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06/03/23, 23:46 1.1.

La critica dei filosofi analitici alla concezione tomistica dell’essere

Rivista di estetica
49 | 2012

ontologia analitica
1. storia dell'ontologia

1.1. La critica dei filosofi analitici


alla concezione tomistica
dell’essere
Enrico Berti
p. 7-21
https://doi.org/10.4000/estetica.1667

Abstract
After a short summary of the interpretation of Thomas Aquinas’ conception of being given by E.
Gilson, according which the actus essendi is existence, the article sets out the criticisms
addressed to this conception by P.T. Geach and A. Kenny, showing that they converge with the
criticism developed by the author himself in an article of 1979 on Aristotle. In the author’s view,
the best reply to this criticism given by the Thomists is the reply of S.L. Brocks, who has shown
that the actus essendi is the perfect way of being which belongs only to God. The author shows
that this conception is confirmed by some passages of Thomas’ De ente et essentia.

Full text

1. La concezione tomistica dell’essere


nell’interpretazione di E. Gilson
1 Etienne Gilson è giustamente considerato uno dei più grandi studiosi della filosofia
medievale e in particolare uno dei più acuti interpreti del pensiero di Tommaso
d’Aquino. Di quest’ultimo egli ha valorizzato soprattutto la concezione dell’essere,
sostenendone l’assoluta originalità rispetto alla filosofia di Aristotele. Mentre infatti
quella che è stata chiamata da Giovanni Ventimiglia la “prima generazione” di
neotomisti (Garrigou-Lagrange, Mandonnet, Sertillanges, Manser e altri) aveva insistito
soprattutto sull’aristotelismo di Tommaso, per rivendicare il carattere anche
rigorosamente filosofico, non solo teologico, del suo pensiero, recentemente rilanciato
dall’enciclica Aeterni Patris (1879), Gilson ha dato vita, insieme con Maritain, Geiger,
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Fabro e altri, alla cosiddetta “seconda generazione”, impegnata soprattutto nel


rivendicare l’originalità di Tommaso rispetto ad Aristotele1. Tale originalità è stata
riferita anzitutto da Gilson alla concezione tommasiana di Dio come Esse ipsum
subsistens, cioè come un ente la cui essenza sarebbe costituita dallo stesso essere, la
quale presupporrebbe il concetto di essere come actus essendi, distinto dall’essenza, un
concetto del tutto sconosciuto ad Aristotele.
2 Gilson sostenne infatti in varie sue opere che Tommaso aveva attinto la sua
concezione di Dio come Esse ipsum dal passo di Esodo III 14, dove il Signore,
rispondendo dal roveto ardente a Mosè che gli aveva chiesto il suo nome, afferma Ego
sum qui sum. Perciò, secondo Gilson, si può dire che l’Esodo contenga una vera e
propria metafisica, la quale infatti è stata poi chiamata “metafisica dell’Esodo” e
avrebbe ispirato i filosofi cristiani, tra cui soprattutto Tommaso d’Aquino, che avrebbe
usato il concetto aristotelico di atto per distinguere l’“essere” come atto dall’“essenza”
come potenza, introducendo in tal modo nella filosofia il concetto di actus essendi,
assente in Aristotele. Tutta la metafisica antica, cioè platonica e aristotelica, secondo
Gilson, sarebbe una metafisica dell’essenza, caratterizzata dalla mancanza del concetto
di essere come atto, come lo sarebbe anche la metafisica moderna, fondata da Francisco
Suárez sulla scia di Giovanni Duns Scoto, che avrebbe concepito l’essere come
un’essenza, dando vita alla moderna “ontologia”. La rivalutazione dell’esistenza,
compiuta dall’esistenzialismo del Novecento, precorso peraltro da Kierkegaard, sarebbe
dunque stata anticipata, secondo Gilson, già da Tommaso.
3 Benché Gilson abbia cura di distinguere l’essere di cui parla Tommaso dall’esistenza
di cui parlano gli esistenzialisti, e benché questa distinzione sia stata spesso sottolineata
da tutti i tomisti della “seconda generazione” (specialmente da Fabro), è un fatto che il
libro di Gilson su L’être et l’essence, parlando continuamente di esistenza, sia pure nel
senso tomistico (si vedano i titoli dei capitoli III, IV, VI, VII, VIII, IX, X), ha dato
l’impressione di identificare l’actus essendi essenzialmente con l’esistenza, che già
Aristotele distingueva, come risposta alla domanda “se è”, dall’essenza, intesa come
risposta alla domanda “che cos’è”, anche se Aristotele non ammetteva certamente un
atto di esistere che non fosse atto di una determinata essenza2.
4 Va detto inoltre, come è stato meritoriamente ricordato da Ventimiglia, che alla
“seconda generazione” di filosofi tomisti è seguita una “terza generazione” (De Vogel,
Kremer, Beierwaltes, D’Ancona), la quale ha mostrato che il concetto di Esse ipsum,
ritenuto da Gilson una scoperta che la filosofia ha potuto fare grazie alla conoscenza
della Bibbia, era già presente in Platone e in tutto il platonismo antico (Filone di
Alessandria, Plutarco, Numenio di Apamea) e nel neoplatonismo. Anche il concetto di
actus essendi, che Gilson ritiene scoperta originale di Tommaso, è stato ricondotto al
neoplatonismo dagli studi di Pierre Hadot sul commento anonimo al Parmenide di
Platone contenuto in un manoscritto di Torino, dallo stesso Hadot attribuito a Porfirio,
e dal ritrovamento in Plotino della distinzione tra ente ed essere e del concetto di essere
come puro agire. Così quella che, secondo Gilson, Fabro e altri, sembrava la più
originale scoperta filosofica di Tommaso, risultava essere in realtà un’eredità del
neoplatonismo, trasmessa a Tommaso da Agostino, dallo pseudo-Dionigi e dallo
pseudo-aristotelico Liber de causis.

