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RIASSUNTO “LA NORMALITÀ DEL MALE”

CAPITOLO 1 – LA CRIMINOLOGIA DEI DIVERSI


1. NON PER QUEL CHE FAI MA PER COME SEI FATTO
Sarebbe tempo di considerare insensata la differenza fra biologico e sociale, se non altro per quanto
concerne il crimine.
1) Se attribuiamo la causa del crimine a fattori biologici crediamo di non poterci fare niente e che non è
colpa di nessuno
2) Se attribuiamo la causa del crimine ad aspetti sociali viene il dubbio di potere/dovere cambiare qualche
cosa nell’aspetto sociale, il che sembra dipendere maggiormente da noi
Se la causa di quel che hai fatto è nel come sei fatto, allora il commettere crimini non è colpa tua; inoltre
piegare la biologia al pregiudizio razzista è più facile e più funzionale a interessi poco nobili; anche se il
razzismo non è una questione scientifica, il concetto di razza è più la proiezione di un’ideologia; vi sono
differenze genetiche molto più consistenti di quelle riconoscibili nei tratti somatici, il che porta ad una
posizione di racial skepticism (le razze non esistono), secondo cui esse non sono altro che costrutti sociali.
Oggigiorno sembra più praticato il razzismo senza razza o su base culturalista; in Italia si sta diffondendo un
razzismo culturale o sottile che fa delle differenze culturali un motivo di pregiudizio, separazione e
discriminazione (si considerano comunque gli altri diversi e inferiori). Il razzismo è uno solo, cambia solo nei
suoi aspetti accessori.
Etnocentrismo o etnofobia: l’esclusione e la paura dell’altro in quanto portatore di differenze.
Altrismo o alterofobia: considerare l’Altro diverso da noi e minaccioso.
Noi siamo superiori, loro inferiori fino ad essere deumanizzati o demonizzati. Ci sono uomini che vengono
ufficialmente perseguiti non per ciò che fanno, ma per ciò che sono. L’antisemitismo non è più un
fenomeno isolato, ma piuttosto è una forma estrema di pensiero esclusivista moderno. Il razzismo è uno:
ieri colpiva gli ebrei, oggi gli stranieri.

2. IL MIO BISNONNO SCIENTIFICO


Lombroso ebbe numerose intuizioni geniali, ma fece almeno altrettanti scivoloni scientifici e ideologici; egli
è soprattutto noto per aver rivolto l’attenzione all’uomo che delinque alle sue caratteristiche di personalità
e soprattutto biologiche; i pilastri della costruzione lombrosiana furono la teoria del delinquente nato,
secondo cui un’alta percentuale dei criminali possiederebbe disposizioni congenite, e la teoria
dell’atavismo, che interpretava la condotta criminosa come una forma di regressione o di fissazione a livelli
primordiali dello sviluppo dell’uomo.
Nasce la criminologia dei diversi, nel momento in cui il criminale viene considerato come animale inferiore.
Le teorie del delinquente nato e dell’atavismo, improntate a marcato determinismo biologico, furono
quelle che lo resero più famoso e, nello stesso tempo, quelle che attirarono maggiormente la critica; oggi lo
si è un po’ rivalutato: moderne ricerche effettuate con tecniche di neuroimaging hanno riscontrato
un’associazione fra comportamento antisociale violento e anomalie fisiche espressione di imperfetto
sviluppo neuronale collocabile verso la fine del terzo mese di gravidanza; in ogni caso, Lombroso fu un
“uomo del suo tempo”, infatti pregiudizio e razzismo vero e proprio dilagano nella sua opera. Le categorie
etichettate da Lombroso sono le categorie colpite abitualmente dal pregiudizio, e in ciò non è stato
originale, o forse parte del suo successo è dovuto all’aver fatto propri i più diffusi preconcetti. Il suo lavoro
si risolve in un miscuglio di misurazioni ossessive che non distinguono accidentalità da fattori causali,
contiene aneddoti antropologici di incerta derivazione; sono presenti anche rigide distinzioni di ruolo
secondo il genere. La concezione più datata e naif delle razze permeava la cultura e il comune sentire
dell’epoca lombrosiana, i caratteri del delinquente tipico erano anormali per “noi uomini civili, ma comuni e
normali nelle razze inferiori”. Sostenne anche l’inferiorità razziale, genetica, psicologica delle popolazioni

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meridionali; non dimenticò gli zingari, gli omosessuali, i malati e i disabili; delinquente ed epilettico sono
per lui sinonimi. A dispetto della sua lapidaria affermazione secondo cui “i fatti sono fatti”, Lombroso i fatti
li ha spesso piegati ai propri pregiudizi: è la cosiddetta fallacia naturalistica; si cercherà di non fare lo stesso
errore, non criticandolo solo perché quello che dice non piace e offende, ma attaccando con le stesse armi
che lui pretende di usare: quelle scientifiche e logiche.
Per cominciare, la diagnosi che egli formula di epilessia è approssimativa, fatta con “instrumenti”, ma
soprattutto, e qui invece la colpa è sua, la diagnosi è fatta invertendo i termini logici: Lombroso non fa
diagnosi di epilessia per poi trovare che questa diagnosi conduce ai più vari misfatti, bensì, una volta deciso
alla luce di un paio di osservazioni aneddotiche che l’epilessia conduce al crimine, trova l’epilessia
ogniqualvolta sia al cospetto di un crimine, specie se efferato. Lombroso mostra di non tenere fede alla
costruzione razzista pura, ma di considerare anche fattori storici e culturali; in pratica, egli parla di “razza”
ma intende “etnia”

3. NON PIÙ NOSTRI SIMILI


Fra le tante contraddizioni di Lombroso c’è il fatto che egli da un lato attribuisce stigmate criminali secondo
un destino biologico, dall’altro non ignora gli svantaggi sociali che conducono al delitto. Pure Ferri, suo
allievo, ammettendo la multicausalità del crimine, sposò le idee razziste ma anche quelle della necessità di
emancipazione sociale: in particolare la razza era la causa della superiore o inferiore propensione
all’omicidio, ma con la futura vittoria del socialismo la maggior parte dei reati sarebbe scomparsa; il che, se
funziona il sillogismo, significa che il socialismo fa cambiare razza. Lombroso nonostante tutto si accorse
della normalità almeno statistica del delitto: il delitto è estesissimo e l’onestà pura è una singolare
eccezione.
Un’ulteriore cosa da dire in difesa di Lombroso è che si interessò praticamente a tutto quello che
riguardava il crimine e che agitava il modo politico della sua epoca; a cominciare da quelli che i criminologi
definiscono i “delitti dei colletti bianchi”, cioè la criminalità economica. Era di immediata evidenza quanto la
teoria dell’atavismo o quella del delinquente nato non fossero applicabili a questi criminali, e neppure una
sorta di inversione dei termini cercata da Lombroso con il concetto di “criminalità evolutiva” riesce a
convincere; l’autore è in imbarazzo davanti a soggetti che hanno “i caratteri dell’uomo comune” che non
presentano particolarità somatiche che li distinguano, e tanto forte è la convinzione che il delinquente
queste peculiarità debba invece averle che, per non dover rinunciare a tutta la sua costruzione, è costretto
addirittura a negare che si tratti di veri e propri criminali, e li chiama dunque “criminaloidi”; davanti ai
“criminaloidi” ci si rende conto che non è una diversità congenita a condurre al crimine, o almeno che non
sono quelle caratteristiche di difformità somatica a costituire la causa, sicché, in sostanza, Lombroso si
occupa di questa criminalità economica e di questo criminale senza riuscire a teorizzare; se ne occupa da un
punto di vista morale piuttosto che scientifico.
In Lombroso troviamo in breve persino le successive teorizzazioni circa l’attenzione differenziale delle
agenzie di controllo: in carcere non giungono con eguale facilità tutti coloro che offendono le leggi sociali;
anche questo è un merito, per se, in seguito, una delle censure di metodo che gli vennero rivolte fu l’aver
assimilato la categoria dei criminali a quella dei detenuti, individuando così tutt’al più le caratteristiche che
fanno sì che un soggetto sia scoperto e incarcerato, e non quelle per le quali un soggetto delinque; e,
sempre dal punto di vista metodologico, la critica fu quella di non aver messo a confronto i soggetti da lui
studiati con soggetti non detenuti, di non aver cioè usato un gruppo di controllo. Lombroso fu anche
talvolta a favore della pena di morte, in coerenza con la visione deterministica del delinquente nato.

4. PARE CHE NOI SI SIA ARIANI


Già allora, se anche l’obiettivo erano soprattutto gli ebrei, dalla prima citazione può cogliersi l’unicità del
pregiudizio: ebrei ma anche etiopi e arabi pari sono nella diversità da noi “romano-italici”. Tra i frutti
velenosi di queste idee ci furono le leggi razziali che inibirono agli ebrei una serie di attività; le leggi razziali

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sono un buon esempio dell’affermazione secondo cui diritto e giustizia non sempre coincidono, a anzi
quelle leggi possono essere considerate il “perfezionato oltraggio al diritto stesso, in quanto il diritto è
usato per negare il diritto ad appartenere alla condizione umana”

5. ITALIANI BRAVA GENTE


Il vantaggio del razzismo rispetto ad altre forme di esclusione è che il razzismo non consente alcuna
emenda; la razza non si corregge, per essa non esiste né conversione né riscatto alcuno. La dichiarazione
sulla razza stabiliva che appartenevano alla razza ebraica non solo i nati da genitori ebrei, ma anche chi, pur
nato da matrimonio misto, professava la religione ebraica: a chi scrive sfugge l’influenza del culto sulla
genetica. Il termine “eugenetica” fu coniato da Francis Galton nel 1881, dopo di che, a causa dell’uso
perverso che di esso fu fatto dal regime nazista e delle centinaia di morti che tale uso comportò, oggi
questa parola si ammanta di un alone sinistro; in realtà la genetica tutta nasce come eugenetica, la quale, in
sé, non comporta necessariamente derive quali quelle che appunto poi il nazismo fece proprie.
Quantomeno occorrerebbe distinguere fra “eugenetica positiva” (vale a dire l’assistenza prima e dopo il
parto, quella all’infanzia, l’igiene, la cura dell’alimentazione...) ed “eugenetica negativa” (quella che intende
limitare la trasmissione dei caratteri ereditari “patologici” e che può arrivare ed è arrivata agli interventi di
sterilizzazione).
Considerazioni simili devono essere fatte per la parola “eutanasia”: il nazismo la usò in un’accezione
assolutamente perversa, che nulla ha a che vedere con il significato che le diamo oggi. Di Tullio scriveva nel
suo manuale di antropologia criminale del 1931 che l’eugenetica è “quella parte della medicina moderna
che ricerca le cause della degenerazione umana, e quindi delle debolezze fisiche e morali, per eliminarle,
allo scopo di rendere sempre meno frequenti i deboli, gli inetti e gli antisociali in genere, e di assicurare un
graduale miglioramento delle generazioni e un sempre maggiore rafforzamento della stirpe”, anche se poi
si oppose a metodi violenti di eliminazione, e propose piuttosto proibizioni del matrimonio per psicopatici,
epilettici, alcolisti, sifilitici e tubercolotici; tutto ciò sarebbe molto confortante tranne che per la
considerazione che l’essere meno cattivi degli altri non pare un grande merito.
È certo però che il razzismo non fu appannaggio di chi si occupava del crimine, che il mondo scientifico
italiano in buona misura condivise le idee razziste e lo fece anche prima dell’alleanza con il nazismo. Le idee
razziste in senso stretto cominciano a comparire in connessione con le conquiste coloniali. Un razzismo
diverso, il nostro, non sempre marcatamente biologico, e più di impronta spirituale o culturale; il fascismo
si appoggiava al mito della romanità, mirante a fondare l’identità italiana sulla base del comune
riconoscimento del valore eterno e supremo della civiltà di Roma.

