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SOMMARIO
DI STORIA DELLA FILOSOFIA
PER I LICEI CLASSICI E SCIENTIFICI
Voi. I
LA FILOSOFIA ANTICA E MEDIEVALE
LA NUOVA ITALIA
FIRENZE
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In copertina:
Jan van Eyck, San Girolamo nel suo studio ( 1442).
Detroit, lnstitute of Arts.
ISBN 88-221-0532-X
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INTRODUZIONE
1. La filosofia.
Solo lo studio dell'intero sviluppo della storia della filosofia può dare
un'idea abbastanza determinata, e nello stesso tempo articolata, del signifi-
cato e del contenuto di questa disciplina: esaminando, attraverso la storia,
le varie forme che essa è venuta assumendo, cogliendo, con le sue diversità,
anche i caratteri comuni che ha mantenuto nelle diverse epoche, ci si potrà
fare, certamente, un'idea abbastanza precisa, e fondata, dei suoi caratteri
generali e del suo senso nel campo della cultura. Qui, all'inizio dello studio
della storia della filosofia, bisognerà giovarsi del concetto generale che lo
storico si è fatto della filosofia e proporlo, a titolo di ipotesi, come criterio di
scelta e di ordinamento del vasto materiale storico; con la consapevolezza
che, in ultimo, il concetto della filosofia, a cui ci si richiama, è, nello stesso
tempo, il risultato di un'esplorazione storica, ma anche, la sua premessa, in
. una sorta di circolo, a cui non è possibile sottrarsi. Il risultato di tale circolo
è pertanto il fatto che sia il concetto di filosofia a cui ci si richiama, sia la
storia che se ne svolge hanno un carattere non conclusivo ed assoluto, ma
relativo e perfettibile; possono quindi essere entrambi modificati, in se-
guito a ricerche e ad orientamenti ulteriori o diversi.
Proponiamo dunque una definizione di massima della filosofia che
possa essere tenuta presente ed orientare la successiva esposizione stbrica:
la filosofia è quella forma della conoscenza umana che tende al massimo di
generalità ed al massimo di unificazione. Anzitutto, in tale defo;1izione,
facciamo riferimento ad una forma distinta dell'iniziativa umana, quella
che si chiama conoscenza e si differenzia da altre forme di iniziativa, come,
per esempio, il sentimento o la passione, la stessa azione, la fantasia o
immaginazione. Ciò significa che, nella filosofia, non facciamo appello a
impulsi, a stati d'animo, a slanci o a modi di sentire; nemmeno facciamo
riferimento a quell'iniziativa mediante la quale l'uomo tenta di modificare
la situazione nella quale vive e che riguarda tanto il mondo fisico quanto gli
altri uomini; e infine la conoscenza non può essere confusa con il libero
sfogo dell'immaginazionè, al quale pure l'uomo può fare ricorso in varie
circostanze della sua esistenza. Già nel far cenno alla conoscenza, a quello
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INTRODUZIONE
VIII
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§ I LA FILOSOFIA
IX
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INTRODUZIONE
È ovvio però che oggetto principale della filosofia sia il mondo della
cultura, cioè i prodotti delle varie attività umane nel loro esercizio piu
stabile ed organico; ma non considerati, ancora una volta, nella loro
particolarità, quanto invece visti nell'unità e nella generalità della stessa
cultura e colti nei loro rapporti, oltre che nella loro distinzione.
La filosofia, come conoscenza, non può non mirare a mantenere alcuni
dei caratteri principali, propri della scienza e principalmente il rigore
nell'organizzazione dei suoi passaggi o dimostrazioni ed una sorta di
verifica empirica. Ma è anche vero che questi procedimenti conoscitivi non
possono essere in tutto identici nella scienza e nella filosofia. Il mutamento
nell'oggetto comporta anche inevitabilmente un mutamento nei procedi-
menti. E se, per esempio, nel caso di una scienza particolare, la verifica
assume un senso determinato, nel caso della filosofia che ha a che fare con
delle totalità la verifica assume una determinazione diversa e corrispon-
dente. Proprio a ciò si sono riferiti i filosofi quando hanno suggerito di
tener conto della differenza che passa tra il conoscere (riferito alla scienza)
ed il pensare, oppure tra l'intelletto (inteso come la funzione propria della
costruzione scientifica) e la ragione (inteso come la funzione propria della
costruzione filosofica). Il pensare si distingue dal conoscere proprio perché
spinge la conoscenza al limite della totalità; e l'intelletto si distingue dalla
ragione proprio perché si riferisce agli ambiti particolari della conoscenza,
mentre la ragione mira a delle totalità.
Senza dire, poi, che non si può nemmeno, come sopra abbiam fatto,
distingi:iere, per esempio, i tre mondi rispettivamente degli oggetti del
mondo esterno, della realtà dell'uomo e dei prodotti della cultura, senza
sollevare la questione dei loro legami, delle loro relazioni e distinzioni, e
pertanto dell'unità che li riguarda e li investe. I modi in cui la filosofia
teorizza l'unità possono, poi, essere molto diversi tra loro; l'unità può
essere intesa come oggetto, magari mettendo capo ad un suo principio,
inteso a sua volta come supremo oggetto e cioè come realtà trascendente;
oppure può essere intesa come funzione, come criterio di unificazione,
come attività strettamente legata agli oggetti o ai dati di cui promuove
l'unificazione.
Bisogna dire subito che l'attività unificatrice della filosofia è stata a volte
contestata; e specialmente nelle età piu recenti non è mancato chi ha
sostenuto che, in ambito conoscitivo, basta attenersi ai risultati della cono-
scenza scientifica ed eventualmente alla loro somma, affermando che non
c'è bisogno di alcuna unificazione ulteriore o piu radicale. Ma è anche facile
avvertire come tale posizione, mentre contesta l'impegno unitario della
filosofia, in qualche modo finisca per confermarlo, in quanto anche la
negazione di una prospettiva unitaria è, in ultimo, una maniera, sia pur
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~ I LA FILOSOFIA
XI
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INTRODUZIONE
2. I problemi filosofici.
XII
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§ 2 I PROBLEMI FILOSOFICI
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INTRODUZIONE
XIV
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§ 2 I PROBLEMI FILOSOFICI
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INTRODUZIONE
meno estesa, e piu o meno operante nella storia, ma che aspira ad un valore
universale, cioè a valere per tutta l'umanità, e non soltanto per l'umanità di
oggi o di domani, ma anche per l'umanità del futuro. Se i valori, per il
diverso livello in cui si pongono, paiono dar luogo ad una sorta di piramide
nella quale i valori (o le azioni) piu bassi sono soltanto mezzo per conse-
guire altri valori che si pongono come fine, e che perciò stanno piu in alto;
le azioni volte al bene paiono essere quelle che si possono collocare al
vertice della piramide, in quanto si pongono come dei fini generali, ai quali
vanno subordinate come mezzi tutte le altre azioni, a raggio piu delimitato.
Nella storia della filosofia v'è anche chi ha considerato le azioni rivolte al
bene, e cioè ad un fine universale, come ristrette all'individuo, a petto delle
altre azioni che essendo operanti in direzione della famiglia, o della società
civile, o dello Stato e della storia, dovrebbero intendersi come piu ricche di
contenuto e piu determinate. Ma vi è anche chi ha ritenuto, invece, di porre
in evidenza, nelle azioni volte al bene e al dovere, un valore piu universale,
se cosi si può dire, di quello presente nelle altre azioni. È il problema che
viene studiato da quella parte della filosofia che è la/iloso/ia morale o della
morale (dal latino mos = costume); essa studia specialmente proprio la
gerarchia dei valori, e, in tale gerarchia, i valori che si pongono a principio
degli altri, quelli che, per il fatto che non paiono dipendere da altri valori, si
potrebbero indicare anche come auto-valori. Kant si è anche espresso in
proposito col dire che la legge morale è autonoma e che ad essa si ispirano le
azioni che rispettano l'umanità non come mezzo per altri fini, ma come fine
in se stessa.
Il quadro dei problemi filosofici che risulta da questa prima sommaria
indicazione è già ampio, ma può essere completato dal fatto che la filosofia
ha rivolto la sua attenzione, oltre che al mondo della cultura, anche al
mondo della realtà. In questo caso, piu che volgere l'attenzione ai prodotti
piu significativi dell'attività umana per comprenderne il senso e l'unità, si
prende in cosiderazione lambito stesso della realtà, nella sua accezione piu
ampia e generale. Realtà, abbiamo ricordato piu sopra, è il termine che
viene adoperato quando, nell'analisi della conoscenza, si giunge a caratte-
rizzare l'oggetto al quale essa mira e che tende a rispecchiare, come
qualcosa che resta fuori del processo conoscitivo e che costituisce quasi il
fine a cui esso tende. In proposito la filosofia mira anzitutto a determinare il
concetto stesso di realtà nella sua accezione piu ampia, l'essere nella
determinazione per cui si differenzia dal non-essere; la scienza filosofica
corrispondente è la metafisica, che appunto si domanda che cosa costitui-
sce lessere nella sua generalità e se esso è formato di elementi o se, oltre il
suo esserci, c'è una ragione che lo determini e lo faccia essere quello che è;
la metafisica distingue cosi lessere e il suo principio o la sua ragione, la
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§ 2 I PROBLEMI FILOSOFICI
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INTRODUZIONE
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§ 3 LA STORIA DELLA FILOSOFIA
appunto di proporre una concezione del mondo e della vita, non solo vasta
e comprensiva, ma corrispondente ai limiti raggiunti dalla conoscenza
umana. Ma la verità alla quale mira ogni sistema filosofico non si intende
nel senso in cui la parola viene adoperata in altri ambiti dell'esperienza, per
esempio nell'esperienza religiosa. Anche il credente ha fede nella verità
della sua concezione del mondo; ma qui la verità a cui ci si appella non può
che essere assoluta, perché legata alla rivelazione di Dio che è l'assoluto per
eccellenza; ed assoluta vuol dire dogmatica e cioè che consente di essere
formulata una volta per tutte, e pertanto conclusiva. Sembra quasi che la
religione proponga tale concetto della verità assoluta piu per sollecitare
l'uomo ad estendere al massimo la sua aspirazione alla verità che per
metterlo veramente in possesso di un contenuto finale e conclusivo; del
resto, la stessa esperienza religiosa deve poi, di fronte al contenuto conclu-
sivo della verità assoluta, affrontare il problema delle forme diverse e
storicamente articolate in cui esso si viene manifestando agli uomini delle
diverse epoche; almeno sotto questo riguardo, deve, per cosi dire, adattare
la verità assoluta ai diversi modi storici in cui l'uomo la considera. Né la
filosofia, comunque, né le scienze, quando usano il termine di verità, la
possono intendere nel senso assoluto della religione. Anzi, a parte quello
che vale in proposito per le scienze, la filosofia può mirare alla verità solo in
base ad una serie di criteri di costruzione e di verifica del proprio discorso;
ma tali criteri si vengono svolgendo proprio attraverso il continuarsi della
ricerca e attraverso l'estendersi dell'esperienza e della conoscenza. La
verità assoluta che fosse dunque conseguita in un sistema finale sarebbe per
la filosofia la rinuncia a proseguire la ricerca, equivarrebbe ad una sorta di
blocco e di rinuncia alla riflessione.
Solo la verità assoluta esclude, almeno in linea di principio, la storia e la
ricerca. Ma la verità, sempre finita, a cui tende ogni sistema filosofico,
piuttosto che escludere, richiede la storia. Carattere specifico della filoso-
fia, nella sua istanza critica, è infatti che l'esame si riapra dopo ogni
sistemazione e che la riflessione riprenda il suo cammino. Quale filosofo
potrebbe pretendere di racchiudere nel sempre breve spazio della sua vita e
quindi della sua ricerca, il senso e l'esperienza degli altri uomini? Egli
potrebbe in qualche modo, come in realtà ha tentato di fare Hegel, cercare
di racchiudere nel suo sistema la riflessione dei filosofi e degli uomini del
passato; ma non riuscirebbe in alcun caso a fare altrettanto nei confronti
degli uomini del futuro. Bisognerebbe pensare che questi fossero destituiti
dell'esigenza della ricerca filosofica e che fossero quasi.disposti a rimettersi,
per questo lato, a quanto è stato proposto·da coloro che li hanno preceduti.
Ma è una previsione abbastanza sensata il ritenere che essi obbediranno alla
stessa esigenza di coloro che li hanno preceduti e che, pertanto, quello che è
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INTRODUZIONE
stato per costoro il punto di arrivo diventerà per essi il punto di partenza.
Di qui la storia della filosofia e l'importanza che essa riveste per la stessa
filosofia. La storia della filosofia si esplica attraverso lo studio delle opere
dei filosofi che ci sono rimaste ed attraverso l'indagine di tutti quegli
elementi che possono giovare a farcele comprendere; ci sono degli scritti
che sono interamente dedicati alla disamina di problemi filosofici; ma ci
sono anche delle opere che solo in qualche parte hanno questo carattere; e
tali parti filosofiche possono trovarsi in scritti prevalentemente di altro
argomento o carattere. Di alcune opere filosofiche possediamo la stesura
completa, di altre ci sono rimasti soltanto dei frammenti; e la comprensione
di tali frammenti è spesso assai difficile per la tendenza ingannevole che
abbiamo ad estendere oltre il lecito la portata di alcune affermazioni o
dottrine. Dei filosofi del passato hanno scritto, lasciandone memoria, ~Itri
filosofi o studiosi posteriori; e quanto pili questi sono stati, per il tempo in
cui hanno vissuto, in condizione di attingere notizie valide dei filosofi, tanto
pili le loro informazioni (quelle che si dicono testimonianze) sono attendi-
bili; anche se la conoscenza che si può avere di una dottrina filosofica
attraverso le testimonianze è sempre esposta all'inganno ed all'errore; tali
sono le dicerie raccolte e trasmesse a volte senza spirito critico; tali sono
anche le interpretazioni troppo marcate e soggettive che di una dottrina ci
riferiscono autori posteriori. Per giungere dunque a costruire una storia
attendibile della filosofia bisogna adottare, come per ogni storia, molte
cautele e saper evitare molti tranelli. Non è detto naturalmente che lo
storico della filosofia debba accostarsi al iUO lavoro senza avere alcun
orientamento filosofico; ma bisognerà che egli sia attento a distinguere, per
quanto gli riesca possibile, le sue convinzioni dalle dottrine dei filosofi del
passato.
Una volta che si siano superate tali difficoltà, si potranno d~tinguere,
nella storia della filosofia, alcuni aspetti diversi ed importanti. Di ogni
filosofia infatti si può considerare l'aspetto autonomo e specifico, e l' a-
spetto eteronomo. Il primo riguarda la stessa struttura della dottrina
filosofica che si studia, il modo in cui è elaborata, i capisaldi nei quali si
svolge; oltre alla dipendenza che può avere rispetto a precedenti dottrine o
la modificazione che di esse abbia realizzato; solitamente un filosofo inizia
la sua riflessione riferendosi ad altri filosofi precedenti e alle loro dottrine;
bisogna perciò saper cogliere, delle varie dottrinl!, i punti comuni e i motivi
in cui divergono, le somiglianze e le differenze, le concatenazioni e le
dipendenze. Ciò non significa, però, ignorare che ogni dottrina filosofica
non è isolata nella storia e non ha soltanto relazioni con altre dottrine
filosofiche. Ogni filosofo è uomo del suo tempo ed è immerso nella cultura
del suo tempo; ciò significa che le vicende della storia e della cultura del suo
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§ 3 LA STORIA DELLA FILOSOFIA
tempo hanno avuto qualche influsso sulla sua stessa filosofia. Questa è la
dimensione eteronoma della storia della filosofia, quella che giova a deter-
minare, non tanto gli aspetti intrinseci di una dottrina, quanto le connes-
sioni che essa ha avuto con il contesto delle altre vicende storiche. Anche la
storia della filosofia, insomma, è una storia settoriale; la si studia perché
solo cosi, prescindendo dal resto e quasi isolando o astraendo la filosofia
dall'insieme, si riesce a penetrarla nei suoi temi specifici; ed altrettanto
avviene per la storia dell'arte, o della scienza, o della politica. Ma ciò non
vuol dire certo che, nella storia, la filosofia stia per se stessa e da sola, e che
l'arte, o la politica, stia per se stessa o da sola. Al limite si può dire che esista
la storia complessa e unitaria dell'uomo, che è fatta di tutte le storie
particolari unite insieme. E nella storia effettiva una quantità di elementi
convivono e si intrecciano e si confondono. Però non c'è storico alcuno che
si proponga di scrivere tale storia unitaria e complessiva dell'uomo; essa è
piu un'idea limite, un criterio regolativo, che una storia effettiva. E sempre,
quando scriviamo storia, scriviamo la storia della filosofia, o dell'arte, o
della scienza, o della politica ecc. Tuttavia, scrivendo tali storie particolari,
non possiamo del tutto perdere di vista il quadro complesso di quella storia
unitaria da cui abbiamo stralciato ed isolato il nostro ambito particolare, o
almeno alcuni dei suoi motivi, quelli, magari, che volta a volta presentano
una connessione piu stretta con il settore che ci siamo proposti di mettere al
centro della nostra attenzione. La dimensione eteronoma della storia della
filosofia è appunto quella che guarda alla connessione tra la filosofia e altri
aspetti volta a volta piu significativi di quella storia complessa dell'uomo in
cui anche la filosofia è inserita e mescolata.
Un'altra utile distinzione di cui giovarsi nella storia della filosofia è
quella tra momenti statici e momenti dinamici. Nei primi predomina,
nell'ambito del pensiero e della filosofia, la continuità e la permanenza,
quasi una sorta di stasi; e ciò, evidentemente, non solo in ragione della
mancanza in esso di profondi mutamenti innovativi, di crisi radicali, di
svolte rilevanti, ma anche in ragione del fatto che non intervengono, nel
complesso mondo della storia unitaria, e cioè nei vari campi che possono
incidere nella storia del pensiero, importanti rivoluzioni o brusche innova-
zioni. Invece nei momenti dinamici la filosofia acquista movimento, modi-
fica le sue posizioni, sia che ciò avvenga per spiccate iniziative interne,
oppure per forti scosse che squassano la società e il mondo che le fanno da
supporto. Allora si verifica che le dottrine non vengono sviluppate ed
approfondite, ma, per cosi dire, perdono rilievo e vengono quasi svuotate
di significato, mentre profonde modificazioni nella storia sociale o econo-
mica o politica suggeriscono nuove idee e nuove dottrine, e portano quasi
alla scomparsa del pensiero precedente. Ciò non toglie però che si possano
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INTRODUZIONE
XXII
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§ 3 LA STORIA DELLA FILOSOFIA
XXIII
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PARTE PRIMA
LA FILOSOFIA ANTICA
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CAPITOLO I
II secolo v1 a. C.
LA SCUOLA DI MILETO. PITAGORA. SENOFANE
1. Le origini e il mito.
La civiltà greca storica ha m1z10 con il secolo IX a. C., mentre le ori-
gini del pensiero filosofico si collocano nel v1 secolo a. C. Nel periodo che
intercorre fra il secolo 1x ed il v1 si afferma e si sviluppa il mito, cioè una
visione immaginosa sia dell'universo e della sua origine che del corso dcl
mondo e delle vicende umane. La filosofia come considerazione razionale
del mondo si è affermata in antitesi con il mito, anche se questo non si può
dire che sia scomparso al sorgere della filosofia; con il progressivo affer-
marsi della concezione razionale del reale, .il mito è sopravvissuto nell'im-
maginazione poetica e nelle credenze religiose popolari.
I contatti che il mondo greco ebbe fin dai tempi pio antichi con alcuni
paesi dell'Oriente, come l'Egitto e la Mesopotamia, influirono anche sulle
figurazioni mitiche che si incontrano nei grandi monumenti letteran greci
dei secoli IX etl vm, e particolarmente nell'opera di Omero e di Esiodo.
Già nell'Iliade e nell'Odissea si possono trovare infatti clementi mitici che
risalgono a precedenti tradizioni orientali. Tanto Platone che Aristotele
ebbero a notare, ad es., che Omero indica in Oceano il generatore degli
dèi e in Tetide la loro madre, sulla traccia del mito di una massa liquida
primordiale largamente diffuso nelle civiltà orientali. Inoltre il. corso dcl
mondo, sia della natura che delle vicende umane, è retto, secondo Omero,
da leggi eterne; per intendere i singoli casi, bisogna riferirli ad esse;
l'umano e il divino sono strettamente uniti, al punto che le azioni umane
dipendono dalla iniziativa degli dèi e sono dominate dal fato; d'altra
parte, però, i mali che colpiscono gli uomini sono anche il risultato della
loro tracotanza, giacché esiste una legge di giustizia di cui gli dèi sono
rigidi custodi. Con Esiodo, la cui opera risale alla metà del secolo vm, si
afferma la narrazione cosmogonica che racconta, attraverso la storia della
generazione degli dèi, l'origine del ciclo e della terra. Alla coppia omerica
Esiodo sostituisce il caos e la terra, da cui traggono origine tutte le cose;
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IL SECOLO VI A. C. CAP. 1
anche per Esiodo l'uomo non ha alcun mezzo per sfuggire al volere degli
dèi ed alla giustizia che lo ispira.
Le concezioni mitiche dci poemi omerici rispecchiano il modo di
pensare della società eroica cd aristocratica delle origini greche, tutta
impegnata nella lotta di conquista e nella difesa religiosa del mondo della
forza e dcl comando, mentre il mito esiodeo si collega all'organizzazione
della successiva società agricola, dominata da una piu ampia visione della
natura e da un piu realistico senso dell'opera umana.
Un nucleo mitico importante si è affermato, nel corso del secolo vn,
nel movimento religioso dell'orfismo; diffuso fra i meteci e gli schiavi, che
non partecipavano di diritto. alle cerimonie religiose della città, ma seguito
anche da molti che non si accontentavano del culto ufficiale, l'orfismo si
distingueva dalla religione olimpica per un piu spiccato senso di misti-
cismo. L'uomo ha in sé, pensavano gli schiavi, un elemento peccaminoso,
insieme ad un elemento divino o dionisiaco; l'anima è l'elemento divino
che aspira a liberarsi dall'unione con il corpo; è per punizione di una
colpa originaria che l'anima è sepolta nella prigione del corpo; essa passa
attraverso un ciclo di molte nascite .. e di molte vite; nel trasmigrare da un
corpo all'altro, espia la sua colpa e si purifica; ottiene cosi la liberazione
« dal ciclo delle nascite e della miseria ». L'orfismo interpreta cosi le tristi
condizioni degli schiavi nel quadro mitico di un destino di sofferenza e
di liberazione.
2. II periodo.
Nel corso del secolo VI la Grecia si avvia ad una relativa stabilità poli-
tica; conclusi ormai i grandi movimenti migr:itori, la. vita delle città si
viene organizzando sulla base di ordinamenti piu definiti, sotto il controllo
di ristretti gruppi aristocratici; anche la vita economica si intensifica cd
i rapporti fra le città divengono piu frequenti. Questo accentuato ritmo
di iniziati\'a e di attività raggiunge il suo piu alto livello nelle colonie
ioniche dcli' Asia Minore cd in quelle dell'Italia meridionale. Le prime
erano nate nel corso dei secoli precedenti con l'immigrazione degli Ioni
che avevano fondato sul litorale le città di Mileto, Efeso, Colofone, Cla-
zomene, Focea e, sulle isole vicine, le città di Chio e di Samo; il com-
mercio con l'interno del continente asiatico cd il traffico sul mare erano
divenuti ben presto le loro principali occupazioni. Mileto diviene nel
secolo VI una potente repubblica marinara. che fonda scali commerciali
in Sicilia, in Italia e sul litorale del Mar Nero e intrattiene un commercio
assai fiorente con l'Egitto. Tutte le colonie ioniche dell'Asia minore sono
rette in questo periodo da una \'ivace aristocrazia commerciale, ricca ed
intraprendente, appassionata dei problemi della tecnica, dei viaggi, delle
imprese piu ardite; a questa categoria di persone appartengono Talete,
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§ 2 IL PERIODO
3. La scuola di Mileto.
Le prime riflessioni filosofiche di cui abbiamo notma sono quelle
che risalgono al gruppo della città di Mileto. Talete, che è il piu antico
in ordine di tempo, nacque forse intorno al 624 e mori intorno al
546; compi molti viaggi quale imprenditore commerciale; Platone lo
ricorda fra gli scopritori di invenzioni tecniche ed Erodoto afferma
che in veste di tecnico egli prese parte a spedizioni militari. Pare che
Talete abbia introdotto in Grecia sia conoscenze di geometria diffuse
in Egitto, sia alcune conoscenze astronomkhe diffuse presso i caldei;
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IL SECOLO VI A. C. CAP. I
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§ 3 LA SCUOLA DI MILETO
menti fosse all'origine degli altri, se, ad es., l'aria fosse all'origine
anche del fuoco, il caldo del fuoco risulterebbe annullato dal freddo
dell'aria. Anassimandro pensa dunque. che il mondo derivi da una
massa indefinita (a:rrELQov) cioè da una materia comune, da una me-
scolanza, dalla quale si staccano i vari elementi con i loro opposti
caratteri; i contrari che si separano dal caos indefinito sono «il caldo
e il freddo, il secco e l'umido e simili». Anassimandro ha anche ten-
tato di dare una spiegazione del succedersi, nella natura, dei vari con-
trari, e ha affermato che « donde vengono, nascendo, le cose, ivi esse,
morendo, ritornano, secondo necessità»; i contrari che derivano dall'inde-
finito, ad esso ritornano; l'uno rispetto all'altro essi si comportano come
due persone di cui la prima caccia la seconda, commettendo ingiu-
stizia; ma chi è stato cacciato dal mondo, torna ben presto a cac-
ciare chi l'ha estromesso; e cosi si ha anche nella natura un generale
equilibrio analogo a quello che la legge consente di realizzare nella
società. Anassimandro ha anche affrontato questioni piu particolari
su singoli aspetti della natura : ha sostenuto che la terra occupa il
centro dell'universo e non è quindi sollecitata a muoversi in nessuna
direzione; si è posto il problema dell'origine dell'uomo affermando che
i primi esseri viventi furono della natura dei pesci e che anche l'uomo
in origine sarebbe vissuto alla maniera dei pesci; ha cercato di farsi
un'ideà del cielo e di spiegarsi i piu importanti fenomeni astronomici.
Anassimene vive probabilmente dal 586 al 528 ed è sua volta autore
di uno se-ritto sulla natura, di cui ci è giunto un solo brevissimo fram-
mento. Le testimonianze gli attribuiscono la dottrina per cui cc il prin-
cipio primordiale che sta sotto alle cose è unico ed infinito, non però
indeterminato, ma determinato»; esso viene identificato con l'aria,
intesa come vapore, soflio, esalazione. «Proprio come l'anima· nostra
che è aria ci sostiene, scrive Anassimene, cosi il soffio e l'aria circon-
dano il mondo intero». Diceva inoltre che «dall'aria infinita sono
nate le cose che sono, e quelle che furono e quelle che saranno, e gli
dèi e le cose divine». Intorno al modo in cui dall'aria derivano tutte
le cose, le testimonianze ci hanno conservato indicazioni importanti:
intanto cc l'aria è sempre in movimento, perché non presenterebbe
tanti mut:imcnti quanti ne presenta, se non fosse in moto»; essa dà
luogo alle varie cose per via di rarefazione e di condensazione; l'aria
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IL SECOLO VI A. C. CAP.
4. Pitagora.
Le molte biografie di Pitagora giunte fino a noi cc lo presentano
piu come un taumaturgo cd operatore di miracoli che come il fon-
datore di una scuola scientifica; esse sono però tutte influenzate da
quel .misticismo religioso che si affermò nella comunità neo-pitagorica
a partire dal I secolo a. C. Solo poche testimonianze, fra tante, paio-
no meritare fiducia. Da esse risulta che Pitagora nacque a Samo,
forse intorno al 570; gli vengono attribuiti molti viaggi, specialmente
in Egitto; ancor giovane lasciò l'isola nativa e si recò a Crotone, nel
golfo di Taranto; è qui che Pitagora fondò un'associazione che ebbe,
pare, anche carattere religioso, sul tipo delle comunit~ orfiche. Il grup-
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PITAGORA
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IL SECOLO VI A. C. CAP. I
IO
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PITAGORA
5. Senofane.
Senofane, nato a Colofone intorno al 580, ne emigrò in seguito
alla conquista persiana e si diede ai viaggi per almeno 67 anni della sua
vita; soggiornò certamente in Sicilia e fu probabilmente anche ad Elea
nell'Italia meridionale; mori intorno al 480. Egli è legato allo spirito
del gruppo di Mileto, col quale ha in comune gli interessi naturali-
stici; sostiene infatti che «tutte le cose vengono dalla terra e nella
terra vanno a finire »; gli esseri viventi « sono terra ed acqua » ed
anche tutti gli uomini «sono nati dalla terra e dall'acqua»; in ori-
gine la terra era mescolata con l'acqua come prova, ad es., il fatto
che nelle latomie di Siracusa si trovano impronte di pesci; poi la
terra si libera dall'acqua e diviene abitabile da parte dell'uomo; alla
fine però la terra si inabissa nel mare e « tutti gli uomini scom-
paiono », mentre il ciclo della generazione comincia di nuovo.
Ma il tratto piu caratteristico della filosofia di Senofane è la sua
critica radicale dell'antropomorfismo religioso delle teogonie tradi-
zionali; egli polemizza principalmente contro Omero, perché «da lui
fin dall'antichità tutti hanno imparato». La critica senofanea del
modo tradizionale di raffigurare gli dèi non manca di motivi morali;
infatti, egli osserva, «Omero ed Esiodo h::inno attribuito agli dèi
tutte le cose che sono oggetto di vergogna e di biasimo fra gli uomini:
Il
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IL SECOLO VI A. C. C/t.P. I
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s6 LO SVILUPPO DELLE SCIENZE
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IL SECOLO VI A. C. CAP. I
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CAPITOLO Il
1. Il periodo•.
Nella prima metà dcl secolo v, la storia greca è dominata dalla lotta
contro i Persiani; ed è in questa che emerge la forza politica e morale di
Atene; il suo governo aristocratico raggiunge un alto livello di efficienza;
la tradizione religiosa stringe in un blocco compatto tutti i cittadini; e
si ha la vittoria di Maratona nel 490 e poi, nel 479, la vittoriosa con-
clusione di tutta la guerra, da cui la Grecia esce con una piu solida con-
sapevolezza della sua forza e della sua :mto~omia. Ma è proprio da tale con-
sapevolezza che anche i ceti popolari traggono energia per una piu attiva
partecipazione alla vita della polis; i contrasti fra il partito aristocratico e
quello democratico vengono ormai maturando, anche se la situazione trova
intanto il suo equilibrio nel governo"· illuminato di Pericle. Ma Atène, se è
ormai avviata a divenire il centro politico della Grecia, non ne è ancora il
centro culturale; in essa domina la tradizione religiosa ed i costumi duri e
militareschi vi hanno il sopravvento sulle conoscenze scientifiche e filosofiche.
Solo con Anassagora che fa parte dcl movimento culturale promosso da
Pericle, la filosofia si afferma ad Atene sul finire della prima metà dcl secolo;
tutti gli altri pensatori di questo periodo, da Eraclito a Parmenide, da Zenone
ad Empedocle, svolgano la loro attività altrove; ancora nella zona delle colo-
nie ioniche dell'Asia Minore Eraclito, nell'Italia meridionale cd in Sicilia
tutti gli altri.
Eraclito appartiene alla aristocrazia nobiliare di Efeso come traspare
anche dal carattere oracolare ed enigmatico dei frammenti che ci sono giunti
dell'opera sua; tuttavia il suo pensiero segna una brillante ripresa dell'indi-
rizzo filosofico del gruppo di Mileto circa un trentennio dopo la morte di
Anassimene. Con Parmenide e Zenone fiorisce ad Elea nell'Italia meridio-
nale una nuova scuola; essa si schiera contro le dottrine pitagoriche, di cui
svolge un'acuta critica; anche l'opera che contiene il pensiero di Parmenide
lj
Baruch_in_libris
LA PRIMA METÀ DEL SECOLO V CAP. Q
2. Eraclito.
Nativo di Efeso, Eraclito fiorf intorno al 500 a. C.; aveva not1z1a
delle dottrine della scuola di Mileto, ma era a conoscenza anche delle
dottrif!e di Pitagora e di Senofane, dei quali era probabilmente piu
giovane di circa trent'anni. Dell'opera in cui è esposto il suo pensiero
ci sono giunti molti frammenti; ma la loro brevità e lo stile prover-
bialmente enigmatico in cui· sono redatti ne rendono assai difficile la
comprensione.
Secondo Eraclito, gli uomini sono incapaci di elevarsi alla verità;
ed anche quando la vérità sia stata loro indicata, si comportano come
prima di conoscerla; ciò è dovuto al fatto che non sanno dirigere giu-
stamente la loro attenzione; essi usano bensr gli occhi e gli orecchi,
ma « occhi ed orecchi sono cattivi testimoni per gli uomini che hanno
anime che non comprendono il loro linguaggio». Non è quindi ai
sensi che si deve imputare, a giudizio di Eraclito, l'ignoranza degli
uomini; anzi, criticando la tradizione, egli le antepone la ricerca di-
retta, quella appunto che ci fa « vedere, intendere ed apprendere »
direttamente le cose; e con lo stesso proposito dichiara che «gli occhi
sono testimoni piu esatti degli orecchi ». L'ostacolo maggiore alla co-
noscenza della verità è costituito piuttosto dalle molte e troppe cose
su cui l'intelligenza umana. si ferma e dalle quali essa non viene
istruita; Pitagora e Senofane hanno appunto peccato di tale erudizione.
L'unica cosa che importa sommamente di conoscere per Eraclito è
il rapporto fra la realtà nella sua unità e l'opposizione che distacca
i contrari l'uno dall'altro, dando luogo alla molteplicità. Anassiman-
16
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§ 2 ERACLITO
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO V CAP. Il
18
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§ 2 l!llACLITO
3. Parmenide.
Par;nenide, contemporaneo di Eraclito, vive e fonda una sua scuola
ad Elea nell'Italia meridionale. Egli ebbe rapporti con i pitagorici, dci
quali conobbe e criticò le dottrine; ebbe conoscenza anche delle dot-
trine ioniche mentre non pare che abbia esercitato su di lui un influsso
diretto il pensiero di Senofane. Il pensiero di Parmenide è tutto raccolto in
un poema, di cui ci sono giunti 19 frammenti. Nel proemio l'autore narra
come le fanciulle figlie del Sole lo abbiano guidato su un cocchio
alato oltre la porta « dei sentieri della Notte e del Giorno » fino al
cospetto della dea dalla cui bocca ·egli apprenderà « a conoscere ogni
cosa, sia il cuore inconcusso della ben rotonda verità, sia le opinioni dei
mortali nelle quali non si trova verace credibilità ». Il sapere ha dun-
que per Parmenide un'origine divina ed una sanzione celeste, proprio
come voleva la tradizione religiosa e sacrale; ma il suo contenuto è
nuovo e razionale.
« Due sole vie di ricerca si possono concepire, scrive Parmenide;
l'una è che l'essere è e non può non essere; e questa è la via della persua-
sione, perché è accompagnata dalla verità; l'altra, che l'essere non è ed
è necessario che non sia; e questo è un sentiero sul quale nessuno può
persuadersi di nulla». Parmenide prende decisamente posizione contro
le varie forme di dualismo della filosofia precedente; dualistica è, a
suo giudizio, la dottrina che ammette il nascere e il perire della realtà,
il suo divenire; dualistica è la dottrina dei contrari, per cui il reale
risulterebbe di termini opposti; dualistica era anche la concezione pita-
gorica che ammetteva l'esistenza dcl vuoto. In tutte queste dottrine
entra come elemento determinante il non-essere, la mancanza o nega-
zione della realtà. Ora, a giudizio di Parmenide, il non-essere non
va confuso con l'essere; non gli si può quindi attribuire esistenza analoga
a quella dell'essere; chi compie questo errore, si rifà all'abitudine
19
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LA PlllMA METÀ DEL SECOLO V CAP. Il
«nata dalle molteplici esperienze», ali'« occhio che non vede », al-
l'orecchio « che rimbomba di suoni illusori » ed anche alla «lingua
che pronuncia nomi vani »; in una parola, chi attribuisce al non-essere
l'esistenza al pari che all'essere, si lascia trarre in inganno dalla sensa-
zione. Bisogna invece attenersi, secondo Parmenide, al giudizio che
si fonda sul ragionamento; le sue conclusioni sono in aperto contrasto
con le apparenze sensibili.
L'essere, secondo il giudizio della ragione, è ingenerato (non nasce)
ed indistruttibile (non muore); di esso non si può cercare l'origine.
Che l'essere o la realtà non possa nascere viene cosi dimostrato da
Parmenide: « Come e donde il suo nascere? Che nasca da ciò che non è
non è consentito né dirlo, né pensarlo; infatti non si può né dire né
pensare che l'essere non è; e se l'essere avesse inizio dal niente, quale
necessità l'avrebbe determinato a nascere in un tempo piu recente o piu
remoto? Dunque è necessario o che esista del tutto o che non esista
affatto». Ma l'essere non può nemmeno perire o trasformarsi perché
dall'essere non può nascere qualche cosa di diverso dall'essere; ciò signi-
fica escludere che l'essere possa morire o essere distrutto; in tal modo,
conclude Parmenide, «il nascere è spento e non c'è piu traccia del
perire». Questa condizione del reale è controllata da giustizia; essa
« tiene fermo» il reale, « stringe i suoi legami», non consente ad esso
di uscire da una norma precisa. Inoltre il reale è tale ugualmente dap-
pertutto, per cui «non c'è in qualche parte un di piu di essere, né in
altra parte un di meno», come sosteneva, ad esempio, la dottrina della
rarefazione e della concentrazione. Il reale è anche necessariamente im-
mobile; esso «rimanendo identico nell'identico stato, sta in se stesso
e cosI rimane immobile » « nel limite di possenti legami »; è la Necessità
dominatrice che « lo tiene nei ceppi del limite che tutto intorno lo
cinge»; anche l'immobilità del reale, cioè, non è casuale, ma risponde
ad una legge dì assoluta necessità; il reale è cosI e deve essere cosf. Né si
può ammettere che il reale abbia un processo di formazione e che risulti
pertanto incompiuto; esso noò può essere che completo nella sua totalità.
Coloro che si fermano invece alla conoscenza sensibile, senza ele-
varsi alla conoscenza rigorosa della ragione, si riferiscono al reale affer-
mando che esso nasce e muore, che cambia luogo e muta; cosI coloro
che fanno consistere il reale nella lotta degli opposti hanno il torto,
:IO
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s3 PARMENIDE
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LA PRIMA METÀ DEL SF.COI.O V CAP. Il
4. Zenone.
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§ 4 ZENONE
5. Empedocle.
Empedocle ed Anassagora vissero, sebbene molto lontani l'uno
dall'altro nello spazio, press'a poco nello stesso periodo di tempo;
erano di circa quarant'anni piu giovani di Eraclito e di Parmenide
e mentre la vita di questi ultimi si estese soltanto per circa i primi
tre decenni del secolo v, quella di Empedocle e Anassagora si inoltrò
fino al 430 a. C ..
