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Ma l’operazione hegeliana era destinata a mostrare, nella sua imponenza, una irriducibile
mancanza, l’impossibilità cioè di fronteggiare una possibilità, un’ipotesi dirompente in grado di
vanificare d’un colpo gli sforzi sovraumani messi in campo dalla storia della filosofia. Già, perché
lo sviluppo della filosofia non mostra di fare i conti con un’eventualità inquietante: la possibilità,
cioè, che la razionalità umana sia impotente di fronte al mondo: da questa prospettiva cade il
presupposto che il caos sia riducibile ad un kosmos, che il divenire sia sensato, e che risponda alla
razionalità che tenta di inquadrarlo. Cosa assicura infatti che il senso del divenire sia
necessariamente razionale? Cosa impedisce di pensare che l’emergere dal nulla degli enti e la loro
dissoluzione non risponda ad alcuna legge armonica? Dove troviamo la garanzia del fatto che la
stessa vita umana sia intrinsecamente dotata di un senso? La vertigine provocata da interrogativi
come questi può facilmente indurci a postulare un senso, a descrivere la vicenda umana all’interno
di un ordine eterno, precostituito, salvifico. Ma sappiamo bene che ogni postulazione apre un
orizzonte di discorso destinato a perdere ogni significato nel momento in cui gli assunti
fondamentali vengono revocati in dubbio. Ed è questa la strada scelta da Schopenhauer, Nietzsche e
Leopardi, una via impervia ed impopolare, che rappresenta però un tentativo radicale di
rifondazione del modello di razionalità occidentale. Tale impresa si impernia su alcune analisi, che
si ritrovano in questi autori: vale la pena di presentarle in sintesi, in modo da avere un quadro di
massima che ci permetta di comprendere le possibilità aperte da tale impostazione.
1
G. Leopardi, Copernico: il dialogo, in Operette Morali, Garzanti, Milano 1984
2
ivi
stessi. Però chiunque consente di vivere, nol fa in sostanza ad altro effetto né con altra utilità che di
sognare; cioè credere di avere a godere, o di aver goduto; cose ambedue false e fantastiche.”3
L’insensatezza del divenire conduce con sé questa incontrovertibile certezza: qualora la
felicità umana sia concepita come un continuo progresso, un accrescimento del piacere ed una
ricerca infinita di un godimento maggiore – e questo appare inevitabile, in virtù della stessa natura
umana – essa è definitivamente preclusa. Un’analisi più approfondita della condizione umana non
può nascondere l’evidenza del fatto che “La vita della maggioranza non è che continua battaglia
per l'esistenza, con la certezza della sconfitta finale. Ma ciò che fa perdurare l'uomo in questa
battaglia così accanita non è tanto l'amor della vita, quanto la paura della morte. La vita stessa è
un mare pieno di scogli e di vortici, ai quali l'uomo cerca di sfuggire con massima prudenza e cura,
pur sapendo che, anche quando riesca con sforzi e precauzioni di scamparne, si avvicina ad ogni
passo, anzi vi dirige in linea retta il timone, al totale, inevitabile, irreparabile naufragio: la morte.
La sua esistenza dunque è un perenne morire. Come il nostro cammino ci appare come una caduta
costantemente trattenuta, così la vita del nostro corpo è una morte costantemente trattenuta, una
morte rinviata ad ogni istante.”4 Il divenire, dunque, è fondamentalmente impietoso con il genere
umano, è un movimento che non ha alcun senso che non il suo semplice realizzarsi. In questo senso
Schopenhauer potrà affermare che il mondo è espressione di una volontà cieca ed irrazionale, che
tende semplicemente alla sua auto-affermazione. Il divenire, lungi dall’essere un processo di
sviluppo e di progresso, è semplicemente un movimento inesausto, a-teleologico, che non ha alcun
obiettivo al di là della sua pura e semplice realizzazione.
L’esistenza non è altro che un continuo scacco, una ricerca interminabile di un obiettivo che
si allontana continuamente, irraggiungibile come la tartaruga che Achille non poteva mai afferrare
nel famoso paradosso di Zenone. Se dunque la natura segue una razionalità intrinseca, tale ordine
non esiste in funzione della felicità umana: la pretesa centralità dell’uomo nell’universo naturale,
già profondamente scalfita dalla rivoluzione copernicana, riceve un colpo mortale. La pretesa di
dominio dell’uomo sul mondo viene profondamente scossa dall’affermazione di un ordine dis-
umano che regola il Tutto. La stessa Natura, nel suo dialogo col viandante islandese, non nasconde
il suo carattere a-teleologico, il suo fondamentale disinteresse nei confronti della vicenda umana.