2. La critica di P. Geach al concetto di


Esse ipsum
5 Mentre l’interpretazione gilsoniana di Tommaso si diffondeva con grande successo
tra i tomisti, usciva nel 1983 a Oxford un libro scritto in collaborazione da due filosofi
analitici inglesi, allievi di Wittgenstein ma, a differenza di altri filosofi analitici, di
religione cattolica, quindi non pregiudizialmente ostili a Tommaso, cioè Three
Philosophers, dei coniugi Elizabeth Anscombe e Peter Geach. Il primo capitolo era di
Anscombe e verteva su Aristotele, del quale si illustrava la concezione dell’essere come
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originariamente diviso nelle categorie, tra cui la prima è la sostanza, e si ricordava che
per Aristotele l’essere non è un genere, cioè una classe di enti, e quindi, se è inteso come
esistenza, non fa parte della sostanza di nessuna cosa. In particolare Anscombe citava il
passo di Aristotele, An. Post. II 7, 92 b 13‑14: «Non c’è nulla la cui essenza sia
l’esistenza, perché non c’è un genere di cose che siano le cose che sono», lodando la
sottolineatura che già Schopenhauer ne aveva fatto come di una critica profetica
all’argomento ontologico di Descartes3.
6 I due capitoli successivi, rispettivamente su Tommaso d’Aquino e Gottlob Frege,
erano di Geach, il quale, dopo avere illustrato con consenso vari concetti presenti nel
pensiero di Tommaso, come materia, forma, operazione, tendenza, si soffermava sul
concetto di essere (esse), sostenendo che nella sua opera giovanile De ente et essentia
Tommaso avrebbe inteso l’essere come semplice esistenza, cioè come risposta alla
domanda an sit, e lo avrebbe perciò distinto dall’essenza come risposta alla domanda
quid sit. Questo significato dell’essere corrisponderebbe, secondo Geach, al significato
di “esistenza” teorizzato da Frege, per cui l’esistenza è la proprietà non di un oggetto,
ma di un concetto, cioè è una proprietà di secondo ordine, e indica semplicemente il
fatto che un concetto, cioè una classe, non è vuoto, ma contiene almeno un esemplare
(ovvero, per usare un anglicismo, è almeno una volta “instanziato”). La concezione di
Dio come Ipsum esse, basata sull’identità in Dio tra essenza ed esistenza, secondo
Geach è dunque un non senso, perché, come aveva osservato già Aristotele – e qui
Geach cita lo stesso passo citato da Anscombe – «non c’è nulla la cui essenza sia il fatto
che tale cosa c’è, in quanto non esiste il genere delle cose che ci sono»4. Per mostrare
l’insensatezza della concezione in questione, Geach immagina un dialogo tra un teista e
un ateo, in cui, all’affermazione del teista che c’è un Dio, l’ateo domanda che tipo di
ente sia questo Dio, e il teista risponde: «Te l’ho appena detto! C’è un Dio; questo è ciò
che Dio è».
7 Tuttavia nelle opere successive al De ente et essentia, sempre secondo Geach,
Tommaso avrebbe concepito l’essere in un altro modo, cioè come “attualità presente”
(present actuality), o “presenza attuale” (actual presence), cioè fondamentalmente
come atto, ma atto di una determinata forma. L’atto infatti, per Aristotele, è sempre
qualcosa di determinato, cioè è la presenza attuale di una determinata forma in una
materia, come è provato dalla famosa affermazione aristotelica che «per i viventi
l’essere è il vivere», ripresa numerose volte dallo stesso Tommaso (vivere viventibus est
esse)5. «L’esse pertanto – scrive Geach – è sempre riferito a una qualche forma o a
un’altra, e ogni esse persistente è l’esistenza continuata di una qualche forma
individualizzata».
8 Geach difende dunque la concezione tommasiana di Dio come Esse ipsum subsistens
a condizione che l’essere costitutivo dell’essenza divina sia inteso non come la semplice
esistenza, cioè alla maniera in cui lo intendeva Gilson, ma come attualità di una
determinata essenza, la quale nel caso di Dio non può essere che l’essenza divina, cioè
l’insieme di tutte le perfezioni. La differenza tra l’interpretazione di Geach e quella dei
neotomisti non consiste nel fatto che Geach attribuisca a Tommaso la nozione di
essenza teorizzata da Frege e condivisa da gran parte della filosofia analitica – egli si
limita infatti ad attribuirla al De ente et essentia, ma ritiene che poi lo stesso Tommaso
l’abbia abbandonata –, bensì sta nel fatto che Geach tiene conto della dottrina di
Aristotele, secondo cui l’atto è sempre un atto determinato e non può mai essere la
semplice esistenza, dottrina della quale invece i neotomisti sembrano essersi
completamente dimenticati. È significativo infatti che nel terzo capitolo di Three
Philosophers, dedicato a Frege a opera dello stesso Geach, questi osservi che la dottrina
di Frege, secondo cui l’esistenza non è un concetto di primo livello, cioè un attributo
delle cose, non sia in fondo che una ripresa di quanto aveva detto Aristotele, e citi di
nuovo a questo proposito il passo di An. Post. II 7: «Non c’è un genere di cose come “le
cose che sono”». «Aristotele – scrive Geach – aveva detto questo molto tempo prima,
ma la logica fu per molto tempo non sufficientemente sviluppata perché questa
osservazione fosse completamente comprensibile»6.

