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Capitolo IV

Attualismo e problematicismo

1. La crisi dell’attualismo
Il passaggio da un attualismo ortodosso a riserve critiche sempre più esplicite e
consapevoli avvenne, dunque, in Spirito a cominciare dall’elaborazione e dallo
sviluppo dell’attualismo costruttore. Con esso si ebbe la prima affermazione polemica
nei confronti del Maestro di Castelvetrano, dettata dalla necessità, espressa soprattutto
nella fondazione e nel prosieguo della rivista "Nuovi Studi", di operare un
rinnovamento del diritto, dell'economia e della politica, in cui cominciò a profilarsi una
nuova concezione del rapporto tra scienza e filosofia in termini di identità. Dopo di
allora la crisi si accentuò sempre di più e il programma di ricerca per chiarire i nuovi
punti di vista, nel suo coerente epilogo, dette vita ad un atteggiamento speculativo
caratterizzato da una continua mutevolezza.
La scienza, è vero, era restata sempre al margine degli interessi di Gentile, e ciò ha
contribuito a creare l'opinione che tra i due termini vi fosse in lui una specie di antitesi
irriducibile. E così, a prima vista, sembra difficile sostenere la tesi di uno Spirito che,
nel suo cammino speculativo, porta ad un più coerente e rigoroso sviluppo l'attualismo.
Invece, proprio Gentile gli fornisce le imprescindibili premesse monistiche che gli
consentono di identificare scienza e filosofia, perché il superamento del vecchio
concetto di filosofia, intesa in senso tradizionale, è stato reso operante "soltanto in
virtù dell'attualismo, che, negando definitivamente le categorie filosofiche e
affermando l'unità - infinità delle categorie, ha identificato senza residui la filosofia con
la vita consapevole e cioè con la scienza”.1 Ragion per cui il motivo critico che lo
spinse al distacco non era esterno, ma interno alla stessa filosofia criticata, ”era dovuto
al progressivo chiarimento di esigenze proprie dell'attualismo, sì che le armi che
adoperavo contro di esso mi erano date appunto da esso, e non potevano perciò
mettere capo se non ad un suo intrinseco svolgimento...la mia critica è stata rivolta alla
liberazione dell'attualismo da tutti i motivi tradizionalistici che l'inceppavano, e quindi
all'esplicitazione della sua più profonda essenza ed originalità"2.

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In altri termini, identificando scienza e filosofia egli perviene a far rinascere
un’istanza famosa, già avanzata da Marx nei confronti di Hegel, ossia l'identità di
conoscere e fare (intesa anche in senso politico, rivoluzionario) per la quale non
bisogna interpretare il mondo, ma cambiarlo, che lo spinge a cercare di risolvere
compiutamente ogni trascendenza nella concretezza creatrice dell'atto, in una rigorosa
critica interna, prima contro le varie forme di pseudoattualismo e, poi, contro lo stesso
Gentile. Incomincia, così, ad accorgersi della possibilità di poter distinguere due modi,
tra di loro inconciliabili, di intendere l'attualismo, cioè : 1) il sistema della teoria
generale dello spirito come atto puro e 2) l'attualismo dell'atto. Il primo viene a trovarsi
impigliato nelle maglie della necessità di dover definire una volta per sempre la realtà
del mondo e, quindi, costretto a staccarsene in qualche modo per contemplarla,
comprenderla e determinarla, ricadendo in una nuova forma di dualismo : da una parte
la realtà, dall'altra la definizione di essa sopranuotante ad ogni attività definiente. In
questo caso il filosofo sa che tutto è e sarà spirito, sintesi di soggetto e oggetto,
continuo superamento dialettico, ecc.; perciò presuppone il tutto e ad esso guarda
rimanendone fuori. A questo modo di concepire l'idealismo attuale, Spirito reagisce
contrapponendo un altro ad esso affatto diverso che supera ogni definizione, nella
convinzione che l’atto non si possa definire perché è esso stesso che definisce. Parla,
quindi, di un recupero dell’empirismo e dell’attualità del tutto, assolutizzato nella sua
vita concreta e in atto, per liberare l'attività dello spirito dell'irrigidimento in una
formula definitoria e, così, scansare il pericolo del ristabilimento di una nuova
posizione intellettualistica. L'intento dichiarato è quello di evitare il rinchiudersi in una
forma sistematica di vecchio tipo o, il che è lo stesso, il trastullarsi nella constatazione
che tutto è divenire e che il perdere tempo in lambiccati sofismi sia un atto creativo.
Per non far arenare l'attualismo nelle secche di una definizione del tutto che si possa
porre come un principio estraneo al processo ed irriducibile ad una posizione di
immanenza assoluta, riduce allora la teoria dello spirito alla vita dello spirito, con una
ricerca scientifica basata sullo studio e la trasvalutazione di discipline quali l'economia,
il diritto penale e la politca, allo scopo di verificare l'attualismo, liberandolo da ogni
veste intellettualistica e renderlo fecondo. Respinge, perciò, uno pseudoattualismo che

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avanza la presunzione di poter racchiudere entro ben precisi loculi concettuali l'atto.
Questo è il compito di carattere fondamentale che egli si prefigge nella sua
speculazione iniziale e che determinerà, poi, tutto il suo successivo rapporto col
Gentile. Non tenerne conto significa precludersi ogni seria possibilità di accedere alla
comprensione della sua avversione contro la chiusura sinteticistica dell'atto. Tra l'altro,
questa fase iniziale del pensiero di Spirito, venne gratificata con parole di alto
apprezzamento dallo stesso Gentile. Il quale, in una pagina del "Giornale critico della
filosofia italiana'' (vol. IX, 1930, p.276), giudicava L'idealismo italiano e i suoi critici,
come un'opera dove in rispondenza agli assunti filosofici dell'attualismo più radicale e
fedele, Spirito ben comprende e spiega contro cervelli filosoficamente poco avveduti
"il logico svolgimento del nuovo idealismo italiano...e polemizza pacatamente contro
gli sviati e gli avversari dell'idealismo attualistico, contro coloro che s'illudono di
potervi correre all'impazzata''. E proprio nelle pagine centrali de L’idealismo italiano e
i suoi critici "era...in nuce, il principio della crisi''3. Vi si parla, infatti, e ripetutamente,
dell'atto spirituale come circolo dialettico che, appunto in quanto tale, è eterna
mediazione svolgentesi attraverso infiniti momenti "che si risolvono nella concreta
unità dell'atto che vive proprio della loro infinità''4. Esso, egli dice, è sviluppo dialettico
che si risolve e si supera in un dramma eterno, che, proprio perché continuo
superamento, rinvia necessariamente al continuo superato, all'oggetto nel soggetto.
Cosicché la realtà, o atto spirituale, è una unità, ma non una mera unità immediata,
bensì unità del suo opposto, ossia della molteplicità. Tale idea di uno svolgimento
dialettico dello spirito viene ribadita a più riprese in tutto il corso del volume, dove di
frequente il discorso cade sul pensiero in atto per il quale la filosofia è autoconcetto,
ossia non più "teoria e contemplazione del mondo, ma solo azione e creazione del
mondo stesso. Azione che non è, tuttavia, un immediato agire, bensì coscienza di
agire''5. E, ancor più, rispondendo ad alcune critiche di N. Abbagnano, espresse ne Le
sorgenti irrazionali del pensiero (Napoli, Perrella, 1923), Spirito a chiare lettere
riafferma che "l'idealismo trionfa veramente di ogni intellettualismo non in quanto esso
rimane una teoria dell'atto, ma solo in quanto si attua, sicché il suo valore teoretico è
assolutamente nulla (intellettualismo) se non diventa etico (attualismo)''6. Proprio per

