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SOMMARIO

DI STORIA DELLA FILOSOFIA


MARIO DAL PRA
ORDINARIO DI STORIA DELLA FILOSOFIA NELL'UNIVERSITÀ DI MILANO

SOMMARIO
DI STORIA DELLA FILOSOFIA
PER I LICEI CLASSICI E SCIENTIFICI

Voi. I
LA FILOSOFIA ANTICA E MEDIEVALE

LA NUOVA ITALIA
FIRENZE

Baruch_in_libris
In copertina:
Jan van Eyck, San Girolamo nel suo studio ( 1442).
Detroit, lnstitute of Arts.

©Copyright 1963 by La Nuova Italia Editrice, Scandicci (Firenze)


Printed in ltaly
Stampa: A.L.T., Bagno a Ripoli (Firenze)
l'edizione: marzo 1963
l' ristampa: ottobre 1964
26' ristampa: marzo 1990

ISBN 88-221-0532-X

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INTRODUZIONE

1. La filosofia.

Solo lo studio dell'intero sviluppo della storia della filosofia può dare
un'idea abbastanza determinata, e nello stesso tempo articolata, del signifi-
cato e del contenuto di questa disciplina: esaminando, attraverso la storia,
le varie forme che essa è venuta assumendo, cogliendo, con le sue diversità,
anche i caratteri comuni che ha mantenuto nelle diverse epoche, ci si potrà
fare, certamente, un'idea abbastanza precisa, e fondata, dei suoi caratteri
generali e del suo senso nel campo della cultura. Qui, all'inizio dello studio
della storia della filosofia, bisognerà giovarsi del concetto generale che lo
storico si è fatto della filosofia e proporlo, a titolo di ipotesi, come criterio di
scelta e di ordinamento del vasto materiale storico; con la consapevolezza
che, in ultimo, il concetto della filosofia, a cui ci si richiama, è, nello stesso
tempo, il risultato di un'esplorazione storica, ma anche, la sua premessa, in
. una sorta di circolo, a cui non è possibile sottrarsi. Il risultato di tale circolo
è pertanto il fatto che sia il concetto di filosofia a cui ci si richiama, sia la
storia che se ne svolge hanno un carattere non conclusivo ed assoluto, ma
relativo e perfettibile; possono quindi essere entrambi modificati, in se-
guito a ricerche e ad orientamenti ulteriori o diversi.
Proponiamo dunque una definizione di massima della filosofia che
possa essere tenuta presente ed orientare la successiva esposizione stbrica:
la filosofia è quella forma della conoscenza umana che tende al massimo di
generalità ed al massimo di unificazione. Anzitutto, in tale defo;1izione,
facciamo riferimento ad una forma distinta dell'iniziativa umana, quella
che si chiama conoscenza e si differenzia da altre forme di iniziativa, come,
per esempio, il sentimento o la passione, la stessa azione, la fantasia o
immaginazione. Ciò significa che, nella filosofia, non facciamo appello a
impulsi, a stati d'animo, a slanci o a modi di sentire; nemmeno facciamo
riferimento a quell'iniziativa mediante la quale l'uomo tenta di modificare
la situazione nella quale vive e che riguarda tanto il mondo fisico quanto gli
altri uomini; e infine la conoscenza non può essere confusa con il libero
sfogo dell'immaginazionè, al quale pure l'uomo può fare ricorso in varie
circostanze della sua esistenza. Già nel far cenno alla conoscenza, a quello

VII

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INTRODUZIONE

che essa è ed a quello che non è, facciamo riferimento al mondo dell'uomo e


ad una molteplicità di sue esplicazioni, nel cui ambito riteniamo di poterne
distinguere ed individuare una, appunto la conoscenza, che comprende
elementi della vita mentale organizzati secondo criteri che si possono
consapevolmente controllare e che pensiamo abbiano qualche forma di
rispondenza con quanto oltrepassa le stesse idee e viene solitamente indi-
cato come realtà. Un sentimento di amore o di odio è vissuto immediata-
mente e viene avvertito come una sorta di spinta interna che ci sollecita ed a
volte ci turba; invece una conoscenza sembra comportare una maggiore
mediazione, essere piu indiretta, mirare ad un maggiore distacco da ciò a
cui viene riferita, e, con ciò, anche ad una maggiore rispondenza e ad un
legame piu puntuale col suo oggetto.
Tutte le varie forme dell'iniziativa umana si esplicano o in maniera piu
immediata ed occasionale, oppure in maniera piu continua, piu elaborata,
in cui l'iniziativa dell'uomo si viene organizzando a livelli piu complessi;
nasce cosi un mondo diverso da quello dell'iniziativa nativa ed originaria
dell'uomo e nel quale tuttavia quella iniziativa si viene esplicando e quasi
concretizzando: è il mondo della cultura, del quale fanno parte la scienza
come l'arte, la religione come il diritto, l'organizzazione economica come il
costume. D'altra parte, l'iniziativa umana ha come punto di riferimento
costante un altro mondo, quello che siamo soliti indicare come il mondo
fisico degli oggetti e degli organismi e che diciamo anche «mondo
·esterno»; esso è coinvolto largamente dall'iniziativa dell'uomo, anche se
quest'ultima si volge, in larga parte, in direzione degli altri uomini e dei loro
rapporti, in ordine ai quali si produce buona parte della cultura.
Tornando all'attività conoscitiva dell'uomo, essa assume forme varie e
molteplici; non solo si dà la conoscenza sensibile e quella che viene
chiamata conoscenza intellettiva, la conoscenza, per esempio, del colore
rosso di un garofano e la conoscenza dei rapporti che sono propri di un
triangolo rettangolo; ma si ha anche la conoscenza spicciola della vita
quotidiana, che ha già un suo grado di organizzazione, ma è tuttavia legata
alla varietà ed alla precarietà delle vicende immediate, e si ha una cono-
scenza piu evoluta e piu elaborata che mette capo alla scienza. La scienza è
indubbiamente la forma piu organizzata della conoscenza ed uno dei
prodotti piu tipici e rilevanti della cultura. Non abbiamo qui la pretesa di
determinare con poche parole che cosa sia una scienza, ma ci basta richia-
mare che ogni scienza organizza un ambito particolare di conoscenze,
mentre la filosofia tende a porre delle questiòni conoscitive di carattere piu
generale, le piu generali che sia possibile porre nell'ambito della cono-
scenza. La prima delle scienze che si è organizzata in forma autonoma, la
matematica, ha abbracciato, ad esempio, in forma sempre piu completa ed

VIII

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§ I LA FILOSOFIA

approfondita lo studio della quantità discontinua o numero nell'aritmetica


e della quantità continua o spazio nella geometria; entro questo ambito essa
ha dato ordine alle proprie conoscenze, muovendo da principii e ricavan-
done conseguenze; ha adottato un proprio metodo di dimostrazione, ha
anche affrontato le discussioni intorno alla validità dei propri principii o
punti generali di partenza, criticandoli, modificandoli, correggendoli; nella
sua storia ha anche avuto delle svolte importanti, in cui o parte dei suoi
criteri o alcuni dei suoi contenuti sono stati o abbandonati o aggiunti o
rinnovati. Con tutte queste modificazioni, però, la matematica non ha
cessato di essere una scienza particolare, importante quanto si voglia, ma
limitata allo studio di quel determinato oggetto e quindi ben distinta, per
esempio, da altre scienze, non meno importanti e non meno determinate
nel loro oggetto, come la biologia, o la meccanica ecc.
Ora la filosofia, pur essendo come la scienza un risultato dell'attività
conoscitiva e pur costituendo con essa uno dei prodotti piu tipici della
cultura, si distingue dalla scienza proprio in quanto, mentre questa è
particolare, essa tende alla conoscenza piu generale e piu unificata. Si
potrebbe pensare che la conoscenza umana possa bene esaurire il suo
compito attraverso l'organizzarsi di una molteplicità di scienze particolari,
capaci di coprire tutto il campo di volta in volta accessibile; eppure,
abbastanza regolarmente, nelle varie età, si è venuta affermando, accanto al
sapere scientifico, la filosofia come tentativo di affrontare e di discutere i
problemi di ordine piu generale. Essa non si riferisce né ai risultati di
singole scienze, né alla loro somma; si riferisce, invece, a delle totalità, a
delle unità, a degli orizzonti complessivi. Può, per esempio, riferirsi al
mondo degli oggetti fisici ed organici, a quella che si chiama «natura»; ma
non per studiarne un singolo aspetto particolare, ma per porre questioni
che riguardano il suo insieme, i suoi caratteri, la sua origine ed anche, al suo
interno, i vari settori in cui può distinguersi e le relazioni che corrono tra
loro. Può anche riferirsi al mondo dell'uomo e della sua coscienza e delle
sue attività: ma, anche in questo caso, non per studiarne singoli ambiti
particolari, ma per considerare il suo insieme, la sua totalità, in relazione
alla quale anche le varie forme dell'attività e dell'iniziativa umana prendono
un significato ed una collocazione piu determinate. Qui appare ?n tutta
evidenza che la filosofia, pur essendo conoscenza, prende ad oggetto della
sua ricerca la realtà dell'uomo nel suo insieme, e nelle varie forme di attività
che egli esplica; e cosi indaga anche la stessa conoscenza umana, ma oltre
ad essa studia le altre forme di iniziativa, e pertanto anche il mondo del
sentimento e quello dell'azione e quello della fantasia; e tenta di cogliere i
rapporti che intercorrono tra queste varie forme di attività ed il senso che
ciascuna di esse deriva dall'insieme.

IX

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INTRODUZIONE

È ovvio però che oggetto principale della filosofia sia il mondo della
cultura, cioè i prodotti delle varie attività umane nel loro esercizio piu
stabile ed organico; ma non considerati, ancora una volta, nella loro
particolarità, quanto invece visti nell'unità e nella generalità della stessa
cultura e colti nei loro rapporti, oltre che nella loro distinzione.
La filosofia, come conoscenza, non può non mirare a mantenere alcuni
dei caratteri principali, propri della scienza e principalmente il rigore
nell'organizzazione dei suoi passaggi o dimostrazioni ed una sorta di
verifica empirica. Ma è anche vero che questi procedimenti conoscitivi non
possono essere in tutto identici nella scienza e nella filosofia. Il mutamento
nell'oggetto comporta anche inevitabilmente un mutamento nei procedi-
menti. E se, per esempio, nel caso di una scienza particolare, la verifica
assume un senso determinato, nel caso della filosofia che ha a che fare con
delle totalità la verifica assume una determinazione diversa e corrispon-
dente. Proprio a ciò si sono riferiti i filosofi quando hanno suggerito di
tener conto della differenza che passa tra il conoscere (riferito alla scienza)
ed il pensare, oppure tra l'intelletto (inteso come la funzione propria della
costruzione scientifica) e la ragione (inteso come la funzione propria della
costruzione filosofica). Il pensare si distingue dal conoscere proprio perché
spinge la conoscenza al limite della totalità; e l'intelletto si distingue dalla
ragione proprio perché si riferisce agli ambiti particolari della conoscenza,
mentre la ragione mira a delle totalità.
Senza dire, poi, che non si può nemmeno, come sopra abbiam fatto,
distingi:iere, per esempio, i tre mondi rispettivamente degli oggetti del
mondo esterno, della realtà dell'uomo e dei prodotti della cultura, senza
sollevare la questione dei loro legami, delle loro relazioni e distinzioni, e
pertanto dell'unità che li riguarda e li investe. I modi in cui la filosofia
teorizza l'unità possono, poi, essere molto diversi tra loro; l'unità può
essere intesa come oggetto, magari mettendo capo ad un suo principio,
inteso a sua volta come supremo oggetto e cioè come realtà trascendente;
oppure può essere intesa come funzione, come criterio di unificazione,
come attività strettamente legata agli oggetti o ai dati di cui promuove
l'unificazione.
Bisogna dire subito che l'attività unificatrice della filosofia è stata a volte
contestata; e specialmente nelle età piu recenti non è mancato chi ha
sostenuto che, in ambito conoscitivo, basta attenersi ai risultati della cono-
scenza scientifica ed eventualmente alla loro somma, affermando che non
c'è bisogno di alcuna unificazione ulteriore o piu radicale. Ma è anche facile
avvertire come tale posizione, mentre contesta l'impegno unitario della
filosofia, in qualche modo finisca per confermarlo, in quanto anche la
negazione di una prospettiva unitaria è, in ultimo, una maniera, sia pur

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~ I LA FILOSOFIA

negativa o sospensiva, di affermarla.


Anche se contestata, dunque, la filosofia tende a porre domande com-
plessive e radicali circa la realtà della natura, circa il senso del mondo
umano e delle varie attività che lo compongono e lo esplicano, circa il
costituirsi e larticolarsi del mondo della cultura e dei suoi diversi livelli,
oltre che circa l'intrecciarsi e l'eventuale unificarsi di natura, uomo e
cultura e circa il senso unitario di questi mondi, comunque esso si possa
intendere. Vi sono infatti modi diversi di svolgere il senso unitario della
filosofia. E alcuni di tali modi possono indubbiamente apparire antiquati
ed arcaici rispetto ad altri che appaiono alla nostra considerazione piu
evoluti e raffinati; ma ciò avviene anche per le varie fasi dello sviluppo della
scienza; ed anche nella scienza alcune fasi della sua organizzazione ap-
paiono decisamente antiquate rispetto a fasi piu recenti del suo sviluppo.
Certamente i caratteri della conoscenza filosofica ne fanno una disci-
plina oltremodo mobile, inquieta, sfuggente; da un lato essa intende man-
tenersi nell'ambito della conoscenza e non evadere verso i lidi della rivela-
zione o nell'appello alla immaginazione ed al sentimento; perciò mentre
pone la questione dei criteri conoscitivi, è anche portata a discuterne la
natura e le garanzie; anziché collocarsi quindi all'interno di un complesso
di criteri tradizionali, la filosofia è portata a discutere la stessa possibilità e
validità dei criteri, con la possibilità di involgersi a fondo in processi
puramente formali. D'altro lato, la massima generalità a cui tende la
filosofia può spesso apparire inconsistente rispetto alla solida determina-
zione dei contenuti delle varie scienze; la generalità, infatti, e l'unità, per la
loro stessa natura, non hanno una configurazione rigida ed univoca; esse
possono avere sia una seria presa sui campi particolari della conoscenza, sia
aver l'aria di svaporare in quell'indeterminato in cui vanno perduti anche i
semplici caratteri della conoscenza.
Ma, in forme varie e molteplici, la filosofia sembra rispondere ad
un'esigenza permanente della conoscenza umana, ad un'istanza critica che
cambia ·sembianze, ma non l'intento basilare, e si afferma nei campi piu
diversi, nel tentativo di cercare un senso complessivo del tutto.
Della filosofia è anche molto diffusa una definizione meno tecnica e piu
popolare, quella che la indica come una concezione del mondo e della vita.
E si ritiene che, in quanto tale, essa interessi generalmente tutti gli uomini e,
anzi, che tutti gli uomini ne abbiano una, anche senza svolgere uno speci-
fico lavoro intellettuale e conoscitivo; la filosofia, come concezione del
mondo, sembra perfino presente nel linguaggio che si usa e che ciascuno
trova consolidato nella tradizione della società o del gruppo in cui nasce e si
forma; essa coincide con quello che si suole anc:he chiamare il «senso
comune» e che comprende un insieme di modi di pensare e di agire,

XI

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INTRODUZIONE

secondo i quali ciascuno si orienta nell'esistenza. Non sembra però che,


cosi intesa, la filosofia sia propriamente una conoscenza elaborata; anzi,
abbastanza spesso, essa comprende atteggiamenti non del tutto consape-
voli, modi di valutare e di pensare usuali, che vengono ripetuti senza una
particolare partecipazione e che sembrano operare come elementi del
costume; si tratta di una «saggezza» le cui origini non è affatto semplice
stabilire e che non ha una storia che si possa documentare in modo univoco
e preciso. Eppure tra la filosofia in senso tecnico e specifico e la filosofia
popolare, nonostante i diversi caratteri, vi è un nesso che varia col tempo
ma che ritrova nella seconda, come nella prima, anche se espressa in forme
conoscitive abbreviate e schematiche, oppure addirittura in atteggiamenti
pratici ed operativi, una identica funzione: quella di offrire una concezione
del mondo come conoscenza dell'insieme della realtà. Ovviamente, la
filosofia popolare è u~ magma immediato e' sconnesso, un insieme compo-
sito e vario, sul quale la filosofia, in senso tecnico, si eleva attraverso la
riflessione critica e l'elaborazione razionale. E noi ci occuperemo, qui, solo
della storia della filosofia intesa nel senso tecnico, considerando appunto le
sue elaborazioni specifiche, dovute ai filosofi che, da tale punto di vista,
sono degli «specialisti»; ma non dimenticando, tuttavia, che la filosofia
popolare è una sorta di filosofia incoata, che, in parte, può perfino derivare
dalla diffusione della filosofia a livello tecnico e che, del resto, viene
sollecitata da una curiosità e da una tendenza a considerare l'insieme
dell'esistenza e della realtà, che è alla radice anche delle dottrine pili
astratte e pili costruite.

2. I problemi filosofici.

I caratteri della filosofia ed il suo significato possono risultare con


maggiore chiarezza se visti attraverso i problemi che la filosofia è venuta
ponendo e discutendo nel corso della sua storia. Tali problemi per un certo
lato sono diversi per ogni età e si modificano di epoca in epoca, tanto che la
vera illustrazione dei problemi filosofici si può ottenere soltanto dalla storia
della filosofia. Per un altro lato, invece, i problemi paiono avere una
maggiore durata nel tempo e costituire, perfino, delle strutture permanenti,
almeno nell'ambito di grandi epoche storiche; è in questa seconda pro-
spettiva che si può far cenno dei problemi discussi dalla filosofia anche
nell'intento di determinare meglio il contenuto di questa disciplina.
Senza tener conto dell'ordine storico e cronologico nel quale i problemi
si sono presentati nella filosofia, ma tentando piuttosto un loro inquadra-
mento generale a cui poi la storia potrà aggiungere le determinazioni

XII

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§ 2 I PROBLEMI FILOSOFICI

particolari, si possono ricordare i problemi filosofici sorti nella disamina di


quello che già abbiamo indicato come mondo della cultura e di quello che
potrebbe dirsi mondo della realtà.
Nel mondo della cultura, ha innanzitutto importanza quella conoscenza
esplicando la quale la filosofia giunge anche alla costruzione di se stessa.
Non si tratta tanto di porre il problema della scienza, che è una forma
eminente di conoscenza, quanto di esaminare la conoscenza nella sua
generalità, cosi come essa si esplica in tutte le sue forme. E poiché la
conoscenza sembra anzitutto implicare un certo ordine degli elementi
mentali .che vi vengono elaborati, si tratterà di studiare tale ordine e di
considerarne lo sviluppo. È impossibile trattare dell'ordine degli elementi
mentali, del pensiero, senza fare riferimento alle parole, al discorso in cui
esso si esprime; la logica (dal greco logos che significa tanto parola e
discorso quanto pensiero e conoscenza) è appunto quella parte della
filosofia che studia l'ordine che noi tentiamo di dare agli elementi del
pensiero e del discorso affinché essi siano validi, cioè non enunciati in
modo casuale ed arbitrario, ma rispondenti al fine di ottenere un pensiero
ed un discorso ordinati secondo una disciplina che conferisce loro senso e
validità. La gnoseologia è invece quella parte della filosofia che studia non
tanto lordine, per cosi dire interno, che il pensiero e il discorso assumono
al fine di evitare la casualità ed il non senso, quanto invece il procedimento
che la mente svolge per giungere alla determinazione del suo oggetto; si
tratta di studiare la conoscenza nella sua tensione verso loggetto o la realtà
che essa mira a cogliere. Sono propriamente due forme distinte di cono-
scenza, poiché conoscenza si consegue dando ordine, secondo criteri
permanenti, al pensiero o al discorso, in se stessi considerati, e conoscenza
si consegue, egualmente, giungendo a stabilire un rapporto, anche qui
secondo criteri di validità, tra elementi mentali e gli oggetti «esterni» o reali
a cui vengono riferiti. Il problema principale nella logica è quello di
individuare l'ordine interno del pensiero e del discorso che gli garantisce
un senso e lo porta pertanto a risultati significativi; mentre il problema
principale della gnoseologia è quello di stabilire il processo attraverso il
quale si può conseguire una relazione valida con loggetto o con la realtà
esterni al processo stesso. Quando invece si voglia considerare il linguaggio
in tutta la sua estensione ed in tutte le sue forme, non soltanto con
riferimento alla conoscenza, si mette capo a quella specifica disciplina
filosofica che è la filosofia del linguaggio; del linguaggio essa discute
lorigine, la struttura, le diversificazioni, la sua capacità espressiva ecc.
La scienza è certamente quella forma della conoscenza in cui la disci-
plina e lordine degli elementi mentali e del discorso raggiungono un grado
eminente. Essa merita pertanto di essere fatta oggetto di un'indagine

XIII

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INTRODUZIONE

apposita, diversa da quella che riguarda la logica e la gnoseologia; questa è


la filosofia della scienza che considera la scienza nei suoi caratteri generali e
in riferimento all'ordine che essa introduce negli elementi che organizza e
con riguardo ai risultati che consegue in ordine alla realtà. Lo studio piu
specifico dei diversi procedimenti usati dalle varie scienze per conseguire i
loro risultati viene studiato dalla disciplina che prende il nome di episte-
mologia (dal greco episteme = conoscenza scientifica); questa si è venuta
organizzando attraverso indagini particolari e fattuali che sono specifiche
della scienza, anche se investe, nella sua parte piu generale, i limiti della
ricerca di filosofia della scienza.
Ma nell'ambito della cultura si trovano prodotti dell'iniziativa umana
che vanno al di là della conoscenza, tanto nella sua forma generale, quanto
nella sua elaborazione scientifica: uno di tali prodotti è, per esempio, la
religione; essa si richiama anche ad elementi conoscitivi, ma si è svolta
un'ampia discussione per stabilire quali siano i suoi caratteri specifici; e v'è
chi ha insistito sull'importanza che nell'esperienza religiosa viene attribuita
alla rivelazione di uno o piu esseri superiori e trascendenti, oppure sul
rilievo che vi assume il contatto da parte dell'uomo con una realtà a lui
superiore e misteriosa, o, infine, sul peso che vi ha la fede come adesione
interiore piena e profonda ad una verità che, pur non essendo fondata su
rigorosi procedimenti razionali, risponde ad esigenze vitali e del senti-
mento non facilmente eludibili. La/iloso/ia della religione mira ad inten-
dere la natura propria della esperienza religiosa ed a stabilire il significato
che assume nel complesso della esperienza umana: è un tentativo di af-
frontare con la prospettiva di conoscenza propria della filosofia, e cioè con
l'attenzione rivolta all'insieme ed al tutto, una forma di esperienza che si
riferisce non alla conoscenza soltanto, ma ad istanze e ad aspetti dell'espe-
rienza che si impongono come ineludibili.
L'arte non è un prodotto meno tipico e meno rilevante del mondo della
cultura; essa sembra nascere da una forma distinta dell'attività umana .che,
se ha qualche aspetto in comune con la conoscenza e con i suoi dati, si ,
svolge tuttavia in una direzione sua propria; vi sono filosofi che hanno
indicato tale forma di attività creatrice come intuizione, altri l'hanno invece
indicata come espressione. Per non dire che le arti sono molte e molto
diverse tra loro; si pensi, per esempio, alla differenza tra la poesia e la
musica, oppure tra la letteratura e l'architettura. Ora la/iloso/ia dell'arte o
estetica mira a comprendere l'arte nella sua unità e pertanto ad indicare ciò
che risulta comune a tutte le arti come manifestazioni diverse di una stessa
attività umana; ed a chiarire il bello che sembra essere il criterio a cui ogni
operatore artistico si ispira; si tratta inoltre di indicare le relazioni che
corrono tra I' arte e le altre produzioni della cultura, o tra I' attività artistica e

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§ 2 I PROBLEMI FILOSOFICI

le altre forme dell'attività umana ed anche di ritrovare e riscontrare l'ispira-


zione unitaria dell'arte non solo nelle diverse arti, ma anche nelle diverse
forme che si vengono realizzando all'interno di ciascuna.
Abbiamo fatto riferimento, piu sopra, all'azione come quella forma di
iniziativa con cui l'uomo tende a modificare il mondo che lo circonda e di
cui fa parte; essa, se per un lato si distingue, per esempio, dalla conoscenza,
abbraccia per l'altro un ambito grandissimo dell'esistenza umana. La
. filosofia della pratica tende anzitutto a determinare l'azione nei suoi carat-
teri piu generali e nel suo differenziarsi (oltre che mettersi in relazione) con
le altre esplicazioni dell'essere umano. E poiché pare che nell'azione
l'uomo sia, per cosi dire, spinto a realizzare o a procurarsi ciò che gli manca
e che perciò vale, si è tentato di chiarire l'azione in rapporto alla valuta-
zione; di qui la problematica dei valori con la complessità dei loro diversi
livelli. È naturale, poi, che non ci si sia accontentati di tale disamina
dell'azione nella sua generalità e nelle sue origini; azione si ha infatti sia
nelle operazioni che l'uomo compie per assicurarsi il vitto, come nelle
azioni che compie per battersi, insieme con alcuni dei suoi simili, riuniti in
gruppo, contro altri gruppi, o in quelle che compie per decidere qualche
aspetto rilevante della vita dello Stato di cui fa parte. Di qui il tentativo di
distinguere e di caratterizzare diversi tipi di azione, da quelle che sembrano
prevalentemente rivolte al conseguimento dell'utile a quelle che invece
intendono conseguire il bene. Ma tra l'utile e il bene non è facile operare
una distinzione precisa; anche perché il conseguimento dell'utile pare
avere gradi differenti e svolgersi dall'utile strettamente individuale, all'utile
che si misura, invece, in riferimento a diversi raggruppamenti umani, dalla
famiglia, alla tribu o alla comunità, al popolo di cui si fa parte, e infine allo
Stato che comprende un complesso di organismi e di ordinamenti con cui
un popolo dà ordine alla sua esistenza. Si collocano insomma in questo
contesto differenti livelli di organizzazione, da quella della vita economica e
del lavoro che rispondono al sistema dei bisogni, a quella del diritto che
disciplina l'insorgere di contrasti nella società civile in relazione a criteri di
interesse comune, a quella della politica o amministrazione che tenta di
dare forma alla espressione di una volontà comune di carattere piu gene-
rale; per non dire che poi, i popoli organizzati nei rispettivi Stati, interagi-
scono tra loro e danno luogo a quel tessuto di azioni, grandi e piccole, di
individui comuni e di individui (come Hegel li chiamava) cosmico-storici,
che danno luogo appunto alla storia. Di qui una serie di distinte parti della
filosofia, dalla filosofia dell'economia allaftlosofia del diritto, dalla/tloso/t'a
della politica alla filosofia della storia.
Ma vi è anche l'azione che viene rivolta al bene, cioè che sembra avere di
mira un valore non limitato a questo o a quell'ambito, e ad una società piu o

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INTRODUZIONE

meno estesa, e piu o meno operante nella storia, ma che aspira ad un valore
universale, cioè a valere per tutta l'umanità, e non soltanto per l'umanità di
oggi o di domani, ma anche per l'umanità del futuro. Se i valori, per il
diverso livello in cui si pongono, paiono dar luogo ad una sorta di piramide
nella quale i valori (o le azioni) piu bassi sono soltanto mezzo per conse-
guire altri valori che si pongono come fine, e che perciò stanno piu in alto;
le azioni volte al bene paiono essere quelle che si possono collocare al
vertice della piramide, in quanto si pongono come dei fini generali, ai quali
vanno subordinate come mezzi tutte le altre azioni, a raggio piu delimitato.
Nella storia della filosofia v'è anche chi ha considerato le azioni rivolte al
bene, e cioè ad un fine universale, come ristrette all'individuo, a petto delle
altre azioni che essendo operanti in direzione della famiglia, o della società
civile, o dello Stato e della storia, dovrebbero intendersi come piu ricche di
contenuto e piu determinate. Ma vi è anche chi ha ritenuto, invece, di porre
in evidenza, nelle azioni volte al bene e al dovere, un valore piu universale,
se cosi si può dire, di quello presente nelle altre azioni. È il problema che
viene studiato da quella parte della filosofia che è la/iloso/ia morale o della
morale (dal latino mos = costume); essa studia specialmente proprio la
gerarchia dei valori, e, in tale gerarchia, i valori che si pongono a principio
degli altri, quelli che, per il fatto che non paiono dipendere da altri valori, si
potrebbero indicare anche come auto-valori. Kant si è anche espresso in
proposito col dire che la legge morale è autonoma e che ad essa si ispirano le
azioni che rispettano l'umanità non come mezzo per altri fini, ma come fine
in se stessa.
Il quadro dei problemi filosofici che risulta da questa prima sommaria
indicazione è già ampio, ma può essere completato dal fatto che la filosofia
ha rivolto la sua attenzione, oltre che al mondo della cultura, anche al
mondo della realtà. In questo caso, piu che volgere l'attenzione ai prodotti
piu significativi dell'attività umana per comprenderne il senso e l'unità, si
prende in cosiderazione lambito stesso della realtà, nella sua accezione piu
ampia e generale. Realtà, abbiamo ricordato piu sopra, è il termine che
viene adoperato quando, nell'analisi della conoscenza, si giunge a caratte-
rizzare l'oggetto al quale essa mira e che tende a rispecchiare, come
qualcosa che resta fuori del processo conoscitivo e che costituisce quasi il
fine a cui esso tende. In proposito la filosofia mira anzitutto a determinare il
concetto stesso di realtà nella sua accezione piu ampia, l'essere nella
determinazione per cui si differenzia dal non-essere; la scienza filosofica
corrispondente è la metafisica, che appunto si domanda che cosa costitui-
sce lessere nella sua generalità e se esso è formato di elementi o se, oltre il
suo esserci, c'è una ragione che lo determini e lo faccia essere quello che è;
la metafisica distingue cosi lessere e il suo principio o la sua ragione, la

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§ 2 I PROBLEMI FILOSOFICI

semplice esistenza dell'essere e la sua essenza, cioè appunto la ragion


d'essere dell'essere; essa indaga del pari intorno ai diversi livelli di essere o
della realtà e cerca le ragioni della loro differenza; ma soprattutto tenta di
stabilire se la stessa realtà abbia un senso e come eventualmente abbia avuto
origine e quali, in ogni caso, siano i principii che la spiegano. La metafisica è
indubbiamente quella tra le parti della filosofia che ha piu volte sollevato
dubbi e contestazioni, giacché è la parte in cui la filosofia sembra piu
impegnata a non stare semplicemente alla realtà com'è o come si può
descrivere e conoscere a livello immediato, ma quasi ad andare al di là della
realtà o oltre la realtà per cercarne il senso o il principio, in un tentativo che
non pare avere una possibile verifica altrimenti che nel creare una serie di
concetti quali reale e possibile, possibile e impossibile, necessario e contin-
gente, dato e giustificato. Ma anche la soluzione che nega la possibilità di
andare oltre la realtà come dato e cerca di mantenere la riflessione filosofica
entro i limiti di esso, affronta, anche se lo risolve negativamente, il pro-
blema della realtà, e prende una posizione filosofica appunto negando che
abbia un senso il cercare un senso ed una ragione della realtà.
Oltre alla metafisica, poi, che studia il concetto di realtà nella sua
generalità, la filosofia ha dato luogo, nel corso della storia, a singole parti
dedicate a studiare grandi ambiti della realtà. Tale è la cosmologia o
filosofia della natura che studia la struttura del mondo naturale ed i suoi
diversi livelli, e la vita nel suo differenziarsi dalla materia, e l'eventuale
origine del mondo o la sua eternità, il suo permanere ed il suo evolversi, e
se, oltre ad un'origine abbia una finalità e tenda ad un risultato; e, inoltre, se
la natura sia governata da una legge, oppure abbandonata al caso; e se la
vita stessa sia stata prodotta dal caso, oppure conseguita come un fine. Tale
è anche quella parte della filosofia (psicologia) che ha preso a proprio
oggetto lo studio dell'uomo, distinguendo in esso il corpo e l'anima e
fermando soprattutto l'attenzione sull'anima, cioè sul principio che, gio-
vandosi del corpo, organizza le operazioni spirituali. Nella considerazione
del rapporto tra l'anima e il corpo nasce il problema della sopravvivenza
dell'anima, del modo in cui si può pensare che le sue funzioni possano
estendersi al di là dei limiti in cui rientra la vita del corpo. Oggi è molto
avanzata la scienza della psicologia che fu detta sperimentale proprio per
distinguerla da quella parte della filosofia che aveva preso a suo oggetto
l'anima; e la psicologia sperimentale, come scienza, studia le manifestazioni
ed operazioni dell'essere umano, in se stesse e nei loro rapporti, prescin-
dendo dal principio dell'anima che non si può sottoporre a verifica speri-
mentale. Ma in tal modo non è detto che siano inconsistenti i problemi del
rapporto tra ordine di fenomeni diversi, come le operazioni della mente o
della psiche (che sembrano essere entità piu concrete dell'anima) e il

XVII

Baruch_in_libris
INTRODUZIONE

funzionamento di determinati organi corporei (come, per esempio, il cer-


vello); e spesso anche negli studi della psicologia come scienza sembrano
permanere ancora istanze unitarie, piu o meno esplicite; mentre la psicolo-
gia o filosofia dello spirito tende a considerare nella loro unità le operazioni
spirituali dell'uomo ed a determinare o il loro principio o il loro sviluppo e
comunque a delinearne un significato complessivo. Infine la filosofia in
parte ha derivato dall'esperienza religiosa ed in parte ha desunto dallo
studio dell'uomo e della natura il problema di Dio (o teologico). Dio infatti
si pone come principio esplicativo generale sia della natura che dell'uomo;
ma mentre la religione ha in Dio il suo punto di riferimento naturale e la
base della propria fede, la filosofia fa di Dio, appunto, un problema; sia in
quanto avverte che la sua esistenza ha necessità di essere provata, sia in
quanto le prove hanno un particolare carattere di sondaggio estremo sul
senso della realtà al quale può giungere problematicamente la riflessione
razionale, sia infine perché la possibile realtà di Dio si colloca al di là della
comprensione umana, come idea-limite e non come un contenuto determi-
nato.
Da questo rapido giro di orizzonte sui piu importanti problemi della
filosofia si comprende come i vari sistemi filosofici che si incontrano nella
storia del pensiero risultino dalla soluzione coerente di tutti o di alcuni di
tali problemi. Ma mentre il termine «sistema» sembra alludere ad una
qualche stabilità delle soluzioni proposte, il carattere problematico che
caratterizza le questioni affrontate torna a farsi valere anche nei confronti
dell'assestamento coerente dato ai problemi e di quella stabilità che deriva
alle operazioni dell'uomo dal semplice fatto che esse sono limitate nel
tempo e nella potenza. Ma la filosofia è una disciplina tale, per il carattere
radicale della conoscenza che si sforza di instaurare, che, al di'là di ogni
sistema, e di ogni organizzazione codificata del sapere, si riapre la rifles-
sione critica e torna a farsi valere il problema. Ogni uomo, infatti, pare che
abbia bisogno di tornare a cimentarsi con una concezione del mondo, al di
là degli sforzi compiuti in precedenza, semplicemente per vivere, a sua
volta, in modo adeguato.

3. La storia della filosofia.

Ogni sistema filosofico, elaborato da un singolo pensatore, tenta di


organizzare una soluzione coerente ai vari problemi filosofici, in modo che
esso abbia verità , in modo cioè che non soltanto abbia un suo significato
interno, ma che esso possa trovare riscontro nella realtà in quanto determi-
nabile e raggiungibile dalla conoscenza. Lo sforzo di ogni pensatore è

XVIII

Baruch_in_libris
§ 3 LA STORIA DELLA FILOSOFIA

appunto di proporre una concezione del mondo e della vita, non solo vasta
e comprensiva, ma corrispondente ai limiti raggiunti dalla conoscenza
umana. Ma la verità alla quale mira ogni sistema filosofico non si intende
nel senso in cui la parola viene adoperata in altri ambiti dell'esperienza, per
esempio nell'esperienza religiosa. Anche il credente ha fede nella verità
della sua concezione del mondo; ma qui la verità a cui ci si appella non può
che essere assoluta, perché legata alla rivelazione di Dio che è l'assoluto per
eccellenza; ed assoluta vuol dire dogmatica e cioè che consente di essere
formulata una volta per tutte, e pertanto conclusiva. Sembra quasi che la
religione proponga tale concetto della verità assoluta piu per sollecitare
l'uomo ad estendere al massimo la sua aspirazione alla verità che per
metterlo veramente in possesso di un contenuto finale e conclusivo; del
resto, la stessa esperienza religiosa deve poi, di fronte al contenuto conclu-
sivo della verità assoluta, affrontare il problema delle forme diverse e
storicamente articolate in cui esso si viene manifestando agli uomini delle
diverse epoche; almeno sotto questo riguardo, deve, per cosi dire, adattare
la verità assoluta ai diversi modi storici in cui l'uomo la considera. Né la
filosofia, comunque, né le scienze, quando usano il termine di verità, la
possono intendere nel senso assoluto della religione. Anzi, a parte quello
che vale in proposito per le scienze, la filosofia può mirare alla verità solo in
base ad una serie di criteri di costruzione e di verifica del proprio discorso;
ma tali criteri si vengono svolgendo proprio attraverso il continuarsi della
ricerca e attraverso l'estendersi dell'esperienza e della conoscenza. La
verità assoluta che fosse dunque conseguita in un sistema finale sarebbe per
la filosofia la rinuncia a proseguire la ricerca, equivarrebbe ad una sorta di
blocco e di rinuncia alla riflessione.
Solo la verità assoluta esclude, almeno in linea di principio, la storia e la
ricerca. Ma la verità, sempre finita, a cui tende ogni sistema filosofico,
piuttosto che escludere, richiede la storia. Carattere specifico della filoso-
fia, nella sua istanza critica, è infatti che l'esame si riapra dopo ogni
sistemazione e che la riflessione riprenda il suo cammino. Quale filosofo
potrebbe pretendere di racchiudere nel sempre breve spazio della sua vita e
quindi della sua ricerca, il senso e l'esperienza degli altri uomini? Egli
potrebbe in qualche modo, come in realtà ha tentato di fare Hegel, cercare
di racchiudere nel suo sistema la riflessione dei filosofi e degli uomini del
passato; ma non riuscirebbe in alcun caso a fare altrettanto nei confronti
degli uomini del futuro. Bisognerebbe pensare che questi fossero destituiti
dell'esigenza della ricerca filosofica e che fossero quasi.disposti a rimettersi,
per questo lato, a quanto è stato proposto·da coloro che li hanno preceduti.
Ma è una previsione abbastanza sensata il ritenere che essi obbediranno alla
stessa esigenza di coloro che li hanno preceduti e che, pertanto, quello che è

XIX

Baruch_in_libris
INTRODUZIONE

stato per costoro il punto di arrivo diventerà per essi il punto di partenza.
Di qui la storia della filosofia e l'importanza che essa riveste per la stessa
filosofia. La storia della filosofia si esplica attraverso lo studio delle opere
dei filosofi che ci sono rimaste ed attraverso l'indagine di tutti quegli
elementi che possono giovare a farcele comprendere; ci sono degli scritti
che sono interamente dedicati alla disamina di problemi filosofici; ma ci
sono anche delle opere che solo in qualche parte hanno questo carattere; e
tali parti filosofiche possono trovarsi in scritti prevalentemente di altro
argomento o carattere. Di alcune opere filosofiche possediamo la stesura
completa, di altre ci sono rimasti soltanto dei frammenti; e la comprensione
di tali frammenti è spesso assai difficile per la tendenza ingannevole che
abbiamo ad estendere oltre il lecito la portata di alcune affermazioni o
dottrine. Dei filosofi del passato hanno scritto, lasciandone memoria, ~Itri
filosofi o studiosi posteriori; e quanto pili questi sono stati, per il tempo in
cui hanno vissuto, in condizione di attingere notizie valide dei filosofi, tanto
pili le loro informazioni (quelle che si dicono testimonianze) sono attendi-
bili; anche se la conoscenza che si può avere di una dottrina filosofica
attraverso le testimonianze è sempre esposta all'inganno ed all'errore; tali
sono le dicerie raccolte e trasmesse a volte senza spirito critico; tali sono
anche le interpretazioni troppo marcate e soggettive che di una dottrina ci
riferiscono autori posteriori. Per giungere dunque a costruire una storia
attendibile della filosofia bisogna adottare, come per ogni storia, molte
cautele e saper evitare molti tranelli. Non è detto naturalmente che lo
storico della filosofia debba accostarsi al iUO lavoro senza avere alcun
orientamento filosofico; ma bisognerà che egli sia attento a distinguere, per
quanto gli riesca possibile, le sue convinzioni dalle dottrine dei filosofi del
passato.
Una volta che si siano superate tali difficoltà, si potranno d~tinguere,
nella storia della filosofia, alcuni aspetti diversi ed importanti. Di ogni
filosofia infatti si può considerare l'aspetto autonomo e specifico, e l' a-
spetto eteronomo. Il primo riguarda la stessa struttura della dottrina
filosofica che si studia, il modo in cui è elaborata, i capisaldi nei quali si
svolge; oltre alla dipendenza che può avere rispetto a precedenti dottrine o
la modificazione che di esse abbia realizzato; solitamente un filosofo inizia
la sua riflessione riferendosi ad altri filosofi precedenti e alle loro dottrine;
bisogna perciò saper cogliere, delle varie dottrinl!, i punti comuni e i motivi
in cui divergono, le somiglianze e le differenze, le concatenazioni e le
dipendenze. Ciò non significa, però, ignorare che ogni dottrina filosofica
non è isolata nella storia e non ha soltanto relazioni con altre dottrine
filosofiche. Ogni filosofo è uomo del suo tempo ed è immerso nella cultura
del suo tempo; ciò significa che le vicende della storia e della cultura del suo

xx

Baruch_in_libris
§ 3 LA STORIA DELLA FILOSOFIA

tempo hanno avuto qualche influsso sulla sua stessa filosofia. Questa è la
dimensione eteronoma della storia della filosofia, quella che giova a deter-
minare, non tanto gli aspetti intrinseci di una dottrina, quanto le connes-
sioni che essa ha avuto con il contesto delle altre vicende storiche. Anche la
storia della filosofia, insomma, è una storia settoriale; la si studia perché
solo cosi, prescindendo dal resto e quasi isolando o astraendo la filosofia
dall'insieme, si riesce a penetrarla nei suoi temi specifici; ed altrettanto
avviene per la storia dell'arte, o della scienza, o della politica. Ma ciò non
vuol dire certo che, nella storia, la filosofia stia per se stessa e da sola, e che
l'arte, o la politica, stia per se stessa o da sola. Al limite si può dire che esista
la storia complessa e unitaria dell'uomo, che è fatta di tutte le storie
particolari unite insieme. E nella storia effettiva una quantità di elementi
convivono e si intrecciano e si confondono. Però non c'è storico alcuno che
si proponga di scrivere tale storia unitaria e complessiva dell'uomo; essa è
piu un'idea limite, un criterio regolativo, che una storia effettiva. E sempre,
quando scriviamo storia, scriviamo la storia della filosofia, o dell'arte, o
della scienza, o della politica ecc. Tuttavia, scrivendo tali storie particolari,
non possiamo del tutto perdere di vista il quadro complesso di quella storia
unitaria da cui abbiamo stralciato ed isolato il nostro ambito particolare, o
almeno alcuni dei suoi motivi, quelli, magari, che volta a volta presentano
una connessione piu stretta con il settore che ci siamo proposti di mettere al
centro della nostra attenzione. La dimensione eteronoma della storia della
filosofia è appunto quella che guarda alla connessione tra la filosofia e altri
aspetti volta a volta piu significativi di quella storia complessa dell'uomo in
cui anche la filosofia è inserita e mescolata.
Un'altra utile distinzione di cui giovarsi nella storia della filosofia è
quella tra momenti statici e momenti dinamici. Nei primi predomina,
nell'ambito del pensiero e della filosofia, la continuità e la permanenza,
quasi una sorta di stasi; e ciò, evidentemente, non solo in ragione della
mancanza in esso di profondi mutamenti innovativi, di crisi radicali, di
svolte rilevanti, ma anche in ragione del fatto che non intervengono, nel
complesso mondo della storia unitaria, e cioè nei vari campi che possono
incidere nella storia del pensiero, importanti rivoluzioni o brusche innova-
zioni. Invece nei momenti dinamici la filosofia acquista movimento, modi-
fica le sue posizioni, sia che ciò avvenga per spiccate iniziative interne,
oppure per forti scosse che squassano la società e il mondo che le fanno da
supporto. Allora si verifica che le dottrine non vengono sviluppate ed
approfondite, ma, per cosi dire, perdono rilievo e vengono quasi svuotate
di significato, mentre profonde modificazioni nella storia sociale o econo-
mica o politica suggeriscono nuove idee e nuove dottrine, e portano quasi
alla scomparsa del pensiero precedente. Ciò non toglie però che si possano

XXI

Baruch_in_libris
INTRODUZIONE

individuare, nella storia del pensiero, degli indirizzi che si caratterizzano


per la loro struttura interna e che paiono non solo avere in se stessi una sorta
di continuità, ma addirittura ricomparire a distanza di tempo, identici nella
loro sostanza, anche se mutati per qualche aspetto secondario; tali sono,
per esempio, gli indirizzi dell'empirismo e del razionalismo, dell'imma-
nentismo e del trascendentalismo, del soggettivismo e del naturalismo ecc.
Pare, a questo riguardo, che il pensiero umano, quando abbia impostato la
riflessione con determinati caratteri iniziali, sia quasi costretto, dalle regole
interne, a svolgere fino alle loro estreme conseguenze le proprie elabora-
zioni, quasi astraendo dalla diversità dei tempi e dalla varietà delle circo-
stanze.
Non si deve infine credere che lo storico della filosofia, come ogni
storico, del resto, sia preso da una curiosità futile per il passato; egli si trova
impegnato, come tutti gli uomini, nel suo presente; e lo studio del passato
gli giova a rendere tale presente piu denso e piu ricco. Senza storia l'uomo
assomiglia ad un individuo ristretto al momento presente e senza memoria.
La storia della filosofia dà una dimensione ed uno spessore al presente della
riflessione filosofica e mostra come, anche per il pensiero come per il resto,
si tratti di un presente che, attraverso anelli intermedi, si collega in una
catena continua al passato piu remoto, al quale si può richiamare e dalle cui
ricchezze può trarre profitto. La storia non è dunque evasione e vana
curiosità, ma risponde al bisogno di estendere le nostre possibilità al di là
dei limiti di tempo in cui si espande e muore il nostro presente; con la storia,
il nostro pensiero, la nostra arte, la nostra vita politica, il nostro sapere si
espande attraverso le mille vite dell'umanità e si potenzia con le capacità del
genere umano nel nostro presente.
Che la filosofia abbia una funzione nella formazione e che pertanto trovi
giustamente un suo posto nelle istituzioni attraverso le quali la formazione
si realizza, e principalmente nella scuola, dovrebbe risultare da quanto si è
fin qui chiarito: Se essa risponde ad un bisogno di conoscenza complessivo,
ad una esigenza di riesaminare il sapere che si è conseguito, all'istanza di
tracciare una concezione del mondo che dia significato alle iniziative
dell'esistenza, se è rivolta a problematizzare tutto ciò che pare fisso, la sua
utilità consiste proprio nella sua apparente gratuità. Nella formazione
culturale si prende giustamente contatto col mondo della scienza, delle
scienze matematiche e delle scienze fisiche, come delle scienze biologiche;
l'orizzonte si estende, inoltre, al mondo della letteratura e dell'arte, dell'e-
conomia e del diritto, della politica e della religione. Tutto il sapere viene
rivolto poi all'inserimento nel mondo del lavoro e della produzione. Ri-
spetto a tutto il patrimonio culturale che cosi viene messo in funzione, la
filosofia può apparire come un lusso estraneo, come un raffinamento

XXII

Baruch_in_libris
§ 3 LA STORIA DELLA FILOSOFIA

peregrino. Ma ad essa è un po' affidato il sale dell'esistenza, la capacità di


guardare all'orizzonte, di tentare il limite entro cui ci muoviamo, di affron-
tare la scommessa della vita. E dalla sua invenzione può trarre alimento sia
lo spirito scientifico che la creazione dell'arte, l'esperienza religiosa come la
costruzione politica: essa può anche confortare la specializzazione e ren-
dere piu ricco il lavoro.
Quando poi la filosofia sia colta nella sua storicità, investendo col
proprio senso storico tutta la cultura, essa non potrà non recare un contri-
buto specifico all'avventura dell'uomo ed alle sue piu vaste e meno scontate
possibilità.

XXIII

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PARTE PRIMA

LA FILOSOFIA ANTICA

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CAPITOLO I

II secolo v1 a. C.
LA SCUOLA DI MILETO. PITAGORA. SENOFANE

1. Le origini e il mito.
La civiltà greca storica ha m1z10 con il secolo IX a. C., mentre le ori-
gini del pensiero filosofico si collocano nel v1 secolo a. C. Nel periodo che
intercorre fra il secolo 1x ed il v1 si afferma e si sviluppa il mito, cioè una
visione immaginosa sia dell'universo e della sua origine che del corso dcl
mondo e delle vicende umane. La filosofia come considerazione razionale
del mondo si è affermata in antitesi con il mito, anche se questo non si può
dire che sia scomparso al sorgere della filosofia; con il progressivo affer-
marsi della concezione razionale del reale, .il mito è sopravvissuto nell'im-
maginazione poetica e nelle credenze religiose popolari.
I contatti che il mondo greco ebbe fin dai tempi pio antichi con alcuni
paesi dell'Oriente, come l'Egitto e la Mesopotamia, influirono anche sulle
figurazioni mitiche che si incontrano nei grandi monumenti letteran greci
dei secoli IX etl vm, e particolarmente nell'opera di Omero e di Esiodo.
Già nell'Iliade e nell'Odissea si possono trovare infatti clementi mitici che
risalgono a precedenti tradizioni orientali. Tanto Platone che Aristotele
ebbero a notare, ad es., che Omero indica in Oceano il generatore degli
dèi e in Tetide la loro madre, sulla traccia del mito di una massa liquida
primordiale largamente diffuso nelle civiltà orientali. Inoltre il. corso dcl
mondo, sia della natura che delle vicende umane, è retto, secondo Omero,
da leggi eterne; per intendere i singoli casi, bisogna riferirli ad esse;
l'umano e il divino sono strettamente uniti, al punto che le azioni umane
dipendono dalla iniziativa degli dèi e sono dominate dal fato; d'altra
parte, però, i mali che colpiscono gli uomini sono anche il risultato della
loro tracotanza, giacché esiste una legge di giustizia di cui gli dèi sono
rigidi custodi. Con Esiodo, la cui opera risale alla metà del secolo vm, si
afferma la narrazione cosmogonica che racconta, attraverso la storia della
generazione degli dèi, l'origine del ciclo e della terra. Alla coppia omerica
Esiodo sostituisce il caos e la terra, da cui traggono origine tutte le cose;

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IL SECOLO VI A. C. CAP. 1

anche per Esiodo l'uomo non ha alcun mezzo per sfuggire al volere degli
dèi ed alla giustizia che lo ispira.
Le concezioni mitiche dci poemi omerici rispecchiano il modo di
pensare della società eroica cd aristocratica delle origini greche, tutta
impegnata nella lotta di conquista e nella difesa religiosa del mondo della
forza e dcl comando, mentre il mito esiodeo si collega all'organizzazione
della successiva società agricola, dominata da una piu ampia visione della
natura e da un piu realistico senso dell'opera umana.
Un nucleo mitico importante si è affermato, nel corso del secolo vn,
nel movimento religioso dell'orfismo; diffuso fra i meteci e gli schiavi, che
non partecipavano di diritto. alle cerimonie religiose della città, ma seguito
anche da molti che non si accontentavano del culto ufficiale, l'orfismo si
distingueva dalla religione olimpica per un piu spiccato senso di misti-
cismo. L'uomo ha in sé, pensavano gli schiavi, un elemento peccaminoso,
insieme ad un elemento divino o dionisiaco; l'anima è l'elemento divino
che aspira a liberarsi dall'unione con il corpo; è per punizione di una
colpa originaria che l'anima è sepolta nella prigione del corpo; essa passa
attraverso un ciclo di molte nascite .. e di molte vite; nel trasmigrare da un
corpo all'altro, espia la sua colpa e si purifica; ottiene cosi la liberazione
« dal ciclo delle nascite e della miseria ». L'orfismo interpreta cosi le tristi
condizioni degli schiavi nel quadro mitico di un destino di sofferenza e
di liberazione.

2. II periodo.
Nel corso del secolo VI la Grecia si avvia ad una relativa stabilità poli-
tica; conclusi ormai i grandi movimenti migr:itori, la. vita delle città si
viene organizzando sulla base di ordinamenti piu definiti, sotto il controllo
di ristretti gruppi aristocratici; anche la vita economica si intensifica cd
i rapporti fra le città divengono piu frequenti. Questo accentuato ritmo
di iniziati\'a e di attività raggiunge il suo piu alto livello nelle colonie
ioniche dcli' Asia Minore cd in quelle dell'Italia meridionale. Le prime
erano nate nel corso dei secoli precedenti con l'immigrazione degli Ioni
che avevano fondato sul litorale le città di Mileto, Efeso, Colofone, Cla-
zomene, Focea e, sulle isole vicine, le città di Chio e di Samo; il com-
mercio con l'interno del continente asiatico cd il traffico sul mare erano
divenuti ben presto le loro principali occupazioni. Mileto diviene nel
secolo VI una potente repubblica marinara. che fonda scali commerciali
in Sicilia, in Italia e sul litorale del Mar Nero e intrattiene un commercio
assai fiorente con l'Egitto. Tutte le colonie ioniche dell'Asia minore sono
rette in questo periodo da una \'ivace aristocrazia commerciale, ricca ed
intraprendente, appassionata dei problemi della tecnica, dei viaggi, delle
imprese piu ardite; a questa categoria di persone appartengono Talete,

Baruch_in_libris
§ 2 IL PERIODO

Anassimandro cd Anassimcnc che formano a Mileto il primo nucleo di


una scuola ad indirizzo naturalistico; si tratta di formulazioni molto rozze
che hanno per oggetto una visione unitaria della natura non piu elabo-
rata in forma mitica, ma costruita sulla base di osservazioni e di una
incipiente analisi razionale.
L'avanzata dei Persiani nell'Asia Minore travolge, sul finire del secolo,
l'intera Ionia; Mileto e gli altri centri piu importanti perdono la loro
autonomia e subiscono distruzione e devastazione da parte di Dario. Ecco
perché, nella seconda metà del secolo v1, la cultura filosofica si afferma in
un nuovo ambiente, le colonie greche dell'Italia meridionale e della Sicilia;
queste erano state fondate nel corso del secolo vm ad Agrigento, Gela,
Catania, Taranto, Metaponto, Reggio, Elea, Napoli; i coloni provenienti
dall'Acaia, da Megara, dalla Locride s'erano dati principalmente al com-
mercio e questo aveva portato nelle nuove comunità ricchezza e benessere;
in esse, nel corso del secolo v1, si accresce il numero dei mercanti, dei
marinai e degli artigiani, mentre si riduce quello degli schiavi-contadini;
avviene di frequente che elementi dell'aristocrazia originaria si alleano
con gruppi delle nuove categorie sociali e danno luogo ad un governo tiran-
nico appoggiato dagli artigiani e dai commercianti. ~ in quest'ambiente
che si afferma la scuola fondata da Pitagora; essa parte dalle conoscenze
matematiche che erano strettamente legate ai bisogni del commercio, per
svilupparç delle ricerche astratte di portata molto maggiore, anche se non
pare che la scuola sia rimasta estranea alla diffusione dell'orfismo nell'Italia
meridionale ed al costituirsi di numerose associazioni per il culto di Dioniso.
Anche Senofane, che è contemporaneo di Pitagora, pur essendo nato
a Colofone, nella Ionia, soggiornò in Sicilia e nell'Italia meridionale; egli
non solo si ricollega all'indagine naturalistica iniziata dalla scuola di Mi-
leto, ma imposta per primo una critica radicale della cultura mitica, ome-
rica ed esiodea; la riflessione critica entra con lui per la prima volta in
aperto contrasto con la coscienza etico-religiosa tradizionale.

3. La scuola di Mileto.
Le prime riflessioni filosofiche di cui abbiamo notma sono quelle
che risalgono al gruppo della città di Mileto. Talete, che è il piu antico
in ordine di tempo, nacque forse intorno al 624 e mori intorno al
546; compi molti viaggi quale imprenditore commerciale; Platone lo
ricorda fra gli scopritori di invenzioni tecniche ed Erodoto afferma
che in veste di tecnico egli prese parte a spedizioni militari. Pare che
Talete abbia introdotto in Grecia sia conoscenze di geometria diffuse
in Egitto, sia alcune conoscenze astronomkhe diffuse presso i caldei;

s
Baruch_in_libris
IL SECOLO VI A. C. CAP. I

proprio giovandosi di queste conoscenze, egli avrebbe conseguito


risultati piuttosto inconsueti al suo tempo, come la predizione di
un'eclisse, la misurazione da terra della distanza delle navi sul mare
e il calcolo dell'altezza delle piramidi ottenuto con la misurazione del-
l'ombra da esse proiettata. Gli studiosi ritengono però che Talete abbia
conseguito questi risultati non in base a precise conoscenze teoriche
di matematica e di geometria, ma soltanto sfruttando criteri pratici
di misurazione e sistemi empirici di previsione. La prospettiva piu
unitaria ed ampia intorno alla natura è quella che a Talete attri-
buisce Aristotele quando afferma che egli riteneva l'acqua principio
delle cose. Probabilmente Talete intendeva con ciò rilevare che i vari
aspetti della natura, per quanto molteplici e diversi, si riportano in-
fine ad un solo principio, l'acqua. Non sappiamo su quali conside-
razioni sia stata fondata questa asserzione; anche Aristotele affaccia
in proposito solo delle supposizioni; forse Talete ricavò questa con-
cezione, scrive, « dal vedere che il nutrimento di tutte le cose è
umido e che perfino il calore se ne genera e ne vive, e dall'avere
natura umida i semi di tutte le cose e dall'essere appunto l'acqua
nelle cose umide il principio della loro natura»; può anche darsi che
Talete abbia invece fondato la sua teoria su osservazioni meteorolo-
giche, connesse con i suoi viaggi per mare. La unificazione della
natura, cosf conseguita, è certamente molto rozza; ma è pur signi-
ficativo che Talete non faccia ricorso, per spiegarla, ad un dio o ad
altro principio mitico, ma si richiami invece ad una realtà fisica cd
al suo legame con una serie abbastanza ampia di fenomeni.
Anassimandro visse a Mileto dal 610 al 546; anch'egli viene ri-
cordato per aver introdotto in Grecia importanti ritrovati tecnici, come
l'uso dello gnomone o orologio solare, già noto presso i caldei; pare
anche che abbia avuto per primo l'idea di tracciare una carta della
terra. Scrisse un'opera Sulla natura, di cui ci è giunto un solo fram-
mento; per il resto delle sue dottrine ci dobbiamo affidare a testi-
monianze posteriori. Per dare una spiegazione unitaria della natura,
Anassimandro non si ferma ad uno o all'altro degli elementi piu im-
mediatamente osservabili, come l'acqua o l'aria o il fuoco; infatti
ogni elemento ha una sua qualità che è diversa da quella degli altri;
ad es., l'aria è fredda, mentre il fuoco è caldo; se uno di questi elc-

Baruch_in_libris
§ 3 LA SCUOLA DI MILETO

menti fosse all'origine degli altri, se, ad es., l'aria fosse all'origine
anche del fuoco, il caldo del fuoco risulterebbe annullato dal freddo
dell'aria. Anassimandro pensa dunque. che il mondo derivi da una
massa indefinita (a:rrELQov) cioè da una materia comune, da una me-
scolanza, dalla quale si staccano i vari elementi con i loro opposti
caratteri; i contrari che si separano dal caos indefinito sono «il caldo
e il freddo, il secco e l'umido e simili». Anassimandro ha anche ten-
tato di dare una spiegazione del succedersi, nella natura, dei vari con-
trari, e ha affermato che « donde vengono, nascendo, le cose, ivi esse,
morendo, ritornano, secondo necessità»; i contrari che derivano dall'inde-
finito, ad esso ritornano; l'uno rispetto all'altro essi si comportano come
due persone di cui la prima caccia la seconda, commettendo ingiu-
stizia; ma chi è stato cacciato dal mondo, torna ben presto a cac-
ciare chi l'ha estromesso; e cosi si ha anche nella natura un generale
equilibrio analogo a quello che la legge consente di realizzare nella
società. Anassimandro ha anche affrontato questioni piu particolari
su singoli aspetti della natura : ha sostenuto che la terra occupa il
centro dell'universo e non è quindi sollecitata a muoversi in nessuna
direzione; si è posto il problema dell'origine dell'uomo affermando che
i primi esseri viventi furono della natura dei pesci e che anche l'uomo
in origine sarebbe vissuto alla maniera dei pesci; ha cercato di farsi
un'ideà del cielo e di spiegarsi i piu importanti fenomeni astronomici.
Anassimene vive probabilmente dal 586 al 528 ed è sua volta autore
di uno se-ritto sulla natura, di cui ci è giunto un solo brevissimo fram-
mento. Le testimonianze gli attribuiscono la dottrina per cui cc il prin-
cipio primordiale che sta sotto alle cose è unico ed infinito, non però
indeterminato, ma determinato»; esso viene identificato con l'aria,
intesa come vapore, soflio, esalazione. «Proprio come l'anima· nostra
che è aria ci sostiene, scrive Anassimene, cosi il soffio e l'aria circon-
dano il mondo intero». Diceva inoltre che «dall'aria infinita sono
nate le cose che sono, e quelle che furono e quelle che saranno, e gli
dèi e le cose divine». Intorno al modo in cui dall'aria derivano tutte
le cose, le testimonianze ci hanno conservato indicazioni importanti:
intanto cc l'aria è sempre in movimento, perché non presenterebbe
tanti mut:imcnti quanti ne presenta, se non fosse in moto»; essa dà
luogo alle varie cose per via di rarefazione e di condensazione; l'aria

7
Baruch_in_libris
IL SECOLO VI A. C. CAP.

rarefacendosi diventa fuoco, condensandosi invece diventa vento, poi


nuvola, e ancor piu condensandosi, diviene acqua, poi terra, e quindi
pietra; il caldo e il freddo non esistono nell'aria, ma derivano dalle
sue mutazioni. Anche Anassimene si preoccupa, come Anassimandro,
oltre che di porre un principio della natura, di dare una spiegazione
del processo mediante il quale dal principio deriva la realtà nei suoi
aspetti vari e molteplici; in particolare Anassimene trova nei proce-
dimenti della rarefazione e della condensazione la maniera piu sem-
plice di spiegare sia l'unità del principio che la molteplicità delle cose.
Le dottrine formulate dagli studiosi del gruppo di Mileto sono,
nell'insieme, piuttosto primitive e sommarie, anche tenuto conto delle
scarse informazioni che noi ne abbiamo; esse cercano bens1 di dare
una spiegazione ragionata della realtà, a differenza del tradizionale
discorso mitico, ma con soluzioni che hanno il carattere di sintesi
molto rapide e di generalizzazioni alquanto affrettate: Tuttavia è
importante l'affermazione dell'unità fisica della natura a cui il gruppo
perviene; tutto, sostengono gli studiosi di Milcto, rientra in un prin-
cipio unitario del mondo; nulla ne rimane fuori, nemmeno gli dèi;
inoltre il divenire della natura, che ha un suo andamento ciclico, è
regolato da leggi costanti. A queste istanze fondamentali giunge, nel
suo tentativo di dominio sulla natura, l'esperienza tecnica e conoscitiva
della ricca e intraprendente aristocrazia di Mileto: ad esse si rifà il suc-
cessivo sviluppo della ricerca scientifica intorno alla natura cd alla realtà.

4. Pitagora.
Le molte biografie di Pitagora giunte fino a noi cc lo presentano
piu come un taumaturgo cd operatore di miracoli che come il fon-
datore di una scuola scientifica; esse sono però tutte influenzate da
quel .misticismo religioso che si affermò nella comunità neo-pitagorica
a partire dal I secolo a. C. Solo poche testimonianze, fra tante, paio-
no meritare fiducia. Da esse risulta che Pitagora nacque a Samo,
forse intorno al 570; gli vengono attribuiti molti viaggi, specialmente
in Egitto; ancor giovane lasciò l'isola nativa e si recò a Crotone, nel
golfo di Taranto; è qui che Pitagora fondò un'associazione che ebbe,
pare, anche carattere religioso, sul tipo delle comunit~ orfiche. Il grup-

Baruch_in_libris
PITAGORA

po che cosi si raccolse intorno a Pitagora riusci ad impadronirsi del po-


tere nella città; non è improbabile che esso rappresentasse il sopravvento
dei ricchi artigiani e commercianti contro vecchie fazioni nobiliari; è
infatti una di queste che ebbe a contrastare il governo dei pitagorici
poco prima che Pitagora venisse a morte nel 497. Egli non lasciò
scritti; perciò è assai difficile distinguere il suo apporto scientifico da
quello dei suoi immediati discepoli; lo stesso Aristotele mostra di
non sapere nulla di preciso intorno agli insegnamenti impartiti . da
Pitagora e parla sempre di " pitagorici ". Non si può senz'altro esclu-
dere che egli abbia professato delle opinioni che erano proprie dell'or-
fismo, come la trasmigrazione delle anime, l'eterno ritorno e l'affinità
di tutti gli animali; ma certamente a queste opinioni Pitagora univa
una grande dottrina. Aristotele anzi spiega il fatto dell'unione del-
l'interesse religioso con quello scientifico nella scuola pitagorica, os·
servando che la pratica religiosa comportava solo un atteggiamento
rituale, senza l'accettazione di rigide dottrine.
Le testimonianze insistono principalmente sul fatto che « Pitagora
si occupò di matematiche e di numeri» ed attestano che «fece avan·
zare tali ricerche al di là dello stato antecedente, conducendole oltre
i bisogni dei commerci». Aristotele ci informa anzi che i pitagorici,
« nutritisi delle matematiche, credettero che i principii di queste fos-
sero anche principii di tutte le cose», Ed ecco come, a suo parere,
essi giunsero a tale conclusione: « Poiché i numeri sono per natura
primi nelle matematiche, e nei numeri essi credevano di trovare, piu
che nel fuoco e nella terra e nell'acqua, somiglianze con le cose che
sono e che divengono, e poiché inoltre vedevano espresse dai numeri
le proprietà e i rapporti degli accordi armonici, poiché insomma ogni
cosa nella natura appariva loro simile ai numeri, ed i numeri appa-
rivano primi tra tutto ciò che è in natura, cosi pensarono che gli
elementi dei numeri fossero elementi di tutte le cose che sono e che
il mondo intero fosse armonia e numero». I pitagorici giunsero anzi-
tutto a considerare i numeri come strutture quantitative indipendenti
dalla particolare materia dei singoli corpi; e studiarono le relazioni e
i caratteri dei numeri per se stessi. Consideravano ogni numero come
una collezione di unità ed ogni unità come costituita da un punto
fisico; poiché l'aumento di un numero avviene per salti di non meno

Baruch_in_libris
IL SECOLO VI A. C. CAP. I

di una unità, la quantità o numero è discontinua. I punti che for-


mano un numero si possono disporre in modo che formino delle fi-
gure geometriche; ne consegue che ogni numero è una figura geo-
metrica ed ogni figura geometrica è un numero; era cosi possibile
studiare le proprietà delle figure geometriche partendo dalle pro-
prietà del corrispondente numero di punti, e chiarire le proprietà dei
numeri muovendo dai caratteri delle corrispondenti figure geometriche.
Questa fusione dell'aritmetica e della geometria consenti ai pitagorici
di conseguire notevoli risultati; il piu noto di essi è il teorema che
va sotto il nome dello stesso Pitagora e che concerne l' equivalenza del
quadrato costruito sull'ipotenusa di un triangolo .rettangolo con la
somma dei quadrati costruiti sui cateti; in verità non sappiamo quale
dimostrazione Pitagora abbia fornito di tale teorema che trovò piu
tardi una chiara sistemazione negli Elementi di Euclide. Pare che
Pitagora abbia anche scoperto per primo che i suoni sono esprimibili
mediante numeri; egli sarebbe giunto a questa conclusione osservando
che, negli accordi piu facilmente percepibili dall'orecchio umano, il
rapporto fra le rispettive lunghezze delle corde sonore si può esprimere
con rapporti numerici molto semplici, come di quattro a tre: o di tre
a due, o di uno a due. Se si tien conto che, per la scuola pitagorica,
l'unità è formata da un punto fisico, si può facilmente intendere come
essa sia giunta a ritenere il numero, cioè la quantità misurabile, come
principio di tutte le cose; le cose si possono tutte considerare come co-
stituite di un 'numero finito di punti e quindi tutte regolate da una
quantità misurabile; nelle cose stesse quel che c'è di veramente· reale
non è dunque l'insieme delle qualità sensibili, quanto invece il loro ordine
quantitativo; mentre la scuola di Mileto resta ferma alla ricerca di un
principio gualitativo di unificazione della natura, la scuola di Pita-
gora. afferma cosi il principio che il mondo naturale ha una struttura
quantitativa e matematica. Alla scuola di Mileto i pitagorici si ri-
chiamano invece per altri aspetti della loro dottrina e principalmente
per la teoria dei contrari; è ancora Aristotele a farci conoscere una
serie di dieci opposizioni teorizzate dai pitagorici: limite e illimitato,
dispari e pari, uno e molteplice, destro e sinistro, maschio e femmina,
fermo e mosso, diritto e curvo, luce e tenebra, buono e cattivo, qua-
drato e rettangolo di latj disuguali. I milesii non vanno però oltre. la

IO

Baruch_in_libris
PITAGORA

segnalazione del contrasto fra caldo e freddo, umido e secco; i pi-


tagorici estendono la gamma dei contrarii e inoltre fanno luce sulla
contrarietà che domina nella natura ricorrendo al contrasto di pari
e dispari che è interno al numero o quantità.
Un residuo di misticismo religioso permane però nella swola pita-
gorica non soltanto per la sua connessione con il movimento orfico,
ma anche per una certa maniera magica di considerare i numeri ed il
loro rapporto con le cose; essa consiste nell'attribuire ai numeri lo
stesso potere mitico che la tradizione religiosa riferiva agli dèi. Il
nuovo sapere matematico elaborato da Pitagora e dai suoi sotto lo
stimolo pr'.ltico dei commerci, appena si afferma in procedimenti e
principii astratti, tende cosi a ricollegarsi con la tradizione gentilizia
e nobiliare dcl mito religioso.

5. Senofane.
Senofane, nato a Colofone intorno al 580, ne emigrò in seguito
alla conquista persiana e si diede ai viaggi per almeno 67 anni della sua
vita; soggiornò certamente in Sicilia e fu probabilmente anche ad Elea
nell'Italia meridionale; mori intorno al 480. Egli è legato allo spirito
del gruppo di Mileto, col quale ha in comune gli interessi naturali-
stici; sostiene infatti che «tutte le cose vengono dalla terra e nella
terra vanno a finire »; gli esseri viventi « sono terra ed acqua » ed
anche tutti gli uomini «sono nati dalla terra e dall'acqua»; in ori-
gine la terra era mescolata con l'acqua come prova, ad es., il fatto
che nelle latomie di Siracusa si trovano impronte di pesci; poi la
terra si libera dall'acqua e diviene abitabile da parte dell'uomo; alla
fine però la terra si inabissa nel mare e « tutti gli uomini scom-
paiono », mentre il ciclo della generazione comincia di nuovo.
Ma il tratto piu caratteristico della filosofia di Senofane è la sua
critica radicale dell'antropomorfismo religioso delle teogonie tradi-
zionali; egli polemizza principalmente contro Omero, perché «da lui
fin dall'antichità tutti hanno imparato». La critica senofanea del
modo tradizionale di raffigurare gli dèi non manca di motivi morali;
infatti, egli osserva, «Omero ed Esiodo h::inno attribuito agli dèi
tutte le cose che sono oggetto di vergogna e di biasimo fra gli uomini:
Il

Baruch_in_libris
IL SECOLO VI A. C. C/t.P. I

furti, adulteri, ed inganni reciproci». Ma la sua ragione piu profonda


consiste nel fatto che gli uomini si raffigurano, a torto, gli dèi a loro
immagine e somiglianza; « essi credono che gli dèi nascano e che
vestano come gli uomini e che abbiano voce e corpo come gli uomini » ;
cosi avviene che « gli Etiopi asseriscono che i loro dèi sono neri e con
naso camuso, e i Traci che sono azzurri di occhi e rossi di capelli »; « se
i buoi, i cavalli ed i leoni avessero mani, soggiunge Senofane, o fos-
sero in grado di dipingere e di compiere con le proprie mani opere
d'arte come gli uomini, i cavalli rappresenterebbero immagini di dèi
e plasmerebbero statue simili a cavalli, i buoi ai buoi, in modo appunto
corrispondente alla figura che ciascuno possiede». Contro la storia
della nascita delle varie divinità, narrata dalle teogonie, Senofane
osserva, a detta di. Aristotele, che « chi asserisce che gli dèi nascono
è empio come chi asserisce che essi muoiono, perché nell'un caso e
nell'altro ne segue che in un determinato momento gli dèi non esi-
stono». «C'è un solo dio, dice un frammento, il piu grande fra gli
dèi e gli uomini, che non somiglia agli uomini né per il corpo, né
per il pensiero »; egli infatti resta sempre nello stesso luogo senza muo-
versi affatto, «tutto intiero vede, tutto intiero pensa, tutto intiero
sente » e « senza fatica governa tutte le cose con la forza della sua
mente». Tanto Platone che Aristotele hanno messo in relazione que-
ste idee sulla divinità con le dottrine che piu tardi furono sostenute
da Parmenide e dalla scuola di Elea; perciò hanno considerato Seno-
fane come iniziatore di quell'indirizzo di pensiero che «suppone che
ciò che si suol chiamare tutte le cose sia un essere solo». Ma il poeta
di Colofone appare legato, piu che ai problemi della scuola di Elea,
allo sviluppo dello spirito laico della scuola di Mileto, di cui porta i
risultati nella critica della coscienza religiosa tradizionale; questa pre-
tendeva di proporre i suoi enunciati intorno alle divinità come frutto
d'una conoscenza oracolare, sacra ed indiscutibile; ma i nuovi ceti
di commercianti e di artigiani, intraprendenti e ricchi, non hanno piu
un atteggiamento passivo e remissivo di fronte a quella tradizione;
essi ritengono, come Senofane, che su di tutto non ci sono che opi-
nioni e che non sono affatto gli dèi che hanno mostrato agli uomini la
verità fin dal principio, ma sono gli uomini che «cercano e con il
tempo trovano il meglio».

Baruch_in_libris
s6 LO SVILUPPO DELLE SCIENZE

6. Lo sviluppo delle scienze.


La cultura greca alle sue origini ha un carattere accentuatamente uni-
tario che non contempla ancora delle distinzioni rigorose fra campi dif-
ferenziati di conoscenza. Ciò non va tanto detto con riferimento agli
aspetti filosofici di tale cultura, i quali hanno appunto come indirizzo di
prospettare delle vedute unitarie e generali intorno al sapere umano, ma
con riferimento alla trattazione di gruppi di conoscenza ·in sé organici e
relativamente autosufficienti. Ad es., in Anassimandro si afferma certa-
mente una prospettiva filosofica, se, come ci attestano le fonti, è vero che
egli si è sforzato di delineare, con la derivazione di tutte le cose dall'inde-
finito, una visione unitaria e comprensiva del sapere umano; ma le sue
affermazioni circa il posto della terra nell'universo o intorno a fenomeni
celesti non sono organizzate in modo da dar luogo ad una distinta scienza
astronomica, come le sue affermazioni circa l'origine dell'uomo e degli
esseri viventi non formano un organismo autonomo di conoscenze biolo-
giche; e ciò non solo per gli scarsi frammenti che dell'opera di questi
lontani studiosi sono giunti fino a noi, ma anche perché essi si dedicavano
a queste diverse conoscenze in forma sommaria e senza intenti specialistici.
Ma fin quasi dai primordi il lavoro intellettuale e della conoscenza rigo-
rosa si viene dividendo al suo interno, sia quanèo le nozioni attinenti ad
un singolo campo di conoscenza si vengono accrescendo, sia quando dei
complessi dottrinali in sé organici e relativamente autonomi si vengono
solidificando. Cosi si può ben dire che l'ampio sviluppo dato dai pitagorici
alle loro conoscenze di aritmetica e geometria è riuscito a costituire un
campo autonomo di ricerche, quello della matematica, del quale essi hanno
realizzato una prima sistemazione; costituendosi in forma autonoma, la
matematica ha potuto essere approfondita in modo piu analitico, si è data
dei principii, uno sviluppo ed un ordinamento; tutto ciò l'ha portata a di-
stinguersi dalla filosofia, anche se i pitagorici non hanno trascurato di stu-
diare i nessi fra la matematica e la filosofia, come attesta il fatto che essi
si sono preoccupati di fare di quel numero che veniva analizzato dalla mate•
matica un principio di ordine piu generale e pertanto capace di esprimere la
conoscenza di tutto il reale. La matematica, nella sua forma di aritmo-geo-
metria, è forse la prima scienza che troviamo costituita in forma autonoma
all'interno della cultura greca, anche se soltanto piu tardi, con Euclide, essa,
almeno nel suo aspetto geometrico, avrà una sistemazione piu efficace e com-
pleta. Al configurarsi di questo campo distinto di conoscenza non è estraneo
nemmeno l'uso pratico dei conti e della misurazione, richiesto dai bisogni
del commercio, anche se esso non contribuisce- in modo diretto a conferire
alla matematica nei suoi lati astratti la sua specifica autonomia.
Bisogna qui far parola di una wolta importante di fronte alla quale la
matematica pitagorica si trovò quasi agli inizi del suo stesso sviluppo; è la
crisi determinata dalla scoperta delle grandezze incommensurabili, che la

13
Baruch_in_libris
IL SECOLO VI A. C. CAP. I
-----------· -·----

tradizione coll:.ca ai primordi del pitagorismo. Alla scoperta si giunse appli-


cando il teorema di Pitagora ad uno dei due triangoli isosceli in cui si
divide un quadrato; risulta che non esiste nessuna unità, per quanto piccola,
contenuta un numero esatto di volte tanto nel lato quanto nella diago-
nale del quadrato; se veramente il numero risultasse da tante unità disconti-
nue, come ritenevano i pit:1gorici, lato e diagonale dovrebbero essere commen-
surabili, ossia contenere un. numero preciso di unità; invece essi risultano
incommensurabili, cioè non si può piu supporr<'. che un numero intero ma
finito di unità li costituisca entrambi; bisogna dunque supporre che delle
linee risultino di un numero infinito di punti, e ciò significa appunto met-
tere in crisi la concezione del numero e dell'unità da cui la matematica
pitagorica aveva preso le mosse. È questa la difficoltà che ha piu tardi in-
dotto i matematici a separare l'aritmetica dalla geometria e ad intendere la
aritmetica come studio della quantità discontinua e la geometria come studio
della quantità continua.
La medicina è, con la matematica, fra i settori scientifici che si sono
per primi organizzati in modo autonomo; la pratica della medicina, con-
nessa al bisogno di curare le malattie, ha avuto un peso determinante sul
nascere di tale autonomia; fin dall'età omerica coesistono, in Grecia, una
medicina "laica " esercitata da pratici artigiani ed una medicina " magica"
praticata da gruppi sacerdotali; l'affermarsi dello spirito filosofico porta a
maturazione il primo indirizzo; ciò avviene in particolare al tempo di Pi-
tagora per opera di Alcmeone di Crotone, il quale raccoglie il frutto di ri-
cerche e di osservazioni svolte da intere generazioni di medici prima di lui.
Ad Alcmeone si attribuisce sia una dottrina generale, secondo la quale la
salute fisica va intesa come un equilibrio dei vari elementi che costitui-
scono il corpo e la malattia come la sua rottura, sia una sommaria analisi
del corpo umano e del funzionamento dei suoi organi, con particolare. ri-
guardo al cervello. Ha inizio d'altronde, con Alcmeone, una contrapposi-
zione fra il metodo della filosofia che tende ad unificare il reale in un prin-
cipio ed il metodo della meòicina che, con maggiore cautela, si attiene al-
l'osservazione dell'espcrienz3 e attraverso di essa, alla ricerca delle cause
della malattia; si viene cosf configurando un sapere meno unitario, ma piu
aderente alla varietà e molteplicità dell'esperienza.
Con Ecateo di Mileto vissuto fra il 550 cd il 480, nasce in Grecia la geo-
grafia; il suo scritto Periplo del mondo descrive i luoghi dell'Asia, del-
l'Africa e dell'Europa allora conosciuti; l'autonomia, di questo nuovo campo
di conoscenze trac origine certamente anche dall'intensificarsi dci traffici e
dei viaggi; ma la pur sommaria e imperfetta descrizione dei luoghi compiuta
da Ecateo non manca di un'impostazione di carattere piu generale e filo-
sofico, che egli attinge indubbiamente all'ambiente culturale di Mileto; egli
tende infatti a sostituire le tradizionali narrazioni leggendarie e mitiche con-
nesse con le varie località, con una descrizione dei caratteri naturali dd
diversi paesi.

Baruch_in_libris
CAPITOLO Il

La prima metà del secolo v


ERACLITO. PARMENIDE E ZENONE. EMPEDOCLE.
ANASSAGORA

1. Il periodo•.
Nella prima metà dcl secolo v, la storia greca è dominata dalla lotta
contro i Persiani; ed è in questa che emerge la forza politica e morale di
Atene; il suo governo aristocratico raggiunge un alto livello di efficienza;
la tradizione religiosa stringe in un blocco compatto tutti i cittadini; e
si ha la vittoria di Maratona nel 490 e poi, nel 479, la vittoriosa con-
clusione di tutta la guerra, da cui la Grecia esce con una piu solida con-
sapevolezza della sua forza e della sua :mto~omia. Ma è proprio da tale con-
sapevolezza che anche i ceti popolari traggono energia per una piu attiva
partecipazione alla vita della polis; i contrasti fra il partito aristocratico e
quello democratico vengono ormai maturando, anche se la situazione trova
intanto il suo equilibrio nel governo"· illuminato di Pericle. Ma Atène, se è
ormai avviata a divenire il centro politico della Grecia, non ne è ancora il
centro culturale; in essa domina la tradizione religiosa ed i costumi duri e
militareschi vi hanno il sopravvento sulle conoscenze scientifiche e filosofiche.
Solo con Anassagora che fa parte dcl movimento culturale promosso da
Pericle, la filosofia si afferma ad Atene sul finire della prima metà dcl secolo;
tutti gli altri pensatori di questo periodo, da Eraclito a Parmenide, da Zenone
ad Empedocle, svolgano la loro attività altrove; ancora nella zona delle colo-
nie ioniche dell'Asia Minore Eraclito, nell'Italia meridionale cd in Sicilia
tutti gli altri.
Eraclito appartiene alla aristocrazia nobiliare di Efeso come traspare
anche dal carattere oracolare ed enigmatico dei frammenti che ci sono giunti
dell'opera sua; tuttavia il suo pensiero segna una brillante ripresa dell'indi-
rizzo filosofico del gruppo di Mileto circa un trentennio dopo la morte di
Anassimene. Con Parmenide e Zenone fiorisce ad Elea nell'Italia meridio-
nale una nuova scuola; essa si schiera contro le dottrine pitagoriche, di cui
svolge un'acuta critica; anche l'opera che contiene il pensiero di Parmenide

lj

Baruch_in_libris
LA PRIMA METÀ DEL SECOLO V CAP. Q

ha un andamento solenne e iniziatico, mentre con Zenone si affermano la


polemica e la dialettica specialmente contro le dottrine pitagoriche. Empe-
docle ed Anassagora sono di circa trent'anni pio giovani di Eraclito e di
Parmenide; il primo vive ad Agrigento ed ha notevoli legami con la scuola
pitagorica; il suo pensiero però tenta vie nuove in cui l'originario indirizzo
di Mileto viene arricchito dai risultati della piu recente riflessione; altrettanto
si può dire di Anassagora che, inizialmente legato alla tradizione culturale
di Mileto, porta poi ad Atene i primi germi della ricerca filosofica. Tutte
le dottrine di questo periodo presentano maggiore rigore di analisi e mag-
giore determinatezza rispetto alle sintesi piuttosto sommarie del periodo
precedente.

2. Eraclito.
Nativo di Efeso, Eraclito fiorf intorno al 500 a. C.; aveva not1z1a
delle dottrine della scuola di Mileto, ma era a conoscenza anche delle
dottrif!e di Pitagora e di Senofane, dei quali era probabilmente piu
giovane di circa trent'anni. Dell'opera in cui è esposto il suo pensiero
ci sono giunti molti frammenti; ma la loro brevità e lo stile prover-
bialmente enigmatico in cui· sono redatti ne rendono assai difficile la
comprensione.
Secondo Eraclito, gli uomini sono incapaci di elevarsi alla verità;
ed anche quando la vérità sia stata loro indicata, si comportano come
prima di conoscerla; ciò è dovuto al fatto che non sanno dirigere giu-
stamente la loro attenzione; essi usano bensr gli occhi e gli orecchi,
ma « occhi ed orecchi sono cattivi testimoni per gli uomini che hanno
anime che non comprendono il loro linguaggio». Non è quindi ai
sensi che si deve imputare, a giudizio di Eraclito, l'ignoranza degli
uomini; anzi, criticando la tradizione, egli le antepone la ricerca di-
retta, quella appunto che ci fa « vedere, intendere ed apprendere »
direttamente le cose; e con lo stesso proposito dichiara che «gli occhi
sono testimoni piu esatti degli orecchi ». L'ostacolo maggiore alla co-
noscenza della verità è costituito piuttosto dalle molte e troppe cose
su cui l'intelligenza umana. si ferma e dalle quali essa non viene
istruita; Pitagora e Senofane hanno appunto peccato di tale erudizione.
L'unica cosa che importa sommamente di conoscere per Eraclito è
il rapporto fra la realtà nella sua unità e l'opposizione che distacca
i contrari l'uno dall'altro, dando luogo alla molteplicità. Anassiman-

16

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§ 2 ERACLITO

dro, ad esempio, pur avendo ammesso l'unità di tutto il reale e avendo


riconosciuto l'esistenza dei contrari, aveva ritenuto che i secondi in-
taccassero in qualche modo la prima; ed aveva appunto ritenuto ne-
cessario che i contrari si risolvessero di volta in volta nell'indefinito,
dal quale derivavano.
Eraclito rileva invece che ciò che risulta da due opposti costituis~e
una unità, è un'unità; non bisogna quindi considerare l'unità come
esterna agli opposti e questi come contrari ad essa; l'unità è unità di
contrari ed i contrari sono tali nell'unità che li lega insieme. La realtà
è sempre unità ed opposizione, «è unità armonica di tensioni opposte».
L'unità del reale insomma non è data da alcuno dei due opposti, preso
isolatamente dall'altro, ma dal loro ciclo; allargando lo sguardo della
mente al di là di uno solo degli opposti, abbracciandoli entrambi, si
ottiene di identificare l'unità e l'opposizione molteplice; l'opposizione
non intacca l'unità, ma la realizza; e l'unità non toglie rilievo alla
molteplicità degli opposti, ma la esprime e .la spiega. Secondo Anas-
simandro i contrari si fanno ingiustizia l'un l'altro e si scacciano reci-
procamente; per Eraclito invece la guerra dei contrari non è espres-
sione di ingiustizia, ma realizza la giustizia, cioè l'unfrà stessa delle
cose. « Omero aveva torto, afferma Eraclito, di auspicare che la di-
scordia si estinguesse fra gli dèi e gli uomini; egli non comprendeva
che in tale modo pregava per la distruzione dell'universo »; e spiega:
« la guerra è padre di tutte le cose e re di tutte le cose »; e « tutte
le cose sono uno».
Perché la realtà, nella sua unità, anziché lin;!itai.si ad uno degli
opposti, li abbracci entrambi, bisogna che il passaggio dall'uno all'altro
degli opposti sia necessario. Per questo il divenire è, nella dottrina di
Eraclito, la necessaria conseguenza dell'identità stabilita fra l'unità e
l'opposizione. « Tutte le cose divengono » ( :rt:civta QEi) è una famosa
affermazione che esprime il suo pensiero. Platone attesta a sua volta
che, per Eraclito, «tutte le cose passano e nulla permane». «Non si
può, dice un frammento, discendere due volte nello stesso fiume, poi-
ché nuove acque scorrono sempre intorno a te ». Il divenire investe
tutti gli aspetti della realtà: « le cose fredde divengono calde e ciò
che è caldo si raffredda; ciò che è umido si dissec~ e ciò che si è dis-
sc~cato diviene umido »; altri termini dcl divenire che ricorrono nei

Baruch_in_libris
LA PRIMA METÀ DEL SECOLO V CAP. Il

frammenti sono: giorno e notte, inverno ed est:ite, guerra e pace, ab-


bondanza e carestia, dispersione e riunificazione, avanzamento e :riti-
rata, bene e male, giustizia ed ingiustizia, morte e vita, giovinezza e
maturità.
Ispirandosi ai princ1p11 della filosofia ionica, Eraclito ha ritenuto di
riscontrare nel fuoco i caratteri essenziali della realtà. « Il mondo, dice
un frammento, che è lo stesso per tutti, non l'ha fatto alcuno degli
dèi o degli uomini, ma è sempre stato, è e sarà sempre un fuoco
eternamente vivente che si accende con misura e con misura si spe·
gne ». Un altro frammento spiega: << Tutte le cose si scambiano con
il fuoco e il fuoco si scambia con tutte le cose·, come le mercanzie si
scambiano con l'oro e l'oro si scambia con le mercanzie ». Il fuoco
dovette parere ad Eraclito un principio piu adatto dell'aria di Anas-
simene a spiegare l'universale divenire, in quanto la combustione che
dà luogo al fuoco è una trasformazione continua; la fiamma pare qual-
che cosa di stabile, ma in realtà è in continuo flusso; altrettanto si
dica delle cose: esse paiono stabili, ma la materia di cui risultano è
in continua trasformazione.
Eraclito spiega il divenire atiraverso due procedimenti, « il cam-
mino in basso ed il cammino in alto >>. Il primo muove dal fuoco che,
condensandosi, diviene umido e, quando venga compresso, si trasforma
in acqua; l'acqua, poi, congelandosi, si trasforma in terra. Il cammino
verso l'alto muove invece dal liquefarsi della terra; da essa nasce allora
l'acqua e dall'acqua tutto il resto per evaporazione. Tutte le cose, tanto
le umane che le divine, « seguono la trasformazione in alto ed in basso
per mezzo dei mutamenti ». Anche l'uoJT10 è flusso continuo; egli è
costituito di fuoco, acqua e terra. «L'anima secca è la piu saggia e la
migliore»; il predominio dell'acqua causa invece la morte; ma dalla
terra in cui si è sciolta l'anima, torna poi, per la via all'insu, a nascere
un'altra anima. Anche fra gli dèi e gli uomini avviene, secondo Eraclito,
uno scambio, in forza della duplice via all'insu ed all'ingiu. Ogni muta-
'mento in una direzione viene insomma compensato da un muta-
mento nella direzione contraria. Una "misura" governa il divenire;
nemmeno il fuoco può sottrarsi a tale " misura ", dentro la quale il
mondo viene .regolato dalla giustizia. Nel pensiero di Eraclito da un
lato si avverte l'eco di una visione aristocratica del sapere (di qui il

18

Baruch_in_libris
§ 2 l!llACLITO

suo disprezzo per i molti e la sua considerazione della verità come di un


privilegio), dall'altro si prolunga quell'interesse dei ricchi commercianti
per il mondo naturale che aveva dato vita alla cultura di Mileto; non
per nulla Eraclito paragona il divenire di tutte le cose dal fuoco al con-
tinuo scambio dell'oro con le mercanzie.

3. Parmenide.
Par;nenide, contemporaneo di Eraclito, vive e fonda una sua scuola
ad Elea nell'Italia meridionale. Egli ebbe rapporti con i pitagorici, dci
quali conobbe e criticò le dottrine; ebbe conoscenza anche delle dot-
trine ioniche mentre non pare che abbia esercitato su di lui un influsso
diretto il pensiero di Senofane. Il pensiero di Parmenide è tutto raccolto in
un poema, di cui ci sono giunti 19 frammenti. Nel proemio l'autore narra
come le fanciulle figlie del Sole lo abbiano guidato su un cocchio
alato oltre la porta « dei sentieri della Notte e del Giorno » fino al
cospetto della dea dalla cui bocca ·egli apprenderà « a conoscere ogni
cosa, sia il cuore inconcusso della ben rotonda verità, sia le opinioni dei
mortali nelle quali non si trova verace credibilità ». Il sapere ha dun-
que per Parmenide un'origine divina ed una sanzione celeste, proprio
come voleva la tradizione religiosa e sacrale; ma il suo contenuto è
nuovo e razionale.
« Due sole vie di ricerca si possono concepire, scrive Parmenide;
l'una è che l'essere è e non può non essere; e questa è la via della persua-
sione, perché è accompagnata dalla verità; l'altra, che l'essere non è ed
è necessario che non sia; e questo è un sentiero sul quale nessuno può
persuadersi di nulla». Parmenide prende decisamente posizione contro
le varie forme di dualismo della filosofia precedente; dualistica è, a
suo giudizio, la dottrina che ammette il nascere e il perire della realtà,
il suo divenire; dualistica è la dottrina dei contrari, per cui il reale
risulterebbe di termini opposti; dualistica era anche la concezione pita-
gorica che ammetteva l'esistenza dcl vuoto. In tutte queste dottrine
entra come elemento determinante il non-essere, la mancanza o nega-
zione della realtà. Ora, a giudizio di Parmenide, il non-essere non
va confuso con l'essere; non gli si può quindi attribuire esistenza analoga
a quella dell'essere; chi compie questo errore, si rifà all'abitudine

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LA PlllMA METÀ DEL SECOLO V CAP. Il

«nata dalle molteplici esperienze», ali'« occhio che non vede », al-
l'orecchio « che rimbomba di suoni illusori » ed anche alla «lingua
che pronuncia nomi vani »; in una parola, chi attribuisce al non-essere
l'esistenza al pari che all'essere, si lascia trarre in inganno dalla sensa-
zione. Bisogna invece attenersi, secondo Parmenide, al giudizio che
si fonda sul ragionamento; le sue conclusioni sono in aperto contrasto
con le apparenze sensibili.
L'essere, secondo il giudizio della ragione, è ingenerato (non nasce)
ed indistruttibile (non muore); di esso non si può cercare l'origine.
Che l'essere o la realtà non possa nascere viene cosi dimostrato da
Parmenide: « Come e donde il suo nascere? Che nasca da ciò che non è
non è consentito né dirlo, né pensarlo; infatti non si può né dire né
pensare che l'essere non è; e se l'essere avesse inizio dal niente, quale
necessità l'avrebbe determinato a nascere in un tempo piu recente o piu
remoto? Dunque è necessario o che esista del tutto o che non esista
affatto». Ma l'essere non può nemmeno perire o trasformarsi perché
dall'essere non può nascere qualche cosa di diverso dall'essere; ciò signi-
fica escludere che l'essere possa morire o essere distrutto; in tal modo,
conclude Parmenide, «il nascere è spento e non c'è piu traccia del
perire». Questa condizione del reale è controllata da giustizia; essa
« tiene fermo» il reale, « stringe i suoi legami», non consente ad esso
di uscire da una norma precisa. Inoltre il reale è tale ugualmente dap-
pertutto, per cui «non c'è in qualche parte un di piu di essere, né in
altra parte un di meno», come sosteneva, ad esempio, la dottrina della
rarefazione e della concentrazione. Il reale è anche necessariamente im-
mobile; esso «rimanendo identico nell'identico stato, sta in se stesso
e cosI rimane immobile » « nel limite di possenti legami »; è la Necessità
dominatrice che « lo tiene nei ceppi del limite che tutto intorno lo
cinge»; anche l'immobilità del reale, cioè, non è casuale, ma risponde
ad una legge dì assoluta necessità; il reale è cosI e deve essere cosf. Né si
può ammettere che il reale abbia un processo di formazione e che risulti
pertanto incompiuto; esso noò può essere che completo nella sua totalità.
Coloro che si fermano invece alla conoscenza sensibile, senza ele-
varsi alla conoscenza rigorosa della ragione, si riferiscono al reale affer-
mando che esso nasce e muore, che cambia luogo e muta; cosI coloro
che fanno consistere il reale nella lotta degli opposti hanno il torto,

:IO

Baruch_in_libris
s3 PARMENIDE

secondo Parmenide, di « nominare due forme, di contrapporle l'una


all'altra e di applicare a ciascuna di esse caratteri nettamente separati
l'uno dall'altro»; per queste dottrine, la tenebra è altrettanto reale che
la luce, il freddo altrettanto reale che il caldo. Per Parmenide tutti gli
opposti si possono per contro ricondurre all'opposizione fondamentale
di essere e non-essere, con la conseguente eliminazione del non-essere.
Chi si pone dal punto di vista piu alto, quello della ragione, non deve
tuttavia trascurare l'esistenza del punto di vista comune, fornito dall'ap-
parenza sensibile; in questo campo Parmenide intende proporre la spie-
gazione piu verosimile fra quelle formulate e la trova sostanzialmente
nelle vedute del dualismo pitagorico, che Aristotele interpreta come un
contrasto di caldo e di freddo, dalla cui mescolanza derivano tutte le cose.
Non è facile per noi intendere con precisione il pensiero di Parme-
nide. Quel che è certo è che egli ha voluto mettere in risalto il contrasto
fra una conoscenza che si attiene alle osservazioni sensibili e una cono-
scenza razionale pura, intesa come lo svolgimento di una deduzione
non contraddittoria; per questo parecchi .studiosi ritengono che Parme-
nide sia stato il primo ad asserire il principio di identità o di non contrad-
dittorietà del discorso come carattere essenziale del discorso vero, per
cui se due proposizioni rispettivamente affermano e negano la stessa
cosa della stessa cosa (come, ad esempio, nelle proposizioni l'essere è e
l'essere non è) non possono essere entrambe vere. Parmenide avrebbe per
primo rilevato che, nel discorso, esiste una necessità intrinseca, quella
per cui posto qualche cosa, ne segue qualche altra cosa; cosi posto che
l'essere è (e non porre che l'essere è vorrebbe dire porre l'essere e ne-
garlo ad un tempo), ne segue che esso non nasce, giacché nasce ciò che
prima non era. Nessuna delle dottrine precedenti era stata formulata
correttamente, secondo Parmenide, ossia in conformità alla necessità
della deduzione non contraddittoria; lo stesso impero che la legge e la
giustizia esercitano nel governo della vita collettiva egli attribuisce nel
campo della conoscenza rigorosa al principio della necessità logica, il
quale, per di piu, non può non coincidere con la struttura genuina del
reale. L'aristocraticismo politico trova in certo modo il suo equivalente in
campo logico; e come la legge è intesa come espressione di una superiore
e quasi divina necessità, cosi la necessità logica si afferma nella sua piu
ampia formalità.

31

Baruch_in_libris
LA PRIMA METÀ DEL SF.COI.O V CAP. Il

4. Zenone.

Zenone di Elea, scolaro di Parmenide, fiori intorno al 460 e fu


contemporaneo di Empedodc e di Anassagora; scrisse una serie di
discorsi in cui esaminava le ipotesi dcgìi avversari delle dottrine par-
menidee, per mostrare quali assurde conseguenze se ne ricavavano;
questo procedimento logico fu poi designato da Ariscutde come "dia-
lettico"; anch'esso poggia sulla necessità con cui si passa da un' as-
serzione ad un'altra che ne è conseguenza. A coloro che, come i pita-
gorici, concepivano l'unità ad un tempo come non divisibile e come
fornita di grandezza, Zenone osserva che <1 se l'unità non ha gran-
dezza, non esiste nemmeno»; quindi, se essa è indivisibile, è nulla;
se poi l'unità non ha grandezza, ogni cosa che risulta di piu unità
dovrà essere infinitamente piccola, « piccola al punto di non avere
assolutamente grandezza»; d'altra parte, se le unità di cui risultano
le cose non sono « nulla», ma sono qualche cosa e quindi hanno gran-
dezza, ne seguirà che, essendo ogni grandezza continuamente divi-
sibile, ogni unità risulterà di un numero infinito di unità e sarà
pertanto di grandezza infinita. Se, come sostengono i pitagorici, l'unità
è ad un tempo indivisibile ·e fornita di grandezza, si dovrà conclude!e,
in forza di un ragionamento non contraddittorio, che le cose sono,
nello stesso tempo, piccole al punto da non avere grandezza e grandi
al punto da essere infinite. A proposito della molteplicità delle cose,
ammessa da tutti coloro contro cui argomenta Parmenide, Zenone ri-
leva che « se le cose sono molte,. è necessario che siano tante quante
sono e non piu, né meno; ma se esse sono tante quante sono, saranno
in numero limitato »; d'altra parte, « se le cose sono molte, saranno
infinite di numero; perché fra le une e le altre di esse vi saranno altre
cose ancora, e di nuovo fra queste ultime cose e le prime vi saranno
altre cose ancora (come a dire che se esistono due cose distinte, come
A e B, esse saranno tali in quanto saranno separate da una terza
cosa, ad es. uno spazio C; ma C, per essere distinto da A, deve essere
separato da A da un'altra .cosa D e cosi via all'infinito); e cosi le cose
saranno infinite di numero»; i sostenitori della molteplicità partcno
dunque <la un'affermazione dalla quale si ricavano conclusioni con-
traJJitoric e cio~ che le cose sono finite di numero e sono infinite di

Baruch_in_libris
§ 4 ZENONE

num,.ro. Molto famosi sono anche gli argomenti di Zenone contro


il movimento: « tu non puoi arrivare all'estremità d'uno stadio, suona
il primo argomento, perché non puoi percorrere in un tempo finito
un numero infinito di punti; prima di superare la totalità d'una di-
stanza data, tu devi superare la metà della distanza stessa; e prima
di superare questa metà, devi superare la metà della metà; e cosi
di seguito all'infinito, poiché in qualsiasi spazio dato si trova un numero
infinito di punti e tu non puoi toccare un numero infinito di punti,
l'uno dopo l'altro, in un tempo finito». ((Achille non supererà mai
neìla corsa la tartaruga, afferma il secondo argomento; infatti anzitutto
egli dovrebbe raggiungere il punto da cui la tartaruga è partita; ma
durante il tempo in cui egli farà ciò, la tartaruga si prenderà un
certo vantaggio; Achille deve di nuovo raggiungerla e la tartaruga
ne profitterà per fare di nuovo un tratto di cammino; cosi Achille si
avvicina sempre alla tartaruga, senza però raggiungerla mai »; con
questi due argomenti Zenone intende rilevare che, in base all'ipotesi
della divisibilità infinita, un oggetto che si muove non può mai supe-
rare una distanza, qualunque sia la velocità con cui si muove e che,
per quanto lentamente si muova, supera sempre una distanza infinita.
Gli argomenti di Zenone contro la molteplicità ed il movimento non
sono dei cavilli; essi mettono invece in evidenza le difficoltà di questi
due concetti e lo fanno applicando il procedimento logico della dedu·
zione non contraddittoria, già fatto valere da Parmenide.

5. Empedocle.
Empedocle ed Anassagora vissero, sebbene molto lontani l'uno
dall'altro nello spazio, press'a poco nello stesso periodo di tempo;
erano di circa quarant'anni piu giovani di Eraclito e di Parmenide
e mentre la vita di questi ultimi si estese soltanto per circa i primi
tre decenni del secolo v, quella di Empedocle e Anassagora si inoltrò
fino al 430 a. C ..
Empedocle fu cittadino di Agrigento in Sicilia; sia che si rifa-
cesse agli usi della scuola pitagorica, sia che si ricollegasse direttamente
alle tradizioni orfiche, fu anche mago e taumaturgo. Imitò Parmenide
nell'esporre in versi le sue dottrine; ma dei duemila versi che com-

2J
Baruch_in_libris
LA PlllMA METÀ DEL SECOLO V CAP. Il

ponevano il suo poema sulla 11\Jtura, ne sono giunti a noi meno della
quinta parte. Egli respinge la nascita e la morte della realtà con argo-
mentazioni molto vicine a quelle di Parmenide; infatti, osserva, «non
può avvenire che qualche cosa possa nascere da ciò che non esiste in
alcun modo, come è impossibile che ciò che esiste debba perire; infatti
esisterà sempre, in qualunque luogo lo si collochi ». Data la natura
immutabile del reale, bisogna vedere se esso proceda da un solo
principio o dall'unione di piu principii; Empedocle prende la seconda
via, in quanto gli pare che essa possa meglio spiegare la molteplicità
ed il divenire delle cose; sostiene infatti che le " radici " delle cose
sono quattro: il fuoco, l'aria, la terra e l'acqua; esse sono indivi-
sibili, nel senso che il fuoco non si può dividere in particelle di fuoco,
né l'acqua in particelle di acqua; ognuna delle "radici" è in se stessa
completa ed omogenea, non nasce e non muore; ma l'unione delle
diverse radici rende conto di tutte le cose che cadono sotto i nostri
sensi; come i pittori ottengono le figure di tutte le cose mescolando
fra loro colori diversi, cosi la mescolanza delle quattro radici produce
tutte le cose; per queste, « nascita è solo il nome che gli uomini
danno alla mescolanza »; e quando gli clementi vengono separati, al-
lora si ha «la dolorosa morte». In tal modo dal molteplice si forma
l'uno e l'uno si divide nel molteplice; ma quale è il principio che
spiega il duplice movimento e che sta quindi ali' origine anche della
mescolanza?
Empedocle ricorre a due principii distinti ed opposti : amore ed
odio. Non si tratta di due raffigurazioni mitiche; amore infatti è
« quella forza che è piantata nelle membra dei mortali e che ispira
loro le idee di amore e fa compiere loro le opere della pace »; la sua
funzione è quella di produrre l'unione degli elementi,_ mentre l'odio
è la forza contraria che tende a rompere l'unità. Con il conflitto di
amore e di odio Empedocle spiega sia la trasformazione delle singole
cose, sia il ciclo della trasformazione cosmica; la vicenda dei singoli
esseri si inquadra in quella dell'intero universo. In essa si succedono
momenti distinti. «Quando l'odio cadde nel piu profondo abisso del
turbine, scrive, e l'amore ne ebbe toccato il centro, tutte le cose si
riunirono in lui, per non essere che unità; e quando si furono mesco-
late, innumerevoli tribu di creature mortali si sparsero qua e là; ma

Baruch_in_libris
§ 5 EMPEDOCL!

molte cose restarono non mescolate ed .erano tutte le cose che l'odio
teneva sospese; infatti l'odio non si era ancora completamente ritirato
fino ai limiti estremi del cerchio»; quando l'odio si sarà totalmente
ritirato dal mondo, tutti gli elementi risulteranno perfettamente mesco-
lati dall'amore; ma poi l'amore comincerà ad allontanarsi dal mondo e
vi penetrerà l'odio, finché giungerà la completa separazione degli ele-
menti con il completo trionfo dell'odio. Non c'è un punto del processo
che si possa dire iniziale o finale, perché l'alternativa di amore ed odio,
al pari delle quattro radici delle cose, non viene mai meno.
La conoscenza nasce, per il filosofo di Agrigento, dall'incontro fra
un elemento che si trova in noi e lo stesso elemento fuori di noi; « con
la terra vediamo la terra, scrive, con l'acqua vediamo l'acqua». I
corpi emettono sempre degli « effluvi » e quando gli organi di senso
risultano composti di pori adatti alla grandezza degli « effluvi », si ha
la sensazione.
Se da un lato, come si è detto, Empedocle sente l'influsso di Parme-
nide nel considerare la realtà come immutabile nel suo insieme, egli si
ricollega al gruppo ionico di Mileto per quanto concerne la determina-
zione delle " radici " delle cose; ma mentre i milesii ave~ano insistito su
un unico principio, Empedocle tenta di sommare e di completare le loro
osservazioni; aggiunge all'acqua di Talete il fuoco di Eraclito e l'aria di
Anassimene, completando la serie dei principii con la terra. Egli rende
anche piu esplicita l'esigenza di far risalire l'origine del movimento e del
dive~ire, anziché agli elementi, considerati piuttosto come dei compo-
nenti statici, a due forze superiori, che costituiscono il principio dina-
mico dell'universo; l'iniziativa del costante ciclo in cui viene travolto
l'universo con tutte le cose è dell'amore e dell'odio, mentre l'acqua e
l'aria, la terra e il fuoco sono piuttosto il campo in cui quelle forze si
esplicano e governano. Risulta cosi codificata da Empedocle anche
la dottrina dei contrari che si era affermata sia a Mileto, sia specia:1-
mente con la scuola pitagorica.

6. Anassagora.
Nativo di Clazomerte, nella Ionia, Anassagora conobbe le dottrine dei
pensatori di Mileto, come quelle di Parmenide e di Empedocle; passò

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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO V CAP. IJ

un buon tratto della sua vita ad Atene ove appoggiò il rinnovamento


culturale promosso da Pericle; fu qui che egli venne accusato di non
essere ossequiente alla religione della città, poiché considerava il sole
una pietra incandescente e la luna un corpo terrestre, anziché degli dèi.
Il suo pensiero fu raccolto in uno scritto complessivo sulla natura, del
quale ci sono giunti ventidue frammenti. Anassagora muove dalla consi-
derazione che « i greci seguono un uso scorretto quando parlano di
nascita e di distruzione; infatti nulla nasce e nulla viene distrutto»;
« le cose, prese tutte insieme, sono sempre uguali ». Da questa istanza
parmenidea circa la immobilità del reale nel suo complesso, anche l'at-
tenzione di Anassagora è portata a considerare, come quella di Empe-
docle, l'insieme dei principii che lo regge; all'interno del reale immobile
non si ha che mescolanza e separazione; nulla nasce e nulla viene
distrutto, ma tutto si mescola e si separa. Bisogna allora metter capo agli
elementi primi sia della mescolanza che della separazione. Essi sono
molti, anche per Anassagora; egli ritiene anzi che tutte le qualità si
debbano considerare originarie; le radici delle cose non sono perciò
quattro, ma infinite. Nello stesso tempo però nessuna delle qualità si
presenta allo stato puro, ma tutte sono nella mescolanza. Mentre per
Empedocle la mescolanza dà luogo a tutte le qualità ali' infuori di
quattro, ciascuna delle quali è soltanto se stessa, per Anassagora ogni
qualità è ·sempre soltanto se stessa, ma si presenta nella mescolanza con
tutte le altre qualità. Come potrebbe infatti una qualità nascere da qual-
che cosa di diverso da sé? Come potrebbe il legno derivare da ciò che
non è legno? D'altra parte, «le cose che sono in un mondo non possono
venir divise né tagliate con una scure le une dalle altre, né il caldo dal
freddo, né il freddo dal caldo »; non solo gli opposti non si possono
separare l'uno dall'altro, ma vale lo stesso per tutte le qualità; « in
ogni cosa v'è una particella di ogni cosa » e « in tutte le cose che si
congiungono vi sono semi di tutte le cose ». Come nel pane di cui ci
nutriamo si trova la forza che genera il sangue e che consolida le ossa
e che fa crescere i peli dcl corpo, cosi in ogni cosa vi sono le particelle
similari (omcomerie) a ciò che da quella cosa deriva; e poiché ogni cosa
può derivare da ogni cosa, bfsognerà che in ogni cosa vi siano le par-
ticelle similari di tutte le cose. Il fatto che una cosa sia piccola rispetto
ad un 'altra non comporta dit1icoltà per la cosa piu piccola io ordine

Baruch_in_libris
§ 6 ANASSAGOllA

al contenere in sé particelle di tutte le altre cose, perché « non c'è un


grado ultimo di pic~olezza, ma c'è sempre un piu piccolo » e pertanto
anche una cosa piccola risulta di un numero infinito di parti. Proprio
perché cgni cosa è divisibile all'infinito, non si può giungere ad una
particella indivisibile per ogni qu:ilità, ma le qualità delle cose sono indi-
scernibili. Noi poi chiamiamo ogni cosa con un nome diverso e la distin-
guiamo da tutte le altre in quanto ci riferiamo a quella qu:ilità di cui
essa contiene un maggior numero di particelle.
Empedocle aveva fatto intervenire dei principii distinti dalle quattro
radici delle cose per spiegare la loro mescolanza ed il suo divenire;
Anassagora lo segue su questa via, ma risale anziche a due principii
opposti come amor.e ed odio, all'intelletto o nous; esso per essere prin-
cipio del movimento, viene concepito come autonomo, non mesco-
lato con nulla e quindi da nulla impedito; anche· se non si tratta
di un principio puramente spirituale (infatti l'intelletto è per Anassa-
gora soltanto «la piu fine di tutte le cose»), è assai importante che un
principio mentale sia stato collocato al governo dell'intera realt\ rnme
«la. piu grande potenza », «la piu fine e la piu pura di tutte le cose ».
Quel contrasto che ha voluto superare nel ·principio del movimento
Anassagora ha invece introèotto nella considerazione della conoscenza;
« la sensazione nasce dai contrari, osserva, perché il simile non può
essere affetto dal simile; senti;ur.o il fred.do col caldo, il gradevole col
piccante, il dolce con l'amaro, ossia per mezzo di ciò che ci manca di
ciascuno »; se la sensazione noi) è poi strumento sicuro della conoscenza
della verità, essa ci introduce tuttavia alla comprensione di ciò che oltre-
passa l'ambito dei sensi.
La filosofia greca della prima metà del v secolo segue dunque due
direzioni principali: da un lato con Parmenide e Zenone dà rilievo alb
deduzione rigorosa come garanzia di verità sia del discorso che dell'og-
getto di esso, dall'altro con Eraclito Empedocle ed Anassagora prosegue
la ricerca naturalistica avviata dai pensatori di Mileto; dal monismo si
passa al pluralismo nella ricerca dci principii e da un naturalismo mate-
rialistico si passa, nella giustificazione del divenire e dcl movimento, ad
un naturalismo :ipn~o ai principii dinamici di amore ed odio ed al prin-
cipio razionale dell'intc :letto.

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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO V CAP. Il

7. Lo sviluppo delle scienze.


Lo sviluppo delle scienze non annovera, nella prima metà del v secolo,
né grandi nomi, né cospicui risultati. Si può tuttavia sottolineare che gli
argomenti di Zenone hanno avuto grande importanza anche nella storia
della matematica in quanto hanno messo in rilievo le aporie del concetto di
infinito; e si può ricordare che tanto Empedocle che Anassagora si sono
applicati allo studio dell'anatomia e della medicina; in particolare una scuola
di medicina si è formata nell'Italia meridionale sulla scorta della filosofia
di Empedocle e della sua dottrina delle quattro radici delle cose; identifi-
cando queste ultime con il caldo, il freddo, l'umido e il secco, tale scuola
regolava la disciplina della salute e il trattamento delle malattie sull'equi-
librio delle qualità e sul loro contrasto; si tratta d'una medicina, non tanto
basata sulle varie osservazioni sperimentali dei medici pratici, quanto rica-
vata dalla prospettiva filosofica del naturalismo empedocleo; infatti la me-
dicina italica che si ispira ad Empedocle poggia sulla persuasione che l'uomo
sia parte integrante della natura e che pertanto i principi che governano
la natura siano in grado di chiarire le condizioni della salute e della ma-
lattia nell'uomo; siccome d'altra parte l'uomo può agire sulla natura me-
diante speciali procedimenti di ispirazione magica, anche l'azione che la
medicina esercita sul corpo dell'uomo acquista un carattere magico, colle-
gato con la conoscenza che penetra i segreti della struttura dell'intero uni-
verso; è contro tale impostazione "filosofica,, della medicina che prenderà
posizione un secolo piu tardi Ippocrate, per rivendicare un procedimento
scientifico piu aderente all'esperienza.

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CAPITOLO III

La seconda metà del secolo v


I SOFISTI E SOCRATE. DEMOCRITO

1. Il periodo.
La seconda metà del secolo v è un periodo singolarmente vivo e movi-
mentato della storia greca, sia sotto il profilo politico che sotto quello cultu-
rale. Sotto il primo rispetto, basterà dire che il periodo si apre con il governo
di Pericle in Atene e che si chiude con la fine della guerra del Peloponneso
la quale segna il trionfo ed il predominio di Sparta.· I contrasti all'interno
della stessa città e fra città e città assumono toni violenti; aristocrazia e demo-
crazia si contendono il primato e mentre la prima tende a mantenere il con·
trollo sulle forze popolari, queste, con l'appoggio di elementi piu aperti della
nobiltà, pongono precise rivendicazioni e mirano ad inserirsi organicamente
nella vita dello stato. Anche i problemi culturali diventano piu complessi
ed assumono proporzioni piu vaste ed imponenti; la filosofia procede gra-
dualmente dalle generalizzazioni suggestive e dalle ipotesi ardite verso il
primo abbozzo di una spiegazione scientificamente piu rigorosa del cosmo
con la dottrina atomistica; ed intanto la sofistica mette a fuoco i problemi
piu scottanti della convivenza, dando largo contributo alla revisione critica
della tradizione ormai pienamente in atto, mentre Socrate compie il massimo
sforzo per fissare i capisaldi razionali di una nuova visione della vita. Abba-
stanza tardi Atene si. apre alla cultura filosofica; ma in questo periodo il
suo contributo è decisivo; mentre Fidia la arricchisce di opere insigni di
icultura e di architettura, mentre fiorisce l'arte di Eschilo e di Sofocle, Atene
diviene anche il centro del movimento filosofico e scientifico, la capitale cul-
turale del mondo greco.

2. Svilnppi del pitagorismo.


Dopo la dispersione dell'ordine pitagorico di Crotone, un gruppo di
discepoli di Pitagora si raccolse a Reggio Calabria; la dissoluzione anche
di questo gruppo determinò il passaggio di alcuni suoi componenti m

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. lii

Grecia; fra questi è da ricordare Filolao, che intorno al 430 si stabili


a Tebe; di qui egli, secondo l'attestazione di Platone, si sarebbe r~cato
ancora in Italia, poco prima dcl 399, anno della morte di Socrate. Filolao
è il rappresentante pili autorevole del pitagorismo nella seconda metà
del v secolo e nel suo nome si compendia l'ulteriore sviluppo della scuola
rispetto alle posizioni del pitagorismo antico. Egli ha insistito su una
visione dell'universo come «unificazione delle mescolanze e accordo di
elementi discordanti »; e poiché il nostro corpo « viene mantenuto dal
caldo e dal freddo, dal secco e dall'umido e da simili cose », anche l'ani-
ma viene considerata come « una specie di mescolanza e di armonia di
queste cose, quando esse siano unite fra loro convenientemente e nelle.
proporzioni richieste». Notevole importanza ha il sistema cosmologico
professato dai pitagorici dell'epoca di Filolao: in esso la terra non è piu
posta al centro dell'universo, dove si trova invece un «fuoco centrale»,
intorno al quale gravitano dieci corpi celesti, fra i quali la terra che
« con il muoversi intorno al centro produce la notte e il giorno »; i pita-
gorici hanno dunque notato l'importanza di un centro luminoso per spie-
gare i fenomeni del giorno e della notte e hanno quindi considerato la
terra come un pianeta; si tratta di una ( .;ttrina che si avvicina al sistema
eliocentrico, pur senza giungervi; anche il sole infatti, per i pitagorici,
gira intorno al «fuoco centrale». Se si tien conto, come dice Aristotele,
che la dottrina geocentrièa è legata ad una concezione limitata e finita
dell'universo, si può intendere come l'opposizione pitagorica al geocen-
trismo abbia aperto la strada alla concezione dell'infinità dell'universo.

