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IL DOGMA, CAMMINO DELLA FEDE

(Le dogme, chemin de la Foi)


del Card. Charles Journet
A. FAYARD, Parigi, 1963

***

INDICE

Premessa
 Cap. I - Sono i dogmi oggetto di fede?
 Cap. II - La duplice luce della fede
 Cap. III - Le prime forme della luce profetica
 Cap. IV - Nell'Antico Testamento: sviluppo omogeneo del dato di fede
con 1'aiuto di nuove rivelazioni
 Cap. V - La presentazione del dato da credere nel periodo apostolico e il
passaggio al periodo post-apostolico»
 Cap. VI - La vita del Dogma conservazione e spiegazione del deposito
rivelato
 Cap. VII - Alcuni esempi di sviluppo dogmatico
 Cap. VIII - Le formule dogmatiche e il senso comune»
 Cap. IX - Il valore di verità degli enunciati rivelati»
 Cap. X - Il problema del linguaggio
 Cap. XI - I deterioramenti del Dogma
 Cap. XII - Dogma e contemplazione

***
P R E M E S SA

Chi sei, o Signore? At 9, 5.

Noi ora vediamo, infatti, come per mezzo


di uno specchio, in modo non chiaro;
allora invece vedremo direttamente in
Dio. (1 Cor 13, 12)

La fede comporta due aspetti, due luci inseparabili e complementari: la luce profetica
di fede che presenta il dato da credere, e la luce santificante di fede, che facendo
acconsentire a questo dato, diviene il «fondamento e la radice di tutta la
giustificazione» (Concilio di Trento, Sess. VI, cap. 8; Denz., n, 801). E’ proprio la
prima luce, senza dubbio meno importante e nondimeno rigorosamente necessaria,
senza la quale nessun atto di fede sarebbe possibile - senza la quale la virtù della fede
resterebbe addormentata in noi come nel bambino battezzato - che trattiene qui, non
certo esclusivamente ma principalmente, la nostra attenzione.
Abbiamo tentato di analizzarla fin nei suoi aspetti più nascosti. Poi abbiamo
brevemente considerato la maniera del suo sviluppo nell'Antico Testamento e nel
periodo apostolico, in cui si esprime in nuove rivelazioni. Infine nell'età post-
apostolica, quando, terminata la rivelazione canonica, essa non può dar luogo che a
nuove esplicitazioni: al progresso della rivelazione succede allora il progresso del suo
sviluppo, al progresso degli articoli di fede il progresso dei dogmi o verità di fede.
Era necessario soffermarsi alquanto su tale vertice, dare qualche esempio di sviluppo
dogmatico, mostrare come il dogma, senza minimamente infeudarsi ad una cultura,
possa talvolta superare il senso comune pur restando in linea con ciò che vi è di più
autentico, insistere sul valore di verità assoluta dei principi rivelati, compatibile
tuttavia con un progresso nella loro enunciazione, segnalare, senza nominarne gli
autori, uno o due casi recenti di deviazione, citare il testo di Giovanni XXIII sul
«modo di promuovere la dottrina» e di «reprimere gli errori» nella nostra epoca.
Da ultimo, era opportuno tentare di ridiscendere verso le immense porzioni
dell'umanità nelle quali la pienezza del messaggio rivelato si è deteriorata, dire una
parola sul caso doloroso del cattolico che si stacca dal suo Credo, e terminare
richiamando l'attenzione sulla vita e le meravigliose trasparenze del dogma nell'anima
contemplativa.

Friburgo, Pentecoste 1963.


CAPITOLO I.
SONO I DOGMI OGGETTO DI FEDE?

L'oggetto della fede è al tempo stesso «dentro» di noi e «fuori» di noi


Sarebbe opportuno smettere di citare a sproposito san Tommaso, facendogli dire che la fede
«ha coscienza di mirare non alla formula; ma alla verità del Dio vivente». Cosa sarebbe la
verità della fede, se essa non fosse conformità d'un enunciato alla realtà? Impossibile
ingannarsi sul pensiero di San Tommaso; il modo stesso con cui pone il problema
dell'oggetto della fede indica il senso della sua risposta. Essa è duplice: l'oggetto della fede
fuori di noi è la semplicità della Verità divina; l’oggetto della fede in noi è la complessità di
un enunciato. L'oggetto della fede è al tempo stesso l'enunciato in quanto sfocia nella realtà,
e realtà in quanto essa ci viene manifestata nell'enunciato; è ad un tempo l'enunciato a cui la
fede acconsente, e la realtà su cui essa si apre acconsentendo, verso cui essa tende, in cui
essa si acquieta. «Alcuni hanno pensato che la fede non riguardi l'enunciato, ma la realtà,
non est de enunciabili sed de re... E’ un errore, perché la fede suppone un assenso e quindi
un giudizio sul vero o sul falso, non potest esse nisi de composizione, in qua verum et
falsum invenitur» ( De Veritate, qu. 14, a. 12).
E’quindi chiusa la strada a quanti si sentissero autorizzati dalla loro fedeltà «al soggetto
trascendente, il quale, dicono essi, si rivolge a noi attraverso un discorso umano», a ritenere
«possibile, grazie al progresso della scienza, attribuire ai dogmi proposti dalla Chiesa un
significato diverso da quello che ad essi ha dato e dà la Chiesa» (Concilio Vaticano I, .Sess.
III, cap. 4, can. 3; Denz., n. 1818).
L'illusione non è nuova.

Immutabilità essenziale dei dogmi


Fu proprio nella ricerca della soluzione di una difficoltà abbastanza sottile che alcuni uomini
del medioevo furono indotti a sostenere che gli enunciati non sono oggetto della fede. Gli
antichi, scrive sant'Agostino, aspettavano il Salvatore, noi crediamo che Egli è venuto, «i
tempi sono mutati, ma non la fede, tempora variata sunt, non fides» (Enarr. in Ps. L, n. 17.
Cfr. I Sent. dist. 41, expositio textus). Oggi invece, non è più vero dire che Cristo nascerà; i
tempi dunque hanno fatto mutare gli enunciati, i quali, da allora in poi, non potrebbero far
parte della immutabilità della fede. San Tommaso risponde che gli articoli della fede
escludono la variabilità essenziale, ma non l'accidentale (III Sent., dist. 24, a. 1, quaest. 2,
ad 5). Nel caso nostro, l’elemento accidentale è che questo tempo sia per noi o futuro o
passato (De Veritate, q. 14, a. 12, ad 3).
La conservazione della continuità essenziale dei dati della fede, sotto le loro modificazioni
accidentali, spiega come la fede, ancora generica e implicita degli «antichi», sia la stessa
fede precisa ed esplicita dei «moderni», «senza di che la Chiesa cesserebbe di essere una»
(Ibid., a. 12); e parimenti che un concilio possa riprendere gli articoli di un Simbolo di fede
per renderli più espliciti (II-II, qu. I, a. 10, ad 2).

Conoscenza e amore.
La differenza tra la fede e la carità è che la fede, essendo conoscenza, coglie la realtà solo
per mezzo dei giudizi ai quali si chiede di assentire interiormente; mentre la carità, essendo
amore, ci indirizza alla realtà come essa è fuori di noi, nella sua pura semplicità: «L'oggetto
della carità, il bene, è nella realtà; l'oggetto della fede, il vero, si completa attraverso
un'attività dell'anima... Elementi complessi entrano nell'oggetto della fede, la pura
semplicità è l'oggetto della carità» (S. Tommaso, III Sent., dist., 24, q. I, a. I, quaest. 2, ad
3). Ed è per questo che, fa ancora rilevare san Tommaso, data l'imperfezione attuale della
nostra conoscenza, amare Dio quaggiù è migliore cosa che conoscerlo, «melior est amor Dei
quam cognitio» (I, qu. 83, a. 3).
Tuttavia l'amore soffocherebbe senza la conoscenza, la quale gli apre le sue vie. La carità ha
bisogno della fede. E’ vero che sui sentieri della fede essa può andare più lontano della fede.
E’ il suo modo di superare la fede. Bisognerebbe in questo caso applicare il paragone delle
formiche: «La formica, dice Ruysbroeck, non inventa nuovi tracciati da seguire; ma segue lo
stesso sentiero e, aspettando il tempo favorevole, diviene capace di volare... La stessa cosa
avviene a coloro che vivono nel caldo dell'amore. Non inventeranno affatto strade diverse
né metodi peregrini, ma seguiranno, attraverso tutte le tempeste, la via dell’amore verso il
luogo dove l'amore li condurrà. E, nell'attesa del tempo opportuno, perseverando in tutte le
virtù, potranno contemplare Dio e librarsi nel suo mistero» (L'ornement des noces
spirituelles, trad. M. Maeterlinck, Bruxelles, 1908, p. 201. Vers. it. di D. Giuliotti,
L'ornamento delle nozze spirituali, Carabba, Lanciano, 1923).
Quando l'amore dell'assoluto tenta a ragion veduta, per meglio raggiungere lo scopo, di
mettere da parte gli argomenti della fede, quando, credendo di superarli, esso passa
semplicemente a fianco e al di sotto di essi, non sarà certamente l'assoluto del Dio della
rivelazione che incontrerà al termine del suo cammino, ma un altro assoluto, un altro Spirito
il quale muoverà incontro ai suoi desideri onde offrirsi per appagarli.
CAPITOLO II.
LA DUPLICE LUCE DELLA FEDE

Luce profetica e luce santificante


Se Dio ci ama, se vuole farsi amare da noi, in primo luogo è necessario che ci sveli il suo
mistero; è necessario inoltre che ci offra la capacità di assentirvi. Per questo, una duplice
luce è necessaria: l'una, che ci dica ciò che Dio è, il suo disegno d'amore sugli uomini,
quella che attende da loro, attraverso quali strade essi possono andare a lui; l'altra che si
offra a sollevare la loro intelligenza, perché possa aderire «a quello che occhio umano mai
vide, né orecchio mai udì, né mai cuore d'uomo ha potuto gustare e che Dio ha preparato per
coloro che lo amano» (1 Cor.2,9).
La prima luce manifesta il destino di una umanità legata a una stessa catastrofe, ma salvata
dalla stessa redenzione: chiamiamola, nel senso più largo, luce profetica; la seconda luce
viene per sollecitare nell’intimo ogni persona umana per farla aderire alla sua propria
redenzione: chiamiamola luce santificante. Da una parte, una luce profetica che ci fornisce
gli argomenti da credere, gli articoli della fede; dall'altra, una luce santificante, quella della
fede teologale e del suo atto che, mediante, quegli articoli, entra nella notte transluminosa
del mistero di Dio e delle sue provvidenze.
Questa distinzione delle due luci, l'una profetica, l'altra santificante, si rivela nella stessa
predicazione del Salvatore.

Questa duplice luce fu portata da Gesù


E’ la Parola eterna nella quale il Padre conoscendosi si esprime e si manifesta: «Nel
principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (Gv. 1, 1); Parola che si
identifica all'amore essenziale - «Dio è amore» (1 Gv. 4, 8) -, il quale non può operare senza
produrre lo Spirito Santo, l'amore personale; il primo amore, grazie al quale il Padre e il
Figlio si amano reciprocamente producendo il secondo, un po’ come l'albero che fa fiorire i
suoi fiori («Sicutarbor florens floribus», S. Tommaso, I, q. 37, a. 2); Verbo che quindi è
solamente luce, ma luce che spira l'amore («Verbum non qualecumque, sed spirans
amorem», S. Tommaso, I, q. 43, a. 5, ad 2).
Le parole di Dio sono a somiglianza della sua Parola eterna («Tutte le parole di Dio sono
come una similitudine del suo Verbo», S. Tommaso, In symb. apost. expos., Marietti, n.
895), ed è per questo che il Verbo fatto si carne, porgendo agli uomini la luce profetica del
messaggio, cerca di suscitare in essi, fino a tanto che non vi frappongono ostacoli, il
consenso che .aprirà loro le porte di un altro mondo: «Se persevererete nella mia parola,
sarete veramente miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv. 8, 31).
Il Vangelo è pieno di questa duplice luce: quella della predicazione esterna che può essere
rifiutata, quella del consenso interiore che salva e santifica.
La parola di Dio ricevuta da chi non la comprende, è il grano caduto lungo la strada; la
parola di Dio: ricevuta da chi la comprende, è il grano caduto sul buon terreno (Mt. 13, 18-
23). Le insistenze del padrone della vigna provocano l'odio dei vignaioli malvagi (Mt. 21,
33- 34). L'invito al banchetto è disprezzato (Mt. 22, 1-4). «La luce è venuta nel mondo, ma
gli uomini preferirono le tenebre alla luce perché le loro opere erano cattive» (Gv. 3, 19).
«Per questo sono venuto nel mondo: a rendere testimonianza alla verità. Chiunque è nella
verità ascolta la mia voce. Pilato gli domandò: "Che cosa è la verità?"» (Gv. 18, 37-38).
Ma nello stesso tempo la parola di Dio, proposta all'esterno, è pronunziata anche nei cuori.
Se Gesù respinge le suppliche. della Cananea, lo fa per provare il suo amore: «O donna,
grande è la tua fede!» (Mt. 15, 28). Alla professione di fede dell'apostolo egli risponde:
«Beato sei tu, Simone figlio di Giona, poiché non la carne e il sangue te l'hanno rivelato, ma
il Padre mio che è nei cieli» (Mt. 15, 17). «Non era forse ardente il nostro cuore quando egli
ci parlava lungo il cammino spiegandoci le Scritture?» (Le. 24, 32). «Alla sua casa venne e i
suoi non lo ricevettero. Ma a quanti l'accolsero diede il potere di diventare figli di Dio» (Gv.
1, 11-12). «Allora Gesù disse ai Dodici: Volete andarvene anche voi? Simon Pietro gli
rispose: Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv. 6, 67). «Gesù lo
incontrò e gli disse: Credi tu nel figlio dell'uomo? L'altro risponde: E chi è, Signore, perché
io possa credere in lui?» (Gv. 9, 35-36). «Io sono il buon pastore e conosco le mie pecore, e
le mie conoscono me» (Gv. 10, 14). «Né soltanto per questi prego; ma prego anche per
quelli che crederanno in me» (Gv. 17, 20). Dio ha reso testimonianza a suo Figlio e «colui
che crede nel Figlio di Dio ha in sé la testimonianza di Dio» (1 Gv. 5, 10).
La luce profetica, che mostra quello che bisogna credere, e la luce santificante, che salva
facendo credere, illumineranno gli apostoli.

La luce profetica negli apostoli


La luce profetica entrò direttamente negli apostoli come già un tempo nei profeti. Abramo al
momento dell'Alleanza (Gen. 18, 1), Mosè sul Sinai (Es. 19), Isaia nel Tempio (Is. 6, 1),
Ezechiele sulla viva del fiume Kebar (Ez. .1, 1), Giovanni Battista al battesimo di Gesù (Gv.
1, 33), hanno ricevuto, nello choc intrasmissibile di una luce profetica, un messaggio che
dovevano trasmettere ai loro contemporanei. E’ ancora nella folgorazione intrasmissibile
della luce profetica di Pentecoste (At., 11), dell'apparizione di Damasco (9, 3), della visione
di Patmos (Apoc. 1, 10), che gli apostoli, quando la promessa dell'Antico Testamento si
compi in Gesù, compresero il messaggio che ebbero la missione, di trasmettere a tutte le
nazioni fino, alla consumazione del tempo (Mt. 28, 18-20).
La luce che li innalza li aiuta in due modi: in primo luogo a concepire in se stessi ciò che
Dio vuole far loro conoscere in rapporto al suo mistero e ai suoi disegni; ecco la luce
profetica di rivelazione; in secondo luogo a esternare tale rivelazione per via orale o scritta:
ecco la luce profetica di ispirazione orale o scritturistica.
Con la luce profetica di rivelazione (apocalypsis), Dio, «nel quale viviamo, ci muoviamo e
siamo» (At. 11, 28), può agire senza esercitare la minima violenza sulle potenze conoscitive
dell'apostolo, sia nell'ordine delle presentazioni obiettive, sia in quello delle influenze
soggettive, per indurle, al di là del mondo delle emozioni sensibili e delle immagini, a un
giudizio che, formulandosi sul piano dell'intelligenza, sarà comunicabile agli altri uomini, e
in cui ci manifesta la realtà del mistero del suo essere e dei suoi disegni di redenzione. Sul
modo con cui la nozione cattolica di rivelazione supera e la nozione antropomorfica e la
nozione modernista, vedere A. GARDEIL (Le don né révélé et la théologie. Parigi, Gabalda,
pp. 41-76).
Con la luce profetica d'ispirazione (theopneustia) (Cfr. 2 Tim 3, 16), Dio può muovere
parimenti gli apostoli, ciascuno secondo il suo temperamento, a comunicare all'esterno,
senza ombra di alterazioni, per via orale o scritta, i misteri che riguardano la salute
dell'intero genere umano. Diciamo: per via orale o per via scritta - benché in genere siamo
abituati a parlare solo dell'ispirazione scritturistica (Leone XIII, Enciclica Providentissimus,
Denz., n. 1954), - perché l'apostolo non è meno certo di essere ispirato nella sua
predicazione orale che nelle sue lettere: «Ma quand'anche noi stessi o un Angelo disceso dal
cielo vi annunziasse un Vangelo diverso da quello che noi vi abbiamo annunziato, sia
scomunicato!» (Gal. 1, 8). E: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quanto vi ho insegnato» (1
Cor 11, 23). E ancora: «Vi richiamo ora, o fratelli, il Vangelo che vi ho annunziato, che voi
avete ricevuto, nel quale avete perseverato, e per il quale voi siete pure salvi, se lo ritenete
così come io ve l'ho annunziato» (1 Cor 15,1-2).

La luce profetica è comunicabile?


E’ in una esperienza profetica non comunicabile che gli apostoli ricevono un messaggio
profetico comunicabile.
Se si chiama parola di Dio l'azione per la quale Dio, sotto una duplice luce profetica, fa
dapprima manifestare nello spirito degli apostoli (luce di rivelazione) e in seguito per mezzo
di essi - ma in questo caso possono essere aiutati dai discepoli, tali Marco e Luca, - fa
esprimere infallibilmente all’esterno (luce d'ispirazione) gli enunciati, nei quali Egli ci dice
ciò che è e i disegni della sua provvidenza, allora la parola di Dio è esperienza
incomunicabile.
Se si chiamano parola di Dio gli enunciati in cui si riproduce infallibilmente la luce
profetica diretta agli apostoli - o parzialmente ai loro cooperatori - allora la parola di Dio è
comunicabile.

La luce santificante negli apostoli


Le parole profetiche nelle quali Dio manifesta agli apostoli ciò che Egli è e i disegni della
sua provvidenza restano, per essi come per noi, profondamente misteriose, fino a che non
sorgerà la piena luce della visione beatifica. «Sì, tu sei un Dio misterioso, o Dio d'Israele»
(Is. 45, 15). Agli apostoli, come a noi, si chiede di credere questi misteri nel buio: «O
profondità della ricchezza, della sapienza e della, scienza di Dio! quanto sono inscrutabili i
suoi giudizi e impenetrabili le sue vie! Chi, infatti, ha conosciuto il pensiero del Signore? o
chi è stato il suo consigliere?» (Rom. 11, 33-34).
L'insondabile ricchezza del Cristo che egli ha come missione di annunciare ai Gentili, la
distribuzione del mistero tenuto nascosto in Dio da secoli e che egli deve mettere. in luce,
1'apostolo non li vede, li crede «per mezzo di Cristo Gesù Signore nostro. E’ Cristo che ci
dona 1'ardire, se abbiamo fede in lui, di presentarci con piena confidenza a Dio» (Ef. 3, 8-
12). Non è ancora venuto il tempo della conoscenza completa: «Noi ora vediamo, infatti,
come per mezzo di uno specchio, in modo non chiaro; allora invece vedremo direttamente in
Dio; ora conosco solo in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente nello stesso
modo con cui io sono conosciuto. Adesso poi rimane la fede, la speranza e la carità, queste
tre virtù, ma la più eccellente di tutte è la carità» (1 Cor 13, 12-13).
«Lo condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os. 2, 14). Ciò è vero per ogni anima. Ciò
è vero per gli apostoli. Se si chiama parola di Dio la parola che pronuncia negli apostoli,
dando loro, con la luce santificante della fede e dei doni dello Spirito Santo, la capacità di
acconsentire per primi ai misteri su cui vertono gli enunciati rivelati in essi, la capacità di
assentire interiormente, ognuno a seconda delle sue possibilità, all'invito a credere diretto ad
essi come a tutti gli uomini, allora questa parola santificante di Dio rimane il segreto di
ognuno di loro; essa potrà certamente comunicare qualcosa del suo calore alla loro
predicazione, ma, come ogni parola direttamente santificante, essa resta essenzialmente
incomunicabile. La risposta di fede personale di san Giovanni alla rivelazione inscrutabile
del Verbo fatto carne, il sì di san Paolo al Cristo che lo atterra a Damasco, noi li
conosceremo solo nell'altro mondo.
Può ora l'uomo pronunciare la parola di Dio?
E’ impossibile per noi poter esporre la parola profetica di Dio come egli l'ha esposta negli
apostoli e per mezzo di essi; ma questa parola di Dio, e non un'altra, è per noi possibile, e ci
è stato comandato, di predicarla in tutti i luoghi e in tutti i tempi: «Andate dunque e fate
miei discepoli tutti i popoli..., insegnando loro ad osservare tutte le cose che io ho
comandate a voi» (Mt. 28, 19).
Abbiamo detto che la parola santificante di Dio, per la quale egli infonde nei cuori il
consenso della fede teologale e dell’amore, è essenzialmente personale e incomunicabile.
Gesù è venuto a portarci la verità proprio in un supremo atto di amore. La verità di Dio è
sempre tradita quando è proposta senza l'amore di Dio. Gli apostoli l'hanno predicata in un
grande amore: «Come una madre si prende cura dei suoi bambini, così noi, per la viva
tenerezza a vostro riguardo, avremmo voluto darvi non solo il Vangelo di Dio, ma persino la
vita, tanto ci eravate divenuti cari» (1 Tess. 2, 7-8). Ascoltandoli, i fedeli dovettero sentire il
loro cuore riscaldarsi come a Emmaus. E’ detto di Lidia, la venditrice di porpora, che il
Signore aprì il cuore onde poter ascoltare Paolo (At. 16, 14). Perfino allora, perfino ai tempi
di Gesù, la parola di Dio trovò degli oppositori: essa è misteriosa, è difficile a capirsi,
richiede in noi la morte di molte cose assai care. E’ certo comunque, e noi lo sappiamo, che
predicarla con poco amore significa renderla oscura e portare la responsabilità di molte delle
sue sconfitte. E poiché il nostro amore mai si leverà al livello dell'amore di Gesù, e neppure
al livello di quello degli apostoli, rimane vero che in tal senso noi non potremo mai
pronunciare la parola di Dio senza un po’ tradirla.

