Sei sulla pagina 1di 4

21/4/2017 Il 

metròn come fondamento veritativo dell'ontologia greca

Il metròn come fondamento veritativo
dell'ontologia greca

di GIUSEPPE ROTONDO

"L'uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di
quelle che non sono in quanto non sono" (Protagora, Teeteto platonico)

Nella  Prefazione  alla  sua  monumentale  opera  Il  Mondo  come  Volontà  e
Rappresentazione,  Arthur  Schopenhauer,  riferendosi  all'origine  del
filosofare,  distingueva  il  rango  dei  filosofi  in  due  archetipi  contrapposti:
coloro  che  sono  mossi  dalla  semplice  e  disinteressata  curiosità
intellettuale  provata  dinnanzi  ad  un  libro  o  a  un  sistema  bello  e  fatto;
coloro  che  invece,  sono  mossi  dallo  stupore  filosofico,  dalla  meraviglia
aristotelica provata di fronte all'esistenza del dolore e del male nel mondo.
Un'esistenza  strutturale  e  non  contingente  e  perciò  degna  di  essere
oggetto  di  speculazione  metafisica.  Quest'ultima  non  era  dunque
sistemazione  teorica  di  concetti,  ma  riflessione  ad  un  tempo  morale  e
teoretica, avente lo scopo di emendare l'esistenza umana dal dolore, e di
farlo in modo definitivo. Se il merito di Schopenhauer fu quello di radicare
il  cominciamento  filosofico  nella  dimensione  pratico­esistenziale
dell'essere  umano,  rifiutando  il  solipsismo  gnoseologico  di  stampo
kantiano  all'epoca  prevalente,  oggi  questo  degno  proposito  assume  una
portata più ampia.

Giacchè  l'indirizzo  gnoseologico  ha  ormai  pervaso  in  modo  dilagante  la


trattazione  manualistica,  privandola  di  una  più  che  lecita  deduzione
http://www.ilsudest.it/cultura­menu/55­cultura/9699­2017­04­20­13­35­59.html?tmpl=component&print=1&layout=default&page= 1/4
21/4/2017 Il metròn come fondamento veritativo dell'ontologia greca

sociale  delle  categorie  filosofiche,  che  privi  queste  ultime  del  loro
altrimenti  inspiegabile  astrattismo  e  lo  contestualizzi  secondo  una
prospettiva di genesi ontologico­sociale:" Una storia ontologico­sociale del
concetto di "verità" inizia dalla constatazione per cui, per i nostri antichi e
lontani  progenitori  detti  spesso  impropriamente  "primitivi",  la  verità
coincideva  interamente  con  la  sopravvivenza  del  gruppo  e  con  l'insieme
di  comportamenti  individuali  e  collettivi  che  assicuravano  e  garantivano
questa  sopravvivenza,  mentre  il  falso  coincideva  con  l'insieme  di
comportamenti  individuali  e  collettivi  che  avrebbero  messo  in  pericolo
questa sopravvivenza stessa. Ciò che riproduce il gruppo è vero, ciò che
ne  minaccia  la  riproduzione  è  falso."[1]  Contrapporre  una  prospettiva
ontologico­sociale  ad  una  gnoseologico­conoscitiva  significa  dunque
riscrivere  per  intero  la  storia  della  filosofia,  individuandone  un
cominciamento  sideralmente  opposto  a  quello  canonico:  "Se  si  segue
inerzialmente il modello che continua tenacemente ad essere proposto da
una  "storiografia  pigra",  l'origine  della  filosofia  si  spiegherebbe  alla  luce
del  sorgere  "miracoloso"  dell'investigazione  disincantata  sulla  physis,
sciolta  dalle  tradizionali  spiegazioni  mitologiche,  in  vista  del  reperimento
della sua archè." [2]

Stando  a  questa  lettura  la  filosofia  comincerebbe  con  Talete  e  gli  altri
presocratici,  come  una  sorta  di  disinteressata  indagine  razionale,
contrapposta a quella mitologica, sulle cause prime dei fenomeni naturali.
Una  indagine  rozza  e  prescientifica  che  avrebbe  dato  luogo  a  risposte
tutte ugualmente opinabili, perché prive di metodologia sperimentale. Fino
a  quando  con  la  rivoluzione  scientifica  galileiana­newtoniana,  messa  a
punto  da  Kant  sul  piano  filosofico,  non  si  sarebbe  finalmente  posta  fine
alla sterile storia delle opinioni durata per circa due millenni.

