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PLATONE
E L'ONTOLOGIA
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Il J'armet1ìdc e il Sofista
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Volume stampato con un contributo
dell'Università degli Studi di Milano
(Fondo "Mille lire", legge n. 429 del 3-8-1985)
Enrico BERTI, Giovanni CASERTANO,
Francesco FRONTEROTTA, Maurizio MIGLIORI,
Carlo SINI, Mario VEGETTI, Vincenzo VITIELLO

PLATONE E L'ONTOLOGIA.
Il Parmenide e il Sofista

A cura di Matteo BIANCHETTI ed Erasmo Silvio STORACE


© Proprietà letteraria riservata - Edizioni A.lbo Versori o, Mil~no 2004
www.alboversorio.it
mail-to: info@alboversorio.it
tel.: 328-9284139

ISBN 88-89130-03-02

In copertina:
Mario BORGESE, I pensieri de/filosofo (2004)
Mista - acrilico su tela, cm 80x80
www.marioborgese.it - mail-to: mario.borgese@fastwebnet.it
INDICE

PRESENTAZIONE 9
di Matteo BIANCHETTI ed Erasmo Silvio STORACE

PRIMA PARTE

Elementi di ontologia nel Parmenide e nel Sofista 15


di Enrico BpRTI

Il falso: un'esistenza che non esiste tra cose esistenti 23


di Giovanni CASERTANO

Pensare la differenza. Statuto dell'esseré e definizione 39


del diverso nel Sofista di Platone
di Francesco FRONTEROTTA

Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista 65


di Maurizio MIGLIORI

Struttura e funzioni della dicotomia nel Sofista 95


di Mario VEGETTI

SECONDA PARTE

Incontro sul Parmenide e il Sofista 107


di Vincenzo VITIELLO

Il significato politico dell'ontologia di Platone 115


di Carlo SINI

NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA 121


PRESENTAZIONE

Che cosa farai allora dellafilosofia?l


Un Platone ormai anziano ritiene ancora necessario ridiscutere, con
radicalità impietosa, i temi cruciali della sua filosofia: dottrina delle
idee, rapporti tra mondo sensibile e mondo intelligibile, possibilità di
soddisfare l'esigenza socratica della definizione, distinzione del vero
filosofo dall'impostore sofista.
Da questo sforzo del pensiero nel tentativo di emendarsi da' equivoci e
deviazioni sono sorti due dialoghi affascinanti, misteriosi e complessi,
Par,menide e Sofista, che hanno costituito un passaggio fondamentale per
l'intera tradizione filosofica occidentale. -
Questo volume raccoglie le riflessioni di autorevoli studiosi, che si
sono espressi e confrontati sulla questione dell'ontologia in Platone e a
partire da Platone, nonché sulla stessa possibilità di parlare di ontolo-
gia in riferimento ad un autore vissuto circa duemila anni prima che tale
termine fosse coniato.
La scelta di questi due dialoghi non è stata casuale, ma guidata dalla
volontà di approfondire, all'interno della ricchezza di temi e spunti del-
l'intera produzione platonica, proprio quel che, interpretato forse attraver-
so la lente deformante della posterjtà, appare più. interessante p,er com-
prendere lo spazio e la possibilità in cui situare il dire filosofico 1n gene-
rale e la problematica ontologica in particolare. -
Platone è stato spesso accostato (e usato), nella nostra ormai lunga tra-
dizione filosofica, a ciò che, successivamente, si è chiamato ontolo&ia e si
è inteso esplicitamente come riflessione fondamentale sulla realtà. E stato

1. PLATONE, Parmenide 135c 5, tr. it. F. Ferrari.


9
Presentazione

frainteso? Quale fu la ragione di questa lettura? I suoi interessi non erano


metafisici? In che senso si pone come sorgente del pensiero successivo (o,
almeno, di buona parte di esso)? E come occorre, oggi, porsi dinanzi a lui
(e, se si può dirlo, dinanzi alla sua filosofia)?
Tanto numerose e tanto sottili sono le questioni che sorgono dallo studio
del pensiero platonico e di così straordinaria intensità la sua tensione teore-
tica ed influ~nza storica che è impossibile fame oggetto di riflessione senza
esserne conseguentemente coinvolti. Forse, però, è proprio questo che
Platone aveva desiderato, tanto che si potrebbe dire di lui quel che un suo
personaggio esclama det sofista, esasperato dalla problematica ricerca:
Lo vedi che bestia cangiante e multiforme è questa e come è vero il pro-
verbio che non riesci a prenderlo con una mano sola?2

Questo libro contiene gli atti di due diversi convegni, dedicati al tema
"Platone e l'ontologia" all'interno del Parmenide e del Sofista, organizza-
ti dall'Associazione degli Studenti di Filosofia dell'Università degli Studi
di Milano (Astufilo - www.astufilo.too.it - astufilo@hotmail.com), che
opera da ormai sette anni all 'intemo dell'Ateneo milanese, cercando di
creare spazi di crescita e di approfondimento per studenti e studiosi di filo-
sofia tramite l'organizzazione di gruppi di studio, seminari e conferenze, al
fine di mantenere aperto il dibattito tra ambiti del sapere filosofico che non
sempre risultano facilmente conciliabili tra loro. Da sempre abbiamo con-
siderato una ricchezza irrinunciabile la pluralità delle offerte e la vivacità
delle discussioni che l'Accademia sa offrire; è con questa convinzione, evi-
dente anche in nostre passate iniziative, che abbiamo, prima di tutto, stu-
diato Platone e, poi, avviato la composizione di questo libro, che contiene
saggi di carattere storico-filologico e saggi di orientamento teoretico -
approcci entrambi indispensabili per accostarsi ad un testo filosofico.
L' Astufilo ringrazia pertanto quanti hanno sostenuto il tentativo di mettere
a confronto esperienze di studio differenti e proprio per questo proficue,
invitando all'Università degli' Studi di Milano insigni studiosi provenienti
da diversi indirizzi ma accomunati dal desiderio di confronto e di dialogo,
nonché dalla grande capacità di trasmettere il loro sapere.
La prima parte del volume contiene gli atti della prima delle due confe-
renze, svoltasi il 14 novembre 2003, presso l'Università degli Studi di
Milano, con Enrico Berti, Giovanni Casertano, Francesco Fronterotta,
Maurizio Migliori, Franco Trabattoni e Mario Vegetti. Nella seconda parte

2. PLATONE, Sofista 226a 6-7, tr. if. M. Vitali.


IO
Presentazione

del libro, invece, sono stati pubblicati gli atti del secondo convegno, orga-
nizzato con la collaborazione dell'Associazione degli Studenti di Filosofia
dell'Università Vita e Salute-San Raffaele (che ringraziamo in modo par-
ticolare per la preziosa assistenza e l'amicizia e il confronto che ci hanno
offerto) e svoltosi, sempre presso l'Università degli Studi di Milano, il 17
marzo 2004, cori Massimo Cacciari, Carlo Sini e Vincenzo Vitiello mode-
rati da Massimo Donà.
Giunti alla fine della nostra breve presentazione, vorremmo ringra-
ziare i Professori che hanno risposto gentilmente al nostro invito, non-
ché l'Università degli Studi di Milano, la Facoltà di Lettere e Filosofia,
il Dipartimento di Filosofia e la Biblioteca, insieme ai membri
dell'Associazione e a quanti hanno collaborato alla realizzazione delle
sue iniziative in generale e di questo volume in particolare, col quale ci
auguriamo di poter offrire al lettore materiali interessanti ed utili per un
proficuo studio filosofico.

Bello e divino, sappilo, è lo slancio che ti spinge verso i ragionamenti.


Tuttavia, finché sei ancora giovane, imponi a te stesso di esercitarti piut-
tosto in quell'attività che appare inutile e che dai molti viene definita
"chiacchiera". Altrimenti la verità ti sfuggirà3.

I curatori,
Matteo Bianchetti ed Erasmo Silvio Storace

3. PLATONE, Parmenide 135d 2-6, ti'. it. F. Ferrari.


Il
PRIMA PARTE
ENRICO BERTI

ELEMENTI DI ONTOLOGIA
NEL PARMENIDE E NEL SOFISTA

È possibile ricavare degli elementi di ontologia da entrambi i. dialoghi


e credo di aver trovato un passo del Sofista (c. XXXII, 244 b-245 e) in cui,
a proposito di tematiche ontologiche, sembrano essere contenuti riferi-
menti al Parmenide. Mi rendo conto che questa affermazione è molto
audace e azzardata. Più progrediscono gli studi su Platone, più aumenta-
no le cautele circa l'uso che si può fare dei dialoghi e delle affermazioni
che i personaggi dei dialoghi compiono. C'è chi dice che ogni dialogo va
considerato come un'unità a sé e che non è quindi lecito cercare di inter-
pretarlo alla luce degli altri. Inoltre non è detto che tutto ciò che sta scrit-
to e viene detto dai vari personaggi dei dialoghi rispecchi ii pensiero di
Platone. Sono abbastanza al corrente di tutte queste avvertenze, tuttavia
éredo che si possa ugualmente tentare di vedere se esistono, all'interno di
dialoghi diversi, dottrine o affermazioni che siano in relazione tra di loro
e che consentano, almeno in qualche misura, di poter dire: "Ecco! Questo
è il pensiero di Platone. Su questo punto, Platone pensa così e così".
Ebbene, il passo del Sofista che ho preso in considerazione contiene, a
mio giudizio, alcuni riferimenti a quelle che tradizionalmente sono chia-
mate le prime due ipotesi del Parmenide. Quando si parla del Parmenide,
come è noto, occorre fare attenzione, perché in questo dialogo, almeno
apparentemente, si dice tutto e anche il contrario di tutto. Io mi riferisco,
soprattutto, alla seconda parte del Parmenide, a quella che, secondo un'o-
15
Enrico Berti

pinione tradizionale, contiene addirittura nove ipotesi, secondo un'altra


opinione invece ne contiene otto. Io credo che, se guardiamo il testo da
vicino, le ipotesi risultano essere fondamentalmente dùe, cioè: "se l'uno
è" e "se l'uno_ non è". Ciascuna di queste due è divisa da Platone in quat-
tro "sotto~ipotesi", e a partire da ciascuna di queste otto sotto-ipotesi ven-
gono sviluppati degli argomenti, cioè vengono dedotte delle conseguenze,
e, in qualche misura, viene raggiunta anche una conclusione.
Mi riferisco alle prime due sotto-ipotesi, cioè ai primi due gruppi di
argomentazioni, quelli che prendono in considerazione l'ipotes1 "se l'uno
è'', prima intendendola nel senso che l'uno sia soltanto uno, e poi inten-
dendola nel senso che esso invece sia in senso più ampio, cioè partecipi
dell'essere. La prima di queste due sotto-ipotesi, o tesi, cioè che dell'uno
non si possa dire altro che esso è uno, viene sviluppata dal personaggio di
Parmenide sino a giungere a conseguenze che, secondo me, rivelano la
sua insostenibilità per lo stesso Platone. Parmeni-de conclude infatti,
come tutti abbiamo presente, che di questo uno, il quale è soltanto uno,
non si può dare né nome, né opinione, né discorso, né scienza e, quindi,
non si può dire nulla. Perciò, mi sembra, questa è considerata una via
impraticabile, impossibile.
Invece la sotto..ipotesi, o tesi, successiva, quella che prende in conside-
razione la possibilità di predicare dell'uno almeno l'essere, cioè di dire che
esso è, viene sviluppata con argomenti in tutto e per tutto simili a quelli
della prima, ma con esito del tutto opposto. La conclusione infatti è che di
questo uno, dell'uno appunto che è, si può dare nome, opinione, discorso e
scienza; essa risulta essere, quindi, un'ipotesi praticabile. Questa, almeno,
è la mia interpretazione del Parmenide, che ho proposto in due articoli
distanti fra loro una ventina d'anni, e che confermo ancora oggi, a testimo-
nianza del fatto che non ho trovato motivi sufficienti per cambiare idea 1.
Credo che il Sofista, nella parte che prenderò in considerazione, venga
in qualche misura ad avvalorare questa mia po~izione, cioè ci presenti due
modi di concepire l'uno; uno accettabile e l'altro non accettabile, i quali
corrispondono alle prime due sotto-ipotesi (o tesi) del Parmenide. Il passo
in questione fa parte del "parricidio", cioè di quel discorso che lo Straniero
presenta come un parricidio nei confronti del padre suo, cioè di Parmenide,
perché lo Straniero era di Elea. Ma, se vogliamo considerare lo Straniero
L "Struttura e significato del Parmenide di Platone", Giornale di metafisica, XXVI
(1971), pp. 497-527; "Conseguenze inaccettabili e conseguenze accettabili delle ipotesi
del Parmenide", in V. VITIELLO (a cura di), Il "Parmenide" di Platone (Atti del Convegno,
27-28 Ottobre 1988), Istituto Suor Orsola Benincasa, Guida, Napoli 1992, pp. 47-74.
16
Elementi di ontologia nel Parmenide e nel Sofista

di Elea come il portavoce di Platone, allora, in qualche misura, Parmenide


risulterebbe essere anche il padre di Platone e, quindi, Platone, opponen-
dosi a Parmenide, commetterebbe egli stesso un parricidio. Questo brano,
secondo me, contiene una vera confutazione dell'eleatismo, cioè della dot-
trina di Parmenide, perciò è presentato come un parricidio. Inoltre la con-
futazione che esso contiene viene indicata con denominazioni che sembra-
no attribuirle un valore decisivo, perché alla riga 242 b 4 Platone usa non
solo il termine EÀ.Eyxos (confutazione), ma anche il termine àTI68ELçLv
(dimostrazione), quindi la confutazione della posizione di Parmenide ha il
valore di una dimostrazione (dimostrazione che Parmenide si era sbagliato
e che, quindi, bisogna pensare in maniera diversa).
À me sembra che lo sviluppo di questi argomenti, di questo cosiddet-
to parricidio, costituisca una vera e propria ontologia ante litteram.
Perché dico ontologia ante litteram? Perché la parola "ontologia", come
tutti sappiamo, non è una parola greca. Essa è un'invenzione dei filospfi
del '600, precisamente di un cartesiano (Gockel, detto latinamente
Goclenius), il quale introduce, per la prima volta, la parola "ontologia"
per indicare quella parte della metafisica che si occupa dell'essere in
generale. Vi confesso che provo una certa antipatia nei confronti di que-
sta parola, perché essa non mi sembra adatta ad esprimere il pensiero dei
filosofi greci, né quello di Parmenide, né quello di Platone, né quello di
Aristotele. Ma . ho visto che avete vpluto intitolare questo v9lume
"Platone e l'ontologia. Il Pqrmenide e il Sofista", perciò sto al gioco e,
malgrado gli avvertimenti di Migliori, il 'quale ci avvisa che l'ontologia
non è il cuore del Parmenide né del Sofista (e sono, in buona parte, d'ac-
cordo con lui), non si può negare che, in questo passo del Sofista, Platone
mette a confronto tutta una serie di posizioni, cioè quelle dei filosofi a lui
precedenti, riguardanti l'essere e discute quale debba essere il significa-
to che noi diamo alla parola ov(''essere"); quindi si può dire che qui c'è
un primo nucleo della storia dell'ontologia. ,
La domanda, infatti,:- che Platont:: i1p.magina~di iivolgere a( filosofi pre-
cedenti è questa: "Che cosa mai intendete<significare quando pronunciate
il termine essere?" (244 a 5-6: TL Tiofr ~oVÀ.rn8E CJT]µatvELv oTI6~~ ov
</>8Éyy11cr8E )2. Qui c'è proprio l'allusione ad una parola che viene, pronun~
ciata, che viene detta, e la domanda è: che cosa volete significare quando
pronunciate questa parola?. Io credo che Aristotele, probabilmente, si rife-
risca a questo tipo di indagine, quando nel celebre passo del libro Z della

2. Trad. di G. Cambiano in PLATONE, Dialoghi filosofici, Torino, Utet, 1992.

17
Enrico Berti

Metafisica, alla fine del capitolo 1, dichiara che il problema di "che cosa è
l'essere" (Tt TÒ ov) è un problema "sia in antico sia oggi, se.mpre indaga-
to e sempre discusso" (1028 b 2-4: rnì. TÒ TTaÀ.m TE Kaì. vvv KaÌ. àEì.
(llTOVµEVOV KaL àEì. àTTopovµEvov).
Ho ricordato le parole di Aristotele. So che questo è un passo molto
noto perché è stato citato molte volte da Martin Heidegger come segno
che la domanda sull'essere non finisce mai, cioè che accompagna l'intera
storia della filosofia, a partire da Parmenide, ed è destinato a ripropors~
sempre. In realtà, come mi è stato una volta fatto notare da Fernanda
Caizzi (che ho piacere di ricordare perché è stata un'osservazione per me
preziosa), a volte la parola àd significa non "sempre", in senso tempora-
le, ma "in tutti i casi". Nel passo di Aristotele, probabilmente, le parole
àEì. (11TovµEvov e àEÌ. àTTopovwvov non significano che il significato
dell'essere è "sempre", cioè eternamente, ricercato e "sempre" discusso,
ma significano che esso è stato discusso "in entrambi i casi", cioè rnì. TÒ
TTaÀ.m TE Kaì. vvv, "sia anticamente, sia anche oggi", vale a dire ogni-
qualvolta si è affrontato il problema di "che cosa è l'essere". Non credo
che per Aristotele questo problema sia destinato a essere discusso eterna-
mente, perché proprio in questo passo Aristotele dice che non bisogna più
chiedersi che "cosa è l'essere", ma bisogna, invece, chiedersi "che cosa è
l'oùofo", o "quale è l'oùofo (TLS Ti oùofo)".
Queste ultime parole, di solito, Heidegger non le cita: egli riporta la
prima parte del brano e non la sua conclusione, in cui Aristotele liquida il
problema di "che cosa è l'essere" (TL TÒ ov), dicendo che, da questo
momento in poi, bisogna chiedersi "che cosa è l'oùofo". Probabilmente,
quando Aristotele dice che questo problema è stato affrontato TÒ TTaÀ.m,
anticamente, TE KaÌ. vvv, e quindi anche oggi, sta pensando prima a
Parmenide (e forse a Melisso), e poi a Platone e alla sua, scuola, cioè ai
platonici, tra i quali egli stesso era cresciuto.
Lo sviluppo di questa domanda ("che cosa intendete mai significare
quando pronunciate il termine essere?") comincia proprio con l'interro-
gazione degli Eleati, quando lo Straniero interpella anzitutto coloro che
ritengono che il tutto è uno. Non c'è dubbio, infatti, che si tratti degli
Eleati. La domanda è questa: che cosa intendono dire con la parola
"essere" (ov) coloro i quali affermano che il tutto è uno (244 b 6-7)?
Qui l'argomentazione di Platone si sviluppa, secondo me, in due fasi:
egli prende in considerazione, anzi~utto, la possibilità che il termine
"essere" usato dagli Eleati sia riferito all'uno (244 b 9-1 O). La tesi attri-
buita loro è che "il tutto è uno". Perciò lo Straniero osserva che, quan-
18
Elementi di ontologia nel Parmenide e nel Sofista

do gli Eleati parlano di essere, o si riferiscono all'uno o si riferiscono


al tutto. Pertanto egli prende in esame entrambe le possibilità.
La prima possibilità è che si riferiscano all'uno. Ma, secondo lo
Straniero, se gli Eleati usano il termine "essere" in riferimento all'uno,
vanno incontro a difficoltà insormontabili. Perché? Osserviamo anzitutto
che Platone presenta tale eventualità come un'ipotesi, infatti nel testo c'è
proprio il termine "ipotesi" (244 c 4-5: T0 Tai'.rniv nìv im68EOw
imo8EµÉvqi, "colui che ha assunto questa ipotesi"). Questo mi sembra
poter essere un riferimento al Parmenide, dove si parla continuamente di
ipotesi. Colui che assume questa ipotesi, cioè che "essere" voglia dire
"uno", prosegue lo Straniero, impiega due nomi per indicare la stessa
cosa, cioè impiega il nome essere, ov, e il nome uno, EV, per indicare la
stessa cosa. Ma ciò, dichiara lo Straniero, "è ridicolo" (244 c 8-9: KaTa-
yÉ À.acnov ). 'ora, non tocca a noi stabilire se davvero ciò sia ridicolo.
Certamente dal punto di vista dello Straniero non si dovrebbero usare due
nomi per indicare una sola cosa. Se si tratta di una sola cosa, essa dovreb-
be avere un suo nome e basta. Comunque, sembra che questa sia una
prima difficoltà che lo Straniero di Elea oppone agli Eleati nell'ambito del
suo parricidio. Qui, dunque, abbiamo la prima confutazione, cioè il primo
argomento contro l'eventualità che il termine "essere" sia riferito all'uno.
Ma, poi, c'è una seconda osservazione, cioè chi afferma che il nome è,
dice qualcosa di assurdo, perché, se il nome è diverso dalla cosa, allora
siamo già in presenza di due cose, cioè la cosa e il nome (il che potrebbe
andare bene per molti, ma non per gli Eleati, poiché essi affermano che il
tutto è uno, non due). Se, invece, il nome non è diverso dalla cosa, ma è
identico ad essa, allora o è nome di nulla, oppure, dice lo Straniero, è
nome di se stesso. Ma, se "essere" è nome di .se stesso, qualora esso sia
riferito all'uno, farà diventare l'uno soltanto un nonie (244 c 11 ~d 123). Se,
infatti, "essere" vuol dire soltanto un nome e io riferisco la parola "esse-
re" all'uno, l'uno diventa soltanto un nome, e anche questa sembra esse-
re una conseguenza inaccettabile per gli Eleati. Abbiamo dunque, in que-
sto modo, la seconda confutazione degli Eleati.
A me questo discorso ricorda la conclusione della prima ipotesi del
Parmenide, là dove Parmenide osserva che, se l'uno è soltanto uno, di
esso non si dà neppure nome. Non lo si può nominare perché, nominan-
dolo, andiamo incontro a tutte queste conseguenze, che sono inaccettabi-
li dal punto di vista degli Eleati. Insomma a me sembra di scorgere, in
)

3. Per la riga 244 d 12 seguo, con Cambiano, la lezione di Diès: Évòs EV ov µ6vov.

19
Enrico Berti

queste due prime confutazioni, un discorso molto simile e quello che


costituisce la prima ipotesi del Parmenide, e anche il ricorso del termine
im6ernLs mi fa pensare che si alluda a quello.
Ma prendiamo in esame l'altra possibilità, cioè che il nome "essere" sia·
riferito dagli Eleati non all'uno, bensì al tutto, ovvero all'intero (244 d 14:
TÒ oÀov). Anche qui lo Straniero distingue due possibilità: l'essere è iden-
tico all'intero oppure l'essere è diverso dall'intero. Io posso, infatti, rife-
rire un termine ad una cosa sia per affermare l'identità di esso con la cosa,
sia per mantenere, invece, una qualche differenza tra esso e la cosa. Ora,
in entrambi i casi, andiamo di nuovo incontro a conseguenze inaccettabi~
li. Perché? Se l'essere è identico all'intero, come dice Parmenide, allora
esso ha parti, e nulla impedisce che ciò che ha parti sia un intero e quin-
di, in questo senso sia uno (245 a 1-3).
Qui Platone cita proprio i versi di Parmenide, cioè B 8, 43-45 D.-K., in
cui l'essere è paragonato ad una sfera omogenea in tutte le sue parti e si
afferma che non c'è differenza fra il centro e la periferia. Questa allusio-
ne al centro della sfera e alla sua periferia (dove i versi di Parmenide dico-
no: "né più grande né più piccolo, né da una parte né dall'altra") viene
interpretata dalle;'· Straniero come allusione a delle parti di una sfera.
L'essere è una sfera e, dunque, ha delle parti. Ora, che l'essere abbia delle
parti, non è qualche cosa di assurdo. Nulla impedisce che ciò che ha parti
sia un intero e, quindi, in questo senso, sia: anche uno. Dal punto di vista
di Platone o, se vogliamo, dal punto di vista dello Straniero di Elea, si può
dare benissimo un intero composto di parti, il quale, in quanto intero, è
uno e, in quanto composto di parti, è molteplice.
Ecco, il fatto che, qui, la cosa sia data come possibile, come accettabile,
quando si dice "nulla impedisce ciò" (oùoÈv KWÀVEL), a me fa pensare che
ci sia un'allusione alla seconda ipotesi del Parmenide, quella in cui si parla
dell'uno che è, perché questo uno che è, secondo le argomentazioni di quel-
la ipotesi, è un intero e, insieme, ha anche parti (142 d). Questo è ritenuto,
nella conclusione, un discorso accettabile, perché di questo uno si dà nome,
discorso, sensazione, opinione e scienza (155 d). Accétlabile per chi, natu-
ralmente? Accettabile per Platone o per un filosofo che non sia d'accordo
con gli Eleati. Per gli Eleati, il fatto di avere parti significa che l'uno non è
soltanto uno e significa che non è vero che tutto è soltanto uno.
Infatti, il discorso prosegue dicendo: ma questo intero che ha parti non
può essere l'uno in sé (Tò E-v aùT6), perché "il vero uno" (T6 yE ÙÀT)8ws
€v) deve essere senza parti (245 a 5-9), dal punto di vista di Parmenide,
naturalmente. E qui, allora, si torna di nuovo ad alludere alla prima ipote-
20
Elementi di ontologia nel Parmenide e nel Sofista

si del Parmenide, secondo la quale "l'uno che è uno'', cioè l'uno in sé, o
il vero uno, è soltanto uno e non ha parti (137 d), mentre, se noi riferiamo
il nome essere al tutto, in qualche modo ammettiamo che il tutto abbia
parti. In questo modo Platone mette gli Eleati in contraddizione con se
stessi, dunque abbiamo una nuova confutazione dell'eleatismo.
Ma consideriamo l'altra possibilità, cioè che l'essere sia diverso dall'in-
tero. Anche qui scatta la confutazione: se l'essere è diverso dall'intero,
allora il tutto, comprendendo sia l'essere che l'intero, sarà più di uno (245
b 7-9: TTÀ.Éova 8iì Tà TTavTa Évòs foTm), il che confuta la tesi degli
Eleati. Oppure è anche possibile che l'essere si riferisca all'intero, pur
rimanendo diverso dall'intero. Ma, se io dico che l'essere si riferisce all'in-
tero e, quindi, che l'intero è essere 'e, poi, affermo che l'intero è diverso
dall'essere, allora l'intero diventa diverso da se stesso, cioè diventa privo
di se stesso (245 c 1-3: Èv8EÈS TÒ ov ÉauToD auµ~atvEL), il che è evi-
dentemente assurdo. O, infine, si ammette che l'intero non coincida còn
l'essere, cioè che all'intero non sia riferibile il termine "essere", ma allora
l'intero non è e, poiché, avevamo considerato la possibilità che "essere" si.
riferisse all'intero, se l'intero non è, nemmeno l'essere è; e, se non è, non
può nemmeno divenire, perché divenire significa abbandonare l'essere; e,
se non può essere né divenire, non può avere neppure quantità (245 c 9-d
102 ouTE oùatav ouTE yÉvEaLv ... où8' émoaovovv TL).
Qui a me sembra di sentir riecheggiare la prima ipotesi del Parmenide,
dove Platone fa dire a Parmenide che l'uno che è soltanto uno, non è, non
è in quiete, non diviene, non è né vecchio né giovane, né prima né dopo,
cioè non è nel tempo; insomma, di esso non si può dire nulla e non si può
neppure dire che ha quantità (137 e, 138 b-139 b). In essa c'è proprio il
riferimento esplicito alla quantità, ci sono esattamente le stesse afferma-
zioni che troviamo nel Sofista.
La confutazione degli Eleati, poi, si conclude dichiarando: "e innumere-
voli altre questioni, ciascuna fornita di difficoltà senza fine, appariranno
allora a chi afferma che l'essere è due determinate cose o una sola" (245 d
12-e 2: TQ TÒ ov EhE 8fo TLVÈ E'LTE €v µ6vov -Elvm À.Éyovn). Non
sempre i traduttori mostrano di comprendere questo passo. Esso non dice,
come traduce non so più chi, che l'essere è una coppia di cose. No, qui il
riferimento è sempre agli Eleati, cioè la posizione degli Eleati viene pre-
sentata come si dicesse o che l'essere è due determinate cose, cioè il tutto
e l'uno (che erano i termini in cui essa era stata formulata inizialmente
dallo Straniero), oppure che è una cosa sola (cioè l'uno senz'altro). È alla
posizione degli Eleati che questo passo si riferisce, e il suo significato è
21
Enrico Berti

che, appunto, questa posizione rimanda a "innumerevoli altre questioni,


ciascuna fornita di difficoltà senza fine". Quindi, sia che gli Eleati affermi-
no che l'uno e l'essere sono due cose distinte, sia che affermino che sono
una cosa sola, essi vanno incontro a difficoltà insormontabili.
A me sembra che, con queste parole, Platone non intenda, qui; nel
Sofista, per bocca dello Straniero, rifiutare le prime due ipotesi del
Parmenide, ma voglia semplicemente dire che, se si attribuisce il termine
"essere" o all'uno o all'intero, ne conseguono difficoltà insostenibili per
gli Eleati, cioè per quei pensatori per i quali l'uno è soltanto uno, mentre
possono esserci conseguenze accettabili da altri punti di vista, cioè per
quanti affermano che dell'uno si può predicare l'essere, o che all'uno si
può dare un nome, e che dell'uno si può avere opinione, sensazione,
discorso e scienza. Insomma, con questa confutazione, contenuta nel
cosiddetto parricidio, anche il Sofista, a mio modo di vedere, confuta defi-
nitivamente il monismo eleatico e afferma, come alternativa, la concezio-
ne di un uno che contenga anche il molteplice, che sia in relazione con il
molteplice, cioè propone quella che comunemente chiamiamo l'ontologia
di Platone (qui sono d'accordo con Fronterotta a proposito dell'ontologia
basata sulla compenetrazione di essere e non essere, cioè, di uno e molti).
In conclusione mi sembra che, in questo passo del Sofista, si trovi una
conferma di ciò che è detto nel Parmenide. Ciò significa che il Parmenide
non è un dialogo aporetico, come molti affermano, ma è un dialogo
costruttivo, sia pure in senso dialettico, cioè come confutazione dell'elea-
tismo. Credo che sia aporetica, effettivamente, la prima parte del
Parmenide, cioè tutta la discussione sulle idee. Quanto alla seconda parte,
non credo che essa sia un mero esercizio dialettico, ma penso che essa
contenga un nucleo di ontologia, il quale, tuttavia, non emerge con chia-
rezza nel Parmenide, ma emerge, invece, nel Sofista, se è vero che il
Sofista contiene questo riferimento alle prime due ipotesi del Parmenide.

22
GIOVANNI CASERTANO

IL FALSO:
UN'ESISTENZA CHE NON ESISTE TRA COSE ESISTENTI

La potente prospettiva parmenidea, che legava la verità all'essere, pro-


clamando pensabile e dicibile solo l'essere, e stabilendo una analogia, o una
identità, tra le leggi del reale e quelle del pensiero, presenta già al suo inter-
no, e molto prima che le smaliziate analisi di un Gorgia le portassero alla
luce e le allargassero, pericolose incrinature. Parmenide infatti invita, dopo
aver stabilito in B2 "le sole vie di ricerca pensabili"!, a ben riflettere sulla
via non percorribile, quella sulla quale si muovono gli uomini "dalle due
teste", che considerano l'essere e il non essere, l'esistere e il non esistere,
come TaÙT6v, la stessa cosa (B6). Questo significa che un discorso su ciò
che non è, e quindi un discorso non vero, può comunque essere fatto: in
B8.50, infatti, si pone fine al discorso certo ed al pensiero intorno alla veri-
tà, ma non per questo il discorso cessa: se ne inizia un altro, che, se non è
vero, non è comunque meno importante per il vasto programma del sapere
preannunciato negli ultimi versi del frammento 12. E dunque la non pensa-
bilità e la non dicibilità del non essere, che apparentemente in maniera così
prepotente vengono fuori dal dettato parmenideo, non sono assolute.

1. 82.2: 68oì. µoùvm 8L(i]o"Los-... vo~aaL.


2. Bl.28-32: "È necessario che tu apprenda ogni cosa, sia il fondo immutabile della veri-
tà senza contraddizioni, sia le esperienze degli uomini, nelle quali non è vera certezza. Ma
ad ogni costo anche queste apprenderai, dal momento che le esperienze debbono avere un
loro valore' per colui che indaga tutto in tutti i sensi". Il discorso su ciò che non è vero,
comunque, per Parmenide, non si identifica con il discorso falso.

23
Giovanni Casertano

In B2, la via di ricerca, se non è una vera e propria ò86s, è comunque una
àTpmr6s, una KÉÀ.EV8os, ed anche se non è percorribile, rravarrEvefis, è anzi
del tutto impercorribile,·può comunque essere pensata, dal momento che fa
parte delle sole vie che possono essere pensate (vo~am ). E dunque si può
pensare e dire anche il falso, come non solo fanno i 81.KpavOL di B6.5, gente
che non sa giudicare (aKpLTa cpuÀ.a) e che mescola nei propri discorsi l'es-
sere e il non essere, l'esistere e il non esistere, ma come fanno anche colo-
ro che parlano senza metodo della natura. Costoro, infatti, confondendo le
vie, attribuiscono a "ciò che è" i nomi di "nascere" e "morire"3, di "cambia-
re", che rigorosamente ad esso non possono essere attribuiti, dal momento
che sono caratteristiche delle "cose che sono'', e cioè delle singolarità mol-
teplici dei fenomeni. Non solo, ma in questa loro errata operazione, quei
nomi essi "credono che sono veri".
E dunque, come si vede, anche nella monolitica ottica parmenidea c'è
spazio per l'errore, per il falso; il non essere, che non esiste, trova comun-
que, in qualche modo, un suo spazio· nei discorsi dell'uomo, è in qualche
modo pensabile ed è in qualche modo dicibile; per cui l'affermazione delle
due equazioni essere/vero. e non essere/falso è quanto meno problematica.
Il fatto è che, dopo Parmenide e prima di Platone, da quelle equazioni
Protagora e Gorgia avevano dedotto l'eguale verità di tutti i discorsi, e quin-
di la non esistenza del falso. Qui non mi interessa discutere il problema sto-
riografico dell'attribuibilità storica delle tesi dell'inesistenza del falso, e del-
1' equivalenza di tutti i discorsi sul piano della verità, a Protagora: come è
noto, noi non la leggiamo in nessun luogo. È Platone, e dopo di lui Aristotele
e tutti gli altri testimoni delle dottrine protagoree, che costruiscono quest'in-
terpretazione del detto sull'homo mensura. Quello che è importante, ai fini
del nostro tema, è appunto che Platone gliela attribuisce, e la critica, e ritie-
ne fondamentale il distruggerla per poter costruire la propria "filosofia". Nel
far questo egli accoglie, deve accogliere in pieno quella che abbiamo chia-
mata la prospettiva parmenidea, perché è cosciente dell'impossibilità di eli-
minarla, pena la perdita di un criterio che gli sta a cuore, quello della con-
trapposizione di verità a falsità, che per lui ha un valore non tanto e non solo
gnoseologico, quanto principalmente etico e politico. Ma, nell'accoglierla,
ne eredita anche le ambiguità e le incrinature, eh~ tenta in ogni modo, a volte
genialmente, a volte "sofisticamente", di sciogliere e di sanare. ·

3. B8.39-4 l: "In rapporto ad esso [ciò che è] sono dati tutti quei nomi che gli uomini hanno
stabilito credendoli veri, e cioè nascere e morire, esistere e non esistere, cambiar luogo e
mutare splendente colore".