Parallelo tra la luce profetica e la luce santificante


1. Le due luci, l'una profetica, l'altra santificante, sono indispensabili alla fede: tutte e due
soprannaturali, ambedue provenienti dall'alto; ma esse non sono uguali, la più preziosa è la
luce santificante: così come il corpo e l'anima sono essenziali all'uomo, ma l'anima ha la
priorità.
La luce profetica apre i sentieri che portano a Dio; la luce santificante dà lo slancio che fa
varcare un limite e conduce all'incontro con Dio.
L'una è normalmente destinata a tutti; l'altra, inviata a ogni anima nel segreto.
L'una è un invito a comunicarsi a Dio nel Cristo; l'altra, una risposta a tale invito.
La prima luce si offre dall'esterno, attende, rimane ancora lontana; la seconda luce,
teologale, acconsente interiormente a Dio che rivela ciò che egli è e quello che sono le altre
cose.
Quando le due luci arrivano immediatamente nel medesimo uomo, per esempio in san
Giovanni, il quale da un lato rivela al mondo il Verbo fatto carne e dall’altro crede al Verbo
fatto carne, un tale uomo è più grande per via della luce che lo fa credente che per via della
luce che lo fa profeta.
Orbene, noi lo sappiamo, la luce più preziosa, quella cioè che fa i credenti, è offerta
direttamente e immediatamente a tutti; mentre la luce che fa i profeti è stata data
direttamente soltanto ad alcuni, non arriva agli altri che mediatamente.

2. Queste due luci sono provvisorie, destinate a rimediare quaggiù, ciascuna a suo modo,
alla debolezza dei nostri occhi incapaci a sostenere lo splendore di Dio: l'una affidandoci gli
enunciati pieni di oscurità in cui si formula il mistero di Dio; l'altra innalzando la nostra
intelligenza all'altezza dell'oscurità degli enunciati cui acconsente. Al momento dell'ultima
manifestazione, gli enunciati cesseranno dinanzi alla pura visione; allo stesso tempo, la luce
teologale di fede sarà sostituita da una luce più forte che consente all’anima di alzare lo
sguardo su Dio stesso, la luce della gloria: «Non è ancora stato manifestato quello che
saremo; ma sappiamo che quando ciò verrà manifestato, saremo simili a lui, perché lo
vedremo quale egli è» (1 Gv. 3, 2).

Anche se destinato ad essere creduto nella fede teologale, il dogma, che propone le verità da
credere, dipende immediatamente dalla luce profetica. Non si può certamente parlare di una
di queste luci senza parlare dell'altra; ma possiamo applicarci a descrivere principalmente
sia la vita della fede teologale, sia la vita del dogma. Ed è questo secondo aspetto che
soprattutto ci impegnerà.
CAPITOLO III.
LE PRIME FORME DELLA LUCE PROFETICA

Le diverse presentazioni del dato da credere


1. La fede teologale può esistere allo stato di virtù, di potenza sonnecchiante senza ancora
esercitare il suo atto, senza avere bisogno di un dato da credere. Tale è il caso della virtù di
fede infusa nell'anima del bambino al momento del battesimo.
Ma dal momento che la fede esce dal suo sonno, dal momento che esercita il suo atto, è
necessario che aderisca a un dato, a una verità: nell'ordine naturale è impossibile pensare
senza pensare qualche cosa, ed è ugualmente impossibile nell'ordine soprannaturale credere
senza credere qualche cosa.
2. Gli angeli hanno ricevuto la luce profetica, che proponeva loro quanto dovevano credere
del mistero divino, unitamente alla fede teologale, e la loro prova fu di dover scegliere o 1a
notte di Dio o l'evidenza del loro proprio splendore.
La luce profetica non manifesta in un modo uniforme agli uomini quello che debbono
credere.
Sotto la Nuova Legge, il dato da credere è presentato al mondo attraverso la Chiesa in quella
pienezza che essa ricevette dagli apostoli illuminati dalla duplice luce di rivelazione e
d'ispirazione. Questo punto costituirà il centro del nostro lavoro.
Sotto la legge mosaica invece i profeti si erano limitati a richiamare continuamente alla fede
nel Dio unico e alla speranza nelle sue promesse.
3. E durante le centinaia di millenni che hanno preceduto la vocazione di Abramo, durante i
due millenni in cui i Gentili vissero in margine a Israele, durante questi due altri millenni in
cui tanti uomini restano ai margini della rivelazione evangelica, quali forme ha preso la luce
profetica?

Le forme elementari della luce profetica


Se da una parte «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della
verità» (1 Tim. 2, 4), se d'altra parte l'esercizio della fede teologale è impossibile senza la
presentazione d'un dato da credere, è certo che tutti gli uomini, perfino quelli che hanno
preceduto o ignorato il tempo della rivelazione abramica o che, perfino oggi, ignorano
ancora il senso della rivelazione evangelica, sono però visitati da qualche luce profetica che
propone loro qualche messaggio attraverso il quale, se essi l'accettano nel segreto del loro
cuore, saranno salvati per l'eternità. In un certo limite è possibile penetrare questo mistero,
cercare di descrivere le forme più elementari che ha dovuto assumere il messaggio da
credere, e sotto le quali ancora oggi potrebbe nascondersi?

I due primi «credibilia»


I due enunciati di base di cui ha bisogno la fede teologale per esprimersi, i due primi
credibilia, o se si vuole, i due dogmi fondamentali, ci sono dati nel grande capitolo della
Lettera agli Ebrei sulla fede: «Ora, senza la fede è impossibile piacere a Dio, perché è
necessario che chiunque si accosta a lui, creda che Dio esiste e dà la ricompensa a quelli che
lo cercano» (11, 6). Questi due enunciati: Dio è, Dio è rimuneratore, sono da una parte
enunciati rivelati, dall’altra enunciati fondamentali.
Sono enunciati il cui senso è rivelato. Senza dubbio la sola ragione può elevarsi fino ad una
certa conoscenza di Dio e della sua provvidenza. Ma questa conoscenza, per quanto possa
essere preziosa per allontanare gli ostacoli e preparare le vie, qui non è in causa. Tutt'al più
essa può stabilire i termini di giudizio che la luce profetica verrà ad illuminare per conferir
loro una profondità di senso inaccessibile alla sola ragione, accessibile alla sola fede
teologale. Questo Dio che esiste, questo Dio che è provvidenza, è già il Dio di Abramo, il
Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei sapienti; il Dio che già comincia a
rivelare del suo essere e della sua provvidenza, non più soltanto ciò che se ne può vedere
partendo dalle sue opere (Rom. 1, 20), ma ciò che occhio non ha visto, né orecchio inteso, e
che uomo non ha mai gustato (1 Cor 2, 9); il Dio che, in risposta a tale comunione intima,
non attende in realtà che l'obbedienza della fede (Rom. 1, 5).
La 23.a proposizione condannata insieme ad altri errori in materia di morale da Innocenzo
XI, il 4 marzo 1679, affermava che «la fede in senso largo, fondata sulla testimonianza
fornita dalla creazione o su altro motivo di questo ordine, è sufficiente alla giustificazione»
(Denz. n. 1173). La fede senza la quale, secondo la Lettera agli Ebrei, è impossibile piacere
a Dio, è dello stesso ordine di quella dei patriarchi: Abele, Henoc, Noè, Abramo, Isacco,
Giacobbe, Mosè.
I due enunciati: Dio è, Dio è provvidenza, rappresentano inoltre degli enunciati
fondamentali. Essi contengono, allo stato implicito, tutto quello che sarà rivelato
ulteriormente. «Tutti gli articoli di fede, scrive san Tommaso, sono contenuti implicitamente
in alcuni dati fondamentali da credere, prima credibilia, sapere che Dio esiste, e che egli ha
cura della salute degli uomini, secondo la Lettera agli Ebrei (11, 6). Infatti, nell’Esse divino
è racchiuso tutto quello che noi crediamo. esistere in Dio eternamente e che costituirà la
nostra beatitudine», ecco il mistero della Trinità; «e nella fede nella provvidenza è racchiuso
tutto quello che Dio farà nel tempo per condurre gli uomini verso questa beatitudine» (II-II,
qu. l, a. 7), ecco il mistero dell'incarnazione redentrice. In altro luogo, san Tommaso precisa
che coloro che non hanno conosciuto il Cristo «non sono stati però salvati senza credere alla
sua redenzione; se non con una fede esplicita, almeno con una fede implicita nella divina
provvidenza, credendo che Dio è Liberatore degli uomini e seguendo metodi conosciuti da
lui solo, credentes Deum esse liberatorem hominum secundum modos sibi placitos» (II-II,
qu. 2, a. 7, ad 3).
Ma hanno potuto conoscere tutti gli uomini i due primi dati indispensabili a chi vuole
avvicinarsi a Dio?

Una prima risposta di san Tommaso


Se Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi, e se la fede si esprime inizialmente nei due
fondamentali «credibilia», non bisogna concludere che essi siano stati presentati, in un
modo o l'altro, anche a coloro che sono vissuti al di fuori della rivelazione giudeocristiana o
anteriormente ad essa? Tale è il pensiero di san Tommaso, ed egli ricorre in questo caso sia
al ministero degli angeli (I, q. 111, a. I, ad I; II-II, qu. 2, a. 7 ad l), sia a una rivelazione
immediata. Immaginato un uomo allevato nelle foreste tra i lupi, egli scrive: «Spetta alla
divina provvidenza provvedere ogni uomo delle cose necessarie alla sua salvezza, fino a
tanto che non vi frappone lui stesso un ostacolo. Dunque, se l'uomo di cui parliamo segue i
dettami della sua ragione naturale nella, ricerca del bene e nella fuga del male, bisogna
ritener con assoluta certezza che Dio gli rivelerà, con una ispirazione interna, le cose
necessarie per credere, per internam inspirationem revelaret ea quae sunt ad credendum
necessaria, - oppure gli invierà un predicatore della fede, come inviò Pietro a Cornelio (At.
10)» (De Veritate, q. 14, a. 11, ad l). Simili illuminazioni, notano i teologi, benché
straordinarie, «non devono essere considerate come miracolose, perché esse sono la
conseguenza naturale della volontà divina di salvare l'uomo» (Billuart, De fide, dissert. 3, a.
2, solv. obj.).

Una seconda risposta più radicale


Questa risposta di san Tommaso resta valida. Al tempo in cui scriveva, essa poteva apparire
pienamente sufficiente. Ma san Tommaso - non è l'unico caso - dava altrove, come
incidentalmente, il principio di una risposta più profonda che egli non sentiva il bisogno di
utilizzare, ma che riacquista tutta la sua importanza ai nostri giorni in cui le vie della
psicologia umana sono meglio conosciute e in cui le scoperte preistoriche, facendo ritornare
notevolmente indietro le nostre origini, ci invitano a concepire la vita spirituale dei nostri
antenati, per quanto efficace abbia potuto essere, come ancora avvolta di incoscienza.
E’ proprio nella prospettiva di una fede normale, compiuta e quindi concettualmente
espressa, che san Tommaso si colloca ogniqualvolta domanda quali siano i dati
indispensabili della fede. E risponde che dovunque e sempre è stato richiesto di credere
esplicitamente i due fondamentali «credibilia» in cui i misteri della fede cristiana sono
implicitamente contenuti, senza i quali la Chiesa cesserebbe di essere una attraverso i secoli.
Ma anteriormente a questo stadio normale della fede, non vi è la possibilità di uno stadio
imperfetto e provvisorio, in cui i due fondamentali «credibilia» sarebbero stati creduti
realmente, in atto, formalmente, quanto alla loro sostanza e contenuto, ma in una forma
ancora pre-concettuale, prenozionale, volizionale, e in tal senso incosciente, vale a dire non
riflessivamente cosciente? (J. Maritain, La dialectique immanente du premier acte de
liberté, dans Raison et raisons, Parigi, Luf., 1947, pp. 131 e sg). Il problema che è stato
posto è quello del risveglio della coscienza morale individuale; la risposta inoltre potrà
valere per il risveglio della coscienza morale nell'umanità.
A un certo momento al bambino, supponiamolo pure non battezzato, educato in un ambiente
animista, politeista, ecc., viene intimato di scegliere a favore o contro un ragionevole bene
umano, il «bene onesto». Il bene da fare e il male da evitare allora gli appare
coscientemente, anche se in un modo confuso, in una nozione e in un giudizio imperativi. Se
sceglie questo bene, anche senza pensare già esplicitamente né a Dio né al suo Fine ultimo,
cosa avviene in lui? Egli perviene di fatto e di primo acchito, sia pure senza averne
coscienza, fino al valore senza il quale il bene onesto non potrebbe sussistere un solo istante,
fino a Dio, Fine ultimo della vita umana. Raggiunge Dio attualmente e formalmente, ma alla
cieca, in virtù di un dinamismo segreto della volontà, raggiungendolo e conoscendolo
fidandosi solo del movimento della sua retta volontà. L'intelligenza, è stato detto, «sguarnita
delle sue proprie armi, non può essere in atto che al di sotto della soglia della coscienza, in
una notte senza idee e senza una conoscenza esprimibile... Conoscenza puramente pratica di
Dio in un movimento dell'appetito verso il bene in quanto bene. Senza dubbio essa rigurgita
d'un contenuto metafisico, ma non colto come tale, non speculativamente sviluppato.
Conoscenza puramente pratica, non-concettuale, non-cosciente, che coesiste con l'ignoranza
teorica di Dio. Così un uomo, in virtù di un libero atto primo che ha per oggetto il bene
onesto, può, senza conoscere Dio, tendere a Dio come al Fine della sua vita, e nello stesso
tempo conoscere Dio (incoscientemente) senza conoscerlo (coscientemente)» (J. Maritain,
loc. cit.).
Nel corso di questa decisione, il teologo sa che il bambino non è lasciato solo da Dio che
vuole che tutti gli uomini siano salvi. La luce santificante è venuta ad offrirsi per muovere la
sua volontà, e la luce profetica per trasformare il concetto del bene onesto in quello del bene
salvifico «per il quale io sarò salvato». Assentendo a questa nozione del bene salvifico, il
termine reale a cui il mio desiderio, passando attraverso tale nozione, si dirige, è anch'esso
soprannaturale e salvifico, è il Dio salvatore. Non lo conosco ancora con una conoscenza
cosciente e concettuale; la conoscenza che ne ho per il momento è solo volitiva e
incosciente. Tuttavia è una conoscenza attuale e formale, una conoscenza vissuta in atto; e
se sapessi trasformarne in concetti la sostanza e il contenuto, enuncerei i due fondamentali
«credibilia», come essi sono formulati nella Lettera agli Ebrei.

Il testo di san Tommaso e la sua applicazione


Ecco il testo della Somma, dove san Tommaso sviluppa il significato teologico del primo
atto umano di un bambino non battezzato: «Finché questo bambino non ha raggiunto gli
anni del discernimento e non ha l'età per usare la sua ragione, egli resta con il solo peccato
originale ed è scusato da ogni colpa attuale, sia mortale che veniale a più forte ragione. Ma
quando comincerà a usare la sua ragione, la debolezza non sarà più sufficiente a scusarlo da
ogni colpa, sia veniale che mortale. Allora la prima cosa che si presenta al pensiero d'un
uomo è di decidere da se stesso. E se si propone liberamente un fine retto, otterrà per via
della grazia la remissione del peccato originale. Ma se egli non si propone un fine retto
secondo la capacità di discernimento adatta alla sua età, peccherà mortalmente per non aver
fatto ciò che gli era possibile fare; da questo momento, fino a tanto che la grazia di Dio non
l'avrà purificato completamente, un peccato mortale precederà i suoi peccati veniali...» (I-II,
qu. 89, a. 6. Cfr. De malo, qu. 7, a. 10, ad 8).
Ed ecco ora l'inizio dello studio in cui questo punto di vista di san Tommaso è come
riscoperto ed applicato più profondamente di quanto non si fosse mai fatto; abbiamo tentato
di integrare le conclusioni di questo studio in quello che dovrebbe essere un trattato sulla
Chiesa: «Considero ogni primo atto libero: un atto la cui profondità - forse neppure io stesso
lo so, può darsi che io ne sia avvertito solo da una piccola scossa, da una crespa alla
superficie delle acque - scende fino alle sorgenti della mia vita morale e dove il se-stesso si
prende per mano per proiettarsi in un getto di atti ulteriori la, cui serie potrà essere
indefinita. Un tale atto può essere stato preceduto da molti altri, ma moralmente è un inizio
assoluto...
«Per semplificare le cose, considero il primo atto di libertà del bambino quando per la prima
volta egli decide da se stesso. Egli delibera! Non procede a nessuna deliberazione
discorsiva, si prende in mano, libera o svincola il suo se-stesso dal fondo del determinismo
sotto cui ha vissuto fino a quel momento, nasce alla esistenza morale decidendo liberamente
sul senso della sua vita. Alla radice di un tale atto vi è una riflessione su se stesso che si
effettua nella sua intelligenza e risponde alla domanda: perché vivi?, ma senza che questa
riflessione venga esplicitamente espressa allo spirito. Al contrario essa è avvolta in una
scelta il cui oggetto immediato può essere una inezia, un nonnulla, ma dove è impegnata una
vitalità spirituale, una gravità decisiva, un dono dell'essere di cui l'età adulta ritroverà la
pienezza solamente in rare e miracolose occasioni. Puerile decus. Si dice loro di non giocare
con il fuoco, essi giocano con Dio.
«Questo bambino si astiene dal dire una bugia, in qualche occasione futile in se stessa. Quel
giorno se ne astiene non perché corre il rischio di essere punito se la bugia fosse scoperta, o
perché ciò gli sia stato proibito ed ha paura dei grandi, oppure perché non vuole correre il
pericolo di procurare un dolore a sua madre. Se ne astiene perché è male. Non sarebbe bene
fare questa cosa. E indubbiamente molte piccole cose sono già state etichettate per lui dai
suoi genitori con bene oppure male, ed è stato addestrato dalle abitudini sociali a fare le une
e a non fare le altre. Ma questa volta non si tratta più di una specie di riflesso condizionato.
Quando riflette: non sarebbe bene fare questa cosa, è il bene morale con tutto il mistero
delle sue esigenze, di fronte al quale egli si ritrova tutto solo, che si svela a lui confusamente
in un lampo di intelligenza. Ed è la prima volta che regola da se stesso il proprio
comportamento pratico, come un essere umano, stando a questa regola: il bene morale,
coscientemente percepito in una idea il cui contenuto rappresentativo è senza dubbio povero
e confuso, alla stregua dell'intelligenza infantile, ma la cui intensità intuitiva, il valore
intenzionale possono essere particolarmente potenti... Di questo fatto egli non conserverà
alcun ricordo, come non lo conserva del giorno in cui, dal mondo delle immagini, la vita
della ragione e delle idee universali si è svegliata in lui...
«Il primo atto di volontà deliberata, il primo atto della vita morale propriamente detta, è
immerso nel mistero della grazia e del primo peccato. Qualunque sia il cielo sotto il quale
egli sia nato, da qualunque tradizione abbia ricevuto l'eredità, che egli conosca o no il
Cristo, un figlio di uomo inaugura rettamente la sua vita morale soltanto nella grazia di
Gesù Cristo. E senza tale grazia il suo primo atto di libertà non può essere, come insegna
san Tommaso, che un peccato che lo allontana dal suo Fine ultimo» (J. Maritain, La
dialectique immanente du premier acte de liberté, pp. 130 e 146).

