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VINCENZO RUGGIERO

IL DELITTO, LA LEGGE, LA PENA –LA CONTRO IDEA


ABOLIZIONISTA
Introduzione

L’abolizionismo ritiene che il sistema giustizia criminale costituisca in sé un problema la cui


soluzione adeguata consiste nella sua tendenziale soppressione. Possiamo suggerire che
l’abolizionismo non è semplicemente un programma, ma anche un approccio, e soprattutto uno
specifico angolo di osservazione. L’abolizionismo infine può fare da fonte di ispirazione anche per
coloro che intendono meditare senza pregiudizi su concetti come gravità e colpevolezza, e ripensare
alla dicotomia che separa il bene dal male.
Dunque, questo libro si limita a esaminare il quadro concettuale, in termini filosofici e con
riferimento alla teoria sociale, al pensiero politico e a quello teologico, nel quale l’abolizionismo
può essere collocato. Secondo uno dei rappresentati di spicco di questa scuola, Bianchi,
l’abolizionismo è una manifestazione dell’intenso desiderio umano, lo stesso desiderio di chi ha
combattuto contro la schiavitù, e in tempi più recenti per l’abolizione della pena capitale.
Angela Davis, ad esempio, si batte contro la nostra democrazia raziale per una democrazia
dell’abolizione, in più, l’abolizionismo combatte anche contro quel curioso meccanismo di
eliminazione circolare identificata da Foucault.
Dunque, il compito primario per l’abolizionismo penale è quello di costruire un linguaggio politico
e un discorso teorico capaci di separare la criminalità dalla punizione.
Tuttavia, per essere efficace una simile strategia andrebbe accompagnata da nozioni alternative di
criminalità. da analisi critiche della legge e da un radicale ripensamento della natura, della funzione
e della filosofia della pena.

Come nota de Tocqueville a metà dell’Ottocento chi aveva commesso reati rimaneva tra gli umani,
ma perdeva il proprio diritto di umanità. Gli ex detenuti venivano evitati perché esseri impuri, così
anche chi credeva nella loro innocenza veniva tenuto a distanza.
Solo dopo tre generazioni, gli abolizionisti formularono delle alternative, alla fine del XIX secolo,
infatti, emersero nuove iniziative grazie all’emergere del modello medico di trattamento, attraverso
cui le carceri potevano essere trasformate in comunità terapeutiche (tuttavia questo modello
comportamentale comportava la soppressione dei diritti dei detenuti e la corrispondente espansione
del potere degli scienziati della mente). Nel corso del XX secolo, gli abolizionisti si reso conto che
alternative alla custodia erano destinate a diventare alternative alla libertà.
Dunque, se in termini di attivismo politico e civile, gli antenati degli abolizionisti sono coloro che
hanno combattuto contro la schiavitù e la pena capitale, meno agevole è identificare i loro
precursori sotto il profilo dell’elaborazione filosofica.

L’abolizionismo si colloca all’interno delle filosofie impegnate ad individuare le componenti


patologiche dei processi sociali. In queste filosofie predomina l’idea che le società devono
incoraggiare il pluralismo delle attività. Così se in Aristotele è la disuguaglianza che impedisce il
fiorire della società, in Rousseau è la competizione che preclude agli uomini il raggiungimento
della vita buona. Come Rousseau, infatti, gli abolizionisti sono anti-hobbesiani nel senso che,
mentre Hobbes propugna il superamento dell’ansia e della sofferenza attraverso un contratto di
formazione con lo stato, Rousseau predilige il ritorno a interazioni umane naturali precompetitive.
Una terza coordinata si ricollega poi alla diffidenza di Hegel nei confronti degli scambi
commerciali, secondo il filosofo infatti, questi distruggono quella totalità etica che ha caratterizzato,
l’esistenza in condizioni naturali dell’antica Grecia. La patologia sociale che ne scaturisce porta

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infatti alla formazione di identità impermeabili per cui gli individui demarcano la propria area di
intimità e delegano alle autorità la soluzione di ogni problema sociale.
Secondo la distinzione tracciata da Amartya Sen, vi sono, rispetto all’idea di giustizia, un approccio
contrattualistico (istituzionalismo trascendente), che detta principi generali, universali e si
preoccupa di costruire istituzioni giuste, per cui il funzionamento è necessario, ed un approccio
comparativo, che presta attenzione alle diverse modalità con cui le persone conducono la propria
vita, si comportano e interagiscono tra loro. Un approccio comparativo è dunque alla ricerca di un
sistema sociale che soddisfi le persone nella loro vita collettiva concreta.
Secondo Gouldner il lavoro del sociologo consiste nel prestare particolare attenzione alle
sofferenze, la sofferenza penale è evitabile e in particolar modo se ne prove l’efficacia.
Analogamente Nils Christie ci ricorda che la su intenzione è semplicemente quella di ridurre
l’ammontare della sofferenza nel mondo; dunque, l’abolizionismo è una contro idea sollevata da
lavoratori culturali secondo cui infliggere pena comporta una serie infinita di problemi morali.

Nel primo capitolo (Crimine come avversità) si discute del contributo abolizionista relativamente
ad alcune definizioni chiave. Punto di partenza è un articolo pionieristico di Louk Hulsman
pubblicato in Contemporary Crises nel 1986, in cui le argomentazioni sono corredate con analisi
supplementari fornite da abolizionisti. Il capitolo contiene dei suggerimenti relativi all’apparato
filosofico che sostiene il pensiero abolizionista, il suo anti-platonismo radicale, e il suo rigetto della
distinzione tra bene e male. Viene suggerito che i padri filosofici più idonei per gli abolizionisti
potrebbero essere: Aristotele, per la sua distinzione tra giustizia ed equità, Spinoza, per la sua
visione eretica secondo cui nella è in sé male o errato in quanto ogni cosa è il prodotto o la
componente dell’infinità di Dio e della natura.

Il capitolo si apre con una domanda. I crimini sono eventi eccezionali? La risposta di Louk
Hulsman a questa domanda retorica prende la forma di un discorso sul sistema della giustizia
inteso come un insieme di procedure speciali indirizzate a una categoria di individui speciali.
Secondo l’analisi abolizionista le condotte classificate come criminali sono in realtà una piccola
porzione di verità e di altri comportamenti che sfuggono alla criminalizzazione; dunque,
l’abolizionismo si chiede come mai alcuni tipi di sofferenza suscitano l’intervento delle agenzie
istituzionali e altri no. Per cui secondo Hulsman non esiste una realtà ontologica del crimine,

Nel primo paragrafo (Antiplatonismo) notiamo come la critica di Hulsman rivolta al concetto
ufficiale di crimine esprime uno scetticismo radicale nei confronti della distinzione tra bene e male.
L’idea che il crimine non costituisce un evento eccezionale colloca Hulsman in contrapposizione
con un’intera tradizione filosofica occidentale che si preoccupa di tracciare i confini tra vita buona e
vita cattiva (antiplatonismo radicale).
È stato suggerito infatti, quanto i nostri concetti di azione e responsabilità sono più vicini a quelli
elaborati dai greci, facendo notare anche, come l’analisi filosofica della criminalità risalga per lo
meno a Platone, diventando poi oggetto dei dilemmi giuridici di Beccaria e Bentham. In Platone la
distinzione tra bene e male equivale alla differenza tra coloro che sopraffanno la ricerca del piacere
e i sentimenti di collera che ne sono sopraffatti. Nel paragrafo—“Appetiti”—notiamo come
secondo il pensiero di Platone gli appetiti illegittimi emergono nel sonno, quando una parte
dell’anima quella razionale si assopisce permettendo alla parte selvaggi di prendere il sopravvento,
quindi secondo Platone, i criminali non sono persone coinvolte in situazioni problematiche, ma solo
incontinenti, cioè incapaci di dominare la belva selvaggi, dunque, il crimine in questa formulazione,
ha una realtà ontologica, e viene descritto come un tiranno che manipola il giudizio e
l’autocontrollo dei rei, mentre la legge viene attribuita alla capacità di risposta a questa tirannia
interiore. Infine, laddove Platone vede la legge come repertorio di valori universali, Aristotele
ritiene che affinché la legge possa essere ritenuta giusta, deve incorporare la virtù dell’equità.
–“Ignoranza e tenebre”— Platone, segue le orme di Socrate, il quale traduce le questioni di
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moralità e di politica in questioni di sapienza: nessuno che davvero conosca cosa sia la pietà
commetterebbe volontariamente un’azione empia. Quindi l’empietà è il risultato dell’ignoranza, al
contrario, la sapienza è anche sinonimo di luce. Ignoranza e tenebre nel pensiero abolizionista,
denotano, al contrario le istituzioni che sono chiama a giudicare gli atti degli individui e non gli
individui stessi.
Infine, sui temi dell’ignoranza e della legislazione, gli abolizionisti citano Anton Chekhov, secondo
il quale giudici e avvocati hanno poca conoscenza dell’oggetto del loro lavoro e sono vittime dei
loro pregiudizi professionali.

Nel secondo paragrafo (Critica dell’intellettualismo etico) la variabile ignoranza ricorre nel
pensiero abolizionista sotto un’altra veste. Mentre il concetto di crimine in Platone suona come
un’elaborazione realista che contrappone la conoscenza al vizio, gli abolizionisti prendono le
distanze da questo realismo. Dunque, il concetto di criminalità diventa il risultato di una
cospirazione dell’ignoranza, per cui se per Platone sia l’ignoranza che la conoscenza possono
causare criminalità (intellettualismo etico), l’abolizionismo evita questa tipica contraddizione di
Platone, sostituendo il suo intellettualismo etico, riferito a chi agisce, con la nozione di scelta
intellettuale, riferita a chi giudica. La scelta è perciò prerogativa di chi osserva.

Nel terzo paragrafo (Disposizione gerarchica) si afferma che argomentare che l’abolizionismo sia
ispirato ad una filosofia antiplatonica non equivale a ritenerlo insensibili alla distinzione tra bene e
male, ma al contrario, equivale ad affermare che questa scuola di pensiero evita di disporre
gerarchicamente il bene, il male e altri valori simili. In altre parole, secondo gli abolizionisti i valori
possono essere disposti gerarchicamente solo quando le persone traggono uguale vantaggio
nell’adottarli. Se le persone non sono libere e uguali, possono commettere atti che, per quanto
volontari, non sono il risultato di una libera scelta.

Nel quarto paragrafo (Azioni e delitti) si sottolinea come gli abolizionisti desumono che l’idea di
criminalità appartiene a una categoria superficiale e troppo imprecisa per consentire sottili
distinzioni. I concetti alternativi di “disturbo, disagio e avversità” possono offrirci un punto di
partenza più approfondito, in quanto vengono vissuti e causati dalle persone che interagiscono, per
cui la scelta di questi termini, testimonia la consapevolezza abolizionista di come i termini che si
riferiscono a oggetti o attività riflettano specifiche scelte politiche e filosofiche.

