenni, non che tra minorenni sottoposti alla custodia per condanna penale ed i ricoverati per altre cause. (32) Ma queste norme non ebbero attuazione nella pratica, e "la divaricazione a forbice tra le tendenze di riforma che si esprimevano nelle leggi e nei regolamenti e la realt delle istituzioni minorili, andata aumentando nei decenni successivi, a partire dal Codice Zanardelli". (33) Nel 1889 entr in vigore il Codice Zanardelli, il primo codice penale unitario, il quale, come gi visto, fissa due criteri fondamentali per differenziare i minorenni di fronte alla pena: l'et e l'elemento del discernimento per stabilire l'imputabilit. In particolare, per quanto concerne la minore et agli effetti penali, distingueva quattro periodi e per ognuno di questi prevedeva un diverso trattamento: al di sotto dei nove anni non c'era imputabilit, quindi non si procedeva sul piano penale nei confronti di questi soggetti; ma qualora questi bambini avessero commesso atti punibili con la detenzione superiore a un anno, scattava "quella che era un embrione della misura di sicurezza, anche se ancora non si parlava di pericolosit sociale". (34) La competenza, infatti, in questo caso, passava al presidente del Tribunale civile che, su richiesta del P. M., poteva ordinare, in alternativa, il ricovero in un istituto di osservazione e di correzione, per un periodo di tempo che non superasse la maggiore et, oppure l'affidamento ai genitori o ad altri soggetti che avessero l'obbligo dell'educazione, sotto la loro responsabilit (art. 53). Stesso trattamento era previsto per il minore che avesse pi di nove anni, ma meno di quattordici, qualora fosse accertata l'assenza di discernimento; se, invece, si riteneva che avesse agito con discernimento, venivano applicate pene diminuite (fino ad un massimo di quindici anni per reati che prevedevano l'ergastolo), da scontare, a seconda della gravit del fatto, nelle Case di correzione o nelle Case di custodia. Anche per le due restanti fasce di et, quella fra i quattordici e i diciotto anni e quella fra i diciotto e i ventuno anni, erano previste riduzioni di pena, via via meno significative. Sempre nel 1889 la Legge di Pubblica Sicurezza dettava disposizioni relative ai minori orfani e dediti al vagabondaggio o alla mendicit, completando in tal modo il quadro delle misure di controllo sociale dei giovani. (35) Questa legge stabiliva che "il minore degli anni diciotto privo di genitori, ascendenti o tutori" fosse ricoverato presso "qualche famiglia onesta che consenta ad accettarlo" o "in un istituto di educazione correzionale" finch non avesse appreso "una professione, un'arte o un mestiere; ma non oltre il limite della maggiore et" (art. 114). L'art. 116
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estendeva questa disciplina nei confronti dei minori dediti alla mendicit o alla prostituzione. Il ricovero presso qualche famiglia onesta non ebbe per, nella pratica, attuazione, cosicch l'effetto reale di queste norme fu l'aumento delle possibilit di istituzionalizzazione di nuove categorie di minori, quali i mendicanti, gli indisciplinati, i senza famiglia, ecc.. Nel 1891 un nuovo regolamento penitenziario stabil la specializzazione delle istituzioni minorili secondo l'et e le categorie giuridiche. Il Codice Zanardelli, la Legge di Pubblica Sicurezza e il codice civile avevano, infatti, delineato quattro categorie di minori corrigendi: quelli che avevano commesso un reato o, comunque, delinquenti (artt. 53, 54 e 55 del codice penale); quelli privi di genitori o tutori (art. 114 Della legge di P. S.); quelli che abitualmente praticavano la mendicit o il meretricio (art. 116 della legge di P. S.); quelli ribelli all'autorit paterna (artt. 221 e 222 del codice civile). Conseguentemente, il regolamento del 1891 distinse fra le Case di correzione, previste per i minori di ventuno anni condannati in applicazione degli art. 54 e 55 del codice penale; gli Istituti di educazione e correzione, dove venivano rinchiusi i bambini con meno di nove anni, che avevano commesso un delitto punibile con la reclusione superiore ad un anno, e i minori di et compresa fra i nove e i quattordici anni, che aveva agito senza discernimento; gli Istituti di educazione correzionale dove, invece, venivano sistemati i minori di diciotto anni dediti all'oziosit, al vagabondaggio, all'accattonaggio e alla prostituzione; e, infine, gli Istituti di correzione paterna per giovani ribelli allontanati dalla casa paterna. In questo modo si realizz formalmente la separazione fra condannati e corrigendi. Mentre i primi venivano rinchiusi in istituti governativi, i secondi, fin dall'unit d'Italia, venivano normalmente accolti in istituti privati, (36) con i quali lo Stato stipulava apposite convenzioni per la parte amministrativa. A questo regolamento ne segu un altro nel 1907, denominato 'Regolamento per i riformatori governativi', in base al quale, appunto, le case di custodia e tutte le altre istituzioni minorili vennero denominati, ufficialmente, riformatori governativi per distinguersi dalle istituzioni private, dove potevano essere ricoverati i minori in base all'art. 222 del codice civile o su provvedimento dell'autorit di pubblica sicurezza. Questo regolamento proponeva di affrontare il problema della delinquenza giovanile non pi in termini di mera repressione, quanto piuttosto di correzione, riabilitazione ed educazione, per cui a questi principi andava adattato anche il trattamento dei minori, tenendo anche presente l'et e il tipo di reato commesso. (37) Dei cambiamenti riguardarono anche le figure degli agenti di custodia, che vennero sostituiti con gli "istitutori", reclutati fra gli insegnanti elementari, che dovevano essere previsti in numero proporzionato alla popolazione ricoverata (art. 7), sotto la direzione di un censore e uno o pi vicecensori. Ma se sulla carta era previsto il passaggio ad un trattamento penitenziario individualizzato, basato sull'osservazione e lo studio del minore onde accertarne l'indole, le tendenze, i vizi e le virt (art. 14) e sull'esame delle caratteristiche psico-fisiche del minore da parte del medico (art. 24), in realt il sistema risult poco individualizzato e poco attento ai bisogni del singolo, e piuttosto teso, invece, ad ottenerne il consenso e la sottomissione. (38) La preoccupazione principale era, infatti, quella di ottenere la spersonalizzazione dell'individuo, la sua docilit e la sua obbedienza alle regole istituzionali; il raggiungimento di questi obiettivi veniva perseguito attraverso l'educazione religiosa e la disciplina: come regola precipua di disciplina e di educazione si inculca ai ricoverati il dovere del rispetto e dell'obbedienza (art. 75). Tra i testi normativi considerati propedeutici alla specializzazione del giudice minorile va inserita anche la Legge n. 267 del 26 giugno 1904, con la quale fece ingresso per la prima volta in Italia la sospensione della pena. Questa legge, inserendo i minori di diciotto anni, insieme alle donne e agli ultrasettantenni, tra i possibili beneficiari della sospensione della pena non superiore a un anno, (39) costitu la spinta per la nascita di alcuni patronati che sorsero, spontaneamente, con l'intento di aiutare i minori ad evitare di mettersi in quelle situazioni che avrebbero estinto il beneficio ottenuto. "In tal modo veniva decisamente riaffermata, invero, l'esigenza di un trattamento individualizzato del minore, da compiersi non solo, e non tanto, col presidio delle impassibili e geometriche regole del diritto penale classico, ma con effettiva preoccupazione pedagogica e assistenziale". (40) Nel 1908 venne fatto un passo importante verso la concreta individualizzazione del trattamento penale e l'istituzione del Tribunale per i Minorenni. Il 3 gennaio di quell'anno il senatore Quarta, all'apertura dell'anno giudiziario, cit dei dati statistici a testimonianza del forte aumentare della delinquenza giovanile. (41) In realt le statistiche del tempo non giustificavano valutazioni cos "apocalittiche": il tasso di delinquenza minorile, che tra il 1896 e il 1902 aveva fatto registrare un indice del 13%, nel periodo che va dal 1906 al 1910 si era attestato su valori impercettibilmente superiori, pari al 14% circa, per subire addirittura un inflessione nel periodo 1921-1925, in cui si registr un tasso di delinquenza del 12%. (42)

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Prendendo spunto dal questo "aumento spaventevole della delinquenza dei minori" e consapevole dell'inevitabile lentezza di un'azione legislativa al riguardo, il ministro guardasigilli Vittorio Emanuele Orlando l'11 maggio 1908, con una importantissima circolare, (43) rivolse alla magistratura una serie di raccomandazionicon le quali venivano poste le basi per l'affermazione, nell'ambito del diritto minorile, dei principi della specializzazione del giudice dei Minorenni, (44) della non pubblicit del processo in cui coinvolto un minore e della necessit dell'indagine diretta ad acclarare la personalit del minore. Il principio della specializzazione del giudice affermato laddove la circolare stabiliva che nei tribunali, ove due o pi giudici sono addetti all'istruzione dei processi penali, [...] uno di essi si occupi in modo speciale dei procedimenti contro imputati minorenni, e consigliava che le cause penali contro i minorenni, in specie se siano di et inferiore ai 18 anni, vengano trattate tutte e sempre dai medesimi giudici, onde nei tribunali composti da pi persone non sar difficile assegnarle normalmente ad una di esse. La necessit dell'indagine sulla personalit emerge dai compiti affidati ai giudici, fra i quali vi era quello di studiare, con animo quasi paterno, la psicologia dell'imputato, di trattarlo alla buona e senza intimidazioni, cercando di guadagnarne la confidenza e di fargli comprendere la necessit dell'osservanza delle leggi e del rispetto alla disciplina e alla pubblica autorit; al duplice fine di accertare la responsabilit del minore e di determinare la pena, i giudici erano invitati anche a non limitarsi soltanto all'accertamento del fatto delittuoso nella sua pura materialit, ma a procedere a tutte quelle indagini, che valgono a far conoscere lo stato di famiglia del piccolo imputato, il tenore e le condizioni di sua vita, i luoghi e le compagnie che frequenta, l'indole e il carattere di coloro che su di lui esercitano la podest patria e tutoria, i mezzi eventualmente adoperati per ritrarlo dalla via del pervertimento, a raccogliere, insomma, tutte [...] quelle notizie che possono dare un criterio esatto delle cause dirette e indirette, prossime o remote, per le quali egli giunse alla violazione delittuosa della legge. La non pubblicit del processo affermata laddove si prescriveva ai magistrati di fissare le cause contro i minorenni in ore e possibilmente in giorni in cui non vi fossero dibattimenti contro adulti, e di allontanare dalle aule, dove si amministra la giustizia penale [...] quei giovanetti, che, senza alcun interesse diretto e solo per morbosa curiosit, assistono ai dibattimenti, per evitare ogni possibile contagio morale. (45) La circolare Orlando rappresent certamente un punto fondamentale nel cammino verso la creazione del Tribunale per i Minorenni, ma non ebbe in concreto l'attuazione auspicata, bench, nelle more dell'intervento legislativo, risult senza dubbio preziosa. Successivamente vi furono altri progetti di riforma nell'ambito della giustizia minorile. In particolare, col Regio Decreto del 7 novembre 1909 venne nominata una Commissione reale, presieduta dal senatore Quarta, con l'incarico di studiare le cause della delinquenza minorile e di elaborare su tale base un codice per i minorenni che utilizzasse la combinazione armonica delle diverse competenze, da quelle d'ordine giuridico penale a quelle sociologiche, dalla pedagogia alle discipline carcerarie. I lavori della Commissione reale durarono fino al 1912 e il risultato fu la creazione di un progetto denominato Magistratura dei minorenni, i cui obiettivi principali erano creare una magistratura per i minorenni e riunire in un unico codice tutte le disposizioni sparpagliate nei codici penale e civile, nelle leggi e nei vari regolamenti sulla pubblica sicurezza, sul lavoro dei fanciulli, sull'emigrazione, sui riformatori, ecc.. Il progetto Quarta prevedeva, infatti, l'istituzione di un magistrato dei minorenni circondariale (in ogni sede di tribunale) con il compito esclusivo di vigilare circa l'assistenza, tutela, protezione, istruzione, disciplina e correzione dei minorenni. (46) Questa magistratura specializzata avrebbe avuto la possibilit di giudicare solo i fatti di reato lievi (per i quali erano applicabili misure simili alle nostre sanzioni sostitutive), mentre per quelli pi gravi era previsto il passaggio del giudizio alla magistratura ordinaria. Il codice minorile unificato escludeva l'arresto o la carcerazione preventiva in fase di istruzione, sostituiti, per i maggiori di nove anni, con speciali forme di custodia. Il giudizio finale poteva concludersi (con provvedimento non motivato) nel proscioglimento, nell'ammonimento o, in caso di condanna, nella detenzione in casa propria per periodi da stabilire, ma che non potevano superare i venti giorni, nella libert vigilata, nel ricovero in un istituto di beneficenza o in un riformatorio, per un tempo variabile, che non poteva per superare il compimento del ventunesimo anno del minore.
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Nonostante che il progetto Quarta fosse stato oggetto di apprezzamento non solo in Italia, dove era appoggiato fortemente dalla Scuola positiva, ma anche all'estero, non arriv neppure in Parlamento per la discussione. (47) Nel 1913 fu promulgato il Codice di procedura penale, il quale, oltre a confermare la disciplina della sospensione della pena prevista nella legge del 1904, riprendeva e precisava la questione della pubblicit delle udienze, gi oggetto di attenzione da parte della circolare Orlando del 1908, stabilendo una deroga rispetto alla garanzia costituzionale della pubblicit dei dibattimenti, prevista dall'art. 72 dello Statuto Albertino. Il nuovo codice di procedura penale non solo vietava l'accesso alle aule di udienza ai minori di diciotto anni (art. 375, comma 2), ma stabiliva che il dibattimento dovesse comunque svolgersi a porte chiuse, qualora l'imputato avesse meno di diciotto anni, se non vi era un coimputato di et maggiore. In questo modo non solo si eliminava dal pubblico il minorenne, per evitare che potesse ricevere stimoli negativi, ma si escludeva il pubblico tout court dalla partecipazione ai processi a carico di minori, per evitare che l'imputato minorenne subisse, sul piano pedagogico, gli effetti deleteri di un giudizio di massa. Sia negli anni che precedettero la prima guerra mondiale che negli anni successivi al conflitto, vi furono numerosi dibattiti e congressi sui temi dell'infanzia e della delinquenza minorile, e non solo ad opera di parlamentari e di giuristi, ma anche di filantropi e volontari, impegnati nell'assistenza e nella difesa dell'infanzia. (48) In realt "la loro opera stata sicuramente segnata anche da una concezione adultistica del minore legata all'idea della moralizzazione e del controllo dell'infanzia". (49) Ma, nonostante questa "ambiguit insita nella doppia visione della protezione, della tutela e dell'educazione, da una parte, e della correzione, del controllo e della punizione, dall'altra", (50) questi movimenti filantropici e riformisti non solo alimentarono la diffusione di nuove idee intorno ai bisogni e alle necessit degli adolescenti, ma contribuirono anche alla realizzazione di alcune sperimentazioni nell'ambito degli interventi penali nei confronti dei minori. Cos, ad esempio, fu tentato una specie di affidamento in prova - istituto che, mentre in Inghilterra era ormai una prassi consolidata, in Italia non era stato introdotto - ad opera proprio delle associazioni di volontariato: Miss. Lucy Bartlett fond a Roma, nel 1906, il primo 'Patronato italiano per minorenni condannati condizionalmente', che raccoglieva una serie di soci volontari, ai quali veniva affidata la tutela dei giovani condannati. Un altro esperimento fu tentato dall'Associazione Nazionale Cesare Beccaria la quale, in accordo con la magistratura milanese, istitu a Milano, nel 1928, il primo Tribunale minorile in forma sperimentale: le cause contro imputati minorenni non venivano celebrate nelle consuete aule di udienza ma in apposite sale messe a disposizione dall'associazione; inoltre, alle udienze partecipavano come consulenti due psichiatri, esperti in problemi dell'et evolutiva. Nel 1919 Enrico Ferri, l'esponente pi significativo della Scuola positiva, per volont del Guardasigilli Mortara presiedette una commissione che aveva l'incarico di elaborare un progetto di riforma della legislazione penale. Nel 1921 vide la luce il progetto Ferri, fedele all'interpretazione plurifattoriale della devianza propria della Scuola positiva: la spiegazione della devianza giovanile andava rinvenuta non solo nelle cause ereditarie, evolutive o biologiche, ma anche in quelle sociali, familiari e psicologiche. La spiegazione della criminalit dei minori andava ricercata soprattutto nelle condizioni di abbandono e di non curanza in cui era lasciata l'infanzia moralmente maltrattata o torturata, e i rimedi pi efficaci per combattere la delinquenza giovanile erano di due tipi: quelli sociali e quelli legali. I rimedi sociali dovevano agire in termini di prevenzione, di profilassi, di educazione e di cura, in un'atmosfera economica e familiare libera dal veleno della miseria materiale e morale; quelli legali dovevano essere guidati non dalle consuete norme astratte di responsabilit morale aritmeticamente graduata secondo le diverse et, ma dovevano ispirarsi sempre al criterio fondamentale della pericolosit del delinquente. (51) Come dice De Leo, " l'atto di nascita della pericolosit sociale come concetto giuridico in campo penale". (52) La tipologia delle sanzioni simile a quella del progetto Quarta, ma vengono aggiunte delle nuove ipotesi, quali la scuola professionale di correzione, la casa di lavoro o colonia agricola per minorenni, la condanna condizionale e, soprattutto, le case speciali di custodia per infermi di mente. Ma, a causa delle numerose critiche, come gi ricordato, questo progetto non fu trasformato in legge. Successivamente, nel 1922, vide la luce un altro progetto, il progetto Ollandini, che per non merita un particolare esame, dal momento che si limit a riproporre, in termini riduttivi, i contenuti del progetto Quarta. Anche il progetto Ollandini fu abbandonato.

1.3. Il Codice Rocco e il decreto del 1934


La consapevolezza, ormai raggiunta, della necessit di soluzioni normative pi articolate ed adeguate ai tempi indusse il ministro della giustizia Alfredo Rocco ad emanare una circolare che, ad oltre un decennio di distanza, riprendeva, con toni pi perentori, alcune direttive contenute nella circolare Orlando, mai tradotte in legge. Con la Circolare n. 2236 del 22 settembre 1929 il Guardasigilli, in attesa che fosse completata l'opera legislativa ancora allo stato di progetto, intendeva provvedere alla istituzione di magistrati per minorenni e ad assicurare una migliore applicazione delle norme di carattere preventivo che riguardano la criminalit minorile [...]. (53) Per realizzare il primo obiettivo, il ministro Rocco dispose che nelle pi importanti Corti d'Appello (quelle di Torino, Milano, Firenze, Roma, Napoli e Palermo) (54) nonch nei tribunali e nelle preture delle stesse citt i processi che vedevano come imputati minori di diciotto anni, che non avessero coimputati maggiorenni, fossero affidati sempre ai medesimi magistrati, non solo per la funzione istruttoria - come aveva gi stabilito la circolare Orlando - ma anche per le funzioni requirenti, di spettanza del pubblico ministero. Inoltre i giudizi relativi a questi processi dovevano essere devoluti ad una speciale sezione permanente, composta, salvo i casi di temporaneo impedimento, sempre dagli stessi magistrati e da un unico pretore o vice-pretore. Si disponeva, infine, che i dibattimenti a carico di imputati minori di diciotto anni dovessero tenersi in sede separate e lontane dagli edifici in cui si giudicano gli imputati maggiorenni, allo scopo di evitare contatti non giovevoli per i piccoli giudicabili e la loro stessa permanenza negli affollati ambulacri dei palazzi di giustizia. Questa previsione di speciali udienze nelle quali far svolgere, sempre da parte dei giudici ordinari, i dibattimenti riguardanti i minori fu consacrata con l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale (1 luglio 1931). L'art. 425 prevedeva, infatti, la destinazioni di speciali udienze per i dibattimenti
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in cui sono imputati minori di diciotto anni. Questi dibattimenti, quando non erano presenti coimputati maggiorenni, si dovevano svolgere a porte chiuse, salva la possibilit che il presidente del tribunale o il pretore consentissero la partecipazione all'udienza ai genitori, ai tutori o ai rappresentanti di istituti di assistenza dei minorenni. Insieme al codice di procedura penale entr in vigore anche il codice penale, di cui si gi parlato. Qui occorre ricordare che il Codice Rocco deline una netta distinzione fra i soggetti che si riteneva fossero in condizioni di "normalit biologica e psichica", e quindi imputabili, per i quali la pena aveva una funzione retributiva, e quelli che si trovavano in condizioni di "non normalit biologica e psichica", per i quali, se non era provata in concreto la loro imputabilit, la pena, sotto forma di misura di sicurezza, aveva funzione terapeutica e, soprattutto, di difesa sociale. Nell'area della non normalit biologica e psichica venivano fatti rientrare anche i minori. (55) I minori che, a prescindere dall'et, fossero stati ritenuti non imputabili, qualora fossero stati considerati socialmente pericolosi venivano sottoposti alle misure di sicurezza del riformatorio giudiziario o della libert vigilata (art. 224 c.p.). Ai minori autori di reati e prosciolti per infermit psichica o per sordomutismo, nei confronti dei quali la pericolosit sociale presunta, veniva applicata la misura di sicurezza del manicomio giudiziario (art. 222 c.p.). I minori invece ritenuti imputabili e condannati dovevano scontare la pena, fino al compimento dei diciotto anni, in stabilimenti separati da quelli destinati agli adulti, ovvero in sezioni separate di tali stabilimenti e a loro veniva impartita, durante le ore non destinate al lavoro, un'istruzione diretta soprattutto alla rieducazione morale (art. 142 c.p., abrogato dalla Legge n. 354 del 1975 sull'ordinamento penitenziario). La finalit rieducativa , per, posta come esigenza primaria solo in senso ideologico, dato che poi gli strumenti previsti per raggiungerla hanno caratteristiche opposte a tale finalit. Una innovazione concreta consiste nell'introduzione, accanto alla previsione della liberazione condizionale (art. 176 c.p.), gi prevista dal codice Zanardelli, dell'istituto del perdono giudiziale. Si tratta di una misura applicabile esclusivamente ai minori, che "consiste nella rinuncia da parte dello Stato alla condanna o addirittura al rinvio a giudizio, pur avendo il giudice accertato la responsabilit dell'imputato". (56) Il giudice pu utilizzare questa causa di estinzione del reato quando ritiene che il minore, colpevole di un reato per il quale prevista una pena non superiore a due anni e alla sua prima esperienza penale, si asterr dal commettere ulteriori reati (art. 169 c.p.). Il ministro Rocco, nella sua relazione al progetto, sottolinea come questo istituto, che rappresenta, in realt, una deviazione dalla logica del sistema retributivo, sia giustificato dall'intento di assicurare il trionfo di una pi alta esigenza: quella di salvare dalla perdizione giovani esistenze e di favorire in tal modo il progresso civile, rendendo sempre migliori, materialmente e moralmente, le condizioni della convivenza sociale. (57) Con la Circolare n. 2314 del 26 marzo 1933, il ministro di grazia e giustizia De Francisci dispose che gli stessi criteri organizzativi della circolare Rocco del 1929 venissero attuati in tutte indistintamente le Corti e le sezioni distaccate di Corte d'Appello del Regno, nonch nei tribunali e nelle preture aventi sedi nei rispettivi capoluoghi. (58) Come rileva Pisani, pur se in questo modo "non si usciva [...] dal criterio secondo cui i magistrati per minorenni erano, in sostanza, dei magistrati ordinari di alcune [...] sedi giudiziarie ritenute pi importanti", tuttavia "si raccomandava ai Primi Presidenti e ai Procuratori generali delle Corti d'Appello [...] che, nella proposta di nomina, tenessero conto della assoluta necessit che i magistrati chiamati a giudicare o comunque ad esercitare le loro funzioni nei processi a carico di minorenni venissero scelti con la cura pi scrupolosa, in base ai requisiti della speciale preparazione e delle particolari attitudini, cos da dare il miglior affidamento di poter espletare il loro mandato con opera assidua e alacre e con piena coscienza della elevatezza della missione ad essi commessa. (59) Ormai i tempi erano maturi e, finalmente, con il Regio Decreto Legge. n. 1404 del 20 luglio 1934 venne istituito il Tribunale per i Minorenni, sintesi delle diverse prospettive presentate nei precedenti progetti di riforma sopra esaminati. Questo decreto legge rappresent il primo tentativo di disciplinare in modo sistematico la materia minorile, ma - promulgato in piena era fascista, malgrado che prevedesse un'istituzione di ispirazione eminentemente liberale (60)- in realt favor la nascita di un tribunale minorile "pi per ragioni di prestigio che di reale presa di coscienza della necessit di promuovere il minore". (61) Il Tribunale per i Minorenni venne istituito quale organo di decisione autonomo, rispetto agli altri tribunali penali e civili, e specializzato, in relazione alle peculiarit della condizione minorile. Originariamente era composto da due magistrati togati e da un cittadino benemerito dell'assistenza sociale, scelto tra i cultori di biologia, di psichiatria, di antropologia criminale, di pedagogia (art. 2). (62) Al tribunale vennero attribuite tre competenze (penale, civile e amministrativa), per cui fin dall'inizio si occup non solo della delinquenza minorile ma anche del disadattamento. Per quanto riguarda la competenza penale, oltre ad aver garantito ai minori il diritto ad avere un giudice specializzato, furono previste anche particolari norme del procedimento. Mentre poi la competenza civile riguardava l'ambito relativo ai provvedimenti limitativi della patria potest, la competenza amministrativa era rivolta al minore di diciotto anni che per abitudini contratte dia prova di traviamento e appaia bisognoso di correzione morale (art. 25). L'attivit amministrativa era un'attivit di controllo sociale che, sebbene nelle intenzioni volesse essere meno rigida di quella penalistica, di fatto comportava l'internamento in un riformatorio per corrigendi (art. 27), senza per altro stabilirne la durata. Era stabilito, infatti, che il trattamento del minore finisse quando il ragazzo fosse risultato non pi bisognevole di correzione o, comunque, aveva raggiunto i ventuno anni (art. 29). Molti ragazzi furono, cos, sottoposti a interventi rieducativi coatti anche molto duri, un trattamento che spesso aveva l'effetto di trasformarli da disadattati a veri e propri delinquenti da sottoporre a misure di contenimento pi gravi, anche di tipo penale. Il Tribunale per minorenni nasce caratterizzato "da un'ideologia paternalistica non ancora capace di porsi nell'ottica della tutela e della promozione dei diritti dei minori, primo fra tutti quello all'educazione". (63) L'organo giudicante era visto come strumento necessario di controllo sociale dell'adolescenza, ormai priva delle consuete forme di controllo, quale la famiglia patriarcale-rurale messa in crisi dalla societ industriale. La preoccupazione principale era quella di tutelare la comunit, mentre l'effettivo recupero sociale del minore deviante veniva in secondo piano. Il R.D. del 1934 si preoccup anche di risistemare l'aspetto logistico. Accanto al Tribunale era prevista l'istituzione di un centro di rieducazione dei minorenni. Il primo decide e il secondo applica le misure sul piano istituzionale. Al centro di rieducazione facevano capo tutta una serie di servizi e istituzioni, quali case di correzione, focolari di

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semilibert e pensionati giovanili, gabinetti medico-psico-pedagogici, uffici di servizio sociale per minorenni, istituti di osservazione, scuole laboratori e ricercatori speciali, riformatori giudiziari e prigioni scuola.

1.4. La legge n. 888 del 1956


Bench la periodizzazione della storia dell'evoluzione del diritto minorile vari, emerge sempre una costante: il ruolo significativo svolto dalla Legge n. 888/1956. Come ampiamente riporta Lorena Milani, Sacchetti, ad esempio, distingue l'evoluzione del diritto minorile in tre periodi: il primo, dall'istituzione del Tribunale per i Minorenni nel 1934 all'emanazione della Legge n. 888/56, "caratterizzato dal prevalere del momento penale e repressivo"; il secondo, dalla Legge del 1956 fino alla seconda met degli anni '60, "contrassegnato dal predominio dell'intervento amministrativo su quello penale"; il terzo, successivo alle importanti riforme degli anni '60-'70, "contraddistinto dall'espansione del momento civilistico in un'ottica prevalentemente 'preventiva'". (64) In effetti, la devianza minorile stata caratterizzata fino all'entrata in vigore della legge del 1956 da un'ideologia paternalistica-previdenziale, nel senso che la risposta alla marginalit degli adolescenti prevedeva degli interventi segreganti e fortemente punitivi. Gi un piccolo cambiamento si ebbe con la Circolare del Ministero di Grazia e Giustizia n. 1027/2367 del 17 febbraio 1938, la quale, prevedendo soluzioni alternative alla casa di correzione per minori traviati, favor la nascita di numerose istituzioni private per minori disadattati. Ma sono stati soprattutto l'entrata in vigore della Costituzione e il passaggio da un regime autoritario come quello fascista ad uno Stato democratico ad aprire una crisi in questa ideologia repressiva e a favorire l'affermarsi di un'ideologia di tipo rieducativo: la pena e il controllo sociale dei giovani vennero posti in secondo piano e al centro dell'attenzione fu messa la funzione rieducativa e risocializzante del minore deviante. Dopo l'istituzione del Tribunale per i Minorenni, il successivo gradino dell'evoluzione del diritto minorile rappresentato certamente dalla Carta Costituzionale, la quale pone le basi per una pi completa considerazione e protezione del minore, ma la vera e propria svolta fu attuata con la Legge n. 888 del 1956 che modific il Regio Decreto Legge n. 1404 del 1934. Negli anni '50 si stava affermando l'idea che l'assistenza sociale fosse un diritto di ogni cittadino e, quindi, con la Circolare ministeriale n. 3935/2405 del 1 febbraio del 1951, si introdusse la figure dell'assistente sociale anche nel settore del disadattamento minorile, per facilitare il processo di rieducazione. Alla fine del 1954 gli uffici del servizio sociale erano gi tredici e gli assistenti sociali una cinquantina, ma per il loro riconoscimento furono necessari ancora due provvedimenti: il D.P.R. n. 153 del 28 giugno 1955, che elencava gli uffici del servizio sociale fra gli istituti del centro rieducazione per minorenni, e la Legge n. 888 del '56, la quale, tra le altre cose, introdusse l'affidamento al servizio sociale tra le misure rieducative. Tra le misure non penali di controllo, accanto all'affidamento del minore al servizio sociale minorile, era previsto il collocamento in una Casa di rieducazione o in un Istituto medico-psico-pedagogico. Le modifiche al R.D.L. del 1934, operate dalla Legge del 1956, introdussero una pluralit di istituzioni rieducative e di servizi per i minori disadattati che consentirono di operare un trattamento pi adeguato alla singola personalit e pi attento alle cause della condotta trasgressiva del ragazzo. Per poter personalizzare le misure e il trattamento era necessario, ovviamente, capire i bisogni del minore e a questo erano finalizzate le indagini sulla personalit del minore, previste dall'art. 11 del decreto del 1934 all'interno della competenza penale del tribunale ed attribuite al pubblico ministero, ed ora affidate, invece, a un componente del tribunale, a testimonianza di una contaminazione tra le tre aree di competenza del tribunale. Con la nuova legge furono introdotte anche delle sezioni di custodia preventiva presso l'istituto di osservazione, compiendo cos un altro passo in avanti rispetto al R.D.L. del '34: quest'ultimo aveva, infatti, gi vietato che i minori venissero trattenuti in carcerazione preventiva presso le prigioni ordinarie; la Legge n. 888/1956 and oltre disponendo che il minore in attesa di giustizia stesse presso l'istituto di osservazione, invece che nel carcere per i minorenni. La Circolare n. 721/3196 del 7 febbraio 1957 afferm che questa modificazione andava ricondotta al principio per cui non si pu presumere l'imputabilit del minore prima che sia stata accertata in sede diagnostica e giudiziaria e che si riteneva esigenza di rispetto della sua personalit e, ad un tempo, condizione tecnica per una buona diagnosi, il non aggravare, al di l delle necessit concrete di sicurezza, le tensioni emotive in corso, ma al contrario scaricarle attraverso quelle condizioni ambientali e quel trattamento che un'intelligente pedagogia suggerisce. (65) Ma perch la Legge del 1956 cos importante nella storia dell'evoluzione del diritto minorile? Prima di tutto, perch con essa cambi l'ottica stessa con cui si guardava al minore deviante. La stessa terminologia usata dimostra questo cambiamento, quando alla definizione di minore traviato si sostituisce quella di minore irregolare nella condotta e nel carattere. L'aggettivo traviato, infatti, oltre a denotare una certa concezione sminuente della personalit del minore e un giudizio di condanna morale, presuppone anche una concezione dell'intervento in termini di correzione. Al contrario, il concetto di minore irregolare nella condotta e nel carattere presume una visione del soggetto in termini di disadattamento e propone un'ideologia rieducativa dell'intervento, cio un trattamento che guarda al comportamento deviante come sintomo di una patologia individuale. (66) Bench l'intervento penale venga giustificato non pi in termini di punizione e di difesa sociale, bens di rieducazione, "la societ italiana credeva ancora saldamente nell'istituzione totale, anche per i minori, e appoggi l'incremento di questa forma di risposta, anche se non la intese pi come espediente di risanamento morale, ma come una misura transitoria finalizzata alla rieducazione". (67)

1.5. Il fallimento della rieducazione


Negli anni '60-'70 questa fiducia nelle istituzioni totali e nella loro capacit di risocializzare e rieducare il minore entr in crisi: "nella stragrande maggioranza degli istituti un vero trattamento rieducativo non esiste [...]. Invece di un trattamento individualizzato, di cui necessitano i disadattati, viene applicato un trattamento di massa, che umilia l'individuo, lo inimica all'ambiente e, di conseguenza, lo costringe all'antisocialit". (68) La pluralit di istituzioni e organismi rieducativi, creati dalla Legge del 1956 per consentire un trattamento pi adeguato alle singole personalit, ebbe scarso successo, perch, nella pratica, la stessa misura fu usata indifferentemente in situazioni

