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UNIVERSITÁ PONTIFICIA SALESIANA

Facoltà di Filosofia

RELAZIONE
TRA
FEDE
E
RAGIONE
Uno sguardo storico-prospettico
sul rapporto tra filosofia e teologia

Dispensa ad uso interno


per gli studenti del corso

FA0161
RELAZIONE TRA FEDE E RAGIONE (5 ECTS)

2013
©

Mauro MANTOVANI

Roma, a.a. 2012/2013


1
Introduzione

Ci interessa qui entrare in merito alla relazione tra fede e ragione, ed al suo interno, del
rapporto tra filosofia e teologia.
Quanto si presenta in questo testo, che costituisce un sussidio didattico alle lezioni
accademiche e che per questo non pretende di poter esibire né completezza né esaustività rispetto ai
temi e agli autori che vengono trattati, vuole essere uno strumento utile per lo studio specifico –
peraltro richiesto dal Decreto di riforma degli studi ecclesiastici di filosofia pubblicato dalla
Congregazione per l’Educazione Cattolica il 28 gennaio 2011 – della relazione tra fede e ragione.
Nel contesto di una rinnovata valorizzazione degli studi ecclesiastici di filosofia, fortemente
caldeggiata dall’Enciclica di papa Giovanni Paolo II Fides et ratio [FR]1 – testo cui faremo assai
spesso riferimento in queste pagine, unitamente a vari testi di papa Benedetto XVI – il Decreto
richiede infatti che tra le materie obbligatorie complementari del curricolo di I ciclo degli studi
filosofici venga annoverato «lo studio delle relazioni tra ragione e fede cristiana ovvero tra filosofia
e teologia, da un punto di vista sistematico e storico, attento a salvaguardare tanto l’autonomia dei
campi quanto il loro legame».2
In queste pagine prendiamo allora in considerazione, con uno sguardo storico-prospettico,
ciò che si è prodotto dal punto di vista della storia del pensiero e della cultura – soprattutto
occidentale – da quando emerse storicamente una nuova forza culturale, il cristianesimo (che nei
suoi inizi si esprime in una cultura semitica specifica, proveniente dal popolo di Israele, e che poi si
espanderà rapidamente in tutte le aree culturali del mondo classico), che si è subito confrontata con
la classicità: fin dall’inizio il tema/problema di questo rapporto dibattuto (Pietro e Paolo), tra
posizioni anche di vigorosa opposizione (Taziano, Tertulliano, ecc.) e altre di prudente confronto
(Giustino, Clemente Alessandrino, ecc.). Tratteremo di questi argomenti più dettagliatamente in una
apposita sezione.
Risultante di un travaglio di secoli, è che la novità cristiana si è coniugata con la classicità
dando origine, per l’Occidente, alla cultura cristiana; la filosofia classica fornì numerosi
fondamenti “intrinseci” all’umana sapienza, il cristianesimo ne fornì di “estrinseci”.3
Anzitutto, cosa intendere per fede?
In occasione dell’Annus fidei (ottobre 2012 – ottobre 2013) Papa Benedetto XVI così si è
espresso nelle sue prime catechesi sul tema della fede:
Che cosa è la fede? Ha ancora senso la fede in un mondo in cui scienza e tecnica hanno aperto orizzonti
fino a poco tempo fa impensabili? Che cosa significa credere oggi? In effetti, nel nostro tempo è
necessaria una rinnovata educazione alla fede, che comprenda certo una conoscenza delle sue verità e
degli eventi della salvezza, ma che soprattutto nasca da un vero incontro con Dio in Gesù Cristo,
dall’amarlo, dal dare fiducia a Lui, così che tutta la vita ne sia coinvolta.
Oggi, insieme a tanti segni di bene, cresce intorno a noi anche un certo deserto spirituale. A volte, si ha
come la sensazione, da certi avvenimenti di cui abbiamo notizia tutti i giorni, che il mondo non vada
verso la costruzione di una comunità più fraterna e più pacifica; le stesse idee di progresso e di benessere
mostrano anche le loro ombre. Nonostante la grandezza delle scoperte della scienza e dei successi della
tecnica, oggi l’uomo non sembra diventato veramente più libero, più umano; permangono tante forme di

1
Cf. GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Fides et ratio, LEV, Città del Vaticano 1998.
2
CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Decreto di riforma degi studi ecclesiastici di filosofia, LEV, Città
del Vaticano 2011, II Parte, art. 60, b. Significativo il fatto che a questo punto il Decreto rimandi esplicitamente al n. 75
della FR, ove si respinge «la teoria della cosiddetta filosofia ‘separata’» che «costituisce la rivendicazione di una
autosufficienza di pensiero,» riconfermando anche una certa indipendenza: «la filosofia manifesta la legittima
aspirazione ad essere un’impresa autonoma, che procede cioè secondo le leggi sue proprie, avvalendosi delle sole forze
della ragione».
3
Cf. C. PAVANETTO, L’apporto della cultura greco-romana alla diffusione del messaggio evangelico, in M.
MANTOVANI - S. THURUTHIYIL - M. TOSO (a cura), Fede e ragione. Opposizione, composizione?, Las, Roma 1999, pp.
29-36. L’Autore tratta delle traduzioni della Scrittura, della praeparatio fidei del genio della cultura greca e dell’impero
romano, del discernimento degli scrittori cristiani.
2
sfruttamento, di manipolazione, di violenza, di sopraffazione, di ingiustizia… Un certo tipo di cultura,
poi, ha educato a muoversi solo nell’orizzonte delle cose, del fattibile, a credere solo in ciò che si vede e
si tocca con le proprie mani. D’altra parte, però, cresce anche il numero di quanti si sentono disorientati e,
nella ricerca di andare oltre una visione solo orizzontale della realtà, sono disponibili a credere a tutto e al
suo contrario. In questo contesto riemergono alcune domande fondamentali, che sono molto più concrete
di quanto appaiano a prima vista: che senso ha vivere? C’è un futuro per l’uomo, per noi e per le nuove
generazioni? In che direzione orientare le scelte della nostra libertà per un esito buono e felice della vita?
Che cosa ci aspetta oltre la soglia della morte?
Da queste insopprimibili domande emerge come il mondo della pianificazione, del calcolo esatto e della
sperimentazione, in una parola il sapere della scienza, pur importante per la vita dell’uomo, da solo non
basta. Noi abbiamo bisogno non solo del pane materiale, abbiamo bisogno di amore, di significato e di
speranza, di un fondamento sicuro, di un terreno solido che ci aiuti a vivere con un senso autentico anche
nella crisi, nelle oscurità, nelle difficoltà e nei problemi quotidiani. La fede ci dona proprio questo: è un
fiducioso affidarsi a un ‘Tu’, che è Dio, il quale mi dà una certezza diversa, ma non meno solida di quella
che mi viene dal calcolo esatto o dalla scienza. La fede non è un semplice assenso intellettuale dell’uomo
a delle verità particolari su Dio; è un atto con cui mi affido liberamente a un Dio che è Padre e mi ama; è
adesione a un ‘Tu’ che mi dona speranza e fiducia. Certo questa adesione a Dio non è priva di contenuti:
con essa siamo consapevoli che Dio stesso si è mostrato a noi in Cristo, ha fatto vedere il suo volto e si è
fatto realmente vicino a ciascuno di noi. Anzi, Dio ha rivelato che il suo amore verso l’uomo, verso
ciascuno di noi, è senza misura: sulla Croce, Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio fatto uomo, ci mostra nel
modo più luminoso a che punto arriva questo amore, fino al dono di se stesso, fino al sacrificio totale.
Con il mistero della Morte e Risurrezione di Cristo, Dio scende fino in fondo nella nostra umanità per
riportarla a Lui, per elevarla alla sua altezza. La fede è credere a questo amore di Dio che non viene meno
di fronte alla malvagità dell’uomo, di fronte al male e alla morte, ma è capace di trasformare ogni forma
di schiavitù, donando la possibilità della salvezza. Avere fede, allora, è incontrare questo ‘Tu’, Dio, che
mi sostiene e mi accorda la promessa di un amore indistruttibile che non solo aspira all’eternità, ma la
dona; è affidarmi a Dio con l’atteggiamento del bambino, il quale sa bene che tutte le sue difficoltà, tutti i
suoi problemi sono al sicuro nel ‘tu’ della madre. E questa possibilità di salvezza attraverso la fede è un
dono che Dio offre a tutti gli uomini. Penso che dovremmo meditare più spesso - nella nostra vita
quotidiana, caratterizzata da problemi e situazioni a volte drammatiche –sul fatto che credere
cristianamente significa questo abbandonarmi con fiducia al senso profondo che sostiene me e il mondo,
quel senso che noi non siamo in grado di darci, ma solo di ricevere come dono, e che è il fondamento su
cui possiamo vivere senza paura. E questa certezza liberante e rassicurante della fede dobbiamo essere
capaci di annunciarla con la parola e di mostrarla con la nostra vita di cristiani.
Attorno a noi, però, vediamo ogni giorno che molti rimangono indifferenti o rifiutano di accogliere questo
annuncio. Alla fine del Vangelo di Marco, […] abbiamo parole dure del Risorto che dice : ‘Chi crederà e
sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato’ (Mc 16,16), perde se stesso. Vorrei
invitarvi a riflettere su questo. La fiducia nell’azione dello Spirito Santo, ci deve spingere sempre ad
andare e predicare il Vangelo, alla coraggiosa testimonianza della fede; ma, oltre alla possibilità di una
risposta positiva al dono della fede, vi è anche il rischio del rifiuto del Vangelo, della non accoglienza
dell’incontro vitale con Cristo. Già sant’Agostino poneva questo problema in un suo commento alla
parabola del seminatore: ‘Noi parliamo - diceva -, gettiamo il seme, spargiamo il seme. Ci sono quelli che
disprezzano, quelli che rimproverano, quelli che irridono. Se noi temiamo costoro, non abbiamo più nulla
da seminare e il giorno della mietitura resteremo senza raccolto. Perciò venga il seme della terra buona’
(Discorsi sulla disciplina cristiana, 13,14: PL 40, 677-678). Il rifiuto, dunque, non può scoraggiarci.
Come cristiani siamo testimonianza di questo terreno fertile: la nostra fede, pur nei nostri limiti, mostra
che esiste la terra buona, dove il seme della Parola di Dio produce frutti abbondanti di giustizia, di pace e
di amore, di nuova umanità, di salvezza. E tutta la storia della Chiesa, con tutti i problemi, dimostra anche
che esiste la terra buona, esiste il seme buono, e porta frutto.
Ma chiediamoci: da dove attinge l’uomo quell’apertura del cuore e della mente per credere nel Dio che si
è reso visibile in Gesù Cristo morto e risorto, per accogliere la sua salvezza, così che Lui e il suo Vangelo
siano la guida e la luce dell’esistenza? Risposta: noi possiamo credere in Dio perché Egli si avvicina a noi
e ci tocca, perché lo Spirito Santo, dono del Risorto, ci rende capaci di accogliere il Dio vivente. La fede
allora è anzitutto un dono soprannaturale, un dono di Dio. Il Concilio Vaticano II afferma: ‘Perché si
possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre, e sono necessari gli aiuti
interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia “a
tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità”’ (Cost. dogm. Dei Verbum, 5). Alla base del nostro
cammino di fede c’è il Battesimo, il sacramento che ci dona lo Spirito Santo, facendoci diventare figli di
Dio in Cristo, e segna l’ingresso nella comunità della fede, nella Chiesa: non si crede da sé, senza il
prevenire della grazia dello Spirito; e non si crede da soli, ma insieme ai fratelli. Dal Battesimo in poi
ogni credente è chiamato a ri-vivere e fare propria questa confessione di fede, insieme ai fratelli.

3
La fede è dono di Dio, ma è anche atto profondamente libero e umano. Il Catechismo della Chiesa
Cattolica lo dice con chiarezza: ‘È impossibile credere senza la grazia e gli aiuti interiori dello Spirito
Santo. Non è però meno vero che credere è un atto autenticamente umano. Non è contrario né alla libertà
né all’intelligenza dell’uomo’ (n. 154). Anzi, le implica e le esalta, in una scommessa di vita che è come
un esodo, cioè un uscire da se stessi, dalle proprie sicurezze, dai propri schemi mentali, per affidarsi
all’azione di Dio che ci indica la sua strada per conseguire la vera libertà, la nostra identità umana, la
gioia vera del cuore, la pace con tutti. Credere è affidarsi in tutta libertà e con gioia al disegno
provvidenziale di Dio sulla storia, come fece il patriarca Abramo, come fece Maria di Nazaret. La fede
allora è un assenso con cui la nostra mente e il nostro cuore dicono il loro ‘sì’ a Dio, confessando che
Gesù è il Signore. E questo ‘sì’ trasforma la vita, le apre la strada verso una pienezza di significato, la
rende così nuova, ricca di gioia e di speranza affidabile.
Cari amici, il nostro tempo richiede cristiani che siano stati afferrati da Cristo, che crescano nella fede
grazie alla familiarità con la Sacra Scrittura e i Sacramenti. Persone che siano quasi un libro aperto che
narra l’esperienza della vita nuova nello Spirito, la presenza di quel Dio che ci sorregge nel cammino e ci
apre alla vita che non avrà mai fine.4

Il Credo, afferma papa Benedetto XVI in una catechesi del 2013, è la solenne professione di
fede che accompagna la nostra vita di credenti. Comincia così: “Io credo in Dio”.

È un’affermazione fondamentale, apparentemente semplice nella sua essenzialità, ma che apre all’infinito
mondo del rapporto con il Signore e con il suo mistero. Credere in Dio implica adesione a Lui,
accoglienza della sua Parola e obbedienza gioiosa alla sua rivelazione. Come insegna il Catechismo della
Chiesa Cattolica, ‘la fede è un atto personale: è la libera risposta dell’uomo all’iniziativa di Dio che si
rivela’ (n. 166). Poter dire di credere in Dio è dunque insieme un dono – Dio si rivela, va incontro a noi –
e un impegno, è grazia divina e responsabilità umana, in un’esperienza di dialogo con Dio che, per amore,
‘parla agli uomini come ad amici’ (Dei Verbum, 2), parla a noi affinché, nella fede e con la fede,
possiamo entrare in comunione con Lui.
Dove possiamo ascoltare Dio e la sua parola? Fondamentale è la Sacra Scrittura, in cui la Parola di Dio si
fa udibile per noi e alimenta la nostra vita di ‘amici’ di Dio. Tutta la Bibbia racconta il rivelarsi di Dio
all’umanità; tutta la Bibbia parla di fede e ci insegna la fede narrando una storia in cui Dio porta avanti il
suo progetto di redenzione e si fa vicino a noi uomini, attraverso tante luminose figure di persone che
credono in Lui e a Lui si affidano, fino alla pienezza della rivelazione nel Signore Gesù.
Molto bello, a questo riguardo, è il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei […]. Qui si parla della fede e si
mettono in luce le grandi figure bibliche che l’hanno vissuta, diventando modello per tutti i credenti. Dice
il testo nel primo versetto: ‘La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede’
(11,1). Gli occhi della fede sono dunque capaci di vedere l’invisibile e il cuore del credente può sperare
oltre ogni speranza, proprio come Abramo, di cui Paolo dice nella Lettera ai Romani che ‘credette, saldo
nella speranza contro ogni speranza’ (4,18).
Ed è proprio su Abramo, che vorrei soffermarmi e soffermare la nostra attenzione, perché è lui la prima
grande figura di riferimento per parlare di fede in Dio: Abramo il grande patriarca, modello esemplare,
padre di tutti i credenti (cfr Rm 4,11-12). La Lettera agli Ebrei lo presenta così: ‘Per fede, Abramo,
chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove
andava. Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le
tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città
dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso’ (11,8-10).
L’autore della Lettera agli Ebrei fa qui riferimento alla chiamata di Abramo, narrata nel Libro della
Genesi, il primo libro della Bibbia. Che cosa chiede Dio a questo patriarca? Gli chiede di partire
abbandonando la propria terra per andare verso il paese che gli mostrerà, ‘Vattene dalla tua terra, dalla tua
parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò’ (Gen 12,1). Come avremmo risposto
noi a un invito simile? Si tratta, infatti, di una partenza al buio, senza sapere dove Dio lo condurrà; è un
cammino che chiede un’obbedienza e una fiducia radicali, a cui solo la fede consente di accedere. Ma il
buio dell’ignoto – dove Abramo deve andare – è rischiarato dalla luce di una promessa; Dio aggiunge al
comando una parola rassicurante che apre davanti ad Abramo un futuro di vita in pienezza: ‘Farò di te
una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome… e in te si diranno benedette tutte le
famiglie della terra’ (Gen 12,2.3).
La benedizione, nella Sacra Scrittura, è collegata primariamente al dono della vita che viene da Dio e si
manifesta innanzitutto nella fecondità, in una vita che si moltiplica, passando di generazione in
generazione. E alla benedizione è collegata anche l’esperienza del possesso di una terra, di un luogo

4
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 24 ottobre 2012); ID., Porta Fidei, LEV, Città del
Vaticano 2011.
4
stabile in cui vivere e crescere in libertà e sicurezza, temendo Dio e costruendo una società di uomini
fedeli all’Alleanza, ‘regno di sacerdoti e nazione santa’ (cfr. Es 19,6).
Perciò Abramo, nel progetto divino, è destinato a diventare ‘padre di una moltitudine di popoli’ (Gen
17,5; cfr Rm 4,17-18) e ad entrare in una nuova terra dove abitare. Eppure Sara, sua moglie, è sterile, non
può avere figli; e il paese verso cui Dio lo conduce è lontano dalla sua terra d’origine, è già abitato da
altre popolazioni, e non gli apparterrà mai veramente. Il narratore biblico lo sottolinea, pur con molta
discrezione: quando Abramo giunge nel luogo della promessa di Dio: ‘nel paese si trovavano allora i
Cananei’ (Gen 12,6). La terra che Dio dona ad Abramo non gli appartiene, egli è uno straniero e tale
resterà sempre, con tutto ciò che questo comporta: non avere mire di possesso, sentire sempre la propria
povertà, vedere tutto come dono. Questa è anche la condizione spirituale di chi accetta di seguire il
Signore, di chi decide di partire accogliendo la sua chiamata, sotto il segno della sua invisibile ma potente
benedizione. E Abramo, ‘padre dei credenti’, accetta questa chiamata, nella fede. Scrive san Paolo nella
Lettera ai Romani: ‘Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti
popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già
come morto il proprio corpo – aveva circa cento anni – e morto il seno di Sara. Di fronte alla promessa di
Dio non esitò per incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che
quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento’ (Rm 4,18-21).
La fede conduce Abramo a percorrere un cammino paradossale. Egli sarà benedetto ma senza i segni
visibili della benedizione: riceve la promessa di diventare grande popolo, ma con una vita segnata dalla
sterilità della moglie Sara; viene condotto in una nuova patria ma vi dovrà vivere come straniero; e
l’unico possesso della terra che gli sarà consentito sarà quello di un pezzo di terreno per seppellirvi Sara
(cfr Gen 23,1-20). Abramo è benedetto perché, nella fede, sa discernere la benedizione divina andando al
di là delle apparenze, confidando nella presenza di Dio anche quando le sue vie gli appaiono misteriose.
Che cosa significa questo per noi? Quando affermiamo: ‘Io credo in Dio’, diciamo come Abramo: ‘Mi
fido di Te; mi affido a Te, Signore’, ma non come a Qualcuno a cui ricorrere solo nei momenti di
difficoltà o a cui dedicare qualche momento della giornata o della settimana. Dire ‘Io credo in Dio’
significa fondare su di Lui la mia vita, lasciare che la sua Parola la orienti ogni giorno, nelle scelte
concrete, senza paura di perdere qualcosa di me stesso.
Quando, nel Rito del Battesimo, per tre volte viene richiesto: ‘Credete?’ in Dio, in Gesù Cristo, nello
Spirito Santo, la santa Chiesa Cattolica e le altre verità di fede, la triplice risposta è al singolare: ‘Credo’,
perché è la mia esistenza personale che deve ricevere una svolta con il dono della fede, è la mia esistenza
che deve cambiare, convertirsi. Ogni volta che partecipiamo ad un Battesimo dovremmo chiederci come
viviamo quotidianamente il grande dono della fede.
Abramo, il credente, ci insegna la fede; e, da straniero sulla terra, ci indica la vera patria. La fede ci rende
pellegrini sulla terra, inseriti nel mondo e nella storia, ma in cammino verso la patria celeste. Credere in
Dio ci rende dunque portatori di valori che spesso non coincidono con la moda e l’opinione del momento,
ci chiede di adottare criteri e assumere comportamenti che non appartengono al comune modo di pensare.
Il cristiano non deve avere timore di andare ‘controcorrente’ per vivere la propria fede, resistendo alla
tentazione di ‘uniformarsi’. In tante nostre società Dio è diventato il ‘grande assente’ e al suo posto vi
sono molti idoli, diversissimi idoli e soprattutto il possesso e l’‘io’ autonomo. E anche i notevoli e positivi
progressi della scienza e della tecnica hanno indotto nell’uomo un’illusione di onnipotenza e di
autosufficienza, e un crescente egocentrismo ha creato non pochi squilibri all’interno dei rapporti
interpersonali e dei comportamenti sociali.
Eppure, la sete di Dio (cfr. Sal 63,2) non si è estinta e il messaggio evangelico continua a risuonare
attraverso le parole e le opere di tanti uomini e donne di fede. Abramo, il padre dei credenti, continua ad
essere padre di molti figli che accettano di camminare sulle sue orme e si mettono in cammino, in
obbedienza alla vocazione divina, confidando nella presenza benevola del Signore e accogliendo la sua
benedizione per farsi benedizione per tutti. È il mondo benedetto della fede a cui tutti siamo chiamati, per
camminare senza paura seguendo il Signore Gesù Cristo. Ed è un cammino talvolta difficile, che conosce
anche la prova e la morte, ma che apre alla vita, in una trasformazione radicale della realtà che solo gli
occhi della fede sono in grado di vedere e gustare in pienezza.
Affermare ‘Io credo in Dio’ ci spinge, allora, a partire, ad uscire continuamente da noi stessi, proprio
come Abramo, per portare nella realtà quotidiana in cui viviamo la certezza che ci viene dalla fede: la
certezza, cioè, della presenza di Dio nella storia, anche oggi; una presenza che porta vita e salvezza, e ci
apre ad un futuro con Lui per una pienezza di vita che non conoscerà mai tramonto.5

5
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 23 gennaio 2013).
5
I contenuti di fede (fides quae) espressi nel Credo iniziano qualificando Dio come “Padre
Onnipotente”, ed aggiungendo subito che Egli è il “Creatore del cielo e della terra”, riprendendo
così l’affermazione con cui inizia la Bibbia, che nel suo primo versetto (Gen 1, 1) afferma che «In
principio Dio creò il cielo e la terra» ed Egli è dunque l’origine di tutte le cose e nella bellezza della
creazione si dispiega la Sua onnipotenza di Padre che ama. Il tema di Dio come Creatore del cielo e
della terra, e Creatore dell'essere umano, è indubbiamente uno dei punti sui quali il rapporto tra fede
e ragione viene immediatamente interpellato. Così lo commenta papa Benedetto XVI:
Dio si manifesta come Padre nella creazione, in quanto origine della vita, e, nel creare, mostra la sua
onnipotenza. Le immagini usate dalla Sacra Scrittura al riguardo sono molto suggestive (cfr Is 40,12;
45,18; 48,13; Sal 104,2.5; 135,7; Pr 8, 27-29; Gb 38–39). Egli, come un Padre buono e potente, si prende
cura di ciò che ha creato con un amore e una fedeltà che non vengono mai meno, dicono ripetutamente i
salmi (cfr Sal 57,11; 108,5; 36,6). Così, la creazione diventa luogo in cui conoscere e riconoscere
l’onnipotenza del Signore e la sua bontà, e diventa appello alla fede di noi credenti perché proclamiamo
Dio come Creatore. ‘Per fede, - scrive l’autore della Lettera agli Ebrei - noi sappiamo che i mondi furono
formati dalla parola di Dio, sicché dall’invisibile ha preso origine il mondo visibile’ (11,3). La fede
implica dunque di saper riconoscere l’invisibile individuandone la traccia nel mondo visibile. Il credente
può leggere il grande libro della natura e intenderne il linguaggio (cfr Sal 19,2-5); ma è necessaria la
Parola di rivelazione, che suscita la fede, perché l’uomo possa giungere alla piena consapevolezza della
realtà di Dio come Creatore e Padre. È nel libro della Sacra Scrittura che l’intelligenza umana può
trovare, alla luce della fede, la chiave di interpretazione per comprendere il mondo. In particolare, occupa
un posto speciale il primo capitolo della Genesi, con la solenne presentazione dell’opera creatrice divina
che si dispiega lungo sette giorni: in sei giorni Dio porta a compimento la creazione e il settimo giorno, il
sabato, cessa da ogni attività e si riposa. Giorno della libertà per tutti, giorno della comunione con Dio. E
così, con questa immagine, il libro della Genesi ci indica che il primo pensiero di Dio era trovare un
amore che risponda al suo amore. Il secondo pensiero è poi creare un mondo materiale dove collocare
questo amore, queste creature che in libertà gli rispondono. Tale struttura, quindi, fa sì che il testo sia
scandito da alcune ripetizioni significative. Per sei volte, ad esempio, viene ripetuta la frase: ‘Dio vide che
era cosa buona’ (vv. 4.10.12.18.21.25), per concludere, la settima volta, dopo la creazione dell’uomo:
‘Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona’ (v. 31). Tutto ciò che Dio crea è bello e
buono, intriso di sapienza e di amore; l’azione creatrice di Dio porta ordine, immette armonia, dona
bellezza. Nel racconto della Genesi poi emerge che il Signore crea con la sua parola: per dieci volte si
legge nel testo l’espressione ‘Dio disse’ (vv. 3.6.9.11.14.20.24.26.28.29). È la parola, il Logos di Dio che
è l'origine della realtà del mondo e dicendo: ‘Dio disse’, fu così, sottolinea la potenza efficace della
Parola divina. Così canta il Salmista: ‘Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua
bocca ogni loro schiera…, perché egli parlò e tutto fu creato, comandò e tutto fu compiuto’ (33,6.9). La
vita sorge, il mondo esiste, perché tutto obbedisce alla Parola divina.
Ma la nostra domanda oggi è: nell’epoca della scienza e della tecnica, ha ancora senso parlare di
creazione? Come dobbiamo comprendere le narrazioni della Genesi? La Bibbia non vuole essere un
manuale di scienze naturali; vuole invece far comprendere la verità autentica e profonda delle cose. La
verità fondamentale che i racconti della Genesi ci svelano è che il mondo non è un insieme di forze tra
loro contrastanti, ma ha la sua origine e la sua stabilità nel Logos, nella Ragione eterna di Dio, che
continua a sorreggere l’universo. C’è un disegno sul mondo che nasce da questa Ragione, dallo Spirito
creatore. Credere che alla base di tutto ci sia questo, illumina ogni aspetto dell’esistenza e dà il coraggio
di affrontare con fiducia e con speranza l’avventura della vita. Quindi, la scrittura ci dice che l'origine
dell'essere, del mondo, la nostra origine non è l'irrazionale e la necessità, ma la ragione e l'amore e la
libertà. Da questo l'alternativa: o priorità dell'irrazionale, della necessità, o priorità della ragione, della
libertà, dell'amore. Noi crediamo in questa ultima posizione.
Ma vorrei dire una parola anche su quello che è il vertice dell’intera creazione: l’uomo e la donna,
l’essere umano, l’unico ‘capace di conoscere e di amare il suo Creatore’ (Cost. past. Gaudium et spes,
12). Il Salmista guardando i cieli si chiede: ‘Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le
stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne
curi?’ (8,4-5). L’essere umano, creato con amore da Dio, è ben piccola cosa davanti all’immensità
dell’universo; a volte, guardando affascinati le enormi distese del firmamento, anche noi abbiamo
percepito la nostra limitatezza. L’essere umano è abitato da questo paradosso: la nostra piccolezza e la
nostra caducità convivono con la grandezza di ciò che l’amore eterno di Dio ha voluto per lui.
I racconti della creazione nel Libro della Genesi ci introducono anche in questo misterioso ambito,
aiutandoci a conoscere il progetto di Dio sull’uomo. Anzitutto affermano che Dio formò l’uomo con la
polvere della terra (cfr Gen 2,7). Questo significa che non siamo Dio, non ci siamo fatti da soli, siamo
terra; ma significa anche che veniamo dalla terra buona, per opera del Creatore buono. A questo si
6
aggiunge un’altra realtà fondamentale: tutti gli esseri umani sono polvere, al di là delle distinzioni operate
dalla cultura e dalla storia, al di là di ogni differenza sociale; siamo un’unica umanità plasmata con
l’unica terra di Dio. Vi è poi un secondo elemento: l’essere umano ha origine perché Dio soffia l’alito di
vita nel corpo modellato dalla terra (cfr Gen 2,7). L’essere umano è fatto a immagine e somiglianza di
Dio (cfr Gen 1,26-27). Tutti allora portiamo in noi l’alito vitale di Dio e ogni vita umana – ci dice la
Bibbia – sta sotto la particolare protezione di Dio. Questa è la ragione più profonda dell’inviolabilità della
dignità umana contro ogni tentazione di valutare la persona secondo criteri utilitaristici e di potere.
L’essere ad immagine e somiglianza di Dio indica poi che l’uomo non è chiuso in se stesso, ma ha un
riferimento essenziale in Dio.
Nei primi capitoli del Libro della Genesi troviamo due immagini significative: il giardino con l’albero
della conoscenza del bene e del male e il serpente (cfr 2,15-17; 3,1-5). Il giardino ci dice che la realtà in
cui Dio ha posto l’essere umano non è una foresta selvaggia, ma luogo che protegge, nutre e sostiene; e
l’uomo deve riconoscere il mondo non come proprietà da saccheggiare e da sfruttare, ma come dono del
Creatore, segno della sua volontà salvifica, dono da coltivare e custodire, da far crescere e sviluppare nel
rispetto, nell’armonia, seguendone i ritmi e la logica, secondo il disegno di Dio (cfr Gen 2,8-15). Poi, il
serpente è una figura che deriva dai culti orientali della fecondità, che affascinavano Israele e costituivano
una costante tentazione di abbandonare la misteriosa alleanza con Dio. Alla luce di questo, la Sacra
Scrittura presenta la tentazione che subiscono Adamo ed Eva come il nocciolo della tentazione e del
peccato. Che cosa dice infatti il serpente? Non nega Dio, ma insinua una domanda subdola: ‘È vero che
Dio ha detto “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino?”’ (Gen 3,1). In questo modo il serpente
suscita il sospetto che l’alleanza con Dio sia come una catena che lega, che priva della libertà e delle cose
più belle e preziose della vita. La tentazione diventa quella di costruirsi da soli il mondo in cui vivere, di
non accettare i limiti dell’essere creatura, i limiti del bene e del male, della moralità; la dipendenza
dall’amore creatore di Dio è vista come un peso di cui liberarsi. Questo è sempre il nocciolo della
tentazione. Ma quando si falsa il rapporto con Dio, con una menzogna, mettendosi al suo posto, tutti gli
altri rapporti vengono alterati. Allora l’altro diventa un rivale, una minaccia: Adamo, dopo aver ceduto
alla tentazione, accusa immediatamente Eva (cfr Gen 3,12); i due si nascondono dalla vista di quel Dio
con cui conversavano in amicizia (cfr 3,8-10); il mondo non è più il giardino in cui vivere con armonia,
ma un luogo da sfruttare e nel quale si celano insidie (cfr 3,14-19); l’invidia e l’odio verso l’altro entrano
nel cuore dell’uomo: esemplare è Caino che uccide il proprio fratello Abele (cfr 4,3-9). Andando contro il
suo Creatore, in realtà l’uomo va contro se stesso, rinnega la sua origine e dunque la sua verità; e il male
entra nel mondo, con la sua penosa catena di dolore e di morte. E così quanto Dio aveva creato era buono,
anzi, molto buono, dopo questa libera decisione dell'uomo per la menzogna contro la verità, il male entra
nel mondo.
Dei racconti della creazione, vorrei evidenziare un ultimo insegnamento: il peccato genera peccato e tutti
i peccati della storia sono legati tra di loro. Questo aspetto ci spinge a parlare di quello che è chiamato il
‘peccato originale’. Qual è il significato di questa realtà, difficile da comprendere? Vorrei dare soltanto
qualche elemento. Anzitutto dobbiamo considerare che nessun uomo è chiuso in se stesso, nessuno può
vivere solo di sé e per sé; noi riceviamo la vita dall’altro e non solo al momento della nascita, ma ogni
giorno. L’essere umano è relazione: io sono me stesso solo nel tu e attraverso il tu, nella relazione
dell’amore con il Tu di Dio e il tu degli altri. Ebbene, il peccato è turbare o distruggere la relazione con
Dio, questa la sua essenza: distruggere la relazione con Dio, la relazione fondamentale, mettersi al posto
di Dio. Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che con il primo peccato l’uomo ‘ha fatto la scelta
di se stesso contro Dio, contro le esigenze della propria condizione creaturale e conseguentemente contro
il proprio bene’ (n. 398). Turbata la relazione fondamentale, sono compromessi o distrutti anche gli altri
poli della relazione, il peccato rovina le relazioni, così rovina tutto, perché noi siamo relazione. Ora, se la
struttura relazionale dell’umanità è turbata fin dall’inizio, ogni uomo entra in un mondo segnato da questo
turbamento delle relazioni, entra in un mondo turbato dal peccato, da cui viene segnato personalmente; il
peccato iniziale intacca e ferisce la natura umana (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 404-406). E
l’uomo da solo, uno solo non può uscire da questa situazione, non può redimersi da solo; solamente il
Creatore stesso può ripristinare le giuste relazioni. Solo se Colui dal quale ci siamo allontanati viene a noi
e ci tende la mano con amore, le giuste relazioni possono essere riannodate. Questo avviene in Gesù
Cristo, che compie esattamente il percorso inverso di quello di Adamo, come descrive l’inno nel secondo
capitolo della Lettera di San Paolo ai Filippesi (2,5-11): mentre Adamo non riconosce il suo essere
creatura e vuole porsi al posto di Dio, Gesù, il Figlio di Dio, è in una relazione filiale perfetta con il
Padre, si abbassa, diventa il servo, percorre la via dell’amore umiliandosi fino alla morte di croce, per
rimettere in ordine le relazioni con Dio. La Croce di Cristo diventa così il nuovo albero della vita.
Cari fratelli e sorelle, vivere di fede vuol dire riconoscere la grandezza di Dio e accettare la nostra
piccolezza, la nostra condizione di creature lasciando che il Signore la ricolmi del suo amore e così cresca
la nostra vera grandezza. Il male, con il suo carico di dolore e di sofferenza, è un mistero che viene

7
illuminato dalla luce della fede, che ci dà la certezza di poterne essere liberati: la certezza che è bene
essere un uomo».6

In prospettiva cristiana, oggetto della fede il Dio Uni-Trino, creatore, provvidente,


trascendente, personale (queste quattro caratteristiche escludono ogni prospettiva immanentistica,
dualista, panteista, o deista) che si è rivelato prima indirettamente e poi direttamente in Cristo:
questa è una fede di carattere trascendente, poggiata sulla stabilità del Logos, della Ragione eterna
di Dio,7 e che diventa metro per valutare ed eventualmente confutare altre prospettive o esperienze
di carattere religioso o sapienziale.

Papa Benedetto XVI nel corso di un’altra delle sue catechesi per l’Anno della fede ha voluto
sottolineare esplicitamente il tema della “ragionevolezza” della fede in Dio, delle verità di fede.

Queste verità non sono un semplice messaggio su Dio, una particolare informazione su di Lui. Esprimono
invece l’evento dell’incontro di Dio con gli uomini, incontro salvifico e liberante, che realizza le
aspirazioni più profonde dell’uomo, i suoi aneliti di pace, di fraternità, di amore. La fede porta a scoprire
che l’incontro con Dio valorizza, perfeziona ed eleva quanto di vero, di buono e di bello c’è nell’uomo.
Accade così che, mentre Dio si rivela e si lascia conoscere, l’uomo viene a sapere chi è Dio e,
conoscendolo, scopre se stesso, la propria origine, il proprio destino, la grandezza e la dignità della vita
umana.
La fede permette un sapere autentico su Dio che coinvolge tutta la persona umana: è un ‘sàpereì, cioè un
conoscere che dona sapore alla vita, un gusto nuovo d’esistere, un modo gioioso di stare al mondo. La
fede si esprime nel dono di sé per gli altri, nella fraternità che rende solidali, capaci di amare, vincendo la
solitudine che rende tristi. Questa conoscenza di Dio attraverso la fede non è perciò solo intellettuale, ma
vitale. È la conoscenza di Dio-Amore, grazie al suo stesso amore. L’amore di Dio poi fa vedere, apre gli
occhi, permette di conoscere tutta la realtà, oltre le prospettive anguste dell’individualismo e del
soggettivismo che disorientano le coscienze. La conoscenza di Dio è perciò esperienza di fede e implica,
nel contempo, un cammino intellettuale e morale: toccati nel profondo dalla presenza dello Spirito di
Gesù in noi, superiamo gli orizzonti dei nostri egoismi e ci apriamo ai veri valori dell’esistenza. […]
La tradizione cattolica sin dall’inizio ha rigettato il cosiddetto fideismo, che è la volontà di credere contro
la ragione. Credo quia absurdum (credo perché è assurdo) non è formula che interpreti la fede cattolica.
Dio, infatti, non è assurdo, semmai è mistero. Il mistero, a sua volta, non è irrazionale, ma
sovrabbondanza di senso, di significato, di verità. Se, guardando al mistero, la ragione vede buio, non è
perché nel mistero non ci sia luce, ma piuttosto perché ce n’è troppa. Così come quando gli occhi
dell’uomo si dirigono direttamente al sole per guardarlo, vedono solo tenebra; ma chi direbbe che il sole
non è luminoso, anzi la fonte della luce? La fede permette di guardare il ‘sole’, Dio, perché è accoglienza
della sua rivelazione nella storia e, per così dire, riceve veramente tutta la luminosità del mistero di Dio,
riconoscendo il grande miracolo: Dio si è avvicinato all’uomo, si è offerto alla sua conoscenza,
accondiscendendo al limite creaturale della sua ragione (cfr Conc. Ec. Vat. II, Cost. dogm. Dei Verbum,
13). Allo stesso tempo, Dio, con la sua grazia, illumina la ragione, le apre orizzonti nuovi,
incommensurabili e infiniti. Per questo, la fede costituisce uno stimolo a cercare sempre, a non fermarsi
mai e a mai quietarsi nella scoperta inesausta della verità e della realtà. È falso il pregiudizio di certi
pensatori moderni, secondo i quali la ragione umana verrebbe come bloccata dai dogmi della fede. È vero
esattamente il contrario, come i grandi maestri della tradizione cattolica hanno dimostrato. Sant’Agostino,
prima della sua conversione, cerca con tanta inquietudine la verità, attraverso tutte le filosofie disponibili,
trovandole tutte insoddisfacenti. La sua faticosa ricerca razionale è per lui una significativa pedagogia per
l’incontro con la Verità di Cristo. Quando dice: ‘comprendi per credere e credi per comprendere’
(Discorso 43, 9: PL 38, 258), è come se raccontasse la propria esperienza di vita. Intelletto e fede, dinanzi
alla divina Rivelazione non sono estranei o antagonisti, ma sono ambedue condizioni per comprenderne il
senso, per recepirne il messaggio autentico, accostandosi alla soglia del mistero. Sant’Agostino, insieme a
tanti altri autori cristiani, è testimone di una fede che si esercita con la ragione, che pensa e invita a
pensare. Su questa scia, Sant’Anselmo dirà nel suo Proslogion che la fede cattolica è fides quaerens
intellectum, dove il cercare l’intelligenza è atto interiore al credere. Sarà soprattutto San Tommaso
d’Aquino – forte di questa tradizione – a confrontarsi con la ragione dei filosofi, mostrando quanta nuova

6
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 6 febbraio 2013).
7
Cf., su questo tema, F. CARDERI - M. MANTOVANI - G. PERILLO (a cura), Momenti del Logos. Ricerche del “Progetto
LERS” (Logos, Episteme, Ratio, Scientia) in memoria di Marilena Amerise e di Marco Arosio, Edizioni Nuova Cultura,
Roma 2012, in particolare il contributo di P. Coda, Il logos oggi e l’eredità di Gesù Cristo (pp. 727-743).
8
feconda vitalità razionale deriva al pensiero umano dall’innesto dei principi e delle verità della fede
cristiana.
La fede cattolica è dunque ragionevole e nutre fiducia anche nella ragione umana. Il Concilio Vaticano I,
nella Costituzione dogmatica Dei Filius, ha affermato che la ragione è in grado di conoscere con certezza
l’esistenza di Dio attraverso la via della creazione, mentre solo alla fede appartiene la possibilità di
conoscere ‘facilmente, con assoluta certezza e senza errore’ (DS 3005) le verità che riguardano Dio, alla
luce della grazia. La conoscenza della fede, inoltre, non è contro la retta ragione. Il Beato Papa Giovanni
Paolo II, infatti, nell’Enciclica Fides et ratio, sintetizza così: ‘La ragione dell’uomo non si annulla né si
avvilisce dando l’assenso ai contenuti di fede; questi sono in ogni caso raggiunti con scelta libera e
consapevole’ (n. 43). Nell’irresistibile desiderio di verità, solo un armonico rapporto tra fede e ragione è
la strada giusta che conduce a Dio e al pieno compimento di sé.
Questa dottrina è facilmente riconoscibile in tutto il Nuovo Testamento. San Paolo, scrivendo ai cristiani
di Corinto, sostiene, come abbiamo sentito: ‘Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza,
noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani’ (1 Cor 1,22-23).
Dio, infatti, ha salvato il mondo non con un atto di potenza, ma mediante l’umiliazione del suo Figlio
unigenito: secondo i parametri umani, l’insolita modalità attuata da Dio stride con le esigenze della
sapienza greca. Eppure, la Croce di Cristo ha una sua ragione, che San Paolo chiama: ho lògos tou
staurou, ‘la parola della croce’ (1 Cor 1,18). Qui, il termine lògos indica tanto la parola quanto la ragione
e, se allude alla parola, è perché esprime verbalmente ciò che la ragione elabora. Dunque, Paolo vede
nella Croce non un avvenimento irrazionale, ma un fatto salvifico che possiede una propria
ragionevolezza riconoscibile alla luce della fede. Allo stesso tempo, egli ha talmente fiducia nella ragione
umana, al punto da meravigliarsi per il fatto che molti, pur vedendo le opere compiute da Dio, si ostinano
a non credere in Lui. Dice nella Lettera ai Romani: ‘Infatti le … perfezioni invisibili [di Dio], ossia la sua
eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere
da lui compiute’ (1,20). Così, anche S. Pietro esorta i cristiani della diaspora ad adorare ‘il Signore,
Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in
voi’ (1 Pt 3,15). In un clima di persecuzione e di forte esigenza di testimoniare la fede, ai credenti viene
chiesto di giustificare con motivazioni fondate la loro adesione alla parola del Vangelo, di dare la ragione
della nostra speranza.
Su queste premesse circa il nesso fecondo tra comprendere e credere, si fonda anche il rapporto virtuoso
fra scienza e fede. La ricerca scientifica porta alla conoscenza di verità sempre nuove sull’uomo e sul
cosmo, lo vediamo. Il vero bene dell’umanità, accessibile nella fede, apre l’orizzonte nel quale si deve
muovere il suo cammino di scoperta. Vanno pertanto incoraggiate, ad esempio, le ricerche poste a
servizio della vita e miranti a debellare le malattie. Importanti sono anche le indagini volte a scoprire i
segreti del nostro pianeta e dell’universo, nella consapevolezza che l’uomo è al vertice della creazione
non per sfruttarla insensatamente, ma per custodirla e renderla abitabile. Così la fede, vissuta realmente,
non entra in conflitto con la scienza, piuttosto coopera con essa, offrendo criteri basilari perché promuova
il bene di tutti, chiedendole di rinunciare solo a quei tentativi che - opponendosi al progetto originario di
Dio - possono produrre effetti che si ritorcono contro l’uomo stesso. Anche per questo è ragionevole
credere: se la scienza è una preziosa alleata della fede per la comprensione del disegno di Dio
nell’universo, la fede permette al progresso scientifico di realizzarsi sempre per il bene e per la verità
dell’uomo, restando fedele a questo stesso disegno
Ecco perché è decisivo per l’uomo aprirsi alla fede e conoscere Dio e il suo progetto di salvezza in Gesù
Cristo. Nel Vangelo viene inaugurato un nuovo umanesimo, un’autentica ‘grammatica’ dell'uomo e di
tutta la realtà. Afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica: ‘La verità di Dio è la sua sapienza che regge
l’ordine della creazione e del governo del mondo. Dio che, da solo, “ha fatto cielo e terra” (Sal 115,15),
può donare, egli solo, la vera conoscenza di ogni cosa creata nella relazione con lui’ (n. 216). […]
Senza Dio, infatti, l’uomo smarrisce se stesso. Le testimonianze di quanti ci hanno preceduto e hanno
dedicato la loro vita al Vangelo lo confermano per sempre. È ragionevole credere, è in gioco la nostra
esistenza. Vale la pena di spendersi per Cristo, Lui solo appaga i desideri di verità e di bene radicati
nell’anima di ogni uomo: ora, nel tempo che passa, e nel giorno senza fine dell’Eternità beata.8

Il testo della FR ribadisce in modo molto chiaro, del resto, che la verità che ci proviene dalla
Rivelazione è, nello stesso tempo, una verità che va compresa alla luce della ragione.

Il rapporto tra la verità rivelata e la filosofia […] impone una duplice considerazione, in quanto
la verità che ci proviene dalla Rivelazione è, nello stesso tempo, una verità che va compresa alla

8
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 7 novembre 2012).
9
luce della ragione. Solo in questa duplice accezione, infatti, è possibile precisare la giusta
relazione della verità rivelata con il sapere filosofico.9

È questo l’ambito nel quale ci addentreremo nelle pagine che seguono, suddivise in tre
capitoli intirnsecamente interconnessi. Nel primo, considereremo i “requisiti essenziali” della fede
cristiana in funzione del rapporto tra fede cristiana e filosofia, nel capitolo seguente entreremo in
merito ai lineamenti storici del rapporto tra riflessione teologica e filosofica, per poi passare nel
terzo capitolo ad esaminare il rapporto fede/ragione secondo l’insegnamento ecclesiale dal
Concilio Vaticano I in poi. Il capitolo quarto tratterà dell’emblematica discussione occorsa nel XX
secolo a proposito del tema della filosofia cristiana, per poi offrire nel quinto capitolo alcune
considerazioni finali ed una proposta teoretica complessiva.
La filosofia si rapporta dunque vitalmente con la fede; non dovrà essere strumentalizzata ad
essa medesima, riservandosi l’autonomia della riflessione sui fondamenti intrinseci-estrinseci del
reale, che rende possibile come suo effetto il dialogo inter-intelligente e mostra la possibilità di un
corretto rapporto tra i due ordini di conoscenza (duplex ordo cognitionis),10 tema che a nostro
avviso permane come fondamentale nella considerazone della relazione tra fede e ragione, e tra
filosofia e teologia.

9
FR, n. 35.
10
Cf. ib. Cf. C. CHENIS, “Quid est veritas”? Valore della “ratio” nei processi veritativi secondo la “mens” della
Chiesa, in M. MANTOVANI - S. THURUTHIYIL - M. TOSO (a cura), Fede e ragione, cit., pp. 85-105; V. POSSENTI,
Filosofia e rivelazione. Un contributo al dibattito su ragione e fede, Roma 1999.
10
1. Requisiti essenziali della fede cristiana in funzione del rapporto fede/filosofia

Per il cristianesimo, all’uomo, impegnato nel cammino interminabile di ricerca di verità e di


una persona a cui affidarsi, la fede cristiana viene effettivamente incontro con l’offerta della
possibilità concreta di vedere che lo scopo di questa ricerca si realizza.

Superando lo stadio della semplice credenza, infatti, essa immette l’uomo in quell’ordine di grazia che gli
consente di partecipare al mistero di Cristo, nel quale gli è offerta la conoscenza vera e coerente del Dio
Uno e Trino. Così in Gesù Cristo, che è la Verità, la fede riconosce l’ultimo appello che viene rivolto
all’umanità, perché possa dare compimento a ciò che sperimenta come desiderio e nostalgia.
[Gesù] è la Parola eterna, in cui tutto è stato creato, ed è insieme la Parola incarnata, che in tutta la sua
persona rivela il Padre (cfr Gv 1, 14.18). Ciò che la ragione umana cerca ‘senza conoscerlo’ (cfr At 17,
23), può essere trovato soltanto per mezzo di Cristo: ciò che in Lui si rivela, infatti, è la ‘piena verità’ (cfr
Gv 1, 14-16) di ogni essere che in Lui e per Lui è stato creato e quindi in Lui trova compimento (cfr Col
1, 17).11

Per la fede cristiana, come si diceva, oggetto della fede è Dio Uno-Trino, rivelato
definitivamente da Cristo. La fede cristiana ha una insopprimibile dimensione storica, rinviandosi
ad una rivelazione; tutta la storia sotto l’insegna della fede viene ad essere “storia della salvezza” e
“luogo di realizzazione e di conoscenza” della rivelazione stessa.

Il Cap. I della FR, “La Rivelazione della Sapienza di Dio”, inizia proprio indicando il fatto
che per il cristianesimo è anzitutto Dio, fonte di amore, che “desidera farsi conoscere”.

Alla base di ogni riflessione che la Chiesa compie vi è la consapevolezza di essere depositaria di un
messaggio che ha la sua origine in Dio stesso (cfr 2 Cor 4, 1-2). La conoscenza che essa propone all'uomo
non le proviene da una sua propria speculazione, fosse anche la più alta, ma dall'aver accolto nella fede la
parola di Dio (cfr 1 Tess 2, 13). All'origine del nostro essere credenti vi è un incontro, unico nel suo
genere, che segna il dischiudersi di un mistero nascosto nei secoli (cfr 1 Cor 2, 7; Rm 16, 25-26), ma ora
rivelato: ‘Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua
volontà (cfr Ef 1, 9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito
Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura’. E, questa, un’iniziativa
pienamente gratuita, che parte da Dio per raggiungere l'umanità e salvarla. Dio, in quanto fonte di amore,
desidera farsi conoscere, e la conoscenza che l'uomo ha di lui porta a compimento ogni altra vera
conoscenza che la sua mente è in grado di raggiungere circa il senso della propria esistenza.12

Cristo, come ribadito dal Vaticano II e dalla FR, è mediatore e pienezza di tutta la
rivelazione.

Al Concilio Vaticano II i Padri, puntando lo sguardo su Gesù rivelatore, hanno illustrato il carattere
salvifico della rivelazione di Dio nella storia e ne hanno espresso la natura nel modo seguente: ‘Con
questa rivelazione, Dio invisibile (cfr Col 1, 15; 1 Tm 1, 17) nel suo immenso amore parla agli uomini
come ad amici (cfr Es 33, 11; Gv 15, 14-15) e si intrattiene con essi (cfr Bar 3, 38) per invitarli ed
ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della Rivelazione avviene con eventi e parole
intimamente connessi tra loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza,
manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e
chiariscono il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, su Dio e sulla salvezza degli uomini, per
mezzo di questa Rivelazione risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta
la rivelazione’.13

11
FR, n. 34.
12
Ib., n. 7.
13
Ib., n. 10.
11
La Rivelazione di Dio è dunque inserita nel tempo e nella storia: la vita dell’uomo e il
destino della storia trovano in Cristo la luce per comprenderne la verità ultima.

La rivelazione di Dio, dunque, si inserisce nel tempo e nella storia. L’incarnazione di Gesù Cristo, anzi,
avviene nella ‘pienezza del tempo’ (Gal 4, 4). A duemila anni di distanza da quell’evento, sento il dovere
di riaffermare con forza che ‘nel cristianesimo il tempo ha un’importanza fondamentale’. In esso, infatti,
viene alla luce l’intera opera della creazione e della salvezza e, soprattutto, emerge il fatto che con
l’incarnazione del Figlio di Dio noi viviamo e anticipiamo fin da ora ciò che sarà il compimento del
tempo (cfr Eb 1, 2).
La verità che Dio ha consegnato all’uomo su se stesso e sulla sua vita si inserisce, quindi, nel tempo e
nella storia. Certo, essa è stata pronunciata una volta per tutte nel mistero di Gesù di Nazareth. […]
La storia, pertanto, costituisce per il Popolo di Dio un cammino da percorrere interamente, così che la
verità rivelata esprima in pienezza i suoi contenuti grazie all’azione incessante dello Spirito Santo (cfr Gv
16, 13). […]
La storia, quindi, diventa il luogo in cui possiamo costatare l’agire di Dio a favore dell’umanità. Egli ci
raggiunge in ciò che per noi è più familiare e facile da verificare, perché costituisce il nostro contesto
quotidiano, senza il quale non riusciremmo a comprenderci.
L’incarnazione del Figlio di Dio permette di vedere attuata la sintesi definitiva che la mente umana,
partendo da sé, non avrebbe neppure potuto immaginare: l’Eterno entra nel tempo, il Tutto si nasconde
nel frammento, Dio assume il volto dell’uomo. La verità espressa nella Rivelazione di Cristo, dunque,
non è più rinchiusa in un ristretto ambito territoriale e culturale, ma si apre a ogni uomo e donna che
voglia accoglierla come parola definitivamente valida per dare senso all’esistenza. Ora, tutti hanno in
Cristo accesso al Padre; con la sua morte e risurrezione, infatti, Egli ha donato la vita divina che il primo
Adamo aveva rifiutato (cfr Rm 5, 12-15). Con questa Rivelazione viene offerta all’uomo la verità ultima
sulla propria vita e sul destino della storia: ‘In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera
luce il mistero dell’uomo’, afferma la Costituzione Gaudium et spes. Al di fuori di questa prospettiva il
mistero dell’esistenza personale rimane un enigma insolubile. Dove l’uomo potrebbe cercare la risposta
ad interrogativi drammatici come quelli del dolore, della sofferenza dell’innocente e della morte, se non
nella luce che promana dal mistero della passione, morte e risurrezione di Cristo?.14

Dalla fede procede quindi un’ermeneutica storica globale che si appropria in modo dialettico
della tradizione (reazione e superamento) e la vicenda storica contingente è considerata perfettibile
in un cammino di fede verso la santità, il cui archetipo misurabile è Gesù di Nazareth.15

La Rivelazione, che è Cristo, provoca la mente dell’uomo a non fermarsi mai e diventa per
esso una “vera stella di orientamento”.
La Rivelazione immette nella storia un punto di riferimento da cui l’uomo non può prescindere, se vuole
arrivare a comprendere il mistero della sua esistenza; dall’altra parte, però, questa conoscenza rinvia
costantemente al mistero di Dio che la mente non può esaurire, ma solo ricevere e accogliere nella fede.
All’interno di questi due momenti, la ragione possiede un suo spazio peculiare che le permette di indagare
e comprendere, senza essere limitata da null’altro che dalla sua finitezza di fronte al mistero infinito di
Dio.
La Rivelazione, pertanto, immette nella nostra storia una verità universale e ultima che provoca la mente
dell’uomo a non fermarsi mai; la spinge, anzi, ad allargare continuamente gli spazi del proprio sapere fino
a quando non avverte di avere compiuto quanto era in suo potere, senza nulla tralasciare. […]
La verità della Rivelazione cristiana, che si incontra in Gesù di Nazareth, permette a chiunque di
accogliere il ‘mistero’ della propria vita. Come verità suprema, essa, mentre rispetta l’autonomia della
creatura e la sua libertà, la impegna ad aprirsi alla trascendenza. Qui il rapporto libertà e verità diventa
sommo e si comprende in pienezza la parola del Signore: ‘Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi’
(Gv 8, 32).
La Rivelazione cristiana è la vera stella di orientamento per l’uomo che avanza tra i condizionamenti
della mentalità immanentistica e le strettoie di una logica tecnocratica; è l’ultima possibilità che viene
offerta da Dio per ritrovare in pienezza il progetto originario di amore, iniziato con la creazione.
All’uomo desideroso di conoscere il vero, se ancora è capace di guardare oltre se stesso e di innalzare lo

14
Ib., nn. 11-12.
15
Cf. A. AMATO, “La Verità che è Cristo” (FR, n. 92). Riflessioni cristologiche sull’Enciclica “Fides et ratio”, in M.
MANTOVANI - S. THURUTHIYIL - M. TOSO (a cura), Fede e ragione, cit., pp. 195-207.
12
sguardo al di là dei propri progetti, è data la possibilità di recuperare il genuino rapporto con la sua vita,
seguendo la strada della verità. […]
Alla luce di queste considerazioni, una prima conclusione si impone: la verità che la Rivelazione ci fa
conoscere non è il frutto maturo o il punto culminante di un pensiero elaborato dalla ragione. Essa,
invece, si presenta con la caratteristica della gratuità, produce pensiero e chiede di essere accolta come
espressione di amore. Questa verità rivelata è anticipo, posto nella nostra storia, di quella visione ultima e
definitiva di Dio che è riservata a quanti credono in lui o lo ricercano con cuore sincero. Il fine ultimo
dell’esistenza personale, dunque, è oggetto di studio sia della filosofia che della teologia. Ambedue,
anche se con mezzi e contenuti diversi, prospettano questo «sentiero della vita» (Sal 16 [15], 11) che,
come la fede ci dice, ha il suo sbocco ultimo nella gioia piena e duratura della contemplazione del Dio
Uno e Trino.16

Il Cap. II di FR, dal titolo “Credo ut intellegam”, evidenzia, a partire dall’ambito della fede,
il legame profondo tra la conoscenza di fede e quella di ragione. Ne scorriamo le argomentazioni.

