LA PSICOLOGIA E L’INDIVIDUO.
Secondo l’individualismo il contesto sociale nel quale la persona vive, formato dalle
altre persone, può interferire o influire su di essa. Questa influenza del contesto sociale,
però, si esercita su un soggetto preesistente e in qualche modo indipendente. Scopo
dichiarato della psicologia, almeno nella sua tradizione sperimentale, è l’individuazione
delle caratteristiche degli individui nella loro forma pura, indipendente da variabili
estrinseche operanti fuori dal laboratorio, nella realtà esterna, materiale e sociale. la
psicologia sperimentale adottò la filosofia e i metodi delle scienze naturali e, seguendo
l’esempio dei primi ricercatori illuministi, si impegnò a scoprire le leggi e i meccanismi
soggiacenti agli eventi umani.
Ricerche condotte su culture diverse da quella occidentale dimostrarono però
ulteriormente come l’individualismo non fosse una caratteristica intrinseca della natura
umana ma un prodotto storico, tanto da mettere in dubbio la capacità di una psicologia
siffatta di comprendere popolazioni umane meno influenzate dalla filosofia e dalla storia
europea e nordamericana. Secondo Lalljee fuori dall’Occidente, ad esempio nella
società indiana o giapponese, per effetto di una maggiore interconnessione della vita
dei singoli, l’individuo è qualificato anzitutto dal suo ruolo e dalle sue relazioni sociali e
assai meno dalle sue caratteristiche psicologiche.
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assunti condivisi sulla situazione di interazione hanno per la possibilità che le nostre
parole siano correttamente comprese e interpretate.
Howard Baker, pioniere dello sviluppo della teoria dell’etichettamento, cercò di
capire se la devianza andasse pensata come caratteristica individuale o non invece
come prodotto di interazioni e negoziazioni sociali.
La psicologia sociale che si rifà all’opera di Mead anticipa il cognitivismo
sottolineando l’importanza degli eventi mentali per capire il nostro comportamento,
vale a dire dei pensieri e delle idee che elaboriamo in risposta a un significato. La
psicologia influenzata dal contributo di Mead pone al centro del palcoscenico
l’interazione sociale e rifiuta di considerare il comportamento dell’individuo isolato,
spogliato del suo contesto sociale e storico. Pertanto, le indagini compiute nell’ambito
della psicologia sociale ad orientamento sociologico hanno utilizzato metodi diversi
dall’esperimento di laboratorio quali l’intervista e l’osservazione partecipante nel
tentativo di accedere ai significati salienti per intendere particolari aspetti del
comportamento o di condurre l’analisi dell’interazione nel contesto naturale in cui ha
luogo.
RIEPILOGO.
Il quadro tracciato nelle pagine precedenti individua nella psicologia sociale una triplice
dicotomia tra: orientamento psicologico o sociologico, enfasi sull’individuo o sul sociale,
e origine nordamericana o europea. La psicologia sociale europea ha contribuito
all’individualizzazione della psicologia sociale mediante l’impiego del metodo
sperimentale e attraverso l’enfasi sul soggetto con la psicologia della forma e
l’interazionismo simbolico. Recenti sviluppi quali la psicologia sociale critica e il
costruttivismo sociale, pur avendo indubbie radici nella filosofia europea, sono stati
arricchiti da contributi importanti di provenienza nordamenricana. La psicologia sociale
individualistica è stata marcatamente influenzata dagli sviluppi occorsi alla psicologia
generale nell’America del nord e la possibilità di una psicologia sociale ad orientamento
più dichiaratamente sociale si è concretizzata inizialmente sotto gli auspici della
sociologia.
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LE ORIGINI SOCIALI DEL COMPORTAMENTO.
RICHIESTE SITUAZIONALI.
Il fatto che le situazioni in cui le persone si ritrovano esercitino una notevole influenza
sulla loro condotta non è sfuggito agli psicologi. Curiosamente è proprio nel contesto di
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esperimenti di laboratorio che le caratteristiche di queste richieste sono state
particolarmente studiate. Lo studio delle richieste situazionali (vedi pp 37-38) ci
permette di avanzare due considerazioni importanti sulla persona. La prima è che,
nonostante il fatto che gli esperimenti in psicologia sociale siano progettati e descritti
come se i soggetti umani che vi prendono parte si limitassero a rispondere a condizioni-
stimolo definite dal ricercatore, in realtà questi soggetti agiscono come farebbero in
qualsiasi altra situazione sociale e cioè sforzandosi di capire e di partecipare in modo
significativo. La seconda considerazione è questa: bisogna pensare all’esperimento in
psicologia sociale come a una situazione sociale, per molti aspetti identica a qualsiasi
altra in cui una persona si può trovare. Il compito dela persona è di comportarsi
adeguatamente. Considerati in questa luce, gli esperimenti psicologici non possono mai
isolare chi vi prende parte dalla contaminazione di variabili sociali, in quanto
l’esperimento stesso è una situazione sociale. se per capire, quindi, la condotta di una
persona dobbiamo necessariamente richiamarci al contesto sociale, alla culture, alle
aspettative e all’interazione, forse dobbiamo considerare questo contesto primario. In
questo caso possiamo riconoscergli un ruolo molto più importante nel determinare le
caratteristiche che associano all’identità personale. Si sostiene quindi l’impossibilità di
capire il significato della persona se non si comprende il suo radicamento
sociale.
La tesi secondo cui i fattori sociali esercitano un impatto (talvolta drammatico) su
un soggetto che preesiste ad essi, è un assioma di un’area di ricerca centrale nella
psicologia sociale del passato, quella sull’influenza sociale. quest’area di ricerca copre
un ampio spettro di fenomeni associati che spaziano dal conformismo alla compiacenza,
passando per l’obbedienza.
L’INFLUENZA SOCIALE.
Norme sociali. Attorno alla metà del Novecento, buona parte della ricerca psicosociale
si concentrò sulla questione dell’influenza sociale. Molte ricerche sull’influenza sociale si
sono incentrate sugli effetti dell’appartenenza a un gruppo e della pressione dei pari sul
comportamento e sul giudizio dei singoli membri e in particolare sugli effetti che il
giudizio della maggioranza, specie se consistente, esercita sul giudizio di singole
persone.
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Uno dei primi esperimenti condotti sull’influenza sociale si deve a Muzafer Sherif
(1935) che ricorse all’effetto autocinetico per indagare quanto accade nel momento in
cui le persone valutano gli stimoli ambigui. L’effetto autocinetico è un movimento
apparente, un illusione ottica che si produce quando osserviamo un singolo puntino
luminoso in una stanza buia (vedi pp 40-41). I risultati furono che di fronte ad uno
stimolo ambiguo, il fatto di rivolgersi alle valutazioni di altri e di utilizzarle come
termine di paragone è una tendenza logica e forse anche necessaria. A distanza di
quasi 30 anni dal suo esperimento pilota, Hood e Sherif (1962), ricorrendo ancora una
volta all’effetto autocinetico, riscontrarono che il giudizio soggettivo era influenzato
dalle valutazioni di terzi anche quando esse venivano conosciute accidentalmente. Se
così era, non si poteva parlare, a giudizio degli autori, di un effetto conseguente a una
pressione sociale (o a un’influenza normativa). Per descrivere i cassi in cui
preferiamo la valutazione di terzi alla nostra si è utilizzata l’espressione di “influenza
informativa”. Non vi è nulla di patologico o di irragionevole in questo, semmai un
aspetto altamente adattivo. Se non fossimo capaci di affidarci alle conoscenze e
all’esperienza di altri nel prendere delle decisioni, potremmo contare unicamente su un
repertorio di informazioni personali necessariamente più limitato. I soggetti
sperimentali di Sherif non si limitavano ad usare la valutazione degli altri a casaccio. Le
loro valutazioni erano coordinate in modo tale da seguire un processo non dichiarata di
negoziazione di una norma di gruppo. La costruzione della norma di gruppo era un
progetto congiunto nel quale ciascuno giocava una parte e in cui tuttavia era
impossibile considerare separatamente la particolare parte giocata da ciascuno. È un
concetto che si riferisce al livello della collettività e non a quello dell’individuo (vedi Le
Bon). L’ideologia individualista mette in cattiva luce l’adesione alle norme sociali. Il
soggetto illuminista, razionale e libero pensante, non si limita ad accettare le forme di
pensiero e di comportamento dei pari ma si costruisce un’idea personale della realtà.
