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PLATONE
E L'ONTOLOGIA
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Il J'armet1ìdc e il Sofista
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Volume stampato con un contributo
dell'Università degli Studi di Milano
(Fondo "Mille lire", legge n. 429 del 3-8-1985)
Enrico BERTI, Giovanni CASERTANO,
Francesco FRONTEROTTA, Maurizio MIGLIORI,
Carlo SINI, Mario VEGETTI, Vincenzo VITIELLO
PLATONE E L'ONTOLOGIA.
Il Parmenide e il Sofista
ISBN 88-89130-03-02
In copertina:
Mario BORGESE, I pensieri de/filosofo (2004)
Mista - acrilico su tela, cm 80x80
www.marioborgese.it - mail-to: mario.borgese@fastwebnet.it
INDICE
PRESENTAZIONE 9
di Matteo BIANCHETTI ed Erasmo Silvio STORACE
PRIMA PARTE
SECONDA PARTE
Questo libro contiene gli atti di due diversi convegni, dedicati al tema
"Platone e l'ontologia" all'interno del Parmenide e del Sofista, organizza-
ti dall'Associazione degli Studenti di Filosofia dell'Università degli Studi
di Milano (Astufilo - www.astufilo.too.it - astufilo@hotmail.com), che
opera da ormai sette anni all 'intemo dell'Ateneo milanese, cercando di
creare spazi di crescita e di approfondimento per studenti e studiosi di filo-
sofia tramite l'organizzazione di gruppi di studio, seminari e conferenze, al
fine di mantenere aperto il dibattito tra ambiti del sapere filosofico che non
sempre risultano facilmente conciliabili tra loro. Da sempre abbiamo con-
siderato una ricchezza irrinunciabile la pluralità delle offerte e la vivacità
delle discussioni che l'Accademia sa offrire; è con questa convinzione, evi-
dente anche in nostre passate iniziative, che abbiamo, prima di tutto, stu-
diato Platone e, poi, avviato la composizione di questo libro, che contiene
saggi di carattere storico-filologico e saggi di orientamento teoretico -
approcci entrambi indispensabili per accostarsi ad un testo filosofico.
L' Astufilo ringrazia pertanto quanti hanno sostenuto il tentativo di mettere
a confronto esperienze di studio differenti e proprio per questo proficue,
invitando all'Università degli' Studi di Milano insigni studiosi provenienti
da diversi indirizzi ma accomunati dal desiderio di confronto e di dialogo,
nonché dalla grande capacità di trasmettere il loro sapere.
La prima parte del volume contiene gli atti della prima delle due confe-
renze, svoltasi il 14 novembre 2003, presso l'Università degli Studi di
Milano, con Enrico Berti, Giovanni Casertano, Francesco Fronterotta,
Maurizio Migliori, Franco Trabattoni e Mario Vegetti. Nella seconda parte
del libro, invece, sono stati pubblicati gli atti del secondo convegno, orga-
nizzato con la collaborazione dell'Associazione degli Studenti di Filosofia
dell'Università Vita e Salute-San Raffaele (che ringraziamo in modo par-
ticolare per la preziosa assistenza e l'amicizia e il confronto che ci hanno
offerto) e svoltosi, sempre presso l'Università degli Studi di Milano, il 17
marzo 2004, cori Massimo Cacciari, Carlo Sini e Vincenzo Vitiello mode-
rati da Massimo Donà.
Giunti alla fine della nostra breve presentazione, vorremmo ringra-
ziare i Professori che hanno risposto gentilmente al nostro invito, non-
ché l'Università degli Studi di Milano, la Facoltà di Lettere e Filosofia,
il Dipartimento di Filosofia e la Biblioteca, insieme ai membri
dell'Associazione e a quanti hanno collaborato alla realizzazione delle
sue iniziative in generale e di questo volume in particolare, col quale ci
auguriamo di poter offrire al lettore materiali interessanti ed utili per un
proficuo studio filosofico.
I curatori,
Matteo Bianchetti ed Erasmo Silvio Storace
ELEMENTI DI ONTOLOGIA
NEL PARMENIDE E NEL SOFISTA
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Enrico Berti
Metafisica, alla fine del capitolo 1, dichiara che il problema di "che cosa è
l'essere" (Tt TÒ ov) è un problema "sia in antico sia oggi, se.mpre indaga-
to e sempre discusso" (1028 b 2-4: rnì. TÒ TTaÀ.m TE Kaì. vvv KaÌ. àEì.
(llTOVµEVOV KaL àEì. àTTopovµEvov).
Ho ricordato le parole di Aristotele. So che questo è un passo molto
noto perché è stato citato molte volte da Martin Heidegger come segno
che la domanda sull'essere non finisce mai, cioè che accompagna l'intera
storia della filosofia, a partire da Parmenide, ed è destinato a ripropors~
sempre. In realtà, come mi è stato una volta fatto notare da Fernanda
Caizzi (che ho piacere di ricordare perché è stata un'osservazione per me
preziosa), a volte la parola àd significa non "sempre", in senso tempora-
le, ma "in tutti i casi". Nel passo di Aristotele, probabilmente, le parole
àEì. (11TovµEvov e àEÌ. àTTopovwvov non significano che il significato
dell'essere è "sempre", cioè eternamente, ricercato e "sempre" discusso,
ma significano che esso è stato discusso "in entrambi i casi", cioè rnì. TÒ
TTaÀ.m TE Kaì. vvv, "sia anticamente, sia anche oggi", vale a dire ogni-
qualvolta si è affrontato il problema di "che cosa è l'essere". Non credo
che per Aristotele questo problema sia destinato a essere discusso eterna-
mente, perché proprio in questo passo Aristotele dice che non bisogna più
chiedersi che "cosa è l'essere", ma bisogna, invece, chiedersi "che cosa è
l'oùofo", o "quale è l'oùofo (TLS Ti oùofo)".
Queste ultime parole, di solito, Heidegger non le cita: egli riporta la
prima parte del brano e non la sua conclusione, in cui Aristotele liquida il
problema di "che cosa è l'essere" (TL TÒ ov), dicendo che, da questo
momento in poi, bisogna chiedersi "che cosa è l'oùofo". Probabilmente,
quando Aristotele dice che questo problema è stato affrontato TÒ TTaÀ.m,
anticamente, TE KaÌ. vvv, e quindi anche oggi, sta pensando prima a
Parmenide (e forse a Melisso), e poi a Platone e alla sua, scuola, cioè ai
platonici, tra i quali egli stesso era cresciuto.
Lo sviluppo di questa domanda ("che cosa intendete mai significare
quando pronunciate il termine essere?") comincia proprio con l'interro-
gazione degli Eleati, quando lo Straniero interpella anzitutto coloro che
ritengono che il tutto è uno. Non c'è dubbio, infatti, che si tratti degli
Eleati. La domanda è questa: che cosa intendono dire con la parola
"essere" (ov) coloro i quali affermano che il tutto è uno (244 b 6-7)?
Qui l'argomentazione di Platone si sviluppa, secondo me, in due fasi:
egli prende in considerazione, anzi~utto, la possibilità che il termine
"essere" usato dagli Eleati sia riferito all'uno (244 b 9-1 O). La tesi attri-
buita loro è che "il tutto è uno". Perciò lo Straniero osserva che, quan-
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Elementi di ontologia nel Parmenide e nel Sofista
3. Per la riga 244 d 12 seguo, con Cambiano, la lezione di Diès: Évòs EV ov µ6vov.
19
Enrico Berti
si del Parmenide, secondo la quale "l'uno che è uno'', cioè l'uno in sé, o
il vero uno, è soltanto uno e non ha parti (137 d), mentre, se noi riferiamo
il nome essere al tutto, in qualche modo ammettiamo che il tutto abbia
parti. In questo modo Platone mette gli Eleati in contraddizione con se
stessi, dunque abbiamo una nuova confutazione dell'eleatismo.
Ma consideriamo l'altra possibilità, cioè che l'essere sia diverso dall'in-
tero. Anche qui scatta la confutazione: se l'essere è diverso dall'intero,
allora il tutto, comprendendo sia l'essere che l'intero, sarà più di uno (245
b 7-9: TTÀ.Éova 8iì Tà TTavTa Évòs foTm), il che confuta la tesi degli
Eleati. Oppure è anche possibile che l'essere si riferisca all'intero, pur
rimanendo diverso dall'intero. Ma, se io dico che l'essere si riferisce all'in-
tero e, quindi, che l'intero è essere 'e, poi, affermo che l'intero è diverso
dall'essere, allora l'intero diventa diverso da se stesso, cioè diventa privo
di se stesso (245 c 1-3: Èv8EÈS TÒ ov ÉauToD auµ~atvEL), il che è evi-
dentemente assurdo. O, infine, si ammette che l'intero non coincida còn
l'essere, cioè che all'intero non sia riferibile il termine "essere", ma allora
l'intero non è e, poiché, avevamo considerato la possibilità che "essere" si.
riferisse all'intero, se l'intero non è, nemmeno l'essere è; e, se non è, non
può nemmeno divenire, perché divenire significa abbandonare l'essere; e,
se non può essere né divenire, non può avere neppure quantità (245 c 9-d
102 ouTE oùatav ouTE yÉvEaLv ... où8' émoaovovv TL).
Qui a me sembra di sentir riecheggiare la prima ipotesi del Parmenide,
dove Platone fa dire a Parmenide che l'uno che è soltanto uno, non è, non
è in quiete, non diviene, non è né vecchio né giovane, né prima né dopo,
cioè non è nel tempo; insomma, di esso non si può dire nulla e non si può
neppure dire che ha quantità (137 e, 138 b-139 b). In essa c'è proprio il
riferimento esplicito alla quantità, ci sono esattamente le stesse afferma-
zioni che troviamo nel Sofista.
La confutazione degli Eleati, poi, si conclude dichiarando: "e innumere-
voli altre questioni, ciascuna fornita di difficoltà senza fine, appariranno
allora a chi afferma che l'essere è due determinate cose o una sola" (245 d
12-e 2: TQ TÒ ov EhE 8fo TLVÈ E'LTE €v µ6vov -Elvm À.Éyovn). Non
sempre i traduttori mostrano di comprendere questo passo. Esso non dice,
come traduce non so più chi, che l'essere è una coppia di cose. No, qui il
riferimento è sempre agli Eleati, cioè la posizione degli Eleati viene pre-
sentata come si dicesse o che l'essere è due determinate cose, cioè il tutto
e l'uno (che erano i termini in cui essa era stata formulata inizialmente
dallo Straniero), oppure che è una cosa sola (cioè l'uno senz'altro). È alla
posizione degli Eleati che questo passo si riferisce, e il suo significato è
21
Enrico Berti
22
GIOVANNI CASERTANO
IL FALSO:
UN'ESISTENZA CHE NON ESISTE TRA COSE ESISTENTI
23
Giovanni Casertano
In B2, la via di ricerca, se non è una vera e propria ò86s, è comunque una
àTpmr6s, una KÉÀ.EV8os, ed anche se non è percorribile, rravarrEvefis, è anzi
del tutto impercorribile,·può comunque essere pensata, dal momento che fa
parte delle sole vie che possono essere pensate (vo~am ). E dunque si può
pensare e dire anche il falso, come non solo fanno i 81.KpavOL di B6.5, gente
che non sa giudicare (aKpLTa cpuÀ.a) e che mescola nei propri discorsi l'es-
sere e il non essere, l'esistere e il non esistere, ma come fanno anche colo-
ro che parlano senza metodo della natura. Costoro, infatti, confondendo le
vie, attribuiscono a "ciò che è" i nomi di "nascere" e "morire"3, di "cambia-
re", che rigorosamente ad esso non possono essere attribuiti, dal momento
che sono caratteristiche delle "cose che sono'', e cioè delle singolarità mol-
teplici dei fenomeni. Non solo, ma in questa loro errata operazione, quei
nomi essi "credono che sono veri".
E dunque, come si vede, anche nella monolitica ottica parmenidea c'è
spazio per l'errore, per il falso; il non essere, che non esiste, trova comun-
que, in qualche modo, un suo spazio· nei discorsi dell'uomo, è in qualche
modo pensabile ed è in qualche modo dicibile; per cui l'affermazione delle
due equazioni essere/vero. e non essere/falso è quanto meno problematica.