‘La sapienza tutto conosce e tutto comprende’ (Sap 9, 11). Quanto profondo sia il legame tra la
conoscenza di fede e quella di ragione è indicato già nella Sacra Scrittura con spunti di sorprendente
chiarezza. Lo documentano soprattutto i Libri sapienziali. Ciò che colpisce nella lettura, fatta senza
preconcetti, di queste pagine della Scrittura è il fatto che in questi testi venga racchiusa non soltanto la
fede di Israele, ma anche il tesoro di civiltà e di culture ormai scomparse. Quasi per un disegno
particolare, l’Egitto e la Mesopotamia fanno sentire di nuovo la loro voce ed alcuni tratti comuni delle
culture dell’antico Oriente vengono riportati in vita in queste pagine ricche di intuizioni singolarmente
profonde.
Non è un caso che, nel momento in cui l’autore sacro vuole descrivere l’uomo saggio, lo dipinga come
colui che ama e ricerca la verità: […] (Sir 14, 20-27). Per l’autore ispirato […] il desiderio di conoscere è
una caratteristica che accomuna tutti gli uomini. Grazie all’intelligenza è data a tutti, sia credenti che non
credenti, la possibilità di ‘attingere alle acque profonde’ della conoscenza (cfr Pro 20, 5). Certo,
nell’antico Israele la conoscenza del mondo e dei suoi fenomeni non avveniva per via di astrazione, come
per il filosofo ionico o il saggio egiziano. Ancor meno il buon israelita concepiva la conoscenza con i
parametri propri dell’epoca moderna, tesa maggiormente alla divisione del sapere. Nonostante questo, il
mondo biblico ha fatto confluire nel grande mare della teoria della conoscenza il suo apporto originale.
Quale? La peculiarità che distingue il testo biblico consiste nella convinzione che esista una profonda e
inscindibile unità tra la conoscenza della ragione e quella della fede. Il mondo e ciò che accade in esso,
come pure la storia e le diverse vicende del popolo, sono realtà che vengono guardate, analizzate e
giudicate con i mezzi propri della ragione, ma senza che la fede resti estranea a questo processo. Essa non
interviene per umiliare l’autonomia della ragione o per ridurne lo spazio di azione, ma solo per far
comprendere all’uomo che in questi eventi si rende visibile e agisce il Dio di Israele. Conoscere a fondo il
mondo e gli avvenimenti della storia non è, pertanto, possibile senza confessare al contempo la fede in
Dio che in essi opera. La fede affina lo sguardo interiore aprendo la mente a scoprire, nel fluire degli
eventi, la presenza operante della Provvidenza. Un’espressione del libro dei Proverbi è significativa in
proposito: ‘La mente dell’uomo pensa molto alla sua via, ma il Signore dirige i suoi passi’ (16, 9). Come
dire, l’uomo con la luce della ragione sa riconoscere la sua strada, ma la può percorrere in maniera
spedita, senza ostacoli e fino alla fine, se con animo retto inserisce la sua ricerca nell’orizzonte della fede.
La ragione e la fede, pertanto, non possono essere separate senza che venga meno per l’uomo la
possibilità di conoscere in modo adeguato se stesso, il mondo e Dio.17

Secondo la rivelazione biblica, non ha motivo di esistere competitività tra la ragione e la


fede, perché “l’una è nell’altra, e ciascuna ha il suo spazio proprio di realizzazione”, poiché Dio e
l’uomo, nel loro rispettivo mondo, sono posti in un rapporto unico. Ciò comporta anche il fatto che
la ragione deve rispettare alcune regole, per esprimere al meglio la propria natura.

In Dio risiede l’origine di ogni cosa, in Lui si raccoglie la pienezza del mistero, e questo costituisce la sua
gloria; all’uomo spetta il compito di investigare con la sua ragione la verità, e in ciò consiste la sua
nobiltà. […]

16
Ib., nn. 14-15.
17
Ib., n. 16.
13
Il desiderio di conoscere è così grande e comporta un tale dinamismo, che il cuore dell’uomo, pur
nell’esperienza del limite invalicabile, sospira verso l’infinita ricchezza che sta oltre, perché intuisce che
in essa è custodita la risposta appagante per ogni questione ancora irrisolta. […]
Possiamo dire, pertanto, che Israele con la sua riflessione ha saputo aprire alla ragione la via verso il
mistero. Nella rivelazione di Dio ha potuto scandagliare in profondità quanto con la ragione cercava di
raggiungere senza riuscirvi. A partire da questa più profonda forma di conoscenza, il popolo eletto ha
capito che la ragione deve rispettare alcune regole di fondo per poter esprimere al meglio la propria
natura. Una prima regola consiste nel tener conto del fatto che la conoscenza dell’uomo è un cammino
che non ha sosta; la seconda nasce dalla consapevolezza che su tale strada non ci si può porre con
l’orgoglio di chi pensa che tutto sia frutto di personale conquista; una terza si fonda nel ‘timore di Dio’,
del quale la ragione deve riconoscere la sovrana trascendenza ed insieme il provvido amore nel governo
del mondo.
Quando s’allontana da queste regole, l’uomo s’espone al rischio del fallimento e finisce per trovarsi nella
condizione dello ‘stolto’. Per la Bibbia, in questa stoltezza è insita una minaccia per la vita. Lo stolto
infatti si illude di conoscere molte cose, ma in realtà non è capace di fissare lo sguardo su quelle
essenziali. Ciò gli impedisce di porre ordine nella sua mente (cfr Pro 1, 7) e di assumere un atteggiamento
adeguato nei confronti di se stesso e dell’ambiente circostante. Quando poi giunge ad affermare ‘Dio non
esiste’ (cfr Sal 14 [13], 1), rivela con definitiva chiarezza quanto la sua conoscenza sia carente e quanto
lontano egli sia dalla verità piena sulle cose, sulla loro origine e sul loro destino.18

Già secondo l’AT il meraviglioso “libro della natura” è il primo stadio della rivelazione
divina: leggendo esso, “con gli strumenti propri della ragione umana, si può giungere alla
conoscenza del Creatore”. In questa prospettiva, la ragione viene valorizzata, anche se non
sopravvalutata.

Alcuni testi importanti, che gettano ulteriore luce su questo argomento, sono contenuti nel Libro della
Sapienza. In essi l’Autore sacro parla di Dio che si fa conoscere anche attraverso la natura. Per gli antichi
lo studio delle scienze naturali coincideva in gran parte con il sapere filosofico. Dopo aver affermato che
con la sua intelligenza l’uomo è in grado di ‘comprendere la struttura del mondo e la forza degli elementi
[...] il ciclo degli anni e la posizione degli astri, la natura degli animali e l’istinto delle fiere’ (Sap 7,
17.19-20), in una parola, che è capace di filosofare, il testo sacro compie un passo in avanti di grande
rilievo. Ricuperando il pensiero della filosofia greca, a cui sembra riferirsi in questo contesto, l’Autore
afferma che, proprio ragionando sulla natura, si può risalire al Creatore: ‘Dalla grandezza e bellezza delle
creature, per analogia si conosce l’autore’ (Sap 13, 5). Viene quindi riconosciuto un primo stadio della
Rivelazione divina, costituito dal meraviglioso ‘libro della natura’, leggendo il quale, con gli strumenti
propri della ragione umana, si può giungere alla conoscenza del Creatore. Se l’uomo con la sua
intelligenza non arriva a riconoscere Dio creatore di tutto, ciò non è dovuto tanto alla mancanza di un
mezzo adeguato, quanto piuttosto all’impedimento frapposto dalla sua libera volontà e dal suo peccato.
La ragione, in questa prospettiva, viene valorizzata, ma non sopravvalutata. Quanto essa raggiunge,
infatti, può essere vero, ma acquista pieno significato solamente se il suo contenuto viene posto in un
orizzonte più ampio, quello della fede: ‘Dal Signore sono diretti i passi dell’uomo e come può l’uomo
comprendere la propria via?’ (Pro 20, 24).
Per l’Antico Testamento, pertanto, la fede libera la ragione in quanto le permette di raggiungere
coerentemente il suo oggetto di conoscenza e di collocarlo in quell’ordine supremo in cui tutto acquista
senso. In una parola, l’uomo con la ragione raggiunge la verità, perché illuminato dalla fede scopre il
senso profondo di ogni cosa e, in particolare, della propria esistenza. Giustamente, dunque, l’autore sacro
pone l’inizio della vera conoscenza proprio nel timore di Dio: ‘Il timore del Signore è il principio della
scienza’ (Pro 1, 7; cfr Sir 1, 14).19

La conoscenza, così come intesa dall’AT, «non si fonda soltanto su una attenta osservazione
dell’uomo, del mondo e della storia, ma suppone anche un indispensabile rapporto con la fede e con
i contenuti della rivelazione». Nonostante il continuo ricatto del dubbio, il credente non si arrende
nella comprensione dei disegni di Dio.

Riflettendo su questa sua condizione, l’uomo biblico ha scoperto di non potersi comprendere se non come
‘essere in relazione’: con se stesso, con il popolo, con il mondo e con Dio. Questa apertura al mistero, che

18
Ib., nn. 17-18.
19
Ib., nn. 19-20.
14
gli veniva dalla Rivelazione, è stata alla fine per lui la fonte di una vera conoscenza, che ha permesso alla
sua ragione di immettersi in spazi di infinito, ricevendone possibilità di comprensione fino allora
insperate.
Lo sforzo della ricerca non era esente, per l’Autore sacro, dalla fatica derivante dallo scontro con i limiti
della ragione. Lo si avverte, ad esempio, nelle parole con cui il Libro dei Proverbi denuncia la stanchezza
dovuta al tentativo di comprendere i misteriosi disegni di Dio (cfr 30, 1-6). Tuttavia, malgrado la fatica, il
credente non si arrende. La forza per continuare il suo cammino verso la verità gli viene dalla certezza
che Dio lo ha creato come un ‘esploratore’ (cfr Qo 1, 13), la cui missione è di non lasciare nulla di
intentato nonostante il continuo ricatto del dubbio. Poggiando su Dio, egli resta proteso, sempre e
dovunque, verso ciò che è bello, buono e vero.20

Il contributo di Paolo, su cui torneremo più avanti, mentre conferma da una parte, secondo la
FR, la possibilità per gli “occhi della mente” di arrivare a conoscere Dio attraverso il creato, giunge
a indicare proprio nella morte in croce di Gesù il punto nodale che sfida ogni filosofia, e dunque
richiede un discernimento radicale del rapporto del cristiano con la filosofia.

Sviluppando un’argomentazione filosofica con linguaggio popolare, l’Apostolo esprime una profonda
verità: attraverso il creato gli ‘occhi della mente’ possono arrivare a conoscere Dio. Egli, infatti, mediante
le creature fa intuire alla ragione la sua ‘potenza’ e la sua ‘divinità’ (cfr Rm 1, 20). Alla ragione
dell’uomo, quindi, viene riconosciuta una capacità che sembra quasi superare gli stessi suoi limiti
naturali: non solo essa non è confinata entro la conoscenza sensoriale, dal momento che può riflettervi
sopra criticamente, ma argomentando sui dati dei sensi può anche raggiungere la causa che sta all’origine
di ogni realtà sensibile. Con terminologia filosofica potremmo dire che, nell’importante testo paolino,
viene affermata la capacità metafisica dell’uomo.
Secondo l’Apostolo, nel progetto originario della creazione era prevista la capacità della ragione di
oltrepassare agevolmente il dato sensibile per raggiungere l’origine stessa di tutto: il Creatore. A seguito
della disobbedienza con la quale l’uomo scelse di porre se stesso in piena e assoluta autonomia rispetto a
Colui che lo aveva creato, questa facilità di risalita a Dio creatore è venuta meno.
Il Libro della Genesi descrive in maniera plastica questa condizione dell’uomo, quando narra che Dio lo
pose nel giardino dell’Eden, al cui centro era situato ‘l’albero della conoscenza del bene e del male’ (2,
17). Il simbolo è chiaro: l’uomo non era in grado di discernere e decidere da sé ciò che era bene e ciò che
era male, ma doveva richiamarsi a un principio superiore. La cecità dell’orgoglio illuse i nostri
progenitori di essere sovrani e autonomi, e di poter prescindere dalla conoscenza derivante da Dio. Nella
loro originaria disobbedienza essi coinvolsero ogni uomo e ogni donna, procurando alla ragione ferite che
da allora in poi ne avrebbero ostacolato il cammino verso la piena verità. Ormai la capacità umana di
conoscere la verità era offuscata dall’avversione verso Colui che della verità è fonte e origine. E ancora
l’Apostolo a rivelare quanto i pensieri degli uomini, a causa del peccato, fossero diventati ‘vani’ e i
ragionamenti distorti e orientati al falso (cfr Rm 1, 21-22). Gli occhi della mente non erano ormai più
capaci di vedere con chiarezza: progressivamente la ragione è rimasta prigioniera di se stessa. La venuta
di Cristo è stata l’evento di salvezza che ha redento la ragione dalla sua debolezza, liberandola dai ceppi
in cui essa stessa s’era imprigionata.
Il rapporto del cristiano con la filosofia, pertanto, richiede un discernimento radicale. Nel Nuovo
Testamento, soprattutto nelle Lettere di san Paolo, un dato emerge con grande chiarezza: la
contrapposizione tra ‘la sapienza di questo mondo’ e quella di Dio rivelata in Gesù Cristo. La profondità
della sapienza rivelata spezza il cerchio dei nostri abituali schemi di riflessione, che non sono affatto in
grado di esprimerla in maniera adeguata.
L’inizio della prima Lettera ai Corinzi pone con radicalità questo dilemma. Il Figlio di Dio crocifisso è
l’evento storico contro cui s’infrange ogni tentativo della mente di costruire su argomentazioni soltanto
umane una giustificazione sufficiente del senso dell’esistenza. Il vero punto nodale, che sfida ogni
filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo. Qui, infatti, ogni tentativo di ridurre il piano salvifico del
Padre a pura logica umana è destinato al fallimento. ‘Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il
sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo?’ (1
Cor 1, 20), si domanda con enfasi l’Apostolo. Per ciò che Dio vuole realizzare non è più possibile la sola
sapienza dell’uomo saggio, ma è richiesto un passaggio decisivo verso l’accoglienza di una novità
radicale: ‘Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti [...]; Dio ha scelto ciò che nel
mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono’ (1 Cor 1, 27-28). La
sapienza dell’uomo rifiuta di vedere nella propria debolezza il presupposto della sua forza; ma san Paolo
non esita ad affermare: ‘Quando sono debole, è allora che sono forte’ (2 Cor 12, 10).

20
Ib., n. 21.
15
L’uomo non riesce a comprendere come la morte possa essere fonte di vita e di amore, ma Dio ha scelto
per rivelare il mistero del suo disegno di salvezza proprio ciò che la ragione considera ‘follia’ e
‘scandalo’.
Parlando il linguaggio dei filosofi suoi contemporanei, Paolo raggiunge il culmine del suo insegnamento e
del paradosso che vuole esprimere: ‘Dio ha scelto ciò che nel mondo [...] è nulla per ridurre a nulla le
cose che sono’ (1 Cor 1, 28). Per esprimere la natura della gratuità dell’amore rivelato nella croce di
Cristo, l’Apostolo non ha timore di usare il linguaggio più radicale che i filosofi impiegavano nelle loro
riflessioni su Dio. La ragione non può svuotare il mistero di amore che la Croce rappresenta, mentre la
Croce può dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca. Non la sapienza delle parole, ma la Parola
della Sapienza è ciò che san Paolo pone come criterio di verità e, insieme, di salvezza.
La sapienza della Croce, dunque, supera ogni limite culturale che le si voglia imporre e obbliga ad aprirsi
all’universalità della verità di cui è portatrice. Quale sfida viene posta alla nostra ragione e quale
vantaggio essa ne ricava se vi si arrende! La filosofia, che già da sé è in grado di riconoscere l’incessante
trascendersi dell’uomo verso la verità, aiutata dalla fede può aprirsi ad accogliere nella ‘follia’ della
Croce la genuina critica a quanti si illudono di possedere la verità, imbrigliandola nelle secche di un loro
sistema. Il rapporto fede e filosofia trova nella predicazione di Cristo crocifisso e risorto lo scoglio contro
il quale può naufragare, ma oltre il quale può sfociare nell’oceano sconfinato della verità. Qui si mostra
evidente il confine tra la ragione e la fede, ma diventa anche chiaro lo spazio in cui ambedue si possono
incontrare.21

Il cammino di fede è personale, chiede la piena maturità in rapporto alla situazione


circostanziale dell’individuo, ed è un cammino collettivo poiché requisito essenziale della santità è
la comunione tra persone (che sono nella creazione e oltremodo nel Battesimo “immagine di Dio”)
con le tre Persone divine (attraverso la mediazione sacerdotale di Cristo, per ispirazione dello
Spirito Santo si accoglie il Padre); tale esigenza comunionale si concreta storicamente nell’unica
Chiesa di Cristo verso la quale, nonostante le difficoltà, deve tendere la collettività dei battezzati e
deve annunciare il regno di Dio ad ogni uomo di buona volontà; quindi oltre ad una perfezione nella
santità a livello individuale è credibile un’emancipazione dell’umanità in quanto tale nel suo anelito
di ritrovare Dio; nonostante lo scacco del peccato che contamina l’uomo ed il creato, è credibile una
restaurazione totale dell’universo in Cristo.
Soggetto peculiare della fede è l’uomo, in tutte le sue capacità in atto e potenzialità possibili,
che aderisce incondizionatamente al mistero di Dio rivelato con tutte le sue forze (quindi
intelligenza, sentimenti e volontà) in un’esperienza storica concreta comunionale (l’io-tu verso il
Tu); è la persona che produce un’opzione radicale, libera, responsabile, intelligente; tale opzione
richiede pertanto un approfondimento intellettuale del mistero di Dio ovvero comporta una teologia
fondata sui dati della rivelazione.
Ci sarà dunque un esperienza di fede cristiana che è parte integrante dell’esperienza del
cristiano, credente, teologo e anche filosofo.

21
Ib., nn. 22-23.
16
2. Lineamenti del rapporto tra filosofia e teologia

Come abbiamo visto, dal suo sorgere nell’antica Grecia sino agli inizi dell’epoca moderna,
la filosofia è sempre stata esercitata come riflessione razionale sui fondamenti primi ed ultimi della
realtà e della vita, e quindi anche come riflessione sul mito, “von Mythos zu Logos”,22
sull’esperienza religiosa, sugli elementi culturali che hanno sempre caratterizzato la vita dei popoli,
sulla sapienza nel governo della vita.
Fu naturale ai cristiani proseguire su questa linea ed esercitare la riflessione razionale sul
messaggio cristiano, in polemica con la filosofia pagana, sostenendo che la vera filosofia è cristiana.
Nell’evento cristianesimo si è data de facto una riflessione che aveva in se stessa la pretesa di dirsi
filosofica.
Ripercorriamo le tappe di questo sviluppo, alla luce anche del contributo offerto dal cap. IV
di FR, che individua alcune “tappe significative”.
La prima che analizziamo è quella rappresentata dal cristianesimo dei primi secoli.23

2.1. L’unità di filosofia e teologia nel cristianesimo dei primi secoli

La maturazione ideologica dell’evento cristiano si è sviluppata su un doppio fronte, contro il


giudaismo e verso l’ellenismo. Non è possibile qui effettuare lo studio, ma è interessante fornirne lo
schema e alcuni spunti da risultati acquisiti. Il cristianesimo si è posto come fatto storico: per
studiarne adeguatamente la vicenda bisogna anzitutto coglierne l’ambiente, e il suo retroterra
storico. Ciò richiederebbe un controllo successivo sia dell’area del mondo giudaico, con la sua vita
e la sua cultura (contesto socio-politico, produzione letteraria, ecc.) e il mondo ellenistico-romano
con la sua vita e la sua cultura (contesto socio-politico, vita religiosa, riflessione filosofica).
Lo studio dell’evento cristianesimo deve abbracciare a questo punto le testimonianze
archeologiche, quelle testuali e letterarie, e l’emergere del cristianesimo come fatto sociale, e le
reazioni ufficiali a ciò. Significative per esempio le conversioni erudite al cristianesimo, aperte da
quella di Paolo, e tra esse quelle di Giustino, Arnobio, Mario Vittorino, Agostino, Sinesio di Cirene.

2.1.A. PAOLO DI TARSO

Il termine “filosofia” si ritrova una volta sola nelle opere paoline (Col 2, 8), in cui Paolo
esorta la nuova cristianità a non lasciarsi sedurre dalla filosofia e da ciarlataneschi inganni: è intesa
dunque in senso peggiorativo, designando in essa tutto ciò che la riflessione pagana dissimula in
fatto di errore o di insufficienza. Dopo esser stato respinto dai “filosofi epicurei e stoici“ di Atene
(At 17, 18), Paolo li rigetta a sua volta per legarsi all’unica saggezza che valga. Paolo è il primo
soggetto colto che si sia fatto cristiano, trovando nella religione cristiana prospettive culturali più
soddisfacenti. Queste conversioni sono assai significative perché l’inventario delle motivazioni di
volta in volta adottate costituisce la trama di quel “supplemento” di filosofia, che le filosofie
pagane non riescono a assicurare.
Per Paolo il cristianesimo non è una filosofia, ma una religione. Egli propone il
cristianesimo nella 1Cor come la nuova rivelazione, una pietra di scandalo tra giudaismo e
ellenismo. All’uno e all’altro il cristianesimo arreca la salvezza nella fede in Cristo crocifisso, e
cioè uno scandalo per i Giudei, che reclamano segni incontestabili e rassicuranti, e una follia per i
Greci, che cercano persuasioni inconfondibili: ai primi va l’infamia di un Dio umiliato, agli altri

22
Cf. W. NESTLE, Storia della religiosità greca, Firenze 1973.
23
Cf. anche E. DAL COVOLO, “Fides et ratio”: l’itinerario dei primi secoli cristiani, in M. MANTOVANI - S.
THURUTHIYIL - M. TOSO (a cura), Fede e ragione, cit., pp. 37-44; W. TUREK, “Fides et ratio”: esemplificazioni
patristiche del dialogo (Tertulliano e Origene), in M. MANTOVANI - S. THURUTHIYIL - M. TOSO (a cura), Fede e
ragione, cit., pp. 45-57.
17
l’assurdità di un uomo-Dio, morto in croce e risuscitato. Ciò che il cristianesimo oppone alla
saggezza del mondo è l’impenetrabile mistero di Gesù (1Cor 1, 18 sgg.).
Apparentemente queste dichiarazioni di Paolo eliminano puramente e semplicemente la
filosofia greca a beneficio della nuova religione, e in un certo senso non si ha torto quando si
riassume il pensiero di Paolo dicendo che per lui il Vangelo è annuncio di salvezza e non una
saggezza o filosofia. Però non tutto, nel pensiero di Paolo è racchiuso in tale consultivo. Nel
momento in cui Paolo dichiara “la bancarotta” della saggezza greca, propone in sostituzione la
Persona stessa del Verbo incarnato. Ciò che perciò ha l’aria di fare è eliminare l’apparente
saggezza greca, che in realtà non è che follia, in nome di una apparente follia, che in realtà è
sicura saggezza: sull’uomo incombe la benignità di Dio che si offre sufficiente per sè sola (contro
le velleità del giudaismo) nella Persona del Verbo incarnato.
Paolo, che non è filosofo, si limita ad annunciare questa “buona novella”; il filosofo farà
bene a dimostrarne per ogni verso la attendibilità. Non si può dire che il credente può fare a meno
di ogni chiarimento e di ogni intelligenza, dal momento che tutto è implicitamente dato nella sua
fede, perché di tutto ciò occorre fornire la prova. Darla, codesta dimostrazione, equivale
certamente ad esautorare la filosofia dei greci, ma non è possibile farlo senza mettere in opera la
migliore filosofia.
FR richiama queste dinamiche, riferendosi proprio alla discussione di Paolo con “certi
filosofi epicurei e stoici” (At 17, 18).

Secondo la testimonianza degli Atti degli Apostoli, l'annuncio cristiano venne a confronto sin dagli inizi
con le correnti filosofiche del tempo. Lo stesso libro riferisce della discussione che san Paolo ebbe ad
Atene con ‘certi filosofi epicurei e stoici’ (17, 18). L’analisi esegetica di quel discorso all’Areopago ha
posto in evidenza le ripetute allusioni a convincimenti popolari di provenienza per lo più stoica.
Certamente ciò non era casuale. Per farsi comprendere dai pagani, i primi cristiani non potevano nei loro
discorsi rinviare soltanto ‘a Mosè e ai profeti’; dovevano anche far leva sulla conoscenza naturale di Dio e
sulla voce della coscienza morale di ogni uomo (cfr Rm 1, 19-21; 2, 14-15; At 14, 16-17). Poiché però
tale conoscenza naturale, nella religione pagana, era scaduta in idolatria (cfr Rm 1, 21-32), l'Apostolo
ritenne più saggio collegare il suo discorso al pensiero dei filosofi, i quali fin dagli inizi avevano opposto
ai miti e ai culti misterici concetti più rispettosi della trascendenza divina.24

Per approfondire il pensiero paolino, risulta molto interessante scorrere i contenuti delle 20
catechesi tenute da papa Benedetto XVI in occasione delle Udienze generali del’anno 2008 e
2009.25

2.1.B. Vangeli, Padri apostolici ed apologisti

Nei Vangeli canonici non si trova il termine filosofia, centrati sulla importanza della persona
di Gesù, più che su una idea. Vi sono chiaramente i suggerimenti intesi a favorire la prosecuzione
della volontà del signore e i suoi esempi.
Le vicissitudini e le speranze delle singole comunità si esprimono in forme concrete, del
tutto aliene dall’astrarre, e ciò passerà ai Padri apostolici, al punto che, al limite, un IGNAZIO DI
ANTIOCHIA, condotto al martirio, può proclamare la sua gioia di morire “per il Cristo Gesù”. Così di
lui parla papa Benedetto XVI:

Nessun Padre della Chiesa ha espresso con l’intensità di Ignazio l’anelito all’unione con Cristo e alla vita
in Lui. Perciò abbiamo letto il brano evangelico sulla vigna, che secondo il Vangelo di Giovanni è Gesù.
In realtà, confluiscono in Ignazio due ‘correnti’ spirituali: quella di Paolo, tutta tesa all’unione con Cristo,
e quella di Giovanni, concentrata sulla vita in Lui. A loro volta, queste due correnti sfociano
nell’imitazione di Cristo, più volte proclamato da Ignazio come ‘il mio’ o ‘il nostro Dio’. Così Ignazio

24
FR, n. 36.
25
Cf. BENEDETTO XVI, Udienze generali (Città del Vaticano, da mercoledì 2 luglio 2008 a mercoledì 4 febbraio 2009).
18
supplica i cristiani di Roma di non impedire il suo martirio, perché è impaziente di ‘congiungersi con
Gesù Cristo’. E spiega: ‘È bello per me morire andando verso (eis) Gesù Cristo, piuttosto che regnare sino
ai confini della terra. Cerco Lui, che è morto per me, voglio Lui, che è risorto per noi ... Lasciate che io
sia imitatore della Passione del mio Dio!’ (Romani 5-6). Si può cogliere in queste espressioni brucianti
d’amore lo spiccato ‘realismo’ cristologico tipico della Chiesa di Antiochia, più che mai attento
all’incarnazione del Figlio di Dio e alla sua vera e concreta umanità: Gesù Cristo, scrive Ignazio agli
Smirnesi, ‘è realmente dalla stirpe di Davide’, ‘realmente è nato da una vergine’, ‘realmente fu
inchiodato per noi’ (1,1).
L’irresistibile tensione di Ignazio verso l’unione con Cristo fonda una vera e propria ‘mistica dell’unità’.
[…]
Ignazio, per primo nella letteratura cristiana, attribuisce alla Chiesa l’aggettivo ‘cattolica’, cioè
‘universale’: ‘Dove è Gesù Cristo’, egli afferma, ‘lì è la Chiesa cattolica’ (Smirnesi 8,2).26

J. Ratzinger, nella parte dedicata a Fede, filosofia e teologia del testo Natura e compito della
teologia, afferma l’unità di filosofia e teologia nel cristianesimo dei primi secoli. Le espressioni
artistiche dei primi secoli della Chiesa raffigurano il filosofo cristiano come orante, pastore, con il
Vangelo in mano, da cui non impara discorsi o dottrine, ma riceve testimonianza di eventi. Egli è il
vero filosofo, perché conosce il mistero della morte. Poi, a poco a poco, il vero filosofo viene
identificato con Cristo, e la filosofia (ricerca del senso del vivere in riferimento alla morte) si
presenta come vera e propria domanda rivolta a Cristo: dirà Giustino che il compito essenziale del
filosofo è “la ricerca di Dio”.
Quando nel II secolo la letteratura cristiana annovera quegli autori indicati come padri
apologisti, troviamo anzitutto sia Giustino, che è filosofo di professione, e sia Taziano, un sofista
dotto ad ogni sorta di artificio dialettico. Anche altri, che non hanno simili qualità, non mancano di
quel tanto di cultura che li rende capaci di identificare i filosofi più quotati. Del termine “filosofia”
tutti fanno uso, così come i contemporanei, però un attento controllo del contesto rivela
inequivocabilmente che esso vi assume risentimenti che tra i contemporanei pagani non esibisce.
Ciò è dovuto all’indole complessivamente apologetica di questa produzione. I cristiani vi passano di
solito per accusati che perorano la propria innocenza, non esitando però a passare al contrattacco,
esigendo un confronto leale e perentorio delle credenze e dei comportamenti cristiani con gli
omologhi pagani.
Così scrive FR su questi momenti di incontro tra il cristianesimo e la filosofia, che segnò da
parte dei padri apologisti prima l’impegno «di purificare la concezione che gli uomini avevano di
Dio da forme mitologiche» (FR, n. 36) e di esprimere le «riserve nei confronti delle diverse forme
di esoterismo» (FR, n. 37) e «l’affermazione dell’universale diritto di accesso alla verità» (FR, n.
38).

Uno degli sforzi maggiori che i filosofi del pensiero classico operarono, infatti, fu quello di purificare la
concezione che gli uomini avevano di Dio da forme mitologiche. Come sappiamo, anche la religione
greca, non diversamente da gran parte delle religioni cosmiche, era politeista, giungendo fino a
divinizzare cose e fenomeni della natura. I tentativi dell’uomo di comprendere l’origine degli dei e, in
loro, dell’universo trovarono la loro prima espressione nella poesia. Le teogonie rimangono, fino ad oggi,
la prima testimonianza di questa ricerca dell’uomo. Fu compito dei padri della filosofia far emergere il
legame tra la ragione e la religione. Allargando lo sguardo verso i principi universali, essi non si
accontentarono più dei miti antichi, ma vollero giungere a dare fondamento razionale alla loro credenza
nella divinità. Si intraprese, così, una strada che, uscendo dalle tradizioni antiche particolari, si immetteva
in uno sviluppo che corrispondeva alle esigenze della ragione universale. Il fine verso cui tale sviluppo
tendeva era la consapevolezza critica di ciò in cui si credeva. La prima a trarre vantaggio da simile
cammino fu la concezione della divinità. Le superstizioni vennero riconosciute come tali e la religione fu,
almeno in parte, purificata mediante l’analisi razionale. Fu su questa base che i Padri della Chiesa
avviarono un dialogo fecondo con i filosofi antichi, aprendo la strada all’annuncio e alla comprensione
del Dio di Gesù Cristo.27
[…]

26
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 14 marzo 2007).
27
FR, n. 36.
19
Nell’accennare a questo movimento di avvicinamento dei cristiani alla filosofia, è doveroso ricordare
anche l’atteggiamento di cautela che in essi suscitavano altri elementi del mondo culturale pagano, quali
ad esempio la gnosi. La filosofia, come saggezza pratica e scuola di vita, poteva facilmente essere confusa
con una conoscenza di tipo superiore, esoterico, riservato a pochi perfetti. E senza dubbio a questo genere
di speculazioni esoteriche che san Paolo pensa, quando mette in guardia i Colossesi: ‘Badate che nessuno
vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del
mondo e non secondo Cristo’ (2, 8). Sulle orme di san Paolo, altri scrittori dei primi secoli, in particolare
sant’Ireneo e Tertulliano, sollevano a loro volta riserve nei confronti di un’impostazione culturale che
pretendeva di subordinare la verità della Rivelazione all’interpretazione dei filosofi.28
[…]
L’incontro del cristianesimo con la filosofia, dunque, non fu immediato né facile. La pratica di essa e la
frequentazione delle scuole apparve ai primi cristiani più come un disturbo che come un’opportunità. Per
loro, primo e urgente dovere era l’annuncio di Cristo risorto da proporre in un incontro personale capace
di condurre l’interlocutore alla conversione del cuore e alla richiesta del Battesimo. Ciò non significa,
comunque, che essi ignorassero il compito di approfondire l’intelligenza della fede e delle sue
motivazioni. Tutt’altro. Ingiusta e pretestuosa, pertanto, risulta la critica di Celso, che accusa i cristiani di
essere gente ‘illetterata e rozza’. La spiegazione di questo loro iniziale disinteresse va ricercata altrove. In
realtà, l’incontro con il Vangelo offriva una risposta così appagante alla questione, fino a quel momento
ancora non risolta, circa il senso della vita, che la frequentazione dei filosofi appariva loro come una cosa
lontana e, per alcuni versi, superata.
Ciò appare oggi ancora più chiaro, se si pensa a quell’apporto del cristianesimo che consiste
nell’affermazione dell’universale diritto d’accesso alla verità. Abbattute le barriere razziali, sociali e
sessuali, il cristianesimo aveva annunciato fin dai suoi inizi l’uguaglianza di tutti gli uomini dinanzi a
Dio. La prima conseguenza di questa concezione si applicava al tema della verità. Veniva decisamente
superato il carattere elitario che la sua ricerca aveva presso gli antichi: poiché l’accesso alla verità è un
bene che permette di giungere a Dio, tutti devono essere nella condizione di poter percorrere questa
strada. Le vie per raggiungere la verità rimangono molteplici; tuttavia, poiché la verità cristiana ha un
valore salvifico, ciascuna di queste vie può essere percorsa, purché conduca alla meta finale, ossia alla
rivelazione di Gesù Cristo.29

Avvalendosi degli stessi procedimenti già elaborati dalla concorrenza tra le scuole pagane,
gli apologisti si affrettano a condividere, generalizzandola, la disistima che rappresentava il
rapporto corrente tra le diverse scuole pagane: partendo dal presupposto che il proprio ideale di
filosofia fosse l’unico valido, già esse erano passate a denigrare senza ritegno quelle altrui,
qualificandole di impostura. Il vocabolario degli apologisti facente capo a “filosofia” si fa
aggressivo, associandosi in contesti sempre gravidi di subdola o palese ostilità, se non addirittura
di sdegnoso disprezzo. Il cristianesimo non si coagula attorno ad un nucleo di idee, ma al seguito di
una persona. Per i primi cristiani non può aver senso amare o meno la filosofia; si tratta invece di
confessare Cristo Signore. Quale la trovano proposta dai pagani, la filosofia, la più degna, appare
priva di reale interesse a confronto con la perentorietà della fede, e per dichiararne la vacuità non si
fanno scrupolo di adottare procedimenti o formule correnti tra gli stessi pagani.
Questo atteggiamento negativo non poteva però riuscire a lungo andare soddisfacente: i
cristiani convertiti dal paganesimo non tardano a conservare il ricordo di una filosofia, che anche
se stentatamente, li aveva pur tuttavia avviati a verità. È così che rifacendo a ritroso i propri
itinerari, tornano conniventi verso gli antichi amici, ne riparlano la lingua, ne ridicono la
“filosofia”, desiderosi però di sedurre, come furono a loro volta sedotti.

GIUSTINO racconta la sua conversione alla vera filosofia sull’inizio del Dialogo con Trifone,
la più antica delle apologie cristiane contro il giudaismo. Egli frequentò stoici, peripatetici, un
seguace di Pitagora, poi maestri platonici. Al termine del tragitto emerge la considerazione che i
filosofi gentili si sbagliano su temi capitali, rivelandosi inabili e incapaci, e men che meno guide
attendibili per il vero filosofare. Anche le apologie sono da studiare da questo punto di vista. Se il
compito essenziale del filosofo è vivere secondo il logos e in unione ad esso, proprio perché essere

28
Ib., n. 37.
29
Ib., n. 38.
20
cristiani significa vivere conformemente al logos, i cristiani sono i veri filosofi, e perciò il
cristianesimo è la vera filosofia.

Quale pioniere di un incontro positivo col pensiero filosofico, anche se nel segno di un cauto
discernimento, va ricordato san Giustino: questi, pur conservando anche dopo la conversione grande
stima per la filosofia greca, asseriva con forza e chiarezza di aver trovato nel cristianesimo ‘l’unica sicura
e proficua filosofia’.30

Così, nelle sue catechesi, papa Benedetto XVI ha parlato di San Giustino, come del filosofo
e martire più importante tra i Padri apologisti del secondo secolo:
La parola ‘apologisti’ designa quegli antichi scrittori cristiani che si proponevano di difendere la nuova
religione dalle pesanti accuse dei pagani e degli Ebrei, e di diffondere la dottrina cristiana in termini adatti
alla cultura del proprio tempo. Così negli apologisti è presente una duplice sollecitudine: quella, più
propriamente apologetica, di difendere il cristianesimo nascente (apologhía in greco significa appunto
‘difesa’) e quella propositiva, ‘missionaria’, di esporre i contenuti della fede in un linguaggio e con
categorie di pensiero comprensibili ai contemporanei.
Giustino era nato intorno all’anno 100 presso l’antica Sichem, in Samaria, in Terra Santa; egli cercò a
lungo la verità, pellegrinando nelle varie scuole della tradizione filosofica greca. Finalmente – come egli
stesso racconta nei primi capitoli del suo Dialogo con Trifone – un misterioso personaggio, un vegliardo
incontrato lungo la spiaggia del mare, lo mise dapprima in crisi, dimostrandogli l’incapacità dell’uomo a
soddisfare con le sole sue forze l’aspirazione al divino. Poi gli indicò negli antichi profeti le persone a cui
rivolgersi per trovare la strada di Dio e la ‘vera filosofia’. Nel congedarlo, l’anziano lo esortò alla
preghiera, perché gli venissero aperte le porte della luce. Il racconto adombra l’episodio cruciale della vita
di Giustino: al termine di un lungo itinerario filosofico di ricerca della verità, egli approdò alla fede
cristiana. Fondò una scuola a Roma, dove gratuitamente iniziava gli allievi alla nuova religione,
considerata come la vera filosofia. In essa, infatti, aveva trovato la verità e quindi l’arte di vivere in modo
retto. Fu denunciato per questo motivo e venne decapitato intorno al 165, sotto il regno di Marco Aurelio,
l’imperatore filosofo a cui Giustino stesso aveva indirizzato una sua Apologia.
Sono queste – le due Apologie e il Dialogo con Trifone – le sole opere che di lui ci rimangono. In esse
Giustino intende illustrare anzitutto il progetto divino della creazione e della salvezza che si compie in
Gesù Cristo, il Logos, cioè il Verbo eterno, la Ragione eterna, la Ragione creatrice. Ogni uomo, in quanto
creatura razionale, è partecipe del Logos, ne porta in sé un ‘seme’, e può cogliere i barlumi della verità.
Così lo stesso Logos, che si è rivelato come in figura profetica agli Ebrei nella Legge antica, si è
manifestato parzialmente, come in «semi di verità», anche nella filosofia greca. Ora, conclude Giustino,
poiché il cristianesimo è la manifestazione storica e personale del Logos nella sua totalità, ne consegue
che ‘tutto ciò che di bello è stato espresso da chiunque, appartiene a noi cristiani’ (2 Apol. 13,4). In questo
modo Giustino, pur contestando alla filosofia greca le sue contraddizioni, orienta decisamente al Logos
qualunque verità filosofica, motivando dal punto di vista razionale la singolare ‘pretesa’ di verità e di
universalità della religione cristiana. Se l’Antico Testamento tende a Cristo come la figura orienta verso
la realtà significata, la filosofia greca mira anch’essa a Cristo e al Vangelo, come la parte tende a unirsi al
tutto. E dice che queste due realtà, l’Antico Testamento e la filosofia greca, sono come le due strade che
guidano a Cristo, al Logos. Ecco perché la filosofia greca non può opporsi alla verità evangelica, e i
cristiani possono attingervi con fiducia, come a un bene proprio. […]
Nel complesso la figura e l’opera di Giustino segnano la decisa opzione della Chiesa antica per la
filosofia, per la ragione, piuttosto che per la religione dei pagani. Con la religione pagana, infatti, i primi
cristiani rifiutarono strenuamente ogni compromesso. La ritenevano idolatria, a costo di essere tacciati per
questo di ‘empietà’ e di ‘ateismo’. In particolare Giustino, specialmente nella sua prima Apologia,
condusse una critica implacabile nei confronti della religione pagana e dei suoi miti, considerati da lui
come diabolici ‘depistaggi’ nel cammino della verità. La filosofia rappresentò invece l’area privilegiata
dell’incontro tra paganesimo, giudaismo e cristianesimo proprio sul piano della critica alla religione
pagana e ai suoi falsi miti. ‘La nostra filosofia...’: così, nel modo più esplicito, giunse a definire la nuova
religione un altro apologista contemporaneo di Giustino, il Vescovo Melitone di Sardi (citato in Eusebio,
Storia Eccl. 4,26,7).
Di fatto la religione pagana non batteva le vie del Logos, ma si ostinava su quelle del mito, anche se
questo era riconosciuto dalla filosofia greca come privo di consistenza nella verità. Perciò il tramonto
della religione pagana era inevitabile: esso fluiva come logica conseguenza del distacco della religione –
ridotta a un artificioso insieme di cerimonie, convenzioni e consuetudini – dalla verità dell’essere.

30
Ib.
21
Giustino, e con lui gli altri apologisti, siglarono la presa di posizione netta della fede cristiana per il Dio
dei filosofi contro i falsi dèi della religione pagana. Era la scelta per la verità dell’essere contro il mito
della consuetudine. Qualche decennio dopo Giustino, Tertulliano definì la medesima opzione dei cristiani
con una sentenza lapidaria e sempre valida: ‘Dominus noster Christus veritatem se, non consuetudinem,
cognominavit – Cristo ha affermato di essere la verità, non la consuetudine’ (La velazione delle vergini
1,1). Si noti in proposito che il termine consuetudo, qui impiegato da Tertulliano in riferimento alla
religione pagana, può essere tradotto nelle lingue moderne con le espressioni ‘moda culturale’, ‘moda del
tempo’.
In un’età come la nostra, segnata dal relativismo nel dibattito sui valori e sulla religione – come pure nel
dialogo interreligioso –, è questa una lezione da non dimenticare.31

2.1.C. Conversioni dotte e reazioni pagane

Anche CLEMENTE ALESSANDRINO, che nacque da genitori pagani, presenta negli Stromata la
successione dei propri maestri, e dirà di aver trovato, finalmente, «la vera ape sicula, che
succhiando da fiore a fiore nel prato dei profeti e degli apostoli, faceva crescere nel cuore di noi
uditori la scienza inarrivabile».32 Egli fa ovviamente cenno a Panteno, forse il primo dei maestri
cristiani stabilitisi ad Alessandria.
È tutto da studiare in questa ottica il Protreptico, specie nei cap. V-VI, dedicati alle
insufficienze della filosofia.
Clemente afferma.

Poiché il Verbo stesso venne a noi dal cielo, noi non abbiamo più bisogno di andare alla dottrina umana
ricercando con troppa cura Atene, il resto dell’Ellade, e anche la Ionia. Se infatti ci è maestro Colui che
ha riempito l’universo con la manifestazione della sua santa potenza, con la creazione, con la salvezza,
con la benevolenza, con le sue leggi, con la profezia, con la dottrina, tutto ora ci insegna il Maestro, e
l’universo ormai è diventato, in virtù del Verbo, un’Atene e una Grecia.33

Negli Stromata Clemente dice ancora.

Chiamo filosofia non quella degli stoici, né quella di Platone, né quella di Epicuro, né quella di Aristotele,
ma tutto quanto è stato detto di buono in ciascuna di queste scuole al fine di formare i rispettivi adepti alla
giustizia e ad una scienza pia. Il resto è inutile stentare umano.34

Anche FR si dedica a Clemente Alessandrino.

Clemente Alessandrino chiamava il Vangelo ‘la vera filosofia’, e interpretava la filosofia in analogia alla
legge mosaica come una istruzione propedeutica alla fede cristiana e una preparazione al Vangelo. Poiché
‘la filosofia brama quella sapienza che consiste nella rettitudine dell’anima e della parola e nella purezza
della vita, essa è ben disposta verso la sapienza e fa tutto il possibile per raggiungerla. Presso di noi si
dicono filosofi coloro che amano la sapienza che è creatrice e maestra di ogni cosa, cioè la conoscenza del
Figlio di Dio’. La filosofia greca, per l’Alessandrino, non ha come primo scopo quello di completare o
rafforzare la verità cristiana; suo compito è, piuttosto, la difesa della fede: ‘La dottrina del Salvatore è
perfetta in se stessa e non ha bisogno di appoggio, perché essa è la forza e la sapienza di Dio. La filosofia
greca, col suo apporto, non rende più forte la verità, ma siccome rende impotente l’attacco della sofistica
e disarma gli attacchi proditori contro la verità, la si è chiamata a ragione siepe e muro di cinta della
vigna’.35

31
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 21 marzo 2007).
32
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, I, 2, 1-2.
33
ID., Protreptico, 112, 1.
34
ID., Stromata I, 37, 6.
35
FR, n. 38.
22
Così parla di San Clemente Alessandrino papa Benedetto XVI in una sua catechesi:
Da Atene ereditò quello spiccato interesse per la filosofia, che avrebbe fatto di lui uno degli alfieri del
dialogo tra fede e ragione nella tradizione cristiana. Ancor giovane, egli giunse ad Alessandria, la ‘città-
simbolo’ di quel fecondo incrocio tra culture diverse che caratterizzò l’età ellenistica. Lì fu discepolo di
Panteno, fino a succedergli nella direzione della scuola catechetica. Numerose fonti attestano che fu
ordinato presbitero. Durante la persecuzione del 202-203 abbandonò Alessandria per rifugiarsi a Cesarea,
in Cappadocia, dove morì verso il 215.
Le opere più importanti che di lui ci rimangono sono tre: il Protrettico, il Pedagogo e gli Stromati. Anche
se non pare che fosse questa l’intenzione originaria dell’autore, è un fatto che tali scritti costituiscono una
vera trilogia, destinata ad accompagnare efficacemente la maturazione spirituale del cristiano. Il
Protrettico, come dice la parola stessa, è un’‘esortazione’ rivolta a chi inizia e cerca il cammino della
fede. Meglio ancora, il Protrettico coincide con una Persona: il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che si fa
«esortatore» degli uomini, affinché intraprendano con decisione la via verso la Verità. Lo stesso Gesù
Cristo si fa poi Pedagogo, cioè ‘educatore’ di quelli che, in forza del Battesimo, sono ormai diventati figli
di Dio. Il medesimo Gesù Cristo, infine, è anche Didascalo, cioè ‘maestro’ che propone gli insegnamenti
più profondi. Essi sono raccolti nella terza opera di Clemente, gli Stromati, parola greca che significa
‘tappezzerie’: si tratta in effetti di una composizione non sistematica di argomenti diversi, frutto diretto
dell’insegnamento abituale di Clemente.
Nel suo complesso, la catechesi clementina accompagna passo passo il cammino del catecumeno e del
battezzato perché, con le due «ali» della fede e della ragione, essi giungano a un’intima conoscenza della
Verità, che è Gesù Cristo, il Verbo di Dio. Solo questa conoscenza della Persona che è la Verità, è la
‘vera gnosi’, l’espressione greca che sta per «conoscenza», per «intelligenza». È l’edificio costruito dalla
ragione sotto impulso di un principio soprannaturale. La fede stessa costruisce la vera filosofia, cioè la
vera conversione nel cammino da prendere nella vita. Quindi l’autentica ‘gnosi’ è uno sviluppo della fede,
suscitato da Gesù Cristo nell’anima unita a Lui. Clemente distingue poi due gradini della vita cristiana.
Primo gradino: i cristiani credenti che vivono la fede in modo comune, ma pur sempre aperta agli
orizzonti della santità. E poi il secondo gradino: gli ‘gnostici’, cioè quelli che conducono già una vita di
perfezione spirituale. In ogni caso il cristiano deve partire dalla base comune della fede, e attraverso un
cammino di ricerca deve lasciarsi guidare da Cristo e così giungere alla conoscenza della Verità e delle
verità che formano il contenuto della fede. Tale conoscenza, ci dice Clemente, diventa nell’anima una
realtà vivente: non è solo una teoria, è una forza di vita, è una unione di amore trasformante. La
conoscenza di Cristo non è solo pensiero, ma è amore che apre gli occhi, trasforma l’uomo e crea
comunione con il Logos, con il Verbo divino che è Verità e Vita. In questa comunione, che è la perfetta
conoscenza ed è amore, il cristiano raggiunge la contemplazione, l’unificazione con Dio. […]
L’assimilazione a Dio e la contemplazione di Lui non possono essere raggiunte con la sola conoscenza
razionale: a questo scopo è necessaria una vita secondo il Logos, una vita secondo la Verità. E di
conseguenza, le buone opere devono accompagnare la conoscenza intellettuale come l’ombra segue il
corpo. […]
In questo modo l’Alessandrino costruisce la seconda grande occasione di dialogo tra l’annuncio cristiano
e la filosofia greca. Sappiamo che san Paolo sull’Aeropago in Atene, dove Clemete è nato, aveva fatto il
primo tentativo di dialogo con la filosofia greca – e in gran parte era fallito –, ma gli avevano detto: ‘Ti
sentiremo un’altra volta’. Ora Clemente riprende questo dialogo, e lo nobilita in massimo grado nella
tradizione filosofica greca. […] E, di fatto, Clemente è arrivato fino al punto di sostenere che Dio avrebbe
dato la filosofia ai Greci ‘come un Testamento loro proprio’ (Strom. 6,8,67,1). Per lui la tradizione
filosofica greca, quasi al pari della Legge per gli Ebrei, è ambito di ‘rivelazione’, sono due rivoli che in
definitiva vanno al Logos stesso. Così Clemente continua a segnare con decisione il cammino di chi
intende ‘dare ragione’ della propria fede in Gesù Cristo. Egli può servire d’esempio ai cristiani, ai
catechisti e ai teologi del nostro tempo, ai quali Giovanni Paolo II, nella medesima Enciclica [Fides et
ratio], raccomandava di ‘recuperare ed evidenziare al meglio la dimensione metafisica della verità, per
entrare così in un dialogo critico ed esigente … con il pensiero filosofico contemporaneo’ (n. 105).36

Interessante anche lo studio di Taziano, che nella Oratio ad Graecos, 29 racconta le sue
diverse esperienze. Allievo di Giustino, venne al cristianesimo a Roma, dopo più di una peripezia.
Molto illuminanti su questo tema anche le vicende di Mario Vittorino, Arnobio e Agostino,
vere e proprie conversioni colte. Denominatore comune delle conversioni è la scoperta delle
scritture “barbare”. L’interesse che esse suscitano è variegato. Se per Girolamo prevalse la cura
filologica, Giustino, Clemente, Mario Vittorino, Agostino furono conquistati dalla inventiva
36
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 18 aprile 2007).
23
tipologica. La rivelazione divina fornisce il vero significato del cosmo e della sua storia. L’evento si
rivela intuito dalle mitologie platoniche, e questo può contribuire a piegare a simpatie platoniche le
prime riflessioni cristiane.