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soggettive diverse che avrebbero richiesto, invece, differenti trattamenti. Cos, ad esempio, negli anni '50-'60 si ebbe un boom delle Case di rieducazione dovuto al fatto che queste non si limitavano pi ad accogliere le richieste di internamento dei figli irregolari nella condotta e nel carattere da parte dei padri, come prevedeva l'art. 25 della Legge n. 888 del 1956, ma spesso, soprattutto nel Sud, ospitavano i ragazzi solo perch non avevano una casa in cui abitare e dei genitori che si prendessero cura di loro: il sistema rieducativo copriva e mistificava ancora, in buona parte, esigenze di carattere assistenziale. Cio, la presa in carico dei minori da parte delle istituzioni rieducative non era neppure chiaramente motivata da devianze conclamate o da sintomi evidenti di irregolarit della condotta e di disadattamento, ma da gravi carenze o dalla totale mancanza di risposte assistenziali e sociali di tipo primario (famiglia, scuola, enti locali). (69) In sintesi: il sistema rieducativi-penale italiano, dopo vari decenni di esistenza e di funzionamento, non ha inciso sulle condizioni di abbandono dei minori, non li ha salvati dai pericoli del traviamento, del disadattamento, della delinquenza, non ha tutelato la loro socializzazione, le loro possibilit di integrazione e di inserimento sociale; tale sistema non ha neppure difeso la societ dalla minaccia e dai danni della delinquenza minorile, sia perch non ha prodotto alcuna azione preventiva in tal senso, sia perch non ha rieducato i minori delinquenti, non li ha corretti, recuperati, riabilitati. (70) Questo quanto accaduto, ma quali sono le cause del fallimento della rieducazione? Normalmente i fattori considerati la causa di tale fallimento sono l'insufficienza numerica e l'impreparazione del personale, il sovraffollamento degli istituti e l'inadeguatezza degli ambienti ("soltanto il 23% degli istituti di rieducazione stato appositamente costruito per i minori, il 77% costituito da vecchi edifici adattati" (71)). Ma secondo De Leo ragionare in termini di fallimento comporta implicitamente non solo l'adesione agli obiettivi perseguiti con questa politica sociale e istituzionale, ma anche il riconoscimento della validit in s e per s dei mezzi previsti per raggiungerli, per cui ci che si contesta riguarderebbe solo le modalit di funzionamento delle istituzioni. Bisognerebbe, pertanto, andare al di l della logica del fallimento e considerare la politica intrapresa non tanto per gli obiettivi mancati, quanto per gli effetti, soprattutto negativi, realizzati. (72) stata proprio la diffusione di nuove teorie che posero l'accento sugli effetti negativi della politica istituzionale, piuttosto che i pessimi risultati riscontrati nella pratica, a fare entrare in crisi il trattamento individualizzato. Sono gli anni in cui Goffman, dopo aver condotto una ricerca in un ospedale psichiatrico, afferma che l'ingresso in un'istituzione totale comporta necessariamente un processo degenerativo e destrutturante dei ruoli e delle immagini che precedentemente si hanno di s; negli stessi anni Erikson sostiene che l'ingresso in un istituto pu essere causa per un minore di una vera e propria crisi di identit, dalla quale si esce con l'attribuzione al ragazzo, da parte dell'istituto, di un'altra identit, propria di un emarginato, di un individuo incapace di avere successo nella vita, di un fallito. Durante il Convegno giovanile della Pro Civitate Christiana, svoltosi ad Assisi nel 1973, Seppilli fece notare che "una serie di ricerche in questi anni sono state condotte per analizzare le condizioni che si determinano nelle istituzioni totali", e che "queste ricerche hanno messo in luce un meccanismo costante in tutte le istituzioni totali: il meccanismo di depersonalizzazione - ossia di privazione delle caratteristiche personali e di forzato adattamento alle condizioni di subalternit, di soggezione e di massificazione, cio di standardizzazione - degli individui sottoposti alle regole". (73) La forte critica che, sul finire degli anni '60, invest l'ideologia rieducativa, per la prima volta, proven non solo dagli ambienti tecnici, ma anche dalla stampa e dall'opinione pubblica. Quello che veniva contestato era il carattere estremamente punitivo del sistema giudiziario minorile, il quale ricorreva, sia attraverso le misure penali che attraverso le misure amministrative, all'internamento in istituzioni chiuse che avevano assunto una funzione di etichettamento, necessaria come rinforzo e consolidamento dell'azione della polizia e della magistratura. (74) In questo modo si ottenne una demistificazione delle istituzioni rieducative, arrivando a sostenere, come si gi detto, che l'affermata finalit rieducativa mascherava un'azione di emarginazione nei confronti dei giovani facenti parte delle classi sociali pi basse: "ci che stato demistificato non solo il carattere ovvio di questa istituzione [...], ma soprattutto il suo effetto: stato smascherato il carattere mistificante della sua strategia ufficialmente dichiarata". (75) La strategia ufficiale a cui si riferisce Seppilli pu essere la pena, per cui chi ha violato deve pagare, o l'esempio, cio il cosiddetto effetto deterrente, o l'isolamento, per cui chi pericoloso deve essere messo in condizioni da non poter nuocere agli altri, o la rieducazione, secondo la quale chi deviante ed ha deviato deve essere ricondotto a non deviare pi. Ma nonostante questi siano gli obiettivi delle istituzioni totali, la pratica parla chiaro: le istituzioni non rieducano, anzi producono quel processo inverso, di cui si parlato prima, di depersonalizzazione. Di fronte a questa presa di coscienza, si afferm un certo orientamento verso la non istituzionalizzazione dei minori: "come sempre, gli oppressi costruiscono, attraverso la presa di coscienza della loro posizione e attraverso la loro organizzazione collettiva, le basi per la loro generale liberazione". (76) Questo movimento anti-istituzionale si manifest, in Italia, soprattutto nel settore dell'antipsichiatria, cio nella contestazione dei modi di operare degli ospedali psichiatrici, ma non fu da meno la lotta anticarceraria. A questo fermento culturale ed al movimento antiistituzionale si contrappose una risposta penale fortemente contenitiva della devianza minorile. Ma, per contrastare questa maggiore severit nella risposta penale nei confronti dei minori autori di reati, inizi quell'applicazione in senso depenalizzante, cui si accennato precedentemente, sia dell'art. 98 c.p. sia dell'istituto del perdono giudiziale. Accanto a questi mutamenti culturali, si ebbero anche importanti innovazioni legislative, come la legge sull'adozione speciale del 1967, la riforma del diritto di famiglia del 1975 e la riforma penitenziaria sempre del 1975. La legge sull'ordinamento penitenziario, in realt, non forn nessuna soluzione al problema della compatibilit tra azione rieducativa e istituti di reclusione, su cui si era incentrato il dibattito di quegli anni. Un'altra novit rappresentata dal D.P.R. n. 616 del 1977, il quale attu il processo di decentramento che era stato sancito gi con la Legge n. 382
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del 1975. Questo decreto trasform in modo radicale l'organizzazione delle misure amministrative, la cui competenza pass dalla gestione autonoma del Ministero di Grazia e Giustizia a quella dei Comuni (art. 23 lettera c D.P.R. 616). Il decreto rivoluzion anche il sistema rieducativo, perch, sancendo l'abolizione definitiva delle Case di rieducazione, che si trovavano gi in stato di avanzato decadimento, costrinse gli Enti locali a dover affrontare il compito della gestione della devianza giovanile. "Dal D.P.R. in poi - secondo Fernanda Rizzo - si sviluppa un percorso per la giustizia minorile che [...] passa da un iniziale approccio centrato sulla punizione e la pena detentiva, ad una seconda fase orientata all'assistenza ('Welfare'), ad un terzo e pi recente orientamento centrato sul trattamento". (77)

1.6. Il Neoclassicismo
Caduta in crisi la prospettiva rieducativa, a causa dei deludenti risultati offerti dall'ideologia terapeutica della criminalit, torn in luce il problema della responsabilit e del contenuto retributivo della pena. Negli anni settanta e ottanta emersa una nuova corrente di pensiero, detta "neoclassica", la quale auspica la separazione delle finalit di controllo da quelle di aiuto - entrambe presenti, invece, nel sistema rieducativo -, dal momento che la devianza non sempre richiede interventi terapeutici, di sostegno o di rieducazione, n coincide con la condizione di immaturit del soggetto. Gli adolescenti, secondo gli apporti della psicologia, non sono soggetti privi di capacit di giudizio morale, anzi, hanno coscienza di ci che fanno, anche se la consapevolezza delle loro azioni collegata, soprattutto sul piano qualitativo, alla loro et. Secondo De Leo, uno dei pi autorevoli esponenti di questo nuovo indirizzo, il problema proprio questo: "una diversit nelle forme di consapevolezza non significa assenza o diminuzione o distorsione di consapevolezza; non ha quindi rapporto diretto, meccanico, deterministico, con il concetto di imputabilit, con la categoria della capacit di intendere e di volere e neppure con quella della maturit". (78) Alla base di queste idee c' la convinzione che le norme relative all'imputabilit dei minori si fondino su assunti, quali l'immaturit, ormai ampiamente confutati. Il comportamento deviante non sarebbe appannaggio esclusivo dei giovani che si trovano in situazioni di deprivazione, essendo, in realt, diffuso tra tutti i ragazzi, a prescindere dal contesto sociale in cui vivono. In particolare, De Leo ha osservato che "un meno completo e coerente stadio di maturazione non rappresenta di per s una maggiore predisposizione alla devianza" e che, comunque, "anche quando si riscontrano carenze di maturazione e comportamenti devianti nello stesso soggetto, scientificamente infondato considerare le prime cause dei secondi". (79) Nell'analisi di De Leo l'imputabilit e l'immaturit non sono questioni scientifiche, ma hanno la stessa natura convenzionale delle leggi, delle regole e dei costumi. Aver associato l'immaturit al reato ha costituito un'operazione non solo scientificamente infondata, ma anche confusionaria, in quanto ha comportato la messa in atto di un intervento basato su false premesse e, di conseguenza, la creazione di istituti rieducativi volti a trattare carenze e bisogni che in realt non esistono. Aver considerato il minore che delinque semplicemente un immaturo ha voluto dire deresponsabilizzare "tutte le parti in gioco nella giustizia minorile: le istituzioni primarie e secondarie e quindi, in particolare, la famiglia, i giudici, gli operatori e gli stessi minori". (80) La questione sta, invece, nel considerare il minore un soggetto responsabile, perch solo cos possibile dare al minore un'immagine positiva di s e responsabilizzarlo. Presupporre la responsabilit "in ogni caso e per ogni et significa costruirla socialmente e individualmente, come norma implicita, come regola di base, come aspettativa diffusa, come atteggiamento e capacit sul piano psicologico"; e questo perch la responsabilit non "un dato istintuale" o "una tappa evolutiva autonoma", ma "un'invenzione culturale, un elemento base del processo di inculturazione delle nuove generazioni". (81) Da questo deriva l'idea che occorre presupporre sempre e comunque la responsabilit del minore: la punizione deve prescindere dalle caratteristiche della personalit del minore per concentrarsi unicamente sul reato, ovvero deve essere irrogata nei confronti di un comportamento non pi visto come manifestazione di una personalit deviante, ma solo come fatto da contrastare. Ci comporta, necessariamente, un ampliamento dell'imputabilit del minore almeno per alcuni reati. I sostenitori di questa posizione, se da una parte auspicano il ritorno ad una maggiore corrispondenza fra reato e tipo di pena per promuovere la responsabilizzazione del minore, dall'altra sono favorevoli a un'ampia depenalizzazione - per ridurre il contatto dei minori con il mondo della giustizia - e ad una pi marcata distinzione tra interventi di aiuto e di sostegno e interventi sanzionatori. Questo si traduce nella richiesta di trasformazione dell'attuale sistema sanzionatorio, da attuarsi soprattutto attraverso la creazione di misure penali alternative alla detenzione. Come hanno rilevato Bandini e Gatti, questo dibattito ha avuto il merito "di chiarificare alcuni termini del problema che in passato erano stati spesso offuscati dalle prospettive unilaterali e acritiche della rieducazione". (82) Ma lo stesso Gatti ritiene che se, da un lato, "l'attribuzione di un nuovo significato positivo alla pena dovrebbe indurre in alcuni operatori e in una parte dell'opinione pubblica una maggiore consapevolezza sulle responsabilit sociali che si hanno nei confronti dei giovani", (83) dall'altro, l'ampliamento dell'imputabilit del minore potrebbe, di fatto, condurre a risvolti reazionari e maggiormente repressivi e punitivi, soprattutto nei confronti dei giovani "maggiormente deprivati da un punto di vista sociale ed economico", (84) facendo crescere in modo considerevole il numero di carcerazioni: " vero, infatti, che i fautori del nuovo orientamento richiedono punizioni diverse dal carcere, ma ci appare, a breve termine, di difficile realizzazione e vi il rischio che un programma basato sulla valorizzazione della pena venga utilizzato all'interno di un'ideologia di tipo reazionario". (85) Secondo l'analisi di Gatti: la pena pu essere considerata inevitabile, per motivi di convivenza sociale, ma difficilmente se ne intravede un effetto positivo diretto per il soggetto che vi sottoposto. Oltre tutto il fatto di puntare su una funzione positiva della pena suona particolarmente stridente in un paese come l'Italia, ove i minori sono sottoposti a un regime detentivo del tutto inumano, privo di rispetto per i loro diritti, distorto nei suoi aspetti processuali e incapace, ormai da decenni, di una seppur minima evoluzione. (86)
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L'obiettivo sembra, quindi, quello di ridurre al massimo il ricorso al sistema penale, senza per ricadere nel sistema rieducativo.

2. L'affermazione internazionale dei diritti del minore


La previsione di una soglia minima di et, la differenziazione del trattamento nel processo e nel sistema sanzionatorio tra minori e adulti, nonch la specializzazione dell'organo giudicante costituiscono ormai punti fermi della cultura minorile, entrati a far parte anche della normativa internazionale. I primi passi a livello internazionale verso un nuovo modo di concepire il minore come soggetto di diritti sono stati mossi nel 1912, quando durante una Conferenza di diritto privato tenutasi all'Aja fu approvata una Convenzione sulla tutela del minore, e nel 1913, anno in cui una Conferenza internazionale per la protezione dell'infanzia svoltasi a Bruxelles promosse la cooperazione internazionale in questo settore. La prima guerra mondiale interruppe, per, questo processo di rinnovamento in campo minorile, che fu ripreso alla fine della guerra con ancora pi forza, soprattutto grazie all'intervento dell'OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro). (87) Tale organizzazione, nel 1919, fiss l'et minima per accedere al lavoro nelle industrie a 14 anni e viet il lavoro notturno per i minori di diciotto anni. Ma il documento che rappresenta "la chiave di volta che rovesci completamente la vecchia logica che aveva finora costituito la base dei precedenti ordinamenti giuridici" (88) , senza dubbio, la Dichiarazione dei diritti del fanciullo, nota come la Dichiarazione di Ginevra, approvata dalla Societ delle Nazioni il 24 settembre 1924. Con questo documento vengono, per la prima volta, affermati alcuni diritti fondamentali, tra i quali quello di avere un processo formativo normale che metta il fanciullo nelle condizioni di poter sviluppare a pieno le sue potenzialit (art. 1). La seconda guerra mondiale provoc un nuovo arresto dei lavori ma, allo stesso tempo, portando all'esasperazione anche i problemi della condizione minorile, fu la causa di un mutato interesse nei confronti del minore. Nel 1948 fu approvata la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, con la quale si riconoscevano nuovi diritti quali, ad esempio, quelli al lavoro, alla salute e al riposo, senza, per, dedicare molta attenzione alla questione minorile. Nella Dichiarazione sono tuttavia contenuti alcuni principi i quali, bench non espressamente rivolti ai minori, sono ad essi direttamente collegati. In particolare, si pu richiamare l'art. 1 che afferma l'uguaglianza e la libert degli esseri umani tutti, a prescindere dall'et, e l'art. 26 che, configurando il diritto all'istruzione come strumento per il raggiungimento del pieno sviluppo della persona umana, si rivolge specificatamente ai minori. (89) Sempre nel 1948 il Consiglio generale dell'Unione internazionale della protezione dell'infanzia approv un'integrazione alla Dichiarazione del '24, nella quale si affermava il diritto del bambino ad essere protetto indipendentemente dalla razza, dalla nazionalit e dalla fede (art. 1), si sanciva il diritto del fanciullo ad essere aiutato nel rispetto dell'integrit della famiglia (art. 2), e si stabiliva il principio di rieducazione del bambino "deficiente" o "disadattato" (art. 4). Il 20 settembre 1959 si giunse, dopo una lunga fase di elaborazione iniziata nel 1950, alla approvazione della nuova Dichiarazione sui diritti del fanciullo. In seguito sono stati emanati altri importanti documenti, alcuni specifici ed altri no, ma l'affermazione, a livello internazionale, dei principi essenziali nell'ambito della materia minorile ha trovato esplicito riconoscimento nelle Regole minime per l'amministrazione della giustizia minorile, approvate al IV Congresso delle Nazioni Unite nel novembre del 1985. Queste cosiddette Regole di Pechino, che costituiscono peraltro la fonte pi prossima alla quale si ispirato il nostro processo minorile, contengono una serie di significative enunciazioni, tra le quali possiamo ricordare le seguenti: a. in quei sistemi giuridici che riconoscono la nozione di soglia della responsabilit penale, tale inizio non dovr essere fissato ad un limite troppo basso, tenuto conto della maturit effettiva, mentale ed intellettuale (art. 4); b. un minore un ragazzo o una giovane persona che, nel rispettivo sistema legale, pu essere imputato per un reato, ma non penalmente responsabile come un adulto (art. 2.2.a); c. il sistema di giustizia minorile deve avere per obiettivo la tutela del giovane ed assicurare che la misura adottata nei confronti del giovane sia proporzionale alle circostanze del reato e all'autore dello stesso (art. 5); d. devono essere assicurate sempre garanzie procedurali di base [...] e nessuna disposizione di queste regole deve essere interpretata come preclusiva della possibilit di applicare ai giovani le regole minime delle Nazioni Unite per il trattamento dei detenuti e le altre regole relative ai diritti dell'uomo (artt. 7 e 9). Le Regole di Pechino sono il frutto di un compromesso tra varie filosofie di intervento penale sul minore deviante, esistenti nel panorama mondiale. In particolare, il documento risente di almeno tre diversi modelli di giustizia minorile: a) un modello fondato sulla garanzia giurisprudenziale, che ponga il minore sotto la protezione di norme legali e su garanzie nei confronti del minore coinvolto in una procedura giudiziaria; b) un modello protettivo, fondato sul principio parens patriae, volto ad assicurare al minore in contatto con la giustizia la giusta protezione sociale ed economica; c) un modello cosiddetto "partecipativo", secondo il quale la giustizia per i minori esige la partecipazione attiva della collettivit per limitare il disadattamento minorile; tale modello prevede l'inserimento dei giovani emarginati o delinquenti nella societ e la riduzione al minimo dell'intervento formale del giudiziario nei confronti del minore. (90) Successivamente anche il Consiglio Europeo ha redatto una Raccomandazione sulle risposte sociali alla delinquenza

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minorile (R(87)20, Strasburgo, 17 settembre 1987). Il 20 settembre del 1989 stata, inoltre, approvata la Convenzione dell'ONU sui diritti del bambino, (91) la quale ha valore vincolante per gli Stati che l'hanno ratificata. Le principali idee-forza espresse nel documento, il quale consta di 54 articoli, sono: "il riconoscimento della famiglia come ambiente primario di sviluppo per il minore; l'identificazione del bisogno del minore ad essere educato ed aiutato a vivere nella societ; la dichiarazione che il minore portatore e titolare di tutti i diritti civili e sociali riconosciuti all'uomo; il riconoscimento della necessit di tutelare situazioni particolari che possono creare svantaggio o disagio nel soggetto in et evolutiva". (92) In particolare presenta un certo rilievo l'art. 37, il quale stabilisce che il minore non pu essere soggetto n a pena capitale n all'ergastolo; il bambino, inoltre, non pu essere privato della sua libert in modo arbitrario o illegale e, qualora sia privato della libert, deve essere trattato con umanit e nel rispetto della dignit della sua persona e secondo condizioni adeguate alla sua peculiare situazione di soggetto in et evolutiva; pertanto deve essere tenuto separato dagli adulti. Infine, l'intervento penale nei confronti dei minori deve avere principalmente obiettivi educativi tesi alla promozione della sua persona e del senso della sua dignit e del suo valore. Con questa Convenzione si provveduto anche all'istituzione di un organismo di controllo, il quale ha il compito di sorvegliare e garantire il rispetto dei diritti dei bambini da parte degli Stati ratificanti. Nell'ambito del VIII Congresso ONU sulla prevenzione dei reati e sulla protezione del minore, nel 1990 si giunti all'elaborazione delle Direttive delle Nazioni Unite per la prevenzione della delinquenza minorile (Direttive di Riyadh), ed stato disposto un Regolamento delle Nazioni Unite per la protezione dei minori deprivati delle loro libert. Si tratta di due documenti che si pongono in linea con quanto gi espresso nelle Regole minime di Pechino e nella Convenzione dell'ONU del 1989 sui diritti del bambino, ma che hanno una certa importanza per aver evidenziato delle specifiche linee programmatiche di intervento per le politiche degli Stati. Concludendo, possiamo dire che, in questi ultimi anni, il diritto internazionale ha promosso una cultura dell'infanzia fondata sull'affermazione della dignit dell'essere in ogni et e in ogni condizione e ha favorito lo sviluppo di linee direttive per gli interventi a tutela e a promozione del minore. Nell'ambito della devianza minorile, ha accentuato la necessit di tener conto anche qui del maggiore interesse del minore, riconducibile, primariamente, al diritto all'educazione quale premessa al pieno sviluppo di una personalit armonica, e ha predisposto gli indirizzi per una pi equa e calibrata giustizia nelle direzioni principali del garantismo, del minimalismo e della depenalizzazione. (93)

Note
1. Appunti di storia del diritto italiano, raccolti alle lezioni del prof. Vincenzo Mancini dagli studenti Leonello d'Aloja e Dante Gaeta, Cedam, Padova 1932, p. 74. 2. Sull'argomento vedi Ignazio Baviera, Diritto minorile, II, Giuffr, Milano 1976, p. 31. 3. Sul tema: Mario Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Giuffr, Milano 1990, p.156; Alberto Burdese, voce Et (dir. rom.), in Enc. dir., XVI, 1967, p. 79. 4. Il codex ha abolito la distinzione che veniva fatta nell'antico diritto tra due specie di impuberi, quelli proximi infantiae e quelli proximi pubertati, e ha stabilito espressamente al can. 2204 che la loro responsabilit, sia morale che penale, sussiste sicuramente una volta raggiunto l'usus ragionis col settennio; ma tale responsabilit deve giudicarsi attenuata eoque magis quo ad infantiam proprius accedit e che pertanto, bench sottoposti alle leggi ecclesiastiche, anche negli effetti penali, devono essere risparmiate loro censure e pene vendicative pi gravi, a favore di punizioni educative (Pietro Agostino d'Avack, voce Et (dir. can.), in Enc dir., XVI, 1967, p. 100). 5. Si veda: Vincenzo Manzini, Trattato di diritto penale italiano, vol. II, Utet, Torino 1981, p. 75-76; Ugo Gualazzini, voce Et (dir. interm.), in Enc. dir., XVI, 1967, p. 84. 6. Baviera ricorda a questo proposito "le sentenze dell'Old Bailey (la Corte centrale criminale di Londra) che nel 1833 condannava un ragazzo di nove anni ad essere appeso al collo fino alla morte perch responsabile di aver sfondato con un bastone una vetrina; la sentenza di una corte inglese del 1899 che condannava ai lavori forzati due ragazzi, di undici e tredici anni, per aver danneggiato una porta". (I. Baviera, Diritto minorile, cit., p. 166). 7. Gian Paolo Meucci, Repressione e comunit: esperienze di un giudice dei minori, in AA. VV., Minori in tutto. Un'indagine sul carcere minorile in Italia, Atti del Convegno giovanile Pro Civitate Christiana, Assisi 27-31 dicembre 1973, Emme Edizioni, Milano 1974, pp. 58-59. 8. Alfredo Carlo Moro, I diritti inattuati del minore, La Scuola, Brescia 1983, pp. 31-54. 9. Lorena Milani, Devianza minorile, Vita e pensiero, Milano 1995, pp. 140 e 164. 10. Ivi, pp. 136-137. 11. Philippe Aris, Padri e figli nell'Europa medievale e moderna, Laterza, Bari 1981, p. 483. 12. Jean Pierre Gutton, La societ e i poveri, Mondatori, Milano 1977, pp. 99-125. 13. G. De Leo, La giustizia dei minori. La delinquenza minorile e le sue istituzioni, Einaudi, Torino, 1981, p. 29. 14. B. Ballavate, L'adolescenza nella storia, in AA. VV., La condizione giovanile, Cooperativa centro di documentazione, Pistoia 1939, p. 124. 15. Vanna Nuti, Discoli e derelitti. L'infanzia povera dopo l'Unit, La Nuova Italia, Firenze 1992, p. 99. 16. Ivi, p. 100.
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17. L. Milani, op. cit., p. 143. 18. Il testo integrale del Motu proprio riportato in Riv dir. penit., 1934, II, p. 786. 19. Ivi, p. 787. 20. Gaetano De Leo, La giustizia dei minori, cit., p. 33. 21. R. Villa, Il deviante e i suoi segni Lombroso e la nascita dell'antropologia criminale, Franco Angeli, Milano 1985, p. 24. 22. L. Milani, op. cit., p. 53. 23. M. Beltrani-Scalia, La riforma penitenziaria in Italia, Giunti Martello, Roma1879, pp. 328 e ss. 24. L. Milani, op. cit., pp. 147- 152. 25. V. Nuti, Discoli e derelitti, cit., p. 113. 26. L. Milani, op. cit., pp. 153-154. 27. Jack Wright, Ralph James, Trattamento e prevenzione della devianza minorile. Un approccio comportamentale, Giuffr, Milano 1982, pp. 78-79. 28. In Europa il primo Stato ad avere istituito un tribunale per i minorenni stato, nel 1912, il Belgio; seguirono poi la Francia nello stesso anno, l'Olanda nel 1921 e la Germania nel 1922. 29. Fanny Dalmazzo, La tutela sociale dei fanciulli abbandonati o traviati, F.lli Bocca, Milano-Torino-Roma 1910, pp. 97-101. 30. Da un'indagine condotta dalla Societ delle Nazioni, nel 1931 ben trenta Stati avevano gi provveduto all'istituzione di un tribunale per i minorenni (I. Baviera, Diritto minorile, cit., p. 171). 31. Art. 222 del Codice Civile del Regno D'Italia del 1865. 32. M. Beltrani-Scalia, La riforma penitenziaria in Italia, Giunti Martello, Roma1879, p. 332. 33. G. De Leo, La giustizia dei minori, cit., p. 37. 34. Ivi, p. 41. 35. Legge sulla pubblica sicurezza del 30 giugno 1889, Regi Decreti 8 novembre 1889, 19 novembre 1889, 12 gennaio 1890, Pietrocola, Napoli 1908. 36. Questi istituti privati, che erano soprattutto religiosi, ma ve ne erano anche di laici, si distinguevano per il fatto di risultare ispirati a principi pi umanitari rispetto a quelli governativi (V. Nuti, Discoli e derelitti, cit., p. 100). 37. L. Milani, op. cit., p. 157-158. 38. G. De Leo, La giustizia dei minori, cit., p. 42-45. 39. Cio, entro i limiti di pena aumentati del doppio rispetto a quelli previsti in linea generale, di sei mesi. 40. Mario Pisani, Il Tribunale per i minorenni in Italia, in Ind. pen., 1972, p. 233. 41. O. Quarta, L'incremento e il trattamento della delinquenza dei minori, in Sc. pos., 1908, pp. 5-7. 42. Luisa De Cataldo Neuburger, Analisi storico giuridica del sistema e del processo penale minorile, in Nel segno del minore (a cura di L. De Cataldo Neuburger), Cedam, Padova 1990, p. 16. A questo proposito De Leo mette in evidenza la "coincidenza [...] fra la creazione delle nuove forme istituzionali per il controllo di nuove categorie di giovani e l'aumento progressivo dell'allarme sociale rispetto al fenomeno della delinquenza minorile": la societ si sarebbe preoccupata per i minori abbandonati, vagabondi, prostituti, discoli, ladri, ecc., ma "con l'istituzionalizzazione di queste categorie di minori, la preoccupazione diventa allarme e l'oggetto di tale allarme si definisce direttamente e semplicemente in termini di delinquenza". Cos la delinquenza aumentava "sia perch veniva vista aumentare a causa dell'ottica che era stata adottata, sia perch veniva fatta aumentare a causa della politica istituzionale che era stata scelta" (G. De Leo, La giustizia dei minori, cit., pp. 45-46). 43. Il testo della circolare riportato in G. Novelli, Note illustrative del regio decreto 20 luglio 1934, n. 1404, su l'istituzione e il funzionamento del Tribunale per i minorenni, in Riv. dir. penit., 1934, II, p. 802. 44. Per sottolineare l'importanza di una magistratura per i minori, Pisani fa notare come, nel corso dei lavori preparatori del progetto Quarta, si sia posto l'accento sul peso dei metodi processuali ordinari sul fenomeno della delinquenza minorile, "dal momento che il minorenne viene sottoposto alla giurisdizione dello stesso giudice, che deve valutare la responsabilit dei delinquenti di et maggiore, ed esposto ad un apparato esteriore e a solennit di forme, che lasciano nell'animo di lui profonde e funeste impressioni. Per converso l'istituzione di una magistratura speciale veniva definita condizione necessaria per informare ad un concetto razionale e concreto il trattamento della delinquenza dei minorenni" (M. Pisani, Il Tribunale per i minorenni in Italia, in Ind. pen., 1972, p. 235). 45. Circolare del Ministro della Giustizia V.E. Orlando, in Riv. di dir. penit., 1934, II, p. 802. Cfr. I. Baviera, Diritto minorile, Giuffr, Milano1976, p. 172-173. 46. D. Izzo, Il trattamento dei minorenni delinquenti dalla circolare Orlando al progetto Ferri, in Rass. studi penit., 1957, p. 170. 47. Cfr. I. Baviera, Diritto minorile, cit., p. 173-176. 48. Tra gli altri, si pu menzionare a titolo di esempio il "I Congresso internazionale per l'infanzia", tenutosi a Firenze nell'ottobre del 1896 su iniziativa di Adolfo Scander Levi, fondatore anche di un'associazione per l'infanzia (V. Nuti, Discoli e derelitti, cit., p. 132-138).
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49. L. Milani, op. cit., p. 160, dove viene riportata anche la posizione critica di Gian Paolo Meucci nei confronti delle vere motivazioni che presiedettero alla costituzione del giudice dei minori: "nessuno, salvo qualche pia dama della San Vincenzo, pu accettare l'idilliaca presentazione delle motivazioni che presiedettero alla costituzione del giudice dei minori, per le quali solo il desiderio di essere amorevolmente vicini ai bisogni dei ragazzi, di mitigare l'asprezza delle pene, di evitare loro il carcere o addirittura la pena di morte, sarebbero stati presenti nei sostenitori del movimento che condusse alla costituzione di tale giudice [...]. Un tale peccato di origine presiede ad un'istituzione che assunse aspetti di repressivit mistificati dalla volont di un 'far bene' ai ragazzi che poi era un far bene all'adulto e alla sua struttura sociale nella quale i rapporti di potere esistenti imponevano condizionamenti crescenti". 50. Ivi, p. 161. 51. Relazione al progetto Ferri, in Riv. dir. penit., 1934, II, p. 808. 52. G. De Leo, La giustizia dei minori, cit., p. 50. 53. Circolare del Ministro Guardasigilli Rocco, n. 2236, del 22 settembre 1929, in Boll. Uff. del Ministero della Giustizia e degli Affari di culto, 1929, p. 766. 54. La istituzione dei magistrati per i minorenni viene limitata ai principali centri urbani, giacch noto che il fenomeno della delinquenza minorile quasi esclusivamente delle citt [...]. Ci non esclude che anche negli altri centri giudiziari, i presidenti delle Corti d'appello, dei tribunali e i pretori, debbano curare di destinare per i minorenni, volta per volta, speciali udienze, anticipando, cos, l'attuazione della gi menzionata norma del progetto del nuovo codice di rito penale (Alfredo Rocco, ivi, p. 766). 55. G. De Leo, La giustizia dei minori, cit., pp. 52-53. 56. F. Mantovani, Diritto penale, Cedam, Padova 1992, p. 842. 57. Relazione ministeriale sul progetto definitivo di un nuovo codice penale, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. V, 1929, p. 220. 58. Boll. Uff. del Ministero di Grazia e Giustizia, 1933, p. 234. 59. M. Pisani, Il Tribunale per i minorenni in Italia, in Ind. pen., 1972, p. 240. 60. S. Di Nuovo, G. Grasso, Diritto e procedura penale minorile, Milano 1999. 61. L. Milani, op. cit., p. 162. 62. Nel 1956, con la legge n. 1441, fu modificata la composizione dell'organo giudicante, perch si ritenne necessario affiancare al privato cittadino, di sesso maschile, una donna, ricreando in qualche modo la compagine genitoriale. Questo comport che il collegio di primo grado fosse composto da quattro membri, numero che non consentiva la formazione numerica di una tesi di maggioranza. Ma di questo i legislatori non si preoccuparono, perch quello che pi premeva era l'idea di riprodurre nell'organo giudicante l'atmosfera della famiglia, fondata anche sulla complementariet tra la psicologia tipica dei due sessi. Cfr. J. Watson, Il fanciullo e il magistrato, Garzanti, Milano 1950, p. 20. 63. L. Milani, op. cit., p. 163-164. 64. Ivi, p. 179. 65. Circolare 7 febbraio 1957, n. 721/ 3196. 66. Tamar Pitch, Responsabilit limitate, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 122-123. 67. G. De Leo, M.P. Cuomo, La delinquenza minorile come rappresentazione sociale, Marsilio, Venezia 1983, pp. 6768. 68. G. Senzani, L'esclusione anticipata, Jaca book, Milano 1970, p. 463: "negli istituti i minori sono divisi in gruppi di 20/30 ragazzi [...], affidati [...] ad un solo agente [...] per cui, di fatto, impossibile il trattamento rieducativo". 69. G. De Leo, La giustizia dei minori, cit., pp. 14-15. 70. Ivi, p. 62. 71. G. Senzani, L'esclusione anticipata, cit., p. 464. 72. G. De Leo, La giustizia dei minori, cit., p. 62. 73. Tullio Seppilli, Devianza e controllo sociale, in Minori in tutto, Emme Edizioni, Milano 1974, pp. 22-23. 74. Tullio Bandini, Umberto Gatti, Il controllo sociale dei giovani, in Giovani, responsabilit e giustizia (a cura di Gianluigi Ponti), Giuffr, Milano 1985, p. 90. 75. T. Seppilli, Devianza e controllo sociale, in Minori in tutto, cit., p. 23. 76. Ivi, p. 25. 77. Fernanda Rizzo, Adolescenze al limite, Pensa Multimedia, Lecce 1999, p. 36. 78. G. De Leo, Azione deviante, responsabilit e norma: proposta per un nuovo schema concettuale, in De Leo (a cura di), L'interazione deviante. Per un orientamento psicosociologico al problema norma-devianza e criminalit, Giuffr, Milano 1981, p. 12. 79. G. De Leo, La natura del rapporto tra giovani e istituzioni nella legislazione penale minorile, in Dei delitti e delle pene, 1983, 2, p. 239. 80. Ibidem.

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81. G. De Leo, Azione deviante, responsabilit e norma: proposta per un nuovo schema concettuale, cit., p. 19. 82. Tullio Bandini, Uberto Gatti, La minore et, in Guglielmo Gulotta (a cura di), Trattato di psicologia giudiziaria, Giuffr, Milano 1987, p. 878. 83. Uberto Gatti, I diritti del minore nell'ambito penale, in G.B. Traverso (a cura di), Criminologia e psichiatria forense, Giuffr, Milano 1987, p. 490. 84. Ivi, p. 491. 85. Ivi, p. 489. 86. Ibidem. 87. G. Conetti, Le fonti internazionali, in P. Cendon (a cura di), I bambini e i loro diritti, Il Mulino, Bologna 1991, p. 33. 88. L. Milani, Devianza minorile, cit., p. 167. 89. Maria Rita Saulle, Le dichiarazioni internazionali a tutela dei minori e il progetto di Convenzione sui diritti del bambino, in Il bambino incompiuto 1989, I, pp. 7-9. 90. Gilda Scardaccione, Una strategia di intervento per la prevenzione e la tutela dei diritti del minore, in Esperienze di giustizia minorile 1986, 1, pp. 9-10. 91. Con il termine bambino, ai sensi della Convenzione, ci si riferisce ad ogni essere umano al di sotto del diciottesimo anno di et a meno che, secondo le leggi del suo paese, non abbia raggiunto prima la maggiore et. 92. L. Milani, Devianza minorile, cit., pp. 174-175. 93. L. Milani, op. cit., p. 178. L'altro diritto - Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalit - ISSN 1827-0565

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Capitolo IV L'imputabilit del minore


Alla fanciullezza succede l'adolescenza, che tutti amano, tutti favoriscono, tutti proteggono. Ma donde viene all'adolescenza questa sua grazia? Da me (la follia) naturalmente, che le consento di vivere il meno saggiamente e quindi anche il meno affannosamente possibile. innegabile che, non appena, diventati pi grandi, cominciano ad imparare qualche cosa, per la pratica del mondo o per lo studio, a poco a poco gli adolescenti perdono le loro belle forme, la vivacit, la vigoria. Erasmo da Rotterdam

1. L'imputato minorenne nell'ordinamento italiano


1.1. Generalit
Sulla base della considerazione che il minore non ha ancora raggiunto un grado di sviluppo fisico e psichico tale da poter comprendere il valore etico-sociale delle proprie azioni, da distinguere ci che giusto da ci che ingiusto, anche il nostro codice annovera la minore et tra le cause di esclusione dell'imputabilit. Ma qual il limite di et a partire dal quale si pu ritenere il soggetto capace di intendere e di volere? Se ci limitassimo semplicemente a seguire l'orientamento proprio delle scienze psicologiche, dato che l'et della maturazione psichica non uguale per tutti ma varia da persona a persona, si procederebbe ad un accertamento caso per caso. Ci sono per esigenze giuridiche di certezza, uguaglianza e praticit dell'accertamento che impongono l'adozione di un criterio cronologico, il quale, sulla base dei dati offerti dall'esperienza, deve essere altamente presuntivo della raggiunta maturit. Una prima acquisizione fatta riguarda la non necessaria coincidenza tra la maturit fisica e quella psichica. Se infatti abbiamo assistito ad un'anticipazione di 2-3 anni dello sviluppo puberale e intellettuale, questa non stata accompagnata da una maturazione affettiva, per cui "l'et evolutiva si protrae nel periodo post-adolescenziale, concludendosi con la raggiunta maturit tra i 18 e i 25 anni, a seconda della costituzione, della razza, della religione, ecc.". (1) Per quanto riguarda la situazione italiana preunitaria, il codice penale sardo del '59 considerava imputabili i quattordicenni e prevedeva nei confronti dei minori di tale et un accertamento individuale per verificarne in concreto la capacit o meno di discernimento; i codici parmense ed estense, invece, fissavano il limite della minore et a dieci anni. Il Codice Zanardelli, come abbiamo detto, considerava non imputabili i minori di nove anni e poi prevedeva delle fasce di et (9-14, 14-18, 18-21) per le quali l'imputabilit era o subordinata alla prova del discernimento o diminuita. Gi molte legislazioni straniere della prima met del '900 avevano elevato la soglia dell'imputabilit all'et di 13, 14 o 15 anni. Ma altre, ancora pi di recente, hanno elevato ulteriormente l'inizio dell'imputabilit, facendola cominciare a 16 anni, come per il codice russo del 1960, a 17 anni, come prevede il codice polacco del 1970 oppure addirittura a 18 anni, come fa il codice brasiliano. Accanto a questi esempi possiamo trovare un'eccezione, rappresentata dal codice di San Marino del 1975 che, in considerazione della precocit dei giovani d'oggi, ha abbassato all'et di dodici anni l'imputabilit assoluta. Il Codice Rocco ha innanzitutto elevato, rispetto al suo predecessore, il limite della non imputabilit assoluta a 14 anni, "elevamento [...] giustificato dalla necessit di fondare l'imputabilit sulla certezza che l'agente abbia la capacit di intendere e di volere, e tale certezza, secondo i pi recenti studi, devesi senz'altro escludere fino agli anni quattordici per tutti i minori". (2) In secondo luogo ha fissato il termine della minore et e l'inizio della piena imputabilit a diciotto anni compiuti. La maggiore et penale corrisponde quindi, oggi, a quella stabilita per la completa maturit dal diritto pubblico e dal diritto privato, evitando cos il divario presente, invece, sotto il Codice Zanardelli, il quale fissava la maggiore et ai fini non penali a 21 anni. Infine i minorenni sono divisi in due categorie: i minori di quattordici anni e i minori fra i quattordici e i diciotto anni. Mentre i primi sono considerati assolutamente incapaci di intendere e di volere, i secondi sono soggetti ad un accertamento della loro imputabilit o non imputabilit da parte del giudice. L'imputabilit del minore risulta quindi subordinata ad un criterio cronologico: a. fino a quattordici anni il minore non mai imputabile, perch nei suoi confronti prevista una presunzione assoluta di incapacit, senza cio prova contraria. L'art. 97 stabilisce, infatti, che non imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni; b. fra i quattordici e i diciotto anni il minore imputabile solo se il giudice ha accertato che al momento del fatto aveva la capacit di intendere e di volere. L'art. 98 rinuncia, infatti, a qualsiasi presunzione e subordina l'eventuale affermazione della responsabilit penale al concreto accertamento della capacit naturale: imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto quattordici anni, ma non ancora diciotto, se aveva la capacit di intendere e di volere.

