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La ragione cinica e l’arte del vivere

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La ragione cinica e l’arte del vivere


Aldo Brancacci

Nella sua Kritik der zynischen Vernunft, salutata da Jürgen Haber-


mas come un’opera fondamentale del pensiero contemporaneo, Peter
Sloterdijk ha approntato una nozione, quella di «ragione cinica», che
non vale solo come strumento di una lucida, tagliente, acuta indagine
sulla fenomenologia di quella «falsa coscienza illuminata» che Sloter-
dijk considera come l’essenza del moderno Zynismus, erede fondamen-
talmente degenere ed equivoco del classico Kynismus1, ma che offre
anche agli storici della filosofia una categoria unificante assai feconda
per mettere in luce aspetti teorici finora trascurati, o non perfettamen-
te messi a fuoco, presenti nella ricca documentazione relativa al cini-
smo greco. Il passo ulteriore che può essere fatto rispetto a Sloterdijk
è quello di determinare in modo più preciso, sia sul piano teoretico,
sia sul piano storico-filosofico, tale categoria: dal primo punto di vista,
tentando di articolare ulteriormente le forme in cui essa si esprime, e,
dal secondo punto di vista, situando con maggiore precisione il cinismo
e rispetto alle tradizioni filosofiche che ne costituiscono l’immediato
antecedente, e rispetto a Socrate, che, sotto molteplici punti di vista,
rappresenta un punto di riferimento obbligato per l’intera storia del
cinismo. In linea generale, la relazione del cinismo con Socrate si pre-
senta a noi sotto due forme principali. Una, più palese, è quella per cui,
come già gli Antichi sapevano, il cinismo è una scuola filosofica che,
sia pur fondata da Diogene, risale ad Antistene, e quindi, per tramite
suo, a Socrate; a questo livello, esiste un cinismo «da Antistene» fon-
dato su una serie di dottrine etiche formulate da Antistene stesso e da
lui trasmesse al cinismo, e in certa misura anche allo stoicismo, tali da
garantire al primo una fondazione filosofica adeguata. Un’altra, meno
palese, è quella per cui anche il cinismo «da Diogene» mostra di riferir-
si, non sempre in forma diretta, ma più spesso in modo obliquo, a So-
crate, e non necessariamente per ripeterlo ad litteram, ma piuttosto per

1
Cfr. P. Sloterdijk, Kritik der zynischen Vernunft, Suhrkamp, Frankfurt am Main,
1983; trad. it. Critica della ragione cinica, a cura di A. Ermano e M. Perniola, Milano,
Cortina, 2013.
«Iride», a. XXVIII, n. 76, settembre-dicembre 2015 / «Iride», v. 28, issue 76, September-December 2015
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riviverlo, svilupparlo, complicarlo2. In questo articolo mi propongo di


esaminare il rapporto tra ragione e arte del vivere nella filosofia cinica,
innanzitutto per mettere in luce la specifica veste sotto la quale questo
nesso vi si presenta, ma poi anche per mostrare come ragione e vita pos-
sano essere considerate i due assi fondamentali attorno ai quali si strut-
tura tutt’intera la riflessione elaborata dal cinismo antico. Si tratta di un
tema complesso che nel corso della storia del cinismo riceverà risposte
diverse: ma certamente l’aspetto su cui occorrerà qui concentrarsi è la
personale e peculiare elaborazione che, agli inizi di quella storia, ne ha
offerto Diogene, limitandosi, data la vastità del tema, ad alcune istanze
che lo rappresentano in modo esemplare3.
Il cinismo riprende l’intuizione socratica che l’uomo non è riducibile
alla sua immediatezza empirica, giacché non soltanto, come Socrate in
tutta la sua incessante attività filosofica ha mostrato, si pone problemi,
ma è egli stesso un problema. Questo Diogene dichiara in modo icastico,
e questo vuol far comprendere agli uomini stessi, con una celebre espres-
sione: «Durante il giorno andava in giro con la lanterna accesa, dicendo:
“Cerco l’uomo”»4.
Forse Nietzsche – che fu notoriamente lettore, ammiratore e studioso
di Diogene Laerzio – si è ricordato di Diogene, e di questo celebre apof-
tegma, quando ha costruito l’incipit dell’altrettanto celebre aforisma 125
della Gaia scienza:

L’uomo folle. Avete sentito di quel folle che accese una lanterna alla chiara
luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: «Cerco
Dio! Cerco Dio!»5.

E forse Diogene si è a sua volta ricordato di quanto Platone, delinean-


do il ritratto del vero filosofo, aveva detto nel Teeteto:

2
Per questa distinzione, in seno alla storia del cinismo, cfr. A. Brancacci, I «koinêi
areskonta» dei Cinici e la «koinônia» tra cinismo e stoicismo nel libro VI (103-105) delle
«Vite» di Diogene Laerzio, in «ANRW», 36 (1992), n. 6, pp. 4049-4075, in particolare pp.
4066-4071.
3
Le fonti relative a Diogene e al cinismo antico saranno citate in questo articolo
secondo l’edizione di G. Giannantoni, Socratis et Socraticorum reliquiae, vol. II, Napoli,
Bibliopolis, 1990.
4
Diogene Laerzio, VI 41 (= SSR V B 272; qui, e di seguito per Diogene Laerzio, trad.
M. Gigante).
5
F. Nietzsche, Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1965,
vol. V, tomo II, p. 129; cfr. F. Nietzsche, Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe in 15
Bänden, a cura di G. Colli e M. Montinari, Berlin - New York, De Gruyter, 1967-1977, V
2, p. 158: «Der tolle Mensch – Habt ihr nicht von jenem tollen Menschen gehört, der am
hellen Vormittage eine Laterne anzündete, auf den Markt lief und unaufhörlich schrie:
“Ich suche Gott! Ich suche Gott!”».
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Che cosa invece sia uomo [tí dé pot’estin ánthropos], e che cosa spetti a tale
natura fare o patire, a differenza degli altri esseri, egli [il filosofo] lo ricerca [zetei]
[…]6.