Bisogna però ricordare che le norme che regolano quando, come e cosa mangiare,
come vivere in casa o come spendere il tempo libero non sono pure e semplici abitudini
non pensate mutuate da altri, ma costituiscono i quadri di riferimento attorno ai quali
possiamo costruire reti di parentela e di amicizia. Quando ci troviamo in una situazione
nuova o quando non sappiamo proprio come comportarci, le norme sociali ci vengono in
aiuto.
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L’adesione alle norme per effetto della pressione dei pari. Le ricerche sul
conformismo. Negli esperimenti di Sherif era come se i partecipanti alla ricerca si
conformassero a uno standard invece di agire indipendentemente. Sorse allora
l’interesse di scoprire se l’influenza delle valutazioni di terzi modificasse davvero la
percezione personale o semplicemente determinasse compiacenza. Poiché gli stimoli da
Sherif erano deliberatamente ambigui si pensò che non costituissero una prova
sufficientemente rigorosa della propensione degli individui a conformarsi e ad aderire
alla prospettiva degli altri. Cosa sarebbe accaduto alle persone se si fossero trovate in
una situazione in cui fossero state certe delle loro percezioni e tuttavia si fossero
trovate in disaccordo con altri partecipanti? Avrebbero mantenuto un’indipendenza di
comportamento rifiutandosi di farsi smuovere dalle loro convinzioni? Avrebbero subito
l’influenza delle valutazioni degli altri, fino al punto di farle proprie?
La famosa serie di esperimenti condotti da Solomon Asch negli anni Cinquanta
puntava a rispondere a queste domande (vedi p 43). I risultati ottenuti sembravano
legittimare il sospetto che il prendere parte a una situazione di gruppo indebolisca le
capacità valutative e di ragionamento degli individui. I partecipanti davano
l’impressione di negare l’evidenza pur di conformarsi alle valutazioni della
maggioranza. Anche senza essere minimamente obbligati o incoraggiati a farlo, senza
che dal loro giudizio dipendessero conseguenze materiali o vi fossero particolari ragioni
per essere fedeli agli altri membri del gruppo che erano dei perfetti estranei. Alcuni di
questi soggetti affermavano di aver percepito le linee proprio come i collaboratori del
ricercatore, come se la loro percezione si fosse veramente alterata. Altri, pur non
concordando in realtà con le valutazioni offerte dalla maggioranza, si erano allineati ad
esse per timore di sentirsi diversi. Diversi studi condotti tra gli anni Settanta e Ottanta
mostrarono come i livelli riscontrati di conformismo, come prevedibile, variavano a
seconda del particolare disegno sperimentale progettato e a seconda delle culture d
appartenenza dei soggetti. In altre parole il conformismo sembrava derivare da
un’ampia gamma di fattori. Qualcuno ipotizzò che i livelli di conformismo riscontrati
dalle ricerche di Asch potessero essere un prodotto dello Zeitgeist nordamericano, dello
spirito dei tempi. Erano gli anni Cinquanta, l’epoca de maccartismo quando, di fronte
alla minaccia del comunismo era importante, da buoni americani, dimostrare la propria
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solidarietà con gli altri cittadini. Studi successivi condotti negli anni Settanta e Ottanta
riscontrarono però livelli inferiori di conformismo suggerendo il possibile ruolo di fattori
di cambiamento culturali quali l’enfasi sull’indipendenza di pensiero e la critica al
conformismo. Nei diversi paesi i livelli di conformismo variavano in relazione all’enfasi
specificatamente posta da ciascuna cultura sul conformismo o invece sull’indipendenza.
Al di là dei fattori culturali, potrebbero esservi ulteriori ragioni per ritenere che i
fenomeni di conformismo non siano così lineari come sembrano. Lo studio di Perrin e
Spencer (1981)prevedeva alcune modifiche del disegno sperimentale in base alle quali
lo sperimentatore, i collaboratori e i soggetti naif venivano selezionati in un campione
non studentesco che comprendeva nativi d’America, delinquenti in libertà vigilata e
funzionari addetti alla vigilanza (vedi p. 45). La conclusione di Perrin e Spencer fu che il
conformismo si verificava quando i partecipanti avvertivano di dover pagare un costo
personale eccessivo in caso di mancata adesione alle norme della maggioranza. Anche
se collaboratori e studenti provenivano da una stessa popolazione studentesca, lo
sperimentatore era un professore universitario e gli studenti erano stati coinvolti nella
ricerca all’interno di un corso universitario. La situazione quindi era assai complessa
sotto il profilo delle aspettative, dei doveri, dello status e delle asimmetrie di potere in
gioco.
Come ha dimostrato Asch, l’effetto del conformismo si riduce drasticamente
inserendo fra i collaboratori un alleato del soggetto naif capace di offrire sostegno
morale e la rassicurazione che, indipendentemente dall’esito, non si resterà soli a
sopportare le conseguenze.
È stato talora sottolineato come in tutti gli studi condotti sul conformismo, nela
maggior parte dei casi (mediamente il 63%) i partecipanti non si conformavano affatto.
Questo dato potrebbe essere considerato segno del fatto che, normalmente, è piuttosto
difficile spingere le persone a conformarsi a un’opinioe maggioritaria diversa dalla
propria e che è proprio la nostra radicata paura del’influenza sociale che ci rende
sensibili ad essa quando si presenta.
Moscovici ha criticato l’interesse della psicologia sociale per un individuo che
funziona solo a patto di comprendere il contesto storico e sociale che lo circonda. Il suo
contributo fondamentale allo studio dell’influenza sociale è costituito da una serie di
esperimenti che, rovesciando il paradigma classico, si chiedevano quale effetto potesse
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avere sulla visione della maggioranza l’opinione del singolo individuo. Egli ha
dimostrato che anche le valutazioni di una singola persona, se restavano stabili nel
tempo, potevano essere influenti fino al punto di convincere una maggioranza
inizialmente riluttante ad aderirvi. Ciò suggerisce che, quando soppesiamo la
legittimità delle credenze di qualcuno, lo facciamo in un contesto temporale che tiene
conto di quanto sostenuto da quella persona in precedenti occasioni. Questa ipotesi
ricorda la teoria dell’attribuzione di Kelley, basata sul principio della covariazione.