Empedocle fu cittadino di Agrigento in Sicilia; sia che si rifa-
cesse agli usi della scuola pitagorica, sia che si ricollegasse direttamente
alle tradizioni orfiche, fu anche mago e taumaturgo. Imitò Parmenide
nell'esporre in versi le sue dottrine; ma dei duemila versi che com-
2J
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LA PlllMA METÀ DEL SECOLO V CAP. Il
ponevano il suo poema sulla 11\Jtura, ne sono giunti a noi meno della
quinta parte. Egli respinge la nascita e la morte della realtà con argo-
mentazioni molto vicine a quelle di Parmenide; infatti, osserva, «non
può avvenire che qualche cosa possa nascere da ciò che non esiste in
alcun modo, come è impossibile che ciò che esiste debba perire; infatti
esisterà sempre, in qualunque luogo lo si collochi ». Data la natura
immutabile del reale, bisogna vedere se esso proceda da un solo
principio o dall'unione di piu principii; Empedocle prende la seconda
via, in quanto gli pare che essa possa meglio spiegare la molteplicità
ed il divenire delle cose; sostiene infatti che le " radici " delle cose
sono quattro: il fuoco, l'aria, la terra e l'acqua; esse sono indivi-
sibili, nel senso che il fuoco non si può dividere in particelle di fuoco,
né l'acqua in particelle di acqua; ognuna delle "radici" è in se stessa
completa ed omogenea, non nasce e non muore; ma l'unione delle
diverse radici rende conto di tutte le cose che cadono sotto i nostri
sensi; come i pittori ottengono le figure di tutte le cose mescolando
fra loro colori diversi, cosi la mescolanza delle quattro radici produce
tutte le cose; per queste, « nascita è solo il nome che gli uomini
danno alla mescolanza »; e quando gli clementi vengono separati, al-
lora si ha «la dolorosa morte». In tal modo dal molteplice si forma
l'uno e l'uno si divide nel molteplice; ma quale è il principio che
spiega il duplice movimento e che sta quindi ali' origine anche della
mescolanza?
Empedocle ricorre a due principii distinti ed opposti : amore ed
odio. Non si tratta di due raffigurazioni mitiche; amore infatti è
« quella forza che è piantata nelle membra dei mortali e che ispira
loro le idee di amore e fa compiere loro le opere della pace »; la sua
funzione è quella di produrre l'unione degli elementi,_ mentre l'odio
è la forza contraria che tende a rompere l'unità. Con il conflitto di
amore e di odio Empedocle spiega sia la trasformazione delle singole
cose, sia il ciclo della trasformazione cosmica; la vicenda dei singoli
esseri si inquadra in quella dell'intero universo. In essa si succedono
momenti distinti. «Quando l'odio cadde nel piu profondo abisso del
turbine, scrive, e l'amore ne ebbe toccato il centro, tutte le cose si
riunirono in lui, per non essere che unità; e quando si furono mesco-
late, innumerevoli tribu di creature mortali si sparsero qua e là; ma
Baruch_in_libris
§ 5 EMPEDOCL!
molte cose restarono non mescolate ed .erano tutte le cose che l'odio
teneva sospese; infatti l'odio non si era ancora completamente ritirato
fino ai limiti estremi del cerchio»; quando l'odio si sarà totalmente
ritirato dal mondo, tutti gli elementi risulteranno perfettamente mesco-
lati dall'amore; ma poi l'amore comincerà ad allontanarsi dal mondo e
vi penetrerà l'odio, finché giungerà la completa separazione degli ele-
menti con il completo trionfo dell'odio. Non c'è un punto del processo
che si possa dire iniziale o finale, perché l'alternativa di amore ed odio,
al pari delle quattro radici delle cose, non viene mai meno.
La conoscenza nasce, per il filosofo di Agrigento, dall'incontro fra
un elemento che si trova in noi e lo stesso elemento fuori di noi; « con
la terra vediamo la terra, scrive, con l'acqua vediamo l'acqua». I
corpi emettono sempre degli « effluvi » e quando gli organi di senso
risultano composti di pori adatti alla grandezza degli « effluvi », si ha
la sensazione.
Se da un lato, come si è detto, Empedocle sente l'influsso di Parme-
nide nel considerare la realtà come immutabile nel suo insieme, egli si
ricollega al gruppo ionico di Mileto per quanto concerne la determina-
zione delle " radici " delle cose; ma mentre i milesii ave~ano insistito su
un unico principio, Empedocle tenta di sommare e di completare le loro
osservazioni; aggiunge all'acqua di Talete il fuoco di Eraclito e l'aria di
Anassimene, completando la serie dei principii con la terra. Egli rende
anche piu esplicita l'esigenza di far risalire l'origine del movimento e del
dive~ire, anziché agli elementi, considerati piuttosto come dei compo-
nenti statici, a due forze superiori, che costituiscono il principio dina-
mico dell'universo; l'iniziativa del costante ciclo in cui viene travolto
l'universo con tutte le cose è dell'amore e dell'odio, mentre l'acqua e
l'aria, la terra e il fuoco sono piuttosto il campo in cui quelle forze si
esplicano e governano. Risulta cosi codificata da Empedocle anche
la dottrina dei contrari che si era affermata sia a Mileto, sia specia:1-
mente con la scuola pitagorica.
6. Anassagora.
Nativo di Clazomerte, nella Ionia, Anassagora conobbe le dottrine dei
pensatori di Mileto, come quelle di Parmenide e di Empedocle; passò
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO V CAP. IJ
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§ 6 ANASSAGOllA
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO V CAP. Il
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CAPITOLO III
1. Il periodo.
La seconda metà del secolo v è un periodo singolarmente vivo e movi-
mentato della storia greca, sia sotto il profilo politico che sotto quello cultu-
rale. Sotto il primo rispetto, basterà dire che il periodo si apre con il governo
di Pericle in Atene e che si chiude con la fine della guerra del Peloponneso
la quale segna il trionfo ed il predominio di Sparta.· I contrasti all'interno
della stessa città e fra città e città assumono toni violenti; aristocrazia e demo-
crazia si contendono il primato e mentre la prima tende a mantenere il con·
trollo sulle forze popolari, queste, con l'appoggio di elementi piu aperti della
nobiltà, pongono precise rivendicazioni e mirano ad inserirsi organicamente
nella vita dello stato. Anche i problemi culturali diventano piu complessi
ed assumono proporzioni piu vaste ed imponenti; la filosofia procede gra-
dualmente dalle generalizzazioni suggestive e dalle ipotesi ardite verso il
primo abbozzo di una spiegazione scientificamente piu rigorosa del cosmo
con la dottrina atomistica; ed intanto la sofistica mette a fuoco i problemi
piu scottanti della convivenza, dando largo contributo alla revisione critica
della tradizione ormai pienamente in atto, mentre Socrate compie il massimo
sforzo per fissare i capisaldi razionali di una nuova visione della vita. Abba-
stanza tardi Atene si. apre alla cultura filosofica; ma in questo periodo il
suo contributo è decisivo; mentre Fidia la arricchisce di opere insigni di
icultura e di architettura, mentre fiorisce l'arte di Eschilo e di Sofocle, Atene
diviene anche il centro del movimento filosofico e scientifico, la capitale cul-
turale del mondo greco.
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. lii
3. La sofistica.
La parola " sofista " indica una persona che fa, per professione, I'inse-
gnante; ma anziché raccogliere una scuola costituita di un gruppo
ristretto di persone fisse, che si riuniscono in una sede stabile, il sofista
si reca di città in città, ove è richiesta la sua opera; i suoi scolari sono
'giovani ricchi delle famiglie aristocratiche che vogliono apprendere arti
ed abilità direttamente utili nella vita civile, e particolarmente nella vita
politica; i poveri non potevano disporre delle somme che si dovevano
corrispondere al maestro, come compenso; i giovani delle famiglie ricche
d'altra parte erano sollecitati a seguire l'insegnamento dei sofisti, p'!rché
JO
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§ 3 LA SOFlSTIC.\
l'intenso sviluppo della vita politica in tutta la Grecia apriva loro prospet-
tive nuove ed interessanti; la società greca era in fermento, le vecchie
strutture aristocratiche e tradizionali cedevano, si aprivano orizzonti piu
vasti all'iniziativa politica ed economica. Nella vita della città erano dive-
nuti frequenti i processi e bisognava sapersi difendere in tribunale;
quando si riuniva l'assemblea, bisognava saper pronunciare discorsi; nei
contrasti politici, era importante esser capace di sostenere un dibattito a
domanda e risposta; quando si inviavano ambascerie ad altre città, era
decisiva l'abilità dei negoziatori; si trattava poi di scegliere uomini adatti
per i comandi militari, per i servizi civili, per il governo della polis. In una
parola, i quadri ristretti della vecchia aristocrazia, di formazione tradi-
zionale, non bastavano piu; si veniva formando una nuova dasse diri-
gente, meno attaccata al passato, piu spregiudicata, desiderosa di riuscire,
bisognosa di crearsi delle competenze, aperta ai nuovi problemi. I sofisti
furon'o i maestri della nuova cultura.
Non tutti i sofisti impartivano un identico insegnamento; né tutti
intendevano allo stesso modo la preparazione culturale; alcuni di essi,
infatti, insegnavano ai giovani calcolo, astronomia, geometria, musica,
medicina, mentre altri insistevano nell'insegnamento della « prudenza
nelle cose domestiche (per il miglior governo della propria casa) e nelle
cose politiche (per la maggior capacità politica d'azione e di parola) »,
insegnavano cioè "l'arte politica'', e altri ancora davano maggior risalto
alla tecnica retorica, cioè all'arte del persuadere mediante discorsi. Non si
deve credere pertanto né ad una opposizione netta fra la precedente tradi-
zione filosofica e l'insegnamento dei sofisti, ché anzi parecchi di questi
ultimi uscirono da questa o quella delle scuole tradizionali, né ad una
rigorosa unità di indirizzo della sofistica stessa.
4. Protagora.
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. III
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s4 PROTAGORA
ciò che Protagora contesta è che uno dei due possa essere ritenuto piu sa-
piente dell'altro e che quindi si possa dire che il malato è ignorante
perché sente il cibo amaro, e che il sano è sapiente perché sente il cibo
dolce. Dal punto di vista della verità è tanto vero quello che sente
l'uomo malato quanto quello che sente l'uomo sano, appunto perché
la verità coincide con ciò che viene sentito.
Circa gli dèi, il famoso frammento dello scritto di Protagora dice
testualmente « Quanto agli dèi, non posso sapere né che esistano, né
che non esistano, né quali siano per forma; poiché molti sono gli im-
pedimenti a saperlo: la oscurità del problema, e la brevità della vita
dell'uomo». Dovendosi risolvere ogni problema in base al sentire del-
l'uomo ed entro i suoi limiti, la questione dell'esistenza e della natura
degli dèi, non poteva, secondo Protagora, essere risolta.
Piu tardi, Platone ed Aristotele, prendendo in esame la dottrina di
Protagora, la accusarono di scetticismo, cioè di distruggere senz'altro la
verità e di svalutarne la ricerca, in quanto sosteneva che tutte le affer-
mazioni si equivalgono. In verità, per Protagora tutte le conoscenze
sono vere e. per questo rispetto, si equivalgono; egli ha però ri-
conosciuto che vi sono condizioni che si debbono preferire rispetto
ad altre, per la loro maggiore utilità. Se il sano non deve rite-
nersi piu sapiente dell' ammalato, l' abito del sano è tuttavia mi-
gliore di quello dell'ammalato; sul terreno del «meglio», cioè del-
l'utile, si trova quella differenza fra le condizioni degli uomini che
non è possibile trovare sul terreno della verità. E poiché è possibile
per l'uomo passare da un abito ad un altro, da una condizione ad una
altra, bisogna studiare i mezzi con cui far passare sia i singoli che la
collettività dagli abiti peggiori a quelli migliori, dagli abiti dannosi :i
quelli utili. Il medico aiuta l'individuo, per mezzo delle medicine, a
cambiare il suo stato, a divenire da malato, sano; ora quello che il me-
dico fa per i corpi, il sofista lo fa per la condotta ·degli individui e delle
città; il sofista muta le condizioni degli uomini non con le medicine,
ma con i discorsi, cioè per mezzo dell'arte oratoria. L'utile diviene cosi
il criterio e il fondamento della cultura; non è però da credere che si
possa stabilire una nozione assoluta di utilità; anche dell'utile infatti si
deve parlare in relazione agli individui ed ai gruppi; l'esperienza può
far luce sul giudizio degli uomini intorno all'utile, in quanto sono le
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. III
5. Gorgia.
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§ 5 GORGIA
stengono, intorno alla realtà, delle dottrine contrastanti « gli uni dicendo
che l'ente è uno e non molti, gli altri invece dicendo che gli enti sono
molti e non uno, gli uni dimostrando che gli enti sono ingenerati, gli
altri dimostrando invece che sono generati »; contro tutti si può argo-
mentare con eguale efficacia. Ad es., se veramente la realtà fosse inge-
nerata, dovrebbe essere infinita; ma ciò che è infinito, non si trova in
alcun luogo e ciò che non si trova in alcun luogo non esiste; quindi se
la realtà fosse ingenerata, non esisterebbe. Se poi la realtà fosse gene-
rata, deriverebbe o dall'essere o dal non-essere e nessuna delle due solu-
zioni è accettabile, in base a quanto ha chiarito Parmenide; se però la
realtà non è né ingenerata, né generata, si deve concludere che non esi-
ste; infatti se esi~tesse, dovrebbe pur possedere uno di quei due attributi.
Alla stessa maniera Gorgia dimostra che la realtà non è né una, né
molteplice; non è una, perché se fosse tale dovrebbe essere o quantità
disco~tinua o quantità continua; ora nel primo caso, la realtà sarebbe se-
parata, nel secondo caso sarebbe divisibile; dunque la realtà non può
essere una; ma la molteplicità non è che la riunione di piu unità; quindi
la realtà che non può essere una, non può essere nemmeno molteplice; e
poiché la realtà, se esistesse, dovrebbe essere o una o molteplice, si deve
concludere che la realtà non esiste; essa almeno non esiste, osserva Gor-
gia, nel modo e con i caratteri che i filosofi le hanno riferito. Non è
nemmeno detto che esista una corrispondenza necessaria fra la realtà da
un lato e il contenuto dcl pensiero dall'altro; ci sono contenuti del pen-
siero a cui non corrisponde alcuna realtà, come se si pensa che un uomo
voli, e ci sono delle cose che, pur non esistendo, vengono pensate, come
accade per la chimera; sicché la realtà o l'essere di cui parlano gli elea-
tici, anche se è da loro pensata, non vuol dire che esista realmente. Gor-
gia poi si chiede : « quello che uno non concepisce, come mai potrà con-
cepirlo in seguito ali' intervento di un altro per mezzo della parola di
costui o per mezzo di un segno generale, diverso dalla cosa? ». Egli
intende rilevare che gli cleatici e i loro avversari, pur ammettendo che
esista una realtà con i caratteri che essi le attribuiscono e pur ammettendo
che essi la conoscano per tale, non riuscirebbero a comunicare la loro cono-
scenza ad altri, perché le parole da essi usate a tale scopo non han::o
alcun nesso necessario con la realtà medesima; sicché essi comunicano
parole e non i genuini caratteri della realtà .. In conclusione, i sostenitori
3S
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. lii
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s6 SOCRATI
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. 111
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§ 6 SOCRATE
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. 111
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s7 IL METODO DELLA RICERCA E L'UNIVERSALB
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"'
LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. III
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§ 7 IL METODO DELLA RICERCA E L'UNIVERSALB
stioni pili facili da risolvere; se, per esempio, ci fosse dissenso fra due
persone intorno a quale di due serie di oggetti sia pili numerosa, per
superare il dissenso non ci sarebbe che da fare il conto degli oggetti,
portando un modello di unità tante volte nell'una e nell'altra serie,
per concludere in quale di esse il modello è stato portato pili volte.
Anche le confutazioni che Socrate fa di certe dottrine muovono
anzitutto dalla considerazione che l'uso di certi concetti dà luogo ad
inconvenienti. Ad esempio, quando Eutifrone afferma che il modello
razionale o concetto, per tutti gli atteggiamenti di santità, è il se·
guente: «santo è ciò che è caro agli dèi », Socrate rileva che non tutti
gli dèi hanno care le stesse cose e tra loro esiste dissenso; adoperando
il concetto suaccennato, si dovrebbe allora concludere che le stesse
cose sono sante e non sante, in quanto alcuni dèi le hanno care ed altri
no; ma allora il concetto in questione non ci permette di distinguere
fra le cose, in modo che risulti chiaro quali di esse rientrano nel suo
ambito e quali ne restano fuori; appunto per questo si tratta di un
concetto inadeguato, che bisogna sostituire con un concetto valido e
rispondente.
8. Scienza e virtu.
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. III
non si daranno tante virtu, distinte l'una dall'altra, in modo che sia
possibile possederne una, senza possedere le altre; per contro tutte
le varie virtu, distinguibili solo materialmente, si riducono, intrinseca-
mente, ad una sola virtu, la scienza. Anche il coraggio, ad esempio,
che sembra consistere principalmente in un impeto emotivo, senza
alcun riferimento razionale, comporta, per Socrate, un intendimento
di ciò che si deve temere e di ciò che non si deve temere; il vile dif-
ferisce dal coraggioso perché non sa che il morire in battaglia è bene,
ed ha paura della morte perché non sa che la morte di chi combatte
con onore è bella. In tal modo Socrate sostituisce ad un codice morale
di tipo tradizionale, un unico principio, quello da cui può scaturire
la vera moralità come persuasione critica della razionalità di un certo
modo di operare; la vera· virtu non consiste nell'adeguarsi a schemi
morali convenzionali, ma nella ricerca della razionalità dell'azione.
La seconda conseguenza è che « nessun uomo commette peccato vo-
lontariamente, né volontariamente compie azioni brutte e cattive, ma
tutti quelli che fanno azioni brutte e cattive, le fanno per ignoranza»;
e ciò, perché « nessuno, il quale sappia o creda, che ci siano cose mi-
gliori di quelle che egli fa, e che siano possibili per lui, continua a
fare queste, avendo la possibilità di cose migliori; ed il lasciarsi vin-
cere da se stesso non può essere altro che ignoranza, ed il riuscire a
vincere se stessi altro che sapienza ».
Non è chiaro se Socrate, spingendosi nella ricerca razionale al di là
della identificazione generale di scienza e virtu, sia giunto a determi-
nare un preciso contenuto della scienza-virtu. Si presentavano, al ri-
guardo, parecchi problemi: vi sono anzitutto delle scienze ed arti parti-
colari, che insegnano i mezzi adatti a raggiungere un determinato fine;
ad esempio la medicina insegna i mezzi per conseguire la salute, l'in-
gegneria insegna a costruire, ecc.; ma la scienza che si identifica colla
virtU, pare che per Socrate debba distinguersi da queste scienze parti-
colari, in quanto essa dovrebbe essere scienza concernente i singoli fini
delle scienze particolari; queste, poiché non discutono da un punto di
vista unitario tutto il sapere, ma si limitano ad organizzarne un settore,
hanno un valore strumentale e tecnico, rispetto ad una scienza unitaria
che concerne la direzione generale della cultura; per questa via, il sa-
pere cui Socrate dà rilievo è una sorta di " scienza della scienza ", o
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§ 8 SCIENZA B VIRTl
" scienza del bene " che fissi il piano di unificazione e di convergenza
delle varie competenze tecniche. D'altra parte, pare anche che Socrate
sia stato attratto dal problema della sensibilità, cioè del piacere e del
dolore, e dal peso che essa esercita nella condotta complessiva dell'uomo;
e qui mise allora in luce l'importanza di una scienza che sia misura del
piacere e del dolore e che insegni pertanto a sacrificare piaceri imme-
diati e ad affrontare immediati dolori in considerazione di un maggior
piacere o di un minor dolore futuri; questa prospettiva è anche in ar-
monia con gli atteggiamenti pratici di Socrate, che non sembra avere mai
assunto, di fronte alla sensibilità, una posizione di condanna o di ri-
nuncia ascetica, quanto piuttosto una posizione di misura razionale. In
ordine ad una piu precisa determinazione della filosofia come « scienza
della scienza », ossia come scienza del retto uso delle singole scienze
e tecniche particolari, sembra che Socrate abbia pensato, come, del re-
sto, altri sofisti, all'arte politica, che nella città presiede a tutte le at-
tività e ne regola l'equilibrio e gli scopi. Ma deve trattarsi di un'arte
politica che non indulga ad egoismi individualistici; ad interessi parti-
colari, ma sia essa stessa regolata dalla misura razionale, la quale inse-
gna che la ingiustizia è un male ed un danno e che chi commette in-
giustizia, se consegue apparentemente utilità, in realtà fa il danno pro-
prio e degli altri. Un uomo politico che governi secondo il suo inte-
resse immediato invece che in base alla ragione, « non ha una grande
potenza», nonostante tutte le apparenze in contrario; dallo stesso punto
di vista della ragione, è meglio subire ingiustizia, piuttosto che farla;
e ciò perché non bisogna far torto ad alcuno, nemmeno a chi abbia
fatto torto a noi.
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. III
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s9 DEMOCRITO
tfi
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. III
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§ IO IL SISTEMA ATOMISTICO
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. III
so
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§ IO IL SISTEMA ATOMISTICO
in quanto appare a noi, non coincide con la realtà originaria degli atomi.
Secondo l'attestazione di Sesto Empirico, Democrito avrebbe dichia-
rato: « Opinione il dolce, opinione l' amaro, opinione il l:aldo, opi-
nione il freddo, opinione il colore; verità gli atomi ed il vuoto>>. Ed
avrebbe affermato che « vi sono due modi di conoscenza, cioè mediante
i sensi e mediante l' intelletto »; la seconda è " genuina ", mentre la
prima è " oscura ".
Nelle molte sentenze di carattere morale attribuite a Democrito si
afferma che la felicità non consiste nei piaceri sensibili, quanto invece
in una « misura razionale» che disciplini la sensibilità; e si mette in
luce il danno che possono recare le passioni alla tranquillità dell'animo,
che viene additata come fine supremo della vita. L'atteggiamento mo-
rale di Democrito è dunque volto alla ricerca di un bene individuale,
giacché la tradizione etica cittadina è ormai in piena crisi; spunti indi-
vidualistici si riscontrano del resto anche nelle dottrine della sofistica.
La filosofia della seconda metà del v secolo giunge, da un lato con Sa-
crate, dall'altro con Democrito, a risultati speculativi di grande rilievo.
La sofistica e Socrate contribuiscono a portare la filosofia dal cielo in terra
e cioè dalla considerazione della natura allo studio dell'uomo; l'im-
portanza del principio soggettivo che, con la sofistica, presenta ancora
prospettive molteplici e complesse, giunge con Socrate alla formulazione
concettuale che apre la strada alle ulteriori ricerche di Platone e di Ari-
stotele. Nello stesso tempo il naturalismo delle età precedenti mette capo
ad un sistema completo ed organico, in cui il principio ispiratore, se non
è il soggetto, è la ragione nella sua istanza quantitativa; nella primr. dire-
zione si apre la possibilità di una scienza capace di disciplinare il mondo
dell'uomo; nella seconda direzione si perviene ad una scienza del!' uni-
verso in cui la struttura meccanico-quantitativa inquadra la moltepli-
cità cd il divenire.
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. III
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§ Il LO SVILUPPO DELLE sc1E:-.:ZE
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CAPITOLO IV
1. Il periodo.
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D. PERIODO
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV
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PLATONE
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV
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§ 3 L'INSEGNAMENTO DI SOCRATE
potrà dire di noi il volgo, bensl di ciò che potrà dire colui che si in-
tende del giusto e dell'ingiusto, giudice unico, che è tutt'uno con la
verità». Proprio per il peso che ha nel comportamento virtuoso la
scienza, Socrate aveva insistito sia nel ridurre a questa tutte le virtu,
sia nel sostenere che la virtu si può insegnare; dalla scienza dipendono,
a suo giudizio, sia il bene che il male, sia la felicità che l'infelicità
del! 'uomo; nel Protagora Platone non manca però di notare che nelle
assemblee, mentre si ricorre ai competenti quando si tratta di questioni
tecniche, «quando si tratta dell'amministrazione politica, si alzano
a consigliare senza nessuna distinzione il falegname, il calzolaio, il
commerciante»; si pensa dunque che sia naturale che tutti prendano
parte alle deliberazioni politiche e che la stessa virtu politica sia innata,
e non frutto di insegnamento; ed ecco che si pongono per Platone le
premesse per un esame critico approfondito della democrazia ateniese
e per il suo rinnovamento in sc;nso culturale.
La principale difficoltà che, in questa direzione, presenta il pen-
siero socratico è quella studiata nel Carmide che ha per oggetto il
problema della saggezza; per saggezza Socrate intendeva quella scienza
suprema di cui l'uomo dovrebbe servirsi per indirizzare secondo ra-
gione tutto il suo sapere e il suo fare; sembra che la saggezza si di-
stingua da tutte le altre scienze particolari, perché queste sono scienze
di altro e non di se stesse, mentre la saggezza soltanto « è scienza
delle altre scienze e di se stessa». Ma una scienza, «che è scienza di
sé e delle altre scienze, non ha per oggetto nessun particolare campo
del sapere »; se si può, dunque, facilmente ammettere che esistano
molte scienze, ciascuna delle quali sia scienza di qualche cosa di de-
terminato, non si vede come possa esistere una scienza che sia scienza
di nulla di determinato, ma scienza di se stessa. « Ciò che è sano,
lo si conosce con la medicina, non con la saggezza; ciò che è archi-
tettonico, lo si conosce con l'architettura, non con la saggezza »; quin-
di, con la saggezza, si conosce « non che cosa si sa, ma solo che si sa »;
se uno, oltre ad esser saggio, « non sa in piu né ciò che è sano, né
ciò che è giusto, ma ha scienza solo del fatto che ha scienza, egli si
riduce a non conoscere se non che sa e basta». Come giustificare, dun-
que, la scienza generale capace di dare un solido fondamento unitario a
tutta la cultura?
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV
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§ 4 LA TEORIA DELLE IDEE
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV
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§ 5 LA CRITICA DELT,A RETORICA E DELL' ERISTICA
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV
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s5 LA CRITICA DELLA RETORICA E DELL' ERISTICA
delle imitazioni delle cose; appunto perciò non si può partire dai nomi,
per apprendere le cose; le controversie sui nomi si possono invece
risolvere solo cercando al di fuori dei nomi, nelle cose e nei loro modelli
eidetici. In tal modo Platone respinge sia la dottrina parmenidea, sia
quella di Eraclito; la dottrina di Parmenide consente agli cristi di rilevare
che, se il vero coincide con l'essere ed il falso con il non essere, il falso
non potrà mai esser detto; d'altra parte se con Eraclito affermiamo che
tutto diviene e nulla è stabile, come potremo giungere ad una cono-
scenza valida, cioè appunto stabile ed universale?
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV
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§ 6 L'AMORE, LA BELLEZZA E lL DESTINO DELL' ANlMA
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vicino alla piena conoscenza di qualche cosa ». Per dare rilievo alla
scienza ed all'attività umana che la coltiva, Platone la stacca risoluta-
mente dal mondo corporeo e sensibile ed insiste sul « pensiero per se
stesso » e sul suo oggetto, le idee, in se stesso considerato, astraendo,
per quanto si può, «da occhi e orecchi e da tutto il corpo». Il corpo
è impedimento alla scienza ed all'anima; perciò il filosofo, anche durante
la vita, persegue la morte come liberazione dell'anima e della scienza
d..li vincoli corporei. Il materialismo di coloro che considerano la vita
solo entro l'ambito degli interessi sensibili insidia sia lo sviluppo della
scienza e della cultura che quello dell'educazione; bisogna dunque
guardare alla vita dal punto di vista dell'immortalità. Ecco i ragiona-
menti che, secondo Platone, ci possono convincere che l'anima è immor-
tale: in natura ogni contrario si genera dal suo contrario, ogni processo
generativo si completa col processo generativo contrario; è da ritenere,
quindi, che il processo generativo della morte, per cui appunto ciò che
è vivo muore, si integri col processo generativo della vita, per cui ciò
che è morto rivive; vorrà dire dunque che «le anime dei morti esistono
certamente in qualche luogo, dal quale tornano a rigenerarsi ». La cono-
scenza scientifica ci fa apprendere le idee delle varie cose e « tutte le
impressioni che ci vengono dai sensi noi le riportiamo a tali idee, ricono-
scendo che esse sono gli esemplari primi posseduti dal nostro spirito »;
tutta la nostra. scienza sarebbe vana se non esistessero le idee e l'anima
capace di coglierle; ma come la sensazione non può generare in noi la
conoscenza scientifica, cosi la vita corporea .non misura e non conchiude
in sé la vita della scienza e dell'anima; quest'osservazione, chiarita con
il mito della preesistenza delle anime, spiega la conoscenza come una
reminiscenza, secondo gli spunti del Menone; l'anima dovr?t dunque
preesistere al corpo. L'argomento decisivo per sottrarre l'anima ai limiti
della vita corporea si ritrova però, secondo Platone, nella stessa natura
delle idee; esse sono invisibili e costanti; l'anima, che con la scienza si
mostra capace di cogliere tali modelli, deve essere simile ad essi; e quindi
essa, alla morte del corpo, « se ne andd all'invisibile, all'intellegibile »,
insomma «al divino, all'immortale».
Che la dottrina delle idee e la dottrina dell'anima e della sua· immor-
talit?t siano strettamente congiunte nella mente di Platone risulta anche
dalla critica che egli fa del naturalismo e dal significato finalistico di
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LA PRIMA METÀ DEL SEco:.o IV CAP. IV
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cui riveste la teoria delle idee. Naturalismo è per Platone la dottrina che,
pur ammettendo l'esistenza d'un principio ideale, spiega i fatti della
realtà indicandone semplicemente gli dementi materiali, come quando,
per esempio, si volesse spiegare il conversare di Socrate in carcere ricor-
rendo «alla voce, all'aria, all'udito ed a cose di questo genere >>, « senza
curarsi affatto di quelle che sono le cause vere e proprie » e cioè la
condanna degli ateniesi, !_a decisione di Socrate di non fuggire ecc.
La nuova forma di spiegazione dei fatti che Platone propone, in opposi-
zione a quella tradizionale della filosofia naturalistica, consiste nel
cogliere "il meglio" per cui una cosa è come è; non si tratta, per
esempio, solo di dire che la terra è piana o rotonda, ma di dire « perché
è cosI e perché non può essere che cosi, allegando la ragione del meglio
e cioè che per essa il meglio è appunto di essere cosI o cosi».
Non ad Atlante che sostiene il mondo si può dunque fermare la
nostra conoscenza, ma a quel potere « per cui cielo e terra fu possibile
che venissero disposti nel modo migliore ». La scienza filosofica delle
idee indica appunto le vere cause delle cose, il loro modello e il low
fine. « Se uno mi dice, scrive Platone, che una cosa è bella o perché ha
un colore brillante o perché ha una sua figura o per altre proprietà
dello stesso genere, ebbene, io codeste altre cause le lascio perdere e mi
tengo fermo a questa, e cioè che nient'altro fa sf che quella cosa sia bella
se non la presenza o la comunanza del bello». Le idee sono il fine
dell'anima e l'anima è immortale per il suo legame con le idee; l'amore
e la vita sono ad un tempo aspirazione al soprasensibile ed all'immor-
talità.
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§ 7 EDUCAZIONE, POLITICA E FILOSOFIA
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LA PRIMA METÌ. DEL SECOLO IV CAP. IV
come se si trovassero al campo; ad essi solo tra i cittadini dello stato non
è concesso di maneggiare o di toccare oro ed argento; cosi potranno
salvarsi e salvare lo stato». Al pari degli uomini, secondo Platone,
vanno educate anche le donne che non debbono restare chiuse nella
casa, addette ad occupazioni subordinate, ma debbono collaborare con
gli uomini in tutti gli uffici della vita pubblica, ivi compresa la guerra.
Ma il punto della Repubblica platonica che ha sollevato piu scalpore, ~a
presso i contemporanei che presso i posteri, è certo la completa aboli-
zione, per i "custodi", del matrimonio e della famiglia, intesi come
convivenza durevole di uomo e donna; per un lato i custodi non debbono
restare celibi in quanto sono cittadini eletti, i cui figli avranno maggiori
probabilità di altri di nascere forniti di alte qualità naturali; per l'altro,
è per essi abolito ogni possesso individuale (dal quale nasce ogni divi-
sione) e pertanto anche il possesso di una donna; uomini e donne si
accompagneranno senza dar luogo, perciò, a convivenza stabile ed
esclusiva; i figli verrai.mo allevati a cura dello stato; lo stato interviene
anche nel predisporre gli accoppiamenti, giacché questi debbono rispon-
dere a precisi criteri di selezione e non essere lasciati al caso.
Oltre alla classe dei " custodi ", lo stato ha bisogno di una classe di
veri e propri governanti; questi vengono scelti fra i "custodi" e devono
risultare « estremamente decisi a fare per tutta la vita e con ogni entu-
siasmo quello che ritengono utile allo stato». Lo stato risulta cosi
composto, nel suo insieme, di tre classi : quella dei lavoratori che è
esclusa da ogni formazione particolare cd alla quale non si impone la
vita comune e la· rinuncia alla famiglia, quella dei " custodi " e infine
quella dei " reggitori " o governanti. Perché lo stato risulti buono, biso-
gna, secondo Platone, che esso realizzi un sistema organico di virtu, un
insieme cioè di quelle virtU che hanno il valore di cardine del bene; si
tratta della sapienza, del coraggio, della ternperanza e della giustizia.
Che lo stato sia sapiente dipende dall'esercizio della sapienza da parte
dei governanti; che esso sia coraggioso dipende dai custodi; la tempe-
ranza poi si estende a tutto lo stato e si ha quando quelli che valgono
di piu e quelli che valgono di meno si accordano « su quale dei due
debba governare », anche se essa concerne piu direttamente la terza
classe, quella di coloro che debbono soltanto ubbidire e stare sotto-
messi; la giustizia infine regnerà nello stato se ognuna delle tre classi
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§ 7 BDUCAZJONE, POLITICA E PILOSOFIA
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV
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§ 7 EDUCAZIONE, POLITICA E FILOSOFIA
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV
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s7 EDUCAZIONE, POLITICA E FILOSOFIA
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV
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§ 8 LE DIFFICOLTÀ DELLA DOTTRINA DELLE IDEE
essi e le cose, dovrebbero avere gli stessi :aratteri delle cose. Ancora:
« Le cose della nostra esperienza 3ensibile sono quello che sono in rela-
zione fra loro, non rispetto alle idee e ricevono il nome che hanno dal
loro proprio piano, non dal piano delle idee; per es., se uno è schiavo,
lo è perché è schiavo di un uomo concreto, che è il suo padrone, men-
tre l'idea "esser schiavo" è tale rispetto all'idea "esser padrone";
quello che è sul piano della nostra esperienza concreta non ha valore
per quelle idee, né le idee hanno valore per noi; le idee sono quello
che sono rispetto a se stesse e le cose della nostra esperienza sensibile
sono quello che sono rispetto a se stesse ».
Platone riassume tutte queste difficoltà in una quando concludt
che « si trova in difficoltà chi ascolta la dottrina delle idee ed obbiet-
terà che queste non esistono o che, se proprio esistessero, necessaria-
mente sarebbero inconoscibili alla natura umana; e sarà straordina-
riamente difficile convincerlo del contrario ». È tanta la distanza che
corre fra i caratteri del mondo ideale e quelli dell'esperienza che si
può finire per ritenere il primo del tutto estraneo alla seconda; se, per
contro, il mondo delle idee risponde all'esigenza di rendere possibile
lo sviluppo conoscitivo ed etico del!' uomo, bisognerà superare ogni
separazione radicale ed approfondire il loro rapporto. Il mondo ideale
dell'essere e il mondo sensibile non stanno fra loro nel rapporto in cui
stanno, secondo Parmenide, l' essere ed il non-essere; non si può in-
fatti annullare del tutto il mondo sensibile, identificandolo con il non-
essere; né il mondo dell'essere si può prospettare in posizione antite-
tica e negativa rispetto al mondo sensibile. Mondo dell'essere e mondo
sensibile stanno fra loro nello stesso rapporto in cui si trovano l' uno
ed il molteplice; da una parte, il molteplice non si può pensare senza
riferimento ali' unità, in quanto anch'esso è costituito di unità e,
come numero, ne comprende una serie; dall' altra, l'uno è a sua volta
in relazione con il molteplice e fuori di tale relazione non avrebbe
senso; sicché l'uno è, e quindi è essere, ma in quanto unifica il mol-
teplice sensibile cessa di essere solo essere, essere separato, e si trova
in connessione con il non-essere sensibile; questo poi non è a sua volta
un mondo separato dall'uno, ma in relazione con esso; il suo non-
essere non manca di una relazione all'essere. In conclusione, se da
un lato è impossibile considerare l' essere fuori di ogni rapporto con
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LA PIUMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV
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s8 LE DIFFICOLTÀ DELLA DOTTRINA DELLE IDEE
dire " vedere " piuttosto che " non vedere "; e in ultimo « conoscenza
non è niente pili che non conoscenza». Se conoscenza non è dunque
sensazione, essa non è nemmeno semplice " opinione vera "; e infatti
Platone non ritiene soddisfacenti i tentativi compiuti dai sostenitori di
tale dottrina per spiegare come l'opinione vera si distingua da quella
falsa e come pertanto possa spiegarsi l'errore nell'ambito dell'opinione;
d'altra parte, se una dottrina non riesce a chiarire la possibilità dell'er-
rore e pertanto quella di distinguere lerrore stesso dalla verità, essa
confluisce senz'altro nel sensismo di Eraclito e di Protagora e non
risponde alla necessità razionale della verità. Anche il ricorso ad una
operazione dell'intelletto che aggiunga all'opinione vera qualche cosa
che le conferisca valore di verità viene respinto da Platone; egli ritiene
· infatti che tale operazione dell'intelletto, se non poggia sulla solida
base delle idee, non riesca in alcun modo a superare l' ambito sogget-
tivo ed empirico delle opinioni.
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LA. PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV
Bo
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s9 LA TRASFORMAZIONE DELLA DIALETTICA
cui si trova con altri generi; si tratta, dice Platone, di « tagliare in due
ogni genere» (ossia di· indicare le specie che esso comprende) fino a
scovare, come in una sorta di caccia, il genere su cui si fa la ricerca;
bisogna chiudere ogni via all'oggetto della ricerca, seguendo la strada
giusta che da un genere piu esteso porta direttamente fino a lui. Non
basta però, per determinare un genere, svolgere la ricerca in una sola
direzione; bisogna muovere da generi diversi, ogni volta dividendo
fino a raggiungere il genere da determinare; in tal modo quest'ultimo
viene colto in· un numero sempre maggiore di relazioni. Nella divisione,
osserva Platone, bisogna stare attenti « a non operare la distinzione di
una troppo piccola parte d'una specie opponendola ad un ·complesso di
parti grandi e numerose e trascurando invece i confini delle specie
stesse; bisogna che la parte <listinta coincida con una di queste specie »;
per es., chi volendo dividere il genere "uomo " separasse i greci dai
barbari o, volendo dividere il genere " numero " separasse il numero
diecimil_a da tutti gli altri, non seguirebbe i giusti confini delle specie;
il genere numero va diviso in pari e dispari; la specie e la parte non
sono dunque la stessa cosa, perché « ogni specie è parte di ciò di cui
si dice specie, ma non ogni parte è specie di ciò di cui si dice parte ».
