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Il “sentiero interrotto” di Franco Volpi1

di Enrico Berti

Sentieri interrotti è la traduzione di Holzwege che Heidegger stesso approvò, come riferisce
Pietro Chiodi nella prefazione all’edizione italiana della raccolta, in alternativa a “Sentieri senza
mèta”, perché – scriveva Heidegger – “lo Holzweg ha una mèta, e precisamente il cuore del bosco,
dove si trova la legna-bosco (Holz)”2. Il “sentiero” di Franco Volpi si è interrotto il 14 aprile 2009,
dopo 24 ore di coma prodotto dall’urto di un’automobile, mentre egli percorreva in bicicletta le
strade dei colli Berici, vicini alla sua Vicenza, nella tradizionale escursione del lunedì di Pasqua.
Quale fosse la mèta del suo sentiero è difficile dirlo, anche se alcuni indizi, pochi in verità,
potrebbero suggerirlo.
Volpi era nato, appunto, a Vicenza il 4 ottobre 1952 – dunque è morto a nemmeno 57 anni – e
aveva studiato nel Ginnasio-Liceo Pigafetta della sua città, dove ebbe come insegnante di filosofia
Giuseppe Faggin. Fu senza dubbio l’insegnamento di quest’ultimo a suscitare in lui la passione per
la filosofia. Ho avuto l’occasione di ascoltare Faggin nel Corso di perfezionamento in filosofia
dell’università di Padova intorno al 1960 – dunque prima di Volpi – e lo ricordo come un maestro
appassionato, interessato soprattutto agli aspetti oscuri, direi quasi notturni, del pensiero filosofico,
quali si ritrovano nei mistici, sia pagani (Plotino) che cristiani (Meister Eckhardt), o nei filosofi che
hanno il gusto dell’irrazionale (Schopenhauer, Nietzsche). In onore di Faggin Volpi curò un
volume, Ars majeutica, il cui titolo è eloquente a proposito di ciò che egli trovò nel suo primo
maestro3. Non c’è dubbio che l’interesse di Volpi per Heidegger, prima, e per Schopenhauer e
Nietzsche, poi, gli venne da Faggin.
Nel 1971 Volpi si iscrisse al corso di laurea in filosofia dell’università di Padova. Nello stesso
anno io tornavo da Perugia, dove avevo trascorso i miei primi sette anni di insegnamento
universitario, e quindi ebbi la fortuna di incontrarlo tra gli studenti del mio primo corso padovano di
Storia della filosofia, che verteva sulla Metafisica di Aristotele. Da poco era uscita la raccolta di
Heidegger Zur Sache des Denkens, in cui il filosofo tedesco riproduceva la sua conferenza Mein
Weg in die Phänomenologie (1963), dove dichiarava: “la dissertazione di Brentano Il molteplice
significato dell’essere in Aristotele (1862) era dal 1907 l’unico appoggio di cui disponevo nei miei
maldestri tentativi di introdurmi alla filosofia”4. Sollecitato dal mio maestro, Marino Gentile, che

1
Questo testo riproduce, con alcune aggiunte, quello in corso di pubblicazione nella rivista “Ars Interpretandi” del
2009.
2
P. Chiodi, Presentazione, in M. Heidegger, Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968, pp. x-xi.
3
F. Volpi (a cura), Ars majeutica. Scritti in onore di Giuseppe Faggin, Vicenza, Neri Pozza, 1985.
4
M. Heidegger, Zur Sache des Denkens, Tübingen, Mohr, 1969, pp. 81-90, trad. di E. Mazzarella in M. Heidegger,
Tempo ed essere, Napoli, Guida, 1980, pp. 183.190.

1
con il suo infallibile intuito aveva colto l’importanza della notizia e l’interesse di approfondirla,
chiesi a lezione se c’era qualche studente disposto a fare una tesi di laurea sui rapporti tra Heidegger
e Brentano, o addirittura su Heidegger e Aristotele. Franco Volpi alzò la mano, benché fosse
soltanto al primo anno di corso, e da quel momento si dedicò a quello che sarebbe stato il suo primo
libro, Heidegger e Brentano, pubblicato nella collana della Scuola di perfezionamento in filosofia
dell’Università di Padova, diretta da Marino Gentile5.
Come risulta dal sottotitolo del libro, Volpi vi sostenne che Brentano, pur parlando di
analogia dell’essere, sia nel senso della greca analogia di proporzionalità che in quello della
medievale analogia di attribuzione, tendeva a concepire l’essere di Aristotele in senso
fondamentalmente univoco, come risulta dalla sua riduzione dei quattro significati fondamentali
dell’essere distinti da Aristotele all’essere delle categorie, e quindi all’ousia, sia dal suo tentativo di
effettuare una vera e propria “deduzione” delle categorie, per difendere Aristotele dall’accusa
kantiana e hegeliana di avere esposto le categorie in modo rapsodico. Tale tendenza all’univocità
dell’essere, secondo Volpi, si poteva riscontrare anche nei primi scritti di Heidegger, il quale
dunque era stato profondamente influenzato dall’interpretazione brentaniana, cioè
fondamentalmente scolastica, di Aristotele. Per capire l’importanza di questa conclusione bisogna
sapere che nei miei corsi di quegli anni io mi affannavo a sottolineare la multivocità della nozione
aristotelica di essere, che trovava una sua espressione nella molteplicità, nella varietà e nella
problematicità dell’esperienza, enfatizzate dalla particolare accezione in cui la cosiddetta
“metafisica classica” veniva presentata dal comune maestro della “scuola padovana”, cioè appunto
Marino Gentile. Mostrare che Heidegger era caduto nell’univocità equivaleva a mostrare che egli
aveva frainteso il senso più genuino, e quindi il valore classico, della metafisica di Aristotele.
Questo fece il giovane Franco Volpi.
Ma non si può leggere Heidegger senza restarne affascinati, perciò anche Volpi fu preso dal
fascino dell’incantatore della Selva Nera, diventando uno dei maggiori specialisti di Heidegger nel
mondo, come dimostrano innumerevoli suoi articoli a lui dedicati, le sue numerose edizioni e
traduzioni delle opere di Heidegger (presso l’editrice Adelphi), la Guida a Heidegger da lui curata6
e, ultima, la voce Heidegger da lui scritta per la nuova edizione dell’Enciclopedia filosofica
(Bompiani 2006). Tuttavia, benché egli fosse senza dubbio un ammiratore di Heidegger, ne fu
sempre anche un acutissimo critico. Ciò risulta dal suo libro su Heidegger e Aristotele, pubblicato
da una casa editrice sconosciuta in una collana da me diretta e poi subito interrotta – Volpi allora
non era ancora famoso come sarebbe diventato in seguito, quando avrebbe avuto a sua disposizione