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1.2. L'articolo 97 del codice penale


L'art. 97 pone una presunzione assoluta di non imputabilit che prescinde dall'effettivo riscontro della capacit di intendere e di volere e che quindi non pu essere superata neanche se il minore infraquattordicenne si presenta, di fatto, perfettamente capace. "Siamo di fronte ad una presunzione iuris et de iure di incapacit, in quanto il giudice, quando abbia costatato la minore et dell'imputato, non pu sostituire alla volont del legislatore un proprio convincimento positivo in merito alla presenza dell'imputabilit". (3) Si potrebbe dire che questa l'unica causa di esclusione dell'imputabilit apparentemente costruita non in relazione al concetto di capacit di intendere e di volere, bens sulla base di un dato puramente formale quale l'et anagrafica. Per evidente che il legislatore ha escluso l'imputabilit del minore di quattordici anni proprio perch, sulla base dell'id quod plerumque accidit, ragionevole pensare che questi, in ragione della sua giovanissima et, sia sfornito di detta capacit. Se indubbiamente - come sottolinea Bettiol - tale limite di et piuttosto elevato, esso per in linea con le risultanze della dottrina italiana e straniera. Qui in realt si considera esclusa non tanto la capacit di intendere, che solitamente viene acquisita molto prima di compiere quattordici anni, quanto piuttosto quella di volere, dalla quale, infatti, si fa dipendere la formazione del carattere e della personalit. E, dal momento che la personalit del minore di quattordici anni ancora in fieri, si cerca di non impedirne il regolare sviluppo prevedendo, appunto, la non applicazione della sanzione penale. Senza dubbio pu capitare che in certi casi la presunzione di non imputabilit prevista dall'art. 97 risulti "gravosa perch in contrasto con la realt naturalistica, ma giuridicamente non vi nulla da fare: tanto pi elevato il limite di et al quale si vuole riferire l'incapacit, tanto pi gravosa la presunzione". (4) La presunzione di non colpevolezza dell'art. 97 insuperabile nei confronti di chi non abbia ancora quattordici anni, quindi non possono essere adottate nei suoi confronti misure penali che implichino un addebito di responsabilit; se, per ipotesi, ci accadesse e venisse pronunciata una condanna a carico del minore, la sentenza dovrebbe considerarsi inesistente, e tale inesistenza, secondo la giurisprudenza prevalente, (5) pu essere rilevata anche dal giudice dell'esecuzione. Diverso il caso in cui la condanna sia stata emessa non per omessa considerazione dell'et inferiore ai quattordici anni dell'autore del reato, ma sulla base di un erronea indicazione della data di nascita. In questo caso, bisogna distinguere due ipotesi: se si trattato di un errore materiale di indicazione negli atti processuali, ma il procedimento si comunque svolto nella consapevolezza del fatto che si trattava di un infraquattordicenne, lo stesso giudice che emette la sentenza a procedere alla correzione dell'errore; se, invece, il rinvenimento dell'atto di nascita successivo o successiva la scoperta della falsit dell'atto stesso, la soluzione pi corretta sembrerebbe quella della revisione del processo, dal momento che occorre una nuova valutazione degli atti alla luce delle nuove circostanze. Ai sensi dell'art. 26 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 448 del 22 settembre 1988 il giudice, in ogni stato e grado del procedimento, quando accerta che l'imputato minore degli anni quattordici, pronuncia, anche d'ufficio, sentenza di non luogo a procedere trattandosi di persona non imputabile. Nonostante la sua apparente chiarezza, l'art. 26 ha sollevato alcuni dubbi. In particolare il problema se questa norma imponga sempre e comunque, laddove il fatto sia addebitato al minore infraquattordicenne, di dichiarare la non imputabilit mediante sentenza, o se si possa utilizzare anche il decreto di archiviazione, il quale, tra l'altro, evita l'iscrizione nel casellario giudiziale Se, infatti, la individuazione della natura del provvedimento (sentenza) non d adito ad incertezze quando a provvedere il giudice dell'udienza preliminare o del dibattimento, il problema nasce quando il pubblico ministero si sia accorto, nel corso delle indagini, della non imputabilit dell'indagato e abbia richiesto al giudice per le indagini preliminari - organo monocratico - espressa declaratoria di non imputabilit. Mentre la giurisprudenza, infatti, sembra prevalentemente orientata verso un'applicazione letterale della norma e quindi, conseguentemente, verso l'adozione di sentenze di non luogo a procedere per difetto di imputabilit, indipendentemente dallo stato e grado del procedimento, (6) la dottrina, invece, pare orientata in senso opposto: il giudice per le indagini preliminari, in presenza di un minore di quattordici anni, anche se il pubblico ministero erroneamente richiede sentenza di non luogo a procedere per non imputabilit, dovrebbe adottare decreto di archiviazione per infondatezza dell'accusa, potendo emettere sentenza di non luogo a procedere solo nei casi in cui la declaratoria di non imputabilit sia successiva all'effettivo esercizio dell'azione penale. (7) La differenza tra le due opzioni processuali non meramente formale, potendo essere diverse le conseguenze delle due pronunce, ad esempio, in tema di giudicato. mentre, infatti, la pronuncia di archiviazione non impedisce un nuovo esercizio dell'azione penale, ove venga accertata ad esempio la falsit dell'atto di nascita, la sentenza passata in giudicato ostativa a nuovi accertamenti per il principio del ne bis in idem di cui all'art. 649 c.p.p. La Corte di Cassazione nel 1993, per la prima volta, ha affermato che "il difetto di imputabilit del minore degli anni quattordici non rientra nei casi di improcedibilit per i quali, ai sensi ai sensi degli artt. 408 e 411 c.p.p., deve procedersi con decreto di archiviazione, ma nella previsione dell'art. 425 c.p.p., anche per il raccordo sistematico tra tale disposizione e l'art. 26 d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448". (8) Nel 1997 ha ribadito tale orientamento statuendo che l'art. 26 del D.P.R. del 1988 "impone al giudice che accerta la minore et del soggetto l'obbligo di pronunciare, immediatamente, anche d'ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, sentenza di non luogo a procedere per non imputabilit. Secondo la Corte Suprema, la ratio della norma va individuata nell'esigenza dell'immediata declaratoria della non imputabilit, senza distinzioni arbitrarie tra fase procedimentale e fase processuale, vertendosi in tema di minore et che, essendo ablativa di ogni potere di azione e di giurisdizione nei confronti della persona che non ha la legitimatio ad causam, rende illegittimo qualsiasi provvedimento diverso e abnorme il mantenere aperto un rapporto processuale che non doveva mai essere instaurato. (9) Posso aggiungere al riguardo che una ricerca condotta ultimamente presso il Tribunale per i Minorenni di Firenze mi ha consentito di rilevare che dall'aprile del corrente anno sembra aver preso corpo un orientamento costante nel senso di adottare la soluzione dell'archiviazione piuttosto che quella della sentenza di non luogo a procedere. Tale orientamento risulta condiviso dai Tribunali per i minorenni di Milano, Roma, Torino, Ancona, Cagliari e Trento, mentre l'analogo Tribunale di Venezia pare ancora attenersi al criterio della sentenza.

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Affinch venga pronunciato il proscioglimento per inimputabilit dell'agente, occorre, peraltro, che il fatto realizzato sia conforme al tipo legale e dunque, bench non colpevole, comunque antigiuridico. Tutto questo non vuol dire che il minore di quattordici anni, prosciolto per difetto di imputabilit, debba incondizionatamente essere lasciato libero anche se pericoloso: al minore non imputabile che viene contestualmente riconosciuto pericoloso pu essere applicata, infatti, una misura di sicurezza. (10) Perch possa essere stabilita una tale misura occorre, per, che la pericolosit sociale del minore sia stata concretamente accertata. Le presunzioni di pericolosit sociale sono state infatti abolite, dapprima in sede di giurisprudenza costituzionale, (11) poi anche in sede legislativa con la legge n. 663 del 10 ottobre 1986. Per quanto riguarda la nozione stessa di pericolosit del minore, bisogna fare riferimento all'art. 37, comma 2, del D.P.R. n. 448/1988, che stabilisce requisiti pi specifici rispetto a quelli che integrano la nozione comune di pericolosit sociale ricavabile dall'art. 203 del codice penale.

1.3. L'articolo 98 del codice penale


Per quanto concerne, invece, il minore che ha pi di quattordici anni, ma non ha ancora compiuto diciotto anni, il codice prevede che questi imputabile solo se, al momento in cui ha commesso il fatto, aveva la capacit di intendere e di volere. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che nei suoi confronti non opera nessuna presunzione, n di incapacit n di capacit, dovendo il giudice accertare volta per volta se il soggetto era imputabile o meno. Il non aver previsto una presunzione di imputabilit, ma l'aver previsto l'accertamento caso per caso dell'effettiva acquisizione della capacit di intendere e di volere, una specifica scelta del nostro legislatore. Alla base di questa scelta vi la consapevolezza che fra i quattordici e i diciotto anni vi pu essere la capacit di intendere e di volere necessaria per essere considerati penalmente responsabili delle proprie azioni, come vi pu non essere indipendentemente da patologie giuridicamente rilevanti - dato che si tratta di una fascia di et in cui i soggetti raggiungono la maturit richiesta ai fini penali in momenti diversi, a causa delle multiformi variet ambientali in cui si svolge tale processo di maturazione. Non manca chi intravede nell'art. 98 c.p. una presunzione di non imputabilit, affermando che "se in difetto di accertamento il giudice deve dichiarare la non imputabilit, non [...] sembra che occorra alcuna dimostrazione per concludere che siamo dinanzi a un caso di praesumptio iuris tantum". (12) Ma dottrina e giurisprudenza sono ormai da tempo concordi nel ritenere che, in questo caso, non ci sono presunzioni da vincere, ma un dubbio da risolvere ad opera del giudice, anche al di l di ogni attivit di parte. (13) L'assenza di alcuna presunzione appare suffragato dai lavori preparatori, nei quali si legge che, sebbene la Commissione parlamentare volesse una presunzione di capacit che imponesse l'onere di dimostrare l'incapacit, la scelta ultima fu diversa: il sistema prescelto dal codice nuovo non stabilisce alcuna presunzione, ma esige solamente che il minorenne abbia raggiunto una maturit tale da poterglisi riconoscere la capacit di intendere e di volere [...]. Non vi presunzione n di capacit n di incapacit; ma spetta al giudice convincersi della capacit o della incapacit dei singoli soggetti. Il magistrato, quindi, non costretto a condannare se l'incapacit non provata (come sarebbe se fosse ammessa una presunzione di capacit), ma pu liberamente ritenere (in base al proprio convincimento) non capace l'individuo anche se non sia stata fornita la prova della incapacit. (14) Se si esclude ogni presunzione, la conseguenza pi immediata che dovr necessariamente intervenire, di volta in volta, l'accertamento in concreto della capacit di intendere e di volere. La giurisprudenza, in linea con quanto appena detto, ha espresso tale principio affermando innanzitutto che l'art. 98 nella sua formulazione non stabilisce alcuna presunzione n di capacit n di incapacit, spettando al giudice di accertare in concreto se sussista nel minore [...] il grado di sviluppo psichico ed etico che il necessario presupposto dell'imputabilit, (15) e in secondo luogo che la capacit di intendere e di volere non si presume, ma deve essere [...] accertata caso per caso attraverso l'esame del soggetto. (16) Alla mancanza di presunzione si collega quindi la necessit di compiere l'accertamento dell'imputabilit, anche d'ufficio. Ma cosa succede nel caso in cui non venga fatta detta indagine? Qual la sanzione di ordine processuale prevista dall'ordinamento? La Cassazione parla, a questo proposito, di "nullit della sentenza" che non motivi sul punto (17) e, in un caso specifico, ha precisato che, sebbene si potesse presumere il compimento di una ricerca finalizzata a verificare l'imputabilit del soggetto, non risultando per formalmente dalla sentenza impugnata sebbene la questione avesse formato oggetto di specifica deduzione - la Suprema Corte non pu non constatare la carenza di motivazione sul punto dedotto, la quale, ex art. 475 c.p.p., rende nulla la pronuncia resa nel precedente grado di giudizio. (18) Solo quando, a causa del tempo trascorso dal fatto e dell'et raggiunta nel frattempo dall'imputato, l'accertamento risulta impossibile o non pu comunque essere espletato utilmente, l'imputato deve essere assolto quale persona non imputabile, senza bisogno di specificazioni. (19) La spiegazione da rinvenire non in una presunzione di imputabilit, ma nel fatto che la legge richiede l'accertata capacit e il dubbio non soddisfa tale condizione, anzi il dubbio, secondo quello che un principio generale di diritto processuale penale (in dubio pro reo), si risolve in favore dell'imputato. Che la capacit di intendere e di volere non sia presunta ma debba essere provata caso per caso, pu sembrare un dato pacifico, ma in realt la mancanza della motivazione sul punto da parte delle sentenze o il ricorso di queste a formule di stile inducono a ritenere necessario spendere qualche parola in pi. Innanzitutto la prova che non ci troviamo di fronte ad una presunzione offerta dallo stesso dato letterale: l'art. 98 si presenta sotto forma di periodo ipotetico e il se con cui inizia l'ultima frase indica una situazione di dubbio che va risolta e non certo una presunzione. In secondo luogo, dal punto di vista processuale, non c' alcuna inversione dell'onere della prova, conseguenza tipica delle presunzioni iuris tantum: "l'art. 98 non assume sulla base di un rapporto di verosimiglianza (id quod plerumque accidit) un fatto ignoto da un fatto noto esonerando il giudice dal compito di svolgere tale processo di inferenza, ma esige una corrispondenza tra le valutazioni giuridiche che attengono all'imputabilit e le
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multiformi situazioni soggettive naturalistiche che esse presuppongono". (20) Anzi, la formulazione della frase invita a pensare che l'indagine debba partire dall'ipotesi di incapacit del soggetto in esame, perch quando si presuppone che un attributo specifico sia generalizzato in un insieme pi vasto pur con delle eccezioni, la formula diversa: la qualificazione viene data a tutti gli elementi dell'insieme e solo viene indicata la possibilit dell'eccezione. (21) I precedenti legislativi mostrano come la tradizione storica italiana si sia da sempre orientata verso la non presunzione e verso l'accertamento in concreto dell'imputabilit da parte del giudice. E la stessa relazione Rocco al progetto chiarissima: il progetto mantiene la distinzione fondamentale sull'imputabilit dei minori, tra il periodo nel quale il minore deve essere considerato assolutamente incapace [...] ed il periodo nel quale l'imputabilit subordinata alla prova che il minore abbia la capacit di intendere e di volere. (22) Infine, l'esigenza della prova specifica dell'imputabilit del singolo soggetto, con relativa motivazione, discende dai principi generali della legge. indubbio, infatti, che questa richiede sempre la prova di ogni elemento della fattispecie criminosa e, prima di tutto, quella del presupposto della responsabilit penale. E a ben guardare, non v' presunzione - nel senso tecnico del termine - d'imputabilit nemmeno per l'adulto: non vale l'equivalenza "maggiore di diciotto anni-capace di intendere e di volere". Se ovviamente pu dirsi che non c' la presunzione che gli adulti siano "sani", non pu negarsi che una presunzione di capacit sussista qualora essi lo siano. Quando venga accertato che l'imputato non era malato di mente, n accidentalmente ubriaco, n sotto l'effetto di stupefacenti e nemmeno menomato dal sordomutismo, esso sar punibile. (23) Sebbene poi, in concreto, questa prova negativa venga solitamente data per implicito, indicando cio nella motivazione una spiegazione soddisfacente della dinamica del delitto, resta comunque valida, in linea di principio, la regola che anche la capacit dell'adulto va provata caso per caso. La differenza tra adulti e minori, quindi, non consiste nella presumibilit o meno della capacit di intendere e di volere, bens nel diverso criterio suggerito per l'accertamento di tale capacit e nell'obbligatoriet o meno di farvi luogo, perch per i minori non vi nessuna presunzione che in caso di sanit siano capaci. Cos, per il ragazzo tra i quattordici e i diciotto anni si richiede una prova in pi, cio che nonostante la giovane et egli sia capace di intendere e di volere, mentre per il maggiore di diciotto anni la sua et non ha rilevanza diretta per l'accertamento della capacit, e quindi dell'imputabilit, che si misura sulla base della sua "normalit" psichica. (24) Abbiamo detto che bisogna provare, accertare che il ragazzo fra i quattordici e i diciotto anni capace di intendere e di volere. Ma per dare un senso a questa affermazione importante capire cosa si intende per capacit di intendere e di volere.

2. Imputabilit e maturit (25)


2.1. Generalit
Sul significato da attribuire alla locuzione capacit di intendere e di volere di cui all'art. 98 c.p., dobbiamo innanzitutto dire che esso diverso da quello proprio della stessa espressione contenuta nell'art. 85 c.p., altrimenti non si spiega come mai il legislatore abbia sentito la necessit di esigere e prevedere specificatamente, in una apposita norma, tale capacit per i soggetti fra i quattordici e i diciotto anni, potendosi limitare a escludere tout court l'imputabilit per gli infraquattordicenni. In altre parole, se la capacit di intendere e di volere richiesta dall'art. 98 c.p. per l'imputabilit del minore fosse la stessa richiesta dall'art. 85 c.p. per l'imputabilit dell'adulto, l'art. 98 c.p. sarebbe ultroneo. Bisogna, quindi, dare alla capacit di intendere e di volere del minore infradiciottenne una sua area di operativit, in considerazione della peculiarit dell'et minorile, diversa e aggiuntiva rispetto a quella propria della capacit di intendere e di volere dell'adulto. La capacit di cui all'art. 98 c.p. qualcosa di pi e di diverso dalla malattia mentale e dalle altre ipotesi di incapacit, quali il sordomutismo e la cronica intossicazione da alcool o stupefacenti: si aggiunge a queste, non ne costituisce un'inutile ripetizione.

2.2. Il concetto di maturit


La capacit di intendere e di volere del minore fra i quattordici e i diciotto anni viene solitamente individuata nel concetto di maturit . Si tratta di un concetto molto vago e, recentemente, anche molto controverso. Il termine immaturit non risulta da nessuna disposizione legislativa, in quanto frutto della elaborazione giurisprudenziale. Il Codice Rocco, infatti, introducendo la presunzione assoluta di non imputabilit del minore di quattordici anni e l'obbligo dell'accertamento della imputabilit per l'infradiciottenne, identificava quest'ultima con la capacit di intendere e di volere, come per l'adulto. L'innovazione rispetto al codice precedente consisteva, quindi, nell'abolizione del concetto di discernimento, che il Codice Zanardelli poneva quale condizione necessaria per l'imputabilit del minore, perch ritenuto elemento impreciso, incerto, vago al punto da fornir argomento a molte discussioni per fissarne il contenuto e l'estensione. (26) Per ovviare a tali inconvenienti si opt per la capacit di intendere e di volere, formula ritenuta pi chiara, "meno nebulosa e maggiormente ancorata a parametri pi oggettivi e pi scientifici, in quanto non legata ad apprezzamenti etico-intuitivi, ma alla fenomenologia psichica". (27) Ma nonostante le buone intenzioni, la giurisprudenza e la dottrina, individuando nel concetto di maturit il contenuto della capacit di intendere e di volere, hanno di fatto riportato la situazione nella stessa indeterminatezza, rivelandosi tale termine altrettanto vago e impreciso quanto il discernimento. Proprio per rimediare a tale situazione, la giurisprudenza ha cercato di delineare, di definire il concetto di maturit, dilungandosi ampiamente sull'argomento. La giurisprudenza della Corte di Cassazione sulla questione ricchissima e, a parte poche pronunce nelle quali il concetto di maturit viene interpretato in modo restrittivo, solitamente sono stati indicati in modo concorde vari parametri, tra i quali ricorrono pi frequentemente: armonico sviluppo della personalit, sviluppo intellettivo adeguato all'et, capacit di valutare adeguatamente i motivi degli stimoli a delinquere, comprensione del valore morale della propria condotta, capacit di soppesare le conseguenze dannose del proprio operato per s e per gli altri,
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forza del carattere, comprensione dell'importanza di certi valori etici, dominio acquisito su se stessi, attitudine a distinguere il bene dal male l'onesto dal disonesto il lecito dall'illecito, unit funzionale delle facolt psichiche, loro normale sviluppo rispetto all'et, capacit di elaborare i comportamenti umani a livello della coscienza, capacit di percepire criticamente il contenuto etico di un atto e di correlarlo al contesto dei rapporti e interessi socialmente protetti, capacit di volere i propri atti come risultato di una scelta consapevole, attitudine a far entrare nel proprio patrimonio di cognizioni e di esperienze il concetto della violazione, assimilazione delle regole morali e sociali in base ad un'autentica convinzione e non per un processo di imitazione formale, ecc.. (28) Definizioni meno stereotipate si trovano in alcune pronunce dei giudici di merito, nelle quali si legge, ad esempio, che sono "assolti perch non imputabili i minori di diciotto anni affetti da carenze della struttura e della dinamica della personalit (nella specie: difficolt di autocontrollo, ritardo mentale, aggressivit collegata a sindrome abbandonica per precoce e lunga istituzionalizzazione)"; (29) oppure si trova scritto che vengono tenute in considerazione "l'estrema instabilit psicoaffettiva, la crisi del senso d'identit personale, l'estrema ambivalenza delle manifestazioni comportamentali e l'estrema fragilit e labilit dell'io". (30) Sempre secondo i giudici di merito, "l'art. 98 esige che al momento del fatto non sia stata scissa l'unit funzionale delle facolt psichiche del soggetto e che tali facolt siano state integre nel dinamismo dell'azione". (31) E ancora, hanno precisato che la stessa riconosciuta intelligenza non basta, essendo l'intelligenza soltanto uno dei mezzi per il raggiungimento della capacit di intendere. L'intelligenza la facolt per cui si comprendono le conseguenze meccaniche dei propri atti, cio il rapporto causaeffetto nella sua materialit. Invece la capacit di intendere significa anche la possibilit di elaborare i comportamenti umani a livello della coscienza, cio a quel livello che consente di percepire criticamente il contenuto etico di un atto e di correlare questo atto al contesto dei rapporti e degli interessi socialmente protetti. (32) Infine, si affermato che "non basta che il minore conosca astrattamente il carattere illegale dell'atto posto in essere ed il suo contenuto immorale od antisociale, ma occorre che egli abbia assimilato le regole morali e sociali della comunit in base ad un'autentica convinzione e non per un processo di imitazione formale". (33) Per quanto riguarda l'elaborazione dottrinale del concetto di maturit, vastissimo il contributo offertoci dalla letteratura giuridica, medico-legale e psicopedagogia. Da questa emerge, innanzitutto, che il concetto di immaturit altra cosa rispetto al vizio di mente: il minore pu essere immaturo ma perfettamente sano di mente. Fino a non molto tempo fa l'unico parametro che veniva accettato per valutare la capacit di intendere e di volere era quello medico: la facolt intellettiva viene distinta da quella volitiva ed entrambe vengono esaminate per valutare una loro possibile compromissione a causa di una malattia di ordine fisiologico o psichiatrico, arrivando cos ad avere un quadro clinico del soggetto. Questi orientamenti restrittivi hanno tentato, cio, di ancorare il giudizio di immaturit a criteri biologici ed organici, come le carenze o i ritardi dello sviluppo intellettivo, l'immaturit psicomotoria ed altri, per cui il ragazzo incapace se, dalla perizia psichiatrica e da esami clinici diversi, come l'elettroencefalogramma, risulta essere mitomane isterico, epilettoide, cerebropatico, paranoide, schizoide ecc., con attenzione, quindi, esclusivamente alle sue condizioni mentali, senza alcuna considerazione per la sua storia e per le modalit del suo reato. Un paradigma di questo tipo offre indiscutibilmente il vantaggio che la scienza medica e psichiatrica possono accertare eventuali alterazioni della funzione conoscitiva e intellettiva del soggetto con una certa sicurezza. Ma l'art. 98 c.p. fa riferimento alla situazione di un ragazzo clinicamente "normale", perch come abbiamo visto una deficienza clinica della personalit rientra nella diversa ipotesi di vizio di mente. E sulla base di questa considerazione, col tempo, sono stati sempre pi utilizzati i contributi della psicologia dell'et evolutiva e le dinamiche adolescenziali. Il ricorso a paradigmi psicologici ha permesso di prendere in considerazione situazioni pi sfumate, caratteristiche peculiari dell'individuo in via di sviluppo - come l'immaturit emotiva, le caratteropatie, le insufficienze o conflittualit di origine affettiva - che portano ad una devianza legata all'et particolare del soggetto e comune a chi si trova nelle stesse condizioni. L'utilizzo di questi nuovi parametri permette, in questo modo, di escludere l'imputabilit del ragazzo colpevole della cosiddetta "ragazzata", come pu essere il furto di frutta. La realt pi recente ha mostrato per l'insufficienza anche del paradigma psicologico a coprire tutte le ipotesi in cui un adolescente non pu considerarsi imputabile. Ci sono infatti delle situazioni in cui il ragazzo, bench non sia rilevabile il minimo danno organico n alcuna disfunzionalit della personalit, non ha raggiunto quel grado di coscienza morale che lo possa far ritenere imputabile. il caso del ragazzo cresciuto in un ambiente difficile, per esempio a causa di una situazione familiare gravemente disgregata o di una precoce istituzionalizzazione. Si affermato cos l'uso di paradigmi sociologici in grado di estendere la ricerca delle cause della devianza anche alle strutture socio-ambientali in cui il minore cresciuto e la sua personalit si sviluppata. Non a caso la maggior parte dei ragazzi da me incontrati all'Istituto per minorenni G.P. Meucci presenta una situazione familiare difficile ed cresciuta nei quartieri pi disagiati della citt. Penso che la forte presenza di situazioni di svantaggio che essi hanno alle spalle ci possa far ritenere che, se avessero avuto altre esperienze di vita, probabilmente la loro condotta sarebbe stata diversa. Mi guardo bene, certo, dall'operare un collegamento automatico tra disagio e delinquenza, ma ritengo che, come giustamente sostiene Paz, un ragazzo vissuto in condizioni assai carenti rispetto a quelle ritenuti normali, che non ha avuto validi modelli educativi e che ha ricevuto solo stimoli negativi, che non ha finito le scuole, per lo pi dovr essere ritenuto non imputabile perch non 'cresciuto' come i suoi compagni pi fortunati, ha una personalit pi fragile e non sa resistere ad impulsi forti. (34) Della stessa idea anche Vercellone, il quale spiega perch sarebbe sbagliato considerare imputabili e punibili quei ragazzi che sono stati deprivati nella loro vita: noi diciamo dunque che normale il diciottenne sano, ben alimentato, la cui salute anche psichica stata tutelata (art. 32 Cost. Rep.); che stato adeguatamente mantenuto, educato ed istruito dai genitori o, in mancanza, da organi statuali appositamente predisposti (art. 30 Cost. Rep.); che si giovato dei supporti che di solito riceve un bambino, in una casa decente, tra persone normali (art. 36
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Cost. Rep.); che ha avuto un sufficiente bagaglio di informazioni, cio quel bagaglio che normalmente fornito dalla scuola dell'obbligo (art. 34 Cost. Rep.). Il ragazzo che non ha avuto questo minimo di supporto ambientale che si esige dal comune sentire della nostra civilt non pu essere considerato normale in un ordinamento giuridico che fa perno sull'art. 3 della Costituzione della Repubblica... infatti difficile ritenere congruo al principio di uguaglianza considerare normale colui che non ha avuto ci che doveva avere allo stesso modo di chi tutto ci ha avuto in quantit soddisfacente; davvero difficile ritenere conforme alla seconda parte dell'art. 3 Cost. mandare in prigione colui che quegli ostacoli non ha superato perch niente stato fatto per lui onde consentirgli di raggiungere il pieno sviluppo della sua persona. Il giudice, dunque, nel valutare la maturit ex art. 98 cod. pen. dovr essenzialmente tener conto di quanto la normale evoluzione sia stata favorita dalla sussistenza di quel supporto ambientale, ritenendo immaturi e quindi non punibili i giovani imputati [...] che tale supporto non hanno ricevuto in modo normale. (35) Alla domanda "se quindi necessario differenziare l'analisi e i criteri di valutazione della maturit a seconda che l'imputato sia un ragazzino italiano con una educazione normale o un ragazzino, ad esempio, nomade" - da me rivolta a degli esperti di giustizia minorile - le risposte sono state diverse. Uno di essi, Adolfo Ceretti, psicologo e giudice onorario, ha risposto che indubbiamente necessaria una tale diversificazione: sono valutazioni individuali e individualizzate e, naturalmente, c' tutta una serie di parametri che possono avere un peso da una parte e assumere un peso tutto diverso da un'altra. Si pu vedere come ogni parametro pu influire o meno rispetto a tutti gli altri. Per tutti questi parametri che la giurisprudenza usa, quali l'educazione, la famiglia la scuola, le categorie psicologiche, non vanno presi assolutamente come degli elementi a s stanti, univoci, e quindi fare un ragionamento, come veniva fatto negli anni '60 o '70, per cui la mancanza di un parametro escludeva gi tutti gli altri, ma vanno letti in modo integrato e, soprattutto, legato a tutta una serie di parametri culturali di aggancio. Dello stesso parere Carla Niccheri, psichiatra, secondo la quale "i ragazzini nomadi sono spesso immaturi, dobbiamo pensare, ad esempio, alla difficolt di comunicazione del linguaggio; la maturit data dalle capacit di apprendimento, dagli stimoli positivi che si hanno, dalla scolarizzazione e da tante altre cose. Magari su un piano pratico sanno rubare, cio sanno 'lavorare' rapidamente, per la maturit anche capire che quel gesto ha una connotazione non positiva. Ma chi gliel'ha insegnato? I loro modelli sono sbagliati". Di opinione diversa , invece, la dottoressa Di Bartolo, psicologa e giudice onorario, la quale, alla asserzione che sia l'educazione familiare di un certo tipo sia la scuola, in qualche modo, possono spianare la strada verso la crescita, ha replicato che "veramente tutto il contrario, il rom a quattordici anni si sposa e ha figli". A me questi fatti, in realt, non sembrerebbero prove di maturit, ma semplicemente abitudini culturali, per secondo la mia interlocutrice "dal punto di vista psicologico, il fatto che un ragazzo viene messo nelle condizioni di dover avere la responsabilit di una famiglia, di mantenerla, sicuramente gli spiana la strada verso la maturit precoce. Invece l'italiano una persona immatura perch non ha avuto modo di confrontarsi con la realt esterna, ed stato tenuto in una situazione privilegiata". Ne deduco allora che venga concessa pi facilmente la non imputabilit ad un ragazzo italiano piuttosto che ad un ragazzo rom, e la dottoressa di Bartolo conferma: "al rom non mai applicato il 98, perch non abbiamo elementi per poter dire se maturo o no, dato che la sua storia normalmente non seguita dai servizi". In effetti, controllando presso la cancelleria del Tribunale per i Minorenni di Firenze ho potuto constatare che sul totale delle sentenze di proscioglimento emesse per incapacit di intendere e di volere ben l'83,56% di esse riguarda minori italiani, contro il 16,43% di pronunce ex art. 98 emesse nei confronti di minori stranieri, in prevalenza rom. Credo, a tale riguardo, che quando la legge invita il giudice ad acquisire elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali e ambientali del minorenne (art. 9 D.P.R. 448/88) non faccia altro che richiedere questo tipo di indagine socioambientale. L'importanza del contesto ambientale sottolineata dalla dottoressa Niccheri: mentre la valutazione circa l'adulto una valutazione diretta, centrata prevalentemente sull'adulto, quando si fa una valutazione di un bambino bisogna sempre tener conto dell'ambiente socio-familiare in cui cresciuto, perch esso ha una notevole importanza. Ad esempio, quando i ragazzini entrano a far parte di un gruppo, questo influisce in modo significativo anche sui loro livelli di maturit, perch imparano stili di vita, abitudini, usi, che non sono stimoli di crescita ma, anzi, li fissano a certi livelli e non li portano ad andare oltre. Il contesto sociale ha una grandissima importanza sullo sviluppo della maturit di un'adolescente, perch tale sviluppo dipende dagli stimoli, che possono essere positivi o negativi, dallo stile di vita delle persone che stanno intorno all'adolescente...questo, naturalmente, riguarda i ragazzi che non hanno disturbi psicopatologici, cio non riguarda gli insufficienti mentali, ma ragazzi che si presume siano esenti da qualsiasi malattia psichiatrica nel senso pi ampio. L'osservazione del contesto socio-culturale-ambientale ha una grandissima importanza. E quando le ho fatto notare che quest'attenzione verso il contesto sociale non c' sempre stata, ha confermato che si tratta di un aspetto che stato accettato nell'osservazione peritale solo in epoca recente. Prima era solo un rapporto io-te, consulente e minore, ora invece questo elemento viene richiesto e osservato, perch non si pu disgiungere l'osservazione del minore da quella del suo contesto sociale. In fondo, per ognuno di noi, perfino per gli animali, c' l'apprendimento di certe regole, di certe abitudini, di certi usi, di certi stili di vita, e cos anche per il minore c' l'apprendimento. Ma l'apprendimento dove si svolge? Nel luogo dove uno nasce, cresce, si forma. E la nostra maturit data dall'aver appreso tante cose, da averle elaborate e fatte nostre, per poi agire in conseguenza, per riuscire in qualche maniera, anche se a livelli diversi, a mettere in moto quelle che, poi, nell'adulto chiamiamo capacit critiche e capacit volitive, cio imparare a confrontarsi. Quindi anche nel bambino ci deve essere una capacit di valutazione, anche se sar nel suo mondo piccolo".
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Perch, per, l'attenzione nei confronti di questa fenomenologia, da parte dei giuristi, si avuta solo recentemente? Secondo Fazzo la ragione di tale crescente attenzione nel nostro tempo va cercata nello "sviluppo industriale geograficamente squilibrato", nel "boom economico "e nello "esplodere della societ del consumo", fenomeni questi che, spiega ancora Fazzo, hanno generato una massiccia immigrazione verso le aree industriali, che culturalmente ha significato sradicamento e colonizzazione; l'alienazione di massa da un sistema produttivo che non si controlla e non si sente come proprio; la creazione indotta di sempre nuovi bisogni per soddisfare le esigenze di crescita della produzione; il proliferare onnipresente dei mezzi di comunicazione di massa, invasori incontrollati di ogni momento della vita sociale e individuale; l'indebolimento e la ridiscussione dell'autorit parentale, trovandosi la famiglia in difficolt nel preparare il giovane ad un mondo sempre pi complesso; la grande velocit delle comunicazioni, che comporta una tendenza alla relativizzazione dei valori e all'evoluzione dei fenomeni culturali in tempi prima impensabili. (36) Appare peraltro evidente che, qualunque sia l'approccio prescelto, di tipo biologico, psicologico o socio-ambientale, il concetto di maturit resta ancora poco chiaro, e se molti giudici ritengono pacifica l'accezione del termine probabilmente perch non hanno avuto modo di rendersi conto che quello di cui parlano per ognuno una cosa diversa. La maturit psicologica una metafora ed al fine di poterla misurare viene deificata; ma non si pu misurare una nuvola o meglio ognuno la misura come vuole. (37) Ho chiesto quindi a due psichiatri, Pierluigi Cabras e Adolfo Pazzagli, cosa intendono per maturit. Questo il pensiero di Cabras: si presume che la capacit di prevedere le conseguenze del proprio agire e anche la capacit di determinare volontariamente il proprio comportamento non esista nel bambino piccolo e che non venga acquisita "a scatto", da una totale incapacit nei due sensi ad una completa acquisizione di dette capacit. Si presume che il minore con il progredire dell'et sia sempre pi capace di previsione delle conseguenze dei propri atti. Questo, d'altra parte, logico perch la previsionalit, in senso lato, un qualcosa che ha a che vedere con l'accumulo dell'esperienza oltre che con la maturazione del sistema nervoso, anche se, probabilmente, la maturazione del sistema nervoso abbastanza precoce, pi di quanto non lo sia invece il cumulo di esperienze che vengono in qualche modo fatte dal minore. Egli impara a sue spese ci che giusto, ci che non giusto, fa propria una serie di norme di comportamento che gli vengono inculcate in termini culturali prima dalla famiglia, poi dalla scuola e, comunque, dalla societ, e che vengono piano piano fatte proprie e costituiscono un corpus di esperienze che permettono di valutare anticipatamente quella che la conseguenza del proprio agire. Secondo Pazzagli: la maturit un concetto difficile. L'adolescenza un processo in cui c' tutta una serie di cambiamenti ed un'et difficile, perch nell'adolescenza, a differenza di quanto avviene nell'adulto, non c' proporzione tra gravit dei sintomi e patologia: si pu avere un adolescente sregolato e ribelle, sano, o un'adolescente buono e sano, come un adolescente sregolato e ribelle, matto, e un adolescente buono, e matto. Bisogna valutare se c' un arresto del processo o una sua prosecuzione. Freud lo diceva molto bene: spesso gli adolescenti hanno semplicemente bisogno di un tempo e di un luogo per evolvere; per talvolta non ce la fanno e, allora, c' quello che si chiama il breakdown adolescenziale. Qui la valutazione implica l'essere esperti dell'adolescenza e delle sue dinamiche e, quindi, poter valutare se un certo comportamento si innesta su un processo evolutivo o su un processo gi fallito. Oggi si sa che anche molta psicopatologia comincia nell'infanzia, e che quindi possibile una prevenzione perch molta parte della psicopatologia legata agli eventi. facile distinguere quando la immaturit dovuta a cause patologiche rispetto a quando si tratta solo di un arresto dello sviluppo? Risponde cos il professor Cabras: se siamo di fronte ad una patologia infantile conclamata, evidentemente il problema non si pone: un ragazzo con aspetti autistici oppure con disturbi che poi daranno luogo in un secondo momento a veri e propri disturbi della personalit da adulto avr sicuramente una maturit minore. Ma questo l'aspetto pi facile del problema, perch se si riesce a determinare la presenza di una patologia quale che sia, questa sicuramente interferir, in modo maggiore o minore, naturalmente in relazione al tipo di patologia, sul raggiungimento di questa maturit. Ci sono, per, patologie pi sfumate, ad esempio delle patologie fobiche: ci sono dei bambini che hanno dei disturbi fobici molto precocemente, che poi mantengono pi o meno per tutta la vita. Ora, il disturbo fobico pu s modificare lo stile di vita di una persona la quale sar pi terrebonda, eviter certe situazioni, ma sicuramente non dovrebbe incidere pi di tanto sulla capacit di prevedere il proprio comportamento, nel caso di un comportamento antigiuridico. Altri casi invece, come quelle forme di disturbo della attenzione con iper-attivit - tipiche dei bambini ma che possono dar luogo o a psicosi o a un disturbo antisociale da adulti - sono delle patologie che modificano altamente le capacit di giudizio e di valutazione del loro comportamento, producendo come effetto una maturit ben diversa. Il caso che pi ha attirato l'attenzione dell'opinione pubblica in quest'ultimo periodo senza dubbio quello di Novi Ligure. In particolare ci si chiesti come sia possibile che una tale crudelt non sia il frutto di un disturbo mentale, ma di una semplice immaturit. Si cercato di capire meglio ci, grazie all'aiuto di alcuni psichiatri. Cabras ha esposto una sua ipotesi al riguardo: io, personalmente, ho elaborato una teoria che potrebbe spiegare certi tipi di comportamenti delittuosi in quei minori i quali, poi, ad un esame psicopatologico attento, non rivelano alcuna patologia. Siccome questi comportamenti sono dissonanti rispetto a quello che il continuum della vita di questi