Anche nel Filebo Platone ripete che i generi non debbono intenderSJ
come unità rigide e che sono in rapporto di partecipazione gli uni con
gli altri; la ricerca che concerne i generi si muove quindi nell'ambito
dell'unità e, ad un tempo, della molteplicità: «Noi dobbiamo sempre
ammettere e ricercare ovunque una nota caratteristica unitaria (e sem-
pre la ritroveremo, poiché essa c'è); ma, coltala, bisogna esaminarne,
dopo e subordinatamente alla prima, altre due, se ce ne sono due,
oppure tre o un qualche altro numero e poi rifare l'operazione per
ciascuna di queste ultime unità, finché si veda non solo che la prima
unità è unità e anche molteplicità, ma anche la sua struttura numerica »;
la "struttura numerica " sta nell'intervallo fra l'unità e la molteplicità
infinita; è appunto tale struttura che va studiata e che conferisce soli-
dità scientifica alla conoscenza. Platone lamenta che gli uomini del
suo tempo unifichino e moltiplichino « come capita », « lasciandosi
sfuggire ciò che sta in mezzo fra l'uno e l'infinito». Si chiarisce sem-
pre piu, nella mente di Platone, il rilievo che ha la mescolanza dei
vari generi nel complesso relazionale che forma la scienza e la con-
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV
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§ IO IL MONDO
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV
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§ IO IL MONDO
razione che procede nel tempo »; il sole, la luna e gli altri cinque pia-
neti furono fatti « per distinguere e guardare i numeri del tempo »; il
sole in particolare fu posto nel cielo « perché vi fosse una misura chiara
della relativa lentezza e velocità con cui i pianeti compiono le loro
rivoluzioni». Furono poi poste nel mondo quattro specie di esseri vi-
venti: « l'una è la stirpe celeste degli dèi, un'altra quella alata che va
per l'aria, la terza è specie acquatica, e la quarta è pedestre e terrena »;
anche gli dèi sono « visibili e generati »; « neppur voi, poiché siete stati
generati (dice loro il demiurgo) siete immortali, né interamente indis-
solubili, ma non sarete disciolti né vi coglierà la sorte del morire »; gli
altri esseri viventi hanno invece un'origine che non li sottrae alla morte,
se non per la parte loro piu nobile, che è l'anima; particolare impor·
tanza ha nel mondo dei viventi l'uomo. Platone espone punto per punto
la formazione delle varie parti del corpo umano, ma sente il bisogno
di avvertire in proposito che la spiegazione puramente naturale e mec·
canica dei fenomeni della vita è insufficiente; « alla piu parte degli
uomini, egli rileva, le cause naturali non sembrano secondarie, ma
cause principali di tutto, perché raffreddano e riscaldano, èondensano
e dilatano ed operano altri effetti simili; però esse non sono capaci
d'avere alcuna ragione o intelligenza verso qualche cosa »; per questo
1< colui che è amico della scienza e dell'intelligenza deve ricercare prima
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV
corpi, che è sempre la stessa perché non perde affatto la sua potenza,
ma riceve sempre tutte le cose e in nessun modo prende mai una
forma simile ad alcuna di quelle cose che entrano in essa »; è, in-
somma, « la materia di cui son formate tutte le cose, che è mossa e
figurata dalle cose che vi entrano ed apparè, per causa di esse, ora in
una forma ed ora in un'altra »; << ricettacolo delle cose generate visibili
e pienamente sensibili » è « estranea a tutte le forme » poiché « riceve
in sé tutti i generi »; quindi non si deve chiamarla « né terra, né aria,
né acqua, né fuoco, né alcuna delle cose che sono nate da queste». Il
mondo delle cose sensibili, oltre che di una materia prima, ha anche
bisogno dello spazio, che è « immune da distruzione e dà sede a tutte
le cose che hanno nascimento »; esso non si .percepisce con i sensi e nem-
meno è oggetto di pura conoscenza razionale; viene colto piuttosto,
dice Platone, «con un ragionamento bastardo», quello per cui diciamo
« che tutto quello che è, si deve trovare in qualche luogo e deve. occu-
pare qualche spazio e che quello che non è né in terra né in qualche
luogo del cielo, non è niente >>. Platone dedica particolare cura a sta-
bilire rapporti fra i quattro elementi primi delle cose e alcune forme
geometriche originarie; « ogni corpo ha profondità, egli osserva, e la
profondità contiene in sé la natura del piano e una superficie piana si
compone.di triàngoli; tutti i triangoli poi derivano dal triangolo isoscele
e da quello scaleno»; un'origine da triangoli va pertanto assegnata «al
fuoco ed agli altri corpi »; cosi Platone ribadisce il concetto che la diffe-
renza fra le varie qualità dei corpi non si determina senza una diffe-
renza di proporzioni numeriche e di quantità. Anche la derivazione
·di tutte le cose dagli elementi primi obbedisce, per Platone, agli stessi
criteri. Il mondo. non ammette una distinzione assoluta fra " alto " e
" basso ", perché << essendo tutto il cielo di forma sferica, tutte le parti
che, distando egualmente dal centro, sono le estreme, di necessità sono
tutte estreme ad uno stesso modo e il centro, distando nella stessa mi-
sura dalle parti estrej111e, si deve credere che sia egualmente opposto
a tutte ».
Un'ampia parte del Timeo è dedicata a studiare l'uomo, anche nella
sua corporeità. Platone studia le impressioni comuni a tutto il corpo
(caldo, pesante, dolore e piacere) e quelle che avvengono nelle singole
sue parti; in alcuni punti le sue spiegazioni ricordano Democrito, come
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§ IO n. MONDO
quando, ad es., egli sostiene che l'impressione del caldo dipende dagli
« spigoli e dall'acutezza degli angoli» delle particelle del fuoco e che
le impressioni della lingua dipendono « piu delle altre dalla asprezza
e dalla levigatezza >;. Gli odori « si formano nel passaggio degli ele-
menti per cui l'acqua si muta in aria e l'aria in acqua »; il suono « è
l'urto trasmesso attraverso le orecchie, mediante l'aria, il cervello e il
sangue fino all'anima»; inoltre «il movimento veloce è suono acuto»
e il movimento piu lento è « suono piu grave »; quanto ai colori « sono
fiamma che esce dai singoli corpi ed ha particelle proporzionate al
fooco che è nell'organo della vista, s{ da produrre la sensazione » ; si
ha, ad es., il bianco, quando si verifica una dilatazione del fuoco vi-
suale, si ha il nero nel caso contrario. La distinzione delle membra nel
corpo dell'uomo obbedisce, secondo Platone, alla necessità di distribuire
opportunamente in esso l'anima razionale e le altre due parti dell'anima
mortale; la prima ha riferimento al capo; il collo «è come un istmo e
un limite fra la testa e il petto » affinché il mortale non contamini
troppo il divino; l'anima mortale è collocata nel petto; «e poiché una
parte di essa era di natura migliore e l'altra peggiore, fu divisa in due
la cavità del torace e in mezzo, come chiusura, fu posto il diaframma;
la parte dell'anima che partecipa del valore fu collocata nel petto pro-
priamente detto, piu vicino alla testa; la parte dell'anima che appetisce
fu collocata fra il diaframma e il confine dell'ombelico, e fu costruito
in tutto questo luogo una greppia per il nutrimento del corpo». Il
fegato, a detta di Platone, fu fatto « per servire alla divinazione » e
ha stretto rapporto con i sogni; l'intestino è « ricettacolo dcl superfluo
della bevanda e dcl cibo» ed è $tato dato all'uomo affinché il corpo
non chiedesse continuamente cibo e gli fosse quindi consentito di de-
dicarsi alla filosofia. Analoghe considerazioni, ispirate a criteri finalistici,
Platone fa circa la distribuzione delle ossa e dci muscoli nel corpo,
sulla pelle, sui capelli ( « che sono un leggero coperchio intorno al cer-
vello per la sua protezione »); egli spiega il fenomeno della respira-
zione (e osserva che, poiché il vuoto non esiste, l'aria che viene emessa
«non va nel vuoto, ma caccia l'aria vicina dal luogo suo»)"; alla me-
dicina, di cui Platone mostra di essere buon conoscitore, son dedicate
alcune considerazioni che abbozzano una classificazione delle malattie;
la cosa piu importante al riguardo è che Platone, discorrendo delle
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LA PllIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV
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§ IO IL MONDO
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LA PIUMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV
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§ II CONCLUSIONI POLITICHE
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV
1< dicono che gli dèi sono frutto dell' arte degli uomini, non sono in na-
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§ II CONCLUSIONI POLITICHE
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV
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§ 12 LE SCUOLE SOCRATICHE MINORI
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV
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§ 13 LO SVILUPPO DELLE SCIENZE
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CAPITOLO V
1. II periodo.
La seconda metà del secolo 1v è contrassegnata, in campo politico,
dall'affermazione della Macedonia sotto la guida di Filippo II prima e
di Alessandro Magno poi. Filippo dapprima si assicurò il controllo di al-
cune çolonie ateniesi che gli impedivano lo sbocco al mare; poi prese
ad intervenire nei contrasti fra le varie leghe di città finché conseguì l'ef-
fettivo controllo della situazione politica greca. L'abile politica di Filippo JI
incontrò subito, in Grecia ed in Atene particolarmente, fautori ed avver-
sari; si formarono due partiti, uno filo-macedone capeggiato dall'oratore
Eschine e l'altro anti-macedone guidato fin dal 351 da Dcmostene che in
quell'anno appunto pronunciò la prima delle sue faqlosc orazioni filippiche
contro i progetti di asservimento della Grecia ormai chiaramente delineati
nella politica macedone. Con la battaglia di Cheronea del 338 Filippo
ottenne il dominio diretto sulla Grecia cd alle città adunate sull'istmo di
Corinto impose la pace, offrendo la sua forza militare per una guerra
decisiva contro la Persia; il vecchio spirito democratico cui Atene era stata
tanto legata nella sua storia volgeva cosf al tramonto, mentre si prospettava
una nuova epoca, improntata ad un accentuato spirito militaristico cd a
piu ampi orizzonti di espansione e di conquista. Dal 336 al 3~3 si svolge
l'incredibile impresa di Alessandro Magno che, succeduto al padre Filippo,
muove guerra ai Persiani occupando successivamente l'Asia Minore, la Siria,
la Fenicia, l'Egitto (ove fonda la città di Alessandria); posta sotto il con-
trollo cosf tutta la parte occidentale dello statC1 persiano, Alessandro si volge
alla sua parte orientale spingendosi fino all'India. Alla sua morte, nel 323,
la Grecia si poteva considerare soltanto una piccola parte di un vastissimo
dominio che aveva la sua capitale a Babilonia.
Il contrasto che in essa aveva sollevato la politica di Alessandro aveva
1messo in luce da una parte il vecchio ideale di una civiltà greca chiusa
nel culto ddle sue tradizioni e nell'approfondimento della sua cultura,
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§ I IL PERIODO
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V
100
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§ :2 ARISTOTELE
della filosofia, anche l'indagine nei vari settori del sapere; questi
erano, ad un tempo, distinti come campi autonomi di ricerca e colle-
gati in un ordinamento unitario di cultura. Nel 323, alla morte di
Alessandro Magno, ad Atene risollevò il capo la fazione anti-mace-
donica che richiamò dal!' esilio Dcmostene. Aristotele, come sim-
patizzante per la politica macedonica, non fu risparmiato; fu sporta
contro di lui una accusa di empietà, sostenuta da un sacerdote, dal
nipote di bemostene e dal nipote di Isocrate; l'accusa era solo un
pretesto che copriva motivi politici. Aristotele decise allora di abban-
donare Atene e si ritirò a Calcide, dove morf l'anno seguente (322)
all'età di sessantadue anni.
Anche per gli scritti di Aristotele, vale quanto si è detto per
quelli di Platone: essi sono giunti fino a noi non attraverso fram-
menti, ma in forma pressoché completa. Sotto forma solo di fram-
menti, in verità, noi conosciamo alcuni scritti che Aristotele proba-
bilmente compose prima di metter mano alle opere sistematiche che
ci conservano la formulazione organica della sua filosofia; si tratta di
saggi e di esercitazioni che forse non sono estranei al periodo della
permanenza di Aristotele alla scuola di Platone e che hanno pertanto
un'intonazione platonica; si possono, cosf, ricordare un Discorso esor-
tatorio alla filosofia (o Protrettico), uno scritto Sull'anima cd uno
Sulla filosofia. Il peso di tali scritti è comunque secondario, rispetto
al grosso corpus di opere complete che delineano il sistema aristotcHco.
Esso comprende i seguenti scritti o gruppi di scritti: l) un gruppo
di sei scritti di logica, piu tardi raccolti sotto il titolo complessivo di
Organon (strumento o metodo) nell'ordine seguente: l) Le categorie
(un libro); 2) il De interpretatione (un libro); 3) Analitici primi (in
due libri); 4) Analitici secondi (in due libri); 5) i Topici (in otto libri);
6) gli Elenchi sofistici (un libro) - n) la Metafisica, la maggiore delle
opere filosofiche, in quattordici libri - m) la Fisica (in otto libri)
cui si può collegare un gruppo di altri scritti sulla natura, compren-
dente: 1) Sul cielo (in quattro libri); 2) Sulla generazione e la co"u-
zione (in due libri); 3) Sulle meteore (in quattro libri) - IV) un gruppo
di scritti sugli ·animali, comprendente: l) Storia degli animali; 2)
Sulle parti degli animali; 3) Sulla generazione. degli animali; 4) Sulle
trasmigrazioni degli animali; 5) Sul movimento degli animali - v) Sul-
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V
I' anima (in tre libri) cui si ricollega un gruppo di scritti. minori, piu
tardi indicati come Parva naturalia, e comprendente: 1) Sensazione
e sensibile; 2) Memoria e reminiscenza; 3) Il sonno; 4) I sogni;
5) La divinazione mediante i sogni; 6) Lunghezza e brevità della vita;
7) Giovinezzo e vecchiaia; 8) La respirazione - v1) un gruppo di scritti
di etica, comprendente: 1) L'etica Nicomachea (in dieci libri); 2) L'etica
Eudemia (in sette libri); 3) La grande etica - vn) La politica (in otto
libri) cui si può collegare la Costituzione degli Ateniesi - vili) La re-
torica (in tre libri) - 1x) La poetica (incompiuta).
I due maggiori problemi che lo studio delle opere di Aristotele
solleva, in linea preliminare, sono quello che concerne la loro origine
e quello che riguarda la loi:o cronologia. Per quanto concerne l'origine
degli ~critti aristotelici, sta il fatto che alcuni risultano molto chiara-
mente ordinati ed elaborati, altri invece presentano ripetizioni, acco-
stamenti disordinati, tratti molto oscuri, a volte anche asserzioni con-
trastanti; la cosa si può spiegare se Aristotele, avendo curato diretta-
mente la redazione di alcuni suoi scritti, in altri non è intervenuto che
molto indirettamente, lasciando che venissero raccolti gli appunti, non
sempre elaborati, delle sue lezioni, da parte di scolari; ciò può essere
ovviamente accaduto anche quando, dopo la morte di Aristotele, si
venne mettendo insieme presso la sua scuola il corpus degli scritti. Per
quanto riguarda poi la questione della cronologia, si è particolarmente
insistito nei tempi a noi piu vicini e in modo speciale per opera dello
Jaeger, a vedere nelle ripetizioni e nei contrasti che a volte si incon-
trano nelle opere aristoteliche il risultato della giustapposizione in opere
complessive di trattati molteplici e diversi, originariamente staccati e
distinti; si è cosi messo in luce che alcuni scritti aristotelici sono un
mosaico di altri scritti minori, redatti in momenti diversi e, a volte,
con diverso orientamento. Si è anche tentato allora di cogliere le linee
che il pensiero aristotelico avrebbe seguito nella sua evoluzione; i risul-
tati piu accertati in proposito sono che Aristotele, dopo avere seguito
nella sua giovinezza Platone nel considerare l'anima immortale, nel
guardare con distacco il mondo sensibile e nell'attenersi alla dottrina
delle idee, nella piena maturicl della sua speculazione si staccò da
Platone criticandone la dottrina, per temperare quindi le sue vedute
metafisiche con un accentuato empirismo nella fase finale della sua
102
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§ 2 AlUSTOTELB
3. La logica.
La logica occupa, nel sistema di Aristotele, una pos1z1one prelimi-
nare in quanto studia lo strumento stesso con cui regolare qualsiasi
discussione o ricerca. Nei vari scritti dell'Organon (che significa appunto
strumento) si studiano tuttavia due distinti gruppi di questioni: la
dialettica, che ha il suo centro nei Topid, studia i criteri e i metodi
della discussione, mentre la trattazione degli Analitici studia il me-
todo della conoscenza scientifica in senso stretto. Si ricorderà che Pla-
tone, pur avendo preso le mosse dall'esperienza socratica del dialogo
e dallo studio logico-linguistico che già nella scuola eleatica era stato
fatto del procedimento del contraddire, pur essendo quindi ben a co-
noscenza delle indagini sulla discussione, aveva poi rivolto la sua
attenzione esclusivamente al procedimento della ricerca scientifica, cioè
alla dialettica intesa come analisi rigorosa delle strutture necessarie del
reale; sicché la discussione, secondo Platone, è inconcludente e non ha
rilievo quando non mette capo alla conoscenza della verità. Aristotele
tende invece, in quella parte della sua logica che è dedicata alla dia-
lettica, a considerare proprio la dimensione empirica del dialogare e del
discutere in tutta la sua ampiezza. La discussione nasce con una do-
manda; essa può riferirsi «all'opinione o di tutti, o della grande mag-
gioranza, o dei sapienti; quando poi si tratti di questi ultimi, ci si
può ancora riferire o all'opinione di tutti, o a quella della grande
maggioranza o infine all'opinione dei sapienti piu noti degli altri; ci
si può anche riferire alle opinioni che rispondono alle arti costituite,
ad esempio formulando opinioni riguardo agli argomenti della medicina,
come farebbe il medico, e riguardo agli argomenti della geometria,
come farebbe il conoscitore di questa scienza». Circa l'opinione intorno
alla quale si affaccia una domanda (come quando, per es., si chiede
103
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V
.;e il piacere sia o no desiderabile) ci può essere dissenso sia fra la mag·
gioranza della gente e i sapienti, sia nei sapienti fra loro, sia nella
maggioranza stessa della gente. Il dissenso è appunto all'origine della
domanda che si pone; il risultato cui· la discussione deve pervenire è
la manifestazione di una preferenza o di un rifiuto nei riguardi di
una determinata opinione. La dialettica considera appunto questa si-
tuazione, con particolare riguardo alle condizioni in cui un dubbio
può essere affacciato e rimosso attraverso dei discorsi concludenti. «La
dialettica è utile, scrive Aristotele, anzitutto perché insegna il metodo
conoscendo il quale si è piu facilmente in grado di disputare intorno
ad un argomento; in secondo luogo, essa è utile per le conversazioni,
poiché una volta passate in rassegna le opinioni della gran massa degli
uomini, verremo in rapporto con essi non già sulla base dei punti di
vista che sono a loro estranei, bensl su quella delle loro opinioni e al-
lora potremo respingere quello che essi ci diranno in modo non cor-
retto e noi stessi impareremo a non dire nulla di contraddittorio con
la tesi che difendiamo ». È proprio attraverso questo studio dei criteri
del dibattito fra persone ed opinioni che emergono alcuni importanti
problemi di logica.
Un pri~o problema è quello che riguarda i termini che si usano
nella discussione; avviene infatti che spesso con uno stesso termine
o vocabolo si designino cose diverse o che una stessa cosa sia designata
con nomi diversi; ad evitare confusioni; bisogna quindi enumerare i
diversi sensi in cui un termine può essere assunto nella discussione;
Aristotele ne indica dieci e li chiama categorie; un termine, a suo av-
viso, può indicare o una sostanza (ciò avviene quando, per es., il ter-
mine " cavallo " indica " un determinato cavallo " che è sostanza in
quanto non appartiene ad un'altra cosa individua, pon è, per es., come
il colore del cavallo che appartiene appunto al cavallo), oppure una
quantità (come il termine "lungo due cubiti"), oppure una qualità
(come il termine "bianco"), oppure una relazione (come ~I termine
"doppio"), oppure un luogo (come il termine "in piazza"), oppure
un tempo (come il termine "ieri"), oppure una situazione (come il
termine "seduto"), oppure uno stato (come il termine "armato"),
oppure un'azione (come il termine "bruciare"), oppure infine una
passione (come il termine " esser bruciato "). Le dieci categorie sono,
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§ 3 LA LOGICA
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V
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§ 3 LA LOGICA
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V
- - - - - - - - - - - - - - - ------- ----------------
elusione:; ndlc: premesse. compaiono i due termini fra i quali si deve:
indicare se e: quale nesso esista; in esse il termine medio compare due
volte, una volta raffrontato col termine che ha significato piu esteso
(premessa maggiore) e una volta con il termine che ha significato meno
esteso (premessa minore); nella conclusione il medio scompare e si
enuncia senz'altro il nesso ricercato fra i due termini di partenza.
Aristotele ha attentamente studiato la struttura dcl sillogismo e le re-
gole che la disciplinano; ha distinto tre diverse figure di sillogismo in
relazione al diverso tipo di rapporto che si viene a stabilire fra il ter-
mine medio e gli altri due termini: la prima figura si ha quando il ter-
mine medio è compreso nel termine maggiore e comprende il termine
minore (come quando, per es., il termine medio " animale " è compreso
nd termine " mortale " e comprende in sé il termine " uomo "; si han-
no anche diversi " modi " di questa prima figura a seconda che le tre
proposizioni del sillogismo siano affermative o negative, particolari o uni-
versali). Nella seconda figura del sillogismo il medio viene affermato di
tutto il termine maggiore ed è negato di tutto il termine minore, per
cui segue che il termine maggiore è negato di tutto il termine minore;
nella terza figura poi tanto il termine maggiore quanto il termine mi-
nore appartengono a tutto il termine medio, per cui si può concludere
che a volte il minore appartiene al maggiore; nei sillogismi di seconda
e terza figura (i quali pure ammettono molti modi) il rapporto fra i tre
termini non viene però colto direttamente e positivamente come av-
viene nei sillogismi di prima figura; perciò Aristotele li considera sillo-
gismi imperfetti che si debbono trasformare, con opportuni procedi-
menti, in sillogismi della. prima figura.
Il sillogismo ci consente, date due premesse, di trarne necessaria-
mente la conclusione; ma altro è che la conclusione sia tratta con ne-
cessità dalle premesse ed altro è che la stessa conclusione sia necessaria.
La conclusione viene tratta con necessità dalle premesse anche nei sil-
logismi usati dai dialettici e dagli oratori; eppure in questi casi non
si ha conclusione necessaria proprio perché non sono necessarie in se
stesse le premesse dalle quali essi partono; è invece caratteristica del
sillogismo che si usa nella ricerca scientifica rigorosa sia quella di muo-
vere da premesse necessarie, sia pertanto quella di ottenere conclusioni
altrettanto necessarie in se stesse. Domandiamoci allora quando una pre-
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§ 3 LA LOGICA
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V
4. La fisica.
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§ 4 LA FISICA
lii
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V
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§ 4 LA FISICA
llJ
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V.
motore immobile, quale forma suprema, del tutto in atto, degli esseri
naturali; non si potrà trattare di un motore che a sua volta sia mosso
da altro perché in tal caso esso ci rinvierebbe appunto a questo altro.
Mentre dunque negli esseri della natura la forma non può essere che
interna ali 'individuo che diviene, nel caso della prima causa o motore
immobile, non può essere che esterno all'insieme della natura. Il prin-
cipio della natura e del movimento che in essa si verifica non può es-
sere, dunque, che separato dalla natura e pertanto fuori dell'ambito
della scienza fisica in senso stretto; infatti la scienza fisica è bensl scienza
delle forme, ma non in quanto separate, bensl in quanto principii che,
con la materia, costituiscono gli esseri individuali concreti. Ma, prima
di inoltrarci cosi verso la metafisica, dobbiamo considerare la sistema-
zione che Aristotele ha dato ad alcuni campi particolari della realtà
fisica.
Anzitutto egli divide l'universo in due parti nettamente opposte fra
loro e pone fra mondo celeste e mondo terrestre quel divario che sa-
rebbe stato tolto di mezzo soltanto con l'astronomia moderna. Regione
celeste è quella che si estende dal primo cielo, quello delle stelle fisse,
fino alla luna che è l'astro piu vicino alla terra; regione terrestre è
quella sub-lunare che ha al suo centro la terra. Il contrasto fra cielo e
terra è anzitutto un contrasto fra l'elemento di cui son formati i corpi
celesti e i quattro elementi tradizionali di cui son fatti i corpi terrestri;
in seco'ldo luogo vi è anche un contrasto di movimenti. Il movimento
può essere retto, circolare o misto di entrambi; i movimenti retto e
circolare sono semplici cd appartengono ai corpi semplici, mentre il
movimento misto appartiene ai corpi composti; ai corpi semplici della
sfera terrestre appartiene il moto retto all'insil o all'ingiu; ma il moto
circolare è piu perfetto del moto in linea retta perché « può essere eter-
no »; ora il moto piu perfetto deve appartenere ad un corpo piu per-
fetto; ci sarà dunque una sostanza " piu divina " delle quattro sostanze
primordiali: l'etere; e di essa risulterà costituito il cielo. Anche la sfe-
ricità del cielo è dedotta dalla maggior perfezione della figura sferica
rispetta alle altre figure solide. Per spiegare i movimenti delle stelle
e dei pianeti, Aristotele fa ricorso al modello geometrico escogitato da
Eudosso, ma lo trasforma in un vero e proprio sistema fisico; si preoc-
cupò quindi, oltre che della spiegazione dei movimenti dei singoli
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s4 LA FISICA
astri, anche del fatto che un sistema di sfere relativo ad uno dci pianeti
non disturbasse il sistema di sfere del pianeta immediatamente sotto-
stante; intercalò quindi fra un sistema e laltro delle nuove sfere, por-
tandone il numero da ventisette a cinquantacinque. Le sfere celesti si
muovono non perché siano animate, ma perché ricevono il movimento
dal motore immobile.
La terra sta ferma ed occupa il centro dell'universo; i corpi pesanti
cadono verso il centro della terra in quanto esso coincide con il cen-
tro dell' universo; la terra è rotonda e « di non grande mole »; gli
esseri del mondo sub-lunare sono soggetti a generazione e corru-
zione; inoltre la resistenza offerta dalla materia comporta che molti
eventi del mondo terrestre siano accidentali e fortuiti; la perfezione
del motore immobile, se si fa sentire piu direttamente sul mondo
celeste, esercita soltanto un influsso indebolito ed indiretto sul mondo
terrestre. La dottrina aristotelica dei primi elementi obbedisce al
criterio dell'opposizione fra qualità originarie largamente seguito dai
medici e dai fisici anteriori; infatti essa parte dalle quattro qualità del
caldo e del freddo, del secco e dell'umido; esse sono opposte, a due a
due; escludendo le combinazioni dirette fra opposti, si possono ottenere
le seguenti mescolanze: secco-freddo, freddo-umido, umido-caldo, caldo.
secco; ognuna di queste combinazioni di qualità contraddistingue un
elemento; infatti il fuoco è calde>!secco, la terra è secco-freddo, l'aria è
umido-caldo, l'acqua è freddo-umido; basta che una delle due proprietà
che contraddistinguono un elemento trapassi nella contraria, perché si
abbia il passaggio da un elemento ad un altro; ad es., se il secco-freddo
della terra, si trasforma in freddo-umido, si ha il passaggio dalla terra
ali' acqua; del pari l'acqua può trasformarsi in aria e l'aria in fuoco; e
poiché il caldo contenuto nel fuoco può trapassare nel suo contrario,
ossia nel freddo, potrà aversi anche il passaggio dal fuoco alla terra;
si ha cosi un circolo incessante di trasformazioni che investe la sfera
terrestre in tutta la sua estensione. I fenomeni che. Aristotele ha raccolti
sotto la denominazione comune di meteore sono mescolanze dalla strut-
tura particolarmente instabile e che si distruggono rapidamente; ·esse
comprendono: i venti, le nubi, la pioggia, la neve, la grandine, il
ghiaccio, I' arcobaleno, il lampo, il tuono, le stelle cadenti, le comete,
la via Lattea, ccc.; le meteore hanno origine dal contrasto fra le esala-
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V
zioni secche che emanano dalla terra e quelle umide che provengono
dall'acqua che ricopre la terra. Ci sono però anche mescolanze piu sta-
bili, che Aristotele analizza in relazione alle qualità originarie; il duro
e il molle, il rarefatto ed il compatto, il liscio ed il poroso derivano, a
suo giudizio, dall'umido e dal secco; «consta dunque, conclude, che
tutte le restanti differenze si riducono alle prime quattro e che queste
non si possono ridurre ulteriormente di numero ». I corpi inorganici
derivano specialmente dalla terra e dall'acqua, mentre le strutture orga-
niche, cioè le parti dei diversi organi delle piante e degli animali come
la carne, il sangue, le ossa, ecc. hanno una derivazione piu complessa;
anche tutti i processi che hanno riferimento ai corpi organici, come ad
es. la digestione, la coagulazione, la putrefazione, vengono spiegati da
Aristotele con l' azione del caldo e del freddo. Platone aveva molto insi-
stito sulla " misura " matematica presente nella natura, anche se essa
fungeva piu da fine intrinseco dei fatti che da criterio per la loro misu-
razione; Aristotele insiste per contro sulla teorizzazione di qualità oppo-
ste e sulla loro antitesi assoluta.
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§ 5 LA VITA, L'ANIMA E LA CONOSCENZA
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V
ciò che può essere sentito non di viene di fatto oggetto di sensazione
(cioè non passa dalla potenza all'atto dell'esser sentito) se non in forza
dell'atto del soggetto senziente; e pertanto nemmeno il solo fattore
oggativo esterno può bastare a spiegare la sensazione; ciò si chiarisce
osservando, per es., come una pianta, pur subendo l' azione del calore
esterno, non ne abbja affatto la sensazione; la sensazione comporta
quindi, ad un tempo, l'atto del soggetto senziente e dell'oggetto sentito.
Che la sensazione comporti un processo di attuazione anche del sog-
getto senziente appare dal fatto che esso riceve SI l' impronta dell' og-
getto, ma limitatamente alla sua forma e con esclusione della materia;
infatti I' occhio percepisce il colore di un oggetto al modo stesso in cui
la cera riceve l'impronta del sigillo; e come il metallo di cui il sigillo
è fatto non passa nell'impronta, cosI il colore ndla sua materialità non
passa nell' occhio che lo vede. Aristotele ha fissato tale dottrina della
sensazione affermando che essa è « l' atto comune del senziente e del
sensibile »; egli distingue cinque specie di sensazioni e, rispettiva-
mente, di soggetti ~nsibili; il tatto ha come suo oggetto le qualità
elementari dei corpi, cioè caldo e freddo, secco e umido ed ha come
sensorio (cioè come organo di senso) la regione del cuore; il gusto «è
un determinato genere di tatto» e «l'odorato è in analogia con il gu-
sto», anche se «quale sia l'essenza dell'odore non risulta COSI evi-
dente come per il suono e il colore, perché noi possediamo questo senso
in grado non acuto>>. Visibili sono i colori che non si percepiscono
senza luce; l'atto visivo si determina quando il colore produce una
azione nel mezzo, per cui se tale azione si producesse nel vuoto il
colore non si vedrebbe affatto; il suono poi non è « urto di enti ca-
suali », ma è prodotto da un corpo che muova una « compatta unità
d'aria che si estenda continua fino ad un organo uditivo». Il sensi-
bile "proprio" di ogni senso (ad es. il colore per la vista, il suono
per l'udito, ecc.) viene colto senza alcuna possibilità di errore; l' er-
rore nasce piuttosto quando si attribuisce il sensibile proprio a qualche
corpo, quando cioè si oltrepassa l'ambito della stessa sensazione. Ol-
tre ai sensibili " propri '', vi sono però dei sensibili " comuni ", ossia
delle qualità che possono essere percepite da tutti indistintamente i
sensi e che, comunque, non sono percepite da alcun senso in forma
esclusiva; tali sono, ad es., il moto e la quiete, l'estensione e la figura.
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§ 5 LA VITA, L'ANIMA E LA CONOSCENZA
Aristotele pone, oltre ai cinque sensi, anche un " senso comune " che
ha la funzione sia di cogliere i sensibili comuni, sia di distinguere e
di mettere in relazione i sensibili propri dei vari sensi (ad es. un sapore
con un colore), sia infine di realizzare una certa unità sperimentale
della sensibilità.
Strettamente legata alla sensazione· è la immaginazione (cpavraa(a)
anche se nel passaggio dall'una all'altra si ha un affievolirsi della per-
cezione. Quando, nella sensazione, lo stimolo esterno ha cessato di agire,
il suo effetto si prolunga, anche se indebolito, nell'organo della sensa-
zione speciale ed anche in quello del senso comune; si ha cosi l' imma-
gine; le immagini sono in relazione fra loro e si rafforzano quando .sono
il riflesso indebolito di sensazioni simili; l'immaginazione non fa che
operare su questo mondo di imm~gini accumulate in noi; la memoria
è sempre legata all' immagine, alla quale tuttavia essa aggiunge la no-
zione del tempo; la memoria non è pertanto che il riferimento di
un'immagine al passato o al futuro (nel primo caso diviene ricordo, nel
secondo previsione).
L'importanza delle immagini risulta anche dalla dottrina aristote-
lica per cui esse sono la materia su cui si esercita il pensiero; e qui ·si
pone il problema dell'intelletto e del procedimento da esso seguito per
conseguire la conoscenza nella sua forma piu elevata. Questa è la cono-
scenza delle essenze, semplici ed indivisibili; esse sono l'oggetto proprio
dell'intelletto, al modo stesso in cui il colore è l'oggetto proprio della
vista e, in genere, i sensibili propri sono oggetto diretto delle rispettive
funzioni sensibili; ma anche tale conoscenza è un processo, anch'essa
pertanto implica un passaggio dalla potenza ali' atto; il passaggio in
questione è condizionato anzitutto dall'esistenza delle immagini sensi-
bili, sulle quali si esercita lattività dell'intelletto; come sappiamo, la
sensazione ha già liberato la forma sensibile dalla materia; ma la forma
sensibile non è ancora la forma intellegibile, che costituisce il punto di
arrivo della conoscenza dell'intelletto; le forme o essenze divengono in-
fatti oggetto dell'intelletto in quanto scevre di materia e sciolte da tutti
i caratteri particolari che sono loro congiunti nell'ambito della sensi-
bilità; bisogna appunto vedere come possa avvenire questo processo di
astrazione, mediante il quale riusciamo ad isolare gli oggetti puri della
scienza, nei loro caratteri universali e necessari. Non si può certo dire
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V
che tali forme o essenze siano già presenti in atto nella forma sensibile,
cioè nel!' immagine; quest'ultima è in potenza rispetto alle forme pure,
nel senso che il processo di astrazione che in essa si è in parte già rea-
lizzato, in un primo grado, si completa nel grado di astrazione piu
elevato. Diremo allora che \'intelletto comprende già in atto le essenze
in questione? L'intelletto, in verità, è a sua volta in potenza rispetto ad
esse e non può passare ali' atto se non in forza del!' azione su di esso
esercitata dalle forme medesime; l'intelletto è come una tavoletta su
cui non sta scritto nulla anche se essa è pronta ad accogliere tutti i ca-
ratteri che vi vorremo scrivere; l'intelletto, insomma, non è piu che il
luogo potenziale di tutte le forme, che, appunto per questo, non è da
esse determinato in atto. Di qui la difficoltà: come potrà un intelletto
che è in potenza rispetto alle forme (e che, appunto per questo. si
chiama possibile o passivo) astrarre dalle immagini sensibili le forme o
essenze pure che anche in queste sono contenute solo in potenza? La
forma è ciò che spiega, come fine, il movimento della materia; se vien
meno la forma, non ha piu ragione di essere nemmeno il movimento;
se le forme oggetto della scienza non esistessero in atto, non si potrebbe
comprendere né il passaggio dalle forme sensibili ali' astrazione intellet-
tiva, né quello in forza del quale l'intelletto si trasforma da semplice
potenza delle forme in possessore effettivo di esse.
Come si vede, le forme o essenze pure, intese come oggetti eterna-
mente in atto sono simili alle idee di Platone; Aristotele non intende
giungere ad una trascendenza cos1 rigida degli oggetti dell'intelletto;
per questo egli pone, al di sopra dell'intelletto possibile, che diviene le
varie forme, un altro intelletto, che chiama agente (voiiç :n:OtT]tut6ç);
esso è sempre in atto, non subisce intervalli, né modificazioni ed è pro-
duttivo delle forme. Come nel caso della gerarchia delle cause natu-
rali, si giunge di necessità ad un primo motore immobile che tra-
scende lo stesso ordine naturale in quanto ne costituisce il confine su-
periore, cosi nella gerarchia conoscitiva che va dalla sensazione alla
intellezione, si giunge di necessità ad un intelletto in atto che, per
costituire il confine superiore del processo conoscitivo, non può porsi
che esternamente ad esso; questo intelletto, di natura divina, non è
individuale, non appartiene, come fine interno, ad alcun organismo;
è bens1 immortale ed eterno, ma non comporta la immortalità di al-
120
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§ 5 LA VITA, L'ANIMA E LA CONOSCENZA
6. La metafisica.
L'opera di Aristotele cui il catalogo di Andronico assegnò il _nome
di Metafisica - con riferimento al posto occupato dall'opera stessa,
cioè " dopo i libri di fisica " - è un insieme non organico di scritti
che hanno per argomento quello che lo Stagirita chiamò " filosofia
prima "; dei quattordici libri che formano l' opera, il 11 è da conside-
rare la continuazione del I libro della Fisica e il v forma uno scritto
a sé sui termini tecnici della filosofia; le parti piu unitarie dell'opera
sono costituite dai libri u, m, iv e VI che svolgono una introduzione
generale alla filosofia prima, mentre i libri vn, vm e 1x svolgono la
dottrina della sostanza e della potenza e del!' atto e infine il libro xn
comprende la trattazione su Dio.
La filosofia prima è per Aristotele « la scienza del!' essere in quanto
essere, ossia dei_ principii e delle cause dell'essere e dei suoi attributi
essenziali». I significati del termine "essere" sono però molteplici; il
principale di essi è quello di sostanza, per cui essere significa l'essenza
unita alla materia e determinata come individuo concreto; compito
della filosofia prima, ossia della scienza piu generale che si possa avere,
sarà allora quello di determinare i caratteri comuni a tutte le sostanze;
questi caratteri, però, non vanno presi per delle entità aventi valore
per se stesse, indipendentemente appunto dalle sostanze in cui diven-
gono concrete; l'essere in quanto essere non è dunque il genere su-
premo del reale in quanto reale per se stesso; reali sono prima di tutto
le sostanze, cioè gli individui concreti, di cui si predicano tutti i ge-
neri e tutte le specie, ivi compreso lessere come genere sommo. Non
è dunque dal genere sommo, scambiato per realtà, che derivano gli
altri esseri, ma è negli esseri individui che hanno la propria base tutte
le essenze. Come si vede, su questo punto Aristotele non va d'accordo
con Platone; pur convenendo con lui e contro il naturalismo che gli
esseri concreti non si spiegano con lindicazione soltanto della materia
che li compone e che si deve pertanto far ricorso anche alla forma o
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V
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§ 6 LA METAFISICA
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V
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§ 6 LA METAFISICA
è punto finale del mondo, Dio non è demiurgo, non ordina il mondo,
di cui non ha nemmeno conoscenza; egli è soltanto il fine verso il
quale il mondo tende, ed anche il movimento che imprime al mondo
si spiega come tendenza ·del mondo ad imitare l'immutabilità e la
immobilità divina. Dio non è la sostanza di tutte le cose, egli non ha
rispetto agli esseri reali la stessa funzione che avevano le idee di
Platone; Dio è piuttosto una sostanza per sé, la prima delle sostanze,
in quanto del tutto priva di materia può realizzare in pieno la forma
e l'attualità; Dio garantisce, cosi, l'unità finale del mondo, ma sempre
sulla base d'una concezione del reale inteso come formato di individui
concreti.