Il fatto è che, dopo Parmenide e prima di Platone, da quelle equazioni
Protagora e Gorgia avevano dedotto l'eguale verità di tutti i discorsi, e quin-
di la non esistenza del falso. Qui non mi interessa discutere il problema sto-
riografico dell'attribuibilità storica delle tesi dell'inesistenza del falso, e del-
1' equivalenza di tutti i discorsi sul piano della verità, a Protagora: come è
noto, noi non la leggiamo in nessun luogo. È Platone, e dopo di lui Aristotele
e tutti gli altri testimoni delle dottrine protagoree, che costruiscono quest'in-
terpretazione del detto sull'homo mensura. Quello che è importante, ai fini
del nostro tema, è appunto che Platone gliela attribuisce, e la critica, e ritie-
ne fondamentale il distruggerla per poter costruire la propria "filosofia". Nel
far questo egli accoglie, deve accogliere in pieno quella che abbiamo chia-
mata la prospettiva parmenidea, perché è cosciente dell'impossibilità di eli-
minarla, pena la perdita di un criterio che gli sta a cuore, quello della con-
trapposizione di verità a falsità, che per lui ha un valore non tanto e non solo
gnoseologico, quanto principalmente etico e politico. Ma, nell'accoglierla,
ne eredita anche le ambiguità e le incrinature, eh~ tenta in ogni modo, a volte
genialmente, a volte "sofisticamente", di sciogliere e di sanare. ·
3. B8.39-4 l: "In rapporto ad esso [ciò che è] sono dati tutti quei nomi che gli uomini hanno
stabilito credendoli veri, e cioè nascere e morire, esistere e non esistere, cambiar luogo e
mutare splendente colore".
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Il falso
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Giovanni Casertano
afferma che è "la natura dei generi (ii Twv yEvwv cplms )" a comporta-
re questa comunanza?: dove, come si vede, una necessità logica, quale è
quella conseguente ad una dimostrazione e ad una confutazione, viene tra-
sformata in una necessità naturale, o comunque viene ritenuta coinciden-
te con essa.
Possiamo dire che questo orizzonte teoretico sfa quello di Parmenide?
Credo di sì: anche in Parmenide c'è una stretta corrispondenza tra il livel-
lo dell'essere, quello del pensare e quello del dire, e questo comporta che
i nomi siano indicativi veritieramente di una realtà ed assolvano ad una
importantissima funzione conoscitiva, qual è appunto quella di distingue-
re ciascuna cosa da tutte le altre, nel quadro appunto della realizzazione
del suo programma del sapere, di conoscere tutte le cose e in tutti i modi8.
E Platone non può non convenire con quest'orizzonte.
Ma naturalmente non è così. Non c'è una corrispondenza immediata tra
nome e cosa, e quindi non basta nominare le cose per essere immediata-
mente nel campo della verità. In altri termini, il campo della realtà non
coincide con quello della verità, per cui si può "essere" realmente, ma non
veramente, secondo la chiara espressione di 240b9. In altri termini anco-
ra, poiché quando discutiamo con qualcuno, come aveva sottolineato
Gorgia, non gli comunichiamo cose ma parole, nomi, che cos'è la "cosa",
l' €pyov, cui pretendiamo che il nostro nome corrisponda, per poter affer-
mare che stiamo dicendo la verità?
In effetti fin dall'inizio del dialogo, secondo il sapiente stile platonico di
anticipare più o meno velatamente l'aporia fondamentale che sarà svisce-
rata e discussa nel seguito, lo Straniero non ha alcuna difficoltà a dichiara-
re che come i nomi di sofista, politico e filosofo sono tre, così sono anche
tre le persone a cui essi si riferiscono. Quello che invece fa problema, cioè
non è un'impresa né piccola né facile, è definire con chiarezza che cosa
essi siano uno per uno (217b2-3: Kaff EKaaTov 8Lop(aaa8m aacpws TL
rroT' fonv). Prima di iniziare la ricerca in comune, infatti, lo Straniero,
ribadendo che essa si deve svolgere cercando e chiarendo mediante un
7. Soph. 257a9.
8. Parmenide B19.3. Mal posta la tesi della falsità dei nomi in Parmenide, sostenuta da
alcuni studiosi, secondo la quale tutti i nomi, escluso l"'è", non si potrebbero attribuire a
TÒ Èov; tesi chiaramente influenzata dal neoplatonismo e fondata su di un'errata lettura
dei versi 38-40 del frammento 8, dove si dice che'i nomi di "nascere" e "morire" sono fal-
samente attribuiti a "ciò che è", ma non ·che siano falsi in quanto nomi: possono essere
attribuiti infatti correttamente alle "cose che sond'.
9. Soph. 240b10-11: [fo'n] ovKovv ÙÀ.T)0ws-... TIÀ.lJV yE ... ovTw<;.
26
I/falso
discorso che cosa mai sia (Mycp TL TTOT EoTL) il sofista, aveva dichiara-
to che per ora, a proposito del sofista, gli interlocutori avevano in comune
soltanto il nome (Touvoµa µ6vov €xoµEv KOLvJJ), mentre dell'oggetto a
cui attribuiamo quel nome (TÒ oÈ Epyov Èq>' c1i rnÀ.oÙµEv) era possibile
che ciascuno avesse una concezione propria (Lotq.). Ed aveva posto i palet-
ti metodologici, per così dire, che soli davano un senso alla ricerca stessa:
a proposito di ogni argomento bisogna sempre accordarsi mediante i
discorsi (8Là Mywv... avvwµoÀ.oy~aem) sulla cosa stessa piuttosto che
sul solo nome separato da ogni discorso (Tò rrpayµa aÙTÒ µaÀ.À.ov ... Ti
Tovvoµa µ6vov ... xwpìs Myou)IO. Ed alla fine della diairesi paradigma-
tica, quella che trova il pescatore con la lenza, lo Straniero comunica il
risultato dell'analisi: Ora abbiamo colto (dÀ.iJ<PaµEV) in maniera soddisfa-
cente non solo il nome, ma anche il discorso relativo alla cosa stessa (àÀ.À.à
KaL TÒv Myov TTEpL aÙTÒ Tovpyov)ll.
Questi passi sono estremamente importanti per capire non solo l' oriz-
zonte teoretico in cui si muove Platone, ma anche e principalmente la com-
plessità e la problematicità di quell'orizzonte. E dunque' il nome non è la
cosa, evidentemente, ma non basta neppure a cogliere, ad "afferrare" la
cosa, il fatto. La funzione indicativa del nome (questo è A, B, C), ammes-
so che ci sia, non è sufficiente: l'inizio di una ricerca si caratterizza proprio
per la situazione "socratica" che in certo modo noi già conosciamo non
conoscendo, conosciamo i nomi e le parole che usiamo, ma non conoscia-
mo a che cosa essi corrispondono. O meglio, ciascuno di noi ha una sua
visione privata (l"[oLOv di 218c3) dell'oggetto del proprio parlare, ed ha in
comune con gli altri,solo il nome, i nomi che usa, parlando la stessa lingua;
mentre è proprio e soltanto la ricerca in comune (KOLvJJ) che a quel nome è
in grado di far corrispondere un Epyov riconoscibile da tutti.
Ma che cos'è quest' €pyov, questo rrpayµa, a cui dopo la diairesi
abbiamo concordato che corrisponde l' ovoµa? Sarebbe troppo facile, e
comunque non corretto, rispondere che è la persona fisica del sofista, il
pragma del sofista in carne ·ed ossa. Lo Straniero aveva detto che non era
difficile "indicare" e sostenere la diversità delle tre persone del sofista,
del politico e del filosofo, ma molto più difficile era individuare, distin-
guer~ (8Lopt(w) il "che cosa è (TL TToT' fon)" di ciascuno di essi.
L' ergon del sofista è dunque inscindibile dal suo TL TToT' ECTTL, e se la
persona del sofista è visibile da tutti, il suo "che cosa è''. è visibile solo
Nelle ultime trenta pagine del dialogo si attua lo sforzo più alto di
Platone di costruire una gnoseologia ed una logica in grado di "fonda~e"
una verità ed una falsità oggettive, tentando di farle passare per una gno-
seologia ed una logica "fondate" da una realtà oggettiva; ma sono,anche
trenta pagine tormentate in cui la piena consapevolezza dei problemi logi-
co-linguistici adombra e svela tutta la complessità e le difficoltà dell'ope-
razione. Ma confermare l'ottica parmenidea nel tentativo di "ricucire" la
doppia frattura gorgiana tra essere e pensare e tra pensare e dire, alla fine
si ridurrà, a mio avvisò, solo alla coraggiosa ed appassionata difesa del
logos e della dialettica, uniche armi di cui è in possesso il filosofo per
combattere le sue battaglie.
E dunque, Parmenide. In 237a8-9 si citano per la prima volta i primi
due versi del frammento 7: "Poiché giammai si potrà impdrre con la forza
questo, che esistono le cose che non esistono. Ma tu allontana il pensie-
ro da questa via di ricerca". I due versi saranno ripetuti in 258d2-3, dove
ormai si ritiene di aver dimostrato che "ciò che non è" .esiste realmente;
tra questi due passi, si colloca quello in 241dl-7, in cui si accenna al
famoso parricidio, l'esame dei "miti" raccontati dai cosiddetti monisti e
pluralisti (243d-245e), materialisti e idealisti (246a-249d), ed infine il
nuovo orizzonte teoretico introdotto con la dottrina dei cinque generi
sommi (250a-258c). Non ·posso esaminare qui questi svolti fondamenta-
li del dialogo, e di tutto il pensiero platonico, ma intendo solo mostrare
come l'operazione platonica non rompa affatto, e nemmeno nella "lette-
ra" della scrittura, con l'orizzonte parmenideo; e infine, come il vero
risultato di tutta quest'analisi non sta tanto nel raggiungimento dello
scopo che ci si era prefisso, quanto nella riaffermata centralità del discor-
so, della dialettica e del dialogo.
·Già in 237a, in effetti, appare chiaro che c'è una scissione tra enuncia- ·
to e discorso interpretativo, tra lettera e senso: i due versi del "grande
Parmenide" che parlava a noi ragazzi, dice lo Straniero, costituiscono
una "testimonianza" di cui prendere atto. "Questa dunque è la sua testi-
monianza (rrap' È:Kdvou TE ovv µapTvpELTaL). Ma la massima chia-
rezza su questo punto ci potrà venire dal discorso stesso, se adeguata-
mente saggiato (rn'L µaÀLOTa yE 8Tj rravTCùV 6 Myos aiJTòs av
8TJÀWOHE µÉTpw ~aaavweds)"14. L'enunciato di Parmenide deve
dunque esser preso come una testimonianza; ed ogni testimonianza va
vagliata, messa alla prova: il testimone può anche essere torturato perché
15. Questo senso è chiaramente alluso non solo dal verbo µapTvpÉw, ma anche da ~mm
vl.(w: che è non soltanto il saggiare con la pietra di paragone, ma anche il mettere alle stret-
te, il sottoporre a tortura. Questo senso costituisce parte importante della lettura di U. CURI,
Polemos. Filosofia come guerra, Torino 2000, cap. 2. 1
16. Più volte si ribadisce, nel corso di queste pagine, che bisogna "interrogare" Parmenide
e gli antichi che come lui hanno parlato dell'essere, che bisogna interrogarsi sul 011µa(-
.vnv, sul significato delle loro espressioni, e ritorna, pregnante, l'uso del verbo É:pµl]vEl'.iw:
cfr. p.e. 243d-e, 244a, 246e, 248a.
17. Anche qui, 242b3-4, un verbo, TIÀT]µµEÀ.Éw, che allude ad una nota musicale che non
si armonizza con le altre.
18. Soph. 246al-2.
30
/!falso
19. 241bl-2: ancora una volta un verbo che esprime "contatto'', TTpoaaTTTELV.