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ragazzi, viene da pensare che esistono degli individui che, per motivi non definibili, forse addirittura genetici - non sicuramente relazionali-sociali, perch non bastano i dati a nostra disposizione per poter fare un'affermazione del genere - non riescono ad elaborare un codice morale. Se una persona non riesce ad elaborare un codice morale, agisce secondo il principio dell'interesse, del piacere, senza tener conto delle conseguenze del proprio agire, finch ragazzino; dopo, anche se il codice morale non lo elabora, gli viene in qualche modo imposto da una sorta di condizionamento sociale: uno impara a sue spese che certe cose non si fanno, non perch non bene farle, ma perch se le fai poi incorri nei rigori della legge. Per cui Erika ed Omar, probabilmente, non ammazzeranno pi nessuno, perch ora sanno che altrimenti finirebbero in galera un'altra volta e che, questa volta, ci passerebbero tutto il resto dei loro giorni. Ma dubito che ci sia, in una persona di questo genere, una resipiscenza, un sentimento che abbia a che vedere con una norma etica introiettata. Ora, sicuramente, quella mancata elaborazione di un codice morale costituisce un deficit di sviluppo, perch nello sviluppo armonioso ci deve essere anche questo aspetto. Se questo aspetto viene meno, non viene elaborato, certamente c' un'immaturit settoriale; magari sono persone che nelle loro attivit, come al computer, riescono a fare miracoli, persone bravissime in qualunque cosa, tranne che nel riuscire a distinguere ci che bene da ci che male, il che comunque un concetto relativo, ma che diventa stabile in un certo contesto sociale, in una certa cultura. Un problema di tutta evidenza consiste nella difficolt dell'opinione pubblica ad accettare che una ragazza la quale, come Erika, uccide brutalmente sua madre e suo fratello, possa essere considerata dagli psichiatri e dagli psicologi una persona "normale". Carla Niccheri dice: il concetto di normalit per la gente comune dato da delle emozioni e da delle regole anche molto semplici ("non si ammazza il babbo e la mamma", soprattutto non cos brutalmente). Esistono delle norme di comportamento che sono quelle che ci accompagnano nella nostra vita quotidiana, dal non mettere i piedi sul tavolo ad altre molto pi importanti. La normalit in psichiatria una normalit che si contrappone alla patologia. Erika ed Omar non avevano nessun aspetto psicopatologico evidente. Quello che disturba l'uomo della strada pensare che una persona normale, secondo la mia normalit, possa compiere un gesto del genere. Perch c' questa difficolt? Ecco la risposta del professor Cabras: questo un problema di inversione di causa-effetto: se noi partiamo dal concetto che certi tipi di comportamento sono cos dissonanti dal comportamento medio da non poter essere messi in atto che da persone non sane, allora si pu anche smettere di fare le perizie: si valutano i comportamenti e si dice "questo un comportamento che sicuramente non ha a vedere con la salute mentale, quindi chi l'ha commesso sicuramente incapace di intendere e di volere, matto". Ma sarebbe un arbitrio. Noi dobbiamo valutare la persona che ha commesso quel delitto, non quel delitto e di conseguenza la persona. E il professor Pazzagli spiega che "il concetto di normalit molto difficile da intendere, perch in effetti esistono due norme, diverse l'una dall'altra: c' una norma ideale, dove un uomo normale un uomo perfettamente sano e intelligente, e c' una norma statistica, reale, dove si pone la maggioranza delle persone, secondo la quale una persona di intelligenza normale una persona non particolarmente intelligente". C' chi sostiene, poi, che si sta manifestando una certa precocit da parte delle nuove generazioni, cosa per cui sono state avanzate alcune proposte di revisione della soglia dell'imputabilit. Ma in realt bisogna distinguere, perch ci sono quattro livelli di maturit: biologica, intellettiva, affettiva, e sociale. Per quanto riguarda la prima basta solo pensare all'importanza che ha, a livello psicologico, "un armonico sviluppo del corpo, e quali complessi di inferiorit e ritardi maturativi possono derivare o da una eccessiva, rapida e precoce evoluzione somatica o dalla presenza di menomazioni, rallentamenti o dimorfismi di crescita". (38) Per quanto riguarda, invece, la maturit intellettiva, "il riferimento che pi costantemente si trova in letteratura alla maturit mentale intesa come quoziente di intelligenza, ed con ben minor frequenza che l'interesse si sposta sullo studio qualitativo della stessa". (39) La maturit affettiva, invece, pu essere definita come "capacit che il ragazzo sviluppa nel controllare le pulsioni e nell'integrare le emozioni, incanalandole ed esprimendole nel rispetto dell'armonia intra- ed interpersonale e nel partecipare con simpatia agli avvenimenti della vita". (40) Infine, la maturit sociale "pu essere misurata attraverso la capacit di adattamento (non di conformismo) alla realt". (41) Allora forse ad una precoce maturit biologica o intellettiva non corrisponde una altrettanto sviluppata maturit affettiva. Secondo Carla Niccheri: ora i ragazzi hanno, senza alcun dubbio, maggiore maturit intellettiva, ma, a mio avviso, molto rallentata la maturit affettiva, innanzitutto perch provano molte meno emozioni e, spesso, provano delle emozioni sbagliate. Il contributo della televisione in questo senso estremamente negativo. Per esempio, i ragazzi non hanno pi il concetto della morte: un tempo vedevano morire il nonno in casa, vedevano la malattia, la morte, il familiare che andava via e che non tornava pi; ora si abituano a vedere gli eroi che muoiono stasera e domani, nella puntata successiva, ci risono. Quindi la morte ha acquistato un altro significato. Poi si abituano ad avere soltanto emozioni violente, oppure a considerare valide delle emozioni violente. Sono estremamente convinta che i ragazzi di oggi sono pi intelligenti di quelli di ieri, per sul lato dell'affettivit sono a livelli molto pi bassi, questo anche per effetto della mancanza di situazioni affettive accoglienti: la famiglia di ieri, che stava intorno ai ragazzi, che si ritrovava attorno a un tavolo a parlare anche con loro, indubbiamente era una famiglia molto pi accogliente. Ora non c' pi tutto questo. Quindi, dal punto di vista affettivo, c' una maggiore aridit in generale, e i ragazzi l'avvertono, la sentono. Anche il giudice Antonella Fiorillo non crede che i ragazzi di oggi siano pi maturi: "l'aver anticipato il compimento
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di certi atti non significativo di maturit, perch non c' riflessione, ma solo precocit e tolleranza di certi comportamenti. Non incontrando divieti, non riflettono neanche, e si trovano a fare delle cose delle quali non hanno la percezione dell'importanza, anche positiva, percezione che potrebbero avere se dovessero aspettare uno o due anni ancora. I ragazzi d'oggi sono molto pi ingenui, non sono pi maturi, ma hanno solo meno limiti". E, per quanto riguarda la proposta di abbassare la soglia dell'imputabilit, la dottoressa Fiorillo ritiene che il limite dei quattordici anni vada bene: "purtroppo molto personale, e invece la legge deve trovare una media statistica, ma credo che il limite di quattordici anni sia giusto. A tredici anni sono ancora dei bambini, anche quelli sviluppati. Abbassare l'et imputabile vuol dire far pagare ai ragazzi quelle che sono le responsabilit di altri". Anche Ceretti ritiene "che sia privo di senso abbassare l'imputabilit", e crede, viceversa, "che per i minori di quattordici anni non imputabili ci debba essere una presa in carico molto pi consistente di quanto non ci sia stata fino adesso". Mentre Carla Niccheri sostiene che "forse dodici anni sono pochi, per abbassare il limite si pu. I ragazzi di ora sono indubbiamente pi adulti rispetto a prima, perlomeno per quanto riguarda la maturit intellettiva. Rimane questa immaturit affettiva, ma allora bisognerebbe alzare la soglia a trentadue anni. Tornando al discorso di partenza, possiamo dire che l'utilizzo di parametri per loro natura cos soggettivi e contingenti, non sufficientemente rigorosi, quali sono invece richiesti dal diritto positivo per definire e accertare ogni concetto giuridico fondamentale, ha dato vita a un concetto di immaturit scientificamente del tutto evanescente. La mancata convergenza interpretativa su quanto richiesto come condizione di imputabilit ha reso discrezionale, in modo abnorme, tutto il percorso valutativo, dando alle tendenze culturali di ogni singolo magistrato il compito di definire in concreto il significato, gli elementi indice di una maturazione adeguata, i campi e le modalit di indagini. L'allargamento dei margini di opinabilit ha permesso una difformit di giudizi tra i vari Tribunali, a seconda sia delle varie sedi geografiche, sia dei diversi periodi di tempo considerati, sia degli indirizzi ideologici non omogenei. Nella relazione finale che chiude un'indagine condotta negli anni 1970 e 1971 dal Consiglio Superiore della Magistratura si arriva a parlare di uno sconcertante autonomismo nelle decisioni dei vari Tribunali, tale per cui si ha l'impressione che ogni Tribunale agisca con suoi propri criteri particolari. (42) Tralasciamo per il momento ogni considerazione sul fatto che in un ordinamento il quale, come abbiamo visto, non presume la capacit di intendere e di volere dell'imputato minorenne, risulta dall'indagine che solo nel 72 % dei casi questa capacit stata accertata e che solo nel 18 % dei casi il ragazzo stato ritenuto immaturo. Il dato preoccupante che ora ci interessa mettere in evidenza concerne la differenza di comportamento tra una zona territoriale e l'altra, tale che la maturit stata definita da alcuni come una variabile geografica: infatti, i giudici hanno assolto ex art. 98 il 32% dei ragazzi giudicati nell'Italia del nord, nell'Italia centrale il 5%, nell'Italia meridionale l'8,5% e nell'Italia insulare l'8%. (43) Si passa da un 60,3% di assolti per incapacit di intendere e di volere dal Tribunale di Milano allo 0,2% di Napoli, (44) differenza che mal si giustifica con una presunta immaturit dei ragazzi settentrionali rispetto ai loro pi svegli fratelli meridionali. Differenza che invece viene fatta dipendere in parte dal diverso modo di intendere la funzione del giudice minorile, (45) in parte, e soprattutto, proprio da una interpretazione poco chiara del disposto legislativo. Come dimostra l'atteggiamento tenuto dal Tribunale di Milano nei primi anni '70, l'immaturit ha finito col diventare uno strumento di clemenzialismo e di deresponsabilizzazione del minore. Il numero crescente di proscioglimenti per immaturit, non , infatti, la conseguenza di una minore maturit delle nuove generazioni, ma il segno che la giurisprudenza, sopperendo alla diserzione del legislatore, si servita di questa formula come rimedio alla non pi accettata ideologia punitiva. Lo strumento utilizzato ha consistito nell'ampliare sempre pi il concetto di maturit e di estenderne l'applicazione fino a giungere, di fatto, in talune sedi, ad elevare la soglia dell'imputabilit al diciottesimo anno. Ricordiamoci, per, che l'indagine fu condotta, appunto, nei primi anni '70 e che da allora molte cose sono cambiate. Cos, ad esempio, entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale per i minorenni (D.P.R. 448/88) che, offrendo ai giudici ampie possibilit di chiudere il processo in modo diversificato - avendo sempre come obiettivo la rieducazione del minore imputato riconosciuto responsabile - ha attenuato l'esigenza, sentita fortemente allora, di depenalizzare le condotte illecite degli imputati minorenni. Maria Grazia Domanico testimonia "il crollo verticale delle pronunzie, da parte del Tribunale minorile di Milano, sia in sede di udienza preliminare che dibattimentale, di proscioglimento per incapacit di intendere e di volere", avutosi in questi ultimi anni, e invita ad una riflessione sui rischi connessi ad una sostanziale disapplicazione dell'art. 98 c.p.: dal 24 ottobre 1989 al 31 marzo 1995, su un totale di 6762 pronunce, solo l'8,3% ha dichiarato l'incapacit di intendere e di volere ex art. 98 c.p., passando da un 20,5% nel 1990 a un 6,6% nel 1994; inoltre, "tra queste pronunce [...] la maggioranza assoluta ha riguardato minori italiani (oltre il 60%)". (46) Per quanto riguarda la situazione fiorentina, da una indagine da me condotta presso il Tribunale per i Minorenni di Firenze risulta che su 4549 pronunce emesse, in udienza preliminare, dal gennaio del 1993 al luglio 2002, si sono avute solo 74 sentenze di non luogo a procedere per accertata immaturit ex art. 98 c.p., ovvero solo nell'1,60% dei casi si avuto un proscioglimento per immaturit, passando da un 4,06 nel 1993 a un 0,65 nel 2001. Tali dati, confrontati con quelli relativi al periodo immediatamente precedente l'entrata in vigore del D.P.R. n. 448 del 1988, mettono in chiara evidenza un ricorso molto pi frequente, in quel periodo, al proscioglimento per incapacit di intendere e di volere.

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Relativamente agli anni 1985-1988 va tenuto presente che il procedimento si articolava nelle due fasi del giudizio e dell'istruttoria. Ci posto, ho potuto osservare che, riguardo al proscioglimento ex art. 98 c.p., in quel periodo si passati dal 5,5% al 7,1% nella fase di giudizio, e dall'1,5% al 10,5% in quella istruttoria. Di questo cammino della giustizia minorile ci ha parlato anche Adolfo Ceretti: se uno va a studiarsi un po' tutto quello che stato il grande cammino della giustizia minorile in Italia, a partire dalle ricerche che sono state fatte negli anni '70 - promosse dal Ministero della Giustizia, da quello che oggi il dipartimento della giustizia minorile e che allora era l'Ufficio centrale della giustizia minorile, poi coltivate da studiosi, criminologi ecc., per verificare la diversa dimensione dell'accertamento della imputabilit nelle varie zone di Italia -, si pu constatare che era emerso un paese assolutamente spaccato in due. Anche dopo l'88 permangono delle differenze sostanziali. Questa volta, pi che l'ideologia dei magistrati o altri elementi culturali, gioca un ruolo importantissimo la consistenza dei servizi sociali del ministero e, soprattutto, territoriali, visto che quelli del ministero sono equamente distribuiti, mentre quelli territoriali sono molto pi attrezzati al nord che al sud. La presenza di questi servizi rende ovviamente molto pi praticabile tutta una serie di percorsi alternativi alla detenzione, non solo per minori imputati italiani ma anche per minori imputati stranieri. Gaetano De Leo (uno dei principali artefici della riforma) e Livia Pomodoro (presidente della Commissione per la riforma del codice di procedura penale minorile) si sono subito resi conto che la paradossalit di questa legge stava nel fatto che, in realt, chi al di fuori del circuito penale aveva pi risorse a livello familiare e a livello di servizi sul territorio aveva pi possibilit di rimanere fuori dal carcere e dal circuito penale, mentre era esattamente il contrario per chi non ne aveva, e in particolare non solo i pi sfortunati fra gli italiani, ma tutti gli stranieri. Il problema era duplice perch, una volta individuate le comunit per gli imputati o i condannati minori stranieri, essi in comunit non ci volevano andare, perch sottoporsi ad un regime di educazione coatta, con dei modelli di riferimento culturali cos diversi, diventava insostenibile. Ora le cose sono molto cambiate: il lavoro fatto a Milano sia da me, quando ero giudice onorario, sia dai magistrati, sia dalla rete dei servizi notevole. Abbiamo delle comunit che sanno accogliere anche ragazzi stranieri infradiciottenni e inserirli in contesti pi che accettabili. Questo ha democratizzato moltissimo tutto l'aspetto.

2.3. Livello di maturit necessario


L'individuazione del concetto di maturit resa problematica anche dalla mancata predeterminazione dell'astratto livello evolutivo necessario affinch un minore tra i quattordici e i diciotto anni possa essere considerato imputabile: si tratta di quello generalmente riscontrabile in soggetti della stessa et dell'imputato o di quello presente in un ragazzo medio di quattordici anni o, ancora, di quello proprio di chi ha perfezionato un certo processo di
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maturazione? Esistono al riguardo teorie notevolmente divergenti. Stando alla lettera della relazione del guardasigilli Rocco - nella quale si legge che il ragazzo imputabile quando ha conseguito quel livello di capacit di intendere e di volere che normale nel ragazzo medio della sua et -, secondo una prima tesi il minore sarebbe imputabile quando ha raggiunto quel livello di capacit che si riscontra generalmente nei suoi coetanei. Ma questa opinione ritenuta, dalla maggior parte della dottrina, inaccettabile, in quanto ne deriva che si dovrebbe punire un quindicenne maturo per la sua et e, viceversa, non punire un diciassettenne che ragiona come un sedicenne. (47) E se si esclude anche l'ipotesi di fare una media tra la capacit propria dei quattordici anni e quella propria dei diciotto anni - dal momento che il legislatore avrebbe richiesto espressamente la maturit tipica del ragazzo di sedici anni - non restano che due soluzioni possibili: necessario o il livello medio dei ragazzi di quattordici anni o quello dei ragazzi di diciotto anni. Vi chi sostiene, come Franchini, (48) che deve essere esclusa l'imputabilit di quei minori che, al momento del reato, dimostrano un grado di maturazione inferiore a quello di un ragazzo normale di quattordici anni. Alla base di questa idea c' la considerazione che spesso a sedici, diciassette anni si ancora dei bambini con uno sviluppo psicofisico pari a quello di un tredicenne. Per cui si ritiene giusto assolvere chi si trovi in una situazione del genere, e altrettanto giusto condannare chi invece ha raggiunto la maturit tipica di un quattordicenne. Diversamente, c' chi ritiene che la maturit corrisponda alla condizione psichica del ragazzo normale che ha compiuto diciotto anni. la tesi di Barsotti. (49) Questi parte dal postulato che, come abbiamo gi detto, nemmeno per l'adulto si presume la capacit di intendere e di volere, dovendo il giudice spiegare perch ha ritenuto l'imputato capace; ma una presunzione, nei confronti del maggiore di diciotto anni, esiste: egli, se non sono presenti le cause di esclusione della capacit di intendere e di volere previste dagli artt. 88, 89,91, 93 e 96 del c.p., maturo. Se invece per il ragazzo tra i quattordici e i diciotto anni il giudice deve provare che esiste in concreto questa capacit, la maturit, allora per sillogismo risulta che la prova dovuta dal giudice consiste nel dimostrare che il minore ha gi conseguito quel tanto di maturit che la legge presume sempre presente nel diciottenne, cio il minimo richiesto per giustificare una misura punitiva. Allora perch il legislatore ha previsto una diminuzione di pena nei confronti dell'infraquattordicenne che sia stato riconosciuto imputabile? Questo non vuol forse dire che la capacit richiesta dalla legge per infliggere una pena non quella che si presume abbia il diciottenne, ma una minore di questa? Secondo Barsotti no, perch l'art. 98 c.p., stabilendo che il ragazzo imputabile se ha la capacit di intendere e di volere (non se presenta una semicapacit), ma riconoscendogli, nonostante questo, una diminuzione di pena, non ricollega tale diminuzione al fatto che il ragazzo semicapace, bens al fatto che quel ragazzo, anche se capace di intendere e di volere, rimane pur sempre un ragazzo ed quindi meritevole di indulgenza. Si tratterebbe di una scelta di politica criminale, fatta sulla base della consapevolezza sia che il carcere indubbiamente pi sofferto da un ragazzo che da un adulto sia che nei confronti del primo c' una maggiore speranza di cambiamento e di reinserimento. Ma, nella pratica, la maturit richiesta corrisponde al livello di maturazione di quale et? L'opinione del professor Cabras la seguente: io credo che i criteri debbano essere generali e statistici per un verso. chiaro che, statisticamente, un ragazzo di 12 anni ha meno capacit in questo senso di uno di 17; questo se si va a guardare la media delle persone pu essere sicuramente quantificabile. Per c' anche da dire che ogni persona ha una sua storia personale, e di conseguenza ogni individuo che sia nato e cresciuto in un certo tipo di ambiente, dove certe esperienze possono essere fatte tranquillamente e con ricchezza di apporti di vario livello, avr uno sviluppo, una maturit che sar diversa, per esempio, da un individuo precocemente istituzionalizzato. Quindi non credo che si possa fare un discorso esclusivamente statistico sull'et, ma bisogna tener conto anche del percorso di vita che il singolo ha fatto. Della stessa opinione Carla Niccheri, secondo la quale: quando si deve fare una valutazione di maturit non si pu fare un confronto. Poich, a mio giudizio, tutto sempre molto collegato all'ambiente, se io considero un ragazzino di tredici anni che ha vissuto in un contesto sociale meno favorevole, dove ha avuto stimoli diversi e minori rispetto ad un altro ragazzino di tredici anni, non concluder che sia immaturo per forza ma, indubbiamente, mi aspetter che possa esprimere la propria maturit in maniera diversa. La valutazione va fatta sul singolo ragazzo per vedere e capire se, pure in quel contesto, lui riuscito e riesce a proporsi in maniera il pi possibile adeguata ai suoi anni. Secondo il professor Pazzagli: ci sono due andamenti diversi: oggi, da un lato, ci sono dei reati degli adolescenti che sono reati da adulti, quali l'omicidio, dall'altro, si sa che l'adolescenza pu diventare prolungata, fino a coincidere con l'inizio della vecchiaia; per si sa bene che la legge ha bisogno di alcuni "cutoff", per cui sotto in un modo e sopra in un altro. Comunque, per rendere con una immagine sintetica il mio pensiero, potrei dire che non importa tanto quello che il ragazzo in una fotografia, quanto dove va: in una fotografia noi non possiamo distinguere se un certo posto un cantiere o una rovina, solo col tempo che si vede, perch la rovina continua a peggiorare, il cantiere a crescere. Il criterio evolutivo mi sembra pi importante che quello della fotografia. E a questo riguardo le pronunce della Cassazione, spesso difformi, non aiutano a definire il quantum di maturit richiesto dalla legge come condizione di imputabilit. Se infatti in alcune sentenze si afferma che la capacit di intendere e di volere va ravvisata nel concetto di maturit - ossia in quello di completa formazione e maturazione della sua personalit, (50) facendo propendere cos per l'ultima tesi, in altre si precisa che l'evoluzione richiesta non deve per altro confondersi con una completa maturit - nel campo intellettivo, etico e volitivo, (51) rimettendo quindi tutto in discussione.

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2.4. I parametri convenzionali di valutazione


Dato che la categoria della immaturit risulta essere cos imprecisa, gli elementi che possono testimoniarla risultano molteplici, con la conseguenza che altrettanti molteplici aspetti della vita e della psiche del ragazzo possono risultare idonei a farlo apparire un incapace. Di fronte all'ampiezza sia concettuale che interpretativa del concetto di maturit-immaturit si cercato di individuare dei parametri di riferimento per la valutazione dell'imputabilit pi o meno costanti. Tra questi, ve ne sono alcuni di immediato riscontro e altri pi complessi che richiedono l'ausilio dell'esperto. Tra i primi vengono in particolar modo presi in considerazione - come conferma la Cassazione (52)l'et dell'imputato, la natura del reato, la dinamica dell'azione criminosa e il comportamento processuale. L'et dell'imputato costituisce il primo fattore di indizio di immaturit. La prassi di molti Tribunali indica, infatti, una diminuzione progressiva della percentuale di non imputabili man mano che l'et dell'imputato aumenta: mentre gli imputati di quattordici anni sono in via generale dichiarati incapaci di intendere e di volere, quelli che si trovano alla soglia dei diciotto anni sono dichiarati immaturi solo in presenza di palesi carenze intellettive, affettive o sociali. A tal proposito la Suprema Corte afferma, addirittura, che "se l'imputato prossimo al diciassettesimo anno, e quindi in tempo ormai lontano dalla non imputabilit ex lege, ed ha commesso reati contro la persona, la cui natura facilmente percepibile, sufficiente la mancanza di elementi relativi a tare suscettibili di influire sui processi volutivi ed intellettivi per ritenerne ed affermarne la responsabilit". (53) Sebbene non sempre venga seguito tale orientamento, una differenziazione dell'accertamento sulla capacit, a seconda che il reato sia stato commesso nella prima adolescenza o verso la seconda adolescenza, esiste ed stata ritenuta corretta dalla Cassazione, secondo la quale "l'esame della maturit mentale del minore va compiuto [...] senza trascurare di considerare i tempi di commissione del fatto commesso e di cui il minore imputato lungo l'arco evolutivo della personalit del soggetto e quindi con un maggior rigore valutativo, allorch tale fatto si colloca nella fase finale dell'et evolutiva". (54) Un altro parametro stato individuato nella natura o qualit del reato, ovvero si sostiene che, potendo il medesimo soggetto essere capace di intendere e di volere per un determinato tipo di reato e non per un altro, la capacit ex art. 98 vada commisurata ad ogni specifica condotta e alla sua valenza delittuosa. Ormai "si passati [...] da un concetto globale ad un concetto relativo di imputabilit", (55) in quanto si ritiene che la capacit di intendere e di volere vada valutata non soltanto in riferimento al momento in cui stato compiuto il reato, ma anche in rapporto alla natura del reato stesso. (56) Come spiega Morello, il processo di maturazione non progredisce allo stesso modo rispetto a tutti i comportamenti dello stesso individuo nello stesso periodo, potendo progredire rispetto a determinati schemi comportamentali e ritardare rispetto ad altri, determinando l'esistenza di diversi livelli di maturit nello stesso individuo e nella stessa fase o stadio di sviluppo. (57) Il ragazzo acquisisce la consapevolezza della illiceit dei vari comportamenti delittuosi in momenti diversi, a seconda della natura della trasgressione; infatti, per riconoscere [...] l'immoralit di alcuni fatti - quali l'omicidio, lo stupro, la rapina - sufficiente uno sviluppo individuale anche limitato, perch tali fatti si contrappongono alle regole pi elementari di condotta morale e sono immediatamente ripugnanti, (58) e la maturit individuale si sviluppa assai prima in ordine alle azioni interessanti le moralit elementari che non a quelle riguardanti beni giuridici di meno facile comprensione. (59) Ne deriva che l'imputabilit di uno stesso soggetto pu essere ritenuta per alcuni reati ed esclusa per altri in considerazione della maggiore o minore avvertibilit del disvalore etico-sociale del reato e dell'immoralit secondo il comune modo di sentire. (60) Cosicch il minore pu risultare prosciolto per immaturit in relazione ad un certo addebito e, allo stesso tempo, essere giudicato imputabile per altri reati, addirittura commessi nella medesima circostanza temporale e contestuale; oppure pu accadere che il ragazzo, ritenuto imputabile per un determinato illecito - perch in relazione a questo considerato maturo - venga dichiarato non imputabile per un altro fatto, commesso dopo, a distanza di anni, il cui disvalore, per, ritenuto pi facilmente percepibile. (61) Riassumendo, secondo Liliana Barcellona, mentre certi fatti criminosi, come l'omicidio, la rapina, il furto, oltre a contrapporsi alle pi elementari regole di condotta sociale, appaiono immediatamente ripugnanti al sentimento comune, sicch la loro immoralit di facile percezione anche per un soggetto fornito di uno sviluppo individuale e psichico non molto progredito; altri, invece, essendo di pi difficile valutazione, richiedono, affinch il soggetto ne percepisca l'immoralit ed asocialit, una maturit psichica ed una sensibilit morale e sociale molto sviluppate. Ne consegue che, mentre per i reati del primo tipo, in linea di massima, positivo sar il giudizio sulla capacit di intendere e di volere del minore, fornito di un normale grado di evoluzione mentale, per i reati del secondo tipo ben pi difficile si presenter l'indagine su tale capacit, potendosi verificare che il soggetto, ancorch perfettamente capace di intendere e di volere in relazione ai reati pi gravi, possa non esserlo per quelli di pi difficile comprensione. Ed appunto questa considerazione che fa sorgere l'esigenza che l'accertamento del giudice di merito, circa l'imputabilit del minore, non venga effettuato astrattamente, in base al semplice esame della personalit e della condotta, ma tenga anche, e soprattutto, conto del fatto commesso e della sua natura. Ma Barcellona si spinge oltre, arrivando a sostenere che proprio dalla valutazione del fatto commesso che dovrebbe muovere l'attivit del giudice che voglia accertare l'imputabilit del soggetto, per continuare, poi, con l'esame sulla personalit e sulla condotta, esame che, nel caso dei reati pi gravi, e, quindi, di palese antisocialit, servir solo a confermare la capacit del soggetto, tranne nelle ipotesi in cui si scoprano anomalie psichiche [...]; mentre nel caso di reati meno gravi, e, quindi di antisocialit meno evidente, servir ad accertare l'esistenza o no della capacit del minore, dato che, in tali ipotesi, il semplice riferimento al fatto non sarebbe certo sufficiente per chiarire il dubbio circa tale esistenza. (62)

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C', addirittura, un'opinione interpretativa che riconnette direttamente al tipo di reato una presunzione di capacit, ma la Cassazione ha affermato che tale capacit non possa essere presunta dalla natura dei reati ascritti al minore o dal comportamento post factum dello stesso. Infatti i due dati, ancorch tra quelli utilizzabili a tal fine, sono insufficienti per apprezzare nell'imputato quel complesso di capacit, sentimenti, inclinazioni, che viene espresso nel concetto di maturit. (63) Ma quali sono i reati il cui disvalore sociale tale da poter essere agevolmente avvertito anche da un minore? Per quanto la Cassazione abbia pi volte espressamente indicato, a questo proposito, i delitti contro la persona e la propriet, la pratica giurisprudenziale al riguardo non costante. Soltanto in riferimento ai delitti pi gravi, come l'omicidio volontario, si nota una certa stabilit nel correlare il reato all'imputabilit. Nel caso per di omicidio, tentato o consumato, nei confronti dei propri familiari, si riscontra una certa tendenza al proscioglimento per immaturit, ed forse per questo che la diversa conclusione del processo di Erika ed Omar fa pensare ad una condanna in certo qual modo "popolare". La maturit di un soggetto pu essere desunta anche dalla dinamica dell'azione. Certamente, infatti, l'attenta programmazione del reato e l'uso di strumenti di un certo tipo possono servire come indizi di imputabilit. Cos la Cassazione ha ritenuto che fosse chiaramente indicativa del [...] completo sviluppo psichico e dell'assoluta padronanza delle sue facolt, intellettive e volitive, l'insidiosit dell'azione, la perfetta preventiva organizzazione, la fermezza del comportamento. (64) Ma stato rilevato che "desumere il requisito della capacit da tali elementi risulta spesso gratuito [...] e pu inoltre dar adito ad affermazioni prossime al paradosso, specie qualora la maturit o l'immaturit dell'imputato sia esplicitamente correlata al parametro dell'abilit delinquenziale": solitamente considerato maturo l'adolescente con buone attitudine al reato, e immaturo il compagno meno abile, "come se la pi ridotta inclinazione a realizzare illeciti potesse di per s assurgere a sintomo di una generale immaturit". (65) Ai fini dell'apprezzamento della maturit viene tenuto in considerazione anche il comportamento processuale dell'imputato. La Cassazione ha, infatti, affermato che, ai fini del giudizio circa l'imputabilit, pu essere sufficiente l'osservazione diretta del comportamento tenuto dal minore in aula. (66) In questo modo, ogni aspetto della sua condotta processuale - sia la comunicazione verbale, che i gesti, la posizione del corpo, l'espressione del viso, le pause, le cadenze della voce e simili - pu essere valutato come sintomatico della sua personalit: impulsivo, controllato, timido, sfrontato, ecc.. Il problema consiste nel significato da attribuire a un certo comportamento, che pu prestarsi ad interpretazioni diverse. Cos, una deposizione menzognera pu essere letta, in base a criteri strettamente giuridici, come mancata voglia di collaborare e perci penalizzata, oppure, in base a interpretazioni psicologiche, quale manifestazione di una personalit ancora infantile. Come possiamo essere sicuri che tremare o sudare indichino necessariamente una coscienza sporca e non siano, invece, segni di paura per la insolita situazione? L'equivocit del significato che possiamo attribuire agli atteggiamenti tenuti dall'imputato rende questo parametro poco attendibile. Inoltre, bisogna tener presente che il reato solitamente stato commesso un bel po' di tempo prima che il minore compaia in giudizio, quindi l'eventuale maturit dimostrata in aula non necessariamente era presente anche all'epoca del fatto. Secondo Adolfo Ceretti "la cosa pi importante quella di individuare tutta una serie di parametri e di leggerli in modo integrato. Se un elemento assente, come l'educazione familiare, non vuol dire che un minore automaticamente immaturo, mentre molte volte sia in dottrina che in giurisprudenza si lavorato in questo modo. Bisogna leggere come ogni parametro ha una ricaduta su tutti gli altri". Abbiamo gi osservato come, in tempi recenti, l'insufficienza dei paradigmi medico e psicologico per spiegare tutte le situazioni di non imputabilit dell'adolescente abbia fatto s che l'attenzione dei giuristi si spostasse verso il contesto socioambientale in cui si sviluppa la personalit del minore. Cos la capacit o l'incapacit di intendere e di volere viene correlata a qualsiasi evento fisico, psicologico, ambientale che possa aver influenzato il percorso evolutivo, perch nessun criterio di valutazione pu essere assunto come indicatore assoluto e autonomo della maturit, ma ciascuno deve essere considerato "come uno degli indicatori da valutare unitamente agli altri, insieme con lo stato di maturazione fisica e di salute del minore, nonch con qualsiasi altra circostanza del caso concreto che si rilevi illuminante". (67)