Si potrebbe dire che la dottrina di Dio giova a concludere, come
limite ideale, il sistema aristotelico del mondo; ma la realtà di Dio
non interviene, per Aristotele, se non marginalmente nella stessa scienza
della natura; lo studio degli esseri, delle sostanze, va condotto avanti
tenendo conto di quello che piu direttamente è a contatto dell'uomo;
senza dire che la morale e la politica non fanno alcun ricorso alla
dottrina di Dio. È dunque giusto rilevare che Aristotele, ponendo Dio
separato dal mondo, come sostanza a sé, ha in certa misura riammesso
l'istanza platonica delle idee; ma è anche vero che mentre per Platone
le idee sono realtà supreme regolatrici di tutto il reale e di tutti i suoi
aspetti, per Aristotele Dio ha un compito piu limitato e circoscritto,
che lascia sussistere, quindi, nella loro autonomia, i singoli esseri
concreti nonché la scienza che li concerne. Il procedimento analitico
della filosofia aristotelica ha quindi conseguito, come suo piu impor-
tante risultato, quello di sciogliere la gerarchia platonica di mondo e
sopra mondo, per ridare al mondo maggiore autonomia e rilievo.
7. L'etica.
Allo studio della morale non si può richiedere, secondo Aristotele,
rigore scientifico sia perché i ragionamenti intorno alle azioni sono
piu veraci quanto piu sono particolari, mentre quelli generali sono
"vuoti", sia perché la condotta non dipende certo solo dalla cono-
scenza. « Ogni arte cd ogni ricerca, ogni azione come ogni proposito,
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V
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§ 7
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V
della pratica, al calcolo dei mezzi in ordine ai fini, condotto con fon-
damento rdzionale e con efficacia.
Intorno alla dibattuta questione del piacere, Aristotele assume una
posizione mediana; non accetta l'ascetismo· di chi dichiara che ogni
piacere è cattivo, come non pone il piacere ad unico principio del-
l'azione. Ogni atto, nel suo realizzarsi, osserva Aristotele, dà luogo
ad un piacere; il piacere accompagna costantemente l'esplicarsi del-
l'attività e il suo pervenire a compimento e, cosi, corona la sua perfe-
zione; il piacere vale pertanto quanto vale l'atto stesso di cui esso
esprime il compimento. Un rilievo tutto particolare Aristotele attri-
buisce, nel quadro delle varie forme dell'attività umana, all'attività
teoretica pura o contemplativa: « Se tra le azioni conformi alle virtU
quelle politiche e quelle di guerra eccellono per grandezza e per
bellezza, scrive, ma sono disagiate e mirano ad un altro fine e non
sono scelte per se stesse, invece l'attività dell'intelletto, essendo con-
templativa, sembra eccellere per dignità e non mirare a nessun altro
fine all'infuori di se stessa e ad avere un proprio piacere perfetto ed
essere autosufficiente, agevole, ininterrotta; e sembra che in tale attività
si trovino tutte le qualità che si attribuiscono all'uomo beato». Sia Pla-
tone che Aristotele hanno in proposito esal.tato l'attività della pura
conoscenza contemplativa, mentre hanno considerato l'azione umana
sempre esposta al fluttuare dell'esperienza ed al tumulto della sensibilità.
8. La politica.
Anche nella politica Aristotele ama, anziché risalire a modelli astratti
al modo del primo Platone, rifarsi alle concrete forme della vita
associata per analizzarne gli elementi e gli sviluppi. Anzitutto il fatto
che piu individui si associno non è una questione di libera scelta, ma
è il risultato di 1,m comportamento secondo natura, ossia è l'esplicarsi
d'una finalità che è intrinseca ai molti. Dapprima « è necessario che si
associno gli esseri che non possono vivere separati l'uno dall'altro,
come la femmina e il maschio a causa della riproduzione»; e si avrà
la famiglia. L'associazione di piu famiglie per realizzare un'utilità
piu complessa dà luogo ai villaggio; l'associazione ben salda di piu
villaggi è la città «che basta a se stessa per lo scopo dell'esistenza e
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s8 LA POLITICA
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V
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§ 8 LA POLlTICA
9. La poetica.
Nella trattazione incompleta della Poetica, Aristo~ele muove dal
mettere in rilievo ciò che è comune sia all'epopea come alla tragedia,
alla commedia come alla poesia ditirambica; tutte queste produzioni
letterarie sono " mimèsi o arti di imitazione " anche se esse differi-
scono perché o imitano con mezzi di diverso genere (linguaggio, ar-
monia o ritmo), o imitano cose diverse (i diversi soggetti), o imitano
in maniera diversa (o in forma narrativa, o in forma drammatica). La
poesia è, dunque, essenzialmente imitazione: «l'imitare è un istinto di
natura comune a tutti gli uomini fino dalla fanciullezza; inoltre, es-
sendo naturali in noi non pur la tendenza all'imitazione in genere,
ma anche e piu precisamente la tendenza ad imitare mediante il lin-
guaggio l'armonia e il ritmo, cosi è avvenuto che coloro i quali già
avevano per queste cose, piu degli altri, una loro disposizione naturale,
procedendo poi con una serie di lenti e graduali perfezionamenti, det-
tero origine alla poesia ». La forma di poesia analizzata piu ampia-
mente da Aristotele è la tragedia, che egli definisce « mimèsi di un'azio-
ne seria e compiuta in se stessa, con una certa estensione, in un lin-
guaggio abbellito di varie forme di abbellimenti, in forma drammatica
e non narrativa e mediante una serie di avvenimenti che suscitano
pietà e terrore, che ha per effetto di sollevare e purificare l'animo da sif-
fatte passioni»; l'elemento piu importante della tragedia è il mito, cioè
la composizione della vicenda, o il complesso dei casi che essa rappre-
senta; « il mito, poiché è la imitazione di azione, osserva Aristotele,
deve essere imitazione di un 'unica azione, tale insomma da costituire
un tutto compiuto; e le parti che la compongono devono essere coor-
dinate per modo che, spostandone o sopprimendone una, ne resti come
dislogato e rotto tutto l'insieme». Ufficio del poeta, però, non è quello
di « descrivere cose realmente accadute, ma quali possono in date occa·
IJI
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V
sioni accadere, cioè cose le quali siano possibili secondo le leggi della
verosimiglianza o della necessità ». « Lo storico e il poeta, spiega lo
Stagirita, non differiscono perché l'uno scriva in versi e l'altro in prosa;
la storia di Erodoto, per es., potrebbe benissimo esser messa in versi
e anche in versi non sarebbe meno storia di quel che sia senza versi;
la vera differenza è che lo storico descrive fatti realmente accaduti, il
poeta fatti che possono accadere »; perciò « la poesia tende piuttosto
a rappresentare l'universale, la storia il particolare »; si rappresenta
l'universale quando si mostra che «a un individuo di tale o tale na-
tura accade di dire o fare cose di tale o tale natura in corrispondenza
alle leggi della verosimiglianza o della necessità » ; invece si ha il par-
ticolare, quando si dice, ad es., « che cosa fece Alcibiade o che cosa
gli capitò». Un poeta può poetare, però, anche su fatti realmente acca-
duti, perché « anche tra i fatti realmente accaduti niente impedisce
ve ne siano alcuni di tal natura da poter essere concepiti, non come
accaduti realmente, ma quali sarebbe stato possibile o verisimile che
accadessero». Le norme di correttezza che valgono per la poesia non
sono le stesse che valgono per la politica o per la morale, osserva anche
Aristotele; e nel giudicare dell'opera di poesia, bisogna soprattutto rife..
rirsi ad eventuali errori che si verifichino (( dentro i limiti della poe·
tica »; il primo errore « consiste nella incapacità da parte del poeta di
rappresentare un oggetto nel modo che egli si propose di rappresen-
tarlo ».
I caratteri che contraddistinguono, nel suo insieme, la filosofia di
Aristotele sono principalmente due: egli ha anzitutto legato la tratta·
zione filosofica a un vasto complesso di altri settori di studio; cosi il
suo De coelo imposta una trattazione dell'astronomia, gli scritti sugli
animali svolgono un sistema di biologia e di fisiologia; altrettanto si
dica per le osservazioni raccolte da Aristotele intorno alla botanica e
alla embriologia, o per la sua trattazione del movimento. Ognuno di
questi campi di studio viene considerato in connessione con l'insieme
delle conoscenze umane, ma ognuno viene anche visto nella sua par·
ticolarità, nei suoi elementi e sviluppi, nelle sue strutture; si può dire
che, da tale punto di vista, la filosofia di Aristotele si presenti come una
grandiosa sistemazione enciclopedica, cui nessuno era giunto prima di
lui; da molti punti di vista pertanto si è potuto attingere all'opera ari·
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LA POETICA
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V
1 14
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§ IO PllU.1.0NE
quello di dimostrare sia con metodo espositivo, sia con il metodo delle
interrogazioni, che non bisogna prestar fede né alle sensazioni, né
alle opinioni; bisogna essere, egli sostiene, senza opinioni. Con Pirrone
dunque la polemica di Zenone contro il divenire e la molteplicità si
è estesa a tutte le opinioni, a tutte le affermazioni di differenza e
discernimento fra le cose. Ad un simile atteggiamento mentale di ripulsa
per tutte le opinioni tiene dietro un atteggiamento pratico di perfetto
equilibrio; proprio dall'essere la natura del divino e del bene sempre
la stessa deriva all'uomo una natura piu equilibrata; anche l'uomo
deve essere sempre lo stesso, come sospeso nell'indifferenza; le incli-
nazioni nascono in noi dalle opinioni; e qalle inclinazioni nascono le
agitazioni; se dunque saremo senza opinioni, ci troveremo anche senza
inclinazione e senza agitazione. « Chi si mantiene in questa disposizione
d'animo, affermava Pirrone, prima conseguirà la sospensione di ogni
discorso e poi la imperturbabilità ». Ma è tanta la nostra inclinazione
a pronunciare giudizi e ad assumere opinioni che, per sospendere ogni
nostra affermazione, dobbiamo quasi « svestire l' uomo »; proprio alla
sospensione di ogni discorso erano comunque rivolti tutti i discorsi
del fondatore della scuola scettica.
Si badi, però, che l'atteggiamento scettico intende colpire i di-
scorsi che pretendop.o di' essere veri e che .hanno riguardo quindi
alla « realtà » delle cose; ben altro è invece il discorso che si ha da fare
per quanto concerne le apparenze: « Non esiste alcuna cosa che sia
buona o cattiva per natura, mentre lo è secondo che le cose vengono
giudicate dalla mente degli uomini »; proprio per questo « mentre in
tutte le cose nulla è secondo· verità, gli uomini fanno tutto sulla base
della legge e del costume»; per questo altresi'. «l'apparenza è sempre
potente dovunque si presenta». L'apparenza e la consuetudine in-
somma possono guidare l'uomo nella vita; né c'è bisogno alcuno, nel
campo pratico, di adottare definizioni e discriminazioni precise di
valori, come bene e male, giustizia e .ingiustizia. L'imperturbabilità è
appunto di chi, oltre che essere privo di opinioni e perciò di turbamenti,
si affida nella vita quotidiana alla consuetudine ed all'apparenza. Pir-
rone aveva presente al riguardo l'enunciazione democritea che dice:
<< non asserisco che il miele sia dolce, anche se convengo che mi pare
tale». Dcl resto non si era preoccupato anche Parmenide di offrire,
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V
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Su LO SVILUPJ'O DELLE SCIENZE
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CAPITOLO VI
Il secolo lii
1. Il periodo.
Nel m secolo la Grecia tenta piu volte di insorgere contro la signoria
macedone; una lega di stati si viene organizzando nel territorio dell'Etolia,
nella Grecia centrale; un'altra lega si viene contemporaneamente strin-
gendo fra le città del Peloponneso occidentale; è appunto questa lega achea
che, sul finire del secolo, raggiunge, per l'apporto sempre piu numeroso di al-
tre comunità del Peloponneso, una rilevante potenza. Ma la lotta per l'indi-
pendenza dalla Macedonia viene attraversata dai contrasti non sopiti, anzi
rinfocolati, fra . i gruppi del potere oligarchico e le aspirazioni democra-
tiche; il centro di tali contrasti è Sparta, dove il sorgere di grandi pro-
prietari di schiavi e di i:icchi latifondisti impedisce ai cittadini rimasti
senza terra l'attuazione di riforme e il ripristino delle vecchie leggi di
Licurgo; le proposte per ·una nuova ripartizione della terra e i tentativi
compiuti per tradurla in atto non ebbero successo. Anzi la stessa lega
achea che aveva continuamente guerreggiato contro la Macedonia, per il
timore che le riforme democratiche propugnate a Sparta attirassero ancpe
le città che ad essa facevano capo, fin{ per chiedere l'aiuto della Macedonia
a sostegno dell'oligarchia; il movimento democratico di Sparta fu cosi
sconfitto mentre si spegneva ogni velleità di indipendenza della Grecia
dalla Macedonia.
Atene continua ad essere, in questo periodo, la città greca piu aperta
agli interessi culturali; è qui infatti che sorgono le due nuove scuole, quella
epicurea e quella stoica, che dominano il m secolo; ma agli inizi dcl secolo,
Demetrio di Falero, allievo di Teofrasto, progetta la costruzione ad Ales-
sandria di un grandioso centro culturale che doveva superare per effi-
cienza scientifica e attrezzature di studio gli istituti similari di Grecia
e dell'Asia Minore; sorse cosi quella che diventerà presto la piu grande
biblioteca del mondo antico; vicino ad essa vengono costruiti un orto
lxllarùco, un osservatorio as.trQDomico e preziosissime raccolte di materiale
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§ I IL PEJllODO
2. Epicuro: il Canone.
Epicuro era piu giovane di Pirrone di circa vent1cmque anni; nato
a Samo nel 342, giunse ad Atene all'età di 18 anni, ma diede inizio
al suo insegnamento solo piu tardi, prima a Mitilene e poi a Lampsaco;
portò la scuola ad Atene solo nel 305 e rimase a capo di essa: fino alla
morte nel 270. L'associazione da lui fondata accoglieva le persone piu
diverse, senza chiedere una speciale preparazione culturale e senza
badare all'umiltà delle condizioni sociali; quanti seguivano l'insegna-
mento di Epicuro si consideravano amici e fratelli ed erano legati da
una viva devozione per il maestro oltre che da un comune desiderio
di vita serena e razionale. Già .durante la vita di Epicuro, gruppi di
suoi scolari si raccolsero in varie città e perfino in Egitto e in Asia;
a questi gruppi sono inviate parecchie delle lettere che ci conservano
il suo pensiero. Diogene Laerzio afferma che Epicuro compose piu
di trecento scritti, fra i quali un'opera Sulla natura in 37 libri ed una
Sul criterio o canone. Di tutte queste opere di Epicuro sono giunte fino
a noi soltanto una Lettera ad Erodoto sulla natura, una Lettera a
Pitocle sulle meteore, una Lettera a Menèceo sulla morale, una raccolta
di Massime fondamentali e dei frammenti papirologici; sono inoltre
139
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IL SECOLO III CAP. VI
lfO
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§ 2 EPICURO
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IL SECOLO III CAP. VI
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§ 3 LA NATURA E I FENOMENI CELESTI
4. La morale epicurea.
Per conseguire la felicità, bisogna appunto, secondo Epicuro, «con-
siderare la divinità come un essere immortale e felice, senza attribuirle
nulla che sia in contrasto con questi caratteri». Gli dèi esistono, «ma
non nd modo in cui se li rappresenta la massa »; empio si deve consi-
derare «non già colui che rigetta gli dèi della moltitudine, ma colui che
attribuisce loro le finzioni della massa». Mentre l'esistenza degli dèi
è evidente, deriva da congetture ingannevoli l'opinione che. gli dèi
« sono causa dci piu grandi mali per i cattivi » e « promettono i piu
grandi beni ai buoni». Che la divinità non provveda alle cose del
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IL SECOLO Ili CAP. VI
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! 4 LA MORALE EPICUP.F.A
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IL SECOLO Ili CAP. VI
chi maestri, egli diede vita ad una nuova associazione culturale nel por-
tico ornato delle pitture di Polignoto, detto Stoa Pecile. Zenone resse la
scuola fino al 264, data della sua morte. Il secondo scolarca della Stoa
fu Cleante; nel periodo. della sua reggenza che va dal 264 al 232 la
scuola viene insistentemente attaccata da varie parti, specialmente dai
discepoli di Epicuro e da Arcesilao che era· a capo della scuola di Pla-
tone. Accade, in questo periodo, che nella Academia si insinua con
Arcesilao una nuova corrente di pensiero pili vicina alle posizioni dello
scetticismo che alla dottrina platonica delle origini; in particolare Arce-
silao si richiama al metodo della ricerca applicato sia da Socrate che da
Platone e pili idoneo, a suo avviso, a prospettive problematiche che a
conclusioni dogmatiche; ora la scuola stoica non nutriva certo alcuna
simpatia per l'atteggiamento negativo di Pirrone e del suo scetticismo;
mentre quest'ultimo aveva assunto una posizione negativa estrema con-
tro tutte le enunciazioni sulla realtà e tutte le opinioni, già con Zenone
la scuola stoica formula una sua visione della realtà ed una dottrina
positiva della conoscenza; è appunto contro le principali enunciazioni
di Zenone che Arcesilao svolge la sua critica insistente ed acuta; egli
tende a mostrare che ·non hanno consistenza né il criterio cui gli stoici
si rifanno per la conoscenza della verità, né quello cui si richiamano per
l' indirizzo pratico della vita. Sotto questo ed altri attacchi consimili,
la dottrina stoica fu costretta a rivedere alcuni suoi punti ed a modi-
ficare alcune sue conclusioni; ciò avviene specialmente con il terzo
scolarca, Crisippo; egli assunse la direzione della scuola nel 232, quando
aveva già cinquant'anni; fu chiamato "il secondo fondatore" della
scuola per la vigoria che impresse alla lotta contro le scuole rivali e per
l'operosità scientifica con cui provvide alla sistemazione dottrinale che
era desiderata; quando egli venne a morte, verso la fine del secolo
(nel 204), lo stoicismo aveva ormai una sua propria fisionomia ben de-
finita. Tutti e tre i reggitori della Stoa nel corso del secolo 111 hanno
un atteggiamento di indifferenza verso la politica locale delle città
greche, Atene compresa; essi si rivolgono piuttosto con simpatia ai
diadochi e specialmente ai re di Macedonia; questo nuovo atteggia-
mento politico denota il profondo mutamento avvenuto rispetto ai
tempi di Platone e di Aristotele. Del!' insegnamento dei tre maggiori
maestri dello stoicismo abbiamo una conoscenza diretta molto ristretta;
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§ 5 LO SVILUPPO DELLA SCUOLA STOICA
infatti dei molti trattati scritti da Zenone e dci piu che settecento
scritti attribuiti a Crisippo ci restano soltanto alcuni titoli conservatici
da Diogene Laerzio e pochissimi frammenti. Ci riferiremo perciò, piu
che ai singoli e distinti contributi di ciascuno dei tre filosofi nominati,
ali' insieme delle dottrine stoiche quali si configurano e si affermano
nel corso del m secolo, cioè per quella fase della storia della Stoa che
si designa come lo stoicismo antico.
6. La logica stoica.
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IL SECOLO III CAP. VI
r-18
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§ 6 LA LOGICA STOICA
esse producono nell'anima, anche ciò che se ne può dire per mezzo
del linguaggio; il linguaggio come insieme di suoni e quindi come
fatto fisico· si distingue dal linguaggio che ai suoni connette dei signi-
ficati; se da un lato sia le cose che i suoni del linguaggio sono delle
realtà corporee, dall'altro tutto quello che per mezzo dei suoni si può
significare ed esprimere non è corporeo; ora la dialettica ha per og·
getto no.n già le cose, ma gli enunciati sulle cose, non la realtà cor-
porea, ma l'enunciabile, il significabile su di essa; la dialettica ha
dunque uno spiccato carattere linguistico che la rende autonoma ri-
spetto al mondo reale. La dialettica stoica si distingue dalla logica ari-
stotelica su un punto fondamentale: mentre quest' ultima considera
come elementi primi i concetti, la dialettica stoica è proposizionale,
ossia ritiene che l'enunciabile minimo sia la proposizione che indica
dei fatti relativi a soggetti singoli. Mentre allora la logica aristotelica
si fonda sulla relazione di inclusione che presentano fra .loro i con-
cetti, quella stoica si fonda su una relazione di fatti enunciati per
mezzo di proposizioni. Il ragionamento non si presenta piu pertanto
come sillogismo, ossia come calcolo che serve a stabilire l' inclusione
di due concetti per mezzo di un terzo, ma come relazione logica fra
proposizioni enuncianti fatti. Gli stoici hanno analizzato varie forme
di ragionamenti concludenti: una si richiama alla proposizione ipote-
tica (per es., se è giorno, c'è luce; ma è giorno; dunque c'è luce),
un'altra alla proposizione disgiuntiva (o è giorno, o è notte; ma è
giorno; dunque non è notte). Il valore di questi ragionamenti non di-
pende certo dalla dimostrazione delle premesse, nel senso che esse ri-
sultino, come per Aristotele, da precedenti nessi di concetti; non di-
pende nemmeno dai fatti enunciati nelle proposizioni, ma piuttosto
proprio dal nesso logico degli enunciati; il ragionamento che dice: se
è giorno, c' è luce - ma è giorno - dunque c' è luce, vale perché,
posto il nesso fra antecedente e conseguente, non può aversi l'antece-
dente senza che si abbia il conseguente; voler concludere diversamente,
sarebbe cadere in contraddizione, voler mettere insieme, per es., l'op-
posto del conseguente con l'antecedente. Gli enunciati linguistici sono
sempre enunciati che si riferiscono a fatti, ma il legame che corre tra
i fatti non ha valore che in forza del legame logico che corre fra le
enunciazioni.
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IL SECOLO III C·\l'. VI
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LA FISICA E LA TEOLOGIA DEGLI STOICI
alle cose « una legge cui non è dato sottrarsi e sfuggire »; per tale
legge appunto «il mondo è governato meravigliosamente, come nel
piu retto e giusto reggimento statale»; non per questo gli stoici riten-
gono che si debba negare la libertà e I' iniziativa degli -uomini. Ciò
che distingue profondamente la teologia stoica dalla dottrina di Dio
elaborata da Platone e da Aristotele è che, mentre il Dio di Platone e
di Aristotele è soprattutto in relazione col mondo naturale, il Dio degli
stoici è in diretto rapporto anche con gli uomini e governa l' intero
universo in loro favore; non solo non è vero, come sostiene Epicuro,
che Dio si disinteressa del mondo, ma è vero che egli collabora con
l'uomo e ne dirige il destino; lellenismo degli stoici in nulla s' av-
verte maggiormente che nel loro distacco dagli dèi della tradizione
greca e nel loro accostamento al nuovo concetto di un dio onnipotente
che regge secondo provvidenza e saggezza il destino degli uomini e
delle cose; cosi lo stoicismo tenta di non respingere, ma di accogliere,
i vari culti dei popoli inserendo le loro molteplici divinità in una vi-
sione monoteistica, accoglie le prove popolari dell'esistenza della divi-
nità che fanno ricorso all'idea di un ordinatore del mondo superiore
per potenza ed intelligenza ali' uomo, fa larghe concessioni circa I' esi-
stenza di forze superiori ali' uomo, la divinazione del Euturo, le previ-
sioni per mezzo dei sogni, l'astrologia.
8. L'etica stoica.
Anche il criterio della condotta umana deriva dall'ordinamento ra-
zionale e divino dell'universo, nel senso che il fine fondamentale del-
l'uomo è quello di vivere conformemente alla natura, di adeguarsi
nelle azioni alla ragione universale che tutto governa; bisogna « acco-
gliere ciò che è conforme alla natura e respingere ciò che le è contra-
rio »; il dovere primario è « di conservarsi nella costituzione naturale
e di attenersi a tutto quello che ad essa conferisce, rigettando quello che
le è avverso»; seguire la natura equivale a seguire la ragione e realiz-
zare ad un tempo il disegno di Dio; ciò che è conforme a natura è
bene, ciò che è contrario alla natura è male, ciò che è intermedio è
indifferente. Da questa impostazione del problema morale derivano
alcune importanti conseguenze: anzitutto la virtil è un atteggiamento
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IL SECOLO III CAP. Vl
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§ 8 L'ETICA STOICA
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IL SECOLO Ili CAP. VI
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§ 9 LO SVILUPPO DELLE SCIENZ.
zss
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IL SECOLO III CAP. VI
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CAPITOLO VII
II secolo n
CARNEADE E PANEZIO
1. II periodo.
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IL SECOLO II CAP. Vll
2. Il probabilismo di Carneade.
Già con Arcesilao, nel secolo 111, l'Academia di Platone aveva pres:>
un indirizzo diverso da quello che essa aveva mantenuto dalla sua
fondazione; Arcesilao si era dedicato, come abbiamo visto, a criticare
attentamente le dottrine stoiche, piu che a sviluppare una sua propria
dottrina; per il suo distacco dalle tradizioni della scuola, la Academia
da lui presieduta fu indicata come " media " rispetto a quella " an-
tica " di Platone. Carneade, nato a Cirene intorno al 215, quando di-
viene scolarca dell'Academia, segue l'esempio di Arcesilao e rivolge
principalmente la sua attività ad un esame critico completo ed appro-
fondito delle dottrine stoiche; la sua polemica contro lo stoicismo è piu
impegnata ed acuta rispetto a quella già condotta da Arcesilao, tanto
che si designa il periodo da lui contrassegnato nella storia della scuola
come "nuova Academia ". L'unico episodio di rilievo della vita di
Carneade è quello della sua ambasciata a Roma nel 155, insieme con gli
scolarchi della Stoa e del Liceo, per ottenere che il senato fosse indul-
gente con la città di Atene, accusata del saccheggio di Oropo. Fu in
tale occasione che Carneade parlò sulla giustizia in presenza di Galba
e di Catone, i due maggiori oratori del tempo; egli divise il suo di-
scorso in due patti e il primo giorno fece le lodi della giustizia, mentre
nel secondo espose tutti gli argomenti che si potevano addurre in con-
trario. Fu, pare, questo atteggiamento ad indurre il senato ad affret-
tare la partenza da Roma degli ambasciatori ateniesi. Roma era venuta
a contatto con le manifestazioni della cultura filosofica già nel corso
della sua espansione nella Magna Grecia e nella conquista della Sicilia
durante il III secolo; l'avversione alla filosofia subito manifestatasi si
era rafforzata nel corso del secolo seguente, tanto che nel 161 un sena-
toconsulto aveva vietata la residenza in Roma ai filosofi ed ai retori
greci; tuttavia la battaglia di Catone contro la cultura ellenistica, da
lui giudicata come incentivo· di corruzione mentale e morale, era de-
stinata a fallire. Carneade muore nel 129; secondo l'esempio di Socrate
egli non lascia scritti, ma i suoi insegnamenti sono stati raccolti e tra-
smessi dal suo discepolo Clitomaco; noi ne abbiamo notizia attraverso
Cicerone e Sesto Empirico.
« Carneade si oppose agli stoici ed a tutti i filosofi anteriori, scrive
appunto Sesto, sulla questione dd criterio; infatti dimostrava che non
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§ 2 CARNEADE
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IL SECOLO II CAP. VII
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§ 3 PANEZIO E LA MEDIA STOA
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IL SECOLO Il CAP. VII
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§ 4 LO SVILUPPO DELLE SClENZB
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CAPITOLO Vili
Il secolo 1
1. Il periodo.
Se il n secolo, è, specialmente nella sua prima metà, contraddistinto
dalla vigorosa espansione di Roma, il 1 secolo con gli ultimi decenni del
precedente è contraddistinto da una complessa evoluzione politica e so·ciale
della repubblica, ormai in deciso declino; gli elementi che hanno deter-
minato il rompersi del precedente equilibrio sono molteplici: la vasta
amministrazione delle provincie, il grosso concentramento della ricchezza
finanziaria nelle mani dell'ordine dci cavalieri, il graduale impoverimento
dell'economia rurale, l'aumento enorme del numero degli schiavi, i con-
trasti sociali connessi con l'estensione di determinati diritti; il senato non
fu piu in grado di equilibrare le forze in contrasto, le lotte interne si
intrecciarono alle continue guerre per controllare e consolidare le precedenti
conquiste, gli eserciti assunsero un'importanza sempre maggiore come stru-
mento di appoggio ad una determinata politica; divenne cosi inevitabile
il passaggio dalla repubblica al governo personale dcl principato con
Augusto; l'età di Augusto segnò, come è noto, il massimo fiorire della
letteratura e della cultura in Roma; ma, da un punto di vista piu gene-
rale, era evidente che Roma non era riuscita a sviluppare un'azione culturale
profonda che, traendo profitto dalla tradizione greca, facesse argine a tutte
le forze disgregatrici che crescevano all'interno del suo vasto impero; anche
la filosofia accennava. sempre piu a diventare patrimonio di circoli ristretti
di intellettuali e di aristocratici; e si avrà infine il prevalere di quelle
tendenze mitiche e: magiche che, se non erano mai venute meno nei paesi
orientali, non erano finora riuscite a creare un clima generale dominante
in tutto lo scacchiere della civiltà ellenistica. Dal punto di vista filosofico
si ha, in questo periodo, uno sviluppo e adattamento di posizioni tradi-
zionali al nuovd clima culturale; cosi si può dire in particolare per lo
stoicismo di Posidonio, per lo sviluppo dato da Cicerone ad alcuni temi
dc:ll' Academia e per il tentativo compiuto da Lucrezio di rinnovare
l'epicureismo; con Enesidc:mo si ha poi la ripresa dell'indirizzo scettico
con un aperto richiamo alla tradizione pirroniana.
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s2 POSIDON10
2. Lo stoicismo di Posidonio.
La media Stoa che nel secolo II era stata iniziata da Panezio ha
ora il suo esponente maggiore in Posidonio, vissuto fra il 135 ed il 51;
sappiamo che insegnò a Rodi dove ebbe scolaro Cicerone e che
tenne rapporti amichevoli sia con Pompeo che con gli ambienti
culturali di Roma; scrisse molti trattati filosofici, oltre ad opere di
matematica, di storia, di geografia, di scienze della natura; a giudicare
dall'eco che della sua dottrina si riscontra in altri autori (giacché
nulla resta dei suoi stessi scritti), Posidonio è una mente enciclopedica.
L'indirizzo generale del suo pensiero da un lato accentua alcuni
motivi naturalistici, dall'altro li integra con una prospettiva mistico-
religiosa; per es., il calore che è il principio animatore dcl.l'universo
è anche alla radice di quell'ordine gerarchico che dispone gli esseri
secondo un piano provvidenziale; la natura è regolata da leggi cd
è oggetto di ricerca scientifica, ma Dio può vaticinare il iuturo per
bocca d'una profetessa ispirata o quando, nel sonno, rapisce l'anima,
sciolta dai vincoli del corpo, in sogni profetici; il mondo è un'unità
organica, ma l'anima ha rapporto diretto con Dio mediante l'entusia-
smo mistico. L'uomo stesso risulta composto di due parti, una dcm~
niaca che ha la stessa natura di Dio ed una irrazionale che la contra-
sta; le passioni non si possono quindi sradicare, ma sono una parte
del nostro essere; su questo elemento irrazionale della nostra natura
nulla può la ragione, poiché solo con mezzi irrazionali si può domi-
.nare. la parte inferiore di .noi. Posidonio ebbe piu vivo di· altri stoici
l'interesse per lo studio analitico della natura; ma egli è anche piu aperto
di altri a tradizioni mistiche che finora erano rimaste estranee alla
scuola stoica.
3. Cicerone e I'Academia.
Il pensiero di Cicerone, vissuto fra il 106 cd il 43, è legato alle
vicende della Academia di Platone e specialmente alle dottrine in
essa sostenute da Filone di Larissa e da Antioco di Ascalona, gli
scolarchi che la diressero dal 110 fino al 69; del secondo, Cicerone
fu scolaro ad Atene nel 79. L'indirizzo di Antioco è in aperto con-
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IL SECOLO I CAP. VIII
trasto con quello che alla scuola aveva impresso Carneade; mentre
questi aveva criticato a fondo la dottrina stoica, Antioco promuove
un incontro fra lo stoicismo e l'Academia; ma l'Academia deve ri-
tornare alla autentica dottrina di Platone che, a suo giudizio, non
è poi distante né dalla dottrina aristotelica, né da quella stoica. In
particolare Antioco c~itica il probabilismo di Carneade in quanto
ritiene che, per stabilire una graduazione della probabilità, è neces-
sario un criterio fermo, una certezza assoluta; bisogna dunque am-
mettere che sia possibile percepire la verità e che questa costituisca
la base stabile dell'azione; «è soprattutto necessario, concludeva An-
tioco, che noi si percepisca qualche cosa prima dell'azione e che si
dia il nostro assenso a quello che abbiamo percepito, poiché chi nega
o la percezione o l'assenso, nega radicalmente l'attività della vita
umana».
Cicerone, nei molti suoi scritti di ispirazione filosofica (si possono
·ricordare i seguenti: Academica, De finjbus, Tusculanae disputationes,
De natura deorum, De divinatione, De fato, De officiis) non ade-
risce del tutto alla posizione di Antioco; del resto egli aderisce, volta
a volta, ad indirizzi ed a tesi non sempre coerenti, né si propone di
elaborare una filosofia originale; avendo atteso con passione agli
studi filosofici, Cicerone ha soprattutto il merito di aver rielaborato
in lingua latina molti seritti filosofici greci; le sue opere hanno avuto
comunque una grandissima diffusione; sono penetrate piu tardi nel
mondo cristiano ed il suo umanesimo è stato piu volte ripreso nel
corso della storia come una visione equilibrata del mondo e della
vita umana, sia individuale che collettiva. Cicerone si considera aca-
demico quanto al metodo, cioè alieno da affermazioni dogmatiche
concernenti oggetti troppo lontani dall'esperienza comune, attento
al pro cd al contro dei problemi, piu interessato a discutere ed a
cercare che ad affermare perentoriamente. Comunque la sospensione
radicale dell'assenso, già propugnata da Arccsilao e da Carneade,
non gli appare come un atteggiamento realistico; e, pur entro limiti
ragionevoli, egli sostiene dottrine positive; si affida con fiducia al
consensus gentium per affermare l'esistenza degli dèi; crede nella
provvidenza divina, senza di che gli pare che vengano meno non
solo la religione e il culto, ma anche una ordinata convivenza civile;
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CICBl.ONI!
4. L'epicureismo di Lucrezio.
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IL SECOLO I CAP. VIII
5. Il neo-scetticismo di Enesidemo.
Di fronte alla svolta che, con Antioco di Ascalona, riporta l'Aca-
demia ad un rinnovato dogmatismo, si ebbe, sul· finire del 1 secolo,
la reazione di Enesidemo che insegnò ad Alessandria e volle ripristi-
nare la tradizione scettica in una forma piu rigorosa. La sua opera
dal titolo Discorsi pirroniani conteneva una sistemazione dello scetti-
cismo, la cui parte principale è costituita dalla formulazione dei dieci
argomenti o tropi per la sospensione dell'assenso a ciò che attestano
i sensi; i motivi principali di tale sospensione risiedono nei contrasti
cui la· sensazione stessa dà luogo; infatti i dati della sensazione sono
diversi nei diversi animali, variano da uomo a uomo in circostanze
diverse; la rappresentazione d'una cosa varia col variare del luogo in
cui essa si trova, né è possibile isolare un oggetto dalla mescolanza
in cui si trova con altri oggetti; infine Enesidemo richiamava la
diversità dei costumi, delle leggi e delle tradizioni; egli voleva insomma
dimostrare come la conoscenza sia sempre relativa e non possa per-
tanto conseguirsi la verità. Un altro punto importante svolto da Enesi-
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§ 5 ENESIDEMO
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tL SECOLO I CAP. VIII
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§ 6 LO SVILUPPO DELLE SCIENZE
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CAPITOLO IX
1. Il periodo.
. Il I secolo dell'era cnsuana coincide con il primo periodo della storia
dell'impero romano fondato da Augusto: i contrasti interni fra l'esercito,
il senato e l'aristocrazia continuano, mentre la compagine dcl vasto do-
minio di Roma regge solidamente sia dal punto di vista militare che da
quello politico. I problemi di fondo delle popolazioni che vivono nell'am-
bito delrimpero non vengono però risolti e solo la dittatura militare è in
grado di mantenere e in parte di accrescere ti prestigio del potere centrale.
Dal punto di vista culturale si accentua nei I secolo quella crisi che
aveva avuto inizio nel secolo precedente: e ciò nel senso che la formu-
lazione razionale dci criteri per la conoscenza del mondo e per la condotta
dell'uomo appare sempre meno soddisfacente alle masse che . non fanno
parte dci ristretti gruppi intellettuali; viene sempre pio diffondendosi una
visione mistico-religiosa della vita e dcl mondo, comunità religiose nuove
si formano dovunque, i culti orientali si diffondono anche in Occidente
per opera dci soldati, dei commercianti, degli schiavi che sono ·adibiti nelle
campagne e nelle città. In Alessandria d'Egitto Filone tenta una fusione
delle pio rilevanti istanze religiose giudaiche con alcuni temi della filosofia
greca e specialmente della tradizione platonica; si svolge intanto la predica-
zione di Geso con la quale nasce il cristianesimo; esso già con s. Paolo
prende una precisa posizione rispetto alla filosofia ellenistica, mentre il pen-
siero di Seneca adatta la tradizione stoica all'ambiente della cultura romana.
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s2 PILONE
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IL PRIMO SECOLO DELL' ÈRA CRISTIANA CAP. IX
3. La predicazione di Gesu.
Mentre ad Alessandria si afferma la dottripa di Filone in cui la
tradizione religiosa ebraica ha una parte determinante, si svolge in
Palestina la predicazione di Gesu; essa si colloca all'interno dell'ebrai-
i1mo, ma ne rinnova profondamente il contenuto religioso. Gesu si ri-
volge, secondo che attestano i tre vangeli sinottici di Matteo, di Marco
e di Luca, a tutti gli uomini di buona volontà e particolarmente a co-
loro che soffrono; ai diseredati, ai peccatori; ad essi predica il regno
di Dio che non ha un significato mondano, ma un significato interiore
di rinnovamento, di liberazione dal male, di redenzione dal peccato;
bisogna staccarsi da tutte le cose del mondo, dall'attaccamento agli
onori, alle ricchezze; la salvazione sta nell'amore di Dio e del pros-
simo: Dio è padre, infinitamente buono e misericordioso; per diven-
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s3 LA PREDICAZIONE DI GESÙ
tare suoi figli, bisogna amare anche i propri nemici e fare del bene
a coloro che ci fanno del male; solo l'amore ci redime dal peccato. Non
è l'osservanza della legge che salva, non è il •conformismo esteriore
delle pratiche del culto che giustifica; solo i puri di cuore vedranno
Dio. Gesu si presenta come figlio dell'uomo e figlio di Dio, come ban-
ditore della redenzione nella fede, come pegno di un nuovo patto fra
Dio e gli uomini. La predicazione di Gesu si stacca da tutti gli altri
indirizzi religiosi dell'ebraismo, da quello dei sadducei che si accon-
tentavano di un'osservanza formale della legge ed irridevano ad ogni
speranza escatologica, da quello dei farisei, tutti presi dallo zelo per
la conservazione della genuina tradizione ebraica, come anche dall'asce-
tismo degli esseni. La predicazione di Gesu prende invece posizione
contro l'osservanza esteriore della legge assunta come pieno adempi-
mento della vita religiosa e se da un lato si appella alla tradizione ebraica
che vuole conservata nei suoi elementi fondamentali, dall'altro non si
fa scrupolo di contrastarla nei suoi aspetti piu retrivi e di rinnovarla
con un richiamo piu diretto alla vita interiore dell'uomo; viene accen-
tuato in modo rilevante l'elemento escatologico; esso diviene anzi il
perno del rinnovamento religioso e spirituale bandito da Gesu, il quale
non propugna un distacco dalle cose del mondo fine a se stesso e non
si fa apostolo di un ascetismo di tipo moralistico; il distacco dalle cose
mondane è soltanto un mezzo per il rinnovamento interiore e per il
raggiungimento della salvezza; questa poi non si ottiene solo con
l'unione mistica con Dio, ma anche attraverso l'amore e la compren-
sione degli uomini.