Gli eruditi hanno a suo tempo cercato di individuare i possibili pre-


cedenti della dichiarazione, potente e studiata, di Diogene, e, senza
notare questa singolare corrispondenza con il passo platonico, hanno
postulato una contaminazione con la tradizione dei Sette Sapienti, o con
Esopo7. Ma gli scarsissimi risultati ricavati mostrano solo l’originalità di
Diogene nell’avere formulato la sua asserzione, e tutta la discontinuità
che essa implica rispetto all’espressione «occorre cercare un uomo vir-
tuoso» (dei zetein ánthropon spoudaion) che compare come antecedente
di una sentenza attribuita a Pittaco, il quale a quella espressione rispon-
de poi in modo completamente diverso: «A un Focèo che andava dicen-
do che bisogna cercare un uomo virtuoso, [Pittaco] replicò: “Anche a
cercarlo a tutti i costi non lo troverai”»8. Ammesso anche che la matrice
dell’affermazione di Diogene possa essere individuata in una rivisita-
zione dell’antecedente del detto attribuito a Pittaco, la soppressione di
spoudaion è capitale, come capitale è la differenza tra la positiva affer-
mazione di Diogene e la risposta negativa e pessimistica di Pittaco. Ciò
mostra che il filosofo cinico, se mai ha avuto presente quella massima,
l’ha capovolta, e avrà inteso semmai contrapporsi ad essa, e a quel tipo
di saggezza, costituitasi almeno in parte a contatto con l’ambiente della
religiosità delfica, che esprimeva in forma spesso lapidaria comanda-
menti di saggezza, di misura, di accortezza pratica, che il Greco arcaico
avvertiva o come espressione del suo stesso modo di sentire la vita o
come norma necessaria per disciplinarlo.
L’asserzione di Diogene mette in luce invece che la sua ricerca ha
un obiettivo positivo, e assoluto. La traduzione più giusta di «ánthro-
pon zetó» credo debba essere, come vuole l’interpretazione tradizio-
nale, «cerco l’uomo», che è del tutto legittima filologicamente (l’ellissi
dell’articolo determinativo non conferisce di per sé valore indetermi-
nato all’asserzione), piuttosto che «cerco un uomo», che corrisponde-
rebbe meglio a ánthropon tina zetó. In ogni caso, se nella prima tradu-
zione è posta maggiormente in evidenza l’assolutezza dell’oggetto della
ricerca, conforme a quello che si potrebbe definire il «platonismo rove-
sciato» (umgedrehter Platonismus) di Diogene, anche nel secondo caso
6
Platone, Teeteto, 174b4-5.
7
Cfr. G.A. Gerhard, Phoinix von Kolophon. Texte und Untersuchungen, Leipzig -
Berlin, Teubner, 1909, n. 3, p. 261; A. Packmohr, De Diogenis Sinopensis apophthegmatis
quaestiones selectae, diss. Münster, 1913, pp. 74-75. Cfr. anche K. Herding, Diogenes als
Burgerheld, in «Boreas», 5 (1982), pp. 232-254.
8
Cfr. Diogene Laerzio, I 77.
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sarebbe chiaramente rilevata l’unicità dell’oggetto stesso: in entrambi è


manifesta la richiesta di una riforma radicale dei valori e punti di vista
comunemente assunti, conforme al concetto, centrale nel cinismo, di
«falsificazione della moneta» (paracharattein to nómisma), cioè di «ro-
vesciamento della convenzione stabilita», e la ricerca di Diogene svela
un taglio che si potrebbe addirittura, quasi, definire metafisico, se lo
si intenda, ovviamente, nel senso di una metafisica dell’uomo. È ne-
cessario ricordare l’importanza del tema dello zetein, del «ricercare»,
nelle filosofie di Socrate, Platone, e Aristotele? Il rovesciamento cini-
co consiste nel porre «l’uomo» – non l’universale socratico, non l’Idea
platonica, non l’essere in quanto essere – come oggetto della ricerca
filosofica. Si cerca «un» uomo perché non vi sono uomini; questo è il
primo messaggio che Diogene vuole consegnare agli uomini. Certo, lo
sguardo del cinico esige, rispetto allo sguardo comune, uno sforzo sup-
plementare, che nella simbolica dell’apoftegma è rappresentato dalla
lucerna accesa di giorno, tale da far comprendere che gli uomini che
vanno in giro per il mondo non sono uomini, sono sembianze di uomi-
ni; e d’altra parte è certo che Diogene non ricerchi un’astratta essenza
di uomo, una definizione dell’uomo – che egli irride9 – bensì un uomo
incarnato, che realizzi l’ideale cinico di uomo: «un» uomo, almeno uno,
che sia «l’» uomo. Ma il «cerco» fa comprendere anche come tale uomo
non ci sia, o almeno non sia stato finora trovato, anche se è significativo
che il secondo messaggio che Diogene invia agli uomini è che egli, tale
uomo, lo sta cercando, continua a cercarlo. Niehues-Pröbsting ha giu-
stamente istituito un parallelo tra questa ricerca e la ricerca, compiuta
da Socrate nell’Apologia platonica sui presunti sapienti, ma semplifica
poi questa relazione quando conclude che l’aneddoto diogenico è «solo
una lampante esagerazione» («nur eine grelle Übersteigerung») della ri-
cerca socratica, e quando riduce il parallelismo stesso al fatto che, come
Socrate è l’unico sapiente, così Diogene è l’unico uomo10. Intanto si ri-
cordi che, nelle intenzioni di Socrate, quella ricerca dovrebbe smentire
il pronunciamento dell’oracolo di Delfi, che lo ha indicato come il più
sapiente degli uomini, mentre alla fine lo confermerà, secernendo però
una nuova, ben diversa interpretazione di quella enigmatica sentenza.
Come Socrate ha cercato un sapiente, e non ne ha trovato alcuno, così
Diogene cerca, più radicalmente, un uomo, che ancora non trova. E se