3. La sofistica.
La parola " sofista " indica una persona che fa, per professione, I'inse-
gnante; ma anziché raccogliere una scuola costituita di un gruppo
ristretto di persone fisse, che si riuniscono in una sede stabile, il sofista
si reca di città in città, ove è richiesta la sua opera; i suoi scolari sono
'giovani ricchi delle famiglie aristocratiche che vogliono apprendere arti
ed abilità direttamente utili nella vita civile, e particolarmente nella vita
politica; i poveri non potevano disporre delle somme che si dovevano
corrispondere al maestro, come compenso; i giovani delle famiglie ricche
d'altra parte erano sollecitati a seguire l'insegnamento dei sofisti, p'!rché

JO

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§ 3 LA SOFlSTIC.\

l'intenso sviluppo della vita politica in tutta la Grecia apriva loro prospet-
tive nuove ed interessanti; la società greca era in fermento, le vecchie
strutture aristocratiche e tradizionali cedevano, si aprivano orizzonti piu
vasti all'iniziativa politica ed economica. Nella vita della città erano dive-
nuti frequenti i processi e bisognava sapersi difendere in tribunale;
quando si riuniva l'assemblea, bisognava saper pronunciare discorsi; nei
contrasti politici, era importante esser capace di sostenere un dibattito a
domanda e risposta; quando si inviavano ambascerie ad altre città, era
decisiva l'abilità dei negoziatori; si trattava poi di scegliere uomini adatti
per i comandi militari, per i servizi civili, per il governo della polis. In una
parola, i quadri ristretti della vecchia aristocrazia, di formazione tradi-
zionale, non bastavano piu; si veniva formando una nuova dasse diri-
gente, meno attaccata al passato, piu spregiudicata, desiderosa di riuscire,
bisognosa di crearsi delle competenze, aperta ai nuovi problemi. I sofisti
furon'o i maestri della nuova cultura.
Non tutti i sofisti impartivano un identico insegnamento; né tutti
intendevano allo stesso modo la preparazione culturale; alcuni di essi,
infatti, insegnavano ai giovani calcolo, astronomia, geometria, musica,
medicina, mentre altri insistevano nell'insegnamento della « prudenza
nelle cose domestiche (per il miglior governo della propria casa) e nelle
cose politiche (per la maggior capacità politica d'azione e di parola) »,
insegnavano cioè "l'arte politica'', e altri ancora davano maggior risalto
alla tecnica retorica, cioè all'arte del persuadere mediante discorsi. Non si
deve credere pertanto né ad una opposizione netta fra la precedente tradi-
zione filosofica e l'insegnamento dei sofisti, ché anzi parecchi di questi
ultimi uscirono da questa o quella delle scuole tradizionali, né ad una
rigorosa unità di indirizzo della sofistica stessa.

4. Protagora.

Protagora è forse il piu famoso dei sofisti; nacque ad Abdera intorno


al 480 e mori intorno al 410. Tenne scuola in varie città della Grecia
ed anche in Atene; ma qui, in seguito alla pubblica lettura d'un suo
scritto intorno agli dèi, nel quale esprimeva opinioni discordanti da
quelle comuni, gli fu intentato un processo che lo costrinse ad abban-
donare la città; Affidò il suo pensiero a degli scritti di cui ci sono stati

31
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. III

conservati i titoli ed alcuni pochi frammenti; basta scorrere i titoli per


rendersi conto dell'ampiezza degli interessi culturali di Protagora:
Intorno alla matematica, Intorno allo stato, Intorno alle virtu, Intorno
agli dèi, ecc. Non v'è dubbio che il sofista di Abdera possedesse notevoli
conoscenze naturali e tecniche; ma egli volle orientare il suo insegna-
mento principalmente in due direzioni, diverse dal campo scientifico-natu-
ralistico: l'arte politica e l'arte del discorso e del linguaggio. Intendeva
cosi staccarsi non solo dalla precedente tradizione filosofica, ma anche
dall'insegnamento degli altri sofisti. Infatti per Protagora l'arte poli-
tica non si deve porre al livello delle altre tecniche; mentre queste sono
parziali, la cultura politica ha un carattere di universalità in quanto
considera l'uomo nella totalità dei suoi interessi e delle sue possibilità.
Muovendo dalla dottrina di Eraclito intorno al divenire, Protagora
sostiene anzitutto che « la materia scorre »; la fluidità della materia
spiega come le cose possiedano la possibilità di apparire diversamente
alle diverse persone che le considerano: le cose non sono sempre le
stesse, ma continuamente perdono ed acquistano qualità, cioè modi di
presentarsi a chi le osserva. La conoscenza non è che sensazione; ora « le
sensazioni si trasformano e mutano a seconda dell'età e delle altre dispo-
sizioni dei corpi »; sicché gli uomini non colgono tutti le stesse appa-
renze delle cose, ma colgono «a vicenda ora l'una ora l'altra apparenza,
a seconda delle diverse condizioni in cui si trovano »; cosi cc colui che
si trovi in condizioni naturali coglie nella materia i fenomeni che
appaiono a chi sia in condizioni naturali; invece colui che si trovi in
uno stato anormale, coglie i fenomeni che appaiono a chi si trova in stato.
anormale»; di qui la famosa sentenza secondo la quale «l'uomo è mi-
sura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che
non sono in quanto non sono». L'uomo che è misura è ogni singolo
individuo, nelle particolari condizioni del suo sentire. Se uno che è am-
malato sente il cibo amaro, vuol dire che, in relazione alle sue condi-
zioni, il cibo è realmente amaro; se uno sano sente invece il cibo dolce,
vuol dire che, in relazione. alle sue condizioni, il cibo è realmente
dolce; non ha senso parlare di come il cibo è per se stesso, giacché
di un simile cibo, che non sia in relazione con nessun uomo, non si
può dire niente, proprio perché niente si può dire di ciò che non viene
sentito; esiste certo differenza fra l'uomo sano e quello malato; ma

32

Baruch_in_libris
s4 PROTAGORA

ciò che Protagora contesta è che uno dei due possa essere ritenuto piu sa-
piente dell'altro e che quindi si possa dire che il malato è ignorante
perché sente il cibo amaro, e che il sano è sapiente perché sente il cibo
dolce. Dal punto di vista della verità è tanto vero quello che sente
l'uomo malato quanto quello che sente l'uomo sano, appunto perché
la verità coincide con ciò che viene sentito.
Circa gli dèi, il famoso frammento dello scritto di Protagora dice
testualmente « Quanto agli dèi, non posso sapere né che esistano, né
che non esistano, né quali siano per forma; poiché molti sono gli im-
pedimenti a saperlo: la oscurità del problema, e la brevità della vita
dell'uomo». Dovendosi risolvere ogni problema in base al sentire del-
l'uomo ed entro i suoi limiti, la questione dell'esistenza e della natura
degli dèi, non poteva, secondo Protagora, essere risolta.
Piu tardi, Platone ed Aristotele, prendendo in esame la dottrina di
Protagora, la accusarono di scetticismo, cioè di distruggere senz'altro la
verità e di svalutarne la ricerca, in quanto sosteneva che tutte le affer-
mazioni si equivalgono. In verità, per Protagora tutte le conoscenze
sono vere e. per questo rispetto, si equivalgono; egli ha però ri-
conosciuto che vi sono condizioni che si debbono preferire rispetto
ad altre, per la loro maggiore utilità. Se il sano non deve rite-
nersi piu sapiente dell' ammalato, l' abito del sano è tuttavia mi-
gliore di quello dell'ammalato; sul terreno del «meglio», cioè del-
l'utile, si trova quella differenza fra le condizioni degli uomini che
non è possibile trovare sul terreno della verità. E poiché è possibile
per l'uomo passare da un abito ad un altro, da una condizione ad una
altra, bisogna studiare i mezzi con cui far passare sia i singoli che la
collettività dagli abiti peggiori a quelli migliori, dagli abiti dannosi :i
quelli utili. Il medico aiuta l'individuo, per mezzo delle medicine, a
cambiare il suo stato, a divenire da malato, sano; ora quello che il me-
dico fa per i corpi, il sofista lo fa per la condotta ·degli individui e delle
città; il sofista muta le condizioni degli uomini non con le medicine,
ma con i discorsi, cioè per mezzo dell'arte oratoria. L'utile diviene cosi
il criterio e il fondamento della cultura; non è però da credere che si
possa stabilire una nozione assoluta di utilità; anche dell'utile infatti si
deve parlare in relazione agli individui ed ai gruppi; l'esperienza può
far luce sul giudizio degli uomini intorno all'utile, in quanto sono le

33
Baruch_in_libris
LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. III

conseguenze pratiche dell'azione e la riuscita di essa che attestano il


valore della scelta. Per quanto poi riguarda la vita collettiva della città,
regola dell'utile diviene il pensiero della stessa collettività, cioè il volere
delle assemblee, le prescrizioni di capi e le sentenze dei giudici limitata-
mente al tempo in cui tale pensiero viene formulato e mantenuto; l'arte
politica deve influire appunto su questo " abito collettivo", tenendo sem-
pre aperta l'iniziativa individuale rispetto al costume ed alla tradizione.
Nessuno, prima di Protagora, aveva dato tanta importanza al soggetto
umano come elemento determinante della conoscenza e della condotta.

5. Gorgia.

Gorgia nacque a Leontini in Sicilia, circa nello stesso tempo in cui


Protagora nasceva ad Abdera, e mori intorno al 380. Fu famoso spe-
cialmente per la sua arte oratoria; fu a capo di ambascerie politiche,
intervenne nella vita pubblica greca e tenne parecchi discorsi special-
mente ad Atene; sono rimasti celebri il suo Discorso olimpico per in·
citare i greci a superare le loro discordie ed a lottare uniti contro i
barbari, e l' Epitafio che recitò ad Atene per onorare i caduti in guerra,
mentre venivano sepolti a spese pubbliche. Tenne scuola alla maniera
dei sofisti e formò parecchi allievi; abilissimo nel!' improvvisare, si van-
tava di saper trattare qualsiasi argomento e si professava maestro nella
arte del persuadere; derideva coloro che, fra i sofisti, si presentavano
come maestri di virtu e dava invece massimo rilievo all'abilità oratoria.
Empedocle gli fu maestro di filosofia; ma Gorgia· assume un atteggia-
mento di netta opposizione nei confronti della filosofia precedente. «Men-
tre uno degli antichi filosofi, dichiara Isocrate, diceva che il numero de-
gli enti è infinito, ed Empedocle ne poneva quattro ed inoltre l'amore e
l'odio, e Parmenide ne poneva uno, Gorgia non ne poneva nessuno nel
modo piu assoluto ».
L'opera filosofica di Gorgia, di cui abbiamo frammenti e che si in-
titola Della natura ossia del non-essere, prende particolarmente di mira
le dottrine eleatiche. Le tre proposizioni in cui si compendia la critica
gorgiana sono le seguenti: 1) nessuna realtà esiste; 2) anche se esistesse,
sarebbe inconoscibile; 3) anche se esistesse e fosse conoscibile, non si
potrebbe manifestare agli altri. Gorgia rileva insomma che i filosofi so-

Baruch_in_libris
§ 5 GORGIA

stengono, intorno alla realtà, delle dottrine contrastanti « gli uni dicendo
che l'ente è uno e non molti, gli altri invece dicendo che gli enti sono
molti e non uno, gli uni dimostrando che gli enti sono ingenerati, gli
altri dimostrando invece che sono generati »; contro tutti si può argo-
mentare con eguale efficacia. Ad es., se veramente la realtà fosse inge-
nerata, dovrebbe essere infinita; ma ciò che è infinito, non si trova in
alcun luogo e ciò che non si trova in alcun luogo non esiste; quindi se
la realtà fosse ingenerata, non esisterebbe. Se poi la realtà fosse gene-
rata, deriverebbe o dall'essere o dal non-essere e nessuna delle due solu-
zioni è accettabile, in base a quanto ha chiarito Parmenide; se però la
realtà non è né ingenerata, né generata, si deve concludere che non esi-
ste; infatti se esi~tesse, dovrebbe pur possedere uno di quei due attributi.
Alla stessa maniera Gorgia dimostra che la realtà non è né una, né
molteplice; non è una, perché se fosse tale dovrebbe essere o quantità
disco~tinua o quantità continua; ora nel primo caso, la realtà sarebbe se-
parata, nel secondo caso sarebbe divisibile; dunque la realtà non può
essere una; ma la molteplicità non è che la riunione di piu unità; quindi
la realtà che non può essere una, non può essere nemmeno molteplice; e
poiché la realtà, se esistesse, dovrebbe essere o una o molteplice, si deve
concludere che la realtà non esiste; essa almeno non esiste, osserva Gor-
gia, nel modo e con i caratteri che i filosofi le hanno riferito. Non è
nemmeno detto che esista una corrispondenza necessaria fra la realtà da
un lato e il contenuto dcl pensiero dall'altro; ci sono contenuti del pen-
siero a cui non corrisponde alcuna realtà, come se si pensa che un uomo
voli, e ci sono delle cose che, pur non esistendo, vengono pensate, come
accade per la chimera; sicché la realtà o l'essere di cui parlano gli elea-
tici, anche se è da loro pensata, non vuol dire che esista realmente. Gor-
gia poi si chiede : « quello che uno non concepisce, come mai potrà con-
cepirlo in seguito ali' intervento di un altro per mezzo della parola di
costui o per mezzo di un segno generale, diverso dalla cosa? ». Egli
intende rilevare che gli cleatici e i loro avversari, pur ammettendo che
esista una realtà con i caratteri che essi le attribuiscono e pur ammettendo
che essi la conoscano per tale, non riuscirebbero a comunicare la loro cono-
scenza ad altri, perché le parole da essi usate a tale scopo non han::o
alcun nesso necessario con la realtà medesima; sicché essi comunicano
parole e non i genuini caratteri della realtà .. In conclusione, i sostenitori

3S
Baruch_in_libris
LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. lii

dell'esistenza dell'essere o realtà come tale incontrano difficoltà insu-


perabili per cui non riescono né a dimostrare che la loro conoscenza di
essa è valida, né a dimostrare che le loro parole in proposito possano
avere qualche efficacia probante rispetto agli altri. Cosi il procedimento
che Zenone aveva usato contro gli avversari di Parmenide, viene ora ap-
plicato contro la scuola eleatica in particolare e in generale contro tutte
le dottrine volte a indicare i caratteri della realtà o essere in quanto tale.
In sostanza Gorgia si ispira, in ultimo, ad un empirismo non molto
diverso da quello di Protagora; egli ritiene che « ogni realtà debba essere
giudicata dalla sensazione che le è propria», in quanto soltanto nell' am-
bito della conoscenza sensibile si può realizzare una comunanza fra gli
uomini, i quali possono appunto avere "percezioni comuni". Proprio
a queste percezioni comuni che stanno a fondamento della stessa signi-
ficazione del linguaggio si debbono contrapporre, secondo Gorgia, « le
dimostrazioni che ingannano »; e che si possono demolire con lo stesso
procedimento dialettico sul quale si era pensato di fondarle.
Accanto ai due maggiori esponenti della sofistica, se ne possono ricor-
dare altri minori, come Prodico che ha svolto in modo approfondito l' in-
dagine sulle parole e sul discorso ed ha ribadito che il bene e la virtu
sono frutto del lavoro e della conquista dell'uomo, o come lppia che ha
svolto la dottrina secondo la quale « la legge è tiranna degli uomini ed
in molte cose usa violenza contro la natura», o come Crizia che per con-
tro considera le leggi non già come frutto di una convenzione contrap-
posta a natura, ma come lo strumento principale del perfezionamento
civile e ritiene che il culto degli dèi sia stato introdotto a so~tegno delle
leggi, o come infine Trasimaco di Calcedone il quale afferma che « il
giusto non è altro che l' utile del piu forte », in quanto « in tutti gli
stati giusto è sempre ciò che conviene al governo costituito». Con la
sofistica insomma ha grande sviluppo lo studio spregiudicato del mondo
umano e la ricerca di criteri piu adeguati per la conoscenza e per l' ordi-
namento etico-politico.

6. Socrate: la vita e la condanna a morte.


Socrate nacque ad Atene nel 469; suo padre Sofronisco era scultore
e sua madre, Fenarete, levatrice;' dapprima segui l'arte del padre, che

Baruch_in_libris
s6 SOCRATI

smise quando decise di darsi completamente alla filosofia; visse da allora


d'una modesta eredità che gli consenti'. di sostentare la moglie, Santippe,
e i tre figli che ne ebbe. Gli anni della giovinezza di Socrate furono gli
anni fortunati del governo di Pericle; ma nel 432 scoppiò il conflitto fra
Atene e Sparta; la guerra durò ventott' anni e si concluse IJ.el 404 con la
vittoria di Sparta. Pili volte Socrate prese parte agli scontri militari, di-
stinguendosi per il s~o coraggio; ma la sua adesione ali' ordinamento
democratico della città non fu incondizionata; lassemblea popolare non
riusciva sempre ad agire in modo coerente e subiva linflusso immediato
di circostanze contingenti; raramente essa riusciva ad assolvere con equi-
librio i suoi compiti giudiziari; gli oratori accentuavano spesso le oscil-
lazioni e i contrasti dell'assemblea. Socrate non mancò di rilevare le la-
cune del!' ordinamento democratico e prese, in qualche circostanza, at-
teggiamenti poco popolari come quando si oppose al procedimento se-
guito nel 406 nel processo intentato contro i generali vincitori della bat-
taglia delle Arginuse, perché avevano trascurato di salvare gli equipaggi
di alcune navi gravemente danneggiate e non avevano dato sepoltura ai
morti. « Allora, io, unico dei pritani, gli fa dire Platone nell' Apologia,
mi opposi e votai contro; e c'erano i soliti oratori già pronti a sospen-
dermi dall'ufficio ed a trascinarmi in carcere; ed il popolo ad incitarli
ed a gridare; ma io pensai che era mio dovere correre piuttosto quel ri-
schio tenendomi dalla parte del diritto e della giustizia, anziché rima-
nere con il popolo a deliberare l'ingiusto per paura del carcere e della
morte». L'opposizione che Socrate svolse nei confronti dell'ordinamento
cittadino assunse due aspetti diversi: da un lato si trattava di una critica
esercitata in nome della ragione e della giustizia, dall' altro si trattava
d'una avversione anche politica all'ordinamento democratico e d'una
simpatia per il sistema politico degli Spartani, l' oligarchia; fra i due
aspetti vi fu anche qualche connessione. nel senso che Socrate riteneva che
non tutti i cittadini fossero idonei a partecipare alle pubbliche responsa-
bilità, ma solo quelli chi; disponessero d'una adeguata preparazione; si
trovò cosi a dare delle armi intellettuali alla reazione aristocratica. 11
violento contrasto delle passioni svoltosi dm.ante la guerra del Pelopon-
neso e durante la successiva guerra civile non si placò facilmente; la
ricerca delle responsabilità fu perseguita con accanimento ed anche So-
i:rate ne rimase vittima. Nel 399 fu denunciato dal poeta tragico Meleto,

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. 111

dall'oratore Licone e da Anito, influente uomo politico, con la seguente


imputazione: « Commette reato Socrate, non ritenendo dèi quelli che
considera tali lo stato, e tentando inoltre di introdurre altri enti demonici
nuovi; commette inoltre reato corrompendo i giovani». Era da tempo che
accuse del genere venivano formulate contro Socrate; nel 423, nelle Nubi,
Aristofane aveva attaccato Socrate proprio in quanto col suo spirito cri-
tico incitava i giovani a considerare con disprezzo la tradizione etico-
politica della città, e in quanto con i suoi studi si metteva al di fuori delia
tradizione religiosa seguita da tutti. Probabilmente lo scopo che gli av-
versari di Socrate volevano raggiungere era quello di inviarlo in esilio;
ma Socrate volle affrontare il processo, in cui pronunciò la difesa della
sua attività culturale e critica, giustificata dall'esigenza dell'indagine
razionale. Quanto al suo atteggiamento religioso, fece intendere che, se
non avversava apertamente la tradizione, non poteva non dare rilievo
religioso primario alla sua ricerca razionale; quanto alla corruzione dei
giovani, dichiarò che non poteva rinunciare alla sua missione di forma-
zione critica. In tribunale si ebbe la chiara impressione che Socrate non
intendeva modificare affatto il suo atteggiamento; i voti di coloro che
si pronunziarono per la sua assoluzione furono inferiori, ma non di molto,
a quelli necessari; si passò allora a definire il tipo di pena da infliggergli;
a questo punto Socrate chiese, ironicamente, che gli fosse decretata una
pensione a vita, come benemerito dello stato; la cosa suonò come una
provocazione; anche parecchi di quelli che avevano votato per la sua
assoluzione gli furono, infine, contrari; fu condannato a bere la cicuta
cd affrontò la morte con singolare dignità.
Socrate non lasciò scritti, perché rilevava, dice Platone, che i discorsi
scritti sono come le figure dipinte: se tu le interroghi, non ti rispondono.
Per conoscere il suo pensiero, dobbiamo quindi rifarci alle testimonianze
altrui; le principali sono quelle di Aristofane, di Senofonte, di Platone e
di Aristotele. Ma Aristofane ci offre soltanto una caricatura di Socrate;
Senofonte, nei suoi Detti memorabili di Soerate, scritti per difendere la
memoria dell' amico, ne ricorda molte dottrine ma senza un adeguato
approfondimento. Platone è certo colui che ha fatto la piu grande esalta-
zione filosofica di Socrate, sia perché ha redatto quasi tutte le sue opere
in forma di dialogo, seguendo il metodo preferito da Socrate nella ricerca
filosofica, sia perché nei dialoghi Socrate figura come il piu importante

Baruch_in_libris
§ 6 SOCRATE

degli interlocutori. Però Platone ha una sua filosofia e le dottrine che


egli mette in bocca a Socrate sono spesso suoi personali sviluppi del pen-
siero socratico; si è perciò pensato che soltanto i dialoghi scritti da Platone
per primi possano piu propriamente essere considerati come fonti sto-
riche valide per conoscere le dottrine socratiche; in essi infatti Platone è
piu legato al ricordo fedele del pensiero del maestro. Aristotele, infine,
ha desunto quanto afferma di Socrate da altre fonti, probabilmente da
Platone; nacque infatti quindici anni dopo che Socrate era morto. Met-
tendo insieme i punti che risultano piu concordemente attestati da que-
ste fonti si può ritenere di avvicinarci guanto è possibile al genuino pen-
siero di Socrate.

7. Il metodo della ricerca e la determinazione dell'universale.

In una fase iniziale della sua formazione Socrate si era dedicato


a ricerche naturalistiche; ma poi, certo in relazione col dibattito cul-
turale sollevato dai sofisti, si volse allo studio dell'uomo; giunse al-
lora fino a porre in dubbio che, pur esistendo una scienza della na-
tura, esistessero « scienziati di tale scienza ». Socrate, attesta Seno-
fonte, « ragionava solt;mto delle cose umane, studiando che cosa sia
pietà, che cosa empietà, che cosa onesto, che cosa turpe, che cosa giusto,
che cosa ingiusto, che cosa sia lo stato, che cosa l'uomo politiCo, che
cosa sia l'arte di governo, che cosa l'uomo di governo, ritenendo vir-
tuosi ed onesti gli uomini consapevoli di queste questioni, e anime di
servi gli altri ». Nel prestare preminente attenzione ai problemi del-
l'uomo Socrate conviene con i piu noti esponenti della sofistica; ma dai
sofisti egli si distingue non solo perché questi insegnavano iu una
scuola organizzata anche amministrativamente e dietro compenso, men-
tre egli dava al suo insegnamento un carattere piu aperto, piu diretto
e all'infuori di ogni considerazione di compenso, non solo perché il
suo insegnamento era meno ristretto e convenzionale di quello dei so-
fisti, ma soprattutto perché, mentre i sofisti interpretavano il loro la-
voro come una professione utile alla società, Socrate si proponeva un
fine piu complesso, cioè la formazione razionale dell'uomo. Egli si
richiamava infatti all'iscrizione del tempio di Dclfi: « conosci te stesso »;
per lui fare filosofia vuol dire esaminare se stesso, cioè « conoscere le

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Baruch_in_libris
LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. 111

proprie forze in ordine all'ufficio proprio dell'uomo». Per avviare un


esame razionale in questa direzione, bisogna però staccarsi dall'ade-
sione immediata ed incontrollata al sapere comune o ad un sapere tec-
nico considerato dogmaticamente, bisogna "sapere di non sapere'',
muovere cioè dalla coscienza della propria ignoranza. L'oracolo aveva
dichiarato che non c'era alcuno in Grecia piu sapiente di Socrate; que-
sti si era chiesto: «Che cosa mai vuol dire il Dio? lo, per me, non
ho proprio coscienza di essere sapiente, né poco, né molto». L'Apologia
prosegue: «Mi misi allera a farne ricerca, in questo modo: andai da
uno di quelli che hanno fama di essere sapienti; mentre stavo esaminan-
dolo - era uno dei nostri uomini politici - questo brav'uomo mi parve
s1, che avesse l'aria, agli occhi di molti altri e particolarmente di se mede-
simo, di essere sapiente, ma in realtà non fosse; e allora mi provai a fargli
capire che credeva di essere sapiente, ma non lo era. Andandomene
via dovetti concludere che veramente di cotest'uomo ero piu sapiente
io, in questo senso che l'uno e l'altro di noi due poteva pur darsi non
sapesse niente né di buono né di bello, ma costui credeva di sapere
e non sapeva, mentre io che non sapevo, nemmeno credevo di sapere ».
L'ironia socratica per un lato è umile riconoscimento della pro-
pria ignoranza, quale premessa della ricerca, mentre, d'altra parte,
comporta la netta opposizione e la conseguente confutazione d'una pre-
tesa verità che non è tale. Socrate fece uso larghissimo della confuta-
zione; quando si trovava di fronte ad una affermazione che non con-
divideva, attraverso domande insistenti legava l'affermazione stessa
ad altre affermazioni, in modo che le proposizioni, cosi collegate e po-
ste le uue accanto alle altre, si rivelassero in contraddizione fra loro;
in tal modo J'assertore della proposizione criticata si poteva liberare
dalla sua pretesa verità. Vicino a questa parte negativa alla quale dava
maggior rilievo con la dichiarazione dcl dubbio e dell'ignoranza propri
(essa richiama certo il procedimento dialettico di Zenone e di Gorgia,
come di altri sofisti), Socrate ne svolgeva una di positiva, che faceva
risalire alla sua arte maieutica: « lo son figlio di una levatrice, diceva,
e mi occupo della stessa arte, solo che essa si applica agli uomini e non
alle donne, e riguarda le loro anime e non i corpi. Io non sono per
mio conto affatto sapiente, né ho alcuna scoperta mia, partorita dalla
mia anima; ma coloro che stanno con me, da principio sembrano (ta-

Baruch_in_libris
s7 IL METODO DELLA RICERCA E L'UNIVERSALB

luni anche in tutto) ignoranti; ma tutti poi, procedendo la familiarità,


come assistiti dal dio, fanno un profitto mirabilmente grande; eppure
nulla essi hanno imparato da me, ma essi stessi da sé hanno ritrovato
molte e belle cose, che già possedevano». Con ciò Socrate intende ri-
badire che la ricerca filosofica non consiste nella trasmissione di un
sapere da una mente ad altra, quanto invece nella ricerca che og» uno
può condurre da se stesso e per la quale basta che egli sia opportuna-
mente sollecitato; la ricerca comporta e l'attiva partecipazione di cia-
scuno e la prospettiva di un incontro di tutti nella determinazione della
verità.
Il procedimento in cui per Socrate si concreta la ricerca filosofica
è quello della determinazione dell'universale; ad es., fare una ricerca
intorno alla virtu, o alla giustizia, vuol dire indicare unitariamente i
caratteri che competono a tutti quei comportamenti che chiamiamo
virtu ed a tutte le cose o azioni che consideriamo giuste; non si tratta
cioè di considerare questo o quello fra i singoli casi di virtu o di giu-
stizia, ma di dire quale è la caratteristica universale di virru e di giu-
stizia. Ecco un esempio di tale procedimento ricavato dal Menone di
Platone: «Socrate: Chiarisci tu, o Menane, che cosa è la virtu. - Me-
nane: Non è cosa difficile; se tu vuoi ·sapere, prima, della virtu del-
l'uomo, è chiaro che essa consiste nel suo esser atto a fare bene agli
amici e male ai nemici, cercando di badare che del male non ne tocchi
a lui, per ultimo; se poi tu vuoi""sapere della virtu della donna, non è
nemmeno questa cosa difficile da dire: essa consiste nel governare bene
la casa, nell'esser massaia ed obbediente al marito; e cos{ è diversa la
virtu dei fanciulli, siano essi maschi o femmine, altra quella dei vecchi,
siano liberi o schiavi; e ci sono tante virtu, che non è difficile dire
che cosa è la virtu, poiché, secondo la condizione e l'età, per ciascuno
di noi riguarda un certo modo di operare; e lo stesso è per la man-
canza della virru. - Socrate: Fortunato me! lo andavo in cerca, o Me-
nane, di una virtu sola ed ecco che tu me ne presenti già uno sciame.
Prendendo spunto da questa immagine di sciame, se ti domando quale
è la natura delle api, tu mi dirai che sono molte e di varie forme;
ma se io ti domando di nuovo se tu sostieni che le molte api sono di
varie forme e differiscono le une dalle altre quanto ali' -essere api, op-
pure in ciò non differiscono affatto, ma differiscono per esempio per

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"'
LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. III

la bellezza o per la grandezza o per un'altra caratteristica del genere,


che cosa mi risponderai? - Menone: Che le api non differiscono l'una
dall'altra in quanto sono api. - Socrate: Adesso dimmi questo o Me-
nane : ciò in cui non differiscono, ciò che le api sono tutte, questo cosa
dici che sia? Mi sapresti rispondere? - Menone: S\. - Socrate : Lo
stesso bisogna fare per le virtu; anche se sono molte e di molte forme,
hanno tutte una stessa caratteristica per la quale sono virtu ed a questa
deve guardare chi voglia rispondere a chi gli domanda di indicargli
che cosa è la virtU ». Parimenti, nella discussione che Socrate ha con
Eutifrone intorno alla santità, nell'omonimo dialogo di Platone, cosi
è formulata la ricerca dell'universale: « Io non ti ho pregato di in-
segnarmi una o due delle molte cose sante, ma proprio quella stessa
caratteristica per cui tutte le cose sante sono sante; giacché tu mi hai
detto che per una certa forma le cose empie sono empie e le cose
sante sono sante; insegnami dunq~e questa forma, qual'è, affinché io
guardàndo ad essa e servendomi di essa come di modello dica santa
ogni azione che le corrisponde, sia che la compia tu che chiunque al-
tro, e quella che non le cqrrisponde non la dica tale». L'universale
è dunque il modello che sia capace di unificare l'esperienza nella sua
molteplicità e varietà. La semplice enumerazione empirica non dà luogo
all'unificazione e questa è per contro çondizione fondamentale del vero
sapere; essa si ottiene per mezzo del concetto, i cui caratteri sono ap-
punto l'universalità e la necessità; il concetto è universale in quanto
deve valere per tutti i casi particolari ed è necessario in quanto non è
soltanto dato come una cosa qualsiasi, ma è frutto e risultato stabilt"
della ricerca razionale. Il concetto è comunque uno strumento con cui
unificare l'esperienza e che ha pertanto nell'esperienza il suo riscon-
tro reale; se si resta invece legati alla varietà dell'esperienza, che ~
infinita, con una semplice descrizione immediata dei suoi dati, non
si raggiunge mai il piano del vero sapere e della conoscenza stabile.
Secondo Socrate esiste fra gli uomini grande dissenso intorno alle que-
stioni che riguardano il giusto e l'ingiusto, il bello e il brutto, il buono
e il cattivo; per superare tale dissenso non c'è che ricorrere alla ricerca
dei rispettivi concetti che, essendo universali e stabili, possano unifi-
care e comprendere la varietà dei casi dell'esperienza. Questa via del
resto si segue già, osserva Socrate, quando sorgono dissensi su que-

Baruch_in_libris
§ 7 IL METODO DELLA RICERCA E L'UNIVERSALB

stioni pili facili da risolvere; se, per esempio, ci fosse dissenso fra due
persone intorno a quale di due serie di oggetti sia pili numerosa, per
superare il dissenso non ci sarebbe che da fare il conto degli oggetti,
portando un modello di unità tante volte nell'una e nell'altra serie,
per concludere in quale di esse il modello è stato portato pili volte.
Anche le confutazioni che Socrate fa di certe dottrine muovono
anzitutto dalla considerazione che l'uso di certi concetti dà luogo ad
inconvenienti. Ad esempio, quando Eutifrone afferma che il modello
razionale o concetto, per tutti gli atteggiamenti di santità, è il se·
guente: «santo è ciò che è caro agli dèi », Socrate rileva che non tutti
gli dèi hanno care le stesse cose e tra loro esiste dissenso; adoperando
il concetto suaccennato, si dovrebbe allora concludere che le stesse
cose sono sante e non sante, in quanto alcuni dèi le hanno care ed altri
no; ma allora il concetto in questione non ci permette di distinguere
fra le cose, in modo che risulti chiaro quali di esse rientrano nel suo
ambito e quali ne restano fuori; appunto per questo si tratta di un
concetto inadeguato, che bisogna sostituire con un concetto valido e
rispondente.

8. Scienza e virtu.

La scienza, come uso critico di concetti, interessa, secondo Socrate, la


formazione dell'uomo sotto due punti di vista: anzitutto perché i pro-
blemi da trattare scientificamente sono proprio i problemi dell'agire
umano; si tratta di usare concetti che giovino a distinguere il giusto
dall'ingiusto, il bene dal male, la virtli dal vizio. In secondo luogo,
la scienza, quando è posseduta dall'uomo, «è capace di dominarlo,
sicché se uno conosce che cosa sia il bene e che cosa sia il male, non
potrà essere sopraffatto da nulla, e non potrà operare diversamente da
quello che la scienza comanda, ma anzi basta tale saggezza a soccor·
rere l'uomo »; la scienza è dunque in grado di imporsi alla impulsi·
vità, al piacere come al dolore, all'amore come alla paura; una scienza
che non riuscisse ad imporsi all'impulso, sarebbe ancora soltanto opi-
nione, cioè una falsa scienza.
Di qui derivano due conseguenze: anzitutto se lo. sviluppo delle
possibilità umane è essenzialmente sviluppo della ricerca razionale,

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Baruch_in_libris
LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. III

non si daranno tante virtu, distinte l'una dall'altra, in modo che sia
possibile possederne una, senza possedere le altre; per contro tutte
le varie virtu, distinguibili solo materialmente, si riducono, intrinseca-
mente, ad una sola virtu, la scienza. Anche il coraggio, ad esempio,
che sembra consistere principalmente in un impeto emotivo, senza
alcun riferimento razionale, comporta, per Socrate, un intendimento
di ciò che si deve temere e di ciò che non si deve temere; il vile dif-
ferisce dal coraggioso perché non sa che il morire in battaglia è bene,
ed ha paura della morte perché non sa che la morte di chi combatte
con onore è bella. In tal modo Socrate sostituisce ad un codice morale
di tipo tradizionale, un unico principio, quello da cui può scaturire
la vera moralità come persuasione critica della razionalità di un certo
modo di operare; la vera· virtu non consiste nell'adeguarsi a schemi
morali convenzionali, ma nella ricerca della razionalità dell'azione.
La seconda conseguenza è che « nessun uomo commette peccato vo-
lontariamente, né volontariamente compie azioni brutte e cattive, ma
tutti quelli che fanno azioni brutte e cattive, le fanno per ignoranza»;
e ciò, perché « nessuno, il quale sappia o creda, che ci siano cose mi-
gliori di quelle che egli fa, e che siano possibili per lui, continua a
fare queste, avendo la possibilità di cose migliori; ed il lasciarsi vin-
cere da se stesso non può essere altro che ignoranza, ed il riuscire a
vincere se stessi altro che sapienza ».
Non è chiaro se Socrate, spingendosi nella ricerca razionale al di là
della identificazione generale di scienza e virtu, sia giunto a determi-
nare un preciso contenuto della scienza-virtu. Si presentavano, al ri-
guardo, parecchi problemi: vi sono anzitutto delle scienze ed arti parti-
colari, che insegnano i mezzi adatti a raggiungere un determinato fine;
ad esempio la medicina insegna i mezzi per conseguire la salute, l'in-
gegneria insegna a costruire, ecc.; ma la scienza che si identifica colla
virtU, pare che per Socrate debba distinguersi da queste scienze parti-
colari, in quanto essa dovrebbe essere scienza concernente i singoli fini
delle scienze particolari; queste, poiché non discutono da un punto di
vista unitario tutto il sapere, ma si limitano ad organizzarne un settore,
hanno un valore strumentale e tecnico, rispetto ad una scienza unitaria
che concerne la direzione generale della cultura; per questa via, il sa-
pere cui Socrate dà rilievo è una sorta di " scienza della scienza ", o

Baruch_in_libris
§ 8 SCIENZA B VIRTl

" scienza del bene " che fissi il piano di unificazione e di convergenza
delle varie competenze tecniche. D'altra parte, pare anche che Socrate
sia stato attratto dal problema della sensibilità, cioè del piacere e del
dolore, e dal peso che essa esercita nella condotta complessiva dell'uomo;
e qui mise allora in luce l'importanza di una scienza che sia misura del
piacere e del dolore e che insegni pertanto a sacrificare piaceri imme-
diati e ad affrontare immediati dolori in considerazione di un maggior
piacere o di un minor dolore futuri; questa prospettiva è anche in ar-
monia con gli atteggiamenti pratici di Socrate, che non sembra avere mai
assunto, di fronte alla sensibilità, una posizione di condanna o di ri-
nuncia ascetica, quanto piuttosto una posizione di misura razionale. In
ordine ad una piu precisa determinazione della filosofia come « scienza
della scienza », ossia come scienza del retto uso delle singole scienze
e tecniche particolari, sembra che Socrate abbia pensato, come, del re-
sto, altri sofisti, all'arte politica, che nella città presiede a tutte le at-
tività e ne regola l'equilibrio e gli scopi. Ma deve trattarsi di un'arte
politica che non indulga ad egoismi individualistici; ad interessi parti-
colari, ma sia essa stessa regolata dalla misura razionale, la quale inse-
gna che la ingiustizia è un male ed un danno e che chi commette in-
giustizia, se consegue apparentemente utilità, in realtà fa il danno pro-
prio e degli altri. Un uomo politico che governi secondo il suo inte-
resse immediato invece che in base alla ragione, « non ha una grande
potenza», nonostante tutte le apparenze in contrario; dallo stesso punto
di vista della ragione, è meglio subire ingiustizia, piuttosto che farla;
e ciò perché non bisogna far torto ad alcuno, nemmeno a chi abbia
fatto torto a noi.

9. Democrito e i principii dell'atomismo.


Nel periodo in cui si affermano la sofistica e il pensiero di Socrate,
giunge a piena maturazione il· sistema atomistico nel quale confluisce
tutta la precedente speculazione naturalistica. Democrito di Abdera,
vissuto probabilmente fra il 460 ed il 370, è colui che ha piu contributo
alla determinazione della dottrina atomistica, anche se i suoi scritti
si trovano mescolati in un corpus che raccoglie anche contributi di
Leucippo; di esso ci sono giunti soltanto frammenti. L'atomismo

4S

Baruch_in_libris
LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. III

è una forma di pluralismo in quanto asserisce, con Empedocle ed Anas-


sagora, che i principii della realtà sono molti; ma esso si stacca netta-
mente dalle teorie qualitative di Empedocle e di Anassagora poiché
afferma che gli infiniti principii della realtà, cioè gli atomi, sono della
stessa natura e differiscono soltanto per caratteri quantitativi. Le ra-
gioni che hanno indotto Democrito a sostenere l'esistenza degli atomi
ci sono in parte riportate da Aristotele e poggiano soprattutto sulla
impossibilità di procedere all'infinito nella divisione della materia, come
era stato lumeggiato anche dagli argomenti di Zenone. Ecco come ra-
giona Democrito : « Se si ammette che esista un corpo ed una gran-
dezza divisibile all'infinito e che questa divisione sia possibile, sorge
una grave difficoltà: dopo una tale divisione, che cosa resterà? Non
è possibile che resti una grandezza, perché allora vi sarebbe qualche
cosa di non diviso; ma ammesso che non resti una grandezza, o il corpo
consterà di punti e le parti di cui è composto saranno prive di gran-
dezza, oppure queste parti saranno nulla del tutto; sicché, se sarà com·
posto di nulla, anche il tutto sarà null'altro che apparenza. Del pari,
se consterà di punti, non vi sarà quantità; infatti, quando i punti si
toccassero e formassero una sola grandezza e fossero tutti insieme in
un punto solo, non farebbero maggiore il tutto; anche a riunire tutti
i punti, dunque, non si formerà una grandezza; tuttavia è evidente
che il corpo si divide in grandezze separabili e sempre minori e che
si allontanano le une dalle altre e restano separate. Né infatti chi divide
in parti potrà arrivare ad uno sminuzzamento infinito; né si riuscirà
a dividere il corpo in ogni punto, ma solo fino ad un certo punto. È
dunque necessario che ci siano grandezze indivisibili, posto che ci sono
generazione e distruzione, l'una per separazione e l'altra per aggrega-
zione. Tale è dunque il ragionamento che costringe ad ammettere l'esi-
stenza degli atomi». Gli atomi non derivano l'uno dall'altro, ma sono
originariamente infiniti; sono indivisibili non già perché non abbiano
grandezza ed estensione, ma perché non racchiudono spazio vuoto al
loro interno; sono tutti della stessa natura e questa è la realtà mate·
riale; perciò le differenze che si riscontrano nelle cose si spiegano me-
diante la differenza di forma, di ordine e di posizione degli atomi;
la differenza di forma è la piu importante, ma due atomi che hanno
la stessa forma si passano trovare in un ordine diverso, a seconda che

Baruch_in_libris
s9 DEMOCRITO

il primo di essi SI trovi, per esempio, a s1mstra o a destra dell'altro;


la differenza di posizione si ha quando due atomi della stessa forma
si trovano, per esempio, uno disposto in posizione orizzontale e l'altro
in posizione verticale. Anche quelli che gli altri filosofi consideravano
come elementi primi delle cose, sono considerati dall'atomismo come
aggregati di atomi. Il vuoto che, secondo la dottrina parmenidea, non
esiste, viene considerato e.fagli atomisti reale tanto quanto il corpo, poi-
ché rende comprensibile il movimento degli atomi. Gli atomi « non
sono stati prodotti dall'opera di alcun artefice »; essi sono eterni, come
eterno è il movimento che li agita: « le cause dei corpi soggetti al di-
venire non hanno avuto alcun principio, ma via via da tempo infinito
tutte assolutamente le cose passate presenti e future sono governate dalla
necessità». Il movimento originario degli atomi non obbedisce ad al-
cun disegno, non ha bisogno dell'opera di alcuna forza esterna; tutto
è regolato, nella formazione e nello sviluppo dell'universo, da neces-
sità meccanica, ossia dal movimento della materia che è originario ed
eterno.
Gli dèi non hanno, secondo Democrito, alcuna funzione nell'origine
dell'universo; egli ritiene piuttosto che « noi siamo arrivati a concepire
gli dèi in seguito ai fenomeni sorprendenti che si producono nell'uni-
verso; gli uomini primitivi, nell'osservare i fenomeni celesti, come tuoni
e lampi e fulmini ed aggregati di stelle ed eclissi di sole e di luna,
furono presi da terrore e credettero che ne fossero causa gli dèi ». Gli
atomi, scrive Aristotele riferendo la dottrina di Democrito, « lottano
e si muovono nel vuoto, a causa della loro disuguaglianza e delle altre
differenze ricordate e nel muoversi si incontrano e si legano in un col-
legamento tale che li obbliga a venire a contatto reciproco ed a restare
contigui; gli atomi rimangono a contatto fra loro per un certo tempo
a causa dei collegamenti e delle capacità di adesione che hanno; al-
cuni degli atomi sono irregolari, altri uncinati, altri concavi, altri con-
vessi, altri differenti in inm,1merevoli altri modi; gli atomi si tengono
attaccati gli uni agli altri e rimangono in contatto fra loro solo fino a
quando, con il sopraggiungere di qualche azione esterna, una neces-
sità piu forte non li scuota violentemente e li disperda in varie dire-
zioni». Dal movimento degli atomi sorgono non solo i corpi, ma anche
mondi innumerevoli; la disgregazione di un mondo «porta alla for-

tfi

Baruch_in_libris
LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. III

mazione di un altro mondo, poiché essendo i mondi infiniti e suc-


cedendo gli uni agli altri, non è necessario che si abbia il ritorno del
medesimo mondo di prima »; per Democrito, insomma, « i mondi si
trasformanÒ in altri mondi che son costituiti dai medesimi atomi »;
anche i vari mondi si muovono nel vuoto, come gli atomi originari.
Lo spazio vuoto in cui si realizzano, col moto degli atomi, il formarsi e
il dissolversi dei mondi, ha un carattere piu matematico che fisico; esso
infatti è privo di qualit.1, alla maniera degli atomi; in esso « noi\ esiste
né basso, né alto, né centro, né ultimo, né estremo».

10. Il sistema atomistico.


Democrito spiega in modo naturalistico sia la formazione del nostro
mondo e i principali fenomeni della natura, come l'origine della vita
e in particolare dell'uomo. « Il cielo e la terra avevano in origine un
solo aspetto, essendo mescolata la loro materia »; poi il movimento se-
para una parte ignea dell'aria che « si raccoglie nelle regioni piu alte
dell'atmosfera », da una parte «fangosa e torbida» che roteando su
se stessa « con l'elemento liquido forma il mare, con le sue parti piu
solide forma la terra ». Gli animali nascono dalle "fermentazioni "
che il calore solare produce sulla superficie della terra; le fermentazioni
danno origine a degli "embrioni" che si sviluppano all'interno di
membrane; «via via che le membrane erano disseccate e si laceravano,
venivano alla luce le piu svariate specie di animali». L'uomo non fa
eccezione, quanto all'origine, rispetto agli altri animali; non esi-
ste alcun autore speciale o divino della natura umana, come non
esiste alcun fine particolare che presieda alla sua origine. Gli uomini
delle prime generazioni conducevano una « vita senza leggi e come
quella delle fiere », vivevano isolati « procacciandosi l'erba che era piu
gradevole di sapore ed i frutti che gli alberi producevano spontanea-
mente». Fu l'utilità che insegnò loro a prestarsi reciproco aiuto: « riu-
nitisi in società sotto la spinta del timore, cominciarono a poco a poco
a riconoscersi all'aspetto; e mentre prima emettevano voci prive di
significato ed inarticolate, gradatamente cominciarono ad articolare le
r'1 rolr; stabilirono fra loro espressioni convenzionali per designare cia-
•..:un oggetto e giunsero cosi a creare un modo, noto a tutti loro, per

Baruch_in_libris
§ IO IL SISTEMA ATOMISTICO

significare tutte le cose; ma poiché simili raggruppamenti di uomini si


formarono in tutte le zone abitate della terra, non ci poté essere una
lingua di uguale suono per tutti, poiché ciascuno di quei- gruppi com-
binò i vocaboli come capitava; ecco perché i caratteri delle lingue sono
i piu svariati ». Oltre che l'invenzione del linguaggio, fu decisiva per
lo sviluppo della civiltà umana l'invenzione delle arti e delle tecniche:
« conosciuto il fuoco e le altre cose utili alla vita, poco dopo furono
trovate anche le arti e tutti gii altri mezzi che possono recare giovamento
alla vita in società; maestro agli uomini di ogni cosa fu l'uso».
Ciò che aveva consentito ad alcuni pensatori antecedenti di staccare
nettamente l'uomo dal mondo della natura, era stata la teoria del-
1'anima. Ma Democrito anche su questo punto si attiene con rigore
ai suoi principii atomistici. L'anima dell'uomo è anzitutto corporea,
in quanto è costituita di atomi; si tratta tuttavia di atomi che, avendo
forma sferica, hanno carattere igneo, cioè una grande mobilità. Per
Democrito, dice Aristotele, «l'anima e il calore sono la stessa cosa ed
i loro atomi appartengono a quelli sferici. Nell'aria c'è gran numero
di quegli atomi che egli chiama anima; quindi, allorché si respira e
l'aria penetra in noi, gli atomi di questo genere, entrando insieme con
essa, impediscono all'anima, che è contenuta negli esseri viventi, di
dissolversi; quando invece l'azione dell'aria ambiente comprime gli
atomi dell'anima e l'aria che entra dal di fuori non è piu in grado
di respingerli dentro, allora diviene impossibile la respirazione e negli
animali avviene la morte; la morte infatti non è altro che la fuga degli
atomi leggeri e sferici dal corpo per la pressione esercitata dall'aria am-
biente». L'anima è principio di movimento, poiché «gli atomi sferici
sempre in movimento sono di tal natura da non poter mai stare
fermi e quindi riescono a trascinare con sé ed a muovere tutto il corpo».
Poiché gli atomi sferici sono diffusi in tutto il corpo, l'anima stessa ha
sede in tutto il corpo; essa muore e si dissolve insieme con il corpo..
Nell'ambito della conoscenza, Democrito distingue la sensazione e
il pensiero; quest'ultimo si produce «quando c'è equilibrio nell'interna
mescolanza dell'anima». Quanto alla sensazione, Democrito tien fermo
che gli atomi sono privi di qualità; le loro differenze sono puramente
quantitative; bisognerà allora concludere che le qualità che a noi appaiono
come appartenenti ai corpi, non sono originariamente nei corpi, ma

49
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. III

derivano dall'incontro dei dati quantitativi dei corpi da un .lato e degli


organi sensitivi dall' altro. Consideriamo, ad esempio, i sapori che noi
sentiamo, il dolce, l'acido, il salato, ecc.; essi non esistono negli atomi;
un atomo ha una sua forma, grandezza, ccc., ma non un suo sapore;
Democrito cerca di spiegare i sapori che noi sentiamo facendoli derivare
dalla forma degli atomi; egli, afferma Teofrasto, «fa derivare il dolce
dagli atomi rotondi e di discreta grandezza, l'acre dagli atomi di figura
grande con asperità e senza rotondità, l' acido dagli atomi acuti ed
angolosi, ccc. »; un corpo dagli atomi rotondi « dà un senso di liscio,
di dolce e di piacevole »; quindi il dolce è una qualità che deriva <;lalla
forma rotonda degli atomi; negli atomi, il dolce non è niente di diverso
da tale forma e, in quanto distinto da essa, non esiste. Bisogna, natu-
ralmente, tener conto anche del senso, ad esempio, del gusto; e questo
può essere diverso in persone diverse, in quanto dipende da tutte le
condizioni corporee d'una persona; ecco perché, ad esempio, il miele
pare ad alcuni dolce, ad altri amaro; in realtà, il miele non è né dolce,
né amaro, ma ciueste qualità derivano dall'incontro degli atomi del
miele, nelle loro caratteristiche quantitative, con il senso gustativo delle
varie persone. Democrito ha svolto un'ampia ricerca per mostrare come
le qualità sensibili derivino tutte o dalla grandezza, o dalla forma, o
dall'ordine o dalla posizione degli atomi, cioè dai dati quantitativi.
Eppure Democrito deve aver rilevato che gli atomi, essendo per se
stessi privi di ogni qualità sensibile, non possono essere percepiti coi
sensi; i sensi percepiscono sapori, odori, colori, ecc., ossia qualità che non
si possono identificare affatto con gli atomi e con le loro caratteristiche
originarie. Non si poteva dunque evitare un raffronto fra la conoscenza
sensibile da un lato e la conoscenza che ci porta ad affermare l'esistenza
degli atomi e del vuoto dall'altro. La riduzione di tutta la conoscenza
alla sola sensazione, compiuta da alcuni sofisti, non poteva non es-
sere presa in esame. Democrito, se voleva difendere la sua conce-
zione meccanica della materia, doveva opporsi al sensismo dei so-
fisti; e risulta infatti che egli· avrebbe preso posizione contro Pro-
tagora, che voleva identificare la verità con la sensazione; sostenne
infatti che l'uomo non deve attenersi solo ai dati della sensazione; se
facesse cosi, non potrebbe conseguire la verità; le sensazioni, anziché la
verità, forniscono l' opinione, ossia qualcosa che, pur avendo realtà

so
Baruch_in_libris
§ IO IL SISTEMA ATOMISTICO

in quanto appare a noi, non coincide con la realtà originaria degli atomi.
Secondo l'attestazione di Sesto Empirico, Democrito avrebbe dichia-
rato: « Opinione il dolce, opinione l' amaro, opinione il l:aldo, opi-
nione il freddo, opinione il colore; verità gli atomi ed il vuoto>>. Ed
avrebbe affermato che « vi sono due modi di conoscenza, cioè mediante
i sensi e mediante l' intelletto »; la seconda è " genuina ", mentre la
prima è " oscura ".
Nelle molte sentenze di carattere morale attribuite a Democrito si
afferma che la felicità non consiste nei piaceri sensibili, quanto invece
in una « misura razionale» che disciplini la sensibilità; e si mette in
luce il danno che possono recare le passioni alla tranquillità dell'animo,
che viene additata come fine supremo della vita. L'atteggiamento mo-
rale di Democrito è dunque volto alla ricerca di un bene individuale,
giacché la tradizione etica cittadina è ormai in piena crisi; spunti indi-
vidualistici si riscontrano del resto anche nelle dottrine della sofistica.
La filosofia della seconda metà del v secolo giunge, da un lato con Sa-
crate, dall'altro con Democrito, a risultati speculativi di grande rilievo.
La sofistica e Socrate contribuiscono a portare la filosofia dal cielo in terra
e cioè dalla considerazione della natura allo studio dell'uomo; l'im-
portanza del principio soggettivo che, con la sofistica, presenta ancora
prospettive molteplici e complesse, giunge con Socrate alla formulazione
concettuale che apre la strada alle ulteriori ricerche di Platone e di Ari-
stotele. Nello stesso tempo il naturalismo delle età precedenti mette capo
ad un sistema completo ed organico, in cui il principio ispiratore, se non
è il soggetto, è la ragione nella sua istanza quantitativa; nella primr. dire-
zione si apre la possibilità di una scienza capace di disciplinare il mondo
dell'uomo; nella seconda direzione si perviene ad una scienza del!' uni-
verso in cui la struttura meccanico-quantitativa inquadra la moltepli-
cità cd il divenire.

11. Lo sviluppo delle scienze.


Nella seconda metà del secolo v, l'eccezionale fervore degli studi filoso-
fici si accompagna anche a ricerche speciali che configurano singoli campi
di indagine scientifica. Si può cosi ricordare Ippocrate di Chio (da non con-
fondere con Ippocrate di Cos che si dedicò alla medicina), fiorito in Atene
fra il 450 cd il 430; egli è uno dei primi a configurare, in modo differenziato,

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO V CAP. III

gli studi di matematica ed a scrivere un trattato di geometria che precede


quello piu famoso di Euclide; con lui vanno nominati anche Ippia di Elide
che scopre la quadratrice, Teodoro di Cirene che sviluppa .la teoria dei
numeri irrazionali, oltre ad Antifonte che apre la via alla scoperta del me-
todo di esaustione; gli studi matematici di questo periodo si muovono, in
sostanza, ancora sulle questioni aperte dalle indagini pitagoriche, oltre che
sul problema della quadratura del cerchio.
Maggiore autonomia ed ampiezza guadagna, in questo periodo, anche
l'astronomia: Filolao infatti porta a compimento la prima spiegazione com-
pleta dei movimenti dei corpi celesti, mentre il suo discepolo Iceta di Sira-
cusa teorizza la rotazione diurna della terra intorno al proprio asse.
Ma il maggiore sviluppo è quello della medicina che vanta, in quest'età,
l'opera di Ippocrate; nato a Cos intorno al 460, esercitò l'arte medica in varie
città della Grecia; a lui risalgono parecchi degli scritti del cosidetto Corpus
hippocraticum, che tuttavia accoglie anche l'opera di altri studiosi di que-
st'epoca e di quella immediatamente posteriore. Ippocrate polemizza contro
le scuole mediche derivate da correnti filosofiche; al suo tempo infatti era
ancora fiorente la scuola medica che, in Sicilia, era stata fondata da Empe-
docle ed ora era illustrata dall'opera di Acrone di Agrigento, suo discepolo.
«Alcuni hanno intrapreso a scrivere o a parlare sulla medicina, scrive Ippo-
crate, forgiandosi, come ba~e per i loro ragionamenti, l'ipotesi sia del caldo,
sia del freddo, sia dell'umido, sia del secco, sia di qualche altro oggetto
conforme ai loro desideri; ma tutti costoro semplificano il problema, non
pongono che uno o due principii, identici in tutti i casi, per spiegare le
malattie e la morte degli uomini, e manifestamente essi si ingannano nella
maggior parte dei loro propositi. Quanto a me non ritengo che la medi-
cina abbia bisogno di ipotesi, come avviene quando si vogliono studiare
cose invisibili o dubbie, ad esempio discorrere sulle meteore o sugli og-
getti che stanno sotto la terra. Alcuni sofisti e medici dichiarano che non
è possibile conoscere la medicina, senza conoscere che cos'è l'uomo, ma
che bisogna condurre a fondo questo studio per dedicarsi alla cura dci
malati. Questi progetti si orientano verso la filosofia a imitazione del-
l'opera di Empedocle e degli altri che hanno scritto sulla natura espo-
nendo, a partire da un principio, come l'uomo è nato e come è stato
costituito. Per mc penso che tutte queste affermazioni, siano esse pronun-
ciate o scritte da un sofista o da un medico, si riferiscono molto meno
all'arte della medicina che a quella dello scrivere; e ritengo che in nes-
suna maniera si avranno conoscenze chiare sulla natura, se non partendo
dall'arte medica». Non soltanto, dunque, Ippocrate sviluppa in senso
autonomo gli studi di medicina, ma si oppone a che tale autonomia sia
compromessa da interferenze filosofiche. Uno degli effetti piu rilevanti
degli studi medici documentati nel Corpus hippocraticum è la progressiva
eliminazione di ogni prospettiva sacrale nella considerazione delle malattie;

Baruch_in_libris
§ Il LO SVILUPPO DELLE sc1E:-.:ZE

a proposito dell'epilessia che i sacerdoti avevano chiamato malattia sacra


nel corpus si legge~ « Nessuna malattia è piu divina o piu umana di una
altra; le malattie hanno tutte una causa naturale, senza la quale nessuna
può prodursi». All'interno del corpus si delineano correnti di\'erse; cosi,
vicino al gruppo dci medici della scuola di Cnido, preoccupati di attenersi
ai fatti nella loro immediatezza, si pone il gruppo dei medici di Cos
guidato da Ippocrate il quale ritiene che non si possa avere scienza me<lica
se non si fa continuo richiamo alla ragione, come strumento di analisi e
di critica -della stessa esperienza: « non si guarisce con ragionamenti pro-
babili, sostengono costoro, ma con l'esperienza associata alla ragione ».
La storia era stata finora coltivata con prevalenti interessi geo-etno-
grafici; con Erodoto (nato ad Alicarnasso intorno al 480 e morto a Turi
intorno al 425) autore della Storia delle guerre persiane, la narrazione
storica tende a ricostrui~e il passato distinguendo accuratamente i fatti
accertati da quelli erronei e leggendari, supera la dispersione dei fatti
ricercandone le cause e collegandoli secondo i rapporti di dipendenza,
sceglie i fatti piu significativi che tenta di organizzare in una visione ampia
e generale del divenire umano; Erodoto deline::. anche una sorta di " ciclo
delle cose umane" che gli sembra concretato nelle vicende storiche e nel
quale entra, come elemento di equilibrio, anche il superiore intervento
divino. Tucidide (460-399) infonde nella sua Storia della guerra del Pelo-
ponneso la viva cultura che egli aveva attinto ai dibattiti della sofistica
e all'esperienza politica di Atene; egli narra fatti a iui contemporanei
proprio perché mosso dalla preoccupazione di esporre vicende la cui verità
potesse essere sicuramente raggiunta attraverso il vaglio delle testimo-
nianze e l'esame critico dei documenti. Nella spiegazione dei fatti Tucidide
si attiene, anche piu rigorosamente di Erodoto, al nesso delle cause e
degli effetti, allo sviluppo delle passioni umane, all'esplicarsi della natura;
nessuna concessione, da parte sua, alle forze soprannaturali, ai miti e<l
alle leggende; la storia è opera degli uomini e serve a conoscere la loro
natura; nessuna necessità fatale tira i fili della storia all'infuori del!e
volontà e passioni umane; proprio per questo, il giuàizio veritiero ed
obbiettivo sulle vicende del passato è fondamento per le nostre previsioni
circa lo sviluppo del futuro; la storia pertanto non ha lo scopo di divertire
o di sollecitare la fantasia; essa prepara un patrimonio che è tanto piu
durevole, quanto piu risponde a verità.

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CAPITOLO IV

La prima metà del secolo 1v

PLATONE E LE SCUOLE SOCRATICHE MINORI

1. Il periodo.

Il secolo 1v si apre con la sconfitta di Atene e il trionfo di Sparta a


conclusione della lunga guerra del Peloponneso; è il trionfo dell'aristocra-
zia sull'ordinamento democratico; quest'ultimo viene restaurato ad. Atene,
dopo la cacciata dei trenta tiranni; ma su tutta la Grecia si impone ormai
l'egemonia spartana; i decenni della prima metà del secolo 1v sono pieni
di tentativi di scuotere tale supremazia; essi sono condotti sia da Atene
che da Tebe; ad Atene si ricostruiscono le fortificazioni distrutte, si alle-
stisce una nuova flotta; ma la pace tra Sparta e la Persia conclusa nel 387
impedisce che in Grecia· si formino delle nuove alleanze e contrasta la ini-
ziativa ateniese per formare una lega contro Sparta; è dopo il rovescia-
mento dell'oligarchia a Tebe intorno al 379 che quest'ultima città acquista
una posizione preminente nella lotta e costituisce con Atene il pe:rno di
una nuova alleanza per rovesciare l'egemonia spartana; ma la gelosia
di Atene per la nuova potenza tebana semina divisione fra gli alleati; Sparta,
assediata dalle truppe di Epaminonda, riesce a salvarsi, mentre nessuno
degli stati greci riesce a imporsi sugli altri e 1d organizzare in libertà l'auto-
nomia della Grecia; intanto si viene rafforzando lo stato macedone che in
breve volgere di tempo imporrà alla Grecia il proprio dominio
·Atene conti~ua ad essere, anche in questo periodo, il centro intellet-
tuale della Grecia; Platone domina con il suo pensiero e la sua scuola
la scena culturale; non ·che la cultura dci sofisti non eserciti ancora un
rilevante influsso o che l'esercizio della retorica, specialmente praticato
nella scuola di Isocrate, non attiri molti giovani; la fondazione dcli' Aca-
demia intorno al 387 segna però una data storica per la filosofia greca;
è questa infatti la scuola che riesce ben presto ad imporsi sia per il suo
programma formativo che per lo sviluppo della ricerca scientifica; in essa
e specialmente nella dottrina di Platone il pensiero socratico trova il suo

54

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D. PERIODO

sviluppo piu significativo. La scuola di Platone è però soltanto la maggiore


delle scuole socratiche; nello stesso periodo di tempo altre minori se ne
formano; una si costituisce a Cirene sotto la guida di Aristippo, la scuola
cinica si raccoglie intorno ad Antistene, mentre a Megara dal gruppo dei
discepoli ateniesi di Socrate ivi rifugiatisi dopo la morte del maestro in-
torno ad Euclide prende origine la scuola megarica. Si può ben dire dunque
che tutta la prima metà del secolo 1v sia dominata, in filosofia, dallo spirito
di Socrate e dal pensiero di Platone che ne è la piu viva esaltazione. Solo
con Platone tuttavia si giunge ad una grandiosa costruzione dottrinale in
cui lo studio dell'uomo e della natura si compendiano, in cui tutta
l'eredità della cultura greca precedente viene portata ad una sintesi com-
pleta; gli altri indirizzi di pensiero da un lato coltivano gli studi dialettici
e dall'altro ripiegano su conclusioni etiche di carattere individualistico ed
eudemonistico:

2. Platone: la vita e gli scritti.

Platone nacque ad Atene nel 427 da una famiglia aristocratica, che


vantava tra i suoi ascendenti lo stesso Solone. Gli anni della sua giovi-
nezza furono fra i piu drammatici della storia di Atene: all'interno
infierivano le lotte fra il partito democratico e le forze aristocratiche cd
oligarchiche, all' esterno la guerra del Peloponneso si stava avviando alla
conclusione con la piena vittoria di Sparta; Platone aveva ventidue anni
quando le mura di Atene furono rase al suolo dalle truppe spartane di
Lisandro. Al governo dei Trenta tiranni, affermatosi nel 404, presero
parte, come narra Platone nella VII delle tredici lettere che gli vengono
attribuite, « alcuni suoi familiari e conoscenti (si ricordi Crizia), che su-
bito lo invitarono a pr!=nder parte alla vita pubblica». «Io credevo vera-
mente, scrive, che avrebbero purificata la città dall'ingiustizia traendola
a un viver giusto e perciò stavo ad osservare attentamente che cosa avreb-
bero fatto; m'accorsi cosi che in poco tempo fecero apparire oro il go-
verno precedente; allora fui preso da sdegno e mi ritrassi dai mali di
quel tempo». Il regime dei Trenta cadde nel 403 e Platone fu preso di
nuovo, a suo dire, dal « desiderio di dedicarsi alla vita politica »; ebbe
anche l' impressione che gli esponenti della nuova democrazia ateniese
fossero « pieni di moderazione »; ma accadde poi, come attesta la stessa
lettera VII, « che alcuni potentj intentarono un processo al suo amico, a

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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV

Socrate, accusandolo di un delitto nefandissimo, il piu alieno d~ll'animo


suo: lo accusarono di empietà, e fu condannato, e lo uccisero »..« Ve-
dendo questo, commenta Platone, e osservando gli uomini che allora si
dedicavano alla vita politica, e le leggi e i costumi, q~anto piu li esa-
minavo ed avanzavo nell'età, tanto piu mi sembrava che fosse difficile
partecipare ali' amministrazione dello stato, restando onesto. I costumi
e gli usi dei nostri padri erano scomparsi dalla città e impossibile era
anche di trovarne di nuovi con facilità. Le leggi e i costumi si corrom-
pevano e si dissolvevano, sicché io che una volta desideravo moltissimo
di partecipare alla vita pubblica, osservando queste cose e vedendo che
tutto era completamente sconvolto, finii per sbigottirmene; continuavo
ad osservare se ci potesse essere un miglioramento e soprattutto se po-
tesse migliorare il governo dello stato, ma, per agire, aspettavo sempre il
momento opportuno, finché alla fine mi accorsi che tutte le città erano
mal governate, perché le loro leggi non potevano essere sanate senza
una meravigliosa preparazione e fui costretto a dire che solo la retta
filosofia rende possibile di vedere la giustizia negli affari pubblici e
in quelli privati».
Agli studi filosofici Platone si era dedicato per tempo. Aristotele ci
informa che « egli si familiarizzò fin da giovane con Cratilo e con le
dottrine eraclitee »; lo stesso si deve dire, secondo Diogene Laerzio, anche
per le dottrine eleatiche; ma decisivo fu in proposito l'incontro con So-
crate; al momento della morte di questi Platone contava ventott' anni.
Scomparso Socrate, Platone si recò a Megara, dove Euclide aveva
costituito una scuola di ispirazione socratica. Tornato in Atene, diede
forse inizio alla sua attività di scrittore, componendo i primi dei suoi
dialoghi, in cui si avverte l'eco vivissima della personalità di Socrate. Si
deve probabilmente collocare intorno al 388 un viaggio che Platone
compi nell'Italia meridionale e in Sicilia; a Taranto, egli visitò la co-
munità pitagorica che era guidata da Archita ( « Platone segui in molte
dottrine i pitagorici», attesta Aristotele); si recò anche a Siracusa, go-
vernata dal tiranno Dionigi I; qui strinse amicizia con Diane, congiunto
e consigliere del tiranno.
Rientrando ad Atene dal viaggio in Italia (si era probabilmente nel
387), Platone acquistò un fondo nei pressi del parco detto di Academo
e vi apri un centro di studi che chiamò Academia; essa, oltre che istituto

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PLATONE

scientifico e scuola di formazione etico-politica, fu anche un' associazione


religiosa per il culto delle Muse.
Nel 367 Platone tornò a Siracusa, per sollecitazione di Dione il quale
pensava che il nuovo sovrano, Dionigi Il, per esser ancor giovane e viva-
mente desideroso di educazione, avrebbe potuto facilmente esser portato
all'amore della filosofia; ma la sua missione falli. Ad analogo fallimento
andò incontro un terzo viaggio di Platone a Siracusa, compiuto nel 361.
Mentre Platone moriva nel 347, Atene era in guerra con Filippo e la
sua decadenza politica si avvicinava a grandi passi.
Platone è il primo autore, di quelli finora incontrati, di cui ci siano
rimasti tutti gli scritti, che comprendono tredici lettere e circa una tren-
tina di dialoghi. ·
È la prima volta, con Platone, che la ricerca filosofica viene affidata
alla forma letteraria del dialogo, anche se Pbtone non è il solo ad usarla;
infatti tutto l'ambiente culturale, che si richiama a Socrate, ha larga-
mente riprodotto negli scritti quello che ritenne il suo metodo originale,
cioè il metodo dialogico.
Ciò che importa è dunque di riuscire a distinguere, negli scritti di
Platone, il pensiero suo da quello di Socrate. Gli studiosi hanno tentato
molte vie per cogliere la mente di Platone; volta a volta hanno cerbto di
ridurre il numero dei dialoghi da considerare autentici, oppure di allar-
garlo, di mettere in evidenza alcune linee generali e permanenti della
dottrina, oppure di seguire passo passo il sinuoso sviluppo particolare
della indagine; in particolare si è cercato di determinare con la maggior
esattezza possibile la cronologia dei dialoghi, appunto per poter seguire
nell'ordine del tempo lo stesso formarsi e svolgersi della problemati~a
platonica. Però i ·riferimenti cronologici contenuti nei dialoghi sono
pochi; le particolarità stilistiche (o stilemi) che, ripetendosi e richia-
mandosi da un dialogo all'altro, dovrebbero consentire di stabilire la
maggiore o minore vicinanza fra essi, hanno dato luogo a risultati ap-
prezzabili, ma anche ad una specie di calcolo astratto, cui è difficile ri-
conoscere portata storica decisiva. Integrando questi diversi criteri fra
loro e spingendo al massimo lo sforzo per una valutazione storica com-
plessiva di tutto ciò che i dialoghi offrono, si è giunti a prospettare la
possibilità di distinguerli in alcuni gruppi. Un primo gruppo di dia-
loghi è quello che Platone ha scritto non molto tempo dopo la morte

57
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV

di Socrate e eh~ perciò sembra rispecchiare di piu il pensiero dello stesso


Socrate; di esso fanno parte: l'Apologia· di Socrate, il Critone, il Car-
mide, il Lachete, il Liside, il Protagora, il Gorgia, l'Eutifrone, l'Ippia
minore, il Menesseno, il Menane e l'Eutidemo; per questi dialoghi si
tende ad indicare il periodo cronologico che va dal 396 al 388 circa.
Un secondo gruppo comprende i dialoghi che Platone probabilmente ha
scritto nel periodo che tien dietro alla fondazione dell'Academia, cioè dal
387 in avanti: il Cratilo, il Simposio, il Fedone, la Repubblica. Alla piena
maturità dell'autore appartengono i dialoghi da lui composti prima di
intraprendere il secondo viaggio in Sicilia, cioè probabilmente entro il
366: il Fedro, il Parmenide e il Teeteto. All'et~ piu tarda di Platone
si fanno infine risalise i seguenti dialoghi: il Sofista, il Politico, il Timeo,
il Crizia, il Filebo e Le leggi. Questa, a grandi linee, la disposizione
cronologica piu attendibile degli scritti di Platone; seguendo questa
linea e considerando i dialoghi piu importanti si può pertanto ritenere
di non scostarsi radicalmente dall'ordine con cui egli affrontò e discusse
i problemi filosofici.

3. L'insegnamento di Socrate e le sue aporie.

Dall'insegnamento di Socrate, Platone sembra aver tratto anzitutto


la persuasione circa l'importanza della conoscenza per lo sviluppo della
vita dell'uomo. Già nell'Apologia, ad es., si prende posizione contro
coloro che si dedicano a procacciarsi ricchezze, o fama ed onori, tra-
scurando la virtu che è caratteristica dell'uomo, quella appunto che
concerne lo sviluppo della mente e dell'intelligenza; anche il mondo
della cultura, rileva Platone, è pieno di gente « che non sa nulla e si
dà l'aria di saper tutto»; ciò può dirsi dei politici che si abbandonano
alla pratica, dei poeti che si affidano all'estro, dei tecnici che si occu-
Pf!.no di problemi estranei alla loro arte. Il ragionamento ( J..Oyoç) ha
importanza anche per il comportamento pratico dell'uomo; infatti, nota
Platone nel Critone, il volgo si comporta « come capita », « secondo
le opinioni della gente», mentre è necessario che il nostro agire si
ispiri ad una misura razionale e che non· si lasci distogliere da essa per
alcuna ragione: « noi non dobbiamo affatto preoccuparci di quello che

Baruch_in_libris
§ 3 L'INSEGNAMENTO DI SOCRATE

potrà dire di noi il volgo, bensl di ciò che potrà dire colui che si in-
tende del giusto e dell'ingiusto, giudice unico, che è tutt'uno con la
verità». Proprio per il peso che ha nel comportamento virtuoso la
scienza, Socrate aveva insistito sia nel ridurre a questa tutte le virtu,
sia nel sostenere che la virtu si può insegnare; dalla scienza dipendono,
a suo giudizio, sia il bene che il male, sia la felicità che l'infelicità
del! 'uomo; nel Protagora Platone non manca però di notare che nelle
assemblee, mentre si ricorre ai competenti quando si tratta di questioni
tecniche, «quando si tratta dell'amministrazione politica, si alzano
a consigliare senza nessuna distinzione il falegname, il calzolaio, il
commerciante»; si pensa dunque che sia naturale che tutti prendano
parte alle deliberazioni politiche e che la stessa virtu politica sia innata,
e non frutto di insegnamento; ed ecco che si pongono per Platone le
premesse per un esame critico approfondito della democrazia ateniese
e per il suo rinnovamento in sc;nso culturale.
La principale difficoltà che, in questa direzione, presenta il pen-
siero socratico è quella studiata nel Carmide che ha per oggetto il
problema della saggezza; per saggezza Socrate intendeva quella scienza
suprema di cui l'uomo dovrebbe servirsi per indirizzare secondo ra-
gione tutto il suo sapere e il suo fare; sembra che la saggezza si di-
stingua da tutte le altre scienze particolari, perché queste sono scienze
di altro e non di se stesse, mentre la saggezza soltanto « è scienza
delle altre scienze e di se stessa». Ma una scienza, «che è scienza di
sé e delle altre scienze, non ha per oggetto nessun particolare campo
del sapere »; se si può, dunque, facilmente ammettere che esistano
molte scienze, ciascuna delle quali sia scienza di qualche cosa di de-
terminato, non si vede come possa esistere una scienza che sia scienza
di nulla di determinato, ma scienza di se stessa. « Ciò che è sano,
lo si conosce con la medicina, non con la saggezza; ciò che è archi-
tettonico, lo si conosce con l'architettura, non con la saggezza »; quin-
di, con la saggezza, si conosce « non che cosa si sa, ma solo che si sa »;
se uno, oltre ad esser saggio, « non sa in piu né ciò che è sano, né
ciò che è giusto, ma ha scienza solo del fatto che ha scienza, egli si
riduce a non conoscere se non che sa e basta». Come giustificare, dun-
que, la scienza generale capace di dare un solido fondamento unitario a
tutta la cultura?

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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV

4. II primo abbozzo della teoria delle idee.

Per dare risposta a questa domanda, Platone abbozza quella


teoria delle idee intorno a cui si svoìgerà insistentemente la sua rifles-
sione. I primi tentativi in tal senso sono quelli condotti nell'Eutifrone
e nel Menane. Nel primo si tratta di stabilire rigorosamente ciò che è
pio e ciò che è empio, ciò che è santo e ciò che non lo è. Quello che si
dice "santo" considerato in sé, deve essere sempre lo stesso in tutte
le circostanze; la differenza fra chi manca di scienza e chi la pos-
siede è proprio questa, che il primo applica indifferentemente un nome
a caso, ora ad una cosa ora ad un'altra, mentre il secondo cerca di co-
gliere ciò che in varie circostanze si presenta identico; e ciò che è
identico in varie circostanze, è tale in quanto ha una sua forma, una
sua conoscibilità, una sua idea; se si vuol conoscere che cosa è santo,
bisogna conoscere « quello stesso principio eidetico per cui tutte le
cose sante sono sante», tenendo conto che «in forza di un'unica idea
le cose sante sono sante e quelle non sante sono non sante»; avere
scienza vuol dire dunque «servirsi della idea come di modello»;
solo giungendo alla formulazione di tali modelli intellettuali si pos-
sono dirimere scientificamente «le controversie sul giusto e l'ingiusto,
sul bello e sul brutto, sul buono e sul cattivo » e si può dare un oggetto
preciso alla saggezza come unità della cultura.
Nel Menane Platone cerca di determinare l'idea della virtu; ciò
equivale a indicare quell'idea ( Et[loç) per cui tutte le virtU sono virtU
ed alla quale bisogna " guardare " per poter rispondere alla domanda,
che cosa sia virtu; «la virtu è la stessa in tutti», è quell'uno (lv)
«che si cerca in tutte le virtu ». Chiedere che cos'è la virtu, spiega Pla-
tone, è come chiedere che cos'è figura; non si può rispondere indicando
una figura; e cosi non si può rispondere alla domanda circa la virtu,
indicando una virtu; del circolo non si direbbe che è la figura, ma
una figura; e cosi della giustizia non si può dire che sia la virtu, ma
una virtu; come il colore .rosso, continua Platone, non è meno co-
lore del colore bianco e come la figura curva non è meno figura di
quella retta, cosi l'essenza non ammette un piu o meno; e, per esem-
pio, nessuna virtu è virtu in misura maggiore o minore di un'altra.
La ricerca che determina ed analizza i modelli intellettuali o idee

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§ 4 LA TEORIA DELLE IDEE

comincia cosi a prendere un posto importanti" nella disamina critica


della cultura condotta da Platone e tende fin d'ora a porsi come disci-
plina fondamentale e generale del sapere. Perché tuttavia la nostra
conoscenza delle idee sia valida bisogna, secondo Platone, che esse
siano delle realtà universali e permanenti, e non soltanto dei criteri
regolativi interni al nostro intelletto; Socrate aveva appunto messo in
luce l'Ìmportanza concettuale della conoscenza universale e necessaria;
Platone insiste sul fatto che la conoscenza concettuale presuppone dei
modelli permanenti ai quali si volga lo sguardo èlel nostro intelletto;
si tratterà, ovviamente, di modelli intellettivi e non sensibili; ma essi
dovranno essere sottratti al fluire delle operazioni con cui i vari sog-
getti li considerano, dovranno esseie oggettivi nel senso piu completo
della parola, per garantire appunto l'universalità e la necessità della
conoscenza intellettuale. Si può dire che il nucleo centrale della ricerca
filosofica di Platone consista appunto nel passare dal concetto socra-
ti_co all'idea, cioè dall'istanza di una conoscenza universale e necessaria
a quella dei modelli ideali o essenze reali ·che la giustifica e la fonda.

5. La critica della retorica e dell'eristica.


Ma la retorica sofistica non costituisce una via piu efficace e pm
facile per conseguire l'unità della cultura? La risposta che Platone
dà a questo problema nel Gorgia è risolutamente negativa. La retorica
è l'arte che, mediante discorsi, tende a persuadere «su ciò che è giu-
sto o ingiusto ». Ma la persuasione ( :rtEL6w) può nascere o dalla cono-
scenza (µa6ri<nç) o dalla credenza (:rtCcmç); ora la retorica è, per
Platone, e< produttrice della persuasione che procede dal credere e non
dalla scienza ». Il retore, infatti, non comunica conoscenze, ma in-
fonde fede in chi ascolta. Certo, pare che « non ci sia materia nella
quale l'oratore non possa parlare in modo piu persuasivo di qua-
lunque tecnico»; <<l'oratore è capace di parlare a tutti e di tutto, in
modo da riuscire piu persuasivo tra le moltitudini su qualsiasi argo-
mento». Ma l'oratore, osserva Platone, non conosce le singole arti;
egli possiede " una tt"cnica della persuasione " che può avere successo
non nei riguardi dei competenti, ma solo nei riguardi degli ignoranti;
ad es., l'oratore, che non è medico e non conosce l'arte medica, non

Baruch_in_libris
LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV

può parlare della salute in modo da persuadere un medico; in breve,


l'oratore « non sapendo, appare fra gli ignoranti piu dotto di chi ve-
ramente sa». Dal punto di vista della scienza, non si può nemmeno
dire, dunque, che la retorica sia una tecnica (tÉXvri); essa è piuttosto
una pratica ( f.1um(lf.<1) " perché non ha conoscenza dei mezzi che ado-
pera, in modo da indicare la causa di ciascuno»; essa è qualche cosa
di privo di pensiero (uÀoyov :n:(><iyµ<l). Anche il potere che l'oratore
esplica nella vita politica manca di seria base, in quanto non viene
esercitato secondo giustizia, ma piuttosto secondo l'utilità del piu
forte; ora compito dell'uomo politico non è tanto quello di provve-
dere la città di mura, di arsenali e di templi, quanto quello di « rendere
migliori i cittadini»; scambiare l'oratore per un buon uomo politico
è come scambiare per medico uno che abbia scritto un trattato sulla
cucina o chi venda del buon vino. La necessità di una nuova arte po-
litica, basata sulla scienza, resta dunque piu valida che mai.
Ma a una tale scienza vengono mosse parecchie difficoltà anche da
parte dell'eristica, cioè di quella tecnica dialettica che, originata dalle ar-
gomentazioni di Zenone, era stata portata da alcune correnti sofistiche a
sviluppi paradossali e scetticheggianti; e Platone le esamina sia nel
Menone che nell'Eutidet:no. C'è, ad es., un principio eristico che so-
stiene che all'uomo non è possibile cercare né ciò che sa, né ciò che
non sa; «non quello che sa, perché lo sa e non c'è bisogno di alcuna
ricerca; non quello che non sa, perché non sa che cosa cercare »·; se
ciò è vero, come si potrà cercare l'idea, la forma del giusto, del santo,
del bello, ecc.? Platone risponde che « seguire il ragionamento eristico,
vorrebbe dire rimanere inerti; perciò esso è gradito alla gente ·fiacca,
mentre il cercare e l'imparare è cosa che ci rende operosi ed indaga-
tori ». Che il " cercare " sia invece possibile viene spiegato da Platone
con il ricorso alle credenze mitiche, alle quali egli si rifà spesso, per-
suaso com'è che contengano il deposito di un'antica sapienza dalla
quale può venire al ragionamento un'indicazione simbolica ddla ventà.
Ora le credenze orfiche «affermano che l'anima è immortale e rinasce
piu volte; avendo visto il mondo di qua e quello degli inferi e ogni
cosa, essa ha tutto imparato; ed è perciò capace di ricordare quello che
prima sapeva; il cercare e l'imparare quindi non: è altro che ricor-
dare». A Platone qui non interessa tanto di sostenere l'immortalità

Baruch_in_libris
§ 5 LA CRITICA DELT,A RETORICA E DELL' ERISTICA

dell'anima: « sulle altre affermazioni di questo discorso, egli fa dire


a Socrate, non insisterei; ma che, credendo di dover cercare ciò che
non si sa, saremmo migliori e piu gagliardi e meno inerti che non
con l'opinione che non sia possibile né si debba cercare ciò che non
sappiamo, questo lo sosterrei risolutamente con le parole e con i fatti ».
Una prova singolare della possibilità della ricerca è quella che So-
crate reca, rivolgendosi ad uno schiavo di Menane, un giovane sveglio
ma ignorante e facendogli scoprire da sé la soluzione del problema
della duplicazione del quadrato; lo schiavo non sarebbe giunto, senza
l'aiuto delle domande di Socrate, alla conoscenza della verità mate-
matica; ma quel che importa è che egli, pur cosi sollecitato, «ha
espresso un'opinione sua», è cioè riuscito a conseguire una propria
conoscenza; lo schiavo ignorante che, sollecitato opportunamente,
giunge a formulare importanti verità matematiche, riuscendo quasi a
ricordarsene, come se le avesse dapprima apprese e poi dimenticate,
mentre riscontra il valore di simbolo del mito orfico, ci aiuta a in-
tendere che la ricerca della verità, come condizione intermedia fra il
pieno possesso di essa e la sua completa assenza è senz' altro possibile.
Ma Platone non poteva trascurare altre argomentazioni eristiche che
sollevavano varie difficoltà" intorno alla conoscenza scientifica; si tratta
di difficoltà relative alla formulazione linguistica di alcune propo-
sizioni; bisognava risolverle, per rendere possibile un linguaggio scien-
tifico rigoroso. Ecco alcune di tali argomentazioni: chi sa qualche cosa
è un sapiente; un sapiente non può mai essere un ignorante; perciò
colui che sa qualche cosa, qualunque essa sia, sa sempre tutto. - Im-
para chi sa oppure chi non sa? Se si risponde che impara chi sa, si
obbietterà che chi sa non può imparare; se si risponde che impara chi
non sa, si obbietterà che soltanto chi capisce e cioè sa, può imparare. -
Se sei ignorante di qualche cosa, desideri di non essere piu ignorante;
dunque desideri di non essere piu quello che sei: dunque desideri di
morire. - Per mentire bisogna dire qualche cosa; ma la cosa che uno
dice è esistente, sicché chi dice quella cosa, dice ciò che è: ma chi dice
ciò che è, dice la verità; sicché chi mente, dice la verità. - Platone
ritiene che chi si serve di tali argomenti non faccia alcun conto della
verità o della falsità, ma cerchi soltanto di imbrogliare l'interlocutore,
ricavando dalle sue affermazioni delle conclusioni inaccettabili; gli

6J
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV

riesce abbastanza facile infatti rilevare che, nella prima argomentazione,


si giunge ad una conclusione paradossale perché non si è precisato entro
quale limite uno è sapiente, mentre nel secondo caso si gioca sul dop-
pio significato del termine " imparare " e nel terzo sul doppio signi-
ficato del termine "essere". Nell'Eutidemo Platone non mostra di
prendere molto sul serio i sofismi degli cristi; eppure egli non sotto-
valuta la possibile portata di alcune delle argomentazioni in questione;
la negazione dell'errore e della contraddizione, ad esempio, aveva alle
sue spalle la tradizione eleatica e proprio di questa dottrina Platone
sentirà il bisogno di fare, piu tardi, una disamina radicale. Se alcune
argomentazioni eristiche dovevano dunque ritenersi poco piu che giochi
mentali, altre comportavano delle piu consistenti difficoltà logiche.
Anche la considerazione piu generale del problema dcl linguaggio
che Platone svolge nel Cratilo tende a liberare ·da indebiti intralci la
strada che porta ad una valida conoscenza universale e necessaria. Si
tratta di stabilire se le cose hanno un loro nome " per natura " oppure
"per convenzione". La seconda tesi ha alle sue spalle la dottrina di
Protagora; se ogni singolo uomo è misura di tutte le cose, egli sarà
anche misura dei nomi; il relativismo di Protagora non può però essere
accolto da Platone perché, egli osserva, se è vero quello che a ciascuno
pare, non si può piu distinguere uno che sa da uno che non sa; per la
stessa ragiÒne egli respinge però anche la dottrina, di derivazione par-
menidea, secondo la quale « per tutti, tutte le cose sono allo stesso modo
insieme e sempre »; anche in questo caso infatti non è possibile distin-
guere verità ed errore, in quanto l'errore non sarebbe nemmeno possi-
bile. La soluzione giusta è quella che riconosce che le cose hanno una
loro propria natura che non dipende da noi e che non può pertanto
essere manipolata secondo il capriccio della nostra immaginazione; c'è
una " natura " delle cose, che deve esser presa per criterio della " giu-
stezza " di tutto ciò che le riguarda, quindi anche dei nomi che sono
« uno strumento per indicare e distinguere la natura »; il mettere nomi
non spetta dunque ad ognuno, ma solo a colui che sa; egli guarderà
all'idea di ogni cosa che gli servirà da modello e costruirà i vari nomi
tenendo presente la natura delle cose; il dialettico che per Platone è
colui che principalmente si dedica allo studio delle idee sarà in grado
di controllare se i nomi sono dati bene o male. I nomi sono dunque

Baruch_in_libris
s5 LA CRITICA DELLA RETORICA E DELL' ERISTICA

delle imitazioni delle cose; appunto perciò non si può partire dai nomi,
per apprendere le cose; le controversie sui nomi si possono invece
risolvere solo cercando al di fuori dei nomi, nelle cose e nei loro modelli
eidetici. In tal modo Platone respinge sia la dottrina parmenidea, sia
quella di Eraclito; la dottrina di Parmenide consente agli cristi di rilevare
che, se il vero coincide con l'essere ed il falso con il non essere, il falso
non potrà mai esser detto; d'altra parte se con Eraclito affermiamo che
tutto diviene e nulla è stabile, come potremo giungere ad una cono-
scenza valida, cioè appunto stabile ed universale?

6. L'amore, la bellezza e il destino dell'anima.


II problema della conoscenza vera ed universale non è soltanto una
questione puramente intellettiva ma coinvolge anche una visione globale
della vita e del destino umano. Ecco perché nel Simposio Platone
affronta il tema dell'amore, dandone un'interpretazione che comporta
una nuova e complessiva concezione della realtà e dell'uomo. Egli
respinge sia la convenzionale figura dell'amore offerta dalla mitologia,
sia la riduzione dell'amore all'angusta prospettiva della pederastia, sia
la concezione medico-naturalistica dell'amore come di un principio di
accordo fra gli elementi. Amore è, invece, per Platone, desiderio di bel-
lezza e di bene e pertanto avvertimento della loro mancanza; « non è
bello e buono, né brutto e cattivo, ma qualcosa che sta di mezzo fra
essi »; non è un dio, chè gli dèi posseggono bellezza e bontà (perciò
non la desiderano), ma piuttosto un demone, qualche cosa di mezzo fra
l'umano e il divino; Amore è figlio di abbondanza e di privazione; per
un lato è «povero, duro, squallido, senza tetto», per l'altro è « co-
raggioso, risoluto, tenace, sempre occupato ::i trovare vie d'uscita».
Amore è insomma la condizione generale dell'uomo che tende a conse-
guire il bene e la felicità di cui manca. La vita um::ina si muove tra un
mondo sensibile ed uno intellegibile; l'amore spiega il passaggio e la
tensione dall'uno all'altro ed· è perciò « desiderio di possedere il bello
e il. bene »; amore è quindi la chiave che spiega non solo il passaggio
dall'ignoranza alla scienza, ma anche l'intero processo di formazione
dell'uomo fino al culmine della filosofia; il cammino dell'amore è il
pieno dispiegarsi delle nostre possibilità: cc Dapprima, scrive Platone, si

Baruch_in_libris
LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV

ama la bellezza sensibile in un corpo, poi si comprende che una e


identica è la bellezza che è in tutte le forme visibili, poi si ritiene che la
bellezza che è nelle anime è piu pregevole di quella che è nei corpi,
quindi si considera il bello che è nelle varie forme dell'attività umana e
nelle leggi, e infine ·si giunge alla bellezza che è nelle scienze »; il
termine ultimo dell'ascesa amorosa è costituito dalla idea di bellezza
u che è sempre, non nasce mai e non muore mai, né cresce, né dimi-
nuisce, non è in parte bella e in parte brutta, né ora si ed ora no, né
bella sotto certi aspetti e brutta sotto certi altri, né bella qui e brutta
H »; la bellezza è « per se stessa, con se stessa, unica idea che è sempre »,
mentre « tutte le altre bellezze non sono tali che per partecipazione della
bellezza».
·L'anima, prosegue Platone nel Fedro, è come un cocchio alato,
guidato da un auriga e tirato da due cavalli, di cui uno riottoso e
cattivo; prima di venire nel mondo sensibile, l'anima segue le schiere
degli dèi che, in un luogo sovrastante il cielo astronomico, contemplano
le supreme essenze ideali; ma, a differenza degli dèi, le anime giungono
appena o non giungono affatto a vedere le idee, perché i cavalli non
sempre obbediscono all'auriga; esse cadono allora nei corpi sensibili e
danno luogo agli esseri mortali; le anime cadute s'incarnano o nella
natura del filosofo che tiene il grado piu elevato nella gerarchia della
dignità umana, o in quella dell'uomo politico, o in quella del medico
e gili gili fino a quella del tiranno. Anche qui la visione mitica adombra
la realtà del destino umano, alla cui radice sta una caduta dal supe-
riore mondo ideale sotto la spinta di impulsi corporei e sensibili; ma
l'anima, nel corso della vita terrena, conserva ricordi pili o meno vivi
delle essenze contemplate prima della caduta; la visione delle cose belle
del mondo sensibile ridesta in lei i ricordi sopiti e la accende di un
delirio divino, in cui si consuma la forma pili alta dell'amore.
Quel che, cosi, il Fedro adombra nella veste del mito, il Pedone
esplica nella pienezza del ragionamento. Il vero filosofo, spiega Platone,
sperimenta già nel corso della vita una sorta di morte, perché egli non
indulge alla sensibilità né dal punto di vista del piacere, né da quello
della conoscenza; la sua anima « si raccoglie in se stessa » perché « solo
colui che pili intensamente e pili acutamente si appresta a penetrare co!
pensiero ciascun oggetto di cui faccia ricerca, solo costui giungerà pili

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§ 6 L'AMORE, LA BELLEZZA E lL DESTINO DELL' ANlMA
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vicino alla piena conoscenza di qualche cosa ». Per dare rilievo alla
scienza ed all'attività umana che la coltiva, Platone la stacca risoluta-
mente dal mondo corporeo e sensibile ed insiste sul « pensiero per se
stesso » e sul suo oggetto, le idee, in se stesso considerato, astraendo,
per quanto si può, «da occhi e orecchi e da tutto il corpo». Il corpo
è impedimento alla scienza ed all'anima; perciò il filosofo, anche durante
la vita, persegue la morte come liberazione dell'anima e della scienza
d..li vincoli corporei. Il materialismo di coloro che considerano la vita
solo entro l'ambito degli interessi sensibili insidia sia lo sviluppo della
scienza e della cultura che quello dell'educazione; bisogna dunque
guardare alla vita dal punto di vista dell'immortalità. Ecco i ragiona-
menti che, secondo Platone, ci possono convincere che l'anima è immor-
tale: in natura ogni contrario si genera dal suo contrario, ogni processo
generativo si completa col processo generativo contrario; è da ritenere,
quindi, che il processo generativo della morte, per cui appunto ciò che
è vivo muore, si integri col processo generativo della vita, per cui ciò
che è morto rivive; vorrà dire dunque che «le anime dei morti esistono
certamente in qualche luogo, dal quale tornano a rigenerarsi ». La cono-
scenza scientifica ci fa apprendere le idee delle varie cose e « tutte le
impressioni che ci vengono dai sensi noi le riportiamo a tali idee, ricono-
scendo che esse sono gli esemplari primi posseduti dal nostro spirito »;
tutta la nostra. scienza sarebbe vana se non esistessero le idee e l'anima
capace di coglierle; ma come la sensazione non può generare in noi la
conoscenza scientifica, cosi la vita corporea .non misura e non conchiude
in sé la vita della scienza e dell'anima; quest'osservazione, chiarita con
il mito della preesistenza delle anime, spiega la conoscenza come una
reminiscenza, secondo gli spunti del Menone; l'anima dovr?t dunque
preesistere al corpo. L'argomento decisivo per sottrarre l'anima ai limiti
della vita corporea si ritrova però, secondo Platone, nella stessa natura
delle idee; esse sono invisibili e costanti; l'anima, che con la scienza si
mostra capace di cogliere tali modelli, deve essere simile ad essi; e quindi
essa, alla morte del corpo, « se ne andd all'invisibile, all'intellegibile »,
insomma «al divino, all'immortale».
Che la dottrina delle idee e la dottrina dell'anima e della sua· immor-
talit?t siano strettamente congiunte nella mente di Platone risulta anche
dalla critica che egli fa del naturalismo e dal significato finalistico di

Baruch_in_libris
LA PRIMA METÀ DEL SEco:.o IV CAP. IV
-------

cui riveste la teoria delle idee. Naturalismo è per Platone la dottrina che,
pur ammettendo l'esistenza d'un principio ideale, spiega i fatti della
realtà indicandone semplicemente gli dementi materiali, come quando,
per esempio, si volesse spiegare il conversare di Socrate in carcere ricor-
rendo «alla voce, all'aria, all'udito ed a cose di questo genere >>, « senza
curarsi affatto di quelle che sono le cause vere e proprie » e cioè la
condanna degli ateniesi, !_a decisione di Socrate di non fuggire ecc.
La nuova forma di spiegazione dei fatti che Platone propone, in opposi-
zione a quella tradizionale della filosofia naturalistica, consiste nel
cogliere "il meglio" per cui una cosa è come è; non si tratta, per
esempio, solo di dire che la terra è piana o rotonda, ma di dire « perché
è cosI e perché non può essere che cosi, allegando la ragione del meglio
e cioè che per essa il meglio è appunto di essere cosI o cosi».
Non ad Atlante che sostiene il mondo si può dunque fermare la
nostra conoscenza, ma a quel potere « per cui cielo e terra fu possibile
che venissero disposti nel modo migliore ». La scienza filosofica delle
idee indica appunto le vere cause delle cose, il loro modello e il low
fine. « Se uno mi dice, scrive Platone, che una cosa è bella o perché ha
un colore brillante o perché ha una sua figura o per altre proprietà
dello stesso genere, ebbene, io codeste altre cause le lascio perdere e mi
tengo fermo a questa, e cioè che nient'altro fa sf che quella cosa sia bella
se non la presenza o la comunanza del bello». Le idee sono il fine
dell'anima e l'anima è immortale per il suo legame con le idee; l'amore
e la vita sono ad un tempo aspirazione al soprasensibile ed all'immor-
talità.

7. Educazione, politica e filosofia.


Dopo aver sottoposto la dottrina delle idee al vaglio di una visione
complessiva della vita e del destino umani, Platone si misura con
I' obiettivo preminente di tutta la sua riflessione, cioè una nuova conce-
zione dello stato e della vita politica ia cui possa trovare corpo e
compimento l'ideale della conoscenza universale e necessaria. Lo stato
si forma, spiega Platone nella Repubblica,· « perché ciascuno di noi
non basta a se stesso ed ha molti bisogni che può soddisfare solo con
l'aiuto degli altri»; la società che risulta solo del gruppo piu stretta-

68

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§ 7 EDUCAZIONE, POLITICA E FILOSOFIA

mente necessario di mestieri è da considerare " sana ", anche se il pro-


gresso della ricchezza e del lusso farà desiderare molte cose superflue e
farà prosperare molti mestieri oltre quelli attinenti ai bisogni elementari,
al commercio ed al mercato. L'eccessiva brama di ricchezza fa nascere
il desiderio dell'espansione territoriale e quindi la guerra; lo stato dovrà
allora provvedersi di un esercito e Platone ritiene che non debba trattarsi
di un esercito costituito di cittadini, secondo l'indirizzo -della politica
democratica, ma di un -esercito di soldati di mestiere. Bisogna pertanto
scegliere ed isolare dagli altri cittadini un gruppo di uomini, per fare
di essi dei "custodi", cioè dei soldati, la cui professione sia quella di
« far la guardia allo stato ». È solo allo stato che spetta, a giudizio di
Platone, di predisporre la formazione adeguata dei soldati; bisogna
curare la formazione della loro anima con la musica o cultura e la
formazione del loro corpo con la ginnastica. La formazione culturale
dovrà impedire che i giovani accostino quelle composizioni poetiche e
letterarie che esprimono opinioni non consone alla loro educazione;
Platone critica Omero ed Esiodo sia perché non rappresentano gli dèi
come sono, sia perché fanno derivare dalla divinità anche il male e
sottopongono l'iniziativa umana ad un fato ineluttabile e suggeriscono
un'eccessiva paura della morte; non che tali rappresentazioni non siano
poetiche, ma «quanto piu sono poetiche, tanto meno le devono udire
fanciulli ed uomini che hanno da essere liberi e paurosi della schiavitu
piu che della morte»; quanto alla musica in senso stretto, Platone vuole
che sia dato il bando alle «armonie lamentose» come a quelle
« languide » e conviviali rierché « la rilassatezza e l'ebbrezza non
convengono ai custodi dello stato»; mantiene invece «l'armonia che
imita convenientemente parole ed accenti di chi dimostra coraggio in
guerra, di chi reagisce alla sorte con fermezza, di gente temperante cd
assennata». La ginnastica prescritta ai custodi è poi «semplice ed app.ro-
priata », in contrasto con quella ricercata e monotona che in Atene si
soleva far praticare agli atleti. I "custodi " cosi educati vivono secondo
una disciplina particolare: « nessuno di essi deve avere sostanze perso-
nali; nessuno deve disporre di un'abitazione o di una dispensa cui non
possa accedere chiunque lo voglia; devono ricevere dagli altri cittad::tl
una mercede per il servizio di guardia in misura corrispondente al loro
fabbisogno; devono vivere in comune, frequentare mense collettive,

Baruch_in_libris
LA PRIMA METÌ. DEL SECOLO IV CAP. IV

come se si trovassero al campo; ad essi solo tra i cittadini dello stato non
è concesso di maneggiare o di toccare oro ed argento; cosi potranno
salvarsi e salvare lo stato». Al pari degli uomini, secondo Platone,
vanno educate anche le donne che non debbono restare chiuse nella
casa, addette ad occupazioni subordinate, ma debbono collaborare con
gli uomini in tutti gli uffici della vita pubblica, ivi compresa la guerra.
Ma il punto della Repubblica platonica che ha sollevato piu scalpore, ~a
presso i contemporanei che presso i posteri, è certo la completa aboli-
zione, per i "custodi", del matrimonio e della famiglia, intesi come
convivenza durevole di uomo e donna; per un lato i custodi non debbono
restare celibi in quanto sono cittadini eletti, i cui figli avranno maggiori
probabilità di altri di nascere forniti di alte qualità naturali; per l'altro,
è per essi abolito ogni possesso individuale (dal quale nasce ogni divi-
sione) e pertanto anche il possesso di una donna; uomini e donne si
accompagneranno senza dar luogo, perciò, a convivenza stabile ed
esclusiva; i figli verrai.mo allevati a cura dello stato; lo stato interviene
anche nel predisporre gli accoppiamenti, giacché questi debbono rispon-
dere a precisi criteri di selezione e non essere lasciati al caso.
Oltre alla classe dei " custodi ", lo stato ha bisogno di una classe di
veri e propri governanti; questi vengono scelti fra i "custodi" e devono
risultare « estremamente decisi a fare per tutta la vita e con ogni entu-
siasmo quello che ritengono utile allo stato». Lo stato risulta cosi
composto, nel suo insieme, di tre classi : quella dei lavoratori che è
esclusa da ogni formazione particolare cd alla quale non si impone la
vita comune e la· rinuncia alla famiglia, quella dei " custodi " e infine
quella dei " reggitori " o governanti. Perché lo stato risulti buono, biso-
gna, secondo Platone, che esso realizzi un sistema organico di virtu, un
insieme cioè di quelle virtU che hanno il valore di cardine del bene; si
tratta della sapienza, del coraggio, della ternperanza e della giustizia.
Che lo stato sia sapiente dipende dall'esercizio della sapienza da parte
dei governanti; che esso sia coraggioso dipende dai custodi; la tempe-
ranza poi si estende a tutto lo stato e si ha quando quelli che valgono
di piu e quelli che valgono di meno si accordano « su quale dei due
debba governare », anche se essa concerne piu direttamente la terza
classe, quella di coloro che debbono soltanto ubbidire e stare sotto-
messi; la giustizia infine regnerà nello stato se ognuna delle tre classi

Baruch_in_libris
§ 7 BDUCAZJONE, POLITICA E PILOSOFIA

assolverà il compito cui è destinata da natura, senza interferire nei


compiti delle altre classi : « se uno che per natura è artigiano o uomo
d'affari tenta di usurpare la funzione del custode o un custode tenta di
usurpare la funzione del reggitore anche se non ne ha i requisiti, e
costoro si scambiano gli strumenti e gli uffici, alloi-a si ha la rovina e
la ingiustizia nello stato». Del resto stato cd individuo si corrispon-
dono; come nel primo si hanno tre classi, cosf nel secondo si hanno tre
attività diverse, «una che ci fa imparare, l'altra che ci fa provare impeti
d'animo, la terza che ci fa bramare i piaceri e godimenti corporei»;
nell'individuo l'istinto e la ragione si contrastano; fra i due si colloca
l'impulso dell'animo o forza emotiva che, nel contrasto, si allea con la
ragione contro l'istinto; cosi «le parti che costituiscono lo stato e le
parti che costituiscono l'anima di ciascun individuo sono le stesse ed in
numero eguale»; anche l'individuo si dirà giusto «se ciascuno dei suoi
elementi adempie al suo compito, nel ~enso che l'elemento razionale
governi, la forza emotiva gli sia alleata e l'istinto venga diretto e con-
trollato».
Ecco dunque la nuova soluzione del problema politico proposta da
Platone : « A meno che i filosofi non regnino negli stati e coloro che
oggi son detti re e signori non· facciano genuina e valida filosofia e non
si riuniscano nella stessa persona la potenza politica e la filosofia e non
sia necessariamente chiusa la via alle molte nature di coloro che attual-
mente si indirizzano solo ad una delle due, non ci può essere una tregua
di male per gli stati e nemmeno per il genere umano». Questo è appunto
il senso dei molteplici tentativi fatti da Platone per influire sul governo
di Siracusa, questo il significato che assume la sua avversione alla sofi-
stica ed all'arte politica da essa difesa, questo il motivo della sua ostilità
per la democrazia ateniese e per i meschini contrasti politici delle città
greche: bisogna o che i re diventino filosofi o che chi filosofa governi lo
stato; dominio politico e vita ispirata dalla vera: conoscenza e dall'amore
dell'idea debbono incontrarsi. Filosofo, ribadisce Platone, non è né colui
che ama di vedere, né chi ama le arti ed i mestieri, né l'uomo di azione;
tutti costoro rivolgono infatti la loro attenzione alle cose singole, men-
tre il filosofo è in grado di giungere all'idea e di considerarla proprio ·
per se stessa; filosofo è chi, conoscendo sia l'idea sia le cose che ne
partecipano, non identifica e non confonde l' una cosa con l' altra; il

71

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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV

volgersi alle cose particolari dà luogo all'opinione (M;a), men-


tre il rivolgersi ali' idea dà origine alla scienza ( Èmat'rlµTJ ). Il motivo
che induce Platone a confermare, come carattere essenziale dell'idea, la
sua realtà per sé è che, a suo avviso, la conoscibilità e l'essere sono paral-
leli, per cui « solo ciò che perfettamente è, è perfettamente conoscibile »;
la conoscenza insomma ammette gradi diversi di rigore e di validità
in quanto presenta gradi diversi la realtà cui essa si richiama; il grado
piu elevato di conoscenza è appunto quello, allora, cui corrisponde,
come oggetto, il massimo di realtà; «l'opinione è qualche cosa di inter-
medio fra conoscenza ed ignoranza, che verte su ciò che è intermedio
fra ciò che è e ciò che non è; coloro che contemplano le molte cose, ma
non vedono l'idea e non sono capaci di seguire un altro che li conduca
ad essa, diremo che hanno opinioni su tutto, ma che non conoscono
niente con pienezza; coloro invece che contemplano ciascuna di queste
stesse idee che sono sempre allo stesso modo rispetto a se stesse, diremo
che conoscono, non che hanno opinioni; i primi li chiameremo filodossi,
gli altri che amano ciascuna cosa stessa che è, li dovremo chiamare filo-
sofi»; filosofo è chi afferra «ciò che è sempre allo stesso modo rispetto
alle stesse cose», mentre altri si occupa delle cose che sono "molte", e
"varie"; la filosofia insomma è scienza di quella "essenza" o realtà
che "è sempre" e che «non sottostà alla generazione ed alla corru-
zione». Né i sofisti, né i retori come Isocrate, né gli uomini politici greci
sono maestri di cultura adatti a promuovere la ricerca filosofica cosi inte-
sa; eppure è proprio la filosofia che può dare allo stato dei buoni gover-
nanti; una volta che questi siano stati educati nella musica e nella gin-
nastica come " custodi ", un programma piu elevato di formazione si
impone per loro; esso comprende la matematica e la dialettica. Il
calcolo e l'aritmetica preparano alla filosofia in quanto studiano l'unità
e i numeri non già collegati con oggetti sensibili, ma per se stessi;
l'anima che studia «la natura dei numeri» si volge «dalla generazione
alla verità ed ali' essere »; altrettanto si deve dire dello studio della geo-
metria, sempre che essa non sia coltivata per scopi pratici, ma «in vista
della conoscenza di ciò che è sempre »; è anzi necessaria, secondo Pla-
tone, una· riforma che accentui l'aspetto teorico delle discipline matema-
tiche; anche l'astronomia deve occuparsi, piu che di osservare sensibil-
mente i corpi celesti, di considerare le proporzioni matematiche che li

Baruch_in_libris
§ 7 EDUCAZIONE, POLITICA E FILOSOFIA

riguardano; e l'armonia deve risolversi nella scienza matematica delle


consonanze, trascurando ogni manipolazione pratica dei suoni. Il ver-
tice della conoscenza si consegue tuttavia passando dalla matematica
alla dialettica; questa è un procedimento che, prescindendo dalla sen-
sazione e servendosi del ragionamento, mira a giungere a <<ciascuna
cosa che è », ossia all' idea come unità essenziale e permanente del
molteplice e del divenire. Le idee, come modelli della mente, costitui-
scono una sorta di mondo ~ sé, che è puramente intellegibile; in que-
sto mondo c'è un'idea che tiene il posto piu alto, alla maniera stessa
che, nel mondo sensibile, il posto piu alto è tenuto dal sole che con la
sua luce conferisce agli occhi la capacità di vedere ed agli oggetti cd
ai colori la possibilità di essere visti; il sole del mondo intellegibile
è l'idea del bene; essa conferisce agli oggetti dell' intelletto la verità
ed alla mente la capacità di conoscere gli oggetti intellegibili; è la
causa della scienza e della verità in quanto viene conosciuta, anche
se il bene stesso non è essenza, perché cc sta al di là dcli' essenza per
dignità e potenza». Con la dottrina delle idee cos{ intesa Platone
pensa di avere risolto quel problema del bene che Socrate aveva la-
sciato insoluto; Socrate sosteneva che il bene è intendimento ed
aggiungeva che l'intendimento è intendimento del bene, senza giun-
gere a stabilire, fuori di tale circolo, che cosa fosse il bene; per Platone
il bene è la causa stessa del mondo intellegibile, è il principio della
scienza, è il fine supremo del conoscere e dell'essere e, in tal senso,
è il principio di tutta la realtà.
Per spiegare il procedimento della conoscenza umana, Platone,
nella Repubblica, si serve ancora una volta di un mito, il mito della
caverna; entro una caverna, con l'entrata aperta alla luce, stanno in-
catenati degli uomini, col volto verso il fondo oscuro, legati; alle loro
spalle, fuori della caverna, brilla la luce; tra la luce e la caverna corre
una strada sulla quale, come su un proscenio, uomini recano delle
statue; chi è nella caverna vecJe solo le ombre delle statue proiettate
sul fondo e le scambia per oggetti reali; se uno_ degli uomini legati,
sciolto dai ceppi, potesse uscire dalla caverna alla luce, dapprima restc-
robbe abbagliato e non vedrebbe nulla; ma poi potrebbe irrobustire
la sua vista, dapprima osservando le ombre e le immagini riflesse
delle cose, poi le cose stesse; infine volgerà lo sguardo al cielo ed agli

11
Baruch_in_libris
LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV

astri, per poter poi contemplare finalmente il sole. Le tappe della


conoscenza umana qui adombrate sono quattro: anzitutto la sensa-
zione o immaginazione (Eì.xaofa) rivolta alle immagini sensibili iso-
late, poi la credenza ( :rdonç) che coglie gli oggetti sensibili in cui i
dati sensibili isolati si congiungono, quindi la riflessione (5uivoux) che
giunge alla conoscenza degli oggetti matematici, infine la mente, o
intelletto ( voiiç) con èui si conoscono le idee; le ombre delle statue
colte sul fondo della caverna sono come· i dati sensibili colti isolata-
mente dai corpi; l'osservazione delle statue è come la conoscenza dei
corpi colti nell'unità dei dati sensibili; la contempl~zione degli oggetti
veri del mondo reale corrisponde alfa conoscenza matematica, come
infine la contemplazione degli astri e del sole corrisponde alla suprema
conoscenza delle idee. La differenza fra i due gradi piu elevati della
conoscenza viene cosi'. chiarita da Plàfone: la conoscenza matematica si
giova di ipotesi, mentre la dialettica filosofica risale al principio; <t la
dialettica, considerando le ipotesi non come principii, ma come ipotesi
nel senso reale della parola, cioè come punti di. appoggio e di slancio,
arriva a ciò che è immune da ipotesi, al principio dell'insieme; e,
avendolo raggiunto, ritorna a ciò che col principio è concatenato, e
discende verso la conclusione, senza giovarsi in alcun modo di alcun
elemento sensibile, ma muov~ndosi da idee, mediante idee, verso idee,
si compie nelle idee ». I governanti dello stato, essendo stati educati per
la formazione di reggitori almeno per un periodo di cinque anni, dopo
la trentina dovranno, per altri quindici anni, « ridiscendere nella ca-
verna )) cioè assumere le cariche pubbliche per trarne esperienza; in-
fine « quando avranno raggiunto i cinquant'anni, quelli che si siano
sempre dimostrati all'altezza, si devono indirizzare alla meta ultima,
allo studio dell'idea dcl bene da usare come modello per ordinare, cia-
scuno a turno, per il resto della vita, lo stato ed i privati cittadini e
se stessi ».
Delineato cosi lo stato giusto, è facile a Platone pronunciare un giu-
dizio sui vari tipi di costituzioni statali sui qÙali si svolge il dibattito
politico del s~o tempo; e poiché ogni costituzione rispecchia il carat-
~erc dominante dci cittadini che in essa si lasciano organizzare, I' ana-
lisi delle costituzioni è anche un rilievo dcl tipo etico dei cittadini. La
c'.lstituzione la~~mica o cretese si ispira principalmente all'ambizione

Baruch_in_libris
s7 EDUCAZIONE, POLITICA E FILOSOFIA

ed agli onori e si può pertanto denominare timocrazia (tLµT] = onore);


essa poggia sui guerrieri e i suoi cittadini fanno gran conto dell' atle-
tica e del talento militare. La costituzione oligarchica è fondata sul
censo : in essa « i ricchi governano, mentre il povero non può parte-
cipare al potere»; massima importanza essa attribuisce alla ricchezza,
agli affari, alla potenza economica; i suoi cittadini sono uomini
« aridi, che fanno di tutto danaro » e trascurano la cultura. La costi-
tuzione democratica è quella in cui « v' è licenza di fare ciò che si
vuole », in cui ognuno si organizza « un suo modo particolare di
vita »; in essa non si ha obbligo di governare quando si è idonei al
comando, non ci si lascia governare se non lo si vuole, non si cura
«quali studi uno debba seguire per prepararsi all'attività politica»,
ma lo si onora « non appena affermi di essere ben disposto verso la
massa »; il cittadino democratico, poi, vive « giorno per giorno » e
non conosce né ordine, né regola. L' ultimo genere di costituzione è
quello tirannico che nasce dagli eccessi della democrazia e « dà lo
stato in mano alla follia ». Su tutte queste costituzioni domina quella
che realizza, nelle stesse persone, l'incontro di politica e di filosofia;
essa è l'aristocrazia per antonomasia, il governo non tanto dei nobili,
quanto dei migliori; tutte le altre costituzioni sono corruzione di
questo modello perfetto.