La persona e la predicazione di Gesu, i prodigi da. lui operati, la
sua condanna a morte per opera del sinedrio ebraico, la sua resurre-
zione sono al centro di moltissime narrazioni sorte e diffuse nell'am-
bito della comunità cristiana dei primordi; piu tardi la chiesa indicò
quali fra questi documenti dovessero ritenersi « canonici » e quali
invece fossero da considerare «apocrifi».
4. S. Paolo.
Nelle lettere inviate alle comunità cnstlane dal 55 al 58 (special-
mente importanti quelle ai Corinti, ai Romani ed ai Galati), Paolo
riconosce alla predicazione di Gesu un compito originale sia rispetto
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IL PRIMO SECOLO DELL' ÈRA CRISTIANA CAP. IX
alle pretese della cultura ellenistica, sia rispetto alla tradizione religiosa
giudaica. « Il mondo, egli afferma, con tutta la sua sapienza non ha
saputo riconoscere Dio, mentre Dio si è compiaciuto di salvare i cr~
denti mediante la stoltezza della predicazione»; ma nemmeno l'osser-
vanza della legge giudaica può salvare; perciò appunto, nella nuova
fede, non vi è piu « né giudeo, né greco, né schiavo, né libero ». Al
centro della nuova fede è l'unità di ciascuno dei fedeli e di tutti in-
sieme nel « corpo mistico » di Cristo; la morte e la risurrezione di
lui sono redenzione dal peccato e liberazione dal male: «All'infuori
della legge, si è ora manifestata la giustizia di Dio mediante la fede
in Gesu; tutti hanno peccato e tutti sono giustificati gratuitamente per
la grazia; l'uomo è giustificato per la fede, all'infuori· delle opere della
legge». Alla radice della fede sta un piano divino di predestinazione
e di salvezza; il regno di Dio coincide con il prossimo rinnovamento
religioso di tutta l'umanità, al cui termine si avrà la seconda venuta
di Cristo e la risurrezione di tutti i corpi; al grande rinnovamento in-
teriore deve accompagnarsi il distacco dal mondo e la soggezione al-
1'autorità, perché «chi si ot>pone all'autoricl, va contro l'ordine di
Dio».
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§ 5 SENECA
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IL PllIMO SECOLO DEU.' ÈRA CllISTIANA CAP. IX
,,,,
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CAPITOLO X
Il 11 secolo
GNOSI RELIGIOSA E PENSIERO CRISTIANO.
PLUTARCO. EPITTETO. MARCO AURELIO
1. Il periodo.
Nel corso del n secolo la compagine statale romana riesce ancora a
mantenere la sua efficienza; con Traiano pare anzi che l'impero riacquisti
nuova forza espansiva verso la Dacia; ma ormai Germania, Sannazia e
Media restano a segnare il limite estremo dell'espansione romana. La
politica degli Antonini, con l'appoggio all'agricoltura, il controllo della
burocrazia e dell'esercito e con l'estensione della cittadinanza a tutti gli
uomini liberi dell'impero, segna un periodo abbastanza tranquillo. Il cri-
stianesimo che, nel corso dcl 1 secolo, aveva trovato proseliti specialmente
nelle classi umili, si diffonde ora anche fra gli intellettuali e fra gli stessi
esponenti della vita politica e militare.
La cultura è dominata in questo periodo da una speculazione reli-
giosa ad intonazione misticheggiante: la gnosi; il cristianesimo, anche se
tenta con gli apologisti di stabilire un rapporto fra la nuova religione e la
filosofia greca, compie ogni sforzo per differenziarsi nettamente da tutte
le correnti della gnosi. L'interesse religioso dominante esercita il suo
influsso anche sul pensiero di Plutarco e di altri che, come lui, si dichia-
rano platonici in quanto riprendono quei temi della filosofia di Platone
che piu paiono conciliarsi con la speculazione religiosa. Soltanto il tardo
stoicismo romano con Epitteto e Marco Aurelio si mantiene ancora fedele
alla tradizione della sapienza filosofica, senza concessioni al misticismo.
2. Il vangelo di Giovanni.
Il vangelo di Giovanni risale probabilmente all'inizio dcl n secolo
ed è particolarmente importante perché, nell'interpretazione della fi-
gura e dell'opera di Ge$u, utilizza concetti che non sono presenti
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IL Il SECOLO CAP. X
3. La gnosi.
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s3 LA GNOSI
divina. L'origine della materia non può risalire a Dio, perché questi
è spirito e la materia è il suo contrario ed è origine dcl male; la ma-
teria nasce piuttosto da una degenerazione e da una caduta del
pleroma. Anche l'uomo subisce, nella sua composizione, gli effetti della
caduta; egli ha in sé un elemento spirituale ed uno materiale; la
salvezza si consegue con la liberazione dalla materia; questa ha luogo per
l'intervento superiore di un eone redentore che è un messo divino o un
profeta capace di eludere le forze del male; si respinge però l'idea della
incarnazione del redentore, in quanto essa ne comporterebbe la soggezio-
ne alla corporeità. Mentre la filosofia greca aveva visto nel mondo un c0-
smo ordinato e razionale, la gnosi vede in esso una realtà decaduta, da
cui bisogna liberarsi; le pratiche del culto sono parte importante del
processo della liberazione e comprendono sia il battesimo e il ban-
chetto, sia il ricorso alle immagini come alle parole magiche, sia in-
fine il ricorso alla mistica delle lettere e dci numeri. La svalutazione
della realtà materiale comporta, in sede morale, due diversi atteg-
giamenti, entrambi presenti nelle correnti della gnosi : da un lato
il rigorismo piu drastico che stacca l'uomo dal sensibile e lo porta
ad avversare sia il matrimonio che la generazione, dall'altro la con-
siderazione del mondo sensibile come indifferente dal punto di vista
morale e quindi l'esplicazione di una libertà sfrenata degli istinti
e della sensibilità.
Nella sua lotta contro le varie sette gnostiche, il cristianesimo con-
trappone all'ermetismo una predicazione rivolta a tutti gli uomini,
al s_imbolismo degli enti superiori staccati dalla materia e dal mondo
sensibile la figura storica di Gesu nella sua divinità non disgiunta
dalla sua umanità, infine al privilegio di una conoscenza superiore
l'atteggiamento immediato ed interiore della fede. Nel secolo u, con
l'opera di Ireneo Adversus haereses, si ha già una reazione organica
dcl cristianesimo contro le sette gnostiche; alla teoria gnostica se-
condo la quale al Dio supre1!1o non va attribuita l'~rigine del mondo,
Ireneo oppone che, se la creazione dcl mondo avviene contro la
volontà dcl Dio supremo, si nega la sua infinita potenza, mentre se
essa avviene secondo la volontà di lui, è propriamente al Dio su-
premo che essa va fatta risalire. Ireneo respinge anche la teoria della
materia prima da cui Dio avrebbe tratto le cose; egli so$tiene invece
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IL Il SECOLO CAP. X
che la creazione del mondo avviene dal nulla e non mediante opera-
zioni su una materia preesistente.
4. Gli· apologisti.
Paolo aveva assunto un atteggiamento schiettamente polemico nei
confronti della filosofia greca; ma nel u secolo si avverte già l'esigenza
di promuovere un incontro fra la predicazione di Gesu e gli am-
bienti culturali e filosofici; a questo scopo si è spinti a considerare
quale unità possa vedersi nel rapporto fra la verità. cristiana ·e la
tradizione filosofica anteriore. Di questa preoccupazione si fanno in-
terpre!i gli scrittori apologisti, fra i quali primeggia Giustino, vissuto
fra il 100 ed il 163 ed autore di una Apologia o difesa del cristiane-
simo rivolta ai Greci. Giustino ha buona conoscenza di alcuni dialoghi
di Platone, nonché delle dottrine stoiche e pitagoriche. Per spiegare
un legame fra verità cristiana e filosofia greca egli si rifà alla dot-
trina del Verbo; è bensi vero che il Verbo si è incarnato in Gesu
che ha cosi recato agli uomini la piena rivelazione di Dio; ma il
Verbo è anche nell'eternità ed è strumento della rivelazione che Dio
ha fatto di sé sia pure in forma parziale, anche prima di Gesu; anche
prima di Gesu infatti gli uomini possedevano le nozioni di bene
e di male ed avevano una qualche conoscenza di Die; la ragione di
cui essi facevano uso era una parziale rivelazione di verità; Giustino
pensa soprattutto a Socrate ed a Platone e ritiene che le verità
sparse nella filosofia greca appartengano di pieno diritto al cristia-
nesimo che le deve reintegrare e ricuperare nel suo spirito. Giustino
pensa, per es., di poter collegare la dottrina greca della materia in-
forme con la creazione cristiana cd ebraica, o di poter spiegare
l'idea cristiana del giudizio finale con la teoria stoica della confla-
grazione universale, o di poter chiarire la narrazione del Genesi col
Timeo di Platone. t facile vedere come il pensiero cristiano potesse
trovare nella filosofia greca cd ellenistica molte dottrine da utilizzare
per la chiarificazione delle proprie vedute; ciò può dirsi specialmente
per la teoria platonica delle idee interpretata in senso creazionistico,
per la dottrina platonica dell'immortalità dell'anima, per la dottrina
stoica della provvidenza divina e dell'ordine del mondo.
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§ 5 PLUTARCO
183
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IL II SECOLO CAP. X
tempo, anche altri esponenti della cultura ellenistica; cosi, per es., Apu-
leio di Madaura si richiama a Platone per avallare la sua fiducia nel-
la magia e nell'esistenza «di alcune divine potestà, intermedie fra gli
dèi e gli uomini, che presiedono a tutte le divinazioni e ai miracoli della
magia». Per parte sua, Numenio di Apamea svolge una dottrina trini-
taria della divinità che egli ritiene di poter far risalire a Socrate ed a
Platone; ma Platone, a suo avviso, deve essere ricollegato a Pitagora,
cosi come da Pitagora si può legittimamente risalire alle religioni orien-
tali. Il platonismo di questi snidiosi è pertanto eclettico, aperto ad in-
tegrazioni sia pitagoriche che stoiche; il tutto è visto poi in funzione del-
la tematica religiosa, rispetto alla quale gli interessi filosofici passano
in secondo piano.
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§ 6 EPIITETO E MARCO AURELIO
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IL II SECOLO CAP. X
186
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§ 7 LO SVILUPPO DELLE SCIENZE
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CAPITOLO XI
Il secolo 111
1. Il periodo.
Nel corso dcl m secolo la crisi dell'impero si delinea a tratti piu pre-
cisi; la collaborazione fra senato ed imperatore si attenua mentre si accresce
l'autorità dell'esercito in campo politico; l'esercizio della sovranità assume
pertanto il carattere d'un dispotismo a sfondo militare. Mentre ai confini
si verificano attacchi frequenti, lungo il Reno e il Danubio si formano gran-
di leghe di popolazioni barbariche ostili; sul corso inferiore del Danubio
compaiono i Goti, sul Reno i Franchi ed i Sassoni; la Dacia viene defini-
tivamente perduta. All'interno si ha, come riflesso dell'aggravata situazione
economica, la graduale decadenza dei coloni ad una condizione di semi-
schiavitu, mentre si accendono qua e là insurrezioni di schiavi e di arti-
giani. Diocleziano, sul finire del secolo, fa un tentativo di stroncare le co-
munità cristiane che, nei due secoli precedenti, si erano sviluppate quasi
pacificamente; benché i cristiani, finora, avessero assunto un atteggiamento
spesso conciliativo nei confronti dell'autorità statale, Diocleziano li ritiene
ora pericolosi per l'unità dell'impero; ma le comunità cristiane superano
la prova, mentre Diocleziano accentua il carattere assoluto del potere.
Le correnti gnostiche continuano, anche nel secolo m, la loro specu-
lazione religiosa esoterica che si- avvale ora anche degli scritti del Corpus
hermeticum e degli Oracoli caldaici; il nuovo indirizzo religioso del ma-
nicheismo si diffonde in tutto l'impero. Il pensiero cristiano si organizza
intanto in forme speculativamente piu mature e rilevanti tanto in Oriente
che in Occidente; mentre a Cartagine si afferma la personalità di Tertul-
liano, ad Alessandria si viene costituendo una vera e propria scuola cristiana
che ha i suoi esponenti in Clemente ed in Origene. La tradizione filosofica
ellenistica ha la sua massima affermazione con Plotino che porta a pieno
compimento l'indirizzo neo-platonico, ad intonazione religiosa, già avviato
nelle età precedenti. Si colloca invece a sé, del tutto staccato dal clima
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§ I IL PERIODO
1'9
Baruch_in_libris
IL SECOLO lii CAP. Xl
H}O
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s3 CLEMENTE ED ORIGENE
Baruch_in_libris
IL SECOLO III CAP. Xl
giore originalità del suo ingegno. Nella sua v1s1one colta della fede
cristiana Origene utilizza dottrine platoniche, motivi stoici e teorie pi-
tagoriche rielaborate dai neo-pitagorici dell'età immediatamente prece-
dente. Il testo divinamente ispirato dell'Antico Testamento, egli affer-
ma, deve partecipare della stessa infinità di Dio presentando un numero
infinito di sensi possibili; come non si può giungere alla piena cono-
scenza di Dio, cosi non si può esaurire la totalità dei significati inclusi
nel testo ispirato; il significato meno rilevante è quello letterale e sto-
rico; decisivo è invece il metodo allegorico che consente di intendere
alcune affermazioni del testo sacro in maniera che esse non contrastino,
ma concordino pienamente, con dottrine che vengono mutuate dalla spe-
culazione ellenistica. Origene muove dalla teoria stoica del carattere tera-
peutic~ dei castighi inflitti da Dio agli uomini; tale teoria consentiva agli
stoici di ammettere tanto la provvidenza divina quanto l'esistenza del
male, proprio nel senso che il male poteva servire di guida al bene. Anche
le pene inflitte ai malvagi dopo la morte debbono ritenersi temporanee,
sostiene Ori,gene; le anime preesistono all'attuale loro comparsa nel
mondo e dopo la morte saranno ammesse a nuove ripetute prove,
con una vicenda di successive cadute e resurrezioni; infine la serie delle
prove avrà termine e succederà la riabilitazione universale; il male
sarà distrutto e tutte le anime si ritroveranno in una eterna beatitudine;
e allora «Dio sarà tutto in tutti ». Dio, d'altra parte, esplica la sua po-
tenza anche prima che il nostro mondo abbia origine nel tempo, in
quanto prima di questo esistevano altri mondi ed altri ne esisteranno do-
po di esso; la materia è bens1 creata da Dio, ma·è eterna; la resurre-
zione della carne non è poi tanto resurrezione del corpo nella sua
realtà materiale, quanto resurrezione d'una corporeità già trasfigurata e
spiritualizzata. L'ordine che va da Dio alla materia, pur richiaman-
dosi all'azione creativa, si svolge nello spirito della dottrina dell'ema-
nazione, per cui gli esseri si dispongono secondo un ordine decrescente;
anche il Figlio deve ritenersi subordinato al Padre cioè partecipe del-
l'ordine degradante che fa capo a Dio; il male ha la sua origine in una
caduta che se si richiama alla libertà, esprime anche la generale deca-
denza del reale nel suo distacco da Dio. Dopo Origene, un gruppo di
suoi scolari continua il suo indirizzo nella scuola di Alessandria, tanto
che l'origenismo divenne, nella costruzione dell'incontro dottrinale fra
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§ 3 CLBIENTE E ORJGE:-.:E
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IL SECOLO III CAP. Xl
5. II processo dell'emanazione.
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§ 5 IL PROCESSO DELL'EMANAZIONE
Plotino ipostatizza la realtà del mondo corporeo nei suoi elementi idea-
li ed astratti; le difficoltà che Platone aveva rilevato a proposito del
rapporto fra le idee e le cose ed a· proposito dell'opportunità di porre
idee di aspetti sensibili, individuali cd irrazionali del mondo, si tro-
vano accennate anche in Plotino; ma egli le risolve sia considerando
da una parte l'Intelletto come emanazione dell'Uno, sia vedendolo dal-
l'altra come capace di influire sull'anima dcl mondo e, per suo mezzo,
sul mondo. Come l'Intelletto compie una funzione intermedia fra l'Uno
e il molteplice ideale, cosi l'Anima dcl mondo (il cui concetto Plotino
riprende da Platone e dallo stoicismo) come principio di movimento
e di ordine, come forza capace di dare vita a tutto il reale compie una
funzione intermedia fra l'Intelletto ed il mondo sensibile. L'Anima ha
qualche cosa dell'Intelletto, in quanto è forza unificatrice degli esseri
sensibili. Plotino non condivide il pessimismo gnostico e religioso nei
confronti del mondo sensibile; e quindi non ritiene che esso tragga ori-
gine da una caduta, da una profonda frattura dcl reale; il mondo sensi-
bile non ha certo in se stesso la propria ragion d'essere, ma il soprasen-
sibile opera veramente e realmente in esso. Dall'Anima dcl mondo de-
riva un'anima inferiore, che sua volta viene articolandosi in coscienza
sensibile e in " natura " quale principio produttivo privo di coscienza;
"la natura" agisce nelle cose come "artefice interno", ossia come pre-
senza di fatto, anche se non consapevole, di un ordine razionale, che è
l'espressione piu bassa e ristretta del mondo ideale raccolto nell'Intel-
letto. «La natura, ultima parte ·dell'anima, scrive Plotino, non contiene
che gli ultimi riflessi della ragione; la natura non conosce, ma sol-
tanto produce; produce dando senza riflessione quel che possiede a ciò
che è posto al di sotto di essa, alla realtà corporea e materiale; con la
natura siamo giunti al grado piu basso della realtà intellegibile». L'atti-
vità dell'Anima si distende nella successione e dà luogo al tempo, in cui
si trova appunto immerso tutto il mondo sensibile; quest'ultimo « è
molteplice, diviso in molte parti separate le une dalle altre e le une alle
altre estranee; l'amicizia non vi regna piu sola, vi è anche l'odio che si
estende nello spazio e fa sf che ciascuna parte, divenuta imperfetta, sia
nemica delle altre»; infatti nel mondo sensibile compare quella che Pla-
tone aveva chiamato la Necessità, cioè la materia. Essa è « ricettacolo
delle forme», «non è un corpo, appunto perché è senza qualità»,
195
Baruch_in_libris
IL SECOLO III CAP. Xl
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§ 5 IL PROCESSO DELL'E'.\L\~AZIU:>!E
Plotino nel dare ragione della derivazione del reale dall'Uno non si
richiama al concetto ebraico-cristiano di creazione, giacché questo im-
plicherebbe una concezione antropomorfica di Dio come persona; i~ol
tre, mentre il processo creativo avviene nel tempo, il processo di deriva-
zione del reale dal!' Uno è eterno e si svolge fuori del tempo; 11' Uno,
in altri termini, non esiste mai senza il molteplice e l' Intelletto non
succede all'Uno in senso cronologico, come l'Anima del mondo non
succede in senso cronologico all'Intelletto. Il derivare è insomma per
Plotino un porsi in forma distinta da ciò da cui si deriva, ma senza mai
staccarsi da esso per dipendenza; il derivare comporta quindi un "con-
vertirsi" del derivato al suo principio, un tendere dell'uno all'altro; in
quanto il principio produce è trascendente rispetto a ciò che viene pro-
dotto, ma in quanto ciò che è prodotto non può sussistere senza il prin-
cipio, questo è immanente al prùdotto. L'Uno si espande nei molti
«come un'irradiazione» cioè al modo in cui «la luce del sole, splen-
dente intorno ad esso, da lui proviene, da lui che pur resta perennemente
immobile »; il primo principio si comporta come un essere che, giunto
al suo stato di pienezza, « genera e non sopporta di rimanere in se
stesso, ma produce un altro essere»· Alla radice del processo dell'uni-
verso dall'Uno sta dunque non un atto di iniziativa creatrice, non lo
svolgimento meccanico di un principio naturale, non una confusione
dell' uno con il molteplice, ma quasi l'esplicarsi di una generazione vi-
tale, la quale ha tuttavia come punto di partenza un principio ineffabile
ed indeterminabile, che sta al di là della vita come di ogni altra qualità
e determinazione. L'Uno di Plotino, insomma, non può certo con-
fondersi con il Dio del cristianesimo; esso si concilia infatti con il
politeismo ellenistico.
197
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IL SECOLO III CAP. Xl
Baruch_in_libris
§ 6 L' UOMO I! IL SUO DESTINO
credere che Plotino sia stato del tutto estraneo ad atti religiosi come
preghiere, evocazioni di spiriti, incanti magici, pratiche rituali; ma
certamente egÌi concede a tutto ciò minore credito di quanto non aves-
sero fatto, prima di lui, sia le correnti della gnosi religiosa, sia alcuni
filosofi che si erano richiamati al platonismo ed al pitagorismo. Nella
sua sintesi rivive sopratutto una parte rilevante della piu alta specula-
zione greca; al neo-platonismo è infatti consegnata buona parte del-
l'influsso che lo stesso platonismo eserciterà sulla storia del pensiero, e
principalmente sulla formazione dello stesso pensiero cristiano.
199
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IL SECOLO III CAP. Xl
:ioo
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CAPITOLO Xli
Il secolo 1v
1. Il periodo.
Il secolo 1v segna la vittoria del cristianesimo sull'impero romano e,
ad un tempo, la divisione ormai definitiva fra l'Oriente e l'Occidente, fra
Bisanzio e Roma. Costantino segue, nei confronti del cristianesimo, una
politica opposta a quella di Diocleziano; infatti nell'editto del 313 egli con-
cede libertà alle comunità cristiane e assume ben presto la nuova religione
sotto la protezione dei pubblici poteri. Ciò determina il rapido consolidarsi
esterno del cristianesimo, la definizione e il perfezionamento della sua
struttura, oltre all'intromissione del potere imperiale nelle questioni rela-
tive all'organizzazione dcl pensiero e dell'ordinamento ecclesiastico. Con
Costantino pertanto si inizia, nonostante la successiva breve parentesi di
Giuliano, una collaborazione politico-religiosa che tenta di dar vita ad una
nuova civiltà, in cui si realizzi l'incontro anche con le popolazioni barba-
riche che premono ai confini.
Dal punto di vista culturale", il secolo 1v segna uno sviluppo imponente
dcl pensiero cristiano; è l'epoca dei maggiori padri della chiesa (da Basilio
a Gregorio di Nissa, da Ambrogio a Gregorio di Nazianzo) ed è anche la
epoca di acuti contrasti dottrinali, che nel concilio di Nicea hanno il loro
principale punto di riferimento. Il pensiero ellenistico scende intanto di li-
vello rispetto all'altezza raggiunta con la speculazione di Plotino; Giamblico
che ne continua l'insegnamento, lo piega con maggiore decisione al so-
pravvento di teorie pitagorico-caldaiche e di pratiche teurgiche; la fase
finale della speculazione ellenistica, orientata nel senso del neo-platonismo,
si avvicina ormai a grandi passi. La divisione fra Oriente cd Occidente
reca anche importanti effetti culturali; si afferma infatti il nuovo centro di
Costantinopoli e intanto l'Occidente si avvia allo sviluppo d'una propria
cultura, che prende a fondamento la civiltà latina.
20/
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IL SECOLO IV CAP. Xli
2. Il neo-platonismo di Giamblico.
Giamblico vive dal 250 al 330 e fonda in Siria una scuola di ispi-
razione filosofico-religiosa. I suoi scritti principali sono una Silloge delle
dottrine pit11goriche e il D~ mysteriis. Giamblico si muove in una dire-
zione ben diversa da quella di Plotino ed .apre decisamente la strada
al sopravvento dell'ispirazione religiosa su qu.ella filosofica. È ben vero
che anche Plotino aveva riconosciuto i limiti del pensiero a vantaggio
di una unione mistica ed ineffabile dell'anima con l'Uno; ma Giam-
blico sottolinea piu espressamente che « chi filosofeggia speculativa-
mente >i non consegue « l' unione teurgica con gli dèi », la quale in-
vece dà luogo al « compimento delle opere ineffabili e realizzate al di
I~ di ogni pensiero, in maniera degna di Dio». « Anche senza che noi
pensiamo, egli spiega, gli stessi simboli compiono da sé l'opera propria
e la stessa potenza ineffabile degli dèi ai quali questi simboli perven-
grrno da sé riconosce le proprie immagini, ma non per essere risve-
di ~ta dal nostro pensiero ». Anche Giamblico concepisce la realtà come
prfJcedente da un principio supremo per via di emanazione e disposta in
un ordine gerarchico e tuttavia unitario; ma rispetto a quella di Plotino,
la costruzione di Giamblico moltiplica i gradi intermedi per i quali si
passa dall'Uno al mondo sensibile e identifica con essi le varie entità
religiose accolte dal paganesimo ellenizzante: dèi, demoni, eroi, forze
occulte ecc. Come procedimento permanente dello sviluppo del reale
e pertanto del passaggio dall'un grado all'altro della gerarchia degli
esseri Giamblico pone un movimento ternario che comprende ciò che
permane, ciò che procede e il fatto che ciò che procede si converte
a ciò da cui procede; cosi' le triadi si moltiplicano molto al di ià del-
l'Intelletto e dell'Anima del mondo e rispecchiano una minuta e va-
sta classificazione di entità intermedie.
Giamblico si ispira nella sua dottrina anche ad una concezione ma-
gica dei numeri ed accoglie molte suggestioni degli oracoli caldaici;
i mezzi per l'elevazione spirituale e per la salvezza non vengono da
lui richiesti alla tradizione della sapienza greca, quanto alla teurgia;
i " misteri platonici " di cui si fa iniziatore fanno ricorso a ogni sorta
di prodigi e di arcani pur di soddisfare la sete popolare del misterioso
e dcl meraviglioso; cos.l Giamblico ritiene di poter in q~alche modo
20.3
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§ 2 IL NEO-PLATONISMO DI GIAMBLICO
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IL SECOLO IV CAP. Xli
4. Il gruppo di Cappadocia.
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§ 4 IL GRUPPO DI CAPPADOCIA
205
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IL SECOLO IV CAP. Xlì
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CAPITOLO Xlii
Il secolo v
AGOSTINO. PROCLO. DIONIGI PSEUDO-AEROPAGITA
1. Il periodo.
Nel corso del secolo v la separazione fra l'impero d'Oriente e quello
di Occidente viene maturando e sul finire del secolo è un fatto compiuto.
In Occidente, l'autorità imperiale non riesce piu a mantenere il controllo
dei vasti movimenti di popolazioni barbariche alla ricerca di nuove sedi,
né può impedire l'infiltrazione di elementi barbarici nell'esercito e nella
amministrazio'ne; ne segue una profonda trasformazione nella compa~inc
dell'impero accompagnata da una grave crisi di autorità e di governo. Nel
410 i Visigoti giungono a saccheggiare Roma; ve.rso la metà del secolo, varie
tribu germaniche si stanziano nelle provincie e danno vita a nuovi organi-
smi politici; nel 476 si giunge alla deposizione dell'imperatore Romolo Au-
gustolo da parte di Odoacre; e questa data viene assunta, di norma, c~me
quella che segna la fine dell'età antica e l'inizio del Medioevo. Ma quale
termine della storia della filosofia antica si può scegliere, a maggior ragione,
la data del 529; fu allora infatti che l'imperatore Giustiniano fece chiudere
in Atene l'antica e gloriosa Academia di Platone e ne confiscò i beni.
L'impero d'Oriente, sebbene premuto e sconvolto dai movimenti delle
nuove popolazioni, riesce a mantenere una sua unità e compattezza, di cui
è fattore importante l'unità culturale realizzata faticosamente con la fu-
sione della tradizione ellenistica e di quella cristiana. L'impero d'Oriente
si dà anche una precisa funzione culturale nel 425 con la fondazione della
scuola superiore cristiana o università di Costantinopoli; la nuova scuola non
assume subito un rilievo culturale di primo piano, ma essa è importante
per la funzione che le viene attribuita, di scuola in cui deve trovare espres-
s.ione la nuova politica di ispirazione cristiana promossa dall'impero. In
questa luce, si comprende la misura disposta da Giustiniano nel 529; si
tratta di togliere di mezzo, con la chiusura delle scuole filosofiche di Atene,
l'ultimo ostacolo al trionfo dcl cristianesimo cd all'affermazione di Co-
stantinopoli come nuovo centro spirituale dell'impero cristiano d'Oriente.
Baruch_in_libris
lL SECOLO V CAP. XIII
Agostino che vive a cavallo fra la seconda metà del secolo 1v e la prirr.a
metà del v è indubbiamente il piu grande pensatore che il cristianesiP.lo
abbia avuto dalle sue origini, come dimostra altresi l'influsso esercitato èal-
la sua dottrina sul pensiero cristiano dei secoli successivi fino al no>tro
tempo; la sua età è ancora largamente attraversata da intensi contrasti teo-
logici, anche se si può dire che ormai le gran<li lince della dottrina crisciana
risultino definite e formulate. L'ultima grande figura della tradizione filo-
sofica ellenistica è quella di Proclo che è appunto a capo dell'Academia
di Platone, in Atene, negli ultimi <lecenni del secolo; l'indirizzo neo-plato-
nico con lui e con gli esponenti delle due scuole filosofiche di Atene e di
Alcssan<lria giunge all'epilogo; sembra raccoglierne l'eredità per trasferirla
in modo organico all'interno dcl pensiero cristiano Dionigi pseudo-Areopa-
gita, vissuto sul finire del v secolo e costruttore di una sistematica dottrina neo-
platonica <li ispirazione cristiana con cui giunge a compimento la storia
della filosofia antica.
208
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§ 2 AGOSTINO
vuol forse dire che Dio ha naso e bocca ed occhi alla maniera degli
uomini? Inoltre Agostino viene attratto dalla chiarezza con cui il ma-
nicheismo risolve il problema del male, mediante la dottrina dei due
priacipii opposti, nonché dal rigorismo morale teorizzato in questa
religione. Sopratutto egli è colpito dal metodo razionale con cui i ma-
nichei presentano e discutono le varie dottrine; e gli pare che su due
punti essi abbiano un netto vantaggio rispetto al cristianesimo, nel
rispondere alla domanda di dove viene il male e nel ribadire che Dio
non può avere forma ed apparenze umane, secondo le espressioni lette-
rali dell' Antico Testamento. Solo intorno al 380, dopo avere iniziato
il suo insegnamento di retorica prima a Tagaste e poi a Cartagine,
Agostino comincia a nutrire i primi dubbi intorno alla verità del ma-
nicheismo; essi muovono dal raffronto che egli istituisce fra il metodo
con il quale la scienza greca procedeva nelle sue dimostrazioni e nei
suoi calcoli e l' asseveranza senza fondamento con cui nel manichei-
smo si sostenevano dottrine sulla natura; inoltre tutte le credenze astro-
logiche dei manichei gli paiono ben poco consistenti rispetto alle dot-
trine astronomiche greche. Dal punto di vista propriamente religioso,
Agostino è poi colpito dalla seguente riflessione: se il principio delle
tenebre può opporsi e recare nocumento al principio della luce, se-
condo le affermazioni dei manichei, vuol dire che il principio della
luce non è propriamente Dio; se poi il principio delle tenebre non può
l"ecare danno alcuno all'opposto principio della luce, allora non ha
alcun senso tutta la lotta di quest' ultimo contro il primo.
Nel 383 Agostino passa ad insegnare a Roma, mentre il vuoto la-
sciato in lui dalla diminuita fiducia nel manicheismo viene occupato
per qualche tempo dalla lettura di Cicerone e dall'impressione che la-
scia su di lui lo scetticismo probabilistico. Quando, due anni dopo, egli
passa alla cattedra di retorica di Milano, si delinea un suo riavvicina-
mento al cristianesimo per il tramite di alcune letture di autori neo-
platonici. Agostino legge, in questo periodo, il trattato sulla bellezza
di Plotino ed il Ritorno dell' anima di Porfirio e vi trova teorizzata
l'ascesa dell'anima dalla realtà corporea ad una realtà del tutto spiri-
tuale e trascendente. In questi testi egli trova esposta in particolare la
dottrina dell'esistenza d'una realtà puramente spirituale e ciò gli con-
sente di superare la concezione manichea della divinità come d'una
209
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IL SECOLO V CAP. XIII
310
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s3 ELEMENTI DEL Pi.ATONISMO AGOSTINIANO
s-ma assomiglia ad un'altra, che però non conosce; una volta escluso
che si possa conoscere il vero, viene a cadere anche il criterio dd pro-
babile e <lei verosimile. Il secondo punto concerne l' affermazione de-
gli Acadcmici secondo la quale << niente si può conoscere ». << In ~ogno
e ndla pazzia, rileva Agostino, possono apparire false quelle cose ch7
si rireriscuno ai sensi; ma che tre per tre fanno nove è nct.:essario che
sia vao, anche se perisca il genere umano»; altrettanto si dica delle
propo.iizioni della logica. Anche la sensazione va difesa, a suo parere,
in ordine alla sua capacità. di cogliere il vero, purché ci si attenga solo
a quanto essa attesta: << lo non ho da lagnarmi dei sensi, scrive, perché
è ingiusto esigere da essi piu di quello che possonD; ora quello che gli
occhi possono vedere, lo vedono con verità; sarà forse vero allora
anche quello che vedono del remo ndl' acqua? Indubbiamente; c'è
infatti una causa per cui si vede cosi; e se il remo immerso nell'onda
apparisse diritto, dovrei accusare ancor piu i miei sensi di riferirmi
cosa falsa; infatti non vedrebbero quello che avrebbero dovuto, vedere,
esistendo quelle determinate cause». In conclusione, sia la sensazione
che la logica danno luogo a verità delle quali non si può dubitare.
Affrontando, nel De vita beata, il problema della felicità, Agostino
lo risolve con il richiamo alla stessa gerarchi~ reale degli esseri, al cui
vertice è Dio; solo Dio è perfetto; perciò «la piena soddisfazione degli
spiriti e la vita pienamente felice è solo in Dio »; I' infelicità è in".ece
conseguente alla manchevolezza e questa è "un non possedere", un
"non-essere"; chi manca di qualche cosa è infelice e solo chi non ha
bisogno di nulla è felice. Ma per giungere alla comprensione della
verità e di Dio bisogna anzitutto liberarci dal mondo della sensibi-
lità. « Devi fuggire del tutto le cose sensibili, suggerisce la ragione
ad Agostino nei Soliloquia, devi guardarti che le ali dcli' anima non
siano inviluppate dalla corporeità; la luce non degna di mostrarsi a
noi che siamo chiusi in questa caverna; quando dunque.le cose terrene
non ti procureranno piu diletto, in quell'istante medesimo vedrai
quello che desideri ». Dio e la verità si presentano ad Agostino come
il sole che illumina e la realtà intellegibile che viene illuminata;
« come la terra non si vede se non è illuminata dalla luce, cosi le ve-
rità scientifiche non possono essere intese se non vengono illuminate
da altro, come dal loro sole». Per questo la verità è il cammino che
::ZII
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IL SECOLO V CAP. Xlii
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§ 3 ELEMENTI DEL PLATONISMO AGOSTINIANO
21~
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IL SECOLO V CAP. XIII
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§ 4 IL SISTEMA PLATONICO-CltlSTIANO
215
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IL SECOLO V CAP. XIII
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AGOSTINO DIFENSOllE DELLA VERITÀ CRISTIANA
zione anche pratica della cultura. Una delle sue prime cure è ap-
punto quella di dare una sistemazione cristiana al patrimonio della
cultura classica. Nel De doctrina Christiana del 397 Agostino indica
la via per trasformare la cultura profana in cultura cristiana ponendo
al suo centro il testo della rivelazione, la Bibbia. Il testo sacro va
anzitutto compreso per se stesso; si· tratterà poi di esprimere ade-
guatamente quello che si è compreso. Per comprendere la Bibbia,
bisogna fare ricorso ai sussidi delle arti liberali; la storia, la geo-
grafia, la botanica, la zoologia, la mineralogia, l'astronomia, la me-
dicina, l'agricoltura, la navigazione serviranno ad intendere appieno
la Bibbia nei passi in cui essa tratta rispettivamente questioni atti-
nenti ai singoli campi del sapere; anche l'aritmetica, con le sue di-
verse applicazioni ai movimenti ed alle figure, servirà a spiegare i
passi biblici in cui si fa menzione dei numeri, dei movimenti e
delle figure. La dialettica che insegna a ben argomentare, servirà a
risolvere molte delle questioni intricate che sorgono dalle pagine
bibliche. Il vescovo di Ippona auspica che si possano raccogliere in
una sola opera, classificate per materia, tutte le informazioni e le
nozioni utili a comprendere la Bibbia; si tratta di una sorta di
enciclopedia ad uso dei cristiani da ricavare dalla scienza profana
e da inquadrare nei principii della nuova sapienza religiosa.
Anche nella lotta contro la dottrina di Pelagio, affermatasi in-
torno al 410, la reazione di Agostino è ispirata da motivi spiccata-
mente religiosi. La condizione del primo uomo, Adamo, non è da
ritenere, sostiene Pelagio, diversa da quella in cui nascono gli altri
uomini; e la colpa in cui egli è caduto non può aver causato alcun
danno alla posterità, poiché il peccato è un atto volontario e per-
t~nto la responsabilità di esso non può cadere che su chi lo abbia
commesso. Noi non possiamo dunque ereditare dai primi progenitori
le conseguenze della loro colpa e non possiamo quindi ritenerci mac-
chiati di un peccato originale. Se l'umanità non è indebolita alla
radice da tale colpa, può conseguire la salvezza mediante il libero
arbitr!o e senza alcun intervento straordinario da parte di Dio. Ago-
stino, nei suoi scritti precedenti, non aveva mancato di insistere, a
sua volta, sul carattere personale della responsabilità morale cd aveva
sottolineato tutto quello che l'uomo può fare per giungere alla salvezza.
217
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IL SECOLO V CAP. XIII
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§ 5 AGOSTINO DIFENSORE DELLA VERITÀ CRISTIANA
6. La città di Dio.
Molti sono gli scritti polemici ed esegetici e catechistici composti
da Agostino nell'ultimo ventennio della sua vita; e motivi dottrinali
sono presenti in molti di essi, con particolare riguardo ai commenti
al Genesi, ai Salmi e al IV vangelo. Ma l'opera alla quale lavora
per oltre uri decennio, dal 413 al 426, e che è quasi il compendio
di tutta la sua attività di pensatore è il De civitate Dei. Nel 410, men-
tre i Goti di Alarico saccheggiano Roma, sono in molti a ritenere
che ormai l'ultima rovina incomba non solo sulla capitale, ma su
tutta la civiltà promossa da Roma; e molti sospettano che. si stia per
avverare quanto i pagani avevano preconizzato fin dai tempi di Co-
stantino e cioè che l'abbandono dell'antica relil!ione da parte del!o
stato romano avrebbe portato quest'ultimo allo ;facelo. Ma la rovina
dello stato romano significa, ad un tempo, la rovina dcl cristianesimo
219
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IL SECOLO V CAP. XIII
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§ 6 LA CITTÀ DI DIO
egli è portato a ritenere che le sventure del suo tempo siano inviate
da Dio a punizione dei molti mali commessi dagli uomini quando,
come durante il paganesimo, essi hanno preteso di fare senza l'aiuto
divino. Non il cristianesimo si deve dunque ritenere causa della
caduta dell'impero, bensl la profonda corruzione della società pagana.