Come Kelley, anche Moscovici ci ricorda che nella vita reale non effettuiamo mai le
nostre valutazioni astrattamente, senza tener conto del contesto storico. Con la sua
opera egli dimostra che la capacità dei singoli individui di resistere alle pressioni sociali
al conformismo messe in atto dalla maggioranza.
Riassumendo è possibile che la dicotomia conformismo/indipendenza non tenga.
Inoltre, l’indipendenza da una certa serie di norme e valori spesso non è altro che
conformismo verso un’altra serie di norme e valori. In questo senso, la Burr dice che si
può affermare che il nostro comportamento si riferisce sempre a quello degli altri, in un
modo o nell’altro. Le scelte personali, che comportino l’adesione o viceversa il rigetto
delle opinioni e dei modi altrui, si riferiscono sempre ad esse, e da esse sono
influenzate. In qualunque modo agiamo, la nostra condotta si rapporta sempre e
necessariamente a dei significati sociali condivisi.
OBBEDIENZA.
Gli studi sperimentali sull’obbedienza condotti da Stanley Milgram a Yale nei primi anni
Sessanta sono tra i più noti della psicologia sociale. essi erano esplicitamente rivolti a
capire quali condizioni avessero potuto determinare, durante la seconda guerra
mondiale, lo sterminio sistematico degli ebrei. Milgram affermava che certi fatti della
storia e l’osservazione della vita quotidiana suggeriscono che per molte persone
l’obbedienza possa essere una tendenza comportamentale profondamente radicata, una
sorta di impulso prepotente che sovrasta i convincimenti etici, la pietà umana e la
moralità della condotta. Il paradigma sperimentale di Milgram è noto a tutti: i
partecipanti, ignari del vero scopo della ricerca, credevano di prendere parte ad un
esperimento diretto a studiare gli effetti della punizione sull’apprendimento (vedi pp
49-50). Nei fatti la percentuale di partecipanti disposti a somministrare scosse superiori
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a 450 volt fu sorprendentemente alta. Ad esempio, Milgram riscontrò che il 65% dei
partecipanti proseguiva fino alla fine nella somministrazione delle scosse e che nessun
partecipante abbandonava il compito prima dei 300 volt. Sembra evidente che la
predisposizione all’obbedienza non potesse essere considerata espressione di un
disturbo della personalità .
I risultati di Milgram potrebbero essere legati all’impatto di numerosi fattori. I
partecipanti alla ricerca erano volontari pagati, molto motivati con tutta probabilità a
svolgere il loro ruolo fino in fondo e correttamente. Stavano prendendo parte a una
ricerca condotta in un’unità prestigiosa da personale famoso e qualificato. In successive
ricerche, Milgram ha riscontrato che, riducendo lo status percepito del luogo in cui si
svolgeva l’esperimento e dello sperimentatore, si riduceva anche la tendenza ad
obbedire. I partecipanti credevano di essere li, nessuno escluso, su base volontaria e
senza alcuna coercizione. Il ricercatore li rassicurava sul fatto che le scosse sarebbero
state dolorose ma non pericolose e potrebbero n qualche modo essersi fatti l’idea che
nessuno si sarebbe fatto male.
Le ricerche di Milgram giungevano alla scioccante conclusione che persone comuni,
non soggette a coercizioni o minacce e presumibilmente non affette da disturbi della
personalità, erano capaci di provocare sofferenza ad un’altra persona per il semplice
fatto che qualcuno in posizione autorevole diceva loro di farlo. Questa conclusione
segnalava con forza fino a che punto la moralità e la responsabilità di un individuo
potesse essere rapidamente minata dall’influenza sociale. Secondo Milgram coloro che
vivono in una società gerarchicamente organizzata oscillano nella loro condotta fra due
differenti stati: autonomo ed esecutivo. Nel primo stato, le azioni sono volontarie e
soggette ai dettami della coscienza. Nel secondo, i comportamenti personali sono messi
in atto per conto di altri e la coscienza individuale cessa di essere attiva. In questo
stato, non ci sentiamo responsabili delle nostre azioni, ma di fronte alla persona in
posizione di autorità siamo attenti a fare il nostro dovere correttamente. Lo stato
esecutivo, e l’obbedienza che esso richiede, è vitale per il funzionamento delle società
organizzate. Per Milgram, i partecipanti alle sue ricerche si trovavano a fronteggiare un
dilemma che corrispondeva a un conflitto fra un modello autonomo e un modello
esecutivo di comportamento. I partecipanti dimostravano a volte livelli estremi di ansia
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e tensione prima di risolversi a disobbedire alla consegna del ricercatore a
testimonianza del conflitto che stavano vivendo.
Uno studio di Hofling e colleghi (1994) illustra con efficacia l’obbedienza in una
situazione diversa dal laboratorio. Si tratta di una ricerca, condotta in ospedale,
sull’obbedienza delle infermiere ai medici (vedi p 53). Anche in questo caso sembrano
confermate le conclusioni di Milgram, gli ospedali sono organizzati gerarchicamente e
questa loro caratteristica potrebbe spiegare la loro capacità di funzionare
efficientemente e di fornire cure adeguate per un ampio numero di pazienti. Se il
personale in posizione inferiore nella gerarchia non obbedisse fedelmente a quello in
posizioni superiori, il sistema collasserebbe. Il dilemma delle infermiere dello studio di
Hofling e la loro decisione finale di obbedire appaiono, in questa luce, ragionevoli.
RIEPILOGO.
La psicologia sociale di orientamento psicologico ha tendenzialmente seguito nella
scelta dei metodi di indagine e nella formulazione delle ipotesi un’unica direzione, fra
due possibili alternative. La prima direzione implica un ritorno ad un individuo
autoreferenziato e a spiegazioni che restano a livello della psiche individuale. La
seconda direzione ha comportato l’adesione ad un paradigma essenzialmente
comportamentista e sperimentale in cui le variabili presenti nella situazione sociale
sono ritenute causa di effetti sulla condotta, con o senza la mediazione di eventi
cognitivi intervenienti quali i pensieri e le credenze. Entrambi questi approcci
presuppongono la preesistenza dell’individuo autoreferenziato e razionale. Tuttavia,
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bisogna tener presente che il comportamento di una persona è sempre situato n un
contesto sociale. Invece di guardare alla mente o alle caratteristiche oggettive delle
situazioni sociali per capire la persona e la condotta, in psicologia sociale possiamo
concepire la persona come un affioramento del terreno sociale in cui il paesaggio è
costituito da significati e definizioni sociali condivise attraverso processi di
negoziazione, da norme che regolano la condotta e da atteggiamenti sociali. In questa
prospettiva non c’è spazio per un individuo preesistente.
ASSUNZIONE DI RUOLO.
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Secondo l’interazionismo simbolico, quindi, sono le relazioni sociali a fornire una
base allo sviluppo della persona. Tale sviluppo dipende anche dalla nostra capacità
innata di individuare e di assegnare un significato agli eventi, interpretandoli.
L’interazione sociale umana per essere significativa implica la capacità di prevedere con
l’immaginazione gli effetti delle nostre azioni sugli altri e di agire di conseguenza.
Questa capacità implica a sua volta la possibilità di rappresentare le azioni mediante
sistemi condivisi di significato.