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9 Geach ha affrontato l’argomento anche in Form and Existence, dove egli osserva che,
oltre al concetto di esistenza come predicato del secondo ordine teorizzato da Frege e
applicabile quindi alle classi, per significare che non sono vuote, c’è un secondo
significato di esistenza, quello applicabile agli individui, o alle forme individuali, cioè la
persistenza in qualche individuo di una certa forma, cioè di una certa classe. Di un
individuo infatti ha senso dire che è venuto all’esistenza, esiste ancora, non esiste più. È
in questo senso che Aristotele parlava del vivere come dell’essere dei viventi, perché per
esempio della classe “uomo” l’affermazione dell’esistenza significa che essa non è vuota,
cioè che esiste almeno un uomo, mentre dell’individuo Socrate l’affermazione
dell’esistenza significa che Socrate è vivo, per cui noi non possiamo dire oggi che
“Socrate esiste”, ma possiamo dire che “Socrate è esistito”. Precisamente in
quest’ultimo senso, secondo Geach, Tommaso parlava dell’essere di Dio, e in questo
stesso senso va interpretata la frase dell’Esodo «io sono colui che sono», cioè nel senso
di “io sono sempre”, lo stesso senso in cui Omero parlava degli dèi come di coloro che
sempre sono (aei ontes)7.

3. Intermezzo storico
10 Mi si permetta a questo punto un riferimento personale, perché la storia delle critiche
dei filosofi analitici alla concezione tomistica dell’essere ha in qualche misura coinvolto
anche me. Quando lessi Three Philosophers non diedi molta importanza alle
considerazioni di Anscombe e di Geach, anche perché esse – bisogna pur dirlo – erano
rimaste quasi completamente ignorate dagli studiosi di Aristotele e di Tommaso, come
del resto anche Anscombe e Geach scrissero ignorando – o almeno non citando –
nessun altro studioso di Aristotele o di Tommaso. Probabilmente il capitolo di Geach su
Frege fu tenuto presente dai filosofi analitici, ma non ho controllato. Ciò dipende dalla
funesta divisione degli studi di filosofia in settori, per cui, almeno cinquant’anni fa, gli
storici della filosofia, forse non in Inghilterra e negli Stati Uniti, ma sicuramente nel
resto d’Europa, ignoravano la filosofia analitica, e i filosofi analitici ignoravano gli studi
di storia della filosofia. A ciò si aggiunge la nota abitudine degli studiosi anglofoni a
ignorare qualunque studio pubblicato in una lingua diversa dall’inglese.
11 Per questo motivo non mi accorsi che le critiche di Anscombe e di Geach potevano
applicarsi all’interpretazione che di Tommaso davano i neotomisti à la Gilson e, cosa
ancora più grave per uno studioso di Aristotele, non mi accorsi che esse derivavano da
Aristotele. Quando, nel 1972, fui invitato a un Symposium Aristotelicum internazionale
sulla Metafisica di Aristotele, vi tenni una relazione proprio sulla critica di Aristotele
alla nozione di esse ipsum e la applicai anche all’interpretazione di Tommaso data da
Gilson e da Fabro, senza ricordarmi che tale critica era stata utilizzata da Geach per
criticare lo stesso aspetto del pensiero di Tommaso. A dire il vero, le pagine della
Metafisica che presi in considerazione non erano quelle citate da Anscombe e Geach, i
quali in fondo si erano limitati a un’unica citazione dagli Analitici posteriori.
Rivolgendo l’attenzione a una delle aporie discusse da Aristotele nel libro III (Beta)
della Metafisica, quella sulla sostanzialità dell’Essere e dell’Uno, vidi che Aristotele
attribuiva a Platone (e ai Pitagorici, cioè all’ultima fase della dottrina di Platone, quella
delle cosiddette “dottrine non scritte”) una concezione dell’Essere e dell’Uno come
sostanze, cioè realtà sussistenti, aventi per essenza lo stesso essere e lo stesso uno8. Nel
fare questo Aristotele usava, in greco, le stesse espressioni che Tommaso avrebbe usato
in latino, cioè autó tó ón e autó tó hen, corrispondenti a ipsum ens e ipsum unum,
espressioni che peraltro riecheggiavano quelle usate da Platone per indicare le Idee, per
esempio autó tó kalón, il bello stesso, o l’Idea del bello, e autó tó agathón, il bene
stesso, o l’Idea del bene. Che cos’erano infatti le Idee di Platone, almeno secondo
l’interpretazione che ne diede Aristotele, se non sostanze aventi per essenza la qualità
stessa di cui erano appunto Idee? Ciò confermava la tesi sostenuta già da Cornelia de
Vogel, secondo cui la dottrina tomistica dell’Esse ipsum risaliva già a Platone9.