9
Cfr. Diogene Laerzio, VI 40 (= SSR V B 63): «Platone aveva definito l’uomo un
animale bipede, implume, e aveva avuto successo. Diogene spennò un gallo e lo portò in
aula esclamando: “Ecco l’uomo di Platone”. Perciò fu aggiunto alla definizione: “dalle
unghie larghe”».
10
Cfr. H. Niehues-Pröbsting, Der Kynismus des Diogenes und der Begriff des Zyni-
smus, München, Fink, 1979, p. 103: «er ist der einzige Mensch wie Sokrates der einzige
Wissende».
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Socrate, che pure dismette tale ricerca, dichiara che in certo modo essa
continua nella forma di un servizio reso al dio, Diogene si autorappre-
senta proprio nell’attualità e nella perseveranza della sua propria ricer-
ca. E come Socrate giungerà non senza fatica alla conclusione che più di
tutti sapiente è lui, almeno nel senso che, come non sa, proprio come gli
altri, così non presume di sapere, ed è dunque superiore ad essi perché è
cosciente di non sapere11, così Diogene cerca e non trova l’uomo perché,
per il momento, l’unico vero uomo è lui, che ha rinnegato le convenzioni
e scelto la vita cinica: vita che, del resto, è l’oggetto di una personale
creazione, invenzione, costruzione, nell’ambito della sua filosofia.
L’esame di un passo importante della Politica di Aristotele può consen-
tire di conferire evidenza teorica ad alcuni tasselli fondamentali di questa
personale creazione diogenica. Si tratta di un passo che Diogene ha, pro-
babilmente, meditato, e che potrebbe addirittura, forse, alludere a lui. Va
in effetti premesso che Aristotele conosce Diogene, e a lui si riferisce nella
Retorica, dove lo chiama con il suo appellativo di «Cane»12, segno che,
all’epoca della redazione del terzo libro di quest’opera, Diogene era per-
fettamente noto ad Atene, e proprio per il suo costume anticonvenzionale
di kyon. Come ha notato Giannantoni, «ciò è del resto del tutto plausibile
in una città non grande come l’Atene del IV sec. a.C. in cui, come prova
anche il teatro di Menandro, tutti dovevano conoscersi e facile era la can-
zonatura reciproca, soprattutto mediante paragoni con gli animali»13. In
questo passo della Politica Aristotele aveva scritto:

chi non è in grado di entrare nella comunità o per la sua autosufficienza [di’
autárkeian] non ne sente il bisogno, non è parte della città, e di conseguenza è o
bestia [therion] o dio14.

Non è dubbio che Diogene, e tutto il cinismo dopo di lui, eleva pro-
prio l’autárkeia a valore supremo, e che, sposandola, la assume proprio
ponendosi nel ruolo dell’animale15. È da ricordare anche che nel passo
in questione Aristotele intende dimostrare l’anteriorità della polis ri-
spetto all’individuo: una tesi eminentemente antisocratica, che Diogene
11
Ho esaminato questa pagina platonica in A. Brancacci, Il sapere di Socrate nell’A-
pologia, in G. Giannantoni e M. Narcy (a cura di), Lezioni socratiche, Napoli, Bibliopolis,
1977, pp. 305-327. Per la traduzione di syneidenai eauto con «essere cosciente», in luogo
del tradizionale «sapere», rinvio invece al mio articolo Socrate e il tema semantico della
coscienza, in questa stessa silloge, pp. 281-301.
12
Aristotele, Retorica, III 10, 1411a24-25 (= SSR V B 184).
13
G. Giannantoni, Socratis et Socraticorum reliquiae, cit., vol. IV, p. 491.
14
Aristotele, Politica, I 2, 1253a27-29 (qui, e di seguito per tutti i passi della Politica,
trad. R. Laurenti, Roma - Bari, Laterza, 1989).
15
Cfr. U. Dierauer, Tier und Mensch im Denken der Antike. Ideengeschichtliche Stu-
dien zur Tierpsychologie, Amsterdam, Grüner, 1977, pp. 180-193.
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non avrebbe potuto condividere, posto che tutta l’azione del cinismo,
e prima ancora del socratismo, in sede politica, è stata quella di tra-
sformare la polis e i suoi valori a partire da una riforma in senso etico
dell’individuo16. Progetto utopistico, forse, ma certamente coerente sia
con il senso, costantemente ribadito da Socrate, del suo ufficio, sia con
le dichiarazioni esplicitamente formulate da Diogene nella sua Repub-
blica, e poi con tutta la concreta azione, etica e politica, svolta dai cinici.
Più complessa è la situazione teorica su altri punti: Aristotele ritiene che
la polis è costituita dalla riunione di più villaggi e che la polis perfetta
è quella che raggiunge il limite della propria completa autosufficienza,
talché, sebbene nata per rendere possibile la vita, essa di fatto esiste per
rendere possibile una vita felice: un punto di vista che Diogene avrebbe
potuto accogliere, se riferito però non alla polis storica, ma a quella da
lui ridisegnata. Ancora più interessante è il seguito dell’argomentazione
aristotelica:

Quindi ogni Stato esiste per natura, se per natura esistono anche le prime
comunità: infatti esso è il loro fine e la natura è il fine: per esempio quel che ogni
cosa è quando ha compiuto il suo sviluppo, noi lo diciamo la sua natura, sia d’un
uomo, d’un cavallo, d’una casa. Inoltre, ciò per cui una cosa esiste, il fine, è il
meglio e l’autosufficienza è il fine e il meglio17.

L’autosufficienza è dunque a due riprese considerata da Aristotele


come un fattore positivo: rispetto alla città, in quanto delimita l’organiz-
zazione che essa deve raggiungere e alla quale deve provvedere; e rispet-
to al concetto di natura, in relazione alla quale di nuovo l’autosufficien-
za è il fine e il meglio. Essa è invece negativamente considerata quando,
soggettivamente vissuta, sia tale da spegnere il desiderio dell’uomo di
entrare nella comunità. Ora, il punto di disaccordo più evidente tra Ari-
stotele e Diogene risiede proprio nella determinazione del concetto di
natura: per Aristotele, essa designa lo stato che una cosa o un vivente,
sia esso uomo o animale, raggiungono quando hanno compiuto il loro
proprio sviluppo, sviluppo che nel caso dell’uomo deve partire dal suo
essere un animal politicum, con tutte le implicazioni che questo concetto
ha nella Politica; per Diogene, essa risiede in una economia dei bisogni,
dei desideri e dei comportamenti tale da realizzare un modo di vita nuo-
vo, appagato, fondato su una critica e anzi sul capovolgimento di tutti i
valori ancorati alla sfera del nomos. Il secondo punto di disaccordo tra
Aristotele e Diogene è nella definizione della polis come tale che essa è

