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Talete, Anassimandro, Anassimene

Eraclito
Pitagora
Parmenide
IL TERMINE FILOSOFIA
Diogene Laerzio, uno scrittore del III secolo d.C., alle cui Vite dei filosofi attingiamo
la maggior parte delle notizie sui primi pensatori greci, riporta in questa forma un
aneddoto circa il primo filosofo, Talete: «Si narra che, tratto di casa da una vecchia
per contemplare gli astri, cadde in un fosso, e la vecchia ai suoi gemiti disse: “Tu, o
Talete, non sai vedere le cose che sono tra i piedi e credi di poter conoscere le cose
celesti?”». Questo breve racconto è estremamente significativo circa l’interpretazione
che del filosofo e della filosofia dà il senso comune, l’opinione comune: il filosofo
vive tra le nuvole (il commediografo Aristofane descriverà appunto Socrate, il
filosofo per eccellenza, che vive in un «pensatoio» sospeso fra le nuvole), preso dalle
sue astrazioni, lontano dal mondo reale e concreto. Il «buon senso» dileggia dunque la
filosofia come quella disciplina inutile che «lascia il mondo tale e quale».Per avviarsi
a comprendere che cosa è «filosofia» è senz’altro utile cercare di capire da che cosa
essa si distingue (tra l’altro uno dei compiti principali della filosofia è quello di
cogliere l’«essenza» delle cose, cioè «ciò per cui le cose sono quello che sono» e si
distinguono dalle altre). È dunque importante stabilire questa prima distinzione: fin
dalle proprie origini la filosofia è stata percepita come distinta dal senso comune.
Mentre il senso comune, l’opinione si ferma alla superficie della realtà, si accontenta
di fermarsi a come essa appare ai sensi, si arresta dunque al fenomeno (dal greco
ψαίνομαι = apparire), la filosofia va oltre l’apparenza, trascende (dal latino trans, al di
là di, oltre) il dato, cioè quel che ci sta davanti, ponendosi alla ricerca di ciò che è al di
sotto di ciò che appare, della sostanza (dal latino substantia, che  sta sotto, che è a
fondamento di).La filosofia è dunque diversa dal senso comune e spesso è in polemica
con questo. Filosofare non significa semplicemente pensare (il pensiero è
un’attitudine generica dell’uomo, che pensa anche quando deve svolgere un’attività
banale, come per esempio prendere un autobus). Ma in che cosa consisterà questo
specifico tipo di pensiero che è il pensiero filosofico? Filosofare — dice Hegel, il
maggiore pensatore dell’età post-classica — è un po’ come nuotare : non si può
veramente imparare a nuotare se non ci si getta in acqua. Così non è possibile
comprendere in che cosa consiste il filosofare prima di esercitare la filosofia. (Anzi,
dice Hegel, la filosofia non si può definire all’inizio: la sola sua definizione «è il
risultato dell’intera indagine» filosofica stessa).A questo punto nel corso dell’incontro
c’è stato un primo momento di dialogo, con tentativi di definizione della filosofia da
parte di alcuni studenti. Ne è emerso il problema del rapporto della filosofia con la
scienza e si è discussa la definizione della filosofia come un «ragionare per
raggiungere fini». Si è rilevato come le definizioni contenessero tutte qualche
elemento utile. E questo non a caso. Si è detto infatti che la filosofia si differenzia per
esempio dalla religione, in quanto questa tende a cogliere la Verità, l’Infinito, Dio,
con uno slancio unico, immediato, della fede o del sentimento, mentre la filosofia è
invece sforzo di cogliere la Verità attraverso un percorso, attraverso una serie di
passaggi, di mediazioni (= termini intermedi) : in questo senso anche una definizione
parziale o anche erronea può comunque segnare un avanzamento verso la verità
ricercata. Si può dunque  dire che la filosofia è un ragionare volto a fini, anche se si
dovrà cercare di distinguere questo ragionare da quello per esempio di un artigliere
che anch’egli ragiona su come raggiungere il fine di centrare il suo bersaglio con i
proiettili a disposizione. I «fini» di cui si occuperà la filosofia saranno i fini «ultimi»,
quelli cioè che riguardano l’orientamento complessivo, il «destino», dell’individuo
come dell’umanità intera.Il ragionare è comunque senz’altro connaturato alla
filosofia, ne è un carattere decisivo, carattere che la differenzia dalla religione, in cui
predominano, come si è detto, altre attitudini umane, quali fede e sentimento, o
dall’arte che, pur non essendo una manifestazione arbitraria come molti oggi tendono
a pensare, è pur sempre espressione di una capacità creativa, di una ispirazione, di una
«divina mania», come disse Platone.Tra filosofia, arte e religione c’è un elemento di
affinità, si può dire infatti che esse hanno lo stesso contenuto, mirano allo stesso
oggetto: la Verità, l’Universale, il Divino, il Sostanziale, la Totalità. L’arte però
coglie l’universale sotto la forma di immagine sensibile, come insieme di colori, di
note, di versi, etc. La religione coglie l’universale sotto la forma di rappresentazione,
anch’essa in qualche modo legata al sensibile (le leggende, le narrazioni, le parabole,
etc.). La filosofia coglie invece l’universale nella forma del ragionamento, si sforza
cioè di cogliere la sostanza della realtà quale essa è, e la sostanza (appunto ciò che sta
al di sotto delle apparenze) è il logos (λόγος), una ragione presente nelle cose.Questa
è la grande scoperta della civiltà greca, base della filosofia, della scienza e della
civiltà moderna: dietro l’apparente molteplicità dei fenomeni, al di sotto
dell’apparente disordine delle manifestazioni della natura, c’è invece un profondo
ordine, c’è una rigorosa logica, e la mente umana è perfettamente in grado di
riconoscere e di capire quest’ordine, questa logica: c’è un’intima affinità, c’è
un’omogeneità fra la logica delle cose e la logica della mente umana.La vera alba
dell’umanità, dell’Uomo come noi lo intendiamo, consapevole cioè del mondo e di se
stesso, spuntò dunque in Grecia. Le altre civiltà, il mondo orientale, erano vissute nel
torpore del mito, si erano cioè sottomesse alla natura considerandola imperscrutabile,
misteriosa, mossa da forze occulte e sovrannaturali, minacciose per l’uomo, posto in
loro balìa. Questa visione del mondo è ben riflessa dall’arte orientale che ama le
dimensioni sovrumane, le raffigurazioni di animali e di divinità potenti e terribili.
L’arte greca invece, con la centralità della figura umana, colta nella sua armonia, con
perfetto senso delle proporzioni, testimonia della centralità e della potenza dell’uomo
nella mentalità greca, che raffigura gli stessi dei con figura umana e proporzioni
umane. Emblema della mentalità mitica, è la Sfinge, che sovrasta l’uomo con la sua
enigmaticità. Ma, secondo la leggenda, un uomo greco, Edipo, risolve l’enigma della
sfinge e la precipita nell’abisso: il logos sconfigge il mito, l’uomo si accinge alla
comprensione della realtà e della propria posizione nella realtà.Torniamo al problema
del rapporto fra filosofia e scienza: figlie entrambe della civiltà greca, scaturiscono
entrambe dall’uso delle facoltà conoscitive superiori, dall’uso della ragione. Sono
dunque affini nella forma, ma differiscono per contenuto: la filosofia tende infatti
all’universale, alla totalità, mentre le scienze si occupano di settori, di aspetti
particolari della realtà (i fenomeni fisici, gli organismi biologici etc.). Nate in Grecia
da un crogiuolo comune (i primi pensatori greci erano spesso insieme filosofi,
astronomi, meteorologi, geografi, biologi, etc.), le scienze particolari si sono via via
nella storia distaccate dalla filosofia (prima la matematica, poi la fisica, quindi la
chimica, infine la biologia e le scienze che si occupano dell’uomo).La filosofia è la
scienza universale dei principi delle singole scienze (la definizione è di Hegel), nel
senso che, lungi dall’opporsi alle scienze, vuole anzi fondarle, dare cioè loro
fondamenti logici, metodologici, concettuali rigorosi. Le scienze partono infatti
sempre da determinati presupposti, che danno per scontati, e che vanno invece
anch’essi passati al vaglio della critica razionale, come fa la filosofia (o, meglio, come
dovrebbe fare: assistiamo infatti nella nostra epoca a una grave crisi del pensiero
filosofico). È in sede filosofica che vengono discusse categorie (come per esempio la
categoria di causalità) di uso comune nelle scienze, è la filosofia che analizza la
validità dei metodi (deduttivo = dall’universale al particolare, come nelle
dimostrazioni matematiche; induttivo = dal particolare all’universale, come nella
fisica) usati nelle scienze, etc.. Soprattutto le scienze non analizzano criticamente i
propri presupposti, che vengono invece indagati dalla filosofia. Anche la più rigorosa
fra le scienze, la matematica, per esempio, parte  sempre da alcuni presupposti
(assiomi) che essa stessa non può provare. Su quali fondamenti sussistono questi
assiomi? La risposta non viene data nell’ambito della matematica. Riepilogando: un
limite delle scienze particolari è che in esse si parte da princìpi non dimostrati, la
filosofia si pone invece come scienza dei princìpi delle scienze singole.Un’ulteriore