Infine, nel paragrafo cinque (Criminalità come tristezza) si fa riferimento a Nietzsche che
imputa a molti filosofi greci un condizionamento patologico che li assoggetta alle speculazioni
moralistiche, infatti, Nietzsche vede in tutto questo un equivoco in cui cadono sia Socrate che la
cristianità: la luce, la razionalità, la virtù, costituiscono i sintomi di una diversa malattia.
Secondo Agostino questa coabitazione problematica dell’anima, deriva dall’essere stata concepita
dal nulla, ed è alla radice del male. Per cui se la creazione da un lato conferisce agli esseri umani la
razionalità, la libertà e la comprensione dello spirito, allo stesso tempo, essendo creati dal nulla, gli
umani sono soggetti a cadere, perché anche questo fa parte della creazione.
Spinoza, poi denuncia coloro che ignorano o nascondono la relatività del proprio punto di vista, o
che collocano sé stessi tra le entità superiori capaci di presidiare un ordine morale e materiale
assoluto, così, se nel pensiero abolizionista il crimine non è un evento straordinario, per Spinoza,
non esistono i crimini ma gli atti. Analogamente, per Spinoza, i concetti di bene e male hanno poco
significato quando vengono esaminati in sé stessi. La stessa cosa può essere contemporaneamente,
buona, cattiva o indifferente. Facendo eco a Spinoza, gli abolizionisti, sostengono che le
opportunità sociali, e le specifiche azioni compiute, determinano la probabilità che le azioni siano
etichettate come criminali.

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L’eguaglianza giuridica può essere definita come il diritto di ognuno a mobilitare le istituzioni
dello Stato per la protezione e la salvaguardia del proprio benessere. In questa prospettiva
eguaglianza significa diritto alla mutua coercizione. Mancare di rispetto alla libertà degli altri
equivale a negare il loro diritto alla libertà. Lo stato interviene per rimuovere questa negazione e per
ripristinare la situazione iniziale. La coercizione è pertanto legittima, perché sanziona un atto che ha
negato la libertà degli altri. Per gli abolizionisti argomentazioni di questo tipo sono valide solo nelle
società in cui l’equo accesso alla giustizia si accompagna all’equo accesso alle risposte

Nel secondo capitolo (Giustizia sostanziale e autoregolazione) si discute sulla giustizia


tradizionale, che parte dall’idea secondo il quale la responsabilità di un reato, sia chiaramente
individuabile. La critica abolizionista della legge e del sistema della giustizia criminale, qui
presente, s’indirizza a sua volta alle società ingiuste nelle quali viviamo. Questo capitolo esamina
anche le risposte critiche dell’abolizionismo ed altri assunti comuni:
> quello che la legge si riferisce agli individui e non agli attori collettivi
> quello secondo cui le responsabilità possono essere stabilite scientificamente
Qui viene sottolineata dunque, la prossimità delle argomentazioni abolizionistiche a quelle elaborate
dai teorici del conflitto. Ad esempio, mentre i teorici del conflitto si limitano a criticare il sistema
giustizia criminale come espressione di interessi che operano dall’alto, gli abolizionisti si
riappropriano della stessa nozione di conflitto e la trasformano in un’arma da utilizzare dal basso.
Il capitolo si concentra sull’idea che i conflitti vendano sequestrati dal sistema giustizia criminale
nel senso che sono sottratti alle parti direttamente coinvolte.
Il capitolo si conclude poi con la contrapposizione tra quella che gli abolizionisti definisco la
giustizia industrializzata ma anche sacralizzata che prevale negli attuali sistemi, e la giustizia
naturale sostanziale da loro stessi patrocinata.

Nel primo paragrafo (Contesi e conflitti), dunque, si vuole affrontare la tesi che tali posizioni si
avvicinano ai sostenitori della teoria del conflitto.
I teorici del conflitto sono coloro che hanno una visione della società non basata su elementi di
unità o di condivisione.

Esistono due fondamentali modi di intendere la società:

1. La società come sistema in cui ogni parte svolge il suo ruolo, caratterizzata da solidarietà,
in cui si mette in evidenza il consenso.
2. Le teorie del conflitto, che mettono in evidenza il conflitto, perché la società è costituita da
elementi in rapporto conflittuale. Tra i sostenitori della teoria del conflitto troviamo Marx
che spiega l’evoluzione della società a partire dalla lotta tra le classi, e da significato al
diritto e allo stato proprio a partire da questa visione conflittuale della società.
In una società di classe, il diritto non è superpartes, ma combacia con gli interessi della
classe dominante, dunque, le leggi penali e le modalità di punizione rispecchiano gli
interessi della classe dominante.
In termini di reati e di delitti non esistono dimensioni assolute, esistono azioni qualificate
come crimini in particolari circostanza, come nel caso della borghesia nella visione di Marx,
ed ecco il problema della costruzione sociale della definizione di criminalità che avviene da
parte delle classi dominanti, perché sono loro che hanno il potere.
Inoltre, la teoria di Marx ha un precedente, troviamo un riferimento a Trasimaco, un sofista
che troviamo in Platone (i sofisti erano una categoria di filosofi nella Grecia antica che non
ritenevano che si potesse conoscere la verità, erano relativisti ed erano considerati avversari
da Platone, filosofo della verità e della ragione universale e assoluta). Ora, tutte le opere di
Platone sono scritte sotto forma di dialoghi, egli narra in ogni sua opera delle discussioni a
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cui partecipano vari personaggi, specificatamente nell’opera “La repubblica”, dedicata al
tema della giustizia, Socrate pone il problema della giustizia, vari interlocutori intervengono
per esporre la propria idea, a un certo punto nella discussione interviene Trasimaco con un
fare molto aggressivo, affermando che tutte le definizioni di giustizia sono fasulle, perché la
giustizia non è nient’altro che il diritto del più forte. (Ecco il collegamento a Marx, perché la
giustizia è l’utile del più forte). Questo vuol dire che anche le norme criminali saranno
espressione della classe dominante.

Gli abolizionisti fino a un certo punto condividono la teoria del conflitto. Ritengono il conflitto un
elemento importante per spiegare cosa accade nella società, ma credono che il conflitto debba
essere gestito dal basso e non dall’alto, quindi sono le parti in causa, le parti in conflitto che devono
decidere e regolamentare autonomamente i conflitti e le liti e in questo l’abolizionismo si avvicina
alla giustizia riparativa, secondo il quale i conflitti vanno gestiti con il coinvolgimento delle parti,
dunque dal basso. La giustizia penale tradizionale, che si basa su una visione individualistica della
società, al contrario, separa le parti coinvolte nel conflitto; quindi, il conflitto viene
decontestualizzato e gestito secondo schemi e norme astratte, che non tengono conto delle
esperienze particolari delle parti in cause. Gli abolizionisti criticano molto i giuristi. Nella giustizia
penale tradizionale troviamo anche un atteggiamento totalitario, infatti ciò che dimentica è proprio
la partecipazione alla gestione del conflitto da parte della vittima, del reo e della collettività,
interessate alle conseguenze dei reati e interessate a partecipare alla gestione del conflitto.
Questa è una delle idee centrali dell’abolizionismo, che riprende dalle teorie del conflitto, il
concetto di conflitto come elemento centrale della vita sociale, reinterpretandola e svolgendo delle
analisi anche sulle modalità in cui la giustizia tradizionale gestisce i conflitti. Le parti del conflitto,
infatti, non dovrebbero essere espropriate.

Nel secondo paragrafo (Professionalissimo), si criticano i giuristi. Il motivo di tale giudizio


critico è da ricercarsi proprio nel sistema della giustizia tradizionale che appare come caratterizzato
dalla burocrazia e dalla professionalizzazione. La gestione dei crimini viene affidata a questa classe
di professionisti del crimine della legge, che hanno acquisito un potere enorme. Il ceto dei giuristi si
è ad esempio moltiplicato in Norvegia, ha acquisito un potere enorme, che spesso si va a
sovrapporre a quello dei politici e la critica sta proprio nel fatto che questa classe di professionisti,
gestisce i conflitti attraverso le astrazioni, e questo fa si che i conflitti non possano essere gestiti in
forma naturale e condivisa dalle parti in causa. Gli studi legali hanno acquisito un grande potere

Nel terzo paragrafo (Conoscenza e significato) l’idea centrale che viene affermata, è che nel
processo di conoscenza, secondo la corrente degli abolizionisti non si arriva a cogliere la verità
assoluta, ma la verità come appare agli uomini che partecipano al processo conoscitivo. In questo
paragrafo si parla di fenomenologia -- una corrente filosofica che sostiene la tesi secondo il quale
l’uomo conosce la realtà per come si manifesta (fenomenologia, deriva da fenomeno, cioè ciò che
appare) –e di etnometodologia, una corrente criminologica, che basandosi sui presupposti della
filosofia fenomenologica cerca di spiegare il problema della formulazione delle ipotesi del
comportamento legittimo o criminali. Gli etnometodologia affermano che le definizioni di
criminalità dipendo dalle rappresentazioni, dallo scambio di conoscenze che avvengono nella
società, per cui ci che è considerato criminale o non criminale corrisponde alla visione particolare di
chi partecipa a questo processo di costruzione sociale. La conclusione a cui si vuole arrivare, è che
siccome nella società di oggi, nell’ambito della giustizia penale e criminale, un ruolo
importantissimo è rivestito dai professionisti della legge, le definizioni dipendono dai giuristi,
perché sono coloro che decidono ciò che deve essere considerato lecito ed illecito. Le idee intorno
alla criminalità sono dovute alle agenzie del controllo sociale e ai giuristi.
La conclusione paradossale è che la criminalità, tenendo conto delle diverse posizioni, è frutto della
società, non esiste in natura. A questa conclusione arrivano gli etnometodologi. Ora gli abolizionisti
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condividono questa posizione ma rincarano la dose affermando che la criminalità è creata dai
professionisti della legge penale, cioè i giuristi, e dunque questo non sta a genio, perché è
considerata una grossa distorsione da combatte.

Nel quarto paragrafo (giustizia naturale e giustizia industriale), si affronta in primis il tema
della giustizia industriale, praticata secondo gli schemi astratti dei professionisti della legge, che
traducono i vissuti reali delle persone coinvolte nei conflitti in astrazione, in fatti giuridici che
devono essere trattati dalla giustizia penale. Come l’industria crea gli oggetti, la giustizia penale può
essere definita come industriale, perché traduce tutto nel suo linguaggio fatto di astrazioni, di
concetti distaccati dalla realtà che possono essere compresi solo dai giuristi. Gli abolizionisti
preferiscono infatti più i metodi della giustizia civile, in cui si utilizza ancora una mediazione,
l’incontro tra le parti per arrivare consensualmente ad una soluzione, e non la giustizia penale, che
espropria i protagonisti del conflitto. Questo è il motivo per il quale, gli abolizionisti recuperano la
legge naturale (il diritto naturale per definizione, va collocato in alternativa alla legge positiva,
avalutativa che non vuole conservare un carattere morale, una legge generale astratta che troviamo
nei codici e che viene utilizzata dai professionisti dalla legge), una legge che può essere conosciuta
attraverso una riflessione dall’uomo, e che incorpora quelli che sono i valori importanti. Si fa
riferimento a San Tommaso d’Aquino, che ha teorizzato la legge naturale, e che ritiene che l’uomo
con la sua ragione, possa conoscere la legge naturale e i suoi valori, che lo inducono a comportarsi
in modo giusto e corretto. Questa impostazione è fortemente riconosciuta dagli abolizionisti. Il
positivismo giuridico si è affermato nell’età moderna, precedentemente infatti, le liti venivano
risolte attraverso il diritto consuetudinario e sulla legge morale, parliamo di norme che potevano
essere comprese da chiunque perché appartenenti a una dimensione naturale della vita umana.