24
Il falso

Quello che qui vorrei mostrare è che, nell'accingersi a questo compito,


Platone costruisce il suo discorso sul difficile crinale della differenza tra
una duplice discendenza da Parmenide: da un lato i sofisti, che su
Parmenide fondano, sempre nell'interpretazione platonica, la loro nega-
zione del falso basandosi sulla negazione del non essere; dall'altro Platone
stesso, che, a sua volta "interpretando", su Parmenide fonda la netta
distinzione tra verità e falsità, concedendo una realtà al non essere. Questa
operazione, che esaminerò per quanto detto nel Sofista, è comunque con-
dotta con la piena coscienza della sua problematicità, che traluce anche
nella stessa impostazione stilistica e linguistica del dialogo.
C'è una "tentazione" platonica, quella di ritenere che i fatti possano
"parlare" di per sé, ovviamente dicendo la verità; questa tentazione ha
anche un altro risvolto: non solo c'è un "linguaggio delle cose" che espri-
me la realtà/verità delle cose che sono, ma c'è anche una "denominazio-
ne" delle cose, che esprime quella stessa realtà/verità. Anche il nome, cioè
i nomi che usiamo ad indicare le cose, deve, per continuare ad usare la
metafora, "farci toccare la cosa", farci comunicare con la cosa di cui è
nome. Presupposto, o esigenza, di questa prospettiva, è appunto che un
nome indichi una e soltanto una cosa; di qui appunto derivano, nel corso
del Sofista, tutte quelle espressioni che sottolineano la "necessità" di una
denominazione: si veda in 217a, 220dl-2, 221c4, 223a9, 224b7, 226c5.
Sembra esservi, insomma, una corrispondenza biunivoca nome-cosa,
per cui pronunciare un nome equivarrebbe ~mmediatamente ad intendere
subito la cosa; questo sembra emergere, per esempio, dall'affermazione in
221d3-4, dove Teeteto, che segue docilmente, ma anche intelligentemen-
te, la diairesi dello Straniero, esclama: càpisco quello che vuoi dire, cioè
che "chi possiede questo nome, deve assolutamente essere tale (TTaVTÒS
OEL TOLOVTOS dvm TO YE ovoµa TOVTO ÈXWV)". E questa corrispon-
denza nome-cosa non viene meno neppure quando il nome che usiamo è
"non ente": chi dice TÒ µi] ov lo fa sempre in riferimento (Els) a qualco-
sa ed in rapporto (hd.) a qualcosa4, ed è per questa ragione che esiste
anche una òp6oÀ.oy(a TTEpÌ. TÒ µi] ov5. Ed è tanto forte questa tentazio-
ne in Platone, che, nell'ambito di questo orizzonte teoretico, può, alla fine
di una dimostrazione confutatoria, affermare che "per natura (KaTà cp{r
ow) è così"6; e poco dopo, avendo dimostrato la comunanza tra i generi,

4. Soph. 237c2-3; cfr. anche 243el, 250d7.


5.Soph. 239b4. .
6. Soph. 256c2-3.

25
Giovanni Casertano

afferma che è "la natura dei generi (ii Twv yEvwv cplms )" a comporta-
re questa comunanza?: dove, come si vede, una necessità logica, quale è
quella conseguente ad una dimostrazione e ad una confutazione, viene tra-
sformata in una necessità naturale, o comunque viene ritenuta coinciden-
te con essa.
Possiamo dire che questo orizzonte teoretico sfa quello di Parmenide?
Credo di sì: anche in Parmenide c'è una stretta corrispondenza tra il livel-
lo dell'essere, quello del pensare e quello del dire, e questo comporta che
i nomi siano indicativi veritieramente di una realtà ed assolvano ad una
importantissima funzione conoscitiva, qual è appunto quella di distingue-
re ciascuna cosa da tutte le altre, nel quadro appunto della realizzazione
del suo programma del sapere, di conoscere tutte le cose e in tutti i modi8.
E Platone non può non convenire con quest'orizzonte.
Ma naturalmente non è così. Non c'è una corrispondenza immediata tra
nome e cosa, e quindi non basta nominare le cose per essere immediata-
mente nel campo della verità. In altri termini, il campo della realtà non
coincide con quello della verità, per cui si può "essere" realmente, ma non
veramente, secondo la chiara espressione di 240b9. In altri termini anco-
ra, poiché quando discutiamo con qualcuno, come aveva sottolineato
Gorgia, non gli comunichiamo cose ma parole, nomi, che cos'è la "cosa",
l' €pyov, cui pretendiamo che il nostro nome corrisponda, per poter affer-
mare che stiamo dicendo la verità?
In effetti fin dall'inizio del dialogo, secondo il sapiente stile platonico di
anticipare più o meno velatamente l'aporia fondamentale che sarà svisce-
rata e discussa nel seguito, lo Straniero non ha alcuna difficoltà a dichiara-
re che come i nomi di sofista, politico e filosofo sono tre, così sono anche
tre le persone a cui essi si riferiscono. Quello che invece fa problema, cioè
non è un'impresa né piccola né facile, è definire con chiarezza che cosa
essi siano uno per uno (217b2-3: Kaff EKaaTov 8Lop(aaa8m aacpws TL
rroT' fonv). Prima di iniziare la ricerca in comune, infatti, lo Straniero,
ribadendo che essa si deve svolgere cercando e chiarendo mediante un

7. Soph. 257a9.
8. Parmenide B19.3. Mal posta la tesi della falsità dei nomi in Parmenide, sostenuta da
alcuni studiosi, secondo la quale tutti i nomi, escluso l"'è", non si potrebbero attribuire a
TÒ Èov; tesi chiaramente influenzata dal neoplatonismo e fondata su di un'errata lettura
dei versi 38-40 del frammento 8, dove si dice che'i nomi di "nascere" e "morire" sono fal-
samente attribuiti a "ciò che è", ma non ·che siano falsi in quanto nomi: possono essere
attribuiti infatti correttamente alle "cose che sond'.
9. Soph. 240b10-11: [fo'n] ovKovv ÙÀ.T)0ws-... TIÀ.lJV yE ... ovTw<;.

26
I/falso

discorso che cosa mai sia (Mycp TL TTOT EoTL) il sofista, aveva dichiara-
to che per ora, a proposito del sofista, gli interlocutori avevano in comune
soltanto il nome (Touvoµa µ6vov €xoµEv KOLvJJ), mentre dell'oggetto a
cui attribuiamo quel nome (TÒ oÈ Epyov Èq>' c1i rnÀ.oÙµEv) era possibile
che ciascuno avesse una concezione propria (Lotq.). Ed aveva posto i palet-
ti metodologici, per così dire, che soli davano un senso alla ricerca stessa:
a proposito di ogni argomento bisogna sempre accordarsi mediante i
discorsi (8Là Mywv... avvwµoÀ.oy~aem) sulla cosa stessa piuttosto che
sul solo nome separato da ogni discorso (Tò rrpayµa aÙTÒ µaÀ.À.ov ... Ti
Tovvoµa µ6vov ... xwpìs Myou)IO. Ed alla fine della diairesi paradigma-
tica, quella che trova il pescatore con la lenza, lo Straniero comunica il
risultato dell'analisi: Ora abbiamo colto (dÀ.iJ<PaµEV) in maniera soddisfa-
cente non solo il nome, ma anche il discorso relativo alla cosa stessa (àÀ.À.à
KaL TÒv Myov TTEpL aÙTÒ Tovpyov)ll.
Questi passi sono estremamente importanti per capire non solo l' oriz-
zonte teoretico in cui si muove Platone, ma anche e principalmente la com-
plessità e la problematicità di quell'orizzonte. E dunque' il nome non è la
cosa, evidentemente, ma non basta neppure a cogliere, ad "afferrare" la
cosa, il fatto. La funzione indicativa del nome (questo è A, B, C), ammes-
so che ci sia, non è sufficiente: l'inizio di una ricerca si caratterizza proprio
per la situazione "socratica" che in certo modo noi già conosciamo non
conoscendo, conosciamo i nomi e le parole che usiamo, ma non conoscia-
mo a che cosa essi corrispondono. O meglio, ciascuno di noi ha una sua
visione privata (l"[oLOv di 218c3) dell'oggetto del proprio parlare, ed ha in
comune con gli altri,solo il nome, i nomi che usa, parlando la stessa lingua;
mentre è proprio e soltanto la ricerca in comune (KOLvJJ) che a quel nome è
in grado di far corrispondere un Epyov riconoscibile da tutti.
Ma che cos'è quest' €pyov, questo rrpayµa, a cui dopo la diairesi
abbiamo concordato che corrisponde l' ovoµa? Sarebbe troppo facile, e
comunque non corretto, rispondere che è la persona fisica del sofista, il
pragma del sofista in carne ·ed ossa. Lo Straniero aveva detto che non era
difficile "indicare" e sostenere la diversità delle tre persone del sofista,
del politico e del filosofo, ma molto più difficile era individuare, distin-
guer~ (8Lopt(w) il "che cosa è (TL TToT' fon)" di ciascuno di essi.
L' ergon del sofista è dunque inscindibile dal suo TL TToT' ECTTL, e se la
persona del sofista è visibile da tutti, il suo "che cosa è''. è visibile solo

10. Soph. 218b5-c5.


11. Soph. 221b2.
Giovanni Casertano

nel discorso che si costruisce contestualmente alla nostra ricerca. Alla


fine della quale, infatti, come chiaramente sottolinea Platone, abbiamo
"afferrato" (Àaµ~avw) non solo il nome, che già possedevamo all'inizio,
ma principalmente un'altra cosa, che non possedevamo ancora: e che non
è "la cosa stessa", l'ergon, bensì il discorso relativo alla cosa. Ed il
discorso relativo alla cosa è appunto quello che ci fa afferrare il "che cosa
è" di quella cosa, che non è immediatamente visibile nel suo nome, ma
può essere colto soltanto mediante un discorso (My((.l)12.
Il TL rroT' fon è dunque il senso, il significato della cosa, che non coin-
cide affatto con l'espressione verbale con la quale noi indichiamo quella
cosa, ma che abita esclusivamente nel campo dei nostri discorsi: è sempre e
solo il logos che crea il regno dei significati, e sono questi che fondamental-
mente ci comunichiamo nei nostri discorsi. Se Platone può essere d'accordo
con Gorgia nell'affermare che col linguaggio non comunichiamo cose ma
parole, e dunque significati soggettivi, la sua fiducia, questa volta contro l'af-
fermazione gorgiana del perì tou me ontos, è appunto che sia possibile
costruire un discorso comune che ci metta d'accordo sui significati.
Il problema è che, se è il discorso a costruire i significati, esso, con-
tro quella che abbiamo chiamato in generale la "prospettiva" parmeni-
dea, può costruire anche un'apparenza malsana, un cpavTaaµa oÙK
uyLÉsl3. Il discorso non costruisèe solo i significati delle cose che sono,
ma può anche costruire apparenze di significati, cioè significati che non
sono, che non esistono: e sono appunto questi ad essere malsani. Ma
affermare questo è segno del pieno riconoscimento della frattura gor-
giana operata, sul corpo del dettato "parmenideo", tra realtà e linguag-
gio, o meglio tra dire e dire il vero, che non possono più coincidere. È
il segno anche del pieno riconoscimento che il falso, ed il vero, abita-
no esclusivamente il piano del discorso: è solo qui che èssi "nascono".
Sulla base di quel dettato, infatti, assegnata la verità all'essere, biso-
gnava assegnare la falsità al non essere; ma il non essere non può esi-
stere, e dunque non può esistere il falso. L'operazione platonica, nel
nostro dialogo, consiste, in pratica, nel dare una realtà al non essere, in
maniera apparentemente dirompente rispetto alla prospettiva parmeni-
dea, e quindi nell'attribuire anche al falso una realtà, ma proprio per
recuperare la prospettiva parmenidea.
12. Che la "giustificazione" del nome risieda sempre nel discorso, è visibile in molti luo-
ghi: oltre che qui, a 218c, cfr. per esempio 223b, 224e, 225c, 226a, 226c, 229a (dove il
logos è l'opinione), 231 b.
13. Soph. 232a2-3.
28
!!falso

Nelle ultime trenta pagine del dialogo si attua lo sforzo più alto di
Platone di costruire una gnoseologia ed una logica in grado di "fonda~e"
una verità ed una falsità oggettive, tentando di farle passare per una gno-
seologia ed una logica "fondate" da una realtà oggettiva; ma sono,anche
trenta pagine tormentate in cui la piena consapevolezza dei problemi logi-
co-linguistici adombra e svela tutta la complessità e le difficoltà dell'ope-
razione. Ma confermare l'ottica parmenidea nel tentativo di "ricucire" la
doppia frattura gorgiana tra essere e pensare e tra pensare e dire, alla fine
si ridurrà, a mio avvisò, solo alla coraggiosa ed appassionata difesa del
logos e della dialettica, uniche armi di cui è in possesso il filosofo per
combattere le sue battaglie.
E dunque, Parmenide. In 237a8-9 si citano per la prima volta i primi
due versi del frammento 7: "Poiché giammai si potrà impdrre con la forza
questo, che esistono le cose che non esistono. Ma tu allontana il pensie-
ro da questa via di ricerca". I due versi saranno ripetuti in 258d2-3, dove
ormai si ritiene di aver dimostrato che "ciò che non è" .esiste realmente;
tra questi due passi, si colloca quello in 241dl-7, in cui si accenna al
famoso parricidio, l'esame dei "miti" raccontati dai cosiddetti monisti e
pluralisti (243d-245e), materialisti e idealisti (246a-249d), ed infine il
nuovo orizzonte teoretico introdotto con la dottrina dei cinque generi
sommi (250a-258c). Non ·posso esaminare qui questi svolti fondamenta-
li del dialogo, e di tutto il pensiero platonico, ma intendo solo mostrare
come l'operazione platonica non rompa affatto, e nemmeno nella "lette-
ra" della scrittura, con l'orizzonte parmenideo; e infine, come il vero
risultato di tutta quest'analisi non sta tanto nel raggiungimento dello
scopo che ci si era prefisso, quanto nella riaffermata centralità del discor-
so, della dialettica e del dialogo.
·Già in 237a, in effetti, appare chiaro che c'è una scissione tra enuncia- ·
to e discorso interpretativo, tra lettera e senso: i due versi del "grande
Parmenide" che parlava a noi ragazzi, dice lo Straniero, costituiscono
una "testimonianza" di cui prendere atto. "Questa dunque è la sua testi-
monianza (rrap' È:Kdvou TE ovv µapTvpELTaL). Ma la massima chia-
rezza su questo punto ci potrà venire dal discorso stesso, se adeguata-
mente saggiato (rn'L µaÀLOTa yE 8Tj rravTCùV 6 Myos aiJTòs av
8TJÀWOHE µÉTpw ~aaavweds)"14. L'enunciato di Parmenide deve
dunque esser preso come una testimonianza; ed ogni testimonianza va
vagliata, messa alla prova: il testimone può anche essere torturato perché

14. Soph. 237bl-2.


29
Giovanni Casertano

dica la veritàIS, e la tortura di una proposizione consiste appunto nel


discorso interpretativo che di essa offre il significato, che non è imme-
diatamente visibile nella proposizione stessa, ma dev'essere esplicitato
appunto da un altro discorso che su di essa si costruisce, si deve costrui-
re. E dunque quel detto di Parmenide, che Parmenide enunciava ai ragaz-
zi che seguivano le sue dottrine, ora deve essere interpretato; ora che i
ragazzi sono cresciuti, essi possono farlo adeguatamente. Non è da sot-
tovalutare, infatti, che chi parla in questo dialogo è un Eleate, ma non
Parmenide, che viene chiamato in causa solo come testimone da sotto-
porre ad esame. E se il personaggio Parmenide aveva giocato un ruolo
fondamentale nel dialogo omonimo, in cui si attua un ripensamento della
dottrina delle idee alla luce delle importanti lezioni metodologiche di
Parmenide stesso, ora il personaggio è un seguace della dottrina parme-
nidea. Che se, da ragazzo, poteva apprendere e ripetere le parole del mae-
stro, cresciuto, ed entrato in prima persona in quella gigantomachia che
è la "battaglia" intorno alla determinazione della realtà delle cose, l' àµ-
<Pw~fiTTJCTLS' lTEpL Tiis oùatas (246a5), ora è in grado di costruire con
i suoi discorsi, meglio e più efficacemente di Parmenide, ma proprio per-
ché sulla base della dottrina parmenidea, l'antidoto ai 'discorsi dei sofisti.
Bisogna dunque crescere, ed interpretare Parmenide, come tutti i prota-
gonisti di questa fondamentale disputaI6, ed il discorso che si costruirà sarà,
allo stesso tempo, una confutazione ed una dimostrazione (242b4: EÀEYXOS'
Kaì. à'IT68ELC:Ls), senza che per questo si "stoni" con il discorso patemoI7.
Non è un discorso facile; anzi, è, diçhiaratamente, un discorso estremamen-
te rischioso (242b6-7: 1TapaKw8vvEuTLKÒS' Myos ), ma bisogna farlo:
rischioso perché non è affatto agevole, EU'ITopov, dire in un discorso l' OTL
'ITOT EaTLV di TÒ. ove di TÒ µÌ] ov18. Ma chi si accinge a quest'operazio-
0

ne non può comunque essere considerato un parricida. Quando abbiamo


affermato che. il falso esiste nelle opinioni e nei discorsi (241 b), attribuendo

15. Questo senso è chiaramente alluso non solo dal verbo µapTvpÉw, ma anche da ~mm­
vl.(w: che è non soltanto il saggiare con la pietra di paragone, ma anche il mettere alle stret-
te, il sottoporre a tortura. Questo senso costituisce parte importante della lettura di U. CURI,
Polemos. Filosofia come guerra, Torino 2000, cap. 2. 1

16. Più volte si ribadisce, nel corso di queste pagine, che bisogna "interrogare" Parmenide
e gli antichi che come lui hanno parlato dell'essere, che bisogna interrogarsi sul 011µa(-
.vnv, sul significato delle loro espressioni, e ritorna, pregnante, l'uso del verbo É:pµl]vEl'.iw:
cfr. p.e. 243d-e, 244a, 246e, 248a.
17. Anche qui, 242b3-4, un verbo, TIÀT]µµEÀ.Éw, che allude ad una nota musicale che non
si armonizza con le altre.
18. Soph. 246al-2.
30
/!falso

. così l'essere al non essereI9, il sofista ha avanzato abbondanti e facili obie-


zioni e difficoltà: "a maggior ragione, allora, - dice lo Straniero· - ti voglio
pregare di questo (T68E Tol.vuv ht µàÀÀov rrapmToÙµal. aE)"20, cioè "di
non supporre che io diventi come un parricida (µ~ µE ofov rraTpoÀal.av
urroM~1J5' y(, yvrneal. 1-tva)"21. ·
Mi sembra chiaro che qui lo Straniero dice di non voler essere conside-
rato come un parricida: il verbo rrapm TÉoµm, che indica appunto l' allonta-
nare da sé con preghiere (il latino deprecari), sta ad indicare che ciò che
vuole evitare è appunto di poter venire scambiato con un parricida. A loro
volta i verbi urroÀaµ~avw e y(, yvoµm stanno ad indicare che questa è una
supposizione che potrebbe essere fatta da Teeteto per qualcosa che sta per
accadere, e cioè appunto per il discorso che ora egli andrà a fare, svolto
appunto, in apparenza, contro quello del maestro. Il discorso che prediche-
rà con violenza (241d6: ~ta(rn6m) di ciò che non è "che è in un certo senso
(241d6-7: ws EaTL KaTa n )"; e di ciò che è "che non è in qualche modo
(241d7: ws oÙK foTt TTlJ)", è infatti un discorso che mette violentemente
alla prova (241d6: ~aaavl.(ELv) quello del padre Parmenide. Ma non v'è
alternativa: bisogna avere il coraggio (242al: ToÀµY]TÉov) o di lasciarlo
stare, insieme a tµtti i discorsi dei "mitologi", o di "attaccarlo'', Èm TL6r)µt:
ancora un verbo dal pregnante campo semantico, che significa non solo,
però, il piombare sopra, l'attaccare, ma anche il porre sopra, l'aggiungere
come completamento, e dunque non negare, distruggere, ma andare avanti
sfruttando quel discorso come una base per sviluppare il nostro ulteriore
ragionamento, in vista dei fini che ora ci proponiamo.
Dare una realtà al non essere, dire il non essere, dunque, lungi dall' es-
sere una·negazione della prospettiva parmenidea, ne costituiscono una con-
ferma: se il non essere esiste, dicendolo non vengo meno alla legge parme-
nidea che non si può pensare né dire ciò che non esiste, né che si forza ad
esistere ciò che non esiste. Ma se il problema del rapporto essere - pensa-
re - dire si può allora ritenere risolto, nel pieno rispetto dello spirito della
filosofia di Parmenide, resta però in piedi, in tutta la sua urgenza, l'altro
problema del rapporto essere-non essere rispetto a vero-falso. Anche que-
sto problema, però.formalmente, appare risolto: stabilita la connessione tra
i generi, e stabilito che il non essere, come del resto l'essere, è un genere
realmente esistente, si è stabilita così l'esistenza del falso: l'opinione e il

19. 241bl-2: ancora una volta un verbo che esprime "contatto'', TTpoaaTTTELV.
20. Soph. 241dl.
21. Soph. 24ld3.

31
Giovanni Casertano

discorso veri infatti non sono altro che l'opinare e il dire "cose che sono",
quelli falsi l'opinare e il dire "cose che non sono" (260c). La prospettiva
parmenidea dell'ancoraggio del linguaggio alla realtà è salva; ma quello
che si è fatto è comunque un passo in avanti (261b6: Els TÒ 1Tp6a8Ev),
anche se piccolo: costituisce sempre, infatti, un passo in avanti lo spingere
la ricerca dandone una dimostrazione22. E se è vero, come abbiamo visto,
che la costruzione di un discorso vero passa attraverso l'interpretazione dei
discorsi degli altri, ora dobbiamo costruire il vero discorso intorno alla
verità ed alla falsità. E quindi dobbiamo stabilire, previamente, che cosa
sono un discorso ed un'opinione (261c6-9)23.
È questa una ricerca che programmaticamente, esplicitamente, si propo•
ne di fare la massima chiarezza possibile (cfr. I' ÈvapyÉ<JTE pov di 261 c7) sul
contatto (ancora aTITETm, 261c8) del discorso con l'essere e il non essere,
in modo da poter stabilire, contro il sofista, che esso non è sempre vero, ma
a volte vero ed a volte falso. Anatomizzando il discorso, si vede che esso è
costituito da nomi e verbi, il duplice genere di indicatori vocali concernen-
ti la realtà24. Ognuno di essi è un oi]Àwµa (262a3), o un <JT]µEl.ov (262a6),
imposto agli autori delle azioni o alle azioni stesse: fin qui, siamo ancora
nella prospettiva parmenidea. Il salto avviene quando dai nomi passiamo al
discorso: questo non è costituito dalla semplice somma di nomi e verbi, ma
da una connessione tra nomi e verbi che esprime un salto di qualità. Il
discorso, infatti, a differenza degli indicatori verbali, non "nomina" soltan-
to, ma chiarisce (262d2: OT)ÀoÌ.), conclude (262d4: 1TEpa(vn) e dice (262d5:
ÀÉYELv)25. Esso, in altri termini, costruendo un "intreccio" (262d6: TIÀÉyµa)
tra i nomi, "crea" qualcosa d'altro che non risulta dalla pilla somma dei
nomi usati. È vero che Platone, nel tentativo di mantenere fino alla fine la
prospettiva parmenidea, pur "modificata" dalla sua interpretazione e dal

22. Soph. 258c9-10: ElS' TÒ TTp6a6Ev ETL (rrn'pavTES' àTTE8dfoµEv.


23. L'equivalenza tra pensiero, opinione e discorso sarà stabilita in 263d-264b: tutti pos-
sono essere, comunque, ora falsi ora veri. Il pensiero è un discorso senza voce, un dialo-
go dell'anima con se stessa, un'opinione non espressa; l'opinione è il compimento, l 'e-
spressione verbale di un pensiero: tutti sono sempre dialogo, cioè l'insieme di affermazio-
ni e negazioni, ora in silenzio ora espressi e comunicati. A pensiero ed opinione Platone
accomuna le <f>avTaa(m, anch'esse ora false ora vere, che sono costituite da una mesco-
lanza di sensazione e di opinione: le loro affermazioni e negazioni avvengono infatti 8L'
alaeT]aEws, sono frutto di un mieoS'.
24. Soph. 26le6-7: TWV Ti) cpwviJ TTEpl nìv ova(av 8T]ÀWµchwv 8LTTÒV yÉVos.
25. Cfr. anche 26lel-2: è la combinazione dei nomi, e non i nomi di per sé presi, che indi-
ca (8T]ÀoÙvTa n) e significa· (ariµatVELv) qualcosa.

32
I/falso

passo in avanti compiuto, cerca ancora di legare questo intreccio verbale ad


un intreccio reale. In 262d8-el si stabilisce, infatti, una stretta relazione
(m8chTEp... Kal) tra l'"accordo" operato dal logos tra i segni verbali e
l"'accordo"26 esistente in realtà tra i pragmata, le res concrete. Ma il salto
è stato compiuto: ci sono un TL (262e6) ed un TTOLOV TLVa (262e8), un
"qualcosa" ed una "qualità" che risultano solo dal discorso e che non si
ritrovano semplicemente nella realtà.
La qualità del discorso è appunto il suo essere vero o falso (263b ). Ora,
mentre il discorso vero, a proposito di Teeteto, viene definito semplice-
mente come quello che dice "di te le cose che sono come sono (263b4-5:
Tà ovTa ws fonv TTEpL emù)'', quello falso conosce unatriplice defi-
nizione: esso dice 1) cose diverse da quelle che sono (263b7: ETEpa Twv
ovTwv), 2) cose che non sono come cose che sono (263b9: Tà µiì ovTa
ws ovTa), 3) cose che sono diverse da quelle che sono a proposito di te
(263bll: OVTWV ... OVTQ ETEpa TTEpl crou). Questo è possibile, si chiari-
sce subito, perché a proposito di ciascuna cosa ci sono molte cose che
sono e molte cose che non sono27.
E questa è la "testimonianza" di Platone: poniamoci ora anche noi come
"interpreti" di questa testimonianza e sottoponiamola al basanizein. Che
cosa significano, nella definizione del discorso vero28, le due espressioni
a) "cose che sono" (Tà ovTa)
b) "come sono" (ws fonv),
assodato che questo discorso non è un discorso in generale, ma si riferi-
sce ad una persona concreta, il Teeteto che sta discorrendo (TTEpL <Jou) qui
con me? a) "Cose che sono", coerentemente a quanto detto poco sopra
(262e12), dovrebbero essere sia un TTpÒ:yµa che una TTpaçLS, e cioè sia l'a-
zione del sedere sia Teeteto che compie quest'azione; b) "come sono"
dovrebbe esprimere la relazione, una relazione di accordo in questo caso,
tra quell'azione e quell'attore: l'esistere concreto di quella relazione.
Vediamo ora le definizioni del discorso falso. Anche qui possiamo divi-
dere le definizioni in al) e bl), ed avremo:
al.I) "cose diverse" (hEpa)
al.2) "cose che non sono" (Tà µiì ovTa)
al.3) "cose diverse" (ovTa hEpa)

26. Espresso dal verbo àpµ6TTw.


27. Soph. 263bll-12.
28. Ricordiamo che qui gli esempi di discorso vero e di discorso falso sono "Teeteto siede"
e "Teeteto, col quale ora io sto discorrendo, vola".

33
Giovanni Casertano

bi.I) "cose che sono" (Twv OVTlùv)


bl.2) "cose che sono" (ovTa)
bl.3) "cose che sono" (oVTlùv).
Come si vede, in al) e in bi) sono scomparse le "cose", cioè il pragma e
la prcdis, Teeteto e la sua azione, in questo caso il volare; e sia il "non esse-
re" o il "diverso", da un lato, sia l'"essere", dall'altro, indicano semplice-
mente l'essere, l'esistere, o il non essere, il non esistere, ma sempre di una
relazione. "Cose diverse", o "cose che non sono", infatti, non possono esse-
re Teeteto e il volare, un pragma ed una praxis, che in quanto tali sono ed
esistono, ma soltanto la loro relazione, una relazione di accordo che non c'è.
In effetti, se pensiamo alla distinzione platonica tra un "ciò che non è"
in senso assoluto, ed un "ciò che non è" oggetto del nostro discorso, la pro-
spettiva parmenidea vige sempre. Ciò che non è "in sé e per sé" (238c),
come il contrario di ciò che è (257b), ciò che in nessun modo è (237b),
dovrebbe indicare il livello della non esistenza, della non realtà: da questo
punto di vista, seguendo Parmenide, esso è appunto impensabile, indicibi-
le, impronunciabile ed estraneo ad ogni discorso (238c), e ad esso già da
tempo abbiamo dato un addio (259a). Un "ciò che non è'', invece, non con-
trario, ma diverso dalla realtà (257b), e che pure esiste realmente (ovTUJS ),
e costituisce anzi un vero e proprio eidos al pari di "ciò che è" (258d-e)29,
è appunto l'oggetto del nostro discorso. Ora, la completa dialettizzazione,
la "messa in moto" del mondo delle idee, iniziata fin da 251 d, e secondo la
quale "ciò che è" e "ciò che non è" comunicano con tutte le altre idee
(259a-b), si rispecch~a necessariamente nel discorso: il "proprio" di questo
è infatti il "produrre mescolanza". "Se venissimo privati completamente
della sua esistenza [del discorso], non saremmo più in grado di dire nulla,
mi pare. E ne verremmo privati, se concedessimo che non c'è alcuna
mescolanza di nessuna cosa con nulla" (260a8-b2). Il discorso è dunque
necessariamente una mescolanza: di che cosa? Formalmente, di nomi, o se
si vuole di idee; in effetti esso costruisce una relazione, che può rispecchia-
re o meno una relazione esistente nella realtà.
E infatti è appunto l'esistere di una "relazione che non c'è" che il discor-
so predica, ed è per questo che è30 un discorso falso. Il discorso dunque è col-

29. Cfr. anche 258c, 260b: "ciò che non è" è un genos determinato, che attraversa tutti gli
enti. Resta il problema che se tome on è un'idea al pari delle altre, anch'esso si costitui-
sce in certo modo aÙTÒ Kaff aùT6, come tutte le altre idee, smentendo appunto quanto ·
detto in 238c. A meno che non si dia all'espressione aÙTÒ Kaff aùT6 un senso diverso da
quello secondo cui essa designa l'essere determinato di ogni idea.
30. O "diventa" un discorso falso: cfr. 241 a2 : yÉvOL To; il "nascere" di un discorso, cfr.

34
Il falso

legato sempre ad una realtà, rispecchia sempre una realtà, solo che questa
realtà può non esistere; meglio: esso si riferisce sempre, anche quando è
falso, ad una realtà, nel senso che l'attore e l'azione, Teeteto e il volare, esi-
stono realmente. Quello che non esiste è appunto la loro relazione, qui ed ora.
Il discorso vero allora dice una relazione esistente tra cose esistenti; il discor-
so falso dice l'esistenza di una relazione che non esiste tra cose esistenti.
Potremmo, mi pare correttamente, estrapolare, e dire che comunque il
discorso, il linguaggio, è creatore di una realtà, una realtà di significati che
non coincidono, semplicemente, con la realtà di un'esistenza al di fuori del
discorso stesso: il campo del discorso è più ampio di quello della realtà, e
dunque il campo della verità e della falsità, che abitano, come abbiamo visto,
il livello del discorso, non coincide con quello della realtà, ~ la prospettiva
parmenidea, o se si vuole l'esigenza, la tensione della dottrina parmenidea è
definitivamente messa in crisi. Potremmo anche dire che la malattia propria
del, e connaturata al, linguaggio è quella, di sapore gorgiano, di produrre una
realtà diversa da quella che dovrebbe costituire il fondamento veritativo del
discorso stesso; l'ambiguità fondamentale è che il riconoscimento di ambe-
due queste realtà avviene sempre, e non può non avvenire sempre, su uno
solo di questi due piani, e cioè sul piano del linguaggio.
Ma l'ambiguità è dello stesso discorso platonico, teso com'è, da un
lato, a salvare la prospettiva parmenidea e costretto, dall'altro lato, e pro-
prio dall'oggetto stesso della sua ricerca, a compiere un pericoloso passo
in avanti rispetto a quella. Da un lato, cioè, Platone ha distinto il piano del
linguaggio da quello della realtà, per poter inchiodare il sofista al primo
(a quello cioè, per usare un'espressione aristotelica, del "parlare per par-
lare") e negare al suo discorso ogni cittadinanza nel secondo: e per questo
è dovuto scendere sul terreno gorgiano. Dall'altro lato, è stato costretto a
ricollegare i due piani proprio per sottrarre il discorso vero alla sua forma-
le equivalenza con quello falso, se ambedue i discorsi avessero dimorato
soltanto sul piano linguistico, se cioè si fosse spinta troppo in là la procla-
mazione dell'esistenza del vero e del falso esclusivamente sul piano del
linguaggio: e in questo ha dovuto ridare un'esistenza al falso e dichiarare
che vero e falso abitano entrambi il piano della realtà. Quest'ambiguità
risulta chiara, a mio avviso, dal passo in 263dl-4.
"Le cose dette sul tuo conto, cose diverse (8aTEpa) ma dette come iden-
tiche (aùTa), cose che non sono-(µiì ovTa), ma dette come cose che sono

262c5: E)'ÉVETO, sottolinea proprio il fatto che esso non risulta semplicemente dalla sola suc-
cessione delle espressioni verbali, ma si presenta come un qualcosa di nuovo rispetto a esse.

35
Giovanni Casertano

(ws ovTa), assolutamente tale combinazione (cruv8rnLs) di verbi e nomi


sembra essere il realmente e veramente discorso falso (ovTWS TE KaÌ.
cL\:r18ws... Myos lf;rnoi]s )". In questo passo3 I la necessità di riancorare il
piano del linguaggio a quello della realtà riapre tutti i problemi posti dai
sofisti e reintroduce necessariamente l'ambiguità di un ov, o di ovTa, ad
indicare contemporaneamente affermazioni linguistiche e rapporti reali.
Le cose dette (À.qoµEva: siamo sul piano del linguaggio) su di te (TIEpÌ.
aov: Teeteto, ma non solo come soggetto logico, bensì anche persona
reale) sono cose diverse ma dette come identiche. Qui "identiche" e
"diverse" stanno ad indicare, da un lato, delle realtà, cioè ovTa ETEpa ed
ovTa aimi: il volare è un'azione reale, esistente, così come il sedere; ma
contemporaneamente, dall'altro lato, delle realtà trasportate al livello del
discorso, per cui le cose diverse possono essere solo dette su di te, ma non
rispecchiano il tuo essere/esis.tere: c'è, comunque, una frattura tra essere
e dire. Da un altro punto di vista, dire cose diverse su Teeteto non può
significare dire cose che non esistono, sia perché, in base all'ottica parme-
nideo-platonica, non si può parlare di ciò che non esiste, sia perché il falso
deve esistere per poter affermare che esiste un discorso falso. Ed allora
dire cose diverse significa dire cose che esistono in maniera diversa.
Ma che cosa esiste in maniera diversa nel discorso falso? Né Teeteto né
il volare, ma appunto il rapporto, la relazione fra Teeteto e il volare:
siamo, cioè, di fronte ad un rapporto linguistico a cui non corrisponde
alcun rapporto reale: ed il falso continua ad essere una non realtà, il non
esistere di un rapporto reale, pur in presenza di un rapporto verbale.
Ancora una volta, come si vede, una frattura tra dire ed essere, tra linguag-
gio e realtà, l'esclusione del falso (non più cosa, ma rapporto}dall'ambi-
to della realtà, che è esattamente il contrario di quanto ci si era riproposti
cercando una realtà ed un'esistenza per il non essere e per il falso.
È certamente presente, nel Platone del Sofista, la coscienza del fatto
che il discorso può affermare, può produrre una realtà che non è quella
esistente, e che è la realtà dei significati, dei sensi che gli uomini attribui-
scono alle cose e che non giacciono nelle cose stesse. È il mondo umano
del discorso, del dialogo, esattamente quel mondo nel quale Socrate ed i
suoi interlocutori creano relazioni nuove tra le idee, stabiliscono signifi-
cati nuovi per concetti tradizionali, danno essere a ciò che non ne aveva.
È un mondo irrinunciabile, perché costitutivo della stessa filosofia: priva-

31. Mi rifaccio qui in parte all'analisi già offerta in G. CASERTANO, Il nome della cosa.
Linguaggio e realtà negli ultimi dialoghi di Platone, Napoli 1996, p. 202 ss.

36
I/falso

ti del discorso, saremmo privati, ed è il massimo, della filosofia32. È altret-


tanto presente, però, anche l'esigenza di mantenere in piedi la prospettiva
parmenidea, vista come l'unico argine al dilagare dei discorsi "tutti veri"
che si deducevano dalle impostazioni sofistiche: perché, se non il raggiun-
gimento della verità, la tensione alla, e la prospettiva della, verità sono
anch'esse costitutive del discorso filosofico.
Concludendo, l'orizzonte parmenideo, nella sua tesi centrale della
coincidenza tra realtà e verità, qui nel Sofista, viene riaffermato ma non
dimostrato, perché la differenza tra discorso vero e discorso falso non è
questione di differenza logica, od ontologica, ma etica, o politica. E
Platone lo sa bene, ed anche in questo dialogo ci sono tutti gli indizi di
questa sua consapevolezza: ma è discorso che qui non posso affrontare.
Ma quella che resta comunque, sempre, anche in questo dialogo, e non
sullo sfondo, bensì rivendicata esplicitamente, è la centralità del logos e
della dialettica, del discorso in quanto costitutivo della filosofia (260a) e
dell'unica "scienza degli uomini liberi" (253c-d): la quale, se è vero che
appartiene non genericamente al filosofo, ma "a colui che filosofa con
purezza e giustizia" (253e ), non può però procedere se non confutando,
essendo la confutazione la massima delle purificazioni, tanto che chi non
è stato mai confutato, fosse pure il Gran Re, non essendo purificato nelle
cose più importanti, è privo di educazione e brutto nell'anima (230d-e).