differenza fra scienza e filosofia è stata rilevata nel distacco fra lo scienziato e il suo
oggetto (dal latino obiectum = che sta di fronte) e nel coinvolgimento invece del
filosofo nell’oggetto stesso delle sue indagini. Non si tratta, ovviamente, del
coinvolgimento emotivo: un astronomo, uno zoologo o anche un matematico possono
senz’altro essere emotivamente partecipi delle loro ricerche, prenderne a cuore i
risultati, sentirsi impegnati con tutta la loro persona nella ricerca, ma dal punto di
vista conoscitivo ciò che indagano è altro da loro stessi (corpi celesti, animali, figure
geometriche, etc.). Anche il biologo o lo psicologo, che si occupano dell’uomo, si
occupano di un uomo oggettivato, «altro» da loro stessi, «altro» dal soggetto
osservante. Nella ricerca filosofica invece c’è una profonda compenetrazione di
soggetto e oggetto, né potrebbe essere diversamente, vista l’aspirazione della filosofia
alla totalità, cui si è accennato.Questo carattere della filosofia è implicito nel termine
stesso che la designa. Il termine «filosofia» infatti, è composto da ψιλέω (amo) e
σοψία (sapienza), etimologicamente quindi sta a significare «amore della sapienza».
Le due componenti del termine includono uno «sapienza», l’oggetto cui si tende,
l’altro «amore», la tensione del soggetto. Le implicazioni che ne scaturiscono sono
mirabilmente analizzate da Platone nel suo dialogo Simposio (o Convito): la filosofia
è connessa con l’amore, amore scaturisce, secondo il mito greco, da Eros, Eros è
figlio di πενία , penìa, la povertà ( da cui l’italiano penuria) e πόρος, il guadagno, la
ricchezza. L’atteggiamento filosofico, cioè l’amore per la sapienza, scaturisce dunque
da un avere e da un non avere contemporaneamente: se si fosse ricchi della sapienza,
se si possedesse già la sapienza, si sarebbe semplicemente “saggi” e non “filosofi”.
Essere filosofi implica dunque mancare della sapienza (e averne desiderio), essere
ignoranti. Ma insieme l’essere filosofo implica l’avere già un qualche sapere,
possedere già una certa conoscenza di quello che si cerca (altrimenti non si
cercherebbe neppure), implica avere un sentore o una nostalgia (per dirla con un
termine romantico) della verità: l’animale, il bruto, che si trova in una situazione di
assoluta ignoranza, neppure cerca la sapienza. La condizione del filosofo, a metà
strada fra ignoranza e sapienza, implica un essere sempre in cammino e diventa
emblematica della stessa condizione dell’uomo, che non è né un Dio onnisciente, né
un bruto assolutamente inconsapevole. Il filosofo, l’uomo, è un essere in cammino, è
un essere perfettibile.La filosofia rimane sempre «amore del sapere»: si avvicina al
suo oggetto, la Verità, ma non la coglie mai pienamente, né potrebbe essere
altrimenti. Dal punto di vista ontologico (l’ontologia è la parte della filosofia che si
occupa delle strutture ultime della realtà) il cogliere pienamente l’oggetto sarebbe
possibile diventando l’oggetto stesso, sciogliendosi, per così dire, come soggetto. Ma
il soggetto ricercante, il filosofo, rimane tale, non si annienta nell’oggetto, ne resta
quindi sempre a una certa distanza, non lo raggiunge mai pienamente, non raggiunge
mai pienamente la Verità. La ricerca filosofica è quindi inesauribile, e comunque mai
paga dei risultati raggiunti. Questo non implica però il ricadere nell’ignoranza, nello
scetticismo, bensì uno sforzo continuo di appropriarsi della verità.Questo carattere
della filosofia è ben espresso dal filosofo neoplatonico Niccolò Cusano, che paragona
la conoscenza perfetta della verità a una circonferenza, in cui è inscritto un poligono,
che rappresenta invece la conoscenza umana, lo sforzo filosofico di raggiungere la
verità. Se si moltiplicano i lati del poligono, aumenteranno i punti di intersezione fra
questo e la circonferenza (sempre più aspetti della verità vengono raggiunti
dall’uomo), senza però che mai il poligono finisca col coincidere con la circonferenza,
anche procedendo indefinitamente nella moltiplicazione dei lati. Pur non
raggiungendo punti conclusivi, la ricerca filosofica, cioè, amplia indefinitamente gli
orizzonti umani, la consapevolezza che l’uomo ha di sé e del mondo.La filosofia
implica quindi una ricerca inesauribile delle strutture più profonde della realtà (=
oggetto), come del posto che la nostra umana esistenza occupa in essa e quindi dei
compiti che l’uomo (= soggetto) è chiamato ad assolvere.Questa compresenza di
soggetto e oggetto nella ricerca filosofica non deve però portare a ritenere (come fa
l’opinione comune in disprezzo del rigore della filosofia) che la ricerca filosofica sia
qualcosa di soggettivo nel senso di arbitrario (è oggi frequente l’errore di considerare
soggettivo = individuale = arbitrario). Si tende oggi a confondere la filosofia con la
Weltanschauung, come si dice con una parola tedesca composta da Welt (= mondo) e
Anschauung (= visione, opinione). La filosofia, come si è detto all’inizio, si distingue
dall’opinione. La filosofia, in quanto tensione verso l’oggettivo, è ben diversa dalla
«visione del mondo» soggettiva, che ognuno si fabbrica, per così dire, da sé. «Se si
prende la filosofia sul serio — ha affermato in un suo corso di lezioni del 1962
all’Università di Francoforte il filosofo tedesco Theodor Adorno — il compito della
cultura filosofica deve consistere nella liberazione, attraverso lo stesso lavoro
filosofico, da questa idea che uno possa scegliere la sua Weltanschauung adottando
quella che più gli si attaglia — idea in cui è già implicitamente presente quella di una
mancanza di necessità e rigore onde la filosofia viene privata della sua pretesa di
verità. [...] Direi che la filosofia ha il compito di liquidare l’opinione, e cioè di andare
al di là di tutte le convinzioni che uno ha scelto semplicemente perché gli si attagliano
[...]. «La filosofia — abbiamo concluso, riprendendo le parole di Hegel — è scienza
oggettiva della verità, scienza della necessità della verità, conoscenza concettuale, e
non già opinare e filza di opinioni».
Testi
C’imbattiamo quindi subito nella veduta assai comune intorno alla storia della
filosofia, secondo cui essa non dovrebbe far altro che ritessere la narrazione delle
opinioni filosofiche quali esse si sono presentate e sono state esposte nel corso dei
tempi. Quando si parla con urbanità, a questo materiale si dà il nome di opinioni;
quelli invece che credono di poter dare un giudizio più profondo, chiamano questa
storia addirittura galleria delle pazzie, o almeno dei traviamenti dell’uomo che si
inabissa nel pensiero e nei puri concetti. Tale veduta la si può udir manifestare non
soltanto da coloro che confessano la loro ignoranza in fatto di filosofia (ed essi la
confessano, perché secondo l’opinione comune l’ignoranza non può far loro ostacolo
a sentenziare su ciò che sia filosofia, anzi ognuno è sicuro di poter giudicare del
valore e dell’essenza della filosofia senza capirne un’acca), ma anche da persone che
hanno scritto e scrivono storie della filosofia. Una storia, concepita in tal modo come
una filastrocca di opinioni diverse, diventa curiosità oziosa, o, se si vuole, interesse di
semplice erudizione. Infatti l’erudizione consiste principalmente nel sapere una
quantità di cose inutili, che non hanno in sé alcun contenuto e alcun interesse
all’infuori di quello costituito appunto dal semplice fatto d’averne conoscenza.
Tuttavia si crede ugualmente di trarre profitto dalla conoscenza delle varie opinioni e
dei vari pensieri degli altri: si crede ch’essa metta in moto la facoltà del pensare, che
susciti anche qualche buona idea, vale a dire porga l’occasione di formulare opinioni
nuove; la scienza consisterebbe così nel continuare a filare opinioni su opinioni.
Se la storia della filosofia fosse soltanto una galleria di opinioni — sia pure relative a
Dio e all’essenza delle cose naturali e spirituali — essa sarebbe una scienza
superfluissima e noiosissima, per quante utilità si potessero mai addurre che si
ricaverebbero da siffatto movimento di pensiero e d’erudizione. Che vi può esser di
più inutile che l’imparare una serie di semplici opinioni? che cosa di più indifferente?
Basta dare un’occhiata alle opere che espongono la storia della filosofia come
semplice serie di opinioni, per veder subito quanto siano aride e senza interesse.
Un’opinione è una rappresentazione soggettiva, un pensiero casuale,
un’immaginazione, che io mi formo in questa o quella maniera. e altri può avere in
modo diverso: l’opinione è un pensiero mio, non già un pensiero in sé universale, che
sia in sé e per sé. Ma la filosofia non contiene opinioni, giacché non si danno opinioni
filosofiche. Chi parla di opinioni filosofiche, anche se ha scritto storie della filosofia.
rivela subito la mancanza dei primi fondamenti. La filosofia è scienza oggettiva della
verità, scienza della necessità della verità, conoscenza concettuale, e non già opinare e
filza di opinioni.
(G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia, I, pp. 20-21)