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questo non è riconducibile ad una spiegazione del mondo da porre accanto alle tante
altre che, nel corso della storia, hanno avanzato diritto di cittadinanza e sono state
apprese come una teoria. Tant' è che esso "non ci ha fatto conoscere il mondo, ma ce lo
ha posto come dover essere. E dire che il mondo è dover essere, è a sua volta
un'affermazione che non è mai un risultato... ma solo un ideale. Chi considera
l'attualismo come una teoria si lascia sfuggire proprio la sua essenza, che non la sua
realtà, ma la sua idealità''.7 Occorre, dunque, operare una ben precisa e netta
distinzione tra due modi diametralmente opposti di distinguere l'attualismo. L'uno
come teoria, e allora esso viene ad essere una filosofia tra le filosofie - o una
formulistica ripetuta pedissequamente fino alla nausea nelle cosiddette scuole - l'altro,
come ideale, o coscienza concreta della nostra attività.
Perciò, l'istanza principale di Spirito, proprio nel momento di massima adesione al
pensiero del Gentile, è quella di mettere coerentemente in luce il genuino concetto
dialettico dell'atto inteso come circolo o riflessione. E proprio questa esigenza lo porta
ad evidenziare l'interna contraddizione di ogni teoria statica e non più diveniente del
divenire, sì da contrapporre ad essa il vero attualismo, per poter svolgere radicalmente
la concezione dell'attività trascendentale dello spirito ed evidenziare il più vero ed il
più ortodosso nucleo speculativo del filosofo di Castelvetrano, nel suo effettivo e
compiuto significato. Tuttavia, ben presto, questo tentativo, lodato come abbiamo
avuto occasione di vederlo poc'anzi dalla fonte più autorevole, condurrà Spirito a
mettere in questione lo stesso attualismo. Difatti, l'esigenza di chiarificarne il
significato più profondo lo porterà, in un cammino che avrà come sbocco il
problematicismo, a metterlo a confronto col suo proprio principio. E così l'intento
iniziale di realizzare concretamente l’attualismo o attualismo costruttore gli fornirà la
premessa per la dissoluzione dei fondamenti dell'attualismo, ossia: "il motivo critico
contro il primo tipo di attualismo andò a mano a mano sviluppandosi e
radicalizzandosi fino ad investire anche il secondo tipo, non facilmente superabile
dall'altro...il dubbio sull'intera posizione speculativa non poté più arrestarsi e il rifiuto
dell'attualismo divenne totale...e si passò al problematicismo”8.
Il terreno su cui incomincia a rendersi operante tale processo di dissoluzione è

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sempre quello del rapporto scienza e filosofia ereditato dal positivismo iniziale e
rielaborato nell’ambito delle tesi sull’attualismo costruttore. Questo rapporto, con i
problemi e le antinomie che gli studi di diritto penale e di economia politica facevano
sorgere ogni giorno di più nell'animo di Spirito, era stato risolto in primo tempo alla
luce dell'attualismo e delle sue premesse speculative di carattere monistico. Il compito
era stato affrontato ed assolto soprattutto dai "Nuovi studi'', con l'esplicita affermazione
dell'identità dei due corni del dilemma; cioè, in altri termini, con l'identificazione di
conoscere e fare portata alle sue ultime conseguenze logiche. Infatti, nell'intento di
calare l'atto nella concreta realtà storica, cercando di sottrarlo ad ogni residuo di
contemplazione, si era voluto eliminare alla radice il momento definitorio inteso come
il persistere di un elemento intellettualistico. Ora, tuttavia, proprio dall'interno della
scienza, che avrebbe dovuto assicurare un esito positivo a tutto il travaglio di revisione
tendente a fornire un esaustivo immanentismo, risorge più che mai forte l'esigenza di
un trascendimento dell'atto che si era creduto debellato. E la contraddizione soffocata
passando dalla filosofia alla scienza riemerge in maniera ancor più evidente in seno a
quest'ultima stessa che non può fare a meno di postulare una filosofia. Tant'è che il
momento definitorio dell'attualismo riaffiora "come quello che solo può dare significato
e valore all'atto. Conoscere e fare possono identificarsi solo a patto che esista l'atto
contemplativo e metastorico del loro identificarsi. L'atto e gli atti. L'essere e il
divenire''9. Ma con ciò l'attualismo finisce virtualmente, e cede il passo a La vita come
ricerca. I cui tratti distintivi principali sono costituiti da due opposte esigenze
fondamentali, e cioè: 1) da una parte lo stesso attualismo, considerato nella sua
esigenza intima come una metafisica tra le tante altre, viene investito dell'accusa di
dogmatismo; 2) d'altro canto, però, non si sa rinunziare all'esigenza metafisica che così
risulta imprescindibile. Allora entrambi i termini dell'antinomia si trovano a dover
cozzare e ad escludersi tra di loro. E la ricerca di una loro composizione in unità
diventa l'ideale, differito nel tempo, da perseguire e da raggiungere.
In precedenza, per risolvere questa antinomia, negli anni dell’esperienza legata ai
“Nuovi Studi”, Spirito aveva contrapposto al falso attualismo quello vero ed era giunto
ad identificare per tal via scienza e filosofia. Così dalla filosofia era passato alla

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scienza, ossia al diritto, all’economia e alla politica, concependo l'atto nel suo continuo
farsi. Sì da riformare la scienza e trasvalutarla, affidando ad essa i compiti prima
assolti dalla filosofia. Ora, proprio all'interno di questo rigoroso immanentismo, risorge
il momento di una definizione sopranuotante all'attività che definisce e, quindi, si
ripresenta una nuova forma di dualismo. Il fine che si era inteso raggiungere con
l'identificazione di scienza e filosofia viene, perciò, a perdere di significato e tutto
diventa ricerca. "La gravità di queste conseguenze manifesta. A poco, a poco ogni
punto di appoggio viene a mancare e il procedimento logico per cui si passa dal
dialettismo metafisico a quello problematico si avvolge in continue contraddizioni
dalle quali non riesce a districarsi. Ma ormai non è possibile tornare indietro e occorre
avere il coraggio di resistere alle soluzioni illusorie''10.
Dunque, per comprendere veramente, nel loro esatto significato, le istanze critiche
che segnano il passaggio dall'attualismo al problematicismo bisogna tenere conto
dell'esperienza da cui esso ha tratto origine ed è stato motivato. Soltanto allora sarà
chiara l'effettiva esigenza antintellettualistica che ha determinato il processo di
revisione critica. "Nella concreta opera scientifica - dice Spirito - infatti, in cui
quell'identità si è voluta realizzare, si è venuto determinando a poco a poco un interno
dualismo'' che ha finito con l'imporsi sempre di più. In altri termini, "dallo stesso
processo del fare si venuto staccando un presupposto irriducibile al fare... insomma
una realtà metafisica giustapposta a quella del processo. Un interno dualismo, dunque,
nato nell'attualismo in quanto atto e non in quanto teoria dell'atto''11. Con la tesi
dell'identità di scienza e filosofia al primo dei due termini era stato demandato il
compito di sollevarsi alla vera filosofia, e quindi, di pervenire alla coscienza del suo
valore universale, diventando vita consapevole o la stessa storia nel suo concreto farsi.
Tuttavia, proprio nel tentativo di dare soddisfazione a questa istanza Spirito è costretto
a riconoscere il permanere di un residuo ineliminabile costituito dal sofisma dialettico.
La tesi dell'identificazione non risolve più il problema, e anzi lo riapre in maniera
ancor più drammatica. Questo perché da una parte al tentativo di risolvere il problema
ancora una volta viene a giustapporsi la riflessione su di esso, la quale così si pone al
margine dell'esperienza, attestandosi solidamente in un'esperienza filosofica

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extrascientifica12. Tanto che le due forme di conoscere che si era cercato di identificare
ritornano ad una situazione di dualità e reciproca esclusione. E distinguerle equivale a
particolarizzarle entrambe, sì da porre al di fuori e sopra di esse una terza forma di
sapere inteso come "la coscienza del loro rapporto. Perché la filosofia non sia una
particolare scienza e non richieda a sua volta una sopra - scienza, occorre proprio
ch'essa sia in ogni scienza particolare”13. Questo era stato lo scopo principale che
Spirito con l'attualismo costruttore si era proposto di raggiungere, trasportando la
dialettica nel processo di singole scienze quali l'economia politica e il diritto penale.
L'identificazione di essere e divenire, di forma e contenuto era potuta sembrare allora
raggiunta. Se non che, per poter essere soddisfatti delle conclusioni e per poterle
valutare, è necessario trascenderle in qualche modo. Per affermare l'universalità del
processo occorre porsi al di fuori di esso e contemplarlo. D'altro canto, però,
all'interno stesso di una posizione configurabile come immanentismo assoluto, in cui,
appunto, è impossibile trascendere l'esperienza scientifica, non si può nemmeno
escludere che essa risolva o possa risolvere in sé tutta la realtà ed abbia, quindi, un
carattere di universalità. Allora, a voler essere coerenti e restare nell'ambito
dell'esperienza, si deve giungere ad ammettere una antinomia aperta sempre verso
l'ulteriore ricerca. E volendo uscirne, raggiungendo una qualche fede, occorre optare
per la tesi o l'antitesi, rinunciando all'universalità o alla particolarità. Ma in entrambi i
casi si cade in una forma extrascientifica, o mitologica, di sapere. 14 Per di più anche
così, le vie seguite per uscire fuori da questa situazione si dimostrano inefficaci.
Difatti, negando uno dei due termini del problema esso risorge nell'altro che lo rigenera
nel proprio processo. Per un verso "la scienza che vuol ignorare la filosofia
inconsapevolmente la ricostruisce nella determinazione dei postulati della scienza
stessa e nel riconoscimento d'una vita fuori della scienza; la filosofia che non prende
atto della scienza è pure costretta a sostituirla con derivazioni filosofiche che o non
valgono allo scopo o si estraniano dalla filosofia e fanno uso dei metodi teoricamente
disconosciuti. Se, invece, ci si è acconciati ad ammettere la necessità delle due forme
del sapere, la contraddizione è apparsa subito evidente e insostenibile: conoscere non
si può che in una sola maniera e cioè con validità di carattere universale e con il senso