Il primo incontro personale del bambino con la Chiesa


Per i bambini battezzati, la Chiesa è venuta ad incontrarli fin dalla loro culla. E’ entrata in
essi con il carattere sacramentale e la grazia del battesimo. Nel momento in cui vanno per la
prima volta a incontrarla personalmente, non rimane loro che varcare il limite che separa
l'habitus dall'atto, il sonno dal risveglio. Essi possono superare questo limite, essendo posti
in condizioni privilegiate. Malgrado ciò però, possono anche fallire e, lacerare in se stessi la
Chiesa, o più esattamente dividersi dalla Chiesa.
Per i bambini non battezzati, è proprio nell'intimità stessa del loro primo atto di libertà che
essi incontrano, non ancora il magistero, ma il mistero della Chiesa. La luce profetica che
viene loro incontro per mostrare il bene salvifico, il bene per il quale possono essere salvati,
la luce santificante che li spinge ad aderirvi è già la presenza in essi della Chiesa santa e
cattolica. Che acconsentano a queste luci ed eccoli riuniti inizialmente, imperfettamente, ma
già salvificamente, alla grande Chiesa universale affidata quaggiù alla giurisdizione di
Pietro e del sovrano pontefice (essi non lo conoscono e neppure egli li conosce per nome), e
di cui il Cristo è la Testa (essi non lo conoscono ma lui li conosce con precisione). Che essi
si allontanino, al contrario, da questa luce, ed è la Chiesa che lacerano in se stessi, nel
momento stesso in cui essa tenta di salvarli.

Passaggio alla conoscenza razionale


Con questa conoscenza pre-concettuale, pre-nozionale, volizionale del «bene salvifico», del
«bene per il quale io sarò salvato», noi possediamo il minimo di luce profetica richiesto
affinché la fede teologale possa entrare in esercizio e fare aderire l'intelligenza realmente,
attualmente, soprannaturalmente, al mistero di Dio che «è», e che è «rimuneratore per
coloro che lo cercano».
Ma per la fede questo è uno stato provvisorio, instabile, minacciato, uno stato infantile; e la
conoscenza dei misteri della salvezza chiederà da sola di uscire dalle brume, di
perfezionarsi, di passare allo stadio adulto, di trovare la sua prima espressione concettuale
nei due «credibilia» fondamentali.
Uno stato d'infanzia dell'appartenenza alla Chiesa
Una domanda s'impone. Quello che abbiamo detto intorno alla conoscenza preconcettuale,
prenozionale e volizionale nel bambino, si può estendere all'umanità tutta intera? L'umanità,
infatti, nel corso della sua evoluzione psichica e culturale, è passata da un regime o stato
magico, in cui le sensazioni, le idee e le immagini erano «notturne», avvolte «nello
psichismo fluido e crepuscolare dell'immaginazione e di una esperienza stupendamente
potente ma tutta vissuta e - per quanto oggetto di riflessione - sognata», a un regime o stato
logico, in cui esse sono «solari», «legate allo psichismo luminoso e regolare dell'intelligenza
e delle sue leggi di gravitazione» (J. Maritain, Signe et Symbole, nel Quatre essais sur
l'homme dans sa condition charnelle, Parigi, Alsatia, 1956, p. 84; Pour une philosophie de
l'histoire, Parigi, Seuil, 1957, p. 106). Si può pensare che, sotto il regime o stato magico
dell'umanità, al tempo del suo psichismo notturno, ciò che abbiamo detto della conoscenza
preconcettuale, prenozionale, volizionale dei «credibilia» fondamentali rappresentasse per
essa una tappa normale, e non uno stadio anormale e regressivo, come può essere il caso dei
nostri giorni? Noi lo crediamo. Senza pregiudicare, ben inteso, la conoscenza chiara dei
«credibilia» fondamentali che mai hanno dovuto abbandonare completamente la razza
umana e di cui se ne indovina in qualche modo la presenza nel teismo dei popoli pastori,
pensiamo che, sotto la proliferazione mitologica delle religioni dei primitivi, potevano
nascere e rinascere le luci misteriose che invitavano gli uomini a una nuova deliberazione
sul senso della loro propria vita, manifestando loro il bene salvifico per il quale potevano
essere salvati, attirandoli al seno dell'unica Città di Dio, che è la Chiesa. E pensiamo che
questo regime di salvezza rappresentasse allora non uno stato anormale, ma semplicemente
uno stato d'infanzia dell'appartenenza alla Chiesa: «Che vi sia più verità - camuffata - nella
religione dei primitivi che nella Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft, è un
punto che accordiamo volentieri ai seguaci di Chesterton...» (J. Maritain, Signe et Symbole,
op. cit., p. 105).

Uno stato regressivo dell’appartenenza alla Chiesa


Ora che il Cristo è venuto ed ha inviato i suoi discepoli a evangelizzare tutte le nazioni, la
conoscenza preconcettuale, prenozionale e volizionale dei «credibilia» fondamentali eccetto
il caso del risveglio della coscienza morale nel bambino non battezzato o non catechizzato,
non può più rappresentare che uno stato anormale e regressivo della salvezza e,
dell'appartenenza alla Chiesa. Tuttavia sappiamo che Dio, il quale vuole che tutti gli uomini
siano salvi e vengano a conoscenza della verità, continua a inviare, per via delle preghiere
redentrici di Gesù, quelle stesse prime luci nei mondi spirituali che sono restati chiusi al
messaggio della rivelazione giudeo-cristiana. Da qui la nostra certezza che la Chiesa è più
vasta di quanto non si creda, che essa ha ovunque dei figli che la ignorano e che essa ignora.
Da qui infine, la nostra persuasione profonda - non certo che non sia «larga e spaziosa la via
che conduce alla perdizione» (Mt. 7, 13), ma unicamente a causa della preghiera di Gesù -
del numero assai maggiore degli eletti.
CAPITOLO IV.
NELL'ANTICO TESTAMENTO: SVILUPPO OMOGENEO DEL DATO DI FEDE
CON L'AIUTO DI NUOVE RIVELAZIONI

Nei due «credibilia» fondamentali sono già incluse le due supreme rivelazioni cristiane
I due «credibilia» fondamentali racchiudono già tutta la sostanza della fede cristiana: nella
rivelazione che Dio fa del suo essere, quello che è racchiuso, come la rosa nel suo bocciolo,
è la Trinità; nella rivelazione della sua sollecitudine per la salvezza degli uomini, vi è già la
promessa dell'Incarnazione redentrice.
Tutto l'essenziale della fede cristiana è legato a queste due rivelazioni della Trinità e
dell'Incarnazione, le quali ci manifestano nella notte di quaggiù «ciò che Dio ha preparato
per coloro che lo amano» (1 Cor 2, 9).
«La fede, dice san Tommaso, si riferisce essenzialmente a quello che ci sarà svelato nella
vita eterna attraverso la visione, e quello che ci istrada verso questa vita eterna. Orbene, ciò
che ci sarà svelato e che ci è proposto di credere, da una parte sono le profondità della
divinità, occultum divinitatis, la cui visione ci farà beati; e dall'altra parte il mistero
dell'umanità di Cristo per il quale avremo l'accesso alla gloria dei figli di Dio (Rom. 5, 2).
Perciò il testo di Giovanni, 17, 3: Or, la vita eterna è questa, che conoscano te, solo vero
Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Dunque, la prima distinzione dei dati da credere
sarà: da una parte quei dati che riguardano la maestà della divinità, majestas divinitatis, e
dall'altra quelli che riguardano l'umanità di Cristo, che san Paolo, 1 Tim. .3, 16, chiama il
mistero della pietà» (II-II, qu. I, a. 8). Sotto queste due supreme verità verranno ad allinearsi
tutti gli articoli del Credo.

Progredendo dai «credibilia» fondamentali alla rivelazione cristiana, il dato di fede non si
accresce in sostanza, ma solo in esplicitazione o precisazione
Di questo progresso si può trovare una analogia naturale (Cfr. S. Tommaso, II-II, qu. I, a. 7).
La nozione di essere implica nella sua universalità le nozioni di uno, di vero, di bene, di
bello, che non sono estrinseche ad essa, poiché fuori dell'essere nulla esiste: così che
esplicitandosi in queste nozioni, la nozione di essere non viene a crescere in sostanza e
contenuto, ma semplicemente nella sua esplicitazione, e precisazione.
Il dato rivelato si comporta nella stessa guisa. «Quanto alla sostanza degli articoli di fede,
dice san Tommaso (Cfr. S. Tommaso, II-II; qu. I, a. 7), il decorso dei tempi non ha apportato
ad essi accrescimento di sorta; tutto quello che è cresciuto ulteriormente era contenuto nella
fede degli antichi Padri, sia pure implicitamente. Ma per quanto concerne la loro
esplicitazione, gli articoli di fede sono aumentati di numero: certi dati, che non erano
conosciuti esplicitamente all'inizio, sono cresciuti esplicitamente in seguito. Donde la parola
del Signore a Mosè, Es. 6, 3: Ed apparvi ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe, come Dio
onnipotente, ma non mi sono fatto conoscere da loro sotto il mio nome di Jahvé. E la parola
di David, Ps. 119 (118), 100: Io ho l'intelligenza più degli antichi. E la parola dell'Apostolo,
Ef. 3, 5: Tale mistero (del Cristo), nell'età passate, non fu conosciuto dai figli degli uomini,
come ora è stato rivelato ai suoi apostoli».
Non ricadiamo nell'errore segnalato all'inizio di queste pagine, secondo il quale gli enunciati
della fede non sarebbero oggetto della fede. Dire che i due «credibilia» fondamentali non
sono mutati quanto alla loro sostanza progredendo nel corso dei secoli, non significa
soltanto che il loro significato, la realtà che contengono, cioè Dio e il suo amore per gli
uomini, non sono cambiati. Ciò è evidente. Ma si vuol dire che il significato dei due
«credibilia», esplicitandosi, non è stato transustanziato. Che esso cioè si è sviluppato in una
maniera omogenea e non trasformista, che essi hanno progredito, secondo una formula che
trova già qui una sua applicazione, all'interno di una stessa asserzione, di uno stesso
significato, di una stessa verità, in eodem dogmate, eodem sensu, eademque sententia.

La dottrina si è esplicitata allora per via di nuove rivelazioni


Lunga è la strada che, passando per Abramo, Mosè e i profeti d'Israele, va dalla rivelazione
dei «credibilia» fondamentali alla rivelazione dei misteri della Trinità e dell'Incarnazione
(sul pensiero di S. Tommaso vedere II-II, qu. 174, a. 6). Anche se il progresso avviene in
modo omogeneo, nell'interno di una stessa dottrina, di una stessa verità, i dati in cui questa
dottrina, questa verità si espliciterà, costituiranno tuttavia come altrettante innovazioni,
altrettante sorprese. Vi è in ciò una caratteristica dello sviluppo del dato da credere lungo
tutto il tempo che precedette la venuta del Cristo, e che si conclude con la morte dell'ultimo
degli apostoli. In altri termini, il contenuto dei dati fondamentali non poté progredire allora
che sotto l'azione di nuove luci profetiche di rivelazione, il progresso della dottrina esigeva
nuove rivelazioni.
La rivelazione del «Dio che è» sta per manifestare la ricchezza del suo contenuto. Questo
Dio è Sapienza, e questa sapienza che ci viene descritta come sua figlia e quasi come
personificata, preparerà la rivelazione del Verbo. Ma con quale sorpresa! Egli è anche
Spirito, il suo spirito copre le acque novelle per vivificarle, può ridare la vita agli scheletri
della visione di Ezechiele, istruire i profeti. Così è preparata, sempre come una sorpresa, la
rivelazione dello Spirito Santo.
La rivelazione del «Dio rimuneratore» sta per rivelare in Osea l'incomprensibile amore con
cui egli si interessa degli uomini e prepara, ancora come una sorpresa, la rivelazione del
«Dio che ha tanto amato il mondo che ha sacrificato il suo figlio Unigenito, affinché ognuno
che crede in lui, non perisca, ma abbia la vita eterna» (Gv. 3, 16).
Il punto verso cui convergevano le profezie messianiche è apparso solo al momento in cui
Gesù è venuto a realizzarle; il cristianesimo, è stato detto, «non è uscito e non poteva uscire
dall'antica Rivelazione attraverso una pura interpretazione razionale. Fino a che san Paolo
interpretò l'Antico Testamento da se stesso e come Fariseo, egli restò Fariseo. Per ben
comprenderlo gli fu necessaria una nuova rivelazione, quella di Gesù Cristo» (M.-J.
Lagrange, Le judaisme avant Jesus-Christ, Parigi, Gabalda, 1936, p. 589).
In tutto l'Antico Testamento fino alla morte di san Giovanni, la fede va avanti, sempre
nell'interno di uno stesso dato inizialmente rivelato, di novità in novità, di sorpresa in
sorpresa, di rivelazione in rivelazione.

Differenza tra il progresso della dottrina per mezzo di nuove rivelazioni e il progresso per
mezzo della semplice chiarificazione
Quanto al problema della dottrina da credere, seguendo san Tommaso, non vi è dunque
progresso quanto alla «sostanza», ma solo quanto alla «spiegazione». Ma tale spiegazione,
questo passaggio dall'implicito all'esplicito, differisce a seconda che esso esige nuove
rivelazioni, o se invece avviene per semplice chiarificazione.
«Effettivamente, vi sono due gradi molto diversi di implicità. L'una è tanto profonda, che,
pur essendo in se stessa veramente oggettiva, tuttavia è come se non lo fosse affatto per la
ragione umana, visto che la ragione ed i mezzi umani sono impotenti a spiegarla o a
scioglierla; si richiede la rivelazione divina. E’ proprio così che il dogma della Trinità è
contenuto nel dogma dell’esistenza di un Dio soprannaturale; oppure il dogma
dell'Incarnazione è contenuto nel dogma di Dio rimuneratore. Queste verità che, pur essendo
veramente implicite per se stesse, non lo sono per noi, ricevono il nome di dogmi
fondamentali o di articoli di fede, perché non possono essere conosciuti che per mezzo di
nuove rivelazioni. Ed è questa implicità che Dio ha spiegato sempre maggiormente durante
1'Antico Testamento; per cui anche se non vi è stato progresso nell'Antico Testamento
quanto alla sostanza ma unicamente quanto alla spiegazione, vi fu tuttavia un progresso per
via di nuovi articoli fondamentali e, conseguentemente, un progresso per via di nuove
rivelazioni. Questa spiegazione ebbe fine con Gesù Cristo e gli apostoli: haec explicatio
completa est per Christum.
«Vi è un'altra implicità che, senza contentarsi di una spiegazione di parole, non è però cosi
profonda da esigere una rivelazione: la penetrazione umana congiunta alla assistenza divina
è sufficiente per esplicitarla. E’ il caso del dogma circa i due intelletti e le due volontà in
Gesù Cristo come conseguenza del dogma delle sue due nature perfette; oppur del dogma
dell’Immacolata Concezione di Maria come conseguenza del dogma della sua divina
maternità. La stessa cosa avviene per tutte le verità implicite del Nuovo Testamento dopo gli
apostoli» (F. Marin-Sola, O. P., L'évolution homogène du dogme catbolique, Friburgo, 1924,
t. II, pp. 40-41). Ecco il progresso non più in ragione di nuove rivelazioni, ma per semplice
chiarimento della rivelazione.

Progresso della rivelazione e progresso del dogma


Se si fa una distinzione tra articoli di fede e verità di fede, tra rivelazioni e dogmi, si dirà che
fino a Cristo e agli apostoli, il progresso del dato da credere avvenne per via di nuove
rivelazioni, di nuovi articoli di fede, o se si vuole di nuovi dogmi fondamentali e che dagli
apostoli in poi, il progresso della dottrina da credere avviene per via di nuovi chiarimenti, di
nuove verità di fede, di nuovi dogmi-derivati.
«Oggi, in quasi tutti i manuali, si chiama articolo di fede ogni dogma di fede. Tale
nomenclatura, oltre ad essere impropria, ostacola assai la comprensione di san Tommaso e
dei teologi classici, e la formazione di una vera idea dell'immensa estensione del progresso
dogmatico posteriormente agli apostoli» (F. Marin-Sola, O. P., op. cit. p. 42).
Si possono dunque riassumere le due tappe del progresso della dottrina da credere parlando
di progresso della rivelazione da una parte, e di progresso del dogma dall’altra.
CAPITOLO V.
LA PRESENTAZIONE DEL DATO DA CREDERE NEL PERIODO APOSTOLICO
E IL PASSAGGIO AL PERIODO POST-APOSTOLICO

Qui è opportuno distinguere come due stadi o procedimenti: uno è il modo con cui il dato da
credere fu ricevuto dagli apostoli, l'altro il modo con cui fu ricevuto dalla Chiesa del loro
tempo.

Come è proposto agli apostoli il dato di fede?


Cosa avviene esternamente? Quasi sempre gli apostoli sono ammaestrati da Cristo
direttamente: egli li raccoglie intorno a sé per predicare le beatitudini sulla montagna (Mt. 5,
1), spiega loro le parabole (13, 26), annuncia la sua passione (14, 21), predice il suo ritorno
glorioso alla fine dei tempi (24, 30), conversa con loro durante i quaranta giorni del regno di
Dio prima della Ascensione (Atti 1, 3). Ma avviene pure che gli apostoli si trasmettono a
vicenda l'insegnamento del Maestro: solo tre di loro si trovano con lui al momento della
risurrezione della figliuola di Giairo (Mc. 5, 37), della Trasfigurazione (Mt. 17, 1),
dell'agonia (24, 37); Tommaso non è con i discepoli quando Gesù appare ad essi la sera di
Pasqua (Gv. 20, 19), Paolo trasmette ai Corinti quello che aveva ricevuto egli stesso (1 Cor
15, 3). Ma questo insegnamento esterno, diretto o indiretto, costituisce solamente un
involucro; esso solo non avrebbe potuto formare gli apostoli.
Cosa avveniva invece interiormente? Gli apostoli interiormente ricevettero immediatamente
una luce profetica di rivelazione, apocalypsis, che manifestava loro, in un modo sovrumano,
il senso del mistero di Cristo, e questo stesso fatto li costituiva apostoli: «Paolo, servo di
Gesù Cristo, chiamato dal Signore ad essere apostolo, scelto per annunciare il Vangelo di
Dio» (Rom. 1, 1). Luce profetica che veniva a loro sia da Cristo ancora in mezzo ad essi -
durante la sua vita mortale oppure dopo la sua risurrezione - sia dal Cristo già ritornato da
suo Padre onde inviare a loro il suo Santo Spirito.
A Cesarea di Filippo, rispondendo a Pietro, Gesù dirà: «Beato te, o Simone, figlio di Giona,
perché non la carne né il sangue ti ha rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli» (Mt.
16, 17). Alla luce di una tale rivelazione molti fatti e parole del Salvatore si illumineranno
più tardi retrospettivamente, nello spirito degli apostoli. Cosa vuol dire Gesù quando
annuncia che il Tempio di Dio per eccellenza, il suo proprio corpo, sarà distrutto e
riedificato in tre giorni? Gli apostoli non lo comprendono (Gv. 2; 22 e 20, 9). Né l'entrata a
Gerusalemme il giorno delle palme (Gv. 12, 16) né la scena della lavanda dei piedi (13, 7)
lasciano subito afferrare il loro senso. Bisognerà attendere la Pentecoste: «Vi ho detto queste
cose quando stavo con voi, ma il Paraclito, lo Spirito Santo, che il Padre vi invierà a nome
mio, vi insegnerà tutto e vi ricorderà tutto quello che io vi ho detto... Molte cose .avrei
ancora da dirvi; ma per ora non ne siete ancora capaci. Quando invece sarà venuto Lui, lo
Spirito di verità, egli vi guiderà verso tutta la verità...». (Gv. 15, 25-26; 16, 12.13).
La rivelazione di Damasco sarà la Pentecoste di Paolo. Se egli «trasmette ciò che ha
ricevuto», lo fa tenendolo sotto la fiamma di questa luce prodigiosa. Il Vangelo che ha
annunciato ai Galati, non lo ha ricevuto o appreso, come egli dice, da un uomo; «ma da una
rivelazione di Gesù Cristo» (Gal. 1, 12), perfino prima di aver potuto incontrare gli altri
apostoli (1, 17). Egli ricorda agli Efesini che Dio gli accordò «per rivelazione la conoscenza
del Mistero... del Cristo, tale mistero nelle età passate, non fu conosciuto dai figli degli
uomini, come ora è stato rivelato ai santi apostoli ed ai profeti per mezzo dello Spirito» (Ef.
3, 5). Non proprio in qualità di profeta, poiché i profeti non sempre comprendono tutto il
senso di ciò che annunciano, ma in qualità di apostolo che lavora per la fondazione della
Chiesa, fu concesso a Paolo «di annunciare tra i Gentili le incomprensibili ricchezze di
Cristo e di mettere in luce di fronte a tutti quale sia il piano di questo mistero, tenuto celato,
sin dalle origini dei secoli, in Dio che ha creato ogni cosa» (3, 8-9).
Nel trasmettere al mondo la conoscenza eminentissima che essi hanno del mistero di Cristo,
saranno aiutati dalla luce profetica di ispirazione, théopneustia, onde esprimerla con
enunciati comunicabili per via sia orale che scritta. Resta chiaro però che vi è più forza nella
cognizione del messaggio tale è quale essi portano in se stessi che nelle formulazioni che ne
possono presentare agli ascoltatori. Tra il dato da credere come è compreso dagli apostoli e
come esso è ricevuto dai loro discepoli, vi è tutta la differenza che passa tra l'insegnamento
genuino che risiede nel maestro e quello che viene trasmesso al discepolo. E’ proprio la
dignità ineguagliabile della conoscenza apostolica che la Chiesa intenderà salvaguardare
allorché condannerà la proposizione 21 del Decreto Lamentabili il 3 giugno 1907: «La
rivelazione, poiché costituisce l’oggetto della fede cattolica, non è affatto terminata con gli
apostoli» (Denz., n. 2021).