8. Le difficoltà della dottrina delle idee.


Con il Convito, il Fedro, il Pedone e la Repubblica Platone ha ormai
svolto gli aspetti piu nuovi della sua dottrina delle idee, ha posto una
netta distinzione fra mondo sensibile ed idee, ha rivendicato alle idee
oggettività reale e stabilità, ne ha dimostrato l'unità e l'immutabilità,
le ha poste oltre la sfera def principii naturali e delle cause fisiche.
Ciò gli ha anche consentito di illustrare i procedimenti piu importanti
della dialettica che sono l'unificazione e la divisione: l'unificazione
consiste « nel vedere insieme e condurre ad una sola idea le cose varia-
mente disperse, onde render chiaro, definendo ogni cosa, ciò intorno
a cui si vuol avere conoscenza»; ma l'idea non si presta soltanto ad
unificare il molteplice; l'analisi dei rapporti che corrono fra le varie
idee ci consente anche di procedere alla "divisione" cioè di conside-

75

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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV

rare quali specie o forme ideali sono contenute in un'idea indicando


per ciascuna la sua essenza; e poiché anche ciascuna delle idee che sono
contenute come specie in una piu comprensiva possono contenere in
sé come idee altre specie, il procedimento può svolgersi nella disamina
completa dei rapporti che reggono la gerarchia del mondo ideale.
Ma a questo punto Platone affronta nel Parmenide l'esame di al-
cune serie difficoltà della dottrina delle idee. Anzitutto, si chiede Pla-
tone, ammetteremo soltanto le idee di giusto, di bello, di bene, di
uguaglianza, di somiglianza, di unità, oppure anche idee di cose come
il fuoco e l'acqua, fino alle idee di cose molto vili, come il fango, il
capello ecc.? «Appena penso, egli riconosce, di estendere universal-
mente il criterio dell' idea, ne rifuggo per il timore di perdermi in
un abisso di stoltezze». Una difficoltà piu grave riguarda il fatto che
le idee sono distinte dalle cose; per es., l'idea di bellezza è distinta
dalle cose belle, che sono tali in quanto partecipano della bellezza; ma
se tutta l'idea di bellezza viene partecipata dalle cose belle, poiché queste
sono molte, l'idea di bellezza si troverà ad essere, ad un tempo, una e
molteplice; se invece ogni cosa bella partecipa di una sola parte del-
l'idea di bellezza, allora l'idea non sarà né semplice, né una. La terza dif-
ficoltà riguarda la somiglianza che corre fra l'idea e le cose che essa
unifica: per es., piu uomini sono simili tra loro appunto in quanto
sono uomini e lidea di uomo è la forma unica in cui li raggruppiamo;
se, in tal modo, la somiglianza che corre fra parecchi uomini dev' es-
sere fissata nell'idea di uomo, anche la somiglianza che corre fra
gli uomini da una parte e l'idea di uomo dall'altra dovrà essere
intesa alla stessa maniera, e si dovrà quindi avere, oltre " gli uomini
particolari", e l'idea di uomo, un "terzo uomo"; «e non sarà
piu uno solo ciascun genere delle cose, ma infinita pluralità». Una
quarta difficoltà nasce quando si tenti di rappresentarci l'idea come
un nostro pensiero che non esista fuori della mente; infatti se le cose
partecipa~o di un'idea che è soltanto pensiero, saranno anch'esse sol-
tanto pensiero; se invece si insisterà sulla differenza fra le cose e la
loro idea nella mente, non si capirà piu come le cose partecipino di
quell'idea. Inoltre, se si dice che le idee sono come dei modelli, di
cui le cose sono copie somiglianti, nascerà la difficoltà di spiegare come
1 modelli si possono dire tali, quando perché ci sia somiglianza fra

Baruch_in_libris
§ 8 LE DIFFICOLTÀ DELLA DOTTRINA DELLE IDEE

essi e le cose, dovrebbero avere gli stessi :aratteri delle cose. Ancora:
« Le cose della nostra esperienza 3ensibile sono quello che sono in rela-
zione fra loro, non rispetto alle idee e ricevono il nome che hanno dal
loro proprio piano, non dal piano delle idee; per es., se uno è schiavo,
lo è perché è schiavo di un uomo concreto, che è il suo padrone, men-
tre l'idea "esser schiavo" è tale rispetto all'idea "esser padrone";
quello che è sul piano della nostra esperienza concreta non ha valore
per quelle idee, né le idee hanno valore per noi; le idee sono quello
che sono rispetto a se stesse e le cose della nostra esperienza sensibile
sono quello che sono rispetto a se stesse ».
Platone riassume tutte queste difficoltà in una quando concludt
che « si trova in difficoltà chi ascolta la dottrina delle idee ed obbiet-
terà che queste non esistono o che, se proprio esistessero, necessaria-
mente sarebbero inconoscibili alla natura umana; e sarà straordina-
riamente difficile convincerlo del contrario ». È tanta la distanza che
corre fra i caratteri del mondo ideale e quelli dell'esperienza che si
può finire per ritenere il primo del tutto estraneo alla seconda; se, per
contro, il mondo delle idee risponde all'esigenza di rendere possibile
lo sviluppo conoscitivo ed etico del!' uomo, bisognerà superare ogni
separazione radicale ed approfondire il loro rapporto. Il mondo ideale
dell'essere e il mondo sensibile non stanno fra loro nel rapporto in cui
stanno, secondo Parmenide, l' essere ed il non-essere; non si può in-
fatti annullare del tutto il mondo sensibile, identificandolo con il non-
essere; né il mondo dell'essere si può prospettare in posizione antite-
tica e negativa rispetto al mondo sensibile. Mondo dell'essere e mondo
sensibile stanno fra loro nello stesso rapporto in cui si trovano l' uno
ed il molteplice; da una parte, il molteplice non si può pensare senza
riferimento ali' unità, in quanto anch'esso è costituito di unità e,
come numero, ne comprende una serie; dall' altra, l'uno è a sua volta
in relazione con il molteplice e fuori di tale relazione non avrebbe
senso; sicché l'uno è, e quindi è essere, ma in quanto unifica il mol-
teplice sensibile cessa di essere solo essere, essere separato, e si trova
in connessione con il non-essere sensibile; questo poi non è a sua volta
un mondo separato dall'uno, ma in relazione con esso; il suo non-
essere non manca di una relazione all'essere. In conclusione, se da
un lato è impossibile considerare l' essere fuori di ogni rapporto con

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LA PIUMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV

il mondo sensibile, dall'altro è altrettanto impossibile chiudersi nel


mondo sensibile ..cnza metterlo in rapporto con il mondo dell'essere.
Nel Teeteto Platone si propone di mostrare le difficoltà che per-
mangono nella dottrina eracliteo-protagorea della conoscenza come
sensazione; sono le stesse difficoltà che gli avevano già suggerito di
abbracciare la dottrina delle idee e che ora lo convincono di non ab-
bandonarla, ma solo di riesaminarla e di approfondirla. Ecco le diffi-
coltà che si possono muovere alla dottrina dell'universale divenire e
della conoscenza come sensazione : « Protagora sostiene che gli uomini
hanno sempre opinioni vere; ma la maggior parte della gente ritiene
che gli uomini abbiano talvolta opinioni vere, talvolta opinioni false
e in ciò si oppone all'opinione di Protagora; quindi non sempre gli
uomini hanno opinioni vere». Inoltre: « Protagora, in quanto ricono-
sce che tutte le opinioni degli uomini sono vere, viene ad ammettere
che sia vera anche la opinione di coloro che si oppongono alla sua e
per la quale essi ritengono che la sua opinione sia falsa ». Platone non
può . soprattutto accettare che (( rispetto al giusto ed all'ingiusto, al
santo ed al non santo, niente esista per natura con essenza sua pro-
pria » e che pertanto tutt~ le opinioni al riguardo si equivalgano; in
ciò ha la sua radice l' opposizione irriducibile di Platone per la reto-
rica; il retore può accontentarsi di dire che le leggi che una città si dà
non hanno bisogno se non di parere giuste alla città stessa; Platone
vuole che sia possibile stabilire se esse sono obbiettivamente e realmente
tali; Platone vuole, insomma, giungere ad una conoscenza valida e
vera che possa distinguersi da una conoscenza falsa, mentre « i se-
guaci di Eraclito· non concludono niente perché non lasciano che niente
nei loro discorsi e nei loro animi sia saldo e sicuro »; ove manca scienza,
poi, manca anche scuola e insegnamento e formazione: « non ci sono
scolari fra uomini come questi, l'uno dell'altro, ma vengon su da sé
secondo che ciascuno, come che sia, è preso dal suo estro e ciascuno
ritiene che l'altro non sappia niente». L'eraclitismo non soltanto non
attribuisce ai corpi delle qualità permanenti, ma non può nemmeno
riconoscere loro alcuna qualità: « Che mezzo si può avere di fissare
il nome di un colore o di altra qualità simile, se è vero che la cosa,
come quella che fluisce perennemente, ci scappa sempre di sotto nel-
l'atto stesso che se ne parla? » E nemmeno dell'atto del sentire si potrà

Baruch_in_libris
s8 LE DIFFICOLTÀ DELLA DOTTRINA DELLE IDEE

dire " vedere " piuttosto che " non vedere "; e in ultimo « conoscenza
non è niente pili che non conoscenza». Se conoscenza non è dunque
sensazione, essa non è nemmeno semplice " opinione vera "; e infatti
Platone non ritiene soddisfacenti i tentativi compiuti dai sostenitori di
tale dottrina per spiegare come l'opinione vera si distingua da quella
falsa e come pertanto possa spiegarsi l'errore nell'ambito dell'opinione;
d'altra parte, se una dottrina non riesce a chiarire la possibilità dell'er-
rore e pertanto quella di distinguere lerrore stesso dalla verità, essa
confluisce senz'altro nel sensismo di Eraclito e di Protagora e non
risponde alla necessità razionale della verità. Anche il ricorso ad una
operazione dell'intelletto che aggiunga all'opinione vera qualche cosa
che le conferisca valore di verità viene respinto da Platone; egli ritiene
· infatti che tale operazione dell'intelletto, se non poggia sulla solida
base delle idee, non riesca in alcun modo a superare l' ambito sogget-
tivo ed empirico delle opinioni.

9. La trasformazione della dialettica.


Negli scritti pili tardi Platone insiste nella ricerca di una mediazione
fra il mondo ideale dell'essere e la conoscenza umana; questa è infatti
I' unica ricerca che rimane aperta, una volta che si sia respinta, come
egli ha fatto, quell'interpretazione delle idee che ne fa un mondo in
sé, del tutto separato dall'uomo, e quella interpretazione della cono-
scenza umana che la intende come un insieme di affermazioni sog-
gettive ed arbitrarie. Nel Sofista Platone torna a chiarire le difficoltà
che si incontrano quando si voglia considerare l'essere fuori di ogni
rapporto con la conoscenza umana; come si può infatti definire un
simile essere? O lo si indica come del tutto indeterminato ed allora
si fa ricorso al non-essere in quanto si dice quello che l'essere non è;
se poi si indicano varie determinazioni dell'essere, queste, distinguen-
dosi ed escludendosi a vicenda, fanno di nuovo riferimento al non-es-
sere; sicché l'essere risulta inseparabile dal non-essere. Una concezione
troppo ristretta dell'essere hanno certo coloro che lo identificano con
il corporeo; ma coloro che propendono a collocare l'essere soltanto nelle
idee incorporee sono egualmente criticati da Platone, perché l'immo-
bilità delle idee comporta che esse non abbiano alcun rapporto con

79

Baruch_in_libris
LA. PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV

l'intelletto e pertanto che siano inconoscibili. L'essere partecipa, nello


stesso tempo, della quiete e del movimento; quiete e movimento non
si possono identificare senza rendere impossibile qualsiasi scienza; ma
né la quiete, né il movimento sono tutto l'essere, mentre l'essere è
comune ad entrambi; e poiché ciascuna di queste tre forme è diversa
dalle altre due ed identica a se stessa, esse partecipano di altre due
forme, cioè il diverso e l'identico; in quanto, ad es., il moto parte-
cipa del diverso, è diverso dall'essere e, in questo senso, è non-essere
(infatti ciò che è diverso· da qualche cosa, non è quel qualche cosa);
ma lo stesso essere ha diversità dalle altre forme e, in tale senso, è
non-essere; sicché il non-essere non è da intendere in senso assoluto,
come aveva fatto Parmenide, e cioè come negazione assoluta dell'es-
sere, ma solo come negazione relativa; come tale, la diversità, il non-
essere sono forme fondamentali dell'essere stesso. Intendere il non-essere
in senso assoluto vuol dire escludere qualsiasi relazione fra l'essere ed
il non-essere e quindi rendere impossibile sia la conoscenza che il lin-
guaggio; intenderlo in senso relativo vuol dire che essere e non-essere,
senza confondersi, sono in relazione e pertanto possono introdursi sia
nella conoscenza che nel discorso; allora si potrà dare ragione del falso
e dell'errore che, come si è visto, non si possono chiarire sulla base
delle vedute di Eraclito e di Protagora; il falso e l'errore si hanno
quando si coglie o si afferma ciò che non è, tenendo prese~te che
ciò che non è non si identifica col nulla, ma solo con il diverso rispetto
ad un essere, cioè con un altro essere. La dialettica studia appunto le
forme dell'essere, per stabilire fra di esse il rapporto di identità e di
diversità; essa, chiarendo quali forme della realtà si collegano e quali
si escludono è in grado di determinare la struttura del reale, aderendo
a tutte le sue determinazioni e alle sue complesse articolazioni. Con la
nuova analisi platonica dei rapporti fra essere e non-essere, fra mondo
ideale e conoscenza umana ha luogo cos{ anche una trasformazione
della dialettica che, nelle sue analisi, assume una portata piu strin-
gente ed intrinseca rispetto al mondo sensibile ed umano. In particolare
il procedimento della divisione ( aL<lLQE<Hç) viene largamente applicato
ed esteso nei dialoghi platonici piu tardi; esso consente di determinare
un genere (questo è il nome che, ora, Platone preferisce, in luogo di
quello di idea)_ indicando· 1e relazioni di inclusione e di esclusione in

Bo

Baruch_in_libris
s9 LA TRASFORMAZIONE DELLA DIALETTICA

cui si trova con altri generi; si tratta, dice Platone, di « tagliare in due
ogni genere» (ossia di· indicare le specie che esso comprende) fino a
scovare, come in una sorta di caccia, il genere su cui si fa la ricerca;
bisogna chiudere ogni via all'oggetto della ricerca, seguendo la strada
giusta che da un genere piu esteso porta direttamente fino a lui. Non
basta però, per determinare un genere, svolgere la ricerca in una sola
direzione; bisogna muovere da generi diversi, ogni volta dividendo
fino a raggiungere il genere da determinare; in tal modo quest'ultimo
viene colto in· un numero sempre maggiore di relazioni. Nella divisione,
osserva Platone, bisogna stare attenti « a non operare la distinzione di
una troppo piccola parte d'una specie opponendola ad un ·complesso di
parti grandi e numerose e trascurando invece i confini delle specie
stesse; bisogna che la parte <listinta coincida con una di queste specie »;
per es., chi volendo dividere il genere "uomo " separasse i greci dai
barbari o, volendo dividere il genere " numero " separasse il numero
diecimil_a da tutti gli altri, non seguirebbe i giusti confini delle specie;
il genere numero va diviso in pari e dispari; la specie e la parte non
sono dunque la stessa cosa, perché « ogni specie è parte di ciò di cui
si dice specie, ma non ogni parte è specie di ciò di cui si dice parte ».
Anche nel Filebo Platone ripete che i generi non debbono intenderSJ
come unità rigide e che sono in rapporto di partecipazione gli uni con
gli altri; la ricerca che concerne i generi si muove quindi nell'ambito
dell'unità e, ad un tempo, della molteplicità: «Noi dobbiamo sempre
ammettere e ricercare ovunque una nota caratteristica unitaria (e sem-
pre la ritroveremo, poiché essa c'è); ma, coltala, bisogna esaminarne,
dopo e subordinatamente alla prima, altre due, se ce ne sono due,
oppure tre o un qualche altro numero e poi rifare l'operazione per
ciascuna di queste ultime unità, finché si veda non solo che la prima
unità è unità e anche molteplicità, ma anche la sua struttura numerica »;
la "struttura numerica " sta nell'intervallo fra l'unità e la molteplicità
infinita; è appunto tale struttura che va studiata e che conferisce soli-
dità scientifica alla conoscenza. Platone lamenta che gli uomini del
suo tempo unifichino e moltiplichino « come capita », « lasciandosi
sfuggire ciò che sta in mezzo fra l'uno e l'infinito». Si chiarisce sem-
pre piu, nella mente di Platone, il rilievo che ha la mescolanza dei
vari generi nel complesso relazionale che forma la scienza e la con-
,,
Baruch_in_libris
LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV

seguente necessità di analizzare la struttura numerica della mescolanza;


la ricerca platonica si richiama dunque all'impostazione matematica dei
pitagorici e la dialettica tende a dare rilievo alla " struttura numerica "
che si riscontra nelle mescolanze reali. L'importanza di questo muta-
mento di prospettiva nel pensiero platonico si coglie con evidenza quando
si considera, sempre nel Filebo, la nuova impostazione del problema
morale. Come nel Parmenide e nel Tccteto vengono escluse le due
opposte dottrine sul vero, quella che lo identifica con l'essere separato
e quella che lo identifica con la sensazione, cosf nel Filebo vengono
escluse le due opposte dottrine sul bene, quella che lo identifica con
il piacere e quella che lo identifica con il puro uso dell'intelligenza
e della scienza; il bene consiste piuttosto in una mescolanza, fornita
d' una sua misura, d' una sua proporzione; non si tratta piu, quindi, di
proporre un radicale distacco dell'anima dal corpo, di assimilare il bené
alla morte come liberazione dal corpo e dai sensi; si tratta invece di deli-
neare gli elementi di una vita che, essendo mista secondo misura, rea-
lizzi il bene. Si dovranno, per es., preferire i piaceri puri, cioè pio
scevri di dolore, come quelli procurati dalla scienza o da alcuni suoni
o da determinate forme e colori; se il piacere non ha diritto, dunque,
ad un posto esclusivo nella «vita mista secondo misura», esso può
tuttavia ricevere una misùra in se stesso. Delle varie forme del piacere
intanto Platone conduce un'analisi approfondita di struttura; ed altret-
tanto fa per le varie forme dell'intelligenza e della scienza; quanto pio
queste si accostano al pensiero puro, tanto maggiore è la dignità che
viene loro riconosciuta nella vita mista; il primo posto spetta alla dia-
lettica che è appunto la scienza della misura e del calcolo. Quel che
importa principalmente è comunque che ora Platone, abbandonato
l'astrattismo del Pedone, adotta come criterio sia di visione del mondo
che della vita umana « la mescolanza e la fusione che siano le migliori
possibili e dotate della maggiore stabilità ».

10. L'origine dell'universo e la formazione del mondo.


Nella nuova prospettiva di Platone non risultava pio giustificato
un atteggiamento di distacco per la conoscenza dd mondo naturiµe,
quel distacco che il fondatore dell'Academia aveva del resto ereditato

8a

Baruch_in_libris
§ IO IL MONDO

da Socrate; non soltanto il mondo piu propriamente umano, ma anche


il mondo naturale poteva essere, ora, visto nel suo rapporto con l'es-
sere. Tuttavia Platone ritiene che si possa avere scienza soltanto di ciò
che è stabile ed immutabile; poiché dunque la natura è il campo del
divenire che non si può confondere con il mondo del vero essere, della
natura non si potrà avere scienza, ma soltanto una conoscenza verosi·
mile. Per questo appunto, nel Timeo, Platone sceglie ancora una voJta
una via mediana fra il completo disinteresse per il mondo della na-
tura e il naturalismo di quanti, prima di lui, avevano identificato la
natura con la vera ed assoluta realtà; la via di mezzo è significata
dalla forma ·mitica e narrativa che governa tutta la trattazione.
Nella sua esposizione, Platone raccoglie molti elementi dalla pre-
cedente tradizione naturalistica; altri ne attinge alla mitologia orfica;
compaiono quindi, nella trattazione, spunti che si possono far risalire
ad Anassimene, ad Empedocle, probabilmente allo stesso Democrito;
unico correttivo introdotto a disciplinare dottrine cosi disparate è una
spiccata istanza matematica, di chiara derivazione pitagorica; Platone
si sforza cosi di correggere il carattere qualitativo della vecchia fisica,
fondendone gli elementi con schemi e proporzioni matematiche, che
conferiscono al suo universo una precisa struttura quantitativa; essa però
non si impone sovrana nell'universo, ma è piuttosto uno strumento
mediante il quale l'universo è considerato come tutto rivolto ad un
fine: la realizzazione, sia pure parziale ed imperfetta, della razionalità.
Platone è persuaso che di un fatto della natura si dà spiegazione quando
si può indicare lo scopo al quale esso è ordinato; ed anche la misura
matematica serve, piu che a promuovere l'analisi quantitativa dei feno-
meni, a testimoniare in essi la disposizione ad un fine razionale. Sicché
il pessimismo con cui.Platone guarda a ciò che diviene è superato dall'ot·
timismo per cui l'universo risponde al criterio del "meglio", di cui si
fa realizzatrice la stessa divinità. Non è, ovviamente, che il mondo tragga
origine da un'azione creatrice della divinità; questa è soltanto " demiur-
go ", cioè artefice plasmatore ed ordinatore del mondo, che viene ridotto
appunto dal caos al cosmo, dal disordine ali' ordinct: «Dio volendo
che tutte le cose fossero buone e, per quant'era possibile, nessuna cat·
tiva, prese quanto c'era di visibile che non stava quieto, ma si agitava
sregolatamente e disordinatamente, e lo ridusse dal disordine all'ordine,

BJ
Baruch_in_libris
LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV

giudicando questo del tutto migliore di quello ». Il demiurgo opera te-


nendo presente un modello « che si può apprendere con la ragione e.
che è sempre nello stesso modo »; e l'universo ne diviene immagine.
Poiché però « nessuna cosa priva di intelligenza è piu bella di un'altra
che la possieda » e poiché « non ci può essere intelligenza senza
l'anima», l'universo sarà fornito di un'anima intelligente oltre che di
un corpo e si potrà quindi considerare come un grandioso essere vi-
vente ed animato; il finalismo porta cosf Platone a respingere una
concezione meccanicistica del mondo del tipo di quella formulata da
Democrito, il quale coerentemente respingeva qualsiasi intervento nel-
l'universo d'una provvidenza divina; per Platone, invece, non soltanto
la città-stato, ma anche l'intero universo, sono considerati come orga-
nismi, alla stessa maniera dell'individuo umano. Al quesito se si debba
ritenere che esiste un solo universo, oppure « molti e infiniti », Platone
risponde che, se l'universo è imitazione di un modello perfetto, non
può essere che uno; in sostanza l'esistenza di un solo universo è piu
rispondente al chiuso finalismo, come la pluralità dei mondi è piu con-
forme all'aperto meccanicismo democriteo. L'universo, si è detto, ha
un'anima; essa è una "mescolanza" di unità e di molteplicità; in verità
Platone prevede per l'anima del mondo una struttura molt" complessa,
le cui varie parti sono combinate dal demiurgo secondo proporzioni
numeriche precise; i suoi elementi piu rilevanti sono comunque un
anello esterno che abbraccia l'universo ed è chiamato il circolo dell'iden-
tico (che Proclo identifica con l'equatore), un anello interno o circolo
del diverso (secondo Proclo, l'eclittica) inclinato rispetto al primo e
diviso in sette circoli disuguali (le orbite dei pianeti); il circolo del-
l'identico si muove di moto uniforme, mentre il circolo del diverso si
muove in direzione contraria a quella tenuta dal circolo piu esterno;
cosf è configurato l'involucro astronomico-matematico dell'universo. Il
corpo del mondo è formato dei quattro elementi di Empedocle: fuoco,
terra, acqua ed aria, plasmati in forma di sfera « perché la sfera è di
tuttè le figure la piu perfetta e la piu simile a se stessa »; il tempo è
«un'immagine dell'eternità che procede secondo il numero» e nasce
unitamente col mondo; perciò appunto esso non va riferito alla essenza
eterna: « noi diciamo che essa era, che è e che sarà, e nittavia solo
l'è le conviene veramente, e l'era e il sarà si devono dire della gene-

a,,
Baruch_in_libris
§ IO IL MONDO

razione che procede nel tempo »; il sole, la luna e gli altri cinque pia-
neti furono fatti « per distinguere e guardare i numeri del tempo »; il
sole in particolare fu posto nel cielo « perché vi fosse una misura chiara
della relativa lentezza e velocità con cui i pianeti compiono le loro
rivoluzioni». Furono poi poste nel mondo quattro specie di esseri vi-
venti: « l'una è la stirpe celeste degli dèi, un'altra quella alata che va
per l'aria, la terza è specie acquatica, e la quarta è pedestre e terrena »;
anche gli dèi sono « visibili e generati »; « neppur voi, poiché siete stati
generati (dice loro il demiurgo) siete immortali, né interamente indis-
solubili, ma non sarete disciolti né vi coglierà la sorte del morire »; gli
altri esseri viventi hanno invece un'origine che non li sottrae alla morte,
se non per la parte loro piu nobile, che è l'anima; particolare impor·
tanza ha nel mondo dei viventi l'uomo. Platone espone punto per punto
la formazione delle varie parti del corpo umano, ma sente il bisogno
di avvertire in proposito che la spiegazione puramente naturale e mec·
canica dei fenomeni della vita è insufficiente; « alla piu parte degli
uomini, egli rileva, le cause naturali non sembrano secondarie, ma
cause principali di tutto, perché raffreddano e riscaldano, èondensano
e dilatano ed operano altri effetti simili; però esse non sono capaci
d'avere alcuna ragione o intelligenza verso qualche cosa »; per questo
1< colui che è amico della scienza e dell'intelligenza deve ricercare prima

di tutto le cause razionali e in secondo luogo tutte le altre »; cause


secondarie sono quelle che operano «a caso e senz'ordine » (cosi Platone
vede le cause meccaniche), mentre le cause principali e vere sono quelle
che « compiono con intelligenza dei fini » ; cosi, ad esempio, Platone
fa una minuta descrizione di quelle che chiama « le cause ausiliarie
degli occhi », ossia del probabile meccanismo che presiede alla vi~ta,
ma ritiene che la vera conoscenza di quest'organo si ottiene solo quando
si rileva che per suo mezzo possiamo conoscere l'ordine dell'universo
e quindi elevarci alla filosofia; il naturalismo va dunque sempre subor·
dinato, per Platone, alla veduta finalistica.
Un punto rilevante della dottrina dell'universo concerne un terzo
principio, oltre al modello eterno cui si ispira il demiurgo da un
lato e l'imitazione generata e sensibile di esso nei principii della natura
materiale e nelle cose dall'altro; si tratta di una specie di materia prima
« in cui vengono generate le cose »; è « quella natura che riceve tutti i

85
Baruch_in_libris
LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV

corpi, che è sempre la stessa perché non perde affatto la sua potenza,
ma riceve sempre tutte le cose e in nessun modo prende mai una
forma simile ad alcuna di quelle cose che entrano in essa »; è, in-
somma, « la materia di cui son formate tutte le cose, che è mossa e
figurata dalle cose che vi entrano ed apparè, per causa di esse, ora in
una forma ed ora in un'altra »; << ricettacolo delle cose generate visibili
e pienamente sensibili » è « estranea a tutte le forme » poiché « riceve
in sé tutti i generi »; quindi non si deve chiamarla « né terra, né aria,
né acqua, né fuoco, né alcuna delle cose che sono nate da queste». Il
mondo delle cose sensibili, oltre che di una materia prima, ha anche
bisogno dello spazio, che è « immune da distruzione e dà sede a tutte
le cose che hanno nascimento »; esso non si .percepisce con i sensi e nem-
meno è oggetto di pura conoscenza razionale; viene colto piuttosto,
dice Platone, «con un ragionamento bastardo», quello per cui diciamo
« che tutto quello che è, si deve trovare in qualche luogo e deve. occu-
pare qualche spazio e che quello che non è né in terra né in qualche
luogo del cielo, non è niente >>. Platone dedica particolare cura a sta-
bilire rapporti fra i quattro elementi primi delle cose e alcune forme
geometriche originarie; « ogni corpo ha profondità, egli osserva, e la
profondità contiene in sé la natura del piano e una superficie piana si
compone.di triàngoli; tutti i triangoli poi derivano dal triangolo isoscele
e da quello scaleno»; un'origine da triangoli va pertanto assegnata «al
fuoco ed agli altri corpi »; cosi Platone ribadisce il concetto che la diffe-
renza fra le varie qualità dei corpi non si determina senza una diffe-
renza di proporzioni numeriche e di quantità. Anche la derivazione
·di tutte le cose dagli elementi primi obbedisce, per Platone, agli stessi
criteri. Il mondo. non ammette una distinzione assoluta fra " alto " e
" basso ", perché << essendo tutto il cielo di forma sferica, tutte le parti
che, distando egualmente dal centro, sono le estreme, di necessità sono
tutte estreme ad uno stesso modo e il centro, distando nella stessa mi-
sura dalle parti estrej111e, si deve credere che sia egualmente opposto
a tutte ».
Un'ampia parte del Timeo è dedicata a studiare l'uomo, anche nella
sua corporeità. Platone studia le impressioni comuni a tutto il corpo
(caldo, pesante, dolore e piacere) e quelle che avvengono nelle singole
sue parti; in alcuni punti le sue spiegazioni ricordano Democrito, come

86

Baruch_in_libris
§ IO n. MONDO

quando, ad es., egli sostiene che l'impressione del caldo dipende dagli
« spigoli e dall'acutezza degli angoli» delle particelle del fuoco e che
le impressioni della lingua dipendono « piu delle altre dalla asprezza
e dalla levigatezza >;. Gli odori « si formano nel passaggio degli ele-
menti per cui l'acqua si muta in aria e l'aria in acqua »; il suono « è
l'urto trasmesso attraverso le orecchie, mediante l'aria, il cervello e il
sangue fino all'anima»; inoltre «il movimento veloce è suono acuto»
e il movimento piu lento è « suono piu grave »; quanto ai colori « sono
fiamma che esce dai singoli corpi ed ha particelle proporzionate al
fooco che è nell'organo della vista, s{ da produrre la sensazione » ; si
ha, ad es., il bianco, quando si verifica una dilatazione del fuoco vi-
suale, si ha il nero nel caso contrario. La distinzione delle membra nel
corpo dell'uomo obbedisce, secondo Platone, alla necessità di distribuire
opportunamente in esso l'anima razionale e le altre due parti dell'anima
mortale; la prima ha riferimento al capo; il collo «è come un istmo e
un limite fra la testa e il petto » affinché il mortale non contamini
troppo il divino; l'anima mortale è collocata nel petto; «e poiché una
parte di essa era di natura migliore e l'altra peggiore, fu divisa in due
la cavità del torace e in mezzo, come chiusura, fu posto il diaframma;
la parte dell'anima che partecipa del valore fu collocata nel petto pro-
priamente detto, piu vicino alla testa; la parte dell'anima che appetisce
fu collocata fra il diaframma e il confine dell'ombelico, e fu costruito
in tutto questo luogo una greppia per il nutrimento del corpo». Il
fegato, a detta di Platone, fu fatto « per servire alla divinazione » e
ha stretto rapporto con i sogni; l'intestino è « ricettacolo dcl superfluo
della bevanda e dcl cibo» ed è $tato dato all'uomo affinché il corpo
non chiedesse continuamente cibo e gli fosse quindi consentito di de-
dicarsi alla filosofia. Analoghe considerazioni, ispirate a criteri finalistici,
Platone fa circa la distribuzione delle ossa e dci muscoli nel corpo,
sulla pelle, sui capelli ( « che sono un leggero coperchio intorno al cer-
vello per la sua protezione »); egli spiega il fenomeno della respira-
zione (e osserva che, poiché il vuoto non esiste, l'aria che viene emessa
«non va nel vuoto, ma caccia l'aria vicina dal luogo suo»)"; alla me-
dicina, di cui Platone mostra di essere buon conoscitore, son dedicate
alcune considerazioni che abbozzano una classificazione delle malattie;
la cosa piu importante al riguardo è che Platone, discorrendo delle

Baruch_in_libris
LA PllIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV

malattie dell'anima, non si fa scrupolo di collegarne alcune forme con


motivi corporei: « nessuno, dichiara, è malvagio di sua volontà, ma il
malvagio diviene malvagio per qualche prava disposizione del corpo e
per un allevamento senza educazione e queste cose sono odiose a cia-
scuno e gli capitano contro sua voglia»; l'astrattismo del Pedone lascia
qui il posto alla preoccupazione di « curare e salvare il corpo e la mente »
cd a quella di realizzare nell'uomo la "simmetria", che si consegue
quando « non si esercita l'anima senza il corpo, né il corpo senza
l'anima »; quindi « chi si applica alla scienza deve anche esercitare i
movimenti del corpo, facendo ginnastica e viaggiando per nave o io
altro veicolo che non stanchi».
Chiude il Timeo una curiosa dottrina intorno all'origine degli altii
animali diversi dall'uomo; Platone ritiene che « coloro che, nati uomini,
sono stati codardi e son vissuti nell'ingiustizia, si mutarono in donne
nella seconda generazione » ; la specie degli uccelli poi « si è trasfor-
mata, mettendo penne invece di peli, da quegli uomini non malvagi,
ma leggeri, che parlano delle cose celesti, ma credono che queste si
possano dimostrare nel modo pili sicuro mediante la vista »; e cosf « gli
animali pedestri e selvaggi sono nati dagli uomini che niente si giovano
della filosofia e non contemplano affatto la natura del cielo e si lasciano
guidare dalle parti dell'anima che stanno nel petto »; la quarta specie,
quella degli animali acquatici «deriva dai piu stolti e piu ignoranti di
tutti fra gli uomini » ed ha sortito le « estreme sedi della torbida e
cupa acqua» «in pena dell'estrema ignoranza». Sicché tutto il mondo
animale deriva dalla corruzione dell'uomo, quasi come manifestazione
sensibile delle sue imperfezioni morali. Le dottrine del Timeo hanno
esercitato un influsso rilevante sul pensiero del medioevo e, per molti
secoli, esse hanno costituito parte del patrimonio " scientifico " del-
! 'umanità; senza dire dell'influsso che ha esercitato sul pensiero cri-
stiano la concezione finalistica dell'universo.
Oltre che un vivo interesse per la storia dell'universo e la sua for-
mazione, Platone mostra nei suoi ·ultimi scritti analoga attenzione per
la storia dell'uomo e della società. Già l'inizio del Timeo è dedicato
alla storia del genere umano nei suoi primordi; allo stesso argomento
Platone intendeva dedicare uno scritto apposito, il Crizia, che tuttavia
è rimasto incompleto; nelle poche pagine che ci sono pervenute, Platone

88

Baruch_in_libris
§ IO IL MONDO

traccia un rapido schizzo della evoluzione storica dell'umanità nei


novemila anni che hanno preceduto il suo tempo.

11. Conclusioni politiche.

Nel Politico e nelle Leggi Platone riprende il problema che già


aveva affrontato nella Repubblica; egli dichiara che, nel considerare,
ora, lo stato ideale descritto in quell'opera, ha la stessa sensazione che
si prova quando si contempli un animale perfetto, ma immobile; «si
desidera di vederlo in movimento ». Questa è appunto la differenza
principale che distingue i due momenti della riflessione politica di
Platone: nel primo lo stato è visto come un modello ideale, fermo al
di sopra dell'esperienza umana; nel secondo, esso si configura come
una mescolanza di cui bisogna ritrovare la giusta misura. Già nel
Politico la scienza politica si afferma piu che nella sua identità con il
compito della dialettica, nella .sua connessione con le altre pratiche atti-
nenti alla vita associata; come le scienze che si occupano della neces-
sità di apprendere e di praticare altre scienze hanno· diritto di premi-
nenza su queste ultime, cosi la scienza politica dovrà presiedere e di-
sciplinare le scienze ausiliarie, come la retorica, la strategia e la giuri-
sprudenza; e la intransigenza nei confronti di queste, specialmente
riguardo alla retorica, necessariamente si attenua. L' arte dell' uomo
politico è anch'essa arte della misura, ossia della ricerca del giusto
mezzo di equilibrio fra eccesso e difetto. Proprio per questo, rileva
Platone, non bisogna dare troppa importanza ad un corpo di leggi
scritte e fisse: « infatti le dissomiglianze degli uomini e delle loro
azioni e il fatto che mai nulla di ciò che è umano è immobile, non
permettono che alcun' arte, quale si sia, enunci qualche cosa di sem-
plice che sia immediatamente valido per tutti i casi e per tutti i tempi;
la legge è paragonabile ad un uomo autoritario ed ignorante, che non
permette per nulla, a nessuno, di agire in modo diverso dai suoi or-
dini e non ammette che alcuno lo interroghi nemmeno se in relazione
a qualche oggetto ci sia, per caso, qualche cosa di nuovo e di mi-
gliore che vada al di là di quanto egli stesso prescrisse». La Repub-
blica forniva, si, un modello perfetto per l'organizzazione della vita
politica; ma ora Platone rileva che il modello è appropriato, in una

89

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LA PIUMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV

ricerca, soltanto quando muove da materie pm immediatamente com-


prensibili e quando reca in sé qualche cosa di identico a ciò che si ri-
scontra nel caso per cui deve servire da modello; « il modello nasce
quando ciò che è identico si trova nei diversi e quell'identico rico-
sciuto nella sua vera natura e colto sia nell'uno che nell'altro diverso,
produce una sola opinione vera che si riferisce sia all'uno che all'altro
e ad ambedue insieme».
Nelle Leggi che sono l'ultima grande opera di Platone, le pro-
spettive della Repubblica risultano adeguate anche alla piu recente
esperienza politica delle vicende siciliane ed alla piu pacata riflessione
dell'ultima vecchiaia del fondatore dell' Academia. Egli ritiene ora
che la giusta scelta della costituzione politica debba essere fatta «te-
nendo conto delle leggi che hanno governato gli stati » nel corso della
storia; questa dinamica storica ci indica, osserva Platone, che la mi-
gliore costituzione è quella che risulta da una mescolanza della forma
monarchica e di quella democratica: «Avendo posto in ciascuna di
esse una certa limitazione, da una parte all'autorità, dall'altra alla li-
bertà, abbiamo rilevato che allora si realizza in esse un grandissimo
benessere, ma se l'una e l'altra si trascinano agli estremi, da una
parte della se,vitu, dall'altro del contrario, il benessere non c'è né per
l'una né per l'altra»: la forma monarchica «tocca il suo vertice presso
i Persiani», la forma democratica presso i Greci; «prendendo da
ambedue, si ottiene la libertà e la concordia intelligente ». La legisla-
zione che viene proposta per una nuova colonia che si è in procinto di
fondare occupa la restante parte dell'opera ed è esposta· con grande
ricchezza di particolari. Ecco alcune delle prescrizioni illustrate da
Platone : « Ognuno deve sposarsi fra i trenta e i trentacinque anni,
in caso contrario sia punito con la multa e la privazione dei diritti ci-
vili»; la prescrizione è giustificata con il motivo che «il genere degli
uomini è immortale perché lasciando nella vita i figli e i figli dei figli,
egli stesso non viene mai meno e finisce col partecipare di vita im-
mortale». Poiché l'esclusione di ogni possesso prìvato «sarebbe supe-
riore alla natura ed alla maturit?i dei contemporanei », Platone sostitui-
sce la proprietà comune della Repubblica con la proprietà familiare, che
dev' essere inalienabile e indivisibile; il terreno deve essere diviso in un
numero fisso di lotti, corrispondente al numero delle famiglie, senza

Baruch_in_libris
§ II CONCLUSIONI POLITICHE

che intervenga alcuna ulteriore divisione. D'altra parte, Platone non


parla piu qui di una classe distinta di " guerrieri " o custodi, come
non parla piu di un governo da parte dei filosofi, alla cui azione per-
sonale vengono ora sostituite le leggi; parimenti, egli esclude ora che
una classe di cittadini debba essere tenuta a prestare cieca obbedienza
ad un'altra classe; in verità, Platone afferma che l'ottima fortna di
eguaglianza che bisogna applicare nello stato è quella che « dà di piu
a ciò che vale di piu, meno a ciò che vale di meno », ma aggiunge
che « è necessario usare a causa della turbolenza della massa, anche
di una certa eguaglianza ottenuta con sorteggio»; questa è l' ugua-
glianza «immediata, per misura, peso e:_ quantità». Alle cariche pub-
bliche non si accede però solo per sorteggio, ma anche e principalmente
per elezione; lo scopo da conseguire è che la massa, senza essere tenuta
del tutto all'oscuro della costituzione delle varie magistrature, non abbia
tuttavia su di esse un influsso immediato e diretto; e la massa è costi-
tuita dagli artigiani e dai commercianti. L'educazione che viene impar-
tita contempla principalmente l'insegnamento della geometria e della
astronomia; la dialettica non ha piu la posizione di primato che le era
conferita nella Repubblica; nemmeno la dottrina delle idee riveste qui
un eminente valore formativo; lo stesso insegnamento della matematica
è valorizzato piu per se stesso che per il sùo rapporto alla filosofia.
Un altro punto nel quale le Leggi correggono sensibilmente il contenuto
della Repubblica è quello della famiglia; la scomparsa della classe dei
guerrieri e dei governanti porta via con sé anche l' abolizione della fa-
miglia; questa viene considerata la condizione abituale per tutti i
cittadini.
Ad una maggiore considerazione della realtà concreta e dell' espe-
rienza si accompagna. in quést' ultimo scritto di Platone anche un
maggior rigore nei confronti di tutti i tentativi di modificare o inde-
bolire l'ordinamento dello stato; la stabilità degli ordinamenti assume
agli occhi del vecchio Platone un rilievo del tutto particolare; un so-
stegno essenziale di tale stabilità è la religiosità; contro la irreligiosità
bisogna quindi intervenire con la massima energia. Platone ha parole
dure per coloro che « respingono i miti bevuti insieme al latte da bam-
bini l>, «disprezzano Cl~1esta fede universale, senza aver seri argomenti »,
«dicono che le cose piu importanti dipendono dalla natura e dal caso»,

91

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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV

1< dicono che gli dèi sono frutto dell' arte degli uomini, non sono in na-

tura, sono per convenzione, sono diversi da pqpolo a popolo », « dicono


che la morale della natura contraddice quella della legge, che la giu-
stizia non è in natura, ma la determina!lo gli uomini in modo contrad-
dittorio ed instabile»; «di qui, conclude Platone, l'empietà dei moderni,
l'incredulità negli dèi cui la legge impone di credere, le rivolte che
hanno per obiettivo una certa vita secondo natura per cui sarebbe giu-
sto e naturale cercar di dominare gli altri e non servire mai gli altri nei
limiti voluti dalle leggi». Una credenza altrettanto importante di quella
che concerne l'esistenza degli dèi, riguarda la provvidenza divina «che
guida il tutto, ha tutto disposto per la salvezza ed il bene di tutte le
cose». Platone ritiene che contro l'irreligiosità esistano prove dottri-
nali decisive ed ancora una volta ribadisce la sua condanna del natu-
ralismo e del meccanicismo materialistico; prima di tutte le cose e di
tutti i fenomeni c'è l'anima, vero principio motore; prima di ogni
realtà materiale, e' è il principio spirituale che governa l'intero uni-
verso. Pla}one prende posizione anche contro alcuni aspetti della
religione popolare, soprattutto quando essa sminuisce, per gretto antro-
pomorfismo, la grandezza e purezza della divinità; ma prende netta
posizione anche contro criteri che erano fatti valere in campo stretta-
mente scientifico; contro di essi intende difendere e dare fondamento
razionale alla tradizione. Perciò invoca severe condanne per tutti co-
loro che « parlano con troppa facilità degli dèi, dei sacrifici, dei giu-
ramenti», per coloro «che carpiscono la credulità popolare», maghi,
tiranni, demagoghi, sofisti : « chi commette empietà nelle parole e
nelle opere, sia trattenuto da chi se ne accorge e denunciato ai ma-
gistrati ». Al tentativo di porre argine morale e scientifico alla crisi
etica dell'età sua Platone aveva dedicato le sue ricerche filosofiche
ed il suo impegno educativo; anche il realismo degli ultimi scritti e
il suo ampio incontro con l'esperienza, tendono allo stesso obiettivo
e al medesimo risultato.
La fase piu tarda del pensiero di Platone ci è nota, oltre che
attraverso i dialoghi ricordati, anche attraverso la testimonianza di
Aristotele il quale si riferisce ad un « insegnamento non scritto » del
fondatore dell' Academia; esso si riferisce a quella dottrina dei rap-
porti matematici, considerati come schemi strutturali dcl reale, che

Baruch_in_libris
§ II CONCLUSIONI POLITICHE

è appunto al centro.della ricerca platonica dopo la svolta del Parmenide;


è appunto la dottrina che Aristotele chiama dei «numeri ideali»;
essi sono delle « misure», delle «proporzioni », quindi dei rapporti,
anziché dei numeri intesi nella loro discontinuità; ed hanno stretta
relazione con la problematica delle mescolanze, alla quale Platone si rifà
per mostrare che la dottrina delle idee non ·mette capo ad una netti
separazione del mondo dell'essere dalla realtà sensibile e naturale.
L'influsso esercitato dal pensiero di Platone nella sua ricerca di una
base stabile ed immutabile per lo sviluppo della conoscenza e della
vita umana, oltre che di tutta la realtà sensibile e piveniente, è stato
immenso; non soltanto esso ha in parte condizionato anche il pen-
siero dell'altro grande pensatore greco, Aristotele, ma è stato am-
piamente ripreso quando la filosofia greca si è volta, con l'ellenismo,
ad una riflessione spiccatamente religiosa, quando il pensiero cri-
stiano si è trovato di fronte al compito di elaborare una propria
concezione filosofica della divinità e del destino ultraterreno dell'anima
umana, quando, piu tardi ancora, il pensiero moderno ha affrontato
il · problema di una conoscenza rigorosa~ente razionale e di una
struttura della realtà ad essa rispondente. Ma nel suo significato sto-
rico piu determinato, il pensiero di Platone ha dato rilievo agli sforzi
compiuti daila rinnovata società artigianale greca per uscire dalle con-
cezioni mitiche e per sostituirle con un piano di modelli razionali capaci
di guidare l'azione dell'uomo sia nella disciplina dcl mondo umano
come nella considerazione del mondo naturale. In questo piano di
modelli ideali trovano il loro fine ed il loro significato ad un tempo la
ricerca scientifica e la vita umana.

12. Le scuole socratiche minori.


Le scuole socratiche minori si distinguono sia tra loro sia dalla
scuola di Platone in quanto hanno svolto l'insegnamento di Socrate
solo in qualcuno dei suoi motivi e delle sue direzioni; esse si richia-
mano pertanto agli ambienti differenziati nei quali l'influsso di So-
crate si fece sentire in modo parziale, determinando studi ed inte-
ressi ben distinti e talora antitetici. La scuola cirenaica, detta cosi
perché si raccolse a Cirene intorno ad Aristippo, vissuto fra il 435
ed il 360, in un primo tempo si accosta sensibilmente alle dottrine di

91
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV

Protagora e tenta di ridurre tutta la conoscenza umana alla sensazione:


« Solo le sensazioni si colgono e sono veraci, scrive Aristippo, mentre
degli oggetti che producono le sensazioni non ce n'è alcuno che si possa
cogliere e che sia esente da inganno; infatti si può affermare incon-
futabilmente che vediamo il bianco o sentiamo il dolce, mentre invece
non è possibile mostrare che l'oggetto stesso che produce la sensa-
zione sia bianco o dolce »; siccome poi ognuno coglie la sensazione
propria e non quella degli altri, non si può dire che gli uomini
abbiano in comune qualche conoscenza; ciò che veramente è comune
è soltanto il nome con cui essi indicano le sensazioni individuali. Dal
punto di vista etico, poi, Aristippo pone come ideale la liberazione
da tutti i doveri e da tutti i diritti che riguardano il cittadino; la
libertà che egli sogna non è piu quella che si può conseguire in un
ordine stabile della vita collettiva, ma nella completa caduta di tutti
i vincoli etico-politici, che vengono ormai avvertiti come impedimenti
alla felicità dell'individuo piu che come mezzi per conseguirla.
La scuola cinica (dal nome della piazza di Cinosarge in Atene
dove ebbe sede) ha come suo iniziatore Antistene, vissuto fra il 440
ed il 370. Anch'essa insiste sul motivo sensistico, che svolge anzi in
diretta polemica con . la teoria platonica delle idee : « O Platone,
dice un frammento di Antistene, il cavallo lo. vedo; ma non vedo
la cavallinità; vedo l'uomo, ma non vedo l'umanità». Antistene so-
steneva inoltre che ogni cosa è quella singola cosa che è e non ha
nulla in comune con le altre ·cose; perciò appunto «di nessuna cosa
può dirsi altro che il suo nome proprio e un nome solo può dirsi di
ogni cosa sola »; di qui la negazione delfa predicazione che Platone
sosteneva quando osservava che « noi parliamo, per es., dell' uomo
chiamandolo çon molti nomi, attribuendogli colori, grandezze, forme,
vizi e virtu, ed in tutti questi casi ed in altri infiniti non solo diciamo
che l'uomo è uomo, ma anche che l'uomo è buono e cosf via all'in-
finito». Dal punto di vista etico, la scuola cinica ptopugna uno
spiccato individualismo; Antistene ritiene infatti che vero sapiente
è chi si stacca dalla società e « vive in compagnia di se stesso»;
bisogna liberarsi da tutte le istituzioni e consuetudini sociali, per
essere felici; cc l'amore è perversità di natura », « il piacere. è cosa da
schiavi », « il bisogno stesso è un male », la civiltà è corruzione.

94

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§ 12 LE SCUOLE SOCRATICHE MINORI

Il principale esponente della scuola socratica sorta a Megara è, alle


sue origini, Euclide; egli professa una dottrina in cui l'eleatismo si
combina con il moralismo socratico; Euclide afferma infatti che
« il bene è uno, anche se viene chiamato con molti nomi »; mentre
dunque le altre due scuole socratiche minori si attengono all'espe-
rienza e muovono obbiezioni ad ogni affermazione di una realtà che
la superi, la scuola megarica si attiene al ragionamento rigoroso e
muove obbiezioni alle dottrine che sostengono la realtà della molte-
plicità e del divenire. Non è improbabile che i megarici si siano acco-
stati alla teoria platonica delle idee, in cui avrebbero visto soltanto
una molteplicità di enti ideali, tutti aventi gli stessi caratteri dell' es-
sere parmenideo; ciò spiegherebbe, fra l' altro, la nuova. direzione di
pensiero seguita da Platone a partire dal Parmenide in avanti e tutta
rivolta appunto a respingere un'interpretazione rigorosamente par-
menidea del mondo ideale. L'unico motivo che le scuole socratiche
minori hanno in comune è forse quello etico, ad ispirazione indivi-
dualistica; in ciò esse mostrano una certa consapevolezza della crisi
che l'ordinamento etico-politico tradizionale della polis sta attraver-
sando; per il resto, si può dire che esse proseguono, anche attraverso
la mediazione socratica, i due indirizzi di pensiero che si erano af-
fermati prima di Socrate e cioè da un lato l'indirizzo naturalistico-em-
piristico, dall' altro I' indirizzo razionalistico-deduttivo. Del resto anche
l'intera filosofia platonica si può vedere impegnata nella mediazione
e composizione di questi contrapposti motivi.

13. Lo sviluppo delle scienze.


L' Academia di Platone occupa una pos1z1one priinaria, nella prima
metà del secolo Iv, non soltanto nello sviluppo della ricerca filosofica, ma
anche in quello delle ricerche scientifiche specializzate. Si può ricordare,
infatti, che Teeteto, allievo di Socrate e amico di Platone, ha scritto in-
torno ai cinque solidi regolari e che Teone, fiorito come Teeteto intorno
al 38o, è autore di un trattato di geometria che compie sensibili progressi
rispetto a quello di Ippocrate di Chio. Come si vede, e come si può ricavare
anche dallo spiccato interesse per gli studi matematici professato da Platone
e dalla sua scuola, è la matematica quella fra le scienze particolari che
riceve in questo periodo i piu cospicui incrementi. I due piu grandi mato-

95

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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO IV CAP. IV

matici dell'epoca sono Archita di Taranto ed Eudosso di Cnido. Archita


è filosofo pitagorico, amico di Platone, ma è anche un grande matematico,
al quale si fa risalire l'inizio dello studio teorico del movimento e per-
tanto la fondazione della meccanica pura, oltre alla distinzione fra l'aritme-
tica e la geometria. Eudosso di Cnido, vissuto fra il 408 ed il 355, è im-
portante tanto come matematico che come astronomo; come matematico,
egli è noto per aver studiato la teoria delle proporzioni, dandone una
definizione applicabile sia alle grandezze commensurabili come a quelle
incommensurabili, portando quindi il concetto di proporzione ad una gene-
ralità che nessuno, prima d'allora, aveva raggiunto. Eudosso ha anche
introdotto nella misurazione delle grandezze il metodo detto di esaustione;
esso realizzò un notevole progresso sul procedimento che era prima in
uso e che, per misurare due grandezze, ricorreva al metodo del confronto
diretto fra di esse, dividendo ognuna delle due in parti e stabilendo quindi
il raffronto parte per parte; ma questo metodo aveva sollevato la questione
della infinita divisibilità di ogni grandezza, da cui deriva una difficoltà
insormontabile per la stessa misurazione; ad evitare gli incovenienti della
misurazione indicati da Zenone, Eudosso introdusse il metodo di avvicinare
l'una all'altra le due grandezze da misurare, «esaurendo» la loro diffe-
renza còn la determinazione di differenze via via minori. Come astronomo,
Eudosso è autore di una famosa teoria per spiegare i movimenti delle stelle
e dei vari pianeti; muovendo dal presupposto pitagorico-platonico secondo
il quale gli astri si muovono di movimento circolare uniforme, Eudosso
immagina che: tale movimento si compia non già entro anelli celesti, ma
con gli astri infissi su superfici sferiche trasparenti e ruotanti su due poli
con velocità uniforme; le sfere immagin:ite da Eudosso sono ideali, in
quanto egli intende costruire un modello geometrico (e quindi astratto e
non fisico) che dia ragione dei vari movimenti degli astri, come appaiono
a chi li osservi dalla terra; il sole, la luna cd i cinque pianeti debbono
avere ciascuno la propria sfera; l'ottava sfera è quella delle stelle fisse;
tutte le sfere sono concentriche fra loro e con la Terra, che si trova posta
cosi al centro dell'universo. Però il movimento del sole, della luna e dei
pianeti non appare, all'osservazione, del tutto regolare; esso presenta delle
oscillazioni in avanti ed all'indietro; Eudosso pensa allora di risolvere la
difficoltà attribuendo ad ogni astro non una sola sfera, ma un sistema
di piu sfere concentriche e ruotanti l'una all'interno dell'altra, con diversi
periodi e con diversi assi di rotazione; in tal modo, Eudosso ritiene di
salvare tutti i fenomeni che riguardano il movimento degli astri; il sistema
geometrico entro il quale egli pensa di poter chiudere con rigore i movi-
menti celesti comprende 27 sfere, in quanto il sole e la luna possiedono un
sistema di tre sfere ciascuno, i cinque pianeti un sistema di quattro sfere
ciascuno, piu una sfera delle stelle fisse. L'artificio matematico di Eudosso
riesce cosi a dare una spiegazione astratta rigorosa di apparenze sensibili.

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§ 13 LO SVILUPPO DELLE SCIENZE

Anche Filippo di Opunte, discepolo di Platone, è noto per aver composto


degli scritti su questioni astronomiche, ma essi non sono giunti fino a noi.
A Cos continua la sua attività, anche dopo la morte di Ippocrate, la
scuola medica da lui fondata, probabilmente sotto la direzione del genero
di Ippocrate, Polibo. Con la scomparsa di Ippocrate entra però in crisi il
metodo scientifico da lui propugnato e volto a contrastate sia il cieco em-
pirismo della medicina cnidia sia il carattere aprioristico della medicina ita-
lica; ha allora il sopravvento la medicina ad ispirazione speculativa; infatti
in Sicilia la scuola medica che si richiama a Empedocle, sotto la direzione
di Filistione di Locri, si applica ad importanti studi di anatomia e di fisio-
logia. Una figura eminente nel campo degli studi di rpedicina è quella di
Diocle di Caristo; egli è il piu noto rappresentante dell'indirizzo dogmatico
che, con il proposito di proseguire il metodo ippocratico, sviluppa realmente
delle tendenze eclettiche; l'importanza delle sue ricerche; specialmente nel
campo dell'embriologia gli valse da parte degli Ateniesi l'appellativo di
"secondo Ippocrate".
La storiografia viene coltivata in questo periodo da Senofonte (430-
360) che, oltre che di narrazioni storiche (l'Anahasi e le Elleniche), è
anche autore di scritti sulla personalità e sull'insegnamento di Socrate..
Come storico si può dire che Senofonte obbedisce a preoccupazioni mora-
listiche, sia quando presta attenzione, nell'esposizione delle vicende, al
peso che vi hanno le passioni umane e gli atteggiamenti morali degli
uomini, sia quando sottolineando i caratteri etici delle azioni e dei com-
portamenti dispone al loro giudizio.

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CAPITOLO V

La seconda metà del secolo 1v

ARISTOTELE. PIRRONE E LO SCETTICISMO

1. II periodo.
La seconda metà del secolo 1v è contrassegnata, in campo politico,
dall'affermazione della Macedonia sotto la guida di Filippo II prima e
di Alessandro Magno poi. Filippo dapprima si assicurò il controllo di al-
cune çolonie ateniesi che gli impedivano lo sbocco al mare; poi prese
ad intervenire nei contrasti fra le varie leghe di città finché conseguì l'ef-
fettivo controllo della situazione politica greca. L'abile politica di Filippo JI
incontrò subito, in Grecia ed in Atene particolarmente, fautori ed avver-
sari; si formarono due partiti, uno filo-macedone capeggiato dall'oratore
Eschine e l'altro anti-macedone guidato fin dal 351 da Dcmostene che in
quell'anno appunto pronunciò la prima delle sue faqlosc orazioni filippiche
contro i progetti di asservimento della Grecia ormai chiaramente delineati
nella politica macedone. Con la battaglia di Cheronea del 338 Filippo
ottenne il dominio diretto sulla Grecia cd alle città adunate sull'istmo di
Corinto impose la pace, offrendo la sua forza militare per una guerra
decisiva contro la Persia; il vecchio spirito democratico cui Atene era stata
tanto legata nella sua storia volgeva cosf al tramonto, mentre si prospettava
una nuova epoca, improntata ad un accentuato spirito militaristico cd a
piu ampi orizzonti di espansione e di conquista. Dal 336 al 3~3 si svolge
l'incredibile impresa di Alessandro Magno che, succeduto al padre Filippo,
muove guerra ai Persiani occupando successivamente l'Asia Minore, la Siria,
la Fenicia, l'Egitto (ove fonda la città di Alessandria); posta sotto il con-
trollo cosf tutta la parte occidentale dello statC1 persiano, Alessandro si volge
alla sua parte orientale spingendosi fino all'India. Alla sua morte, nel 323,
la Grecia si poteva considerare soltanto una piccola parte di un vastissimo
dominio che aveva la sua capitale a Babilonia.
Il contrasto che in essa aveva sollevato la politica di Alessandro aveva
1messo in luce da una parte il vecchio ideale di una civiltà greca chiusa
nel culto ddle sue tradizioni e nell'approfondimento della sua cultura,

Baruch_in_libris
§ I IL PERIODO

dall'altra il nuovo ideale di una espansione civile e culturale greca che


fosse al centro dello sviluppo anche dei popoli orientali. Alla morte di
Alessandro, la storia si apre in questa seconda direzione; non che man-
chino tentativi ripetuti di leghe greche per ripristinare l'autonomia d'un
tempo; ma essi non hanno che sporadici successi; il grande impero di
Alessandro si viene organizzando, sul finire del secolo 1v, in tre grandi
stati indipendenti: lo stato greco-macedone, le terre asiatiche con al cer.:ro
la Siria e la Mesopotamia riunite nello stato dei Seleucidi ed il regno di
Egitto governato da Tolomeo; alcuni stati minori sorgono a Pergamo, nel
Ponto, nell'isola di Rodi. In tutto questo vasto scacchiere si diffonde la
cultura greca; ma essa si fonde con gli elementi della cultura locale e
ne risulta quella cultura ellenistica o greco-orientale che è destinata a
dominare, con sviluppi complessi, la storia dei secoli successivi. Per un
lato, non si può mancare di rilevare la straordinaria forza espansiva acqui-
stata in questo periodo dalla cultura greca, mentre anche le relazioni com-
merciali fra i paesi piu lontani si intensificano, si estendono le conoscenze
e i viaggi, si formano centri importanti di studio ad Alessandria, ad Antio-
chia ed a Pergamo; d'altra parte la cultura greca è esposta ora ad influssi
orientali eterogenei e la sua capacità creativa si viene affievolendo; la
scena politica poi è dominata dalla creazione di grandi regni, fondati sul
potere assoluto e organizzati da una burocrazia che" forma la clientela dci
nuovi sovrani; acquistano importanza sempre maggiore gli eserciti; si
diffonde il culto dei sovrani, secondo il costume orientale; la corte diviene
centro di raccolta, oltre che dei· funzionari, anche degli uomini di cultura,
che spesso assumono la veste di cortigiani; ma lo splendore dei sovrani si
esplica anche nella fondazione di scuole, di musei, di grandi organismi
di cultura e di studio. E' a questo nuovo spazio etico e politico che si
apre ormai anche la filosofia greca. Ciò si può dire, in parte, anche per la
filosofia ·di Aristotele e per lo scetticismo di Pirrone. Il pensiero aristote-
lico che domina la seconda metà dcl secolo Iv, al· modo stesso in cui quello
di Platone aveva dominato la prima metà, per un lato si inquadra nella
tradizione dcl pensiero greco ed in particolare nella dottrina platonica nel
cui seno si viene formando, per l'altro si orienta verso una mentalità scien-
tifica piu aperta cd uniforme, già disposta ad affrontare un mondo piu
ampio e compl~sso. Quanto alla scuola di Pirrone che sorge ad Elide negli
ultimi decenni de.' secolo Iv, se per un lato è legata alla precedente tradi-
zione speculativa gr'!ca ed in particolare allo studio della dialettica, per l'altro
è tratta ad un distacco critico radicale dalle vecchie scuole anche dietro la
suggestione dci nuovi orizzonti aperti dall'impresa di Alessandro.

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V

2. Aristotele: la vita e gli scritti.


Aristotele nasce nel 383 a Stagira nella penisola Calcidica; Stagira
era una colonia ateniese, anche se posta in territorio controllato al nord
dalla Macedonia; suo padre era appunto medico alla corte macedone.
Aristotele giunse ad Atene a 17 anni per compiervi i suoi studi ed
entrò ali' Acaden.ia di Platone, ove rimase per vent'anni, cioè fino
alla morte del maestro nel 347. Morto Platone egli lascia Atene e
l' Academia per recarsi ad Asso nell' Asia Minore, ove esisteva un
centro di studi costituito da due allievi di Platone, Erasto e Corisco;
questa comunità era protetta da Ermia, tiranno della città di Atarneo;
ai tre Platone aveva indirizzato la sesta delle sue lettere. Forse
Aristotele aveva in mente, recandosi ad Asso, di promuovere con gli
amici una nuova scuola; ma Ermia esercitava il suo potere sotto l'alto
Jrotettorato persiano; perciò quando egli tentò di stabilire segreti
·apporti con Filippo di Macedonia, cadde in disgrazia del re di
Persia che lo fece spodestare ed uccidere, nel 345. Appena tre anni
dopo l'arrivo di Aristotele, la scuola di Asso dovette cosi sciogliersi;
anche la scuola che egli fondò subito dopo a Mitilene non ebbe lunga
durata perché nel 343 venne chiamato da Filippo II alla corte mace-
done, quale precettore di Alessandro. Questi fu affidato alle sue cure
mentre era in età dai quattordici ai sedici anni; l'ascesa di Ales-
sandro sul trono di Macedonia, alla morte del padre, nel 336 pre-
cedette solo di un anno il ritorno di Aristotele ad Atene; egli aveva
ormai cinquant' anni quando vi fondò una scuola nel ginnasio dedi-
cato ad Apollo Licio; fu chiamata Liceo o anche Peripato, per i
passeggi e giardini che la circondavano. Aristotele poté dedicare
una dozzina d'anni agli studi ed alla sua scuola; in essa costitul
grandi raccolte di materiale che servivano di fondamento per lo
sviluppo delle ricerche; per lo studio della politica, per es., avviò la
raccolta dei testi delle costituzioni greche, mettendone insieme piu di
150; la stessa cosa fece per le dottrine filosofiche, componendo egli
stesso e facendo comporre ad alcuni dei suoi discepoli scritti intorno
ai filosofi precedenti; fu cosi che la parte piu nuova della scuola di.
venne la biblioteca o Museo. L'organizzazione della scuola peripa
tetica è anche da ricordare in quanto contemplava, oltre che lo studio

100

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§ :2 ARISTOTELE

della filosofia, anche l'indagine nei vari settori del sapere; questi
erano, ad un tempo, distinti come campi autonomi di ricerca e colle-
gati in un ordinamento unitario di cultura. Nel 323, alla morte di
Alessandro Magno, ad Atene risollevò il capo la fazione anti-mace-
donica che richiamò dal!' esilio Dcmostene. Aristotele, come sim-
patizzante per la politica macedonica, non fu risparmiato; fu sporta
contro di lui una accusa di empietà, sostenuta da un sacerdote, dal
nipote di bemostene e dal nipote di Isocrate; l'accusa era solo un
pretesto che copriva motivi politici. Aristotele decise allora di abban-
donare Atene e si ritirò a Calcide, dove morf l'anno seguente (322)
all'età di sessantadue anni.
Anche per gli scritti di Aristotele, vale quanto si è detto per
quelli di Platone: essi sono giunti fino a noi non attraverso fram-
menti, ma in forma pressoché completa. Sotto forma solo di fram-
menti, in verità, noi conosciamo alcuni scritti che Aristotele proba-
bilmente compose prima di metter mano alle opere sistematiche che
ci conservano la formulazione organica della sua filosofia; si tratta di
saggi e di esercitazioni che forse non sono estranei al periodo della
permanenza di Aristotele alla scuola di Platone e che hanno pertanto
un'intonazione platonica; si possono, cosf, ricordare un Discorso esor-
tatorio alla filosofia (o Protrettico), uno scritto Sull'anima cd uno
Sulla filosofia. Il peso di tali scritti è comunque secondario, rispetto
al grosso corpus di opere complete che delineano il sistema aristotcHco.
Esso comprende i seguenti scritti o gruppi di scritti: l) un gruppo
di sei scritti di logica, piu tardi raccolti sotto il titolo complessivo di
Organon (strumento o metodo) nell'ordine seguente: l) Le categorie
(un libro); 2) il De interpretatione (un libro); 3) Analitici primi (in
due libri); 4) Analitici secondi (in due libri); 5) i Topici (in otto libri);
6) gli Elenchi sofistici (un libro) - n) la Metafisica, la maggiore delle
opere filosofiche, in quattordici libri - m) la Fisica (in otto libri)
cui si può collegare un gruppo di altri scritti sulla natura, compren-
dente: 1) Sul cielo (in quattro libri); 2) Sulla generazione e la co"u-
zione (in due libri); 3) Sulle meteore (in quattro libri) - IV) un gruppo
di scritti sugli ·animali, comprendente: l) Storia degli animali; 2)
Sulle parti degli animali; 3) Sulla generazione. degli animali; 4) Sulle
trasmigrazioni degli animali; 5) Sul movimento degli animali - v) Sul-

101

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V

I' anima (in tre libri) cui si ricollega un gruppo di scritti. minori, piu
tardi indicati come Parva naturalia, e comprendente: 1) Sensazione
e sensibile; 2) Memoria e reminiscenza; 3) Il sonno; 4) I sogni;
5) La divinazione mediante i sogni; 6) Lunghezza e brevità della vita;
7) Giovinezzo e vecchiaia; 8) La respirazione - v1) un gruppo di scritti
di etica, comprendente: 1) L'etica Nicomachea (in dieci libri); 2) L'etica
Eudemia (in sette libri); 3) La grande etica - vn) La politica (in otto
libri) cui si può collegare la Costituzione degli Ateniesi - vili) La re-
torica (in tre libri) - 1x) La poetica (incompiuta).
I due maggiori problemi che lo studio delle opere di Aristotele
solleva, in linea preliminare, sono quello che concerne la loro origine
e quello che riguarda la loi:o cronologia. Per quanto concerne l'origine
degli ~critti aristotelici, sta il fatto che alcuni risultano molto chiara-
mente ordinati ed elaborati, altri invece presentano ripetizioni, acco-
stamenti disordinati, tratti molto oscuri, a volte anche asserzioni con-
trastanti; la cosa si può spiegare se Aristotele, avendo curato diretta-
mente la redazione di alcuni suoi scritti, in altri non è intervenuto che
molto indirettamente, lasciando che venissero raccolti gli appunti, non
sempre elaborati, delle sue lezioni, da parte di scolari; ciò può essere
ovviamente accaduto anche quando, dopo la morte di Aristotele, si
venne mettendo insieme presso la sua scuola il corpus degli scritti. Per
quanto riguarda poi la questione della cronologia, si è particolarmente
insistito nei tempi a noi piu vicini e in modo speciale per opera dello
Jaeger, a vedere nelle ripetizioni e nei contrasti che a volte si incon-
trano nelle opere aristoteliche il risultato della giustapposizione in opere
complessive di trattati molteplici e diversi, originariamente staccati e
distinti; si è cosi messo in luce che alcuni scritti aristotelici sono un
mosaico di altri scritti minori, redatti in momenti diversi e, a volte,
con diverso orientamento. Si è anche tentato allora di cogliere le linee
che il pensiero aristotelico avrebbe seguito nella sua evoluzione; i risul-
tati piu accertati in proposito sono che Aristotele, dopo avere seguito
nella sua giovinezza Platone nel considerare l'anima immortale, nel
guardare con distacco il mondo sensibile e nell'attenersi alla dottrina
delle idee, nella piena maturicl della sua speculazione si staccò da
Platone criticandone la dottrina, per temperare quindi le sue vedute
metafisiche con un accentuato empirismo nella fase finale della sua

102

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§ 2 AlUSTOTELB

riflessione. :t però da ricordare che gli scritti aristotelici sono giunti a


noi attraverso una tradizione assai complessa, alla quale non sono pro-
babilmente estranee elaborazioni posteriori, di varia provenienza, in-
debitamente inserite nel corpus aristotelico; di qui il carattere composito
di alcuni scritti e la necessità di rinnovati e difficili studi che ci ripor-
tino il piu vicino possibile al nucleo originario dell'opera aristotelica.

3. La logica.
La logica occupa, nel sistema di Aristotele, una pos1z1one prelimi-
nare in quanto studia lo strumento stesso con cui regolare qualsiasi
discussione o ricerca. Nei vari scritti dell'Organon (che significa appunto
strumento) si studiano tuttavia due distinti gruppi di questioni: la
dialettica, che ha il suo centro nei Topid, studia i criteri e i metodi
della discussione, mentre la trattazione degli Analitici studia il me-
todo della conoscenza scientifica in senso stretto. Si ricorderà che Pla-
tone, pur avendo preso le mosse dall'esperienza socratica del dialogo
e dallo studio logico-linguistico che già nella scuola eleatica era stato
fatto del procedimento del contraddire, pur essendo quindi ben a co-
noscenza delle indagini sulla discussione, aveva poi rivolto la sua
attenzione esclusivamente al procedimento della ricerca scientifica, cioè
alla dialettica intesa come analisi rigorosa delle strutture necessarie del
reale; sicché la discussione, secondo Platone, è inconcludente e non ha
rilievo quando non mette capo alla conoscenza della verità. Aristotele
tende invece, in quella parte della sua logica che è dedicata alla dia-
lettica, a considerare proprio la dimensione empirica del dialogare e del
discutere in tutta la sua ampiezza. La discussione nasce con una do-
manda; essa può riferirsi «all'opinione o di tutti, o della grande mag-
gioranza, o dei sapienti; quando poi si tratti di questi ultimi, ci si
può ancora riferire o all'opinione di tutti, o a quella della grande
maggioranza o infine all'opinione dei sapienti piu noti degli altri; ci
si può anche riferire alle opinioni che rispondono alle arti costituite,
ad esempio formulando opinioni riguardo agli argomenti della medicina,
come farebbe il medico, e riguardo agli argomenti della geometria,
come farebbe il conoscitore di questa scienza». Circa l'opinione intorno
alla quale si affaccia una domanda (come quando, per es., si chiede

103

Baruch_in_libris
LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V

.;e il piacere sia o no desiderabile) ci può essere dissenso sia fra la mag·
gioranza della gente e i sapienti, sia nei sapienti fra loro, sia nella
maggioranza stessa della gente. Il dissenso è appunto all'origine della
domanda che si pone; il risultato cui· la discussione deve pervenire è
la manifestazione di una preferenza o di un rifiuto nei riguardi di
una determinata opinione. La dialettica considera appunto questa si-
tuazione, con particolare riguardo alle condizioni in cui un dubbio
può essere affacciato e rimosso attraverso dei discorsi concludenti. «La
dialettica è utile, scrive Aristotele, anzitutto perché insegna il metodo
conoscendo il quale si è piu facilmente in grado di disputare intorno
ad un argomento; in secondo luogo, essa è utile per le conversazioni,
poiché una volta passate in rassegna le opinioni della gran massa degli
uomini, verremo in rapporto con essi non già sulla base dei punti di
vista che sono a loro estranei, bensl su quella delle loro opinioni e al-
lora potremo respingere quello che essi ci diranno in modo non cor-
retto e noi stessi impareremo a non dire nulla di contraddittorio con
la tesi che difendiamo ». È proprio attraverso questo studio dei criteri
del dibattito fra persone ed opinioni che emergono alcuni importanti
problemi di logica.
Un pri~o problema è quello che riguarda i termini che si usano
nella discussione; avviene infatti che spesso con uno stesso termine
o vocabolo si designino cose diverse o che una stessa cosa sia designata
con nomi diversi; ad evitare confusioni; bisogna quindi enumerare i
diversi sensi in cui un termine può essere assunto nella discussione;
Aristotele ne indica dieci e li chiama categorie; un termine, a suo av-
viso, può indicare o una sostanza (ciò avviene quando, per es., il ter-
mine " cavallo " indica " un determinato cavallo " che è sostanza in
quanto non appartiene ad un'altra cosa individua, pon è, per es., come
il colore del cavallo che appartiene appunto al cavallo), oppure una
quantità (come il termine "lungo due cubiti"), oppure una qualità
(come il termine "bianco"), oppure una relazione (come ~I termine
"doppio"), oppure un luogo (come il termine "in piazza"), oppure
un tempo (come il termine "ieri"), oppure una situazione (come il
termine "seduto"), oppure uno stato (come il termine "armato"),
oppure un'azione (come il termine "bruciare"), oppure infine una
passione (come il termine " esser bruciato "). Le dieci categorie sono,

Baruch_in_libris
§ 3 LA LOGICA

secondo Aristotele, i significati possibili di quelle parole il cui signifi-


cato non risulti da quello di altri termini. Naturalmente le sostar-ze,
le qualità, le relazioni ecc. sono molte e varie; ma le dieci categorie
consentono di stabilire subito in quale dei dieci modi di significazione
semplice rientri un termine e rendono cosi piu chiaro e sicuro tutto
il discorso.
Una distinzione aristotelica molto importante è quella fra soggetto
ed attributo; infatti le questioni dialettiche mirano a stabilire se un
attributo appartenga o non appartenga ad un soggetto; soggetti sono
le sostanze (cioè ciò che è esistenza singola nella forma di cosa o di
animale o di persona); tutto il resto può fungere da attributo; quando
si unisce un soggetto con un attributo indicando che questo appartiene
o non appartiene a quello si formula una proposizione. Però l'attri-
buto può appartenere al soggetto in maniere diverse; Aristotele ne
enuncia cinque: il genere, la specie, la differenza, il proprio e l'acci-
dente. Il genere indica gli attributi che possono essere riferiti ad un
soggetto come la classe piu ampia nella quale esso si inquadra; ciò
che può essere attribuito al soggetto nella forma di una parte del ge-
nere, e cioè della classe piu ampia, si chiama specie; differenza è ciò
che, nell'interno del genere, distingue una specie da un'altra; per es.,
rispetto al soggetto Socrate, è attributo di genere il termine " animale "
in quanto designa la classe piu ampia di cui Socrate fa parte, è attri-
buto di specie il termine "uomo" che designa quella parte della classe
piu ampia in cui Socrate rientra, è attributo di differenza il termine
" razionale " che indica ciò che separa la specie umana dalle altre specie
che sono interne al genere animale. Per rispondere alla domanda: che
cos'è la tal. cosa? bisogna indicare, secondo Aristotele, l'attributo di
genere, la differenza e quindi l'attributo di specie; si ottiene cosi la
definizione della cosa, cioè la indicazione della sua essenza (tò tl fonv ).
Per essenza di una cosa si intendono « quelle delle proprietà di un sog-
getto che esso non può mutare senza perdere la propria identità».
Socrate può essere a volte seduto, a volte in piedi; poiché però queste
proprietà possono cambiare senza che egli cessi di essere quello che è,
si deve concludere che esse non fanno parte della sua essenza; invece
la proprietà di essere animale razionale e cioè uomo appartiene a So-
crate in modo che, se cessasse, Socrate stesso cesserebbe di essere quello

105

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V

che è. Le specie ed i generi sono anche indicati da Aristotele come


"sostanze seconde", nel senso che le sostanze, o realtà singole che
fungono da soggetti, si dicono " prime " in quanto stanno alla base
di tutto il resto e tutto il resto si predica di esse oppure sussiste
in esse, mentre le spede e i generi sono i soli fra gli attributi che
« rivelano la sostanza prima »; infatti « se qualcuno deve -spiegare che
cos'è un determinato uomo, dà una spiegazione appropriata indicando
la specie, oppure il genere; nel caso invece che indichi una qualche
altra nozione, dicendo ad esempio che un determinato uomo è bianco
o corre, avrà dato una spiegazione estranea all'oggetto». Un attributo
si dice " proprio " rispetto ad un soggetto quando non fa parte della
sua essenza, da cui tuttavia dipende in modo necessario; l'accidente
per _contro è un attributo che può appartenere o non appartenere al sog-
getto; cosi l'attributo "bianco" è un accidente rispetto a Socrate,
mentre l'attributo "capace di ridere" è un proprio.
I termini staccati non si possono considerare veri o falsi, mentre
verità e falsità sono, per Aristotele, proprietà della · proposizione, in
.:ui si afferma o si nega un attributo di un soggetto; il criterio della
verità d'una proposizione è offerto dalle cose stesse, per cui una propo-
sizione è vera quando le cose stanno come essa afferma che sono; al-
trimenti è falsa. Le proposizioni si distinguono fra loro principalmente
sotto due riguardi: anzitutto per il fatto che alcune sono affermative
ed altre negative e, in secondo luogo, in quanto il loro soggetto può
essere o universale inteso universalmente, oppure universale non inteso
universalmente, oppure singolare. Un termine è universale quando «si
può predicare di molti», per es. il termine "uomo" predicato di molti
soggetti, come Socrate, Platone e Cesare; invece il termine "Socrate" si
può predicare di uno solo nella proposizione: «Questi è Socrate». Il ter-
mine universale si intende universalmente quando è accompagnato dalla
parola " ogni " come quando si dice, per es., che « ogni uomo è giusto »
e si intende non universalmente quando è accompagnato dalla parola " al-
cuni ", " qualche '', come quando si dice « alcuni uomini sono giusti ».
Combinando il variare delle proposizioni secondo affermazione e nega-
zione e secondo che il soggetto sia universale o particolare, si avranno
quattro tipi fondamentali di proposizioni, cioè l'universale affermativa
(per es., «tutti gli uomini sono giusti»), l'universale negativa (per es.,

1o6

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§ 3 LA LOGICA

« nessun uomo è giusto »), la particolare affermativa (per es., « alcuni


uomini sono giusti») e la particolare negativa (per es., «alcuni 'Jomini
non sono giusti»). Avendo l'occhio alle esigenze della discussione dia-
lettica, Aristotele ha considerato il rapporto che interéorre fra le pro-
posizioni che, avendo lo stesso soggetto e lo stesso attributo, differiscono
in relazione ai quattro tipi indicati; egli chiama contraddittorie le cop-
pie di proposizioni di cui « una afferma un attributo di un soggetto
universale e l'altra lo nega di un soggetto non universale» (per es., « tut-
ti gli uomini sono giusti » e « alcuni uomini non sono giusti »); chia-
ma invece contrarie le proposizioni in cui « sia l'affermazione che la
negazione riguardano un attributo riferito ad un soggetto universale »
(per es., «tutti gli uomini sono giusti '' e « nessun uomo è giusto»);
ora le proposizioni contrarie non possono essere entrambe vere, men-
tre delle proposizioni contraddittorie è necessario che una sia vera
e l'altra falsa.
Il nesso fra un attributo ed un soggetto non sempre può essere colto
in modo diretto; bisogna in questo caso compiere un calcolo o sillo-
gjsmo, che consiste nel trovare un termine che sia in rapporto di attri·
buzione con entrambi i termini di cui vogliamo stabilire il rapporto; per
es., poiché non è possibile cogliere, in modo diretto, se l'attributo "mor-
tale " spetti o no al soggetto " ogni uomo ", debbo trovare un termine
che sia in rapporto di attribuzione sia con il termine " ogni uomo ", sia
con il termine " mortale "; se esamino tutti gli attributi che si possono
riferire al soggetto "ogni uomo" e tutti. i soggetti cui spetta l'attri-
buto di " mortale ", trovo che il termine " animale " è presente in en-
trambi i casi; infatti posso enunciare le due proposizioni: « ogni uomo
è animale» - «ogni animale è mortale»; avremo cosf trovato il ter-
mine " medio ", quello che, avendo un nesso con i due termini di cui
inizialmente non conosciamo il rapporto, ci fa cogliere tale rapporto in
forma mediata; ed avremo il seguente sillogismo o calcolo logico: cwgni
animale è mortale >> - « ogni uomo è animale » - « dunque ogni uo-
mo è mortale>>. Il carattere piu importante del sillogismo è che, poste
determinate premesse, la conseguenza non può non seguire; Aristotele
lo ha definito come «quel ragionamento nel quale, essendo poste certe
cose, un'altra ne risulta necessariamente per il solo fatto che quelle so-
no poste». Esso consiste di tre proposizioni: due premesse ed una con-

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V
- - - - - - - - - - - - - - - ------- ----------------
elusione:; ndlc: premesse. compaiono i due termini fra i quali si deve:
indicare se e: quale nesso esista; in esse il termine medio compare due
volte, una volta raffrontato col termine che ha significato piu esteso
(premessa maggiore) e una volta con il termine che ha significato meno
esteso (premessa minore); nella conclusione il medio scompare e si
enuncia senz'altro il nesso ricercato fra i due termini di partenza.
Aristotele ha attentamente studiato la struttura dcl sillogismo e le re-
gole che la disciplinano; ha distinto tre diverse figure di sillogismo in
relazione al diverso tipo di rapporto che si viene a stabilire fra il ter-
mine medio e gli altri due termini: la prima figura si ha quando il ter-
mine medio è compreso nel termine maggiore e comprende il termine
minore (come quando, per es., il termine medio " animale " è compreso
nd termine " mortale " e comprende in sé il termine " uomo "; si han-
no anche diversi " modi " di questa prima figura a seconda che le tre
proposizioni del sillogismo siano affermative o negative, particolari o uni-
versali). Nella seconda figura del sillogismo il medio viene affermato di
tutto il termine maggiore ed è negato di tutto il termine minore, per
cui segue che il termine maggiore è negato di tutto il termine minore;
nella terza figura poi tanto il termine maggiore quanto il termine mi-
nore appartengono a tutto il termine medio, per cui si può concludere
che a volte il minore appartiene al maggiore; nei sillogismi di seconda
e terza figura (i quali pure ammettono molti modi) il rapporto fra i tre
termini non viene però colto direttamente e positivamente come av-
viene nei sillogismi di prima figura; perciò Aristotele li considera sillo-
gismi imperfetti che si debbono trasformare, con opportuni procedi-
menti, in sillogismi della. prima figura.
Il sillogismo ci consente, date due premesse, di trarne necessaria-
mente la conclusione; ma altro è che la conclusione sia tratta con ne-
cessità dalle premesse ed altro è che la stessa conclusione sia necessaria.
La conclusione viene tratta con necessità dalle premesse anche nei sil-
logismi usati dai dialettici e dagli oratori; eppure in questi casi non
si ha conclusione necessaria proprio perché non sono necessarie in se
stesse le premesse dalle quali essi partono; è invece caratteristica del
sillogismo che si usa nella ricerca scientifica rigorosa sia quella di muo-
vere da premesse necessarie, sia pertanto quella di ottenere conclusioni
altrettanto necessarie in se stesse. Domandiamoci allora quando una pre-

108

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§ 3 LA LOGICA

messa sia in se stessa necessaria; lo potrebbe essere perché ottenuta, co-


me conclusione, da un. altro sillogismo che muova da premesse a sua
volta necessarie; ma non si può risalire indietro all'infinito, altrimenti
la scienza stessa sarebbe impossibile, in quanto mancante di prime pro-
posizioni vere. Ecco perché, secondo Aristotele le prime premesse della
scienza dovranno essere date come indimostrabili, come immediata-
mente vere; sicché il procedimento sillogistico può ricavare conclusioni
vere da premesse vere, ma non può porre le prime premesse vere. Ci
sono degli assiomi generali che riguardano tutte le scienze come, per es.,
l'affermazione per cui un attributo non può appartenere e non appar-
tenere ad uno stesso soggetto, nello stesso tempo e sotto lo stesso ri-
guardo; ma gli assiomi di questo tipo non possono costituire i primi
principii d'una scienza determinata. Il criterio che, secondo Aristotele,
garantisce ad una scienza i suoi primi principii veri è quello dell'essenza,
quello cioè delle proprietà di un soggetto che gli appartengono in
modo necessario e che esso non può perdere senza perdere la sua stessa
identità; le proposizioni che indicano che cos'è ciò di cui si vuol di-
mostrare qualche attributo sono i principii naturali della dimostrazione;
l'apodittica o dimostrazione muove dunque dalla conoscenza delle es-
senze. A questa servono di preparazione sia l'induzione che cerca di
cogliere negli individui la presenza di determinati attributi, sia la dia-
lettica; ma il passo decisivo nella conoscenza delle essenze viene com-
piuto, secondo Aristotele, da una facoltà speciale della mente umana,
il nous, che consente cosi: di dare un solido fondamento alla scienza.
Con la sua dottrina del sillogismo e con l'apodittica Aristotele ha con-
figurato un tipo ben preciso di scienza: quella cioè che ricorre al pro-
cedimento deduttivo, muovendo da postulati per trarne le conseguenze,
come avviene nel procedimento matematico; alla conoscenza per espe-
rienza viene invece riconosciuto un compito soltanto secondario e di
sussidio. Il procedimento deduttivo è inoltre legato con la dottrina del-
1'essenza che non consente un'applicazione dello stesso metodo mate-
matico direttamente all'esperienza e lo rivolge piuttosto a strutture con-
cettuali astratte. La filosofia moderna svolgerà una critica radicale della
logica aristotelica e specialmente dell'apodittica, mostrando come il sil-
logismo non sia l'unica forma di deduzione, come la deduzione non
sia l'unico procedimento della scienza e come, infine, la deduzione ap-

109

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V

plicata al tessuto astratto delle essenze risulti inefficace per la compren-


sione scientifica della realtà; tuttavia fino agli inizi dell'età moderna,
attraverso le integrazioni recate dagli scolastici medievali, la logica di
Aristotele ha mantenuto un dominio quasi incontrastato.

4. La fisica.

Il gruppo piu importante di scienze al quale Aristotele si è appli-


cato è quello che egli chiamò delle scienze teoretiche, cioè volte a co-
gliere la realtà che si ritiene data una volta per tutte e che alla teoria
spetta di rispecchiare. Le principali scienze teoretiche sono la fisica,
la matematica e la filosofia prima o metafisica; la matematica studia
degli enti che non sono soggetti a mutamento (numeri e figure); ma
essi non sono nemmeno veri enti, in quanto vengono astratti dalle co-
se, ma non esistono per se stessi; alla matematica comunque Aristotele
non ha dedicato una trattazione sistematica. La fisica ha invece per og-
getto degli enti esistenti per se stessi, ma soggetti a mutamento e dive-
nire; infine la filosofia prima o metafisica ha per oggetto gli enti,im-
mobili ed immateriali. .':..
I principii generali della concezione della natura sono illustrati nei
primi quattro libri della Fisica. Aristotele muove dal rilievo che. gli
esseri della natura divengono, mutano, subiscono generazione e cor-
ruzione; bisogna quindi respingere la dottrina eleatica che contesta la
realtà del divenire e del movimento. Il torto di Parmenide è, secondo Ari-
stotele, quello di essersi riferito all'essere ed al non-essere, astrattamente
intesi, anziché riferirsi ai singoli .esseri concreti che sono reali per ec-
cellenza e rispetto ai quali va anche posto il divenire e il mutamento;
non v'è infatti divenire e movimento se non c'è un soggetto che di-
viene; il divenire è pertanto divenire di un essere individuo che si trova
in condizione di privazione rispetto a qualche cosa; per es., il passag-
gio dal non saper leggere al saper leggere implica l'esistenza di un
uomo (la materia del divenire) che prima sia privo della capacità di
leggere (la privazione come punto di partenza del divenire)_ e che poi
abbia tale capacità (la forma o perfezione come punto di arrivo del
divenire). Materia, forma e privazione spiegano cosi il divenire, che
non è da confondere col non-essere; infatti il divenire comporta sempre

110

Baruch_in_libris
§ 4 LA FISICA

un essere, che, mentre è realtà per qualche lato, è privo di qualche


altra cosa; esso è quindi, ad un tempo, essere e non-essere, sempre però
in senso relativo e non assoluto.
Col termine di " natura " Aristotele intende designare le cose « che
hanno in se stesse un principio di movimento e di stasi, le une con
riferimento al luogo, le altre in ordine all'accrescimento ed al decre-
scere, altre ancora quanto all'alterazione». Per un lato si chiama "na-
tura " la materia « che serve da sostegno immediato agli esseri che han-
no in sé un principio di ·movimento » (per es., la materia della pianta
che cresce); ma si chiama natura anche la forma, cioè il tipo che noi
indichiamo come essenza di qualche cosa (per es., la specie della pianta).
Con la teoria di materia e forma Aristotele per un lato ribadisce l'in-
sufficienza della sola materia sostenuta dai naturalisti, per l'altro ri-
vendica contro Platone l'inseparabilità della forma dalla materia. Lo
stesso concetto viene chiarito dalla dottrina delle quattro cause che
si debbono indicare per poter dire di avere conoscenza di qualche cosa:
c'è la causa materiale ossia ciò di cui una cosa è fatta (per es., il bronzo
della statua), la causa formale cioè. la forma o essenza cui un individuo
corrisponde (per es., un particolare cavallo risponde ai caratteri della
specie), la causa efficiente che produce il mutamento (per es., il geni-
tore di un individuo) e infine la causa finale per cui un mutamento
si compie (per es., la sanità per conseguire la quale si fa una passeg-
giata). Negli esseri della natura «tre di queste cause si riducono ad
una sola: infatti l'essenza è anche il fine cui tende il mutamento, senu
dire che la causa efficiente o motore del divenire è identico dal punto
di vista della specie, con la stessa essenza o forma; infatti l'uomo che
è causa efficiente dell'essere d'un bambino è identico, quanto alla spe-
cie, all'essenza di uomo o forma che è il fine cui tende lo sviluppo
del bambino». Anche per Aristotele, come per Platone, «la natura
non è governata dalla pura necessità», ma tutto avviene «in vista
di un fine e perché è meglio cosf » ; questa spiegazione finalistica viene
rafforzata dall'osservazione dci fatti biologici, in cui uno stadio termi·
nale sembra subordinare a sé tutto quello che vien prima; ogni cosa
della natura viene prodotta infatti come se fosse prodotta dall'arte;
una pianta cresce e si sviluppa come se nella natura si nascondesse un
architetto; in ogni essere naturale è presente un principio che agisce

lii

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V

come una mente, come un progetto, come un fine. Perciò appunto


Aristotele definisce il divenire come « la realizzazione del fine di un
essere che è in potenza in quanto è in poten:Z.a ». Vi sono varie forme
di divenire, come l'alterazione, la generazione e la corruzione, la cre-
scita e la decrescita, il movimento locale; in tutti questi casi si ha un
individuo in cui un certo processo è in potenza, ossia è effettivamente
possibile e si ha poi il verificarsi del processo, cioè il suo giungere a
compimento, il suo tradursi in atto; per es., un seme di frumento che
non è ancora diventato una spiga ha in sé realmente la potenza di
diventare spiga; il fatto che il seme non sia ancora spiga non com-
porta che esso sia del tutto negativo rispetto a quel risultato; quindi
l'essere in potenza non equivale affatto ad un non-éssere assoluto, ma
ad un non-essere relativo che è appunto legato alla possibilità di essere;
quando il seme sarà diventato spiga, il pfocesso dalla potenza all'atto
si sarà compiuto, il fine già presente nel seme si sarà compiutamente
realizzato. Unendo insieme la dottrina di materia e forma, la dottrina
delle quattro cause e infine la dottrina di potenza ed atto si ha la spie-
gazione aristotelica del divenire degli esseri naturali, restando sempre
fermo che ciò che diviene sono soltanto gli individui concreti; va inol-
tre rilevato che la materia è anche la causa materiale del divenire ed
è anche la potenZa di esso, mentre la forma è anche la causa formale-
finale ed è il principio dell'attualità, ossia del compiersi del mutamento.
Poiché soltanto gli individui concreti esistono realmente e principal-
mente, ad essi Aristotele riconduce sia il luogo che il tempo, sia la
leggerezza che la pesantezza; il luogo di un corpo è il recipiente
ideale in cui esso è contenuto ed appartiene al corpo contenente; il
tempo appartiene a qualsiasi movimento come suo attributo ed è de-
finito « la misura del movimento secondo il prima ed il poi »; pesan-
tezza e leggerezza sono qualità inerenti ai corpi al modo stesso del
colore; cosi il basso e l'alto sono determinazioni che ineriscono stabil-
mente allo spazio e danno concretezza al movimento dei corpi, alle
loro qualità di leggerezza o pesantezza; la stessa generale concre-
tezza della fisica aristotelica comporta la negazione del vuoto che, per
essere senza determinazioni, coincide col nulla e dell'infinito che non
esiste perché mancante di qualità.
:!\egli ultimi quattro libri della Fisica Aristotele studia le varie for-

112

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§ 4 LA FISICA

me del movimento e i problemi generali che le riguardano. Nascita


e morte d'una sostanza non sono propriamente movimento, in quanto
in esse non si verifica il passaggio da un contrario all'altro (infatti nes-
suna sostanza ammette un suo contrario) e si ha una certa soluzione
di continuità. Negli altri casi, il movimento si verifica fra due con-
trari; per es., può diventare nero qualche cosa che era bianco, può
cadere verso il basso una pktra che era in alto; inoltre il movimento
si verifica sempre all'interno dello stesso genere, da un colore ad un
colore, da una grandàza ad una grandezza. Ciò che accomuna l'ac-
crescimento o diminuzione, l'alterazione e il movimento locale è che
essi comportano l'unione di materia e forma; ogni forma comporta
un'essenza, cioè un nesso organico di caratteri; le varie forme sono di
grado piu o meno elevato a seconda della maggiore o ininore ricchezza
delle essenze che in ciascuna sono unificate; per stabilire il rapporto
fra un individuo e le varie forme, basta considerare nelle essenze di
quali forme esso sia compreso; per es., Achille come figlio di Peleo
è compreso nella forma di Peleo e, al di là di esso, nella forma di
uomo, e, al di là di questa, nella forma di vivente; ognuna di queste
tre forme entra a costituire l'individuo Achille, ma la forma piu vicina
è quella del padre, mentre la forma dell'uomo è quella piu lontana.
La natura risulta appunto di una gerarchia di· forme che entrano come
principii attivi nella costituzione degli individui. Ciò spiega anche come
un composto di materia e forma, da cui risulta un individuo, possa
essere punto di partenza di un nuovo movimento, verso una forina
nella cui essenza il composto è compreso. L'ordine gerarchico della
natura pone cosi la questione, da un lato, cli una materia che coincida
con il gradino piu basso del divenire e dall'altra di una forma che coin-
cida con il vertice della gerarchia. La materia però non si può consi-
derare indipendentemente da una forma; considerata per se stessa, la
materia è nulla perché senza determinazioni; quella dunque che Ari-
stotele chiama materia prima non è che il limite ideale, in basso, della
gerarchia degli esseri naturali; verso l'alto, tale gerarchia deve metter
capo ad un punto fermo che sia la causa di tutto il movimento; se
ogni movimento presuppone la forma quale termine finale e principio
del movimento, ciò varrà anche nei confronti dei gradi piu elevati
nella scala degli esseri; si dovrà allora giungere ad una causa prima o

llJ

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V.

motore immobile, quale forma suprema, del tutto in atto, degli esseri
naturali; non si potrà trattare di un motore che a sua volta sia mosso
da altro perché in tal caso esso ci rinvierebbe appunto a questo altro.
Mentre dunque negli esseri della natura la forma non può essere che
interna ali 'individuo che diviene, nel caso della prima causa o motore
immobile, non può essere che esterno all'insieme della natura. Il prin-
cipio della natura e del movimento che in essa si verifica non può es-
sere, dunque, che separato dalla natura e pertanto fuori dell'ambito
della scienza fisica in senso stretto; infatti la scienza fisica è bensl scienza
delle forme, ma non in quanto separate, bensl in quanto principii che,
con la materia, costituiscono gli esseri individuali concreti. Ma, prima
di inoltrarci cosi verso la metafisica, dobbiamo considerare la sistema-
zione che Aristotele ha dato ad alcuni campi particolari della realtà
fisica.
Anzitutto egli divide l'universo in due parti nettamente opposte fra
loro e pone fra mondo celeste e mondo terrestre quel divario che sa-
rebbe stato tolto di mezzo soltanto con l'astronomia moderna. Regione
celeste è quella che si estende dal primo cielo, quello delle stelle fisse,
fino alla luna che è l'astro piu vicino alla terra; regione terrestre è
quella sub-lunare che ha al suo centro la terra. Il contrasto fra cielo e
terra è anzitutto un contrasto fra l'elemento di cui son formati i corpi
celesti e i quattro elementi tradizionali di cui son fatti i corpi terrestri;
in seco'ldo luogo vi è anche un contrasto di movimenti. Il movimento
può essere retto, circolare o misto di entrambi; i movimenti retto e
circolare sono semplici cd appartengono ai corpi semplici, mentre il
movimento misto appartiene ai corpi composti; ai corpi semplici della
sfera terrestre appartiene il moto retto all'insil o all'ingiu; ma il moto
circolare è piu perfetto del moto in linea retta perché « può essere eter-
no »; ora il moto piu perfetto deve appartenere ad un corpo piu per-
fetto; ci sarà dunque una sostanza " piu divina " delle quattro sostanze
primordiali: l'etere; e di essa risulterà costituito il cielo. Anche la sfe-
ricità del cielo è dedotta dalla maggior perfezione della figura sferica
rispetta alle altre figure solide. Per spiegare i movimenti delle stelle
e dei pianeti, Aristotele fa ricorso al modello geometrico escogitato da
Eudosso, ma lo trasforma in un vero e proprio sistema fisico; si preoc-
cupò quindi, oltre che della spiegazione dei movimenti dei singoli

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s4 LA FISICA

astri, anche del fatto che un sistema di sfere relativo ad uno dci pianeti
non disturbasse il sistema di sfere del pianeta immediatamente sotto-
stante; intercalò quindi fra un sistema e laltro delle nuove sfere, por-
tandone il numero da ventisette a cinquantacinque. Le sfere celesti si
muovono non perché siano animate, ma perché ricevono il movimento
dal motore immobile.
La terra sta ferma ed occupa il centro dell'universo; i corpi pesanti
cadono verso il centro della terra in quanto esso coincide con il cen-
tro dell' universo; la terra è rotonda e « di non grande mole »; gli
esseri del mondo sub-lunare sono soggetti a generazione e corru-
zione; inoltre la resistenza offerta dalla materia comporta che molti
eventi del mondo terrestre siano accidentali e fortuiti; la perfezione
del motore immobile, se si fa sentire piu direttamente sul mondo
celeste, esercita soltanto un influsso indebolito ed indiretto sul mondo
terrestre. La dottrina aristotelica dei primi elementi obbedisce al
criterio dell'opposizione fra qualità originarie largamente seguito dai
medici e dai fisici anteriori; infatti essa parte dalle quattro qualità del
caldo e del freddo, del secco e dell'umido; esse sono opposte, a due a
due; escludendo le combinazioni dirette fra opposti, si possono ottenere
le seguenti mescolanze: secco-freddo, freddo-umido, umido-caldo, caldo.
secco; ognuna di queste combinazioni di qualità contraddistingue un
elemento; infatti il fuoco è calde>!secco, la terra è secco-freddo, l'aria è
umido-caldo, l'acqua è freddo-umido; basta che una delle due proprietà
che contraddistinguono un elemento trapassi nella contraria, perché si
abbia il passaggio da un elemento ad un altro; ad es., se il secco-freddo
della terra, si trasforma in freddo-umido, si ha il passaggio dalla terra
ali' acqua; del pari l'acqua può trasformarsi in aria e l'aria in fuoco; e
poiché il caldo contenuto nel fuoco può trapassare nel suo contrario,
ossia nel freddo, potrà aversi anche il passaggio dal fuoco alla terra;
si ha cosi un circolo incessante di trasformazioni che investe la sfera
terrestre in tutta la sua estensione. I fenomeni che. Aristotele ha raccolti
sotto la denominazione comune di meteore sono mescolanze dalla strut-
tura particolarmente instabile e che si distruggono rapidamente; ·esse
comprendono: i venti, le nubi, la pioggia, la neve, la grandine, il
ghiaccio, I' arcobaleno, il lampo, il tuono, le stelle cadenti, le comete,
la via Lattea, ccc.; le meteore hanno origine dal contrasto fra le esala-

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V

zioni secche che emanano dalla terra e quelle umide che provengono
dall'acqua che ricopre la terra. Ci sono però anche mescolanze piu sta-
bili, che Aristotele analizza in relazione alle qualità originarie; il duro
e il molle, il rarefatto ed il compatto, il liscio ed il poroso derivano, a
suo giudizio, dall'umido e dal secco; «consta dunque, conclude, che
tutte le restanti differenze si riducono alle prime quattro e che queste
non si possono ridurre ulteriormente di numero ». I corpi inorganici
derivano specialmente dalla terra e dall'acqua, mentre le strutture orga-
niche, cioè le parti dei diversi organi delle piante e degli animali come
la carne, il sangue, le ossa, ecc. hanno una derivazione piu complessa;
anche tutti i processi che hanno riferimento ai corpi organici, come ad
es. la digestione, la coagulazione, la putrefazione, vengono spiegati da
Aristotele con l' azione del caldo e del freddo. Platone aveva molto insi-
stito sulla " misura " matematica presente nella natura, anche se essa
fungeva piu da fine intrinseco dei fatti che da criterio per la loro misu-
razione; Aristotele insiste per contro sulla teorizzazione di qualità oppo-
ste e sulla loro antitesi assoluta.

5. La vita, I' anima e la conoscenza.

Un capitolo a sé della fisica aristotelica è quello che studia la vita


e l'anima che ne è il principio; esso ha il suo centro nel trattato Sul-
l'anima e comprende sia il gruppo degli scritti dedicati agli animali, sia
il complesso dei cosidetti Parva naturalia. Si è visto che i tessuti dei
corpi organici d~rivano dalle qualità originarie; i tessuti a loro volta
hanno la loro piena realizzazione nella formazione di organi, il cui
scopo è di adempiere alle funzioni rispettive. Però un corpo compo-
sto di organi è solo la materia, cioè la potenza della vita; perché esso
viva realmente bisogna che venga determinato da un principio interno,
che è appunto l'anima; l'anima è per Aristotele la forma di. un corpo
naturale che ha la vita in potenza; non è né qualcosa di separato dal
corpo, né un corpo; è piuttosto la forma in forza della quale un corpo
fornito di organi e quindi capace di vivere è realmente un essere vi-
vente. Si comprende bene, allora, perché Aristotele non si occupi né
:li una pretesa esistenza dell'anima prima della sua unione col corpo,

Baruch_in_libris
§ 5 LA VITA, L'ANIMA E LA CONOSCENZA

né d'una vita futura dell'anima sciolta completamente dal corpo.


Come fine interno del corpo, !' anima ne è la causa formale, finale e
motrice. Ogni essere vive.ne ha la sua anima; tuttavia le varie anim::
si possono anche considerare gerarchicamente in relazione alle fun-
zioni di cui sono la realizzazione. Il grado piu basso della vita è
quello che comprende le funzioni nutritiva e generativa, che apparten-
gono a tutti gli esseri viventi; ad un grado piu elevato, le funzioni
nutritiva e generativa si integrano con le funzioni sensitiva, appetitiva
e motrice; quest'insieme di funzioni contraddistingue tutti gli ani-
mali che sono appunto in grado, oltre che di nutrirsi e di riprodursi
(come le piante), anche di percepire le qualitJ. delle cose, di provare
desideri ed avversioni e di spostarsi da un luogo all'altro. Ad un grado
piu elevato si colloca la funzione intellettiva che è propria soltanto
dcli' uomo. Aristotele ha analizzato attentamente le varie funzioni
della vita vegetativa ed animale; ha descritto, per es., il processo della
nutrizione studiando lanatomia dei tessuti e degli organi interessati;
egli ha fatto anche un'accurata classificazione degli animali; la bio-
logia moderna ha dovuto lottare, nel secolo xv11, contro alcune dot-
trine aristoteliche errate, come, per es., la dottrina che attribuiva ai
polmoni il compito di raffreddare il sangue o la dottrina che faceva
dipendere la sensitività dal cuore anziché dal cervello; ciò non toglie
però che anche questa .parte della dottrina aristotelica sia formata, ol-
tre che di costruzioni aprioristiche, di elementi tratti dalla diretta
osservazione; essa denota inoltre alcuni atteggiamenti generali di
un certo rilievo, come la convinzione che non ci sia aspetto per
quanto umile delle funzioni vitali che non sia degno di essere stu-
diato, o la persuasione che fra il inondo degli animali e quello dcl-
i' uomo vi sia anche una notevole connessione; in ciò Aristotele è
l'erede dell'antico spirito naturalistico.
Nell'analisi delle funzioni dell'anima Aristotele dedica particolare
attenzione allo studio della sensazione e dell'intelletto. La sensazione è
un processo che interessa sia l'azione delle qualità sensibili sull'organo
di senso, sia anche un'attività esercitata dall'organo; il soggetto sen-
ziente, da un lato, passa dalla potenza ali' atto del sentire in forza di
un sensibile esterno, rispetto al quale è passivo; è quindi impossibile
attribuire la sensazione soltanto al fattore soggettivo; d'altra parte, però,

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V

ciò che può essere sentito non di viene di fatto oggetto di sensazione
(cioè non passa dalla potenza all'atto dell'esser sentito) se non in forza
dell'atto del soggetto senziente; e pertanto nemmeno il solo fattore
oggativo esterno può bastare a spiegare la sensazione; ciò si chiarisce
osservando, per es., come una pianta, pur subendo l' azione del calore
esterno, non ne abbja affatto la sensazione; la sensazione comporta
quindi, ad un tempo, l'atto del soggetto senziente e dell'oggetto sentito.
Che la sensazione comporti un processo di attuazione anche del sog-
getto senziente appare dal fatto che esso riceve SI l' impronta dell' og-
getto, ma limitatamente alla sua forma e con esclusione della materia;
infatti I' occhio percepisce il colore di un oggetto al modo stesso in cui
la cera riceve l'impronta del sigillo; e come il metallo di cui il sigillo
è fatto non passa nell'impronta, cosI il colore ndla sua materialità non
passa nell' occhio che lo vede. Aristotele ha fissato tale dottrina della
sensazione affermando che essa è « l' atto comune del senziente e del
sensibile »; egli distingue cinque specie di sensazioni e, rispettiva-
mente, di soggetti ~nsibili; il tatto ha come suo oggetto le qualità
elementari dei corpi, cioè caldo e freddo, secco e umido ed ha come
sensorio (cioè come organo di senso) la regione del cuore; il gusto «è
un determinato genere di tatto» e «l'odorato è in analogia con il gu-
sto», anche se «quale sia l'essenza dell'odore non risulta COSI evi-
dente come per il suono e il colore, perché noi possediamo questo senso
in grado non acuto>>. Visibili sono i colori che non si percepiscono
senza luce; l'atto visivo si determina quando il colore produce una
azione nel mezzo, per cui se tale azione si producesse nel vuoto il
colore non si vedrebbe affatto; il suono poi non è « urto di enti ca-
suali », ma è prodotto da un corpo che muova una « compatta unità
d'aria che si estenda continua fino ad un organo uditivo». Il sensi-
bile "proprio" di ogni senso (ad es. il colore per la vista, il suono
per l'udito, ecc.) viene colto senza alcuna possibilità di errore; l' er-
rore nasce piuttosto quando si attribuisce il sensibile proprio a qualche
corpo, quando cioè si oltrepassa l'ambito della stessa sensazione. Ol-
tre ai sensibili " propri '', vi sono però dei sensibili " comuni ", ossia
delle qualità che possono essere percepite da tutti indistintamente i
sensi e che, comunque, non sono percepite da alcun senso in forma
esclusiva; tali sono, ad es., il moto e la quiete, l'estensione e la figura.

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§ 5 LA VITA, L'ANIMA E LA CONOSCENZA

Aristotele pone, oltre ai cinque sensi, anche un " senso comune " che
ha la funzione sia di cogliere i sensibili comuni, sia di distinguere e
di mettere in relazione i sensibili propri dei vari sensi (ad es. un sapore
con un colore), sia infine di realizzare una certa unità sperimentale
della sensibilità.
Strettamente legata alla sensazione· è la immaginazione (cpavraa(a)
anche se nel passaggio dall'una all'altra si ha un affievolirsi della per-
cezione. Quando, nella sensazione, lo stimolo esterno ha cessato di agire,
il suo effetto si prolunga, anche se indebolito, nell'organo della sensa-
zione speciale ed anche in quello del senso comune; si ha cosi l' imma-
gine; le immagini sono in relazione fra loro e si rafforzano quando .sono
il riflesso indebolito di sensazioni simili; l'immaginazione non fa che
operare su questo mondo di imm~gini accumulate in noi; la memoria
è sempre legata all' immagine, alla quale tuttavia essa aggiunge la no-
zione del tempo; la memoria non è pertanto che il riferimento di
un'immagine al passato o al futuro (nel primo caso diviene ricordo, nel
secondo previsione).
L'importanza delle immagini risulta anche dalla dottrina aristote-
lica per cui esse sono la materia su cui si esercita il pensiero; e qui ·si
pone il problema dell'intelletto e del procedimento da esso seguito per
conseguire la conoscenza nella sua forma piu elevata. Questa è la cono-
scenza delle essenze, semplici ed indivisibili; esse sono l'oggetto proprio
dell'intelletto, al modo stesso in cui il colore è l'oggetto proprio della
vista e, in genere, i sensibili propri sono oggetto diretto delle rispettive
funzioni sensibili; ma anche tale conoscenza è un processo, anch'essa
pertanto implica un passaggio dalla potenza ali' atto; il passaggio in
questione è condizionato anzitutto dall'esistenza delle immagini sensi-
bili, sulle quali si esercita lattività dell'intelletto; come sappiamo, la
sensazione ha già liberato la forma sensibile dalla materia; ma la forma
sensibile non è ancora la forma intellegibile, che costituisce il punto di
arrivo della conoscenza dell'intelletto; le forme o essenze divengono in-
fatti oggetto dell'intelletto in quanto scevre di materia e sciolte da tutti
i caratteri particolari che sono loro congiunti nell'ambito della sensi-
bilità; bisogna appunto vedere come possa avvenire questo processo di
astrazione, mediante il quale riusciamo ad isolare gli oggetti puri della
scienza, nei loro caratteri universali e necessari. Non si può certo dire

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V

che tali forme o essenze siano già presenti in atto nella forma sensibile,
cioè nel!' immagine; quest'ultima è in potenza rispetto alle forme pure,
nel senso che il processo di astrazione che in essa si è in parte già rea-
lizzato, in un primo grado, si completa nel grado di astrazione piu
elevato. Diremo allora che \'intelletto comprende già in atto le essenze
in questione? L'intelletto, in verità, è a sua volta in potenza rispetto ad
esse e non può passare ali' atto se non in forza del!' azione su di esso
esercitata dalle forme medesime; l'intelletto è come una tavoletta su
cui non sta scritto nulla anche se essa è pronta ad accogliere tutti i ca-
ratteri che vi vorremo scrivere; l'intelletto, insomma, non è piu che il
luogo potenziale di tutte le forme, che, appunto per questo, non è da
esse determinato in atto. Di qui la difficoltà: come potrà un intelletto
che è in potenza rispetto alle forme (e che, appunto per questo. si
chiama possibile o passivo) astrarre dalle immagini sensibili le forme o
essenze pure che anche in queste sono contenute solo in potenza? La
forma è ciò che spiega, come fine, il movimento della materia; se vien
meno la forma, non ha piu ragione di essere nemmeno il movimento;
se le forme oggetto della scienza non esistessero in atto, non si potrebbe
comprendere né il passaggio dalle forme sensibili ali' astrazione intellet-
tiva, né quello in forza del quale l'intelletto si trasforma da semplice
potenza delle forme in possessore effettivo di esse.
Come si vede, le forme o essenze pure, intese come oggetti eterna-
mente in atto sono simili alle idee di Platone; Aristotele non intende
giungere ad una trascendenza cos1 rigida degli oggetti dell'intelletto;
per questo egli pone, al di sopra dell'intelletto possibile, che diviene le
varie forme, un altro intelletto, che chiama agente (voiiç :n:OtT]tut6ç);
esso è sempre in atto, non subisce intervalli, né modificazioni ed è pro-
duttivo delle forme. Come nel caso della gerarchia delle cause natu-
rali, si giunge di necessità ad un primo motore immobile che tra-
scende lo stesso ordine naturale in quanto ne costituisce il confine su-
periore, cosi nella gerarchia conoscitiva che va dalla sensazione alla
intellezione, si giunge di necessità ad un intelletto in atto che, per
costituire il confine superiore del processo conoscitivo, non può porsi
che esternamente ad esso; questo intelletto, di natura divina, non è
individuale, non appartiene, come fine interno, ad alcun organismo;
è bens1 immortale ed eterno, ma non comporta la immortalità di al-

120

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§ 5 LA VITA, L'ANIMA E LA CONOSCENZA

cun organismo individuale. Anche questa difficoltà, come quella nata


a proposito del motore immobile, trova se non una soluzione, almeno
un chiarimento nella metafisica aristotelica.