32. Soph. 260a.

37
FRANCESCO FRONTEROTTA

PENSARE LA DIFFERENZA
STATUTO DELL'ESSERE E DEFINIZIONE DEL DIVERSO
NEL SOFISTA DI PLATONE

È certamente vero che il Sofista affronta per la prima volta nel suo insie-
me il problema della partecipazione o della comunicazione fra i generi idea-
li, per fornirgli una soluzione che Platone sembra considerare in qualche
modo definitival. Abitualmente, si tende a dire che la soluzione del proble-
ma consiste nell'elaborazione del genere del diverso, come pure nell'elabo-
razione del genere del diverso consisterebbe la soluzione dell'altra grande
aporia che il Sofista si propone di risolvere, quella relativa al non essere, alla
sua pensabilità e alla sua dicibilità2. In realtà, le cose non stanno propriamen-

1. Una soluzione definitiva, almeno nel senso che, nei dialoghi che vengono pressoché
unanimemente giudicati posteriori al Sofista, la questione non viene più ripresa né rimes-
sa in discussione. Tuttavia, che la partecipazione fra le idee non costituisca una "novità" o
un problema avvertito soltanto dal Platone tardo risulta abbastanza chiaro dall'esame di
alcuni passi di dialoghi precedenti al Sofista: cfr. solo Crat. 438e5-10 e Resp. V 476a4-7.
E almeno altri due passi pongono a tema la questione, per quanto brevemente, in modo
piuttosto consapevole: cfr. Phaed. 102d6-7; 104b6-105a5 e Parm. 129d6-e3.
2. Questo pare emergere non solo dalle trattazioni manualistiche, ma anche dalla maggior
parte degli studi specialistici dedicati al Sofista, dai quali traspare l'idea di fondo che l'ela-
borazione della diversità permetta di per sé di fornire una risposta al dilemma del mm esse-
re, facendo talora c.oincidere sic et simpliciter il non essere, almeno in un certo suo signifi-
cato, con il genere del diverso. Ptir se non affermata in modo diretto ed esplicito, ma sugge-
rita al massimo allusivamente nella forma sintetica e semplificata di una riduzione interpre-
tativa, tale idea si ricava per esempio da alcuni classici commenti al dialogo, come - cito alla
rinfusa e senza alcuna pretesa di esaustività- F.M. CORNFORD, Plato s Theory o/Knowledge.

39
Francesco Fronterotta

te così. Di per sé, l'elaborazione del genere del diverso, il diverso come tale,
non risponde affatto né al problema della Kowwvl.a dei generi né al proble-
ma del non essere, perché, di per sé, il diverso non coincide con il non esse-
re (e non lo rende perciò pensabile e dicibile) né si pone come l'esclusiva
chiave di volta per la comprensione della struttura e della composizione della
KOLvwvl.a dei generi. Non a caso, la lettura del testo indica chiaramente che
la soluzione di questi due problemi risiede piuttosto in quella che lo Straniero
di Elea, che conduce la discussione, individua come la totale "compenetra-
zione" di essere e diverso, per tre volte a breve distanza ribadita.
In 258d-e, si dice che l'analisi ha dimostrato che "la natura del diverso
è ed è frammentata fra tutte le cose che sono, nella misura in cui esse
intrattengono rapporti reciproci" (nìv yàp 8aTÉpov cpfoLv àrroodçav-
TES oùaav TE KaL KaTaKEKEpµaTLaµÉVT]V ÈTTL TTQVTa Tà OVTa rrpòs
aÀÀT]À.a): ora, prosegue lo Straniero eleate, se il diverso interviene necessa-
riamente nell'incontro e nella relazione fra termini diversi, sarà solo dopo
aver mostrato che il diverso è che si potrà sostenere che il non essere è.
Ancora, in 259a, si afferma decisamente che "l'essere e il diverso sono
entrambi disciolti attraverso tutte le cose che sono e reciprocamente, l'uno
attraverso l'altro" (T6 TE òv KaL eciTEpov 8Là rravTwv KaL 8L' àÀÀ.'fiÀ.wv
ÙLEÀ.T]À.v86TE): dunque, il diverso è (essendo disciolto attraverso l'essere e
perciò da questo penetrato) e l'essere, in quanto è diverso (essendo disciol-
to attraverso il diverso e perciò da questo penetrato), non è. Ne deriva che
"ciò che è moltissime volte non è in moltissime condizioni e così pure gli
altri generi, uno per uno e tutti insieme, in molti casi sono, in molti non
sono": proprio in questo "intreccio" fra i generi, determinato dalla mesco-
lanza di essere e diverso, si trova a quanto pare la soluzione del problema
del non essere e, a un tempo, della KOLvwvta dei generi. Infine, in 260b, si
mostra ancora come la via che conduce alla soluzione del problema del non

The Theaetetus and the Sòphist ofPlato, transi. with a running Commentary, London 1935,
pp. 289-98; R.S. BLUCK, Plato's Sophist. A commentary, Manchester 1975, pp. 157-72; S.
RosEN, Plato's Sophist. The Drama of Originai and Image, New Haven/London 1983, pp.
271-90; L. M. DE RIJK, Plato's Sophist. A Philosophical Commentary, Amsterdam/Oxford/
London 1986, pp. 164-73; PLATON, Sophiste, trad. inédite, intr. et notes par N. L. CoRDERO,
Paris 1993, pp. 53-57; G. CASERTANO, Il nome della cosa. Linguaggio e realtà negli ultimi
dialoghi di Platone, Napoli 1996, pp. 181-84. Anche D. O'Brien, che pure denuncia l'iden-
tificazione del non essere con la diversità come una "grossolana semplificazione" della tesi
platonica, ritiene in effetti che il non essere si riduca a una sola parte del genere del diverso
(Le non-étre. Deux études sur le Sophiste de Plàton, Sankt Augustin 1995, pp. 44-45), finen-
do così per sostenere implicitamente che sia proprio l'articolazione della diversità (sebbene
relativamente a una sua parte soltanto) a fornire una risposta al problema del non.essere.

40
Pensare la differenza

essere e, di qui, del falso nel discorso si basi sul riconoscimento che "ciò
che appunto non è ci è apparso essere come un singolo genere fra gli altri,
disseminato per tutte le cose che sono" (TÒ µÈv 8iì µiì ov fiµ'iv EV TL
TWV aÀÀ.wv yÉvos OV àvEcpclVT], KaTà TTclVTa Tà OVTa ÙLE<J1TapµÉ-
vov ), presupponendo quindi, nuovamente e ineludibilmente, ·la mescolanza
reciproca di essere e diverso. Come si vede; insomma, in ciascuna delle tre
occasioni in cui, a conclusione della sezione ontologica dell'analisi," lo
Straniero di Elea proclama il successo della sua strategia nello scioglimen-
to delle questioni del non essere e della KOLvwvta dei generi, egli non evoca
la diversità come tale, il genere del diverso, ma una "compenetrazione"
assoluta, totale e reciproca di essere e diverso. Ciò significa senza dubbio,
a mio avviso, che una corretta comprensione dei fondamentali problemi
affrontati nel Sofista, con la loro eventuale soluzione, dipende precisamen-
te dai due termini, essere e diverso, di cui il dialogo afferma, argomenta e
dimostra ripetutamente l'unione e la mescolanza.
Cercherò in quanto segue di presentare alcune riflessioni intorno allo
statuto e alla definizione di questi due termini, lasciando invece da parte
- se non per servirinene come occasionale punto di partenza dell'esame-
i delicati problemi del non essere e della KOL vwvta dei generi cui essi sono
chiamati a dare risposta nel Sofista.

1. La Koi11w11la r6J11 y€116J11

Conviene prendere le mosse da una conclusione importante cui lo


Straniero perviene a un tratto nella fase iniziale della sua indagine intorno
all'essere e al non essere. Interrogandosi sulla natura ,e sulle caratteristi-
che delle realtà che il filosofo deve assumer~ come contenuto della pro-
pria riflessione e come oggetto della propria analisi, egli è indotto dal
ragionamento svolto ad ammettere che la quiete e il movimento sono
entrambi e che, di conseguenza, occorre riconoscere come reali e davve-
ro essenti tanto le cose che sono in quiete quanto le cose che sono in movi-
mento (249c-d). Questa conclusione pone naturalmente un problema che
è stato ben avvertito in tutta la sua complessità: introdurre nell'essere, e
nell'ambito delle realtà ideali che lo .costituiscono, il movimento, signifi-
ca forse dire che l'essere nel suo insieme si muove e· si ttasforma, che le
idee stesse sono mutevoli e corruttibili?3 Certamente no, perché non si

3. Cfr. per es. F. M. CoRNFORD, Plato s Theory ofKnowledge, cit., pp. 244-45; R.S. 'BLUCK,
Plato s Sophist, cit., pp. 103-06; L. M. DE RriK, Plato s Sophist, cit., pp. 106-07.

41
Francesco Fronterotta

intende sostenere così che tutto 1'essere si muove oppure è in quiete, ma


che quiete e movimento si pongono nell'essere, senza però coincidere
interamente, né l'uno né l'altro, con l'essere stesso. Ma come si può sos-
tenere che quiete e movimento, opposti fra loro, siano entrambi? E come
è possibile che l'essere, che non può coincidere con l'uno dei termini
opposti, se non a patto di negare l'altro, sia a sua volta diverso da entram-
bi e non si trovi mai del tutto in quiete né in movimento? (249d-251a)
L'unica via percorribile pare quella di supporre che vi sia fra i termi-
ni in questione una forma di comunicazione (Kowwv(a), che consenta di
stabilire che "in parte sì e in parte no" (Tà µÈv È6ÉÀ.ELv, Tà 8È µil),
essi comunicano (KoLVwvE'Lv) reciprocamente. Se infatti nulla comuni-
casse con nulla (µT]8EvL µT]8Èv µT]8Eµ(av 8uvaµw ÉXELV Kowwv(as
Els µT]8Év), non sarebbe possibile neanche dire che il movimento o la
quiete o qualsiasi altra cosa siano, perché, non comunicando con l'esse-
re, non potrebbero, appunto, essere. In questa prospettiva, è la conclu-
sione, non si potrebbe pensare né porre alcun tipo di connessione fra ter-
mini diversi e si dovrebbero utilizzare parole come "essere'', "separata-
mente", "se stesso'', e così via, sempre indipendentemente, perché non
risulterebbe possibile attribuire ad alcuna cosa una determinata caratte-
ristica, essendo contraddittoria la stessa possibilità dell'attribuzione di
qualcosa all'altro da sé. Ma se, al contrario, tutte le cose partecipassero
fra loro (mivTa àÀ.MÀ.oLs 8uvaµw ÉXELV ÈmKoLvwv(as), ne derive-
rebbe allora l'assurda conseguenza di una generale e contemporanea
comunicazione fra tutti i termini diversi, con l'impossibile eppur neces-
saria conclusione che, per esempio, "il movimento stesso sarebbe in
quiete e la quiete si muoverebbe" (KLVT]CJLS TE aimì ;ravTcirraCJLV
LCJTQL T' àv KQL CJTclCJLS aù TTclÀLV aÙTTJ KLVOLTO, 251 e-252e). La sola
possibilità ragionevole rimane così la prima, vale a dire che i generi
comunichino e si accordino fra loro solo in parte e secondo certi criteri
(TTOLa TTOLOLS avµcpwvE'L TWV YEVWV KQL TTOLa aÀÀT]ÀQ où 8ÉXETaL),
come anche le lettere dell'alfabeto e le note musicali, che generano
parole significative o melodie, soltanto se combinate in un ordine deter-
minato (252e-253c). Non si può quindi sostenere che quiete e movimen-
to coincidano con l'essere né che con l'essere si identifichi l'uno dei
due, giacché, così facendo, l'altro .sarebbe escluso dalla partecipazione
all'essere. La sola possibilità, nella prospettiva del Sofista, consiste nel
riconoscimento che quiete e movimento siano entrambi compresi (rrEp-
LqoµÉVTJv) nell'essere e posti in comunicazione con esso (rrpòs TTJV
TfìS OÙCJLQS KOLVWVLav). L'essere come tale non coincide dunque né
42
Pensare la differenza

con la quiete né con il movimento e, diverso da questi, si trova tuttavia


in comunicazione con entrambi, visto che entrambi sono.
Proseguendo ancora, ciascuno dei tre generi è identico (TaiJT6v) a se stes-
so e diverso (hEpov) dagli altri due: la condizione di "diversità" (rispetto
agli altri generi) e di "identità" (rispetto a se stesso), propria di ogni genere,
impone di introdurre due nuovi generi accanto ai primi tre, l'identico e il
diverso, poiché è impossibile che questi ultimi coincidano con uno dei primi
tre, essere, quiete e movimento (254d-255b). Infatti, identico e diverso non
possono coincidere né con la quiete né con il movimento, perché quiete e
movimento, fra loro contrari, non comunicano reciprocamente: se l'identico
o il diverso coincidessero con l'uno dei due contrari, l'altro contrario sareb-
be contraddittoriamente escluso dall'identità (con sé) o dalla diversità (dal-
l'altro da sé). Ma identico e diverso non possono identificarsi neanche con
l'essere in quanto, se l'essere fosse l'identico, movimento e quiete, nella mis-
ura in cui sono, sarebbero anch'essi identici, mentre ciò è naturalmente
impossibile. Più articolato è il ragionamento nel caso del diverso. L'essere
dei generi si pone tanto in se stesso, ossia rispetto ai generi che sono, quan-
to rispetto agli altri generi e alla relazione che i diversi generi intrattengono
fra loro: un genere è, insomma, in sé, come pure sono generi diversi posti fra
loro in relazione (255c). Il diverso, invece, si pone sempre in relazione a un
diverso, perché non avrebbe senso sostenere che qualcosa sia diverso in sé,
indipendentemente dalla relazione (di diversità) con qualcosa di diverso da
sé (TÒ oÉ y' ETEpov àà TTpòs ETEpov, 255d). Infatti, se il diverso potes-
se, come l'essere, dirsi sia rispetto ai generi in sé sia rispetto alle loro rela-
zioni, ci si troverebbe di fronte al caso di un genere diverso non da un altro
genere, ma in sé, ossia da sé. Una simile possibilità è però esclusa a priori,
una volta che si sia affermato che i generi sono e che sono identici a sé (e
non diversi da se'). Anche il diverso, riconosciuto come un genere autonomo
insieme con l'essere, il movimento, la quiete e l'identico, è uno dei µÉywTa
YÉVYl, giacché tutti gli altri generi, nella misura in cui sono reciprocamente
diversi, partecipano del diverso ed è proprio attraverso questa partecipazio-
ne che ciascuno di essi acquista la sua diversità dagli altri generi (Èv EKaa-
Tov yàp ETEpOV étvm TWV aÀÀ.wv où faà TJÌV aiJTOU </:>UaLV, àÀÀ.à faà
TÒ µETÉXELV Tf]s l8fos Tf]s 8aTÉpov, 255e).
Perché vi sia Kotvwvta Twv yEvwv, occorre dunque che i YÉVYl siano fra
loro differenti; se infatti non lo fossero, si rivelerebbero per questo fra loro
identici e non costituirebbero infine che una realtà unica e, appunto, indif-
ferenziata. Se è dunque vero che l'essere fonda in tale quadro teorico l'au-
tonomia ontologica deì generi - il fatto che ciascuno di essi e tutti siano -,
43
Francesco Fronterotta

è altrettanto vero che il diverso fonda la possibilità della loro pluralità - il


fatto che ciascuno di essi e tutti siano nella loro pluralità, senza ridursi all'u-
nità dell'essere "parmenideo" - e, per questa via, l'ulteriore possibilità della
loro relazione, essenziale affinché la comunicazione dei generi sia davvero
svolta e pienamente articolata nella prospettiva del Sofista. Una prospettiva
che, come si era annunciato al principio, risulta perciò dipendere interamen-
te dalla "collaborazione" dell'essere e del diverso.

2. La definizione del diverso

Veniamo allora all'esame di questi due termini e innanzitutto del primo


di essi: cosa è il diverso? Il diverso, come si è appena visto, è condizione
necessaria, anche se non sufficiente, della Kowwv(a dei generi; dopo aver
esaminato sommariamente l'introduzione del diverso nella discussione
condotta nel dialogo e la sua funzione ontologica, si tratta insomma di
chiedersi se vi sia, ed eventualmente quale sia, una sua definizione possi-
bile. In 257c-d. lo Straniero di Elea introduce quella che è nota come la
dottrina delle "parti" del diverso:
'H 8aTÉpou µm <fr6ats <Pa(vnm KaTaKEKEpµaT(a8m Ka8émEp
ÉTTtaTtjµ11. - Tiws; - M(a µÉv ÉaTL TTOU KUÌ. ÉKELVll, TÒ 8' ÉTTL T(\l
yL yv6µEvov µÉpos avTi']S' EKaaTov à<PopLa8È:v Érrwvuµ(av foxEL nvà
ÉaUTi']S' l8(av· OLÒ TTOÀÀaÌ. TÉXVUL T' daì. ÀEYOµEVQL KUÌ. ÉTTtaTi']µm.
- Ticivu µÈ:v ovv. - OvKovv Kaì. Tà Ti']S' 8aTÉpou <PfoEws µ6pw µLàS'
ouaris TQVTÒV TTÉTTOV8E TOUTO.

Quanto emerge con particolare evidenza da questo testo è una forte, e


irrisolta, tensione concettuale che caratterizza la nozione di scienza come
pure la categoria del diverso: entrambe, infatti, appaiono come "fram-
mentate" o "ridotte in parti" (rnTaKEKEpµaT(a8m), pur ponendosi certa-
mente, l'una e l'altra, come un'unità. Come la scienza che, anche se solo
"in qualche modo" o "forse" (rrou), è "una" (µta), eppure, allo stesso
tempo, possiede singole parti (µÉpos ainiìs fraaTov) la cui denomina-
zione si riferisce all'intera scienza (oppure: la cui denominazione è pro-
pria di ciascuna parte, Èrrwvuµ(av 'laxn nvà ÉauTf)s L8(av) 4 , così
pure il diverso, pur essendo una realtà unica (TfìS' 8aTÉpou <f>uaEws ...

4. Il passo può essere inteso in entrambi i modi, a seconda che, in 257dl, si legga (1) il
genitivo singolare femminile (non però il pronome personale ÈauTfìS' dei manoscritti, ma,
eventualmente, il dimostrativo aùTfìs-, che mi pare tuttavia improbabile perché ripetereb-
be lo aÙTfìS' della riga immediatamente precedente), oppure (2) il genitivo singola-

44
Pensare la differenza

µu'is oucn1s ), pare trovarsi nella stessa condizione di molteplicità rispet-


to alle sue parti (TaÙTÒv TTÉTTov8E TOVTO ): ecco perché si può dire che
le tecniche e le seienze sono molte ed ecco perché, ne consegue, si deve
dire per analogia che esistono molteplici parti del diverso, raccolte sotto
il genere unitario, appunto, del diverso. Apprendiamo subito oltre che tali
molteplici parti del diverso sono di numero uguale a quello degli altri
generi, cui esse si oppongono e da cui esprimono così la propria diversi-
tà: avremo pertanto, per esempio, il non bello, il non giusto e il non gran-
de, parti del diverso opposte al bello, al giusto e al grande e perciò da
questi diverse, di cui devono necessariamente partecipare tutti quei gene-
ri che si rivelano diversi dal bello, dal giusto e dal grande, perché solo in
virtù di tale partecipazione alle corrispondenti parti del diverso tutti ques-
ti generi acquistano la propria divèrsità dal bello, dal giusto e dal grande
(257d-258b). Vi sarebbe qui, mi sembra, un primo, notevole problema,
relativo alla possibilità che il diverso si componga di partf genéricamen-
te diverse, e che dunque, per dirla in termini aristotelici, si costituisca
come un genere transgenerico-, ammettendo a un tempo che ciascuna sua
parte possa "funzionare" come un genere autonomo e distinto dagli altri,
pur facendo parte di un unico genere più ampio. Occorre sottolineare, ma
vi tornerò alla conclusione, che, posta la questione in questi termini, il
genere del diverso, la diversità, sembra piuttosto dato che giustificato o
propriamente dedotto. Il genere del diverso che, in quanto origine e fonte
della diversità, dovrebbe appunto fondare la diversità, pare invece ripro-
porla nella propria stessa essenza, manifestandola semplicemente, senza
però giustificarla.
Ma, proseguendo, se il diverso si compone davvero al suo interno di
parti distinte, tanto numerose quanti sono i generi da cui sono diverse, e
se d'altra parte, nel suo complesso, la natura del diverso è unica, quale
potrà essere tale µ(a </>fo'Ls del diverso? Lo Straniero l'ha chiarito poco
prima (255c-d), quando, ponendo la differenza fra l'essere e la diversità,
ha introdotto il diverso come genere autonomo fra i µÉywTa. Mentre

re neutro, ossia ÉavToD secondo una congettura di Baumann: nel primo caso, il femmini-
le non può che essere riferito a Èman'Jµri; nel secondo, il neutro deve essere accordato con
µÉpos- €KaaTov. Tra l'altro, l'ambiguità non può essere risolta basandosi sull'interpreta-
zione del passo, dal momento che le singole scienze hanno, ciascuna, sia il nome comune
di "scienza" sia il. loro nome proprio (la medicina, la fisica e la matematica sono, ciascu-
na, "scienz_a" e "medicina" o "fisica" o "matematica"; analogamente e progressivamente,
l'aritmetica e la geometria conservano, ciascuna, due nomi comuni, "scienza"· e "matema-
tica", oltre ai loro nomi propri di "aritmetica" e "geometria").

45
Francesco Fronterotta

l'essere si pone sia rispetto a ciò che è in sé, sia rispetto alla relazione fra
più enti esistenti, ·il diverso, invece, si pone sempre in relazione a un
diverso (TÒ 8É y' ÉfTEpov àd Tipòs ÉfTEpov, 255d): non ha infatti senso
affermare che qualcosa è diverso in sé, stabilito che la diversità si costi-
tuisce sempre come diversità da qualcosa d'altro. Cosa è allora, in se
stessa, la natura essenziale del diverso? Pare essere il continuo e inces-
sante rimando all'altro da sé e, a chi tentasse di coglierlo in sé, esso si
rivelerebbe sempre e comunque diverso da sé. A queste condizioni, la
diversità in sé risulta assolutamente impensabile, visto che, nel momen-
to in cui la si pensa, è già l'altro da sé. L'essenza della diversità è così
duplicemente contraddittoria: in primo luogo, infatti, in quanto riferito
sempre all'altro da sé, il diverso non assume un carattere determinato e
determinabile, un'identità stabile e non mutevole, ma si "muove" nel
continuo rimando all'altro; conseguentemente, se il diverso è questo
incessante movimento verso l'altro, la sua identità e la sua natura devo-
no di necessità coincidere propriamente con esso: paradossalmente, però,
non potrà che trattarsi di un'identità non identica, di una natura essenzia-
le che nega qualsiasi essenza determinata. Cosa è infatti l'identità di un
genere? L'identità dell'essere è di essere l'essere rispetto a se stesso; l'i-
dentità dell'identico è di essere l'identico rispetto a se stesso. AI contra-
rio, l'identità del diverso sarebbe di essere il diverso rispetto a se.stesso,
il che è evidentemente contraddittorio.
Se la diversità appare, al termine di questo breve ragionamento, come
in sé impensabile e assolutamente contraddittoria, è lecito chiedersi se
essa risulti invece in qualche modo pensabile e in sé coerente nel quadro
della Kowwvta dei generi di cui è la condizione necessaria e a partire;; da
questa - il che equivale a chiedersi se il diverso, in sé impensabile e
contraddittorio, divenga pensabile in relazione all'essere con il quale, si
era detto al principio, si trova sempre unito e interamente "compenetrato".
Bisogna di conseguenza riprendere l'esame dello statuto del diverso muo-
vendo questa volta dalla natura e dalla definizione dell'essere e dalla rela-
zione che con il diverso esso intrattiene. ,

3. Lo statuto dell'essere

Dell'essere, nel Sofista, si fornisce un'esplicita definizione. Per tentare


una mediazione fra "materialisti" e "idealisti'', lo Straniero propone la
seguente definizione (247d-e):

46
Pensare la differenza

AÉyw oiì KUL ÒTTOLUVOUV KEKTT]µÉVov ovvaµLV El T Els TÒ TTOLELV


ETEpov ònovv rrc<PuKÒS' eh' Els TÒ rra6E'Lv K:al aµLKp6wTov imò
TOU <PauÀOTclTOU, KQV El µ6vov Els arra/;, m'ìv TOUTO OVTWS' ElVUL.
Tlecµm yàp opov (òp((rni) Tà OVTa WS' EaTLV OÙK aÀÀo Tl TTÀlÌV
ovvaµLS'.

Lo Straniero afferma che qualsiasi cosa possieda come proprio carat-


tere essenziale una 8uvaµLS che le consenta di produrre un'azione o di
subirla, indipendentemente dalla sua entità e dall'oggetto su cui la eser-
cita o da cui la subisce, ebbene, qualunque cosa del genere è interamen-
te e pienamente. Egli pone infatti questa definizione: l'essere altro non è
che 8uvaµLs. Con 8uvaµLs non si intende qui soltanto una "capacità"
estrinseca o una "possibilità" eventuale di svolgere una certa funzione; si
deve piuttosto sottolineare l'idea di un'attitudine inscritta essenzialmen-
te nella natura di ciò che è, di un tratto strutturale che le appartiene ori-
ginariamente, al punto che, anzi, l'essere stesso di ciò che è risulta fon-
dato su questa determinazione. In sostanza, che l'essere possieda (KEKnr
µÉVov) una 8uvaµLs significa un'appartenenza essenziale, significa, di
più, una fondazione ontologica dell'essere sulla base di una 8uvaµLs. È
fin d'ora possibile osservare che una simile definizione nega l'auto-iden-
tità dell'essere come pura immobilità di un termine separato e perfetta-
mente compiuto al suo interno, visto che, anche preso di per sé, il termi-
ne 8uvaµLs già implica una "capacità di'', un"'apertura verso'', dunque
un"'attitudine" ontologica (e non un'eventualità più o meno probabile) a
stabilire relazioni e di costruire un sistema di rapporti di partecipazione5.
Tale 8uvaµLs esplica la sua azione secondo un "produrre" o un "subire"
determinati effetti, su qualunque oggetto o da parte di qualunque oggetto
e, specifica lo Straniero per fugare ogni dubbio, anche per tempi brevissi-
mi e con effetti limitati. Se ne deduce che in questione non' è tanto l'entità
dei risultati prodotti dal TTOLELV e dal micrxELv, quanto piuttosto la possibi-

5. Così intende anche MEINHARDT, Platon. Der Sophist, Stuttgart 1990, p. 224: "Um den
Stellenwert dieser Seinsbestimmung in der platonischen Philosophie richtig einzuschiit-
zen, muB man ihre Funktion im Gesamtgedankengang des Dialogs bedenken: Die Suche
nach dem Sophisten zwingt zu einer Kritik bestehender ontologischer Positionen, eins-
chlieBlich der eleatischen, und fìihrt schlieBlich zur nach-parmenideischen Partizipation-
Metaphysik. "Seiendes als Befahigung" ist ein wichtiger Markierungspunkt auf diesem
Weg, mehr solite man auch nicht daraus machen. [... ] ÌV1aterialisten und Idealisten lassen
sich auf diesen Minimalkonsens bringen, der inhaltlich aber schon vorwegweist auf die.
folgende Partizipation-Metaphysik: 'Befahigung' ist schon mehr als das parmenideische
eine und starre Seiende, es i:iffnet sich passiv und aktiv dem vielen anderen; daraus wird
im niichsten Dialogabschnitt die fÌ.ir das Seiend-Sein mitkonstitutive Teilhaberelation".

47
Francesco Fronterotta

lità stessa che essi si verifichino e conseguentemente, ancora una volta,


la struttura ontologica dell'essere che dà luogo a questa possibilità. Il
rroLELV e il miaxELv non costituiscono cioè il centro di questa definizio-
ne dell'essere; bensì svolgono la natura essenziale dell'essere che si
costituisce come 8VvaµLs: l'essere, conclude perciò lo Straniero, non è
se non 8uvaµLs.
I commentatori hanno posto a questo proposito alcuni problemi e sol-
levato difficoltà testuali. In particolare, si è osservato, vi sarebbe una
contraddizione fra la prima parte della definizione dello Straniero, in cui
si attribuisce a ciò che è una "attitudine" a produrre o subire un'azione, e
la seconda, in cui, invece, si passa da un'attribuzione a un'identificazione
tout court dell'essere con questa "attitudine"6. Se si enfatizza il primo
aspetto della definizione, si dovrà intendere la 8VvaµLs come un "segno
distintivo" che caratterizza l'essere e lo differenzia da tutto ciò che gli è
altro7, tralasciando o forzando in qualche modo le ultime righe del discor-
so dello Straniero; se, al contrario, si pone l'accento sul secondo aspetto,
ne seguirà necessariamente un'interpretazione che riduce l'essere a una
pura funzione, a un agire e patire8. A ben vedere, però, non emerge dalle
parole dello Straniero una simile contraddizione. Il "possesso" di un'atti-
tudine o di una capacità di produrre o subire un certo effetto si· colloca,
come già detto, sul piano di un'appartenenza ontologica essenziale e non
può essere confuso con un segno distintivo logico che consente il riconos-
cimento di ciò che è, perché, anzi, costituisce esso stesso il tratto essen-
ziale dell'essere di ciò che è. In questa misura, dire che l'essere possiede
una 8uvaµLs equivale a dire che l'essere è una 8uvaµLs. Peraltro, questa
identificazione non consente di affermare che l'essere coincida con una
funzione o che si lasciridurre a semplice processualità, visto che, piuttos-
to, esso è strutturato sulla "capacità" o sull"'attitudine"9 di determinare un
processo o un movimento. In sintesi, l'essere è essenzialmente e origina-

6. Cfr. CORNFORD, Plato s Theory o/ Knowledge, cit., p. 234, nota 1; BLUCK, Plato s
Sophist, cit., p. 92, nota 1; RosEN, Plato s Sophist, cit., pp. 218-20.
7. "A mark to distinguish the things that are", secondo la traduzione di CoRNFORD, Plato s
Theory o/ Knowledge, cit., p. 234, e ripresa da BLUCK, Plato s Sophist, cit., p. 92.
8 Questa sembra essere la posizione di DE RrJK, Plato s Sophist, cit., p. I O1.
9. Si deve insomma tenere presente la differenza fra l'affermazione che l'essere iri quan-
to tale è capacità (8uvaµLs) di produrre o subire azione o movimento e l'altra che pone
l'essere direttamente coincidente con l'azione e con il movimento. È infatti un passag-
gio successivo, quello di verificare se la seconda affermazione discenda in effetti dalla
prima e se, dunque, stabilita questa definizione, l'essere non assuma in sé, almeno par-
zialmente, il movimento.

48
Pensare la differenza

riamente ouvaµLs, una ovvaµLs che si esplica a sua volta come produzio-
ne di processualità e movimentoIO.
Che proprio questo sia il punto essenziale si vede bene dalla confutazio-
ne delle posizioni idealiste cui lo Straniero si dedica subito oltre (247e-
249d). Gli idealisti affermano che il divenire (yÉvrnw) e l'essere (oùofov)
sono separati (Xwp(s) l'uno dall'altro e che con il divenire si comunica attra-
verso la sensazione e il corpo, mentre all'essere si accede con il ragiona-
mento (awµaTL µÈv fiµiis yEvÉaEL 8L' ata8forns KowwvE1v, 8Là
À.oywµou TTpòs nìv -ovTws ovatav ). Questa netta separazione è resa
necessaria dall'inconciliabilità e dalla radicale opposizione fra la mutevo-
lezza o la continua trasformazione del divenire e la permanenza eternamen-
te auto-identica dell'essere (248a). Ma lo Straniero si concentra sul signifi-
cato di questo "comunicare" (KoLJJWJJE1v) che caratterizza il rapporto con
l'essere e con il divenire e ripropone la definizione suggerita in 247d-e:
comunicazione è la passione (mi6rfµa) o l'azione (TTotriµa) prodotte da una
ouvaµLS' nel'reciproco incontro di due enti. Conseguentemente, se l'essere
di un ente si costituisce come capacità di agire e patire e se la comunicazio-
ne fra gli enti si riduce all'azione (o alla passione) prodotta (o subita) da un
ente, l'essere di un ente si definisce come capacità di stabilire rapporti di
comunicazione con gli altri enti. Il KOLJJWJJE1v è spiegato così a partire da una
ouvaµLS' TOV KOLJJCùJJELJJ. che, intesa come OVJJaµLS' TOV 1!0LELJJ KQL TOV
miaxELv, coincide con l'essere di ciò che è.
Ma gli amici delle idee non convengono con lo Straniero su questa
interpretazione: mentre al divenire (che è in continuo movimento) appar-

10. A. DIÈS, La définition de l'étre et la nature des idées dans le Sophiste de Platon, Paris
1932, pp. 21 ss., ha rilevato che, ad analizzare con attenzione i dialoghi platonici, questa
concezione dell'essere non è nuova, perché altrove (cfr. per es. Phaedr. 237c; 245c; Theaet.
158e; 174b; Phaed. 97c) ricorre l'idea che l'essenza delle cose si configuri come 8uvaµLs-,
come potenzialità di esplicare la· propria natura e i suoi caratteri specifici. Si deve però
respingere questa possibilità per due ragioni: in primo luogo, altro è riferirsi alle cose sensi-
bili e indicare nella loro 8uvaµLS' l'origine del loro essere, delle loro azioni e passioni, altro
invece definire l'essere stesso nella sua generalità come 8uvaµLs-; in un caso, si mette in luce
la causa del movimento e delle trasformazioni della realtà materiale, mentre nell'altro, in
modo ben più radicale e complesso, si attribuisce alla realtà di ciò che è costitutivamente
identico, immobile e permanente una struttura ontologica della trasformazione e del muta-
mento; non bisogna pertanto, ed è il secondo punto, confondere un uso e un senso generico
del termine 8uvaµLs-, interscambiabile con cpUaLS', che indica semplicemente la natura delle
cose, con un significato che invece si precisa più esattamente nella definizione della struttu-
ra ontologica dell'essere: non è infatti legittimo trascurare la sostanziale differenza di contes-
to della discussione, giacché il discorso sulla realtà delle cose sensibili si colloca certo a un
livello diverso da quello in cui viene proposta la riflessione sull'essere in sé.

49
Fran,cesco Fronterotta

tengono l'agire e il patire che implicano il movimento, all'essere (che è


sempre e invariabilmente in quiete) non si addicono né l'uno né l'altro.
Quindi, è la conclusione, il "comunicare" con l'essere non può consistere
in un agire e patire. Lo Straniero, di fronte a un simile diniego, prova allo-
ra a spostare la sua dimostrazione su altro terreno (248c-d). Ammettendo,
come anche gli amici delle idee fanno, che l'anima conosce e che l'esse-
re può essere conosciuto, egli domanda loro se ritengano che conoscere ed
essere conosciuto coincidano con agire e patire o se entrambi coincidano
con entrambi o se nessuno dei due con nessuno dei due. Ma la loro rispos-
ta è nuovamente negativa: per non cadere in contraddizione con quanto
già affermato, gli idealisti sono costretti a negare che vi sia qualsiasi rap-
porto fra conoscere e agire e fra essere conosciuto e patire. Il tentativo
argomentativo dello Straniero è piuttosto chiaro: se la conoscenza, che è
una forma di comunicazione, si lascia ridurre a un'azione, e se, viceversa,
l'essere conosciuto si intende come passione, allora l'essere, in quanto è
conosciuto, di necessità patisce. Questa conclusione riproporrebbe quella
poco prima suggerita dallo Straniero, scavalcando la distinzione idealista
fra il divenire (che, in quanto si muove, può essere affetto da azione e pas-
sione) e l'essere (che, immobile, non ammette né l'una né l'altra). Ma gli
amici delle idee sono, ancora una volta, rigorosi: non vi è dubbio che l'es-
sere sia conoscibile e conosciuto, tuttavia da ciò non consegue che esso
patisca e si trovi in movimento, posto che l'essere conosciuto non si ridu-
ce a un patire, come il conoscere non è un agire. Il passo che segue è molto
controverso e discusso (248d-e ):
Mav86.vw· TOOE )'E, WS' TÒ ')'L')'VWO"KELV ElrrEp EoTm TTOLELV TL, TÒ
')'L yvwoK6µEvov àvayrn'Lov aù auµ~atvn rrciaxnv. Ttìv oùatav 8T]
KaTà TÒv Myov TO'ùTov ')'L yvwaKoµÉvrJV imò Tfìs yvwarns, rn6' 0aov
')'L ')'VWO"KETaL, KUTÙ TOO"OVTOV KLVELa8m ÙLÙ TÒ TTclO"XELV, O 8-fi ~aµEV
OÌJK QV ')'EVÉa8m TTEpÌ. TÒ lÌpEµouv.

In queste righe lo Straniero sembra svolgere un'ulteriore difesa del suo


ragionamento per riproporne definitivamente le conclusioni: se il conosce-
re corrisponde a un agire, ciò che è conosciuto si trova necessariamente
a patire; pertanto, lo stesso essere, in quanto è conosciuto, si muove ·e
patisce, ciò che non può avvenire a una realtà assolutamente immobilell.
Si è così precisata la natura della definizione dell'essere come ovvaµLS',
con gli obiettivi filosofici che ne costituiscono la ragione. Concepire I' es-

11. Il passo è stato oggetto di traduzioni e interpretazioni assai diverse e contrastanti, di


cui presento un quadro schematico in appendice a questo articolo.