5
F. Volpi, Heidegger e Brentano. L’aristotelismo e il problema dell’univocità dell’essere nella formazione filosofica
del giovane Martin Heidegger, Padova, Cedam, 1976.
6
F. Volpi (a cura), Guida a Heidegger, Roma-Bari, Laterza, 1997.

2
le maggiori case editrici filosofiche italiane e straniere –, ma per fortuna ripreso dall’autore in una
serie impressionante di articoli in riviste di tutti i paesi7.
In questo libro Volpi dimostrava fondamentalmente due cose: anzitutto che Heidegger era
rimasto talmente condizionato dalla distinzione aristotelica tra i significati dell’essere, illustrata
nella dissertazione di Brentano, che per tutta la sua vita non aveva fatto altro che ricercare il
“significato guida fondamentale” dell’essere, individuandolo successivamente in ciascuno dei
significati distinti da Aristotele. Il primo di questi, a parte l’essere per accidente che è scartato dallo
stesso Aristotele, è l’essere per sé, cioè l’essere predicato secondo le figure delle categorie, di cui la
prima è l’ousia, e Heidegger lo assunse come il significato fondamentale dell’essere nel suo
periodo “cattolico”, quando era ancora influenzato dalla Scolastica e interpretava Aristotele in
maniera sostanzialmente tomistica. Il secondo è l’essere come vero (alêthes), nel quale Heidegger
vide il significato fondamentale dell’essere, cioè la alêtheia, nel suo periodo fenomenologico,
quando subì più profondamente l’influenza di Husserl. Il terzo infine è l’essere come potenza e atto,
nel quale Heidegger vide il significato fondamentale dell’essere dopo la “svolta” subita dal suo
pensiero (1930), interpretando l’essere essenzialmente come dinamicità, “motilità”, e poi “evento”
(Ereignis).
Ma l’altra, e forse più importante, tesi dimostrata da Volpi nel suo libro su Heidegger e
Aristotele è che il capolavoro di Heidegger, cioè Essere e tempo, non è che un’appropriazione, dallo
stesso Volpi definita “vorace”, dei concetti fondamentali della filosofia pratica di Aristotele. Il
metodo con cui Heidegger tratta i grandi filosofi, come è noto, è quello della “distruzione”, intesa
come “decostruzione”, cioè scomposizione, smontaggio, del sistema nelle sue parti costitutive,
dottrine, nozioni, distinzioni, a cui segue l’appropriazione di tali parti, cioè il loro uso per la
costruzione di un sistema diverso, in genere alternativo rispetto a quello del filosofo usato. Le parti
del sistema aristotelico di cui Heidegger, secondo Volpi, si è appropriato sono, ad esempio, la
distinzione fra i tre fondamentali atteggiamenti che l’uomo può assumere di fronte alla realtà, cioè
la theôria, la praxis e la poiêsis, che Heidegger traduce nelle tre modalità ontologiche fondamentali
in cui la realtà si presenta all’uomo: la Vorhandenheit, o “presenza”, la Zuhandenheit, o
“utilizzabilità” e il Dasein o “esserci”. La presenza è il modo in cui le cose si rapportano all’uomo
che assume come atteggiamento la theôria, cioè la conoscenza, la contemplazione distaccata, senza
alcun coinvolgimento esistenziale. L’utilizzabilità è il modo in cui le cose si rapportano all’uomo
che assume come atteggiamento la poiêsis, cioè la produzione, la manipolazione, il dominio della
realtà, la tecnica. Infine il Dasein, inteso fondamentalmente come “avere da essere”, che indica la
possibilità la progettualità, la proiezione verso il futuro, corrisponde a quella che per Aristotele è la