La nostra capacità di immaginare il significato che le nostre azioni prevedibilmente
assumeranno agli occhi degli altri e di agire in base ad esso è stata definita da Mead
con l’espressione “assumere il ruolo dell’altro”. In questa prospettiva, gli esseri
umani acquisiscono, grazie all’uso di simboli dotati di senso, la capacità di calarsi nei
panni dell’altro e di vedersi reciprocamente (e di vedere la realtà) con i loro occhi. In
una situazione data, quindi, il ruolo che assumiamo sarà sempre in funzione di quelli
assunti dagli altri. Il termine ruolo descrive pertanto la situazione sociale di ciascuno in
relazione ad altri in un dato momento. Non si riferisce insomma a status e posizioni
sociali ascritte (anche se le comprende), ma alla parte giocata in una data situazione.
Questa accezione arricchisce il concetto di ruolo come status sociale sottolineando la
reciprocità dei ruoli. Così inteso il ruolo comporta la capacità di vedere se stessi con gli
occhi di altri. Assumere un ruolo non significa semplicemente conoscere le aspettative
di comportamento ad esso associate ma comporta anche la capacità di valutare come
esso si incastra con quello di altri nella situazione sociale attuale. Assumere il ruolo
dell’altro ci permette di avere un’interazione sociale significativa di qualsiasi tipo, dal
litigio alla partita di tennis. In tutti i casi l’interazione presuppone la capacità di
prevedere il significato che la nostra condotta assumerà per il nostro interlocutore.
L’interazionismo simbolico individua nella capacità di assumere un ruolo il nucleo
della personalità e propone un concetto di ruolo che implica sempre la presenza di
almeno due persone. Il ruolo di padre non ha senso se no in riferimento a quello di
bambino. Diventa un modello di comportamento soltanto in rapporto al modello di
comportamento di un bambino.
I ruoli che adottiamo e l’identità di questi sono pertanto fragili, dipendono dalla
disponibilità degli altri a rappresentare le parti loro assegnate. In qualche misura,
quindi, i ruoli e l’identità sono il frutto di un processo di negoziazione sociale. Il
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concetto di negoziazione porta con sé la possibilità di adottare nell’interazione ruoli in
parte flessibili. La tesi fondamentale dell’interazionismo simbolico è che le persone
“hanno la capacità di comprendere la struttura delle situazioni”. Se la struttura delle
situazioni non è chiara, se cioè non sappiamo bene come definirla e il nostro ruolo
confrontato a quello di altri ne risulta ambiguo, ci predisponiamo a creare una
struttura. Quindi, ogni situazione è un evento socialmente negoziato che non può
esistere unicamente a livello di psicologia dell’individuo. anche i ruoli non sono mai
semplicemente prescritti e successivamente giocati. L’interazionismo simbolico si
riferisce alla costruzione dei ruoli oltre che alla loro assunzione proprio per sottolineare
la fluidità e adattabilità dei ruoli giocati. Attraverso il concetto di assunzione del ruolo
l’interazione sociale viene posta al centro del modo di intendere la persona. È
l’interazione sociale, secondo l’interazionismo simbolico, a darci la mente e la
consapevolezza e la possibilità di acquisire il linguaggio e la capacità di comunicazione
reciproca. Questa prospettiva impone di rinunciare alla dicotomia individuale/sociale e
alla polarizzazione Sé/ruolo caratteristiche della psicologia sociale nella tradizione
psicologica. Il Sè cessa di essere una proprietà privata dell’individuo, collocata nelle
strutture cognitive, nel materiale genetico o nella struttura del carattere per diventare
una costruzione fragile e fuida negoziata attraverso l’interazione sociale. La dimensione
sociale diventa primaria rispetto a quella individuale nel senso che è la società (o se si
preferisce l’interazione sociale) a farci diventare persone. La nostra psicologia, da
preesistente che era, diventa contingente, legata alla situazione. La persona finisce per
coincidere con la sua manifestazione nell’ambito sociale: non vi è alcun Sé reale
annidato al di là del ruolo giocato.
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partecipanti condividono l’imbarazzo (certamente la più sociale delle emozioni) perchè il
loro ruolo nella situazione è diventato senza eccezioni non più percorribile.
Ci sono altre emozioni che, come l’imbarazzo, si manifestano soltanto in presenza di
altre persone o che in qualche modo implicano questa presenza. L’umiliazione e la
vergogna sono emozioni sociali, esattamente come l’imbarazzo. Non solo ma la
possibilità di distinguere tra imbarazzo, umiliazione e vergogna dipende essenzialmente
dalla specifica natura del ruolo sociale che viene infranto in una data occasione.
RIEPILOGO.
Sia che si definiscano i ruoli come posizioni prescritte che generano delle aspettative o
come posizioni assunte nell’interazione con altri, se si utilizza questo concetto per
comprendere il comportamento sociale le origini di quest’ultimo non possono più essere
ricercate nell’ambito della psicologia del singolo individuo e vanno invece poste
nell’ambito del sociale. Il ruolo è un concetto che opera a livello collettivo e non a
quello individuale. L’identificazione del Sé con il ruolo è funzionale solo se si rinuncia a
dicotomie quali realtà/illusione, superficie/profondità, individuale/sociale.
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I GRUPPI E IL SE’ SOCIALE.
I gruppi possono essere formali (come club e associazioni) o informali (come le reti
amicali e di parentela o delle sub culture). In alcuni casi l’appartenenza al gruppo è
deliberata, in altri casi dipende dal possesso di certi attributi personali, in altri ancora
dalle nostre aspirazioni. Ma il fattore comune che unisce tutte queste forme di
appartenenza e di identità è il fatto che esse sono socialmente conferite e non
scaturiscono da qualità psichiche residenti dentro di noi ma da processi sociali operanti
tra noi e le altre persone.
IDENTITA’ E GRUPPI.
Lo studi dei gruppi agli albori della psicologia sociale ruotava intorno al timore che il
contesto del gruppo o della folla potesse minare a razionalità e la moralità essenziali
dell’individuo. questo timore alla base del concetto di “mentalità di gruppo”, aveva
anche informato sé gran parte degli studi sull’influenza sociale. La tesi secondo la
quale l’appartenenza alla folla rende anonimi e comporta una erdita di identità ha
continuato ad influenzare gli psicologi , ad esempio Zimbardo con il suo concetto di
deindividuazione.
L’enfasi sugli esiti negativi dell’appartenenza al gruppo può però portare a
fraintendimenti. La folla, lungi dal condurci necessariamente a una condizione di perdita
della nostra identità e di anonimato, potrebbe fornire a chi entra a farne parte un forte
senso di identità. Qualunque cosa possa essere accaduta, la solidarietà che si viene a
creare fra i membri della folla se è presente uno scopo o un obiettivo comune sembra
contribuire a un rafforzamento anziché a una riduzione di aspetti salienti della nostra
identità.
I GRUPPI MINIMI. Sherif riteneva che l’ostilità intergruppi derivasse dalla presenza
di un conflitto di interessi fra i gruppi. Questo modo di vedere le cose è stato messo in
discussione fra gli anni Settanta ed Ottanta, in particolare dalla teoria dell’identità
sociale di Henri Tajfel. La psicologia sociale di questo autore, di ispirazione europea più
che nordamericana, incoraggiò lo sviluppo di un orientamento meno individualistico
nella disciplina. Al centro degli interessi di Tajfel vi fu il gruppo inteso come luogo di
origine dell’identità sociale. Tra il finire degli anni Sessanta e il successivo decennio,
Tajfel si dedicò allo studio delle origini del conflitto intergruppo attraverso un
paradigma sperimentale conosciuto come gruppo minimo (minimal group).