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12 Ma la cosa più interessante era che Aristotele non solo aveva esposto tale dottrina,
attribuendola a Platone, ma l’aveva anche criticata, osservando che, se l’essere
costituisce l’essenza di un’unica sostanza, tutto ciò che è diverso da tale sostanza è
anche diverso dall’essere, cioè non è, e quindi l’unica realtà esistente rimane l’Essere
stesso, ossia una realtà unica, come aveva sostenuto Parmenide. Lo stesso dicasi a
proposito dell’Uno, che almeno nell’esposizione aristotelica sembra coincidere con
l’Essere10. Tale critica, che in sostanza accusa il platonismo di avere conseguenze che lo
riportano al monismo di Parmenide, dal quale Platone aveva voluto fuggire compiendo
il famoso “parricidio” del Sofista, non fu mai presa in considerazione dai platonici,
probabilmente perché il libro Beta della Metafisica era considerato una semplice
discussione di aporie, non contenente il vero pensiero di Aristotele. Ma i platonici non
tennero conto che Aristotele nel libro X (Iota) della stessa Metafisica aveva risolto
l’aporia almeno a proposito dell’Uno, negando risolutamente che potesse esistere un
“Uno stesso”, perché l’uno, come l’essere, si dice in molti sensi, cioè si predica di tutto,
comprese le proprie differenze, e quindi non può essere un genere. Lo stesso discorso
vale anche per l’essere, che per Aristotele si dice ugualmente in molti sensi, quindi non
può essere un genere e non può costituire l’essenza di nessun ente, come Aristotele
afferma nel passo degli Analitici posteriori citato da Anscombe e da Geach.
13 Tommaso nel suo commento alla Metafisica ha discusso l’aporia in questione,
dichiarando che Aristotele l’avrebbe risolta nel libro XII (il famoso libro Lambda, dove
si dimostra la necessità di un motore immobile) e avrebbe ammesso un “Ente stesso”
(ens ipsum) e un “Uno stesso” (unum ipsum), intesi però non come predicati di tutte le
cose, bensì come causa di tutte le cose11. Ora nel libro XII Aristotele ammette, sì, un
primo motore immobile, il quale, muovendo il primo cielo, muove tutte le cose e quindi
è causa (motrice) di tutte, ma egli non dice mai che questo è l’Essere stesso e l’Uno
stesso. Aristotele dice, sì, che il motore immobile è atto (enérgheia), anzi tutto e solo
atto, ma poi precisa che si tratta di un atto di pensiero, cioè di un Intelletto in atto, non
dell’atto di essere, nozione che in Aristotele è del tutto assente e che non poteva da lui
essere ammessa, in quanto incompatibile con la sua concezione dell’essere come dotato
di molti sensi. Dunque Tommaso ha conosciuto la critica di Aristotele al concetto di
Esse ipsum, ma non ne ha tenuto conto o ha creduto di poterla superare, identificando
il motore immobile di Aristotele con l’Essere stesso e l’Uno stesso di Platone.
14 È singolare che nessun tomista abbia tenuto conto del mio saggio – forse la divisione
per settori vale anche fra studiosi di Aristotele e studiosi di Tommaso – tranne uno,
cioè Giovanni Ventimiglia, il quale ha dichiarato che bisognava fare i conti con le
critiche di Aristotele alla dottrina dell’Esse ipsum e a suo modo li ha fatti, mostrando
che anche Tommaso aveva una concezione dell’essere come dotato di molti significati,
non molto diversa da quella di Aristotele12.

4. La critica di Kenny alla concezione


tomistica dell’essere
15 Naturalmente le critiche di Geach hanno trovato un’eco in Inghilterra, dove sono
state riprese da Anthony Kenny, anch’egli di formazione cattolica e conoscitore di
Tommaso, oltre che della filosofia analitica (in particolare di Wittgenstein). Questi
infatti in una breve monografia del 1980, Aquinas, ha osservato che Tommaso non solo
nel giovanile De ente et essentia, ma anche nelle sue opere più mature, ha confuso tra
loro due diversi concetti di esistenza: il primo, che Kenny chiama “esistenza specifica”,
corrisponde alla nozione di esistenza di Frege, e il secondo che Kenny chiama “esistenza
individuale”, per evidente influenza del saggio di Geach Form and Existence,
corrisponde all’atto di una certa forma, cioè al continuare ad avere una certa forma, per
esempio la vita, da parte di un determinato ente. La concezione di Dio come Esse
ipsum, secondo Kenny, sarebbe un non-senso, perché implicherebbe l’esistenza del