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concreto del particolare; due conoscenze, che si limitassero l'una all'universale e l'altra
al particolare e che non trovassero modo di incontrarsi in una sola forma che le
ricomprendesse, non sarebbero due conoscenze bensì due opposte ignoranze. Se,
infine, si riafferma il punto di incontro e cioè la vera conoscenza in cui le due presunte
si concretano identificandosi, la contraddizione è superata, ma il superamento si rivela
dialetticamente formale e l'identificazione, non resistendo alla prova dell'esperienza,
riconduce al dualismo''15. Nel caso in cui si volesse, poi, ammettere soltanto la scienza,
negando la possibilità di concepire la filosofia, l'unico risultato sarebbe quello di
ridurla ad un qualcosa privo di contenuto e finalità. Infatti, essa ha come suo scopo
principale il raggiungimento della verità; ed escludendo, già a priori, la possibilità di
poterla attingere non avrebbe più nulla da ricercare. Il suo compito, allora, sarebbe
finito prima ancora di cominciare, proprio perché non ci sarebbe più una verità da
trovare. Al contrario, volendo ammettere solo la filosofia, intesa come consapevolezza
piena di possedere la verità, estromettendo da essa la ricerca, non si potrebbe fare a
meno di intenderla coincidente con la realtà presa nella sua totalità, tanto da rendere
impossibile ogni ulteriore pensiero. E, quindi, rendere superflua e inutile la stessa
filosofia in quanto pensiero della verità. Infine, volendo ammettere la coesistenza, cioè
l'una accanto all'altra, di tutte e due le forme di conoscere, non si potrebbe evitare il
riconoscimento che "si possa continuare a cercare anche dopo aver trovato o che si
possa aver trovato l'universale senza ancora averne trovato i particolari, che è quanto
ammettere un universale anch'esso particolare, vale a dire un tutto a cui pure occorre
aggiungere qualche cosa. Se, infine, ammettessimo l'identità di scienza e filosofia,
giungeremmo all'unità dialettica di cercare e trovare che, come tutte le altre sintesi
dialettiche, rivelerebbe il suo carattere formale e rigenererebbe l'antinomia''16. La
scienza, è vero, con le sue leggi avanza la pretesa di voler fornire una spiegazione
esaustiva dei fenomeni osservati, ma in realtà non spiega nulla. Essa, piuttosto,
analizza e comprende un certo numero di rapporti e, poi, fa rientrare alcuni problemi in
un problema più grande, ossia la legge. Quest'ultima, difatti, raccoglie una serie
indefinita di fenomeni, cercando di offrire loro una spiegazione, ma non per questo le
si può attribuire un valore di verità o soluzione. Per poterlo fare la legge dovrebbe

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essere la verità. In altri termini, essa dovrebbe potersi presentare a guisa di un sistema
in sé compiuto, in cui si trova la soluzione dell'antinomia e il processo di ricerca può
giungere a termine, precipitando, per così dire, in un risultato calmo costituito dalla
filosofia o dalla metafisica. Per quanto riguarda la filosofia, continua Spirito, la si è
intesa in senso dinamico, e caratterizzandola come dialettica con essa si è voluto
offrire il vero criterio di divenire alla realtà della verità. Ma, nello stesso tempo, si è
detto che occorre continuare a cercarla. Il risultato di un simile atteggiamento è stata la
messa in cantiere di una metodologia di compromesso tra una metafisica di tipo
tradizionale e una di ricerca storica. Un compromesso che si involve in un circolo
vizioso determinato "dall'impossibilità di concepire la ricerca accanto alla verità; se
questa è raggiunta, anche in forma generalissima, e cioè come legge della dialettica o
del divenire, il suo carattere di universalità investe immediatamente ogni particolare e
il principio si rivela sistema compiuto. Se si continua ad avere l'illusione di poter
tuttavia cercare e conquistare la realtà, è soltanto perché di fatto il processo storico si
dimostra non finito e implicitamente si riconosce di non aver trovato nulla''.17
Tutte queste difficoltà inducono Spirito ad abbandonare l'idealismo attuale, per
volgersi a nuovi tentativi di soluzione che possano consentirgli di superare l'impasse in
cui, a suo dire, viene ad arenarsi non solo l'attualismo in quanto teoria dell'atto, ma
anche l'attualismo in quanto atto. Il risultato iniziale al quale egli perviene per questa
via è il riconoscimento che le difficoltà fin qui accennate conducono ad una
problematicità, la cui possibile soluzione viene demandata al futuro. Così la vita
appare in tutta la sua drammaticità, caratterizzata da una profonda inquietudine,
continuamente insoddisfatta e pervasa dal bisogno costante di uscirne fuori, per
volgersi a nuovi tentativi di soluzione. La sintesi di universale e molteplice, di soggetto
e oggetto, si scinde nuovamente non solo nell'opposizione dei due termini, ma anche
nell'opposizione tra l'antinomia e la sua soluzione, ossia il dogmatismo. Proprio
nell’identità di conoscere e fare, che avrebbe dovuto segnare la fine di ogni dualismo,
cercata nell’effettivo terreno del fare politico, economico o giuridico con l’esperienza
dell’attualismo costruttore, ossia nella concreta opera scientifica, in cui quell’identità
si era voluta realizzare, si è invece venuto a determinare un interno dualismo, in un

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primo tempo visto come irrilevante, ma che poi ha finito con l'imporsi sempre di più.18
E questo problema, cioè il rapporto tra scienza e filosofia, nel suo vario intrecciarsi
costituirà per lui "il problema stesso di tutto il filosofare'', tanto da permeare ogni sua
ulteriore indagine e lo spingerà ad arenarsi nelle secche del problematicismo per il
fallimento del tentativo di trovare una soluzione. Esso, allora, non è un qualsivoglia
aspetto o momento del suo lungo cammino speculativo, ma il cardine attorno a cui
tutto ruota. Da qui le continue e ripetute analisi ed il ritornarvi costantemente nel corso
di quasi un sessantennio di riflessione filosofica.

2. L’antinomia non risolta


Il carattere radicale di questo mutamento di prospettive viene indicato,
successivamente a La vita come ricerca, con il termine di problematicismo, che investe
tutte le soluzioni raggiunte in un processo ipercritico, dove dogmatismo e
contraddizione convivono in una problematicità, la cui possibile soluzione viene
demandata al futuro. In altri termini, la sintesi di universale e molteplice, di soggetto e
oggetto, si scinde nuovamente non solo nell'opposizione dei due termini, ma anche
nell'opposizione tra l'antinomia e la sua soluzione, ossia il dogmatismo, in una ricerca
intesa come scepsi ipercritica dove non ci si lascia più sopraffare dall'ebrezza della
conquista. E ci si accorge che la risoluzione completa della realtà del mondo nel
pensiero rigenera al suo interno il momento metodologico dell'atto definitorio, dando
avvio ad una descrizione, per cosi dire, fenomenologica dell'antinomia in cui si
dicotomizza tutta la storia del pensiero occidentale. Al bisogno di giungere ad una
determinazione precisa delle cause di questa crisi e delle possibilità i uscirne, Spirito
dedica tutta una serie di scritti. Nel 1941 dà alle stampe La vita come arte, in cui alla
vita come ricerca contrappone il concetto di una vita immediata, cioè alla mediazione e
alla autocoscienza filosofica accompagna una vita intesa come arte. Tuttavia, l'istanza
critica viene riaffermata e si continuano le tesi del problematicismo, perché il concetto
di arte sta ad indicare l'assenza di criterio che si estende alla totalità della vita e
significa la "coscienza anelante a un'autocoscienza non raggiunta"19. Nel 1948 pubblica