7
F. Volpi, Heidegger e Aristotele, Padova, Daphne, 1984.

3
praxis, cioè l’agire, in cui secondo lo stesso Aristotele consiste la vita e secondo Heidegger consiste
l’esistere.
Un’altra corrispondenza rilevata da Volpi tra le categorie della filosofia pratica di Aristotele e
quelle impiegate da Heidegger in Essere e tempo riguarda quel carattere dell’esserci che è la “cura”
(Sorge), il quale non è altro che un’ontologizzazione dell’aristotelica orexis. I momenti strutturali in
cui si articola la cura secondo Heidegger, cioè la “situazione affettiva” (Befindlichkeit), la
“comprensione” (Verstehen) e il “discorso” (Rede), corrispondono, a giudizio di Volpi,
rispettivamente ai pathê, analizzati da Aristotele nel II libro della Retorica, al nous praktikos, che
Heidegger chiama “il senso vero e proprio dell’agire”, ed al logos, che Aristotele presenta come
mediatore tra il nous e la orexis nel libro VI dell’Etica Nicomachea. Volpi rileva infine la
corrispondenza tra la “coscienza” (Gewissen) di Heidegger e l’aristotelica phronêsis, e quella tra la
“risolutezza” (Entschlossenheit) di Heidegger e l’aristotelica prohairesis. Ma nell’appropriazione
delle categorie aristoteliche Heidegger, come Volpi non manca di rilevare, ne stravolge il rapporto,
conferendo il primato alla praxis rispetto alla theôria, alla phronêsis rispetto alla sophia.
Essere e tempo è l’opera di Heidegger che Volpi, e non solo lui, ammira più di ogni altra. Lo
Heidegger posteriore alla “svolta”, il cosiddetto “secondo Heidegger”, che è diventato tanto di
moda negli anni ’80, come vedremo, non lo entusiasma più ed anzi suscita in lui legittimi sospetti.
Tuttavia, il fatto che egli illustri l’appropriazione della filosofia pratica aristotelica nel capolavoro di
Heidegger e ne denunci le distorsioni compiute nei confronti di Aristotele, rivela che l’oggetto
della sua ammirazione, ancora più profondo di Essere e tempo, è appunto la filosofia pratica di
Aristotele. Infatti nell’intervallo tra il libro su Heidegger e Brentano e quello su Heidegger e
Aristotele Volpi ha scoperto, e fatto scoprire a tutti in Italia, e non solo in Italia, la “riabilitazione”
(così chiamata dai suoi detrattori) o “rinascita” (così chiamata dai suoi estimatori) della filosofia
pratica, cioè uno degli eventi filosofici più interessanti degli ultimi decenni del Novecento in
Europa e in America. Di tale scoperta è documento il saggio contenuto nel volume, a cui collaborò
con Carlo Natali (anch’egli già mio allievo), Laura Iseppi e Claudio Pacchiani, Filosofia pratica e
scienza politica, del quale costituisce la parte maggiore8. Ancora una volta si tratta di un volume
pubblicato da una casa editrice sconosciuta, ma per fortuna anche questo saggio fu ripreso da Volpi
in una serie impressionante di articoli usciti in varie riviste, italiane e straniere, che qui è
impossibile riportare.
In esso Volpi ricostruisce la nascita del fenomeno, che ufficialmente coincide con la
pubblicazione di Verità e metodo di Hans-Georg Gadamer (1960), dove la filosofia pratica di
Aristotele è presentata come modello della stessa ermeneutica, ma che in realtà affonda le sue radici

4
proprio in Heidegger, cioè in Essere e tempo e nei corsi universitari tenuti da Heidegger a Marburgo
negli anni in cui attendeva alla composizione del suo capolavoro, cioè gli anni 1923-1929. Volpi
mostra che la rinascita della filosofia pratica trae origine dalla crisi delle scienze sociali, cioè
dall’incapacità rivelata da queste di dare giudizi di valore, e quindi dal bisogno di una forma di
razionalità capace non solo di spiegare, ma anche di valutare, di distinguere il bene dal male, il
giusto dall’ingiusto. Questa forma di razionalità non poteva essere che la filosofia pratica, di cui la
storia forniva due illustri esempi, la filosofia pratica di Aristotele e quella di Kant. Volpi mostra
come l’intero fenomeno della rinascita della filosofia pratica si riconduca infatti per un verso ad
Aristotele e per un altro verso a Kant. Ad Aristotele si ispira il filone che risale a Heidegger,
rappresentato da Gadamer e dalla sua scuola (R. Bubner), nonché da Joachim Ritter e dalla sua
scuola (G. Bien), ma prima ancora da Hannah Arendt all’epoca di Vita activa; mentre a Kant si
ispira il filone che risale all’ultima opera della Arendt, La vita della mente, e alla sua scuola (E.
Vollrath). Ma il fenomeno si è poi diffuso negli Stati Uniti, con l’etica delle virtù di A. MacIntyre e
di altri “neoaristotelici” (per esempio Martha C. Nussbaum), o con il neocontrattualismo di J. Rawls
e di altri “neokantiani”.
La simpatia di Volpi, come del resto quella di Natali e di Pacchiani, va chiaramente al filone
neoaristotelico, anche se egli tende a sfrondarlo dagli elementi di tendenza conservatrice che sono
presenti in pensatori come Gadamer, Ritter e MacIntyre, rivelati ad esempio dalla loro
valorizzazione dell’ethos, cioè dei costumi, delle istituzioni, delle tradizioni, e a sviluppare possibili
spunti di critica della realtà esistente, quali sono riscontrabili ad esempio nella nozione aristotelica
di phronêsis o “saggezza pratica”, sì da dar vita ad una sorta di “aristotelismo di sinistra”
(Linksaristotelismus). Tuttavia Volpi non manca di rilevare la profondità e la suggestione a volte
presenti anche in posizioni di tipo nettamente conservatore, come risulta da certe sue prese di
posizione in difesa di Heidegger al tempo del dibattito suscitato dal libro di Farias sul suo passato
filonazista, o dalla sua attenzione per un pensatore come Ernst Jünger9.
Verso la fine degli anni ‘80, quando Vito Laterza mi convinse a scrivere un manuale di
filosofia per i licei, non esitai a chiedere, per la parte ottocentesca di lingua tedesca e per la parte
novecentesca di tendenza ermeneutica, la collaborazione di Volpi, e nel 1991 uscì la nostra Storia
della filosofia, cui seguirono a breve distanza le Letture filosofiche e l’Antologia di filosofia, queste
ultime con la collaborazione per la parte antica e medievale di un’altra mia allieva, Cristina
Rossitto. Il relativo successo di questi lavori contribuì finalmente ad attirare su Volpi l’attenzione di
una casa editrice prestigiosa come Laterza ed a consentirgli di entrare nel grande giro dell’editoria a

8
F. Volpi, La rinascita della filosofia pratica in Germania, in C. Pacchiani (a cura), Filosofia pratica e scienza politica,
Abano, Francisci, 1980, pp. 11.97.
9
F. Volpi, I prossimi Titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Milano, Adelphi, 1997 (con A. Gnoli).