Utilizzando questo paradigma, egli dimostrò che la semplice assegnazione ad un
gruppo, per quanto privo esso possa essere di caratteristiche identificabili e anche in
assenza di relazioni dirette con altri membri del gruppo, è di per sè sufficiente a
orientare il giudizio del singolo membro a favore di altri membri del gruppo e contro i
non appartenenti al gruppo (vedi p 90).
LA TEORIA DELL’IDENTITA’ SOCIALE. secondo Tajfel la ragione per cui siamo così
disposti ad assumere la posizione di membri di un gruppo, per quanto fragile possa
essere, e a favorire il gruppo di appartenenza rispetto al gruppo o ai gruppi esterni è
che l’appartenenza al gruppo è vitale per la nostra autostima. Nella misura in cui il
senso di sé e l’identità derivano dai gruppi di appartenenza, la possibilità di
massimizzare lo status, il prestigio e il successo dei gruppi con cui ci identifichiamo non
può che farci sentire bene con noi stessi. La teoria dell’identità sociale sottolinea la
presenza di tre processi fondamentali: la categorizzazione, l’identità e il confronto
sociale. Secondo Tajfel la categorizzazione è una capacità umana fondamentale, un
aspetto della natura umana. Siamo predisposti a ordinare e a strutturare in categorie
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le nostre percezioni della realtà (mondo sociale incluso). Benchè le categorie che
utilizziamo per strutturare il nostro mondo siano un’invenzione umana, esse non
variano da persona a persona o da generazione a generazione, ma vengono ereditate
attraverso la cultura di appartenenza. Le categorie sono pertanto sociali e comuni. Per
esserci utili, esse devono aiutarci a distinguere fra i membri della classe e i non
membri. Secondo Tajfel, quindi, saremmo predisposti ad accentuare nella percezione le
somiglianza fra i membri di una categoria e le differenze fra i membri d differenti
categorie, cos’ da rendere più nette le distinzioni fra membri di una classe e non
membri. Finiamo quindi per considerare noi stessi come più simili ai membri delle
categorie alle quali apparteniamo e differenti dai membri di altre categorie. Il processo
di accentuazione descritto spiega la nostra tendenza a valutare in modo stereotipo le
persone che identifichiamo come appartenenti a un particolare gruppo.
Una volta che ci collochiamo in certi gruppi o categorie come loro membri, la nostra
identità deriva da queste fonti. La nostra identità è quindi una combinazione delle
nostre numerose appartenenze di gruppo. Non tutte le appartenenze sono importanti
per noi in uno stesso momento e situazioni diverse tendono a richiamare aspetti
diversi della nostra identità perchè rendono rilevanti (o viceversa irrilevanti)
appartenenze gruppali diverse. Alcune identità di gruppo emergono soltanto
occasionalmente e transitoriamente, in altri casi l’identità è saliente in molte relazioni e
costituisce un aspetto importante di noi, pensiamo all’appartenenza di genere o alla
nazionalità, all’appartenenza a una categoria professionale o a un gruppo religioso. È
vitale per la nostra autostima che l’identità che siamo in grado di costruire per noi
stessi sia positiva e valorizzata. Siamo quindi propensi a pensare il meglio dei gruppi e
delle categorie alle quali sentiamo di appartenere. Naturalmente, non sempre è
possibile scegliere a quali gruppi appartenere – si pensi al sesso e alla razza – è può
essere doloroso prendere le distanze da categorie che sembrano minacciare o ridurre la
nostra autostima. Ma limitarsi a riconoscere che si è parte di certi particolari gruppi
non basta a garantire la stima di sé. L’alto valore che poniamo nell’appartenenza a
certe categorie ha senso soltanto se paragonato al valore minore che annettiamo ad
altri gruppi. È quindi il confronto sociale che effettuiamo fra le qualità del nostro
gruppo e quelle del (o dei) gruppi esterni a costituire la base della nostra autostima, e
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a determinare conseguentemente la tendenza a valorizzare il proprio gruppo e a
misconoscere le qualità dei gruppi di confronto e dei loro membri.
IL SE’ RISPECCHIATO. Charles Horton Cooley nel 1902 pubblico Human Nature and
the Social Order, in cui presentava idee successivamente riprese dall’interazionismo
simbolico. Una delle idee di fondo del libro era il concetto di «looking glass self» o Sè
rispecchiato. Qui, l’autore sosteneva che i pensieri e i comportamenti che siamo soliti
pensare provenire semplicemente dal Sè e ad esso appartenenti siano sempre,
implicitamente, pensati e attenuati in riferimento ad altre persone. Il Sè rispecchiato è
una metafora di come il concetto di sè sia derivato dale nostre relazioni con altre
persone. Secondo Cooley noi immaginiamo come dobbiamo apparire agli altri, ci
rappresentiamo poi come gli altri ci valutano e infine rispondiamo coerentemente.
Possiamo cogliere la somiglianza fra questa visione e quella di Mead relativa
all’assunzione del ruolo dell’altro benché Mead vada oltre l’idea del Sé rispecchiato con
la propria teoria del processo riflessivo (dell’Io) ce ci permette di assumere un certo
controllo su chi siamo e su che cosa facciamo.
RIEPILOGO.
Con la teoria dell’identità sociale, Tajfel suggerisce che le appartenenze gruppali
rappresentino per noi un’importante fonte di autostima. La sua teoria dimostra il ruolo
esteso che i gruppi sociali esercitano nel modellamento dell’identità personale.
Distinguendosi dalla maggioranza degli psicologi sociali, Tajfel sembra vedere nei
gruppi dei fattori non soltanto di influenza ma di costruzione dell’identità.
Le tesi per cui le nostre appartenenze ai gruppi e alle culture costituiscono una base
importante se non unica del senso di sé è stata ulteriormente sviluppata
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dall’interazionismo simbolico. Sia Cooley, sia Mead sostennero l’idea che il senso del sé
derivi dalla nostra capacità di vederci con gli occhi degli altri nelle interazioni
interpersonali. La teorizzazione di Mead, in particolare, riconosce alla persona la
capacità di riflettere sulle proprie percezioni e di contribuire allo sviluppo del concetto
del sé, e ci consente di essere qualcosa di più di semplici prodotti inconsapevoli delle
percezioni altrui.
Il concetto di etichettamento, costola dell’interazionismo simbolico nelle sue tesi
fondamentali, e il concetto di profezia che si autoavvera rendono entrambi conto come
le nostre identità ci siano conferite per via sociale e per questa stessa via vengono
negoziate e mantenute. La teoria dell’etichettamento, in particolare, chiarisce in che
modo le identità sociali possano diventare parte integrante del concetto di sé.
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RAPPRESENTAZIONI E LINGUAGGIO.
LE RAPPRESENTAZIONI SOCIALI.