Di fronte poi al timore che gli stessi cristiani potevano nutrire di
essere coinvolti nel crollo dello stato romano, Agostino svolge, nella
seconda parte della sua opera, la dottrina delle due città, « quella del
cielo e quella della terra ». Da un lato egli avverte che «il secolo pre-.
senta mescolate e confuse » queste due città; poca meraviglia dunque
che i mali che colpiscono l'una investano anche l'altra; d'altro lato
però mette in chiaro che la città di Dio, cioè la comunità cristiana,
ha tale fine che non può essere travolta da alcuna catastrofe storica,
perché il suo destino oltrepassa la storia ed il mondo presente. « Nono-
stante la meravigliosa varietà di nazioni sparse sulla terra, scrive, con
credenze e costumi diversi, distinte per lingua, armi, consuetudini,
non esistono tuttavia che due città umane: l'una è la città degli uomini
che vogliono vivere in pace secondo la carne, l'altra quella degli uomini
che vogliono vivere in pace secondo lo spirito; e si può anche dire
quella degli uomini che vivono secondo l'uomo e quella degli uomini
che vivono secondo Dio; l'amore di sé portato fino al disprezzo di
Dio generò la città terrena; l'amore di Dio portato fino al disprezzo
di se stesso generò la città celeste; l'una cerca la gloria degli uomini,
l'altra pone la sua gloria in Dio ». La storia delle due città attraversa
tutti i tempi « dal giorno in cui cominciò la generazione dei due primi
uomini »; Caino è il primo fondatore della città terrena, Abele è il
primo cittadino della città celeste. La città terrena è destinata allo
scacco finale; la città celeste non può identificarsi con la città terrena,
anche se risulta in parte confusa con essa. ·Agostino vuol dare anzitutto
ai cristiani una profonda coscienza dell'unica città che essi formano,
della completa originalità che distingue la loro comunità dallo stato
romano; tale comunità ha un destino ultraterreno che le vicende sto-
riche )On possono compromettere. D'altra parte Agostino si preoccupa
anche dell'azione propriamente terrena che la città celeste deve asso!·
1
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IL SECOLO V CAP. XIII
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§ 7 NUOVI CONTRASTI TEOLOGICI
8. Proclo.
Con Proclo continua l 'indiriizo speculativo del neo-platonismo che
da Plotino conduce prima a Giamblico e infine all'ultima fase della
scuola di Atene. Proclo nasce a Costantinopoli nel 412; studia dap-
prima ad Alessandria e poi ad Atene dove assume la direzione del-
1'Academia di Platone; qui svolse il suo insegnamento fino alla morte,
nel 485. Proclo è profondamente immerso nell'atmosfera religiosa del
tempo; celebra ogni mese le cerimonie della Grande Madre, osserva i
giorni nefasti degli Egiziani, digiuna nell'ultimo giorno del mese, pra-
tica la teurgia. Anche la sua personalità di studioso è permeata da un
afflato profetico; egli chiama arcana la dottripa di Platone, e afferma
che essa « ha eterna sussi;tenza presso gli stessi .dèi »; Platone è « guida
ed interprete di misteri santissimi e di veraci iniziazioni », mentre la
meta cui il suo pensiero conduce sono « le complete ed immote visicmi
alle quali partecipano le anime che agognano all'esistenza beata e
felice ». Proclo ritiene inoltre che unico oggetto della speculazione
sia il divino e che l'unico modo di concepire con la mente il divino
sia costituito dalla « iniziazione ottenuta con la luce che dal divino
proviene» .. Le opere principali di Proclo giunte fino a noi sono: il
commento ad alcuni deil<'ghi di Platone (il Parmenide, il Timeo,
il Cratilo, la Repubblica), gli Elementi di teologia, la Teologia di
Platone, oltre ad un commento agli Elementi di Euclide ed un' in-
troduzione all'astronomia di Ipparco e di Tolomeo.
Anche Proclo è legato, come Giamblico, ad una visione unitaria
della realtà che, avendo il suo principio nell'Uno, si svolge per ema-
nazione in una serie complessa di esseri intermedi fino alla materia
ed al mondo sensibile. All'Uno tengono dietro le Enadi che coinci-
dono con gli dèi della tradizione ellenistica; poi « a tutti gli esseri par-
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IL SECOLO V CAP. XIII
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§ 8 PROCLO
9. Dionigi pseudo-Areopagita.
22.s
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IL SECOLO Y CAP. XIII
226
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§ 9 DIONIGI PSEUDO-AREOPAGITA
torità apostolica una importanza per lo stesso mondo cristiano che pri-
ma d'ora esso non aveva mai avuto.
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IL SECOLO V
CAP. XIII
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PAR'fE SECONDA
LA FILOSOFIA MEDIEVALR
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CAPITOLO XIV
2Jl
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I SECOLI VI, VII E VIII CAP. XIV
232
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s2 IL SECOLO VI : BOEZIO
sua cultura va messa in relazione con quella scuola di Atene alla quale
certamente Boezio attinge i motivi dominanti della sua filosofia. Egli
si propone infatti di tradurre dal greco in latino l'intera opera di Platone
e di Aristotde, sia per farla piu ampiamente conoscere nel mondo occi-
dentale, sia per mostrare il sostanziale accordo fra i due massimi pensa-
tori dell'antichità; ed infatti non si può dire che, laddove esprime il suo
proprio pensiero, egli segua piu l'uno che l'altro; spesso anzi ritiene di
conciliare le loro dottrine perché le combina e le mescola, proprio se-
condo l'uso e le preoccupazioni del tardo neo-platonismo. L'aspetto delle
antiche dottrine che Boezio approfondisce di piu (stando almeno a quan-
to dei suo scritti è giunto fino a noi) è quello della logica; egli tra-
duce l'intero Organon di Aristotele, scrive due commenti alla Isagoge
di Porfirio, un commento alle Categorie, due commenti al De intcr-
pretatione; infine egli rielabora per proprio conto tutta la trattazione
logica in alcuni scritti originali come il Dc syllogismo categorico,
il De syllogismo hypothctico, il Dc divisione, il Dc difiercntiis to-
picis; e scrive anche un commento ai Topici di Cicerone. Generalmente
Boezio si attiene alla dottrina logica di Aristotele, ma spesso la unisce
con dottrine di derivazione platonica o neo-platonica; esempio tipico di
tale oscillazione è la sua dottrina dei termini universali di genere e spe-
cie: « Platone ritiene, scrive Boezio, che i generi, le specie e gli altri
universali non siano soltanto conosciuti a parte dai corpi, ma anche che
esistano e sussistano indipendentemente dai corpi; invece Aristotele pen-
sa che gli incorporei e gli universali sono bensf oggetti di conoscenza, ma
che non sussistono che nelle cose sensibili. Quale di queste opinioni sia
vera io non ho avuto l'intenzione di decidere, poiché ciò è compito d'una
filosofia piu alta. No1 ci siamo quindi decisi a seguire l'opinione di Ari-
stotele, non perché la approviamo del tutto, ma perché il libro che com-
mentiamo (l'Isagoge di Porfirio) è scritto in vista delle Categorie, il cui
autore è Aristotele». Allo stesso modo Boezio unisce una considera-
zione piu strettamente linguistica della logica ad una trattazione in cui
la preoccupazione del suo fondamento reale ha la preminenza; senza
dire che, specialmente con riguardo alla dottrina stoica del sillogismo,
unisce la prospettiva della logica aristotelica dei termini con quella della
logica stoica delle proposizioni.
I temi piu generali della filosofia di Boezio sono raccolti nel De con-
:a31
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I SECOLI VI, VII E VIII CAP. XIV
2 .34
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§ 2 IL SECOLO VI : BOEZIO
gli studi in genere, anche maggiore è quella che riguarda gli studi filo-
sofici in particolare.
235
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I SECOLI VI, VII E VIII CAP. XIV
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§ 4 LA 11.IN,\SCITA CAllOLINGIA E ALCUINO
periodo di tempo, si ha una accentuata decadenza sia della vita religiosa che
della cultura Ìatina. La figura piu importante del monachesimo anglo-sassone
è quella di Ileda (673-735), autore di scritti storici e grammaticali oltre che
di una compilazione enciclopedica De rerum natura che richiama l'analoga
opera di Isidoro di Siviglia. Il mondo occidentale è tutto dominato dal 71 I
al 732 dalla minaccia dell'espansione araba, che, superato Io stretto di Gi-
bilterra, rovescia il regno dei Visigoti, occupa tutta la Spagna e si affaccia
sui Pirenei in direzione del regno dei Merovingi; nel 732, a Poitiers l'avan-
zata araba viene arrestata, ma la presenza del nuovo stato nel bacino del
Mediterraneo è ormai incontrastata.
A Bisanzio, intanto, durante il governo dell'imperatore Leone m lsau-
rico, si scatena la lotta iconoclasta per l'abolizione delle immagini sacre;
essa trova i piu fieri oppositori nei monaci piu vicini alla religiosità popolare.
Quando le decisioni della chiesa greca vengono estese d'autorità anche al-
l'Italia, i rapporti fra il papato e Bisanzio si fanno molto tesi, rivolte anti-bi-
zantine avvengono in tutta Italia e il solco già esistente fra la chiesa
d'oriente e il cristianesimo occidentale si approfondis~; il piu grande teologo
del tempo in Oriente è Giovanni Damasceno che difende il culto delle
immagini come espressione della tradizione religiosa.
Il contraccolpo piu rilevante dell'avanzata degli Arabi nel bacino del
Mediterraneo e della sempre piu profonda divisione fra Bisanzio e Roma è la
creazione dell'impero carolingio ad impronta germanico-cristiana; da un lato
la nozione di sovranità si fonde con l'idea dell'adempimento di una mis-
sione religiosa e dall'altro la stessa struttura della chiesa si compenetra con
l'ordinamento politico-amministrativo dello stato. La rinascita della cul-
tura entro l'ambito dell'impero carolingio è resa possibile daWincontro fra
la solida struttura organizzativa messa in atto da Carlomagno e il patrimonio
culturale ancora vivo nel monachesimo anglo-sassone. Centro propulsore
della rinascita culturale è la schola palatina che Carlomagno fonda nel 782
ed alla cui direzione egli chiama il monaco anglo-sassone Alcuino; a questa
scuola si aggiungono le scuole che per ordine di Carlomagno vengono isti ·
tuite « in tutti i vescovadi e monasteri » e nelle quali si insegnano « i salmi,
le note, il canto, il computo e la grammatica ».
237
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I SECOLI VI, VII E VIIl CAP. XIV
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CAPITOLO. XV
I secoli 1x e x
1. Il secolo tx.
Il periodo di pieno equilibrio dell'impero carolingio non dura oltre
la morte di Carlomagno ndl'814; ma anche sotto il governo di Ludovico
il Pio e di Carlo il Calvo, cioè fino all'877 circa, si prolungano gli effetti
della rinascita culturale che aveva avuto inizio circa un secolo prima; la
crisi politica del vasto dominio carolingio è determinata principalmente
dall'anarchia feudale e dalle lotte promosse dalle forze centrifughe cre-
sciute all'interno del nuovo assetto statale; essa porta alla scissione dell'im-
pero in tre formazioni statali distinte, d'Italia, di Germania e di Francia;
con la deposizione di Carlo il Grosso il nuovo ordinamento feudale prende
il sopravvento, mentre il potere passa nelle mani dell'aristocrazia terriera
e si afferma l'economia agricola chiusa. Con il patriarca Fozio il mondo
bizantino giunge alla piena indipendenza spirituale e religiosa dalla chiesa
occidentale.
La cultura occidentale si sviluppa in questo periodo specialmente in
Francia ed in Germania; in Francia si hanno numerose figure di ecclesiastici
che si distinguono, oltre che per motivi religiosi, per le esigenze culturali
che hanno fatto valere sia nei confronti della formazione del clero, sia nella
lotta contro le superstizioni cd i rozzi costumi popolari; in campo religioso
si hanno importanti controversie dottrinali alle quali prende parte l'intellet-
tualità ecclesiastica, spesso sollecitata dallo stesso imperatore; opuscoli e let-
tere ~ugli argomenti controversi si scrivono dalle varie parti in contrasto
e contribuiscono alle definizioni che vengono poi prese dai sinodi e con-
cili. La figura c;he emerge, per cultura filosofica, al di sopra delle altre
è quella di Giovanni Scoto Eriugena che, per primo, porta a contatto della
cultura occidentale, per il tramite degli scritti di Dionigi pseudo-Areopagita,
temi del neo-platonismo di ispirazione cristiana. Presso gli Arabi si afferma,
in questo tempo, il pensiero di al-Kindi volto ad interpretare la dottrina
di Aristotele alla luce delle prospettive neo-platoniche; con Fozio, intanto,
2]'j
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I SECOLI IX E X CAP. XV
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§ :2 s.:;oTo ERIUGENA
filosofica Giovanni giunge lavorando sui testi greci che aveva trovato
alla corte di Carlo il Calvo; nell'827 l'imperatore d'Oriente Michele
aveva inviato in dono il testo greco degli scritti di Dionigi pseudo-Areo-
pagita; Scoto Eriugena poté del pari conoscere, alla corte, gli scritti
di Origene, di Basilio, di Gregorio di Nissa, di Gregorio di Nazianzo,
oltre che di Massimo il confessore. Egli tradusse sia gli scritti di Dio-
nigi che alcune opere di Gregorio di Nissa e di Basilio. Nel De divisione
naturae non viene utilizzato pertanto soltanto il pensiero di Agostino,
ma anche e sopratutto il pensiero delle fonti greche accennate. Per questo
la sua sintesi teologico-filosofica appare con caratteri di novità alla cul-
tura cristiana occidentale che era tagliata fuori da qualche secolo ormai
dagli sviluppi diretti della patristica greca. I contrasti sollevati dal De
divisione naturae attestano appunto la novità della speculazione in esso
svolta; essa ebbe d'altronde un rilevante influsso sullo sviluppo del pen-
siero posteriore.
3. Fede e ragione.
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I SECOLI IX E X CAP. XV
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s3 PEDI! J! llAGJONJ!
~43
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I SECOLI IX B X CAP. XV
in Dio e che Dio è la vera unica realtà: << Quando udiamo dire, scrive
Scoto, che Dio fa tutte le cose, non dobbiamo intendere altro se non
che Dio è in tutte le cose, cioè sussiste come essenza di tutte le cose;
Dio soltanto infatti esiste veramente per sé, e tutto ciò che nelle cose
che esistono si dice che è, lo è egli solo ». Scoto giunge a dichiarare
con Dionigi che « in Deo unum sunt omnia » e che « Deus fit in
omnibus omnia».
La creazione è una « condescensio » o « processio » di Dio dal
nulla della sua superessenzialità al mondo del finito e delle essenze de-
terminate. Scoto intende l'atto creatore di Dio come procedente dalla
sua libera iniziativa; però il processo emanatistico è costantemente me-
scolato con il tema creazionistico: « La divina bontà, egli scrive, l'es-
senza, la vita, la sapienza e tutte le cose che sono nella fonte di tutte
le cose dapprima defluiscono nelle cause primordiali e le fanno esistere,
poi attraverso le cause primordiali scorrono nei loro effetti in modo inef-
fabile attraverso gli ordinati gradi dell'universo e defluiscono sempre
dagli ordini superiori a quelli inferiori e di nuovo attraverso i piu se-
greti meandri della natura tornano, per vie occultissime, alla loro fonte ».
Le cause primordiali sono « le ragioni immutabili secondo le quali e
nelle quali viene formato e retto tutto il mondo »; esse sono stretta-
mente unite al Verbo da cui sono prodotte; le cause primordiali sono
infinite, come è infinita la causa dalla quale derivano; per un lato esse
non escono mai dalla natura divina, per l'altro lato sono cause di tutte
le cause che ad esse seguono fino ai confini del mondo creato; cosi esse
danno ragione sia dell'unità dell'universo, sia del suo moltiplicarsi e
distinguersi.
Dalle cause primordiali deriva direttamente il mondo invisibile delle
essenze; esse sono la fissazione in oggetti intellegibili di tutti i carat-
teri che concernono variamente gli esseri corporei particolari; tutti i
caratteri degli esseri, da quelli piu generali a quelli caratteristici del-
l'individuo, formano una trama ideale del mondo corporeo; la gerar-
chia delle essenze ordinata secondo lo schema concettuale dei generi
e delle specie costituisce pertanto l'impalcatura intellegibile ed invi-
sibile del reale; essa parte dai generi generalissimi, scende attraverso i
generi piu generali e i generi piu semplici, fino alle specie semplici e
specialissime, o individui. Mentre le cause primordiali hanno piu di-
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§ 4 LA CONCEZIONE NEO-PLATONICA DELL'UNIVERSO
retto rapporto col Verbo, le essenze sono pi;J direttamente vicine alla
molteplicità del mondo sensibile. È dall'insieme delle essenze spirituali
che nasce la corporeità; come dalla luce e dal corpo che non sono ombra
nasce l'ombra, spiega Scoto, cosi da elementi incorporei che non sono
corpo nasce il corpo; gli elementi semplici di cui è costituito il mondo
corporeo sono una realtà intermedia fra il corporeo e l'incorporeo; gli
esseri che derivano dalla loro combinazione sono del tutto corporei. La
fisica di Scoto è piuttosto sommaria ed ha le sue fonti in Marziano
Capella e in Plinio; egli tratta comunque sia dell'anima del mondo come
vita generalissima che investe tutto ciò che è compreso nella sfera ce-
leste, sia dell'armonia e dell'equilibrio che dominano tutto l'universo.
Ma nel mondo è l'uomo che occupa un posto particolare; egli sta in
mezzo fra gli estremi in quanto ha il corpo in comune con gli esseri
corporei ed ha l'anima in comune con gli esseri spirituali. L'uomo è
microcosmo rispetto al macrocosmo; ma la parte per cui egli somiglia
a Dio è l'anima; a questa Dio uni nella creazione un corpo spirituale;
dopo il peccato e per causa di esso l'anima assume un corpo corrutti-
bile e mortale, attraverso il quale si compie anche la sua purificazione.
Nell'analisi della conoscenza, Scoto svaluta la sensibilità per dare rilievo
a quel movimento dell'anima pe.r mezzo del quale essa giunge alla
conoscenza di Dio quale causa di tutte le cose; ma questo movimento
naturale dell'anima è inferiore ad un altro movimento che supera la
natura stessa dell'anima e la porta ad un· piu intimo contatto con la
realtà ineffabile di Dio; qui l'intelletto supera quasi se stesso e tutte
le creature per unirsi a Dio. ·
Nell'ultimo libro del De divisione naturae Scoto si chiede in che mo-
do « la terra si unirà al paradiso, e le creature sensibili a quelle intel-
legibili e tutte le cose si uniranno a Dio, cosi da essere una cosa sola,
cosi che in tutto non appaia piu alcuna diversità »; insomma « come
avverrà il ritorno degli esseri all'unità e la riunione di tutte le sostanze
create? ». I primi segni del ritorno del reale a Dio si hanno nella natura
e nel " recursus " delle cose al loro punto di partenza:· « la sfera cele-
ste ritorna allo stesso luogo in ventiquattr'ore, il sole dopo un qua-
driennio sorge nello stesso punto del diametro equinoziale, la luna torna
al luogo di partenza in poco piu di ventisette giorni ed otto ore ». In
senso piu profondo, il ritorno a Dio comporta la scomparsa, quasi il
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I SECOLI IX E X CAP. XV
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LO SVILUPPO DELLE SCIENZE PRESSO GLI ARABI
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I SECOLI IX E X CAP. XV
6. Il secolo x ed al-Farabi.
Nel secolo x si prolunga per l'Europa la crisi che aveva avuto inizio già
nella seconda metà del secolo precedente; all'anarchia feudale si aggiungono
gli effetti di nuove invasioni, come quella dci Normanni; anche il papato
è travolto nella lotta delle varie fazioni feudali. In Occidente, la conser-
vazione e l'elaborazione di alcuni temi culturali già formulati dalla rina-
scenza carolingia sono legate al movimento monastico cluniacense; esso si
afferma nei primi decenni dcl secolo e mira a sottrarre il maggior numero
possibile di monasteri all'ordinamento feudale, per porli alla diretta dipen-
denza dcl papato e conferire cosi alla chiesa una maggiore autonomia; il
senso di rinascita che, cosf, si viene diffondendo in alcuni monasteri di Gal-
lia, d'Italia e di Germania favorisce i tentativi di tener desta, almeno in
parte, la cultura del secolo precedente; qua e là continua infatti la sua at-
tività qualche scuola monastica, in cui si studiano ancora il trivio cd il qua-
drivio. Legato sia alle scuole monastiche sia alla cultura araba di Spagna
è Gerberto di Aurillac (930--1003) che divenne papa con il nome di Silvestro u;
egli occupa un suo posto particolare nella cultura del secolo x, sia per i suoi
studi di logica che per i suoi vasti interessi scientifici e specialmente mate-
matici. Il mondo mussulmano che nel corso del secolo 1x aveva realizzato
grandissime conquiste culturali, specialmente con la fondazione nell'832 del-
l'università di Bagdad ed era anche riuscito a riprendere il ritmo espansivo
delle sue conquiste, nel corso del secolo x sembra avere esaurito la sua
potenza di dilatazione politico--militare; ed anzi si accentua la divisione fra
le varie regioni ed i rispettivi governatori; ma al progressivo indebolimento
politico dcl mondo mussulmano si contrappone il continuo e rigoglioso
fiorire della sua cultura religiosa e scientifica; le nuove scoperte scientifiche
di quest'epoca sono tutte formulate in lingua araba.
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§ 6 AL-FARA BI
Anche: le scienze particolari furono molto coltivate dagli Arabi nel se-
colo x; si può dire che tutti gli scritti di matematica e di astronomia di
questo periodo, forniti di qualche originalità, sono di fonte araba; si hanno
scritti importanti di aritmetica, di algebra, di geometria, di astronomia, di
astrologia e di trigonometria. Altrettanto numerosi sono i cultori del!_a
medicina che si raggruppano in fiorenti scuole sparse: in tutto il vasto terri-
torio dell'impero, dal califfato orientale all'Egitto, alla Spagna ed al nord·
Africa.
249
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CAPITOLO XVI
II secolo xt
ANSELMO D'AOSTA. AVICENNA E IL PENSIERO ARABO
1. II periodo.
Il secolo x1 segna per l'Europa il termine della crisi che durava ormai da
oltre un secolo e l'inizio d'una ripresa che si estende dal campo politico a
quello economico e culturale. La crisi del potere e lo straripare dell'anarchia
feudale incontrano dei limiti sia in un restaurato accentramento monarchico
già avviato da Ottone I, sia in un piu organico e disciplinato sviluppo dello
stesso feudalesimo che realizza, con l'espansione normanna, un assetto poli-
tico costruttivo in molta parte del continente europeo. Fugati i terrori del-
l'anno mille, si ha un accentuato aumento della popolazione, nelle città si in-
tensificano l'iniziativa economica e lo sforzo tecnico, nelle campagne il lavoro
agricolo ha il sopravvento sull'inerzia dei pascoli ed il sistema chiuso della
curtis si apre a piu intensi scambi ed a piu attivi mercati. La chiesa, già
attraversata nel secolo pr\ cedente dal movimento rinnovatore di Cluny, ri-
prende l'iniziativa sia per la riforma del costume ecclesiastico, sia per affer-
mare la propria autonomia rispetto all'impero; con Gregorio vn tale battaglia
tocca un vertice significativo; espressione della rinata fiducia religiosa e
politica è la riscossa cristiana contro i mussulmani che attraversa le popola-
zioni europee e le porta, sul finire del secolo, alla conclusione della prima
crociata. Per il mondo mussulmano si accentua la crisi avviata nel secolo
precedente; nel 1055 i Turchi Selgiucidi pongono fine all'impero abasside
colpendo il centro stesso dell'unità politica degli arabi; anche in Europa la
pressione cristiana si fa sentire sia nella riconquista della Spagna, sia nel-
1' espulsionç degli arabi dalla Sardegna.
Dal punto di vista culturale, l'Occidente accenna a rapidi progressi; si
svolgono vivaci dibattiti fra dialettici ed anti-dialettici con riflessi sullo svi-
luppo di una cultura piu autonoma rispetto agli interessi religiosi; Anselmo
d'Aosta porta entro l'ambito della speculazione religiosa un ì"innovato rigore
razionale e dialettico; la logica torna ad essere oggetto di studio e mette
capo a importanti risultati metodici; la filosofia è sempre di impronta eccle-
250
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§ I IL PERIODO
2. Dialettici ed anti-dialettici.
In Occidente si svolge, nel corso del secolo x1, un dibattito che vede
in lotta fra loro i sostenitori di uno sviluppo indipendente della dia-
lettica ed i fautori di una netta preminenza della prospettiva religiosa
sia sulla dialettica come su qualsiasi altro sviluppo della cultura profana.
L'insegnamento del trivio che si era diffuso all'epoca della rinascenza ca-
rolingia non era piu scomparso del tutto; esso aveva anzi avuto incre-
mento da quando s'era incominciato a far ricorso ai laici per vari uf-
fici pubblici e per le professioni connesse con lo studio e la conoscenza
del diritto. La dialettica aveva subito colpito per il rigore che poteva
conferire al discorso, per la necessità di cui improntava le argomenta-
zioni; ben presto la scoperta della dialettica, facilitata dalla diffusione
delle scuole non ecclesiastiche, significò per alcuni la scoperta della " ra-
gione'', della misura obbiettiva della verità. Con Berengario di Tours
(m. 1088) l'uso della dialettica viene introdotto anche nella discussione
di questioni teologiche; « di gran cuore, egli scrive, mi rifugio nella dia-
lettica in ogni questione; perché rifugiarsi nella dialettica vuol dire rifu-
giarsi nella ragione; e chi non si rifugia nella ragione, poiché l'uomo è
fatto ad immagine di Dio, proprio per la ragione, rinuncia al suo ono-
re, né può rinnovarsi di giorno in giorno ad immagine di Dio». Beren-
gario applica la dialettica alla questione dell'eucaristia con i seguenti
risultati: sostanza ed accidenti d'una cosa, egli osserva, sono connessi
in modo che se scompare la sostanza, scompaiono anche gli accidenti; è
assurdo, per es., che, distrutta una veste, continui ad esistere il suo co-
lore; e se continua ad esserci il colore, vuol dire che anche la veste esi-
ste ancora; allo stesso modo nell'eucaristia se scompare la sostanza del
pane e del vino per lasciare il posto al corpo ed al sangue di Cristo, do-
251
Baruch_in_libris
il. SECOLO XI CAP. XVl
vrebbero scomparire anche gli accidenti del pane e del vino; se questi.
per contro, continuano ad esistere, vuol dire che anche la sostanza del
pane e del vino continua ad esistere.
È naturale che, di fronte a queste applicazioni della dialettica, i fau-
tori dell'ortodossia religiosa reagissero vivacemente; essi dichiarano, ap-
punto, che veri sapienti sono « piuttosto coloro che sono istruiti nella
Bibbia che coloro che sono istruiti nella dialettica » e che bisogna « con-
siderare di piu la verità dei santi Padri che l'arte dialettica». Il piu
deciso avversario dcli' autonomia della dialettica è Pier Damiani (1007-
1072); buon conoscitore deìla dialettica, egli è guidato da ereoccupazioni
di ordine religioso e di disciplina monastica. Un buon monaco, egli
pensa, deve respingere ogni allettamento che gli venga dalla cultura pro-
fana. Nel suo scritto De divina onnipotentia Pier Damiani prende posi-
zione contro coloro i quali affermano che Dio non può fare che ciò che
è stato non sia stato. Egli ritiene che sarebbe facile, muovendo dalla lo-
gica, estendere il criterio della necessità dal passato, al presente ed anche
al futuro, in modo che e< come tutto quello che fu, è necessario che sia
stato, cosi tutto quello che è, fintantoché è, è necessario che sia, e tutto
quello che sta per essere, è necessario che stia per essere». Ma non bi-
sogna, a suo pàrere, estendere a Dio criteri di necessità « c.he si riferiscono
soltanto all'arte dell'enunciare»; altrimenti risulterebbe negata l'onnip0-
tenza di Dio che in sede teologica è indiscutibile. « Siffatte deduzioni
dei dialettici o retori, precisa, non vanno applicate con· leggerezza al
mistero della divina potenza; e le regole che si son trovate per formare
dei sillogismi e trarre conclusioni" dai nostri giudizi, si guardino bene
costoro dal farle valere con pertinacia contro le leggi divine e dall'op-
porre alla divina virru la necessità dei loro ragionamenti. Se poi av-
viene che si usi della perizia dell'umana dialettica nell'esporre le Sacre
Scritture, essa non deve usurpare con arroganza il diritto di maestra, ma
secondare le Scritture con la dovuta riverenza, com~ un'ancella va dietro
alla sua padrona, per non smarrirsi andando innanzi e per non perdere
la via della verità attenendosi alla esteriore concatenazione delle parole »·
Allo stesso modo Pier Damiani sostiene, in appoggio alla politica di papa
Gregorio VII, che non si può riconoscere alcuna indipendenza all'impero
ed alla sfera politica come tale; l'impero non ha fini propri distinti
da quelli della chiesa; se l'imperatore vien meno al fine ultimo nell'eser-
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§ 2 DIALETTICI ED ANTl-DIALETTICl
c1z10 dell'autorità, vien meno alla stessa natura dcl suo potere. È la
affermazione dell'ideale teocratico che trae il suo alimento nel rinnovato
vigore che attraversa la chiesa nel secolo XI e che la porta a porre e~pli
citamente il primato della religione sia nell'ambito della politica che in
quello della cultura.
3. Anselmo d'Aosta.
Il valore della dialettica, usata all'interno della fede, trova la sua mas-
sima esaltazione nell'opera di Anselmo d'Aosta. Nato nel 1033, creb-
be nell'abbazia di Bee in Normandia, dove divenne successivamente
monaco, priore e direttore della scuola; il periodo piu fecondo della sua
vita è quello che va dal 1063 al 1093; poi fu eletto vescovo di Canter-
bury e la lotta da lui condotta contro il re d'Inghilterra per le investiture
gli valse un lungo esilio, durate; fin quasi alla morte, nel I 109. Le opere
maggiori di Anselmo sono le due che recano il titolo di Monologion
(ossia soliloquio) e di Proslogion (ossia colloquio); esse sono dedicate
al problema di Dio, cioè allo studio della sua natura e del suo rapporto
col mondo, oltre che alla dimostrazione della sua esistenza; altri scritti
Anselmo ha dedicato al problema della verità (De veritate) ed alle que-
stioni del libero arbitrio, dell'incarnazione del Verbo, della predestina-
zione e della Trinità.
Nel Monologion Anselmo si propone di trattare il problema di Dio
col seguente metodo: « che non si cerchi di persuadere nulla con la
autorità della Sacra Scrittura, ma che tutto quello che si concluderà in
ogni singola investigazione sia dimostrato brevemente con argomenti
necessari e manifestato apertamente dalla natura della verità »; se egli
di fatto presuppone la fede, ritiene che in linea teorica si possa prescin-
dere da essa ed elaborare argomenti rigorosamente razionali con i quali
dimostrare i punti piu rilevanti del suo contenuto; non soltanto l'esistenza
di Dio, ma anche la Trinità e l'incarnazione possono essere conclusioni
cui si giunge mediante delle ragioni necessarie. Il fatto che la fede di
chi argomenta sia un dato indiscutibile chiarisce che realmente la fede può
orientare la stessa argomentazione; però per Anselmo l'argomentazione
riveste anche un valore autonomo. Pertanto la posizione di Amelmo non
si identifica né con l'atteggiamento di coloro che ritenevano di far va-
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IL SECOLO Xl CAP. XVI
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ANSELMO o' AOSTA
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IL SECOLO Xl CAP. XVI
Baruch_in_libris
§ 3 ANSELMO D'AOSTA
riore, allora non so se reputare piu sciocco me, qualora gli credessi, o lui
se credesse di avermi dimostrato l'esistenza di quell'isola». Anselmo
scrisse una risposta alla replica di Gaunilone; in essa afferma che il fatto
che Gaunilone professi la fede cattolica attesta che egli può derivare
dalla fede il concetto di Dio; inoltre lo stesso concetto si può desumere,
a suo avviso, dalla considerazione del morido come finito; esso rimanda,
in forza degli argomenti s\'olti nel Monologion, ad un essere superiore
a tutti gli esseri finiti. Con ciò però Anselmo riconosceva che, per avere
il concetto di Dio, bisognava far ricorso o alla fede, o ad altri ar~omenti
diversi da quello a priori.
Oltre alla questione dell'esistenza di Dio, Anselmo tratta nei suoi
scritti anche il problema dei suoi attributi e quello dei rapporti di Dio
col mondo; sul primo punto sostiene che a Dio si debbono riferire tutti
gli attributi che non comportano imperfezione; sul secondo punto mette
in chiaro che Dio ha creato il mondo non già facendo ricorso ad una
materia preesistente, ma giovandosi come di modelli delle idee eterne,
che fanno però tutt'uno con la sua natura infinita; quanto all'onnipo-
tenza divina Anselmo ritiene che essa non possa giungere a far sf che
quel che è stato fotto non sia stato fatto; Dio non è tuttavia costretto
da necessità; e nemmeno il mondo è necessario; ma Dio nel suo operare
non può volere e disvolere senza cadere nell' imperfezione.
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IL SECOLO Xl CAP. XVI
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§ 4 AVICENNA
259
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IL SECOLO XI CAP. XVI
260
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§ 4 AVICENNA
che egli ha con la ricerca scientifica lo porta a ritenere che tutto quanto è
oggetto di dimostrazione matematica debba essere ritenuto vero. Ma l'at-
teggiamento di resistenza contro la filosofia e la conoscenza profana in
genere, che non è soltanto di al-Ghazzali, contribuisce, insieme con le
altre misure della intransigenza religiosa araba, all'esodo della filosofia
dall'Oriente verso la Spagna, dove fiorirà in modo rigoglioso nel secolo
successivo.
Nello sviluppo delle scienze tiene ancora il primato, nel secolo x1, il
mondo mussulmano, specialmente nel corso della prima metà del secolo; ma-
tematici ed astronomi si trovano numerosi sia nella Spagna, che in Oriente;
ma dove si costituisce una nuova grande scuola di astronomi e di matema-
tici è al Cairo, ove sorge anche un grandioso osservatorio; al ,Cairo ebbero
grande sviluppo, nello stesso periodo, anche la fisica e la chimica,_ mentre
la medicina ebbe il suo piu grande cultore nel califfato d'Oriente con Avicen-
na. Nella seconda metà del secolo invece la ricerca scientifica si affievolisce
ed il numero dei vari specialisti diminuisce.
In Occidente si nota, anche nel campo scientifico, maggior fervore che nel-
le età precedenti. Guido d'Arezzo (99Q-1050) introduce una grande riforma
nell'insegnamento della musica, mentre a Salerno viene fondata la prima
scuola ad indirizzo scientifico e professionale che si sia costituita in Europa;
essa non è né una scuola di studio del trivio e del quadrivio, né ha il com-
pito di preparare il clero; riprende invece quella tradizione di studi di me-
dicina che non era mai del tutto scomparsa nell'Italia meridionale ed in Si-
cilia; e si costituisce come una scuola superiore, che precorre la fondazione
delle università nel secolo xn. Quando nel 1056 Costantino Africano, nativo
di Cartagine, venne in Italia e diede vita a Montecassino ad un vero
centro organizzato per tradurre, sotto la sua direzione, dall'arabo in latino,
le opere piu significative della cultura mussulmana, un grandissimo numero
di scritti medici, alcuni di origine greca, ma la maggior parte di origi:ie
araba, vennero a conoscenza della scuob di Salerno, dù: ne trasse spinta
a nuovi sviluppi scientifici. Lo stimolo che la scuola medica di Salerno co-
stitui per tutta l'Europa cristiana a coltivare non soltanto gli studi di me-
dicina, ma la ricerca scientifica in generale, unitamente alla vasta cono-
scenza che della scienza mussulmana in tutti i suoi settori procurò, con le
sue traduzioni, Costantino Africano, furono i principali fattori che pose ·">
termine al monopolio scientifico degli Arabi e che aprirono all'Occiden·c
nuovi orizzonti conoscitivi.
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CAPITOLO XVII
1. Il periodo.
La rinascita del mondo occidentale, già avviata nel secolo XI, continua
nel corso del secolo successivo; comincia a fiorire l'esperienza comunale
che è indice di una profonda trasformazione economica e sociale; ormai
i mercanti, gli imprenditori e gli artigiani allargano la loro sfera d'azione,
prendono maggiore importanza le città. La rinascita dell'Occidente si ac-
compagna anche ad un rinnovamento dello spirito monastico; la riforma
cluniacense ha ormai esaurito la sua ~pinta creativa, mentre la rilassatezza
dei costumi e la cura delle ricchezze penetrano largamente nei chiostri; è
dal monastero di Citeaux e dall'opera di Bernardo di Chiaravalle che prende
inizio il piu importante movimento di reazione; lo spirito di austerità al
quale esso si ispira, se è utile per l'incr(mento della pratica religiosa, non è
molto produttivo sul terreno culturale. Si affermano, in questo tempo, an-
che movimenti religiosi di (lrigine popolare; i catari, i poveri di Lombardia,
gli umiliati e piu tardi i Vald::si assumono posizioni polemiche e aggressive nei
confronti della chiesa, la quale reagisce vivacemente contro il loro spirito
di autonomia e di innovazione. Le energie economiche della nuova società
ed il rinato spirito religioso sono le componenti principali anche del grande
movimento che produce l'arte romanica. Alla ripresa dell'Occidente, fa ri-
scontro in Oriente una progr~ssiva decadenza; il mondo bizantino è contra-
stato dall'espansionismo occiilentale favorito dalle crociate; il mondo ara-
bo; nonostante l'iniziativa della dinastia egiziana, sta per cadere sotto il
controllo delle forze turche. Le crociate sono l'espressione tipica della nuova
energia dell'Occidente e del suo violento fanatismo religioso.
Sul terreno culturale è orn1ai concluso il per::ido dell'egemonia mussul-
mana; in Occidente, si ha non soltanto un ampliarsi degli studi cli logica,
ma un rinnovato interesse per i problemi dell'universo, dell'anima e della
conoscenz::t. L'incremento della cultura filosofica trae profitto, in questo pe-
riodo, sopratutto da due fatti : _dalla cresciuta importanza delle scuole cattc-
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~ I IL PERIODO
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XII CAP. XVII
sici della " logica vetus ", è la Dialectica; i trattati teologici di mag-
gior rilievo sono: la Theologirz ed il Sic et non; si deve infine ricor-
dare sia un trattato di morale dal titolo Scito te ipsum, sia il già ac-
cennato epistolario, di cui fa parte una lunga esposizione autobiografica,
intitolata Historia calamitatum.
In logica, la posizione di Abelardo è intermedia fra il nominalismo
di Roscellino e il realismo di Guglielmo di Champeaux. Roscellino, nato
a C?mpiègne nel rn50 e morto nel 1120, è noto per aver affrontato il
problema degli universali con un atteggiamento nuovo; si tratta di sta-
bilire se universali sono soltanto i nomi, come "uomo" e "animale" o
se ai nomi universali corrispondono delle realtà altrettanto universali.
E poiché gli universali, cioè i generi e le specie, sono oggetto specifico di
studio della logica, si tratta di stabilire se la logica sia una scienza de
vocibus oppure de rebus. Tutti i pensatori che, come Scoto Eriugena e
Anselmo, si erano richiamati alla dottrina delle idee, avevano attribuito
realtà agli universali, nei quali a loro avviso si concretavano le essenze
delle cose; sicché, per questi pensatori, al termine o concetto di " uomo "
corrisponde una reale essenza comune a tutti gli individui um:mi. Con
Roscellino, la critica di- tale concezione essenzialistica giunge ad una
formulazione radicale; egli sostiene infatti che il termine " uomo " non
designa affatto un'essenza comune realmente agli uomini individui; esi-
ste invece la realtà fisica del termine stesso, ossia quel movimento della
aria (flatus vocis) che fa risuonare la parola "uomo"; ed esistono poi gli
individui umani; ciascuno nella sua singolarità; il termine "uomo" ha
appunto il compito di significare questi individui, dietro i quali non esiste
nulla di comune, che si possa dire la specie umana o umanità. Le mag-
giori opposizioni Roscellino sollevò quando volle applicare la sua dot-
trina nominalistica al campo teologico; sostenne mfatti che i tre nomi
di Padre, Figlio e Spirito santo non designano una stessa cosa ~ingoia, ma
ognune dei tre nomi designa una cosa singola; accentuò cosi la riduzio-
ne della realtà comune alle tre persone, a favore della loro individualità;
tanto che Anselmo accu~ò Roscellino di sostenere una sorta di triteismo.