6. La metafisica.
L'opera di Aristotele cui il catalogo di Andronico assegnò il _nome
di Metafisica - con riferimento al posto occupato dall'opera stessa,
cioè " dopo i libri di fisica " - è un insieme non organico di scritti
che hanno per argomento quello che lo Stagirita chiamò " filosofia
prima "; dei quattordici libri che formano l' opera, il 11 è da conside-
rare la continuazione del I libro della Fisica e il v forma uno scritto
a sé sui termini tecnici della filosofia; le parti piu unitarie dell'opera
sono costituite dai libri u, m, iv e VI che svolgono una introduzione
generale alla filosofia prima, mentre i libri vn, vm e 1x svolgono la
dottrina della sostanza e della potenza e del!' atto e infine il libro xn
comprende la trattazione su Dio.
La filosofia prima è per Aristotele « la scienza del!' essere in quanto
essere, ossia dei_ principii e delle cause dell'essere e dei suoi attributi
essenziali». I significati del termine "essere" sono però molteplici; il
principale di essi è quello di sostanza, per cui essere significa l'essenza
unita alla materia e determinata come individuo concreto; compito
della filosofia prima, ossia della scienza piu generale che si possa avere,
sarà allora quello di determinare i caratteri comuni a tutte le sostanze;
questi caratteri, però, non vanno presi per delle entità aventi valore
per se stesse, indipendentemente appunto dalle sostanze in cui diven-
gono concrete; l'essere in quanto essere non è dunque il genere su-
premo del reale in quanto reale per se stesso; reali sono prima di tutto
le sostanze, cioè gli individui concreti, di cui si predicano tutti i ge-
neri e tutte le specie, ivi compreso lessere come genere sommo. Non
è dunque dal genere sommo, scambiato per realtà, che derivano gli
altri esseri, ma è negli esseri individui che hanno la propria base tutte
le essenze. Come si vede, su questo punto Aristotele non va d'accordo
con Platone; pur convenendo con lui e contro il naturalismo che gli
esseri concreti non si spiegano con lindicazione soltanto della materia
che li compone e che si deve pertanto far ricorso anche alla forma o

121

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V

essenza, Aristotele non segue Platone nella costruzione di una scienza


delle essenze che non tenga conto del loro condizionamento materiale
e del loro legarne con gli individui concreti. Per questo, fatto un ri-
chiamo ai primi principii o assiomi della scienza in genere, senza am-
mettere i quali non sarebbe possibile parlare dell'essere in alcun senso
(si tratta dei principii per cui non si può affermare e negare nello
stesso tempo, non si può dire che una cosa è e non è o che uno stesso
attributo appartiene e non appartiene allo stesso soggetto nello stesso
tempo e sotto lo stesso riguardo), Aristotele si trova nella necessità di
svolgere una critica sistematica della dottrina platonica delle idee.
Platon!= era giunto a tale dottrina muovendo dal rilievo che soltanto
l'universale può essere oggetto di scienza, giacché solo l'universale
presenta i caratteri della stabilità e della necessità senza dei quali la
scienza nori sarebbe tale; gli esseri individui, per essere soggetti al
di\ enire, non possono, a suo giudizio, dar luogo a scienza. Anche
Aristotele è dell'avviso che solo luniversale è oggetto di scienza, ma
ritiene che Platone abbia errato nel porre le idee come separate dal
mondo sensibile. Anzitutto, se le idee sono l'unità del molteplice che
si riscontra nel!' esperienza, si potrà avere l'unità di molte sostanze,
come nell'idea di uomo, o l'unità di molte qualità come nell'idea
di bellezza; si dica lo stesso per la quantità e per le altre categorie; in
tal modo, osserva Aristotele, si fa esistere come sostanza anche l'idea
di ciò che non è sostanza, per es. si conferisce una realtà per ·sé alla
bellezza che, nel reale concreto, non esiste affatto per sé, ma inerisce
ad una realtà. In secondo luogo, se diciamo, per es., che l'uomo è
animale razionale, e se consideriamo che, secondo la dottrina plato-
nica, dovrebbero aversi sia l'idea di animalità che quella di razio-
nalità, dovren:imo concludere che l'uomo che è una realtà unitaria ha
in sé due sostanze, cioè la realtà per sé dell'animalità e quella della
razionalità. Allo stesso modo, se l'idea di animale è una unità, in
quanto realtà per sé, dovrebbe trovarsi tanto nell'animale razionale
quanto in quello irrazionale, cioè dovrebbe trovarsi nei contrari; allora
o i contrari, trovandosi nella stessa realtà unitaria, non sono piu con-
trari, oppure la realtà unitaria, trovandosi in essi, non è piu Umtaria.
Aristotele ha sviluppato anche l'argomento del "terzo uomo" che,
come si è visto, fu attentamente considerato anche da Platone : non

133

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§ 6 LA METAFISICA

ha nemmeno mancato di rilevare che le idee, essendo immr:bili, non


possono essere causa di movimento, che non possono agire sulle cose
essendo da esse separate, che è sempre e soltanto il particolare: che
produce il particolare, come è sempre e soltanto un uomo che gener:i
un altro uomo. Le idee, in conclusione, proprio perché non sono so-
stanze, non spiegano veramente la realtà e non danno quindi luogJ a
vera scienza.
Come superare allora la difficoltà per cui da un lato solo l'uni-
versale è oggetto di scienza e dall'altro solo l'individuo concreto è
reale? Aristotele risponde che, se l'essere concreto risulta di materia
e forma, di potenza ed atto e se senza questi elementi non si spiega
il suo divenire, non bisogna d'altra parte lasciarsi ingannare dal puntl>
di vista del divenire ed estenderlo anche alla fiìosofia prima che deve
cogliere l'essere in quanto essere. Non bisogna specialmente ritenere
che la forma, poiché si congiunge con la materia, sia un semplice ri-
sultato della materia; lo sviluppo del reale non va dall'indeterminato
al determinato; infatti il procedimento dalla potenza all'atto non si
spiega se non mediante la presenza dell'atto, come lo sviluppo dalla
materia alla forma non si spiega che mediante la presenza della forma.
Il mondo non deriva dalla notte, dal caos, dall'indeterminato; la base
del reale è, per contro, la determinaziono, la forma, l'attualità. Ora
il punto di vista della filosofia prima è quello della scienza dell'essere,
non già prospettato come operante nella materia, bens1 prospettato come
e:ssere, cioè come determinazione originaria e data. Da questo punto
di vista, è ovvio che l'individuo concreto sia visto come forma, come
determinazione, come attualità. La forma è ciò che fa s1 che un indi-
viduo continui ad essere quello che era prima, nonostante i muta·
menti intervenuti; tale forma non cresce e non diminuisce col cre-
scere o col mutare dell'individuo; essa non è suscettibile di piu o
di meno; essa dunque non ammette divenire; quando, per es. si
costruisce una sfera di bronzo, la sua forma, che è la forma sferica,
non subisce le vicende della nascita e del divenire; quello che nasce
è appunto la sfera di bronzo, non la sfera; cosi quando nasce un
bambino, non è la forma umana che nasce, ma quella particolare
unione di materia e forma. Il principio piu rilevante della filosofia
prima è appunto la precedenza dell'atto sulla potenza, della forma

UJ

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V

sulla materia. In conclusione, per Aristotele reale è solo l'individuo


concreto, ma ciò che ne fa la sostanza è la forma; la forma, anche se
non esiste separatamente dall'individuo, può essere oggetto di scienza
in quanto viene considerata in sé stessa. Le forme vengono colte dalla
mente nella loro autonomia dagli individui, anche se non bisogna
dimenticare che esse sono reali soltanto negli individui; che esse siano
reali soltanto negli individui non vuol dire però che esse abbiano
un'origine empirica; esse sono originarie e in quanto tali vengono
considerate dalla filosofia prima.
Una difficoltà, tuttavia, permane nel sistema aristotelico; è quella
già affiorata riguardo al primo motore immobile che, per spiegare
veramente il divenire che si riscontra nel mondo, deve porsi fuori di
esso; è la stessa difficoltà che si può cogliere nell'affermazione, testé
accennata, per cui la forma e l'atto non sono risultato di un processo,
ma sono originari. La difficoltà si può formulare propriamente cosi:
se la forma, l'atto, il motore immobile, sono dati originari, non sa-
ranno anche, di necessità, separati dal mondo? Aristotele ha risposto al
problema con la sua dottrina di Dio. Il motore dei cieli, si è visto,
non può essere che in atto; sarà quindi del tutto privo di materia,
cioè di potenzialità, in quanto punto finale e fermo del divenire, non in
divenire esso stesso; ora un essere del tutto privo di materia, potenza
e divenire, non può essere che pensiero ( VOTJO"Lç ); a questa conclusione
Aristotele arriva per analogia da quella condizione che, nell'uomo,
egli ritiene la piu perfetta: ossia la condizione dell'uomo che possiede la
scienza, di cui ha conoscenza definitiva ed immutabile; è vero che, in
noi, molti limiti intervengono a rendere meno perfetta la condizione
indicata : infatti la vita del corpo ci _distoglie spesso dalla contempla-
zione della verità, che non riusciamo a realizzare che in modo parziale;
ma la stessa condizione umana, ipoteticamente liberata da tutti i suoi
limiti, costituisce per Aristotele la condizione eterna e perfetta di Dio.
In Dio però non c'è alcuna traccia delle operazioni intellettuali che
l'uomo deve compiere per intendere; esse comportano un divenire che
deve essere escluso dalla realtà di Dio; e poiché in Dio non si può
ammettere passaggio da potenza ad atto, bisognerà concludere che ciò
che Dio conosce, l'oggetto del suo pensare, non può essere altro che
se stesso; Dio è pensiero di pensiero ( VOT]GLç vo~aEroç ). Proprio perché

12'4

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§ 6 LA METAFISICA

è punto finale del mondo, Dio non è demiurgo, non ordina il mondo,
di cui non ha nemmeno conoscenza; egli è soltanto il fine verso il
quale il mondo tende, ed anche il movimento che imprime al mondo
si spiega come tendenza ·del mondo ad imitare l'immutabilità e la
immobilità divina. Dio non è la sostanza di tutte le cose, egli non ha
rispetto agli esseri reali la stessa funzione che avevano le idee di
Platone; Dio è piuttosto una sostanza per sé, la prima delle sostanze,
in quanto del tutto priva di materia può realizzare in pieno la forma
e l'attualità; Dio garantisce, cosi, l'unità finale del mondo, ma sempre
sulla base d'una concezione del reale inteso come formato di individui
concreti.
Si potrebbe dire che la dottrina di Dio giova a concludere, come
limite ideale, il sistema aristotelico del mondo; ma la realtà di Dio
non interviene, per Aristotele, se non marginalmente nella stessa scienza
della natura; lo studio degli esseri, delle sostanze, va condotto avanti
tenendo conto di quello che piu direttamente è a contatto dell'uomo;
senza dire che la morale e la politica non fanno alcun ricorso alla
dottrina di Dio. È dunque giusto rilevare che Aristotele, ponendo Dio
separato dal mondo, come sostanza a sé, ha in certa misura riammesso
l'istanza platonica delle idee; ma è anche vero che mentre per Platone
le idee sono realtà supreme regolatrici di tutto il reale e di tutti i suoi
aspetti, per Aristotele Dio ha un compito piu limitato e circoscritto,
che lascia sussistere, quindi, nella loro autonomia, i singoli esseri
concreti nonché la scienza che li concerne. Il procedimento analitico
della filosofia aristotelica ha quindi conseguito, come suo piu impor-
tante risultato, quello di sciogliere la gerarchia platonica di mondo e
sopra mondo, per ridare al mondo maggiore autonomia e rilievo.

7. L'etica.
Allo studio della morale non si può richiedere, secondo Aristotele,
rigore scientifico sia perché i ragionamenti intorno alle azioni sono
piu veraci quanto piu sono particolari, mentre quelli generali sono
"vuoti", sia perché la condotta non dipende certo solo dalla cono-
scenza. « Ogni arte cd ogni ricerca, ogni azione come ogni proposito,

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V

scrive lo Stagirita, pare che miri ad un bene» il quale è pertanto


«il fine dell'azione»; ma vi sono molte azioni, quindi anche molti
fini e molti beni; si potrebbe parlare di bene supremo per quel fine
delle nostre azioni che. non vogliamo in vista di altro, ma per se
stesso; spesso lo si chiama "felicità" (eùl'ìmµov(u); «ma intorno
a ciò che sia felicità, c'è discordia». Infatti sembra che gli uomini
concepiscano il bene e la felicità « a seconda del loro genere di vita »;
i generi di vita piu notevoli sono tre: quello « della massa e delle
persone piu rozze che prediligono una vita di godimento », quello
di chi si dedica alla politica e infine il contemplativo che mira alla
ricerca scientifica; il fine dei primi è il piacere, quello dei secondi
l'onore, quello dei terzi il sapere. Per chiarire il contrasto che ne nasce,
Aristotele rileva che «come per chiunque ha un lavoro ed un'attività
sembra che il bene e la perfezione risiedano nella sua opera propria,
cosi può sembrare anche per l'uomo, se esiste qualche opera che sia
a lui propria». Quale sarà l'attività propria dell'uomo? «Non già
il vivere, giacché questo è comune anche alle piante, mentre invece si
ricerca qualche cosa che sia proprio dell'uomo; bisogna dunque esclu-
dere la nutrizione e la crescita; segue la sensazione, ma anche questa
sembra essere comune al cavallo, al bue e ad ogni animale; resta
dunque una vita attiva propria di un essere razionale; sicché dell'uomo
sarà proprio un dato genere di vita costituita dall'attività dell'anima
e dalle azioni razionali e tale attività sarà compiuta secondo virru,
cioè secondo il fine proprio della stessa attività». Il valore di un
essere si misura insomma in relazione alla perfezione o efficacia con
cui in esso si compie la funzione che gli è propria. Poiché nell'uomo
si deve distinguere, come sua propria, l'attività della ragione in quanto
ragiona e in quanto governa le passioni, si avranno due specie di
virru; quelle etiche saranno realizzate dalla ragione nella disciplina
delle passioni e quelle dianoetiche nell'esercizio che la ragione fa di
se stessa nel suo campo proprio e cioè nella conoscenza.
Premesso che solo con l'abitudine si acquista un abito virtuoso,
Aristotele "sostiene che le virtu etiche realizzano nelle azioni un giusto
mezzo; infatti «le azioni sono soggette a divenire imperfette o per
difetto o per eccesso; per es., sia gli esercizi eccessivi che gli scarsi
esercizi nuocciono alla forza, il bere cd il mangiare che siano sovrab-
126

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§ 7

bondanti o deficienti rovinano la salute; cosi avviene anche per il


coraggio e le altre virtu; infatti chi fugge e teme ogni cosa e nulla
affronta diviene timido, chi invece non teme nulla ma va contro
ogni cosa diviene temerario». Tale via di mezzo non si può pere
fissare per tutti con rigore matematico; il giusto mezzo va piuttosto
stabilito «in relazione a ciascuno»: «del timore, dell'ardire, del
desiderio, dell'ira v'è un troppo e un troppo poco ed entrambi non
vanno bene; ma se proviamo quelle passioni quando si deve, in
ciò che si deve, verso chi si deve, allo scopo e nel modo che si
deve, allora saremo nel giusto mezzo che è proprio ddla virtu »;
cosi « riguardo alle paure e agli ardimenti, la via di mezzo è· il co-
raggio; riguardo ai piaceri ed ai dolori, medietà è la moderazione;
riguardo al dare e ricevere danari medietà è la generosità, mentre
eccesso e difetto sono la prodigalità e l'avarizia». Le principali virtu
etiche sono appunto il coraggio, la moderazione, la generosità, la
magnificenza, la mansuetudine; particolare attenzione Aristotele dedica
alla giustizia che non intende però alla maniera di Platone come
regola stessa della virtu; essa riguarda piuttosto la distribuzione di
onori e ricchezze fra i cittadini, il rispetto dei contratti, la proibizione
degli atti di violenza e· di arbitrio; l'eguaglianza che la giustizia tende
ad affermare in questi casi è distributiva quando si tratta di ripartire
i beni comuni (è cioè proporzionale al valore e merito di ciascuno),
è invece aritmetica nel diritto contrattuale e nel penale, cioè nell'equi-
librio dei compensi e delle pene. ·
Le virtu dianoetiche riguardano le varie forme di attività con cui
l'anima consegue la verità, cioè l'arte, la scienza, la saggezza, la sa-
pienza e l'intelletto; mentre scienza si ha di ciò «che non può essere
diversamente da come è l>, l'arte è lo studio teorico del come possa
prodursi qualcuna delle cose che possono sia esserci che non esserci,
saggezza è « una disposizicne pratica, accompagnata da ragione ve-
race, intorno a ciò che è bene e male per l'uomo», l'intelletto è la
capacità di cogliere i principii della scienza. Quella di tali attività
che si trova direttamente sul piano della pratica è la saggezza che
consiste nella capacità di ben deliberare, ossia di indicare con lo studio
1 mezzi piu adatti a conseguire un determinato fine. La virtu dell"uomo
circa l'uso della ragione per se stessa si riduce quindi, sul piano

Baruch_in_libris
LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V

della pratica, al calcolo dei mezzi in ordine ai fini, condotto con fon-
damento rdzionale e con efficacia.
Intorno alla dibattuta questione del piacere, Aristotele assume una
posizione mediana; non accetta l'ascetismo· di chi dichiara che ogni
piacere è cattivo, come non pone il piacere ad unico principio del-
l'azione. Ogni atto, nel suo realizzarsi, osserva Aristotele, dà luogo
ad un piacere; il piacere accompagna costantemente l'esplicarsi del-
l'attività e il suo pervenire a compimento e, cosi, corona la sua perfe-
zione; il piacere vale pertanto quanto vale l'atto stesso di cui esso
esprime il compimento. Un rilievo tutto particolare Aristotele attri-
buisce, nel quadro delle varie forme dell'attività umana, all'attività
teoretica pura o contemplativa: « Se tra le azioni conformi alle virtU
quelle politiche e quelle di guerra eccellono per grandezza e per
bellezza, scrive, ma sono disagiate e mirano ad un altro fine e non
sono scelte per se stesse, invece l'attività dell'intelletto, essendo con-
templativa, sembra eccellere per dignità e non mirare a nessun altro
fine all'infuori di se stessa e ad avere un proprio piacere perfetto ed
essere autosufficiente, agevole, ininterrotta; e sembra che in tale attività
si trovino tutte le qualità che si attribuiscono all'uomo beato». Sia Pla-
tone che Aristotele hanno in proposito esal.tato l'attività della pura
conoscenza contemplativa, mentre hanno considerato l'azione umana
sempre esposta al fluttuare dell'esperienza ed al tumulto della sensibilità.

8. La politica.
Anche nella politica Aristotele ama, anziché risalire a modelli astratti
al modo del primo Platone, rifarsi alle concrete forme della vita
associata per analizzarne gli elementi e gli sviluppi. Anzitutto il fatto
che piu individui si associno non è una questione di libera scelta, ma
è il risultato di 1,m comportamento secondo natura, ossia è l'esplicarsi
d'una finalità che è intrinseca ai molti. Dapprima « è necessario che si
associno gli esseri che non possono vivere separati l'uno dall'altro,
come la femmina e il maschio a causa della riproduzione»; e si avrà
la famiglia. L'associazione di piu famiglie per realizzare un'utilità
piu complessa dà luogo ai villaggio; l'associazione ben salda di piu
villaggi è la città «che basta a se stessa per lo scopo dell'esistenza e

1:1.8

Baruch_in_libris
s8 LA POLITICA

per conseguire in questa la perfezione». Proprio perché trova nella


famiglia, nel villaggio, nella città il modo di perfezionare se stesso,
«l'uomo è animale per natura socievole» e «colui che fosse estraneo
ad ogni convivenza civile per natura e non per sorte, sarebbe un
essere o al di sopra o al di sotto dell'umanità».
Gli elementi che formano la famiglia sono i rapporti fra padrone e
schiavo, fra marito e moglie, fra padre e figli. Gli schiavi vanno con-
siderati, secondo Aristotele, in relazione alle tecniche che riguardano
l'amministrazione della casa e che hanno bisogno di strumenti per
esplicarsi; come il pilota si serve, per guidare la nave, d'uno stru-
mento inanimato come il timone e di uno animato come la vedetta,
cosi chi amministra la casa si serve di strumenti inanimati come gli
utensili e di strumenti animati come gli schiavi. « Se le spole tes-
sessero da sole o i plettri suonassero da sé, allora né gli imprenditori
avrebbero bisogno di operai, né i padroni di schiavi; sicché lo schiavo
è un operaio che serve all'azione. Chi per natura non appartiene a sé
ma ad un altro, pur essendo uomo, è uno schiavo per natura; ed appar-
tiene ad un altro quell'uomo che, pur essendo uomo, è oggetto di pro-
prietà ». Il criterio da seguire per chiarire i rapporti che formano la
famiglia è quello della funzione che ognuno esercita nella società
familiare; come, nel rapporto fra marito e moglie, l'uno si rivela
superiore e quindi di fatto comanda e l'altra si rivela inferiore e
quindi di fatto obbedisce, cosi gli schiavi che di fatto sono sottoposti,
si rivelano utili e necessari nella loro funzione; «la natura stessa
sembrà voler fare diversi i corpi degli uomini liberi e degli schiavi:
questi ultimi vigorosi per i lavori materiali, quelli invece diritti ed
eleganti, inetti a simili lavori, ma utili per la vita civile ».
Quasi un libro intero della Politica è dedicato alla critica delle
dottrine svolte nella Repubblica di Platone. All'aforisma platonico che
l'unità della città è il sommo dei beni, Aristotele ribatte che la città
«è una somma numerica e qualitativa di individui» che l'unità por-
tata alle estreme conseguenze può comprimere e rovinare, mentre
solo «l'antitesi nell'eguaglianza » può salvarla. Quanto alla proprietà
collettiva dei beni propugnata da Platone, Aristotele osserva che « delle
proprietà comuni ci si prende meno cura, perché ciascuno attende con
maggior impegno ai suoi interessi privati che ai pubblici, ed a questi

129

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V

solo quando hanno attinenza con i suoi interessi privati ». « Se po~


rileva non senza ironia lo Stagirita, la comunanza delle donne e dei
figli dovesse esserci, sarebbe meglio che avesse luogo presso i contadini
che presso quelli che sono chiamati alla custodia della città : infatti,
essendo comuni i figli e le mogli, la concordia verrà meno ed è op-
portuno che i sudditi si trovino in condizione di obbedire, non di
tentare rivoluzioni ». ·
La trattazione piu ampia della Politica è riservata alla discussione
delle varie forme di governo e di costituzione. Esse sono la monarchia,
l'aristocrazia e la politia, secondo che l'autorità è nelle mani di uno,
o di pochi privilegiati o della maggioranza dei cittadini; di ciascuna
delle forme di governo si ha la degenerazione rispettivamente nella
tirannide, nell'oligarchia e nella democrazia; il criterio che differenzia
le forme perfette e quelle degenerate di governo consiste nel fine per
cui sono esercitate; sono perfette le forme di governo quando q11esto
viene esercitato « per la comune utilità »; sono degenerazioni quando il
governo viene gestito « per privato interesse »; infatti « la tirannide è una
monarchia che ha per fine il vantaggio del monarca, l'oligarchia il
vantaggio degli abbienti, la democrazia il vantaggio dei nullatenenti;
ma nessuna di queste mira all'utile comune». Il migliore reggimento
della città si ha, secondo Aristotele, in un contemperamento di ari-
stocrazia e di democrazia, che è poi un equilibrio fra la classe dei
ricchi e quella dei poveri, nel quale nessuna delle due risulti sacrificata
all'altra; il miglior governo sarà dunque quello della città in cui pre-
vale la classe media, che è l'elemento naturale della comunanza civile;
invece « dove gli uni posseggono troppo, gli altri nulla, o si va alla
democrazia estrema o all'oligarchia esclusivistica, o alla tirannide per
gli eccessi compiuti da entrambe le parti»; il popolo migliore è poi
« quello formato di contadini, perché non avendo sovrabbondanza
delle cose di prima necessità attende piu al lavoro che all'esercizio dei
diritti civili », mentre spesso la massa cittadina « va oziando nelle as-
semblee popolari».
Poiché l'intera comunità politica ha un solo fine, «è chiara la
necessità che l'educazione sia una sola cd identica per tutti e che la
cura di essa sia affidata allo stato e non ai privati, come accade ora
che ognuno si prende cura privatamente dei suoi figli e ad essi im-

Baruch_in_libris
§ 8 LA POLlTICA

partisce I'insegnaml!nto che crede; è di pubblico interesse invece che


l'esercizio delle singole attività sia subordinato all'interesse collettivo;
nello stesso tempo non bisogna credere che ogni cittadino sia padrone
assoluto di sé, ma invece che tutti appartengono alla città, essendo
ciascuno parte della città ».

9. La poetica.
Nella trattazione incompleta della Poetica, Aristo~ele muove dal
mettere in rilievo ciò che è comune sia all'epopea come alla tragedia,
alla commedia come alla poesia ditirambica; tutte queste produzioni
letterarie sono " mimèsi o arti di imitazione " anche se esse differi-
scono perché o imitano con mezzi di diverso genere (linguaggio, ar-
monia o ritmo), o imitano cose diverse (i diversi soggetti), o imitano
in maniera diversa (o in forma narrativa, o in forma drammatica). La
poesia è, dunque, essenzialmente imitazione: «l'imitare è un istinto di
natura comune a tutti gli uomini fino dalla fanciullezza; inoltre, es-
sendo naturali in noi non pur la tendenza all'imitazione in genere,
ma anche e piu precisamente la tendenza ad imitare mediante il lin-
guaggio l'armonia e il ritmo, cosi è avvenuto che coloro i quali già
avevano per queste cose, piu degli altri, una loro disposizione naturale,
procedendo poi con una serie di lenti e graduali perfezionamenti, det-
tero origine alla poesia ». La forma di poesia analizzata piu ampia-
mente da Aristotele è la tragedia, che egli definisce « mimèsi di un'azio-
ne seria e compiuta in se stessa, con una certa estensione, in un lin-
guaggio abbellito di varie forme di abbellimenti, in forma drammatica
e non narrativa e mediante una serie di avvenimenti che suscitano
pietà e terrore, che ha per effetto di sollevare e purificare l'animo da sif-
fatte passioni»; l'elemento piu importante della tragedia è il mito, cioè
la composizione della vicenda, o il complesso dei casi che essa rappre-
senta; « il mito, poiché è la imitazione di azione, osserva Aristotele,
deve essere imitazione di un 'unica azione, tale insomma da costituire
un tutto compiuto; e le parti che la compongono devono essere coor-
dinate per modo che, spostandone o sopprimendone una, ne resti come
dislogato e rotto tutto l'insieme». Ufficio del poeta, però, non è quello
di « descrivere cose realmente accadute, ma quali possono in date occa·

IJI

Baruch_in_libris
LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V

sioni accadere, cioè cose le quali siano possibili secondo le leggi della
verosimiglianza o della necessità ». « Lo storico e il poeta, spiega lo
Stagirita, non differiscono perché l'uno scriva in versi e l'altro in prosa;
la storia di Erodoto, per es., potrebbe benissimo esser messa in versi
e anche in versi non sarebbe meno storia di quel che sia senza versi;
la vera differenza è che lo storico descrive fatti realmente accaduti, il
poeta fatti che possono accadere »; perciò « la poesia tende piuttosto
a rappresentare l'universale, la storia il particolare »; si rappresenta
l'universale quando si mostra che «a un individuo di tale o tale na-
tura accade di dire o fare cose di tale o tale natura in corrispondenza
alle leggi della verosimiglianza o della necessità » ; invece si ha il par-
ticolare, quando si dice, ad es., « che cosa fece Alcibiade o che cosa
gli capitò». Un poeta può poetare, però, anche su fatti realmente acca-
duti, perché « anche tra i fatti realmente accaduti niente impedisce
ve ne siano alcuni di tal natura da poter essere concepiti, non come
accaduti realmente, ma quali sarebbe stato possibile o verisimile che
accadessero». Le norme di correttezza che valgono per la poesia non
sono le stesse che valgono per la politica o per la morale, osserva anche
Aristotele; e nel giudicare dell'opera di poesia, bisogna soprattutto rife..
rirsi ad eventuali errori che si verifichino (( dentro i limiti della poe·
tica »; il primo errore « consiste nella incapacità da parte del poeta di
rappresentare un oggetto nel modo che egli si propose di rappresen-
tarlo ».
I caratteri che contraddistinguono, nel suo insieme, la filosofia di
Aristotele sono principalmente due: egli ha anzitutto legato la tratta·
zione filosofica a un vasto complesso di altri settori di studio; cosi il
suo De coelo imposta una trattazione dell'astronomia, gli scritti sugli
animali svolgono un sistema di biologia e di fisiologia; altrettanto si
dica per le osservazioni raccolte da Aristotele intorno alla botanica e
alla embriologia, o per la sua trattazione del movimento. Ognuno di
questi campi di studio viene considerato in connessione con l'insieme
delle conoscenze umane, ma ognuno viene anche visto nella sua par·
ticolarità, nei suoi elementi e sviluppi, nelle sue strutture; si può dire
che, da tale punto di vista, la filosofia di Aristotele si presenti come una
grandiosa sistemazione enciclopedica, cui nessuno era giunto prima di
lui; da molti punti di vista pertanto si è potuto attingere all'opera ari·

13a

Baruch_in_libris
LA POETICA

stotelica nei secoli successivi; ciò ha determinato un influsso che si


è esercitato nei campi piu diversi e nei settori piu lontani del sapere;
si può ben dire che questa sia anche la parte piu caduca del sistema
aristotelico, quella che le scienze moderne sono venute lentamente scal-
zando, anche se l'influsso dello Stagirita giunge in alcune direzioni
fino quasi a raggiungere il nostro tempo. Il secondo carattere da rile-
vare concerne piu propriamente la filosofia di Aristotele; se Platone in-
carna nella storia del pensiero il principio dell'idealismo e del raziona-
lismo, si può dire che Aristotele incarni piuttosto l'indirizzo realistico
ed empiristico; è infatti alla realtà individuale che egli si attiene e,
quando ne penetra le strutture essenziali, non le scambia mai per delle
realtà a sé stanti; in lui l'analisi scientifica non sente piu la necessità
di essere sorretta da una struttura ontologica diversa da quella intrin-
seca al mondo che ci è immediatamentt' presente; ed è solo muovendo
da questo mondo e ad esso facendo capo che si individuano anche i
capisaldi trascendenti della sua realtà. Ad Aristotele si è rifatta, per
questi caratteri del suo pensiero, non soltanto una corrente della filosofia
ellenistica che, all'interno della scuola peripatetica, ha cercato di op·
porre resistenza al dilagare delle vedute mistiche e religiose, ma anche
una larga corrente del pensiero cristiano, quella che ha voluto presen-
tare l'ordine religioso come un punto di arrivo da conseguire attraverso
una approfondita analisi del mondo reale immediato; se, per questo lato,
il pensiero aristotelico ha aiutato, sul finire del medioevo, la riconquista
di una visione analitica ed autonoma del finito, minori suggestioni esso
ha poi potuto esercitare sul pensiero moderno; questo anzi non dimen-
ticherà che la scienza moderna è potuta nascere soltanto attraverso una
battaglia grandiosa contro l'aristotelismo.

10. Pirrone e lo scetticismo.


Nella seconda metà del secolo 1v, accanto alla ricerca aristotelica
(che, del resto, dopo la morte di Aristotele viene proseguita, nella stessa
scuola, da parte di Teofrasto nella direzione di un accentuato natura-
lismo), continua a vivere la scuola di Platone che, nel 347, passa nelle
mani di Speusippo; nell'un caso e nell'altro non si toccano, nemmeno
da lontano, i vertici dottrinali che erano stati raggiunti dai due piu

IJJ
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V

grandi maestri dell'antichità. Anche le scuole socratiche minori sono


ancora attive; nella scuola cirenaica, con Aristippo il giovane, nipote
del fondatore, si raggiunge la formulazione di un vero e proprio siste-
ma edonistico, che pone il sommo bene « nella vita colma di piaceri »,
ritenendo piacere « quello collegato col movimento » che non sia cioè
né calma assoluta ma morta, né agitazione violenta. La scuola cinica
annovera, in questo tempo, come suo popolare esponente Diogene di
Sinope, che accentua la polemica contro la società e insiste nel disprezzo
della comodità e del piacere come vera liberazione dell'animo. La scuola
megarica infine continua le ricerche logiche e dialettiche. A quest'ul-
timo indirizzo si richiama appunto Pirrone che, nato ad Elide i torno
al 365, prese parte alla spedizione di Alessandro in Asia e fondò una
scuola nella sua città natale verso il 320, dirigendola fino alla morte
che lo colse nel 275 circa.
Pirrone non ha lasciato alcuno scritto, ma è egualmente considerato
il· fondatore dell'indirizzo scettico. Esso si richiama a quella tradizione
del precedente pensiero greco che aveva dato particolare rilievo all'ar-
gomentazione deduttiva non-contraddittoria; su di essa Parmenide aveva
fondato la sua concezione della realtà e ZenQne la sua critica della
molteplicità e del divenire; in questa stessa direzione si era posto al-
meno in parte l'atomismo di Democrito e specialmente la scuola me-
garica. Pirrone era molto abile nell'esame dei problemi dialettici e giunse
alla conclusione che « intorno ad ogni cosa si può dire che non piu
essa è di quanto non sia, oppure che è e anche che non è, oppure in-
fine che né è né non è». Non è improbabile che Pirrone si rifa-
cesse, attraverso la scuola megarica, proprio all'insegnamento parme-
nideo; egli avrebbe infatti sostenuto, secondo quanto afferma il suo di-
scepolo Timone di Fliunte, che « la natura del divino e del bene è sempre
la stessa »; appunto per questo gli sforzi degli uomini per stabilire che
le cose sono qu~sto o quello, o questo piu o meno di quello, non
hanno esito; ogni tentativo di " discernere " fra loro le cose e le
qualità secondo verità fallisce perché «la realtà del divino e· del bene
è sempre la stessa », cioè indifferente ed indiscernibile; ecco perché
le sensazioni, e le opinioni con cui cerchiamo di uscire dall'identità
indifferente del reale non hanno fondamento e non possono quindi
essere né vere né false; il compito che Pirrone si assume è appunto

1 14

Baruch_in_libris
§ IO PllU.1.0NE

quello di dimostrare sia con metodo espositivo, sia con il metodo delle
interrogazioni, che non bisogna prestar fede né alle sensazioni, né
alle opinioni; bisogna essere, egli sostiene, senza opinioni. Con Pirrone
dunque la polemica di Zenone contro il divenire e la molteplicità si
è estesa a tutte le opinioni, a tutte le affermazioni di differenza e
discernimento fra le cose. Ad un simile atteggiamento mentale di ripulsa
per tutte le opinioni tiene dietro un atteggiamento pratico di perfetto
equilibrio; proprio dall'essere la natura del divino e del bene sempre
la stessa deriva all'uomo una natura piu equilibrata; anche l'uomo
deve essere sempre lo stesso, come sospeso nell'indifferenza; le incli-
nazioni nascono in noi dalle opinioni; e qalle inclinazioni nascono le
agitazioni; se dunque saremo senza opinioni, ci troveremo anche senza
inclinazione e senza agitazione. « Chi si mantiene in questa disposizione
d'animo, affermava Pirrone, prima conseguirà la sospensione di ogni
discorso e poi la imperturbabilità ». Ma è tanta la nostra inclinazione
a pronunciare giudizi e ad assumere opinioni che, per sospendere ogni
nostra affermazione, dobbiamo quasi « svestire l' uomo »; proprio alla
sospensione di ogni discorso erano comunque rivolti tutti i discorsi
del fondatore della scuola scettica.
Si badi, però, che l'atteggiamento scettico intende colpire i di-
scorsi che pretendop.o di' essere veri e che .hanno riguardo quindi
alla « realtà » delle cose; ben altro è invece il discorso che si ha da fare
per quanto concerne le apparenze: « Non esiste alcuna cosa che sia
buona o cattiva per natura, mentre lo è secondo che le cose vengono
giudicate dalla mente degli uomini »; proprio per questo « mentre in
tutte le cose nulla è secondo· verità, gli uomini fanno tutto sulla base
della legge e del costume»; per questo altresi'. «l'apparenza è sempre
potente dovunque si presenta». L'apparenza e la consuetudine in-
somma possono guidare l'uomo nella vita; né c'è bisogno alcuno, nel
campo pratico, di adottare definizioni e discriminazioni precise di
valori, come bene e male, giustizia e .ingiustizia. L'imperturbabilità è
appunto di chi, oltre che essere privo di opinioni e perciò di turbamenti,
si affida nella vita quotidiana alla consuetudine ed all'apparenza. Pir-
rone aveva presente al riguardo l'enunciazione democritea che dice:
<< non asserisco che il miele sia dolce, anche se convengo che mi pare
tale». Dcl resto non si era preoccupato anche Parmenide di offrire,

135
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO IV CAP. V

accanto alla dottrina della verità, una dottrina dell'apparenza? Lo


scetticismo nasce dunque, in Grecia, come ·critica radicale di tutte le.
opinioni e di tutte le affermazioni di verità. Lo stesso discepolo di
Pirrone, Timone di Fliunte, canta del resto la grandezza del maestro
per avere egli superato tutte le persuasioni illusorie ed avere raggiunto
cos1 la piu alta sapienza. II pensiero greco raggiungeva cosi, sul fi.
nire del secolo 1v, due esiti contrastanti e legati ai due indirizzi prin-
cipali della tradizione precedente: da un lato la sistemazione enciclo-
pedica di Aristotele e la sua visione unitaria della realtà, dall'altro la
piu ampia negazione delle determinazioni e delle distinzioni sia di
ordine teorico che morale, per una piu aperta adesione al mondo del-
l'esperienza e della consuetudine, suggerita in ultimo dal desiderio di
una perfetta tranquillità ed indifferenza di spirito. Con Pirrone si af-
ferma in pieno l'etica individualistica già seguita dalle scuole socra-
tiche minori; tramontata la civiltà della polis e con essa le istituzioni
chcr davano un preciso contenuto storico all'azione dell'individuo, que-
sti si ritrae in se stesso e pone in primo piano l'aspirazione alla tran-
quillità; lo scetticismo nasce infatti come tentativo di liberazione dalle
contrapposte dottrine e come sforzo di conseguire, con l'indifferenza
rispetto ai problemi del pensiero, la piu perfetta serenità della vita.

11. Lo sviluppo delle scienze.

Nella seconda metà del secolo Iv il maggior contributo allo sviluppo


delle scienze particolari è stato certamente recato dalla scuola aristotelica.
A Teofrasto che la diresse subito dopo la morte di Aristotele la botanica
deve due dei trattati piu importanti dell'età antica: le Ricerche sulle piante
che contengono la descrizione e classificazione delle piante nonché l'esame
di questioni sulla loro coltura, distribuzione geografica ed. uso e Le cause
delle piante che comprendono la loro anatomia e fisiologia; inoltre Teo-
frasto nello scritto Sulle pietre ha gettato le basi per una trattazione scien-
tifica della geologia e della petrologia.
Il piu grande matematico del periodo è Aristeo che fiorisce verso la
fine dcl secolo IV e scrive sul metodo geometrico, sui cinque solidi regolari
e sulle coniche.
Un perfezionamento al sistema astronomico di Eudosso, con l'intro-
duzione di 34 anziché di 27 sfere, si deve a Callippo di Cizico che fio-

136

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Su LO SVILUPJ'O DELLE SCIENZE

risce in Atene intorno al 330, mentre l'astronomo e matematico Autolico di


Pitane che fiorisce un ventennio piu tardi reca notevoli contributi alla
discussione della dottrina di Eudosso, rilevando specialmente che dalla
differenza che appare nelle grandezze relative dcl sole e della luna
nonché da quella che si riscontra nello splendore dci pianeti si possono
trarre indicazioni circa la loro distanza dalla terra.
A capo della scuola dogmatica di medicina si trova nel periodo che
va dal 340 al 320 Prassagora di Cos, che è il primo a distinguere le vene
dalle arterie, stabilendo che le prime recano il sangue mentre le seconde
sono piene di aria; la scuola di Prassagora comprende anche un gruppo -di
studiosi minori di medicina che si affermano negli ultimi. decenni dcl secolo.
Infine la storia viene coltivata da Tcopompo, brillante oratore e disce-
polo di Isocrate; anche la sua narrazione storica risente di tali doti per i rac-
conti drammatici, i discorsi e le descrizioni morali di cui abbonda.

rp

Baruch_in_libris
CAPITOLO VI

Il secolo lii

EPICURO. LO STOICISMO: ZENONE. CLEANTE. CRISIPPO

1. Il periodo.
Nel m secolo la Grecia tenta piu volte di insorgere contro la signoria
macedone; una lega di stati si viene organizzando nel territorio dell'Etolia,
nella Grecia centrale; un'altra lega si viene contemporaneamente strin-
gendo fra le città del Peloponneso occidentale; è appunto questa lega achea
che, sul finire del secolo, raggiunge, per l'apporto sempre piu numeroso di al-
tre comunità del Peloponneso, una rilevante potenza. Ma la lotta per l'indi-
pendenza dalla Macedonia viene attraversata dai contrasti non sopiti, anzi
rinfocolati, fra . i gruppi del potere oligarchico e le aspirazioni democra-
tiche; il centro di tali contrasti è Sparta, dove il sorgere di grandi pro-
prietari di schiavi e di i:icchi latifondisti impedisce ai cittadini rimasti
senza terra l'attuazione di riforme e il ripristino delle vecchie leggi di
Licurgo; le proposte per ·una nuova ripartizione della terra e i tentativi
compiuti per tradurla in atto non ebbero successo. Anzi la stessa lega
achea che aveva continuamente guerreggiato contro la Macedonia, per il
timore che le riforme democratiche propugnate a Sparta attirassero ancpe
le città che ad essa facevano capo, fin{ per chiedere l'aiuto della Macedonia
a sostegno dell'oligarchia; il movimento democratico di Sparta fu cosi
sconfitto mentre si spegneva ogni velleità di indipendenza della Grecia
dalla Macedonia.
Atene continua ad essere, in questo periodo, la città greca piu aperta
agli interessi culturali; è qui infatti che sorgono le due nuove scuole, quella
epicurea e quella stoica, che dominano il m secolo; ma agli inizi dcl secolo,
Demetrio di Falero, allievo di Teofrasto, progetta la costruzione ad Ales-
sandria di un grandioso centro culturale che doveva superare per effi-
cienza scientifica e attrezzature di studio gli istituti similari di Grecia
e dell'Asia Minore; sorse cosi quella che diventerà presto la piu grande
biblioteca del mondo antico; vicino ad essa vengono costruiti un orto
lxllarùco, un osservatorio as.trQDomico e preziosissime raccolte di materiale

138

Baruch_in_libris
§ I IL PEJllODO

scientifico; un numeroso corpo di ricercatori viene raccolto dai vari paesi


e forma il nerbo del nuovo Museo. Anche se Alessandria si distinguerà
soprattutto per il fiorire delle ricerche scientifiche specializzate, l'allargarsi
della vita culturale ai nuovi centri della civiltà ellenistica toglie ovvia-
mente rilievo e spicco ad Atene; è, per es., ad Alessandria che vive per
quasi vent'anni Stratone di Lampsaco proprio mentre era alla direzione
della scuola fondata da Aristotele; come è ad Alessandria che affluiscono,
alla corte di Tolomeo Soter, molti dotti e filosofi. La stessa scuola stoica
poi che sorge e vive ad Atene ha fra i suoi esponenti, a partire dallo stesso
fondatore Zenone, molti uomini di origine orientale e pertanto meno diret-
tamente legati alla stretta tradizione greca e piu aperti e sensibili verso
i nuovi problemi della cultura ellenistica. Se la scuola di Epicuro sembra
subire meno quest'influsso se non sotto un profilo etico generale (quello
stesso già avvertito da alcune delle scuole socratiche minori e determinato
dalla crisi etico-politica della polis), la scuola stoica non tarda a risentire
della nuova atmosfera culturale; per un certo aspetto anzi la filosofia
stoica si propone come la nuova visione del mondo aperta agli orizzonti
cosmopolitici ed universalistici dell'ellenismo.

2. Epicuro: il Canone.
Epicuro era piu giovane di Pirrone di circa vent1cmque anni; nato
a Samo nel 342, giunse ad Atene all'età di 18 anni, ma diede inizio
al suo insegnamento solo piu tardi, prima a Mitilene e poi a Lampsaco;
portò la scuola ad Atene solo nel 305 e rimase a capo di essa: fino alla
morte nel 270. L'associazione da lui fondata accoglieva le persone piu
diverse, senza chiedere una speciale preparazione culturale e senza
badare all'umiltà delle condizioni sociali; quanti seguivano l'insegna-
mento di Epicuro si consideravano amici e fratelli ed erano legati da
una viva devozione per il maestro oltre che da un comune desiderio
di vita serena e razionale. Già .durante la vita di Epicuro, gruppi di
suoi scolari si raccolsero in varie città e perfino in Egitto e in Asia;
a questi gruppi sono inviate parecchie delle lettere che ci conservano
il suo pensiero. Diogene Laerzio afferma che Epicuro compose piu
di trecento scritti, fra i quali un'opera Sulla natura in 37 libri ed una
Sul criterio o canone. Di tutte queste opere di Epicuro sono giunte fino
a noi soltanto una Lettera ad Erodoto sulla natura, una Lettera a
Pitocle sulle meteore, una Lettera a Menèceo sulla morale, una raccolta
di Massime fondamentali e dei frammenti papirologici; sono inoltre

139

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IL SECOLO III CAP. VI

numerosi gli scritti postenori ai quali possiamo attingere notizie su


Epicuro e sul suo pensiero.
Il Canone o regola è quello fra gli scritti di Epicuro che trattava
piu particolarmente i problemi della conoscenza. « I criteri di verità,
vi affermava l'autore, sono le sensazioni, le antecipazioni e i senti-
m~nti. La sensazione è sprovvista di ragione e non è capace di ri-
cordo; essa non può modificarsi da sé e se viene modificata da altro,
non può aggiungere né togliere alcunché»; questa è appunto la sua
forza; infatti la sensazione non può venire confutata né contraddetta;
una sensazione non può confutare un'altra sensazione dello stesso ge-
nere, perché hanno entrambe la stessa potenza; una sensazione non può
confutarne un'altra di genere diverso, perché non hanno lo stesso
oggetto; la ragione non può contraddire la sensazione, perché ne
dipende interamente. La sensazione è dunque la prima regola della ve-
rità « poiché è dai fenomeni che bisogna trarre le indicazioni relative
alle cose che sono nascoste; infatti" tutti i nostri pensieri provengono
dalle sensazioni per concomitanza, per analogia, per somiglianza e
per combinazione». Quanto all'antecipazione, è «un apprendimento,
o una retta opinione, o un'idea, o un concetto generale che si trova
in noi, come ricordo di ciò che si è presentato spesso fuori di noi;
per es., quando, vedendo venir avanti qualche cosa, diciamo che si
tratta di un uomo, usiamo la parola uomo in quanto pensiamo im-
mediatamente, in forza dell' antecipazione, all'immagine di uomo eh~
deriva dalle sensazioni già avute». Le antecipazioni sono «evidenti»
e per loro mezzo si arriva all'opinione, la quale può invece essere vera
o falsa; bisogna dunque non confondere l'ambito dell'evidenza con
quello dell'opinione; mentre le antecipazioni sono immediatamente
presenti a noi e quindi non ammettono errore, con l'opinione com-
piamo un passaggio, un'inferenza, da ciò che è immediatamente pre-
sente a ciò che non lo è; per es., l'immagine di quel qualche cosa che
viene avanti ci è immediatamente presente, come anche l'immagine
di uomo che è nella nostra memoria; ma quando esprimi;i.mo l'opi-
nione che quel che viene avanti è realmente un uomo, ciò non è
immediatamente presente a noi, ma è solo oggetto di inferenza. L'opi-
nione si chiama anche supposizione, proprio per il suo carattere deri-
vato; congiunto all'opinione è un atteggiamento di attesa della verifica;

lfO

Baruch_in_libris
§ 2 EPICURO

se l'opinione viene confermata o non smentita, è vera, mentre è falsa


se accade il contrario; quando supponiamo che colui che viene avanti
sia un uomo, ci aspettiamo di avere di lui certe sensazioni; se queste
si verificano, la nostra supposizione è confermata, altrimenti è smentita.
Quanto ai sentimenti che sono criterio di verità, si tratta in particolare
del piacere e del dolore che ci guidano con assoluta sicurezza nell'indi-
carci le cose che bisogna scegliere e quelle che bisogna fuggire.

3. La natura e i fenomeni celesti.


Lo studio della natura muove dall'osservazione che «nulla nasce da
nulla, altrimenti tutto potrebbe nascere da tutto; dunque l'universo
è sempre stato lo stesso di come è ora e sarà Io stesso per tutta l'eter-
nità; non c'è nulla in cui esso possa trasformarsi, perché nulla esiste fuori
dell'universo che possa penetrarvi e recarvi mutamento». L'universo
risulta di corpi e di vuoto; che i corpi esistano, è attestato dai sensi;
e poiché i corpi si muovono, né Io potrebbero se non esistesse il vuoto,
anche il vuoto esiste; i corpi sono composti od elementari; questi ultimi
sono quelli da cui tutti gli altri risultano: essi sono indivisibili ed
immutabili, altrimenti tutte le cose si risolverebbero nel non-essere; gli
atomi sono pertanto le sostanze dei corpi. Essi sono di un'indefinita
varietà di forme e si muovono continuamente da tutta l'eternità;
oltre alla forma, gli atomi possiedono grandezza e peso; le altre qualità
derivano invece dalla diversa posizione degli atomi. Se questi sono
infiniti, esisteranno infiniti mondi. Comunque, nella determinazione
dei corpi e di tutti gli eventi naturali, gli atomi non obbediscono, a giu-
dizio di Epicuro, a quella meccanica necessità che era stata messa in ri-
lievo da Democrito; infatti essi possono deviare dalla linea retta nella loro
caduta e dar luogo cosf ad un'inclinazione (o clinamen) che è all'origine
di eventi impreveduti ed imprevedibili; proprio la loro possibilità libera
l'uomo dal timore dell'inevitabile. Epicuro spiega la sensazione me-
diante la teoria degli effiuvi o immagini che si staccano dalla super-
ficie dei corpi; tali immagini hanno la stessa forma degli oggetti reali
e sono impercettibili per la loro piccolezza; la validità della sensazione
è garantita dal fatto che «tali effiuvi conservano la posizione e l'or-
dine che essi avevano negli oggetti reali »; nel loro movimento attra-

Baruch_in_libris
IL SECOLO III CAP. VI

verso il vuoto, percorrono, se non interviene alcun ostacolo dovuto alla


collisione di atomi, qualsiasi distanza immaginabile in un tempo im-
percettibile; essi non comportano alcuna diminuzione visibile dei corpi
<lai quali si staccano perché « la perdita viene continuamente reinte-
grata». Gli effluvi garantiscono il contatto diretto fra i corpi ed i no-
stri organi di senso; resta perciò confermato che « il falso giudizio e
l'errore risiedono sempre in ciò che l'opinione aggiunge alla sensa-
zione, non nella sensazione». L'esigenza in base alla quale si deve
ammettere l'esistenza degli atomi è, secondo Epicuro, la stessa che
ci porta a negare la divisibilità all'infinito, cioè l'esigenza «di non
annientare le cose a forza di ridurle ».
L'anima è «un corpo composto di particelle sottili, disseminato
in tutto l'aggregato che forma il nostro corpo e simile ad un soffio
caldo; u11a certa parte dell'anima si distingue per la sua sottigliezza
estrema ed è perciò mescolata piu intimamente col nostro corpo; di
qui derivano le forze dell'anima, le sue affezioni e i suoi movimenti».
L'anima è la causa principale della sensibilità che scompare dall'or-
ganismo appena l'anima lo abbandona. L'incorporeità o spiritualità
dell'anima viene negata da Epicuro con i seguenti argomenti: «In-
corporeo è ciò che può essere pensato come esistente in sé; ma, a
parte il vuoto, non è possibile concepire l'incorporeo in sé; il vuoto non
può né agire, né patire e solo consente ai corpi di muoversi; dunque
coloro che dicono che l'anima è incorporea, parlano da stolti; infatti,
se l'anima fosse incorporea, non potrebbe né agire, né patire».
Nel modo di considerare i fenomeni celesti Epicuro vede un pos-
sibile pericolo per la tranquillità dell'uomo; se infatti essi vengono
visti come delle forze fatali che determinano le vicende umane, non
sarà piu ·possibile per l'uomo né essere libero, né sfuggire al destino.
Ma la conoscenza umana, rileva Epicuro, è molto limitata; essa è in
grado di cogliere ciò che è a noi piu vicino; «ma il caso è diverso
quando si tratta di fenomeni che avvengono nelle regioni elevate del-
l'aria »; dei fenomeni cdesti si possono dare molte spiegazioni, tutte
in accordo con i fenomeni e da essi suggerite; proprio perché non
possiamo conseguire, nella conoscenza dei fenomeni celesti che sono
lontani, la stessa sicurezza che abbiamo circa i fenomeni vicini, dob-
biamo guardarci dall'accogliere come vera una sola spiegazione, respin-

Baruch_in_libris
§ 3 LA NATURA E I FENOMENI CELESTI

gendo le altre; facendo cosi «è evidente che si abbandona del tutto il


campo della fisica e che si cade in quello della mitologia». Per es., il
sorgere e il tramontare degli astri si possono .spiegare sia con il loro
estinguersi la sera e il riaccendersi al mattino, sia con il loro emer-
gere alfa superficie terrestre e lo scomparire dietro un corpo opaco; il
loro movimento si può spiegare sia con la rotazione del cielo tutto
intero, sia con la rotazione degli astri restando il cielo immobile; le
fasi della luna si possono spiegare sia mediante la sua rotazione, sia
mediante delle configurazioni dell'aria, sia mediante l'interposizione
di un corpo opaco; la stessa pluralità di spiegazioni Epicuro esem-
plifica per il tuono, il lampo, i cicloni, i terremoti, i venti, la neve,
l'arcobaleno, le comete ecc. «Bisogna non esagerare stoltamente l'im-
portanza d'una spiegazione unica, né inclinare verso di essa, osser-
vando anche ciò che non è ad essa conforme ». Per spiegare i fenomeni
celesti non bisogna comunque «fare appello alla natura divina, che
deve essere lasciata libera da ogni funzione nel godim,e~to della sua
felicità»; quel che interessa ad Epicuro è proprio che non si identi-
fichino i fenomeni celesti con la divinità, la quale minaccerebbe allora
la libertà e la tranquillità autonoma dell'uomo. Per questo egli di-
chiara che « pretendere di assegnare una causa unica ai fatti celesti, seb-
bene i fenomeni ne suggeriscano molte, denota una follia ed una
impertinenza di cui sono capaci solo gli zelatori della· vana astrologia,
che inventano cause vuote di senso e invocano la natura divina, an-
ziché lasciarla libera da ogni funzione».

4. La morale epicurea.
Per conseguire la felicità, bisogna appunto, secondo Epicuro, «con-
siderare la divinità come un essere immortale e felice, senza attribuirle
nulla che sia in contrasto con questi caratteri». Gli dèi esistono, «ma
non nd modo in cui se li rappresenta la massa »; empio si deve consi-
derare «non già colui che rigetta gli dèi della moltitudine, ma colui che
attribuisce loro le finzioni della massa». Mentre l'esistenza degli dèi
è evidente, deriva da congetture ingannevoli l'opinione che. gli dèi
« sono causa dci piu grandi mali per i cattivi » e « promettono i piu
grandi beni ai buoni». Che la divinità non provveda alle cose del

Baruch_in_libris
IL SECOLO Ili CAP. VI

mondo Epicuro era solito dimostrare anche con la seguente argomen-


tazione, che ci è conservata da un frammento : « Dio o vuol togliere i
mali e non può, o può e non vuole, o non vuole né può, o vuole e può;
se vuole e non può, è impotente, il che non può essere di Dio; se può e
non vuole, è invidioso ed anche questo è contrario a Dio; se né vuole né
può, è invidioso ed impotente e perciò non è Dio; se vuole e può, il
che solo conviene a Dio, come mai esistono i mali? e perché Dio non
li toglie? ». Bisogna, in secondo luogo, familiarizzarsi con l'idea della
morte; essa non è un male, perché il bene e il male risiedono nella
sensazione, mentre « la morte è la totale privazione della sensazione »;
la morte non è nulla per noi, perché « finché noi esistiamo, non c'è la
morte, e quando viene la morte, noi non ci siamo piu; la morte non
ha alcun rapporto né coi vivi né coi morti, in quanto essa è nulla per i
vivi ed i morti non sono piu ». Sapiente è colui che né sente la vita
come un peso, né la non esistenza come un male; egli non sceglie « il
cibo piu abbondante, ma quello piu gradevole »; e cosi non tiene a
godere « la vita piu lunga, ma la vita piu gradevole ». Applicarsi a ben
vivere, scrive Epicuro, è lo stesso che applicarsi a ben morire.
Dei nostri desideri, «alcuni sono naturali, altri vani; fra i primi,
ce ne sono di necessari e altri che sono solo naturali; fra i necessari, ve
ne sono di quelli che lo sono per la felicità, altri per la tranquillità
continua del corpo, altri infine· per la vita stessa»; la giusta teoria
mette in primo piano la sanità del corpo e la tranquillità dell'animo,
poiché in ciò consiste «la perfezione stessa della vita felice»; tutti i
nostri atti mirano infatti ad allontanare da noi la sofferenza e la paura;
sentiamo il bisogno del piacere appunto quando proviamo dolore;
quando non proviamo dolore, non sentiamo nemmeno ii bisogno del
piacere. In questo senso, il piacere è per Epicuro «l'inizio e la fine
della vita felice ». Se il piacere è un bene, non è però detto che ogni
piacere debba essere cercato, anche a prezzo di dolore; e se ogni dolore
è un male, non è detto che debba essere evitato, anche sacrificando un
bene maggiore. Bisogna dunque « paragonare ed esaminare attenta-
mente ciò che è utile e ciò che è nocivo». Meglio contentarsi di poco
ed avere pochi bisogni; la salute del corpo non può che trarre profitto
da ciò; «quando dunque diciamo, dichiara Epicuro, che il piacere è il
nostro ultimo scopo, non intendiamo riferirci al piacere dei debo.sciati

1 44

Baruch_in_libris
! 4 LA MORALE EPICUP.F.A

o di quelli che si attaccano al godimento materiale; il piacere cui mi-


riamo è caratterizzato dall'assenza di sofferenze corporee e di turba-
menti dell'animo; non sono le orge che generano una vita felice, ma
la ragione vigilante, che ricerca con scrupolo i motivi di ciò che bisogna
evitare e che respinge le vane opinioni, da cui vengono all'anima i piu
grandi turbamenti». Insomma «non. si può essere felici, senz'essere
saggi, onesti e giusti, né essere saggi, onesti e giusti, senz'essere felici ».
Il sapiente si ride del destino che molti considerano come dominatore
di tutte le cose e non crede alla necessità inesorabile dei fisici. Della
fortuna non bisogna fare gran conto; « meglio una cattiva fortuna con
buon raziocinio, che buona fortuna combinata con cattivo raziocinio;
meglio di tutto, ovviamente, la combinazione del sano giudizio con la
buona fortuna». Chi seguirà questo metodo di vita, conclude Epicuro,
« vivrà come un dio fra gli uomini ».
La vita politica non è, a suo avviso, che causa di turbamento; biso-
gna quindi starne lontani; tuttavia i vincoli che stringono gli uomini
in società hanno un loro solido fondamento; «la giustizia non esiste
certo per sé, ma nei rapporti fra gli uomini, in quanto essi si legano
con un patto che li impegna a non nuocersi reciprocamente; la giusti-
zia è quindi un vantaggio per le relazioni sociali, anche se non sem-
pre essa comporta le stesse prescrizioni». Caduti i vincoli della tradi-
zione etico-religiosa, di fronte agli sconvolgimenti connessi con la ri-
cerca di un nuovo equilibrio storico, è pur sempre possibile per Epicuro,
trovare una base ampia e comprensiva, su cui edificare un nuovo mondo
umano, fatto di adesione al. sensibile naturale e di equilibrio razionale,
di ricerca della tranquillità e di realizzazione della saggezza. Il tema
della tranquillità è comune ad Epicuro ed allo scetticismo di Pirrone;
ma mentre il secondo mira a conseguire la tranquillità come indiffe-
renza con un distacco completo da ogni visione o concezione della
realtà, il primo tende a rendere la stessa tranquillità piu positiva oltre
che a fondarla su una visione del mondo che abbia il suo criterio nella
sensibilità e nell'esperienza.

5. Lo sviluppo della scuola stoica.


La scuola sto~ca fu fondata in Atene intorno al 300 da Zenone che
era nato a Cizio nell'isola di Cipro nel 332; dopo aver ascoltato parec-

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IL SECOLO Ili CAP. VI

chi maestri, egli diede vita ad una nuova associazione culturale nel por-
tico ornato delle pitture di Polignoto, detto Stoa Pecile. Zenone resse la
scuola fino al 264, data della sua morte. Il secondo scolarca della Stoa
fu Cleante; nel periodo. della sua reggenza che va dal 264 al 232 la
scuola viene insistentemente attaccata da varie parti, specialmente dai
discepoli di Epicuro e da Arcesilao che era· a capo della scuola di Pla-
tone. Accade, in questo periodo, che nella Academia si insinua con
Arcesilao una nuova corrente di pensiero pili vicina alle posizioni dello
scetticismo che alla dottrina platonica delle origini; in particolare Arce-
silao si richiama al metodo della ricerca applicato sia da Socrate che da
Platone e pili idoneo, a suo avviso, a prospettive problematiche che a
conclusioni dogmatiche; ora la scuola stoica non nutriva certo alcuna
simpatia per l'atteggiamento negativo di Pirrone e del suo scetticismo;
mentre quest'ultimo aveva assunto una posizione negativa estrema con-
tro tutte le enunciazioni sulla realtà e tutte le opinioni, già con Zenone
la scuola stoica formula una sua visione della realtà ed una dottrina
positiva della conoscenza; è appunto contro le principali enunciazioni
di Zenone che Arcesilao svolge la sua critica insistente ed acuta; egli
tende a mostrare che ·non hanno consistenza né il criterio cui gli stoici
si rifanno per la conoscenza della verità, né quello cui si richiamano per
l' indirizzo pratico della vita. Sotto questo ed altri attacchi consimili,
la dottrina stoica fu costretta a rivedere alcuni suoi punti ed a modi-
ficare alcune sue conclusioni; ciò avviene specialmente con il terzo
scolarca, Crisippo; egli assunse la direzione della scuola nel 232, quando
aveva già cinquant'anni; fu chiamato "il secondo fondatore" della
scuola per la vigoria che impresse alla lotta contro le scuole rivali e per
l'operosità scientifica con cui provvide alla sistemazione dottrinale che
era desiderata; quando egli venne a morte, verso la fine del secolo
(nel 204), lo stoicismo aveva ormai una sua propria fisionomia ben de-
finita. Tutti e tre i reggitori della Stoa nel corso del secolo 111 hanno
un atteggiamento di indifferenza verso la politica locale delle città
greche, Atene compresa; essi si rivolgono piuttosto con simpatia ai
diadochi e specialmente ai re di Macedonia; questo nuovo atteggia-
mento politico denota il profondo mutamento avvenuto rispetto ai
tempi di Platone e di Aristotele. Del!' insegnamento dei tre maggiori
maestri dello stoicismo abbiamo una conoscenza diretta molto ristretta;

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§ 5 LO SVILUPPO DELLA SCUOLA STOICA

infatti dei molti trattati scritti da Zenone e dci piu che settecento
scritti attribuiti a Crisippo ci restano soltanto alcuni titoli conservatici
da Diogene Laerzio e pochissimi frammenti. Ci riferiremo perciò, piu
che ai singoli e distinti contributi di ciascuno dei tre filosofi nominati,
ali' insieme delle dottrine stoiche quali si configurano e si affermano
nel corso del m secolo, cioè per quella fase della storia della Stoa che
si designa come lo stoicismo antico.

6. La logica stoica.

· L'intero campo della filosofia viene distinto dagli stoici antichi in


tre parti principali : la logica che studia i problemi della conoscenza,
la fisica che considera lordinamento del!' universo e di cui è parte
importante la teologia, infine I' etica o dottrina della vita pratica.
Quanto alla conoscenza, lo stoicismo antico tende a consolidare il va-
lore della sensazione che, per contro, lo scetticismo aveva contestato;
la conoscenza muove dall'immagine o impressione che un oggetto de-
termina sull' anima; il soggetto può dare o rifiutare il proprio assenso
a ciò che l'immagine propone; l'errore consiste appunto nel dare il
proprio assenso ad una rappresentazione o immagine che non è con-
forme alla realtà; soltanto se si dà lassenso ad una rappresentazione
che è conforme ·alla realtà delle cose si può dire di avere vera com-
prensione o percezione delle cose stesse, si può dire di cogliere diretta-
mente e con certezza, al di là della rappresentazione, la stessa realtà.
Il punto cruciale della conoscenza è dunque quello che riguarda la
possibilità di distinguere, da parte nostra, la rappresentazione fedele
della realtà da quella che non lo è; lesperienza è piena di rappresen-
tazioni che riscontriamo non conformi alla realtà, ma ingannevoli;
quindi non tutte le rappresentazioni meritano il nostro assenso; lo
merita solo la rappresentazione comprensiva, quella cioè « che viene
da una cosa reale e in conformità del reale stesso si imprime a guisa
di suggello, ed è ·tale quale non potrebbe essere, se provenisse da cosa
inesistente». Gli stoici .sono convinti che vi siano delle rappresenta-
zioni che hanno in se stesse tanta evidenza da presentarsi appunto
come comprensive, cioè come sicuramente indicative della realtà, sicu-
ramente conformi ed essa; in questo caso il nostro assenso ci viene

1 47

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IL SECOLO III CAP. VI

quasi strappato dall'evidenza; negli altri casi, m cui non avvertiamo


che le rappresentazioni derivano con evidenza dalla realtà, dobbiamo
sospendere il nostro assenso, per non cadere in errore. Arcesilao attacca
la dottrina stoica proprio su questo punto; di fatto, egli rileva, non
c'è alcuna rappresentazione comprensiva cui non si avvicini una rap-
presentazione falsa, la quale non ne differisce in nulla; è quindi im-
possibile avere la certezza che una rappresentazione è comprensiva,
cioè che si distingue con evidenza da una falsa; per es., noi vediamo
il remo immerso nell'acqua come spezzato, mentre non lo è; sul collo
d'una colomba vediamo molti colori, mentre non ve n'è che uno; i
matematici dicono che il sole è diciotto volte piu grande della terra,
mentre a noi appare della stessa misura d' un piede; e poi, come di-
stinguere due gemelli e come evitare di credere di veder l'uno, mentre
si vede l'altro? Se gli stoici vogliono essere coerenti, conclude Arce-
silao, debbono sospendere l'assenso non solo sulle rappresentazioni
non comprensive, ma su tutte le rappresentazioni, perché nessuna di
esse ci dà la garanzia di essere conforme a realtà. Con ciò Arcesilao
intacca tutto l'edificio della conoscenza che, secondo gli stoici, muove
dalla rappresentazione comprensiva per giungere fino alla scienza.
« Con la mano aperta e le dita tese, scrive Cicerone, Zenone indicava
la rappresentazione; poi curvava un poco le dita e con ciò rappresen-
tava l'assenso; poi stringeva le dita e chiudeva il pugno, per raffigu-
rare la comprensione; infine, accostando la mano sinistra e con essa
abbracciando e stringendo fortemente quel pugno, diceva che cosr era
la scienza »; la scienza nasce cioè « quando la comprensione è salda
e sicura, sr che nessun argomento dialettico possa scuoterla». Se da
un lato gli stoici affermano che tutta la nostra conoscenza ha la sua
base nella sensazione, d'altra parte sostengono che in tutti gli uomini
esistono delle nozioni innate, come quelle del bene, del giusto, della
divinità; partendo dall'osservazione delle cose, gli uomini formulano
spontaneamente dei ragionamenti e delle conclusioni che, per la stessa
facilità ed universalità che li contraddistingue, si possono considerare
innati; perciò l'innatismo non contrasta, ma piuttosto conferma l' em-
pirismo per il quale, secondo gli stoici, l'intelletto non può che ope-
rare entro l'ambito dei dati sensibili.
Alle cose si richiama, oltre che l'insieme delle rappresentazioni che

r-18

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§ 6 LA LOGICA STOICA

esse producono nell'anima, anche ciò che se ne può dire per mezzo
del linguaggio; il linguaggio come insieme di suoni e quindi come
fatto fisico· si distingue dal linguaggio che ai suoni connette dei signi-
ficati; se da un lato sia le cose che i suoni del linguaggio sono delle
realtà corporee, dall'altro tutto quello che per mezzo dei suoni si può
significare ed esprimere non è corporeo; ora la dialettica ha per og·
getto no.n già le cose, ma gli enunciati sulle cose, non la realtà cor-
porea, ma l'enunciabile, il significabile su di essa; la dialettica ha
dunque uno spiccato carattere linguistico che la rende autonoma ri-
spetto al mondo reale. La dialettica stoica si distingue dalla logica ari-
stotelica su un punto fondamentale: mentre quest' ultima considera
come elementi primi i concetti, la dialettica stoica è proposizionale,
ossia ritiene che l'enunciabile minimo sia la proposizione che indica
dei fatti relativi a soggetti singoli. Mentre allora la logica aristotelica
si fonda sulla relazione di inclusione che presentano fra .loro i con-
cetti, quella stoica si fonda su una relazione di fatti enunciati per
mezzo di proposizioni. Il ragionamento non si presenta piu pertanto
come sillogismo, ossia come calcolo che serve a stabilire l' inclusione
di due concetti per mezzo di un terzo, ma come relazione logica fra
proposizioni enuncianti fatti. Gli stoici hanno analizzato varie forme
di ragionamenti concludenti: una si richiama alla proposizione ipote-
tica (per es., se è giorno, c'è luce; ma è giorno; dunque c'è luce),
un'altra alla proposizione disgiuntiva (o è giorno, o è notte; ma è
giorno; dunque non è notte). Il valore di questi ragionamenti non di-
pende certo dalla dimostrazione delle premesse, nel senso che esse ri-
sultino, come per Aristotele, da precedenti nessi di concetti; non di-
pende nemmeno dai fatti enunciati nelle proposizioni, ma piuttosto
proprio dal nesso logico degli enunciati; il ragionamento che dice: se
è giorno, c' è luce - ma è giorno - dunque c' è luce, vale perché,
posto il nesso fra antecedente e conseguente, non può aversi l'antece-
dente senza che si abbia il conseguente; voler concludere diversamente,
sarebbe cadere in contraddizione, voler mettere insieme, per es., l'op-
posto del conseguente con l'antecedente. Gli enunciati linguistici sono
sempre enunciati che si riferiscono a fatti, ma il legame che corre tra
i fatti non ha valore che in forza del legame logico che corre fra le
enunciazioni.

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Baruch_in_libris
IL SECOLO III C·\l'. VI

7. La fisica e la teologia degli stoici.


Se nella dottrina della conoscenza lo stoicismo antico tende ad
immr:desimare la ragione con l'esperienza sensibile, nella visione ge-
nerale del mondo tende ad immedesimare la materia con il principio
attivo che la governa; tutta la realtà risulta appunto dalla compenetra-
zione di un elemento passivo e di uno attivo; il principio attivo è ra-
gione ed anima; esso si distingue dalla materia per la sua attività, ma
resta pur sempre un principio corporeo, giacché senza corporeità non
si può esercitare alcuna azione. L'universo non è eterno, ma ha una
sua nascita e una sua dissoluzione; la sua storia comprende due periodi,
nel primo dei quali l'universo si svolge secondo un ordine, mentre nel
secondo esso viene tutto assorbito e risolto, per mezzo di una confla-
grazione finale, nel principio attivo che è anche fuoco primigenio;
dopo la conflagrazione il ciclo ricomincia e ripete eternamente. le stesse
fasi. Proprio perché il principio che regge l'universo è anima e quindi
si compenetra intimamente con tutta la materia, luniverso è unità;
il principio attivo crea al suo interno una tensione che lo sorregge e
pone un profondo legame di simpatia fra tutte le parti che lo compon-
gono; per questo la conoscenza di alcune parti dell'universo porta
con sé la conoscenza di tutte le altre. Al mondo gerarchico di Aristo-
tele gli stoici contrappongono cosi un mondo in cui tutto confluisce. in
un'unica vita; gli influssi degli astri si fanno sentire sul mondo e sul
destino degli uomini; anche i corpi celesti sono guidati, nel loro moto,
non da una regola matematica, ma dall'anima del mondo; e poiché
l'universo è un sistema divino, la collocazione in esso della terra al
centro e degli astri intorno ad essa non è soltanto un'ipotesi matema-
tica, ma una verità fisica. Il principio che anima la materia coincide
con il principio divino e Dio è indifferentemente natura o destino e
provvidenza; Dio è ad un tempo forza immanente alla materia e
mente ordinatrice cui soggiace tutto il mondo e che regge le. cose se-
condo un ordine necessario; un finalismo generale domina il mondo,
per cui « la natura non è soltanto industriosa, ma è artista e prevede
e provvede tutto ciò che può essere opportuno ed utile»; come nel seme
è racchiuso virtualmente lessere vivente, cosi «il fuoco primigenio
ha in sé le ragioni di tutto lo sviluppo della natura»; da esso viene

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LA FISICA E LA TEOLOGIA DEGLI STOICI

alle cose « una legge cui non è dato sottrarsi e sfuggire »; per tale
legge appunto «il mondo è governato meravigliosamente, come nel
piu retto e giusto reggimento statale»; non per questo gli stoici riten-
gono che si debba negare la libertà e I' iniziativa degli -uomini. Ciò
che distingue profondamente la teologia stoica dalla dottrina di Dio
elaborata da Platone e da Aristotele è che, mentre il Dio di Platone e
di Aristotele è soprattutto in relazione col mondo naturale, il Dio degli
stoici è in diretto rapporto anche con gli uomini e governa l' intero
universo in loro favore; non solo non è vero, come sostiene Epicuro,
che Dio si disinteressa del mondo, ma è vero che egli collabora con
l'uomo e ne dirige il destino; lellenismo degli stoici in nulla s' av-
verte maggiormente che nel loro distacco dagli dèi della tradizione
greca e nel loro accostamento al nuovo concetto di un dio onnipotente
che regge secondo provvidenza e saggezza il destino degli uomini e
delle cose; cosi lo stoicismo tenta di non respingere, ma di accogliere,
i vari culti dei popoli inserendo le loro molteplici divinità in una vi-
sione monoteistica, accoglie le prove popolari dell'esistenza della divi-
nità che fanno ricorso all'idea di un ordinatore del mondo superiore
per potenza ed intelligenza ali' uomo, fa larghe concessioni circa I' esi-
stenza di forze superiori ali' uomo, la divinazione del Euturo, le previ-
sioni per mezzo dei sogni, l'astrologia.

8. L'etica stoica.
Anche il criterio della condotta umana deriva dall'ordinamento ra-
zionale e divino dell'universo, nel senso che il fine fondamentale del-
l'uomo è quello di vivere conformemente alla natura, di adeguarsi
nelle azioni alla ragione universale che tutto governa; bisogna « acco-
gliere ciò che è conforme alla natura e respingere ciò che le è contra-
rio »; il dovere primario è « di conservarsi nella costituzione naturale
e di attenersi a tutto quello che ad essa conferisce, rigettando quello che
le è avverso»; seguire la natura equivale a seguire la ragione e realiz-
zare ad un tempo il disegno di Dio; ciò che è conforme a natura è
bene, ciò che è contrario alla natura è male, ciò che è intermedio è
indifferente. Da questa impostazione del problema morale derivano
alcune importanti conseguenze: anzitutto la virtil è un atteggiamento

ljl

Baruch_in_libris
IL SECOLO III CAP. Vl

fondamentale che non ammette divisioni e che respinge ogni com-


plessa classificazione; essere virtuosi significa appunto adeguarsi alla
ragione universale e tale atteggiamento dell'animo è tutta la virtu;
cosi il cammino della virtu non ammette progresso: o c' è o non c' è,
e quando c'è, non può che realizzarsi in forma completa. Nella virtU
confluiscono anche la felicità e l'utilità, di modo che la virtu non è
mezzo per conseguire altri fini, ma è fine a se stessa. Ciò che nell'uomo
contrasta la realizzazione della virtu sono le passioni; esse vanno con-
tro la ragione in quanto ci spingono a desiderare come bene ciò che
non è bene o a fuggire come male ciò che non è male; anche se non
possono esplicare il loro potere in noi .senza il consenso, le passioni
costituiscono l'elemento irrazionale della nostra natura ed hanno origine
nelle abitudini, nei pregiudizi e nella debolezza dell' anima. Il domi-
nio delle passioni si consegue prindpalmente togliendo forza ai giu·
dizi errati con i quali esse si accompagnano; è cosi che la ragione,
partendo da un mondo istintivo di esteriorità e di debolezza, lo pu-
rifica e si rivolge al bene e alla virtU. Una delle maggiori difficoltà
dell'etica stoica nasce a proposito dell'atteggiamento dell'uomo di
fronte agli eventi della vita; a rigore, tutto quello che accadf' non è
casuale, ma è vofoto dall'ordine divino del mondo; ora ciò che è in
nostro potere è soltanto quella disposizione interiore con la quale ci
adeguiamo alla ragione uni versale ed accettiamo quello che essa di-
spone; in quello che accade non dobbiamo perciò vedere né bene, né
male; tutto quello che accade deve risultare, dal punto di vista della
saggezza, indifferente; sono indifferenti «la vita e la morte, la cele-
brità e l' oscurità, il dolore ed il piacere, la ricchezza e la povertà,
l'infermità e la buona salute». L'uomo sapiente comprende che il
piano in cui si collocano tutte queste evenienze è diverso da quello,
decisivo, che concerne la sua volontà di uniformarsi alla natura; e
tale volontà si può avere sia nella ricchezza che nella povertà, sia nella
malattia che nella salute; ciò non toglie tuttavia che anche il sapiente,
a parte la considerazione dd bene, non giudichi alcune fra le cose
indifferenti preferibili rispetto alle altre; è per questa via che lo stoici-
smo anziché metter capo ad un quietismo in cui ci si limiti ad accettare
passivamente gli eventi, conduce ad un atteggiamento attivo; non sol-
tanto la scuola stoica non distoglie coloro che la frequentano dal pren-

152

Baruch_in_libris
§ 8 L'ETICA STOICA

der parte alla vita politica, ma li sollecita a farlo, come li spinge ad


affrontare i doveri quotidiani nella vita della famiglia e della società;
oltre la morale primaria del sapiente che conduce appunto all'adesione
di fondo ali' ordine razionale del mondo, c'è una sorta di morale se-
condaria che concerne l'iniziativa nel campo delle azioni che, pur
essendo rigorosamente indifferenti, sono tuttavia convenienti o non con-
venienti; con questa morale secondaria lo stoicismo scende sul terreno
della vita comune, anche se resta ferma la fondamentale distinzione
che corre fra l' atteggiamento del sapiente e quello dell' uomo comune.
Il sapiente stoico che unico possiede vera libertà e vera ricchezza se,
da un lato, si trova molto al di sopra dcli' uomo comune ed imperfetto,
è d' altra parte il simbolo d' un profondo rinnovamento razionale aperto
a tutti i popoli; egli non è l'uomo d'una città, ma il cittadino del
mondo; « gli uomini, scrive Zenone, non devono separarsi in città cd
in popoli, ciascuno con leggi particolari; infatti tutti gli uomini sono
concittadini poiché per tutti esiste una sola vita ed un solo ordine razi<>-
nale »; anche sotto il profilo morale, dunque, gli stoici annunciano i
tempi nuovi, aperti dall'impresa di Alessandro.

9. Lo sviluppo delle scienze: la scuola "di Alessandria.


Si è già detto che, nel corso dcl III secolo, il centro degli studi scientifici
specializzati è Alessandria d'Egitto; il grandioso organismo culturale che
vi viene costituito favorisce ancor pio che per il passato l'indagine parti-
colare di singoli settori ognuno approfondito e sviluppato per se stesso.
Ad Alessandria nella prima metà del secolo III vive il matematico Euclide;
egli è autore di un trattato di Ottica o teoria della prospettiva, di un
trattato di Catottrica o teoria della riflessione della luce, oltre che dei
famosissimi Elementi di geometria. Questo scritto dà una sistemazione
definitiva alle principali trattazioni di geometria e di aritmetica che erano
state svolte finora; esso tratta della geometria dcl piano, della teoria gene-
rale delle proporzioni, dell'aritmetica, degli incommensurabili e infine
della geometria solida. Dal punto di vista dcl metodo, Euclide applica il
rigoroso procedimento deduttivo che, muovendo da principii, ne deduce
le conseguenze senza fare ricorso all'esperienza o all'intuizione; ogni teo-
rema viene dimostrato partendo da teoremi precedenti e questi risalendo
ad altri ancora, finché si arrivi appunto agli enunciati primi; questi si
dicono assiomi se sono evidenti per se stessi, si dicono postulati se, non
essendo dcl tutto evidenti, sono però necessari per rendere possibili certe

153

Baruch_in_libris
IL SECOLO Ili CAP. VI

operazioni e costruzioni, si dicono infine definizioni se sono pure e sem-


plici « imposizioni di nome, mediante le quali l'autore spiega che cosa
intende con un certo termine ». Ognuno dei tredici libri degli Elementi
ha inizio con le definizioni; il primo libro contiene, oltre alle definizioni,
cinque assiomi e cinque postulati; i cinque assiomi affermano che cose
eguali ad una terza sono eguali tra loro, che somme e differenze di cose
eguali sono eguali, che i doppi e le metà di cose eguali sono eguali, che
cose sovrapposte sono eguali, che il tutto è maggiore della parte; i cinque
postulati riguardano l'esistenza di elementi geometrici e dichiarano che due
punti definiscono una retta, che per due punti non può passare che una
retta sola, che esiste un unico cerchio che abbia un determinato centro
ed un determinato raggio, che tutti gli angoli retti sono eguali fra loro
e che due rette si incontrano se la somma degli angoli interni che esse
fanno con una terza retta è minore di due angoli retti .. Il grande rilievo
storico degli Elementi euclidei consiste proprio nel rigoroso procedimento
dimostrativo da essi adottato; è in forza di tale procedimento, già teoriz-
zato da Aristotele nell'Organon, che la geometria è stata per tanto tempo
considerata come la scienza per eccellenza e che molte altre scienze hanno
cercato di imitarne il metodo. Per quanto poi, secondo Platone, la geo-
metria rispecchi la struttura razionale e matematica della realtà, quasi
identificandosi con una sorta di impalcatura ideale ed assoluta dell'uni-
verso, Euclide ne ha accentuato il carattere linguistico deduttivo, facendo
della geometria una scienza del tutto autonoma rispetto alla realtà e ricon-
ducendola a degli enti che non hanno alcun significato fisico o reale.
Non di molto posteriore ad Euclide è Aristarco di Samo, vissuto fra
il 320 ed il 250 alla scuola di Alessandria; in uno scritto Sulle grandezze
e distanze del sole e della luna egli ammette che il sole è piu grande della
terra; ora, osserva, non è naturale che il corpo maggiore ruoti intorno al
minore; è piu naturale il contrario e pertanto è il sole che deve esser posto
al centro dell'universo e non la terra; Aristarco giunge cosi ad ammettere
un movimento annuo della terra su una circonferenza di cui è centro il
sole ed a considerare le stelle fisse come poste su una sfera del tutto im-
mobile · e di raggio infinitamente grande. Questa teoria eliocentrica, che
doveva prevalere circa venti secoli piu tardi, non trovò consensi quando
Aristarco la enunciò; Cleante giunse a dire in un suo scritto polemico
contro l'astronomo che i greci avrebbero dovuto sottoporre. Aristarco ad
un processo per empietà, perché egli tentava di « spostare il focolare
dell'universo ».
Nella prima metà del secolo 111 si affermano ad Alessandria anche
gli stùdi di medicina con Erofilo di Calcedonia ed Erasistrato di Ceo;
entrambi adottano un indirizzo empirico, di osservazione ed analisi fat-
tuale che è favorito anche dall'uso, consentito in Egitto e uon permesso
in Grecia, della dissezione dci cadaveri; si giunge cosi ad uno studio appro-

Baruch_in_libris
§ 9 LO SVILUPPO DELLE SCIENZ.

fondito del sistema nervoso centrale, restituendo al cervello funzioni che


Aristotele aveva attribuito al cuore; furono del pari studiati sotto il pro-
filo sia anatomico che fisiologico alcuni dementi rilevanti dell'organismo
umano, come il sistema circolatorio, l'intestino, l'occhio, il fegato. Anche
la scuola stoica contribuisce sensibilmente allo sviluppo della medicina;
ma l'indirizzo che essa segue, piu che richiamarsi all'esperienza, si colloca
entro i principii generali della fisica stoica; e ciò servi ad acuire il con-
trasto della scuola medica di Alessandria nei riguardi di ogni dogmatismo
dottrinale.
Verso la metà del secolo si ebbe il meraviglioso fiorire dell'opera scien-
tifica di Archimede; in verità, egli nacque e mori a Siracusa in Sicilia
(287-212); difese infatti la città durante l'assedio postole dagli eserciti Ji
Roma guidati da Marcello e fu ucciso da un soldato romano il giorno della
capitolazione; ma egli passò una parte della sua vita ad Alessandria, in
rapporti di amicizia con parecchi degli studiosi di quella scuola; ha la-
sciato scritti di geometria, di aritmetica, di statistica e di idrostatica, senza
parlare delle scoperte tecniche che gli vengono attribuite; fu insieme co-
struttore di macchine e teorico finissimo; il modello cui si ispirano le sue
ricerche geometriche è Euclide, del quale segue il metodo rigorosamente
dimostrativo; tuttavia per la scoperta delle proprietà che poi si dovranno
dimostrare con il procedimento euclideo egli segue spesso criteri diversi,
facendo appello sia all'intuizione che all'esperienza; è proprio la complessità
della sua mentalità di teorico e di tecnico, di logico e di inventore, che ne
ha fatto il tipo piu completo e piu " moderno " dello scienziato antico. È
da rilevare, in particolare, che con Archimede ha compiuto passi notevoli,
oltre che la geometria, la fisica come studio matematico di alcuni aspetti
della realtà naturale; la trattazione matematica delle macchine semplici con
particolare riferimento allo studio del centro di gravità; la teoria matematica
della leva oltre alla definizione del principio fondamentale dell'idrostatica
ed alla prima sistemazione scientifica di essa, sono capitoli centrali di
questo sviluppo. Ma il pesante staticismo sociale dcl mondo ellenistico e
lo sfruttamento dc:! lavoro umano mediante la schiavitu non consentirono
né un adeguato sviluppo della tecnica, né, quindi, un corrispondente
sviluppo della scienza fisica, nella direzione tanto efficacemente indicata da
Archimede; per cui i suoi libri verranno quasi riscoperti nel Rinascimento
e daranno un impulso decisivo al sorgere della scienza moderna.
Legato di viva amicizia ad Archimede fu Eratostene, d'una quindi-
cina d'anni piu giovane di lui; visse ad Alessandria, come bibliotecario dcl
Musco, essendo nativo di Cireilc e vi compose un grande trattato di geo-
grafia sistematica; questa disciplina si era certamente giovata dei viaggi,
delle guerre, degli intensificati rapporti fra i vari paesi; di tutti questi
elementi si avvalse Eratostene che sfruttò inoltre anche gli scritti di geo-
grafia degli autori precedenti; il problema di geografia matematica cui

zss
Baruch_in_libris
IL SECOLO III CAP. VI

egli legò particolarmente il suo nome è quello della determinazione delle


misure della Terra; misurò la distanza fra due città egiziane ritenute poste
sullo stesso parallelo, e in base ad osservazioni astronomiche, concluse che
quella distanza corrispondeva ad un cinquantesimo dell'intera circonferenza;
la misura cosi ottenuta risultò poi inferiore solo di circa un centinaio
di chilometri a quella calcolata dalla scienza moderna.
Nella seconda metà del secolo si affermò ad Alessandria un altro
grande matematico, Apollonio di Perga; riprendendo alcuni motivi già
svolti da Euclide e da Archimede, egli perfezionò la trattazione delle
sezioni coniche (ellisse, parabola, iperbole) portando la geometria a sviluppi
arditi ed originali. La matematica alessandrina del lii secolo è come si
vede quasi esclusivamente geometrica, quindi legata ad dementi spazio-
intuitivi, mentre non si è svolta. altrettanto nella direzione dell'aritmetica
e quindi in senso puramente razionale ed astratto; e ciò anche se l'indirizzo
pitagorico-platonico aveva messo in rilievo che il numero, come dato pura-
mente ideale, ha una realtà superiore alla figura geometrica che include,
appunto, elementi sensibili. Furono d'altronde le scienze matematiche .che
fecero piu rilevanti progressi nel corso del lii secolo alla scuola di Ales-
sandria; per contro le scienze biologiche e naturali restarono al livello cui
le avevano portate Aristotele e Teofrasto. Il distacco di tutte queste disci-
pline dalla filosofia consenti a ciascu,na di organizzarsi in modo piu appro-
fondito, anche se a volte spinse gli specialisti ad una forma di erudizione
chiusa a piu ampi orizzonti culturali, come ebbe a lamentare lo stesso
Archimede nei confronti di alcuni matematici del suo tempo.

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CAPITOLO VII

II secolo n

CARNEADE E PANEZIO

1. II periodo.

Sul finire del secolo m a. C., mentre scomparivano Archimede e Cri-


sippo, già si delineava all'orizzonte la potenza di Roma che, dopo aver
esteso il suo controllo sull'Italia e dopo aver piegato Cartagine, era riuscita
a superare il momento piu difficile e pericoloso della sua storia, era dive-
nuta lo stato piu potente del Mediterraneo e già si affacciava allo scac-
chiere orientale, volgendo il suo interesse alla Macedonia, alla Grecia, alla
Siria ed all'Egitto. Il n secolo è tutto dominato, appunto, dall'avanzata
irresistibile di Roma nei territori della civiltà ellenistica. Il primo a crol-
lare fu il regno di Macedonia che, ripetutamente attaccato nel 212 e nel
197, fu definitivamente piegato nel 168; dapprima la Macedonia venne
divisa in quattro confederazioni con ordinamento repubblicano e conservò
una parvenza di autonomia, ma nel 146, in seguito ad un tentativo di
ribellione, fu proclamata provincia romana. Nello stesso anno cadeva anche
Corinto che era stata al centro di una lega di stati greci; colle loro divi-
sioni questi avevano favorito la tattica di Roma che mirava a fomentare
i loro contrasti e ad indebolire la loro resistenza. La distruzione di Carta-
gine sanciva intanto il controllo di Roma anche sull'Africa settentrionale,
mentre poco piu di un decennio dopo anche la conquista dell'Asia Minore
si poteva considerare compiuta. I centri culturali piu attivi sono, in questo
periodo, Atene ed Alessandria d'Egitto. Ad Atene si ha, con Carneade,
che è a capo della Academia platonica, la ripresa di una vivace e vasta
polemica contro le dottrine stoiche, cosi come erano state sistemate da
Crisippo; nella seconda metà del secolo la scuola stoica, sotto la guida di
Panezio, riacquista vigore, anche se è portata a modificare sensibilmente
1:: dottrine dell'antico stoicismo; è con questo nuovo indirizzo che lo stoi-
cismo esercita il suo influsso anche sulla cultura romana.

157

Baruch_in_libris
IL SECOLO II CAP. Vll

2. Il probabilismo di Carneade.
Già con Arcesilao, nel secolo 111, l'Academia di Platone aveva pres:>
un indirizzo diverso da quello che essa aveva mantenuto dalla sua
fondazione; Arcesilao si era dedicato, come abbiamo visto, a criticare
attentamente le dottrine stoiche, piu che a sviluppare una sua propria
dottrina; per il suo distacco dalle tradizioni della scuola, la Academia
da lui presieduta fu indicata come " media " rispetto a quella " an-
tica " di Platone. Carneade, nato a Cirene intorno al 215, quando di-
viene scolarca dell'Academia, segue l'esempio di Arcesilao e rivolge
principalmente la sua attività ad un esame critico completo ed appro-
fondito delle dottrine stoiche; la sua polemica contro lo stoicismo è piu
impegnata ed acuta rispetto a quella già condotta da Arcesilao, tanto
che si designa il periodo da lui contrassegnato nella storia della scuola
come "nuova Academia ". L'unico episodio di rilievo della vita di
Carneade è quello della sua ambasciata a Roma nel 155, insieme con gli
scolarchi della Stoa e del Liceo, per ottenere che il senato fosse indul-
gente con la città di Atene, accusata del saccheggio di Oropo. Fu in
tale occasione che Carneade parlò sulla giustizia in presenza di Galba
e di Catone, i due maggiori oratori del tempo; egli divise il suo di-
scorso in due patti e il primo giorno fece le lodi della giustizia, mentre
nel secondo espose tutti gli argomenti che si potevano addurre in con-
trario. Fu, pare, questo atteggiamento ad indurre il senato ad affret-
tare la partenza da Roma degli ambasciatori ateniesi. Roma era venuta
a contatto con le manifestazioni della cultura filosofica già nel corso
della sua espansione nella Magna Grecia e nella conquista della Sicilia
durante il III secolo; l'avversione alla filosofia subito manifestatasi si
era rafforzata nel corso del secolo seguente, tanto che nel 161 un sena-
toconsulto aveva vietata la residenza in Roma ai filosofi ed ai retori
greci; tuttavia la battaglia di Catone contro la cultura ellenistica, da
lui giudicata come incentivo· di corruzione mentale e morale, era de-
stinata a fallire. Carneade muore nel 129; secondo l'esempio di Socrate
egli non lascia scritti, ma i suoi insegnamenti sono stati raccolti e tra-
smessi dal suo discepolo Clitomaco; noi ne abbiamo notizia attraverso
Cicerone e Sesto Empirico.
« Carneade si oppose agli stoici ed a tutti i filosofi anteriori, scrive
appunto Sesto, sulla questione dd criterio; infatti dimostrava che non

158

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§ 2 CARNEADE

esiste criterio assoluto di verità: né ragione, né senso, né rappresen-


tazione, né alcun altro, poiché tutti questi sono parimenti inganne-
voli ». In particolare, contro la possibilità, sostenuta dagli stoici, di
avere delle rappresentazioni "comprensive" (tali cioè da non poter
essere confuse con delle rappresentazioni false) rilevava che le stesse
rappresentazioni noi abbiamo in sogno e da svegli; in entrambi i casi
esse sono « evidenti e capaci di impressionarci » come dimostra il fatto
che, mentre sogniamo, non sappiamo di sognare e scambiamo il sogno
con la realtà. La dialettica degli stoici che ha per scopo di farci distin-
guere le proposizioni vere da quelle false, afferma Carneade, fallisce
nel suo intento come dimostra il fatto che essa non sa risolvere il fa-
moso argomento del mentitore (già usato dai megarici) e non riesce
a stabilire se uno il quale dice di mentire e dice la verità, enuncia una
proposizione vera o falsa. La teologia stoica, continua Carneade, è
tutta inconsistente; per es., la prova dell'esistenza di Dio tratta dal
consenso di tutti i popoli non vale perché ci sono dei popoli presso cui
«non esiste alcuna idea della divinità »; d'altra parte, come si può
aver notizia delle opinioni di tutti i popoli? Quanto alla divinazione
o predizione di cose future, una delle due: « se tutto avviene fatal-
mente, la divinazione non ci può insegnare alcuna cautela, perché, co-
munque noi ci si conduca, avverrà quello che deve avvenire; se in-
vece il destino si può piegare, non c'è pili destino e perciò neppure
possibilità di predire il futuro ». Come può poi conciliarsi la provvi-
denza divina con l'esistenza del. male nel mondo? Senza dire che alla
vedµta stoica secondo la quale il mondo non potrebbe essere cosi bene
ordinato senza la provvidenza divina, si può rispondere, secondo Car-
neade, con la dottrina meccanicistica e naturalistica secondo la quale
l'opera degli dèi non entra affatto nella fabbrica del mondo che è tutta
retta « per naturali pesi e movimenti». Anche la concezione che gli
stoici hanno della divinità è piena di contraddizioni; eccone una: «se gli
dèi esistono, dicono gli stoici, sono viventi, sentono; ma se sentono, ri-
cevono piacere e dolore; ricevendo dolore, Dio è capace di turbamento
e di mutamento in peggio; e se è cosi, è mortale». La teoria stoica del
diritto conforme a ragione ed a natura viene messa da Carneade in
contrasto con le molteplici vedute che gli uomini hanno intorno al
giusto: « se volessi descrivere le specie di diritto, di istituzioni, di co-

159

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IL SECOLO II CAP. VII

stumi, egli afferma nel discorso pronunziato a Roma, mostrerei che


non solo son diverse fra tante genti, ma nella stessa città, anche in que-
sta»; e incalzava: «Se è proprio dell'uomo giusto e probo obbedire
alle leggi, io domando: a quali? ». Giustizia ed utilità poi, anziché
conciliarsi, fanno a pugni tra loro, insisteva, « come ci insegna lo stesso po-
polo romano che, sempre desiderando l'alttui e strappandone il possesso,
si impadronf di tutto il mondo; ora se volesse esser giusto, cioè restituire
l'altrui, dovrebbe tornare a casa a rimanere in pavertà e miseria».
Per la condotta della vita è guida, secondo Carneade, l'esperienza;
essa ci offre delle rappresentazioni persuasive e sono quelle che ci ap-
paiono vere (che lo siano realmente è questione che non si può deci-
dere); basterà che ci atteniamo a quelle fra le rappresentazioni per-
suasive che piu di frequente si sono a noi mostrate vere; un grado mag-
giore di certezza si potrà avere se la rappresentazione, oltre ad essere
persuasiva, sarà anche " non contraddetta " da altre rappresentazioni;
ad un livello anche superiore sta infine la rappresentazione che, oltre
ad essere persuasiva e non contraddetta, sia anche « esaminata in ogni
parte », cioè sottoposta ad una serie di controlli. Nelle contingenze co-
muni ci basta la rappresentazione persuasiva; in quelle piu importanti,
la non contraddetta; « in quelle poi che influiscono sulla felicità, fac-
ciamo ricorso alla rappresentazione esaminata in ogni parte». La cri-
tica radicale delle dottrine stoiche svolta da Carneade, come del resto
quella precedente di Arcesilao, si accompagna dunque ad un probabi-
lismo pratico che fa appello all'esperienza ed alla consuetudine; pas-
sando cosi attraverso la scuola di ,Platone, lo scetticismo primitivo di
Pirrone perde il suo carattere di totale indifferenza ed apre la strada ad
un'analisi dell'esperienza che per un lato è piu vicina al metodo delle
scienze particolari e specialmente della medicina e per l'altro aderisce
ad una finalità piu pratica della ricerca filosofica.

3. Panezio e la media Stoa.


L'attacco sferrato da Carneade contro lo sto1C1smo ottenne l'effetto
di orientare i seguaci della scuola su posizioni meno dogmatiche dal
punto di vista metodico e meno impegnative in senso metafisico;
nella stessa direzione influi anche il contatto fra gli esponenti della

16o

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§ 3 PANEZIO E LA MEDIA STOA

Stoa ed il mondo romano; i romani infatti non apprezzarono mai


né le speculazioni metafisiche, né le costruzioni sistematiche; furono
piu inclini alla problematica morale e ad una visione del mondo che non
perdesse i contatti con la vita pratica. Con Panezio la Stoa vive perciò
già una fase nuova della sua storia, quella che viene indicata come
"media Stoa "; egli è capo della scuola in Atene dal 129 al no;
prima di allora, Panezio era vissuto a Roma per oltre un decennio
e si era legato di amicizia con la famiglia degli Scipioni; è in questo
periodo che egli guadagna molte simpatie allo stoicismo specialmente
fra gli esponenti dell'aristocrazia di Roma. Lo stoicismo coltivato da
Panezio non si occupa piu di dialettica e di logica; in fisica, esso
lascia cadere la dottrina della conflagrazione universale come troppo
ardita e si attiene alla prospettiva aristotelica dell'eternità dell'uni-
verso; anche la teoria della simpatia universale, dell'universale legame
di tutti gli esseri si attenua; né viene svolta la rigida concezione del
destino. Non è piu, insomma, una vasta costruzione teologica e cosmo-
logica che interessa, quanto invece tracciare un quadro del mondo a
confini ristretti e non molto marcati, entro il quale si collochi l'at-
tività razionale e civile dell'uomo; in fatto di religione, Panezio non
attribuisce gran peso al dio dei filosofi e guarda con maggiore atten-
zione alle forme concrete del culto nelle città. L'etica di Panezio
abbandona il rigorismo precedente; egli insiste sulla necessità di se-
guire la natura, ma intende che ognuno è tenuto a seguire i parti-
colari caratteri della sua individualità, pur senza contraddire una
misura comune di umanità; _da una cond~tta volgare e passionale ci
salva una regola di gusto morale piu che un criterio metafisico; l'unico
criterio da far valere è l'humanitas come senso civile della convivenza
ed operosa esplicazione delle doti della ragione. Nel secolo n non
solo i grandi sistemi di Platone e di Aristotele sembrano ormai
dissolti in un orizzonte remoto, ma le stesse costruzioni dottrinali
del secolo precedente si vengono adeguando e riducendo a dimen-
sioni piu caute; la filosofia si configura, ormai, come contrasto fra
un atteggiamento critico radicale nei confronti del sistema stoico cui
si ·accompagna un piu positivo consenso con il mondo dell'esperienza
da un lato, e dall'altro un atteggiamento piu positivo nei confronti
della tradizione, ma adeguato anch'esso a prospettive piu immediate.

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IL SECOLO Il CAP. VII

4. Lo sviluppo delle scienze.

Il periodo aureo della scuola di Alessandria coincide con il secolo III


e con la prima metà del secolo 11; al 145 risale infatti il primo saccheggio
al quale fu sottoposto il Musco, in relazione a vicende belliche; alle diffi-
coltà esterne fa riscontro allora un'attività scientifica meno rigogliosa. In
tutto il corso dcl secolo però si svolge un lento processo di diffusione
di quella scienza alessandrina che, nel secolo precedente, aveva tenuto il
monopolio della cultura nel mondo occidentale; infatti già nella prima metà
del secolo II, vicino ad Alessandria, si vengono affermando altri centri
importanti di movimenti scientifici, quali Pergamo e Roma. Nell'ambito
delle scienze matematiche ed astronomiche, la figura piu importante è
quella di Ipparco di Nicea; nato in Bitinia intorno al 180, vive ad Ales-
sandria cd a Rodi e muore intorno al 125; è soprattutto importante il
metodo da lui applicato negli studi di astronomia; esso muove da nume-
rose osservazioni sperimentali per poi cercare una rappresentazione geo-
metrica capace di chiarirle; infine con ulteriori osservazioni controlla i risul-
tati della teoria. L'importanza attribuita da Ipparco all'osservazione è attestata
an.che dal profitto che egli trae dagli esperimenti condotti per lunghi anni nel-
l'osservatorio astronomico di Alessandria, nonché dai nuovi apparecchi ottici
da lui inventati allo scopo. Il problema di Ipparco è ancora quello di Eudosso,
cioè la costruzione di modelli geometrici capaci di spiegare il movimento degli
astri; mentre Eudosso aveva fatto ricorso al sistema delle . sfere, Ipparco
studia nuove curve che possano corrispondere alle traiettorie celesti; egli
teorizza cosi due traiettorie: il circolo eccentrico e l'epiciclo; il primo con-
sidera il caso di un circolo descritto intorno ad un centro che non coin-
cide con il punto in cui si trova l'osservatore ed il secondo contempla il
circolo descritto da un mobile intorno ad un punto che a sua volta si
muove circolarmente intorno ad un altro punto. La sostanza delle vedute
di Ipparco doveva piu ·tardi essere assorbita nel sistema astronomico di
Tolomeo. La geografia viene coltivata :i Pergamo da Cratete, che è alla
direzione della biblioteca della città, e in Alessandria da Agatarchide di
Cnido. La medicina ha un notevole sviluppo con la fondazione della scuola
empirica da parte di Serapionc che fiorisce in Alessandria nella prima metà
del secolo; egli polemizza contro ogni forma di dogmatismo negli studi
di me.dicina, anche contro quello che si richiamava ad Ippocrate; per
contro basa la sua pratica medica sull'csperie>1za e sull'esperimento, uti-
lizza ampiamente i vari casi clinici precedentemente osservati e solo quando
non può farne a meno fa ricorso all'analogia. In Alessandria ha grande
sviluppo nel secolo II la filologia; il maggiore dei filologi antichi, Ari-
stofane, vive appunto in questa città dal 257 al 180; egli è il successore di
Eratostene alla direzione della biblioteca e contribuisce in modo rilevante
a perfezionare la tecnica della critica testuale cd a sistemare i criteri del-

Baruch_in_libris
§ 4 LO SVILUPPO DELLE SClENZB

l'interpunzione; successore di Aristofane nella direzione della biblioteca


di Alessandria è un altro grande filologo: Aristarco di Samotracia (220-
145), autore di moltissimi commenti e studi critici sulla letteratura greca. A
Roma fiorisce il poeta e storiografo Ennio (239-169) mentre la storiografia
ellenistica ha la sua massima affermazione con Polibio (207-125); questi
ha notevole r:ilievo anche per la sua teoria storiografica che attribuisce
alla narrazione storica il compito di approfondire lo studio dei documer.: i,
di tener conto dei dati geografici e di studiare sia la politica che la scienza
militare.
Nel suo insieme, il contributo recato dalla scuola di Alessandria allo svi-
luppo della conoscenza non ha rilievo soltanto per i progressi conseguiti
dalle scienze particolari e specialmente dalla matematica, dalla fisica e dalla
medicina, ma si configura anche come indii-izzo generale di cultura, M:l.
privo pertanto di un suo rilievo filosofico; in quanto tale esso contrappone
alle concezioni generali dcl mondo propugnate dallo stoicismo e dall'epicu-
reismo 'una maggiore aderenza all'esperienza ed una piu libera ed artico-
lata sua elaborazione razionale; sotto tale rispetto, anzi, si può dire che la
scuola dj Alessandria abbia rappresentato, nell'età dell'ellenismo, la grande
alternativa culturale allo sviluppo delle correnti piu tradizionali dell'indagine
filosofica.

161

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CAPITOLO Vili

Il secolo 1

POSIDONIO. CICERONE. LUCREZIO. ENESIDEMO

1. Il periodo.
Se il n secolo, è, specialmente nella sua prima metà, contraddistinto
dalla vigorosa espansione di Roma, il 1 secolo con gli ultimi decenni del
precedente è contraddistinto da una complessa evoluzione politica e so·ciale
della repubblica, ormai in deciso declino; gli elementi che hanno deter-
minato il rompersi del precedente equilibrio sono molteplici: la vasta
amministrazione delle provincie, il grosso concentramento della ricchezza
finanziaria nelle mani dell'ordine dci cavalieri, il graduale impoverimento
dell'economia rurale, l'aumento enorme del numero degli schiavi, i con-
trasti sociali connessi con l'estensione di determinati diritti; il senato non
fu piu in grado di equilibrare le forze in contrasto, le lotte interne si
intrecciarono alle continue guerre per controllare e consolidare le precedenti
conquiste, gli eserciti assunsero un'importanza sempre maggiore come stru-
mento di appoggio ad una determinata politica; divenne cosi inevitabile
il passaggio dalla repubblica al governo personale dcl principato con
Augusto; l'età di Augusto segnò, come è noto, il massimo fiorire della
letteratura e della cultura in Roma; ma, da un punto di vista piu gene-
rale, era evidente che Roma non era riuscita a sviluppare un'azione culturale
profonda che, traendo profitto dalla tradizione greca, facesse argine a tutte
le forze disgregatrici che crescevano all'interno del suo vasto impero; anche
la filosofia accennava. sempre piu a diventare patrimonio di circoli ristretti
di intellettuali e di aristocratici; e si avrà infine il prevalere di quelle
tendenze mitiche e: magiche che, se non erano mai venute meno nei paesi
orientali, non erano finora riuscite a creare un clima generale dominante
in tutto lo scacchiere della civiltà ellenistica. Dal punto di vista filosofico
si ha, in questo periodo, uno sviluppo e adattamento di posizioni tradi-
zionali al nuovd clima culturale; cosi si può dire in particolare per lo
stoicismo di Posidonio, per lo sviluppo dato da Cicerone ad alcuni temi
dc:ll' Academia e per il tentativo compiuto da Lucrezio di rinnovare
l'epicureismo; con Enesidc:mo si ha poi la ripresa dell'indirizzo scettico
con un aperto richiamo alla tradizione pirroniana.

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s2 POSIDON10

2. Lo stoicismo di Posidonio.
La media Stoa che nel secolo II era stata iniziata da Panezio ha
ora il suo esponente maggiore in Posidonio, vissuto fra il 135 ed il 51;
sappiamo che insegnò a Rodi dove ebbe scolaro Cicerone e che
tenne rapporti amichevoli sia con Pompeo che con gli ambienti
culturali di Roma; scrisse molti trattati filosofici, oltre ad opere di
matematica, di storia, di geografia, di scienze della natura; a giudicare
dall'eco che della sua dottrina si riscontra in altri autori (giacché
nulla resta dei suoi stessi scritti), Posidonio è una mente enciclopedica.
L'indirizzo generale del suo pensiero da un lato accentua alcuni
motivi naturalistici, dall'altro li integra con una prospettiva mistico-
religiosa; per es., il calore che è il principio animatore dcl.l'universo
è anche alla radice di quell'ordine gerarchico che dispone gli esseri
secondo un piano provvidenziale; la natura è regolata da leggi cd
è oggetto di ricerca scientifica, ma Dio può vaticinare il iuturo per
bocca d'una profetessa ispirata o quando, nel sonno, rapisce l'anima,
sciolta dai vincoli del corpo, in sogni profetici; il mondo è un'unità
organica, ma l'anima ha rapporto diretto con Dio mediante l'entusia-
smo mistico. L'uomo stesso risulta composto di due parti, una dcm~
niaca che ha la stessa natura di Dio ed una irrazionale che la contra-
sta; le passioni non si possono quindi sradicare, ma sono una parte
del nostro essere; su questo elemento irrazionale della nostra natura
nulla può la ragione, poiché solo con mezzi irrazionali si può domi-
.nare. la parte inferiore di .noi. Posidonio ebbe piu vivo di· altri stoici
l'interesse per lo studio analitico della natura; ma egli è anche piu aperto
di altri a tradizioni mistiche che finora erano rimaste estranee alla
scuola stoica.

3. Cicerone e I'Academia.
Il pensiero di Cicerone, vissuto fra il 106 cd il 43, è legato alle
vicende della Academia di Platone e specialmente alle dottrine in
essa sostenute da Filone di Larissa e da Antioco di Ascalona, gli
scolarchi che la diressero dal 110 fino al 69; del secondo, Cicerone
fu scolaro ad Atene nel 79. L'indirizzo di Antioco è in aperto con-

165

Baruch_in_libris
IL SECOLO I CAP. VIII

trasto con quello che alla scuola aveva impresso Carneade; mentre
questi aveva criticato a fondo la dottrina stoica, Antioco promuove
un incontro fra lo stoicismo e l'Academia; ma l'Academia deve ri-
tornare alla autentica dottrina di Platone che, a suo giudizio, non
è poi distante né dalla dottrina aristotelica, né da quella stoica. In
particolare Antioco c~itica il probabilismo di Carneade in quanto
ritiene che, per stabilire una graduazione della probabilità, è neces-
sario un criterio fermo, una certezza assoluta; bisogna dunque am-
mettere che sia possibile percepire la verità e che questa costituisca
la base stabile dell'azione; «è soprattutto necessario, concludeva An-
tioco, che noi si percepisca qualche cosa prima dell'azione e che si
dia il nostro assenso a quello che abbiamo percepito, poiché chi nega
o la percezione o l'assenso, nega radicalmente l'attività della vita
umana».
Cicerone, nei molti suoi scritti di ispirazione filosofica (si possono
·ricordare i seguenti: Academica, De finjbus, Tusculanae disputationes,
De natura deorum, De divinatione, De fato, De officiis) non ade-
risce del tutto alla posizione di Antioco; del resto egli aderisce, volta
a volta, ad indirizzi ed a tesi non sempre coerenti, né si propone di
elaborare una filosofia originale; avendo atteso con passione agli
studi filosofici, Cicerone ha soprattutto il merito di aver rielaborato
in lingua latina molti seritti filosofici greci; le sue opere hanno avuto
comunque una grandissima diffusione; sono penetrate piu tardi nel
mondo cristiano ed il suo umanesimo è stato piu volte ripreso nel
corso della storia come una visione equilibrata del mondo e della
vita umana, sia individuale che collettiva. Cicerone si considera aca-
demico quanto al metodo, cioè alieno da affermazioni dogmatiche
concernenti oggetti troppo lontani dall'esperienza comune, attento
al pro cd al contro dei problemi, piu interessato a discutere ed a
cercare che ad affermare perentoriamente. Comunque la sospensione
radicale dell'assenso, già propugnata da Arccsilao e da Carneade,
non gli appare come un atteggiamento realistico; e, pur entro limiti
ragionevoli, egli sostiene dottrine positive; si affida con fiducia al
consensus gentium per affermare l'esistenza degli dèi; crede nella
provvidenza divina, senza di che gli pare che vengano meno non
solo la religione e il culto, ma anche una ordinata convivenza civile;

166

Baruch_in_libris
CICBl.ONI!

respinge invece le credenze nd fato e nella divinazione; l'immorta-


lità dell'anima è una conclusione che Cicerone si sforza di dimostrare
con vari argomenti; egli non è insensibile nemmeno ai temi dell'asce-
tismo platonico, come quando afferma che la vera sede dell'anima
non è la terra, ma il cielo o quando indica nel corpo un limite ed
una prigione per l'anima. Il criterio etico piu analizzato da Cicerone è
l'honestum che si accompagna al decorum; si tratta d'uno sviluppo
armonico delle qualità proprie dell'uomo, in cui si equilibrano le doti
di natura e quelle individuali, la virtil come l'utilità. Cicerone rifugge
infatti dall'ascetismo; il cosmopolitismo che egli deriva dagli stoici
si combina con il senso della patria e della tradizione romana, nonché
con un certo conservatorismo proprio dell'aristocrazia del suo tempo.

4. L'epicureismo di Lucrezio.

L'epicureismo non si era mai del tutto eclissato dopo la fonda-


zione della scuola, ma i suoi seguaci si erano tenuti piuttosto in di-
sparte, come un'opposizione aristocratica, mentre si svolgevano le pole-
miche fra stoici ed academicL Nel 1 secolo l'epicureismo rivive per
opera di Filodemo e di Lucrezio. Il primo, nativo di Gadara in
Siria, visse fra il 110 ed il 35 e fu per parecchio tempo a Roma, dove
ebbe amici Cicerone, Virgilio ed Orazio; nei suoi scritti si dedicò
principalmente a difendere la dottrina di Epicuro contro gli attacchi
che le erano rivolti sia da parte degli stoici che da parte degli acade-
mici. Con Lucrezio (95-55) l'epicureismo ha prodotto un'opera di
altissima ispirazione poetica: il De rerum natura; è l'opera alla
quale è storicamente legato ormai lo stesso pensiero di Epicuro e
che ha determinato, a piu riprese nella storia del pensiero, la rina-
scita dell'atomismo e della filosofia del Giardino. Non è comunque
solo ad Epicuro che si rifà Lucrezio; egli ha utilizzato anche Demo-
crito, Aristotele, Teofrasto, oltre a Posidonio ed a Filodemo. All'in-
tero epicureismo egli conferisce tuttavia un significato particolare,
certo in relazione alle preoccupazioni che in lui sollevava la diffusione
dei movimenti mistici ed occultistici provenienti dall'oriente. Il punto
della fisica epicurea su cui Lucrezio ha posto un particolare accento
è quello che concerne il " clinamen " degli atomi; egli ribadisce

Baruch_in_libris
IL SECOLO I CAP. VIII

cioè che, se non si attribuisce all'atomo il potere di deviare dalla linea


retta, non si può dare una spiegazione soddisfacente della libera ini-
ziativa umana da un lato e dell'assenza di necessità nel mondo
dall'altro. Sul tronco dell'epicureismo Lucrezio inserisce poi motivi
che derivano dalla sua esperienza di vita e dalla sua formazione
culturale. Tale è, ad es., l'accento pessimistico delle sue pagine che
riguardano il vano affaticarsi degli uomini nella soddisfazione delle
loro cupidigie e quelle che concernono l'irrimediabile decadenza cui
conduce _il processo della civilizzazione umana; senza dire di quel
disgusto della vita che Lucrezio deriva dall'eterna monotonia delle
cose. La lotta anti-religiosa è comunque nella cima dei suoi pensieri;
le pene dell'oltretomba, egli afferma, sono la raffigurazione delle
pene che gli uomini vivono quaggiu, premuti dal vano terrore degli
dèi e dal timore per i colpi del destino; è proprio questa vita terrena
che bisogna cambiare e allora anche la raffigurazione delle .pene
future lascierà il posto ad una piu pacata rassegnazione alla nostra
fine nel nulla della morte.

5. Il neo-scetticismo di Enesidemo.
Di fronte alla svolta che, con Antioco di Ascalona, riporta l'Aca-
demia ad un rinnovato dogmatismo, si ebbe, sul· finire del 1 secolo,
la reazione di Enesidemo che insegnò ad Alessandria e volle ripristi-
nare la tradizione scettica in una forma piu rigorosa. La sua opera
dal titolo Discorsi pirroniani conteneva una sistemazione dello scetti-
cismo, la cui parte principale è costituita dalla formulazione dei dieci
argomenti o tropi per la sospensione dell'assenso a ciò che attestano
i sensi; i motivi principali di tale sospensione risiedono nei contrasti
cui la· sensazione stessa dà luogo; infatti i dati della sensazione sono
diversi nei diversi animali, variano da uomo a uomo in circostanze
diverse; la rappresentazione d'una cosa varia col variare del luogo in
cui essa si trova, né è possibile isolare un oggetto dalla mescolanza
in cui si trova con altri oggetti; infine Enesidemo richiamava la
diversità dei costumi, delle leggi e delle tradizioni; egli voleva insomma
dimostrare come la conoscenza sia sempre relativa e non possa per-
tanto conseguirsi la verità. Un altro punto importante svolto da Enesi-

161

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§ 5 ENESIDEMO

demo concerne la critica della conoscenza che si ·può ricavare, secondo


gli stoici e gli epicurei, risalendo dai fenomeni osservati quali segni
alle cause nascoste di essi. Questo rinnovato scetticismo ha principal-
mente di mira la fiducia stoica ed epicurea di poter distinguere le
sensazioni vere da quelle false e di poter superare l'ambito della
sensazione con la determinazione di cause mediate dei fatti; esso
si attiene, invece, per proprio conto, a quell'analisi dell'esperienza e
della sensazione che, essendo comune a molte correnti di medici e di
scienziati ad Alessandria, intendeva comunque svuotarle di ogni con-
tenuto dogmatico. È posteriore ad Enesidemo un'ulteriore elaborazione
dei tropi dovuta ad Agrippa; si tratta di cinque tropi di carattere
piu generale: il primo è quello « per cui troviamo che intorno ad
una cosa proposta esiste una discordia indirimibile nella vita e nei
filosofi »; il secondo è quello del rinvio all'infinito, per cui « ciò che
si reca a prova della cosa proposta diciamo che ha bisogno a sua volta
di altra prova e cosi all'infinito »; il terzo modo dipende dalla rela-
zione, cioè dal fatto che ogni oggetto non appare mai per sé, ma sem-
pre in relazione sia al soggetto che ad altri oggetti; il quarto modo si
chiama " ipotetico " in quanto mette in chiaro che i dogmatici risal-
gono a dei principii che non sono dimostrati, ma vengono assunti come
ipotesi; il quinto modo è quello detto del "diallelo" in quanto rileva
che spesso i dogmatici provano a con b e insieme b con a, con un cir-
colo evidente.

6. Lo sviluppo delle scienze.


Se il diffondersi di credenze magico-astrologiche non poteva che osta-
colare la ricerca scientifica vera e propria, quale si era soprattutto affer-
mata nel m secolo in Alessandria d'Egitto, non è da credere che lo spirito
scientifico fosse già scomparso nel I secolo. Esso è ancora presente infatti
tanto a Roma che ad Alessandria. In quest'ultima città era sorta anche una
scuola di ingegneria che si era già distinta per l'invenzione di parecchi
strumenti idraulici; l'esponente piu illustre di tale scuola pare che sia
vissuto nel corso del I secolo ed è Erone. La sua opera ci informa sia sul
fatto che, nella scuola di Alessandria, l'insegnamento dell'ingegneria era
organizzato in corsi propedeutici di carattere teorico con prevalenza delle
discipline scientifiche e con corsi successivi di applicazione e di eserci-
zio pratico, sia sull'enorme importanza che egli ha attribuito, anche

Baruch_in_libris
tL SECOLO I CAP. VIII

nella trattazione delle discipline teoriche, all'aspetto sperimentale costrut-


tivo ed operativo; con ciò Erone si staccava da Euclide molto piu di
quanto non avesse fatto, a suo tempo, Archimede; e tuttavia le appli-
cazioni che Erone poté trarre dal vasto apparato delle sue conoscenze
teoriche non ebbero un peso notevole nella trasformazione tecnica della
produzione e della vita del suo tempo; i risultati piu apprezzati erano la
costruzione di ingegnosi giocattoli, di orologi ornamentali e di dispositivi
che erano detti "miracolosi" (ad es. un dispositivo meccanico che faceva
aprire le porte del tempio al momento in cui sull'altare si accendeva il
fuoco sacro); il conservatorismo sociale impediva alla tecnica di impegnarsi
in qualche cosa di piu rilevante. Né si può dimenticare che anche in
Roma, nello stesso periodo, l'ingegneria ebbe un illustre cultore in
Vitruvio; egli non volle essere un puro tecnico, ma si sforzò di considerare
la costruzione degli edifici e l'architettura in rapporto con la civiltà e
la cultura del suo tempo; meno spiccata invece è la sua preparazione scien-
tifica in senso stretto.
Per quanto riguarda Roma, è anzitutto da segnalare che nel corso del
I secolo vi si affermò una scuola di medicina che probabilmente derivava da
una precedente iniziativa affermatasi ad Alessandria di Egitto. Asclepiade,
nato a Prusa in Bitinia, fu l'esponente piu noto di questa scuola; egli si
ispirava alla filosofia di Epicuro e professava un materialismo radicale; rite-
neva che la malattia derivasse dall'occlusione dei pori o canali intorno
a cui si uniscono gli atomi formanti il corpo; le cause dell'occlusione erano,
a suo avviso, sempre meccaniche e dovevano essere tolte con interventi
chirurgici. Il suo discepolo Temisone (63 a. C.) fu l'iniziatore di un indir}zzo
di medicina che venne chiamato metodico, in quanto si preoccupava di
stabilire, mediante l'osservazione, i caratteri comuni alle varie malattie;
anche Temisone si atteneva a una visione materialistica, in q~anto rite-
neva essenziale il concetto di "tensione" o "tono" dell'organismo, perce-
pibile attraverso il battito del polso; non è che quest'indirizzo di medicina
non facesse ricorso a criteri generali, come si vede, ma tali criteri aderivano
ad una spiegazione materialistica della struttura corporea, indipendentemente
da ogni dottrina di carattere metafisico generale. A Roma fiorisce anche
la cultura enciclopedica con Marco Terenzio Varrone (n6-27); fra le sue;
opere che non sono giunte a noi figura infatti una trattazione enciclo-
pedica De disciplinis divisa in nove libri, dedicati alle seguenti materie:
grammatica, dialettica, retorica, geometria, aritmetica, astrologia, musica,
medicina, architettura : senza dire del rilievo che ha la conoscenza di
Varrone in fatto di botanica, dove egli supera lo stesso Catone. La geografia
ha il suo massimo cultore in Strabone (63-20 d. C.) che scrive una vastis--
sima enciclopedia in cui trovano sistemazione gli aspetti matematici, fisici,
politici e storici di questa disciplina; mentre l'opera precedente di Erato-
stene aveva tnsistito sulla trattazione matematico-scientifica della descrizione

170

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§ 6 LO SVILUPPO DELLE SCIENZE

della terra, ora Strabone si rivolge prevalentemente agli uomini d'affari e


svolge la sua descrizione della terra con prevalente attenzione al suo
rapporto con il mondo degli uomini. Le discipline storiche vantano, in
questo periodo, autori come Giulio Cesare (102-44) e Sallustio (86-34).

