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INDICE
Premessa
Cap. I - Sono i dogmi oggetto di fede?
Cap. II - La duplice luce della fede
Cap. III - Le prime forme della luce profetica
Cap. IV - Nell'Antico Testamento: sviluppo omogeneo del dato di fede
con 1'aiuto di nuove rivelazioni
Cap. V - La presentazione del dato da credere nel periodo apostolico e il
passaggio al periodo post-apostolico»
Cap. VI - La vita del Dogma conservazione e spiegazione del deposito
rivelato
Cap. VII - Alcuni esempi di sviluppo dogmatico
Cap. VIII - Le formule dogmatiche e il senso comune»
Cap. IX - Il valore di verità degli enunciati rivelati»
Cap. X - Il problema del linguaggio
Cap. XI - I deterioramenti del Dogma
Cap. XII - Dogma e contemplazione
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P R E M E S SA
La fede comporta due aspetti, due luci inseparabili e complementari: la luce profetica
di fede che presenta il dato da credere, e la luce santificante di fede, che facendo
acconsentire a questo dato, diviene il «fondamento e la radice di tutta la
giustificazione» (Concilio di Trento, Sess. VI, cap. 8; Denz., n, 801). E’ proprio la
prima luce, senza dubbio meno importante e nondimeno rigorosamente necessaria,
senza la quale nessun atto di fede sarebbe possibile - senza la quale la virtù della fede
resterebbe addormentata in noi come nel bambino battezzato - che trattiene qui, non
certo esclusivamente ma principalmente, la nostra attenzione.
Abbiamo tentato di analizzarla fin nei suoi aspetti più nascosti. Poi abbiamo
brevemente considerato la maniera del suo sviluppo nell'Antico Testamento e nel
periodo apostolico, in cui si esprime in nuove rivelazioni. Infine nell'età post-
apostolica, quando, terminata la rivelazione canonica, essa non può dar luogo che a
nuove esplicitazioni: al progresso della rivelazione succede allora il progresso del suo
sviluppo, al progresso degli articoli di fede il progresso dei dogmi o verità di fede.
Era necessario soffermarsi alquanto su tale vertice, dare qualche esempio di sviluppo
dogmatico, mostrare come il dogma, senza minimamente infeudarsi ad una cultura,
possa talvolta superare il senso comune pur restando in linea con ciò che vi è di più
autentico, insistere sul valore di verità assoluta dei principi rivelati, compatibile
tuttavia con un progresso nella loro enunciazione, segnalare, senza nominarne gli
autori, uno o due casi recenti di deviazione, citare il testo di Giovanni XXIII sul
«modo di promuovere la dottrina» e di «reprimere gli errori» nella nostra epoca.
Da ultimo, era opportuno tentare di ridiscendere verso le immense porzioni
dell'umanità nelle quali la pienezza del messaggio rivelato si è deteriorata, dire una
parola sul caso doloroso del cattolico che si stacca dal suo Credo, e terminare
richiamando l'attenzione sulla vita e le meravigliose trasparenze del dogma nell'anima
contemplativa.
Conoscenza e amore.
La differenza tra la fede e la carità è che la fede, essendo conoscenza, coglie la realtà solo
per mezzo dei giudizi ai quali si chiede di assentire interiormente; mentre la carità, essendo
amore, ci indirizza alla realtà come essa è fuori di noi, nella sua pura semplicità: «L'oggetto
della carità, il bene, è nella realtà; l'oggetto della fede, il vero, si completa attraverso
un'attività dell'anima... Elementi complessi entrano nell'oggetto della fede, la pura
semplicità è l'oggetto della carità» (S. Tommaso, III Sent., dist., 24, q. I, a. I, quaest. 2, ad
3). Ed è per questo che, fa ancora rilevare san Tommaso, data l'imperfezione attuale della
nostra conoscenza, amare Dio quaggiù è migliore cosa che conoscerlo, «melior est amor Dei
quam cognitio» (I, qu. 83, a. 3).
Tuttavia l'amore soffocherebbe senza la conoscenza, la quale gli apre le sue vie. La carità ha
bisogno della fede. E’ vero che sui sentieri della fede essa può andare più lontano della fede.
E’ il suo modo di superare la fede. Bisognerebbe in questo caso applicare il paragone delle
formiche: «La formica, dice Ruysbroeck, non inventa nuovi tracciati da seguire; ma segue lo
stesso sentiero e, aspettando il tempo favorevole, diviene capace di volare... La stessa cosa
avviene a coloro che vivono nel caldo dell'amore. Non inventeranno affatto strade diverse
né metodi peregrini, ma seguiranno, attraverso tutte le tempeste, la via dell’amore verso il
luogo dove l'amore li condurrà. E, nell'attesa del tempo opportuno, perseverando in tutte le
virtù, potranno contemplare Dio e librarsi nel suo mistero» (L'ornement des noces
spirituelles, trad. M. Maeterlinck, Bruxelles, 1908, p. 201. Vers. it. di D. Giuliotti,
L'ornamento delle nozze spirituali, Carabba, Lanciano, 1923).
Quando l'amore dell'assoluto tenta a ragion veduta, per meglio raggiungere lo scopo, di
mettere da parte gli argomenti della fede, quando, credendo di superarli, esso passa
semplicemente a fianco e al di sotto di essi, non sarà certamente l'assoluto del Dio della
rivelazione che incontrerà al termine del suo cammino, ma un altro assoluto, un altro Spirito
il quale muoverà incontro ai suoi desideri onde offrirsi per appagarli.
CAPITOLO II.
LA DUPLICE LUCE DELLA FEDE
2. Queste due luci sono provvisorie, destinate a rimediare quaggiù, ciascuna a suo modo,
alla debolezza dei nostri occhi incapaci a sostenere lo splendore di Dio: l'una affidandoci gli
enunciati pieni di oscurità in cui si formula il mistero di Dio; l'altra innalzando la nostra
intelligenza all'altezza dell'oscurità degli enunciati cui acconsente. Al momento dell'ultima
manifestazione, gli enunciati cesseranno dinanzi alla pura visione; allo stesso tempo, la luce
teologale di fede sarà sostituita da una luce più forte che consente all’anima di alzare lo
sguardo su Dio stesso, la luce della gloria: «Non è ancora stato manifestato quello che
saremo; ma sappiamo che quando ciò verrà manifestato, saremo simili a lui, perché lo
vedremo quale egli è» (1 Gv. 3, 2).