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puro essere, senza alcuna forma, mentre per lo stesso Tommaso l’essere consiste
nell’avere una certa forma13.
16 Kenny critica inoltre l’argomento con cui Tommaso pretende di dimostrare che Dio è
l’essere, cioè la famosa “quarta via”, basata sui gradi dell’essere. Il paragone dell’essere
col fuoco, che secondo Aristotele è massimamente caldo perché causa del calore in tutte
le cose calde, posto da Tommaso alla base della quarta via, per Kenny non regge, perché
l’essere comune a tutti gli enti, simile al caldo comune a tutte le cose calde, è quello che
Tommaso chiama l’ens commune, il quale secondo lo stesso Tommaso non è l’essere di
Dio. L’unico modo per dare un senso alla concezione tommasiana dell’essere di Dio,
secondo Kenny, è di concepirlo nel modo suggerito dalla tesi aristotelica per cui l’essere
dei viventi è il vivere, cioè come un essere determinato, il predicato più ricco ed
esauriente, la totalità delle perfezioni, ma questo non è l’“essere stesso”, cioè il puro
essere. Pertanto la tesi che Dio è l’essere sussistente per sé, conclude Kenny, è solo
«sofisma e illusione»14.
17 Una prova della frequente mancanza di comunicazione tra i diversi settori degli studi
filosofici è il fatto che questa stessa critica all’uso tommasiano del paragone aristotelico
col fuoco era stata avanzata anche da me nella comunicazione al Symposium
Aristotelicum sopra ricordata, dove avevo anche segnalato che la medesima critica era
stata rivolta a Tommaso persino dal padre V. de Couesnongle, generale dell’ordine
domenicano, in due articoli usciti nel 1954 nella rivista dei domenicani francesi, la
“Revue des sciences philosophiques et théologiques”15. La cosa è abbastanza strana,
perché Kenny è anche uno specialista di studi aristotelici – ad Aristotele ha dedicato
alcuni volumi – e come tale ha partecipato anche a un Symposium aristotelicum
(Berlino 1981), e il mio saggio era stato pubblicato negli atti di un precedente
Symposium da una casa editrice non sconosciuta ai filosofi quale Vrin.
18 Kenny ha continuato a occuparsi di Tommaso anche in seguito, dedicandogli due
importanti monografie. La prima, Aquinas on Mind, del 1993, elogia la dottrina
tomistica della conoscenza e dei rapporti tra anima e corpo, considerandola valida
ancora oggi16. Invece nella seconda, Aquinas on Being, del 2002, Kenny riprende la
critica alla concezione tomistica dell’essere, osservando che in tutte le sue opere
Tommaso confonde diversi significati dell’essere – egli ne indica ben dodici –, tra i
quali i più importanti sono l’esistenza specifica, già esaminata nella monografia del
1980 e ricondotta alla nozione fregeana di esistenza, e l’esistenza individuale,
coincidente con l’essere inteso come atto di una determinata essenza. Secondo Kenny
gli errori di Tommaso sarebbero: 1) la confusione tra questi due significati; 2)
l’ammissione di sostanze separate intese come pure forme sussistenti; 3) la concezione
di Dio come Esse ipsum, ovvero come puro essere, che farebbe di Dio un’Idea platonica,
la platonica Idea dell’essere17.
19 A proposito del significato dell’essere Kenny ricorda spesso un’osservazione di Ryle,
secondo la quale non si deve credere che l’essere sia un’attività, come per esempio il
respirare, perché l’essere, anche quando è inteso come atto di un’essenza, è sempre un
atto primo, nel senso aristotelico del termine, cioè il possesso attuale della capacità di
fare qualcosa, e non un atto secondo, cioè l’esercizio di tale capacità18. Mi permetto
tuttavia di ricordare che Ryle, insieme ad Austin, ha più volte affermato la molteplicità
dei significati della stessa esistenza, opponendosi in questo a Frege, Russell e Quine.
Austin e Ryle, come ho avuto occasione di ricordare in un precedente convegno tenutosi
a Bergamo e poi nei “Proceedings of the Aristotelian Society”, si sono mostrati più
autenticamente fedeli ad Aristotele, il quale non concepiva l’esistenza come semplice
“instanziazione di una classe”, alla maniera di Frege, ma come l’essere sempre qualcosa
di determinato, e quindi come dotata di molteplici significati19. Di questo
probabilmente è consapevole anche Kenny, il quale mostra di conoscere gli studi di
G.E.L. Owen, secondo cui per Aristotele l’essere è sempre un essere determinato, per
esempio l’essere di una soglia è l’essere situata in certo luogo e l’essere del ghiaccio è
essere acqua solidificata20. Anche in questo caso, dunque, le critiche di Kenny a
Tommaso si servono di argomenti di origine aristotelica.

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5. La risposta di alcuni neotomisti a


