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Lezione 14

Schopenhauer, Nietzsche, Leopardi: l’uomo di fronte al nihil

Il sistema hegeliano, nell’estrema tensione volta a comprendere il senso del divenire in un


orizzonte totale, mostra l’estrema contraddizione di tale intento. La stessa legge posta da Hegel alla
base del suo sistema diventa, al suo compimento, un momento dialettico, un corno di un’antinomia
che rivela, nel suo costituirsi, l’essenza del suo opposto. Nel corso della presente lezione tenteremo
di rendere conto dell’alternativa che si profila, dopo Hegel, nel modo di concepire il senso del
divenire, un movimento di emancipazione dalla razionalità dalla sconvolgente portata storica e
teoretica, iniziato già dall’epoca contemporanea ad Hegel, ad opera di pensatori isolati e spesso
maltrattati dalla storia della filosofia, come Schopenhauer, Nietzsche ed il nostro Leopardi –
quest’ultimo considerato spesso un outsider della filosofia, a causa di un’interpretazione
stolidamente riduttivista fornita da pensatori quali Croce e De Sanctis.
La filosofia – come abbiamo avuto più volte modo di rilevare – nasce come uno sforzo volto
a dominare l’inquietudine prodotta dal divenire. La minaccia del nulla è esorcizzata dalla
comprensione di un senso nell’apparente insensatezza del flusso del divenire; l’universo greco,
attraverso la narrazione mitica, si emancipa dal caos per riconoscersi in un kosmos, un ordine
universale che – quantomeno nella maggior parte delle elaborazioni filosofiche – ha carattere
teleologico, è finalizzato. Il divenire cessa così di essere una vertigine del pensiero, un ineffabile
movimento di corruzione ed annullamento dell’esistente, per inscriversi in un orizzonte razionale,
comprensibile e dunque controllabile attraverso il pensiero.
Il nihil (nulla), figura chiave del divenire, non-luogo in cui si cela il passato – ciò che non è
più – e il futuro – ciò che deve ancora essere – cessa così di rappresentare il termine inafferrabile
del discorso filosofico. Contravvenendo al divieto parmenideo – proponendosi dunque di pensare il
non-essere – la filosofia recupera a sé la totalità dell’essente. L’intero movimento dell’essere è
compreso a partire dalla considerazione di un senso generale dell’ente, che lo sottrae alla sua
caducità e lo pensa come un momento di un grandioso piano universale, in cui ogni accadimento
ritrova il suo significato, e con esso la sua salvezza.
La fiducia in questo potere di comprensione si sviluppa sin dagli esordi del pensiero
filosofico, attraversa la storia sulle solide basi delle elaborazioni di Platone ed Aristotele; resiste alla
dissoluzione della civiltà greca attraverso il cristianesimo, rinunciando alla figurazione di un ordine
immanente nel cosmo – il dio della filosofia – e rifugiandosi nella trascendenza di un Dio
ultraterreno, fonte della verità immutabile, supremo garante della razionalità del cosmo. L’età
moderna, pur nel suo ripensamento radicale delle categorie del pensiero, non si emancipa da questo
bisogno di una verità metafisica, di una legge che tenga conto dell’accidentalità del reale pur non
rinunciando alla ricerca di principi immutabili, postazioni privilegiate che consentano un accesso
riservato alla verità dell’essere, al vero mondo, che si situa al di là della transeunte soggettività
umana. Poche voci solitarie si allontanano dal solco di questa tradizione – una per tutte, quella di
Baruch Spinoza, fedele alla tradizione greca e lontano dal misticismo matematizzante di Cartesio.
Kant, il filosofo che più di ogni altro ha rappresentato lo spirito della modernità illuminista,
sancisce in definitiva una sostanziale inaccessibilità di tale mondo all’indagine umana, attraverso la
capitale distinzione tra fenomeni – accessibili alla conoscenza – e noumeni – fondamenti della
conoscenza stessa, ma inconoscibili in linea di principio. Tuttavia, lungi dal rappresentare una
cesura con il passato dell’indagine filosofica, l’operazione kantiana costituisce una perentoria
affermazione del bisogno di un fondamento razionale, di una verità immutabile al di là del
fenomeno. Ricordiamo infatti come in Kant il fondamento della conoscenza si ritrovi appunto nel
collegamento esistente tra le categorie e le cose in sé – rintracciato faticosamente attraverso la
Deduzione trascendentale – , ed inoltre non è superfluo rammentare ancora come Kant riconosca
una sorta di istinto metafisico nell’uomo, rispondente al bisogno di una fondazione della conoscenza
che preservi quest’ultima dalla dissoluzione soggettivista, ancorandola a principi validi erga omnes
che possano, inoltre, fungere da leggi del comportamento umano – gli imperativi categorici
dell’etica kantiana – in grado di garantire l’armonia tra gli individui attraverso il reperimento di
obiettivi comuni, come la pace perpetua.
La filosofia hegeliana, insoddisfatta davanti alla soluzione kantiana – che non può non
apparire come una parziale rinuncia alla pretesa omnicomprensiva della ragione, in favore di un
riconoscimento dei limiti della razionalità umana – giunge a ribaltare il punto di vista della filosofia
moderna. La frattura tra soggetto e oggetto, inaugurata dalla tradizione cartesiana, viene recuperata
nell’ottica di un radicale panlogismo: la storia del mondo e la storia del pensiero non sono altro che
lo sviluppo di un logos universale, che riconosce sé stesso attraverso le figurazioni che assume nel
suo cammino. L’intera vicenda umana è compresa attraverso la rappresentazione della stessa sotto
forma di una progressiva presa di coscienza che interessa la ragione come soggetto e come oggetto:
la storia del mondo e la storia del pensiero sono momenti di un processo attraverso cui la ragione
giunge all’autocoscienza, si riconosce come principio immanente al divenire: “il reale è razionale,
il razionale è reale”. Nulla cade al di fuori della comprensione della ragione, perché il mondo ed il
divenire sono ragione, nulla esiste al di fuori della razionalità ordinatrice. I singoli fenomeni, gli
accadimenti accidentali, non sono che l’ultima propaggine di un movimento perfettamente
razionale che guida il divenire universale, fornendogli una direzione di sviluppo, un senso.