Anche se destinato ad essere creduto nella fede teologale, il dogma, che propone le verità da
credere, dipende immediatamente dalla luce profetica. Non si può certamente parlare di una
di queste luci senza parlare dell'altra; ma possiamo applicarci a descrivere principalmente
sia la vita della fede teologale, sia la vita del dogma. Ed è questo secondo aspetto che
soprattutto ci impegnerà.
CAPITOLO III.
LE PRIME FORME DELLA LUCE PROFETICA
Nei due «credibilia» fondamentali sono già incluse le due supreme rivelazioni cristiane
I due «credibilia» fondamentali racchiudono già tutta la sostanza della fede cristiana: nella
rivelazione che Dio fa del suo essere, quello che è racchiuso, come la rosa nel suo bocciolo,
è la Trinità; nella rivelazione della sua sollecitudine per la salvezza degli uomini, vi è già la
promessa dell'Incarnazione redentrice.
Tutto l'essenziale della fede cristiana è legato a queste due rivelazioni della Trinità e
dell'Incarnazione, le quali ci manifestano nella notte di quaggiù «ciò che Dio ha preparato
per coloro che lo amano» (1 Cor 2, 9).
«La fede, dice san Tommaso, si riferisce essenzialmente a quello che ci sarà svelato nella
vita eterna attraverso la visione, e quello che ci istrada verso questa vita eterna. Orbene, ciò
che ci sarà svelato e che ci è proposto di credere, da una parte sono le profondità della
divinità, occultum divinitatis, la cui visione ci farà beati; e dall'altra parte il mistero
dell'umanità di Cristo per il quale avremo l'accesso alla gloria dei figli di Dio (Rom. 5, 2).
Perciò il testo di Giovanni, 17, 3: Or, la vita eterna è questa, che conoscano te, solo vero
Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Dunque, la prima distinzione dei dati da credere
sarà: da una parte quei dati che riguardano la maestà della divinità, majestas divinitatis, e
dall'altra quelli che riguardano l'umanità di Cristo, che san Paolo, 1 Tim. .3, 16, chiama il
mistero della pietà» (II-II, qu. I, a. 8). Sotto queste due supreme verità verranno ad allinearsi
tutti gli articoli del Credo.
Progredendo dai «credibilia» fondamentali alla rivelazione cristiana, il dato di fede non si
accresce in sostanza, ma solo in esplicitazione o precisazione
Di questo progresso si può trovare una analogia naturale (Cfr. S. Tommaso, II-II, qu. I, a. 7).
La nozione di essere implica nella sua universalità le nozioni di uno, di vero, di bene, di
bello, che non sono estrinseche ad essa, poiché fuori dell'essere nulla esiste: così che
esplicitandosi in queste nozioni, la nozione di essere non viene a crescere in sostanza e
contenuto, ma semplicemente nella sua esplicitazione, e precisazione.
Il dato rivelato si comporta nella stessa guisa. «Quanto alla sostanza degli articoli di fede,
dice san Tommaso (Cfr. S. Tommaso, II-II; qu. I, a. 7), il decorso dei tempi non ha apportato
ad essi accrescimento di sorta; tutto quello che è cresciuto ulteriormente era contenuto nella
fede degli antichi Padri, sia pure implicitamente. Ma per quanto concerne la loro
esplicitazione, gli articoli di fede sono aumentati di numero: certi dati, che non erano
conosciuti esplicitamente all'inizio, sono cresciuti esplicitamente in seguito. Donde la parola
del Signore a Mosè, Es. 6, 3: Ed apparvi ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe, come Dio
onnipotente, ma non mi sono fatto conoscere da loro sotto il mio nome di Jahvé. E la parola
di David, Ps. 119 (118), 100: Io ho l'intelligenza più degli antichi. E la parola dell'Apostolo,
Ef. 3, 5: Tale mistero (del Cristo), nell'età passate, non fu conosciuto dai figli degli uomini,
come ora è stato rivelato ai suoi apostoli».
Non ricadiamo nell'errore segnalato all'inizio di queste pagine, secondo il quale gli enunciati
della fede non sarebbero oggetto della fede. Dire che i due «credibilia» fondamentali non
sono mutati quanto alla loro sostanza progredendo nel corso dei secoli, non significa
soltanto che il loro significato, la realtà che contengono, cioè Dio e il suo amore per gli
uomini, non sono cambiati. Ciò è evidente. Ma si vuol dire che il significato dei due
«credibilia», esplicitandosi, non è stato transustanziato. Che esso cioè si è sviluppato in una
maniera omogenea e non trasformista, che essi hanno progredito, secondo una formula che
trova già qui una sua applicazione, all'interno di una stessa asserzione, di uno stesso
significato, di una stessa verità, in eodem dogmate, eodem sensu, eademque sententia.
Differenza tra il progresso della dottrina per mezzo di nuove rivelazioni e il progresso per
mezzo della semplice chiarificazione
Quanto al problema della dottrina da credere, seguendo san Tommaso, non vi è dunque
progresso quanto alla «sostanza», ma solo quanto alla «spiegazione». Ma tale spiegazione,
questo passaggio dall'implicito all'esplicito, differisce a seconda che esso esige nuove
rivelazioni, o se invece avviene per semplice chiarificazione.
«Effettivamente, vi sono due gradi molto diversi di implicità. L'una è tanto profonda, che,
pur essendo in se stessa veramente oggettiva, tuttavia è come se non lo fosse affatto per la
ragione umana, visto che la ragione ed i mezzi umani sono impotenti a spiegarla o a
scioglierla; si richiede la rivelazione divina. E’ proprio così che il dogma della Trinità è
contenuto nel dogma dell’esistenza di un Dio soprannaturale; oppure il dogma
dell'Incarnazione è contenuto nel dogma di Dio rimuneratore. Queste verità che, pur essendo
veramente implicite per se stesse, non lo sono per noi, ricevono il nome di dogmi
fondamentali o di articoli di fede, perché non possono essere conosciuti che per mezzo di
nuove rivelazioni. Ed è questa implicità che Dio ha spiegato sempre maggiormente durante
1'Antico Testamento; per cui anche se non vi è stato progresso nell'Antico Testamento
quanto alla sostanza ma unicamente quanto alla spiegazione, vi fu tuttavia un progresso per
via di nuovi articoli fondamentali e, conseguentemente, un progresso per via di nuove
rivelazioni. Questa spiegazione ebbe fine con Gesù Cristo e gli apostoli: haec explicatio
completa est per Christum.