L’islandese muore dopo aver formulato il fatidico quesito: “Ma poiché quel che è distrutto, patisce;
e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che
nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo,
conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?”5. La risposta arriva
immediatamente dopo: la morte dell’islandese serve a nutrire due macilenti leoni, per prolungare di
pochissimo l’evenienza della loro stessa inevitabile fine.
La metafora della Ginestra, utilizzata da Leopardi nell’opera che può essere considerata il
testamento spirituale dell’autore, rende perfettamente conto della condizione umana, che risulta
fragile, passeggera ma ciononostante gonfia di un orgoglio immotivato. Il pensiero dei Lumi, “sol
per cui risorgemmo della barbarie in parte/ e per cui solo si cresce in civiltà/ che sola in meglio
guida i pubblici fati”6 è dimenticato a favore di un borioso ottimismo, caratteristica ridicola del
“secol superbo e sciocco/ che il calle, insino allora dal risorto pènsièr segnato innanti
abbandonasti/ e volti addiètro i passi/ del ritornar ti vanti / e procèdere il chiami.”7 La critica,
rivolta all’atteggiamento dell’uomo verso il mondo e verso la felicità, si articola in una polemica
contro l’ingenuo Romanticismo, il secolo delle “magnifiche sorti e progressive”8.
- L’apollineo e il dionisiaco
3
Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, in G. Leopardi, op.cit.
4
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I Meridiani Mondadori, Milano, 1989
5
Dialogo della Natura e di un islandese, in G. Leopardi, op.cit.
6
G. Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto, in Canti, Milano, Garzanti 1991
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ivi
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Il contributo di Friedrich Nietzsche (1844-1900) è determinante per comprendere come
l’affermazione del “mito” della razionalità universale affondi le sue radici in una rimozione
originaria, per utilizzare una terminologia psicoanalitica. Lo sviluppo della filosofia è legato alla
progressiva eliminazione, dal campo della riflessione, degli elementi irrazionali, irriducibili al logos
regolatore, legati agli aspetti sensuali, estatici, violenti e passionali dell’esistenza dell’uomo e del
mondo.
Ancora al tempo di Nietzsche dominava, nell'ambiente dei filologi classici, l'immagine di un
mondo greco unitario e intrinsecamente armonico. Si riteneva cioè che la storia dei Greci
rappresentasse l'evoluzione di un atteggiamento spirituale costante, caratterizzato dalla serenità,
dall'armonia, e dal senso dell'equilibrio; e che tale atteggiamento trovasse espressione in tutti gli
aspetti della vita per tutto l'arco della vicenda storica di quel popolo. Il mondo greco, insomma,
appariva, per usare il linguaggio di Nietzsche, la manifestazione di uno spirito apollineo. Ma,
osserva il filosofo, questo è solo un aspetto della cultura e della vita dei Greci antichi; infatti
accanto a quello apollineo è presente anche uno spirito dionisiaco, un atteggiamento cioè di
«rottura» di tutti i canoni morali e di tutti gli «schemi» di comportamento sociale, un atteggiamento
di esaltazione sfrenata della vita in tutte le sue forme; esaltazione celebrata col trionfo degli istinti,
specialmente di quello sessuale, e vissuta in una dimensione psicologica di ebbrezza. Accanto alla
religione olimpica, espressione dello spirito apollineo, era ben viva infatti quella religiosità che
ebbe i suoi momenti più significativi nelle feste dionisiache, dominate dalla danza orgiastica.
Accanto alla scultura e all'architettura, espressioni artistiche prevalenti dello spirito apollineo,
trovarono il loro posto anche la musica e la poesia lirica, frutti propri dello spirito dionisiaco. Se si
tiene conto di questo duplice aspetto dello «spirito greco», allora la storia dei Greci appare
distinguibile in tre fasi: la prima, quella “pre-socratica”, in cui spirito apollineo e spirito dionisiaco
convivono separati e opposti tra loro; la seconda, quella dei grandi tragici, in cui essi si
armonizzano dando vita alle grandi opere dell'arte antica; la terza, che ha inizio con Euripide e con
Socrate, in cui lo spirito apollineo assoggetta progressivamente quello dionisiaco, fino a separarsene
completamente con l'epoca alessandrina.