2.1.D. Assunzione critica del pensiero filosofico da parte dei pensatori cristiani

La reazione pagana è uno straordinario campo di studio: essa parte da una accondiscendente
curiosità, giungendo poi con Celso e Porfirio a intransigenze complessive.
Il Discorso veritiero di Celso è la prima delle reazioni erudite di parte pagana di cui ci è
rimasta traccia, e lo abbiamo tramite Origene, sapendo che si può attribuire una complessiva
attendibilità della recensione origeniana. L’opera di Celso ha delle requisitorie contro ogni
soteriologia e la elezione giudaica, la requisitoria contro la elezione cristiana e contro la
componente sociale dei cristiani.
Quali i dati fondamentali che sottendono la polemica di Celso: una divinità aristocratica, il
cui nobile distacco è accreditato più che a vera trascendenza, ad annoiato disinteresse. In tale
prospettiva l’idea di una incarnazione e più generalmente di una soteriologia, si rivela
inconcepibile ed assurda; l’inefficienza di Dio fa del cosmo un’entità complessivamente
indipendente e perciò eterna. Che pensare in tale prospettiva di una escatologia? In un cosmo
densamente popolato di viventi e demoni d’ogni sorta, l’uomo risulta un ben misero soggetto tra
tanti; minuto e indifeso tra una fauna ben più agguerrita. Caduco, soprattutto, come tutto il resto.
Porfirio fu il più abile degli avversari del cristianesimo nel II secolo, rigido e piissimo
idealista. Porfirio di Tiro divenne discepolo di Plotino. L’opera Contro i cristiani (270), distribuita
in 15 libri, una delle opere più poderose che l’ellenismo pagano abbia mai prodotto contro i
cristiani. Ad essa rispose subito Metodio di Olimpo, cristiano, mentre Porfirio era ancora in vita.
Seguirono poi le repliche di Eusebio di Cesarea, Apollinare di Laodicea, Filostorgio e Arnobio.
I temi dell’opera sono: - gli evangelisti non possono essere considerati dei cronisti o degli
storici. Sono fraudolenti inventori dei fasti che raccontano; - critica dell’Antico Testamento, con
contestazione dell’uso cristiano della esegesi allegorica; - critica della figura di Gesù: ripugna a
Porfirio, educato all’ideale ellenico dell’eroe, il comportamento del “Servo di Jahvè”; - critica alla
dottrina (per Porfirio è irresponsabile l’adesione per fede al cristianesimo, che sollecita alla
irrazionalità e all’ignoranza. Assurda l’idea di una incarnazione divina. Immorale la pratica
battesimale, e abominevole la pratica eucaristica, vista come cannibalismo. La critica prosegue sulle
istituzioni cristiane.
In Occidente alla fine del IV secolo, vi fu una rinascita pagana, che vide sia la mobilitazione
generale del politeismo (Giamblico), sia forme di autocritica nella riflessione pagana, con influenze
cristiane, e con rettifiche surrettizie. Temi interessanti di studio in questo versante sono: - la
filosofia degli oracoli di Porfirio; - la “introduzione a Platone” di Albino; - il caso del Perì Kosmou
pros Alexandron; - il De decem dubitationibus circa providentiam di Proclo.
Si produsse così un nuovo “contrattacco” cristiano, che si espresse secondo le direttrici che
elenchiamo qui, e che meriterebbero attento studio: - il rapporto tra neoplatonismo e cristianesimo
in Alessandria, che coinvolge Sinesio di Cirene (370-413), il primo neoplatonico battezzato, apre
una scia su cui si inseriranno Enea, Procopio, Zaccaria, Giovanni Filopono: - Enea di Gaza:
Teofrasto, l’immortalità dell’anima e la resurrezione del corpo; - Zaccaria Scolastico: Ammonio o
la creazione del mondo; - Procopio di Gaza: confutazione degli “elementi teologici” di Proclo; -
Giovanni Filopono: sull’eternità del mondo, contro Proclo; - Giovanni Filopono: sulla creazione del
cosmo; - Giovanni Filopono: sulla resurrezione.
Una parziale rigenerazione cristiana, come trasposizione cristiana del Fedone platonico, si
ebbe con i dialoghi Sull’anima e Sulla risurrezione di Gregorio di Nissa, e nel medioplatonismo di
Calcidio, con il suo Commento al Timeo.

24
Sintesi complessive sono invece riscontrabili nel De principiis di Origene (stoicismo e
cristianesimo), nell’antropologia di Nemesio di Emesa, nello Pseudo-Dionigi (neoplatonismo di
Proclo e cristianesimo), nell’aristotelismo platonizzante di Boezio, in Agostino (medioplatonismo e
cristianesimo). Della maggior parte di questi autori ci occuperemo qui di seguito.
FR afferma che «nella storia di questo sviluppo è possibile […] verificare l’assunzione
critica del pensiero filosofico da parte dei pensatori cristiani».37 Tra i cristiani le prime sintesi si
ebbero con Origene, Tertulliano e Cipriano, e le prime esitazioni, con teologie rivali, come lo
gnosticismo e il marcionismo.

L’esempio di ORIGENE, secondo FR, è particolarmente significativo.

Contro gli attacchi che venivano mossi dal filosofo Celso, Origene assume la filosofia platonica per
argomentare e rispondergli. Riferendosi a non pochi elementi del pensiero platonico, egli inizia a
elaborare una prima forma di teologia cristiana. Il nome stesso, infatti, insieme con l’idea di teologia
come discorso razionale su Dio, fino a quel momento era ancora legato alla sua origine greca. Nella
filosofia aristotelica, ad esempio, il nome designava la parte più nobile e il vero apogeo del discorso
filosofico. Alla luce della Rivelazione cristiana, invece, ciò che in precedenza indicava una generica
dottrina sulle divinità venne ad assumere un significato del tutto nuovo, in quanto definiva la riflessione
che il credente compiva per esprimere la vera dottrina su Dio. Questo nuovo pensiero cristiano che si
andava sviluppando si avvaleva della filosofia, ma nello stesso tempo tendeva a distinguersi nettamente
da essa. La storia mostra come lo stesso pensiero platonico assunto in teologia abbia subito profonde
trasformazioni, in particolare per quanto riguarda concetti quali l’immortalità dell’anima, la
divinizzazione dell’uomo e l’origine del male.38

Papa Benedetto XVI ha parlato di Origene all’interno di due sue catechesi dell’anno 2007,
affermando che egli impresse alla storia della teologia e del pensiero cristiano “una svolta
irreversibile”.
Ma in che cosa consiste questa ‘svolta’, questa novità così gravida di conseguenze? Essa corrisponde in
sostanza alla fondazione della teologia nella spiegazione delle Scritture. Fare teologia era per lui
essenzialmente spiegare, comprendere la Scrittura; o potremmo anche dire che la sua teologia è la perfetta
simbiosi tra teologia ed esegesi. In verità, la sigla propria della dottrina origeniana sembra risiedere
appunto nell’incessante invito a passare dalla lettera allo spirito delle Scritture, per progredire nella
conoscenza di Dio. E questo cosiddetto ‘allegorismo’, ha scritto von Balthasar, coincide precisamente
‘con lo sviluppo del dogma cristiano operato dall’insegnamento dei dottori della Chiesa’, i quali – in un
modo o nell’altro – hanno accolto la ‘lezione’ di Origene. Così la tradizione e il magistero, fondamento e
garanzia della ricerca teologica, giungono a configurarsi come ‘Scrittura in atto’ (cfr Origene: Il mondo,
Cristo e la Chiesa, tr. it., Milano 1972, p. 43). Possiamo affermare perciò che il nucleo centrale
dell’immensa opera letteraria di Origene consiste nella sua ‘triplice lettura’ della Bibbia. […]
Con questa espressione intendiamo alludere alle tre modalità più importanti – tra loro non successive,
anzi più spesso sovrapposte – con le quali Origene si è dedicato allo studio delle Scritture. Anzitutto egli
lesse la Bibbia con l’intento di accertarne al meglio il testo e di offrirne l’edizione più affidabile. Questo è
il primo passo: conoscere realmente che cosa sta scritto e conoscere che cosa questa Scrittura voleva
intenzionalmente e inizialmente dire. Ha fatto un grande studio a questo scopo e ha redatto un’edizione
della Bibbia con sei colonne parallele, da sinistra a destra, con il testo ebraico in caratteri ebraici – egli ha
avuto anche contatti con i rabbini per capire bene il testo originale ebraico della Bibbia –, poi il testo
ebraico traslitterato in caratteri greci e poi quattro traduzioni diverse in lingua greca, che gli permettevano
di comparare le diverse possibilità di traduzione. Di qui il titolo di Esapla (‘sei colonne’) attribuito a
questa immane sinossi. Questo è il primo punto: conoscere esattamente che cosa sta scritto, il testo come
tale.
In secondo luogo Origene lesse sistematicamente la Bibbia con i suoi celebri Commentari. Essi
riproducono fedelmente le spiegazioni che il maestro offriva durante la scuola, ad Alessandria come a
Cesarea. Origene procede quasi versetto per versetto, in forma minuziosa, ampia e approfondita, con note
di carattere filologico e dottrinale. Egli lavora con grande esattezza per conoscere bene che cosa volevano
dire i sacri autori.

37
Ib., n. 39.
38
Ib.
25
Infine, anche prima della sua ordinazione presbiterale, Origene si dedicò moltissimo alla predicazione
della Bibbia, adattandosi a un pubblico variamente composito. In ogni caso, si avverte anche nelle Omelie
il maestro, tutto dedito all’interpretazione sistematica della pericope in esame, via via frazionata nei
successivi versetti. Anche nelle Omelie Origene coglie tutte le occasioni per richiamare le diverse
dimensioni del senso della Sacra Scrittura, che aiutano o esprimono un cammino nella crescita della fede:
c’è il senso ‘letterale’, ma esso nasconde profondità che non appaiono in un primo momento; la seconda
dimensione è il senso ‘morale’, che cosa cioè dobbiamo fare vivendo la Parola; e infine il senso
‘spirituale’, cioè l’unità della Scrittura, che in tutto il suo sviluppo parla di Cristo. È lo Spirito Santo che
ci fa capire il contenuto cristologico e così l’unità della Scrittura nella sua diversità.39

Così papa Benedetto XVI si è invece espresso a proposito di TERTULLIANO,


che tra la fine del secondo e l’inizio del terzo secolo inaugura la letteratura cristiana in lingua latina. Con
lui comincia una teologia in tale lingua. La sua opera ha dato frutti decisivi, che sarebbe imperdonabile
sottovalutare. Il suo influsso si sviluppa su diversi piani: da quelli del linguaggio e del recupero della
cultura classica, a quelli dell’individuazione di una comune ‘anima cristiana’ nel mondo e della
formulazione di nuove proposte di convivenza umana. Non conosciamo con esattezza le date della sua
nascita e della sua morte. Sappiamo invece che a Cartagine, verso la fine del II secolo, da genitori e da
insegnanti pagani, ricevette una solida formazione retorica, filosofica, giuridica e storica. Si convertì poi
al cristianesimo, attratto – come pare – dall’esempio dei martiri cristiani. Cominciò a pubblicare i suoi
scritti più famosi nel 197. Ma una ricerca troppo individuale della verità, insieme con le intemperanze del
carattere – era un uomo rigoroso –, lo condussero gradualmente a lasciare la comunione con la Chiesa e
ad aderire alla setta del montanismo. Tuttavia, l’originalità del pensiero unita all’incisiva efficacia del
linguaggio gli assicurano una posizione di spicco nella letteratura cristiana antica.
Sono famosi soprattutto i suoi scritti di carattere apologetico. Essi manifestano due intenti principali:
quello di confutare le gravissime accuse che i pagani rivolgevano contro la nuova religione, e quello – più
propositivo e missionario – di comunicare il messaggio del Vangelo in dialogo con la cultura del tempo.
La sua opera più nota, l’Apologetico, denuncia il comportamento ingiusto delle autorità politiche verso la
Chiesa; spiega e difende gli insegnamenti e i costumi dei cristiani; individua le differenze tra la nuova
religione e le principali correnti filosofiche del tempo; manifesta il trionfo dello Spirito, che alla violenza
dei persecutori oppone il sangue, la sofferenza e la pazienza dei martiri: ‘Per quanto raffinata – scrive
l’Africano –, a nulla serve la vostra crudeltà: anzi, per la nostra comunità, essa è un invito. A ogni vostro
colpo di falce diveniamo più numerosi: il sangue dei cristiani è una semina efficace! (semen est sanguis
christianorum!)’ (Apologetico 50,13). Il martirio, la sofferenza per la verità sono alla fine vittoriosi e più
efficaci della crudeltà e della violenza dei regimi totalitari.
Ma Tertulliano, come ogni buon apologista, avverte nello stesso tempo l’esigenza di comunicare
positivamente l’essenza del cristianesimo. Per questo egli adotta il metodo speculativo per illustrare i
fondamenti razionali del dogma cristiano. Li approfondisce in maniera sistematica, a cominciare dalla
descrizione del ‘Dio dei cristiani’: ‘Quello che noi adoriamo – attesta l’Apologista – è un Dio unico’. E
prosegue, impiegando le antitesi e i paradossi caratteristici del suo linguaggio: ‘Egli è invisibile, anche se
lo si vede; inafferrabile, anche se è presente attraverso la grazia; inconcepibile, anche se i sensi umani lo
possono concepire; perciò è vero e grande!’ (ibid., 17,1-2).
Tertulliano, inoltre, compie un passo enorme nello sviluppo del dogma trinitario; ci ha dato in latino il
linguaggio adeguato per esprimere questo grande mistero, introducendo i termini ‘una sostanza’ e ‘tre
Persone’. In modo simile, ha sviluppato molto anche il corretto linguaggio per esprimere il mistero di
Cristo Figlio di Dio e vero Uomo.
L’Africano tratta anche dello Spirito Santo, dimostrandone il carattere personale e divino: ‘Crediamo che,
secondo la sua promessa, Gesù Cristo inviò per mezzo del Padre lo Spirito Santo, il Paraclèto, il
santificatore della fede di coloro che credono nel Padre, nel Figlio e nello Spirito’ (ibid., 2,1). […]
Dal punto di vista umano si può parlare senz’altro di un dramma di Tertulliano. Con il passare degli anni
egli diventò sempre più esigente nei confronti dei cristiani. Pretendeva da loro in ogni circostanza, e
soprattutto nelle persecuzioni, un comportamento eroico. Rigido nelle sue posizioni, non risparmiava
critiche pesanti, e inevitabilmente finì per trovarsi isolato. Del resto, anche oggi restano aperte molte
questioni, non solo sul pensiero teologico e filosofico di Tertulliano, ma anche sul suo atteggiamento nei
confronti delle istituzioni politiche e della società pagana. A me fa molto pensare questa grande
personalità morale e intellettuale, quest'uomo che ha dato un così grande contributo al pensiero cristiano.
Si vede che alla fine gli manca la semplicità, l'umiltà di inserirsi nella Chiesa, di accettare le sue
debolezze, di essere tollerante con gli altri e con se stesso. Quando si vede solo il proprio pensiero nella
sua grandezza, alla fine è proprio questa grandezza che si perde. La caratteristica essenziale di un grande

39
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 25 aprile 2007).
26
teologo è l’umiltà di stare con la Chiesa, di accettare le sue e le proprie debolezze, perché solo Dio è
realmente tutto santo. Noi invece abbiamo sempre bisogno del perdono.
In definitiva, l’Africano rimane un testimone interessante dei primi tempi della Chiesa, quando i cristiani
si trovarono ad essere autentici soggetti di «nuova cultura» nel confronto ravvicinato tra eredità classica e
messaggio evangelico. È sua la celebre affermazione secondo cui la nostra anima ‘è naturaliter cristiana’
(Apologetico 17,6), dove Tertulliano evoca la perenne continuità tra gli autentici valori umani e quelli
cristiani; e anche quell’altra sua riflessione, mutuata direttamente dal Vangelo, secondo cui ‘il cristiano
non può odiare nemmeno i propri nemici’ (cfr Apologetico 37), dove il risvolto morale, ineludibile, della
scelta di fede, propone la ‘non violenza’ come regola di vita: e non è chi non veda la drammatica attualità
di questo insegnamento, anche alla luce dell’acceso dibattito sulle religioni.40

Ecco qui di seguito alcune espressioni della catechesi di papa Benedetto XVI su
CIPRIANO DI CARTAGINE.
‘fu il primo Vescovo che in Africa conseguì la corona del martirio’. In pari grado la sua fama – come
attesta il diacono Ponzio, che per primo ne scrisse la vita – è legata alla produzione letteraria e all’attività
pastorale dei tredici anni che intercorrono fra la sua conversione e il martirio (cfr Vita 19,1; 1,1). Nato a
Cartagine da ricca famiglia pagana, dopo una giovinezza dissipata Cipriano si converte al cristianesimo
all’età di 35 anni. Egli stesso racconta il suo itinerario spirituale: ‘Quando ancora giacevo come in una
notte oscura’, scrive alcuni mesi dopo il Battesimo, ‘mi appariva estremamente difficile e faticoso
compiere quello che la misericordia di Dio mi proponeva ... Ero legato dai moltissimi errori della mia vita
passata, e non credevo di potermene liberare, tanto assecondavo i vizi e favorivo i miei cattivi desideri ...
Ma poi, con l’aiuto dell’acqua rigeneratrice, fu lavata la miseria della mia vita precedente; una luce
sovrana si diffuse nel mio cuore; una seconda nascita mi restaurò in un essere interamente nuovo. In
modo meraviglioso cominciò allora a dissiparsi ogni dubbio ... Comprendevo chiaramente che era terreno
quello che prima viveva in me, nella schiavitù dei vizi della carne, ed era invece divino e celeste ciò che
lo Spirito Santo in me aveva ormai generato’ (A Donato 3-4). […]
Cipriano compose numerosi trattati e lettere, sempre legati al suo ministero pastorale. Poco incline alla
speculazione teologica, scriveva soprattutto per l’edificazione della comunità e per il buon
comportamento dei fedeli. Di fatto, la Chiesa è il tema che gli è di gran lunga più caro. Distingue tra
Chiesa visibile, gerarchica, e Chiesa invisibile, mistica, ma afferma con forza che la Chiesa è una sola,
fondata su Pietro. Non si stanca di ripetere che «chi abbandona la cattedra di Pietro, su cui è fondata la
Chiesa, si illude di restare nella Chiesa» (L’unità della Chiesa cattolica 4). Cipriano è convinto, e lo ha
formulato con parole forti, che ‘fuori della Chiesa non c'è salvezza’ (Epistola 4,4 e 73,21), e che ‘non può
avere Dio come Padre chi non ha la Chiesa come Madre’ (L’unità della Chiesa cattolica 4). Caratteristica
irrinunciabile della Chiesa è l’unità, simboleggiata dalla tunica di Cristo senza cuciture (ibid., 7): unità
della quale dice che trova il suo fondamento in Pietro (ibid., 4) e la sua perfetta realizzazione
nell’Eucaristia (Epistola 63,13). ‘Vi è un solo Dio, un solo Cristo’, ammonisce Cipriano, ‘una sola è la
sua Chiesa, una sola fede, un solo popolo cristiano, stretto in salda unità dal cemento della concordia: e
non si può separare ciò che è uno per natura’ (L’unità della Chiesa cattolica 23).41

Continuiamo a percorrere l’itinerario tracciato da papa Benedetto attraverso le sue


catechesi per evidenziare alcuni tratti significativi nella relazione tra fede e ragione presenti
nella tradizione dei primi secoli del pensiero cristiano.

EUSEBIO DI CESAREA.
Nella storia del cristianesimo antico è fondamentale la distinzione fra i primi tre secoli e quelli successivi
al Concilio di Nicea del 325, il primo ecumenico. Quasi ‘a cerniera’ fra i due periodi stanno la cosiddetta
‘svolta costantiniana’ e la pace della Chiesa, come pure la figura di Eusebio, Vescovo di Cesarea in
Palestina. Egli fu l’esponente più qualificato della cultura cristiana del suo tempo in contesti molto vari,
dalla teologia all’esegesi, dalla storia all’erudizione. Eusebio è noto soprattutto come il primo storico del
cristianesimo, ma fu anche il più grande filologo della Chiesa antica.
A Cesarea, dove probabilmente è da collocare intorno al 260 la nascita di Eusebio, Origene si era
rifugiato venendo da Alessandria, e lì aveva fondato una scuola e un’ingente biblioteca. Proprio su questi
libri si sarebbe formato, qualche decennio più tardi, il giovane Eusebio. Nel 325, come Vescovo di
Cesarea, egli partecipò con un ruolo di protagonista al Concilio di Nicea. Ne sottoscrisse il Credo e

40
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 30 maggio 2007).
41
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 6 giugno 2007).
27
l’affermazione della piena divinità del Figlio di Dio, definito per questo ‘della stessa sostanza’ del Padre
(homooúsios tõ Patrí). È praticamente lo stesso Credo che noi recitiamo ogni domenica nella Santa
Liturgia. Sincero ammiratore di Costantino, che aveva dato la pace alla Chiesa, Eusebio ne ebbe a sua
volta stima e considerazione. Celebrò l’imperatore, oltre che nelle sue opere, anche con discorsi ufficiali,
tenuti nel ventesimo e nel trentesimo anniversario della sua salita al trono, e dopo la morte, avvenuta nel
337. Due o tre anni più tardi anche Eusebio morì.
Studioso infaticabile, nei suoi numerosi scritti Eusebio si propone di riflettere e di fare il punto su tre
secoli di cristianesimo, tre secoli vissuti sotto la persecuzione, attingendo largamente alle fonti cristiane e
pagane conservate soprattutto nella grande biblioteca di Cesarea. Così, nonostante l’importanza oggettiva
delle sue opere apologetiche, esegetiche e dottrinali, la fama imperitura di Eusebio resta legata in primo
luogo ai dieci libri della sua Storia Ecclesiastica. È il primo che ha scritto una Storia della Chiesa, che
rimane fondamentale grazie alle fonti poste da Eusebio a nostra disposizione per sempre. Con questa
Storia egli riuscì a salvare da sicuro oblìo numerosi eventi, personaggi e opere letterarie della Chiesa
antica. Si tratta quindi di una fonte primaria per la conoscenza dei primi secoli del cristianesimo. […]
Eusebio inaugura così la storiografia ecclesiastica, spingendo il suo racconto fino al 324, anno in cui
Costantino, dopo la sconfitta di Licinio, fu acclamato unico imperatore di Roma. È l’anno precedente al
grande Concilio di Nicea che poi offre la ‘summa’ di quanto la Chiesa – dottrinalmente, moralmente e
anche giuridicamente – aveva imparato in questi trecento anni. […]
Possiamo cogliere così la prospettiva fondamentale della storiografia eusebiana: la sua è una storia
«cristocentrica», nella quale si svela progressivamente il mistero dell’amore di Dio per gli uomini. Con
genuino stupore, Eusebio riconosce ‘che presso tutti gli uomini del mondo intero solo Gesù è detto,
confessato, riconosciuto Cristo [cioè Messia e Salvatore del mondo], che è ricordato con questo nome sia
dai greci sia dai barbari, che ancora oggi dai suoi discepoli sparsi in tutto il mondo egli è onorato come re,
ammirato più di un profeta, glorificato come vero e unico sacerdote di Dio; e più di tutto ciò, in quanto
Logos di Dio preesistente e tratto dall’essere prima di tutti i tempi, egli ha ricevuto dal Padre onore degno
di venerazione, ed è adorato come Dio. Ma la cosa più straordinaria di tutte è che quanti gli siamo
consacrati lo celebriamo non solo con le voci e il suono delle parole, ma con tutte le disposizioni
dell’animo, così che mettiamo davanti alla nostra stessa vita la testimonianza resa a Lui’ (1,3,19-20). […]
In questo modo Eusebio interpella vivacemente i credenti di ogni tempo riguardo al loro modo di
accostarsi alle vicende della storia e della Chiesa in particolare.42

SANT’ATANASIO.
Questo autentico protagonista della tradizione cristiana, già pochi anni dopo la morte, venne celebrato
come ‘la colonna della Chiesa’ dal grande teologo e Vescovo di Costantinopoli Gregorio Nazianzeno
(Discorsi 21,26), e sempre è stato considerato come un modello di ortodossia, tanto in Oriente quanto in
Occidente. Non a caso, dunque, Gian Lorenzo Bernini ne collocò la statua tra quelle dei quattro santi
Dottori della Chiesa orientale e occidentale – insieme ad Ambrogio, Giovanni Crisostomo e Agostino –,
che nella meravigliosa abside della Basilica vaticana circondano la Cattedra di san Pietro.
Atanasio è stato senza dubbio uno dei Padri della Chiesa antica più importanti e venerati. Ma soprattutto
questo grande Santo è l’appassionato teologo dell’incarnazione del Logos, il Verbo di Dio, che – come
dice il prologo del quarto Vangelo – ‘si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi’ (Gv 1,14). Proprio
per questo motivo Atanasio fu anche il più importante e tenace avversario dell’eresia ariana, che allora
minacciava la fede in Cristo, riducendolo ad una creatura ‘media’ tra Dio e l’uomo, secondo una tendenza
ricorrente nella storia, e che vediamo in atto in diversi modi anche oggi. […]
Stretto collaboratore del suo Vescovo, il giovane ecclesiastico prese parte con lui al Concilio di Nicea, il
primo a carattere ecumenico, convocato dall’imperatore Costantino nel maggio del 325 per assicurare
l’unità della Chiesa. I Padri niceni poterono così affrontare varie questioni, e principalmente il grave
problema originato qualche anno prima dalla predicazione del presbitero alessandrino Ario.
Questi, con la sua teoria, minacciava l’autentica fede in Cristo, dichiarando che il Logos non era vero Dio,
ma un Dio creato, un essere ‘medio’ tra Dio e l’uomo, e così il vero Dio rimaneva sempre inaccessibile a
noi. I Vescovi riuniti a Nicea risposero mettendo a punto e fissando il ‘Simbolo della fede’ che,
completato più tardi dal primo Concilio di Costantinopoli, è rimasto nella tradizione delle diverse
confessioni cristiane e nella Liturgia come il Credo niceno-costantinopolitano. In questo testo
fondamentale – che esprime la fede della Chiesa indivisa, e che recitiamo anche oggi, ogni domenica,
nella Celebrazione eucaristica – figura il termine greco homooúsios, in latino consubstantialis: esso vuole
indicare che il Figlio, il Logos, è ‘della stessa sostanza’ del Padre, è Dio da Dio, è la sua sostanza, e così
viene messa in luce la piena divinità del Figlio, che era negata dagli ariani. […]

42
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, 13 giugno 2007).
28
Nonostante l’inequivocabile esito del Concilio, che aveva con chiarezza affermato che il Figlio è della
stessa sostanza del Padre, poco dopo queste idee sbagliate tornarono a prevalere – in questa situazione
persino Ario fu riabilitato –, e vennero sostenute per motivi politici dallo stesso imperatore Costantino e
poi da suo figlio Costanzo II. Questi, peraltro, che non si interessava tanto della verità teologica quanto
dell’unità dell’Impero e dei suoi problemi politici, voleva politicizzare la fede, rendendola più accessibile
– secondo il suo parere – a tutti i sudditi nell’Impero.
La crisi ariana, che si credeva risolta a Nicea, continuò così per decenni, con vicende difficili e divisioni
dolorose nella Chiesa. E per ben cinque volte – durante un trentennio, tra il 336 e il 366 – Atanasio fu
costretto ad abbandonare la sua città, passando diciassette anni in esilio e soffrendo per la fede. Ma
durante le sue forzate assenze da Alessandria, il Vescovo ebbe modo di sostenere e diffondere in
Occidente, prima a Treviri e poi a Roma, la fede nicena e anche gli ideali del monachesimo, abbracciati in
Egitto dal grande eremita Antonio con una scelta di vita alla quale Atanasio fu sempre vicino.
Sant’Antonio, con la sua forza spirituale, era la persona più importante nel sostenere la fede di
sant’Atanasio. Reinsediato definitivamente nella sua sede, il Vescovo di Alessandria poté dedicarsi alla
pacificazione religiosa e alla riorganizzazione delle comunità cristiane. Morì il 2 maggio del 373, giorno
in cui celebriamo la sua memoria liturgica.
L’opera dottrinale più famosa del santo Vescovo alessandrino è il trattato su L’incarnazione del Verbo, il
Logos divino che si è fatto carne divenendo come noi per la nostra salvezza. Dice in quest’opera
Atanasio, con un’affermazione divenuta giustamente celebre, che il Verbo di Dio ‘si è fatto uomo perché
noi diventassimo Dio; egli si è reso visibile nel corpo perché noi avessimo un’idea del Padre invisibile, ed
egli stesso ha sopportato la violenza degli uomini perché noi ereditassimo l’incorruttibilità’ (54,3). Con la
sua risurrezione, infatti, il Signore ha fatto sparire la morte come se fosse ‘paglia nel fuoco’ (8,4). L’idea
fondamentale di tutta la lotta teologica di sant’Atanasio era proprio quella che Dio è accessibile. Non è un
Dio secondario, è il Dio vero, e tramite la nostra comunione con Cristo noi possiamo unirci realmente a
Dio. Egli è divenuto realmente ‘Dio con noi’.43

SAN CIRILLO DI GERUSALEMME.


La sua vita rappresenta l'intreccio di due dimensioni: da una parte, la cura pastorale e, dall’altra, il
coinvolgimento – suo malgrado – nelle accese controversie che travagliavano allora la Chiesa d’Oriente.
[…]
Conserviamo di lui ventiquattro celebri catechesi, che egli espose come Vescovo verso il 350. Introdotte
da una Procatechesi di accoglienza, le prime diciotto di esse sono indirizzate ai catecumeni o illuminandi
(photizómenoi); furono tenute nella Basilica del Santo Sepolcro. Le prime (1-5) trattano ciascuna,
rispettivamente, delle disposizioni previe al Battesimo, della conversione dai costumi pagani, del
sacramento del Battesimo, delle dieci verità dogmatiche contenute nel Credo o Simbolo della fede. Le
successive (6-18) costituiscono una ‘catechesi continua’ sul Simbolo di Gerusalemme, in chiave
antiariana. Delle ultime cinque (19-23), dette ‘mistagogiche’, le prime due sviluppano un commento ai riti
del Battesimo, le ultime tre vertono sul crisma, sul Corpo e Sangue di Cristo e sulla Liturgia eucaristica.
Vi è inclusa la spiegazione del Padre Nostro (Oratio Dominica): essa fonda un cammino di iniziazione
alla preghiera, che si sviluppa parallelamente all’iniziazione ai tre sacramenti del Battesimo, della
Cresima e dell’Eucaristia.
La base dell’istruzione sulla fede cristiana si svolgeva anche in funzione polemica contro pagani,
giudeocristiani e manichei. L’argomentazione era fondata sull’attuazione delle promesse dell’Antico
Testamento, in un linguaggio ricco di immagini. La catechesi era un momento importante, inserito
nell’ampio contesto dell’intera vita, in particolare liturgica, della comunità cristiana, nel cui seno materno
avveniva la gestazione del futuro fedele, accompagnata dalla preghiera e dalla testimonianza dei fratelli.
Nel loro complesso, le omelie di Cirillo costituiscono una catechesi sistematica sulla rinascita del
cristiano mediante il Battesimo. Al catecumeno egli dice: ‘Sei caduto dentro le reti della Chiesa (cfr Mt
13,47). Lasciati dunque prendere vivo; non sfuggire, perché è Gesù che ti prende al suo amo, per darti
non la morte ma la risurrezione dopo la morte. Devi infatti morire e risorgere (cfr Rm 6,11.14)... Muori al
peccato, e vivi per la giustizia fin da oggi’ (Procatechesi 5).
Dal punto di vista dottrinale, Cirillo commenta il Simbolo di Gerusalemme col ricorso alla tipologia delle
Scritture, in un rapporto ‘sinfonico’ tra i due Testamenti, approdando a Cristo, centro dell’universo. La
tipologia sarà incisivamente descritta da Agostino d’Ippona: ‘L’Antico Testamento è il velo del Nuovo
Testamento, e nel Nuovo Testamento si manifesta l’Antico’ (La catechesi ai semplici 4,8).44

43
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 20 giugno 2007).
44
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 27 giugno 2007).
29
2.1.E. Le grandi sintesi del pensiero filosofico e teologico, da Agostino all’alto Medioevo

Lo studio della corrispondenza di Agostino nell’anno 410 (Ep. 135 - 137) introduce in un
circolo e salotto letterario di Cartagine, frequentato da alti funzionari, pagani o cristiani, ma tutti
ugualmente colti. Lo si vede chiaramente dall’argomento delle discussioni che essi intavolano e che
vertono su ciò che costituiva ancora la disciplina sovrana della cultura del tempo, e cioè la retorica,
codice di norme sistematicamente elaborate, che dominava l’arte letteraria. Da questo spunto la
discussione si solleva alla sfera filosofica e si dilata con tutta naturalezza in riflessione teologica.
Uno dei membri del gruppo, pagano, non può fare a meno di porre le difficoltà che lo separano
dagli amici cristiani, allontanandolo dalla loro fede. Il dialogo, condotto in tutta cortesia e
cerimoniosa gentilezza, offre, al di là della perfetta fraternità spirituale, più di uno spunto di estremo
interesse.
Proprio Agostino, come farà direttamente nel De Civitate Dei, e come afferma nel De
doctrina Christiana (Proem., 3), è cosciente che per i cristiani la critica storica giocò fin dai primi
cristiani un ruolo decisivo nella formazione di una riflessione autonoma: fu proprio il senso
dell’irreversibilità della storia a consentire loro di relativizzare le diverse autorità, civili e
filosofiche. Essi avevano due consapevolezze decisive: sanno di appartenere ad una comunità, che è
il nuovo Israele, e sanno della presenza in essa di interpreti autorizzati, ex officio, dei dati della
tradizione: i vescovi. Ogni escrescenza erratica nell’ermeneutica della Bibbia viene radicalmente
esclusa.
Agostino arriverà alla conclusione che l’oggetto della ricerca filosofica è Dio stesso e che
pertanto la vera filosofia coincide con la vera religione, perché l’una ha bisogno dell’altra nel
comune sforzo verso l’identico obiettivo che è la verità. Se il filosofo Agostino usa la ragione come
mezzo per raggiungere la verità (“intellege ut credas”, “comprendi per credere”), il teologo
Agostino impegna, invece, la ragione per capire la verità abbracciata mediante il dono della fede
(“crede ut intelligas”, “credi per comprendere”). Nelle due formule si coglie anche la radicale
novità della speculazione filosofica “teologia cristiana”.
AGOSTINO, afferma FR, riuscì a produrre la prima grande sintesi del pensiero filosofico e
teologico nel quale confluivano correnti del pensiero greco e latino.

Il grande Dottore occidentale era venuto a contatto con diverse scuole filosofiche, ma tutte lo avevano
deluso. Quando davanti a lui si affacciò la verità della fede cristiana, allora ebbe la forza di compiere
quella radicale conversione a cui i filosofi precedentemente frequentati non erano riusciti ad indurlo. Il
motivo lo racconta lui stesso: ‘Dal quel momento però cominciai a rendermi conto che una preferenza per
l’insegnamento cattolico mi avrebbe imposto di credere a cose non dimostrate (sia che una dimostrazione
ci fosse ma non apparisse convincente, sia che non ci fosse del tutto) in misura minore e con rischio
d’errore trascurabile in confronto all'insegnamento manicheo. Il quale prima si prendeva gioco della
credulità con temerarie promesse di conoscenza, e poi imponeva di credere a tante fantasie favolose ed
assurde, dato che non poteva dimostrarle’. Agli stessi platonici, a cui si faceva riferimento in modo
privilegiato, Agostino rimproverava che, pur avendo conosciuto il fine verso cui tendere, avevano
ignorato però la via che vi conduce: il Verbo incarnato. Il Vescovo di Ippona riuscì a produrre la prima
grande sintesi del pensiero filosofico e teologico nella quale confluivano correnti del pensiero greco e
latino. Anche in lui, la grande unità del sapere, che trovava il suo fondamento nel pensiero biblico, venne
ad essere confermata e sostenuta dalla profondità del pensiero speculativo. La sintesi compiuta da
sant’Agostino rimarrà per secoli come la forma più alta della speculazione filosofica e teologica che
l’Occidente abbia conosciuto. Forte della sua storia personale e aiutato da una mirabile santità di vita, egli
fu anche in grado di introdurre nelle sue opere molteplici dati che, facendo riferimento all'esperienza,
preludevano a futuri sviluppi di alcune correnti filosofiche.45

45
FR, n. 40.
30
Così Papa Benedetto XVI si è espresso nelle sue catechesi del 2008 in riferimento a
Sant’Agostino, il

più grande Padre della Chiesa latina, sant’Agostino: uomo di passione e di fede, di intelligenza altissima e
di premura pastorale instancabile, questo grande Santo e Dottore della Chiesa è spesso conosciuto,
almeno di fama, anche da chi ignora il cristianesimo o non ha consuetudine con esso, perché egli ha
lasciato un’impronta profondissima nella vita culturale dell’Occidente e di tutto il mondo.
Per la sua singolare rilevanza, sant’Agostino ha avuto un influsso larghissimo, e si potrebbe affermare, da
una parte, che tutte le strade della letteratura latina cristiana portano a Ippona (oggi Annata, sulla costa
algerina) – la città dell’Africa romana, di cui egli fu Vescovo dal 395 fino alla morte nel 430 – e,
dall’altra, che da questo luogo si diramano molte altre strade del cristianesimo successivo e della stessa
cultura occidentale.
Di rado una civiltà ha trovato uno spirito così grande, che sapesse accoglierne i valori ed esaltarne
l’intrinseca ricchezza, inventando idee e forme di cui si sarebbero nutriti i posteri, come sottolineò anche
Paolo VI: ‘Si può dire che tutto il pensiero dell’antichità confluisca nella sua opera e da essa derivino
correnti di pensiero che pervadono tutta la tradizione dottrinale dei secoli successivi’ (AAS, 62, 1970, p.
426). Agostino è inoltre il Padre della Chiesa che ha lasciato il maggior numero di opere. […]
Agostino si rese conto che la lettura allegorica della Scrittura e la filosofia neoplatonica coltivate dal
Vescovo di Milano gli permettevano di risolvere le difficoltà intellettuali che, quando era più giovane, nel
suo primo avvicinamento ai testi biblici gli erano sembrate insuperabili. Alla lettura degli scritti dei
filosofi Agostino fece così seguire quella rinnovata della Scrittura e soprattutto delle Lettere paoline. La
conversione al cristianesimo, il 15 agosto 386, si collocò quindi al culmine di un lungo e tormentato
itinerario interiore.46

Il suo primo biografo ha su di lui questo giudizio conclusivo: ‘Lasciò alla Chiesa un clero molto
numeroso, come pure monasteri d’uomini e di donne pieni di persone votate alla continenza sotto
l’obbedienza dei loro superiori, insieme con le biblioteche contenenti libri e discorsi suoi e di altri Santi,
da cui si conosce quale sia stato per grazia di Dio il suo merito e la sua grandezza nella Chiesa, e nei quali
i fedeli sempre lo ritrovano vivo’ (Vita 31,8). È un giudizio a cui possiamo associarci: nei suoi scritti
anche noi lo ‘ritroviamo vivo’. Quando leggo gli scritti di sant’Agostino non ho l’impressione che sia un
uomo morto più o meno milleseicento anni fa, ma lo sento come un uomo di oggi: un amico, un
contemporaneo che parla a me, parla a noi con la sua fede fresca e attuale. In sant’Agostino che parla a
noi, parla a me nei suoi scritti, vediamo l’attualità permanente della sua fede; della fede che viene da
Cristo, Verbo eterno incarnato, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. E possiamo vedere che questa fede non è
di ieri, anche se predicata ieri; è sempre di oggi, perché realmente Cristo è ieri, oggi e per sempre. Egli è
la Via, la Verità e la Vita. Così sant’Agostino ci incoraggia ad affidarci a questo Cristo sempre vivo e a
trovare in tal modo la strada della vita vera.47

[Il tema del rapporto tra fede e ragione è] il tema determinante per la biografia di sant’Agostino. Da
bambino aveva imparato da sua madre Monica la fede cattolica. Ma da adolescente aveva abbandonato
questa fede, perché non poteva più vederne la ragionevolezza e non voleva una religione che non fosse
anche per lui espressione della ragione, cioè della verità. La sua sete di verità era radicale e lo ha condotto
quindi ad allontanarsi dalla fede cattolica. Ma la sua radicalità era tale che egli non poteva accontentarsi
di filosofie che non arrivassero alla verità stessa, che non arrivassero fino a Dio. E a un Dio che non fosse
soltanto un’ultima ipotesi cosmologica, ma che fosse il vero Dio, il Dio che dà la vita e che entra nella
nostra stessa vita. Così tutto l’itinerario intellettuale e spirituale di sant’Agostino costituisce un modello
valido anche oggi nel rapporto tra fede e ragione, tema non solo per uomini credenti, ma per ogni uomo
che cerca la verità, tema centrale per l’equilibrio e il destino di ogni essere umano.
Queste due dimensioni, fede e ragione, non sono da separare né da contrapporre, ma piuttosto devono
sempre andare insieme. Come ha scritto Agostino stesso dopo la sua conversione, fede e ragione sono ‘le
due forze che ci portano a conoscere’ (Contro gli Accademici III,20,43). A questo proposito rimangono
giustamente celebri le due formule agostiniane (Sermoni 43,9) che esprimono questa coerente sintesi tra
fede e ragione: crede ut intelligas (‘credi per comprendere’) – il credere apre la strada per varcare la porta
della verità –, ma anche, e inseparabilmente, intellige ut credas (‘comprendi per credere’) – scruta la
verità per poter trovare Dio e credere.
Le due affermazioni di Agostino esprimono con efficace immediatezza e con altrettanta profondità la
sintesi di questo problema, nella quale la Chiesa cattolica vede espresso il proprio cammino. Storicamente
questa sintesi va formandosi, prima ancora della venuta di Cristo, nell’incontro tra fede ebraica e pensiero

46
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 9 gennaio 2008).
47
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 16 gennaio 2008).
31
greco nel giudaismo ellenistico. Successivamente nella storia questa sintesi è stata ripresa e sviluppata da
molti pensatori cristiani. L’armonia tra fede e ragione significa soprattutto che Dio non è lontano: non è
lontano dalla nostra ragione e dalla nostra vita; è vicino ad ogni essere umano, vicino al nostro cuore e
vicino alla nostra ragione, se realmente ci mettiamo in cammino.
Proprio questa vicinanza di Dio all’uomo fu avvertita con straordinaria intensità da Agostino. La presenza
di Dio nell’uomo è profonda e nello stesso tempo misteriosa, ma può essere riconosciuta e scoperta nel
proprio intimo: non andare fuori – afferma il convertito – ma ‘torna in te stesso; nell’uomo interiore abita
la verità; e se troverai che la tua natura è mutabile, trascendi te stesso. Ma ricordati, quando trascendi te
stesso, che tu trascendi un’anima che ragiona. Tendi dunque là dove si accende la luce della ragione’ (La
vera religione 39,72). Proprio come egli stesso sottolinea, con un’affermazione famosissima, all’inizio
delle Confessioni, autobiografia spirituale scritta a lode di Dio: ‘Ci hai fatti per te e inquieto è il nostro
cuore, finché non riposa in te’ (I,1,1).
La lontananza di Dio equivale allora alla lontananza da se stessi: ‘Tu infatti – riconosce Agostino
(Confessioni, III,6,11) rivolgendosi direttamente a Dio – eri all’interno di me più del mio intimo e più in
alto della mia parte più alta’, interior intimo meo et superior summo meo; tanto che – aggiunge in un altro
passo ricordando il tempo antecedente la conversione – ‘tu eri davanti a me; e io invece mi ero
allontanato da me stesso, e non mi ritrovavo; e ancora meno ritrovavo te’ (Confessioni V,2,2). Proprio
perché Agostino ha vissuto in prima persona questo itinerario intellettuale e spirituale, ha saputo renderlo
nelle sue opere con tanta immediatezza, profondità e sapienza, riconoscendo in due altri celebri passi
delle Confessioni (IV,4,9 e 14,22) che l’uomo è ‘un grande enigma’ (magna quaestio) e ‘un grande
abisso’ (grande profundum), enigma e abisso che solo Cristo illumina e salva. Questo è importante: un
uomo che è lontano da Dio è anche lontano da sé, alienato da se stesso, e può ritrovare se stesso solo
incontrandosi con Dio. Così arriva anche a sé, al suo vero io, alla sua vera identità.
L’essere umano – sottolinea poi Agostino nel De civitate Dei (La città di Dio XII,27) – è sociale per
natura ma antisociale per vizio, ed è salvato da Cristo, unico mediatore tra Dio e l’umanità e ‘via
universale della libertà e della salvezza’, come ha ripetuto il mio predecessore Giovanni Paolo II
(Augustinum Hipponensem, 21): al di fuori di questa via, che mai è mancata al genere umano – afferma
ancora Agostino nella stessa opera – ‘nessuno è stato mai liberato, nessuno viene liberato, nessuno sarà
liberato’ (La città di Dio X,32,2). In quanto unico mediatore della salvezza, Cristo è capo della Chiesa e
ad essa è misticamente unito, al punto che Agostino può affermare: ‘Siamo diventati Cristo. Infatti se Egli
è il capo, noi le sue membra, l’uomo totale è Lui e noi’ (Commento al Vangelo di Giovanni 21,8).
Popolo di Dio e casa di Dio, la Chiesa nella visione agostiniana è dunque legata strettamente al concetto
di Corpo di Cristo, fondata sulla rilettura cristologica dell’Antico Testamento e sulla vita sacramentale
centrata sull’Eucaristia, nella quale il Signore ci dà il suo Corpo e ci trasforma in suo Corpo. È allora
fondamentale che la Chiesa, popolo di Dio in senso cristologico e non in senso sociologico, sia davvero
inserita in Cristo, il quale – afferma Agostino in una bellissima pagina – ‘prega per noi, prega in noi, è
pregato da noi; prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi
come nostro Dio: riconosciamo pertanto in Lui la nostra voce e in noi la sua’ (Esposizione sui Salmi
85,1).
Nella conclusione della Lettera apostolica Augustinum Hipponensem Giovanni Paolo II ha voluto
chiedere allo stesso Santo che cosa abbia da dire agli uomini di oggi, e risponde anzitutto con le parole
che Agostino affidò a una lettera dettata poco dopo la sua conversione: ‘A me sembra che si debbano
ricondurre gli uomini alla speranza di trovare la verità’ (Ep. 1,1); quella verità che è Cristo stesso, Dio
vero, al quale è rivolta una delle preghiere più belle e più famose delle Confessioni (X,27,38): ‘Tardi ti ho
amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco tu eri dentro e io fuori, e lì ti
cercavo, e nelle bellezze che hai creato, deforme, mi gettavo. Eri con me, ma io non ero con te. Da te mi
tenevano lontano quelle cose che, se non fossero in te, non esisterebbero. Hai chiamato e hai gridato e hai
rotto la mia sordità, hai brillato, hai mostrato il tuo splendore e hai dissipato la mia cecità, hai sparso il tuo
profumo e ho respirato e aspiro a te, ho gustato e ho fame e sete, mi hai toccato e mi sono infiammato
nella tua pace’.
Ecco, Agostino ha incontrato Dio e durante tutta la sua vita ne ha fatto esperienza, al punto che questa
realtà – che è anzitutto incontro con una Persona, Gesù – ha cambiato la sua vita, come cambia quella di
quanti, donne e uomini, in ogni tempo hanno la grazia di incontrarlo.48

Pur con tutta la sua umiltà, Agostino certamente fu consapevole della propria statura intellettuale. Ma per
lui, più importante del fare grandi opere di respiro alto, teologico, era portare il messaggio cristiano ai
semplici. Questa sua intenzione più profonda, che ha guidato tutta la sua vita, appare da una lettera scritta
al collega Evodio, dove comunica la decisione di sospendere per il momento la dettatura dei libri su La
Trinità, ‘perché sono troppo faticosi e penso che possano essere capiti da pochi; per questo urgono di più

48
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 30 gennaio 2008).
32
testi che speriamo saranno utili a molti’ (Ep. 169,1,1). Quindi più utile era per lui comunicare la fede in
modo comprensibile a tutti, che non scrivere grandi opere teologiche. La responsabilità acutamente
avvertita nei confronti della divulgazione del messaggio cristiano è poi all’origine di scritti come il La
catechesi ai semplici, una teoria e anche una prassi della catechesi, o il Salmo contro il partito di Donato.
I donatisti erano il grande problema dell’Africa di sant’Agostino, uno scisma volutamente africano. Essi
affermavano: la vera cristianità è quella africana. Si opponevano all’unità della Chiesa. Contro questo
scisma il grande Vescovo ha lottato per tutta la sua vita, cercando di convincere i donatisti che solo
nell’unità anche l’africanità può essere vera. E per farsi capire dai semplici, che non potevano
comprendere il grande latino del retore, Agostino ha deciso: devo scrivere, anche con errori grammaticali,
in un latino molto semplificato. E lo ha fatto soprattutto in questo Salmo, una specie di poesia semplice
contro i donatisti, per aiutare tutta la gente a capire che solo nell’unità della Chiesa si realizza per tutti
realmente la nostra relazione con Dio e cresce la pace nel mondo.
In questa produzione destinata a un pubblico più largo riveste un’importanza particolare la massa delle
omelie, spesso pronunciate ‘a braccio’, trascritte dai tachigrafi durante la predicazione e subito messe in
circolazione. Tra queste spiccano le bellissime Esposizione sui Salmi, molto lette nel Medioevo. Proprio
la prassi di pubblicazione delle migliaia di omelie di Agostino – spesso senza il controllo dell’autore –
spiega la loro diffusione e successiva dispersione, ma anche la loro vitalità. Subito infatti le prediche del
Vescovo d’Ippona diventavano, per la fama del loro autore, testi molto ricercati e servivano anche per
altri Vescovi e sacerdoti come modelli, adattati a sempre nuovi contesti.
La tradizione iconografica, già in un affresco lateranense risalente al VI secolo, rappresenta sant’Agostino
con un libro in mano, certo per esprimere la sua produzione letteraria, che tanto influenzò la mentalità e il
pensiero cristiani, ma per esprimere anche il suo amore per i libri, per la lettura e la conoscenza della
grande cultura precedente. Alla sua morte non lasciò nulla, racconta Possidio, ma ‘raccomandava sempre
di conservare diligentemente per i posteri la biblioteca della chiesa con tutti i codici’, soprattutto quelli
delle sue opere. In queste, sottolinea Possidio, Agostino è ‘sempre vivo’ e giova a chi legge i suoi scritti,
anche se, conclude, ‘io credo che abbiano potuto trarre più profitto dal suo contatto quelli che lo poterono
vedere e ascoltare quando di persona parlava in chiesa, e soprattutto quelli che ebbero pratica della sua
vita quotidiana fra la gente’ (Vita di Agostino 31). Sì, anche per noi sarebbe stato bello poterlo sentire
vivo. Ma è realmente vivo nei suoi scritti, è presente in noi, e così vediamo anche la permanente vitalità
della fede alla quale ha dato tutta la sua vita.49

Sant’Agostino è stato un ricercatore appassionato della verità: lo è stato fin dall’inizio e poi per tutta la
sua vita. La prima tappa del suo cammino di conversione si è realizzata proprio nel progressivo
avvicinamento al cristianesimo. In realtà, egli aveva ricevuto dalla madre Monica, alla quale restò sempre
legatissimo, un’educazione cristiana e, benché avesse vissuto durante gli anni giovanili una vita sregolata,
sempre avvertì un’attrazione profonda per Cristo, avendo bevuto l’amore per il nome del Signore con il
latte materno, come lui stesso sottolinea (cfr Confessioni III,4,8). Ma anche la filosofia, soprattutto quella
d’impronta platonica, aveva contribuito ad avvicinarlo ulteriormente a Cristo, manifestandogli l’esistenza
del Logos, la Ragione creatrice. I libri dei filosofi gli indicavano che c’è la Ragione, dalla quale viene poi
tutto il mondo, ma non gli dicevano come raggiungere questo Logos, che sembrava così lontano. Soltanto
la lettura dell’epistolario di san Paolo, nella fede della Chiesa cattolica, gli rivelò pienamente la verità.
Questa esperienza fu sintetizzata da Agostino in una delle pagine più famose delle Confessioni. Egli
racconta che, nel tormento delle sue riflessioni, ritiratosi in un giardino, udì all’improvviso una voce
infantile che ripeteva una cantilena, mai udita prima: tolle, lege, tolle, lege, ‘prendi, leggi, prendi, leggi’
(VIII,12,29). Si ricordò allora della conversione di Antonio, padre del monachesimo, e con premura tornò
al codice paolino che aveva poco prima tra le mani, lo aprì e lo sguardo gli cadde sul passo della Lettera
ai Romani, dove l’Apostolo esorta ad abbandonare le opere della carne e a rivestirsi di Cristo (13,13-14).
Aveva capito che quella parola in quel momento era rivolta personalmente a lui, veniva da Dio tramite
l’Apostolo e gli indicava cosa fare in quel momento. Così sentì dileguarsi le tenebre del dubbio e si
ritrovò finalmente libero di donarsi interamente a Cristo: ‘Avevi convertito a te il mio essere’, egli
commenta (Confessioni VIII,12,30). Fu questa la sua prima e decisiva conversione.
A questa tappa fondamentale del suo lungo cammino il retore africano arrivò grazie alla sua passione per
l’uomo e per la verità, passione che lo portò a cercare Dio grande e inaccessibile. La fede in Cristo gli
fece capire che il Dio, apparentemente così lontano, in realtà non lo era. Egli, infatti, si era fatto vicino a
noi, divenendo uno di noi. In questo senso la fede in Cristo portò a compimento la lunga ricerca di
Agostino sul cammino della verità. Solo un Dio fattosi ‘toccabile’, uno di noi, era finalmente un Dio che
si poteva pregare, per il quale e con il quale si poteva vivere. È questa una via da percorrere con coraggio
e nello stesso tempo con umiltà, nell’apertura a una purificazione permanente, di cui ognuno di noi ha
sempre bisogno. Ma con quella Veglia pasquale del 387, come abbiamo detto, il cammino di Agostino

49
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 20 febbraio 2008).
33
non era concluso. Tornato in Africa e fondato un piccolo monastero, vi si ritirò con pochi amici per
dedicarsi alla vita contemplativa e di studio. Questo era il sogno della sua vita. Adesso era chiamato a
vivere totalmente per la verità, con la verità, nell’amicizia di Cristo che è la Verità. Un bel sogno che durò
tre anni, fino a quando egli non venne, suo malgrado, consacrato sacerdote a Ippona e destinato a servire i
fedeli, continuando sì a vivere con Cristo e per Cristo, ma a servizio di tutti. Questo gli era molto difficile,
ma capì fin dall’inizio che solo vivendo per gli altri, e non semplicemente per la sua privata
contemplazione, poteva realmente vivere con Cristo e per Cristo. Così, rinunciando a una vita solo di
meditazione, Agostino imparò, spesso con difficoltà, a mettere a disposizione il frutto della sua
intelligenza a vantaggio degli altri. Imparò a comunicare la sua fede alla gente semplice e a vivere così
per essa in quella che divenne la sua città, svolgendo senza stancarsi un’attività generosa e gravosa, che
così descrive in uno dei suoi bellissimi sermoni: ‘Continuamente predicare, discutere, riprendere,
edificare, essere a disposizione di tutti – è un ingente carico, un grande peso, un’immane fatica’ (Sermoni
339,4). Ma questo peso egli prese su di sé, capendo che proprio così poteva essere più vicino a Cristo.
Capire che si arriva agli altri con semplicità e umiltà, fu questa la sua seconda conversione.
Ma c’è un’ultima tappa del cammino agostiniano, una terza conversione: quella che lo portò ogni giorno
della sua vita a chiedere perdono a Dio. Inizialmente aveva pensato che una volta battezzato, nella vita di
comunione con Cristo, nei Sacramenti, nella celebrazione dell’Eucaristia, sarebbe arrivato alla vita
proposta dal Discorso della montagna: alla perfezione donata nel Battesimo e riconfermata
nell’Eucaristia. Nell’ultima parte della sua vita capì che quello che aveva detto nelle sue prime prediche
sul Discorso della montagna – cioè che adesso noi da cristiani viviamo questo ideale permanentemente –
era sbagliato. Solo Cristo stesso realizza veramente e completamente il Discorso della montagna. Noi
abbiamo sempre bisogno di essere lavati da Cristo e da Lui rinnovati. Per questo abbiamo bisogno di
quella conversione permanente, che si alimenta all’umiltà di saperci peccatori in cammino, finché il
Signore ci dia la mano definitivamente e ci introduca nella vita eterna. In questo atteggiamento di umiltà,
vissuto giorno dopo giorno, Agostino visse e morì.
Questo sentimento di indegnità davanti all’unico Signore Gesù lo introdusse all’esperienza di un’umiltà
anche intellettuale. Agostino, infatti, che è una delle più grandi figure nella storia del pensiero, volle negli
ultimi anni della sua vita sottoporre a un lucido esame critico tutte le sue numerosissime opere. Ebbero
così origine le Retractationes (Ritrattazioni), che in questo modo inseriscono il suo pensiero teologico,
davvero grande, nella fede umile e santa di quella che egli chiama semplicemente con il nome di
Catholica, cioè della Chiesa. ‘Ho compreso – scrive appunto in questo originalissimo libro (I,19,1-3) –
che uno solo è veramente perfetto e che le parole del Discorso della montagna sono totalmente realizzate
in uno solo: in Gesù Cristo stesso. Tutta la Chiesa invece – tutti noi, inclusi gli Apostoli – dobbiamo
pregare ogni giorno: rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori’.
Convertito a Cristo, che è verità e amore, Agostino lo ha seguito per tutta la vita ed è diventato un
modello per ogni essere umano, per noi tutti in cerca di Dio.50

Se Agostino può essere considerato come il culmine dell’epoca patristica, bisogna anche
riconoscere l’apporto, nell’opera di «cristianizzazione del pensiero platonico e neoplatonico»,51 dei
Padri Cappadoci e di Dionigi l’Aeropagita.
Tra i Padri Cappadoci spicca anzitutto la figura di SAN BASILIO, così messa in evidenza da
papa Benedetto XVI.