«Vi è un'altra implicità che, senza contentarsi di una spiegazione di parole, non è però cosi
profonda da esigere una rivelazione: la penetrazione umana congiunta alla assistenza divina
è sufficiente per esplicitarla. E’ il caso del dogma circa i due intelletti e le due volontà in
Gesù Cristo come conseguenza del dogma delle sue due nature perfette; oppur del dogma
dell’Immacolata Concezione di Maria come conseguenza del dogma della sua divina
maternità. La stessa cosa avviene per tutte le verità implicite del Nuovo Testamento dopo gli
apostoli» (F. Marin-Sola, O. P., L'évolution homogène du dogme catbolique, Friburgo, 1924,
t. II, pp. 40-41). Ecco il progresso non più in ragione di nuove rivelazioni, ma per semplice
chiarimento della rivelazione.
Qui è opportuno distinguere come due stadi o procedimenti: uno è il modo con cui il dato da
credere fu ricevuto dagli apostoli, l'altro il modo con cui fu ricevuto dalla Chiesa del loro
tempo.
2. Ma, si dirà, «il Canone delle Scritture non è perfetto? Non basta in se stesso? Quale
bisogno abbiamo di un'autorità per interpretarlo?» (S. Vincenzo di Lerino, Commonitorium,
II, 2). A tale domanda san Vincenzo di Lerino dava una duplice risposta. In primo luogo,
diceva, «il senso della Scrittura è talmente profondo che non tutti lo intendono in un modo
identico e universale. Le stesse parole sono interpretate in maniera diversa dagli uni e dagli
altri. Si potrebbe quasi dire che vi sono tante interpretazioni della Scrittura quanti sono i
suoi lettori. Novaziano lo spiega in un modo, Sabellio in un altro e Donato in un altro
ancora. Eunomio, Ario, Macedonia hanno la loro opinione; Fotino, Apollinare, Priscilliano
hanno la loro; così anche Gioviniano, Pelagio, Celestino; infine Nestorio ha la sua» (Ibid.,
II, 3). Ed ecco la sua seconda risposta: «Gli eretici non si servono forse delle testimonianze
della Scrittura? Sì, certamente, se ne servono e con passione! Li vediamo passare da un libro
all'altro della Legge santa, da Mosè al libro dei Re, dai Salmi agli Apostoli, dai Vangeli ai
Profeti! Davanti ai loro amici, presso gli estranei, a casa loro, in pubblico, nelle loro
prediche e nei loro scritti, durante i pasti e nelle pubbliche piazze, essi quasi mai sostengono
alcunché se prima non l'abbiano ammantato con l'autorità della Scrittura (Ibid., XXV, 1)...
Non vi è alcun dubbio che essi seguano la perfida tattica del loro Maestro (Ibid. , XXV, 14).
Ma il diavolo ha l'abitudine di citare la Scrittura? Leggete il Vangelo: «Allora il diavolo gli
dice: Se tu sei figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: egli ha comandato ai suoi angeli
di custodirti ovunque andrai» (Ibid., XXVI, l).
3. Se Dio voleva conservare pubblicamente, lungo il corso dei secoli, senza alterazioni,
l'originario senso del deposito della rivelazione tanto orale che scritta, vi era solo, una
soluzione: accompagnare, cioè pubblicamente, lungo il corso dei secoli, il deposito della
rivelazione con una interpretazione divinamente assistita. Ed egli lo ha fatto. Cristo,
inviando gli Undici per il mondo, dirà loro: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra.
Andate: dunque e fate miei discepoli tutti i popoli... insegnando loro ad osservare tutte le
cose che io ho comandate a voi. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del
mondo» (Mt., fine).
4. Gli apostoli, sotto la duplice luce profetica di rivelazione e d’ispirazione, avevano la sola
missione di formare il deposito divino; essi affideranno ai loro discepoli, sotto quella luce
profetica promessa attraverso Cristo, l'incarico di conservare tale deposito vivo e senza
alterazioni lungo il volgere dei secoli: «O Timoteo, custodisci il deposito delle verità
rivelate... Custodisci il buon deposito delle verità rivelate con l'aiuto dello Spirito Santo che
abita in noi» (1 Tm. 6, 20; 2 Tm. 1, 14).
5. Passando dagli apostoli ai loro discepoli, la funzione docente della Chiesa cambierà
carattere. Vivendo gli apostoli, il potere di magistero della Chiesa è al di sopra degli
enunciati e delle formulazioni scritturistiche nelle quali esso si esprime. Per tutto il periodo
post-apostolico, al contrario, il potere di magistero della Chiesa non è al di sopra ma al di
sotto della Scrittura: la Chiesa innalza la Scrittura al di sopra di sé, come Cristo nelle
processioni del Corpus Domini. Essa tuttavia resta al di sopra delle interpretazioni che gli
uomini danno della Scrittura. Al ministro Paul Ferry, Bossuet rispondeva: «Noi non
affermiamo che la Chiesa sia il giudice della parola di Dio, ma rassicuriamo che essa è il
giudice delle differenti interpretazioni che gli uomini danno della santa Parola di Dio» (Edit.
Bar-le-Duc, t. V, p. 320). Prima di lui, san Francesco di Sales replicava a Teodoro di Bessa:
«Non è affatto la Scrittura che ha bisogno di regole e di luci estranee, sono i nostri
commenti... Non chiediamo se Dio intende la Scrittura meglio di noi, ma se Calvino la
interpreta meglio di sant'Agostino o di san Cipriano» (Oeuvres complètes, Annecy, t. I, p.
206).
6. La Scrittura, ricevuta dalla fede teologale della Chiesa primitiva con il senso che essa
assumeva nella luce della predicazione orale o tradizione degli apostoli ed esprimente con
precisione il loro insegnamento, ecco in definitiva il deposito divino affidato al magistero
post-apostolico, assistito per trasmetterlo di generazione in generazione.