5
diffusione nazionale e internazionale. Va detto tuttavia che negli stessi anni Volpi si guadagnò la
fiducia della casa editrice Adelphi, che gli affidò l’edizione italiana di tutte le opere di Heidegger,
inaugurata dalla splendida traduzione e cura di Wegmarken10. Tutto ciò tuttavia non gli bastò per
vincere neanche uno dei due concorsi universitari a cui si presentò nel 1994, uno di Storia della
filosofia e uno di Filosofia morale. Perciò, in segno di protesta verso l’accademia filosofica
italiana, diedi le dimissioni da coordinatore nazionale dei dottorati di ricerca in filosofia, facendo un
po’ di rumore sulla stampa quotidiana e procurando alcuni fastidi giudiziari ai colleghi commissari.
Il libro commissionato a Volpi da Laterza e poi pubblicato da questa casa editrice è stato uno
dei suoi più fortunati: Il nichilismo, uscito in varie edizioni e tradotto in Brasile, in Argentina e in
Spagna11. In esso Volpi illustra da par suo le origini del nichilismo romantico e politico-sociale, e
l’atteggiamento verso il nichilismo di filosofi come Stirner, Nietzsche, Heidegger, Jünger, Schmitt,
Kojève, Gehlen. Il libro poi si conclude con un capitolo dal titolo interrogativo “Oltre il
nichilismo?”, dove Volpi scrive:

“Il nichilismo ha corroso le verità e indebolito le religioni; ma ha anche dissolto i dogmatismi e fatto
cadere le ideologie, insegnandoci così a mantenere quella ragionevole prudenza del pensiero, quel
paradigma di pensiero obliquo e prudente, che ci rende capaci di navigare a vista tra gli scogli del mare della
precarietà, nella traversata del divenire, nella transizione da una cultura all’altra, nella negoziazione tra un
gruppo di interessi e l’altro. Dopo la caduta delle trascendenze e l’entrata nel mondo moderno della tecnica e
delle masse, dopo la corruzione del regno della legittimità e il passaggio a quello della convenzione, la sola
condotta raccomandabile è operare con le convenzioni senza credervi troppo, il solo atteggiamento non
ingenuo è la rinuncia a una sovradeterminazione ideologica e morale dei nostri comportamenti. La nostra è
una filosofia di Penelope che disfa (analyei) incessantemente la sua tela, perché non sa se Ulisse tornerà”12.

È questo uno dei rari passi in cui Volpi, che si considerava essenzialmente uno storico della
filosofia, dunque uno specialista del pensiero altrui, parla in prima persona (sia pure al plurale), cioè
esprime il suo pensiero. A proposito di esso vorrei far notare tre cose: anzitutto il profondo
pessimismo, dovuto forse anche al tema trattato, al momento storico (crisi delle ideologie) e alle
delusioni personali (sfiducia nella legittimità); poi il richiamo alla “ragionevole prudenza del
pensiero”, cioè alla phronêsis di origine aristotelica, unica guida nella condotta pratica; infine
l’apertura, sia pure senza particolare fiducia, ad una possibile soluzione, cioè ad un possibile
oltrepassamento del nichilismo, espressa dalla metafora del ritorno di Ulisse. Questa apertura, cioè

10
M. Heidegger, Segnavia, traduzione e cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1987.
11
F. Volpi, Il nichilismo, Roma-Bari, Laterza, 1996
12
Ivi, p. 178, corsivo nel testo.

6
non esclusione, anche senza particolari illusioni, è testimoniata anche dalle parole con cui il libro si
chiude:

“Ancora non sappiamo infatti quando potremmo dire di noi stessi quello che Nietzsche osava pensare
di sé allorché affermava di essere il primo perfetto nichilista d’Europa, che però ha già vissuto in sé fino in
fondo il nichilismo stesso – che lo ha dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé (VIII, ii, 393)”13.

Nel frattempo Volpi aveva iniziato un vorticoso carosello di viaggi, conferenze, corsi in
università straniere, iniziative editoriali, articoli in quotidiani e periodici, reso possibile anche dalla
sua straordinaria attitudine alle lingue, che gli consentiva di padroneggiare in modo perfetto, oltre ai
classici latino e greco, non solo i soliti inglese e francese, ma anche tedesco e spagnolo, e forse altre
lingue ancora. Fu professore all’università di Witten/Herdecke in Germania dal 1991 al 1997,
visiting professor nelle università di Laval (Canada, 1989), Poitiers (1990), Nizza (1993),
Valparaiso e Santiago del Cile (1996, 2005, 2007), Lucerna (2002-2003), Cordoba (2003, 2005),
Città del Messico (2003-2006), Bogotà (2004-2007). Divenne l’editore delle opere di Schopenhauer
per Adelphi, consulente di riviste quali “Philosophischer Literaturanzeiger”, “Brentano Studien”,
“Husserl Studies”, “Heidegger Studies”, “Les études philosophiques”, “Internationale Zeitschrift für
Philosophie”, “Revista de filosofía”, “Filosofia politica”, “Tópicos, Revista de filosofía de la
Universidad Panamericana”, ed editore, con G. Zaccaria e F. Viola, di “Ars Interpretandi”.
Collaborò a molti importanti progetti lessicografici internazionali, quali Historisches Wörterbuch
der Philosophie edito da J. Ritter, Der Neue Pauly, Kindlers Neues Literaturlexikon, Encyclopédie
Philosophique Universelle, Dictionnaire d’éthique et de morale. Infine diresse il Grosses
Werklexikon der Philosophie (Kröner, 2 volumi, 1999), di cui uscirono anche una versione ridotta
in italiano (Dizionario delle opere filosofiche, Milano, Bruno Mondadori, 2000) e una versione
ampliata in spagnolo (Enciclopedia de obras de filosofía, 3 volumi, Barcelona, Herder, 2005), col
contributo di più di 300 collaboratori internazionali.
Nel 2000, finalmente, Franco Volpi vinse la cattedra di Storia della filosofia contemporanea
nell’Università di Padova, dove tenne una serie di corsi ammiratissimi dagli studenti, che lo
amavano appassionatamente, ma non si impegnò più di tanto, nel senso che non volle mai accettare
incarichi, partecipare a commissioni, frequentare assiduamente sedute, nemmeno entrare nella
Scuola di dottorato di ricerca, con la scusa di essere già impegnato in un dottorato nazionale.
Qualcuno interpretò questo comportamento come disprezzo della vita accademica, ma in realtà
Volpi non disdegnò di farsi eleggere nell’Accademia Olimpica di Vicenza, nell’Istituto Veneto di