Moscovici definisce le rappresentazioni sociali come assunti condivisi sulla natura
del mondo e dell’essere umano che consentirebbero ai membri di una data società di
comprendere la loro esperienza, di comunicare efficacemente fra loro e di coordinare le
loro attività. Le rappresentazioni sociali, o almeno alcune di esse, possono essere
condivise da intere società e culture. Naturalmente però, non tutti i membri di una data
società condividono precisamente le stesse credenze su tutto. Questo spiega la
presenza di subculture e di gruppi ognuno con proprie rappresentazioni sociali
caratteristiche rispetto ad alcuni oggetti. Moscovici si richiama al sociologo francese
Emile Durkheim. Il suo concetto di rappresentazioni sociali, in particolare, si
richiamerebbero al concetto di RAPPRESENTAZIONI COLLETTIVE sviluppato da
Durkheim (1898). Le rappresentazioni collettive sono i miti, le leggende e i sistemi di
credenze caratteristici di una data società, fenomeni sociali reali, come tali non
pienamenti comprensibili, a parere di Durkheim, a livello dell’individuo. come
Durkheim, anche Moscovici sentiva fortemente che lo studio di questi fenomeni
spettasse alla psicologia sociale e che la tendenza di questa disciplina a pensarsi come
una scienza positiva dell’individuo avesse condotto a un vicolo cieco. Moscovici voleva
mantenere l’attenzione di Durkheim per la natura condivisa e consensuale delle
rappresentazioni. Come i miti e i sistemi di credenze delle società tradizionali, le
rappresentazioni sociali costituiscono il senso comune, gli assunti indiscussi sul mondo.
Egli voleva però sottolineare come essi fossero continuamente modellati e rimodellati
dalle persone nel corso dell’interazione sociale. Le rappresentazioni sociali, anche se
possono preesistere al nostro ingresso in una data società, sono entità plastiche,
malleabili e soggette a essere riformulate nell’uso quotidiano che gli individui ne fanno
nelle transazioni reciproche. Al contempo, però, le rappresentazioni sociali modellano
potentemente la nostra percezione del mondo e il nostro pensiero su di esso. La nostra
percezione della realtà non si fonda cioè sulle proprietà oggettive di quella ma sulle
rappresentazioni sociali.
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Tutte le interazioni umane presuppongono queste rappresentazioni giacchè ogni
interazione deve fondarsi su significati condivisi o su una definizione comune della
situazione. È anche vero però che esse sono create dalle persone nell’interazione.
Peraltro, una volta create, le rappresentazioni sembrano godere di una vita autonoma,
fondendosi con altre, assorbendone di più antiche e dando origine a nuove forme. Per
le sue reminiscenze fenomenologiche e per la sua enfasi sulla centralità dell’interazione
sociale, la teoria delle rappresentazioni sociali ricorda l’interazionismo simbolico, il
pragmatismo nordamericano e la fenomenologia europea assai più che lo struttural-
funzionalismo di Durkeim. Effettivamente, Moscovici si richiama esplicitamente a Mead,
concordando con lui sul fatto che la nostra condotta segue il significato che gli eventi
hanno per noi e questo significato proviene almeno in parte dal linguaggio comune, dai
comuni valori e dalle esperienze che condividiamo con altri membri di una società o di
un gruppo.
Ritenendo che le rappresentazioni sociali esistono – e siano pertanto studiabili –
tanto a livello sociale quanto a livello individuale, Moscovici analizza in qualche dettaglio
i processi psicologici alla base della loro trasmissione e trasformazione. In tal senso la
teoria della rappresentazione sociale può essere considerata un tentativo autentico di
sanare il dissidio fra le tradizioni psicologica e sociologica della psicologia sociale. le
rappresentazioni sociali assolvono per Moscovici ad una importante funzione
psicologica, quella di rendere familiare ciò che non lo è ancora. È ciò viene fatto
attraverso l’ancoraggio, in cui riusciamo ad ancorare eventi inconsueti confrontandoli
con casi tipici di differenti classi di eventi presenti nella nostra esperienza. Questi
prototipi sono modelli o esempi tipici di una data classe di eventi e consistono in una
serie di caratteristiche salienti. Moscovici condivide quindi la visione di Tajfel secondo
cui la categorizzazione costituisce la caratteristica di fondo della psicologia umana. Un
secondo processo che Moscovici chiama di oggettivazione, conferisce alle
rappresentazioni quel caratteristico e rassicurante aspetto di solidità che riconosciamo
loro. Quando concetti e idee nuovi cominciano a penetrare in na data cultura, hanno
necessariamente un aspetto un pò astratto e indefinito. Perchè le persone ne parlino e
vi rispondano sensatamente, esse devono assumere maggior concretezza nella loro
mente. Secondo Moscovici, questo avverrebbe mediante una semplificazione della
complessità iniziale dell’idea che viene ridotta a poche immagini facilmente
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rammentabili. Non appena l’idea ha così assunto un aspetto più semplice e concreto ,
le persone hanno modo di comnciare a parlarne fra loro. A propria volta il diffondersi
dell’idea contribuisce ad accrescerne la realtà e la solidità. L’oggettivazione, secondo le
parole di Moscovici, è quindi: la materializzazione di un’astrazione... l’arte di
trasformare una rappresentazione nella realtà della rappresentazione, la parola per una
cosa nella cosa per la parola.
Se le rappresentazioni sociali vengono assimilate ad altri concetti della psicologia
sociale vengono assimilate ad altri concetti della psicologia sociale come gli
atteggiamenti, i valori o le credenze finiscono per essere individualizzati alla stessa
stregua e finiscono per lasciare nell’ombra la dimensione essenzialmente sociale della
teoria. Moscovici sottolineò acutamente come le rappresentazioni sociali non fossero
semplicemente delle idee nella testa della gente, ma avessero implicazioni pragmatiche
a seconda del modo in cui vengono recepite ed utilizzate dai membri n posizione di
potere e di autorità e per l’influenza potenziale che hanno sul nostro modo di vivere la
vita. in questo senso il concetto di rappresentazioni sociali ricorda quello di ideologia.
La teoria delle rappresentazioni sociali è divenuta oggetto di numerose critiche. La
Burr considera lo stesso concetto di rappresentazioni sciali troppo esteso e poco
chiaramente formulato. Esso non si presta a una verifica empirica, in altri termini non è
una teoria realmente falsificabile attraverso la ricerca. La teoria è stata anche criticata
per il fatto che la natura ipoteticamente consensuale delle rappresentazioni sociali non
terrebbe conto della diversità e delle conflittualità fra le rappresentazioni correnti in una
società. Essa sembra in pratica suggerire che le persone che condividono una data
cultura pensino necessariamente alo stesso modo, cosa assolutamente falsa. Queste
critiche, però, sembrano francamente fraintendere il pensiero di Moscovici che
certamente non negava la diversità e la considerava, anzi, come uno dei fattori che
rendono dinamiche e persino mutevoli le rappresentazioni sociali. Riconoscere la
diversità non significa negare la possibilità di n consenso o di una somiglianza fra le
persone a qualche livello.
I metodi di ricerca invocati da Moscovici per studiare la trasmissione delle
rappresentazioni sociali nelle culture sono quelli dell’osservazione naturalistica piuttosto
che della sperimentazione in laboratorio. Lo scopo di queste ricerche è di mostrare e di
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esaminare la realtà per come è percepita e compresa da chi vive in essa piuttosto che
andare in cerca di una realtà oggettiva.
La persona vista attraverso le lenti della teoria delle rappresentazioni sociali, può
essere pertanto compresa unicamente nel contesto della vita sociale. Le nostre
percezioni della realtà sono mediate da rappresentazioni sociali mutevoli e
continuamente rimodellate attraverso le interazioni sociali con gli altri. Siamo pertanto
attori coinvolti nella produzione e nella riproduzione del nostro ambiente sociale e non
prodotti passivi della società. Mediante i nostri processi cognitivi di ancoraggio e di
oggettivazione imprimiamo una spinta alle rappresentazioni sociali che emergono dalle
nostre interazioni sociali. La persona si vede qui riconoscere una natura sia sociale che
psicologica.