Ma l’operazione hegeliana era destinata a mostrare, nella sua imponenza, una irriducibile
mancanza, l’impossibilità cioè di fronteggiare una possibilità, un’ipotesi dirompente in grado di
vanificare d’un colpo gli sforzi sovraumani messi in campo dalla storia della filosofia. Già, perché
lo sviluppo della filosofia non mostra di fare i conti con un’eventualità inquietante: la possibilità,
cioè, che la razionalità umana sia impotente di fronte al mondo: da questa prospettiva cade il
presupposto che il caos sia riducibile ad un kosmos, che il divenire sia sensato, e che risponda alla
razionalità che tenta di inquadrarlo. Cosa assicura infatti che il senso del divenire sia
necessariamente razionale? Cosa impedisce di pensare che l’emergere dal nulla degli enti e la loro
dissoluzione non risponda ad alcuna legge armonica? Dove troviamo la garanzia del fatto che la
stessa vita umana sia intrinsecamente dotata di un senso? La vertigine provocata da interrogativi
come questi può facilmente indurci a postulare un senso, a descrivere la vicenda umana all’interno
di un ordine eterno, precostituito, salvifico. Ma sappiamo bene che ogni postulazione apre un
orizzonte di discorso destinato a perdere ogni significato nel momento in cui gli assunti
fondamentali vengono revocati in dubbio. Ed è questa la strada scelta da Schopenhauer, Nietzsche e
Leopardi, una via impervia ed impopolare, che rappresenta però un tentativo radicale di
rifondazione del modello di razionalità occidentale. Tale impresa si impernia su alcune analisi, che
si ritrovano in questi autori: vale la pena di presentarle in sintesi, in modo da avere un quadro di
massima che ci permetta di comprendere le possibilità aperte da tale impostazione.

- Il mondo e l’uomo: il concetto di felicità e il piacere


Dagli albori della filosofia vige la credenza (quasi) incontestata che il mondo sia
un’espressione armoniosa di una razionalità regolatrice: l’ordine dei fenomeni è descrivibile
attraverso la ragione, e l’uomo – creatura privilegiata dal logos – rappresenta l’immagine più
perfetta nel cosmo. Attraverso la razionalità l’uomo è in grado di comprendere il senso del Tutto, ed
in questo senso egli occupa, in virtù della suddetta predilezione, un ruolo centrale. Per Hegel
l’uomo – il genere umano - è il luogo della rivelazione, l’ente in cui la razionalità si manifesta a se
stessa. La comprensione dell’ordine universale è per l’uomo cagione di felicità: una maggiore
conoscenza delle leggi universali che governano il divenire comporta un accrescimento della felicità
individuale: l’uomo penetra attraverso la ragione il mistero del cosmo, e trova la sua realizzazione
in questa attività, sia essa contemplativa – e dunque prettamente filosofica – piuttosto che operativa
– più vicina dunque all’approccio scientifico al mondo.
Ma tale posizione è destinata a scontrarsi con l’evidenza della sua insostenibilità: Leopardi,
nel Copernico contenuto nelle Operette Morali, sferra un attacco sprezzante e caustico contro di
essa. Dopo un dialogo col Sole, che stufo di sorgere ogni giorno per puro diletto degli uomini
decide di invertire le parti, e costringere la Terra a girare in vece sua, Copernico così paventa le
implicazioni di una tale rivoluzione: “Che vi dirò poi degli uomini? che riputandoci (come ci
riputeremo sempre) più che primi e più che principalissimi tra le creature terrestri; ciascheduno di
noi se ben fosse un vestito di cenci e che non avesse un cantuccio di pan duro da rodere, si è tenuto
per certo di essere uno imperatore; non mica di Costantinopoli o di Germania, ovvero della metà
della Terra, come erano gl'imperatori romani, ma un imperatore dell'universo; un imperatore del
sole, dei pianeti, di tutte le stelle visibili e non visibili; e causa finale delle stelle, dei pianeti, di
vostra signoria illustrissima, e di tutte le cose. Ma ora se noi vogliamo che la Terra si parta da quel
suo luogo di mezzo; se facciamo che ella corra, che ella si voltoli, che ella si affanni di continuo,
che eseguisca quel tanto, né più né meno, che si è fatto di qui addietro dagli altri globi; in fine, che
ella divenga del numero dei pianeti; questo porterà seco che sua maestà terrestre, e le loro maestà
umane, dovranno sgomberare il trono, e lasciar l'impero; restandosene però tuttavia co' loro cenci,
e colle loro miserie, che non sono poche.”1 E poche righe dopo, ribadisce il concetto con la
seguente affermazione: “Ma voglio dire in sostanza, che il fatto nostro non sarà così semplicemente
materiale, come pare a prima vista che debba essere; e che gli effetti suoi non apparterranno alla
fisica solamente: perché esso sconvolgerà i gradi delle dignità delle cose, e l'ordine degli enti;
scambierà i fini delle creature; e per tanto farà un grandissimo rivolgimento anche nella
metafisica, anzi in tutto quello che tocca alla parte speculativa del sapere. E ne risulterà che gli
uomini, se pur sapranno o vorranno discorrere sanamente, si troveranno essere tutt'altra roba da
quello che sono stati fin qui, o che si hanno immaginato di essere.”2
La natura ha dunque un corso che appare indifferente alla vicenda umana: la physis altro non
appare se non un costante processo di generazione e corruzione, privo di qualsiasi scopo che non
sia il mantenimento di sé stessa. Qual è, in questo quadro, la posizione dell’uomo nel mondo? Al di
là della rinascimentale esaltazione dell’uomo quale copula mundi, luogo eletto della rivelazione
dell’ordine naturale, punta di diamante di un sistema nel quale egli riveste il ruolo di dominatore e
fulcro dell’esistente, che ne è della condizione umana? Qual è il senso dell’esistenza terrena,
quando l’idea del privilegio umano viene meno? Se l’uomo non è più il luogo privilegiato
dell’universo, se la natura smette di essere l’Eden in cui l’uomo – attraverso la semplice
comprensione di tale ordine – è per sua essenza destinato alla felicità, cosa resta se non una
inappellabile condanna all’infelicità? Quale altra felicità resta possibile da pensare?
La condanna all’infelicità – figlia dell’insensatezza della condizione umana – è resa più
gravosa dalla spasmodica ricerca di una soddisfazione, di un piacere che riesca a lenire il senso di
vuoto, un godimento che cancelli – non importa se temporaneamente – la violenta cognizione del
nulla. Ma a tal proposito Leopardi non nutre alcun dubbio nell’affermare che tale ricerca, nella sua
essenza, è vana: “[…] il piacere è un subbietto speculativo, e non reale; un desiderio, non un fatto;
un sentimento che l’uomo concepisce col pensiero, e non prova; o per dir meglio, un concetto e non
un sentimento. Non vi accorgete voi che nel tempo stesso di qualunque vostro diletto, ancorché
desiderato infinitamente, e procacciato con fatiche e molestie indicibili; non potendovi contentare il
goder che fate in ciascuno di quei momenti, state sempre aspettando un goder maggiore e più vero,
nel quale consista in somma quel tal piacere; e andate quasi riportandovi di continuo agl’istanti
futuri di quel medesimo diletto? Il quale finisce sempre innanzi al giungere dell’istante che vi
soddisfaccia; e non vi lascia altro bene che la speranza cieca di goder meglio e più veramente in
altra occasione, e il conforto di fingere e narrare a voi medesimi di aver goduto, con raccontarlo
anche agli altri, non per sola ambizione, ma per aiutarvi al persuaderlo che vorreste pur fare a voi