Alla trasmissione o tradizione «verticale» che va da Cristo agli apostoli e alla Chiesa
primitiva, succederà la tradizione «orizzontale» che va dalla Chiesa primitiva fino a noi.
CAPITOLO VI.
LA VITA DEL DOGMA. CONSERVAZIONE E SPIEGAZIONE DEL DEPOSITO
RIVELATO
2. Da questo punto di vista la continua necessità di quello che oggi chiamiamo un «ritorno
alle fonti».
Si comprende anche quanto sarebbe illusorio valersi dell'espressione «ritorno alle fonti» per
mettere tra parentesi tutto lo sviluppo legittimo del dogma compiuto durante venti secoli
sotto l'influsso delle luci divine, di assistenza profetica e di fede teologale, e credere di
riscoprire, con l'aiuto delle semplici scienze umane: archeologia, filologia, esegesi, storia
delle religioni, filosofie contemporanee, il senso della rivelazione «di quello che occhio mai
vide, né orecchio mai udì, né mai cuore d'uomo ha potuto gustare, e che Dio ha preparato a
coloro che lo amano» (1 Cor. 2, 9).
Si vede infine come rispondere a coloro che, da parte protestante, ci rimproverano di non
differenziare sufficientemente i dati fondamentali e i dati derivati della fede Cristiana, le
«rivelazioni» e i «dogmi», gli «articoli di fede» e le «verità di fede». Noi sappiamo ben
distinguere la sorgente e le sue derivazioni, ma riteniamo che la dottrina, è omogenea
passando dall'una alle altre, che lo stesso amore che ci porta infallibilmente la rivelazione
attraverso gli apostoli, ce la conserva infallibilmente per mezzo dei loro discepoli.
Il dogma trinitario
Fin dalle origini è il dogma fondamentale del cristianesimo, quello della Trinità, che è
chiamato in causa. Si legge nel vangelo che bisogna dare la vita battezzando «nel nome del
Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt. 28, 19). Si legge che «Dio ha tanto amato il
mondo, che ha sacrificato il suo figlio unigenito, affinché ognuno che crede in lui, non
perisca ma abbia la vita eterna» (Gv. 3, 16); questo Figlio è il Verbo che era in principio, che
era con Dio, che era Dio (1, 1). Si legge ancora che il Figlio manderà al mondo «un altro
Paraclito, lo Spirito di verità che procede dal Padre» (14, 16 e 26).
Si vorrebbe accettare ben volentieri tutte queste cose. Ma d'altra parte sappiamo
incrollabilmente che Dio è uno, e che non può presentarsi a noi come contraddittorio a se
stesso, come colui che distrugge se stesso. Come dunque, senza offendere la ragione che
egli ci ha dato e che è la prima sua immagine in noi, supporre una qualunque reale pluralità
nella sua divina unità?
Ed è proprio qui che, per sottrarre la verità evangelica al rimprovero di contraddizione, ci si
caccia sulla strada del razionalismo. Da una parte, con Sabellio e il modalismo, si insinuò
che i termini Padre, Figlio e Spirito non toccano Dio in se stesso, ma indicano soltanto le
modalità della sua azione di volta in volta creatrice, salvifica, santificatrice: da quel
momento tutto è chiaro, tutto è limpido; ma al tempo stesso tutto è razionalizzato. Non è più
vero che Dio ha tanto amato il mondo da dargli il suo unico Figlio. Dall'altra parte, con
Ario, per mantenere la distinzione reale del Padre, che è Dio, e del Figlio, ci vediamo
costretti a fare del Figlio una creatura, la prima di tutte le creature: di nuovo tutto è chiaro e
tutto è razionalizzato; ma non è più vero che è il Verbo-Dio che si è fatto carne per abitare
tra gli uomini.
Cosa farà la Chiesa? Tenterà di evitare il problema? Lascerà che il messaggio evangelico si
annulli nella cultura greca? Essa affermerà nella cultura greca la sua fede eterna in Gesù
Cristo «Figlio unico del Padre, generato dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce,
vero Dio dal vero. Dio, generato non creato, consustanziale al Padre per il quale tutto è stato
fatto in cielo e sulla terra» (Concilio di Nicea, Denz., n. 54). Essa confesserà la pienezza del
mistero trinitario: «Noi veneriamo un Dio nella Trinità e la Trinità nell'unità; senza
confondere le Persone, senza dividere la sostanza; infatti altro è la Persona del Padre, altro
quella del Figlio, altro quella dello Spirito Santo; ma il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo
hanno una stessa divinità, una gloria uguale, una stessa eterna maestà» (Simbolo
«Quicumque», Denz., n. 39). Subito si esplicita la nozione valida per tutti i tempi di
relazioni sussistenti intratrinitarie. A coloro che sostenevano che se vi è solo un Dio e che se
il Padre è Dio, il Figlio non può esserlo, la Chiesa farà osservare che vi è presunzione nel
voler concludere che dal fatto che le nozioni di Padre e di Figlio si oppongano realmente tra
di loro, siano incapaci di identificarsi l'una e l'altra nella stessa divinità, e che è follia il voler
demolire, poggiandosi su una simile presunzione, il mistero evangelico di un Dio che ha
dato il suo unico Figlio: «O uomini sapientissimi, diceva Gregorio Nazianzeno agli Ariani, il
nome di Padre non è, come voi credete, un nome essenziale; esso indica una relazione, la
relazione del Padre al Figlio e dal Figlio al Padre... Nella Trinità, occorre affermare che
altro (alius) è il padre, altro il Figlio, altro lo Spirito; per tema di confondere le Persone; ma
non bisogna dire che altra cosa (aliud) è il Padre, altra cosa il Figlio, altra cosa lo Spirito
poiché i tre sono una sola e identica cosa quanto alla divinità» (P.G., t. XXXVII, col. 180).
A proposito dell'assioma: due realtà uguali a una terza sono uguali tra loro, Aristotile aveva già fatto notare che esso non
ha valore quando le due realtà che si identificano con la terza differiscono tra di loro ratione e si oppongono non già alla
terza, ma l'una all'altra, oppositione relativa. Vedere ARISTOTILE, Fisica, libro III, cap. 3; DIDOT pp. 275-276 e S.