Questa  concezione,  oltre  a  ripudiare  la  filosofia  come  sapere  veritativo


autonomo  ed  indipendente  rispetto  alle  altre  scienze,  naturali,  umane  e
sociali,  finisce  per  oscurare  il  nòcciolo  del  pensiero  greco,  che  al  di  là
delle sue svariate manifestazioni, presenta alcuni comuni tratti essenziali,
decisivi per la sua reale comprensibilità. Nelle sue Lezioni di Storia della
filosofia, Hegel offre una pregnante definizione sullo spirito greco, quando
afferma che "I greci onorarono il finito".

Con  questa  affermazione  elogiativa  della  grecità,  Hegel  sembra


apparentemente  contraddire  la  sua  filosofia  idealistica  dell'infinito,  intesa
come  necessaria  dialettizzazione  e  superamento  della  contraddittorietà
del  finito.  Questa  apparente  contraddizione,  non  segna  in  realtà  non

http://www.ilsudest.it/cultura­menu/55­cultura/9699­2017­04­20­13­35­59.html?tmpl=component&print=1&layout=default&page= 2/4
21/4/2017 Il metròn come fondamento veritativo dell'ontologia greca

segna  una  netta  cesura  tra  grecità  ed  hegelismo.  Perché  queste  due
avventure  filosofiche  sono  separate  dall'esperienza  del  cristianesimo  e
dalla  conseguente  novità  del  concetto  di  infinito  sotteso  al  creazionismo
cristiano. I greci operavano infatti in assenza di una religione rivelata e ciò
comportava  due  importanti  conseguenze:  essi  erano  infatti  da  un  lato
totalmente ignari del concetto di infinito. Il mondo era eternamente dato.
Nulla vi era a fondamento dell'essere umano. Non c'era cioè l'idea di un
Dio  antropomorfico  creatore  del  mondo  e  artefice  della  salvezza
ultraterrena dei suoi fedeli. D'altra parte, non avendo un testo sacro a loro
guida,  erano  costretti  ad  individuare  nella  natura,  il  fondamento
dell'esistenza  umana,  l'unità  di  microcosmo  naturale  e  macrocosmo
sociale.

La  natura,  nelle  sue  diverse  interpretazioni,  quella  del  caos  plasmato  e
organizzato  demiurgicamente  di  stampo  pitagorico  e  quella  del
meccanismo  auto­organizzato  e  atomistico  di  stampo  epicureo­
democriteo,  era  vista  come  modello  su  cui  regolare  la  vita,  nella  sua
dimensione  etico­individuale  e  sociale­collettiva.  Non  è  un  caso  che  i
cosiddetti  "sette  sapienti"  a  cui  si  attribuisce  l'origine  della  filosofia,
fossero  anche  dei  legislatori  sociali,  che  per  rendersi  credibili  ai  loro
concittadini erano costretti ad utilizzare un linguaggio naturalistico, perché
la  natura  era  l'unico  specchio  in  cui  l'uomo  greco  poteva  pensare  sè
stesso, non esistendo appunto alcuna religione rivelata, nè il concetto di
storia come trascendentale universale ed unitario di passato, presente e
futuro.  Si  tratta  infatti  di  sviluppi  successivi,  tutti  riconducibili  alla
tradizione  messianico­escatologica  ebraica  e  cristiana,  dalla  cui
secolarizzazione  scaturiranno  le  filosofie  della  storia  di  stampo
illuministico, idealistico e marxista.