Guglielmo di Champeaux (m. 1121) si attiene invece alla dottrina rea-
listica degli universali. Egli sosteneva, scrive Abelardo, «che la medesima
realtà è tutta essem.ialmente presente nei singoli individui, fra i quali
non ci sarebbe alcuna diversità essenziale, ma solo una varietà detenni-
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§ 2 ABELARDO
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XII CAP. XVII
non do luogo con ciò all'esistenza reale di una rnrporeità come entità
distinta, ma non faccio che costruire un'immagiue mentale comune cui
si riferisce appunto il termine "corporeità "; esso è universale in quanto
è nome che si riferisce ad una immagine comune, ossia ricavata da molti
individui, dei guaii appunto quel nome si può predicare. Ncin basta
dunque dire che gli universali sono solo "voces "; perché un termine,
una " vox" sia significativa, bisogna che sia legata ad un'immagine men-
tale; allora la "vox" diviene "sermo ", ossia elemento del discorso si-
gnificativo umano; e soltanto il sermo può esser detto universale, non la
11ox che forma soltanto la premessa fisica del sermo. Il torto di Roscel-
lino è dunque per Abelardo quello di non aver tenuto il conto neces-
sario del concetto; o immagine comune che rende la parola universale
capace di signifo:.are qualche cosa. Non si può dunque sostenere, per
eccesso di polemica contro il realismo delle essenze, che al termine " uo-
mo" non corrisponde nulla e non si collega nulla al di fuori dei singoli
uomini distintamente reali ed esistenti; proprio per spiegare come il ter-
mine " uumo" si riferi5ca ai singoli uomini esistenti bisogna connettere
il termine "uomo" con l'immagine concettuale, ossia con un insieme
di caratteri r.omuni rilevati dalla mente umana; questi caratteri poi,
se non sono reali nd singoli individui nel senso che in essi risultino .sta~
cati dal resto, sono desunti. dalla realtà degli individui; e perciò l'attri-
buzione del termine comune ai singoli individui ha la sua ragion d'essere
proprio nell'immagine comune che ha a sua volta il proprio fondamento
reale negli individui. Questa direzione di pensiero logico è stata desi-·
gnata, poi, come concettualismo, appunto in quanto essa sottolinea l'im-
portanza del concetto e il suo doppio valore, per un lato nel rispecchiare
la realtà, per l'altro nel consentire la predicazione universale dei termini.
La logica risulta pertanto autonoma rispetto alla metafisica, come soste-
neva il nominalismo, ma è anche fondata su un nesso dei termini con
i concetti e con la realtà secondo l'esigenza del realismo.
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ABELARDO E B~RNARDO
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XII CAP. XVII
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§ 3 ABELARDO E BERNARDO
4. La scuola di Chartres.
La scuola cattedrale di Chartres è il centro pio importante di studi
letterari e filosofico-scientifici fiorito nell'età di Abelardo; il primo ad
insegnarvi con rinomanza fu Bernardo, un bretone che vi tenne lezioni
per una decina d'anni, morendo intorno al u26. Giovanni di Salisbury
lo chiama «la piu ricca fonte di cultura letteraria dei nostri tempi in
Gallia», ed anche «il piu grande platonico del nostro secolo». Nel
campo letterario, Bernardo di Chartres fa rivivere una raffinata tra-
dizione retorica, ispirata a Quintiliano. Quanto al suo platonismo, non
è che esso si nutra d'una vasta conoscenza dei testi di Platone; la sua
fonte è piuttosto il commento di Calcidio al Timeo di Platone; il
platonismo di Bernardo consiste essenzialmente nel non attribuire
la stessa importanza ai due elementi che compongono l'essere, cioè
la materia e l'idea, ma nel considerare propriamente l'essere come
coincidente « con ciò che consta di uno solo di questi elementi: l'idea»;
la materia, per Bernardo, non solo non è tutto l'essere, come sosteneva
Epicuro, ma non è nemmeno coeterna a Dio insieme con l'idea, come
credevano gli stoici; la materia viene creata da Dio, mentre l' idea come
esemplare di ciò che avviene in natura è eterna come Dio, anche se da
lui distinta. Questo platonismo, per quanto sommario, impronta tutto
l'insegnamento di Chartres.
Con Gilberto Porretano (1076-1154) che succede a Bernardo nella di-
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO Xli CAP. XVII
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§ 4 LA SCUOLA DI CHARTRES
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ero per trarne immediate suggestioni di pietà e di slancio mistico, non
potevano non rimanere stupiti e sospettosi di fronte ad una simile inva-
denza di procedimenti scientifici profani, quali criteri interpretativi del-
la rivelaz~one.
Anche Guglielmo di Conches (1080-n54) che fu alla scuola di Ber-
nardo e quindi insegnò a Chartrcs per circa vent'anni, rivolge parti-
colarmente il suo studio alla cosmologia; egli scrive un commento al
Timeo ed un trattato De philosophia mundi; Guglielmo prende aper-
tamente posizione contro coloro che coltivano l'eloquenza per se stessa,
senza darle alcun contenuto di " sapienza ", cioè di concrete conoscenze
naturali; « è come affilar sempre la spada, scrive, e non colpir mai in
battaglia ». Sullo sfondo della realtà naturale sta Dio, ma il mondo è for-
nito di una sua realtà autonoma; esso è composto di elementi contrari,
caldi e freddi, umidi ed asciutti che sono stati riuniti da Dio. Nella mente
divina le idee fungono da esemplari eterni delle cose. Ma l' aspetto
piu rilevante della filosofia di Guglielmo di C.Onches è il tentativo di
spiegare la costituzione del mondo con un procedimento razionale-mec-
canico che fa ricorso alla teoria degli atomi oltre a quella dei quattro
elementi primi; il passaggio di Guglielmo da una visione animistica
ad una piu meccanica dello sviluppo del mondo è anche attestato dal
suo modo di intendere l'anima del mondo, che può si essere considerata
come «la forza che dà l'essere alle pietre, la vita alle erbe ed agli al-
beri, il sentire agli animali ed il ragionare agli uomini», ma va spe-
cialmente considerata come «il fato, o la serie o la divina disposizione
degli elementi »; in Dio esiste ben si « il mondo archetipo e la precogni-
zione di tutte le cose», ma da Dio deriva un ordine del mondo «come
disposizione o ordine temporale delle cose»; quest'ordine è l'anima
del mondo, quella che Boezio chiama la <<perpetua ratio» che governa
l'universo.
La scuola di Chartres combatte anche contro la reazione anti-cultu-
rale promossa da Bernardo di Chiaravalle e dalla corrente misticheg-
giante; né il pericolo contro un ordinato sviluppo della cultura veniva
soltanto da questa parte; con la diffusione dello studio della logica, si
erano affermate anche delle vere e proprie degenerazioni eristiche, fat-
te di giochi dialettici e di cavilli; in certe scuole, scrive Giovanni di Sa-
lisbury, «si discuteva la questione se il porco condotto al mercato sia
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XII CAP. XVII
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CAPITOLO XVIII
1. Il periodo.
La seconda metà del secolo xn si apre con l'ascesa al trono imperiale
di Federico Barbarossa e si conclude con la conquista di Costantinopoli a
compimento della 1v crociata e con il costituirsi dell'impero latino d'Q.
riente. Il periodo è dominato da un lato dalla lotta fra l'impero e i comuni
italiani, dall'altro dall'affermarsi in Francia ed in Inghilterra del potere
monarchico sulle forze feudali. Nel campo religioso il cristallizzarsi dell'or-
ganismo ecclesiastico si accompagna a moti di ispirazione popolare e di
tendenza spesso anti-cattolica; i catari si rafforzano nel sud della Francia;
apostolo della rinascita religiosa è in questo tempo Gioacchino da Fiore,
che predica l'avvento dell'età dello Spirito santo; ma sul finire del secolo
si profila, con la figura di papa Innocenzo III, una violenta controffensiva
che tende a ricondurre i movimenti religiosi popolari entro l'orbita della
disciplina ecclesiastica, pena il loro sterminio.
Nel campo della cultura, si ha un rilevante incremento delle istituzioni
universitarie; la prima organica configurazione dell'università di Parigi, che
risulta dall'iniziativa di tre scuole, quella della cattedrale di Notre-Dame,
quella di san Vittore e quella dell'abbazia di Santa Genoveffa, risale al 1170;
gradualmente gli studi si vennero organizzando in quattro facoltà: delle
arti, di teologia, di legge e di medicina; il primo riconoscimento dell'uni-
versità di Parigi da parte dcl re di Francia risale al 1180, ma l'organizzazione
effettiva dell'università poté dirsi completa soltanto qualche decennio piu
tardi, intorno al 1230. Quando nel 1167 gli studenti inglesi furono richia-
mati da Parigi, raccogliendosi in numero notevole ad Oxford diedero il pri-
mo avvio alla costituzione di quella università. Altro aspetto importante
della storia culturale di questo periodo è l'intensificarsi delle traduzioni dal-
l'arabo e dal greco. Il piu grande traduttore del suo e forse di ogni altro
tempo è Gerardo da Cremona che mori a Toledo nel u87; sono tanti i testi
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J..A SECONDA METÀ DEL SECOLO XII CAP. XVIII
da lui tradotti e di tanto varie discipline che si deve pensare che egli si sia
servito di tutta una scuola di t:·aduttori, sotto la sua direzione; Gerardo ha
reso accessibile al mondo latino la parte piu rilevante della cultura greca
ed araba, sia filosofica che scientifica; fra le opere filosofiche piu impor-
tanti tradotte da Gerardo ricorderemo gli A natitici secondi di Aristotele, il
commento ad Aristotele di Alessandro di Afrodisia, scritti di al-Kindi e di
al-Farabi. Anche Enrico Aristippo di Catania, morto intorno al u62, è noto
per aver portato in Sicilia molti manoscritti greci e per aver tradotto dal
greco in latino il Menone ed il Pedone di Platone ed i quattro iibri della
Meteorologia di Aristotele.
La filosofia nella seconda metà del secolo xu si afferma in Occidente
con la dottrina logica e politica di Giovanni di Salisbury che è espressione
tipica dell'ambiente della scuola di Chartres; intanto nelle scuole, special-
mente francesi, si viene applicando un metodo razionalmente piu rigoroso
per la trattazione dei problemi sia filosofici che teologici; da questa esigenza
che aveva avuto una prima espressione già nel Sic et non di Abelardo de-
riva il compendio teologico di Pier Lombardo, dal titolo Libri quattuor sen-
tentiarum, che rimase per piu di tre secoli il testo normale per lo studio
della teologia nelle università. Nel mondo arabo fiorisce nello stesso tempo
il maggiore e l'ultimo dei pensatori della tradizione mussulmana, Averroé,
il cui pensiero doveva esercitare un influsso rilevante anche sullo sviluppo
della cultura occidentale.
2. Giovanni di Salisbury.
Nato in Inghilterra, nel 1120, Giovanni di Salisbury compie la sua
formazione in Francia, dove ascolta le lezioni di Abelardo e di parecchi
altri maestri; in particolare egli frequenta e si lega all'ambiente cul-
turale di Chartres; compiuti i suoi studi, intorno al II48 si dedica al-
l'attività amministrativa ecclesiastica, dapprima presso la corte pontificia
e poi quale segretario del vescovo di Canterbury; negli ultimi anni
della sua vita, dal 1176 al 1180 occupa la sede vescovile di Chartres.
I suoi due scritti piu importanti sono dedicati l'uno alle questioni di
logica (e si intitola Metalogicon), l'altro ai problemi politici (e si in-
titola Policraticus). La cultura di Giovanni ha un'impronta spiccata-
mente letteraria ed umanistica; in essa acquistano grande rilievo la
"eloquentia" e lo studio dei classici; però la "eloquentia" si deve
accompagnare ad un solido contenuto. Quanto alla logica, l'atteggia-
mento di Giovanni vuol evitare due posizioni estreme: quella, da un
lato, di chi avversa la logica ed il suo studio con vari pretesti; ma
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GIOVANNI DI SALISBURY
anche quella di quanti si dedicano allo studio della logica come se esso
esaurisse tutto il sapere; «è evidente, egli scrive, che la logica non è
presente in coloro che gridano nei crocicchi ed insegnano nei trivi de-
dicandosi soltanto alla logica, alla quale riservano non un decennio o
un ventennio, ma l'intera loro vita; anche quando la vecchiaia snerva
il corpo ed ottunde i sensi, non hanno altro nella bocca e solo la
logica prende il posto di tutti gli altn studi; cosi da vecchi ridiven-
tano bambini, cercano sempre e non arrivano mai alla scienza». Gio-
vanni mette in ridicolo il logico " puro " perché ritiene che la logica
giovi a ciascuno « secondo la misura del contenuto cui la applica »;
essa gioverà molto a chi possiede molte conoscenze, mentre, se ri-
mane isolata, diviene « exsanguis et sterilis ». Riguardo ai problemi
filosofici piu generali, Giovanni si dichiara "academico "; non già che
egli pensi di seguire lo scetticismo estremo di coloro i quali dichiarano
di non sapere nulla; tale posizione gli sembra del tutto astratta; in-
tende invece attenersi al criterio della conoscenza probabile, che, ri-
chiamandosi all'esperienza, procede con rautela, senza la pretesa di
giungere sempre al sapere necessario; «preferisco con gli academici,
scrive Giovanni, dubitare intorno alle singole cose, anziché definire
temerariamente con una dannosa simulazione di scienza ciò che è
ignoto o nascosto ». Importa soprattutto non confondere il campo della
verità necessaria con quello della semplice probabilità; solo Dio conosce
intimamente la natura delle cose, la sua forza ed i suoi piani; nei
riguardi del mondo, perciò, è meglio esplorare il corso normale delle
esperienze con la massima diligenza, lasciando sempre aperta la strada
alla correzione ed all'integrazione delle conclusioni precedenti. Un caso
clamoroso di eccessiva fiducia nella conoscenza necessaria della natura
è quello offerto dai " matematici " i quali « dalla posizione delle stelle,
dal sito del firmamento e dal moto dei pianeti congetturano intorno
al futuro»; l'astrologo o "matematico" è colui che non conscio dei
limiti della conoscenza giunge a conclusioni erronee, çome quella che fa
dipendere tutte le azioni umane dalle costellazioni, negando la libertà
dell'iniziativa razionale. Alla radice di tale atteggiamento sta la preoccu-
pnione religiosa di impedire alla scienza di giungere a conclusioni con-
trarie alla fede. Le due uniche basi della certezza sono, per Giovanni.
la conoscenza sensibile e la fede.
275
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XII CAP. XVIII
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§ 3 SVILUPPI DELLJ! SCUOLJ! IN FRANCIA
4. Averroè.
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XII CAP. XVIII
~iB
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§ 4 AVERROÈ
che egli si accinge, come dichiara il titolo della sua opera contro al-
Ghazzali, a distruggere la distruzione che quest'ultimo aveva cercato di
fare della filosofia e dei filosofi. E poiché al-Ghazzali aveva preteso di
condannare la filosofia proprio per svincolare da ogni rigida norma ra-
zionale la visione religiosa, Averroè intende a sua volt:i mostrare come
la fondazione e lo sviluppo rigoroso della scienza siano pienamente coe·
renti con la rivelazione del Corano. «Il negare l'esistenza delle cause
che ci appaiono nel mondo sensibile, egli scrive con chiaro riferimento
polemico al pensiero di al-Ghazzali, è un discorso sofistico; ed il teologo
su questo punto o nega con la lingua ciò che ammette nel cuore o segue
un'involuzione sofistica»; al-Ghazzali si appellava all'assoluta iniziativa
di Dio nell'ordinamento del mondo, per contrastare alla scienza la sua
pretesa ad un sapere stabile e necessario: Averroè ribatte che attribuire
a Dio un assoluto arbitrio, sottratto ad ogni regola, equivale a conside-
rarlo « come imperante sugli enti del mondo al modo di un re tirannico
che possiede sovranità assoluta, di fronte al quale non esiste alcuna op-
posizione nel regno, né legge che lo regoli, né consuetudine; ed allora
le sue azioni saranno necessariamente sconosciute per loro natura e
quando ha luogo una sua azione, è cosa per sua natura sconosciuta se
questa durerà o no». A que.sto arbitrarismo teologico Averroè contrap-
pone una concezione razionale della divinità come principio di stabi-
lità e di continuità : quello di Dio è come « il comando di un re per
il quale hanno stabilità nelle città tutti i comandi di coloro che il re
ha preposti agli affari »; Dio è « come un principe che abbia molti uf-
ficiali, i quali abbiano a loro volta altri ufficiali alle loro dipendenze;
questi non hanno la loro esistenza come tali, se non in quanto ricevono
il loro comando dal principe ed il loro ufficio non ha esistenza se non in
quanto essi lo ricevono cd eseguiscono gli ordini». Questa concezione
della divinità giustifica l'esistenza della "natura", come una realtà che,
pur dipendendo da Dio, riceve da lui una struttura fissa e stabile, tale
che la scienza ne può fare l'oggetto della sua indagine : « La scienza in
noi, afferma Averroè, è sempre una cosa che segue la natura degli
enti; se noi abbiamo scienza degli enti, vuol dire che negli enti vi è
uno stato dal quale dipende la nostra scienza; lo stato che si trova negli
enti, per cui essi danno luogo al ripetersi dei fatti secondo una consue-
tudine, è appunto ciò che i filosofi chiamano natura ». « La scienza,
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XII CAP. XVIII
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§ 4 AVEllllOÈ
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XII CAP. XVIII
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§ 4 AVERROà
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XII CAP. XVIII
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CAPITOl.0 XIX
1. Il periodo.
La prima metà del secolo xm si apre con il grandioso tentativo teocratico
di Innocenzo III: «lo sono stabilito da Dio, egli scrive, al di sopra dei po-
poli e dei regni; nulla di ciò che avviene nell'universo deve sfuggire all'at-
tenzione ed alla potestà del sovrano pontefice ». Ma l'immensa ambizione
del papa non riesce a togliere di mezzo le forze nazionali che ormai si
vengono consolidando non piu dentro i vecchi schemi del feudalesimo, ma
nelle nuove strutture sociali ed organizzative dello Stato moderno. L'anti-
tesi piu completa dell'opera e del pensiero di Innocenzo III si ha nell'azione
di re Federico II, che è l'esponente piu autorevole della rivendicazione del-
l'autonomia del potere politico rispetto a qualsiasi ingerenza teocratica. Il
fermento religioso si avverte in questo periodo, non soltanto attraverso le
iniziative del papato, quali la crociata contro gli Albigesi e la costituzione
dell'inquisizione, ma anche nella vivacità dei movimenti contro i quali
la chiesa prende posizione e nella creazione di nuovi indirizzi che si man-
tengono nell'ambito dell'ortodossia e della disciplina ecclesiastica; risale al
1210 la fondazione dell'ordine francescano, che, animato, alle sue origini,
dall'idea di un ritorno completo alla primitiva esperienza cristiana della
povertà e del distacco dai beni mondani, è tormentato, dopo la morte del
fondatore avvenuta nel 1226, da contrasti fra un indirizzo piu spirituale ed
uno piu conciliante e remissivo rappresentato dai conventuali. Al 1215 risale
la fondazione dell'ordine domenicano che si propone come obbiettivo fon-
damentale la predicazione del V angelo fra gli infedeli e gli eretici. Soltanto
verso la metà del secolo si ha la fondazione dell'ordine degli eremiti di
sant' Agostino.
La fondazione degli ordini francescano e domenicano ha anche un n°:
tevole rilievo culturale; essi si organizzano in provincie, ognuna delle quah
ha il suo sludium partiC"ulare ossia una scuola in cui vengono istruiti i
:aBS
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XIX
monaci; nei centri piu importanti vengono poi costituiti degli studia gene-
ralia che, mentre provvedono a preparare i maestri per le scuole delle pro-
vincie, fanno anche parte degli organismi universitari. Le traduzioni dal-
l'arabo e dal greco hanno anche in questo periodo un notevole peso nella
formazione culturale; il centro piu importante di incontro della cultura
araba con quella latina si ha a Palermo alla corte di Federico II; il piu
noto dei traduttori che vivono alla corte di Palermo è Michele Scoto,
che ricopre anche la carica di astrologo di corte e muore intorno al 1235;
per opera dei traduttori, l'Occidente latino allarga sensibilmente la sua co-
noscenza delle opere aristoteliche; a Michele Scoto si deve la traduzione del
De caelo et mundo e del De anima; Roberto Grossatesta traduce l'Etica;
agli inizi del secolo si diffondono le traduzioni della Fisica, della Metafi-
sica e dei Parva naturalia; piu tardi incominciano a circolare anche le tra-
duzioni della Politica, dell'Etica e della Retorica; cosi pressoché l'intero
corpus aristotelico giunge nell'Europa occidentale; e vi giunge accompa-
gnato dai commenti di Averroè, tradotti da Michele Scoto. La prima rea-
zione degli ambienti religiosi alla diffusione dell'opera di Aristotele è ne-
gativa; nel 1210 un concilio provinciale proibisce a Parigi l'insegnamento
pubblico e privato della fisica e della metafisica di Aristotele; nel 1215
la proibizione viene ribadita con particolare riferimento all'università di
Parigi; si vedeva un troppo aperto contrasto della dottrina aristotelica con
la fede.
Le università guadagnano intanto sempre maggiore importanza; sor-
gono università nuove, come quella di Napoli fondata da Federico II nel
1224, quella di Padova la cui fondazione risale al 1222 e quella di Cam-
bridge che si affianca nel 1209 all'università di Oxford; le due università
che emergono sulle altre sono quelle di Parigi e di Oxford. L'università di
Parigi diviene il piu importante organismo di studio del tempo; con l'ap-
poggio del papato, i· due nuovi ordinì religiosi vi conquistano ben presto
delle cattedre di insegnamento, dalle quali esercitano un largo influsso
sulla cultura religiosa e filosofica di tutta Europa.
286
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; 2 ALESSANDRO DI HALE&
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XIX
a88
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§ 3 llOBEllTO GllOSSATESTA
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XIX
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LO SVILUPPO DELLE SCIENZE
~~~~~~~~~~~~~~~~~~
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CAPITOLO XX
1. II periodo.
La seconda metà del secolo xm è un periodo di trapasso durante il
quale le nuove forze politiche degli Stati indipendenti si vengono conso-
lidando sia attraverso il concentrarsi della potenza delle maggiori monar-
chie, sia attraverso la formazione di organismi signorili quali momenti di
evoluzione della situazione comunale. Il papato con Bonifacio VIII sembra
avviato alla realizzazione dell'ideale teocratico, ma il sup fallimento è segnato
dalla lotta fra il papa e il re di Francia Filippo IV il Bello, con la quale
si apre il secolo xiv. La cristianità occidentale è ancora impegnata in pro-
fondi contrasti; la chiesa è alle prese con il radicalismo sociale-religioso che
reagisce sia alla miseria di molta parte del popolo, sia al coriformismo eccle-
siastico; il clero secolare è in lotta con la crescente potenza dei nuovi ordini
religiosi; anche i due maggiori ordini religiosi sono in lotta fra loro. La fi-
losofia di questo periodo è tutta dominata dai contrasti che, all'interno stes-
so del pensiero cristiano, solleva l'opera di Aristotele. Mentre Bonaventura,
esponente dell'indirizzo francescano, rivendica la maggiore conformità al-
l'ispirazione religiosa cristiana della tradizione platonico-agostiniana, Tom-
maso d'Aquino sostiene la necessità di un incontro del pensiero cristiano
con l'aristotelismo che egli si sforza di liberare dalle sovrastrutture del neo-
platonismo di derivazione ellenistico-araba; ma l'aristotelismo, interpretato
alla luce dei commenti di Averroè, è anche alla radice dell'atteggiamento di
Sigieri di Brabante e dei suoi colleghi della Facoltà delle arti di Parigi,
i quali sono contrari ad ogni concordismo di fede e ragione, del genere di
quello sostenuto da Tommaso d'Aquino e promuovono invece un metodo
di ricerca che comporta la piu rigorosa separazione dei due campi, il reli-
gioso e il filosofico. Infine l'indirizzo oxoniense degli studi scientifici trova
in Ruggero Bacone un esponente illustre, che è anche convinto della ne-
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§ I IL PERIODO
cessità di legare strettamente fra loro il monJo della fede e il mondo della
scienza e il dominio della natara Ja parte dell'uomo. Questi contrastanti in-
dirizzi di pensiero non raggiungono una situazione di equilibrio, ma sono
portati ciascuno al livello piu intenso ed alto di eiaborazione dottrinale; per
questo si può dire che la seconda metà del secolo xm costituisce un periodo
decisivo per lo sviluppo della filosofia scolastica.
Elemento importante dello sviluppo culturale e filosofico è, anche per
questo periodo, l'opera dei traduttori; si traducono molti scritti arabi i~
latino, ma aumentano specialmente le traduzioni condotte direttamente sui
testi greci; il maggiore traduttore dal greco è il frate domenicano Guglielmo
di Moerbeke (1215-1286); per quallto concerne in particolare Aristotele, si
può dire che ormai tutti i suoi scritti sono noti, mentre parecchi di essi
risultano tradotti direttamente dal greco; per molti di essi, si è anche a co-
noscenza di commenti, sia greci che arabi. Man mano che si afferma l'indi-
rizzo di pensiero tomista, la chiesa attenua la sua avversione alle dottrine
aristoteliche, anche se ciò non avviene senza contrasti; l'opposizione eccle-
siastica si rivolge allora contro l'averroismo, cioè contro quel movimento di
pensiero che accentuava nell'opera dello Stagirita i motivi piu apertamente
contrari alla tradizione religiosa; una prima condanna dell'averroismo viene
pronunciata dal vescovo di Parigi Stefano Tempier nel 1270; nel' 1277 lo
stesso vescovo pubblica un elenco di 219 proposizioni che vengono formal-
mente censurate; in tale elenco non si trovano soltanto proposizioni espri-
menti dottrine averroistiche, ma anche tesi aristoteliche ed alcune enuncia-
zioni ricavate dagli scritti di Tommaso d'Aquino; la chiesa non considera
dunque con tutta tranquillità l'indirizzo concordista di Tommaso d'Aquino,
che incontrò anzi resistenze e critiche molto tenaci.
La diffusione del pensiero aristotelico porta notevoli innovazioni anche
nell'ordinamento degli studi universitari; a Parigi i maestri della Facoltà
delle arti, che prima si limitavano all'insegnamento della dialettica, esten-
dono ora il loro studio alla fisica, alla metafisica ed alla morale di Aristotele;
ma i maestri della Facoltà di teologia sono preoccupati dell'opposizione che
tale studio può fomentare nei confronti delle verità di fede; di qui una parti-
colare insistenza dei maestri di teologia nel dibattere le questioni del rap-
porto tra fede e ragione e dei limiti dell'indagine razionale; i maestri della
Facoltà delle arti sostengono, invece, che le conclusioni alle quali essi per-
vengono debbono intendersi come puramente filosofiche, nel senso che esse
muovono da principi filosofici e sono ricavate con procedimenti filosofici;
le verità della fede sono di natura diversa ed i maestri delle arti non hanno
difficoltà ad accoglierle, non tuttavia come verità filosofiche; è cosf che prende
piede un atteggiamento di netta opposizione ad ogni concordismo di fede
e ragione e di rigorosa distinzione dei due campi; non era difficile, partendo
da tale atteggiamento, conferire un valore eminente all'indagine scientifica
293
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XX
2. Bonaventura.
Bonaventura impersona nella seconda metà del secolo xm la tradi-
zione agostiniana e si contrappone non solo ai maestri della Facoltà
delle arti che sostengono una rigorosa separazione della filosofia dalla f e-
de, ma anche dal tentativo tomistico di inserire il pensiero aristotelico nel-
la tradizione cristiana. Nato nel 1221 nei pressi di Viterbo, entra nell'or-
dine fraµcescano, studia a Parigi sotto la guida di Alessandro di Hales
e quindi vi insegna teologia dal 1248 al 1255; creato generale dei
francescani, muore nel 1274; il suo pensiero è raccolto in un commento
alle Sentenze ed in numerosi opuscoli, dei quali il piu noto reca il
titolo di ltinerarium mentis in Deum. Punto di partenza di ogni filo-
sofia è, per Bonaventura, la verità della fede; la dottrina di Aristotele
è la prova degli " errori " in cui può cadere la filosofia quando muova
dalla ignoranza della fede cristiana. « Dal non buon uso della ricerca
filosofica, scrive, procedono gli errori presso i filosofi; un primo errore
è quello di porre il mondo come eterno, il che è pervertire tutta !a
Scrittura che dice che in principio Dio creò il cielo e la terra; un secondo
errore si ha quando si pone che tutte le cose provengono dalla necessità;
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§ 2 BONAVENTURA
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XX
3. Alberto Magno.
Alberto dei duchi di Bollstadt vive fra il 1206 cd il 1280; appartiene
all'ordine domenidmo ed è maestro di teologia a Parigi dal 1245 al
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s3 .tt.BERTO MAGNO
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L\ SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XX
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§ 3 ALBERTO MAGNO
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XX
del tutto certi ed indubitabili, pertanto " veri "; pur essendo dunque
diversi i metodi della filosofia e della teologia, questi due campi deb-
bono, alla fine, costituire una sola verità; dal punto di vista di quest'uni-
c~ verità, la ~~de si avvantaggia rispetto alla ragione, in quanto la
fede non può errare in ·alcun modo, mentre la ragione, che è normal-
mente strumento valido per giungere alla verità, può anche cadere in
errore; quando dunque una proposizione filosofica ottenuta mediante
il ragionamento contraddice un'asserzione di fede, si può _senz'altro
concludere che l'errore sta dalla parte della filosofia; cosi la filosofia
ha nella fede uno strumento per controllare e regolare, dall'esterno, i
suoi risultati; Tommaso tien fermo che si tratta di un controllo e di
una direzione dall'esterno, tali quindi che non possono prescindere
dall'intrinseco cd autonomo operare della ragione; ma tien fermo anche
al fatto che si tratta di un controllo e di una direzione effettivi, senza
di che si cadrebbe nel ricon~scimento di una doppia verità. Sicché
la teologia muove dalla rivelazione e scende verso la ragione, analiz-
zando il dogma cd aprendolo all'analisi razionale, per quanto possibile;
la filosofia ha da un lato il compito di criticare le dottrine filosofiche
che contraddicono i dati della fede e dall'altro quello di sviluppare ra-
zionalmente gli elementi intellegibili della fede, di salire con la ragione
verso la fede. La filosofia ha pertanto un'autonomia formale e metodica,
che Tommaso ritiene anche sostanziale; infatti. egli pensa che la ra-
gione possa giungere al suo incontro con la fede senza un intervento
intrinseco di quest'ultima; non si tratta, ovviamente, di una identi-
ficazione di fede e ragione, ma di un accostamento che lascia sussi-
stere la fede nella sua irriducibilità a valori razionali; tuttavia la ra-
gione conduce molto avanti nel cammino della fede, alla quale può
positivamente apriÌ'e la via. Pur tenendo fermi i valori della fede, Tom-
300
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TOMMASO o' AQUINO: FEDE E RAGIONE
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XX
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s5 LA DIMOSTRAZIONE DELL' ESISTENZA DI DIO
esista, insomma, non è cosa nota per se stessa, ma è cosa che si può
dimostrare per mezzo degli effetti di lui che ci sono noti; questi poi
non sono proporzionati alla causa e pertanto non ci possono dare di
essa che una conoscenza imperfetta.
Premesse tutte queste limitazioni, Tommaso propone cinque vie per
dimostrare che Dio esiste. La prima si rifà al movimento, cioè al. di-
venire interpretato con Aristotele come passaggio dalla potenza all'atto;
tale passaggio presuppone un essere in atto, giacché se l'atto per cui
qualcosa diviene, a sua volta diviene, bisognerà risalire ad un altro atto
che spieghi questo secondo passaggio da potenza ad atto; bisogna in-
fine giungere ad un primo movente che, essendo atto, non sia in potenza,
e questi è Dio. La seconda via considera il mondo sotto il profilo della
dipendenza efficiente d'una cosa da un'altra; l'ordine che si riscontra
nel mondo è appunto quello per cui un primo termine è causa effi-
ciente di un termine ultimo; questo sistema chiuso della dipendenza
efficiente non cambia se i termini medi, invece di uno, sono molti;
quello che importa è che il sistema sia chiuso; se non lo è, è la stessa
dipendenza efficiente che sfuma; non si potrà allora farla risalire ad
una serie infinita di cause efficienti; e Dio è appunto il primo termine
che realizza la chiusura e quindi la consistenza del processo causativo
verso l'alto. La terza via è la seguente: ci sono cose che possono esi-
stere e non esistere; le chiamiamo possibili o non-necessarie; queste
hanno cominciato ad essere e prima non erano; ma ciò non può esser
avvenuto se non in forza di cose che già esistevano; dire che anche
queste e tutte le cose sono non-necessarie vorrebbe dire far risalire il
tutto al nulla e quindi non spiegare le cose che ora ci sono; bisogna
invece porre un essere necessario da cui derivano le cose possibili;
Dio è appunto l'essere necessario che non deriva da altro la causa della
sua necessità. La quarta via prende a modello la dipendenza causale di
ciò che ha piu o meno di una qualità, dalla stessa qualità nel suo grado
piu alto; per es., il fuoco che è caldo al massimo grado è causa di tutti
i gradi maggiori o minori di calore; e Dio si può intendere anche
come causa che possiede nel grado piu alto le perfezioni che negli esseri
finiti assumono gradi maggiori o minori. La quinta via, infine, poggia
sul rilievo che alcuni corpi naturali che non hanno conoscenza ope-
·rano secondo un fine; ciò. significa che essi tendono ad un fine solo
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LA SECONDA MBTÀ DEL SBCOLO XIII CAP. XX
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LA DIMOSTRAZIONE DELL' ESISTENZA DI DIO
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP • .XX
creature farebbe di essi due mondi del tutto estranei e renderebbe im-
possibile salire dal secondo al primo, anche con le cautele e i limiti in-
trodotti da Tommaso; invece il porre fra Dio e le creature un rapporto
di analogia significa rendere possibile il passaggio dalle creature a Dio,
tenendo però ben ferma la realtà delle creature come avente una sua
struttura autonoma e specifica; Dio e le creature hanno relazione all'es-
sere, ma si tratta di relazioni diverse, di diverse proporzioni; non c'è
una realtà unica, di cui Dio e le creature siano modi; ci sono per
contro due diverse proporzioni rispetto all'essere e la loro diversità
non viene cancellata dal fatto che si tratta, in entrambi i casi, di pro-
porzioni rispetto all'essere. L'autonomia della natura è consolidata dal
fatto che, secondo Tommaso, l'esistenza, pur essendo distinta dall' es-
senza, non è estrinseca ad essa; non è che l'esistenza sopraggiunga, co-
me un accidente, alle essenze, già pienamente reali per se stesse; l'esi-
stenza condiziona l'essenza, in quanto non abbiamo altra conoscenza
delle essenze che come esistenti; il reale è fatto di essenze concretate e
reali, non di essenze pure,· immediatamente legate con il principio pri-
mo; l'individualità delle sostanze fa della loro concreta esistenza un
fatto specifico e stabile; il mondo pertanto non è, per Tommaso, un
evanescente flusso di strutture ideali dissolventesi in Dio, ma è un cor-
poso mondo di sostanze individue, dalla struttura stabile e ben radi-
cata. Le forme stesse non vengono considerate come continuamente
trapassanti~ l'una nell'altra in una scala dinamica di sviluppo che, pene-
trando tutto il mondo, lo sottrae ad ogni rigida determinazione; esse
sono, per c:ontro, strumenti fissi di determinazione e principii concreti
di effettiva esistenza; ogni essere non è cosi aperto al flusso di una
pluralità di forme, ma è legato alla sua forma che gli dà reale unità e
reale autonomia. Il principio dell'individualità porta Tommaso a con-
siderare l'anima come forma del corpo, quindi facente con esso un'unica
realtà; e appunto per difendere l'individualità dell'operazione del co-
noscere, egli esclude un intelletto unico per tutti gli uomini, facendo
dell'intelletto agente un aspetto dell'attività conoscitiva propria di cia-
scuna anima individua; non si sottrae però all'esigenza religiosa della
immortalità dell'anima, che egli ritiene di poter dimostrare filosofica-
mente; l'anima, egli afferma, è un principio incorporeo e sussistente in
quanto né è corpo, né compie le sue operazioni per mezzo di un organo
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§ 6 IL NATUJ!,ALISMOj L' ETICA E LA POLITICA
corporeo; proprio per questo essa può sussistere, anche quando il corpo
sia distrutto, pur conservando sempre una attitudine ed un'inclinazione
naturale all'unione con il corpo.
L'etica di Tommaso si ispira ad un'analoga distinzione fra l'am-
bito naturale e quello religioso: «la felicità o beatitudine dell'uomo,
egli scrive, è duplice: una è quella proporzionata alla natura umana e
ad essa l'uomo può pervenire mediante i principii della natura; l'altra
è una beatitudine che eccede la natura dell'uomo e ad essa l'uomo può
giungere soltanto per virru divina, secondo una certa partecipazione
della divinità; e poiché siffatta beatitudine supera la proporzione della
natura umana, i principii naturali dell'uomo, dai quali egli muove per
agire bene secondo la proporzione che gli è propria, non sono sufficienti
a inserire l'uomo nell'ordine della predetta beatitudine; e allora bisogna
che siano concessi in piu da Dio all'uomo alcuni principii mediante i
quali egli sia ordinato alla felicità soprannaturale, al modo stesso in cui
mediante i principii naturali è ordinato ad un fine n~turale; questi
principii si dicono virru teologiche, sia perché hanno Dio per oggetto,
sia perché vengono infuse in noi da Dio, sia perché sono indicate sol-
tanto dalla rivelazione nella Scrittura». Né il sovrapporsi di un ordine
soprannaturale a quello naturale toglie significato a quest'ultimo: « Dio
muove tutti gli esseri, scrive Tommaso, secondo il modo di ciascuno di
essi, cosi come nella fisica vediamo che muove diversamente il pesante
ed il leggero, in base alla loro natura; ora, l'uomo, in base alla propria
natura, partecipa del libero arbitrio (cioè del libero giudizio sui mezzi
da scegliere per conseguire un fine); pertanto il movimento verso la
giustizia che in lui deriva da Dio non ha luogo senza un movimento
del libero arbitrio ».
