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La prima revisione riguarda l'idea o, meglio, l'esperienza dell'immanenza.

La nu
ova interpretazione distruggeva l'idea dell'immanenza come profondit; dava di con
tro dell'immanenza una lettura di superficie. Era dunque un dio "superficiale" q
uello al quale il destino dell'uomo si confrontava, un dio che costituiva l'imma
nente orizzonte della possibilit. Che la necessit e la libert potessero coincidere,
lo si comprendeva allora, non appena ci si mettesse in situazione: l dove la nec
essit di quanto precede si identifica alla libert dell'a-venire. La deduzione del
mondo che Spinoza svolgeva, era la stessa cosa della sua costruzione.
Di conseguenza, la seconda revisione toccava la concezione della finalit c
he chiamiamo razionale, sia di quel telos che chiamiamo etico. Nel primo caso si
trattava di liberare il concetto da ogni presupposto metafisico, di farne dunqu
e un nome o una nozione comune il cui contenuto reale era pari alla facolt (dell'
uomo superficiale) di esperire e/o costruire comunemente ogni ordine precostitui
to dalla razionalit era cos tolto di mezzo ed il concetto diveniva funzione del bi
sogno umano di conoscenza e di organizzazione dell'universo. Allo stesso modo il
telos etico ricondotto, in questa prospettiva, allo sviluppo della vita desider
ante. La passione si muoveva in un contesto di casualit che non conosceva pi alcun
a esternit: l'atto era nella potenza come la potenza nell'atto, perch entrambi ide
ntificavano la posizione assoluta dell'esistente sull'orizzonte dell'immanenza.
La terza revisione era politica. Anche i trascendentali politici, fossero
essi posti secondo la teoria aristotelica della trascendenza degli archetipi di
governo (l'uno, i pochi, i molti) o secondo l'hobbesiana pretesa della necessari
a ipostasi trascendentale dell'autorit (la sovranit), erano ora dissolti, una volt
a guardati dal punto di vista dell'immanenza assoluta. Se di potere sovrano pote
va allora ancora parlarsi, esso non poteva presentarsi che come democrazia della
moltitudine, ovvero come autogoverno assoluto dell'insieme delle individualit, c
ondotte, nel procedere del loro desiderio, alla costituzione del comune.

La quarta revisione era metafisica e teologica. Una sorta di umanesimo int


egrale, meglio, di ecosofia cosmica, riportava il senso dell'eterno all'orizzont
e del mondo. Nell'infinita ricchezza delle articolazioni costitutive del mondo,
non v'era pi spazio n per un prima n per un dopo, n per una divinit trascendente n pe
un regno dei fini trascendentale che si ponessero fuori dall'esperienza creativ
a dell'esistente. Eterno era questo cammino intramondano di esperienza creativa.
Di libert. In questa prospettiva la genealogia si imponeva contro ogni teleologi
a.
Di qui una quinta e ultima revisione, quella dell'idea di materialismo. La
materia cessava di essere concetto di un contesto, involucro del movimento dell
'universo. Era invece lo stesso processo costitutivo del desiderare, la consiste
nza del movimento di una tonalit cangiante e sempre aperta. La materia era vista
dal basso, dentro il movimento creativo che costituiva il mondo, dunque come tes
suto delle trasformazioni del mondo. Il meccanicismo classico si trasformava cos,
preso dentro la genealogia materialista spinozista, in una concezione metamorfi
ca dell'universo. E in ci l'ontologia spinoziana dell'esperienza giungeva al suo
compimento.
Era dunque una nuova ontologia, questa, che, a partire dalle nuove letture
di Deleuze e Matheron, Spinoza proponeva. Quelle letture ricostruivano un'ontol
ogia che imputava a Spinoza, filosofo del Moderno, il superamento, l nell'ambito
della vicenda metafisica della modernit, di tutte le caratteristiche essenziali c
he la contraddistinguevano: un'ontologia dell'immanenza che distruggeva ogni pi p
allida ombra del trascendentalismo, un'ontologia dell'esperienza che rifiutava o
gni fenomenismo, un'ontologia della moltitudine che sbaraccava l'immemorabile te
oria delle forme di governo come radicate nella sacralit di un arch (principio e c
omando), un'ontologia genealogica che riportava la responsabilit conoscitiva ed e
tica del mondo al fare umano.