Tommaso, I, qu. 28, a. 3, ad 1; a. 4, ad 5.
Così, a coloro che pretendevano che la Chiesa, nell'insegnare la Trinità e la divinità del
Verbo, sostituisse il messaggio evangelico con un messaggio d'incoerenza e si offrivano per
salvarlo razionalizzando tutto, la Chiesa rispondeva una volta per tutte che la Trinità e la
divinità del Verbo sono dei misteri ineffabili, che confondono la ragione, soprarazionali, ma
di cui non si proverà mai la irragionevolezza, la contraddizione e l'incoerenza. Dall'oscurità
della fede che è al di sopra della ragione all'oscurità dell'incoerenza che la compromette, vi è
un abisso.
Il dogma Cristologico
1. Il Vangelo, da una parte, testimonia che il Verbo, che è Dio, «si è fatto carne» (Gv. 1, 14);
Gesù stesso dirà: «Io e il Padre siamo una sola cosa» (10, 30); «Chi ha visto me ha visto il
Padre; e come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io, sono nel Padre e il Padre è in
me?» (14, 9-10). D'altra parte sta scritto: «Se mi amate, vi rallegrerete che io vada al Padre,
perché il Padre è più grande di me» (14, 28), e vi è il «grande grido» finale: «Mio Dio, mio
Dio, perché mi hai abbandonato?» (Mc. 15, 34).
Egli è Dio ed è abbandonato da Dio; come conciliare questi dati? Da un lato, al fine di
insistere sulla divinità, si sminuisce l'umanità; dall'altro lato, al fine di insistere sulla
umanità, la si separa dalla divinità distinguendo un Figlio di Dio, e un Figlio di Maria.
Dall'una e dall'altra parte risulta il trionfo delle soluzioni agevoli e del razionalismo; dall'una
e dall’altra parte è il Vangelo che ne risulta lacerato.
Cosa farà la Chiesa? Se essa non intende evitare il problema - e sia a Calcedonia nel 451 che
a Efeso nel 431, essa non lo vuole - una sola via gli è offerta: esplicitare completamente e
per sempre la rivelazione trascendente del Verbo fatto carne: «Noi, in pieno accordo,
predichiamo un solo e identico Figlio, nostro Signore Gesù Cristo - il medesimo perfetto
nella divinità e perfetto nell'umanità, lo stesso vero Dio e vero uomo, fatto di un’anima
razionale e di un corpo - consustanziale al Padre per la divinità, consustanziale a noi per
l'umanità e simile a noi in tutto eccetto il peccato - generato dal Padre prima del tempo
quanto alla sua divinità, ma infine per noi e per la nostra salvezza nato da Maria, la Vergine,
la Théotocos quanto alla sua umanità - un solo e medesimo Cristo, Figlio, Signore,
unigenito, che noi riconosciamo essere in due nature né confuse né scambiate (contro il
monofisismo), né divise né separate (contro il nestorianesimo), la differenza delle nature
non restando affatto soppressa dall'unione, ma al contrario le proprietà di ognuna delle due
nature restando salve e unendosi in una sola persona o ipostasi; per nulla spartito o diviso in
due Persone, ma un solo e medesimo Figlio, il Dio-Verbo unigenito e Signore Gesù Cristo,
lo stesso che un tempo fu predicato dai profeti poi da Gesù Cristo stesso, e che il Simbolo
dei Padri ci ha tramandato» (Denz., n. 148). Perché mai tante precisazioni messe insieme, se
non per sbarrare in precedenza la strada a coloro che saranno tentati di razionalizzare
l'insondabile mistero dell'unico Salvatore Gesù, rifiutando di confessare sia la pienezza della
sua divinità, sia la pienezza della sua umanità?
2. Nell'anno 55, cosa si fa nella «Chiesa di Dio di Corinto?» San Paolo parla di una tavola
che è un altare; di un pane che è il corpo del Signore, di una coppa che è il sangue del
Signore; di una unione dei fedeli a questo corpo e a questo sangue attraverso la
manducazione, secondo il modo con cui i Giudei partecipano ai sacrifici della Legge
mosaica e i Gentili ai sacrifici di idoli. Ma né i sacrifici dei Gentili né i sacrifici d'Israele
sono più ammessi, sotto pena di provocare la gelosia del Signore. Oggi i cristiani hanno il
loro sacrificio a cui partecipano bevendo il calice del Signore, partecipando alla tavola del
Signore. Ecco il testo: «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse una
comunione del sangue di Cristo? E il pane che spezziamo, non è forse una comunione del
corpo di Cristo? E poiché non vi è che un pane solo, noi, pur essendo molti, formiamo un
solo corpo; tutti infatti partecipiamo del medesimo pane. Osservate ciò che si verifica negli
Israeliti secondo la carne: quelli fra loro che mangiano di ciò che è sacrificato, non sono
forse in comunione con l'altare? Che voglio dunque dire? Che sia qualche cosa la carne
sacrificata agli idoli? o che sia qualche cosa un idolo? No! ma intendo dire: ciò che i Gentili
sacrificano, è sacrificato ai demoni e non a Dio. Or, io non voglio che voi siate in
comunione con i demoni. Non potete bere il calice del Signore e il calice dei demoni; né
potete partecipare alla mensa del Signore e a quella del diavolo. O vogliamo provocare la
gelosia del Signore? Siam forse più forti di Lui?» (1 Cor 10, 16c22).