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CAPITOLO IX

Il 1 secolo dell'èra cristiana


FILONE. LA PREDICAZIONE DI GESU ES. PAOLO. SENECA

1. Il periodo.
. Il I secolo dell'era cnsuana coincide con il primo periodo della storia
dell'impero romano fondato da Augusto: i contrasti interni fra l'esercito,
il senato e l'aristocrazia continuano, mentre la compagine dcl vasto do-
minio di Roma regge solidamente sia dal punto di vista militare che da
quello politico. I problemi di fondo delle popolazioni che vivono nell'am-
bito delrimpero non vengono però risolti e solo la dittatura militare è in
grado di mantenere e in parte di accrescere ti prestigio del potere centrale.
Dal punto di vista culturale si accentua nei I secolo quella crisi che
aveva avuto inizio nel secolo precedente: e ciò nel senso che la formu-
lazione razionale dci criteri per la conoscenza del mondo e per la condotta
dell'uomo appare sempre meno soddisfacente alle masse che . non fanno
parte dci ristretti gruppi intellettuali; viene sempre pio diffondendosi una
visione mistico-religiosa della vita e dcl mondo, comunità religiose nuove
si formano dovunque, i culti orientali si diffondono anche in Occidente
per opera dci soldati, dei commercianti, degli schiavi che sono ·adibiti nelle
campagne e nelle città. In Alessandria d'Egitto Filone tenta una fusione
delle pio rilevanti istanze religiose giudaiche con alcuni temi della filosofia
greca e specialmente della tradizione platonica; si svolge intanto la predica-
zione di Geso con la quale nasce il cristianesimo; esso già con s. Paolo
prende una precisa posizione rispetto alla filosofia ellenistica, mentre il pen-
siero di Seneca adatta la tradizione stoica all'ambiente della cultura romana.

2. Filone e l'incontro di filosofia greca e religione ebraica.


Filone appartiene alla colonia ebraica di Alessandria e vive fra il
20 a. C. cd il 40 d. C.; da un lato egli professa la· fede religiosa nella
civclazione divina contenuta nell'Antico Testamento; dall'altro è uomo
di vasta cultura e conosce in particolare le dottrine stoiche, quelle pita-

Baruch_in_libris
s2 PILONE

goriche, nonché il pensiero di Platone; la sua visione dcl mondo tende


appunto a fondere le prospettive piu rilevanti della religione ebraica
con alcune dottrine della tradizione filosofica greca, come risulta dalk
sue opere maggiori che sono un'esposizione della legge ebraica, un
grande commento allegorico al libro del Genesi ed una vita di Mosè,
oltre ad alcuni scritti, di ispirazione piu propriamente filosofica, sulla
libertà del sapiente e sulla provvidenza. I criteri che consentono a Fi-
lone di unire insieme religione ebraica e filosofia greca sono principal-
mente due: da un lato egli sostiene che alcune dottrine di filosofi greci,
specialmente di Platone, erano loro derivate da Mosè o dalla conoscenza
delle leggi degli ebrei; in secondo luogo afferma che la legge ebraica
«è simbolo di cose intellegibili», ha cioè in sé «un senso nascosto»;
non basta quindi considerarla nella sua enunciazione letterale, ma bi-
sogna scoprirne il significato che sta oltre le parole.
È tratto dalla religione ebraica il carattere espansivo e ben~fico della
divinità, sul quale Filone particolarmente insiste, come quando afferma
che la bontà di Dio « benefica senza interruzione ed accumula doni su
doni »; dall'ebraismo deriva altresl la preoccupazione di tenere la realtà
divina distinta e trascendente rispetto al mondo umano; per questo Dio
è considerato « superiore alla virtu, superiore alla scienza, superiore
allo stesso bene »; ciò non è detto tuttavia senza un intendimento po-
lemico nei confronti della concezione ellenistica della divinità e del
suo mescolarsi con le forme piu alte dell'att;ività umana. Da un lato
Dio è suprema unità; d'altra parte non lo si può comprendere che
alla luce di quelle potenze, o aspetti dell'azione divina, che anche la
teologia greca aveva analizzato. La maggiore delle potenze divine è
il Verbo, il cui concetto Filone ricava dalla filosofia platonico-stoica;
il Verbo è ad un tempo Dio e il primo degli esseri sapienti e perfetti
creati da Dio; la sua funzione diviene rilevante nella creazione del
mondo che viene cosi prospettata: « Dio, presa la risoluzione di creare
il mondo visibile, prima modellò il mondo intellegibile, per potere, va-
lendosi del modello incorporeo e simile a Dio, formare il mondo cor-
poreo; ora il mondo fatto di idee o modelli non può aver altro luogo che
il Verbo divino ordinatore di queste cose »; in tal modo il mondo
platonico delle idee si trasforma nella mente di Dio, in un'espressione
personale di Dio che è a sua volta persona. Dio non è, per Filone, solo

1 71
Baruch_in_libris
IL PRIMO SECOLO DELL' ÈRA CRISTIANA CAP. IX

ordinatore del mondo, ma suo creatore; egli «ha chiamato il mondo


all'essere dal nulla»; non ha però creato anche la materia informe,
perché, come aveva pensato Platone, Dio non può venire ad un con-
tatto qualsiasi « con la indeterminata e caotica materia »; alla materia
preesistente Dio ha quindi conferito forma e determinazione. L'intel-
ligenza che si trova nell'uomo è una particella o raggio del Verbo di-
vino; essa deve fuggire «quell'impuro carcere che è il corpo» estra-
niando il pensiero dal mondo materiale; a questo punto Filone utilizza
gli argomenti che la tradizione scettica aveva recato contro la validità
della conoscenza, perché, osserva, « nelle infinite cose che vengono trat-
tate dalla logica, dall'etica e dalla fisica nascono discussioni innume-
revoli »; non ci resta dunque che sospendere il giudizio e passare alla
fede che considera gli aspetti positivi dell'attività umana come derivanti
da Dio e non da un merito o da un valore particolare dell'uomo e
quindi attribuisce a Dio l'iniziativa della salvezza e del bene, promuo-
vendo l'unione con lui; alla esigenza razionale di comprendere il reale
e di agire in esso, la fede sostituisce il senso dell'unione con Dio; il
sapiente, insomma, non è piu per Filone colui che si dedica alla ricerca
scientifica e al dominio delle passioni, ma colui che spinge la propria
riflessione fino ad intendere che la felicità consiste nel disprezzo della
cultura e nell'abbandono mistico all'estasi divina.

3. La predicazione di Gesu.
Mentre ad Alessandria si afferma la dottripa di Filone in cui la
tradizione religiosa ebraica ha una parte determinante, si svolge in
Palestina la predicazione di Gesu; essa si colloca all'interno dell'ebrai-
i1mo, ma ne rinnova profondamente il contenuto religioso. Gesu si ri-
volge, secondo che attestano i tre vangeli sinottici di Matteo, di Marco
e di Luca, a tutti gli uomini di buona volontà e particolarmente a co-
loro che soffrono; ai diseredati, ai peccatori; ad essi predica il regno
di Dio che non ha un significato mondano, ma un significato interiore
di rinnovamento, di liberazione dal male, di redenzione dal peccato;
bisogna staccarsi da tutte le cose del mondo, dall'attaccamento agli
onori, alle ricchezze; la salvazione sta nell'amore di Dio e del pros-
simo: Dio è padre, infinitamente buono e misericordioso; per diven-

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s3 LA PREDICAZIONE DI GESÙ

tare suoi figli, bisogna amare anche i propri nemici e fare del bene
a coloro che ci fanno del male; solo l'amore ci redime dal peccato. Non
è l'osservanza della legge che salva, non è il •conformismo esteriore
delle pratiche del culto che giustifica; solo i puri di cuore vedranno
Dio. Gesu si presenta come figlio dell'uomo e figlio di Dio, come ban-
ditore della redenzione nella fede, come pegno di un nuovo patto fra
Dio e gli uomini. La predicazione di Gesu si stacca da tutti gli altri
indirizzi religiosi dell'ebraismo, da quello dei sadducei che si accon-
tentavano di un'osservanza formale della legge ed irridevano ad ogni
speranza escatologica, da quello dei farisei, tutti presi dallo zelo per
la conservazione della genuina tradizione ebraica, come anche dall'asce-
tismo degli esseni. La predicazione di Gesu prende invece posizione
contro l'osservanza esteriore della legge assunta come pieno adempi-
mento della vita religiosa e se da un lato si appella alla tradizione ebraica
che vuole conservata nei suoi elementi fondamentali, dall'altro non si
fa scrupolo di contrastarla nei suoi aspetti piu retrivi e di rinnovarla
con un richiamo piu diretto alla vita interiore dell'uomo; viene accen-
tuato in modo rilevante l'elemento escatologico; esso diviene anzi il
perno del rinnovamento religioso e spirituale bandito da Gesu, il quale
non propugna un distacco dalle cose del mondo fine a se stesso e non
si fa apostolo di un ascetismo di tipo moralistico; il distacco dalle cose
mondane è soltanto un mezzo per il rinnovamento interiore e per il
raggiungimento della salvezza; questa poi non si ottiene solo con
l'unione mistica con Dio, ma anche attraverso l'amore e la compren-
sione degli uomini.
La persona e la predicazione di Gesu, i prodigi da. lui operati, la
sua condanna a morte per opera del sinedrio ebraico, la sua resurre-
zione sono al centro di moltissime narrazioni sorte e diffuse nell'am-
bito della comunità cristiana dei primordi; piu tardi la chiesa indicò
quali fra questi documenti dovessero ritenersi « canonici » e quali
invece fossero da considerare «apocrifi».

4. S. Paolo.
Nelle lettere inviate alle comunità cnstlane dal 55 al 58 (special-
mente importanti quelle ai Corinti, ai Romani ed ai Galati), Paolo
riconosce alla predicazione di Gesu un compito originale sia rispetto

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IL PRIMO SECOLO DELL' ÈRA CRISTIANA CAP. IX

alle pretese della cultura ellenistica, sia rispetto alla tradizione religiosa
giudaica. « Il mondo, egli afferma, con tutta la sua sapienza non ha
saputo riconoscere Dio, mentre Dio si è compiaciuto di salvare i cr~
denti mediante la stoltezza della predicazione»; ma nemmeno l'osser-
vanza della legge giudaica può salvare; perciò appunto, nella nuova
fede, non vi è piu « né giudeo, né greco, né schiavo, né libero ». Al
centro della nuova fede è l'unità di ciascuno dei fedeli e di tutti in-
sieme nel « corpo mistico » di Cristo; la morte e la risurrezione di
lui sono redenzione dal peccato e liberazione dal male: «All'infuori
della legge, si è ora manifestata la giustizia di Dio mediante la fede
in Gesu; tutti hanno peccato e tutti sono giustificati gratuitamente per
la grazia; l'uomo è giustificato per la fede, all'infuori· delle opere della
legge». Alla radice della fede sta un piano divino di predestinazione
e di salvezza; il regno di Dio coincide con il prossimo rinnovamento
religioso di tutta l'umanità, al cui termine si avrà la seconda venuta
di Cristo e la risurrezione di tutti i corpi; al grande rinnovamento in-
teriore deve accompagnarsi il distacco dal mondo e la soggezione al-
1'autorità, perché «chi si ot>pone all'autoricl, va contro l'ordine di
Dio».

5. Seneca e lo stoicismo romano.


Contemporaneo di s. Paolo è Seneca, nato a Cordova nel 3 e morto
a Roma intorno al 65; scrisse molti trattati morali, le famose Let-
tere a Lucilio e le Quaestiones natura/es. Anche se gli scrittori cri-
stiani piu tardi hanno visto nelle sue opere un indirizzo di pensiero
vicino al cristianesimo, in realtà Seneca propone una dottrina stoica,
che, pur staccandosi sensibilmente dai modelli greci originari, ne
mantiene tuttavia lo spirito in continuità con la tradizione filosofica.
Mentre s. Paolo pone la salvezza nell'abbandono alla grazia divina,
Seneca, pur senza abbandonarsi ad indagini metafisiche approfondite
e senza nutrire una fiducia totale nello strumento logico-dialettico, co-
struisce un mondo etico di impronta schiettamente razionale, ossia trac-
cia una visione della vita in cui l'uomo tiene ancora il posto centrale.
L'opera in cui egli raccoglie la trattazione delle questioni di astro-
nomia, di meteorologia e di geografia, anche se risale come fonte prin-

Baruch_in_libris
§ 5 SENECA

cipale a Posidonio, dimostra un atteggiamento positivo per quel mon-


do naturale e per quella ricerca scientifica che il cristianesimo considera
con assoluto distacco. Se non si attiene strettamente ad uno stoicismo
dogmatico, è perché vuole accostarsi anche ad altri pensatori, in quanto,
osserva, « la verità è aperta a tutti e non è possesso di nessuno in for-
ma esclusiva». Seneca teorizza la liberazione dell'anima dal carcere del
corpo, ma la morte non è per lui una unione mistica con Dio, quanto
invece « una naturale estensione del nostro pensiero nell'infinito», un
ritorno dell'anima al principio dell'essere da cui è venuta. Seneca nega,
come Paolo, che esista una differenza fra l'uomo libero e lo schiavo;
ma il legame comune non è l'unione mistica con il corpo di Cristo,
bensf l'unione con il gran corpo universale della natura « che . ci ge-
nerò parenti, dandoci una stessa origine ed uno stesso fine »; ciò che
rende lo schiavo pari al libero è la libertà dell'anima «che non si può
mai dare in schiavitu », perché «tutto ciò che viene da essa è li-
bero ». Della tradizione stoica Seneca conserva in particolare la dot-
trina della provvidenza che governa tutte le cose, la teoria del cosmo-
politismo e il precetto dell'amore universale che deve legare tutti gli
uomini. Con Seneca insomma la filosofia stoica si apre a motivi umani
piu larghi ed intimi, il senso concreto della vita si fa piu urgente ed
appassionato, si compie uno sforzo per approfondire il senso divino
del mondo; perciò la preoccupazione maggiore non è per la fedeltà
ad una scuola, ma per una piu vasta comprensione umana; ma è pur
sempre il tentativo compiuto dalla ragione in nome di quella sapienza
che Paolo non esitava a chiamare pura follia.

6. Lo sviluppo delle scienze.


L'attenzione di Seneca per lo studio scientifico della natura non è,
d'altra parte, isolata nel suo tempo. Ad Alessandria si continuano a coltivare
le varie scienze; cd altrettanto avviene nei centri culturali dell'ellenismo.
Anche Roma viene presa da tale interesse, sebbene in questo caso si tratti
piu di volgarizzazione delle scoperte già fatte che non di un contributo
nuovo cd originale. Cornelio Celso, ad esempio, fiorito sotto Tiberio, è
autore di una sorta di enciclopedia, dal titolo Artes, in cui tratta di reto-
rica, di filosofia, di legge, di scienza militare, di agricoltura e di medi-
cina; la parte di essa che è giunta fino a noi comprende una storia dci pro-
cedenti sviluppi della scuola medica di Alessandria, con ampi resoconti

Baruch_in_libris
IL PllIMO SECOLO DEU.' ÈRA CllISTIANA CAP. IX

delle varie scoperte scientifiche; l'atteggiamento dell'autore non inclina


né verso la semplice esperienza, né a favore esclusivo del metodo filosofico
in medicina, ma tende piuttosto ad una conciliazione dei due criteri. Plinio
il Vecchio che, nato a Como nel 23, mori osservando l'eruzione del Vesuvio
nel 79, va ricordato per la sua Naturalis Hirtoria che è uno scritto enciclo:
pedico in 37 libri, comprendente questioni di astronomia, di chimica, di
geologia, di botanica, di zoologia, di geografia, di antropologia, di etno-
logia e di storia dell'arte, oltre che di medicina; il modo in cui il mate-
riale viene messo insieme denota certamc;nte scarso senso critico; ma l'opera
rivela comunque una viva curiosità scientifica e attesta lo sfruttamento
d'un copioso materiale (Plinio nomina infatti 146 scritti romani e piu di
300 scritti greci da lui utilizzati). Se si aggiunge che a Roma si ebbe, in
-iuesto tempo, la fondazione ufficiale della Schola medicorum, oltre alla
composizione dcl De re rustica di Columella, del De institutione oratoria
di Quintiliano e dell'opera storica di Tacito, e che nel mondo ellenistico
si diffuse l'enciclopedia medica di Dioscoride e il primo trattato in cui
l'aritmetica viene svolta da Nicomaco di Gcrasa come disciplina autonoma,
si comprenderà che, pur non essendo il I secolo d. C. un periodo parti-
colarmente fertile ed originale per l'attività scientifica, esso non lasciò
comunque cadere in dimenticanza il vasto materiale raccolto nelle epoche
precedenti.

,,,,
Baruch_in_libris
CAPITOLO X

Il 11 secolo
GNOSI RELIGIOSA E PENSIERO CRISTIANO.
PLUTARCO. EPITTETO. MARCO AURELIO

1. Il periodo.
Nel corso del n secolo la compagine statale romana riesce ancora a
mantenere la sua efficienza; con Traiano pare anzi che l'impero riacquisti
nuova forza espansiva verso la Dacia; ma ormai Germania, Sannazia e
Media restano a segnare il limite estremo dell'espansione romana. La
politica degli Antonini, con l'appoggio all'agricoltura, il controllo della
burocrazia e dell'esercito e con l'estensione della cittadinanza a tutti gli
uomini liberi dell'impero, segna un periodo abbastanza tranquillo. Il cri-
stianesimo che, nel corso dcl 1 secolo, aveva trovato proseliti specialmente
nelle classi umili, si diffonde ora anche fra gli intellettuali e fra gli stessi
esponenti della vita politica e militare.
La cultura è dominata in questo periodo da una speculazione reli-
giosa ad intonazione misticheggiante: la gnosi; il cristianesimo, anche se
tenta con gli apologisti di stabilire un rapporto fra la nuova religione e la
filosofia greca, compie ogni sforzo per differenziarsi nettamente da tutte
le correnti della gnosi. L'interesse religioso dominante esercita il suo
influsso anche sul pensiero di Plutarco e di altri che, come lui, si dichia-
rano platonici in quanto riprendono quei temi della filosofia di Platone
che piu paiono conciliarsi con la speculazione religiosa. Soltanto il tardo
stoicismo romano con Epitteto e Marco Aurelio si mantiene ancora fedele
alla tradizione della sapienza filosofica, senza concessioni al misticismo.

2. Il vangelo di Giovanni.
Il vangelo di Giovanni risale probabilmente all'inizio dcl n secolo
ed è particolarmente importante perché, nell'interpretazione della fi-
gura e dell'opera di Ge$u, utilizza concetti che non sono presenti

179

Baruch_in_libris
IL Il SECOLO CAP. X

nei tre vangeli sinottici. L'autore del 1v vangelo non si accontenta


infatti di dichiarare Gesu figlio di Dio, ma si sforza di spiegare la sua
relazione con Dio mediante il concetto di Verbo; l'inizio del vangelo
suona cosi: « In principio era il Verbo ed il Verbo era presso Dio ed
il Verbo era Dio. Tutto è stato fatto per suo mezzo e senza di lui
non è stato fatto nulla di ciò che esiste. In Lui era la vita e la vita
era la luce degli uomini ». Nel 1v vangelo, oltre a Dio Padre ed al
Logos o Verbo compare anche il Paracleto· o Spirito che il Padre
invierà ai discepoli di Gesu per completarne e continuarne l'opera;
la figurazione della trinità ha qui pertanto una piu approfondita for-
mulazione.

3. La gnosi.

Nel 11 secolo giunge al suo culmine il diffondersi delle sette gno-


stiche che aveva avuto inizio già nel 1 secolo a. C.; si tratta di pic-
coli gruppi di iniziati che, muovendo dalle religioni orientali, si
danno alle speculazioni cosmologiche e teosofiche; essi hanno in co-
mune l'esoterismo e alcuni punti dottrinali generali; alcuni di questi
indirizzi si affermano anche all'interno del cristianesimo; _è anzi
nello sforzo di differenziarsi da essi e di individuare chiaramente
la loro eterodossia che il cristianesimo primitivo si consolida dot-
trinalmente. La gnosi o conoscenza cui tutti i movimenti gnostici si
richiamano è la conoscenza che salva; essa è riservata agli iniziati
e perciò è diversa dalla fede delle persone comuni; deriva dall'alto
in forma misteriosa, illumina immediatamente gli adepti e viene da
loro posseduta in modo completo. Il contenuto comune di tale rive-
lazione esoterica comprende anzitutto la dottrina di un Dio scono-
sciuto ed invisibile, del quale non si possono indicare qualità ed
attributi in senso positivo; il vero Dio supremo infatti non deve avere
nulla in comune con la realtà finita e perciò deve distinguersi netta-
mente da quel dio demiurgo che crea il mondo ed ha rapporti con la
materia; quest'ultimo appartiene al numero di quelle entità media-
trici che procedono dal Dio invisibile per via di una progressiva
degradazione di perfezione; si tratta di esistenze spirituali eterne
(eoni) che nel loro insieme formano il pleroma o pienezza della realtà
180

Baruch_in_libris
s3 LA GNOSI

divina. L'origine della materia non può risalire a Dio, perché questi
è spirito e la materia è il suo contrario ed è origine dcl male; la ma-
teria nasce piuttosto da una degenerazione e da una caduta del
pleroma. Anche l'uomo subisce, nella sua composizione, gli effetti della
caduta; egli ha in sé un elemento spirituale ed uno materiale; la
salvezza si consegue con la liberazione dalla materia; questa ha luogo per
l'intervento superiore di un eone redentore che è un messo divino o un
profeta capace di eludere le forze del male; si respinge però l'idea della
incarnazione del redentore, in quanto essa ne comporterebbe la soggezio-
ne alla corporeità. Mentre la filosofia greca aveva visto nel mondo un c0-
smo ordinato e razionale, la gnosi vede in esso una realtà decaduta, da
cui bisogna liberarsi; le pratiche del culto sono parte importante del
processo della liberazione e comprendono sia il battesimo e il ban-
chetto, sia il ricorso alle immagini come alle parole magiche, sia in-
fine il ricorso alla mistica delle lettere e dci numeri. La svalutazione
della realtà materiale comporta, in sede morale, due diversi atteg-
giamenti, entrambi presenti nelle correnti della gnosi : da un lato
il rigorismo piu drastico che stacca l'uomo dal sensibile e lo porta
ad avversare sia il matrimonio che la generazione, dall'altro la con-
siderazione del mondo sensibile come indifferente dal punto di vista
morale e quindi l'esplicazione di una libertà sfrenata degli istinti
e della sensibilità.
Nella sua lotta contro le varie sette gnostiche, il cristianesimo con-
trappone all'ermetismo una predicazione rivolta a tutti gli uomini,
al s_imbolismo degli enti superiori staccati dalla materia e dal mondo
sensibile la figura storica di Gesu nella sua divinità non disgiunta
dalla sua umanità, infine al privilegio di una conoscenza superiore
l'atteggiamento immediato ed interiore della fede. Nel secolo u, con
l'opera di Ireneo Adversus haereses, si ha già una reazione organica
dcl cristianesimo contro le sette gnostiche; alla teoria gnostica se-
condo la quale al Dio supre1!1o non va attribuita l'~rigine del mondo,
Ireneo oppone che, se la creazione dcl mondo avviene contro la
volontà dcl Dio supremo, si nega la sua infinita potenza, mentre se
essa avviene secondo la volontà di lui, è propriamente al Dio su-
premo che essa va fatta risalire. Ireneo respinge anche la teoria della
materia prima da cui Dio avrebbe tratto le cose; egli so$tiene invece

181

Baruch_in_libris
IL Il SECOLO CAP. X

che la creazione del mondo avviene dal nulla e non mediante opera-
zioni su una materia preesistente.

4. Gli· apologisti.
Paolo aveva assunto un atteggiamento schiettamente polemico nei
confronti della filosofia greca; ma nel u secolo si avverte già l'esigenza
di promuovere un incontro fra la predicazione di Gesu e gli am-
bienti culturali e filosofici; a questo scopo si è spinti a considerare
quale unità possa vedersi nel rapporto fra la verità. cristiana ·e la
tradizione filosofica anteriore. Di questa preoccupazione si fanno in-
terpre!i gli scrittori apologisti, fra i quali primeggia Giustino, vissuto
fra il 100 ed il 163 ed autore di una Apologia o difesa del cristiane-
simo rivolta ai Greci. Giustino ha buona conoscenza di alcuni dialoghi
di Platone, nonché delle dottrine stoiche e pitagoriche. Per spiegare
un legame fra verità cristiana e filosofia greca egli si rifà alla dot-
trina del Verbo; è bensi vero che il Verbo si è incarnato in Gesu
che ha cosi recato agli uomini la piena rivelazione di Dio; ma il
Verbo è anche nell'eternità ed è strumento della rivelazione che Dio
ha fatto di sé sia pure in forma parziale, anche prima di Gesu; anche
prima di Gesu infatti gli uomini possedevano le nozioni di bene
e di male ed avevano una qualche conoscenza di Die; la ragione di
cui essi facevano uso era una parziale rivelazione di verità; Giustino
pensa soprattutto a Socrate ed a Platone e ritiene che le verità
sparse nella filosofia greca appartengano di pieno diritto al cristia-
nesimo che le deve reintegrare e ricuperare nel suo spirito. Giustino
pensa, per es., di poter collegare la dottrina greca della materia in-
forme con la creazione cristiana cd ebraica, o di poter spiegare
l'idea cristiana del giudizio finale con la teoria stoica della confla-
grazione universale, o di poter chiarire la narrazione del Genesi col
Timeo di Platone. t facile vedere come il pensiero cristiano potesse
trovare nella filosofia greca cd ellenistica molte dottrine da utilizzare
per la chiarificazione delle proprie vedute; ciò può dirsi specialmente
per la teoria platonica delle idee interpretata in senso creazionistico,
per la dottrina platonica dell'immortalità dell'anima, per la dottrina
stoica della provvidenza divina e dell'ordine del mondo.

18a

Baruch_in_libris
§ 5 PLUTARCO

5. Plutarco e il platonismo di ispirazione religiosa.


Plutarco, che vive fra il 46 ed il 125, pur non muovendosi al-
l'interno del cristianesimo e non appartenendo alle correnti gnostiche,
sente l'influsso delle correnti religiose del suo tempo e si sforza di
promuovere un incontro fra lo spirito della filosofia ellenistica e le
istanze religiose contemporanee. Egli tenta infatti di restaurare la
tradizione religiosa greca come risposta e punto di arresto, nello
stesso tempo, all'invadente misticismo. Plutarco si forma al platonismo
in Atene e diviene piu tardi sacerdote del tempio di Delfi; questi
due motivi ispirano i molti suoi scritti di carattere religioso e di
argomento morale. Plutarco prende posizione contro lo stoicismo e
l'epicureismo responsabili, a suo avvisò, della condizione di inferiorità
in cui la tradizione religiosa greca si era venuta a trovare nel mondo
della cultura ellenistica; bisognava, invece, ridare prestigio al mondo
religioso, contro le eccessive pretese della ragione. «Le cause dell'uni-
verso, egli afferma, non vanno poste nei corpi inanimati, come fanno
Democrito ed Epicuro; né la ragione unica va posta quale creatore
della materia informe, come fanno gli stoici; infatti sarebbe impos-
sibile che ci fosse alcun che di male, qualora Dio fosse causa di tutte
le cose, come sarebbe impossibile che ci fosse alcun che di bene, qua-
lora Dio non fosse causa di nulla ». Per questo Plutarco è dell'avviso
che si debba seguire il suggerimento di Platone, per cui « la vita de-
riva da due principii contrari e da due potenze in lotta, il principio
del bene e il principio del male »; a questo criterio dualistico, attribuito a
Platone, egli ricorre anche per spiegare l'origine dcl male che coin-
cide con la materia; Plutarco ammette l'esistenza di demoni, quali
esseri intermedi fra Dio e l'uomo mentre interpreta le varie credenze
religiose come forme locali d'una credenza universale. Ncss_una dottrina
filosofica appare a Plutarco piu idonea di quella di Platone ad inter-
pretare le esigenze religiose del suo tempo; quello di Plutarco è natu-
ralmente un platonismo che si combina anche cori dottrine di altro in-
dirizzo e nel quale le stesse dottrine di Platone vengono interpretate
secondo un misticismo religioso che è del tutto estraneo alla riflessione
filosofica del fondatore dell'Academia.
A un rinnovamento delle dottrine platoniche si ispirano, in questo

183

Baruch_in_libris
IL II SECOLO CAP. X

tempo, anche altri esponenti della cultura ellenistica; cosi, per es., Apu-
leio di Madaura si richiama a Platone per avallare la sua fiducia nel-
la magia e nell'esistenza «di alcune divine potestà, intermedie fra gli
dèi e gli uomini, che presiedono a tutte le divinazioni e ai miracoli della
magia». Per parte sua, Numenio di Apamea svolge una dottrina trini-
taria della divinità che egli ritiene di poter far risalire a Socrate ed a
Platone; ma Platone, a suo avviso, deve essere ricollegato a Pitagora,
cosi come da Pitagora si può legittimamente risalire alle religioni orien-
tali. Il platonismo di questi snidiosi è pertanto eclettico, aperto ad in-
tegrazioni sia pitagoriche che stoiche; il tutto è visto poi in funzione del-
la tematica religiosa, rispetto alla quale gli interessi filosofici passano
in secondo piano.

6. Gli ultimi sviluppi dello stoicismo romano: Epitteto e Marco


Aurelio.
L'unica corrente di pensiero del II secolo che non si abbandona al
misticismo dominante è lo stoicismo di Epitteto e di Marco Aurelio.
Epitteto vive prima a Roma in condizione di schiavo e poi nell'Epiro
ove tiene scuola; le sue dottrine, che ci sono note attraverso il Manuale
e i Discorsi redatti dal suo discepolo Arriano, si richiamano all'insegna-
mento della Stoa con maggiore fedeltà alla tradizione greca di quanto
non fosse avvenuto per il· pensiero di Seneca. Epitteto si richiama ad uno
stoicismo di intonazione cinica, scevro di concessioni e di adattamenti;
esso muove dal seguente criterio: « Le cose sono di due maniere: al-
cune in potere nostro, altre no. Sono in potere nostro l'opinione, il mo-
vimento dell'animo, l'appetizione, l'avversione, in breve tutte quelle
cose che sono nostri propri atti; non sono invece in potere nostro il
corpo, gli averi, la riputazione, in breve quelle cose che non sono no-
stri atti. Le cose poste in nostro potere sono di na.tura libere, non
possono essere impedite né attraversate; le altre sono deboli, schiave,
sottoposte a ricevere impedimento e per ultimo sono cose altrui». Per
conseguire la felicità, bisogna desiderare solo quello che è ·in nostro
potere; d'altra parte, «gli uomini non sono agitati e turbati dalle co-
se, quanto dalle opinioni che essi hanno delle cose»; e poiché le opi-
nioni che abbiamo delle cose dipendono da noi, noi siamo la vera

Baruch_in_libris
§ 6 EPIITETO E MARCO AURELIO

causa della nostra infelicità o della nostra tranquillità. La via indicata


da Epitteto suggerisce in sostanza il distacco dalle cose esterne e il pieno
dominio dei nostri desideri; Il corso delle cose e degli eventi ha, so-
stiene Epitteto, un ordine che viene da Dio; bisogna dunque accettarìo
con remissione. L'uomo è poi una mescolanza di anima e di corpo;
secondo il corPo, egli è piccola parte rispetto al tutto; ma secondo la ra-
gione, l'uomo «non è peggiore né minore degli dèi ». Con eguale forza
Epitteto raccomanda di non badare ai risultati esteriori delle azioni, ma
all'animo che le dirige. L'atteggiamento religioso consiste nella fer-
mezza dell'animo, non nell'unione mistica con Dio, nel vivere secondo
ragione, non nell'abbandono alla fede.
L'imperatore Marco Aurelio, vissuto fra il 121 ed il 180, ha raccolto
nei dodici libri dei Ricordi le sue riflessioni che non formano un
sistema originale, ma sono il suo personale ripensamento sia dell'inse-
gnamento di Epitteto che della tradizione stoica. « Tutte le cose del
mondo, dichiara Marco Aurelio, sono legate fra loro, giacché uno è il
mondo che di tutte risulta, uno il Dio per tutte diffuso, una la so-
stanza, una la legge, cioè la ragione comune a tutti i viventi razionali
ed una la verità»; l'universo è retto dalla provvidenza e tutto è disposto
per il meglio; d'altra parte, l'imperatore filosofo non sa trattenere il
suo pessimismo di fronte alla caducità della vita e delle cose: « La du-
rata della vita umana è un istante, la materia fluisce, la sensazione
viene subito cancellata, la compagine del corpo si sfascia, la forza vi-
tale è un vortice, la fortuna malcerta: insomma tutte le cose del corpo
sono un fiume, quelle dell'anima sono sogno e stupore, la vita è guerra
e pellegrinaggio». Il centro della riflessione di Marco Aurelio è appunto
la vita morale ed in essa occupa il primo posto il senso del legame con
gli altri e dell'amore per tutti: «Gli uomini sono nati, afferma, l'uno
per l'altro»; come per le membra c'è l'unità del corpo, cosi gli esseri
razionali hanno la ragione; gli esseri razionali formano un organismo
di cui ognuno è membro, non parte : « Il ramo tagliato dal ramo con-
tiguo non può non essere tagliato anche da tutta la pianta; cosi anche
l'uomo che si !trappa dall'altro uomo, si separa da tutta la comunità ».
L'amore fra gli uomini predicato da Marco Aurelio non ha affatto, co-
me si vede, un'intonazione mistico-religiosa; esso si richiama sia alla
comunità del destino, sia alla comune partecipazione alla ragione uni-

Baruch_in_libris
IL II SECOLO CAP. X

versale. Con questi accenti, lo sto1c1smo, come indirizzo filosofico au-


tonomo, compie il suo ciclo storico; rinascerà per alcuni dei suoi con-·
crtti piu importanti sia all'interno del pensiero cristiano, sia, piu tardi,
agli inizi dell'età moderna, come tentativo di riportare la vita mo-
rale dell'uomo su basi autonome e razionali rispetto alla precedente
tradizionale della morale teologica e religiosa.

7. Lo sviluppo delle scienze.


I cultori della scienza di questo periodo non sfuggono del tutto, nem-
meno essi, al prevalere dell'interesse religioso; tuttavia la loro opera ~i
pone sostanzialmente su un terreno diverso, che richiama, almeno in parte,
gli indirizzi della scuola di Alessandria nel m secolo a. C. Ciò vale almeno
per Tolomeo, vissuto ad Alessandria fra il 120 ed il 161; nel suo scritto
Composizione matematica (nota anche col titolo arabo Almagesto) trova
sistemazione una dottrina astronomica che, pur derivando in gran parte
da Ipparco, ha in Tolomeo il suo perfezionatoro.; è il sistema detto ap-
punto " tolemaico " che, trasmesso al ~edioevo, si mantenne in vigore
fino al 1543, quando fu definito il sistema copernicano. L'universo è, secondo
Tolomeo, finito e delimitato all'esterno dalla sfera delle stelle fisse, che ruota
attorno al proprio asse da oriente ad occidente; al centro dell'universo sta la
Terra che è immobile; essa occupa il centro dell'universo in ragione della
stessa disposizione simmetrica delle altre parti del mondo; i pianeti girano
intorno al centro dell'universo descrivendo dci circoli che risultano eccentrici
o epicicli rispetto alla Terra. Tolomeo segue Ipparco nella costruzione della
rappresentazione geometrica che deve rendere ragione delle osservazioni
sperimentali; egli anzi complica la stessa teoria geometrica di Ipparco con
l'aggiunta di nuove sfere. Ne risulta un sistema indubbiamenl't complesso,
ma in cui si riscontra anche una notevole rispondenza fra i dati delle osser-
vazioni e le conclusioni ricavate dalla costruzione geometrica. Che tuttavia
nemmeno Tolomeo sia sfuggito del tutto all'atmosfera religiosa dell'epoca
è attestato dalla sua opera Tetrabiblion che studia l'influsso degli astri sulle
vicende umane.
Anche l'opera di Galeno per la medicina, come quella di Tolomeo per
l'astronomia, restò classica per tutto il Medioevo e le teorie in essa contenute
vennero profondamente modificate soltanto nel secolo xvi. Galeno nasce a
Pergamo nel 129 e muore sul finire <lei secolo, nel 199. I suoi circa quattro-
cento scritti trattano di medicina, di fisiologia, di anatomia, di igiene, di die-
tetica, di farmacologia, di patologia, oltre che di logica e di filosofia generale.
Galeno si stacca dalla medicina meccanicistica di ispirazione epicurea, che
si era affermata in Roma fin dal l secolo a. C. e riprende invece da Aristotele

186

Baruch_in_libris
§ 7 LO SVILUPPO DELLE SCIENZE

il concetto di fine per spiegare il funzionamento degli organi.· Egli ri-


prende dalla scuola di Ippocrate, e piu propriamente da Polibo, la teoria
secondo la quale nel corpo circolano quattro umori che sono mescolati fra
loro in proporzioni diverse; l'equilibrio di essi coincide con la condizione
di salute, mentre la malattia nasce dal loro squilibrio; soltanto egli precisa
che ogni individuo ha un suo proprio giusto equilibrio degli umori, con la
preponderanza di un umore sugli altri. Ma Galeno non trascura nemmeno la
dottrina pneumatica, seguita dalla medicina di ispirazione stoica, per cui
tutte le funzioni vitali sono regolate dal. pneuma o spirito; soltanto egli di-
stingue tre diversi spiriti, uno naturale che ha sede nel fegato e regola le
funzioni del metabolismo, uno vitale che ha sede nel cuore e regola il mo-
vimento del sangue e il calore dell'organismo, e finalmente uno animale che
ha sede nel cervello e regola la sensazione e il movimento. Ad un eclettismo
metodico, Galeno accompagna una varia e molteplice osservazione sperimen-
tale; tuttavia, poiché la legge romana proibisce di sezionare cadaveri umani,
egli deve limitare le sue esperienze anatomiche ai corpi degli animali. Nel-
1' insieme le conoscenze mediche di Galeno sono una mescolanza di motivi
validi e di affermazioni fantastiche; la cosa è evidente specialmente nella
lunga elencazione dei rimedi per le varie malattie. In ogni modo, Galeno
si trova molto lontano da quell'equilibrio di esperienza e di ragione che
aveva trovato la sua piu completa espressione nell'opera di Ippocrate; .egli
sente l'influsso delle varie correnti dogmatiche che si erano introdotte negli
studi di medicina e si sforza soltanto di correggere i principii di ciascuna
con l'adesione eclettica anche ai principii delle altre.

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CAPITOLO XI

Il secolo 111

LA SCUOLA CRISTIANA DI ALESSANDRIA: CLEMENTE


E ORIGENE. PLOTINO

1. Il periodo.
Nel corso dcl m secolo la crisi dell'impero si delinea a tratti piu pre-
cisi; la collaborazione fra senato ed imperatore si attenua mentre si accresce
l'autorità dell'esercito in campo politico; l'esercizio della sovranità assume
pertanto il carattere d'un dispotismo a sfondo militare. Mentre ai confini
si verificano attacchi frequenti, lungo il Reno e il Danubio si formano gran-
di leghe di popolazioni barbariche ostili; sul corso inferiore del Danubio
compaiono i Goti, sul Reno i Franchi ed i Sassoni; la Dacia viene defini-
tivamente perduta. All'interno si ha, come riflesso dell'aggravata situazione
economica, la graduale decadenza dei coloni ad una condizione di semi-
schiavitu, mentre si accendono qua e là insurrezioni di schiavi e di arti-
giani. Diocleziano, sul finire del secolo, fa un tentativo di stroncare le co-
munità cristiane che, nei due secoli precedenti, si erano sviluppate quasi
pacificamente; benché i cristiani, finora, avessero assunto un atteggiamento
spesso conciliativo nei confronti dell'autorità statale, Diocleziano li ritiene
ora pericolosi per l'unità dell'impero; ma le comunità cristiane superano
la prova, mentre Diocleziano accentua il carattere assoluto del potere.
Le correnti gnostiche continuano, anche nel secolo m, la loro specu-
lazione religiosa esoterica che si- avvale ora anche degli scritti del Corpus
hermeticum e degli Oracoli caldaici; il nuovo indirizzo religioso del ma-
nicheismo si diffonde in tutto l'impero. Il pensiero cristiano si organizza
intanto in forme speculativamente piu mature e rilevanti tanto in Oriente
che in Occidente; mentre a Cartagine si afferma la personalità di Tertul-
liano, ad Alessandria si viene costituendo una vera e propria scuola cristiana
che ha i suoi esponenti in Clemente ed in Origene. La tradizione filosofica
ellenistica ha la sua massima affermazione con Plotino che porta a pieno
compimento l'indirizzo neo-platonico, ad intonazione religiosa, già avviato
nelle età precedenti. Si colloca invece a sé, del tutto staccato dal clima

188

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§ I IL PERIODO

religioso dominante, il rinnovato scetticismo di Sesto Empirico, piu rivolto


alla discussione del metodo della ricerca scientifica che preoccupato di siste-
mazioni metafisiche o di cosmologie esoteriche.

2. Sviluppi esoterici e religiosi.

A rendere anche piu complesso il quadro dei movimenti gnostico-


religiosi si afferma ali'inizio del m secolo quell'indirizzo esoterico che
prende il nome di ermetismo, in quanto gli scritti che lo esprimono
vengono attribuiti ad Ermete Trimegisto; si tratta di un insieme di
opere elaborate quasi certamente in Alessandria d'Egitto da cenacoli fi-
losofici in cui domina il sincretismo religioso corrente; essi uniscono
idee sull'anima di derivazione orfico-pitagorica, con elementi di cosmo-
logia stoica e con credenze dell'astrologia caldaica. Unitamente agli
scritti del Corpus Hermeticum si diffondono, in questo stesso tempo, gli
Oracoli caldaici che hanno la stessa ispirazione con accentuazione del-
1'occultismo. In Siria e in Palestina si diffondono i primi scritti ebraici
ispirati al misticismo biblico ed all'allegorismo cosmologico della Gab-
bala (tradizione esoterica); quest'ultima obbedisce alla convinzione che,
al di là della realtà conoscibile dalla ragione, esiste un'altra realtà il
cui accesso è aperto solo all'iniziato che ha ricevuto il suo sapere da
una tradizione che risale all'antichità piu remota ed è garantita da una
rivelazione soprannaturale o da comunicazioni soprannaturali dirette.
Tutte queste forme di esoterismo sono strettamente collegate con la
teurgia e con la magia, in quanto le conoscenze "superiori" conse-
guite dall'iniziato gli forniscono dei poteri speciali sugli esseri spiri-
tuali e materiali.
Dal persiano Mani, vissuto fra il 205 ed il 274, prende avvio il ma-
nicheismo che spiega il problema del male mediante la credenza nel-
1'esistenza di due principii opposti, Ormuzd e Ahriman, l'uno buono
e l'altro cattivo; essi lottano l'uno contro l'altro e dalla lotta deriva la
storia contrastata del mondo; al termine però il principio del bene
trionferà su quello del male. Alla dottrina della dualità originaria si
accompagna, nel manicheismo, il riconoscimento che il mondo risulta
anche dall'azione dcl bene e che pertanto esso non è esclusiva opera
dcl male e della corruzione.

1'9
Baruch_in_libris
IL SECOLO lii CAP. Xl

3. Sviluppi del pensiero cristiano e la scuola di Alessandria:


Clemente ed Origene.
È proprio l'esigenza di distinguersi nettamente dalle molteplici cor-
renti religiose del tempo che spinge sempre piu il cristianesimo a con-
figurare con maggior rigore la propria dottrina. Ippolito, che muore
intorno al 236, nella sua Refutatio omnium haeresum, continua la lotta
già iniziata da Ireneo contro le dottrine dei filosofi greci e contro le cre-
denze misteriche ed astrologiche. Tertulliano che vive a Cartagine dal
16o al 240, nei suoi scritti di rara potenza ed efficacia, insiste sul con-
cetto che la filosofia è causa e sorgente degli errori contro i quali la ve-
rità religiosa deve difendersi accanitamente; la dialettica insegnata da
Aristotele solleva infinite dispute ed è piu strumento di divisione che
di unione nella verità; il cristianesimo d'altra parte non ha alcun biso-
gno di ricerche filosofiche o di speculazioni dialettiche; i principali ele-
menti della sua credenza sfuggono alla comprensione razionale e pro-
prio in quanto essi non si pongono al livello della ragione sono princi-
pio effettivo di salvezza. Dal 206 in avanti Tertulliano si separa dalla
comunità cristiana e passa al montanismo, cioè. alla corrente che ispi-
randosi all'insegnamento di Montano insiste soprattutto sul rigorismo
morale e sull'ispirazione profetica come mezzi di preparazione alla
seconda venuta del Cristo.
La scuola cristiana che sorge ad Alessandria nella seconda metà del
n secolo e che, nel corso del m secolo, assume rilievo dapprima con Cle-
mente (160-215) e poi con Origene (185-253), è il piu rilevante punto
di incontro fra il pensiero cristiano e la cultura ellenistica. Le opere prin-
cipali di Clemente sono: il Protrettico ai Greci, il Pedagogo e gli Stro-
mata o Orditure di commentari scientifici circa la vera filosofia (tutte
scritte in greco). Clemente che ha buona conoscenza specialmente de-
gli scritti di Platone considera anzitutto il rapporto che corre fra fi-
losofia e fede cristiana. Ci sono dottrine filosofiche inconciliabili con la
verità cristiana; per es., tutti i naturalisti, da Talete ad Empedocle,
sono considerati da Clemente degli " atei " perché « adorarono la ma-
teria e divinizzarono la terra »; senza dire di Epicuro il quale « crede,
nella sua empietà, che nulla stia a cuore a Dio ». Ci sono però anche
dottrine filosofiche che coocordano con le credenze cristiane; per es.,

H}O

Baruch_in_libris
s3 CLEMENTE ED ORIGENE

quando Platone dichiara nel Timeo che « il padre cd autore di questo


mondo è impresa difficile trovare e, trovatolo, è impossibile dichiararlo
a tutti, perché non può essere espresso assolutamente», Clemente non
può che rilevare: « Bene, o Platone; hai sfiorato la verità, ma non stan-
carti, insieme con me intraprendi la ricerca intorno al B~ne, giacché
in tutti gli uomini interamente, ma specialmente in quelli che occupano
il loro tempo in ragionamenti, è stato istillato un certo effiuvio divino;
in grazia di esso, essi riconoscono che vi è un solo Dio e che questo è
esente da nascita e da morte». Quando dunque i filosofi hanno colto la
verità, ciò è avvenuto «per ispirazione di Dio». Se però Clemente dà
grande rilievo al passaggio dal paganesimo alla fede cristiana, ne dà
altrettanto anche a quella « sccunda mutatio » che va «a fide ad
. cognitionem )) ; egli non crede che il cristiano debba attenersi alla
fede dci "simpliccs" condannando ogni sviluppo dottrinario e ogni
approfondimento conoscitivo ddla credenza; per lui acquista invece
grande importanza la « firma ac stabilis demonstratio corum quac
assumpta sunt per fidem »; si tratta quindi di introdurre, nella fede,
uno sviluppo di " gnosi ", una conoscenza superiore che si costrui-
sce con clementi ricavati da elaborazioni concettuali. Nella sua co-
struzione d'una scienza religiosa, pur sempre sorretta dalla fede, Cle-
mente sarebbe giunto (secondo una testimonianza posteriore che si ·ri-
ferisce a scritti non giunti fino a noi) a far proprie la dottrina plato-
nica delle idee, quella dell'eternità della materia, la distinzione di un
logos superiore e di un logos inferiore, l'incarnazione solo dd logos
inferiore, il carattere di pura apparenza della stessa incarnazione, la pree-
sistenza delle anime e la metempsicosi. Quel che risulta con certezza
dagli scritti a noi noti è che Clemente insiste su una interpretazione
cosmologica della redenzione, interpreta i sacramenti in maniera alle-
gorica ricercandone il significato simbolico, e ritiene che nella vita fu-
tura un fuoco intelligente porti i malvagi a pentirsi delle loro colpe
e quindi ad escludere l'eternità della loro dannazione.
Origcnc è a capo della scuola di Alessandria dal 203 al 232; dci
suoi numerosissimi scritti vanno ricordati una trattazione Sui principii
cd una confutazione dell'opera di Celso contro i cristiani. Egli si muo-
ve nella stessa direzione culturale di Clemente, con risultati piu im-
portanti in ragione alla maggiore vastità della sua cultura e alla mag-

Baruch_in_libris
IL SECOLO III CAP. Xl

giore originalità del suo ingegno. Nella sua v1s1one colta della fede
cristiana Origene utilizza dottrine platoniche, motivi stoici e teorie pi-
tagoriche rielaborate dai neo-pitagorici dell'età immediatamente prece-
dente. Il testo divinamente ispirato dell'Antico Testamento, egli affer-
ma, deve partecipare della stessa infinità di Dio presentando un numero
infinito di sensi possibili; come non si può giungere alla piena cono-
scenza di Dio, cosi non si può esaurire la totalità dei significati inclusi
nel testo ispirato; il significato meno rilevante è quello letterale e sto-
rico; decisivo è invece il metodo allegorico che consente di intendere
alcune affermazioni del testo sacro in maniera che esse non contrastino,
ma concordino pienamente, con dottrine che vengono mutuate dalla spe-
culazione ellenistica. Origene muove dalla teoria stoica del carattere tera-
peutic~ dei castighi inflitti da Dio agli uomini; tale teoria consentiva agli
stoici di ammettere tanto la provvidenza divina quanto l'esistenza del
male, proprio nel senso che il male poteva servire di guida al bene. Anche
le pene inflitte ai malvagi dopo la morte debbono ritenersi temporanee,
sostiene Ori,gene; le anime preesistono all'attuale loro comparsa nel
mondo e dopo la morte saranno ammesse a nuove ripetute prove,
con una vicenda di successive cadute e resurrezioni; infine la serie delle
prove avrà termine e succederà la riabilitazione universale; il male
sarà distrutto e tutte le anime si ritroveranno in una eterna beatitudine;
e allora «Dio sarà tutto in tutti ». Dio, d'altra parte, esplica la sua po-
tenza anche prima che il nostro mondo abbia origine nel tempo, in
quanto prima di questo esistevano altri mondi ed altri ne esisteranno do-
po di esso; la materia è bens1 creata da Dio, ma·è eterna; la resurre-
zione della carne non è poi tanto resurrezione del corpo nella sua
realtà materiale, quanto resurrezione d'una corporeità già trasfigurata e
spiritualizzata. L'ordine che va da Dio alla materia, pur richiaman-
dosi all'azione creativa, si svolge nello spirito della dottrina dell'ema-
nazione, per cui gli esseri si dispongono secondo un ordine decrescente;
anche il Figlio deve ritenersi subordinato al Padre cioè partecipe del-
l'ordine degradante che fa capo a Dio; il male ha la sua origine in una
caduta che se si richiama alla libertà, esprime anche la generale deca-
denza del reale nel suo distacco da Dio. Dopo Origene, un gruppo di
suoi scolari continua il suo indirizzo nella scuola di Alessandria, tanto
che l'origenismo divenne, nella costruzione dell'incontro dottrinale fra

Baruch_in_libris
§ 3 CLBIENTE E ORJGE:-.:E

ellenismo e cristianesimo, una delle correnti tipiche della cultura cri-


stiana.

4. II neo-platonismo di Plotino: l'Uno.

Ad Alessandria, all'inizio del m secolo, fiorisce contemporanea-


mente alla scuola cristiana, anche una scuola filosofica di indirizzo pla-
tonico fondata da Ammonio Sacca; Plotino, nato nel 204 a Licopoli in
Egitto, è suo discepolo per oltre una decina d'anni; nel 244 si porta
a Roma ove insegna fino alla morte a\'venuta nel 270. Del gruppo di
discepoli che si raccoglie intorno a lui fa parte Porfirio che ha dato poi
sistemazione definitiva ai trattati composti dal maestro; l'insieme dei 54
scritti cosi raccolti ha preso il nome di Enneadi per l'ordinamento che
li raggruppava in sei parti, ciascuna di nove trattati. La scuola che
ha in Plotino il suo maggiore esponente è stata designata come neo-
platonica, in ragione del peso che prende l'opera di Platone nella sua
elaborazione dottrinale; del resto Plotino non si limita a ripetere le dot-
trine di Platone, ma accoglie nel suo sistema anche elementi di deriva-
zione stoica e sopratutto quell'esigenza mistico-religiosa che si era
imposta anche nella speculazione ellenistica. Né bisogna dimenticare
quanto si è detto a proposito del modo in cui Platone è stato inteso dai
pensatori di ispirazione religiosa del secolo u; ciò vale anche di piu
per Plotino, il quale non mira ad una determinazione razionale della
realtà nel senso della piu matura dialettica platonica, ma si serve del
pensiero platonico per la risoluzione religiosa del reale e del mondo
nell'infinità trascendente di Dio.
Muoviamo appunto da quell'Uno supremo che è il principio del
reale: « In virtu dell'uno, scrive Plotino, tutti gli esseri sono quello eh-:
sono; infatti che cosa sarebbe un essere, se non fosse uno? l'esercito, il
coro, il gregge non esistono se non costituendo ciascuno un'unità;
cosi pure la casa e la nave esistono solo finché posseggono unità; anche
gli organismi delle piante e degli animali sono in quanto ciascuno è
un corpo uno. Ecco perché si risale sempre ad un'unità; in ogni cosa
c'è un'unità alla quale si deve risalire e tutto si deve ricondurre alla
unità che è antecedente, finché di grado in grado si giunge all'Uno
assoluto, che non si riconduce ad altro». L'Uno come principio assoluto

191

Baruch_in_libris
IL SECOLO III CAP. Xl

e trascendente non può essere afferrato da parte del nostro intelletto.


«L'Uno non è nessuna delle cose; quindi si può dire soltanto che è al di
là; queste cose sono gli esseri e l'essere; dunque l'Uno è al di là del-
l'essere; e dire che è al di là dell'essere non è dir che è questo o è
quello (ché non si afferma nulla di esso), né pronunziare il suo nome;
è affermare soltanto che non è questo o quello, giacché la sua qualità
è di non aver r;ualità»; infatti «il principio è senza forma, non nel senso
che difetti di forma, ma nel senso che da esso proviene ogni forma;
ed essendo senza forma, non è sostanza, ché sostanza dev'essere un es-
sere determinato, un "questo qui"; e l'Uno non può essere un "questo
qui", se no, non sarebbe piu il principio, ma soltanto quell'essere deter-
minato che si è enunciato». L'Uno non può nemmeno essere pensante,
giacché, « per pensare, occorre un intelletto che pensi e poi bisogna che
l'intelletto abbia un i~tellegibile » e allora «l'Uno non sarebbe piu pri-
mo, essendo due». «Se ogni desiderio ed ogni attività si dirigono ver-
so l'Uno, esso non deve mirare a nulla, né nulla desiderare; essendo
al di là dell'essere, è al di là di ogni attività e non ha volizione di nulla ».
Dunque l'Uno «è ineffabile; qualunque cosa si dica di lui, si dirà
sempre qualche cosa, mentre esso è al di là di ogni cosa; noi diciamo
ciò che esso non è, non possiamo dire quello che è; quando si è com-
presa la sua indeterminazione, si possono enumerare tutte le· cose che
sono dopo di lui e dire che esso non è alcuna di quelle». Per cogliere
l'intellegibile bisogna staccarsi dal sensibile; ora l'Uno è al di là del-
l'intellegibile; per coglierlo, bisogna svincolarsi anche dall'intellegibile
cd abbandonarsi alla passione amorosa che consente di entrare in rap-
porto con lui «grazie all'attività che esiste fra lui e coloro che lo pos-
sono accogliere».

5. II processo dell'emanazione.

Dall'Uno procede ed emana l'Intelletto che Plotino considera alla


luce èlel mondo ideale platonico e della teoria aristotelica dell'intelletto
divino. L'Intelletto è ad un tempo unità e molteplicità; in quanto unità,
tende a risolvere il molteplice nella trascendenza dell?Uno; in quanto
molteplicità, si articola nelle idee archetipe, nelle quali « gli esseri esi-
stono anteriormente al loro esistere nd mondo»; attraverso le idee,

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§ 5 IL PROCESSO DELL'EMANAZIONE

Plotino ipostatizza la realtà del mondo corporeo nei suoi elementi idea-
li ed astratti; le difficoltà che Platone aveva rilevato a proposito del
rapporto fra le idee e le cose ed a· proposito dell'opportunità di porre
idee di aspetti sensibili, individuali cd irrazionali del mondo, si tro-
vano accennate anche in Plotino; ma egli le risolve sia considerando
da una parte l'Intelletto come emanazione dell'Uno, sia vedendolo dal-
l'altra come capace di influire sull'anima dcl mondo e, per suo mezzo,
sul mondo. Come l'Intelletto compie una funzione intermedia fra l'Uno
e il molteplice ideale, cosi l'Anima dcl mondo (il cui concetto Plotino
riprende da Platone e dallo stoicismo) come principio di movimento
e di ordine, come forza capace di dare vita a tutto il reale compie una
funzione intermedia fra l'Intelletto ed il mondo sensibile. L'Anima ha
qualche cosa dell'Intelletto, in quanto è forza unificatrice degli esseri
sensibili. Plotino non condivide il pessimismo gnostico e religioso nei
confronti del mondo sensibile; e quindi non ritiene che esso tragga ori-
gine da una caduta, da una profonda frattura dcl reale; il mondo sensi-
bile non ha certo in se stesso la propria ragion d'essere, ma il soprasen-
sibile opera veramente e realmente in esso. Dall'Anima dcl mondo de-
riva un'anima inferiore, che sua volta viene articolandosi in coscienza
sensibile e in " natura " quale principio produttivo privo di coscienza;
"la natura" agisce nelle cose come "artefice interno", ossia come pre-
senza di fatto, anche se non consapevole, di un ordine razionale, che è
l'espressione piu bassa e ristretta del mondo ideale raccolto nell'Intel-
letto. «La natura, ultima parte ·dell'anima, scrive Plotino, non contiene
che gli ultimi riflessi della ragione; la natura non conosce, ma sol-
tanto produce; produce dando senza riflessione quel che possiede a ciò
che è posto al di sotto di essa, alla realtà corporea e materiale; con la
natura siamo giunti al grado piu basso della realtà intellegibile». L'atti-
vità dell'Anima si distende nella successione e dà luogo al tempo, in cui
si trova appunto immerso tutto il mondo sensibile; quest'ultimo « è
molteplice, diviso in molte parti separate le une dalle altre e le une alle
altre estranee; l'amicizia non vi regna piu sola, vi è anche l'odio che si
estende nello spazio e fa sf che ciascuna parte, divenuta imperfetta, sia
nemica delle altre»; infatti nel mondo sensibile compare quella che Pla-
tone aveva chiamato la Necessità, cioè la materia. Essa è « ricettacolo
delle forme», «non è un corpo, appunto perché è senza qualità»,

195

Baruch_in_libris
IL SECOLO III CAP. Xl

« è lo stesso indefinito » come pura potenza; la materia è « un sostrato


reale, benché invisibile ed inestcso; essa esiste benché non abbia la chia-
rezza delle cose apprese per mezzo della sensazione ». Male e materia
coincidono; infatti il male, in rapporto al bene, «è come ciò che è senza
misura in rapporto alb misura, come l'illimitato al limite, come l' in-
forme alla causa formale»; il primo male è per~anto la materia, pro-
prio in quanto il male « non consiste in una deficienza parziale, ma
nella deficienza completa di bene i>. Con ciò Plotino per un lato confe-
risce al male cd alla materia una consistenza oggettiva di opposizione al
bene ed ali' essere; d'altra parte male e materia sono pura negatività, un
limite che, anziché rompere la struttura unitaria dcli' universo, ne è la
estrema espressione: «C'è necessariamente qualche cosa dopo il Primo;
dunque c'è un termine ultimo; questo è la materia che non partecipa
piu al bene; tale è la necessità del male».
Nei corpi ci sono le forme che sono le "ragioni seminali", il prin-
cipio del loro sviluppo; quindi il mondo sensibile è tutto animato, an-
che in quelle parti che paiono prive di vita; fra le varie parti del :nondo
corre un legame di " simpatia " analogo a quello che stringe fra loro le
varie membra di un corpo: cc l'essere la cui vita si può apprendere per
mezzo dei nostri sensi è ·composto di esseri che vivono una vita la _quale
ai nostri sensi sfugge, ma le cui potenze meravigliose si esercitano sulla
vita di quest'essere vivente». La considerazione positiva del mondo
sensibile richiede che si dia rilievo all'ordine razionale che in esso
si esplica, pur tenendo conto che tale ordine non esclude che si tratti
della semplice immagine sensibile di un ordine intellegibile superiore.
La provvidenza si esplica come governo generale degli tventi; «anche
il male fisico non è senza utilità per l'ordine universale e per la per-
fezione dell'universo; cosf i mali del corpo e l'infiacchimento dell'anima
che ne soffre non sono che un aspetto diverso della concatenazione e
dell'ordine a cui rimane soggetto l'essere, di cui questi maJi si impa-
droniscono; alcuni di questi mali, poi, come la povertà e la malattia,
giovano a quelli che li subiscono». Quanto alle stragi ed alle guerre,
« consideratele come uno spettacolo teatrale, suggerisce Plotino; infatti
in tutte queste circostanze della vita reale, non è l'anima interiore, ma
la sua ombra, l'uomo esteriore che geme, si lamenta e recita tutte que-
ste parti su questo teatro dalle scene molteplici, che è la terra intera ».

Baruch_in_libris
§ 5 IL PROCESSO DELL'E'.\L\~AZIU:>!E

Plotino nel dare ragione della derivazione del reale dall'Uno non si
richiama al concetto ebraico-cristiano di creazione, giacché questo im-
plicherebbe una concezione antropomorfica di Dio come persona; i~ol­
tre, mentre il processo creativo avviene nel tempo, il processo di deriva-
zione del reale dal!' Uno è eterno e si svolge fuori del tempo; 11' Uno,
in altri termini, non esiste mai senza il molteplice e l' Intelletto non
succede all'Uno in senso cronologico, come l'Anima del mondo non
succede in senso cronologico all'Intelletto. Il derivare è insomma per
Plotino un porsi in forma distinta da ciò da cui si deriva, ma senza mai
staccarsi da esso per dipendenza; il derivare comporta quindi un "con-
vertirsi" del derivato al suo principio, un tendere dell'uno all'altro; in
quanto il principio produce è trascendente rispetto a ciò che viene pro-
dotto, ma in quanto ciò che è prodotto non può sussistere senza il prin-
cipio, questo è immanente al prùdotto. L'Uno si espande nei molti
«come un'irradiazione» cioè al modo in cui «la luce del sole, splen-
dente intorno ad esso, da lui proviene, da lui che pur resta perennemente
immobile »; il primo principio si comporta come un essere che, giunto
al suo stato di pienezza, « genera e non sopporta di rimanere in se
stesso, ma produce un altro essere»· Alla radice del processo dell'uni-
verso dall'Uno sta dunque non un atto di iniziativa creatrice, non lo
svolgimento meccanico di un principio naturale, non una confusione
dell' uno con il molteplice, ma quasi l'esplicarsi di una generazione vi-
tale, la quale ha tuttavia come punto di partenza un principio ineffabile
ed indeterminabile, che sta al di là della vita come di ogni altra qualità
e determinazione. L'Uno di Plotino, insomma, non può certo con-
fondersi con il Dio del cristianesimo; esso si concilia infatti con il
politeismo ellenistico.

6. L'uomo e il suo destino.


Non è tanto, per Plotino, l'anima che è nel corpo, quanto piuttosto
il corpo che è in parte nell'anima; infatti l'anima è superiore al corpo;
nelle funzioni sensoriali è impegnato il corpo insieme con l'anima,
mentre nella memoria e nel pensiero discorsivo l' anima agisce indi-
pendentemente dal corpo; superiore al pensiero discorsivo, che è rc'..1-
zionale, è il pensiero intuitivo che coglie l'oggetto senza processn,
ma mediante un unico atto. Il nostro "ve;:o io" è dato dall'uomo

197

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IL SECOLO III CAP. Xl

«puro da ogni animalità», cioè dall'uomo che possiede le virtu intel-


lettive che risiedono nell'anima che si separa dal corpo. L'elevazione
dell'uomo avviene per via conoscitiva, in quanto la conoscenza com-
porta anche una sorta di possesso di ciò che si conosce e quindi l'eleva-
zione di colui che conosce al livello dell'entità che è oggetto di cono-
scenza; la contemplazione è dunque decisiva nella realizzazione del
destino dell'uomo, mentre la pratica è dispersiva e negativa. Nella
sua ascesa conoscitiva, l'anima è attratta anzitutto dal bello, cioè da
quell' interiorità che traspare anche in tutti gli oggetti sensibili come
liberazione dalla materia; nell'opera d'arte si deve dunque vedere
non tanto l'imitazione della natura, quanto il volto interiore del reale,
la sua idealità; alla perfezione formale ed alla classicità delle propor-
zioni Plotino antepone l'anima oelle forme e lo slancio interiore de-
gli elementi: « quanto piu la bellezza va verso la materia distendendosi
nello ~pazio, tanto piu s'indebolisce e rimane al di sotto di quella che
resta nell'unità». Lo sviluppo della conoscenza può portare l'uomo
fino ad unirsi con l' Intelletto e con il mondo ideale; ma il vertice delle
sue possibilità I' uomo non lo attinge per via conoscitiva, per il fatto
che l'Uno non è oggetto passibile di conoscenza; l'ascesa conoscitiva
è pertanto una sorta di preparazione all' unione finale, ma non la rea-
lizza; per giungere ali' unione, bisogna «,ignorare tutto», «deporre
tutte le forme », « ignorare perfino che siamo noi a contemplare »; e si
ha cosf l'estasi, in cui si vede « tutto ad un tratto, senza saper come »,
la luce dell'Uno.-« L'intelletto non sa dond~ questa luce è a}fparsa;
né bisogna domandarsi donde viene, poiché qui non c'è luogo cl' ori-
gine e la luce ora si mostra ed ora non si mostra; perciò non bisogna
cercarla, ma attendere tranquillamente che essa appaia, come l' oc-
chio attende il levarsi del sole». «Quando l'anima ha la ventura che
l'Uno viene a lei o piuttosto che a lei si manifesti la sua presenza,
allora lo vede apparire d'improvviso dentro di sé; piu nulla c'è
tra l'Uno e l'anima; non spno piu due, ma i due fanno una cosa
sola».
Quella di Plotino è la risposta che la tradi.done della filosofia elle-
nistica dà alla generale aspirazione religiosa del mondo contempora-
neo, pur tenendosi fuori sia dalla religione cristiana, come da quella
giudaica, come infine dai complessi indirizzi della gnosi. Non è da
198

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§ 6 L' UOMO I! IL SUO DESTINO

credere che Plotino sia stato del tutto estraneo ad atti religiosi come
preghiere, evocazioni di spiriti, incanti magici, pratiche rituali; ma
certamente egÌi concede a tutto ciò minore credito di quanto non aves-
sero fatto, prima di lui, sia le correnti della gnosi religiosa, sia alcuni
filosofi che si erano richiamati al platonismo ed al pitagorismo. Nella
sua sintesi rivive sopratutto una parte rilevante della piu alta specula-
zione greca; al neo-platonismo è infatti consegnata buona parte del-
l'influsso che lo stesso platonismo eserciterà sulla storia del pensiero, e
principalmente sulla formazione dello stesso pensiero cristiano.

7. Sesto Empirico e la sintesi scettica.


Sesto, detto Empirico con riferimento ali' indirizzo da lui seguito
come medico, è probabilmente vissuto a cavallo fra il 11 ed il m secolo;
ne parliamo qui, a conclusione dello studio sul secolo m, perché la
sua opera non risente affatto dd clima religioso dominante e conclude
rigorosamente la tradizione greca dello scetticismo che aveva avuto
inizio con Pirrone. Sesto è autore di tre importanti opere: la prima
che reca il titolo di Schizzi pirroniani è una sorta di trattazione ele-
mentare sullo scetticismo; l'Adversus dogmaticos comprende cinque
libri, di cui due di critica della logica, due contro i fisici .e uno contro
i moralisti; l'Adverms mathematicos (cioè contro coloro che professano
la scienza) comprende la critica della grammatica, della retorica, della
aritmetica, della geometria, dell'astronomia e della musica. Sesto com-
pendia nelle sue opere le trattazioni di carattere critico-scettico che
erano state elaborate prima di lui e conferisce cosi un' uni.tà di indi-
rizzo a correnti che si erano affermate in momenti storici diversi. La
contrapposizione che attraversa tutti ·gli scritti è quella di dogmatismo
in quanto pretesa di conoscenze assolute e di esperienza in quanto
rivendicazione d' una conoscenza perfettibile e continuamente suscet-
tibile di revisione. Sesto sostiene un indirizzo « che aderisce ad una certa
maniera di ragionare, in conformità del fenomeno »; egli difende
«l'intento investigativo» e quindi aperto della. ricerca~ ammette che
la nostra conoscenza possa giungere, oltre che ai dati sensibili. imme-
diati, anche alla previsione di nessi con dati non immediatamente pre-
senti, purché questi siano stati ripet;ntamente osservati in altre occa-

199

Baruch_in_libris
IL SECOLO III CAP. Xl

sioni; esclude invece la fondatezza di quelli che gli stoici chiamavano


"segni indicativi", cioè di dati per se stessi capaci di rivelare una
connessione necessaria con elementi che sfuggano del tutto all' espe
rienza. Quanto alla fisica, Sesto contesta che si possa dimostrare l' csi.
stenza di Dio o dare ragione della provvidenza divina; si tratta, anche
in campo religioso, di seguire la vita, $enza fare appello a dogmi.
«Noi, scrive Sesto, non contrastiamo ai comuni presupposti degli uo-
mini, né sovvertiamo la vita; invece anche noi conpsciamo nel modo
comune»; né si deve assumere un atteggiamento negativo nei con-
fronti delle consuetudini e delle leggi. In ciascuno di questi campi,
come nel coltivare le arti e le scienze, bisogna attenersi a quanto ci por-
tano le esigenze pragmatiche, sospendendo ogni inclinazione dogmatica.
I suggerimenti della medicina, nel suo indirizzo piu aderente all'espe-
rien~a, vanno e~tesi, secondo Sesto, non solo al sapere, ma anche alla
condotta della vita.

8. Lo sviluppo delle scienze.

L'ondata di misticismo religioso che domina il III secolo, nonché l'età


precedente, non risparmia nemmeno la scienza, nel senso che perfino la
matematica cominciò a venire trattata con atteggiamento misticheggiante;
dal misticismo generale si arriva infatti ad una mistica dei numeri, che,
del resto, in qualche parte, riprende la vecchia tradizione pitagorica. Tut-
tavia ad A~essandria, il fertile centro da cui esce l'opera di Origene e di
Plotino, la scit'nza matematica compie, nella seconda metà dcl III secolo,
dei rilevanti progressi con Pappo e soprattutto con Diofanto. Il primo per-
feziona la trattazione di alcuni problemi geometrici, mentre il secondo,
nella sua opera Arithmetica, costruisce la prima algebra che abbia visto
la luce in territorio europeo. Mentre prima d'ora i problemi matematici
erano stati trattati in forma geometrica, cioè col ricorso alle figure, o
al piu in forma aritmetico-geometrica, cioè con l'abbinamento di numeri
e figure, egli giunge alla trattazione purameute numerica; inoltre Dio-
fanto è autore di un metodo di scrittura simbolica che avvantaggia notevol-
mente il calcolo; con questi strumenti egli risolve le equazioni di primo e
secondo grado. Se si tien conto che la trattazione puramente numerica dei
problemi matematici importava una maggiore astrazione nel calcolo, si
può intendere l'importanza del passo compiuto da Diofanto oltre la consue-
tudine ormai fissata dalla tradizione greca.

:ioo

Baruch_in_libris
CAPITOLO Xli

Il secolo 1v

GIAMBLICO. ARIO E IL GRUPPO DI CAPPADOCIA

1. Il periodo.
Il secolo 1v segna la vittoria del cristianesimo sull'impero romano e,
ad un tempo, la divisione ormai definitiva fra l'Oriente e l'Occidente, fra
Bisanzio e Roma. Costantino segue, nei confronti del cristianesimo, una
politica opposta a quella di Diocleziano; infatti nell'editto del 313 egli con-
cede libertà alle comunità cristiane e assume ben presto la nuova religione
sotto la protezione dei pubblici poteri. Ciò determina il rapido consolidarsi
esterno del cristianesimo, la definizione e il perfezionamento della sua
struttura, oltre all'intromissione del potere imperiale nelle questioni rela-
tive all'organizzazione dcl pensiero e dell'ordinamento ecclesiastico. Con
Costantino pertanto si inizia, nonostante la successiva breve parentesi di
Giuliano, una collaborazione politico-religiosa che tenta di dar vita ad una
nuova civiltà, in cui si realizzi l'incontro anche con le popolazioni barba-
riche che premono ai confini.
Dal punto di vista culturale", il secolo 1v segna uno sviluppo imponente
dcl pensiero cristiano; è l'epoca dei maggiori padri della chiesa (da Basilio
a Gregorio di Nissa, da Ambrogio a Gregorio di Nazianzo) ed è anche la
epoca di acuti contrasti dottrinali, che nel concilio di Nicea hanno il loro
principale punto di riferimento. Il pensiero ellenistico scende intanto di li-
vello rispetto all'altezza raggiunta con la speculazione di Plotino; Giamblico
che ne continua l'insegnamento, lo piega con maggiore decisione al so-
pravvento di teorie pitagorico-caldaiche e di pratiche teurgiche; la fase
finale della speculazione ellenistica, orientata nel senso del neo-platonismo,
si avvicina ormai a grandi passi. La divisione fra Oriente cd Occidente
reca anche importanti effetti culturali; si afferma infatti il nuovo centro di
Costantinopoli e intanto l'Occidente si avvia allo sviluppo d'una propria
cultura, che prende a fondamento la civiltà latina.

20/

Baruch_in_libris
IL SECOLO IV CAP. Xli

2. Il neo-platonismo di Giamblico.

Giamblico vive dal 250 al 330 e fonda in Siria una scuola di ispi-
razione filosofico-religiosa. I suoi scritti principali sono una Silloge delle
dottrine pit11goriche e il D~ mysteriis. Giamblico si muove in una dire-
zione ben diversa da quella di Plotino ed .apre decisamente la strada
al sopravvento dell'ispirazione religiosa su qu.ella filosofica. È ben vero
che anche Plotino aveva riconosciuto i limiti del pensiero a vantaggio
di una unione mistica ed ineffabile dell'anima con l'Uno; ma Giam-
blico sottolinea piu espressamente che « chi filosofeggia speculativa-
mente >i non consegue « l' unione teurgica con gli dèi », la quale in-
vece dà luogo al « compimento delle opere ineffabili e realizzate al di
I~ di ogni pensiero, in maniera degna di Dio». « Anche senza che noi
pensiamo, egli spiega, gli stessi simboli compiono da sé l'opera propria
e la stessa potenza ineffabile degli dèi ai quali questi simboli perven-
grrno da sé riconosce le proprie immagini, ma non per essere risve-
di ~ta dal nostro pensiero ». Anche Giamblico concepisce la realtà come
prfJcedente da un principio supremo per via di emanazione e disposta in
un ordine gerarchico e tuttavia unitario; ma rispetto a quella di Plotino,
la costruzione di Giamblico moltiplica i gradi intermedi per i quali si
passa dall'Uno al mondo sensibile e identifica con essi le varie entità
religiose accolte dal paganesimo ellenizzante: dèi, demoni, eroi, forze
occulte ecc. Come procedimento permanente dello sviluppo del reale
e pertanto del passaggio dall'un grado all'altro della gerarchia degli
esseri Giamblico pone un movimento ternario che comprende ciò che
permane, ciò che procede e il fatto che ciò che procede si converte
a ciò da cui procede; cosi' le triadi si moltiplicano molto al di ià del-
l'Intelletto e dell'Anima del mondo e rispecchiano una minuta e va-
sta classificazione di entità intermedie.
Giamblico si ispira nella sua dottrina anche ad una concezione ma-
gica dei numeri ed accoglie molte suggestioni degli oracoli caldaici;
i mezzi per l'elevazione spirituale e per la salvezza non vengono da
lui richiesti alla tradizione della sapienza greca, quanto alla teurgia;
i " misteri platonici " di cui si fa iniziatore fanno ricorso a ogni sorta
di prodigi e di arcani pur di soddisfare la sete popolare del misterioso
e dcl meraviglioso; cos.l Giamblico ritiene di poter in q~alche modo

20.3

Baruch_in_libris
§ 2 IL NEO-PLATONISMO DI GIAMBLICO

salvare i valori della tradizione filosofica. Quando circa trent'anni dopo


la sua morte l'imperatore Giuliano volle ripristinare il politeismo, si
ispirò al neo-platonismo e particolarmente al pensiero del fondatore
della scuola siriaca; con i suoi scritti e con l'azione politica tentò di
ripristinare gli antichi culti e la teologia che li reggeva; ma la morte
che lo colpi durante la guerra contro i Persiani mise fine anche al
suo programma di restaurazione culturale e filosofica.

3. Ario e il concilio di Nicea.


Ben piu vitale ed imponente è, nel 1v secolo, lo sviluppo del pen-
siero cristiano. Grande importanza assume, per questo, la fondazione
della scuola di Antiochia che si orienta in senso nettamente opposto a
quello seguito dalla scuola cristian:i. di Alessandria; mentre quest'ul-
tima svolge gli aspetti speculativi della fede e negli stessi testi sacri
coglie soprattutto gli elementi per la costruzione dottrinale, trascuran-·
clone i motivi storico-narrativi, la scuola di Antiochia si oppone alle
interpretazioni allegoriche della Bibbia a vantaggio d'una stretta in-
terpretazione letterale e storica di essa. È alla scuola di Antiochia che
si forma Ario; in questa scuola si presta molta attenzione ai testi nei
quali si parla del Logos come della prima fra tutte le creature ed in
cui si afferma che il Verbo è inferiore al Padre; ci si orienta quindi nel
senso della subordinazione del Verbo rispetto al Padre ~ nel senso di
una adozione del Figlio da parte di Dio; su questa strada si pone anche
Ario. Egli intende anzitutto insistere sulla natura unitaria ed indivisi-
bile della divinità e pertanto ritiene che una pluralità di persone intac-
cherebbe la semplicità di Dio. Il Verbo, sostiene Ario, è Dio solo di
nome; in realtà esso vi.ene creato da Dio come strumento per la crea-
zione delle altre cose; il Verbo ha una funzione demiurgica, come anche
una funzione di redenzione; ma essa non può certo intendersi come
una redenzione divina. Il concilio di Nicea, nel 325, prende posizione
contro tale dottrina, a favore della teoria che viene fissata appunto nel
cosidetto simbolo niceno; esso rivendica per Cristo la stessa divinità
del Padre, la stessa sostanza divina; il piu fiero sostenitore cli tale for-
mula è, nel concilio di Nicea, Atanasio. Nell:i seconda metà del secolo
sorge una controversia anche a proposito della natura dello Spirito santo;

Baruch_in_libris
IL SECOLO IV CAP. Xli

Maceclonio, patriarca di Costantinopoli, giunge a negare esplicita111n11e


la divjnità dello Spirito, dicl1i;1r;111dolo 11 un servilore, ~imilc agli :111-
gcli »; il concilio di Costantinopoli del )81 prl'ndc posizione contn di
lui e dichiara che lo Spirito procede dal Padre e clic deve essere adcrato
e glorificato insieme con il Padre e il Figlio. f~ da 11olarc clic alla rnlice
della controversia sollevata da Ario si incontra l'uso di termini ri·~avati
dalla tradizione filosofica greca, come quello di sostanza o ousiu; la si-
stemazione dottrinale cristiana si avvale larga111rnle di <1uclla tradi-
zione.

4. Il gruppo di Cappadocia.

Il piu alto livello speculativo viene raggiunto nd secolo rv per opera


di un gruppo di studiosi della Cappadocia nell'Asia Minore; di esso
fanno parte Basilio, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo. Essi
hanno una formazione filosofica notevole, conoscono il neo-platonismo
nonché alcuni scritti di Platone, di Aristotele e degli stoici; nell'ambito
cristiano, l'autore al quale si richiamano è Origcne e l'indirizzo che
seguono è quello della scuola di Alessandria. Basilio (330-379) è da
ricordare sopratutto per la sua difesa della dottrina di Nicea e per
un suo scritto In Hexaemeron che interpreta il testo biblico sui giorni
della creazione. Sul primo punto Basilio accusa gli ariani di sminuire
la potenza di Dio quando sostengono che non gli è possibile generare
un Figlio della sua stessa perfezione. Nell'illustrare l'opera della crea-
zione, egli si vale poi della sua conoscenza di scienze naturali, di deri-
vazione aristotelica. Le dottrine morali di Basilio riecheggia no I'inse-
gnamento cinico-stoico e la sua teoria dell'eternità delle creature spiri-
tuali risale alla tradizione platonica.
Gregorio di Nazianzo (330-389) è noto per i suoi interventi chia-
rificatori nelle dispute teologiche del tempo; cosi attraverso la discus-
sione del significato dei due termini filosofici greci di ou.ria e di ypo.rta.ri.r,
nel senso rispettivamente di "natura" e di "persona " egli è giunto
alla soluzione del problema trinitario che sostiene l'unità della natura
divina nella trinità delle persone.
Gregorio di Nissa (335-394) è l'ingegno filosoficamente piu acuto
dcl gruppo di Cappadocia. Egli è ammiratore di Origene e, come lui,

Baruch_in_libris
§ 4 IL GRUPPO DI CAPPADOCIA

si avventura spesso alla determinazione di questioni che ancora non


er.ano state maturate dal pensiero cristiano. I suoi scritti di maggior
rilievo sono: il Dc hominis opificio ed una Explicatia, in Hcxacmcron,
oltre ad un Dialogus dc anima che ricalca il Pedone e al dialogo Con-
tra fatum che difende la libertà umana rispetto all'influsso degli astri,
Gregorio di Nissa insiste particolarmente sull'incomprensibilità del-
l'essenza divina, che non può essere espressa da alcun nome; egli am-
mette che alcune anime possano godere di una speciale ilh~minazione
da parte di Dio e quindi giungere a conoscerlo assai meglio di quanto
consenta la scienza teologica; ma anche in questo caso partico-
lare « H vedere consiste nel .non vedere, poiché Dio è incomprensibile
per ogni intelletto ». Gregorio si serve della teoria platonica sull'unità
dell'universale in relazione alla spiegazione di ciò che è proprio degli
individui e di ciò che è loro comune; se ne serve anche per spiegare la
consostanzialità delle tre persone divine. Della dottrina platonica si
giova non per ammettere, con Origene, la preesistenza delle anime,
ma per affermare che nella idea archetipa dell' uomo in .Dio non era
contemplata originariamente la distinzione dei sessi; era, quella, l'idea
dell'uomo perfetto e senza corruzione, quindi privo della determina-
zione sessuale, che sarebbe stata introdotta successivamente, in rela-
zione alla previsione della caduta. La risurrezione dopo la morte viene
concepita da Gregorio come una sorta di ritorno della natura al suo
archetipo; in tale prospettiva si inquadra anche la sua dottrina della
finale salvazione di tutte le anime, anche se Gregori,o non segue Ori-
gene nell'ammettere, dopo la morte, una serie successiva di prove,
quale preludio necessario alla reintegrazione conclusiva.
Figure minori della patristica del secolo IV, almeno sotto il pro-
filo speculativo, sono quelle di Giovanni Grisostomo (344-407), di Am-
brogio (340-397) e di Girolamo (340-420); il primo è noto per l'ispira-
zione platonica dei suoi celebri discorsi religiosi, mentre il terzo ha
legato il suo nome alla versione latina del testo canonico della Bibbia.
Ambrogio conosce parecchi scritti di ispirazione neo-platonica e li uti-
lizza nei suoi sermoni, lasciandone cadere però tutti gli elementi che
ritiene in contrasto con il pensiero cristiano. L'Oriente ha comunque
una presenza piu intensa ed operante che non l'Occidente nella for-
mazione del pensiero cristiano del iv secolo.

205

Baruch_in_libris
IL SECOLO IV CAP. Xlì

5. Lo sviluppo delle scienze.

Nella prima metà del Iv secolo, le opere sric:ntifiche di notevole il'T'por-


tanza non sono molte; per la matematica bisogna ricordare gli scritti di
Giamblico, anche se svolgono la teoria dci numeri sotto la spinta di una
mistica interpretazione; per l'astronomia vicino al commento di Calcidio al
Timeo va ricordato il grande trattato di astrologia di Firmico Materno dal
titolo: Matheseos libri vm: è il piu vasto compendio astrologico c.Jell'anti-
chità; per la storiografia la figura di maggior rilievo è quella di Eusebio
(265-340) che può considerarsi il padre della storia ecclesiastica mentre per la
filologia fiorisce in quest'epoca Donato, autore dell'Ars grammatica che di-
venne un classico degli studi letterari lungo tutto il Medioevo. Nella se-
conda metà <lei secolo 1v la scienza che viene piu largamente coltivata è la
medicina, anche se essa non vanta nomi di particolare rilievo; notevole
importanza ha invece l'opera del matematico Teone di Alessandria editore
di Euclide e commentatore dell'Almagesto di Tolomeo.

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CAPITOLO Xlii

Il secolo v
AGOSTINO. PROCLO. DIONIGI PSEUDO-AEROPAGITA

1. Il periodo.
Nel corso del secolo v la separazione fra l'impero d'Oriente e quello
di Occidente viene maturando e sul finire del secolo è un fatto compiuto.
In Occidente, l'autorità imperiale non riesce piu a mantenere il controllo
dei vasti movimenti di popolazioni barbariche alla ricerca di nuove sedi,
né può impedire l'infiltrazione di elementi barbarici nell'esercito e nella
amministrazio'ne; ne segue una profonda trasformazione nella compa~inc
dell'impero accompagnata da una grave crisi di autorità e di governo. Nel
410 i Visigoti giungono a saccheggiare Roma; ve.rso la metà del secolo, varie
tribu germaniche si stanziano nelle provincie e danno vita a nuovi organi-
smi politici; nel 476 si giunge alla deposizione dell'imperatore Romolo Au-
gustolo da parte di Odoacre; e questa data viene assunta, di norma, c~me
quella che segna la fine dell'età antica e l'inizio del Medioevo. Ma quale
termine della storia della filosofia antica si può scegliere, a maggior ragione,
la data del 529; fu allora infatti che l'imperatore Giustiniano fece chiudere
in Atene l'antica e gloriosa Academia di Platone e ne confiscò i beni.
L'impero d'Oriente, sebbene premuto e sconvolto dai movimenti delle
nuove popolazioni, riesce a mantenere una sua unità e compattezza, di cui
è fattore importante l'unità culturale realizzata faticosamente con la fu-
sione della tradizione ellenistica e di quella cristiana. L'impero d'Oriente
si dà anche una precisa funzione culturale nel 425 con la fondazione della
scuola superiore cristiana o università di Costantinopoli; la nuova scuola non
assume subito un rilievo culturale di primo piano, ma essa è importante
per la funzione che le viene attribuita, di scuola in cui deve trovare espres-
s.ione la nuova politica di ispirazione cristiana promossa dall'impero. In
questa luce, si comprende la misura disposta da Giustiniano nel 529; si
tratta di togliere di mezzo, con la chiusura delle scuole filosofiche di Atene,
l'ultimo ostacolo al trionfo dcl cristianesimo cd all'affermazione di Co-
stantinopoli come nuovo centro spirituale dell'impero cristiano d'Oriente.

Baruch_in_libris
lL SECOLO V CAP. XIII

Agostino che vive a cavallo fra la seconda metà del secolo 1v e la prirr.a
metà del v è indubbiamente il piu grande pensatore che il cristianesiP.lo
abbia avuto dalle sue origini, come dimostra altresi l'influsso esercitato èal-
la sua dottrina sul pensiero cristiano dei secoli successivi fino al no>tro
tempo; la sua età è ancora largamente attraversata da intensi contrasti teo-
logici, anche se si può dire che ormai le gran<li lince della dottrina crisciana
risultino definite e formulate. L'ultima grande figura della tradizione filo-
sofica ellenistica è quella di Proclo che è appunto a capo dell'Academia
di Platone, in Atene, negli ultimi <lecenni del secolo; l'indirizzo neo-plato-
nico con lui e con gli esponenti delle due scuole filosofiche di Atene e di
Alcssan<lria giunge all'epilogo; sembra raccoglierne l'eredità per trasferirla
in modo organico all'interno dcl pensiero cristiano Dionigi pseudo-Areopa-
gita, vissuto sul finire del v secolo e costruttore di una sistematica dottrina neo-
platonica <li ispirazione cristiana con cui giunge a compimento la storia
della filosofia antica.

2. Agostino: dal manicheismo al cristianesimo.


Agostino nasce a Tagaste in Numidia nel 354; delle vicende della
sua vita siamo informati dalle sue Confessioni, in cui tuttavia gli ele-
menti storici sono mescolati spesso ad esposizioni retorico-letterarie e
ad interpretazioni mistiche. L'educazione cristiana che gli viene im-
partita non si dimostra immediatamente efficace su di lui; a quindici
anni viene inviato a Cartagine a completare 5li studi; in questa città
venivano largamente praticati i culti pagani, ed erano numerosi i
m:ighi, gli aruspici e gli astrologhi; Agostino vi conduce un'intensa
vita e.li studio. A partire dal 373 si accosta al manicheismo che era abba-
stanza diffuso sia a Cartagine che nell'Africa settentrionale, nonostante
le ripetute condanne cui era st:ito sottoposto dalle autorità civili. Ago-
stino viene attratto dal manicheismo soprattutto perché esso critica
con molta acutezza sia l'Antico che il Nuovo Testamento; il Genesi,
osscrYavano i manichei, afferma che Dio creò il cielo e la terra, mentre
d'altra parte vi si dice che la terra esisteva già cd era informe ed invi-
sibile; vi si dice che le tenebre e l'abisso coprivano la terra, senza
indicare quale sia la loro origine; Dio avrebbe creato il sole, secondo
il Genesi, solo nel quarto giorno, ma non si dice in che modo senza
il sole si poterono distinguere i tre giorni precedenti; e quando si af-
ferma che Dio ha fatto l'uomo a propria immagine e somiglianza, si

208

Baruch_in_libris
§ 2 AGOSTINO

vuol forse dire che Dio ha naso e bocca ed occhi alla maniera degli
uomini? Inoltre Agostino viene attratto dalla chiarezza con cui il ma-
nicheismo risolve il problema del male, mediante la dottrina dei due
priacipii opposti, nonché dal rigorismo morale teorizzato in questa
religione. Sopratutto egli è colpito dal metodo razionale con cui i ma-
nichei presentano e discutono le varie dottrine; e gli pare che su due
punti essi abbiano un netto vantaggio rispetto al cristianesimo, nel
rispondere alla domanda di dove viene il male e nel ribadire che Dio
non può avere forma ed apparenze umane, secondo le espressioni lette-
rali dell' Antico Testamento. Solo intorno al 380, dopo avere iniziato
il suo insegnamento di retorica prima a Tagaste e poi a Cartagine,
Agostino comincia a nutrire i primi dubbi intorno alla verità del ma-
nicheismo; essi muovono dal raffronto che egli istituisce fra il metodo
con il quale la scienza greca procedeva nelle sue dimostrazioni e nei
suoi calcoli e l' asseveranza senza fondamento con cui nel manichei-
smo si sostenevano dottrine sulla natura; inoltre tutte le credenze astro-
logiche dei manichei gli paiono ben poco consistenti rispetto alle dot-
trine astronomiche greche. Dal punto di vista propriamente religioso,
Agostino è poi colpito dalla seguente riflessione: se il principio delle
tenebre può opporsi e recare nocumento al principio della luce, se-
condo le affermazioni dei manichei, vuol dire che il principio della
luce non è propriamente Dio; se poi il principio delle tenebre non può
l"ecare danno alcuno all'opposto principio della luce, allora non ha
alcun senso tutta la lotta di quest' ultimo contro il primo.
Nel 383 Agostino passa ad insegnare a Roma, mentre il vuoto la-
sciato in lui dalla diminuita fiducia nel manicheismo viene occupato
per qualche tempo dalla lettura di Cicerone e dall'impressione che la-
scia su di lui lo scetticismo probabilistico. Quando, due anni dopo, egli
passa alla cattedra di retorica di Milano, si delinea un suo riavvicina-
mento al cristianesimo per il tramite di alcune letture di autori neo-
platonici. Agostino legge, in questo periodo, il trattato sulla bellezza
di Plotino ed il Ritorno dell' anima di Porfirio e vi trova teorizzata
l'ascesa dell'anima dalla realtà corporea ad una realtà del tutto spiri-
tuale e trascendente. In questi testi egli trova esposta in particolare la
dottrina dell'esistenza d'una realtà puramente spirituale e ciò gli con-
sente di superare la concezione manichea della divinità come d'una

209

Baruch_in_libris
IL SECOLO V CAP. XIII

realtà corporea, anche se ridotta ad una mater.ia sottile, mentre la teoria


neo-platonica che riduce il male a non-essere gli consente di superare :a
soluzione che al problema dell'origine del male dava il manicheismo.
Ascoltando le prediche di Ambrogio che, nella spiegazione del
testo biblico, faceva costante ricorso all'analisi spirituale ed allegorica,
Agostino si viene riconciliando, nello stesso tempo, con l'Antico Testa·
mento; alla luce del criterio paolino seguito da Ambrogio: « la lettera
uccide, lo spirito vivifica », egli apprende che le espressioni bibliche non
debbono essere intese alla lettera, ma possono venire interpretate in
senso spirituale; intende, ·per esempio, che laddove. il Genesi afferma
che Dio creò I' uomo a propria immagine e somiglianza non si vuol
sostenere che Dio ha apparenza umana, ma solo che Dio ha concesso
all' uomo, nella creazione, la ragione e la libertà. Si chiarisce allora ad
Agostino che neo-platonismo e cristianesimo si possono incontrare, in
quanto la redenzione dalla materia e dal male che secondo i neo-plato-
nici si può conseguire per mezzo di pratiche magiche, è assicurata agli
uomini dall'incarnazione e dall'opera redentrice di Gesu; i neo-plato-
nici avevano teorizzato alla perfezione la natura spirituale di Dio e
la sua trascendenza; avevano anche definito l'unità e la trinità del
suo essere; ma si erano rifiutati di riconoscere in Gesu piu che un
uomo singolare e di consentire che in lui si fosse incarnato lo stesso Dio;
questo è il passo che bisogna compiere, a giudizio di Agostino, per rea-
lizzare il pieno incontro di neo-platonismo e di cristianesimo; questo
passo dottrinale sta alla base della conversione pratica di Agostino al
cristianesimo, avvenuta intorno al 386.

3. Gli elementi del platonismo cristiano di Agostino.


Gli elementi essenziali del neo-platonismo cristiano di Agostino
vengono elaborati in un gruppo di scritti, da lui redatti quasi comple-
tamente nella villa di Cassiciacum presso Milano e riconducibili al
periodo che va dal 386 al 388. Il primo passo in questa direzione è
quello costituito dal superamento dello scetticismo probabilistico degli
Academici svolto appunto nel Contra Academicos. La critica di Ago-
stino tocca in proposito due punti principali : chi si attiene al verosi-
mile, osserva, non conoscendo il vero è come chi afferma che una per-

310

Baruch_in_libris
s3 ELEMENTI DEL Pi.ATONISMO AGOSTINIANO

s-ma assomiglia ad un'altra, che però non conosce; una volta escluso
che si possa conoscere il vero, viene a cadere anche il criterio dd pro-
babile e <lei verosimile. Il secondo punto concerne l' affermazione de-
gli Acadcmici secondo la quale << niente si può conoscere ». << In ~ogno
e ndla pazzia, rileva Agostino, possono apparire false quelle cose ch7
si rireriscuno ai sensi; ma che tre per tre fanno nove è nct.:essario che
sia vao, anche se perisca il genere umano»; altrettanto si dica delle
propo.iizioni della logica. Anche la sensazione va difesa, a suo parere,
in ordine alla sua capacità. di cogliere il vero, purché ci si attenga solo
a quanto essa attesta: << lo non ho da lagnarmi dei sensi, scrive, perché
è ingiusto esigere da essi piu di quello che possonD; ora quello che gli
occhi possono vedere, lo vedono con verità; sarà forse vero allora
anche quello che vedono del remo ndl' acqua? Indubbiamente; c'è
infatti una causa per cui si vede cosi; e se il remo immerso nell'onda
apparisse diritto, dovrei accusare ancor piu i miei sensi di riferirmi
cosa falsa; infatti non vedrebbero quello che avrebbero dovuto, vedere,
esistendo quelle determinate cause». In conclusione, sia la sensazione
che la logica danno luogo a verità delle quali non si può dubitare.
Affrontando, nel De vita beata, il problema della felicità, Agostino
lo risolve con il richiamo alla stessa gerarchi~ reale degli esseri, al cui
vertice è Dio; solo Dio è perfetto; perciò «la piena soddisfazione degli
spiriti e la vita pienamente felice è solo in Dio »; I' infelicità è in".ece
conseguente alla manchevolezza e questa è "un non possedere", un
"non-essere"; chi manca di qualche cosa è infelice e solo chi non ha
bisogno di nulla è felice. Ma per giungere alla comprensione della
verità e di Dio bisogna anzitutto liberarci dal mondo della sensibi-
lità. « Devi fuggire del tutto le cose sensibili, suggerisce la ragione
ad Agostino nei Soliloquia, devi guardarti che le ali dcli' anima non
siano inviluppate dalla corporeità; la luce non degna di mostrarsi a
noi che siamo chiusi in questa caverna; quando dunque.le cose terrene
non ti procureranno piu diletto, in quell'istante medesimo vedrai
quello che desideri ». Dio e la verità si presentano ad Agostino come
il sole che illumina e la realtà intellegibile che viene illuminata;
« come la terra non si vede se non è illuminata dalla luce, cosi le ve-
rità scientifiche non possono essere intese se non vengono illuminate
da altro, come dal loro sole». Per questo la verità è il cammino che

::ZII

Baruch_in_libris
IL SECOLO V CAP. Xlii

ci conduce a Dio : « Sebbene le cose passino, la verità permane;


muoiono le cose vere, non la verità, le persone oneste, non l' onestà;
dunque I~ verità non può esistere nelle cose mortali; eppure la verità
c' è e non può non esistere in qualche luogo; vi debbono dunque essere
delle cose immortali; ma niente può essere vero senza che in esso sia
la verità; se ne conclude che non possono essere veri se non degli esseri
immortali ». Che la verità non possa perire, si dimostra secondo Ago-
stino « perché se perisse tutto il mondo ed anche la stessa verità,
sarebbe pur sempre vero che il mondo e la verità sarebbero periti;
e se non fosse vero che la verità fosse perita, allora non sarebbe
perita e ci sarebbe». Di qui è facile concludere all'immortalità del-
l'anima: «Tutto ciò che esiste in un sostrato, se esiste sempre,
è necessario che anche il sostrato esista sempre; ora ogni scienza
esiste nell'anima come sostrato; è necessario perciò che, se la scienza
esiste sempre, esista sempre anche l'anima; ma la verità è scienza e
la verità esiste sempre; l'anima perciò esiste sempre, ossia è immor-
tale». Anche nel De immortalitate animae Agostino ribadisce che
« quando ragioniamo seriamente con noi stessi, o quando veniamo
opportunamente interrogati da altri su qualche cosa, quello · che
ritroviamo, cioè la verità, non la ritroviamo se non nel nostro animo »;
d'altra parte questo "trovare" non significa "fare o generare" la
verità in noi, altrimenti «l'anima genererebbe nel tempo cose eterne»;
proprio il fatto che l'anima "trovi" in sé la verità e che la verità
non possa essere generata nei tempo, sta a confermare, secondo
Agostino, la sua immortalità.
Anche la questione della spiritualità dell'anima, tanto avversata
dal manicheismo, trova cos1 la sua soluzione: come potrebbe l'anima,
osserva Agostino nel De quantitate animae, ricordare cose lontane,
se fosse corporea e quindi chiusa dentro lo spazio del corpòf e come
potrebbero imprimersi in essa, piccola come il corpo, immagini cos1
grandi come quelle di città e di regioni? e come potrebbe l'anima
conoscere gli enti matematici, il punto, la linea e la superficie che
non sono entità corporee? Il legame che corre fra l'anima .e la ve-
rità consente ad Agostino di svolgere, nel De magistro (scritto nel
389 a Tagaste, dopo il ritorno dall'Italia) la critica della retorica e
la teoria del carattere interiore della conoscenza. « Le parole non

Baruch_in_libris
§ 3 ELEMENTI DEL PLATONISMO AGOSTINIANO

fanno che stimolarci a cercare le cose, scrive, ma non sono in grado


di farcele conoscere. Se non c'è parola che non sia segno, per quanto
una parola sia da mc udita, non saprò dì che cosa sia parola finché
non sappia che cosa significhi; quando si conosce qualche cosa,
allora si può conseguire anche la conoscenza delle parole, ma se
si sentono solo parole, non si apprendono nemmeno quelle». «Colui
che mi ascolta, se ha avuto sensazione delle cose di cui parlo e fu
presente ad esse, non apprende dalle mie parole, ma riconosce quanto
dico attraverso le immagini che anch'egli ha portato con sé; se poi
non ha sentito tali cose, si affida alle mie parole in mancanza della
possibilità di apprendere qualche cosa». Insomma, «chi non è in
grado di discernere le cose della mente, ode invano le parole di
colui che le discerne; e chi è in grado di discernerle, è discepolo
della verità nel suo intimo, di quella verità che è giudice di colui
che parla fuori, o piuttosto del discorso stesso »; perciò appunto
<< il vero maestro è la immutabile virtu di Dio, la sapienza eterna cui
dà ascolto ogni anima razionale»; le parole valgono solo in quanto
siano stimolo a prestare ascolto « alla verità che nell'intimo presiede
alla mente ».

4. II sistema platonico-cristiano di Agostino.


Agostino raggiunge la formulazione piu organica e rigorosa del
suo sistema platoniéo-cristiano con il De vera religione e il De libero
arbitrio, opere che si collocano nel periodo che va dal 390 al 395, tra-
scorso a Tagaste nella piu intensa attività di studio. Il De vera reli-
gione è una sorta di compendio della nuova visione filosofico-religiosa
di Agostino; vera religione è il cristianesimo che «venera un solo Dio
e lo riconosce come quel principio per il quale hanno inizio e perfe-
zione e limiti tutti gli esseri »; i grandi filosofi greci, « se potessero
rivivere, muterebbero poche parole e poche sentenze delle loro dot-
trine e diventerebbero cristiani, come ha fatto la maggior parte dei filo-
sofi platonici ». Il grande problema del pensiero cristiano è qµello del
rapporto fra Dio e gli esseri finiti; questi ultimi « non hanno l'essere
in grado supremo » perché sono inferiori a colui che li ha creati; Dio
ha invece l'essere in grado sommo; «egli ha creato gli esseri perché

21~

Baruch_in_libris
IL SECOLO V CAP. XIII

fossero, giacché l'essere, per quanto in piccolo grado, è un bene per


sé, in quanto appunto il sommo Bene è il supremo essere; poiché ogni
essere deve constare d'una forma, per quanto minim:i, esso, per quanto
infimo, tuttavia sarà un bene e quindi sarà da Dio; se Dio infatti, su-
premo bene, è anche suprema forma, ogni bene o è Dio o viene da
Dio; quindi anc;l,1e l'infima forma è da Dio>>. ((Un essere sottostà a
corruzione ed a morte solo in quanto viene privato di qualche cosa;
tutte le cose soggette a limite ed a corruzione sono buone, ma vi sono
soggette in quanto non sono sommi beni; esse, in quanto beni, sono
da Dio, in quanto non sono beni supremi, non sono Dio; Dio è il
solo bene non soggetto a limite ». La stessa caduta dell'anima nel pec-
cato e nel male « non è il passaggio da un bene sostanziale ad un male
sostanziale, giacché nessuna sostanza è male », ma pass:iggio dal bene
eterno al bene temporale, . ossia dal bene sommo al bene infimo; vi
è dunque un bene, amando il qu:ile l'anima pecca, « in quanto esso
è posto al di sotto dell'anima »; sicché è un male il peccato, ma non
è certo un male quella sostanza, amando la quale si pecca. In tutta la
natura, nessun essere è male, ma diviene tale « per nostra colpa ».
Contro i manichei, Agostino dimostra cosi che « dai peccati non può
·derivare che il mondo sia colpito da alcuna deformità che si traduca
in un suo elemento costitutivo; se le creature razionali sono monde da
peccato e si conservano soggette a Dio, esse dominano le altre creature
come inferiori; se invece h:inno peccato, vengono riportate al grado
che loro conviene senza che il tutto perda la propria bellezza dinnanzi
a Dio creatore e reggitore di esso». Nel creato tutto è dispasto affinché
l'uomo consegua la salvezza che egli ottiene dando vita in sé, al di
sopra della realtà dell'uomo esteriore e terreno, all'uomo interiore e
celeste. Agostino ricorda, con evidente reminiscenza neo-platonica, le
sette età attraverso le quali passa la formazione dell' uomo interiore,
fino alla conquista della sapienza, alla completa dimenticanza della
vita terrena, al passaggio alla perfetta bellezza cd alla finale beatitudine.
Strumento fondamentale dcli' ascesa a Dio è la ragione che giu-
dica le cose sensibili alla luce di misure ideali incorparee; ora, se se-
condo tali idee della mente si giudicano le molteplici realtà dell' espe-
zienza, è segno che tali idee valgono· molto di piu, per la loro portata,
di tutto ciò che da esse viene misurato; la misura ideale non subisce

Baruch_in_libris
§ 4 IL SISTEMA PLATONICO-CltlSTIANO

modificazioni, è in se stessa del tutto immutabile; anche la mente che


intuisce tale misura ideale è soggetta alla mutabilità ed all'errore;
«bisogna dulJ(1ue conclmkre eh<.: ~upra la nostra m<.:ntc c'é una kggt:,
che si cht:1ma verità». Tale legge o misura ideale è 11 l'arte per se
ste~a di un artefice immutabile »; la mente umana si trova quindi in
una posizione intermedia fra 11 le cose inferiori di cui essa giudica
secondo verità », e la Verità, cioè Dio, che 11 sola sa giudicare di noi 11.
u Non uscire <la te stesso, scrive Agostino, perché fa verità abita nd-
1' uomo interiore; e se troverai la sua natura mutevole, trascendi anche
te stesso; però nel trascendere te stesso, trascendi un' anima razionale;
tale superamento devi perciò tentarlo là donde viene ogni luce di ra-
gione; dove giunge ogni buon ragionatore, se non alla verità? La ve-
rità non ritrova se stessa col ragionam~nto, perché essa è ciò che ra-
gionando si cerca; osserva qui un'armonia superiore ad ogni altra;
confessa di non essere tu ciò che è la verità poiché essa non cerca se
stessa; tu invece, cercandola, sei giunto a lei per unirti a lei come uomo
interiore». Di fronte ali' assoluta obbiettività della verità non ha piu
alcun senso il dubbio scettico: «Chiunque comprende d'essere in dub-
bio, vede una cosa sicura di cui è certo, cioè d' essere in dubbio; dun-
que egli è certo del vero; pertanto chiunque d_ubita se la verità esista,
ha in sé qualche cosa di vero di cui non può dubitare; ma il vero
non è tale se non in forza della verità; è necessario dunque che chi
ha potuto in qualche modo dubitare, piu non dubiti della verità;
non è d'altra parte il ragionare che crea la verità; esso la scopre; la
verità quindi esiste in sé anche prima che sia scoperta e scoperta che
sia, ci rinnova». Ed ecco in che modo la verità ci conduce a Dio:
« La verità, della quale non si può dire che sia tua o mia, o di
qualsiasi altro uomo, scrive Agostino nel De libero arbitrio, o è piu
eccellente della nostra mente o è uguale alla mente o è ad essa inferiore.
Se fosse inferiore, non giudicheremmo servendoci di essa come di cri-
terio, ma giudicheremmo la stessa verità, dicendo come dovrebbe essere;
invece giudichiamo le cose secondo le interiori regole della verità,
sulle quali nessuno pronuncia un giudizio. Se poi la verità fosse pari
alle nostre meµti, anch'essa sarebbe mutevole; invece la verità rimane
in se stessa integra ed incorruttibile, per cui non progredisce quando
noi la comprendiamo di piu, né diminuisce in sé quando la com-

215

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IL SECOLO V CAP. XIII

prendiamo meno; se dunque la verità non è né inferiore, né uguale


alla mente, non resta se non ch'essa sia superiore. Ora, se si riesce
a dimostrare che esiste qualche cosa sopra le nostre menti, questi è
Dio; se non c'è, la stessa verità è Dio».
Alla luce di questi principii anche il problema del male e della
libertà si chiariscono. Il male morale consiste in un atteggiamento in-
teriore che istituisce fra le varie parti di cui risulta l'uomo un rap-
porto non conforme a natura; la ragione deve dominare sulle pas-
sioni; il male consiste invece nel dominio delle passioni sulla ragione.
La libertà è ciò che rende possibile il male; perché mai, si chiede
Agostino, Dio ha dato all'uomo la libertà? Anzitutto, risponde, sen-
za la libertà l'uomo non potrebbe agire rettamente; se con la libertà
l'uomo pecca, « non si deve credere che Dio gli abbia data la libertà
per questo». Saranno dunque da condannare coloro «che usano
male del bene che è la libertà, ma non si dovrà dire che colui che
ha dato questo bene, non avrebbe dovuto darlo ». Ma la difficoltà
maggiore al riconoscimento della libertà umana sembra venire dalla
prescienza divina: « Se Dio è presciente e sa che l'uomo peccherà,
è necessario che l'uomo pecchi; ma se è necessario, allora nel pec-
care non c'è libertà, ma necessità fissa ed inevitabile». La risposta
di Agostino si richiama da un lato alla nostra diretta esperienza per
cui sentiamo che «vogliamo con la volontà» e per l'altro alla se-
guente osservazione: « Dio prevede la nostra volontà; ma la prevede
appunto come volontà; essa sarà dunque volontà; né potrebbe essere
volontà, se non fosse in nostro potere; dunque Dio prevede anche
la volontà come in nostro potere; sicché la prescienza di Dio non ci
toglie la libertà ».

5. Agostino difensore della verità cristiana.


Nel 395 Agostino diviene vescovo di lppona; da quel momento
egli si sente investito di una particolare autorità e responsabilità nd
governo della chiesa; perciò il suo orizzonte culturale si fa piu ri-
gido, la ricerca viene spesso superata dalla foga polemica o dallo
spirito di edificazione pastorale, le esigenze puramente dottrinarie
si accompagnano e a volte cedono il campo a istanze di organizza-

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AGOSTINO DIFENSOllE DELLA VERITÀ CRISTIANA

zione anche pratica della cultura. Una delle sue prime cure è ap-
punto quella di dare una sistemazione cristiana al patrimonio della
cultura classica. Nel De doctrina Christiana del 397 Agostino indica
la via per trasformare la cultura profana in cultura cristiana ponendo
al suo centro il testo della rivelazione, la Bibbia. Il testo sacro va
anzitutto compreso per se stesso; si· tratterà poi di esprimere ade-
guatamente quello che si è compreso. Per comprendere la Bibbia,
bisogna fare ricorso ai sussidi delle arti liberali; la storia, la geo-
grafia, la botanica, la zoologia, la mineralogia, l'astronomia, la me-
dicina, l'agricoltura, la navigazione serviranno ad intendere appieno
la Bibbia nei passi in cui essa tratta rispettivamente questioni atti-
nenti ai singoli campi del sapere; anche l'aritmetica, con le sue di-
verse applicazioni ai movimenti ed alle figure, servirà a spiegare i
passi biblici in cui si fa menzione dei numeri, dei movimenti e
delle figure. La dialettica che insegna a ben argomentare, servirà a
risolvere molte delle questioni intricate che sorgono dalle pagine
bibliche. Il vescovo di Ippona auspica che si possano raccogliere in
una sola opera, classificate per materia, tutte le informazioni e le
nozioni utili a comprendere la Bibbia; si tratta di una sorta di
enciclopedia ad uso dei cristiani da ricavare dalla scienza profana
e da inquadrare nei principii della nuova sapienza religiosa.
Anche nella lotta contro la dottrina di Pelagio, affermatasi in-
torno al 410, la reazione di Agostino è ispirata da motivi spiccata-
mente religiosi. La condizione del primo uomo, Adamo, non è da
ritenere, sostiene Pelagio, diversa da quella in cui nascono gli altri
uomini; e la colpa in cui egli è caduto non può aver causato alcun
danno alla posterità, poiché il peccato è un atto volontario e per-
t~nto la responsabilità di esso non può cadere che su chi lo abbia
commesso. Noi non possiamo dunque ereditare dai primi progenitori
le conseguenze della loro colpa e non possiamo quindi ritenerci mac-
chiati di un peccato originale. Se l'umanità non è indebolita alla
radice da tale colpa, può conseguire la salvezza mediante il libero
arbitr!o e senza alcun intervento straordinario da parte di Dio. Ago-
stino, nei suoi scritti precedenti, non aveva mancato di insistere, a
sua volta, sul carattere personale della responsabilità morale cd aveva
sottolineato tutto quello che l'uomo può fare per giungere alla salvezza.

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IL SECOLO V CAP. XIII

Ma quando sorsero le prime discussioni intorno alla dottrina di Pelagio,


Agostino la impugnò con particolare asprezza e sostenne in piu di una
quindicina di scritti e trattati una veduta radicalmente pessimistica
circa la salvezza dell'uomo. Dopo la colpa originale, che investe
nelle sue conseguenze tutta l'umanità, l'uomo è un essere decaduto
e dannato davanti a Dio; anche il libero ·arbitrio, dopo la colpa ori-
ginale, è indebolito ed incapace di resistere al male; se non inter-
venisse dunque una speciale iniziativa divina, l'umanità resterebbe
definitivamente « una massa di dannazione»; le buone azioni non
valgono nulla, senza la grazia; l'iniziativa divina nella salvezza ha
un'assoluta priorità rispetto all'iniziativa umana in quanto Dio sce-
glie coloro che saranno salvi in base a criteri che sfuggono del tutto
alla i:omprensione umana; Dio predestina alcuni alla salvezza e
senza tale intervento la salvezza non è raggiungibile. Pareva ad
Agostino che una universale salvazione avrebbe tolto valore sia alla
redenzione che alla grazia; e il cristianesimo avrebbe potuto cosi
risultare compromesso nella sua originalità rispetto alle dottrine sa-
pienziali della salvezza di origine pagana. Nel 418 la dottrina di Pe-
lagio fu condannata dal concilio di Cartagine; ma la dottrina di
Agostino non ottenne consensi unanimi e facili né allora, né in
seguito.
Gli approfondimenti dottrinali piu cospicui offerti da Agostino
negli scritti della piena maturità sono principalmente due: quello che
concerne la dottrina della creazione chiarita nelle Confessioni e la
discussione del problema trinitario svolta nel De Trinitate. il primo
punto riguarda la difficoltà di conciliare la creazione del mondo da
parte di Dio e la assoluta mancanza in lui di qualunque mutamento:
se nulla di nuovo può intervenir-'.'. a mutare la natura di Dio, come è
possibile che egli si sia determinato, in un certo momento, a creare
il mondo, che prima non esisteva? «Dio, risponde Agostino, ha
creato tutti i tempi ed è prima di tutti i tempi»; egli è nell'et~rnità
e non crea affatto il mondo « nel te~po »; « il t~mpo non ci può
essere senza la creazione », mentre Dio è fuori del tempo e perciò
fuori del mutamento. Nel De Trinitate che comprende quindici libri
e fu composto dal 400 al 416, il vescovo d' Ippona svolge un' esposi-
zione minuta e complessa della dottrina trinitaria, con l'intento di

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§ 5 AGOSTINO DIFENSORE DELLA VERITÀ CRISTIANA

ribadire la natura divina delle tre ipostasi; ma una parte notevole


dell'opera t: dedicata anche ad illustrare le analogie della trinità che
l'uomo può riscontrare nella struttura stessa del suo essere. Nell'uomo
si possono considerare, per es., l'essere, il conoscere ed il volere: «io
indubbiamente esisto, so e voglio; sono sapiente e volitivo; so di
essere e di volere; voglio essere e sapere»; in questa trinità di funzioni
si esplica una vita indivjsibile, un'identica essenza. Analoga trinità
può scorgersi nei tre momenti dell'anima: mens, notitia, amor: «la
mente, l'amore e la conoscenza sono di una sola sostanza, perché è fa
mente stessa che si ama e si conosce; in queste tre realtà dunque,
quando la mente ama e conosce se stessa, resta la trinità, cioè la
mente, l'amore e la conoscenza; ognuno singolarmente è in sé, vi-
cendevolmente tutte sono in ognuna, ogni singola nelle altre due e
queste in quella, e tutte in ciascuna». Né meno chiara è l'impronta
trinitaria che l'uomo reca nella sua mente, che si rivela come memoria,
intelligenza e volontà; «esse non sono tre vite, ma una sola vita; non
sono tre menti, ma una sola mente; non sono tre sostanze, ma una
sola sostanza; queste tre sono uno, come una è la vita i>. Cosi non solo
la trinità è chiarita come ritmo interno della vita divina, ma diviene
chiave anche per la comprensione dell'interiorità umana.