1
G. Leopardi, Copernico: il dialogo, in Operette Morali, Garzanti, Milano 1984
2
ivi
stessi. Però chiunque consente di vivere, nol fa in sostanza ad altro effetto né con altra utilità che di
sognare; cioè credere di avere a godere, o di aver goduto; cose ambedue false e fantastiche.”3
L’insensatezza del divenire conduce con sé questa incontrovertibile certezza: qualora la
felicità umana sia concepita come un continuo progresso, un accrescimento del piacere ed una
ricerca infinita di un godimento maggiore – e questo appare inevitabile, in virtù della stessa natura
umana – essa è definitivamente preclusa. Un’analisi più approfondita della condizione umana non
può nascondere l’evidenza del fatto che “La vita della maggioranza non è che continua battaglia
per l'esistenza, con la certezza della sconfitta finale. Ma ciò che fa perdurare l'uomo in questa
battaglia così accanita non è tanto l'amor della vita, quanto la paura della morte. La vita stessa è
un mare pieno di scogli e di vortici, ai quali l'uomo cerca di sfuggire con massima prudenza e cura,
pur sapendo che, anche quando riesca con sforzi e precauzioni di scamparne, si avvicina ad ogni
passo, anzi vi dirige in linea retta il timone, al totale, inevitabile, irreparabile naufragio: la morte.
La sua esistenza dunque è un perenne morire. Come il nostro cammino ci appare come una caduta
costantemente trattenuta, così la vita del nostro corpo è una morte costantemente trattenuta, una
morte rinviata ad ogni istante.”4 Il divenire, dunque, è fondamentalmente impietoso con il genere
umano, è un movimento che non ha alcun senso che non il suo semplice realizzarsi. In questo senso
Schopenhauer potrà affermare che il mondo è espressione di una volontà cieca ed irrazionale, che
tende semplicemente alla sua auto-affermazione. Il divenire, lungi dall’essere un processo di
sviluppo e di progresso, è semplicemente un movimento inesausto, a-teleologico, che non ha alcun
obiettivo al di là della sua pura e semplice realizzazione.
L’esistenza non è altro che un continuo scacco, una ricerca interminabile di un obiettivo che
si allontana continuamente, irraggiungibile come la tartaruga che Achille non poteva mai afferrare
nel famoso paradosso di Zenone. Se dunque la natura segue una razionalità intrinseca, tale ordine
non esiste in funzione della felicità umana: la pretesa centralità dell’uomo nell’universo naturale,
già profondamente scalfita dalla rivoluzione copernicana, riceve un colpo mortale. La pretesa di
dominio dell’uomo sul mondo viene profondamente scossa dall’affermazione di un ordine dis-
umano che regola il Tutto. La stessa Natura, nel suo dialogo col viandante islandese, non nasconde
il suo carattere a-teleologico, il suo fondamentale disinteresse nei confronti della vicenda umana.
L’islandese muore dopo aver formulato il fatidico quesito: “Ma poiché quel che è distrutto, patisce;
e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che
nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo,
conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?”5. La risposta arriva
immediatamente dopo: la morte dell’islandese serve a nutrire due macilenti leoni, per prolungare di
pochissimo l’evenienza della loro stessa inevitabile fine.
La metafora della Ginestra, utilizzata da Leopardi nell’opera che può essere considerata il
testamento spirituale dell’autore, rende perfettamente conto della condizione umana, che risulta
fragile, passeggera ma ciononostante gonfia di un orgoglio immotivato. Il pensiero dei Lumi, “sol
per cui risorgemmo della barbarie in parte/ e per cui solo si cresce in civiltà/ che sola in meglio
guida i pubblici fati”6 è dimenticato a favore di un borioso ottimismo, caratteristica ridicola del
“secol superbo e sciocco/ che il calle, insino allora dal risorto pènsièr segnato innanti
abbandonasti/ e volti addiètro i passi/ del ritornar ti vanti / e procèdere il chiami.”7 La critica,
rivolta all’atteggiamento dell’uomo verso il mondo e verso la felicità, si articola in una polemica
contro l’ingenuo Romanticismo, il secolo delle “magnifiche sorti e progressive”8.