Nel paragrafo cinque (legge formale e legge sostanziale), si fa riferimento a Weber, che ha
distinto la razionalità formale, che guarda alle leggi, e razionalità materiale, che guarda ai valori di
giustizia sostanziale. Questo riferimento vuole affermare che vi è il bisogno di recuperare la così
detta giustizia sostanziale, la giustizia che gli abolizionisti prediligono infatti, guarda ai valori e
dovrebbe realizzarsi nella sostanza (giustizia sostanziale)

Nel paragrafo sei (sacralità), è presente una polemica nei confronti dei professionisti della legge.
Qui si afferma che un tempo la sacralità si riferiva a Dio, esisteva il culto, esistevano dei riti. Oggi il
culto è venuto meno con il processo di secolarizzazione, ed al suo posto l’oggetto sacro diventa la
legge.
Dunque, i nuovi sacerdoti, sono i giuristi, perché devono officiare il culto alla legge, considerata
come una nuova forma di divinità Questo aspetto è fortemente contrastato dagli abolizionisti, che
esprimono proprio la propria avversione nei confronti del ceto dei giuristi, perché non rispettano la
naturalità degli eventi, l’aspetto sostanziale dei conflitti e traducono tutto in un linguaggio astratto
per esercitare la loro forma di potere. Il conflitto viene espropriato dai protagonisti, le parti in causa,
per essere gestito secondo logiche e criteri che niente hanno a che fare con l’esperienza concreta.

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Nel terzo capitolo (Le culture della punizione), vengono trattati il fondamento e la funzione della
pena, che sono poi tentativi di giustificazione della pena stessa.
Il terzo capitolo affronta il tema del carcere disegnando una mappa analitica nella quale individuare
i nemici e gli alleati teorici dell’abolizionismo.
Secondo l’abolizionismo la pena e tutto il sistema istituzionale preposto è illegittimo e da sostituire
con altre alternative.

Si farà riferimento ad alcuni filosofi che hanno elaborato un pensiero sulla giustificazione della
pena, tra cui:
> Kant, secondo cui i crimini rendono i relativi autori di proprietà dello Stato, il cui diritto di
punire si presenterà perciò come un imperativo categorico. Si discute del rifiuto di Kant di
considerare la detenzione come uno strumento riabilitavo e della sua idea che rinunciare alla
retribuzione costituisce compassione impraticabile. Dunque, se per Kant il sovrano ha il
diritto di punire, per Hegel è il reo ad avere il diritto ad essere punito.
> Hegel, che analizza le diverse forme del male, e secondo cui il reato e la punizione sono
facce della stessa realtà.
> Marx e la sua critica a Kant e Hegel
> Durkheim e Nietzsche, affini intellettualmente, attraverso cui si analizzerà la teoria
dell’evoluzione penale proposta dal primo alla luce delle argomentazioni abolizionistiche.

Sono poi presentate elaborazioni di natura mista, in particolar modo il concetto di zona sociale
carceraria, che accoglie gli esclusi e i lavoratori occasionali e i piccoli criminali. La detenzione può
essere giustificata se contribuisce a incrementare la felicità più che la sofferenza. Da qui l’urgenza
in ogni teoria della pena, di considerarne le conseguenze sociali.

Il terzo capitolo si apre dunque con il tema della giustizia, considerata nell’antichità come una dea,
raffigurata bendata per rappresentare che non è influenzata da ciò che si vede. In altre raffigurazioni
la giustizia viene rappresentata in una cerchia con altre divinità, come se per essere esercitata nel
modo migliore dovesse essere supportata da altro (pace, misericordia, etc.), come se dovesse mirare
alla riconciliazione e non alla punizione.

Nel primo paragrafo (Il diritto di punire)


Per Filosofia della pena di Kant ed Hegel si intendono quelle filosofie che hanno tentato di dare una
risposta alla domanda “perché è necessario punire nella società?”. Se tutti gli uomini nascono liberi
perché c’è qualcuno che ha il potere di limitare la libertà e mandare a morte un suo pari?
Ci sono autori che hanno negato il diritto di punire (Tolstoj – chi punisce non è meno colpevole di
coloro che sono imputati).
Necessarietà e giustificazione della pena per:
1. Retribuzione: la pena è la risposta del male che viene commesso, si punisce per il fatto che è
stata commessa una colpa. Al male della colpa bisogna contrapporre il male della pena
(equilibrio di valori). Se non ci fosse la pena il male dilagherebbe incontrastato;
2. Prevenzione: bisogna unire guardando al futuro, per prevenire futuri reati, senza una visione
del passato ma solo del futuro (affermata già in Platone), esigenza di utilità, per fare un bene
alla società. La prevenzione può essere: generale (a tutta la società per evitare la commissione di
reati) o speciale (diretta verso il singolo delinquente che ha commesso il delitto);
3. Emenda: si punisce per correggere il delinquente, acquisita anche nella nostra costituzione (art.
27).
Vi è però il rischio della strumentalizzazione del reo, individuato con sapienza da Alessandro
Manzoni in un passaggio de I Promessi Sposi. Chi deve decidere in cosa consiste la rieducazione?
Lo Stato?
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Kant, in “La metafisica dei costumi”, svolge la sua riflessione in campo giuridico e nel tema della
pena. Kant è un retribuzionista, per cui il danno è una colpa morale. È un nemico della
prevenzione, al contrario di Beccaria.
Kant critica Beccaria (nonno di Manzoni), contestando che quando si punisce non si tiene conto del
principio di utilità, ma solo del principio di giustizia. Dunque, Kant è nemico dell’utilitarismo, per
cui sostiene che la vera azione rivolta al bene non deve essere contaminata da nessuno scopo di
utilità (fa il bene perché sente di fare il bene, sentimento di dovere nella propria coscienza).
La logica del diritto è utilitaristica (“do ut des”). Corrispettività nel bilanciamento tra i mali della
pena e i mali della colpa, commisurazione. La misura concreta della giustizia è la legge del taglione
(occhio per occhio, dente per dente).
Infine, Kant è favorevole alla pena di morte (per omicidio), così l’imperativo categorico di giustizia
è la pena di morte, alla quale non ci si può sottrarre perché altrimenti viene meno la giustizia. Per
gli abolizionisti, Kant è un “grande nemico” della loro idea.

Nel paragrafo due (Il diritto di essere puniti)


Viene affermato che oltre Kant, tra i rappresentanti della teoria della retribuzione troviamo Hegel,
che per tanti versi si contrappone a Kant, anche se per quanto riguarda il problema della
giustificazione della pena le loro intuizioni sono molto simili.
Secondo Hegel, la considerazione sulla pena rientra nella sua visione filosofica generale (Hegel
spiegava tutto a partire da un movimento triadico sia l’evoluzione del pensiero che l’evoluzione
della realtà, TESI-ANTITESI- SINTESI). Realtà e pensiero, per Hegel coincidono, dunque nei fatti.
Anche il problema della pena Hegel lo risolve a partire dal processo triadico, perché anche per
quanto riguarda il reato esiste una tesi cioè la legge dello stato, che è la razionalità compiuta,
secondo Hegel l’eticità che è la morale oggettività in istituzioni, si perfeziona nel passaggio dalla
famiglia, alla società civile, allo stato (in cui gli individui possono realizzare l’eticità compiuta,
perché qui possono operare per il bene della società, non solo per l’utilità particolare.
Quindi il reato è la negazione della legge dello stato, e rappresenta il secondo momento del
processo triadico (antitesi che si pone come un male), allora in questo contesto la pena è la
negazione della negazione (la negazione dello stato), quindi la pena è la riaffermazione dello stato.
Hegel arriva ad affermare che il colpevole ha il diritto di essere punito, perché attraverso la
punizione acquista la sua dignità di uomo perduta attraverso la commissione del reato.
Anche Hegel e Kant, quindi, rappresentano un nemico della contro idea abolizionista.
Un’altra affinità tra Kant e Hegel consiste nel fatto che anche Hegel è un sostenitore della
retribuzione, nel testo quando si parla di teoria riconciliativa, sarebbe più preciso parlare di teoria
della prevenzione.
Si parla poi della critica di Marx nei confronti di Kant e Hegel, che non avevano considerato le
condizioni storiche ed economiche, Marx sul problema della criminalità e della pena, afferma che la
criminalità va compresa a partire dalle condizioni economiche; quindi, a partire dalla struttura della
società, perché il crimine è l’effetto di una società ingiusta, è il modo attraverso cui le classi
reagiscono a una situazione di ingiustizia, se una classe viene sfruttata fino all’osso (es. società del
mondo di produzione borghese), il surplus che l’operaio meriterebbe viene accumulato dai
capitalisti, per cui ci sarebbe un furto da parte della classe borghese nei confronti della classe
operaia. In quadro di questo genere il crimine rappresenta la risposta da parte di alcuni esponenti
della classe operaia, all’ingiustizia e allo sfruttamento. Allora il crimine va compreso in rapporto
all’ingiusta situazione economica della società, la pena è comminata infatti dal gruppo dirigente,
rappresentato dalla classe borghese, che nel definire il criminale e il legittimo tiene conto solo dei
propri interessi. Il diritto penale allora è dominato dalla classe borghese.

Nel terzo paragrafo (Vendetta e passione)


Si discute sulla figura di Durkheim, uno dei padri della sociologia, che scrive alla fine dell’800’.
Famoso per i suoi studi per l’omicidio, occupa uno spazio anche negli studi sulla devianza e sulla
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criminalità. Rappresenta un avversario dell’abolizionismo, perché ha dato una spiegazione della
pena che non collima con le teorie abolizioniste. Secondo Durkheim ogni società per mantenersi in
vita ha bisogno di coesione sociale, di un certo grado di solidarietà, che è il collante che tiene
insieme un certo numero di individui in un organismo società. Vi è solidarietà, quando vi è
coscienza collettiva (norme, consuetudini, condivise dalla collettività). Quando la coscienza
collettiva si indebolisce, secondo Durkheim si entra nell’anomia, cioè l’indebolimento della
coscienza collettiva. Negli studi sul suicidio Durkehim proverà a spiegare che il taso di suicidio è
direttamente proporzionale alla disgregazione della società. Dunque, la coscienza collettiva che non
coincide con la somma delle coscienze individuali, ma è l’anima della società, per cui il reato è
grave perché va ad offendere la coscienza collettiva, la indebolisce, e risponde con l’inflizione di
pene durissime.
Per Durkheim il crimine è un’offesa alla coscienza collettiva, e va punito perché la indebolisce, non
esistono azioni che in assoluto possono essere considerate crimine, ma il crimine è tale se va contro
la coscienza collettiva. Quindi per Durkheim non esistono mali in sé o crimini in sé, ma esistono
crimini che vanno contro la collettività che è formata dalla sintesi e dai pensieri di tutti gli individui,
che si reifica diventando qualcosa di superiore rispetto ad essi, e li influenza.
Durkheim cerca di spiegare come il sistema del diritto penale si sia trasformato nel tempo sulla base
delle trasformazioni intervenute, nelle società antiche infatti il senso della coscienza collettiva era
molto più forte, nell’età moderna con la divisione del lavoro sociale ha preso forza l’individuo, e
anche le pene sono cambiate, nelle società moderne infatti il diritto penale è stato sostituito da un
diritto restitutivo. Comunque, nel nocciolo della teoria di Durkheim rimane sempre questa teoria
retribuzionista, la coscienza collettiva viene considerata da Durkheim come un principio religioso.