16
Per questo, cfr. A. Brancacci, Antistene e Socrate in una testimonianza di Filodemo
(T 17 Acosta Méndez-Angeli), in «Cronache Ercolanesi», 41 (2011), pp. 83-91.
17
Aristotele, Politica, I 2, 1253a25-29.
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«per natura» (physei): per Diogene essa è certamente «per convenzione»


(nomo), e nella convenzione rientra anche la storia, immaginata o reale,
che dalla famiglia conduce ai villaggi e dalla pluralità di villaggi alla cit-
tà, perché, per lui, sulla convenzione sono basati i rapporti familiari e la
vita associata degli uomini.
Da questo punto di vista, è interessante notare come la parte finale
del secondo capitolo del primo libro della Politica, e i capitoli imme-
diatamente successivi, si intrattengano su una serie di temi e problemi
sui quali il cinismo ha fatto sentire la sua voce, ma in una direzione ben
diversa da quella teorizzata qui da Aristotele. Due temi in particolare
meritano attenzione: nell’ambito della trattazione relativa all’ammini-
strazione domestica, la definizione del rapporto padronale; nell’ambito
della trattazione della crematistica, la distinzione tra i due tipi di crema-
tistica e la trattazione relativa alla genesi della moneta. Nel primo caso,
Aristotele, è noto, accetta la legittimità e anche naturalità della distin-
zione tra padrone e schiavo, e dell’autorità del primo sul secondo, che
del resto va parallela alla teorizzazione della sottomissione e inferiorità
della donna all’uomo, per cui questi comanda, quella è comandata18.
Sappiamo invece che il cinismo propugna un atteggiamento paritetico
nei confronti della donna (già Antistene aveva affermato: «la stessa è la
virtù dell’uomo e della donna»19) e certamente aperto verso gli schia-
vi, in senso proprio, riservando l’appellativo metaforico di schiavi agli
uomini liberi, privi però di ragione20. Nel secondo caso, la contrappo-
sizione alla ricca e complessa spiegazione aristotelica dell’introduzione
e della funzione della moneta è ancora più evidente: nella Repubblica,
Diogene propugna l’abolizione della moneta, come, d’altronde, abolisce
il matrimonio e ridisegna, improntandoli a una radicale libertà sessua-
le, i rapporti tra uomo e donna21. La celebre kynogamia, rappresentata
dalle nozze di Cratete e Ipparchia, un tempo raffinata donna d’alto li-
gnaggio, esemplifica questa concezione, che implica anche una serie di
atti simbolico-concreti: l’abbandono delle ricchezze, l’abbandono delle
vesti sontuose o abituali, l’abbandono della dimora natale, l’assunzione
della vita errante e dei modi del kynikós bios22. L’ipotesi che Diogene

18
Aristotele, Politica, 1254b13-15: «Così pure nelle relazioni del maschio verso la fem-
mina, l’uno è per natura superiore, l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata».
19
Diocle apud Diogene Laerzio, VI 12 (= SSR V A 134).
20
Basti rinviare ai testi SSR V B 440-445. Si ricordino inoltre il decimo discorso di
Dione Crisostomo, Diogene o sui servi, e i Fuggitivi di Luciano.
21
Per testi e discussione, su questi temi, rinvio a S. Husson, La République de Diogène.
Une cité en quête de la nature, Paris, Vrin, 2011, pp. 105-145.
22
Sulla kynogamia cfr. G. Giannantoni, Socratis et Socraticorum reliquiae, cit., vol.
IV, pp. 565-566. Su Ipparchia cfr. W. Lapini, Ipparchia desnuda, in Id., Studi di filologia
filosofica greca, Firenze, Olschki, 2003, pp. 217-230.
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possa avere meditato questi testi di Aristotele, costruendo per opposi-


zione la sua teoria, è resa ancora più probabile dal fatto che in questi
stessi passi della Politica Aristotele registra l’esistenza di una posizione
teorica, relativa alla moneta, che richiama da vicino proprio quella di
Diogene:

Al contrario, taluni ritengono la moneta un non-senso, una semplice conven-


zione legale, senz’alcun fondamento in natura, perché, cambiato l’accordo tra
quelli che se ne servono, non ha più valore alcuno e non è più utile per alcuna
delle necessità della vita, e un uomo ricco di denari può spesso mancare del cibo
necessario: certo, strana davvero sarebbe tale ricchezza, che, pur se posseduta
in abbondanza, lascia morire di fame, come appunto il mito tramanda di quel
famoso Mida, il quale, per il voto suggerito dalla sua insaziabilità, trasformava in
oro tutto quanto gli si presentava23.

Il passo presenta un evidente colorito antistenico-cinico: oltre al suo


specifico contenuto, si notino il riferimento a Mida, personaggio antiste-
nico e cinico24, la presenza del tema dell’inutilità delle ricchezze25, l’op-
posizione tra ciò che è per natura e ciò che è per legge26, l’ironia del ra-
gionamento svolto a proposito del morire di fame pur possedendo ori27.
Stando così le cose, delle due l’una: o abbiamo qui un riferimento a teorie
del primo cinismo; oppure Aristotele ci rende testimonianza di una teoria
sofistica, o di origine sofistica, che costituirebbe il precedente teorico di-
retto delle dottrine di Diogene. Non solo questo passo, ma tutta la pagina
della Politica presa in esame, mostrano, in ultima analisi, come il progetto
diogenico, improntato all’autárkeia, da un lato, al rifiuto della naturalità
della polis storicamente costituita, dall’altro, e, ancora, alla messa in di-
scussione dei rapporti padronali e matrimoniali, che sono alla base della
polis stessa, per un verso, e all’abolizione della moneta, per un altro verso,
prenda forma e trovi riscontro in un contesto storico-teorico preciso e
documentabile.
Che il tema della ragione e quello della vita fossero stati centrali nel
pensiero di Socrate non ha bisogno di dimostrazione: basti pensare al
23
Aristotele, Politica, I 9, 1257b10-14.
24
Antistene scrisse un trattato su Eracle o Mida, registrato nel decimo tomo del catalo-
go laerziano dei suoi scritti: cfr. Diogene Laerzio, VI 18 (= SSR V A 41). Per il riferimento
a Mida di Diogene cfr. Gnom. Vat. 742 n. 181 (= SSR V A 300).
25
Tema notoriamente cinico (cfr. almeno i testi SSR V B 220-246), e già antistenico:
cfr. Stobeo, III 10, 41 (= SSR V A 80); Senofonte, Simposio, III 8 (= SSR V A 81); ibidem,
IV 34-44 (= SSR V A 82); ibidem, II 2-5 (= SSR V A 83).
26
Cfr. per Antistene, Filodemo, De pietate, 7a, 3-8 (= SSR V A 179), e, su di esso, A.
Brancacci, La théologie d’Antisthène, in «Philosophia. Yearbook of the Center for Greek
Philosophy at the Academy of Athens», 15-16 (1985-1986), pp. 218-230.
27
Cfr. Senofonte, Simposio, IV 36 (= SSR V A 82).
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tema del béltistos logos, esposto nel Critone, e all’embricatura struttura-