- L’apollineo e il dionisiaco
3
Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, in G. Leopardi, op.cit.
4
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I Meridiani Mondadori, Milano, 1989
5
Dialogo della Natura e di un islandese, in G. Leopardi, op.cit.
6
G. Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto, in Canti, Milano, Garzanti 1991
7
ivi
8
ivi
Il contributo di Friedrich Nietzsche (1844-1900) è determinante per comprendere come
l’affermazione del “mito” della razionalità universale affondi le sue radici in una rimozione
originaria, per utilizzare una terminologia psicoanalitica. Lo sviluppo della filosofia è legato alla
progressiva eliminazione, dal campo della riflessione, degli elementi irrazionali, irriducibili al logos
regolatore, legati agli aspetti sensuali, estatici, violenti e passionali dell’esistenza dell’uomo e del
mondo.
Ancora al tempo di Nietzsche dominava, nell'ambiente dei filologi classici, l'immagine di un
mondo greco unitario e intrinsecamente armonico. Si riteneva cioè che la storia dei Greci
rappresentasse l'evoluzione di un atteggiamento spirituale costante, caratterizzato dalla serenità,
dall'armonia, e dal senso dell'equilibrio; e che tale atteggiamento trovasse espressione in tutti gli
aspetti della vita per tutto l'arco della vicenda storica di quel popolo. Il mondo greco, insomma,
appariva, per usare il linguaggio di Nietzsche, la manifestazione di uno spirito apollineo. Ma,
osserva il filosofo, questo è solo un aspetto della cultura e della vita dei Greci antichi; infatti
accanto a quello apollineo è presente anche uno spirito dionisiaco, un atteggiamento cioè di
«rottura» di tutti i canoni morali e di tutti gli «schemi» di comportamento sociale, un atteggiamento
di esaltazione sfrenata della vita in tutte le sue forme; esaltazione celebrata col trionfo degli istinti,
specialmente di quello sessuale, e vissuta in una dimensione psicologica di ebbrezza. Accanto alla
religione olimpica, espressione dello spirito apollineo, era ben viva infatti quella religiosità che
ebbe i suoi momenti più significativi nelle feste dionisiache, dominate dalla danza orgiastica.
Accanto alla scultura e all'architettura, espressioni artistiche prevalenti dello spirito apollineo,
trovarono il loro posto anche la musica e la poesia lirica, frutti propri dello spirito dionisiaco. Se si
tiene conto di questo duplice aspetto dello «spirito greco», allora la storia dei Greci appare
distinguibile in tre fasi: la prima, quella “pre-socratica”, in cui spirito apollineo e spirito dionisiaco
convivono separati e opposti tra loro; la seconda, quella dei grandi tragici, in cui essi si
armonizzano dando vita alle grandi opere dell'arte antica; la terza, che ha inizio con Euripide e con
Socrate, in cui lo spirito apollineo assoggetta progressivamente quello dionisiaco, fino a separarsene
completamente con l'epoca alessandrina.
Con l'affermarsi della filosofia decresce e si depaupera, nella cultura e nella vita greche, lo
spirito dionisiaco; Socrate propone infatti l'assoggettamento dell'istinto, della passione, alla guida
della ragione. Con ciò ha inizio quella scissione interna all'uomo tra ragione e istinto e quella tra
uomo e natura; scissioni che domineranno nell'epoca alessandrina e che costituiranno nella lettura
nietzscheana, il triste retaggio della civiltà occidentale. L'ideale dell'uomo così non è la vita ma la
scienza; l'uomo perde i contatti con la forza vitale della natura, che poi è la sua essenza propria, e si
chiude orgoglioso in se stesso, fiducioso della sua capacità conoscitiva; ossia si chiude nella sua
presunzione di rivelare con la scienza gli enigmi del reale.
La progressiva cancellazione dello spirito dionisiaco però, lungi dal rappresentare
quell’aureo dominio sulle passioni predicato dalle saggezze antiche, presenta un inquietante
risvolto: privato del suo naturale istinto alla vita, “[…] l'individuo si sgomenta, diviene timido e
incerto, non crede più nelle proprie forze: ripiega in se stesso, nell'intimità del proprio animo, e
cioè nel vuoto caotico del dato appreso che non può agire esteriorizzandosi, della dottrina che non
diventa vita... La soppressione degli istinti per mezzo della storia ha reso gli uomini pure astrazioni
ed ombre: nessuno osa più esporre la propria personalità, ma ciascuno prende la maschera di un
uomo colto, di dotto, di poeta, di uomo politico. Se esaminiamo poi quelle maschere[...] ci troviamo
improvvisamente fra le mani soltanto stracci e cenci variopinti.”9
Questa dunque è la condizione dell'uomo moderno. Ma lo spirito dionisiaco ribolle; esso
tende a riemergere; come mostra la filosofia di Schopenhauer, il quale ha restituito alla vita i suoi
caratteri propri, riscoprendo l'irrazionalità del reale, la relatività e la vacuità dei valori tradizionali; e
come indica la musica di Wagner, in cui viene celebrata la condizione tragica dell'uomo.
Schopenhauer e Wagner hanno smascherato millenni di imposture sulla realtà, sulla vita
dell'individuo, sulla società e sulla storia, costruite dallo spirito «scientifico» della civiltà
9
F. Nietzsche, Considerazioni sulla storia universale
occidentale, che ha inibito per secoli la varietà, la diversità, la ricchezza, la forza dello spirito
dionisiaco.
Di fronte allo spettacolo tragico, presentato da Schopenhauer, di un universo attraversato da
una forza prepotente che semina lotte, distruzioni e morte, per Nietzsche - che riconosce autentica
questa visione - non restano all'uomo che due modi possibili di esistenza, opposti tra loro:
a) disconoscere questo mondo, dichiarare la propria estraneità di fronte ad esso, o
rifiutandolo con l'ascetismo, o accettandolo con rassegnazione, in virtù dell'assunzione di ideali
etico-religiosi del tipo di quelli cristiani, oppure ancora astraendosi in arbitrarie costruzioni
filosofiche, che, sì, portano l'uomo fuori dal frastuono del mondo ma, al tempo stesso, lo rendono
«esangue»;
b) «leggere» in modo diverso questo mondo e la sua stessa forza distruttiva, riconoscendo in
essa la forza vitale che proprio attraverso la distruzione crea vita, che attraverso la lotta genera
armonia, che attraverso il dolore produce la felicità; e adeguare il comportamento individuale a
questo modo diverso d'intendere la realtà.
Schopenhauer ha colto che l'universo è dominato dalla volontà di potenza; ma di fronte a
questa forza irrefrenabile è rimasto atterrito, e il suo spirito filosofico non ha saputo fare altro che
teorizzare l'ascetismo. Bisogna invece gettarsi dentro la vita, liberando in se stessi quella volontà di
vivere, quella volontà di «potere», da ogni limite e condizionamento. L'uomo nuovo dev'essere
«dionisiaco», deve vivere al modo di Dioniso, il dio che ride canta e balla abbandonandosi alla gioia
di vivere e esaltando in sé l'energia vitale in tutte le sue possibili manifestazioni.