6. MALA TEMPORA INCIPIUNT


Tutta una serie di bio-scemenze era già presente prima dello sviluppo di quella che sarà poi definita
“criminologia ariana”, e non solo grazie a Lombroso; le radici della criminologia nazista si ritrovano nelle
posizioni, in particolar modo, dei criminologi della Repubblica di Weimar. Si cominciò comunque con la
confusione tra malattia mentale e comportamento criminale di cui il concetto di moral insanity fu il
precursore; l’inclusione di criteri morali nella diagnosi psichiatrica comportava il rischio di considerare il
comportamento criminale come sintomo di malattia mentale e dunque il deviante da curare.
Schneider sosteneva le origini congenite della “personalità abnorme”, ma ne lui ne Birnbaum giunsero a
sostenere che il comportamento criminale fosse determinato dall’ereditarietà, e anzi ipotizzarono che il
fatto che uno “psicopatico” commetteva reati, dipendeva da fattori ambientali. Nonostante il diffuso rifiuto
delle tesi lombrosiane, ci si stava però sempre più indirizzando verso spiegazioni esclusivamente biologiche;
Lange asseriva la priorità delle determinanti genetiche quali cause del delitto, ed era giunto a tale
convinzione sulla scorta dei suoi studi sui gemelli grazie ai quali aveva trovato una concordanza del 77% nel
comportamento criminale fra i gemelli identici e del 12% fra quelli non identici; sosteneva che i caratteri
ereditari erano una potenzialità. L’adesione entusiasta alla tesi della determinante ereditaria della malattia
mentale fu anche dovuta alle deludenti capacità terapeutiche degli psichiatri di allora: sostenevano che i

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modestissimi risultati nella cura dei pazienti non erano dovuti alla loro scarsa competenza ma al fatto che,
in quanto di origine genetica, quelle malattie fossero incurabili; anche se in molti casi il crimine era causato
dalle condizioni sociali, queste ultime non erano modificabili, sicché il criminale, pur mosso da motivi
sociali, doveva essere considerato “incorreggibile”; in pratica, l’incorreggibilità era dichiarata derivare da
caratteristiche intrinseche all’individuo, ma finiva per essere decisa sulla base della difficoltà di intervenire
sulle cause sociali. C’era l’idea di creare un sistema per identificare i criminali “incorreggibili”, attraverso
una classificazione sulla base di criteri biologici; in realtà, nella valutazione di incorreggibilità rientravano
notizie relative all’ambiente sociale di provenienza, alle posizioni religiose e politiche, all’attività lavorativa,
al tipo di reato commesso; erano considerate anche le opinioni dei medici, degli insegnanti e dei cappellani
del carcere in materia di correggibilità o meno dei detenuti, e queste valutazioni andavano a mescolarsi con
quelle scientifiche; non si distingueva fra cause e correlazioni. Per le persone “spiritualmente e moralmente
inferiori”, per gli psicopatici, per gli asociali a partire dal 1932 compare l’espressione “razza subumana”.
Prendeva sempre più piede l’idea che i criminali fossero intrinsecamente diversi; non solo, ma che fossero
diversi per come erano, più che per quello che facevano.

7. LA BIO-CRIMINOLOGIA NAZISTA
Un’altra categoria di soggetti in un primo tempo da sterilizzare e poi da internare fu quella dei “socialmente
disadattati”; gli zingari erano classificati automaticamente come antisociali. Le vittime, si sa, non sono tutte
uguali e non tutte hanno uguale diritto al ricordo, e forse delle vittime della criminologia nazista si è parlato
meno di quanto non si sia parlato di altre vittime del nazismo; perché aleggia il sospetto che costoro se la
siano in qualche modo voluta; come dire: ebreo ci nasci, la malattia mentale ti capita senza colpa, ma per
essere un delinquente qualche cosa devi avere fatto.
“Come si diventa nazisti”, analisi in una cittadina della Germania dal 1930 al 1935: quando nella comunità
c’è sicurezza, gli agitatori politici si ritrovano a declamare in sale quasi vuote: è necessaria una paura
ossessiva, l’improvvisa coscienza di pericoli, per riempire le sale di ascoltatori che vedevano nell’agitatore
colui che li salverà.
I destinatari del pregiudizio lombrosiano, che erano poi i destinatari dei pregiudizi più diffusi, furono anche
quelli del nazismo, e talune concezioni dell’antropologo criminale (il determinismo biologico, le idee
razziste, quelle sull’esistenza e la non correggibilità del delinquente nato) potevano costituire un fertile
humus per i due caposaldi della bio-criminologia nazista: la “difesa della razza” e lo sterminio. La
criminologia nazista era articolata su due assunti fondamentali: che fosse la biologia a determinare il
comportamento criminale, mentre l’ambiente aveva poca o nulla influenza, e che i fattori biologici e
genetici responsabili della propensione al delitto passassero inevitabilmente da una generazione all’altra;
queste le fondamenta di quella che verrà definita la “criminologia ariana”.
Mezger e Exner avevano posizioni meno appiattite: rigettarono l’idea di un ruolo esclusivo dei fattori
genetici nel determinare il comportamento criminale, e richiamarono alla necessità di distinguere
l’importanza di tale ruolo a seconda dei differenti gruppi di criminali; la libertà di coscienza non impedì però
loro affermazioni razziste ed esplicitamente antisemite. Quando il nazismo prese il potere furono aperti 73
centri bio-criminologici nelle diverse carceri tedesche; il programma era ambizioso: classificare
geneticamente ogni detenuto tedesco ed elaborare dei rapporti che aiutassero i giudici nelle loro decisioni;
per i delinquenti malati di mente erano pronte misure drastiche, a cominciare da quelle pseudo-
eugenetiche e pseudo-eutanasiche; si legga: sterilizzazione in un primo tempo, eliminazione poi; è meglio
per tutto il mondo se, invece di aspettare di giustificare per qualche crimine una prole depravata o lasciarla
morire di fame a causa della sua imbecillità, la società può impedire a coloro che sono manifestamente non
idonei di propagare la loro specie.
Orrori della “medicina nazista”, stante l’equivalenza degenerazione = malattia mentale = crimine, non ci si
contentò della sterilizzazione, e per gli Asozial (prostitute, vagabondi, mendicanti, criminali abituali,
omosessuali, dipendenti da droga) fin dal 1933 si approntò l’invio nei campi di concentramento; i ricoverati
per “follia criminale” furono poi compresi nell’operazione T4 di uccisione degli adulti disabili. Uno dei

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cardini del razzismo è la mixofobia, il timore delle mescolanze fra gruppi umani e l’ossessione nei confronti
della perdita di purezza identitaria. Inoltre, se un uomo è divenuto contravventore della legge a causa della
sua minorità mentale non ha assolutamente alcun valore per la generalità, lo Stato ha il diritto di eliminarlo;
tutto ciò che è prescritto dalla legge è legale; legalità e moralità possono anche non coincidere.

8. CRIMINALI DI RAZZA
L’eugenetica, qui intesa come “igiene razziale” e così infatti per lo più denominata dai nazisti, si incentrava
sulla necessità di ristabilire la purezza ariana del popolo germanico, e identificò presto fra le minacce a tale
purezza gli zingari e gli ebrei (gli zingari, veramente, sono di ceppo ariano, ma non cerchiamo il pelo
nell’uovo della coerenza); l’ideologia nazista non andava troppo per il sottile, o comunque faceva tornare i
conti attribuendo agli appartenenti alle razze che intendeva eliminare una serie di caratteristiche
delinquenziali: gli ebrei erano parassiti, sanguisughe, vampiri, fraudolenti, connotati da sfrenata sessualità,
un “popolo sfruttatore composto da briganti” (gli zingari erano reputati vagabondi, truffatori, mendicanti;
se donne: indovine). Un bollettino indirizzato ai componenti della principale forza di polizia nazista,
intitolato “Ebrei e criminalità” spiegava che le caratteristiche di questo popolo erano: intemperanza, vanità,
invadenza, negazione della realtà, mancanza di sentimento, stupidità, malizia, brutalità, che li rendeva simili
al “perfetto criminale”. Il parassitismo era l’accusa più ricorrente rivolta agli ebrei e aveva una storia antica;
Lutero l’aveva espressa già molto tempo prima: “ci fanno lavorare, con il sudore sulla fronte, a guadagnare
denaro e proprietà per loro”; Hitler puntualmente riprenderà il concetto: “gli ariani concepiscono il lavoro
come fondamento per il sostentamento della collettività, mentre gli ebrei lo intendono come mezzo per lo
sfruttamento degli altri popoli; su un quotidiano tedesco si poteva leggere: nel caso degli ebrei non si tratta
semplicemente di pochi criminali (come in tutti gli altri popoli); l’intero giudaismo nasce da radici criminali,
ed è criminale per sua stessa natura.

CAPITOLO 2 – IL MONDO SAPEVA


1. A COMINCIARE DALL’ANTISEMITISMO
La criminologia si occupa dei crimini, che a stretto rigore dovrebbe voler dire solo dei comportamenti vietati
dalla legge; se non conservassimo questo limite, vi sarebbe il rischio di operare proprio come fecero il
nazismo e il fascismo, perseguitando gli oppositori e chi a vario titolo era scomodo. La considerazione è da
tenere presente, ma ce né anche un’altra che sostiene la tesi opposta: e se le leggi sono ingiuste, disumane,
crudeli? Al processo di Norimberga, agli imputati che si difendevano affermando di aver obbedito alle leggi,
venne contrapposta l’esistenza di “principi universali e prevalenti che riguardano il rispetto della dignità
umana che nessuna autorità politica può schiacciare”. Eichmann al processo di Gerusalemme, pur
riconoscendo la differenza fra legge, diritto e morale, aggiunse di sentirsi colpevole dinanzi a Dio, non
dinanzi alla legge; il suo avvocato affermò che lui aveva commesso azioni per le quali si viene decorati se si
vince e condannati a morte se si perde; questa è un’esagerazione palesemente dovuta a intenti difensivi.
Ma è anche vero che è il potere a creare il diritto, e dunque davanti a un potere e a un diritto ingiusti è
lecito riferirsi a norme diverse, forse superiori, comunque migliori; Todorov lo richiama in una prospettiva
laica: “il delitto potrebbe diventare legittimo perché il popolo l’ha voluto e l’individuo l’ha accettato? No.
C’è qualcosa che si trova al di sopra della volontà individuale e della volontà generale, e che tuttavia non è
la volontà di Dio: è l’idea stessa di giustizia”; potremmo anche aggiungere un altro “valore assoluto”, quello
di umanità; per parte criminologica, è stato affermato che la criminologia arriva ad essere la “scienza del
male”, il che ci autorizza pure a rivolgerci la domanda che mi ero posta all’inizio sulla diffusione del male in
intere popolazioni, e addirittura sulla possibilità che vengano promulgate leggi disumane. Perché? Nel XX
secolo i genocidi hanno ucciso più esseri umani delle pur sanguinose guerre e più che rispetto agli atti
criminali. Yacoubian analizzando principali riviste scientifiche internazionali di criminologia dal 1990 al
1998, hanno trovato che su 3138 articoli pubblicati solo 1 era dedicato al genocidio, concludendo che

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“quello che rimane il più pericoloso crimine contro l’umanità è praticamente ignorato da coloro che si
dedicano allo studio, e presumibilmente alla riduzione, del crimine; anche altri lamentano la scarsa
attenzione della criminologia nei confronti della domanda su quale sia il modo in cui la “normale moralità”
possa essere sospesa in occasione di genocidi, pur avendo gli strumenti teorici per affrontare il problema.
L’antisemitismo è poi probabilmente la matrice di ogni razzismo o etnocentrismo, non fosse altro che per
anzianità di servizio, dato che il pregiudizio contro gli ebrei ha una storia millenaria che di volta in volta si è
rivestita di razionalizzazioni differenti. Il razzismo è uno, anche se può assumere diversi aspetti e diversi
obiettivi; i massacri possono ripetersi sotto parole d’ordine nuove e diverse.
Ci sono analogie tra l’antisemitismo e altre forme di esclusione o di razzismo che fanno ritenere che questo
non sia un problema solo ebraico, e nello stesso modo la Shoah non può essere un problema esclusivo degli
ebrei, anche solo per la sua ampiezza: milioni di vittime e chissà quanti autori lo rendono un problema non
degli ebrei, lo rendono un problema di tutti gli esseri umani. Le analogie dell’antisemitismo con altri
razzismi sono molte e risiedono già nell’origine della parola “ebreo” che pare derivare da “habiru”, in
origine “fuoriuscito” o “rifugiato” che diventa ben presto “nemico” e “bandito”. Nell’attualità
l’antisemitismo prende forme più sottili che abitualmente contengono l’avverbio “però”: “io sono
femminista, però...” “non sono razzista, però...” “non che io abbia dei pregiudizi, ma...”; la vicenda
dell’Olocausto ci pone dunque un fastidiosissimo dubbio che riguarda l’oggi: siamo proprio sicuri che cose
del genere non accadranno di nuovo? E un altro tormentoso quesito, sempre dell’oggi, potrebbe essere:
ma io, in quelle circostanze, cosa avrei fatto? Sarei stato fra i carnefici, fra gli ignavi, o fra gli oppositori? Il
genocidio è un’azione potenziale di qualsiasi nazione. Come si è detto e si ripeterà, considerare qualcuno
inferiore è una matrice che può essere utilizzata per diverse categorie, quelle che “servono” al momento in
base alla contingenza stoica, politica e sociale; ora, per esempio, “è funzionale” prendersela con gli
immigrati, meglio qualificati di solito come “clandestini” in modo da etichettarli subito quali fuorilegge; ciò
significa anche, egoisticamente e inevitabilmente, che nessuno di noi è al riparo.