Note
1. F. Mantovani, Diritto penale cit., p. 670-671. 2. Atti della commissione ministeriale, in Lavori preparatori del codice penale, vol. IV, Roma 1929, p. 81. 3. Giuseppe Bettiol, Diritto penale, Pt. gen., Cedam, Padova 1986, p. 481. 4. Ibidem. 5. Si veda tra le altre Cass. 29 novembre del 1983. 6. Secondo il Tribunale per i minorenni di Campobasso, ad esempio, "nel corso delle indagini preliminari il Gip minorile competente ad emettere sentenza di non luogo a procedere per difetto di imputabilit del soggetto nei confronti del quale si procedere" (Trib. min. Campobasso, 19-5-1992, in Archivio della nuova proced. pen., 1992, p. 556). 7. Secondo Mercone, l'errore della giurisprudenza consiste nel far rientrare nel termine procedimento anche la fase delle indagini preliminari con il conseguente conferimento del potere decisorio anche al giudice preposto a tale fase, il Gip appunto. L'espressione procedimento viene anche usata per indicare le soli fasi del processo (M. Mercone, Sull'incompetenza del Gip minorile a pronunciare sentenza di non imputabilit per difetto di et, in Archivio della nuova proced. pen., 1992, p.558). La ricostruzione della dottrina, inoltre, sembra in linea con l'ampia nozione di infondatezza della notizia criminis recepita dal nuovo codice di rito, ed anche suggerita dal rilievo che, in questo caso, il pubblico ministero non esercita l'azione penale (M. Bouchard, voce Processo penale minorile, in Dig. pen., X, 1995, p. 154).
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8. Cass. 11 novembre 1993, X, in C.E.D. Cass., n. 197908. 9. Cass. penale, Sez. V, 29 luglio 1997, n. 1604, in Dir. pen e proc. 1998, I, p. 475. 10. Al minore non imputabile che abbia commesso un delitto e che sia stato ritenuto pericoloso, il giudice, tenuto conto specialmente della gravit del fatto e delle condizioni morali della famiglia in cui ha vissuto il reo, applica la misura di sicurezza del riformatorio giudiziario o della libert vigilata (art. 224 c.p.). La misura del riformatorio diventata facoltativa solo a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 20 gennaio 1971, dichiarativa dell'illegittimit del 2 comma dell'art. 224, nella parte in cui - con riferimento ai delitti dolosi punibili con l'ergastolo o con la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni - rendeva obbligatorio ed automatico il ricovero in riformatorio dell'infraquattordicenne per la durata minima di tre anni. 11. La declaratoria di illegittimit costituzionale delle presunzioni di pericolosit del minore infraquattordicenne stata pronunciata dalla Corte Costituzionale con la gi citata sentenza n. 1 del 1971. "L'opera della Corte Costituzionale si completata con le sentenze n. 139/1982 e 249/1983, secondo le quali il giudice dell'esecuzione deve sempre valutare in concreto la persistenza della pericolosit sociale al momento dell'applicazione di una misura a contenuto psichiatrico, anche oltre il primo accertamento giudiziario" (F. Palomba, Codice di procedura penale minorile commentato, in Esperienze di giustizia minorile, 1989, p. 257). Ed stata questa evoluzione della giurisprudenza della Corte Costituzionale che ha poi determinato l'adeguamento della legislazione con l'art. 31 della legge 663/1986, quindi con il nuovo codice di procedura penale. 12. Russo Parrino, Diritto penale minorile, Caltanisetta, 1953, p. 66. Anche altri hanno ritenuto che si trattasse di una presunzione, sempre sulla base della considerazione che, se la legge richiede che il giudice accerti l'esistenza della capacit di intendere e di volere, questo vuol dire che c' presunzione di incapacit, dato che, ove non sia raggiunta la prova della capacit, il minore va ritenuto non imputabile: l'incapacit del minore degli anni 18 la regola (egli imputabile e quindi punibile solo "se" positivamente provato che avesse capacit di intendere e di volere). (P.C. Paz, L'imputabilit minorile, in G. Barbarico, L. Lanza, P. Vercellone, P.C. Paz, M. Morello, A. Vaccaio, Risposte giudiziarie alla criminalit minorile, Unicopli, Milano 1982). Sebbene la tesi sia indubbiamente suggestiva per il favor rei minoris, non si pu accettare, perch la legge ha stabilito uno stato di incertezza che il giudice deve risolvere caso per caso, senza propendere per una soluzione anzich per l'altra. 13. La giurisprudenza sul punto costante: Cass. 11 gennaio 1988, in Giust. pen., 1989, II, p. 227; Cass. 14 novembre 1984, in Riv. pen., 1986, p.108; Cass. 15 gennaio 1982, in Giust. pen., 1982, II, p. 650. 14. Relazione al Re, n. 60, in Gazzetta Ufficiale 26 ottobre 1930, p. 4468. 15. Cass., 28 febbraio 1962, in Cass. pen. Mass. ann., 1962, p. 621. 16. Cass., 4 marzo 1966, in Cass. pen. Mass. ann., 1966, p. 1210. 17. Poich la capacit di intendere e di volere dell'imputato minore infradiciottenne non presunta, i giudici di merito sono tenuti a motivare il provvedimento sul punto relativo a tale imputabilit, che deve essere accertata in concreto in relazione al singolo episodio delittuoso ascritto all'imputato. L'omessa indagine al riguardo costituisce un motivo di nullit della sentenza, rilevabile in ogni grado del giudizio (Cass. pen., sez. II, 8 maggio 1980, in Riv. pen., 1981, p. 510). 18. Cass., 7 febbraio 1956, in Giust. pen., 1957, II, p. 641; Cass., 7 febbraio 1978, in Foro it., 1979, II, p. 103. 19. Cass., sez. III, 9 gennaio 1985, in Giust. pen., 1985, II, p. 665. 20. Certo, La tutela penale del minore, Cedam, Padova 1976, p. 32. 21. Paolo Vercellone, La imputabilit e punibilit dei minorenni nella legge penale italiana, in M.P. Cuomo, G. La Greca, L. Viggiani (a cura di), Giudici, psicologi e delinquenza minorile, Giuffr, Milano 1982, p. 111. 22. Relazione sul libro I del progetto, in Lavori preparatori del codice penale, vol. V, p. 146. 23. Non mancato chi, come Russo Parrino, ha sostenuto che, mentre la capacit di intendere e di volere del minore non pu essere presunta, quella dell'adulto si presume, potendo essere esclusa solo in caso di accertato vizio di mente (Russo Parrino, Diritto penale minorile, cit., p. 63). Ma, giustamente, stato osservato che un'indagine deve essere pur sempre effettuata, quantomeno per verificare l'assenza delle ipotesi di non imputabilit previste dal codice, per cui non si pu parlare di una presunzione di capacit a priori, ma semmai posteriore all'esito negativo dell'accertamento; in questo caso, per, non si tratterebbe pi di una presunzione, bens di un dato di fatto accertato per esclusione (Liliana Barcellona, L'accertamento della capacit di intendere e di volere nei minori degli anni diciotto, in Temi, 1973, p. 435-436). 24. A. Barsotti, G. Calcagno, C. Losana, P. Vercellone, Sull'imputabilit dei minori tra 14 e 18 anni, in Riv. it. dir. proc. pen., 1975, IV, p. 1227-1231. 25. Per la stesura di questo paragrafo, ho ricorso anche all'aiuto di alcuni esperti della materia: il professor Pierluigi Cabras, psichiatra e docente presso l'Universit di Firenze; il professor Adolfo Ceretti, psicologo, giudice onorario e docente presso l'Universit di Milano; la dottoressa Giovanna Di Bartolo, psicologa e giudice onorario; la dottoressa Antonella Fiorillo, giudice minorile; la dottoressa Carla Niccheri, psichiatra; il professor Adolfo Pazzagli, psichiatra e docente presso l'Universit di Firenze. 26. Relazione sul libro I del progetto del guardasigilli Alfredo Rocco, n. 107, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. V, Roma 1929, p. 147. 27. G. Ponti, P. Gallina Fiorentini, Imputabilit e immaturit nel procedimento penale minorile, in Riv. di polizia 1983. p. 562. 28. Ivi, p. 563-564.
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29. Trib. per i minorenni di Torino, 24 febbraio 1978, in Foro it., 1979, II, p. 55. 30. Trib. per i minorenni di Firenze, 4 giugno 1975, in Dir. di famiglia e delle persone 1977, p. 185. 31. Trib. Per i minorenni di Roma, 31 ottobre 1974, in Zacchia, 1975, p. 60. 32. Ibidem. 33. Trib. per i minorenni di Roma, 22 marzo 1973, in Giust. pen., 1974, II, p. 87. 34. Pier Carlo Paz, L'imputabilit minorile, in G. Barbarico, L. Lanza, P. Vercellone, P.C. Paz, M. Morello, A. Vaccaio, Risposte giudiziarie alla criminalit minorile, Unicopli, Milano 1982, p. 75. 35. Trovo le parole di Paolo Vercellone (P. Vercellone, La imputabilit e punibilit dei minorenni nella legge penale italiana, in Atti del convegno della societ di neuropsichiatria infantile, Camerino 1980) in Pier Carlo Paz, L'imputabilit minorile, in G. Barbarico, L. Lanza, P. Vercellone, P.C. Paz, M. Morello, A. Vaccaio, Risposte giudiziarie alla criminalit minorile, cit., p. 76. 36. Luigi Fazzo, L'imputabilit del minore ultraquattordicenne, in Luisella De Cataldo Neuburger (a cura di), Giudicando un minore, Giuffr, Milano 1984. 37. Trovo la citazione di Guglielmo Gulotta in Enza Roli, Dal reato alla personalit, Giuffr Milano 1996, p. 175. 38. Ugo Fornari, Trattato di psichiatria forense, Utet, Torino 1997, p. 231. 39. Ibidem. 40. Ibidem. 41. Ibidem. 42. Consiglio Superiore della Magistratura, Relazione sulla indagine svolta presso gli uffici giudiziari per i minorenni, Roma 1974, p. 67. L' indagine fu svolta negli anni 70 e 71 da una commissione costituita presso il Consiglio Superiore della Magistratura e si occup di tutto il settore della giustizia minorile, ovvero degli interventi dei Tribunali per i minorenni in sede penale, rieducativi e di giurisdizione volontaria. 43. Mentre alcuni tribunali hanno applicato l'art. 98 per ragazzi accusati di gravissimi reati, motivando l'assoluzione sulla base di fattori ambientali e familiari che avevano determinato un ritardo nello sviluppo della personalit (cfr. Tr. Min. L'Aquila 15 febbraio 1980, sentenza relativa ad un caso di parricidio), altri tribunali, come quello di Lecce e quello di Catania, l'hanno negata anche per i giovanissimi, privi della licenza elementare, appartenenti a famiglie deprivate, con riferimento a delitti e contravvenzioni quali l'oltraggio e la guida senza patente - reati mai ritenuti di grande rilevanza sociale, tanto che oggi sono stati depenalizzati. 44. I dati riportati sono stati presi da: A. Barsotti, G. Calcagno, C. Losana, P. Vercellone, Sull'imputabilit dei minori tra 14 e 18 anni, in Riv. it. dir. proc. pen., 1975, IV, p. 1226. 45. V' chi ritiene di stare in un normale tribunale penale, magari pi indulgente, dove si deve innanzitutto accertare il fatto e poi, se proprio non si deve condannare, si pu perdonare (il 42 % dei processi penali presso tutti i tribunali per i minorenni d'Italia si sono conclusi, nel periodo considerato, con l'applicazione del perdono giudiziale); v' invece chi crede che essenziale sia accertare chi il ragazzo giunto al processo ed allora meglio in grado e pi portato ad assolvere ex art. 98 c.p.. Ibidem. 46. Maria Grazia Domanico, Minori ultraquattordicenni tra esperienze recenti e mutazioni sociali, in Dir. pen. e processo, n. 6, 1995, p. 762. 47. "Dato per livello medio 100 a 14 anni, 110 a 15 anni e cos via fino a 140 a 18 anni, si dovrebbe ritenere punibile un ragazzo di 15 anni con livello concreto 110 e non punibile un ragazzo di 17 anni e 364 giorni con livello concreto 130: facendo chiaramente un'assurdit prima ancora che un'ingiustizia" (A. Barsotti, G. Calcagno, C. Losana, P. Vercellone, Sull'imputabilit dei minori tra 14 e 18 anni, in Riv. it. dir. proc. pen., 1975, IV, p. 1232). 48. A. Franchini, Medicina legale, Cedam, Padova, 1985. 49. A. Barsotti, G. Calcagno, C. Losana, P. Vercellone, Sull'imputabilit dei minori tra 14 e 18 anni, in Riv. it. dir. proc. pen., 1975, IV, p. 1232. 50. Cass. pen., sez. I, 19 gennaio 1987. 51. Cass. pen., sez. I, 26 aprile 1979. 52. In una sentenza della Cassazione si legge che nell'indagine rivolta ad accertare la sussistenza in concreto della capacit di intendere e di volere del minore degli anni diciotto, ex art. 98 c.p., il giudice svincolato dall'obbligo di nominare o di disporre speciali indagini tecniche, potendo accertare direttamente la ricorrenza dei requisiti sui quali deve fondarsi il giudizio di imputabilit del minore, attraverso la natura del reato, delle modalit del fatto, e del comportamento processuale complessivo del minore (Cass. pen., sez. I, 19 giugno 1987). 53. Cass. pen., sez. I, 23 marzo 1988. 54. Cass. pen., sez. I, 10 novembre 1987. 55. Tullio Bandini, Uberto Gatti, La minore et, in G. Gulotta (a cura di), Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale, Giuffr, Milano 1987, p. 875. 56. Secondo la Cassazione, mentre l'incapacit di intendere e di volere da causa psicopatologica ha carattere assoluto nel senso che prescinde dalla natura e dal grado di disvalore sociale della condotta posta in essere, [...] l'incapacit di intendere e di volere da immaturit ha carattere relativo, nel senso che trattandosi di qualificazione fondata su elementi non soltanto biopsichici ma anche sociopedagogici, relativi all'et evolutiva, l'esame della maturit mentale del minore va compiuto con stretto riferimento al tipo di reato commesso (Cass. 9 aprile 1980, in
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Riv. pen., 1980, p. 913). 57. Michele Morello, L'imputabilit del minore, in G. Barbarico, L. Lanza, P. Vercellone, P.C. Paz, M. Morello, A. Vaccaio, Risposte giudiziarie alla criminalit minorile, Unicopli, Milano 1982. 58. Cass., Sez. I, 3 maggio 1979, in Cass. pen. Mass. ann. 1980, p. 1547. 59. Cass., Sez. I, 12 gennaio 1979, in Cass. pen. Mass. ann. 1980, p. 75: la comune esperienza dimostra, infatti, che il minore, anche prima del raggiungimento dell'et di 14 anni, apprende che taluni atti interessanti la sfera personale e quella patrimoniale non devono essere compiuti: sicch il minore sin da allora perfettamente consapevole dell'illiceit anche giuridica di alcune condotte; mentre altre condotte, di portata morale meno elementare, richiedono, per l'imputabilit, un discernimento pi elevato, cio una maggiore capacit di intendere. 60. Cass., Sez. I, 28 settembre 1989. 61. Cfr. Cass., Sez. I, 15 maggio 1979, in Cass. pen. Mass. ann. 1980, p. 1547: [...] essendo sufficiente per taluni delitti un grado di maturit minore di quello occorrente per altre condotte penalmente sanzionate, la cui contrariet alle fondamentali esigenze della vita di relazione meno appariscente e richiede, perci, un grado di consapevolezza pi evoluto; Cass., Sez I, 11 luglio 1979, in Cass. pen. Mass. ann. 1980, p. 704: la maturit e la coscienza individuale si sviluppano assai prima in ordine alle azioni interessanti i beni elementari e fondamentali, come la persona ed il patrimonio, che non quelle riguardanti beni giuridici di meno facile comprensione, con la conseguenza che quando si tratta di delitti particolarmente gravi, quali l'omicidio - la cui contrariet alle norme della civile convivenza necessariamente tra le prime ad essere assimilata dalla mente umana - deve ritenersi sufficiente, per il riconoscimento della capacit dell'infradiciottenne, in assenza di fattori patologici, uno sviluppo intellettuale anche non molto progredito. 62. Liliana Barcellona, L'accertamento della capacit di intendere e di volere nei minori degli anni diciotto, in Temi, 1973, p. 439. 63. Cass. pen., sez. III, 9 gennaio 1985. 64. Cass. pen., sez. I, 13 febbraio 1981. 65. Enza Roli, Dal reato alla personalit, Giuffr, Milano, p.191. 66. Cass. pen., sez. I, 14 ottobre 1987. Cos anche Cass. pen., sez. II, 28 marzo 1978: ai fini dell'accertamento della capacit di intendere e di volere del minore degli anni diciotto possono ritenersi sufficienti anche le risposte date in sede di interrogatorio del minore quando il giudice tragga il convincimento che un esame pi approfondito non si riveli necessario. 67. Romano Ricciotti, La giustizia penale minorile, Cedam, Padova 2001, pp. 32-33. L'altro diritto - Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalit - ISSN 1827-0565

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Concomitanze tra l'et minore e le altre cause di incapacit

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Capitolo VI Concomitanze tra l'et minore e le altre cause di incapacit


Immaginate cosa significa avere appena compiuto vent'anni e ritrovarsi in un penitenziario di pietra grigia dopo un'infanzia trascorsa in istituzioni scolastiche per criminali. Soltanto un vero cretino non se ne sarebbe domandato la ragione. Ero semplicemente cretino? ... Ero io che avevo dichiarato guerra alla societ, o era la societ che mi aveva dichiarato la guerra? Le autorit si domandavano se ero pazzo, e anch'io. Non in un senso letterale: non soffrivo n di deliri, n di allucinazioni. Io soddisfacevo i criteri classici di quello che allora veniva chiamato lo psicopatico criminale (oggi viene definito sociopatico): un individuo che a parole si esprimeva come una persona sana, ma si comportava come un pazzo furioso. Era di un folle prendersela col mondo intero, anche se era il mondo che aveva cominciato. Edward Bunker

1. L'infermit mentale nel minore


Un particolare profilo problematico riguarda il rapporto tra maturit e infermit mentale. Molto si discusso sui rapporti tra queste due qualit e, in particolare, sull'ipotesi in cui concorrano entrambe in un soggetto quando si debba decidere della sua imputabilit. Nel caso in cui l'infermit psichica - lieve o grave - sia presente nel minore di quattordici anni, la soluzione relativamente semplice, perch si ritiene che il requisito dell'et, a cui il legislatore collega sempre l'immaturit, abbia carattere prevalente su ogni altro dato. D'altra parte, dal momento che il vizio di mente influisce sull'imputabilit, nulla pu fare nei casi in cui l'imputabilit manca gi del tutto a causa dell'et. (1) Il problema pu nascere semmai al momento di individuare le eventuali misure di sicurezza. L'art. 36 del D.P.R. 448/88, infatti, prevede che nel caso in cui il minore di quattordici anni abbia commesso un reato appartenente alla fascia pi grave (ovvero i delitti previsti dall'art. 23), si possa applicare la misura del riformatorio giudiziario. Pi complesso appare il discorso per quanto riguarda il minore ultraquattordicenne che presenti un vizio di mente, parziale o totale. Nell'ipotesi in cui il minore sia totalmente infermo di mente, il problema che si pone se bisogna prosciogliere ex art. 98 o ex art. 88 c.p.. Si tratta, in realt, di un problema puramente teorico, in quanto entrambe queste cause escludono l'imputabilit. Secondo Baviera la qualit prevalente , comunque, la malattia mentale la quale "porta con s una conseguenza - esclusione dell'imputabilit - che rende inutile ogni ulteriore indagine sulla possibilit di esistenza nel soggetto della capacit di intendere e di volere in conseguenza dell'et". (2) Inoltre, se si ritiene, come abbiamo detto, che il legislatore abbia voluto limitare il campo di applicazione dell'art. 98 c.p. ai soli casi di incapacit da immaturit, allora, coerentemente, il minore affetto da vizio totale di mente dovr essere assolto ex art. 88 c.p.. Infine, il giudizio sull'esistenza di una infermit di mente totale pi agevole e offre maggiori garanzie di certezze rispetto ad un giudizio sulla maturit. Non mancano per pronunce nelle quali si fa rientrare nel concetto di capacit di intendere e di volere, ai sensi dell'art. 98 c.p., l'assenza di malattie. (3) E ci sono poi sentenze in base alle quali deve essere ravvisata l'immaturit non solo quando per un ritardato sviluppo individuale in un minorenne atto a raggiungere il normale sviluppo, non si abbia in concreto la capacit di intendere e di volere, che invece comune nelle persone della stessa et, ma anche quando si tratta di deficiente organico o di altro infermo di mente. (4) Queste conclusioni a cui giunge la Corte non sono, per, tanto il frutto di un'analisi dell'art. 98 c.p. e dei suoi rapporti con l'art. 88 c.p., quanto il risultato di un'interpretazione del concetto di maturit fatta alla luce del, solo e riduttivo, paradigma medico. Per quanto concerne l'applicazione della misura di sicurezza, il legislatore del 1930 aveva previsto espressamente questa ipotesi all'art. 222, comma 4, c.p., stabilendo che nei confronti del minore che si trovasse in uno stato di infermit mentale (oppure di cronica intossicazione da alcool o da stupefacenti, oppure di sordomutismo), anche se prosciolto per ragioni di et, poteva essere disposto il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario. La Corte Costituzionale, per, con sentenza n. 324 del 1998, ha dichiarato l'illegittimit costituzionale degli art. 222 commi 1, 2 e 4, e 206 comma 1, nella parte in cui prevedono l'applicazione della misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario anche ai minori. Secondo la Corte l'applicazione indifferenziata di questa misura di sicurezza nei confronti dei minori non compatibile con i principi derivanti dagli art. 2, 3, 27 e 31 della Costituzione (5) ed in contrasto con alcune importante norme sopranazionali. (6) Il punto pi controverso riguarda la concomitanza tra il vizio parziale di mente e l'et compresa fra i quattordici e i diciotto anni, perch in questo caso ai problemi legati alla non facile individuazione dell'ambito di operativit dell'art. 98 si aggiunge la difficolt di definire con precisione la figura del vizio parziale di mente. Il problema non nuovo: si present, infatti, subito dopo l'entrata in vigore del codice penale del 1930 e la Cassazione lo risolse affermando che il minore dai 14 ai 18 anni pu essere dichiarato contemporaneamente imputabile ed affetto da vizio parziale di mente. (7) Secondo l'orientamento prevalente della giurisprudenza, l'immaturit e l'infermit mentale, essendo due concetti ontologicamente distinti, (8) possono coesistere in un minore. Conseguentemente, l'esclusione di uno stato di infermit mentale, che possa incidere sulla capacit di intendere e di volere, non esime il giudice dall'obbligo di accertare se il minore avesse, al momento in cui ha commesso il reato, tale capacit. La condizione naturale relativa all'et del minore e una infermit che incida sull'imputabilit sono tra
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loro indipendenti, anche se concorrono, perch trovano fondamento in cause ontologicamente diverse. Ne consegue che la ritenuta esclusione di una infermit, che possa incidere sulla capacit di intendere e di volere, non esime il giudice di merito dall'obbligo di accertare, con qualsiasi mezzo a sua disposizione, cos come prescritto dall'art. 98 c.p., se l'imputato minore degli anni diciotto, ma maggiore degli anni quattordici, abbia, al momento del commesso reato, tale capacit. (9) Reciprocamente, la valutazione della sussistenza di un'eventuale infermit fisica e psichica, che possa influire sulla capacit di intendere e di volere, non comprende l'esame della maturit dell'imputato infradiciottenne e, pertanto, non idonea ai fini dell'accertamento della sua imputabilit. Pu, infatti, accadere che il minore risulti affetto da infermit di mente. In tal caso, si sostiene che la presenza di un'infermit mentale non necessariamente si riflette sulla maturit del minore ai fini del giudizio sull'imputabilit, per cui il vizio parziale di mente non esclude l'imputabilit del minore. (10) Occorrer pertanto verificare se l'infermit mentale abbia ritardato il normale sviluppo psico-fisico del minore, impedendogli l'acquisizione di una maturit sufficiente per la capacit di intendere e di volere, oppure sia intervenuta in una condizione di (altrimenti) normale evoluzione psichica. Nel primo caso il soggetto dovr essere dichiarato non imputabile ai sensi dell'art. 98 c.p.; nel secondo caso si dovr distinguere l'ipotesi in cui l'infermit abbia del tutto annullato la capacit di intendere e di volere da quella in cui si sia limitata a scemarla considerevolmente. (11) Pertanto, l'eventuale infermit determinante un vizio parziale di mente opera sul minore nello stesso modo e con gli stessi limiti previsti nei confronti della maggiore et, ossia quelli previsti dall'art. 89 c.p. (12) Il vizio parziale di mente in persona minore degli anni 18 non comporta necessariamente la mancanza completa di imputabilit, quasi che, sommandosi le due menomazioni (per la minore et e per l'infermit psichica), debba in ogni caso escludersi totalmente la capacit di intendere e di volere. Occorre, invece, distinguere il caso in cui la malattia di mente abbia inciso sul normale sviluppo del minore, s da impedirgli di raggiungere quel minimo di evoluzione della coscienza e della volont che costituisce il presupposto dell'imputabilit, dal caso in cui l'infermit mentale sia caduta su un minore il cui quoziente di et psichica corrisponda al normale sviluppo dell'et cronologica: nella prima ipotesi l'imputabilit esclusa; nella seconda ipotesi si deve accertare se l'infermit abbia del tutto annullato la capacit di intendere e di volere, con conseguente mancanza di imputabilit, ovvero si sia limitata a scemarla grandemente, s che, in quest'ultimo caso, del tutto legittimo il concorso delle due diminuenti previste dagli articoli 89 e 98 c.p. nell'aspetto di una capacit di intendere e di volere diminuita sotto un duplice effetto, ma non esclusa. (13) Un excursus sulla giurisprudenza della Corte Suprema in materia mostra proprio il consolidato orientamento circa la compatibilit tra il vizio parziale di mente e l'imputabilit attenuata del minore di diciotto anni. Quindi rappresenta una vera eccezione una sentenza del 1936 la cui massima recita: anche l'infermit parziale toglie al minore quella capacit che il presupposto della sua imputabilit secondo l'art. 98 cod. pen. e quindi egli non pu essere ritenuto nello stesso tempo imputabile e seminfermo di mente. (14) In dottrina per sono presenti anche posizioni, in parte o del tutto, diverse rispetto alle due soluzioni opposte prospettate della giurisprudenza, che abbiamo appena esaminato. Accanto a chi sostiene, in linea con l'orientamento prevalente della giurisprudenza, che il minore dovrebbe fruire di una duplice riduzione di pena, vi infatti chi sostiene che il giudice, accertata in un minore la presenza di un vizio parziale di mente che determini una capacit di intendere e di volere grandemente scemata, dovrebbe applicare l'art. 89 c.p. e procedere ad un'unica riduzione di pena. (15) Questa tesi si basa sul presupposto che l'art. 98 c.p. non si applicherebbe in presenza di situazioni patologiche, avendo il legislatore, come abbiamo avuto modo di dire gi in altre occasioni, limitato l'area di operativit dello stesso alle sole situazioni fisiologiche. L'art. 98 c.p. non andrebbe perci applicato nemmeno per quanto riguarda la diminuzione di pena, la quale richiede un accertamento della maturit del soggetto, il che impossibile se il minore affetto da vizio parziale di mente. I sostenitori di questa posizione non tengono per conto del fatto che il semplice dato formale dell'et quello che fa sorgere l'obbligo per il giudice di accertare la capacit di intendere e di volere del minore, per cui non possibile sottrarre a questo tipo di accertamento una particolare categoria di soggetti, cio i minori affetti da vizio parziale di mente. Individuare l'ambito di applicazione di una norma non comporta, come corollario, che la norma non debba essere applicata quando il soggetto presenta una condizione ulteriore rispetto a quella disciplinata dalla norma in questione, proprio perch si tratta di condizione "ulteriore" e non di condizione "alternativa". Inoltre si verrebbe a creare una situazione iniqua per il minore seminfermo di mente, il quale sarebbe privato dell'accertamento in concreto della maturit, cio dell'accertamento in relazione allo specifico reato commesso, essendo questa una prerogativa legata all'art. 98 c.p. Infine, quoad poenam, la non applicazione della diminuzione di pena ex art. 98 c.p. comporterebbe la parit di trattamento del minore maturo e del minore seminfermo di mente, pur avendo il secondo una capacit grandemente scemata rispetto al primo. Seguace della tesi dell'incompatibilit tra la seminfermit di mente e la minore et anche Trapani, il quale afferma che pur essendo radicale la diversit tra incapacit di intendere e di volere in senso fisiologico (art. 98 c.p.) e incapacit di intendere e di volere in senso patologico (art. 88-89 c.p.), tuttavia impossibile configurare in concreto un minore normalmente sviluppato sul piano fisico-psichico, in rapporto all'et, fino a potersi considerare maturo, ma nel contempo affetto da vizio parziale di mente idoneo a scemare grandemente, per infermit, la capacit di intendere e di volere del minore. (16) Ma, diversamente da quanto sostenuto da Portigliatti Barbos e Marini, secondo Trapani questo comporterebbe che il minore ultraquattordicenne, affetto da infermit che determini una capacit di intendere e di volere grandemente scemata, vada ritenuto non imputabile per totale incapacit di intendere e di volere ex art. 98 c. p. e non ex art. 89 c. p.. Ad una dichiarazione di non imputabilit del minore seminfermo di mente, secondo Russo Parrino, si dovrebbe giungere sempre. Questa conclusione si basa sulla considerazione che se in una persona di et compresa tra i quattordici e i diciotto anni viene ad incidere, oltre al naturale grado di debilitazione psichica inerente all'et, anche un'altra causa che scemi grandemente ed ulteriormente la gi limitata capacit di intendere e di volere, la residua capacit psichica risulter nulla o quasi. In altre parole, la somma della diminuzione di capacit per l'et con quella per infermit parziale di mente non pu dar altro risultato se non l'assenza completa di capacit. La tesi di Russo Parrino inaccettabile non tanto per la conclusione a cui giunge, quanto per la premessa da cui parte. Egli parte,
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infatti, dal presupposto che la capacit di intendere e di volere richiesta dall'art. 98 c. p., al fine dell'imputabilit del minore, sia una capacit notevolmente limitata rispetto a quella richiesta per gli adulti. L'errore, secondo Baviera, sta proprio qui, perch "nel minore non esiste [...] una diminuzione di capacit di intendere e di volere: questa integra - sia pure in relazione all'et [...]. Quella che diminuita la pena e non la capacit". (17) E ancora: non si comprende quale assurdit logica vi sia nel considerare [imputabile] un minore (cui manchi, per esempio, solo una settimana al compimento del diciottesimo anno) il quale abbia capacit di intendere e di volere, ma la presenti grandemente diminuita per infermit mentale. Si tratta di quella stessa capacit di intendere e di volere che avr quello stesso giovane una settimana dopo, gi maggiore degli anni 18. e, dovendosi applicare entrambe le disposizioni degli articoli 89 e 98 cod. pen. (entrambe di carattere generale e compatibili fra di loro) - di cui ricorrono gli estremi preveduti in tali articoli - a quella persona dovr concedersi una sola diminuzione di pena per il reato commesso dopo il compimento del diciottesimo anno; mentre si dovranno applicare due diminuzioni successive per il reato commesso prima di tale data. (18) Ne deriva che la figura del minore seminfermo di mente non un assurdo logico e giuridico, almeno nella misura in cui non un assurdo logico e giuridico la figura dell'adulto seminfermo di mente. Sostenitore come Baviera della possibilit che un minore, il quale abbia gi acquisito la capacit di intendere e di volere, possa per, al momento del fatto, presentare questa capacit grandemente scemata a causa di un'infermit mentale, anche Ferrone. L'esempio che questi fa quello del minore epilettico: se il minore, che risulti sufficientemente maturo, abbia commesso il reato in periodo che precede o segue in via immediata l'accesso epilettico, in una situazione di capacit di intendere e/o di volere grandemente scemata, a causa di una delle modificazioni mentali tipiche dei periodi interaccessuali, non si vede perch non vada applicato nei suoi confronti l'art. 89 c.p.. (19) I sostenitori della conciliabilit tra imputabilit e seminfermit di mente rilevano l'esistenza di "argomenti testuali di diritto positivo" che "confermano la possibilit di ammettere una infermit parziale di mente quando il minorenne sia maturo e, come tale, capace e passibile di pena". (20) Il combinato disposto degli articoli 142, comma 3, e 141, comma 2 c. p. - prima della sua abrogazione ad opera dell'art. 89 dell'ordinamento penitenziario - stabiliva che i minori di diciotto anni, che fossero condannati a pena diminuita per infermit psichica, scontassero la condanna in stabilimenti speciali. Da questo si ricava che il legislatore ha ammesso la possibilit che il minore di diciotto anni sia dichiarato contemporaneamente imputabile ed affetto da vizio parziale di mente. Ma, in pratica, in presenza di una grave causa di natura patologica perturbatrice della personalit, come far il giudice a dare la prova della raggiunta maturit del minore? Ecco che, in dottrina, possibile individuare un triplice orientamento: accanto alle due posizioni che hanno sposato le opposte soluzioni prospettate dalla giurisprudenza, Battaglini ne ha enunciata una terza che pone in risalto il divario tra le norme giuridiche e la realt psicologica e psichiatrica del minore: "se la questione si esamina da un punto di vista strettamente giuridico la audace tesi dell'inconciliabilit non sembra sostenibile. [...] Ma se [...] la questione si esamina nella palpitante realt della psicologia e della psichiatria minorile, l'apparente eresia della inconciliabilit scompare". (21) Prima ancora della scienza, la stessa esperienza quotidiana che ci mostra come lo sviluppo psico-fisico dell'adolescente sia sostanzialmente diverso da quello dell'adulto: "il periodo intermedio dai quattordici ai diciotto anni che succede a quello della cos detta et premorale corrisponde approssimativamente al periodo della pubert, la quale caratterizzata, come noto, da una profonda crisi fisiologica con inevitabili ripercussioni su tutta la psiche e specialmente sullo sviluppo del carattere". (22) Date queste premesse, ci domandiamo: se nel periodo dell'adolescenza si inserisce un fattore morboso specifico, la sua influenza sul minore potr essere uguale all'influenza dello stesso fattore nei confronti dell'adulto che ha gi raggiunto un assoluto equilibrio endocrinologico, fisiologico e psicologico? "La capacit penale del minore una capacit sui generis, cio ha un contenuto ed un'ampiezza a s stante, corrispondente a quella maturit psichica relativa alla sua evoluzione fisio-psichica. Or bene se su questa maturit agisce un fattore morboso, sembra ovvia la conclusione che l'influenza di questo fattore non agisca nei limiti previsti per l'adulto". (23) Per quanto riguarda specificatamente l'ipotesi del vizio parziale di mente, il fatto che si richieda una grave menomazione e non una menomazione qualsiasi, fa s che il grado di incapacit si trovi molto vicino alla incapacit totale, onde gi nell'adulto risulta difficile una sicura diagnosi differenziale. certo che il minore in partenza meno dotato dell'adulto (immaturit per et) e pertanto su questa sua gi modesta dotazione, una infermit ha effetti proporzionalmente maggiori che nell'adulto, onde mal si intravede la possibilit di un residuo [...] di capacit tale da configurare un vizio parziale di mente e cio una condizione per la quale il soggetto libero di determinarsi, ma solo fino a un certo punto. (24) Sul piano medico legale non sembra accettabile procedere con una specie di criterio matematico che ci assicuri che la somma tra infermit ed immaturit ci dia come risultato una menomazione soltanto grave e non invece una totale incapacit. Anche perch, in realt, "immaturit per et e infermit vera e propria non possono semplicemente coesistere ma si aggravano vicendevolmente, concausando un effetto ultimo ben pi grave di quello che si potrebbe desumere da un empirico procedimento di semplice somma". (25) per questo che, come rileva Battaglini, le cause che influiscono sulla maturit e sulla sanit mentale del minore sano vanno prese in considerazione e valutate "nella loro combinazione e nelle loro interferenze reciproche". (26) Si pu ipotizzare che l'affermata compatibilit tra et minore e vizio parziale di mente rientri fra le scelte di politica penale, ovvero sia lo strumento utilizzato per introdurre in via giurisprudenziale la figura della semi-maturit non prevista dal legislatore, o, comunque, per permettere al giudice di diminuire ulteriormente la pena nei confronti di un minore che, pur essendo maturo, non appaia meritevole di condanna. Quanto, infine, al concorso tra sordomutismo e seminfermit, accanto alla posizione di chi afferma la possibilit di cumulare le due diminuzioni di pena in applicazione degli stessi criteri che regolano la concomitanza tra minore et e vizio parziale di mente, (27) vi quella di chi li ritiene assorbenti e quindi determinanti una sola riduzione di pena, che dovr essere quella da imputarsi alla figura prevalente, e cio ai sensi dell'art. 96 c.p.. (28)

2. L'accertamento dell'imputabilit del minore assuntore di stupefacenti


2.1. La genesi del fenomeno della tossicodipendenza

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Il fenomeno della diffusione del consumo di droga, soprattutto da parte di ragazzi giovani, ha interessato il mondo occidentale solo recentemente. Nell'800 e fino agli anni '60 [...] il problema droga non esisteva [...]: le tossicomanie non costituivano pertanto un fenomeno di interesse sociale, la droga non esercitava alcuna attrattiva sui giovani e coinvolgeva solo pochissimi individui. Si trattava per lo pi di intellettuali e letterati che erano diventati morfinomani o cocainomani o assuntori di hashish frequentando sofisticati ambienti artistici; oppure di persone che avevano facilit di accesso agli stupefacenti per ragioni professionali, quali medici e infermieri; ovvero ancora pochi che, avendo assunto stupefacenti per motivi medici e per lenire dolori, erano poi divenuti dipendenti. Per avere un'idea dell'esiguit del fenomeno, basti pensare che in Italia negli anni '30 erano schedati poco pi di un migliaio di morfinomani. (29) Il fenomeno della droga ha iniziato ad espandersi anche fra i giovani in seguito ai movimenti di contestazione studentesca - nati negli Stati Uniti ed arrivati, nel '68, in Europa -, come emblema di protesta ed espressione di trasgressione: "l'impiego di droghe leggere [...] fu [...] recepito da larghi strati di giovani con un significato dichiaratamente oppositivo ai valori di un sistema sociale da loro ripudiato: poich la societ proibiva l'uso di queste sostanze, proprio per esprimere il rigetto dei suoi valori veniva fatto uso di droghe". (30) Una volta esaurita quella connotazione contestataria e rivoluzionaria che il consumo di droga aveva inizialmente assunto tra i giovani, da una parte si erano comunque gi formati fra questi dei veri e propri tossicodipendenti, dall'altra l'ormai larga disponibilit del mercato, nelle mani delle organizzazioni mafiose, ne facilitava l'uso da parte di nuovi adepti. Oggi, venuti meno i motivi ideologici, "il consumo di stupefacenti andato legandosi a motivazioni esclusivamente voluttuarie, cio di ricerca della gratificazione soggettiva dovuta agli effetti psichici in vario modo piacevoli". (31) La diffusione del fenomeno "droga" ha causato una serie di problemi prima del tutto sconosciuti e ha creato una vera e propria fenomenologia criminosa.