Poi si fa riferimento anche a Nietzsche, che non può essere citato come un teorico della
giustificazione della pena, perché contrario all’idea di punizione. È un negativista, nega la validità
della pena, parla della colpa come un’invenzione della cultura, della religione e dei filosofi.
Egli scrive “Al di là del bene e del male” sostenendo l’idea che il diritto in generale sia
un’invenzione creata dai deboli per difendersi dai forti. Nietzsche sostiene l’idea della verità del
superuomo, colui che agisce al di là del bene e del male, e se per affermare la sua volontà di potenza
deve sopraffare gli altri lo può fare, perché questo istinto di potenza lo può realizzare. Nietzsche
parla di innocenza del divenire, e in questo non c’è nessuna colpa, perché la colpa è stata inventata
dai deboli. Per Nietzsche la colpevolezza non ha nessuna verità morale, ma nasce da meccanismi
economici, cioè dalla figura del debitore e del creditore. Per il creditore la restituzione è talmente
importante che chiede al debitore di impegnarsi in questo, questo pegno è la pena. Nietzsche è
dunque, un negatore della pena.

Nel quarto paragrafo (consequenzialismo) si fa riferimento a Kant, che estenderebbe l’accusa di


sofismo giuridico, rivolta a Beccaria, a tutti i teorici che giustificano la pena sulla base dei suoi
effetti piuttosto che sulla sua validità morale. Il consequenzialismo teorizza che le pratiche umane
sono giuste quando producono conseguenze effettive e prevedibili e quando è misurabile il
contributo che offrono alla conservazione e alla difesa di un bene. In secondo luogo, il
consequnzialismo può essere associato al principio di deterrenza. In questo caso, si suppone che la
pena segnali ai colpevoli di reato che la scelta criminale ha un costo e che delinquere è meno
remunerativo che conformarsi alle regole. In terzo luogo, il consequenzialismo può rivolgersi ai rei
individualmente, disabilitandoli dal commettere altri reati. In quarto luogo, il consequenzialismo
può aderire a principi della riabilitazione quando mira, ad esempio, al miglioramento in termini
morali e materiali, delle condizioni di vita dei rei. La riabilitazione implica che la pena sia coerente
con la nozione di comunità e che i suoi destinatari vengano trattati come componenti di
quest’ultima. In breve, la concezione secondo cui i colpevoli di reato vanno trattati da agenti morali
e perciò puniti semplicemente perché violano le leggi, non sembra aver esaurito la sua validità,

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infatti, questa teoria retributiva viene ora arricchita con aspettative sociali più generali che si
presume accompagnano la punizione.

Nel paragrafo cinque (Funzioni istituzionali e funzioni materiali)


Si distinguono schematicamente gli approcci critici nell’analisi della punizione. La prima posizione
enfatizza la funzione istituzionale, e fa propria un’idea di retribuzione e, in casi limite, interpreta la
pena come strumento per la distruzione dei corpi. La seconda posizione enfatizza la funzione
materiale, e guarda alla detenzione come strumento regolativo, focalizzandosi principalmente
sull’uso produttivo dei corpi. Tra i fondatori più noti delle rispettive scuole di pensiero vi sono
Rusche e Kirchheimer (1968—Approccio materiale), che associano sia la deterrenza generale che
quella individuale alla sfera materiale della società, dove il trattamento dei rei viene analizzato sullo
sfondo del processo produttivo e delle vicende alterne che animano il mercato del lavoro, e Michel
Foucault (1977—Approccio istituzionale), secondo il quale il carcere costituisce un emblema
dell’universo disciplinare moderno, è una sfera rivolta non già ai detenuti, ma alla società in
generale. A questo proposito è famosa l’analisi del Panopticon, che ha come effetto quello di
indurre nel detenuto uno stato di visibilità cosciente e permanente che assicuri il funzionamento
automatico del potere.

Nel paragrafo sei (Zone carcerarie sociali)


Si analizza la mappa teorica tracciata fin qui. I sistemi carcerari contemporanei, infatti, lasciano
intravedere una sintesi tra funzione istituzionale e funzione materiale, anche se la prima appare
prevalente. La funzione istituzionale, infatti, sta attraversando un’evoluzione tecnica e si manifesta
tutt’ora nella distruzione dei detenuti considerati refrattari al trattamento. La funzione materiale, a
sua volta, si sta modificando. Quindi, il lavoro dei detenuti e il loro sfruttamento hanno luogo, oggi,
al di fuori del carcere, più precisamente in quelle aree sociali in cui le attività marginali e il lavoro
precario si mescolano alle attività apertamente illegali, che possiamo definire come aree carcerarie
sociali.

Nel quarto capitolo (Limiti alla sofferenza)


Si valutano le argomentazioni abolizioniste contro le presunte funzioni del carcere. Secondo il
punto di vista di Mathiesen, ad esempio, il carcere è indifendibile anche quando, in versione
moderata di retribuzione, si assegna ai reati un valore punitivo che si traduce in una specifica
quantità di tempo. L’autore argomenta che il tempo può essere solo misurato soggettivamente e che
la sua percezione dipende dalla prossimità con chi sconta una pena. Il capitolo riassume quindi, il
dibattito sulla presunta evoluzione della pena verso una graduale mitezza e propone una definizione
esatta di quella che gli abolizionisti designano come sofferenza legale. Il paragrafo intitolato
Manifattura di handicap cerca di identificare gli effetti concreti della detenzione su corpi e sulle
menti dei carcerati.
Il quarto capitolo si conclude con un’analisi di quelli che Christie considera sviluppi potenziali nella
sfera economica che, a suo dire, potrebbero innescare mutamento, produrre solidarietà e, in ultima
analisi condurre a sistemi di convivenza più sensibili verso le idee abolizioniste.
Dunque, violando le leggi si ottengono vantaggi ingiusti nei confronti di chi le leggi le rispetta, di
qui l’esigenza in forma di retribuzione del pagamento di un debito verso la società.
Ci si potrebbe interrogare sul motivo di questo debito, così l’abolizionismo si scaglia contro alcune
funzioni come il trattamento riabilitativo, la deterrenza indirizzata ai rei/ alla società nel suo
complesso, l’incapacità dei delinquenti recidivi, che sembrano fornire una legittima difesa alla
coercizione istituzionale sotto forma di custodia.

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Nel primo paragrafo (Nessuna difesa per il carcere), si fa riferimento a Mathiesen che identifica
all’interno dell’ideologia riabilitativa alcune componenti principali che in maniera sorprendente
sono rimaste costanti attraverso il tempo. La prova di questo fallimento viene raggruppata in tre
campi principali:
1. In primo luogo, l’autore si riferisce agli studi relativi al trattamento carcerario, che
forniscono risultati uniformi: gli effetti del trattamento, in termini di prevenzione della
recidiva sono davvero trascurabili a prescindere dall’intensità del trattamento.
2. In secondo luogo, l’autore esamina il concetto di trattamento alla luce dell’ambiente
concreto nel quale viene effettuato.
3. In terzo luogo, osservando una gamma di studi dedicati al carcere come organizzazione
sociale, riscontra il fenomeno della prigionizzazione, ovvero l’interiorizzazione da parte dei
reclusi dei valori e delle regole di un ambiente violento.
Inoltre, Mathiesen, passando a discutere della deterrenza come prevenzione generale, suggerisce
che il fallimento di questa presunta funzione del carcere dovrebbe consigliare una drastica riduzione
della pena detentiva in generale. La deterrenza generale infatti consiste in un messaggio mandato
alla popolazione nel suo complesso.
Dunque, come si è detto le presunte funzioni del carcere ruota intorno ai concetti di incapacitazione
e deterrenza individuale.
L’incapacitazione, implica che la capacità del reo di rendersi responsabile di nuovi reati venga
neutralizzata attraverso una pena detentiva, quanto alla deterrenza individuale, invece, gli
abolizionisti condividono la convinzione che il carcere contribuisca ad accelerare le carriere
criminale, e per questo motivo ne disconoscono l’efficacia. Le scuole del crimine insegnano il
risentimento rispetto alle norme e rispetto agli altri. Infine, va sottolineato, che gli effetti deterrenti
non sono facili da valutare. La critica abolizionista si indirizza anche verso la nozione classica di
proporzionalità. Ma quello che è in gioco è la durata, il tempo della sofferenza inflitta, che sono
valutabili solo soggettivamente.

Nel secondo paragrafo(L’evoluzione della pena) si analizza il pensiero di Durkheim che sostiene
che le pene si sono ingentilite, soprattutto Hulsman lo dimostra attraverso un’osservazione “le
conseguenze delle pene vanno valutate anche in rapporto ai tempi, e alle condizioni di vita della
società, il valore penale di una misura infatti si giudica attraverso la distanza tra le condizioni
sociali ordinarie e le condizioni carcerarie, questo per dimostrare che nelle carceri di oggi le pene
vengono avvertite come occasioni di sofferenza più gravi rispetto al passato, nelle carceri si violano
i diritti umani, ed in questo senso Hulsman fa notare la crescente sensibilità verso i diritti umani, le
condizioni in carcere appaiono sempre più inaccettabili, in quanto derogano da questi diritti.

Nel terzo paragrafo (Retribuzione riluttante), l’idea fondamentale è che non è vera la tesi di
Durkheim che le pene siano più dolci rispetto a quelle irrogate in passato. C’è un autore Christie che
provocatoriamente per dimostrare la inefficacia disfunzionalizzazione della pena carceraria (cioè
che la pena non risponde alle funzioni che ad essa vengono assegnate) fa una difesa provocatoria
della retribuzione. Però l’idea della retribuzione sarebbe accettabile se la società fosse caratterizzata
da eguaglianza economica, allora punire per retribuzione significa commettere un’ingiustizia,
perché coloro che vivono in situazione di deprivazione, pagano colpe che andrebbero imputate
innanzitutto alla società. Quindi l’idea della retribuzione nelle condizioni materiali in cui viene
applicata non è assolutamente sostenibile. La retribuzione morale può avere solo la funzione di
indicare alla società quei valori che andrebbero rispettati da parte di tutti, e quindi da questo punto
di vista potrebbe essere accettabile, ma nell’applicazione concreta è un’idea che produce distorsioni.
Nel paragrafo quarto (Manifattura di handicap), si mostra come la pena carceraria sia ingiusta
perché c’è un aspetto della pena carceraria nascosto e che va evidenziato, la pena carceraria infatti
si sostanzia in una misura di privazione della libertà. Ma in questo paragrafo si evidenzia che questa
sofferenza non è l’unica che si prova quando si subisce una pena carceraria, poiché è presente
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un’ulteriore pena nascosta, che pochi considerano, che fa si che la pena carceraria sia una pena
ingiusta perché punisce l’individuo più volte, e gli provoca una sofferenza ulteriore non dovuta
(sofferenza che riguardano il deterioramento delle sue condizioni mentali e fisiche). Ci sono stati
vari autori, tra cui Bianchi e S. che hanno cercato di far luce su questa pena supplementare, e che
hanno definito il carcere come una fabbrica di handicap psicofisici. Ma quali sono queste
conseguenze psicofisiche?
Gli studi di questi autori mettono in evidenza le conseguenze subite dai detenuti, che comportano
una sofferenza che va bene oltre la sofferenza rappresentata dalla perdita della libertà:
 Aspetto di tipo psicologico, per il fatto di essere limitati nei movimenti i detenuti tendono a
evadere psicologicamente dal carcere. La fuga psicologica, significa rinuncia delle speranze
e dei propri desideri, arrivando ad uno stato di apatia. Il carcere porta ad un deterioramento
dei detenuti, che cessano di provare bisogni e desideri, entrando in una sorta di morte
psicologica, in uno stato di abulia, e perdita della volontà, avvertano una deprivazione
sensoriale.
 Aspetto di tipo fisico, parliamo di una deprivazione sensoriale, come allucinazioni,
distorsioni nella percezione, cambiamenti repentini di umore, nevrosi. Le carceri hanno
degli effetti sugli stati mentali, modificano il metabolismo cerebrale, che causano
depressione e aggressività. Si hanno dunque effetti sul corpo e sulla mente, un blocco delle
attività di comunicazione, perché il tempo perde di significato. Si arriva ad un’atrofia delle
funzioni visive, mentre si affina l’udito, come spesso succede. Persino il tatto subisce delle
disfunzioni, poiché tutti gli oggetti nelle celle sono sporchi, il detenuto si astiene dal toccare
e questo determina una perdita del senso del tatto.
Per tutti questi effetti allora, il detenuto, desidera scomparire, autoannullarsi, fino ad arrivare al
desiderio di suicidio.