2. SE NON FURONO TUTTI, CERTO FURONO MOLTI


L’analisi del nazismo non ha a che fare con singoli individui ma con un’intera comunità. I collaboratori del
massacro non furono solamente le guardie, ma anche gli industriali e i funzionari ecclesiastici (questi ultimi
dovevano identificare i non cristiani, anche se, qualcuno di loro, divenne un vero e proprio martire).
Ci furono tanti che tacquero, ci furono gli apatici, i passivi, coloro che chiama spettatori distinguendoli dagli
attivisti e a proposito dei quali Kulka scrive:” la strada per Auschwitz era costituita sull’odio ma lastricata di
indifferenza”; un mito da sfatare è quello secondo cui la popolazione non direttamente implicata non
sapesse cosa stesse accadendo; i partecipanti ai massacri, i militari impegnati sul fronte orientale tornando
a casa in licenza e avranno raccontato qualcosa.

3. NON SUCCEDERÀ MAI PIÙ, COMUNQUE NON A NOI


Bauman ritiene che non si possa definire l’Olocausto come un fenomeno “confortevolmente atipico”, anche
se ne sottolinea le specificità: afferma addirittura che sia stata la modernità a rendere possibile la Shoah.
Tra i fattori della modernità che hanno reso possibile tanto orrore si annovera la burocrazia, e una
burocrazia particolarmente efficiente, in cui si pensa in termini di mezzi e non di fini, in cui la
preoccupazione riguarda solo l’impeccabile esecuzione del processo che dovrà condurre al risultato senza
domande circa il risultato stesso, e in cui la distanza con gli effetti del proprio operato permette la diluizione
della responsabilità, una mediazione dell’azione, e la frammentazione delle procedure consente una
“frantumazione dei compiti”; al processo di Gerusalemme, Eichmann usò parole che esemplificano
perfettamente lo scrollamento fra l’esecuzione del compito e la domanda sulla giustezza del compito
stesso: “non ero responsabile di queste cose, ero responsabile delle questioni riguardanti l’orario, delle
questioni tecniche, ma non di queste cose”. Pascal lo denunciava già: “è deplorevole vedere tutti gli uomini
riflettere soltanto intorno ai mezzi e mai intorno al fine”.

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Lo sterminio, i lager, la “soluzione finale” erano visti come un problema tecnico, non come un problema
etico; bisognava fare un “buon lavoro”. Circa il complesso meccanico dell’uccisione dei bambini disabili,
Lifton richiama la funzione non solo tecnica ma anche diremmo “psicologica” della frammentazione e della
diluizione di responsabilità che permette di partecipare alle peggiori barbarie: tale struttura serviva a
distribuire la responsabilità individuale sul maggior numero possibile di persone. La segmentazione
permette di raccontarsi che si stanno compiendo azioni innocenti, soprattutto qualora il compito non
consista nel chiedersi il perché. Tutto questo non vuol dire che la nostra civiltà conduca necessariamente
allo sterminio, significa che non ci si deve inorgoglire troppo né abbassare la guardia; di nuovo Bauman:
non siamo già vigili? Non condanniamo forse la violenza, l’immoralità, la crudeltà?; oggi in tempi ancor più
tecnologici ci si potrebbe domandare se lo sviluppo della tecnologia informatica non aumenti il rischio
rendendo ancora più anonimo l’Altro, ancora maggiore la distanza psicologica, e ancor più privo di
significatività etica quello che non è se non un output.

4. LA STUPIDITÀ AIUTA
Chi non conosce la storia è condannato a ripeterla, perché una delle fesserie tuttora praticate anche da
sedicenti intellettuali è il negazionismo; questo consiste nell’insieme di affermazioni che contestano o
negano quanto successo agli Ebrei durante la Seconda Guerra Mondale. Simile ad esso è il riduzionismo
teso a sostenere che modalità e proporzioni dello sterminio siano state minori di quel che si valuta.
All’inizio, il negazionismo si è sviluppato in Europa e negli Stati Uniti; adesso, è presente anche in alcuni
Stati musulmani. Tra le iniziative dei negazionisti, c’è la ripresa del tema del complotto ebraico: questa è
ripreso fiato, nel momento in cui c’è stata la ripubblicazione dei Protocolli dei Savi di Sion; in questo
volume, si narra di un piano strategico degli ebrei per conquistare il mondo.
La tesi del complotto (in generale, senza considerare il tema degli ebrei) è un tema ricorrente anche
attualmente.

5. BARBARA SUPERSTITIO
Il pregiudizio nei confronti di chi appartiene ad un’altra tribù è una cosa di vecchia data, che si riveste di
nuove sembianze a seconda del colpevole da individuare. Haeckel, Gobineau, Günther, Rosenberg e
Himmler ebbero un pensiero razzista.
Come il razzismo, anche l’antisemitismo ha una storia antica: Cicerone aveva definito la religione giudaica
barbarica superstitio; l’antisemitismo non nasce propriamente come pregiudizio biologico; i giudei sono si
definiti “razza”, ma per secoli sono stati stigmatizzati per non aver accettato la rivelazione cristiana e per
essere stati “deicidi”.
In generale, nel mondo culturale e scientifico tedesco, l’antisemitismo è un fenomeno diffuso già prima
dell’avvento del nazismo. La Germania è nota come la nazione che ha dato i natali a filosofi illustri; molti di
questi (Kant, Ficjte, Hegel, Feuerbach, Schopehauer, Fourier, Proudhon, psicoanalisti, Jung e Wagner)
pronunciarono frasi e commenti razzisti; quindi, si può affermare che non è vero che i movimenti nazisti
abbiano posto la propria attenzione solamente sugli ignoranti. All’inizio degli anni ’30, negli ambienti
studenteschi tedeschi, quasi tutte le persone aderivano alle tesi nazionaliste e razziste; i laureati avevano il
compito di coltivare le scienze di legittimazione del Terzo Reich. In quegli anni, la scieza più importante era
la “razziologia”.

6. L’OBBEDIENZA NON È PIÙ UNA VIRTÙ


Milgram, nei primi anni 60 del’900, si propose di studiare i rapporti fra l’obbedienza e il conformismo da
una parte e l’infliggere dolore dall’altra: a ognuno dei componenti di un gruppo sperimentale di individui
scelti a caso era data la consegna di punire un’altra persona legata qualora questa sbagliasse a rispondere
ad alcune domande, premendo una serie di pulsanti che recavano scritte da “scossa leggera” a “scossa
pericolosa”, e indicazioni di un voltaggio da 15 a 450 volt; si precisa che la punizione doveva essere sempre

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più forte se costei persisteva nello sbagliare; la persona che veniva punita era in realtà un collaboratore di
Milgram che doveva fingere dolore per la scossa elettrica simulata, ma chi somministrava la scossa non
sapeva che si trattasse di finzione e riteneva di infliggere veramente dolore; contrariamente alle attese, o
alle speranze, degli sperimentatori, i soggetti del campione non esitavano a premere il pulsante della scossa
pericolosa nonostante i segni di grande sofferenza e le implorazioni delle vittime. Milgram ricavò da
quest’esperimento una serie di suggerimenti, soprattutto in merito alla violenza collettiva: come si
comporta una persona quando un’autorità considerata legittima le impronte di compiere atti di violenza nei
confronti di un altro essere umano? l’amara risposta, secondo Milgram, è che gente normale, che conduce
una vita ordinata e laboriosa, che non si caratterizza per una particolare dose di aggressività, da un
momento all’altro può rendersi complice dell’annientamento di un suo simile; forse, i partecipanti alla
ricerca non solo obbediscono all’autorità, ma si piegano all’autorevolezza; lo studio è stato replicato
successivamente in paesi diversi e l’obbedienza ai comandi dell’autorità nonostante la sofferenza inflitta
alla vittima è stata riscontrata ovunque, pur se in percentuali diverse; l’obbedienza serve inoltre a fornire
un sostituto della coscienza: qualsiasi cosa si faccia, è stata ordinata, si è costretti a farla, la responsabilità è
di chi ha impartito l’ordine.

7. NOI E GLI ALTRI


Adorno, Frenkel-Brunswik, Levinson e Sanford si sono occupati del rapporto fra violenza e obbedienza
all’autorità per cercare di fornire risposte ai quesiti suscitati dall’acquiscenza o dall’adesione fattiva di tanti
cittadini normali alle atrocità naziste; costoro individuarono una sindrome autoritaria, cioè un insieme di
tratti caratterizzati da un atteggiamento remissivo nei confronti delle persone potenti e nel contempo
prepotente verso chi si reputava più debole. I 2099 soggetti furono sottoposti a un questionario, vennero
lungamente intervistati, fu somministrato loro un test proiettivo; per la ricerca furono costituite 4 scale: la
scala dell’antisemitismo, la scala dell’etnocentrismo, la scala del conservatorismo politico-economico, la
scala delle tendenze antidemocratiche implicite. Con il progredire del loro lavoro sono pervenuti a
considerare non tanto l’antisemitismo in sé e per sé, quanto il più ampio problema del pregiudizio nei
confronti delle minoranze → in particolare, è l’etnocentrismo a costituire il trait d’union fra l’antisemitismo
e l’esclusione di tutte le minoranze, con la sua tendenza a sussumere i gruppi “diversi” in categorie
omogenee, a spiegare le differenze in termini di “sangue”, a far propri atteggiamenti allo stesso tempo ostili
verso gli altri e acriticamente favorevoli nei confronti del proprio gruppo; l’etnocentrismo è alla base della
tendenza a vedere a “pre-giudicare” un soggetto in quanto esemplare in un gruppo e non individuo a sé
stante, è alla base, forse, soprattutto, della non identificazione con l’umanità nel suo complesso. Anche
Pinker sottolinea la tendenza alla “categorizzazione”, e quella a “moralizzare” le categorie, attribuendo
caratteristiche lodevoli al proprio gruppo e biasimevoli al gruppo esterno o magari nemico; ovvio che in
questo gioca molto anche la propaganda, sicché una bella domanda sarebbe: “razzisti si nasce o si
diventa?” sulla base delle nostre osservazione, dobbiamo concludere non solo che personalità di questo
tipo non sono né uniche né patologiche, ma anche che possono ritrovarsi in ogni paese del mondo al giorno
d’oggi. Adorno e colleghi sottolineano che il fascismo non può limitarsi a una pavida sottomissione, ma
deve poter contare su una collaborazione attiva; le variabili che definiscono il fascista potenziale e anche la
personalità autoritaria secondo loro sono:
1) Convenzionalismo, cioè l’adesione rigida ai valori convenzionali della classe media
2) Sottomissione all’autorità, che si manifesta in modo acritico e che nel nazismo fu inclinazione per l’uomo
forte, per il capo, e per l’asservimento dell’individuo allo stato
3) Aggressività autoritaria, la tendenza a condannare e punire severamente chi viola i valori convenzionali
4) Anti-intraccezione, il rifiuto delle tendenze introspettive, dell’immaginazione, della tenerezza
5) Superstizione e stereotipica, che è contemporaneamente il credere in determinati mistiche del destino
dell’individuo e la disposizione a pensare in categorie rigide
6) Potere e durezza
7) Distruttività e cinismo