Come il dato da credere è proposto alla Chiesa contemporanea degli apostoli?


Sotto la possente luce della predicazione apostolica i discepoli si schiudono alla verità del
messaggio evangelico, sia orale come scritto. Si può credere che verso la fine della età
apostolica tutto l'essenziale di questo messaggio si trovi consegnato nella Scrittura, in
quanto essa condensa in sé la predicazione orale attraverso la quale si è formata. Senza
dubbio la Scrittura è nata dalle circostanze, ma sappiamo che Dio è il Padrone del
contingente e che nulla di quello che e stato scritto lo fu senza un disegno della sua volontà.
La Chiesa contemporanea degli apostoli non può leggere la Scrittura che nel contesto della
predicazione apostolica. A questo messaggio fino allora inaudito il cui compito è di aprire
infine la via ad una riuscita completa per la fede teologale, la Chiesa aderisce in una maniera
intensa, possente e infallibile, attraverso i suoi figli migliori. Tutte le rivelazioni cristiane vi
sono presenti, tutti gli articoli della fede cristiana: Dio e gli abissi delle sue ricchezze, i suoi
decreti inscrutabili, il significato ed i destini dell'universo. Con la predicazione di Gesù e
degli apostoli, ci troviamo nella pienezza dei tempi. D'ora innanzi e fino al momento
dell'ultima Parusia, non si avranno più nuove rivelazioni riguardanti il dato da credere di
fede divina. Il progresso della rivelazione termina alla morte dell'ultimo apostolo.

Come il dato da credere sarà proposto nella Chiesa post-apostolica?


1. Come la fede teologale, senza la quale è impossibile piacere a Dio, sarà orientata quando
gli apostoli saranno scomparsi, quando Paolo non sarà più presente per correggere gli errori
dei Tessalonicesi intorno alla fine del mondo, dei Corinti intorno all'Agape del Signore e
alla risurrezione dei morti, dei Romani intorno alla giustificazione e ai destini del popolo
ebreo? Certo che la fede in sé, essendo una virtù teologale, non si sbaglia mai, ma il
credente nel quale essa vive può errare, perdere di vista la trascendenza del dato da credere,
alterarlo, disgregarlo, mescolarvi delle scorie e infine perdere la fede stessa.

2. Ma, si dirà, «il Canone delle Scritture non è perfetto? Non basta in se stesso? Quale
bisogno abbiamo di un'autorità per interpretarlo?» (S. Vincenzo di Lerino, Commonitorium,
II, 2). A tale domanda san Vincenzo di Lerino dava una duplice risposta. In primo luogo,
diceva, «il senso della Scrittura è talmente profondo che non tutti lo intendono in un modo
identico e universale. Le stesse parole sono interpretate in maniera diversa dagli uni e dagli
altri. Si potrebbe quasi dire che vi sono tante interpretazioni della Scrittura quanti sono i
suoi lettori. Novaziano lo spiega in un modo, Sabellio in un altro e Donato in un altro
ancora. Eunomio, Ario, Macedonia hanno la loro opinione; Fotino, Apollinare, Priscilliano
hanno la loro; così anche Gioviniano, Pelagio, Celestino; infine Nestorio ha la sua» (Ibid.,
II, 3). Ed ecco la sua seconda risposta: «Gli eretici non si servono forse delle testimonianze
della Scrittura? Sì, certamente, se ne servono e con passione! Li vediamo passare da un libro
all'altro della Legge santa, da Mosè al libro dei Re, dai Salmi agli Apostoli, dai Vangeli ai
Profeti! Davanti ai loro amici, presso gli estranei, a casa loro, in pubblico, nelle loro
prediche e nei loro scritti, durante i pasti e nelle pubbliche piazze, essi quasi mai sostengono
alcunché se prima non l'abbiano ammantato con l'autorità della Scrittura (Ibid., XXV, 1)...
Non vi è alcun dubbio che essi seguano la perfida tattica del loro Maestro (Ibid. , XXV, 14).
Ma il diavolo ha l'abitudine di citare la Scrittura? Leggete il Vangelo: «Allora il diavolo gli
dice: Se tu sei figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: egli ha comandato ai suoi angeli
di custodirti ovunque andrai» (Ibid., XXVI, l).

3. Se Dio voleva conservare pubblicamente, lungo il corso dei secoli, senza alterazioni,
l'originario senso del deposito della rivelazione tanto orale che scritta, vi era solo, una
soluzione: accompagnare, cioè pubblicamente, lungo il corso dei secoli, il deposito della
rivelazione con una interpretazione divinamente assistita. Ed egli lo ha fatto. Cristo,
inviando gli Undici per il mondo, dirà loro: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra.
Andate: dunque e fate miei discepoli tutti i popoli... insegnando loro ad osservare tutte le
cose che io ho comandate a voi. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del
mondo» (Mt., fine).

4. Gli apostoli, sotto la duplice luce profetica di rivelazione e d’ispirazione, avevano la sola
missione di formare il deposito divino; essi affideranno ai loro discepoli, sotto quella luce
profetica promessa attraverso Cristo, l'incarico di conservare tale deposito vivo e senza
alterazioni lungo il volgere dei secoli: «O Timoteo, custodisci il deposito delle verità
rivelate... Custodisci il buon deposito delle verità rivelate con l'aiuto dello Spirito Santo che
abita in noi» (1 Tm. 6, 20; 2 Tm. 1, 14).

5. Passando dagli apostoli ai loro discepoli, la funzione docente della Chiesa cambierà
carattere. Vivendo gli apostoli, il potere di magistero della Chiesa è al di sopra degli
enunciati e delle formulazioni scritturistiche nelle quali esso si esprime. Per tutto il periodo
post-apostolico, al contrario, il potere di magistero della Chiesa non è al di sopra ma al di
sotto della Scrittura: la Chiesa innalza la Scrittura al di sopra di sé, come Cristo nelle
processioni del Corpus Domini. Essa tuttavia resta al di sopra delle interpretazioni che gli
uomini danno della Scrittura. Al ministro Paul Ferry, Bossuet rispondeva: «Noi non
affermiamo che la Chiesa sia il giudice della parola di Dio, ma rassicuriamo che essa è il
giudice delle differenti interpretazioni che gli uomini danno della santa Parola di Dio» (Edit.
Bar-le-Duc, t. V, p. 320). Prima di lui, san Francesco di Sales replicava a Teodoro di Bessa:
«Non è affatto la Scrittura che ha bisogno di regole e di luci estranee, sono i nostri
commenti... Non chiediamo se Dio intende la Scrittura meglio di noi, ma se Calvino la
interpreta meglio di sant'Agostino o di san Cipriano» (Oeuvres complètes, Annecy, t. I, p.
206).
6. La Scrittura, ricevuta dalla fede teologale della Chiesa primitiva con il senso che essa
assumeva nella luce della predicazione orale o tradizione degli apostoli ed esprimente con
precisione il loro insegnamento, ecco in definitiva il deposito divino affidato al magistero
post-apostolico, assistito per trasmetterlo di generazione in generazione.
Alla trasmissione o tradizione «verticale» che va da Cristo agli apostoli e alla Chiesa
primitiva, succederà la tradizione «orizzontale» che va dalla Chiesa primitiva fino a noi.
CAPITOLO VI.
LA VITA DEL DOGMA. CONSERVAZIONE E SPIEGAZIONE DEL DEPOSITO
RIVELATO

Il deposito si trasmette esplicitandosi


La trasmissione del deposito comporta la sua esplicitazione. In verità vi sono due specie di
depositi: i depositi inerti che vengono conservati tali e quali, al pari di un lingotto d'oro; e i
depositi vivi che, al pari di una pianta o di un bambino, non si conservano se non
permettendo loro di svilupparsi: tale è il deposito evangelico.
«La dottrina della fede che Dio ha rivelata, dice il Concilio Vaticano I, non è stata proposta
alla intelligenza degli uomini come una costruzione filosofica da perfezionarsi. Essa è un
deposito divino affidato alla Sposa di Cristo al fine di essere conservata fedelmente e
proposta infallibilmente. Per cui, il senso dei sacri dogmi da ritenersi in ogni tempo è quello
che la nostra santa Madre Chiesa ha ad essi riconosciuto, e mai è consentito di
allontanarsene sotto pretesto o in nome di una più alta comprensione» (Sess. III, cap. 4;
Denz., n. 1800; cfr.. can. 3, Denz., n. 1818). E qui il Concilio riporta le parole di san
Vincenzo di Lerino (Commonitorium, XXIII, 3): «Crescano pure e progrediscano
prepotentemente, multum vehementerque, l'intelligenza, la scienza, la saggezza, tanto dei
singoli che della collettività, tanto dell'individuo che della Chiesa intera, unitamente al
progresso delle età e dei tempi, ma solamente secondo la loro propria natura, vale a dire
nello stesso dogma, nello stesso significato, nella stessa verità, in eodem scilicet dogmate,
eodem sensu, eademque sententia». E più avanti, lo stesso Concilio precisa che lo Spirito
Santo è stato promesso ai successori di Pietro «certamente non per via di rivelazione, perché
essi possano annunciare qualche nuova dottrina, ma per via di assistenza, perché essi
possano conservare santamente ed esporre fedelmente, ut sancte custodirent et fideliter
exponerent, la rivelazione trasmessa dagli apostoli, vale a dire il deposito della fede» (Sess.
IV, Denz., n. 1836).
Così, da una parte, quello che era contenuto esplicitamente nel deposito primitivo viene
continuamente richiamato attraverso il magistero vivente della Chiesa. E, dall'altra parte,
quello che vi era contenuto implicitamente, vale a dire in un modo ancora preconcettuale,
non formulato, allo stato di oscura esigenza e tuttavia autorevole e inevitabile, viene
esplicitato e pronunciato in un modo concettuale e formale attraverso il magistero vivente
della Chiesa. Le rivelazioni danno origini ai dogmi, gli articoli di fede alle verità di fede.

La conservazione del deposito


La prima sollecitudine della Chiesa è di conservare, lungo il volgere del tempo, il deposito
che ricevette dagli apostoli. Essa è divinamente assistita a tale scopo: il suo magistero è
illuminato dalla luce profetica di assistenza; i suoi più umili fedeli sono mossi dalla luce
santificante della fede teologale. E’ proprio nell'atmosfera di una comunità riunita fin
dall'inizio sotto la potenza dello Spirito di Cristo, unita in una stessa suprema speranza
attraverso il suo culto, la sua organizzazione, la sua volontà di testimoniare, che la Chiesa ci
porta la Scrittura con il suo senso, il suo testo e le sue esigenze; non già una Scrittura
staccata dal suo ambiente, ma una Scrittura resa realtà fin dall'inizio, una Scrittura vissuta
nell'azione.
Essa la fa passare nella sua predicazione, nelle sue professioni di fede e nella sua liturgia. A
questo scopo è necessario tradurla, trasferirla in differenti lingue. Ciò non costituisce ancora
uno sviluppo ma una semplice riaffermazione della verità rivelata. Il termine «persona»,
dice san Tommaso, non si incontra né nell'Antico né nel Nuovo Testamento a proposito di
Dio; ma quello che un tale termine indica si ritrova ovunque: Dio è per eccellenza colui che
è, colui che sa, colui che ama, ecc.; e aggiunge: «Se si dovesse parlare di Dio usando solo le
parole della Scrittura, ci si dovrebbe rigorosamente attenere alle lingue originali dell’Antico
e del Nuovo Testamento» (I, qu. 29, a. 12, ad 1). E’ solo riaffermare il dato rivelato il
dichiarare che Dio ha creato dal nulla e liberamente il cielo e la terra, che il Verbo si è fatto
uomo, che il figlio di Dio si è incarnato per noi e per la nostra salvezza, ecc.

Il significato dell’espressione «ritorno alle fonti» («ressourcement»)


1. Queste grandi riaffermazioni, queste nuove grandi definizioni rappresentano i dati
fondamentali, gli articoli della nostra fede cristiana. Quaggiù, non si potrà mai affermare
nulla di più alto, di più vero e di più santo. In essi sono già contenute, come il ruscello nella
sua sorgente, tutte quelle parti del mistero cristiano che saranno manifestate ulteriormente.
Senza dubbio essi presentano un senso esplicito e facilmente afferrabile; ma sono troppo
ricchi, troppo densi, troppo carichi di significati impliciti, oscuri, non ancora sviluppati, per
potersi per sempre esprimere completamente nelle loro conseguenze e per non restare
trascendenti rispettò alle loro esplicitazioni, come l'intuizione in rapporto alle sue forme
concettuali e la premessa in rapporto alle sue conclusioni.
Bisognerà ritornare costantemente ad essi, rituffarsi in essi per ritrovare, senza tradirli, la
sostanza e l'anima della rivelazione di Pentecoste. Nella loro eminente semplicità essi
contengono tutti i dogmi, tutte le verità di fede che, sotto la pressione delle circostanze,
saranno ulteriormente definiti. Perché avvenga un tale progresso si richiederà molto tempo e
svariati eventi esterni. Ma esso non sarà più, come prima di Cristo e degli apostoli, un
progresso dovuto a nuove rivelazioni; i mezzi umani, rischiarati da un lato dalla luce
profetica di assistenza e dall'altro dalla luce santificante della fede, saranno sufficienti. Sarà
un progresso dovuto a nuove esplicitazioni della rivelazione ormai compiuta. Non si parlerà
più di progresso della «rivelazione» o degli «articoli di fede», ma di progresso del «dogma»
o delle «verità di fede».

2. Da questo punto di vista la continua necessità di quello che oggi chiamiamo un «ritorno
alle fonti».
Si comprende anche quanto sarebbe illusorio valersi dell'espressione «ritorno alle fonti» per
mettere tra parentesi tutto lo sviluppo legittimo del dogma compiuto durante venti secoli
sotto l'influsso delle luci divine, di assistenza profetica e di fede teologale, e credere di
riscoprire, con l'aiuto delle semplici scienze umane: archeologia, filologia, esegesi, storia
delle religioni, filosofie contemporanee, il senso della rivelazione «di quello che occhio mai
vide, né orecchio mai udì, né mai cuore d'uomo ha potuto gustare, e che Dio ha preparato a
coloro che lo amano» (1 Cor. 2, 9).
Si vede infine come rispondere a coloro che, da parte protestante, ci rimproverano di non
differenziare sufficientemente i dati fondamentali e i dati derivati della fede Cristiana, le
«rivelazioni» e i «dogmi», gli «articoli di fede» e le «verità di fede». Noi sappiamo ben
distinguere la sorgente e le sue derivazioni, ma riteniamo che la dottrina, è omogenea
passando dall'una alle altre, che lo stesso amore che ci porta infallibilmente la rivelazione
attraverso gli apostoli, ce la conserva infallibilmente per mezzo dei loro discepoli.

Sviluppo della dottrina. Un testo di san Vincenzo di Lerino


Nel suo Commonitorium, dopo aver insistito sulla fedeltà alla tradizione, san Vincenzo di
Lerino propone improvvisamente il problema del progresso della fede: «Ma forse si dirà:
Dunque la religione nella Chiesa di Cristo non è suscettibile di alcun progresso?
Certamente, è necessario che ve ne sia uno, e considerevole! Chi sarebbe tanto nemico
dell'umanità, tanto ostile a Dio per tentare di opporvisi? Ma sotto tale riserva questo
progresso costituisce veramente un progresso per la fede e non una alterazione: giacché la
peculiarità del progresso, profectus, è che ogni cosa si sviluppi pur restando la stessa, la
peculiarità dell'alterazione, permutatio, è che una cosa si trasformi in un'altra. Quindi si
sviluppino pure e progrediscano la conoscenza, la scienza, il sapere... della Chiesa intera
con l'avanzare del tempo... nello stesso dogma, nello stesso senso, nella stessa verità, in
eodem scilicet dogmate, eodem sensu eademque sententia» (Commonitorium, XXIII, 1-3).
E’ chiaro che san Vincenzo non pensa solamente a un progresso della fede nel cuore dei
fedeli, ma anche a un progresso della sua espressione nel dogma.

Il progresso della dottrina rivelata non si può rifiutare senza tradirla


E’ una verità per tutti gli uomini di tutti i tempi che Dio, «il quale vuole che tutti gli uomini
siano salvi e giungano alla conoscenza della verità» (1 Tm. 2, 4), si rivela immediatamente
a qualche uomo in un dato momento del tempo, in modo che da una parte, quanto alle sue
modalità concrete e alle sue circostanze, la rivelazione divina è sempre «storica» e «situata»,
e dall'altra parte, quanto al suo dato liberatore e salvifico, essa è sempre «superstorica» e al
di sopra di ogni «situazione».
Ne consegue che una fedeltà alla rivelazione che consistesse nell'imprigionarla nel suo
contesto immediato, potrebbe procedere da una semplice mancanza di amore della verità
essenziale, e divenire, talvolta forse sotto il pretesto di rispetto e di saggezza, un vero
tradimento. Il tradimento della lettera che uccide lo spirito. Trascendente a tutte le culture,
assistita divinamente per essere presentata a tutte le generazioni, la verità divina infatti deve
avere la capacità di testimoniare della sua identità camminando in mezzo ad esse, e di poter
rispondere in altra maniera che non sia un rifiuto, quando si chiederà di sapere, per esempio,
se Gesù è solamente uomo, o se è il Figlio di Dio che sostenta due nature. Ma rispondere a
simili sollecitazioni, significa esplicitare la dottrina rivelata.