LA STORIA DELLA FILOSOFIA


Il secondo incontro di introduzione alla filosofia greca ha preso l’avvio
dall’interpretazione di una laminetta orfica, trovata nella tomba di una giovinetta in
una località della Magna Grecia, in cui all’anima della defunta si consiglia di non
accostarsi alla prima fonte che troverà, quella del «Lete», o della dimenticanza, bensì
alla seconda, che «scorre dalla palude di Mnemosine», cioè della Memoria. È
significativo che per la religione misterica (che visse parallelamente a quella
olimpica) la salvezza consisteva nell’attingere alla memoria: mantenere la memoria
vuol dire mantenere l’identità. Altrettanto significativo è che per i Greci Mnemosine
era la madre delle Muse, quindi la madre della civiltà: la civiltà è dunque fondata sulla
memoria storica.La filosofia, come progressiva e sempre più adeguata consapevolezza
dell’uomo, non può essere disgiunta dalla dimensione della memoria storica. «Siamo
nani sulle spalle di giganti» affermavano gli Umanisti italiani, dando nuovo senso a
un motto di Bernardo di Chartres: la nostra ragione potrà essere tanto più potente e
lungimirante, quanto più ci saremo impadroniti del pensiero dei «giganti», cioè dei
classici: solo a partire dalle loro altezze, da quanto essi hanno conquistato col loro
ingegno, potremo lanciare uno sguardo su orizzonti più lontani. La filosofia dunque
non può fare a meno di fondarsi sulle conquiste dei grandi pensatori che ci hanno
preceduto. Il patrimonio di razionalità di cui possiamo godere noi oggi non è scaturito
immediatamente, non germoglia soltanto dal terreno del presente, ma è un’eredità, il
risultato del lavoro di tutte le generazioni che furono, come afferma Hegel.La
funzione dell’età nostra, come di ogni altra, è di impadronirsi della scienza, del
patrimonio di conoscenze già esistente, di assimilarla, e di portarla a un grado più
elevato.Anche le scienze particolari procedono sulla base dell’ampliamento di quanto
si è già raggiunto nei vari campi, ma nella filosofia quelli che sono gli stadi precedenti
di sviluppo sono vivi e presenti nella comprensione attuale del mondo. E questo
proprio perché la filosofia è sforzo di cogliere con la nostra ragione la razionalità
presente nella realtà.Ora, mentre la conoscenza sensibile è immediata, è fondata cioè
sull’intuizione, su un atto di carattere puntuale, diretto (il vedere una penna, l’afferrare
un bicchiere), la conoscenza razionale è mediata, è fondata cioè sul discorso, sulla
concatenazione di una serie di termini intermedi, è conoscenza mediata, in cui ogni
termine svolge un ruolo insostituibile, come l’anello di una catena, che, venendo
meno, fa venir meno la catena stessa. Il dispiegarsi della ragione, il ragionamento, è
concatenazione di termini. Questo modo di procedere è ben chiaro in matematica:
basti pensare ai passaggi della dimostrazione di un teorema. La filosofia è come un
tentativo di dimostrare il teorema della realtà intera: nel ragionamento filosofico
nessun termine è superfluo o casuale (perciò Hegel afferma che: «Ogni filosofia è
stata necessaria»).Se il ragionare non è immediato, bensì mediato, è passaggio da un
termine all’altro, è evidente che esso non può svolgersi in un punto del tempo, in un
attimo, bensì è un processo temporale, storico: la filosofia si dispiega nella storia. Le
categorie filosofiche, le chiavi di comprensione della realtà che la filosofia elabora,
corrispondono ai singoli filosofi, ai singoli sistemi filosofici che si sono presentati,
con reciproche critiche e superamenti, sulla scena della storia: all’ordine logico dei
concetti filosofici corrisponde il loro presentarsi nella storia della filosofia: la filosofia
coincide con la sua storia.Si è rilevato a questo punto come sia debole il presentare la
filosofia per problemi, come se ci fosse un problema ontologico (problema
dell’essenza della realtà), e poi un problema gnoseologico (della conoscenza), e anche
un problema morale (di ciò che è bene), e ancora un problema estetico (di ciò che è
bello) etc., etc. Questo modo di procedere descrittivo e sommatorio è proprio delle
scienze particolari, che classificano piante, animali, fenomeni diversi, esterni gli uni
agli altri: il modo di considerare i vari aspetti della realtà, il porsi i vari «problemi»,
dovrà avvenire in filosofia svolgendo coerentemente princìpi: già a partire da Talete la
filosofia tende a cogliere l’unità della realtà al di là dell’apparente disordine della
molteplicità.La filosofia, si diceva, coincide con la propria storia. E questa storia
inizia in Grecia.L’uomo greco dona all’umanità 1a consapevolezza di essere
portatrice della cultura, cioè della possibilità di «coltivarsi», di crescere (a differenza
delle specie animali, imbrigliate in meccanismi automatici e sempre identici, senza
sviluppo se non nei tempi lunghi dell’evoluzione biologica): l’uomo è portatore di una
possibilità di autoperfezionamento, di progresso, in contrapposizione alla natura,
immobile nella sua ciclicità, ferma al ripetersi di meccanismi fissi. La cultura è per i
Greci paideia (da  παιδεύω = educare, formarsi): fu all’idea greca della cultura che
Augusto riallacciò la missione dell’Impero romano. Senza l’idea greca della cultura
non vi sarebbe un’antichità classica quale unità storica densa di messaggi per
l’umanità successiva, non vi sarebbe stata una civiltà rinascimentale, mancherebbe
ogni fondamento al «mondo civile».Il netto distacco della civiltà greca dall’immobile
mondo orientale subordinato al mito, è, come si è detto nel primo incontro, la scoperta
greca del logos. Si è proceduto a specificare i vari ambiti di applicazione di questo
concetto così importante per la filosofia greca.Il logos (in greco = parola, ragione: il
verbo λέγω significa «dire», «parlare», ma c’è anche un verbo λέγω usato da Omero
nel senso di «mettere insieme», «raccogliere», «scegliere») sta prima di tutto ad
indicare la legge logica, la legge della ragione umana, che corrisponde alla legge di
natura. La natura per i greci non è caos, disordine, bensì un tutto ordinato, armonioso,
dotato di razionalità, di una logica interna, di leggi appunto. Al cosmo naturale deve
corrispondere il cosmo umano: anche i rapporti fra gli uomini dovranno rispondere al
logos, dovranno cioè essere ordinati secondo leggi (a questo punto è stato discusso il
tema della giustizia nel mondo greco e si sono commentati brani di Esiodo, Solone,
Teognide ed Eschilo. Un ordine, un’armonia dovranno anche essere presenti nel
comportamento dell’individuo. Ci sarà dunque una legge morale, che consisterà
anch’essa in una legge di armonia, di proporzione.«Sempre il giusto mezzo prevalga»,
dice Eschilo in un passo delle Eumenidi: l’errore consisterà nella «tracotanza»,
nella ύβρις, cioè nell’uscire dai giusti limiti.Il logos, parola-chiave del pensiero e della
civiltà greca, già prima della nascita della filosofia vera e propria, nei poeti e nei
tragici, assume la quadruplice accezione di legge naturale, legge della mente umana
(logica), legge di giustizia, legge morale.Si è in conclusione brevemente illustrata la
legge di sviluppo della filosofia greca dal momento «oggettivo» (naturalisti
presocratici) a quello «soggettivo» (sofisti) a quello «sintetico» (Socrate, Platone): se
c’è una logica di sviluppo degli eventi naturali, ci sarà infatti anche una logica di
sviluppo delle creazioni umane, e quindi della filosofia stessa.
Materiali
E troverai alla sinistra delle case di Ade una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso
diritto: a questa fonte non accostarti neppure da presso. E ne troverai un’altra, fredda
acqua che scorre dalla palude di Mnemosine: e davanti stanno i custodi. Dì loro:
«Sono figlia di terra e di cielo stellante, inoltre la mia stirpe è celeste; e questo sapete
anche voi. Sono riarsa di sete e muoio: ma date, subito, fredda acqua che scorre dalla
palude di Mnemosine». Ed essi ti lasceranno bere dalla fonte divina, e in seguito tu
regnerai assieme agli altri eroi.(Laminetta orfica)
[...] Ogni filosofia è stata necessaria, e tale è ancora; nessuna quindi è scomparsa, anzi
tutte sono conservate affermativamente nella filosofia come momenti d’un tutto.[...]. I
princìpi si conservano, e la filosofia più recente è il risultato di tutti i princìpi
precedenti; in tal senso nessuna filosofia è stata confutata. Ciò ch’è stato confutato,
non è il principio di quella data filosofia, ma soltanto la pretesa che esso rappresenti la
conclusione ultima, assoluta.(HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia, I, 48)
[...] Sebbene la storia della filosofia sia una vera storia, tuttavia non ha da fare con un
mondo scomparso. Contenuto di questa storia sono i prodotti scientifici della
razionalità; ed essi non sono transitori. Ciò ch’è stato conseguito in questo campo è il
vero, ed esso è eterno, né può esistere in un tempo e in un altro no; è vero, non
soltanto oggi o domani, ma fuori di ogni tempo, e in quanto esiste nel tempo, è vero
sempre ed in ogni tempo. Certamente [...] la vita temporale e i desini esteriori dei
filosofi non sono più, ma la loro opera, i pensieri, non li hanno seguiti nella tomba,
giacché il contenuto razionale delle loro opere non è stato loro immaginazione o
sogno. La filosofia non è sonnambulismo; ma piuttosto la più vigile coscienza; e
l’opera di quegli eroi consiste appunto nell’aver tratto il razionale in sé dalle
profondità dello spirito, dov’esso si trova dapprima soltanto come sostanza, come
essenza interiore, e nell’averlo recato alla luce, nell’averlo sollevato alla coscienza, al
sapere; consiste, insomma, in un progressivo risveglio.(HEGEL, Lezioni sulla storia
della filosofia, I, 50)
I Greci, considerati dal presente, rappresentano rispetto ai grandi popoli storici
dell’Oriente un «progresso» radicale, un nuovo grado in tutto ciò che concerne la vita
dell’uomo nella comunità. Questa è impostata, presso i Greci, su fondamenti affatto
nuovi. Per quanto altamente si apprezzi l’importanza artistica, religiosa e politica dei
popoli anteriori, la storia di ciò che possiamo chiamare cultura, nel nostro senso
consapevole, non comincia che coi Greci.(W. JAEGER, Paideia, I, 3)
Se consideriamo i Greci sullo sfondo storico dell‘antico Oriente, la differenza è così
imponente, che i Greci sembrano fondersi in un’unità col mondo europeo dell‘età
moderna, che sin troppo facilmente interpretiamo nel senso della libertà
dell’individualismo moderno. In realtà non v’è contrasto più crudo che tra la
coscienza individuale dell’uomo odierno e lo stile di vita dell’Oriente preellenico,
quale ci si presenta nella cupa maestà delle piramidi o delle tombe regali e degli
edifici monumentali d’Oriente. Di fronte a tale inaudita esaltazione di singoli uomini-
dèi oltre ogni misura naturale, dove si esprime un sentimento metafisico a noi
estraneo, ma anche di fronte all’annichilimento della moltitudine, senza il quale è
impensabile quell’esaltazione del dominatore e della sua importanza religiosa, l’inizio
della storia greca si presenta come l’alba di una nuova valutazione dell’uomo, che per
noi facilmente si fonde senz’altro con l’idea, diffusa specialmente dal Cristianesimo,
dell’infinito valore delle singole anime umane e con l’autonomia spirituale
dell’individuo, rivendicata dal Rinascimento in poi. E invero come giustificare, senza
alquanto del senso greco della dignità dell’uomo, il diritto dell’individuo all’alta
importanza che gli conferisce l’età moderna?I Greci hanno un senso innato di ciò che
corrisponde alla «Natura». Il concetto di Natura, che essi per primi coniarono, è senza
dubbio sgorgato dalla loro particolare disposizione di spirito. Molto prima che la loro
mente producesse quest’idea, essi vedevano già le cose con tali occhi, cui nessun
elemento del mondo si presentava mai isolato nella sua particolarità, ma sempre e
soltanto inquadrato nel nesso vivo di un tutto, dal quale riceveva la sua posizione e il
suo significato. Noi chiamiamo questo modo di vedere «organico», perché concepisce
il singolo quale membro di un tutto. Il bisogno dello spirito greco di una
comprensione cosciente delle leggi della realtà, che si rivela in ogni campo della vita,
nel pensiero, nella parola e nell’azione come in ogni specie di creazione artistica, è
connesso con questa capacità di cogliere la struttura naturale, insita, originaria,
organica dell’essere.(W. JAEGER, Paideia, I, 9-11)
Tale è la legge che agli uomini impose il figlio di Crono:ai pesci e alle fiere e agli
uccelli alatidi mangiarsi fra loro, perché fra loro giustizia non c’è;ma agli uomini
diede giustizia che è molto migliore;se infatti qualcuno è disposto a dare giuste
sentenzecosciente, a lui dà benessere Zeus onniveggente;ma chi sia testimone, e
deliberatamente, commette spergiuroe mente e Giustizia offendendo pecca senza 
rimedio,oscura dopo di lui la sua stirpe sarà;migliore invece sarà la stirpe dell’uomo
che il giuramento rispetta.(ESIODO, Opere e giorni, vv. 276-286)
[...] si fanno ricchi dietro all’ingiustizia[...] senza riguardo ai beni sacri o pubblici,chi
di qua chi di là saccheggiano, rapinano,spregiando i fondamenti di Giustizia.Ella non
parla: conscia del presente e del passato,arriva sempre, vindice, col tempo.(SOLONE,
D 3)
Ogni virtù nella giustizia si compendia.(FOCILIDE, D 10)
Scegli piuttosto un’esistenza pia con pochi mezziche la ricchezza frutto d’ingiustizia.
Nella giustizia tutti i privilegi assommano,e il giusto è sempre un ottimate, Cirno.[...]
C’è una cosa, che inganna gli uomini: i beatipuniscono la colpa variamente.Se c’è chi
paga di persona il debito, e non lascia in sospeso sui figli la rovina,c’è chi sfugge alle
grinfie di giustizia: acerba mortegli cala sulle palpebre, lo stronca.(TEOGNIDE I.
145-148. 203-208)
Strofe IIISenza freno di leggi non lodare la vita, né senza libertà. Sempre il giusto
mezzo prevalga. Questo volle il dio, che i casi diversi diversamente sorveglia e dirige.
E sia qui ripetuto il detto: «Di Empità verissima figlia è Tracotanza». Da equilibrio di
mente nasce felicità a tutti cara, da tutti desiderata.Antistrofe IIIAnche ripeto, ed è
legge suprema: «Rispetta l’altare di Giustizia. Non ti seduca guadagno a rovesciarlo
con piede sacrilego, perché il castigo sopravverrà».Ogni azione ha suo termine fisso.
Abbia ciascuno per i genitori la reverenza dovuta, e sia rispettoso degli ospiti che
frequentano la sua casa.Strofe IVChi per suo volere, e non costretto da necessità, ama
Giustizia, non sarà infelice né potrà mai perire del tutto. Ma chi  per sua ribellione
trasgredisce ogni norma, costui io dico che con tutta la sua nave, con tutto il suo
carico di ricchezze contro giustizia accumulate, per forza un giorno dovrà precipitare
nel mare quando il vento della tempesta gli prenda le vele  e gli spezzi l’antenna.
Atena. Ascoltatemi, o cittadini di Atene; udite che cosa è questo ordine da me
istituito, voi che per primi siete chiamati a giudicare in una causa di sangue.  Anche
per l’avvenire resterà al popolo Egeo, e sempre rinnovato, questo Consiglio di giudici.
Il colle di Ares è questo: dove già le Amazzoni ebbero loro sedi e tende quando per
odio a Teseo qui si  accamparono in guerra e di fronte all’Acropoli antica questa città
nuova munirono di alte torri; e qui fecero sacrifici ad Ares, ond’ebbero il nome di
Ares la rupe ed il colle. Su questo colle Reverenza e Paura, che di Reverenza è
cognata, impediranno ai cittadini di fare offesa a Giustizia, quando non vogliano essi
stessi sovvertire le leggi: chi di correnti impure e di fango intorbida limpide acque non
troverà più da bere. Né anarchia né dispotismo: questa è la regola che ai cittadini
amanti della  patria consiglio di osservare; e di non scacciare del tutto dalla città il
timore perché senza il timore nessuno dei mortali opera secondo giustizia. E se voi,
come dovete, avete timore e reverenza della maestà di questo istituto, il vostro paese e
la vostra città avranno un baluardo di sicurezza quale nessun’altra gente conosce, né
fra gli Sciti né nella terra di Pelope. Incorruttibile al lucro io voglio questo Consiglio,
rispettoso del  giusto; e inflessibile e pronto, vigile scolta che se anche gli altri
dormono è desta. Questi sono gli avvertimenti che ai miei cittadini, pensando al
futuro, mi sono indugiata a dare. E ora levatevi, o giudici, recate all’urna i vostri
suffragi e, rispettando il giuramento, definite la causa. Non ho altro da dire.(da
ESCHILO, Eumenidi, II e III)