Quando mi trovai, nella seconda met degli anni Settanta, a leggere le opere
fondatrici della reinterpretazione di Spinoza (e a svilupparne le ipotesi sopra
ttutto sul livello politico), credevo sinceramente di far opera di storico della
filosofia. Per questo pensavo che l'anomalia spinozista potesse apprenderci sop
rattutto a scavare una rottura fra le filosofie del potere e quelle della sovver
sione nei secoli dell'evo moderno. Per questo, attorno a Spinoza, vedevo condens
arsi una tradizione "altra" nel pensiero filosofico, fra Machiavelli e Marx, con
tro la linea sovrana Hobbes-Rousseau-Hegel. Tutto questo era e resta corretto: q
uest'ipotesi di lavoro stata corroborata da alcuni altri studi negli anni succes
sivi. Ma quello che non avevo allora pensato era quanto questa nuova lettura di
Spinoza che andavano facendo, sarebbe stata utile e importante per contrapporre,
nell'epoca presente, un'ontologia positiva (dell'esperienza e dell'esistenza),
una filosofia dell'affermazione alle nuove fenomenologie deboli dell'epoca postm
oderna.
Voglio dire che, inforcando gli occhiali di questo nuovo Spinoza, si potev
a da subito erigere un argine contro le documentazioni dell'esistente e le infer
enze ontologiche che contraddistinguono le filosofie della Postmodernit.
Filosofie superficiali, che fanno del mondo la scena di forme danzanti con
umbratile leggerezza. La deontologizzazione postmoderna della superficie tenta
di svuotare d'ogni consistenza e d'ogni intensit il campo dell'esperienza. Queste
filosofie ci introducono a una realt tanto spettrale quanto insensata, tanto spe
ttacolare quanto vuota. Ecco dunque una percezione della superficie che scimmiot
ta la critica spinoziana della trascendenza, la rude affermazione di assolutezza
dell'orizzonte dell'esperienza, cercando di togliere all'immanenza ogni durezza
.
Ovvero filosofie che, accettando la radicale critica spinoziana della tele
ologia, e dichiarando quindi la fine di ogni ideologia, scambiano questa critica
con il rifiuto di ogni verit che la prassi umana costituisce e negano al comune
di costruirsi pragmaticamente come tale. La cosiddetta "fine della storia" si in
sedia qui padrona.
Ovvero filosofie pragmatiche che accettano la spinoziana critica dell'asso
lutismo trascendentale dell'autorit, ma ne reintroducono surrettiziamente una imm
agine tanto svalorizzata quanto feroce (nella sua indistinzione): poich - esse ar
gomentano - non possibile concedere efficacia costitutiva alla prassi della molt
itudine, n al desiderio un'effettivit comune di liberazione. Donde una sorta di sc
ettico "libertinage" nella valutazione delle forma politiche nelle quali si conf
igurano i movimenti della moltitudine e un'ironica concezione della democrazia (
"che pur meglio della filosofia").
Ovvero filosofie che spingono l'immanentizzazione spinoziana del vero e la
cruda destinalit della costituzione comune dell'essere verso una determinazione
negativa: un essere, un'esistenza s consistenti ma solo nel senso di una negativi
t ontologica radicale. Qui la passione non si coniuga al desiderio ma implode - s
egno della corruzione del tempo presente. E la resistenza singolare si assottigl
ia a tal punto da configurarsi come mito negativo, sull'orlo di una testimonianz
a che solo una larva della soggettivit.
Ovvero un materialismo che, lungi dal pensare la metamorfosi come tessuto
della trasformazione tecnologica del mondo e base di nuova singolarizzazione, po
ne il permanere consistente dell'esistente solo nel caos delle nuove forme e nel
le ombre dei margini. Sicch le nuove reti del sapere e della prassi sembrano aver
dimesso ogni fisionomia antropologica.
Non
drillard,
ome fra i
ro tempo.

si pu certo dire che queste filosofie del Postmoderno (da Lyotard a Bau
da Rorty a Vattimo, da Virilio a Bruno Latour, solo per fare qualche n
pi noti) non percepiscano qualit essenziali della fenomenologia del nost
Ma tutte, senza eccezione, ci presentano, con la sacrosanta narrazione

della fine del trascendentalismo, uno spettacolo insensato di quel che resta do
po la sua morte. una sorta di apologia della rassegnazione, un disimpegno che si
adagia, talora divertito talora commiserante, al bordo del cinismo. Un'ontologi
a cinica? Forse. E laddove gli si resista, quell'ontologia cinica imposta, nuova
maschera di una concezione trionfale del potere e della sua arroganza.
Ma davvero mortificante e del tutto resistibile qualora le si opponga il n
ostro Spinoza. Qui l'essere immanente esprime la creativit e la gioia insopprimib
ili dell'esistenza. La concezione affermativa dell'essere non dipana orizzonti i
llusori ma offre una quieta fiducia dell'a-venire, che riposa sull'eternit. Gli o
cchiali di Spinoza guardano il mondo con la serenit che il desiderio dell'eterno
fa sorgere nell'animo di ogni vivente. La potenza del desiderio contro un potere
che fissa la vita come spettacolare parvenza.
Voglio insomma dire che la riscoperta di Spinoza che dobbiamo a Deleuze e
Matheron, ci consente di vivere "questo" mondo, proprio quello della "fine delle
ideologie" e della "fine della storia", come un mondo da ricostruire. E ci dimo
stra che la consistenza ontologica degli individui e della moltitudine permette
di guardare avanti, a ogni emergenza singolare della vita come atto di resistenz
a e di creazione. E se ai filosofi non piace la parola "amore" - e se i postmode
rni la coniugano all'appassire del desiderio - noi che abbiamo riletto l'Ethica,
noi, partito degli spinozisti, osiamo senza infingimenti parlare di amore, come
della passione pi forte che crea l'esistenza comune e distrugge il mondo del pot
ere.

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