le che Socrate pone tra dialégesthai e vita nell’Apologia di Socrate, dove,
anche con ricorrenti formulazioni linguistiche, si sottolinea l’immanen-
za del principio fondamentale della filosofia di Socrate al vivere stes-
so, inteso come sostrato, materia e fondamento dell’esame di se stessi
e degli altri28. Su questo indissolubile rapporto Socrate aveva costruito
la visione ferma e serena che gli è propria del nesso tra teoria e pras-
si. Ma nel 399 Socrate era stato condannato a morte dalla restaurata
democrazia ateniese, e la sua morte, si è detto, rappresenta la prima
grande catastrofe politica della filosofia. I Socratici hanno certamente
avvertito tutto il peso di questa morte, o meglio di questa uccisione, ed
è possibile suggerire che le loro filosofie abbiano corrisposto a questo
attentato alla persona del filosofo conferendo una fondazione più stabi-
le e definitiva, di quanto non fosse nel maestro, ai principi fondamentali
del socratismo. In Antistene, ad esempio, l’eterno e incessante ricercare
(exetázein) socratico si trasforma in un metodo dialettico (epískepsis ton
onomaton), avente per obiettivo non più semplicemente quello di perve-
nire a una homologia, un consenso e punto d’incontro con l’interlocuto-
re nella concettualizzazione di un determinato termine, ma a un oikeios
logos, una vera e propria definizione, che, una volta procurata, chiude
una volta per tutte il dialégesthai stesso. Analogamente, la ragione di
Antistene non è più il sereno ragionare con se stesso di Socrate alla ri-
cerca del «discorso migliore», ma è la phrónesis, una facoltà intellettuale
definita, alla quale è demandato il compito di garantire l’oggettività dei
concetti morali29. La frequenza delle metafore militari e belliche, con le
quali Antistene definisce l’esercizio della filosofia, è rivelatrice, tanto
più in quanto essa riveste particolare importanza per la genesi del cini-
smo: la phrónesis «è la più salda delle fortificazioni, e non può né preci-
pitare né essere presa a tradimento»30; tramite il suo retto uso sarà pos-
sibile «costruire dei muri con i propri inespugnabili ragionamenti»31: in
questo modo, «la virtù, una volta raggiunta, non può essere perduta»32;
essa costituisce «un’arma che non può essere portata via»33. Il cinismo
rappresenta però un passaggio ulteriore, rispetto al socratismo di Anti-
stene, perché, se mantiene una fede assoluta nell’oggettività dei valori

28
Cfr. il béltistos logos in Platone, Critone, 46b4-6, e su di esso si veda G. Calogero, La
regola di Socrate, in «La Cultura», 1 (1963), pp. 181-196. Per il tema della vita, e del rap-
porto tra filosofia e vita, cfr. Platone, Apologia, 28b6-9, 28e5-6, 28d1, 33a1, 38a2, 38a5-6.
29
Per tutto ciò, per testi e loro discussione, rinvio a A. Brancacci, Oikeios logos. La
filosofia del linguaggio di Antistene, Napoli, Bibliopolis, 1990, pp. 119-171.
30
Diocle apud Diogene Laerzio, VI 13 (= SSR V A 134).
31
Diocle apud Diogene Laerzio, ibidem (= SSR V A 134; trad. A. Brancacci).
32
Diogene Laerzio, VI 105 (= SSR V A 135).
33
Diocle apud Diogene Laerzio, VI 12 (= SSR V A 134).
564 Aldo Brancacci

morali, se postula una radicale distinzione tra bene e male, tra i quali
tertium non datur, se esprime l’esigenza di una assoluta congruenza fra
teoria e prassi, fa emergere anche in piena evidenza il sentimento dell’in-
sufficienza del piano puramente teorico, astratto, speculativo, della filo-
sofia, e propugna invece l’esigenza di una ragione strategica, articolata
a quella realtà determinata nella quale l’uomo, di fatto, si trova a vivere.
È poi certamente da porre in rapporto con il tramonto della centralità
attica e la perdita del rilievo politico della Grecia il fatto che non solo la
polis ma proprio la realtà esterna in generale sia avvertita come insieme
estranea e aggressiva: per una molteplicità di fattori, città e vita si sono
separate, e il filosofo cinico rappresenta il soggetto che si trova per la
prima volta da solo a elaborare sintesi individuali. Egli risponde con una
complessa strategia in cui si mescolano aggressività, autodifesa, estranei-
tà, e un residuo e non sradicabile sentimento di persistente internità e
implicazione che caratterizza tutto il suo rapporto con gli uomini e il suo
approccio alla vita cittadina. Jöel aveva definito il cinico un «bastardo»,
all’interno della città, perché estraneo alla civiltà classica34; più recen-
temente, Perniola ha definito invece il cinico come un «guerriero»35;
e al riguardo credo sia giusto sottolineare, con Ferrater Mora, la sua
«potenza d’azione»36: azione diretta, semplice, insolente a volte, sempre
perentoria. Ed è di nuovo Niehues-Pröbsting che ci offre una chiave
preziosa per afferrare l’unità della complessiva costruzione che Diogene
elabora per fronteggiare la nuova realtà che s’impone al cinismo. Contro
Zeller, che aveva inteso l’autárkeia cinica come fuga dal mondo, e come
mortificatio, probabilmente da intendersi in senso hegeliano, egli l’ha
interpretata, al contrario, come strumento di «autoaffermazione» e di
«autoconservazione»: non al modo di Platone, come autoconservazione
dell’anima, bensì come autoconservazione nei limiti della physis: l’autár-
keia è una animalische Selbstbehauptung, e quest’ultima è da intendersi
proprio come la condizione per alloggiare nel mondo37.
Nel pensiero contemporaneo la discussione sulla Selbstbehaup-
tung è strettamente connessa a quella sull’istinto di conservazione, e
l’«autoconservazione» (Selbsterhaltung) è stata considerata da Blu-
menberg in un influente saggio del 1976 il principio della nuova razionalità