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Il problematicismo, dove, dopo aver ripercorso l'origine della crisi e chiarito il
significato delle sue conclusioni, egli cerca di offrire un primo bilancio del cammino
percorso. In esso il problema viene esasperato e posto in luce nell'estrema forma del
criticismo, ma nello stesso tempo si cerca di rinnovare lo sforzo per giungere ad una
soluzione.
Il volume successivo, ossia La vita come amore (1953), è invece caratterizzato da
una certa riaffermazione di fede, ma accompagnata dal dubbio e dalla negazione. E
così tra La vita come ricerca del 1937 e La vita come amore del 1953, "non ostante il
trascorrere di parecchi anni...la continuità...è esplicitamente dichiarata nelle
introduzioni. Il primo capitolo de La vita come arte, infatti, è intitolato Dalla vita come
ricerca alla vita come arte, e il primo capitolo de La vita come amore riassume le tre
impostazioni: Vita come ricerca, vita come arte, vita come amore. E' ovvio, quindi, che
si vuole unificare il discorso senza rinnegare il punto di partenza, che è ribadito in
affermazioni pregiudiziali"20. Cosicché "si continuano le tesi del problematicismo,
attraverso un processo di nuova fede e di nuove speranze"21. E' bensì vero che La vita
come amore è sorretta dal motivo dell'amore, cioè dalla speranza di portare a
compimento quella rivoluzione lasciata incompiuta dal Cristianesimo e di iniziare il
cammino per instaurare un'altra civiltà, in una apertura illimitata di giudizio, ma con la
coscienza della sostanziale contraddizione. Tanto che alla fine La vita come amore
"dovrà apparire anch'essa un momento incapace di chiudere il processo"22.

a. La vita come arte (1941)


Ne la vita come arte, seconda opera della sua trilogia, in particolare, anche se vi è
una "certa riaffermazione di fede"23, il problema fondamentale rimane lo stesso, sia
pure paludato con una diversa articolazione e indagini estese ad altri aspetti storici di
carattere estetico e morale. Indagini che servono a verificare su di un terreno
privilegiato i limiti del panlogismo, perché in esso si è infranta la pretesa idealistica
della dialettica, con la sua antinomia di coscienza e autocoscienza. Ed, invero, le
conclusioni alle quali Spirito giunge in essa costituiscono "istanze di tendenze, e non di
risultati in veste sistematica, sì da non importare una presa di posizione esplicitamente

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diretta in senso metafisico"24. Tanto che la continuità con La vita come ricerca è
esplicitamente dichiarata nella introduzione. Perciò, l'opera non funge da epilogo,
semmai da prolessi perché non si compiace dell'indugio nel passato e nella beata
soddisfazione di chi crede di aver trovato, ma è vita come ricerca, che si esprime in
un'esperienza che si rinnova continuamente e aspira a rinnegarsi in ogni modo. Lo
sfondo è quello doloroso e buio popolato dai segni e dai fantasmi della guerra, e così
La vita come arte e il problematicismo ad essa sotteso riverberano anni tumultuosi e
drammatici. Non a caso il primo capitolo dell'opera, la cui risonanza fu immediata sin
dal suo apparire, già significativamente intitolato Dalla vita come ricerca alla vita come
arte (pp.7-34), si snoda in un intrecciarsi veloce di rimandi ed è mosso dall'intento di
ricondurre ad unità il discorso senza rinunciare al punto di partenza.
Questo costante riferimento, che tien sempre fermi gli stessi temi di fondo,
aggravandone la tensionalità aporetica, vieta di considerare la meditazione di Spirito
come una teoresi sprovvista di ben precise coordinate speculative ed elimina il
sospetto di una sua desultorietà. In tutti e due i volumi, difatti, è presente la stessa
struttura argomentativa che sorregge come vis a tergo tutta l'impalcatura, ossia una
introduzione, una ricognizione storica dei problemi e, infine, alcuni capitoli, per così
dire conclusivi, che servono a riannodare in sede di rigoroso costrutto teoretico i
termini del discorso. E' l'applicazione di uno stesso e già collaudato schema che guida
l'approccio ermeneutico al problema dell'arte. Proprio per questo nel testo del 1941
non si fa altro che ribadire l'antinomicità del pensiero, in una articolazione discorsiva
dove vi è sempre una negazione seguita da una affermazione. La stessa scansione
cronologica delle opere di Spirito mostra, anche da un punto di vista esterno, il
persistere e lo svolgersi ulteriore della visione problematicistica. E perciò egli può, a
ragione, affermare che "il ritmo antinomico non è mai smentito dalle vicende del mio
pensiero che, se muta continuamente, ritorna pure continuamente su se stesso e su se
stesso viene crescendo, recuperando via via ciò che sembra abbandonare per
sempre"25. L'interpretazione che il filosofo reatino esegue di sé si inscrive, quindi, tra
gli estremi di posizioni legate tra di loro da un vincolo di reattività rispetto al
precedente momento. L'antinomia costituisce la spinta, o la controspinta, all'ulteriore

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procedere del suo pensiero e indica una assenza di criterio, che si estende a tutta la
vita nelle sue manifestazioni teoretiche e pratiche. Tuttavia, non conclude nel nullismo,
perché una morale provvisoria si instaura, governa la vita e approfondisce
ulteriormente la problematicità. Si tratta di un vivere, però, che non è filosofare, ma è
piuttosto la vita contro la filosofia :istinto, impulso, passione. L'alternativa è, allora, tra
l'alogico ed il logico- o, meglio, tra la coscienza, che può essere soltanto vita e
l'autocoscienza che invece deve essere filosofia, perché chi è coscienza anelante
all'autocoscienza. Infatti, i caratteri della vita non filosofica, che non le consentono di
elevarsi al pieno raggiungimento del piano filosofico, sono quelli di un mondo a cui "é
stato dato il nome di arte" e dove il concetto di arte serve ad indicare "la totalità della
vita di chi ricerca" ed contrapposta alla filosofia, così come la coscienza lo è
all'autocoscienza26.
Posta in questi termini l'alternativa, Spirito può volgersi e si volge all'attualismo (al
dialettico!) non per assumerne la prospettiva, ma per investirlo dell'accusa di avere
senz'altro e sbrigativamente identificato i due termini, e così rimetterlo in questione e
inficiarlo ancora una volta alle basi. Mutua dall'attualismo non più la prospettiva, ma il
procedimento dialettico per arrivare a negarne i fastigi - servendosi di un suo
inveramento juxta propria principia-, e in particolare gli esiti con cui esso perveniva ad
assolutizzare l'autocoscienza in atto. A partire dai problemi lasciati aperti ne La vita
come ricerca, in uno scandaglio ipercritico, in cui l'orizzonte della ricerca viene ad
essere presente in un rapporto non di contiguità, ma di coessenzialità rispetto a quello
dell'arte, Spirito ne La vita come arte respinge una concettualizzazione categoriale
dell'arte e rigetta, di conseguenza, una visione dell'estetica intesa come scienza
filosofica parcellare. Per lui l'arte non viene a confluire identitariamente e ad essere
assorbita nel processo dialettico. Per questo egli dissente dalle posizioni del Gentile,
espresse dalla Filosofia dell'arte (1931), che intendevano pervenire alla "unicità
dell'atto autocosciente", dove ogni e qualsivoglia alterità doveva essere risolta per dar
vita al "più grande tentativo di concezione monistica" che la storia ricordasse 27. Per
questo egli è il classico del nostro secolo a cui fare riferimento e il punto di partenza
per l'avvenire anche per quanto riguarda il problema dell'arte. Con lui lo sforzo di