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8) Proiettività, atteggiamento per il quale gli impulsi emotivi inconsci e inaccettati vengono proiettati,
appunto, sugli altri, e così pure le colpe degli eventi negativi
9) Sesso, la preoccupazione esagerata per i contatti sessuali
La personalità autoritaria si contraddistingue perché gli individui che la presentano non riescono a
collocarsi nei confronti degli altri in una posizione di uguaglianza e di reciprocità, ma tendono a riprodurre
una situazione gerarchica di dominanza-sottomissione, superiorità-inferiorità; esistono delle tecniche di
neutralizzazione che permettono una sorta di sublimazione del sadismo; le tecniche di neutralizzazione
sono quelle auto-giustificazioni o razionalizzazioni che consentono al soggetto di tacitare la morale; fra
queste c’è la ridefinizione del proprio operato, l’uso di eufemismi. L’uso di eufemismi, d’altro canto, non fu
proprio solo del nazismo, basti pensare ai massacri della popolazione civile che certo attuale gergo militare
definisce “danni collaterali” della guerra, o addirittura alla denominazione “bombe umanitarie”. Fra quelle
usate dai nazisti c’è anche la tecnica di neutralizzazione detta del confronto vantaggioso, che consiste nel
paragonare il proprio comportamento con altri considerati peggiori e, in questo modo, pensare di
ridimensionarne la gravità.
Una caratteristica che merita di non essere trattata solo en passant è la superstizione; parte del fascismo e
del nazismo si caratterizzano, fra l’altro, per l’antipatia verso la “arida” scienza, talora etichettata ebraica;
l’antisemitismo fu tra gli altri epifenomeni di un clima complessivo di irrazionalità, di ostilità nei confronti
della scienza e del cosmopolitismo che essa necessariamente pratica. Una delle spiegazione dello
strutturarsi della personalità descritta da Adorno e colleghi è da loro reperita nell’assetto familiare
orientato verso la predominanza di figure paterne autoritarie; sempre fra le spiegazioni, in chiave più
propriamente psicosociale vi è quella secondo cui l’ostilità inconscia derivante dalla frustrazione; la
reazione ostile primaria è diretta contro gli stranieri di per sé, e il timore “viene riempito soltanto in seguito
con l’immagine di un gruppo specifico, stereotipato”. I valori dominanti e le regole ufficialmente condivise
dal gruppo sono accettate acriticamente; l’adesione conformistica, la subordinazione all’autorità, il
rigorismo e il moralismo nascondono un’ambivalenza di cui questi soggetti sono sarcasticamente
consapevoli o del tutto inconsapevoli; tale ambivalenza inconscia verso il potere e le norme è risolta
attraverso rimozioni, dicotomie e spostamenti. C’è la tendenza a strumentalizzare e manipolare gli altri e il
timore (che diventa auto-giustificazione) di essere ripagati con ugual moneta; soggetti che si comportano
così hanno scarsa capacità di introspezione avendo rimosso i conflitti interiori, e scarsa capacità di
identificazione con le persone: anche l’identificazione con l’autorità è più con il ruolo che con la persona.
I gruppi fascisti e nazisti hanno fatto largo uso di criminali, e, nelle persone con tendenze fortemente
etnocentriche della personalità, Adorno e collaboratori hanno trovato mancata integrazione del Super-io,
incapacità di empatia e di rapporto emotivo con gli altri, reazioni super-compensatorie a tendenze di
debolezza e passività, caratteristiche che non fanno ben sperare circa la conduzione di una vita integerrima
ciò ha consigliato agli autori di somministrare i loro questionari a un gruppo di detenuti del carcere di San
Quintino. I detenuti hanno ottenuto una media più elevata di qualsiasi altro gruppo sulle scale
dell’etnocentrismo e degli atteggiamenti antidemocratici impliciti. La regola secondo cui il pregiudizio
scema con la conoscenza non è sempre applicabile; gli ebrei, invece, suscitano reazioni ambivalenti:
un’ammirazione riluttante, un’invidia segreta che rimanda al desiderio di essere accettati da un gruppo
reputato dominante. Fra le caratteristiche di spicco del gruppo di detenuti vi è il proclamato rigorismo
morale e religioso. C’è però un equivoco di fondo in questa parte della ricerca, ed è quello di aver assimilato
la categoria dei “criminali” a quella dei “detenuti”, categorie che non si sovrappongono del tutto. Abbiamo
dunque scoperto che essere sani, adattati, normali da una parte, ed essere buoni dall’altra sono cose ben
diverse.

8. MEGLIO LA MAGIA DELL’INTROSPEZIONE


Gli studi di Adorno e collaboratori sono ricordati soprattutto per quanto riguarda la caratteristica
dell’autoritarismo che contraddistinguerebbe gli individui potenzialmente fascisti; fra i molti tratti da loro
studiati ce n’è però uno che merita maggiore attenzione di quanta abitualmente gli si riserva, ed è quello

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della superstizione e stereotipia, cioè la propensione a credere in determinanti pseudomistiche del destino
dell’individuo, a volere risposte dogmatiche, a praticare un pensiero antiscientifico e superstizioso: “una
consistente porzione di tedeschi era incline a prediligere la retorica alla ricerca e l’intuizione alla
conoscenza, e fu questo a portare i nazisti al potere”. Se siamo e ci sentiamo impoveriti, smarriti, spaesati,
impotenti, la tentazione di rifugiarsi nel magico può essere forte; il ricorso a tutto un guazzabuglio di
astrologia, chiromanzia, numerologia, cabala, tarocchi è stato considerato un sintomo di disagio sociale
diffuso; Adolf Hitler lo teorizzò con chiarezza affermando che la superstizione era necessaria per consentire
alle persone di spiegare “situazioni che, per definizione, sfuggono al loro controllo”.
Come ho già citato, il sonno della ragione genera mostri; nel ciarpame pre-nazista prendevano spazio, fra
l’altro, le teorie pseudoscientifiche ispirate a un darwinismo spiegato alle proprie fantasie e comunque
diffuso: la razza ariana dagli occhi azzurri e capelli biondi si identificava con il principio del bene; le razze
scure, i neri, mongoli, e “mediterranoidi” con quello del male. Il nazismo civettò ampiamente con l’occulto
e con quelle che definiva “scienze di confine”, fra le quali astrologia, la parapsicologia, la rabdomanzia, gli
studi su vampiri e lupi mannari, la ricerca della perduta Atlantide; non mancavano gli scettici della
medicina, che già all’epoca di Weimar denunciava la “malvagia pratica dei vaccini” e che diede poi luogo in
epoca nazista alla nuova medicina germanica, anch’essa intesa alla promozione delle teorie antivacciniste,
e, perché no, della “astromedicina”. Nel tempo si posero distinzioni fra una fisica tedesca e una fisica
ebraica e persino una matematica ebraica; ci furono incursioni alla ricerca di religioni alternative al
cristianesimo, definito da Hitler l’universalizzazione di un “dogma ebraico”
Nel 1940 alla scuola di formazione della Polizia di Sicurezza venne spiegato che i nemici della “nordicità
tedesca” erano, nell’ordine, i marxisti, gli ebrei, i sassoni, e le “chiese politicanti”, fra cui quella cattolica e
quella protestante; i criminali erano in ultima posizione; Goring affermò che, se per il Papa è infallibile nelle
questioni che riguardano la religione, “noi nazionalsocialisti dichiariamo con la stessa intima convinzione
che anche il Fuhrer è assolutamente infallibile”; Bormann affermò: “gli ideali nazionalsocialisti e cristiani
sono inconciliabili; l’ideologia nazionalsocialista è ben più elevata dei concetti cristiani, che, nella loro
essenza, derivano dall’ebraismo”; per Spengler “le religioni di cui si andava in cerca avrebbero infatti
dovuto essere di impronta “ariogermanica”, e si giunse così all’ariosofia, una disciplina esoterica che
profetizzava il ritorno di una perduta civiltà ariana di “uomini-dio” del Nord. infine, fra gli aspetti della
personalità potenzialmente fascista messi in luce da Adorno ci sono intesi timori di non- virilità,
nell’accezione più triviale del termine, ovvero quella associata al rifiuto di ogni debolezza, al ripudio dei
valori considerati femminili quali la dolcezza, la tenerezza, la compassione, ci sarebbe addirittura l’anti-
intraccezione, intesa come la paura dell’introspezione, e direi per logica conseguenza, di qualsivoglia
“esame di coscienza”: la coscienza, d’altro canto, era stata definita dal Fuhrer “quest’invenzione degli
ebrei”
“Si comportava in modo corretto colui che, mettendo da parte tutti i moti del sentimento personale,
procede spietatamente e senza misericordia”; Hitler sollecitava a “bloccare sul nascere ogni
sentimentalismo”; “un popolo dominante deve essere in grado di eliminare dalla comunità un essere
umano che si riveli dannoso senza alcuna misericordia cristiana”; è l’ennesima perversione dei valori: pietà
e compassione che diventano vizi, intolleranza e fanatismo che sono convertiti in virtù. I soggetti ad alto
punteggio nelle scale di Adorno e collaboratori evitano accuratamente e ansiosamente l’autoanalisi nel
timore di scoprire aspetti di sé stessi che rifiutano e che li spaventano, preferendo trasferire i loro impulsi,
debolezze e conflitti su eventi esterni o proiettandoli su capri espiatori; “la gente che ha maggiore difficoltà
a comprendere sé stessa, però, è anche meno capace di vedere com’è fatto il mondo”.

9. GUARDIE E LADRI
La tesi dell’obbedienza come spiegazione alla partecipazione ad atrocità non è accettata da tutti; Goldhagen
definisce “ingenue” le categorie dell’obbedienza e dell’esecuzione degli ordini ricordando che l’esimersi
dagli eccidi per i nazisti non comportava di norma gravi conseguenze e, in secondo luogo, richiamando gli
episodi in cui la crudeltà e il sadismo andarono anche al di là di quanto era ordinato; per Zimbardo si può

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produrre quello che chiama “effetto Lucifero”. All’università di Stanford nel 1971 l’autore, che già si
occupava dei problemi psicologici legati alla carcerazione, decise di fare una ricerca per capire cosa
accadesse psicologicamente alle persone detenute; attrezzò un ampio scantinato dei locali universitari
come fosse un carcere, poi cominciò a cercare secondini e galeotti; venne selezionata una ventina di
soggetti, scegliendoli accuratamente fra coloro che fossero immuni da problemi psicopatologici: insomma,
un gruppo di persone normali; per la selezione furono usati anche dei test, fra cui la scala delle tendenze
antidemocratiche implicite di Adorno; poi, fra i volontari, estrasse a sorte quelli che avrebbero impersonato
i prigionieri e quelli che avrebbero fatto le guardie; a questo punto, Zimbardo aveva due gruppi di studenti,
individui comuni e senza particolari differenze fra di loro, che però cominciarono ad assumere ruoli diversi.
Egli racconta giorno per giorno le progressive modificazioni psicologiche nei due gruppi, con le guardie che
diventavano sempre più arroganti, prepotenti, sadiche, fino a commettere atti di violenza fisica e di
umiliazione sessuale contro i detenuti, e i prigionieri sempre più passivi, rassegnati, impauriti.
L’esperimento dovette essere interrotto dopo una sola settimana, tanto oltre si erano spinti gli atti di
brutalità; una delle guardie aveva dichiarato: “ci sono alcuni momenti in cui ho dimenticato che i detenuti
sono persone. Faccio anche un vero sforzo di volontà per deumanizzarli allo scopo di facilitarmi le cose”.
Zimbardo scoprì come fanno i buoni a diventare cattivi in dipendenza da fattori situazionali, pur senza
alcuna propensione iniziale al sadismo e alla crudeltà. Zimbardo, dunque, attribuisce alla situazione, più che
alle caratteristiche personali, la trasformazione da dottor Jekyll in mister Hyde, pur consapevole che il
problema della responsabilità nella nostra cultura rimane personale; infine, l’autore ci tiene a chiarire la
differenza fra spiegazione di un fenomeno e giustificazione dello stesso: la sua, dice, non è “giustificologia”.
Bocchiaro commenta: “è evidente, infatti, che la persona non si limita di norma a reagire passivamente alle
stimolazioni esterne, ma sceglie, spesso, non sempre, i vari contesti in cui operare, interagendo con essi per
produrre il comportamento finale”; se, invece, dovessimo ritenere le influenze del contesto, seppure di un
contesto “insolito” come di Zimbardo, davvero in grado di sopprimere il nostro volere, i processi di
Norimberga avrebbero dovuto concludersi solo con proscioglimenti.