2.2. Il dato normativo


"Il problematico collegamento fra imputabilit penale e referenti naturalistici del suo contenuto costituisce un esempio fra i pi chiari del difficile rapporto fra dimensione normativa e realt empirica". (32) In particolare, per quanto riguarda l'assunzione di sostanze stupefacenti, si configura una situazione in cui non vi coincidenza fra il parametro naturalistico e quello giuridico in ordine alla responsabilit penale: "questo tipo di sostanze per i loro effetti psicoattivi hanno infatti marcata idoneit a interferire in vario modo sull'intendere e sul volere [...]. Ma, per principio, non sono considerati dal legislatore rilevanti sull'imputabilit gli effetti psichici di tali sostanze, perch, per convenzione giuridica, ciascuno deve essere in grado di controllarne l'uso, di inibirlo o moderarlo". (33) Questa impostazione risponde ad una precisa scelta di politica criminale compiuta dal legislatore, che ha volutamente effettuato un'eccezione nei confronti della regola generale dettata dall'art. 85 c. p., secondo la quale nessuno pu essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato, se al momento in cui lo ha commesso non era capace di intendere e di volere. Questa scelta, dettata dalla "preoccupazione di reprimere l'abuso voluttuario, a causa dell'accresciuta possibilit di commettere in tali condizioni atti delittuosi, [...] si traduce in una fictio iuris, per la quale viene ritenuto responsabile anche chi poteva di fatto non esserlo se [...] l'acuta intossicazione da droghe lo aveva privato o limitato nella capacit di intendere e di volere". (34) Anche le legislazioni di quasi tutti gli stati europei risolvono la questione dell'imputabilit e della punizione dei soggetti che agiscono sotto l'effetto di stupefacenti in termini analoghi a quelli dettati dal codice penale italiano, e anche negli stati europei dove l'interpretazione regina, i giudici hanno adottato criteri simili a quelli codificati dal nostro ordinamento penale. L'assunzione di sostanze stupefacenti da parte di ragazzi di et compresa fra i quattordici e i diciotto anni, manifestatasi con maggiore evidenza, come abbiamo detto, a partire da met degli anni '70, pone delicate questioni interpretative per quanto riguarda il rapporto tra i rispettivi ambiti di operativit delle disposizioni del codice penale che regolano, da una parte, l'imputabilit degli assuntori di stupefacenti e, dall'altra, l'imputabilit del minore. Il legislatore disciplina la rilevanza, ai fini dell'imputabilit, dell'assunzione di sostanze stupefacenti agli art. 91-95 c. p., attraverso un richiamo della disciplina prevista per l'assunzione di alcolici. Il combinato disposto degli articoli 91 e 93 c. p. prevede l'esclusione di imputabilit per colui che, al momento del fatto, non aveva la capacit di intendere e di volere a causa dell'effetto delle sostanze stupefacenti assunte per caso fortuito o forza maggiore; nel caso in cui la capacit sia non del tutto assente, ma grandemente scemata prevista una diminuzione di pena. Quando, invece, l'assunzione degli stupefacenti non dovuta a caso fortuito o a forza maggiore, gli articoli 92 e 93 c. p. stabiliscono che l'imputabilit non n esclusa n diminuita. E se, addirittura, l'assunzione stata preordinata al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusante la pena aumentata. Un aggravamento di pena previsto anche dall'ultimo comma dell'art. 94 per il caso in cui il reato stato commesso sotto l'azione di sostanze stupefacenti da chi dedito al loro uso. Infine, l'art. 95 prevede l'applicazione delle norme sul vizio totale e parziale di mente (artt. 88 e 89 c. p.) per i reati commessi in stato di cronica intossicazione prodotta da sostanze stupefacenti. In dottrina queste ipotesi prese in considerazione e disciplinate dal codice penale prendono, rispettivamente, il nome di assunzione accidentale, volontaria, preordinata, abituale e di cronica intossicazione. Come abbiamo gi detto, all'assuntore di stupefacenti viene esteso il trattamento previsto per il consumatore di alcolici. Questo si spiega facilmente se solo si pensa che all'epoca in cui stato redatto il codice la diffusione dell'uso di sostanze stupefacenti era certamente minore rispetto all'assunzione di alcolici. Ma guardiamo la genesi di questa disciplina. L'art. 48 del Codice Zanardelli stabiliva delle forti riduzioni di pena per chi avesse commesso il delitto in stato di ubriachezza volontaria, con la sola eccezione di quella preordinata. Gli autori del codice Rocco, legati a scelte di politica penale repressive e generalpreventive, volevano modificare la legislazione precedente, eliminando la concessione di benefici in caso di ubriachezza volontaria. Si doveva anche risolvere una volta per tutte la dibattuta questione se l'ubriachezza colposa dovesse essere equiparata a quella volontaria - come poi fece il Codice Rocco - o a quella accidentale - come qualcuno sosteneva sotto la vigenza del Codice Zanardelli. Inoltre, mentre l'ubriachezza abituale era considerata dal codice precedente un'attenuante (sia pure in misura ridotta rispetto all'ubriachezza volontaria), ora la si riteneva un'aggravante, per cui era necessario mettere in evidenza la diversit della situazione della intossicazione cronica, che andava parificata ad una vera e propria malattia. Infine, nonostante la ancora

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scarsa diffusione del problema, si riteneva fosse, comunque, necessario occuparsi anche dell'uso delle sostanze stupefacenti, dal momento che procuravano stati uguali a quelli causati dal consumo di alcolici. Si rese quindi necessario disciplinare ex novo la materia. Per quanto riguarda, invece, la normativa sull'imputabilit del minore, di cui si gi ampiamente parlato, basta qui ricordare che ai sensi dell'art. 98 c. p. il minore tra i quattordici e i diciotto anni imputabile se, al momento in cui ha commesso il fatto, aveva la capacit di intendere e di volere, e che tale capacit stata individuata dalla dottrina nel concetto di maturit psichica. L'evoluzione richiesta non deve coincidere con una maturit - nel campo intellettivo, etico e volitivo - completa, ma sufficiente a rendere il minore consapevole del disvalore sociale dell'atto e capace di determinare la sua condotta in relazione all'atto. (35) Gli indicatori individuati dalla giurisprudenza come elementi sintomatici di maturit o di immaturit del minore possono, per, essere influenzati da un'assunzione di stupefacenti fatta con una certa continuit e protratta nel tempo. necessario perci capire se il consumo di droga deve essere considerato quale indicatore di immaturit oppure valutato ai sensi degli art. 91-94 come non influente sull'imputabilit.

2.3. L'assunzione di stupefacenti nell'elaborazione dottrinale


La dottrina medico-legale ha, innanzitutto, individuato i diversi stadi legati all'uso delle sostanze stupefacenti. Il primo stadio quello dei semplici consumatori definiti come coloro che usano la droga, qualunque essa sia, saltuariamente o in situazioni eccezionali; oppure anche in modo ripetuto, ma utilizzando dosaggi del tutto innocui e mantenendo sempre la possibilit di interrompere l'assunzione senza risentirne conseguenze. Il secondo stadio individuato nei tossicodipendenti, cio in coloro nei quali la dipendenza si instaurata, a cagione del protrarsi dell'uso. Nel tossicodipendente si ormai innestata una dipendenza psichica e, se la droga idonea, anche quella fisica. Lo stadio pi grave di tossicodipendenza rappresentato dai tossicomani, quelle persone - quasi esclusivamente assuntori di eroina, pi raramente di cocaina, e spesso di entrambe le sostanze - nelle quali per essere diventata la tossicodipendenza particolarmente intensa, l'assunzione di droga assurta a tale imperativit da diventare l'unica ragione di vita. Il tossicomane perde tutti i valori che aveva precedentemente, non ha pi gli stessi interessi di prima e finisce per condurre uno stile di vita totalmente diverso e, quasi sempre, delinquenziale. (36) Se inquadriamo queste definizioni nella realt normativa degli art., 91-94 c. p. possiamo dire che sia il semplice consumatore che il tossicodipendente sono sempre ritenuti imputabili, e nei loro confronti va applicato l'aggravamento di pena previsto dagli art. 92 e 93 in caso di preordinazione criminosa e dall'art. 94 in caso di abitualit. Per quanto concerne invece l'ipotesi di intossicazione cronica prevista dall'art. 95, la sua identificazione ancora oggetto di discussioni.

2.4. L'assunzione di stupefacenti da parte dell'imputato minorenne


I minori tra i quattordici e i diciotto anni "non sono legati al consumo di una sostanza specifica ma tendono ad assumerne di vario tipo ed effetti, non raggiungono un livello di vera e propria tossicodipendenza tanto da risentire dell'assenza della sostanza fino a subire una vera e propria crisi di astinenza". (37) Da un'indagine statistica condotta nel 1984 sui consumatori di stupefacenti all'interno degli Istituti di osservazione minorili risulta che sui 658 casi rilevati il 15,34% fa uso indiscriminato di due o pi tipi di sostanze, in 400 casi utilizzata l'eroina e in 81 l'hashish, e solo in otto casi si verificata una crisi di astinenza. (38) Per quanto riguarda i minori, quindi, solo in rarissimi casi si pu parlare di vera e propria tossicodipendenza: la stessa ambiguit, che caratterizza l'adolescenza, si oppone ad un radicale consolidamento della dipendenza; il tempo, che usualmente trascorre tra le prime assunzioni e la stabilizzazione delle conseguenze psicologiche e fisiche della droga, porta generalmente il soggetto oltre il diciottesimo anno di et; la disponibilit di danaro non consente, di solito, assunzioni regolarmente massive [...]. Si tratta piuttosto di ragazzi che, muovendo da un complessivo disagio esistenziale e da condizioni di depauperamento affettivo e culturale, vedono nella droga un mezzo per superare difficolt di identificazione, per integrarsi in un gruppo, per sentirsi partecipi di un certo tipo di sottocultura giovanile; il rapporto con la droga resta caratterizzato da questo tipo di motivazioni, [...] e se anche tende a rafforzarsi in relazione all'aumento della dipendenza psicologica e alla conferma della disistima di s, raramente giunge alla soglia della vera dipendenza. (39) L'assunzione di stupefacenti assume le caratteristiche di una vera e propria tossicodipendenza solo fra i diciotto e i ventuno anni, trovando quindi fra i quattordici e i diciotto solo l'origine del fenomeno, con conseguente esclusione, in questa fascia d'et, del fenomeno della cronica intossicazione da sostanze stupefacenti. Mentre sono rare, nella pratica giudiziaria, le ipotesi di assunzione derivante da caso fortuito o da forza maggiore (artt. 91 e 93 c. p.) e di abitualit (art. 94, ultimo comma, c. p.), frequente l'assunzione volontaria di droga prima della commissione del reato (artt. 92 e 93 c. p.). In realt la spontanea dichiarazione dell'imputato di aver assunto stupefacenti prima della commissione del reato - fatta generalmente nella convinzione di ottenere un trattamento penale o detentivo pi favorevole - potrebbe inquadrare una situazione assimilabile alla preordinazione prevista dall'art. 92, comma 2, c. p.. Ma, di fatto, affinch la preordinazione costituisca causa di aggravamento di pena va provato che l'uso degli stupefacenti stato fatto proprio per commettere il reato o per procurarsi una scusa, prova questa che si rivela spesso di difficile acquisizione. Da quanto detto emerge che la problematica pi frequente per gli imputati minorenni assuntori di stupefacenti quella dell'assunzione volontaria, rilevante ex artt. 92 e 93 c. p.. La difficolt nel coniugare l'art. 93 con l'art. 98 c. p. sarebbe data, secondo Grasso e Roberti, dal diverso rapporto che tali articoli creano fra realt naturalistica e realt normativa. L'art. 93, infatti, stabilendo che l'imputabilit non n esclusa n diminuita dall'assunzione volontaria di stupefacenti, introduce un'ipotesi di imputabilit presunta, creando cos un divario fra la realt naturalistica e quella normativa. L'art. 98, invece, imponendo una valutazione della capacit di intendere e di volere, prende in considerazione la realt soggettiva dell'imputato vista nella sua evoluzione, realizzando il massimo di corrispondenza fra la realt naturalistica e la realt normativa. In altre parole, mentre l'art. 93 impone un accertamento relativo solo al momento della commissione del fatto, finalizzato a verificare se il minore era sotto l'effetto di droga, l'art.98 richiede una valutazione globale del minore nel suo
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aspetto evolutivo. Le indagini richieste dai due articoli risultano perci contrastanti: la prima un'indagine su una realt statica, la seconda impone l'accertamento di una realt dinamica. Il fatto che il minore, quando commise il reato, fosse sotto l'effetto di sostanze stupefacenti assunte volontariamente, bench non abbia di per s alcuna rilevanza circa l'imputabilit, pu tuttavia assumere un notevole rilievo in sede di accertamento ex art. 98, come possibile indicatore di immaturit del minore. Infatti, "un conto escludere che la droga possa essere, per cos dire causa di immaturit [...], un conto chiedersi se la droga non possa essere sintomo di immaturit". (40) Alcuni autori ritengono che la capacit di astenersi dal fare uso di sostanze stupefacenti, evidentemente presunta dall'art. 93, richiederebbe dei freni inibitori incompatibili con lo stato di "soggetto in formazione" proprio del minore tra i quattordici e i diciotto anni, il quale si accosterebbe alla droga "per la sua incapacit di riflessione e di previsione delle conseguenze, per imitazione o per la curiosit di provare nuove e diverse sensazioni". (41) Se la legge ha disposto che l'ubriaco volontario, o chi volontariamente assume stupefacenti, non abbia attenuanti di sorta nel caso che quelle intossicazioni lo sospingano al delitto, perch presume che la persona abbia la capacit psichica di astenersi dall'ubriacarsi o dall'assumere stupefacenti. [...] per riuscire a farli agire efficacemente occorre che i freni astensionistici siano ben robusti ed il loro manovratore ben valido. Questa validit di poteri inibitori e questa capacit di farli agire al momento opportuno, se sono per - ed in ipotesi teorica - possibili in un adulto mentalmente sano, sono altrettanto impossibili in un giovane adolescente. (42) L'immaturit di cui all'art. 98 c.p., infatti, deve essere valutata in riferimento alle caratteristiche del reato di volta in volta commesso, e questa valutazione deve essere effettuata in relazione sia al momento della consapevolezza che della volont. E se, in linea generale, possiamo ritenere che i minori assuntori di sostanze stupefacenti - anche in considerazione dei reati usualmente commessi - sono in grado di percepire l'illiceit del proprio comportamento, non altrettanto possiamo fare per quanto riguarda l'aspetto della volont, dell'attitudine a determinarsi nella scelta fra il bene e il male, l'onesto e il disonesto, il lecito e l'illecito, (43) perch si possono verificare dei casi in cui il minore non grado di resistere alla commissione del reato, pur percependolo come tale. Il discorso si fa pi complesso nel caso in cui il minore che ha commesso il reato sia dedito all'uso di sostanze stupefacenti e incorra, perci, nell'aggravio di pena previsto dall'art. 94 c. p.. Gli esperti sono concordi nel ricondurre l'assunzione di droga da parte del minore ad un ritardo nello sviluppo della personalit o, comunque, ad un ostacolo da questi incontrato nel superare le varie fasi della crescita. Questo vuol dire che nel comportamento tossicofilo sono riscontrabili evidenti segni di immaturit, i quali potrebbero portare ad un proscioglimento ex art. 98 c.p.. Se infatti leggiamo le definizioni formulate dagli esperti su chi sono i tossicodipendenti, si capisce che si tratta di soggetti "particolarmente narcisisti, con tendenza all'ipertrofizzazione dell'io ed all'ipercompensazione fantastica volta a colmare il vuoto di identit; appaiono socialmente inibiti, passivi, probabilmente con tendenze aggressive represse, scarsamente consapevoli di s e della propria identit sessuale", (44) e che nei pi giovani presente "maggiore introversione, minore adattamento all'ambiente, incidenza rilevante di squilibri emotivi, sfiducia in se stessi, timore della solitudine e quindi tendenza a confondersi in gruppo". (45) Queste parole potrebbero benissimo trovarsi in quelle sentenze che applicano l'articolo 98 c.p., come definizioni di minori immaturi, visto che se dovessimo descrivere con una sola parola questi ragazzi tossicodipendenti, diremmo senza dubbio che si tratta di immaturi. Questo ovviamente, come sottolinea Dusi, non deve portare a configurare una specie di licenza di uccidere che accompagna il minore che viola la legge penale per procurasi la droga, ma semplicemente che l'art. 98 e il proscioglimento per immaturit deve essere compreso nel ventaglio delle possibili modalit di intervento utilizzabili dal giudice. (46) Nella pratica, per, a parte quei rarissimi casi in cui le condizioni del soggetto sono cos deteriorate da condurre facilmente al riconoscimento della capacit di intendere e di volere, normalmente le caratteristiche e le problematiche di questi ragazzi non vengono prese esplicitamente in considerazione dal giudice, il quale di solito non attribuisce autonoma rilevanza al loro rapporto con la droga. Anzi, secondo Dusi, pu accadere che il fattore tossicodipendenza giochi implicitamente in modo sfavorevole al minore, comportando una carcerazione preventiva pi lunga, una pena pi pesante e una maggiore resistenza alla concessione del perdono giudiziale. (47) Di fatto, l'immaturit stata riscontrata pi facilmente in minori che non avevano esperienze di droga piuttosto che in minori tossicodipendenti. Se l'assunzione di droga non pu certo essere considerata sinonimo di immaturit e automaticamente comportare un proscioglimento ex art. 98 c.p., possiamo dire che l'uso di droghe spesso sintomo di un disagio del minore, per cui necessario "indagare sui precedenti fisiopsichici e familiari del soggetto ai fini dell'accertamento della capacit di intendere e di volere di cui all'art. 98 c.p.. Tale rilievo comporta la necessit, per l'autorit giudiziaria procedente, ove ricorra il caso di imputato assuntore di stupefacenti, di indagare specificamente e comunque sulle ragioni che hanno condotto l'imputato al consumo dello stupefacente (sia esso occasionale o saltuario o ci si trovi di fronte uno stato di vera e propria tossicodipendenza)". (48) importante cercare di individuare la struttura psicologica del ragazzo che delinque, spesso per procurarsi la droga, perch questa influisce non solo sull'imputabilit, ma anche sul perdono giudiziale, sulla sospensione condizionale della pena, sulla graduazione della sanzione e sulla scelta della misura. Il problema dell'accertamento in concreto della capacit di intendere e di volere dei minori tossicodipendenti si posto solo nei confronti di soggetti con manifestazioni di dipendenza da eroina. Questo perch "in presenza di tossicodipendenza da eroina viene in considerazione l'effetto negativo di quel quadro psicopatologico sul corretto svolgimento del processo di maturazione psichica del minorenne, con conseguenze dirette sulla sua capacit di intendere, ma soprattutto di volere". (49) Un altro aspetto da considerare che l'assunzione di stupefacenti viene in rilievo anche in riferimento alla pericolosit sociale del minore tossicodipendente, cio alla probabilit che egli, responsabile di detenzione di stupefacenti o di furti e rapine, commetta nuovi delitti sotto l'impulso di procurarsi la droga da cui dipendente. La misura di sicurezza del riformatorio giudiziario - che, come si vedr meglio pi avanti, applicabile solo qualora si proceda per un reato punibile con la reclusione non inferiore nel massimo a nove anni, o per uno dei delitti previsti dall'art. 380 comma 2, lettere e, f, g, h del c.p.p. (artt. 23 e 36 D.P.R. n. 448/88) - risulta, in concreto, poco efficace, dal momento che deve essere eseguita nella forma del collocamento in comunit e che le comunit hanno struttura e organizzazione tali da non poter impedire l'allontanamento volontario del minore.

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2.5. Gli interventi penali e la tossicodipendenza


interessante dare un'occhiata anche a cosa succede nell'ipotesi in cui il minore autore di illeciti penali sia stato riconosciuto capace di intendere e di volere, bench tossicodipendente, e quindi imputabile e punibile. La nuova disciplina dell'abuso di sostanza stupefacenti, prevista dal T.U. n. 309 del 9 ottobre 1990, prevede agli art. 73 e 74 delle sanzioni penali legate a fattispecie criminose ricorrenti anche nell'esperienza giudiziaria minorile. L'art. 73, comma 1, del T.U. n. 309/1990 punisce chiunque [...] coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede o riceve, a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia, acquista, trasporta, esporta, importa, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo o comunque illecitamente detiene sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle I e III previste dall'articolo 14 con la reclusione da otto a vent'anni e con la multa da cinquanta a cinquecento milioni di lire. In questa ipotesi, quindi, non applicabile il perdono giudiziale, che viene concesso dal giudice qualora questi ritenga che il colpevole - di un reato per il quale la legge stabilisce una pena restrittiva della libert personale non superiore nel massimo a due anni o una pena pecuniaria non superiore nel massimo a tre milioni di lire - si asterr il commettere altri reati. Il perdono giudiziale invece applicabile nella fattispecie prevista dal comma 4 - il quale punisce la detenzione illecita di sostanze di cui alle tabelle II e IV con la reclusione da due a sei anni e la multa da lire dieci milioni a lire centocinquanta milioni - sempre che la pena sia contenuta nel minimo. Inoltre si ritiene che nei confronti degli imputati minorenni probabilmente verr riconosciuta in loro favore la sussistenza dell'ipotesi prevista dal comma 5 dell'art. 73 - quando, per i mezzi, per la modalit o le circostanze dell'azione ovvero per la qualit e quantit delle sostanze, i fatti previsti dal presente articolo sono di lieve entit (50) - il quale, prevedendo la reclusione da uno a sei anni e la multa da cinque a cinquanta milioni di lire per le sostanze di cui alle tabelle I e III, e la reclusione da sei mesi a quattro anni e la multa da due a venti milioni di lire per le sostanze di cui alle tabelle II e IV, rende possibile l'applicazione del perdono giudiziale. Se oltre alla lieve entit ricorre anche l'occasionalit della condotta addirittura ipotizzabile il proscioglimento per irrilevanza del fatto, ai sensi dell'art. 27 del D.P.R. n. 448/88. Il minore acquista e rivende la droga a prezzo maggiorato perch lo spaccio costituisce un mezzo di arricchimento pi facile di altri. Inoltre, spesso lo spaccio viene fatto da minori che sono loro stessi consumatori di droga, per cui rappresenta un mezzo attraverso il quale il soggetto integra il proprio fabbisogno di sostanze stupefacenti. Questi piccoli spacciatori sono in genere ragazzi integrati che vanno a scuola o che hanno un lavoro stabile e che si dedicano a questa attivit come una sorta di secondo lavoro, per "arrotondare". (51) L'art. 74 del T.U. n. 309/90 disciplina l'ipotesi in cui due o tre persone si associano allo scopo di commettere pi delitti tra quelli previsti dall'art. 73. possibile che faccia parte dell'associazione anche un minorenne. Nel caso in cui questi si limiti a partecipare, la sua partecipazione all'associazione punita con la reclusione non inferiore a dieci anni (art. 74, comma 2), per cui non possibile ottenere la concessione del perdono giudiziale. A maggior ragione il perdono giudiziale deve ritenersi escluso in presenza delle circostanze aggravanti previste dal comma 4 - se il numero degli associati di dieci o pi o se tra i partecipanti vi sono persone dedite all'uso di sostanze stupefacenti o psicotrope - dal comma 4 - se l'associazione armata - o dal comma 5 - se ricorre la circostanza di cui alla lettera e) del comma 1 dell'articolo 80, cio se c' stata adulterazione delle sostanze o commistione di queste ad altre per accentuarne la potenzialit lesiva. Se l'associazione stata costituita per commettere fatti che, per i mezzi, per le modalit dell'azione o per la qualit e la quantit delle sostanze, sono di lieve entit, allora si applica l'art. 416 c.p., comma 1, per cui coloro che promuovono o costituiscono od organizzano l'associazione sono puniti, per ci solo, con la reclusione da tre a sette anni (art. 74, comma 6). Con la riduzione consentita dall'art. 98 sul minimo della pena prevista dall'art. 416, comma 1, in questo caso risulta applicabile il perdono giudiziale. Ai sensi del comma 7 dell'art. 74, le pene previste dai commi da 1 a 6 sono diminuite fino a un terzo nei confronti di chi si sia efficacemente adoperato per assicurare le prove del reato o per sottrarre all'associazione risorse decisive per la commissione dei delitti, ma neppure con la riduzione massima, consentita dal comma 7 e dall'art. 98 c.p., applicata alla pena inferiore - che quella di dieci anni prevista dal comma 1 per la sola partecipazione - si pu pervenire a una pena che consenta l'applicazione del perdono giudiziale; occorre il concorso di un'altra circostanza attenuante. Per quanto riguarda il proscioglimento per irrilevanza del fatto, in questi casi difficile che venga concesso, visto che l'essere parte di un'associazione per delinquere esclude o quantomeno rende difficile ipotizzare l'occasionalit della condotta. In caso di spaccio organizzato, i minori di solito non assumono sostanze stupefacenti, se non in modo limitato e controllato, perch altrimenti non sarebbero in grado di garantire l'organizzazione del traffico illegale della droga. L'utilizzazione dei minori nello spaccio organizzato dovuta al loro pi facile inserimento e alla loro pi agevole mimetizzazione in certi ambienti. (52) L'art. 75 del T.U. n. 309 del 1990 disciplina l'ipotesi dell'importazione, dell'acquisto e della detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti o psicotrope in dose non superiore a quella media giornaliera (determinata con decreto del ministro per la sanit), stabilendo in questo caso l'applicazione, da parte del prefetto, della sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida, della licenza di porto d'armi, del passaporto e di ogni altro documento equipollente o, se trattasi di straniero, del permesso di soggiorno per motivi di turismo, ovvero del divieto di conseguire tali documenti, per un periodo da due a quattro mesi, se si tratta di sostanze stupefacenti o psicotrope comprese nelle tabelle I e III previste dall'articolo 14, e per un periodo da uno a tre mesi, se si tratta di sostanze stupefacenti o psicotrope comprese nelle tabelle II e IV previste dallo stesso articolo 14 (comma 1). L'art. 75 contiene anche due disposizioni riguardanti specificatamente i minorenni: i commi 3 e 8. Ai sensi del comma 3, se si tratta di un minorenne e nei suoi confronti non risulta utilmente applicabile la sanzione amministrativa, il prefetto definisce il procedimento con il formale invito a non fare pi uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, avvertendo il soggetto delle conseguenze a suo danno. L'applicazione della sanzione amministrativa pu risultare comunque utile al prefetto, nonostante che il minore sia privo di patente di guida o impossibilitato a disporre della licenza di porto d'armi o di altri documenti analoghi; infatti, la sanzione non si limita alla sospensione della validit di un documento esistente, ma si estende anche al divieto di conseguire l'autorizzazione ad ottenere il documento stesso. L'utilit della sanzione deve essere, invece, vista in relazione all'et del ragazzo, alla sua maturit, alle sue condizioni familiari e sociali, e qualora il prefetto, tenuto conto di tutti questi aspetti, consideri la sanzione amministrativa utile al minore, l'applicher, derogando cos all'art. 1 della legge n. 689 del 24 novembre 1981 recante modifiche al sistema penale, il quale stabilisce la non assoggettabilit a sanzione amministrativa di chi al momento della commissione del fatto non aveva compiuto diciotto anni. Il comma 8 prevede poi che se l'interessato minorenne, il prefetto convoca, se possibile ed opportuno, i familiari, li rende edotti delle circostanze di fatto e d loro notizia delle strutture terapeutiche e rieducative esistenti nel territorio della provincia, favorendo l'incontro con

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tali strutture. Prima di tutto, dal momento che qualora il prefetto decida di applicare una sanzione amministrativa deve in ogni caso sentire i genitori, in qualit di esercenti la potest, ne deriva che il comma 8 trover applicazione laddove il prefetto non riterr utile comminare la sanzione amministrativa. In secondo luogo, si deve trattare necessariamente di un minore tossicodipendente o comunque bisognoso di rieducazione, altrimenti non avrebbe senso l'indicazione ai familiari di strutture terapeutiche o rieducative. L'art. 76 del T.U. n. 309/90 prevede che nei confronti di chi, invitato per la seconda volta dal prefetto, rifiuta o interrompe il programma terapeutico o socio-riabilitativo al quale aveva chiesto di sottoporsi (comma1), e di chi, essendo gi incorso per due volte nelle sanzioni amministrative previste dall'art. 75, viene nuovamente colto a detenere stupefacenti in quantit non superiore a quella media giornaliera (comma 2), siano applicate una o pi fra le seguenti misure: a. divieto di allontanarsi dal comune di residenza; b. obbligo di presentarsi almeno due volte la settimana a un ufficio di polizia; c. obbligo di rientrare nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, entro una determinata ora e di non uscirne prima di altra ora prefissata; d. divieto di frequentare taluni locali pubblici; e. sospensione della patente di guida, della licenza di porto d'armi (con proibizione di detenzione di armi proprie di ogni genere), del passaporto e di ogni altro documento equipollente; f. obbligo di prestare attivit non retribuita a favore di enti pubblici o assistenziali; g. sequestro dei veicoli con i quali sono state trasportate o custodite le sostanze; h. affidamento al servizio sociale; i. sospensione del permesso di soggiorno rilasciato allo straniero. Si pongono dei problemi per quanto riguarda la natura di queste misure, perch sebbene l'art. 76 alterni la dizione di misure con il termine sanzioni, sembrerebbe doversi escludere che si tratti di sanzioni penali. Innanzitutto a questa conclusione spingerebbe il fatto che il loro contenuto non afflittivo, ma preventivo; in secondo luogo, se si trattasse di sanzioni penali, dovrebbero essere comminate in seguito ad un procedimento di cognizione, mentre l'art. 76, comma 5, dispone che il giudice procede osservando, in quanto applicabili, le disposizioni dell'art. 666 del c.p.p., il quale disciplina il procedimento di esecuzione, non quello di cognizione. Escluso che si possa trattare di sanzioni, rimane da stabilire se siano misure di sicurezza o di prevenzione. Ricciotti propende per la seconda ipotesi, perch mentre le misure di sicurezza sono vincolate all'accertamento di un fatto previsto dalla legge come reato e presuppongono l'accertamento della pericolosit sociale, le misure previste dall'art. 76 si collegano direttamente alla violazione della prescrizioni riguardanti una sanzione amministrativa senza previa indagine sulla pericolosit del soggetto. (53)