13
riforma della dialettica hegeliana di superamento - inveramento del romanticismo viene
condotto alla sua realizzazione più compiuta, ingenerando la facile illusione di aver
portato a rigorosa conclusione tutto il ciclo del pensiero moderno.
In particolare, per Gentile, l'arte è sentimento o soggettività irrelata rispetto alla
oggettività; e, quindi, non è attività spirituale nella sua pienezza. Quando ciò accade,
essa trapassa nella "unità attuale è...arte che è diventata pensiero"28. Allora, la
riduzione all'istanza unitaria del pensiero pensante, caratterizzato dalla unitotalità della
autocoscienza, diventa il motivo dominante. E con ciò la distinzione tra arte e filosofia
viene ad essere assimilabile a quella tra coscienza e autocoscienza. Rispetto al Croce,
secondo Spirito, Gentile si accorge giustamente che risolvere il problema dell'arte
significa risolvere quello metafisico. E proprio per questo egli tematizza, ponendolo in
primo piano, il rapporto tra sogno e veglia, coscienza e autocoscienza - un problema,
questo che nella riflessione crociana resta ancora nello sfondo - nell'intento dichiarato
di eliminare il dualismo dei due termini. Ma se c'è l'autocoscienza, tutto è riconducibile
alla filosofia e tutto, anche l'arte, deve essere risolto "nell'unicità dell'atto
autocosciente". E se "l'atto è l'unico concreto, ogni distinto che in esso si potrà
individuare è necessariamente un astratto : l'arte o il sogno è inattuale, inafferrabile; se
l'arte è sentimento, inafferrabile e indefinibile è anche il sentimento"29. L'arte, quindi, è
il sentimento e la sua espressione, per il fatto che un sentimento conosciuto non è più
sentimento ma conoscenza, è "il pensiero, la filosofia, il concreto in cui l'astratto
sentimento si realizza"30. Posta in questi termini la questione, per Spirito emerge con
chiarezza come il metodo gentiliano adoperato per poter pervenire ad una distinzione
dell'arte e dell'opera d'arte si rivela in tutta la sua insufficienza, perché se l'arte nella
sua esistenza immediata non la si può conoscere, essa allo stesso modo del sogno,
"non è nel pensiero che l'afferma...nella riflessione che vi si esercita su". Ma, allora,
perché continuare a parlare ancora di arte? Che senso ha distinguerla nell'atto del
pensiero e, quindi, porsi il problema del rapporto tra arte e pensiero?
Tra l'altro, proprio ne La filosofia dell'arte la realizzazione perfetta, senza residui,
dell'autocoscienza, viene ad essere qualificata dallo stesso Gentile come "assurda" e,
quindi, ad essere vista come meta, mai pienamente soddisfatta, di una perenne

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aspirazione. E così, per Spirito, accanto all'autocoscienza c'è la coscienza, e non
soltanto la veglia ma anche il sogno. Perciò lo sforzo verso un monismo sempre più
esaustivo e radicale viene a mostrare i propri limiti. L’autocoscienza non è realizzata,
ma essa non ammette imperfezioni, e così si pone il principio del dissolvimento
dell'attualismo, perché l'unità è rotta e i suoi singoli momenti acquistano consistenza
propria. Allora, il neoidealismo italiano, costretto dalla rigorosa conseguenzialità dei
proprî principî, viene ad essere votato al fallimento e spinto a rifugiarsi
nell'indeterminatezza dell'alogicità, aprendo le porte all'irrazionalismo di un
romanticismo che esce esasperato dal conflitto. Per Gentile arte e scienza si
caratterizzano rispetto alla filosofia perché si polarizzano l'una verso l'astratto soggetto
e l'altra verso l'astratto oggetto. L'opera d'arte, in particolare, esprime il mondo
dell’artista ed è perciò "una individualità in sé chiusa, un'astratta soggettività, che
empiricamente si pone accanto a tutte le altre in maniera atomistica"31. In altri termini,
per far proprio il lessico gergale del filosofare idealistico, l'arte "è coscienza di sé,
pura, astratta autocoscienza che si dialettizza bensì (altrimenti non potrebbe
realizzarsi), ma in se stessa, e astraendo dall'antitesi in cui si è realizzata; e quindi
chiudendosi in un ideale, che è sogno, ma dentro di cui essa vive cibandosi di se
medesima, o meglio creando un suo proprio mondo". Se queste sono le note dell'arte si
comprende facilmente come non sia affatto possibile, da un punto di vista attualistico,
fare la storia dell'arte in quanto arte, proprio perché essa è inconcepibile. In forza di
queste considerazioni, arte e scienza vengono a distinguersi dalla riflessione filosofica
e rappresentano un pensiero "diminuito dall'astrattezza" della polarizzazione citata,
perciò "far la storia dell'arte non può significare, in sostanza, altro che fare la storia
dello spirito in quanto non riesce a passare dalla sintesi relativamente astratta della vita
spirituale dell'infanzia a quella matura e concreta della filosofia che è la vera
'incarnazione e però la realizzazione del sentire"32. Allora, il vero sentimento vive
morendo idealmente nella filosofia e così "fare la storia dello spirito, considerato sotto
l'aspetto dell'arte, non si può che facendo la vera storia della filosofia"33. Le altre storie
dell'arte, cioè la storia dell'arte, in quanto essa si polarizza "verso l'aspetto dell'arte",
non significa, quindi, altro che "determinare i mancamenti dello spirito nel suo

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processo e cioè gli sbandamenti dell'attività sintetica verso l'astratta soggettività o
l'astratta oggettività. Ma per Gentile non è cosi. Mosso dal bisogno di concepire lo
spirito come autocoscienza, il Gentile si è trovato nella necessità di negare vita all'arte
che é coscienza, ma l'arte ha continuato a vivere compromettendo l'unità del sistema.
Basta, infatti, ch'essa viva per un attimo come coscienza di fronte all'autocoscienza,
perché la filosofia scompaia e tutta la vita sia arte" 34. Quindi, Spirito individua il
fallimento dell'estetica idealistica, riaprendo e posponendo all'attualismo la riflessione
sull'arte dell'irrazionalismo romantico, nella convinzione che esso esca rafforzato ed
anzi esasperato dalla prova. E autori come Nietzsche e Bergson diventano così più
rappresentativi di tanti altri, in quanto sono espressioni più sensibili all'immediatezza
che non alla sistemazione mediatrice. Perciò, il secondo volume della sua trilogia può,
per cosi dire, edificare sulla vita la propria esplorazione conoscitiva. Infatti, il compito
principale, dopo aver precisato la distinzione di immediato e mediato, coscienza ed
autocoscienza, che determina in esso tutta l'articolazione discorsiva, è quello di
tematizzare i caratteri della vita non filosofica, per indagarne le ragioni che le
impediscono di sollevarsi al piano della consapevolezza filosofica e innalzare la
coscienza al livello dell’autocoscienza. A questo riguardo la coppia in tensione dei
termini natura e spirito così come è stata vista ed interpretata tradizionalmente, nel
corso della storia della filosofia, appare a Spirito insufficiente, perché muove dal
presupposto della realizzazione e attuazione dell’autocoscienza e, quindi, dal
riconoscimento della razionalità dello spirito. Ma per chi, come Spirito appunto, non
può giungere a riconoscere il carattere di razionalità alla propria esperienza, allora è
evidente che l'espressione vita immediata deve ampliarsi fino a comprendere tutta la
vita umana, in tutta la sua interezza, allargandosi ad includere tutto ciò che pur
differenziandosi dalla ragione, sia però atto conoscitivo, creatività, caratterizzata di
volta in volta ricorrendo ai termini di gusto, immaginazione, fantasia. E ogni qualvolta
si è voluto in un certo qual modo definire questo mondo umano non filosofico, ci si è
serviti del termine arte, caratterizzando costitutivamente l'attività artistica, nella sua
contrapposizione alla conoscenza filosofica, con uno o più dei termini usati per parlare
della vita immediata. Perciò l'arte sin dagli inizi è stata intesa come espressione di uno