10. IN SONNO
Siamo persone buone in un mondo cattivo? O, viceversa, la bestia dentro di noi aspetta solo la situazione
giusta per palesarsi?
Dopo la guerra, Steiner riuscì a mettersi in contatto con centinaia di membri delle ss e delle Waffen-ss e li
intervistò; secondo Steiner gli intervistati erano particolarmente autoritari, conformisti, intolleranti, di
vedute ristrette, con tanti di ostilità latente. Egli riteneva che le circostanze politiche, in particolare la
frustrazione del primo dopoguerra in Germania, e l’ideologia del nazionalsocialismo fossero stati i fattori
che avevano fatto sì che dei tratti personologici potessero essere espressi in comportamento violento; i
regimi totalitari, affermava, favoriscono l’escalation della violenza verso lo sterminio e il genocidio in virtù
del fatto che la popolazione insoddisfatta e frustata diviene sensibile alle premesse palingenetiche di un
demagogo carismatico; pur analizzando le caratteristiche personologiche di partecipanti, complici e
spettatori delle atrocità naziste, ritiene che la principale determinante del comportamento umano sia la
struttura sociale. È ovvio che per vicende che vedono coinvolti interi popoli non bastano spiegazioni in
termini psicologici ma ne occorrono di storiche, sociali, economiche; rimane il fatto che ci sono anche le
spiegazioni che riguardano la psiche delle persone. Secondo lui ognuno di noi possiede un diverso livello di
intelligenza sociale e morale, caratterizza che definisce come la responsabilità che la persona assume
rispetto alle conseguenze che il proprio agire ha nei confronti degli altri e del loro benessere; il grado di
interesse, compassione, carità che si ha verso il prossimo; la disponibilità a mettere i sentimenti e gli
interessi altrui sullo stesso piano o addirittura su un piano superiore ai propri; altruista, nella sua
definizione, è chi ha un alto livello di questa intelligenza sociale e morale, e sarà colui il quale resisterà alle
giustificazioni ideologiche proposte per il male; chi possiede un livello basso, o anche solo medio, viceversa,
sarà probabilmente vulnerabile alla demagogia totalitaria. In ogni caso sono da distinguere diversi gradi di
coinvolgimento anche nelle barbarie naziste: ci sono i partecipanti attivi, i complici, gli spettatori, gli

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indecisi, la “maggioranza silenziosa”. Centrale nell’analisi di Steiner è il concetto di “dormiente”: certe
caratteristiche delle persone sono inattive finché eventi o circostanze particolari non le risvegliano, e se i
dormienti sono persone con carenza di giudizio morale e sociale, sarà relativamente facile convincerli a
commettere crimini contro l’umanità; certo, anche le qualità positive, persino eroiche, possono essere “in
sonno”. Il male che scaturisce dai pensieri normali ed è commesso da persone normali ed è commesso da
persone normali è la norma, non l’eccezione; per Bauman l’eccezione è costituita da colui che resiste
all’autorità con autonomia morale. Bayard utilizza il concetto di personalità potenziale, intendendo il fatto
che ognuno di noi è composto non solo di ciò che effettivamente è nel contesto storico e sociale in cui gli è
dato vivere, ma anche di quel che avrebbe potuto essere se si fosse trovato in una situazione diversa, di
crisi violenta, e la conclusione è di sfiducia: “tutti noi, nel profondo, nascondiamo la personalità potenziale
di carnefice, la quale non chiede altro che di manifestarsi e di impadronirsi di noi appena le circostanze
storiche lo consentano”. Ancora, Steiner parlò di una frammentazione della coscienza, cioè uno
sdoppiamento fra l’adesione a valori familiari adeguati e invece l’attitudine alla violenza brutale in altri
ambiti, o viceversa.

CAPITOLO 3 – LA CRIMINALITÀ DEI NORMALI


1. E IO, COSA AVREI FATTO?
Si affaccia un’altra inquietante domanda: ma io, in quelle condizioni o in condizioni analoghe, cosa avrei
fatto e cosa farei? → potreste concludere che voi non fareste come la maggior parte delle persone, che voi
sareste, ovviamente, l’eccezione alla regola; questa convinzione statisticamente irragionevole vi rende
ancora più vulnerabili alle forze situazionali, perché sottovalutate il loro potere così come sopravvalutate
voi stessi. Se l’individuo si sente la coscienza a posto perché incarna il bene, la sua educazione non ha
compiuto alcun progresso; solamente se può immedesimarsi, anche, nel colpevole, può trasformarsi da
dentro, o almeno vigilare sulla parte di sé che sarebbe capace di commettere un crimine. Se è vero che
bene e male convivono in ogni persona, benché in percentuali diverse, e se è vero che la situazione dà una
forte spinta, la domanda “e io, cosa avrei fatto?” è pertinente; la risposta è molto difficile; si può magari
cercarla assumendo l’ottica inversa: chi si è opposto, come ha fatto e com’è fatto?
Secondo gli autori questi altruisti attribuiscono importanza al valore di prendersi cura degli altri,
indipendentemente dalla razza, dalla religione, dalla cultura; si cita anche la capacità di empatia, cioè di
sentire quello che l’Altro sente, con tale forza da fornire aiuto appunto anche a rischio della propria vita;
sono coloro per i quali il “noi” non si contraddice al “loro”. Così come ci si deve chiedere come abbiano
fatto in tanti a rendersi complici, occorre anche evitare lo stereotipo dei tedeschi-tutti-nazisti; i nazisti
raggiunsero il 44% dei consensi alle elezioni del 1933, e fu il loro massimo successo elettorale; quindi, non
tutti i tedeschi furono nazisti. Ci fu pure una resistenza antinazista e i rischi per chi la praticava erano alti;
non solo i rischi per sé, posto che la Germania nel 1943 emanò una legge sulla “detenzione dei familiari” in
base alla quale i parenti dei condannati potevano venire arrestati e condotti in campo di concentramento.

2. VITALITÀ E CONFORMISMO
I componenti del Battaglione 101 non furono selezionati, erano padri di famiglia, prevalentemente di ceto
basso e modio basso, senza alcuna caratteristica particolare: costituivano uno spaccato della normale
società tedesca; ma come fu che questi uomini si trasformarono per la prima volta in assassini? Che cosa
accadde nella loro unità dopo il primo massacro? Quali scelte erano possibili (sempre che ce ne fossero), e
quali furono le risposte? Alcune spiegazioni sono state utilizzate per altri massacri:
Una di quelle che Browning avanza per il Battaglione 101: ci si abitua a uccidere, diviene sempre più facile,
si percepisce che la propria vita vale poco e dunque poco deve valere anche quella degli altri, ci si stordisce
con le ripetute crudeltà.

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Fra le spiegazioni (giustificazioni?) possibili c’era la paura delle conseguenze qualora ci si sottraesse agli
ordini, ma tutti i testimoni del processo ai componenti del Battaglione 101 sono concordi nel dichiarare che
non ci furono pesanti ripercussioni per chi chiedeva di non partecipare alle fucilazioni di massa; tutt’al più la
sanzione consisteva nell’essere considerati codardi e nell’essere disprezzati dai compagni (i rischi potevano
essere maggiori per i cittadini comuni, non impegnati nelle operazioni militari, e lo furono). “Ci veniva
comunicato, almeno una volta al mese, che per ordine di Himmler nessuno poteva imporci di sparare a
nessuno”. Secondo Browning sarebbe più la conformità, cioè la pressione del gruppo dei pari, il bisogno di
approvazione sociale che non l’autorità a contare, benché conformità e autorità si rafforzino a vicenda;
osservazione che contiene in sé un possibile rimedio: “volete che le persone resistano alle pressioni
dell’autorità? Fornite modelli sociali di pari che si sono ribellati”. Ogni totalitarismo spinge verso
l’annullamento dell’autonomia dell’individuo in favore dell’autorità ma anche del conformismo di gruppo:
non esiste l’io, non esistono gli altri se non come nemici, esiste solo il proprio gruppo. Nel Battaglione 101
c’erano poi diverse strategie per affrontare il ruolo di aguzzini; qualcuno cercava conforto nell’alcol, altri si
rifugiavano nella malattia.

3. UOMINI E NO
Le guerre, anche quelle ideologiche, sono pericolose e sono possibili solo se si impara a distinguere fra
“noi” e “loro”, con la convinzione che loro siano inferiori. Un fattore psicologico che rende possibile
l’incrudelire è stato descritto come la “riduzione animalesca dell’avversario” o definito
controantropomorfismo; si tratta della tendenza a negare le qualità più prettamente umane alle proprie
vittime per poter aggirare quella forza inibente l’aggressività che è costituita dall’identificazione. Zimbardo,
nel commentare la brutalizzazione degli studenti che impersonavano le guardie nell’esperimento di
Stanford, afferma che è molto utile una percezione distorta degli altri come “subumani”, “cattivi”,
“superflui”, “animali”, percezione che deve essere a propria volta agevolata da slogan e immagini
propagandistiche. Secondo Bauman “la responsabilità viene messa a tacere quando si erode la prossimità”;
“essendo inestricabilmente legata alla prossimità umana, la morale sembra conformarsi alla legge della
prospettiva ottica. Al crescere della distanza, la responsabilità verso gli altri si riduce, la dimensione morale
dell’oggetto si sfoca, finché entrambe raggiungono il punto di fuga e spariscono dalla vista”. Vi è per le
persone un universo degli obblighi, vale a dire un territorio sociale, un gruppo nei confronti del quale si
sente un legame di reciproco rispetto; al di là di questa cerchia i percetti morali perdono senso, coloro che
sono espulsi non fanno più parte dei titolari di obblighi etici. Per spiegare le uccisioni di massa Allen ha
utilizzato il concetto di ottundimento morale che sarebbe provocato dalla sistematica disumanizzazione
degli oggetti di odio e di disprezzo; il controantropomorfismo e la deumanizzazione sono l’ennesima tecnica
di neutralizzazione o di disimpegno morale.

4. AMBIVALENZA
Il male ottuso non ha bisogno di coerenza, così l’altro può essere al tempo stesso inferiore e invidiato,
inferiore e pericoloso. C’è dell’ambivalenza nell’antisemitismo nazista: l’accusa contraddittoria che spesso
fu rivolta agli ebrei, quella di essere contemporaneamente i rappresentanti del capitalismo e i vessilliferi del
comunismo mondiale. Il nazismo fa da modello anche nella contraddizione fra inferiorità e pericolosità, e il
punto di partenza è il razzismo che colloca i popoli nordici, alti, biondi e con gli occhi azzurri in cima alla
scala evolutiva, seguiti dagli europei del Sud, poi dagli slavi che sono già “subumani”, quindi dai popoli
asiatici, infine dai neri; e gli ebrei? Facile, non sono proprio umani bensì demoniaci.
Goldhagen classifica i genocidi a seconda che il gruppo delle vittime venga deumanizzato, considerandolo
inferiore, oppure demonizzato, quindi reputato fonte di minaccia, o entrambe le cose; per collocarsi al di là
della solidarietà umana, al di fuori dell’universo degli obblighi, per deumanizzare o demonizzare è meglio
che il gruppo dei “loro” sia un’entità non solo estranea, ma spersonalizzata, astratta. Una frase riportata da
Adorno e collaboratori, e ricavata dalle loro interviste, è un modello di tante che si sentono oggi da noi: “Ho

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conosciuto alcuni ebrei che considerano uguali e me sotto ogni rispetto e che mi sono molto simpatici”; le
stesse persone però, poi, danno giudizi astrattamente stereotipati e omogenei dei gruppi, secondo il
principio che “conoscerne uno è conoscerli tutti”; è l’illusione di uniformità, è il processo, eminentemente
anti- individualista, chiamato razzizzazione. La conoscenza diretta, dunque, aiuterebbe a sfatare i pregiudizi,
sicché si potrebbe anche provarci con gli stranieri; cosa sappiamo di loro, delle loro storie, della loro
nostalgia; cosa conosciamo, a parte i suoni, alle nostre orecchie gutturali, della loro lingua?

5. BRUTTI E CATTIVI
L’antisemitismo riguardò anche l’aspetto; il processo di deumanizzazione e di demonizzazione comincia con
la creazione di concezioni stereotipate dell’altro, e lo stereotipo è persino estetico; questa commistione fra
aspetto esteriore e caratteristiche morali è utile in chiave razzista perché serve a rendere le qualità spirituali
immediatamente percepibili: siccome non tutti gli altri sono di diverso colore, bisognerà far sì che la
cattiveria sia in qualche modo apprezzabile a occhio nudo. Il razzismo istituiva un’equazione tra le
caratteristiche interiori e l’aspetto esteriore; forse oggigiorno nessuno avrebbe il coraggio di affermare
esplicitamente che l’aspetto fisico sia specchio delle qualità morali, insomma: chi è brutto è anche cattivo;
però: esiste una concezione “folk”, per la quale questo pregiudizio è ancora radicato; esiste un pregiudizio
implicito o inconscio; ciò non deve stupire perché troviamo gli antecedenti di queste convinzioni in quella
che è la base della nostra cultura: la cultura greca. Per i greci valeva il concetto di kalokagathia e quando
Omero deve rappresentare l’anti-eroe e lo descrive così: “Era l’uomo più brutto che venne sotto Illio”; per
queste affermazioni, come per le successive, non è lecito generalizzare: si tramanda che Socrate fosse
molto brutto, e che Esopo fosse deforme e “repellente alla vista”, ma non per questo il loro genio fu
disconosciuto; sarà però proprio l’allievo di Socrate, Platone, ad affermare che il brutto, inteso
nell’accezione greca di mancanza d’armonia, fosse imparentato con qualcosa di moralmente negativo; “la
bellezza e la bruttezza del viso sono in giusto ed esatto rapporto con la bellezza e la bruttezza della natura
morale dell’uomo”. Più tardi, l’idea di una corrispondenza fra caratteristiche somatiche e qualità morali si
impossesserà Lombroso, che non parla esplicitamente di bellezza o di bruttezza, ma intanto fissa una
corrispondenza fra propensione alla delinquenza e caratteristiche somatiche; dopo di che, naturalmente,
“molti dei caratteri che presentano gli uomini selvaggi, le razze colorate, ricorrono spessissimo nei
delinquenti nati”; la convinzione secondo cui nel corpo siano rappresentate le qualità negative dell’animo
ha due ricadute: la confusione fra “bruttezza” e “abbruttimento” e il pregiudizio razzista. La
“sistematizzazione” dei presunti caratteri somatici fatta dall’antropologo Montandon nello scritto dal
programmatico titolo “da cosa si riconoscono gli ebrei?” “Quali sono i caratteri del tipo giudaico? Un naso
fortemente incurvato, differente secondo gli individui, spesso con prominenza del setto nasale, e con ali
molto mobili. il profilo a becco d’avvoltoio. Labbra carnose, delle quali l’inferiore sporge spesso, talvolta
molto fortemente; occhi poco incavati nelle orbite, con, abitualmente, qualcosa di più umido, di più
pantanoso”. E nell’oggi? La psicologia ci insegna che persistono convinzioni secondo cui l’aspetto del viso
sia in grado di fornire informazioni sui tratti della personalità; sarebbe diffusa la tendenza a fare
continuamente inferenze sui tratti di personalità sulla base solamente dell’aspetto del viso, in maniera
spontanea e senza riflessioni; molte ricerche di psicologia ancora oggi rilevano che essere belli avvantaggia
in molti campi, dell’assunzione per un lavoro alla credibilità nel fornire una testimonianza, e che in generale
gli individui più attraenti sono suscettibili di essere trattati in modo migliore; non affrettatevi però a cercare
di modificare le vostre sembianze, perché rimane il problema del mutare del concetto di bello nei tempi.