Se il «pane» e il «calice» del Cristo non sono offerti a Dio in sacrificio, cosa resterebbe mai
di questa argomentazione di san Paolo? Un po’ più avanti è detto parimenti che, nella notte
in cui fu tradito, il Signore Gesù chiede ai suoi discepoli di far parte con lui nel suo
sacrificio attraverso 1'amore e la manducazione, ricevendo il pane che è il suo corpo, il
calice che è il suo sangue, fino al giorno in cui egli ritornerà (11, 23-27). Se qui san Paolo
non è vittima di un mito, se ci dice «quello che ha ricevuto dal Signore», se la sua
narrazione è divinamente ispirata, come non ritrovare la pienezza inalterata di questa
straordinaria rivelazione nell'insegnamento del Concilio di Trento per il quale il Salvatore ha
voluto associare la Chiesa nel dramma della Redenzione chiedendogli di rinnovare nella
messa il sacrificio incruento della Cena «adatto a rappresentare il sacrificio cruento che
stava per compiersi una volta per tutte sulla croce, a perpetuarne il ricordo fino alla
consumazione dei secoli, ad applicarne la forza salutare alla remissione dei peccati che noi
commettiamo ogni giorno»? «Poiché i frutti dell’offerta cruenta arrivano a noi in
abbondanza attraverso l'offerta incruenta, è ben lungi che questa possa in alcuna maniera
derogare a quella» (Sess. XXII, cap. l e 2.. Denz., n. 938 e 940). La Messa appare fin da
quel momento come l'ingresso vivente, e successivo di ciascuna delle generazioni nel
dramma sacrificale della passione, dove il suo posto era stato riservato.
3. «Or, mentre mangiavano, Gesù prese del pane, lo benedì, lo spezzò, lo diede ai suoi
discepoli e disse,: "Prendete e mangiate; questo è il mio corpo". Poi, preso il calice, rese, le
grazie e lo, diede loro dicendo: Bevetene tutti perché questo è il mio sangue, del nuovo
testamento, il quale sarà sparso per molti.. in remissione dei peccati. Io vi dico che non
berrò più di questo frutto della vite, fino al giorno in cui ne berrò del nuovo, insieme a voi,
nel regno del Padre mio» (Mt 26, 26-29). La Chiesa non aggiunge nulla al senso di queste
parole. Essa l'accetta nella sua pienezza. Se è vero che Dio ha tanto amato il mondo da
inviargli il suo unico Figlio, ella pensa che potrà amarlo abbastanza, se ciò non è
impossibile di sua natura, per lasciargli la presenza corporale di questo stesso Figlio unico.
E poiché Cristo nel giorno dell'Ascensione ci ha lasciato per risalire al cielo, dove risiede
sotto le sue proprie e naturali apparenze, è chiaro che egli non potrà essere presente quaggiù
corporalmente che in un modo misterioso, sotto apparenze estranee alle sue e prese in
prestito.
L'intuizione-base della Chiesa, da dove si originerà tutto il dogma eucaristico, è quella di
una presenza corporale del Cristo, il quale intende restare in mezzo a noi fino alla Parusia,
nascosto sotto le apparenze del pane e del vino per darci la possibilità di comunicare, come i
discepoli nella Cena, con il suo sacrificio cruento della croce. Eccola definita dal Concilio di
Trento: «E poiché Cristo nostro Redentore disse che quello che offriva sotto la specie del
pane era veramente il suo corpo, vi fu sempre la persuasione nella Chiesa, e il santo concilio
lo dichiara nuovamente, che con la consacrazione del pane e del vino avviene una
conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del suo corpo, e di tutta la sostanza
del vino nella sostanza del suo sangue: conversione chiamata propriamente e
convenientemente transustanziazione» (Sess. XXIII, cap. 4, Denz., n. 877).
Il canone corrispondente precisa che si tratta di una trasformazione senza pari: «Se qualcuno
dice che, nel SS. Sacramento dell'Eucaristia, resta la sostanza del pane e del vino con il
corpo e il sangue di nostro Signore Gesù Cristo, e nega questa meravigliosa e unica
conversione di tutta la sostanza del pane in corpo, e di tutta la sostanza del vino in sangue,
non lasciando sussistere che le specie del pane e del vino, conversione che la Chiesa chiama
con termine adattissimo, aptissime, transustanziazione, egli sia scomunicato» (Denz., n.
884).
Per negare questa dottrina bisognerebbe negare la verità di una delle tre seguenti
proposizioni: 1) questo è il mio corpo; 2) non è più pane; 3) le apparenze visibili del pane
non sono mutate. La prima delle tre proposizioni è immediatamente rivelata; la seconda è
rivelata nella prima, giacché se il pane resta, la proposizione: questo è il mio corpo, è falsa e
la proposizione vera sarebbe: qui è il mio corpo; la terza proposizione è di una evidenza
immediata. Il mistero della continuità della presenza corporale di Cristo in mezzo a noi è in
stretta connessione con il mistero della venuta in mezzo a noi del Verbo fatto carne; se, per
eludere tali sorprendenti rivelazioni, si affermasse che il Vangelo in proposito si è voluto
esprimere per via di immagini, tutto il cristianesimo crollerebbe.
Il dogma mariano
Vedere il nostro Esquisse du développement du dogme marial, Parigi, Alsatia, 1954; R. LAURENTIN, Compendio di
Mariologia, 2 ed., Edizioni Paoline, Roma. 1964
1. Maria, nella prospettiva del Vangelo, è madre di Gesù il quale è Dio, non soltanto
fisicamente, ma liberamente, coscientemente, in perfetta conoscenza di causa, ancora più
per via dello spirito che per via del corpo. Ella è proporzionata, per quanto è possibile a una
pura creatura, alla santità di una simile missione. E’ una madre degna del Salvatore, Dal
momento che le eresie obbligheranno la Chiesa a proclamare la divinità di Gesù, Maria sarà
proclamata Théotocos. Ecco il concetto sul quale si concentra infallibilmente l'attenzione
della Chiesa e dal quale si dedurranno, attraverso autentiche spiegazioni, tutti i privilegi
della Vergine.
2. Una verità centrale della Scrittura è che nessuno assolutamente può essere santificato o
salvato, se non attraverso la redenzione di Cristo. Se la Vergine fu redenta, lo fu forse per
qualche peccato? Gli Orientali: Origene, Basilio, Cirillo alessandrino, pensano anzitutto a
qualche dubbio che avrebbe turbato la sua anima ai piedi della croce; questa è una strada
senza uscita. L'Occidente, dove si approfondì la dottrina del peccato originale, si troverà.
davanti a un dilemma: o la Vergine fu redenta, e allora si tratta del solo peccato originale;
oppure, al fine di esimerla dal peccato originale, decidersi di sottrarla alla redenzione di
Cristo. Date queste posizioni, come la Chiesa potrà impegnare la sua infallibilità? Essa la
impegnerà il giorno in cui si farà luce la nozione di una redenzione non più purificatrice ma
preservatrice dalla macchia originale: «Per una grazia e un privilegio singolare del Dio
onnipotente, e in previsione dei meriti di Gesù Cristo, Salvatore del genere umano, la
beatissima Vergine Maria, nel primo istante della sua concezione fu preservata immune da
ogni macchia di peccato originale» (Pio IX, Bolla «Ineffalis Deus»; 8 dicembre 1854; Denz.
n. 1641).