Kenny
20 L’ultimo libro di Kenny, Aquinas on Being, ha finalmente richiamato l’attenzione dei
neotomisti, alcuni dei quali hanno risposto alle sue obiezioni riguardanti la concezione
dell’essere in Tommaso d’Aquino. Ho già dato notizia in un mio precedente articolo di
tali risposte, tra le quali mi sembra interessante soprattutto quella di Stephen L.
Brock21. Questi infatti ha ricondotto le critiche di Kenny all’Esse ipsum all’obiezione
rivolta da Aristotele all’Essere stesso di Platone, tenendo conto a questo proposito dei
miei studi22. A ciò Brock risponde che in realtà Tommaso non concepiva l’essere alla
maniera di Platone, cioè in modo univoco, bensì lo concepiva alla maniera di Aristotele,
cioè come atto, ma non come actus essendi in generale, bensì come actus essentiae,
cioè come atto di una particolare essenza. Questo non è dunque un’Idea platonica, la
platonica Idea dell’essere, come sostiene Kenny, ma «è piuttosto […] l’esercizio
dell’essenza».
21 Per quanto riguarda Dio, Brock osserva che, se Tommaso volesse dire che Dio è il
puro essere, cioè un essere senza alcuna qualificazione, Kenny avrebbe ragione di
considerarlo assurdo. Ma Tommaso, secondo Brock, non vuole dire questo; per
Tommaso in Dio essere ed essenza coincidono, nel senso che l’essere di Dio è identico
alla sua essenza, cioè all’essenza divina, per cui l’affermazione che Dio è l’essere stesso
significa che Egli è il suo stesso essere. Dall’espressione latina Ipsum esse ciò non
risulta, perché la lingua latina non possiede l’articolo. Ma nel caso di Dio essa significa
che egli è un essere stesso, cioè un essere coincidente con la sua stessa essenza.
Naturalmente l’essenza divina, secondo Tommaso, non ci è nota, tuttavia sappiamo che
essa è la somma di tutte le perfezioni, perciò l’essere di Dio, coincidendo con la sua
essenza, non è il puro essere, ma l’essere perfettissimo. «L’essenza divina – scrive Brock
– è l’essere divino, ma non è l’essenza dell’essere stesso».
22 Come si può vedere, con questa risposta Brock rifiuta l’interpretazione dell’Esse
ipsum data da Gilson e da Fabro, e sostanzialmente fa propria l’interpretazione di
Geach, il quale aveva rilevato che almeno nelle sue opere più mature Tommaso
concepisce l’essere come l’atto di un’essenza. Brock ha ulteriormente sviluppato e
documentato questa interpretazione in un saggio sul commento di Tommaso al De
hebdomadibus di Boezio, dove egli mostra che l’Aquinate concilia il platonismo di
Boezio con l’ontologia di Aristotele, interpretando appunto l’actus essendi come actus
essentiae23. In tal modo, a mio avviso, Brock riscatta Tommaso dalle critiche di Kenny,
mostrando che egli era molto più aristotelico di quanto non solo Kenny, ma anche
Gilson e Fabro, credessero. Anche la concezione di Dio come somma di tutte le
perfezioni conduce, sempre a mio avviso, a concepirlo non come l’essere puro, bensì
come l’essere più determinato, il che è del tutto coerente con la concezione aristotelica
dell’essere. Essa somiglia infatti al rapporto stabilito da Aristotele nel De anima (libro
II, cap. 3) fra i tre tipi di anima, vegetativa, sensitiva e intellettiva, secondo il quale
l’anima superiore, cioè quella intellettiva, contiene in sé anche le funzioni di quelle
inferiori. Così in Dio il pensiero contiene in sé la vita e l’essere, per cui quando
Tommaso dice che Dio è l’essere, egli intende dire che Dio è quell’essere perfetto che è
anche essenzialmente vita e pensiero.
23 Anche altri studiosi di Tommaso hanno risposto alle critiche di Kenny, alcuni in
modo simile a quello di Brock, altri in modo diverso, come risulta dal volume edito da
Paterson e Pugh, Analytical Thomism. Traditions in Dialogue e da altre pubblicazioni,
cui ho accennato nel mio articolo già citato24. Le risposte più efficaci, a mio avviso, sono
quelle che si richiamano alla distinzione introdotta da Geach e ripresa da Kenny tra due
significati di essere presenti in Tommaso, l’essere inteso come pura esistenza, nel senso
teorizzato da Frege, e l’essere inteso come atto di un’essenza, o di una forma, nel senso
indicato da Aristotele. Da questo dibattito, che ha riportato all’attualità un problema
affrontato da Anscombe e Geach quasi cinquant’anni fa, emerge una nuova
interpretazione della concezione tomistica dell’essere, profondamente diversa sia da
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quella di Gilson e della “seconda generazione” di tomisti, sia anche da quella dei tomisti
della “terza generazione”, che si limitavano a indicare l’origine neoplatonica della
concezione di Dio come Esse ipsum. Per questo Ventimiglia ha parlato anche di una
“quarta generazione” di tomisti, che interpretano Tommaso da un punto di vista più
aristotelico25. Del resto la concezione generale che Gilson ebbe del tomismo è stata di
recente oggetto di una critica abbastanza penetrante da parte di un filosofo americano
di sicuro orientamento tomistico, Ralph MacInerny26.

6. La concezione dell’essere nel De ente


et essentia
24 Più recentemente ho cercato di fare anch’io una verifica del modo in cui Tommaso
intendeva l’essere e ho trovato alcune indicazioni interessanti già nel giovanile De ente
et essentia, opera sicuramente più esposta all’influenza del platonismo di quanto lo
siano le opere più mature, da cui risulta che in essa è già contenuta in qualche misura la
concezione di Dio come “il suo stesso essere”.
25 L’andamento stesso dell’opera rivela l’influenza del platonismo, anzi del
neoplatonismo, e lo sforzo di Tommaso per superarlo. Anzitutto, infatti, Tommaso
spiega la nozione di essenza come risposta alla domanda quid est, cioè come quidditas,
mostrando che nelle sostanze composte di materia e forma l’essenza indica appunto tale
composizione, mentre nelle sostanze “separate”, cioè costituite di sola forma, l’essenza
coincide con quest’ultima. Tali sostanze “separate” sarebbero, secondo Tommaso,
«l’anima, le intelligenze e la causa prima», cioè Dio27. Si noti come Tommaso dia qui
per scontata l’esistenza di sostanze separate, supponendo che esse siano pura forma,
secondo la tradizione del platonismo e del neoplatonismo, mentre Aristotele dice che
l’anima è forma, ma del corpo, e non dice mai che i motori immobili (le “intelligenze”)
siano forme (non si vede infatti di che cosa lo sarebbero).
26 La concezione delle sostanze separate come pure forme pone a Tommaso il problema
di distinguere quelle tra esse che sono create, cioè l’anima umana e le “intelligenze”
(che tutti nel medioevo identificavano con gli angeli), da quella che invece è il creatore,
cioè Dio. Come pure forme, infatti, le sostanze separate sembrerebbero essere del tutto
semplici, così come è semplice Dio, quindi non si vede quale differenza possa esserci tra
quelle di esse che sono creature e Dio in quanto creatore. È a questo scopo che
Tommaso fa ricorso alla distinzione, risalente ad Avicenna, tra essenza ed essere inteso
come esistenza, cioè allo scopo di risolvere un problema che in Aristotele non si pone
minimamente, perché tra il primo motore immobile e gli altri motori immobili non c’è
la differenza che passa tra il creatore e le creature, ma si pone invece all’interno del
neoplatonismo, dove tra Dio e le creature materiali esiste tutta una serie di piani di
realtà, costituiti da altrettante forme di perfezione diversa.
27 Tommaso scrive infatti:

Le sostanze di questo tipo, dunque, quantunque siano pure forme senza materia,
non godono tuttavia di una perfetta semplicità, né sono atti puri, ma sono in
qualche modo commiste alla potenza. E ciò risulta chiaro in questo modo: ogni
cosa che non fa parte del concetto dell’essenza o quiddità, si aggiunge in qualche
modo dall’esterno ed entra in composizione con l’essenza, perché nessuna essenza
può essere realmente concepita senza che qualcosa sia pensato del suo essere [de
esse suo]: posso infatti sapere cos’è l’uomo o la fenice, e tuttavia ignorare se
esistano o meno nella realtà [an esse habeat in rerum natura]. È chiaro dunque
che l’essere è diverso dall’essenza o quiddità28.