50
Pensare la differenza

sere come ouvaµLs di agire e patire, significa inscrivere già originaria-


mente nella sua essenza una comunicazione (KoLvwvta) con tutto ciò che
si intende con azione (rroLE1v) e passione (micrxELv). L'articolata confuta-
zione dell'ontologia degli idealisti ci ha fornito ulteriori elementi: solo a
patto di tenere presente la definizione dell'essere come ouvaµLs, è possi-
bile comprendere l'analogia del conoscere e dell'essere conosciuto con
l'agire e il patire; e, ancora, solo così si può seguire la dimostrazione che
attribuisce all'essere una qualche forma di movimento, associando al
rroLE1v e al miaxELv l'idea del muovere (KLvE1v) e del subire un movimen-
to (KLVE1a8m). È più chiaro adesso che l'agire e il patire che lo Straniero
aveva alquanto oscuramente attribuito all'essere si riducono in effetti al
movimento e che il fine perseguito dall'analisi era proprio quello di inscri-
vere il movimento nell'essere. ·
Sintetizzo il ragionamento svolto e ne suggerisco un'intepretazione arti-
colata in due punti. L'essere è 8uvaµLS di agire e patire, ma l'agire e il pati-
re implicano il movimento e, per opposizione (poiché è impossibile che
ogni cosa sia costantemente in movimento), la quiete; il movimento e la
quiete, pur rivelandosi implicazioni dell'essere, non coincidono tuttavia
con esso e pertanto, per quanto dedotti a partire dalla sua stessa deifinizio-
ne, ne sono diversi; ciascuno dei diversi è tuttavia identico a se stesso. Ecco
dunque un primo esito dell'analisi condotta fin qui: è proprio dalla defini-
zione dell'essere come 8uvaµLs che dipendono la deduzione dei µÉywrn
yÉVTJ e la costruzione della loro reciproca relazione. Ma possiamo indivi-
duare un secondo esito dell'analisi: la KOLvwv(a dei generi si riconduce pre-
cisamente a un'azione, la partecipazione, l'atto del partecipare, e a un'af-
fezione, il subire la partecipazione, l'essere "partecipato". Un genere agis-
ce su un altro quando ne partecipa e subisce un'azione da parte di un altro
quando ne è "partecipato". In tale ottica, la ouvaµLS TOV TfOLELV KaL
1ra8E1v, che definisce l'essere di ciò che è, coincide anche con la capacità
di ogni genere di comunicare con gli altri (8uvaµLs Tfìs KOLvwvtas).
Pertanto, se l'essere di un genere consiste nella sua capacità di partecipare
e di essere "partecipato", partecipante e "partecipato" sono entrambi; anco-
ra, il partecipante, nella misura in cui agisce, muove il "partecipato" e il
"partecipato", nella misura in cui patisce, è mosso dal partecipante. D'altro
canto, partecipante e "partecipato", per quanto affetti dal movimento, non
si muoveranno senza sosta, ma saranno anche in quiete. Quiete e movi-
mento appaiono perciò come altrettante articolazioni della relazione di par-
tecipazione, anche se non si identificano né con il partecipante né con il
"partecipato" né con la loro relazione, giacché, diversi da questi e tuttavia
51
Francesco Fronterotta

identici, ciascuno, a se stesso, introducono a loro volta, come ulteriori arti-


colazioni necessarie della coinunicazione, l'identico e il diverso. La defi-
nizione dell'essere come ouvaµLS fonda pertanto (1) la rete dei µÉyLOTa
yÉVT) e (2) la stessa struttura della KoLvwvla.
Questo duplice esito spiega perché Platone attribuisca a essere,
movimento, quiete, identico e diverso la denominazione di µÉywTa
yÉvT) (254c-d): impliciti nella concezione dell'essere che è stata pro-
posta e da essa logicamente dedotti, questi generi sono i "più grandi"
in quanto si rivelano indispensabili perché l'essere di ciò che è si costi-
tuisca veramente, secondo la sua definizione, come capacità di comu-
nicare - proprio come avviene con le lettere dell'alfabeto, alcune delle
quali si combinano fra loro e altre no; in particolare, significativo da
tale punto di vista è il ruolo delle vocali che da un lato, a differenza
delle consonanti, si combinano con tutte le altre lettere e dall'altro sono
indispensabili alla formazione di qualsiasi parola, dal momento che,
senza vocali, è impossibile combinare le consonanti fra. loro (252e-
253a). Analogamente, rispetto ai generi, dovrà esistere una scienza, la
dialettica, capace di riconoscere quali di essi comunichino con tutti gli
altri e quali no, quali di ~ssi comunichino con quali altri e quali si pon-
gano come condizione di ogni possibile comunicazione. I generi "più
grandi", l'essere, il movimento, la quiete, l'identico e il diverso, sem-
brano soddisfare il requisito fondamentale: essi si combinano con tutti
i generi, in quanto implicazioni dirette dell'essere di ciascuno, cioè
della sua capacità di comunicare. Quel che ne emerge è una concezio-
ne "partecipativa" dell'essere di ciò che è: l'essere di ogni genere, che
si identifica con la capacità di comunicare che esso possiede, ammette
già, come propria esplicazione, un insieme di caratteri diversi (quelli
necessari a che tale capacità di comunicare si svolga nel rapporto par-
tecipativo) posti in reciproca comunicazione.
Diviene a questo punto P?ssibile svolgere alcune riflessioni sul significa-
to che nel dialogo viene atfibuito all'essere e a espressioni (cui si è fatto più
volte ricorso) quali Etvm e TÒ ov. La definizione dello Straniero di 247d-e
individua nella capacità di agire e patire l'ambito dell'essere di "tutto ciò che
è realmente"; analogamente, alla conclusione della confutazione degli amici
delle idee (249c-d), si riconosce contro la posizione idealista che, come
esige la nuova concezione dell'essere, tanto ciò che è in movimento
(KEKLVT)µÉVa) quanto ciò che è in quiete (àKLVT)Ta) appartengono contempo-
raneamente alla totalità deli''essere (TÒ ov TE KaL TÒ rréiv auvaµ<f>6TEpa).
L'essere sembra insomma designato da termini che ne denotano l'onnicom-
52
Pensare la differenza

prensività e la pervasività. Questo aspetto è confermato in 248e-249a, là


dove l'essere che comprende in sé il movimento, l'anima e l'intelligenza, è
detto TÒ rravTEÀWS ov. Di tale espressione, sono possibili varie traduzioni:
letteralmente il suo significato si rende con "ciò che è interamente (o total-
mente)"; ritengo tuttavia che non sia qui in questione soltanto l'intensità del-
l'essere di ciò che è e che l'avverbio rravTEÀ.ws non indichi dunque esclusi-
vamente il grado ontologico dell'essere: piuttosto, in sintonia con quanto
; detto poco sopra, esso esprime innanzitutto un significato estensivo che deli-
mita l'ambito delle realtà esistenti. Non a caso il senso complessivo di questo
passo non è tanto di dimostrare quanto sono il movimento, l'anima e l'intel-
ligenza, bensì di collocarli nell'insieme delle cose che sono realmente:
l'espressione TÒ rravTEÀWS ov andrà perciò resa con "la totalità dell'esse-
re" o, meglio ancora, con "ciò che è nel suo complesso". D'altra parte, l'ap-
partenenza del movimento, dell'intelligenza e dell'anima all'ambito dell'es-
sere è introdotta dal verbo rrapElvm, che significa propriamente "essere pre-
sente", "trovarsi compreso in" e che, pertanto, esprime la presenza di qual-
cosa in un luogo o, in questo contesto, in un ambito determinato di realtà
(qui, l'ambito delle realtà che sono) e non invece un grado di intensità onto-
logica. Poco oltre, in 250b, lo Straniero cerca di scoprire come sia possibile
che movimento e quiete, fra loro contrari, siano entrambi e che da entrambi
l'essere sia caratterizzato: è qui che, nel dialogo, comincia a porsi il proble-
ma della comunicazione dei generi e a questa si ricorre per sciogliere l'am-
biguità. Il rapporto dei due opposti con l'essere è spiegato nei termini di una
"appartenenza'', di una "comprensione" nell'essere: l'essere non si identifi-
ca né con la quiete né con il movimento; anzi, si pone come una "terza cosa
(TpLTov) dalla quale quiete e movimento sono compresi" (im' ÈKdvou Tfiv
TE <JTciow KaL TI]v KLJ/Tl<JLV rrEpLEXoµÉJ/TlV). Il fatto che quiete e movi-
mento siano "compresi" nell'essere, dunque nell'ambito designato delle
cose che sono, rende possibile la loro comunicazione. La KOLVwv(a con
l'essere pare quindi introdotta a partire da una comprensione nell'esse-
re. Per questo, subito dopo (254d), dell'essere si dice che è "mescolato"
(µELKTOV) a quiete e movimento, perché, comprendendoli in sé, li per-
vade entrambi. Infine, si osservi ancora il modo in cui viene designato
l'essere in 254a-b: l'essere è la "regione" (xwpa) verso la quale il filo-
sofo si trova sempre rivolto.
Da queste considerazioni si possono trarre le seguenti conclusioni.
Nel Sofista,
(A) l'essere di ciò che è coincide con una capacità di agire e patire (e
comunicare);
53
Francesco Fronterotta

(B) parteCipare dell'essere significa "appartenere'', "essere presente"


nella totalità delle realtà esistenti;
(C) queste affermazioni non sono contraddittorie, ma, anzi, si equival-
gono: infatti, ciò che può comunicare è realmente; ciò che è "appartiene"
alla sfera delle cose che so~o; dunque, ciò che comunica è già "presente"
fra gli esseri.

4. Pensare la differenza

È dunque in questo modo, costruendo un'ontologia che si basa su una


concezione dinamica e partecipativa dell'essere, che il Sofista risponde al
problema della deduzioné della KOLvwvta degli intellegibili. Ma una simi-
le prospettiva, per tornare al punto di vista più generale assunto in queste
pagine, si tiene esclusivamente in virtù della relazione fra l'essere e il
diverso. Infatti, se è lecito parlare, come ho fatto, di un'ontologia struttu-
rata secondo la comunicazione dei generi e di una concezione partecipa-
tiva dell'essere, oçcorre evidentemente presupporre la rigorosa elabora-
zione della diversità: perché l'essere si articoli in una struttura partecipa-
tiva, fondata sulla comunicazione di tutti i generi che ne fanno parte, biso-
gna che esso abbia la stessa estensione ontologica della diversità, pene-
trandola interamente e lasciandosene interamente penetrare. Tale relazio-
ne fra l'essere e il diverso si basa sulla nozione di MvaµLS posta dallo
Straniero di Elea come definizione dell'essere nel Sofista, in quanto essa
assume già di per sé, appunto nella definizione stessa dell'essere, una
forma di diversità- e ciò nella misura in cui, come MvaµLs di agire e pati-
re, essa appare produttrice di differenze, ponendosi evidentemente un'al-
terità sostanziale fra la 8uvaµLs che produce o subisce un certo effetto e
l'effetto stesso prodotto o subito. Se è così, è precisamente in questo
contesto che dobbiamo collocare i tre passi del dialogo citati all'inizio
sulla "compenetrazione" di essere e diverso come chiave di volta dell'on-
tologia del Sofista e come soluzione dei problemi della KOLvwvta e del non
essere: l'ontologia dinamica del Sofista non può che essere basata sulla
compenetrazione di essere e diverso, perché, da un lato, ( 1) essa suppone
come sua condizione necessaria la differenza fra gli esseri che la compon-
gono; e, dall'altro, (2) essa non può svolgersi se non producendo ulterio-
ri differenze fra gli esseri che la compongono.
È allora possibile tentare di riassumere in breve il percorso compiuto.
L'impensabilità e la contraddittorietà della cpucns (una µta cpfols oppure
composta di TToÀÀà µ6pw) del diverso ci hanno condotto all'esame dello
54
Pensare la differenza

statuto dell'essere; ma l'analisi della definizione dell'essere proposta nel


Sofista ci ha restituito Un'inclusione del diverso nell'essere, una sorta di
originario essere-diverso che si costituisce nella sintesi di una nozione plu-
rale e molteplice dell'essere - una nozione, questa, che rappresenta verosi-
milmente un fecondo antecedente della dottrina àristotelica della multivo-
cità dell'essere, come pure delle dottrine "produttiviste" o "emanazioniste"
della tradizione platonica posteriore (almeno là dove viene assunto il prin-
cipio per cui l'essere è un identico che genera diversità). Sembra insomma,
in conclusione, che non sia possibile pensare né l'essere in sé (perché l'es-
sere definito come ouvaµLs è già da sempre aperto alla diversità e appare
in sé privo di contenuto) né il diverso in sé (perché il diverso è da sempre
incluso nell'essere, mentre in sé, in quanto è l'altro da sé, non è nulla), ma
soltanto un originario mélange essere-diverso. Il che, naturalmente, non
esaurisce ma anzi esalta la difficoltà: tale originario essere-diverso risulte-
rà a sua volta davvero pensabile o sarà semplicemente, per così dire, già
dato da sempre? Non sfugge infatti la contraddittorietà di questa connes-
sione, con l'accostamento di due nozioni fra loro radicalmente eterogenee.
Mi sembra che, nel quadro della riflessione di Platone, emergano due sole
vie di accesso a una simile originaria compenetrazione di essere e diversi-
tà ed entrambe alquanto problematiche: ricorrendo alla "giustapposizione"
demiurgica messa in scena nel Timeo, con l'intervento estrinseco (e in fin
dei conti irrazionale) di un tertium, il demiurgo, che funge da agente cau-
sale separato capace di operare una sintesi del vero essere (il modello idea-
le) e dell'assoluta diversità (il materiale sensibile) per dare vita all'univer-
so; oppure riconoscendo nell'originario essere-diverso il presupposto
impensabile e indicibile, che dovremmo definire, un po' anacronisticamen-
te, trascendentale, di ogni discorso e di ogni pensiero, in altre parole quel
presupposto che deve rimanere impensabile e indicibile proprio in quanto
pre-supposto di ogni pensabilità e dicibilità. Non è necessario insistere
oltre sulle difficoltà e sulle aporie in cui ci si imbatte, intraprendendo tanto
l'uno quanto l'altro di questi percorsi, per pensare la differenza nel quadro
concettuale platonico.

5. Dire la differenza

Proprio nel Sofista, tuttavia, troviamo un passo che contiene alcuni sti-
moli suggestivi, abitualmente poco considerati dai commentatori, in rela-
zione al nostro problema della diversità, delle condizioni della sua pensa-
bilità o del suo darsi semplice e immediato. Conviene perciò esaminarne
55
Francesco Fronterotta

le indicazioni. In 244b-d, ha luogo la prima parte dell'analisi delle posi-


zioni difese dai cosiddetti "monisti", nell'ambito di un'indagine delle dot-
trine precedenti cui lo Straniero si dedica prima di affrontare direttamen-
te il problema dell'essere e del non essere. Tale analisi si risolve in una
radicale confutazione: se infatti i monisti affermano che esiste una sola
realtà (µ6vov) e che questa è propriamente l'essere (ov), allora bisognerà
ammettere che, per l'unica realtà esistente, sussistono paradossalmente
due nomi, "uno" ed "essere". Ma la maggiore difficoltà risiede in ciò che,
anche se si trattasse di un solo nome, ne deriverebbero comunque non
poche contraddizioni, perché, quando si attribuisce un nome a qualcosa,
come il nome "uno" all'essere, si giunge in ogni caso a postulare due cose,
il nome e ciò di cui è nome; e a chi obiettasse che non si tratta di cose dif-
ferenti, ma di una soltanto, perché il nome corrisponde identicamente alla
cosa di cui è nome, si dovrebbe replicare che: o (1) in quanto la cosa è
identica al nome, sussisterà in realtà solamente il nome, che diverrà nome
di nulla (ovoµa µT]8Ev6s ); o viceversa (2) se esiste la cosa di cui è nome
(El oÉ TLVOS ai!Tò <j>i]an), essendo questa id~ntica al suo nome, avre-
mo che il nome si ridurrà a semplice nome di nome, unjlatus vocis, privo
di riferimenti oggettivi (TÒ ovoµa ÒvoµaTOS ovoµa µovov, aÀÀOU ÙÈ
oùoEvòs ov) - il che è impossibile. Così, per esempio, l'uno sarà a un
tempo il nome dell'uno in sé (Èvòs ovoµa ), della cosa, e il nome del nome
"uno" (Tov òv6µaTos aù TÒ €v), non una sola cosa, quindi, ma almeno
due (la cosa e il nome). In tal modo, la posizione monista è comunque
confutata, perché il nome attribuito alla realtà che si pone come principio
dél tutto aumenta sempre di almeno un 'unità, cioè il nome, il numero del
principio o dei principi individuati12.
Quanto soprattutto mi interessa sottolineare di questo passo è l'affer-
mazione dello Straniero di 244cll-dl, da cui consegue il resto dell'argo-
mentazione: "Assolutamente senza senso sarebbe anche accettare che vi
sia un qualche nome (scii.: per l'unica realtà esistente posta dai monisti)".
Infatti, come è emerso dal seguito della dimostrazione, l'attribuzione a ciò
che è di un qualsiasi nome contraddice il principio che afferma l'unica
realtà dell'essere e del tutto, perché pos_tula l'esistenza di almeno "due"
cose, l'essere e il nome, infrangendo l'unità assoluta e rigorosa dell'assun-
to monista. Occorre focalizzare l'attenzione su questo punto: il nome,
dunque la sfera del linguaggio, sembra intervenire a modificare la confi-

12. Pagine assai efficaci su questo passo, il cui testo è stato anche sospettato di corruzio-
ne nella sua sezione conclusiva, in G. CASERTANO, Il nome-della cosa, cit., pp. 138-54.

56
Pensare la differenza

gurazione ontologica dell'unico principio, moltiplicandolo e differenzian-


dolo in almeno due enti diversi e irriducibili l'uno all'altro. Pertanto, se la
realtà esistente fosse davvero unica e indifferenziata, non avrebbe alcun
senso - sarebbe cioè impossibile - pensare all'attribuzione di un nome,
perché, nell'assoluta indifferenza ontologica, neanche si potrebbe distin-
guere ciò di cui si dice il nome (l'unica realtà esistente), ciò che si dice (il
nome) e chi dice (chi attribuisce il nome all'unica realtà esistente). Una
realtà effettivamente e coerentemente "una", dunque priva di qualsiasi
distinzione al suo interno, e in più "unica", quindi incompatibile con l'e-
sistenza di un altro al suo esterno, dovrà di necessità risultare indicibile (e,
dobbiamo precisare, impensabile)13, per l'ottima ragione che, se è una e
non ammette altro oltre sé, non si vede chi e come potrebbe dirla (e pen-
sarla), giacché sarebbe contraddittorio supporre l'esistenza di un nome (e
di un concetto) che la dica e di un altro· che ne dica il nome (e che la
pensi): così, infatti, ci si troverebbe di fronte alla postulazione di tre prin-
cipi e non più di uno soltanto. Mantenuta nel suo rigore, l'unità del prin-
cipio può darsi dogmaticamente come talè (può auto-imporsi), ma, nulla
da essa o in essa distinguendosi, è impossibile che alcunché si articoli sul
piano del discorso (e del pensiero) ..
La differenza introdotta dal linguaggio e dall'attribuzione del nome si
esplica invece essenzialmente in due modi. Innanzitutto, l'attribuzione di
un nome presuppone una differenza originaria che distingue e determina
l'unità del principio e che è condizione della'sua dicibilità: solo a patto di
porre, oltre all'unico principio (che, in tal modo, non è più veramente
"unico"), il suo notne e colui il quale lo dice - solo a patto di stabilire
questa differenza - diviene possibile dire (e pensar~). A sua volta, tuttavia,
come condizione originaria di ogni dire (e pensare), questa differenza rima-
ne in sé assolutamente indicibile (e impensabile), perché precede e condi-
ziona ogni dire (e pensare): di essa non si può rendere conto, perché è essa
stessa condizione di ogni possibilità di rendere conto di qualcosa. L'unico
accesso, puramente indiretto, all'originaria differenza è perciò quello di

13. Occorre tenere presente che, nella prospettiva platonica, il linguaggio (salvo in casi di
malattia, sogno o forme imprecisate di delirio) non fa che riflettere in parole e Myot dei
contenuti di pensiero, come del resto, in senso inverso, il pensiero non è altro che un
interiore "dialogo dell'anima con se stessa", secondo la celebre definizione del Teeteto.
Ecco perché, qui e di seguito, bisogna precisare che ogni riferimento al "dire" implica imme-
diatamente un ricorso al "pensare": non vi è linguaggio espresso senza un pensiero che lé>
preceda, né, a quanto pare, vi può essere pensiero che non sia immediatamente espresso ver-
balmente in forma discorsiva (anche se "discorrendo" silenziosamente con se stessi).

57
Francesco Fronterotta

una presa d'atto: se discorso (e pensiero) sussiste, è necessario ammettere


originariamente una differenza fra l'atto del dire (e del pensare), il sogget-
to parlante (e pensante) e l'oggetto detto (e pensato) o, per dirla in termini
platonici, fra l'essere (TÒ ov), il pensare-dii-e (TÒ VOELV - TÒ ÀÉynv) e
l'intelligenza che pensa e che dice (vous); ma il discorso (e il pensiero)
esistono veramente, dunque questa originaria differenza deve anch'essa
sussistere originariamente e ogni monismo radicale sarà definitivamente
confutato. Peraltro, sviluppando ancora l'argomento platonico dell'attribu-
zione del nome (nel caso del Sofista, del nome "uno" all'essere), si rivela
un secondo intervento della differenza. La confutazione dei monisti viene
infatti portata al suo compimento, mostrando come l'attribuzione del nome
all'unica realtà esistente conduca alla postulazione di almeno due realtà,
rispetto all'unica assunta per principio: la realtà esistente e il nome che le
si attribuisce. Ciò vuol dire che il nome, o in generale l'articolazione del
linguaggio, moltiplica e riproduce l'originaria differenza: se, per esempio,
della (unica) realtà esistente si dice che è una e poi ancora che è realmen-
te e che, in quanto una, non ammette parti al proprio interno né altri enti
esistenti al proprio esterno, ebbene, l'articolazione del discorso ha già
posto un numero di enti (i nomi che all'unica realtà si riferiscono, dunque
l'unità, l'essere, l'indivisibilità, l'unicità) che, quanto più si specifica e si
svolge il discorso, tanto più aumenta, contraddicendo ulteriormente e pro-
gressivamente l'originario assunto dell'unità.
Ora, pur tenendo presente il fatto che, poiché Platone svolge in questo
passo la confutazione dei monisti servendosi probabilmente di un argomen-
to, almeno in parte, di comodo, una simile lettura può· aspirare al massimo
a fornire suggestioni e spunti di riflessione; è tuttavia plausibile concludere
che l'attribuzione del nome, l'atto del dire (e del pensare) da un lato ( 1) pre-
suppone un'originaria differenza che di ogni dire (e pensare) pone la condi-
zione, una condizione a sua volta non dicibile (né pensabile); dall'altro, (2)
rinnova e moltiplica la differenza originaria nell'articolazione del discorso e
nella determinazione ulteriore che esso impone al suo oggetto. In tal senso,
l'essere-diverso del Sofista, che era il nostro investigandum, appare nozio-
ne originaria e imprescindibile e per ciò stesso indeducibile e indimostrabi-
le, perché intimamente connessa, come ( 1) sua prima condizione e come (2)
sua immediata conseguenza, a ogni dire (e pensare): il dire (e il pensare) ( 1)
dipendono da una differenza originaria e prima e (2) producono nel loro
svolgersi ulteriori e sempre nuove differenze. Come nel caso del principio
aristotelico di non contraddizione (che trova la sua fondazione nel riconos-
cimento del fatto che chi parla non può che presupporlo e che il semplice
58
Pensare la differenza

parlare ne è dunque una dimostrazione), questo mi sembra l'unico possibi-


le accesso alla differenza, impensabile in sé, ma per altro verso, paradossal-
, mente, dicibile- l'unico accesso, s'intende, che dal testo·platonico si possa
direttamente o indirettamente far emergere.

APPENDICE

Soph. 248d-e: traduzione e commento

MavScivW' T68E yE, ws TÒ yLyvwaKELV E'LnEp EaTaL TTOLELV n, TÒ


YLYVWCTKOµEVOV àvayKaLoV av auµ~aLVEL miaxnv. Triv oùatav 8iì
KaTà TÒv Myòv TOVTov yLyvwaKoµÉvriv imò Tf]s yvwaEWs, Kaff 8aov
yLyvwaKETaL, KaTà ToaoDTov KLVE'La6m 8Là TÒ miaxnv, 8fi cpawv o
oÙK èìv yEvÉa6m TTEPL TÒ TjpEµoDv.

Capisco, ma questo almeno <bisogna riconoscere> che, se il conoscere è


un agire, ciò che è conosciuto è necessario si trovi a sua volta a patire. Ciò
che è, appunto, poiché in base a questo ragionamento è conosciuto dalla
conoscenza, in quanto è conosciuto, in tanto è posto in movimento per via
del fatto che patisce, e questo è proprio ciò che affermiamo non possa
accadere a ciò che è immobile.
Un'analoga traduzione di questo passo, secondo la quale lo Straniero
svilupperebbe qui e porterebbe a compimento la sua confutazione degli
idealisti, è stata proposta daApelt, Taylor, Diès e Robin14. In effetti, questa
argomentazione nasconde una non troppo velata forzatura delle posizioni
degli amici delle idee. Alla domanda se essi ammettano che conoscere ed
essere conosciuto corrispondono a un agire e patire, Teeteto, che risponde
in vece loro, nega una simile possibilità recisamente (248d8-9, of}À.ov ws

14. O. APELT, Platonis Sophista, Lipsia 1897, p. 151, traduce: "µaveavw· T68E yE ... " con:
"hoc certe concedent. .. "; A. E. TAYLOR, The Sophist and the Statesman, London 1961, p.
147, in nota, propone di espungere il punto in alto (µaveavw T68E yE, invece che µav-
eavw· T68E YE) e di tradurre: "I know this much at any rate, that..."; A. DIÈS, Platon-
(Euvres Complètes, Paris 1920-1964, traduce: " ... mais ceci, au moins, ils l'avòueront...";
L. ROBIN, Platon. Oeuvres Complètes, Paris 1942, II, p. 306, traduce: "Voici en tout cas ce
que je vois bien, c'est que, s'il est vrai que connaitre ... ". Ciò che va sottolineato è che l'in-
sieme del passo viene interpretato da questi studiosi come il definitivo esito della confuta-
zione degli idealisti condotta dallo Straniero: questi infatti, nonostante i precedenti dinie-
ghi, intende costringere gli avversari ad un'ultima e decisiva ammissione: "Capisco, ma
questo almeno <bisogna riconoscere> ... ".

59
Francesco Fronterotta

OÙOÉTEpov OÙOETÉpou, TàVaVTLa yàp Civ TolS' €µnpo<J8EV ÀÉyolEv);


.ma lo Straniero ribatte che, pur comprendendo la loro replica, bisogna che
ammettano "almeno che, se il conoscere è un agire, ciò che è conosciuto è
necessario si trovi a sua volta a patire". Egli cioè, come incurante del rifiu-
to degli idealisti, li invita nuovamente alla medesima ammissione, che gli è
indispensabile per il proseguio del ragionam~nto. Per superare questa ambi-
guità, Comford ha proposto una diversa traduzione del passo, ripresa in
seguito da Bluck e da Zadrol5. Secondo tale traduzione, l'argomentazione
svolta in questo passo sarebbe attribuita dallo Straniero agli idealisti, come
conseguenza del ragionamento che egli ha appena sviluppato (in 248d4-5)
e che essi intendono respingere. Comford costruisce infatti: µavecivw· TOOE
YE <ÀÉYOlEV av> !,scii. gli idealisti) ws TÒ YlYVW<JKELV ... Egli sottinten-
de ÀÉYOlEV av e traduce: "I see what you mean. They would have to say
this: if knowing ...".
Entrambe le traduzioni sono, in linea di principio, ugualmente possibili: la
prima intende il yE di 248dl0 in senso restrittivo ("Capisco, ma questo alme-
no <bisogna riconoscere> ..."), la seconda, in senso esplicativo ("Capisco,
questo infatti <essi direbbero> ..."). Nel primo caso, la dimostrazione che
ammette il movimento all'interno dell'essere (associando il conoscere all'a-
gire e al muovere e l'essere conosciuto al patire e all'essere mosso) costitui-
rebbe in effetti uno sviluppo del precedente ragionamento dello Straniero
contro le posizioni idealiste; nel secondo caso, invece, lo stesso argomento
sarebbe attribuito dallo Straniero agli idealisti, come (a loro parere) impossi-
bile conseguenza derivante dalla definizione dell'essere come ouvaµls ToD
notELV Kaì. ToD mi<JXELV che essi intendono respingere. Un'ulteriore pre-
cisazione sull'interpretazione di questo passo è venuta da Vlastos, in appen-
dice a un suo articolo dedicato al problema della predicazione nel Sofista16.
Vlastos ritiene che il rifiuto degli idealisti di accogliere l'associazione pro-
posta dallo Straniero di conoscere e agire e di essere conosciuto e patire
dipenda dal fatto che, "secondo questo ragionamento" (KaTà TÒv Myov
TOVTOV ), ciò che è conosciuto si muove, visto che il patire implica un essere
mosso e l'agire implica un muovere: ma tale argomento, se applicato all'es-
sere, si rivela contraddittorio, perché è impossibile che l'essere, realtà immo-

_15. Cfr. F. M. CORNFORD, Plato's Theory of Knowledge, cit., p. 240, n. 3; R. S. BLUCK,


Plato's Sophist, cit., p. 95; A. ZADRO, Il Sofista, in Platone. Opere Complete, voi. II,
Roma-Bari 1982, p. 225.
16. G VLASTOS, "An Ambiguity in the Sophist", in Io., Platonic Studies, Princeton 1973,
Appendix I, On the Interpretation of Sph. 248d4-e4, pp. 309-17.

60
Pensare la differenza

bile, se conosciuto, sia mosso. Il Myos che stabilisce la connessione fra agire
e muovere (e quindi fra conoscere e muovere) e patire ed essere mosso (e
quindi fra essere conosciuto ed essere mosso) sarebbe così il ragionamento
degli idealisti, che esprime la contraddizione nella quale essi cadrebbero, se
ammettessero il rapporto fra conoscere e agire (e muovere) e fra essere
conosciuto e patire (ed essere mosso) 17. Tre sono quindi, schematicamente,
le intèrpretazioni possibili del passo considerato:

(1) Lo Straniero insiste: se conoscere è un agire, essere conosciuto sarà


un patire e così, in quanto è conosciuto, l'essere dovrà patire ed essere
mosso, visto che il patire implica un essere mosso. Questa conclusione
costringe ad ammettere, come in effetti avviene subito oltre (248e-249a;
249b; 249c-d), che il movimento fa parte delle realtà realmente essenti o,
ed è lo stesso, che l'essere è affetto, almeno in parte, dal movimento.

(2) Lo Straniero comprende l'obiezione degli idealisti: visto che l'agi-


re implica un muovere e il patire un subire il movimento, se il conoscere
coincide con l'agire, allora l'essere, in quanto conosciuto, patirà e sarà
mosso, ciò che è inaccettabile per gli amici delle idee.

(3) Lo Straniero espone e articola l'obiezione degli idealisti: il loro


ragionamento è che, dal momento che agire e patire coincidono con muo-
vere ed essere mosso, diviene impossibile accettare anche l'associazione
di conoscere e agire e di essere conosciuto ed essere mosso: in tal caso
infatti, l'essere, in quanto conosciuto, sarebbe affetto dal movimento.

La differenza fra (2) e (3) consiste in questo: in (2), l'associazione di agire


e muovere e di patire ed essere mosso è accolta dallo Straniero come un dato
di fatto inconfutabile e conseguentemente, sebbene respinta dagli idealisti,
può essere giudicata autenticamente platonica, posto che la conclusione di
questa sezione del dialogo (249c-d) presenta una completa confutazione
della dottrina degli amici delle idee e un totale capovolgimento delle loro
posizioni (essi sono infatti costretti ad ammettere l'appartenenza del movi-
mento all'essere che avevano fin lì contestato); in (3 ), invece, ed è la conclu-

17. Teeteto aveva già avvertito questa contraddizione in 248d8-9 (TàvavT[a yàp c'ì.v TOLS
l'µrrpoa8Ev ÀÉyoLEV [scii. gli amici delle idee]) e perciò, pur incalzato dàllo Straniero, si
era detto costretto a negare qualsiasi rapporto fra conoscere e agire ed essere conosciuto e
patire (8fìÀov ws où8ÉTE:pov où8ETÉpou).

61
Francesco Fronterotta

sione di Vlastos, l'associazione di agire e muovere e di patire ed essere


mosso costituisce parte integrante del Myos degli idealisti o, meglio, è la
ragione principale per la quale gli idealisti respingono la dimostrazione dello
Straniero e la sua definizione dell'essere come ouvaµLs. Nulla avrebbe quin-
di a che vedere con Platone e con la sua dottrina più autentica. Quest'ultima
possibilità tocca l'aspetto decisivo della questione: si tratta di stabilire se il
Myos che associa agire e patire a muovere ed essere mosso e che conduce
in seguito all'ammissione del movimento nell'essere appartiene esclusiva-
mente agli idealisti (come ritiene Vlastos) o se invece è parte del ragiona-
mento dello Straniero (e di Platone). Se si presta attenzione al seguito della
discussione (248e-249d), alcuni elementi permettono di risolvere il dilemma.
In 248e-249a, lo Straniero afferma, con slancio retorico, di non potersi
lasciar persuadere che "movimento, vita, anima e pen~iero" (dvrimv Ka'L
(wrw Ka'L iJ;vxYiv Kat cpp6vricnv) non siano compresi nel TiaVTEÀ.ws ovIB
e che l'essere "sia immobile, privo di intelligenza" (vovv oÙK €xov, àdvrr
Tov ÉcJTÒS Elvm ). Poco oltre, in 249a-b, egli sostiene che, se dotato di
anima, intelligenza e vita, l'essere non può restare assolutamente immobile
e che, conseguentemente, bisogna riconoscere che siano anche il movimen-
to e ciò che si muove (Tò KLVouµt:vov oT] KaL KLVflCYLV), perché, altrimen-
ti, "non vi sarebbero intelligenza e conoscenza per nessuno, in nessuno e di
nulla" (vovv µT)ot:v'L TIEpÌ. µT)ot:vòs t:lvm µT)ùaµoD). Infine (249c-d), egli
conclude che il filosofo non deve in alcun modo accettare le tesi di coloro i
quali affermano l'immobilità del tutto né di quelli che pongono il tutto in
perenne movimento; piuttosto, "deve riconoscere che tanto ciò che si
muove quanto ciò che è in quiete sono l'essere e il tutto" (foa àKLVfJTa KaÌ.
KEKLVflµÉva, TÒ ov TE Ka'L TÒ rràv CYvvaµcp6TEpa À.Éynv). Se ne deve
concludere che il movimento è e che precisamente su questo punto, sull'am-
missione del movimento all'interno dell'essere, si è concentrata la confuta-
zione degli idealisti. Ma proprio questo era il cuore del Myos di 248e: quin-
di, a chiunque vada attribuito, esso si rivela, con tutte le sue implicazioni,
autenticamente platonico, perché di esso Platone accoglie i presupposti e le
conclusioni. Non a c~so, d'altra parte, quel Myos ipotizzava la connessio-
ne di agire e patire con muovere ed essere mosso a partire dalla definizione
dell'essere come ouvaµLS TOU 1TOLELV KQL TOU TTclCYXELV proposta dallo
Straniero.
Resterebbe ancora da domandarsi che tipo di realtà sia l'essere che
ammette in sé il movimento, se si tratti cioè dell'essere in senso proprio

18. Per la traduzione dell'espressione TÒ rravTEÀWS ov, si veda supra, § 3.


62
Pensare la differenza

che designa i generi intellegibili o·di una generica espressione che indica
l'ambito degli enti che esistono a vari livelli e che comprende tanto l' es-
sere delle idee, quanto il divenire delle cose sensibili. Tre considerazioni
mi inducono a propendere per la prima alternativa.

(1) L'espressione TÒ TTavTEÀws ov,


che indica la sfera dell'essere che
comprende il movimento, deve essere posta in contrapposizione a TÒ
µT]8aµws ov
di 237b7-8: ora, quest'ultima si riferisce senza dubbio al non
essere assoluto, a ciò che non è in alcun modo; pertanto, se ne può dedur-
re che la sua contraria designi l'ambito delle realtà che sono19 realmente
e pienamente.