Uno dei grandi Padri della Chiesa, san Basilio, definito dai testi liturgici bizantini un «luminare della
Chiesa». Fu un grande Vescovo del IV secolo, a cui guarda con ammirazione tanto la Chiesa d’Oriente
quanto quella d’Occidente per la santità della vita, per l’eccellenza della dottrina e per la sintesi armonica
di doti speculative e pratiche.52

Possiamo ricavare alcuni messaggi importanti e validi anche per noi oggi.
Anzitutto il richiamo al mistero di Dio, che resta il riferimento più significativo e vitale per l’uomo. Il
Padre è ‘il principio di tutto e la causa dell’essere di ciò che esiste, la radice dei viventi’ (Om. 15,2 sulla
fede), e soprattutto è ‘il Padre del nostro Signore Gesù Cristo’ (Anafora di san Basilio). Risalendo a Dio
attraverso le creature, noi ‘prendiamo coscienza della sua bontà e della sua saggezza’ (Basilio, Contro
Eunomio 1,14). Il Figlio è l’‘immagine della bontà del Padre e sigillo di forma a Lui uguale’ (cfr Anafora
di san Basilio). Con la sua obbedienza e la sua passione il Verbo incarnato ha realizzato la missione di
Redentore dell’uomo (cfr Basilio, Omelie sui Salmi 48,8; cfr anche Il Battesimo 1,2,17).

50
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 27 febbraio 2008).
51
FR, n. 40.
52
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 4 luglio 2008).
34
Nell’insegnamento di Basilio trova ampio rilievo l’opera dello Spirito Santo. ‘Da Lui, il Cristo, rifulse lo
Spirito Santo: lo Spirito della verità, il dono dell’adozione filiale, il pegno dell’eredità futura, la primizia
dei beni eterni, la potenza vivificante, la sorgente della santificazione’ (cfr Anafora di san Basilio). Lo
Spirito anima la Chiesa, la riempie dei suoi doni, la rende santa. La luce splendida del mistero divino si
riverbera sull’uomo, immagine di Dio, e ne innalza la dignità. Guardando a Cristo, si capisce appieno la
dignità dell’uomo. Basilio esclama: ‘[Uomo], renditi conto della tua grandezza considerando il prezzo
versato per te: guarda il prezzo del tuo riscatto, e comprendi la tua dignità!’ (Omelie sui Salmi 48,8). In
particolare il cristiano, vivendo in conformità al Vangelo, riconosce che gli uomini sono tutti fratelli tra di
loro; che la vita è un’amministrazione dei beni ricevuti da Dio, per cui ognuno è responsabile di fronte
agli altri, e chi è ricco deve essere come un esecutore degli ordini di Dio benefattore (cfr Omelia 4 sull’
elemosina e Omelia 6 sull’avarizia). Tutti dobbiamo aiutarci, e cooperare come le membra di un corpo
(Ep. 203,3). […]
Infine, Basilio si interessò naturalmente anche di quella porzione eletta del popolo di Dio che sono i
giovani, il futuro della società. A loro indirizzò un Discorso sul modo di trarre profitto dalla cultura
pagana del tempo. Con molto equilibrio e apertura, egli riconosce che nella letteratura classica, greca e
latina, si trovano esempi di vita retta. Questi esempi possono essere utili per il giovane cristiano alla
ricerca della verità, del retto modo di vivere (cfr Discorso ai giovani 3). Pertanto bisogna prendere dai
testi degli autori classici quanto è conveniente e conforme alla verità: così con atteggiamento critico e
aperto – si tratta infatti di un vero e proprio ‘discernimento’ – i giovani crescono nella libertà. Con la
celebre immagine delle api, che colgono dai fiori solo ciò che serve per il miele, Basilio raccomanda:
‘Come le api sanno trarre dai fiori il miele, a differenza degli altri animali che si limitano al godimento
del profumo e del colore dei fiori, così anche da questi scritti … si può ricavare qualche giovamento per
lo spirito. Dobbiamo utilizzare quei libri seguendo in tutto l’esempio delle api. Esse non vanno
indistintamente su tutti i fiori, e neppure cercano di portar via tutto da quelli sui quali si posano, ma ne
traggono solo quanto serve alla lavorazione del miele, e tralasciano il resto. E noi, se siamo saggi,
prenderemo da quegli scritti quanto si adatta a noi, ed è conforme alla verità, e lasceremo andare il resto’
(Disc. ai giovani 4). Basilio, soprattutto, raccomanda ai giovani di crescere nelle virtù: ‘Mentre gli altri
beni … passano da questo a quello come nel gioco dei dadi, soltanto la virtù è un bene inalienabile e
rimane durante la vita e dopo la morte’ (Disc. ai giovani 5).
Cari fratelli e sorelle, mi sembra si possa dire che questo Padre di un tempo lontano parla anche a noi e ci
dice delle cose importanti. Anzitutto, questa partecipazione attenta, critica e creativa alla cultura
contemporanea. Poi, la responsabilità sociale: questo è un tempo nel quale, in un mondo globalizzato,
anche i popoli geograficamente distanti sono realmente il nostro prossimo. Quindi, l’amicizia con Cristo,
il Dio dal volto umano. E, infine, la conoscenza e la riconoscenza verso il Dio Creatore, Padre di noi tutti:
solo aperti a questo Dio, Padre comune, possiamo costruire un mondo giusto e fraterno.53

Assai significativa anche la figura di SAN GREGORIO NAZIANZENO.


Verso il 379, Gregorio fu chiamato a Costantinopoli, la capitale, per guidare la piccola comunità cattolica
fedele al Concilio di Nicea e alla fede trinitaria. La maggioranza aderiva invece all’arianesimo, che era
‘politicamente corretto’ e considerato politicamente utile dagli imperatori. Così egli si trovò in condizioni
di minoranza, circondato da ostilità. Nella chiesetta dell’Anastasis pronunciò cinque Discorsi teologici
(27-31) proprio per difendere e rendere anche intelligibile la fede trinitaria. Sono discorsi rimasti celebri
per la sicurezza della dottrina, l’abilità del ragionamento, che fa realmente capire che questa è la logica
divina. E anche lo splendore della forma li rende oggi affascinanti. Gregorio ricevette, a motivo di questi
discorsi, l’appellativo di ‘teologo’. Così viene chiamato nella Chiesa ortodossa: il ‘teologo’. E questo
perché la teologia per lui non è una riflessione puramente umana, o ancor meno frutto soltanto di
complicate speculazioni, ma deriva da una vita di preghiera e di santità, da un dialogo assiduo con Dio. E
proprio così fa apparire alla nostra ragione la realtà di Dio, il mistero trinitario. Nel silenzio
contemplativo, intriso di stupore davanti alle meraviglie del mistero rivelato, l’anima accoglie la bellezza
e la gloria divina.54

Gregorio fece risplendere la luce della Trinità, difendendo la fede proclamata nel Concilio di Nicea: un
solo Dio in tre Persone uguali e distinte – Padre, Figlio e Spirito Santo –, ‘triplice luce che in unico /
splendor s’aduna’ (Poesie [storiche] 2,1,32). Quindi, afferma sempre Gregorio sulla scorta di san Paolo (1
Cor 8,6), ‘per noi vi è un Dio, il Padre, da cui è tutto; un Signore, Gesù Cristo, per mezzo di cui è tutto; e
uno Spirito Santo, in cui è tutto’ (Discorso 39,12).

53
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 1 agosto 2008).
54
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 8 agosto 2008).
35
Gregorio ha messo in grande rilievo la piena umanità di Cristo: per redimere l’uomo nella sua totalità di
corpo, anima e spirito, Cristo assunse tutte le componenti della natura umana, altrimenti l’uomo non
sarebbe stato salvato. Contro l’eresia di Apollinare, il quale sosteneva che Gesù Cristo non aveva assunto
un’anima razionale, Gregorio affronta il problema alla luce del mistero della salvezza: ‘Ciò che non è
stato assunto, non è stato guarito’ (Ep. 101,32), e se Cristo non fosse stato ‘dotato di intelletto razionale,
come avrebbe potuto essere uomo?’ (Ep. 101,34). Era proprio il nostro intelletto, la nostra ragione che
aveva e ha bisogno della relazione, dell’incontro con Dio in Cristo. Diventando uomo, Cristo ci ha dato la
possibilità di diventare a nostra volta come Lui. Il Nazianzeno esorta: ‘Cerchiamo di essere come Cristo,
poiché anche Cristo è divenuto come noi: di diventare dèi per mezzo di Lui, dal momento che Lui stesso,
per il nostro tramite, è divenuto uomo. Prese il peggio su di sé, per farci dono del meglio’ (Discorso 1,5).
Maria, che ha dato la natura umana a Cristo, è vera Madre di Dio (Theotókos: cfr Ep. 101,16), e in vista
della sua altissima missione è stata ‘pre-purificata’ (Discorso 38,13; quasi un lontano preludio del dogma
dell’Immacolata Concezione). Maria è proposta come modello ai cristiani, soprattutto alle vergini, e come
soccorritrice da invocare nelle necessità (cfr Discorso 24,11). […]
Gregorio, dunque, ha sentito il bisogno di avvicinarsi a Dio per superare la stanchezza del proprio io. Ha
sperimentato lo slancio dell’anima, la vivacità di uno spirito sensibile e l’instabilità della felicità effimera.
Per lui, nel dramma di una vita su cui pesava la coscienza della propria debolezza e della propria miseria,
l’esperienza dell’amore di Dio ha sempre avuto il sopravvento. Hai un compito, anima – dice san
Gregorio anche a noi –, il compito di trovare la vera luce, di trovare la vera altezza della tua vita. E la tua
vita è incontrarti con Dio, che ha sete della nostra sete.55

La presentazione dei Padri Capadoci si completa con l’imponente figura di SAN


GREGORIO DI NISSA.
Gregorio esprime con chiarezza la finalità dei suoi studi, lo scopo supremo a cui mira nel suo lavoro di
teologo: non impiegare la vita in cose vane, ma trovare la luce che consenta di discernere ciò che è
veramente utile (cfr Om. sull’Ecclesiaste 1). Trovò questo bene supremo nel cristianesimo, grazie al quale
è possibile ‘l’imitazione della natura divina’ (La professione cristiana). Con la sua acuta intelligenza e le
sue vaste conoscenze filosofiche e teologiche, egli difese la fede cristiana contro gli eretici, che negavano
la divinità del Figlio e dello Spirito Santo (come Eunomio e i macedoniani), o compromettevano la
perfetta umanità di Cristo (come Apollinare). Commentò la Sacra Scrittura, soffermandosi sulla creazione
dell’uomo. Questo era per lui un tema centrale: la creazione. Egli vedeva nella creatura il riflesso del
Creatore e trovava qui la strada verso Dio. Ma egli scrisse anche un importante libro sulla vita di Mosè,
che presenta come uomo in cammino verso Dio: questa salita verso il Monte Sinai diventa per lui
un’'immagine della nostra salita nella vita umana verso la vera vita, verso l'incontro con Dio. Egli ha
interpretato anche la preghiera del Signore, il Padre Nostro, e le Beatitudini. Nel suo Grande discorso
catechetico espose le linee fondamentali della teologia, non per una teologia accademica chiusa in se
stessa, ma per offrire ai catechisti un sistema di riferimento da tener presente nelle loro istruzioni, quasi il
quadro nel quale si muove poi l'interpretazione pedagogica della fede.56

Gregorio di Nissa manifesta una concezione molto elevata della dignità dell’uomo. Il fine dell’uomo, dice
il santo Vescovo, è quello di rendersi simile a Dio, e questo fine lo raggiunge anzitutto attraverso l’amore,
la conoscenza e la pratica delle virtù, ‘raggi luminosi che discendono dalla natura divina’ (Le Beatitudini
6), in un movimento perpetuo di adesione al bene, come il corridore è proteso in avanti. Gregorio usa, a
questo riguardo, un’efficace immagine, presente già nella Lettera di Paolo ai Filippesi: epekteinómenos
(3,13), cioè ‘protendendomi’ verso ciò che è più grande, verso la verità e l’amore. Questa icastica
espressione indica una realtà profonda: la perfezione che vogliamo trovare non è una cosa conquistata per
sempre; perfezione è questo rimanere in cammino, è una continua disponibilità ad andare avanti, perché
non si raggiunge mai la piena somiglianza con Dio: siamo sempre in cammino (cfr Om. sul Cantico 12).
La storia di ogni anima è quella di un amore ogni volta colmato, e allo stesso tempo aperto su nuovi
orizzonti, perché Dio dilata continuamente le possibilità dell’anima, per renderla capace di beni sempre
maggiori. Dio stesso, che ha deposto in noi i germi di bene, e dal quale parte ogni iniziativa di santità,
‘modella il blocco ... Limando e pulendo il nostro spirito, forma in noi il Cristo’ (Sui Salmi 2,11).57

55
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 22 agosto 2008).
56
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 29 agosto 2008).
57
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 5 settembre 2008).
36
Un ultimo autore di questo periodo, cui papa Benedetto XVI ha dedicato una catechesi nel
maggio 2008, è lo PSEUDO-DIONIGI AEROPAGITA.
Una figura assai misteriosa: un teologo del sesto secolo, il cui nome è sconosciuto, che ha scritto sotto lo
pseudonimo di Dionigi Areopagita. Con questo pseudonimo egli alludeva al passo della Scrittura che
abbiamo adesso ascoltato, cioè alla vicenda raccontata da San Luca nel XVII capitolo degli Atti degli
Apostoli, dove viene riferito che Paolo predicò in Atene sull'Areopago, per una élite del grande mondo
intellettuale greco, ma alla fine la maggior parte degli ascoltatori si dimostrò disinteressata, e si allontanò
deridendolo; tuttavia alcuni, pochi ci dice San Luca, si avvicinarono a Paolo aprendosi alla fede.
L’evangelista ci dona due nomi: Dionigi, membro dell'Areopago, e una certa donna, Damaris.
Se l’autore di questi libri ha scelto cinque secoli dopo lo pseudonimo di Dionigi Areopagita vuol dire che
sua intenzione era di mettere la saggezza greca al servizio del Vangelo, aiutare l'incontro tra la cultura e
l'intelligenza greca e l'annuncio di Cristo; voleva fare quanto intendeva questo Dionigi, che cioè il
pensiero greco si incontrasse con l'annuncio di San Paolo; essendo greco, farsi discepolo di San Paolo e
così discepolo di Cristo.
Perché egli nascose il suo nome e scelse questo pseudonimo? Una parte di risposta è già stata data: voleva
proprio esprimere questa intenzione fondamentale del suo pensiero. Ma ci sono due ipotesi circa questo
anonimato coperto da uno pseudonimo. Una prima ipotesi dice: era una voluta falsificazione, con la
quale, ridatando le sue opere al primo secolo, al tempo di San Paolo, egli voleva dare alla sua produzione
letteraria un'autorità quasi apostolica. Ma migliore di questa ipotesi — che mi sembra poco credibile — è
l'altra: che cioè egli volesse proprio fare un atto di umiltà. Non dare gloria al proprio nome, non creare un
monumento per se stesso con le sue opere, ma realmente servire il Vangelo, creare una teologia
ecclesiale, non individuale, basata su se stesso. In realtà riuscì a costruire una teologia che, certo,
possiamo datare al sesto secolo, ma non attribuire a una delle figure di quel tempo: è una teologia un po'
disindividualizzata, cioè una teologia che esprime un pensiero comune in un linguaggio comune. Era un
tempo di acerrime polemiche dopo il Concilio di Calcedonia; lui invece, nella sua settima Epistola, dice:
‘Non vorrei fare delle polemiche; parlo semplicemente della verità, cerco la verità’. E la luce della verità
da se stessa fa cadere gli errori e fa splendere quanto è buono. Con questo principio egli purificò il
pensiero greco e lo mise in sintonia con il Vangelo. Questo principio, che egli rivela nella sua settima
Epistola, è anche espressione di un vero spirito di dialogo: cercare non le cose che separano, cercare la
verità nella Verità stessa; essa poi riluce e fa cadere gli errori.
Quindi, pur essendo la teologia di questo autore, per così dire ‘soprapersonale’, realmente ecclesiale, noi
possiamo collocarla nel VI secolo. Perché? Lo spirito greco, che egli mise al servizio del Vangelo, lo
incontrò nei libri di un certo Proclo, morto nel 485 ad Atene: questo autore apparteneva al tardo
platonismo, una corrente di pensiero che aveva trasformato la filosofia di Platone in una sorte religione
filosofica, il cui scopo alla fine era di creare una grande apologia del politeisimo greco e ritornare, dopo il
successo del cristianesimo, all’antica religione greca. Voleva dimostrare che, in realtà, le divinità erano le
forze operanti nel cosmo. La conseguenza era che doveva ritenersi più vero il politeismo che il
monoteismo, con un unico Dio creatore. Era un grande sistema cosmico di divinità, di forze misteriose,
quello che mostrava Proclo, per il quale in questo cosmo deificato l'uomo poteva trovare l'accesso alla
divinità. Egli però distingueva le strade per i semplici, i quali non erano in grado di elevarsi ai vertici
della verità — per loro certi riti anche superstiziosi potevano essere sufficienti — e le strade per i saggi,
che invece dovevano purificarsi per arrivare alla pura luce.
Questo pensiero, come si vede, è profondamente anticristiano. È una reazione tarda contro la vittoria del
cristianesimo. Un uso anticristiano di Platone, mentre era già in corso un uso cristiano del grande filosofo.
È interessante che questo Pseudo-Dionigi abbia osato servirsi proprio di questo pensiero per mostrare la
verità di Cristo; trasformare questo universo politeistico in un cosmo creato da Dio – nell'armonia del
cosmo di Dio dove tutte le forze sono lode di Dio – e mostrare questa grande armonia, questa sinfonia del
cosmo che va dai serafini agli angeli e agli arcangeli, all'uomo e a tutte le creature che insieme riflettono
la bellezza di Dio e rendono lode a Dio. Trasformava così l'immagine politeista in un elogio del Creatore
e della sua creatura. Possiamo in questo modo scoprire le caratteristiche essenziali del suo pensiero: esso
è innanzitutto una lode cosmica. Tutta la creazione parla di Dio ed è un elogio di Dio. Essendo la creatura
una lode di Dio, la teologia dello Pseudo-Dionigi diventa una teologia liturgica: Dio si trova soprattutto
lodandolo, non solo riflettendo; e la liturgia non è qualcosa di costruito da noi, qualcosa di inventato per
fare un'esperienza religiosa durante un certo periodo di tempo; essa è il cantare con il coro delle creature e
l'entrare nella realtà cosmica stessa. E proprio così la liturgia, apparentemente solo ecclesiastica, diventa
larga e grande, diventa nostra unione con il linguaggio di tutte le creature. Egli dice: non si può parlare di
Dio in modo astratto; parlare di Dio è sempre un hymnèin – un cantare per Dio con il grande canto delle
creature, che si riflette e concretizza nella lode liturgica. Tuttavia, pur essendo la sua teologia cosmica,
ecclesiale e liturgica, essa è anche profondamente personale. Egli creò la prima grande teologia mistica.

37
Anzi la parola ‘mistica’ acquisisce con lui un nuovo significato. Fino a quel tempo per i cristiani tale
parola era equivalente alla parola “sacramentale”, cioè quanto appartiene al mystèrion, al sacramento.
Con lui la parola “mistica” diventa più personale, più intima: esprime il cammino dell'anima verso Dio. E
come trovare Dio? Qui osserviamo di nuovo un elemento importante nel suo dialogo tra filosofia greca e
cristianesimo, tra pensiero pagano e fede biblica. Apparentemente quanto dice Platone e quanto dice la
grande filosofia su Dio è molto più alto, è molto più ‘vero’; la Bibbia appare abbastanza ‘barbara’,
semplice, precritica si direbbe oggi; ma lui osserva che proprio questo è necessario, perché così possiamo
capire che i più alti concetti su Dio non arrivano mai fino alla sua vera grandezza; sono sempre impropri.
Le immagini bibliche ci fanno, in realtà, capire che Dio è sopra tutti i concetti; nella loro semplicità noi
troviamo, più che nei grandi concetti, il volto di Dio e ci rendiamo conto della nostra incapacità di
esprimere realmente che cosa Egli è. Si parla così – è lo stesso Pseudo-Dionigi a farlo – di una ‘teologia
negativa’. Possiamo più facilmente dire che cosa Dio non è, che non esprimere che cosa Egli è veramente.
Solo tramite queste immagini possiamo indovinare il suo vero volto che, d'altra parte, è molto concreto: è
Gesù Cristo. E benché Dionigi ci mostri, seguendo Proclo, l'armonia dei cori celesti, in cui sembra che
tutti dipendano da tutti, il nostro cammino verso Dio, però, rimarrebbe molto lontano da Lui, egli
sottolinea che, alla fine, la strada verso Dio è Dio stesso, il Quale si è fatto vicino a noi in Gesù Cristo.
E così una teologia grande e misteriosa diventa anche molto concreta sia nell’interpretazione della liturgia
sia nel discorso su Gesù Cristo: con tutto ciò, questo Dionigi Areopagita ebbe un grande influsso su tutta
la teologia medievale, su tutta la teologia mistica sia dell'Oriente sia dell'Occidente, fu quasi riscoperto
nel tredicesimo secolo soprattutto da San Bonaventura, il grande teologo francescano che in questa
teologia mistica trovò lo strumento concettuale per interpretare l'eredità così semplice e così profonda di
San Francesco: Bonaventura con Dionigi ci dice alla fine, che l'amore vede più che la ragione. Dov'è la
luce dell’amore non hanno più accesso le tenebre della ragione; l'amore vede, l'amore è occhio e
l'esperienza ci dà più che la riflessione. Che cosa sia questa esperienza, Bonaventura lo vide in San
Francesco: è l’esperienza di un cammino molto umile, molto realistico, giorno per giorno, è questo andare
con Cristo, accettando la sua croce. In questa povertà e in questa umiltà – nell’umiltà che si vive anche
nella ecclesialità – c'è un’esperienza di Dio che è più alta di quella che si raggiunge mediante la
riflessione: in essa tocchiamo realmente il cuore di Dio.
Oggi esiste una nuova attualità di Dionigi Areopagita: egli appare come un grande mediatore nel dialogo
moderno tra il cristianesimo e le teologie mistiche dell'Asia, la cui nota caratteristica sta nella convinzione
che non si può dire chi sia Dio; di Lui si può parlare solo in forme negative; di Dio si può parlare solo col
‘non’, e solo entrando in questa esperienza del ‘non’ Lo si raggiunge. E qui si vede una vicinanza tra il
pensiero dell'Areopagita e quello delle religioni asiatiche: egli può essere oggi un mediatore come lo fu
tra lo spirito greco e il Vangelo.
Si vede così che il dialogo non accetta la superficialità. Proprio quando uno entra nella profondità
dell'incontro con Cristo si apre anche lo spazio vasto per il dialogo. Quando uno incontra la luce della
verità, si accorge che è una luce per tutti; scompaiono le polemiche e diventa possibile capirsi l'un l'altro o
almeno parlare l'uno con l'altro, avvicinarsi. Il cammino del dialogo è proprio l'essere vicini in Cristo a
Dio nella profondità dell'incontro con Lui, nell'esperienza della verità che ci apre alla luce e ci aiuta ad
andare incontro agli altri: la luce della verità, la luce dell'amore. E in fin dei conti ci dice: prendete la
strada dell'esperienza, dell'esperienza umile della fede, ogni giorno. Il cuore diventa allora grande e può
vedere e illuminare anche la ragione perché veda la bellezza di Dio. Preghiamo il Signore perché ci aiuti
anche oggi a mettere al servizio del Vangelo la saggezza dei nostri tempi, scoprendo di nuovo la bellezza
della fede, l'incontro con Dio in Cristo.58

Alla luce dell’apporto di Agostino e degli altri autori sopra menzionati, FR può affermare
che «dinanzi alle filosofie, i Padri non ebbero […] timore di riconoscere tanto gli elementi comuni
quanto le diversità che esse presentavano di fronte alla Rivelazione. La coscienza delle convergenze
non offuscava in loro il riconoscimento delle differenze».59

Diverse, dunque, sono state le forme con cui i Padri d’Oriente e d’Occidente sono entrati in rapporto con
le scuole filosofiche. Ciò non significa che essi abbiano identificato il contenuto del loro messaggio con i
sistemi a cui facevano riferimento. La domanda di Tertulliano: ‘Che cosa hanno in comune Atene e
Gerusalemme? Che cosa l’Accademia e la Chiesa?’, è chiaro sintomo della coscienza critica con cui i
pensatori cristiani, fin dalle origini, affrontarono il problema del rapporto tra la fede e la filosofia,
vedendolo globalmente nei suoi aspetti positivi e nei suoi limiti. Non erano pensatori ingenui. Proprio
perché vivevano intensamente il contenuto della fede, essi sapevano raggiungere le forme più profonde

58
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 14 maggio 2008).
59
FR, n. 42.
38
della speculazione. È pertanto ingiusto e riduttivo limitare la loro opera alla sola trasposizione delle verità
di fede in categorie filosofiche. Fecero molto di più. Riuscirono, infatti, a far emergere in pienezza quanto
risultava ancora implicito e propedeutico nel pensiero dei grandi filosofi antichi. Costoro, come ho detto,
avevano avuto il compito di mostrare in quale modo la ragione, liberata dai vincoli esterni, potesse uscire
dal vicolo cieco dei miti, per aprirsi in modo più adeguato alla trascendenza. Una ragione purificata e
retta, quindi, era in grado di elevarsi ai livelli più alti della riflessione, dando fondamento solido alla
percezione dell’essere, del trascendente e dell’assoluto.
Proprio qui si inserisce la novità operata dai Padri. Essi accolsero in pieno la ragione aperta all’assoluto e
in essa innestarono la ricchezza proveniente dalla Rivelazione. L’incontro non fu solo a livello di culture,
delle quali l’una succube forse del fascino dell’altra; esso avvenne nell’intimo degli animi e fu incontro
tra la creatura e il suo Creatore.
Oltrepassando il fine stesso verso cui inconsapevolmente tendeva in forza della sua natura, la ragione poté
raggiungere il sommo bene e la somma verità nella persona del Verbo incarnato.60

Dunque, per i primi secoli della sua storia il cristianesimo non solo si considerò una
filosofia, ma la filosofia per eccellenza, e così fu ancora intesa la teologia dagli scolastici: come
vera sapienza, che supera le discipline filosofiche dei pagani, pur avviandosi già nell’alta scolastica
il processo di distinzione metodica tra filosofia e teologia, nella convinzione che la teologia
presupponesse la filosofia e che la filosofia fosse indirizzata alla teologia costituendone parte
integrante.
Ha scritto a proposito J. Ratzinger che
l’identificazione di cristianesimo e filosofia è stata possibile sulla base di un determinato concetto di
filosofia, via via criticato dai pensatori cristiani e poi abbandonato nel XIII secolo. In sostanza, la loro
distinzione [tra filosofia e teologia, n.d.r.] - che è stata soprattutto opera di San Tommaso d’Aquino - le
delimita l’una rispetto all’altra: la filosofia è l’indagine della pura ragione che mira a trovar risposta alle
domande ultime poste dalla realtà. È conoscenza filosofica solo quella che può essere guadagnata dalla
ragione medesima e in quanto tale, senza il contributo della Rivelazione. Essa fonda le sue certezze
soltanto sull’argomentazione, e le sue affermazioni valgono tanto quanto sono i suoi argomenti.
Viceversa, la teologia è la considerazione riflessa e critica della Rivelazione di Dio, è fede che cerca
evidenze e ragioni. Essa dunque non trova da sè i propri contenuti, bensì li riceve dalla Rivelazione […]
Solo nella successiva epoca moderna queste distinzioni si sono approfondite ed esasperate
dialetticamente.61

2.2. La distinzione e la separazione tra filosofia e teologia

2.2.A. La “legittima distinzione”

Fino all’alto medioevo fu mantenuto dunque, in ambito cristiano, un legame così stretto ed
organico tra la teologia e la filosofia che si può parlare di una loro identificazione. Con il passare
dei secoli si operò tuttavia una sempre più netta distinzione, nella prospettiva di esprimere da una
parte la “novità” e irriducibilità teologica cristiana e dall’altra la legittima e necessaria
autonomia di cui la filosofia e le scienze avevano bisogno, per applicarsi efficacemente ai propri
campi di ricerca.

Alcuni autori che contribuirono alla realizzazione di questo passaggio posono essere
individuati in Boezio e Cassiodoro, Giovanni Damasceno, Giovanni Scoto Eriugena e nel sorgere
prima della teologia monastica e poi della teologia scolastica.

60
Ib., n. 41.
61
J. RATZINGER, Natura e compito della teologia, Milano 1993, p. 20.
39
Così, su BOEZIO e CASSIODORO, si è espresso papa Benedetto XVI:

due scrittori ecclesiastici, Boezio e Cassiodoro, che vissero in anni tra i più tribolati dell’Occidente
cristiano e, in particolare, della penisola italiana. […]
Boezio, nato a Roma nel 480 circa dalla nobile stirpe degli Anicii, entrò ancor giovane nella vita
pubblica, raggiungendo già a venticinque anni la carica di senatore. Fedele alla tradizione della sua
famiglia, si impegnò in politica convinto che si potessero temperare insieme le linee portanti della società
romana con i valori dei popoli nuovi. E in questo nuovo tempo dell'incontro delle culture considerò come
sua propria missione quella di riconciliare e di mettere insieme queste due culture, la classica romana con
la nascente del popolo ostrogoto. Fu così attivo in politica anche sotto Teodorico, che nei primi tempi lo
stimava molto. Nonostante questa attività pubblica, Boezio non trascurò gli studi, dedicandosi in
particolare all’approfondimento di temi di ordine filosofico-religioso. Ma scrisse anche manuali di
aritmetica, di geometria, di musica, di astronomia: tutto con l'intenzione di trasmettere alle nuove
generazioni, ai nuovi tempi, la grande cultura greco-romana. In questo ambito, cioè nell’impegno di
promuovere l'incontro delle culture, utilizzò le categorie della filosofia greca per proporre la fede
cristiana, anche qui in ricerca di una sintesi fra il patrimonio ellenistico-romano e il messaggio
evangelico. Proprio per questo, Boezio è stato qualificato come l’ultimo rappresentante della cultura
romana antica e il primo degli intellettuali medievali.
La sua opera certamente più nota è il De consolatione philosophiae, che egli compose in carcere per dare
un senso alla sua ingiusta detenzione. Era stato infatti accusato di complotto contro il re Teodorico per
aver assunto la difesa in giudizio di un amico, il senatore Albino. Ma questo era un pretesto: in realtà
Teodorico, ariano e barbaro, sospettava che Boezio avesse simpatie per l’imperatore bizantino
Giustiniano. Di fatto, processato e condannato a morte, fu giustiziato il 23 ottobre del 524, a soli 44 anni.
Proprio per questa sua drammatica fine, egli può parlare dall’interno della propria esperienza anche
all’uomo contemporaneo e soprattutto alle tantissime persone che subiscono la sua stessa sorte a causa
dell’ingiustizia presente in tanta parte della ‘giustizia umana’. In quest’opera, nel carcere cerca la
consolazione, cerca la luce, cerca la saggezza. E dice di aver saputo distinguere, proprio in questa
situazione, tra i beni apparenti – nel carcere essi scompaiono – e i beni veri, come come l’autentica
amicizia che anche nel carcere non scompaiono. Il bene più alto è Dio: Boezio imparò – e lo insegna a noi
– a non cadere nel fatalismo, che spegne la speranza. Egli ci insegna che non governa il fato, governa la
Provvidenza ed essa ha un volto. Con la Provvidenza si può parlare, perché la Provvidenza è Dio. Così,
anche nel carcere gli rimane la possibilità della preghiera, del dialogo con Colui che ci salva. Nello stesso
tempo, anche in questa situazione egli conserva il senso della bellezza della cultura e richiama
l’insegnamento dei grandi filosofi antichi greci e romani come Platone, Aristotele – aveva cominciato a
tradurre questi greci in latino - Cicerone, Seneca, ed anche poeti come Tibullo e Virgilio.
La filosofia, nel senso della ricerca della vera saggezza, è secondo Boezio la vera medicina dell’anima
(lib. I). D’altra parte, l’uomo può sperimentare l’autentica felicità unicamente nella propria interiorità (lib.
II). Per questo, Boezio riesce a trovare un senso nel pensare alla propria tragedia personale alla luce di un
testo sapienziale dell’Antico Testamento (Sap 7,30-8,1) che egli cita: ‘Contro la sapienza la malvagità
non può prevalere. Essa si estende da un confine all’altro con forza e governa con bontà eccellente ogni
cosa’ (Lib. III, 12: PL 63, col. 780). La cosiddetta prosperità dei malvagi, pertanto, si rivela menzognera
(lib. IV), e si evidenzia la natura provvidenziale dell’adversa fortuna. Le difficoltà della vita non soltanto
rivelano quanto quest’ultima sia effimera e di breve durata, ma si dimostrano perfino utili per individuare
e mantenere gli autentici rapporti fra gli uomini. L’adversa fortuna permette infatti di discernere i falsi
amici dai veri e fa capire che nulla è più prezioso per l’uomo di un’amicizia vera. Accettare
fatalisticamente una condizione di sofferenza è assolutamente pericoloso, aggiunge il credente Boezio,
perché ‘elimina alla radice la possibilità stessa della preghiera e della speranza teologale che stanno alla
base del rapporto dell’uomo con Dio’ (Lib. V, 3: PL 63, col. 842).
[…]
Contemporaneo di Boezio fu Marco Aurelio Cassiodoro, un calabrese nato a Squillace verso il 485, che
morì pieno di giorni, a Vivarium intorno al 580. Anch’egli, uomo di alto livello sociale, si dedicò alla vita
politica e all’impegno culturale come pochi altri nell’occidente romano del suo tempo. Forse gli unici che
gli potevano stare alla pari in questo suo duplice interesse furono il già ricordato Boezio, e il futuro Papa
di Roma, Gregorio Magno (590-604). Consapevole della necessità di non lasciare svanire nella
dimenticanza tutto il patrimonio umano e umanistico, accumulato nei secoli d’oro dell’Impero Romano,
Cassiodoro collaborò generosamente, e ai livelli più alti della responsabilità politica, con i popoli nuovi
che avevano attraversato i confini dell’Impero e si erano stanziati in Italia. Anche lui fu modello di
incontro culturale, di dialogo, di riconciliazione. Le vicende storiche non gli permisero di realizzare i suoi
sogni politici e culturali, che miravano a creare una sintesi fra la tradizione romano-cristiana dell’Italia e
la nuova cultura gotica. Quelle stesse vicende lo convinsero però della provvidenzialità del movimento

40
monastico, che si andava affermando nelle terre cristiane. Decise di appoggiarlo dedicando ad esso tutte
le sue ricchezze materiali e le sue forze spirituali.
Concepì l’idea di affidare proprio ai monaci il compito di recuperare, conservare e trasmettere ai posteri
l’immenso patrimonio culturale degli antichi, perché non andasse perduto. Per questo fondò Vivarium, un
cenobio in cui tutto era organizzato in modo tale che fosse stimato come preziosissimo e irrinunciabile il
lavoro intellettuale dei monaci. Egli dispose che anche quei monaci che non avevano una formazione
intellettuale non dovevano occuparsi solo del lavoro materiale, dell'agricoltura, ma anche trascrivere
manoscritti e così aiutare nel trasmettere la grande cultura alle future generazioni. E questo senza nessuno
scapito per l’impegno spirituale monastico e cristiano e per l’attività caritativa verso i poveri. Nel suo
insegnamento, distribuito in varie opere, ma soprattutto nel trattato De anima e nelle Institutiones
divinarum litterarum, la preghiera (cfr PL 69, col. 1108), nutrita dalla Sacra Scrittura e particolarmente
dalla frequentazione assidua dei Salmi (cfr PL 69, col. 1149), ha sempre una posizione centrale quale
nutrimento necessario per tutti. […]
La ricerca di Dio, tesa alla sua contemplazione – annota Cassiodoro -, resta lo scopo permanente della
vita monastica (cfr PL 69, col. 1107). Egli aggiunge però che, con l’aiuto della grazia divina (cfr PL 69,
col. 1131.1142), una migliore fruizione della Parola rivelata si può raggiungere con l’utilizzazione delle
conquiste scientifiche e degli strumenti culturali ‘profani’ già posseduti dai Greci e dai Romani (cfr PL
69, col. 1140). Personalmente, Cassiodoro si dedicò a studi filosofici, teologici ed esegetici senza
particolare creatività, ma attento alle intuizioni che riconosceva valide negli altri.62

SAN GIOVANNI DAMASCENO.


Giovanni Damasceno, un personaggio di prima grandezza nella storia della teologia bizantina, un grande
dottore nella storia della Chiesa universale. Egli è soprattutto un testimone oculare del trapasso dalla
cultura cristiana greca e siriaca, condivisa dalla parte orientale dell’Impero bizantino, alla cultura
dell’Islàm, che si fa spazio con le sue conquiste militari nel territorio riconosciuto abitualmente come
Medio o Vicino Oriente. Giovanni, nato in una ricca famiglia cristiana, giovane ancora assunse la carica –
rivestita forse già dal padre - di responsabile economico del califfato. Ben presto, però, insoddisfatto della
vita di corte, maturò la scelta monastica, entrando nel monastero di san Saba, vicino a Gerusalemme. Si
era intorno all’anno 700. Non allontanandosi mai dal monastero, si dedicò con tutte le sue forze all’ascesi
e all’attività letteraria, non disdegnando una certa attività pastorale, di cui danno testimonianza soprattutto
le sue numerose Omelie. Papa Leone XIII lo proclamò Dottore della Chiesa universale nel 1890. […]
Giovanni Damasceno fu […] tra i primi a distinguere, nel culto pubblico e privato dei cristiani, fra
adorazione (latreia) e venerazione (proskynesis): la prima si può rivolgere soltanto a Dio, sommamente
spirituale, la seconda invece può utilizzare un’immagine per rivolgersi a colui che viene rappresentato
nell’immagine stessa. Ovviamente, il Santo non può in nessun caso essere identificato con la materia di
cui l’icona è composta. Questa distinzione si rivelò subito molto importante per rispondere in modo
cristiano a coloro che pretendevano come universale e perenne l’osservanza del divieto severo dell’Antico
Testamento sull’utilizzazione cultuale delle immagini. Questa era la grande discussione anche nel mondo
islamico, che accetta questa tradizione ebraica della esclusione totale di immagini nel culto. Invece i
cristiani, in questo contesto, hanno discusso del problema e trovato la giustificazione per la venerazione
delle immagini. Scrive il Damasceno: ‘In altri tempi Dio non era mai stato rappresentato in immagine,
essendo incorporeo e senza volto. Ma poiché ora Dio è stato visto nella carne ed è vissuto tra gli uomini,
io rappresento ciò che è visibile in Dio. Io non venero la materia, ma il creatore della materia, che si è
fatto materia per me e si è degnato abitare nella materia e operare la mia salvezza attraverso la materia. Io
non cesserò perciò di venerare la materia attraverso la quale mi è giunta la salvezza. Ma non la venero
assolutamente come Dio! Come potrebbe essere Dio ciò che ha ricevuto l’esistenza a partire dal non
essere?…Ma io venero e rispetto anche tutto il resto della materia che mi ha procurato la salvezza, in
quanto piena di energie e di grazie sante. Non è forse materia il legno della croce tre volte beata?... E
l’inchiostro e il libro santissimo dei Vangeli non sono materia? L’altare salvifico che ci dispensa il pane
di vita non è materia?... E, prima di ogni altra cosa, non sono materia la carne e il sangue del mio
Signore? O devi sopprimere il carattere sacro di tutto questo, o devi concedere alla tradizione della Chiesa
la venerazione delle immagini di Dio e quella degli amici di Dio che sono santificati dal nome che
portano, e che per questa ragione sono abitati dalla grazia dello Spirito Santo. Non offendere dunque la
materia: essa non è spregevole, perché niente di ciò che Dio ha fatto è spregevole’ (Contra imaginum
calumniatores, I, 16, ed. Kotter, pp. 89-90).
Vediamo che, a causa dell’incarnazione, la materia appare come divinizzata, è vista come abitazione di
Dio. Si tratta di una nuova visione del mondo e delle realtà materiali. Dio si è fatto carne e la carne è
diventata realmente abitazione di Dio, la cui gloria rifulge nel volto umano di Cristo. Pertanto, le

62
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 12 marzo 2008).
41
sollecitazioni del Dottore orientale sono ancora oggi di estrema attualità, considerata la grandissima
dignità che la materia ha ricevuto nell’Incarnazione, potendo divenire, nella fede, segno e sacramento
efficace dell’incontro dell’uomo con Dio. Giovanni Damasceno resta, quindi, un testimone privilegiato
del culto delle icone, che giungerà ad essere uno degli aspetti più distintivi della teologia e della
spiritualità orientale fino ad oggi. E’ tuttavia una forma di culto che appartiene semplicemente alla fede
cristiana, alla fede in quel Dio che si è fatto carne e si è reso visibile. L’insegnamento di san Giovanni
Damasceno si inserisce così nella tradizione della Chiesa universale, la cui dottrina sacramentale prevede
che elementi materiali presi dalla natura possano diventare tramite di grazia in virtù dell’invocazione
(epiclesis) dello Spirito Santo, accompagnata dalla confessione della vera fede.
In collegamento con queste idee di fondo Giovanni Damasceno pone anche la venerazione delle reliquie
dei santi, sulla base della convinzione che i santi cristiani, essendo stati resi partecipi della resurrezione di
Cristo, non possono essere considerati semplicemente dei ‘morti’. […]
Dopo una serie di riferimenti di questo tipo, il Damasceno poteva perciò serenamente dedurre: “Dio, che
è buono e superiore ad ogni bontà, non si accontentò della contemplazione di se stesso, ma volle che vi
fossero esseri da lui beneficati che potessero divenire partecipi della sua bontà: perciò creò dal nulla tutte
le cose, visibili e invisibili, compreso l’uomo, realtà visibile e invisibile. E lo creò pensando e
realizzandolo come un essere capace di pensiero (ennoema ergon) arricchito dalla parola (logo[i]
sympleroumenon) e orientato verso lo spirito (pneumati teleioumenon)” (II, 2, PG 94, col. 865A). E per
chiarire ulteriormente il pensiero, aggiunge: ‘Bisogna lasciarsi riempire di stupore (thaumazein) da tutte
le opere della provvidenza (tes pronoias erga), tutte lodarle e tutte accettarle, superando la tentazione di
individuare in esse aspetti che a molti sembrano ingiusti o iniqui (adika), e ammettendo invece che il
progetto di Dio (pronoia) va al di là della capacità conoscitiva e comprensiva (agnoston kai akatalepton)
dell’uomo, mentre al contrario soltanto Lui conosce i nostri pensieri, le nostre azioni, e perfino il nostro
futuro’ (II, 29, PG 94, col. 964C). Già Platone, del resto, diceva che tutta la filosofia comincia con lo
stupore: anche la nostra fede comincia con lo stupore della creazione, della bellezza di Dio che si fa
visibile.
L’ottimismo della contemplazione naturale (physikè theoria), di questo vedere nella creazione visibile il
buono, il bello, il vero, questo ottimismo cristiano non è un ottimismo ingenuo: tiene conto della ferita
inferta alla natura umana da una libertà di scelta voluta da Dio e utilizzata impropriamente dall’uomo, con
tutte le conseguenze di disarmonia diffusa che ne sono derivate. Da qui l’esigenza, percepita chiaramente
dal teologo di Damasco, che la natura nella quale si riflette la bontà e la bellezza di Dio, ferite dalla nostra
colpa, ‘fosse rinforzata e rinnovata’ dalla discesa del Figlio di Dio nella carne, dopo che in molti modi e
in diverse occasioni Dio stesso aveva cercato di dimostrare che aveva creato l’uomo perché fosse non
solo nell’‘essere’, ma nel ‘bene-essere’ (cfr La fede ortodossa, II, 1, PG 94, col. 981°).63

GIOVANNI SCOTO ERIUGENA.