3. Il concorso fra la diminuente della minore et ed eventuali circostanze aggravanti


L'art. 98 c. p. prevede che nel caso in cui venga accertata la capacit di intendere e di volere dell'infradiciottenne, cio la sua imputabilit e punibilit, la pena sia comunque diminuita. Ai sensi dell'art. 65 c. p., quando ricorre una circostanza attenuante, come la minore et, e la legge non ha determinato espressamente la diminuzione, la pena diminuita in misura non eccedente un terzo. Se il reato addebitato all'imputato minorenne non comporta delle circostanze aggravanti, non sorge alcun dubbio sull'applicazione di tale attenuazione di pena. Il problema sorge nel caso in cui, invece, si sia in presenza di in concorso di circostanze aggravanti e attenuanti, concorso eterogeneo che l'art. 69 prende in considerazione e risolve stabilendo, come regola generale, che il giudice deve effettuare un bilanciamento fra le circostanze. Questo giudizio di comparazione potr essere di prevalenza delle une sulle altre o di equivalenza: se sono dichiarate prevalenti le aggravanti non si tiene conto delle diminuzioni di pena stabilite per le attenuanti e, viceversa, se sono considerate prevalenti le attenuanti non si procede agli aumenti di pena stabiliti dalle aggravanti; se, invece, dichiarata l'equivalenza si applica la pena base, cio quella che sarebbe stata inflitta se non concorresse alcuna circostanza. Questo potere discrezionale del giudice stato ampliato dal D. L. n. 99/74, che ha abrogato il divieto, previsto dal comma 4 dell'art. 69, di bilanciamento nei confronti sia delle circostanze inerenti alla persona del colpevole (cio l'imputabilit e la recidiva) che delle circostanze ad efficacia speciale, generalizzando l'obbligo del giudizio di comparazione rispetto a tutte le circostanze. Secondo il testo originario del codice, infatti, il giudizio di comparazione non operava per questi tipi di circostanze, per cui la diminuente della minore et era sempre esclusa dal bilanciamento e veniva applicata in ogni caso. A seguito del Decreto Legge, venendo presa in considerazione ai fini del giudizio di comparazione anche l'attenuante legata all'et, nel caso in cui il giudice la ritenesse subvalente, o anche solo equivalente, rispetto alle aggravanti contestate, il minore non avrebbe potuto pi godere della diminuzione di pena ex art. 98 c. p.. In questo modo, la diminuente della minore et perdeva quelle caratteristiche di certezza e generalit che prima aveva. Il giudizio di prevalenza e di equivalenza fu introdotto inizialmente dal legislatore con la funzione di attenuare il rigore sanzionatorio di certi reati, come il furto aggravato, e di personalizzare la pena, commisurandone l'entit, prevista dalla legge in via generale ed astratta, al caso concreto. Le stesse finalit sono alla base della successiva modifica dell'art. 69, che nella nuova formulazione ampliata, fornisce al giudice degli elementi ulteriori di valutazione, quali la persona e la personalit dell'imputato. La Corte di Cassazione ritiene con costanza che "la finalit del giudizio di comparazione di cui all'art. 69 c. p. quella di valutare la personalit del colpevole e la vera entit del fatto onde conseguire il perfetto adattamento della pena al caso concreto". (54) L'introduzione di questi nuovi elementi di valutazione ha comportato una trasformazione del giudizio di comparazione, modificandone l'essenza stessa: "il giudizio di prevalenza o di equivalenza ha modificato il suo oggetto, trasformandosi da giudizio sul disvalore della singola, episodica violazione dell'ordinamento in un pi complesso giudizio sulla figura soggettiva del reo". (55) Tra le conseguenze del sistema originario previsto dal codice del 1930 vi era la impossibilit di punire con l'ergastolo il minore infradiciottenne: sia nell'ipotesi in cui l'ergastolo fosse previsto come pena base di un delitto non aggravato, sia in quella in cui fosse il risultato dell'applicazione di una circostanza aggravante, l'art. 65 c. p. comportava in ogni caso la sostituzione della pena dell'ergastolo con quella della reclusione da 20 a 24 anni. A seguito della riforma del 1974, qualora la diminuente dell'et fosse stata riconosciuta subvalente rispetto a delle circostanze aggravanti comportanti la pena dell'ergastolo, anche al minore si sarebbe potuta infliggere la massima pena. Nel 1994 la Corte Costituzionale con sentenza n. 168 ha dichiarato l'illegittimit costituzionale dell'art. 69, comma 4, nella parte in cui prevede che nei confronti del minore imputabile sia applicabile la disposizione del
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primo comma dello stesso art. 69 in caso di concorso tra la circostanza attenuante di cui all'art. 98 del codice penale e una o pi circostanze aggravanti che comportano la pena dell'ergastolo, nonch nella parte in cui prevede che nei confronti del minore stesso siano applicabili le disposizioni del primo e del terzo comma del citato art. 69, in caso di concorso tra la circostanza attenuante di cui all'art. 98 del codice penale e una o pi circostanze aggravanti che accedono ad un reato per il quale prevista la pena base dell'ergastolo. Parte della dottrina e della giurisprudenza ha continuato a ritenere che l'et minore non dovesse entrare nel giudizio di comparazione e che, quindi, la diminuente dell'et si dovesse sempre concedere. Alla base di questa tesi vi era la convinzione che quella dell'et non fosse una circostanza in senso tecnico, ma uno status del reo, una qualificazione giuridica soggettiva che, sebbene influente sull'entit della pena, non potesse considerarsi un accessorio del reato. Anche la peculiare posizione del minore nell'ordinamento e la conseguente autonomia del diritto minorile impedirebbero di equiparare la soggettivit del minore con quella dell'adulto e, questo andrebbe a sostegno della tesi dell'obbligatoriet dell'applicazione della diminuente dell'et: la minore et non entrerebbe pertanto nel giudizio di comparazione, ma anche se ci fosse fatta entrare si atteggerebbe ope legis come prevalente. La Corte di Cassazione ha sempre respinto questa tesi, affermando che "nel giudizio di comparazione si deve escludere l'attribuibilit di un preminente peso valutativo alla diminuente della minore et, trattandosi di circostanza inerente alla persona del colpevole da apprezzarsi con gli stessi criteri usati per ogni altra circostanza". (56) Un problema particolare si pone in relazione all'interpretazione dell'art. 1 della Legge 15/1980. In base a tale articolo le circostanze attenuanti non possono essere ritenute prevalenti o equivalenti qualora concorrano con l'aggravante della finalit di terrorismo o di eversione dell'ordinamento democratico o con altre circostanze aggravanti ad effetto speciale. Come intuibile, questa norma pone delicati problemi interpretativi, e in particolare quando si tratta di doverla applicare a un minorenne, perch in questo caso vengono in rilievo non solo considerazioni strettamente giuridiche, ma anche principi fondamentali di giustizia minorile ripetutamente affermati dalla giurisprudenza costituzionale. La difficolt dell'argomento testimoniata dalle contrastanti sentenze di merito emanate dai Tribunali. Chi ritiene che il divieto affermato dall'art. 1 della legge del 1980 non si applichi alla circostanza attenuante della minore et fonda il suo convincimento sugli stessi argomenti addotti per escludere la diminuente dell'et dal giudizio dei comparazione: la peculiarit della circostanza dell'et minore rispetto alla categoria delle attenuanti e la specialit del diritto minorile. La Corte Costituzionale, dichiarando infondata la sollevata questione di legittimit sull'art. 1 della Legge 15/80, ha interpretato l'articolo in questione ritenendo che il legislatore non abbia voluto escludere qualsiasi operativit alle circostanze attenuanti rispetto alle aggravanti prese in considerazioni dalla norma, ma ha solo voluto impedire che queste potessero essere considerate equivalenti o, addirittura, prevalenti rispetto ad esse. Questo significherebbe che il divieto di comparazione, affermato dalla Legge del 1980, non impedisce di applicare poi le circostanze attenuanti in modo autonomo in base all'art. 63 c. p..

Note
1. In questo senso anche Ignazio Baviera, Diritto minorile, Giuffr, Milano 1976, p. 38. 2. Baviera, op. cit., p. 39. Per la stessa soluzione, Cass., 16 gennaio 1967, Cass. pen., 1968, p. 274. 3. Cass., 20 ottobre 1970, in Cass. pen. Mass. ann., 1972, p. 166: la valutazione del giudice per il riconoscimento nel minore degli anni diciotto della capacit di intendere e di volere, deve concernere lo sviluppo intellettivo, quello fisico, l'et, l'assenza di malattie, la forza del carattere, la facolt del soggetto di rendersi conto dell'illiceit dell'azione e la capacit di volere con riferimento all'attitudine ad autodeterminarsi. 4. Cass., 17 gennaio, 1972, in Cass. pen. Mass. ann., 1973, p. 506. 5. In forza di questi articoli della Costituzione, il trattamento penale dei minori, sia per quanto concerne le misure adottabili, che per quanto riguarda la fase esecutiva, deve essere improntato alle specifiche esigenze proprie dell'et minorile. 6. Tra le norme internazionali relative alla tutela dei minori, particolare attenzione viene posta alla Convenzione sui diritti del fanciullo, adottata a New York il 20 novembre del 1989 e resa esecutiva in Italia con la legge n. 176 del 1991, nella quale si afferma l'esigenza di una specificit del trattamento penale che abbia quali destinatari dei soggetti di et minore. 7. Cass., 9 giugno 1932, in Giust. pen. 1933, II, p. 583. 8. Dottrina e giurisprudenza sembrano concordi nel tracciare una netta linea di demarcazione tra la condizione di immaturit e quella di infermit mentale, essendo queste diverse sia nei contenuti che nelle conseguenze: la prima comporta, infatti, un proscioglimento (o l'applicazione della diminuente) ai sensi dell'art. 98 c.p.; la seconda andr, invece, valutata ai sensi degli art. 88 e 89 c.p.. 9. Cass., 8 aprile 1981, in Riv. pen. 1982, p. 433. Nello stesso senso vedi anche: Cass., 21 marzo 1989, in Mass. Cass. pen. 1990, p. 291; Cass., 6 ottobre 1986, in Riv. pen. 1988, p. 189. 10. Cass., 22 marzo 1982, in Riv pen. 1983, p. 528: l'imputabilit del minore infradiciottenne compatibile con il vizio parziale di mente. Cfr., Cass. 21 giugno 1985, in Riv. pen. 1986, p. 510; Cass., 21 marzo 1989, in Riv. pen. 1990; Cass., 21 dicembre 1989, in Riv. pen. 1990, p. 1069. 11. Cass., 2 luglio 1962, in Cass. pen. 1963, p. 48; Cass., 26 maggio 1971, in Cass. pen. 1972, p.48. 12. Cass., 6 giugno 1986, in Giust. pen. 1987, II, p. 417. In precedenza: Cass., 21 giugno 1971, in Giust. pen. 1972, II, p. 676; Cass., 25 ottobre 1971, in Cass. pen. 1972, p. 1921. 13. Cass., 7 marzo1973, in Giust. pen. 1974, II, p. 28. 14. Cass., 1 luglio 1936, in Scuola positiva 1937, p. 91. 15. M. Portigliatti Barbos, G. Marini, La capacit di intendere e di volere nel sistema penale italiano, Giuffr, Milano 1964, p. 84.

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16. Trapani, La imputabilit del minore di anni diciotto e del minore degli anni diciotto seminfermo di mente, in Giust. pen. 1969, II, p. 508. 17. I. Baviera, Diritto minorile, II, Giuffr, Milano 1976, p. 40. 18. Ibidem. 19. L'epilessia "si caratterizza per la presenza in essa di due stadi: i periodi accessuali, ossia le fasi degli attacchi convulsivi, in cui l'ammalato agisce in stato di automatismo [...], ed i periodi interaccessuali, cio le fasi intermedie tra i periodi accessuali [...]. noto che nei periodi accessuali, proprio per le condizioni di automatismo nelle quali l'agente opera, va sicuramente esclusa l'imputabilit [...] e che i momenti che precedono e seguono in via immediata detti periodi possono e sono di solito contraddistinti da modificazioni mentali" (Pio Ferrone, Sul vizio parziale di mente nei minori ultraquattordicenni, in Giust. pen. 1972, II, p. 678-679). 20. Nicola Bicci, Minorenni e seminfermit di mente, in Riv. dir. penit. 1937, p. 127. 21. E. Battaglini, Et minore e vizio parziale di mente, in Riv. dir. pen. 1937, p. 544-545. 22. E. Battaglini, Vizio parziale di mente ed et minore, in Giust. pen. 1950, II, p.121. 23. Giuseppe Altavista, Il vizio parziale di mente nei minori degli anni 18, in Rass. studi penit. 1953, p. 93. 24. Franchini, Introna, Delinquenza minorile, Cedam, Parma 1972, p. 718. 25. Ivi, p. 719. 26. E. Battaglini, Vizio parziale di mente ed et minore, in Giust. pen. 1950, II, p. 120. 27. I. Baviera, op. cit., p. 41. 28. G. Marini, voce Imputabilit, in Enc. giur. Treccani, p. 9. 29. Gianluigi Ponti, Compendio di criminologia, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999, pp. 497-498. 30. Ivi, p. 498. 31. Ivi, p. 499. 32. Vicenzo Militello, Imputabilit ed assunzione di stupefacenti fra codice e riforme, in Franco Bricola e Gaetano Insolera (a cura di), La riforma della legislazione penale in materia di stupefacenti, Cedam, Padova 1991, p. 139. 33. Gianluigi Ponti, Compendio di criminologia, Raffaello Cortina Editori, Milano 1999, p. 542. 34. Ivi, pp. 543-544. 35. Cass., Sez. I, 26 aprile 1979, in Cass. pen. Mass. 1980, p. 703. 36. Le definizioni sono tratte da G. Ponti, op. cit., pp. 503-506. 37. Luciano Grasso, Mariella Roberti, Questioni interpretative nell'accertamento dell'imputabilit del minore assuntore di stupefacenti, in Cass. pen. Mass. 1986, p. 1681. 38. Salierno Rosalba, La salute dei giovani, in Esperienze di giustizia minorile 1985, n. 2-3, pp. 237 e ss. 39. Paolo Dusi, Gli interventi penali e la tossicodipendenza, in Gilberto Barbarico (a cura di), Droga e minori, Unicopli, Milano 1986, pp. 107-108. 40. Ivi, p. 109. 41. Franchini, Introna, Delinquenza minorile, Cedam, Padova 1972, p. 687. 42. Anselmo Sacerdote, Considerazioni medico-legali sull'applicabilit ai minorenni degli art. dal 90 al 96 del codice penale, in Sc. pos. 1954, p. 421. 43. In questi termini si esprime solitamente la Corte di Cassazione (cfr., ad esempio, Cass., sez. I, 23 ottobre 1978, in Giust. Pen. 1979, II, p. 405). 44. Carrieri, Greco, Amerio, Ventola, D'Introno, La diagnosi di tossicodipendenza. Aspetti clinici, indagini di laboratorio, esami psicodiagnostica, in AA.VV., Atti del XXVIII Congresso Nazionale della Societ italiana di medicina legale e delle assicurazioni, tenuto a Parma, 3-7 ottobre 1983, vol. III, p. 44. 45. Ivi, p. 45. 46. P. Dusi, Gli interventi penali e la tossicodipendenza, in Gilberto Barbarico(a cura di), Droga e minori, cit., pp. 111-112. 47. Ivi, p. 109. 48. L. Grasso, M. Roberti, Questioni interpretative nell'accertamento dell'imputabilit del minore assuntore di stupefacenti, in Cass. pen. Mass. 1986, p. 1684. 49. Romano Ricciotti, Profili di diritto minorile, in Franco Bricola e Gaetano Insolera (a cura di), La riforma della legislazione penale in materia di stupefacenti, cit., p. 185. 50. La soppressione del riferimento a qualsiasi circostanza inerente alla persona del colpevole, contenuto nel testo approvato dalla Camera dei deputati, non dovrebbe impedire ai giudici di ritenere sussistente la circostanza attenuante, visto che le peculiarit dell'et evolutiva non possono non avere dei riflessi sulle modalit dell'azione (Ivi, p. 188). 51. Paolo Dusi, Gli interventi penali e la tossicodipendenza, in Gilberto Barbarico (a cura di), Droga e minori, cit., p. 104. 52. Ibidem. 53. Romano Ricciotti, Profili di diritto minorile, in Franco Bricola e Gaetano Insolera(a cura di), La riforma della legislazione penale in materia di stupefacenti, cit., pp. 192-193. 54. Cass. 16 novembre 1988, in Riv. pen. 1989, p. 812. 55. Assumma, Osservazioni sul giudizio di prevalenza o di equivalenza nella nuova formulazione legislativa, in Giur. Di merito, 1975, IV, p. 47.

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56. Cass. 19 settembre 1987, in Riv. pen. 1988, p. 895. L'altro diritto - Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalit - ISSN 1827-0565

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Minore et e pena

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Capitolo VII Minore et e pena


La legge soltanto un fantasma ammette: ed quello della follia. Soltanto allora si ritrae dal fatto criminale, non giudica, abbandona il giudizio allo psichiatra e lascia che la pena astrattamente poich in concreto tutt'altra faccenda - sia cura. Leonardo Sciascia

1. Il trattamento del minore non imputabile


1.1. Le misure di sicurezza
Il nostro sistema penale prevede che il minore non imputabile, perch al momento del fatto non aveva compiuto ancora quattordici anni o perch, pur avendoli compiuti, stato riconosciuto incapace di intendere e di volere, venga prosciolto, cio non assoggettato a pena. Questo non vuol dire che nei confronti del minore cos prosciolto non venga disposta nessuna misura, laddove sia considerato pericoloso. Il problema della pericolosit un problema di difesa sociale, al quale, per molto tempo, si provveduto con delle pene eliminative, sia fisicamente, con la pena di morte, che socialmente, con la deportazione o la galera. Come ricorda Mantovani, "l'affermarsi della pena retributiva detentiva, limitata nel tempo, in sostituzione della pena di morte e delle pene di lunga durata, [...] ripropose innanzi alla coscienza giuridica e sociale l'insufficienza di tale pena a difendere da sola i consociati dai delinquenti pericolosi, a cominciare innanzitutto dai non imputabili". (1) Per risolvere questo problema, il Codice Zanardelli prevedeva delle misure che avevano finalit specialpreventiva, diverse dalla pena, quali la vigilanza speciale (dopo l'espiazione della pena), l'internamento del minore non imputabile in istituti di correzione o il suo affidamento ai parenti e la casa di custodia per i semimputabili. Con la Scuola positiva la pena retributiva viene addirittura sostituita da un sistema di misure di sicurezza, sulla base della convinzione che il reato conseguenza necessaria di certe cause naturalistiche: non si deve dunque punire il delinquente, dal momento che questi non libero di scegliere la propria condotta, ma fatalmente spinto al crimine da un complesso di fattori antropologici e sociologici che agiscono fuori e dentro di lui. Non bisogna perci reprimere, ma prevenire: i soggetti che rappresentano un pericolo per la comunit vanno sottoposti a misure di difesa sociale, le misure di sicurezza. Il progetto Ferri, fedele a questi postulati positivistici, prevedeva l'eliminazione di ogni differenza fra pena e misura di sicurezza. Fu con la Terza scuola che nacque il sistema del "doppio binario", fondato sul dualismo responsabilit individualepena retributiva, da una parte, e pericolosit sociale-misura di sicurezza, dall'altra. con questo sistema che nascono, accanto alla pena, le misure di sicurezza quali sanzioni diverse dalla pena, poich conseguenza non di responsabilit, ma di pericolosit. Il regime del doppio binario ha sollevato critiche ricorrenti e dure di una parte della dottrina, giuridica e criminologica. Si ritiene infatti che il dualismo abbia una sua coerenza laddove pene e misure di sicurezza hanno destinatari diversi: le prime i soggetti imputabili non pericolosi, le seconde i non imputabili pericolosi; mentre si riveli del tutto erroneo e, addirittura dannoso, quando comporta l'applicazione sia della pena che della misura di sicurezza nei confronti dello stesso soggetto, come avviene per il semimputabile e l'imputabile socialmente pericolosi. In questo caso, infatti, se applicare prima la pena pu compromettere la stessa possibilit di recupero o aggravare la pericolosit, viceversa, applicare prima la misura di sicurezza pu voler dire poi vanificare con la successiva esecuzione della pena l'eventuale risocializzazione ottenuta. Quello che si contesta, insomma, non la costituzionalit delle misure di sicurezza, dato il chiaro dettato dell'art. 25, comma 3, della Costituzione, ma la loro concreta disciplina, di cui si auspica una profonda revisione. Al quesito se e fino a quale punto, con l'accettazione delle misure di sicurezza nel nuovo sistema costituzionale, il costituente abbia inteso prescindere per questa da certe garanzie e da alcuni limiti assegnati alla pena, risponde Vassalli: non pu essere consentito al legislatore di presentare come misure di sicurezza determinate sanzioni aventi un carattere sostanzialmente penale, con il risultato di sottrarle a garanzie costituzionali che funzionino per avventura soltanto per la pena (con riferimento tanto al principio di personalit che a quello di irretroattivit). Dunque, la Costituzione ha accettato le misure di sicurezza, ma non il modo col quale esse vengono disciplinate, il quale deve essere rispettoso di principi costituzionali. (2) Inoltre, l'art. 25 della Costituzione avrebbe la funzione garantista di sancire la legalit anche in materia di misure di sicurezza, non quella di cristallizzare il sistema del doppio binario: se il sistema dualistico non incostituzionale, questo non vuol dire che sarebbe tale un sistema che prevedesse misure unitarie. E proprio l'unificazione della pena e della misura di sicurezza in una misura unica quanto auspicato da molti. La Nuova difesa sociale, (3) ad esempio, vorrebbe una misura unica, indeterminata nel massimo ed avente sia finalit retributiva che rieducativa;
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altri, (4) considerando che in questo modo si finisce per trattare nello stesso modo i soggetti imputabili non pericolosi e i non imputabili pericolosi, propendono per una sanzione unitaria afflittivo-rieducativa solo per i semimputabili e per gli imputabili pericolosi, da affiancare alla pena determinata, prevista per gli imputabili non pericolosi, e alla misura di sicurezza, per i non imputabili pericolosi. Ma, secondo Mantovani, in attesa di riforme cos incisive, pur rimanendo nell'ambito del doppio binario, si potrebbe intanto eliminare quelle misure di sicurezza, come la casa di lavoro e la colonia agricola, che hanno lo stesso carattere afflittivo della pena, introdurne di nuove pi idonee alle risocializzazione, quale l'istituto di terapia sociale, e adottare il sistema della vicariet tra pena e misura di sicurezza, per cui nell'esecuzione la seconda pu precedere la prima.

1.2. La pericolosit
La pericolosit sociale il presupposto soggettivo per l'applicazione delle misure di sicurezza. La categoria della pericolosit sociale stata creata dalla Scuola positiva, per contenere gli effetti di depenalizzazione che avrebbe potuto produrre la riduzione o l'annullamento del concetto di responsabilit individuale: in sostanza una nuova fonte giuridica e scientifica per la legittimazione del potere di sequestrare, detenere, isolare, mettere al bando, quindi punire, in particolare nei confronti di quelle categorie di persone che dovessero essere considerate non responsabili delle proprie azioni, quindi non imputabili. [...] la categoria della pericolosit sociale infatti perfettamente complementare rispetto a quella della responsabilit. Tanto pi evidente l'assenza del requisito della responsabilit in un soggetto, tanto pi fondata sar la presunzione della sua pericolosit sociale. (5) Il codice vigente, a differenza di quello precedente, ha accolto espressamente la nozione di pericolosit sociale: ai sensi dell'art. 203 socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, che ha commesso un reato o un quasi-reato (espressione comprendente le ipotesi del reato impossibile e dell'istigazione a commettere un delitto), quando probabile che commetta nuovi fatti previsti dalla legge come reati. La pericolosit quindi una qualit del soggetto, da cui si deduce la probabilit che commetta nuovi reati. Come detto, la pericolosit il presupposto per l'applicazione delle misure di prevenzione post delictum, ma non solo, essa ha un ruolo decisivo anche in relazione agli istituti della sospensione condizionale della pena, del perdono giudiziale, della liberazione condizionale, come ai fini dell'affidamento in prova al servizio sociale e dell'ammissione al regime della semilibert, dal momento che tutti questi istituti presuppongono la previsione da parte del giudice che il soggetto non commetter altri reati. L'istituto della pericolosit stato oggetto, da parte della dottrina penalistica, criminologica e medico-legale, di un ampio dibattito relativo ai tre distinti profili dell'ammissibilit, dell'accertamento e del trattamento. Il problema dell'ammissibilit, risolto positivamente sia dal codice penale che dalla Costituzione, ancora oggetto di discussione tra le opposte posizioni radicali dei fautori dell'ammissibilit incondizionata della pericolosit sociale, da una parte, e dei sostenitori dell'inammissibilit assoluta della stessa, dall'altra. L'eliminazione della pericolosit sociale viene, da questi ultimi, giustificata sulla base della difficolt di previsione del futuro comportamento del reo. Pi corretta sembra la posizione intermedia di chi, ammettendo la categoria della pericolosit sociale, ne chiede per un suo ridimensionamento. L'esistenza dei delinquenti pericolosi ormai incontestabile e non solo perch suffragata dai vari studi criminologici, ma soprattutto perch comprovata dalla stessa realt umana quotidiana, la quale offre innumerevoli esempi di soggetti pericolosi, che hanno tenuto comportamenti recidivanti: i cosiddetti "mostri", i terroristi, i mafiosi, i tossicodipendenti, i delinquenti stradali, gli schizofrenici, ecc.. Rinunciare, pertanto, alla categoria della pericolosit sociale vorrebbe dire, innanzitutto, creare un vuoto legislativo di difesa sociale verso i delinquenti pericolosi non imputabili. Quindi, l'istituto della pericolosit sociale non va eliminato, bens ridimensionato e circoscritto: a) la pericolosit deve essere considerata, come in parte ha gi fatto il codice del 1930, una qualit non indefettibile, ma soltanto eventuale dell'autore del reato, perch "la possibilit di delinquere di tutti, la probabilit soltanto di alcuni"; (6) b) il giudizio di pericolosit deve avere come necessario presupposto minimo la commissione di un illecito penale (reato o quasi reato), per cui "nessuno pu [...] essere dichiarato socialmente pericoloso prima della commissione di un illecito penale e, inoltre, senza tener conto di esso", (7) come risulta dagli artt. 202 e 203 c.p.; c) bisogna passare dall'attuale definizione generica di pericolosit, intesa come probabilit di commettere nuovi reati, contenuta nell'art. 203, ad una definizione specifica di pericolosit, quale probabilit di commettere reati specifici e di particolare rilevanza; d) fra i possibili gradi di certezza prognostica, occorre prendere in considerazione solamente un elevato grado di probabilit di commissione di futuri reati; e) bisogna decidere se conservare le misure di sicurezza anche per i soggetti imputabili o limitarle ai soggetti totalmente non imputabili, passando cos al doppio binario puro. (8) Il problema dell'accertamento si pone perch se vero, come visto, che vi sono soggetti la cui condotta criminosa conferma a posteriori pericolosi, anche vero che non facile individuare tali soggetti a priori, sulla base del loro precedente comportamento. Gli psichiatri da me interpellati al riguardo sono stati concordi nel riconoscere la difficolt della prognosi di pericolosit sociale. Cabras, afferma che: si tratta di fare una scommessa sul futuro di una persona, un futuro che noi, tutto sommato, non conosciamo, non sappiamo se poi questa persona seguir un certo tipo di percorso oppure no. Quindi spesso si emettono dei giudizi di pericolosit non del tutto sostenibili, proprio per mettere le mani avanti, per non trovarsi poi, dopo un anno da una dichiarazione di non pericolosit, di fronte ad una reiterazione di un comportamento delittuoso. Questo un po' il ponte degli asini delle perizie psicologiche e, soprattutto, psichiatriche. Anche Carla Niccheri sottolinea la complessit di tale giudizio: "il giudizio sulla pericolosit sociale un giudizio molto complesso ed spesso collegato ad una patologia tale per cui puoi pensare che pu portare a ripetere i reati che ha commesso. In teoria, quindi, se pensi ai ragazzini rom, questi dovrebbero essere considerati pericolosi

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socialmente; ma che fai? Li chiudi a chiave? E poi, invece, ci sono persone, come Erika e Omar, che hanno commesso un reato solo e che sono sane, ma che forse sono pericolosi socialmente". Inoltre precisa che non esiste un collegamento automatico tra pericolosit e malattia mentale: "esiste una pericolosit sociale che esente da cause patologiche. Questo soprattutto negli adulti. Ad esempio, il mafioso socialmente pericoloso, ma non matto". Secondo il professor Pazzagli il concetto di pericolosit andrebbe, per prima cosa, rivisto: "credo che il concetto di pericolosit vada intanto limitato, perch, dal momento che la pericolosit di tutti, deve essere inteso come il rischio di ripetere reati analoghi a causa della malattia, quindi si inserisce nel concetto di malattia. Il concetto di pericolosit sociale di per s orrendo, per se si intende come il rischio di ripetere reati a causa della patologia, diventa pi ragionevole". Il Codice Rocco prevedeva originariamente sia delle ipotesi di pericolosit accertata che delle ipotesi di pericolosit presunta. Ai sensi dell'art. 204, comma 1, le misure di sicurezza sono ordinate, previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto persona socialmente pericolosa. L'accertamento, che deve essere effettuato dal giudice di volta in volta, si articola in due fase: l'accertamento delle qualit indizianti dalle quali dedurre la probabile commissione di nuovi reati e la prognosi criminale eseguita sulla base di queste qualit. L'art. 204 non indica, per, le qualit da cui desumere la pericolosit, limitandosi a rinviare all'art. 133 c. p. nel suo complesso, per cui il giudizio di pericolosit andr effettuato tenendo in considerazione la gravit, oggettiva e soggettiva, del reato commesso, e gli elementi dai quali si desume anche la capacit a delinquere. (9) La pericolosit va accertata non solo in riferimento al momento in cui stato commesso il reato, ma anche a quello in cui il giudice ordina la misura di sicurezza, per evitare che venga applicata una misura di sicurezza a chi, pericoloso al momento del fatto, non lo sia pi al momento della pronuncia, e non viceversa per il principio del nulla periculositas sine crimine. L'art. 204, comma 2, nella sua formulazione originaria, prevedeva che nei casi espressamente determinati la qualit di persona socialmente pericolosa presunta dalla legge. Questo sistema della pericolosit presunta riguardava determinati soggetti: 1) i prosciolti per infermit psichica, per intossicazione cronica da alcool o stupefacenti, per sordomutismo o minore et, nelle ipotesi di delitto non colposo punibile con l'ergastolo o la reclusione superiore nel massimo edittale a due anni (art. 222 c.p.); 2) i condannati, per delitto non colposo, a pena diminuita per infermit psichica, per intossicazione cronica da alcool o stupefacenti, per sordomutismo, se la pena comminata dalla legge per tale delitto non inferiore nel minimo a cinque anni (art. 119 c.p.); 3) i condannati alla reclusione per delitto commesso in stato di ubriachezza abituale o di intossicazione abituale da stupefacenti (art. 221 c.p.); 4) i condannati per reato di ubriachezza abituale o per reato commesso in stato di ubriachezza abituale, agli effetti del divieto di frequentare osterie (art. 234 c.p.); 5) i minori imputabili condannati per delitto commesso durante l'esecuzione di una misura di sicurezza cui erano stati sottoposti perch non imputabili (art. 225 c.p.); 6) i condannati alla pena della reclusione per almeno dieci anni (art. 230 n. 1 c.p.); 7) i condannati ammessi alla liberazione condizionale (art. 230 n. 2 c.p.); 8) i condannati per taluni reati specificatamente previsti dalla legge (es. art. 312 c.p.); 9) i delinquenti abituali presunti. Sulla base di queste circostanze di fatto la legge riconosce il soggetto come pericoloso, senza previo accertamento della sua effettiva pericolosit da parte del giudice. Vi erano per delle ipotesi in cui la presunzione veniva meno e la pericolosit andava accertata in concreto (art. 204, commi 2 e 3, c.p.): qualora si tratti di infermi di mente nei casi previsti dagli artt. 219, comma 2, e 222, comma 2, c.p., se tra la condanna o il proscioglimento e la commissione del fatto sono trascorsi cinque o dieci anni; oppure se tra l'inizio dell'esecuzione della misura di sicurezza aggiunta a pena non detentiva o applicata a imputati prosciolti e la data della sentenza di condanna o di proscioglimento sono decorsi cinque o dici anni nel caso previsto dall'art. 222, comma 2, c.p.. Il sistema della pericolosit presunta stato aspramente criticato a causa della sfasatura tra pericolosit legale e pericolosit naturale che crea, laddove ammette una pericolosit sociale anche l dove in concreto pu non esistere. Accanto alle critiche mosse dalla dottrina, vi fu anche una cospicua giurisprudenza costituzionalistica, passata da un primo orientamento conservatore, in base al quale si riteneva legittima l'applicazione di una misura di sicurezza anche senza il previo accertamento della pericolosit in concreto, (10) a un secondo orientamento che si sostanzia in alcune pronunce di incostituzionalit concernenti numerose ipotesi presuntive di pericolosit. (11) Questa evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale ha, poi, determinato il pronto adeguamento della legislazione, che si avuto prima con la Legge n. 663/1986, successivamente con il nuovo codice di procedura penale. Il sistema della pericolosit stato oggetto di un cambiamento radicale ad opera dell'art. 31 della Legge n. 663 del 10 ottobre 1986, il quale ha abrogato l'art. 204 e ha disposto che tutte le misure di sicurezza personali siano ordinate previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto persona socialmente pericolosa. Anche tale legge ha per sollevato parecchie obbiezioni, provenienti perfino da chi aveva auspicato l'eliminazione della pericolosit presunta. Una delle riserve riguarda la mancata previsione, accanto all'art. 31, di altre disposizioni relative all'accertamento in concreto della pericolosit, che non ha permesso di sostituire al vecchio sistema presuntivo un valido metodo alternativo di accertamento della pericolosit. Persistendo, infatti, il divieto di perizia criminologica, posto dall'abrogato art. 314 c.p.p. e ribadito dall'art. 220, comma 2, del nuovo c.p.p., l'unico sistema utilizzato resta il cosiddetto criterio intuitivo per cui il giudice della cognizione, sulla base dei soli atti processuali, deve valutare la probabilit di reiterazione criminosa dell'imputato. Di fronte all'indubbia inadeguatezza del criterio intuitivo, sono stati prospettati altri sistemi di accertamento della pericolosit, fondati sulle conoscenze criminologiche in materia di comportamento recidivante, quali quello dell'indagine individualizzata, effettuata mediante perizia criminologica affidata ad un esperto o un'quipe di esperti; quello della predeterminazione legislativa di indici di pericolosit, i quali, individuati in base alle conoscenze acquisite dai criminologi in materia di comportamento recidivante, sarebbero di aiuto nella formulazione, pur sempre discrezionale, della valutazione prognostica del giudice; e quello della tipizzazione di fattispecie soggettive di pericolosit, le quali sarebbero costruite attraverso la combinazione di indici di pericolosit specificamente descritti, in presenza dei quali il giudice deve ritenere il reo socialmente pericoloso. (12) Quanto infine al trattamento dei soggetti riconosciuti socialmente pericolosi, il codice penale italiano, avendo accolto il sistema del doppio binario, prevede nei confronti di questi l'applicazione di una misura di sicurezza, sola o
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congiunta alla pena, a seconda che si tratti, rispettivamente, di un soggetto non imputabile o imputabile. La disciplina relativa al nuovo processo penale minorile, contenuta nel D.P.R. n. 448 del 1988, ha prodotto effetti anche per quanto riguarda la nozione di pericolosit sociale del minorenne. Ai sensi dell'art. 37 comma 2 del decreto, infatti, la misura di sicurezza applicabile se ricorrono le condizioni previste dall'art. 224 del codice penale e quando, per le specifiche modalit e circostanze del fatto e la personalit dell'imputato, sussiste il concreto pericolo che questi commetta delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro la sicurezza collettiva o l'ordine costituzionale ovvero gravi delitti di criminalit organizzata. La nuova formula normativa sembrerebbe accogliere il principio di proporzione, in base al quale solo il pericolo di reati di una certa gravit pu giustificare l'applicazione di una misura di sicurezza che comporta inevitabilmente la lesione della libert personale. Inoltre il preciso riferimento alla concretezza del pericolo sembra richiedere che il giudizio prognostico si fondi su specifiche circostanze inerenti al fatto di reato commesso o alla personalit dell'autore. Conseguentemente l'area di applicazione delle misure di sicurezza nei confronti dei minori dovrebbe divenire eccezionale.