TALETE, ANASSIMANDRO, ANASSIMENE


Dei primi pensatori greci solo in pochi casi ci sono pervenuti scarni frammenti (come
nel caso dell’unico frammento superstite di Anassimandro che viene analizzato nel
seguito). Per la loro conoscenza ci dobbiamo affidare dunque a testimonianze, le più
preziose delle quali si trovano nel I libro della Metafisica di Aristotele e nei Dialoghi
di Platone, oltre che in Cicerone e nelle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio.
Sottolineata la difficoltà di attingere l’autentico pensiero dei filosofi «presocratici», si
è proceduto a distinguerli secondo la loro provenienza geografica: la filosofia
scaturisce dapprima nelle colonie greche del Mediterraneo orientale (Ionia) e
dell’Italia Meridionale (Magna Grecia), più aperte agli scambi e alle influenze con
altri popoli, e solo con Anassagora inizia a fiorire nel centro della grecità: Atene.
Delle colonie greche d’oriente sono originari Talete, Anassimandro, Anassimene,
Eraclito, gli atomisti Leucippo e Democrito, Anassagora (che poi si stabilì ad Atene);
provengono dalla Magna Grecia Pitagora (di Samo, ma vissuto a Crotone), Senofane,
Parmenide e Zenone (di Elea, l’odierna Ascea, a sud di Salerno), Empedocle di
Agrigento. Secondo Hegel questa differenza di provenienza geografica si ripercuote
anche nella storia del pensiero: nei pensatori delle colonie dell’Asia Minore
prevarrebbe un pensiero ancora molto legato al sensibile (l’acqua di Talete, l’aria di
Anassimene), mentre nei pensatori della Magna Grecia prevarrebbe il pensiero più
astratto (il numero di Pitagora, l’essere di Parmenide).Il primo pensatore della Scuola
di Mileto (nella Ionia, in Asia Minore) — chiamata «scuola» in senso improprio in
quanto fra i suoi membri, Talete, Anassimandro e Anassimene, non ci furono chiari
rapporti di maestro e discepolo — Talete, si distaccò dal senso comune, dalla
superficie della realtà, dal mondo dell’apparenza, ponendosi il problema dell’archè, di
ciò che conferisce unità alla realtà al di là della molteplicità che ci si presenta
immediatamente ai sensi.Constatata infatti la presenza di innumerevoli entità distinte
fra loro e ciascuna diversa dall’altra, Talete si domanda se non ci si sia una più
profonda unità dietro l’apparente molteplicità. Se, nonostante il fatto che ci
imbattiamo sempre in entità individuali dotate ciascuna di una propria precisa identità
(piante, animali, uomini, etc.), le vediamo però come parti di un’unica realtà (ci
riferiamo spesso spontaneamente al concetto di «mondo» o di «universo» come
qualcosa di unitario), ciò vuol dire che tutte le cose devono avere qualcosa in comune
e che ci deve essere un principio unificatore di tutta la realtà   (αρχή).Tale principio è
identificato da Talete nell’acqua. Talete infatti, come tutti i primi pensatori greci, è
ilozoista (da ΰλη = materia e ζωον = vivente), considera cioè tutta la realtà (anche
quella apparentemente inerte) come animata, come dotata di vita.Se la vita è presente
dappertutto nella realtà, il principio unificatore della realtà dovrà coincidere col
principio della vita. Ma la vita dipende dall’acqua (la natura diventa fertile dopo la
pioggia; i corpi sono dotati di vita fino a quando sono impregnati di umore; piante e
animali non sopravvivono nei deserti; il mare brulica di vita; etc.). Talete era convinto
che c’è vita dove c’è acqua. L’acqua è dunque principio di vita, è inseparabile da
questa; ma la vita è presente in tutta la realtà, dunque anche l’acqua è onnipresente, è
l’elemento che unifica tutte le cose, è l’archè.Pur avendo compiuto il passo decisivo
per superare l’apparenza sensibile (vedere Testi) e pur avendo scorto l’unità
sostanziale della realtà (per cui nessuna entità particolare può dopo di lui essere
considerata per sé stante, ma dovrà essere ricollegata al tutto di cui è parte), Talete
aveva compiuto un percorso parziale: dalla molteplicità all’unità. Ma una volta
raggiunta l’unità, come si spiega il processo inverso, il differenziarsi cioè dell’unità in
molteplicità?Anassimene affronta questo problema identificando il principio
unificatore nell’aria: anche l’aria è presente dovunque e anch’essa è principio di vita,
infatti gli organismi vivono finché respirano (anche Anassimene è un ilozoista: il
principio unificante della realtà deve coincidere col principio della vita).L’aria come
archè è però concepita da Anassimene — a differenza dell’acqua di Talete — come
un principio dinamico, che in quanto tale può dar conto, oltre che dell’unità, anche
della molteplicità. Essa è infatti soggetta al dinamismo della rarefazione e
condensazione: per la prima si trasforma in vapore e in fuoco, per la seconda in acqua
e in terra (vedere Testi). L’aria dà dunque conto insieme della diversità degli esseri
che si presentano ai nostri sensi e dell’esigenza del nostro intelletto di trovare una
sostanza che unifichi la molteplicità dei fenomeni.Anassimandro ritrova il principio
unificante della realtà in un principio più astratto, l’àpeiron (l’illimitato,
l’indeterminato), che riesce a dar meglio conto della compresenza di unità e
molteplicità. Tutte le cose finite partecipano dell’àpeiron, sono interne ad esso. Per
cogliere il rapporto che passa fra l’indefinito e le cose individuali si può pensare
all’attività di cartografo di Anassimandro: i segni che si stagliano sul foglio bianco a
definire paesi, coste, confini (e delimitano dunque cose finite) non sono disgiungibili
dallo sfondo stesso su cui sono stati tracciati: tolto lo sfondo (l’àpeiron) è tolto anche
il segno che questo contiene (il finito). Limitato e illimitato, molteplice e unità si
implicano reciprocamente. L’illimitato è presente in tutte le cose finite, è l’archè.
Nell’unico frammento pervenutoci, Anassimandro afferma che «da dove gli esseri
hanno origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità». Da filosofo
naturalista, Anassimandro osservava probabilmente l’emergere periodico (secondo
necessità, secondo una legge naturale precisa) dalla massa indistinta di una zolla di
terra di innumerevoli entità diverse (fiori, piante, germogli, etc.). Ma queste entità
diverse, molteplici, individuali «secondo l’ordine del tempo» periscono,
disgregandosi, perdendo i loro limiti, disfacendosi e rientrando così a far parte della
massa indifferenziata della zolla di terra (l’indefinito, l’àpeiron). È importante rilevare
l’introduzione del concetto di necessità: esplicitando la nozione greca di «cosmo»,
Anassimandro vede la realtà come dominata da un ordine e il divenire, il trasformarsi
della realtà come svolgentesi secondo leggi necessarie.Il frammento prosegue
sostenendo che gli esseri «debbono pagare (l’uno all’altro) la pena e l’espiazione
dell’ingiustizia. Il frammento, mancante della parola αλλήλοις, l’uno all’altro, è stato
interpretato nel senso che la colpa da espiare è l’esistenza stessa, in quanto distacco
dal tutto, dall’àpeiron (si è rilevato che il tema dell’esistenza come colpa è presente in
qualche modo anche nella dottrina cristiana del peccato originale). Lo studioso
tedesco Diels ha però sostenuto la presenza della parola αλλήλοις: in questo caso
l’ingiustizia consiste nel travalicare i propri limiti, fissati per ognuno all’interno
dell’àpeiron; il limite viene ineluttabilmente ristabilito dalla giustizia.
Testi:
Talete
Si raccontano vari aneddoti relativi alle sue [di Talete] conoscenze e occupazioni
astronomiche: «Guardando in cielo per osservare le stelle, egli sarebbe caduto in un
fosso, e la gente lo avrebbe canzonato, meravigliandosi come mai potesse conoscere
le cose del cielo chi non vedeva neppure ciò che aveva davanti ai piedi». La gente ride
di queste cose, e ha il vantaggio che i filosofi non possono ribatter nulla; ma non
capisce che i filosofi ridono di essa, che certamente non può cadere in un fosso,
giacché vi si trova in perpetuo, incapace com’è di guardare verso l’alto.(HEGEL,
Lezioni sulla storia della filosofia, I, 192)
Perciò ritengono [i primi filosofi] che, serbandosi sempre tal natura, niente cominci ad
essere o perisca del tutto: così come neanche noi diciamo di Socrate né che comincia
ad essere assolutamente, se divien bello o musico, né ch’egli perisce, quando perde
queste doti, perché rimane Socrate come soggetto. Similmente delle altre cose. Infatti
deve esserci qualche natura, o una sola o più d’una, da cui tutto si genera,
conservandosi essa [...]. Però non tutti concordano quanto al numero e alla specie di
tal principio; Talete, l’antesignano di siffatta filosofia, dice che è l’acqua.
(ARISTOTELE, Metafisica, I, 3)
Talete suppone che tutto derivi dall’acqua e in essa si risolva, perché, allo stesso
modo che il seme d’ogni vita come principio di questa è umido, così anche ogni altra
cosa ha il suo principio dall’umidità; perché tutte le piante traggono dall’acqua il loro
nutrimento, e se essa manca inaridiscono; perché perfino il fuoco del sole e delle
stelle, e lo stesso mondo, sono alimentati dalle evaporazioni dell’acqua.(PLUTARCO,
citato in Hegel, I, 196)
[...] occorreva allo spirito una grande audacia per negar valore a questa immensa
varietà d’esistenza del mondo naturale e ridurlo ad una sostanza semplice, che, nella
sua permanenza, non nasce né muore, mentre gli Dei hanno pure una teogonia, hanno
forme molteplici e sono soggetti a mutamento. Con l’affermazione che quest’essere è
l’acqua è messa a tacere la sbrigliata fantasia omerica infinitamente variopinta,
vengono superati questa molteplicità infinita di princìpi frammentari, tutto questo
modo di rappresentarsi il mondo come se l’oggetto particolare sia una verità per sé
stante, una potenza esistente per sé e indipendente al disopra delle altre; e si ammette
quindi che vi è un unico universale, ciò che è universalmente in sé e per sé,
l’intuizione semplice e senza più elementi fantastici, il pensiero, che soltanto l’uno è.
(HEGEL, I, 199)
La semplice affermazione di Talete è filosofia, perché essa non intende l’acqua
sensibile, nella sua peculiarità di fronte ad altre cose naturali, sibbene come pensiero,
nel quale tutte quelle cose si risolvono e sono contenute.(HEGEL, I, 200)
 