Esplicitare non è giustapporre ma spiegare


Esplicitare: non è giustapporre al deposito divino i commenti umani; ma spiegare il suo
contenuto reale, ancora nascosto. All'addizione meccanica: per via di «giustapposizione» è
necessario opporre l'addizione vitale attraverso una «fioritura», proprio come un albero che
apre i suoi fiori; o più precisamente l'addizione per «esplicitazione» o «spiegazione», alla
stessa guisa che la definizione di un cerchio o di un triangolo dà origine alle loro proprietà,
senza ricorrere a qualche dato esterno. A proposito dei testi del Deuteronomio (4, 2) e
dell'Apocalisse (22,; 18) che proibiscono qualsiasi aggiunta alla rivelazione; gli antichi
distinguevano una addizione di cose estranee, sempre interdetta, e una addizione, la sola
legittima, realizzata con un passaggio dall'implicito all'esplicito. Strettamente parlando, in
questo ultimo caso non bisognerebbe parlare di «addizione», ma semplicemente di
«esplicitazione». Affermare che lo Spirito procede dal Padre, scrive san Tommaso, è già
affermare che egli procede dal Figlio, giacché il Padre e il Figlio non differiscono in nulla,
eccetto che in questo che uno è Padre, l'altro Figlio; ma per evitare l'errore di coloro che
negavano la processione dello Spirito cominciando dal Padre e dal Figlio, oppure
cominciando dal Padre, e passando per il Figlio, essa fu espressa nel Simbolo «non come
una addizione, ma come una traduzione esplicita di quello che esso conteneva
implicitamente, non quasi aliquid additum, sed explicite interpretatum quod implicite
continebatur» (De potentia, qu. 10, a. 4, ad 13).
Un tale passaggio dall'implicito all'esplicito, fatto sotto la luce dell'assistenza infallibile
promessa alla Chiesa, dà origine al dogma. Bisognerà parlare da quel momento di nuovi
dogmi? Essi sono nuovi non per la loro sostanza, il loro contenuto, ma per il modo con cui
esprimono e manifestano questa sostanza e questo contenuto. Certamente la Chiesa
primitiva non li conosceva in modo preciso, ma conosceva la loro sorgente, gli articoli di
fede da cui essi sono derivati. Oggi, ben lungi da sconfessarli, essa sentirebbe piuttosto che
li ha sempre posseduti e confessati nella loro radice e nella loro origine: come l'uomo che ha
sempre rifiutato di pronunciarsi tra due tesi opposte, allorquando gli si presenta
repentinamente la verità nella quale esse si conciliano, può dire con piena rettitudine che
l'ha sempre attesa e sempre creduta.
E’ per salvare la trascendenza del dato evangelico primitivo contro i tentativi coscienti o
incoscienti di razionalizzarlo, che i dogmi sono stati definiti lungo il corso dei secoli.
Tentiamo di dimostrarlo con qualche esempio.
CAPITOLO VII.
ALCUNI ESEMPI DI SVILUPPO DOGMATICO

Il dogma trinitario
Fin dalle origini è il dogma fondamentale del cristianesimo, quello della Trinità, che è
chiamato in causa. Si legge nel vangelo che bisogna dare la vita battezzando «nel nome del
Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt. 28, 19). Si legge che «Dio ha tanto amato il
mondo, che ha sacrificato il suo figlio unigenito, affinché ognuno che crede in lui, non
perisca ma abbia la vita eterna» (Gv. 3, 16); questo Figlio è il Verbo che era in principio, che
era con Dio, che era Dio (1, 1). Si legge ancora che il Figlio manderà al mondo «un altro
Paraclito, lo Spirito di verità che procede dal Padre» (14, 16 e 26).
Si vorrebbe accettare ben volentieri tutte queste cose. Ma d'altra parte sappiamo
incrollabilmente che Dio è uno, e che non può presentarsi a noi come contraddittorio a se
stesso, come colui che distrugge se stesso. Come dunque, senza offendere la ragione che
egli ci ha dato e che è la prima sua immagine in noi, supporre una qualunque reale pluralità
nella sua divina unità?
Ed è proprio qui che, per sottrarre la verità evangelica al rimprovero di contraddizione, ci si
caccia sulla strada del razionalismo. Da una parte, con Sabellio e il modalismo, si insinuò
che i termini Padre, Figlio e Spirito non toccano Dio in se stesso, ma indicano soltanto le
modalità della sua azione di volta in volta creatrice, salvifica, santificatrice: da quel
momento tutto è chiaro, tutto è limpido; ma al tempo stesso tutto è razionalizzato. Non è più
vero che Dio ha tanto amato il mondo da dargli il suo unico Figlio. Dall'altra parte, con
Ario, per mantenere la distinzione reale del Padre, che è Dio, e del Figlio, ci vediamo
costretti a fare del Figlio una creatura, la prima di tutte le creature: di nuovo tutto è chiaro e
tutto è razionalizzato; ma non è più vero che è il Verbo-Dio che si è fatto carne per abitare
tra gli uomini.
Cosa farà la Chiesa? Tenterà di evitare il problema? Lascerà che il messaggio evangelico si
annulli nella cultura greca? Essa affermerà nella cultura greca la sua fede eterna in Gesù
Cristo «Figlio unico del Padre, generato dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce,
vero Dio dal vero. Dio, generato non creato, consustanziale al Padre per il quale tutto è stato
fatto in cielo e sulla terra» (Concilio di Nicea, Denz., n. 54). Essa confesserà la pienezza del
mistero trinitario: «Noi veneriamo un Dio nella Trinità e la Trinità nell'unità; senza
confondere le Persone, senza dividere la sostanza; infatti altro è la Persona del Padre, altro
quella del Figlio, altro quella dello Spirito Santo; ma il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo
hanno una stessa divinità, una gloria uguale, una stessa eterna maestà» (Simbolo
«Quicumque», Denz., n. 39). Subito si esplicita la nozione valida per tutti i tempi di
relazioni sussistenti intratrinitarie. A coloro che sostenevano che se vi è solo un Dio e che se
il Padre è Dio, il Figlio non può esserlo, la Chiesa farà osservare che vi è presunzione nel
voler concludere che dal fatto che le nozioni di Padre e di Figlio si oppongano realmente tra
di loro, siano incapaci di identificarsi l'una e l'altra nella stessa divinità, e che è follia il voler
demolire, poggiandosi su una simile presunzione, il mistero evangelico di un Dio che ha
dato il suo unico Figlio: «O uomini sapientissimi, diceva Gregorio Nazianzeno agli Ariani, il
nome di Padre non è, come voi credete, un nome essenziale; esso indica una relazione, la
relazione del Padre al Figlio e dal Figlio al Padre... Nella Trinità, occorre affermare che
altro (alius) è il padre, altro il Figlio, altro lo Spirito; per tema di confondere le Persone; ma
non bisogna dire che altra cosa (aliud) è il Padre, altra cosa il Figlio, altra cosa lo Spirito
poiché i tre sono una sola e identica cosa quanto alla divinità» (P.G., t. XXXVII, col. 180).
A proposito dell'assioma: due realtà uguali a una terza sono uguali tra loro, Aristotile aveva già fatto notare che esso non
ha valore quando le due realtà che si identificano con la terza differiscono tra di loro ratione e si oppongono non già alla
terza, ma l'una all'altra, oppositione relativa. Vedere ARISTOTILE, Fisica, libro III, cap. 3; DIDOT pp. 275-276 e S.
Tommaso, I, qu. 28, a. 3, ad 1; a. 4, ad 5.

Così, a coloro che pretendevano che la Chiesa, nell'insegnare la Trinità e la divinità del
Verbo, sostituisse il messaggio evangelico con un messaggio d'incoerenza e si offrivano per
salvarlo razionalizzando tutto, la Chiesa rispondeva una volta per tutte che la Trinità e la
divinità del Verbo sono dei misteri ineffabili, che confondono la ragione, soprarazionali, ma
di cui non si proverà mai la irragionevolezza, la contraddizione e l'incoerenza. Dall'oscurità
della fede che è al di sopra della ragione all'oscurità dell'incoerenza che la compromette, vi è
un abisso.

Il dogma Cristologico
1. Il Vangelo, da una parte, testimonia che il Verbo, che è Dio, «si è fatto carne» (Gv. 1, 14);
Gesù stesso dirà: «Io e il Padre siamo una sola cosa» (10, 30); «Chi ha visto me ha visto il
Padre; e come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io, sono nel Padre e il Padre è in
me?» (14, 9-10). D'altra parte sta scritto: «Se mi amate, vi rallegrerete che io vada al Padre,
perché il Padre è più grande di me» (14, 28), e vi è il «grande grido» finale: «Mio Dio, mio
Dio, perché mi hai abbandonato?» (Mc. 15, 34).
Egli è Dio ed è abbandonato da Dio; come conciliare questi dati? Da un lato, al fine di
insistere sulla divinità, si sminuisce l'umanità; dall'altro lato, al fine di insistere sulla
umanità, la si separa dalla divinità distinguendo un Figlio di Dio, e un Figlio di Maria.
Dall'una e dall'altra parte risulta il trionfo delle soluzioni agevoli e del razionalismo; dall'una
e dall’altra parte è il Vangelo che ne risulta lacerato.
Cosa farà la Chiesa? Se essa non intende evitare il problema - e sia a Calcedonia nel 451 che
a Efeso nel 431, essa non lo vuole - una sola via gli è offerta: esplicitare completamente e
per sempre la rivelazione trascendente del Verbo fatto carne: «Noi, in pieno accordo,
predichiamo un solo e identico Figlio, nostro Signore Gesù Cristo - il medesimo perfetto
nella divinità e perfetto nell'umanità, lo stesso vero Dio e vero uomo, fatto di un’anima
razionale e di un corpo - consustanziale al Padre per la divinità, consustanziale a noi per
l'umanità e simile a noi in tutto eccetto il peccato - generato dal Padre prima del tempo
quanto alla sua divinità, ma infine per noi e per la nostra salvezza nato da Maria, la Vergine,
la Théotocos quanto alla sua umanità - un solo e medesimo Cristo, Figlio, Signore,
unigenito, che noi riconosciamo essere in due nature né confuse né scambiate (contro il
monofisismo), né divise né separate (contro il nestorianesimo), la differenza delle nature
non restando affatto soppressa dall'unione, ma al contrario le proprietà di ognuna delle due
nature restando salve e unendosi in una sola persona o ipostasi; per nulla spartito o diviso in
due Persone, ma un solo e medesimo Figlio, il Dio-Verbo unigenito e Signore Gesù Cristo,
lo stesso che un tempo fu predicato dai profeti poi da Gesù Cristo stesso, e che il Simbolo
dei Padri ci ha tramandato» (Denz., n. 148). Perché mai tante precisazioni messe insieme, se
non per sbarrare in precedenza la strada a coloro che saranno tentati di razionalizzare
l'insondabile mistero dell'unico Salvatore Gesù, rifiutando di confessare sia la pienezza della
sua divinità, sia la pienezza della sua umanità?

2. Nell'anno 55, cosa si fa nella «Chiesa di Dio di Corinto?» San Paolo parla di una tavola
che è un altare; di un pane che è il corpo del Signore, di una coppa che è il sangue del
Signore; di una unione dei fedeli a questo corpo e a questo sangue attraverso la
manducazione, secondo il modo con cui i Giudei partecipano ai sacrifici della Legge
mosaica e i Gentili ai sacrifici di idoli. Ma né i sacrifici dei Gentili né i sacrifici d'Israele
sono più ammessi, sotto pena di provocare la gelosia del Signore. Oggi i cristiani hanno il
loro sacrificio a cui partecipano bevendo il calice del Signore, partecipando alla tavola del
Signore. Ecco il testo: «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse una
comunione del sangue di Cristo? E il pane che spezziamo, non è forse una comunione del
corpo di Cristo? E poiché non vi è che un pane solo, noi, pur essendo molti, formiamo un
solo corpo; tutti infatti partecipiamo del medesimo pane. Osservate ciò che si verifica negli
Israeliti secondo la carne: quelli fra loro che mangiano di ciò che è sacrificato, non sono
forse in comunione con l'altare? Che voglio dunque dire? Che sia qualche cosa la carne
sacrificata agli idoli? o che sia qualche cosa un idolo? No! ma intendo dire: ciò che i Gentili
sacrificano, è sacrificato ai demoni e non a Dio. Or, io non voglio che voi siate in
comunione con i demoni. Non potete bere il calice del Signore e il calice dei demoni; né
potete partecipare alla mensa del Signore e a quella del diavolo. O vogliamo provocare la
gelosia del Signore? Siam forse più forti di Lui?» (1 Cor 10, 16c22).
Se il «pane» e il «calice» del Cristo non sono offerti a Dio in sacrificio, cosa resterebbe mai
di questa argomentazione di san Paolo? Un po’ più avanti è detto parimenti che, nella notte
in cui fu tradito, il Signore Gesù chiede ai suoi discepoli di far parte con lui nel suo
sacrificio attraverso 1'amore e la manducazione, ricevendo il pane che è il suo corpo, il
calice che è il suo sangue, fino al giorno in cui egli ritornerà (11, 23-27). Se qui san Paolo
non è vittima di un mito, se ci dice «quello che ha ricevuto dal Signore», se la sua
narrazione è divinamente ispirata, come non ritrovare la pienezza inalterata di questa
straordinaria rivelazione nell'insegnamento del Concilio di Trento per il quale il Salvatore ha
voluto associare la Chiesa nel dramma della Redenzione chiedendogli di rinnovare nella
messa il sacrificio incruento della Cena «adatto a rappresentare il sacrificio cruento che
stava per compiersi una volta per tutte sulla croce, a perpetuarne il ricordo fino alla
consumazione dei secoli, ad applicarne la forza salutare alla remissione dei peccati che noi
commettiamo ogni giorno»? «Poiché i frutti dell’offerta cruenta arrivano a noi in
abbondanza attraverso l'offerta incruenta, è ben lungi che questa possa in alcuna maniera
derogare a quella» (Sess. XXII, cap. l e 2.. Denz., n. 938 e 940). La Messa appare fin da
quel momento come l'ingresso vivente, e successivo di ciascuna delle generazioni nel
dramma sacrificale della passione, dove il suo posto era stato riservato.

3. «Or, mentre mangiavano, Gesù prese del pane, lo benedì, lo spezzò, lo diede ai suoi
discepoli e disse,: "Prendete e mangiate; questo è il mio corpo". Poi, preso il calice, rese, le
grazie e lo, diede loro dicendo: Bevetene tutti perché questo è il mio sangue, del nuovo
testamento, il quale sarà sparso per molti.. in remissione dei peccati. Io vi dico che non
berrò più di questo frutto della vite, fino al giorno in cui ne berrò del nuovo, insieme a voi,
nel regno del Padre mio» (Mt 26, 26-29). La Chiesa non aggiunge nulla al senso di queste
parole. Essa l'accetta nella sua pienezza. Se è vero che Dio ha tanto amato il mondo da
inviargli il suo unico Figlio, ella pensa che potrà amarlo abbastanza, se ciò non è
impossibile di sua natura, per lasciargli la presenza corporale di questo stesso Figlio unico.
E poiché Cristo nel giorno dell'Ascensione ci ha lasciato per risalire al cielo, dove risiede
sotto le sue proprie e naturali apparenze, è chiaro che egli non potrà essere presente quaggiù
corporalmente che in un modo misterioso, sotto apparenze estranee alle sue e prese in
prestito.
L'intuizione-base della Chiesa, da dove si originerà tutto il dogma eucaristico, è quella di
una presenza corporale del Cristo, il quale intende restare in mezzo a noi fino alla Parusia,
nascosto sotto le apparenze del pane e del vino per darci la possibilità di comunicare, come i
discepoli nella Cena, con il suo sacrificio cruento della croce. Eccola definita dal Concilio di
Trento: «E poiché Cristo nostro Redentore disse che quello che offriva sotto la specie del
pane era veramente il suo corpo, vi fu sempre la persuasione nella Chiesa, e il santo concilio
lo dichiara nuovamente, che con la consacrazione del pane e del vino avviene una
conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del suo corpo, e di tutta la sostanza
del vino nella sostanza del suo sangue: conversione chiamata propriamente e
convenientemente transustanziazione» (Sess. XXIII, cap. 4, Denz., n. 877).
Il canone corrispondente precisa che si tratta di una trasformazione senza pari: «Se qualcuno
dice che, nel SS. Sacramento dell'Eucaristia, resta la sostanza del pane e del vino con il
corpo e il sangue di nostro Signore Gesù Cristo, e nega questa meravigliosa e unica
conversione di tutta la sostanza del pane in corpo, e di tutta la sostanza del vino in sangue,
non lasciando sussistere che le specie del pane e del vino, conversione che la Chiesa chiama
con termine adattissimo, aptissime, transustanziazione, egli sia scomunicato» (Denz., n.
884).
Per negare questa dottrina bisognerebbe negare la verità di una delle tre seguenti
proposizioni: 1) questo è il mio corpo; 2) non è più pane; 3) le apparenze visibili del pane
non sono mutate. La prima delle tre proposizioni è immediatamente rivelata; la seconda è
rivelata nella prima, giacché se il pane resta, la proposizione: questo è il mio corpo, è falsa e
la proposizione vera sarebbe: qui è il mio corpo; la terza proposizione è di una evidenza
immediata. Il mistero della continuità della presenza corporale di Cristo in mezzo a noi è in
stretta connessione con il mistero della venuta in mezzo a noi del Verbo fatto carne; se, per
eludere tali sorprendenti rivelazioni, si affermasse che il Vangelo in proposito si è voluto
esprimere per via di immagini, tutto il cristianesimo crollerebbe.

Il dogma mariano
Vedere il nostro Esquisse du développement du dogme marial, Parigi, Alsatia, 1954; R. LAURENTIN, Compendio di
Mariologia, 2 ed., Edizioni Paoline, Roma. 1964
1. Maria, nella prospettiva del Vangelo, è madre di Gesù il quale è Dio, non soltanto
fisicamente, ma liberamente, coscientemente, in perfetta conoscenza di causa, ancora più
per via dello spirito che per via del corpo. Ella è proporzionata, per quanto è possibile a una
pura creatura, alla santità di una simile missione. E’ una madre degna del Salvatore, Dal
momento che le eresie obbligheranno la Chiesa a proclamare la divinità di Gesù, Maria sarà
proclamata Théotocos. Ecco il concetto sul quale si concentra infallibilmente l'attenzione
della Chiesa e dal quale si dedurranno, attraverso autentiche spiegazioni, tutti i privilegi
della Vergine.

2. Una verità centrale della Scrittura è che nessuno assolutamente può essere santificato o
salvato, se non attraverso la redenzione di Cristo. Se la Vergine fu redenta, lo fu forse per
qualche peccato? Gli Orientali: Origene, Basilio, Cirillo alessandrino, pensano anzitutto a
qualche dubbio che avrebbe turbato la sua anima ai piedi della croce; questa è una strada
senza uscita. L'Occidente, dove si approfondì la dottrina del peccato originale, si troverà.
davanti a un dilemma: o la Vergine fu redenta, e allora si tratta del solo peccato originale;
oppure, al fine di esimerla dal peccato originale, decidersi di sottrarla alla redenzione di
Cristo. Date queste posizioni, come la Chiesa potrà impegnare la sua infallibilità? Essa la
impegnerà il giorno in cui si farà luce la nozione di una redenzione non più purificatrice ma
preservatrice dalla macchia originale: «Per una grazia e un privilegio singolare del Dio
onnipotente, e in previsione dei meriti di Gesù Cristo, Salvatore del genere umano, la
beatissima Vergine Maria, nel primo istante della sua concezione fu preservata immune da
ogni macchia di peccato originale» (Pio IX, Bolla «Ineffalis Deus»; 8 dicembre 1854; Denz.
n. 1641).

3. Da quel momento la definizione dell'Assunzione della Vergine diveniva imminente. Se è


rivelato, secondo san Paolo, che per le membra di Cristo colpite dal peccato originale la
legge di conresurrezione o di conglorificazione («noi non morremo tutti, ma tutti saremo
trasformati» - 1Cor. 15, 51) nel Cristo resta impedita fino alla fine del mondo vale a dire
fino al momento in cui il peccato originale sarà completamente vinto in quanto peccato di
tutta la natura umana: a) con l'interruzione della generazione che lo propaga, b) con la
risurrezione di tutti coloro cui avrà causato la morte: «l'ultimo nemico che verrà distrutto
sarà. la morte», 1Cor. 15, 26 - è rivelato parimenti che per un membro di Cristo non colpito
dal peccato originale, tale legge non conoscerà verun impaccio e si applicherà senza
indugio, per somiglianza con Cristo: «Noi affermiamo, dichiariamo e definiamo, dirà Pio
XII, questo dogma divinamente rivelato, vale a dire che la immacolata Madre di Dio, Maria
sempre vergine, compiuto il corso della sua vita terrena, fu assunta corpo e anima nella
gloria celeste» (PIO XII, Bolla «Munificentissimus Deus», 1 novembre 1950).

4. Ciò che è contenuto esplicitamente e rivelato immediatamente nella Scrittura, è da una


parte la necessità della redenzione per tutti gli uomini e dall'altra la santità assolutamente
eccezionale della Vergine Madre di Gesù che è Dio. Ciò che è contenuto implicitamente ma
realmente e rivelato mediatamente nella Scrittura, e che è attualmente esplicitamente
formulato, è a proposito della Vergine Madre di Gesù che è Dio, la sua redenzione
preservatrice e la sua Assunzione gloriosa, che ne è il corollario.
Quello che la Chiesa primitiva sa intensamente, è che Gesù è il Verbo fatto carne. Quello
che essa sa con la stessa intensità di fede, è che la Vergine Maria è per il suo corpo e la sua
anima degna Madre di Gesù, il Dio salvatore del mondo. Non sa ancora nulla, con
chiarezza, né dell'Immacolata Concezione, né, vogliamo aggiungere, dell'Assunzione. Essa
non vi pensa. Il suo tesoro di certezza mariologica è tutto condensato in una invincibile e
assoluta capacità di negazione nei confronti di tutto ciò che potrebbe offendere in qualche
modo la dignità senza pari della Théotocos, della Panhagia. Quando si parlerà, nel corso dei
secoli, di un dubbio a cui la Vergine avrebbe ceduto ai piedi della croce, o di una
indiscrezione di cui ella sarebbe stata colpevole a Cana, oppure, più tardi, di una
contaminazione originale, quello che la Chiesa potrà dire nello slancio della sua fede divina,
è un No! E soltanto per l'effetto di questo no, senza altre aggiunte esterne, verranno
impostate tutte le tesi del dogma mariano.
CAPITOLO VIII.
LE FORMULE DOGMATICHE E IL SENSO COMUNE

Affermazioni dogmatiche in termini di senso comune


Esse riguardano anzitutto le riaffermazioni di fatti depositati nella Scrittura: La Vergine
Maria è Madre di Gesù il quale è Dio. Gesù ha sofferto sotto Ponzio Pilato. Ha subito la
morte fisica, risuscitò il terzo giorno per sua propria virtù, uscì dal sepolcro, ecc.
Esse riguardano anche la traduzione in termini diretti di ciò che è detto nella Scrittura sotto
forma di immagini; il braccio di Dio significa la potenza di Dio; la discesa agli inferi sta a
significare la redenzione portata ai giusti delle età anteriori; 1'ascensione e il suo posto alla
destra del Padre indicano la sovranità di Cristo glorioso, ecc.
Sulla discesa del Cristo agli inferi e la sua ascensione al cielo, vedere Nova et Vetera, 1963, n. 3, pp. 191-215.