6. La città di Dio.
Molti sono gli scritti polemici ed esegetici e catechistici composti
da Agostino nell'ultimo ventennio della sua vita; e motivi dottrinali
sono presenti in molti di essi, con particolare riguardo ai commenti
al Genesi, ai Salmi e al IV vangelo. Ma l'opera alla quale lavora
per oltre uri decennio, dal 413 al 426, e che è quasi il compendio
di tutta la sua attività di pensatore è il De civitate Dei. Nel 410, men-
tre i Goti di Alarico saccheggiano Roma, sono in molti a ritenere
che ormai l'ultima rovina incomba non solo sulla capitale, ma su
tutta la civiltà promossa da Roma; e molti sospettano che. si stia per
avverare quanto i pagani avevano preconizzato fin dai tempi di Co-
stantino e cioè che l'abbandono dell'antica relil!ione da parte del!o
stato romano avrebbe portato quest'ultimo allo ;facelo. Ma la rovina
dello stato romano significa, ad un tempo, la rovina dcl cristianesimo

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IL SECOLO V CAP. XIII

ormai mt1mamente legato con le strutture statali. Il sacco di Roma


si presenta dunque da un lato come una solenne sconfessione del cri-
stianesimo a favore dell'antica religione pagana e dall'altro come
l'avvicinarsi della catastrofe che avrebbe travolto con Roma anche
la chiesa cristiana. Agostino con la sua ampia opera in ventidue
libri intende mostrare sia la superiorità del cristianesimo rispetto a
tutta la cultura pagana, sia la capacità del cristianesimo di superare
la catastrofe presente e di guardare al futuro, anzi all'eternità.
L'idea che domina nella prima parte dell'opera è quella della
provvidenza che governa la storia umana: « Dio è principio di ogni
regola, scrive Agostino, di ogni bontà, di ogni ordine; Dio veglia
sul cielo e sulla terra, sull'angelo e sull'uomo e non lascia nulla,
neppure la struttura inferiore del piu vile insetto, né le piu piccole
penne degli uccelli, né il piu piccolo fiore dei campi, né le foglie
delle piante, senza l'armonia ed una stretta unione nelle parti; ora
non si può assolutamente credere, se è cosi, che Dio abbia voluto
lasciare i regni degli uomini e le loro dominazioni e le loro schiavitu
fuori delle leggi della sua provvidenza». Ecco perché « il potere di
disporre degli scettri e degli imperi non lo dobbiamo attribuire che
al vero Dio_; ed è soltanto questo Dio, la cui provvidenza e giustizia
non abbandonano mai il genere umano, che ha dato l'impero a Roma
quando ha voluto e grande quanto l' ha voluto; è lui che lo ha dato
agli Assiri, ai Persiani, agli Ebrei; è lui che lo dà egualmente agli
uomini, a Maria, a Cesare, ad Augusto ed allo stesso Nerone, a
Vespasiano, a Domiziano mostro di crudeltà; è. lui che incorona
Costantino principe cristiano e Giuliano l'apostata; tutti questi av-
venimenti il solo e vero Dio li dispone e li governa come gli piace,
secondo ragioni che ci sono nascoste». Questa dottrina consente ad
Agostino sia di affermare che anche le vicende storiche piu negative
all'apparenza sono ordinate da Dio ed hanno pertanto un loro valore
positivo, sia di far rientrare nell'ambito del cristianesimo tutta l'azione
positiva che in campo politico e culturale era stata svolta prima del
cristianesimo; nei molteplici lati negativi della civiltà pagana si deve,
per contro, vedere l'insufficienza degli uomini e delle loro dottrine;
su tali lati negativi Agostino insiste a lungo, sia per quanto riguarda
la religione, come in rapporto alla filosofia, alla politica, alla morale;
220

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§ 6 LA CITTÀ DI DIO

egli è portato a ritenere che le sventure del suo tempo siano inviate
da Dio a punizione dei molti mali commessi dagli uomini quando,
come durante il paganesimo, essi hanno preteso di fare senza l'aiuto
divino. Non il cristianesimo si deve dunque ritenere causa della
caduta dell'impero, bensl la profonda corruzione della società pagana.
Di fronte poi al timore che gli stessi cristiani potevano nutrire di
essere coinvolti nel crollo dello stato romano, Agostino svolge, nella
seconda parte della sua opera, la dottrina delle due città, « quella del
cielo e quella della terra ». Da un lato egli avverte che «il secolo pre-.
senta mescolate e confuse » queste due città; poca meraviglia dunque
che i mali che colpiscono l'una investano anche l'altra; d'altro lato
però mette in chiaro che la città di Dio, cioè la comunità cristiana,
ha tale fine che non può essere travolta da alcuna catastrofe storica,
perché il suo destino oltrepassa la storia ed il mondo presente. « Nono-
stante la meravigliosa varietà di nazioni sparse sulla terra, scrive, con
credenze e costumi diversi, distinte per lingua, armi, consuetudini,
non esistono tuttavia che due città umane: l'una è la città degli uomini
che vogliono vivere in pace secondo la carne, l'altra quella degli uomini
che vogliono vivere in pace secondo lo spirito; e si può anche dire
quella degli uomini che vivono secondo l'uomo e quella degli uomini
che vivono secondo Dio; l'amore di sé portato fino al disprezzo di
Dio generò la città terrena; l'amore di Dio portato fino al disprezzo
di se stesso generò la città celeste; l'una cerca la gloria degli uomini,
l'altra pone la sua gloria in Dio ». La storia delle due città attraversa
tutti i tempi « dal giorno in cui cominciò la generazione dei due primi
uomini »; Caino è il primo fondatore della città terrena, Abele è il
primo cittadino della città celeste. La città terrena è destinata allo
scacco finale; la città celeste non può identificarsi con la città terrena,
anche se risulta in parte confusa con essa. ·Agostino vuol dare anzitutto
ai cristiani una profonda coscienza dell'unica città che essi formano,
della completa originalità che distingue la loro comunità dallo stato
romano; tale comunità ha un destino ultraterreno che le vicende sto-
riche )On possono compromettere. D'altra parte Agostino si preoccupa
anche dell'azione propriamente terrena che la città celeste deve asso!·
1

vere: « Durante il suo pellegrinaggio sulla terra, afferma, la città ce-


leste raccoglie una società pellegrina; poco importano le differenze di

Baruch_in_libris
IL SECOLO V CAP. XIII

costumi, di leggi, di istituzioni; essa non turba nessuna di queste cose,


non le distrugge, anzi le conserva e le rispetta, purché lascino alla reli-
gione la libertà di insegnare il culto del solo e vero Dio; la città del
cielo si servè, dunque, in questo esilio, della pace della terra per ciò
che riguarda gli interessi della natura mortale, fin dove la pietà è salva
e la religione lo permette ». Con ciò Agostino, di fronte al crollo del-
l'impero romano, prospetta una società religiosa guidata dalla chiesa
e capace di orientare l'ordinamento terreno in tutti i suoi aspetti, con-
servandolo per integrarlo; è la città di Dio pronta sia a considerare
con distacco le vicende terrene in nome di un fine religioso trascen-
dente sia a dirigere gli ordinamenti civili e gli stati come strumenti
per la realizzazione delle finalità religiose.
Nella primavera del 429 i Vandali, sotto la guida di Genserico,
invadono l'Africa; alla fine del maggio del 430 pongono l'assedio ad
Ippona; è durante il terzo mese deli'assedio, il 28 agosto del 430, che
Agostino muore.

7. Nuovi contrasti teologici.


Mentre, alla morte di Agostino, la disputa sollevata da Pelagio sul
peccato originale e sulla grazia si sta spegnendo, un 'altra ·ne nasce
per opera di Nestorio, vescovo di Costantinopoli; richiamandosi alla
immutabilità di Dio, egli ritiene che iri Gesu l'unione di umanità e
divinità non possa giungere ad una perfetta fusione; poiché però, a suo
avviso, dove. c'è una natura dev'esserci anche una persona, il Verbo,
assumendo la natura umana, assume anche la persona umana; in Cristo
ci sono pertanto due persone, due soggetti, uno divino ed uno umano
uniti da una mutua relazione; per questo Nestorio conclude che il
Verbo non può essere figlio di Maria. Molti temono però che, in tal
modo, gli aspetti umani e storici del Cristo risultino compromessi;
muovendo dal sostenere l'attribuzione a Maria della maternità di Dio,
costoro si esprimono per una concezione piu rigorosamente unitaria
della persona di Gesu; in questo senso decide il concilio di Efeso nel
43i. La disputa, anziché estinguersi, si porta a posizioni estreme con
Eutiche il quale sostiene che in Cristo, dopo l'incarnazione, c'è una
sola natura e pertanto una sola persona, quella divina; per controbattere

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§ 7 NUOVI CONTRASTI TEOLOGICI

la tesi della permanenza delle due nature, che rischia di 1::1SCiare la


realtà umana di Cristo fuori della sua realtà divina, si giunge cosi alla
tesi dell'unica natura che torna a scavare un solco incolmabile fra il
Cristo e la comune umanità; con il concilio di Calcedonia nel 451 si
giunge alla conclusione che in Gesu debbono ammettersi due nature
ed una sola persona.

8. Proclo.
Con Proclo continua l 'indiriizo speculativo del neo-platonismo che
da Plotino conduce prima a Giamblico e infine all'ultima fase della
scuola di Atene. Proclo nasce a Costantinopoli nel 412; studia dap-
prima ad Alessandria e poi ad Atene dove assume la direzione del-
1'Academia di Platone; qui svolse il suo insegnamento fino alla morte,
nel 485. Proclo è profondamente immerso nell'atmosfera religiosa del
tempo; celebra ogni mese le cerimonie della Grande Madre, osserva i
giorni nefasti degli Egiziani, digiuna nell'ultimo giorno del mese, pra-
tica la teurgia. Anche la sua personalità di studioso è permeata da un
afflato profetico; egli chiama arcana la dottripa di Platone, e afferma
che essa « ha eterna sussi;tenza presso gli stessi .dèi »; Platone è « guida
ed interprete di misteri santissimi e di veraci iniziazioni », mentre la
meta cui il suo pensiero conduce sono « le complete ed immote visicmi
alle quali partecipano le anime che agognano all'esistenza beata e
felice ». Proclo ritiene inoltre che unico oggetto della speculazione
sia il divino e che l'unico modo di concepire con la mente il divino
sia costituito dalla « iniziazione ottenuta con la luce che dal divino
proviene» .. Le opere principali di Proclo giunte fino a noi sono: il
commento ad alcuni deil<'ghi di Platone (il Parmenide, il Timeo,
il Cratilo, la Repubblica), gli Elementi di teologia, la Teologia di
Platone, oltre ad un commento agli Elementi di Euclide ed un' in-
troduzione all'astronomia di Ipparco e di Tolomeo.
Anche Proclo è legato, come Giamblico, ad una visione unitaria
della realtà che, avendo il suo principio nell'Uno, si svolge per ema-
nazione in una serie complessa di esseri intermedi fino alla materia
ed al mondo sensibile. All'Uno tengono dietro le Enadi che coinci-
dono con gli dèi della tradizione ellenistica; poi « a tutti gli esseri par-

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IL SECOLO V CAP. XIII

tecipi della Mente sovrasta la Mente impartecipabile; a quelli partecipi


della vita, sovrasta la Vita; a quelli partecipi dell'essere, sovrasta l'~s­
sere; e di questi l'Essere è prima della Vita e la Vita prima della Mente;
poiché la causa di piu effetti precede la causa di meno effetti, fra essi
l'Essere sarà il primissimo, poiché è presente a tutte le cose cui è pre-
sente anche la Vita e la Mente; seconda è la Vita, poiché a tutti gli
esseri cui appartiene la Mente appartiene anche la Vita; terza è la
Mente». D merito principale di Proclo è però quello di aver approfon-
dito il procedimento dello sviluppo della realtà nel suo distendersi dal-
1' Uno alla varia molteplicità. Il primo momento di tale sviluppo com-
porta la permanenza del generante: « Ogni essere che produce per la
sua perfezione e sovrabbondanza di perfezione, scrive, produce esseri
successivi a lui; ma ogni producente resta quale è; e, mentre esso ri-
mane, ne procede ciò che è dopo di lui; il generante resta dunque im-
mutato e non diminuito e per la potenza fecondatrice moltiplica se stesso
e da se stesso fornisce le sussistenze successive». Il secondo momento
dello sviluppo è dato dalla processione che si compie « per via di somi-
glianza delle cose seconde rispetto alle prime »; infatti « il prodotto
resta nel producente in quanto ha qualcosa di identico rispetto al pro-
ducente, mentre procede da esso in quanto ha qualche cosa di diverso
dal producente » ; il prodotto, cosi, « rimane e procede insieme » ; se.
nel secondo momento l'essere, mediante la processione, «esce da sé»,
nel terzo momento, mediante la conversione, ritorna a sé; «ogni es-
sere, scrive Proclo, procedente da una cosa per essenza ritorna alla
cosa da cui procede; ché, se procedesse, ma senza rivolgersi verso la
causa di tale processione, non aspirerebbe alla causa; ma ogni essere
desidera il bene ed il raggiungimento di esso si compie mediante la
sua causa prossima; infatti per ia via onde ciascuno ha l'essere, per
questa ha anche il bene; e donde viene il bene, là si volge dapprima
il desiderio; e dove si volge dapprima il desiderio, là si compie la
conversione». Lo sviluppo del reale risulta, appunto per tale suo carat-
tere, circolare: «Ogni essere che procede da un altro e vi ritorna ha
un'attività circolare; infatti se ritorna là donde procede, congiunge col
principio il fine ed è uno e continuo il suo movimento, nascendo da
una parte da ciò che permane, dall'altra dal ritorno ad esso; sicché tutti
gli esseri procedono in circolo dalle cause alle cause; e ci son circoli

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§ 8 PROCLO

maggiori e minori, compiendosi le conversioni parte verso ciò che è


immediatamente sopra, parte verso ciò che è piu su, fino al principio
di tutte le cose; da esso infatti tutte procedono e ad esso tutte ritor-
nano». Se, con i suoi approfondimenti dottrinali, Proclo per un lato
consolida la visione plotiniana della realtà, dall'altro, con l'inserimento
in quella visione del multiforme politeismo ellenistico ne denuncia la
funzione storica e la finalità religiosa predominante.

9. Dionigi pseudo-Areopagita.

Un'eco del pensiero di Proclo e delle dottrine neo-platoniche si incon-


tra in un gruppo di scritti di un autore cristiano vissuto con tutta proba-
bilità verso la fine del secolo v; si tratta di quel Dionigi c:he presenta se
stesso come discepolo di Paolo e che la tradizione cristiana ha voluto
identificare con il membro del!' Areopago convertito in Atene dalla pre-
dicazione dell'apostolo; in realtà di questo gruppo di scritti si ha noti-
zia per la prima volta nel 532 e la sua elaborazione deve risalire ai
decenni immediatamente precedenti. Nella Theologia mystica Dionigi
esalta quell'unione soprannaturale con Dio che da un lato proviene
dalla stessa iniziativa divina e dall'altro corona l'aspirazione dell'anima
verso il suo principio; per giungere all'unione mistica bisogna «la-
sciare le impressioni del senso e le conquiste dcl pensiero, abbandonare
ogni cosa sensibile e intellegibile, tutte le cose che sono e quelle che
non sono, nell'abbandono di ogni sapere», giacché Dio «è al di là
di ogni scienza e di ogni essere ». Al di sotto della condizione in
cui si realizza l'unione con Dio si pone la ricerca ::he dà luogo alla teo-
logia positiva e alla teologia negativa; la prima considerando Dio come
principio di tutti gli esseri si sforza di comprenderlo riferendogli tutti
gli attributi che si possono desumere dall'osservazione delle qualità che
si trovano negli .esseri finiti; la teologia negativa per contro sottolinea
l' infinita superiorità di Dio su tutti gli esseri finiti e la sua infinita tra-
scendenza rispetto a tutte le qualità ed a tutti gli attributi. Da una parte,
dunque, « la divina natura che è la causa di tutti gli esseri deve essere ce-
lebrata a partire da tutte le cose che essa causa, ché tutti gli esseri gravi-
tano intorno ad essa e per essa sono, ed essa è innanzi a tutti e tutti in essa
si reggono»; dall'altra «è piu proprio dire che a questa Causa, poiché

22.s

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IL SECOLO Y CAP. XIII

essa tutto supera, piu convengono forse le negazioni che le affermazioni;


né quando d'essa si parla le negazioni vanno pensate come opposte alle
affermazioni, ché, per contro, molto piu verosimilmente essa è al di là
di ogni privazione e perciò di ogni attribuzione e limitazione, afferma-
zione e negazione ». Nel De divinis nominibus Dionigi svolge appunto
un'ampia disamina degli attributi riferiti a Dio nella Bibbia per chiarire
che Dio è ad un tempo « colui che non ha nome e colui cui appartiene
ogni nome », colui che essendo causa di tutto è in tutto e colui che essendo
superiore a tutto non può essere conosciuto per mezzo delle creature.
Perciò « Dio si conosce in tutto e tuttavia è separato da tutto; egli si .
raggiunge con il conoscere e con l'ignorare, per ignoranza e per cogni-
zione; e e' è in lui pensiero e discorso e scienza ed esperienza e senso
e opinione e imm'agine e nome e tutte le altre cose; e per contro di Dio
non vi è pensiero, né discorso, né nome; e non è alcuno degli enti, né
in alcuno degli enti che si conoscono; e per contro in tutte le cose è
tutto e non è nulla in nessuna; e da tutte le cose e in tutte si conosce,
e pur non si conosce da nessuna».
Nel De coelesti hierarchia Dionigi traduce in termini cristiani la
lunga serie di esseri intermedi che il neo-platonismo aveva collocato fra
Dio e la materia; in luogo degli dèi pagani, dei demoni e degli esseri
superiori della tradizione neo-platonica, qui si pone una complessa ge-
rarchia di esseri angelici che si articola in gruppi triadici; è quella
stessa gerarchia di angeli, arcangeli, troni, dominazioni, potentati, sera-
fini e cherubini che la tradizione ecclesiastica ha poi accolto nel suo
rito. Nell'organizzazione della chiesa non solo si era affermata la distin-
zione del clero dai fedeli, ma la stessa gerarchia ecclesiastica si era ve-
nuta articolando in compiti e poteri distinti e subordinati; nello scritto
De ecclesiastica hierarchia Dionigi fissa, secondo lo schema triadico, cia-
scuno dei gradini della gerarchia in cui vede un riflesso del procedi-
mento con cui l'universo deriva da Dio. Se si aggiunge che il pseudo-
Areopagita accoglie nelle sue opere la dottrina delle idee archetipe, non-
ché la dottrina del male come non-essere, e se sopratutto si tien conto
della sua adozione sia dello schema triadico, sia della concezione circolare
della derivazione del mondo da Dio e del corrispondente ritorno, si
comprenderà come egli introduca nel pensiero cristiano il nucleo es-.
senziale del neo-platonismo, conferendo a questo con la sua pretesa au-

226

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§ 9 DIONIGI PSEUDO-AREOPAGITA

torità apostolica una importanza per lo stesso mondo cristiano che pri-
ma d'ora esso non aveva mai avuto.

10. La fine del pensiero antico.


Gli ultimi sviluppi del neo-platonismo, dopo Frocio, si ebbero nelle
due scuole di Alessandria e di Atene; la prima, pur nell'adesione al
generale indirizzo neo-platonico, sviluppa particolarmente gli studi di
logica e la ricerca scientifica, secondo i tratti piu caratteristici della
tradizione aristotelica. La scuola di Atene si ispira di piu all'opera di
Platone ed inclina verso il misticismo in forme piu aperte; è da ricor-
dare in ·proposito la ricca messe di commenti alle opere· di Platone- e
di Aristotele che è uno dei portati caratteristici dell'ultima fase delle
scuole filosofiche dell'antichità; attraverso i commenti si perviene non
soltanto ad una ampia rielaborazione della precedente tradizione filo-
sofica, ma anche all'organizzazione autonoma di una vasta cultura non
priva di originalità; e se per un lato i commenti al pensiero platonico
cd aristotelico finiscono per trasformarne il significato prppriamente
storico alla luce delle impellenti istanze religiose dell'epoca, dall'altro
avviene anche che l'erudizione del commento si trasforma in una di-
fesa contro l'invadente misticismo e in un culto degli aspetti piu ra-
zionali della tradizione filosofica.
Quando nel 529 i beni dell'Academia furono confiscati e la scuola fu
chiusa, gli studiosi superstiti si rifugiarono presso il re di Persia; se già
prima di questa data si può dire che l'originalità speculativa fosse venuta
meno nella filosofia ellenistica, è con la dispersione della scuola di Atene
che la filosofia antica si può considerare conclusa; ormai in Oriente la
filosofia viene coltivata entro il nuovo quadro culturale ellenistico-cri-
stiano fissato nell'ordinamento della civiltà bizantina, mentre in Occi-
dente si sta aprendo un periodo di crisi politica e culturale che separa
appunto l'età antica da quella medievale.

11. Lo sviluppo delle scienze.


Nel secolo v anche lo sviluppo della, scienza risente della generale sitt.:l-
zione di crisi; jl contributo piu rilevante alla matematica e alla fisica è quello
recato da Filopono, che è esponente della scuola neo-platonica di Ales-

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IL SECOLO V
CAP. XIII

sandria; egli non solo è autore di un commento all'aritmetica di Nicomaco,


ma svolge anche alcune dottrine originali come un primo abbozzo della
teoria dell'inerzia in opposizione alla dottrina aristotelica del movimento,
la critica della dottrina aristotelica che esclude il vuoto e la critica della
teoria secondo la quale i corpi cadono con velocità proporzionale al loro
peso. Ad Alessandria si coltiva, oltre alla matematica ed all'astronomia, an-
che la medicina, che conta dei cultori anche nel mondo latino ed in quello
bizantino. La storiografia viene coltivata da Zosimo (autore di una storia
'dell'impero romano), da Teodoreto (autore di una storia ecclesiastica che
giunge fino al 4:i7), da Paolo Orosio che scrive una storia universale di
ispirazione agostiniana; nel campo della legislazione e dello studio dcl diritto
resta memorabile il Corpus iuris di Giustiniano.
Indubbiamente uno degli aspetti piu caratteristici della cultura degli ul-
timi secoli del pensiero antico è l'acuto contrasto che separa il prevalente
atteggiamento mistico-magico da un lato e l'insistente ricerca delle scienze
particolari dall'altro. A volte le due componenti giungono anzi ad intrec-
ciarsi nelle forme piu complesse ed impensate e l'indagine scientifica piu
rigorosa si colloca in un solo contesto con le visioni cosmologiche e con
l'esoterismo magico. Quel che conta, comunque, è che, sia pure intrecciata
con motivi del tutto diversi, l'indagine scientifica non viene meno nei suoi
caratteri e nei suoi metodi; come sta appunto a dimostrare la continuità
con cui ad Alessandria, sia pure con diverso impegno e con risultati dif-
ferenti, vengono coltivate le scienze, a partire dai gloriosi inizi della scuola
nel secolo 111 a. C. fino ai tardi sviluppi del secolo v.

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PAR'fE SECONDA

LA FILOSOFIA MEDIEVALR

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CAPITOLO XIV

I secoli v1, vu e vili


BOEZIO. ISIDORO DI SIVIGLIA. ALCUINO

1. L'inizio del Medioevo.


Abbiamo indicato, come termine di divisione fra la filosofia antica e la
filosofia medioevale, la data di chiusura in Atene dell'antica Acadcmia di
Platone e delle altre scuole in cui ancora si continuava, per qµanto stanca-
mente, lo sviluppo della speculazione ellenistica non assorbita dal cristia-
nesimo. Uno dci fatti che dà inizio alla nuova epoca è la divisione fra
Oriente ed Occidente; iniziatasi da tempo, essa si viene maturando nel corso
del secolo v1; anche se la politica di Giustiniano (527-565) tende 'a ricosti-
tuire l'antica unità, la guerra greco-gotica da lui promossa è l'ultima im-
pi;,esa in cui l'impero d'Oriente si impegni nei confron~i dell'Occidente; ed
agli albori del secolo successivo, i risultati dell'impresa vengono cancellati
progressivamente dalla nuova invasione dei Longobardi. Non che siano ces-
sati del tutto, da questo momento, i rapporti fra Bisanzio e l'Occidente;
ma essi non superano la ormai consolidata dualità politico-amministrativa.
Essa si viene completando anche sotto il profilo religioso e culturale; dal
punto di vista religioso, il distacco fra la chiesa greco-bizantina e la chiesa
che fa capo a Roma diviene sempre piu netto e consente a quest'ultima
di assumere sempre maggiore autonomia da Bisanzio e una funzione sem-
pre piu positiva e costruttiva nei confronti della nuova società in cui si
trova ad opera~e. Dal punto vista culturale, il distacco di Oriente ed Occi-
dente ha imposto confini precisi alla cultura occidentale per parecchi secoli.
Eppure, dei due settori che nell'età medioevale si sostituiscono allo sviluppo
sostanzialmente unitario dell'epoca precedente, quello piu produttivo è il
settore occidentale; mentre la cultura e la filosofia bizantine, pur avendo
esponenti di notevole importanza, restano sostanzialmente legate a moduli
costanti, che non consentono progressi di grande momento, in Occidente,
dopo un primo periodo in cui si viene preparando la nuova società risul-
tante dalla fusione fra le stirpi barbariche e quel che restava della società
latina, vengono compiuti sforzi costruttivi piu sensibili sia nel campo cui-

2Jl

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I SECOLI VI, VII E VIII CAP. XIV

turale che in quello filosofico. L'importanza assunta dalla chiesa di Roma e


la sua capacità organizzatrice nei confronti delli;: nuove popolazioni impon-
gono un carattere dominante sia alla cultura che alla filosofia; in particolare·
la filosofia è strettamente legata ad una tematica religiosa cristiana ed i cul-
tori di essa sono per la maggior parte membri della gerarchia ecclesiastica.
Ma mentre l'unità politica dell'impero d'Oriente si mantiene fino al secolo
xv, nell'Occidente l'unità creata nel campo religioso e culturale deve pre-
sto fare i conti .:on uno scacchiere politico-sociale sempre piu differenziato,
man mano che ci si avvicina ai tempi moderni. Non soltanto, a partire
dal secolo vn, si inserisce fra Oriente ed Occidente la nuova potenza de_gli
Ar.abi la cui cultura influisce in modo particolarmente sensibile sull'Occi-
dente, ma singoli settori etnici e strutture statali particolari si vengono pre-
parando, dopo il grande sforzo unitario compiuto da Carlo Magno. Del
resto, anche all'interno dell'unità religioso-filosofica che la chiesa romana
mantiene saldamente ferma per parecchi secoli, si vengono delineando cor-
renti differenziate di pensiero, sia che esse traggano spunto dalla diversa
utilizzazione del materiale fornito dal pensiero antico, sia che, come nel
caso degli ordini religiosi, rispecchino una diversa maniera di intendere
il rapporto fra cultura filosofica e fede cristiana.

2. Il secolo v1: Boezio.


Il secolo VI è caratterizzato dal primo organizzarsi dci nuovi stati barba-
rici e in particolare dal costituirsi in Italia della monarchia dei Goti
con Teodorico, dalla successiva guerra greco-gotica promossa da Giustiniano
e dalla conseguente formazione dell'ltaiia bizantina, dall'affermarsi infine del-
la dominazione dei Longobardi e dall'emergere dell'opera e della figura di
papa Gregorio Magno. Le condizioni generali delle popolazioni si aggravano
durante queste vicende; ai vecchi servi della gleba sorti dalla politica lati-
fondista degli ultimi tempi dell'impero se ne aggiungono di nuovi; anche
i liberi decadono a condizioni di semilibertà e offrono i loro servigi e la
rinuncia alla loro piccola proprietà a favore dci grandi proprietari terrieri;
la mancanza di ogni stabilità sociale impedisce lo sviluppo economico e l'in-
teresse culturale. L'unica prospettiva di nuova organizzazione economica
e culturale si ricollega alla riforma monastica di S. Benedetto che dalla
fondazione di Montecassino in poi si estende largamente in Occidente.

t nella breve parentesi di tranquillità aperta in Italia dalla politica


di Teodorico che si colloca l'opera di Severino Boezio. Nato a Roma
intorno al 480 occupa cariche importanti alla corte del re dei Goti, dal
quale -viene in ultimo incarcerato e messo a morte a Pavia nel 524. La

232

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s2 IL SECOLO VI : BOEZIO

sua cultura va messa in relazione con quella scuola di Atene alla quale
certamente Boezio attinge i motivi dominanti della sua filosofia. Egli
si propone infatti di tradurre dal greco in latino l'intera opera di Platone
e di Aristotde, sia per farla piu ampiamente conoscere nel mondo occi-
dentale, sia per mostrare il sostanziale accordo fra i due massimi pensa-
tori dell'antichità; ed infatti non si può dire che, laddove esprime il suo
proprio pensiero, egli segua piu l'uno che l'altro; spesso anzi ritiene di
conciliare le loro dottrine perché le combina e le mescola, proprio se-
condo l'uso e le preoccupazioni del tardo neo-platonismo. L'aspetto delle
antiche dottrine che Boezio approfondisce di piu (stando almeno a quan-
to dei suo scritti è giunto fino a noi) è quello della logica; egli tra-
duce l'intero Organon di Aristotele, scrive due commenti alla Isagoge
di Porfirio, un commento alle Categorie, due commenti al De intcr-
pretatione; infine egli rielabora per proprio conto tutta la trattazione
logica in alcuni scritti originali come il Dc syllogismo categorico,
il De syllogismo hypothctico, il Dc divisione, il Dc difiercntiis to-
picis; e scrive anche un commento ai Topici di Cicerone. Generalmente
Boezio si attiene alla dottrina logica di Aristotele, ma spesso la unisce
con dottrine di derivazione platonica o neo-platonica; esempio tipico di
tale oscillazione è la sua dottrina dei termini universali di genere e spe-
cie: « Platone ritiene, scrive Boezio, che i generi, le specie e gli altri
universali non siano soltanto conosciuti a parte dai corpi, ma anche che
esistano e sussistano indipendentemente dai corpi; invece Aristotele pen-
sa che gli incorporei e gli universali sono bensf oggetti di conoscenza, ma
che non sussistono che nelle cose sensibili. Quale di queste opinioni sia
vera io non ho avuto l'intenzione di decidere, poiché ciò è compito d'una
filosofia piu alta. No1 ci siamo quindi decisi a seguire l'opinione di Ari-
stotele, non perché la approviamo del tutto, ma perché il libro che com-
mentiamo (l'Isagoge di Porfirio) è scritto in vista delle Categorie, il cui
autore è Aristotele». Allo stesso modo Boezio unisce una considera-
zione piu strettamente linguistica della logica ad una trattazione in cui
la preoccupazione del suo fondamento reale ha la preminenza; senza
dire che, specialmente con riguardo alla dottrina stoica del sillogismo,
unisce la prospettiva della logica aristotelica dei termini con quella della
logica stoica delle proposizioni.
I temi piu generali della filosofia di Boezio sono raccolti nel De con-

:a31

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I SECOLI VI, VII E VIII CAP. XIV

solatione philosophiae, scritto durante la prigionia e rivelano un chiaro


indirizzo platonico; tale il tema della necessità di risalire dall' imperfetto
che esiste nel mondo all'esistenza dell'essere perfetto che coincide con Dio;
tale il tema secondo il quale Dio, essendo uno, sfugge a tutte le determi-
nazioni che si possono esprimere mediante le dieci categorie aristoteliche;
tale anche il motivo della preesistenza delle anime alla loro unione col
corpo. In campo morale, il De consolatione non rinvia affatto ad un pre-
mio e ad una punizione nella vita futura, ma considera il bene come ri-
compensa di se stesso ed il male come punizione di se stesso. Boezio
segue poi il Timeo di Platone sia nel descrivere l'azione ordinatrice
che Dio svolge riguardo alla materia in base al modello delle idee ar-
chetipe, sia nella dottrina degli elementi e dell'anima del mondo, sia nel
prospettare la contemplazione come il mezzo migliore di cui l'anima di-
spone per liberarsi dal mondo corporeo. Particolare attenzione Boezio
pone al problema della libertà umana sia nei riguardi della provvidenza
che tutto dispone, sia nei riguardi del destino che è legge internà che
regola il movimento delle cose. Il fatto che Boezio abbia scritto un
De Trinitate fa pensare ad una sua esplicita adesione al cristianesimo;
ma in molti punti della sua dottrina, egli segue certamente l'indirizzo
della filosofia ellenistica e neo-platonica.
L'interesse di Bot!zio per la cultura scientifica è attestato dai trat-
tati che ha dedicato alle discipline del "quadrivium" (aritmetica, mu-
sica, geometria, astronomia); nel " trivium " poi egli raccoglie le altre
tre discipline (grammatica, retorica, dialettica) che completano l'enci-
clopedia del sapere. Piu che l'originalità della trattazione, nel De insti-
tutione musica, nel De institutione arithmetica e nel De geometria,
è importante la raccolta del materiale che viene cosf trasmesso, con lo
stesso ordinamento generale degli studi, all'età medievale.
Anche Cassiodoro (49o-s80) è autore di una enciclopedia delle arti
liberali dal titolo lnstitutiones divinarum et humanarum litterarum;
essa obbedisce all'impostazione agostiniana del problema della cultura
classica e si rivolge principalmente ai monaci per introdurli con profitto
allo studio della Bibbia. Papa Gregorio Magno ammette a sua volta
lo studio delle arti liberali solo quando esso abbia per fine il chiarimento
e la spiegazione della Scrittura; ed anche entro questi limiti egli non
ne diviene u_n assertore molto convinto; se tale è la sua diffidenza verso

2 .34

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§ 2 IL SECOLO VI : BOEZIO

gli studi in genere, anche maggiore è quella che riguarda gli studi filo-
sofici in particolare.

Le scienze particolari sono scarsamente coltivate, nel secolo VI, sia in


Occidente che in Oriente; anche la cultura bizantina produce in questo pe-
riodo, piu che opere originali, compilazioni tratte da scritti e da commenti
antecedenti; ed anche in questo ambito la preoccupazione dominante resta
quella religiosa.

3. Il secolo vtt: Isidoro di Siviglia.


Il fatto piu rilevante della storia del secolo vu è la nascita dell'islamismo
e l'inizio dell'espansione mussulmana. Se si tien conto che la maturazione
della nuova religione avviene, nell'animo di Maometto, in contatto con le
comunità ebraiche e cristiane e specialmente con le numerose sette sca-
turite da~ tronco dcl cristianesimo orientale, si comprende che il nuovo credo
che riesce ad unire gli Arabi e ad imprimere ad essi uno straordinario vi-
gore espansivo è la piu tarda espressione di quell'ampia crisi religiosa
· che era partita dall'Oriente fin dal I secolo a. C. Dal punto di vista cultu-
rale e filosofico, si può rilevare che se la nuova mescolanza di motivi ebraici,
cristiani e di concezioni particolari degli Arabi mette capo ad un complesso
dottrinale molto piu semplice ed elementare di quello da cui scaturi il pen-
siero cristiano, per cui anche la costruzione teologica corrispondente si ri-
duce all'essenziale, l'espansione degli Arabi assume un grande rilievo cul-
turale in ragione dei paesi che vengono sottomessi e del rispettivo patrimonio
di cultura che viene assorbito; è proprio questo patrimonio culturale e filo-
sofico che gli Arabi elaboreranno per proprio conto e trasmetteranno piu
tardi all'Occidente. Nel 635 l'islamismo conquista la Siria, nel 640 l'Egitto,
quattro anni dopo tutta la costa africana fino a Tripoli; la conquista piu
significativa fu quella della Siria, paese in cui la conoscenza della filosofia
greca e particolarmente dell'opera aristotelica era molto avanzata. In Italia
continua, durante il secolo vn, il governo dei Longobardi, mentre in Spa-
gna si afferma il regno dei Visigoti; qui anzi si compie l'unificazione reli-
giosa a favore del cattolicesimo e contro l'indirizzo ariano; con l'espulsione
dei Bizantini e con il raggiungimento dell'unità territoriale si afferma in
Sriagna una stretta dipendenza della monarchia dall'organizzazione della
chiesa. Presso le tribu anglo-sassoni che abitano la Britannia viene stolta
la predicazione cristiana promossa da papa Gregorio che vi invia il monaco
Agostino divenuto poi vescovo di Canterbury; sia in Inghilterra che in
Scozia sorgono dci monasteri che divengono centri, oltre che di vita religiosa,
anche di cultura ecclesiastica.

235

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I SECOLI VI, VII E VIII CAP. XIV

Della cultura ecclesiastica sorta in Spagna nel secolo VII è tipico


rappresentante Isidor~ di Siviglia (560-636). La sua opera piu nota è
una enciclopedia dal titolo Etymologiae, in cui s"ono utilizzati molti au-
tori classici e patristici; essa tratta di grammatica, retorica, dialettica,
aritmetica, geometria, astronomia, musica, medicina, storia universale,
e dei piu vari argomenti religiosi. Un criterio non molto dissi-
mile Isidoro segue in alcuni scritti minori e in parti~olare nel De rerum
natura che è un compendio di cosmografia, di astronomia e di meteoro-
logia; paragonata con la cultura precedente da cui deriva, l'opera di
Isidoro appare di una grande povertà; paragonata con gli sviluppi ulte-
riori della cultura medievale, essa diviene lo strumento di formazione
della cultura ecclesiastica europea dell'alto Medioevo. Isidoro scrive,
con lo stesso metodo da lui seguito negli altri scritti, anche un manuale
di teologia; ma il piu grande teologo di questo periodo è Massimo, detto
il confessore, che vive fra il 580 ed il 662 a Costantinopoli; egli è noto
sopratutto per avere dato ulteriore sviluppo al pensiero ed ali' opera
di Dionigi pseudo-Areopagita; raffrontando l'opera di Massimo con
quella di Isidoro di Siviglia si rileva con facilità come in Oriente con-
tinui la speculazione cristiana, mentre in Occidente il patrimonio cultu-
rale ecclesiastico reca scarsissime tracce della tradizione greca anche
cristiana e vive soltanto dei residui della cultura latina alimentandosi
come a propria fonte principale ad alcuni aspetti dell'opera di Agostino.

Per le scienze particolari, il secolo VII non produce che compilazioni


tratte da opere precedenti, a intonazione prevalentemente enciclopedica e
con intento religioso e di edificazione; ciò può dirsi specialmente per la
medicina e per l'astronomia; si scrivono in questo tempo parecchi commenti
a scritti medici di Galeno e di Ippocrate e qualche trattato di astronomia
basato su fonti greche antecedenti. La preoccupazione religiosa si insinua
anche nello studio del corpo umano, della sua anatomia e fisiologia, che è
posto in costante riferimento con l'opera divina della creazione e con il pro-
blema del rapporto fra l'anima cd il corpo.

4. Il secolo. vui: la rinascita carolingia e Alcuino.


Nella prima metà dcl secolo vm si viene consolidando ed espandendo
il movimento monastico anglo-sassone, tanto che ben presto esso estende
il proprio influsso anche nella Germania; invece nella Gallia, nello stesso

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§ 4 LA 11.IN,\SCITA CAllOLINGIA E ALCUINO

periodo di tempo, si ha una accentuata decadenza sia della vita religiosa che
della cultura Ìatina. La figura piu importante del monachesimo anglo-sassone
è quella di Ileda (673-735), autore di scritti storici e grammaticali oltre che
di una compilazione enciclopedica De rerum natura che richiama l'analoga
opera di Isidoro di Siviglia. Il mondo occidentale è tutto dominato dal 71 I
al 732 dalla minaccia dell'espansione araba, che, superato Io stretto di Gi-
bilterra, rovescia il regno dei Visigoti, occupa tutta la Spagna e si affaccia
sui Pirenei in direzione del regno dei Merovingi; nel 732, a Poitiers l'avan-
zata araba viene arrestata, ma la presenza del nuovo stato nel bacino del
Mediterraneo è ormai incontrastata.
A Bisanzio, intanto, durante il governo dell'imperatore Leone m lsau-
rico, si scatena la lotta iconoclasta per l'abolizione delle immagini sacre;
essa trova i piu fieri oppositori nei monaci piu vicini alla religiosità popolare.
Quando le decisioni della chiesa greca vengono estese d'autorità anche al-
l'Italia, i rapporti fra il papato e Bisanzio si fanno molto tesi, rivolte anti-bi-
zantine avvengono in tutta Italia e il solco già esistente fra la chiesa
d'oriente e il cristianesimo occidentale si approfondis~; il piu grande teologo
del tempo in Oriente è Giovanni Damasceno che difende il culto delle
immagini come espressione della tradizione religiosa.
Il contraccolpo piu rilevante dell'avanzata degli Arabi nel bacino del
Mediterraneo e della sempre piu profonda divisione fra Bisanzio e Roma è la
creazione dell'impero carolingio ad impronta germanico-cristiana; da un lato
la nozione di sovranità si fonde con l'idea dell'adempimento di una mis-
sione religiosa e dall'altro la stessa struttura della chiesa si compenetra con
l'ordinamento politico-amministrativo dello stato. La rinascita della cul-
tura entro l'ambito dell'impero carolingio è resa possibile daWincontro fra
la solida struttura organizzativa messa in atto da Carlomagno e il patrimonio
culturale ancora vivo nel monachesimo anglo-sassone. Centro propulsore
della rinascita culturale è la schola palatina che Carlomagno fonda nel 782
ed alla cui direzione egli chiama il monaco anglo-sassone Alcuino; a questa
scuola si aggiungono le scuole che per ordine di Carlomagno vengono isti ·
tuite « in tutti i vescovadi e monasteri » e nelle quali si insegnano « i salmi,
le note, il canto, il computo e la grammatica ».

Nato intorno al 730, Alcuino era cresciuto in Inghilterra ove aveva


insegnato le arti liberali guale preparazione allo studio della Bibbia.
Chiamato in Francia nel 781, vi rimase fino al 796; mori nel!' 804,
dopo alcuni anni di ritiro nel monastero di Tours. La maggior parte
degli scritti di Alcuino è costituita da manuali che dovevano servire
per l'insegnamento; il loro contenuto presenta scarsi elementi originali
ed è il piu delle volte tratto dalle precedent~ fonti latine; cos1 la sua

237

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I SECOLI VI, VII E VIIl CAP. XIV

Grammatica è ricavata dagli scritti di Prisciano, di Donato, di Isidoro di


Siviglia; il suo De ortographia ricalca Beda, il suo Dialogus de retho-
rica si ispira a Cicerone ed a Cassiodoro, mentre il De dialectica utilizza
gli scritti di Boezio, di Isidoro e l'operetta pseudo-agostiniana Catego-
riae decem. Negli scritti filosoficamente piu impegnati, come il De fide
Trinitatis e il De animae ratione Alcuino compendia i corrispondenti
scritti di Agostino. Il merito maggiore di Alcuino resta pertanto quello
di aver sommamente contribuito alla riorganizzazione della cultura
ecclesiastica. Non soltanto per il suo intervento sorsero molte scuole
presso i vescovadi e i monasteri, ma parecchi monasteri istituirono
degli scriptoria in cui si lavorava a trascrivere codici di opere della cul-
tura latina. Del gruppo di studiosi che si raccolsero nella schola pa-
latina fanno parte Paolo Diacono, storico dei Longobardi, Pietro di
Pisa studioso di letteratura latina, Paolo di Aquileia grammatico e
letterato.

Se la rinascenza carolingia interessa tutto lo scacchiere occidentale, si


può ricordare che in Oriente, nello stesso periodo, gli Arabi procedevano
alla fondazione di Bagdad e davano inizio ad una grande impresa cul-
turale con la traduzione in arabo di molte opere greche, persiane e siriane,
ove le prime hanno la prevalenza. In Siria, quando vi fa la sua comparsa
l'Islam, sono attive varie comunità religiose di provenienza cristiana, quali i
nestoriani cd i monofisiti; è in queste comunità che si diffondono molte
traduzioni dal greco in siriaco; fra di esse l'opera di Aristotele e dci suoi
commentatori, in particolare di Filopono, gli scritti di Galeno e del pscudo-
Areopagita. Ora la siriaca è una lingua semitica sorella dell'arabo; e ciò
facilitò in modo rilevante il successivo movimento di traduzione di opere
greche dal siriaco in arabo. L'astronomia viene coltivata intensamente dagli
Arabi, anche se spesso sotto la forma di astrologia, mentre l' alchimia,
se per un lato offre lo spunto a nuove ricerche di chimica, per l'altro evol-
ve spesso in interpretazioni animistiche della realtà naturale. Molte tra-
duzioni gli Arabi fanno anche di opere mediche e da esse traggono inci-
tamento agli studi corrispondenti; questo è l'unico campo in cui anche la
cultura occidentale è presente, specialmente con la pur ridotta pratica me-
dica e con lo studio di testi latini di medicina compiuto nei monasteri be-
nedettini. Nell•insicmc tuttavia, non c'è dubbio che la cultura scientifica
degli Arabi, pur nei limiti accennati, è molto superiore a quella che si può
riscontrare nell'Occidente; in ogni modo il mond<? culturale arabo rimane
ora e per alcuni secoli sconosciuto all'Occidente e i due campi culturali si
svolgono in modo autonomo.

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CAPITOLO. XV

I secoli 1x e x

SCOTO ERIUGENA ED AL-FARABI

1. Il secolo tx.
Il periodo di pieno equilibrio dell'impero carolingio non dura oltre
la morte di Carlomagno ndl'814; ma anche sotto il governo di Ludovico
il Pio e di Carlo il Calvo, cioè fino all'877 circa, si prolungano gli effetti
della rinascita culturale che aveva avuto inizio circa un secolo prima; la
crisi politica del vasto dominio carolingio è determinata principalmente
dall'anarchia feudale e dalle lotte promosse dalle forze centrifughe cre-
sciute all'interno del nuovo assetto statale; essa porta alla scissione dell'im-
pero in tre formazioni statali distinte, d'Italia, di Germania e di Francia;
con la deposizione di Carlo il Grosso il nuovo ordinamento feudale prende
il sopravvento, mentre il potere passa nelle mani dell'aristocrazia terriera
e si afferma l'economia agricola chiusa. Con il patriarca Fozio il mondo
bizantino giunge alla piena indipendenza spirituale e religiosa dalla chiesa
occidentale.
La cultura occidentale si sviluppa in questo periodo specialmente in
Francia ed in Germania; in Francia si hanno numerose figure di ecclesiastici
che si distinguono, oltre che per motivi religiosi, per le esigenze culturali
che hanno fatto valere sia nei confronti della formazione del clero, sia nella
lotta contro le superstizioni cd i rozzi costumi popolari; in campo religioso
si hanno importanti controversie dottrinali alle quali prende parte l'intellet-
tualità ecclesiastica, spesso sollecitata dallo stesso imperatore; opuscoli e let-
tere ~ugli argomenti controversi si scrivono dalle varie parti in contrasto
e contribuiscono alle definizioni che vengono poi prese dai sinodi e con-
cili. La figura c;he emerge, per cultura filosofica, al di sopra delle altre
è quella di Giovanni Scoto Eriugena che, per primo, porta a contatto della
cultura occidentale, per il tramite degli scritti di Dionigi pseudo-Areopagita,
temi del neo-platonismo di ispirazione cristiana. Presso gli Arabi si afferma,
in questo tempo, il pensiero di al-Kindi volto ad interpretare la dottrina
di Aristotele alla luce delle prospettive neo-platoniche; con Fozio, intanto,

2]'j

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I SECOLI IX E X CAP. XV

in Oriente, si _delinea un indirizzo di pensiero che, mentre esprime diffi-


denza verso l'interpretazione neo-platonica della dottrina di Platone, ri-
mette in auge il realismo aristotelico e lo studio del metodo e della logica.

2. Scolo Eriugena e la cultura del suo tempo.

La cultura del secolo IX è ancora strettamente legata all'azione svolta


da Alcuino alla corte di Carlomagno e pertanto all'indirizzo generale
agostiniano. I temi affrontati sono di carattere religioso o di natura
etica; si può ricordare, in proposito, l'azione condotta dal vescovo di
Lione Agobardo contro l'uso di affidare la risoluzione delle controversie
giuridiche alla prova 'del fuoco, contro l'adorazione delle immagini e
contro la previsione del futuro basata sull'interpretazione del volo degli
uccelli. Si può altresl ricordare l'opera svolta in Germania da Rabano
Mauro, discepolo di Alcuino e per opera del quale gli effetti della rina-
scita carolingia vengono estesi alla Germania; egli venne chiamato il
« primus praeceptor Germaniae » proprio per l'influsso che esercitò nel-
l'organizzazione ~ella vita religiosa anche sotto il profilo culturale"; il
suo scritto maggiore De clericorum institutione è appulito rivolto alla
formazione degli ecclesiastici ed è un manuale per l'impostazione cri-
stiana dello studio delle arti liberali. Le principali controversie religiose
riguardano ancora il modo della generazione di Gesu, il modo in cui gli
uomini potranno godere della visione di Dio dopo la morte, il modo
della presenza di Gesu nell'eucaristia, il rapporto fra l'anima ed il corpo.
La controversia di maggiori proporzioni è quella che si svolge nei
primi decenni della seconda metà del secolo IX a proposito della prede-
stinazione; in essa ha una parte importante Giovanni Scoto Eriugena,
che è anche il pensatore cristiano di maggior rilievo che si incontri
nella storia dopo Agostino.
Nato in Irlanda nei primi anni dell' 800, verso l' 850 egli si trova
in Francia alla corte di Carlo il Calvo ove si dedica all'insegnamento e
diviene una delle figure piu importanti della schola palatina. Nell'851
Giovanni prende parte alla controversia sulla predestinazione con uno
scritto che è sollecitato da alcuni ecclesiastici protagonisti della disputa;
a circa un decennio piu tardi risale però la composizione dell'opera mag-
g;urc di Scoto, il De divisione naturae. A questa vasta sintesi teologico-

Baruch_in_libris
§ :2 s.:;oTo ERIUGENA

filosofica Giovanni giunge lavorando sui testi greci che aveva trovato
alla corte di Carlo il Calvo; nell'827 l'imperatore d'Oriente Michele
aveva inviato in dono il testo greco degli scritti di Dionigi pseudo-Areo-
pagita; Scoto Eriugena poté del pari conoscere, alla corte, gli scritti
di Origene, di Basilio, di Gregorio di Nissa, di Gregorio di Nazianzo,
oltre che di Massimo il confessore. Egli tradusse sia gli scritti di Dio-
nigi che alcune opere di Gregorio di Nissa e di Basilio. Nel De divisione
naturae non viene utilizzato pertanto soltanto il pensiero di Agostino,
ma anche e sopratutto il pensiero delle fonti greche accennate. Per questo
la sua sintesi teologico-filosofica appare con caratteri di novità alla cul-
tura cristiana occidentale che era tagliata fuori da qualche secolo ormai
dagli sviluppi diretti della patristica greca. I contrasti sollevati dal De
divisione naturae attestano appunto la novità della speculazione in esso
svolta; essa ebbe d'altronde un rilevante influsso sullo sviluppo del pen-
siero posteriore.

3. Fede e ragione.

La controversia sulla predestinazione fu sollecitata dalla dottrina di


un monaco del convento di Orbais, Gotescako, il quale sosteneva che
« la predestinazione di Dio, come c'è nel bene, cosi c'è anche nel male,
sicèhé vi sono in questo mondo degli uomini che, a causa della pre-
destinazione di Dio èhe li costringe ad andare verso la morte, non pos-
sono correggersi dall'errore e dal peccato, quasi Dio li avesse fatti dal-
l'inizio incorreggibili e destinati a perdizione »; il monaco di Orbais
trovò parecchi aderenti alla sua dot::rina, che appariva a parecchi ri-
cavata direttamente da Agostino; ma i suoi avversari ei:ano preoccupati
delle conseguenze pratièhe della «gemina praedestinatio ». Scoto prese
posizione contro la dottrina in una forma cosi radicale che sollevò a
sua volta l'opposizione degli avversari di Gotescalco. Anzitutto egli di-
èhiara che « la misura di ogni pia e perfetta dottrina con cui cercare
studiosissimamente e ritrovare apertamente la ragione di tutte le cose
si trova nella filosofia »; « trattare la filosofia, aggiunge, non è altro èhe
esporre le regole della vera religione »; per cui conclude èhe « la vera
filosofia è la vera religione e viceversa la vera religione è la vera filo-
sofia ». In questa identificazione di filosofia e religione, di derivazione

Baruch_in_libris
I SECOLI IX E X CAP. XV

agostimana, gli avversari di Scoto scorgono però un influsso premi-


nente di alcune dottrine che giudicano estranee alla piu genuina tradi-
zione religiosa. Nei riguardi della predestinazione divina infatti, Scoto
sostiene, sulla scorta della teologia negativa di Dionigi pseudo-Areopa-
gita, che a Dio non si può attribuire la ·predestinazione, né doppia né
semplice, perché essa comporta un riferimento a Dio di qualità che
possono avere luogo soltanto nelle creature; in Dio non c'è il prima
ed il poi, quindi non c'è nemmeno il pre-destinare. Infine il dotto ir-
landese sottolinea insistentemente l'importanza della libertà umana:
« Bisogna intendere, scrive, che non esiste vera libertà per una volontà
se una causa qualunque la costringe »; questa rivendicazione della
libertà umana 'viene giudicata da alcuni ecclesiastici avversari di Scoto
come « pelagianae venena perfidiae ».
Anche tutta la costruzione dottrinaria che viene svolta nel De divi-
sione naturae è considerata da Scoto come svolgentesi all'interno del-
l'unione dell'anima con Dio e pertanto all'interno della ispirazione di-
vina; tutto procede da Dio, egli sostiene, anche la ricerca che lo con-
cerne; ma la fede che condiziona tutta la costruzione dottrinale non
è un atteggiamento passivo. Il centro di tutto il sapere è indubbiamente
il testo biblico, la rivelazione divina; ma non si tratta tanto di fer-
marsi al suo senso letterale, quanto invece di intenderne il significato
profondo, allegorico e mistico. «L'infinito fondatore della sacra scrit-
tura nella mente dei prof4!ti, egli scrive, lo Spirito santo, ha costituito
in essa infiniti intendimenti e perciò il senso indicato da uno che la
espone non toglie di mezzo il senso indicato da un altro». Le inter-
pretazioni che i Padri hanno dato della Bibbia sono spesso contrastanti;
bisogna allora usare la " ragione " che ha una priorità di natura ri-
spetto all'autorità dei Padri; infatti, afferma, « l'autorità procede dalla
vera ragione, non già la ragione dall'autorità, in quanto ogni autorità
che non venga approvata dalla vera ragione, sembra essere malferma »;
nello stesso tempo però « la vera autorità non si oppone alla retta ra-
gione, né la retta ragione si oppone alla vera autorità; non c'è dubbio
infatti che entrambe emanano da una sola fonte, cioè dalla divina sa-
pienza ». Insomma l'autorità di Dio che rivela è suprema; ma da essa
deriva anche la ragione umana, cui si rifà l'autorità degli stessi Padri;
sicché la ragione ha il suo punto di partenza in Dio anche se il suo

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s3 PEDI! J! llAGJONJ!

compito è quello di penetrare con strumenti dottrinali il significato


riposto della rivelazione; nella ricerca sono pertanto impegnate l'ini-
ziativa divina e quella umana; appunto per questo la ricerca filosofica
è anche religiosa e la stessa vita religiosa non può prescindere dalla
ricerca razionale.

4. La concezione neo-platonica Ìlell'unlverso.


L'universo comprende, secondo Scoto, quattro nature: la natura
creante e increata che coincide con Dio, la natura creante e creata che
si identifica con il Verbo come mondo delle cause primordiali, la na-
tura creata e non creante ossia il mondo materiale e corporeo, infine
la natura non creante e non creata ossia Dio stesso considerato come
fine di tutte le cose. È la classica visione circolare del neo-platonismo
ellenizzante combinata con i caposaldi della tradizione religiosa cri-
stiana e cioè con la creazione del ~ondo da parte di Dio e con la
natura personale della stessa divinità. Quanto a Dio, Scoto ricorre an-
cora una volta alla teologia negativa di Dionigi e dichiara che « per
giungere alla verità, causa di tutte le cose, le quali da essa, per mézzo
di essa, in essa e per essa sono state create, è necessario far ricorso alla
negazione di tutto ciò che si può dire e conoscere e ciò a causa del-
l'eccellenza della essenza divina». Di Dio non si può dire nulla in
modo proprio « perché supera ogni intelletto e tutte le significazioni
sensibili ed intellegibili; egli si conosce meglio non conoscendolo; la
ignoranza di lui è la vera sapienza; Dio con maggior verità e fedeltà
si nega, di quanto si affermi; qualunque cosa infatti si neghi di Lui,
la si nega secondo verità; ed invece tutto quello che di lui si afferma,
non si afferma secondo verità » ; a Dio « nessuno può accostarsi, se
prima non abbandoni tutti i sensi e non rafforzi la via della ragione,
e se non abbandona le operazioni intellettuali e sensibili, e tutto quello
che è e che non è, per essere restituito, senza saperlo e secondo che è
possibile, alla sua unità, di lui che è sopra qualsiasi intelligenza e qual-
siasi essenza; di cui non c'è né ragione, né intelligenza, perché Dio
non si dice e non si intende; egli non ha nome e non ha parola ».
D'altra parte, però, tutte le cose derivano da Dio; e poiché solo Dio,
rispetto alle cose finite, veramente è, si può dire che tutte le cose sono

~43

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I SECOLI IX B X CAP. XV

in Dio e che Dio è la vera unica realtà: << Quando udiamo dire, scrive
Scoto, che Dio fa tutte le cose, non dobbiamo intendere altro se non
che Dio è in tutte le cose, cioè sussiste come essenza di tutte le cose;
Dio soltanto infatti esiste veramente per sé, e tutto ciò che nelle cose
che esistono si dice che è, lo è egli solo ». Scoto giunge a dichiarare
con Dionigi che « in Deo unum sunt omnia » e che « Deus fit in
omnibus omnia».
La creazione è una « condescensio » o « processio » di Dio dal
nulla della sua superessenzialità al mondo del finito e delle essenze de-
terminate. Scoto intende l'atto creatore di Dio come procedente dalla
sua libera iniziativa; però il processo emanatistico è costantemente me-
scolato con il tema creazionistico: « La divina bontà, egli scrive, l'es-
senza, la vita, la sapienza e tutte le cose che sono nella fonte di tutte
le cose dapprima defluiscono nelle cause primordiali e le fanno esistere,
poi attraverso le cause primordiali scorrono nei loro effetti in modo inef-
fabile attraverso gli ordinati gradi dell'universo e defluiscono sempre
dagli ordini superiori a quelli inferiori e di nuovo attraverso i piu se-
greti meandri della natura tornano, per vie occultissime, alla loro fonte ».
Le cause primordiali sono « le ragioni immutabili secondo le quali e
nelle quali viene formato e retto tutto il mondo »; esse sono stretta-
mente unite al Verbo da cui sono prodotte; le cause primordiali sono
infinite, come è infinita la causa dalla quale derivano; per un lato esse
non escono mai dalla natura divina, per l'altro lato sono cause di tutte
le cause che ad esse seguono fino ai confini del mondo creato; cosi esse
danno ragione sia dell'unità dell'universo, sia del suo moltiplicarsi e
distinguersi.
Dalle cause primordiali deriva direttamente il mondo invisibile delle
essenze; esse sono la fissazione in oggetti intellegibili di tutti i carat-
teri che concernono variamente gli esseri corporei particolari; tutti i
caratteri degli esseri, da quelli piu generali a quelli caratteristici del-
l'individuo, formano una trama ideale del mondo corporeo; la gerar-
chia delle essenze ordinata secondo lo schema concettuale dei generi
e delle specie costituisce pertanto l'impalcatura intellegibile ed invi-
sibile del reale; essa parte dai generi generalissimi, scende attraverso i
generi piu generali e i generi piu semplici, fino alle specie semplici e
specialissime, o individui. Mentre le cause primordiali hanno piu di-

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§ 4 LA CONCEZIONE NEO-PLATONICA DELL'UNIVERSO

retto rapporto col Verbo, le essenze sono pi;J direttamente vicine alla
molteplicità del mondo sensibile. È dall'insieme delle essenze spirituali
che nasce la corporeità; come dalla luce e dal corpo che non sono ombra
nasce l'ombra, spiega Scoto, cosi da elementi incorporei che non sono
corpo nasce il corpo; gli elementi semplici di cui è costituito il mondo
corporeo sono una realtà intermedia fra il corporeo e l'incorporeo; gli
esseri che derivano dalla loro combinazione sono del tutto corporei. La
fisica di Scoto è piuttosto sommaria ed ha le sue fonti in Marziano
Capella e in Plinio; egli tratta comunque sia dell'anima del mondo come
vita generalissima che investe tutto ciò che è compreso nella sfera ce-
leste, sia dell'armonia e dell'equilibrio che dominano tutto l'universo.
Ma nel mondo è l'uomo che occupa un posto particolare; egli sta in
mezzo fra gli estremi in quanto ha il corpo in comune con gli esseri
corporei ed ha l'anima in comune con gli esseri spirituali. L'uomo è
microcosmo rispetto al macrocosmo; ma la parte per cui egli somiglia
a Dio è l'anima; a questa Dio uni nella creazione un corpo spirituale;
dopo il peccato e per causa di esso l'anima assume un corpo corrutti-
bile e mortale, attraverso il quale si compie anche la sua purificazione.
Nell'analisi della conoscenza, Scoto svaluta la sensibilità per dare rilievo
a quel movimento dell'anima pe.r mezzo del quale essa giunge alla
conoscenza di Dio quale causa di tutte le cose; ma questo movimento
naturale dell'anima è inferiore ad un altro movimento che supera la
natura stessa dell'anima e la porta ad un· piu intimo contatto con la
realtà ineffabile di Dio; qui l'intelletto supera quasi se stesso e tutte
le creature per unirsi a Dio. ·
Nell'ultimo libro del De divisione naturae Scoto si chiede in che mo-
do « la terra si unirà al paradiso, e le creature sensibili a quelle intel-
legibili e tutte le cose si uniranno a Dio, cosi da essere una cosa sola,
cosi che in tutto non appaia piu alcuna diversità »; insomma « come
avverrà il ritorno degli esseri all'unità e la riunione di tutte le sostanze
create? ». I primi segni del ritorno del reale a Dio si hanno nella natura
e nel " recursus " delle cose al loro punto di partenza:· « la sfera cele-
ste ritorna allo stesso luogo in ventiquattr'ore, il sole dopo un qua-
driennio sorge nello stesso punto del diametro equinoziale, la luna torna
al luogo di partenza in poco piu di ventisette giorni ed otto ore ». In
senso piu profondo, il ritorno a Dio comporta la scomparsa, quasi il

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I SECOLI IX E X CAP. XV

riassorbimento del mondo sensibile nel mondo incorporeo. Per l'uomo,


il ritorno a Dio prende le mosse dalla corruzione del corpo, dalla morte
che è « auspicio della restaurazione della natura e del ritorno all'anti-
ca integrità». Con la morte il corpo torna ai quattro elementi di cui
è composto; poi viene la risurrezione in cui ognuno riprende il suo
corpo; allora il corpo sarà tramutato in spirito e finalmente tutto l'uomo
tornerà alle cause primordiali; l'ultimo passo del ritorno a Dio si avrà
quando tutta la natura con le cause primordiali si muoverà verso Dio
« come l'aria si muove verso la luce »; infatti « Dio sarà tutte le cose
in tutte le cose, ed allora niente altro sarà all'infuori del solo Dio ».
Il ritorno dell'uomo a. Dio non si limita dunque, per Scoto, alla risur-
rezione, secondo che sostenevano i Padri della chiesa latina; esso com-
porta un ritorno " piu alto " che, secondo i padri greci, abbraccia sia
il trasfigurarsi del corpo nell'anima, sia il trnsfigurarsi dell'anima in
Dio. «L'anima, dichiara Scoto con Gregorio di Nissa, consumerà in
se stessa tutto il corpo e con esso diventerà unico spirito, unica anima,
Dio». Il ritorno a Dio non comporta però la dissoluzione degli indi-
vidui; essi conservano la loro realtà, anche se in una forma piil ele-
vata e misteriosa. Seguendo la tesi di Origene, Scoto sostiene anche
che l'inferno è soltanto di carattere spirituale; esso non è un luogo, non
è una punizione mediante il fuoco, è la condizione stessa del male .nelle
creature che l'hanno compit:to; ma poiché il male è non-essere, la sua
suprema punizione coincide con la sua impossibilità di contrastare la
vittoria del bene; « come la divina bontà, scrive Scoto, è tutta in quelle
cose che partecipano di essa e non è impedita dalla malizia o stoltezza
o ignoranza di al~uno di penetrare l'universo da essa fondato, cosi'. l'uma-
nità si diffonde in tutti gli uomini, ed è tutta m tutti, e tutta in cia-
scuno, siano buoni o cattivi »; coloro che hanno compiuto il male ser-
beranno solo la memoria di esso, ma il male non li dividerà dall'unica
realtà divina «che non è respinta dalla stoltezza di alcuno, non è im-
pedita dalla malizia di alcuno, pura in tutti, eguale in tutti,. non è mi-
gliore nei buoni che nei cattivi, non è peggiore nei cattivi che nei buoni ».
Con Scoto Eriugena la concezione neo-platonica del mondo pene-
tra nella cultura occidentale; ma la fonte principale del pensiero
occidentale resta ancora, anche dopo l'opera di Scoto, la dottrina di
Agostino.

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LO SVILUPPO DELLE SCIENZE PRESSO GLI ARABI

5. Lo sviluppo delle scienze presso gli Arabi.


Non si pu'ò avere un quadro completo del secolo IX, senza far cenno della
cultura specialmente scientifica affermatasi in questo periodo presso gli Ara-
bi. ~ contemporaneo di Scoto Eriugena e vive a Bagdad (ove muore nel-
1'873) colui che viene considerato il primo filosofo importante che abbiano
avuto gli Arabi: al-Kindi. Egli è da ricordare sia per il suo pensiero filo-
sofico che per la sua cultura scientifica. Quanto al primo, converge sullo studio
di Aristotele ma interpretato alla luce del commento di Alessandro di Afro-
disia e quindi delle prospettive neo-platoniche. In particolare con al-Kindi
la dottrina aristotelica dell'intelletto attivo viene elaborata nel senso di porre
una sostanza spirituale distinta dall'anima e superiore ad essa, capace di
farla passare dalla potenza all'atto dell'intendere; questa sostanza spirituale
è un Intelletto attivo, unico per tutti gli uomini; proprietà di ciascuno di
questi è soltanto un intelletto in potenza, la cui efficacia è condizionata dal-
l'intervento dell'Intelletto superiore; cosi i passi non chiari che Aristotele
aveva dedicato allo studio del processo conoscitivo si risolvono in una chiara
tesi di ispirazione mistico-religiosa. La cultura scientifica di al-Kindi ab-
braccia molta parte delle fonti greche e si estende dalla matematica alla
astrologia, dalla fisica alla musica, 'alla medicina, alla geografia. Egli fece
tradurre parecchi_ testi greci in arabo e scrisse a sua volta opere che rivelano
un interesse ed una formazione enciclopedica; quando, nella seconda metà
del secolo xn, Gerardo da Cremona tradurrà alcuni suoi scritti in latino, il
patrimonio scientifico di al-Kindi influenzerà sensibilmente la cultura occi-
dentale; il suo contributo piu rilevante consiste in una trattazione geome-
trica e fisiologica dell'ottica, oltre che in un tentativo di stabilire la poso-
logia medica su base matematica. Ma la matematica e l'astronomia ebbero,
nel IX secolo, numerosi ed insigni cultori fra gli Arabi; è questa infatti l'età
di al-Khuwarizmi (m. 850), uno dci piu grandi matematici del Medioevo; egli
è uno dei fondatori dell'analisi o algebra come distinta dalla geometria. Gli
Elementi di astronomia di al-Farghani (m. 861) sono l'opera piu importante
prodotta nel campo di questa disciplina; ma ad essa si possono aggiungere i
numerosi scritti o di discussione delle dottrine astronomiche greche o di
descrizione di dirette osservazioni sperimentali e di relativi calcoli mate-
matici; senza dire, poi, delle numerose scuole di traduttori dal greco e dal
siriaco che furono costituite in varie città e specialmente a Bagdad e dal cui
lavoro il patrimonio scientifico degli Arabi fu straordinariamente arricchito
e perfezionato. Honayn (809-873) fu il pio importante traduttore di opere
greche in arabo; egli tradusse il Politico, le Leggi ed il Timeo di Platone,
una parte dell'Organon, le Etiche, la Fisica e parte della Metafisica di Ari-
stotele, oltre a Della sfera di Archimede ed al Trattato di astrologia di Apol-
lonio di Tiana, oltre, infine, agli scritti dei tre autori che sono alla base
della scienza medica greca: Ippocrate, Galeno e Dioscoride.

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I SECOLI IX E X CAP. XV

6. Il secolo x ed al-Farabi.
Nel secolo x si prolunga per l'Europa la crisi che aveva avuto inizio già
nella seconda metà del secolo precedente; all'anarchia feudale si aggiungono
gli effetti di nuove invasioni, come quella dci Normanni; anche il papato
è travolto nella lotta delle varie fazioni feudali. In Occidente, la conser-
vazione e l'elaborazione di alcuni temi culturali già formulati dalla rina-
scenza carolingia sono legate al movimento monastico cluniacense; esso si
afferma nei primi decenni dcl secolo e mira a sottrarre il maggior numero
possibile di monasteri all'ordinamento feudale, per porli alla diretta dipen-
denza dcl papato e conferire cosi alla chiesa una maggiore autonomia; il
senso di rinascita che, cosf, si viene diffondendo in alcuni monasteri di Gal-
lia, d'Italia e di Germania favorisce i tentativi di tener desta, almeno in
parte, la cultura del secolo precedente; qua e là continua infatti la sua at-
tività qualche scuola monastica, in cui si studiano ancora il trivio cd il qua-
drivio. Legato sia alle scuole monastiche sia alla cultura araba di Spagna
è Gerberto di Aurillac (930--1003) che divenne papa con il nome di Silvestro u;
egli occupa un suo posto particolare nella cultura del secolo x, sia per i suoi
studi di logica che per i suoi vasti interessi scientifici e specialmente mate-
matici. Il mondo mussulmano che nel corso del secolo 1x aveva realizzato
grandissime conquiste culturali, specialmente con la fondazione nell'832 del-
l'università di Bagdad ed era anche riuscito a riprendere il ritmo espansivo
delle sue conquiste, nel corso del secolo x sembra avere esaurito la sua
potenza di dilatazione politico--militare; ed anzi si accentua la divisione fra
le varie regioni ed i rispettivi governatori; ma al progressivo indebolimento
politico dcl mondo mussulmano si contrappone il continuo e rigoglioso
fiorire della sua cultura religiosa e scientifica; le nuove scoperte scientifiche
di quest'epoca sono tutte formulate in lingua araba.

Il maggiore pensatore arabo dd secolo x è al-Farabi (m. 950); egli è


autore di commenti ad Aristotele ed a Porfirio, oltre che di alcuni trat-
tati filosofici e di un ampio studio sulle Concordanze di Platone ed Ari-
stotele. L'autore greco al quale il suo pensiero è piu vicino è Aristotele;
si tratta, tuttavia, anche per lui, come per al-Kindi, di un Aristotele
visto attraverso l'interpretazione neo-platonica; il desiderio di conciliare
la filpsofia di Aristotele con quella di Platone nasce oltre che da una
tradizione ormai consolidata (quella, ad esempio, che riteneva opera
dello Stagirita la Teologia di Aristotele composta da qualche neo-plato-
nico del v secolo e che è, propriamente, un compendio delle Enneadi
di Plotino) anche dalla preoccupazione di conciliare la ricerca filo-

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§ 6 AL-FARA BI

sofica con la rivelazione religiosa fissata nel Corano. In questa direzione


appunto anche al-Farabi interpreta l'intelletto agente di Aristotele nel
senso di un'unica intelligenza separata, di natura divina, fonte di tutto
l'intellegibile, anche se non la identifica con Dio che è superiore a
tutti gli esseri e ad essi infinitamente trascendente. Nella considerazione
del rapporto fra Dio e il mondo, al-Farabi è dominato oltre che dalla esi-
genza evolutiva e di continuità del neo-platonismo, anche dal senso reli-
gioso della contingenza del mondo e dell'assolutezza della iniziativa di-
vina nei suoi riguardi. Il mondo non appare insomma ad al-Farabi fornito
di una sua stabilità e necessità, di un suo ordine autonomo rispetto a
Dio; il rapporto del mondo con l'esistenza è anzi considerato come del
tutto precario ed instabile; il mondo può essere e può cessare di es-
sere, può possedere l'esistenza o perderla; e Dio non è tenuto da alcun:i
necessità di natura a limitare il suo intervento nei confronti del mondo.
Molto importante è al riguardo la dottrina della di5tinzione fra essenza
ed esistenza; di una cosa si può distinguere l'insieme delle note caratte-
ristiche che formano la sua essenza dal fatto che l'insieme di queste note
concretamente esista; essenza ed esistenza sono distinte, almeno negli
esseri finiti; ciò spiega come essi siano contingenti; se infatti la loro
essenza implicasse necessariamente l'esistenza, essi avrebbero con la
esistenza un vincolo stabile, di necessità e n~n potrebbero m::ii cessare
di esistere; invece essi possono perdere l'esistenza ad ogni istante; Dio
soltanto è l'essere in cui essenza ed esistenza fanno tutt'uno; la. su:i
esistenza è pertanto necessaria; ed è da Dio che l'esistenza viene data
agli esseri finiti, è da Dio che l'esistenza viene unita alle essenze, fa-
cendole esistere.

Anche: le scienze particolari furono molto coltivate dagli Arabi nel se-
colo x; si può dire che tutti gli scritti di matematica e di astronomia di
questo periodo, forniti di qualche originalità, sono di fonte araba; si hanno
scritti importanti di aritmetica, di algebra, di geometria, di astronomia, di
astrologia e di trigonometria. Altrettanto numerosi sono i cultori del!_a
medicina che si raggruppano in fiorenti scuole sparse: in tutto il vasto terri-
torio dell'impero, dal califfato orientale all'Egitto, alla Spagna ed al nord·
Africa.

249

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CAPITOLO XVI

II secolo xt
ANSELMO D'AOSTA. AVICENNA E IL PENSIERO ARABO

1. II periodo.
Il secolo x1 segna per l'Europa il termine della crisi che durava ormai da
oltre un secolo e l'inizio d'una ripresa che si estende dal campo politico a
quello economico e culturale. La crisi del potere e lo straripare dell'anarchia
feudale incontrano dei limiti sia in un restaurato accentramento monarchico
già avviato da Ottone I, sia in un piu organico e disciplinato sviluppo dello
stesso feudalesimo che realizza, con l'espansione normanna, un assetto poli-
tico costruttivo in molta parte del continente europeo. Fugati i terrori del-
l'anno mille, si ha un accentuato aumento della popolazione, nelle città si in-
tensificano l'iniziativa economica e lo sforzo tecnico, nelle campagne il lavoro
agricolo ha il sopravvento sull'inerzia dei pascoli ed il sistema chiuso della
curtis si apre a piu intensi scambi ed a piu attivi mercati. La chiesa, già
attraversata nel secolo pr\ cedente dal movimento rinnovatore di Cluny, ri-
prende l'iniziativa sia per la riforma del costume ecclesiastico, sia per affer-
mare la propria autonomia rispetto all'impero; con Gregorio vn tale battaglia
tocca un vertice significativo; espressione della rinata fiducia religiosa e
politica è la riscossa cristiana contro i mussulmani che attraversa le popola-
zioni europee e le porta, sul finire del secolo, alla conclusione della prima
crociata. Per il mondo mussulmano si accentua la crisi avviata nel secolo
precedente; nel 1055 i Turchi Selgiucidi pongono fine all'impero abasside
colpendo il centro stesso dell'unità politica degli arabi; anche in Europa la
pressione cristiana si fa sentire sia nella riconquista della Spagna, sia nel-
1' espulsionç degli arabi dalla Sardegna.
Dal punto di vista culturale, l'Occidente accenna a rapidi progressi; si
svolgono vivaci dibattiti fra dialettici ed anti-dialettici con riflessi sullo svi-
luppo di una cultura piu autonoma rispetto agli interessi religiosi; Anselmo
d'Aosta porta entro l'ambito della speculazione religiosa un ì"innovato rigore
razionale e dialettico; la logica torna ad essere oggetto di studio e mette
capo a importanti risultati metodici; la filosofia è sempre di impronta eccle-

250

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§ I IL PERIODO

siastica, ma lo stesso mondo ecclesiastico è pervaso da esigenze di indagine


razionale il cui spunto è fornito anche dagli interessi piu aperti di nuove
categorie sociali. La cultura dcl mondo arabo non ha ancora esaurito il suo
compito, come attestano le opere di Avicenna, di Avicebrom e di al-Ghazzali;
essi si muovono nel campo della problematica di ispirazione religiosa e insi-
stono o nell'interpretare la rivelazione alla luce di dottrine neo-platoniche
o nel rivendicare per la rivelazione stessa maggiore indipendenza rispetto
alla riflessione filosofica.

2. Dialettici ed anti-dialettici.
In Occidente si svolge, nel corso del secolo x1, un dibattito che vede
in lotta fra loro i sostenitori di uno sviluppo indipendente della dia-
lettica ed i fautori di una netta preminenza della prospettiva religiosa
sia sulla dialettica come su qualsiasi altro sviluppo della cultura profana.
L'insegnamento del trivio che si era diffuso all'epoca della rinascenza ca-
rolingia non era piu scomparso del tutto; esso aveva anzi avuto incre-
mento da quando s'era incominciato a far ricorso ai laici per vari uf-
fici pubblici e per le professioni connesse con lo studio e la conoscenza
del diritto. La dialettica aveva subito colpito per il rigore che poteva
conferire al discorso, per la necessità di cui improntava le argomenta-
zioni; ben presto la scoperta della dialettica, facilitata dalla diffusione
delle scuole non ecclesiastiche, significò per alcuni la scoperta della " ra-
gione'', della misura obbiettiva della verità. Con Berengario di Tours
(m. 1088) l'uso della dialettica viene introdotto anche nella discussione
di questioni teologiche; « di gran cuore, egli scrive, mi rifugio nella dia-
lettica in ogni questione; perché rifugiarsi nella dialettica vuol dire rifu-
giarsi nella ragione; e chi non si rifugia nella ragione, poiché l'uomo è
fatto ad immagine di Dio, proprio per la ragione, rinuncia al suo ono-
re, né può rinnovarsi di giorno in giorno ad immagine di Dio». Beren-
gario applica la dialettica alla questione dell'eucaristia con i seguenti
risultati: sostanza ed accidenti d'una cosa, egli osserva, sono connessi
in modo che se scompare la sostanza, scompaiono anche gli accidenti; è
assurdo, per es., che, distrutta una veste, continui ad esistere il suo co-
lore; e se continua ad esserci il colore, vuol dire che anche la veste esi-
ste ancora; allo stesso modo nell'eucaristia se scompare la sostanza del
pane e del vino per lasciare il posto al corpo ed al sangue di Cristo, do-

251

Baruch_in_libris
il. SECOLO XI CAP. XVl

vrebbero scomparire anche gli accidenti del pane e del vino; se questi.
per contro, continuano ad esistere, vuol dire che anche la sostanza del
pane e del vino continua ad esistere.
È naturale che, di fronte a queste applicazioni della dialettica, i fau-
tori dell'ortodossia religiosa reagissero vivacemente; essi dichiarano, ap-
punto, che veri sapienti sono « piuttosto coloro che sono istruiti nella
Bibbia che coloro che sono istruiti nella dialettica » e che bisogna « con-
siderare di piu la verità dei santi Padri che l'arte dialettica». Il piu
deciso avversario dcli' autonomia della dialettica è Pier Damiani (1007-
1072); buon conoscitore deìla dialettica, egli è guidato da ereoccupazioni
di ordine religioso e di disciplina monastica. Un buon monaco, egli
pensa, deve respingere ogni allettamento che gli venga dalla cultura pro-
fana. Nel suo scritto De divina onnipotentia Pier Damiani prende posi-
zione contro coloro i quali affermano che Dio non può fare che ciò che
è stato non sia stato. Egli ritiene che sarebbe facile, muovendo dalla lo-
gica, estendere il criterio della necessità dal passato, al presente ed anche
al futuro, in modo che e< come tutto quello che fu, è necessario che sia
stato, cosi tutto quello che è, fintantoché è, è necessario che sia, e tutto
quello che sta per essere, è necessario che stia per essere». Ma non bi-
sogna, a suo pàrere, estendere a Dio criteri di necessità « c.he si riferiscono
soltanto all'arte dell'enunciare»; altrimenti risulterebbe negata l'onnip0-
tenza di Dio che in sede teologica è indiscutibile. « Siffatte deduzioni
dei dialettici o retori, precisa, non vanno applicate con· leggerezza al
mistero della divina potenza; e le regole che si son trovate per formare
dei sillogismi e trarre conclusioni" dai nostri giudizi, si guardino bene
costoro dal farle valere con pertinacia contro le leggi divine e dall'op-
porre alla divina virru la necessità dei loro ragionamenti. Se poi av-
viene che si usi della perizia dell'umana dialettica nell'esporre le Sacre
Scritture, essa non deve usurpare con arroganza il diritto di maestra, ma
secondare le Scritture con la dovuta riverenza, com~ un'ancella va dietro
alla sua padrona, per non smarrirsi andando innanzi e per non perdere
la via della verità attenendosi alla esteriore concatenazione delle parole »·
Allo stesso modo Pier Damiani sostiene, in appoggio alla politica di papa
Gregorio VII, che non si può riconoscere alcuna indipendenza all'impero
ed alla sfera politica come tale; l'impero non ha fini propri distinti
da quelli della chiesa; se l'imperatore vien meno al fine ultimo nell'eser-

Baruch_in_libris
§ 2 DIALETTICI ED ANTl-DIALETTICl

c1z10 dell'autorità, vien meno alla stessa natura dcl suo potere. È la
affermazione dell'ideale teocratico che trae il suo alimento nel rinnovato
vigore che attraversa la chiesa nel secolo XI e che la porta a porre e~pli­
citamente il primato della religione sia nell'ambito della politica che in
quello della cultura.

3. Anselmo d'Aosta.

Il valore della dialettica, usata all'interno della fede, trova la sua mas-
sima esaltazione nell'opera di Anselmo d'Aosta. Nato nel 1033, creb-
be nell'abbazia di Bee in Normandia, dove divenne successivamente
monaco, priore e direttore della scuola; il periodo piu fecondo della sua
vita è quello che va dal 1063 al 1093; poi fu eletto vescovo di Canter-
bury e la lotta da lui condotta contro il re d'Inghilterra per le investiture
gli valse un lungo esilio, durate; fin quasi alla morte, nel I 109. Le opere
maggiori di Anselmo sono le due che recano il titolo di Monologion
(ossia soliloquio) e di Proslogion (ossia colloquio); esse sono dedicate
al problema di Dio, cioè allo studio della sua natura e del suo rapporto
col mondo, oltre che alla dimostrazione della sua esistenza; altri scritti
Anselmo ha dedicato al problema della verità (De veritate) ed alle que-
stioni del libero arbitrio, dell'incarnazione del Verbo, della predestina-
zione e della Trinità.
Nel Monologion Anselmo si propone di trattare il problema di Dio
col seguente metodo: « che non si cerchi di persuadere nulla con la
autorità della Sacra Scrittura, ma che tutto quello che si concluderà in
ogni singola investigazione sia dimostrato brevemente con argomenti
necessari e manifestato apertamente dalla natura della verità »; se egli
di fatto presuppone la fede, ritiene che in linea teorica si possa prescin-
dere da essa ed elaborare argomenti rigorosamente razionali con i quali
dimostrare i punti piu rilevanti del suo contenuto; non soltanto l'esistenza
di Dio, ma anche la Trinità e l'incarnazione possono essere conclusioni
cui si giunge mediante delle ragioni necessarie. Il fatto che la fede di
chi argomenta sia un dato indiscutibile chiarisce che realmente la fede può
orientare la stessa argomentazione; però per Anselmo l'argomentazione
riveste anche un valore autonomo. Pertanto la posizione di Amelmo non
si identifica né con l'atteggiamento di coloro che ritenevano di far va-

Baruch_in_libris
IL SECOLO Xl CAP. XVI

lere l'argomentazione razionale contro la fede, né con l'atteggiamento


di Pier Damiani che, per evitare tale pericolo, è deciso a strumenta-
lizzare apertamente l'argomentazione e la dialettica.
Nel Monologion si legge un argomento che, per dimostrare l'esistenza
di Dio, parte dalla teoria pìatonico-agostiniana della priorità dell'og-
getto intellegibile rispetto agli oggetti sensibili che di esso partecipano:
« È certissimo e chiaro per tutti quelli che vogliono prestarvi attenzione,
scrive Anselmo, che tutto ciò che si dice tale, in modo che in rapporto
con altri si dica piu o meno o egualmente tale, è tale in virtu di qualche
cosa che non è diverso nelle diverse cose, ma è identico; infatti, tutte le
cose che si dicono giuste, siano esse egualmente, piu o meno giuste del-
le altre, non possono essere concepite come giuste se non in virru di una
sola giustizia che non sia diversa nelle diverse cose giuste ». Con lo
stesso procedimento, si può « rivolgere l' occhio della mente a ricercare ciò
per cui sono buone le cose che si desiderano proprio perché si giudicano
buone ». Se ne ricava che « vi sono beni innumerevoli, la cui diversità
possiamo sperimentare, in tutta la sua grandezza, con i sensi del corpo
e possiamo discernere con la ragione; ora è da credere che vi sia un ente
solo, in virru del quale sia buono tutto ciò che è buono? oppure alcuni
beni sono beni in virtu di uno, altri in virtu di un altro? Ecco l'argo-
mento che non si può infirmare: tutto ciò che è un bene, deve essere be-
ne in virtU di quella stessa cosa per la quale ogni cosa è buona ». Si
potrà allora concludere che « il bene, per cui tutte le cose sono buone,
è bene per se stesso, poiché ogni cosa è buona per esso; mentre perciò
tutti gli altri beni derivano da altro, quello solo è per se stesso; ma
un bene che deriva da altro, non può essere né uguale, né maggiore
di ciò che è bene per sé; è dunque sommo bene solo ciò che è bene per
sé; ma ciò che è sommamente buono è anche sommamente grande, ossia
piu grande di tutto ciò che esiste»; e questi è appunto Dio. Un secondo
argomento dell'esistenza di Dio è ricavato dall'osservazione che tutto
ciò che esiste, esiste in virtU di un unico ente. Un terzo argomento in-
fine si ricava dalla generalizzazione dei primi due; « poiché non si può
negare che alcune nature sono migliori di altre, la ragione ci persuade
che una supera le altre, sf da non averne alcuna superiore a sé».
Nel Proslogion Anselmo si propone di « trovare, anziché una con-
catenazione di argomenti, un argomento solo che non abbia bisogno di

Baruch_in_libris
ANSELMO o' AOSTA

nessun altro per avere valore dimostrativo e basti da solo a dimostrare


che Dio esiste veramente e che è il sommo bene». Ecco l'argomento:
una frase della Bibbia dichiara che « lo stolto disse in cuor suo che Dio
non c'è»; ciò significa che chi comprende che cosa s'intende con il ter-
mine Dio e sostiene che Dio non esiste è " stolto " in quanto si con-
traddice; infatti chiunque sente indicare Dio con la proposizione «qual-
che cosa di cui nulla può pensarsi di piu grande », capisce quello che
ode; e ciò che egli capisce è nel suo intelletto, anche se non intende che
quella cosa esista; altro infatti è che una cosa sia nell'intelletto, altro
intendere che la cosa esiste; quando il pittore si rappresenta ciò che
dovrà dipingere, ha nell'intelletto l'opera sua, ma non intende che tale
opera esista, perché non l'ha ancora compiuta; quando invece l'opera
sia stata dipinta, non solo il pittore l'ha nell'intelletto, ma anche intende
che l'opera esiste; anche lo stolto deve dunque convincersi che vi è
almeno nell'intelletto una cosa della quale nulla si può pensare di piu
grande, poiché anch'egli capisce questa frase quando la ode, e tutto ciò
che si capisce esiste nell'intelletto di chi capisce. Ora, ciò di cui non si
può pensare il maggiore non può esistere solo nell'intelletto; infatti, se
esistesse solo nell'intelletto, si potrebbe pensare a qualche cosa che esi-
stesse anche nella realtà, e questo sarebbe piu grande; se dunque ciò di
cui non si può pensare il maggiore esiste solo nell'intelletto, ciò di cui
non si può pensare nulla di maggiore sarà ciò di cui si può pensare
qualche cosa di maggiore; il che è contraddittorio; dunque esiste senza
dubbio qualche cosa di cui non si può pensare nulla di maggiore sia nel-
l'intelletto che nella realtà. Quest'argomento fu detto, piu tardi, a priori
in quanto prescinde del tutto dal mondo esterno e la mente può servir-
sene senza uscire da se stessa; fu anche chiamato da Kant argomento
"ontologico" in quanto la sua forza consiste nel ricavare la realtà o
esistenza reale di Dio partenrlo semplicemente dal suo concetto; gli ar-
gomenti che Anselmo aveva esposto nel Monologion partivano invece
tutti dalla realtà del mondo e da essa, come da effetto, risalivano a Dio
come caqsa.
I momenti attraverso i quali si svolge l'argomento del Proslogion so-
no due: anzitutto Anselmo propone l'espressione «l'essere di cui non
si può pensare nulla di maggiore » e ritiene che chiunque ~ia in grado
di capirla, io modo che si stabilisca una corrispondenza fra l'espressione

Baruch_in_libris
IL SECOLO Xl CAP. XVI

verbale e il relativo concetto nella mente; il secondo momento consiste


nel passare dal concetto che è nella mente alla deduzione necessaria
dell'esistenza reale::. È su questi due momenti dell'argomentazione che si
è svolta la discussione fra Anselmo ed un monaco del monastero di
Marmoutier; questi dal nqme di Gaunilone, dopo aver letto il Proslogion,
scrisse un Liber pro insipiente, ossia una difesa di quello stolto che An-
selmo accusava di contraddizione. Per Gauniione, le parole che noi udia-
mo pronunciare da altri possono essere fornite di significato oppure prive
di significato; sono fornite di significato quando sono collegate a deter-
minate esperienze che mediante le parole possiamo richiamare alla nostra
rappresentazione; per mezzo dei concetti che in noi si formano coglien-
do caratteri comuni di piu individui possiamo anche pensare un indivi-
duo che direttamente non abbiamo mai conosciuto, proprio perché lo pen-
siamo. per mezzo ai quel concetto generale che ci dice almeno che cosa
quell'individuo ha in comune con altri della stessa specie. Se non avviene
ciò, la parola resta per noi senza significato, come se si trattasse d'una
parola d'una lingua che ci è ignota. Ora quando sentiamo pronunciare
la parola "Dio" o l'espressione « l'essere di cui non si può pensare qual-
che cosa di maggiore», sostiene Gaunilone, noi non le comprendiamo;
infatti Dio non è oggetto della nostra esperienza e non esiste nemmeno
un concetto nel quale egli rientri e che ci possa servire per una co-
noscenza indiretta. Sicché quando sentiamo pronunciare .la parola
Dio, sentiamo soltanto «il suono delle lettere e delle sillabe» perché
non sappiamo « che cosa quella parola sia solita significare in base
ad una cosa nota » e non riusciamo a pensare « il suo significato sul
modello di nessuna cosa reale » cioè già conosciuta. Ora, conclude Gau-
nilone, «da questo modo di essere nell'intelletto non si può affatto di-
mostrare che Dio esista anche nella realtà». Ed esemplifica: «Alcuni
dicono che vi è in qualche parte dell'oceano un'isola che chiamano isola
perduta e raccontano che è piena di una inestimabile abbondanza di
ricchezze e che supera tutte le altre terre abitate per abbondanza di beni.
Se uno mi dice questo, capisco facilmente le sue parole; ma se poi, co-
me conseguenza aggiunge: non puoi dubitare che quell'isola supe·
riore a tutte le terre, che sei sicuro di avere in mente, esiste in realtà,
perché, se non esistesse, qualsiasi altra terra esistente sarebbe superiore
ad essa e l'isola da te pensata come superiore non sarebbe piu supe-

Baruch_in_libris
§ 3 ANSELMO D'AOSTA

riore, allora non so se reputare piu sciocco me, qualora gli credessi, o lui
se credesse di avermi dimostrato l'esistenza di quell'isola». Anselmo
scrisse una risposta alla replica di Gaunilone; in essa afferma che il fatto
che Gaunilone professi la fede cattolica attesta che egli può derivare
dalla fede il concetto di Dio; inoltre lo stesso concetto si può desumere,
a suo avviso, dalla considerazione del morido come finito; esso rimanda,
in forza degli argomenti s\'olti nel Monologion, ad un essere superiore
a tutti gli esseri finiti. Con ciò però Anselmo riconosceva che, per avere
il concetto di Dio, bisognava far ricorso o alla fede, o ad altri ar~omenti
diversi da quello a priori.
Oltre alla questione dell'esistenza di Dio, Anselmo tratta nei suoi
scritti anche il problema dei suoi attributi e quello dei rapporti di Dio
col mondo; sul primo punto sostiene che a Dio si debbono riferire tutti
gli attributi che non comportano imperfezione; sul secondo punto mette
in chiaro che Dio ha creato il mondo non già facendo ricorso ad una
materia preesistente, ma giovandosi come di modelli delle idee eterne,
che fanno però tutt'uno con la sua natura infinita; quanto all'onnipo-
tenza divina Anselmo ritiene che essa non possa giungere a far sf che
quel che è stato fotto non sia stato fatto; Dio non è tuttavia costretto
da necessità; e nemmeno il mondo è necessario; ma Dio nel suo operare
non può volere e disvolere senza cadere nell' imperfezione.

4. Avicenna e il pensiero arabo.


Nel mondo arabo il piu grande pensatore del secolo XI è Avicenna;
vissuto fra il 980 ed il 1037 nella regione di Bukhara, è autore di un
Canone di medicina in cui viene codificata, come in una grande enci-
clopedia, l'intera scienza medica degli antichi e degli Arabi; notevoli con-
tributi egli reca anche allo studio di varie questioni di fisica, come il
movimento, la forza, il vuoto, la gravità, nonché a problemi di geo-
logia e di musica. La sua opera filosofica piu importante si intitola
La guarigione ed ha anch'essa la struttura d'una enciclopedia in cui
vengono studiate la logica e la metafisica, insieme con la matematica e
la fisica. Lo sfondo della filosofia di Avicenna è ancora un'ampia cono-
scenza dell'opera di Aristotele interpretato in chiave neo-platonica e alla
luce di prospettive religiose. Queste ultime si fanno sentire specialmente

Baruch_in_libris
IL SECOLO Xl CAP. XVI

nella rigorosa distinzione che Avicenna pone tra l'essere necessario di


Dio e l'essere soltanto possibile delle cose create; «l'essere necessario,
egli afferma, è soltanto uno ed esso prende il grado di primo principio e
di prima causa; perciò l'ente necessario è anche primo principio per quelli
che sono primi principii delie cose; è evidente che l'essere necessario è
numericamente unico ed è chiaro che tutto ciò che si trova fuori della
sua essenza, co:1siderato in se stesso, è solo un possibile in rapporto alla
sua esistenza; e perciò è un causato; perciò appunto nella catena delle
cose causate, si giunge all'ente necessario; escluso pertanto l'Uno che
secondo il proprio essere è uno ed escluso l'ente che secondo la propria
essenza è esistente, ogni cosa è fatta in modo che prende la propria esi-
stenza da un'altra». In tale prospettiva Dio è considerato piu come causa
di tutto l'essere che come motore immobile e viene ribadita l'importanza
dell'esistenza che conferisce la vera realtà alle essenze e trova in Dio
la ~ua fonte pri!llaria.
Tuttavia la tradizione neo-platonica esercita un notevole influsso su
Avicenna e tende a smorzare quel divario fra Dio e il mondo che era
suggerito dall'esigenza religiosa. Cosi Dio diviene il primo termine
di un processo necessario di emanazione che comprende l'intera realtà;
da Dio, come uno, deriva l'intelligenza che è duplice e dà inizio al
molteplice; dall'intelligenza derivano altri esseri destinati ad animare
l'universo ordinato secondo il sistema delle sfere di Tolomeo, fino al-
l'intelletto attivo che regge il mondo terrestre ed è fonte separata delle
conoscenze umane. In questo atteggiamento rientra anche la dimostra-
zione con cui Avicenna, partendo da un effetto finito, risale alla neces-
sità della causa prima, qualunque sia il numero delle cause interme-
die; se le cause intermedie sono in numero finito, la loro somma non
può essere causa di se stessa; se sono in numero infinito, non esiste
un punto ultimo e quindi b loro somma infinita non ha in sé il primo
principio ed è da considerare effetto rispetto alla causa prima. Inoltre
Avicenna rileva che se la causa del mondo sussiste in eterno, essa deve
anche operare in eterno e quindi anche l'effetto, ossia il mondo, sarà
eterno. Senza dire che dal mondo è esclusa la casualità, in quanto esso
è retto dalla provvidenza divina: cc il primo esistente, scrive Avicenna,
con la sua essenza conosce l'esistente secondo l'intero ordine del bene
sul quale è fondato; perciò sgorga da Dio ciò che egli pensa in un

Baruch_in_libris
§ 4 AVICENNA

ordine determinato secondo la forma del bene e in una emanazione


che nel modo piu perfetto induce l'ordine nel mondo». Da un lato
dunque Avicenna formula la dottrina dell'analogia dell'essere, in quanto
tende a porre un divario radicale fra l'essere di Dio in cui coincidono
es~enza ed esistenza e gli esseri finiti la cui realtà è soltanto possibile;
dall'altro il neo-platonismo spinge Avicenna a vedere una continuità
fra Dio e mondo ed a superare in essa il distacco fra Dio e la crea-
tura suggerito dall'esperienza religiosa. L'influsso di Avicenna sul pen-
siero occidentale diverrà determinante nel secolo xm quando parte dci
suoi scritti filosofici e scientifici di verrà nota all'intellettualità ecclesia-
stica specialmente negli ambienti dell'università di Parigi.
Con Avicebron che vive dal 1021 al 1058 a Valencia si afferma, nel-
l'ambiente arabo-spagnolo, una prima espressione importante dcl pen-
siero ebraico. Nello sviluppo della religiosità ebraica si era affermata,
fin dalle origini, una tradizione pii! strettamente aderente alla rivela-
zione biblica, sia che questa venisse intesa come "legge orale" (come
nel caso dei Talmudisti), sia che si tentasse un ritorno piu rigoroso al
testo sacro. D'altra parte, però, l'élite intellettuale ebraica aveva ben
presto risentito della vicinanza di popolazioni di confessioni religiose
diverse; in particolare non era riuscita a sottrarsi all'influsso dell'elle-
nismo prima e della cultura mussulmana poi; tanto piu impellente que-
st'ultimo influsso era diventato nel caso delle comunità ebraiche che si
trovarono a vivere in territorio direttamente controllato dagli arabi.
Ispiratrici del pensiero ebraico divengono allora le stesse opere, special-
mente di derivazione neo-platonica, che sollecitano anche lo sviluppo
della riflessione religiosa mussulmana. Nel suo scritto LA fonte della vita
Avicebron da un lato accoglie l'influsso del pensiero neo-platonico, dal-
l'altro si attiene ad alcuni motivi della tradizione religiosa .:braica. L'in-
flusso del neo-platonismo si avverte specialmente nella concezione della
pluralità delle forme che concorrono a formare gli esseri; si tratta di strut-
ture od essenze distinte che, mentre sono per se stesse, individuano i sin-
goli esseri; per es., un uomo è individuato in forza dci caratteri formali
che fanno di lui un essere vivente, un animale, un essere razionale; vita,
animalità e razionalità sono forme per se stesse che concorrono nella
determinazione della individualità degli esseri. Dove poi Avicebron sente
l'influsso della tradizione religiosa ebraica è nd suo porre, a radice di

259

Baruch_in_libris
IL SECOLO XI CAP. XVI

questa struttura essenzialistica dell'universo, la Volontà divina «che fa


la materia e la forma e le unisce, penetra dall'alto nel basso come l'ani-
ma penetra nel corpo e vi si spande, muove tutto e tutto conduce »;
la origine prima della realtà non consiste pertanto nell'ordine necessario
delle essenze, ma nel principio volontario e creativo della divinità.
All'interno del movimento filosofico arabo si ha invece con al-Ghazza-
li (m. 1111) una vivace reazione contro la prevalenza della speculazione
filosofica sulla tradizione religiosa maomettana. Il titolo significativo dcl
suo scritto piu importante, La distruzione dei filosofi, esprime la con-
vinzione di al-Ghazzali che soltanto una radicale critica scettica delle dot-
trine filosofiche, da quelle di Aristotele a quelle di al-Farabi e di Avi-
cenna, possa ridare vigore al sentimento religioso. Da un lato al-Ghaz-
~ali critica le dottrine filosofiche che, come quelle dell'eternità della
materia, dell'esistenza di un demiurgo, della negazione dell'immortali-
tà, vanno contro altrettanti principii della religione; dall'altro egli mostra
come molte delle verità religiose, quali l'unità di Dio, la sua spiritualità,
l'immortalità dell'anima, non possono essere in alcun modo dimostrate
mediante argomentazioni filosofiche. Uno dei punti piu importanti esa-
minati da al-Ghazzali riguarda la concezione del legame necessario che in
natura unirebbe, secondo alcuni filosofi, le cause e gli effetti; poiché que-
sto naturalismo comporterebbe la negazione della possibilità del mira-
colo, al-Ghazzali ne svolge una critica minuziosa: « Causa ed effetto,
scrive, sono due cose perfettamente distinte, di cui l'una non è l'altra,
e il fatto che l'una esista non è garanzia che anche l'altra esista, come
il fatto che l'unà cessi di esistere non è garanzia che anche l'altra cessi
di esistere; tutte le cose sono state create da Dio senza legame; il legame
fra di esse non è dunque necessario in sé ed i filosofi hanno torto quando
dicono che è impossibile che l'una di queste cose stia senza l'altra».
Alla dottrina secondo la quale certi corpi operano per natura e pro-
ducono determinati effetti e non è possibile il contrario di ciò che accade
per natura, al-Ghazzali contrappone la dottrina secondo la quale gli
esseri di natura non hanno la capacità di operare nulla, perché solo Dio
è in grado di operare ogni effetto « o direttamente o per mezzo dei suoi
angeli»; in realtà causa unica di tutto è soltanto Dio. Tutte queste
considerazioni di al-Ghazzali sono rivolte a difendere l'onnipotenza di Dio
rispetto alla necessità del naturalismo filosofico anche se la consuetudine

260

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§ 4 AVICENNA

che egli ha con la ricerca scientifica lo porta a ritenere che tutto quanto è
oggetto di dimostrazione matematica debba essere ritenuto vero. Ma l'at-
teggiamento di resistenza contro la filosofia e la conoscenza profana in
genere, che non è soltanto di al-Ghazzali, contribuisce, insieme con le
altre misure della intransigenza religiosa araba, all'esodo della filosofia
dall'Oriente verso la Spagna, dove fiorirà in modo rigoglioso nel secolo
successivo.

5. Lo sviluppo delle scienze.

Nello sviluppo delle scienze tiene ancora il primato, nel secolo x1, il
mondo mussulmano, specialmente nel corso della prima metà del secolo; ma-
tematici ed astronomi si trovano numerosi sia nella Spagna, che in Oriente;
ma dove si costituisce una nuova grande scuola di astronomi e di matema-
tici è al Cairo, ove sorge anche un grandioso osservatorio; al ,Cairo ebbero
grande sviluppo, nello stesso periodo, anche la fisica e la chimica,_ mentre
la medicina ebbe il suo piu grande cultore nel califfato d'Oriente con Avicen-
na. Nella seconda metà del secolo invece la ricerca scientifica si affievolisce
ed il numero dei vari specialisti diminuisce.
In Occidente si nota, anche nel campo scientifico, maggior fervore che nel-
le età precedenti. Guido d'Arezzo (99Q-1050) introduce una grande riforma
nell'insegnamento della musica, mentre a Salerno viene fondata la prima
scuola ad indirizzo scientifico e professionale che si sia costituita in Europa;
essa non è né una scuola di studio del trivio e del quadrivio, né ha il com-
pito di preparare il clero; riprende invece quella tradizione di studi di me-
dicina che non era mai del tutto scomparsa nell'Italia meridionale ed in Si-
cilia; e si costituisce come una scuola superiore, che precorre la fondazione
delle università nel secolo xn. Quando nel 1056 Costantino Africano, nativo
di Cartagine, venne in Italia e diede vita a Montecassino ad un vero
centro organizzato per tradurre, sotto la sua direzione, dall'arabo in latino,
le opere piu significative della cultura mussulmana, un grandissimo numero
di scritti medici, alcuni di origine greca, ma la maggior parte di origi:ie
araba, vennero a conoscenza della scuob di Salerno, dù: ne trasse spinta
a nuovi sviluppi scientifici. Lo stimolo che la scuola medica di Salerno co-
stitui per tutta l'Europa cristiana a coltivare non soltanto gli studi di me-
dicina, ma la ricerca scientifica in generale, unitamente alla vasta cono-
scenza che della scienza mussulmana in tutti i suoi settori procurò, con le
sue traduzioni, Costantino Africano, furono i principali fattori che pose ·">
termine al monopolio scientifico degli Arabi e che aprirono all'Occiden·c
nuovi orizzonti conoscitivi.

Baruch_in_libris
CAPITOLO XVII

La prima metà del secolo xii


ABELARDO E LA SCUOLA DI CHARTRES

1. Il periodo.
La rinascita del mondo occidentale, già avviata nel secolo XI, continua
nel corso del secolo successivo; comincia a fiorire l'esperienza comunale
che è indice di una profonda trasformazione economica e sociale; ormai
i mercanti, gli imprenditori e gli artigiani allargano la loro sfera d'azione,
prendono maggiore importanza le città. La rinascita dell'Occidente si ac-
compagna anche ad un rinnovamento dello spirito monastico; la riforma
cluniacense ha ormai esaurito la sua ~pinta creativa, mentre la rilassatezza
dei costumi e la cura delle ricchezze penetrano largamente nei chiostri; è
dal monastero di Citeaux e dall'opera di Bernardo di Chiaravalle che prende
inizio il piu importante movimento di reazione; lo spirito di austerità al
quale esso si ispira, se è utile per l'incr(mento della pratica religiosa, non è
molto produttivo sul terreno culturale. Si affermano, in questo tempo, an-
che movimenti religiosi di (lrigine popolare; i catari, i poveri di Lombardia,
gli umiliati e piu tardi i Vald::si assumono posizioni polemiche e aggressive nei
confronti della chiesa, la quale reagisce vivacemente contro il loro spirito
di autonomia e di innovazione. Le energie economiche della nuova società
ed il rinato spirito religioso sono le componenti principali anche del grande
movimento che produce l'arte romanica. Alla ripresa dell'Occidente, fa ri-
scontro in Oriente una progr~ssiva decadenza; il mondo bizantino è contra-
stato dall'espansionismo occiilentale favorito dalle crociate; il mondo ara-
bo; nonostante l'iniziativa della dinastia egiziana, sta per cadere sotto il
controllo delle forze turche. Le crociate sono l'espressione tipica della nuova
energia dell'Occidente e del suo violento fanatismo religioso.
Sul terreno culturale è orn1ai concluso il per::ido dell'egemonia mussul-
mana; in Occidente, si ha non soltanto un ampliarsi degli studi cli logica,
ma un rinnovato interesse per i problemi dell'universo, dell'anima e della
conoscenz::t. L'incremento della cultura filosofica trae profitto, in questo pe-
riodo, sopratutto da due fatti : _dalla cresciuta importanza delle scuole cattc-

Baruch_in_libris
~ I IL PERIODO

dra!i che prendono il sopravvento sulle scuole monastiche e dal moltipli-


carsi delle traduzioni iatine di molti testi della scienza e della filosofia sia
araba che greca. Un centro di tali traduzioni si costituisce a Toledo in Spa-
gna; il piu importante dci traduttori dal greco è Giacomo da Venezia; è
appunto nel 1128 che egli traduce dal greco in latino i Topici, i Primi ed
i Secondi analitici e gli Elenchi sofistici di Aristotele; questi testi dell'Organon
vengono indicati in Occidente come la " logica nova " rispetto alla " logica
vetus" comprendente le Categorie e il De interpretatione, gli unici scritti
logici di Aristotele conosciuti finora nella traduzione di Boezio.
L'interesse della prima metà del secolo xu per gli studi di logica è atte-
stata dal nominalismo di Roscellino, oltre che dalla polemica ,condotta da Abe-
lardo contro Guglielmo di Champeaux. Abelardo è indubbiamente la fi-
gura che domina questa età, non soltanto per· l'importanza della sua lo-
gica, .na anche per la sua battaglia contro Bernardo a favore di una com-
prensione filosofica della fede cristiana. Con la scuola di Chartres si ha poi
l'organizzarsi di un rinnovato interesse per gli studi naturali; l'orizzonte
delle ricerche filosofiche si allarga oltre l'ambito delle questioni piu stret-
tamente religiose; sicché il passaggio dal primato delle scuole monastiche
a quello delle scuole cattedrali corrisponde ad un estendersi degli interessi
culturali e filosofici; tanto infatti le scuole monastiche erano isolate, tanto
ora le scuole cattedrali intrecciano la loro attività con il piu aperto mondo
sociale delle città.

2. Abelardo: la logica e la polemica contro Roscellino e Gugliel-


ino di Champeaux.
Nato neJ 1079 vicino a Nantcs, Abelardo fu dapprima alla scuola
di Roscellino e di Guglielmo di Champeaux; iniziò quindi il suo inse-
gnamento a Parigi; è qui che !!gli incontra, intorno a1 n16, Eloisa; il
loro amore, dapprima segreto, poi scoperto e atrocemente punito nella
stessa persona di Abelardo, diede piu tardi origine ad uno degli episto-
lari piu originali e romantici di tutti i tempi. Abelardo che in un primo
tempo si era dedicato soprattutto agli studi di logica, si applicò poi an-
che allo studio della teologia; fu su questa strada che incontrò l'ostilità
aperta di Bernardo di Chiaravalle; le dottrine di Abelardo furono con-
dannate, anche se il suo metodo non mancò di fare scuola e di suscitare
molti prosecutori; egli mori nel n42, l'anno dopo che un concilio sol-
lecitato da Bernardo avP.va preso netta posizione contro alcune delle sue
interpretazioni teologiche. L'opera piu rappresentativa della logica di
Abelardo, oltre ad alcuni importanti commenti da lui stesi ai te.sti clas-

Baruch_in_libris
LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XII CAP. XVII

sici della " logica vetus ", è la Dialectica; i trattati teologici di mag-
gior rilievo sono: la Theologirz ed il Sic et non; si deve infine ricor-
dare sia un trattato di morale dal titolo Scito te ipsum, sia il già ac-
cennato epistolario, di cui fa parte una lunga esposizione autobiografica,
intitolata Historia calamitatum.
In logica, la posizione di Abelardo è intermedia fra il nominalismo
di Roscellino e il realismo di Guglielmo di Champeaux. Roscellino, nato
a C?mpiègne nel rn50 e morto nel 1120, è noto per aver affrontato il
problema degli universali con un atteggiamento nuovo; si tratta di sta-
bilire se universali sono soltanto i nomi, come "uomo" e "animale" o
se ai nomi universali corrispondono delle realtà altrettanto universali.
E poiché gli universali, cioè i generi e le specie, sono oggetto specifico di
studio della logica, si tratta di stabilire se la logica sia una scienza de
vocibus oppure de rebus. Tutti i pensatori che, come Scoto Eriugena e
Anselmo, si erano richiamati alla dottrina delle idee, avevano attribuito
realtà agli universali, nei quali a loro avviso si concretavano le essenze
delle cose; sicché, per questi pensatori, al termine o concetto di " uomo "
corrisponde una reale essenza comune a tutti gli individui um:mi. Con
Roscellino, la critica di- tale concezione essenzialistica giunge ad una
formulazione radicale; egli sostiene infatti che il termine " uomo " non
designa affatto un'essenza comune realmente agli uomini individui; esi-
ste invece la realtà fisica del termine stesso, ossia quel movimento della
aria (flatus vocis) che fa risuonare la parola "uomo"; ed esistono poi gli
individui umani; ciascuno nella sua singolarità; il termine "uomo" ha
appunto il compito di significare questi individui, dietro i quali non esiste
nulla di comune, che si possa dire la specie umana o umanità. Le mag-
giori opposizioni Roscellino sollevò quando volle applicare la sua dot-
trina nominalistica al campo teologico; sostenne mfatti che i tre nomi
di Padre, Figlio e Spirito santo non designano una stessa cosa ~ingoia, ma
ognune dei tre nomi designa una cosa singola; accentuò cosi la riduzio-
ne della realtà comune alle tre persone, a favore della loro individualità;
tanto che Anselmo accu~ò Roscellino di sostenere una sorta di triteismo.
Guglielmo di Champeaux (m. 1121) si attiene invece alla dottrina rea-
listica degli universali. Egli sosteneva, scrive Abelardo, «che la medesima
realtà è tutta essem.ialmente presente nei singoli individui, fra i quali
non ci sarebbe alcuna diversità essenziale, ma solo una varietà detenni-

Baruch_in_libris
§ 2 ABELARDO

nata dalla molteplicità degli accidenti »; « ad esempio, nei singoli uo-


mini differenti di numero, è identica la sostanza dell'uomo, che qui per
via di certi accidenti si concreta in Socrate e là per via di altri accidenti
diventa Platone». Ora Abelardo che attribuisce a tutta la logica il ca-
rattere di " scientia sermocinalis ", ossia di studio del discorso, è del tutto
còntrario al realismo delle essenze. « Se la stessa realtà essenziale, os-
serva, sussiste nei singoli individui, pur differenziata da forme o acci-
denti diversi, è necessario che questa realtà, affetta da alcune forme o ac-
cidenti particolari, sia quella medesima realtà che è occupata da altre
forme o accidenti particolari; per es., la stessa essenza di animale
si troverà tanto negli animali razionali quanto in quelli irrazionali, il
che vuol dire che nella medesima realtà, cioè nell'animale, ci saranno at-
tributi contrari, come la razionalità e l'irrazionalità; ed allora i con-
trari non sarebbero piu contrari perché si troverebbero insieme in una
essenza del tutto identica».
Abelardo, se respinge il realismo di Guglielmo, non ritiene soddisfa-
cente nemmeno il nominalismo di Roscellino perché esso non si occupa
di considerare mediante quali operazioni mentali il termine fisico o
" vox " venga messo in grado di significare i singoli individui. « Come
certi nomi, egli scrive, son detti dai grammatici comuni e certi altri pro-
pri, cosi dai dialettici certe espressioni sono dette universali e certe altre
singolari; l'universale è dunque un vocabolo trovato in modo che sia ca-
pace di essere predicato singolarmente di molti, come, per es., il nome
" uomo " si può unire ai nomi particolari degli uomini, per la na-
tura dei soggetti particolari ai quali viene imposto; singolare è invece
il nome che si può predicare di uno solo». Realtà complete sono dunque
gli individui e soltanto gli individui; non esistono delle essenze comu-
ni significate dai nomi universali; l'intelletto umano ha però la capacità
di considerare singoli aspetti dei vari individui, astraendo dalle restanti
loro qualità; l'intelletto si forma cosi delle immagini comuni, confuse,
che sono appunto significate dai nomi universali, che perciò appunto
si predicano di molti soggetti o individui. Altro è il modo in cui una
cosa esiste, ed altro è il modo nel quale essa viene intesa; il conoscere
un aspetto di una cosa separatamente da altro non vuol dire separare
quell'aspetto nella cosa reale; per es., se in piu individui uomini io ri-
levo ed astraggo con la mente un aspetto, per es. quello della corporeità,

Baruch_in_libris
LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XII CAP. XVII

non do luogo con ciò all'esistenza reale di una rnrporeità come entità
distinta, ma non faccio che costruire un'immagiue mentale comune cui
si riferisce appunto il termine "corporeità "; esso è universale in quanto
è nome che si riferisce ad una immagine comune, ossia ricavata da molti
individui, dei guaii appunto quel nome si può predicare. Ncin basta
dunque dire che gli universali sono solo "voces "; perché un termine,
una " vox" sia significativa, bisogna che sia legata ad un'immagine men-
tale; allora la "vox" diviene "sermo ", ossia elemento del discorso si-
gnificativo umano; e soltanto il sermo può esser detto universale, non la
11ox che forma soltanto la premessa fisica del sermo. Il torto di Roscel-
lino è dunque per Abelardo quello di non aver tenuto il conto neces-
sario del concetto; o immagine comune che rende la parola universale
capace di signifo:.are qualche cosa. Non si può dunque sostenere, per
eccesso di polemica contro il realismo delle essenze, che al termine " uo-
mo" non corrisponde nulla e non si collega nulla al di fuori dei singoli
uomini distintamente reali ed esistenti; proprio per spiegare come il ter-
mine " uumo" si riferi5ca ai singoli uomini esistenti bisogna connettere
il termine "uomo" con l'immagine concettuale, ossia con un insieme
di caratteri r.omuni rilevati dalla mente umana; questi caratteri poi,
se non sono reali nd singoli individui nel senso che in essi risultino .sta~
cati dal resto, sono desunti. dalla realtà degli individui; e perciò l'attri-
buzione del termine comune ai singoli individui ha la sua ragion d'essere
proprio nell'immagine comune che ha a sua volta il proprio fondamento
reale negli individui. Questa direzione di pensiero logico è stata desi-·
gnata, poi, come concettualismo, appunto in quanto essa sottolinea l'im-
portanza del concetto e il suo doppio valore, per un lato nel rispecchiare
la realtà, per l'altro nel consentire la predicazione universale dei termini.
La logica risulta pertanto autonoma rispetto alla metafisica, come soste-
neva il nominalismo, ma è anche fondata su un nesso dei termini con
i concetti e con la realtà secondo l'esigenza del realismo.