20. Soph. 241dl.
21. Soph. 24ld3.
31
Giovanni Casertano
discorso veri infatti non sono altro che l'opinare e il dire "cose che sono",
quelli falsi l'opinare e il dire "cose che non sono" (260c). La prospettiva
parmenidea dell'ancoraggio del linguaggio alla realtà è salva; ma quello
che si è fatto è comunque un passo in avanti (261b6: Els TÒ 1Tp6a8Ev),
anche se piccolo: costituisce sempre, infatti, un passo in avanti lo spingere
la ricerca dandone una dimostrazione22. E se è vero, come abbiamo visto,
che la costruzione di un discorso vero passa attraverso l'interpretazione dei
discorsi degli altri, ora dobbiamo costruire il vero discorso intorno alla
verità ed alla falsità. E quindi dobbiamo stabilire, previamente, che cosa
sono un discorso ed un'opinione (261c6-9)23.
È questa una ricerca che programmaticamente, esplicitamente, si propo•
ne di fare la massima chiarezza possibile (cfr. I' ÈvapyÉ<JTE pov di 261 c7) sul
contatto (ancora aTITETm, 261c8) del discorso con l'essere e il non essere,
in modo da poter stabilire, contro il sofista, che esso non è sempre vero, ma
a volte vero ed a volte falso. Anatomizzando il discorso, si vede che esso è
costituito da nomi e verbi, il duplice genere di indicatori vocali concernen-
ti la realtà24. Ognuno di essi è un oi]Àwµa (262a3), o un <JT]µEl.ov (262a6),
imposto agli autori delle azioni o alle azioni stesse: fin qui, siamo ancora
nella prospettiva parmenidea. Il salto avviene quando dai nomi passiamo al
discorso: questo non è costituito dalla semplice somma di nomi e verbi, ma
da una connessione tra nomi e verbi che esprime un salto di qualità. Il
discorso, infatti, a differenza degli indicatori verbali, non "nomina" soltan-
to, ma chiarisce (262d2: OT)ÀoÌ.), conclude (262d4: 1TEpa(vn) e dice (262d5:
ÀÉYELv)25. Esso, in altri termini, costruendo un "intreccio" (262d6: TIÀÉyµa)
tra i nomi, "crea" qualcosa d'altro che non risulta dalla pilla somma dei
nomi usati. È vero che Platone, nel tentativo di mantenere fino alla fine la
prospettiva parmenidea, pur "modificata" dalla sua interpretazione e dal
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I/falso
33
Giovanni Casertano
29. Cfr. anche 258c, 260b: "ciò che non è" è un genos determinato, che attraversa tutti gli
enti. Resta il problema che se tome on è un'idea al pari delle altre, anch'esso si costitui-
sce in certo modo aÙTÒ Kaff aùT6, come tutte le altre idee, smentendo appunto quanto ·
detto in 238c. A meno che non si dia all'espressione aÙTÒ Kaff aùT6 un senso diverso da
quello secondo cui essa designa l'essere determinato di ogni idea.
30. O "diventa" un discorso falso: cfr. 241 a2 : yÉvOL To; il "nascere" di un discorso, cfr.
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Il falso
legato sempre ad una realtà, rispecchia sempre una realtà, solo che questa
realtà può non esistere; meglio: esso si riferisce sempre, anche quando è
falso, ad una realtà, nel senso che l'attore e l'azione, Teeteto e il volare, esi-
stono realmente. Quello che non esiste è appunto la loro relazione, qui ed ora.
Il discorso vero allora dice una relazione esistente tra cose esistenti; il discor-
so falso dice l'esistenza di una relazione che non esiste tra cose esistenti.
Potremmo, mi pare correttamente, estrapolare, e dire che comunque il
discorso, il linguaggio, è creatore di una realtà, una realtà di significati che
non coincidono, semplicemente, con la realtà di un'esistenza al di fuori del
discorso stesso: il campo del discorso è più ampio di quello della realtà, e
dunque il campo della verità e della falsità, che abitano, come abbiamo visto,
il livello del discorso, non coincide con quello della realtà, ~ la prospettiva
parmenidea, o se si vuole l'esigenza, la tensione della dottrina parmenidea è
definitivamente messa in crisi. Potremmo anche dire che la malattia propria
del, e connaturata al, linguaggio è quella, di sapore gorgiano, di produrre una
realtà diversa da quella che dovrebbe costituire il fondamento veritativo del
discorso stesso; l'ambiguità fondamentale è che il riconoscimento di ambe-
due queste realtà avviene sempre, e non può non avvenire sempre, su uno
solo di questi due piani, e cioè sul piano del linguaggio.
Ma l'ambiguità è dello stesso discorso platonico, teso com'è, da un
lato, a salvare la prospettiva parmenidea e costretto, dall'altro lato, e pro-
prio dall'oggetto stesso della sua ricerca, a compiere un pericoloso passo
in avanti rispetto a quella. Da un lato, cioè, Platone ha distinto il piano del
linguaggio da quello della realtà, per poter inchiodare il sofista al primo
(a quello cioè, per usare un'espressione aristotelica, del "parlare per par-
lare") e negare al suo discorso ogni cittadinanza nel secondo: e per questo
è dovuto scendere sul terreno gorgiano. Dall'altro lato, è stato costretto a
ricollegare i due piani proprio per sottrarre il discorso vero alla sua forma-
le equivalenza con quello falso, se ambedue i discorsi avessero dimorato
soltanto sul piano linguistico, se cioè si fosse spinta troppo in là la procla-
mazione dell'esistenza del vero e del falso esclusivamente sul piano del
linguaggio: e in questo ha dovuto ridare un'esistenza al falso e dichiarare
che vero e falso abitano entrambi il piano della realtà. Quest'ambiguità
risulta chiara, a mio avviso, dal passo in 263dl-4.
"Le cose dette sul tuo conto, cose diverse (8aTEpa) ma dette come iden-
tiche (aùTa), cose che non sono-(µiì ovTa), ma dette come cose che sono
262c5: E)'ÉVETO, sottolinea proprio il fatto che esso non risulta semplicemente dalla sola suc-
cessione delle espressioni verbali, ma si presenta come un qualcosa di nuovo rispetto a esse.
35
Giovanni Casertano
31. Mi rifaccio qui in parte all'analisi già offerta in G. CASERTANO, Il nome della cosa.
Linguaggio e realtà negli ultimi dialoghi di Platone, Napoli 1996, p. 202 ss.
36
I/falso
37
FRANCESCO FRONTEROTTA
PENSARE LA DIFFERENZA
STATUTO DELL'ESSERE E DEFINIZIONE DEL DIVERSO
NEL SOFISTA DI PLATONE
È certamente vero che il Sofista affronta per la prima volta nel suo insie-
me il problema della partecipazione o della comunicazione fra i generi idea-
li, per fornirgli una soluzione che Platone sembra considerare in qualche
modo definitival. Abitualmente, si tende a dire che la soluzione del proble-
ma consiste nell'elaborazione del genere del diverso, come pure nell'elabo-
razione del genere del diverso consisterebbe la soluzione dell'altra grande
aporia che il Sofista si propone di risolvere, quella relativa al non essere, alla
sua pensabilità e alla sua dicibilità2. In realtà, le cose non stanno propriamen-
1. Una soluzione definitiva, almeno nel senso che, nei dialoghi che vengono pressoché
unanimemente giudicati posteriori al Sofista, la questione non viene più ripresa né rimes-
sa in discussione. Tuttavia, che la partecipazione fra le idee non costituisca una "novità" o
un problema avvertito soltanto dal Platone tardo risulta abbastanza chiaro dall'esame di
alcuni passi di dialoghi precedenti al Sofista: cfr. solo Crat. 438e5-10 e Resp. V 476a4-7.
E almeno altri due passi pongono a tema la questione, per quanto brevemente, in modo
piuttosto consapevole: cfr. Phaed. 102d6-7; 104b6-105a5 e Parm. 129d6-e3.
2. Questo pare emergere non solo dalle trattazioni manualistiche, ma anche dalla maggior
parte degli studi specialistici dedicati al Sofista, dai quali traspare l'idea di fondo che l'ela-
borazione della diversità permetta di per sé di fornire una risposta al dilemma del mm esse-
re, facendo talora c.oincidere sic et simpliciter il non essere, almeno in un certo suo signifi-
cato, con il genere del diverso. Ptir se non affermata in modo diretto ed esplicito, ma sugge-
rita al massimo allusivamente nella forma sintetica e semplificata di una riduzione interpre-
tativa, tale idea si ricava per esempio da alcuni classici commenti al dialogo, come - cito alla
rinfusa e senza alcuna pretesa di esaustività- F.M. CORNFORD, Plato s Theory o/Knowledge.
39
Francesco Fronterotta
te così. Di per sé, l'elaborazione del genere del diverso, il diverso come tale,
non risponde affatto né al problema della Kowwvl.a dei generi né al proble-
ma del non essere, perché, di per sé, il diverso non coincide con il non esse-
re (e non lo rende perciò pensabile e dicibile) né si pone come l'esclusiva
chiave di volta per la comprensione della struttura e della composizione della
KOLvwvl.a dei generi. Non a caso, la lettura del testo indica chiaramente che
la soluzione di questi due problemi risiede piuttosto in quella che lo Straniero
di Elea, che conduce la discussione, individua come la totale "compenetra-
zione" di essere e diverso, per tre volte a breve distanza ribadita.
In 258d-e, si dice che l'analisi ha dimostrato che "la natura del diverso
è ed è frammentata fra tutte le cose che sono, nella misura in cui esse
intrattengono rapporti reciproci" (nìv yàp 8aTÉpov cpfoLv àrroodçav-
TES oùaav TE KaL KaTaKEKEpµaTLaµÉVT]V ÈTTL TTQVTa Tà OVTa rrpòs
aÀÀT]À.a): ora, prosegue lo Straniero eleate, se il diverso interviene necessa-
riamente nell'incontro e nella relazione fra termini diversi, sarà solo dopo
aver mostrato che il diverso è che si potrà sostenere che il non essere è.
Ancora, in 259a, si afferma decisamente che "l'essere e il diverso sono
entrambi disciolti attraverso tutte le cose che sono e reciprocamente, l'uno
attraverso l'altro" (T6 TE òv KaL eciTEpov 8Là rravTwv KaL 8L' àÀÀ.'fiÀ.wv
ÙLEÀ.T]À.v86TE): dunque, il diverso è (essendo disciolto attraverso l'essere e
perciò da questo penetrato) e l'essere, in quanto è diverso (essendo disciol-
to attraverso il diverso e perciò da questo penetrato), non è. Ne deriva che
"ciò che è moltissime volte non è in moltissime condizioni e così pure gli
altri generi, uno per uno e tutti insieme, in molti casi sono, in molti non
sono": proprio in questo "intreccio" fra i generi, determinato dalla mesco-
lanza di essere e diverso, si trova a quanto pare la soluzione del problema
del non essere e, a un tempo, della KOLvwvta dei generi. Infine, in 260b, si
mostra ancora come la via che conduce alla soluzione del problema del non
The Theaetetus and the Sòphist ofPlato, transi. with a running Commentary, London 1935,
pp. 289-98; R.S. BLUCK, Plato's Sophist. A commentary, Manchester 1975, pp. 157-72; S.
RosEN, Plato's Sophist. The Drama of Originai and Image, New Haven/London 1983, pp.
271-90; L. M. DE RIJK, Plato's Sophist. A Philosophical Commentary, Amsterdam/Oxford/
London 1986, pp. 164-73; PLATON, Sophiste, trad. inédite, intr. et notes par N. L. CoRDERO,
Paris 1993, pp. 53-57; G. CASERTANO, Il nome della cosa. Linguaggio e realtà negli ultimi
dialoghi di Platone, Napoli 1996, pp. 181-84. Anche D. O'Brien, che pure denuncia l'iden-
tificazione del non essere con la diversità come una "grossolana semplificazione" della tesi
platonica, ritiene in effetti che il non essere si riduca a una sola parte del genere del diverso
(Le non-étre. Deux études sur le Sophiste de Plàton, Sankt Augustin 1995, pp. 44-45), finen-
do così per sostenere implicitamente che sia proprio l'articolazione della diversità (sebbene
relativamente a una sua parte soltanto) a fornire una risposta al problema del non.essere.