Lo stesso essere parmenideo, lungi dal consistere in un concetto astratto
o esclusivamente cosmologico, se dedotto socialmente rappresenterebbe
l'arcaica  comunità  a  dominio  aristocratico,  fondata  sul  predominio
dell'acropoli ­i centri religiosi di culto, in cui era veicolato il sapere arcaico­
mitologico,  utilizzato  ideologicamente  dalla  stessa  aristocrazia  al  potere.
Si  trattava  di  un  modello  collettivistico  di  società  che  veniva  all'epoca
messo  in  discussione  dal  predominio  che  l'agorà  ­la  piazza  centro  del
commercio  e  degli  scambi  economici­  e  gli  emergenti  ceti  imprenditoriali
stavano via via assumendo. In tutti questi esempi, che potrebbero a lungo
prolungarsi, emerge l'importanza del metròn e della finitezza, del rispetto
delle  gerarchie  sociali  e  di  potere,  messe  a  rischio  dall'incombere
dell'illimitatezza  del  denaro  e  dell'arricchimento  privato,  che  rischiava  di

http://www.ilsudest.it/cultura­menu/55­cultura/9699­2017­04­20­13­35­59.html?tmpl=component&print=1&layout=default&page= 3/4
21/4/2017 Il metròn come fondamento veritativo dell'ontologia greca

condurre alla dissoluzione delle comunità politiche pre­esistenti: "Le realtà
di qualunque genere esse siano, sono sempre sospese tra i due poli dell'
illimitatamente  piccolo  e  dell'  illimitatamente  grande,  e  qualora  una  delle
due  tensioni  verso  l'illimitatezza  non  venisse  equilibrata,  ciò
determinerebbe  la  corruzione  della  realtà  stessa  o,  nel  caso  della  vita
etica, il capovolgimento della virtù in vizio".

La  filosofia  aristotelica,  pur  maturando  al  culmine  della  grecità,  con
l'affermata  egemonia  macedone  ed  il  crollo  ormai  definitivo  del  contesto
classico delle poleis o città­stato autonome, è basata sull'idea del giusto
mezzo,  come  virtù  etica  fondamentale  in  grado  di  indirizzare  al  bene  i
comportamenti  umani  individuali,  mediando  tra  i  due  eccessi  antitetico­
polari,  del  troppo  o  del  troppo  poco:    "Nella  trattazione  aristotelica  del
metròn e nella sua esorcizzazione del "cattivo infinito" dell'arricchimento,
l'orizzonte greco della metafisica del metròn trova la sua espressione più
compiuta  e  coerente,  non  solo  perché  emerge  in  maniera  cristallina  la
genesi  sociale  di  quella  specifica  funzione  simbolico­espressiva  in
relazione con le dinamiche interne alla vita comunitaria, ma anche perché
viene  profeticamente  esorcizzato  l'opposto  orizzonte  della  dismisura  e
dell'illimitatezza,  quale  sarà  quello  che  prenderà  forma  con  la  dialettica
del  capitalismo.  Il  punto  della  massima  autocoscienza  da  parte  della
Grecità coincide così, con il suo tramonto: levandosi in volo sul far della
sera,  Aristotele  pensa  con  insuperata  profondità  le  logiche  comunitarie
della polis, quando ormai è in fase di declino".[3]

[1]Costanzo  Preve,  Una  Nuova  Storia  Alternativa  della  Filosofia,  ed.


Petite Plaisance

[2]Diego Fusaro, Minima Mercatalia, ed. Bompiani

[3]Diego Fusaro, Minima Mercatalia, ed. Bompiani

http://www.ilsudest.it/cultura­menu/55­cultura/9699­2017­04­20­13­35­59.html?tmpl=component&print=1&layout=default&page= 4/4

Potrebbero piacerti anche