Anche la dottrina politica di Tommaso è governata dal criterio che
distingue il diritto divino che deriva dalla grazia, dal diritto umano
che nasce dalla ragione naturale; il diritto umano regola e disciplina le
inclinazioni naturali che hanno, al pari della natura fisica, una loro
autonomia rispetto al superiore mondo religioso: « Anzitutto inerisce
all'uomo l'inclinazione al bene che ha in comune con tutte le sostanze e
tende alla conservazione del suo essere; perciò appartengono alla legge
naturale tutti i mezzi che conservano la vita dell'uomo; in secondo
luogo c'è nell'uomo l'inclinazione ad oggetti che ha in comune con gli
307
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XX
altri animali e pertanto appartengono alla legge naturale l' unione dei
sessi e l'educazione dei figli; in terzo luogo c'è nell'uomo l'inclinazione
a ciò che è proprio della sua natura razionale, cioè alla conoscenza della
verità e al vivere in società; perciò l'evitare l'ignoranza, il non offendere
gli altri con cui convive e simili appartengono alla legge naturale »; la
legge naturale è il criterio per la formazione della legge positiva; que-
sta « tende principalmente ad ordinare il bene comune »; perciò il fare
la legge spetta « o a tutta la moltitudine, o a qualcuno che faccia le
veci di tutta la moltitudine ». Il rapporto che Tommaso istituisce fra
la chiesa ed il potere politico rispecchia il rapporto di dipendenza e di
distinzione ad un tempo che investe tutto l'ordine naturale; come la
fede istruisce la ragione sui suoi errori, lasciando poi alla ragione di
rendersi conto di essi, cosi è il magistero della chiesa che indica quale
è il vero bene da conseguire, anche se poi spetta all'ambito propria-
mente politico di elaborare in sede propria la via che ad essb conduce.
Due sono, in conclusione, i caratteri salienti della dottrina tomista:
lo sviluppo autonomo della ricerca filosofica pur concluso in un risul-
tato di concordanza nei rapporti tra fede e ragione e un chiaro indirizzo
realistico e naturalistico nella visione del mondo. Circa il primo punto
Tommaso avverte con gli averroisti l'importanza dell'indagine razionale
autonoma, anche se, contro il metodo da essi seguito, ritiene che la
-ragione naturale concordi con i dogmi della fede e compie ogni sforzo
in tale direzione; quanto alla visione del mondo, Tommaso introduce
nel pensiero cristiano un atteggiamento antitetico a quello della tradi-
zione platonico - agostiniana; gli esponenti di quest'ultima non possono
che condannare una visione della realtà che, a loro avviso, allontana
Dio dall'uomo e dal mondo e prospetta la fede solo come termine inte-
grativo d'una natura in se stessa sussistente e determinata.
Gli avversari della dottrina di Tommaso cl' Aquino sono molti già
nella seconda me.tà del secolo xm; fra di essi si possono ricordare in parti-
colare: Enrico di Gand maestro secolare a Parigi nel 1277, Matteo
d'Acquasparta generale dci francescani nel 1287, Giovanni Peckam che
compie gli studi di teologia a Parigi e muore nel 1292, Pier Giovanni
Olivi capo dei francescani spirituali morto nel 1298; gli oppositori di
Tommaso appartengono sia all'università di Parigi che a quella di
Oxford, all'ordine dci francescani come a quello dei domenicani (tra
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§ 6 IL NATUll.ALISMOj L' ETICA ! LA POLITICA
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. IX
JIO
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IIGIERI DI BllABANTB
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XX
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s8 JlUGGEJlO llACONE
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XX
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IL RINNOVAMENTO RELIGIOSO
corrompersi delle cause e degli effetti; in essa manca quindi. quella ne-
cessità che si ha invece nella matematica. Anche la metafisica può gio-
varsi solo di dimostrazioni che risalgono dagli effetti alle cause e non am-
mette quindi dimostrazioni a priori; insomma « soltanto nella mate-
matica ci sono dimostrazioni nel vero senso della parola e quindi solo
nell'ambito e in virru della matematica l'uomo può giungere alla ve-
rità ». Appunto per questo bisogna usare, se possibile, nelle altre scien-
ze, le esperienze delle figure e dei numeri, mediante le quali « tutto
può essere verificato». L'ottica che occupa per Bacone un posto emi-
nente fra le scienze fondamentali, è la scienza della vista che « ci mostra
tutta la varietà delle cose »; la sua forza sta appunto nel fatto che, in
essa, « quasi ad ogni passo occorre servirsi di linee, di angoli e di fi-
gure geometriche». Quarta nell'ordine viene la scienza sperimentale,
della quale Bacone fa una disciplina a sè: «Essa è l'unica scienza in
grado di conoscere perfettamente, mediante la prova dei fatti, quello
che può avvenire naturalmente e quello che si può fare artificialmente »;
essa «mette alla prova dei fatti le conclusioni delle altre scienze» e svi-
luppa la conoscenza degli avvenimenti passati, presenti e. futuri. La
quinta delle scienze-chiave è quella che Bacone chiama filosofia morale;
essa tratta «di quel che è necessario per la vita terrena e per la vita
eterna »; infatti « le altre scienze, sebbéne alcune siano ordinate al-
i' agire, si dice che sono teoriche, per il fatto che si occupano delle opere
dell'arte e della natura, non delle azioni, ed indagano la verità delle
cose e delle realizzazioni scientifiche, che appartengono all'intelletto spe-
culativo »; invece l:;i filosofia morale si occupa di ciò che è di compe-
tenza dell'intelletto pratico, «cioè dell'agire umano in quanto buono
o cattivo».
Il fine religioso presiede a tutto lo sviluppo della scienza che trova
coronamento in una scienza dei fini che disciplina l'intero sapere uma-
no. t alla luce di queste vedute che Bacone critica aspramente i vari
indirizzi culturali del suo tempo. Ad Alessandro di Hales rimprovera
l'ignoranza delle scienze naturali « nelle quali è riposta tutta la glo-
ria dei moderni »; critica Alberto Magno perché « ignora le lingue, non
conosce l'ottica, non sa nulla di interessante nel campo delle scienze»;
critica la formazione che si impartisce nei conventi, perché i giovani
che vi vengono cresciuti « non conoscono né se stessi, né il mondo »
315
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO Xlii CAP. XX
116
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§ IO RAIMONDO LULLO
efficace ed unitario. L'unità del metodo è fornita dalla fede che ispira
tutto il mondo della conoscenza e della scienza. Se, però, da un lato
senza la luce della fede è impossibile avere la conoscenza adeguata
del mondo creato, dall'altro bisogna che la prospettiva della fede trovi
il piu pieno sviluppo in una sistematica conoscitiva rigorosa che possa
valere per tutti gli uomini e che possa condurli tutti alla stessa salvezza.
Il mondo è come il libro nel quale l'uomo trova la manifestazione della
realtà che lo trascende; esso è imitazione di un ordine superiore al
quale rinvia; tutta l'azione che l'intelletto umano conduce per conoscere
il mondo acquista il valore di una adeguazione ad un modello eterno;
perciò da un lato la ricerca della verità diviene senz'altro ricerca di bio,
dal!' altro la ricerca di Dio si configura come ricerca del!' ordine reale del
mondo. L'ars magna di cui Lullo esalta l'importanza è «una scienza
generale per tutte le scienze, tale che, nei suoi principii generali, siano
contenuti i principii di tutte le scienze particolari, cosi come il particolare
è contenuto nell'universale ». Lullo ritiene che ogni proposizione si possa
risolvere nei termini di cui risulta; ed i termini, che già non siano sem-
plici, si possono risolvere nei termini semplici di cui sono composti;
ora, se si riuscisse a fare un elenco completo di tutti i termini semplici,
sarebbe possibile ottenere, combinandoli insie·me in tutte le maniere
possibili, tutte le verità possibili. Lullo non è però alla ricerca soltanto
degli elementi primi e semplici di una lingua universale; i termini che
egli ricerca sono gli elementi primi della realtà e del pensiero ad Ù.n
tempo; i termini sono perciò i principii reali e tutti gli esseri sono im-
pliciti in essi o risultano dalla loro combinazione. La struttura ddla
realtà, per quanto complessa, si può insomma ridurre ad una combi-
nazione di elementi semplici; una volta che questi siano individuati,
è per mezzo del calcolo che si potrà giungere a scoprire tutti i segreti
della natura. I termini semplici del reale sono, secondo Lullo, evidenti
per se stessi e quindi noti a tutti, senza contrasti e contestazioni; la loro
conoscenza diviene allora la chiave universale per intendere la realtà.
L'intera enciclopedia delle scienze si può cosi ridurre ad unità e si
può svolgere in base al calcolo matematico. Questo calcolo, per l'evi-
denza dei suoi fondamenti, vale tanto per il cristiano che per gli in-
fedeli; ed anche il contenuto della fede può essere presentato con tale
rigore logico da renderne necessaria l'accettazione da parte di chiun-
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XX
Nella seconda metà del secolo xm, gli sviluppi delle scienze risultano,
almeno in parte, strettamente legati ai dibattiti filosofici piu generali; ciò
va detto in particolare per Ruggero Bacone e per Raimondo Lullo, oltre
che per altri minori. È vero che si diffonde, in questo periodo, anche
l'astrologia e che ·spesso le conoscenze scientifiche sono ripetizioni di
motivi e dottrine tradizionali; ma in Occidente si compiono anche notevoli
passi verso una sistemazione piu rigorosa di parecchi settori dell'indagine
scientifica. I piu noti astrologi del tempo sono degli italiani: Gherardo da
Sabbioncta, Bartolomeo da Parma e Guido Bonatti di ForH; ma, accanto
all'astrologia, viene· coltivata anche l'astronomia; a questo proposito, si de-
linea anzi un contrasto abbastanza vivo fra le teorie astronomiche di To-
lomeo e quelle di Aristotele e si tende a sostituire al sistema tolemaico di
epicicli e di eccentrici, il sistema aristotelico delle sfere omocentriche, sia
pure con delle correzioni; lo strumento principale di questa rivolta contro
il sistema tolemaico è la dottrina astronomica dell'arabo-ispano Alpctragio,
in cui si muovono critiche a Tolomeo facendo appello al principio applicato
da Aristotele, secondo il quale dall'unico movente che è il primo cielo deve
derivare un unico movimento anche nelle sfere; in verità, l'opposizione anti·
tolemaica di questo periodo è ispirata piu da motivi astratti che da ricerche
astronomiche effettive; essa è collegata alla rinascita aristotelica dell'Occi-
dente e ben presto viene arginata da un ritorno quasi generale cd incon-
trastato al sistema tolemaico. Nel campo della matematica, il primato è de-
gli Arabi, anche se va ricordata la nuova traduzione latina con commento
degli lj:lementi di Euclide curata da Giovanni Campano da Novara. Piu am-
pi sviluppi avvengono nell'ottica, anche in relazione al primo use> delle lenti
che probabilmente ebbe un avvio, per quanto imperfetto, nell'Italia setten-
trionale verso la fine dcl secolo; la trattazione teorica relativa trac i primi
spunti dagli scritti arabi in argomento, ai quali si vengono tuttavia ag-
giungendo osservazioni e teorie nuove; il trattato sulla prospettiva di Witclo,
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§ II LO SViLUPPO DELLB SCIENZB
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XX
vacità lo studio della medicina viene coltivato a Bologna, sia per l'influsso
della locale scuola giuridica che spinge anche la medicina a formulare con
criteri logici piu rigorosi le sue proposizioni, sia per il probabile inizio che
ivi ha la dissezione dei cadaveri con Taddeo Alderotti; per questa via infatti
ci si mette in condizione di accrescere con osservazioni dirette le conoscenze
attinte dai libri degli antichi. Se si aggiunge che in questo periodo assume
notevole importanza anche la trattazione della politica, soprattutto sotto
l'influsso della corrispondente opera aristotelica e che la filologia trac in-
cremento specialmente dalla maggiore diffusione cd organizzazione dello
studio delle lingue, si potrà avere un'idea abbastanza completa delle dire-
zioni di ricerca della scienza del tempo. Essa è attraversata da un nuovo
impulso di conquista che, se ha radici schiettamente religiose, produce già
i suoi primi effetti sul terreno della tecnica e dello sviluppo civile e sociale.
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CAPITOLQ XXI
1. Il periodo.
La prima metà del secolo xiv si inizia con il tentativo di papa Bonifa-
1io VIII di ridurre all'obbedienza il re di Francia; la battaglia per la teo-
crazia trova la sua giustificazione nella bolla Unam sanctam in cui si legge~
«La spada spirituale e la spada materiale sono l'una e l'altra nella potestà
della chiesa; la spada materiale deve essere impiegata per la chiesa, mentre
quella spirituale dev'essere usata dalla chiesa; questa è nella mano del sa-
cerdote, quella nella mano del re e dei guerrieri, ma sotto la direzione
del sacerdote; se dunque la potestà terrena fuorvia, essa sarà giudicata 4alla
potestà spirituale; perciò chiunque resiste alla potestà spirituale, resiste al-
l'ordine medesimo di Dio». Ma col fallimento della politica di Bonifacio
VIII il potere universale della chiesa volge inesorabilmente al declino men-
tre si va ormai diffondendo, anche all'interno dell'organismo ecclesiastico,
l'esigenza di smantellare il potere accentrato del papa anche in campo reli-
gioso, a vantaggio di un governo collegiale dei vescovi; pochi anni dopo la
morte di Bonifacio VIII ha inizio ad Avignone l'asservimento del papato alla
politica francese; la chiesa passa cos( dal sogno teocratico alla soggezione
reale. L'altro potere universale del Medioevo, quello imperiale, subisce ana-
logo declino; dopo l'estremo tentativo di Enrico VII di conservare all'impe-
ro un effettivo ambito europeo, la corona imperiale si lega sempre piu ad
un territorio delimitato e ad una particolare dinastia. Al posto dei due po-
teri universali del Medioevo sottentrano, con strutture sempre piu valide,
gli Stati indipendenti, all'interno dci quali giunge a piena esplicazione
la nuova classe sociale dei mercanti; matura cosi l'età pre-capitalistica; la
ascesa della borghesia è alle sue prime manifestazioni, ma già abbozza i
principali strumenti del suo controllo sulla politica degli Stati nazionali.
La cultura è ancora, in gran parte, ecclesiastica; ma essa è attraversata da
contrasti profondi, mentre comincia a svolgersi al suo fianco una cultura
laica che sfugge sempre piu apertamente al controllo religioso.
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIV CAP. XXJ
La filosofia della prima metà dcl secolo xiv è tutta dominata da un con-
cetto rigoroso della stessa filosofia come scienza, concetto che deriva in mas-
sima parte dall'approfondimento delle dottrine aristoteliche; prevale allora
la convinzione che non si possa a proprio piacere estendere il ragionamento
filosofico fino alla dimostrazione delle piu importanti verità di fede; queste
ultime vengono accolte non già in forza del loro fondamento razionale, ma
in quanto basate esclusivamente su un atteggiamento di fede nella ri-
velazione di Dio; cosf la fede accentua la sua indipendenza dall'aristo-
telismo, e la h.losofia viene individuando i confini e i limiti della propria
validità; con intenti e caratterizzazioni diverse, giungono a tale conclu-
sione i due maggiori pensatori dell'epoca, Duns Scoto e Guglic:lmo d'Occam;
è quasi lo spirito dell'averroismo che viene cosf trasferito all'interno della
stessa problematica religiosa e nella considerazione dci rapporti fra filo-
sofia e fede, da parte degli stessi teologi.
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§ 2 DUNS SCOTQ: FEDE E RAGION.E
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIV CAP. XXI
bisogna dar credito non alle verità contingenti che possono essere altri-
menti da come appaiono, ma solo alle verità necessarie, che non possono
essere diversamente.
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§ 3 LA FONDAZIONE DELLA CONOSCENZA NECESSARIA
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.LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIV CAP. XXI
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s4 LA METAFISICA
5. Dante Alighieri.
Dante Alighieri (1265-1321) dev'essere qui ricordato non tanto per-
che egli si possa considerare come un pensatore sistematico ed originale,
quanto perché ha contribuito a rielaborare, nelle sue opere erudite e
poetiche, alcuni dei temi piu rilevanti della cultura filosofica del suo
tempo; il primo interesse per gli studi filosofici risale in lui agli anni
1293-'94, ma solo nel primo quindicennio del secolo esso giunge a piena
J2'l
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIV CAP. XXI
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§ 6 ECKHART
6. Eckhart.
Sei anni dopo la morte di Dante, nel 1327, a Colonia moriva il frate
domenicano Giovanni Eckhart; un anno prima gli era stato intentato
un processo per alcune sue dottrine ritenute ereticali; egli aveva ricoperto
importanti funzioni nell'organizzazione del suo ordine e nel 1311 aveva
anche insegnato all'università di Parigi. Con lui e con alcuni suoi sco-
lari giunge a maturazione una dottrina che aveva avuto il suo iniziatore
in Alberto Magno; il suo neo-platonismo aveva tratto ispirazione anche
dagli scritti di Dionigi pseudo-Areopagita e dal Liber de causis che è un
estratto degli scritti di Proclo. Nel 1268 Guglielmo di Moerbeke aveva
tradotto in latino anche la Elementatio theologica di Proclo, oltre ai
suoi commenti del Timeo e del Parmenide di Platone; proprio nella
scuola di Colonia, questi testi neo-platonici furono ampiamente studiati.
Nei molti scritti, prediche e discorsi di Giovanni Eckhart vengono ap-
punto teorizzati j temi familiari a Dionigi pseudo-Areopagita ed a Scoto
Eriugena; Giovanni insiste infatti sull'assoluta trascendenza di Dio a
tutto l'essere; d'altra parte la realtà finita e in particolare l'uomo, se si
considerano in rapporto all'infinita perfezione divina, sono piu non-essere
che essere; posti i due poli dell'infinita trascendenza divina e della nul-
lità dell'uomo, si può esplicare quel processo di elevazione dell'uomo a
Dio che era stato teorizzato da Plotino; qui Giovanni, partendo dalla dot-
trina agostiniana dell'interiorità, fa dell'anima una sorta di principio di-
vino in noi; c'è nell'anima, egli scrive, «qualche cosa che è increato
cd increabile »; in forza di ciò, l'anima non esce mai dalla realtà di-
vina, nella quale perpetuamente dimora; cosr l'uomo giusto, per mezzo
dell'anima, fa tutt'uno con Dio ed il suo operare diviene quasi l'operare
stesso di Dio. A tutte le pratiche del culto cd agli atteggiamenti este-
riori Giovanni guarda con molto distacco, in quanto tutto ciò è se-
condario rispetto all'unione intima con Dio. La dottrina di Eckhart
è un misticismo speculativo, che unisce ad un profondo misticismo reli-
gioso un'ampia utilizzazione della dialettica neo-platonica e dei suoi
concetti; sicché l'unione con Dio non è solo profondamente sentita, ma
è teorizzata minutamente in tutti i suoi aspetti. Da tale speculazione,
svolta anche dopo la morte di Giovanni da alcuni dei suoi scolari,
la vita religiosa tradizionale ha tratto forte incentivo a sciogliersi dalla
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIV CAP. XXI
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§ 7 GIOVANNI DI JANDUN E MARSILIO DA PADOVA
della chiesa. Nello stato il potere spetta, secondo Marsilio, alla comu-
nità che lo esercita per mezzo dei suoi rappresentanti; ma ciò che piu
importa è la distinzione che bisogna porre fra le leggi dettate dalla CO·
munità per la vita collettiva e le leggi divine; queste ultime hanno san-
zione solo nella vita futura e concernono solo la coscienza dell'individuo;
ma non hanno rilievo giuridico positivo, al pari delle leggi di natura;
il fine dello stato non è quello di condurre gli uomini alla salvezza
religiosa, ma quello di assicurare loro la migliore vita sulla terra. Men-
tre la salvezza religiosa è questione di un rapporto particolare fra la co-
scienza dell'individuo e Dio, gli aspetti organizzativi della vita religiosa
r:~ntrano nella disciplina positiva della vita collettiva; di qui la necessità
di un'amministrazione civile degli affari religiosi che riconduca lo stes-
so sacerdozio nell'ambito di un organismo tecnico a servizio dell'ordina-
mento civile dello stato che è, nel suo ambito, del tutto indipendente.
Quella netta distinzione della filosofia e della fede che l'averroismo aveva
propugnato come principio generale trova cosi in MarsiHo da Padova
una concreta applicazione sul terreno politico; la sfera religiosa e la sfera
politica debbono rimanere distinte; viene cosi colpita la concezione teo-
cratica che si sforza di far valere la propria funzione religiosa direttamen-
te sul terreno dell'ordinamento politico degli stati.
JJI
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIV CAP. XXI
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§ 8 GUGLIELMO D'OCCAM: LA LOGICA
zione per cui essi denotano qualche cosa di reale; per es., nella propo-
sizione « uomo è una parola » il termine "uomo " si riferisce non già
agli uomini individui reali (che non sono parole), ma alla stessa realtà
materiale della parola "uomo"; invece nella proposizione «l'uomo cor-
re », il termine " uomo " denota i singoli individui uomini; infatti so-
no essi che corrono e non la parola "uomo" o il concetto "uomo"; in-
fine nella proposizione «l'uomo è una specie», il termine "uomo" non
denota né la realtà materiale della parola (la quale, infatti, non è una
specie, ma un suono parlato o scritto), né i singoli uomini, di ciascuno
dei quali non si può dire che sia una specie; qui il termine denota in-
vece UQ concetto, giacché solo dei concetti si può dire che sono specie
o generi. Fuori di noi non ci sono che esseri individui; quando, per
denotarli, ci serviamo di un concetto confuso, che appunto perché con-
fuso non ci consente una chiara denotazione di nessun individuo determi-
nato, abbiamo quei termini mentali che si dicono universali. Bisogna
però non confondere i concetti confusi con le cose e non attribuire quin-
di realtà esterna ai concetti confusi, i quali, fuori di noi, non han-
no altro equivalente che gli individui particolari; i concetti confusi
sono strumenti con cui conosciamo le cose, non già delle. cose. L'er-
rore piu diffuso fra i filosofi, secondo Occam, è proprio quello che li
porta ad attribuire realtà ai concetti confusi, come se essi fossero im-
magini di oggetti esterni, altrettanto confusi; invece le "res" sono sem-
pre chiare, perché individue; ed i concetti universali di genere e specie
non hanno altro equivalente che gli individui. Quando dunque diciamo
«Socrate è uomo» non indichiamo niente di reale all'infuori di Socrate;
non esiste infatti un'essenza umana distinta da lui; né quindi la pro-
posizione può denotarla; l'unica cosa in piu dell'individuo che quella
proposizione significa è che noi concepiamo quell'individuo in maniera
confusa; ma la nostra maniera confusa di concepire un individuo non
è da confondere né con l'individuo, né con un suo elemento. I termini
universali, i generi e le specie hanno dunque la caratteristica di potersi
predicare di molti individui; cos{ diciamo appunto «Socrate è uomo»,
«Platone è uomo», «Cesare è uomo»; ma i tre individui in questione
restano ognuno quella re.r individua che ciascuno di essi è. I concetti,
universali o particolari, sono soltanto " termini ", sono cioè con la realtà
in un rapporto che non è di rispecchiamento reale, ma solo di corri-
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIV CAP. XXI
spondenza funzionale; i concetti sono del tutto esterni alle cose, sono
segni il cui raccordo con le cose non comporta alcuna confusione fra
la loro realtà e quella delle cose; insomma i concetti non rivelano l'es-
senza delle cose, ma sono piuttosto quasi simboli sui quali poggia un
calcolo indipendente dalla realtà. Le essenze vanno quindi eliminate dal
mondo della realtà e ridotte a funzioni mentali.
Al pari delle essenze vanno eliminate dalla realtà ·altre entità su-
perflue che hanno origine dall'indebito conferimento di portata reale
ad operazioni mentali; la relazione, per es., non è una realtà distinta
da quella dei suoi fondamenti; per es., la somiglianza di Socrate con
Platone « non importa altro se non che sia bianco Socrate come anche
Platone, oppure che l'uno e l'altro sia nero, oppure che possiedano qua-
lità dello stesso genere; chi conosce Socrate e Platone ed il loro essere.
bianchi non ha bisogno di conoscere altro per dire che Socrate somiglia
a Platone». Con quest'analisi Occam elimina dalla realtà tutto il mon-
do delle essenze, guidato in ciò in parte dalla dottrina aristotelica del-
l'individualità ed in parte da quell'esperienza dell'individualità che ha
le sue radici nel misticismo francescano.
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§ 9 LA CONOSCENZA UMANA E I SUOI LIMITI
335
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIV CAP, XXI
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§ IO LA SOLUZIONE FIDEISTICA DI OCCAM
337
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIV CAP. XXI
tere papale, secondo Occam, sia « i diritti legittimi degli imperatori, dei
re e di tutti gli altri fedeli ed infedeli, diritti che il papa non può scon-
volgere e diminuire senza una ragione e senza colpa », sia « le libertà
che Dio e la natura hanno concesso agli uomini»; in particolare Occam.
sostiene che l'organizzazione politica e civile è autonoma rispetto alla
chiesa e che l'autorità imperiale non dipende dal papa; anche qui si ri-
trova a base del suo atteggiamento, una considerazione religiosa, quella
per cui « i possessi e i oiritti secolari vanno annoverati fra i beni di piu
bassa qualità, tali che uno può usarne anche male e può vivere bene an-
che facendone a meno » ; le cose " mortali " non vanno confuse con le
cose "celesti"; come è l'insufficienza della conoscenza umana che ne
fa un campo autonomo rispetto alla fede, cosr è la natura materiale del-
la vita politica e civile che ne fa un ambito indipendente rispetto
alla vita religiosa; e come l'autonomia della conoscenza naturale confe-
risce maggiore libertà alla fede, cosr l'autonomia del potere temporale
conferisce maggiore libertà e spiritualità alla chiesa.
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§ li IL MOVIMENTO OCCAMISTA E BURIDANO
319
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIV CAP. XXI
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§ 12 LO SVILUPPO DELLE SCIENZE
stesa fra il 1310 ed il 1312; ad esse si può aggiungere l'opera storica e, gene-
ralmente, di cultura già orientata in senso umanistico, di Albertino Mus-
sato, morto nel 1329, e del vicentino Ferreto, morto otto anni dopo; anche
la figura di Cola di Rienzo (1313-1354), per la sua mentalità umanistica,
è indicativa dell'evoluzione culturale che si viene preparando. Fra i cultori
del diritto, Cino da Pistoia (1270-1337) inizia un indirizzo nuovo, con ten-
denze piu filosofiche rispetto a quelle dei glossatori della scuola bolognese
e con un atteggiamento apertamente polemico nei confronti dei canonisti,
in difesa dcl potere civile contro quello ecclesiastito. Gli sviluppi della
cultura scientifica presso gli Arabi e gli Ebrei non sono trascurabili; ma
l'unico nome che emerge nella prima metà del secolo xiv è quello del-
l'ebreo provenzale Levi ben Gerson, vissuto fra il 1238 e il 1344, autore
di un manuale di calcolo e di un importante commento agli Elementi
di Euclide; con Levi ben Gerson si afferma la trattazione teorica della
matematica e della geometria; egli ferma particolarmente la sua atten-
zione, infatti, sul procedimento metodico di Euclide, di cui cerca di
rendere piu rigorosa la assiomatica.
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CAPITOLO ltXII
1. Il periodo.
La seconda metà del secolo xiv è sotto il segno da un lato dell'avan·
zata dei Turchi verso i Balcani e dall'altro dello scisma di Occidente che
mette a dura prova l'unità religiosa europea. Verso la fine del secolo
l'avanzata turca subisce un arresto momentaneo, dopo il quale riprende
l'azione che porterà, cinquant'anni piu tardi, alla fine dell'impero bizan-
tino. Dallo scisma di Occidente nasce il problema di una riforma della
chiesa che ne impedisca l'eccessiva mondanizzazione e che la riporti piu
vicina alla sua funzione schiettamente religiosa e spirituale. L'universalità
politica della chiesa viene ormai avversata sia dall'esterno che dall'interno;
.gli sforzi di coloro che vogliono liberare la chiesa e la vita religiosa dalle
troppo pesanti ipoteche della temporalità si incontrano con gli sforzi di
coloro che rivendicano agli stati cd ai principati la piu completa auto-
nomia politica.
La fine del Medioevo, per la storia della filosofia, coincide appunto
con la crisi dell'universalismo politico della chiesa che si accompagna al
tramonto del carattere ecclesiastico della cultura e all'autonomia della
ricerca filosofica dai presupposti della fede. Certamente i nuovi caratteri
del pensiero non emergono istantaneamente nella storia, come i caratteri
dcl pensiero medievale non scompaiono istantaneamente; il mutamento si
realizza attraverso un periodo abbastanza lungo nel quale gli elementi
del mondo medioevale e quelli dcl mondo moderno si intrecciano e si
combattono. Comunque nella seconda metà del Trecento già cominciano
ad affermarsi indirizzi di pensiero che si muovono fuori della tematica
filosofica scolastica; si hanno, già in questo periodo, con Petrarca e con
C..oluccio Salutati, i segni di una nuova cultura umanistica e laica, che
si considera in polemica con la tradizione scolastica; il ricupero dcl mondo
classico, al di là dello scolasticismo medievale, è lo strumento della nuova
cultura, l'arma polemica dcl distacco fra il vecchio ed il nuovo pensiero.
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§ I IL PERIODO
2. Petrarca.
Nel Petrarca che, pur essendo nato nel 1304, compone alcuni dei suoi
scritti piu significativi dopo la metà del secolo (come il De sui ipsius et
multorum ignorantia che è del 1367, il De vita solitaria che è del 1346-56
ed il De remediis utriusque fortunae che è del 1354-66) e muore nel 1374,
si debbono qui considerare soprattutto due punti: il lìUO umanesimo cd il
suo atteggiamento polemico nei confronti dell'aristotelismo e del natu-
ralismo del suo tempo. L'umanesimo del Petrarca è un ritorno alla clas-
sicità che scaturisce da un profondo senso di distacco e di avversione
culturali rispetto al proprio tempo: « Io attesi unicamente nei molti miei
studi, scrive, alla conoscenza dell'antichità, poiché questa età mia sem-
pre mi dispiacque; cosi che se l'amor dc' miei piu cari non avesse creato
una contraria voglia in me, sempre io avrei tolto d'esser nato in ogni
altra età, che in questa; cd ora, di questa dimenticandomi, vorrei con
l'animo continuamente affisarmi nell'arte». L'avversione culturale dcl
Petrarca per il proprio tempo nasce soprattutto dal clima naturalistico di
derivazione aristotelico-averroistica che egli vede affermarsi ovunque nel
campo degli studi e dal dilagare di uno scolasticismo divenuto maniera
e privo di originalità; il Petrarca rivive anche la problematica religiosa
con un vivo senso dell'interiorità umana e pertanto dell'originalità spiri-
tuale. Egli guarda con diffidenza a coloro che cercano di studiare la na-
tura e dimenticano di considerare se stessi e la propria vita. Aristotelici,
medici, averroisti, osserva ironicamente il Petrarca, « molte cose sanno
delle belve, degli uccelli e dei pesci, e ben conoscono quanti crini il '
leone abbia sul capo, e quante penne nella coda lo sparviero e con quante
spire il polipo avvolga il naufrago»; ora, «codeste cose, in gran parte, o
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIV CAP. Xl.H
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LO SVILUPPO DELLA SCUOLA DI BUllIDANO
345
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIV CAP. xxn
4. Giovanni Wyclef.
Giovanni Wyclef, nato nel 1320 e morto nel 1384, studia ad Oxford
e vi insegna teologia. Egli professa il determinismo teologico, cioè la dot-
trina secondo la quale la volontà di Dio agisce in modo cosi diretto
nelle operazioni degli uomini da realizzare una loro sudditanza asso-
! uta e totale rispetto all'iniziativa divina. Le prospettive filosofiche piu
generali di W yclef riecheggiano il metodo di Duns Scoto ed un certo
realismo delle essenze. L'aspetto piu noto del pensiero di Wyclef è quel-
lo politico-religioso, che lo mise a capo di un vasto movimento di ribel-
lione alla chiesa; dalle discussioni sollevate dai contrasti fra il papato
e la corona ingle~e per motivi di competenze giurisdizionali e fiscali, egli
passa ad una battaglia aperta contro la chiesa in cui si inseriscono attiva.
mente le opere scritte nel decennio fra il 1374 e il 1384; le principali sono:
De dominio divino, De civili dominio, De officio regis, De potestate
papae. Wyclef sostiene che la chiesa è la comunità dei predestinati e non
ha altro capo all'infuori di Cristo; il papa non può pretendere di esser
capo di tale comunità; la vera chiesa, a suo giudizio, non soltanto sfugge
all'ordine temporale, il quale la degrada, ma sfugge anche alle strutture
organizzative esteriori, che non la possono esprimere; ogni uomo, con-
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§ 4 GIOVANNI WYCLEP
5. Coluccio Salutati.
Le posizioni umanistiche del Petrarca vengono riprese e sviluppate
sul finire del secolo da Coluccio Salutati, vissuto fra il 1331 ed il 1406.
Gli scritti piu importanti del cancelliere della signoria di Firenze sono:
il De fato fortuna et casu ed il De nobilitate legum et medicinae, Gli
studi di retorica compiuti da Salutati lo portano a considerare con par:
ticolare attenzione i problemi del linguaggio che egli non riduce co-
munque a pure questioni formali, in quanto vede nel linguaggio lo stru-
mento mediante il quale l'uomo stringe rapporti con gli altri uomini e
costruisce una vita collettiva organica e culturalmente significativa. An-
che il Salutati, come Petrarca, si richiama ad Agostino, che egli inter-
preta alla luce del volontarismo di Duns Scoto; per questo celebra spe-
cialmente la vita attiva dell'uomo, mentre mette in chiaro che l'intel-
letto è soltanto uno strumento della volontà, in quanto intende quello
che la volontà realizza in forme concrete; proprio per il suo continuo
insistere sulla volontà e sull'agire, il Salutati viene attaccato da alcuni
scolastici che, secondo la tradizione domenicana e specialmente tomi-
stica, non intendevano in alcun modo «anteporre la volontà cd i suoi
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LA SECONDA METÀ DEL SEGOLO XIV CAP. XXII
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§ 6 LO SVILUPPO DELLE SCIENZB
i49
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NOTA BIBLIOGRAFICA
Per il lettore che voglia allargare le sue conoscenze di storia della filosotia
antica e medievale, diamo le seguenti indicazioni bibliografiche essenziali:
351
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NOTA BIBLIOGRAFICA
,111 nwvrn-dge, Paris 1974 2 (trad. ital. Firenze 1973); E. BREHIER, La philosophie
du moye11-dge, Paris 1937 ( trad. ital. Torino 1952); C. VASOLI, La filosofia
medievale, Milano 1961; F. CORVINO - M. T. FUMAGALLI - T. GREGORY - F.
ALESSIO, La filosofia medievale, voli. V e VI della Storia della filosofia. a cura
di M. Dal Pra, Milano. 1976;
b) opere su aspetti particolari della storia della filosofia medievale: R. W.
e A. J. CARLYLE, A History of Mediaeval Politica/ Theory in the West, 6 volumi,
Edinburgh 1950 3 (trad. ital. in 3 volumi, Bari 19J_6_ sgg.); A. C. ÙOMBIE, Da
S. Agostino a Galileo: Storia della scienza dal V al XVII m:olo, ttad. ital. Milano
~970; ~- GRABMANN, Geschichte der katolischen Theologie, Freiburg 1933 (ttad.
1tal. Milano 1937);
e) scorie della filosofia medievale con scelta di testi: N. ABBAGNANO, Antologia
filosofica: II, La filosofia medievale, Bari 1963;
d) opere particolari: G. VAJDA, Introduction à la pensée iuive du moyen-
dge, Paris 1947; L. GAUTHIER, Introdui:tion à. l'étttde de la philosophie mu-
sulmane, Paris 1923; K. BARTH, Fides quaerens intellectum, Miinchen 1931;
E. ·GILSOI', Hélolie et Abélqrd, Paris 1938 (trad. ital. Torino 1950); L. GAUTHIER,
Avl'rroès, Paris 1948; E. GILSON, Introduction à la philosophie de saint Thomas,
Paris 1948; PH. BoEHNER, Mediaeval Logie, Chicago 1952; F. VAN SrEENBERGHEN,
Sigèr de Brabant d'après ses reuvres inédites, 2 volumi, Miinchen 1931-42;
A. CROMBIE, Grosseteste and the Origins of experimental Science, Oxford 1935;
E. GILSON, Duns Scot, Paris 1952; E. MoonY, The Logie of Occam, London 1935;
L. BAUDRY, Occam, voi. I, Paris 1950;
e) antologia della storiografia filosofica: P. Rossr, Antologia della critica filo-
sofica: II, Medioevo e Rinascimento, Bari 1964.
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INDICE DEI NOMI
JSJ
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INDICE DEI NOMI
J!U
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INDICB DEI NOMI
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INDICE DEI NOMI
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INDICE
Introduzione .• • • . . • . . . . . • • . • • • • . • p. VII
1. La filosofia. - 2. I problemi filosofici. - 3. La storia della filosofia.
PARTE PlllMA
LA FILOSOFIA ANTICA
CAPITOLO I. Il secolo VI a. C. La scuola di Mileto. Pitagora. Senofane • 3
1. Le origini e il mito. - 2. Il periodo. - 3. La scuola di Mileto. - 4. Pita-
gora. - 5. Senofane. - 6. Lo sviluppo dclie scienze.
CAPITOLO II. La prima metà del secolo V. Eraclito. Parmenide e Zenone.
Empedocle. Anassa:;ora . . . . . . . . . . . 15
1. Il periodo. - 2. Eracl~to. - 3. Parmenide. - 4. Zenone. - 5. Empcdocle. -
6. Anassagora. - 7. Lo sviluppo delle scienze.
CAPITOLO III. La seconda metà del secolo V. I Sofisti e Socrate. Demo-
crito . . . . . . . . . . . . . . • . . . . . . . •
I. Il periodo. - 2. Svilu :-pi dcl pitagorismo. - 3. La sofistica. - 4. Protagora. -
5. Gorgia. - 6. Socrate: la vita e la condanna a morte. - 7. Il metodo della
ricerca e la determinazione dell'universale. - 8. Scienza e virtu. - 9. Democrito
e i principii dell'atomismo. - IO. Il sistema atomistico. - u. Lo sviluppo delle
scienze.
CAPITOLO IV. La prima meià del secolo IV. Platone e le scuole socratiche
minori . . . . . . . . . . . . . . . • . · · . · · • 54
1. Il periodo. - 2. Platone: la vita e gli scritti. - 3. L'insegnamento di Socrate
e le sue aporie. - 4. Il primo abbozzo della teoria delle idee. - 5. La critica
della retorica e dell'eristica. - 6. L'amore, la bellezza e il destino dell'anima.
- 7. Educazione, politica e filosofia. - 8. Le difficoltà della dottrina delle
idee. - 9. La trasformazione della dialettica. - 10. L'origine dell'universo e
la formazione del mondo. - II. Conclusioni politiche. - 12. Le scuole socra-
tiche minori. - 13. Lo sviluppo delle scienze.
CAPITOLO V. La seconda metà del secolo IV. Aristotele. Pi"one e lo
scetticismo
1. Il periodo. - 2. Aristotele: la vita e gli scritti. - 3. La logica. - 4. La
fisica. _ 5. La vita, l'anima e la conoscenza. - 6. La metafisica. - 7. L'etica. -
8. La politica. - 9. La poetica. - IO. Pirrone e lo scetticismo. - 11. Lo sviluppo
delle scienze.
357
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INDICB
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INDICI
PARTE SECONDA
LA FILOSOFIA MEDIEVALE
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INDICE
CAPITOLO XXI. La prima metà del secolo XIV. Da Duns Scolo a Gu-
glielmo d"Occam . . . , . . . . . . . . . . . . . . . 321
1. Il periodo. - 2. Giovanni Duns Scoto: fede e ragione. - 3. La fondazione
della conoscenza necessaria. - 4. La metafisica rigorosa di Duns Scoto. •
5. Dante Alighieri. - 6. Eckhart. • 7. Giovanni di Jandun e Marsilio da
Padova. - 8. Guglielmo d'Occam; la logica. - 9. La conoscenza umana e i
suoi limiti. - 10. La soluzione fideistica di Occam. - n. Il movimento occa·
mista e Buridano. - 12. Lo sviluppo delle scienze.
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