Nel paragrafo cinque (L’immoralità del moraleggiare), si fa riferimento alle mappe sommarie
delle culture della punizione analizzate nei capitoli precedenti (Kant, Hegel, Durkheim, Nietzsche),
al fine di sottolineare l’esigenza della critica abolizionista nei confronti del diritto di punire e di
essere puniti. Gli abolizionisti intendono smantellare le categorie ufficiali che mirano a conferire
nobiltà a sistema carcerario come prevenzione, incapacitazione e riabilitazione, precisando che le
loro preoccupazioni sono rivolte a questioni di natura economica, ma al contrario riportano alla
mente la diffidenza di Nietzsche nei confronti di chi sente una forte necessità di punire, che ispira
chiunque si ripromette di migliorare l’umanità. Dunque, tutti gli strumenti utilizzati dalla società per
moralizzare sono profondamente immorali.

Nel paragrafo sesto (Irrazionalità, utilità e dono) si evidenzia come la critica abolizionista si
rivolga contro il sistema sociale nel suo complesso, la sua disposizione gerarchica, la rigida
divisione del lavoro e la sua permanente produzione di merci. Hulsman stesso, desidera meno
divisione del lavoro, meno professionisti e più decentramento. Nell’analisi di Christie è lo stesso
processo economico che fa scattare il cambiamento e che mette in luce nuove forme di solidarietà,
in una sorta di movimento evolutivo che produce un aspetto sociale più vicino alle idee
abolizioniste, dunque l’autore sembra sottoscrivere le proposte di sviluppare un’economia
associativa che ruoti intorno all’erogazione di servizi che consistono in beni il cui tempo di
produzione equivale a quello del consumo che includono la presa in cura (servizi di prossimità).
L’economia del dono, assorbe il tempo del processo economico sociale, respingono le tendenze
individualistiche che dominano nelle società contemporanee. I sostenitori delle economie
associative traggono ispirazione da pensatori ortodossi come Polanyi, secondo il quale la società
civile non viene mai completamente associata nel processo economico dominante. Christie
comunque non invoca il ritorno a forme passate di scambio, ma il perfezionamento di quei legami
di solidarietà che sopravvivono nonostante l’economia. L’abolizionismo, allora, custodisce la
certezza che la nostra moralità non è soltanto di tipo commerciale.
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Il Capitolo quinto, sesto e settimo, sono dedicati all’approfondimento di tre figure: gli esponenti
maggiormente rappresentativi dell’abolizionismo penale (Hulsman, Mathisien, Christie)

Il capitolo quinto (Cristiani sociali e misericordia) espone il percorso culturale di Hulsman.


Hulsman è un autore che ha tratto ispirazione soprattutto dalla religione, e all’interno della
religione ha maturato gli spunti per elaborare la sua teoria abolizionista.

Hulsman, nasce in Olanda ed ha avuto una storia particolare, perché per il suo comportamento
ribelle i genitori lo affideranno ad una scuola religiosa molto rigida. Non abbandonerà mai la
religione ma acquisirà una mentalità critica nei confronti di un modo di intendere il cristianesimo
come qualcosa di gestito dall’uso del potere coercitivo. Per via di questa esperienza, rifiuterà l’idea
di un cristianesimo gestito da istituzioni legate al potere, avvicinandosi all’esperienze
pentecostaliche. Parteciperà alle guerre di liberazione in Spagna, e verrà imprigionato in un campo
di concentramento.
Dunque, queste esperienze di vita, porteranno Hulsman a sviluppare un senso di solidarietà verso gli
ultimi, sviluppando un sentimento di ostilità verso le istituzioni che esercitano il potere.
L’abolizionismo di Hulsman si basa comunque su una reinterpretazione della religione, che ha
forgiato in modo profondo l’autore, e che rimodellerà tale esperienza in base ai suoi obiettivi
(aiutare gli ultimi, i poveri, sviluppare una solidarietà nei confronti delle classi svantaggiate).

Nel secondo paragrafo (Forgiare la propria religione) si parla di una religione che si forma
rifiutando degli aspetti negativi, tra cui il cristianesimo, inteso come un ordine. Hulsman rifiuta
l’aspetto istituzionalizzato del cristianesimo, che gestisce un potere a volte contaminato da scopi
politici, e formato da un’alleanza tra il trono e l’altare. Dunque, si scaglia contro la corrente
giuridica della Chiesa. Il cristianesimo è costituito dall’anima profetica (Mosè) e dall’anima
istituzionalizzata, che gestisce il culto. L’autore, dunque, accetta l’anima profetica e rifiuta la
Chiesa come esercizio di potere. Scopre in età matura, attraverso una lettura diretta della Bibbia,
uno spirito diverso della religione, trova nella Bibbia tanti principi che contrastano con la chiesa
istituzionalizzata. Trova nel Vecchio Testamento, delle espressioni che raffigurano un Dio punitivo,
ma trae soprattutto dal Nuovo Testamento, dal Vangelo e dal discorso della Montagna.

Nel paragrafo terzo (la clemenza del Monarca) si fa riferimento all’aspetto criticato da Hulsman,
ovvero la congiunzione tra religione e politica. Storicamente la congiunzione è avvenuta con la
Conversione di Costantino. Secondo Hulsman, era l’interesse del potere ad emettere le leggi che
condonavano le colpe. La vera finalità era dunque di potere. Hulsman auspica una misericordia a
favore dei sudditi, che dia la possibilità di risolvere autonomamente i propri problemi e di non
dipendere dal potere politica. La misericordia dell’abolizionismo è per questo diversa dalla
misericordia del monarca. Il cristianesimo che Hulsman rifiuta è quella della croce alla spada
cristiana. Hulsman vuole un cristianesimo senza spada, vuole una religione che condanna il male
ma non il peccatore; quindi, la rabbia va incanalata contro il peccato ma mai contro il peccatore.

Degli autori cristiani viene considerato ambiguo Sant’Agostino, perché da una parte persegue
finalità spirituali, afferma la necessità del perdono, di non rispondere al male con il male, ma
quando si tratta di combattere contro gli eretici giustifica la guerra, dunque Hulsman lo critica,
preferisce di gran lunga San Francesco (meno legato alla chiesa istituzionalizzata, è il Santo che ha
vissuto una religiosità libera dagli aspetti istituzionali, una spiritualità ecologista e basata sull’amore
verso la natura, verso gli animali. Ha vissuto sempre con i poveri e considerava inutili le leggi.
Nel quarto paragrafo (Iniquità misteriosa) si fa poi riferimento a un teologo contemporaneo in cui si
trovano delle concezioni molto accreditate da Hulsman: Rahner, un grande teologo che si è
occupato di approfondire il tema della colpa nella pena cristiana.
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Rahner parte dalla tesi che il destino di ogni uomo dipende da come l’uomo esercita la libertà, e la
colpa la intende come scelta che fa l’uomo di separarsi da Dio, l’uomo può scegliere perché libero.
La punizione, che è la conseguenza di una scelta sbagliata, è un prodotto intrinseco dell’azione
dell’uomo.
C’è poi un altro autore Wiesnet, che scrive “La riconciliazione tradita” e che rilegge tutta la
concezione di Dio sostenendo la tesi che non è vero che L’antico Testamento è caratterizzato da una
visione di un Dio punitivo, e il Nuovo Testamento è caratterizzato da un Dio misericordioso, ma al
contrario, dimostra che la legge serve per dare uno strumento all’uomo per salvarsi dalla morte
incombente, e non per un potere di comando. Questo lo si vede già fin dall’inizio quando Caino
uccide Abele. Wiesnet dimostra che nella Bibbia non esiste la visione retribuzionista che punisce
chi commette il male, perché Dio risponde con un atteggiamento di condono e misericordia, per cui
non c’è alcuna differenza tra Antico e Nuovo Testamento.

Il quinto paragrafo fa riferimento alla (Teologia liberata), un filone teologico: la teologia della
liberazione, che si sviluppa nei paesi dell’America Latina, che cerca di conciliare i principi del
cristianesimo sociale con la filosofia di Marx, volto alla liberazione politica. Questa teologia
rielabora la liberazione cristiana in termini politici, una liberazione che non è da intendersi solo in
senso morale e spirituale, ma intende proiettarsi anche nell’ambito sociale (uomini sottoposti alla
schiavitù politica). Poiché l’abolizionismo ha una vena anarchica, questa teoria è molto congeniale
alle finalità dell’abolizionismo penale. Si fa poi riferimento a Tolstoj, che nel romanzo
“Resurrezione” lancia una critica durissima alle istituzioni punitive del suo tempo. Tolstoj è il padre
della non violenza –Ghandi, protagonista della lotta di liberazione dell’India è figlio delle
teorizzazioni di Tolstoj—afferma che la società è molto più colpevole della presenza della violenza
di coloro che commettono azioni criminali. Nel Romanzo, afferma di aver conosciuto molte
categorie di detenuti, ma nessuna di queste era meritevole di scontare la pena in carcere, perché dei
delitti commessi dai detenuti, la responsabilità apparteneva a coloro che esercitavano le funzioni
punitive. Quindi queste idee, la non violenza e la critica alle istituzioni carcerarie/penitenziarie, è
molto accreditato dagli abolizionisti, che attingono molto da questo autore. In Tolstoj è presente
l’idea che le leggi corrispondono agli interessi delle classi dominanti, sono concepite in funzione
degli interessi di chi governa, che esercita queste norme attraverso la violenza organizzata. (Leggere
il brano a p.49)

Il sesto paragrafo (La pietas), fa riferimento ad un altro autore Victor Hugo, autore de “I
Miserabili”: capolavoro che non ha solo un pregio letterario, che insegna a riflettere sui valori
fondamentali della vita. Hugo ne “I Miserabili”, afferma l’idea che al male che viene commesso
bisogna rispondere con il bene. Questo lo possiamo constatare nel protagonista, delinquente che
cambia vita, a seguito di un episodio: viene ospitato nella casa di un Vescovo, mentre fuggiva. Ruba
tutta l’argenteria della canonica, e viene scoperto dal Vescovo che di tutta risposta gli dona
l’argenteria.
Questa esperienza cambierà la vita del galeotto che subirà un processo di conversione.
Dunque, ciò che ha cambiato la vita al galeotto è stato il gesto di perdono e misericordia.
Hugo ci insegna che la vita delle persone cambia più attraverso gesti di misericordia che con la
punizione. Alla fine del romanzo Rousseau parla di due tipi di persone:

> Gli egoisti, che si sentono superiori agli altri ed emarginano i sofferenti
> I miserabili, coloro che appartengono alla categoria degli ultimi, e coloro che patiscono per
colpe che sono collettive.