Le formulazioni tecniche del dogma


Ma il magistero della Chiesa sarà condotto a dare una formulazione tecnica della fede, senza
tuttavia asservirla mai a un sistema. In questo caso, esso non cerca di far trionfare qualche
dottrina filosofica, ma al contrario, di sbarrare la strada ad ogni tentativo di
razionalizzazione per quanto sottile esso sia; di conservare in tutta la sua integrità, in tutta la
sua profondità, diciamo pure in tutto il suo scandalo, il senso inimmaginabile delle parole
evangeliche: «Il Verbo era Dio»; «Il Verbo si è fatto carne»; «Prendete, questo è il mio
corpo...», ecc. Preoccupato di disperdere le deviazioni e di respingerle con forza nelle loro
estreme posizioni, esso non esita a fornire una formulazione tecnica della vera fede, la sola
capace di escludere ogni ambiguità. Esso spontaneamente continua, ad agire come i Padri
dei primi secoli i quali, al fine di salvaguardare la trascendenza del deposito rivelato contro i
tentativi di razionalizzazione e di sincretismo, e definire i grandi dogmi trinitario e
cristologico; dovettero precisare tecnicamente le nozioni di paternità e di filiazione, di
generazione, e di processione, di prelazione sussistente, e di consustanzialità, di persona e di
natura. Essi, utilizzarono, criticandole anzitutto alla luce stessa della fede e demolendo tutto
quello che non aveva un rapporto al loro scopo, le elaborazioni concettuali che giudicarono
adatte, per esplicitare il dato rivelato: all'occorrenza, le avrebbero forgiate essi stessi al fine
di servire la fede; hanno spiegato la fede senza asservirla minimamente.

La realtà definita dal dogma può essere colta sia al livello della conoscenza spontanea sia
a quello della conoscenza elaborata.
I dogmi in cui si esprimono i grandi misteri cristiani, pur restando identici nel loro
significato essenziale, nel loro valore universale; possono comprendersi nei due momenti
della nostra conoscenza intellettuale: il momento della conoscenza spontanea o di senso
comune e il momento della conoscenza elaborata o riflessa.
In questi due momenti è la stessa realtà che viene colta, la stessa rivelazione insondabile a
cui l'anima del credente aderisce secondo il grado della intensità della propria fede. Nel
primo stadio, per quanto potente sia, la conoscenza è ancora generale e sfumata, essa
circoscrive confusamente la zona del mistero, simile a un po’ di sole immerso nella nebbia.
Il credente avrà da risolvere le difficoltà che gli si opporranno in un modo istintivo,
cercando le risposte nelle profondità del suo cuore: al pari di una mamma che è interrogata
dal suo bambino circa le verità cristiane che gli insegna. Nel secondo stadio, la conoscenza
guadagna in precisione e in chiarezza; certamente essa non sgombera il mistero, e sa bene
che sarebbe un sacrilegio il pretendere di razionalizzarlo. Al contrario, si sforza di
circoscriverlo nella speranza di meglio rispettarlo, di separarlo da ciò che non lo riguarda, di
potere rispondere perfino tecnicamente ai problemi che esso provoca, di aprire infine alla
fede una strada più libera.
E’ dunque vero che il dogma comincia a manifestarsi attraverso formule di senso comune.
Esso utilizza il significato dì cui esse sono portatrici immediate. E’ sufficiente allora a
illuminare la conoscenza dei fedeli e a spalancare loro le porte dell'amore. Ma non è vero
che esso non possa e non debba raggiungere una più alta precisione. Di mano in mano che
1'errore si sottilizza, il dogma lo insegue nei suoi cavilli. Esso si formula allora in un
linguaggio elaborato e tecnico. Ma senza cessare di rimanere nel prolungamento della
conoscenza spontanea e di restargli, in una certa misura, accessibile. Non vi è esoterismo nel
cristianesimo.

Non vi è esoterismo nel cristianesimo


1. Che il senso profondo dei misteri possa essere reso accessibile al senso comune per
mezzo di «elevazioni», è il titolo di un capitolo dove, partendo dalla nozione di persona
umana, il Padre Garrigou-Lagrange (Le sens commun, la pbilosopbie de l'étre et les
formules dogmatiques, Parigi, Beauchesne, 1909, pp. 163-169), attraverso una specie di
passaggio obbligato, introduce il suo lettore fino al cuore del mistero dell'Incarnazione.
Stacchiamone la pagina seguente:
«L'individualità che ci distingue dagli esseri della stessa specie deriva dal corpo,
dalla materia che occupa una certa porzione di spazio distinta da quella occupata da
un altro uomo. Per via della nostra individualità siamo essenzialmente dipendenti da
un certo ambiente, da un certo clima, da una certa eredità, greci, latini o sassoni.
Cristo era ebreo. La personalità al contrario viene dallo spirito. Sviluppare la propria
individualità significa vivere della vita egoistica delle passioni, farsi il centro del tutto
e infine concludere con il restare schiavo dei mille beni passeggeri che ci portano la
miserabile gioia di un momento. La personalità al contrario aumenta nella stessa
misura con cui l'anima che si eleva al di sopra del mondo sensibile, si lega più
strettamente con l'intelligenza e la volontà a ciò che costituisce la vita dello spirito. I
filosofi hanno intravisto, ma soprattutto i santi hanno compreso che il pieno sviluppo
della nostra povera personalità consiste nel perderla in qualche modo in quella di
Dio... Essi hanno acquisito cosi la più possente personalità che si possa concepire,
hanno conquistato, in certo qual modo, quello che Dio possiede per natura:
l'indipendenza nei confronti di tutto il creato, non più soltanto l'indipendenza rispetto
al mondo dei corpi, ma persino quella nei confronti delle intelligenze. Come ha detto
Pascal: I santi hanno il loro impero, il loro splendore, la loro vittoria, il loro fulgore,
e non hanno verun bisogno di grandezze carnali o spirituali) con cui non hanno
alcun rapporto, poiché non vi aggiungono né tolgono: essi sono visti da Dio e dagli
angeli e non dai corpi né dagli spiriti curiosi: Dio basta loro... Cristo stesso, Uomo-
Dio, appare come il termine verso cui la santità si sforza invano di tendere. In questo
caso estremo, non è più soltanto nell'ordine di operazione che l'io umano cede il
posto a una persona divina, è nell'ordine stesso dell’essere, radice dell'operazione, di
modo che è letteralmente vero il dire che la personalità di Gesù è la personalità stessa
del Verbo è che egli sussiste della stessa sussistenza (Subsistentia = personalità) del Verbo,
con il quale costituisce un solo e medesimo essere. Questa è la ragione ultima di tale
personalità prodigiosa di cui la storia non aveva mai avuto e non avrà più un
esempio. Tale è la ragione ultima della maestà di questo Ego che si addice solo a
Cristo: «Ego sum via veritas et vita. Venite ad me omnes et Ego reficiam vos...»
Nello stesso luogo, è dimostrato, con altri esempi, che le formule dogmatiche, anche
se espresse in linguaggio filosofico, restano nel prolungamento del senso comune»
(Una elevazione sul mistero della Trinità è proposta da A. GARDEIL, Le donné
révélé et la théologie, pp. 140-143).
2. Bossuet porta i nostri sguardi verso la nascita del Verbo (Elevazioni sui misteri, seconda
settimana): «Perché Dio non avrebbe figli? Perché questa natura beata dovrebbe mancare di
questa perfetta fecondità che essa dà alle sue creature? Il nome di Padre è tanto disonorevole
e indegno del primo Essere, da non poter costituire una sua virtù naturale? Io che apro il
seno materno non farò nascere? (Is. 66, 9). E se è bello darsi dei figli per adozione, non è
ancora più bello e più grande il generarne per natura?
«So bene che una natura immortale non ha bisogno, come la nostra, mortale e fragile,
di rinnovarsi e perpetuarsi, sostituendo al proprio posto i figli che si lasciano al
mondo quando lo si abbandona. Ma per sé, indipendentemente da tale ricambio
necessario, non è una cosa bella produrre un altro se stesso, per dovizia, per
sovrabbondanza, per l'effetto di una inesauribile comunicazione: per fecondità, in una
parola, e per la ricchezza di una natura beata e perfetta?..
«Se un uomo e un figlio di uomo può essere imperfetto, un Dio e un figlio di Dio
non lo possono essere. Togliamo dunque questa imperfezione al Figlio di Dio, quale
altra cosa resterà se non quello che hanno detto i nostri Padri nel concilio di Nicea, e
fin dalle origini del cristianesimo che egli è Dio da Dio, Luce da Luce, vero Dio da
vero Dio, figlio perfetto di un padre perfetto, di un padre che non aspettando la sua
fecondità dagli anni, è padre fin da quando egli è, il quale mai è stato senza figlio...
«Dio Padre non ha neppure bisogno di unirsi a qualche altra cosa che non sia se
stesso, per essere padre fecondo; non produce fuori di se stesso questo altro se stesso;
perché nulla che è fuori di Dio è Dio, egli concepisce in se stesso; porta in se stesso il
frutto che gli è coeterno. Benché sia solo padre e il nome di madre non gli convenga,
tuttavia ha un seno come quello materno dove porta il suo figlio: Oggi, dice, io ti ho
generato da un seno materno, ex utero (Sal. 109, 3). E il figlio si chiama da se stesso
il Figlio unico che è nel seno del Padre (Gv. 1, 18)... Chi è portato in un seno
immenso è in primo luogo tanto grande e tanto potente quanto il seno in cui è
concepito e mai esce dal seno che lo porta...
«Per sempre Dio avrà soltanto questo figlio, perché egli è perfetto e non può averne
due; un solo ed unico parto di questa natura perfetta ne esaurisce tutta la fecondità e
ne concentra tutto l'amore. Ecco perché il Figlio di Dio si chiama da se stesso
l'Unico, il Figlio unico, Unigenitus».
Questa continuità della conoscenza spontanea e della predicazione evangelica, questa
parentela della fede degli umili e della più alta rivelazione cristiana, è sempre stata la
persuasione dei Padri e Dottori della Chiesa.

Nessuna infeudazione del dogma a una cultura


Anche formulate con un linguaggio scientifico, le definizioni dogmatiche non infeudano,
come abbiamo detto, il dogma a un sistema, a una filosofia, a una cultura. Esse possono
prendere in prestito certe nozioni come quelle di natura, di relazione, di sostanza, di
persona, dai sistemi metafisici, ma non tenendo conto del contesto a cui appartengono,
epurandole a seconda delle esigenze proprie della fede, elevandole in una luce superiore a
quella di tutte le filosofie.
«Non si mancherà di obbiettare: se i termini di queste formule oltrepassano i limiti
del senso comune, chi garantisce il loro valore immutabile? La Chiesa stessa, organo
di Cristo, la quale, nella sua infallibilità ha giudicato del valore analogico dei concetti
espressi da questi termini. Lungi dall'infeudarsi a questi concetti, la rivelazione si
serve di essi, li utilizza come in tutti gli Ordini il superiore utilizza l'inferiore, nel
senso filosofico della parola, vale a dire l'ordina al suo fine. La soprannatura utilizza
la natura. Prima di servirsi di questi concetti e di questi termini, Cristo, attraverso la
Chiesa, li ha giudicati ed approvati in una luce tutta divina che non viene misurata dal
tempo ma dalla immutabile eternità. Questi concetti, evidentemente inadeguati,
potranno essere sempre precisati ma non avranno mai una scadenza. Il dogma in tal
modo definito non può lasciarsi assimilare da un pensiero umano in perpetua
evoluzione, tale assimilazione sarebbe, soltanto una corruzione; al contrario, è il
dogma che vuole assimilarsi questo pensiero umano il quale muta continuamente solo
perché muore ogni giorno; vuole assimilarselo al fine di comunicargli fin da questo
mondo qualcosa della vita immutabile di Dio. Il credente convinto è colui la cui
intelligenza è più sostanzialmente passiva rispetto a Dio» (R. GARRIGOU-
LAGRANGE, op. cit., p. 189).
All’obiezione di una infeudazione del dogma alla filosofia antica, si è risposto
recentemente con un semplice richiamo dei fatti:
«Nel pensiero cristiano, i Padri e i Dottori hanno come unica preoccupazione di
essere fedeli al pensiero della Chiesa, di non allontanarsi da questo pensiero. Non
cercano di scoprire un sistema originale, ma al contrario ne sentono ripugnanza.
Cercano di pensare con la tradizione. Si rifanno costantemente ai loro predecessori.
Invocano soprattutto la Sacra Scrittura che è la loro regola e il loro criterio. Si può
dire che per loro mezzo è un pensiero collettivo che si elabora, il pensiero di un
Corpo... Il pensiero cristiano ortodosso, nei primi secoli, scelse nella filosofia ellenica
gli elementi che gli parvero utilizzabili e rigettò le tesi metafisiche che sembrarono
incompatibili con i suoi propri principi e le sue proprie esigenze. Ciò vuol dire che in
pratica il pensiero cristiano respinse le tesi più originali e più costanti della
metafisica antica: affermando; per esempio, la non-eternità del mondo, la libertà
della creazione ex nihilo, i destini escatologici dell'universo, la risurrezione dei corpi
ecc. (vedere in proposito il bel libro di p. DE LABRIOLLE; La réaction paienne.
Etude sur la Polémique antichrétienne du I.er au VI.e sièclè, Parigi, 1934).
Siamo quindi ben lontani dall'invasione pura e semplice del cristianesimo da parte
della filosofia greca che molti storici pensavano di riscontrare» (C. Tresmontant, Les
idées maitresses de la métaphysique chrétienne, Parigi, Seuil, 1962, p. 15.
Sottolineato dall'autore).
CAPITOLO IX
IL VALORE DI VERITA' DEGLI ENUNCIATI RIVELATI

Verità assoluta dei dati di fede


Gli enunciati di fede che riguardano Dio e la sua opera ci manifestano quello che egli è,
sfociano nella sua realtà per quanto misteriosa e profonda, sono veri di una verità assoluta.
Siano essi rivelati immediatamente come gli «articoli di fede», oppure rivelati mediatamente
come i «dogmi» in cui questi articoli si esplicitano, e qualunque sia lo stato degli eventi che
hanno potuto condizionare la loro comparsa, essi sono messaggi che ci rivolge Colui che è
la Verità. E’ proprio ad essi che ci viene richiesto di affidare la nostra vita e la nostra morte,
ed è nella dipendenza dal loro valore speculativo e metafisica che scaturisce il loro valore
pratico e morale.
Vengono traditi quando si pretende che essi non ci riportano direttamente alla realtà divina;
che essi la manifestano soltanto sotto le forme di una nostra reazione vitale corrispondente;
che ad esempio l'affermazione «Dio è persona» stia a significare semplicemente:
«Comportatevi nelle vostre relazioni con Dio come nelle vostre relazioni con una persona
umana»; in breve che «i dogmi di fede devono essere creduti solo nel loro senso praticò,
come norme dell'agire e non come norme di fede» (è la 26.a proposizione condannata dal
decreto «Lamentabili», il 3 luglio 1907; Denz., n. 2026).
Per la fede, «Dio è buono» non ha semplicemente un senso negativo che elimina da lui ogni
male, né un senso semplicemente causale o funzionale con l'indicarlo come causa della
bontà delle cose; Dio è buono in se stesso anteriormente ad ogni riferimento al mondo. Non
è affatto perché ha creato il mondo che è buono, dice san Tommaso, ma per il fatto che egli
è buono ha creato il mondo (I, qu. 13, a. 2): «Nessuno è buono se non Dio solo» (Lc. 18,
19). Non certamente per il fatto che ha dato vita a uomini intelligenti e liberi Dio è persona,
ma perché egli è sovranamente vivente, intelligente, libero e quindi sovranamente personale,
ha dato vita a uomini che ha creati «a sua immagine e somiglianza» Gen. l, 26). E’ per il
fatto che è Padre con un processo eterno e irrepetibile che «ogni paternità, sia nei cieli che
sulla terra, deriva da lui» (Ef. 3, 15).
«Non si ripete mai troppo in questi tempi di agnosticismo che, in certo senso,
conosciamo Dio molto meglio di quanto non conosciamo gli uomini con i quali
viviamo più intimamente: L'uomo che mi!tende la mano potrebbe decidersi nello
stesso istante a tradirmi, il suo gesto. potrebbe essere una menzogna, posso
dubitare.della sua parola, della sua virtù, della sua bontà. Al contrario io so da scienza
assolutamente certa, persino con la mia sola ragione, ché Dio non può mentire, che è
infinitamente buono, infinitamente giusto, infinitamente santo. Tra tutti gli esseri, è
proprio Lui, in un certo senso, che io conosco meglio, quando recito il Pater, come
del resto è proprio Lui che mi conosce meglio» (R. Garrigou-Lagrange, op. cit.,.
p.151).
L'amore vive di assoluto; non si può dire ad una moglie che non interessa a lei il sapere se
suo marito le è fedele, oppure a un uomo il sapere se il bambino che gli viene presentato sia
veramente il suo, e che per loro è sufficiente comportarsi «come se» i fatti fossero tali, non
si può dire a un cristiano di comportarsi «come se» Dio si fosse incarnato per nostro amore,
«come se» Gesù si offrisse a noi corporalmente quando ci comunichiamo. E lo stesso Dio
vuole essere amato funzionalmente, in ragione dei doni che ci ha fatto, oppure vuole essere
amato per se stesso!
Variazioni dei termini senza variazioni del senso e viceversa
E’ il senso degli enunciati rivelati che interessa, poiché come abbiamo detto, cade sotto la
fede. Le parole con cui tale senso si esprime potranno variare - questo caso si verifica già
nelle traduzioni in differenti lingue - per effetto della. trascendenza del pensiero spirituale in
rapporto ai suoi mezzi materiali di espressione. Può quindi accadere che la stessa
espressione, messa da parte con il senso che presentava una volta, venga poi adottata dalla
fede con un senso sostanzialmente diverso. Quando la parola consustanziale, ad esempio, è
respinta nel concilio di Antiochia, nel 264, è nel senso che gli dà Paolo di Samosata, il quale
intende con essa insegnare il modalismo e, affermando la loro consustanzialità, negare ogni
distinzione reale tra le persone del Padre e del Figlio. Al contrario, nel concilio di Nicea, nel
325, in cui gli eusebiani si trincerano dietro le espressioni bibliche indicando il Figlio come
«immagine del Dio invisibile» (Col. 1, 15), «splendore del Padre, impronta della sua
sostanza» (Eb. 1, 3), per affermare la sua «somiglianza» al Padre, ma negare la sua divinità
(Gv. 1, 1; 20, 28; Rom. 9, 5; Tt. 2, 13) e la sua uguaglianza con il Padre (Gv. 10, 30), la
parola non biblica consustanziale diviene la sola che possa denunciare la loro esegesi da
sofisti e proclamare tanto l'identità di natura del Padre e del Figlio che la loro distinzione
personale, giacché, come farà notare san Basilio, «una realtà non è mai consustanziale a se
stessa ma sempre ad un'altra». Il termine di consustanzialità, respinto dapprima in quanto
copriva un errore, in seguito fu adottato come espressione della fede. Vi è una variazione di
terminologia, ma fedeltà assoluta a uno stesso pensiero che si precisa
Molto più frequente è il caso inverso. E’ la terminologia cristiana che allora è conservata,
ma per essere di nuovo interpretata. I termini di creazione, di incarnazione, di redenzione, di
presenza reale, di transustanziazione, di giustificazione, di corpo mistico ecc., acquistano
nuovi sensi. Si pensi a ciò che è divenuto il nostro Simbolo degli apostoli nella prospettiva
hegeliana o semplicemente modernista: le parole sono là, come la pula senza grano che il
vento della storia e delle ideologie porta via in balia dei suoi capricci.