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stato di ebrezza o di una coscienza non in possesso di se stessa. La concezione della
vita come arte, quindi, si fonda sulla contrapposizione tra arte e filosofia, tra coscienza
ed autocoscienza, tra un'attività ispirata e l'attività logica. E l'arte così intesa non
soddisfa l'esigenza dell'assoluta unità che è propria della filosofia. Per questo si è
potuto caratterizzare la vita come sogno, facendo ricorso per intenderla alla differenza
che intercorre tra il sogno e la veglia e ai concetti di irreale e reale per chiarificare la
differenza tra arte e filosofia, dando al secondo termine caratteri più comprensivi del
primo, senza però rendere conto con precisione di questa superiorità. La riflessione
dunque rappresenta il risveglio, ossia l'oggettivazione del mondo del sogno, portandolo
alla sua piena consapevolezza; e perciò il dualismo di sogno e veglia si colloca in un
orizzonte in cui risorge e sussiste l'antinomia non risolta, che invalida, e che perciò ha
condotto al suo rigetto critico, la filosofia dell'atto puro, col suo ottimismo
gnoseologico dialettico, in cui i termini del processo in definitiva non sono
un'antinomia. Nel servirsi dell'arte -sogno Spirito, quindi, è dominato da una
concezione dell'arte che riflette la tensione del sogno ad obliterarsi nella veglia e la vita
come arte non si inscrive e non precipita in un rasserenamento catartico, ma si
alimenta del bisogno insoddisfatto di negarsi e risolversi nella sintesi autocosciente. E
il panonirismo de La vita come arte "riprende il problema lasciato aperto dal
precedente volume su La vita come ricerca e si domanda come sia possibile vivere
senza ricondurre le proprie azioni a una unità sistematica di carattere filosofico". Gli
esiti, dopo il ritorno al romanticismo, portano per Spirito ad affermare che "il pensiero
contemporaneo non può far altro che accentuarne il dramma, nel tentativo sempre più
esasperato di un soggetto che vuole conoscere e possedere se stesso. Ma la critica
dissolve ogni tentativo e la crescente insoddisfazione muove alle esperienze più varie e
paradossali...nelle forma di un arbitrio più o meno esplicitamente esaltato" dove si
"avverte come non mai il senso tragico della vita e la crisi di tutto il pensiero moderno"
35
. Tuttavia, il rapporto tra vita come arte e romanticismo è da precisare ulteriormente,
perché, se è vero che nel romanticismo si vede il pensiero moderno nel suo sforzo
incessantemente proteso verso il raggiungimento dell'autocoscienza, allora la
concezione della vita come arte è romantica, in quanto mantiene l'antinomia di

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coscienza e autocoscienza, senza illudersi di superarla nella ragione.
Tuttavia, la vita come ricerca, per certi aspetti, rappresenta anche il rafforzamento
più cospicuo dell'esigenza cartesiana o del razionalismo, in quanto sia il cartesianismo
che il romanticismo sono due false espressioni dell'esigenza razionalistica, che non
riescono a soddisfare e né tantomeno ad evitare. Falso, quindi, il cartesianismo, ma
anche il romanticismo, perché pretende di “voler assolutizzare - cioè dimostrare
l'universalità- una vita o una conoscenza che non siano quelle della ragione"36. A
partire da Campanella, via via fino ad arrivare a Kant e ai postkantiani, questo
equivoco di fondo alimenta tutto il pensiero moderno. Kant, in particolare, nella sua
Critica del giudizio, pone il giudizio estetico al di là di quello logico e morale,
valutandolo "come tale in una critica che si solleva a metafisica. E' infatti evidente che
il giudizio del giudizio estetico è esso, ed esso solo, il giudizio metafisico in cui si
riassumono le tre critiche. Se esso non fosse vero, il giudizio estetico non assumerebbe
coscienza del suo essere, e parlare della sua superiorità non avrebbe senso"37. Occorre,
quindi, andare oltre un simile concezione romantica, ritornando alla stessa
impostazione kantiana liberata dei suoi tratti contraddittori. Questo è possibile
accogliendo la sua concezione della vita come sogno, in cui egli vede la necessità di
un risveglio razionale rinviato ad un futuro mai dato da raggiungere. E così ritornare a
Kant non può avere altro significato che quello di rendersi conto dell'antinomia a base
del romanticismo e, nello steso tempo, della inconsistenza dei tentativi fatti per
superarla. Proprio per questo il romanticismo, dopo Kant, non è e non può essere
altro che "il più radicale possibile, appunto perché aspira soltanto a uscire da se
stesso...e trova nella propria coscienza antinomica il bisogno inesplicato di un
risveglio, che non sa concepire altrimenti che come assoluto razionalismo. Con esso si
segna l'estrema posizione romantica, perché si segna insieme l'estrema forma
dell'esigenza cartesiana di un pensiero che possieda veramente se stesso e la realtà"38.
Questa coscienza critica salva il romanticismo da vari rimproveri, ma soprattutto
dall'accusa di estetismo, ossia di sopravvalutare il valore estetico, a scapito di ogni
altro; sopravvalutazione che costituisce, insieme a quello di edonismo e moralismo, il
ricadere in una grossolana metafisica scettica, perché si viene ad assolutizzare proprio

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il rifiuto della metafisica, affermando l'impossibilità di una risoluzione, o addirittura
negando valore al problema metafisico. Tutto questo giustifica le accuse mosse
all'estetismo e la sua conseguente valutazione come una forma di decadentismo,
sinonimo di povertà spirituale. Al contrario, per la concezione della vita come arte
tutto è arte, ma in esso si riconosce una immediatezza come un limite, che si vuole
superare. L'arte serve ad indicare appunto questa ricerca e il bisogno ad essa
coessenziale e della insufficienza del conoscere e di autonegarsi per poter giungere al
piano della filosofia nella sua piena razionalità. E' vero, che per altri aspetti se la vita
come arte non cade nel dogmatismo di una nuova e risorgente metafisica, tuttavia per
un altro verso essa non riesce e riconosce di non riuscire a sfuggire alle maglie di un
riemergente dogmatismo che persiste proprio perché "immediatezza vuol dire appunto
gusto, sensibilità, coscienza non autocosciente, arte, sogno, e tutta la nostra vita deve
trascorrere in una serie di giudizi di valore, che non superano mai questi termini propri
dell'estetismo"39. Così, però, lo stesso concetto di ricerca "pur assunto nella sua
assoluta problematicità, non può non convertirsi nel mito della ricerca e nella
conseguente metafisica, cosi il concetto di arte, pur visto in assoluta coincidenza con
l'immediatezza della vita, non può non avere una qualche pretesa di mediazione e
mettere capo anch'esso a un aprioristico razionalismo"40. Una condizione fatale questa
da cui si cerca in tutti i modi e incessantemente di uscire fuori, quasi come al fato al
cui letale abbraccio si aspira a sottrarsi. Per questo dunque la vita come arte è anche
vita come ricerca, che si rinnova continuamente e aspira a negarsi. E così la seconda
opera della trilogia di Ugo Spirito, ossia La vita come arte, nonostante il tentativo in
essa presente ed operante di riguadagnare una qualche fede, viene ad incontrare e a
ricongiungersi saldamente nella sua rigorosa articolazione teoretica con La vita come
ricerca. E ciò perché le analisi del testo del 1941 vengono ancora una volta di più
ricondotte all'unico motivo dominante in entrambe le opere, costituito dall'incapacità di
approdare ad una qualche soluzione. La fisionomia de La vita come arte, infatti, è
caratterizzabile in termini interrogativi e l'opera è suscettibile dei più vari sviluppi.
L'unica conclusione, se di conclusione si può ancora parlare, è l'apertura illimitata,
ancora una volta riaffermata, verso l'avvenire, di cui non si riesce però a prevedere

19
l'ulteriore sviluppo.

b. Il problematicismo
Dopo il secondo conflitto mondiale Spirito pubblica Il problematicismo (1948),
esattamente dieci anni dopo La vita come ricerca - in cui dava inizio con fisionomia
precisa al problematicismo - e, infatti, il Finito di stampare dell’opera è del novembre
1947. In questo volume cerca di chiarire il carattere peculiare della situazione
problematica e di rendere conto del cammino percorso a partire da La vita come
ricerca, in una continua ricerca intesa come scepsi ipercritica. E così ritorna al punto di
partenza, con la piena coscienza dell’antinomia che giunge alla sua espressione
massima, per spiegare nel modo più adeguato l'acme del dramma del problematicismo.
All'epoca della stesura del testo gli anni del II conflitto mondiale da poco terminato,
alimentavano un profondo disagio che confinava nella disperazione e serviva ad
esasperare le note tragiche del problema nei più vari sensi anche di natura politica, in
un processo di dissoluzione che scuoteva dalle fondamenta l’intera vita, consumando
nel proprio immane groviglio ogni illusione. Non a caso, Spirito, dopo aver assistito al
naufragio di una fede, si volge intorno per trovare una risposta ai propri assillanti
interrogativi. Pubblica così La filosofia del comunismo, provocando l'aperta e violenta
reazione polemica di Palmiro Togliatti41, nell'intento di trovare delle risposte anche sul
piano filosofico - politico per poter giungere a credere e "agire per un mondo ideale
che non sia vana chimera"42.
Il problema non è allora di banale natura retorica, o di pura e semplice ripetizione
estrinseca e sterile di temi, ma nell'estrema punta del criticismo, costituisce
l'accentuarsi di una amarezza pervasa dall'ansia di uscire in qualche modo dalla crisi e,
quindi, dalla riaffermazione dell'imprescindibilità dell'esigenza metafisica. Tuttavia, per
Spirito, gli eventi storici, per quanto drammatici, riverberano una crisi di pensiero
-caratterizzata da una profonda tensionalità aporetica, soltanto aggravata dal processo
bellico, con la sua furia devastatrice - a cui rinviano e a cui occorre risalire per poter
comprendere in tutta la loro portata gli elementi di fondo che compongono il crollo. La
crisi, quindi, è a monte. Proprio per questo, egli è convinto che la guerra non è finita e