Un notevole pensatore dell’Occidente cristiano […] le cui origini però sono oscure. Proveniva certamente
dall’Irlanda, dove era nato agli inizi dell’800, ma non sappiamo quando abbia lasciato la sua Isola per
attraversare la Manica ed entrare così a far parte pienamente di quel mondo culturale che stava rinascendo
intorno ai Carolingi, e in particolare intorno a Carlo il Calvo, nella Francia del IX secolo. […]
Giovanni Scoto Eriugena aveva una cultura patristica, sia greca che latina, di prima mano: conosceva
infatti direttamente gli scritti dei Padri latini e greci. Conosceva bene, fra le altre, le opere di Agostino, di
Ambrogio, di Gregorio Magno, grandi Padri dell’Occidente cristiano, ma conosceva altrettanto bene il
pensiero di Origene, di Gregorio di Nissa, di Giovanni Crisostomo e di altri Padri cristiani di Oriente non
meno grandi. Era un uomo eccezionale, che dominava in quel tempo anche la lingua greca. Dimostrò
un’attenzione particolarissima per San Massimo il Confessore e, soprattutto, per Dionigi l’Areopagita.
[…]
In verità, il lavoro teologico di Giovanni Scoto non ebbe molta fortuna. Non solo la fine dell’era
carolingia fece dimenticare le sue opere; anche una censura da parte dell’Autorità ecclesiastica gettò
un’ombra sulla sua figura. In realtà, Giovanni Scoto rappresenta un platonismo radicale, che qualche volta
sembra avvicinarsi ad una visione panteistica, anche se le sue intenzioni personali soggettive furono
sempre ortodosse. Di Giovanni Scoto Eriugena ci sono giunte alcune opere, tra le quali meritano di essere
ricordate, in particolare, il trattato “Sulla divisione della natura” e le “Esposizioni sulla gerarchia celeste
di san Dionigi”. Egli vi sviluppa stimolanti riflessioni teologiche e spirituali, che potrebbero suggerire
interessanti approfondimenti anche ai teologi contemporanei.
Il nostro autore dice: ‘Salus nostra ex fide inchoat: la nostra salvezza comincia con la fede’. Non
possiamo cioè parlare di Dio partendo dalle nostre invenzioni, ma da quanto dice Dio di se stesso nelle
Sacre Scritture. Poiché tuttavia Dio dice solo la verità, Scoto Eriugena è convinto che l’autorità e la

63
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 6 maggio 2009).
42
ragione non possano mai essere in contrasto l’una con l’altra; è convinto che la vera religione e la vera
filosofia coincidono. In questa prospettiva scrive: ‘Qualunque tipo di autorità che non venga confermata
da una vera ragione dovrebbe essere considerata debole… Non è infatti vera autorità se non quella che
coincide con la verità scoperta in forza della ragione, anche se si dovesse trattare di un’autorità
raccomandata e trasmessa per l’utilità dei posteri dai santi Padri’ (I, PL 122, col 513BC).
Conseguentemente, egli ammonisce: ‘Nessuna autorità ti intimorisca o ti distragga da ciò che ti fa capire
la persuasione ottenuta grazie ad una retta contemplazione razionale. Infatti l’autentica autorità non
contraddice mai la retta ragione, né quest’ultima può mai contraddire una vera autorità. L’una e l’altra
provengono senza alcun dubbio dalla stessa fonte, che è la sapienza divina’ (I, PL 122, col 511B).
Vediamo qui una coraggiosa affermazione del valore della ragione, fondata sulla certezza che l’autorità
vera è ragionevole, perchè Dio è la ragione creatrice.
La Scrittura stessa non sfugge, secondo Eriugena, alla necessità di essere accostata utilizzando il
medesimo criterio di discernimento. […]
In realtà, l’intero pensiero teologico di Giovanni Scoto è la dimostrazione più palese del tentativo di
esprimere il dicibile dell’indicibile Dio, fondandosi unicamente sul mistero del Verbo fatto carne in Gesù
di Nazaret. Le tante metafore da lui utilizzate per indicare questa realtà ineffabile dimostrano quanto egli
sia consapevole dell’assoluta inadeguatezza dei termini con cui noi parliamo di queste cose. E tuttavia
resta l’incanto e quell’atmosfera di autentica esperienza mistica che si può di tanto in tanto toccare con
mano nei suoi testi. Basti citare, a riprova di ciò, una pagina del De divisione naturae che tocca in
profondità l’animo anche di noi credenti del XXI secolo: ‘Non si deve desiderare altro – egli scrive - se
non la gioia della verità che è Cristo, né altro evitare se non l’assenza di Lui. Questa infatti si dovrebbe
ritenere causa unica di totale ed eterna tristezza. Toglimi Cristo e non mi rimarrà alcun bene né altro mi
atterrirà quanto la sua assenza. Il più grande tormento di una creatura razionale sono la privazione e
l’assenza di Lui’ (V, PL 122, col 989a). Sono parole che possiamo fare nostre, traducendole in preghiera a
Colui che costituisce l’anelito anche del nostro cuore.64

Lo sviluppo storico del pensiero cristiano giunge così, nell’avanzare del Medioevo, allo
sviluppo della teologia monastica, di cui uno dei principali rappresentanti è senz’altro SAN
BERNARDO DI CHIARAVALLE, non a caso chiamato “l’ultimo dei Padri” della Chiesa, perché nel XII
secolo, ancora una volta, rinnovò e rese presente la grande teologia dei Padri.
Giovanetto, si prodigò nello studio delle cosiddette arti liberali – specialmente della grammatica, della
retorica e della dialettica – presso la scuola dei Canonici della chiesa di Saint-Vorles, a Châtillon-sur-
Seine e maturò lentamente la decisione di entrare nella vita religiosa. Intorno ai vent’anni entrò a Cîteaux,
una fondazione monastica nuova, più agile rispetto agli antichi e venerabili monasteri di allora e, al tempo
stesso, più rigorosa nella pratica dei consigli evangelici. Qualche anno più tardi, nel 1115, Bernardo
venne inviato da santo Stefano Harding, terzo Abate di Cîteaux, a fondare il monastero di Chiaravalle
(Clairvaux). Qui il giovane Abate, aveva solo venticinque anni, poté affinare la propria concezione della
vita monastica, e impegnarsi nel tradurla in pratica. […]
Diresse soprattutto i suoi scritti polemici contro Abelardo, un grande pensatore che ha iniziato un nuovo
modo di fare teologia, introducendo soprattutto il metodo dialettico-filosofico nella costruzione del
pensiero teologico. Un altro fronte contro il quale Bernardo ha lottato è stata l’eresia dei Catari, che
disprezzavano la materia e il corpo umano, disprezzando, di conseguenza, il Creatore. Egli, invece, si
sentì in dovere di prendere le difese degli ebrei, condannando i sempre più diffusi rigurgiti di
antisemitismo. […]
La sua sollecitudine per l’intima e vitale partecipazione del cristiano all’amore di Dio in Gesù Cristo non
porta orientamenti nuovi nello statuto scientifico della teologia. Ma, in maniera più che mai decisa,
l’Abate di Clairvaux configura il teologo al contemplativo e al mistico. Solo Gesù – insiste Bernardo
dinanzi ai complessi ragionamenti dialettici del suo tempo – solo Gesù è ‘miele alla bocca, cantico
all’orecchio, giubilo nel cuore (mel in ore, in aure melos, in corde iubilum)’. Viene proprio da qui il
titolo, a lui attribuito dalla tradizione, di Doctor mellifluus: la sua lode di Gesù Cristo, infatti, ‘scorre
come il miele’. Nelle estenuanti battaglie tra nominalisti e realisti – due correnti filosofiche dell’epoca -
l’Abate di Chiaravalle non si stanca di ripetere che uno solo è il nome che conta, quello di Gesù
Nazareno. ‘Arido è ogni cibo dell’anima’, confessa, ‘se non è irrorato con questo olio; insipido, se non è
condito con questo sale. Quello che scrivi non ha sapore per me, se non vi avrò letto Gesù’. E conclude:
‘Quando discuti o parli, nulla ha sapore per me, se non vi avrò sentito risuonare il nome di Gesù’
(Sermones in Cantica Canticorum XV, 6: PL 183,847). Per Bernardo, infatti, la vera conoscenza di Dio
consiste nell’esperienza personale, profonda di Gesù Cristo e del suo amore. E questo, cari fratelli e

64
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 10 giugno 2009).
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sorelle, vale per ogni cristiano: la fede è anzitutto incontro personale, intimo con Gesù, è fare esperienza
della sua vicinanza, della sua amicizia, del suo amore, e solo così si impara a conoscerlo sempre di più, ad
amarlo e seguirlo sempre più. Che questo possa avvenire per ciascuno di noi! […]
A volte si pretende di risolvere le questioni fondamentali su Dio, sull’uomo e sul mondo con le sole forze
della ragione. San Bernardo, invece, solidamente fondato sulla Bibbia e sui Padri della Chiesa, ci ricorda
che senza una profonda fede in Dio, alimentata dalla preghiera e dalla contemplazione, da un intimo
rapporto con il Signore, le nostre riflessioni sui misteri divini rischiano di diventare un vano esercizio
intellettuale, e perdono la loro credibilità. La teologia rinvia alla “scienza dei santi”, alla loro intuizione
dei misteri del Dio vivente, alla loro sapienza, dono dello Spirito Santo, che diventano punto di
riferimento del pensiero teologico. Insieme a Bernardo di Chiaravalle, anche noi dobbiamo riconoscere
che l’uomo cerca meglio e trova più facilmente Dio ‘con la preghiera che con la discussione’. Alla fine, la
figura più vera del teologo e di ogni evangelizzatore rimane quella dell’apostolo Giovanni, che ha
poggiato il suo capo sul cuore del Maestro.65

Ecco presentarsi, nella storia della teologia, la presenza della teologia monastica e della
teologia scolastica: si tratta di
«un’interessante pagina di storia, relativa alla fioritura della teologia latina nel secolo XII, avvenuta per
una serie provvidenziale di coincidenze. Nei Paesi dell’Europa occidentale regnava allora una relativa
pace, che assicurava alla società sviluppo economico e consolidamento delle strutture politiche, e favoriva
una vivace attività culturale grazie pure ai contatti con l’Oriente. All’interno della Chiesa si avvertivano i
benefici della vasta azione nota come ‘riforma gregoriana’, che, promossa vigorosamente nel secolo
precedente, aveva apportato una maggiore purezza evangelica nella vita della comunità ecclesiale,
soprattutto nel clero, e aveva restituito alla Chiesa e al Papato un’autentica libertà di azione. Inoltre si
andava diffondendo un vasto rinnovamento spirituale, sostenuto dal rigoglioso sviluppo della vita
consacrata: nascevano e si espandevano nuovi Ordini religiosi, mentre quelli già esistenti conoscevano
una promettente ripresa».66

Questa circostanze furono occasione per un rifiorire anche della teologia, che poté acquisire
una più grande consapevolezza della propria natura:

affinò il metodo, affrontò problemi nuovi, avanzò nella contemplazione dei Misteri di Dio, produsse
opere fondamentali, ispirò iniziative importanti della cultura, dall’arte alla letteratura, e preparò i
capolavori del secolo successivo, il secolo di Tommaso d’Aquino e di Bonaventura da Bagnoregio. Due
furono gli ambienti nei quali ebbe a svolgersi questa fervida attività teologica: i monasteri e le scuole
cittadine, le scholae, alcune delle quali ben presto avrebbero dato vita alle Università, che costituiscono
una delle tipiche ‘invenzioni’ del Medioevo cristiano.
Proprio a partire da questi due ambienti, i monasteri e le scholae, si può parlare di due differenti modelli
di teologia: la ‘teologia monastica’ e la ‘teologia scolastica’. I rappresentanti della teologia monastica
erano monaci, in genere Abati, dotati di saggezza e di fervore evangelico, dediti essenzialmente a
suscitare e ad alimentare il desiderio amoroso di Dio. I rappresentanti della teologia scolastica erano
uomini colti, appassionati della ricerca; dei magistri desiderosi di mostrare la ragionevolezza e la
fondatezza dei Misteri di Dio e dell’uomo, creduti con la fede, certo, ma compresi pure dalla ragione. La
diversa finalità spiega la differenza del loro metodo e del loro modo di fare teologia.
Nei monasteri del XII secolo il metodo teologico era legato principalmente alla spiegazione della Sacra
Scrittura, della sacra pagina per esprimerci come gli autori di quel periodo; si praticava specialmente la
teologia biblica. I monaci, cioè, erano tutti devoti ascoltatori e lettori delle Sacre Scritture, e una delle
principali loro occupazioni consisteva nella lectio divina, cioè nella lettura pregata della Bibbia. Per loro
la semplice lettura del Testo sacro non bastava per percepirne il senso profondo, l’unità interiore e il
messaggio trascendente. Occorreva, pertanto, praticare una “lettura spirituale”, condotta in docilità allo
Spirito Santo. Alla scuola dei Padri, la Bibbia veniva così interpretata allegoricamente, per scoprire in
ogni pagina, dell’Antico come del Nuovo Testamento, quanto dice di Cristo e della sua opera di salvezza.
[…]
Alla preparazione letteraria la teologia monastica univa dunque quella spirituale. Era cioè consapevole
che una lettura puramente teorica e profana non basta: per entrare nel cuore della Sacra Scrittura, la si
deve leggere nello spirito in cui è stata scritta e creata. La preparazione letteraria era necessaria per
conoscere l’esatto significato delle parole e facilitare la comprensione del testo, affinando la sensibilità

65
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 21 ottobre 2009).
66
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 28 ottobre 2009).
44
grammaticale e filologica. Lo studioso benedettino del secolo scorso Jean Leclercq ha così intitolato il
saggio con cui presenta le caratteristiche della teologia monastica: L’amour des lettres et le désir de Dieu
(L’amore delle parole e il desiderio di Dio). In effetti, il desiderio di conoscere e di amare Dio, che ci
viene incontro attraverso la sua Parola da accogliere, meditare e praticare, conduce a cercare di
approfondire i testi biblici in tutte le loro dimensioni. Vi è poi un’altra attitudine sulla quale insistono
coloro che praticano la teologia monastica, e cioè un intimo atteggiamento orante, che deve precedere,
accompagnare e completare lo studio della Sacra Scrittura. Poiché, in ultima analisi, la teologia monastica
è ascolto della Parola di Dio, non si può non purificare il cuore per accoglierla e, soprattutto, non si può
non accenderlo di fervore per incontrare il Signore. La teologia diventa pertanto meditazione, preghiera,
canto di lode e spinge a una sincera conversione. Non pochi rappresentanti della teologia monastica sono
giunti, per questa via, ai più alti traguardi dell’esperienza mistica, e costituiscono un invito anche per noi
a nutrire la nostra esistenza della Parola di Dio, ad esempio, mediante un ascolto più attento delle letture e
del Vangelo specialmente nella Messa domenicale. È importante inoltre riservare un certo tempo ogni
giorno alla meditazione della Bibbia, perché la Parola di Dio sia lampada che illumina il nostro cammino
quotidiano sulla terra.
La teologia scolastica, invece, - come dicevo - era praticata nelle scholae, sorte accanto alle grandi
cattedrali dell’epoca, per la preparazione del clero, o attorno a un maestro di teologia e ai suoi discepoli,
per formare dei professionisti della cultura, in un’epoca in cui il sapere era sempre più apprezzato. Nel
metodo degli scolastici era centrale la quaestio, cioè il problema che si pone al lettore nell’affrontare le
parole della Scrittura e della Tradizione. Davanti al problema che questi testi autorevoli pongono, si
sollevano questioni e nasce il dibattito tra il maestro e gli studenti. In tale dibattito appaiono da una parte
gli argomenti dell’autorità, dall’altra quelli della ragione e il dibattito si sviluppa nel senso di trovare, alla
fine, una sintesi tra autorità e ragione per giungere a una comprensione più profonda della parola di Dio.
Al riguardo, san Bonaventura dice che la teologia è ‘per additionem’ (cfr Commentaria in quatuor libros
sententiarum, I, proem., q. 1, concl.), cioè la teologia aggiunge la dimensione della ragione alla parola di
Dio e così crea una fede più profonda, più personale e quindi anche più concreta nella vita dell’uomo. In
questo senso, si trovavano diverse soluzioni e si formavano conclusioni che cominciavano a costruire un
sistema di teologia. L’organizzazione delle quaestiones conduceva alla compilazione di sintesi sempre più
estese, cioè si componevano le diverse quaestiones con le risposte scaturite, creando così una sintesi, le
cosiddette summae, che erano, in realtà, ampi trattati teologico-dogmatici nati dal confronto della ragione
umana con la parola di Dio. La teologia scolastica mirava a presentare l’unità e l’armonia della
Rivelazione cristiana con un metodo, detto appunto ‘scolastico’, della scuola, che concede fiducia alla
ragione umana: la grammatica e la filologia sono al servizio del sapere teologico, ma lo è ancora di più la
logica, cioè quella disciplina che studia il ‘funzionamento’ del ragionamento umano, in modo che appaia
evidente la verità di una proposizione. Ancora oggi, leggendo le summae scolastiche si rimane colpiti
dall’ordine, dalla chiarezza, dalla concatenazione logica degli argomenti, e dalla profondità di alcune
intuizioni. Con linguaggio tecnico, viene attribuito ad ogni parola un preciso significato e, tra il credere e
il comprendere, viene a stabilirsi un reciproco movimento di chiarificazione.
Cari fratelli e sorelle, facendo eco all’invito della Prima Lettera di Pietro, la teologia scolastica ci stimola
ad essere sempre pronti a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in noi (cfr 3,15).
Sentire le domande come nostre e così essere capaci anche di dare una risposta. Ci ricorda che tra fede e
ragione esiste una naturale amicizia, fondata nell’ordine stesso della creazione. Il Servo di Dio Giovanni
Paolo II, nell’incipit dell’Enciclica Fides et ratio scrive: ‘La fede e la ragione sono come le due ali, con le
quali lo spirito umano s'innalza verso la contemplazione della verità’. La fede è aperta allo sforzo di
comprensione da parte della ragione; la ragione, a sua volta, riconosce che la fede non la mortifica, anzi la
sospinge verso orizzonti più ampi ed elevati. Si inserisce qui la perenne lezione della teologia monastica.
Fede e ragione, in reciproco dialogo, vibrano di gioia quando sono entrambe animate dalla ricerca
dell’intima unione con Dio. Quando l’amore vivifica la dimensione orante della teologia, la conoscenza,
acquisita dalla ragione, si allarga. La verità è ricercata con umiltà, accolta con stupore e gratitudine: in
una parola, la conoscenza cresce solo se ama la verità. L’amore diventa intelligenza e la teologia autentica
sapienza del cuore, che orienta e sostiene la fede e la vita dei credenti. Preghiamo dunque perché il
cammino della conoscenza e dell’approfondimento dei Misteri di Dio sia sempre illuminato dall’amore
divino.67

Si può per questo parlare di due modelli teologici a confronto, rappresentati rispettivamente
dal già considerato San Bernardo di Chiaravalle e da PIETRO ABELARDO: la teologia monastica, che
si potrebbe chiamare, in un certo senso, “teologia del cuore”, e la teologia scolastica, che si

67
Ibid.
45
potrebbe definire “teologia della ragione”. Così ne parla papa Benedetto XVI in una sua catechesi
del novembre 2009:

Tra i rappresentanti dell’una e dell’altra corrente teologica si è sviluppato un dibattito ampio e a volte
acceso, simbolicamente rappresentato dalla controversia tra san Bernardo di Chiaravalle ed Abelardo.
Per comprendere questo confronto tra i due grandi maestri, è bene ricordare che la teologia è la ricerca di
una comprensione razionale, per quanto è possibile, dei misteri della Rivelazione cristiana, creduti per
fede: fides quaerens intellectum – la fede cerca l’intellegibilità – per usare una definizione tradizionale,
concisa ed efficace. Ora, mentre san Bernardo, tipico rappresentante della teologia monastica, mette
l’accento sulla prima parte della definizione, cioè sulla fides - la fede, Abelardo, che è uno scolastico,
insiste sulla seconda parte, cioè sull’intellectus, sulla comprensione per mezzo della ragione. Per
Bernardo la fede stessa è dotata di un’intima certezza, fondata sulla testimonianza della Scrittura e
sull’insegnamento dei Padri della Chiesa. La fede inoltre viene rafforzata dalla testimonianza dei santi e
dall’ispirazione dello Spirito Santo nell’anima dei singoli credenti. Nei casi di dubbio e di ambiguità, la
fede viene protetta e illuminata dall’esercizio del Magistero ecclesiale. Così Bernardo fa fatica ad
accordarsi con Abelardo, e più in generale con coloro che sottoponevano le verità della fede all’esame
critico della ragione; un esame che comportava, a suo avviso, un grave pericolo, e cioè l’intellettualismo,
la relativizzazione della verità, la messa in discussione delle stesse verità della fede. In tale modo di
procedere Bernardo vedeva un’audacia spinta fino alla spregiudicatezza, frutto dell’orgoglio
dell’intelligenza umana, che pretende di ‘catturare’ il mistero di Dio. In una sua lettera, addolorato, scrive
così: ‘L’ingegno umano si impadronisce di tutto, non lasciando più nulla alla fede. Affronta ciò che è al di
sopra di sé, scruta ciò che gli è superiore, irrompe nel mondo di Dio, altera i misteri della fede, più che
illuminarli; ciò che è chiuso e sigillato non lo apre, ma lo sradica, e ciò che non trova percorribile per sé,
lo considera nulla, e rifiuta di credervi’ (Epistola CLXXXVIII,1: PL 182, I, 353).
Per Bernardo la teologia ha un unico scopo: quello di promuovere l’esperienza viva e intima di Dio. La
teologia è allora un aiuto per amare sempre di più e sempre meglio il Signore, come recita il titolo del
trattato sul Dovere di amare Dio (De diligendo Deo). In questo cammino, ci sono diversi gradi, che
Bernardo descrive approfonditamente, fino al culmine quando l’anima del credente si inebria nei vertici
dell’amore. L’anima umana può raggiungere già sulla terra questa unione mistica con il Verbo divino,
unione che il Doctor Mellifluus descrive come ‘nozze spirituali’. Il Verbo divino la visita, elimina le
ultime resistenze, l’illumina, l’infiamma e la trasforma. In tale unione mistica, essa gode di una grande
serenità e dolcezza, e canta al suo Sposo un inno di letizia. […] La teologia per lui non può che nutrirsi
della preghiera contemplativa, in altri termini dell’unione affettiva del cuore e della mente con Dio.
Abelardo, che tra l’altro è proprio colui che ha introdotto il termine “teologia” nel senso in cui lo
intendiamo oggi, si pone invece in una prospettiva diversa. Nato in Bretagna, in Francia, questo famoso
maestro del XII secolo era dotato di un’intelligenza vivissima e la sua vocazione era lo studio. Si occupò
dapprima di filosofia e poi applicò i risultati raggiunti in questa disciplina alla teologia, di cui fu maestro
nella città più colta dell’epoca, Parigi, e successivamente nei monasteri in cui visse. Era un oratore
brillante: le sue lezioni venivano seguite da vere e proprie folle di studenti. Spirito religioso, ma
personalità inquieta, la sua esistenza fu ricca di colpi di scena: contestò i suoi maestri, ebbe un figlio da
una donna colta e intelligente, Eloisa. Si pose spesso in polemica con i suoi colleghi teologi, subì anche
condanne ecclesiastiche, pur morendo in piena comunione con la Chiesa, alla cui autorità si sottomise con
spirito di fede. Proprio san Bernardo contribuì alla condanna di alcune dottrine di Abelardo nel sinodo
provinciale di Sens del 1140, e sollecitò anche l’intervento del Papa Innocenzo II. L’abate di Chiaravalle
contestava […] il metodo troppo intellettualistico di Abelardo, che, ai suoi occhi, riduceva la fede a una
semplice opinione sganciata dalla verità rivelata. Quelli di Bernardo non erano timori infondati ed erano
condivisi, del resto, anche da altri grandi pensatori del tempo. Effettivamente, un uso eccessivo della
filosofia rese pericolosamente fragile la dottrina trinitaria di Abelardo, e così la sua idea di Dio. […] Non
bisogna dimenticare, comunque, anche i grandi meriti di Abelardo, che ebbe molti discepoli e contribuì
decisamente allo sviluppo della teologia scolastica, destinata a esprimersi in modo più maturo e fecondo
nel secolo successivo. Né vanno sottovalutate alcune sue intuizioni, come, ad esempio, quando afferma
che nelle tradizioni religiose non cristiane c’è già una preparazione all’accoglienza di Cristo, Verbo
divino.
Che cosa possiamo imparare, noi oggi, dal confronto, dai toni spesso accesi, tra Bernardo e Abelardo, e,
in genere, tra la teologia monastica e quella scolastica? Anzitutto credo che esso mostri l’utilità e la
necessità di una sana discussione teologica nella Chiesa, soprattutto quando le questioni dibattute non
sono state definite dal Magistero, il quale rimane, comunque, un punto di riferimento ineludibile. San
Bernardo, ma anche lo stesso Abelardo, ne riconobbero sempre senza esitazione l’autorità. Inoltre, le
condanne che quest’ultimo subì ci ricordano che in campo teologico deve esserci un equilibrio tra quelli
che possiamo chiamare i principi architettonici datici dalla Rivelazione e che conservano perciò sempre la
prioritaria importanza, e quelli interpretativi suggeriti dalla filosofia, cioè dalla ragione, e che hanno una
46
funzione importante ma solo strumentale. Quando tale equilibrio tra l’architettura e gli strumenti di
interpretazione viene meno, la riflessione teologica rischia di essere viziata da errori, ed è allora al
Magistero che spetta l’esercizio di quel necessario servizio alla verità che gli è proprio. Inoltre, occorre
mettere in evidenza che, tra le motivazioni che indussero Bernardo a ‘schierarsi’ contro Abelardo e a
sollecitare l’intervento del Magistero, vi fu anche la preoccupazione di salvaguardare i credenti semplici
ed umili, i quali vanno difesi quando rischiano di essere confusi o sviati da opinioni troppo personali e da
argomentazioni teologiche spregiudicate, che potrebbero mettere a repentaglio la loro fede.
Vorrei ricordare, infine, che il confronto teologico tra Bernardo e Abelardo si concluse con una piena
riconciliazione tra i due, grazie alla mediazione di un amico comune, l’abate di Cluny, Pietro il
Venerabile […]. Abelardo mostrò umiltà nel riconoscere i suoi errori, Bernardo usò grande benevolenza.
In entrambi prevalse ciò che deve veramente stare a cuore quando nasce una controversia teologica, e cioè
salvaguardare la fede della Chiesa e far trionfare la verità nella carità. Che questa sia anche oggi
l’attitudine con cui ci si confronta nella Chiesa, avendo sempre come meta la ricerca della verità.68

Risulta inoltre molto interessante come papa Benedetto XVI, a questo proposito, abbia
voluto dedicare una catechesi anche al retroterra teologico dell’architettura della Cattedrale
romanica e di quella gotica come aspetti della teologia medievale.
La fede cristiana, profondamente radicata negli uomini e nelle donne di quei secoli, non diede origine
soltanto a capolavori della letteratura teologica, del pensiero e della fede. Essa ispirò anche una delle
creazioni artistiche più elevate della civiltà universale: le cattedrali, vera gloria del Medioevo cristiano.
Infatti, per circa tre secoli, a partire dal principio del secolo XI si assistette in Europa a un fervore artistico
straordinario. Un antico cronista descrive così l’entusiasmo e la laboriosità di quel tempo: ‘Accadde che
in tutto il mondo, ma specialmente in Italia e nelle Gallie, si incominciasse a ricostruire le chiese, sebbene
molte, per essere ancora in buone condizioni, non avessero bisogno di tale restaurazione. Era come una
gara tra un popolo e l’altro; si sarebbe creduto che il mondo, scuotendosi di dosso i vecchi cenci, volesse
rivestirsi dappertutto della bianca veste di nuove chiese. Insomma, quasi tutte le chiese cattedrali, un gran
numero di chiese monastiche, e perfino oratori di villaggio, furono allora restaurati dai fedeli’ (Rodolfo il
Glabro, Historiarum 3,4).
Vari fattori contribuirono a questa rinascita dell’architettura religiosa. Anzitutto, condizioni storiche più
favorevoli, come una maggiore sicurezza politica, accompagnata da un costante aumento della
popolazione e dal progressivo sviluppo delle città, degli scambi e della ricchezza. Inoltre, gli architetti
individuavano soluzioni tecniche sempre più elaborate per aumentare le dimensioni degli edifici,
assicurandone allo stesso tempo la saldezza e la maestosità. Fu però principalmente grazie all’ardore e
allo zelo spirituale del monachesimo in piena espansione che vennero innalzate chiese abbaziali, dove la
liturgia poteva essere celebrata con dignità e solennità, e i fedeli potevano sostare in preghiera, attratti
dalla venerazione delle reliquie dei santi, mèta di incessanti pellegrinaggi. Nacquero così le chiese e le
cattedrali romaniche, caratterizzate dallo sviluppo longitudinale, in lunghezza, delle navate per accogliere
numerosi fedeli; chiese molto solide, con muri spessi, volte in pietra e linee semplici ed essenziali. Una
novità è rappresentata dall’introduzione delle sculture. Essendo le chiese romaniche il luogo della
preghiera monastica e del culto dei fedeli, gli scultori, più che preoccuparsi della perfezione tecnica,
curarono soprattutto la finalità educativa. Poiché bisognava suscitare nelle anime impressioni forti,
sentimenti che potessero incitare a fuggire il vizio, il male, e a praticare la virtù, il bene, il tema ricorrente
era la rappresentazione di Cristo come giudice universale, circondato dai personaggi dell’Apocalisse.
Sono in genere i portali delle chiese romaniche a offrire questa raffigurazione, per sottolineare che Cristo
è la Porta che conduce al Cielo. I fedeli, oltrepassando la soglia dell’edificio sacro, entrano in un tempo e
in uno spazio differenti da quelli della vita ordinaria. Oltre il portale della chiesa, i credenti in Cristo,
sovrano, giusto e misericordioso, nell’intenzione degli artisti potevano gustare un anticipo della
beatitudine eterna nella celebrazione della liturgia e negli atti di pietà svolti all’interno dell’edificio sacro.
Nel secoli XII e XIII, a partire dal nord della Francia, si diffuse un altro tipo di architettura nella
costruzione degli edifici sacri, quella gotica, con due caratteristiche nuove rispetto al romanico, e cioè lo
slancio verticale e la luminosità. Le cattedrali gotiche mostravano una sintesi di fede e di arte
armoniosamente espressa attraverso il linguaggio universale e affascinante della bellezza, che ancor oggi
suscita stupore. Grazie all’introduzione delle volte a sesto acuto, che poggiavano su robusti pilastri, fu
possibile innalzarne notevolmente l’altezza. Lo slancio verso l’alto voleva invitare alla preghiera ed era
esso stesso una preghiera. La cattedrale gotica intendeva tradurre così, nelle sue linee architettoniche,
l’anelito delle anime verso Dio. Inoltre, con le nuove soluzioni tecniche adottate, i muri perimetrali
potevano essere traforati e abbelliti da vetrate policrome. In altre parole, le finestre diventavano grandi
immagini luminose, molto adatte ad istruire il popolo nella fede. In esse - scena per scena – venivano

68
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 4 novembre 2009).
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narrati la vita di un santo, una parabola, o altri eventi biblici. Dalle vetrate dipinte una cascata di luce si
riversava sui fedeli per narrare loro la storia della salvezza e coinvolgerli in questa storia.
Un altro pregio delle cattedrali gotiche è costituito dal fatto che alla loro costruzione e alla loro
decorazione, in modo differente ma corale, partecipava tutta la comunità cristiana e civile; partecipavano
gli umili e i potenti, gli analfabeti e i dotti, perché in questa casa comune tutti i credenti erano istruiti nella
fede. La scultura gotica ha fatto delle cattedrali una ‘Bibbia di pietra’, rappresentando gli episodi del
Vangelo e illustrando i contenuti dell’anno liturgico, dalla Natività alla Glorificazione del Signore. In
quei secoli, inoltre, si diffondeva sempre di più la percezione dell’umanità del Signore, e i patimenti della
sua Passione venivano rappresentati in modo realistico: il Cristo sofferente (Christus patiens) divenne
un’immagine amata da tutti, ed atta a ispirare pietà e pentimento per i peccati. Né mancavano i personaggi
dell’Antico Testamento, la cui storia divenne in tal modo familiare ai fedeli che frequentavano le
cattedrali come parte dell’unica, comune storia di salvezza. Con i suoi volti pieni di bellezza, di dolcezza,
di intelligenza, la scultura gotica del secolo XIII rivela una pietà felice e serena, che si compiace di
effondere una devozione sentita e filiale verso la Madre di Dio, vista a volte come una giovane donna,
sorridente e materna, e principalmente rappresentata come la sovrana del cielo e della terra, potente e
misericordiosa. I fedeli che affollavano le cattedrali gotiche amavano trovarvi anche espressioni artistiche
che ricordassero i santi, modelli di vita cristiana e intercessori presso Dio. E non mancarono le
manifestazioni ‘laiche’ dell’esistenza; ecco allora apparire, qua e là, rappresentazioni del lavoro dei
campi, delle scienze e delle arti. Tutto era orientato e offerto a Dio nel luogo in cui si celebrava la liturgia.
Possiamo comprendere meglio il senso che veniva attribuito a una cattedrale gotica, considerando il testo
dell’iscrizione incisa sul portale centrale di Saint-Denis, a Parigi: ‘Passante, che vuoi lodare la bellezza di
queste porte, non lasciarti abbagliare né dall’oro, né dalla magnificenza, ma piuttosto dal faticoso lavoro.
Qui brilla un’opera famosa, ma voglia il cielo che quest’opera famosa che brilla faccia splendere gli
spiriti, affinché con le verità luminose s’incamminino verso la vera luce, dove il Cristo è la vera porta’.
Cari fratelli e sorelle, mi piace ora sottolineare due elementi dell’arte romanica e gotica utili anche per
noi. Il primo: i capolavori artistici nati in Europa nei secoli passati sono incomprensibili se non si tiene
conto dell’anima religiosa che li ha ispirati. Un artista, che ha testimoniato sempre l’incontro tra estetica e
fede, Marc Chagall, ha scritto che ‘i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell'alfabeto
colorato che era la Bibbia’. Quando la fede, in modo particolare celebrata nella liturgia, incontra l’arte, si
crea una sintonia profonda, perché entrambe possono e vogliono parlare di Dio, rendendo visibile
l’Invisibile. […] Il secondo elemento: la forza dello stile romanico e lo splendore delle cattedrali gotiche
ci rammentano che la via pulchritudinis, la via della bellezza, è un percorso privilegiato e affascinante per
avvicinarsi al Mistero di Dio. Che cos’è la bellezza, che scrittori, poeti, musicisti, artisti contemplano e
traducono nel loro linguaggio, se non il riflesso dello splendore del Verbo eterno fatto carne? Afferma
sant’Agostino: ‘Interroga la bellezza della terra, interroga la bellezza del mare, interroga la bellezza
dell’aria diffusa e soffusa. Interroga la bellezza del cielo, interroga l’ordine delle stelle, interroga il sole,
che col suo splendore rischiara il giorno; interroga la luna, che col suo chiarore modera le tenebre della
notte. Interroga le fiere che si muovono nell'acqua, che camminano sulla terra, che volano nell'aria: anime
che si nascondono, corpi che si mostrano; visibile che si fa guidare, invisibile che guida. Interrogali! Tutti
ti risponderanno: Guardaci: siamo belli! La loro bellezza li fa conoscere. Questa bellezza mutevole chi
l’ha creata, se non la Bellezza Immutabile?’ (Sermo CCXLI, 2: PL 38, 1134).
Cari fratelli e sorelle, ci aiuti il Signore a riscoprire la via della bellezza come uno degli itinerari, forse il
più attraente ed affascinante, per giungere ad incontrare ed amare Dio.69

La ormai sopravvenuta distinzione tra teologia e filosofia, propria della filosofia scolastica,
fu riconosciuta espressamente a partire da Pietro Lombardo, Sant’Anselmo, Bonaventura, Giovanni
Duns Scoto, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino ed altri autori medievali, in un momento in cui
«con il sorgere delle prime università, la teologia veniva a confrontarsi più direttamente con le altre
forme della ricerca e del sapere scientifico».70

PIETRO LOMBARDO.
Teologo vissuto nel XII secolo, che ha goduto di grande notorietà, perché una sua opera, intitolata
Sentenze, fu adottata come manuale di teologia per molti secoli. […]
Pietro Lombardo iniziò i suoi studi a Bologna, poi si recò a Reims, e infine a Parigi. Dal 1140 insegnò
nella prestigiosa scuola di Notre-Dame. Stimato e apprezzato come teologo, otto anni dopo fu incaricato
dal Papa Eugenio III di esaminare le dottrine di Gilberto Porretano, che suscitavano molte discussioni,

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BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 4 novembre 2009).
70
FR, n. 45.
48
perché ritenute non del tutto ortodosse. Divenuto sacerdote, fu nominato Vescovo di Parigi nel 1159, un
anno prima della sua morte, avvenuta nel 1160.
Come tutti i maestri di teologia del suo tempo, anche Pietro scrisse discorsi e testi di commento alla Sacra
Scrittura. Il suo capolavoro però è costituito dai quattro libri delle Sentenze. Si tratta di un testo nato e
finalizzato all’insegnamento. Secondo il metodo teologico in uso a quei tempi, occorreva anzitutto
conoscere, studiare e commentare il pensiero dei Padri della Chiesa e di altri scrittori ritenuti autorevoli.
Pietro raccolse perciò una documentazione molto vasta, costituita principalmente dall’insegnamento dei
grandi Padri latini, soprattutto di sant’Agostino, e aperta al contributo di teologi a lui contemporanei. Fra
l’altro, egli utilizzò anche un’opera enciclopedica di teologia greca, da poco tempo conosciuta in
Occidente: La fede ortodossa, composta da san Giovanni Damasceno. Il grande merito di Pietro
Lombardo è di aver ordinato tutto il materiale, che aveva raccolto e selezionato con cura, in un quadro
sistematico e armonioso. Infatti, una delle caratteristiche della teologia è organizzare in modo unitario e
ordinato il patrimonio della fede. Egli distribuì pertanto le sentenze, cioè le fonti patristiche sui vari
argomenti, in quattro libri. Nel primo libro si tratta di Dio e del mistero trinitario; nel secondo, dell’opera
della creazione, del peccato e della Grazia; nel terzo, del Mistero dell’Incarnazione e dell’opera della
Redenzione, con un’ampia esposizione sulle virtù. Il quarto libro è dedicato ai sacramenti e alle realtà
ultime, quelle della vita eterna, o Novissimi.
La visione d’insieme che se ne ricava include quasi tutte le verità della fede cattolica. Questo sguardo
sintetico e la presentazione chiara, ordinata, schematica e sempre coerente, spiegano il successo
straordinario delle Sentenze di Pietro Lombardo. Esse consentivano un apprendimento sicuro da parte
degli studenti, e un ampio spazio di approfondimento per i maestri, gli insegnanti che se ne servivano. Un
teologo francescano, Alessandro di Hales, vissuto una generazione dopo quella di Pietro, introdusse nelle
Sentenze una suddivisione, che ne rese più facile la consultazione e lo studio. Anche i più grandi teologi
del tredicesimo secolo, Alberto Magno, Bonaventura da Bagnoregio e Tommaso d’Aquino, iniziarono la
loro attività accademica commentando i quattro libri delle Sentenze di Pietro Lombardo, arricchendole
con le loro riflessioni. Il testo del Lombardo fu il libro in uso in tutte le scuole di teologia, fino al secolo
XVI.
Desidero sottolineare come la presentazione organica della fede sia un’esigenza irrinunciabile. Infatti, le
singole verità della fede si illuminano a vicenda e, in una loro visione totale e unitaria, appare l’armonia
del piano di salvezza di Dio e la centralità del Mistero di Cristo. Sull’esempio di Pietro Lombardo, invito
tutti i teologi e i sacerdoti a tenere sempre presente l’intera visione della dottrina cristiana contro gli
odierni rischi di frammentazione e di svalutazione di singole verità. Il Catechismo della Chiesa Cattolica,
come pure il Compendio del medesimo Catechismo, ci offrono proprio questo quadro completo della
Rivelazione cristiana, da accogliere con fede e con gratitudine. Vorrei incoraggiare perciò anche i singoli
fedeli e le comunità cristiane ad approfittare di questi strumenti per conoscere e approfondire i contenuti
della nostra fede. Essa ci apparirà così una meravigliosa sinfonia, che ci parla di Dio e del suo amore e
che sollecita la nostra ferma adesione e la nostra operosa risposta. […]
Tra i contributi più importanti offerti da Pietro Lombardo alla storia della teologia, vorrei ricordare la sua
trattazione sui sacramenti, dei quali ha dato una definizione direi definitiva: ‘È detto sacramento in senso
proprio ciò che è segno della grazia di Dio e forma visibile della grazia invisibile, in modo tale da
portarne l’immagine ed esserne causa’ (4, 1, 4). Con questa definizione Pietro Lombardo coglie l’essenza
dei sacramenti: essi sono causa della grazia, hanno la capacità di comunicare realmente la vita divina. I
teologi successivi non abbandoneranno più questa visione e utilizzeranno anche la distinzione tra
elemento materiale ed elemento formale, introdotta dal ‘Maestro delle Sentenze’, come venne chiamato
Pietro Lombardo. L’elemento materiale è la realtà sensibile e visibile, quello formale sono le parole
pronunciate dal ministro. Entrambi sono essenziali per una celebrazione completa e valida dei sacramenti:
la materia, la realtà con la quale il Signore ci tocca visibilmente e la parola che dà il significato spirituale.
Nel Battesimo, ad esempio, l’elemento materiale è l’acqua che si versa sul capo del bambino e l’elemento
formale sono le parole ‘Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo’. Il Lombardo,
inoltre, chiarì che solo i sacramenti trasmettono oggettivamente la grazia divina e che sono sette: il
Battesimo, la Confermazione, l’Eucaristia, la Penitenza, l’Unzione degli Infermi, l’Ordine e il
Matrimonio (cfr Sentenze 4, 2, 1). […] I sacramenti sono il grande tesoro della Chiesa e a ciascuno di noi
spetta il compito di celebrarli con frutto spirituale. In essi, un evento sempre sorprendente tocca la nostra
vita: Cristo, attraverso i segni visibili, ci viene incontro, ci purifica, ci trasforma e ci rende partecipi della
sua divina amicizia.71

71
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 30 dicembre 2009).
49
FR si sofferma sul ruolo della ragione “filosoficamente educata” nella teologia scolastica,
parlando di SANT’ANSELMO D’AOSTA.

Nella teologia scolastica il ruolo della ragione filosoficamente educata diventa ancora più cospicuo sotto
la spinta dell’interpretazione anselmiana dell’intellectus fidei. Per il santo Arcivescovo di Canterbury la
priorità della fede non è competitiva con la ricerca propria della ragione. Questa, infatti, non è chiamata a
esprimere un giudizio sui contenuti della fede; ne sarebbe incapace, perché a ciò non idonea. Suo
compito, piuttosto, è quello di saper trovare un senso, di scoprire delle ragioni che permettano a tutti di
raggiungere una qualche intelligenza dei contenuti di fede.
Sant’Anselmo sottolinea il fatto che l’intelletto deve porsi in ricerca di ciò che ama: più ama, più desidera
conoscere. Chi vive per la verità è proteso verso una forma di conoscenza che si infiamma sempre più di
amore per ciò che conosce, pur dovendo ammettere di non aver ancora fatto tutto ciò che sarebbe nel suo
desiderio: ‘Ad te videndum factus sum; et nondum feci propter quod factus sum’. Il desiderio di verità
spinge, dunque, la ragione ad andare sempre oltre; essa, anzi, viene come sopraffatta dalla costatazione
della sua capacità sempre più grande di ciò che raggiunge. A questo punto, però, la ragione è in grado di
scoprire ove stia il compimento del suo cammino: ‘Penso infatti che chi investiga una cosa
incomprensibile debba accontentarsi di giungere con il ragionamento a riconoscerne con somma certezza
la realtà, anche se non è in grado di penetrare con l’intelletto il suo modo di essere [...]. Che cosa c’è
peraltro di tanto incomprensibile ed inesprimibile quanto ciò che è al di sopra di ogni cosa? Se dunque ciò
di cui finora si è disputato intorno alla somma essenza è stato stabilito su ragioni necessarie, quantunque
non possa essere penetrato con l’intelletto in modo da potersi chiarire anche verbalmente, non per questo
vacilla minimamente il fondamento della sua certezza. Se, infatti, una precedente riflessione ha compreso
in modo razionale che è incomprensibile (rationabiliter comprehendit incomprehensibile esse) il modo in
cui la sapienza superna sa ciò che ha fatto [...], chi spiegherà come essa stessa si conosce e si dice, essa di
cui l’uomo nulla o pressoché nulla può sapere?’.
L’armonia fondamentale della conoscenza filosofica e della conoscenza di fede è ancora una volta
confermata: la fede chiede che il suo oggetto venga compreso con l’aiuto della ragione; la ragione, al
culmine della sua ricerca, ammette come necessario ciò che la fede presenta.72

Così Papa Benedetto XVI si esprime su Sant’Anselmo in occasione di una sua catechesi del
2009:
Egli è noto anche come Anselmo di Bec e Anselmo di Canterbury a motivo delle città con le quali è stato
in rapporto. […] Monaco di intensa vita spirituale, eccellente educatore di giovani, teologo con una
straordinaria capacità speculativa, saggio uomo di governo ed intransigente difensore della libertas
Ecclesiae, Anselmo é una delle personalità eminenti del Medioevo, che seppe armonizzare tutte queste
qualità grazie a una profonda esperienza mistica, che sempre ebbe a guidarne il pensiero e l’azione. […]
Anselmo, che da bambino – come narra il suo biografo - immaginava l’abitazione del buon Dio tra le alte
e innevate vette delle Alpi, sognò una notte di essere invitato in questa reggia splendida da Dio stesso, che
si intrattenne a lungo ed affabilmente con lui e alla fine gli offrì da mangiare ‘un pane candidissimo’
(ibid., col 51). Questo sogno gli lasciò la convinzione di essere chiamato a compiere un’alta missione.
[…] Morì il 21 aprile 1109, accompagnato dalle parole del Vangelo proclamato nella Santa Messa di quel
giorno: ‘Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io preparo per voi un regno,
come il Padre l'ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno’ (Lc
22, 28-30). Il sogno di quel misterioso banchetto, che da piccolo aveva avuto proprio all’inizio del suo
cammino spirituale, trovava così la sua realizzazione. Gesù, che lo aveva invitato a sedersi alla sua
mensa, accolse sant’Anselmo, alla sua morte, nel regno eterno del Padre.
‘Dio, ti prego, voglio conoscerti, voglio amarti e poterti godere. E se in questa vita non sono capace di ciò
in misura piena, possa almeno ogni giorno progredire fino a quando giunga alla pienezza’ (Proslogion,
cap.14). Questa preghiera lascia comprendere l’anima mistica di questo grande Santo dell’epoca
medievale, fondatore della teologia scolastica, al quale la tradizione cristiana ha dato il titolo di ‘Dottore
Magnifico’ perché coltivò un intenso desiderio di approfondire i Misteri divini, nella piena
consapevolezza, però, che il cammino di ricerca di Dio non è mai concluso, almeno su questa terra. La
chiarezza e il rigore logico del suo pensiero hanno avuto sempre come fine di ‘innalzare la mente alla
contemplazione di Dio’ (Ivi, Proemium). Egli afferma chiaramente che chi intende fare teologia non può
contare solo sulla sua intelligenza, ma deve coltivare al tempo stesso una profonda esperienza di fede.
L’attività del teologo, secondo sant’Anselmo, si sviluppa così in tre stadi: la fede, dono gratuito di Dio da
accogliere con umiltà; l’esperienza, che consiste nell’incarnare la parola di Dio nella propria esistenza

72
FR, n. 42.
50
quotidiana; e quindi la vera conoscenza, che non è mai frutto di asettici ragionamenti, bensì di
un’intuizione contemplativa. Restano, in proposito, quanto mai utili anche oggi, per una sana ricerca
teologica e per chiunque voglia approfondire le verità della fede, le sue celebri parole: ‘Non tento,
Signore, di penetrare la tua profondità, perché non posso neppure da lontano mettere a confronto con essa
il mio intelletto; ma desidero intendere, almeno fino ad un certo punto, la tua verità, che il mio cuore
crede e ama. Non cerco infatti di capire per credere, ma credo per capire’ (Ivi, 1).73

All’interno degli autori della tradizione francescana medievale che hanno maggiormente
approfondito la relazione tra fede e ragione, è di fondamentale importanza SAN BONAVENTURA DA
BAGNOREGIO.
Nato probabilmente nel 1217 e morto nel 1274, egli visse nel XIII secolo, un’epoca in cui la fede
cristiana, penetrata profondamente nella cultura e nella società dell’Europa, ispirò imperiture opere nel
campo della letteratura, delle arti visive, della filosofia e della teologia. Tra le grandi figure cristiane che
contribuirono alla composizione di questa armonia tra fede e cultura si staglia appunto Bonaventura,
uomo di azione e di contemplazione, di profonda pietà e di prudenza nel governo. […]
La figura del Poverello di Assisi gli divenne ancora […] familiare […] quando si trovava a Parigi, dove si
era recato per i suoi studi. Aveva ottenuto il diploma di Maestro d’Arti, che potremmo paragonare a
quello di un prestigioso Liceo dei nostri tempi. A quel punto, come tanti giovani del passato e anche di
oggi, Giovanni si pose una domanda cruciale: ‘Che cosa devo fare della mia vita?’. Affascinato dalla
testimonianza di fervore e radicalità evangelica dei Frati Minori, che erano giunti a Parigi nel 1219,
Giovanni bussò alle porte del Convento francescano di quella città, e chiese di essere accolto nella grande
famiglia dei discepoli di san Francesco. Molti anni dopo, egli spiegò le ragioni della sua scelta: in san
Francesco e nel movimento da lui iniziato ravvisava l’azione di Cristo. Scriveva così in una lettera
indirizzata ad un altro frate: ‘Confesso davanti a Dio che la ragione che mi ha fatto amare di più la vita
del beato Francesco è che essa assomiglia agli inizi e alla crescita della Chiesa. La Chiesa cominciò con
semplici pescatori, e si arricchì in seguito di dottori molto illustri e sapienti; la religione del beato
Francesco non è stata stabilita dalla prudenza degli uomini, ma da Cristo’ (Epistula de tribus
quaestionibus ad magistrum innominatum, in Opere di San Bonaventura. Introduzione generale, Roma
1990, p. 29).
Pertanto, intorno all’anno 1243 Giovanni vestì il saio francescano e assunse il nome di Bonaventura.
Venne subito indirizzato agli studi, e frequentò la Facoltà di Teologia dell’Università di Parigi, seguendo
un insieme di corsi molto impegnativi. Conseguì i vari titoli richiesti dalla carriera accademica, quelli di
‘baccelliere biblico’ e di ‘baccelliere sentenziario’. Così Bonaventura studiò a fondo la Sacra Scrittura, le
Sentenze di Pietro Lombardo, il manuale di teologia di quel tempo, e i più importanti autori di teologia e,
a contatto con i maestri e gli studenti che affluivano a Parigi da tutta l’Europa, maturò una propria
riflessione personale e una sensibilità spirituale di grande valore che, nel corso degli anni successivi,
seppe trasfondere nelle sue opere e nei suoi sermoni, diventando così uno dei teologi più importanti della
storia della Chiesa. È significativo ricordare il titolo della tesi che egli difese per essere abilitato
all’insegnamento della teologia, la licentia ubique docendi, come si diceva allora. La sua dissertazione
aveva come titolo Questioni sulla conoscenza di Cristo. Questo argomento mostra il ruolo centrale che
Cristo ebbe sempre nella vita e nell’insegnamento di Bonaventura. Possiamo dire senz’altro che tutto il
suo pensiero fu profondamente cristocentrico.74

San Bonaventura, tra i vari meriti, ha avuto quello di interpretare autenticamente e fedelmente la figura di
san Francesco d’Assisi, da lui venerato e studiato con grande amore. In particolar modo, ai tempi di san
Bonaventura una corrente di Frati minori, detti ‘spirituali’, sosteneva che con san Francesco era stata
inaugurata una fase totalmente nuova della storia, sarebbe apparso il ‘Vangelo eterno’, del quale parla
l’Apocalisse, che sostituiva il Nuovo Testamento. Questo gruppo affermava che la Chiesa aveva ormai
esaurito il proprio ruolo storico, e al suo posto subentrava una comunità carismatica di uomini liberi
guidati interiormente dallo Spirito, cioè i ‘Francescani spirituali’. Alla base delle idee di tale gruppo vi
erano gli scritti di un abate cistercense, Gioacchino da Fiore, morto nel 1202. Nelle sue opere, egli
affermava un ritmo trinitario della storia. Considerava l’Antico Testamento come età del Padre, seguita
dal tempo del Figlio, il tempo della Chiesa. Vi sarebbe stata ancora da aspettare la terza età, quella dello
Spirito Santo. Tutta la storia andava così interpretata come una storia di progresso: dalla severità
dell’Antico Testamento alla relativa libertà del tempo del Figlio, nella Chiesa, fino alla piena libertà dei
Figli di Dio, nel periodo dello Spirito Santo, che sarebbe stato anche, finalmente, il periodo della pace tra
gli uomini, della riconciliazione dei popoli e delle religioni. Gioacchino da Fiore aveva suscitato la

73
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 23 settembre 2009).
74
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 3 marzo 2010).
51
speranza che l’inizio del nuovo tempo sarebbe venuto da un nuovo monachesimo. Così è comprensibile
che un gruppo di Francescani pensasse di riconoscere in san Francesco d’Assisi l’iniziatore del tempo
nuovo e nel suo Ordine la comunità del periodo nuovo – la comunità del tempo dello Spirito Santo, che
lasciava dietro di sé la Chiesa gerarchica, per iniziare la nuova Chiesa dello Spirito, non più legata alle
vecchie strutture.
Vi era dunque il rischio di un gravissimo fraintendimento del messaggio di san Francesco, della sua umile
fedeltà al Vangelo e alla Chiesa, e tale equivoco comportava una visione erronea del Cristianesimo nel
suo insieme.
San Bonaventura, che nel 1257 divenne Ministro Generale dell’Ordine Francescano, si trovò di fronte ad
una grave tensione all’interno del suo stesso Ordine a causa appunto di chi sosteneva la menzionata
corrente dei ‘Francescani spirituali’, che si rifaceva a Gioacchino da Fiore. Proprio per rispondere a
questo gruppo e ridare unità all’Ordine, san Bonaventura studiò con cura gli scritti autentici di
Gioacchino da Fiore e quelli a lui attribuiti e, tenendo conto della necessità di presentare correttamente la
figura e il messaggio del suo amato san Francesco, volle esporre una giusta visione della teologia della
storia. San Bonaventura affrontò il problema proprio nell’ultima sua opera, una raccolta di conferenze ai
monaci dello studio parigino, rimasta incompiuta e giuntaci attraverso le trascrizioni degli uditori,
intitolata Hexaëmeron, cioè una spiegazione allegorica dei sei giorni della creazione. I Padri della Chiesa
consideravano i sei o sette giorni del racconto sulla creazione come profezia della storia del mondo,
dell’umanità. I setti giorni rappresentavano per loro sette periodi della storia, più tardi interpretati anche
come sette millenni. Con Cristo saremmo entrati nell’ultimo, cioè il sesto periodo della storia, al quale
seguirebbe poi il grande sabato di Dio. San Bonaventura suppone questa interpretazione storica del
rapporto dei giorni della creazione, ma in un modo molto libero ed innovativo. Per lui due fenomeni del
suo tempo rendono necessaria una nuova interpretazione del corso della storia.
Il primo: la figura di san Francesco, l’uomo totalmente unito a Cristo fino alla comunione delle stimmate,
quasi un alter Christus, e con san Francesco la nuova comunità da lui creata, diversa dal monachesimo
finora conosciuto. Questo fenomeno esigeva una nuova interpretazione, come novità di Dio apparsa in
quel momento.
Il secondo: la posizione di Gioacchino da Fiore, che annunziava un nuovo monachesimo ed un periodo
totalmente nuovo della storia, andando oltre la rivelazione del Nuovo Testamento, esigeva una risposta.
Da Ministro Generale dell’Ordine dei Francescani, san Bonaventura aveva visto subito che con la
concezione spiritualistica, ispirata da Gioacchino da Fiore, l’Ordine non era governabile, ma andava
logicamente verso l’anarchia. Due erano per lui le conseguenze.
La prima: la necessità pratica di strutture e di inserimento nella realtà della Chiesa gerarchica, della
Chiesa reale, aveva bisogno di un fondamento teologico, anche perché gli altri, quelli che seguivano la
concezione spiritualista, mostravano un apparente fondamento teologico.
La seconda: pur tenendo conto del realismo necessario, non bisognava perdere la novità della figura di
san Francesco.
Come ha risposto san Bonaventura all’esigenza pratica e teorica? Della sua risposta posso dare qui solo
un riassunto molto schematico ed incompleto in alcuni punti.
San Bonaventura respinge l’idea del ritmo trinitario della storia. Dio è uno per tutta la storia e non si
divide in tre divinità. Di conseguenza, la storia è una, anche se è un cammino e – secondo san
Bonaventura – un cammino di progresso.
Gesù Cristo è l’ultima parola di Dio – in Lui Dio ha detto tutto, donando e dicendo se stesso. Più che se
stesso, Dio non può dire, né dare. Lo Spirito Santo è Spirito del Padre e del Figlio. Cristo stesso dice dello
Spirito Santo: ‘…vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto’ (Gv 14, 26), ‘prenderà da quel che è mio e ve lo
annuncerà’ (Gv 16, 15). Quindi non c’è un altro Vangelo più alto, non c’è un'altra Chiesa da aspettare.
Perciò anche l’Ordine di san Francesco deve inserirsi in questa Chiesa, nella sua fede, nel suo
ordinamento gerarchico.
Questo non significa che la Chiesa sia immobile, fissa nel passato e non possa esserci novità in essa.
‘Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt’, le opere di Cristo non vanno indietro, non vengono meno,
ma progrediscono, dice il Santo nella lettera De tribus quaestionibus. Così san Bonaventura formula
esplicitamente l’idea del progresso, e questa è una novità in confronto ai Padri della Chiesa e a gran parte
dei suoi contemporanei. Per san Bonaventura Cristo non è più, come era per i Padri della Chiesa, la fine,
ma il centro della storia; con Cristo la storia non finisce, ma comincia un nuovo periodo. Un'altra
conseguenza è la seguente: fino a quel momento dominava l’idea che i Padri della Chiesa fossero stati il
vertice assoluto della teologia, tutte le generazioni seguenti potevano solo essere loro discepole. Anche
san Bonaventura riconosce i Padri come maestri per sempre, ma il fenomeno di san Francesco gli dà la
certezza che la ricchezza della parola di Cristo è inesauribile e che anche nelle nuove generazioni possono
apparire nuove luci. L’unicità di Cristo garantisce anche novità e rinnovamento in tutti i periodi della
storia.

52
Certo, l’Ordine Francescano - così sottolinea - appartiene alla Chiesa di Gesù Cristo, alla Chiesa
apostolica e non può costruirsi in uno spiritualismo utopico. Ma, allo stesso tempo, è valida la novità di
tale Ordine nei confronti del monachesimo classico, e san Bonaventura […] ha difeso questa novità
contro gli attacchi del Clero secolare di Parigi: i Francescani non hanno un monastero fisso, possono
essere presenti dappertutto per annunziare il Vangelo. Proprio la rottura con la stabilità, caratteristica del
monachesimo, a favore di una nuova flessibilità, restituì alla Chiesa il dinamismo missionario.
A questo punto forse è utile dire che anche oggi esistono visioni secondo le quali tutta la storia della
Chiesa nel secondo millennio sarebbe stata un declino permanente; alcuni vedono il declino già subito
dopo il Nuovo Testamento. In realtà, ‘Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt’, le opere di Cristo non
vanno indietro, ma progrediscono. Che cosa sarebbe la Chiesa senza la nuova spiritualità dei Cistercensi,
dei Francescani e Domenicani, della spiritualità di santa Teresa d’Avila e di san Giovanni della Croce, e
così via? Anche oggi vale questa affermazione: ‘Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt’, vanno
avanti. San Bonaventura ci insegna l’insieme del necessario discernimento, anche severo, del realismo
sobrio e dell’apertura a nuovi carismi donati da Cristo, nello Spirito Santo, alla sua Chiesa. E mentre si
ripete questa idea del declino, c’è anche l’altra idea, questo ‘utopismo spiritualistico’, che si ripete.
Sappiamo, infatti, come dopo il Concilio Vaticano II alcuni erano convinti che tutto fosse nuovo, che ci
fosse un’altra Chiesa, che la Chiesa pre-conciliare fosse finita e ne avremmo avuta un’altra, totalmente
‘altra’. Un utopismo anarchico! E grazie a Dio i timonieri saggi della barca di Pietro, Papa Paolo e Papa
Giovanni Paolo II, da una parte hanno difeso la novità del Concilio e dall’altra, nello stesso tempo, hanno
difeso l’unicità e la continuità della Chiesa, che è sempre Chiesa di peccatori e sempre luogo di Grazia.75

Egli è un eminente teologo, che merita di essere messo accanto ad un altro grandissimo pensatore, suo
contemporaneo, san Tommaso d’Aquino. Entrambi hanno scrutato i misteri della Rivelazione,
valorizzando le risorse della ragione umana, in quel fecondo dialogo tra fede e ragione che caratterizza il
Medioevo cristiano, facendone un’epoca di grande vivacità intellettuale, oltre che di fede e di
rinnovamento ecclesiale, spesso non sufficientemente evidenziata. Altre analogie li accomunano: sia
Bonaventura, francescano, sia Tommaso, domenicano, appartenevano agli Ordini Mendicanti che, con la
loro freschezza spirituale, come ho ricordato in precedenti catechesi, rinnovarono, nel secolo XIII, la
Chiesa intera e attirarono tanti seguaci. Tutti e due servirono la Chiesa con diligenza, con passione e con
amore, al punto che furono invitati a partecipare al Concilio Ecumenico di Lione nel 1274, lo stesso anno
in cui morirono: Tommaso mentre si recava a Lione, Bonaventura durante lo svolgimento del medesimo
Concilio. Anche in Piazza San Pietro le statue dei due Santi sono parallele, collocate proprio all’inizio del
Colonnato partendo dalla facciata della Basilica Vaticana: una nel Braccio di sinistra e l’altra nel Braccio
di destra. Nonostante tutti questi aspetti, possiamo cogliere nei due grandi Santi due diversi approcci alla
ricerca filosofica e teologica, che mostrano l’originalità e la profondità di pensiero dell’uno e dell’altro.
Vorrei accennare ad alcune di queste differenze.
Una prima differenza concerne il concetto di teologia. Ambedue i dottori si chiedono se la teologia sia
una scienza pratica o una scienza teorica, speculativa. San Tommaso riflette su due possibili risposte
contrastanti. La prima dice: la teologia è riflessione sulla fede e scopo della fede è che l’uomo diventi
buono, viva secondo la volontà di Dio. Quindi, lo scopo della teologia dovrebbe essere quello di guidare
sulla via giusta, buona; di conseguenza essa, in fondo, è una scienza pratica. L’altra posizione dice: la
teologia cerca di conoscere Dio. Noi siamo opera di Dio; Dio sta al di sopra del nostro fare. Dio opera in
noi l’agire giusto. Quindi si tratta sostanzialmente non del nostro fare, ma del conoscere Dio, non del
nostro operare. La conclusione di san Tommaso è: la teologia implica ambedue gli aspetti: è teorica, cerca
di conoscere Dio sempre di più, ed è pratica: cerca di orientare la nostra vita al bene. Ma c’è un primato
della conoscenza: dobbiamo soprattutto conoscere Dio, poi segue l’agire secondo Dio (Summa
Theologiae Ia, q. 1, art. 4). Questo primato della conoscenza in confronto con la prassi è significativo per
l’orientamento fondamentale di san Tommaso.
La risposta di san Bonaventura è molto simile, ma gli accenti sono diversi. San Bonaventura conosce gli
stessi argomenti nell’una e nell’altra direzione, come san Tommaso, ma per rispondere alla domanda se la
teologia sia una scienza pratica o teorica, san Bonaventura fa una triplice distinzione – allarga, quindi,
l’alternativa tra teorico (primato della conoscenza) e pratico (primato della prassi), aggiungendo un terzo
atteggiamento, che chiama ‘sapienziale’ e affermando che la sapienza abbraccia ambedue gli aspetti. E
poi continua: la sapienza cerca la contemplazione (come la più alta forma della conoscenza) e ha come
intenzione ‘ut boni fiamus’ - che diventiamo buoni, soprattutto questo: divenire buoni (cfr Breviloquium,
Prologus, 5). Poi aggiunge: ‘La fede è nell’intelletto, in modo tale che provoca l’affetto. Ad esempio:
conoscere che Cristo è morto “per noi” non rimane conoscenza, ma diventa necessariamente affetto,
amore’ (Proemium in I Sent., q. 3).