-La liberazione e l’illusione: le prospettive del nichilismo


Scrive Aristotele: "gli uomini, sia nel nostro tempo che dapprincipio, hanno cominciato a
filosofare a causa della meraviglia [in greco thaumazein], poiché dapprincipio essi si
meravigliavano delle stranezze che erano a portata di mano, e in un secondo momento, a poco a
poco, procedendo in questo stesso modo, affrontarono maggiori difficoltà, quali le affezioni della
luna e del sole e delle stelle e l'origine dell'universo"10.
Appare però chiaro che il retaggio culturale che funge da riferimento per l’epoca moderna
appare compromesso in maniera irreparabile da una forzatura originaria, un auto-inganno che ha
finito per rivelare la sua inanità di fronte alla richiesta di salvezza alla quale pure pretendeva di
fornire una via sicura. L’illusione della razionalità apollinea del reale mostra delle significative
crepe, al di là delle quali si rivela il nihil, l’abisso di non-senso di fronte al quale sorge spontaneo il
thauma, la meraviglia che è anche terrore, un’atavica paura del vuoto. La prima risposta dell’uomo
a questa meraviglia, come abbiamo visto, è stata la filosofia, con le sue molteplici forme storiche;
ma adesso anch’essa si rivela un’illusione, e per di più castrante, nemica della vita. Quale sarà
adesso l’alternativa a questo sapere morente? L’annuncio della morte di Dio suscita il riso negli
“uomini del mercato” – cioè gli intellettuali dell’Ottocento, animati da un ateismo non veramente
consapevole del significato di tale morte: il crollo, definitivo e irrecuperabile, di tutte le certezze
metafisiche che hanno consentito lo sviluppo della filosofia e della scienza.
Lo stesso Zarathustra comprende che il suo messaggio è destinato all’incomprensione, a
causa dell’immaturità dei tempi: “Vengo troppo presto – proseguì – non è ancora il mio tempo.
Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora
arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni
vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e
ascoltate. Quest’azione è ancora sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure
son loro che l’hanno compiuta!”11. Il martirio si è già compiuto, l’umanità ha intravisto la fine delle
illusioni secolari che le hanno consentito di ammantare l’insensatezza del divenire in una

10
Aristotele, Metafisica, BUR, Milano 2002
11
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1972
prospettiva escatologica. Ma cosa ci consentirà adesso di vivere? Come fare ad evitare la
disperazione che la visione del nulla spontaneamente ingenera nell’animo umano?
Su questo punto, le prospettive dei tre autori discussi nella presente trattazione si fanno
divergenti. E’ opportuno analizzare le loro prospettive separatamente, per poi trarre qualche
conclusione finale.

-Schopenhauer: l’arte, la pietà, l’ascesi


Nel pensiero schopenhaueriano il dolore è l’autentica cifra dell’esistenza umana: al di là
delle ingannevoli apparenze, l’esistenza è votata alla sofferenza, la stessa natura dell’esistere
condanna l’uomo ad un destino miserevole. Si potrebbe pensare che il sistema di Schopenhauer
metta capo a una filosofia del suicidio universale. Ma invece egli rifiuta il suicidio e lo condanna
per due motivi: in primo luogo perché il suicidio, lungi dall'essere negazione della volontà, è invece
un atto di forte affermazione della volontà stessa in quanto il suicida vuole la vita ed è solo
malcontento delle condizioni che gli sono toccate, egli quindi nega la vita; in secondo luogo perché
il suicidio sopprime unicamente l'individuo, ossia una manifestazione fenomenica della volontà di
vivere, lasciando intatta la cosa in sé, che pur morendo in un individuo rinasce in mille altri, simile
al sole che appena tramontato da un lato sorge dall'altro. Quindi per Schopenhauer la vera risposta
al dolore non è l'eliminazione, tramite il suicidio, ma nella liberazione dalla stessa volontà di vivere,
allorquando la voluntas perviene alla coscienza si sé, essa tende a farsi noluntas, ossia negazione
progressiva di se medesima. E’ importante notare come tale negazione della volontà di vivere
consista essenzialmente nel rifiuto del carattere di sopraffazione che contraddistingue la volontà nel
suo affermarsi. Si tratta dunque di percorsi attraverso i quali si giunge alla negazione
dell’individualità, resistenze all’oggettivazione della volontà.
In primo luogo l’arte: la contemplazione o la produzione d’arte affranca l’uomo dalla sua
individualità transeunte, ponendolo all’interno di uno spazio in cui è negata la temporalità, e
dunque la caducità dell’umano. L’arte rappresenta l’esistenza di forme pure, eterne, dalla
contemplazione delle quali l’uomo riceve un attimo – e soltanto un attimo – di sollievo dalle sue
sofferenze. Tra le arti, la tragedia e la musica sono considerate le espressioni più elevate di questa
elevazione, la prima mettendo in scena l’assurdo della condizione umana, la seconda essendo
l’espressione più lontana dal mondo fenomenico che possa immaginarsi. Tuttavia l’arte è un
lenimento passeggero, non stabile. Occorre ricercare altre forme di fuga dal dolore.
Schopenahuer si rivolge verso il campo delle autonegazioni psico-fisiche e della loro
applicazione pratica. Tra queste emerge la giustizia, che consiste in una condotta che annulla la
volontà di vivere - dato che quest'ultima esalta la forza e la sopraffazione - e permette di scoprire la
dignità ed il valore degli altri individui. Un grado più alto di autonegazione della volontà si realizza
nell'amore, inteso non come appagamento fisico di un desiderio, ma come com-passione (dal latino
cum-pati, "soffrire insieme con", "condividere la sofferenza dell'altro"). In esso l'uomo,
considerando il destino dell'altro come perfettamente uguale al proprio, supera la propria natura
individuale ed entra in una nuova sfera di purezza e disinteresse, caratterizzata dalla capacità del
sacrificio. Ma è solo con l'ascesi che l'uomo raggiunge il risultato di annullare la volontà, ovvero di
passare dalla voluntas (latino per "volontà") alla noluntas (dal latino nolle, "non-volere", "nolontà").
L'ascesi più che un atto è uno stato, lo stato di chi ha annullato in sé ogni pulsione vitale, di chi è
distaccato dagli eventi mondani. L'interpretazione che Schopenahuer dà di questo stato, a differenza
di quella mistico-cristiana, è negativa. Scrive infatti che, dopo aver raggiunto l'ascesi, “non più
volontà: non più rappresentazione, non più mondo. Davanti a noi non resta invero che il nulla”12.
Tale via, che risulta ardua da comprendere, rappresenta un concetto analogo al Nirvana delle
saggezze orientali, alla raggiunta consapevolezza dell’illusorietà di ogni reale, e alla serena rinuncia
all’angoscia che deriva dagli impieghi mondani.