40
Pensare la differenza
essere e, di qui, del falso nel discorso si basi sul riconoscimento che "ciò
che appunto non è ci è apparso essere come un singolo genere fra gli altri,
disseminato per tutte le cose che sono" (TÒ µÈv 8iì µiì ov fiµ'iv EV TL
TWV aÀÀ.wv yÉvos OV àvEcpclVT], KaTà TTclVTa Tà OVTa ÙLE<J1TapµÉ-
vov ), presupponendo quindi, nuovamente e ineludibilmente, ·la mescolanza
reciproca di essere e diverso. Come si vede; insomma, in ciascuna delle tre
occasioni in cui, a conclusione della sezione ontologica dell'analisi," lo
Straniero di Elea proclama il successo della sua strategia nello scioglimen-
to delle questioni del non essere e della KOLvwvta dei generi, egli non evoca
la diversità come tale, il genere del diverso, ma una "compenetrazione"
assoluta, totale e reciproca di essere e diverso. Ciò significa senza dubbio,
a mio avviso, che una corretta comprensione dei fondamentali problemi
affrontati nel Sofista, con la loro eventuale soluzione, dipende precisamen-
te dai due termini, essere e diverso, di cui il dialogo afferma, argomenta e
dimostra ripetutamente l'unione e la mescolanza.
Cercherò in quanto segue di presentare alcune riflessioni intorno allo
statuto e alla definizione di questi due termini, lasciando invece da parte
- se non per servirinene come occasionale punto di partenza dell'esame-
i delicati problemi del non essere e della KOL vwvta dei generi cui essi sono
chiamati a dare risposta nel Sofista.
3. Cfr. per es. F. M. CoRNFORD, Plato s Theory ofKnowledge, cit., pp. 244-45; R.S. 'BLUCK,
Plato s Sophist, cit., pp. 103-06; L. M. DE RriK, Plato s Sophist, cit., pp. 106-07.
41
Francesco Fronterotta
4. Il passo può essere inteso in entrambi i modi, a seconda che, in 257dl, si legga (1) il
genitivo singolare femminile (non però il pronome personale ÈauTfìS' dei manoscritti, ma,
eventualmente, il dimostrativo aùTfìs-, che mi pare tuttavia improbabile perché ripetereb-
be lo aÙTfìS' della riga immediatamente precedente), oppure (2) il genitivo singola-
44
Pensare la differenza
re neutro, ossia ÉavToD secondo una congettura di Baumann: nel primo caso, il femmini-
le non può che essere riferito a Èman'Jµri; nel secondo, il neutro deve essere accordato con
µÉpos- €KaaTov. Tra l'altro, l'ambiguità non può essere risolta basandosi sull'interpreta-
zione del passo, dal momento che le singole scienze hanno, ciascuna, sia il nome comune
di "scienza" sia il. loro nome proprio (la medicina, la fisica e la matematica sono, ciascu-
na, "scienz_a" e "medicina" o "fisica" o "matematica"; analogamente e progressivamente,
l'aritmetica e la geometria conservano, ciascuna, due nomi comuni, "scienza"· e "matema-
tica", oltre ai loro nomi propri di "aritmetica" e "geometria").
45
Francesco Fronterotta
l'essere si pone sia rispetto a ciò che è in sé, sia rispetto alla relazione fra
più enti esistenti, ·il diverso, invece, si pone sempre in relazione a un
diverso (TÒ 8É y' ÉfTEpov àd Tipòs ÉfTEpov, 255d): non ha infatti senso
affermare che qualcosa è diverso in sé, stabilito che la diversità si costi-
tuisce sempre come diversità da qualcosa d'altro. Cosa è allora, in se
stessa, la natura essenziale del diverso? Pare essere il continuo e inces-
sante rimando all'altro da sé e, a chi tentasse di coglierlo in sé, esso si
rivelerebbe sempre e comunque diverso da sé. A queste condizioni, la
diversità in sé risulta assolutamente impensabile, visto che, nel momen-
to in cui la si pensa, è già l'altro da sé. L'essenza della diversità è così
duplicemente contraddittoria: in primo luogo, infatti, in quanto riferito
sempre all'altro da sé, il diverso non assume un carattere determinato e
determinabile, un'identità stabile e non mutevole, ma si "muove" nel
continuo rimando all'altro; conseguentemente, se il diverso è questo
incessante movimento verso l'altro, la sua identità e la sua natura devo-
no di necessità coincidere propriamente con esso: paradossalmente, però,
non potrà che trattarsi di un'identità non identica, di una natura essenzia-
le che nega qualsiasi essenza determinata. Cosa è infatti l'identità di un
genere? L'identità dell'essere è di essere l'essere rispetto a se stesso; l'i-
dentità dell'identico è di essere l'identico rispetto a se stesso. AI contra-
rio, l'identità del diverso sarebbe di essere il diverso rispetto a se.stesso,
il che è evidentemente contraddittorio.
Se la diversità appare, al termine di questo breve ragionamento, come
in sé impensabile e assolutamente contraddittoria, è lecito chiedersi se
essa risulti invece in qualche modo pensabile e in sé coerente nel quadro
della Kowwvta dei generi di cui è la condizione necessaria e a partire;; da
questa - il che equivale a chiedersi se il diverso, in sé impensabile e
contraddittorio, divenga pensabile in relazione all'essere con il quale, si
era detto al principio, si trova sempre unito e interamente "compenetrato".
Bisogna di conseguenza riprendere l'esame dello statuto del diverso muo-
vendo questa volta dalla natura e dalla definizione dell'essere e dalla rela-
zione che con il diverso esso intrattiene. ,
3. Lo statuto dell'essere
46
Pensare la differenza
5. Così intende anche MEINHARDT, Platon. Der Sophist, Stuttgart 1990, p. 224: "Um den
Stellenwert dieser Seinsbestimmung in der platonischen Philosophie richtig einzuschiit-
zen, muB man ihre Funktion im Gesamtgedankengang des Dialogs bedenken: Die Suche
nach dem Sophisten zwingt zu einer Kritik bestehender ontologischer Positionen, eins-
chlieBlich der eleatischen, und fìihrt schlieBlich zur nach-parmenideischen Partizipation-
Metaphysik. "Seiendes als Befahigung" ist ein wichtiger Markierungspunkt auf diesem
Weg, mehr solite man auch nicht daraus machen. [... ] ÌV1aterialisten und Idealisten lassen
sich auf diesen Minimalkonsens bringen, der inhaltlich aber schon vorwegweist auf die.
folgende Partizipation-Metaphysik: 'Befahigung' ist schon mehr als das parmenideische
eine und starre Seiende, es i:iffnet sich passiv und aktiv dem vielen anderen; daraus wird
im niichsten Dialogabschnitt die fÌ.ir das Seiend-Sein mitkonstitutive Teilhaberelation".
47
Francesco Fronterotta
6. Cfr. CORNFORD, Plato s Theory o/ Knowledge, cit., p. 234, nota 1; BLUCK, Plato s
Sophist, cit., p. 92, nota 1; RosEN, Plato s Sophist, cit., pp. 218-20.
7. "A mark to distinguish the things that are", secondo la traduzione di CoRNFORD, Plato s
Theory o/ Knowledge, cit., p. 234, e ripresa da BLUCK, Plato s Sophist, cit., p. 92.
8 Questa sembra essere la posizione di DE RrJK, Plato s Sophist, cit., p. I O1.
9. Si deve insomma tenere presente la differenza fra l'affermazione che l'essere iri quan-
to tale è capacità (8uvaµLs) di produrre o subire azione o movimento e l'altra che pone
l'essere direttamente coincidente con l'azione e con il movimento. È infatti un passag-
gio successivo, quello di verificare se la seconda affermazione discenda in effetti dalla
prima e se, dunque, stabilita questa definizione, l'essere non assuma in sé, almeno par-
zialmente, il movimento.
48
Pensare la differenza
riamente ouvaµLs, una ovvaµLs che si esplica a sua volta come produzio-
ne di processualità e movimentoIO.
Che proprio questo sia il punto essenziale si vede bene dalla confutazio-
ne delle posizioni idealiste cui lo Straniero si dedica subito oltre (247e-
249d). Gli idealisti affermano che il divenire (yÉvrnw) e l'essere (oùofov)
sono separati (Xwp(s) l'uno dall'altro e che con il divenire si comunica attra-
verso la sensazione e il corpo, mentre all'essere si accede con il ragiona-
mento (awµaTL µÈv fiµiis yEvÉaEL 8L' ata8forns KowwvE1v, 8Là
À.oywµou TTpòs nìv -ovTws ovatav ). Questa netta separazione è resa
necessaria dall'inconciliabilità e dalla radicale opposizione fra la mutevo-
lezza o la continua trasformazione del divenire e la permanenza eternamen-
te auto-identica dell'essere (248a). Ma lo Straniero si concentra sul signifi-
cato di questo "comunicare" (KoLJJWJJE1v) che caratterizza il rapporto con
l'essere e con il divenire e ripropone la definizione suggerita in 247d-e:
comunicazione è la passione (mi6rfµa) o l'azione (TTotriµa) prodotte da una
ouvaµLS' nel'reciproco incontro di due enti. Conseguentemente, se l'essere
di un ente si costituisce come capacità di agire e patire e se la comunicazio-
ne fra gli enti si riduce all'azione (o alla passione) prodotta (o subita) da un
ente, l'essere di un ente si definisce come capacità di stabilire rapporti di
comunicazione con gli altri enti. Il KOLJJWJJE1v è spiegato così a partire da una
ouvaµLS' TOV KOLJJCùJJELJJ. che, intesa come OVJJaµLS' TOV 1!0LELJJ KQL TOV
miaxELv, coincide con l'essere di ciò che è.
Ma gli amici delle idee non convengono con lo Straniero su questa
interpretazione: mentre al divenire (che è in continuo movimento) appar-
10. A. DIÈS, La définition de l'étre et la nature des idées dans le Sophiste de Platon, Paris
1932, pp. 21 ss., ha rilevato che, ad analizzare con attenzione i dialoghi platonici, questa
concezione dell'essere non è nuova, perché altrove (cfr. per es. Phaedr. 237c; 245c; Theaet.
158e; 174b; Phaed. 97c) ricorre l'idea che l'essenza delle cose si configuri come 8uvaµLs-,
come potenzialità di esplicare la· propria natura e i suoi caratteri specifici. Si deve però
respingere questa possibilità per due ragioni: in primo luogo, altro è riferirsi alle cose sensi-
bili e indicare nella loro 8uvaµLS' l'origine del loro essere, delle loro azioni e passioni, altro
invece definire l'essere stesso nella sua generalità come 8uvaµLs-; in un caso, si mette in luce
la causa del movimento e delle trasformazioni della realtà materiale, mentre nell'altro, in
modo ben più radicale e complesso, si attribuisce alla realtà di ciò che è costitutivamente
identico, immobile e permanente una struttura ontologica della trasformazione e del muta-
mento; non bisogna pertanto, ed è il secondo punto, confondere un uso e un senso generico
del termine 8uvaµLs-, interscambiabile con cpUaLS', che indica semplicemente la natura delle
cose, con un significato che invece si precisa più esattamente nella definizione della struttu-
ra ontologica dell'essere: non è infatti legittimo trascurare la sostanziale differenza di contes-
to della discussione, giacché il discorso sulla realtà delle cose sensibili si colloca certo a un
livello diverso da quello in cui viene proposta la riflessione sull'essere in sé.
49
Fran,cesco Fronterotta
50
Pensare la differenza
4. Pensare la differenza
5. Dire la differenza
Proprio nel Sofista, tuttavia, troviamo un passo che contiene alcuni sti-
moli suggestivi, abitualmente poco considerati dai commentatori, in rela-
zione al nostro problema della diversità, delle condizioni della sua pensa-
bilità o del suo darsi semplice e immediato. Conviene perciò esaminarne
55
Francesco Fronterotta
12. Pagine assai efficaci su questo passo, il cui testo è stato anche sospettato di corruzio-
ne nella sua sezione conclusiva, in G. CASERTANO, Il nome-della cosa, cit., pp. 138-54.