13
Ivi.

7
scienze Lettere ed Arti di Venezia, nell’Institut International de Philosophie di Parigi. La verità è
che l’università gli stava stretta, si conciliava difficilmente con le sue numerose altre attività, era per
lui un ambiente troppo limitato. Solo negli ultimi anni egli si adoperò per ottenere qualche assegno
di ricerca, col quale aiutare alcuni suoi collaboratori.
Ma nei suoi anni più recenti si verificarono alcuni eventi che dovettero incidere
profondamente nella sua vita e nel suo pensiero. Probabilmente in occasione dei suoi numerosi
viaggi nell’America Latina egli venne a conoscenza dell’opera di un filosofo colombiano poco noto,
Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), autore di aforismi (Escolios), usciti in più volumi a Bogotà tra
il 1977 e il 1992, del quale in un certo senso si innamorò ed al quale dedicò numerosi scritti. Nel
2001 scrisse la postfazione alla traduzione italiana di una prima parte della sua opera14, che uscì poi
anche in spagnolo e in francese15; nel 2003 curò la bibliografia della traduzione tedesca di una
raccolta di suoi scritti16; nel 2005 scrisse il volume introduttivo alla nuova edizione di tutte le sue
opere, da lui stesso curata, dedicandolo “a Rosa Emilia”, figlia del filosofo17; e nel 2007 scrisse
l’introduzione alla traduzione italiana di un’altra parte della sua opera18. Gómez Dávila era un
cattolico di destra, autodichiaratosi reazionario, nemico della democrazia e in generale della
modernità, fideista e sensuale, del quale Volpi parla sempre con grande ammirazione. Di lui Volpi
apprezza anzitutto il modo di scrivere, cioè gli aforismi, sino a definirlo “un Nietzsche
colombiano”19, poi ne elogia l’umiltà, il riserbo, la sobrietà, ne interpreta il carattere reazionario non
come forma di conservazione, ma come reazione contro il nichilismo moderno, e ne cita,
apparentemente con consenso, frasi quali:

“I problemi metafisici non assillano l’uomo perché li risolva, ma perché li viva”; “I veri problemi non
hanno soluzione, ma storia”; “la filosofia è al massimo l’arte di formulare lucidamente i problemi”; “le verità
convergono tutte verso una sola verità – ma i sentieri sono interrotti”20.

Dopo avere illustrato lo scetticismo di Gómez Dávila nei confronti della filosofia, Volpi ne
sottolinea la fede in Dio, “verità di tutte le illusioni”, non dimostrato ma “postulato senza ambagi”,
senza di cui è impossibile fare filosofia, un Dio che è il Dio del cristianesimo, ma non della Chiesa,

14
F. Volpi, Un angelo prigioniero del tempo, in N. Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, Milano, Adelphi,
2001, pp. 157-183.
15
N. Gómez Dávila, Escolios a un texto implícito, Epílogo de F. Volpi, Bogotá, Villegas, 2001; Id., Les horreurs de la
démocratie. Scholies pour un texte implicite, suivi par “Un ange captif du temps” par F. Volpi,Monaco, Éditions du
Rocher, 2003.
16
N. Gómez Dávila, Texte und andere Aufsätze, Bibliographie von F. Volpi, Wien-Leipzig, Karolinger, 2003.
17
F. Volpi, Nicolás Gómez Dávila: el solitario de Dios, Bogotá, Villegas Editores, 2005, vol. I di N. Gómez Dávila,
Escolios a un texto implícito. Obra completa, Bogotá, Villegas Editores, 2005, 5 volumi.
18
F. Volpi, Introduzione, in N. Gómez Dávila, Tra poche parole, Milano, Adelphi, 2007, pp. 9-27.
19
F. Volpi, Un angelo cit., p. 159.
20
Ivi, pp. 176-177.

8
soprattutto non della Chiesa cattolica post-conciliare, la quale “pensando di aprire le braccia al
mondo moderno, ha finito con l’aprirgli le gambe” (parole di Gómez Dávila)21.
Più recentemente, oltre a questi aspetti del pensiero del filosofo colombiano, Volpi ne ha
messo in luce anche un altro, l’appello “alla realtà densa e sensuale della carne”, giungendo ad
attribuirgli una “metafisica della sensualità” e citando aforismi come:

“un corpo nudo risolve tutti i problemi dell’universo”; “l’intelligenza che dimentica o disprezza i gesti
voluttuosi misconosce la densità che l’oscura presenza della carne conferisce al mondo”; “il mio essere si
compie solo nell’erta vetta dell’idea o nella valle bassa e soffocante dell’erotismo”22.