34
Come ricorda G. Giannantoni, Socratis et Socraticorum reliquiae, cit., vol. IV, n. 27,
p. 522.
35
Cfr. M. Perniola, Presentazione, in P. Sloterdijk, Critica della ragione cinica, cit., p.
XI: «Il filosofo è piuttosto per i cinici un uomo solo cui tutti sono ostili, un guerriero che
deve innanzitutto difendersi».
36
Cfr. J. Ferrater Mora, Cyniques et Stoïciens, in «Revue de Métaphysique et de Mo-
rale», 63 (1957), pp. 20-36, in particolare pp. 20-24.
37
Cfr. H. Niehues-Pröbsting, Der Kynismus des Diogenes und der Begriff des Zyni-
smus, cit., pp. 148-158.
La ragione cinica e l’arte del vivere 565

che si afferma nel mondo moderno38. In proposito occorre subito rilevare


le radici greche di tale concetto, che giacciono evidentemente nel gran-
de concetto stoico di oikéiosis39, di cui l’istinto di conservazione (nella
concettualizzazione stoica, l’hormé) è un elemento. Ci troviamo dunque
di fronte a concetti che, anche nel caso siano di riattivazione moderna,
affondano le loro radici nella filosofia greca, essendo propri in particolare
delle tradizioni dello stoicismo e del cinismo. Ora, io credo che la nozione
di Selbstbehauptung (intesa in senso assoluto, quindi non solo nella for-
ma di animalische Selbstbehauptung) abbia un’applicazione assai ampia
e generale al pensiero di Diogene, e permetta anzi di unificare e artico-
lare in modo coerente una serie di concetti capitali della ragione cinica.
Se integriamo in questo quadro le ricerche di Foucault, in particolare la
sua valorizzazione dell’istanza di costruzione di un Io tendenzialmente
dis-assoggettato40, che il cinismo persegue, possiamo ridefinire la Selbst-
behauptung come quella istanza che regge, da un lato, il trattamento del
sé – che non si identifica immediatamente con l’anima, nel cinismo, ma
con l’uomo nel suo complesso, inteso quindi come unione di anima e cor-
po – e che, dall’altro, regge il comportamento del filosofo cinico verso il
mondo, ovvero il trattamento degli altri.
Al trattamento del sé corrisponde in modo emblematico la celebre
dottrina della ditté áskesis, della «duplice ascèsi», o delle due forme di
«esercizio»:

Diceva che l’esercizio è duplice: spirituale e fisico. Nella pratica costante


dell’esercizio fisico si formano pensieri che rendono più spedita l’attuazione della
virtù. L’esercizio fisico si integra e si compie con l’esercizio spirituale. La buona

38
H. Blumenberg, Selbsterhaltung und Beharrung. Zur Konstitution der neuzeitlichen
Rationalität, in H. Ebeling, Subjektivität und Selbsterhaltung. Beiträge zur Diagnose der
Moderne, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1976, pp. 144-207, in particolare p. 146. Per la
successiva, diversa posizione assunta da Blumenberg, con la distinzione tra «autoconser-
vazione» (Selbsterhaltung) e «autoaffermazione» (Selbstbehauptung), e la diversa connota-
zione concettuale attribuita a queste nozioni (per cui la prima vale come una sorta di do-
tazione antropologica di fondo laddove la seconda è riferita allo scarto storico introdotto
dalla modernità), si veda tuttavia il capitolo Assolutismo teologico e autoaffermazione uma-
na, in La legittimità dell’età moderna, a cura di Cesare Marelli, Genova, Marietti, 19922.
39
Su di esso cfr. almeno C. Brink, Oikeiosis and Oikeiotes. Theophrastus and Zeno
on Nature in Moral Theory, in «Phronesis», 1 (1956), pp. 123-145; T. Engberg-Pedersen,
The Stoic Theory of Oikeiosis, Moral Development and Social Interaction in Early Stoic
Philosophy, Aarhus, Aarhus University Press, 1990; M.-A. Zadgoun, Problèmes concernant
l’oikeiôsis stoïcienne, in G. Romeyer Dherbey e J.-B. Gourinat (a cura di), Les Stoïciens,
Paris, Vrin, 2005, pp. 319-334.
40
Cfr. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-
1982), Roma, Feltrinelli, 2003, e inoltre Id., Histoire de la sexualité III. Le souci de soi,
Paris, Gallimard, 1984; trad. it. La cura di sé. Storia della sessualità 3, Milano, Feltrinelli,
1985.
566 Aldo Brancacci

condizione fisica e la forza sono gli elementi fondamentali per la salute dell’anima
e del corpo. Portava delle prove per dimostrare che l’esercizio fisico contribuisce
alla conquista della virtù. Egli osservava che sia gli umili artigiani che i grandi
artisti avevano acquistato notevole abilità dal costante esercizio della loro arte, e
che gli auleti e gli atleti dovevano la loro preminenza a un assiduo e travaglioso
impegno. E se costoro avessero trasferito il loro impegno anche all’anima, avreb-
bero conseguito risultati utili e concreti. Sosteneva perciò che nulla si può otte-
nere nella vita senza esercizio, anzi che l’esercizio è l’artefice di ogni successo41.