28 La soluzione al problema di come distinguere le sostanze separate create dalla


sostanza separata increata e creatrice consiste dunque, per Tommaso, nell’introdurre
una composizione nelle prime, in modo da riservare l’assoluta semplicità soltanto alla
seconda. La composizione introdotta da Tommaso nelle sostanze separate create è
quella tra essenza ed essere, a cui viene applicata la distinzione aristotelica fra potenza e
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atto, per cui l’essenza è potenza e l’essere è atto. Ma l’essere in questione, benché sia
indicato da Tommaso come l’essere di una determinata essenza (de esse suo), è da lui
concepito come la semplice esistenza nel senso fregeano del termine, cioè come esse in
rerum natura, giustamente tradotto in italiano con “se esistano o meno”.
29 Subito dopo Tommaso viene a parlare della sostanza separata increata e creatrice,
cioè di Dio, nei seguenti termini:

A meno che non si dia qualcosa la cui quiddità sia il suo stesso essere [ipsum
suum esse], e una tale cosa non può essere che unica e prima, poiché è impossibile
che si dia purificazione di qualcosa, se non per l’aggiunta di qualche differenza
[…]. Se invece si pone qualcosa che è soltanto essere [esse tantum], così che
l’essere stesso risulti sussistente [ipsum esse sit subsistens], tale essere non potrà
ricevere l’aggiunta di nessuna differenza, perché già così non sarebbe più soltanto
essere, ma essere più una data forma.

30 Qui, benché Tommaso, a proposito di Dio, parli del “suo” essere, cioè dell’essere di
Dio, egli dà l’impressione di concepirlo ancora come la semplice esistenza, nel senso
fregeano del termine, per cui, identificando Dio con l’essere stesso sussistente, egli
sembra ipostatizzare la semplice esistenza, andando incontro a tutte le difficoltà che
Geach e Kenny, sulla scorta di Aristotele, gli hanno imputato. Tuttavia in seguito,
quando viene a trattare sistematicamente dell’essenza divina, Tommaso si esprime in
modo diverso, dicendo:

Vi è infatti qualcosa, la cui essenza è il suo stesso essere [ipsummet suum esse], e
perciò alcuni filosofi affermano che Dio non ha quiddità o essenza, poiché la sua
essenza non è altro che il suo essere.

31 Il riferimento qui è ad Avicenna, il quale nella sua Metafisica aveva scritto: «L’essere
necessario non possiede dunque una quiddità, se non il fatto di essere essere
necessario, e questa è l’esistenza (anitas)»29. È Avicenna, dunque, colui che identifica
l’essenza di Dio con la semplice esistenza, concetto per il quale egli crea un termine
arabo nuovo, ricalcando il greco eínai, tale che, traslitterato in latino, diventa anitas.
Sarebbe interessante, a questo proposito, fare una ricerca sull’origine di questa tesi
avicenniana, la quale probabilmente ci riporterebbe al neoplatonismo, cioè a Plotino e a
Porfirio, ma non è questo il luogo per occuparcene.
32 Tommaso tuttavia si accorge subito del rischio che tale posizione comporta,
sicuramente perché ha già letto la critica di Aristotele all’autó ón di Platone. Egli scrive
infatti:

E quando si dice che Dio è soltanto essere, non si è costretti per questo a cadere
nell’errore di coloro che sostennero che Dio è quell’essere universale in virtù di cui
qualunque cosa esiste formalmente [illud esse universale quo quelibet res
formaliter est]. L’essere che è Dio è infatti tale che nulla vi si può aggiungere, e a
motivo della sua stessa purezza si distingue da ogni altro essere […]. Ma l’essere
comune [esse commune], così come non include nel suo concetto qualche
aggiunta, non include neppure l’esclusione di qualche aggiunta, perché – se così
fosse – l’essere a cui qualcos’altro verrebbe ad aggiungersi non potrebbe essere
considerato come tale. Analogamente, quantunque Dio sia soltanto essere, non è
necessario che gli manchino le altre perfezioni o nobiltà: anzi Dio possiede tutte le
perfezioni che sono in tutti i generi, tanto da esser chiamato perfetto in senso
assoluto, come dicono il Filosofo e il Commentatore nel V libro della Metafisica,
ma le possiede in modo più eccellente rispetto a tutte le altre cose, perché in Lui
formano un’unità, mentre nelle altre cose rimangono distinte tra loro. E ciò perché
tutte le perfezioni convengono a Dio secondo il suo essere semplice [secundum
esse suum simplex]; e come chi fosse in grado di compiere attraverso una sola
qualità le operazioni di ogni altra qualità, racchiuderebbe in quella sola qualità
tutte le altre, così Dio racchiude nel suo stesso essere [in ipso esse suo] tutte le
perfezioni30.