Con l'affermarsi della filosofia decresce e si depaupera, nella cultura e nella vita greche, lo
spirito dionisiaco; Socrate propone infatti l'assoggettamento dell'istinto, della passione, alla guida
della ragione. Con ciò ha inizio quella scissione interna all'uomo tra ragione e istinto e quella tra
uomo e natura; scissioni che domineranno nell'epoca alessandrina e che costituiranno nella lettura
nietzscheana, il triste retaggio della civiltà occidentale. L'ideale dell'uomo così non è la vita ma la
scienza; l'uomo perde i contatti con la forza vitale della natura, che poi è la sua essenza propria, e si
chiude orgoglioso in se stesso, fiducioso della sua capacità conoscitiva; ossia si chiude nella sua
presunzione di rivelare con la scienza gli enigmi del reale.
La progressiva cancellazione dello spirito dionisiaco però, lungi dal rappresentare
quell’aureo dominio sulle passioni predicato dalle saggezze antiche, presenta un inquietante
risvolto: privato del suo naturale istinto alla vita, “[…] l'individuo si sgomenta, diviene timido e
incerto, non crede più nelle proprie forze: ripiega in se stesso, nell'intimità del proprio animo, e
cioè nel vuoto caotico del dato appreso che non può agire esteriorizzandosi, della dottrina che non
diventa vita... La soppressione degli istinti per mezzo della storia ha reso gli uomini pure astrazioni
ed ombre: nessuno osa più esporre la propria personalità, ma ciascuno prende la maschera di un
uomo colto, di dotto, di poeta, di uomo politico. Se esaminiamo poi quelle maschere[...] ci troviamo
improvvisamente fra le mani soltanto stracci e cenci variopinti.”9
Questa dunque è la condizione dell'uomo moderno. Ma lo spirito dionisiaco ribolle; esso
tende a riemergere; come mostra la filosofia di Schopenhauer, il quale ha restituito alla vita i suoi
caratteri propri, riscoprendo l'irrazionalità del reale, la relatività e la vacuità dei valori tradizionali; e
come indica la musica di Wagner, in cui viene celebrata la condizione tragica dell'uomo.
Schopenhauer e Wagner hanno smascherato millenni di imposture sulla realtà, sulla vita
dell'individuo, sulla società e sulla storia, costruite dallo spirito «scientifico» della civiltà
9
F. Nietzsche, Considerazioni sulla storia universale
occidentale, che ha inibito per secoli la varietà, la diversità, la ricchezza, la forza dello spirito
dionisiaco.
Di fronte allo spettacolo tragico, presentato da Schopenhauer, di un universo attraversato da
una forza prepotente che semina lotte, distruzioni e morte, per Nietzsche - che riconosce autentica
questa visione - non restano all'uomo che due modi possibili di esistenza, opposti tra loro:
a) disconoscere questo mondo, dichiarare la propria estraneità di fronte ad esso, o
rifiutandolo con l'ascetismo, o accettandolo con rassegnazione, in virtù dell'assunzione di ideali
etico-religiosi del tipo di quelli cristiani, oppure ancora astraendosi in arbitrarie costruzioni
filosofiche, che, sì, portano l'uomo fuori dal frastuono del mondo ma, al tempo stesso, lo rendono
«esangue»;
b) «leggere» in modo diverso questo mondo e la sua stessa forza distruttiva, riconoscendo in
essa la forza vitale che proprio attraverso la distruzione crea vita, che attraverso la lotta genera
armonia, che attraverso il dolore produce la felicità; e adeguare il comportamento individuale a
questo modo diverso d'intendere la realtà.
Schopenhauer ha colto che l'universo è dominato dalla volontà di potenza; ma di fronte a
questa forza irrefrenabile è rimasto atterrito, e il suo spirito filosofico non ha saputo fare altro che
teorizzare l'ascetismo. Bisogna invece gettarsi dentro la vita, liberando in se stessi quella volontà di
vivere, quella volontà di «potere», da ogni limite e condizionamento. L'uomo nuovo dev'essere
«dionisiaco», deve vivere al modo di Dioniso, il dio che ride canta e balla abbandonandosi alla gioia
di vivere e esaltando in sé l'energia vitale in tutte le sue possibili manifestazioni.