6. IDEALISMO ANDATO A MALE


Tutti i movimenti fascisti hanno mirato ad assicurarsi l’adesione degli ignoranti, “hanno manipolato
coscientemente i fatti in modo tale che poteva condurli al successo soltanto con coloro che non
conoscevano i fatti”, anche se, come già s’è visto, molti nomi illustri possono confutare l’ingenua
convinzione che la cultura o il titolo di studio siano sufficienti a mettere al riparo da idee razziste; in ogni

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caso, secondo Milgram, l’autorità per suscitare deferenza deve fornire una “definizione della situazione”,
deve procurare un’interpretazione di essa, insomma un’ideologia; a questo punto l’obbedienza si intende al
servizio di un fine positivo e si può ricorrere al vecchio adagio per cui il fine giustifica i mezzi. Per aderire a
parole d’ordine razziste che dovrebbero apparire francamente deliranti, per uccidere e per andare a
morire, bisogna partire da una situazione psicologica ma anche sociale particolare; s’è detto come il
pregiudizio alligni più volentieri nei contesti di instabilità e insicurezza sociali, e la situazione dei tedeschi
alla vigilia della presa di potere nazista era appunto di massima incertezza, difficoltà, impoverimento.
Secondo Mosse fra le ragioni del successo i Hitler vi fu la capacità di incanalare le lagnanze di un vasto
settore della popolazione verso l’odio e lo spirito di vendetta anti-ebraico; degli ebrei era la colpa di tutto,
erano gli ebrei a impedire che i tedeschi fossero felici e prosperi, e la strategia del capro espiatorio funziona
spesso; Hitler aveva capito che l’antisemitismo pagava in termini di consenso politico. Il
Nationalsozialistiche deutsche Arbeiterpartei (NSDAP), con le sue idee, poche ma facili e prive di incertezza,
ebbe buon gioco a crearsi consensi. Compaiono di nuovo, a questo punto, le tecniche di neutralizzazione, in
particolare quella del “richiamo a più alti ideali”: proteggere la nazione è la massima virtù, non importa
quante vittime occorre mietere, tanto più se si addita una categoria quale responsabile dei mali del paese;
si arriverà a ritenere che il genocidio sia non solo un diritto, ma addirittura un dovere; per i nazisti,
l’annientamento degli ebrei era la via per garantire la sopravvivenza al popolo tedesco. L’essenza del
nazismo, è stato detto con espressione breve quanto efficace, fu “un idealismo andato a male”; ma non di
sola ideologia vive l’uomo, ed effettivamente dopo l’avvento del Terzo Reich, almeno per alcuni anni, le
cose dal punto di vista materiale migliorarono.

7. DI TESTA LORO
Una volta ottenuto il consenso, bisogna conservarlo, sempre attraverso un’ideologia che dev’essere ribadita
di continuo; sia per gli italiani sia per i tedeschi sia per chiunque altro non è difficile essere convinti di
essere migliori degli altri, che si fa parte di una razza superiore, se si continua a sentirselo ripetere: è
lusinghiero. È curiosa l’analogia con un manifesto di un partito italiano che richiama il triste destino degli
Indiani d’America, i quali hanno accolto gli invasori europei come noi diamo ospitalità agli immigrati; però
essere invasori è diverso da essere profughi. Dal 1933 le scuole cominciarono a essere trasformate in
fortezze ideologiche del nuovo regime; le biblioteche scolastiche furono spogliate della letteratura
“degenerata” che venne sostituita con libri che glorificarono il nazismo; ai docenti furono tenuti corsi per
insegnare cosa dovevano insegnare, a cominciare dalle teorie razziali; venivano proiettati film di
propaganda e installati nelle aule apparecchi radio per far ascoltare ai ragazzi i discorsi propagandistici. A
mano a mano che il nazismo si espandeva gli altri gruppi giovanili furono sciolti. La gente cominciò a non
fidarsi più nemmeno degli amici: che senso aveva riunirsi per chiacchierare, se si doveva stare attenti a quel
che si diceva? Una sola scelta: la solitudine o le relazioni di massa tramite qualche organizzazione nazista.
La propaganda anti-ebraica era martellante, invadente, accanita; difficile, anche per i migliori, sottrarsi al
dubbio, al dubbio di essere loro a sbagliare.

8. IN TRENO
Il tedesco quando comincia a credere in qualcosa la porta sempre all’estremo! Siamo portati a un senso del
dovere estremo. Un senso del dovere…insopportabile veramente. E questo, secondo me ha portato a un
fanatismo...a un credere...perché è molto più facile credere in una persona sola. C’era una propaganda
molto martellante. Se io ho avuto questa sensazione di dover denunciare mia madre perché sentiva Radio
Londra...arrivare a dire “la denuncio”! Mi avevano detto che chi sente Radio Londra è un nemico. Il rispetto
dell’autorità...questo devo confessare che l’ho ancora dentro di me, ma un po’ meno, molto meno. Non ne
abbiamo mai parlato...mai mai mai parlato; comunque, in famiglia non abbiamo mai pensato a quella
questione.

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9. HO LA COSCIENA PULITA (PERCHÈ NON L’HO MAI USATA)
La sottomissione all’autorità, tecniche di neutralizzazione, insistenze ideologiche non sono spiegazioni che
si escludono a vicenda, anzi, servono tutte allo stesso scopo: deresponsabilizzarsi; questo dimostra la vera
debolezza delle dittature: non possono sopportare le critiche; Hitler si circondava di yes men fatui e
ignoranti per dare a se stesso un’impressione artificiosa di forza; è vero, è destino dei dittatori circondarsi di
cortigiani e di mediocri piuttosto che di persone autonome e magari critiche. La sottomissione a Hitler
assume per alcuni la caratteristica dell’adorazione, ed effettivamente il letale imbrattatele di carisma
doveva averne. Che cosa fa la differenza, nella personalità di questi individui, fra quelli che rimasero
affascinati e quelli che all’imbonitore resistettero? Comunque, la disciplina, attraverso il concetto di onore,
finisce per diventare la più alta virtù morale e il sostituto della coscienza. Quest’accantonamento della
propria responsabilità diviene più facile quando si verifica una sorta di sdoppiamento, tale per cui da un
lato vi è un’autorità che ordina l’azione ma non la esegue direttamente, non si sporca le mani, dall’altro chi
agisce in prima persona può rifugiarsi nella de-responsabilizzazione di aver eseguito l’ordine; fenomeno
noto come mediazione dell’azione. Nella ricostruzione della violenza di massa che si esprime nei massacri
autoritari ritroviamo molte delle spiegazioni già incontrate, raggruppate in tre fattori: l’autorizzazione, la
routinizzazione, la deumanizzazione. Il processo di routinizzazione fa sì che l’individuo non consideri più le
implicazioni delle sue azioni e non prenda effettivamente delle decisioni; una volta compiuto il primo passo,
egli è in una situazione psicologica e sociale in cui la forza di continuare è molto efficace, l’azione diviene
meccanica; la deumanizzazione fa in modo che i principi e i vincoli della morale non siano più applicabili alle
vittime; ma anche i responsabili degli stermini sono deumanizzati, proprio perché tramite l’autorizzazione e
la routinizzazione rinunciano a essere agenti responsabili.

10. “PIÙ NORMALE DI QUELLO CHE SONO IO”


Il pregiudizio etnocentrico, il contro-antropomorfismo, il praticare stermini sono ascrivibili a malattie
mentali o sono sintomi di esse? Difficile credere che interi popoli siano diventati improvvisamente malati e
altrettanto improvvisamente siano guariti. Alcune prese di posizione circa la minacciosità degli stranieri
sfiorano il delirio paranoico, non poche affermazioni di Hitler meriterebbero una diagnosi; i suoi scritti sono
così ossessivamente infarciti di giudeofobia e della teoria del complotto da far davvero sospettare la
presenza di una patologia psichiatrica. Questo però importa fino a un certo punto: pazzi ce ne sono sempre,
a alcuni di loro, pochi, possono anche essere pericolosi; la domanda però è un’altra: come accade che
milioni di persone possano dare retta a un pazzo? Se siamo già confusi, se abbiamo la sensazione che le
cose accadano al di là di noi senza che si abbia alcuna possibilità di intervento su di esse, e quindi ci
sentiamo pure impotenti, senza neppure che si possa capire cosa succede e senza che si possa credere a chi
ci informa spesso in modo contraddittorio, l’angoscia cresce; una spiegazione illusoria ma senza faticosi
distinguo può sedare l’ansia, cosi come può farlo un’autorità assoluta a cui aggrapparsi e a cui delegare il
compito di fornire interpretazioni preconfezionate, sollevando dal gravoso compito di cercarle da sé.
Quantomeno potrebbero esserci legami fra gli atteggiamenti ideologici e le determinanti psicologiche e i
conflitti inconsci; questa è una delle ipotesi da cui sono partiti Adorno e colleghi, i quali individuano diverse
“sindromi” nei soggetti autoritari ed etnocentrici. Nel tipo convenzionale e in quello autoritario il Super-ego
non è stabilmente strutturato, sicché l’individuo si appoggia e si consegna a rappresentanti esterni della
morale. Ci sono però anche gli psicopatici e i ribelli in cui l’atteggiamento di opposizione all’autorità è
pronto a essere deposto, capitolando nei confronti dei più forti, e viceversa incanalando l’aggressività
anche sadica verso vittime inermi. Gli eccentrici sono i fanatici dell’ideologia della cospirazione: forse qui si
annidano i soggetti maggiormente disturbati psicologicamente. Altrettanto pericolosi e spietati sarebbero i
manipolativi in cui convivono fredda intelligenza e totale mancanza di empatia, anzi di qualsivoglia affetto i
quesiti circa l’esistenza di un dubbio psichico divengono ancora più pressanti se dal pregiudizio passiamo
allo sterminio, e non solo a quello nazista. “Non sareste più sollevati se fossi stato capace di dimostrare che
tutti i persecutori erano pazzi?” si chiede Hilberg; “ma è demoniaco che essi non fossero demoniaci;