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le espressioni del conflitto rappresentano il punto d'arrivo di un processo dalle
proporzioni immani, espressione della crisi che coinvolge tutto il pensiero moderno ed
informa tutti i valori tradizionali. In particolare, le sue scaturigini è possibile
individuarle nelle istanze dell'esigenza critica cartesiana, cioè del dubbio metodico, che
hanno dato avvio ad una rivoluzione radicale, con cui l'uomo moderno ha inteso
sciogliere i vincoli che lo legavano al passato e provvedere alla costruzione di un
nuovo ordine morale e sociale antropolatrico. Attraverso Kant, e il capovolgimento
metafisico operato dalla sua rivoluzione copernicana, si è venuto sempre più
affermando questo passaggio dalla trascendenza all'immanenza e il punto focale si è
sempre di più spostato da Dio all'uomo ed al centro è venuto a trovarsi il problema
dell'autocoscienza o del socratico conosci te stesso, che a partire dall'antichità greca,
via via fino a passare attraverso il Medioevo e il Rinascimento, era già stato un motivo
essenziale della riflessione filosofica. Con l'affermazione della centralità dell'io - i cui
assunti manifestano la profonda convinzione che il pensiero moderno si è venuto
faticosamente configurando come apoteosi dell' ich denke kantiano, con una
gnoseologia antropolatrica ed un immanentismo aspirante a porsi in maniera sempre
più esaustiva - si è inteso così chiudere il ciclo del pensiero occidentale, informando di
sé tutta la realtà nelle sue varie e molteplici manifestazioni. L'unica realtà allora è
diventata quella dell'io, e Dio è stato posto al margine della vita, o addirittura relegato
a non sense, spostando sul piano morale "la norma dal campo del dovere a quello del
diritto"43. Così, pur con tutte le oscillazioni e le deviazioni avutesi nel corso della
storia, il punto di partenza infine viene a coincidere col "punto di arrivo e l'utilitarismo
non indica più il carattere dell'azione umana in quanto immediata, ma presume invece
di esaurire con piena consapevolezza tutte le esigenze della spiritualità dell'azione"44.
Da qui tutto lo sviluppo delle scienze sociali, tra cui soprattutto la scienza giuridica e
quella dell'economia, aventi un valore strumentale per via del loro carattere soprattutto
pragmatistico ed economicistico, e l'esaurirsi dell' ergo sum di Cartesio "in un atto di
presunzione" che "si traduce in un coro babelico di sum...perché manca il principio
dell'armonia"45. Tuttavia, per Spirito, proprio entro quest'orizzonte troppo angusto
risorge il problema di Dio, e "l'immanentismo moderno e contemporaneo è tutto

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permeato di questo dualismo di io e Dio, e, anche quando la fede nel primo termine ha
raggiunto le forme più radicali, l'esigenza del secondo si è mostrata implicita in essa" 46.
Difatti, "l'etica dell'utilitarismo si sforza, attraverso lo stesso concetto di utile, di
dimostrare il suo sbocco nel bene generale... La stessa economia, che pur si proclama
scienza del tornaconto, crede di poter giungere ad una teoria dell'equilibrio generale in
cui la molla dell'egoismo conduca al benessere di tutti"47. Ma così, proprio come
scienza che vuole tendere al benessere di tutti, separatasi e contrappostasi alla filosofia
come forma di sapere altra ed indipendente, essa è costretta a riconoscere e ad
implicare di nuovo una filosofia e ad aver "fede nel valore universale del proprio
sapere". Tutto ciò rivela la necessità di sollevarsi ad ammettere accanto al prevalere
sfrenato del particulare guicciardiniano una "coscienza immanentistica di Dio che
colora di sé il più grande pensiero moderno da Bruno ... all'attualismo"48; anche se
questa fede, tuttavia, non è riuscita e non riesce ad imporsi di fronte alle varie tendenze
soggettivistiche; e anzi finisce per soccombere e cedere il passo ad esse. E così il
pensiero moderno prosegue il proprio cammino realizzandosi in forme sempre più
immanentistiche caratterizzate da un'accentuata esigenza critica, giungendo nell'arco
del suo sviluppo a mettere in questione il dialogo tra l'io e Dio. "L'uomo che aveva
deciso di fidarsi soltanto di se stesso per garantirsi della verità, e nella decisione aveva
impegnato tutte le proprie forze, conclude col domandarsi se ha veramente la
possibilità di fidarsi di sé e dei suoi occhi, o se la via della verità presupponga l'uscita
da sé, in una esperienza fondamentalmente diversa da quella metafisica
gnoseologica"49. Dunque, il pensiero moderno nella cadenza inarrestabile del cogito
verso un sempre più esaustivo immanentismo ha portato all'estremo l'esigenza critica;
il suo punto d'approdo è caratterizzato dalla logica del dubbio, tanto che "l'uomo
moderno non ha potuto arrestarsi a nessuna affermazione che gli desse la sicurezza del
definitivo, ed ha concluso col rinunziare alla definitività, come se tale rinunzia fosse
davvero una conclusione"50. L'ideale dell'uomo a partire dal Rinascimento si è venuto a
configurare come ideale di una certezza incontrovertibile, tale da eliminare ogni
gratuità, ossia, in altri termini, il piano dell'opinabile. Di volta in volta si è creduto di
poter attingere tale certezza, facendo ricorso alla scienza o alla filosofia, ma invano,

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perché sempre i risultati si sono rivelati illusori, tanto che il pensiero moderno non ha
fatto altro che dissolvere ogni certezza e rendere antinomici i termini del problema.
Qual è la prospettiva dell'avvenire? Com’è possibile conquistare veramente un
traguardo a partire da questa scepsi ipercritica? Per Spirito il problematicismo
rappresenta "il passo decisivo" verso l'unificazione del discorso. E, perciò, costituisce
sia il punto di approdo che, nello stesso tempo, l'abbrivio per l'avvenire. Con
l'idealismo dialettico si è creduto di aver eliminato l'antinomia, risolvendo il dualismo
dei due termini in un unico processo. Da Hegel in poi, soprattutto con Gentile e la sua
riforma della dialettica, si è cercato di dimostrare che nell'immanenza si potenzia
l'esigenza dell'Assoluto e che, quindi, è possibile arrestare la dissoluzione ipercritica
del pensiero moderno. La certezza dell'autocoscienza assicura il valore assoluto di cui
si ha bisogno e che consente il più alto potere creatore, e i termini del discorso
assumono il valore di una dimostrazione inconfutabile della soluzione del problema
dell'antinomia, sul fondamento dell'opposizione - sintesi di logo astratto e logo
concreto. Per Spirito, però, l'attualismo ha senz'altro e sbrigativamente identificato i
due termini, facendo della dialettica una soluzione e così ricadendo in una metafisica
di vecchio tipo. Allora non è più possibile mutuarne la prospettiva, ma solo il
procedimento dialettico in un suo inveramento juxta propria principia, arrivando a
negarne i fastigi. E il fallimento dell'attualismo, poiché non viene posto minimamente
in questione il giudizio storiografico idealistico, cioè la sua autocomprensione come
momento culminante della filosofia occidentale, implica il fallimento di tutte le vie
tentate per superare l'antinomia, la cui possibile soluzione viene demandata al futuro. Il
carattere radicale di questo mutamento di prospettive rispetto all'attualismo viene di
fatto inaugurato con La vita come ricerca (1937). Invece, al bisogno di giungere ad una
determinazione precisa delle cause di questa crisi Spirito dedica proprio a partire dal
1937 alcuni dei suoi scritti più importanti per ripercorrerne l'origine e chiarire il
significato delle sue conclusioni, e nello stesso tempo rinnovare lo sforzo per giungere
ad una soluzione. In essi la ricerca si snoda in un processo che si orienta in due
direzioni: da un lato con un continuo ripetere le tesi iniziali per approfondirle; dall'altro
mossa dal bisogno di uscire fuori in qualche modo dal problematicismo, per