10
Aristotele, Metafisica, BUR, Milano 2002
11
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1972
prospettiva escatologica. Ma cosa ci consentirà adesso di vivere? Come fare ad evitare la
disperazione che la visione del nulla spontaneamente ingenera nell’animo umano?
Su questo punto, le prospettive dei tre autori discussi nella presente trattazione si fanno
divergenti. E’ opportuno analizzare le loro prospettive separatamente, per poi trarre qualche
conclusione finale.
- Leopardi: le illusioni
12
A. Schopenhauer, op.cit.
“Se fosse veramente utile, anzi necessario alla felicità e perfezione dell'uomo il liberarsi dai
pregiudizi naturali (dico i naturali, e non quelli di una corrotta ignoranza), perché mai la natura
gli avrebbe tanto radicati nella mente dell'uomo, opposti tanti ostacoli alla loro estirpazione, resa
necessaria sì lunga serie di secoli ad estirparli, anzi solamente a indebolirli; resa anche
impossibile l'estirpazione assoluta di tutti, anche negli uomini più istruiti, e in guisa che anche oggi
(lasciando i popoli incolti) in una grandissima, anzi massima parte degli stessi popoli coltissimi,
dura grandissima parte di tali pregiudizi che si stimano direttamente contrari al ben essere ed alla
perfezione dell'uomo? Anzi perché mai gli avrebbe solamente posti nella mentre dell'uomo da
principio? (24 Maggio 1821) “.
“Per lo contrario, dimostrando come le illusioni sieno state direttamente favorite dalla
natura, come risultino dall'ordine delle cose vengo a dimostrare ch'elle appartengono
sostanzialmente al sistema naturale, e all'ordine delle cose, e sono essenziali e necessarie alla
felicità e perfezione dell'uomo. (24 Maggio 1821)”13.
Il tema dell’illusione è fondamentale nel pensiero leopardiano: come abbiamo visto, una
schietta indagine razionale sulla condizione umana non può non rivelare l’assurdità della stessa, la
quale risulta infine essere una grottesca commedia, eternamente uguale a se stessa, una lotta senza
quartiere per la sopravvivenza che si ammanta però di ridicole pretese di grandezza ed eternità. E’
necessario coltivare delle illusioni – pena una costante e feroce consapevolezza di un destino
infausto – ma esse rimangono tuttavia finzioni, narrazioni più o meno belle che non riescono a
nascondere l’abisso.
Il riconoscimento di questa comune condizione apre però la possibilità di una nuova
solidarietà tra gli uomini: solo quando l’uomo avrà deposto il suo vano orgoglio e capito che la sua
vita è dura sopravvivenza nella costante lotta contro l’indifferenza della natura universale, allora
saprà trovare la legge di una nuova fraternità: “Costei (la natura) chiama inimica; e incontro a
questa / congiunta esser pensando/ siccome è il vero, ed ordinata in pria/ l’umana compagnia/ tutti
fra sé confederati estima/ gli uomini, e tutti abbraccia/ con vero amor, porgendo/ valida e pronta ed
aspettando aita/ negli alterni perigli e nelle angosce/ della guerra comune”14.
Ecco il ‘solidarismo’ dell’ultimo Leopardi, che costituisce il messaggio della Ginestra. È il
coronamento dell’umanesimo leopardiano, il momento conclusivo dell’intera parabola umana e
poetica di Leopardi. Illuminate e dissipate le tenebre dell’inganno (“E gli uomini preferirono le
tenebre alla luce” suona l’epigrafe al canto), l’umanità può ritrovarsi nella comune lotta, in un
fraterno abbraccio.
Si è spesso insistito sul carattere “pessimista” della filosofia leopardiana, attribuendo
peraltro a tale valutazione un significato prevalentemente negativo. Leopardi sarebbe, secondo
alcune indegne interpretazioni, un maledetto dalla sorte e dalla stessa natura, gobbo, deforme,
sfortunato, una specie di caricatura umana incapace di comprendere il “vero” senso dell’esistenza a
causa delle sue menomazioni; inutile specificare come tali “interpretazioni” pecchino di una
grossolanità ai confini del triviale, dimenticando passi dell’opera leopardiana come il canto
d’apertura del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, in cui il coro dei morti così si
interroga: “Che fummo?Che fu quel punto acerbo che di vita ebbe nome? Cosa arcana e stupenda
oggi è la vita al pensier nostro […]”15. Cosa arcana e stupenda: sono queste le parole di un
“pessimista”?