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persone normali possono commettere atti demoniaci” rincara Lifton. L’idea o la speranza che siano dovuti a
malattia mentale ha il duplice scopo di farci credere di aver trovato una spiegazione, il che è rassicurante
anche se a ben vedere si tratta solo di una denominazione, e di farci pensare che noi che folli non siamo
queste cose non le faremo mai.
11. ANORMALMENTE NORMALI
Sia Kelly sia Gilbert escludono che i gerarchi presentassero patologie di rilevanza psichiatrica, semmai si
trattava di una “patologia morale” e fanno riferimento al concetto di personalità psicopatica.
Il termine “psicopatico” rinvia di solito a un soggetto preda di accessi d’ira, incapace di sopportare le
frustrazioni e di contenere gli impulsi aggressivi; ma esistono anche psicopatici la cui principale
caratteristica non è l’esplosività emotiva o comportamentale, e che sono più difficili da individuare anche
perché la particolarità del loro disturbo sono subdole. I tratti più rimarchevoli di questi psicopatici sono la
freddezza emotiva, la mancanza di empatia e di rimorso; lo psicopatico si presenta immune da grossolani
sintomi psichiatrici, e non è neppure eccentrico; talora si mostra come l’incarnazione della persona ben
adattata; appare dotato di una solida salute mentale; “sono in assoluto i manipolatori, i bugiardi e
falsificatori di verità più abili al mondo; e sono così convincenti, perché sono i primi a credere alle proprie
bugie; dopo tutto, la loro vita non è nient’altro che una bugia, una mistificazione”. Karpman distingueva
inoltre due varianti: gli psicopatici primari, che sono calcolatori, egoisti, emotivamente indifferenti,
freddamente pianificatori nelle loro azioni, in cui il deficit affettivo è innato; e gli psicopatici secondi, per i
quali il disturbo è effetto di deprivazione o abuso parentale a cui il soggetto reagisce disattivando i legami
affettivi
La bipartizione fra gli psicopatici primari e psicopatici secondari è stata fatta anche da altri, e si giunge alla
distinzione, simile, anche se non perfettamente sovrapponibile, fra gli psicopatici non di successo e
psicopatici di successo, questi ultimi affascinanti, aggressivi, senza scrupoli, impulsivi e irresponsabili eppure
abili nell’avere a che fare con le persone: “psicopatico carismatico”; potrebbero essere stati psicopatici i
gerarchi nazisti, o almeno alcuni di loro; Ritzler, dopo aver analizzato le risposte date dagli imputati di
Norimberga, usa appunto per loro il termine successful psychopaths e ne sottolinea la caratteristica della
mancanza di empatia.
Secondo Harrower, infine, non era possibile distinguere i Rorschach degli imputati da quelli di individui
normali; nei Rorschach dei generali non vi è neppure qualcosa di davvero patologico; solo in pochissimi casi
di va al di là delle mere caratteristiche di personalità
“caratteristiche di personalità” perché appunto questo troviamo nell’analisi che Nielsen e Zizolfi fanno degli
imputati di Norimberga, nulla più che aspetti più o meno peculiari del loro psichismo, alcuni dei quali
sgradevoli e alcuni non del tutto comuni, il che non stupisce, sia perché a un’indagine approfondita quale
quella che è possibile con il test di Rorschach qualcosa di peculiare lo si trova in molti se non in tutti, sia
perché, se costoro hanno guidato la “massima espressione di barbarie” che il nostro continente ha visto
negli ultimi secoli e se costoro sono stati scelti da Hitler, qualche cosa di particolare dovevano pur averlo; in
realtà si tratta di personalità disparate, che ebbero differenti ruoli e responsabilità, tant’è che anche la pene
a Norimberga furono diverse; alcune caratteristiche, però, ricorrono con maggiore frequenza:
1) La prima è l’insensibilità per gli altri, la mancanza di empatia, l’incapacità di identificazione
2) Un’altra peculiarità ricorrente è la doppiezza, anzi una certa tendenza a voltare gabbana a seconda delle
convenienze
Questo trasformismo, cosa ben diversa dal pentimento, emerge al processo di Norimberga in relazione
all’esigenza di evitare la forca.

12. CAMICI BIANCHI IN CAMICIE BRUNE


Come s’è anticipato, l’erudizione non protegge dalla barbarie; non lo fa neppure la laurea in medicina; i
medici, anzi, furono particolarmente importanti per un’ideologia basata sull’igiene razziale, al punto che
Lifton parla dello stato nazista come di una biocrazia: “il nazionalsocialismo non è altro che biologia

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applicata”; i medici saranno importanti anche nella mia riflessione perché non erano solo persone comuni,
ma persone da cui ci aspetteremmo il contrario dell’essere votati ad uccidere, persone verso cui siamo
abituati a nutrire fiducia; il contributo degli scienziati al nazismo fu “attivo ed entusiasta”. Al processo ai
dottori accusati di aver pianificato e realizzato l’uccisione sistematica delle persone le cui vite erano
“indegne di essere vissute”; i medici erano coloro che, nei programmi di uccisione dei disabili prima e nei
capi di concentramento poi, effettuavano le “selezioni” (chi doveva morire subito e chi no), studiavano
sistemi più efficienti e pratici per i massacri, sovraintendevano alle uccisioni stesse e qualche volta le
eseguivano, effettuavano esperimenti, firmavano falsi certificati di morte. Il successo della politica
dell’eutanasia convinse la leadership nazista che l’omicidio di massa era tecnicamente praticabile, e che la
burocrazia avrebbe cooperato in questa impresa senza precedenti. Non tutti aderirono, molti psichiatri e
giuristi si opposero, ma i tribunali per la salute ereditaria incaricati di decidere se sterilizzare un individuo
erano composti da un giudice del tribunale distrettuale e da due medici, uno del servizio pubblico e uno
esperto di ereditarietà; una volta che costoro avessero deciso, l’intervento poteva essere realizzato anche
contro la volontà dell’interessato e si poteva usare la forza affinché la legge fosse rispettata; è stato
calcolato che siano state sterilizzate circa il 5% della popolazione tedesca. Il programma poi chiamato
Aktion T4 riguardò in prima battuta lo sterminio dei bambini disabili; uno speciale reparto del centro di
Hadamer era riservato alla soppressione di bambini la cui disabilità era dovuta all’essere “ibridi ebrei”, cioè
di origine in parte ebraica, sanissimi; fra i metodi praticati la morte per fame e la somministrazione di
morfina o barbiturici. L’ultimo atto delle uccisioni fu quello condotto nei campi di sterminio anche per mano
dei medici delle ss e vide pure l’intensificarsi degli esperimenti “scientifici” sugli internati; gli esperimenti
effettuati non hanno risparmiato gli zingari; Mengele si occupava in particolare di studi sui gemelli.

13. GLI SPERGIURI DI IPPOCRATE


Anche i medici nazisti, e in generale chi fu coinvolto a vario titolo nelle uccisioni “mediche”, erano persone
comuni; gli esecutori erano uomini e donne grigi e insignificanti; pur essendo competenti nel loro campo,
per lo più mancavano di immaginazione, avevano menti ordinarie, e conducevano una vita convenzionale;
furono uomini banali che compirono azioni demoniache. Non erano tutti sadici: il fatto che potessero
esserci uccisori perbene ci dice molto sul carattere maligno dell’ambiente di Auschwitz e sulla vasta
predisposizione di uomini in apparenza del tutto comuni a diventare assassini. Come s’è già avuto modo di
ripetere, la cultura non garantisce, le “guide intellettuali” li chiama in quanto sostenitori delle ricerche
razziali e titolari di cattedre di antropologia o psichiatria; qualcuno avrà pensato “se lo dicono loro...”. In
ogni caso, anche qui, nessuno fu costretto, potevano declinare l’incarico, vennero reclutati e non coscritti;
alcuni trovarono nei progetti di uccisione una collaborazione lavorativa, altri avanzamenti di carriera, fu
quindi semmai l’ambizione e non la paura una delle molle. I medici, d’altro canto, furono tra i professionisti
con più elevata percentuale di iscrizioni al partito nazista, il 45%, ed erano particolarmente presenti sia fra
le sa che fra le ss. In una totale perversione dello statuto professionale medico, l’omicidio divenne
“imperativo terapeutico” - “ovviamente sono un medico e desidero conservare la vita. E per rispetto verso
la vita umana asporterei un’appendice incancrenita da un corpo malato. l’ebreo è appendice incancrenita
nel corpo dell’umanità. Per spiegare l’atteggiamento dei medici nazisti Lifton utilizza il concetto di
sdoppiamento; da un lato vi erano una normale educazione, dei normali valori, addirittura l’idealismo del
grande Stato tedesco che avrebbe risanato il mondo, e dall’altro le uccisioni quotidiane, la “fabbrica della
morte”. L’autore parla anche di “baratto faustiano”: in cambio del contributo dell’eccidio il medico poteva
ambire a favori materiali, a una posizione privilegiata, a benefici psicologici perché lo sdoppiamento, detto
anche trasferimento di coscienza, gli consentiva di conservare un funzionamento psicologico, un
adattamento in una situazione atroce e contraddittoria, poiché il “sé di Auschwitz” era addirittura triplice:
medico-uccisore-ricercatore. Si tratta di un adattamento temporaneo, non di un modello destinato a durare
tutta la vita, forse una sorta di parentesi che ha permesso a molti, dopo la guerra, di tornare ad essere
medici almeno apparentemente come tutti gli altri. Certe deplorevoli abitudini alla pietà, peraltro, possono
essere difficili a perdersi, e così si faceva frequente ricorso all’alcol; al personale dei centri di uccisione

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erano distribuite speciali razioni di liquore e molti di loro erano spesso ubriachi; va detto però che anche fra
i medici vi furono oppositori.

CAPITOLO 4 – ESTOTE PARATI


1. MALA TEMPORA CURRUNT
Dal punto di vista storico si è cercato di capire come un intero popolo sia arrivato allo sterminio o a
colludere con gli sterminatori nel secolo scorso, ma niente accade in modo identico. D’altro canto, lo
sterminio è un punto d’arrivo e va preparato in modo progressivo; la “piramide dell’odio”, come la pratica
di comportamenti di discriminazione relativamente modesti possa sfociare in condotte sempre più gravi,
fino appunto al genocidio. C’è ancora, anzi si irrobustisce, l’altrismo che reputa qualche gruppo umano
diverso, inferiore, minaccioso; attualmente l’antisemitismo è meno di moda, anche se c’è ancora, ma s’è
detto più volte come il destinatario del pregiudizio possa essere irrilevante; le donne, le “razze colorate”, gli
omosessuali, non importa che di volta in volta è scelto come obiettivo. Secondo tutti gli osservatori e tutte
le ricerche, i tempi in materia di etnocentrismo sono bui, anche in Italia; nel 2015 nel nostro paese sono
stati rilevati dalle forze dell’ordine 555 crimini d’odio. L’esistenza di una piramide d’odio alla cui base si
pongono stereotipi, rappresentazioni false o fuorvianti, insulti, linguaggio ostile “normalizzato” o
banalizzato e, ai livelli superiori, le discriminazioni e quindi il linguaggio e i crimini d’odio; questi ultimi sono
definiti come “atti di violenza fisica, fino all’omicidio, perpetrati contro persone in base a qualche
caratteristica come il sesso, l’orientamento sessuale, l’etnia, il colore della pelle, la religione o altro”.
Una ricerca effettuata nel 2015 dal Pew Research center, un think tank statunitense che si occupa anche di
sondaggi, ha indagato le opinioni nei confronti di room, musulmani ed ebrei nei sei paesi europei più
popolosi; gli ebrei sono meno malvisti delle altre minoranze; in compenso, gli italiani sono coloro che
formulano i giudizi più negativi sulle minoranze a proposito delle quali si è chiesto di esprimersi; se questi
dati siano o non siano sconvolgenti può dipendere dall’ottimismo o dal pessimismo che contraddistingue
ognuno di noi; certo che inquietano. È interessante riscontrare come i più ostili all’ingresso di immigrati
esprimano senza ritegno l’idea che sia necessario accantonare la tutela dei diritti per fronteggiare
l’incombente pericolo costituito appunto dall’immigrazione: è finita l’epoca del politically correct, o, se si
preferisce, è finita l’epoca del pudore; in compenso, per dir così, il 61% degli italiani si dice preoccupato per
il crescere clima di razzismo e discriminazione

2. IL WEB: ANONIMI E IMPUNITI


Oggi una fonte importante per tastare il polso alle opinioni è la rete; sono ormai molte le ricerche che
hanno dimostrato che le indagini effettuate attraverso le informazioni diramate vie web sono in grado di
valutare le opinioni della cittadinanza con buona accuratezza. Se anche le opinioni espresse in rete non
sono provenienti da un campionato statisticamente rappresentativo della popolazione, si fa presente la
rappresentatività “ideologica” dei social più che quella socio-demografica, e il fatto che: quando una
persona scrive sui social media ha spesso la tendenza a portare con sé quello che proviene dalle discussioni
effettuate all’interno della sua “seconda cerchia” di amicizie e di vite offline; quando questo accade,
l’opinione che appare online può diventare tematicamente rappresentativa di una più ampia fetta di
conversazioni e di distribuzioni di preferenza; secondo Dal Lago, l’opinione pubblica si è trasformata in
opinione digitale. Internet è uno strumento in sé neutro, può avere funzioni positive e non si vuole certo
demonizzarlo, ma d’altra parte può avere effetti deleteri; ci si può domandare se lo sviluppo della
tecnologia informatica non aumenti il rischio per quanto riguarda il nostro tema rendendo ancora più
anonimo sia l’autore di un messaggio sia il destinatario, e ancora maggiore la distanza psicologica ed etica
con colui del quale si (s)parla. Non bastasse, nel web può starci di tutto, senza distinguo, senza controllo. I
motivi dello sviluppo della comunicazione digitale sono molti e sono stati ampiamente studiati, e lo sono
stati anche quelli che provocano l’odio online. La trasmissione attraverso il web ha caratteristiche che la