75
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 10 marzo 2010).
53
Nella stessa linea si muove la sua difesa della teologia, cioè della riflessione razionale e metodica della
fede. San Bonaventura elenca alcuni argomenti contro il fare teologia, forse diffusi anche in una parte dei
frati francescani e presenti anche nel nostro tempo: la ragione svuoterebbe la fede, sarebbe un
atteggiamento violento nei confronti della parola di Dio, dobbiamo ascoltare e non analizzare la parola di
Dio (cfr Lettera di san Francesco d’Assisi a sant’Antonio di Padova). A questi argomenti contro la
teologia, che dimostrano i pericoli esistenti nella teologia stessa, il Santo risponde: è vero che c’è un
modo arrogante di fare teologia, una superbia della ragione, che si pone al di sopra della parola di Dio.
Ma la vera teologia, il lavoro razionale della vera e della buona teologia ha un’altra origine, non la
superbia della ragione. Chi ama vuol conoscere sempre meglio e sempre più l’amato; la vera teologia non
impegna la ragione e la sua ricerca motivata dalla superbia, ‘sed propter amorem eius cui assentit’ –
‘motivata dall’amore di Colui, al quale ha dato il suo consenso’ (Proemium in I Sent., q. 2), e vuol meglio
conoscere l’amato: questa è l’intenzione fondamentale della teologia. Per san Bonaventura è quindi
determinante alla fine il primato dell’amore.
Di conseguenza, san Tommaso e san Bonaventura definiscono in modo diverso la destinazione ultima
dell’uomo, la sua piena felicità: per san Tommaso il fine supremo, al quale si dirige il nostro desiderio è:
vedere Dio. In questo semplice atto del vedere Dio trovano soluzione tutti i problemi: siamo felici,
nient’altro è necessario.
Per san Bonaventura il destino ultimo dell’uomo è invece: amare Dio, l’incontrarsi ed unirsi del suo e del
nostro amore. Questa è per lui la definizione più adeguata della nostra felicità.
In tale linea, potremmo anche dire che la categoria più alta per san Tommaso è il vero, mentre per san
Bonaventura è il bene. Sarebbe sbagliato vedere in queste due risposte una contraddizione. Per ambedue il
vero è anche il bene, ed il bene è anche il vero; vedere Dio è amare ed amare è vedere. Si tratta quindi di
accenti diversi di una visione fondamentalmente comune. Ambedue gli accenti hanno formato tradizioni
diverse e spiritualità diverse e così hanno mostrato la fecondità della fede, una nella diversità delle sue
espressioni.
Ritorniamo a san Bonaventura. È evidente che l’accento specifico della sua teologia, del quale ho dato
solo un esempio, si spiega a partire dal carisma francescano: il Poverello di Assisi, al di là dei dibattiti
intellettuali del suo tempo, aveva mostrato con tutta la sua vita il primato dell’amore; era un’icona vivente
e innamorata di Cristo e così ha reso presente, nel suo tempo, la figura del Signore – ha convinto i suoi
contemporanei non con le parole, ma con la sua vita. In tutte le opere di san Bonaventura, proprio anche
le opere scientifiche, di scuola, si vede e si trova questa ispirazione francescana; si nota, cioè, che egli
pensa partendo dall’incontro col Poverello d’Assisi. Ma per capire l’elaborazione concreta del tema
‘primato dell’amore’, dobbiamo tenere presente ancora un’altra fonte: gli scritti del cosiddetto Pseudo-
Dionigi […]. I suoi scritti furono tradotti in latino nel IX secolo; al tempo di san Bonaventura – siamo nel
XIII secolo – appariva una nuova tradizione, che provocò l’interesse del Santo e degli altri teologi del suo
secolo. Due cose attiravano in modo particolare l’attenzione di san Bonaventura.
1. Lo Pseudo-Dionigi parla di nove ordini degli angeli, i cui nomi aveva trovato nella Scrittura e poi
aveva sistemato a suo modo, dagli angeli semplici fino ai serafini. San Bonaventura interpreta questi
ordini degli angeli come gradini nell’avvicinamento della creatura a Dio. Così essi possono rappresentare
il cammino umano, la salita verso la comunione con Dio. Per san Bonaventura non c’è alcun dubbio: san
Francesco d’Assisi apparteneva all’ordine serafico, al supremo ordine, al coro dei serafini, cioè: era puro
fuoco di amore. E così avrebbero dovuto essere i francescani. Ma san Bonaventura sapeva bene che
questo ultimo grado di avvicinamento a Dio non può essere inserito in un ordinamento giuridico, ma è
sempre un dono particolare di Dio. Per questo la struttura dell’Ordine francescano è più modesta, più
realista, ma deve, però, aiutare i membri ad avvicinarsi sempre più ad un’esistenza serafica di puro amore.
Mercoledì scorso ho parlato su questa sintesi tra realismo sobrio e radicalità evangelica nel pensiero e
nell’agire di san Bonaventura.
2. San Bonaventura, però, ha trovato negli scritti dello Preuso-Dionigi un altro elemento, per lui ancora
più importante. Mentre per sant’Agostino l’intellectus, il vedere con la ragione ed il cuore, è l’ultima
categoria della conoscenza, lo Pseudo-Dionigi fa ancora un altro passo: nella salita verso Dio si può
arrivare ad un punto in cui la ragione non vede più. Ma nella notte dell’intelletto l’amore vede ancora –
vede quanto rimane inaccessibile per la ragione. L’amore si estende oltre la ragione, vede di più, entra più
profondamente nel mistero di Dio. San Bonaventura fu affascinato da questa visione, che s’incontrava
con la sua spiritualità francescana. Proprio nella notte oscura della Croce appare tutta la grandezza
dell’amore divino; dove la ragione non vede più, vede l’amore. Le parole conclusive del suo ‘Itinerario
della mente in Dio’, ad una lettura superficiale, possono apparire come espressione esagerata di una
devozione senza contenuto; lette, invece, alla luce della teologia della Croce di san Bonaventura, esse
sono un’espressione limpida e realistica della spiritualità francescana: ‘Se ora brami sapere come ciò
avvenga (cioè la salita verso Dio), interroga la grazia, non la dottrina; il desiderio, non l’intelletto; il
gemito della preghiera, non lo studio della lettera; … non la luce, ma il fuoco che tutto infiamma e
trasporta in Dio’ (VII, 6). Tutto questo non è anti-intellettuale e non è anti-razionale: suppone il cammino

54
della ragione, ma lo trascende nell’amore del Cristo crocifisso. Con questa trasformazione della mistica
dello Pseudo-Dionigi, san Bonaventura si pone agli inizi di una grande corrente mistica, che ha molto
elevato e purificato la mente umana: è un vertice nella storia dello spirito umano.
Questa teologia della Croce, nata dall’incontro tra la teologia dello Pseudo-Dionigi e la spiritualità
francescana, non ci deve far dimenticare che san Bonaventura condivide con san Francesco d’Assisi
anche l’amore per il creato, la gioia per la bellezza della creazione di Dio. Cito su questo punto una frase
del primo capitolo dell’‘Itinerario’: ‘Colui… che non vede gli splendori innumerevoli delle creature, è
cieco; colui che non si sveglia per le tante voci, è sordo; colui che per tutte queste meraviglie non loda
Dio, è muto; colui che da tanti segni non si innalza al primo principio, è stolto’ (I, 15). Tutta la creazione
parla ad alta voce di Dio, del Dio buono e bello; del suo amore.
Tutta la nostra vita è quindi per san Bonaventura un ‘itinerario’, un pellegrinaggio – una salita verso Dio.
Ma con le nostre sole forze non possiamo salire verso l’altezza di Dio. Dio stesso deve aiutarci, deve
‘tirarci’ in alto. Perciò è necessaria la preghiera.76

GIOVANNI DUNS SCOTO rappresenta, com’è noto, un ulteriore espressione della scuola
teologica francescana. Così ne parla Benedetto XVI nella sua catechesi del 7 luglio 2010.

Un’altra figura importante nella storia della teologia: si tratta del beato Giovanni Duns Scoto, vissuto alla
fine del secolo XIII. […] Dotato di un’intelligenza brillante e portata alla speculazione - quell’intelligenza
che gli meritò dalla tradizione il titolo di Doctor subtilis, ‘Dottore sottile’- Duns Scoto fu indirizzato agli
studi di filosofia e di teologia presso le celebri Università di Oxford e di Parigi. Conclusa con successo la
formazione, intraprese l’insegnamento della teologia nelle Università di Oxford e di Cambridge, e poi di
Parigi, iniziando a commentare, come tutti i Maestri del tempo, le Sentenze di Pietro Lombardo. Le opere
principali di Duns Scoto rappresentano appunto il frutto maturo di queste lezioni, e prendono il titolo dai
luoghi in cui egli insegnò: Ordinatio (in passato denominata Opus Oxoniense - Oxford), Reportatio
Cantabrigiensis (Cambridge), Reportata Parisiensia (Parigi). A queste sono da aggiungere almeno i
Quodlibeta (o Quaestiones quodlibetales), opera assai importante formata da 21 questioni su vari temi
teologici. Da Parigi si allontanò quando, scoppiato un grave conflitto tra il re Filippo IV il Bello e il Papa
Bonifacio VIII, Duns Scoto preferì l’esilio volontario, piuttosto che firmare un documento ostile al
Sommo Pontefice, come il re aveva imposto a tutti i religiosi. Così – per amore alla Sede di Pietro –,
insieme ai Frati francescani, abbandonò il Paese. […] Tuttavia, i rapporti fra il re di Francia e il
successore di Bonifacio VIII ritornarono ben presto amichevoli, e nel 1305 Duns Scoto poté rientrare a
Parigi per insegnarvi la teologia con il titolo di Magister regens. Successivamente, i Superiori lo
inviarono a Colonia come professore dello Studio teologico francescano, ma egli morì l’8 novembre del
1308, a soli 43 anni di età, lasciando, comunque, un numero rilevante di opere.
A motivo della fama di santità di cui godeva, il suo culto si diffuse ben presto nell’Ordine francescano e il
Venerabile Giovanni Paolo II volle confermarlo solennemente beato il 20 marzo 1993, definendolo
‘cantore del Verbo incarnato e difensore dell’Immacolata Concezione’. In tale espressione è sintetizzato il
grande contributo che Duns Scoto ha offerto alla storia della teologia.
Anzitutto, egli ha meditato sul Mistero dell’Incarnazione e, a differenza di molti pensatori cristiani del
tempo, ha sostenuto che il Figlio di Dio si sarebbe fatto uomo anche se l’umanità non avesse peccato.
‘Pensare che Dio avrebbe rinunciato a tale opera se Adamo non avesse peccato, - scrive Duns Scoto -
sarebbe del tutto irragionevole! Dico dunque che la caduta non è stata la causa della predestinazione di
Cristo, e che - anche se nessuno fosse caduto, né l’angelo né l’uomo - in questa ipotesi Cristo sarebbe
stato ancora predestinato nella stessa maniera’ (Reportata Parisiensia, in III Sent., d. 7, 4). Questo
pensiero nasce perché per Duns Scoto l’Incarnazione del Figlio di Dio, progettata sin dall’eternità da
parte di Dio Padre nel suo piano di amore, è il compimento della creazione, e rende possibile ad ogni
creatura, in Cristo e per mezzo di Lui, di essere colmata di grazia, e dare lode e gloria a Dio nell’eternità.
Duns Scoto, pur consapevole che, in realtà, a causa del peccato originale, Cristo ci ha redenti con la sua
Passione, Morte e Risurrezione, ribadisce che l’Incarnazione è l’opera più grande e più bella di tutta la
storia della salvezza, e che essa non è condizionata da nessun fatto contingente. […]
Cari fratelli e sorelle, questa visione teologica, fortemente “cristocentrica”, ci apre alla contemplazione,
allo stupore e alla gratitudine: Cristo è il centro della storia e del cosmo, è Colui che dà senso, dignità e
valore alla nostra vita! Come a Manila il Papa Paolo VI, anch’io oggi vorrei gridare al mondo: “[Cristo] è
il rivelatore di Dio invisibile, è il primogenito di ogni creatura, è il fondamento di ogni cosa; Egli è il
Maestro dell’umanità, è il Redentore; Egli è nato, è morto, è risorto per noi; Egli è il centro della storia e
del mondo; Egli è Colui che ci conosce e che ci ama; Egli è il compagno e l’amico della nostra vita... Io
non finirei più di parlare di Lui’ (Omelia, 29 novembre 1970). […]

76
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 17 marzo 2010).
55
Infine, Duns Scoto ha sviluppato un punto a cui la modernità è molto sensibile. Si tratta del tema della
libertà e del suo rapporto con la volontà e con l’intelletto. Il nostro autore sottolinea la libertà come
qualità fondamentale della volontà, iniziando una impostazione che valorizza maggiormente quest'ultima.
Purtroppo, in autori successivi al nostro, tale linea di pensiero si sviluppò in un volontarismo in contrasto
con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista. Per san Tommaso d’Aquino la libertà non può
considerarsi una qualità innata della volontà, ma il frutto della collaborazione della volontà e
dell’intelletto. Un’idea della libertà innata e assoluta – come si evolse, appunto, successivamente a Duns
Scoto – collocata nella volontà che precede l’intelletto, sia in Dio che nell’uomo, rischia, infatti, di
condurre all’idea di un Dio che non è legato neppure alla verità e al bene. Il desiderio di salvare l’assoluta
trascendenza e diversità di Dio con un’accentuazione così radicale e impenetrabile della sua volontà, non
tiene conto che il Dio che si è rivelato in Cristo è il Dio ‘logos’, che ha agito e agisce pieno di amore
verso di noi. Certamente l’amore supera la conoscenza ed è capace di percepire sempre di più del
pensiero, ma è sempre l’amore del Dio ‘logos’ (cfr Benedetto XVI, Discorso a Regensburg, Insegnamenti
di Benedetto XVI, II [2006], p. 261). Anche nell’uomo l’idea di libertà assoluta, collocata nella volontà,
dimenticando il nesso con la verità, ignora che la stessa libertà deve essere liberata dei limiti che le
vengono dal peccato. Comunque, la visione scotista non cade in questi estremismi: per Duns Scoto un
atto libero risulta dal concorso di intelletto e volontà e se egli parla di un ‘primato’ della volontà, lo
argomenta proprio perché la volontà segue sempre l’intelletto.77

Se consideriamo ora la tradizione domenicana, è necessario anzitutto riferirci a


SANT’ALBERTO MAGNO, uno dei più grandi maestri della teologia medioevale.
Il titolo di ‘grande’ (magnus), con il quale egli è passato alla storia, indica la vastità e la profondità della
sua dottrina, che egli associò alla santità della vita. Ma già i suoi contemporanei non esitavano ad
attribuirgli titoli eccellenti; un suo discepolo, Ulrico di Strasburgo, lo definì ‘stupore e miracolo della
nostra epoca’.
Nacque in Germania all’inizio del XIII secolo, e ancora molto giovane si recò in Italia, a Padova, sede di
una delle più famose università del Medioevo. Si dedicò allo studio delle cosiddette ‘arti liberali’:
grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, geometria, astronomia e musica, cioè della cultura generale,
manifestando quel tipico interesse per le scienze naturali, che sarebbe diventato ben presto il campo
prediletto della sua specializzazione. Durante il soggiorno a Padova, frequentò la chiesa dei Domenicani,
ai quali poi si unì con la professione dei voti religiosi. […]
Dopo l’ordinazione sacerdotale, i Superiori lo destinarono all’insegnamento in vari centri di studi
teologici annessi ai conventi dei Padri domenicani. Le brillanti qualità intellettuali gli permisero di
perfezionare lo studio della teologia nell’università più celebre dell’epoca, quella di Parigi. Fin da allora
sant’Alberto intraprese quella straordinaria attività di scrittore, che avrebbe poi proseguito per tutta la
vita. […]
Grande uomo di Dio e insigne studioso non solo delle verità della fede, ma di moltissimi altri settori del
sapere; infatti, dando uno sguardo ai titoli delle numerosissime opere, ci si rende conto che la sua cultura
ha qualcosa di prodigioso, e che i suoi interessi enciclopedici lo portarono a occuparsi non solamente di
filosofia e di teologia, come altri contemporanei, ma anche di ogni altra disciplina allora conosciuta, dalla
fisica alla chimica, dall’astronomia alla mineralogia, dalla botanica alla zoologia. Per questo motivo il
Papa Pio XII lo nominò patrono dei cultori delle scienze naturali ed è chiamato anche ‘Doctor universalis’
proprio per la vastità dei suoi interessi e del suo sapere.
Certamente, i metodi scientifici adoperati da sant’Alberto Magno non sono quelli che si sarebbero
affermati nei secoli successivi. Il suo metodo consisteva semplicemente nell’osservazione, nella
descrizione e nella classificazione dei fenomeni studiati, ma così ha aperto la porta per i lavori futuri.
Egli ha ancora molto da insegnare a noi. Soprattutto, sant’Alberto mostra che tra fede e scienza non vi è
opposizione, nonostante alcuni episodi di incomprensione che si sono registrati nella storia. Un uomo di
fede e di preghiera, quale fu sant’Alberto Magno, può coltivare serenamente lo studio delle scienze
naturali e progredire nella conoscenza del micro e del macrocosmo, scoprendo le leggi proprie della
materia, poiché tutto questo concorre ad alimentare la sete e l’amore di Dio. La Bibbia ci parla della
creazione come del primo linguaggio attraverso il quale Dio – che è somma intelligenza – ci rivela
qualcosa di sé. Il libro della Sapienza, per esempio, afferma che i fenomeni della natura, dotati di
grandezza e bellezza, sono come le opere di un artista, attraverso le quali, per analogia, noi possiamo
conoscere l’Autore del creato (cfr Sap. 13,5). Con una similitudine classica nel Medioevo e nel
Rinascimento si può paragonare il mondo naturale a un libro scritto da Dio, che noi leggiamo in base ai
diversi approcci delle scienze (cfr Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia delle
Scienze, 31 Ottobre 2008). Quanti scienziati, infatti, sulla scia di sant’Alberto Magno, hanno portato

77
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 7 luglio 2010).
56
avanti le loro ricerche ispirati da stupore e gratitudine di fronte al mondo che, ai loro occhi di studiosi e di
credenti, appariva e appare come l’opera buona di un Creatore sapiente e amorevole! Lo studio scientifico
si trasforma allora in un inno di lode. Lo aveva ben compreso un grande astrofisico dei nostri tempi, di cui
è stata introdotta la causa di beatificazione, Enrico Medi, il quale scrisse: ‘Oh, voi misteriose galassie ...,
io vi vedo, vi calcolo, vi intendo, vi studio e vi scopro, vi penetro e vi raccolgo. Da voi io prendo la luce e
ne faccio scienza, prendo il moto e ne fo sapienza, prendo lo sfavillio dei colori e ne fo poesia; io prendo
voi stelle nelle mie mani, e tremando nell’unità dell’essere mio vi alzo al di sopra di voi stesse, e in
preghiera vi porgo al Creatore, che solo per mezzo mio voi stelle potete adorare’ (Le opere. Inno alla
creazione).
Sant’Alberto Magno ci ricorda che tra scienza e fede c’è amicizia, e che gli uomini di scienza possono
percorrere, attraverso la loro vocazione allo studio della natura, un autentico e affascinante percorso di
santità.
La sua straordinaria apertura di mente si rivela anche in un’operazione culturale che egli intraprese con
successo, cioè nell’accoglienza e nella valorizzazione del pensiero di Aristotele. Ai tempi di sant’Alberto,
infatti, si stava diffondendo la conoscenza di numerose opere di questo grande filosofo greco vissuto nel
quarto secolo prima di Cristo, soprattutto nell’ambito dell’etica e della metafisica. Esse dimostravano la
forza della ragione, spiegavano con lucidità e chiarezza il senso e la struttura della realtà, la sua
intelligibilità, il valore e il fine delle azioni umane. Sant’Alberto Magno ha aperto la porta per la
recezione completa della filosofia di Aristotele nella filosofia e teologia medioevale, una recezione
elaborata poi in modo definitivo da S. Tommaso. Questa recezione di una filosofia, diciamo, pagana pre-
cristiana fu un’autentica rivoluzione culturale per quel tempo. Eppure, molti pensatori cristiani temevano
la filosofia di Aristotele, la filosofia non cristiana, soprattutto perché essa, presentata dai suoi
commentatori arabi, era stata interpretata in modo da apparire, almeno in alcuni punti, come del tutto
inconciliabile con la fede cristiana. Si poneva cioè un dilemma: fede e ragione sono in contrasto tra loro o
no?
Sta qui uno dei grandi meriti di sant’Alberto: con rigore scientifico studiò le opere di Aristotele, convinto
che tutto ciò che è realmente razionale è compatibile con la fede rivelata nelle Sacre Scritture. In altre
parole, sant’Alberto Magno, ha così contribuito alla formazione di una filosofia autonoma, distinta dalla
teologia e unita con essa solo dall’unità della verità. Così è nata nel XIII secolo una chiara distinzione tra
questi due saperi, filosofia e teologia, che, in dialogo tra di loro, cooperano armoniosamente alla scoperta
dell’autentica vocazione dell’uomo, assetato di verità e di beatitudine: ed è soprattutto la teologia, definita
da sant’Alberto ‘scienza affettiva’, quella che indica all’uomo la sua chiamata alla gioia eterna, una gioia
che sgorga dalla piena adesione alla verità.78

Una speciale importanza viene attribuita da FR a SAN TOMMASO D’AQUINO, che si


caratterizza per quell’indicazione di “armonia tra fede e ragione” che contribuisce a rendere
“perennemente nuovo” il suo pensiero. Un ruolo centrale, all’interno della “operazione
epistemologica” della distinzione chiara tra filosofia e teologia è riconosciuto dall’Enciclica proprio
a lui.

Un posto tutto particolare in questo lungo cammino spetta a san Tommaso, non solo per il contenuto della
sua dottrina, ma anche per il rapporto dialogico che egli seppe instaurare con il pensiero arabo ed ebreo
del suo tempo. In un’epoca in cui i pensatori cristiani riscoprivano i tesori della filosofia antica, e più
direttamente aristotelica, egli ebbe il grande merito di porre in primo piano l’armonia che intercorre tra la
ragione e la fede. La luce della ragione e quella della fede provengono entrambe da Dio, egli
argomentava; perciò non possono contraddirsi tra loro.
Più radicalmente, Tommaso riconosce che la natura, oggetto proprio della filosofia, può contribuire alla
comprensione della rivelazione divina. La fede, dunque, non teme la ragione, ma la ricerca e in essa
confida. Come la grazia suppone la natura e la porta a compimento, così la fede suppone e perfeziona la
ragione. Quest’ultima, illuminata dalla fede, viene liberata dalle fragilità e dai limiti derivanti dalla
disobbedienza del peccato e trova la forza necessaria per elevarsi alla conoscenza del mistero di Dio Uno
e Trino. Pur sottolineando con forza il carattere soprannaturale della fede, il Dottore Angelico non ha
dimenticato il valore della sua ragionevolezza; ha saputo, anzi, scendere in profondità e precisare il senso
di tale ragionevolezza. La fede, infatti, è in qualche modo ‘esercizio del pensiero’; la ragione dell’uomo
non si annulla né si avvilisce dando l’assenso ai contenuti di fede; questi sono in ogni caso raggiunti con
scelta libera e consapevole.
È per questo motivo che, giustamente, san Tommaso è sempre stato proposto dalla Chiesa come maestro
di pensiero e modello del retto modo di fare teologia. Mi piace ricordare, in questo contesto, quanto ha

78
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 24 marzo 2010).
57
scritto il mio Predecessore, il Servo di Dio Paolo VI, in occasione del settimo centenario della morte del
Dottore Angelico: ‘Senza dubbio, Tommaso possedette al massimo grado il coraggio della verità, la
libertà di spirito nell’affrontare i nuovi problemi, l’onestà intellettuale di chi non ammette la
contaminazione del cristianesimo con la filosofia profana, ma nemmeno il rifiuto aprioristico di questa.
Perciò, egli passò alla storia del pensiero cristiano come un pioniere sul nuovo cammino della filosofia e
della cultura universale. Il punto centrale e quasi il nocciolo della soluzione che egli diede al problema del
nuovo confronto tra la ragione e la fede con la genialità del suo intuito profetico, è stato quello della
conciliazione tra la secolarità del mondo e la radicalità del Vangelo, sfuggendo così alla innaturale
tendenza negatrice del mondo e dei suoi valori, senza peraltro venire meno alle supreme e inflessibili
esigenze dell’ordine soprannaturale’.
Tra le grandi intuizioni di san Tommaso vi è anche quella relativa al ruolo che lo Spirito Santo svolge nel
far maturare in sapienza la scienza umana. Fin dalle prime pagine della sua Summa Theologiae l’Aquinate
volle mostrare il primato di quella sapienza che è dono dello Spirito Santo ed introduce alla conoscenza
delle realtà divine. La sua teologia permette di comprendere la peculiarità della sapienza nel suo stretto
legame con la fede e la conoscenza divina. Essa conosce per connaturalità, presuppone la fede e arriva a
formulare il suo retto giudizio a partire dalla verità della fede stessa: ‘La sapienza elencata tra i doni dello
Spirito Santo è distinta da quella che è posta tra le virtù intellettuali. Infatti quest’ultima si acquista con lo
studio: quella invece ‘viene dall’alto’, come si esprime san Giacomo. Così pure è distinta dalla fede.
Poiché la fede accetta la verità divina così com’è, invece è proprio del dono di sapienza giudicare secondo
la verità divina’.
La priorità riconosciuta a questa sapienza, tuttavia, non fa dimenticare al Dottore Angelico la presenza di
altre due complementari forme di sapienza: quella filosofica, che si fonda sulla capacità che l’intelletto
ha, entro i limiti che gli sono connaturali, di indagare la realtà; e quella teologica, che si fonda sulla
Rivelazione ed esamina i contenuti della fede, raggiungendo il mistero stesso di Dio.79

Papa Benedetto XVI si è soffermato su Tommaso d’Aquino in occasione di tre catechesi


tenute nel mese di giugno 2010. Ne riportiamo qui i testi a nostro avviso più significativi.
Colui che la Chiesa chiama il Doctor communis: […] san Tommaso d’Aquino. Il mio venerato
Predecessore, il Papa Giovanni Paolo II, nella sua Enciclica Fides et ratio ha ricordato che san Tommaso
‘è sempre stato proposto dalla Chiesa come maestro di pensiero e modello del retto modo di fare teologia’
(n. 43). Non sorprende che, dopo sant’Agostino, tra gli scrittori ecclesiastici menzionati nel Catechismo
della Chiesa Cattolica, san Tommaso venga citato più di ogni altro, per ben sessantuno volte! Egli è stato
chiamato anche il Doctor Angelicus, forse per le sue virtù, in particolare la sublimità del pensiero e la
purezza della vita. […]
In quel periodo, la cultura del mondo latino era stata profondamente stimolata dall’incontro con le opere
di Aristotele, che erano rimaste ignote per molto tempo. Si trattava di scritti sulla natura della conoscenza,
sulle scienze naturali, sulla metafisica, sull’anima e sull’etica, ricchi di informazioni e di intuizioni che
apparivano valide e convincenti. Era tutta una visione completa del mondo sviluppata senza e prima di
Cristo, con la pura ragione, e sembrava imporsi alla ragione come ‘la’ visione stessa; era, quindi, un
incredibile fascino per i giovani vedere e conoscere questa filosofia. Molti accolsero con entusiasmo, anzi
con entusiasmo acritico, questo enorme bagaglio del sapere antico, che sembrava poter rinnovare
vantaggiosamente la cultura, aprire totalmente nuovi orizzonti. Altri, però, temevano che il pensiero
pagano di Aristotele fosse in opposizione alla fede cristiana, e si rifiutavano di studiarlo. Si incontrarono
due culture: la cultura pre-cristiana di Aristotele, con la sua radicale razionalità, e la classica cultura
cristiana. Certi ambienti erano condotti al rifiuto di Aristotele anche dalla presentazione che di tale
filosofo era stata fatta dai commentatori arabi Avicenna e Averroè. Infatti, furono essi ad aver trasmesso
al mondo latino la filosofia aristotelica. Per esempio, questi commentatori avevano insegnato che gli
uomini non dispongono di un’intelligenza personale, ma che vi è un unico intelletto universale, una
sostanza spirituale comune a tutti, che opera in tutti come ‘unica’: quindi una depersonalizzazione
dell'uomo. Un altro punto discutibile veicolato dai commentatori arabi era quello secondo il quale il
mondo è eterno come Dio. Si scatenarono comprensibilmente dispute a non finire nel mondo universitario
e in quello ecclesiastico. La filosofia aristotelica si andava diffondendo addirittura tra la gente semplice.
Tommaso d’Aquino, alla scuola di Alberto Magno, svolse un’operazione di fondamentale importanza per
la storia della filosofia e della teologia, direi per la storia della cultura: studiò a fondo Aristotele e i suoi
interpreti, procurandosi nuove traduzioni latine dei testi originali in greco. Così non si appoggiava più
solo ai commentatori arabi, ma poteva leggere personalmente i testi originali, e commentò gran parte
delle opere aristoteliche, distinguendovi ciò che era valido da ciò che era dubbio o da rifiutare del tutto,

79
FR., nn. 43-44.
58
mostrando la consonanza con i dati della Rivelazione cristiana e utilizzando largamente e acutamente il
pensiero aristotelico nell’esposizione degli scritti teologici che compose.
In definitiva, Tommaso d’Aquino mostrò che tra fede cristiana e ragione sussiste una naturale armonia. E
questa è stata la grande opera di Tommaso, che in quel momento di scontro tra due culture - quel
momento nel quale sembrava che la fede dovesse arrendersi davanti alla ragione - ha mostrato che esse
vanno insieme, che quanto appariva ragione non compatibile con la fede non era ragione, e quanto
appariva fede non era fede, in quanto opposta alla vera razionalità; così egli ha creato una nuova sintesi,
che ha formato la cultura dei secoli seguenti.
Per le sue eccellenti doti intellettuali, Tommaso fu richiamato a Parigi come professore di teologia sulla
cattedra domenicana. Qui iniziò anche la sua produzione letteraria, che proseguì fino alla morte, e che ha
del prodigioso: commenti alla Sacra Scrittura, perché il professore di teologia era soprattutto interprete
della Scrittura, commenti agli scritti di Aristotele, opere sistematiche poderose, tra cui eccelle la Summa
Theologiae, trattati e discorsi su vari argomenti.
Nel 1269 fu richiamato a Parigi per un secondo ciclo di insegnamento. Gli studenti - si può capire - erano
entusiasti delle sue lezioni. Un suo ex-allievo dichiarò che una grandissima moltitudine di studenti
seguiva i corsi di Tommaso, tanto che le aule riuscivano a stento a contenerli e aggiungeva, con
un’annotazione personale, che ‘ascoltarlo era per lui una felicità profonda’. L’interpretazione di Aristotele
data da Tommaso non era accettata da tutti, ma persino i suoi avversari in campo accademico, come
Goffredo di Fontaines, ad esempio, ammettevano che la dottrina di frate Tommaso era superiore ad altre
per utilità e valore e serviva da correttivo a quelle di tutti gli altri dottori. Forse anche per sottrarlo alle
vivaci discussioni in atto, i Superiori lo inviarono ancora una volta a Napoli, per essere a disposizione del
re Carlo I, che intendeva riorganizzare gli studi universitari.
Oltre che allo studio e all’insegnamento, Tommaso si dedicò pure alla predicazione al popolo. E anche il
popolo volentieri andava ad ascoltarlo. Direi che è veramente una grande grazia quando i teologi sanno
parlare con semplicità e fervore ai fedeli. Il ministero della predicazione, d’altra parte, aiuta gli stessi
studiosi di teologia a un sano realismo pastorale, e arricchisce di vivaci stimoli la loro ricerca.80

Lo studio del suo pensiero è stato esplicitamente raccomandato dal Concilio Vaticano II in due
documenti, il decreto Optatam totius, sulla formazione al sacerdozio, e la dichiarazione Gravissimum
educationis, che tratta dell’educazione cristiana. Del resto, già nel 1880 il Papa Leone XIII, suo grande
estimatore e promotore di studi tomistici, volle dichiarare san Tommaso Patrono delle Scuole e delle
Università Cattoliche.
Il motivo principale di questo apprezzamento risiede non solo nel contenuto del suo insegnamento, ma
anche nel metodo da lui adottato, soprattutto la sua nuova sintesi e distinzione tra filosofia e teologia. I
Padri della Chiesa si trovavano confrontati con diverse filosofie di tipo platonico, nelle quali si presentava
una visione completa del mondo e della vita, includendo la questione di Dio e della religione. Nel
confronto con queste filosofie, loro stessi avevano elaborato una visione completa della realtà, partendo
dalla fede e usando elementi del platonismo, per rispondere alle questioni essenziali degli uomini. Questa
visione, basata sulla rivelazione biblica ed elaborata con un platonismo corretto alla luce della fede, essi
la chiamavano la ‘filosofia nostra’. La parola ‘filosofia’ non era quindi espressione di un sistema
puramente razionale e, come tale, distinto dalla fede, ma indicava una visione complessiva della realtà,
costruita nella luce della fede, ma fatta propria e pensata dalla ragione; una visione che, certo, andava
oltre le capacità proprie della ragione, ma che, come tale, era anche soddisfacente per essa. Per san
Tommaso l'incontro con la filosofia pre-cristiana di Aristotele (morto circa nel 322 a.C.) apriva una
prospettiva nuova. La filosofia aristotelica era, ovviamente, una filosofia elaborata senza conoscenza
dell’Antico e del Nuovo Testamento, una spiegazione del mondo senza rivelazione, per la sola ragione. E
questa razionalità conseguente era convincente. Così la vecchia forma della ‘filosofia nostra’ dei Padri
non funzionava più. La relazione tra filosofia e teologia, tra fede e ragione, era da ripensare. Esisteva una
‘filosofia’ completa e convincente in se stessa, una razionalità precedente la fede, e poi la ‘teologia’, un
pensare con la fede e nella fede. La questione pressante era questa: il mondo della razionalità, la filosofia
pensata senza Cristo, e il mondo della fede sono compatibili? Oppure si escludono? Non mancavano
elementi che affermavano l'incompatibilità tra i due mondi, ma san Tommaso era fermamente convinto
della loro compatibilità - anzi che la filosofia elaborata senza conoscenza di Cristo quasi aspettava la luce
di Gesù per essere completa. Questa è stata la grande ‘sorpresa’ di san Tommaso, che ha determinato il
suo cammino di pensatore.
Mostrare questa indipendenza di filosofia e teologia e, nello stesso tempo, la loro reciproca relazionalità è
stata la missione storica del grande maestro. E così si capisce che, nel XIX secolo, quando si dichiarava
fortemente l'incompatibilità tra ragione moderna e fede, Papa Leone XIII indicò san Tommaso come
guida nel dialogo tra l'una e l'altra. Nel suo lavoro teologico, san Tommaso suppone e concretizza questa

80
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 2 giugno 2010).
59
relazionalità. La fede consolida, integra e illumina il patrimonio di verità che la ragione umana acquisisce.
La fiducia che san Tommaso accorda a questi due strumenti della conoscenza – la fede e la ragione – può
essere ricondotta alla convinzione che entrambe provengono dall’unica sorgente di ogni verità, il Logos
divino, che opera sia nell’ambito della creazione, sia in quello della redenzione.
Insieme con l'accordo tra ragione e fede, si deve riconoscere, d'altra parte, che esse si avvalgono di
procedimenti conoscitivi differenti. La ragione accoglie una verità in forza della sua evidenza intrinseca,
mediata o immediata; la fede, invece, accetta una verità in base all’autorità della Parola di Dio che si
rivela. Scrive san Tommaso al principio della sua Summa Theologiae: ‘Duplice è l’ordine delle scienze;
alcune procedono da principi conosciuti mediante il lume naturale della ragione, come la matematica, la
geometria e simili; altre procedono da principi conosciuti mediante una scienza superiore: come la
prospettiva procede da principi conosciuti mediante la geometria e la musica da principi conosciuti
mediante la matematica. E in questo modo la sacra dottrina (cioè la teologia) è scienza perché procede dai
principi conosciuti attraverso il lume di una scienza superiore, cioè la scienza di Dio e dei santi’ (I, q. 1, a.
2).
Questa distinzione assicura l’autonomia tanto delle scienze umane, quanto delle scienze teologiche. Essa
però non equivale a separazione, ma implica piuttosto una reciproca e vantaggiosa collaborazione. La
fede, infatti, protegge la ragione da ogni tentazione di sfiducia nelle proprie capacità, la stimola ad aprirsi
a orizzonti sempre più vasti, tiene viva in essa la ricerca dei fondamenti e, quando la ragione stessa si
applica alla sfera soprannaturale del rapporto tra Dio e uomo, arricchisce il suo lavoro. Secondo san
Tommaso, per esempio, la ragione umana può senz’altro giungere all’affermazione dell’esistenza di un
unico Dio, ma solo la fede, che accoglie la Rivelazione divina, è in grado di attingere al mistero
dell’Amore di Dio Uno e Trino.
D’altra parte, non è soltanto la fede che aiuta la ragione. Anche la ragione, con i suoi mezzi, può fare
qualcosa di importante per la fede, rendendole un triplice servizio che san Tommaso riassume nel
proemio del suo commento al De Trinitate di Boezio: ‘Dimostrare i fondamenti della fede; spiegare
mediante similitudini le verità della fede; respingere le obiezioni che si sollevano contro la fede’ (q. 2, a.
2). Tutta la storia della teologia è, in fondo, l’esercizio di questo impegno dell’intelligenza, che mostra
l’intelligibilità della fede, la sua articolazione e armonia interna, la sua ragionevolezza e la sua capacità di
promuovere il bene dell’uomo. La correttezza dei ragionamenti teologici e il loro reale significato
conoscitivo si basano sul valore del linguaggio teologico, che è, secondo san Tommaso, principalmente
un linguaggio analogico. La distanza tra Dio, il Creatore, e l'essere delle sue creature è infinita; la
dissimilitudine è sempre più grande che la similitudine (cfr DS 806). Ciononostante, in tutta la differenza
tra Creatore e creatura, esiste un'analogia tra l'essere creato e l'essere del Creatore, che ci permette di
parlare con parole umane su Dio.
San Tommaso ha fondato la dottrina dell’analogia, oltre che su argomentazioni squisitamente filosofiche,
anche sul fatto che con la Rivelazione Dio stesso ci ha parlato e ci ha, dunque, autorizzato a parlare di
Lui. Ritengo importante richiamare questa dottrina. Essa, infatti, ci aiuta a superare alcune obiezioni
dell’ateismo contemporaneo, il quale nega che il linguaggio religioso sia fornito di un significato
oggettivo, e sostiene invece che abbia solo un valore soggettivo o semplicemente emotivo. Questa
obiezione risulta dal fatto che il pensiero positivistico è convinto che l'uomo non conosce l'essere, ma solo
le funzioni sperimentabili della realtà. Con san Tommaso e con la grande tradizione filosofica noi siamo
convinti, che, in realtà, l'uomo non conosce solo le funzioni, oggetto delle scienze naturali, ma conosce
qualcosa dell'essere stesso - per esempio conosce la persona, il Tu dell'altro, e non solo l'aspetto fisico e
biologico del suo essere.
Alla luce di questo insegnamento di san Tommaso, la teologia afferma che, per quanto limitato, il
linguaggio religioso è dotato di senso - perché tocchiamo l’essere -, come una freccia che si dirige verso
la realtà che significa. Questo accordo fondamentale tra ragione umana e fede cristiana è ravvisato in un
altro principio basilare del pensiero dell’Aquinate: la Grazia divina non annulla, ma suppone e perfeziona
la natura umana. Quest’ultima, infatti, anche dopo il peccato, non è completamente corrotta, ma ferita e
indebolita. La Grazia, elargita da Dio e comunicata attraverso il Mistero del Verbo incarnato, è un dono
assolutamente gratuito con cui la natura viene guarita, potenziata e aiutata a perseguire il desiderio innato
nel cuore di ogni uomo e di ogni donna: la felicità. Tutte le facoltà dell’essere umano vengono purificate,
trasformate ed elevate dalla Grazia divina.
Un’importante applicazione di questa relazione tra la natura e la Grazia si ravvisa nella teologia morale di
san Tommaso d’Aquino, che risulta di grande attualità. Al centro del suo insegnamento in questo campo,
egli pone la legge nuova, che è la legge dello Spirito Santo. Con uno sguardo profondamente evangelico,
insiste sul fatto che questa legge è la Grazia dello Spirito Santo data a tutti coloro che credono in Cristo.
A tale Grazia si unisce l’insegnamento scritto e orale delle verità dottrinali e morali, trasmesso dalla
Chiesa. San Tommaso, sottolineando il ruolo fondamentale, nella vita morale, dell’azione dello Spirito
Santo, della Grazia, da cui scaturiscono le virtù teologali e morali, fa comprendere che ogni cristiano può
raggiungere le alte prospettive del ‘Sermone della Montagna’ se vive un rapporto autentico di fede in

60
Cristo, se si apre all’azione del suo Santo Spirito. Però – aggiunge l’Aquinate – ‘anche se la grazia è più
efficace della natura, tuttavia la natura è più essenziale per l’uomo’ (Summa Theologiae, I-II, q. 94, a. 6,
ad 2), per cui, nella prospettiva morale cristiana, c’è un posto per la ragione, la quale è capace di
discernere la legge morale naturale. La ragione può riconoscerla considerando ciò che è bene fare e ciò
che è bene evitare per il conseguimento di quella felicità che sta a cuore a ciascuno, e che impone anche
una responsabilità verso gli altri, e, dunque, la ricerca del bene comune. In altre parole, le virtù dell’uomo,
teologali e morali, sono radicate nella natura umana. La Grazia divina accompagna, sostiene e spinge
l’impegno etico ma, di per sé, secondo san Tommaso, tutti gli uomini, credenti e non credenti, sono
chiamati a riconoscere le esigenze della natura umana espresse nella legge naturale e ad ispirarsi ad essa
nella formulazione delle leggi positive, quelle cioè emanate dalle autorità civili e politiche per regolare la
convivenza umana.
Quando la legge naturale e la responsabilità che essa implica sono negate, si apre drammaticamente la via
al relativismo etico sul piano individuale e al totalitarismo dello Stato sul piano politico. La difesa dei
diritti universali dell’uomo e l’affermazione del valore assoluto della dignità della persona postulano un
fondamento. Non è proprio la legge naturale questo fondamento, con i valori non negoziabili che essa
indica? Il Venerabile Giovanni Paolo II scriveva nella sua Enciclica Evangelium vitae parole che
rimangono di grande attualità: ‘Urge dunque, per l'avvenire della società e lo sviluppo di una sana
democrazia, riscoprire l'esistenza di valori umani e morali essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità
stessa dell'essere umano, ed esprimono e tutelano la dignità della persona: valori, pertanto, che nessun
individuo, nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere, ma
dovranno solo riconoscere, rispettare e promuovere’ (n. 71).
In conclusione, Tommaso ci propone un concetto della ragione umana largo e fiducioso: largo perché non
è limitato agli spazi della cosiddetta ragione empirico-scientifica, ma aperto a tutto l’essere e quindi anche
alle questioni fondamentali e irrinunciabili del vivere umano; e fiducioso perché la ragione umana,
soprattutto se accoglie le ispirazioni della fede cristiana, è promotrice di una civiltà che riconosce la
dignità della persona, l'intangibilità dei suoi diritti e la cogenza dei suoi doveri. Non sorprende che la
dottrina circa la dignità della persona, fondamentale per il riconoscimento dell’inviolabilità dei diritti
dell’uomo, sia maturata in ambienti di pensiero che hanno raccolto l’eredità di san Tommaso d’Aquino, il
quale aveva un concetto altissimo della creatura umana. La definì, con il suo linguaggio rigorosamente
filosofico, come ‘ciò che di più perfetto si trova in tutta la natura, cioè un soggetto sussistente in una
natura razionale’ (Summa Theologiae, Ia, q. 29, a. 3).81

Anche a più di settecento anni dopo la sua morte, possiamo imparare molto da lui. Lo ricordava anche il
mio Predecessore, il Papa Paolo VI, che, in un discorso tenuto a Fossanova il 14 settembre 1974, in
occasione del settimo centenario della morte di san Tommaso, si domandava: ‘Maestro Tommaso, quale
lezione ci puoi dare?’. E rispondeva così: ‘la fiducia nella verità del pensiero religioso cattolico, quale da
lui fu difeso, esposto, aperto alla capacità conoscitiva della mente umana’ (Insegnamenti di Paolo VI, XII
[1974], pp. 833-834). E, nello stesso giorno, ad Aquino, riferendosi sempre a san Tommaso, affermava:
‘tutti, quanti siamo figli fedeli della Chiesa possiamo e dobbiamo, almeno in qualche misura, essere suoi
discepoli!’ (Ibid., p. 836).
Mettiamoci dunque anche noi alla scuola di san Tommaso e del suo capolavoro, la Summa Theologiae.
Essa è rimasta incompiuta, e tuttavia è un’opera monumentale: contiene 512 questioni e 2669 articoli. Si
tratta di un ragionamento serrato, in cui l’applicazione dell’intelligenza umana ai misteri della fede
procede con chiarezza e profondità, intrecciando domande e risposte, nelle quali san Tommaso
approfondisce l’insegnamento che viene dalla Sacra Scrittura e dai Padri della Chiesa, soprattutto da
sant’Agostino. In questa riflessione, nell’incontro con vere domande del suo tempo, che sono anche
spesso domande nostre, san Tommaso, utilizzando anche il metodo e il pensiero dei filosofi antichi, in
particolare di Aristotele, arriva così a formulazioni precise, lucide e pertinenti delle verità di fede, dove la
verità è dono della fede, risplende e diventa accessibile per noi, per la nostra riflessione. Tale sforzo, però,
della mente umana – ricorda l’Aquinate con la sua stessa vita – è sempre illuminato dalla preghiera, dalla
luce che viene dall’Alto. Solo chi vive con Dio e con i misteri può anche capire che cosa essi dicono.
Nella Summa di Teologia, san Tommaso parte dal fatto che ci sono tre diversi modi dell’essere e
dell'essenza di Dio: Dio esiste in se stesso, è il principio e la fine di tutte le cose, per cui tutte le creature
procedono e dipendono da Lui; poi Dio è presente attraverso la sua Grazia nella vita e nell’attività del
cristiano, dei santi; infine, Dio è presente in modo del tutto speciale nella Persona di Cristo unito qui
realmente con l'uomo Gesù, e operante nei Sacramenti, che scaturiscono dalla sua opera redentrice.
Perciò, la struttura di questa monumentale opera (cfr. Jean-Pierre Torrell, La «Summa» di San Tommaso,
Milano 2003, pp. 29-75), una ricerca con ‘sguardo teologico’ della pienezza di Dio (cfr. Summa
Theologiae, Ia, q. 1, a. 7), è articolata in tre parti, ed è illustrata dallo stesso Doctor Communis – san

81
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 16 giugno 2010).
61
Tommaso - con queste parole: ‘Lo scopo principale della sacra dottrina è quello di far conoscere Dio, e
non soltanto in se stesso, ma anche in quanto è principio e fine delle cose, e specialmente della creatura
ragionevole. Nell’intento di esporre questa dottrina, noi tratteremo per primo di Dio; per secondo del
movimento della creatura verso Dio; e per terzo del Cristo, il quale, in quanto uomo, è per noi via per
ascendere a Dio’ (Ibid., I, q. 2). È un circolo: Dio in se stesso, che esce da se stesso e ci prende per mano,
così che con Cristo ritorniamo a Dio, siamo uniti a Dio, e Dio sarà tutto in tutti.
La prima parte della Summa Theologiae indaga dunque su Dio in se stesso, sul mistero della Trinità e
sull’attività creatrice di Dio. In questa parte troviamo anche una profonda riflessione sulla realtà autentica
dell’essere umano in quanto uscito dalle mani creatrici di Dio, frutto del suo amore. Da una parte siamo
un essere creato, dipendente, non veniamo da noi stessi; ma, dall’altra, abbiamo una vera autonomia, così
che siamo non solo qualcosa di apparente — come dicono alcuni filosofi platonici — ma una realtà voluta
da Dio come tale, e con valore in se stessa.
Nella seconda parte san Tommaso considera l’uomo, spinto dalla Grazia, nella sua aspirazione a
conoscere e ad amare Dio per essere felice nel tempo e nell’eternità. Per prima cosa, l’Autore presenta i
principi teologici dell’agire morale, studiando come, nella libera scelta dell’uomo di compiere atti buoni,
si integrano la ragione, la volontà e le passioni, a cui si aggiunge la forza che dona la Grazia di Dio
attraverso le virtù e i doni dello Spirito Santo, come pure l’aiuto che viene offerto anche dalla legge
morale. Quindi l'essere umano è un essere dinamico che cerca se stesso, cerca di divenire se stesso e
cerca, in questo senso, di compiere atti che lo costruiscono, lo fanno veramente uomo; e qui entra la legge
morale, entra la Grazia e la propria ragione, la volontà e le passioni. Su questo fondamento san Tommaso
delinea la fisionomia dell’uomo che vive secondo lo Spirito e che diventa, così, un’icona di Dio. Qui
l’Aquinate si sofferma a studiare le tre virtù teologali - fede, speranza e carità -, seguite dall’esame acuto
di più di cinquanta virtù morali, organizzate attorno alle quattro virtù cardinali - la prudenza, la giustizia,
la temperanza e la fortezza. Termina poi con la riflessione sulle diverse vocazioni nella Chiesa.
Nella terza parte della Summa, san Tommaso studia il Mistero di Cristo - la via e la verità - per mezzo del
quale noi possiamo ricongiungerci a Dio Padre. In questa sezione scrive pagine pressoché insuperate sul
Mistero dell’Incarnazione e della Passione di Gesù, aggiungendo poi un’ampia trattazione sui sette
Sacramenti, perché in essi il Verbo divino incarnato estende i benefici dell’Incarnazione per la nostra
salvezza, per il nostro cammino di fede verso Dio e la vita eterna, rimane materialmente quasi presente
con le realtà della creazione, ci tocca così nell'intimo.
Parlando dei Sacramenti, san Tommaso si sofferma in modo particolare sul Mistero dell’Eucaristia, per il
quale ebbe una grandissima devozione, al punto che, secondo gli antichi biografi, era solito accostare il
suo capo al Tabernacolo, come per sentire palpitare il Cuore divino e umano di Gesù. In una sua opera di
commento alla Scrittura, san Tommaso ci aiuta a capire l’eccellenza del Sacramento dell’Eucaristia,
quando scrive: ‘Essendo l’Eucaristia il sacramento della Passione di nostro Signore, contiene in sé Gesù
Cristo che patì per noi. Pertanto tutto ciò che è effetto della Passione di nostro Signore, è anche effetto di
questo sacramento, non essendo esso altro che l’applicazione in noi della Passione del Signore’ (In
Ioannem, c.6, lect. 6, n. 963). Comprendiamo bene perché san Tommaso e altri santi abbiano celebrato la
Santa Messa versando lacrime di compassione per il Signore, che si offre in sacrificio per noi, lacrime di
gioia e di gratitudine. […]
Quanto san Tommaso ha illustrato con rigore scientifico nelle sue opere teologiche maggiori, come
appunto la Summa Theologiae, anche la Summa contra Gentiles è stato esposto anche nella sua
predicazione, rivolta agli studenti e ai fedeli. Nel 1273, un anno prima della sua morte, durante l’intera
Quaresima, egli tenne delle prediche nella chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli. Il contenuto di
quei sermoni è stato raccolto e conservato: sono gli Opuscoli in cui egli spiega il Simbolo degli Apostoli,
interpreta la preghiera del Padre Nostro, illustra il Decalogo e commenta l’Ave Maria. Il contenuto della
predicazione del Doctor Angelicus corrisponde quasi del tutto alla struttura del Catechismo della Chiesa
Cattolica. Infatti, nella catechesi e nella predicazione, in un tempo come il nostro di rinnovato impegno
per l’evangelizzazione, non dovrebbero mai mancare questi argomenti fondamentali: ciò che noi
crediamo, ed ecco il Simbolo della fede; ciò che noi preghiamo, ed ecco il Padre Nostro e l’Ave Maria; e
ciò che noi viviamo come ci insegna la Rivelazione biblica, ed ecco la legge dell’amore di Dio e del
prossimo e i Dieci Comandamenti, come esplicazione di questo mandato dell'amore.
Vorrei proporre qualche esempio del contenuto, semplice, essenziale e convincente, dell’insegnamento di
san Tommaso. Nel suo Opuscolo sul Simbolo degli Apostoli egli spiega il valore della fede. Per mezzo di
essa, dice, l’anima si unisce a Dio, e si produce come un germoglio di vita eterna; la vita riceve un
orientamento sicuro, e noi superiamo agevolmente le tentazioni. A chi obietta che la fede è una stoltezza,
perché fa credere in qualcosa che non cade sotto l’esperienza dei sensi, san Tommaso offre una risposta
molto articolata, e ricorda che questo è un dubbio inconsistente, perché l’intelligenza umana è limitata e
non può conoscere tutto. Solo nel caso in cui noi potessimo conoscere perfettamente tutte le cose visibili e
invisibili, allora sarebbe un’autentica stoltezza accettare delle verità per pura fede. Del resto, è
impossibile vivere, osserva san Tommaso, senza fidarsi dell’esperienza altrui, là dove la personale

62
conoscenza non arriva. È ragionevole dunque prestare fede a Dio che si rivela e alla testimonianza degli
Apostoli: essi erano pochi, semplici e poveri, affranti a motivo della Crocifissione del loro Maestro;
eppure molte persone sapienti, nobili e ricche si sono convertite in poco tempo all’ascolto della loro
predicazione. Si tratta, in effetti, di un fenomeno storicamente prodigioso, a cui difficilmente si può dare
altra ragionevole risposta, se non quella dell’incontro degli Apostoli con il Signore Risorto.
Commentando l’articolo del Simbolo sull’Incarnazione del Verbo divino, san Tommaso fa alcune
considerazioni. Afferma che la fede cristiana, considerando il mistero dell’Incarnazione, viene ad essere
rafforzata; la speranza si eleva più fiduciosa, al pensiero che il Figlio di Dio è venuto tra noi, come uno di
noi, per comunicare agli uomini la propria divinità; la carità è ravvivata, perché non vi è segno più
evidente dell’amore di Dio per noi, quanto vedere il Creatore dell’universo farsi egli stesso creatura, uno
di noi. Infine, considerando il mistero dell’Incarnazione di Dio, sentiamo infiammarsi il nostro desiderio
di raggiungere Cristo nella gloria. Adoperando un semplice ed efficace paragone, san Tommaso osserva:
‘Se il fratello di un re stesse lontano, certo bramerebbe di potergli vivere accanto. Ebbene, Cristo ci è
fratello: dobbiamo quindi desiderare la sua compagnia, diventare un solo cuore con lui’ (Opuscoli
teologico-spirituali, Roma 1976, p. 64).
Presentando la preghiera del Padre Nostro, san Tommaso mostra che essa è in sé perfetta, avendo tutte e
cinque le caratteristiche che un’orazione ben fatta dovrebbe possedere: fiducioso e tranquillo abbandono;
convenienza del suo contenuto, perché – osserva san Tommaso – ‘è assai difficile saper esattamente cosa
sia opportuno chiedere e cosa no, dal momento che siamo in difficoltà di fronte alla selezione dei
desideri’ (Ibid., p. 120); e poi ordine appropriato delle richieste, fervore di carità e sincerità dell’umiltà.
San Tommaso è stato, come tutti i santi, un grande devoto della Madonna. L’ha definita con un
appellativo stupendo: Triclinium totius Trinitatis, triclinio, cioè luogo dove la Trinità trova il suo riposo,
perché, a motivo dell’Incarnazione, in nessuna creatura, come in Lei, le tre divine Persone inabitano e
provano delizia e gioia a vivere nella sua anima piena di Grazia. Per la sua intercessione possiamo
ottenere ogni aiuto.82

Concludiamo questa presentazione del rapporto tra fede e ragione nei principali autori del
periodo medievale, un tempo di “legittima distinzione” tra filosofia e teologia, con un riferimento a
SANTA ILDEGARDA DI BINGEN, proclamata Dottore della Chiesa universale il 7 ottobre 2012.83 Già
in occasione di due catechesi del marzo 2011 papa Benedetto XVI si era riferito alla sua
interessante figura.