56
Pensare la differenza
13. Occorre tenere presente che, nella prospettiva platonica, il linguaggio (salvo in casi di
malattia, sogno o forme imprecisate di delirio) non fa che riflettere in parole e Myot dei
contenuti di pensiero, come del resto, in senso inverso, il pensiero non è altro che un
interiore "dialogo dell'anima con se stessa", secondo la celebre definizione del Teeteto.
Ecco perché, qui e di seguito, bisogna precisare che ogni riferimento al "dire" implica imme-
diatamente un ricorso al "pensare": non vi è linguaggio espresso senza un pensiero che lé>
preceda, né, a quanto pare, vi può essere pensiero che non sia immediatamente espresso ver-
balmente in forma discorsiva (anche se "discorrendo" silenziosamente con se stessi).
57
Francesco Fronterotta
APPENDICE
14. O. APELT, Platonis Sophista, Lipsia 1897, p. 151, traduce: "µaveavw· T68E yE ... " con:
"hoc certe concedent. .. "; A. E. TAYLOR, The Sophist and the Statesman, London 1961, p.
147, in nota, propone di espungere il punto in alto (µaveavw T68E yE, invece che µav-
eavw· T68E YE) e di tradurre: "I know this much at any rate, that..."; A. DIÈS, Platon-
(Euvres Complètes, Paris 1920-1964, traduce: " ... mais ceci, au moins, ils l'avòueront...";
L. ROBIN, Platon. Oeuvres Complètes, Paris 1942, II, p. 306, traduce: "Voici en tout cas ce
que je vois bien, c'est que, s'il est vrai que connaitre ... ". Ciò che va sottolineato è che l'in-
sieme del passo viene interpretato da questi studiosi come il definitivo esito della confuta-
zione degli idealisti condotta dallo Straniero: questi infatti, nonostante i precedenti dinie-
ghi, intende costringere gli avversari ad un'ultima e decisiva ammissione: "Capisco, ma
questo almeno <bisogna riconoscere> ... ".
59
Francesco Fronterotta
60
Pensare la differenza
bile, se conosciuto, sia mosso. Il Myos che stabilisce la connessione fra agire
e muovere (e quindi fra conoscere e muovere) e patire ed essere mosso (e
quindi fra essere conosciuto ed essere mosso) sarebbe così il ragionamento
degli idealisti, che esprime la contraddizione nella quale essi cadrebbero, se
ammettessero il rapporto fra conoscere e agire (e muovere) e fra essere
conosciuto e patire (ed essere mosso) 17. Tre sono quindi, schematicamente,
le intèrpretazioni possibili del passo considerato:
17. Teeteto aveva già avvertito questa contraddizione in 248d8-9 (TàvavT[a yàp c'ì.v TOLS
l'µrrpoa8Ev ÀÉyoLEV [scii. gli amici delle idee]) e perciò, pur incalzato dàllo Straniero, si
era detto costretto a negare qualsiasi rapporto fra conoscere e agire ed essere conosciuto e
patire (8fìÀov ws où8ÉTE:pov où8ETÉpou).
61
Francesco Fronterotta
che designa i generi intellegibili o·di una generica espressione che indica
l'ambito degli enti che esistono a vari livelli e che comprende tanto l' es-
sere delle idee, quanto il divenire delle cose sensibili. Tre considerazioni
mi inducono a propendere per la prima alternativa.
63
MAURIZIO MIGLIORI
1. Per la struttura dell'opera e per il quadro generale dellamia lettura del Parmenide, che è in
molti punti diversa da quella "tradizionale", devo rinviare al mio Dialettica e verità. Commen-
tario filosofico al Parmenide di Platone, Vita e Pensiero, Milano 1990, 20002 (in part. pp. 411-
35, per quanto riguarda il modo con cui Platone, pur presentando uno schema, non lo rispet-
ta affatto, e dà luogo a 4 ipotesi diverse, la Prima articolata nella Prima tesi, la Seconda ipo-
tesi articolata nella Seconda, Terza e Quarta tesi, la Terza ipotesi articolata nella Quinta tesi e
infine la Quarta Ipotesi articolata nella Sesta, Settima e Ottava tesi); singoli, ma importanti,
approfondimenti si trovano in Il Parmenide e le dottrine non scritte di Platone, Ist. Suor Or-
sola Benincasa, Napoli 1991, ora anche in G REALE (a cura di), Verso una nuova immagine
di Platone, Vita e Pensiero, Milano 19942, pp. 165-222; L'unità del Parmenide e il suo inten-
to protrettico, in Il Parmenide di Platone e la sua tradizione, CuECM, Catania 2002; pp. 59-84.
2. Cioè: 9 per la Prima tesi, 14 nella Seconda, 3 nella Terza, 1 nella Quarta, 5 nella Quinta,
1 nella Sesta, 4 nella Settima, I nella Ottava.
3. Incontriamo qui, per la prima volta, un termine che comparirà varie volte nel corso dì que-
sto lavoro, in quanto lo ritengo decisivo per l'ermeneutica platonica; sulla funzione del "gioco
filosofico" che, a scopo protrettico, continuamente Platone utilizza, cfr. quanto dico in Tra
polifonia e puzzle. Esempi di rilettura del "gioco" filosofico di Platone, in G CASERTANO (a
cura di), La struttura del dialogo platonico, Loffredo, Napoli 2000, pp. 171-212.
66
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista
- Verissimo.
- Oltre a questi, ci sono altri modi di partecipare all'essere?
- Non ci sono.
-Allora, in alcun modo l'uno partecipa dell'essere. (141E3-9)
Da questo ~i trae una seconda conseguenza: quest'uno non ammette
scienza, non ha definizione, in sintesi è fuori della sfera conoscitiva.
Platone ha quindi stabilito un legame forte tra essere, tempo, conosci-
bilità, che viene confermato, per quanto riguarda essere e tempo, in modo·
esplicito nella Seconda tesi rovesciando i termini del rapporto, che nuova-
mente riguarda sia l'essere sia il divenire:
Cos'altro indica "è" se non il partecipare all'essere nel tempo presente, così
come "era" indica la partecipazione nel tempo passato e. "sarà" all'essere
nel futuro? [ ... ]L'uno partecipa dunque del tempo se partecipa anche del-
l'essere.[ ... ] Quindi del tempo che scorre. (151E7-152A4)
Poco dopo, in 155 D ss., troviamo un'ulteriore conferma: si passa dal
tempo all'essere e da questo alla conoscenza.
Questo è, a mio avviso, l'unico vero elemento ontologico presente in
positivo: per pensare il tempo dobbiamo modulare le forme di "essere" o,
che è lo stesso, se pensiamo l'essere lo moduliamo secondo le forme del
tempo; su questa relazione di base noi conosciamo la nostra realtà.
Non è poco, certamente. Il fatto è, però, che Platone esplicita una serie
di altre affermazioni che mettono in risalto elementi limitativi, se non
negativi, connessi alla concettualizzazione dell'essere.
4. Una parte della critica continua a sottovalutare il passaggio dall'ipotesi "uno-uno", trat-
tata nella sola Prima tesi, a quella "uno-che-è"; cfr. ad es. R. RoBINSON, "Plato's Parme-
nides'', Classica! Philology, XXXVII (1942) pp. 51-76, pp. 159-86, p. 75; R. RoBINSON,
Plato's Earlier Dialectic, Oxford/New York 1941, 19532, pp. 245-46, L. STEFANINI,
Platone, 2 voll., Padova 1932-1935, nuova ed. agg. 19492, Istituto di Filosofia, Università
degli Studi di Padova, Padova 1991, II, pp. 140-41; H. G. ZEKL, Platon, Parmenides, iiber-
setzt und hg. H. G. ZEKL, Hamburg 1972, pp. 145-46, n. 102; W. F. LYNCH, An Approach to
67
Maurizio Migliori
Essere e tempo
the Metaphysics of Plato through the Parmenides, Georgetown 1959, Westport 1969, pp.
s
11-12; W. D. Ross, Plato Theory ofldeas, Oxford 1951, 1953 2 , tr. it. di G. G10RGINI, intr.
di E. BERTI, Platone e la teoria delle Idee, Bologna 1989, p. 129; M. F. CORNFORD, Plato
and Parmenides. Way of Truth and Plato s "Parmenides ", tr., intr. and a running
Commentary, London, 1939, 19645, p. 116. Tuttavia, una serie di dati rendono inaccettabi-
le questa posizione. In primo luogo, Platone all'inizio della Seconda tesi, in un modo osten-
tato presenta un nuovo inizio, quasi contrapponendo le due ipotesi.(infatti, le argomentazio-
ni iniziano solo dopo che si è chiarito il salto); in secondo luogo, le due ipotesi, anche sul
piano della scrittura, appaiono diverse: se l'Uno è uno, d EV Ècrnv (137 C 4), della Prima
tesi diviene se l'Uno è, €v d fonv (da 142 B 3 in poi, con un'unica eccezione). La modi-
ficazione è poco rilevante da un punto di vista linguistico, ma sul piano logico comporta
una trasformazione radicale: il passaggio del verbo "essere" dalla funzione di copula a quel-
la di predicato verbale comporta l'uscita dall'unicità dell'Uno-Uno (cfr. 142 C 2-3) e l'af-
fermazione dell'Uno-Ente. A conferma, G. KouMAKIS, Platons Parmenides zum Problem
seiner Jnterpretation, Bonn 1971, pp. 101-02, dichiara di aver controllato che tutte le vplte
in cui Platone e Aristotele usano la forma ipotetica, se il nome precede la congiunzione è
soggetto, mentre quando segue può essere sia soggetto sia nome del predicato. In terzo
luogo, la differenza è garantita dal tipo di argomentazioni che nella Prima tesi sono incen-
trate sulla natura enologica dell'Uno, cioè proprio sull'Uno-Uno, mentre, e contrario, nella
Seconda emerge subito il concetto di partecipazione, per cui l'Uno partecipa dell'Essere,
cosa che viene ripetuta ben tre volte (142 B 6; C 1; C 6). Per una più attenta riflessione sul
problema, rinviamo al nostro commentario Dialettica e verità, cit., pp. 223-28.
68
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista
69
Maurizio Migliori
- Come dici?
- Essere prima immobile e poi in movimento, essere prima in moto e poi
immobile: senza un mutamento non sarà possibile patire questi stati.
- Come jnfatti potrebbe?
- Ma non vi è nessun tempo, in cui sia possibile che qualcosa né si muova
né stia ferma. ·
- Infatti, non c'è.
- Né d'altra parte muta senza mutamento.
- Non sembra possibile.
- Quando dunque cambia? Non cambia né quando è immobile né quando
si muove, né cambia quando è nel tempo.
- No, infatti.
- Ma esiste questo stato straordinario in cui dovrebbe essere quando muta?
-Quale?
- L'istante. Infatti questo sembra il significato della parola "istante": ciò da
cui partono i cambiamenti nelle due opposte direzioni. Non è infatti dall'im-
mobilità ancora immobile, né dal movimento ancora in moto, che c'è il muta-
mento; ma è questo istante dalla straòrdinaria natura, posto in mezzo tra
movimento e immobilità, e che non è in alcun tempo, ciò verso il quale e dal
quale quanto si muove muta nella quiete e quanto è fermo muta nel movi-
mento. (156 C 1-E 3)
Quindi l'istante costituisce una dimensione extratemporale e, in quanto
tale, per così dire, extraontologica. In essa si possono dunque collocare gli
enti metatemporali ed "esterni" o "superiori" alla dimensione dell'essere. La
cosa rilevante è che tale dimensione "staccata" opera nella sfera delle realtà
temporalizzate, in quanto, altrimenti, il divenire risulterebbe inesplicabile. ·
Non è, a mio avviso, importante la pochezza di queste indicazioni a
fronte del fatto che Platone conferma, in un settore delicatissimo, che ci
sono due ambiti ben diversi, uno caratterizzato dall',essere e dal tempo,
uno extratemporale ed esterno alla dimensione ontologica, separato e tut-
tavia necessario per quella stessa realtà che è, la quale quindi manifesta
una sua radicale insufficienza.