Anassimene
L’aria si distingue per via di rarefazione e di condensazione nelle varie sostanze. E
rarefacendosi diventa fuoco, condensandosi invece diviene vento, poi nuvola, e
ancora più condensata, acqua, poi terra, e quindi pietra.(TEOFRASTO in Simplicio,
Fisica, 24, 26)
 
Anassimandro
[...] principio degli esseri è l’indeterminato (ajvpeiron)... da dove infatti gli esseri
hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi
debbono pagare [l’uno all’altro] (allh;loi") la pena e l’espiazione dell’ingiustizia
secondo l’ordine del tempo.

ERACLITO
Platone e Aristotele pongono Eraclito tra i filosofi naturalisti a fianco di Talete,
Anassimandro e Anassimene: egli si sarebbe posto prima di tutto il problema
dell’archè, dando una soluzione differente da quella degli altri ionici. Ciò che è
presente in tutte le cose, ciò che quindi è fondamento di tutto, l’archè, è il divenire
stesso di tutte le cose: niente è immobile, ogni cosa muta e si trasforma
continuamente. L’elemento che più si presta, proprio per la sua mobilità, a
simboleggiare il divenire è il fuoco. Il fuoco ha la caratteristica di poter trasformare
tutte le cose e tutte le cose possono prendere fuoco, trasformarsi in fuoco:
«Mutamento scambievole di tutte le cose col fuoco e del fuoco con tutte le cose...»
dice Eraclito nel frammento 90. Ma anche un’altra caratteristica del fuoco spingeva
probabilmente Eraclito a vedere in questo elemento l’archè: la fiamma è animata da
un vorticoso dinamismo, cambia in ogni istante, ma, pur in questo continuo
mutamento, resta la stessa e si presta quindi a indicare la compresenza di unità e
pluralità della realtà. Il fuoco è uno e multiplo, è se stesso e ad ogni istante è diverso
da sé. Eraclito intuisce che essere e divenire sono strettamente congiunti, che essere
sé e trasformarsi in altro non sono due stati completamente distinti e separati. Proprio
la difficoltà di rendere idea della compresenza di essere e divenire in tutte le cose
porta Eraclito a esprimersi in un linguaggio apparentemente contraddittorio che gli ha
meritato nell’antichità l’appellativo di «scoteinòs», l’oscuro.Il fuoco dunque
simboleggia il divenire universale, ma la più importante scoperta di Eraclito è che
questo divenire non è casuale e caotico, bensì regolare e ordinato. Egli afferma:
«Quest’ordine universale, che è lo stesso per tutti, non lo fece alcuno tra gli dèi o tra
gli uomini, ma sempre era, è e sarà fuoco sempre vivente, che si accende e si spegne
secondo giusta misura» (framm. 30).Eraclito è così il primo assertore del logos, cioè
della razionalità presente nella natura, che viene rispecchiata dalla razionalità della
mente umana.Tutti i fenomeni della natura avvengono secondo leggi ben precise,
sono soggetti a leggi necessarie e insieme tutti gli uomini sono dotati di ragione
(framm.113). Non tutti gli uomini però fanno uso pieno della ragione: i più si fermano
all’apparenza, ai sensi, all’opinione: «Pur essendo questo logos comune, la maggior
parte degli uomini vivono come se avessero una loro propria e particolare saggezza»
(framm.2). Eraclito polemizza aspramente con chi vive «dormendo», cioè scambiando
le proprie personali opinioni per la realtà oggettiva (come chi sogna e scambia le
proprie fantasie per la vera realtà). Gli «svegli», cioè coloro che adoperano la ragione
per orientarsi nel mondo, coloro che seguono il logos, hanno un cosmo comune.
«Bisogna seguire ciò che è comune» dice Eraclito (framm.2). Il logos, presente in tutti
gli uomini, la ragione, facoltà conoscitiva suprema, ci mette in contatto con la logica,
la razionalità presente nelle cose, ci permette di coglierle nella loro oggettività. Ai
sensi, al sentimento, alle passioni, agli istinti, le varie situazioni, i vari aspetti della
realtà si presentano diversi da individuo a individuo. Sensi, sentimenti, passioni,
istinti, sono soggettivi, la ragione è invece in grado di metterci in contatto con
1’oggettività delle cose, essa è quindi universale, e accomuna gli uomini, mentre le
altre facoltà e attitudini umane portano a divergenze e particolarismi. Afferma Hegel a
proposito delle posizioni di Eraclito sul logos e della sua polemica con le opinioni: «Il
sogno è la conoscenza di qualche cosa che so soltanto io; l’immaginazione e simili
sono appunto sogni. Similmente il sentimento è il modo per cui qualche cosa è
soltanto per me, e che io ho in me come soggetto particolare; per quanto i sentimenti
siano elevati, quello che io sento è essenzialmente per me, come individuo. Invece
nella verità (colta dalla ragione) l’oggetto non è immaginario, fatto oggetto soltanto
da me, ma è in sé universale».Il divenire, che è l’essenza della realtà, si manifesta
come continuo presentarsi di contrari: ogni cosa tende a trasformarsi nel suo opposto,
il giorno in notte, la veglia in sonno, il giovane in vecchio. Il contrasto e l’armonia di
forze contrastanti è alla base di tutta la realtà: «Polemos è padre di tutte le cose»
(framm. 53).
 