E bene, la simpatia di Victor Hugo, va per i miserabili e non per gli egoisti.
Infine, si fa riferimento, ad un'altra opera di Hugo, in qui viene affermata la stessa tesi tramite un
dialogo tra un uomo e l’eremita, che sottolinea come l’uso della legge punitiva non serve a niente ed
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è meglio rispondere al male con il bene. La soluzione dei problemi sta nel cambiamento delle
condizioni sociali. Quando si riuscirà a cambiare le condizioni sociali e al posto del carcere, si
costruiranno luoghi della cura allora il problema della colpa e della pena si potrà avviare a
soluzioni.
In conclusione, tutti questi autori citati, sono stati utilizzati da Hulsman per fabbricarsi una religione
personale, basata sul rifiuto del cristianesimo ridotto a esercizio del potere, e a una valorizzazione
del cristianesimo come discorso di apertura nei confronti delle classi più umili. Hulsman, si è creato
una religione personale in questo modo per alimentare le sue concezioni dell’abolizionismo penale.
Dunque, in questo capitolo vediamo come la religione ha modellato e influito sulla concezione di
uno dei massimi esponenti dell’abolizionismo penale.
Vedremo come le concezioni dei prossimi autori saranno diverse.

Il Capitolo sesto si apre con la raffigurazione di Thomas Matheisen, sociologo del diritto. In
gioventù aveva la vocazione a fare il pianista, ma non aveva tutti i requisiti allora si dedica agli
studi di giurisprudenza. Si appassiona della sociologia del diritto e diventa ricercatore a Oslo, dove
ha porta avanti attività di ricerca. La ricerca teorica in lui si è sempre congiunta in una finalità
pratica. La corrente di pensiero che influisce maggiormente nella sua formazione culturale è quella
del marxismo. Prende dal marxismo le idee che gli sembrano giuste e attinge anche ad altri filoni
culturali. Usa le teorie come una scatola degli attrezzi, usa tutto quello che gli è utile per portare
avanti il suo discorso teso all’affermazione della sua concezione abolizionista. La sua formazione è
caratterizzata dall’eclettismo (Marx, Parsons, Merton, Mills), ma nessuno di questi ha un’influenza
decisiva su di lui. Prende qualcosa da ognuno e fa una sintesi eclettica di contributi letterari che
derivano dai vari autori.

Nel primo paragrafo (Il giudice e l’ufficiale giudiziario) notiamo come l’interesse di Matheisen
si focalizzi sui mutati rapporti di forza nella società, che lentamente abbandonano la produzione
industriale di massa, ma anche su quelle forme di contropotere dal basso che possono generare
cambiamento ed emancipazione
Dedica molto impegno nello studio di come viene gestito il potere nella società. Vede la società
come il luogo dove avvengono scontri tra potere: classe dominante e classi subalterna (gestisce un
potere che può portare all’emancipazione). Mathiesen parteciperà poi alle attività di un gruppo di
pressione chiamato KROM, un’associazione che lotta per i diritti dei detenuti, per cambiare le
organizzazioni delle carceri e per l’abolizione del sistema carcerario. L’analisi di Marx non gli
basta, ci aggiunge qualcosa di personale. Individua in Marx anche una lacuna: Marx dà molta
importanza alla classe degli operai (classe proletaria) e non ai gruppi improduttivi (emarginati, gli
ultimi). Gli operai sono salariati e Marx si occupa solo di questi. Gli improduttivi non entrano nel
ciclo della produzione nel sistema capitalistico e quindi stanno ai margini della società, secondo
Mathiesen non devono essere considerati come un peso morto, ma devono essere valorizzate
affinché da questo ceto improduttivo possa nascere un’iniziativa di cambiamento della società. La
società nei confronti di questo ceto, li criminalizza e li imprigiona. Non li tiene nelle fabbriche.
Sono quelli che riempiono le prigioni.

Questo darà l’occasione a Mathiesen per svolgere una riflessione sul sistema carcerario.
Le funzioni del carcere sono infatti:
1. Funzione espurgatoria (rinchiudendo queste persone improduttive elimina le scorie della
società in quanto non sono funzionali al sistema secondo il modo di produzione capitalistico
e neanche al progetto di rivoluzione di Marx).
2. Funzione di svuotamento: queste persone improduttive vengono private della possibilità di
organizzare un’azione collettiva (vengono annullate).

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3. Funzione di distorsione: sposta l’attenzione sul problema dell’eliminazione di queste
persone e l’attenzione non viene portata sui problemi molto più seri legati alle ingiustizie
commesse dalla classe dominante.
4. Funzione simbolica: stigmatizzare queste persone perché possano essere viste come persone
non normali e quindi da eliminare.

Inoltre, riprende da Engels il concetto di economia politica che:


> esclude i non lavoratori, gli inattivi, gli improduttivi.
> mercifica gli operai (vengono ridotti a oggetto di compravendita) = gli improduttivi vengono
trattati peggio degli operai.

Tra le altre idee che Mathiesen riprende da Marx ed Engels, troviamo poi la distinzione tra
criminalità dei potenti e criminalità dei deboli:
> Criminalità dei potenti: legata allo sfruttamento del lavoro. I potenti perseguono i loro
interessi di classe e commettono dei crimini che si risolvono nello sfruttamento del lavoro
operaio. I commercianti e gli imprenditori rubano il salario agli operai e li sfruttano.
> La criminalità dei deboli: è una reazione nei confronti della criminalità dei potenti.
Commettono dei crimini per reazione alle ingiustizie subite (= nella società capitalistica il
comportamento della classe dominante è considerato legittimo, viene considerato criminale,
invece, il comportamento criminale che riscontriamo nella classe subalterna, una distorsione
dell’economia capitalistica.

Funzione delle leggi nella società. Le leggi per Marx sono espressione degli interessi della classe
dominante. La legge è uno strumento del dominio di classe, come lo Stato. Marx afferma che
quando ci sarà una rivoluzione per arrivare a una società senza classi anche il diritto e lo Stato
saranno destinati ad estinguersi (anche il diritto penale si estinguerà). Dunque, Mathiesen fa sua
l’analisi di Marx.
Unione di teoria e prassi. Marx interessava trasformare la società eliminando le ingiustizie sociali.
Tutte le sue teorie (analisi della società, modo di produzione borghese, i concetti di struttura e
sovrastruttura) sono funzionali alla trasformazione della società (pratica). Basta con la semplice
comprensione teorica è giunta l’ora di trasformare. La teoria era in funzione della prassi. La
conoscenza in funzione del cambiamento. Mathisen critica i sociologi che si limitano solo a
descrivere la realtà, a lui piace una sociologia che vuole anche trasformare la realtà.

Nel secondo paragrafo (Il non finito e la ricerca azione)


Mathiesen elabora la “Strategia del non finito”, infatti, quando si elabora un progetto di
cambiamento della realtà, occorre arrestarsi al non finito. Elaborare degli abbozzi di cambiamento,
ma non dei progetti completi, finiti. Nella misura in cui il progetto viene elaborato in modo
completo allora tutto si arresta: il potere dominante ingloba il progetto, lo integra nel sistema e lo
neutralizza. E questo progetto non produce nessun cambiamento reale.
Dunque, l’abolizionismo vuole un rovesciamento del vecchio sistema, così Mathiesen ritiene che
l’esperienza fatta nel gruppo di pressione gli abbia insegnato molto. I rappresentanti istituzionali
volevano capire se quest’associazione servisse a perseguire un cambiamento parziale o se aveva
intenti rivoluzionari. Mathiesen ha fatto in modo che la risposta non fosse mai stata chiara: se i
rappresentanti istituzionali avessero inquadrato la natura di questa associazione l’avrebbero
neutralizzata impedendo qualsiasi tentativo di cambiamento. Secondo Mathiesen nelle strategie di
cambiamento devono esserci degli obiettivi di lungo termine (la prospettiva di arrivare
all’abolizione del sistema penale) e degli obiettivi di breve termine (piccoli tentativi di
cambiamento ripetuti nel tempo).

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Inoltre, Mathiesen non concepisce una ricerca che non si trasformi anche in azione. Concetto
ripreso da Marx. Sostiene una ricerca che produce dei cambiamenti concreti. Fare una ricerca solo
teorica significa fare un’attività improduttiva, bisogna conoscere per agire.
Secondo lui la metodologia della ricerca non deve essere neutrale nei confronti dei valori, quando la
scienza si propone di rimanere neutrale anche la scienza fa una scelta di valore (valore della
neutralità).

Nel terzo paragrafo (La linea abolizionista) la linea è un obiettivo a lunga scadenza.
L’abolizionismo è una linea, rappresenta la capacità di saper dire di no. Questo non vuol dire che il
no porterà delle conseguenze pratiche immediate. La linea è l’obiettivo a lunga scadenza, significa
che l’obiettivo è un NO alle carceri. Proporsi questo obiettivo come un obiettivo a breve termine
vuol dire ottenere subito un fallimento.
Punta ad alimentare una linea abolizionista attraverso tante piccole azioni di impegno e
cambiamento operate nel presente. La linea è l’obiettivo finale che deve ispirare tante azioni di
trasformazione compiute nel presente. Dunque, l’ostacolo più grande al raggiungimento
dell’obiettivo è il fatto che il sistema reagisce a questi tentativi di cambiamento della realtà: il
sistema fa in modo che le questioni scottanti siano ridotte al silenzio, il “silenzio politico”.
Il potere dominante ha la capacità di intercettare questi tentativi di cambiamento riconducendoli ai
suoi schemi e riducendoli al silenzio. Lo Stato sta perdendo il controllo della situazione, non
controlla più alcuni settori dell’ordinamento giuridico perché si sta stabilendo una sorveglianza a
livello globale. Così, Mathiesen propone di creare un’arena pubblica alternativa, una rete di
comunicazione tra le persone che possa sfuggire a questo controllo globale che si è affermato nella
realtà. In quest’arena dovrebbero trovare la loro voce gli intellettuali, gente comune, movimenti
(tutte persone che vogliono il cambiamento).

Nel paragrafo quarto (Legge e conflitto), si identificano due filoni del pensiero sociologico.