Progresso nell'espressione di uno stesso dato di fede


Si potrà parlate, ma in questo senso assai preciso, di una «relatività storica» degli enunciati
di fede.
1. Secondo sant'Agostino, «i concili plenari anteriori sono spesso corretti dai concili plenari
posteriori, quando l'esperienza fa aprire quello che era chiuso e conoscere quello che era
nascosto, aperitur quod clausun erat et cognoscitur quod latebat» (De baptismo, libro II,
cap. 3, n. 4). La parola correggere, emendare, osserva Pietro Batiffol (Le catholicisme dè
Saint Augustin, Parigi, 1920; p. 39), significa qui uno sviluppo: «Quando un vescovo era
corretto da un concilio regionale, è perché vi era negli esposti o nei discorsi di questo
vescovo qualcosa che deviava dalla verità, deviava nel senso del francese se dévoyer
(perdersi su una falsa strada), si quid a veritate deviatum est. Nei confronti di un concilio
plenario non si pone il problema di una deviazione, di un abbandono della verità, per esservi
ricondotto da un concilio plenario successivo: il problema riguarda solo il fatto di non
vedere quello che un concilio successivo vedrà, perché la verità nascosta o latente nella fede
ricevuta si manifesta spesso grazie alle controversie che esplodono, che si susseguono, che
fanno capo alla loro, necessaria conclusione». Agostino suggerisce altrove (Contra duas
epist. Pel., 1, 3) l'esempio della parola homoousion, consustanziale, il quale non è
scritturistico, «che la fede dei nostri Padri ha creato, che il concilio di Nicea ha confermato e
che la cattolicità ha difeso». Egli anticipa qui il pensiero di Vincenzo di Lerino.
2. Di quest'ultimo abbiamo già citato il celebre testo che oppone alla trasformazione,
Permutatio, della fede, il suo progresso, profectus, nello stesso dogma, nello stesso senso,
nella stessa verità (Commonitorium, XXIII, 1-3). Ecco altri due, testi dove esprime la stessa
preoccupazione: «Avete ricevuto oro; è oro che bisogna restituire. Non voglio che sostituiate
una cosa a un'altra: non voglio che invece dell'oro mi presentiate del piombo oppure
fraudolentemente del rame; non voglio ciò che rassomiglia all'oro, ma l'oro autentico. O
Timoteo, o sacerdote, o interprete, o dottore, se il favore divino ti ha accordato talento,
scienza ed esperienza, sii il Beseleel del tabernacolo spirituale (Es. 31, 2). Apprezza le pietre
preziose del dogma, incastonale fedelmente, ornale saggiamente, circondale di splendore, di
grazia e di bellezza; fa in modo che attraverso le tue spiegazioni si comprenda più
chiaramente quello che prima era creduto più oscuro, intelligatur industrius quod antea
obscurius credebatur. Che per tuo mezzo i posteri possano rallegrarsi di aver compreso
quello che gli antichi veneravano senza (ancora) comprenderlo. Ma insegna le stesse cose
che hai apprese; presenta le cose in una forma nuova; senza dire tuttavia cose nuove, ut cum
dicas nove, non dicas nova» (Ibid., XXII, 5-7); «E’ legittimo che questi dogmi antichi della
filosofia celeste, si squadrino, si limino, si levighino con il progredire del tempo; è un delitto
trasformarli, commutentur, decurtarli e mutilarli. L'espressione filosofia celeste, sembra che si sia
affermata solo verso la fine del IV secolo; essa è frequente presso Giovanni Crisostomo che oppone lo stato
d'animo dei veri cristiani, orientati verso il cielo, a quello degli uomini ancora attratti dal mondo» (M.
Meslin: Saint Vincent de Lérins, Edit. Soleil levant, Namur, 1959, p. 105).
Che ricevano sì più evidenza, chiarezza e precisione, evidentiam, lucem, distinctionem, ma
conservino assolutamente la loro completezza, la loro integrità, il loro proprio senso,
plenitudinem, integritatem, proprietatem» (Commonitorium, XXIII, 13).
3. La dottrina dei Padri sarà quella di san Tommaso: «La verità di fede è sufficientemente
spiegata nella dottrina di Cristo e degli apostoli; ma poiché si sono trovati degli uomini
intenzionati a corrompere la dottrina apostolica e le Scritture (2 Pt 3, 16), una spiegazione
della fede è diventata necessaria nel corso dei secoli» (II-II, qu. l, a. 10, ad 1). «La decisione
di un concilio generale non toglie a un concilio successivo il potere di fare una nuova
edizione del Simbolo che contenga non già un'altra fede, ma la stessa fede meglio esposta,
magis expositam» (Ibid., ad 2).
4. Abbiamo, già riportato il testo del primo Concilio Vaticano, il quale insegna che «il senso
dei dogmi santi che si deve sempre ritenere è quello che la nostra santa Madre Chiesa ha
loro una volta riconosciuto, e mai è permesso di allontanarsene sotto pretesto o in nome di
una conoscenza più profonda, altioris intelligentiae specie et nomine» (Sess. III, cap. 4,
Denz., n. 1800). Ricordiamo la solenne, definizione del canone 3: «Se qualcuno dice che è
possibile, grazie al progresso della scienza, attribuire ai dogmi proposti dalla Chiesa un
senso diverso da quello che loro ha dato e dà la Chiesa, sia scomunicato» (Denz., n. 1818).
Si poteva esprimere con più chiarezza il pensiero della Chiesa sul valore di verità assoluta
degli enunciati di fede?

Fedeltà oppure no?


Ci si permetta di proporre tre recenti esempi di interpretazioni dogmatiche senza rivelare i
nomi dei loro autori e lasciando al lettore il compito di decidere se vi è oppure no fedeltà
alla dottrina di fede.
1. Il primo riguarda la presenza eucaristica. Abbiamo citato precedentemente le
dichiarazioni e le definizioni solenni del concilio di Trento. Ecco la presentazione che ci
viene proposta di questo mistero: «Nelle prospettive scolastiche, dove la nazione di cosa-
segno si è perduta, dove la realtà della cosa è la "sostanza", che ne costituisce il fondo sotto
gli accidenti, la cosa non potrà cambiare realmente se non quando la sostanza cambia. In
questo caso la trasformazione diviene necessariamente transustanziazione. In un mondo
dalle prospettive agostiniane... si può concepire che una cosa, essendo per effetto della
volontà di Dio il segno di una cosa diversa di quella che era per natura, sia divenuta essa
stessa diversa senza un cambiamento nella sua apparenza. L'apparenza resta, ma la
destinazione, la funzione, l'ufficio di cosa-segno è mutato, e quindi la cosa è cambiata
realmente, poiché la sua funzione, che è quella di manifestare, è ciò che vi è di più profondo
nella sua realtà ontologica.... Prima della consacrazione il pane e il vino hanno anche, come
ogni essere della natura, un senso e un essere religiosi. Ma quando in virtù dell'offerta che
ne è fatta secondo un rito determinato da Cristo, sono divenuti il simbolo efficace del
sacrificio di Cristo e conseguentemente della sua presenza spirituale, il loro essere religioso
cambia. Per effetto della volontà creatrice di Dio, ne hanno acquistato uno nuovo. Essi
hanno dunque subito una trasformazione, e la più profonda, poiché sono stati cambiati a un
tale livello di essere che li costituisce nella loro vera realtà. Questo è quello che possiamo
indicare come transustanziazione». Così gli «scolastici» e con loro i Padri di Trento, che
avevano perduto di vista la nozione di cosa-segno (res et signum), avrebbero semplicemente
confuso un cambiamento della destinazione (profana e religiosa) del pane, con un
cambiamento dell'essere del pane; un cambiamento funzionale sarebbe divenuto per essi un
cambiamento sostanziale; è al primo, al cambiamento semplicemente funzionale, non più al
secondo, che oggi converrebbe riservare la parola di transustanziazione che la Chiesa
cattolica dichiara molto appropriata.
2. Il secondo esempio riguarda il primato del sovrano pontefice. Ecco la definizione del
primo Concilio Vaticano: «Se qualcuno dice che il Pontefice romano ha solo un ufficio di
ispezione e di direzione, e non un potere plenario e sovrano di giurisdizione su tutta la
Chiesa, non solamente in quello che tocca la fede e i costumi, ma anche in quello che tocca
la disciplina e il governo della Chiesa, oppure che esso ha solo una parte più importante e
non la pienezza totale di questo potere supremo... sia scomunicato» (Sess. IV, can.; Denz., n.
1831). D'altra parte, il 6 aprile 1415, quando tre pretendenti si disputavano la tiara, e uno di
loro, lo pseudo Giovanni XXIII, era fuggito, il concilio di Costanza aveva definito
solennemente la superiorità del concilio ecumenico sul Papa.
Dove è la verità? Conosciamo, la risposta dei teologi: Papa dubbioso, papa nullo, Papa
dubius, papa nullus. Un concilio generale riunito per eleggere un vero papa ha competenza
solo per tale preciso compito e quindi è perfetto soltanto in tale compito, secundum
praesentem Ecclesiae statum (Caietanus, De comparatione auctoritatis papae et concilii,
edit. Pollet, Roma, 1936, n. 229). Le decisioni che esso potrà prendere eventualmente in
margine alla sua principale missione non avranno un valore ecumenico che in virtù
dell'ulteriore conferma del papa eletto da esso. La definizione della quinta sessione di
Costanza andava manifestamente al di là delle sue attribuzioni di concilio e restava senza
valore. I Padri del Vaticano - che la conoscevano - non ne potevano dubitare. Ecco tuttavia
che si dà per vero che, poiché Martino V, l'eletto di Costanza, non decide di sciogliere il
concilio se non con «l'approvazione» di quest'ultimo, «i rapporti papa-concilio non
potrebbero essere più chiaramente circoscritti nei termini della sottomissione dell'esecutivo
papale alla sovranità legislativa del concilio». Conseguentemente «le due definizioni
sarebbero ugualmente vere. Non solo quella del Vaticano che affermava la superiorità del
papa (ciò che nessuno dubita) ma quella di Costanza che definiva la superiorità del concilio
(ciò che nessuno teologo contemporaneo ammetteva fin qui). L'antinomia non sarebbe che
apparente, poiché le due superiorità non sono della stessa natura, e ciascuna a suo modo ha
reso un servizio indispensabile alla Chiesa di Gesù Cristo». Sovranità legislativa del
concilio, sovranità esecutiva del papa: cosa dire, se non che, secondo i termini espressi dalla
definizione vaticana, il potere «pieno e sovrano» del Pontefice romano su tutta la Chiesa,
lungi dall'essere limitata all'esecutivo, riguarda anche ed in primo luogo le cose supreme,
«quello che tocca la fede e i costumi»?
3. Il terzo esempio riguarda il concetto di creazione. Il canone 5 del Concilio Vaticano I
dice: «Se qualcuno non ammette che il mondo e tutte le cose in esso contenute, spirituali e
materiali, sono state create dal nulla da Dio nella totalità della loro sostanza, secundum
totam suam substantiam a Deo ex nihilo..., sia scomunicato» (Denz., n. 1805). Ed ecco,
come nei nostri giorni è stata proposta la nozione di creazione: «All'inizio dunque, ai due
poli dell'essere vi erano Dio e la Moltitudine. E tuttavia Dio era veramente solo, poiché la
Moltitudine, completamente dissociata, non esisteva... Fin da tutta l'eternità Dio vedeva
sotto i suoi piedi l'ombra sparsa della sua Unità; e tale ombra, pur essendo una capacità
assoluta per dare qualcosa, non era affatto un altro Dio perché essa non esisteva, né era mai
esistita, né avrebbe mai potuto esistere, poiché la sua essenza, era di essere infinitamente
divisa in se stessa, vale a dire di tendere verso il Nulla. Infinitamente vasto e infinitamente
rarefatto; il Molteplice, essenzialmente ridotto al nulla, dormiva agli antipodi dell’Essere
uno e concentrato. Fu allora che l'Unità traboccante, di vita entrò in lotta, attraverso la
Creazione, contro il Molteplice inesistente che si opponeva ad essa come un contrasto e una
sfida. Creare, secondo le nostre apparenze significa condensare, concentrare, organizzare;
unificare... Non mi nascondo che questa concezione di una specie di Nulla positivo,
soggetto della creazione, solleva delle gravi difficoltà. Per quanto la si suppone tesa verso il
non essere, la cosa dissodata per sua natura, richiesta per l'azione dell'unione creatrice, sta a
dire che il Creatore trovò, fuori di sé, un punto di appoggio, o per lo meno una reazione.
Essa insinua così che, la creazione non fu assolutamente gratuita, ma rappresenta un'opera
di interesse quasi assoluto. E’ vero. Ma, sinceramente, è poi possibile evitare questi scogli (o
piuttosto questi paradossi) senza ridursi a spiegazioni puramente verbali?.. Nel mondo
oggetto della «Creazione», la metafisica classica ci aveva abituati a vedere una specie di
produzione estrinseca, uscita, per via di una benevolenza strabocchevole, dalla suprema
efficienza di Dio. Invincibilmente - ed esattamente per potere unitamente agire e amare con
pienezza, - ora sono portato a vedervi (in conformità allo spirito di san Paolo) un misterioso
prodotto di rifinimento e di completamento per lo stesso Essere Assoluto. Non più l'Essere
partecipato da dispersioni e da divergenze, ma l'Essere partecipato da concentrazioni e da
convergenze. Non più effetto di causalità, ma di Unione creatrice!»
Noi facciamo una sola domanda: qui è chiamata in causa solo la «metafisica classica»? e la
definizione conciliare della libera e gratuita creazione di tutte le cose, partendo dal nulla,
secondo la totalità della loro sostanza?
CAPITOLO X.
IL PROBLEMA DEL LINGUAGGIO

Il testo di Giovanni XXIII


L'11 ottobre 1962, nel discorso di apertura del XXI concilio ecumenico, il sovrano pontefice
intende rispondere con autorità alla domanda come promuovere la dottrina nel nostro tempo
(Act. Apost. Sedis, 1962, p. 791):
«Il XXI concilio ecumenico vuole trasmettere nella sua integrità, senza diminuirla né
distorcerla (non imminutam, non detortam), la dottrina cattolica che, a dispetto delle
difficoltà e delle opposizioni, è divenuta come il patrimonio comune degli uomini.
Certo questo patrimonio non piace a tutti, ma è offerto a tutti gli uomini di buona
volontà al pari di un ricco tesoro di cui possono disporre.
«Tuttavia questo tesoro di ricchezze non dobbiamo riguardarlo soltanto come se noi
non avessimo altra preoccupazione che di fedeltà al passato (uni antiquitati); oltre a
ciò noi dobbiamo metterci con gioia e senza timore al lavoro che esige la nostra
epoca, proseguendo nella strada che la Chiesa percorre da quasi venti secoli.
«Lo scopo principale di questo concilio non è, quindi, la discussione di questo o quel
tema della dottrina fondamentale della chiesa, in ripetizione diffusa
dell’insegnamento dei padri e dei teologi antichi e moderni quale si suppone sempre
ben presente e familiare allo spirito.
«Per questo non occorreva un concilio. Ma dalla rinnovata, serena e tranquilla
adesione a tutto l’insegnamento della chiesa nella sua interezza e precisione, quale
ancora splende negli atti conciliari del Tridentino e del Vaticano I, lo spirito cristiano,
cattolico e apostolico del mondo intero, attende un balzo innanzi verso una
penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze; è necessario che questa
dottrina certa e immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e
presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo. Altra cosa è infatti il
deposito stesso della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra dottrina, e altra
cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo
stesso senso e la stessa portata. Bisognerà attribuire molta importanza a questa forma
e, se sarà necessario, bisognerà insistere con pazienza nella sua elaborazione; e si
dovrà ricorrere ad un modo di presentare le cose che più corrisponda al magistero, il
cui carattere è preminentemente pastorale, eae inducendae erunt rationes res
exponendi, quae cum magisterio, cujus indoles paesertim pastoralis est, magis
congruant».
Il sommo pontefice parla poi del modo di reprimere gli errori: «La Chiesa non ha mai
cessato di opporsi agli errori. Spesso li ha perfino condannati e severissimamente. Ma oggi
la Sposa di Cristo, piuttosto che ricorrere alle armi della severità, preferisce adottare il
rimedio della misericordia. Essa ritiene che invece di condannare, possa risponder meglio ai
bisogni della nostra epoca col metter maggiormente in valore le ricchezze della sua
dottrina» (Act. Apost. Sedis, 1962, p. 792).

Suo significato
La grande intenzione di Giovanni XXIII, la grande missione che lo Spirito Santo lo spinge a
iniziare, anche qui è chiara. Non è, una trasformazione della dottrina che, egli si attende e a
cui ci invita, è un mutamento di clima. Come al clima di scissione, che solo ha permesso le
dissidenze tra cristiani, egli ha tentato di sostituire un clima di ravvicinamento; parimenti.
qui, a un clima secolare di presentazione della dottrina da parte dei cattolici, centralizzata
soprattutto, anche se non certo unicamente, sulla sua unità, la sua purezza, la sua coerenza,
la sua crescita e santità interiori, tenta di sostituire un clima, nuovo o forse più antico, di
presentazione, anche essa cattolica, della pura dottrina definita nei concili ecumenici - ivi
compresi quelli di Trento e Vaticano I - incentrato soprattutto sulla sua diffusione in un
mondo che improvvisamente acquista la coscienza di entrate, in seguito alla comparsa dei
grandi mezzi tecnici, in un'era sconosciuta della sua storia. Vi fu, effettivamente, proprio
all'inizio della predicazione della Buona Novella; un tempo in cui la preoccupazione, non
certo unica - si pensi, ai continui allarmi di un san Paolo e di un San Giovanni contro i
falsificatori del messaggio, alle maledizioni del Salvatore contro gli scribi e i farisei - ma
maggiore, fu quella della sua diffusione nel mondo allora accessibile; poi vi fu un tempo in
cui la preoccupazione maggiore fu quella della sua coerenza e crescita interiori in una
cultura divenuta cristiana; eccola pronta, ora con un papa liberato dalle sue responsabilità
temporali di capo degli Stati della Chiesa e di tutore della cristianità medioevale - per
iniziare un nuovo sforzo di espansione missionaria. Si vede quello che bisogna intendere per
il «nuovo modo», «conforme alle esigenze dei nostri tempi», «accordato alla cura pastorale
del magistero», di presentare «nella sua integrità» la «dottrina certa ed immutabile»,
«definita ed espressa con tanta precisione dai concili ecumenici». Più di ogni altro, i
missionari conoscono la difficoltà che vi ha nel tradurre, nelle diverse lingue, senza
alterarla, la superiore e pura dottrina della Scrittura e dei catechismi. E guai a colui tra noi il
quale, aprendo la bocca per insegnare il Vangelo, non è mai turbato dal pensiero, che forse
lo sta tradendo. Come trovare il linguaggio che lo farà penetrare con la sua trascendenza e
purità nel «cuore delle masse» esposte a tutte le suggestioni dello spirito del mondo e del
«Principe di questo mondo»?
Quanto al modo di reprimere gli errori, le terribili condanne di Gesù, degli apostoli, dei
primi concili, hanno potuto perpetuarsi, e l'anathema sit dell'Apostolo (Gal. 1,8; 1 Cor. 16,
22) compare fino nei canoni di Trento e del Vaticano, ma ciò avviene nei confronti delle
dottrine, non più delle persone; poiché, mancando dei lumi profetici per il discernimento
delle anime, sappiamo che l'ultimo giudizio sul dramma di una esistenza umana si deve
lasciare a Dio. Potrebbe ciò liberare la Chiesa dalla preoccupazione continua di segnalare ai
suoi figli, umilissimi o sapientissimi, le dottrine con le quali possono smarrirsi e smarrire i
loro fratelli? Il suo prezioso compito, il suo dovere di Sposa, non è forse quello di vegliare
per la purezza della verità, di preoccuparsi di tutto quello che può offuscarla? La carità non
è anzitutto quella della verità, della Verità per eccellenza?

Il nostro linguaggio è adatto ad esprimere la dottrina rivelata?