Eraclito, figlio di Blosone o, secondo altri, di Eraconto, nacque ad Efeso. Raggiunse
l’acme negli anni della sessantanovesima olimpiade. Fu altero e superbo come pochi
altri, come risulta chiaramente dal suo scritto, 1à dove dice: «Sapere molte cose non
insegna ad essere intelligenti, altrimenti l’avrebbe insegnato a Esiodo, a Pitagora, a
Senofane e ad Ecateo»; e poi: «Essere saggi è solo questo, comprendere la ragione
che governa tutto attraverso tutto».Con tono di rimprovero si esprime anche nei
confronti dei cittadini di Efeso perché avevano bandito il suo amico Ermodoro. Ad un
certo punto i suoi concittadini gli proposero di dar loro nuove leggi: egli rifiutò,
sostenendo che la città era ormai in preda al malcostume politico. Una volta si ritirò
nel tempio di Artemide e si mise a giocare a dadi con i bambini ; agli Efesii, che lo
guardavano stupiti, disse: «Perché vi meravigliate, gente malvagia? Non è meglio far
questo che occuparsi di politica in mezzo a voi?». Alla fine, non sopportando più la
compagnia degli esseri umani, si ritirò dal consesso civile e andò a vivere sui
monti.Fin dalla fanciullezza suscitò meraviglia: da giovane diceva di non sapere nulla;
da adulto, diceva di sapere tutto. Non ebbe maestri: a quanto diceva, aveva studiato se
stesso, e in se stesso aveva trovato tutto quello che c’era da imparare... Il libro che gli
viene attribuito si intitola La natura a causa del suo argomento principale, ma si
divide in tre discorsi: sul tutto, sullo Stato, sulla divinità. Eraclito depose il suo libro
nel tempio di Artemide: alcuni credono che lo avesse scritto volutamente in forma
oscura, perché fosse accessibile solo ai competenti, e perché non fosse motivo di
disprezzo l’essere esso alla portata del volgo.(DIOGENE LAERZIO, Vite dei filosofi,
IX, 1 sgg.)
Frammenti
Non è possibile discendere due volte nello stesso fiume, né due volte toccare una
sostanza mortale nello stesso stato; ma per l’impeto e la velocità della mutazione (si)
disperde e di nuovo si ricompone, e viene e se ne va (fr. 91). A chi discenda negli
stessi fiumi, sopraggiungono sempre altre e altre acque (fr. 12). Noi scendiamo e non
scendiamo in uno stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo. (fr. 49)
Mutamento scambievole di tutte le cose col fuoco e del fuoco con tutte le cose, allo
stesso modo dell’oro con tutte le cose e di tutte le cose con l’oro. (fr. 90)
Quest’ordine universale, che è lo stesso per tutti, non lo fece alcuno tra gli dèi o tra gli
uomini, ma sempre era è e sarà fuoco sempre vivente, che si accende e si spegne
secondo giusta misura. (fr. 30)
Di questo logos, che è eterno, inintelligenti sono gli uomini e prima di ascoltarlo e
subito dopo averlo ascoltato, perché, pur producendosi ogni cosa secondo questo
logos, somigliano a chi non ha esperienza, anche quando sperimentano parole e opere
tali quali io spiego, secondo natura analizzando ogni cosa ed esponendo com’è. Agli
altri uomini sfugge quel che fanno da svegli, come non hanno coscienza di quel che
fanno dormendo. (fr. 1)
Bisogna dunque seguire ciò che è comune. Ma pur essendo questo logos comune, la
maggior parte degli uomini vivono come se avessero una loro propria e particolare
saggezza. (fr. 2)
Dal logos, col quale stanno sempre continuamente insieme essi discordano e quelle
cose in cui ogni giorno si imbattono appaiono loro estranee.(fr. 72)
Il pensare è a tutti comune.(fr. 113)
Anche colui che alla prova è il più stimato conosce e conserva solo opinioni; ma
invero Dike coglierà sul fatto gli artefici e i testimoni di menzogne. (fr. 28)
L’opinione è un male caduco e che la vista in-ganna. (fr. 46)
Non giudichiamo a casaccio delle cose più grandi. (fr. 47)
Assai meglio Eraclito ritenne che le opinioni umane sono soltanto «giuochi di
fanciulli». (fr. 70)
Chi parla con intelligenza deve appoggiarsi su ciò che è comune a tutti, come una città
sulla legge, anzi molto più saldamente. Poiché tutte le leggi umane sono nutrite
dall’unica legge divina; ché essa domina tanto quanto vuole, e basta a tutti e trionfa.
(fr. 114)
Dio è giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, fame-sazietà: il suo mutare è come
quello del fuoco, quando si mescola ai profumi e prende nome da ciascuno di essi. (fr.
67)
Polemos [la guerra] è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli
altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi. (fr. 53)
La stessa cosa sono il vivo e il morto, lo sveglio e l’addormentato, il giovane e il
vecchio: questi si trasformano in quelli, e quelli di nuovo in questi. (fr. 88)
Congiungimenti sono intero non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, e
da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose.<(fr. 10)
Non comprendono come, pur discordando in se stesso, è concorde: armonia
contrastante, come quella dell’arco e della lira. (fr. 51)
Il mare è l’acqua più pura e più impura: per i pesci essa è potabile e conserva loro la
vita, per gli uomini essa è imbevibile e esiziale.(fr. 61)
Una e la stessa è la via all’insù e la via all’ingiù. (fr. 60)

PITAGORA
La filosofia pitagorica rappresenta il trapasso dalla filosofia realistica alla filosofia
intellettualistica. I filosofi ionici avevano ritrovato l’archè, il principio unificatore
della realtà, in qualcosa di materiale, per lo più in uno degli elementi della natura
(acqua, aria, fuoco). I pitagorici vedono invece nel numero l’essenza di tutte le cose. Il
riconoscimento del potere del pensiero fa un passo ulteriore in avanti: «Si afferma —
dice Hegel — che l’essenza non è sensibile; e così qualcosa del tutto eterogeneo al
sensibile, e alla comune rappresentazione, viene dichiarato sostanza e vero essere».
Perché Pitagora ritrova l’archè proprio nel numero? Pitagora nota (come deduciamo
da testimonianze, in quanto egli non ha lasciato alcuno scritto) che il numero è
qualcosa di presente dappertutto; al numero dobbiamo infatti ricorrere se vogliamo
descrivere in maniera oggettiva una qualsiasi realtà. Le varie qualità dei corpi
possono apparire diverse a diversi soggetti: un daltonico ha una percezione di certi
colori diversa da chi ha una vista normale, la temperatura di un corpo può apparire
differente a una persona sana e a una persona febbricitante, il gusto di una pietanza
può apparire diversa a una persona sana e a una malata, e così via. I dati matematici e
geometrici a cui possiamo ricorrere per descrivere un oggetto (le dimensioni, la
superficie, il volume, etc.) sono invece identici per tutti. Tutte le cose sono
identificabili e descrivibili in maniera oggettiva, universale, valida per tutti in base a
dati quantitativi, grazie cioè ai numeri. Il numero è pertanto l’archè di tutte le cose, il
principio unificatore della realtà. Ma, dal momento che i numeri contengono tutti
l’unità, in quanto nascono tutti dall’unità sommata a se stessa, i Pitagorici possono
affermare che l’archè è l’uno.D’altra parte l’uno è presente in tutti i numeri (e quindi
in tutte le cose) anche perché ogni numero è uno, nel senso che è unico, non è
assolutamente confondibile con gli altri, si distingue dal numero che lo precede nella
successione numerica, come da quello che lo segue e da tutti gli altri. Il numero uno
sta quindi a designare una proprietà fondamentale di ogni cosa: l’identità con se
stessa.Con il principio dell’uno, Pitagora, oltre a trovare un elemento unificatore della
realtà, trova anche l’elemento di differenziazione, di genesi della molteplicità.
Dall’uno, il parimpari, scaturiscono infatti per addizione i numeri pari e quelli dispari.
Alla distinzione fra pari (= illimitato) e dispari (= limitato) i pitagorici facevano
risalire tutte le altre opposizioni della realtà: tenebre-luce, male-bene, etc. La realtà si
presenta dunque piena di entità contrapposte (= Eraclito), ognuna delle quali è
riconducibile a numeri. Ma dal momento che i numeri hanno tutti una comune origine
nell’unità, essi sono riconducibili gli uni agli altri: al di là dell’apparente opposizione
delle cose, c’è un’armonia sostanziale. Per questo la musica, fondata sull’armonia che
scaturisce dalle opposizioni, è l’arte suprema e ha un’altissima funzione educativa.
Dalla lettura di testimonianze di Giamblico, Porfirio, etc. si è risaliti al carattere
iniziatico della scuola pitagorica (che appare sempre più chiaramente agli studiosi il
risvolto «laico», filosofico della religione misterica dell’orfismo). In Pitagora si
profila per la prima volta la stretta relazione fra conoscenza e moralità propria della
filosofia greca. Nella scuola pitagorica alle superiori conoscenze matematiche e
filosofiche veniva «iniziato», cioè introdotto, soltanto colui che ne era reputato degno
dal maestro per aver compiuto passi in avanti sulla via della purificazione, cioè della
virtù, della capacità di autocontrollo. Raggiungere i vertici del sapere significa
imparare a far uso della ragione, senza lasciarsi ingannare da sensi, passioni, istinti.
Essere sapiente diviene equivalente a essere virtuoso. In Pitagora la conoscenza
acquista un carattere esoterico, non è cioè accessibile a tutti (col rischio di un cattivo
uso delle conoscenze), bensì è riservata agli iniziati che si sono dimostrati virtuosi.
Pitagora è dunque in qualche modo il primo esponente dell’intellettualismo etico
greco, cioè della tendenza — propria di tutta la filosofia greca — a far coincidere
bene e sapere.Si è inoltre rilevato come il pitagorismo sia una filosofia della
discontinuità: per il parallelismo posto da Pitagora fra aritmetica e geometria, alla
discontinuità fra un numero e un altro corrisponde un «salto», un vuoto, un non-essere
fra un punto (una particella di materia) e l’altro. Ma la scoperta che la diagonale di un
quadrato di lato unitario è uguale a √2, che è un numero irrazionale, cioè con infiniti
decimali, apre la strada alla considerazione che fra un punto e l’altro ci sono infiniti
altri punti, che cioè la realtà non è discontinua e molteplice, bensì continua e unitaria.
Testimonianze
Dicearco racconta che, appena Pitagora giunse in Italia e si stabilì a Crotone, i
crotoniati furono talmente affascinati da lui, specialmente dopo che egli ebbe ottenuto
le simpatie del senato con molti bei discorsi, che i magistrati lo incaricarono di
educare i giovani mediante discorsi adatti alla loro età: egli era infatti un uomo di
grande valore, aveva molto viaggiato, e soprattutto era stato eccezionalmente dotato
dalla natura, tanto che il suo aspetto era nobile e grande, e pieno di grazia e di decoro
il suo modo di parlare, di agire e di fare qualsiasi cosa. Parlò, dunque, ai fanciulli, che
gli si radunavano attorno appena usciti da scuola; e più tardi anche alle donne. Anzi,
istituì un’assemblea di donne. In tal modo la sua fama crebbe sempre di più, e molti
gli divennero compagni: in città non furono solo uomini, ma anche donne, come
Teano, che divenne famosa; ma lo seguirono anche re e signori delle regioni
circostanti, che erano abitate da barbari. Quello che diceva ai suoi compagni, nessuno
può dirlo con certezza, perché lo custodivano in gran segreto. Ma le sue opinioni più
note sono queste: diceva che l’anima è immortale, e che può trapassare anche in esseri
viventi di altra specie; che quello che è stato si ripete a intervalli regolari, cosicché
non c’è mai nulla di veramente nuovo; che, infine, dobbiamo considerare come
appartenenti alla stessa specie tutti gli esseri viventi. Fu proprio Pitagora il primo a
portare in Grecia queste opinioni.(PORFIRIO, Vita di Pitagora, cap. 6)
Questi (gli ammessi al noviziato) da prima si chiamavano, nel periodo in cui
dovevano tacere ed ascoltare, acustici. Ma quando avevano apprese le cose più
difficili fra tutte, cioè tacere ed ascoltare, e già avevan cominciato ad acquistare
erudizione nel silenzio, che veniva detto echemuthia, allora acquistavan la facoltà di
parlare e di far domande e di scrivere quel che avevan sentito e di esprimere quel che
pensavano. In tal periodo essi si chiamavan matematici, da quelle arti, cioè, che
avevan cominciato ad apprendere e meditare: poiché gli antichi Greci chiamavan
mathemata (scienze) la geometria, la gnomonica, la musica e le altre discipline più
alte. Quindi, adorni di tali studi di scienza, passavano a considerare l’opera del mondo
e i principi della natura, e allora infine venivan chiamati fisici.(A. GELLIO, Notti
attiche, I, 9).
 