13
G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, Garzanti, Milano 1991
14
G. Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto
15
Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, in G. Leopardi, Operette Morali
loro stessi: e voi invece volete essere la bassa marea di questa grande ondata e tornare ad esser
bestie piuttosto che superare l’uomo?”16.
Il concetto di “Über-mensch”, figura centrale della filosofia nietzscheana, è stato oggetto di
contrastanti interpretazioni. C’è stato chi ha voluto vedere in esso la prefigurazione del “tipo ideale”
propugnato dall’ideologia nazista, un uomo selvaggio e totalmente a-morale il cui scopo fosse
l’assoggettamento violento e l’eliminazione dei “deboli”: e in tutta onestà tale interpretazione non è
priva di fondamento. Alcuni passi dell’opera del filosofo tedesco forniscono valide pezze
d’appoggio per tale interpretazione, è facile rintracciare brani in cui l’antisemitismo viene
incoraggiato, in cui il disprezzo per la pietà sembra aprire la strada ad un ideale umano feroce e
spietato; in più punti Nietzsche insiste a dividere l’umanità in forti e deboli, in schiavi e liberi,
dando luogo a pericolose dicotomie che si prestano facilmente ad interpretazioni tendenziose. C’è
da dire però che l’opera di “nazificazione” di Nietzsche fu favorita immensamente dall’opera
propagandistica messa in atto dalla sorella del pensatore, Elizabeth Förster-Nietzsche, direttrice
dell’archivio Nietzsche fondato dopo la morte del fratello: la “leggenda” del Nietzsche nazista fu in
gran parte costruita da Elizabeth, attraverso un’opera ingenua di pubblicizzazione dell’opera del
fratello come espressione del “nuovo spirito germanico”, in linea con l’affermazione degli ideali
nazisti durante gli anni ’20 e ’30. A comprova di questa affermazione, riportiamo un passo di un
autore italiano, Primo Levi: “Il verbo di Nietzsche mi ripugna profondamente; stento a trovarvi
un'affermazione che non coincida con il contrario di quanto mi piace pensare; mi infastidisce il suo
tono oracolare; ma mi pare che non vi compaia mai il desiderio della sofferenza altrui.
L'indifferenza sì, quasi in ogni pagina, ma mai la Schadenfreude, la gioia per il danno del
prossimo, né tanto meno la gioia del far deliberatamente soffrire. Il dolore del volgo, degli
Ungestalten, degli informi, dei non-nati-nobili, è un prezzo da pagare per l'avvento del regno degli
eletti; è un male minore, comunque sempre un male; non è desiderabile in sé. Ben diversi erano il
verbo e la prassi hitleriani”.17
Accantonata la questione dell’eredità nietzscheana, proviamo a dare un quadro coerente
della “soluzione” proposta da Nietzsche al Götzendämmerung, il “crepuscolo degli idoli”, metafora
utilizzata per significare la caduta delle metafisiche e degli ideali salvifici maturati lungo la storia
del pensiero. Proveremo a descrivere tale soluzione – satura di significati estremamente prolifici per
il seguito della storia della filosofia – ricostruendo la parabola dell’argomentazione nietzscheana per
punti.
1) I valori morali
A che servono i valori morali? Può sembrare una domanda assurda, dal momento che la
storia del pensiero e della civiltà occidentale si è costruita attorno al riconoscimento di alcuni valori
fondamentali, in grado di fondare la giustizia e la condotta morale degli individui. L’esistenza di tali
valori, nella cultura occidentale, è strettamente legata all’affermazione in Europa del cristianesimo,
religione professata dalla stragrande maggioranza della popolazione europea.
Abbiamo visto come, nella prospettiva del nichilismo, le narrazioni metafisiche – ed il
cristianesimo rientra a pieno titolo in questa categoria – non sono altro che illusioni, tentativi più o
meno riusciti di nascondere l’evidenza del nulla, dell’insensatezza, del carattere autoreferenziale e
violento dell’impulso vitale e dell’istinto di conservazione. Nietzsche non si attarda
nell’argomentare tale idea: la necessità del conforto, la debolezza umana di fronte al vuoto, sono
assunte come dati fondamentali, inevitabili punti di partenza per descrivere una genealogia della
morale. Le narrazioni metafisiche e le loro implicazioni morali costruiscono un senso dell’esistenza
specifico: ciò che resta da chiedersi è soltanto quale idea della vita, quale essere umano sia
prodotto da tali narrazioni.