33 Qui l’essere che costituisce l’essenza di Dio non è più la semplice esistenza, cioè
l’essere universale, l’esse commune, ma è l’essere proprio di Dio, cioè l’essere
perfettissimo, includente in sé tutte le perfezioni. E l’allusione alla possibilità di

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compiere attraverso una sola qualità le operazioni di ogni altra qualità non può non
ricordare il rapporto stabilito da Aristotele fra i tre tipi di anima, dove l’anima
intellettiva è in grado di svolgere da sola anche le operazioni proprie dell’anima
vegetativa e dell’anima sensitiva. Questo passo dunque dimostra che già nel giovanile
De ente et essentia Tommaso era in possesso della nozione aristotelica di essere come
atto di un’essenza, di una forma, cioè dell’essenza divina, anche se questa concezione
coesisteva e spesso si confondeva con la concezione avicenniana, ma prima ancora
platonica e neoplatonica, dell’essere come semplice esistenza, comune a tutte le cose.
34 Questa duplicità di concezioni non si spiega né con un’ipotesi di tipo evolutivo, come
quella avanzata da Geach, né con l’accusa di una semplice confusione, avanzata da
Kenny, ma è la conseguenza inevitabile della compresenza in Tommaso di due
tradizioni di pensiero tra loro opposte, il platonismo (o neoplatonismo) e
l’aristotelismo. A favore di quest’ultima sta la decisione piena e indiscutibile presa da
Tommaso di schierarsi dalla parte di Aristotele contro l’agostinismo imperante in tutta
la precedente filosofia cristiana, ma a favore della prima stanno la sua formazione
nell’ambito dell’agostinismo, l’autorità usurpata del neoplatonico pseudo-Dionigi,
scambiato per il discepolo convertito da san Paolo col discorso all’Areopago, le
interpretazioni neoplatonizzanti di Aristotele date dai commentatori arabi (o di lingua
araba, come Avicenna) sulla scorta di falsi scritti aristotelici quali la Theologia
Aristotelis e il Liber de causis (dell’origine procliana di quest’ultimo scritto Tommaso si
accorse, come è noto, solo due anni prima di morire, grazie alla traduzione latina degli
Elementi di teologia di Proclo fatta da Guglielmo di Moerbeke). Il giovanile De ente et
essentia era profondamente influenzato da questa tradizione, il che non impedì a
Tommaso di ricordarsi dell’obiezione di Aristotele all’essere stesso di Platone e di
prendere le distanze dal panteismo.

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Notes
1  Le “generazioni” in questione sono state così chiamate e illustrate da Ventimiglia 1997: 3-37.
2  Gilson 1948. L’opera ha avuto nel 1962 una seconda edizione, riveduta e arricchita da una
risposta alle critiche, rivolte da alcuni tomisti all’autore, di avere voluto fare di Tommaso un
esistenzialista, risposta comprendente anche una valorizzazione del pensiero di Heidegger.
L’edizione italiana, arricchita da un’introduzione di Antonio Livi nella quale si risponde anche ad
alcune mie critiche a Gilson, è purtroppo resa inutilizzabile da una pessima traduzione, che per
esempio a p. 28 ignora il significato della distinzione francese tra qui e que.
3  Anscombe e Geach 1963: 21-22.
4  Ivi: 89 (trad. mia, corsivo nel testo).
5  Ivi: 90-91.
6  Ivi: 159.
7  Geach 1954-55.
8  Berti 1975.
9  De Vogel 1961.
10  Aristotele, Metafisica III 4, 1001 a 3-b 8.
11  Tommaso d’Aquino 1964: comm. 493, 500.
12  Ventimiglia 1997: 107-177.
13  Kenny 1980: 46-49.
14  Ivi: 85-89.
15  De Couesnongle 1954a-b.

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06/03/23, 23:46 1.1. La critica dei filosofi analitici alla concezione tomistica dell’essere
16  Kenny 1993.
17  Kenny 2002: 192-193.
18  Ivi: 59, 108.
19  Berti 2001, 2002.
20  Owen 1965.
21  Berti 2009.
22  Brock 2004: 194; cfr. Brock 2006.
23  Brock 2005.
24  Paterson e Pugh 2006.
25  Ventimiglia 2009.
26  MacInerny 2006.
27  Tommaso d’Aquino 1995: 106-107.
28  Ivi: 112-113.
29  Avicenna latinus, Liber de philosophia prima sive scientia divina, ed. S. van Riet, VIII, 4, p.
401 (citazione tratta dal commento di Porro, in Tommaso d’Aquino 1995).
30  Tommaso d’Aquino 1995: 119-121. Coloro che affermano che l’essere di Dio è l’essere
universale, cioè il predicato comune di tutte le cose, l’esse commune, sono Davide di Dinant e
Amalrico di Bène (vedi il commento di Porro), che infatti cadevano nel panteismo, realizzando in
tal modo la conseguenza che Aristotele aveva attribuito alla concezione platonica dell’essere
stesso, cioè il monismo di Parmenide. Il V libro della Metafisica di Aristotele dà semplicemente la
definizione di “perfetto” (16, 1021 b 30-33), senza parlare di Dio, di cui parla invece il
Commentatore, cioè Averroè, nel suo commento (in Metaph. V, comm. 21). Ma è evidente
l’intenzione di Tommaso di schierarsi con Aristotele e col più aristotelico dei suoi commentatori,
per prendere le distanze dai panteisti.

References
Bibliographical reference
Enrico Berti, “1.1. La critica dei filosofi analitici alla concezione tomistica dell’essere”, Rivista di
estetica, 49 | 2012, 7-21.

Electronic reference
Enrico Berti, “1.1. La critica dei filosofi analitici alla concezione tomistica dell’essere”, Rivista di
estetica [Online], 49 | 2012, Online since 30 November 2015, connection on 06 March 2023.
URL: http://journals.openedition.org/estetica/1667; DOI: https://doi.org/10.4000/estetica.1667

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Sono ancora utili oggi le categorie di Aristotele? [Full text]
Published in Rivista di estetica, 39 | 2008

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