Il parallelo con la classica visione della sfera "ideale" e del suo "ruolo"
sembra abbastanza facile.
porta a dire che, malgrado tutto, in qualche modo "è". Si tratta di capire,
però, in che senso quest'uno-che-non-è anche "è". Per questo Platone
deve esplicitare i vari possibili nessi tra essere e non essere.
Si danno solo quattro possibilità:
(a) l'essere dell'Essere che è, cioè l'affermazione dell'Essere puro;
. (b) l'essere dell'Essere che non è, cioè l'affermazione relativa del
Divenire;
(c) il non essere dell'Essere che non è, cioè la negazione relativa del
Divenire;
(d) il n.on essere del Non Essere che non è, cioè la negazione del puro
Nulla.
Come si vede:
1. la forzatura che invera (e quindi non uccide) l'essere eleatico forzan-
dolo ad accettare il non essere come condizione per uscire dalla trappola
dell'univocità eleatica c'è già nel Parmenide; nel Sofista troviamo solo
l'articolazione e la giustificazione di questo necessario abbandono del-
1' ortodossia parmenidea;
2. solo del divenire è possibile parlare, e partecipare, sia in positivo, sia
in negativo; i termini estremi sono invece condannati l'uno alla sola affer-
mazione, l'altro alla sola negazione.
Il fatto significativo è che questo uno che non è in quanto anche è evi-
dentemente "diviene", e diviene in un modo specifico, cioè o si muove o
si trasforma, o nasce o aumenta e così via:
- Allora, tutto ciò che è così, cioè è e non è in un certo stato, implica dun-
que mutamento?
-Come no!
- Mutamento è movimento, o possiamo dire qualche altra cosa?
- Movimento (KLVTlCJLS' ).
- L'Uno ci è apparso sia essere sia non essere?
- Sì.
- Dunque, ci appare essere e non essere in un certo stato. (162 B 10-C 3)
Il fatto è che subito Platone si impegna analiticamente a dimostrare che
in questa situazione non è possibile alcuna forma di mutamento "se l'uno
non è". Quest~ è, a mio avviso, l'unica tesi che si chiude con una vera apo-
ria. La dialettica dell'essere rimanda necessariamente al divenire, ma que- ·
sto non appare possibile: la tesi afferma che, in assenza deWuno, la dialet-
tica dell'essere risulta logica ma inapplicabile. Il che conferma quanto già
emerso a proposito dell'istante, cioè l'insufficienza radicale della dimen-
sione ontologica come fondamento adeguato a spiegare l'intero reale.
71
Maurizio Migliori
Un dialogo di passaggio
5. Questo però non c'è affatto, perché lo Straniero prega di non essere considerato un parrici-
da (241 D), cioè, fuori della fiction narrativa, Platone, sapendo benissimo che la sua operazio-
ne poteva essere fraintesa, prega (invano) i lettori di non confondere il suo superamento della
ontologia parmenidea, che è al contempo un inveramento, con una sua negazione. Vano sfor-
zo: come ben sapeva l'Autore, lo scritto è per definizione sempre equivocabile ...
6. Per approfondire quanto qui solo accenno, rimando a "Verso il filosofo: dialettica e
ontologia nel Sofista di Platone", Rivista di filosofia neo-scolastica, XCI (1999), pp. 171-
204; per la mia lettura generale di questo dialogo rimando aLectura Platonis:Il Sofista di
Platone. Valore e limiti del! 'ontologia, Morcelliana, Brescia 2004, in corso di stampa.
7. L'incontro fittizio del Parmenide è citato sia in Teeteto, 183 E, sia in Sofista, 217 C; il
Teeteto è ricordato in Sofista, 216 A, e due volte nel Politico, 257 D, 258 A; quanto al
Sofista viene ripetutamente ricordato nel Politico, 257 A, 258 A, 258 B-C, 266 D 5, 284 B 7
(soprattutto questo Èv Tcjì ao<j>wTi:'J sembra il rinvio ad un testo e non alla discussione pre-
cedente), 284 C; 286 B.
72
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista
8. La cosa non può essere sottovalutata. In ima lettura "ingenua" del testo platonico,
dovremmo supporre un totale disinteresse dell'Autore per la scuola di Elea o una sua radi-
cale ignoranza, cose improbabili in un filosofo che ha viaggiato in Italia, che conosce
Gorgia e che ha colto benissimo il collegamento tra Eleatismo e Sofistica (su questo tema,
cfr. M. MIGLIORI, "La filosofia dei sofisti: un pensiero posteleatico", Annal(della Facoltà
di Lettere e Filosofia dell'Università di Macerata, XXXIII, 2000, pp. 9-30; "Gorgia quale
sofista di riferimento di Platone", Giornale di metafisica, NS XXI (1999), pp. 101-26). Se
invece ragioniamo nei termini di una forma di scrittura estremamente curata e attenta ai
particolari, che opera per colpire, in funzione protrettica, il lettore, si coglie la scelta di gra-
duare le informazioni allo stretto necessario, il che provoca una presentazione improvvisa
ed esplosiva di questa scuola, a partire dal dialogo che è dedicato al maestro fondatore.
Successivamente, nel Teeteto, l'Eleatismo viene richiamato, ma la trattazione è svolta sul-
!' asse Eraclito-Protagora e la questione eleatica viene "rinviata" ( 183 C-184 B ); infatti, nel
Sofista e nel Politico, il ruolo di maestro viene tenuto da uno Straniero di Elea. In segui-
to, tutto tace: sull'Eleatismo Platone passa da u,n silenzio a un tributo altissimo nelle opere
cd. dialettiche cui segue, sostanzialmente, un nuovo silenzio.
9. In effetti, se si pensa alla filosofia di Platone e al peso che vi ha la dialettica, di origine
eleatica, si capisce lo schema di svolgimento di questa pentalogia. Il Parmenide costituisce
un prologo necessario, per evidenziare la complessità della dialettica platonica, di cui
l'Autore svela l'origine eleatica; poi il Teeteto imposta il tema della scienza in una chiave
esclusivamente "socratica" con un esito che non può essere considerato aporetico. La con-
clusione non evidenzia affatto uno scacco irrimediabile, ma ha toni largamente positivi (21 O
B 4-D 4), perché il lavoro fatto, la distruzione del relativismo protagoreo e l'eliminazione di
alcune definizioni di scienza, appare utile, persino se non si potesse andare avanti; se poi si
riuscirà a svolgere un 'ulteriore trattazione, emergerà la sua vera ricchezza. E il testo esplici-
ta che con Socrate non si può procedere oltre: solo qui arriva la sua arte! Ed egli dà appun-
tamento per il giorno dopo a Teodoro, cioè proprio a colui che porterà con sé quello Straniero
di Elea, che li farà procedere oltre Socrate, verso il Filosofo, per completare il lavoro impo-
stato con Teeteto. Abbiamo quindi una duplice premessa, una eleatica e una socratica,
entrambe apparentemente incompiute: in realtà sono una sorta di esercizio propedeutico del
tutto necessario, dal punto di vista platonico, per avvicinarsi al Filosofo (non scritto).
73
Maurizio Migliori
ta", si lascia capire: per fare scienza bisogna che "Socrate" passi per Elea, che
si realizzi quella commistione che è una delle caratteristiche del platonismo.
Questa necessità viene esplicitata fin dall'inizio del Sofista, sulla base di
una paradossale domanda di Socrate, il quale chiede se lo Straniero di Elea
non sia per caso un dio che si presenta sotto mentite spoglie. Teodoro pren-
de sul serio la questione e precisa che il suo amico non è un dio della confu-
tazione, ma un filosofo (216 A-C).In questo modo Platone ci ha ricordato
che da Elea vengono terribili confutatori e grandi filosofi: all'El~atismo si
connettono sia Gorgia sia Platone, con due esiti radicalmente opposti.
Comunque, con il nostro dialogo si entra in medias res, in perfetta con-
tinuità tematica con il precedente Teeteto, anche se la cosa non solo non
viene esplicitata, ma viene addirittura mascherata (a conferma di una tec-
nica di scrittura molto particolare). Il problema della scienza viene ripreso,
ma non nella forma della discussione precedente, ma come indagine sulla
figura del filosofo, che sembra sorgere dal fatto che lo Straniero di Elea è
definito da Teodoro per ben due volte filosofo (Sofista, 216 A 4, 216 C 1).
Al lettore disattento può così· sembrare che non ci sia continuità e che si
cambi tema, mentre, in realtà, si tratta di un "trucco" perché la scienza per
Platone coincide con la filosofia dialettica. L'indagine del Teeteto, dunque,
prosegue, ma ad un altro livello, attivando da subito la dialettica. Infatti, la
struttura della trilogia si spiega con la necessità di distinguere diairetica-
mente la figura del filosofo da quelle affini: bisogna chiarire se sofista,
politico e filosofo sono termini identici o separati. Non a caso la prima
affermazione dello ,Straniero è il riconoscimento che si tratta di tre figure
tra loro diverse (Sofista, 217 B).E lo sono dimolto.
Su questo terreno incontriamo un dato esplicito che fa emergere· in
modo netto il limite del Sofista. All'inizio del Politico, nel momento stes-
so in cui inizia il nuovo dialogo in perfetta continuità formale e sostanzia-
le con il Sofista, confermando: nel contempo il nesso con il TeetetoIO,
Platone sottolinea lo stacco teoretico tra le due operell. In sintesi, al filo-
1O. Infatti, Socrate ricorda (258 A) di aver discusso "il giorno prima" con il giòvane e riba-
disce che siamo all'interno di una "trilogia", in quanto riconferma (257 C) la decisione
presa in Sofista, 217 A, di definire sofista, politico e filosofo.
11. In effetti, se questo scarto non ci fosse, non si capirebbe perché Platone ha scritto due
dialoghi e non uno solo, e perché al giovane e bravo Teeteto si sostituisce all'improvviso e
senza alcuna plausibile ragione il suo amico Socrate il giovane, che è stato presente in due
dialoghi senza letteralmente aprire bocca e che i contemporanei ricordavano certamente per
essere stato uno degli scolarchi dell'Accademia. Con il cambiamento dell'interlocutore il
dibattito diviene, per così dire, più filosofico e più interno al pensiero platonico stesso.
74
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista
arte
acquisitiva produttiva
divina umana
cose reali raffigurazioni
immagini apparenze
con strumenti con il corpo (mimetica)
in base a scienza in base a opinione
di un ingenuo di un simulatore
demagogo sofista
in pubblico in privato
con discorsi lunghi con dibattito
Ora salta agli occhi che la definizione "scoperta con meraviglia" nel
Politico era già data qui prima dell'ultimo passaggio, là dove si definisce
12. Per la ricostruzione delle diairesi del Sofista, cfr. quanto diciamo in Verso i/filosofo,
cit., pp. 180-88.
n
Maurizio Migliori
Il metodo diairetico
78
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista
Malgrado questo, non c'è alcun dubbio che il dialogo "diair~tico" per
eccellenza sia e sia considerato il Sofista. Qui il metodo viene presentato
in modo chiaro e semplice e poi applicato coerentemente fino alla fine.
Tuttavia, anche in questo caso il dialogo "introduttivo" appare incomple-
to su alcuni passaggi decisivi, che risultano chiariti nel Politico e in dia-
loghi successivi.
Il primo importante chiarimento è che la divisione non va fatta sempre
per due. La cosa è già chiara fin dal Sofista, in molte affermazioni appa~
rentemente poco importanti che indicano come ci siano molti casi tra cui
sceglierel5, e soprattutto nella stessa presentazione di diverse figure di
sofisti. Ma è solo nel Politico che Platone esplicita che in alcuni casi è
impossibile dividere per due e quindi bisogna procedere come quando si
deve macellare una bestia (287 B-D). Certo, bisogna suddividere sempre,
il più possibile, secondo il numero più vicino al due, anche perché questo
consente più facilmente di individuare le idee (262 B-E), ma in ogni caso
bisogna individuare le "membra". La divisione dipende dalla realtà che
abbiamo di fronte e non ha quindi una struttura formale unica.