1. La dottrina cristiana, la si prenda pure nei diversi momenti della sua esistenza, nella
Scrittura e nei primi concili, presso i Padri d'Oriente e di Occidente e presso gli scolastici,
nei concili di Trento e Vaticano I, intende affermare «quello che è», essa si presenta come
una saggia dottrina dell’essere e non del fenomeno o della prassi. Essa è - e gli attacchi
troppo significativi di alcuni contro quello che chiamano con disprezzo «la scolastica» non
ingannano nessuno, - essa è una ontosofia.
I nostri linguaggi sono compositi: per una parte, e tale parte è accentuata, in quanto essi,
contengono idee spontanee che portano sull'essere, sono pronti ad accogliere la sapienza
cristiana; per l'altra parte, in quanto riflettono l'ideologia, le propagande, le passioni mobili
di un’epoca, essi sono buoni a eludere la sapienza cristiana, capacissimi di travestirla e di
tradirla.
2. «A tale proposito è stato notato che non basta considerare il linguaggio in se stesso, nella
sua natura o anche nelle sue strutture fondamentali; bisogna ancora fare attenzione al modo
secondo il quale è stato usato in un dato momento storico. Allora certe parole, certe
espressioni, ad esempio, divengono prevalenti. Una cultura vissuta è sempre un fenomeno di
selezione. Essa assicura un posto di privilegio a prospettive, problemi, soluzioni, autori, a un
frasario, a frasi e formule. Il linguaggio usato porta un riflesso di tali scelte. E lo slogan
forse non è che il residuo caricaturale (e oggi consapevolmente "coltivato") di un processo
inerente a ogni cultura vivente. Il messaggero di una saggia dottrina dell'essere non
saprebbe, malgrado l'intemporalità del suo messaggio, ignorare tali fenomeni. L'uomo è un
essere ammaestrato. Egli penetra il pensiero grazie al linguaggio; orbene, questo è una realtà
politica; esso è essenziale alla conversatio che è la città» (M.-MARTIN COTTIER, O. P.,
Libres Propos sur le blondelisme, dans Nova et Vetera, 1962, p.. 272. Vedere sul linguaggio
le penetranti riflessioni di H, BARS, La littérature et sa conscience, Parigi; Grasset; 1963,
p. 203).
Questo aspetto, «politico» e fluente, del linguaggio lo rende più atto a esprimere le ideologie
di un momento che i messaggi di una sapienza «immutabile», la quale invita l'anima al
silenzio; e si indovina che i predicatori di questa sapienza dovranno sempre risalire il corso
dei loro tempi, sull'esempio dei profeti d'Israele, degli apostoli e del Salvatore.
3. E’ stato notato, per esempio (J. Maritain, Le philosophe dans la cité, Parigi, Alsatia, 1960
p. 180), che il funzionamento che caratterizza in genere lo stato dell'intelligenza nella nostra
epoca di spirito positivo e tecnico, «tende di per sé, se non vi badiamo, a ripercuotersi
incoscientemente sul modo con cui la fede è ricevuta in noi. Precedente a ogni formulazione
di una filosofia atea, talvolta persino in certi filosofiche si vantano di dare un posto alla
religione, vale a dire di proteggerla, vi ha una maniera di funzionamento, dell'intelligenza
che è ateo in se stesso, perché invece di avere, la premura dell'essere, esso elimina e svuota
l’essere». Noi non ci diamo cura di vedere, e la nostra intelligenza non vede. Ci
soffermiamo ai segni, alle formule, all'enunciato delle conclusioni. Abbiamo raccolto, un
ragguaglio intorno alla realtà, esso ci servirà, è tutto quello che ci occorre. Non si impone il
problema di penetrare per suo mezzo nella prospettiva della realtà stessa. Cosa avviene,
quando la nostra fede si lascia contaminare da tale atmosfera, quando essa prende in prestito
il metodo seguito nel suo funzionamento dalla intelligenza moderna? «Allora si fissa nel
segno, essa non va oltre, oppure passa il meno possibile alla realtà significata. In tal modo
fa torto a quei segni concettuali infinitamente preziosi quali sono le formule dogmatiche, per
le quali il Dio vivente racconta se stesso con il nostro linguaggio, e la cui virtù e dignità
sacre sussistono precisamente in quanto sono i veicoli della realtà divina. Vi sono sempre
stati dei cristiani per i quali sapere che Cristo ha riscattato i peccati del mondo è
un’informazione dello stesso tipo naturale di quello di sapere che la temperatura questa
mattina era di 12 gradi centigradi. Per loro è sufficiente 1'enunciato, proprio come lo è la
lettura del termometro. Essi intendono volentieri utilizzare questa informazione per
guadagnare il cielo - non sono mai stati messi alla presenza della realtà del mistero della
redenzione; della realtà dei dolori del Salvatore, non hanno mai provato lo choc della
conoscenza della fede, non hanno mai aperto gli occhi. Quello che voglio dire è che il modo
di funzionamento dell'intelligenza moderna rischia di far passare per normale questo modo
di avanzare della fede che, in verità, tende da se stesso a svuotare la fede».
Bisogna parlare il linguaggio del proprio tempo?
Sì, se ciò serve per risvegliare il proprio tempo al messaggio dell'eternità; no, se ciò serve
per dissolvere questo messaggio nel flusso del tempo o dell'evoluzione, e cloroformizzare
nell'uomo il senso dell’assoluto.
Si, se è al fine di sforzarsi attraverso il linguaggio del proprio tempo - attraverso ogni
linguaggio di ogni tempo - di raggiungere in ogni uomo le zone di profondità dove gli
enunciati del messaggio rivelato possono fare capire l'assoluto della loro verità, della loro
esigenza, della loro promessa di liberazione.
No, se è al fine di inserire le verità divine nel contesto delle ideologie dove vive e muore lo
spirito di un'epoca; o per fare del cristianesimo - dimenticando la sua trascendenza - il
coronamento normale di un processo evolutivo dell'universo.
«La filosofia è identica allo spirito dell'epoca in cui compare; non è al di sopra, essa è solo la
coscienza della sostanza del suo tempo, oppure il sapere pensante di ciò che vi ha nel tempo... Un
individuo non può più uscire dalla sostanza del suo tempo come non può uscire dalla propria pelle.
Così dunque, dal punto di vista di sostanza, la filosofia non può superare il suo tempo» (Hegel,
Storia della Filosofia. Ecco in tutta la sua forza la definizione dello storicismo).
CAPITOLO XI
I DETERIORAMENTI DEL DOGMA

Il problema
Abbiamo iniziato questo lavoro distinguendo nettamente la luce santificante di fede
teologale e la luce profetica di rivelazione, indicando i loro mutui rapporti e la loro
necessaria complementarietà. Ci siamo adoperati a cogliere le forme elementari della luce
profetica che si esprime nei due fondamentali «credibilia», a segnalare il loro sviluppo
anzitutto per via di nuove rivelazioni, di nuovi articoli di fede, fino al tempo di Cristo e
degli apostoli, poi per via di nuove esplicitazioni, di nuovi dogmi, nel periodo post-
apostolico. Sotto la luce infallibile dell'assistenza divina, la verità pienamente rivelata da
Cristo e dagli apostoli continuerà a esplicitarsi così fino al termine del mondo.
Ma il periodo della lotta tra la luce e le tenebre, tra Cristo e Belial (2 Cor. 6, 15), non
terminerà che alla Parusia. Parallelamente alla dottrina rivelata si allargano le potenze
dell'errore e della distruzione. Esse non fanno altro che opporsi alla diffusione della
predicazione cristiana, lavorano ancora per disgregarla in grandi porzioni dell'umanità e nel
cuore stesso di molti battezzati, Il problema che si impone allora è di sapere se la luce
santificante della fede possa resistere alla mutilazione della dottrina cristiana e continuare,
in tali condizioni certamente anormali, spesso precarie, a sopravvivere veramente, se non
quanto al suo pieno esercizio, almeno quanto alla sua essenza. Bisogna rispondere sì, senza
esitare.

Le principali mutilazioni collettive del dogma


Partendo da quelle che sono dogmaticamente meno estese per andare verso quelle che sono
sempre più importanti si potrà riconoscere anzitutto il gruppo delle dissidenze.
E’ sommamente importante fare una distinzione tra l'eresia e le sue conseguenze: l'eresia è il
peccato personale di colui che insorge contro la fede rigettando deliberatamente qualcuna
delle verità rivelate; un peccato personale non è mai ereditato. Le conseguenze di un’eresia,
il patrimonio di una eresia, ecco quello che si eredita e che si deve chiamare una dissidenza.
Coloro che nascono nell’ambito di una dissidenza non diverranno eretici se non
accetteranno in seguito, in proprio conto la rottura originaria. «Colui, dice sant’Agostino,
che difende la sua opinione, sia pure erronea e perversa, senza ostinata animosità,
soprattutto quando tale opinione non è frutto della sua audace presunzione, ma, ereditata
dagli avi sedotti e trascinati dall'errore, se cerca la verità con scrupolo, pronto ad
abbracciarla non appena la conoscerà, non deve essere collocato fra gli eretici» (Epist.,
XLIII, n. 1; citato da S. Tommaso, II-II, qu. II, a. 2; ad 3.). Nella Ortodossia, la posta in
gioco del principio cristiano è considerevole, quasi integrale, e il principio di errore, benché
rappresenti un male incalcolabile, sembrerà comparativamente secondario. Altrove, nel
Protestantesimo, il principio d'errore ha potuto devastare profondamente la dottrina
cristiana.
Si tratta di correnti religiose che non fanno appello a Cristo? Coloro che ne fanno parte
sono certamente ancora nostri fratelli: non più fratelli «separati» da noi nell'interno del
cristianesimo, ma fratelli che vogliono essere «non cristiani», che non si sono mai riuniti a
noi, per lo meno visibilmente, sul cammino che ci sforziamo di fare con Cristo.
Alcune di tali correnti si rifanno al monoteismo di Abramo. Anzitutto è Israele, l'Israele che
non riconobbe il suo Messia, che conserva ancora le Scritture ispirate, per il quale tuttavia
queste Scritture sono ancora ricoperte di un velo (2 Cor. 3, 13-16). Poi, ma in un grado
inferiore perché il Corano prese il posto delle Scritture ispirate, viene il monoteismo che
l'Islam ricevette da questo Israele già deviato dalla sua missione. E’ indubitabile che tale
duplice adesione al monoteismo - benché si voglia sfruttare contro i misteri cristiani della
Trinità e della Incarnazione - crea tra queste masse un clima religioso di carattere superiore.
Le correnti religiose che non fanno appello alla fede di Abramo e dove le verità e gli errori
sono come confusi, possono costituire i patrimoni o eredità di una fondamentale infedeltà
alle grazie illuminanti che Dio ha inviato da sempre ad ogni uomo. Ma sarebbe ingiusto
attribuire a tutti i loro membri il peccato di infedeltà, di scorgere in tutti essi degli
«infedeli», dei «pagani». Parliamo invece con il Vangelo di «nazioni» o «gentili». Oppure,
come la Scrittura parlava di «Greci», parliamo di Indù, di Buddisti, di Confucianisti, ecc.

Il caso personale del cattolico che si stacca dal suo Credo


La distinzione tra la luce interiore della fede teologale e la luce profetica che propone
dall'esterno il dato da credere, permette ancora di chiarire il problema tanto delicato del
cattolico che si stacca dal suo Credo.
1. Il più delle volte lo slancio interiore si sarà affievolito in lui. Aveva ricevuto con il
battesimo la luce della fede teologale. Ma si è lasciato sopraffare a poco a poco dalle
suggestioni, e dallo spirito del, mondo. Non ha emesso ancora alcun atto definito e
deliberato di infedeltà. La fede con i suoi enunciati sussiste in lui. Ma ecco che un giorno
questa fede indebolita, corrosa, si trova ad essere ostacolata da una passione, da una
ribellione. Essa oscilla, crolla. Vi è una colpa. Poiché, ricorda il Concilio Vaticano I è «lo
stesso Signore misericordiosissimo che da una parte cerca coloro che sbagliano per aiutarli a
ritornare alla conoscenza della verità (1 Tm. 2, 4), e che d'altra parte conferma con la sua
grazia coloro che ha portato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa, affinché perseverino in
questa luce. E non abbandona mai se non coloro che lo abbandonano, non deserens nisi
deseratur» (Sess. III, cap. 3; Denz., n. 1794). Queste ultime parole sono riprese dal Concilio
di Trento, Sess. VI; cap. 11, Denz.,. n. 804, che cita S. Agostino (De natura et gratia, cap.
26, n; 29): «Coloro che egli ha una volta giustificati con la sua grazia, Dio li abbandona solo
se essi lo hanno abbandonato per primi, nisi ab eis priur deseratur».
2. Ma restando salvi il desiderio e l'amore della verità; è possibile che, per errore e senza
peccare contro la virtù di fede, un cattolico aderisca per esempio ad una corrente religiosa
eterodossa?
Ecco in sostanza la risposta data a questo problema dal P. Gardeil (La crédibilité et
l'apologétique, Parigi, Gabalda, 1912, p. 297): Non, mancano dei teologi, i quali sostengono
che si può senza peccato, non dico perdere la fede divina, ma vederne talmente modificati
gli aspetti oggettivi, che gli enunciati del dogma cattolico cessano parzialmente di esistere.
Un simile processo appare come un fenomeno di evoluzione regressiva. Il Concilio Vaticano
I che ha legiferato su tale argomento ha detto semplicemente che mai si aveva una giusta
causa di cambiare o di mettere in dubbio la fede contratta sotto il magistero della Chiesa.
Ecco il resto del testo conciliare: «Per cui diversa è la condizione di coloro che hanno
aderito alla verità cattolica attraverso il dono celeste della fede, e di coloro che, vittime di
opinioni umane seguono una falsa religione; infatti, coloro che hanno ricevuto la fede
attraverso, il magistero della Chiesa non possono mai avere una giusta causa per cambiarla
o metterla in dubbio» (Sess. III, cap. 3; Denz., n. 1794). Si vede bene che il concilio non ha
inteso risolvere nettamente il problema di sapere se, senza giusta ragione oggettiva, un
cristiano, potesse vedere eclissarsi davanti al suo sguardo, più o meno sensibilmente, alcuni
dati della fede.
I teologi ai quali si è fatto allusione ricordano che se, secondo san Tommaso, i principi
universali della legge naturale (bisogna fare il bene e fuggire il male, bisogna agire secondo
ragione ecc.) come tali non possono mai scomparire dalla coscienza umana; i principi
secondari di tale legge (ad esempio: l'obbligo della restituzione, l'interdizione delle razzie,
della poligamia, ecc.) possono invece scomparire. Da tale dottrina essi deducono allora che
fino a tanto che non vi ha un rifiuto interno a credere, la fede può sussistere con il suo
oggetto di fondo indispensabile, vale a dire l'oggetto stesso dello slancio della fede: Dio,
conosciuto almeno confusamente attraverso una luce soprannaturale nell’assoluto del nostro
ultimo fine e dei diritti della verità; mentre per gli enunciati che precisano questo oggetto e
pervengono per via dell'insegnamento esterno - enunciati sulla Incarnazione, la Trinità, ecc.
- generalmente la loro scomparsa dal campo della conoscenza della fede è il risultato di un
peccato, ma potrebbe darsi eccezionalmente che, essi restino offuscati da involontari e
invincibili errori, e la fede positiva allora rifluisce verso il suo generico desiderio.
3. Dunque, in presenza del caso tanto angoscioso di un cattolico che si stacca dal suo credo,
due ipotesi saranno possibili. Spesso vi sarà ignoranza colpevole; in questo caso bisognerà
tentare di risvegliare in tale coscienza paralizzata il desiderio delle verità supreme. Può darsi
che eccezionalmente la buona fede sia completa, vi è ignoranza delle doti divine della
chiesa. Come comportarsi nei confronti di tali anime che la loro condotta denuncerebbe
assolutamente leali? Ecco le ultime righe dell'apologetica che il P. Gardeil consiglia nei loro
confronti: «Se Dio è con loro, se conservano la scintilla della fede divina deposta in essi, se
osservano la legge che conoscono, anche se dovessero perciò perseguitare quello che
credono essere la Chiesa e scuotere la fede positiva degli altri, a dispetto di tutto ciò e
malgrado la stranezza del fatto, forse essi credono con più fermezza di quanto perseguitano.
In fondo alla loro coscienza, in effetti, resta per ipotesi questa orientazione fondamentale
verso Dio soprannaturalmente conosciuto, che assolutamente parlando basta alla
giustificazione e contiene la sostanza della fede. Quindi, dedicando a loro l'unica
apologetica che ci resta, la preghiera, ci sforzeremo di consolarci ripetendo la parola di
Paolo a Filemone: «Forse si è allontanato per poco da te solamente perché tu lo possa
riavere per sempre» (Op. cit., p. 312).
CAPITOLO XII
DOGMA E CONTEMPLAZIONE

Dogma e mistero
I dogmi, il dogma trinitario, il dogma della creazione puramente libera e gratuita
dell'universo, i dogmi dell'incarnazione, del sacrificio redentore, della transustanziazione, i
dogmi sacramentali, il dogma mariano, sono le grandi proteste che la Chiesa fa udire lungo
il corso dei secoli contro la razionalizzazione delle prodigiose rivelazioni della Sacra
Scrittura. Lungi dall'attenuarne il mistero, essi ne delimitano i contorni onde permettere
all'anima di avanzare nella notte e di perdersi nella sua profondità.
La Chiesa è divinamente assistita dalla luce profetica di infallibilità, per proporceli; ma non
li crediamo in virtù della sua autorità creata - la proposizione che ne fa la Chiesa condiziona
il nostro assenso a una data verità, ma essa non fonda un tale assenso -; è sulla autorità
increata e immediata di Dio che rivela se stesso a noi e che rivela a noi la sua opera, che li
crediamo. La fede, la fede teologale, è la luce intima e personale per la quale Dio viene a
visitare in ogni uomo la sua intelligenza e la sua volontà, per elevarlo fino a se stesso, se
non vi frappone ostacoli. «Chi crede nel Figlio di Dio ha in sé la testimonianza di Dio,
habet testimonium Dei in se» (1 Gv. 5, 10). «E chi è che vince il mondo, se non colui il
quale crede che Gesù è il Figlio di Dio?» (5, 5).

La conoscenza di semplice fede.


Nel primo stadio in cui essa è ricevuta nell'anima, la luce cristiana vi riversa da una parte i
dati profetici della rivelazione divina e dall'altra il potere di conoscerla, vale a dire la luce
santificante della fede teologale che fa acconsentire alle loro misteriose profondità, e che si
trova ad essere così la radice di tutta l'opera della giustificazione (Concilio di Trento, Sess.
VI, cap. 8; Denz., n. 801). Il credente è circondato di nozioni, di proposizioni rivelate nelle
quali si esprime il suo Credo, quello che crede di Dio e dell'opera di Dio, la creazione, la
redenzione, la salvezza, i fini ultimi. Essa è preoccupata di fare aderire l'intera persona
umana alla verità del loro contenuto.

La conoscenza mistica
Passiamo al secondo stadio. Supponiamo che la luce divina raggiunga la sua intensità
maggiore. Supponiamo che la fede teologale, originata dall'amore, non soddisfatta di
adeguare l'anima alla verità delle proposizioni rivelate, incominci a dimostrare che vi è,
nella verità di tali proposizioni rivelate, ancora più verità di quanto esse non possano
esprimere. «La luce della fede, dice san Tommaso, fa vedere i misteri che sono creduti» (II-
II, qu. 1, a,. ad 3), essa li incontra, li tocca in qualche maniera nella notte, è sulla strada che
la fede divina apre per via delle nozioni rivelate che l'amore divino trascina la conoscenza
della fede a sorpassare tali nozioni. Si eleva allora sulle ali dell'amore e dei doni dello
Spirito Santo verso quelle vette che occhio non vide e che orecchio non udì (1 Cor. 2, 9), si
sprofonda in una meditazione silenziosa dove tacciono tutti i concetti, si inabissa nel mistero
«della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio» (Rom. 11, 33). Ecco, nell'atto del suo
supremo esercizio, lo stato della conoscenza mistica.
Ma, ed è il punto, su cui rimane da insistere per concludere, la conoscenza concettuale delle
verità rivelate non ne viene in alcun modo scartata, in nessun modo abolita. E'
semplicemente e momentaneamente celata, sorpassata. Tutti i dogmi allora sussistono nella
fede del contemplativo. Ma, come le stelle nel sole meridiano. Alla verità essi non sono mai
stati tanto necessariamente e tanto efficacemente presenti. La luce passeggera che li eclissa
viene a irrobustirli straordinariamente. Quando essa si ritira, essi ricompaiono come le stelle
nel cielo della sera, ma rivestiti e illuminati di una parte del suo splendore.
Quando san Giovanni della Croce è sprofondato nel «meriggio» di Dio che è «mezzanotte»
per la fede, come gli sarebbe possibile pensare distintamente e successivamente a ognuno
dei misteri dell'infanzia o della passione del Salvatore? E’ una contemplazione silenziosa
che egli deve insegnare al mondo.
Ma dal momento che il bagliore dell'unità gli lascia qualche respiro, ritrova distintamente
ognuno di quei misteri cristiani e ne resta come inebriato: porta tra le sue braccia il Pargolo
del presepio a Baeza, disegna ad Avila la visione del Crocifisso, si infiamma di amore al
contatto della Eucaristia (Bruno De Jésus-Marie, Saint Jean de la Croix, Parigi, Desclée De Brouwer, 1961, pp.
163, 259, 309; ID., Libro dell'amore, L'autobiografia di Jacqueline Vincent, Edizioni Paoline, Modena, 1964, ultime
pagine dell'Autobiografia e Raccolta). Una contemplazione mistica che, nel momento in cui si apre e
si distende, non fosse pronta a lasciare sussistere, racchiuse in essa come i petali nella rosa,
ognuno dei misteri evangelici, non sarebbe una contemplazione cristiana ( Cfr. la nostra
Introduction à la Théologie, pp. 312-313, vers. ital., Edizioni Paoline, Alba, 1956).

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