Già negli anni in cui era magistra del monastero di san Disibodo, Ildegarda aveva iniziato a dettare le
visioni mistiche, che riceveva da tempo, al suo consigliere spirituale, il monaco Volmar, e alla sua
segretaria, una consorella a cui era molto affezionata, Richardis di Strade. Come sempre accade nella vita
dei veri mistici, anche Ildegarda volle sottomettersi all’autorità di persone sapienti per discernere l’origine
delle sue visioni, temendo che esse fossero frutto di illusioni e che non venissero da Dio. Si rivolse perciò
alla persona che ai suoi tempi godeva della massima stima nella Chiesa: san Bernardo di Chiaravalle, del
quale ho già parlato in alcune Catechesi. Questi tranquillizzò e incoraggiò Ildegarda. Ma nel 1147 ella
ricevette un’altra approvazione importantissima. Il Papa Eugenio III, che presiedeva un sinodo a Treviri,
lesse un testo dettato da Ildegarda, presentatogli dall’Arcivescovo Enrico di Magonza. Il Papa autorizzò la
mistica a scrivere le sue visioni e a parlare in pubblico. Da quel momento il prestigio spirituale di
Ildegarda crebbe sempre di più, tanto che i contemporanei le attribuirono il titolo di ‘profetessa teutonica’.
È questo, cari amici, il sigillo di un’esperienza autentica dello Spirito Santo, sorgente di ogni carisma: la
persona depositaria di doni soprannaturali non se ne vanta mai, non li ostenta e, soprattutto, mostra totale
obbedienza all’autorità ecclesiale. Ogni dono distribuito dallo Spirito Santo, infatti, è destinato
all’edificazione della Chiesa, e la Chiesa, attraverso i suoi Pastori, ne riconosce l’autenticità.84

82
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 23 giugno 2010).
83
In quella occasione papa Benedetto XVI affermo che «Santa Ildegarda di Bingen, importante figura femminile del
secolo XII, ha offerto il suo prezioso contributo per la crescita della Chiesa del suo tempo, valorizzando i doni ricevuti
da Dio e mostrandosi donna di vivace intelligenza, profonda sensibilità e riconosciuta autorità spirituale. Il Signore la
dotò di spirito profetico e di fervida capacità di discernere i segni dei tempi. Ildegarda nutrì uno spiccato amore per il
creato, coltivò la medicina, la poesia e la musica. Soprattutto conservò sempre un grande e fedele amore per Cristo e per
la sua Chiesa». BENEDETTO XVI, Omelia nella Santa Messa per l’apertura del Sinodo dei Vescovi e la proclamazione a
“Dottore della Chiesa” di San Giovanni d’Avila e di Santa Ildegarda di Bingen (Città del Vaticano, domenica 7 ottobre
2012).
84
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 1 settembre 2010).
63
Le visioni mistiche di Ildegarda sono ricche di contenuti teologici.
Fanno riferimento agli avvenimenti principali della storia della salvezza, e adoperano un linguaggio
principalmente poetico e simbolico. Per esempio, nella sua opera più nota, intitolata Scivias, cioè
‘Conosci le vie’, ella riassume in trentacinque visioni gli eventi della storia della salvezza, dalla creazione
del mondo alla fine dei tempi. Con i tratti caratteristici della sensibilità femminile, Ildegarda, proprio
nella sezione centrale della sua opera, sviluppa il tema del matrimonio mistico tra Dio e l’umanità
realizzato nell’Incarnazione. Sull’albero della Croce si compiono le nozze del Figlio di Dio con la Chiesa,
sua sposa, ricolma di grazie e resa capace di donare a Dio nuovi figli, nell’amore dello Spirito Santo (cfr
Visio tertia: PL 197, 453c).
Già da questi brevi cenni vediamo come anche la teologia possa ricevere un contributo peculiare dalle
donne, perché esse sono capaci di parlare di Dio e dei misteri della fede con la loro peculiare intelligenza
e sensibilità. Incoraggio perciò tutte coloro che svolgono questo servizio a compierlo con profondo spirito
ecclesiale, alimentando la propria riflessione con la preghiera e guardando alla grande ricchezza, ancora
in parte inesplorata, della tradizione mistica medievale, soprattutto a quella rappresentata da modelli
luminosi, come appunto Ildegarda di Bingen.
La mistica renana è autrice anche di altri scritti, due dei quali particolarmente importanti perché riportano,
come lo Scivias, le sue visioni mistiche: sono il Liber vitae meritorum (Libro dei meriti della vita) e il
Liber divinorum operum (Libro delle opere divine), denominato anche De operatione Dei. Nel primo
viene descritta un’unica e poderosa visione di Dio che vivifica il cosmo con la sua forza e con la sua luce.
Ildegarda sottolinea la profonda relazione tra l’uomo e Dio e ci ricorda che tutta la creazione, di cui
l’uomo è il vertice, riceve vita dalla Trinità. Lo scritto è incentrato sulla relazione tra virtù e vizi, per cui
l’essere umano deve affrontare quotidianamente la sfida dei vizi, che lo allontanano nel cammino verso
Dio e le virtù, che lo favoriscono. L’invito è ad allontanarsi dal male per glorificare Dio e per entrare,
dopo un’esistenza virtuosa, nella vita ‘tutta di gioia’. Nella seconda opera, considerata da molti il suo
capolavoro, descrive ancora la creazione nel suo rapporto con Dio e la centralità dell’uomo, manifestando
un forte cristocentrismo di sapore biblico-patristico. La Santa, che presenta cinque visioni ispirate dal
Prologo del Vangelo di San Giovanni, riporta le parole che il Figlio rivolge al Padre: ‘Tutta l’opera che tu
hai voluto e che mi hai affidato, io l’ho portata a buon fine, ed ecco che io sono in te, e tu in me, e che noi
siamo una cosa sola’ (Pars III, Visio X: PL 197, 1025a).
In altri scritti, infine, Ildegarda manifesta la versatilità di interessi e la vivacità culturale dei monasteri
femminili del Medioevo, contrariamente ai pregiudizi che ancora gravano su quell’epoca. Ildegarda si
occupò di medicina e di scienze naturali, come pure di musica, essendo dotata di talento artistico.
Compose anche inni, antifone e canti, raccolti sotto il titolo Symphonia Harmoniae Caelestium
Revelationum (Sinfonia dell’armonia delle rivelazioni celesti), che venivano gioiosamente eseguiti nei
suoi monasteri, diffondendo un’atmosfera di serenità, e che sono giunti anche a noi. Per lei, la creazione
intera è una sinfonia dello Spirito Santo, che è in se stesso gioia e giubilo.
La popolarità di cui Ildegarda era circondata spingeva molte persone a interpellarla. Per questo motivo
disponiamo di molte sue lettere. A lei si rivolgevano comunità monastiche maschili e femminili, vescovi e
abati. Molte risposte restano valide anche per noi. Per esempio, a una comunità religiosa femminile
Ildegarda scriveva così: ‘La vita spirituale deve essere curata con molta dedizione. All’inizio la fatica è
amara. Poiché esige la rinuncia all’estrosità, al piacere della carne e ad altre cose simili. Ma se si lascia
affascinare dalla santità, un’anima santa troverà dolce e amorevole lo stesso disprezzo del mondo.
Bisogna solo intelligentemente fare attenzione che l’anima non avvizzisca’ (E. Gronau, Hildegard. Vita di
una donna profetica alle origini dell’età moderna, Milano 1996, p. 402). E quando l’Imperatore Federico
Barbarossa causò uno scisma ecclesiale opponendo ben tre antipapi al Papa legittimo Alessandro III,
Ildegarda, ispirata dalle sue visioni, non esitò a ricordargli che anch’egli, l’imperatore, era soggetto al
giudizio di Dio. Con l’audacia che caratterizza ogni profeta, ella scrisse all’Imperatore queste parole da
parte di Dio: ‘Guai, guai a questa malvagia condotta degli empi che mi disprezzano! Presta ascolto, o re,
se vuoi vivere! Altrimenti la mia spada ti trafiggerà!’ (Ibid., p. 412).
Con l’autorità spirituale di cui era dotata, negli ultimi anni della sua vita Ildegarda si mise in viaggio,
nonostante l’età avanzata e le condizioni disagevoli degli spostamenti, per parlare di Dio alla gente. Tutti
l’ascoltavano volentieri, anche quando adoperava un tono severo: la consideravano una messaggera
mandata da Dio. Richiamava soprattutto le comunità monastiche e il clero a una vita conforme alla loro
vocazione. In modo particolare, Ildegarda contrastò il movimento dei cátari tedeschi. Essi - cátari alla
lettera significa ‘puri’ - propugnavano una riforma radicale della Chiesa, soprattutto per combattere gli
abusi del clero. Lei li rimproverò aspramente di voler sovvertire la natura stessa della Chiesa, ricordando
loro che un vero rinnovamento della comunità ecclesiale non si ottiene tanto con il cambiamento delle
strutture, quanto con un sincero spirito di penitenza e un cammino operoso di conversione. Questo è un
messaggio che non dovremmo mai dimenticare.85

85
BENEDETTO XVI, Udienza generale (Città del Vaticano, mercoledì 8 settembre 2010).
64
2.2.B. La “nefasta separazione”

L’idea di una emancipazione della filosofia dal cristianesimo, in termini di separazione,


sorse agli inizi dell’epoca moderna, con Descartes e Bacone: la filosofia, ispirandosi al modello
matematico, doveva procedere in modo assolutamente autonomo dalla tradizione e dalla fede
cristiana, mediante deduzione di un sistema da alcuni assiomi primi.
Così nel parla FR.

A partire dal tardo Medio Evo, tuttavia, la legittima distinzione tra i due saperi si trasformò
progressivamente in una nefasta separazione. A seguito di un eccessivo spirito razionalista, presente in
alcuni pensatori, si radicalizzarono le posizioni, giungendo di fatto a una filosofia separata e
assolutamente autonoma nei confronti dei contenuti della fede. Tra le altre conseguenze di tale
separazione vi fu anche quella di una diffidenza sempre più forte nei confronti della stessa ragione.
Alcuni iniziarono a professare una sfiducia generale, scettica e agnostica, o per riservare più spazio alla
fede o per screditarne ogni possibile riferimento razionale.
Insomma, ciò che il pensiero patristico e medievale aveva concepito e attuato come unità profonda,
generatrice di una conoscenza capace di arrivare alle forme più alte della speculazione, venne di fatto
distrutto dai sistemi che sposarono la causa di una conoscenza razionale separata dalla fede e alternativa
ad essa.
Le radicalizzazioni più influenti sono note e ben visibili, soprattutto nella storia dell’Occidente. Non è
esagerato affermare che buona parte del pensiero filosofico moderno si è sviluppato allontanandosi
progressivamente dalla Rivelazione cristiana, fino a raggiungere contrapposizioni esplicite.86

Tuttavia anche l’età moderna presenta dei filosofi cristiani. Se la “filosofia emancipata”
dalla fede, della modernità, si pone come una scienza speculativa priva di fede, se non addirittura in
contrapposizione con la fede stessa, come ricorda Bogliolo: «tuttavia anch’essa trova la sua origine
nel pensiero cristiano e nell’ambito delle sue problematiche, in particolare riguardo al tardo
medioevo e permane in un continuo confronto dialettico con la concezione cristiana della realtà».87
Lo stesso sistema razionalistico e la rispettiva suddivisione delle discipline, operata da
Christian Wolff nella seconda metà del 1700, si presentavano ancora impregnati di cristianesimo e
di contenuti educativi scolastici. Fu proprio questa forma di filosofia “metafisica dogmatica” che si
scontrò con la critica kantiana.

FR individua nel secolo scorso l’apogeo del movimento di progressivo allontanamento del
pensiero filosofico dalla Rivelazione.

Alcuni rappresentanti dell’idealismo hanno cercato in diversi modi di trasformare la fede e i suoi
contenuti, perfino il mistero della morte e risurrezione di Gesù Cristo, in strutture dialettiche
razionalmente concepibili. A questo pensiero si sono opposte diverse forme di umanesimo ateo, elaborate
filosoficamente, che hanno prospettato la fede come dannosa e alienante per lo sviluppo della piena
razionalità. Non hanno avuto timore di presentarsi come nuove religioni formando la base di progetti che,
sul piano politico e sociale, sono sfociati in sistemi totalitari traumatici per l’umanità.
Nell’ambito della ricerca scientifica si è venuta imponendo una mentalità positivista che non soltanto si è
allontanata da ogni riferimento alla visione cristiana del mondo, ma ha anche, e soprattutto, lasciato
cadere ogni richiamo alla visione metafisica e morale. La conseguenza di ciò è che certi scienziati, privi
di ogni riferimento etico, rischiano di non avere più al centro del loro interesse la persona e la globalità
della sua vita. Di più: alcuni di essi, consapevoli delle potenzialità insite nel progresso tecnologico,
sembrano cedere, oltre che alla logica del mercato, alla tentazione di un potere demiurgico sulla natura e
sullo stesso essere umano.

86
FR., nn. 45-46.
87
L. BOGLIOLO, La Filosofia cristiana. Il problema, la storia, la struttura, Città del Vaticano 19953, p. 109.
65
Come conseguenza della crisi del razionalismo ha preso corpo, infine, il nichilismo. Quale filosofia del
nulla, esso riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contemporanei. I suoi seguaci teorizzano la
ricerca come fine a se stessa, senza speranza né possibilità alcuna di raggiungere la meta della verità.
Nell’interpretazione nichilista, l’esistenza è solo un’opportunità per sensazioni ed esperienze in cui
l’effimero ha il primato. Il nichilismo è all’origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve
assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio.88

Risultato di questa “operazione culturale” è stato anche il cambio del ruolo stesso della
filosofia all’interno della cultura moderna, con un suo confinamento ad essere “una delle tante
province del sapere umano”, spesso con il corrispondente «offuscamento della vera dignità della
ragione, non più messa nella condizione di conoscere il vero e di ricercare l’assoluto».89

Non è da dimenticare, d’altra parte, che nella cultura moderna è venuto a cambiare il ruolo stesso della
filosofia. Da saggezza e sapere universale, essa si è ridotta progressivamente a una delle tante province
del sapere umano; per alcuni aspetti, anzi, è stata limitata a un ruolo del tutto marginale. Altre forme di
razionalità si sono nel frattempo affermate con sempre maggior rilievo, ponendo in evidenza la
marginalità del sapere filosofico. Invece che verso la contemplazione della verità e la ricerca del fine
ultimo e del senso della vita, queste forme di razionalità sono orientate - o almeno orientabili - come
‘ragione strumentale’ al servizio di fini utilitaristici, di fruizione o di potere. […]
Sulla scia di queste trasformazioni culturali, alcuni filosofi, abbandonando la ricerca della verità per se
stessa, hanno assunto come loro unico scopo il raggiungimento della certezza soggettiva o dell’utilità
pratica.90

Il tempo della modernità e della postmodernità offrono in ogni caso un panorama


estremamente interessante e variegato per la considerazione del rapporto tra fede e ragione.
Ad alcuni delle principali prospettive ed autori, soprattutto se non menzionati o trattati nei
capitoli seguenti, saranno dedicate alcune lezioni del corso.

88
FR, n. 46.
89
Ib., n. 47.
90
Ib.
66
3. Rapporto ragione-fede secondo l’insegnamento ecclesiale

Il rapporto tra l’esperienza di fede e lo sviluppo delle possibilità conoscitive offerte


dall’intelligenza dell’uomo è un elemento che ha sempre accompagnato la riflessione cristiana, non
solo in senso apologetico ma anche per la necessità intrinseca di «rendere ragione della propria
speranza» (1Pt 3, 15). Ci dedichiamo qui a questo specifico tema,91 sapendo che non manca chi
afferma oggi che la crisi di fede accompagna e quasi è una conseguenza della “crisi di ragione”.
Tra le fonti magisteriali che si occupano di questo tema una particolare importanza riveste la
Costituzione Dei Filius, del Concilio Vaticano I (1870). La Costituzione si presenta come una
risposta chiara alla questione fede - ragione, non disincarnata dal momento in cui si situa; come
ogni “realtà dogmatica” appare come un preciso “cartello indicatore” che non esclude ulteriori
passi in avanti. Il Concilio Vaticano II, accogliendo in pieno l’insegnamento magisteriale del
Vaticano I, lo ha in un certo senso integrato, specie per quanto riguarda i concetti di “rivelazione” e
di “mistero”. FR lo ricorda già al n. 8.

Riprendendo quasi alla lettera l’insegnamento offerto dalla Costituzione Dei Filius del Concilio Vaticano
I e tenendo conto dei principi proposti dal Concilio Tridentino, la Costituzione Dei Verbum del Vaticano
II ha proseguito il secolare cammino di intelligenza della fede, riflettendo sulla Rivelazione alla luce
dell’insegnamento biblico e dell’intera tradizione patristica. Nel primo Concilio Vaticano, i Padri avevano
sottolineato il carattere soprannaturale della rivelazione di Dio. La critica razionalista, che in quel periodo
veniva mossa contro la fede sulla base di tesi errate e molto diffuse, verteva sulla negazione di ogni
conoscenza che non fosse frutto delle capacità naturali della ragione. Questo fatto aveva obbligato il
Concilio a ribadire con forza che, oltre alla conoscenza propria della ragione umana, capace per sua
natura di giungere fino al Creatore, esiste una conoscenza che è peculiare della fede. Questa conoscenza
esprime una verità che si fonda sul fatto stesso di Dio che si rivela, ed è verità certissima perché Dio non
inganna né vuole ingannare.92

Ciò che appare di estremo interesse è che la posizione assunta dal magistero è comunque
molto più attuale di quanto non si pensi: oggi, pur con nomi diversi, siamo in un contesto culturale
in cui da una parte permangono certe illusioni illuministiche di onnipotenza della ragione
tecnologica, e d’altra parte si afferma la “debolezza” del pensiero, cadendo spesso in posizioni
relativistiche, quanto alla morale e alla religione.

3.1. Il Concilio Vaticano I sulla Rivelazione e sulla fede

Già nel 1864 era apparsa l’Enciclica Quanta cura, accompagnata da un catalogo di ottanta
errori, il Sillabo. Le prime 14 “propositiones” del Sillabo esprimevano la condanna del panteismo,
del naturalismo e razionalismo assoluti, e del razionalismo moderato;93 sono questi i temi che
faranno parte direttamente della Costituzione dogmatica Dei Filius, in una assise in cui, a detta di

91
Cf. M. MANTOVANI, Là dove osa la ragione. Dalla “Dei Filius” alla “Fides et ratio”, in M. MANTOVANI - S.
THURUTHIYIL - M. TOSO (a cura), Fede e ragione, cit., pp. 60-74; M. TOSO, La fede se non è pensata è nulla, in M.
MANTOVANI - S. THURUTHIYIL - M. TOSO (edd.), Fede e ragione, cit., pp. 119-130. Nel primo articolo sono confluite
gran parte della considerazioni esposte qui di seguito. Nel secondo articolo sono giustificate, alla luce
dell’insegnamento magisteriale, le seguenti espressioni: “la filosofia non è dannosa per la fede, anzi le è utile”; “la
ragione è utile alla fede per rinsaldarsi nello spirito umano mediante l’approfondimento teologico”; “la ragione non
corrompe il ‘revelatum’ e preserva da fanatismi e superstizioni”.
92
FR, n. 8.
93
Cf. H. DENZINGER – A. SCHÖNMETZER, Enchiridion Symbolorum, Definitionum et Declarationum de rebus fidei et
morum [DS], Barcinone - Friburgi Br.- Romae -Neo Eboraci 1973, nn. 2901-2914.
67
G. Paradis, «tra le questioni sollevate al Concilio Vaticano I, quella dei rapporti tra fede e ragione fu
una delle più importanti».94
Già nell’aprile-maggio del 1865 Pio IX, scrivendo a trentaquattro vescovi sulle materie da
trattare al Concilio, fece allusione ai problemi relativi alle nuove dottrine filosofiche.95 Dalle
risposte dei vescovi si può notare l’unanime preoccupazione legata ad una «generale infedeltà,
frutto del razionalismo, che attacca la verità del cristianesimo e i fondamenti della fede».96
La Costituzione Dei Filius è divisa in quattro capitoli, e sviluppa il discorso in successione
logica e tematica. Essa insegna anzitutto la esistenza di un Dio personale,97 che ha creato il mondo
e lo governa con la sua provvidenza, dichiara poi che l’esistenza di Dio può essere conosciuta e
dimostrata con le forze della ragione, ma insieme difende strenuamente la assoluta necessità della
Rivelazione.98
Il terzo capitolo99 spiega la natura della fede, che è insieme un dono soprannaturale e una
libera adesione dell’intelligenza mossa dalla volontà, per questo si potrà affermare nel quarto
capitolo che non vi è opposizione tra fede e ragione.
Nel capitolo sulla Rivelazione, quando il Concilio Vaticano I esprime la posizione del
cristianesimo sulla possibilità, la convenienza e la necessità della rivelazione soprannaturale,
comincia anzitutto richiamando la capacità dell’uomo di conoscere Dio, principio e fondamento di
tutte le cose, mediante l’intelligenza, senza l’aiuto della rivelazione soprannaturale.100
Dio, che nel primo capitolo è stato definito distinto e trascendente il mondo e l’uomo101 può
stabilire con l’uomo stesso un nuovo tipo di colloquio, quello storico, che il Concilio definisce
subito non solo possibile ma assolutamente necessario affinchè possiamo conoscere il nostro fine
soprannaturale.102
Nelle presenti condizioni è considerato anche “moralmente necessario” per guidare
l’intelligenza umana al raggiungimento completo, rapido, certo, senza errori e da parte di tutti, di
quelle verità di per sè già poste alla sua portata.103
Questo intervento storico di Dio non lede la vera autonomia dell’uomo, ne è contrario alla
perfezione divina: non si può perciò definire mancante di convenienza.104
Va sottolineato che questa nozione di rivelazione, nel contesto del Concilio Vaticano I, che
doveva rispondere al razionalismo e ai suoi derivati, è tesa

a sottolinearne particolarmente la dimensione noetica, [...] vista qui come un’azione soprannaturale e
sovranamente libera di Dio, mediante il quale egli comunica all’uomo un insieme di verità necessarie al
raggiungimento del suo fine ultimo.105

Il Concilio Vaticano II, esprimendolo nella costituzione dogmatica Dei Verbum, ha


assimilato il risultato dell’approfondimento teologico della nozione di rivelazione, che si è ampliata
rispetto al Vaticano I mettendo in luce, insieme alla dimensione noetica, anche quella dinamica-
realizzativa.

94
G. PARADIS, Foi et raison au premiere Concile du Vatican, in R. AUBERT (a cura), De doctrina Concilii Vaticani
Primi. Studia selecta annis 1948 - 1964 scripta denuo edita cum centesimus annus compleretur ab eodem inchoato
concilio, Civitas Vaticana 1969, p. 221.
95
Cf. J.D. MANSI, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, vol. 49, Graz 1961, col. 166D.
96
Cf. ib., col. 204D.
97
Cf. DS 3001-3003.
98
Cf. DS 3004-3007.
99
Cf. DS 3008-3014.
100
Cf. DS 3004-3026.
101
Cf. DS 3021-3024.
102
Cf. DS 3005-3028.
103
Cf. DS 3005.
104
Cf. DS 3027.
105
G. CAVIGLIA, Le ragioni della speranza cristiana. Teologia fondamentale, Leumann 1981, pp. 145-147.
68
Per quanto riguarda l’insegnamento sulla fede, possiamo affermare con R. Aubert che

l’insegnamento del Concilio Vaticano I sulla fede si inscrive nel solco di ciò che la Chiesa ha sempre
affermato. La fede è la libera risposta dell’uomo alla manifestazione della verità divina, sottomissione
dell’intelligenza davanti all’autorità infinita di ciò che attesta il Creatore. D’altra parte va cercata proprio
nell’azione di Dio nel più intimo dell’anima la causa vera di questa adesione e del suo stabilizzarsi,
benché gli argomenti razionali possano preparare eventualmente o contribuire ad affermarla. La fede è, in
altri termini, fondamentalmente il risultato di una grazia di luce e di attrazione. Essa non suppone
solamente la testimonianza di Dio che perviene alle orecchie, ma anche una testimonianza più intima che
agisce nell’interno dell’anima, illuminando l’intelligenza e muovendo la volontà.106

R. Aubert mostra come nella storia della Chiesa sia stata sempre sottolineata l’importanza
della volontà e della grazia nella fede, contro autori che riducevano la fede al risultato di un
semplice ragionamento. Ancora Gregorio XVI ribadì questo quando condannò il sistema di Hermes
che, conformemente allo spirito illuministico dell’Aufklärung, tentò di razionalizzare la fede e di
farne l’equivalente di un semplice ragionamento scientifico. Venne poi il tempo, invece, in cui
autori come Bautain o Bonnetty misero in dubbio la legittimità e la stessa possibilità, per
l’intelligenza umana, di constatare le ragioni per credere. Le encicliche stesse di Pio IX
esprimeranno proprio le argomentazioni sulle “ragioni del credere”, per opporsi all’obiezione
razionalista, secondo la quale la fede esigerebbe un’abdicazione totale dei diritti della ragione.
Nel III capitolo della Dei Filius107 si possono trovare proprio l’eco di queste diverse
preoccupazioni. La fede è definita anzitutto come “inizio dell’umana salvezza”, virtù soprannaturale
per cui sotto l’azione di Dio e con l’aiuto della grazia si credono vere le realtà da Dio stesso
rivelate, «per l’autorità dello stesso Dio che le rivela».108 La fede appare dunque come dono di Dio,
cui l’atto suo proprio è opera riguardante la salvezza.
Il capitolo afferma poi che l’ossequio della fede è però conforme alla ragione, e la
motivazione di ciò è riferita a Dio stesso e alla sua volontà, per cui i fatti divini (specialmente i
miracoli e le profezie) sono argomenti certissimi che si aggiungono agli interiori aiuti dello Spirito
Santo; essi sono adatti ad ogni intelligenza. Si affronta in seguito il rapporto tra la Sacra Scrittura e
il ruolo della Chiesa che «levata tra le nazioni invita a se quelli che ancora non credono e rende più
certi i suoi figli che la fede che essi professano poggia su un solidissimo fondamento».109

3.2. La dottrina sul rapporto fede - ragione: il IV capitolo della Dei Filius

Il capitolo IV della Dei Filius si avvia anzitutto con la distinzione di un duplice ordine di
conoscenza, con distinzione nel principio, nell’oggetto e nel metodo. Questo è un punto di partenza
per una ulteriore distinzione tra sapienza umana naturale e una sapienza sovrannaturale.110
La distinzione riguarda anzitutto il principio, perché nei due ordini di conoscenza si ha come
principio conoscitivo da una parte la ragione naturale e nell’altro la fede divina.
È distinto anche l’oggetto di conoscenza perché oltre a quello che la ragione naturale può
attingere, nella “sapienza soprannaturale” sono proposti a credere dei “misteri nascosti in Dio” che
qualora non fossero rivelati da Dio non potrebbero conoscersi. A suffragare quanto espresso, il
primo paragrafo di questo capitolo cita i seguenti testi scritturistici: Rm 1, 20; Gv 1, 17; I Cor 2, 7 -
8. 10; Mt 11, 25.
È il secondo paragrafo a trattare espressamente del ruolo della ragione nella ricerca della
verità sovrannaturale, e ciò avviene evidentemente in piena linea con le affermazioni poste nel
106
Cf. R. AUBERT, La constitution Dei Filius, in ID. (a cura), De doctrina Concilii Vaticani Primi. Studia selecta annis
1948 - 1964 scripta denuo edita cum centesimus annus compleretur ab eodem inchoato concilio, Civitas Vaticana 1969,
p. 119.
107
Cf. DS 3008-3014.
108
Cf. DS 3010.
109
Cf. DS 3014.
110
Cf. DS 3015.
69
capitolo III. Il paragrafo (DS 3016) viene diviso in due parti: la prima mostra il ruolo della ragione
all’interno della conoscenza della fede; la seconda ne fissa i limiti che sono quelli del “mistero”.
In questo senso si può affermare che «dopo essere già intervenuto in varie occasioni, il
magistero della Chiesa si è pronunciato sul rapporto tra il cristianesimo definito come mistero e la
ragione umana, nel Concilio Vaticano I».111
La dottrina conciliare insegna che il contenuto di “mistero” di cui parla il cristianesimo è
costituito da una realtà divina indicata come “grazia e verità venuta per mezzo di Gesù Cristo”. È
in gioco dunque qualcosa di assolutamente proprio di Dio:

ciò rappresenta il motivo oggettivo in base al quale il mistero non entra nel raggio della ragione umana
[‘oltre quelle cose a cui può giungere la ragione naturale, ci sono proposti a credere misteri nascosti in
Dio ...’; ‘i divini misteri, per loro propria natura, superano talmente l’intelletto creato che...’] ed essa
scopre in sè una radicale inadeguatezza nei suoi confronti [‘i misteri... non possono venire a nostra
conoscenza, se non per divina rivelazione, la ragione non può rendersi capace di percepire il mistero
come fa’ con le verità formanti il proprio oggetto’].112

Con questa dottrina il Vaticano I intende precisare la visione cattolica di fronte alle
impostazioni di pensiero nate nel XVII secolo e affermatesi nel XIX; esse provengono dalla matrice
cartesiana e spinoziana.
In campo cattolico, sotto l’avanzata dirompente del razionalismo, si ebbe una oscillazione
verso due posizioni contrastanti: da una parte ci fu chi esagerò le facoltà della ragione affermando
che i misteri propri del cristianesimo possono essere penetrati nel loro segreto, una volta rivelati,
fino a dimostrarne l’evidenza intrinseca: è la posizione semirazionalista del già citato Giorgio
Hermes (1775 - 1831), Antonio Günter (1783 - 1863) e Giacomo Frohschammer (1821 - 1893).
Afferma a proposito Gómez Heras che

l’errore che i teologi e i Padri del Vaticano I proscrivono è il semirazionalismo della scuola di Günter e
Frohschammer. La riforma della filosofia cristiana, che aveva programmato Frohschammer, era collocata
infatti sotto il segno della ragione. La teologia si subordina alla filosofia; la ragione diviene norma
suprema della interpretazione del dogma, il progresso nella intelligenza del dogma corre parallelo al
progresso della cultura.113

Dall’altra parte si situano sia il fideismo, particolarmente vivo in area protestante, sia il
tradizionalismo,114 posizioni entrambe che, umiliando eccessivamente la ragione, le diminuiscono o
sottraggono quasi completamente i suoi diritti, fino a ritenere la fede necessaria per conseguire
qualunque tipo di conoscenza.
Si afferma invece nel documento conciliare l’impossibilità di una opposizione tra la fede e la
ragione:115 da qui si avvia il discorso sul rapporto della Chiesa per il progresso delle scienze.

‘Pur essendo la fede sopra la ragione’, afferma il documento: ‘non vi potrà mai essere vera divergenza tra
fede e ragione: lo stesso Dio, infatti, che rivela i misteri e infonde la fede, ha anche deposto il lume della
ragione nell’animo umano. E Dio non potrebbe negare se stesso’.116

Il documento affronta allora la questione della sorgente dell’inconsistente apparenza di


contraddizione tra fede e ragione: si risponde che essa sorge dove i dogmi non sono stati compresi
ed esposti secondo il pensiero della Chiesa, o si sono scambiate per conclusioni della ragione delle
semplici opinioni fantastiche.

111
G. CAVIGLIA, Le ragioni, cit., 121.
112
Ib.
113
Cf. J. GÓMEZ HERAS, El problema fe - razón en el Concilio Vaticano I, Burgos 1969, 170-171.
114
Ebbe come maggiori esponenti L. E. M. Bautain (1796 - 1867), F. R. Lamennais (1782 - 1854), G. Ventura (1792 -
1861).
115
Cf. DS 3017-3018.
116
Cf. DS 3017.
70
In base a questo principio la Chiesa afferma il suo diritto di affermare certamente falsa ogni
asserzione contraria alla verità di una fede illuminata, ed avendo ricevuto l’ufficio di insegnare e
custodire i dogmi della fede, la Chiesa rivendica il suo diritto-dovere di proscrivere la falsa scienza.
Negli ultimi due paragrafi del capitolo si enuncia il rapporto di aiuto scambievole che
possono darsi la fede e la ragione: - la retta ragione può dimostrare i fondamenti della fede, ed
illuminata dalla luce della fede può coltivare la scienza delle cose divine; - la fede libera e protegge
la ragione dagli errori e arricchisce la ragione di molteplici cognizioni.
Per questo la Chiesa riconosce la libertà di ricerca, fissandone però dei limiti, e si dichiara
«tanto lontana dall’opporsi allo studio delle arti e delle discipline umane da favorirlo, anzi, e da
promuoverlo in ogni maniera».117
L’ultimo paragrafo118 tratta del progresso della dottrina.

La citazione di Vincenzo di Lerin che chiude il capitolo non fa che esprimere l’ottimismo della Chiesa
che, confidando nella promessa di Cristo, crede e si sviluppa sempre nello stesso senso, marciando alla
luce della fede e utilizzando tutte le risorse che la ragione scopre nel mondo che il suo Creatore e Signore
ha fatto e disseminato delle sue tracce.119

Col Concilio Vaticano I erano condannate in pari tempo, le varie dottrine che esaltano e
umiliano in modo eccessivo la natura e i compiti della ragione. Da una parte infatti era respinto il
razionalismo, che esaspera le possibilità della ragione fino a negare ogni altra possibilità di
conoscenza, escludendo radicalmente ogni possibilità di rivelazione soprannaturale.
Dall’altra parte erano rifiutate concezioni abbastanza simili, il tradizionalismo, che rifiuta
alla ragione la capacità di conquistare attivamente le verità metafisiche fondamentali, riducendo il
suo ruolo ad una accettazione passiva e piuttosto estrinseca di una verità comunicata dall’alto, e il
fideismo, che, senza negare le forze della ragione e senza rifiutare la fede, separa radicalmente l’una
dall’altra, sciogliendo la fede da ogni rapporto con le premesse razionali e negando che la ragione
preceda la fede, e, sorretta dalla grazia, vi prepari l’uomo.

È dunque un merito del Vaticano I e del suo insegnamento,

imperniato attorno al dibattito fra fede e ragione, il far prendere coscienza con chiarezza del riflesso in
campo gnoseologico dell’assoluta trascendenza della vita trinitaria comunicata all’uomo; nei testi del
Vaticano II il termine ‘mistero’ tornerà a ricoprire l’intera accezione paolina (Il ‘mysterion’ paolino
designa il piano segreto della salvezza universale, disegno di Dio in Cristo. Cf. 1 Cor 2, 1.7; Rm 16, 25;
Col 1, 26 - 27; Ef 1, 9) a rivestire tutta la ricchezza posseduta, come espressione pregnante della realtà
cristiana, non solo nel suo aspetto di verità ma anche in quello di vita.120

Oggi tuttavia non va sminuito il valore dell’affermazione della possibilità e della doverosità
dell’indagine conoscitiva, che, di fronte ad una cultura che si configura come quella “del pensiero
debole” e “del fiato corto”, mette in luce il compito e la dignità della ragione, l’opportunità della
metafisica, e la necessità per ogni credente di “essere sempre pronto a rendere ragione della fede
che è in lui”, quando invece si assiste al diffondersi di sette che varcano sempre più i confini
dell’irrazionale.
La FR, in cui è presente l’insegnamento della Dei Filius (è possibile mostrare il rapporto tra
i due documenti nei termini dello “sviluppo nella continuità”), esplicita al n. 9, 13-14 e 51-52
l’insegnamento magisteriale sui temi fondamentali del nostro discorso.
La verità raggiunta per via di riflessione filosofica e la verità della Rivelazione non si
confondono.

117
Cf. DS 3019.
118
Cf. DS 3020.
119
G. PARADIS, Foi et raison, cit., p. 281.
120
G. CAVIGLIA, Le ragioni della speranza cristiana, cit., p. 127.
71
Il Concilio Vaticano I, dunque, insegna che la verità raggiunta per via di riflessione filosofica e la verità
della Rivelazione non si confondono, né l’una rende superflua l’altra: ‘Esistono due ordini di conoscenza,
distinti non solo per il loro principio, ma anche per il loro oggetto: per il loro principio, perché nell’uno
conosciamo con la ragione naturale, nell’altro con la fede divina; per l’oggetto, perché oltre le verità che
la ragione naturale può capire, ci è proposto di vedere i misteri nascosti in Dio, che non possono essere
conosciuti se non sono rivelati dall’alto’. La fede, che si fonda sulla testimonianza di Dio e si avvale
dell’aiuto soprannaturale della grazia, è effettivamente di un ordine diverso da quello della conoscenza
filosofica. Questa, infatti, poggia sulla percezione dei sensi, sull’esperienza e si muove alla luce del solo
intelletto. La filosofia e le scienze spaziano nell’ordine della ragione naturale, mentre la fede, illuminata e
guidata dallo Spirito, riconosce nel messaggio della salvezza la ‘pienezza di grazia e di verità’ (cfr Gv 1,
14) che Dio ha voluto rivelare nella storia e in maniera definitiva per mezzo di suo Figlio Gesù Cristo (cfr
1 Gv 5, 9; Gv 5, 31-32).121

La conoscenza naturale di Dio e la Rivelazione sono inseparabili ed insieme irriducibili.

Il Concilio Vaticano I, sintetizzando e riaffermando in modo solenne gli insegnamenti che in maniera
ordinaria e costante il Magistero pontificio aveva proposto per i fedeli, mise in evidenza quanto fossero
inseparabili e insieme irriducibili la conoscenza naturale di Dio e la Rivelazione, la ragione e la fede. Il
Concilio partiva dall’esigenza fondamentale, presupposta dalla Rivelazione stessa, della conoscibilità
naturale dell’esistenza di Dio, principio e fine di ogni cosa, e concludeva con l’asserzione solenne già
citata: ‘esistono due ordini di conoscenza, distinti non solo per il loro principio, ma anche per il loro
oggetto’. Bisognava affermare, dunque, contro ogni forma di razionalismo, la distinzione dei misteri della
fede dai ritrovati filosofici e la trascendenza e precedenza di quelli rispetto a questi; d’altra parte, contro
le tentazioni fideistiche, era necessario che si ribadisse l’unità della verità e, quindi, anche l’apporto
positivo che la conoscenza razionale può e deve dare alla conoscenza di fede: ‘Ma anche se la fede è
sopra la ragione, non vi potrà mai essere una vera divergenza tra fede e ragione: poiché lo stesso Dio, che
rivela i misteri e comunica la fede, ha anche deposto nello spirito umano il lume della ragione, questo Dio
non potrebbe negare se stesso, né il vero contraddire il vero’.122

Secondo l’insegnamento magisteriale vi è dunque una specifica posizione della ragione


umana davanti al mistero.123

121
FR, n. 9.
122
Ib., n. 53.
123
Cf. lo schema riportato in M. MANTOVANI, Là dove osa la ragione. Dalla “Dei Filius” alla “Fides et ratio”, cit., pp.
69-72; G. CAVIGLIA, Le ragioni della speranza cristiana, cit., p. 121.
72
FR parla di questo tema ai nn. 13-14.

Non sarà, comunque, da dimenticare che la Rivelazione permane carica di mistero. Certo, con tutta la sua
vita Gesù rivela il volto del Padre, essendo Egli venuto per spiegare i segreti di Dio; eppure, la
conoscenza che noi abbiamo di tale volto è sempre segnata dalla frammentarietà e dal limite del nostro
comprendere. Solo la fede permette di entrare all’interno del mistero, favorendone la coerente
intelligenza. Insegna il Concilio che ‘a Dio che si rivela è dovuta l’obbedienza della fede’. Con questa
breve ma densa affermazione, viene indicata una fondamentale verità del cristianesimo. Si dice, anzitutto,
che la fede è risposta di obbedienza a Dio. Ciò comporta che Egli venga riconosciuto nella sua divinità,
trascendenza e libertà suprema. Il Dio che si fa conoscere, nell’autorità della sua assoluta trascendenza,
porta anche con sé la credibilità dei contenuti che rivela. Con la fede, l’uomo dona il suo assenso a tale
testimonianza divina. Ciò significa che riconosce pienamente e integralmente la verità di quanto rivelato,
perché è Dio stesso che se ne fa garante. Questa verità, donata all’uomo e da lui non esigibile, si inserisce
nel contesto della comunicazione interpersonale e spinge la ragione ad aprirsi ad essa e ad accoglierne il
senso profondo. E per questo che l’atto con il quale ci si affida a Dio è sempre stato considerato dalla
Chiesa come un momento di scelta fondamentale, in cui tutta la persona è coinvolta. Intelletto e volontà
esercitano al massimo la loro natura spirituale per consentire al soggetto di compiere un atto in cui la
libertà personale è vissuta in maniera piena. Nella fede, quindi, la libertà non è semplicemente presente: è
esigita. E la fede, anzi, che permette a ciascuno di esprimere al meglio la propria libertà. In altre parole, la
libertà non si realizza nelle scelte contro Dio. Come infatti potrebbe essere considerato un uso autentico
della libertà il rifiuto di aprirsi verso ciò che permette la realizzazione di se stessi? E nel credere che la
persona compie l’atto più significativo della propria esistenza; qui, infatti, la libertà raggiunge la certezza
della verità e decide di vivere in essa.
In aiuto alla ragione, che cerca l’intelligenza del mistero, vengono anche i segni presenti nella
Rivelazione. Essi servono a condurre più a fondo la ricerca della verità e a permettere che la mente possa
autonomamente indagare anche all’interno del mistero. Questi segni, comunque, se da una parte danno
maggior forza alla ragione, perché le consentono di ricercare all’interno del mistero con i suoi propri
mezzi di cui è giustamente gelosa, dall’altra la spingono a trascendere la loro realtà di segni per
raccoglierne il significato ulteriore di cui sono portatori. In essi, pertanto, è già presente una verità
nascosta a cui la mente è rinviata e da cui non può prescindere senza distruggere il segno stesso che le
viene proposto.
Si è rimandati, in qualche modo, all’orizzonte sacramentale della Rivelazione e, in particolare, al segno
eucaristico dove l’unità inscindibile tra la realtà e il suo significato permette di cogliere la profondità del
mistero. Cristo nell’Eucaristia è veramente presente e vivo, opera con il suo Spirito, ma, come aveva ben
detto san Tommaso, ‘tu non vedi, non comprendi, ma la fede ti conferma, oltre la natura. E un segno ciò
che appare: nasconde nel mistero realtà sublimi’. Gli fa eco il filosofo Pascal: ‘Come Gesù Cristo è
rimasto sconosciuto tra gli uomini, così la sua verità resta, tra le opinioni comuni, senza differenza
esteriore. Così resta l’Eucaristia tra il pane comune’.
La conoscenza di fede, insomma, non annulla il mistero; solo lo rende più evidente e lo manifesta come
fatto essenziale per la vita dell’uomo: Cristo Signore ‘rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela
anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione’, che è quella di partecipare al
mistero della vita trinitaria di Dio.
L’insegnamento dei due Concili Vaticani apre un vero orizzonte di novità anche per il sapere filosofico.
La Rivelazione immette nella storia un punto di riferimento da cui l’uomo non può prescindere, se vuole
arrivare a comprendere il mistero della sua esistenza; dall’altra parte, però, questa conoscenza rinvia
costantemente al mistero di Dio che la mente non può esaurire, ma solo ricevere e accogliere nella
fede.All’interno di questi due momenti, la ragione possiede un suo spazio peculiare che le permette di
indagare e comprendere, senza essere limitata da null’altro che dalla sua finitezza di fronte al mistero
infinito di Dio.124

L’intervento solenne del Concilio Vaticano I sui rapporti tra ragione e fede «costituisce
ancor oggi un punto di riferimento normativo per una corretta e coerente riflessione cristiana in
questo particolare ambito».125

Furono […] censurati simmetricamente: da una parte, il fideismo e il tradizionalismo radicale, per la loro
sfiducia nelle capacità naturali della ragione; dall’altra parte, il razionalismo e l’ontologismo, perché
attribuivano alla ragione naturale ciò che è conoscibile solo alla luce della fede. I contenuti positivi di

124
FR, nn. 13-14.
125
Ib., n. 52.
73
questo dibattito furono formalizzati nella Costituzione dogmatica Dei Filius, con la quale per la prima
volta un Concilio ecumenico, il Vaticano I, interveniva in maniera solenne sui rapporti tra ragione e fede.
L’insegnamento contenuto in quel testo caratterizzò fortemente e in maniera positiva la ricerca filosofica
di molti credenti e costituisce ancora oggi un punto di riferimento normativo per una corretta e coerente
riflessione cristiana in questo particolare ambito.126

3.3. “Allargare gli orizzonti della razionalità” ed approfondire il “realismo della fede”: il
Magistero di Benedetto XVI

In continuità con l’insegnamento di Giovanni Paolo II,127 sono particolarmente significativi


gli interventi di Benedetto XVI in occasione degli incontri con il mondo universitario (Regensburg,
Parigi, il discorso previsto per il mancato incontro all’Università di Roma La Sapienza, ecc.) che
mettono particolarmente in luce la categoria dell’allargamento degli orizzonti della razionalità128 e
stimolano alla ricerca dell’adeguato rapporto tra cristianesimo e filosofia (e tra cristianesimo e altre
religioni) soprattutto nella linea dell’approfondimento del concetto di logos.129
Offriamo qui alcune riflessioni130 collegandoci ai due eventi più importanti che segnano il
cammino ecclesiale dell’anno 2012/2013 – il 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II
e l’Anno della Fede –131 stimolando a riflettere sul rapporto tra fede e razionalità alla luce non solo
di queste ricorrenze ma anche di alcune stimolanti indicazioni presenti in diversi testi soprattutto di
papa Benedetto XVI, e in ulteriori commenti ad essi. L’individuare la fede cristiana primariamente
come “fede teologale”, e l’interrogarsi sulla specificità del Cristianesimo di fronte alle sfide apertesi
con la modernità può offrire infatti validi spunti anche a proposito di una nozione “allargata”, e per
questo più adeguata, di scienza e di razionalità.
Il tema della fede, che durante l’apposito Annus fidei diventa oggetto di particolare
approfondimento e di preghiera, rappresenta in qualche modo il nucleo stesso della nuova
evengelizzazione. L’Anno della Fede e il 50° del Concilio possono così costituire come due pilastri
per il progetto stesso della nuova evangelizzazione:
se è pur vero che si è di fronte ad una urgenza epocale, tuttavia – scrive mons. Leuzzi, Vescovo Ausiliare
di Roma – la questione non è meramente organizzativa, ma primariamente dottrinale. La provvidenziale
coincidenza dell’Anno della Fede con le celebrazioni del 50° anniversario dell’inizio del Concilio
Vaticano II può offrire non solo una possibilità di approfondimento dei documenti conciliari, ma anche
indicare il tempo storico della ricerca della novità della nuova evangelizzazione, a partire non da
preoccupazioni pastorali, ma dal cuore della vicenda cristiana, ossia la realtà della fede. Tale legame con

126
Ib., n. 52.
127
Cf. G. TANZELLA-NITTI, Passione per la verità e responsabilità del sapere. Un’idea di università nel magistero di
Giovanni Paolo II, Casale Monferrato 1998; M. MANTOVANI, Praticare la carità intellettuale nella prospettiva della
Fides et ratio e degli interventi di Benedetto XVI, in L. LEUZZI (a cura), La carità intellettuale. Percorsi culturali per un
nuovo umanesimo. Scritti in onore di Benedetto XVI, Città del Vaticano 2007, pp. 119-130.
128
Cf. BENEDETTO XVI, Chi crede non è mai solo. Viaggio in Baviera. Tutte le parole del Papa, Città del Vaticano -
Siena 2006; L. LEUZZI, Chiesa di Dio, non temere! Il cristianesimo dopo Ratisbona, Soveria Mannelli 2006; ID. (a
cura), La carità intellettuale. Percorsi culturali per un nuovo umanesimo. Scritti in onore di Benedetto XVI, Città del
Vaticano 2007; ID., Atene e Gerusalemme di nuovo insieme, Città del Vaticano 2007; ID., Allargare gli orizzonti della
razionalità. I discorsi per l’Università di Benedetto XVI, Milano 2008; ID., La Parola nelle parole. Dal biblicismo al
realismo della fede, Città del Vaticano 2009; ID., La questione di Dio oggi. Il nuovo cortile dei gentili, Città del
Vaticano 2010; S. SPIRI - T. VALENTINI (a cura), Allargare gli orizzonti della razionalità. Prospettive per la filosofia,
Roma 2010.
129
Cf., per esempio, P. CODA, Il Logos e il nulla. Trinità, religioni, mistica, Roma 2003; M. FATTAL, Ricerche sul
Logos. Da Omero a Plotino, Milano 2005; BENEDETTO XVI, Chi crede non è mai solo. Viaggio in Baviera. Tutte le
parole del Papa, cit.; P.D. BUBBIO - P. CODA (a cura), L’esistenza e il logos. Filosofia, esperienza religiosa,
Rivelazione, Roma 2007; L. LEUZZI, Allargare gli orizzonti della razionalità. I discorsi per l’Università di Benedetto
XVI, cit.; BENEDETTO XVI, Lettera Enciclica Caritas in veritate, Città del Vaticano 2009, n. 4.
130
Quanto segue in questo paragrafo fa parte di un nostro più esteso testo dal titolo Il “realismo della fede” e la nozione
“allargata” di scienza che è in fase di pubblicazione.
131
Cf. BENEDETTO XVI, Porta fidei, cit.
74
l’evento conciliare, infatti, non può essere solo commemorativo, ma vuole vivificare il cammino della
comunità cristiana che vive nella storia e verso di essa è chiamata a realizzare la sua diakonia. Il legame
dell’Anno della Fede con l’evento conciliare permette di entrare nel cuore della proposta della nuova
evangelizzazione e di comprendere la sua novità storica: quella cioè di rendere manifesto e condiviso
l’interrogativo che […] può essere così formulato: la fede cristiana può incontrare la storicità
dell’uomo?.132