1. Teorie sociologiche consensuali: la società fondamentalmente è un sistema ben ordinato,


coeso. La coesione è data dal fatto che nel sistema sociale ci sono dei valori e credenze
condivise da tutti. Hanno una valenza politica conservatrice.
2. Teorie sociologiche conflittuali: nell’analizzare la società mettono in evidenza che ciò che
caratterizza il sistema della società non è il consenso su determinati valori, ma è il conflitto.
Conflitti tra gruppi, associazioni, classi ceti che lottano tra di loro per acquisire maggiore
ricchezza e potere. Lottano per l’affermazione dei loro interessi.
Mathiesen aderisce alle teorie sociologiche conflittuali in quanto hanno valenza politica orientata
alla riforma, cambiamento e rivoluzione, ma il conflitto viene interpretato in:

> Dimensione individuale della teoria liberale: conflitti tra individui


Sono gli individui in conflitto, si fa riferimento allo Stato di natura di Hobbes dove ogni
individuo è in conflitto con gli altri. La legge per i liberali ha una funzione positiva che
permette di uscire dal conflitto. Ma all’analisi liberale sfuggono le ingiustizie dovute ai
conflitti di classe
> Tradizione Marxista: il conflitto è tra gruppi che lottano per il potere.

Mathiesen prende in esame anche alcuni elementi che si svolgono nella sociologia radicale: corrente
che si sviluppa negli anni 60’-70’ del secolo scorso che riprende le tematiche del marxismo
riaggiornandole, svolge delle considerazioni anche in ambito di devianza e criminalità.
All’interno della criminologia radicale i devianti vengono visti come delle persone che
disobbedendo alle leggi cercano un’alternativa al sistema dominante.
Vengono visti come dei rivoluzionari, infatti, la volontà di cambiamento la esprimono
disobbedendo alle leggi dello Stato (non dovrebbero essere considerati come devianti).
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Gli esponenti di questa sociologia radicale pensano che i criminali abbiano una coscienza falsa (non
hanno una visione esatta della realtà), ma bisogna far in modo che queste persone sostituiscano il
loro modo di vedere (che è falso) con una visione più corretta della realtà e dell’esigenza di
trasformazione. Questo atteggiamento a Mathiesen sembra troppo paternalistico.
L’impegno di Mathiesen non mira a portare una vera coscienza tra i detenuti, per cui la ricerca e il
cambiamento devono coinvolgere tutti.
Dunque, Mathiesen attinge dalla formazione Marxista, in particolare si riferisce alla concezione
marxista che afferma che le leggi non sono imparziali, perché collocate all’interno della lotta di
classe, assumono una lotta di parte. L’altra idea dominante è la stretta connessione tra teoria e
prassi, nel momento in cui si mette a punto l’analisi teorica della società, questa deve servire alla
trasformazione pratica. La ricerca non deve essere mai astratta, ma volta allo studio di diritti e del
benessere della collettività.

Nel Capitolo sette (Aiuto reciproco e cordialità) dobbiamo designare il retroterra culturale della
terza figura presente nell’abolizionismo. Christie è norvegese, me se Hulsman attinge soprattutto al
pensiero religioso cristiana, e Mathiesen al pensiero Marxista, Christie si rifà alla tradizione
anarchico libertaria. Gli autori che influenzano maggiormente il suo pensiero saranno.
N. Christie è un norvegese, vivrà da vicino l’esperienza dei campi di concentramento dove veniva
rinchiusi nemici del nazismo dei paesi vicini. Avrà un’esperienza diretta dei campi e dopo la guerra,
riterrà che i crimini per lo più sono frutto di particolari condizioni sociali e non tanto di colpe
attribuibili ad una responsabilità personale. Secondo Christie occorrerebbe dunque più capacità
autonoma dei cittadini per risolvere i propri problemi. Dicevamo che attinge molto al pensiero di
autori anarchici, tanto che finisce per condividerne alcuni pensieri. Kropotkin è colui che ha più
influenza su di lui.

Nel paragrafo primo (Legge e autorità) viene esposta la posizione di questo anarchico da cui
Christie è particolarmente influenzato. Kropotkin sostiene la tesi che le troppe leggi sono un male,
poiché sono frutto di ignoranza e di disordine mentale. Qui gli anarchici riprendono alcune idee
marxiste, sostenendo che le leggi sono formulate per creare dei crimini.
Distingue le leggi in tre categorie:
> Leggi per difendere la proprietà, (visione marxista, che vede le leggi formulate solo per gli
interessi della classe dominante. È la categoria più numerosa, perché la classe dominante è
costituita dai possidenti)
> Leggi per difendere i governi
> Leggi per difendere le persone (appare come categoria di leggi che aspirano alla tutela, ma i
delitti contro la persona sono spesso dovuti a questioni economiche, dunque sono leggi che
alla base pongono il problema dell’ingiustizia sociale, dovuta alla disuguaglianza. Quindi
anche queste leggi possiedono quella funzione repressiva di tutte le leggi).

Una delle tesi fortemente sostenute dagli anarchici è proprio l’abolizione della proprietà, perché
solo attraverso questo modello i delitti scomparirebbero. Dunque, l’idea sulla legge sostenuta dal
pensiero anarchico e da Christie è la seguente: “le leggi favoriscono la corruzione e impediscono la
ricerca di soluzioni alternative basate sulla solidarietà e sull’aiuto reciproco alla persone” generano
autoritarismo. Le leggi perpetuano l’ingiustizia, creano autoritarismo, corruzione e soprattutto
impediscono che le persone cerchino soluzioni alternative ai problemi sociali.

Nel paragrafo secondo (Società coese), Christie discute sulla solidarietà e sulla cooperazione.
Infatti, una delle idee affermate nella corrente anarchica e che Christie sostiene è che nella società
bisognerebbe favorire soprattutto il senso collettivo della giustizia, e le forme di cooperazione, non
di coercizione. Bisognerebbe sviluppare la giustizia comunitaria. Alla base di questo pensiero vi è la

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convinzione che gli uomini hanno la tendenza a sviluppare forme di solidarietà e di cooperazione,
per cui se non vengono oppressi dalle legge che impongono loro comportamenti diversi e che li
indirizzano verso altri tipi di condotte, sono portati a collaborare e a sviluppare un senso comune di
giustizia, che potrebbero dar vita a forme di collaborazione, svilupperebbero dei costumi, dunque un
diritto consuetudinario, diverso da quello coercitivo dello stato, improntato sull’aiuto reciproco e
sulla collaborazione. Se si determinassero dei conflitti, non sarebbero dunque risolti dallo stato, ma
sarebbero una proprietà degli individui che li generano e a loro toccherebbe l’autonomia di
risolverli.
Quindi cooperazione, aiuto reciproco, prevalenza della norma consuetudinaria sulle norme scritte
statali, sono le idee su cui fondare una società diversa, e secondo il Christie proprio su questi valori
si basavano le società antiche. Solo successivamente sono intervenute le imposizioni statuali e le
leggi governative. Kropotkin arriva ad affermare “basta leggi, basta giudici, libertà e pratica sono le
sole barriere che si oppongono” (p.192) la società non ha dunque bisogno di giudici, perché si può
organizzare sulla base dell’uguaglianza e della simpatia umana, perché attraverso questi valori si
possono superare e risolvere gli istinti antisociali di alcuni di noi.
(Riflessione di Cascavilla: il pensiero anarchico sfocia in una visione utopica, in realtà attraverso il
valore dell’uguaglianza, si sottovaluta il male. Pensate alla Rivoluzione Francese -Libertà,
eguaglianza, e fraternità- sfociata nel terrore; dunque, gli stessi autori che sono partiti da questi
ideali hanno creato una società basata sul terrore. Il pensiero anarchico suggerisce a volte belle
intuizioni, ma bisogna fare i conti con le dure repliche della storia e della realtà, e con la profondità
del male, costituito da una radice difficile da estirpare).
Ci sono poi altri anarchici che sottopongono ad un’analisi critica il sistema carcerario, e anche
questi influenzano particolarmente Christie.

Il paragrafo terzo (Il mercato della sofferenza) si sofferma su autori anarchici che analizzano il
problema del lavoro carcerario come Emma Goldman, secondo l’autrice da una parte questo sistema
carcerario sembra mettere in atto iniziative lodevoli, forme organizzative delle carceri, ma nelle
nostre società dietro l’organizzazione di attività lavorative, si svelano sfruttamenti brutali dei
carcerari. Ci sono attività lavorative organizzate dallo Stato, mentre altre vengono organizzate da
privati, che trovano un grande vantaggio economico nel far lavorare i carcerati, ottenendo
manodopera a bassissimo costo, quindi forme di sfruttamento. “Il carcere significa denaro”, Christie
sostiene che la società prima incarcera alcune persone considerandole superflue e oziose, per poi
sfruttarle come materiale grezzo da usare nel suo apparato produttivo. La conclusione è il titolo
stesso del paragrafo

Il paragrafo quarto (Basta galere) sviluppa la tesi che le galere sono da abolire, e Christie fa suo
questo indirizzo di pensiero, perché la pena serve solo a infliggere una sofferenza ingiusta, perché
decisa da altri. Alla base di questa considerazione vi è l’idea che coloro che decidono di far soffrire
altre persone, usino dei criteri ingiusti e quindi la punizione è essa stessa un crimine, la punizione
crea la criminalità. Christie risente di alcune considerazioni che vengono svolte da esponenti del
pensiero anarchico, Molinari o Emma Goldman, oppure Giovanni Forbicini, per esempio afferma
che “Il delitto non esiste, ma è un altare innalzato dalla prepotenza e di ignoranza”. La Goldman
afferma l’idea che il crimine è generato da particolari condizioni economiche e sociali. Dunque, le
pene sono decisioni assolutamente arbitrarie, e Christie arriva a dire che il professore di diritto
penale dovrebbe essere chiamato “professore del dolore” perché infligge sofferenze ingiustificate.
Ingiustificate perché il diritto penale si basa su schemi molto semplici, agisce secondo una logica
molto semplificata, mentre la realtà da giudicare risulta complessa. Secondo il diritto penale ci sono
criminali e non criminali, innocenti o colpevoli, e quando le giudica le astrae dal contesto nel quale
vivono, andando a creare giudizi fasulli, per poter giudicare sulla colpevolezza, infatti, si
dovrebbero considerare aspetti, tra cui la rete di interazioni/ relazioni sociali. Molinari, dice che le
norme sociali sono in contraddizioni con le idee della società, dunque i ribelli sono in
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contrapposizione con la società. Viene poi contestata l’idea della pena, la sostanza della pena è la
vendetta, da rigettare; dunque, se la pena ha in sé questa logica deve essere rigettata con la vendetta
a cui è associata.
La Goldman afferma: “I cancelli delle prigioni restituiscono al mondo, una ciurma umana deforme
fatta di naufraghi senza volizione, con le speranza distrutte e tutte le inclinazioni naturali frustrate”,
qui ritorna dunque la solita critica, il carcere non ha funzione di risocializzazione, perché crea
individui che non saranno più in grado di reintegrarsi nella società, andando a creare rifiuti della
società. La soluzione proposta dagli anarchici è abolire le pene e redistribuire le ricchezze.
Colui che insiste in modo particolare sui temi della criminalità è l’italiano Pietro Gori che parte dai
temi carcerari per spostarsi su un’analisi criminologica delle tematiche legate al carcere. Afferma
anche lui che i crimini derivano dall’ineguaglianza sociale, condivide un po’l’impostazione della
scuola positiva criminologica, che pone però troppa attenzione sui singoli fatti criminali. Secondo
l’autore la maggioranza dei reati contro la proprietà e di altri crimini derivano dall’ineguaglianza
sociale, bisogna eliminarne quindi le cause, arrivando a sostenere la tesi he la società non ha il
diritto di punire e di vendicarsi.
Un altro autore è Giovanni Forbicini, scrive il libro “Abolire le carceri”. In una recensione a questo
libro Malatesta afferma che Forbicini esprime l’aspirazione verso un ordine sociale in cui assicurato
a tutti il pane, si combatterà il diritto cercandone ed eliminandone la causa e quindi eliminando le
ineguaglianze sociale si eliminerà la criminalità.
Christie ritiene che sia possibile un sistema basato su una maggiore libertà degli individui,
sfruttando le leggi permissive (che autorizzano determinati comportamenti).