In secondo luogo, solo nel Politico si chiarisce il ruolo che ha la parte che
viene "eliminata" nel corso del procedimento. Gli elementi "tralasciati" non
sono rimossi e non devono essere dimenticati (Politico, 280 B), in quanto
costituiscono passaggi di un processo basato sulle differenze, per cui i due
termini devono essere entrambi presenti, sia pure con un ruolo molto diver-
so. L'uno costituisce un passaggio della "definizione e/o classificazione",
l'altro l'elemento che chiarifica il senso del passaggio stesso.
Infine, solo nei dialoghi successivi emerge la duplice natura della diai-
resiI6. Finora abbiamo visto essenzialmente il procedimento che porta a
15. Cfr. ad es., 225 C, 226 B-C, 226 E-227 C, soprattutto 229 B, in cui si dice esplicita-
mente che esistono molte forme di insegnamento, ma due sono più importanti.
16. Per quanto riguarda questa duplice natura della diairesi, cfr. quanto dico in Verso il.filo-
sofo, cit., pp.188-92, nonché nei già citati studi sulla dialet.tica platonica.
79
Maurizio Migliori
una definizione, un albero diairetico che si semplifica, per così dire, in via
discensiva, per raggiungere il termine che risulta "definito". Tuttavia la
stessa complessificazione del procedimento che anche qui emerge ci fa
intravedere l'altro modello (o, se si preferisce, l'altra funzione) della diai-
resi, che sarà tematizzata nel Politico e nel Filebo. Nel Politico, infatti, al
termine di una lunga discussione, che qui non possiamo prendere in
esameI7, lo Straniero esplicita la complessità intrinseca alla realtà, quindi
alle stesse Ideel8:
quando c'è un'Idea, è necessario che essa sia anche parte di questa cosa di
cui appunto si dice Idea, mentre non c'è alcuna necessità che una parte sia
Idea (Politico, 263 B 7-9).
La seconda figura della diairetica è quindi, per così dire, analitica e
sistemico-strutturale ed è filosoficamente decisiva: nessuna Idea è per-
fettamente una e semplice, ma risulta sempre composta da parti che
sono esse stesse Idee. Per conoscere un'Idea bisogna conoscere la strut-
tura delle Idee che la costituisce. Se il primo modello sottolinea il
movimento "discensivo" che porta a cogliere un concetto, sia pure in
un blocco di nessi, distinguendo e collegando un termine ad una molte-
plicità di altri, questo secondo sottolinea la complessità intrinseca
all'Idea stessa, distinguendo e ordinando la molteplicità che è interna
ad ogni unità.
Su questa base si comprende perché il procedimento metodico propo-
sto da Platone possa essere basato su due processi, uno di divisione e uno
di collazione, che occorre utilizzare in modo intrecciato, cioè come
Platone stesso propone schematicamente:
17. Per approfondire questa e altre affermazioni concernenti il Politico, rinvio al mio com-
mentario: Arte politica e metretica assiologica. Commentario storico-filosofico al "Politico"
di Platone, Vita e Pensiero, Milano 1996, nonché agli studi sulla dialettica già citati.
18. Ho già affrontato la prevedibile obiezione (che, tuttavia, è rivolta a quello che esplici-
tamente afferma il testo) che le Idee sono caratterizzate dalla loro assoluta semplicità e
unità. Questo è assolutamente vero, con una importante conseguenza teoretica: una com-
plessità, che non posso non definire "sistemica", non nuoce alla semplicità ontologica di
un intero. Che infatti le Idee siano "fatte" di Idee non è dubitabile. Mi limito a ricordare,
come esempio, che l'Anima creata direttamente da Dio, in Timeo, 34 B-35 B, con un com-
plessissimo gioco di mescolanze è un'unica idea (µlav L8fov, Timeo, 35 B 7); analoga-
mente, i piacere puri e quelli comuni sono due Idee (d8T) 8'6o, Filebo, 51 E 5) di quello
che chiamiamo piacere. Eppure entrambi sono "misti", anzi i piaceri "normali" sono privi
di misura (àµETplav, Filebo, 52 e 4) cioè presentano un'indomabile presenza del princi-
pio di infinità, mentre i piaceri puri manifestano l'azione del limite, sono misurati (EµµE-
Tplav, Filebo, 52 e 4; E-µµÉTpwv, filebo, 52 D 1).
80
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista
19. Anche in questo caso, per i chiarimenti necessari a comprendere quanto dico su que-
sto dialogo, rinvio al commentario: L'uomo fra piacere, intelligenza e Bene. Commentario
storico-filoso.fico al "Filebo" di Platone, Vita e Pensiero, Milano, 1993, 1998 2 . .
20. Solo su questa base è possibile capire l'importanza che l'Accademia dava al procedi-
mento diairetico, un processo insieme classificatorio e definitorio, che cerca di cogliere il
singolo elemento all'interno di un contesto articolato, o, che è lo stesso da un altro punto
di vista, l'articolazione interna al singolo elemento. Pertanto, questo metodo valorizza il
gioco intero-parti, facendo emergere uh intreccio di connessioni e distinzioni, di identità,
differenze, opposizioni, in modo da scoprire quelle "sillabe" che costituiscono il paradig-
ma unitario, la grammatica del reale analizzato. Per questo tale metodo, tipicamente dia-
lettico, risulta attento sia agli aspetti logici sia a quelli fenomenologici.
81
Maurizio Migliori
La trattazione fin qui svolta lascia un grande dubbio. Posto anche che
si voglia accettare un così diretto ridimensionamento della sfera ontologi-
ca e del dialogo che meglio la rappresenta, che cosa si propone, o meglio
che cosa il testo platonico propone, come elemento forte che svolga, nel-
1' ambito del particolarissimo "sistema" platonico, il ruolo che tradizional-
mente si attribuisce all'ontologia? Se non è l'essere il centro della filoso-
fia platonica, questo in che cosa risiede? Siamo così giunti a dover affron-
tare la seconda domanda che ci siamo posti all'inizio.
Il nesso intero-parte
Un tema su cui riflettere, che appare fin dalla prima affermazione della
Prima tesi del Parmenide, concerne la distinzione parte-intero (137 C-D)
La parte è parte di un intero[ ... ]. Che cos'è un intero? Non è forse quello
a cui non manca alcuna parte? (137 C 6-8)
Questo nesso viene riproposto all'inizio della Seconda tesi: questo uno
è un intero fatto di parti che a loro volta sono costituite di parti (142 D-E).
Non è un caso, in quanto tutta questa trattazione iniziale è basata sul pro-
cesso di divisione infinita che caratterizza la realtà presa sia c,ome essere-
uno sia come numero sia come grandezza; subito dopo si' chiarisce l'al-
tro aspetto, per cui il reale, essendo un intero che contiene le parti, è fini-
to ed ha un limite (rrÉpas, 145 a 1). Su questo gioco parti-intero e divisio-
ne-limitazione si costruiscono gran parte degli argomenti successivi.
La ragione teorica di fondo, che spiega questa insistenza, viene propo-
sta da Platone nella Terza tesi, nel momento in cui si prendono gli Altri
senza l'uno, cioè come pura molteplicità. In questo modo emerge un dato
decisivo e costitutivo della realtà:
- Dunque, ogni volta che consideriamo in se stessa la realtà diversa
dall'Idea, quale che sia la pa,rte esaminata, sempre la troveremo essere una
molteplicità infinita (chmpov )?
- Assolutamente.
- Ma quando ogni singola parte è diventata parte, risulta limitata (TTÉpas
EXEL ), sia nel rapporto reciproco rispetto alle parti, sia in rapporto al tutto;
analogamente l'intero avrà un limite rispetto alle parti.
- Senz'altro.
-Agli Altri dall'Uno accade dunque di avere un rapporto sia con l'uno, sia
con se stessi: in essi, a quanto pare, ·emerge qualcosa di diverso che forni-
82
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista
83
Maurizio Migliori
Nessuno potrà mai convincerci che una stessa cosa subisca o anche sia o
anche produca cose opposte (TàvavTf.a miem ìì Kaì. E'L11 ìì Kaì. TToLrr
anEv). (Repubblica, IV, 437 A 1-2)
4. Agire e patire
22. Nello stesso Sofista Platone richiama la nostra attenzione su questi processi fin dalla diai-
resi del pescatore: dovendo parlare dell'arte produttiva, subito sottolinea, senza alcuna ragio-
ne, che ciò che porta all'essere produce e ciò che viene portato all'essere è prodotto (219 B).
23. Per questo rinviamo a "Ontologia e materia. Un confronto tra il Timeo di Platone e il
De generatione et corruptione di Aristotele'', in M. MIGLIORI (a cura di), Gigantomachia.
85
Maurizio Migliori
Convergenze e divergenze tra Platone e Aristotele, Morcelliana, Brescia 2002, pp. 35-104;
"Il problema della generazione nel Timeo'', in C. NATALI - S. MASO (a cura di), Plato
Physicus. Cosmologia e antropologia nel Timeo, Adolf M. Hakkert Editore, Amsterdam
2003, pp. 97-120. .
86
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista
Quindi abbiamo una prima distinzione tra l'Uno in sé che nella sua per-
fezione esclude le parti e tutte le singole cose che sono e non sono uno. Il
che fa nascere una ulteriore domanda.
88
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista
89
Maurizio Migliori
o a subire (miaxELv) anche la più piccola azione da parte della realtà più
insignificante, anche se solo per una volta, tutto ciò realmente è. Infatti, pro-
pongo una definizione: gli enti non sono altro che potenza (8uvaµts).
TEETETO - Ma poiché essi non hanno, al momento, niente da dire migliore
di questo, accettano tale definizione.
STRANIERO - Bene. Può darsi, infatti, che a noi come a loro possa apparire
in seguito una cosa diversa. Per ora, dunque, rimanga convenuta tra noi e
loro questa definizione.
TEETETO - Rimane. (Sofista 247 D 4-248 A 3)
Quindi, la proposta "ontologica" che lo Straniero fa ai materialisti è di
ac;cettare l'affermazione che la realtà non è altro che dynamis. Tutto il
reale, materiale e spirituale, si comprende a partire da un agire ed un pati-
re. È certo facile opporre a una "sopravvalutazione" di questo passo il
fatto che la proposta è fatta in tono dimesso, che potrebbe essere accetta-
ta, per così dire, per disperazione, che qui si ipotizza anche la possibilità
di una opinione diversa. E tuttavia la chiusa appare tanto forte che non
dovremmo stupirci per quello che ci aspetta nella successiva trattazione.
Infatti, si passa agli Amici delle Idee (248 A-250 D), a partite da quel-
lo che è probabilmente il punto di maggior contatto tra loro e il platoni-
smo, cioè la distinzione tra essere e divenire cui si collega una distinzio-
ne sul piano delle funzioni conoscitive:
STRANIERO - E dite che con il corpo, per mezzo della sensazione, noi comu-
nichiamo (KotvwvE'iv) con iÌ divenire, mentre con l'anima, per mezzo del
ragionamento, con l'essere reale, il quale voi dite che è sempre identico
nello stesso modo, mentre il divenire è in ogni momento diverso.
TEETETO - Diciamo così, infatti.
STRANIERO - Ma, ottimi amici, che cosa dobbiamo dire che sia per voi que-
sto "comunicare" (KotvwvE'iv) in relazione ad entrambi i casi? Non è forse
quello che abbiamo detto poco fa?
TEETETO- Che cosa?
STRANIERO - Un subire o un fare, per mezzo di una determinata potenza
(rrci81iµa lì TTOLT]µa ÈK 8uvciµEU'.is Ttvos), a partire da cose che si incon-
trano l'un con l'altra. Forse, Teeteto, tu non comprendi la loro risposta a que-
ste domande, mentre io probabilmente sì, data la, mia consuetudine con loro.
TEETETO - Che discorso fanno, allora?
STRANIERO - Non ci concedono quello che poco fa è stato detto sull'essere
ai nati dalla terra.
TEETETO- Che cosa? .