Nietzsche investe in pieno i fondamenti dell’etica cristiana: l’ascetismo, la moderazione
spinta sino alla mortificazione della carne, l’annullamento del singolo davanti a Dio, la pietà, la
svalutazione della mondanità nella speranza di una beatitudine ultraterrena. Sono questi gli assunti
16
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra
17
P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986
di base della morale cristiana, e da essi appare lampante come essa predichi un rifiuto del mondo,
delle sue atrocità ma anche dei suoi pregi, in virtù della credenza in un luogo di eterna pace che non
è di questo mondo. Il cristianesimo distoglie l’uomo dalla terra, lo rende umile, sottomesso,
propenso a subire l’autorità; lo incasella in un ordine in cui esso è nulla, lo conduce alla vergogna di
sé, privilegia l’anima sul corpo: in quest’ultimo senso il cristianesimo è derivato dal platonismo,
rispecchia la struttura del cosmo platonico separato in due mondi, uno imperfetto, materiale, pura
apparenza di valore, l’altro perfetto, sede della verità, immobile ed eterno.
Conclusioni
Il passaggio affrontato in queste pagine segna un punto di non ritorno per la storia del
pensiero occidentale: il crollo delle costruzioni metafisiche è totale e definitivo, dopo Nietzsche si
apre un’epoca di profondo ripensamento delle categorie filosofiche occidentali. Si tratta di una
radicale crisi dei fondamenti che investe in pieno la possibilità stessa della metafisica: dopo Kant,
che con la sua opera aveva messo in evidenza i limiti della conoscenza filosofica, è Nietzsche il
rappresentante più autorevole di questa crisi.
Tuttavia, vale la pena di ricordare che la parola crisi si origina dal greco krino, letteralmente
“scelta”: le prospettive aperte dal nichilismo attivo nietzscheano, dal solidarismo leopardiano e – in
19
Tutte le citazioni nel paragrafo sono tratte da F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra
20
F. Nietzsche, La gaia scienza e gli idilli di Messina
misura decisamente meno influente – dall’anti-volontarismo schopenhaueriano forniscono delle
chiavi di accesso per una nuova filosofia, un sapere umano e terrestre che si affranchi dai pregiudizi
maturati nel corso della sua storia, per rifondare sé stessa a partire da nuove prospettive. Se però
dall’impostazione leopardiana emerge la stanchezza verso una tradizione che ha mostrato le sue
imperfezioni, la sua incapacità di perdurare mascherando ulteriormente la sua fragilità, contraltare
necessario della sua pretesa eternità, nella visione nietzscheana – con le dovute cautele – è possibile
leggere una potente spinta a pensare diversamente, nell’ottica di uno sviluppo del pensiero e della
vita che non abdichi la sua responsabilità nei confronti del futuro rifugiandosi in una “tradizione” o
in un “si” impersonale nei confronti delle impostazioni teoriche e morali figlie della storia. La
filosofia nietzscheana esorta a pensare il futuro, ed in quest’ottica il messaggio del nichilismo attivo
è un importante stimolo per la costruzione di nuove weltanschauungen che sappiano tagliare i ponti
col passato per immaginare un futuro diverso.
Resta il fatto, però, che il periodo in cui si sviluppa l’opera dei tre pensatori è gravido di
avvenimenti ed eventi fondamentali per la sorte della stessa civiltà europea: tra la fine dell’800 e
l’inizio del ‘900 maturano i germi dei grandi e tremendi sconvolgimenti che funesteranno il mondo
per lunghissimo tempo. Il Novecento, secolo ambiguo e multiforme, nasce come una scommessa e
un’aspettativa, ma presto si arena nelle sue stesse contraddizioni, dando vita agli avvenimenti più
sconvolgenti che la storia umana abbia mai conosciuto. E’ difficile interpretare un secolo come
quello che si para davanti agli uomini dopo la morte di Dio: ma è sicuramente vero che ogni
momento del pensiero segna una nuova consapevolezza, dalla quale non si torna indietro.