Tutti sono d’accordo nel riferire che il complotto fu fatto mentre Pitagora era assente;
ma non tutti concordano nel dire dove si trovasse in quel momento, perché secondo
alcuni era andato da Ferecide di Siro, secondo altri soggiornava a Metaponto. E sono
anche diverse le ragioni che vengono addotte per spiegare il complotto: tra le altre
sembra più plausibile quella che lo attribuisce al gruppo di Cilone. Cilone di Crotone
era per nascita, per fama e per ricchezza uno dei primi cittadini, ma era anche aspro,
violento, sedizioso e di carattere tirannico; si era messo in testa di entrare a far parte
del sodalizio pitagorico, e ne aveva parlato allo stesso Pitagora, ma ne era stato
respinto per le ragioni già dette. Per questo, coi suoi amici, aveva intrapreso una
guerra spietata contro Pitagora e i suoi amici: e tanto violenta fu la guerra di Cilone e
dei suoi compagni, che durò finché ci furono pitagorici. Pitagora dovette emigrare a
Metaponto, dove, secondo una tradizione, morì. Intanto i cosiddetti cilonei
continuarono a lottare con ogni mezzo contro i pitagorici: e tuttavia, per qualche
tempo, la nobiltà d’animo dei pitagorici e la volontà popolare ebbero la meglio, tanto
che le città vollero ancora essere governate da essi. Ma alla fine i cilonei, che non
avevano mai cessato un momento di intrigare contro i pitagorici, dettero fuoco alla
casa di Milone, dove quelli si erano radunati per prendere decisioni politiche, e li
bruciarono tutti tranne due, Archippo e Liside: questi, più giovani e forti degli altri,
riuscirono ad aprirsi una strada e a mettersi in salvo. Il delitto rimase impunito, e i
pitagorici smisero di occuparsi di affari pubblici. Due furono le ragioni che li
indussero a questa decisione: l’inerzia delle popolazioni, che non punirono gli autori
di un tale  e tanto delitto; e la morte degli uomini più adatti al comando. I due che si
salvarono erano entrambi tarantini: Archippo se ne tornò a Taranto, e Liside, che non
voleva finire oscuramente la sua vita, passò in Grecia.(GIAMBLICO, Vita di
Pitagora, cap. 248 sgg.)
I filosofi detti Pitagorici si valgono di princìpi ed elementi più remoti che non
facciano i filosofi naturalisti. La causa ne è che essi non li trassero dalle cose sensibili;
degli enti, infatti, quelli matematici sono senza movimento, eccetto che per ciò che
concerne l’astronomia. Tuttavia la loro discussione e trattazione verte tutta intorno
alla natura: giacché essi espongono la genesi dell’universo, e osservano ciò che
accade nelle parti, mutazioni e movimenti di esso, ed in ciò esauriscono (la funzione
de)i loro principi e (del)le loro cause, quasi che fossero d’accordo con gli altri
naturalisti nel ritenere che l’ente sia proprio ciò che è sensibile ed è contenuto entro
ciò che si chiama il cielo. Ma, come dicemmo, le cause ed i princìpi, di cui essi
parlano, sono validi a risalire anche ad esseri più elevati, anzi si confanno meglio a
questi che ai ragionamenti sulla natura.(ARISTOTELE. Metafisica, I, 8, 990)
Giacché la natura del numero è legge e guida e maestra ad ognuno di ogni cosa dubbia
ed ignota. Poiché non sarebbe manifesta a nessuno alcuna delle cose né in se stesse né
rispetto ad altre, se non fosse il numero anche la sostanza di questo. Ora questo,
accordando relativamente all’anima tutte le cose, le rende conoscibili al senso e in
rapporto reciproco.Nessuna falsità accoglie in sé la natura del numero né l’armonia;
perché non è conforme ad esse. La falsità e l’invidia sono della natura dell’infinito, e
dell’insensato, e dell’assurdo. La falsità non spira in nessun modo nel numero; poiché
è ostile e nemica alla sua natura la falsità; la verità invece è conforme e connaturata
alla stirpe del numero.(FILOLAO, fr 11)
 
Altri di costoro stessi dicono che dieci sono i princìpi delle cose, disposti in serie (di
coppie di contrari): finito, infinito — dispari, pari — unità, molteplicità — destra,
sinistra — maschio, femmina — in quiete, in movimento — retta, curva — luce,
tenebre — bene, male — quadrato, a lati disuguali. Nel qual modo sembra che anche
Alcmeone di Crotone abbia pensato: sia che egli abbia attinto da quelli tale teoria, sia
essi da lui perché Alcmeone fiorì quando Pitagora era vecchio, ed affermò dottrine
simili a costoro; dice infatti che la maggior parte delle cose umane sono a coppie di
opposti, ma senza esporre (al pari di loro) tali opposizioni in ordine determinato, bensì
a caso, come bianco nero — dolce amaro — buono cattivo — grande piccolo. —
Costui dunque le affastellò alla rinfusa con le altre. I Pitagorici invece determinarono
quante e quali fossero le opposizioni. Dunque da entrambi costoro si può apprendere
che i contrari siano princìpi degli esseri; ma quanti e quali siano, da una parte sola.
(ARISTOTELE, Metafisica, I, 5, 986)
 
I Pitagorici ammisero uno spazio vuoto, in cui si compirebbe la respirazione del cielo,
e un altro spazio vuoto, che separerebbe le nature l’una dall’altra, formando la
distinzione tra continuo e discreto; questo si troverebbe anzitutto nei numeri e
separerebbe la loro natura.(ARISTOTELE, Fisica, IV, 6)