- Leopardi: le illusioni
12
A. Schopenhauer, op.cit.
“Se fosse veramente utile, anzi necessario alla felicità e perfezione dell'uomo il liberarsi dai
pregiudizi naturali (dico i naturali, e non quelli di una corrotta ignoranza), perché mai la natura
gli avrebbe tanto radicati nella mente dell'uomo, opposti tanti ostacoli alla loro estirpazione, resa
necessaria sì lunga serie di secoli ad estirparli, anzi solamente a indebolirli; resa anche
impossibile l'estirpazione assoluta di tutti, anche negli uomini più istruiti, e in guisa che anche oggi
(lasciando i popoli incolti) in una grandissima, anzi massima parte degli stessi popoli coltissimi,
dura grandissima parte di tali pregiudizi che si stimano direttamente contrari al ben essere ed alla
perfezione dell'uomo? Anzi perché mai gli avrebbe solamente posti nella mentre dell'uomo da
principio? (24 Maggio 1821) “.
“Per lo contrario, dimostrando come le illusioni sieno state direttamente favorite dalla
natura, come risultino dall'ordine delle cose vengo a dimostrare ch'elle appartengono
sostanzialmente al sistema naturale, e all'ordine delle cose, e sono essenziali e necessarie alla
felicità e perfezione dell'uomo. (24 Maggio 1821)”13.
Il tema dell’illusione è fondamentale nel pensiero leopardiano: come abbiamo visto, una
schietta indagine razionale sulla condizione umana non può non rivelare l’assurdità della stessa, la
quale risulta infine essere una grottesca commedia, eternamente uguale a se stessa, una lotta senza
quartiere per la sopravvivenza che si ammanta però di ridicole pretese di grandezza ed eternità. E’
necessario coltivare delle illusioni – pena una costante e feroce consapevolezza di un destino
infausto – ma esse rimangono tuttavia finzioni, narrazioni più o meno belle che non riescono a
nascondere l’abisso.
Il riconoscimento di questa comune condizione apre però la possibilità di una nuova
solidarietà tra gli uomini: solo quando l’uomo avrà deposto il suo vano orgoglio e capito che la sua
vita è dura sopravvivenza nella costante lotta contro l’indifferenza della natura universale, allora
saprà trovare la legge di una nuova fraternità: “Costei (la natura) chiama inimica; e incontro a
questa / congiunta esser pensando/ siccome è il vero, ed ordinata in pria/ l’umana compagnia/ tutti
fra sé confederati estima/ gli uomini, e tutti abbraccia/ con vero amor, porgendo/ valida e pronta ed
aspettando aita/ negli alterni perigli e nelle angosce/ della guerra comune”14.
Ecco il ‘solidarismo’ dell’ultimo Leopardi, che costituisce il messaggio della Ginestra. È il
coronamento dell’umanesimo leopardiano, il momento conclusivo dell’intera parabola umana e
poetica di Leopardi. Illuminate e dissipate le tenebre dell’inganno (“E gli uomini preferirono le
tenebre alla luce” suona l’epigrafe al canto), l’umanità può ritrovarsi nella comune lotta, in un
fraterno abbraccio.
Si è spesso insistito sul carattere “pessimista” della filosofia leopardiana, attribuendo
peraltro a tale valutazione un significato prevalentemente negativo. Leopardi sarebbe, secondo
alcune indegne interpretazioni, un maledetto dalla sorte e dalla stessa natura, gobbo, deforme,
sfortunato, una specie di caricatura umana incapace di comprendere il “vero” senso dell’esistenza a
causa delle sue menomazioni; inutile specificare come tali “interpretazioni” pecchino di una
grossolanità ai confini del triviale, dimenticando passi dell’opera leopardiana come il canto
d’apertura del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, in cui il coro dei morti così si
interroga: “Che fummo?Che fu quel punto acerbo che di vita ebbe nome? Cosa arcana e stupenda
oggi è la vita al pensier nostro […]”15. Cosa arcana e stupenda: sono queste le parole di un
“pessimista”?

- Nietzsche: l’Oltre-uomo (Über-mensch)


“Io vi insegnerò cos’è il Superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che cosa
avete fatto per superarlo? Tutti gli esseri fino ad oggi hanno creato qualcosa che andava al di là di

13
G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, Garzanti, Milano 1991
14
G. Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto
15
Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, in G. Leopardi, Operette Morali
loro stessi: e voi invece volete essere la bassa marea di questa grande ondata e tornare ad esser
bestie piuttosto che superare l’uomo?”16.
Il concetto di “Über-mensch”, figura centrale della filosofia nietzscheana, è stato oggetto di
contrastanti interpretazioni. C’è stato chi ha voluto vedere in esso la prefigurazione del “tipo ideale”
propugnato dall’ideologia nazista, un uomo selvaggio e totalmente a-morale il cui scopo fosse
l’assoggettamento violento e l’eliminazione dei “deboli”: e in tutta onestà tale interpretazione non è
priva di fondamento. Alcuni passi dell’opera del filosofo tedesco forniscono valide pezze
d’appoggio per tale interpretazione, è facile rintracciare brani in cui l’antisemitismo viene
incoraggiato, in cui il disprezzo per la pietà sembra aprire la strada ad un ideale umano feroce e
spietato; in più punti Nietzsche insiste a dividere l’umanità in forti e deboli, in schiavi e liberi,
dando luogo a pericolose dicotomie che si prestano facilmente ad interpretazioni tendenziose. C’è
da dire però che l’opera di “nazificazione” di Nietzsche fu favorita immensamente dall’opera
propagandistica messa in atto dalla sorella del pensatore, Elizabeth Förster-Nietzsche, direttrice
dell’archivio Nietzsche fondato dopo la morte del fratello: la “leggenda” del Nietzsche nazista fu in
gran parte costruita da Elizabeth, attraverso un’opera ingenua di pubblicizzazione dell’opera del
fratello come espressione del “nuovo spirito germanico”, in linea con l’affermazione degli ideali
nazisti durante gli anni ’20 e ’30. A comprova di questa affermazione, riportiamo un passo di un
autore italiano, Primo Levi: “Il verbo di Nietzsche mi ripugna profondamente; stento a trovarvi
un'affermazione che non coincida con il contrario di quanto mi piace pensare; mi infastidisce il suo
tono oracolare; ma mi pare che non vi compaia mai il desiderio della sofferenza altrui.
L'indifferenza sì, quasi in ogni pagina, ma mai la Schadenfreude, la gioia per il danno del
prossimo, né tanto meno la gioia del far deliberatamente soffrire. Il dolore del volgo, degli
Ungestalten, degli informi, dei non-nati-nobili, è un prezzo da pagare per l'avvento del regno degli
eletti; è un male minore, comunque sempre un male; non è desiderabile in sé. Ben diversi erano il
verbo e la prassi hitleriani”.17
Accantonata la questione dell’eredità nietzscheana, proviamo a dare un quadro coerente
della “soluzione” proposta da Nietzsche al Götzendämmerung, il “crepuscolo degli idoli”, metafora
utilizzata per significare la caduta delle metafisiche e degli ideali salvifici maturati lungo la storia
del pensiero. Proveremo a descrivere tale soluzione – satura di significati estremamente prolifici per
il seguito della storia della filosofia – ricostruendo la parabola dell’argomentazione nietzscheana per
punti.
1) I valori morali
A che servono i valori morali? Può sembrare una domanda assurda, dal momento che la
storia del pensiero e della civiltà occidentale si è costruita attorno al riconoscimento di alcuni valori
fondamentali, in grado di fondare la giustizia e la condotta morale degli individui. L’esistenza di tali
valori, nella cultura occidentale, è strettamente legata all’affermazione in Europa del cristianesimo,
religione professata dalla stragrande maggioranza della popolazione europea.
Abbiamo visto come, nella prospettiva del nichilismo, le narrazioni metafisiche – ed il
cristianesimo rientra a pieno titolo in questa categoria – non sono altro che illusioni, tentativi più o
meno riusciti di nascondere l’evidenza del nulla, dell’insensatezza, del carattere autoreferenziale e
violento dell’impulso vitale e dell’istinto di conservazione. Nietzsche non si attarda
nell’argomentare tale idea: la necessità del conforto, la debolezza umana di fronte al vuoto, sono
assunte come dati fondamentali, inevitabili punti di partenza per descrivere una genealogia della
morale. Le narrazioni metafisiche e le loro implicazioni morali costruiscono un senso dell’esistenza
specifico: ciò che resta da chiedersi è soltanto quale idea della vita, quale essere umano sia
prodotto da tali narrazioni.
Nietzsche investe in pieno i fondamenti dell’etica cristiana: l’ascetismo, la moderazione
spinta sino alla mortificazione della carne, l’annullamento del singolo davanti a Dio, la pietà, la
svalutazione della mondanità nella speranza di una beatitudine ultraterrena. Sono questi gli assunti
16
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra
17
P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986
di base della morale cristiana, e da essi appare lampante come essa predichi un rifiuto del mondo,
delle sue atrocità ma anche dei suoi pregi, in virtù della credenza in un luogo di eterna pace che non
è di questo mondo. Il cristianesimo distoglie l’uomo dalla terra, lo rende umile, sottomesso,
propenso a subire l’autorità; lo incasella in un ordine in cui esso è nulla, lo conduce alla vergogna di
sé, privilegia l’anima sul corpo: in quest’ultimo senso il cristianesimo è derivato dal platonismo,
rispecchia la struttura del cosmo platonico separato in due mondi, uno imperfetto, materiale, pura
apparenza di valore, l’altro perfetto, sede della verità, immobile ed eterno.