23
riconquistare una qualche fede. In questo contesto lopera Il problematicismo
costituisce, a detta dello stesso Spirito, il punto più alto raggiunto dall'acuirsi
dell'antinomia, con il "riconoscimento esplicito che il problematico compie della
contraddizione della propria conclusione"51. In altri termini, Spirito col suo dialettismo
problematico, cioè aperto al futuro, riconosce la contraddizione e non la trasforma in
conclusione metafisica, perché per lui il problematico ammette il circolo vizioso in cui,
nonostante tutto, viene ad incagliarsi, ma nello stesso tempo "dichiara spontaneamente
di avvolgersi nel riconosciuto circolo vizioso. L'unica differenza è che...egli aggiunge
di non saperne uscire. La confutazione non basta a farlo mutare di via, perché è già
scontata in partenza"52. La vita come ricerca, implica, perciò, il riconoscimento che si
tratta pur sempre di una filosofia e quindi di un sistema, logicamente strutturato, posto
accanto ad altri sistemi, tuttavia non egli non dà ad essa il significato di punto d'arrivo
o conclusione. Non vede, cioè, nella dialetticità l'essenza della realtà, ma l'antinomia
non risolta in tutta la sua drammaticità. E, quindi, al dialettismo metafisico oppone il
dialettismo problematico.
Acquisita così la coscienza delle proporzioni immani, non definibili, della crisi, la
via per l'ulteriore ricerca indica che è impossibile far risorgere le vecchie e obsolete
metafisiche del passato, dissolte dalla scepsi ipercritica. Tanto che, rivolgendosi anche
contro le posizioni di alcuni studiosi cattolici come Bontadini, afferma che nel
problematicismo si è realizzato "l'ideale dell'attualismo...nel momento stesso in cui si è
negato. Ora non resta che da riprendere il cammino, verso una meta ancora
indeterminata. Il che ha compreso molto profondamente Gustavo Bontadini nel suo
volume Dall'attualismo al problematicismo, anche se la sua fede di cattolico gli fa fin
d'ora postulare il successivo cammino dal problematicismo alla metafisica classica"53.
Tuttavia, è questa una conclusione, se di conclusione si può ancora continuare a
parlare, che non può appagare l'uomo problematico. E’ necessario, perciò, portare alle
estreme conseguenze "la diagnosi della malattia di me", che mette in evidenza
l’autocontraddizione tipica di tutta la vita moderna e contemporanea54, nell'
imprescindibile bisogno di sollevarsi ad un Assoluto, per riavere una qualche fede.
Perché per Spirito occorre che "l'al di là sia al centro della nostra vita come il

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problema che tutta l'investe. E se è vero che il problema non è ancora soluzione, è
anche certo che l'analisi dei suoi termini basta ad alimentare di speranza la ricerca e a
salvarci da quella inerzia spirituale che conduce all'abbandono nei facili dogmatismi
della fede o dello scetticismo"55.
Proprio per questo, negli anni immediatamente seguenti il II conflittto mondiale,
Spirito, soprattutto da parte cattolica e in particolare da G. Bontadini, veniva visto
come "il più tipico rappresentante del problematicismo italiano", il cui merito era stato
quello di "aver estratto dall'idealismo l'elemento nuovo", ossia "di aver rivendicato,
implicitamente, la insopprimibilità del punto di vista intellettualistico", aprendo nuove
e insperate prospettive alla metafisica classica 56. Sulla stessa linea si muoveva
sostanzialmente anche E. Severino col suo volume Note sul problematicismo italiano,
che nel problematicismo di Spirito individuava la possibilità di liberare dal
trascendentalismo attualista "il motivo della situazionalità", che a suo dire costituisce
"quella problematicità iniziale che caratterizza la situazione del filosofo nel suo
accingersi al compito che gli è proprio: la ricerca del vero e dell'Assoluto attraverso la
costruzione metafisica"57. Non minor simpatia veniva, poi, accordata al
problematicismo da un altro, insigne, autore cattolico, pur se mosso da preoccupazioni
diverse rispetto a quelle di Bontadini e Severino, ossia C. Fabro. Quest'ultimo, proprio
recensendo Il problematicismo, affermava che esso "costituisce l'accentuazione più
forte della 'impasse' in cui si è venuto a trovare il pensiero moderno", perché sembra
esprimere l'esigenza critica, di radicale 'sincerità, di una approssimazione alla
sapienza o "metafisica che si svolga positivamente verso l'Assoluto senza pretese di
comprenderlo...che non deve ripetere alcun sistema dell'essere chiuso, come si è fatto
nell'antichità e nel pensiero moderno".58 E, in effetti, Il problematicismo non solo cerca
di rendere conto del cammino percorso a partire da La vita come ricerca per poter
riconquistare una qualche fede, con un ritorno al punto di partenza, ma in esso "la
coscienza del dramma giunge all'espressione massima del pericolo della
degenerazione" dell’antinomia di finito e infinito, in cui “tutto l'ulteriore... cammino" di
Spirito trova "la sua spiegazione e la sua illustrazione".59

25
1
Spirito, Scienza e filosofia, 2a ed. Firenze, Sansoni, 1950, p. 91, nota 1.
2
U. Spirito, Giovanni Gentile, p.214.
3
U. Spirito, Scienza e filosofia (1950), p.10.
4
U. Spirito, L’idealismo italiano e i suoi critici (1930), p.49.
5
Ivi, p.54.
6
Ivi, p.126.
7
Ivi, p.127.
8
U. Spirito, Giovanni Gentile, pp.233-234.
9
U. Spirito, Scienza e filosofia (1950), p.21.
10
Ivi, p.24.
11
Ivi, p.29.
12
U.Spirito, La vita come ricerca (1937), p.126.
13
Ivi, p.85.
14
Ivi, p.87.
15
Ivi, pp.127-128.
16
Ivi, pp.130-131.
17
Ivi, pp.139-140.
18
U. Spirito, Scienza e filosofia (1950), pp.28-29.
19
U. Spirito, La vita come arte7, Firenze, Sansoni 1941, p.21.
20
U. Spirito, Dall’attualismo al problematicismo, p.31.
21
Ivi, p.32.
22
Ivi, p.33.
23
Ivi, p.31.
24
U. Spirito, Dall’attualismo al problematicismo, p.31.
25
U. Spirito, Storia della mia ricerca, p.34.
26
U. Spirito, La vita come arte, p.21.
27
Ivi, p.241.
28
G. Gentile, La filosofia dell’arte, Firenze, Sansoni, 3a ed. 1975, pp.117sgg.
29
U. Spirito, La vita come arte, p.256.
30
Ivi, p.257.
31
G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, 3a ed. riveduta, Bari, Laterza, 1920, p.191.
32
U.Spirito, La vita come arte, p.262.
33
Ibidem.
34
Ivi, pp.262-263.
35
Ivi, pp.270-271.
36
Ivi, pp.276-277.
37
Ivi, p.277.
38
Ivi, p.181.
39
Ivi, p.289.
40
Ivi, p.290.
41
Cfr. “Rinascita”, 4-5, 1948,
42
U. Spirito, Il problematicismo, Firenze, Sansoni, 1948, pp.54-56.
43
Ivi, p.21.
44
Ibidem.
45
Ivi, p.27.
46
Ivi, p.28.
47
Ivi, p.29.
48
Ivi, pp.29-30.
49
Ivi, p.31.
50
Ivi, p.33.
51
Ivi, p.47.
52
Ivi, p.52.
53
Cfr. U. Spirito, L’attualismo. Bibliografia ragionata, in A. Russo, Positivismo e idealismo in Ugo Spirito, Roma,
1990,p.240.
54
U. Spirito, Il problematicismo, p.63.
55
Ivi, p.189.
56
Cfr. G. Bontadini, Dall’attualismo al problematicismo. Saggi sulla filosofia italiana contemporanea, Brescia, Vanini,
1946, pp.242-244.
57
Brescia, Vanini, 1950, p.8.
58
Cfr. “Il Ragguaglio librario”, XVII, 1949, pp.3-4.
59
U. Spirito, Dall’attualismo al problematicismo, p.30.

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