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rendono fruibile e vantaggiosa in generale e in particolare per l’hate speech: è poco dispendiosa e
utilizzabile da chi ha mezzi economici limitati; dà l’illusione della possibilità di agire direttamente sul
sistema politico, e di essere libera da condizionamenti; ha il privilegio della rapidità di confezionamento e di
propagazione; ha la prerogativa dell’ampiezza di propagazione, anche trasnazionale; ha una permanenza
praticamente infinita con la possibilità di periodici ritorni di interesse; a differenza di quel che accade in una
conversazione vis a vis, nella comunicazione attraverso la rete l’altro non è presente, né come interlocutore
né come vittima di eventuali attacchi, e ciò può condurre a un distanziamento sia emotivo sia etico; ciò
comporta il poter sfuggire al fenomeno chiamato la “spirale del silenzio”
Gli hate speech possono trovare cassa di risonanza nelle più bizzarre fake news: “qualsiasi notizia sarà vera
per definizione, finché qualcuno, talvolta, non si prenderà la briga di dimostrare che è falsa. Ecco perché,
come mai è avvenuto nella storia, la rete è la patria delle fake news, della pseudo-verità, delle bufale, dei
luoghi comuni e degli stereotipi divenuti fatti indubitabili, oltre che delle paranoie più varie. La nostra è una
democrazia dei creduloni”. Uno dei tanti pericoli è che la diffusione di messaggi d’odio porti a una
progressiva accettazione di essi, a una normalizzazione con un sempre più alto livello di tolleranza, e
conseguente contagio e aumento del consenso; affermazioni che magari non si oserebbe fare divengono
accettabili se altri le fanno; ricerche effettuate prima di massacri hanno dimostrato che i genocidi sono
anticipati da espressioni di odio su vasta scala. In generale, in rete, e non solo, prende piede un’idea
perversa di libertà che consiste nel poter dire qualsiasi cosa; se si organizza una manifestazione urlando
insulti e minacce è più probabile essere individuati; se si diffondono gli stessi messaggi in rete si è
maggiormente al sicuro. Attraverso questo contagio, inoltre, si rafforzano identità collettive dell’odio e si
mantengono collegamenti; ai vantaggi che valgono per qualsiasi messaggio trasmesso online, nel nostro
specifico caso possiamo aggiungere la “percezione di anonimato” e la relativa impunità che la
comunicazione via internet consente, che vuole anche dire mancanza di responsabilità dell’enunciato. Oltre
ai siti dedicati all’odio, proliferano i commenti estemporanei; il tema del complotto si intreccia con altri ed è
spesso presente. Insomma, i mezzi di comunicazione attualmente sono in larga misura quelli informatici, e il
mondo dei social network “oggi è diventato uno dei principali veicoli di espressione di odio in rete” → il
razzismo è uno, anche se può assumere sembianze e bersagli differenti; “nell’insieme, ai soggetti cui non
piacciono gli ebrei non piacciono nemmeno i neri né le altre minoranze”. Esempi dell’assimilazione nell’odio
si trovano nelle conversazioni riportate sui social

3. DALL’AGORÀ AL BAR SPORT


L’innesto del tifo sportivo nel web non da sempre buoni frutti; è stato rilevato che tra i siti web gestiti dai
club delle tifoserie calcistiche quelli italiani sono i più razzisti. Si è fatto ricorso al metodo detto Social Media
Sentiment Analysis, che già è stato impiegato per studiare l’opinione pubblica in materia di percezione del
crimine, di attitudine dei cittadini sulle risposte al crimine, di paura del crimine; sostanzialmente si tratta di
analizzare attraverso la consultazione dei social media il sentiment, ossia la percezione che gli utenti
possono avere in relazione a un determinato oggetto o evento; i vantaggi di questo approccio rispetto ad
altri più tradizionali sono la velocità, poiché le opinioni inviate via web appaiono in tempo reale, la varietà
di espressione, in quanto possono essere spediti testi ma anche video, immagini, emoticon, e la quantità i
opinioni, dato che per un commento possono connettersi anche milioni di persone; fra gli svantaggi, primo
fra tutti la sotto- rappresentazione di gruppi di persone che non hanno normalmente accesso a internet per
le ragioni più varie, perché sono senza dimora, disabili, detenuti, illetterati; in generale, saranno con molta
probabilità sovra-rappresentati i nativi digitali rispetto ai cosiddetti “immigrati digitali”; per questa ricerca
sono state utilizzate principalmente fonti aperte, in particolare Facebook, Twitter e YouTube. Troveremo
anche, in altre occasioni, commenti in cui il dibattito digitale si caratterizza per la sua “tangenziabilità”, in
cui, cioè, non tanto si entra nel merito del fatto in questione, quanto piuttosto si coglie l’occasione per
ribadire il proprio punto di vista. Coloro che si sono espressi in senso contrario all’azione degli ultras hanno
manifestato preoccupazione non solo per l’episodio in se, ma perché esso rappresenterebbe il segno di un
pericoloso ritorno dell’antisemitismo; la preoccupazione è stata espressa nei confronti della

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minimizzazione, della noncuranza, della cecità, dello sminuire una figura che è il simbolo della Shoah,
aggiungendo che ciò non dovrebbe manifestarsi in nessun contesto e in particolare in un contesto sportivo
→ cosi come i “favorevoli”, anche i “contrari” all’azione degli ultras hanno denunciato quella che a loro
parere è stata un’attenzione differenziale degli organi di controllo, ma, per i secondi, nel senso che non ci
sarebbe stata sufficiente energia nel perseguire l’evento.

4. LE VITTIME NON SONO TUTTE UGUALI


L’altrismo assume fisionomie diverse a seconda del bisogno del momento e, come s’è visto dalle diverse
ricerche, oggi in Italia pare maggiormente indirizzato verso gli stranieri. Per cercare di valutare come
l’elemento etnico possa aver guidato la percezione degli utenti sono state scelte tre vicende drammatiche:
l’omicidio della diciottenne romana Pamela Mastropietro, uccisa a Macerata da un nigeriano; l’uccisione del
senegalese Idy Diene da parte di un italiano; l’omicidio di Jessica Valentina Faoro per mano di un nostro
connazionale; in pratica, un caso in cui uno straniero uccide un’italiana, uno in cui un italiano uccide uno
straniero, un omicidio in cui autore e vittima sono entrambi italiani. Si può quindi affermare che la presenza
dell’elemento razziale dei primi due casi ha determinato una maggior spinta relazionale degli utenti, portati
a commentare, visualizzare, condividere, interagire.

CONCLUSIONI
Ero partita da una domanda inquietante anche per il criminologo: come sia stato possibile che tanti, quasi
un intero popolo di persone “normali”, come noi, abbiano potuto compiere atrocità o colludere con esse o
tacere, e poi tornare alla loro vita consueta; la criminologia di fine Ottocento aiuta a capire: negli scritti di
allora ritroviamo il pregiudizio, l’idea che ci siano persone diverse e inferiori, che poi siano criminali o “razze
colorate” poco importa. Proseguendo la lettura dei testi altrui e la riflessione, le domande si sono
moltiplicate; così se ne aggiungono altre due: questi orrori, potrebbero ripetersi? E: io, in quelle condizioni,
cosa avrei fatto? Io, anzi, noi, in quelle condizioni, cosa avremmo fatto? Quasi impossibile fornire una
risposta, perché non è facile raffigurarsi “quelle condizioni”, così diverse dalle nostre e così molteplici nelle
loro sfaccettature e anche perché dobbiamo evitare il facile ottimismo e la presunzione; tutt’al più la
domanda serve in quanto ci permette di vedere come hanno fatto coloro che si sono comportati
diversamente, e quindi quali sono gli ingredienti per evitare partecipazione e collusione; se quello che
hanno fatto i giusti è stato ricordarsi della nostra umanità, della nostra comune condizione, com’è stato che
tanti non lo hanno fatto? C’è un cocktail micidiale di cause e forse di fattori: meno male perché più sono
stati i fattori che hanno condotto tutte quelle persone comuni ad agire in modo mostruoso, più dovrebbe
essere difficile che si ripresentino e quindi che l’orrore si ripeta. Non solo, ma qui si sono trascurate le cause
sociali; non si vuol fare del riduzionismo psicologico: senza le condizioni storiche, sociali, economiche non ci
sarebbe stato il nazismo; le condizioni storiche, sociali, economiche servono maggiormente a spiegare
l’avvento di un sistema politico piuttosto che il perché le persone si comportino in modi crudeli.
L’antisemitismo è poi probabilmente la matrice di ogni razzismo o etnocentrismo, è il termometro del
livello di intolleranza di una società, è stato quello praticato da più tempo nella nostra civiltà, e si è rivestito
nei secoli di motivazioni diverse
L’altrismo è uno, indipendentemente da quale sia il bersaglio; l’oggetto del pregiudizio è relativamente
ininfluente. Fra i tanti fattori che hanno contribuito al pregiudizio contro gli “altri” fino allo sterminio
possiamo cominciare ricordando quelli che non mettono al riparo da esso; fra questi purtroppo la cultura →
quindi la cultura non ripaga, anche se la stupidità aiuta, come dimostrano il negazionismo e, più in
generale, il persistere del pregiudizio nelle sue forme anche più folkloristiche. Un altro fattore che non ci
aiuta nella spiegazione è la malattia mentale
Non mette al riparo neppure il “processo di civilizzazione”, che al più spiega la diminuzione della violenza
dei singoli nei paesi simili al nostro. Se quelli citati sono fattori che non impediscono di abbracciare il

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pregiudizio e addirittura lo sterminio, molti sono invece stati quelli che hanno contribuito a farlo; possiamo
ricondurli a tre gruppi:
1) Autoritarismo, conformismo, deresponsabilizzazione
Molti hanno obbedito alle scelte prese senza esprimere un giudizio. Secondo Adorno, la personalità
autoritaria “è remissiva nei confronti delle persone potenti e prepotente verso chi è più debole. Le
personalità autoritarie non si identificano con le altre persone ma con il ruolo che giustifica i “massacri
autorizzati”. Milgram sostiene che gente normale può rendersi complice dell’annientamento di un suo
smile obbedendo all’autorità; L’autorità diventa autorevolezza. L’obbedienza ha il vantaggio di fornire
una coscienza sostitutiva, cioè deresponsabilizza chi ha compiuto le atrocità perché ha dovuto obbedire
ad un comando e quindi non si ritiene colpevole.
2) Sordità per la coscienza e negligenza per l’autonomia di giudizio
Ogni singolo criminale, medico, ufficiale che ha dato l’ordine di uccidere delle persone, non si sente
responsabile ma si sente solo organizzatore, solo della parte tecnica; erano occupati ad obbedire e
programmare. (come Otto Bickenbach). Hans Frank al processo di Norimberga dice; “Io non ho una
coscienza, Adolf Hitler è la mia coscienza”. Gli ebrei diventano capro espiatorio, i gerarchi nazisti
tendono a proteggere la nazione e questo diventa una virtù, perché non importa quante persone
muoiono: se una determinata categoria è responsabile dei mali del paese l’annientamento diventa un
dovere. Questa tecnica è stata utilizzata anche in altri casi di genocidio.
3) Altrismo
Distinguere il noi dal loro è l’essenza stessa del pregiudizio. È il metodo che rende possibile qualsiasi
discriminazione e che può condurre allo sterminio. La distinzione tra noi e loro è stata il motivo più
coinvolgente per spiegare le atrocità che sono successe. Quando gli altri sono visti come diversi da noi,
cominciano i guai; il “noi” e “loro” diventa pericoloso quando si traduce in “superiori e inferiori”, in
“migliore e peggiori” e non per quello che si fa ma per quello che si è. Non siamo tutti uguali! Essere
buoni e cattivi viene determinato dalle nostre decisioni e scelte.
In sintesi, probabilmente il motivo più convincente per spiegare le trascorse atrocità e il fatto che persone
comuni le abbiano commesse è da individuarsi nell’altrismo, nella distinzione fra “noi” e “loro”; quando gli
altri sono visti come diversi da noi, cominciano i guai; il “noi” e “loro” diventa pericoloso quando si traduce
in “superiori” e “inferiori”, in “migliori” e “peggiori”, e non per quello che si fa m per quello che si è; alcuni
sono migliori e altri peggiori, altrimenti svapora anche la distinzione tra bene e male; ma sono migliori o
peggiori per quello che scelgono di fare. Oppure, forse, sempre forse, ho sbagliato domanda: mi sono
chiesta come fosse possibile che persone comuni compissero atrocità, domanda che parte dal presupposto
che noi simo buoni; e se noi, invece, non fossimo affatto buoni? Allora la domanda giusta dovrebbe essere:
come mai di solito non uccidiamo, non torturiamo, non commettiamo massacri? Una domanda del genere
sarebbe fastidiosa, la nostra presunzione e il nostro auto-compiacimento ne uscirebbero un po’ malconci; o
magari no, in fondo, il merito sta proprio non tanto nell’essere buoni, ma nel comportarci bene.

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