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Saggi per la scuola
ANTONIO GARGANO: INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA GRECA. Da
Talete a Parmenide
Il termine filosofia
La storia della filosofia
Talete, Anassimandro, Anassimene
Eraclito
Pitagora
Parmenide
PARMENIDE
Le contraddizioni del pensiero pitagorico, che avevano portato al suo superamento,
mostravano che la realtà è continua, che il vuoto non esiste. Ma, se è cosi, la realtà
non è divisa in parti, non è una somma di realtà minori, bensì è unitaria. Continuità e
unità della realtà sono appunto affermate dalla scuola Eleatica, dapprima con
Senofane, con l’affermazione del Dio-uno contro il politeismo antropomorfico, poi
con Parmenide, che afferma l’unità dell’essere, infine con Zenone, il quale trova
argomenti a favore dalla continuità della realtà.Parmenide tira le conseguenze della
diversità dei possibili approcci conoscitivi alla realtà che già i suoi predecessori
avevano individuato: conoscenza sensibile e intellettuale. La prima — egli afferma
con decisione — è illusoria e trae in errore, infatti il mio stato corporeo può variare
(sanità, malattia) fornendomi impressioni diverse della realtà (ora avvertirò un oggetto
come caldo, ora come freddo) e d’altra parte le sensazioni di individui diversi sono a
volte antitetiche (un daltonico scambierà il verde con il rosso, una persona miope non
scorgerà oggetti distanti, ecc.). La via dei sensi andrà dunque respinta come fallace,
come via delle opinioni (dòxai). In contrapposizione a questa, l’intelletto mostra la via
della verità (alèteia).Mentre i sensi ci mettono di fronte alla molteplicità e al divenire,
implicanti il non essere, il pensiero afferma in maniera inequivocabile: «l’Essere è, il
non-essere non è». Tra pensiero ed essere vi è infatti una strettissima connessione:
non si può pensare se non l’essere. Nel momento in cui si pensa il non-essere, il
niente, il vuoto, questi diventano essere, perché «sono» in quanto pensati. Il pensiero
non può essere vuoto, è sempre pensiero di qualche cosa, anche quando questo
qualche cosa è il vuoto stesso. Procedendo con metodo deduttivo (traendo cioè le
conseguenze logiche da un’affermazione iniziale), Parmenide dimostra che l’essere è
uno, continuo, immobile, immutabile ed eterno.È uno in quanto se vi fosse un altro
Essere questo coinciderebbe con l’Essere stesso in quanto non potrebbe essere
separato da esso: altrimenti, infatti, si dovrebbe ammettere l’esistenza del non-essere
come elemento di separazione. La realtà è dunque continua e una. L’Essere è
immobile in quanto se si muovesse dovrebbe muoversi verso altro da sé, ma altro
rispetto all’Essere è il non-essere. Dal momento che il non-essere non è, l’Essere è
immobile.È inoltre immutabile perché se divenisse dovrebbe divenire altro da sé, cioè
non-essere, ma il non-essere non è, dunque l’Essere è immutabile.È infine eterno,
perché se fosse stato generato avrebbe dovuto esserlo dal non-essere (il che è
impossibile perché il non-essere non è) o dall’Essere stesso (e questo implicherebbe
che l’Essere preesiste a se stesso).Con la sua affermazione dell’àrchè come Essere
(simboleggiato nello Sfero, una figura perfettamente compatta, equilibrata e priva di
discontinuità), Parmenide si contrappone ad Eraclito, come filosofo del divenire. I due
pensatori sono però accomunati da una decisa polemica contro il senso comune,
contro l’opinione. Eraclito critica duramente i «dormienti», coloro cioè che si
abbandonano alla opinione, che non seguono la via rigorosa del logos; Parmenide
definisce «ciechi» coloro che si affidano al senso, che non si rendono conto che
l’unica via per penetrare la realtà oltre l’apparenza è la via del pensiero.Le due vie di
Parmenide, la giusta e la sbagliata, quella della ragione e quella dei sensi, hanno
anche un significato morale. Esse significano la scelta, davanti alla quale ogni uomo
si trova con la sua responsabilità, fra una vita moralmente buona, protesa
all’universale, e una vita che si chiude angustamente nell’individuale.Una scuola,
forse una setta, quella di Parmenide. che in Elea-Velia affondò profonde radici, la cui
pianta non è ancora del tutto esplorata. Certamente una scuola che ha lasciato
profonde influenze nella terra feconda di filosofi della Magna Grecia e che, come
qualche recente ritrovamento archeologico e felici intuizioni di Giovanni Pugliese
Carratelli fanno intravedere, potrebbe aver avuto un risvolto medico-terapeutico (in
quello stesso territorio, mille e più anni dopo, germogliò la Scuola Medica
Salernitana!). Si può anche pensare che la sacra Y a due bracci che vediamo su
monumenti funebri posteriori di ambito neopitagorico, e che simboleggia la decisione
del defunto di fronte al bivio della vita fra vizio e virtù, risalga al venerando
Parmenide e alle sue due vie.Appunto la via giusta è quella della legge della ragione,
è madre della legge umana, di ciò che permette un rapporto stabile e paritario fra gli
uomini. Dike, la dea della giustizia, guida nel cammino incerto il viandante del poema
parmenideo. La legge è universalità. «Dike vendicatrice possiede le chiavi che aprono
e chiudono», e la porta si apre sulla necessità, sull’ordine necessario dell’universo.
Parmenide è «terribile» anche perché è il sublime veggente della necessità. «L’antica
Grecia — esclamò Einstein — fu la culla della scienza moderna. Là avvenne per la
prima volta il miracolo concettuale della nascita di un sistema logico: la geometria
euclidea». La stessa esclamazione ammirata si può ripetere per quel greco della
Magna Grecia che fu Parmenide, il primo eroe di quella titanica impresa della mente
umana che consiste nel disvelare le tracce logiche assolutamente necessarie non solo
dei sistemi a priori delle matematiche e delle geometrie, bensì anche della realtà
fisica.
 
Frammenti
 
1 (B 1)
     Le cavalle che mi portano, conformemente all’impulso della mia mente, anche ora
mi guidarono, poiché m’avevano spinto su quella famosa via della dea che porta
l’uomo che sa per ogni dove. Su quella via fui condotto; su quella via infatti mi
portavano le cavalle esperte che tiravano il carro, e fanciulle indicarono il cammino.
L’asse [ruotando] nel mozzo mandava un acuto stridore, sprizzando faville (poiché
era mosso dalle due ruote che vorticosamente si muovevano da una parte e dall’altra),
quando si affrettarono, le fanciulle figlie del Sole, liberato il capo dai veli, a spingermi
verso la luce, abbandonando la regione della Notte. Là c’è la porta che divide il
cammino della Notte e del Giorno, col suo architrave e con la sua soglia di pietra: e la
porta, chiara come il cielo, è chiusa da grandi battenti, dei quali Dike vendicatrice
possiede le chiavi che aprono e chiudono.
      E allora le fanciulle, esortandola con gentili parole, la persuasero accortamente a
togliere per loro velocemente la sbarra dalla porta: e la porta si aprì rivelando un
ampio passaggio e facendo girare nei cardini, da una parte e dall’altra, i suoi assi di
bronzo fissati con cinghie e con chiodi. Per di là attraverso la porta le fanciulle
guidarono immediatamente sulla strada il carro e le cavalle. E la dea mi accolse
benevolmente, mi prese la mano destra con la sua mano, e così, con queste parole, mi
parlò: «O giovane, che insieme a immortali guidatrici vieni alla mia casa portato dalle
cavalle, salve! Giacché non una cattiva sorte ti ha condotto per questa via (che infatti
è lontana dalla via battuta dagli uomini), ma una legge sacra e giusta. È necessario che
tu apprenda ogni cosa, sia il fondo immutabile della verità senza contraddizioni, sia le
esperienze degli uomini, nelle quali non è vera certezza. Ma ad ogni costo anche
questo apprenderai, dal momento che le esperienze debbono avere un loro valore per
colui che indaga tutto in tutti i sensi.
2 (B 2)
     Ebbene, io t’esporrò — e tu fai tesoro del discorso che odi — quali siano le sole
vie di ricerca pensabili.L’una che esiste e non può non esistere — è il cammino della
Persuasione (infatti segue la Verità), l’altra che non esiste e che è necessario
logicamente che non esista, e questa io ti dico che è una strada del tutto
impercorribile. Perché ciò che non è non puoi né conoscerlo (infatti questa
conoscenza è irrealizzabile) né esprimerlo.
3 (B3)
     ... infatti è la stessa cosa pensare ed essere.
4 (B 6)
     Bisogna dire e pensare che ciò che è esiste: infatti è possibile che solo esso esiste
mentre il nulla non esiste: su questo ti invito a riflettere. Infatti da questa prima via di
ricerca ti tengo lontano, ma anche da quella per la quale uomini che nulla sanno vanno
errando, uomini con due teste. Poiché l’incertezza che hanno nel petto guida la loro
mente indecisa; ed essi si lasciano trascinare, sordi e insieme ciechi, storditi, gente che
non sa giudicare, per la quale è la stessa cosa e poi non lo è più il considerare
l’esistere e il non esistere e [per la quale] in ogni caso c’è sempre un cammino in
senso inverso.
5 (B5)
     ... per me è lo stesso da quale punto cominciare: lì infatti di nuovo ritornerò.
6 (B 4)
     Guarda come anche le cose lontane, per mezzo della mente, divengano
sicuramente vicine: infatti non scinderai ciò che è dalla sua connessione con ciò che è,
né separandolo completamente dalla sua connessione sistematica con tutti gli altri
enti, né costituendolo in se stesso.
7-8 (B7-B8)
     Poiché giammai si potrà imporre con la forza questo, che esistono le cose che non
esistono.Ma tu allontana i tuoi pensieri da questa via di ricerca; né l’atteggiamento
dispersivo degli uomini ti costringa lungo questa altra via, facendo uso di occhi che
non vedono e di orecchie rimbombanti, usando vuote parole, ma giudica con la
ragione le prove piene di argomentazioni polemiche da me addotte. Rimane ora solo
da parlare della via che esiste: su questa via vi sono molti segni, in relazione al fatto
che, ciò che è, è ingenerato e indistruttibile.È infatti compatto nelle sue parti e
immutabile e senza un fine a cui tendere: non era né sarà, poiché è ora un tutto
omogeneo, uno, continuo. E infatti quale origine gli cercheresti?Come e da dove
potrebbe essere accresciuto? Da ciò che non è non ti permetterò né di dirlo né di
pensarlo: poiché esso non è né esprimibile né pensabile dal momento che non esiste.
E quale necessità l’avrebbe spinto a nascere prima o dopo, se comincia dal nulla?
Pertanto è necessario che esista in assoluto o non esista affatto.Né mai la forza della
certezza concederà che da ciò che non è nasca qualcosa accanto a ciò che è.Perciò né
nascere né perire gli ha permesso Dike allentando i suoi vincoli, ma lo tiene
saldamente. Su queste vie dunque la decisione consiste in questo: esiste o non esiste.
Si è deciso dunque, com’era necessario, di lasciare una delle vie come impensabile e
inesprimibile (non è la vera via, infatti) mentre l’altra esiste ed è autentica.Come
potrebbe, ciò che è, esistere nel futuro? Come potrebbe nascere?Se infatti era, non è;
così pure, se ancora deve essere, non è.Così si eliminano i concetti incomprensibili di
nascita e morte. Neppure è divisibile, giacché è tutto uguale: né vi è in qualche parte
un di più che gli impedisca d’essere continuo, né un di meno, ma è tutto pieno di
essere.Perciò è tutto continuo: poiché, ciò che è, è tutt’uno con ciò che è.Inoltre è
immobile nei limiti di potenti legami, senza principio né fine, poiché nascita e morte
sono state respinte lontano ad opera della vera certezza. E rimanendo sempre se
stesso, nella propria identità, riposa in se stesso e così rimane saldo nel suo luogo;
infatti la possente Necessità lo tiene nei legami del limite che d’ogni parte lo avvolge,
poiché ciò che è non può essere incompiuto.Infatti non manca di nulla: ciò che non è
invece manca di tutto.Ed è la stessa cosa il pensare e ciò che è pensato.

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