(2) In 249b, lo Straniero afferma che, se non si ammettesse il movimen-


to all'interno dell'essere, non si darebbe più vovv di nulla e per nessuno:
ma vovs è sostantivo che si riferisce alla piena conoscenza, alla conoscen-
za dell'essere in senso proprio e non a quella conoscenza intermedia di
realtà soltanto divenienti che coincide con l'opinione (o6ça).

(3).Infine, in 249c-d, lo Straniero conclude che il filosofo deve ammet-


tere entrambi, movimento e quiete, come essenti. Ma il filosofo (254a-b) è
colui il quale, nei suoi ragionamenti, "si attiene sempre all'idea dell'esse-
re" (TiJ Tov ovTos àd 8Là Àoyt<Jµwv TTpo<JKELµEvos lOÉq), difficile da
vedere "per lo splendore della sua regione" (otà TÒ Àaµ TTpÒv aù Tfìs
xwpas), perché "gli occhi dell'anima dei più sono incapaci di resistere alla
vista della divinità" (Tà yàp Tfìs Twv TToÀÀwv l/Juxfìs èSµµaTa KapTc
pELV TTpÒS TÒ 8E'ì.ov à<PopwvTa àovvaTa).

Ne concludo che l'essere al quale il movimento appartiene deve inten-


dersi come l'essere dei generi intellegibili e che, pertanto, è questo esse-
re in senso proprio a trovarsi affetto dal movimento. Ecco perché gli
idealisti hanno opposto una strenua resistenza al Myos dello Straniero: la
definizione dell'essere che egli ha formulato in 247d-e comporta l'am-
missione che la comunicazione e la conoscenza si riducono a un agire e
a un patire e, quindi, a un muovere e a un essere mosso, da cui consegue,
per estensione, l'introduzione nell'essere del movimento e, con essa,
l'immediata confutazione della posizione degli amici delle idee.

19. Per il senso a un tempo estensivo e intensivo dell'espressione TÒ TTaVTEÀWS ov, si


veda ancora supra,§ 3.

63
MAURIZIO MIGLIORI

NON È L'ONTOLOGIA IL VERO CUORE


DEL PARMENIDE E DEL SOFISTA

Premetto subito due chiarimenti: a) uso il termine "ontologia" nel suo


senso pregnante, come teoria dell'essere; b) questo articolo, come indica
il titolo, indaga il "cuore teoretico" dei due dialoghi, cioè la questione cen-
trale sul piano della concezione della filosofia e della visione del reale che
Platone propone.
L'attenzione all'ontologia platonica e la stessa importanza che noi oggi
attribuiamo al Sofista, che è tuttavia un grande dialogo, è uno splendido
esempio di quello che giustamente Gadamer considera un momento pre-
sente in ogni ermeneutica, cioè la storia degli effetti, la Wirkungs-
geschichte. Infatti, non c'è dubbio che la storia filosofica dell'Occidente,
a partire da Aristotele, è stata per secoli dominata dalla questione ontolo-'
gica; il problema è che in questa chiave ha interpretato tutta se stessa,
anche quei filosofi che avevano un altro ordine di priorità. La domanda
che propongo è quindi se ci sia in Platone, e in particolare in questi due
dialoghi, una centralità dell'ontologia o se questo appaia in tanta lettera-
tura secondaria come frutto di una sorta di fenomeno proiettivo.
Per tentare di dimostrare tale assunto, devo necessariamente cercare di
rispondere in modo adeguato a due domande:
Quali sono i passi di Platone che giustificano la mia affermazione?
Qual è allora il centro teoretico dei due dialoghi in questione?
65
Maurizio Migliori

1. Essere e non essere nel Parmenide•

Ho contato 38 argomentazioni nella II parte del Parmenide2. Si tratta di


un calcolo tutt'altro che preciso, perché, com'è noto, gli argomenti sono
spesso proposti in una forma ricca di svolte e sfumature, ma mi sembra
quello più contenuto. E comunque serve per poter affermare che in queste
38 trattazioni dell'essere e del non essere si parla pochissimo. Non pote-
va essere diversamente, visto il tema posto non è l'essere, ma l'uno:
Dunque, da dove cominciamo? Quale ipotesi poniamo per prima? O forse
preferite, visto che dobbiamo fare un gioco3 (TTm8Làv TTaL(ELv) molto labo-
rioso, che cominci da me stesso e dalla mia ipotesi dell'Uno in sé (TTEpÌ. ToD
Évòs aùToD), per verificare quali siano le conseguenze che derivano sia dal-
l'affermazione che è uno sia da quella che non è uno (E'LTE €v È:aTtv E'LTE
µT] EV)? (137 A 7-B 4)
Non voglio enfatizzare il senso di questa scelta tematica in favore del-
1'uno perché sarebbe facile obiettare che si tratta solo di una scelta retori-
co-espositiva da cui non è corretto trarre conseguenze sul piano filosofico.
È però innegabile che solo alla fine della Prima tesi si arriva all'essere:
sulla base del fatto che questo Uno-uno non partecipa del tempo si esclu-
de che partecipi anche dell'essere, né nella forma pura né nel divenire.
-Allora, se l'uno non partecipa in alcun modo di alcun tempo, non è mai
divenuto, né stava divenendo, né era, e ora non è diventato, né diviene, né
e
è, in futuro non starà divenendo, né sarà divenuto, né sarà.

1. Per la struttura dell'opera e per il quadro generale dellamia lettura del Parmenide, che è in
molti punti diversa da quella "tradizionale", devo rinviare al mio Dialettica e verità. Commen-
tario filosofico al Parmenide di Platone, Vita e Pensiero, Milano 1990, 20002 (in part. pp. 411-
35, per quanto riguarda il modo con cui Platone, pur presentando uno schema, non lo rispet-
ta affatto, e dà luogo a 4 ipotesi diverse, la Prima articolata nella Prima tesi, la Seconda ipo-
tesi articolata nella Seconda, Terza e Quarta tesi, la Terza ipotesi articolata nella Quinta tesi e
infine la Quarta Ipotesi articolata nella Sesta, Settima e Ottava tesi); singoli, ma importanti,
approfondimenti si trovano in Il Parmenide e le dottrine non scritte di Platone, Ist. Suor Or-
sola Benincasa, Napoli 1991, ora anche in G REALE (a cura di), Verso una nuova immagine
di Platone, Vita e Pensiero, Milano 19942, pp. 165-222; L'unità del Parmenide e il suo inten-
to protrettico, in Il Parmenide di Platone e la sua tradizione, CuECM, Catania 2002; pp. 59-84.
2. Cioè: 9 per la Prima tesi, 14 nella Seconda, 3 nella Terza, 1 nella Quarta, 5 nella Quinta,
1 nella Sesta, 4 nella Settima, I nella Ottava.
3. Incontriamo qui, per la prima volta, un termine che comparirà varie volte nel corso dì que-
sto lavoro, in quanto lo ritengo decisivo per l'ermeneutica platonica; sulla funzione del "gioco
filosofico" che, a scopo protrettico, continuamente Platone utilizza, cfr. quanto dico in Tra
polifonia e puzzle. Esempi di rilettura del "gioco" filosofico di Platone, in G CASERTANO (a
cura di), La struttura del dialogo platonico, Loffredo, Napoli 2000, pp. 171-212.

66
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista

- Verissimo.
- Oltre a questi, ci sono altri modi di partecipare all'essere?
- Non ci sono.
-Allora, in alcun modo l'uno partecipa dell'essere. (141E3-9)
Da questo ~i trae una seconda conseguenza: quest'uno non ammette
scienza, non ha definizione, in sintesi è fuori della sfera conoscitiva.
Platone ha quindi stabilito un legame forte tra essere, tempo, conosci-
bilità, che viene confermato, per quanto riguarda essere e tempo, in modo·
esplicito nella Seconda tesi rovesciando i termini del rapporto, che nuova-
mente riguarda sia l'essere sia il divenire:
Cos'altro indica "è" se non il partecipare all'essere nel tempo presente, così
come "era" indica la partecipazione nel tempo passato e. "sarà" all'essere
nel futuro? [ ... ]L'uno partecipa dunque del tempo se partecipa anche del-
l'essere.[ ... ] Quindi del tempo che scorre. (151E7-152A4)
Poco dopo, in 155 D ss., troviamo un'ulteriore conferma: si passa dal
tempo all'essere e da questo alla conoscenza.
Questo è, a mio avviso, l'unico vero elemento ontologico presente in
positivo: per pensare il tempo dobbiamo modulare le forme di "essere" o,
che è lo stesso, se pensiamo l'essere lo moduliamo secondo le forme del
tempo; su questa relazione di base noi conosciamo la nostra realtà.
Non è poco, certamente. Il fatto è, però, che Platone esplicita una serie
di altre affermazioni che mettono in risalto elementi limitativi, se non
negativi, connessi alla concettualizzazione dell'essere.

Essere e divisione del reale

Il primo è chiarito all'inizio della Seconda tesi, dove l'esplicitazione di


una nuova ipotesi4 comporta l'affermazione che; se l'uno partecipa del-
l'essere, la realtà stessa· si frantuma infinitamente:
Dunque, l'Uno-che-è (Tò 1'v ov) sarà una molteplicità infinita (èhmpov).
(143 A2)

4. Una parte della critica continua a sottovalutare il passaggio dall'ipotesi "uno-uno", trat-
tata nella sola Prima tesi, a quella "uno-che-è"; cfr. ad es. R. RoBINSON, "Plato's Parme-
nides'', Classica! Philology, XXXVII (1942) pp. 51-76, pp. 159-86, p. 75; R. RoBINSON,
Plato's Earlier Dialectic, Oxford/New York 1941, 19532, pp. 245-46, L. STEFANINI,
Platone, 2 voll., Padova 1932-1935, nuova ed. agg. 19492, Istituto di Filosofia, Università
degli Studi di Padova, Padova 1991, II, pp. 140-41; H. G. ZEKL, Platon, Parmenides, iiber-
setzt und hg. H. G. ZEKL, Hamburg 1972, pp. 145-46, n. 102; W. F. LYNCH, An Approach to

67
Maurizio Migliori

Poco importa, in questa sede, vedere come in concreto Platone fondi


tale frantumazione. Per la nostra tesi, basta rilevare che questo è l'effetto
della presenza dell'essere e che il concetto è talmente importante che
viene ribadito:
Allora, l'Essere si suddivide sia in parti piccolissime, sia in parti grandissi-
me, in tutte le forme possibili, esso più di tutte le altre realtà si suddivide e
le sue parti sono innumerevoli. (144 B 4-C 1)
Tale infinita molteplicità viene poi modulata nel corso del dialogo in
moltissimi modi, e si sottolinea più volte che questo compete all'essere e
alla sua azione:
Dunque, l'Uno in sé (TÒ E:v àpa aÙTÒ), che viene diviso in parti
dall'Essere, è molteplicità e infinita pluralità (arrnpa) [ ... ].Non solo allo-
ra l'Uno-che-è (Tò ov €v) è molti, ma anche lo stesso Uno in sé (aÙTÒ TÒ
€v), suddiviso dall'Essere, è di necessità molteplice. (144 E 3-7)

Essere e tempo

La seconda, veramente pesante, indicazione di limiti dell'ontologia


consiste nel fatto che lo stesso divenire non si spiega nell'ambito della

the Metaphysics of Plato through the Parmenides, Georgetown 1959, Westport 1969, pp.
s
11-12; W. D. Ross, Plato Theory ofldeas, Oxford 1951, 1953 2 , tr. it. di G. G10RGINI, intr.
di E. BERTI, Platone e la teoria delle Idee, Bologna 1989, p. 129; M. F. CORNFORD, Plato
and Parmenides. Way of Truth and Plato s "Parmenides ", tr., intr. and a running
Commentary, London, 1939, 19645, p. 116. Tuttavia, una serie di dati rendono inaccettabi-
le questa posizione. In primo luogo, Platone all'inizio della Seconda tesi, in un modo osten-
tato presenta un nuovo inizio, quasi contrapponendo le due ipotesi.(infatti, le argomentazio-
ni iniziano solo dopo che si è chiarito il salto); in secondo luogo, le due ipotesi, anche sul
piano della scrittura, appaiono diverse: se l'Uno è uno, d EV Ècrnv (137 C 4), della Prima
tesi diviene se l'Uno è, €v d fonv (da 142 B 3 in poi, con un'unica eccezione). La modi-
ficazione è poco rilevante da un punto di vista linguistico, ma sul piano logico comporta
una trasformazione radicale: il passaggio del verbo "essere" dalla funzione di copula a quel-
la di predicato verbale comporta l'uscita dall'unicità dell'Uno-Uno (cfr. 142 C 2-3) e l'af-
fermazione dell'Uno-Ente. A conferma, G. KouMAKIS, Platons Parmenides zum Problem
seiner Jnterpretation, Bonn 1971, pp. 101-02, dichiara di aver controllato che tutte le vplte
in cui Platone e Aristotele usano la forma ipotetica, se il nome precede la congiunzione è
soggetto, mentre quando segue può essere sia soggetto sia nome del predicato. In terzo
luogo, la differenza è garantita dal tipo di argomentazioni che nella Prima tesi sono incen-
trate sulla natura enologica dell'Uno, cioè proprio sull'Uno-Uno, mentre, e contrario, nella
Seconda emerge subito il concetto di partecipazione, per cui l'Uno partecipa dell'Essere,
cosa che viene ripetuta ben tre volte (142 B 6; C 1; C 6). Per una più attenta riflessione sul
problema, rinviamo al nostro commentario Dialettica e verità, cit., pp. 223-28.

68
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista

dimensione dell'essere, ma richiede il riferimento ad una dimensione, l'i-


stante, che è esterna ai momenti del divenire, ·come Platone esplicita nella
cosiddetta terza trattazione. Questa non presenta affatto una nuova tesi,
ma serve a chiarire alcuni elementi decisivi per una corretta ricomprensio-
ne della trattazione della Seconda tesi, la più lunga e certamente la più
rilevante dell'intero esercizio dialettico.
Prima di tutto, Platone ci fornisce la chiave per capire che tutti quegli
argomenti precedenti, che sembravano concludere in affermazioni con-
traddittorie, sono giochi, pèrché i contrari si escludono e non è possibile
partecipare e non partecipare di una stessa cosa nello stesso senso e nello
stesso momento:
- Ma gli sarà possibile, quando partecipa, di non partecipare o, quando non
partecipa, di partecipare?
- Questo non è possibile.
- Quindi, in un momento partecipa, in un altro non partecipa: solo così può
partecipare e non partecipare a una medesima realtà.
- Giusto. (155 E 8-156 A 1)
Questo principio viene prima applicato all'essere e al non essere, cioè
al nascere e al perire, poi è esteso alla coppia uno-molti, per escludere la
compresenza dei processi di moltiplicazione e di quelli di unificazione:
- Poiché è uno e molti e poiché nasce e perisce, non è forse che quando nasce
l'uno perisce l'essere molti, quando nascono i molti perisce l'essere uno?
- Certamente.
- Ma il divenire uno e molti non implica necessariamente il dividersi e l 'u-
nificarsi?
-.., Certo. (156 B 1-5)
Poi lo si applica al simile e al dissimile, al diventare più grande, più pie-
. colo e uguale, infine si arriva al movimento, cioè ad ogni trasformazione.
E qui ci si trova di fronte ad una domanda di fondo: come spiegare il pas-
saggio da uno stato ad un altro.
Questo non può avvenire nel presente, perché nel presente il reale "è" e
quindi non cambia; a maggior ragione non possono essere utilizzati il passa-
to, che non c'è più, e il futuro, che non c'è ancora. Pertanto, visto che i
momenti del tempo sono proprio solo questi tre, passato, presente e futuro,
bisogna ricorrere ad una dimensione particolarissima ed extratemporale:
- E quando, essendo in movimento, si ferma e quando, essendo immobile,
si mette in movimento, bisogna certo che questo accada quando l'uno non
è in alcun tempo.

69
Maurizio Migliori

- Come dici?
- Essere prima immobile e poi in movimento, essere prima in moto e poi
immobile: senza un mutamento non sarà possibile patire questi stati.
- Come jnfatti potrebbe?
- Ma non vi è nessun tempo, in cui sia possibile che qualcosa né si muova
né stia ferma. ·
- Infatti, non c'è.
- Né d'altra parte muta senza mutamento.
- Non sembra possibile.
- Quando dunque cambia? Non cambia né quando è immobile né quando
si muove, né cambia quando è nel tempo.
- No, infatti.
- Ma esiste questo stato straordinario in cui dovrebbe essere quando muta?
-Quale?
- L'istante. Infatti questo sembra il significato della parola "istante": ciò da
cui partono i cambiamenti nelle due opposte direzioni. Non è infatti dall'im-
mobilità ancora immobile, né dal movimento ancora in moto, che c'è il muta-
mento; ma è questo istante dalla straòrdinaria natura, posto in mezzo tra
movimento e immobilità, e che non è in alcun tempo, ciò verso il quale e dal
quale quanto si muove muta nella quiete e quanto è fermo muta nel movi-
mento. (156 C 1-E 3)
Quindi l'istante costituisce una dimensione extratemporale e, in quanto
tale, per così dire, extraontologica. In essa si possono dunque collocare gli
enti metatemporali ed "esterni" o "superiori" alla dimensione dell'essere. La
cosa rilevante è che tale dimensione "staccata" opera nella sfera delle realtà
temporalizzate, in quanto, altrimenti, il divenire risulterebbe inesplicabile. ·
Non è, a mio avviso, importante la pochezza di queste indicazioni a
fronte del fatto che Platone conferma, in un settore delicatissimo, che ci
sono due ambiti ben diversi, uno caratterizzato dall',essere e dal tempo,
uno extratemporale ed esterno alla dimensione ontologica, separato e tut-
tavia necessario per quella stessa realtà che è, la quale quindi manifesta
una sua radicale insufficienza.
Il parallelo con la classica visione della sfera "ideale" e del suo "ruolo"
sembra abbastanza facile.

Il fallimento dell'essere, se l'uno non è

Il colpo di grazia ad una sopravvalutazione dell'ontologia lo troviamo,


però, a mio avviso, nel momento in cui Platone presenta esplicitamente
una dialettica dell'essere. Siamo nella Quinta tesi, quella che cerca di
affermare che l'uno-che-non-è ha tuttavia vari possibili attributi, il che
70
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista

porta a dire che, malgrado tutto, in qualche modo "è". Si tratta di capire,
però, in che senso quest'uno-che-non-è anche "è". Per questo Platone
deve esplicitare i vari possibili nessi tra essere e non essere.
Si danno solo quattro possibilità:
(a) l'essere dell'Essere che è, cioè l'affermazione dell'Essere puro;
. (b) l'essere dell'Essere che non è, cioè l'affermazione relativa del
Divenire;
(c) il non essere dell'Essere che non è, cioè la negazione relativa del
Divenire;
(d) il n.on essere del Non Essere che non è, cioè la negazione del puro
Nulla.
Come si vede:
1. la forzatura che invera (e quindi non uccide) l'essere eleatico forzan-
dolo ad accettare il non essere come condizione per uscire dalla trappola
dell'univocità eleatica c'è già nel Parmenide; nel Sofista troviamo solo
l'articolazione e la giustificazione di questo necessario abbandono del-
1' ortodossia parmenidea;
2. solo del divenire è possibile parlare, e partecipare, sia in positivo, sia
in negativo; i termini estremi sono invece condannati l'uno alla sola affer-
mazione, l'altro alla sola negazione.
Il fatto significativo è che questo uno che non è in quanto anche è evi-
dentemente "diviene", e diviene in un modo specifico, cioè o si muove o
si trasforma, o nasce o aumenta e così via:
- Allora, tutto ciò che è così, cioè è e non è in un certo stato, implica dun-
que mutamento?
-Come no!
- Mutamento è movimento, o possiamo dire qualche altra cosa?
- Movimento (KLVTlCJLS' ).
- L'Uno ci è apparso sia essere sia non essere?
- Sì.
- Dunque, ci appare essere e non essere in un certo stato. (162 B 10-C 3)
Il fatto è che subito Platone si impegna analiticamente a dimostrare che
in questa situazione non è possibile alcuna forma di mutamento "se l'uno
non è". Quest~ è, a mio avviso, l'unica tesi che si chiude con una vera apo-
ria. La dialettica dell'essere rimanda necessariamente al divenire, ma que- ·
sto non appare possibile: la tesi afferma che, in assenza deWuno, la dialet-
tica dell'essere risulta logica ma inapplicabile. Il che conferma quanto già
emerso a proposito dell'istante, cioè l'insufficienza radicale della dimen-
sione ontologica come fondamento adeguato a spiegare l'intero reale.
71
Maurizio Migliori

2. I limiti del Sofista

Naturalmente, una revisione critica del ruolo dell'ontologia non può


evitare di misurarsi a fondo con il Sofista, che l'ermeneutica tradizionale
considera importantissimo proprio per il cosiddetto parricidio5. Se però ci
mettiamo ad osservare attentamente quello che dicono i testi, scopriamo
subito che Platone stesso ridimensiona il valore di questa opera, almeno
da due punti di vista6.

Un dialogo di passaggio

In primo luogo, non bisognerebbe mai dimenticare che il Sofista è


all'interno di un blocco di opere del tutto particolari. Come sappiamo,
Platone non richiama mai i suoi scritti, con un'unica importante eccezio-
ne, una serie di dialoghi che hanno una straordinaria sequela di collega-
menti: Parmenide, Teeteto, e i due primi testi di una trilogia "incompiu-
ta", Sofista e Politico, cui doveva seguire il Filosofo, non scritto. Gliele-
menti che collegano questi dialoghi sono molti:
A. in primo luogo, ci sono citazioni? tra questi dialoghi, un dato che
non può essere sottovalutato non solo perché è un unicum, ma soprattutto
perché le citazioni hanno spesso una scarsa giustificazione interna e sem-
brano "pretestuose";
B. il rinvio ad un ulteriore incontro è una figura tipica della dramma-
turgia platonica, ma non capita mai che a questo rinvio corrisponda una
vera ripresa; qui, invece accade addirittura che, dopo aver fissato un
appuntamento per il giorno seguente alla fine del Teeteto, ci si incontra la

5. Questo però non c'è affatto, perché lo Straniero prega di non essere considerato un parrici-
da (241 D), cioè, fuori della fiction narrativa, Platone, sapendo benissimo che la sua operazio-
ne poteva essere fraintesa, prega (invano) i lettori di non confondere il suo superamento della
ontologia parmenidea, che è al contempo un inveramento, con una sua negazione. Vano sfor-
zo: come ben sapeva l'Autore, lo scritto è per definizione sempre equivocabile ...
6. Per approfondire quanto qui solo accenno, rimando a "Verso il filosofo: dialettica e
ontologia nel Sofista di Platone", Rivista di filosofia neo-scolastica, XCI (1999), pp. 171-
204; per la mia lettura generale di questo dialogo rimando aLectura Platonis:Il Sofista di
Platone. Valore e limiti del! 'ontologia, Morcelliana, Brescia 2004, in corso di stampa.
7. L'incontro fittizio del Parmenide è citato sia in Teeteto, 183 E, sia in Sofista, 217 C; il
Teeteto è ricordato in Sofista, 216 A, e due volte nel Politico, 257 D, 258 A; quanto al
Sofista viene ripetutamente ricordato nel Politico, 257 A, 258 A, 258 B-C, 266 D 5, 284 B 7
(soprattutto questo Èv Tcjì ao<j>wTi:'J sembra il rinvio ad un testo e non alla discussione pre-
cedente), 284 C; 286 B.

72
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista

mattina dopo, all'inizio del Sofista, ricollegandosi esplicitamente all'ap-


puntamento fissato;
C. il Teeteto, il Sofista e il Politico hanno gli stessi personaggi e sono
in sequenza, cosa anche questa unica: ·
D. infine, tutte queste opere appaiono legate all'esplorazione del-
l'Eleatismo, che precedentemente sembra ignorato da Platone; all'improvvi-
so, invece, abbiamo l'apparizione di Parmenide grande maestro, cui segue,
sempre con funzione di maestro, lo Straniero di Eleas.
Dovrebbe, quindi risultare chiaro il segnale dell'Autore che ci invita a con-
siderare questi dialoghi come un blocco e a riflettere sulle ragioni di questo
loro peculiare intreccio, soprattutto in relazione a quel Filosofo non scritto,
che appare il vero approdo di tutto questo svolgimento "eleatico". Il quadro
di un tale collegamento, segnato da due premesse9 e una trilogia "incompiu-

8. La cosa non può essere sottovalutata. In ima lettura "ingenua" del testo platonico,
dovremmo supporre un totale disinteresse dell'Autore per la scuola di Elea o una sua radi-
cale ignoranza, cose improbabili in un filosofo che ha viaggiato in Italia, che conosce
Gorgia e che ha colto benissimo il collegamento tra Eleatismo e Sofistica (su questo tema,
cfr. M. MIGLIORI, "La filosofia dei sofisti: un pensiero posteleatico", Annal(della Facoltà
di Lettere e Filosofia dell'Università di Macerata, XXXIII, 2000, pp. 9-30; "Gorgia quale
sofista di riferimento di Platone", Giornale di metafisica, NS XXI (1999), pp. 101-26). Se
invece ragioniamo nei termini di una forma di scrittura estremamente curata e attenta ai
particolari, che opera per colpire, in funzione protrettica, il lettore, si coglie la scelta di gra-
duare le informazioni allo stretto necessario, il che provoca una presentazione improvvisa
ed esplosiva di questa scuola, a partire dal dialogo che è dedicato al maestro fondatore.
Successivamente, nel Teeteto, l'Eleatismo viene richiamato, ma la trattazione è svolta sul-
!' asse Eraclito-Protagora e la questione eleatica viene "rinviata" ( 183 C-184 B ); infatti, nel
Sofista e nel Politico, il ruolo di maestro viene tenuto da uno Straniero di Elea. In segui-
to, tutto tace: sull'Eleatismo Platone passa da u,n silenzio a un tributo altissimo nelle opere
cd. dialettiche cui segue, sostanzialmente, un nuovo silenzio.
9. In effetti, se si pensa alla filosofia di Platone e al peso che vi ha la dialettica, di origine
eleatica, si capisce lo schema di svolgimento di questa pentalogia. Il Parmenide costituisce
un prologo necessario, per evidenziare la complessità della dialettica platonica, di cui
l'Autore svela l'origine eleatica; poi il Teeteto imposta il tema della scienza in una chiave
esclusivamente "socratica" con un esito che non può essere considerato aporetico. La con-
clusione non evidenzia affatto uno scacco irrimediabile, ma ha toni largamente positivi (21 O
B 4-D 4), perché il lavoro fatto, la distruzione del relativismo protagoreo e l'eliminazione di
alcune definizioni di scienza, appare utile, persino se non si potesse andare avanti; se poi si
riuscirà a svolgere un 'ulteriore trattazione, emergerà la sua vera ricchezza. E il testo esplici-
ta che con Socrate non si può procedere oltre: solo qui arriva la sua arte! Ed egli dà appun-
tamento per il giorno dopo a Teodoro, cioè proprio a colui che porterà con sé quello Straniero
di Elea, che li farà procedere oltre Socrate, verso il Filosofo, per completare il lavoro impo-
stato con Teeteto. Abbiamo quindi una duplice premessa, una eleatica e una socratica,
entrambe apparentemente incompiute: in realtà sono una sorta di esercizio propedeutico del
tutto necessario, dal punto di vista platonico, per avvicinarsi al Filosofo (non scritto).
73
Maurizio Migliori

ta", si lascia capire: per fare scienza bisogna che "Socrate" passi per Elea, che
si realizzi quella commistione che è una delle caratteristiche del platonismo.
Questa necessità viene esplicitata fin dall'inizio del Sofista, sulla base di
una paradossale domanda di Socrate, il quale chiede se lo Straniero di Elea
non sia per caso un dio che si presenta sotto mentite spoglie. Teodoro pren-
de sul serio la questione e precisa che il suo amico non è un dio della confu-
tazione, ma un filosofo (216 A-C).In questo modo Platone ci ha ricordato
che da Elea vengono terribili confutatori e grandi filosofi: all'El~atismo si
connettono sia Gorgia sia Platone, con due esiti radicalmente opposti.
Comunque, con il nostro dialogo si entra in medias res, in perfetta con-
tinuità tematica con il precedente Teeteto, anche se la cosa non solo non
viene esplicitata, ma viene addirittura mascherata (a conferma di una tec-
nica di scrittura molto particolare). Il problema della scienza viene ripreso,
ma non nella forma della discussione precedente, ma come indagine sulla
figura del filosofo, che sembra sorgere dal fatto che lo Straniero di Elea è
definito da Teodoro per ben due volte filosofo (Sofista, 216 A 4, 216 C 1).
Al lettore disattento può così· sembrare che non ci sia continuità e che si
cambi tema, mentre, in realtà, si tratta di un "trucco" perché la scienza per
Platone coincide con la filosofia dialettica. L'indagine del Teeteto, dunque,
prosegue, ma ad un altro livello, attivando da subito la dialettica. Infatti, la
struttura della trilogia si spiega con la necessità di distinguere diairetica-
mente la figura del filosofo da quelle affini: bisogna chiarire se sofista,
politico e filosofo sono termini identici o separati. Non a caso la prima
affermazione dello ,Straniero è il riconoscimento che si tratta di tre figure
tra loro diverse (Sofista, 217 B).E lo sono dimolto.
Su questo terreno incontriamo un dato esplicito che fa emergere· in
modo netto il limite del Sofista. All'inizio del Politico, nel momento stes-
so in cui inizia il nuovo dialogo in perfetta continuità formale e sostanzia-
le con il Sofista, confermando: nel contempo il nesso con il TeetetoIO,
Platone sottolinea lo stacco teoretico tra le due operell. In sintesi, al filo-

1O. Infatti, Socrate ricorda (258 A) di aver discusso "il giorno prima" con il giòvane e riba-
disce che siamo all'interno di una "trilogia", in quanto riconferma (257 C) la decisione
presa in Sofista, 217 A, di definire sofista, politico e filosofo.
11. In effetti, se questo scarto non ci fosse, non si capirebbe perché Platone ha scritto due
dialoghi e non uno solo, e perché al giovane e bravo Teeteto si sostituisce all'improvviso e
senza alcuna plausibile ragione il suo amico Socrate il giovane, che è stato presente in due
dialoghi senza letteralmente aprire bocca e che i contemporanei ricordavano certamente per
essere stato uno degli scolarchi dell'Accademia. Con il cambiamento dell'interlocutore il
dibattito diviene, per così dire, più filosofico e più interno al pensiero platonico stesso.

74
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista

sofo interessa Sottolineare la continuità, necessitata dal procedimento diai-


retico applicato alla successione dei dialoghi, ma anche far capire che il
ruolo "negativo" del sofista è ràdicalmente diverso dal ruolo positivo di
filosofo e politico. Per questo cost11,1isce un gioco (Politico, 257 A~B).
Socrate ringrazia il suo amico matematico per avergli fatto conoscere lo
Straniero, che ha svolto così bene il tema della ·sofistica. Teodoro a sua
volta, scherzosamente, osserva che quindi avrà tre ringraziamenti, visto
che ora si tratterà del politico e poi del filosofo. In tal modo egli inavverti-
tamente sembra considerare i tre temi, sofistica, politica e filosofia come
equipollenti. Socrate non si fa sfuggire l'occasione di prendere in giro il
suo amico proprio sul suo terreno, quello matematico. I tre temi non solo
sono diversi, ma hanno tra loro un rapporto valoriale accentuatamente ver-
ticalizzato. Mentre il discorso di Teodoro sembra porli in un rapporto l: 1: 1,
essi crescono con una progressione che non è quella matematica (1 :2:3) ma
che è addirittura maggiore della proporzione geometrica (1:2:4).
Il riferimento matematico sottolinea che, malgrado il nesso, la distanza tra
queste figure è molto grande per valore e dignità. Quindi, dal punto di vista
di Platone, in questa ascesa verso il Filosofo, il Politico è un dialogo molto
più importante del Sofista. Quanto al Filosofo, su cui torneremo, evidente-
mente la sua importanza era tale che Platone ha preferito non scriverlo, pur
avendo avuto in seguito tutto il tempo per farlo: lo ha lasciato all'oralità.
La superiorità del Politico ha una ragione logica. Platone sta applican-
do il procedimento diairetico: per cogliere una figura, il filosofo, bisogna
distinguerlo da altre figure, in questo caso prima da colui che sembra un
filosofo mentre è diversissimo, poi da colui che o è un filosofo che si dedi-
ca alla politica o un politico che si dedica alla filosofia (cfr. Repubblica,
V, 473 C-D, VI, 499 A-C; Lettera Settima, 326 A 7-B 4). Ora, in questa
operazione, la trattazione del Sofista serve a snidare un "nemico", il sofi-
sta, in un'operazione di stacco e di rovesciamento: la sua difficoltà è quel-
la della notte, quella del filosofo è quella della luce (Sofista, 254 A).
Quindi, il concetto di "sofista" è il primo e meno rilevante. Tutta la tratta-
zione ha un senso eminentemente "negativo", ha di mira gli strumenti che
consentono di battere un avversario. Lo stesso recupero dell'eleatismo qui
può essere ricondotto a questa chiave, alle necessità di correggere quella
strumentazione originaria, la parola della Dea parmenidea, che consente
alla sofistica di asserragliarsi in una posizione "forte".
È certamente molto, è un passaggio filosofico che ha davanti a sé un
futuro plurisecolare e filosoficamente determinante, ma nella trattazione
platonica costituisce solo un primo e necessario passaggio verso ben altro.
75
Maurizio Migliori

Il gioco sulla definizione del sofista

Si possono addurre due ulteriori elementi che confermano questa evi-


dente superiorità del Politico.
In primo luogo, la stessa definizione del sofista è completata nel
Politico. Su questo terreno Platone ha costruito un "delizioso" gioco. La
fine del dialogo sembra, come si dice, "tagliare la testa al toro": lo
Straniero conclude la sua definizione dicendo che è del tutto vera (TàÀ.'fl8É-
O"TaTa, 268 D 4). E in effetti lo è. Ma non è completa. O per meglio dire,
già lo è, ma lo si scopre solo nel Politico.
Qui infatti lo Straniero vede avanzarsi un insieme vario di personaggi
strani, che lo stupiscono, il che dà luogo ad uno straordinario dialogo:
SOCRATE IL GIOVANE - Chi sono questi di cui ancora parli?
STRANIERO - Uomini anche molto strani.
SOCRATE IL GIOVANE - Perché?
STRANIERO - Una stirpe molto varia, per come appare a prima vista. Molti
di questi uomini, infatti, assomigliano a leoni, a centauri e ad altri mostri del .
genere, moltissimi a satiri e a bestie deboli e astute; rapidamente si scambia-
no fra di loro le nature e il potere. Certo, Socrate, mi sembra di avere pro-
prio ora capito chi sono questi uomini.
SOCRATE IL GIOVANE - Parla. Infatti, sembri aver scoperto qualcosa di
strano.
STRANIERO- Sì, perché la stranezza deriva per tutti dall'ignoranza. In effet-
ti, l'ho provata io stesso, anche ora: all'improvviso sono rimasto incredulo
vedendo quel gruppo intorno agli affari dello stato.
SOCRATE IL GIOVANE - Quale gruppo?
STRANIERO - Quello di tutti i sofisti, grandissimi maghi ed espertissimi in
questa tecnica, che devono essere separati da coloro che sono veramente
uomini politici e regi, per quanto difficile sia la separazione, se vogliamo
vedere con chiarezza quello che cerchiamo. (291A5-C 6)
In sintesi, con tutte queste sottolineature scopriamo che solo ora lo
Straniero ha capito, "incredulo", che la forma più vera e pericolosa della
sofistica è quella che applica la propria capacità, quella di ingannare e di
"travestirsi", nella politica. E poiché non c'è nessuno Straniero e nessun
Socrate nella realtà, ma solo il filosofo scrittore Platone, solo ora il filo-
sofo richiama l'attenzione su questo personaggio, con tali superlativi da
non lasciare dubbi sulla sua "grandezza".
Ma la questione è troppo rilevante perché Platone si fidi così dell'intel-
ligenza del suo lettore. Infatti egli in seguito richiama questo passo e chiu-
de il tema con un giudizio esplicito di condanna dei politici
76
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista

in quanto non sono uomini politici, ma uomini di parte, che sostengono le


più grandi riproduzioni, anzi sono riproduzioni essi stessi, grandissimi imi-
tatori e ciarlatani che diventano i sofisti più grandi tra i sofisti.
SOCRATE IL GIOVANE - È probabile che questo nome sia ritorto molto giusta-
mente contro i cosiddetti politici.
STRANIERO - Sia. Questo per noi è senza dubbio simile ad un dramma;
come poco fa dicevamo di vedere un corteo di centauri e di satiri, che biso-
gnava separare dalla politica, così, ora, con grande fatica, è stato allontana-
to. (303 C 1-D 1)
Come si vede, Platone non ci ha dato la vera e completa definizione del
sofista nell'opera omonima, ma successivamente: il Sofista non è autosuf-
ficiente nemmeno dal punto di vista della stessa definizione del sofista.
Ma il gioco di Platone è ancora più raffinato. Infatti,. a questo punto
dovremmo dire che solo nel Politico, in quel coro di mostri, Platone ha fatto
emergere i sofisti più grandi e péggiori, i sofisti politici. Ma la cosa più inte-
ressante, il cuore del gioco, è che questo non smentisce affatto il Sofista, in
quanto la cosa era stata già detta, solo che nessuno se n'era accorto ...
Torniamo infatti alla quinta diairesi (264 B-268 D), quella che ci forni-
sce l'ottava definizione: il sofista è un simulatore consapevole12.
Rileggiamo con attenzione, i vari passaggi: la sofistica è un'arte produtti-
va umana, che produce immagini apparenti usando il corpo, arte mimeti-
ca basata sull'opinione.

arte
acquisitiva produttiva
divina umana
cose reali raffigurazioni
immagini apparenze
con strumenti con il corpo (mimetica)
in base a scienza in base a opinione
di un ingenuo di un simulatore
demagogo sofista
in pubblico in privato
con discorsi lunghi con dibattito

Ora salta agli occhi che la definizione "scoperta con meraviglia" nel
Politico era già data qui prima dell'ultimo passaggio, là dove si definisce

12. Per la ricostruzione delle diairesi del Sofista, cfr. quanto diciamo in Verso i/filosofo,
cit., pp. 180-88.
n
Maurizio Migliori

correttamente il sofista come un simulatore consapevole. La successiva


distinzione riguarda solo di terreno di applicazione, per cui quel "dema-
gogo che opera in pubblico con discorsi lunghi" è a pieno titolo un sofi-
sta, anzi, ci dice il Politico, è il sofista peggiore. Platone ci aveva già detto
tutto, ma non ci aveva avvisato di averlo detto. E avendo poca fiducia nei
nostri mezzi ce l'ha rispiegato nel Politico.
In questo modo, chi non "legge" semplicemente i dialoghi, ma li usa
giocando il gioco che Platone gli impone scopre quello che, con mag-
giore attenzione, avrebbe dovuto scoprire ben prima. Ma, appunto, lo
scopre dove non si sarebbe aspettato di trovarlo: nel Politico, dialogo
che "soccorre" il Sofista.