LA PSICOLOGIA DISCORSIVA.
La teoria delle rappresentazioni sociali si è incentrata sulle idee e sulle immagini
socialmente condivise grazie alle quali percepiremmo il mondo, e sull’interazione
interpersonale che ne sarebbe alla base. Essa ha anche prestato attenzione particolare
alla componente cognitiva delle rappresentazioni ritenendo che esse fossero create e
successivamente riformulate mediante processi che coinvolgono il pensiero, la memoria
e l’immaginazione. La psicologia del discorso condivide l’interesse per l’uso di un
insieme condiviso di modi di parlare e riconosce l’importanza dell’interazione per
assumere una posizione radicalmente anticognitiva.
La psicologia discorsiva è uno sviluppo recente, essenzialmente britannico, della
psicologia sociale. l’oggetto del suo interesse può essere paradossalmente riportato alla
psicologia del linguaggio. La psicolinguistica è stata dominata, negli anni Sessanta,
dall’opera di Noam Chomsky. Rispetto alla teorizzazione comportamentista, Chomsky
riteneva che le persone possedessero strutture cognitive che permettevano loro di
cogliere intuitivamente la grammatica. Potter e Wetherell sottolineano che l’analisi di
esempi reali tratti dalla pratica quotidiana del linguaggio, con le sue esitazioni, le sue
incoerenze, l’interazione di parole e frasi e il ricorso frequente a una grammatica non
convenzionale, non supporta la teoria di Chomsky. Il linguaggio per come viene usato
comunemente nei rapporti quotidiani, è qualcosa di molto diverso dal linguaggio inteso
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come sistema di regole astratte. Il linguaggio riveste nell’uso quotidiano non perlopiù
funzioni descrittive, ma riveste una funzione esecutiva (performativa): esegue e
accompagna degli atti. Sono proprio queste conseguenze pratiche il centro
dell’interesse degli psicologi del discorso. L’etnometodologia ha dato alla psicologia
discorsiva un quadro di riferimento per studiare queste interazioni discorsive.
L’etnometodologia è etimologicamente lo studio dei metodi usati dalle persone per
produrre e comprendere la loro esistenza sociale. Invece di cercare di astrarre le regole
che sembrano soggiacere alla vita sociale, gli etnometodologi sono prettamente
interessati a come le persone le mettono in pratica. Per gli etnometodologi, le persone
non sono dei meri esecutori passivi delle regole ma imprenditori sociali altamente
competenti in grado quindi di richiamarsi creativamente alle regole per proprie finalità
nel corso di interazioni sociali specifiche. In un’ottica simile, gli psicologi del discorso
sono interessati al modo in cui le persone costruiscono una spiegazione di sé e degli
eventi ai quali prendono parte e alla cura particolare con cui queste spiegazioni sono
escogitate per finalità particolari. Infine, la semiologia (lo studio del modo in cui i segni
e i simboli sono utilizzati nella comunicazione umana) ha contribuito a creare un
interesse per la natura contestuale del significato. Il significato di una frase non risiede
nelle parole di cui essa è composta. Per intendere questo significato abbiamo bisogno di
sapere qualcosa di chi l’ha pronunciata, di cloro a cui è diretta, del motivo per cui era
loro diretta e forse anche dei precedenti, almeno quelli immediati, di quella particolare
interazione. Non soltanto, ma il significato di una frase può risiedere in ciò che non
viene detto in pari misura rispetto a ciò che viene esplicitato. Per comprendere
un’interazione occorrerà quindi contestualizzarla e badare agli elementi mancanti oltre
a quelli in vista.
La psicologia del discorso è interessata allo studio delle prassi linguistiche
quotidiane, dei modi con cui impieghiamo le risorse a nostra disposizione per far si che
gli eventi prendano una piega desiderata. Se le cose che diciamo diventano degli atti
sociali governati dai requisiti momentanei imposti dall’interazione, non possono essere
la semplice espressione di stati psichici interni. Le differenze interculturali nel grado e
nella modalità di espressione della rabbia suggeriscono ulteriormente il fatto che
l’espressione linguistica non è mai il semplice prodotto di una condizione psichica
interna. Quindi, l’espressione della rabbia non è tanto uno sfogo emotivo quanto una
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modalità normativa e culturalmente regolata di gestione e di attuazione del sistema di
diritti e di obblighi, del codice morale vigente nella nostra società.
Analogo discorso vale per le funzioni cognitive quali la memoria. Gran parte del
lavoro della memoria che le persone compiono quando si chiede loro di fornire un
resoconto accurato di un evento consiste nel creare una «versione accettabile, concorde
o efficace sul piano comunicativo di quanto realmente accaduto».
Possiamo cominciare a vedere come la psicologia discorsiva si distingua
radicalmente dalla psicologia tradizionale nordamericana. Quest’ultima si è dedicata allo
studio delle condizioni interne della persona (cognizioni, emozioni, atteggiamenti,
credenze, motivazioni o altro), ritenendo che esse fossero la causa delle cose che
facciamo e diciamo. Nella misura in cui la psicologia tradizionale ha preso sul serio dati
qualitativi di provenienza linguistica (quali le trascrizioni di colloqui e interviste) li ha
generalmente considerati prova dell’esistenza di strutture e di stati interiori nella
persona (quali ricordi) e contemporaneamente via di accesso ad essi. La psicologia del
discorso non si limita a riformulare il ruolo del linguaggio in psicologia ma considera in
qualche modo irrilevanti gli oggetti consueti di quest’ultima, quali gli stati e le strutture
mentali. Inoltre, grazie al suo metodo elettivo di studio (l’analisi del discorso) si
dedica esplicitamente allo studio di esempi reali di utilizzo del linguaggio in un contesto,
puntando a identificare le forme argomentative e gli artifizi teorici utilizzati dai
partecipanti all’interazione.
Il linguaggio è senza dubbio un fenomeno intrinsecamente sociale consentendo ai
membri di una data società e cultura di interagire e comunicare fra loro. Il linguaggio,
secondo la psicologia discorsiva, sarebbe una risorsa socialmente disponibile. Nella
misura in cui condividiamo un certo stock di strumenti linguistici possiamo badare al
nostro compito di costruire delle argomentazioni coerenti con il nostro attuale scopo.
Questo stock comune di strumenti retorici e di rappresentazioni è stato denominato
«repertorio interpretativo»; in cui ci s riferisce a raggruppamenti di termini, descrizioni
e figure linguistiche complessivamente identificabili che ruotano spesso attorno a
metafore o ad immagini vivide... si tratta di risorse utilizzabili per fare delle valutazioni,
costruire la propria versione dei fatti ed eseguire certe particolari azioni.
I repertori interpretativi possono essere considerati come risorse sociali
condivise, come una cassetta degli attrezzi contenente strumenti e immagini
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linguistiche che ciascun membro di un dato gruppo sociale può utilizzare nel costruire
argomentazioni corrispondenti agli scopi del momento. Il loro uso può essere efficace
fin tanto che i membri del gruppo sociale concordino implicitamente di utilizzarli
rispettando le regole del gioco. Se tentiamo di usare un dato repertorio nella situazione
o nel contesto sbagliato le nostre argomentazioni risulteranno inefficaci.