La realtà definita dal dogma può essere colta sia al livello della conoscenza spontanea sia
a quello della conoscenza elaborata.
I dogmi in cui si esprimono i grandi misteri cristiani, pur restando identici nel loro
significato essenziale, nel loro valore universale; possono comprendersi nei due momenti
della nostra conoscenza intellettuale: il momento della conoscenza spontanea o di senso
comune e il momento della conoscenza elaborata o riflessa.
In questi due momenti è la stessa realtà che viene colta, la stessa rivelazione insondabile a
cui l'anima del credente aderisce secondo il grado della intensità della propria fede. Nel
primo stadio, per quanto potente sia, la conoscenza è ancora generale e sfumata, essa
circoscrive confusamente la zona del mistero, simile a un po’ di sole immerso nella nebbia.
Il credente avrà da risolvere le difficoltà che gli si opporranno in un modo istintivo,
cercando le risposte nelle profondità del suo cuore: al pari di una mamma che è interrogata
dal suo bambino circa le verità cristiane che gli insegna. Nel secondo stadio, la conoscenza
guadagna in precisione e in chiarezza; certamente essa non sgombera il mistero, e sa bene
che sarebbe un sacrilegio il pretendere di razionalizzarlo. Al contrario, si sforza di
circoscriverlo nella speranza di meglio rispettarlo, di separarlo da ciò che non lo riguarda, di
potere rispondere perfino tecnicamente ai problemi che esso provoca, di aprire infine alla
fede una strada più libera.
E’ dunque vero che il dogma comincia a manifestarsi attraverso formule di senso comune.
Esso utilizza il significato dì cui esse sono portatrici immediate. E’ sufficiente allora a
illuminare la conoscenza dei fedeli e a spalancare loro le porte dell'amore. Ma non è vero
che esso non possa e non debba raggiungere una più alta precisione. Di mano in mano che
1'errore si sottilizza, il dogma lo insegue nei suoi cavilli. Esso si formula allora in un
linguaggio elaborato e tecnico. Ma senza cessare di rimanere nel prolungamento della
conoscenza spontanea e di restargli, in una certa misura, accessibile. Non vi è esoterismo nel
cristianesimo.
Suo significato
La grande intenzione di Giovanni XXIII, la grande missione che lo Spirito Santo lo spinge a
iniziare, anche qui è chiara. Non è, una trasformazione della dottrina che, egli si attende e a
cui ci invita, è un mutamento di clima. Come al clima di scissione, che solo ha permesso le
dissidenze tra cristiani, egli ha tentato di sostituire un clima di ravvicinamento; parimenti.
qui, a un clima secolare di presentazione della dottrina da parte dei cattolici, centralizzata
soprattutto, anche se non certo unicamente, sulla sua unità, la sua purezza, la sua coerenza,
la sua crescita e santità interiori, tenta di sostituire un clima, nuovo o forse più antico, di
presentazione, anche essa cattolica, della pura dottrina definita nei concili ecumenici - ivi
compresi quelli di Trento e Vaticano I - incentrato soprattutto sulla sua diffusione in un
mondo che improvvisamente acquista la coscienza di entrate, in seguito alla comparsa dei
grandi mezzi tecnici, in un'era sconosciuta della sua storia. Vi fu, effettivamente, proprio
all'inizio della predicazione della Buona Novella; un tempo in cui la preoccupazione, non
certo unica - si pensi, ai continui allarmi di un san Paolo e di un San Giovanni contro i
falsificatori del messaggio, alle maledizioni del Salvatore contro gli scribi e i farisei - ma
maggiore, fu quella della sua diffusione nel mondo allora accessibile; poi vi fu un tempo in
cui la preoccupazione maggiore fu quella della sua coerenza e crescita interiori in una
cultura divenuta cristiana; eccola pronta, ora con un papa liberato dalle sue responsabilità
temporali di capo degli Stati della Chiesa e di tutore della cristianità medioevale - per
iniziare un nuovo sforzo di espansione missionaria. Si vede quello che bisogna intendere per
il «nuovo modo», «conforme alle esigenze dei nostri tempi», «accordato alla cura pastorale
del magistero», di presentare «nella sua integrità» la «dottrina certa ed immutabile»,
«definita ed espressa con tanta precisione dai concili ecumenici». Più di ogni altro, i
missionari conoscono la difficoltà che vi ha nel tradurre, nelle diverse lingue, senza
alterarla, la superiore e pura dottrina della Scrittura e dei catechismi. E guai a colui tra noi il
quale, aprendo la bocca per insegnare il Vangelo, non è mai turbato dal pensiero, che forse
lo sta tradendo. Come trovare il linguaggio che lo farà penetrare con la sua trascendenza e
purità nel «cuore delle masse» esposte a tutte le suggestioni dello spirito del mondo e del
«Principe di questo mondo»?
Quanto al modo di reprimere gli errori, le terribili condanne di Gesù, degli apostoli, dei
primi concili, hanno potuto perpetuarsi, e l'anathema sit dell'Apostolo (Gal. 1,8; 1 Cor. 16,
22) compare fino nei canoni di Trento e del Vaticano, ma ciò avviene nei confronti delle
dottrine, non più delle persone; poiché, mancando dei lumi profetici per il discernimento
delle anime, sappiamo che l'ultimo giudizio sul dramma di una esistenza umana si deve
lasciare a Dio. Potrebbe ciò liberare la Chiesa dalla preoccupazione continua di segnalare ai
suoi figli, umilissimi o sapientissimi, le dottrine con le quali possono smarrirsi e smarrire i
loro fratelli? Il suo prezioso compito, il suo dovere di Sposa, non è forse quello di vegliare
per la purezza della verità, di preoccuparsi di tutto quello che può offuscarla? La carità non
è anzitutto quella della verità, della Verità per eccellenza?