Il metodo diairetico

Il secondo esempio di "incompletezza" lo registriamo a livello delle


indicazioni sul metodo diaireticoI3. Questo metodo, contrariamente alle
opinioni più diffuse, appare molto presto nei dialoghi platonici. A me sem-
bra che già la distinzione tra due tipi di sapienza sottolineata in Apologia,
20 D-E, presupponga una movenza diairetica, ma questa risulta ancor più
chiaramente presente in Eutifrone, 11 E-12 Dl4, nella distinzione, propo-
sta non a caso da Socrate stesso, tra una parte del giusto che si occupa di
uomini e una parte che si occupa degli dei.
Se poi si vuole qualcosa di più strutturato e "innegabile", la diaire-
si di Gorgia, 463 A-466 A; 500 E-501 C; 513 D-E; 520 A-B, ci sem-
bra sufficientemente articolata, come dovrebbe risultare chiaro da que-
sto schema:
13 .. Per capire la mia ricostruzione dell(l dialettica platonica e del procedimento diairetico,
rimando a "Dialektik und Prinzipientheorie in Platons Parmenides und Philebos'', in T. A.
SzLEZAKIK.-H. STANZEL, Platonisches Philosophieren. Zehn Vortriige zu Ehren von H. J.
Kriimer, Georg Olms Verlag, Hildesheim/Ziirich/New York 2001, pp. 109-54; esiste anche
una versione in italiano: "Dialettica e Teoria dei principi nel Parmenide e nel Filebo di
Platone", Annqli della Facoltà di Lettere e filosofia dell'Università di Macerata, XXXIV
(2000), pp. 55-103; cfr. anche "Pervasività e complessità della dialettica platonica", in Il
problema del metodo: Platone e Aristotele. Non solo dialettica non solo logica, Morcel-
liana, Brescia 2004, in corso di stampa.
14. In realtà credo che se ne possano vedere le tracce già in 7 B-D, nella distinzione tra
contrasti che vertono su dati quantitativi e contrasti che vertono su giudizi etici e dati qua-
litativi, tema importantissimo in Platone, che giunge fino alle questioni della metretica. E
certamente diairetica è anche la successiva distinzione (13 A-E) della cura che o migliora
chi la riceve o aiuta a realizzare qualcosa collaborando a un progetto.·

78
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista

Legislazione {::> Sofistica


Anima _], _], Anima
Giudiziaria {::> Retorica
Arte Lusinga
Ginnastica {::> Culinaria
Corpo _], _], Corpo
Medicina {::> Trucco

Malgrado questo, non c'è alcun dubbio che il dialogo "diair~tico" per
eccellenza sia e sia considerato il Sofista. Qui il metodo viene presentato
in modo chiaro e semplice e poi applicato coerentemente fino alla fine.
Tuttavia, anche in questo caso il dialogo "introduttivo" appare incomple-
to su alcuni passaggi decisivi, che risultano chiariti nel Politico e in dia-
loghi successivi.
Il primo importante chiarimento è che la divisione non va fatta sempre
per due. La cosa è già chiara fin dal Sofista, in molte affermazioni appa~
rentemente poco importanti che indicano come ci siano molti casi tra cui
sceglierel5, e soprattutto nella stessa presentazione di diverse figure di
sofisti. Ma è solo nel Politico che Platone esplicita che in alcuni casi è
impossibile dividere per due e quindi bisogna procedere come quando si
deve macellare una bestia (287 B-D). Certo, bisogna suddividere sempre,
il più possibile, secondo il numero più vicino al due, anche perché questo
consente più facilmente di individuare le idee (262 B-E), ma in ogni caso
bisogna individuare le "membra". La divisione dipende dalla realtà che
abbiamo di fronte e non ha quindi una struttura formale unica.
In secondo luogo, solo nel Politico si chiarisce il ruolo che ha la parte che
viene "eliminata" nel corso del procedimento. Gli elementi "tralasciati" non
sono rimossi e non devono essere dimenticati (Politico, 280 B), in quanto
costituiscono passaggi di un processo basato sulle differenze, per cui i due
termini devono essere entrambi presenti, sia pure con un ruolo molto diver-
so. L'uno costituisce un passaggio della "definizione e/o classificazione",
l'altro l'elemento che chiarifica il senso del passaggio stesso.
Infine, solo nei dialoghi successivi emerge la duplice natura della diai-
resiI6. Finora abbiamo visto essenzialmente il procedimento che porta a

15. Cfr. ad es., 225 C, 226 B-C, 226 E-227 C, soprattutto 229 B, in cui si dice esplicita-
mente che esistono molte forme di insegnamento, ma due sono più importanti.
16. Per quanto riguarda questa duplice natura della diairesi, cfr. quanto dico in Verso il.filo-
sofo, cit., pp.188-92, nonché nei già citati studi sulla dialet.tica platonica.

79
Maurizio Migliori

una definizione, un albero diairetico che si semplifica, per così dire, in via
discensiva, per raggiungere il termine che risulta "definito". Tuttavia la
stessa complessificazione del procedimento che anche qui emerge ci fa
intravedere l'altro modello (o, se si preferisce, l'altra funzione) della diai-
resi, che sarà tematizzata nel Politico e nel Filebo. Nel Politico, infatti, al
termine di una lunga discussione, che qui non possiamo prendere in
esameI7, lo Straniero esplicita la complessità intrinseca alla realtà, quindi
alle stesse Ideel8:
quando c'è un'Idea, è necessario che essa sia anche parte di questa cosa di
cui appunto si dice Idea, mentre non c'è alcuna necessità che una parte sia
Idea (Politico, 263 B 7-9).
La seconda figura della diairetica è quindi, per così dire, analitica e
sistemico-strutturale ed è filosoficamente decisiva: nessuna Idea è per-
fettamente una e semplice, ma risulta sempre composta da parti che
sono esse stesse Idee. Per conoscere un'Idea bisogna conoscere la strut-
tura delle Idee che la costituisce. Se il primo modello sottolinea il
movimento "discensivo" che porta a cogliere un concetto, sia pure in
un blocco di nessi, distinguendo e collegando un termine ad una molte-
plicità di altri, questo secondo sottolinea la complessità intrinseca
all'Idea stessa, distinguendo e ordinando la molteplicità che è interna
ad ogni unità.
Su questa base si comprende perché il procedimento metodico propo-
sto da Platone possa essere basato su due processi, uno di divisione e uno
di collazione, che occorre utilizzare in modo intrecciato, cioè come
Platone stesso propone schematicamente:

17. Per approfondire questa e altre affermazioni concernenti il Politico, rinvio al mio com-
mentario: Arte politica e metretica assiologica. Commentario storico-filosofico al "Politico"
di Platone, Vita e Pensiero, Milano 1996, nonché agli studi sulla dialettica già citati.
18. Ho già affrontato la prevedibile obiezione (che, tuttavia, è rivolta a quello che esplici-
tamente afferma il testo) che le Idee sono caratterizzate dalla loro assoluta semplicità e
unità. Questo è assolutamente vero, con una importante conseguenza teoretica: una com-
plessità, che non posso non definire "sistemica", non nuoce alla semplicità ontologica di
un intero. Che infatti le Idee siano "fatte" di Idee non è dubitabile. Mi limito a ricordare,
come esempio, che l'Anima creata direttamente da Dio, in Timeo, 34 B-35 B, con un com-
plessissimo gioco di mescolanze è un'unica idea (µlav L8fov, Timeo, 35 B 7); analoga-
mente, i piacere puri e quelli comuni sono due Idee (d8T) 8'6o, Filebo, 51 E 5) di quello
che chiamiamo piacere. Eppure entrambi sono "misti", anzi i piaceri "normali" sono privi
di misura (àµETplav, Filebo, 52 e 4) cioè presentano un'indomabile presenza del princi-
pio di infinità, mentre i piaceri puri manifestano l'azione del limite, sono misurati (EµµE-
Tplav, Filebo, 52 e 4; E-µµÉTpwv, filebo, 52 D 1).

80
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista

1. preso un insieme basato sulla comunanza di alcune cose


2. bisogna cogliere tutte le differenze che si basano sulle Idee;
3. data la molteplicità delle differenze registrate, bisogna riunirle tutte
in una essenza, che abbracci le cose affini secondo un elemento di somi-
glianza (Politico, 285 A-B).

L'intreccio di due processi e la divisione delle Idee sono ulteriormente


confermati e chiariti in Filebol9 16 C-E, da cui possiamo ricavare il
seguente schema:

1. Occorre porre per ogni realtà un'unica Idea,


1b. che troveremo insita nelle molteplici cose che costituiscono tale realtà.
2. Colta questa Idea, bisogna esaminare se essa ne contiene altre due,
2b. altrimenti tre o un altro numero.
3. Allo stesso modo dobbiamo procedere per ciascuna di queste unità.
4. Alla fine si deve scoprire:
4.1. non solo che l'unità è uno, molti e infiniti,
4.2. ma, soprattutto, quanti sono i molti che la costituiscono.
5. Nello stesso modo occorre procedere anche con l'illimitato:
5.1 prima va individuato il numero determinato dei molti, che è medio
tra l'uno e l'infinito,
5.2 poi si ,può lasciare andare ogni Idea, abbandonandola all'infinito.

Come si vede, questa visione della realtà è perfettamente coerente


con quanto abbiamo sopra detto sulla natura del metodo diairetico,
che non è unico e che non è solo dicotomico20. E questo metodo è pre-
sentato nel Sofista, ma non trova certo in questo dialogo una esposi-
zione adeguata.

19. Anche in questo caso, per i chiarimenti necessari a comprendere quanto dico su que-
sto dialogo, rinvio al commentario: L'uomo fra piacere, intelligenza e Bene. Commentario
storico-filoso.fico al "Filebo" di Platone, Vita e Pensiero, Milano, 1993, 1998 2 . .
20. Solo su questa base è possibile capire l'importanza che l'Accademia dava al procedi-
mento diairetico, un processo insieme classificatorio e definitorio, che cerca di cogliere il
singolo elemento all'interno di un contesto articolato, o, che è lo stesso da un altro punto
di vista, l'articolazione interna al singolo elemento. Pertanto, questo metodo valorizza il
gioco intero-parti, facendo emergere uh intreccio di connessioni e distinzioni, di identità,
differenze, opposizioni, in modo da scoprire quelle "sillabe" che costituiscono il paradig-
ma unitario, la grammatica del reale analizzato. Per questo tale metodo, tipicamente dia-
lettico, risulta attento sia agli aspetti logici sia a quelli fenomenologici.

81
Maurizio Migliori

3. I processi messi in luce nel Parmenide

La trattazione fin qui svolta lascia un grande dubbio. Posto anche che
si voglia accettare un così diretto ridimensionamento della sfera ontologi-
ca e del dialogo che meglio la rappresenta, che cosa si propone, o meglio
che cosa il testo platonico propone, come elemento forte che svolga, nel-
1' ambito del particolarissimo "sistema" platonico, il ruolo che tradizional-
mente si attribuisce all'ontologia? Se non è l'essere il centro della filoso-
fia platonica, questo in che cosa risiede? Siamo così giunti a dover affron-
tare la seconda domanda che ci siamo posti all'inizio.

Il nesso intero-parte

Un tema su cui riflettere, che appare fin dalla prima affermazione della
Prima tesi del Parmenide, concerne la distinzione parte-intero (137 C-D)
La parte è parte di un intero[ ... ]. Che cos'è un intero? Non è forse quello
a cui non manca alcuna parte? (137 C 6-8)
Questo nesso viene riproposto all'inizio della Seconda tesi: questo uno
è un intero fatto di parti che a loro volta sono costituite di parti (142 D-E).
Non è un caso, in quanto tutta questa trattazione iniziale è basata sul pro-
cesso di divisione infinita che caratterizza la realtà presa sia c,ome essere-
uno sia come numero sia come grandezza; subito dopo si' chiarisce l'al-
tro aspetto, per cui il reale, essendo un intero che contiene le parti, è fini-
to ed ha un limite (rrÉpas, 145 a 1). Su questo gioco parti-intero e divisio-
ne-limitazione si costruiscono gran parte degli argomenti successivi.
La ragione teorica di fondo, che spiega questa insistenza, viene propo-
sta da Platone nella Terza tesi, nel momento in cui si prendono gli Altri
senza l'uno, cioè come pura molteplicità. In questo modo emerge un dato
decisivo e costitutivo della realtà:
- Dunque, ogni volta che consideriamo in se stessa la realtà diversa
dall'Idea, quale che sia la pa,rte esaminata, sempre la troveremo essere una
molteplicità infinita (chmpov )?
- Assolutamente.
- Ma quando ogni singola parte è diventata parte, risulta limitata (TTÉpas
EXEL ), sia nel rapporto reciproco rispetto alle parti, sia in rapporto al tutto;
analogamente l'intero avrà un limite rispetto alle parti.
- Senz'altro.
-Agli Altri dall'Uno accade dunque di avere un rapporto sia con l'uno, sia
con se stessi: in essi, a quanto pare, ·emerge qualcosa di diverso che forni-
82
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista

sce loro un limite (é!TEp6v n yt yvrn8m Èv ÉauTo'is, o 8iì TIÉpas TiapÉ-


axE) reciproco; la loro natura invece fornisce ad essi, in se stessi, infinitez-
za (àTIELp(av). (158 C 5-D 8)
Due dati da sottolineare.
. I. La realtà in sé è condannata all' apeiron, ma emerge qualcosa "di
diverso" che ripristina l'ordine2I. Infatti, la relazione reciproca delle e con
le parti non è sufficiente a garantire l'unità dell'intero, che ha un altro e
superiore fondamento.
2. La realtà è un intero fatto di parti, il che vale per l'insieme e per ogni
singolo elemento
Tutto questo l'avevamo letto in forma esplicita, in una frase così deci-
siva che mi permetto di citarla una seconda volta:
quando c'è un'Idea, è necessario che essa sia anche parte di questa cosa di
cui appunto si dice Idea, mentre non c'è alcuna necessità che una parte sia
Idea. (Politico, 263 B 7-9)
Non insisto tornando a citare tutto il resto: se il lettore ricorda quanto detto
sulla seconda figura (ma anche sulla prima) della diairesi coglie subito non
solo l'unità del quadro che così emerge, ma anche il suo senso filosofico. In
questa visione gli elementi decisivi sono la struttura sistemica che il reale ha
e i processi di divisione e di unificazione che immediatamente attiva.

La duplicità necessaria del processo

Questa natura processuale costituisce un secondo tema su cui riflettere.


La sua importanza emerge da un elemento che appare subito nel momen-
to in cui nel Parmenide Platone presenta la ragione di fondo che condan-
na l'Uno assoluto:
Infatti una realtà nella sua interezza non potrà contemporaneamente avere
la duplice funzione di subire e fare (Tidahm Kal TIOLTJUEL). Altrimenti
l'Uno non sarebbe più uno, ma due. (Parmenide, 138 B 3-5)
Quello che deve colpirci è la motivazione forte che porta Platone a nega-
re la possibilità di un Principio unico da cui far dipendere l'intera realtà:
questa richiede necessariamente due processi o, se si preferisce, un proces-
so "polare" segnato dall'agire e dal patire. La cosa è tanto più importante in
21. Chiunque ricordi il mito del Politico, 268 D-274 E, non può non pensare all'antico
disordine (273 C 7-D 1) che rischia continuamente di distruggere il cosmo, salvato dal
costante ritorno dell'intervento della divinità.

83
Maurizio Migliori

quanto qui si riprende un argomento già presente nella Repubblica, cioè in


un contesto tradizionalmente considerato "pre-dialettico":
Una stessa cosa non può fare o subire cose opposte (ni.vavTf.a TTOLELV ìì
miaxnv). (Repubblica, IV, 436 B 8)

Nessuno potrà mai convincerci che una stessa cosa subisca o anche sia o
anche produca cose opposte (TàvavTf.a miem ìì Kaì. E'L11 ìì Kaì. TToLrr
anEv). (Repubblica, IV, 437 A 1-2)

4. Agire e patire

Qualcuno potrebbe tentare di ridurre il peso di questi brani, riconducen-


doli semplicemente ad affermazioni, un po' particolari, del principio di non
contraddizione, ma la sottolineatura del ruolo dell'agire e del patire sono
troppo frequenti in Platone per consentire questa operazione riduzionista.

Alcuni riferimenti alla coppia agire-patire

Platone richiama l'attenzione del lettore su questa straordinaria coppia


già nell'Eutifrone, con un brano certamente curioso. Nel momento in cui
Eutifrone ha accettato l'idea che santo è ciò che è amato da tutti gli dei,
Socrate propone una ulteriore obiezione (10 A): santo è ciò che è amato
dagli dei o è amato dagli dei in quanto santo? La domanda è semplice,
come la risposta che avrà: il santo viene amato in quanto è santo e non
viceversa è santo in quanto è amato (10 D).Fin qui niente di strano.
Il fatto strano è che Socrate si impegna in una lunga e complicata disa-
nima, che il povero Eutifrone, come anche il lettore, fatica un po' a segui-
re. Tutto è teso a mostrare che: a) bisogna cogliere la diversità tra ciò che
subisce un'azione e quello che la compie; b) è l'oggetto, che ha una sua
natura, a essere qualificato dall'azione dell'agente~ Una cosa non è in sé
paziente, ma lo è in quanto patisce l'azione di un agente: un oggetto è
visto perché c'è chi vede mentre non si può dire che c'è chi vede in quan-
to ci sono cose viste; analogamente una cosa è amata perché c'è chi la ama·
e non al contrario uno l'ama perché è amata.
Il ragionamento è svolto rispetto ad un'azione che non incide sulla
natura dell'oggetto, ma si limita ad aggiungergli un attributo estrinseco.
Tuttavia, anche se si possono ipotizzare azioni di ben altro effetto, qui
accennate parlando di realtà prodotte ( 1O C), cioè che esistono in quanto
prodotte, resta la "stranezza": Platone si impegna a richiamare, apparen-
84
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista

temente senza alcuna ragione, l'attenzione su questa coppia, sottolinean-


do che il patire è tale solo in quanto c'e un agire, il quale non dipende
dalla natura di ciò che patisce ma da quella dell'agente. Certo, si tratta di
una "stranezza", un segnale, niente di più. Da solo questo brano non
dimostrerebbe nulla.
Più rilevanti sono una serie di testi in cui, senza darlo a vedere, Platone
evidenzia l'importanza di questa coppia rispetto all'ontologia. Si pensi al
famoso passo del Fedone, 97 B-99 C, in cui si parla di Anassagora e della
sua Intelligenza ordinatrice e della speranza che suscitò in Socrate:
Pensai che, se qualcuno volesse trovare la causa (al TLav) per cui ciascuna
cosa si genera o perisce o è (ytyvnm fi àrroÀÀuTm fi fon), dovrebbe
trovare per ciascuna cosa questo, quale sia il modo migliore di essere oppu-
re di patire o produrre qualsiasi cosa (fi dvm fi aÀÀo òl'LoDv miaxnv
fi TTOLELV). (97 C 6-D 1)
Qui va sottolineato in primo luogo come il testo passi tranquillamente
dalle determinazioni ontologiche classiche (essere, nascere e perire) a que-
sta "strana" associazione tra essere e agire-patire; inoltre, e soprattutto, va
colto il senso di quello che Platone dice: la causa ontologica della realtà è
ricondotta alla coppia agire-patire, come se fosse un dato ovvio e banale.
Non si tratta di un passaggio isolato, al contrario la rilevanza di questa
coppia è riproposta subito, nel momento in cui Socrate, confermando la
sua rinuncia ad una adeguata conoscenza dei fenomeni cosmologici, affer-
ma che gli sarebbe bastato capire
in che modo per ciascuno è meglio sia produrre sia patire quello che pati-
sce (Kaì. TTOLELV Kaì. miaxnv éì miaxn). (98 A 5-6)
In realtà, le sottolineature di questa coppia sono molte e non possiamo in
questa sede proporne un'analisi adeguata22. E per ragioni di spazio dobbia-
mo rinviare anche la esplicitazione più coerente delle ragioni filosofiche di
fondo che sono alla base di queste sottolineature, cioè al Filebo che ricondu-
ce tutta la realtà ad un Misto, frutto dell'azione di un Peras, un Principio
d'ordine, su un Apeiron intrinsecamente disordinato, che subisce tale azione.
Si potrebbe e dovrebbe coronare tale ricostruzione evidenziando come que-
sto procedimento trova una sua articolazione cosmologica nel Timeo23.

22. Nello stesso Sofista Platone richiama la nostra attenzione su questi processi fin dalla diai-
resi del pescatore: dovendo parlare dell'arte produttiva, subito sottolinea, senza alcuna ragio-
ne, che ciò che porta all'essere produce e ciò che viene portato all'essere è prodotto (219 B).
23. Per questo rinviamo a "Ontologia e materia. Un confronto tra il Timeo di Platone e il
De generatione et corruptione di Aristotele'', in M. MIGLIORI (a cura di), Gigantomachia.

85
Maurizio Migliori

La riduzione dell'ontologia nel Sofista

Non possiamo invece rinunciare ad evidenziare come proprio nel Sofista


Platone "anticipi" questa visione del reale, affermandola esplicitamente!
Com'è noto, a 242 B Platone presenta una (apparente) digressione molto
lunga proprio là dove si chiede quale inizio dare al discorso. Per questo lo
Straniero propone come assolutamente inevitabile l'analisi storica delle
posizioni precedenti. Prima si evidenziano i limiti dei presocratici (242 C-
243 C), che svolgono le loro tesi senza chiarire adeguatamente i termini del
loro discorso. Per questa via si arriva al problema fondamentale:
Molti problemi possiamo considerarli anche dopo, se ti sembra il caso; ora
bisogna esaminare il fondamento più importante e primo. (243 C 10-D 2)
La natura di questo fondamento primo è ovviamente oggetto dell'analisi.
(243 C - 245 E). Apparentemente, è una questione semplice da determinare:
È evidente che tu affermi che per prima cosa bisogna esaminare l'essere (TÒ
ov). (243 D 3-4)
Ma si tratta di una semplicità apparente, anche perché il termine esse-
re, TÒ ov,è particolarmente ambiguo in quanto può indicare sia l'essere
come concetto specifico, sia la realtà in generale, quella categoria gei:iera-
lissima in cui facilmente viene ricompreso il tutto, anche quando la sua
natura è definita da altro. In effetti, il testo non parla dell'essere, ma prima
si interrogano i pluralisti sulla possibile identità tra due termini che "sono"
allo stesso modo entrambi (243 D - 244 B), poi ci si rivolge ai monisti e
ci si interroga sulla possibile identità tra essere ed uno (244 B - 244 D),
allargando rapidamente il discorso all'intero e alle parti, cioè alla conce-
zione dell'intero che si deve avere. Si può così cominciare a porre una
prima domanda decisiva, che però non riguarda affatto l'essere, ma l'uno.

I. Uno in sé e partecipazione all'uno


Ma nulla impedisce che ciò che è diviso in parti subisca l'azione dell'Uno
in tutte le sue parti, e che, in questo modo, essendo un tutto e un intero, sia
uno [ ... ].Ma ciò che subisce questo non è forse impossibile che sia l'Uno
in sé? [ ... ] Ciò che è veramente Uno per un ragionamento corretto deve
essere del tutto privo di parti. (245 A 1-9)

Convergenze e divergenze tra Platone e Aristotele, Morcelliana, Brescia 2002, pp. 35-104;
"Il problema della generazione nel Timeo'', in C. NATALI - S. MASO (a cura di), Plato
Physicus. Cosmologia e antropologia nel Timeo, Adolf M. Hakkert Editore, Amsterdam
2003, pp. 97-120. .

86
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista

Quindi abbiamo una prima distinzione tra l'Uno in sé che nella sua per-
fezione esclude le parti e tutte le singole cose che sono e non sono uno. Il
che fa nascere una ulteriore domanda.

2. L'essere che ha parti è o non è intero


STRANIERO - Così l'essere che è affetto dall'uno sarà sia uno sia intero
oppure non dobbiamo assolutamente dire che l'essere è un intero?
TEETETO - Hai proposto una scelta difficile.
STRANIERO - Certo hai detto una cosa verissima. Infatti, se l'essere che è
affetto è in qualche modo uno, risulta essere non identico all'uno e il tutto
(Tà mivw) sarà dunque più di uno.
TEETETO - Sì. (245 B 4-10)
La domanda è posta in modo diretto: l'essere che pàrtecipa dell'u-
no, inteso come tutto, è sia uno sia intero? Il quesito appare strano per-
ché, come abbiamo visto, solo poche righe prima Platone ha dichiara-
to che nulla impedisce a una realtà che ha parti di essere sia un tutto
sia un intero sia un uno. C'è ~ma sola variazione, nel senso che prima
ci si è chiesto se un tutto e un intero sia anche uno, cosa ovvia, ora si
chiede se un tutto, che in certo senso è uno, sia anche intero. Il punto,
quindi, è che Platone non sta mettendo in discussione quello che ha
appena detto, ma sta iniziando ad approfondire tre concetti (l'Uno
assoluto è già a parte) che possono sembrare identici, mentre. non lo
sono. Il problema vero riguarda l'intero, perché, quanto al tema dell'u-
nità, risulta subito ribadito che, se una realtà partecipa dell'uno, è uno
ma non nel senso della perfetta identità con l'uno stesso; al contrario,
il tutto è molteplice. L'essere, quindi, è uni-molteplice, è una moltepli-
cità unificata. Si tratta di un'affermazione ovvia: anche un caotico
insieme di cose tra di loro del tutto irrelate in qualche modo è e resta
"uno", mentre sembra impossibile definirlo un "intero" come farem-
mo, ad esempio, con un organismo.

2.1. Primo argomento contro la separazione di essere e intero


STRANIERO - E se l'essere non è un intero, per il fatto di essere affetto, per
l'affezione di quello [cioè per essere affetto dall'Uno], e invece l'intero
stesso è, l'essere risulta privo di se stesso. [ ... ) E secondo questo discorso
l'essere, privato di se stesso, non sarà essere. (245 C 1-6)
Se la realtà, per non essere perfettamente una, non è un intero e l'inte-
ro è, l'essere non è ma in senso radicale, proprio perché gli manca l'inte-
ro che è: sarà "privo di se stesso", cioè "irreale".
87
Maurizio Migliori

2.2. Conseguenza dell'eventuale separazione sul tutto


STRANIERO - E, a sua volta, il tutto viene ad essere più di uno, poiché l'es-
sere e l'intero hanno ciascuno una natura propria separata. (245 C 8-9)
Il ragionamento riprende quello precedente, la separazione tra essere e
intero: applicata al tutto, questo risulterà non più uno, ma non nel senso
che è uno-molteplice, ma nel senso che saremmo di fronte non a una sola
realtà, ma a due, diverse e incomunicabili: non un sistema complesso, ma
qualcosa di sostanzialmente inesplicabile.

2.3. Conseguenze dell'eventuale separazione sull'essere e sul divenire


STRANIERO- Se poi l'intero assolutamente non è, queste stesse cose appartengo-
no ali' essere e questo, oltre a non essere, non potrà neppure diventare mai essere.
TEETETO - Perché?
STRANIERO - Ciò che diviene sempre è divenuto intero, cosicché chi non
pone l'intero tra le cose che sono non deve indicare né l'essere né la gene-
razione come realmente esistenti. (245 C 11-D 6)
Il brano è di difficile interpretazione per la sua stessa brevità, e tuttavia
è chiaro che, se l'intero non è, non sono nemmeno l'essere e la generazio-
ne, e ci si trova in una situazione che rende inesplicabile la realtà comun-
que intesa, che la si voglia stabile o instabile.
Come si vede, in vari modi Platone sottolinea la centralità del concetto
di intero, e quindi del gioco intero-parti, e la sua natura di "precondizio-
ne" della stessa a.mmissibilità di un'ontologia.
Si aggiunge poi un'osservazione apparentemente irrilevante per la tratta-
zione in corso, in quanto si afferma che il non intero (Tò µ"JÌ oÀ.ov, 145 D
8) non può essere una quantità, perché in questo caso sarebbe l'intero di
quella quantità. Questo vuol dire che ciò che si oppone all'intero, inteso
come quella dimensione che condiziona l'ontologia stessa, deve necessaria-
. mente essere indefinito. Il pensiero corre immediatamente ai numerosi rife-
rimenti al Non uno, come radicalmente opposto all'Uno, del Parmenide24,
alla coppia Peras-Apeiron del Filebo25 e a tutto quanto dicono le testimo-
nianze indirette in merito alla polarità Uno-Grande-e-piccolo26.

24. Cfr. quanto diciamo in Dialettica e verità, cit., pp. 463-66.


25. Cfr quanto diciamo in proposito in L'uomo, cit., pp. 439-45, 486-99.
26. Cfr. G. REALE, Per una nuova interpretazione di Platone. Rilettura della metafisica dei
grandi dialoghi alla luce delle Dottrine non scritte, CusL, Milano 1984, nuova ed. Vita e
Pensiero, Milano 1987 più volte riv. e corr. con aggiunta di nuovi indici, Milano 1991 10 ( vers.
"definitiva"), 199720 (con l'aggiunta di varie app., nuovi indici e agg.), pp. 214-27, 248-65.

88
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista

A questo punto, l'analisi platonica si ferma. Si tratta di una scelta: il


testo dice che ci sono mille altri problemi sia per chi sostiene che l'esse-
re è due cose insieme sia per chi sostiene che è una cosa sola. Il lavoro non
è completo, si afferma esplicitamente, non si sono passati in rassegna tutti
coloro che parlano di essere e non essere, ma quanto detto basta (245 E).
E in effetti abbiamo visto sia i limiti dell'ontologia, sia la sua dipenden-
za da una realtà che, nell'ultima affermazione, "superflua", ci è apparsa
"binaria".

La gigantomachia e la centralità della coppia agire-patire

Com'è noto, a questo punto si modifica il punto di vista dell'interpre-


te, che non considera più la quantità dei principi messi in g'ioco, ma la loro
natura. Comincia infatti la gigantomachia tra i materialisti, che identifica-
no corpo ed essere, riconducendo l'intera dimensione del reale a contatto
e resistenza, e coloro che sostengono l'esistenza di eide, forme intellegi-
bili e incorporee, collocando il mondo corporeo non nella dimensione del-
1' essere ma in quella di un "divenire continuo".
Platone non presenta la posizione dei materialisti (246 D-248 A) stori-
camente presente ai suoi tempi, in quanto gli appare troppo rozza, ma una
resa in un certo senso migliore, in modo che sia possibile un confronto
civile. Si incalzano "questi" materialisti fino a far loro ammettere un qual-
che ente incorporeo. Ciò è sufficiente per far cadere la loro impostazione.
Platone naturalmente ribadisce che questa argomentazione vale solo per
quei materialisti che sono diventati migliori, perché gli altri continuereb-
bero a ribadire che ciò che non si tiene con le mani è nulla (246 E-247 C).
È a questo punto che il ragionamento platonico ha una svolta improv-
visa e, per certi aspetti, straordinaria. Lo Straniero sembra preoccupato
per la situazione in cui le sue stesse obiezioni hanno posto i materialisti
"migliori". Costoro, infatti, si trovano nell'impossibilità di definire la real-
tà, con un termine comune al materiale e al non materiale, sono cioè in
grave difficoltà. Per questo lo Straniero formula quella che sembra una
proposta fatta a loro, mentre alla fine risulterà essere un 'asserzione meta-
fisicamente decisiva:
STRANIERO - [ ... ] Forse si trovano in difficoltà. Nel caso che si trovino a
subire una qualche situazione del genere, guarda se, su nostra proposta, arri-
vano ad accettare e a concedere (oµoÀoyElv) che l'ente sia di questo tipo.
[ ... ] Dico che qualsiasi cosa possegga una qualsiasi potenza (ouvaµLv), o
che per natura sia predisposta a produrre (rroLE'Lv) un'altra cosa qualunque,

89
Maurizio Migliori

o a subire (miaxELv) anche la più piccola azione da parte della realtà più
insignificante, anche se solo per una volta, tutto ciò realmente è. Infatti, pro-
pongo una definizione: gli enti non sono altro che potenza (8uvaµts).
TEETETO - Ma poiché essi non hanno, al momento, niente da dire migliore
di questo, accettano tale definizione.
STRANIERO - Bene. Può darsi, infatti, che a noi come a loro possa apparire
in seguito una cosa diversa. Per ora, dunque, rimanga convenuta tra noi e
loro questa definizione.
TEETETO - Rimane. (Sofista 247 D 4-248 A 3)
Quindi, la proposta "ontologica" che lo Straniero fa ai materialisti è di
ac;cettare l'affermazione che la realtà non è altro che dynamis. Tutto il
reale, materiale e spirituale, si comprende a partire da un agire ed un pati-
re. È certo facile opporre a una "sopravvalutazione" di questo passo il
fatto che la proposta è fatta in tono dimesso, che potrebbe essere accetta-
ta, per così dire, per disperazione, che qui si ipotizza anche la possibilità
di una opinione diversa. E tuttavia la chiusa appare tanto forte che non
dovremmo stupirci per quello che ci aspetta nella successiva trattazione.
Infatti, si passa agli Amici delle Idee (248 A-250 D), a partite da quel-
lo che è probabilmente il punto di maggior contatto tra loro e il platoni-
smo, cioè la distinzione tra essere e divenire cui si collega una distinzio-
ne sul piano delle funzioni conoscitive:
STRANIERO - E dite che con il corpo, per mezzo della sensazione, noi comu-
nichiamo (KotvwvE'iv) con iÌ divenire, mentre con l'anima, per mezzo del
ragionamento, con l'essere reale, il quale voi dite che è sempre identico
nello stesso modo, mentre il divenire è in ogni momento diverso.
TEETETO - Diciamo così, infatti.
STRANIERO - Ma, ottimi amici, che cosa dobbiamo dire che sia per voi que-
sto "comunicare" (KotvwvE'iv) in relazione ad entrambi i casi? Non è forse
quello che abbiamo detto poco fa?
TEETETO- Che cosa?
STRANIERO - Un subire o un fare, per mezzo di una determinata potenza
(rrci81iµa lì TTOLT]µa ÈK 8uvciµEU'.is Ttvos), a partire da cose che si incon-
trano l'un con l'altra. Forse, Teeteto, tu non comprendi la loro risposta a que-
ste domande, mentre io probabilmente sì, data la, mia consuetudine con loro.
TEETETO - Che discorso fanno, allora?
STRANIERO - Non ci concedono quello che poco fa è stato detto sull'essere
ai nati dalla terra.
TEETETO- Che cosa? .
STRANIERO - Abbiamo dato, se non erro, come definizione adeguata
(ìxav6v) degli enti, che sia presente la potenza di subire o di agire (rrciaxELv
lì 8pdv), anche rispetto alla più piccola realtà. (Sofista, 248 A 10-C 5)
90
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista

In questo brano Platone ci dice molte cose:


1. presenta la teoria della separazione dei due piani del reale che ricor-
re più volte nelle sue opere: c'è una dimensione dell'essere, sempre iden-
tico, raggiungibile dal logos, e una dimensione del divenire continuamen-
te modificata che, essendo corporea, raggiungiamo con il corpo attraver-
so la sensazione; fin qui siamo in pieno platonismo;
2. l'attacco agli Amici delle Idee muove proprio da questa piattaforma
comune e si incentra su questa relazione, che implica quella che si è detto
essere la caratteristica di tutti gli enti, cioè un agire e un patire;
3. lo Straniero di Elea è anche in grado di prevedere quello che pense-
ranno in proposito gli Amici delle Idee, in quanto, a differenza di Teeteto,
ha una certa consuetudine con loro; si tratta di un'informazione certamen-
te di tipo teoretico in quanto tutto qui, a partire dalla stessa figura dello
Straniero, non ha una valenza cronachistica: questi amici delle Idee sono
dunque eleatizzanti;
4. questi "idealisti" non sono in crisi e quindi non accetteranno quella
definizione come i materialisti; in sintesi, la loro posizione è migliore, ma
proprio per questo mentre, se si riesce a confrontarsi con i materialisti
(cioè a renderli meno rozzi), è facile metterli in crisi,· questo risulta più
difficile. con costoro con cui pure, date le premesse comuni, la discussio-
ne è più facile e diretta;
5. la cosa più rilevante è però nella formulazione stessa della definizione
che è ancora più radicale della prima; si dice infatti che si tratta di una defini-
zione adeguata e che si. presenta anche nelle realtà minime: gli enti sono
potenza di agire o di patire. Su questo lo Straniero poi polemizza duramente
con gli Amici delle Idee, che riconoscono la potenza del subire e del fare, limi-
tandola però alla sola dimensione del divenire ed escludendola dall'essere.
Non può essere sottovalutato il fatto che, e il modo con cui, per due
volte Platone ha affermato come caratteristiche fondamentali dell'intera
realtà la capacità di agire o patire. Questa è quindi la visione del reale che
Platone propone, sia rispetto ai materialisti sia rispetto agli idealisti, cioè
rispetto all'interafilosofia: non una ontologia statica ma una dinamica e
una dialettica. Non siamo di fronte ad una soluzione debole, una via di
fuga per i materialisti emersa quasi per caso, visto che senza alcuna ragio~
ne viene riproposta, e con durezza, anche agli "idealisti".
La posizione di Platone, quindi, ammette logicamente la potenza del-
1'agire-patire a tutti i livelli, anche nella sfera superiore. In effetti, le obie-
zioni che lo Straniero presenta via via coinvolgono tutti i piani della filo-
sofia (248 C-249 B):·
91
Maurizio Migliori

1. A livello di psicologia, se l'anima conosce e l'essere è conosciuto


questo implica fare e subire, cosa che gli Amici delle Idee negheranno,
pena il contraddirsi;
2. A livello gnoseologico, dovrebbero ammettere che l'essere conosciu-
to da un atto conoscitivo, in quanto conosciuto, si muove, subendo un'a-
zione, cosa impossibile se la realtà è immobile come loro sostengono;
3. A livello cosmico, non si può ammettere che cose come movimento,
vita, anima e intelligenza, siano assenti nella realtà che è tutto, çhe
dovrebbe essere una cosa santa priva di intelligenza e immobile; ancor
meno si può pensare che abbia intelligenza ma non vita, o peggio ancora
che le ha entrambe ma è priva di anima; infine sarebbe assurdo attribuir-
le intelligenza, vita e anima e farla immobile.
Lo Straniero non si ferma nemmeno a questo punto, anzi trae le conse-
guenze teoriche generali da quello che è stato detto, escludendo le due
posizioni estreme (249 B-D): se si pensano tutti gli enti immobili, siano
Uno siano molteplici Idee (affermazione che conferma il legame tra elea-
tismo e questi Amici delle idee) non ci sarebbe alcuna intelligenza di nes-
suno e per nessuna cosa; tuttavia, lo stesso accade se tutto è in movimen-
to, perché non c'è nulla di identico, cioè nella stessa relazione e nello stes-
so modo, nulla di costante e stabile, e quindi l'intelligenza non potrebbe
operare. In sintesi, queste due posizioni eliminano vita, anima, intelligen-
za e lo stesso discorso.
Non si può sostenere né che tutto è immobile né che tutto è in moto, ma
bisogna ammettere entrambi i termini: un filosofo deve duramente pole-
mizzare con queste posizioni che eliminano la scienza o il pensiero o l'in-
telligenza (249 e 7, ÈmaTiJµrw ìì cpp6vrpLJJ ìì vovv), ma
secondo la preghiera dei bambini, che quanto è immobile anche si muova,
dice che sia l'essere (TÒ ov) sia il tutto (Tò rréiv) sono l'una e l'altra cosa.
(249 D 3-4)
Non credo che ci sia bisogno di evidenziare come Platone sottolinei
ancora la duplicità, cioè anche lo stacco, di essere e tutto, sottoponendoli
entrambi alla necessità del mòvimento che è scaturita dalla posizione della
realtà come dynamis, come agire e patire.