Non è qui possibile offrire un’analisi esaustiva di questa dottrina: per


i nostri scopi, basti rilevare un solo punto, ovvero come questa complessa
teorizzazione del trattamento, mediante l’esercizio, dell’anima e del cor-
po, abbia un fine onnicomprensivo, che va dall’assicurare la salute dell’u-
na e dell’altro, a quello di garantire la riuscita complessiva della vita. Con
il lavoro su se stesso, opportunamente direzionato, il cinico rafforza se
stesso, si rende reattivo, diventa artefice della sua collocazione nella realtà
e nel mondo, riesce a resistere e a vincere. Nello stesso tempo, egli investe
tutto questo lavoro di un obiettivo anche etico: la conquista dell’areté.
Non è difficile scorgere, anche solo da questo passo (ma molti altri si po-
trebbero allegare), come quest’ultima abbia una ricaduta immediata nel
progetto cinico di vita, articolando i vari aspetti del cosiddetto kynikós
bios, della sua arte di vivere.
Al trattamento degli altri corrispondono numerosi atteggiamenti teo-
rici e pratici del cinico. Il rapporto fondamentale di Socrate con gli altri
era costituito dal dialégesthai, e dal vincolo etico che attraverso il dialogo
veniva a costituirsi tra un Io e un Tu. Anche Diogene conosce il rappor-
to diretto tra un Io e un Tu, anzi all’occasione sa intrattenerlo in modo
assai vivo: ma da un lato assistiamo con lui al decadimento della pratica
del dialégesthai, dall’altro constatiamo come il rapporto privilegiato e in
qualche modo paradigmatico tenda a essere quello che si dà tra il saggio
e la pluralità degli uomini, colti a volte nella loro singolarità, più spesso
nel loro essere un gruppo indifferenziato; in breve, nell’essere, gli uomi-
ni, gli Altri, rispetto alla soggettività del saggio cinico. Parallelamente,
il dialégesthai si trasforma nel loidorein, nell’invettiva, nella rampogna
ammaestrante: emerge qui in piena evidenza la categoria dell’aggressi-
vità (che purtuttavia designa anche il comportamento più partecipe e
più didattico del cinico nei confronti degli uomini, confrontato alla pos-
sibilità dell’adiaphoria). Il cinismo teorizza il «riso» (to geloion) come
strumento di comunicazione: e, se l’autárkeia è uno strumento difensivo
nei confronti del mondo, e, in ultima analisi, della vita stessa, il riso,
la mordacità, la battuta beffarda sono espressioni dell’atteggiamento di

41
Diogene Laerzio, VI 70-71 (= SSR V B).
La ragione cinica e l’arte del vivere 567

aggressività del cinico nei confronti dell’ambiente circostante, della stol-


tezza umana, dei valori convenzionali e dei comportamenti stabiliti; del
resto, sul piano letterario, il «riso misto a serietà» (to spoudaiogéloion)
è una categoria nota e caratteristica dello stile di scrittura proprio della
letteratura cinica42. Il problema fondamentale è quello della verità e del
dire il vero: lo era stato per Socrate, lo sarà per Diogene; ed è merito, di
nuovo, di Michel Foucault di avere valorizzato questa istanza, e in par-
ticolare il valore della parrhesia, peraltro ben noto, nell’ambito del cini-
smo, esplorandone sfumature e implicazioni43. Di analoga fattura sono
le altre forme che si generano dallo sfaldarsi del vincolo intersoggettivo
strettissimo che per Socrate si dava per entro il dialégesthai: forme che,
essendosi create appunto per sfaldamento di quel vincolo, privilegiano
ora l’elemento della distanza, ora quello della prossimità con gli uomi-
ni; ora il rapporto partecipe, affettuoso anche, ironico e all’occorrenza
sarcastico, volto però sempre a indicare agli uomini una direzione, una
mèta da perseguire e per la quale impegnarsi; ora privilegiano invece il
rapporto di distanziazione e di auto-sottrazione del cinico stesso, che si
allontana dalla comunità umana, pur rimanendo sempre nei dintorni,
nei paraggi, a portata di sguardo, come un modello possibile. Antiste-
ne aveva detto: «Il sapiente è amico del suo simile»; Diogene, senza
fare riferimento alla comunità dei sapienti, andrà ancora oltre: «bisogna
tendere le mani agli amici con le dita aperte e non contratte»44. Mercé
il prediletto paragone con gli animali, con il cane in specie, e con le
diverse razze canine, Diogene tende anche a suggerire un certo camale-
ontismo della figura del saggio, capace di mutare ruolo a seconda delle
circostanze, conforme a un modulo che trova la sua origine in Antistene,
mentre, e la cosa si comprende, non è presente nel Socrate platonico.
Lo stesso messaggio di Diogene non è affatto univoco: a volte agli uo-
mini egli propone con decisione, e con la sua caratteristica assolutezza e
acerbità di tono, un obiettivo da raggiungere; altre volte discretamente
dissuade, mormorando, di fronte a situazioni della vita difficili da valutare
con nettezza, o di cui è arduo stabilire l’effettiva positività, quasi un «la-
scia perdere!», anch’esso pregno di insegnamenti e di saggezza. A questo
riguardo è molto importante Diogene Laerzio:

42
Cfr. D.R. Dudley, A History of Cynicism. From Diogenes to the 6th Century A.D.,
London, Methuen, 1937, pp. 110-116; J. Roca Ferrer, Kynikòs tropos. Cinismo y subver-
sion literaria en la antiguidad, Barcelona, Ariel, 1974.
43
Cfr. M. Foucault, Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II.
Cours au Collège de France (1984), a cura di F. Gros, Paris, Seuil-Gallimard, 2009, pp.
177-295.
44
Cfr., rispettivamente, Diogene Laerzio, VI 105 (= SSR V A 135) e Id., VI 29 (= SSR
V B 297).
568 Aldo Brancacci

Lodava quelli che stavano per sposare e non sposavano, quelli che stavano
per intraprendere un viaggio marittimo e vi rinunciavano, quelli che stavano per
dedicarsi alla vita politica e non vi si dedicavano, quelli che volevano crearsi una
famiglia e non se la creavano, e quelli che s’accingevano a vivere insieme con i
potenti e poi se ne astenevano45.