Il problema
Abbiamo iniziato questo lavoro distinguendo nettamente la luce santificante di fede
teologale e la luce profetica di rivelazione, indicando i loro mutui rapporti e la loro
necessaria complementarietà. Ci siamo adoperati a cogliere le forme elementari della luce
profetica che si esprime nei due fondamentali «credibilia», a segnalare il loro sviluppo
anzitutto per via di nuove rivelazioni, di nuovi articoli di fede, fino al tempo di Cristo e
degli apostoli, poi per via di nuove esplicitazioni, di nuovi dogmi, nel periodo post-
apostolico. Sotto la luce infallibile dell'assistenza divina, la verità pienamente rivelata da
Cristo e dagli apostoli continuerà a esplicitarsi così fino al termine del mondo.
Ma il periodo della lotta tra la luce e le tenebre, tra Cristo e Belial (2 Cor. 6, 15), non
terminerà che alla Parusia. Parallelamente alla dottrina rivelata si allargano le potenze
dell'errore e della distruzione. Esse non fanno altro che opporsi alla diffusione della
predicazione cristiana, lavorano ancora per disgregarla in grandi porzioni dell'umanità e nel
cuore stesso di molti battezzati, Il problema che si impone allora è di sapere se la luce
santificante della fede possa resistere alla mutilazione della dottrina cristiana e continuare,
in tali condizioni certamente anormali, spesso precarie, a sopravvivere veramente, se non
quanto al suo pieno esercizio, almeno quanto alla sua essenza. Bisogna rispondere sì, senza
esitare.
Dogma e mistero
I dogmi, il dogma trinitario, il dogma della creazione puramente libera e gratuita
dell'universo, i dogmi dell'incarnazione, del sacrificio redentore, della transustanziazione, i
dogmi sacramentali, il dogma mariano, sono le grandi proteste che la Chiesa fa udire lungo
il corso dei secoli contro la razionalizzazione delle prodigiose rivelazioni della Sacra
Scrittura. Lungi dall'attenuarne il mistero, essi ne delimitano i contorni onde permettere
all'anima di avanzare nella notte e di perdersi nella sua profondità.
La Chiesa è divinamente assistita dalla luce profetica di infallibilità, per proporceli; ma non
li crediamo in virtù della sua autorità creata - la proposizione che ne fa la Chiesa condiziona
il nostro assenso a una data verità, ma essa non fonda un tale assenso -; è sulla autorità
increata e immediata di Dio che rivela se stesso a noi e che rivela a noi la sua opera, che li
crediamo. La fede, la fede teologale, è la luce intima e personale per la quale Dio viene a
visitare in ogni uomo la sua intelligenza e la sua volontà, per elevarlo fino a se stesso, se
non vi frappone ostacoli. «Chi crede nel Figlio di Dio ha in sé la testimonianza di Dio,
habet testimonium Dei in se» (1 Gv. 5, 10). «E chi è che vince il mondo, se non colui il
quale crede che Gesù è il Figlio di Dio?» (5, 5).
La conoscenza mistica
Passiamo al secondo stadio. Supponiamo che la luce divina raggiunga la sua intensità
maggiore. Supponiamo che la fede teologale, originata dall'amore, non soddisfatta di
adeguare l'anima alla verità delle proposizioni rivelate, incominci a dimostrare che vi è,
nella verità di tali proposizioni rivelate, ancora più verità di quanto esse non possano
esprimere. «La luce della fede, dice san Tommaso, fa vedere i misteri che sono creduti» (II-
II, qu. 1, a,. ad 3), essa li incontra, li tocca in qualche maniera nella notte, è sulla strada che
la fede divina apre per via delle nozioni rivelate che l'amore divino trascina la conoscenza
della fede a sorpassare tali nozioni. Si eleva allora sulle ali dell'amore e dei doni dello
Spirito Santo verso quelle vette che occhio non vide e che orecchio non udì (1 Cor. 2, 9), si
sprofonda in una meditazione silenziosa dove tacciono tutti i concetti, si inabissa nel mistero
«della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio» (Rom. 11, 33). Ecco, nell'atto del suo
supremo esercizio, lo stato della conoscenza mistica.
Ma, ed è il punto, su cui rimane da insistere per concludere, la conoscenza concettuale delle
verità rivelate non ne viene in alcun modo scartata, in nessun modo abolita. E'
semplicemente e momentaneamente celata, sorpassata. Tutti i dogmi allora sussistono nella
fede del contemplativo. Ma, come le stelle nel sole meridiano. Alla verità essi non sono mai
stati tanto necessariamente e tanto efficacemente presenti. La luce passeggera che li eclissa
viene a irrobustirli straordinariamente. Quando essa si ritira, essi ricompaiono come le stelle
nel cielo della sera, ma rivestiti e illuminati di una parte del suo splendore.
Quando san Giovanni della Croce è sprofondato nel «meriggio» di Dio che è «mezzanotte»
per la fede, come gli sarebbe possibile pensare distintamente e successivamente a ognuno
dei misteri dell'infanzia o della passione del Salvatore? E’ una contemplazione silenziosa
che egli deve insegnare al mondo.
Ma dal momento che il bagliore dell'unità gli lascia qualche respiro, ritrova distintamente
ognuno di quei misteri cristiani e ne resta come inebriato: porta tra le sue braccia il Pargolo
del presepio a Baeza, disegna ad Avila la visione del Crocifisso, si infiamma di amore al
contatto della Eucaristia (Bruno De Jésus-Marie, Saint Jean de la Croix, Parigi, Desclée De Brouwer, 1961, pp.
163, 259, 309; ID., Libro dell'amore, L'autobiografia di Jacqueline Vincent, Edizioni Paoline, Modena, 1964, ultime
pagine dell'Autobiografia e Raccolta). Una contemplazione mistica che, nel momento in cui si apre e
si distende, non fosse pronta a lasciare sussistere, racchiuse in essa come i petali nella rosa,
ognuno dei misteri evangelici, non sarebbe una contemplazione cristiana ( Cfr. la nostra
Introduction à la Théologie, pp. 312-313, vers. ital., Edizioni Paoline, Alba, 1956).