Conclusione

Evitiamo di trarre in forma esplicita le conseguenze di questa "sostitu-


zione" all'ontologia di un modello che, volenti o nolenti, è "binario". È
92
Non è l'ontologia il vero cuore del Parmenide e del Sofista

sufficiente raccordare i vari dati che abbiamo visto, segnalando la coeren-


za tra la visione sopra enucleata e una concezione uni-molteplice di un
reale che sembra condannato all'infinita divisione se non interviene qual-
cosa d'altro ad imporre un diverso principio d'ordine, per realizzare quel-
l'intero ordinato con parti ordinate che dà luogo a un sistema precario, ma
reale. Questo vale per ogni singola realtà, che è un misto per l'azione del
Peras sull'Apeiron, e a maggior ragione per il cosmo in cui
c'è molto illimitato e sufficiente limite, e, al di sopra di essi, una causa non
da poco, la quale, ordinando e regolando gli anni, le stagioni e i mesi, può,
a buon diritto, essere chiamata sapienza e intelligenza. (Filebo, 30 C 4-7)
Ci limitiamo ad una sola aggiunta, che traiamo da quel blocco di dialo-
ghi connessi su cui già ci siamo soffermati. A nostro avviso, emerge uno
schema chiaro: 1.1. dopo un'introduzione che, in una cornice storicamen-
te adeguata, fornisce un primo esempio di filosofia dialettica (Parmenide),
1.2. e dopo aver liberato il tema della scienza dal relativismo protagoreo
(Teeteto), si può affrontare la questione centrale in modo dialettico 2.1.
prima staccando la figura opposta del sofista (Sofista), 2.2. poi evidenzian-
do le caratteristiche di una realtà assai prossima a quella del filosofo
(Politico), 3. per giungere alla soluzione platonica (il Filosofo non scritto).
Su questo terreno si impongono due riflessioni. La prima riguarda la
evidente decisione di Platone di non scrivere questo ultimo dialogo (dopo
il Politico, Platone ha scritto certamente Filebo, Timeo, Crizia, Leggi!!).
Non mi interessa in questa sede aprire la discussione sul "perché" di que-
sta decisione27, ma solo evidenziare che Platone ha avuto tutto il tempo
per scrivere questa opera; pertanto, la sua assenza si spiega, esclusivamen-
te e adeguatamente, con quella tecnica del volontario rinvio che trova uno
dei suoi momenti più evidenti nella questione del Bene28.
Il secondo elemento è che, malgrado tutto, come spesso accade,
Platone fornisce alcune allusioni molto significative. In questo caso non
può essere ignorato che, apparentemente senza ragione, Platone tratta, di
nuovo nel Politico, la questione decisiva29 della metretica, esplicitando

27. Per quanto riguarda questo "mistero" cfr. quanto dico in Arte politica, cit., pp. 369-71.
28. Su questo terreno cfr. quanto abbiamo già detto in "Sul Bene. Materiali per una lettu-
ra unitaria dei dialoghi e delle testimonianze indirette", in G. REALE - S. ScoLNICOV (eds.),
New Images of Plato, Dialogues on the Idea of the Good, Academia Verlag, Sankt
Augustin 2002, pp. 115-49, soprattutto pp. 121-31.
29. E tale appare in un crescendo che a partire dal Protagora, 356 D-357 A, giunge alla
chiarificazione della sua importanza nel ruolo che svolge la Misura nel Filebo. Per una
trattazione adeguata della metretica e del suo n~sso con la misura, rinvio a "Il bello e il

93
Maurizio Migliori

l'esistenza di due modelli di metretica (283 B-287 B), la prima basata


sulla semplice contrapposizione reciproca di due termini, mentre l'altra
rapporta gli estremi, il più e il meno, al giusto mezzo, a quella misura che
è necessaria per la generazione delle cose e che consente di valutare ciò
che è buono e ciò che è cattivo. Solo questa seconda metretica ha un valo-
re sul piano ontologico e su quello assiologico, consente l'esistenza e la
bontà delle cose. L'Autore dichiara che lo svolgimento adeguato di un tale
tema richiede un lavoro troppo lungo che "ora" non è il caso di fare.
Siamo di fronte, nuovamente, ad un "rinvio" della trattazione che resta
incompiuta. Si dice però che quanto detto servirà nel momento in cui si
affronterà l'Esattezza in sé (aùTò TàKpt~És, 284 D 2).
Questo è un evidente riferimento al Filosofo non scritto in cui quindi si
sarebbe dovuta riprendere la questione della metretica, svolgendola in
modo adeguato chiarendo ciò che consente alla metretica di operare, cioè
la Misura, "impropriamente" qui definita Esattezza in sé, quel principio
del Limite che, con la sua azione, impedisce al cosmo di sprofondare
nel mare della disuguaglianza che è infinito (aTTELpov) (Politico, 273 D 6-E 1).

buono della virtù", in L. .NAPOLITANO VALDITARA - M. MIGLIORI (eds.), Plato ethicus,


Morcelliana, Brescia 2004, in corso di stampa.

94
MARIO VEGETTI

STRUTTURA E FUNZIONI
DELLA DICOTOMIA NEL SOFISTA

1. È il caso di cominciare - per evitare qualche equivoco ben radicato


nella tradizione esegetica - chiarendo ciò che la dicotomia del Sofista non
è, e non intende essere.

1.1 In primo luogo, essa non è uno strumento per la classificazione e la


definizione delle specie viventi. Se Platone avesse inteso costruire uno stru-
mento di questo genere, apparirebbe ben fondata la critica rivolta da
Aristotele nei capitoli 2-4 del primo libro del De partibus animalium contro
coloro tentano di "prendere la singola specie dividendo il genere in due dif-
ferenze", cioè hoi dichotomountes. Questo è impossibile, secondo Aristotele,
per una serie di buone ragioni. "È impossibile, scrive Aristotele, giungere a
uno qualunque degli animali singoli (cioè all'eidos specifico) dividendo per
due": e questo perché giungere all"'ultima differenza" (eschate diaphora), se
da un lato rende superflue (perierga) tutte quelle che la precedono nella
sequenza dicotomica, dall'altro non basta a cogliere l'eidos, che va indivi-
duato ricorrendo immediatamente e simultaneamente a una pluralità di carat-
teri (symbainonta) propri dell'essenza sostanziale della specie.
Secondo l'approccio insieme metodico e ontologico di Aristotele, la
vera "differenza" specifica, la differenza "compiuta" (teleutaia) - in real-
tà, come si è detto, un insieme di tratti càratterizzanti la ousia-'- è "l' eidos
nella materia", la soglia formale di discontinuità e di demarcazione speci-
fica, non l;llteriormente divisibile, nel continuum materiale del genere, che
95
Mario Vegetti

separa ad esempio, nell'ambito degli uccelli, la gru dallo struzzo. Oltre


che a questa impossibilità di principio, una tassonomia dicotomica porte-
rebbe ad altre assurdità. Ad esempio, il numero delle specie viventi
dovrebbe risultare necessariamente pari a una potenza di due, visto che
ogni passo dicotomico produce appunto due gruppi. Inoltre, la dicotomia
smembra inevitabilmente i "generi naturali" - cioè quelli designati dai
nomi del linguaggio comune, come "pesce" o "uccello"-, perché li redi-
stribuisce, secondo la scelta delle differenze, ad esempio fra acquatici e
terrestri, o fra selvatici e domestici; e d'altro canto essa produce una pro-
liferazione di "generi artificiali", che non corrispondono né all'uso lingui-
stico né alla struttura sostanziale degli eidel.
Si è detto che la severa critica di Aristotele (che sembra indirizzata,
a dire il vero, più contro il Politico che contro il Sofista) non colpisce
in effetti il senso e le intenzioni della procedura dicotomica effettiva-
mente impiegata e teorizzata da Platone - anche se non si può esclude-
re che in ambito accademico essa sia stata effettivamente piegata ad usi
tassonomici, con gli inevitabili effetti di irrigidimento, forse nei miste-
riosi Homoia di Speusippo o nelle altrettanto misteriose "diairesi scrit-
te" di cui parla Aristotele. Di questo uso è rimasta una traccia nel cele-
bre testo del comico Epicrate riferito da Ateneo: "nel ginnasio
dell'Accademia ho udito discorsi indicibili, incredibili. Analizzando la
natura dividevano le forme di vita degli animali, la natura degli alberi,
i generi degli ortaggi. E in queste ricerche indagavano a che genere
appartenesse la zucca ... "2.
Ci sono però, ripeto, ragioni di principio che portano a escludere che
l'intenzione tassonomica facesse parte del disegno originale della dialet-
tica dicotomica. La prima è che il campo da dividere è assunto -per ipote-
si dialogica e non costituisce dunque il "genere naturale" aristotelico,
codificato dal linguaggio comune. La seconda consiste nella regola meto-
dica, su cui torneremo, di dividere solamente il campo "di destra", il che
esclude per principio l'intento di completezza classificatoria. La terza è
costituita dalla pluralità di identificazioni compossibili dell' eidos cercato,
addirittura sei o sette nel caso del sofista.

1. Ho discusso più ampiamente questi problemi in "Ontologia e metodo. La critica aristo-


telica alla dicotomia in 'De partibus animalium 'I 2-4", di prossima pubblicazione in M.
MIGLIORI (a cura di), Il problema del metodo: Platone e Aristotele, Brescia, Morcelliana
2004. Per un'interpretazione d'insieme del Sofista, rinvio alle mie Quindici lezioni su
Platone, Torino, Einaudi 2003, pp. 186-200.
2. Ateneo II 59 d-f. '

96
Struttura e funzioni della dicotomia nel Sofista

1.2 In secondo luogo, la dicotomia non intende certamente generare un


progetto di tassonomia universale, una sorta di atlante ontologico di tutta la
realtà, come sembra suggerire qualche sua interpretazione neoplatonica (ad
esempio il celebre "albero" di Porfirio), ancora ripresa da StenzeP. Questo
intento è escluso per principio dall'impossibilità di dividere il megiston
genos dell' "essere", che non costituisce un'idea-classe inclusiva di-un insie-
me ordinato di enti, come è ad esempio "animale", bensì una proprietà comu-
ne a tutti gli enti in quanto tali. Se l'essere fosse divisibile in specie, dovreb-
bero esserlo anche gli altri megista gene, come l' "identico", il "diverso'', il
"movimento" o l' "immobilità", il che evidentemente è assurdo.
A ciò si aggiunge il già menzionato divieto di dividere il campo dico-
tomico "di sinistra", che esclude in linea di principio la possibilità di satu-
rare una tassonomia dicotomica universale. ·

2.1 Per avvicinarci a una comprensione in positivo della natura e del


senso della dialettica dicotomica, è bene considerare il modo con cui essa
viene delineata nel disegno dialogico del Sofista. Si tratta, come è ben
noto, di dare la caccia al personaggio omonimo, che a sua volta è un cac-
ciatore, di seguirne le tracce (ichne ), di afferrarlo e chiuderlo in una rete:
come ha osservato Bernadete, il linguaggio della caccia - che comporta
una valenza euristica - appare dominante nel dialogo. Ma come condurre
questa caccia a una figura di cui è noto soltanto il nome?
Il primo aspetto saliente del dialogo è che il procedimento che verrà
seguito risulta introdotto senza formulare alcuna regola metodica, per la
quale occorre attendere il riepilogo - a cose fatte - delineato alla fine del
dialogo (264d-e ). Poiché nella finzione dialogica il Sofista precede il
Politico, e non è lecito d'altra parte presumere che lo Straniero di Elea
avesse assistito alla conversazione fra Socrate e Fedro sulle rive dell'Ilisso
(su cui dovremo tornare), nel contesto del dialogo viene presentato un
esperimento privo sia di regole sia di precedenti, e come tale esso andrà
qui rapidamente riconsiderato.
Una prima, e importante, indicazione metodica viene tuttavia segnala-
ta all'inizio della procedura dicotomica (218c). Non basta, per conoscere
una cosa qualsiasi, fermarsi al suo nome "privo di discorso" (XUJPÌ.S M-
yov ); occorre invece "giungere a un accordo mediante i discorsi" (avvw-

3. Cfr. J. STENZEL, Plato s Method of Dialectic, trad.ingl. Russell and Russell, New York
1964 (1940): la diairesis è descritta come "an unbroken chain leading from the most gene-
rai Being to the 'atomic form"', p. 136.

97
Mario Vegetti

µoÀoyf)u8m 8Là Mywv). Vorrei qui richiamare l'attenzione su due aspet-


ti importanti di questa asserzione. Il primo consiste nell'esigenza di homo-
logia fra gli interlocutori del dialogo da raggiungersi attraverso il logos.
Essa è richiamata àlla fine dell'esempio del pescatore con la lenza:
"abbiamo convenuto (auvwµoÀoyfirnwv) non solo sul nome, ma abbia-
mo anche afferrato- in modo adeguato il logos relativo alla cosa stessa
(auto to ergon )" (221 b). Il fatto che la validità dei risultati raggiunti dipen-
da dall'accordo fra gli interlocutori sottolinea il carattere dialettico-dialo-
gico, quindi non sistematico-tassonomico, dell'intera procedura. La
seconda osservazione riguarda il termine logos, che di solito viene tradot-
to con "definizione": una traduzione che è però imprecisa, visto appunto
che si tratta comunque di un "discorso" fra due o più interlocutori, e -
come vedremo meglio in seguito - non propriamente di una definizione,
che si dovrebbe intendere come univoca e invariante, ma di una "rete"
discorsiva e concettuale che essi intessono per delimitare il significato, o
meglio la pluralità dei possibili significati, del "nome" indagato.
La prima mossa della caccia dicotomica al sofista consiste nel costruir-
ne un modello semplice, un paradeigma, quello del pescatore con la
lenza. È affidato a questo modello, e non a una regola metodica precosti-
tuita, il compito di indicare methodos kai logos adatti allo scopo persegui-
to (219a): dove l'espressione vale evidentemente "discorso metodicamen:-
te organizzato", e può venir chiarita dal riferimento extra-dialogico al
passo del Fedro in cui Socrate si dichiarava "innamorato del metodo della
diaresis e della synagoge" che lei rendeva "capace di parlare e di pensare"
(266b). Questo "discorso" viene riassunto, alla fine dell'esperimento
(22lb-c), e considerato in grado non solo di ottenere il consenso degli
interlocutori ma anche di "mostrare" (dedelotai) adeguatamente il signifi-
cato del nome indagato, cioè il logos della cosa stessa.
2.2 Un ulteriore aspetto che va sottolineato nell'esperimento metodi-
co è il carattere non "naturale'', ma soltanto scelto nel contesto dialogi-
co, dei generi in cui includere l'oggetto della ricerca. A Teeteto, che si
chiede se esista una "caccia agli animali domestici", lo Straniero rispon-
de di "metterla come ti pare" (222b: 8Ès OTTlJ xatpàs) - e Teeteto,
invece di adottare una delle tre alternative propostegli, ne sceglie una
quarta (esiste una caccia all'uomo benché sia un animale domestico). Lo
stesso Straniero passa dall'uno all'altro genere di inclusione dicotomica
del "sofista" in modo puramente paratattico, senza indicarne alcuna
legittimazione a parte il consenso dell'interlocutore. Basterà qualche
esempio in proposito: si passa dalla prima alla seconda cosiddetta defi-
98
Struttura e funzioni della dicotomia nel Sofista

nizione con la formula "vediamo anche da quest'altro punto di vista"


(223c: ETL KaÌ. TlJOE 'l8wµEv ); dalla seconda alla terza con "indaghia-
mo inoltre (eti)" (224e), e similmente dalla quinta alla sesta. Il carattere
di "decisione" di tutte queste inèlusioni è chiaramente indicato dal verbo
dedoktai (235b ), che dà luogo "rapidamente" alla divisione della eido-
lopoiike: si tratta evidentemente di una sorta di precomprensione intui-
tiva del significato cercato che viene poi metodicamente analizzata ma
non propriamente 'dimostràta' (se pretendesse di far questo, diceva
Aristotele in Analitici Secondi II 13,. sarebbe un sillogismo "infermo",
asthenes). Non esiste dunque alcuna mappa ontologica o naturale dei
generi e delle specie che la dicotomia debba riconoscere e ripercorrere:
questa mappa è al contrario prodotta dalla procedura nel corso della sua
configurazione, ed è sempre doppiamente relativa, in rapporto all'ogget-
to di cui si cerca il logos da un lato, alle scelte degli interlocutori dialo-
gici dall'altro. Esiste, credo, un criterio di verità trascendentale rispetto
a queste scelte, ma esso non consiste in una tassonomia ontologicamen-
te invariabile. Ma su questo tornerò più oltre.
Veniamo per ora alla delineazione del metodo, come essa è tracciata
postfactum, più come una riflessione sul percorso compiuto che come una
prescrizione normativa. Si tratta dunque di "individuare il genere [cui
appartiene l'oggetto indagato], di scinderlo in due parti, e di procedere
sempre seguendo la parte destra della suddivisione [l'espressione ha senso
solo se si pensa a chi osserva una tavola scritta], dove reperiamo i tratti
che sono comuni al sofista, finché, dopo aver scartato tutto ciò che ha in
comune con il resto del genere, possiamo individuare la natura che gli è
propria; la mostreremo prima di tutto a noi stessi, poi anche a quelli che
sono più congeneri a un metodo di questo tipo" (264d-e). A parte quest'ul-
tima enigmatica espressione, sulla quale tornerò, va notato che non si dice
perché la divisione debba esser condotta per due (nel Fedro e anche nel
Politico, che pure è più esplicito in proposito, parlando di sezioni equieste-
se, si effettuano anche tricotomie) ; più che di una regola procedurale, si
tratta appunto della descrizione del lavoro svolto nel dialogo. Di qui si
può in ogni caso partire per un'interrogazione sul senso e le funzioni del
procedimento dicotomico così strutturato.

3. Come si è visto, nel Fedro Socrate considerava la synagoge (cioè la


riunificazione o inclusione in un genere di appartenenza) e la diairesis
(cioè la divisione metodicamente ordinata del genere negli eide così riuni-
ficati) come un buon metodo "per parlare e pensare" - quindi di ambito
99
Mario Vegetti

logico-argomentativo - , e si dichiarava pronto a seguire le tracce di chi


ne era capace, il "dialettico", "come se fossero quelle di un dio" (266b).
Nel Sofista, l'enunciazione ordinata delle differenze dicotomiche che
individuano i rapporti di inclusione e di esclusione di un eidos, la sua speci-
fica collocazione all'interno del genere, viene ulteriormente precisata come
una "rete", formata da un insieme di strumenti discorsivi (235b: Twv Èv
TOLS MyOLs ... òpy6.vwv) capace di catturare il significato dei singoli termi-
ni-concetti, significato che deriva dalle relazioni che li connettono e li distin-
guono dagli altri compresi nello stesso ambito generico. Un metodo conside-
rato piuttosto potente, se è vero che "né questo [il sofista] né alcun altro
genos potrà mai vantarsi di esser sfuggito al metodo di coloro che sono capa-
ci di inseguirli in questo modo sia uno per uno sia in rapporto al loro insie-
me" (235c: così credo si debba tradurre Ka8' EKacrTa TE Km Èrrì. rravw).
Il concetto di "rete" si fonda sulla tessitura relazionale del discorso, e
questa a sua volta - secondo l' "assioma di corrispondenza" , tipicamente
platonico, per il quale ogni discorso è sempre "discorso su qualcosa" - si
basa sulla relazione ontologica fra idee ed idee, o fra cose ed idee (quale
che sia poi il valore che questo termine assume nel Sofista). Le relazioni
istituite nel discorso sono cioè descrizioni di relazioni reali (se il discorso
è vero) oppure inesistenti (se esso è falso). Tutto ciò è affermato con gran-
de chiarezza in un passo cruciale (259e ): "Rescindere ogni cosa da tutte le
altre equivale all'assoluta distruzione di ogni tipo di discorso, perché il
nostro discorso nasce dalla relazione (symploke) reciproca fra gli eide".
Noto, a proposito di questo passo, che esso sembra costituire la
risposta a due critiche importanti rivolte, molto tempo prima, a Socrate
e al suo gruppo. La prima era quella formulata da Ippia al termine
dell 'Ippia maggiore, che riteneva la ricerca del ti es ti responsabile di
· un'indebita frammentazione "dei grandi corpi della natura, che sono in
realtà continui" (una critica forse richiamata nel Sofista 246c). La
seconda critica era quella rivolta da Trasimaco a Socrate nel primo
libro della Repubblica: "sta attento a non dirmi che il giusto è l'oppor-
tuno o il giovevole o il vantaggioso o l'utile, ma dimmi con precisione
e chiarezza quello che intendi, perché io non accetterò nessuna di que-
ste chiacchiere" (336d). Queste critiche colpivano due aspetti diversi,
ma convergenti, della ricerca di risposta alla domanda sul "significato"
delle idee: da un lato, l'esigenza di individuazione e specificazione,
dall'altro il tentativo di ricorrere a "reti" quasi-sinonimiche per delimi-
tarne l'ambito di significazione. Nel Sofista, queste reti venivano inve-
ce ritessute ordinatamente e metodicamente proprio sulla base della
100
Struttura e funzioni della dicotomia nel Sofista

rinuncia alla frammentazione del campo ideale, al riconoscimento del


suo ordinamento relazionale (koinonia).·
La struttura relazionale del discorso e il suo valore epistemico vengo-
no così fatti dipendere dall'originaria struttura relazionale della realtà,
quale era stata indicata nella celebre definizione dell'essere come dynamis
di produrre e subire effetti, nonché dalla homologia raggiunta nel dialogo
sull'esistenza di una koinonia selettiva fra i generi (254b-c).
Diventano allora più chiari l'intenzione e il senso della dialettica dico-
tomica. Da un lato, non si tratta di produrre "definizioni" - rese impossi-
bili, come si è visto, dal fatto che sia la scelta del genere di partenza sia
quella delle successive inclusioni nei campi dicotomici dipendono da una
serie di decisioni degli interlocutori - bensì di costruire reti concettuali
che delimitano e descrivono l'ambito di significazione dei nomi: di trova-
re, insomma, il "logos della cosa", il discorso adeguato a comprendere
l'oggetto indagato situandolo nel contesto delle relazioni da cui esso deri-
va il suo significato. In questo senso credo vada intesa l'affermazione
finale del dialogo, secondo la quale l'ultima definizione del sofista è "la
più corrispondente alla verità" (284d), e l'esigenza, già formulata in 232a-
b, di raggiungere, al di là delle molteplici descrizioni possibili del signifi-
cato del "nome" cercato, ad un punto di vista unitario su di esso. Non
tanto una definizione formale, in senso aristotelico, ma piuttosto una sorta
di foca! mea11:ing nella rete di relazioni in cui esso viene contestualizzato4.
D'altro lato, si tratta di costruire una griglia relazionale capace, alme-
no in linea di principio, di tracciare una linea di demarcazione fra enun-
ciati predicativi veri (perché descrivono una koinonia che corrisponde allo
"stato delle cose") e falsi (perché ne descrivono una che non gli corrispon-
de). In questo modo, la dialettica dicotomica può finalmente, non solo dire
che cosa significa "sofista", ma addirittura sconfiggerlo, perché offre lo
strumento per espugnare quell'impossibilità di distinguere il vero dal
falso in cui si era arroccato il sofista protagoreo.

4. Il progetto della dialettica dicotomica viene così formulato, nella sua


massima generalità teorica che fonda anche le procedure di divisione:
"riconoscere adeguatamente (i) un'unica idea estesa in ogni direzione fra
molte altre, pur restando ognuna di queste unitaria e separata [si tratta dei
"generi massimi"]; (ii) e molte idee, diverse fra loro, comprese dall'ester-
no da una sola idea, (iii) che dal canto suo permane nell'unità benché este-

4. Devo questa precisazione a un'osservazione propostami da F. Fronterotta.

101
Mario Vegetti

sa fra molti insiemi di idee [rispettivamente, idee-classi, come "animale",


o idee partecipate, come buono (iii), e quelle 1che esse includono, come
"uomo", o che n.e partecipano, come "giusto" (ii)], e (iv) molte idee che
sono separate in quanto completamente distinte [le idee semplici come
risultato del lavoro dicotomico]. Questo significa saper distinguere per
generi, cioè come essi possono comunicare oppure no" (253d)5.
Così configurata come una sorta di grammatica generale dell'essere, del
pensiero e delle relative possibilità di enunciazione discorsiva, la dialekti-
ke episteme poteva ormai venire identificata senz'altro con la "pura e legit-
tima filosofia" (253d-e). Niente di nuovo, si potrebbe osservare, rispetto al
settimo libro dèlla Repubblica, che era giunto alla stessa identificazione.
Tuttavia, appare qui venir meno la connotazione etico-pratica della dialet-
tica fortemente accentuata nella Repubblica in virtù del legame fondativo
che la connetteva all'idea del buono. La sovranità della dialettica sul pen-
siero e il discorso non sembra dunque più estendersi al governo della città
e della vita, né porsi più la questione della felicità dell'una e degli altri.
Vorrei però che mi sia concessa, a questo proposito, qualche ulteriore
osservazione- non strettamente pertinente al mio tema- relativa all'enig-
matico protagonista del dialogo, lo Straniero di Elea.

5. Lo xenos proviene da Elea, ed è considerato un "dio" o un "uomo divi-


no", ciò che rinvia immediatamente, a mio awiso, al "dio" diairetico men-
zionato come si è visto nel Fedro. In quanto eleate, si tratta certamente di
un buon conoscitore del pensiero di Parmenide, non però di un suo seguace
se si accetta la plausibile lezione proposta da Cordero (216a3: heteron inve-
ce di hetairon, mantenendo ÉTalpwv nella riga seguente)6. Questo personag-
gio, immediatamente differenziato da Parmenide e dai suoi compagni, viene
in effetti giocato contro il "maestro" eleate, con il famoso "parricidio", ma
non solo contro di lui. Viene infatti subito escluso che si tratti di un "dio del-
1'elenchos" (216b). Se si accosta questa nota introduttiva al passo in cui la
confutazione viene considerata come una forma "nobile" della sofistica
(231 b ), migliore di essa per intenzioni morali?, ma affine per metodo, non è
difficile vedere come attraverso lo Straniero vengano prese le distanze non

5. Per un'analisi di questo passo cfr. M. DIXSAUT, Métamorphoses de la dialectique dans


!es dialogues de Platon, Paris, Vrin 2091, pp. 156 ss.
6. Cfr. N. CORDERO (a cura di), Platon. Le Sophiste, Flammarion, Paris 1993, pp. 281-84.
7. Come mostra F.J. GONZALEZ, "The Eleatic Stranger. Bis Master's Voice", in G. A. PRESS
(ed.), Who Speaks for Plato? Studies in Platonic Anonimity, Rowman and Littlefield,
Lanham 2000, pp. 161-81, questo aspetto non può essere significativo per lo Straniero, il
102
Struttura e funzioni della dicotomia nel Sofista

solo da sofisti alla maniera di Eutidemo e Dionisodoro, ma dalla stessa pra-


tica confutatoria tradizionalmente attribuita a Socrate in ambiente accade-
mico (o almeno dai suoi usi irresponsabili che vengono denunciati nel libro
VII della Repubblica, ... ). C'è di più: l'ironico attacco portato dallo
Straniero agli "amici delle idee"(246b-c, 248a-b) colpisce senza dubbio una
possibile interpretazione, probabilmente accademica, di Fedone e
Repubblica in termini di "teoria dei due mondi'', cioè della concezione della
separatezza fra idee e cose in termini di alternativa e non di fondazione e
causazione: una possibilità interpretativa del resto non estranea ai testi pla-
tonici, che verrebbero allora fatti oggetto di autocritica o almeno di chiari-
mento. Considerazioni analoghe si possono forse proporre circa il suo silen-
zio intorno al "buono". Fin qui si può dunque concordare con Ruby
Blundell, che ha visto nel personaggio dello Straniero un effetto di "distan-
ziamento" introdotto dall'autore del dialogo, di "spersonalizzazione" della
filosofia rispetto all'emblema socratico8.
Ma si può fare un passo ulteriore. Se la prossimità dialogica tra Sofista e
Politico va presa sul serio, come credo si debba fare per la permanenza del-
l'interlocutore e dei metodi messi in opera,, ciò ridurrebbe la distanza fra
dialettica e ambito etico-politico che avevo prima indicato in rapporto alla
Repubblica. Lo straniero sarebbe perciò non solo una "divinità" della dia-
lettica, ma anche l' ''uomo regale" preconiz:Zato dal Politico, o quanto meno
il signore di un approccio teorico che comprende anche l'ambito politico,
benché libero da riferimenti alla difficile problematica del "buono".
Perché dunque in questo ruolo un Eleate, ma non parmenideo, non socra-
tico, non accademico "prima maniera"? E, per aggiungere un ulteriore rilievo
problematico, che cosa significa l'asserzione (265a) secondo la quale lasco-
perta dicotomica della natura del sofista andrà "mostrata" non soltanto "a noi"
(interlocutori del dialogo) ma anche a "coloro che sono per genere più vicini
a un simile metodo"? (To1s ÈyyuTaTw yÉvEL Tiìs TowiJnis weooou
TTE</>uK6aLV). Si tratta di una sorta di "proposta di alleanza" fra l'Accademia e
altri gruppi, in qualche modo affini all'eleatismo, come quella che Ebert9 ha
letto nel Fedone nei riguardi dei Pitagorici, oppure di una ridislocazione

cui metodo è strettamente "value-neutral", quindi disinteressato agli aspetti etici della filo-
sofia (pp. 163-81 ).
8. Cfr. R. BLUNDELL, The Play ofCharacters in Plato s Dialogues, Cambridge, Cambridge
Univ. Press 2002, pp. 318-26. Nel saggio citato, Gonzalez mostra anzi come lo Straniero
sia in realtà un avversario di Socrate.
9. Cfr. T. EBERT, Sokrates als Pythagoreer und die Anamnesis im Platons Phaidon,
Stuttgart, Steiner 1994.

103
Mario Vegetti

interna alla stessa Accademia? E chi rappresenta allora l'Eleate nel


Sofista e nel Politico IO?
Non sono in grado di rispondere a questi interrogativi, e sono ben consa-
pevole che ogni apertura di indagine in direzione della discussione e degli
spostamenti interni all'Accademia, per quanto riguarda sia i suoi orienta-
menti sia la sua stessa composizione, è destinata a restare altamente ipoteti-
ca. Sono però al tempo stesso sicuro che si tratta di problemi che vanno
almeno posti, perché comportano una consapevolezza ermeneutica senza la
quale tutto viene appiattito sotto le etichette convenzionali del "sistema" di
Platone da una parte, o della sua "evoluzione" dall'altra. Il caso della dico-
tomia e della episteme dialektike nel Sofista e nel Politico, con il loro "divi-
no straniero", è un buon terreno di riflessione in questo senso.

10. Platone - pur contrapponendo lo Straniero a Socrate - mostra come il suo metodo sia
in grado di affrontare problemi di ontologia estranei ali' elenchos socratico: lo nota
Gonzalez (p. 179), che tuttavia non mette in relazione la figura dello Straniero con l'am-
biente accademico (allo stesso modo, egli indica il carattere antisocratico del politico come
"despota illuminato" descritto nel Politico, ma non ne rileva le affinità con le esperienze
politiche dell'Accademia: cfr. in proposito Quindici lezioni, cit., pp. 201-14 ).