2. La disciplina delle misure di sicurezza nei confronti dei minori non imputabili
Il nostro codice penale, "per non lasciare la societ indifesa", come dice Mantovani, (13) prevede che al minore, infraquattordicenne o di et superiore a quattordici anni e inferiore a diciotto, non imputabile, che abbia commesso un fatto previsto dalla legge come delitto e che sia stato ritenuto pericoloso, si applichi la misura di sicurezza del riformatorio giudiziario o della libert vigilata (art. 224, comma 1, c.p.). Il codice penale prevede, poi, che se il delitto, non colposo, commesso dal minore non imputabile, punibile con la pena di morte - soppressa dall'art. 1 del d.lgs.lgt. n. 244 del 1944 - o l'ergastolo o la reclusione non inferiore a tre anni, sempre ordinato il ricovero in riformatorio per almeno tre anni (art. 224, comma 2, c.p.). La Corte Costituzionale, per, con sentenza n. 1 del 20 gennaio 1971, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il secondo comma dell'art. 224 c. p. nella parte in cui rende obbligatorio ed automatico, per il minore di quattordici anni, il ricovero, per almeno tre anni, in riformatorio giudiziario. Bench la questione costituzionale fosse stata sollevata in relazione agli artt. 27 (finalit rieducativa della pena), 30 (obbligo dello Stato di sostituirsi alla famiglia in caso di incapacit dei genitori) e 31 (protezione dell'infanzia e della giovent), questa norma, frutto della concezione della devianza come malattia e del ricovero come cura prolungata fino alla guarigione, stata ritenuta contrastante con l'art. 3 della Costituzione, il quale risultava vulnerato, tra l'altro, dal fatto che situazioni difformi venivano disciplinate in modo uguale, mentre l'atteggiamento psichico di un quasi quattordicenne certamente diverso da quello di bambino in tenera et. Inoltre la presunzione ex lege di pericolosit, prevista dal comma 2 dell'art. 224, che negli altri casi previsti dal codice si basa sull'id quod plerumque accidit, appariva, nel caso del minore di quattordici anni, priva di base in quanto, data la giovanissima et del soggetto, la pericolosit sociale rappresenta l'eccezione, per cui l'obbligatoriet ed automaticit del riformatorio non aveva alcuna giustificazione. (14) Peraltro, la Corte successivamente dichiar non fondata - sempre in riferimento all'art. 3 della Costituzione - la questione sollevata in ordine al comma 3 dell'art. 224, che prevede l'applicazione automatica della misura di sicurezza del ricovero in riformatorio giudiziario per i minori di diciotto anni e maggiori degli anni quattordici, non imputabili ai sensi dell'art. 98 c.p.. in questo caso, infatti, a giudizio della Corte, la presunzione di pericolosit sociale trova la sua giustificazione nel momento in cui si in presenza di condizioni le quali, sulla base di considerazioni obbiettive ed uniformi, desunte dall'esperienza comune, consentono di ritenere probabile un futuro comportamento criminoso da parte di colui che ha commesso il reato in circostanze particolari. (15) L'intervento della legge n. 663 del 1986, prevedendo che tutte le misure di sicurezza personali devono essere ordinate previo accertamento della pericolosit sociale, ha comunque comportato l'abrogazione dell'applicazione obbligatoria del riformatorio giudiziario. Se non viene disposta la misura di sicurezza detentiva, il minore non imputabile pu essere sottoposto alla misura rieducativa dell'affidamento al servizio sociale minorile oppure del collocamento in una casa di rieducazione o in un istituto medico-psico-pedagogico (art. 26 Legge sul Tribunale per minorenni). Se il minore considerato incapace di intendere e di volere per motivi diversi dall'et, allora il codice prevede che si faccia luogo a un vero e proprio trattamento curativo: ai sensi dell'art. 222, comma 4, i minori di quattordici anni o maggiori di quattordici, ma minori di diciotto anni, che abbiano commesso il reato in condizioni di infermit psichica o di intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti o di sordomutismo, sono ricoverati in un ospedale psichiatrico giudiziario. La Corte Costituzionale ha per dichiarato, con sentenza n. 324 del 24 luglio 1998, l'illegittimit costituzionale di questo comma. La Corte ha osservato che una misura detentiva e segregante come il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, prevista e disciplinata in modo uniforme per adulti e minori, non pu ritenersi conforme agli artt. 2, 3, 27 e 31 della Costituzione, in forza dei quali il trattamento penale dei minori deve essere improntato, sia per quanto riguarda le misure adottabili, sia per quanto riguarda la fase esecutiva, alle specifiche esigenze proprie dell'et minorile. (16) A differenza del ricovero in riformatorio, che, ai sensi dell'art. 223 c.p., misura di sicurezza speciale per i minori, infatti, il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario stato previsto dal legislatore in modo indifferenziato per adulti e minori e, per la sua esecuzione - a differenza di quanto avviene per la libert vigilata, misura anch'essa applicabile ad adulti e minori, ma eseguita nei confronti dei minori in forme speciali (art. 36 D.P.R. n. 448/1998) - non prevista alcuna modalit che tenga conto delle specifiche esigenze dei minori, sulla base della convinzione che, in presenza di uno stato di infermit psichica tale da comportare il vizio totale di mente, la condizione di minore divenga priva di specifico rilievo e venga per cos dire assorbita dalla condizione di infermo di mente. (17) In motivazione la Corte ha inoltre espressamente invitato il legislatore a colmare con previsioni adeguate, anche in ordine all'apprestamento delle conseguenti misure organizzative e strutturali, il vuoto normativo che si viene a creare con l'eliminazione, relativamente ai minori, della misura di sicurezza oggi specificatamente diretta a far fronte alla situazione di persone, giudicate pericolose, che abbiano commesso fatti di reato ma siano affette da infermit psichica che le rende non imputabili. (18) A questo punto, nei confronti dei minorenni non imputabili per infermit psichica o per condizioni assimilate e socialmente pericolosi sembrano possibili due ipotesi
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alternative. La prima quella prospettata dalla giurisprudenza, la quale ritiene che debbano essere applicate esclusivamente le misure di sicurezza del riformatorio e della libert vigilata; (19) la seconda, invece, sostiene che "dalla sentenza della Corte costituzionale derivi la necessit per il legislatore di istituire una misura di sicurezza nuova, diversa da quelle attualmente vigenti e specificatamente calibrata sulle esigenze del destinatario". (20)

2.1. Il riformatorio giudiziario


Il ricovero in un riformatorio giudiziario la misura di sicurezza speciale per i minori, che "consiste nel togliere costoro dal loro ambiente e nell'inserirli in una comunit di giovani [...] regolata da norme di vita e di condotta tali da sottoporre a controllo continuo i ricoverati, in modo da rendere improbabile il compimento di loro atti di aggressione della societ e dell'ordinamento giuridico. A questa forma di difesa [...] si aggiunge un'opera pedagogica destinata ad agire in profondit e a modificare in senso sociale personalit male strutturate". (21) La misura del riformatorio viene applicata ai minori socialmente pericolosi sia non imputabili (art. 224 c.p.) che imputabili (art. 225 c.p.), con la differenza che per i primi si sostituisce alla pena, mentre per i secondi si aggiunge alla pena e viene eseguita dopo l'espiazione di questa. Nel 1988 intervenuta la revisione delle modalit applicative delle misure di sicurezza contenuta nel D.P.R. n. 448, il quale, pur lasciando sussistere le misure, le ha disciplinate in modo pi consono alle esigenze educative e peculiari del minore e pi armonico rispetto agli altri istituti, quali le misure cautelari, i compiti dei servizi sociali e le funzioni del magistrato di sorveglianza, dello stesso sistema processuale minorile. Prima della riforma del 1988, la misura del riformatorio giudiziario era eseguita in istituti facenti parte dei Centri di rieducazione per minorenni. L'organizzazione interna di questi istituti, affidata a insegnanti, psicologi, educatori ed animatori, era simile a quella della prigione scuola, con laboratori, attivit sportive, spettacolo, giochi e scuole. La differenza fra i due istituti non consisteva pertanto nel trattamento in s, ma nel fatto che mentre la prigione scuola era lo stabilimento penitenziario dove veniva espiata la pena con durata determinata, il riformatorio, conformemente alla sua natura di misura di sicurezza, aveva una durata che non poteva che essere indeterminata. A seguito del D.P.R. n. 448 questa misura non viene pi eseguita nello stabilimento penitenziario del riformatorio, ma nelle forme di cui all'art. 22 del D.P.R.n. 448, cio attraverso il collocamento in una comunit aperta, pubblica o autorizzata, con eventuale affiancamento di specifiche prescrizioni inerenti alle attivit di studio o di lavoro ovvero ad altre attivit utili per la sua educazione (art. 36 D.P.R. n. 448/1988). La legge non fornisce una definizione di comunit, limitandosi ad evocare il concetto. Ma, opportunamente, viene in aiuto l'art. 10 Disp. attuaz. proc. min., per il quale la comunit deve avere una organizzazione di tipo familiare, deve prevedere anche la presenza di minorenni non sottoposti a procedimento penale (22) e, inoltre, per garantire una conduzione e un clima educativamente significativi, deve avere una capienza non superiore alle dieci unit; vi devono lavorare operatori professionali delle diverse discipline e, nella sua gestione, deve essere assicurata la collaborazione di tutte le istituzioni interessate e la utilizzazione delle risorse del territorio. Le comunit di questo tipo possono essere pubbliche, cio istituite e gestite direttamente dallo Stato o da enti locali, oppure autorizzate, cio private, ma riconosciute dotate dei necessari requisiti di idoneit dalle regioni competenti per territorio e perci dotate di specifica autorizzazione ad operare. (23) Un dubbio riguarda la necessit o meno che nel provvedimento applicativo della misura vi sia l'indicazione specifica della comunit dove la misura deve essere eseguita. C' chi sostiene che il giudice dovrebbe limitarsi a disporre genericamente la misura, delegando ai servizi il reperimento della comunit, ma si ritiene pi opportuno che la scelta della comunit nella quale deve essere collocato il minore sia fatta direttamente dal giudice, costituendo cos l'indicazione specifica della comunit un elemento essenziale del provvedimento. (24) L'art. 659, comma 2, c.p.p. prevede che le misure di sicurezza diverse dalla confisca siano eseguite dal pubblico ministero presso il giudice di sorveglianza che le ha adottate, mediante comunicazione in copia del provvedimento all'autorit di pubblica sicurezza e, quando necessario, mediante ordine di esecuzione con il quale dispone la consegna dell'interessato. Si ritiene, per, che questa disposizione non sia applicabile ai minori, dal momento che l'art. 40 D.P.R. n. 448 dispone al riguardo che il magistrato di sorveglianza per i minorenni impartisce le disposizioni concernenti le modalit di esecuzione della misura. Per cui il pubblico ministero per i minorenni inizia il procedimento di esecuzione, trasmettendo poi gli atti al magistrato di sorveglianza competente, il quale, a sua volta, impartisce le necessarie disposizioni e affida il minore al servizio sociale. La competenza dei servizio sociale prevista dall'art. 36, comma 2, del decreto che richiama l'art. 20, al quale collegato l'art. 19, comma 3, il quale prevede che quando disposta una misura cautelare, il giudice affida l'imputato ai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia, ed ribadita dall'art. 24 Disp. attuaz. proc. min., ai sensi del quale l'esecuzione rimane affidata al personale dei servizi minorili. (25) Anche se c' chi ritiene possibile una sorta di accompagnamento in comunit, ad opera della polizia giudiziaria, a seguito di specifico ordine, la dottrina pressoch concorde nell'escludere che il magistrato di sorveglianza possa disporre l'accompagnamento coattivo del minore in comunit. Il rinvio dell'art. 36 D.P.R. n. 448 alle forme dell'art. 20 e 21 dello stesso decreto, i quali disciplinano delle misure cautelari, rende applicabile l'art. 293, comma 2, c.p.p., ai sensi del quale le ordinanze che dispongono misure diverse dalla custodia cautelare sono notificate all'imputato. Ne deriva che il magistrato di sorveglianza o il pubblico ministero presso di lui devono notificare al minore e all'esercente la potest di genitore il provvedimento di esecuzione - che conterr l'indicazione specifica della comunit e l'intimazione a presentarvisi entro un certo termine dalla notifica - e allo stesso tempo richiedere l'intervento del servizio sociale. (26) Il rinvio integrale che l'art. 36 fa all'art. 22 induce a ritenere che in caso di gravi e ripetute violazioni delle prescrizioni o di allontanamento ingiustificato il giudice possa disporre, in sostituzione, il trasferimento in carcere per un periodo di tempo non superiore a un mese (art. 22, comma 4, D.P.R. n. 448). Va detto che, essendo la mancata presentazione in comunit equipollente all'allontanamento, anche in questa ipotesi il magistrato di sorveglianza pu disporre la detenzione in carcere fino a un mese. Alcuni autori sostengono che l'inflizione della custodia in carcere, anche se per un periodo massimo di trenta giorni, possa essere reiterata nei confronti del minore collocato in comunit, il quale nuovamente ponga in essere gravi e ripetute trasgressioni delle prescrizioni.
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(27) Nel regime delle misure cautelari la reiterazione del trasferimento in un istituto penitenziario "ha come solo limite i termini massimi di custodia cautelare (che sono quelli stabiliti nell'art. 303 c.p.p. ridotti della met per gli infradiciottenni e dei due terzi per gli infrasedicenni)". (28) Nel regime delle misure di sicurezza, invece, non vi pu essere un limite massimo alla reiterabilit della sostituzione del collocamento in comunit con la custodia in carcere, dato che l'esecuzione della misura di sicurezza dura fino alla sua revoca. Per disporre la custodia in carcere non sar sufficiente una grave violazione o, alternativamente, la somma di violazioni non gravi essendo richiesta dalla norma la sussistenza contestuale dei requisiti della gravit e della reiterazione delle violazioni. Comunque, anche in presenza di gravi e ripetute violazioni delle prescrizioni o di allontanamento ingiustificato, l'applicazione della custodia in carcere non obbligatoria, ma facoltativa, e il giudice decider alla luce dei principi di cui agli artt. 275 c.p.p. - proporzionalit e adeguatezza della misura da applicare - e 19, comma 2, D.P.R. n. 448 - esigenza di non interrompere i processi educativi in atto. (29) Il D.P.R. n. 448/1988 ha anche ristretto le ipotesi delittuose in presenza delle quali pu essere applicata la misure del riformatorio giudiziario. Il richiamo dell'art. 36 all'art. 23 configura, infatti, il riformatorio come una misura di carattere eccezionale, essendo possibile l'applicazione di tale misura solo per i reati della fascia pi grave, cio quelli per i quali applicabile la custodia cautelare in carcere: si tratta dei delitti non colposi puniti con l'ergastolo o con la reclusione non inferiore nel massimo a nove anni. Successivamente, l'art. 23 stato modificato sensibilmente ad opera del D. lgs. N. 12 del 14 gennaio 1991, il quale ha abbassato la soglia dell'applicabilit della custodia cautelare e quindi, per il richiamo operato dall'art. 36, del riformatorio, a delitti anche meno gravi, ma di alta lesivit dei beni patrimoniali e dell'incolumit personale. Il decreto legislativo del '91, mediante il richiamo all'art. 380, comma 2, lettere e, f, g, h del c.p.p., permette che la misura del riformatorio sia applicata anche per delitti, consumati e tentati, puniti con la reclusione inferiore nel massimo a nove anni, per i quali previsto l'arresto in flagranza - il furto aggravato o in abitazione; la rapina non aggravata e l'estorsione; i delitti di illegale fabbricazione, introduzione nello Stato, messa in vendita, cessione, detenzione e porto d'armi; lo spaccio di sostanze stupefacenti o psicotrope - e, in ogni caso, per il delitto di violenza carnale. Oggi, a seguito della gi menzionata sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 1971, che ha dichiarato l'illegittimit del comma 2 dell'art. 224, la misura del riformatorio di applicazione sempre facoltativa. La sussistenza in concreto della pericolosit deve essere positivamente accertata, non solo al momento della sua applicazione, ma durante l'intera esecuzione della misura. Mentre secondo alcuni la durata minima sempre di un anno (salvo revoca anticipata a seguito di riesame della pericolosit sociale del soggetto), (30) per altri, invece, anche dopo l'abrogazione delle presunzioni di pericolosit, "gli elementi di disciplina contenuti nelle varie ipotesi presuntive [...] continuano a trovare applicazione", per cui, nei confronti del minore non imputabile, ritenuto socialmente pericoloso, che abbia commesso un delitto non colposo punibile con l'ergastolo o con la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni, qualora ricorrano le condizioni per applicare il riformatorio giudiziario, questa misura va applicata con una durata minima di tre anni. (31) Il codice non dispone circa l'et minima al di sotto della quale il minore non pu essere ricoverato in riformatorio, ma sulla base della comune esperienza si ritiene che prima dei 12-13 anni il bambino non abbia n autonomia n capacit di nuocere in misura sufficiente per sfuggire al controllo dei genitori. (32) L'et massima per l'applicazione di questa misura di sicurezza, invece, disciplinata dal comma 2 dell'art. 223 c.p., il quale stabilisce che, qualora tale misura debba essere, in tutto o in parte, applicata o eseguita dopo che il minore abbia compiuto gli anni ventuno (ma ora la maggiore et fissata dall'art. 2 c.c. al compimento dei diciotto anni), ad essa sostituita la libert vigilata, salvo che il giudice non ritenga di ordinare l'assegnazione a una colonia agricola o a una casa di lavoro (art. 223, comma 2, c.p.).

2.2. La libert vigilata


La misura del riformatorio alternativa a quella della libert vigilata, potendo, infatti, il giudice ordinare l'una o l'altra, tenuto specialmente conto della gravit del fatto e delle condizioni morali della famiglia in cui il minore vissuto (art. 224, comma 1, c.p.). Considerati, per, ai sensi dell'art. 36, comma 2, del D.P.R. n. 448, gli stretti limiti in cui pu essere applicata la misura del riformatorio giudiziario, proprio la libert vigilata costituisce la misura di sicurezza ordinaria applicabile nei confronti dei minori. L'art 228 del codice del 1930, sulla libert vigilata, stabiliva che per la vigilanza sui minori provvedevano le leggi speciali. Il rinvio riguardava l'art. 23 della Legge minorile (R.D.L. n. 1440/1934), il quale prevedeva che la sola forma di libert vigilata per i minorenni era l'affidamento ai genitori o a coloro cui spettava di prestargli assistenza; la vigilanza, cio, spettava non all'autorit di pubblica sicurezza, come avveniva per i maggiorenni, ma alle persone e agli istituti affidatari. La libert vigilata poteva essere, infatti, applicata al minore non imputabile solo se era possibile affidarlo ai genitori o a coloro che avevano l'obbligo di provvedere alla sua educazione. Se tale affidamento non era possibile o non era considerato opportuno, il giudice ordinava il ricovero del minore in un riformatorio, cos come tale ricovero era disposto se durante la libert vigilata il minore non dava prova di ravvedimento. Secondo Ricciotti, l'art. 23 della Legge minorile, che prevede la tenuta di un elenco delle persone e degli istituti ai quali possono essere affidate l'educazione a l'assistenza dei minori sottoposti a libert vigilata, non sarebbe stato abrogato, ma dovrebbe essere coordinato nell'applicazione con l'art. 36 del D.P.R. n. 448, il quale stabilisce che la misura della libert vigilata deve essere eseguita nelle forme degli artt. 20 e 21 dello stesso decreto. L'art. 20 prevede che il giudice impartisca al minorenne delle specifiche prescrizioni inerenti all'attivit di studio o di lavoro oppure ad altre attivit utili per la sua educazione; l'art. 21 disciplina, invece, l'imposizione dell'obbligo della permanenza in casa, che pu assumere forme di diverso rigore, derivanti dalla possibilit per il giudice, da un lato, di imporre limiti o divieti alla facolt del minorenne di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono e, dall'altro, di consentire al minorenne di allontanarsi dall'abitazione in relazione alle esigenze inerenti le attivit di studio o di lavoro ovvero ad altre attivit utili per la sua educazione. Sia le prescrizioni che la permanenza in casa sono in realt delle misure cautelari per minori, nel disporre le quali, a
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norma dell'art. 19, comma 3, del D.P.R. n. 448, il giudice affida il minore ai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia per svolgere attivit di sostegno e di controllo in collaborazione con i servizi di assistenza degli enti locali. Secondo Palomba, per, il richiamo a queste due misure cautelari non comporterebbe anche l'applicabilit dell'art. 19, neppure sotto il menzionato profilo dell'affidamento obbligatorio ai servizi minorili durante l'esecuzione della misura: sarebbe il magistrato di sorveglianza a decidere caso per caso anche in relazione all'eventuale affidamento. (33) Per quanto riguarda i criteri in base al quale il giudice deve operare, in via provvisoria o all'esito del dibattimento, la scelta tra le due forme di esecuzione della libert vigilata e la scelta di modalit pi o meno rigorose nell'ambito della misura della permanenza in casa, si ritiene, da una parte, che il principio guida debba essere quello delle esigenze educative del minore, sul quale informato tutto il D.P.R. n. 448, per cui il giudice sceglier, nell'ambito di questo potere discrezionale, le prescrizioni pi adeguate alla personalit del minore; dall'altra, si pensa che la scelta sia da correlarsi ai parametri indicati nell'art. 37, comma 2, del D.P.R. n. 448, in particolare quelli riguardanti le specifiche circostanze del fatto e la personalit del minore sottoposto alla misura di sicurezza. La dottrina, comunque, non ha risparmiato le critiche a nessuna delle due modalit di esecuzione della libert vigilata. In particolare, con riferimento alle prescrizioni impartite dal giudice ex art. 20, si sostenuto che il loro oggetto (le attivit di studio o di lavoro) non soltanto difficilmente realizzabile, ma soprattutto poco valido ai fini educativi, essendo le attivit di studio ormai precluse per il minore inserito nel circuito penale e risolvendosi quelle di lavoro in offerte di carattere assistenziale di scarso valore risocializzante. (34) Per quanto riguarda, invece, l'obbligo di permanenza in casa, si affermato che la forzata permanenza in casa non sempre di giovamento al ragazzo, soprattutto se si pensa che ci possono essere delle situazioni di conflittualit con i genitori e che, spesso, la famiglia rappresenta proprio il modello comportamentale negativo a cui il minore si ispira; inoltre, il minore costretto a casa difficilmente avverte l'afflittivit della misura, per cui facilmente esposto al rischio di violare l'obbligo e alle conseguenze che questo comporta. (35) Nel caso di gravi e ripetute violazioni delle prescrizioni, si ritiene che il giudice possa, ai sensi dell'art. 20 comma 3 D.P.R. n. 448, disporre la misura della permanenza in casa, in quanto questa misura costituisce la forma di esecuzione della libert vigilata alternativa all'imposizione delle prescrizioni. Il problema si pone, invece, in presenza di gravi e ripetute violazioni degli obblighi [...] imposti o nel caso di allontanamento ingiustificato dalla abitazione: applicabile al minore sottoposto alla misura di sicurezza della libert vigilata eseguita nella forma della permanenza in casa l'art. 21 comma 5 dello stesso decreto, che prevede, in questo caso, la possibilit per il giudice di disporre il collocamento in comunit? L'applicazione di tale disposizione al caso in esame comporterebbe, innanzitutto, un'estensione dell'ambito di operativit della misura del collocamento in comunit al di fuori delle ipotesi previste dall'art. 23 del D.P.R. n. 448. Inoltre si pongono dei dubbi anche perch l'art. 231 c.p. prevede che, quando la persona sottoposta a libert vigilata trasgredisce gli obblighi imposti, il giudice pu trasformare la misura della libert vigilata in quella del riformatorio; ma a causa della mutata fisionomia applicativa della misura del riformatorio ci chiediamo se possa ancora ricorrere la differenza tra misura non detentiva, com' la libert vigilata, e misura detentiva, quale il riformatorio giudiziario. Dal momento che il D.P.R. n. 44/88 ha inciso solo sulle modalit applicative e non anche sulla disciplina sostanziale, si deve ritenere che le disposizioni di diritto sostanziale in tema di misure di sicurezza non espressamente incompatibili debbano restare valide; cos, l'art. 231 c.p. stato ritenuto compatibile con le previsioni dell'art. 36 D.P.R. n. 448, che si limita a disciplinare le modalit esecutive della libert vigilata senza toccare la sua disciplina sostanziale, per cui il collocamento in comunit, quale modalit applicativa del riformatorio, dovrebbe seguire la disciplina sostanziale prevista per questa misura, anche se essa, di per s, non una misura detentiva. Nel caso quindi di gravi e ripetute violazioni delle prescrizioni o di allontanamento ingiustificato, il giudice pu disporre la misura del collocamento in comunit, producendo, cos, un "effetto a cascata", (36) soprattutto nel caso in cui inizialmente si sia disposta la misura delle prescrizioni ex art. 20 D.P.R. n. 448, sostituita poi dalla permanenza in casa e infine dal collocamento in comunit. Va comunque sottolineato che la congiunzione utilizzata nella formula gravi e ripetute violazioni comporta, da una parte, che per avere la conversione della misura non baster la ripetuta violazione delle prescrizioni, ma sar necessario che le violazioni siano connotate dal requisito della gravit e, dall'altra, che una sola grave violazione non pu essere considerata presupposto sufficiente per sostituire la misura con altra pi afflittiva.

2.3. Il procedimento per l'applicazione delle misure di sicurezza nei confronti dei minorenni
L'applicazione delle misure di sicurezza nei confronti dei minorenni appositamente disciplinata dagli artt. da 36 a 41 del D.P.R. n. 448/1988. L'art. 37 disciplina l'applicazione provvisoria delle misure di sicurezza ai minori, come gi prevedeva il previgente codice di procedura penale, il cui art. 246 stabiliva che, in caso di arresto di un minore tra i quattordici e i diciotto anni per un reato per il quale era previsto il mandato di cattura, il pubblico ministero o il pretore potessero ordinare con decreto il ricovero in riformatorio giudiziario. Ai sensi dell'art. 37 comma 1, il giudice, su richiesta del pubblico ministero, pu applicare provvisoriamente una misura di sicurezza, qualora ricorrano le condizioni previste dall'art. 224 c.p. (gravit del fatto e particolari condizioni familiari) e se le specifiche modalit e circostanze del fatto e la personalit dell'imputato facciano ritenere sussistente il concreto pericolo che il minore commetta delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro la sicurezza collettiva o l'ordine costituzionale ovvero gravi delitti di criminalit organizzata (art. 37 comma 2). Le misure di sicurezza provvisorie non sembrano applicabili durante la fase delle indagini preliminari, non essendovi nella nuova normativa nessun riferimento a questa fase processuale. Secondo alcuni, per, il giudice per le indagini preliminari pu applicare una misura di sicurezza in via provvisoria, qualora pronunci sentenza di non luogo a procedere per non imputabilit perch il soggetto minore di quattordici anni, "in forza del combinato disposto degli artt. 26 e 37, che prevedono una pronuncia del genere in ogni stato del procedimento sempre che ricorra anche l'estremo della pericolosit sociale del minore". (37) Le misure di sicurezza provvisorie sono invece sicuramente applicabili nell'udienza preliminare: il giudice dell'udienza
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preliminare, su richiesta del pubblico ministero, pu applicare provvisoriamente una misura, a seguito di una sentenza di non luogo a procedere a norma degli artt. 97 e 98 c.p., cio quando il minore non imputabile o perch infraquattordicenne o perch ritenuto incapace di intendere e di volere. Applicata la misura o rigettata la richiesta del pubblico ministero, il giudice dispone che gli atti siano trasmessi al tribunale per i minorenni, il quale, competente per l'applicazione definitiva delle misure, procede al giudizio sulla pericolosit del ragazzo. Nel caso in cui entro trenta giorni dalla pronuncia non abbia avuto inizio il procedimento innanzi al tribunale per i minorenni, la misura provvisoriamente applicata cessa di avere efficacia (art. 37 comma 3). La relativa brevit del termine di decadenza induce a ritenere che il giudice debba provvedere alla trasmissione degli atti contestualmente o quasi all'applicazione della misura. L'ultimo comma dell'art. 37 estende l'applicazione della misura di sicurezza in via provvisoria al giudizio abbreviato, sempre che sussistano le condizioni di cui al comma 2 dello stesso articolo, ma con una differenza: in questo caso, la misura pu essere provvisoriamente applicata da parte de giudice anche d'ufficio. Anche qui dovr disporsi la trasmissione degli atti al tribunale dei minori perch proceda al giudizio sulla pericolosit, con cessazione dell'efficacia della misura qualora il procedimento non venga iniziato entro trenta giorni dalla pronuncia. Infine, per il principio generale dell'art. 312 c.p.p. anche il giudice di secondo grado pu disporre, su richiesta del pubblico ministero, l'applicazione provvisoria di una misura di sicurezza, sempre che ci siano gravi indizi di commissione del fatto, ovvero quando in primo grado vi sia stata condanna o proscioglimento con formula indulgenziale che accerti la commissione del fatto. Come si detto, competente per l'applicazione definitiva delle misure di sicurezza il Tribunale per i minorenni, in composizione ordinaria. Le misure di sicurezza definitive sono applicate in due casi: con la sentenza conclusiva del procedimento per l'applicazione della misura previsto dall'art. 38D.P.R. n. 448, oppure con sentenza dibattimentale di condanna o emessa a norma degli artt. 97 o 98 c.p., ai sensi dell'art. 39 D.P.R. n. 448. Sia che si proceda ex art. 38 che ex art. 39, per l'applicazione definitiva devono ricorrere le condizioni previste dall'art. 37, comma 2. A norma dell'art. 38, si procede all'esame della pericolosit sociale del minore nelle forme previste dall'art. 678 c.p.p. Il procedimento, essendo il suo scopo quello di accertare l'effettiva pericolosit del minore, si svolger con tutte le garanzie processuali. Perci verranno sentiti il minore, gli esercenti la potest dei genitori, l'eventuale affidatario e i servizi minorili dell'amministrazione della giustizia. Nel corso del procedimento, il tribunale pu modificare o revocare la misura provvisoriamente applicata. Oppure applicarla in via provvisoria. Ai sensi dell'art. 39 D.P.R. n. 448, invece, con la sentenza emessa ex art. 97 o 98 c.p., oppure con la sentenza di condanna, il tribunale per i minorenni pu disporre l'applicazione definitiva di una misura di sicurezza nei confronti del minore. Anche in questo caso, come detto sopra, per l'applicazione della misura, occorre l'accertamento dell'effettiva pericolosit del soggetto. L'esecuzione delle misure di sicurezza di competenza del magistrato di sorveglianza per i minorenni del luogo dove deve essere eseguita la misura (art. 40 D.P.R. n. 448). I provvedimenti del magistrato di sorveglianza per i minorenni sono impugnabili, dinanzi al tribunale per i minorenni in funzione di tribunale di sorveglianza, dall'interessato, dall'esercente la potest, dal difensore e dal pubblico ministero. L'appello, per, non ha effetto sospensivo del provvedimento, salva diversa disposizione del tribunale. Infine si pu notare, come mostra la tabella seguente, che le misure di sicurezza rappresentano una parte veramente marginale degli interventi attuati dagli Uffici di Servizio Sociale per Minorenni, ci evidentemente per la scarsa, quasi nulla, applicazione della misura stessa da parte della magistratura. Interventi attuati dagli USSM per applicazione di misure di sicurezza (anno 1998)

E dalla tabella seguente, che illustra gli interventi per applicazione di misure sicurezza, si rileva che l'esiguo numero di questo tipo di interventi presente in tutte le aree territoriali. Interventi attuati dagli USSM per applicazione di misure di sicurezza, per area territoriale di appartenenza dell'USSM

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Interessante anche il raffronto tra l'applicazione delle misure di sicurezza e le misure alternative e sostitutive. (38) Interventi attuati dagli USSM per applicazione di misure alternative, sostitutive e di sicurezza, per area territoriale di appartenenza dell'USSM. Anno 1998

Note
1. F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 856. 2. G. Vassalli, in nota alla sentenza della Corte Costituzionale n. 68 del 1967, in Giur. Cost. 1967, p. 742. 3. La Nuova difesa sociale un "movimento di pensiero [...] che ricevette la sua prima consacrazione internazionale con la istituzione nel 1948 della Sezione di difesa sociale delle Nazioni Unite e si svilupp soprattutto per iniziativa della Societ international de dfence social, fondata nello stesso anno. Sua essenza sono la difesa della societ contro il crimine e la risocializzazione del delinquente" (F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 566). 4. Tra questi: Antolisei, Pene e misure di sicurezza, in Riv. it., 1933, p. 129; Bettiol, In tema di unificazione di pene
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e di misure di sicurezza, in Riv. it., 1942, p. 213; Nuvolose, Il problema dell'unificazione delle pene e delle misure di sicurezza, in Riv. it., 1954, I, p. 125. 5. G. De Leo, La giustizia dei minori, Einaudi, Torino 1981, p. 39. 6. F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 693. 7. Ivi, p. 694. 8. Cfr. F. Mantovani, Diritto penale, cit., pp. 693-695; Arianna Calabria, voce Pericolosit sociale, in Digesto delle discipline penalistiche, IX, pp. 453-454. 9. Circa i rapporti tra capacit a delinquere e pericolosit, essi cambiano a seconda del significato attribuito alla prima: per chi la intende in senso etico-retributivo si tratta di due concetti autonomi; per chi la intende in senso prognostico-preventivo, i due istituti, pur presentano indubbie analogie, non si identificano, essendo la capacit a delinquere il genus e la pericolosit sociale la species, ovvero la prima la possibilit e la seconda la probabilit di commettere un reato (F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 692). 10. Sono espressione di questo orientamento le sentenze della Corte Costituzionale n. 19 del 10 marzo 1966, Riv. it., 1966, p. 109; n. 68 del 19 giugno 1967, Giust. pen., 1967, I, p. 417; n. 106 del 15 luglio 1972, Riv. it., 1972, p. 771. 11. Corte cost., n. 1/1971, Giur. cost., 1971, p. 10; n. 139/1982, Giur. cost., 1982, p. 1231; n. 249/1983, Giur. cost., 1983, p. 1499. 12. Cfr. Arianna Calabria, voce Pericolosit sociale, in Digesto delle discipline penalistiche, IX, p. 464. 13. F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 673. 14. Corte cost., sent. n. 1 del 20 gennaio 1971, Giur. cost. 1971, I. 15. Corte cost., sent. n. 119 del 20 maggio 1976, Giur. cost. 1976, I, p. 887. 16. Corte cost., sent. n. 324 del 24 luglio 1998, Cass. pen. 1998, III, p. 3216. 17. Ibidem. 18. Ivi, p. 3217. 19. Cass., n. 6 del 19 maggio 1999, in Riv. Pen. 1999, p. 866. 20. "In tal senso parrebbe deporre anche la considerazione che la Corte ha optato per una pronuncia di illegittimit, quando avrebbe potuto adottare una sentenza interpretativa di rigetto (sollecitando il legislatore ad adeguare la disciplina del manicomio giudiziario alle peculiarit degli imputati minori), ovvero una sentenza di illegittimit parziale, consentendo, a talune condizioni, il ricorso alle altre misure di sicurezza gi esistenti, anche per i minori non imputabili per vizio totale di mente" (Giorgio Lattanti, Ernesto Lupo, Codice penale, IV, Giuffr, Milano 2000, p. 755). 21. I. Baviera, Diritto minorile, Giuffr, Milano 1976, II, p. 153. 22. C' chi ritiene che non sia provvido "imporre la convivenza di un rapinatore omicida con coetanei non sottoposti a procedimento penale, cio con adolescenti di buona indole e bisognosi solo di assistenza" (Romano Ricciotti, La giustizia penale minorile, Cedam, Padova, 2001, p. 212). 23. Livio Pepino, Il processo minorile, in Commento al codice di procedura penale, diretto da Chiavario, Utet, Torino 1994, p. 243. 24. Sulla questione, pi ampiamente, L. Pepino, Misure cautelari e giudice per le indagini preliminari nel nuovo processo penale minorile, in AA.VV., Il processo penale minorile: prime esperienze, a cura di F. Occhiogrosso, Milano 1991, p. 90. 25. R. Ricciotti, La giustizia penale minorile, cit., pp. 207- 208. 26. Cfr. R. Ricciotti, La giustizia penale minorile, cit., p. 208; L. Pepino, in Commento al codice di procedura penale, cit., pp. 247-248. 27. In questo senso, Fabrizia Pironti, Il processo minorile, in Commento al codice di procedura penale, cit., p. 399; Romano Ricciotti, La giustizia penale minorile, Cedam, Padova, 2001, p. 209. 28. Livio Pepino, Il processo minorile, in Commento al codice di procedura penale, cit., p. 249. 29. Ibidem. 30. In questo senso vedi Romano Ricciotti, La giustizia penale minorile, cit., p. 203. 31. Mario Romano, Giovanni Grasso, Tullio Padovani, Art. 150-240, in Mario Romano, Commentario sistematico del codice penale, vol. III, Giuffr, Milano 1994, p. 470. 32. I. Baviera, Diritto minorile, cit., II, p. 146. 33. Federico Palomba, Codice di procedura penale minorile commentato, in Esperienze di giustizia minorile, 1989, p. 260. 34. Enza Roli, Le ambiguit del processo minorile tra educazione e punizione, in Questione giustizia 1989, p. 895. 35. Cfr. Traverso, G.B., Manna, A., Note critiche a margine del nuovo codice di procedura penale nei procedimenti a carico di imputati minorenni, in Giudici psicologi e riforma penale minorile, Giuffr, Milano 1990, p. 173; Mario Romano, Giovanni Grasso, Tullio Padovani, Art. 150-240, in Mario Romano, Commentario sistematico del codice penale, vol. III, cit., p. 470.

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36. Fabrizia Pironti, Il processo minorile, in Commento al codice di procedura penale, cit., p. 396. 37. Giorgio Battistacci, Codice di procedura penale minorile commentato, in Esperienze di giustizia minorile 1989, p. 263. Nello stesso senso anche Fabrizia Pironti, Il processo minorile, in Commento al codice di procedura penale, cit., p. 400. 38. Fonte: Giustizia.it: l'analisi stata effettuata sulla base dei dati rilevati trimestralmente dagli Uffici di servizio sociale per i minorenni, attraverso specifiche schede di rilevazione, che prevedono l'indicazione dei soggetti segnalati dall'Autorit Giudiziaria, dei soggetti segnalati che sono stati presi in carico dall'Ufficio di servizio sociale per i minorenni e degli interventi attuati in esecuzione dei provvedimenti dell'Autorit Giudiziaria. L'altro diritto - Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalit - ISSN 1827-0565

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