2) Il cristianesimo e la genealogia della morale


Con il cristianesimo, secondo Nietzsche, nasce una grave malattia che affligge il genere
umano: il senso di colpa. La nozione di colpa ha origine, a parere di Nietzsche, dal concetto di
debito, ossia di ciò che é dovuto per compensare un danno materiale. Per lungo tempo, nella storia
umana, le pene furono inflitte per ira, non perchè si credeva che l'autore di un danno ne fosse
responsabile, in quanto, essendo libero, avrebbe potuto agire diversamente. Allora il piacere di far
violenza all'autore di un danno e il dolore che questi ne riceveva erano considerati equivalenti in
valore al danno subito. In quelle epoche arcaiche, l'umanità non si vergognava della sua crudeltà; é
il cosiddetto "incivilimento", invece, stando a Nietzsche, che ha condotto la bestia-uomo a
vergognarsi di tutti i suoi istinti. Con l'apparizione del Dio cristiano fa la sua comparsa il senso di
colpa, in quanto il dolore e l'infelicità sono giustificati imputandoli ad una colpa commessa nei
confronti dell'entità suprema, Dio, che diventa quindi il massimo creditore. La colpa trova la sua
sede più propria nell'interiorità della coscienza, più che nell'atto materialmente compiuto, ma, in tal
modo, gli istinti vengono indirizzati verso l'interno, in modo da impedire che essi si sfoghino
all'esterno, sugli altri: gli istinti dell'uomo primitivo, l'inimicizia, la crudeltà, il piacere
dell'aggressione, finiscono così per rivolgersi contro l'uomo stesso, che si rode e perseguita se
stesso.
Con il cristianesimo trionfa, dunque, una nuova malattia, la più grave: la sofferenza che
l'uomo impartisce a se stesso, e così il fine della moralità viene ad essere riposto non più nella
felicità terrena, bensì nell'infelicità terrena: "La decisione cristiana di trovare il mondo brutto e
cattivo, ha reso brutto e cattivo il mondo”18. Rassegnazione, umiltà, compassione e tutti gli altri
valori determinanti l'affermazione dell'eguaglianza come principio sociale e politico vengono
smascherati grazie a una rigorosa attività filologica e psicologica che porta il filosofo a individuare
nel ressentiment (risentimento) e nella rivolta degli schiavi nella morale che ne deriva, le cause di
un generale appiattimento dell'umanità, un livellamento verso il basso. Trasvalutando infatti i valori
aristocratico-cavallereschi con un processo lungo e graduale, la classe sacerdotale (del risentimento
per eccellenza, in quanto massimamente impotente) ha compiuto la sua vendetta, generando la
sabbia dell'umanità.