104
SECONDA PARTE
VINCENZO VITIELLO

INCONTRO SUL PARMENIDE E IL SOFISTA

Mi fermerò in particolare sul Parmenide che costituisce da sempre - e


ancora - un problema aperto. Comincio dalla conclusione, che leggo per
esteso: "Si dica dunque che, a quanto sembra, se l'uno è e se non è, se
stesso e gli altri [se.: i molti] e in rapporto a sé e in rapporto agli altri tutti
assolutamente sono e non sono, appaiono e non appaiono" (166c ). Che
dire dopo una tale conclusione che invita a dire tutto e il C!!mtrario di tutto,
niente e il contrario di niente - parimenti? Come non dare ragione a quan-
ti sostengono che questo dialogo contiene solo "sofisticherie" (Wilamo-
witz-Mollendorf), o, più elegantemente, che è soltanto uno scherzo, un
alto giuoco dialettico con cui Platone confuta le argomentazioni dialetti-
che degli Eleatici, portandole all'estremo (Calogero)? O a chi, più cauta-
mente, afferma che la gymnasia di questo dialogo è sì un esercizio al
ragionamento filosofico, una propedeutica alla dialettica, ma non ancora
la dialettica, la quale porta al vero, e non si ferma alle contraddizioni,
giunge cioè all'idea, alle idee, ed alla loro symploké, connessione, come
Platone stesso mostrerà nel Sofista (Franco Ferrari)? Possono, però, aver
ragione gli altri, quelli dell'opposto partito, degli estimatori del dialogo -
che son molti e di nobilissimo lignaggio filosofico - i quali ritengono che
il Parmenide porti il dire filosofico oltre se stesso, là dove il pensiero tace,
e deve tacere (Plotino, Proclo), o almeno oltre le possibilità del dire comu-
ne, del pensiero intellettivo, del Verstand (Hegel). Insomma, si tratta di
107
Vincenzo Vitiello

uno scherzo, o della serissima fondazione dell'apofatismo? Chi, dei due


opposti partiti, ha ragione? Rispondo - anticipando la risposta all'argo-
mentazione per farmi meglio seguire -: né gli uni, né gli altri. In questo
dialogo Platone intende dare ragione (l6gon did6nai - in senso proprio:
portare a parola) del ragionare e del parlare in filosofia. Intende esamina-
re le condizioni di possibilità del logo filosofico, del pensare-dire in filo'-
sofia. Ricordo a tal fine che la II parte del dialogo - quella, per intender-
ci, dedicata alla "confutazione" della dottrina delle idee, che quanti sotto-
stimano la gymnasia di Parmenide, ritengono non adeguata alla vera dot-
trina platonica, quella già esposta nella Repubblica - termina con questa
affermazione che non è di Socrate, ma di Parmenide: "Tuttavia [ ... ] se
qualcuno, di fronte a tutte le difficoltà appena enumerate e ad altre simili
non sarà disposto ad ammettere che esistono forme di enti e non separerà
una forma determinata per ciascun singolo tipo di realtà, non avrà dove
rivolgere il pensiero, perché non è disposto a conce_dere che esiste un'idea
sempre identica di ciascuno degli enti, e così facendo distruggerà comple-
tamente la potenza della dialettica" (135b-c). Alla fine è Parmenide che
difende la dottrina platonica delle idee davanti ad un Socrate perplesso! È
proprio un giocherellone il Platone di questo dialogo. Tranne che ... , tran-
ne che non stia riproponendo la questione posta da Socrate sin dall'inizio,
la questione del thaumast6n, dell 'axios thaumazein, di ciò che è davvero
degno di meraviglia. E cioè: non che qualcosa partecipi degli opposti, che
è esperienza comune, bensì che l'uno in quanto tale sia molteplice, ed il
molteplice uno, et similia. Che l' efdos dell'uno sia insieme l 'efdos dei
molti. Efdos: vogliamo interrogarci una buona volta su questa parola, sul
significato che essa ha qui - nel Parmenide? Cominciamo dal significato
minimale: efdos è forma. Parmenide, non il soph6s, ma il personaggio del-
1' omonimo dialogo platonico, muove dal presupposto che è possibile pen-
sare qualcosa sempreché lo si pensi "in forma". E qui subito preciso: pen-
sare qualcosa, ho detto, non il numero o la grandezza, il bello e il giusto
in universale, non l'intelligibile, cioè, ma qualcosa, qualsiasi cosa, anche
"capello, fango e sporco", perché in filosofia - e questo è un altro inse-
gnamento che il buon Parmenide, venerando, certo, ma non terribile, dà a
Socrate - nulla è atim6tat6n te kaì phaul6taton, senza valore e di pochis-
simo conto (130c). Tutto ciò che si pensa, e si dice, tutto ciò che si espe-
risce, lo si pensa, lo si dice, lo si esperisce "in forma" - eideticamente.
Questo il presupposto che Parmenide intende saggiare nella gymnasia. E
qui bisogna fare subito una precisazione, da cui dipende anche la com-
prensione della affermazione conclusiva del dialogo, riportata all'inizio:
108
Incontro sul Parmenide e il Sofista

la stessa àrticolazione dell'esercizio dialettico che Parmenide propone


prima dell'esercizio stesso - e cioè la necessità di considerare l'uno e i
molti in rapporto a se stessi e in rapporto al loro altro, esaminando le con-
seguenze e riguardo a se stessi e riguardo al loro altro-, anche questa arti-
colazione "dipende" dal presupposto eidetico. L'esercizio, la gymnasia, è
tale da mettere in giuoco anche se stessa, il suo "principio". E non è que-
sto il livello più alto della dialettica, il pensiero noetico, che, a differenza
della dianoia, torna su ciò da cui ha preso inizio, per non lasciare nulla di
"inindagato"? (Si dica incidentalmente che "inindagato" non è lo stesso di
"indimostrato" - ci si può ben rendere conto che non è possibile dimostra-
re tutto, anzi secondo Aristotele è ignoranza non saper distinguere ciò che
si può dimostrare da ciò che non si può. Invero anche del non poter l6gon
did6nai di tutto è necessario l6gon did6nai: lo esige la filosofia!)
Premetto che non mi fermerò su tutte e nove - sì rtove, non otto - le ipo-
tesi, e non solo per una questione di tempo, ma anche, anzi soprattutto, per-
ché ai fini dell'argomentazione che intendo svolgere, non è necessario.
Prima ipotesi: ei hén estin, se uno è (137c); meglio: ei hén estin tò hén
(cf. 137d), se uno è l'uno, non sarà molti. Non avrà né principio, né mezzo,
né fine, perché principio, mezzo e fine, sono ciascuno parti dell'intero e
non l'intero, e pertanto l'uno non sarebbe uno, se fosse costituito di parti.
Dunque uno, in quanto uno è apeiron - senza limite. E non solo senza limi-
te esterno, sì anche senza limite interno. Vale a dire: in quanto apeiron, uno
è aneu schématos, senza figura, o disegno, senza forma (137d). Il termine
qui adoperato da Platone, schéma, riporta la memoria al Cratilo, a quel
passo in cui è detto che tutte le cose - pragmata, non onta - hanno phonè
kaì schéma, suono, o voce, e figura (423d). La sostanza dell'argomento è
tutta qui. Il resto è solo una esempificazione dello stesso: è di immediata
evidenza che non avendo - non potendo - avere figura, uno non è né cir-
colare, né rettilineo, né avrà luogo, interno o esterno, né quindi si muove-
rà, né sarà più giovane o vecchio, non essendo nel tempo, né al tempo par-
tecipando. E se essere ed essere nel tempo sono il medesimo, se cioè non
c'è altra forma di essere che l "'era", l '"è", il "sarà", allora di uno neppure
si può dire che "è". Conclusione: uno, se è uno, "non può avere né nome
né definizione (logos: parola, discorso), né può essere oggetto di scienza,
di sensazione, di opinione" (142a). Sembra così provato il presupposto, e
cioè che tutto ciò che si pensa, e si dice, tutto ciò che si esperisce, lo si
pensa, lo si dice, lo si esperisce "in forma" - eideticamente.
Controprova, seconda ipotesi: hèn ei éstin - uno se è (142b). Non se è
uno, ma se è. Qui "è" non ha valore copulativo, bensì esistentivo. E cioè:
109
Vincenzo Vitiello

attribuisce a uno, ciò che uno, in quanto uno, non è. Gli attribuisce !'"esse-
re". Ed uno ed essere sono diversi, infatti dire uno e dire essere non è il
medesimo, dato che diciamo che anche il moltiplice, il non uno, "è".
Pertanto uno ed essere sono parti dell'intero "uno è". In quanto parte cia-
scuno è limitato. È quel che è e non l'altro. Si configura in un modo e non
in altro. Schématos tinos metéchei: partecipa di una qualche figura. Epperò
sarà nello spazio e nel tempo, avrà grandezza, identità, diversità ecc.
Conclusione: uno se è, è oggetto di scienza, di opinione, di sensazione, ed
avrà nome e definizione (discorso: logos)-di esso si potrà dire, intorno. ad
esso pensare. Come volevasi dimostrare: si può pensare-dire solo di ciò che
ha figura, forma, efdos. Del tutto coerente, quindi, con la tesi di fondo del
dialogo il monito del vecchio Parmenide al giovane Socrate: se non si
ammettono forme non si saprà dove volgere il pensiero!
Chiaro anche che dove ci son cose distinte - e cioè: forme, figure, sché-
mata (o eide) - ci sono, hélma, simul, opposizioni e contraddizioni. Infatti,
I'uno che è, non è essere, epperò, essendo, non è; e il medesimo si ripeta
per identico e diverso, giovane e vecchio, mobile e immobile, ecc. ecc.
Bisogna, però, essere attenti ad evitare un grande fraintendimento: la
seconda ipotesi non è il luogo della contraddizione, bensì il luogo del
toglimento della contraddizione. O, per dirla diversamente: la seconda
ipotesi non ci porta affatto dinanzi all 'axios thaumazein di cui parla
Socrate sin dall'inizio del dialogo, quanto contestala "novità" delle argo-
mentazioni zenoniane. Non v'è nulla di stupefacente nel dire che uno è
più giovane e più vecchio, identico e diverso, e così via. Nulla:. perché
altro è il rispetto per cui è diverso, altro quello per cui è identico - come
nel Sofista Platone mostrerà chiaramente, dacché l'identico, per esser tale
ha da essere diverso dal diverso, e il diverso per essere diverso ha da esse-
re identico a sé - ma altro è il rispetto per cui l'identico è identico, altro il
rispetto per cui è diverso; e parimenti altro è il rispetto per cui il diverso
è tale, altro quello per cui è identico. Nonché parlare contro l'archè anti-
phélseos, la seconda ipotesi del Parmenide ne è una chiara anticipazione.
È sufficiente leggere la formulazione aristotelica del principio: "tò autò
hélma hyparchein te kaì mè hyparchein adynaton to auto kaì kata tò auto"
(Met., IV, 3, 1005b 19-20: [è] impossibile che lo stesso appartenga ed
insieme non appartenga allo stesso sotto lo stesso rispetto).
La prima e la seconda ipotesi convergono nell'affermare entrambe -
l'una negativamente, l'altra positivamente - che non c'è logos, pensiero e
discorso, e neppure aisthesis, se non di ciò che si dà in figura. La forma, la
figura, è allora proprio ciò che unisce intelligibile e sensibile. Non è una
110
Incontro sul Parmenide e il Sofista

novità. Già nella Politeia Platone, parlando della perfetta costituzione dello
Stato, aveva mostrato che al filosofo non è dato essere altro che politeion
zographos, pittore di costituzioni, che dell'esemplare divino, della costitu-
zione ideale (e qui ideale significa: puramente intelligibile) può dare solo
lo schema (schéma tés politeias: VI, 500e-501c). Resta da chiedersi, però,
se il pensabile-dicibile sia tutto ri( con)ducibile a forma, a efdos e schéma.
Fosse così, la conclusione del Parmenide riuscirebbe incomprensibile.
La novità del Parmenide, il thaumast6n, è nella terza ipotesi - tò triton.
Degno di meravigliare - aveva detto il giovane Socrate a Zenone - non è
che il medesimo sia uno e molti (e neppure, possiamo aggiungere con rife-
rimento a Hegel, che l'uno sia come tale la possibilità stessa del moltepli-
ce, la relazione, cioè, dei molti, tali solo se in relazione); axios thauma-
zein è che si dà un logos, un pensare-dire, simul, hama; eidetico e non
eidetico. Un logos che si sottrae alla forma, allo schéma, all'efdos, perma-
nendo in essi. Com'è possibile questo? Platone non lo dimostra, lo mostra,
lo esibisce. Porta il "contenuto" del discorso, il "significato", direttamen-
te sulla sua "funzione", il détto sul dire. Fa della prassi discorsiva, del
léghein, il contenuto del suo discorso, del logos. Così portando il léghein,
il cui significato primo è raccogliere, radunare, oltre se stesso. Ma faccia-
mo parlare direttamente Platone: come passa l'uno dalla quiete al movi-
mento? Ed è un passare, questo? Il passare non è forse movimento? E se
è nel movimento che l'uno passa dalla quiete al movimento, come può
dirsi in quiete l'uno che per passare dalla quiete al movimento deve muo-
versi? Il movimento non è così presupposto a se medesimo? E se quiete
dice non-tempo, come passa l'uno dal non-tempo della quiete al movi-
mento? Certo non può farlo nel tempo del movimento. E allora?
La meraviglia sta proprio in ciò, che il passaggio dalla quiete al movi-
mento, e viceversa, non è un passaggio; che esso avviene in quell'exaiph-
nes, in quell'istante, in quell'improvviso, che è un atopon metaxy, aspazia-
le tramezzo, luogo-non-luogo, tempo-non-tenipo di un movimento che non
è movimento. Talché l'uno "quando passa dall'essere al cessare di essere,
oppure dal non essere al divenire, [ ... ] diventa allora intermedio tra quegli
stati di movimento e di quiete, e in quel momento né è né non è, né divie-
ne né cessa d'essere. [ ... ] Per la stessa ragione, quando passa dall'essere
uno all'essere molti o dall'essere molti all'essere uno, non è né uno né
molti, non si divide né si runifica (oute diakrinetai oute synkrinetai). Anche
quando passa dall'essere simile all'essere dissimile e dall'essere dissimile
all'essere simile, non è né simile né dissimile. E poi quando muta da pic-
colo a grande e a uguale, e viceversa, non è piccolo, grande e uguale, non
111
Vincenzo Vitiello

aumenta, non diminuisce e non diventa uguale" (156e-157b). La parola


contraddice se stessa nell'atto stesso di dirsi. Contra/dice, dis/dice sé, ma
per far ciò, e ciò facendo, si dice. Necessariamente si dice, e si dice infigu-
ris: quiete, moto, movimento o mutamento, simile, dissimile, grande, pic-
colo. Perché non ha altro modo di dirsi. La sua dis/détta cade nel détto, così
come il détto revoca sé nel dirsi. Un inane e vacuo andirivieni? Un porre
per togliere, e un togliere per porre?
Inane e vacuo solo per chi guarda esclusivamente al contenuto del logos,
e non al suo farsi, al suo operare. Alla sua viva esperienza. Che è l'esperien-
za del limite del pensiero (logos) fatta pensando; del limite del pensiero
colto in actu exercito, non ex post. C'è altro modo di provare (esperire, più
che non dimostrare soltanto) i limiti del pensiero? Altro da questo che
mostra come, nell'atto stesso in cui il pensiero prende possesso di sé, non è
dominus sui ipsius, se può portarsi oltre l'immagine, lo schema, la figura,
solo infiguris? Libertà del pensiero nella necessità. Nella necessità libero.
Rileggiamo adesso la conclusione: "Si dica dunque che, a quanto sem-
bra, se l'uno è e se non è, se stesso e gli altri [se.: i molti] e in rapporto a
sé e in rapporto agli altri tutti assolutamente sono e non sono, appaiono e
non appaiono".

Qualche parola ancora sul Sofista - solo a smentire la falsa convinzione


che con questo dialogo Platone scioglie le "contraddizioni" del Parmenide,
trasforma l'aporia in euporia, la via bloccata in strada di passaggio.
Fermiamoci sulla koinonia ton genon. Bene, cosa dice questa comunione
di generi? Che essere non è diverso, ma si partecipa del diverso - fosse il
medesimo che diverso, non potremmo dire che l'identico "è". E lo stesso
va ripetuto per moto e quiete. Ma ... , ma per parteciparsi a moto e quiete,
a identico e diverso, moto e quiete, identico e diverso in qualche modo deb-
bono già "essere". Come, se già non fossero, essere potrebbe ad essi parte-
ciparsi? E non si dica che solo perché essere si partecipa ad essi, identico
e diverso, quiete e moto sono. Perché se identico è solo dopo che essere gli
si 'partecipa, allora essere conferisce ad identico con l'essere l'identità, e
così al diverso, alla quiete e al moto. In entrambi i casi all'essere che è
diverso dagli altri quattro generi s'aggiunge altro essere che è- in qualche
tnodo - tutti i generi, non essendoli. In qualche modo: in quale? In quello
che Platone ci ha detto nel Parmenide. Al modo dell'essere non essendo,
del disdire disdicentesi.
Non è questa esperienza di pensiero solo di Platone. È anche di
Aristotele. Quando, nel libro X della Metafisica (1054b, 13-23), distingue
112
Incontro sul Parmenide e il Sofista

differenza da diversità, quella che implica riferimento ad un medesimo,


questa che non l'implica, Aristotele introduce un terzo termine, "altro":
diaphorà dè kaì eter6tes allo (differenza e diversità son altro). Strano que-
sto "altro" che, per non essere differenza né diversità, è una distinzione
che né rinvia né non rinvia ad un medesimo, sarebbe altrimenti non alte-
rità, ma o differenza o diversità, e cioè uno dei termini della distinzione e
non la distinzione stessa! Ma per essere la distinzione e non uno dei suoi
termini deve contenere e l'una e l'altra, e la differenza e la diversità: deve
essere e l'una e l'altra, ed insieme non essere né l'una, né l'altra.
Vien voglia di ripetere per la terza volta la conclusione del Parmenide:
Eiréstho toinyn ... Ma no, non è necessario. Piuttosto c'è da chiedersi se
questa conclusione non ci obbliga a ripensare radicitus la distinzione kan-
tiana tra Analitica e Dialettica. Ma sarà per un'altra volta ...

113
CARLO SINI

IL SIGNIFICATO POLITICO
DELL'ONTOLOGIA DI PLATONE

"Ontologia di Platone" è un'espressione impropria. Essa sembra sugge-


rire che esista una "storia dell'ontologia" in qualche modo presupposta e in
sé entro la quale sia possibile e legittimo collocare Platone, come poi
Tommaso, Spinoza, Hegel e così via. Penso invece che il Sofista e il
Parmenide, cioè i dialoghi ai quali si fa qui espresso riferimento, costitui-
scano, caso mai, la soglia e la premessa a partire dalla quale qualcosa come
l'ontologia si mette in movimento e si rende intelligibile e disponibile nella
storia della tradizione filosofica. Non esiste, come se fosse cosa ovvia, una
scienza dell'ente, della quale Platone rappresenterebbe un capitolo; al con-
trario, è con Platone che si inaugura un nuovo senso di ciò che si dice "real-
tà" e un nuovo senso dell'"essere reale"; è a partire dal gesto inaugurale di
Platone che la riflessione filosofica comincia a immaginare e, per così dire,
a "sognare" qualcosa come un'ontologia: invenzione di Platone che anche
noi moderni non smettiamo di perseguire e di sognare.
Il Parmenide e il Sofista sono soglie senza dubbio molto significative
in Platone, anche se non certo le sole; esse sollevano due riferimenti a loro
volta importanti e non casuali: il riferimento al logos dei sofisti e il riferi-
mento alla dottrina esposta nel poema di Parmenide. L'ontologia, si
potrebbe dire, si apre originariamente la via tra gli estremi della retorica
dei sofisti (resa peraltro in certo modo possibile proprio dalla dialettica di
Zenone) e della sophia eleatica. Quanto poi a quest'ultima, sarebbe di
nuovo un fraintendimento grave, e anzi assai più grave, il fatto di asse-
gnarla a sua volta (come talora peraltro si fa) a una immaginaria "ontolo-
115
Carlo Sini

gia". La rivelazione della Dea di Parmenide (come sostenni in un corso di


lezioni di diversi anni fa) non ha per nulla a che fare con un "essere" preso
in senso ontologieo; la sua rivelazione è piuttosto relativa ai semata della
via, in quanto segni che inaugurano un nuovo cammino di verità, una
nuova odos iniziatica per l'uomo che sa.
Come collocare Parmenide e Sofista nel cammino creativo di Platone
è a sua volta un problema: non sappiamo molto, per non dire che non sap-
piamo quasi nulla, dell'ordine di composizione dei dialoghi platonici, né
delle ragioni chè li hanno via via determinati e ispirati. Il lavoro filologi-
co è in proposito ammirevole e imprescindibile, anche se i suoi risultati
restano ovviamente, in molti casi, incerti e discutibili; tanto più, poi, se
questi risultati evitano di confrontarsi con quell'autentica consapevolezza
teoretica che è alla base della pratica del filosofare, cioè con quella "sto-
ria" e "tradizione" che la filologia vorrebbe "oggettivamente" ricostruire
per così dire "dal di fuori", essendone in realtà totalmente già determina-
ta "dall'interno". Essa è infatti conseguenza e frutto dello sguardo verita-
tivo nuovo messo appunto in atto dalla soglia del logos filosofico, dalla
sua riduzione della "realtà" a "ontologia": sogno di un sogno, per così
dire. Già l'aveva compreso Vico: la pura filologia senza filosofia rischia
una peculiare "cecità" e "ottusità", così come una filosofia ignara di filo-
logia finisce certamente per parlare a vanvera. Bene hanno fatto, pertan-
to, gli organizzatori di questi incontri a non dimenticare la lezione vichia-
na, mostrando in proposito un'ammirevole apertura mentale e una matu-
rità culturale e filosofica nelle loro scelte che non è purtroppo di tutti e
neppure così frequente come si potrebbe desiderare.
Quanto al Parmenide, vorrei tra parentesi ricordare che molto si è in pas-
sato discusso circa la sua autenticità; il grande Ueberweg la negava: come
poteva essere di Platone un dialogo che distrugge palesemente la dottrina
delle idee, avanzando in particolare quel paradosso del "terzo uomo" che,
come si sa, è appunto uno degli argomenti opposti da Aristotele ai platoni-
ci? In seguito Gomperz, Campbell, Ritter e via dicendo, sino a Paci, riven-
dicarono l'autenticità del Parmenide, che resta una delle più impressionan-
ti testimonianze della originalità e potenza, della profondità e sottigliezza
del pensiero antico: un testo senza il quale tutta la successiva storia e tradi-
zione della filosofia sarebbe di fatto inimmaginabile e impensabile.
Non siamo certi di come articolare la complessiva visione della filoso-
fia platonica in relazione al Parmenide e al Sofista, e tuttavia mi pare
impossibile negare il nesso profondo che lega questi due dialoghi: non si
tratta qui solo di una possibile "interpretazione", ma di rimandi testuali,
116
Il significato politico dell'ontologia di Platone

rimandi indiscutibili filologicamente come anche indisgiungibili teoretica-


mente: le due cose, proprio esemplarmente, qui fanno uno. Nel Sofista,
infatti, è chiaramente indicato il passaggio dall'Uno al Due, e cioè ai Molti.
Il riferimento è relativo alla discussione sui cinque "generi sommi" (esse-
re, moto, quiete, identico e diverso). Non si tratta delle cinque categorie
universali dell'essere compiutamente ed esaustivamente definite: così,
caso mai, saranno considerate solo in seguito, secondo un punto di vista
maturamente "ontologico"; nel testo i generi sono più semplicemente un
luogo entro il quale condurre la ricerca lì perseguita. Essi, si ricorderà, sono
affetti dalla massima koinonia, cioè da una costitutiva "comunanza", senza
per questo cessare di essere "sommi" o cadere nel caos del non essere asso-
luto (per esempio quello che si affronterà nel Timeo). Nessun genere può
fare a meno degli altri: non appena nominiamo uno dei cinque, dobbiamo
evocare anche gli altri quattro. Per esempio: l'identico è identico a sé gra-
zie al fatto di "essere"; in tal modo è in quiete; tuttavia è anche diverso dal-
1'essere e dalla quiete e perciò per questo verso è in moto, è e non è.
Vorrei riferirmi a due passi precisi. Dice il primo (256e): "[ ... ]la natu-
ra del diverso (thaterou physis) rende ogni genere diverso dall'essere,
facendolo diventare non essere; sotto questo riguardo sarà giusto dire che
tutti medesimamente non sono. Viceversa, in quanto partecipano dell'es-
sere, diremo che sono e che sono enti. Vi è dunque molteplicità di esse-
re, e infinita quantità di non essere". Recita il secondo (257a):
"Dell'essere stesso bisognerà poi dire che è diverso dagli altri. E così
vediamo che quanti sono gli altri, altrettante volte l'essere non è. L'essere
infatti non è loro, perché è quell'uno che è (en men auto estin), e, nell'in-
finito del loro numero, gli altri non sono".
Queste asserzioni potrebbero facilmente attribuirsi, erroneamente, al
testo del Parmenide. Vi ricordo in proposito le conclusioni delle due
prime ipotesi. Se l'uno è uno: né si muove né sta fermo, né è identico a sé
né ad altri, né è diverso da sé né da altri ( 13 8b). Se l'uno è: allora è due e .
da questa dualità si può dedurre tutta la serie numerica (ovvero la molte-
plicità degli enti) (142b): "Infinitamente sdoppiandosi l'uno non è mai
uno: esso è infinito quanto al numero" (143a).
Cosa dobbiamo concludere? È davvero questÒ l'ultimo fondo o l'ulti-
ma filosofia di Platone? Il suo senso e il suo scopo si riducono a un verti-
ginoso e sottile gioco dialettico di definizioni? È difficile crederlo. Qui è
dove la filologia non può procedere da sola ed è inevitabile chiedere l'au-
silio della filosofia, ovvero ricorrere a una matura e rigorosa capacità di
esporsi con coerente coraggio alla riflessione e interpretazione teoretica.
117
Carlo Sini

In piena evidenza è infatti qui una soglia del domandare che per un verso
investiga i paradossi dialettici del significato, ovvero delle "forme" che
accompagnano e caratterizzano l'esperienza; per un altro verso la doman-
da solleva la questione relativa alla natura stessa della soglia esperiente e
domandante, alla sua kinesis oscillante in quanto evento (I' "uno-uno") del
significato molteplice nella sua differenza irriducibile alla forma (epekei-
na tes ousias) e inafferrabile nel tempo e nel tempo della parola: istante
(exaiphnes) eterno. La relazione tra Sofista e Parmenide si potrebbe allo-
ra ricondurre a un gesto dualmente complementare: nel primo caso relati-
vo alla dialettica delle forme o significati; nel secondo caso relativo alla
natura istantanea dell'evento in quanto evento stesso del significato e del
significare, e dei loro paradossi.
Vero è che i dialoghi di Platone hanno dato luogo a vie e a tradizioni di
pensiero diverse e in certi casi persino opposte: penso alla grande tradi-
zione del neoplatonismo e ai ripetuti tentativi di sfuggirla. Resta la
domanda: cos'è la filosofia di Platone? Cos'è la filosofia in Platone? Qual
è il senso e il fine della ·sua indagine che apre le strade di ciò che in segui-
to si identificherà, tra l'altro, con la questione dell"'ontologia"? Di quale
"gigantomachia" propriamente si tratta?
A mio avviso tutti i discorsi del Parmenide e del Sofista non vanno
affatto assolutizzati e isolati, ricavandone ancora oggi un filosofare tanto
sottile quanto astratto e sterile (pens9 alla "superstizione ontologica"
aproblematicamente e implicitamente presente nelle tesi dei formalisti
logici, dei neoempiriSti o, all'opposto, nell'ermeneutica dei moderni neo-
platonici schellinghiani, per esempio alla Pareyson, tanto per intenderci);
quei discorsi vanno quanto meno riferiti alla e iscritti nella cornice di un
cammino che va dalla Repubblica (già sopra evocata) al Timeo: i due dia-
loghi per così dire "gemelli" che Platone invita espressamente a leggere
in successione. Non è certo un caso che proprio nel Timeo venga rivendi-
cato quel non essere assoluto che nel Sofista era stato respinto e cancella-
to. Ciò accade, come si sa, nel "discorso bastardo" e sotto l'egida e l'in-
vocazione al "Dio salvatore", che potrebbe forse identificarsi con la filo-
sofia medesima. Ma quale appunto filosofia?
Io credo che, senza lasciarci troppo catturare dal gioco meraviglioso
della dialettica platonica e dalla sua arte dialogica, dobbiamo tener fermo
che il senso ultimo della filosofia platonica è leggibile soltanto in una
dimensione originariamente, intenzionalmente e fondamentalmente "poli-
tica". Anziché continuare a giocare con le figure della scrittura di Platone,
anziché continuare a sognare la sua implicita ontologia, è importante, a
118
Il significato politico dell'ontologia di Platone

mio avviso, confrontarsi col sen:so profondo ed essenziale della apertura


politica cui tale gioco ci riconduce; cioè con quelle tesi che vedono nel
sapere filosofico e nelle sue articolazioni problematiche la possibile e let-
terale salvezza dell'uomo e della sua città tormentata e violenta, ingiusta
e folle. Dobbiamo superare la superstizione degli enti puramente logici
con i quali Platone ha costruito il suo sublime teatro nel Sofista e nel
Parmenide, pur continuando a imparare tutto ciò che è possibile e vitale
da un tale gioco; così pure dobbiamo svegliarci dai racconti del Timeo,
chiedendoci conto del loro specifico e costitutivo senso entro la comples-
siva ricerca platonica. Ed è un fatto che, per uscire dall'incantesimo onto-
logico, l'intera impresa del sapere occidentale, "tutta la nostra scienza",
come di".eva Nietzsche, va riconsiderata a partire dalla messa in questio-
ne della soglia platonica, del suo logos peculiare e delle millenarie conse-
guenze che ne sono derivate. Fare filosofia oggi prescindendo da una spe-
cifica interrogazione e riflessione "genealogica" sulla soglia del sapere
inaugurato da Platone mi pare poco produttivo.
Lo stesso Timeo allude, a suo modo, a qualcosa del genere, quando, al
di là delle due opposte verità della episteme e della doxa, mette in luce
quello strato più profondo che solo un "discorso bastardo e a stento credi-
bile" tenta di esprimere. Qui e.i troviamo nel luogo stesso della generazio-
ne dei due opposti della opinione e della scienza, della luce e delle tene-
bre; un luogo assimilabile a qualcosa di umbratile, come il contenuto di
un sogno: un sogno che, non appena ci ridestiamo alle quotidiane ovvietà
del vivere comune, non siamo più in grado di ripetere e di ricordare. Ecco
che allora cadiamo in tutti i paradossi dell'essere e del non essere, dell'ap-
parenza e della verità, dell'uno e dei molti, della quiete e del moto, dell'i-
gnoranza e dell'errore (i paradossi che anche la nostra moderna scienza,
per lo più inconsapevolmente, ancora frequenta).
Tutto ciò che possiamo dire, osserva Platone, è che ogni immagine, sia
pure di sogno, esige sempre una materia e un luogo nei quali incarnarsi,
ovvero un supporto che lasci apparire la via di una possibile e veritativa
"politica dell'esperienza": politica sapiente in grado di collocare l'uomo e
la sua storia entro un possibile orizzonte di senso, grazie alla iscrizione
della verità filosofica in una parola (mythos) "verosimile". L'ontologia
rivela così la sua profonda natura di immagine; immagine che, come ogni
immagine, dice Platone, è sempre il "fantasma di un altro". Ripetere il
gesto platonico del Timeo significa allora per noi risalire alle spalle della
tradizione ontologica, della sua trasformazione insieme perdurante nelle.
moderne scienze della natura e risalire infine alle spalle delle molteplici
119
Carlo Sini

conseguenze eminentemente politiche che hanno caratterizzato l'intera


storia e civiltà europea. Destarsi dall'incantesimo ontologico e dalla favo-
la metafisica dell'essere, svelandone il gioco (come sono solito dire) alfa-
betico e semiotico, inaugura la possibilità, per ricordare ancora Nietzsche,
di cominciare a "sognare più vero"; il che significa aprirsi ai segni (sema-
ta) di una nuova figura della verità e alla possibilità di frequentarne l' e-
vento, di certo già in cammino in noi e intorno a noi, in base a una nuova
etica del sapere. Un'etica che ha in Platone la sua origine, ravvisata, come
sempre accade, nella retroflessione dal presente: luogo di una resa di
cont~, tutt'altro che conclusa, con i nostri "fantasmi". Ecco un compito
"politico" che nessuna disciplina o competenza particolare può sperare di
affrontare in modo sensato ed esauriente e che il lavoro e la pratica filo-
sofica non possono, proprio per questo, dismettere.

120
NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA

GLI AUTORI

Enrico BERTI, Professore ordinario di Storia della Filosofia


nell'Università di Padova, ha insegnato nelle università di Perugia,
Ginevra e Bruxelles. È socio corrispondente dell'Accademia Nazionale
dei Lincei (Roma) e membro dell'lnstitut lnternational de Philosophie
(Parigi). È autore di vari volumi ed articoli dedicati ad Aristotele ed alla
sua presenza nella filosofia contemporanea, tra cui: Studi aristotelici
(197 5), Aristotele: dalla dialettica alla filosofia prima ( 1977), Profilo di
Aristotele (1979); nel 1997 ha curato Guida ad Aristotele.

Giovanni CASERTANO, Professore ordinario di Storia della Filosofia


Antica presso l'Università "Federico II" di Napoli, si interessa principal-
mente di filosofia greca classica e ha studiato, in modo particolare, i
Presocratici e Platone. Ha al suo attivo circa 200 pubblicazioni tra volu-
mi, articoli e saggi, apparsi in Italia e all'estero, tra cui Natura e istitu-
zioni umane nelle dottrine dei Sofisti (1971), Un discorso sui Sofisti
(1974), Fisica e filosofia (1975), La nascita della filosofia vista dai Greci
(1977), Parmenide, il metodo la scienza l'esperienza (1978), Il nome
della cosa (1996).

121
Nota bio-bibliografica

Francesco FRONTEROTTA insegna Storia della Filosofia antica presso la


Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Lecce. Si occupa
soprattutto di Platone e del dibattito suscitato dalle sue dottrine nell'ambi-
to dell'Accademia. Oltre a numerosi saggi e articoli, ha scritto: Guida alla
lettura del Parmenide di Platone (1998) e METHEXIS. La teoria platoni-
ca delle idee e la partecipazione delle cose empiriche (2001 ). Ha curato,
con Giuseppe Cambiano, una traduzione del Parmenide (1998) e parteci-
pa a una nuova traouzione francese delle Enneadi di Plotino.

Maurizio MIGLIORI, Professore ordinario di Storia della Filosofia


Antica all'Università di Macerata, ha insegnato per oltre vent'anni filo-
sofia negli istituti medi superiori. Fa parte dell'Executive Committee
della International Plato Society. Oltre ad aver tradotto e curato La gene-
razione e la corruzione di Aristotele (1976), ha scritto: D~alettica e veri-
tà. Commentario filosofico al Parmenide di Platone (1990, 2000),
L'uomo fra piacere, intelligenza e Bene. Commentario storico-filosofico
al Filebo di Platone (1993, 1998), Arte politica e metretica assiologica.
Commentario storico-filosofico al Politico di Platone (1996).

Carlo SINI insegna Filosofia Teoretica all'Università degli Studi di Milano.


Accademico dei Lincei e membro dell'Institut International di Philosophie di
Parigi, ha tenuto conferenze e seminari negli Stati Uniti e in Canada, in
America Latina e in vari Stati europei. Tra i suoi ultimi libri: Etica della scrit-
tura (1992), Filosofia teoretica (1994), Filosofia e scrittura(1994), Teoria e
pratica del foglio-mondo (1998), Gli abiti, le pratiche, i saperi (1996, 2003),
Idoli della conoscenza (2000), La scrittura e il debito (2002), Figure dell'en-
ciclopedia filosofica «Transito Verità», in sei volumi (2004).

122
Nota bio-bibliografica

Mario VEGETTI, Professore di Storia della Filosofia Antica presso


l'Università di Pavia, si è occupato di storia della filosofia e della
scienze antiche. Fra le sue opere principali ricordiamo: Guida alla let-
tura della Repubblica di Platone (1999), Il coltello e lo stilo. L'etica
degli antichi (2000) e Quindici lezioni su Platone (2003). Ha pubblica-
to con P. Manuli, Medicina e igiene, in Storia di Roma, IV (1989), L'io,
l'anima, il soggetto, in I Greci, I (1996). Sta curando là traduzione e il
commento alla Repubblica di Platone (1998-2002).

Vincenzò VITIELLO, Professore ordinario di Filosofia Teoretica presso


l'Università di Salerno, ha pubblicato: Heidegger: il nulla e la fondazione
della storicità (1976), Dialettica ed ermeneutica: Hegel e Heidegger
(1979), Utopia del nichilismo. Tra Nietzsche e Heidegger (1983), Ethos ed
Eros in Hegel e Kant (1984), Topologia del moderno (1992),Elogio dello
spazio. Ermeneutica e topologia (1994), Cristianesimo senza redenzione
(1995), Vico e la topologia (2000), Il Dio possibile (2002). Ha tradotto, di
Heidegger, Die Frage nach dem Ding (1989). Ha collaborato all'Annuario
di Gianni Vattimo Filosofia '90 e Filosofia '91.

/CURATORI

Matteo BIANCHETTI ed Erasmo Silvio STORACE, laureandi presso


l'Università degli Studi di Milano, sono direttori (insieme a M. L.
Cappuccio) della rivista di filosofia Chora e coordinatori dell'Associa-
zione degli Studenti di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano
(Astufilo ).

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