Volpi interpreta questa metafisica della sensualità come complementare al fideismo di Gómez
Dávila, cioè come consapevolezza della propria finitezza, della propria animalità, e quindi come
bisogno di una fede immediata e totale, di una certezza granitica dell’esistenza di Dio. Non è chiaro
se e fino a che punto egli condivida le posizioni del suo autore, perché non parla quasi mai in prima
persona, ma espone, cita, analizza. Tuttavia alla fine del suo ultimo scritto su Gómez Dávila egli
dichiara, usando la prima persona plurale:

“Di quando in quando, in notti insonni, abbiamo aperto le sue pagine. Abbiamo ascoltato la sua voce
inconfondibile e pura. Seguito la sua solitaria meditazione. Da allora i suoi Escolios sono diventati il nostro
livre de chevet”23.

Devo ammettere che con me Volpi non ha parlato molto di questa sua ultima passione, anche
se mi ha fatto omaggio di tutte le opere di Gómez Dávila; con me, forse per un senso di rispetto
verso il suo vecchio maestro, o forse di pudore, parlava soprattutto di Aristotele e di Heidegger. Ma
i suoi studenti, alcuni dei quali stanno portando a termine con me la tesi di laurea cominciata con lui
– questa è la cosa più innaturale del mondo, come il fatto che abbia dovuto io pronunciare il suo
necrologio, anziché lui il mio – mi testimoniano che a lezione Volpi dava l’impressione di
riconoscersi nelle parole di Gómez Dávila. A me sembra di riconoscere in questa ammirazione per
il filosofo colombiano la stessa ammirazione che Volpi manifestò per altri filosofi di destra, come
Jünger, Schmitt, lo stesso Heidegger, pur essendo lui sicuramente uomo di sinistra, e nella sua
passione per l’oscuro, il sensuale, l’irrazionale, vedo l’influenza del suo primo maestro, Giuseppe
Faggin.

21
Ivi, pp. 179-180.
22
F. Volpi, Introduzione cit, pp. 19-20.
23
Ivi, p. 27.

9
Il secondo evento che si è verificato negli ultimi anni della vita di Volpi è il suo mutamento di
opinione a proposito di Heidegger, a proposito del quale non posso escludere una connessione col
primo, cioè con la scoperta di Gómez Dávila, come qualcuno ha suggerito, ma che mi sembra
andare in una direzione un po’ diversa. Nel 2006 Volpi ha pubblicato, insieme con Antonio Gnoli,
giornalista della “Repubblica” col quale aveva spesso collaborato, una raccolta di interviste su
Heidegger (di Hermann Heidegger, Ernst Jünger, Hans-Georg Gadamer, Ernst Nolte e Armin
Mohler) col titolo L’ultimo sciamano24. Nell’introduzione alla raccolta i due curatori scrivono che
Heidegger è una personalità filosofica affascinante ed enigmatica, nella quale

“convivono evidentemente anime agli antipodi e potenze inconciliabili fra loro: quella dell’uomo di
scienza, che conosce a pratica il rigore del concetto e dell’interrogazione, e al tempo stesso quella del
pifferaio magico, del mistagogo, del seduttore che incanta con la musica e la parola”.

Prendendo lo spunto dal titolo e da queste parole, Paolo Rossi, in un articolo piuttosto
polemico, ha parlato di “una profonda revisione” dell’immagine di Heidegger in Italia o almeno in
Franco Volpi, di una “marcia indietro” rispetto a suoi precedenti elogi di Heidegger come il più
grande filosofo del Novecento, e soprattutto di una sua “svolta” (Kehre) rispetto a precedenti
giustificazioni delle scelte politiche di Heidegger, riportando accuse, contenute in questo e in altri
scritti contemporanei, di Volpi a Heidegger di “scandalosa dissociazione di filosofia e capacità di
giudizio politico”, di “testarda abiezione politica”25. Volpi non ha risposto pubblicamente
all’articolo di Rossi, ma mi ha detto di avergli scritto in privato, rilevando che Rossi non lo aveva
mai criticato quando in passato egli lodava Heidegger, mentre ora sembrava criticare la sua recente
dissociazione da lui, che dal suo punto di vista avrebbe dovuto invece approvare. Con ciò dunque
Volpi non smentiva il cambiamento di opinione attribuitogli da Rossi, ma si dichiarava dispiaciuto
soltanto delle critiche che esso gli aveva procurato.
Ma c’è un testo che documenta ancor più chiaramente questo cambiamento, e che non
riguarda solo le scelte politiche di Heidegger, bensì il suo intero pensiero dopo la famosa “svolta”.
Non si dimentichi che Volpi, dopo avere tradotto Wegmarken, ha curato la traduzione o la
pubblicazione di numerose altre opere di Heidegger, tra cui, oltre a molte minori, Il principio di
ragione (con G. Gurisatti, 1991), Nietzsche (1994), I concetti fondamentali della filosofia antica
(con G. Gurisatti, 2000) e, recentemente, i famosi Beiträge zur Philosophie (2007)26. Egli ha inoltre
ha curato la nuova edizione della traduzione di Essere e tempo di Pietro Chiodi (Milano, Longanesi,

24
A. Gnoli – F. Volpi, L’ultimo sciamano. Conversazioni con Heidegger, Milano, Bompiani, 2006.
25
P. Rossi, Retrocesso a sciamano, “Rivista di filosofia”, 99, 2008, pp. 81-104.