3) La trasvalutazione di tutti i valori ed l’Oltre-uomo


A fronte di questa tradizione platonico-cristiana, affermatasi attraverso una storia millenaria
ed assurta a detentrice dell’orizzonte morale occidentale, lo smascheramento delle radici
psicologiche e storiche svolge una duplice funzione. Da una parte, infatti, tale operazione riporta
“sulla terra” l’origine della morale cristiana, eliminando il fattore trascendente e attualizzandola
nelle concrete situazioni storiche che l’hanno prodotta: il cristianesimo è un prodotto umano -
troppo umano, dirà Nietzsche. D’altra parte, la genealogia dei sentimenti morali occidentali
conduce alla considerazione della possibilità e della necessità di trasvalutare questi valori, di
andare oltre i limiti che essi impongono, ripensando la natura umana al di fuori degli angusti vincoli
impostigli da una cultura che si rivela masochista nel profondo.
Si apre così uno spiraglio per il nichilismo attivo, capace di portare ad una trasvalutazione di
tutti i valori. Zarathustra é un personaggio messo in piedi da Nietzsche come contraltare della figura
di Cristo: anche lui é venuto per portar via molti dal gregge e dai pastori, cioè quei seguaci
18
F. Nietzsche, La gaia scienza e gli idilli di Messina, Adelphi, Milano 1977
dell'ortodossia che odiano chi "spezza le loro tavole dei valori". Ma la verità nuova di cui
Zarathustra si fa portavoce é che Dio é morto : "Dio é una supposizione" dell'uomo, caduta la quale
non c'é più nulla da temere, nè diavolo, nè inferno, nè occorre più nutrire speranze ultraterrene, ma
si può tornare ad essere fedeli alla terra e alla vita, senza farsi annebbiare da speranze di vita
ultraterrena; e d'altronde Dio non era altro che una limitazione artistica per l'uomo, che si trovava
dei valori già belli e pronti, doveva solo rispettarli: l'uomo deve essere un creatore di valori e poi
"che resterebbe da inventare se esistessero gli dèi?".
Zarathustra é il "senzadio", che proprio per questo motivo ha acquistato una nuova
leggerezza, può danzare, ridere e rovesciare le vecchie tavole dei valori, in opposizione ai
dispregiatori del corpo, ai rassegnati, allo spirito di gravità (che impedisce agli uomini superiori di
spiccare il volo) ; e Zarathustra stesso dice che potrebbe credere solo in un Dio che sapesse danzare.
Con la morte di Dio crollano i valori, che sancivano il "no" perentorio alla vita terrena, il disprezzo
di essa nella convinzione che ve ne fosse un'altra ("un mondo dietro il mondo", dice Nietzsche), e
viene anche a cadere la supposizione dell'uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio: e infatti, da
che mondo é mondo, la plebe ha sempre sostenuto: "Noi siamo tutti uguali,l' uomo é uomo;davanti
a Dio siamo tutti uguali!. Davanti a Dio ! Ma questo Dio é morto. Davanti alla plebe, però, noi non
vogliamo essere uguali”. Zarathustra può dunque completare il suo annuncio profetico in questi
termini: "Morti sono tutti gli dèi: ora vogliamo che il superuomo viva." Dal momento che non c'é
più un Dio che dice all'uomo che cosa fare, l'uomo deve giungere con un balzo, più che con
un'evoluzione graduale, a un superamento dell'uomo come é stato sinora: l'uomo é qualcosa di
transitorio ed é paragonato da Nietzsche ad " un cavo teso tra la bestia e il superuomo 19" : l'uomo
non é un punto di arrivo, ma di partenza, per dare qualcosa in più, per arrivare al superuomo. Il
superuomo non si trova più, come l'uomo, tra la realtà divina e quella animale, ma poggia soltanto
su se stesso, pronto ad affrontare il pericolo dell'esperimento di nuove forme di vita.
Quel che insegna Zarathustra é una nuova volontà, la volontà libera, capace di creare il
nuovo. La morte di Dio e la trasvalutazione dei valori permettono all'uomo di oltrepassare e
superare se stesso e di spingersi verso il nuovo, verso ciò che non é ancora stato scoperto nè
sperimentato. Ma ogni creazione comporta al tempo stesso distruzione: il nuovo può emergere solo
attraverso la distruzione del vecchio e, dunque, attraverso la sofferenza. La nuova virtù diventa
allora la potenza. Nietzsche sa bene che non é facile accettare la nuova realtà, senza il "Dio-
protettore" in cui credere, ma sa che senza Dio il "mare" che ci sta davanti é aperto come non mai,
pronto a navigazioni artistiche e spericolate, forse non troppo sereno, ma comunque di una vastezza
incommensurabilmente maggiore a quando era sovrastato da Dio: "noi filosofi e spiriti liberi, alla
notizia che il vecchio Dio é morto, ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora; il
nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presagio, d'attesa - finalmente
l'orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non é sereno, finalmente possiamo di
nuovo sciogliere le vele alle nostre navi, muovere incontro a ogni pericolo; ogni rischio dell'uomo
della conoscenza é di nuovo permesso; il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse
non vi é ancora mai stato un mare così aperto..."20.

Conclusioni
Il passaggio affrontato in queste pagine segna un punto di non ritorno per la storia del
pensiero occidentale: il crollo delle costruzioni metafisiche è totale e definitivo, dopo Nietzsche si
apre un’epoca di profondo ripensamento delle categorie filosofiche occidentali. Si tratta di una
radicale crisi dei fondamenti che investe in pieno la possibilità stessa della metafisica: dopo Kant,
che con la sua opera aveva messo in evidenza i limiti della conoscenza filosofica, è Nietzsche il
rappresentante più autorevole di questa crisi.
Tuttavia, vale la pena di ricordare che la parola crisi si origina dal greco krino, letteralmente
“scelta”: le prospettive aperte dal nichilismo attivo nietzscheano, dal solidarismo leopardiano e – in
19
Tutte le citazioni nel paragrafo sono tratte da F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra
20
F. Nietzsche, La gaia scienza e gli idilli di Messina
misura decisamente meno influente – dall’anti-volontarismo schopenhaueriano forniscono delle
chiavi di accesso per una nuova filosofia, un sapere umano e terrestre che si affranchi dai pregiudizi
maturati nel corso della sua storia, per rifondare sé stessa a partire da nuove prospettive. Se però
dall’impostazione leopardiana emerge la stanchezza verso una tradizione che ha mostrato le sue
imperfezioni, la sua incapacità di perdurare mascherando ulteriormente la sua fragilità, contraltare
necessario della sua pretesa eternità, nella visione nietzscheana – con le dovute cautele – è possibile
leggere una potente spinta a pensare diversamente, nell’ottica di uno sviluppo del pensiero e della
vita che non abdichi la sua responsabilità nei confronti del futuro rifugiandosi in una “tradizione” o
in un “si” impersonale nei confronti delle impostazioni teoriche e morali figlie della storia. La
filosofia nietzscheana esorta a pensare il futuro, ed in quest’ottica il messaggio del nichilismo attivo
è un importante stimolo per la costruzione di nuove weltanschauungen che sappiano tagliare i ponti
col passato per immaginare un futuro diverso.
Resta il fatto, però, che il periodo in cui si sviluppa l’opera dei tre pensatori è gravido di
avvenimenti ed eventi fondamentali per la sorte della stessa civiltà europea: tra la fine dell’800 e
l’inizio del ‘900 maturano i germi dei grandi e tremendi sconvolgimenti che funesteranno il mondo
per lunghissimo tempo. Il Novecento, secolo ambiguo e multiforme, nasce come una scommessa e
un’aspettativa, ma presto si arena nelle sue stesse contraddizioni, dando vita agli avvenimenti più
sconvolgenti che la storia umana abbia mai conosciuto. E’ difficile interpretare un secolo come
quello che si para davanti agli uomini dopo la morte di Dio: ma è sicuramente vero che ogni
momento del pensiero segna una nuova consapevolezza, dalla quale non si torna indietro.

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