STRANIERO - Abbiamo dato, se non erro, come definizione adeguata
(ìxav6v) degli enti, che sia presente la potenza di subire o di agire (rrciaxELv
lì 8pdv), anche rispetto alla più piccola realtà. (Sofista, 248 A 10-C 5)
90
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista
Conclusione
27. Per quanto riguarda questo "mistero" cfr. quanto dico in Arte politica, cit., pp. 369-71.
28. Su questo terreno cfr. quanto abbiamo già detto in "Sul Bene. Materiali per una lettu-
ra unitaria dei dialoghi e delle testimonianze indirette", in G. REALE - S. ScoLNICOV (eds.),
New Images of Plato, Dialogues on the Idea of the Good, Academia Verlag, Sankt
Augustin 2002, pp. 115-49, soprattutto pp. 121-31.
29. E tale appare in un crescendo che a partire dal Protagora, 356 D-357 A, giunge alla
chiarificazione della sua importanza nel ruolo che svolge la Misura nel Filebo. Per una
trattazione adeguata della metretica e del suo n~sso con la misura, rinvio a "Il bello e il
93
Maurizio Migliori
94
MARIO VEGETTI
STRUTTURA E FUNZIONI
DELLA DICOTOMIA NEL SOFISTA
96
Struttura e funzioni della dicotomia nel Sofista
3. Cfr. J. STENZEL, Plato s Method of Dialectic, trad.ingl. Russell and Russell, New York
1964 (1940): la diairesis è descritta come "an unbroken chain leading from the most gene-
rai Being to the 'atomic form"', p. 136.
97
Mario Vegetti
101
Mario Vegetti
cui metodo è strettamente "value-neutral", quindi disinteressato agli aspetti etici della filo-
sofia (pp. 163-81 ).
8. Cfr. R. BLUNDELL, The Play ofCharacters in Plato s Dialogues, Cambridge, Cambridge
Univ. Press 2002, pp. 318-26. Nel saggio citato, Gonzalez mostra anzi come lo Straniero
sia in realtà un avversario di Socrate.
9. Cfr. T. EBERT, Sokrates als Pythagoreer und die Anamnesis im Platons Phaidon,
Stuttgart, Steiner 1994.
103
Mario Vegetti
10. Platone - pur contrapponendo lo Straniero a Socrate - mostra come il suo metodo sia
in grado di affrontare problemi di ontologia estranei ali' elenchos socratico: lo nota
Gonzalez (p. 179), che tuttavia non mette in relazione la figura dello Straniero con l'am-
biente accademico (allo stesso modo, egli indica il carattere antisocratico del politico come
"despota illuminato" descritto nel Politico, ma non ne rileva le affinità con le esperienze
politiche dell'Accademia: cfr. in proposito Quindici lezioni, cit., pp. 201-14 ).
104
SECONDA PARTE
VINCENZO VITIELLO
attribuisce a uno, ciò che uno, in quanto uno, non è. Gli attribuisce !'"esse-
re". Ed uno ed essere sono diversi, infatti dire uno e dire essere non è il
medesimo, dato che diciamo che anche il moltiplice, il non uno, "è".
Pertanto uno ed essere sono parti dell'intero "uno è". In quanto parte cia-
scuno è limitato. È quel che è e non l'altro. Si configura in un modo e non
in altro. Schématos tinos metéchei: partecipa di una qualche figura. Epperò
sarà nello spazio e nel tempo, avrà grandezza, identità, diversità ecc.
Conclusione: uno se è, è oggetto di scienza, di opinione, di sensazione, ed
avrà nome e definizione (discorso: logos)-di esso si potrà dire, intorno. ad
esso pensare. Come volevasi dimostrare: si può pensare-dire solo di ciò che
ha figura, forma, efdos. Del tutto coerente, quindi, con la tesi di fondo del
dialogo il monito del vecchio Parmenide al giovane Socrate: se non si
ammettono forme non si saprà dove volgere il pensiero!
Chiaro anche che dove ci son cose distinte - e cioè: forme, figure, sché-
mata (o eide) - ci sono, hélma, simul, opposizioni e contraddizioni. Infatti,
I'uno che è, non è essere, epperò, essendo, non è; e il medesimo si ripeta
per identico e diverso, giovane e vecchio, mobile e immobile, ecc. ecc.
Bisogna, però, essere attenti ad evitare un grande fraintendimento: la
seconda ipotesi non è il luogo della contraddizione, bensì il luogo del
toglimento della contraddizione. O, per dirla diversamente: la seconda
ipotesi non ci porta affatto dinanzi all 'axios thaumazein di cui parla
Socrate sin dall'inizio del dialogo, quanto contestala "novità" delle argo-
mentazioni zenoniane. Non v'è nulla di stupefacente nel dire che uno è
più giovane e più vecchio, identico e diverso, e così via. Nulla:. perché
altro è il rispetto per cui è diverso, altro quello per cui è identico - come
nel Sofista Platone mostrerà chiaramente, dacché l'identico, per esser tale
ha da essere diverso dal diverso, e il diverso per essere diverso ha da esse-
re identico a sé - ma altro è il rispetto per cui l'identico è identico, altro il
rispetto per cui è diverso; e parimenti altro è il rispetto per cui il diverso
è tale, altro quello per cui è identico. Nonché parlare contro l'archè anti-
phélseos, la seconda ipotesi del Parmenide ne è una chiara anticipazione.
È sufficiente leggere la formulazione aristotelica del principio: "tò autò
hélma hyparchein te kaì mè hyparchein adynaton to auto kaì kata tò auto"
(Met., IV, 3, 1005b 19-20: [è] impossibile che lo stesso appartenga ed
insieme non appartenga allo stesso sotto lo stesso rispetto).
La prima e la seconda ipotesi convergono nell'affermare entrambe -
l'una negativamente, l'altra positivamente - che non c'è logos, pensiero e
discorso, e neppure aisthesis, se non di ciò che si dà in figura. La forma, la
figura, è allora proprio ciò che unisce intelligibile e sensibile. Non è una
110
Incontro sul Parmenide e il Sofista
novità. Già nella Politeia Platone, parlando della perfetta costituzione dello
Stato, aveva mostrato che al filosofo non è dato essere altro che politeion
zographos, pittore di costituzioni, che dell'esemplare divino, della costitu-
zione ideale (e qui ideale significa: puramente intelligibile) può dare solo
lo schema (schéma tés politeias: VI, 500e-501c). Resta da chiedersi, però,
se il pensabile-dicibile sia tutto ri( con)ducibile a forma, a efdos e schéma.
Fosse così, la conclusione del Parmenide riuscirebbe incomprensibile.
La novità del Parmenide, il thaumast6n, è nella terza ipotesi - tò triton.
Degno di meravigliare - aveva detto il giovane Socrate a Zenone - non è
che il medesimo sia uno e molti (e neppure, possiamo aggiungere con rife-
rimento a Hegel, che l'uno sia come tale la possibilità stessa del moltepli-
ce, la relazione, cioè, dei molti, tali solo se in relazione); axios thauma-
zein è che si dà un logos, un pensare-dire, simul, hama; eidetico e non
eidetico. Un logos che si sottrae alla forma, allo schéma, all'efdos, perma-
nendo in essi. Com'è possibile questo? Platone non lo dimostra, lo mostra,
lo esibisce. Porta il "contenuto" del discorso, il "significato", direttamen-
te sulla sua "funzione", il détto sul dire. Fa della prassi discorsiva, del
léghein, il contenuto del suo discorso, del logos. Così portando il léghein,
il cui significato primo è raccogliere, radunare, oltre se stesso. Ma faccia-
mo parlare direttamente Platone: come passa l'uno dalla quiete al movi-
mento? Ed è un passare, questo? Il passare non è forse movimento? E se
è nel movimento che l'uno passa dalla quiete al movimento, come può
dirsi in quiete l'uno che per passare dalla quiete al movimento deve muo-
versi? Il movimento non è così presupposto a se medesimo? E se quiete
dice non-tempo, come passa l'uno dal non-tempo della quiete al movi-
mento? Certo non può farlo nel tempo del movimento. E allora?
La meraviglia sta proprio in ciò, che il passaggio dalla quiete al movi-
mento, e viceversa, non è un passaggio; che esso avviene in quell'exaiph-
nes, in quell'istante, in quell'improvviso, che è un atopon metaxy, aspazia-
le tramezzo, luogo-non-luogo, tempo-non-tenipo di un movimento che non
è movimento. Talché l'uno "quando passa dall'essere al cessare di essere,
oppure dal non essere al divenire, [ ... ] diventa allora intermedio tra quegli
stati di movimento e di quiete, e in quel momento né è né non è, né divie-
ne né cessa d'essere. [ ... ] Per la stessa ragione, quando passa dall'essere
uno all'essere molti o dall'essere molti all'essere uno, non è né uno né
molti, non si divide né si runifica (oute diakrinetai oute synkrinetai). Anche
quando passa dall'essere simile all'essere dissimile e dall'essere dissimile
all'essere simile, non è né simile né dissimile. E poi quando muta da pic-
colo a grande e a uguale, e viceversa, non è piccolo, grande e uguale, non
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Vincenzo Vitiello
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CARLO SINI
IL SIGNIFICATO POLITICO
DELL'ONTOLOGIA DI PLATONE
In piena evidenza è infatti qui una soglia del domandare che per un verso
investiga i paradossi dialettici del significato, ovvero delle "forme" che
accompagnano e caratterizzano l'esperienza; per un altro verso la doman-
da solleva la questione relativa alla natura stessa della soglia esperiente e
domandante, alla sua kinesis oscillante in quanto evento (I' "uno-uno") del
significato molteplice nella sua differenza irriducibile alla forma (epekei-
na tes ousias) e inafferrabile nel tempo e nel tempo della parola: istante
(exaiphnes) eterno. La relazione tra Sofista e Parmenide si potrebbe allo-
ra ricondurre a un gesto dualmente complementare: nel primo caso relati-
vo alla dialettica delle forme o significati; nel secondo caso relativo alla
natura istantanea dell'evento in quanto evento stesso del significato e del
significare, e dei loro paradossi.
Vero è che i dialoghi di Platone hanno dato luogo a vie e a tradizioni di
pensiero diverse e in certi casi persino opposte: penso alla grande tradi-
zione del neoplatonismo e ai ripetuti tentativi di sfuggirla. Resta la
domanda: cos'è la filosofia di Platone? Cos'è la filosofia in Platone? Qual
è il senso e il fine della ·sua indagine che apre le strade di ciò che in segui-
to si identificherà, tra l'altro, con la questione dell"'ontologia"? Di quale
"gigantomachia" propriamente si tratta?
A mio avviso tutti i discorsi del Parmenide e del Sofista non vanno
affatto assolutizzati e isolati, ricavandone ancora oggi un filosofare tanto
sottile quanto astratto e sterile (pens9 alla "superstizione ontologica"
aproblematicamente e implicitamente presente nelle tesi dei formalisti
logici, dei neoempiriSti o, all'opposto, nell'ermeneutica dei moderni neo-
platonici schellinghiani, per esempio alla Pareyson, tanto per intenderci);
quei discorsi vanno quanto meno riferiti alla e iscritti nella cornice di un
cammino che va dalla Repubblica (già sopra evocata) al Timeo: i due dia-
loghi per così dire "gemelli" che Platone invita espressamente a leggere
in successione. Non è certo un caso che proprio nel Timeo venga rivendi-
cato quel non essere assoluto che nel Sofista era stato respinto e cancella-
to. Ciò accade, come si sa, nel "discorso bastardo" e sotto l'egida e l'in-
vocazione al "Dio salvatore", che potrebbe forse identificarsi con la filo-
sofia medesima. Ma quale appunto filosofia?
Io credo che, senza lasciarci troppo catturare dal gioco meraviglioso
della dialettica platonica e dalla sua arte dialogica, dobbiamo tener fermo
che il senso ultimo della filosofia platonica è leggibile soltanto in una
dimensione originariamente, intenzionalmente e fondamentalmente "poli-
tica". Anziché continuare a giocare con le figure della scrittura di Platone,
anziché continuare a sognare la sua implicita ontologia, è importante, a
118
Il significato politico dell'ontologia di Platone
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NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA
GLI AUTORI
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Nota bio-bibliografica
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Nota bio-bibliografica
/CURATORI
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