3. Abelardo e il conflitto con Bernardo a proposito dei rapporti


fra ragione e fede.
L'atteggiamento con il quale Abelardo si applicò allo studio dei pro-
bkmi teologici è cosi da lui delineato: « Mi 0C1:orsc di applicarmi a spie-

Baruch_in_libris
ABELARDO E B~RNARDO

gare con analogie tr;itte dall'umana ragione il fondamento èella nostra


fede; i miri scolari esigevano argomenti umani e filosofici e chiedevano
ragioni atte a soddisfrre l'intelligenza piu che l'eloquenza, poiché, di-
cevano, è inutile la profusione di parole, quando non è seguita dalla
comprensione; né si può credere una proposizione, M: prima non la si è
capita; ed è ridicolo che uno predichi agli altri ciò che né lui, né chi
ascolta possono capire». L'avversario piu deciso di Abelardo su questo
punto è Bernardo di Chiaravalle (1091-1153); egli nutre dci sospetti nei
confronti dei filosofi-teologi del suo tempo, si mette, come- Pier Damiani,
dal punto di vista della vita monastica e teorizza, nei suoi scritti, la via
e;: l'anima percorre per vincere la sua inclinazione al male e per ele-
varsi all'unione estatica con Dio; per Bernardo la verità coincide con
Cristo e tutta la fede coincide con l'amore e la dedizione a lui; la cosa
principale, nella pratica religiosa, è l'umiltà, ossia 11 cosciente annulla-
mento di se stessi, la profonda coscienza del peccato; da tale coscienza
nasce l'aspirazione al divino che trova il suo adempimento nell'unione
ineffabile dell' uomo con Dio. Bernardo riempie questo schema classico
dell'esperienza religima con il contenuto di una ricca vita interiore, men-
tre nel governo della chiesa combatte quelle che egli considera deviazioni
intellettualistiche con ogni energia, senza disdegnare il ricorso al metodo
forte ed autoritario.
Quanto ad Abelardo, non v'è dubbio che egli ponga la fede come pun-
to di partenza di ogni ricerca razionale intorno acl essa; si tratta ap-
punto di accostare la fede «con analogie tratte dall'umana ragione»; a
questo riguardo, uno dei punti piu audaci da lui svolti è la ricerca di
analogie per spiegare la trinità delle persone divine; è qui che egli fa ri-
corso alla dottrina stoica dell'anima del mondo, come analo.:~ia che può
spiegare la terza persona della trinità, lo spirito santo; que:;te analogie
non hanno certo la pretesa cli es:mrire il significato dei dogmi; comunque
Abelardo utilizza, nella spieg:izione dc!la dottrina cristiana, le dottrine
della tradizione filosofica ed è portato anche a vedere un nesso rile-
vante di continuità fra filosofia greca e cristianesimo. Egli non ha
un senso cos! profondo del peccato come quello che si riscontra in Ber-
nardo; anzi tende a ridurre la prospettiva della corruzione della natura
umana ed a dare ampio riconoscimento alla lihertà.
Fra le dottrine abelardiane condannate al concili.:- dcl 1141 liguravano

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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XII CAP. XVII

anche alcune proposizioni di etica, contenute nello scritto Scito te ipsum:


In fatto di morale, l'atteggiamento piu originale di Abelardo consiste
nella sua opposizione all'ascetismo, che considerava peccato certe incli-
nazioni radicate nella natura dell'uomo e nella sua critica della morale
conformistica che tendeva a fissare in modo rigido il bene ed il male,
identificandoli con determinati comportamenti esterni, indipendente-
mente dall'interiorità che li accompagna. Circa il primo punto, Abelardo
introduce un'importante distinzione fra vizio dell'animo e peccato:
«Il vizio dell'anima, egli scrive, non si identifica affatto con il peccato;
ad es., l'essere iracondo, ossia pronto e facile a laSc:iarsi prendere dal-
l'ira, è un vizio che spinge la mente a compiere in modo inconsulto qual-
che cosa che non si deve fare; altrettanto si dica per la lussuria a cui
molti sono inclini per natura o per complessione fisica; tuttavia per il
fatto che si trovano ad essere cosi'. caratterizzati, non per questo peccano;
il vizio dell'animo ci rende inclini ad acconsentire a cose illecite; ma
propriamente peccato si deve chiamare appunto il fatto dell'acconsenti-
re »; le inclinazioni che si trovano radicate nella natura umana ci spin-
gono anche a "desiderare" cose illecite; ma, secondo Abelardo, queste
inclinazioni « non si possono eliminare » ed esse non sono in se stesse pec-
cato; «non si può chiamare peccato la volontà o il desiderio di fare ciò
che non è lecito, ma piuttosto il consenso alla volontà ed al desiderio»;
cosi'. Abelardo sottrae le inclinazioni umane, già gravate dalla condanna
dell'ascetismo religioso, alla sfera del male e le colloca piuttosto nel cam-
po degli strumenti neutrali da cui l'intenzione interiore può trarre sia il
male che il bene.
Abelardo insiste poi sul fatto che· solo l'intenzione, cioè il consenso,
costituisce il vero nucleo del bene e del male; invece l'azione, in quanto
tale, non aggiunge nulla alla bontà o alla malizia del nostro atteggia-
mento; «l'intenzione è buona o cattiva per se stessa; l'azione si dice
buona o cattiva non perché implichi qualche elemento di bontà o di
malizia in se stessa, ma perché procede da un intenzione buona o cat-
tiva»; la stessa azione, vista nella sua materialità esteriore, può diventare
buona se deriva da una buona intenzione, cattiva se deriva da una cat-
tiva intenzione; con ciò Abelardo prende posizione contro il lega-
lismo etico che era strettamente unito all'ascetismo e mira a staccare
l'iniziativa morale umana dall'adesione positiva a schemi fissi ed cste-
268

Baruch_in_libris
§ 3 ABELARDO E BERNARDO

non di comportamento. Allo stesso modo Abelardo prende posizione


contro la considerazione puramente mistica e carismatica dei po-
teri del clero, che vuole fondati anche su solidi valori m'?rali; coloro
che si vantano di essere i successori degli apostoli, osserva, tengano
presente che tale successione ha vero valore quando è fondata sulla di-
gnità morale corrispondente; gli accenti che si incontrano nelle pa·
gioe abelardiane contro la corruzione del clero, contro il formalismo ec-
clesiastico, contro il legalismo morale ricordano, almeno in parte, gli
atteggiamenti dei moti religiosi popolari e richiamano alla mente· che,
non senza ragione, alla sua scuola crebbe quell'Arnaldo da Brescia che
divenne, circa un decennio dopo la morte di Abelardo, l'eversore del
potere temporale dei papi a Roma e l' instauratore del comune popolare.

4. La scuola di Chartres.
La scuola cattedrale di Chartres è il centro pio importante di studi
letterari e filosofico-scientifici fiorito nell'età di Abelardo; il primo ad
insegnarvi con rinomanza fu Bernardo, un bretone che vi tenne lezioni
per una decina d'anni, morendo intorno al u26. Giovanni di Salisbury
lo chiama «la piu ricca fonte di cultura letteraria dei nostri tempi in
Gallia», ed anche «il piu grande platonico del nostro secolo». Nel
campo letterario, Bernardo di Chartres fa rivivere una raffinata tra-
dizione retorica, ispirata a Quintiliano. Quanto al suo platonismo, non
è che esso si nutra d'una vasta conoscenza dei testi di Platone; la sua
fonte è piuttosto il commento di Calcidio al Timeo di Platone; il
platonismo di Bernardo consiste essenzialmente nel non attribuire
la stessa importanza ai due elementi che compongono l'essere, cioè
la materia e l'idea, ma nel considerare propriamente l'essere come
coincidente « con ciò che consta di uno solo di questi elementi: l'idea»;
la materia, per Bernardo, non solo non è tutto l'essere, come sosteneva
Epicuro, ma non è nemmeno coeterna a Dio insieme con l'idea, come
credevano gli stoici; la materia viene creata da Dio, mentre l' idea come
esemplare di ciò che avviene in natura è eterna come Dio, anche se da
lui distinta. Questo platonismo, per quanto sommario, impronta tutto
l'insegnamento di Chartres.
Con Gilberto Porretano (1076-1154) che succede a Bernardo nella di-

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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO Xli CAP. XVII

rezione delle scuole di Chartres il platonismo alquanto indeterminato


del secondo si approfondisce in una vera e propria teoria delle essenze.
Le idee che esistono fuori del mondo materiale sono i modelli delle cose
sensibili; ma per dar luogo ai corpi, non sono le idee che si uniscono
alla materia, bens1 le forme, l be delle idee sono quasi delle copie; mentre
le idee sono eterne, le forme sono nativae. Questa teoria serve soprat-
tutto a Gilberto per spiegare la struttura del mondo nel suo rapporto
con Dio; Dio fa bens1 tutte le cose, ma queste si distinguono da Dio e
fra loro proprio ~n forza delle forme o essenze; ciò che direttamente
fa esistere un corpo è la corporeità, come ciò che direttamente fa esistere
un uomo è l'umanità; le realtà individue hanno nel loro stesso interno
un principio che le fa esistere, anche se questo principio deriva da Dio;
le cose hanno dunque una realtà che non è univoca con la realtà divina e
l'essenza o forma è la base stessa della lora autonomia.
Teodorico di €hartres (m. u55), fratello piu giovane di Bernardo,
succede a Gilberto nella direzione delle scuole di Chartres nel 1142 e
la tiene per oltre un de~ennio, fermando principalmente ia sua atten-
zione sulle materie del quadrivio. Il suo Heptateuchon, un libro di testo
sulle sette arti Eberali, abbraccia in verità anche le discipline del trivio; ma
il suo Hexaemeron che è un commento alla narrazione del Genesi bi-
blico sulla creazione del mondo si rifà principalmente al Timeo di Pla-
to'le e si propone di studiare l'intera questione " secundum physicam ",
cioè in base alle dottrine della fisica di ispirazione neo-platonica. Egli
mira a « r.wstrare razionalmente le cause dalle quali il mondo ha l'es-
sere e l'ordine dei tempi nei quali il mondo fu creato ed ordinato». Il
cielo e la terra, di cui la Bibbia dice che furono creati da Dio, sono
propriamente per Teodorico i quattro elementi primi, cioè acqua aria
terra e ~unco; questi stessi elementi risultano di particelle piu elementari,
che consentono un passaggio rapido da uno all'altro degli elementi; sono
poi i movimenti che spiegano tali passaggi; sicché si può dire che Teo-
dorico tende a spiegare l'insieme della natura con dei criteri meccanici
che, pur avendo in Dio la loro origine, presentano anche una base auto-
noma per la comprensione del mondo; se si aggiunge che Teodorico,
sempre sulla falsariga dcl Timeo platonico, ricorre frequentemente ad
un'interpretazione matematica della struttura dcli' universo, si converrà
che Bernardo di Chiaravalle e quanti con lui si attenevano al testo sa-

Baruch_in_libris
§ 4 LA SCUOLA DI CHARTRES
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ero per trarne immediate suggestioni di pietà e di slancio mistico, non
potevano non rimanere stupiti e sospettosi di fronte ad una simile inva-
denza di procedimenti scientifici profani, quali criteri interpretativi del-
la rivelaz~one.
Anche Guglielmo di Conches (1080-n54) che fu alla scuola di Ber-
nardo e quindi insegnò a Chartrcs per circa vent'anni, rivolge parti-
colarmente il suo studio alla cosmologia; egli scrive un commento al
Timeo ed un trattato De philosophia mundi; Guglielmo prende aper-
tamente posizione contro coloro che coltivano l'eloquenza per se stessa,
senza darle alcun contenuto di " sapienza ", cioè di concrete conoscenze
naturali; « è come affilar sempre la spada, scrive, e non colpir mai in
battaglia ». Sullo sfondo della realtà naturale sta Dio, ma il mondo è for-
nito di una sua realtà autonoma; esso è composto di elementi contrari,
caldi e freddi, umidi ed asciutti che sono stati riuniti da Dio. Nella mente
divina le idee fungono da esemplari eterni delle cose. Ma l' aspetto
piu rilevante della filosofia di Guglielmo di C.Onches è il tentativo di
spiegare la costituzione del mondo con un procedimento razionale-mec-
canico che fa ricorso alla teoria degli atomi oltre a quella dei quattro
elementi primi; il passaggio di Guglielmo da una visione animistica
ad una piu meccanica dello sviluppo del mondo è anche attestato dal
suo modo di intendere l'anima del mondo, che può si essere considerata
come «la forza che dà l'essere alle pietre, la vita alle erbe ed agli al-
beri, il sentire agli animali ed il ragionare agli uomini», ma va spe-
cialmente considerata come «il fato, o la serie o la divina disposizione
degli elementi »; in Dio esiste ben si « il mondo archetipo e la precogni-
zione di tutte le cose», ma da Dio deriva un ordine del mondo «come
disposizione o ordine temporale delle cose»; quest'ordine è l'anima
del mondo, quella che Boezio chiama la <<perpetua ratio» che governa
l'universo.
La scuola di Chartres combatte anche contro la reazione anti-cultu-
rale promossa da Bernardo di Chiaravalle e dalla corrente misticheg-
giante; né il pericolo contro un ordinato sviluppo della cultura veniva
soltanto da questa parte; con la diffusione dello studio della logica, si
erano affermate anche delle vere e proprie degenerazioni eristiche, fat-
te di giochi dialettici e di cavilli; in certe scuole, scrive Giovanni di Sa-
lisbury, «si discuteva la questione se il porco condotto al mercato sia

Baruch_in_libris
LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XII CAP. XVII

tenuto dall'uomo o dalla corda, oppure la questione se chi ha comprato


la cappa intera ha comprato anche il cappuccio ». Si ebbe inoltre an-
che un movimento contro quello che veniva giudicato un programma
troppo rigido di studio; esso rivendicava un tipo di scuola piu leggero
e ad impronta piu immediatamente professionale. Chartres, di fronte
a tutti questi attacchi, sostiene la necessità di una rigorosa formazione
culturale e filosofica.

5. Lo sviluppo delle scienze.


Per completare il quadro culturale della prima mcd del secolo xn, si
può far cenno dell'andamento della ricerca nelle scienze particolari; nel
campo delle matematiche, si hanno in questo periodo piu traduzioni che
opere originali; il piu grande matematico del tempo, l'ebreo Abramo, vive
in Spagna ed è l'esponente di tutto un movimento che si fa tramite per la
trasmissione all'Occidente della scienza mussulmana. Nel campo della medi-
cina si hanno sviluppi piu vistosi sia presso i mussulmani che presso i la-
tini; in quest'ultimo campo, occupano il primo posto gli' sviluppi della
scuola medica di Salerno, con i primi trattati di terapia, di. patologia e di
anatomia; è in questo periodo che vivono i medici Bartolomèo, Nicola, Mat-
teo, tutti della scuola di Salerno. Con Imerio, che vive fra il rn6o ed il 1140,
nasce a Bologna un'altra importante scuola che si dedica allo studio del
diritto; questo, incluso finora nell'ambito della retorica, acquista' autonomia
sopratutto in relazione alle lotte che intercorrono fra papato cd impero;
Imerio è autore di glosse al Corpus iuris di Giustiniano, specialmente al
Digesto; intorno a lui si raccoglie ben presto un gruppo di studiosi, dal
quale si forma appunto la prima scuola giuridica dell'Occidente; lo studio
del diritto romano- non giova, in questo periodo, solo al dibattito politico
fra la chiesa e l'impero, ma contribuisce efficacemente, accanto allo studio
della logica, a rendere rigoroso e scientificamente corretto il pensiero cd il
linguaggio. Dallo studio del diritto trae poi origine, con Graziano, la forma-
zione del diritto canonico; questi pubblica nel 1139 il primo codice di
leggi ecclesiastiche, chiamato Decretum; ma con i primi commenti a tale
codice, che cominciarono a scriversi prima dcl 1150, si accentua sensibil-
mente l'autonomia del diritto canonico dal diritto civile.

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CAPITOLO XVIII

La seconda metà del secolo xli


GIOVANNI DI SALISBURY ED AVERRO:t

1. Il periodo.
La seconda metà del secolo xn si apre con l'ascesa al trono imperiale
di Federico Barbarossa e si conclude con la conquista di Costantinopoli a
compimento della 1v crociata e con il costituirsi dell'impero latino d'Q.
riente. Il periodo è dominato da un lato dalla lotta fra l'impero e i comuni
italiani, dall'altro dall'affermarsi in Francia ed in Inghilterra del potere
monarchico sulle forze feudali. Nel campo religioso il cristallizzarsi dell'or-
ganismo ecclesiastico si accompagna a moti di ispirazione popolare e di
tendenza spesso anti-cattolica; i catari si rafforzano nel sud della Francia;
apostolo della rinascita religiosa è in questo tempo Gioacchino da Fiore,
che predica l'avvento dell'età dello Spirito santo; ma sul finire del secolo
si profila, con la figura di papa Innocenzo III, una violenta controffensiva
che tende a ricondurre i movimenti religiosi popolari entro l'orbita della
disciplina ecclesiastica, pena il loro sterminio.
Nel campo della cultura, si ha un rilevante incremento delle istituzioni
universitarie; la prima organica configurazione dell'università di Parigi, che
risulta dall'iniziativa di tre scuole, quella della cattedrale di Notre-Dame,
quella di san Vittore e quella dell'abbazia di Santa Genoveffa, risale al 1170;
gradualmente gli studi si vennero organizzando in quattro facoltà: delle
arti, di teologia, di legge e di medicina; il primo riconoscimento dell'uni-
versità di Parigi da parte dcl re di Francia risale al 1180, ma l'organizzazione
effettiva dell'università poté dirsi completa soltanto qualche decennio piu
tardi, intorno al 1230. Quando nel 1167 gli studenti inglesi furono richia-
mati da Parigi, raccogliendosi in numero notevole ad Oxford diedero il pri-
mo avvio alla costituzione di quella università. Altro aspetto importante
della storia culturale di questo periodo è l'intensificarsi delle traduzioni dal-
l'arabo e dal greco. Il piu grande traduttore del suo e forse di ogni altro
tempo è Gerardo da Cremona che mori a Toledo nel u87; sono tanti i testi

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J..A SECONDA METÀ DEL SECOLO XII CAP. XVIII

da lui tradotti e di tanto varie discipline che si deve pensare che egli si sia
servito di tutta una scuola di t:·aduttori, sotto la sua direzione; Gerardo ha
reso accessibile al mondo latino la parte piu rilevante della cultura greca
ed araba, sia filosofica che scientifica; fra le opere filosofiche piu impor-
tanti tradotte da Gerardo ricorderemo gli A natitici secondi di Aristotele, il
commento ad Aristotele di Alessandro di Afrodisia, scritti di al-Kindi e di
al-Farabi. Anche Enrico Aristippo di Catania, morto intorno al u62, è noto
per aver portato in Sicilia molti manoscritti greci e per aver tradotto dal
greco in latino il Menone ed il Pedone di Platone ed i quattro iibri della
Meteorologia di Aristotele.
La filosofia nella seconda metà del secolo xu si afferma in Occidente
con la dottrina logica e politica di Giovanni di Salisbury che è espressione
tipica dell'ambiente della scuola di Chartres; intanto nelle scuole, special-
mente francesi, si viene applicando un metodo razionalmente piu rigoroso
per la trattazione dei problemi sia filosofici che teologici; da questa esigenza
che aveva avuto una prima espressione già nel Sic et non di Abelardo de-
riva il compendio teologico di Pier Lombardo, dal titolo Libri quattuor sen-
tentiarum, che rimase per piu di tre secoli il testo normale per lo studio
della teologia nelle università. Nel mondo arabo fiorisce nello stesso tempo
il maggiore e l'ultimo dei pensatori della tradizione mussulmana, Averroé,
il cui pensiero doveva esercitare un influsso rilevante anche sullo sviluppo
della cultura occidentale.

2. Giovanni di Salisbury.
Nato in Inghilterra, nel 1120, Giovanni di Salisbury compie la sua
formazione in Francia, dove ascolta le lezioni di Abelardo e di parecchi
altri maestri; in particolare egli frequenta e si lega all'ambiente cul-
turale di Chartres; compiuti i suoi studi, intorno al II48 si dedica al-
l'attività amministrativa ecclesiastica, dapprima presso la corte pontificia
e poi quale segretario del vescovo di Canterbury; negli ultimi anni
della sua vita, dal 1176 al 1180 occupa la sede vescovile di Chartres.
I suoi due scritti piu importanti sono dedicati l'uno alle questioni di
logica (e si intitola Metalogicon), l'altro ai problemi politici (e si in-
titola Policraticus). La cultura di Giovanni ha un'impronta spiccata-
mente letteraria ed umanistica; in essa acquistano grande rilievo la
"eloquentia" e lo studio dei classici; però la "eloquentia" si deve
accompagnare ad un solido contenuto. Quanto alla logica, l'atteggia-
mento di Giovanni vuol evitare due posizioni estreme: quella, da un
lato, di chi avversa la logica ed il suo studio con vari pretesti; ma

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GIOVANNI DI SALISBURY

anche quella di quanti si dedicano allo studio della logica come se esso
esaurisse tutto il sapere; «è evidente, egli scrive, che la logica non è
presente in coloro che gridano nei crocicchi ed insegnano nei trivi de-
dicandosi soltanto alla logica, alla quale riservano non un decennio o
un ventennio, ma l'intera loro vita; anche quando la vecchiaia snerva
il corpo ed ottunde i sensi, non hanno altro nella bocca e solo la
logica prende il posto di tutti gli altn studi; cosi da vecchi ridiven-
tano bambini, cercano sempre e non arrivano mai alla scienza». Gio-
vanni mette in ridicolo il logico " puro " perché ritiene che la logica
giovi a ciascuno « secondo la misura del contenuto cui la applica »;
essa gioverà molto a chi possiede molte conoscenze, mentre, se ri-
mane isolata, diviene « exsanguis et sterilis ». Riguardo ai problemi
filosofici piu generali, Giovanni si dichiara "academico "; non già che
egli pensi di seguire lo scetticismo estremo di coloro i quali dichiarano
di non sapere nulla; tale posizione gli sembra del tutto astratta; in-
tende invece attenersi al criterio della conoscenza probabile, che, ri-
chiamandosi all'esperienza, procede con rautela, senza la pretesa di
giungere sempre al sapere necessario; «preferisco con gli academici,
scrive Giovanni, dubitare intorno alle singole cose, anziché definire
temerariamente con una dannosa simulazione di scienza ciò che è
ignoto o nascosto ». Importa soprattutto non confondere il campo della
verità necessaria con quello della semplice probabilità; solo Dio conosce
intimamente la natura delle cose, la sua forza ed i suoi piani; nei
riguardi del mondo, perciò, è meglio esplorare il corso normale delle
esperienze con la massima diligenza, lasciando sempre aperta la strada
alla correzione ed all'integrazione delle conclusioni precedenti. Un caso
clamoroso di eccessiva fiducia nella conoscenza necessaria della natura
è quello offerto dai " matematici " i quali « dalla posizione delle stelle,
dal sito del firmamento e dal moto dei pianeti congetturano intorno
al futuro»; l'astrologo o "matematico" è colui che non conscio dei
limiti della conoscenza giunge a conclusioni erronee, çome quella che fa
dipendere tutte le azioni umane dalle costellazioni, negando la libertà
dell'iniziativa razionale. Alla radice di tale atteggiamento sta la preoccu-
pnione religiosa di impedire alla scienza di giungere a conclusioni con-
trarie alla fede. Le due uniche basi della certezza sono, per Giovanni.
la conoscenza sensibile e la fede.

275

Baruch_in_libris
LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XII CAP. XVIII

Il pensiero politico svolto nel Policraticus si richiama ai concetti di


Cicerone e principalmente alla dottrina che fa dipendere l'unione nella
società da un accordo comune circa la legge ed il diritto. Indubbi1-
mente Giovanni si mostra preoccupato anche dalla questione dei rapporti
fra l'autorità politica e quella religiosa; ma egli insiste sulla subordina-
zione di entrambi i poteri ad una disciplina obbiettiva che li renda
legittimi; fonte comune di ogni potere è Dio; anche il potere politico
deriva da lui; ma bisogna che l'esercizio di ogni potere corrisponda
alle leggi di cui Dio è fondamento e garanzia; «vi sono dei precetti,
scrive Giovanni, che hanno stabile necessità, che sono legittimi presso
tutti i popoli e che non possono, sotto alcun riguardo, essere impune-
mente sciolti »; ..anche il principe è tenuto ad obbedire a questi precetti,
pena la illegittimità del suo potere; «tra un tiranno ed un principe,
insiste l'autore del Policraticus, c'è quest'unica e capitale differenza,
che il principe obbedisce alla legge e governa il popolo con i suoi editti
rendendosi conto di esistere solo per la sua utilità; i re sono vincolati
dalla legge» il che non avviene dei tiranni; né vi sono soltanto tiranni
secolari; i tiranni ecclesiastici, anzi, sono in generale piu pericolosi di
quelli secolari. L'esistenza di leggi obiettive eterne, mentre consente di
distinguere il principe dal tiranno, impone anche di liberarsi di que-
st'ultimo: « uccidere il tiranno, scrive Giovanni, non solo è lecito, ma
è anche equo e giusto; il potere pubblico giustamente infierisce contro
colui che si sforza di svuotare la pubblica potestà». Giovanni non
conosce la Politica di Aristotele; le sue fonti sono gli scritti di Cicerone
e di Seneca ripresi dai Padri della chiesa, nonché le opere dei giuristi
romani.

3. Sviluppi delle scuole in Francia.


Nel secolo XII si moltiplicano i tentativi di raccogliere questioni
nate dallo studio della Bibbia e le soluzioni ad esse fornite sia dai
Padri, sia posteriormente; appunto perché il compito principale di
queste compilazioni era di raccogliere le vedute dei Padri sulle que-
stioni piu controverse, furono chiamate spesso Sententiae. Questi ma-
nuali si distinguono fra loro per la distribuzione della materia e per
l'accentuazione particolare di alcune dottrine rispetto ad altre.

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§ 3 SVILUPPI DELLJ! SCUOLJ! IN FRANCIA

Già il Sic et non di Abelardo aveva raccolto le sentenze contrastanti


dei Padri su alcuni piu rilevanti problemi di dottrina religiosa; l'intento
dell'autore della raccolta era stato quello di chiarire che tali problemi
non dovevano ritenersi del tutto risolti e che pertanto andavano ulte-
riormente discussi ed approfonditi. Il materiale raccolto da Abelardo
fu utilizzato anche da Pier Lombardo (noo-n6o) per i suoi Libri
quattuor sententiarum, opera che divenne il testo scolastico ufficiale
per lo studio della teologia; ma lo spirito della raccolta di Pier Lom-
bardo è conciliativo, anziché problematico; forse proprio per questo
l'opera ebbe grande fortuna.
Nella teologia di questo periodo si fa strada l'esigenza di rivolgersi
specialmente ai seguaci dei movimenti ereticali disseminati in Francia
ed altrove con dei procedimenti razionali rigorosi, capaci di dare alle
verità della fede cristiana una base scientificamente solida. Per questo,
per es., Alano di Lilla (n28-1202) nelle sue Regulae de sacra theologia,
proprio con il proposito di porre gli eretici e gli infedeli di fronte a
delle dimostrazioni rigorose in questioni teologiche, tenta di elaborare
la teologia alla maniera di una scienza matematica, partendo da prin-
cipii necessari ed immutabili come assiomi, ·procedendo poi deduttiva-
mente alle varie massime dalle piu alle meno universali, in maniera
che quelle che vengono prima servano a dimostrare quelle che vengono
dopo, mentre tutte debbono essere ricondotte, in modo diretto o indi-
retto, a delle prime proposizioni evidenti. Anche Nicola di Amiens
che è contemporaneo di Alano, nel suo De arte catholicae fidei elabora
una trattazione teologica di tipo geometrico euclideo. Non si tratta
tanto di rinunciare all'essenziale impenetrabilità delle verità della fede;
ma al livello delle ragioni umane, si può argomentare in forma piena-
mente persuasiva seguendo lo schema matematico. Il primo diffondersi
di testi importanti della scienza matematica reca cos{ con sé l'adozione
di un metodo deduttivo, la cui applicazione viene estesa anche all'ordi-
namento e alla dimostrazione delle proposizioni teologiche.

4. Averroè.

Averroè è, si è detto, il maggiore e l'ultimo dei pensatori della


tradizione mussulmana; dopo di lui, infatti, l' intolleranza ed il fana-

Baruch_in_libris
LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XII CAP. XVIII

tismo impediscono e scoraggiano ogni sviluppo dottrinale. Nato a Cor-


dova nel 1126, coltivò fin da giovane gli studi ?i diritto e di medicina;
pur esercitando la funzione di giudice, si applicò piu tardi alla filosofia,
all'astronomia ed alle matematiche; nell'ultimo periodo della sua vita,
passata presso la corte del califfo del Marocco, subi persecuzioni a causa
delle sue dottrine; dopo aver ricoperto la carica di medico di corte ed
aver esercitato funzioni pubbliche, fu infatti mandato in esilio e pa-
recchi dei suoi scritti furono bruciati; mori nel Marocco nel 1198,
l'anno stesso in cui era stato richiamato dall'esilio. Le sue opere piu
importanti comprendono: i commenti agli scritti di Aristotele cono-
sciuti da Averroè non nel testo greco ma nella versione araba, un'en-
ciclopedia medica o Liber universalis de medicina, 1in commento al-
i' Almagesto di Tolomeo ed uno scritto polemico contro al-Ghazzali dal
titolo: Destructio destructionis philosophorum.
Averroè è pa~sato ai posteri soprattutto come il commentatore di
Aristotele; egli ha scritto tre commenti a tale autore, progressivamente
piu ampi ed elaborati, dal primo che ha la forma di un sommario di
argomenti fino al piu esteso che presenta gli sviluppi piu originali. An-
che i pensatori arabi precedenti avevano fermato la loro attenzione sul-
l'opera dello Stagirita; ma Averroè ha un duplice vantaggio: da un
lato egli conosce ormai l'intero corpus aristotelico completamente tra-
dotto in lingua araba e dall'altro egli non attribuisce piu ad Aristotele
quegli scritti di ispirazione neo-platonica che i filosofi precedenti ave-
vano scambiato per genuine espressioni del pensiero peripatetico. Aver-
roè ha anzi posto il massimo impegno a determinare l'autentico pen-
siero di Aristotele ·liberandolo dalle interpretazioni e dalle sovrastrut-
ture che, soprattutto per motivi religiosi, avevano finito per defor-
marlo in senso mistico e platonico. La· fiducia di Averroè nel genuino
Aristotele è tutt'uno con la sua fiducia nella filosofia e nella scienza. Se
si tiene presente la risonanza che aveva avuto nel mondo arabo l'attacco
di al-Ghazzali contro le pretese della filosofia e la conseguente difesa del
mistic~smo religioso, se si considera che tale attacco giungeva fino ad una
schietta professione di scetticismo nei confronti della stessa scienza della
natura basata sul rapporto causale, si comprenderà quanto fosse arduo
il compito di Averroè di riportare la cultura ad una considerazione
positiva della filosofia e della scienza. È per assolvere questo compito

~iB

Baruch_in_libris
§ 4 AVERROÈ

che egli si accinge, come dichiara il titolo della sua opera contro al-
Ghazzali, a distruggere la distruzione che quest'ultimo aveva cercato di
fare della filosofia e dei filosofi. E poiché al-Ghazzali aveva preteso di
condannare la filosofia proprio per svincolare da ogni rigida norma ra-
zionale la visione religiosa, Averroè intende a sua volt:i mostrare come
la fondazione e lo sviluppo rigoroso della scienza siano pienamente coe·
renti con la rivelazione del Corano. «Il negare l'esistenza delle cause
che ci appaiono nel mondo sensibile, egli scrive con chiaro riferimento
polemico al pensiero di al-Ghazzali, è un discorso sofistico; ed il teologo
su questo punto o nega con la lingua ciò che ammette nel cuore o segue
un'involuzione sofistica»; al-Ghazzali si appellava all'assoluta iniziativa
di Dio nell'ordinamento del mondo, per contrastare alla scienza la sua
pretesa ad un sapere stabile e necessario: Averroè ribatte che attribuire
a Dio un assoluto arbitrio, sottratto ad ogni regola, equivale a conside-
rarlo « come imperante sugli enti del mondo al modo di un re tirannico
che possiede sovranità assoluta, di fronte al quale non esiste alcuna op-
posizione nel regno, né legge che lo regoli, né consuetudine; ed allora
le sue azioni saranno necessariamente sconosciute per loro natura e
quando ha luogo una sua azione, è cosa per sua natura sconosciuta se
questa durerà o no». A que.sto arbitrarismo teologico Averroè contrap-
pone una concezione razionale della divinità come principio di stabi-
lità e di continuità : quello di Dio è come « il comando di un re per
il quale hanno stabilità nelle città tutti i comandi di coloro che il re
ha preposti agli affari »; Dio è « come un principe che abbia molti uf-
ficiali, i quali abbiano a loro volta altri ufficiali alle loro dipendenze;
questi non hanno la loro esistenza come tali, se non in quanto ricevono
il loro comando dal principe ed il loro ufficio non ha esistenza se non in
quanto essi lo ricevono cd eseguiscono gli ordini». Questa concezione
della divinità giustifica l'esistenza della "natura", come una realtà che,
pur dipendendo da Dio, riceve da lui una struttura fissa e stabile, tale
che la scienza ne può fare l'oggetto della sua indagine : « La scienza in
noi, afferma Averroè, è sempre una cosa che segue la natura degli
enti; se noi abbiamo scienza degli enti, vuol dire che negli enti vi è
uno stato dal quale dipende la nostra scienza; lo stato che si trova negli
enti, per cui essi danno luogo al ripetersi dei fatti secondo una consue-
tudine, è appunto ciò che i filosofi chiamano natura ». « La scienza,

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XII CAP. XVIII

egli insiste, dipende dall'esistenza di tale natura». Nella natura degli


esseri si concreta la stessa sapienza di Dio e la legge posta da Dio nella
natura « non subisce mutamenti »; in forza dunque del comando di
Dio « hanno stabilità i cieli e la terra »; questa appunto, conclude Aver-
roè, «è la dottrina che nell'interpretazione dei filosofi piu si presta
ad evitare ogni dubbio». A partire dunque dai corpi celesti, tutti i mo-
vimenti sono "determinati", tutte le operazioni sono "determinate",
«l'ordine e la disposizione di tutti gli esseri sono determinati»; i fatti ed
i movimenti seguono gli uni dagli altri "di necessità"; in quest'ordine
appunto la scienza rigorosa trova il suo piu solido fondamento.
È proprio nella determinazione dell'ordine necessario e razionale
della natura che Averroè si giova largamente della speculazione di Ari-
' afferma, coincide con la suprema
stotele; «la dottrina di Aristotele, egli
verità, per cui si dice giustamente che egli è stato creato e ci è stato
dato dalla divina provvidenza, affinché noi potessimo conoscere tutto
quello che è conoscibile». I punti principali nei quali Averroè modella
la sua dottrina su quella di Aristotele sono tre: la concezione sostanzia-
listica ed individua del reale, l'eternità del mondo, la dottrina dell'intel-
letto agente e la conseguente negazione dell'immortalità individuale.
Circa il primo punto, Averroè si stacca sensibilmente dalla visione di
Avicenna per il quale la ·realtà è una trama di essenze, gerarchic~ente
ordinate, cui sopraggiunge l'esistenza; egli accoglie invece la con-
cezione aristotelica che identifica la realtà con le sostanze individuali,
per cui ciò che esiste non ha la sua giustificazione in un'essenza che re-
sta esterna al suo concreto esistere, ma esiste di pieno diritto proprio
nella sua individualità; l'essenza fa dunque tutt'uno con l'individuo e
pertanto su una struttura unitaria ed univoca del reale ha il sopravvento
una considerazione puramente analogica degli esseri, che si richiama
alla concreta originalità di ciascuno piu che agli schemi astratti che li
unificano; ai termini universali che noi usiamo corrispondono realmente
soltanto gli individui singoli; è l'intelletto che, astraendo dal.le sostanze
individuali la natura comune, consente alla scienza di essere per un lato
concreta in quanto prende ad oggetto le realtà esistenti e dall'altro uni-
versale in quanto è tale· il modo in cui riesce a conoscerli. Averroè re-
spinge pertanto l'esistenza di idee separate dagli individui, anche se ri-
conosce che gli individui non sono semplici, ma risultano di materia e

280

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§ 4 AVEllllOÈ

di forma, di potenza e di atto, di un principio determinante e di uno


determinato. Quanto al secondo punto, Averroè riprende la dottrina
aristotelica del movimento, secondo la quale ciò che viene mosso è in
potenza, mentre ciò che muove è in atto; partendo da ciò che viene
mosso, non si può spiegare il movimento solo ammettendo un numero
infinito di esseri che per un lato muovono ciò che è inferiore ad essi e
per l'altro sono mossi da qualche cosa che è loro superiore; bisogna
arrivare di necessità a delle cause prime che muovono senza essere
mosse, che sono in atto senza alcuna mescolanza di potenza, appunto
secondo il principio aristotelico per il quale ciò che passa dalla potenza
all'atto presuppone ciò che è già in atto. Ciò comporta che, per un
lato, il mondo ed il suo movimento siano eterni e per l'altro che esi-
stano delle sostanze separate ed immateriali che a partire dal primo mo-
tore immobile presiedon~ al movimento dei corpi celesti. Il mondo è
eterno perché Dio come atto puro è eterno principio di movimento; le
sostanze separate sono molte perché sono molti i movimenti primi del-
l'universo da cui dipendono tutti gli altri. Da Dio motore immobile il
movimento si propaga al cielo delle stelle fisse, quindi alle sfere di tutti
i pianeti fino alla sfera della luna, il cui motore dà origine all'Intelletto
agente che è causa della conoscenza per tutti gli uomini. Anche nel
terzo punto indicato, quello che concerne la conoscenza intellettiva,
Averroè si attiene al principio, aristotelico per cui essa va spiegata come
un passaggio dalla potenza all'atto; le immagini che derivano dai sensi
non sono ancora i concetti e costituiscono semplicemente una "disposi-
zione" a riceverli; tale disposizione è appunto l'intelletto materiale, che
da solo non potrebbe mai giungere al possesso degli intellegibili; come
il colore, spiega Averroè, per essere visto dagli occhi, ha bisogno della
luce, cosI l'intelletto materiale non riceve gli intellegibili, cioè i concetti,
se non viene illuminato da un principio attivo, che coincide appunto
con lintelletto agente; «come la luce fa che il colore in potenza passi
in atto in modo che possa muovere la vista, cosI l'intelletto agente fa
che i concetti intellegibili in potenza passino in atto, in maniera che
l' intelletto materiale li riceva »; quando poi l' intelletto materiale ha
raggiunto la perfezione congiungendosi con l'intelletto agente, si ha
quell'unione di essi che Averroè indica col nome di intelletto acquisito.
Ma la questione principale è di sapere quale natura abbia ciascuno di

381

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XII CAP. XVIII

questi principi che cooperano alla conoscenza, soprattutto in relazione


al soggetto individuale. Si è già visto che, secondo Averroè, l'intelletto
agente è una sostanza separata identica per tutti gli uomini; ma anche
l'intelletto materiale è, a suo avviso, «uno di numero in tutti gli uomini
individui, non generabile e non corruttibile»; la ragione di ciò è la
seguente: « se ammettiamo che un tale intelletto materiale sia numerato
secondo la numerazione degli uomini individui, si dovrà ammettere che
esso è qualche cosa di singolare, cioè corpo o virtu del corpo »; ed al-
lora esso conferirà carattere di particolarità a tutto ciò che si conosce,
ossia sarà impossibile da parte sua accogliere degli intellegibili vera-
mente universali; il che è quanto dire che se l'intelletto materiale (cioè
in potenza) è individuale, riceverà solo forme individuali e non con-
cetti ; «per questo, conclude Averroè, Aristotele ha ritenuto che questo
intelletto non sia individuale». Alla difficoltà per cui, ponendo che
l'intelletto materiale sia unico per tutti gli uomini, segue che «se al-
cuno degli individui avrà conseguito un intellegibile, bisognerà che
quello stesso intellegibile sia conseguito anche da tutti gli altri indi-
vidui >l, Averroè risponde che una certa molteplicità dell'intellegibile si
ottiene in quanto esso, in ciascun individuo, si unisce alle immagini
che sono particolari; ma a lui pare difficoltà maggiore quella che na-
scerebbe se lo stesso intellegibile si moltiplicasse secondo la molteplicità
degli esseri conoscenti, giacché allora si avrebbe un numero infinito di
intellegibili «ed il discepolo non potrebbe imparare dal maestro» di-
venendo impossibile ogni trasmissione della scienza. La soluzione di
Averroè consiste appunto nel ritenere che l'intellezione in guanto tale
è unica, mentre diviene molteplice solo per l'immaginazione cui si con-
gmnge.
È troppo evidente che almeno su due punti importanti la dottrina di
Averroè si veniva a trovare in aperto contrasto con il Corano: mentre
questo spiega l'origine del mondo con la creazione da parte di Dio,
Averroè si appella all'eternità dell'universo, e mentre il Corano afferma
l'immortalità dell'anima individuale, Averroè la sacrifica in pieno al-
l'immortalità della scienza. Quale l'atteggiamento di Averroè di fronte
a cosi grave contrasto? Egli chiarisce la questione osservando che
mentre il popolo semplice si attiene al significato simbolico ed esteriore
del Corano a causa della sua ignoranza, l'uomo di scienza che esige

Baruch_in_libris
§ 4 AVERROà

prove rigorose e dimostrazioni, approfondisce il senso nascosto della


rivelazione mediante la sua ricerca filosofica; ognuna delle due posi-
zioni è legittima al suo livello, per cui non si può né pretendere che lo
scienziato si adegui all'ignoranza del popolo, né richiedere che il po-
polo si elevi alla visione scientifica. Riconoscendo cosi che il Corano
nella sua espressione letterale compendia una sorta di elementare
filosofia per il popolo, Averroè accetta che la ricerca filosofica propria
dello scienziato resti a lui riservata e che anche i suoi risultati restino
chiusi nella sfera dei competenti; quando lo spirito scientifico il quale
anima gli uomini superiori viene divulgato al popolo, il metodo dimo-
strativo dell'uno e l'oratoria appassionata dell'altro si mescolano in-
sieme, generando confusioni ed eresie. Se questa soluzione consentiva
ad Averroè di svolgere la sua ricerca filosofica e di costruire la sua
visione razionale del mondo in piena autonomia dal fanatismo religioso
popolare, egli non poteva però evitare un'altra difficoltà, quella deri-
vante dal fatto che l'unità religiosa dell'Islam richiedeva che scienziati
e popolo avessero almeno un minimo di terreno comune nella profes-
sione della fede; perciò appunto anche l'uomo di scienza non poteva
esimersi dall'accettare determinate verità di fede, senza delle quali non
sarebbe stato ritenuto partecipe della comune credenza; una di tali
verità era certamente quella dell'immortalità dell'anima; ed allora~ co-
me poteva Averroè per un lato professare la dottrina di derivazione
aristotelica circa l'unicità dell'intelletto e per l'altro accogliere la cre-
denza nel!' immortalità, propria della fede comune? Nel caso specifico,
ecco come egli risolve il problema: « Per rationem concludo de neces-
sitate quod intellectus est unus numero, firmiter tamen teneo oppo-
situm per fidem ». Gli interpreti piu tardi della sua dottrina hanno par-
lato, a questo riguardo, di « doppia verità », il che si deve intendere
nel senso che Averroè da una parte non ha voluto abbandonare la ri-
cerca filosofica condotta in modo autonomo secondo criteri specifici di
necessità e di razionalità e dall'altra parte non ha voluto considerare la
verità filosofica come assoluta ed esclusiva nei confronti della fede. Il
risultato piu cospicuo di questa sistemazione dottrinale è ormai la ri-
nuncia al compromesso fra filosofia e religione; o, meglio, Averroè
rinuncia al compromesso interno fra le due, dando pieno sviluppo alla
filosofia indipendentemente dalla sua piena concordia pregiudiziale con

Baruch_in_libris
LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XII CAP. XVIII

la religione, senza rinunciare tuttavia ad una sorta di compromesso


esterno che lasci sussistere fede e ragione, l'una accanto all'altra, an- ·
che se, ormai, su terreni distinti e diversi.
Contemporaneo di Averroè è Mosè Maimonide (n35-1204) che con
il suo scritto la Guida dei perplessi ha esercitato un largo influsso sul
posteriore pensiero ebraico; formatosi in Spagna, egli svolge la sua at-
tività in Egitto e risiede a lungo in Oriente. Anziché applicarsi a mo-
strare che l'insegnamento della Bibbia concorda con le conclusioni che
si ricavano dalla riflessione razionale, egli tenta di ricavare la stessa
dottrina filosofica dal testo rivelato con appropriati metodi di esegesi
allegorica; per dottrina filosofica poi egli intende, in· sostanza, quell'ari-
stotelismo platonizzante già fatto proprio dalla precedente riflessione sia
mussulmana che ebraica. In proprio Mosè approfondisce specialmente
la dottrina della teologia negativa, la difesa del principio creazionistico
e la teoria dell'Intelletto agente che è veicolo dell'illuminazione divina,
da cui derivano il dono della profezia e la facoltà divinatoria.

5. Lo sviluppo delle scienze.


Per quanto concerne le scienze particolari, la seconda metà dcl secolo
XII ha visto un rigoglioso sviluppo delle discussioni intorno all'astronomia
di Tolomeo condotte dai dotti arabi di Spagna e del Marocco, un ampio
incremento della geografia che compie i suoi maggiori progressi ancora nella
Spagna per opera degli studiosi mussulmani, infine un'intensa produzione
medica che vanta fra i suoi autori lo stesso Averroè; ma accanto a questi
risultati conseguiti da parte dci Mussulmani e degli Ebrei, si collocano or-
mai risultati sempre piu validi ai quali giunge la cultura occidentale del tem-
po: &a questi bisogna dare un peso particolare alla pubblicazione e diffusione
in lingua latina dell'Almagesto di Tolòmeo cd al brillante sviluppo della
scuola medica di Salerno giunta ormai all'apogeo del suo splendore; sol-
tanto le turbinose vicende politiche che portarono nel I 193 alla distruzione
della città di Salerno posero termine, in modo repentino, alla vita di quella
scuola che aveva portato per la prima volta la medicina europea a gareg-
giare. con la scienza araba cd ebraica.

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CAPITOl.0 XIX

La prima metà del secolo xm


ALESSANDRO DI HALES E ROBERTO GROSSATESTA

1. Il periodo.
La prima metà del secolo xm si apre con il grandioso tentativo teocratico
di Innocenzo III: «lo sono stabilito da Dio, egli scrive, al di sopra dei po-
poli e dei regni; nulla di ciò che avviene nell'universo deve sfuggire all'at-
tenzione ed alla potestà del sovrano pontefice ». Ma l'immensa ambizione
del papa non riesce a togliere di mezzo le forze nazionali che ormai si
vengono consolidando non piu dentro i vecchi schemi del feudalesimo, ma
nelle nuove strutture sociali ed organizzative dello Stato moderno. L'anti-
tesi piu completa dell'opera e del pensiero di Innocenzo III si ha nell'azione
di re Federico II, che è l'esponente piu autorevole della rivendicazione del-
l'autonomia del potere politico rispetto a qualsiasi ingerenza teocratica. Il
fermento religioso si avverte in questo periodo, non soltanto attraverso le
iniziative del papato, quali la crociata contro gli Albigesi e la costituzione
dell'inquisizione, ma anche nella vivacità dei movimenti contro i quali
la chiesa prende posizione e nella creazione di nuovi indirizzi che si man-
tengono nell'ambito dell'ortodossia e della disciplina ecclesiastica; risale al
1210 la fondazione dell'ordine francescano, che, animato, alle sue origini,
dall'idea di un ritorno completo alla primitiva esperienza cristiana della
povertà e del distacco dai beni mondani, è tormentato, dopo la morte del
fondatore avvenuta nel 1226, da contrasti fra un indirizzo piu spirituale ed
uno piu conciliante e remissivo rappresentato dai conventuali. Al 1215 risale
la fondazione dell'ordine domenicano che si propone come obbiettivo fon-
damentale la predicazione del V angelo fra gli infedeli e gli eretici. Soltanto
verso la metà del secolo si ha la fondazione dell'ordine degli eremiti di
sant' Agostino.
La fondazione degli ordini francescano e domenicano ha anche un n°:
tevole rilievo culturale; essi si organizzano in provincie, ognuna delle quah
ha il suo sludium partiC"ulare ossia una scuola in cui vengono istruiti i

:aBS

Baruch_in_libris
LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XIX

monaci; nei centri piu importanti vengono poi costituiti degli studia gene-
ralia che, mentre provvedono a preparare i maestri per le scuole delle pro-
vincie, fanno anche parte degli organismi universitari. Le traduzioni dal-
l'arabo e dal greco hanno anche in questo periodo un notevole peso nella
formazione culturale; il centro piu importante di incontro della cultura
araba con quella latina si ha a Palermo alla corte di Federico II; il piu
noto dei traduttori che vivono alla corte di Palermo è Michele Scoto,
che ricopre anche la carica di astrologo di corte e muore intorno al 1235;
per opera dei traduttori, l'Occidente latino allarga sensibilmente la sua co-
noscenza delle opere aristoteliche; a Michele Scoto si deve la traduzione del
De caelo et mundo e del De anima; Roberto Grossatesta traduce l'Etica;
agli inizi del secolo si diffondono le traduzioni della Fisica, della Metafi-
sica e dei Parva naturalia; piu tardi incominciano a circolare anche le tra-
duzioni della Politica, dell'Etica e della Retorica; cosi pressoché l'intero
corpus aristotelico giunge nell'Europa occidentale; e vi giunge accompa-
gnato dai commenti di Averroè, tradotti da Michele Scoto. La prima rea-
zione degli ambienti religiosi alla diffusione dell'opera di Aristotele è ne-
gativa; nel 1210 un concilio provinciale proibisce a Parigi l'insegnamento
pubblico e privato della fisica e della metafisica di Aristotele; nel 1215
la proibizione viene ribadita con particolare riferimento all'università di
Parigi; si vedeva un troppo aperto contrasto della dottrina aristotelica con
la fede.
Le università guadagnano intanto sempre maggiore importanza; sor-
gono università nuove, come quella di Napoli fondata da Federico II nel
1224, quella di Padova la cui fondazione risale al 1222 e quella di Cam-
bridge che si affianca nel 1209 all'università di Oxford; le due università
che emergono sulle altre sono quelle di Parigi e di Oxford. L'università di
Parigi diviene il piu importante organismo di studio del tempo; con l'ap-
poggio del papato, i· due nuovi ordinì religiosi vi conquistano ben presto
delle cattedre di insegnamento, dalle quali esercitano un largo influsso
sulla cultura religiosa e filosofica di tutta Europa.

2. Alessandro di Hales e l'università di Parigi.


I francescani si stabiliscono a Parigi nel 1219 e nd 1232 ottengono
una cattedra di teologia all'università; i domenicani si affermano a
Parigi nel 1217, nel 1229 ottengono una prima cattedra all'università e
ad essa ne aggiungono una seconda nel 1231. Fra i due ordini si de-
termina abbastanza presto una certa rivalità; i francescani dal punto di
vista dottrinale si richiamano alla tradizione platonico-agostiniana,

286

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; 2 ALESSANDRO DI HALE&

mentre i domenicani si orientano piuttosto verso l'aristotelismo. Ales-


sandro di Hales, di origine inglese, insegna a Parigi intorno al 1220
in qualità di maestro secolare; quando entra nell'ordine francescano
diviene il primo maestro dell'ordine che insegni nell'università di
Parigi; tale insegnamento dura dal 1232 al 1238. Ad Alessandro
viene attribuita una Summa theologica che probabilmente non è sol-
tanto opera sua; ma è un testo notevole per comprendere l'orien-
tamento assunto dal movimento francescano nel primo periodo
dell'insegnamento parigino. ·Gli esponenti del . movimento sono a co-
\1oscenza sia delle opere di Aristotele, come degli scritti di Avicenna;
ma il loro tentativo è quello di accogliere alcune dottrine tipiche della
tradizione culturale platonica e neo-platonica, inglobandole tuttavia nel
contesto basilare della tradizione agostiniana. Essi accolgono, per es.,
la dottrina delle idee, ma anziché porle in un'intelligenza separata,
le considerano come derivanti immediatamente da Dio. La dottrina
dell'astrazione e dell'intelletto agente vengono parimenti riprese e mo-
dificate; l'intelletto agente non viene inteso come una sostanza sepa-
rata, ma viene considerato come la « vis animae suprema » cioè come
un elemento dell'anima individuale, che risulta di intelletto attivo e
di intelletto passivo. Quanto al processo dell'astrazione, esso viene uti-
lizzato per spiegare il cammino che la conoscenza umana compie dalle
immagini fino ai concetti universali ed ai primi principii; e qui l'ac-
cettazione dello schema gnoseologico aristotelico è pressoché completa,
anche se poi si cerca di unire la dottrina dell'astrazione con quella
dell'illuminazione divina; per un lato l'azione illuminatrice che Dio
esercita sull'intelletto umano corrisponde alla funzione che gli arabi
avevano attribuito all'intelletto agente, per l'altro essa assolve il compito
di stabilire piu saldamente il legame fra l'anima e la realtà sopran-
naturale di Dio, secondo la tradizione agostiniana.
Altre dottrine affermate dai maestri di teologia a Parigi e ricavate
dalla tradizione del neo-platonismo arabo sono le seguenti: la distin-
zione avicenniana dell'essenza e dell'esistenza che consente di chiarire
la distinzione di Dio dal mondo, mentre conferisce particolare rilievo
alla presenza divina nell'universo; l'accentuazione del volontarismo
divino per cui la libera creazione dell'universo non modifica la realtà
divina e la natura e l'operazione degli esseri finiti dipendono sempre di-

Baruch_in_libris
LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XIX

rettamente da Dio; si respinge quindi la nozione di "natura" elabo-


rata da Averroè per esaltare la libera iniziativa divina; a ciò si ag-
giunga una dottrina dell'anima posta fra il mondo della realtà sen-
sibile e Dio, nel quale essa trova rispecchiati tutti gli intellegibili, i
principii stessi e le regole della verità.
In sostanza tutte queste dottrine tendono a riaffermare l'esigenza
religiosa nei confronti delle teorie che, nella tradizione neo-platoniz-
zante degli arabi, risultavano piu apertamente in contrasto con essa;
ma tale atteggiamento è giudicato troppo conciliante dalla chiesa.
Gregorio IX scrive infatti nel 1228 ai maestri di teologia dell'uni-
versità di Parigi : « Siamo riempiti di amarezza nel sentir riferire che
alcuni fra voi, gonfiati come otri dallo spirito di vanità, spostano, se-
guendo uno spirito di empia novità, i confini posti dai Padri e sol-
lecitano nel senso ··della filosofia pagana il significato del testo sacro
la cui interpretazione è stata d'altronde chiusa dal lavoro dei Padri
entro confini precisi, confini che non è solo temerario, ma empio tra-
sgredire »; il papa continua precisando che compito dei veri teologi
è quello di c1 riporre la loro fiducia in Dio per distruggere tutto ciò
che si oppone alla scienza di Dio e per ridurre in cattività ogni ra-
gione mediante la sottomissione al Cristo »; e lamenta che essi, per
contro, si lascino sviare da dottrine « diverse e straniere » finendo
cosi per mettere la teologia, che dovrebbe essere regina, al servizio
della filosofia, che dovrebbe essere serva.

3. Roberto Grossatesta e l'università. di Oxford.

L'università di Oxford è meno direttamente sotto il controllo del


papato e segue pertanto piu liberamente gli indirizzi di studio ri-
spondenti al pensiero dei maestri che vi insegnano; a Parigi predo-
mina lo studio della dialettica e della metafisica; ad Oxford si presta
maggiore attenzione allo studio del quadrivio, quindi alle discipline
Sc:ientifiche. Tale indirizzo si afferma nell'università inglese fin dalla
prima metà del secolo xm con il maestro secolare Roberto Grossa-
testa che è primo cancelliere dell'università di Oxford e primo inse-
gnante nella scuola francescana istituita nella città; creato vescovo
di Lincoln nel 1235, egli muore od 1253. La diversità della sua

a88

Baruch_in_libris
§ 3 llOBEllTO GllOSSATESTA

formazione rispetto a quella dei maestri parigini risulta immediata-


mente dai suoi scritti; se per un lato egli è traduttore dell'Etica a
Nicomaco e commentatore dei Secondi analitici e della Fisica di Ari-
stotele, se inoltre traduce e commenta anche alcuni scritti di Dionigi
pseudo-Areopagita, d'altra parte egli compone scritti che trattano
della generazione delle stelle, delle comete, della luce, dell'iride, del
colore, del calore del sole, della generazione dei suoni, delle rifrazioni
e riflessioni dei raggi ecc. Roberto si interessa di matematica e di
fisica, di astronomia e di astrologia, di alchimia e di ottica. Nel suo
pensiero occupa un posto importante la dottrina della luce, secondo
la quale Dio, per creare il mondo, non ha avuto bisogno se non di
creare un punto luminoso, facendone il portatore di tutte le forme e
di tutte le materie che formano le cose; la luce infatti ha due pro-
prietà essenziali : è una sostanza corporea, che, per la sua sottigliezza,
si accosta alla realtà incorporea; inoltre « la luce, per sua natura, si
diffonde in ogni direzione in modo che un punto luminoso produce
istantaneamente intorno a sé una sfera di luce d'una grandezza qua-
lunque, a meno che un corpo opaco non si frapponga sulla sua strada»;
la luce, dunque, si genera eternamente da se stessa e si diffonde istan-
taneamente; essa come punto luminoso non ha grandezza, ma il punto
luminoso genera subito una sfera di luce e questa ha grandezza; cos{
dalla luce si generano le dimensioni, l'estensione nello spazio e la
corporeità. Basta dunque che Dio crei il primo punto luminoso per-
ché questo si moltiplichi all'infinito e dia luogo, espandendosi in ogni
direzione, all'universo intero. L'universo è una sfera finita ai cui limiti
la luce giunge al massimo della rarefazione e quindi al termine della
sua diffusione; man mano invece che ci si avvicina al centro, si in-
contra luce e quindi materia piu densa e pertanto ancora capace di
rarefazione; è appunto questa ulteriore capacità di rarefazione che
spiega la continua attività delle cose che si trovano nel settore cen-
trale del mondo. Dal limite esterno dell'universo che costituisce il fir-
mamento, la luce si riflette verso il centro generando successivamente
le nove sfere celesti e le quattro sfere degli elementi primi materiali;
l'azione delle tredici sfere converge sulla terra che si trova al centro.
Per conoscere la filosofia naturale bisogna far ricorso, secondo
Grossatesta, « alla considerazione delle lince, degli angoli e delle fi-

289

Baruch_in_libris
LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XIX

gure »; linee, angoli e figure esprimono la realtà di tutto l'universo


preso nel suo insieme come quella delle sue parti. Basti pensare, per es•,
che la prop:igazione si:i della luce che delle azioni naturali avviene in
linea retta; lo studio della linea retta è quindi anche lo studio della
propagazione dei moti naturali; del pari lo studio della sfera coincide
con lo studio della moltiplicazione della luce e quindi della stessa co-
stituzione dell'universo. L'analisi geometrica delle proprietà delle fi-
gure e delle leggi del movimento è pertanto in grado di « indicare
le cause di tutti gli effetti naturali », ossia di fondare la stessa scienza
fisica; infatti « tutte le cause degli effetti naturali vengono rese per
mezzo di lince, dì angoli, di figure».
Quanto la visione cosmologica di Grossatesta è nuova ed originale,
tanto è tradizionale invece la sua teologia; essa comprende, per es.,
la teoria secondo la quale l'anima, pur potendo sviluppare una sua
azione sul corpo, non può ricevere da questo alcun in!lusso; l'anima
non ha bisogno di alcun organo corporeo per esprimersi; tanto meno ne
ha bisogno per esplicare la sua funzione superiore, quella dell'intelli-
genza; anche tutto il processo conoscitivo mette in luce, secondo Gros-
satesta, l'autonomia dell'intelletto rispetto alla sensazione; è nella sua
interiorità che l'anima si apre all'influsso delle idee divine ed alla illu-
minazione che deriva direttamente da Dio. Si direbbe insomma che il
maestro di Oxford da un lato professi una visione dell'universo fon-
data sulla ricerca della corrispondenza fra linguaggio matematico e
dati reali e dall'altro si appelli all'esperienza religiosa ed interiore,
aperta ad un rapporto mistico con Dio. Quello che, comunque, diffe-
renzia il suo atteggiamento dalle posizioni iniziali dei maestri france-
sc:mi di Parigi è la piu chiara preoccupazione di salvaguardare una
struttura naturàle del mondo e di renderne la comprensione quanto
piu rigorosa e precisa possibile.

4. J... o sviluppo delle scienze.


Mentre in Occidente gli sviluppi della filosofia nella prima metà del
secolo xm, senz'essere rilevanti, hanno un notevole significato sopratutto
nell'indicare le vie che la piu ampia elaborazione della seconda metà del
secolo svolgerà, nessun pensatore né fra gli Arabi, né fra gli Ebrei o i Bi·