Questo passo sarà ripreso e imitato da san Paolo:

Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli
che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; coloro che piangono, come se
non piangessero, e quelli che godono come se non godessero; quelli che com-
prano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne
usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo46!

Credo che nel modulo utilizzato da Diogene sia da ravvisare un’estre-


ma eco del motivo della dissuasione che Socrate rappresentava mediante
l’avvertimento della voce, o segno, demonico, che si fa sentire in momenti
nevralgici della vita del filosofo, non mai per sospingere, ma sempre per
trattenere dal compiere una determinata azione47. L’utilizzazione che ne fa
Diogene, la cui nota caratteristica è quella di essere dissuasione indiretta
e implicita, non avvertimento esplicito e asserito, mostra ancora una volta
come questi non ripeta semplicemente, ma sviluppi e complichi Socrate,
aggiungendo una sfumatura di significato essenziale, che è rivelata, in par-
ticolare, dall’ultima battuta, quella sul vivere con i potenti. Altrettanto si-
gnificativa la puntuale ripresa paolina, che però volge decisamente il mo-
tivo a una pura e semplice svalutazione della «scena di questo mondo»48,
la quale «passa».
I concetti di Selbstbehauptung, di auto-sottrazione e di camaleonti-
smo, di dissuasione implicita, e gli altri fin qui utilizzati, non rappre-
sentano tuttavia un’immissione illegittima dell’interprete nella strut-
tura argomentativa diogenica? Può forse aver pensato, un filosofo del
tardo IV sec. a.C. quale Diogene, simili categorie (che però non sono
tutte di conio moderno: basti pensare al paradigma, proprio del cini-
smo, ma non solo di esso, e anzi diffusissimo nell’Antichità, dell’atto-
re49)? A questa domanda si deve rispondere insieme in modo negativo

45
Diogene Laerzio, VI 29 (= SSR V B 297).
46
San Paolo, Prima lettera ai Corinzi, 7, 29-31. Su questa ripresa, cfr. R. Penna, San
Paolo (1 Cor. 7,29b-31a) e Diogene il cinico, in «Biblica», 58 (1977), pp. 237-245.
47
Il tema è celeberrimo: basti ricordare Platone, Apologia di Socrate, 40b-c.
48
Da notare che anche il tema del mondo come «scena» è cinico-democriteo: per il
cinismo, il riferimento è a Monimo, su cui cfr. Sesto Empirico, Adversus Mathematicos,
VII 87-88 (= SSR V G 2).
49
Sul tema dell’attore nella tradizione socratica e cinica cfr. A. Brancacci, L’attore e il
La ragione cinica e l’arte del vivere 569

e in modo positivo. Il cinismo è interamente fondato sulla tematizza-


zione della relazione di un soggetto a un contesto e a un ambiente, e
tale tematizzazione, mentre soppianta la riflessione altamente (anche
se non esclusivamente) teoretica che era all’opera nelle grandissime
filosofie di Platone e di Aristotele, delinea l’emergenza di un tipo di
razionalità che ho già definito «strumentale» e «strategica», la quale
determina un nuovo approccio alla realtà e all’azione: una razionalità
potente, destinata anch’essa a esercitare un’attrazione sulle menti e
sugli uomini per secoli di storia del pensiero. Ora, la massima parte
del materiale documentario che ci è pervenuto su Diogene e su questo
tipo di costruzione teorica è – perduti gli scritti di Diogene stesso, per-
duti quelli dei cinici – di natura letteraria, essendo costituito da apof-
tegmi, massime, sentenze, aneddoti, chriae. Per valutare l’attendibilità
storico-teorica e quindi la legittimità d’impiego di questo materiale lo
studioso non può sottrarsi al grave compito della Quellenforschung
e della Quellenanalyse. Ma, una volta ottenuti dei risultati a questo
livello, che, proprio perché indispensabile, è anche, sempre, solo pre-
liminare, l’intendimento del significato filosofico di quella letteratura
richiede necessariamente l’elaborazione di categorie interpretative che
non possono essere che l’opera dell’interprete, il quale assegnerà loro
una funzione eminentemente euristica, che del resto è direttamente
richiesta dalla natura di quel materiale. È da sperare che, come nel
rapporto tra epagogé e nous in Aristotele, anche siffatta elaborazione
realizzi un circolo virtuoso, cioè nasca da una reale profonda familia-
rità con i testi e da un retto intendimento dei principi fondamentali
della filosofia cinica, che i testi stessi, in forma contratta e sintetica, e
talvolta addirittura per immagini, ci trasmettono.

The Cynical Reason and the Art of Living

Ancient Cynicism is entirely based on the relationship between subject,


context, and environment: it outlines the discovery of a kind of «instrumental»
and «strategic» rationality founded on the concept of Selbstbehauptung, that
is the instance supporting, on the one hand, the treatment of the self, and, on
the other hand, Cynic’s behavior in regard to the world. Through conveniently
directed work on himself (áskesis), the Cynical philosopher strengthens himself,
makes himself reactive, becomes the architect of his own place in reality and
in different societies: he is able to resist and prove victorious. The treatment

cambiamento di ruolo nel Cinismo, in «Philologus», 146 (2002), pp. 65-86. Per il paragone
dell’attore nello Stoicismo, cfr. invece V.  Goldschmidt, Le Système stoïcien et l’idée de
temps, Paris, Vrin, 1979, pp. 176-186; A.M. Ioppolo, Aristone di Chio e lo stoicismo antico,
Napoli, Bibliopolis, 1980, pp. 188-202.
570 Aldo Brancacci

of others is expressed in a series of attitudes, now aggressive, now defensive


(including particularly autárkeia), which validate the Cynical criticism of
human foolishness, conventional values, and fixed social behaviors.

Keywords: Diogenes of Sinope, Socrates, Aristotle, Cynical Rationality, Treatment


of the Self and the Others.

Aldo Brancacci, Dipartimento Studi di Impresa Governo Filosofia, Università di Roma «Tor
Vergata», Via Columbia 1, 00133 Roma, aldo.brancacci@uniroma2.it.

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