Nel paragrafo cinque (Anticipazione cumulativa) si sottolinea come l’anarchismo di Christie


presenta una sorta di ottimismo secondo cui le società evolvono per stadi, per cui i problemi sociali
sono destinati a risolversi fuori dai codici imperativi delle leggi. L’ottimismo di Christie si
accompagna dunque, a una critica implicita della tradizione positivista, secondo la quale, la norma
non deve essere congruente con i principi essenziale della giustizia ma deve uniformarsi ai criteri
formali istituiti da norme superiori di riferimento. Il problema ovviamente è che le stesse concezioni
storiche di ciò che costituisce criterio superiore di giustizia variano enormemente. Nella tradizione
libertaria, infatti, la giustizia, la libertà, e la moralità esistono a priori. La natura umana, come
sottolinea Kropotkin, è animata da una tendenza spontanea a seguire il dettato della giustizia e a
stabilire cordialità sociale universale.
Dunque, la cordialità si trasforma immediatamente in umanità nell’idea di Bakunin, come se non
esistesse altra essenza negli esseri umani.
All’interno del pensiero libertario, tuttavia ci sono altri punti di vista che si avvicinano
maggiormente all’abolizionismo di Christie. Enrico Malatesta, ad esempio, non è convinto che pur
osservando i principi della legge naturale le società conseguano inevitabilmente la liberazione.
Ribellione e obbligazione, perciò, in un processo dinamico imprevedibile formano quella che lui
chiama “moralità superiore”. Questa prospettiva si avvicina a quella adottata da Pierre Joseph
Proudhon, che dichiara come la giustizia e la giurisdizione non coincidono. Al contrario la legge è
un’espressione di giustizia soltanto nelle circostanze che vedono gli esseri umani entrare in contatto
gli uni con gli altri.
Dunque, attratti dalla legge consuetudinaria, gli anarchici credono nella prevenzione del crimine e
nel trattamento fraterno dei rei, tanto che in una conversazione privata lo stesso Christie esprime il
proprio disagio nei confronti del termine “giustizia riparativa” perché presuppone delle etichette.

Nel Capitolo ottavo (Partecipazione, riconciliazione e lutto), propone una discussione sulla
comparazione del ruolo della giustizia riparativa, che rappresenta un modello diverso per risolvere i
conflitti (al quale è collegato, senza coincidere l’abolizionismo penale), e della giustizia
tradizionale. Dunque, è possibile operare delle considerazioni sulla giustizia riparativa e
sull’abolizionismo penale:
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La prima idea condivisa tra i due movimenti è che la giustizia tradizionale ha il grande difetto di
consentire un sistema giustizia che possiede dei grandi difetti cognitivi; infatti, svolge indagini per
accertare dei fatti ma non esamina i contesti (es. vissuto del reo, o scavare all’interno del problema)
La seconda grande idea condivisa sta nel rifiuto di una giustizia che sia gestita interamente dallo
stato. La parte danneggiata infatti, grazie alla giustizia tradizionale, viene individuata nello stato.

Nel primo paragrafo (Dispute partecipative) viene evidenziato come la procedura penale si basi
su una premessa fallace che ruota attorno all’idea di consenso: ci sarebbe consenso
nell’interpretazione delle norme e dei valori, D’altro canto, nei processi politici viene osservato un
modello che ruota intorno all’idea di dissenso, quando ad esempio valori radicalmente opposti
danno luogo a conflitti sociali generalizzati. Da simili situazioni possono, dunque, emergere nuovi
sistemi e nuovi ordini consensuali.
La procedura abolizionista, a sua volta, persegue un modello che si rifà all’idea di assenso, che mira
alla risoluzione dei conflitti attraverso la partecipazione delle parti coinvolte, una disputa
partecipativa.
Inoltre, secondo l’abolizionista Bianchi affinché un nuovo modello per la risoluzione dei conflitti si
distingua dai modelli in uso, si deve utilizzare un testo, in questo contesto inedito, eunomico.
Questo aggettivo è opposto ad anomico e ad alienante, che designano il sistema di giustizia
ufficiale. Il nuovo sistema sarebbe principalmente composto da una serie di norme integrative che
offrono opportunità a ciascun partecipante.

Nel secondo paragrafo (La tirannia dell’opinione pubblica) si discute sugli ostacoli
all’abolizione, tra questi, quello imposto dall’opinione pubblica. Agli abolizionisti a questo
proposito viene chiesto di esprimere idee che non suscitino risentimento nel pubblico, ma che
vengano dallo stesso ritenute ragionevoli e accettabili. In questo senso, Hulsman risponde che
l’opinione pubblica considera accettabile solo quello che le viene fatto conoscere dal sistema della
giustizia. Dunque, l’abolizionismo in questo senso si oppone al pensiero comunitario
contemporaneo, che apprezza l’omogeneità dei valori, li considera beni sociali. Per cui la proposta
utopistica di Mathiesen, compresa la battaglia culturale che accompagna l’abolizione graduale del
carcere, parte dalla premessa che la tirannia dell’opinione pubblica sul pensiero minoritario sia un
ostacolo alla strategia abolizionista.

Nel paragrafo terzo (Conoscenza, prossimità e dialogo) si fa notare come il crimine rappresenti
un atto comunicativo, perché incarna un messaggio verso la società, verso la vittima o esprime un
disagio. E poiché rappresenta un atto comunicativo si deve trattare in quanto tale. Dunque, il
dialogo incoraggiato dalla prossimità è la strategia principale seguita dagli abolizionisti, con
l’obiettivo di produrre conoscenza relativa alle situazioni problematiche.

Nel quarto paragrafo (Vittime) si parla appunto di vittime, abbiamo visto come la giustizia
riparativa ha come ruolo il sostegno alle vittime. Nel processo intervengo, il PM (lo stato),
l’avvocato difensore (reo) e il giudice che emette il giudizio di condanna o di assoluzione. Le
vittime qui, nel processo tradizionale non ha nessun ruolo, ed è per questo che nasce la giustizia
riparativa, per dare la possibilità alla vittima di poter manifestare i propri bisogni. Ora per dare
visibilità alla vittima, nasce una branca dalla criminologia che è la vittimologia, così in questo
paragrafo dedicato alle vittime viene riportato il giudizio di alcuni autori dell’abolizionismo,
soprattutto Mathiesen che mettono in guardia da un possibile rischio.
La vittimologia, infatti, che ha riscosso un grande seguito, finisce per strumentalizzare le vittime,
per altri scopi. Sono gli esperti, i vittimologi, che stabiliscono come deve essere definita la vittima e
come deve partecipare ai processi di giustizia riparativa, dunque, tutto questo non è frutto di una
partecipazione diretta della vittima ma è stabilita da esperti esterni.

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“Le vittime possono essere vittimizzate dalla vittimologia ufficiale”, possono diventare vittime
degli stereotipi che vengono loro imposti. Lo status della vittima, infatti, viene stabilito da persone
estranee; dunque, la definizione di vittima e le sue prerogative vengono fissate da persone estranee
alle vittime che possono perseguire interessi diversi
Critica degli abolizionisti:
Mentre l’abolizionismo vuole un’attenzione concreta alle vittime, la vittimologia non permette alle
vittime di agire in autonomia. Se si lascia alle vittime questa autonomia, allora la giustizia può
portare un vantaggio anche ai rei, perché sicuramente questo incontro può portare all’interno della
giustizia tradizionale stessa, un’essenza di umanità che essa non possiede.

Nel quinto paragrafo (Emendarsi), si parla della giustizia riparativa come una forma di giustizia
che vuole riportare gli attori e le comunità alle condizioni antecedenti al conflitto. Alcuni esponenti
dell’abolizionismo penale hanno dei dubbi proprio su questa innovazione della giustizia riparativa.
La giustizia riparativa deve essere occasione di ammenda per la comunità, ma vi sono anche delle
criticità per gli abolizionisti:

> La riluttanza delle vittime, perché presuppone che le vittime siano disponibili a partecipare a
questa modalità di risoluzione dei conflitti. A volte le vittime che hanno partecipato a
procedimenti di giustizia riparativa, hanno avuto la percezione che queste forme siano più a
vantaggio dei rei, proprio perché non sfociano in una punizione del reo, e allora si possono
formare la convinzione che solamente nella giustizia tradizionale possano trovare
un’autentica tutela. Dunque, molto spesso sono le vittime a rifiutare i metodi della giustizia
riparativa rafforzando il sistema penale tradizionale.
> Alcune pratiche della giustizia riparativa alternativa finiscono per rafforzare il processo
penale tradizionale; dunque, la mediazione deve essere operata soprattutto nelle
commissioni di comunità (gruppi di persone che conoscono le parti in causa, es. vicinato),
quindi non mediazione di agenzia, che vengono considerate in funzione del rafforzamento
della giustizia tradizionale dello stato, ma mediazione di comunità.
> L’umiliazione reintegrativa (sentimento di vergogna che può essere utilizzato in senso
positivo nelle pratiche di giustizia riparativa), esistono due tipi di vergogna: la vergogna
distruttiva, che porta alla stigmatizzazione, e la vergogna riparativa, che non ha come esito
l’etichettamento improduttivo di chi ha sbagliato, ma al contrario è una sorta di pentimento.
Gli abolizionisti però ritengano che l’umiliazione va sempre evitata, quindi non condividono
né la vergogna distruttiva né la vergogna riparativa.

> Sono contro la giustizia industrializzata che nega il principio della dipendenza tra le persone.
È quella giustizia che porta a far si che i conflitti siano gestiti dai professionisti e non dalle
parti in conflitto.

Alcuni criminologi, definiti criminologi della pace, sostengono la tesi che non bisogna suddividere
gli individui tra innocenti e colpevoli, e che non bisogna attribuire la colpa solo alla società;
dunque, questa considerazione deve portare ad un clima di tolleranza e di pace tra tutti.

Conclusione.
Infine, nel capitolo conclusivo si tirano le somme del discorso. È una conclusione interessante, che
sottolinea il perché della nascita di questo libro. L’autore, italiano, insegna nell’Università di
Londra, dove ha capacità di notare come i suoi corsi in cui si parlava del movimento abolizionista
sono stati proibiti dalle autorità accademiche. Quindi questo libro nasce per promulgare le idee
abolizioniste che gli sono state censurate. Soprattutto nell’ultimo paragrafo non potendo svolgere i

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corsi di lezione propone che l’abolizionismo diventi una sociologia pubblica, quindi che siano i
sociologi a proporre queste idee direttamente nella società civile.

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