Ci sono delle somiglianze tra la teoria delle rappresentazioni sociali e la psicologia
del discorso. Entrambe considerano l’interazione sociale come il luogo elettivo in cui le
persone costruiscono congiuntamente le risorse sociali, o come la moneta che consente
loro di entrare in rapporto reciproco, moneta che sarebbe costituita dalle
rappresentazioni sociali per la prima teoria e dai repertori interpretativi per la seconda.
Entrambe le teorie sono interessate alle produzioni linguistiche pratiche più ancora che
al linguaggio inteso come sistema stratto di regole e vedono nell’utilizzo di queste
risorse comuni una caratteristica distintiva della vita sociale. Ciascuna in base alla
rispettiva metodologia di ricerca, le due teorie condividono la predilezione per una
analisi qualitativa e naturalistica degli eventi sociali. Entrambe le teorie sono pertanto
forme sociali di psicologia. Esse si differenziano rispetto al ruolo e allo status che
attribuiscono ai processi cognitivi. Pur senza negare la possibile esistenza di processi
etichettabili come “pensiero” o come “memoria”, la psicologia del discorso non vede in
essi un prerequisito della produzione e dell’utilizzo dei repertori interpretativi. La
psicologia del discorso critica la teoria delle rappresentazioni sociali in quanto essa
sembra collocare questi processi nella testa delle persone, e a considerarli soggiacenti
all’interazione sociale che ne costituirebbe l’espressione.
La Burr afferma che tale critica distoglie l’attenzione da un tema importante e
difficile che la teoria delle rappresentazioni sociali cerca di affrontare e che la psicologia
del discorso ignora ampiamente: il tema della relazione fra il sociale e lo psicologico. La
psicologia del discorso non specifica la natura psicologica della persona utilizzatrice del
discorso, né la natura del rapporto fra quella psicologia e l’ambito sociale nel quale essa
si colloca.
RIEPILOGO.
La teoria delle rappresentazioni sociali, la psicologia discorsiva e il costruzionismo
sociale costituiscono delle forme sociali di psicologia perchè invocano tutte, per
comprendere il mondo, un insieme di risorse socialmente prodotto e condiviso e, come
l’interazionismo simbolico, enfatizzano tutte l’importanza del linguaggio nella
produzione, nel mantenimento e nel cambiamento di questi significati. A sostegno delle
loro strategie di ricerca vi è sempre una posizione antipositivistica che orienta l’indagine
non verso una scoperta della realtà oggettiva ma verso il modo in cui le
rappresentazioni e le versioni del mondo sono costruite ed utilizzate e lo fanno
attraverso metodologie di indagine in setting naturalistici.
Le 3 prospettive teoriche si differenziano tra loro a seconda dell’attenzione
privilegiata che pongono sul microlivello individuale e dell’interazione interpersonale o
sul macrolivello della struttura sociale. Mentre la teoria delle rappresentazioni sociali e
la psicologia discorsiva sono interessate all’impiego che gli individui fanno del
linguaggio, il costruzionismo sociale è attento ai discorsi intesi come le strutture su
larga scala che trovano espressione nella costruzione dei testi linguistici e di altri
artefatti dotati di significati simbolici. Una differenza più radicale si pone invece rispetto
alo status sociale o psicologico delle rappresentazioni sociali, dei repertori interpretativi
dei discorsi. Benché sia la teoria delle rappresentazioni sociali sia il costruzionismo
sociale difendono l’idea che le persone sperimentino la realtà categorizzando gli eventi,
per gli psicologi del discorso e i costruzionisti sociali l’enfasi fortemente cognitiva della
teoria delle rappresentazioni sociali è inaccettabile. Essa finisce per collocare le
rappresentazioni nella mente delle persone e rischia cos’ di scivolare in quello stesso
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individualismo dal quale voleva distanziarsi. Tuttavia la teoria delle rappresentazioni
sociali tenta se non altro di porre la questione del rapporto fra lo psicologico e il sociale,
problema questo che la psicologia discorsiva e il costruzionismo sociale non hanno,
perlopiù, affrontato.
Una terza differenza fra le tre prospettive teoriche riguarda il grado di responsabilità
personale riconosciuto all’individuo. La teoria delle rappresentazioni sociali riconosce
chiaramente al singolo individuo un ruolo attivo nella trasmissione e nel cambiamento
delle rappresentazioni. Essa sembra riconoscerci la capacità di influire sul modo in cui le
persone e gli eventi sono categorizzati da altri mediante il modo in cui decidiamo di
usare le rappresentazioni sociali stesse. Gli psicologi discorsivi, pongono in risalto le
manovre retoriche mediante le quali le persone si sforzano di formulare delle
presentazioni credibili di se stesse. I costruzionisti sociali si differenziano tra loro per il
grado di responsabilità e libertà che riconoscono alle persone. Quelli fra loro che
occupano l’estremo del continuum vedono nella persona, l’esito, il prodotto finale delle
elaborazioni discorsive. In questa visione è molto difficile riconoscere la possibilità di n
contributo intenzionale della persona a un cambiamento o anche solo ad una riflessione
sulla posizione da essa occupata nei discorsi. Altri costruzionisti sociali preferiscono
vedere nella persona insieme l’artefice e il prodotto dei discorsi e le riconoscono la
capacità di riflettere e di accettare o rifiutare le posizioni.
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termini: «la società è un prodotto umano. La società è una realtà oggettiva. L’uomo è
un prodotto sociale» .
Secondo Berger e Luckmann, ci sono 3 aspetti di questo processo circolare che
spiegano perchè gli esseri umani costruiscono una realtà sociale e sono a loro volta
costruiti. Questi 3 aspetti o modalità sono l’esteriorizzazione, l’oggettivazione e
l’interiorizzazione. Il fondamento di questo processo è l’espressività umana, vale a
dire la capacità umana di produrre oggetti e simboli in grado di veicolare significati al di
là del contesto spazio-temporale immediato.
Quando la soggettività e l’esperienza umane divengono di dominio pubblico,
vengono esteriorizzate e diventano disponibili e accessibili ad altri, al di là della nostra
consapevolezza personale. Al contempo questa esteriorizzazione è resa possibile dalla
capacità di attribuire un significato ad oggetti e segni. Il pugnale è un oggetto, ma è
diventato anche l’oggettivazione di un atto aggressivo e in questo modo può continuare
a condurre una vita propria come segno utilizzabile da altri in diverse occasioni per
indicare atti aggressivi. Le oggettivazioni possono quindi distanziarsi dall’immediatezza,
dalle espressioni primarie della soggettività umana che le hanno originate. Segni, gesti
e parole sono altrettante forme di oggettivazioni, anche se no hanno la stessa natura
concreta, fisica dei pugnali, perchè veicolano significati espressivi, esteriorizzati che
possono essere in qualche modo colti. Il processo di interiorizzazione conclude il ciclo
dal momento che i significati sono trasmessi alle generazioni future attraverso
l’acquisizione del linguaggio e della socializzazione infantile. la socializzazione consiste
nel saper leggere il significato attribuito nella società in cui viviamo ad eventi
oggettivati, artefatti, parole e segni. Attraverso la socializzazione diventiamo capaci di
comprendere le parole e le azioni altrui e di prender parte a forme significative di
interazione con gli altri.
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