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2005). Ebbene, in vista della pubblicazione dei Beiträge, che molti considerano il capolavoro
dell’ultimo Heidegger e una specie di “nuovo inizio” della filosofia, Volpi scrisse un’introduzione
all’opera, contenente un paragrafo intitolato “Naufrago nel mare dell’essere”, che fu censurato dal
figliastro di Heidegger, perché troppo critico nei confronti del filosofo. Il paragrafo non fu quindi
pubblicato, ma fu inviato da Volpi ad Armando Massarenti, il curatore della pagina filosofica del
Supplemento domenicale del “Sole 24 ore”, il quale alcuni giorni dopo la morte di Volpi lo
pubblicò. Benché molti lo abbiano letto, ne riporto alcune frasi:

“Tutti i suoi sforzi [di Heidegger] mirano a quest’unica meta, l’Essere, ma i sentieri si sono interrotti.
La sua intermittente sperimentazione filosofica e il suo ‘procedere a tentoni’ in questo sogno hanno prestato
il fianco a critiche da far tremare i polsi […]. Le sue geniali sperimentazioni linguistiche implodono, e
assumono sempre più l’aspetto di funambolismo, anzi di vaniloqui. La sua celebrazione del ruolo del poeta,
una sopravvalutazione. Le speranze da lui riposte nel pensiero poetante, una pia illusione. La sua
antropologia della Lichtung, in cui l’uomo appare il pastore dell’Essere, una proposta irricevibile e
impraticabile. Enigmatico non è tanto il pensiero dell’ultimo Heidegger, bensì l’ammirazione supina e spesso
priva di spirito critico che gli è stata tributata e che ha prodotto tanta scolastica. Certo, i comuni mortali
spesso deridono le soluzioni del filosofo solo perché non capiscono i suoi problemi. Dunque non è affatto
detto che queste critiche colgano nel segno. Ma se fosse così, allora i Contributi alla filosofia sarebbero
davvero il diario di bordo di un naufragio. Per avventurarsi troppo in là nel mare dell’Essere, il pensiero di
Heidegger va a fondo. Ma come quando a inabissarsi è un grande bastimento, lo spettacolo che si offre alla
vista è sublime”27.

Nella stessa pagina Massarenti pubblica una lettera scrittagli da Volpi l’11 ottobre 2007, in
cui si dice:

“davvero mi viene voglia di seguire l’esempio di Maurizio Ferraris e scrivere un libello: Good-by
Heidegger. A Santiago del Cile, dove vado per una conferenza di chiusura al congresso di fenomenologia ed
ermeneutica, volevo parlare di Heidegger e Wittgenstein, ma ho deciso di cambiare tema e ho dato come
nuovo titolo proprio questo: Good-by Heidegger. La mia introduzione censurata ai Beiträge”28.

26
M. Heidegger, Contributi alla filosofia (Dall’evento), traduzione di Franco Volpi e Alessandra Iadicicco, Milano,
Adelphi, 2007.
27
F. Volpi, E alla fine dico: “Good-by Heidegger”, “Il Sole 24 ore”, 19 aprile 2009, p. 32.
28
Recentemente è stata pubblicata la versione spagnola della Introduzione originale di Volpi ai Beiträge zur
Philosophie, da lui presentata come relazione nell’ambito del I Congresso Internazionale di Fenomenologia ed
ermeneutica, col titolo: Goodbye Heidegger! Mi Introduccion Censurada a los “Beiträge zur Philosophie”, in Sylvia
Eyzaguirre Tafra (ed.), Fenomenología y Hermenéutica. Actas del I Congreso Internacional de Fenomenología y
Hermenéutica, Santiago/Chile, Universidad Andrés Bello, 2008, pp. 43-63. Benché Volpi, come risulta anche dal testo
italiano riportato sopra, non faccia immediatamente proprie le critiche a Heidegger in esso riportate, il titolo da lui posto
alla relazione e il fatto stesso la sua Introduzione sia stata censurata, menzionato nel titolo della relazione, indicano
chiaramente qual è la sua posizione.

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Non c’è dubbio, dunque, che Volpi alla fine sia rimasto profondamente deluso da Heidegger,
dall’ultimo Heidegger, non dallo Heidegger di Essere e tempo, vorace saccheggiatore di Aristotele.
Ma allora è lecito chiederci: qual era la mèta del “sentiero interrotto” di Volpi? Non il “pensiero
poetante” dell’ultimo Heidegger, che lo aveva deluso. Non il nichilismo, di cui – come abbiamo
visto – egli auspicava un superamento, pur non essendone certo. Nemmeno Aristotele, di cui
apprezzava la filosofia pratica, ma non certo la metafisica. Forse la “metafisica sensuale” di Gómez
Dávila? Prima di tentare una risposta, vediamo un ultimo documento. Si tratta della conferenza che
Volpi avrebbe dovuto tenere a Santiago del Cile, di cui fa menzione nella lettera a Massarenti, e che
poi fu da lui pubblicata nella rivista “Tópicos”29.
Il tema di questa conferenza è sostanzialmente il problema del superamento della metafisica,
come risulta dal titolo, che riprende l’espressione con cui Heidegger, nel Poscritto a “Che cos’è
metafisica?”, formula la questione metafisica fondamentale, cioè: “Unico fra tutti gli enti, l’uomo,
chiamato dalla voce dell’essere, esperisce la meraviglia di tutte le meraviglie: che l’ente è”30. In
esso Volpi illustra il superamento della metafisica nel pensiero continentale, cioè fondamentalmente
in Habermas, osservando che questi nel suo Pensiero post-metafisico identifica la metafisica con le
sue espressioni moderne, sia razionalistiche che idealistiche, riprese soprattutto da D. Henrich,
mentre trascura la ripresa della metafisica aristotelica come metafisica problematica compiuta da P.
Aubenque e dalla sua scuola; poi illustra il superamento della metafisica nella filosofia analitica,
cioè nell’omonimo articolo di Carnap rivolto sostanzialmente contro Heidegger, osservando che,
malgrado tale articolo, la metafisica è stata ripresa da filosofi analitici come Strawson e l’ontologia
“reista” che si ispira a Brentano (R. Chisolm, K. Mulligan, B. Smith, P. Simons); indi segnala un
giudizio di Wittgenstein su Heidegger formulato nel 1929, da cui risulterebbe che Wittgenstein
interpretava l’angoscia di cui parla Heidegger come denuncia dei limiti del linguaggio e identificava
tale denuncia con l’etica; infine riferisce varie notizie che attestano il dissenso di Wittgenstein da
Carnap a proposito del superamento della metafisica e il rispetto profondo che Wittgenstein aveva
per la metafisica e per l’etica in quanto espressioni del desiderio insopprimibile di oltrepassare i
limiti del linguaggio.
Volpi conclude l’articolo con un paragrafo intitolato: “a propósito del progreso de la
metafísica y nuestra relación con ella”, cioè con un altro dei suoi rari discorsi in prima persona
(sempre plurale), che dice tra l’altro:

29
F. Volpi, La maravilla de las maravillas: que el ente es. Wittgenstein, Heidegger y la superación “ético-práctica” de
la metafisica, “Tópicos. Revista de filosofía”, n. 30, 2006, pp. 197-231.
30
M. Heidegger, Segnavia cit., p. 261.

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“debemos distinguir la realidad histórica de la metafisica de sus posibilitades. Y reconocer que más
alto que la posibilitad contemporánea de la metafísica se tiene su realidad histórica. La comprensión de la
metafísica consiste en asirla come realidad histórica para transformarla eventualmente, pero sólo por este
medio, en una posibilitad efectiva”31. E più oltre: “No hay metafísica, en rigor, sin filosofia práctica. No se
puede resucitar la idea de metafísica come episteme, sin retomar al mismo tiempo la idea de la teoría como
forma de vida, como praxis suprema. He aquí una buena razón para decir que después de Aristóteles la
metafísica no ha dado ningún paso adelante. Pero podríamos igualmente decir …que tampoco ha dado un
sólo paso atrás: en el sentido de que la metaphysica perennis, en su idealidad, no puede ser atacada por la
decadencia histórica, y que a permanecido como principio regulador o come un término de comparación para
juzgar nuestra condición post-metafísica”.

Qui, come si vede, non si esclude la possibilità di trasformare la realtà storica della metafisica
in una possibilità effettiva, a condizione di intenderla non come epistêmê, ma come theôria,
concepita quale forma di vita. Si torna quindi alle categorie aristoteliche di cui si era appropriato
Heidegger in Essere e tempo, senza tuttavia intendere la theôria come contemplazione distaccata,
ma al contrario identificandola con la forma più alta di prassi: è questo il “superamento etico-
pratico della metafisica”. Il richiamo ad Aristotele è esplicito, come richiamo alla realtà storica della
metafisica, intesa con Heidegger come l’ultima forma di vera metafisica, ma al tempo stesso, a
differenza da Heidegger, come metaphysica perennis. Quest’ultima espressione è sostituita, alcune
linee più avanti, da quella di “metafisica classica”, usata dalla scuola padovana in cui Volpi si è
formato. Egli infatti ricorda che

“la metafísica clásica es tal, esto es, ‘clásica’, porque, no siendo ni antigua ni moderna, sigue siendo
válida, sea en la antigüedad, sea en la modernidad”, e conclude: “En todo caso, no pensamos en la
metafísica ni de manera continental ni de manera analítica: la pensamos de otra manera. Pensamos que la
metafísica, como todos los verdaderos problemas filosóficos, no tiene solución, sino sólo historia. Se trata de
reconocerla salvaguardando el sentido de la problematización radical del que surge y en el que revierte la
filosofía en tanto que es ‘un interrogarlo todo, que es todo un interrogar’”32.

Oltre all’espressione “metafisica classica”, chiunque abbia un minimo di conoscenza della


formulazione che di questa ha dato Marino Gentile, da Volpi ascoltato insieme con me nei suoi
ultimi anni di insegnamento, riconoscerà quel “domandare tutto che è tutto domandare” in cui il
nostro comune maestro identificava la filosofia intesa come “problematicità pura”33. Certo, per
Volpi la metafisica è un problema senza soluzione (ecco la convergenza con Gómez Dávila), ma

31
F. Volpi, La maravilla cit., pp. 230-231.
32
Ivi, p. 231.

13
anche per noi (cioè per Gentile e per me) la soluzione – che pure non può non esserci, altrimenti il
problema è assoluto, cioè non è più problema – non è oggetto di epistêmê, bensì di un socratico
“sapere di non sapere”, che forse non è ancora la praxis a cui allude Volpi (difficilissima da vivere,
sempre che non sia la “sola fede” di Gómez Dávila), ma è almeno una “metafisica debole” , o
“povera”, o “umile”, come mi è capitato di scrivere altrove34. Era questa la mèta del “sentiero
interrotto” di Franco Volpi? Nessuno può dirlo, ma nemmeno escluderlo.

33
M. Gentile, Come si pone il problema metafisico, Padova, Liviana, 1955.
34
E. Berti, Una metafisica (espistemologicamente) “debole”, “Annuario Filosofico”, 16, 2000, Milano, Mursia, 2001,
pp. 27-41 (ristampato in Id., Incontri con la filosofia contemporanea, Pistoia, Petite Plaisance, 2006).

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