Baruch_in_libris
LO SVILUPPO DELLE SCIENZE
~~~~~~~~~~~~~~~~~~

zantini raggiunge il livello e l'importanza di Averroè o di Avicenna; anche


per lo sviluppo della scienza, si può dire la stessa cosa; mentre sono nume-
rosi i cultori mussulmani ed ebraici delle varie discipline, è in Occidente
che si conseguono ormai i risultati piu originali ed importami. La matema-
tica compie in questo periodo un progresso rilevante con Leonardo Fibo-
nacci e Giordano Nemorarius. Il primo vive fra il 1170 ed il I240; figlio
di un ricco commerciante pisano, Leonardo conosce i principali testi ma'.e-
matici sia arabi che greci; la data di pubblicazione del suo Liber abaci,
il 1202, viene indicata solitamente come la data di nascita della matematica
europea; il libro contiene una trattazione completa dell'aritmetica, cioè dei
numeri e dcl loro uso, con dimostrazioni anche piu rigoro~e di quelle che
si potevano leggere nelle corrispondenti trattazioni mussulmane. Nell'altra
grande opera di Fibonacci, Practica geometriae, scritta nel I220, viene in-
trodotta una novità rilevante per la cultura matematica occidentale, cioè l'uso
dell'algebra per la soluzione dei problemi geometrici. Giordano l"emorarius
(vissuto fra la fine dc:! secolo xn e l'inizio dcl xm) è il fondatore della mcc·
canica medievale cd ha grande rilievo anche come matematico. In fatto
di meccanica, i suoi Elementa super demonstrationem ponderis svolgono in
forma originale i temi della corrispondente trattazione aristotelica, chi:i-
rcndo sia la variazione della gravità che si verifica lungo la traiettoria di
un mobile, sia la identità che esiste fra la forza necessaria per portare
un peso ad una determinata altezza e quella che è richiesta per portare
un peso r volte maggiore ad un'altezza r volte. minore; nell'ambito della
scuola di meccanica avviata da Giordano vengono poi studiati anche i pro-
blemi della leva e dcl piano inclinato. Al Nemorarius si debbono anche due
trattati di aritmetica che, a differenza di quelli di Fibonacci, non risentono
l'influsso della matematica mussulmana, ma continuano la tradizione di Ni-
comaco e di Boezio; in particolare egli adotta sempre le lettere in luogo dei
numeri per indicarne la generalità. Per quanto riguarda lo sviluppo delie
altre scienze, bisogna ricordare: la His(oria Mongolorum di Giovanni Pian
dcl Carpine (n82-1252), resoconto storico e geografico dei pili audaci viaggi
di esplorazione compiuti in quest'epoca; le molte enciclopedie di scienze
naturali, alcune delle quali non fanno che rielaborare materiale già rac-
colto, mentre altre lo arricchiscono di nuove osservazioni; la diffusione della
cultura medica di Salerno in altre città europee, come a Montpellier ed in
Inghilterra per opera di Roberto Grossatesta; le cronache delle crociate ed
in particolare della iv; la continuazione degli studi di diritto romano a
Bologna e la ulteriore elaborazione del diritto canonico da parte della chiesa,
ormai nettamente avversa allo studio del diritto romano; infine la formazione
delle nuove parlate volgari ed in particolare l'inizio della letteratura ita-
liana alla corte siciliana di Federico n.

Baruch_in_libris
CAPITOLO XX

La seconda metà del secolo xm


BONAVENTURA. ALBERTO MAGNO. TOMMASO D'AQUINO.
SIGIERI. RUGGERO BACONE. LULLO

1. II periodo.
La seconda metà del secolo xm è un periodo di trapasso durante il
quale le nuove forze politiche degli Stati indipendenti si vengono conso-
lidando sia attraverso il concentrarsi della potenza delle maggiori monar-
chie, sia attraverso la formazione di organismi signorili quali momenti di
evoluzione della situazione comunale. Il papato con Bonifacio VIII sembra
avviato alla realizzazione dell'ideale teocratico, ma il sup fallimento è segnato
dalla lotta fra il papa e il re di Francia Filippo IV il Bello, con la quale
si apre il secolo xiv. La cristianità occidentale è ancora impegnata in pro-
fondi contrasti; la chiesa è alle prese con il radicalismo sociale-religioso che
reagisce sia alla miseria di molta parte del popolo, sia al coriformismo eccle-
siastico; il clero secolare è in lotta con la crescente potenza dei nuovi ordini
religiosi; anche i due maggiori ordini religiosi sono in lotta fra loro. La fi-
losofia di questo periodo è tutta dominata dai contrasti che, all'interno stes-
so del pensiero cristiano, solleva l'opera di Aristotele. Mentre Bonaventura,
esponente dell'indirizzo francescano, rivendica la maggiore conformità al-
l'ispirazione religiosa cristiana della tradizione platonico-agostiniana, Tom-
maso d'Aquino sostiene la necessità di un incontro del pensiero cristiano
con l'aristotelismo che egli si sforza di liberare dalle sovrastrutture del neo-
platonismo di derivazione ellenistico-araba; ma l'aristotelismo, interpretato
alla luce dei commenti di Averroè, è anche alla radice dell'atteggiamento di
Sigieri di Brabante e dei suoi colleghi della Facoltà delle arti di Parigi,
i quali sono contrari ad ogni concordismo di fede e ragione, del genere di
quello sostenuto da Tommaso d'Aquino e promuovono invece un metodo
di ricerca che comporta la piu rigorosa separazione dei due campi, il reli-
gioso e il filosofico. Infine l'indirizzo oxoniense degli studi scientifici trova
in Ruggero Bacone un esponente illustre, che è anche convinto della ne-

Baruch_in_libris
§ I IL PERIODO

cessità di legare strettamente fra loro il monJo della fede e il mondo della
scienza e il dominio della natara Ja parte dell'uomo. Questi contrastanti in-
dirizzi di pensiero non raggiungono una situazione di equilibrio, ma sono
portati ciascuno al livello piu intenso ed alto di eiaborazione dottrinale; per
questo si può dire che la seconda metà del secolo xm costituisce un periodo
decisivo per lo sviluppo della filosofia scolastica.
Elemento importante dello sviluppo culturale e filosofico è, anche per
questo periodo, l'opera dei traduttori; si traducono molti scritti arabi i~
latino, ma aumentano specialmente le traduzioni condotte direttamente sui
testi greci; il maggiore traduttore dal greco è il frate domenicano Guglielmo
di Moerbeke (1215-1286); per quallto concerne in particolare Aristotele, si
può dire che ormai tutti i suoi scritti sono noti, mentre parecchi di essi
risultano tradotti direttamente dal greco; per molti di essi, si è anche a co-
noscenza di commenti, sia greci che arabi. Man mano che si afferma l'indi-
rizzo di pensiero tomista, la chiesa attenua la sua avversione alle dottrine
aristoteliche, anche se ciò non avviene senza contrasti; l'opposizione eccle-
siastica si rivolge allora contro l'averroismo, cioè contro quel movimento di
pensiero che accentuava nell'opera dello Stagirita i motivi piu apertamente
contrari alla tradizione religiosa; una prima condanna dell'averroismo viene
pronunciata dal vescovo di Parigi Stefano Tempier nel 1270; nel' 1277 lo
stesso vescovo pubblica un elenco di 219 proposizioni che vengono formal-
mente censurate; in tale elenco non si trovano soltanto proposizioni espri-
menti dottrine averroistiche, ma anche tesi aristoteliche ed alcune enuncia-
zioni ricavate dagli scritti di Tommaso d'Aquino; la chiesa non considera
dunque con tutta tranquillità l'indirizzo concordista di Tommaso d'Aquino,
che incontrò anzi resistenze e critiche molto tenaci.
La diffusione del pensiero aristotelico porta notevoli innovazioni anche
nell'ordinamento degli studi universitari; a Parigi i maestri della Facoltà
delle arti, che prima si limitavano all'insegnamento della dialettica, esten-
dono ora il loro studio alla fisica, alla metafisica ed alla morale di Aristotele;
ma i maestri della Facoltà di teologia sono preoccupati dell'opposizione che
tale studio può fomentare nei confronti delle verità di fede; di qui una parti-
colare insistenza dei maestri di teologia nel dibattere le questioni del rap-
porto tra fede e ragione e dei limiti dell'indagine razionale; i maestri della
Facoltà delle arti sostengono, invece, che le conclusioni alle quali essi per-
vengono debbono intendersi come puramente filosofiche, nel senso che esse
muovono da principi filosofici e sono ricavate con procedimenti filosofici;
le verità della fede sono di natura diversa ed i maestri delle arti non hanno
difficoltà ad accoglierle, non tuttavia come verità filosofiche; è cosf che prende
piede un atteggiamento di netta opposizione ad ogni concordismo di fede
e ragione e di rigorosa distinzione dei due campi; non era difficile, partendo
da tale atteggiamento, conferire un valore eminente all'indagine scientifica

293

Baruch_in_libris
LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XX

e filosofica, considerando con disprezzo ogni altro tipo di discorso, com-


preso quello dei teologi; infatti una delle proposizioni condannate nel 1277
suonava cosf: «i discorsi dei teologi riposano su favole»; cd un'altra di-
ceva: « I veri saggi di questo mondo sono solo i filosofi». L'inserimento
del sistema aristotelico nella cultura filosofica occidentale provoca cosf,
oltre a tentativi cli realizzare una sintesi di aristotelismo e cristianesimo, anche
un'accentuazione dell'autonomia della ricerca filosofica che, se non vuole
eliminare le verità di fede, non vuole nemmeno rinunciare ad un'indagine
scientifica indipendente in omaggio alla fede. Il platonismo era stato ormai
pienamente amalgamato con· il pensiero cristiano sia per opera dei Padri
greci come particolarmente per opera di Agostino; svolgendo la propria
indagine all'interno della tematica platonica, il pensiero cristiano dei secoli
precedenti non si era mai trovato di fronte ad un'alternativa cruciale nei
confronti della fede, come ora toccava proprio ai seguaci dell'aristotelismo;
né questa seconda grande operazione di assimilazione del pensiero greco
ebbe la stessa fortuna della prima; si può dire anzi, che, nonostante la
grande sintesi dottrinale costruita da Tommaso, è stato proprio l'incontro
del pensiero cristiano con Aristotele che ha determinato la crisi da cui ha poi
tratto inizio il pensiero moderno.

2. Bonaventura.
Bonaventura impersona nella seconda metà del secolo xm la tradi-
zione agostiniana e si contrappone non solo ai maestri della Facoltà
delle arti che sostengono una rigorosa separazione della filosofia dalla f e-
de, ma anche dal tentativo tomistico di inserire il pensiero aristotelico nel-
la tradizione cristiana. Nato nel 1221 nei pressi di Viterbo, entra nell'or-
dine fraµcescano, studia a Parigi sotto la guida di Alessandro di Hales
e quindi vi insegna teologia dal 1248 al 1255; creato generale dei
francescani, muore nel 1274; il suo pensiero è raccolto in un commento
alle Sentenze ed in numerosi opuscoli, dei quali il piu noto reca il
titolo di ltinerarium mentis in Deum. Punto di partenza di ogni filo-
sofia è, per Bonaventura, la verità della fede; la dottrina di Aristotele
è la prova degli " errori " in cui può cadere la filosofia quando muova
dalla ignoranza della fede cristiana. « Dal non buon uso della ricerca
filosofica, scrive, procedono gli errori presso i filosofi; un primo errore
è quello di porre il mondo come eterno, il che è pervertire tutta !a
Scrittura che dice che in principio Dio creò il cielo e la terra; un secondo
errore si ha quando si pone che tutte le cose provengono dalla necessità;

Baruch_in_libris
§ 2 BONAVENTURA

esso si fonda sopra il mito delle stelle ed annulla il libero arbitrio cd


il valore della croce di Cristo; un terzo errore riguarda l'unicità del-
l'intelletto umano, in quanto si sostiene che l'intelletto è unico per
tutti; secondo questo errore non vi è differenza nel merito e nel pre-
mio se una stessa è l'anima di Cristo e del traditore Giuda; e tutto
ciò è eretico». Tuttavia Bonaventura non si limita alla semplice affer-
mazione dei principii della fede ed elabora, ricavandole dalla tradi-
zione, quelle dottrine di origine filosofica che gli sembrano piu con-
grue con il dettato religioso; egli accoglie anche qualche motivo del-
l'indirizzo aristotelico, ma inquadrandolo negli schemi di ispirazione
platonico-agostiniana che gli paiono piu conformi alla fede cristiana.
Anzitutto un legame molto stretto unisce tutta la realtà a Dio; il
reale non può cioè essere considerato per se stesso, come fornito di
un significato autonomo; non è pertanto possibile studiare la realtà
prescindendo da Dio di cui essa è " segno "; il naturalismo aristo-
telico è quindi da respingere; «il mondo, creatura di Dio, scrive, è
come un libro in cui risplende, si rappresenta e si legge la Trinità
che ne è la creatrice, secondo un triplice grado di espressione, cioè
per modo di vestigio, di immagine e di similitudine; la ragione di
vestigio si trova in tutte le creature e sotto questo aspetto viene rife-
rito a Dio ogni suo effetto; la ragione di immagine si trova nelle sole
creature intellettive e sotto questo riguardo viene riferito a Dio ogni
intelletto; la ragione di similitudine si trova nelle sole creature deiformi
(cioè negli spiriti giusti e santi) e sotto questo rispetto viene riferito a
Dio ogni spirito che sia giusto ed a lui accetto». Di fronte a questa visione
teocentrica dell'universo, ogni distinzione di campi della realtà ed ogni
analisi naturalistica sono prive di fondamento; infatti Bonaventura, nel
suo opuscolo dal titolo Reductio omnium artium ad theologiam so-
stiene appunto che tutte le forme della scienza profana debbono obbe-
dire alle finalità poste dalla religione e dalla teologia; ciò vale sia per le
scienze filosofiche come per le arti meccaniche. Il processo della cono-
scenza umana ha infatti il suo punto fermo in alto, .in Dio, da cui
procede l'opera di illuminazione dell'intelletto e non in basso, nella
sensazione. « Per la conoscenza certa, afferma, si richiede necessaria-
mente la ragione eterna che serva da regola e da movente; infatti non
c'è conoscenza certa se non di un conoscibile immutabile; dunque

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XX

nella conoscenza è necessario far ricorso alla ragione suprema come


a luce che dona infallibilità al soggetto conoscente »; se Aristotele ha
ragione di notare che la conoscenza si genera in noi per la via dei sensi,
della memoria e dell'esperienza, ciò vale per il discorso della scienza
che concerne «le cose-inferiori» e solo con riferimento alla condizione
imperfetta in cui l'uomo si trova nella vita.presente; ma 1< il discorso ddla
sapienza » che riguarda le « cose superiori » deve poggiare di necessità
sulle idee e sulle ragioni eterne. Per la stessa ragione Bonaventura
ritiene che l'esistenza di Dio sia una verità per se stessa evidente.
Il punto nel quale piu apertamente Bonaventura si accosta ad Aristo-
tele è quello dei principii di materia e forma quali componenti degli
esseri finiti; esso gli serve per porre con chiarezza la distinzione fra
Diç> e le creatl!-re; ma quanto al fare della materia il principio per
cui un individuo si differenzia dagli altri della stessa specie, il maestro
francescano non segue piu Aristotele, ma si attiene ad una concezione
pili spiccata ed attiva dell'individualità, facendola risalire non agli
accidenti, ma all'unione attuale dei principii, ove la forma esercita
tutto il suo peso. Nell'insieme, Bonaventura mostra di essere a cono-
scenza dell'aristotelismo, anche se non crede che si debba assumerlo a
criterio di verità; se non condivide il tentativo di Tommaso d'Aquino
di inserire profondamente alcuni temi aristotelici nel pensiero cristiano,
non assume nemmeno un atteggiamento di pregiudiziale negazione ri-
spetto ad Aristotele; egli ne accetta alcune dottrine a chiarimento della
condizione di decadenza in cui l'uomo si trova nella vita presente;
ma questa condizione di decadenza va intesa nel i.uo giusto senso
alla luce della fede, che apre al di sopra del mondo naturale la prospet-
tiva di un mondo soprannaturale; è proprio questo mondo superiore,
teorizzato da Agostino, che permette di intendere nel modo giusto
anche ,il mondo della natura, che ne risulta trasfigurato; il naturalismo
aristotelico è da respingere proprio perché limita la considerazione
umana ad un solo aspetto del reale, che è poi quello meno importante.

3. Alberto Magno.
Alberto dei duchi di Bollstadt vive fra il 1206 cd il 1280; appartiene
all'ordine domenidmo ed è maestro di teologia a Parigi dal 1245 al

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s3 .tt.BERTO MAGNO

1248; è in questo periodo che ha tra i suoi scolari Tommaso d'Aquino;


nella sua giovinezza si applica principalmente agli studi teologici
scrivendo una Summa de creaturis ed un commento alle Sentenze;
nell'ultima parte della sua vita, preso da compiti pratici per conto della
chiesa e del suo ordine, incomincia a scrivere. una Summa theologica
che restò incompiuta; il periodo centrale della sua attività è quello che
egli dedica, dal 1245 al 1260, a scrivere il suo commento alle opere
aristoteliche ed a comporre i piu importanti dei suoi studi di argomento
scientifico. Rispetto alle opere di Aristotele, Alberto vuol fare per i
latini ciò che Averroè aveva fatto per gli arabi: e·sporre, chiarire,
completare tutte le sue dottrine; e lo fa dedicando a ciascuno degli scritti
aristotelici un'opera sua di commento e di integrazione. Fra gli scritti
di carattere scientifico si devono ricordare un De vegetalibus et plantis,
un De animalibus e un De mineralibus; in queste opere Alberto uti-
lizza la letteratura precedente e la arricchisce con molte osservazioni
nuove; se i risultati ai quali egli perviene non rivestono un rilievo
scientifico effettivo, soprattutto a causa della mancanza di adatti pro-
cedimenti metodici e teorici, è certo che non ·Si poteva fare molto di
piu entro i confini segnati dall'aristotelismo che il dotto domenicano
assume a inquadramento della sua ricerca scientifica.
Alberto prende aperta posizione contro coloro che confondono la
filosofia con la teologia; ((le cose teologiche, scrive, non si accordano
nei loro principii con le cose filosofiche, poiché la teologia è fondata sulla
rivelazione e sull'ispirazione, non sulla ragione; noi non possiamo dun-
que discutere in filosofia di questioni teologiche»; con eguale vivacità
critica coloro che, 11 da ignoranti, vogliono combattere con tutti i mezzi
l'uso della filosofia»; si tratta di suoi confratelli domenicani che 1< come
animali bruti, vanno bestemmiando ciò di cui sono ignoranti».
Proprio del filosofo è «dire quello che dice in base a ragionamento»;
ora lo spirito umano non ha conoscenza (( se non dei principii che con-
tiene in se stesso», mentre «della Trinità, dell'incarnazione e della
risurrezione da un punto di vista puramente naturale, non St può
avere conoscenza alcuna». Lo stesso attcggi:1mento egli estende anche
alle scienze particolari: « Quando c'è disaccordo fra loro, scrive per
esempio, bisogna prestar piu fede ad Agostino che ai filosofi in ciò
che concerne la fede ed i costumi; ma se si trattasse di medicina, io

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L\ SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XX

presterei piu credito ad Ippocrate o a Galeno che ad Agostino; e se


si tratta di fisica è ad Aristotele che bisogna prestare maggiore credito,
perché egli conosce meglio la natura».
Tuttavia l'aristotelismo cui si richiama Alberto, non soltanto nella
fisica ma nell'insieme delle sue dottrine filosofiche, è quello elaborato dagli
arabi, principalmente da Avicenna e da Averroè; è quindi un aristote-
lismo a sfondo neo-platonico, in cui si inserisce una concezione ma-
gico-astrologica dell'universo. Circa la questione dell'eternità del mondo,
per es., e dell'opposta credenza cristiana nella creazione divina, Al-
berto dichiara che « nessuna di queste due opinioni può essere dimo-
strata » e che « esse si possono soltanto sostenere con ragioni probabili »;
la validità della dottrina della creazione può essere riconosciuta jn sede
teologica; ma, in filosofia, essa può essere sostenuta solo con ragioni
probabili, perché la fisica si riferisce al mondq_ che già esiste e non
può quindi pronunciarsi sulla creazione che avrebbe preceduto tale
esistenza. Soltanto ragioni probabili si possono addurre anche a favore
della creazione da parte di Dio sia delle sfere celesti che del loro ordi-
namento; ma altrettante ragioni si possono addurre anche a sostegno
della tesi di Avicenna, secondo la quale le sfere celesti sono emanate
da Dio per tramite delle Intelligenze separate. Nell'affrontare la que-
stione tanto dibattuta dell'unità dell'intelletto, Alberto non manca di
esporre tutti gli argomenti che si era soliti addurre dagli averroisti
contro la teoria dell'appartenenza di un intelletto distinto a ciascun
individuo; e conclude che «solo perché supponiamo come provata,
per un altro verso, l'immortalità delle anime razionali, le quali restano
molteplici dopo la morte, siamo portati ad ammettere che l'anima
razionale ed intellettuale si moltiplica secondo il numero degli individui »;
il che significa, pare, che nessuna delle due tesi in contrasto si può
filosoficamente dimostrare, mentre ragioni di probabilità si possono
addurre a favore di entrambe. Nel complesso della sua opera, Alberto
pone principalmente l'accento su temi di derivazione neo-platonica e
di ispirazione averroista quali l'eternità del mondo, le intelligenze
motrici dei cieli, la materia quale principio di individuazione, l'unità
degli intelletti in quanto intelletti; egli si sente piu vicino, insomma,
agli arabi che alle «formule dei dottori latini»; anche le sue ricerche
scientifiche particolari si inquadrano in quella visione magko-astrolo-

Baruch_in_libris
§ 3 ALBERTO MAGNO

gica dell'universo che era stata appunto codificata nella rielaborazione


che la cultura araba aveva fatto della tradizione neo-platonica.

4. Tommaso d'Aquino: il rapporto fra fede e ragione.


Nato nel 1225 ad Aquino, nella zona di Caserta, da famiglia nobile,
Tommaso studia dapprima all'università di Napoli e poi, vestito l'abito
domenicano, a Parigi ed a Colonia; viene proclamato maestro di teo-
logia a Parigi nel 1259; nel decennio che va dal 1259 al 1268 continua
il suo insegnamento in Italia; il periodo piu maturo del suo insegna-
mento a Parigi coincide con gli anni 1269 - 1272; segue un breve periodo
di insegnamento all'università di Napoli, interrotto dalla morte, av-
_venuta nel 1274. Agli anni che precedono immediatamente il 1259
risale la composizione del commento alle Sentenze e di alcuni trattati
minori; durante il decennio trascorso in Italia, Tommaso mette mano,
seguendo l'esempio di Alberto, ad un commento generale delle opere
di Aristotele; egli si preoccupa non solo di chiarire e discutere le dot-
trine aristoteliche, ma anche di sceverare con rigore il genuino pen-
siero aristotelico dalle sovrapposizioni di derivazione neo-platonica;
per questo appunto sollecita la collaborazione del confratello Guglielmo
di Moerbeke e si giova del diretto riscontro sul testo greco da lui com-
piuto; i testi aristotelici commentati da Tommaso sono j seguenti:
De lnterpretatione, Analitici secondi, Fisica, Metafisica, Etica, De ani-
ma, Meteore, De coelo, De generatione, Politica. All'inizio del decennio
italiano risale anche la composizione della Summa contra gentiles che
ha l'intento di dimostrare la verità della fede cristiana ai mussulmani
che non accettano la verità della rivelazione; è appunto in questa Summa
che l'indagine filosofica viene particolarmente sviluppata da Tommaso,
tanto che essa viene di solito considerata come la Summa filosofica,
rispetto all'altra opera di Tommaso, maggiore di mole, che reca il
titolo di Summa theologica; questa viene composta nel periodo che
va dal 1265 al 1273 e restò incompiuta; durante l'ultima permanenza
a Parigi Tommaso compone il De unitate intellectus contra ave"oistas.
Tommaso è per la netta distinzione fra il campo della filosofia e
quello della fede e della teologia; la ragione, come sta ad attestare Ari-
stotele, può svolgere un insieme organico di conclusioni rigorosamente

Baruch_in_libris
LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XX

dimostrate; la fede risale invece all'autorità di Dio e della chiesa e si·


concreta in una adesione in cui la volontà spinge l'intelletto a dare
il suo assenso alla parola divina; la ragione non ha motivo di rinun-
ciare a svolgere le sue dimostrazioni, né la fede ha ragioni per pre-
tendere una simile rinuncia; i due carppi debbono dunque rimanere
distinti ed obbedire ciascuno ai suoi criteri specifici. Tuttavia, al li-
mite, esiste ii problema dell'incontro tra ragione e fede; infatti i
dogmi della fede, pur non avendo un fondamento filosofico, sono
0

del tutto certi ed indubitabili, pertanto " veri "; pur essendo dunque
diversi i metodi della filosofia e della teologia, questi due campi deb-
bono, alla fine, costituire una sola verità; dal punto di vista di quest'uni-
c~ verità, la ~~de si avvantaggia rispetto alla ragione, in quanto la
fede non può errare in ·alcun modo, mentre la ragione, che è normal-
mente strumento valido per giungere alla verità, può anche cadere in
errore; quando dunque una proposizione filosofica ottenuta mediante
il ragionamento contraddice un'asserzione di fede, si può _senz'altro
concludere che l'errore sta dalla parte della filosofia; cosi la filosofia
ha nella fede uno strumento per controllare e regolare, dall'esterno, i
suoi risultati; Tommaso tien fermo che si tratta di un controllo e di
una direzione dall'esterno, tali quindi che non possono prescindere
dall'intrinseco cd autonomo operare della ragione; ma tien fermo anche
al fatto che si tratta di un controllo e di una direzione effettivi, senza
di che si cadrebbe nel ricon~scimento di una doppia verità. Sicché
la teologia muove dalla rivelazione e scende verso la ragione, analiz-
zando il dogma cd aprendolo all'analisi razionale, per quanto possibile;
la filosofia ha da un lato il compito di criticare le dottrine filosofiche
che contraddicono i dati della fede e dall'altro quello di sviluppare ra-
zionalmente gli elementi intellegibili della fede, di salire con la ragione
verso la fede. La filosofia ha pertanto un'autonomia formale e metodica,
che Tommaso ritiene anche sostanziale; infatti. egli pensa che la ra-
gione possa giungere al suo incontro con la fede senza un intervento
intrinseco di quest'ultima; non si tratta, ovviamente, di una identi-
ficazione di fede e ragione, ma di un accostamento che lascia sussi-
stere la fede nella sua irriducibilità a valori razionali; tuttavia la ra-
gione conduce molto avanti nel cammino della fede, alla quale può
positivamente apriÌ'e la via. Pur tenendo fermi i valori della fede, Tom-
300

Baruch_in_libris
TOMMASO o' AQUINO: FEDE E RAGIONE

maso avverte in modo rilevante il peso della dottrina aristotelica come


indagine razionale; per questo lato egli si accosta all'atteggiamento
degli averroisti; ma si stacca da essi perché non identifica senz'altro
Aristotele con la ragione; ritiene anzi che lo sviluppo normale del ra-
gionamento filosofico porti, in alcuni punti, a conclusioni diverse da
quelle aristoteliche.

5. L'aristotelismo di Tommaso e la dimostrazione dell'esistenza


di Dio.
«L'oggetto proprio dell'intelletto umano, scnve, è la natura del
reale sensibile, non separata cioè dalla realtà sensibile; perciò, quello
che costituisce l'oggetto del nostro intelletto non è qualche cosa di esi-
stente fuori delle realtà sensibili, come pretendevano i pbtonici, ma
esistente in quelle; e ciò anche se l'intelletto apprende tali quiddità in
modo diverso da quello in cui si trovano nelle cose o dati sensibili,
cioè per mezzo dell'astrazione; l'oggetto proprio dell'intelletto non è
qualsiasi ente o vero, ma solo l'ente ed il vero considerati nelle realtà
materiali, e dai quali può assurgere ad una certa conoscenza delle
realtà invisibili». Fra Platone ed Aristotele, è il secondo che, a giudizio
di Tommaso, ha ragione: «Secondo l'opinione di Platone, egli osserva,
non soltanto le sostanze immateriali vengono da noi conosciute, ma
sono anche da noi conosciute per prime; infatti Platone ha posto le
forme immateriali sussistenti che chiamava idee come oggetti propri
del nostro intelletto; e cosi in via primaria e per se stesse esse ven-
gono conosciute da noi e tuttavia la conoscenza si applicherebbe poi
alle cose materiali, in quanto all'intelletto si mescolano la fantasia
ed il senso. Ma secondo il punto di vista di Aristotele, di cui abbiamo
piu esperienza, il nostro intelletto secondo lo stato naturale della vita pre-
sente ha riferimento alle nature delle cose materiali, per cui non intende
nulla se non volgendosi ai fantasmi; ed allora è chiaro che non possiamo
conoscere in via primaria e secondo il modo di conoscenza che noi
sperimentiamo le sostanze immateriali che non cadono sotto i sensi e
l'immaginazione»; a coloro che mettono avanti l'afferma2ione di Ago-
stino secondo la quale « la mente umana conosce mediante i sensi le
e
cose corporee per mezzo di se stessa le cose incorporee», Tommaso

301

Baruch_in_libris
LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XX

risponde che l'anima, dalla conoscenza che ha di se stessa non può


trarre una conoscenza perfetta delle realtà spirituali, anche se può
trarne una conoscenza indiretta e parziale. Tanto meno si può so-
stenere, secondo Tommaso, che Dio sia la prima realtà che viene cono-
sciuta dalla mente: «Se l'intelletto umano, scrive, secondo lo stato
della vita presente non può comprendere le sostanze immateriali create,
molto meno può intendere l'essenza della sostanza increata; piuttosto
noi giungiamo alla conoscenza di Dio indirettamente per mezzo delle
creature». La conoscenza che l'anima ha di se stessa non ci consente,
come riteneva Agostino, di giungere fino a Dio; infatti l'anima non
conosce la propria essenza, ma soltanto i propri atti; non per la via
dell'autocoscienza si può dunque giungere a Dio, ma solo «per simi-
litudinem ejus in creaturis resultantem »; Dio è da noi conosciuto
«in uno specchio », non direttamente; cioè non conosciamo Dio, ma
una sua " similitudo " e questa viene ricavata non già da Dio imme-
diatamente, ma da una cosa diversa nella quale viene colta, proprio
come quando non vediamo direttamente una persona, ma una sua
immagine cogliendola soltanto nello specchio.
Si comprende allora perché Tommaso non accetti la prova dell'esi-
stenza di Dio addotta da Anselmo : « Chi ode pronunciare il nome
di Dio, egli osserva, non comprende che con esso venga significato
qualche cosa di cui non si possa pensare nulla di maggiore; infatti ci
sono di quelli_ che credono che Dio sia corpo; dato anche che ognuno
intenda che con questo nome, Dio, venga significato ciò di cui non
si può pensare nulla di piu grande, non segue per questo che intenda
che ciò che viene significato dal nome esista in realtà; lo può infatti
intendere soltanto nell'apprendimento dell'intelletto; né si può arguire
che esista in realtà se non si concede che esista nella realtà qualche
cosa di cui non si può pensare nulla di piu grande; e ciò non è certo
concesso da parte di coloro che sostengono che Dio non esiste ». Vi
sono due generi di dimostrazione : quella che si fa per mezzo della
causa e si dice "propter quid" e quella che si fa per mezzo dell'ef-
fetto e si dice "quia "; la prima muove da ciò che viene prima per
sé, la seconda da ciò che viene prima rispetto a noi; nel caso di Dio,
è possibile soltanto la seconda dimostrazione, in quanto gli effetti di
Dio sono a noi piu noti ddla loro causa, cioè di Dio stesso; che Dio

Baruch_in_libris
s5 LA DIMOSTRAZIONE DELL' ESISTENZA DI DIO

esista, insomma, non è cosa nota per se stessa, ma è cosa che si può
dimostrare per mezzo degli effetti di lui che ci sono noti; questi poi
non sono proporzionati alla causa e pertanto non ci possono dare di
essa che una conoscenza imperfetta.
Premesse tutte queste limitazioni, Tommaso propone cinque vie per
dimostrare che Dio esiste. La prima si rifà al movimento, cioè al. di-
venire interpretato con Aristotele come passaggio dalla potenza all'atto;
tale passaggio presuppone un essere in atto, giacché se l'atto per cui
qualcosa diviene, a sua volta diviene, bisognerà risalire ad un altro atto
che spieghi questo secondo passaggio da potenza ad atto; bisogna in-
fine giungere ad un primo movente che, essendo atto, non sia in potenza,
e questi è Dio. La seconda via considera il mondo sotto il profilo della
dipendenza efficiente d'una cosa da un'altra; l'ordine che si riscontra
nel mondo è appunto quello per cui un primo termine è causa effi-
ciente di un termine ultimo; questo sistema chiuso della dipendenza
efficiente non cambia se i termini medi, invece di uno, sono molti;
quello che importa è che il sistema sia chiuso; se non lo è, è la stessa
dipendenza efficiente che sfuma; non si potrà allora farla risalire ad
una serie infinita di cause efficienti; e Dio è appunto il primo termine
che realizza la chiusura e quindi la consistenza del processo causativo
verso l'alto. La terza via è la seguente: ci sono cose che possono esi-
stere e non esistere; le chiamiamo possibili o non-necessarie; queste
hanno cominciato ad essere e prima non erano; ma ciò non può esser
avvenuto se non in forza di cose che già esistevano; dire che anche
queste e tutte le cose sono non-necessarie vorrebbe dire far risalire il
tutto al nulla e quindi non spiegare le cose che ora ci sono; bisogna
invece porre un essere necessario da cui derivano le cose possibili;
Dio è appunto l'essere necessario che non deriva da altro la causa della
sua necessità. La quarta via prende a modello la dipendenza causale di
ciò che ha piu o meno di una qualità, dalla stessa qualità nel suo grado
piu alto; per es., il fuoco che è caldo al massimo grado è causa di tutti
i gradi maggiori o minori di calore; e Dio si può intendere anche
come causa che possiede nel grado piu alto le perfezioni che negli esseri
finiti assumono gradi maggiori o minori. La quinta via, infine, poggia
sul rilievo che alcuni corpi naturali che non hanno conoscenza ope-
·rano secondo un fine; ciò. significa che essi tendono ad un fine solo

Baruch_in_libris
LA SECONDA MBTÀ DEL SBCOLO XIII CAP. XX

perché sono diretti da qualche essere che ha conoscenza cd intelli-


genza; Dio è appunto quell'essere che ordina ad un fine tutte le cose
della natura. In conclusione, tutto quello che intorno a Dio possiamo
sapere dai suoi effetti è che egli è: ente che non diviene, primo ter-
mine dcl processo chiuso dell'efficienza, essere necessario la cui ne-
cessità non dipende da altri, il grado piu alto delle qualità, primo
ordinatore intelligente delle cose. t facile vedere che il divario fra il
Dio filosofico di Tommaso e il Dio della tradizione religiosa cristiana
è rilevante; infatti ente che non diviene era anche il Dio di Aristo-
tele che non crea il mondo, ma è solo fine immobile di un mondo
eterno; il Dio che è primo termine di un processo chiuso dell'efficienza
non è ancora rtecessariamente creatore del processo, di cui è soltanto
causa; la concezione di Dio come ente necessario si accorda anche con
il. determinismo di tutto il reale. Ciò porta appunto Tommaso a col-
mare, almeno in parte, tale divario con un'analisi approfondita del-
l'aristotelismo che lo riporta piu vicino al mondo religioso cristiano.
Il cristianesimo si differenzia dalla filosofia greca soprattutto su due
punti: l'affermazione del monoteismo contro il politeismo e l'origine
dcl mondo per creazione anziché per emanazione necessaria; secondo
Tommaso, entrambi questi punti ~i possono dimostrare razionalmente.
All'esistenza di un solo. Dio si giunge in base alla sua semplicità, per
cui in lui non v'è una natura che sia comunicabile a piu individui, in
secondo luogo in base all'infinità della sua perfezione(« se vi fossero piu
dèi, bisognerebbe che differissero l'uno dall'altro e all'uno di essi con-
verrebbe ciò che non conviene all'altro; ma allora la perfezione man-
cherebbe ad uno di essi »), e infine in base al fatto che l'ordine ehe si
riscontra nel mondo è unitario e postula pertanto l'unità della fonte da
cui proviene. Circa la creazione del mondo Tommaso procede cos{:
anzitutto chiarisce che Dio, essendo atto puro, non è composto di ma-
teria e forma; negli esseri che risultano di materia e forma, l'individua-
zione si ottiene mediante la determinazione dell'essenza da parte
della materia, per cui la natura o essenza da un lato e la sostan-
za individua dall'altro differiscono; ma dove manca la composizione
di materia e forma, come nel caso di Dio, la forma si individua
per se stessa « cioè la sua stessa forma è una sostanza individua sus-
S:Stente »; quindi Dio è la sua stessa natura; ma Dio non può avere

Baruch_in_libris
LA DIMOSTRAZIONE DELL' ESISTENZA DI DIO

un essere distinto dalla sua natura, perché allora sarebbe causato;


perciò la natura di Dio è l'essere stesso ( « sua igitur essentia est suum
esse »); Dio è insomma l'essere stesso come forma che si individua come
sostanza. Tutte le cose diverse da Dio « non sono il loro stesso essere »;
in esse vi è composizione, non coincidenza, di essenze ed essere; quindi
esse partecipano l'essere, ma non sono l'essere; allora è nccessarfo clic
esse siano causate da Dio; la creazione è appunto il modo con il quale
Dio causa gli esseri; la creazione, come origine della totalità dell'essere
non può essere che « cx non ente » ; creare è « cx nihilo aliquid facerc »;
si può perciò dimostrare razionalmente che « non essendoci nulla ncl-
1'universale complesso degli esseri che non sia causato da Dio, non è sol-
tanto possibile, ma è necessario che tutte le cose siano create da Dio»; an-
che la materia prima, che i filosofi antichi avevano considerato estranea
alla produzione divina, deve dunque ritenersi creata; le forme delle cose
procedono anch'esse da Dio, per cui primo esemplare di tutto è Dio
stesso e non qualche realtà da lui distinta cd a lui esterna. Fermo
restando che la creazione dcl mondo si può dimostrare, Tommaso
aggiunge per un lato che non si può dimostrare che· necessariamente il
mondo sia sempre esistito (anche gli argomenti addotti in tale senso
da Aristotele sono solo probabili) e per l'altro che solo per fede si può
affermare che il mondo non è sempre esistito, mentre nemmeno questo
punto si può dimostrare in modo rigoroso. Che il mondo sia eterno non
comporta affatto che non sia creato; il mondo, essendo creato, potrebbe
essere sempre esistito o avere avuto inizio nel tempo; solo questo
secondo punto non si può dimostrare.

6. Il naturalismo di Tommaso; l'etica e la politica.


Il naturalismo di Tommaso traspare anche nella concezione dcl
mondo e della sua stabilità. Questa poggia, dal punto di vista teorico,
sulla dottrina dell'analogia fra Dio e le creature; l'analogia è intermedia
fra l'univocità e la equivocità; la univocità fra l'essere di Dio e quello
delle creature comporterebbe la sostanziale adeguazione dell'ordine delle
cose alla infinita virru divina; ne seguirebbe che le cose non hanno un
loro piano autonomo di .consistenza, ma si risolvono in una espressione
della stessa realtà divina; l'equivocità fra l'essere di Dio e quello delle

305
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP • .XX

creature farebbe di essi due mondi del tutto estranei e renderebbe im-
possibile salire dal secondo al primo, anche con le cautele e i limiti in-
trodotti da Tommaso; invece il porre fra Dio e le creature un rapporto
di analogia significa rendere possibile il passaggio dalle creature a Dio,
tenendo però ben ferma la realtà delle creature come avente una sua
struttura autonoma e specifica; Dio e le creature hanno relazione all'es-
sere, ma si tratta di relazioni diverse, di diverse proporzioni; non c'è
una realtà unica, di cui Dio e le creature siano modi; ci sono per
contro due diverse proporzioni rispetto all'essere e la loro diversità
non viene cancellata dal fatto che si tratta, in entrambi i casi, di pro-
porzioni rispetto all'essere. L'autonomia della natura è consolidata dal
fatto che, secondo Tommaso, l'esistenza, pur essendo distinta dall' es-
senza, non è estrinseca ad essa; non è che l'esistenza sopraggiunga, co-
me un accidente, alle essenze, già pienamente reali per se stesse; l'esi-
stenza condiziona l'essenza, in quanto non abbiamo altra conoscenza
delle essenze che come esistenti; il reale è fatto di essenze concretate e
reali, non di essenze pure,· immediatamente legate con il principio pri-
mo; l'individualità delle sostanze fa della loro concreta esistenza un
fatto specifico e stabile; il mondo pertanto non è, per Tommaso, un
evanescente flusso di strutture ideali dissolventesi in Dio, ma è un cor-
poso mondo di sostanze individue, dalla struttura stabile e ben radi-
cata. Le forme stesse non vengono considerate come continuamente
trapassanti~ l'una nell'altra in una scala dinamica di sviluppo che, pene-
trando tutto il mondo, lo sottrae ad ogni rigida determinazione; esse
sono, per c:ontro, strumenti fissi di determinazione e principii concreti
di effettiva esistenza; ogni essere non è cosi aperto al flusso di una
pluralità di forme, ma è legato alla sua forma che gli dà reale unità e
reale autonomia. Il principio dell'individualità porta Tommaso a con-
siderare l'anima come forma del corpo, quindi facente con esso un'unica
realtà; e appunto per difendere l'individualità dell'operazione del co-
noscere, egli esclude un intelletto unico per tutti gli uomini, facendo
dell'intelletto agente un aspetto dell'attività conoscitiva propria di cia-
scuna anima individua; non si sottrae però all'esigenza religiosa della
immortalità dell'anima, che egli ritiene di poter dimostrare filosofica-
mente; l'anima, egli afferma, è un principio incorporeo e sussistente in
quanto né è corpo, né compie le sue operazioni per mezzo di un organo

Baruch_in_libris
§ 6 IL NATUJ!,ALISMOj L' ETICA E LA POLITICA

corporeo; proprio per questo essa può sussistere, anche quando il corpo
sia distrutto, pur conservando sempre una attitudine ed un'inclinazione
naturale all'unione con il corpo.
L'etica di Tommaso si ispira ad un'analoga distinzione fra l'am-
bito naturale e quello religioso: «la felicità o beatitudine dell'uomo,
egli scrive, è duplice: una è quella proporzionata alla natura umana e
ad essa l'uomo può pervenire mediante i principii della natura; l'altra
è una beatitudine che eccede la natura dell'uomo e ad essa l'uomo può
giungere soltanto per virru divina, secondo una certa partecipazione
della divinità; e poiché siffatta beatitudine supera la proporzione della
natura umana, i principii naturali dell'uomo, dai quali egli muove per
agire bene secondo la proporzione che gli è propria, non sono sufficienti
a inserire l'uomo nell'ordine della predetta beatitudine; e allora bisogna
che siano concessi in piu da Dio all'uomo alcuni principii mediante i
quali egli sia ordinato alla felicità soprannaturale, al modo stesso in cui
mediante i principii naturali è ordinato ad un fine n~turale; questi
principii si dicono virru teologiche, sia perché hanno Dio per oggetto,
sia perché vengono infuse in noi da Dio, sia perché sono indicate sol-
tanto dalla rivelazione nella Scrittura». Né il sovrapporsi di un ordine
soprannaturale a quello naturale toglie significato a quest'ultimo: « Dio
muove tutti gli esseri, scrive Tommaso, secondo il modo di ciascuno di
essi, cosi come nella fisica vediamo che muove diversamente il pesante
ed il leggero, in base alla loro natura; ora, l'uomo, in base alla propria
natura, partecipa del libero arbitrio (cioè del libero giudizio sui mezzi
da scegliere per conseguire un fine); pertanto il movimento verso la
giustizia che in lui deriva da Dio non ha luogo senza un movimento
del libero arbitrio ».
Anche la dottrina politica di Tommaso è governata dal criterio che
distingue il diritto divino che deriva dalla grazia, dal diritto umano
che nasce dalla ragione naturale; il diritto umano regola e disciplina le
inclinazioni naturali che hanno, al pari della natura fisica, una loro
autonomia rispetto al superiore mondo religioso: « Anzitutto inerisce
all'uomo l'inclinazione al bene che ha in comune con tutte le sostanze e
tende alla conservazione del suo essere; perciò appartengono alla legge
naturale tutti i mezzi che conservano la vita dell'uomo; in secondo
luogo c'è nell'uomo l'inclinazione ad oggetti che ha in comune con gli

307
Baruch_in_libris
LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XX

altri animali e pertanto appartengono alla legge naturale l' unione dei
sessi e l'educazione dei figli; in terzo luogo c'è nell'uomo l'inclinazione
a ciò che è proprio della sua natura razionale, cioè alla conoscenza della
verità e al vivere in società; perciò l'evitare l'ignoranza, il non offendere
gli altri con cui convive e simili appartengono alla legge naturale »; la
legge naturale è il criterio per la formazione della legge positiva; que-
sta « tende principalmente ad ordinare il bene comune »; perciò il fare
la legge spetta « o a tutta la moltitudine, o a qualcuno che faccia le
veci di tutta la moltitudine ». Il rapporto che Tommaso istituisce fra
la chiesa ed il potere politico rispecchia il rapporto di dipendenza e di
distinzione ad un tempo che investe tutto l'ordine naturale; come la
fede istruisce la ragione sui suoi errori, lasciando poi alla ragione di
rendersi conto di essi, cosi è il magistero della chiesa che indica quale
è il vero bene da conseguire, anche se poi spetta all'ambito propria-
mente politico di elaborare in sede propria la via che ad essb conduce.
Due sono, in conclusione, i caratteri salienti della dottrina tomista:
lo sviluppo autonomo della ricerca filosofica pur concluso in un risul-
tato di concordanza nei rapporti tra fede e ragione e un chiaro indirizzo
realistico e naturalistico nella visione del mondo. Circa il primo punto
Tommaso avverte con gli averroisti l'importanza dell'indagine razionale
autonoma, anche se, contro il metodo da essi seguito, ritiene che la
-ragione naturale concordi con i dogmi della fede e compie ogni sforzo
in tale direzione; quanto alla visione del mondo, Tommaso introduce
nel pensiero cristiano un atteggiamento antitetico a quello della tradi-
zione platonico - agostiniana; gli esponenti di quest'ultima non possono
che condannare una visione della realtà che, a loro avviso, allontana
Dio dall'uomo e dal mondo e prospetta la fede solo come termine inte-
grativo d'una natura in se stessa sussistente e determinata.
Gli avversari della dottrina di Tommaso cl' Aquino sono molti già
nella seconda me.tà del secolo xm; fra di essi si possono ricordare in parti-
colare: Enrico di Gand maestro secolare a Parigi nel 1277, Matteo
d'Acquasparta generale dci francescani nel 1287, Giovanni Peckam che
compie gli studi di teologia a Parigi e muore nel 1292, Pier Giovanni
Olivi capo dei francescani spirituali morto nel 1298; gli oppositori di
Tommaso appartengono sia all'università di Parigi che a quella di
Oxford, all'ordine dci francescani come a quello dei domenicani (tra

308

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§ 6 IL NATUll.ALISMOj L' ETICA ! LA POLITICA

questi è da ricordare quel Roberto Kilwardby che ad Oxford, nel 1277,


fece condannare alcune tesi tomistiche). Le critiche rivolte al pensiero
di Tommaso riguardano principalmente i seguenti punti: contro la
tesi aristotelico - tomista che pone il centro del processo conoscitivo
nell'astrazione, insistono nel ritenere _che soltanto l'illuminazione divina
può conferire all'intelletto la certezza delle sue operazioni conoscitive;
contro la critica tomistica all'argomento a priori per dimostrare l'esi-
stenza di Dio, accettano l'argomento di Anselmo; contro la tesi tomi-
stica dell'unicità della forma che garantisce l' unità dei concreti esseri
individui, gli oppositori sostengono la pluralità delle forme, sia per
staccare l'anima dalle funzioni corporee che sembrano sminuirla, sia
per far risalire l'unità degli esseri alla diretta iniziativa divina e non ad
una rigida compagine naturale; contro la tesi tomista che l'essenza non
può essere reale che unitamente all'esistenza, essi vogliono che l'essenza
sia un oggetto possibile dell'azione divina e che quest'ultima sia sciolta
dal vincolo fisso che l'individualità esistente può determinare; contro
l'etica di Tommaso si chiarisce il ruolo preminente della volontà rispetto
all'intelletto. L'opposizione si esprime anche sul terreno delle dottrine
politiche, dove alla maggiore autonomia del potere politico rispetto al
potere spirituale teorizzata da Tommaso, Egidio Romano (1243-1316),
pur seguendo l'Aquinate in altre dottrine, contrappone una rigida
ripresa dell'integralismo agostiniano.

7. La Falcoltà delle arti a Parigi e Sigieri di Brabante.


Nella Facoltà delle arti a Parigi hanno grande incremento gli studi di
logica; a circa la metà del secolo xm risalgono infatti alcuni manuali di
questa disciplina; il piu noto di essi è dovuto a Pietro Ispano (divenuto
poi papa Giovanni XXI e morto nel 1277). L'indirizzo linguistico e for-
male che già Abelardo aveva dato agli studi di logica viene ora accen-
tuato, nel senso che sempre piu sistematicamente questa disciplina studia
le strutture e le regole formali del discorso; in tale direzione si compiono
dei passi in avanti rispetto ai risultati consegnati nell'Organon aristote-
lico. Per es., si distingue la funzione denotativa della parola (cioè la
funzione per cui essa si riferisce a qualche cosa di reale) e la sua
funzione designativa (cioè la funzione per cui la parola si rifrriscc a

Baruch_in_libris
LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. IX

concetti); la prima funzione si chiama supposttto m quanto la parola


sta nella proposizione per la tale o tal'altra cosa e la seconda significatio.
Particolare rilievo assume altres1 la trattazione delle cosi dette pro-
prietates terminorum, ossia della capacità denotativa dei termini non-
ché dei modi in cui un termine può riferirsi a ciò che denota; è la
discussione di quella parte della logica che oggi si chiama semantica.
Nella Facoltà delle arti prende anche grande sviluppo la ricerca filo-
sofica autonoma; ciò non avviene sempre in odio alla teologia o col
proposito di contrastare le proposizioni della fede; spesso si vuole solo
ribadire che il método della filosofia va svolto e seguito coerentemente,
senza interferenze di carattere esterno; ma è proprio con tale metodo
che vengono svolte e sostenute delle proposizioni in aperto contrasto con
la fede.; i maestri· della Facoltà delle arti seguono, nel formulare tali
dottrine, varie fonti filosofiche: Aristotele o Averroè o altri autori arabi;
ed ecco le dottrine che ne risultano: l'affermazione di un unico intelletto
per tutti gli uomini, il valore necessitante dell'influsso degli astri sul
comportamento degli uomini, l'eternità del mondo, l'ignoranza delle
cose singole da parte di Dio e la negazione della provvidenza. Fra i
maestri delle arti occupa un posto di avanguardia, in questo periodo,
Sigieri di Brabante; egli vive dal 1240 al 1284 e viene condannato nel
1277. Nei suoi scritti Sigieri svolge parecchie dottrine che, come quelle
suaccennate, sono contrarie alla fede; ma il metodo che intende seguire
non è quello di contrapporre verità filosofiche e verità di fede, quanto
quello di sviluppare in qualità di esegeta imparziale le dottrine di Ari-
stotele in base allo sviluppo della ragione naturale. « Il nostro compito
principale, scrive, non è quello di cercare quale sia la verità intorno
all'anima, ma quale sia stata l'opinione del Filosofo intorno ad essa; noi
procediamo filosoficamente e quindi cerchiamo piu l'intendimento dei
filosofi che non la verità ». « Il punto di vista di Aristotele, ribadisce
Sigieri, non deve essere celato da parte di coloro che hanno assunto il
compito di esporre i suoi libri, anche se tale punto di vista è contrario
alla verità; né alcuno deve tentare di sottoporre a ricerca razionale ciò
che supera la ragione; e nessuno d'altra parte deve negare la verità
cattolica in base a delle ragioni filosofiche »; queste ultime espressioni
fanno ritenere che Sigieri insistesse particolarmente sulla netta distin-
zione dei due campi e sulla confusione che poteva nascere da un'ille-

JIO

Baruch_in_libris
IIGIERI DI BllABANTB

gittima interferenza di competenze. Ed ecco quello che scrive un disce-


polo di Sigieri, Boezio di Dacia, intorno alla questione dell'eternità del
mondo : « È stolto chiedere dimostrazioni in cose che per sé non am-
mettono una ragione; chi fa cosi, cerca ciò che non si può trovare; non
voler credere a tali cose senza ragione è da eretici; quindi volendo
mettere d'accordo il punto di vista della fede cristiana circa l'eternità
del mondo con quello di Aristotele e degli altri filosofi finiremmo per
incorrere nella stoltezza di cercare una dimostrazione dove.essa non è pos-
sibile e di cadere nell'eresia di non voler credere ciò che si deve ritenere
per fede; quello che si ritiene in quanto è conclusione di ragioni non è
tanto fede, quanto piuttosto scienza». L'atteggiamento di Sigieri, favo-
revole ad una rigorosa distinzione fra l'ambito della sdenza e quello
della fede (senza che ciò comporti necessariamente alcuna avversione
alla séconda) è evidentemente in aperto contrasto sia con la posizione
della filosofia religiosa dei francescani sia con quella concordistica di
Tommaso.

8. Il platonismo cristiano di Ruggero Bacone.


Nato intorno al 1214 in Inghilterra, Ruggero Bacone si forma ad
Oxford alla scuola di Roberto Grossatesta; insegna quindi a Parigi nella
Facoltà delle arti e intorno alla metà del secolo torna ad Oxford; entrando
nell'ordine francescano lascia l'insegnamento mentre il suo lavoro di
studioso incontra impedimenti sia nella severità della regola conventuale,
sia nel sospetto con cui i superiori considerano la sua cultura profana;
soltanto nel 1266, quando papa Clemente IV che gli è amico lo sollecita
a sottoporgli il frutto delle sue ricerche ed il suo vagheggiato progetto
per la riforma degli studi, Bacone è preso da un vero entusiasmo scien-
tifico e stende, in pochi mesi, i suoi tre scritti piu rilevanti che recano
il titolo, rispettivamente, di Opus maius, di Opus minus e di Opus ter-
tium. Il frate francescano ha in animo di comporre una grande enciclo-
pedia delle scienze che dia un piu moderno contenuto alla visione reli-
giosa del suo tempo; di essa dovevano far parte la grammatica e la
logica, la matematica e la fisica, la metafisica e la morale; ma il disegno
completo non fu mai realizzato e gli scritti di Bacone ne svolgono solo
i motivi salienti. Bacone compone anche parecchi brevi trattati di com-

Jll

Baruch_in_libris
LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XX

mento ad Aristotele e altri ne dedica allo sviluppo originale di singole


questioni di logica, di matematica, di astronomia ed astrologia, di mec·
canica, di ottica, di alchimia, di geografia e di medicina. In tutti questi
scritti utilizza la sua conoscenza del greco, dell'ebraico e dell'arabo e
sfrutta le sue molte letture; ma l'originalità di Bacone consiste princi-
palmente nella battaglia che conduce per un profondo rinnovamento
della cultura e per un ampio avanzamento della ricerca scientifica. La
reazione della cultura ufficiale non si fa attendere; già nel 1277 alcune
delle proposizioni condannate dal vescovo di Parigi riguardano l'astro-
logia e paiono riferirsi alle ricerche di Bacone; poi segue una condanna
da parte dell'ordine francescano i cui esponenti avvertono nell'opera di
Bacone « alcune novità sospette »; il frate fu tenuto in prigione, pare,
dal 1278 fino al 1292, anno probabile della sua morte.
La dottrina teologico - filosofica in cui Bacone inquadra il suo piano
di rinnovamento scientifico è quella platonico - agostiniana, che Tom-
maso combatte proprio per la sua refrattarietà a fondare un naturalismo
abbastanza articolato; cosr in Bacone il naturalismo scientifico ha alla
sua base un misticismo religioso che gli conferisce una tonalità etica ed
escatologica tutta particolare. Egli ignora la dottrina tomistica della distin-
zione fra ragione e fede e si richiama piuttosto all'antica tesi agostiniana
della Bibbia quale centro ispiratore della cultura: « C'è una scienza,
scrive, che domina tutte le altre: la teologia; essa rivendica a sé il domi-
nio e tutte le altre stanno al suo cenno ed al suo comando; vi è una sola
sapienza perfetta, quella che è contenuta totalmente nella Sacra Scrit-
tura; infatti ogni considerazione umana che non sia intesa alla salvezza
è piena di cecità ed alla fine conduce alle tenebre infernali». Però «alla
teologia sono assolutamente necessarie tutte le altre scienze » e la stessa
« esposizione della verità rivelata da Dio si ottiene per mezzo di tali
scienze »; il cristiano deve certo « interessarsi di tutto il resto in vista
della fede », ma deve anche « percorrere fino in fondo i sentieri della
scienza».
A fondamento della conoscenza umana sta l'illuminazione divina:
« A causa delle difficoltà cui va incontro la nostra mente, è certo, affer-
ma Bacone, che l'uomo fino a quando non godrà la visione beatifica, non
conoscerà mai nulla con certezza perfetta; perciò delle verità che riguar-
dano Dio e molti segreti della natura e dell'arte è necessario che l'uomo

JU

Baruch_in_libris
s8 JlUGGEJlO llACONE

riceva l'intelligenza da Dio mediante l'esperienza di una illuminazione


interiore ». Bacone identifica l'intelletto agente con Dio, contro tutti
11 quei maestri moderni i quali dicono che l'intelletto agente, che agisce

sulle nostre anime e le illumina, è parte dell'anima »; c'è bensl un'espe-


rienza dei sensi con cui 11 possiamo sperimentare attraverso applica-
zioni di verifica le cose di questo mondo»; ma << quest'esperienza non
basta tuttavia all'uomo; occorre allora· che l'intelletto umano sia aiutato
con illuminazioni interiori che vengono da Dio e dalla grazia ».

9. II rinnovamento religioso e lo sviluppo della scienza.


Strumento principale per l'instaurazione del regno di Dio, al quale
ci può portare soltanto l'esperienza religiosa, è, per Bacone, la scienza;
infatti « tutto quello che c'è di bello, di conveniente, di utile, di stupendo
per l'uomo sotto ogni punto di vista, tutto si può acquistare con la
scienza». Le prospettive future di essa vengono cosi divinate: « Si pos-
sono costruire mezzi per navigare senza rematori, si possono costruire
carri che si muovano senza cavalli con una forza meravigliosa, si pos-
sono costruire macchine per volare.; si può anche costruire uno stru-
mento di piccole proporzioni capace di alzare ed abbassare pesi di gran-
dezza quasi infinita, si possono fare congegni per camminare nei mari
e nei fiumi, sino a toccarne il fondo, senza pericolo per il corpo ». Ma,
per ottenere simili risultati, bisogna seguire, nella ricerca, un metodo
preciso: << Bisogna che ciò che precede nell'ambito d'una disciplina si
sappia prima di quel che segue e le cose pili facili si studino prima di
quelle pili difficili e i principii generali prima dei principii particolari,
le cose di minor conto prima di quelle di maggior peso »; bisogna anche
che « gli studiosi si applichino a cose scelte ed utili, poiché la vita uma-
na è breve, e che la scienza sia impartita con assoluta certezza in modo
da non lasciare dubbi e con tutta chiarezza, in modo da togliere ogni
oscurità»; appunto a quest'effetto bisogna far ricorso all'esperienza;
« infatti, spiega Bacone, sebbene noi possiamo acquistare cognizioni in
tre modi, per autorità, per ragionamento e per esperienza, tuttavia l'au-
torità non persuade se non è giustificata dalla ragione e non dà l'intel-
ligenza d'una cosa, ma la fede; all'autorità infatti crediamo, ma non è
per essa che noi comprendiamo; la ragione a sua volta non può distin-

jlj

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XX

guere fra un sofisma ed una dimostrazione se non siamo in condizione


di mettere la conclusione alla prova dei fatti ». La dimostrazione ci fa
accettare una conclusione, ma soltanto la conferma dell'esperienza ce
ne rende certi: « Se un uomo che non ha mai visto il fuoco dimo-
strasse con buoni argomenti che il fuoco brucia e rovina e distrugge le
cose, non avverrà mai che per questo chi l'ascolta resti pienamente soddi-
sfatto ed eviti il fuoco prima di accostare la mano ad esso, in modo
da provocare per esperienza quel che gli insegnava il ragionamento ».
Vera esperienza è però quella che consente la conoscenza dei fatti unita-
tamente a quella della loro causa o ragione; anche alla dimostrazione ma-
tematica bisogna che si accompagni l'esperienza. Al completo sviluppo
della scienza si oppongono però rilevanti ostacoli che Bacone cosi illustra:
« Sono quattro principalmente gli ostacoli alla visione perfetta della realtà,
ostacoli in cui si imbatte ogni studioso e che a stento permettono a qual-
cuno di giungere a meritarsi davvero il titolo di sapiente; e sono: l'esem-
pio di un'autorità fragile e non meritevole, la consuetudine, il modo di
sentire della gente comune ed il nascondere la propria ignoranza osten-
tando una apparenza di sapere; a qualsiasi disciplina uno si dedichi, teo-
retica o commerciale, tira sempre la stessa conclusione in base a tre pessi-
mi argomenti: cioè, questo è stato detto dai maggiori, questo è sem-
pre stato in uso, questo lo dicono tutti, quindi è vero».
Le varie scienze non si possono coltivare l'una indipendentemente
dalle altre; infatti le scienze sono « tutte connesse fra loro». Vi sono
però delle scienze-chiave che condizionano lo sviluppo di tutte le al-
tre: prima di esse è la grammatica, cioè la conoscenza delle lingue
straniere: « è impossibile, osserva Bacone, che i modi di dire proprii
di una lingua si ritrovino in un'altra e perciò non è possibile tradurre
ciò che è bene espresso in una lingua in un'altra lingua »; allora per
intendere la Scritturi bisognerà conoscere l'ebraico e per intendere la
filosofia bisognerà conoscere il greco, l'ebraico e l'arabo. Viene poi la
matematica, in cui « è possibile giungere ad una verità completa sen-
za errore e ad una certezza universale senza ombra di dubbio, poiché
ad essa conviene procedere per dimostrazioni a priori, per mezzo di cau-
se proprie e necessarie »; nelle altre scienze, « se non si ricorre al-
i 'aiuto della matematica, restano tante e tante opinioni che riesce im-
possibile districarsene »; e ciò perché in natura si ha il generarsi cd il

Baruch_in_libris
IL RINNOVAMENTO RELIGIOSO

corrompersi delle cause e degli effetti; in essa manca quindi. quella ne-
cessità che si ha invece nella matematica. Anche la metafisica può gio-
varsi solo di dimostrazioni che risalgono dagli effetti alle cause e non am-
mette quindi dimostrazioni a priori; insomma « soltanto nella mate-
matica ci sono dimostrazioni nel vero senso della parola e quindi solo
nell'ambito e in virru della matematica l'uomo può giungere alla ve-
rità ». Appunto per questo bisogna usare, se possibile, nelle altre scien-
ze, le esperienze delle figure e dei numeri, mediante le quali « tutto
può essere verificato». L'ottica che occupa per Bacone un posto emi-
nente fra le scienze fondamentali, è la scienza della vista che « ci mostra
tutta la varietà delle cose »; la sua forza sta appunto nel fatto che, in
essa, « quasi ad ogni passo occorre servirsi di linee, di angoli e di fi-
gure geometriche». Quarta nell'ordine viene la scienza sperimentale,
della quale Bacone fa una disciplina a sè: «Essa è l'unica scienza in
grado di conoscere perfettamente, mediante la prova dei fatti, quello
che può avvenire naturalmente e quello che si può fare artificialmente »;
essa «mette alla prova dei fatti le conclusioni delle altre scienze» e svi-
luppa la conoscenza degli avvenimenti passati, presenti e. futuri. La
quinta delle scienze-chiave è quella che Bacone chiama filosofia morale;
essa tratta «di quel che è necessario per la vita terrena e per la vita
eterna »; infatti « le altre scienze, sebbéne alcune siano ordinate al-
i' agire, si dice che sono teoriche, per il fatto che si occupano delle opere
dell'arte e della natura, non delle azioni, ed indagano la verità delle
cose e delle realizzazioni scientifiche, che appartengono all'intelletto spe-
culativo »; invece l:;i filosofia morale si occupa di ciò che è di compe-
tenza dell'intelletto pratico, «cioè dell'agire umano in quanto buono
o cattivo».
Il fine religioso presiede a tutto lo sviluppo della scienza che trova
coronamento in una scienza dei fini che disciplina l'intero sapere uma-
no. t alla luce di queste vedute che Bacone critica aspramente i vari
indirizzi culturali del suo tempo. Ad Alessandro di Hales rimprovera
l'ignoranza delle scienze naturali « nelle quali è riposta tutta la glo-
ria dei moderni »; critica Alberto Magno perché « ignora le lingue, non
conosce l'ottica, non sa nulla di interessante nel campo delle scienze»;
critica la formazione che si impartisce nei conventi, perché i giovani
che vi vengono cresciuti « non conoscono né se stessi, né il mondo »

315
Baruch_in_libris
LA SECONDA METÀ DEL SECOLO Xlii CAP. XX

e pretendono di applicarsi allo studio della teologia e della filosofia,


senza coltivare tutte le scienze che lo rendono concreto e proficuo. Alla
comprensione della realtà naturale la cultura della seconda metà del se-
colo xm arriva dunque per due vie molto diverse: da un lato vi giun-
ge attraverso un rinnovato aristotelismo che conferisce alla realtà na-
rurale una struttura piu determinata ed autonoma rispetto al mondo
religioso ed alla stessa iniziativa divina, dall'altro vi perviene attraverso
una visione piu mistica e diretta della relazione di Dio col mondo ed
interpretando lo sforzo dell'uomo di penetrare nel segreto della na-
tura come ispirato e guidato da un superiore fine religioso.

10. Raimondo Lullo.


La figura di Raimondo Lullo (1235-1315) presenta delle analogie con
quella di Ruggero Bacone, sia perché entrambi si muovono sul terreno
della tradizione platonico-agostiniana, sia perché entrambi mirano ad
un grande rinnovamento religioso dell'umanità ed alla conversione di
tutto il mondo mussulmano al cristianesimo. Nato a Maiorca, Lullo si
dedica interamente alla conversione degli arabi, la cui lingua e cultura
conosce da vicino; il periodo piu importante della sua vita è quello
che va dal 1265 in avanti; esso è tutto dedicato all'insegnamento uni-
versitario, ad un'intensa attività di propaganda per il suo piano di rinn0-
vamento religioso; sono numerosissimi gli scritti da lui composti; i piu
importanti sono quelli che raccolgono i suoi studi di logica ed illustra-
no quel metodo generale del sapere ché Lullo indica col nome di " ars
magna"; il piu noto di questi reca il titolo: Ars compendiosa inve-
niendi veritatem. Lullo compone anche molti scritti di carattere religioso,
per la conversione degli infedeli; in altri, di carattere apologetico, egli
applica il suo metodo logico per dimostrare le verità di fede; a tutto
ciò, si debbono aggiungere scritti di pedagogia, di fisica, di matematica
ed astronomia, di medicina. Negli ultimi anni della sua vita, Lullo ri-
volge parecchi attacchi contro gli averroisti parigini, nelle cui dottrine
egli ravvisa la negazione di quell'unità della scienza che sta al cen-
tro dei suoi interessi.
Per conquistare i mussulmani alla verità religiosa bisogna, secondo
Lullo, svolgere un'opera apologetica che si ispiri ad un metodo chiaro,

116

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§ IO RAIMONDO LULLO

efficace ed unitario. L'unità del metodo è fornita dalla fede che ispira
tutto il mondo della conoscenza e della scienza. Se, però, da un lato
senza la luce della fede è impossibile avere la conoscenza adeguata
del mondo creato, dall'altro bisogna che la prospettiva della fede trovi
il piu pieno sviluppo in una sistematica conoscitiva rigorosa che possa
valere per tutti gli uomini e che possa condurli tutti alla stessa salvezza.
Il mondo è come il libro nel quale l'uomo trova la manifestazione della
realtà che lo trascende; esso è imitazione di un ordine superiore al
quale rinvia; tutta l'azione che l'intelletto umano conduce per conoscere
il mondo acquista il valore di una adeguazione ad un modello eterno;
perciò da un lato la ricerca della verità diviene senz'altro ricerca di bio,
dal!' altro la ricerca di Dio si configura come ricerca del!' ordine reale del
mondo. L'ars magna di cui Lullo esalta l'importanza è «una scienza
generale per tutte le scienze, tale che, nei suoi principii generali, siano
contenuti i principii di tutte le scienze particolari, cosi come il particolare
è contenuto nell'universale ». Lullo ritiene che ogni proposizione si possa
risolvere nei termini di cui risulta; ed i termini, che già non siano sem-
plici, si possono risolvere nei termini semplici di cui sono composti;
ora, se si riuscisse a fare un elenco completo di tutti i termini semplici,
sarebbe possibile ottenere, combinandoli insie·me in tutte le maniere
possibili, tutte le verità possibili. Lullo non è però alla ricerca soltanto
degli elementi primi e semplici di una lingua universale; i termini che
egli ricerca sono gli elementi primi della realtà e del pensiero ad Ù.n
tempo; i termini sono perciò i principii reali e tutti gli esseri sono im-
pliciti in essi o risultano dalla loro combinazione. La struttura ddla
realtà, per quanto complessa, si può insomma ridurre ad una combi-
nazione di elementi semplici; una volta che questi siano individuati,
è per mezzo del calcolo che si potrà giungere a scoprire tutti i segreti
della natura. I termini semplici del reale sono, secondo Lullo, evidenti
per se stessi e quindi noti a tutti, senza contrasti e contestazioni; la loro
conoscenza diviene allora la chiave universale per intendere la realtà.
L'intera enciclopedia delle scienze si può cosi ridurre ad unità e si
può svolgere in base al calcolo matematico. Questo calcolo, per l'evi-
denza dei suoi fondamenti, vale tanto per il cristiano che per gli in-
fedeli; ed anche il contenuto della fede può essere presentato con tale
rigore logico da renderne necessaria l'accettazione da parte di chiun-

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XX

que. Il presupposto ddla costruzione lulliana è che la stessa realtà


sia stata creata da Dio secondo l'ordine del· semplice e del composto;.
sulla base di tale persuasione platonico-pitagorico-agostiniana Lullo co-
struisce uno strumento logico che costituisce il primo abbozzo di una
logica matematica. Il misticismo religioso con Lullo diviene iniziatore
di un procedimento logico-razionale di comprensione della realtà, cosi
come con Bacone promuove lo sviluppo e l'incremento del metodo speri-
mentale.

11. Lo sviluppo delle scienze.

Nella seconda metà del secolo xm, gli sviluppi delle scienze risultano,
almeno in parte, strettamente legati ai dibattiti filosofici piu generali; ciò
va detto in particolare per Ruggero Bacone e per Raimondo Lullo, oltre
che per altri minori. È vero che si diffonde, in questo periodo, anche
l'astrologia e che ·spesso le conoscenze scientifiche sono ripetizioni di
motivi e dottrine tradizionali; ma in Occidente si compiono anche notevoli
passi verso una sistemazione piu rigorosa di parecchi settori dell'indagine
scientifica. I piu noti astrologi del tempo sono degli italiani: Gherardo da
Sabbioncta, Bartolomeo da Parma e Guido Bonatti di ForH; ma, accanto
all'astrologia, viene· coltivata anche l'astronomia; a questo proposito, si de-
linea anzi un contrasto abbastanza vivo fra le teorie astronomiche di To-
lomeo e quelle di Aristotele e si tende a sostituire al sistema tolemaico di
epicicli e di eccentrici, il sistema aristotelico delle sfere omocentriche, sia
pure con delle correzioni; lo strumento principale di questa rivolta contro
il sistema tolemaico è la dottrina astronomica dell'arabo-ispano Alpctragio,
in cui si muovono critiche a Tolomeo facendo appello al principio applicato
da Aristotele, secondo il quale dall'unico movente che è il primo cielo deve
derivare un unico movimento anche nelle sfere; in verità, l'opposizione anti·
tolemaica di questo periodo è ispirata piu da motivi astratti che da ricerche
astronomiche effettive; essa è collegata alla rinascita aristotelica dell'Occi-
dente e ben presto viene arginata da un ritorno quasi generale cd incon-
trastato al sistema tolemaico. Nel campo della matematica, il primato è de-
gli Arabi, anche se va ricordata la nuova traduzione latina con commento
degli lj:lementi di Euclide curata da Giovanni Campano da Novara. Piu am-
pi sviluppi avvengono nell'ottica, anche in relazione al primo use> delle lenti
che probabilmente ebbe un avvio, per quanto imperfetto, nell'Italia setten-
trionale verso la fine dcl secolo; la trattazione teorica relativa trac i primi
spunti dagli scritti arabi in argomento, ai quali si vengono tuttavia ag-
giungendo osservazioni e teorie nuove; il trattato sulla prospettiva di Witclo,

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§ II LO SViLUPPO DELLB SCIENZB

composto fra il 1270 ed il 1278, è l'opera pili importante in materia, senza


dire di quanto in proposito ha scritto Ruggero Bacone. L'accresciuto inte-
resse per il controllo attivo della natura da parte dell'uomo reca progressi
sensibili anche nella tecnica e nella teorizzazione meccanica; si stu<lia la
natura della forza, specialmente di quella che agisce a distanza, nonché il
modo di propagarsi dell'azione nello spazio; si hanno i primi abbozzi della
teoria dell'impetus, cioè di quella forza che deve spiegare il movimento di
un corpo, una volta che esso sia staccato e distante dalla causa che ha dap-
prima provocato il movimento; intanto Guglielmo di Moerbeke traduce dal
greco in latino il trattato di Archimede sui corpi galleggianti, dal quale
traggono incitamento, specie fra gli Arabi, gli stuqi di idraulica. Gli svi-
luppi della tecnica per lavorare il vetro, specialmente progredita a Venezia
ed a Murano, influiscono sull'evoluzione della chimica; ed altrettanto va
detto per la scoperta della polvere da sparo e per quella delle acque medi-
camentose; in questo periodo i trattati di alchimia sono almeno altret-
tanto numerosi dei trattati di astrologi:i; gli uni e gli altri contengono pre-
ponderanti elementi tradizionali, ma contengono anche osservazioni e mcr
tivi che hanno la loro origine nella piu diffusa pratica tecnica del tempo.
La geografia si avvantaggia sia dei piu frequenti viaggi di scoperta che
vengono organizz:iti, sia delle mappe o carte di paesi e di continenti che
vengono spesso allegate a trattazioni o specificamente scientifiche, o anche
generalmente culturali (basti ricordare, ad es., la mappa allegata da Ruggero
Bacone al suo Opus maius e invi:ita al papa); la seconda metà del secolo ~III
vede il viaggio di Marco Polo in Mongolia, nonché le esplorazioni dei fra-
telli Vivaldi; ai viaggi che hanno ragioni commerciali e diplomatiche, si
aggiungono i viaggi missionari e per scopi religiosi; nei romanzi di Lullo
l'esplorazione di territori sconosciuti diviene argomento di appassionanti nar-
razioni. Ad alcuni capitoli dell'indagine scientifica reca un impulso notevole
l'ampliata conoscenza dell'opera aristotelica; ciò vale, ad es., per la zocr
logia e per la botanica; vicino al commento sulla zoologia aristotelica di
Pietro Ispano ed agli studi di storia naturale di Alberto Magno, si deve ri-
cordare lo Speculum naturale di Vincenzo di Beauvais che è una vera
enciclopedia di scienze naturali comprendente estratti ricavati da un numero
rilevante di opere latine, greche, arabe ed ebraiche. L'astrologia estende il
suo controllo, in questo periodo, anche sulla medicina; si ha infatti un
indirizzo di medicina astrologica, che, schiacciata sotto il peso della sua
armatura teorica, riesce a compiere solo scarsi progressi pratici; d'altra parte,
i medici di questo periodo continuano a rifarsi alle opere degli antichi,
scrivendo su di esse commentari e commentari di commentari, senza per
tersi rifare efficacemente ad una rinnovata esperienza; di qui il prevalere
della letteratura in medicina e l'enorme importanza attribuita alle tradu-
zioni di tutto il materiale disponibile nelle varie lingue; con maggiore vi-

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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIII CAP. XX

vacità lo studio della medicina viene coltivato a Bologna, sia per l'influsso
della locale scuola giuridica che spinge anche la medicina a formulare con
criteri logici piu rigorosi le sue proposizioni, sia per il probabile inizio che
ivi ha la dissezione dei cadaveri con Taddeo Alderotti; per questa via infatti
ci si mette in condizione di accrescere con osservazioni dirette le conoscenze
attinte dai libri degli antichi. Se si aggiunge che in questo periodo assume
notevole importanza anche la trattazione della politica, soprattutto sotto
l'influsso della corrispondente opera aristotelica e che la filologia trac in-
cremento specialmente dalla maggiore diffusione cd organizzazione dello
studio delle lingue, si potrà avere un'idea abbastanza completa delle dire-
zioni di ricerca della scienza del tempo. Essa è attraversata da un nuovo
impulso di conquista che, se ha radici schiettamente religiose, produce già
i suoi primi effetti sul terreno della tecnica e dello sviluppo civile e sociale.

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CAPITOLQ XXI

La prima metà del secolo xtv


DA DUNS SCOTO A GUGLIELMO D'OCCAM

1. Il periodo.
La prima metà del secolo xiv si inizia con il tentativo di papa Bonifa-
1io VIII di ridurre all'obbedienza il re di Francia; la battaglia per la teo-
crazia trova la sua giustificazione nella bolla Unam sanctam in cui si legge~
«La spada spirituale e la spada materiale sono l'una e l'altra nella potestà
della chiesa; la spada materiale deve essere impiegata per la chiesa, mentre
quella spirituale dev'essere usata dalla chiesa; questa è nella mano del sa-
cerdote, quella nella mano del re e dei guerrieri, ma sotto la direzione
del sacerdote; se dunque la potestà terrena fuorvia, essa sarà giudicata 4alla
potestà spirituale; perciò chiunque resiste alla potestà spirituale, resiste al-
l'ordine medesimo di Dio». Ma col fallimento della politica di Bonifacio
VIII il potere universale della chiesa volge inesorabilmente al declino men-
tre si va ormai diffondendo, anche all'interno dell'organismo ecclesiastico,
l'esigenza di smantellare il potere accentrato del papa anche in campo reli-
gioso, a vantaggio di un governo collegiale dei vescovi; pochi anni dopo la
morte di Bonifacio VIII ha inizio ad Avignone l'asservimento del papato alla
politica francese; la chiesa passa cos( dal sogno teocratico alla soggezione
reale. L'altro potere universale del Medioevo, quello imperiale, subisce ana-
logo declino; dopo l'estremo tentativo di Enrico VII di conservare all'impe-
ro un effettivo ambito europeo, la corona imperiale si lega sempre piu ad
un territorio delimitato e ad una particolare dinastia. Al posto dei due po-
teri universali del Medioevo sottentrano, con strutture sempre piu valide,
gli Stati indipendenti, all'interno dci quali giunge a piena esplicazione
la nuova classe sociale dei mercanti; matura cosi l'età pre-capitalistica; la
ascesa della borghesia è alle sue prime manifestazioni, ma già abbozza i
principali strumenti del suo controllo sulla politica degli Stati nazionali.
La cultura è ancora, in gran parte, ecclesiastica; ma essa è attraversata da
contrasti profondi, mentre comincia a svolgersi al suo fianco una cultura
laica che sfugge sempre piu apertamente al controllo religioso.

J21

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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIV CAP. XXJ

La filosofia della prima metà dcl secolo xiv è tutta dominata da un con-
cetto rigoroso della stessa filosofia come scienza, concetto che deriva in mas-
sima parte dall'approfondimento delle dottrine aristoteliche; prevale allora
la convinzione che non si possa a proprio piacere estendere il ragionamento
filosofico fino alla dimostrazione delle piu importanti verità di fede; queste
ultime vengono accolte non già in forza del loro fondamento razionale, ma
in quanto basate esclusivamente su un atteggiamento di fede nella ri-
velazione di Dio; cosf la fede accentua la sua indipendenza dall'aristo-
telismo, e la h.losofia viene individuando i confini e i limiti della propria
validità; con intenti e caratterizzazioni diverse, giungono a tale conclu-
sione i due maggiori pensatori dell'epoca, Duns Scoto e Guglic:lmo d'Occam;
è quasi lo spirito dell'averroismo che viene cosf trasferito all'interno della
stessa problematica religiosa e nella considerazione dci rapporti fra filo-
sofia e fede, da parte degli stessi teologi.

2. Giovanni Duns Scoto: fede e ragione.


Giovanni Duns Scoto vive dal 1265 al 1308; nato in Scozia, entra
ancor giovane nell'ordine francescano, compie i suoi studi in parte ad
Oxford ed in parte a Parigi; anche il suo insegnamento si svolge dap-
prima all'università di Oxford e poi,, in due riprese, a Parigi, rispetti-
vamente dal 1301 al 1303 e dal 1305 al 1307; muore in età di appena
42 anni a Colonia, dove da poco era stato istituito uno studio francescano.
Poiché il culmine dell'attività speculativa di Duns Scoto coincide con
gli anni che vanno dal 1297 al 1308, si può giustamente considerare la
sua filosofia come quella che apre, ai suoi inizi, il Trecento. L'opera
principale di Duns Scoto reca il titolo di Opus o:coni~nse e contiene la
sostanza del suo pensiero, quella che potrebbe dirsi la sua summa theo-
logica; ad essa vanno aggiunti pochi scritti di logica ed alcuni impor-
tanti commenti ad opere aristoteliche. Due punti principali determinano
la direzione generale del suo pensiero : il primo riguarda le possi-
bilità della filosofia come costruzione della ragione naturale, rispetto
alla fede ed alle sue verità; Duns Scoto non nutre la fiducia di Tom-
maso d'Aquino nella possibilità di un incontro fra fede e filosofia; egli
ritiene che la filosofia svolta secondo i suoi propri principii finisca per
concretarsi nelle vedute di Aristotele e di Avicenna e quindi in un com-
plesso di dottrine notevQlmente remote rispetto al risultato della fede;

Baruch_in_libris
§ 2 DUNS SCOTQ: FEDE E RAGION.E

le questioni filosofiche, d'altra parte, non vanno in alcun .modo c9nfuse


con le questioni religiose; se si fa questa confusione, per un lato si
ottiene una filosofia falsata nel suo procedimento, e per l'altro, anche
cosi, non si arriva in alcun modo ad un risultato religiosamente valido.
Si tratta, in sostanza, del punto di vista degli averroisti, sostenuto ora
non piu dall'angolo visuale della Facoltà delle arti e quindi della filo-
sofia, ma da quello della teologia.
Il secondo punto importante riguarda la concezione della filosofia
come scienza rigorosa. Duns Scoto tende a restringere l'ambito della
filosofia a ciò che si può conoscere con procedimento rigorosamente di-
mostrativo, secondo che è definito dalla logica aristotelica. Tommaso
aveva distinto due tipi di prova, la dimostrazione a priori e quella a
posteriori; pur ritenendo il primo tipo di dimostrazione superiore al
secondo per rigore e necessità logica, non aved disdegnato il ricorso
alle prove a posteriori; Duns Scoto ritiene invece che solo la dimostra-
zione a priori sia vera dimostrazione e che di essa soltanto si debba
fare uso in filosofia; «nessuna dimostrazione, egli scrive, che parta
dall'effetto per risalire alla causa, è senz'altro dimostrativa»; è invece
dimostrativa la conoscenza delle conclusioni « che non dipende se non
dalla conoscenza dei princi pii e dall'evidenza dell'inferenza sillogistica »;
ognuno poi « ha una certezza infallibile dei primi principii ed a cia-
scuno è naturalmente evidente la forma del sillogismo perfetto; perciò
a ciascuno può essere naturalmente nota qualsiasi conclusione che de-
rivi dai principii ». ~ ben vero che, nella presente condizione del!' uo-
mo, l'intelletto non può giungere i< alla conoscenza dei concetti sem-
plici se non ricevendola dai sensi; ma una volta che l'abbia ricevuta,
l'intelletto può comporre i concetti semplici con la propria capacità e
può trarre da essi una proposizione complessa, alla quale darà assenso
per virtu propria, cioè dell'intelletto, e non in virtu dei sensi; per es.,
se riceviamo dai sensi la percezione di un tutto e di una cosa maggiore
di un'altra, l'intelletto potrà comporre la proposizione che dice che il
tutto è maggiore della parte; ora l'intelletto assentirà con certezza a
questa proposizione in virru propria e dei termini dei quali essa è compo-
sta e non già perché vede i termini congiunti in una realtà attestata
dai ~nsi n. Tnsomm:i nessun:i cnnosren7:1 di fatto è una conoscenza
necessaria; e in filosofia, qualora essa voglia essere una scienza rigorosa,

32 3
Baruch_in_libris
LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIV CAP. XXI

bisogna dar credito non alle verità contingenti che possono essere altri-
menti da come appaiono, ma solo alle verità necessarie, che non possono
essere diversamente.

3. La fondazione della conoscenza necessaria.


Il primo punto che la filosofia deve studiare è quello dei fonda-
menti della nostra conoscenza, intesa come evidenza dei principii e rigo-
rosa deduzione delle conclusioni. All'intelletto risulta evidente, osserva
Duns Scoto, anche la seguente proposizione: « Ciò che accade piu vol-
te nello stesso modo da una causa non libera, è l'effetto naturale di
quella causa»; infatti l'intelletto comprende subito che «una causa non
libera non può produrre piu volte un effetto, se è ordinata a produrre
il suo opposto, sicché se un effetto viene prodotto frequentemente da una
causa, questa non è causa casuale, e, se non è libera, è una causa na-
turale». La nostra conoscenza della realtà procede a volte nel modo
seguente: «Si ha prima l'esperienza della conclusione, per es. che la
luna è frequentemente in eclisse; supposta questa conclusione, si cerca
la causa giungendo dalla conclusione sperimentata ai principii noti nei
termini ed allora dal principio noto nei termini la conclusione, che pri-
ma era nota solo per esperienza, può essere conosciuta con il primo ge-
nere di conoscenza, cioè quella dedotta da principii; per es., è un
principio noto per sé che un corpo opaco interposto tra uno trasparente
ed uno luminoso impedisce la diffusione della luce pel trasparente».
Anche di molti nostri atti abbiamo certezza come di principi per sé noti,
perché «del principio della dimostrazione non c'è dimostrazione» e gli
atti nostri del sentire o dell'intendere o del vedere sono per sé noti come
principii di dimostrazione; è ben. vero che si tratta di proposizioni con-
tingenti, cioè che riguardano fatti, ma anche nei contingenti c'è un or-
dine « in modo che una qualche proposizione deve essere prima ed im-
mediata, altrimenti o cadremmò in un processo all'infinito nei contin-
genti, o un contingente conseguirebbe da una causa necessaria, il che
è impossibile»; insomma l'ordine stesso dei contingenti e pertanto l'as-
sunzione prima ed immediata di alcuni di essi è evidente della stessa
evidenza dei principii primi. Anche la conoscenza sensibile ha dunque
un fondamento di evidenza razionale; che alla nostra sensazione d'una

Baruch_in_libris
§ 3 LA FONDAZIONE DELLA CONOSCENZA NECESSARIA

cosa bianca corrisponda, fuori di noi, l'esistenza di qualche cosa di bianco


è conoscenza rigorosa che si consegue razionalmente cosi: « su ciò o si
hanno affermazioni opposte dei diversi sensi, o affermazioni concordi;
in questo ultimo caso, c'è la certezza della verità di questa conoscenza
sia per la testimonianza dei sensi, sia per la verità della proposizione
che dice che ciò che accade piu volte nello stesso modo per virtu di qu1l-
cosa è effetto naturale di quello, se esso è una causa non libera;
quindi poiché dalla presenza di un certo oggetto accade piu volte
nello stesso modo che avvenga sempre la stessa mutazione nel sen-
so, ne segue che la mutazione o l'immaginazionme prodotta sia
effetto naturale di tale causa e cosi quell'oggetto esterno sarà bianco».
Anche su ciò che affermano i sensi l'intelletto può dunque conse-
guire una conoscenza che è piu certa delle stesse testimonianze dei
sensi, in quanto è fornita di evidenza razionale. Anche quando i sensi
ci attestano conoscenze diverse, come nel caso della vista che ci pre-
senta il bastone immerso nell'acqua come spezzato e del tatto che af-
ferma il contrario, si può raggiungere la certezza per mezzo dell'intel-
letto; infatti esso possiede la seguente proposizione certa: « niente di
piu duro si spezza al contatto di qualche cosa di pili molle che si ritrae »;
questa, osserva Duns Scoto, è « una proposizione nota per se stessa
e di essa l'intelletto non può dubitare, perché il suo opposto implica
contraddizione; che poi il bastone sia piu duro dell'acqua e che l'acqua
si ritragga, ciò è affermato tanto dalla vista che dal tatto »; cosi l'i.n-
telletto può giudicare, secondo necessità, quale senso sbagli· e quale no.
Cosi si può dunque fondare una conoscenza necessaria anche della
realtà contingente dei fatti.

4. La metafisica rigorosa di Duns Scoto.


In tutti i concetti essenziali dei vari esseri è incluso il concetto di
essere e mentre i concetti degli esseri si possono risolvere in altri con-
cetti, il concetto di essere non si può risolvere in alcun altro concetto;
gli altri concetti, cioè, non si possono comprendere senza comprendere
il concetto di essere; il concetto di essere è quindi il primo concetto
che si possa comprendere distintamente. La scienza che ha per oggetto
l'ente in quanto ente è la metafisica; però uno dci capisaldi di tale scienza

32 5
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.LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIV CAP. XXI

è che il concetto di ente è univoco, non già analogo, come sosteneva


Tommaso. La questione tocca, come è noto, la nostra possibilità di co-
noscere Dio; ora Duns Scoto vuole far dipendere la nostra conoscenza
di Dio dall'ulteriore approfondimento che si possa fare del concetto cli
essere che sta alla base della metafisica; il fatto che si tratti di un con-
cetto univoco dà maggiore unità alla metafisica stessa, mentre vincola la
nostra conoscenza di Dio ad una maggiore astrattezza. Per giungere a
Dio, non si muove dunque dalla realtà sensibile, ma da una rigorosa
costruzione razionale. Le prove per dimostrare l'esistenza di Dio ela-
borate da Duns Scoto non muovono dai vari aspetti della realtà
sensibile, ma da un'analisi intrinseca e razionale del concetto di
essere. Ecco l'argomentazione che ne scaturisce: «Partiamo dalla
considerazione del fatto che qualche ente può essere prodotto; que-
sto essere potrà essere prodotto o da sé, o dal niente o da qualche
altro; non dal niente, perché ciò che è niente non causa niente;
non da sé, perché non c'è alcuna cosa che faccia o generi se stessa;
quindi deve essere prodotto da un altro; sia allora A questo altro; se
A è primo, nel modo esposto, siamo giunti alla nostra conclusione;
se non è il primo, allora è un prodotto posteriore, poiché producibile
da un altro o prodotto in virtU di un altro; si ammetta codesto altro
e sia B, sul quale si ragioni come si è ragionato su A e cosi: o si pro-
cede all'infinito, per cui ognuno di quei producibili rispetto al prece-
dente sarà secondo o ci si ferma ad uno che non ha una causa precedente;
ora andare all'infinito nell'ascesa è impossibile, quindi è necessaria la
primità, perché chi non ha nulla prima di sé, non è posteriore a nulla
dopo di sé ». Cosi: si è provato che il concetto di una causa incausata
non implica contraddizione, cioé che è possibile una causa incausata. Ora
si possono fare due ipotesi: che tale causa esista o che non esista. Una
soltanto di queste due proposizioni sarà vera; supponendo che la causa
incausata non esista, bisognerà che sia vera la proposizione che dice
che la causa incausata non esiste e che l'esistenza d'una causa incausata
implichi contraddizione; invece si è visto che la causa incausata, per de-
finizione, è possibile; sicché argomentando sulla non esistenza della causa
incausata, si arriva alla contraddizione; ciò significa che non si può ra-
zionalmente concepire la non esistenza della causa incausata; e ciò
è come dire che è impossibile che la causa incausata non esista.

Baruch_in_libris
s4 LA METAFISICA

Con lo stesso procedimento necessario Duns Scoto procede a fissare


gli altri punti essenziali della sua metafisica rigorosa. Un punto impor-
tante è quello che concerne la derivazione del mondo da Dio; se Dio
è necessario, il mondo non deriva da lui necessariamente, ma libera-
mente; ora la libertà di Dio non è legata né dalle idee, che sono poste-
riori alia sua essenza, né dai possibili che sono da lui generati. L'or-
dine che si ritrova nell'universo obbedisce al principio di non contrad-
dizione e dipende dalla permanenza delle leggi che Dio ha prodotte
all'inizio; ma al di là di ciò, non c'è altro vincolo che si possa imporre
alla volontà di Dio; chiedere la ragione per cui Dio ha voluto tale mon-
do fra i molti possibili è domandare un motivo in materia in cui non ci
sono motivi; il vincolo del procedimento necessario si può spingere
insomma fino al limite dell'universo, ma non può includere Dio. È
proprio col metodo della necessità razionale che si giunge a stabilire
che essa ha dei limiti nei quali non rientrano la natura divina e la sua
assoluta iniziativa. Cosi, alcuni degli attributi di Dio sono conoscibili
anche razionalmente, ma molti altri sono puramente « credibili »; la
tesi della provvidenza divina, per es., non si può dimostrare; nemmeno
limmortalità dell'anima poggia su dimostrazioni rigorose. Dopo aver
esaminato tutte le prove che in filosofia si erano addotte a questo scopo,
Duns Scoto conclude che l'immortalità dell'anima è una conclusione
probabile, ma non ci sono ragioni dimostrative che facciano di essa
una «conclusione necessaria»; alla teologia vengono cosi rinviate mol-
te proposizioni delle quali la filosofia non può stabilire una dimostra-
zione rigorosa; infatti la teologia non è una scienza in senso stretto,
ma ha lo scopo pratico di regolare le nostre azioni sui dettami della
rivelazione.

5. Dante Alighieri.
Dante Alighieri (1265-1321) dev'essere qui ricordato non tanto per-
che egli si possa considerare come un pensatore sistematico ed originale,
quanto perché ha contribuito a rielaborare, nelle sue opere erudite e
poetiche, alcuni dei temi piu rilevanti della cultura filosofica del suo
tempo; il primo interesse per gli studi filosofici risale in lui agli anni
1293-'94, ma solo nel primo quindicennio del secolo esso giunge a piena

J2'l

Baruch_in_libris
LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIV CAP. XXI

maturazione. È il periodo nel quale si viene preparando quel processo


di revisione teologica e filosofica che ha la sua maggiore espressione in
Duns Scoto, ma Dante non mostra di esserne informato o di condi-
viderne le dottrine; in un primo periodo egli utilizza piuttosto ampia-
mente gli scritti di Alberto Magno, al quale attinge anche la sua cono-
scenza degli interpreti arabi di Aristotele; e poiché Alberto si sente tanto
vicino agli interpreti arabi di Aristotele quanto si sente lontano dai
suoi interpreti latini e dallo stesso Tommaso, anche Dante si orienta
verso quell'indirizzo neo-platonizzante, la cui espressione piu avanzata
si trova nell'averroismo; basti pensare, ad es., alla dottrina dantesca del-
la produzione mediata degli esseri corruttibili ad opera delle intelligenze
che muovono i cieli, a quella che considera la materia come causa di im-
;>erfezione, alla teoria delle macchie lunari, a quella secondo la quale
l'empireo è il luogo che contiene l'universo corporeo ed è contenuto dalla
mente divina, nonché infine alla prova dell'immortalità dell'anima rica-
vata da argomenti di origine platonica e neo-platonica; anche le lodi
che Dante fa sia di Averroè che, specialmente, di Sigieri, hanno cos(
una spiegazione. Maggiore originalità hanno le. dottrine svolte da Dante
intorno al linguaggio nel De vulgari eloquentia ed intorno al rapporto
fra la chiesa e l'impero nel De Monarchia; una tendenza averroistica
ispira anche il pensiero po.litico di Dante, il quale, come è noto, non
insiste affatto sulla subordinazione rigida dell'impero alla chiesa e sot-
tolinea piuttosto l'importanza dell'impero come strumento che esprime
nel mondo terreno il destino unitario della stirpe umana che ha in Dio
il suo principio e fondamento; la necessità di una coordinazione totale
del genere umano e della sua obbedienza ad un unico monarca ha per
un lato una giustificazione tipicamente religiosa e per l'altro una realiz-
zazione di fatto autonoma dall'ingerenza ecclesiastica; che l'operp. po-
litica di Dante sia stata interpretata come un'espressione di polemica
anti-papale è attestato dal fatto che essa fu cqpdannata alle fiamme da
Giovanni XXII nel 1329. Quando tuttavia l'animo di Dante è preso
piu intimamente dall'ispirazione religiosa, come nei versi culminanti del
Paradiso, egli esclude una filosofia indipendente dalla fede e si richiama
piuttosto alle prospettive integralistiche di derivazione francescana e ago-
stiniana.

J:Z8

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§ 6 ECKHART

6. Eckhart.

Sei anni dopo la morte di Dante, nel 1327, a Colonia moriva il frate
domenicano Giovanni Eckhart; un anno prima gli era stato intentato
un processo per alcune sue dottrine ritenute ereticali; egli aveva ricoperto
importanti funzioni nell'organizzazione del suo ordine e nel 1311 aveva
anche insegnato all'università di Parigi. Con lui e con alcuni suoi sco-
lari giunge a maturazione una dottrina che aveva avuto il suo iniziatore
in Alberto Magno; il suo neo-platonismo aveva tratto ispirazione anche
dagli scritti di Dionigi pseudo-Areopagita e dal Liber de causis che è un
estratto degli scritti di Proclo. Nel 1268 Guglielmo di Moerbeke aveva
tradotto in latino anche la Elementatio theologica di Proclo, oltre ai
suoi commenti del Timeo e del Parmenide di Platone; proprio nella
scuola di Colonia, questi testi neo-platonici furono ampiamente studiati.
Nei molti scritti, prediche e discorsi di Giovanni Eckhart vengono ap-
punto teorizzati j temi familiari a Dionigi pseudo-Areopagita ed a Scoto
Eriugena; Giovanni insiste infatti sull'assoluta trascendenza di Dio a
tutto l'essere; d'altra parte la realtà finita e in particolare l'uomo, se si
considerano in rapporto all'infinita perfezione divina, sono piu non-essere
che essere; posti i due poli dell'infinita trascendenza divina e della nul-
lità dell'uomo, si può esplicare quel processo di elevazione dell'uomo a
Dio che era stato teorizzato da Plotino; qui Giovanni, partendo dalla dot-
trina agostiniana dell'interiorità, fa dell'anima una sorta di principio di-
vino in noi; c'è nell'anima, egli scrive, «qualche cosa che è increato
cd increabile »; in forza di ciò, l'anima non esce mai dalla realtà di-
vina, nella quale perpetuamente dimora; cosr l'uomo giusto, per mezzo
dell'anima, fa tutt'uno con Dio ed il suo operare diviene quasi l'operare
stesso di Dio. A tutte le pratiche del culto cd agli atteggiamenti este-
riori Giovanni guarda con molto distacco, in quanto tutto ciò è se-
condario rispetto all'unione intima con Dio. La dottrina di Eckhart
è un misticismo speculativo, che unisce ad un profondo misticismo reli-
gioso un'ampia utilizzazione della dialettica neo-platonica e dei suoi
concetti; sicché l'unione con Dio non è solo profondamente sentita, ma
è teorizzata minutamente in tutti i suoi aspetti. Da tale speculazione,
svolta anche dopo la morte di Giovanni da alcuni dei suoi scolari,
la vita religiosa tradizionale ha tratto forte incentivo a sciogliersi dalla

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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIV CAP. XXI

fedelti'f materiale alle opere esteriori e ad accentuare l'apporto libero


dell'individuo in campo etico e religioso.

7. Giovanni di Jandun e Marsilio da Padova.


Dopo la condanna dell'averroismo e dell'aristotelismo dcl 1277' que.
st'indirizzo di pensiero continuò egualmente a svilupparsi, specialmente
nell'università di Parigi; ne è un esponente il maestro nella Facoltà delle
arti Giovanni di Jandun; insegna nel primo ventennio del secolo cd ha
come collega Marsilio da Padova; nel periodo che va dal 1315 in avanti
collaborano entrambi ad un'opera politica di grande rilievo, il Defensor
pacis, compiuto nel 1324; poiché in esso si sferrava un violento attacco
alle mire politiche del papato, sia Giovanni che Marsilio, appena tra-
pelò la notizia delle loro teorie, dovettero fuggire da Parigi e si rifu-
giarono presso la corte di Ludovico il Bavaro; nel 1327 parecchie dot-
trine del Defensor pacis furono condannate da papa Giovanni XXII e
contro gli autori fu scagliata la scomunica; Giovanni muore nel 1328,
l'anno dopo la morte di Eckhart, mentre Marsilio vive alla corte del-
1' imperatore a Monaco fino al 1342. Giovanni di Jandun è autore so-
prattutto di commenti ad· opere di Aristotele e di Averroè; particolare
interesse hanno i commenti al De anima, alla Fisica, al De coelo et mun-
da. In questi scritti, egli segue da vicino anche le dottrine averroistiche
piu in contrasto con la fede, come, per es., l'eternità del mondo e dcl
movimento, l'unità dell'intelletto per tutti gli uomini, l'esclusione sia
dell'immortalità personale come della resurrezione e della vita futura.
Queste conclusioni sono filosoficamente ineccepibili, mentre le verità di
fede non sono suscettibili di dimostrazione razionale. Giovanni segue
dunque l'atteggiamento già tenuto da Sigieri di Brabante, anche se la
sua polemica contro quanti r\tengono di poter dimostrare filosoficamente
le verità di fede è piu acuta ed insistente; alcuni suoi accenti hanno per-
fino fatto pensare che egli fosse intimamente incredulo e ammantasse
tale incredulità di un ossequio solo apparente e formale per la reli-
gione.
Nel Defensor pacis che è principalmente opera di Marsilio, si studia
lo stato con la mentalit~ propria della Politica di Aristotele, in aperto
contrasto con le tesi dei curialisti che lo volevano sottoposto al potere·

Baruch_in_libris
§ 7 GIOVANNI DI JANDUN E MARSILIO DA PADOVA

della chiesa. Nello stato il potere spetta, secondo Marsilio, alla comu-
nità che lo esercita per mezzo dei suoi rappresentanti; ma ciò che piu
importa è la distinzione che bisogna porre fra le leggi dettate dalla CO·
munità per la vita collettiva e le leggi divine; queste ultime hanno san-
zione solo nella vita futura e concernono solo la coscienza dell'individuo;
ma non hanno rilievo giuridico positivo, al pari delle leggi di natura;
il fine dello stato non è quello di condurre gli uomini alla salvezza
religiosa, ma quello di assicurare loro la migliore vita sulla terra. Men-
tre la salvezza religiosa è questione di un rapporto particolare fra la co-
scienza dell'individuo e Dio, gli aspetti organizzativi della vita religiosa
r:~ntrano nella disciplina positiva della vita collettiva; di qui la necessità
di un'amministrazione civile degli affari religiosi che riconduca lo stes-
so sacerdozio nell'ambito di un organismo tecnico a servizio dell'ordina-
mento civile dello stato che è, nel suo ambito, del tutto indipendente.
Quella netta distinzione della filosofia e della fede che l'averroismo aveva
propugnato come principio generale trova cosi in MarsiHo da Padova
una concreta applicazione sul terreno politico; la sfera religiosa e la sfera
politica debbono rimanere distinte; viene cosi colpita la concezione teo-
cratica che si sforza di far valere la propria funzione religiosa direttamen-
te sul terreno dell'ordinamento politico degli stati.

8. Guglielmo d'Occam: la logica.


Contro il papato lotta a lungo, sia in appoggio alla sovranità impe-
riale, sia a sostegno dell'ideale della povertà professato dai frati mi-
nori, Guglielmo d'Occam; nato in Inghilterra verso la fine del Due-
cento, entra nell'ordine francescano, compie i suoi studi ad Oxford fra
il 1312 ed il 1318 e vi inizia l'insegnamento; è probabilmente questo il
periodo nel quale Guglielmo compone il maggior numero dei suoi scrit-
ti di argomento teologico e filosofico; in seguito ad una denuncia, viene
chiamato ad Avignone, presso la curia papale, per rispondere di alcune
sue dottrine sospette di eresia; è qui che incontra Michele di Cesena,
generale del suo ordine, già in lotta con papa Giovanni XXII; nel 1328
Guglielmo fugge da Avignone, insieme con Michele, dcl quale ha or-
mai sposato la causa ed entrambi si rifuiiano presso Ludovico il Ba-
varo; fino alla morte, avvenuta probabilmente nel 1349, Guglielmo

JJI
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIV CAP. XXI

non si stanca di scrivere opuscoli e libelli contro_ il papa. È tuttavia nel


campo filosofico generale, ancor piu che in quello del pensiero politico,
che Occam lascia una traccia profonda; le sue opere maggiori sono,
in proposito, il suo commento alle Sentenze, una Summa totius logicae
e delle Summulae su problemi di fisica; il piu importante degli scritti
politici è il Dialogus de imperatorum et pontificum potestate.
L'indirizzo generale del pensiero di Occam è, come per Duns Scoto,
restrittivo delle conclusioni che si possono trarre in campo filosofico
rispetto alle verità della fede; si rende quindi necessaria una netta di-
stinzione dei due campi; da essa risulta da un lato un~ considerazione
piu autenticamente religiosa delle verità della fede e dall'altro una valu-
tazione piu rigorosa dei limiti della nostra conoscenza naturale. Nella
sua logica Occam critica anzitutto la dottrina degli universali reali o
essenze ideali, propria della tradizione platonico-agostiniana. « Ogni so-
stanza, scrive, è numericamente una e singolare, poiché ogni cosa è una
cosa sola e non piu cose; ed ogni cosa, se è una cosa sola e non piu
cose, è una di numero». Invece le essenze platoniche sono delle na-
ture comuni che, individuate come aspetti intelligibili di piu cose, ven-
gono considerate come reali e quindi come delle cose comuni. Occam
mostra che indebitamente si attribuisce portata reale a tali aspetti delle
cose. «Nell'individuo, spiega Occam, non c'è nessuna natura universale
realmente distinta da ciò che è proprio di un individuo; o essa fa parte
dell'individuo stesso ed allora non ne può essere distinta, oppure resta
distinta dall'individuo ed allora la natura universale potrebbe esistere
senza l'individuo e l'individuo potrebbe esistere senza la natura uni-
versale». «Io dico, conclude, che nessuna cosa fuori di noi è universale,
né per se stessa, né in -virtu di qualche cosa che le si aggiunga nella
realtà o nell'intelletto, né per qualsisasi modo la si consideri o la si in-
tenda; infatti è tanto grande l'impossibilità che una cosa qualsiasi sia
in qualche modo universale in natura, quanto è grande la impossibilità
che un .uomo, in qualsiasi modo lo si voglia considerare e secondo ogni
modo d'essere, sia un'altra cosa». Ma quale fondamento ha allora la
proposizione che dice «Socrate è un uomo», se in realtà Socrate è una
sostanza individua e basta? Il linguaggio mentale, risponde Occam, è
fatto di proposizioni mentali; e le proposizioni son fatte di termini;
bisogna soprattutto chiarire la " suppositio " dei termini, cioè la fon.

Baruch_in_libris
§ 8 GUGLIELMO D'OCCAM: LA LOGICA

zione per cui essi denotano qualche cosa di reale; per es., nella propo-
sizione « uomo è una parola » il termine "uomo " si riferisce non già
agli uomini individui reali (che non sono parole), ma alla stessa realtà
materiale della parola "uomo"; invece nella proposizione «l'uomo cor-
re », il termine " uomo " denota i singoli individui uomini; infatti so-
no essi che corrono e non la parola "uomo" o il concetto "uomo"; in-
fine nella proposizione «l'uomo è una specie», il termine "uomo" non
denota né la realtà materiale della parola (la quale, infatti, non è una
specie, ma un suono parlato o scritto), né i singoli uomini, di ciascuno
dei quali non si può dire che sia una specie; qui il termine denota in-
vece UQ concetto, giacché solo dei concetti si può dire che sono specie
o generi. Fuori di noi non ci sono che esseri individui; quando, per
denotarli, ci serviamo di un concetto confuso, che appunto perché con-
fuso non ci consente una chiara denotazione di nessun individuo determi-
nato, abbiamo quei termini mentali che si dicono universali. Bisogna
però non confondere i concetti confusi con le cose e non attribuire quin-
di realtà esterna ai concetti confusi, i quali, fuori di noi, non han-
no altro equivalente che gli individui particolari; i concetti confusi
sono strumenti con cui conosciamo le cose, non già delle. cose. L'er-
rore piu diffuso fra i filosofi, secondo Occam, è proprio quello che li
porta ad attribuire realtà ai concetti confusi, come se essi fossero im-
magini di oggetti esterni, altrettanto confusi; invece le "res" sono sem-
pre chiare, perché individue; ed i concetti universali di genere e specie
non hanno altro equivalente che gli individui. Quando dunque diciamo
«Socrate è uomo» non indichiamo niente di reale all'infuori di Socrate;
non esiste infatti un'essenza umana distinta da lui; né quindi la pro-
posizione può denotarla; l'unica cosa in piu dell'individuo che quella
proposizione significa è che noi concepiamo quell'individuo in maniera
confusa; ma la nostra maniera confusa di concepire un individuo non
è da confondere né con l'individuo, né con un suo elemento. I termini
universali, i generi e le specie hanno dunque la caratteristica di potersi
predicare di molti individui; cos{ diciamo appunto «Socrate è uomo»,
«Platone è uomo», «Cesare è uomo»; ma i tre individui in questione
restano ognuno quella re.r individua che ciascuno di essi è. I concetti,
universali o particolari, sono soltanto " termini ", sono cioè con la realtà
in un rapporto che non è di rispecchiamento reale, ma solo di corri-

JJJ
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIV CAP. XXI

spondenza funzionale; i concetti sono del tutto esterni alle cose, sono
segni il cui raccordo con le cose non comporta alcuna confusione fra
la loro realtà e quella delle cose; insomma i concetti non rivelano l'es-
senza delle cose, ma sono piuttosto quasi simboli sui quali poggia un
calcolo indipendente dalla realtà. Le essenze vanno quindi eliminate dal
mondo della realtà e ridotte a funzioni mentali.
Al pari delle essenze vanno eliminate dalla realtà ·altre entità su-
perflue che hanno origine dall'indebito conferimento di portata reale
ad operazioni mentali; la relazione, per es., non è una realtà distinta
da quella dei suoi fondamenti; per es., la somiglianza di Socrate con
Platone « non importa altro se non che sia bianco Socrate come anche
Platone, oppure che l'uno e l'altro sia nero, oppure che possiedano qua-
lità dello stesso genere; chi conosce Socrate e Platone ed il loro essere.
bianchi non ha bisogno di conoscere altro per dire che Socrate somiglia
a Platone». Con quest'analisi Occam elimina dalla realtà tutto il mon-
do delle essenze, guidato in ciò in parte dalla dottrina aristotelica del-
l'individualità ed in parte da quell'esperienza dell'individualità che ha
le sue radici nel misticismo francescano.

9. La conoscenza umana e i suoi limiti.


L'uomo possiede, secondo Occam, due forme principali di conoscen-
za: la conoscenza dimostrativa muove da principi evidenti e ne ricava
deduttivamente le conseguenze; si tratta di un procedimento in se stesso,
necessario, ma astratto, nel senso che non ci informa dei fatti e della
realtà. Era proprio la struttura delle essenze che, nella visione platonico-
agostiana del reale, consentiva al procedimento deduttivo di avere por-
tata reale; infatti in quel contesto dottrinale la deduzione non era che il
rispecchiamento fedele di una corrispondente gerarchia concreta; tolta
però di mezzo la struttura delle essenze, il procedimento razionale ha
un puro valore analitico, tautologico, di rigore formale; esso lavora sui
termini mentali e sui loro rapporti; le operazioni sui termini mentali,
se rigorosamente condotte, presentano carattere di necessità proprio
perché alla radice tutte le deduzioni poggiano sul principio di non con-
traddizione. Ma a questo rigore formale e deduttivo non fa riscontro una
portata reale proprio per la stessa natura formale e linguistica delle fun-

Baruch_in_libris
§ 9 LA CONOSCENZA UMANA E I SUOI LIMITI

zioni logiche. La seconda forma di conoscenza è quella del particolare,


dei fatti; non è soltanto la sensazione che coglie il particolare, come vo-
leva Aristotele, ma anche l'intelletto; esso coglie l'unica vera realtà che
è quella degli individui singoli per mezzo della conoscenza intuitiva.
« La conoscenza intuitiva di una cosa è tale, scrive Occam, che in virtu
di essa si può sapere se la cosa esiste o no; per es., se Socrate fosse real-
mente bianco, quella conoscenza di Socrate e della bianchezza in forza
della quale si può conoscere con evidenza che Socrate è bianco, si chiama
conoscenza intuitiva». La conoscenza intuitiva si distingue a sua volta
dalla conoscenza astrattiva « che è la conoscenza in virtu della quale
di una cosa contingente non si può sapere con evidenza se esista o
no»; essa è la conoscenza che prescinde dall'esistenza o non esistenza
della cosa. La conoscenza intuitiva condiziona la conoscenza astratti-
va, nel senso appunto che la conoscenza dello schema astratto d'una
cosa non può aversi se prima non la si è conosciuta nella sua reale
esistenza. Ma è troppo chiaro che la conoscenza intuitiva del particolare
non può fondare una conoscenza scientifica necessaria, ma solo una co-
noscenza sperimentale e contingente; partendo dalla considerazione di
fatti singoli, se non esiste una trama essenziale interna ad essi che ci
permetta di collegarli all'intero contesto della scala gerarchica delle es-
senze, non possiamo conseguire dei fatti stessi alcuna cognizione neces-
saria; ma Occam elimina dal reale ogni struttura essenziale, ogni nesso
e distinzione che non si rifaccia solo agli individui; cos{ la realtà è sol-
tanto una molteplicità di individui, ognuno dei quali può stare senza
l'altro, senza un ordine di essenze che la regga e la tenga unita. La con0-
scenza necessaria deduttiva non ha allora alcun fondamento intrinseco
nella realtà e la realtà, per la stessa struttura puntuale, non consente
una scienza universale e necessaria di tipo aristotelico.
La conoscenza umana non può, per es., dimostrare con rigore l'esi-
stenza di Dio; infatti, osserva Occam, « la proposizione " Dio esiste "
non è immediatamente evidente, dal momento che molti dubitano di
essa; e nemmeno si può dedurre da antecedenti immediatamente eviden-
ti; e non è nemmeno, come è chiaro a tutti, una proposizione nota in base
all'esperienza»; da un lato il ragionamento deduttivo non può dimo-
strare un'esistenza, né l'uomo può d'altra parte, nella vita presente,
avere esperienza di Dio; la proposizione «tutto ciò che è mosso viene

335

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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIV CAP, XXI

mosso da altro», su cui poggia la prima "via" di Tommaso, non è, per


Occam, una proposizione evidente, in quanto, per es., l'anima è qualche
cosa che muove se stessa; anche la proposizione che dice che «non si
può risalire all'infinito nella serie delle cause» non è immediatamente
evidente; in conclusione, si potrà dire al massimo che l'esistenza di Dio
è una conclusione probabile, ma non si hil al riguardo dimostrazione ri-
gorosa. Nemmeno l'unicità di Dio è dimostrabile; potrebbero infatti
esistere molti mondi ed ognuno potrebbe avere la sua causa prima, cioè
il suo Dio. La ragione non può recare che elementi di probabilità a fa-
vore degli attributi di Dio, quali risultano dalla fede. L'intuizione che
abbiamo dei nostri atti ci assicura della loro esistenza; ma noi non ab-
biamo alcuna esperienza diretta della nostra anima, come di qualche
cos? di sostanzi:!}e e di diverso dal nostro volere, dal nostro sentire, dal
nostro intendere. Quanto·all'immortalità dell'anima, essa non si può di-
mostrare per mezzo della ragione, né ci è attestata dall'esperienza; an-
zi l'esperienza ci attesta i molti legami dei nostri atti con il corpo. Con
la ragione non si può dimostrare nemmeno che un determinato atto
sia buono o cattivo; a tutte queste conseguenze negative Occam giunge
proprio per l'eliminazione delle essenze che ha posto alla base della sua
dottrina; se non c'è una scala di essenze che dal mondo sale fino a Dio,
non possiamo dimostrare l'esistenza di Dio; se gli atti dell'anima non
sono proprietà di una sua essenza stabile, non si può dimostrare la sua
sostanzialità; se le essenze non sono reali, cade anche la distinzione fissa
fra gli atti buoni e quelli cattivi, come distinzione autonoma rispetto
alla volontà divina.
Non occorre poi dire che anche la conoscenza che noi potremo avere
dell'universo fisico è limitata e non consegue il. valore d'una scienza ri·
gorosa; in particolare noi non possiamo conoscere un ordinamento as-
soluto di leggi di natura; potremo rilevare l'esistenza di determinate
realtà individue e l'esistenza di rapporti di inerenza o di distanza o di
relazione; ma tali rapporti sono sempre colti da noi nella loro parti·
colarità e nella loro contingenza; possiamo certo cogliere nell'ordine
reale del mondo una certa stabilità, che corrisponde al potere con cui
Dio mantiene appunto un certo ordine nel reale; ma non possiamo ri-
tenere -:he quest'ordine sia necessario, né possiamo dimostrare che la
potenza con cui Dio ordina il reale sia inamovibile cd immutabile.

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§ IO LA SOLUZIONE FIDEISTICA DI OCCAM

10. La soluzione fideistica di Occam.


La critica della conoscenza umana e la determinazione dei suoi limi-
ti servono ad Occam per ridare valore all'iniziativa divina, per difendere
l'originalità della fede cristiana dal necessitarismo naturalistico di ori-
gine greca ed araba. Dio, afferma Occ.am, è iniziativa assoluta e libera;
nella creazione del mondo egli non ha bisogno di alcun esemplare che
si imponga alla sua azione; in Dio coincidono intelletto e volontà, per
cui non ha senso parlare di una sua conoscenza come precedente al-
i'esercizio della volontà e della creazione. Cosi Dio non è sottoposto ad
alcun vincolo etico o di dover essere; i supremi principii morali non
sono tali in quanto si impongano alla stessa volontà divina, ma
hanno nella volontà di Dio l'unico loro fondamento; cioè il bene
è tale perché Dio lo vuole e non già Dio lo vuole perché è bene;
se Dio avesse voluto comandare agli uomini di odiarlo, l'odio di
Dio sarebbe divenuto un bene ed un dovere per gli uomini. Dio
ha diretto rapporto con gli individui reali, che sostenta nel loro es-
sere senza il tramite di alcuna gerarchia di essenze; egli opera diretta-
mente nell'universo e può sia mantenere in esso un ordine relativamente
costante, sia operare miracolosamente, cioè sottraendosi all'ordine ce>-
mune. L'eliminazione dcl mondo delle essenze riconsegna cosi diretta-
mente a Dio l'insieme dell'universo ed il suo sviluppo. Con ciò Occam
intende sottolineare il divario che separa la fede cristiana dal mondo fi-
losofico; fra i due non è possibile alcun compromesso e quindi deve
ritenersi fallito sia il tentativo di una corrente del pensiero cristiano di
arrivare al mondo della fede per tramite delle dottrine platoniche, sia il
tentativo tomistico di pervenirvi attraverso il naturalismo aristotelico.
Anche il pensiero politico di Occam è rivolto nella stessa direzione;
egli prende infatti posizione contro la confusione fra l'o.~ercizio del p<>-
tere spirituale e quello dcl potere politico; «se il papa, scrive, per c<>-
mando e disposizione di Cristo, possedesse una potestà cosi piena ed in-
discriminata, da poter di diritto disporre delle cose spirituali e di quelle
temporali senza eccezione, dovremmo dire che la legge cristiana com-
porta un'orrenda schiaviro, assai peggiore di quella della legge antica;
infatti tutti i cristiani, gli imperatori e i re, come i loro sudditi, sareb-
bero servi del papa, nel senso piu rigoroso dcl termine »; sfuggono al po-

337
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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIV CAP. XXI

tere papale, secondo Occam, sia « i diritti legittimi degli imperatori, dei
re e di tutti gli altri fedeli ed infedeli, diritti che il papa non può scon-
volgere e diminuire senza una ragione e senza colpa », sia « le libertà
che Dio e la natura hanno concesso agli uomini»; in particolare Occam.
sostiene che l'organizzazione politica e civile è autonoma rispetto alla
chiesa e che l'autorità imperiale non dipende dal papa; anche qui si ri-
trova a base del suo atteggiamento, una considerazione religiosa, quella
per cui « i possessi e i oiritti secolari vanno annoverati fra i beni di piu
bassa qualità, tali che uno può usarne anche male e può vivere bene an-
che facendone a meno » ; le cose " mortali " non vanno confuse con le
cose "celesti"; come è l'insufficienza della conoscenza umana che ne
fa un campo autonomo rispetto alla fede, cosr è la natura materiale del-
la vita politica e civile che ne fa un ambito indipendente rispetto
alla vita religiosa; e come l'autonomia della conoscenza naturale confe-
risce maggiore libertà alla fede, cosr l'autonomia del potere temporale
conferisce maggiore libertà e spiritualità alla chiesa.

11. II movimento occamista e Buridano.


Le dottrine di Occam presero piede fra il 1330 ed il 1350 sia nelle
università inglesi di Oxford e di Cambridge, sia a Parigi; qui esse pro-
vocano, intorno al 1340, dei dibattiti accaniti che si concludono con
severi richiami papali e con la condanna di alcuni teologi oltranzisti.
Fra questi va ricordato Nicola di Autrecourt, condannato a bruciare,
nel 1347, davanti ai maestri dell'università, alcuni suoi scritti accusati
di eresia. Nicola si ricollega ad Occam nell'analisi critica della cono-
scenza e dei suoi limiti. Solo la conoscenza immediatamente evidente
è del tutto certa, a suo avviso; ora vi sono due generi di evidenza.: quella
razionale basata sul principio di non contraddizione, e quella sperimen-
tale per cui si constata ciò che viene offerto dai sensi. Applicando questo
criterio all'esame della nostra conoscenza, si ottengono delle conclusioni
molto restrittive sia circa la nostra conoscenza del rapporto fra cause
ed effetti, sia circa la conoscenza delle sostanze. In base al principio di
non contraddizione, non si può, partendo dal fatto che una cosa esiste .
(l'effetto), concludere necessariamente che ne esiste un'altra (la causa); il
principio di non contraddizione ci assicura solo che una cosa non può

Baruch_in_libris
§ li IL MOVIMENTO OCCAMISTA E BURIDANO

essere nello stei:so tempo se stessa ed il suo contrario; ma essendo ogni


cosa sciolta da tutte le altre, come aveva appunto affermato Occam, non
c'è passaggio necessario dall'una all'altra; l'esperienza può rilevare che
A tien dietro a B; noi possiamo, in base all'esperienza passata, preve-
dere un'analoga successione per il futuro; ma questa previsione, in qu:m-
to basata sull'esperienza, non ha alcun carattere di necessità. La stessa
critica Nicola fa del passaggio che compiamo dalle qualità osserv::ite
ad una sostanza che ne sarebbe il sostegno; il passaggio non è razional-
mente necessario; né l'esperienza ci attesta qualche cosa piu delle qua-
lità; nulla quindi ci autorizza ad affermare che esiste qualche cosa ol-
tre a quello che percepiamo con i cinque sensi e con l'esperienza in-
terna. Nicola conclude che quasi nessuna delle proposizioni contenute
nella fisica e nella metafisica di Aristotele si può ritenere rigorosamen-
te dimostrata; pertanto nessuna di esse ha valore scientifico; qui si sco-
pre che l'obiettivo polemico di Nicola è sempre l'averroismo, cioè la fi-
losofia greco-araba, nella sua pretesa di verità.
Giovanni Buridano non appartiene, come Nicola di Autrecourt, al
movimento occamista; maestro nella Facoltà delle arti a Parigi, vi
insegna per circa un quarantennio fino alla morte avvenuta intorno al
1358. Egli non persegue la demolizione delle essenze teorizzate da
Occam ed è persuaso, contro Nicola di Autrecourt, che si possa partire
dall'esistenza d'una cosa per dimostrare l'esistenza di un'altra; oltre che
alla conoscenza dimostrativa razionale, dà rilievo anche alla conoscenza
sperimentale e ritiene che essa possa conseguire risultati p1u estesi di
quelli ammessi dai seguaci radicali di Occam. Per la stessa ragione, la
sua logica non è anzitutto rivolta a stabilire criticamente la portata reale
dei concetti; lo studio che piu lo interessa è invece il raffronto fra il
mondo logico mentale e la sua espressione linguistica, per chiarire im-
portanti questioni relative all'esegesi ed all'interpret::izione degli au-
tori e dei testi. Infine egli dà notevole sviluppo alle teorie fisiche, spe-
cialmente a quella dell'impetus; mentre Aristotele cercava di spiegare il
movimento di un proiettile, una volta staccatasi da esso la mano che lo
lancia, ricorrendo al movimento dell'aria in cui il proiettile è immerso,
determinato a sua volta dal movimento della mano, Buridano riprende
una spiegazione del commentatore greco di Aristotele Filopono e giu-
stifica la continuazione del movimento del corpo lanciato facendo ricorso

319

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LA PRIMA METÀ DEL SECOLO XIV CAP. XXI

ad una sorta di slancio o impetus impresso al corpo stesso dalla mano;


questo impetus è, secondo Buridano, proporzionale alla velocità con
cui la mano lancia il mobile ed alla massa del corpo lanciato; il mobile
conserva lo slancio finché la resistenza dell'aria ed il peso non lo
annullano.

12. Lo sviluppo delle scienze.


Nella prima metà del secolo xiv si accentua un fatto già verificatosi nel
periodo precedente, ossia lo· sviluppo della scienza, e particolarmente della
matematica e di alcuni settori della scienza fisica, in due campi diversi: da
un punto di vista pratico, con riferimento al progresso sociale ed alle scoperte
tecniche, queste scienze si vengono affermando fuori del mondo degli studi
inteso in senso stretto ed a diretto contatto con il mondo degli affari e delle
iniziative commerciali; da un punto di vista piu propriamente teorico, esse
vengono coltivate negli ambienti universitari che, piu lontani dal mondo
della tecnica, si nutrono prevalentemente del passato e dei suoi monumenti
scientifici piu significativi. In relazione a ciò è anche l'aumento rilevante"
del numero delle persone che si occupano di questioni scientifiche. Nelle
matematiche emerge l'opera di Tommaso Bradwardine che è portato ad
applicare il metodo matematico perfino nella teologia; egli è autore di una
Geometria speculativa e di un Tractatus de proportionibus, oltre che di uno
scritto sulla quadratura del circolo in cui riprende la trattazione di un clas-
sico pr~blcma della geometria antica. Nell'ambito della fisica e della tecnica,
si vengono perfezionando, in relazione alla tecnica delle costruzioni, le osser-
vazioni relative all'equilibrio dci pesi cd al loro movimento; è da queste
osservazioni che si viene preparando una vera e propria dottrina de ponde-
ribus, che è, in embrione, la teoria del movimento, quale verrà poi integrata
nella meccanica moderna. Anche le prime applicazioni tecniche della sco-
perta della polvere da sparo risalgono ai primi decenni del secolo xiv. La
medicina riceve notevole impulso, specialmente a Bologna ed a Padova,
dalla scuola di Taddeo Alderotto e da quella di Pietro d'Abano; gli studi
di medicina che sono riusciti ad organizzarsi in forma autonoma nell'am-
bito delle università, appunto nella facoltà specifica, non segnano comunque
progressi decisivi, impediti come sono, per varie ragioni, di fare diretto
ricorso all'osservazione e non sollecitati dallo sviluppo di altri importanti
settori della ricerca scientifica, dai quali gli studi di medicina dipendono;
sostanzialmente si resta ancora all'acquisizione del materiale accumulato
dalla medicina antica ed araba, con l'aggiunta di contributi isolati e parti-
colari. Eccezionale è, per contro, il livello cui giunge in questo periodo la
storiografia e la cronaca; la cronaca di Giovanni Villani si spinge fino al 1348,
anno della morte dcl suo autore, mentre quella di Dino Compagni viene

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§ 12 LO SVILUPPO DELLE SCIENZE

stesa fra il 1310 ed il 1312; ad esse si può aggiungere l'opera storica e, gene-
ralmente, di cultura già orientata in senso umanistico, di Albertino Mus-
sato, morto nel 1329, e del vicentino Ferreto, morto otto anni dopo; anche
la figura di Cola di Rienzo (1313-1354), per la sua mentalità umanistica,
è indicativa dell'evoluzione culturale che si viene preparando. Fra i cultori
del diritto, Cino da Pistoia (1270-1337) inizia un indirizzo nuovo, con ten-
denze piu filosofiche rispetto a quelle dei glossatori della scuola bolognese
e con un atteggiamento apertamente polemico nei confronti dei canonisti,
in difesa dcl potere civile contro quello ecclesiastito. Gli sviluppi della
cultura scientifica presso gli Arabi e gli Ebrei non sono trascurabili; ma
l'unico nome che emerge nella prima metà del secolo xiv è quello del-
l'ebreo provenzale Levi ben Gerson, vissuto fra il 1238 e il 1344, autore
di un manuale di calcolo e di un importante commento agli Elementi
di Euclide; con Levi ben Gerson si afferma la trattazione teorica della
matematica e della geometria; egli ferma particolarmente la sua atten-
zione, infatti, sul procedimento metodico di Euclide, di cui cerca di
rendere piu rigorosa la assiomatica.

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CAPITOLO ltXII

La seconda metà del secolo xtv


LA SCUOLA DI BURIDANO. WYCLEF

1. Il periodo.
La seconda metà del secolo xiv è sotto il segno da un lato dell'avan·
zata dei Turchi verso i Balcani e dall'altro dello scisma di Occidente che
mette a dura prova l'unità religiosa europea. Verso la fine del secolo
l'avanzata turca subisce un arresto momentaneo, dopo il quale riprende
l'azione che porterà, cinquant'anni piu tardi, alla fine dell'impero bizan-
tino. Dallo scisma di Occidente nasce il problema di una riforma della
chiesa che ne impedisca l'eccessiva mondanizzazione e che la riporti piu
vicina alla sua funzione schiettamente religiosa e spirituale. L'universalità
politica della chiesa viene ormai avversata sia dall'esterno che dall'interno;
.gli sforzi di coloro che vogliono liberare la chiesa e la vita religiosa dalle
troppo pesanti ipoteche della temporalità si incontrano con gli sforzi di
coloro che rivendicano agli stati cd ai principati la piu completa auto-
nomia politica.
La fine del Medioevo, per la storia della filosofia, coincide appunto
con la crisi dell'universalismo politico della chiesa che si accompagna al
tramonto del carattere ecclesiastico della cultura e all'autonomia della
ricerca filosofica dai presupposti della fede. Certamente i nuovi caratteri
del pensiero non emergono istantaneamente nella storia, come i caratteri
dcl pensiero medievale non scompaiono istantaneamente; il mutamento si
realizza attraverso un periodo abbastanza lungo nel quale gli elementi
del mondo medioevale e quelli dcl mondo moderno si intrecciano e si
combattono. Comunque nella seconda metà del Trecento già cominciano
ad affermarsi indirizzi di pensiero che si muovono fuori della tematica
filosofica scolastica; si hanno, già in questo periodo, con Petrarca e con
C..oluccio Salutati, i segni di una nuova cultura umanistica e laica, che
si considera in polemica con la tradizione scolastica; il ricupero dcl mondo
classico, al di là dello scolasticismo medievale, è lo strumento della nuova
cultura, l'arma polemica dcl distacco fra il vecchio ed il nuovo pensiero.

Baruch_in_libris
§ I IL PERIODO

All'università di Parigi e in altre università europee si affermano gli stu-


diosi usciti dalla scuola di Buridano, mentre in Inghilterra Wyclef prose-
gue la filosofia di Duns Scoto e ingaggia una vasta battaglia contro la
chiesa; il vecchio mondo scolastico è tutto diviso fra la corrente dei
nominalisti e quella dei realisti. L'intreccio fra le due direzioni culturali
appare dunque evidente e proseguirà, con alterne vicende, ancora nel
corso di due secoli, durante l'età dell'Umanesimo e del Rinascimento;
ma il nuovo pensiero viene acquistando importanza sempre maggiore ed
impronta ormai una nuova epoca storica.

2. Petrarca.

Nel Petrarca che, pur essendo nato nel 1304, compone alcuni dei suoi
scritti piu significativi dopo la metà del secolo (come il De sui ipsius et
multorum ignorantia che è del 1367, il De vita solitaria che è del 1346-56
ed il De remediis utriusque fortunae che è del 1354-66) e muore nel 1374,
si debbono qui considerare soprattutto due punti: il lìUO umanesimo cd il
suo atteggiamento polemico nei confronti dell'aristotelismo e del natu-
ralismo del suo tempo. L'umanesimo del Petrarca è un ritorno alla clas-
sicità che scaturisce da un profondo senso di distacco e di avversione
culturali rispetto al proprio tempo: « Io attesi unicamente nei molti miei
studi, scrive, alla conoscenza dell'antichità, poiché questa età mia sem-
pre mi dispiacque; cosi che se l'amor dc' miei piu cari non avesse creato
una contraria voglia in me, sempre io avrei tolto d'esser nato in ogni
altra età, che in questa; cd ora, di questa dimenticandomi, vorrei con
l'animo continuamente affisarmi nell'arte». L'avversione culturale dcl
Petrarca per il proprio tempo nasce soprattutto dal clima naturalistico di
derivazione aristotelico-averroistica che egli vede affermarsi ovunque nel
campo degli studi e dal dilagare di uno scolasticismo divenuto maniera
e privo di originalità; il Petrarca rivive anche la problematica religiosa
con un vivo senso dell'interiorità umana e pertanto dell'originalità spiri-
tuale. Egli guarda con diffidenza a coloro che cercano di studiare la na-
tura e dimenticano di considerare se stessi e la propria vita. Aristotelici,
medici, averroisti, osserva ironicamente il Petrarca, « molte cose sanno
delle belve, degli uccelli e dei pesci, e ben conoscono quanti crini il '
leone abbia sul capo, e quante penne nella coda lo sparviero e con quante
spire il polipo avvolga il naufrago»; ora, «codeste cose, in gran parte, o

343
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIV CAP. Xl.H

son false o sconosciute a quelli stessi che le affermano»; però, anche


se fosserp vere, « a nulla servirebbero per la vita beata »; a che giova
« conoscere la natura delle belve e di:gli uccelli e dei pesci e dei ser-
penti, ed ignorare e non curare di sapere la natura dell'uomo, cioè
perché siamo nati, donde veniamo, dove andiamo » ? La nuova cultura
si annuncia dunque come una critica dell'esteriorità meccanica della
stessa conoscenza della natura e come esigenza d'una partecipazione
piu diretta dell'uomo come soggetto al mondo in cui egli vive ed opera.
Un senso drammatico della vita religiosa, una passionalità sottile e tor-
mentata, un'interiorità agitata e divisa portano il Petrarca a porre al
centro dell'interesse culturale il problema dell'anima, cioè il soggetto; la
filosofia che gli interessa è la filosofia morale che ha le sue fonti tanto
nel cristianesimo di Agostino, quanto nel paganesimo di Cicerone e di
Seneca; Petrarca fa frequenti richiami anche a Platone, ma la cono-
scenza che ne ha non è approfondita. È da questo atteggiamento con
cui Petrarca affronta i problemi culturali che ha inizio una nuova dire-
zione del pensiero.

3. Lo sviluppo della scuola di Buridano.


Gli studi naturalistici, contro i quali prende pos1z1one il Petrarca,
hanno il loro centro di propulsione nell'università di Parigi, dalla quale
si diffondono in altri centri importanti di tutta Europa. A Parigì, il
piu importante continuatore della scuola di Buridano è Nicola Oresme,
che vi insegna dal 1356 in avanti e muore vescovo di Lisieux nel 1382.
La profonda conoscenza che ha della geometria di Euclide, intorno alla
quale scrive delle Quaestiones, lo porta ad usare le figure geometriche
nello studio delle. qualità fisiche : « Immaginare delle figure, scrive, aiu-
ta moltissimo anche nella conoscenza delle cose, in quanto la figura
consente di studiare le proprietà della qualità cui corrisponde_ piu chia-
ramente e piu facilmente, sia perché ciò che c'è in esse di simile è dise-
gnato in una figura piana, sia perché questa somiglianza, resa chiara
da un esempio visibile, è colta rapidamente e perfettamente dall'im-
maginazione». Oresme si riferisce all'uso delle coordinate per rappresen-
tare le variazioni d'una qualità, in quanto su una retta orizzontale si
può riportare l'estensione d'una qualità mentre una retta. verticale avrà

Baruch_in_libris
LO SVILUPPO DELLA SCUOLA DI BUllIDANO

altezza proporzionale all'intensità della stessa; la figura che se ne ricava


ha proprietà corrispondenti a quelle della qualità studiata. Oresme ha
anche rilevato che, nella caduta dei gravi, lo spazio percorso da un cor·
po che si muova di movimento uniformemente accelerato è proporzio-
nale al tempo impiegato a percorrerlo; cosi afferma che «non si può
provare con nessuna esperienza che il cielo si muova di movimento gior-
naliero e che in questo stesso modo non si muova la terra ». Gli si de-
vono infine delle: parafrasi in volgare francese della politica e dell'etica
di Aristotele ed un trattato sulla moneta.
Alla scuoia di Buridano appartiene anche Alberto di Sassonia, mae-
stro nella Facoltà delle arti a Parigi dal 1351 al 1362 e primo rettore della
nuova università fondata a Vienna nel 1365. È autore di scritti di logica
con cui difende l'indirizzo della logica nova degli occamisti o nomina/es
o terministae, contro la via antiqua dei tomisti e degli scotisti, di commen-
ti ad opere aristoteliche, di scritti di meccanica, di fisica e di matematica.
In particolare Alberto approfondisce il problema dell'impetus e studia
la questione della gravità dei corpi, oltrepassando la formulazione ari-
stotelica della teoria dei luoghi naturali e stabilendo che per ogni corpo
si possono distinguere due centri, quello del volume o grandezza ed il
centro di gravità; i due centri non coincidono nei corpi di diversa den-
sità; anche la terra ha diversa densità in parti diverse; perciò il suo
centro di volume non coincide con il suo centro di gravità ed il centro
del mondo non coincide senz'altro con il centro di volume della terra;
il movimento gravitazionale dei corpi è determinato dalla loro tendenza
a far coincidere il loro centro di gravità con il centro del mondo. Alberto
è anche noto per aver trattato con procedimento matematico la que-
stione della intensio e remissio delle forme; già Oresme aveva notato
che una forma o qualità può avere maggiore o minore intensità (in-
tensio), maggiore o minore mancanza di intensità (remissio); per es., una
cosa può essere piu o meno bianca, piu o meno dolce, ecc.; per spiegare
la· diversa intensità delle qualità Alberto ricorre alla matematica ed in
particolare alla teoria delle proporzioni; qui, come si vede, si fa ricorso
allo strumento matematico per l'indagine sulla natura, anche se nel-
l'uso di questo ci si ferma a semplici corrispondenze esterne di carat-
tere intuitivo e se ne fa applicazione anche fuori della natura, nel campo
delle qualità astratte.

345
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LA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIV CAP. xxn

Nell'università di Oxford vengono particolarmente coltivati, nella se-


conda metà del Trecento, gli studi di logica; è dall'incontro di logica e di
matematica che trae origine la « calculatio » o calcolo; in alcuni casi
essa ha contribuito a chiarire con procedimento algebrico gli aspetti quan-
titativi di alcuni fenomeni, come la trattazione della intensio e remissio
delle forme con procedimenti geometrici; ma fu anche applicata come
un procedimento astratto, privo di qualsiasi nesso con la realtà natura-
le. Ciò caratterizza del resto tutta la ricerca naturalistica dell'ultima
scolastica, il cui merito maggiore consiste nell'aver modificato aspetti
notevoli della fisica aristotelica, senza uscire tuttavia dal contesto gene-
rale della visione del mondo da essa codificata. La maggior parte degli
studiosi impegnati in queste ricerche si richiama alle vedute filosofiche
generali di Occam, anche St: essi hanno svolto l'indagine sulla natura
con intenti piu positivi e sistematici, sulla scia dell'aristotelismo promosso
dagli studi delle Facoltà delle arti.

4. Giovanni Wyclef.
Giovanni Wyclef, nato nel 1320 e morto nel 1384, studia ad Oxford
e vi insegna teologia. Egli professa il determinismo teologico, cioè la dot-
trina secondo la quale la volontà di Dio agisce in modo cosi diretto
nelle operazioni degli uomini da realizzare una loro sudditanza asso-
! uta e totale rispetto all'iniziativa divina. Le prospettive filosofiche piu
generali di W yclef riecheggiano il metodo di Duns Scoto ed un certo
realismo delle essenze. L'aspetto piu noto del pensiero di Wyclef è quel-
lo politico-religioso, che lo mise a capo di un vasto movimento di ribel-
lione alla chiesa; dalle discussioni sollevate dai contrasti fra il papato
e la corona ingle~e per motivi di competenze giurisdizionali e fiscali, egli
passa ad una battaglia aperta contro la chiesa in cui si inseriscono attiva.
mente le opere scritte nel decennio fra il 1374 e il 1384; le principali sono:
De dominio divino, De civili dominio, De officio regis, De potestate
papae. Wyclef sostiene che la chiesa è la comunità dei predestinati e non
ha altro capo all'infuori di Cristo; il papa non può pretendere di esser
capo di tale comunità; la vera chiesa, a suo giudizio, non soltanto sfugge
all'ordine temporale, il quale la degrada, ma sfugge anche alle strutture
organizzative esteriori, che non la possono esprimere; ogni uomo, con-

Baruch_in_libris
§ 4 GIOVANNI WYCLEP

tinua Wyclef, è immediatamente suddito di Dio, si che tra Dio e ciascun


individuo non ha da porsi alcun intermediario, né alcuna organizzazione
definita; inoltre la pienezza dei poteri nell'organizzazione della vita
collettiva spetta alla comunità dei giusti, che è la sola sovrana e sola
detiene la proprietà collettiva dei beni temporali. Proprio per mettere
piu direttamente il fedele a contatto con Dio, W yclef si sforza di pro-
muovere un vasto movimento religioso popolare che coltiva lo studio e
la lettura diretta del testo sacro; in questa riforma religiosa si inse-
risce anche una riforma sociale; infatti al movimento di Wyclef aderi-
scono larghi strati del popolo che aspirano a migliori condizioni di
vita; il movimento dei lollardi, represso con la violenza dalla monarchia
e dalla classe dirigente inglese, afferma infatti con chiarezza che « al-
l'origine dei tempi tutti gli uomini erano eguali » e che «la servitu fu
introdotta dalle azioni ingiuste dei cattivi, contrariamente alla volontà
divina, giacché se Dio avesse avuto l'intenzione di fare gli uni servi
e gli altri signori, avrebbe stabilito questa distinzione fin dall'inizio».

5. Coluccio Salutati.
Le posizioni umanistiche del Petrarca vengono riprese e sviluppate
sul finire del secolo da Coluccio Salutati, vissuto fra il 1331 ed il 1406.
Gli scritti piu importanti del cancelliere della signoria di Firenze sono:
il De fato fortuna et casu ed il De nobilitate legum et medicinae, Gli
studi di retorica compiuti da Salutati lo portano a considerare con par:
ticolare attenzione i problemi del linguaggio che egli non riduce co-
munque a pure questioni formali, in quanto vede nel linguaggio lo stru-
mento mediante il quale l'uomo stringe rapporti con gli altri uomini e
costruisce una vita collettiva organica e culturalmente significativa. An-
che il Salutati, come Petrarca, si richiama ad Agostino, che egli inter-
preta alla luce del volontarismo di Duns Scoto; per questo celebra spe-
cialmente la vita attiva dell'uomo, mentre mette in chiaro che l'intel-
letto è soltanto uno strumento della volontà, in quanto intende quello
che la volontà realizza in forme concrete; proprio per il suo continuo
insistere sulla volontà e sull'agire, il Salutati viene attaccato da alcuni
scolastici che, secondo la tradizione domenicana e specialmente tomi-
stica, non intendevano in alcun modo «anteporre la volontà cd i suoi

347

Baruch_in_libris
LA SECONDA METÀ DEL SEGOLO XIV CAP. XXII

atti all'intelletto ed alle sue operazioni». Ad un notevole chiarimento


della direzione generale del suo pensiero il Sa.lutati giunge nel dibattito
riguardante il rapporto fra retorica e giurisprudenza da un lato e medi-
cina dall'altro; un medico fiorentino aveva sostenuto, in un piccolo
trattato, la preminenza della conoscenza del mondo fisico e della me-
dicina rispetto ad ogni altra forma di cultura; il Salutati risponde in-
dicando i motivi per i quali alla conoscenza della realtà fisica si deve
preferire la conoscenza del mondo umano, quella appunto che si con-
creta nella retorica come chiarimento e studio del linguaggio e nella
giurisprudenza come studio del mondo civile costruito direttamente dal-
l'uomo: « Il fine della speculazione è il sapere, scrive, ed il suo oggetto
è il vero, mentre il fine delle leggi è la direzione delle azioni umane;
l'oggetto loro è dunque il bene e non un bene qualunque, ma quel
divinissimo bene che è il bene comune; non si tratta di quel bene per
cui noi siamo un bene, ma di quel bene onde ci facciamo buoni; il
primo è bene di natura per cui non siamo degni né di lode, né di bia-
simo, di quella lode e di quel biasimo che spettano all'azione; per il
bene che facciamo, invece, noi siamo Iodati, perché Dio ci fa degni di
operare e di bene meritare con lui». Alla radice del contrasto fra il sa-
pere scientifico e la cultura che ha per oggetto l'uomo il Salutati vede
la situazione per cui la seconda ha dei principii che non risied.ono nelle
« cose esterne » ma sono posti in noi e sono « inseriti in modo cosf
naturale nelle nostre menti che non possono non esserci noti». Con
quest'insistente annuncio di una nuova cultura si può considerare con-
clusa l'età medievale.

6. Lo sviluppo delle scienze.


Almeno due dei pensatori di questo periodo, cioè Nicola Oresme e
Alberto di Sassonia, hanno grande rilievo anche sotto il riguardo stretta-
mente scientifico, sia con riferimento alla matematica, sia con riferimento
alla fisica. A loro bisogna aggiungere anche il nome di Biagio Pelacani
di Parma, formatosi nell'ambiente dell'università di Pavia (fondata nel
1361) e quindi insegnante di logica, filosofia ed astrologia a Bologna nel
periodo 1375)-Bo, poi a Padova nel periodo 1384-85; vive fino al 1416 e
compone dei commenti ad opere aristoteliche (all'Organon, al De anima,
al De caelo e1 de munda e alla Fisica), delle trattazioni in cui riprende

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§ 6 LO SVILUPPO DELLE SCIENZB

questioni discusse da Buridano, da Oresme, e infine un noto Tractatus de


ponderibus in cui rielabora tutta la materia raccolta nelle opere precedenti
sullo stesso argomento; in questo scritto che risulta di tre libri, le prime
due parti svolgono una discussione di problemi di statica, mentre la terza
è interamente dedicata alla idrostatica; mentre la statica e la meccanica
di Pelacani si richiamano agli autori delle scuole parigina ed inglese, la
sua idrostatica è ricavata principalmente da Archimede; non si tratta, il
piu delle volte, di scoperte da lui compiute e di progressi rilevanti su
quanto era già stato definito al suo tempo; tuttavia i suoi scritti trasmet-
tono all'epoca successiva i risultati complessivi piu importanti della mec-
canica medievale. Vicino ai risultati della meccanica, si possono ricordare
quelli della filologia, che è in continuo sviluppo e che, nel secolo suc-
cessivo, giungerà ad affermazioni di grande rilievo.
Nel corso del secolo xrv, lo sviluppo della scienza tocca risultati molto
importanti: negli studi di logica terministica si giunge ad elaborare uno
strumento tecnico di analisi del linguaggio; le analisi critiche sulla cono-
scenza sperimentale tolgono di mezzo le strutture essenziali ed aprono
la strada ad una visione piu concreta dei fenomen~; nuove teorie non com-
prese nella fisica aristotelica, vengono elaborate, come la teoria dell'impetus;
si aggiunga che la medicina, se non compie passi decisivi .in materia di
terapia e di esperienza. fa dei progressi almeno nella patologia; la peste
del 1348 è da ricordare, a questo riguardo, per la vasta letteratura cui ha
dato luogo e per la specifica ricerca intorno alla trasmissione del male
per contagio; la curiosità per i fenomeni della natura, per le piante, gli
animali, le pietre cresce col crescere dello spirito di avventura e di suc-
cesso della nuova società. Se si aggiunge a tutto ciò lo sviluppo della
matematica, della meccanica e della geometria. si intende appieno l'im-
portanza di quel secolo xiv che, se segna per un lato la crisi dell'equili-
brio medievale, apre, dall'altro, le porte di una nuova epoca.

i49

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NOTA BIBLIOGRAFICA

Per il lettore che voglia allargare le sue conoscenze di storia della filosotia
antica e medievale, diamo le seguenti indicazioni bibliografiche essenziali:

1. Per la filosofia antica:


a) opere generali di storia della filosofia antica: E. ZELLER, Grundriss der
griech.)Philosophie, Leipzig 192012 (trad. ital. Firenze 1924); Ttt. GOMPERZ, Grie-
cbische Denker, 4 voll., Leipzig 1893-1909 (trad. ital. Firenze 1933-1962); L. RoBIN,
La pensée grecque, Paris 1923 (trad. ital. Torino 1951); F. ADORNO, La filosofia
antica, Milano 1961; G. G1ANNANTONI - A. PLEBE - A. GRILI.I - A. BARIGAZZI - M.
DAL PRA - G. CARDONA - P. PEPIN - J. HADOT, La filosofia antica, voli. III e
IV della 5toria della filosofia a cura di M. Dal Pra, Milano 1976;
b) opere su aspetti particolari della storia della filosofia antica: W. ]AEGER,
Paideia, 3 volumi, Berlin - Oxford 1934-1945 (trad. ital. Firenze 1936-1959);
R. MoNDOLFO, La comprensione del soggetto umano nell'antichità classica, Fi-
renze 1958; L. RoBIN, La morale antique, Paris 1938; B. FARRINGTON, Science
anà Politics in the Ancient World, London 1946 (trad. ital. Milano 1960);
R. PETTAZZONI, La religione della Grecia antica, Torino 1954; I. M. BocKENSKI,
Ancient Formai Logie, Amsterdam 1951; M. DAL PRA, La storiografia filosofica
antica, Milano 1950;
e) storie della filosofia antica con scelta di testi: R. MONDOLFO, Il pensiero
ant•co, Firenze 1950; E. P. LAMANNA, Antologia filosofica: I, Il pensiero antico,
Firenze 1945; N. ABBAGNANO, Antologia filosofica: I, La filosofia antica, Bari 1963;
d) opere particolari: R. MoNDOLFO, L'infinito nel pensiero dell'antichità clas-
sica, Firenze 1956; E. MAYER, Socrate: la sua opera e il suo posto nella storia,
trad. ital. Firenze 1943, 2 volumi; J. STENZEL, Platone educatore, trad. ital.
Bari 1936; W. ]AEGER, Aristotele, trad. ital. Firenze 1935; W. D. Ross, Aristotele,
tra<.l. ital. Bari 1946; M. PoHLENZ, Die Stoa, 2 volumi, Gottingen 1948-49 (trad.
ital. Firenze 1967); N. W. DE WITT, Epicurus and His Philosophy, Minneapolis
1954; M. DAL PRA, Lo scetticismo greco, 2 volumi, Bari 1975 2 ; H. A. WoLFSON,
Philo: Foundations of Religious Philosophy in Judaism, Christianity and Islam, 2
volumi, Cambridge Mass. 1947-48; H. A. WoLFSON, The Philosophy of the Church
Fathers, Cambridge Mass. 1956; E. BREIUER, La pbilosophie de Plotin, Paris 1928;
E. GrLSON, Introduction à l'étude de s. Augustin, Paris 1943 2 ;
e) antologia della storiografia filosofica: P. Rossi, Antologia della critica filo-
sofica: I, L'età antica, Bari l96I. ·

2. Per la filosofia medievale:


a) opere generali di storia della filosofia medievale: E. GILSON, La philosophie

351

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NOTA BIBLIOGRAFICA

,111 nwvrn-dge, Paris 1974 2 (trad. ital. Firenze 1973); E. BREHIER, La philosophie
du moye11-dge, Paris 1937 ( trad. ital. Torino 1952); C. VASOLI, La filosofia
medievale, Milano 1961; F. CORVINO - M. T. FUMAGALLI - T. GREGORY - F.
ALESSIO, La filosofia medievale, voli. V e VI della Storia della filosofia. a cura
di M. Dal Pra, Milano. 1976;
b) opere su aspetti particolari della storia della filosofia medievale: R. W.
e A. J. CARLYLE, A History of Mediaeval Politica/ Theory in the West, 6 volumi,
Edinburgh 1950 3 (trad. ital. in 3 volumi, Bari 19J_6_ sgg.); A. C. ÙOMBIE, Da
S. Agostino a Galileo: Storia della scienza dal V al XVII m:olo, ttad. ital. Milano
~970; ~- GRABMANN, Geschichte der katolischen Theologie, Freiburg 1933 (ttad.
1tal. Milano 1937);
e) scorie della filosofia medievale con scelta di testi: N. ABBAGNANO, Antologia
filosofica: II, La filosofia medievale, Bari 1963;
d) opere particolari: G. VAJDA, Introduction à la pensée iuive du moyen-
dge, Paris 1947; L. GAUTHIER, Introdui:tion à. l'étttde de la philosophie mu-
sulmane, Paris 1923; K. BARTH, Fides quaerens intellectum, Miinchen 1931;
E. ·GILSOI', Hélolie et Abélqrd, Paris 1938 (trad. ital. Torino 1950); L. GAUTHIER,
Avl'rroès, Paris 1948; E. GILSON, Introduction à la philosophie de saint Thomas,
Paris 1948; PH. BoEHNER, Mediaeval Logie, Chicago 1952; F. VAN SrEENBERGHEN,
Sigèr de Brabant d'après ses reuvres inédites, 2 volumi, Miinchen 1931-42;
A. CROMBIE, Grosseteste and the Origins of experimental Science, Oxford 1935;
E. GILSON, Duns Scot, Paris 1952; E. MoonY, The Logie of Occam, London 1935;
L. BAUDRY, Occam, voi. I, Paris 1950;
e) antologia della storiografia filosofica: P. Rossr, Antologia della critica filo-
sofica: II, Medioevo e Rinascimento, Bari 1964.

352

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INDICE DEI NOMI

Abelardo, 262, 263-269, 274, 277, 309 Antistene, 55, 94


Abramo cii Spagna, 272 Apollonio di Perga, 156
Acrone di Agrigento, 52 Apollonio di Tiana, 247
Agatarchide di Cnido, 162 Apuleio di Madaura, 184
Agobardo, 240 Arcesilao, 146, 148, 158, 16o
Agostino, 207, 208-222, 236, 238, 240, Archimede, i55, 156, 157, 170, 247, 319'
241, 246, 285, 294, 2~, 297, 298, 301, 349
Archita di Taranto, 56, g6
302, 3% 347
Agostino di Canterbury, 235 Ario, 201, 203-204
Agrippa, 169 Aristarco di San.o, 154
Aristarco di Samotracia, 163
Alano di Lilla, 277
Aristeo, 136
Alberto di Sassonia, 345, 34'1
Aristippo il Giovane, 134
Alberto Magno, 292, 2g6-298, 299, 315,
Aristippo, 55, 93"94
319, 328, 329 Aristofane, 38
Alcmeone, 14
Aristofane di Bisanzio, 162, 163
Alcuino, 231, 236, 237-238, 239, 240 Aristotele, 3, 6, 9, 10, 12, 21, 22, 30,
Alderotti Taddeo, 320, 340
Alessandro di Afrodisia, 247, 274
33, 38, 39, 46, 47' 49, 51• 56, 92• 93,
98, 99, 100-133, 136, 146, 149, 150, 151,
Alessandro di Hales, 285, 286-288, 294> 154· 155, 156, 161, 167, 186, 190, 204,
315 227, 233, 238, 239, 247, 248, 24g, 257"
Alighieri Dante, 327-328, 329 259, 263, 274, 276, 278, 28o, 282, 286,
Alpctragio, 318 287, 289, 292, 293, 294" 296, 297, 299,
Ambrogio, 201, 205, 210 301, 303, 304, 305, 310, 3n, 312, 318,
Ammonio Sacca, 193 322, 328, 330, 339, 345
Anassagora, 15, 16, 22, 23, 25-27, 28, 46 Arnaldo da Brescia, 269
Anassimandro, 5, 6-7, 13, 16, 17 Arriano, 184
Anassimcne, 5, 7-8, 15, 18, 25, 83 Asclepiade, 170
Andronico, 121 Atanasio, 203
Anselmo d'Aosta, 250, 253-257' 264, 302, Autolico di Pitane, 137
309 Averroè, 273, 274, 277-284, 286, 288, 291,
Antifontc, 52 292, 297, 298, 310, 328, 330
Antioco di Ascalona, 165-166, 168 Avicebron, 251, 259

JSJ

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INDICE DEI NOMI

Avicenna, 250, 251, 257-26o, 261, 280, Diogene di Sinope, 134


287, 291, 298, 322 Diogene Laerzio, 56, 139, 147
Dionigi pseudo-Areopagita, 2071 208,
Bacone Ruggero, 292, 311-316, 318, 319 225-227' 236, 238, 239, 241, 242,
Bartolomeo da Parma, 318 289, 329
Bartolomeo di Salerno, 272 Dioscoride, 178, 247
Basilio, 201, 204, 241 Donato, 206, 238
Beda, 237, 238 Duns Scoto Giovanni, 321, 322-327, 328,
Benedetto di Norcia, 232 332, 343, 346
Berengario di Tours, 251
Bernardo di Chartres, 269, 2']!J. 271 Ecateo di Mileto, 14
Bernardo di Chiaravalle, 26:z, 263, 2701 Eckhart Giovanni, 329-330
271 Egidio Romano, 309
Boezio di Dacia, 311 Empedocle, 15, 16, 22, 23-25, 26, 27,
Boezio Severino, 231 1 2Ji-235, 2381 2631 28, 34, 46, 52• 83, 84, 97, 190
291 Enesidemo, 164, 168-169
Bonatti Guido, 318 Enrico Aristippo, 274
Bonaventura, 292, 294-296 Enrico di Gand, 3o8
Bradwardine Tommaso, 340 Epicuro, 138, 139-145, 146, 151, "167> 170,
Buridano Giovanni, 3381 339"340, 342, 183, 190
343' 345, 349 Epitteto, 179, 184-186
Eraclito, 15, 16-19, 23, 25, 27, 32, 651
Calcidio, 2o6 78, 79, 80
Callippo di Cizico, 136 Erasto, 100
Capella Marziano, 245 Eratostene, 155, 162, 170
Carneade, 157, 158-16o, 166 Ermete Trimegisto, 189
Cassiodoro, 234, 238 Erodoto, 5, 53
Catone, 158, 170 Erofilo di Calcedonia, 154
Celso, 191 Erone, 169-170
Cicerone, 148, 158, 164' 165, 166-167, Eschilo, 29
209> 23,3, 238, 276, 344 Eschine, 98
Cleante, 138, 146, 154 Esiodo, 3-4, II, 69
Clemente Alessandrino, 1881 189-192 Euclide, 10, 13, 52, 153-154, 155, 156,
Clitomaco, 158 170, 2o6, 223, 318, 341, 344
Columella, 178 Euclide di Megara, 55, 56, 95
Cornelio Celso, 177 Eudosso, 96, 114, 137, 162
Costantino Africano, 261 Eusebio, 2o6
Cratilo, 56 Eutiche, 222
Crisippo, 138, 1~147, 157 Eutifrone, 42, 43
Crizia, 36, 55 al-Farabi, 239, 248-249, 26o, 274
al-Fargani, 247
Demetrio di Falero, 138 Fenarete, 36
Democrito, 29, 45-s1, 83, 86, 134, 141, Fibonacci Leonardo, 291
145, 167> 183 Filolao, 30, 52
Demostene, 98, 101 Filippo di Opunte, 97
Diocle di Caristo, 'Il. Filistione di Locri, 97.
Diofanto, 200 • Filodemo, 1&]

J!U

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INDICB DEI NOMI

Filone Ebreo, 172-174 Ippocrate di Chio, 28, 51, 95


Filone di Larissa, 165 Ippolito, 190
Filopono, 227, 238, 339 Ireneo, 181, 190
Firmico Materno, :w6 Imerio, 272
Fozio, 239 Isidoro di Siviglia, 231, 235-236, 237, 238
Isocrate, 34, 54, 101, 137
Galeno, 186, 187, 236, 238, 247, 298
Gaunilone, 256, 257 Kant, 255
Gerardo da Cremona, 247, 273> 274 al-Khuwarizmi, 247
Gcrbcrto di Aurillac, 248 al-Kindi, 239, 247, 248, 274
Gesu, 172, 174-175, 176, 1791 180, 181, Kilwardby Roberto, 309
182, 240
al-Ghazzali, 251, 26o-261, 278, 279 Leucippo, 45
Gherardo da Sabbioncta, 318 Levi ben Gerson, 341
Giacomo da Venezia, 263 Licone, 38
Giamblico, 201, 202-203, 2o6, 223 Licurgo, 138
Gilberto Porretano, 269-270 Lucrezio, 164, 167-168
Gioacchino da Fiore, 273 Lullo Raimondo, 316-318, 319
Giordano Nemorarius, 291
Giovanni Campano, 318 Macedonio, 204
Giovanni Crisostomo, 205 Mani, 189
Giovanni Damasceno, 237 Maometto, 235
Giovanni Evangelista, 179-180 Marco Aurelio, 179, J84-186
Giovanni di Jandun, 330 Marsilio da Padova, 330-331
Giovanni di Salisbury, 269, 271, 273, Massimo il Confessore, 236, 241
274-276 Matteo d'Acquasparta, 308
Girolamo, 205 Matteo di Salerno, 272
Giuliano imperatore, 201, 202, 220 Montano, 190
Giustino, 182 Mosè, 173
Gorgia, 34-36, 40 Mosè Maimonide, 284
Gotescalco, 241
Nestorio, 222
Graziano, 272
Nicola di Amiens, 277
Gregorio Vll, 250, 252
Gregorio di Nazianzo, 201, 204, 241 Nicola di Autrecourt, 338-339
Gregorio di Nissa, 201, 204-205, 241, Nicola di Salerno, 272
Nicomaco di Gerasa, 178, 228
246 Numenio di Apamca, 184
Gregorio Magno, 234, 235
Guglielmo di Champcaux, 263, 264, 265,
Occam Guglielmo, 321, 322, 331-338,
267 346
Guglielmo di Conches, 271
Olivi Pier Giovanni, 308
Guglielmo di Moerbeke, 293, 299, 319,
Omero, 3, II, 17, 69
32 9 Oresme Nicola, 344-345, 348, 349
Guido di Arezzo, 261
Origene, 188, 189-192, 200, 204, 205, 241,
Honayn, 247 246
Ipparco, 162, 186, 223 Orosio Paolo, 228
Ippia di Elide, 52
Ippocrate di Cos, 51, 52-s3, 97, 162, Panezio, 157, 16o-161, 165
187, 236, 247, 2l18 Paolo, 1']2, 175-17fj, 177, 18:z, 225

355

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INDICE DEI NOMI

Pappo, 200 Senofane, 5, u-12, 16, 19


Parmenide, 12, 15, 16, 19-21, 22, 23, 24, Senofonte, 38, 39, 97
25, 27, 34, 35, 36, 65, 77, IIO, 134, 135 Serapione, 162
Peckam Giovanni, 308 Sesto Empirico, 51, 158, 188, 199-200
Pelacani Biagio da Parma, 348, 349 Sigieri di Brabante, 292, 309-311, 328
Pelagio, 217, 218, 222 Socrate, 29, 30, 36-45, 51, 55, 56, 57, 58,
Pericle, 15, 26, 29, 37 59, 61, 63, 68, 73, 83, 93, 95, 105, 146,
Petrarca, 342, 343-344, 347 158, 184, 265, 3JZ, 333, 334, 335
Pier Damiani, 252, 254, 267 Sofocle, 29
Pier Lombardo, 274, 277 Solone, 55
Pietro d'Abano, 340 Speusippo, 133
Pietro di Pisa, 238 Strabone, 170-171
Pietro lspano, 309, 319 Stratone di Lampsaco, 139
Pirrone, 98, 99, 133-136, 145, 146, 16o,
199 Tacito, 178
Pitagora, 3, 5, 8-u, 14, 16, 29, 184 Talete, 4, 5-6, 25, 190
Platone, 3, 5, 12, 30, 33, 37, 38, 39, 42, Teeteto, 95
51, 54, 55-93, 94, 95, 173, 174, 179, Temisone, 170
182, 183, 184, 190, 191, 193, 195, 204, Teodoreto, 228
207, 208, 223, 227' 233, 234, 240, 247, Teodorico di Chartres, 270
248, 265, 269, 270, 274, 3oi, 329, 333, Teodoro di Cirene, 52
334, 344 Teofrasto, 50, 133, 136, 138, 156, 167
Plinio il Vecchio, 178, 245 Teopompo, 137
Plotino, 188, 193-199, 200, 201, 202, 209, Teone, 95
223, 248, 323 Teone di Alessandria, 206
Plutarco, 179, 183-184 Tertulliano, 188, 190
Polibio, 163 Timone di Fliunte, 134, 136
Polibo, 97, 187 Tolomeo, 162, 186, 206, 223, 278, 284,
Porfirio, 193, 209, 233, 248 318
Posidonio, 164, 165, 167, 177 Tommaso d'Aquino, 292, 293, 294, 2g6,
Prassagora di Cos, 137 297, 299-309, 3u, 312, 322, 323, 326,
Prisciano, 238 336
Proclo, 84, 207, 208, 223-225, 227, 329 Trasimaco di Calcedone, 36
Prodico, 36 Tucidide, 53
Protagora, 31-34, 36, 50, 78, 79, So
Varrone, 170
Quintiliano, 178, 269 Vincenzo di Beauvais, 319
Vitruvio, 170
Rabano Mauro, 240
Roberto Grossatesta, 285, 286, 288-290, Witelo, 318
291, 3II Wyclef Giovanni, 343, 346-347
Roscdlino, 263, 264, 265, 266
Zenone di Cizio, 138, 139, 145-146, 147,
Salutati Coluccio, 342, 347-348 148, 153
Scoto Eriugena, 239, 240-247, 264, 329 Zenone di Elea, 15, 16, 22-23, l7, 28,
Scoto Michele, 286 36, 40, 46, 62, g6, 134, 135
Seneca, 172, 176-177, 184, 276, 344 Zosimo, 228

356

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INDICE

Introduzione .• • • . . • . . . . . • • . • • • • . • p. VII
1. La filosofia. - 2. I problemi filosofici. - 3. La storia della filosofia.

PARTE PlllMA

LA FILOSOFIA ANTICA
CAPITOLO I. Il secolo VI a. C. La scuola di Mileto. Pitagora. Senofane • 3
1. Le origini e il mito. - 2. Il periodo. - 3. La scuola di Mileto. - 4. Pita-
gora. - 5. Senofane. - 6. Lo sviluppo dclie scienze.
CAPITOLO II. La prima metà del secolo V. Eraclito. Parmenide e Zenone.
Empedocle. Anassa:;ora . . . . . . . . . . . 15
1. Il periodo. - 2. Eracl~to. - 3. Parmenide. - 4. Zenone. - 5. Empcdocle. -
6. Anassagora. - 7. Lo sviluppo delle scienze.
CAPITOLO III. La seconda metà del secolo V. I Sofisti e Socrate. Demo-
crito . . . . . . . . . . . . . . • . . . . . . . •
I. Il periodo. - 2. Svilu :-pi dcl pitagorismo. - 3. La sofistica. - 4. Protagora. -
5. Gorgia. - 6. Socrate: la vita e la condanna a morte. - 7. Il metodo della
ricerca e la determinazione dell'universale. - 8. Scienza e virtu. - 9. Democrito
e i principii dell'atomismo. - IO. Il sistema atomistico. - u. Lo sviluppo delle
scienze.
CAPITOLO IV. La prima meià del secolo IV. Platone e le scuole socratiche
minori . . . . . . . . . . . . . . . • . · · . · · • 54
1. Il periodo. - 2. Platone: la vita e gli scritti. - 3. L'insegnamento di Socrate
e le sue aporie. - 4. Il primo abbozzo della teoria delle idee. - 5. La critica
della retorica e dell'eristica. - 6. L'amore, la bellezza e il destino dell'anima.
- 7. Educazione, politica e filosofia. - 8. Le difficoltà della dottrina delle
idee. - 9. La trasformazione della dialettica. - 10. L'origine dell'universo e
la formazione del mondo. - II. Conclusioni politiche. - 12. Le scuole socra-
tiche minori. - 13. Lo sviluppo delle scienze.
CAPITOLO V. La seconda metà del secolo IV. Aristotele. Pi"one e lo
scetticismo
1. Il periodo. - 2. Aristotele: la vita e gli scritti. - 3. La logica. - 4. La
fisica. _ 5. La vita, l'anima e la conoscenza. - 6. La metafisica. - 7. L'etica. -
8. La politica. - 9. La poetica. - IO. Pirrone e lo scetticismo. - 11. Lo sviluppo
delle scienze.

357

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INDICB

CAPITOLO VI. Il secolo lii. Epicuro. Lo stoicismo: Zenone. Cleante. Cri-


sippo . . . . . . . • • . . . . . . . . . . . . . • 138
1. Il periodo. - 2. Epicuro: il Canone. - 3. La natura e i fenomeni celesti. -
4. La morale epicurea. - 5. Lo sviluppo della scuola stoica. - 6. La logica
stoica. - 7. La fisica e la teologia degli stoici. - 8. L'etica stoica. - 9. Lo
sviluppo delle scienze: la scuola di Alessandria.

CAPITOLO VII. Il secolo Il. Carneade e Panezio . • • • • • • • 157


I. nperiodo. - 2. n probabilismo di Carneade. - 3· Panczio e la media
Stoa. - 4. Lo sviluppo delle scienze.
CAPITOLO VIII. Il secolo I. Posidonio. Cicerone. Lucrezio. Enesidemo. 164
1. Il periodo. - 2. Lo stoicismo di Posidonio. - 3. Cicerone e l'Acadcmia. -
4. L'epicureismo di Lucrezio. - 5. Il neo scetticismo di Encsidcmo. - 6. Lo
sviluppo delle scienze.

CAPITOLO IX. Il I secolo dell'~ra cristiana. Filone. La predicazione di


Gesu e S. Paolo. Seneca . . • . . . . . . . . . . . . . rp
I. n periodo. - 2. Filone e l'incontro di filosofia greca e religione ebraica. -
3. La predicazione di Gesu. - 4. S. Paolo. - 5. Seneca e lo stoicismo romano. •
6. Lo sviluppo delle scienze.

CAPITOLO X. Il Il secolo. Gnosi religiosa e pensiero cristiano. Plutarco.


Epitteto. Marco Aurelio. . . . . . . . • • . . . . . . • 179
I. Il periodo. - 2. Il vangelo di S. Giovanni. - 3. La gnosi. - 4. Gli apologisti. -
5. Plutarco e il platonismo di ispirazione religiosa. - 6. Gli ultimi sviluppi
dello stoicismo romano: Epittcto e Marco Aurelio. - 7. Lo sviluppo delle
scienze.

CAPITOLO XI. Il secolo lii. La scuola cristiana di Alessandria. Clemente


e Origene. Plotino • . . . . . . . . . . . • . . . • • 188
I. Il periodo. - 2. Sviluppi esoterici e religiosi. - 3. Sviluppi dcl pensiero ai-
stiano e la scuola di Alessandria: Clemente e Origcnc. - 4. Il neo-platonismo
di Plotino: l'Uno. - 5. Il processo dell'emanazione. - 6. L'uomo e il suo
destino. - 7. Sesto Empirico e la sintesi scettica. - 8. Lo sviluppo delle scienze.
CAPITOLO XII. Il secolo IV. Giamblico. Ario e il gruppo di Cappadocia 201
I.Il periodo. - 2. Il neo-platonismo di Giamblico. - 3. Ario e il concilio di
Nicea. - 4. Il gruppo di Cappadocia. - 5. Lo sviluppo delle scienze.
CAPITOLO XIII. Il secolo V. Agostino. Proclo. Dionigi pseudo-Areopagita 207
J. Il periodo. - 2. Agostino: dal manicheismo al cristianesimo. - 3. Gli cle-
menti del platonismo cristiano di Agostino. - 4. Il sistema platonico-cristiano
di Agostino. • 5. Agostino difensore della verità cristiana. - 6. La città di
Dio. - 7. Nuovi contrasti teologici. - 8. Proclo. - 9. Dionigi pscudo-Arcopa·
gita. - 10. La fine dcl pensiero antico. - u. Lo sviluppo delle scienze.

358

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INDICI

PARTE SECONDA

LA FILOSOFIA MEDIEVALE

CAPITOLO XIV. I secoli VI, Vll e Vlll. Boezio. Isidoro di Siviglia.


Alcuino
1. L'inizio dcl Medioevo. - 2. Il secolo VI: Boezio. - 3. Il secolo VII: Isidoro
di Siviglia. - 4. Il secolo VIII: la rinascita carolingia e Alcuino.

CAPITOLO XV. I secoli IX e X. Scolo Eriugena ed al-Farabi . • • . . 239


I. Il secolo IX. - 2. Scoto Eriugena e la cultura del suo tempo. - 3. Fede e
ragione. - 4. La concezione neo-platonica dell'universo. - 5. Lo sviluppo delle
scienze presso gli Arabi. - 6. Il secolo X e al-Farabi.

CAPITOLO XVI. Il secolo Xl. Anselmo d'Aosta. Avicenna e il pensiero


·arabo . • • . . . • . . . . . . . • . . . . • • . . 250
I. Il periodo. - 2. Dialettici cd anti-dialettici. - 3· Anselmo d'Aosta. - 4· Avi-
cenna e il pensiero arabo. - 5. Lo sviluppo delle scienze.

CAPITOLO XVII. La prima metà del secolo Xli. Abelardo e la scuola di


ehartres • • • . • • • • • • • . • • • . • . . . . • :z62
1. Il periodo. - 2. Abelardo: la logica e la polemica contro Rosccllino e
Guglielmo di Champeaux. - 3. Abelardo e il conflitto con Bernardo a pro-
posito dei rapporti fra ragione e fede. - 4. La scuola di Chartrcs. - 5. Lo
sviluppo delle scienze. ·

CAPITOLO XVIII. La seconda metà del secolo XIJ. Giovanni di Salis-


bury ed Ave"oè . .· . . . • . . . . . . . . . . • . • 273
1. Il periodo. - 2. Giovanni di Salisbury. - 3. Sviluppi delle scuole in Francia. -
4. Averroè. - 5. Lo sviluppo delle scienze.

CAPITOLO XIX. La prima metà del secolo Xlii. Alessandro di Hales e


Roberto Grossatesta • • . • . • . • • . • . . . . • • • 2.85
1. Il periodo. - 2. Alessandro di Hales e l'università di Parigi. - 3. Roberto
Grossatesta e l'università di Oxford. - 4. Lo sviluppo delle scienze.
CAPITOLO XX. La seconda metà del secolo Xlll. Bonaventura. Alberto
Magno. Tommaso d'Aquino. Sigieri. Ruggero Bacone. Lullo . . . 292
1. Il periodo. - 2. Bonaventura. • 3. Alberto Magno. - 4. Tommaso d'Aquino:
il rapporto tra fede e ragione. • 5. L'aristotelismo di Tommaso e la dimo-
strazione dell'esistenza di Dio. - 6. Il naturalismo di Tommaso; l'etica e la
politica. - 7. La Facoltà delle arti a Parigi e Sigieri di Brabante. - 8. Il
platonismo cristiano di Ruggcr~ Bacone·. - 9. Il rinnovamento religioso e lo
sviluppo della scienza. - 10. Raimondo Lullo. - n. Lo sviluppo delle scienze.

359

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INDICE

CAPITOLO XXI. La prima metà del secolo XIV. Da Duns Scolo a Gu-
glielmo d"Occam . . . , . . . . . . . . . . . . . . . 321
1. Il periodo. - 2. Giovanni Duns Scoto: fede e ragione. - 3. La fondazione
della conoscenza necessaria. - 4. La metafisica rigorosa di Duns Scoto. •
5. Dante Alighieri. - 6. Eckhart. • 7. Giovanni di Jandun e Marsilio da
Padova. - 8. Guglielmo d'Occam; la logica. - 9. La conoscenza umana e i
suoi limiti. - 10. La soluzione fideistica di Occam. - n. Il movimento occa·
mista e Buridano. - 12. Lo sviluppo delle scienze.

CAPITOLO XXII. La seconda metà del secolo XIV. La scuola di Buri-


dano. ·Wyclef . . . • . • • • . . . . . . • . . . . · 342
1. Il periodo. - 2. Petrarca. - 3. Lo sviluppo della scuola di Buridano. -
4. Giovanni Wyclef. - 5. Coluccio Salutati. • 6. Lo sviluppo delle scienze.

Nota bibliografica 351


Indice dei nomi .. . . . . . . . . .... • 353

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