Si potrebbe infatti affermare che nella risposta a questa domanda si rinviene uno degli
elementi più importanti verso cui si dirige il magistero di papa Benedetto XVI: proprio perché il
Cristianesimo è la religione del Logos, allora può incontrare la concreta realtà storica dell’uomo.
Superata ormai la pregnanza storica della questione della messa in discussione della storicità della
persona di Gesù di Nazaret, si potrebbe dire che papa Benedetto XVI in vari suoi interventi orienta
l’attenzione sulla domanda complessa e decisiva riguardante la presenza reale di Gesù nella storia:
Egli, nel concreto esistenziale dell’uomo, può essere incontrato come lo hanno incontrato i
discepoli sulle vie della Galilea? Questa esperienza è compatibile con l’esistenza storica
dell’uomo?
La risposta a questo interrogativo risulta infatti fondamentale: nel momento in cui essa sia
positiva, allora il Cristianesimo non potrebbe solo più essere classificato come una delle forme
religiose sacrali, efficaci storicamente per il loro inserimento nel gioco delle prassi sociali, ma si
presenterebbe come “la” forma religiosa capace di rispondere alle attese della situazione storica
dell’uomo, intrinsecamente aperta all’arricchimento ontologico, e la cui esistenza di costruisce
essenzialmente. E questo porta con sé dei corrispondenti risvolti in riferimento alla nozione stessa
di razionalità e di scienza.
Ecco perché può aprirsi uno sguardo sulla realtà – anzi, sul “realismo” –133 della fede,
intendendo per essa la fede biblica e teologale, che può risultare centrale anche per considerare il
rapporto con la cultura e con il concetto di razionalità “allargata”.
L’espressione “realismo della fede”, anche se già presente in vari scritti di J. Ratzinger134 e
nel volume Gesù di Nazaret di papa Benedetto XVI, è stata utilizzata autorevolmente dal Santo
Padre proprio nel Discorso introduttivo della V Conferenza Generale dell’Episcopato
Latinoamericano e dei Caraibi di Aparecida 2007:
Che cosa ci dà realmente Cristo? Perché vogliamo essere discepoli di Cristo? La risposta è: perché
speriamo di trovare nella comunione con Lui la vita, la vera vita degna di questo nome, e per questo
vogliamo farlo conoscere agli altri, comunicare loro il dono che abbiamo trovato in Lui. Ma questo è
veramente così? Siamo realmente convinti che Cristo è la via, la verità e la vita? […] Possiamo ancora
farci un’altra domanda: Che cosa ci dà la fede in questo Dio? La prima risposta è: ci dà una famiglia, la
famiglia universale di Dio nella Chiesa cattolica. La fede ci libera dall’isolamento dell’io, perché ci porta
alla comunione: l’incontro con Dio è, in sé stesso e come tale, incontro con i fratelli, un atto di
convocazione, di unificazione, di responsabilità verso l’altro e verso gli altri. […] Ma prima di affrontare
quello che comporta il realismo della fede nel Dio fatto uomo, dobbiamo approfondire la domanda: come
conoscere realmente Cristo per poter seguirlo e vivere con Lui, per trovare la vita in Lui e per comunicare
questa vita agli altri, alla società e al mondo?.135

132
L. LEUZZI, Dalla Fede religiosa alla Fede teologale. L’Anno della Fede per la nuova evangelizzazione, LEV, Città
del Vaticano 2012, pp. 16-17.
133
Cf. L. LEUZZI, Atene e Gerusalemme di nuovo insieme, LEV, cit., pp. 28-35; ID., Allargare gli orizzonti della
razionalità. I discorsi per l’Università di Benedetto XVI, cit., pp. 22-42; ID., La Parola nelle parole. Dal biblicismo al
realismo della fede, cit.; ID., Eucarestia e carità intellettuale. Prospettive teologico-pastorali dell’Enciclica Caritas in
veritate, LEV, Città del Vaticano 2009, pp. 16-19 e 45-48; ID., La questione di Dio oggi, cit., pp. 21-39; ID. (a cura),
Una nuova cultura per un nuovo umanesimo. I grandi discorsi di Benedetto XVI, cit., pp. 12-18.
134
Cf. per esempio, specie in vista dell’approfondimento nell’opera di J. Ratzinger del tema del realismo della fede
biblica, J. RATZINGER, Fede, Verità, Tolleranza, Cantagalli, Siena 2005, pp. 93-98.
135
BENEDETTO XVI, Discorso alla Sessione Inaugurale dei lavori della V Conferenza Generale dell’Episcopato
Latinoamericano e dei Caraibi (Santuario dell’Aparecida, Brasile, 13 maggio 2007). Il corsivo è nostro.
75
Da papa Benedetto XVI giunge dunque un invito ad approfondire sia in senso soggettivo e
sia in senso oggettivo il significato e il valore della fede cristiana:
I discepoli di Cristo sono chiamati a far rinascere in se stessi e negli altri la nostalgia di Dio e la gioia di
viverlo e di testimoniarlo, a partire dalla domanda sempre molto personale: perchè credo? Occorre dare il
primato alla verità, accreditare l’alleanza tra fede e ragione […]; rendere fecondo il dialogo tra
cristianesimo e cultura moderna; far riscoprire la bellezza e l’attualità della fede […] come orientamento
costante, anche delle scelte più semplici, che conduce all’unità profonda della persona rendendola giusta,
operosa, benefica, buona. Si tratta di ravvivare una fede che fondi un nuovo umanesimo capace di
generare cultura e impegno sociale.136

Se guardiamo pur molto brevemente all’insegnamento del Concilio Vaticano II a proposito


della fede, nella sua natura e origine, nel suo rapporto con la missione, la vita e il Magistero della
Chiesa, nel suo legame con la testimonianza e l’apostolato, esso si mostra assai ricco e stimolante.
A proposito, per esempio, di come l’atto libero e meritorio di fede137 investa l’integralità
dell’esperienza umana, può essere significativo ricordare anche solo che secondo la Gaudium et
Spes la fede «tutto rischiara di una luce nuova, e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale
dell’uomo, e perciò guida l’intelligenza verso soluzioni pienamente umane»138; «col dono, poi,
dello Spirito Santo, l’uomo può arrivare nella fede a contemplare e gustare il mistero del piano
divino»139. Si legge inoltre in Apostolicam Actuositatem:
Solo alla luce della fede e nella meditazione della parola di Dio è possibile, sempre e dovunque,
riconoscere Dio nel quale ‘noi viviamo, ci muoviamo e siamo’ (Atti 17,28), cercare in ogni avvenimento
la sua volontà, vedere il Cristo in ogni uomo, vicino o estraneo, giudicare rettamente del vero senso e
valore che le cose temporali hanno in se stesse e in ordine al fine dell’uomo. Chi ha tale fede vive nella
speranza della rivelazione dei figli di Dio, nel ricordo della croce e della resurrezione del Signore.140

La fede investe dunque tutte le dimensioni della vita del credente: «la forza che la Chiesa
riesce a immettere nella società umana contemporanea, consiste in quella fede e carità portate ad
efficacia di vita»;141 «il distacco, che si constata in molti, tra la fede che professano e la loro vita
quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo».142
Nell’ambito della riflessione odierna sul tema della fede, L. Leuzzi parlando della “quaestio
fidei” e della nuova evangelizzazione, utilizza tre espressioni riguardo alle distinte modalità della
fede: fede teologale, fede culturale e fede religiosa, evidenziando lo spinoso problema
dell’assorbimento della fede teologale nella fede culturale o religiosa.
Così scrive:
In passato le tre modalità coesistevano e si integravano a vicenda. Anzi la fede religiosa e culturale hanno
svolto un ruolo di ‘ancilla fidei’ (con i praeambula fidei). Oggi non è più così. Le tre diverse modalità
viaggiano su vie parallele, se non in contrasto tra loro (la causa della separazione tra fede e vita indicata
dal Concilio). Ma c’è un aspetto più complesso e delicato: la fede religiosa può essere anche a-teologica,
ossia può affermare il divino, ma senza Dio. È possibile ristabilire l’integrazione tra le diverse modalità
della fede, garantendo il primato della fede teologale?.143

136
BENEDETTO XVI, Omelia nei Primi Vespri della Solennità di Maria SS.ma Madre di Dio (Basilica Vaticana, 31
dicembre 2011).
137
Cf., per esempio, Dei Verbum, n. 5; Dignitatis Humanae, nn. 9-10.
138
Gaudium et Spes, n. 11a.
139
Ibid., n. 15e.
140
Apostolicam Actuositatem, n. 4e-f.
141
Gaudium et Spes, n. 42c.
142
Ibid., n. 43a. Cf. anche n. 75. Così inoltre si legge in Dignitatis Humanae, al n. 12b: «Il fermento evangelico ha pure
diuturnamente operato nell’animo degli esseri umani e molto ha contribuito affinché gli uomini lungo i tempi
riconoscessero più largamente e meglio la dignità della propria persona e maturasse la persuasione che la persona nella
società deve essere immune da ogni umana coercizione in materia religiosa».
143
L. LEUZZI, La “quaestio fidei” e la nuova evangelizzazione (pro manuscripto, Roma 2012).
76
Dietro queste riflessioni144 si potrebbe quasi individuare, come effettivamente fa Leuzzi, un
percorso che partendo dal “realismo della storia” (di papa Paolo VI) e passando per il “realismo
antropologico” (del beato papa Giovanni Paolo II) giunge al tema tanto caro a papa Benedetto XVI,
appunto, del “realismo della fede”:
Per riaffermare il primato della fede teologale - scrive L. Leuzzi - è indispensabile entrare nella via
indicata da Benedetto XVI che interpreta il Concilio (l’ermeneutica della riforma e del rinnovamento
nella continuità […]) e indica la via per il superamento della teologia razionale e della ragione teologica
con il realismo della fede […]. La teologia razionale e la ragione teologica, che hanno formato il clero del
post-concilio, non sono in grado di garantire la fede teologale: - la teologia razionale trasforma la fede in
esperienza religiosa (con contenuti socio-culturali); - la ragione teologica trasforma la fede in esperienza
culturale (con contenuti della tradizione religiosa). Per Benedetto XVI la fede teologale nasce dalla realtà
della Parola-Logos […], la quale non è né soggettiva, né oggettiva, ma è realtà storica che precede l’atto
di fede. In altri termini la realtà della Parola-Logos non è né di natura trascendentale, né di natura sacrale,
come avviene per le altre religioni. La realtà della Parola-Logos è di natura ontologica, sia riferita alla
Persona di Gesù di Nazaret, sia riferita al suo Corpo che è la Chiesa. Pertanto solo il realismo della fede
pone la questione della realtà che precede l’atto di fede, evitando che la fede si trasformi in ‘evento
religioso soggettivo’, e nello stesso tempo pone la questione del Dio vivo e vero.145

È utile chiarire fin da subito ciò che in questo discorso viene inteso per ragione teologica146
e per teologia razionale.147
Quanto affermato circa il “realismo della fede”, ha a che vedere con la prospettiva,
anch’essa molto cara a papa Benedetto XVI, relativa all’“allargamento degli orizzonti” della
razionalità.
In occasione del Discorso durante l’Incontro con i rappresentanti delle altre religioni a
Londra nel 2007, il Santo Padre è entrato in merito a come la domanda di senso ultimo sia
“ineliminabile” e coinvolga proprio il tema epistemologico del rapporto tra i saperi, tra le discipline:
a livello spirituale tutti noi, in modi diversi, siamo personalmente impegnati in un viaggio che offre una
risposta importante alla questione più importante di tutte, quella riguardante il significato ultimo
dell’esistenza umana. Vi sono scienze, quelle umane e naturali, che all’interno dei loro ambiti di
competenza, ci forniscono una comprensione inestimabile di aspetti della nostra esistenza ed
approfondiscono la nostra comprensione del mondo in cui opera l’universo fisico, il quale può essere
utilizzato per portare grande beneficio alla famiglia umana. E tuttavia queste discipline non danno
risposta, e non possono darla, alla domanda fondamentale, perché operano ad un livello totalmente
diverso. Non possono soddisfare i desideri più profondi del cuore umano, né spiegarci pienamente la

144
Esse, secondo l’autore, hanno delle necessarie premesse: «- La fede cristiana o è teologale o non è. La fede dei
battezzati è sempre fede teologale. - In passato la fede teologale non è mai venuta meno, anche quando può apparire che
la fede culturale e religiosa abbiano preso il sopravvento. - Non è la fede cristiana teologale che è venuta meno, ma è la
società, nella quale prende corpo la fede religiosa e la fede culturale, che è ontologicamente diversa rispetto al passato. -
La teologia ha ritenuto di recuperare tale sintesi ignorando la novità ontologica della società e assumendo la categoria
del ‘religioso’ come criterio interpretativo. Non solo. Ma ha pensato che tale categoria fosse anche la via più efficace
per la liberazione della fede cristiana da ogni forma di impurità storica. In tale modo si è verificato un fenomeno
inverso: la fede religiosa ha assunto la dimensione teologale, svuotandola non solo di contenuti ma di ogni suo legame
con l’esperienza ecclesiale. - Il Concilio Vaticano II, per la teologia prevalente, sarebbe la legittimazione di tutto
questo!». Ibid.
145
Ibid. Cf. anche L. LEUZZI, Eucarestia e carità intellettuale, cit.; ID., Dalla Fede religiosa alla Fede teologale, cit.
146
«Con il termine ragione teologica si intende la riflessione sulla fede che cerca di dimostrare la sua pretesa veritativa
attraverso un percorso logico interno ai suoi contenuti. Si tratta di una prospettiva teologica che assume la fede come
percorso di razionalità, in modo che la fede diventi esaustiva in se stessa sia dei contenuti della rivelazione sia di quelli
conoscitivi della realtà. La ragione diventa sinonimo di fede e si entra così nel mondo del fideismo». L. LEUZZI,
Eucarestia e carità intellettuale, cit., p. 15.
147
«Con il termine teologia razionale si intende la riflessione sulla fede che assume la ragione come criterio veritativo,
in modo che la fede trovi in essa le sue condizioni di possibilità. La fede diventa sinonimo di ragione e da essa ne
assume i criteri veritativi. Al di fuori dei criteri della ragione non può esistere alcun contenuto di fede degno di
credibilità. Si entra così nel mondo del razionalismo». Ibid.
77
nostra origine ed il nostro destino, per quale motivo e per quale scopo noi esistiamo, né possono darci una
risposta esaustiva alla domanda: ‘Per quale motivo esiste qualcosa, piuttosto che il niente?’».148

Questo interrogativo si presenta così strettamente connesso con la domanda “centrale” su


quale tipo di ragione possa e debba rapportarsi oggi con l’esperienza di fede. Papa Benedetto XVI
a Regensburg ha affermato magistralmente che la ragione e la fede devono ritrovarsi unite «in un
modo nuovo»,149 tornando poi sul fatto che – oltre ad evitare qualunque tipo di riduzionismo
(scientista, positivista, debolista, razionalista, funzionalista, relativista, tecnocratico, ecc.) – risulta
indispensabile una nozione di scienza in cui la razionalità sia aperta alla totalità, anzi si lasci
informare – in ciascuno dei livelli che le sono propri – dalla totalità stessa:
ciò è possibile – afferma papa Benedetto XVI – proprio alla luce della rivelazione di Cristo, che ha unito
in sé Dio e uomo, eternità e tempo, spirito e materia. ‘In principio era il Verbo … E il Verbo si è fatto
carne’ (Gv 1,1.14). Il Logos divino è all’origine dell’universo e in Cristo si è unito una volta per sempre
all’umanità, al mondo e alla storia. Alla luce di questa capitale verità di fede e al tempo stesso di ragione
è nuovamente possibile, nel 2000, coniugare fede e scienza.150

In questa prospettiva viene a collocarsi, allora, l’appello ad allargare gli orizzonti della
razionalità.151 «È di nuovo possibile – ha affermato papa Benedetto XVI nel Discorso al Convegno
della Chiesa Italiana di Verona del 19 ottobre 2006 – allargare gli spazi della nostra razionalità,
riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le
scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nella
consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme».152

Oggi, nonostante il diffuso ottimismo del mondo scientifico, viviamo “una crisi di pensiero”,
il mondo “soffre per mancanza di pensiero”.153 Se guardiamo al nostro tempo, il panorama del
mondo delle scienze sperimentali, delle molteplici scoperte e delle tecnologie innovative, con ritmi
sempre più accelerati, è da una parte motivo di soddisfazione e di orgoglio, ma dall’altra di
inquietudine e preoccupazione. La visione del mondo e la stessa autocomprensione che l’uomo ha
di se stesso si sono trasformate grazie alle scoperte scientifiche e a varie delle loro applicazioni
tecnologiche:
Ricco di mezzi, ma non altrettanto di fini, – così si esprime papa Benedetto XVI – l’uomo del nostro
tempo vive spesso condizionato da riduzionismo e relativismo, che conducono a smarrire il significato
delle cose; quasi abbagliato dall’efficacia tecnica, dimentica l’orizzonte fondamentale della domanda di
senso, relegando così all’irrilevanza la dimensione trascendente. Su questo sfondo, il pensiero diventa
debole e acquista terreno anche un impoverimento etico, che annebbia i riferimenti normativi di valore.
Quella che è stata la feconda radice europea di cultura e di progresso sembra dimenticata. In essa, la
ricerca dell’assoluto - il quaerere Deum - comprendeva l’esigenza di approfondire le scienze profane,
l’intero mondo del sapere. La ricerca scientifica e la domanda di senso, infatti, pur nella specifica
fisionomia epistemologica e metodologica, zampillano da un’unica sorgente, quel Logos che presiede
all’opera della creazione e guida l’intelligenza della storia. Una mentalità fondamentalmente tecnocratica

148
BENEDETTO XVI, Incontro con i Rappresentanti di altre Religioni (Viaggio apostolico nel Regno Unito, 17
settembre 2010).
149
BENEDETTO XVI, Discorso in occasione dell’incontro con i rappresentanti della scienza (Regensburg, 12 settembre
2006).
150
BENEDETTO XVI, Discorso in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Cattolica del
Sacro Cuore (Roma, 25 novembre 2005).
151
Cf. L. LEUZZI, Atene e Gerusalemme di nuovo insieme, cit., pp. 22-37; ID., Allargare gli orizzonti della razionalità,
cit., pp. 13-52; ID., La questione di Dio oggi, cit., pp. 40-47.
152
BENEDETTO XVI, Discorso al Convegno ecclesiale di Verona (19 ottobre 2006).
153
Cf. PAOLO VI, Populorum progressio, LEV, Città del Vaticano 1967; BENEDETTO XVI, Caritas in veritate, cit., n.
53.
78
genera un rischioso squilibrio tra ciò che è possibile tecnicamente e ciò che è moralmente buono, con
imprevedibili conseguenze.154

Quello di allargare gli orizzonti della razionalità si mostra dunque come un invito storico-
culturale, un vero e proprio itinerario di ricerca che ci ha consegnato papa Benedetto XVI. Egli «ha
aperto, così, un confronto tra fede e ragione di portata storica, in particolare tra Cristianesimo e
razionalità, che non si limita agli aspetti quantitativi del processo conoscitivo, ma si orienta su un
livello qualitativo diverso e finora inesplorato, qual è quello della dinamicità della realtà umana
esistenziale».155
Il Santo Padre ha ben presente la gravità del rischio di guardare al Cristianesimo come ad
una “gnosi” di stampo fideista o razionalista, riducendolo ad una esperienza mistico-simbolistica,
con i suoi riti e la sua etica, e trasformando la religione in sentimento: allargare gli orizzonti della
razionalità non è per questo soltanto un programma di semplice adeguamento, ma – scrive Leuzzi –
l’inizio «di un nuovo percorso intellettuale che costituisce la prima forma di carità che il
Cristianesimo è chiamato a svolgere, perché la fede sia vissuta in pienezza come virtù teologale e
perché l’uomo possa essere protagonista del proprio tempo, possedendo una razionalità
adeguata».156
Per papa Benedetto XVI, infatti,

è importante allora che la cultura riscopra il vigore del significato e il dinamismo della
trascendenza, in una parola, apra con decisione l’orizzonte del quaerere Deum. Viene in mente
la celebre frase agostiniana ‘Ci hai creati per te [Signore], e il nostro cuore è inquieto finché non
riposa in te’. Si può dire che lo stesso impulso alla ricerca scientifica scaturisce dalla nostalgia
di Dio che abita il cuore umano: in fondo, l’uomo di scienza tende, anche inconsciamente, a
raggiungere quella verità che può dare senso alla vita. Ma per quanto sia appassionata e tenace
la ricerca umana, essa non è capace con le proprie forze di approdo sicuro, perché ‘l’uomo non è
in grado di chiarire completamente la strana penombra che grava sulla questione delle realtà
eterne... Dio deve prendere l’iniziativa di venire incontro e di rivolgerSi all’uomo’. Per restituire
alla ragione la sua nativa, integrale dimensione bisogna allora riscoprire il luogo sorgivo che la
ricerca scientifica condivide con la ricerca di fede, fides quaerens intellectum, secondo
l’intuizione anselmiana. Scienza e fede hanno una reciprocità feconda, quasi una
complementare esigenza dell’intelligenza del reale. Ma, paradossalmente, proprio la cultura
positivista, escludendo la domanda su Dio dal dibattito scientifico, determina il declino del
pensiero e l’indebolimento della capacità di intelligenza del reale. Ma il quaerere Deum
dell’uomo si perderebbe in un groviglio di strade se non gli venisse incontro una via di
illuminazione e di sicuro orientamento, che è quella di Dio stesso che si fa vicino all’uomo con
immenso amore: ‘In Gesù Cristo Dio non solo parla all’uomo, ma lo cerca.... È una ricerca che
nasce nell’intimo di Dio e ha il suo punto culminante nell’incarnazione del Verbo’. Religione
del Logos, il Cristianesimo non relega la fede nell’ambito dell’irrazionale, ma attribuisce
l’origine e il senso della realtà alla Ragione creatrice, che nel Dio crocifisso si è manifestata
come amore e che invita a percorrere la strada del quaerere Deum: ‘Io sono la via, la verità, la
vita’. Commenta qui san Tommaso d’Aquino: ‘Il punto di arrivo di questa via infatti è il fine del
desiderio umano. Ora l’uomo desidera due cose principalmente: in primo luogo quella
conoscenza della verità che è propria della sua natura. In secondo luogo la permanenza
nell’essere, proprietà questa comune a tutte le cose. In Cristo si trova l’una e l’altra... Se dunque
cerchi per dove passare, accogli Cristo perché egli è la via’.157

154
BENEDETTO XVI, Discorso durante la visita all’Università Cattolica del Sacro Cuore (Roma, 3 maggio 2012). Nel
brano citato è anche presente un riferimento diretto a BENEDETTO XVI, Discorso al Còllege des Bernardins di Parigi
(12 settembre 2008).
155
L. LEUZZI, Atene e Gerusalemme di nuovo insieme, cit., p. 23.
156
Ibid., p. 26.
157
BENEDETTO XVI, Discorso durante la visita all’Università Cattolica del Sacro Cuore, cit. Le citazioni presenti nel
brano si riferiscono rispettivamente a: AGOSTINO, Le Confessioni, I, 1; J. RATZINGER, L’Europa di Benedetto nella crisi
79
Papa Benedetto XVI indica dunque oggi il Cristianesimo come religione del Logos, e ciò è
in continuità con quanto scriveva già (il teologo Joseph Ratzinger) in Introduzione al
cristianesimo158 a proposito dell’“ermeneutica del logos”. Essendo il Cristianesimo cattolico la
religione del Logos, esso si trova nella condizione migliore per poter comprendere che
il passaggio dal factum al faciendum non è un evento estraneo al Cristianesimo o addirittura, come taluni
vorrebbero, contro il Cristianesimo. […] La capacità del Cristianesimo di comprendere e servire la nuova
realtà storica – il faciendum in quanto reale modernità – lo rende capace di promuovere il vero
allargamento della razionalità. Infatti la nuova razionalità è quella del faciendum, ossia la nuova realtà
storica, diventata dinamica.159

Non a caso in Introduzione al cristianesimo è presente un chiaro invito alla teologia a


confrontarsi con la nuova situazione culturale indicando proprio il “faciendum” come nuovo luogo
teologico e filosofico d’indagine: per faciendum si intende «la manifestazione di quel bisogno di
arricchimento ontologico che l’uomo porta con sé, unica realtà del creato, [che] può realizzarsi solo
nella dinamicità della realtà storica».160 Per questo il Cristianesimo è la religione che «ha la pretesa
di portare nel suo DNA la vera dinamicità del processo conoscitivo della ragione, a tal punto da
essere, in un certo modo, l’unico soggetto storico capace di garantirne il suo vero sviluppo».161 In
Introduzione al cristianesimo questa riflessione è unita alla considerazione della categoria teologica
e cristologica della relazionalità, che riveste un significato ed un’importanza fondamentale e
stimola per questo ad un ulteriore approfondimento teoretico,162 così come papa Benedetto XVI ha
poi espressamente affermato nella Caritas in veritate invitando la metafisica e la teologia «ad un
approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione».163 La relazionalità diventa così
una chiave di lettura per comprendere dal punto di vista epistemologico il tema dell’allargamento
degli orizzonti della razionalità, e dal punto di vista antropologico, metafisico e teologico, la
dimensione dell’arricchimento ontologico, nella considerazione della specificità e dell’originalità
del Cristianesimo.

Considerando i testi magisteriali e vari interventi di papa Benedetto XVI, vi è chi rileva la
presenza di un vero e proprio “trittico ratzingeriano”164 che riguarda specificamente i temi
dell’allargare gli orizzonti della razionalità, del cortile dei gentili e della “vita nuova”, intendendo
per essa quella donata al battezzato non come un additum ma – in certo senso – come una vera e
propria trasformazione ontologica: il battezzato ha infatti in sé una nuova condizione di esistenza, è
abilitato ad essere costruttore di una nuova realtà che fa sì che l’esperienza religiosa non sia solo
una semplice esperienza spirituale o sociale, ma un allargamento della propria esistenza, si
potrebbe dire della propria “ontologia”.

delle culture, Cantagalli, Roma 2005, p. 124; GIOVANNI PAOLO II, Tertio Millennio Adveniente, LEV, Città del
Vaticano 1994, n. 7; Gv 14,6; TOMMASO D’AQUINO, Esposizioni su Giovanni, cap. 14, lectio 2.
158
Cf. J. RATZINGER, Introduzione al Cristianesimo, Queriniana, Brescia 1971.
159
L. LEUZZI, Atene e Gerusalemme di nuovo insieme, cit., pp. 34-35.
160
Ibid., p. 32.
161
Ibid., p. 23.
162
Cf., su questo specifico tema, A. AGUILAR, La nozione di “relazionale” come chiave per spiegare l’esistenza
cristiana secondo l’Introduzione al cristianesimo, in K. CHARAMSA - N. CAPIZZI (a cura), La voce della fede cristiana.
“Introduzione al cristianesimo” di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI, 40 anni dopo, Ed. ART, Roma 2009, pp. 163-
183; S. FONTANA, “Metafisica della relazione tra le persone”. Note su un possibile itinerario di ricerca, in F. CARDERI
- M. MANTOVANI - G. PERILLO (a cura), Momenti del Logos. Ricerche del “Progetto LERS” (Logos, Episteme, Ratio,
Scientia) in memoria di Marilena Amerise e Marco Arosio, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2012, pp. 685-696.
163
BENEDETTO XVI, Caritas in veritate, cit., n. 53.
164
Cf. L. LEUZZI, La questione di Dio oggi, cit., pp. 14-17.
80
Ci troviamo oggi, per questo, all’interno di una profonda sfida culturale che caratterizza il
momento in cui viviamo, detto della società tardo-moderna o post-moderna, o dopo-moderna, in cui
la parabola della modernità sembra confluire quasi, dopo aver preso le mosse proprio
dall’esaltazione dell’umano, nell’abolizione della distinzione fra umano e non umano, col rischio di
trasformare l’uomo in macchina, e rivelando così, in modo insopprimibile, l’urgenza della questione
dell’humanum e del rapporto tra la persona umana e la sua storicità, compreso il tema della sua
inserzione e della sua realizzazione o annullamento all’interno della storia stessa.
L’antropologia cristiana, secondo la prospettiva evangelica, ossia di una “buona notizia”,
può a tal proposito presentare – offerta a tutti – quella «bella notizia che riguarda ciascuno di noi. Io
non sono figlio di una roulette ma di un progetto. Dio mi ha chiamato per nome. Ha scommesso su
di me, nonostante la mia povertà di essere. E ciò mi ha scavato dentro una fame di Assoluto. Che è
approdante».165
La domanda sull’uomo e sulla sua esistenza oggi non può non porsi in rapporto alla società
di cui egli fa parte e alla storia in cui egli è inserito, e proprio in questo ambito può emergere con
tutta la sua vitalità l’originalità della prospettiva cristiana: «Senza Dio non è possibile costruire
una società in cui l’uomo non si annienti, ma si arricchisca. L’uomo è posto di fronte al grande
bivio: usurarsi esistenzialmente o vivere per sempre. L’uomo deve scegliere, non può più glissare la
domanda teologica».166
La cosiddetta “questione antropologica” si configura così come riflessione sull’uomo
storico, reale, e non più astratto. Se vari autori intervengono, per questo, nella prospettiva di
richiedere o di attribuire un nuovo ruolo alla religione nella società civile, il vero punto “cruciale” è
ormai l’adeguamento della riflessione filosofica e teologica, anche sul versante ontologico, del
“realismo antropologico” così adeguatamente prospettato del beato papa Giovanni Paolo II. Papa
Benedetto XVI offre dunque un percorso di ricerca che intende affrontare con decisione il nuovo
contesto nel quale si situa la questione antropologica stessa, ambito in cui – nonostante i rischi di
fraintendimento siano sempre presenti – la storicità dell’uomo può essere colta nella sua vera
natura. Se il pericolo più grave oggi per il Cristianesimo può risultare la sua definitiva de-
storicizzazione, proiettandolo nell’ambiguo e politeistico mondo del religioso dove il teologico
convive con l’a-teologico, d’altra parte proprio questo è il tempo più “favorevole” affinché il
Cristianesimo stesso mostri come la nuova storicizzazione dell’uomo (il faciendum) non solo non
sia estranea alla sua realtà, ma al contrario le appartenga profondamente.
L’uomo è veramente autotrascendimento, è un “voler essere di più”, “in alto” e “in avanti”.
Egli è anelito ad essere di più, e tuttavia si trova davanti allo scacco inesorabile del limite
insuperabile, di cui l’espressione più radicale è la morte. Egli è effettivamente “fatto” per un
“arricchimento ontologico”, che tuttavia da solo non potrà mai darsi. Per essere “di più”, questo “di
più” dovrà riceverlo necessariamente da “altro” da sé, essere inserito nell’“altro da sé”. Ma allora è
proprio su questo versante che il Cristianesimo oggi può ricomprendere se stesso e la propria
originalità nel suo essere e nel suo presentarsi come quella esperienza dinamica che raggiunge
l’uomo nella sua esistenza e gli dona la vita nuova, una nuova base sulla quale l’uomo può
poggiare per il suo “voler essere di più”: la possibilità effettiva di un nuovo spazio, “allargato”, di
esistenza.
Per questo il tema del “realismo della fede” e la domanda sulla realtà che precede l’atto di
fede, fondamentali per comprendere il percorso167 che conduce al “cuore” della nuova
evangelizzazione,168 ci porta proprio a considerare l’“arricchimento ontologico” di cui il
Cristianesimo si fa portatore.

165
S. PALUMBIERI, L’esistenza: vocazione radicale, senso della vita, in TR News (2011/1), p. 5.
166
L. LEUZZI, Atene e Gerusalemme di nuovo insieme, cit., p. 21.
167
Cf. Per l’approfondimento del percorso, cf. L. LEUZZI, La questione di Dio oggi, cit., in particolare le pp. 17-20.
168
Cf. L. LEUZZI, Eucarestia e carità intellettuale, cit., p. 85.
81
Con Benedetto XVI – scrive L. Leuzzi – l’interrogativo della nuova evangelizzazione trova un percorso
di ricerca capace di determinare una svolta nella comprensione non solo dell’interrogativo stesso, ma del
perché la proposta del Beato Giovanni Paolo II sia giunta ad un punto di non ritorno. Con tale percorso di
ricerca ha preso inizio il passaggio dal piano dell’intuizione a quello della sua ragionevolezza dottrinale e
pastorale, a cominciare dall’istituzione di un Pontificio Consiglio ad hoc, dalla scelta del tema della XIII
Assemblea del Sinodo dei Vescovi e, non da ultimo, dell’indizione dell’Anno della Fede. In che cosa
consiste questo percorso di ricerca capace di portare a compimento il cammino fin qui svolto e di dare
fondamento dottrinale e pastorale alla nuova evangelizzazione? Esso poggia su tre pilastri: il primo è il
realismo della fede, il secondo è il Battesimo, il terzo è il Dio vivo e vero. Tale percorso è stato mediato
da tra proposte pastorali: l’allargamento degli orizzonti della razionalità, la riscoperta della vita nuova e
il cortile dei gentili. È un percorso che intende superare i limiti delle due linee prevalenti nella teologia
del XX secolo, la ragione teologica e la teologia razionale, superamento necessario per accogliere e dare
risposta adeguata alla questione antropologica indicata dal Beato Giovanni Paolo II. […] Con Benedetto
XVI la Chiesa può rispondere positivamente all’interrogativo della nuova evangelizzazione, ossia che la
fede cristiana può incontrare la nuova storicità dell’uomo, che si manifesta nel faciendum, perché il
Cristianesimo, in quanto religione, appartiene al mondo storico-dinamico e non a quello statico-sacrale.
La diakonia della storia può davvero iniziare e porre termine al tempo della transizione, tempo non certo
breve, ma provvidenzialmente giunto a compimento per far entrare la Chiesa nel tempo della nuova
evangelizzazione. Una nuova stagione da vivere senza nostalgie, ma con la gioia di sapere che Cristo è il
Redentore dell’uomo, il vero centro del cosmo e della storia, come annunciava il Beato Giovanni Paolo II,
profeta della nuova evangelizzazione.169

È possibile così individuare la “novità” della nuova evangelizzazione riconoscendo anzitutto


nella “nuova creazione”170 di cui parla papa Benedetto XVI nelle sue Omelie pasquali171 la realtà
che precede l’atto di fede. Se non ci fosse la nuova creazione, infatti, non ci sarebbe la fede
teologale, ma solo la fede religiosa o culturale. La “contemporaneità” propria di Gesù di Nazaret172
è infatti legata alla sua realtà di Parola-Logos, non solo dunque come Verbo-creatore, ma anche
come fondamento della nuova creazione. In questo senso viene superato definitivamente il dualismo
tra il Gesù della storia e il Cristo della fede, e si va decisamente verso una nuova sintesi.173
L’esistenza storica dell’uomo – scrive ancora Leuzzi – è vita di costruzione e non di semplice processo
oggettuale. Ma per costruire è necessaria una capacità di progettazione che l’uomo da solo non è in grado
di garantire. Non si è più di fronte al limite etico, ma al limite della stabilità dell’uomo, la cui esistenza
storica rischia di svuotarsi di ogni fondamento. È il limite e l’insufficienza delle forme religiose sacrali,
che possono offrire una buona formazione etica, ma non possono intervenire ne garantire la struttura
storica dell’uomo. Gesù di Nazaret non è il fondatore di una religione che rende possibile l’incontro con
Lui per la via della storia o per la via della fede, ma Lui stesso è stato e continua ad essere la presenza di
Dio nella storia che sostiene e rafforza la capacità costruttiva dell’uomo, rendendolo veramente
protagonista della storia. Come è possibile tutto questo? Perché la religione, che da lui ha preso origine, è
una realtà storica che raggiunge e coinvolge la dimensione storico-esistenziale dell’uomo, fino a renderlo
esistenzialmente unito con la sua Persona, non solo spiritualmente ma anche ontologicamente. L’uomo è
raggiunto da Dio e trasformato nella sua essenza ontologica: è veramente un uomo nuovo. Questa
trasformazione pone l’esperienza cristiana in una prospettiva nuova rispetto ad ogni altra esperienza
religiosa. Infatti non si tratta di una semplice adesione, sia di natura sociale o spirituale, con il fondatore o
al suo messaggio, ma di reale partecipazione alla stessa esperienza di quel Gesù di Nazaret che
camminava lungo le vie della Galilea. Gesù di Nazaret non ha avuto bisogno di scrivere nulla, perché la
sua preoccupazione primaria non era la trasmissione delle sue parole o delle sue opere, come farebbe un
qualsiasi fondatore, ma era quella di aiutare i discepoli a capire che lo ‘stile’ di intervento del Dio di
Abramo, di Isacco e di Giacobbe raggiungeva il suo vertice nella sua Persona. La chiamata dei discepoli
era l’inizio di questo cammino di esperienza di incontro con la nuova presenza di Dio nella storia, il quale
con la sua pedagogia ha voluto testimoniare che senza una nuova creazione l’uomo non avrebbe potuto

169
L. LEUZZI, Dalla Fede religiosa alla Fede teologale, cit., pp. 48-52.
170
Cf. L. LEUZZI, Eucarestia e carità intellettuale, cit., pp. 59-63.
171
Si vedano a proposito gli Atti del ciclo di conferenze organizzato presso il Vicariato di Roma a proposito delle
Omelie pasquali di papa Benedetto XVI tenute in questi ultimi anni.
172
Per l’approfondimento del tema della contemporaneità di Gesù Cristo, cf. anche COMITATO PER IL PROGETTO
CULTURALE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA (a cura), Gesù nostro contemporaneo, Cantagalli, Siena 2012.
In questo volume sono raccolte le relazioni del Convegno internazionale svoltosi nei giorni 9-11 febbraio 2012.
173
Cf. L. LEUZZI, Atene e Gerusalemme di nuovo insieme, cit., pp. 44-47.
82
realizzarsi nella storia pienamente. La sua comunità è veramente diversa da ogni altra comunità spirituale
o sociale: lo stare con Lui non era una esperienza di socializzazione religiosa o di vita culturale, tanto
meno di iniziazione al sacro, ma esperienza di vita comunitaria dove si imparava a saper ascoltare e a
saper vedere la presenza di Dio nella storia, sullo stile dei poveri di Jahvè del Vecchio Testamento, che si
trasformerà in piena responsabilità storica personale e comunitaria con la Resurrezione. In questa
prospettiva l’ambiguità storica dell’evento della Resurrezione, avvenuta in assenza di testimoni oculari, è
il segno più eloquente della volontà di Gesù di Nazaret di non voler essere considerato un fondatore: la
Resurrezione è già all’opera nella vita dei discepoli. Una loro presenza nell’evento storico della
Resurrezione sarebbe stata contraddittoria con quanto avevano visto e non avrebbero potuto comprendere
la vera realtà della nuova esperienza di vita con il Crocifisso-Risorto. Il Risorto è già in loro e con loro
prima ancora della scoperta della tomba vuota. Tale scoperta, insieme alle apparizioni, non aggiungono
nulla alla presenza del Risorto nella loro vita, ma ne oggettivano la realtà. Con l’evento della Pentecoste il
cammino di trasformazione personale e comunitario dei discepoli raggiunge il suo apice: non nasce un
movimento spirituale o sociale, sia pure gerarchicamente organizzato; la nuova realtà storica, che è la
Chiesa, inizia ad assumere una dimensione esistenziale. È la prima realtà dinamica apparsa nella storia
che, assumendo la dimensione storico-esistenziale dell’uomo, la consolida fino a tal punto da diventare la
vera forma costruttiva della storia personale e comunitaria dell’uomo. La dinamicità della società, il
faciendum, apparirà molti secoli dopo. L’esperienza prepasquale e quella postpasquale dei discepoli, in tal
modo, possono essere considerate come una vera proposta pedagogica per aiutare l’uomo a comprendere
che in lui c’è il desiderio di una profonda esperienza religiosa che porta con sé la richiesta di vero
arricchimento ontologico. E ciò può realizzarsi solo se Dio assume l’esistenza dell’uomo e la trasforma. I
discepoli sono testimoni di ciò che è accaduto e di ciò che accade nella vita dell’uomo quando incontra il
Risorto.174

Per questo J. Ratzinger - papa Benedetto XVI nel libro Gesù di Nazaret denuncia il fatto che
«oggi è invalsa l’abitudine di considerare Gesù uno dei grandi fondatori di religioni nel mondo, ai
quali fu donata una profonda esperienza di Dio. Essi possono parlare di Dio agli uomini, a cui
questa ‘disposizione religiosa’ è stata negata, e coinvolgerli, per così dire nella loro esperienza di
Dio».175 Ma proprio nel fatto che Gesù non è il fondatore di una religione, ma il Salvatore
dell’uomo,176 può trovarsi il rapporto tra nuova creazione e fede teologale.
Così commenta L. Leuzzi:

La vera novità che rende il Cristianesimo non una variante religiosa, ma una religione (la vera
religione), è la diversa presenza di Gesù di Nazaret nella storia: presenza storico-personale e
storico-comunitaria, ambedue fondate sulla sua dimensione ontica. Dimensione ontico-statica,
quella del Gesù storico, dimensione ontico-dinamica, quella del Gesù della fede della Chiesa,
sua comunità, che è la nuova creazione. Solo così è possibile superare il pericolo di trasformare
il Gesù storico in un mito e il Gesù della fede in una esperienza carismatica presente, personale
o comunitaria. La sintesi tra il Gesù della storia e il Gesù della fede, quindi il rapporto tra Gesù
di Nazaret e la sua comunità, si fonda sulla sua realtà ontica di Verbo-Logos. In passato è stata
la dimensione religiosa di salvatore a garantire quella ontica, oggi è quella ontica di Verbo-
Logos a veicolare quella salvifica. Pertanto il rapporto tra fondatore e religione, nel
Cristianesimo, non è né di continuità né di rottura, come nelle religioni a forma sacrale, ma di
unità nella distinzione, resa possibile dalla posta in essere, con il mistero pasquale, di una nuova
realtà storico-dinamica, che arricchisce ontologicamente il discepolo. Il percorso di Benedetto
XVI, superando i limiti della teologia razionale e della ragione teologica, permette di cogliere la
vera natura del Cristianesimo e di entrare nel vivo del dibattito contemporaneo che vive nel
passaggio dalla teodicea alla filosofia della religione. Quest’ultimo invece di ridimensionare la
fede teologale, la rilancia come manifestazione della vera natura del Cristianesimo che è quella
della nuova creazione, realtà storico-dinamica, che può essere costruita solo con le virtù
teologali, in primis quella della fede, la porta che introduce alla vita nuova. Ciò può avvenire se

174
Ibid., pp. 44-46.
175
J. RATZINGER BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Mondadori, Milano 2007, p. 359.
176
È particolarmente significativo ricordare che Gesù Cristo è il Redemptor hominis nella prospettiva della Giornata
Mondiale della Gioventù che si tiene a Rio de Janeiro in luglio 2013 dal titolo “Andate e fate discepoli tutti i popoli (cf.
Mt 28,19)”, evento vissuto proprio nel segno della statua del Cristo Redentore con le braccia aperte che sovrasta la città
dal Monte Corcovado.
83
il passaggio dalla teodicea alla filosofia della religione viene colto non come alternativa alla
fede teologale, a vantaggio della fede religiosa, utopisticamente ritenuta più pura e più
esistenziale, ma come esigenza storica di rilancio (forse di scoperta) della vera natura del
Cristianesimo, di religione storico-dinamica, con una sua realtà ontologica. I tre pilastri del
percorso di Benedetto XVI, il realismo della fede, il Battesimo e il Dio vivo e vero, rendono
possibile la comprensione della vera natura del Cristianesimo, come realtà storico-dinamica.
Inoltre essi consentono di scoprire la vera novità della nuova evangelizzazione: il passaggio
dalla fede religiosa alla fede teologale, non in alternativa ma di compimento storico sollecitato
dalla nuova realtà storica. Questo passaggio è decisivo per la diakonia che la Chiesa è chiamata
a svolgere nella storia su mandato del suo Maestro. La nuova creazione, nella quale il battezzato
è introdotto per il dono della vita nuova, non è semplice fenomeno religioso, sia pure di natura
teologica, ma vera realtà storica, che appartiene al mondo dinamico che comprende quello
statico, ma lo supera e lo rilancia. In tale senso, il passaggio dalla teodicea alla filosofia della
religione trova la sua autentica esplicitazione, come risposta non ad una istanza puramente
soggettiva, ma come esigenza della realtà storica, che con la rivoluzione industriale si qualifica
come faciendum. Il ritorno alla fede teologale non può ridursi ad una questione apologetica, ma
è condizione necessaria per rispondere all’interrogativo della nuova evangelizzazione: la fede
cristiana può incontrare la storicità dell’uomo? La risposta è certamente di sì, perché la fede
cristiana è fede teologale e proprio per questo appartiene al mondo storico-dinamico e non a
quello statico-sacrale. Essa è, quindi, in grado non solo di incontrare la storicità, ma di servirla
perché possa raggiungere la sua pienezza. La nuova evangelizzazione è il nome della diakonia
della storia che il teologo Joseph Ratzinger definiva ‘significativa e necessaria’.177

L’incontro con Cristo, se è reale, non può infatti restare estrinseco alla persona umana, ma
deve coinvolgerla nella sua realtà esistenziale. È la storicità dell’uomo che lo rende possibile: se
l’uomo non fosse un essere storico, ma semplicemente nella storia, il cristianesimo risponderebbe
solo al bisogno di salvezza e di eternità che è nel cuore dell’uomo; se invece è la religione del
Logos, allora gli dona “un nuovo spazio di esistenza”. Per questo nella Chiesa l’uomo è abilitato
alla storicità, perché l’esistenza umana è esistenza di partecipazione mediante la quale ciascun
uomo costruisce se stesso e la storia. Il Logos-Verbo in questo senso accompagna, sostiene e
illumina la faticosa e affascinante avventura della vocazione di ogni uomo: collaborare con Lui per
costruire la civiltà dell’amore. Questa è l’esperienza di cui il mondo di oggi ha bisogno, per
comprendere la nuova situazione storica della società contemporanea: la reale presenza di Dio nella
storia.178
Il Cristianesimo offre così una “speranza affidabile” proprio nei termini di quella vita che –
donata attraverso l’evento battesimale – acquista «un nuovo spazio di esistenza»179 perché innesta
dentro un “noi”, una nuova società, intesa non solo sociologicamente ma ontologicamente, in cui si

177
L. LEUZZI, Dalla Fede religiosa alla Fede teologale, cit., pp. 86-90. Cf. anche ID., La questione di Dio oggi, cit., pp.
48-49 (Gesù di Nazaret il fondatore di una religione o il Salvatore dell’uomo?); J. RATZINGER, Introduzione al
cristianesimo, cit., p. 200.
178
Cf. L. LEUZZI, Atene e Gerusalemme di nuovo insieme, cit., pp. 43-47.
179
«Il Battesimo è una cosa ben diversa da un atto di socializzazione ecclesiale, da un rito un po’ fuori moda e
complicato per accogliere le persone nella Chiesa. È anche più di una semplice lavanda, di una specie di purificazione e
abbellimento dell’anima. È realmente morte e risurrezione, rinascita, trasformazione in una nuova vita. Come possiamo
comprenderlo? Penso che ciò che avviene nel Battesimo si chiarisca per noi più facilmente, se guardiamo alla parte
finale della piccola autobiografia spirituale che san Paolo ci ha donato nella sua Lettera ai Galati. Essa si conclude con
le parole che contengono anche il nucleo di questa biografia: ‘Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me’ (Gal 2,
20). Vivo, ma non sono più io. L’io stesso, la essenziale identità dell’uomo – di quest’uomo, Paolo – è stata cambiata.
Egli esiste ancora e non esiste più. Ha attraversato un ‘non’ e si trova continuamente in questo ‘non’: Io, ma ‘non’ più
io. Paolo con queste parole non descrive una qualche esperienza mistica, che forse poteva essergli stata donata e che,
semmai, potrebbe interessare noi dal punto di vista storico. No, questa frase è l’espressione di ciò che è avvenuto nel
Battesimo. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande. Allora il mio io c’è di
nuovo, ma appunto trasformato, dissodato, aperto mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo
spazio di esistenza». BENEDETTO XVI, Omelia nella Veglia pasquale nella Notte Santa (Basilica Vaticana, 15 aprile
2006).
84
vive e si sperimenta l’amore di Dio in Gesù Cristo, amore che sostiene la libertà dell’uomo nel
proiettarsi nella “costruzione” senza annullarsi.180
Non a caso papa Benedetto XVI al n. 10 della Spe Salvi richiama la formula classica del
dialogo battesimale tra il sacerdote e i genitori del battezzando: «‘Che cosa chiedi alla Chiesa di
Dio?’. ‘La fede’. ‘E che cosa ti dona la fede?’. ‘La vita eterna’».181 Il battezzato è effettivamente
nella condizione di costruire una nuova realtà, ha in sé una nuova condizione della sua esistenza che
lo rende capace di camminare con Dio, vivo e vero: il Battesimo182 infatti non è solo un evento di
socializzazione ecclesiale, ma è una “nuova creazione”. Se il Cristianesimo fosse una realtà statica,
il Battesimo si ridurrebbe solo ad un fatto di socializzazione religiosa o sociale, ma essendo invece
una realtà storico-dinamica, allora può donare una vita nuova. Essa «non è un semplice additum,
ma una vera trasformazione dell’uomo, che pone una vera novità d’essere»,183 una trasformazione
ontologica dell’esistenza umana, un vero “di più”.
La “vita eterna” non è così solo ciò che ci attende alla fine del nostro percorso esistenziale
terreno, ma ciò che ci è già dato in primizia: J. Ratzinger lo esprime in modo assai emblematico
anche nel secondo volume di Gesù di Nazaret: «il dono – il sacramentum – diventa exemplum,
esempio, e rimane tuttavia sempre dono. Essere cristiani è anzitutto un dono, che però poi si
sviluppa nella dinamica del vivere ed agire insieme con questo dono».184
La salvezza è così la vita nuova in Cristo, fatta dono all’uomo nel giorno del Battesimo, ed
è veramente “nuova creazione” nel senso che l’esistenza umana è ontologicamente trasformata e
inserita in un “nuovo essere”, che è la Chiesa, e l’uomo diviene protagonista della storia costruendo
l’organismo ecclesiale:
L’esistenza ecclesiale non è altro rispetto all’esistenza concretamente esistente dell’uomo, ma è
l’esistenza umana portata alla pienezza del suo arricchimento ontologico: l’uomo è veramente nuova
creatura. […] La salvezza non è un atto giuridico o spirituale ma è una vera rinascita dell’uomo. L’uomo
può realizzarsi come soggetto storicamente esistente perché nell’esistenza ecclesiale esce dalla propria
solitudine esistenziale: è la pienezza della sua storicità. Perché tale pienezza possa attuarsi è necessario
che l’uomo si consolidi nell’identità, nella stabilità e nell’eternità. L’esistenza ecclesiale è l’unica
esperienza storica dove queste condizioni possono realizzarsi. Infatti se l’identità può essere garantita
eticamente, la stabilità e l’eternità possono realizzarsi solo in quell’esistenza essenzializzata che è propria
della realtà storica ecclesiale. […] Nella società dinamica il divenire ha una dimensione ontologica e
quindi la stabilità non può essere garantita che da una realtà storica che non si consuma nel divenire
storico, ma che consolida nel divenire l’identità dell’uomo. Ciò a dire, una realtà storica che costruendosi
rende l’uomo protagonista e costruttore della storia senza annullarsi in essa. È ciò che avviene nella realtà
storica ecclesiale, che garantisce all’uomo la stabilità. Infine la questione dell’eternità, che nella società
dinamica assume una valenza decisiva. Infatti nella realtà storico-dinamica, innanzitutto in quella
ecclesiale, così come in quella della società, l’esistenza è inscindibile dall’essenza e quindi l’uomo per
storicizzarsi nella sua identità di essere corporeo e spirituale ha bisogno di una nuova esistenza
essenzializzata che porti con sé anche il corpo. Ciò può avvenire solo mediante una nuova creazione, che
è ciò che si realizza nel Battesimo. L’eternità non appartiene solo all’anima, ma a tutta l’esistenza storica,
che diventa esistenza nel tempo ma che prosegue oltre il tempo.185

180
Cf. L. LEUZZI, La questione di Dio oggi, cit., soprattutto le pp. 51-72 e 103-108.
181
BENEDETTO XVI, Spe salvi, LEV, Città del Vaticano 2007, n. 10.
182
Cf. L. LEUZZI, La questione di Dio oggi, cit., pp. 51-72.
183
L. LEUZZI, Eucarestia e carità intellettuale, cit., p. 21.
184
JOSEPH RATZINGER BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, LEV,
Città del Vaticano 2011, p. 78.
185
L. LEUZZI, Eucarestia e carità intellettuale, cit., pp. 60-63. Aggiunge l’autore: «Al di fuori dell’esistenza ecclesiale
all’uomo non rimane che l’astrarsi dal tempo o il lasciarsi trasportare dal divenire storico che necessariamente deve
poggiarsi su uno dei due aspetti dell’essere umano: o quello corporeo o quello spirituale. È l’inizio di quella
frammentazione dell’uomo che coinvolge prima la sua identità e poi la stabilità, per proseguire nell’annullamento nella
storia. Nonostante la diffusa opinione della crisi delle metanarrazioni, è opportuno ricordare che il marxismo e il
liberalcapitalismo si presentano e si sviluppano come nuove creazioni, assumendo una connotazione religiosa, di natura
a-teologica. Sono le prassi antirealistiche di natura monistica, nel senso che poggiano sulla scissione dualistica
dell’essere umano, incapaci di promuoverne nella storia l’identità, la stabilità e l’eternità». Ibid., p. 63.
85
L’unico Dio vivo e vero,186 infatti, che non assorbe l’uomo ma lo rende protagonista nella
storia, è Dio-Trinità. La vittoria pasquale di Cristo sulla morte, anche corporea, ci testifica così il
fatto che il Verbo-Logos – con la sua passione, morte e resurrezione – è il fondamento della nuova
creazione.
Nella Lettera enciclica Spe salvi papa Benedetto XVI, ricordando un testo di Gregorio
Nazianzeno ove si dice che «nel momento in cui i magi guidati dalla stella adorarono il nuovo re
Cristo, giunse la fine dell’astrologia, perché ormai le stelle girano secondo l’orbita determinata da
Cristo»,187 così afferma:
Di fatto, in questa scena è capovolta la concezione del mondo di allora che, in modo diverso, è
nuovamente in auge anche oggi. Non sono gli elementi del cosmo, le leggi della materia che in definitiva
governano il mondo e l’uomo, ma un Dio personale governa le stelle, cioè l’universo; non le leggi della
materia e dell’evoluzione sono l’ultima istanza, ma ragione, volontà, amore – una Persona. E se
conosciamo questa Persona e Lei conosce noi, allora veramente l’inesorabile potere degli elementi
materiali non è più l’ultima istanza; allora non siamo schiavi dell’universo e delle sue leggi, allora siamo
liberi. Una tale consapevolezza ha determinato nell’antichità gli spiriti schietti in ricerca. Il cielo non è
vuoto. La vita non è un semplice prodotto delle leggi e della casualità della materia, ma in tutto e
contemporaneamente al di sopra di tutto c’è una volontà personale, c’è uno Spirito che in Gesù si è
rivelato come Amore.188

L’insaziabile cuore dell’uomo cerca l’inesauribile Fonte dell’Amore, che si è rivelato in


Cristo.189 L’uomo si trova effettivamente a vivere con un’esistenza “aperta”, che teologicamente
trova in ultima analisi la sua origine nell’impronta trinitaria che gli è propria. E questo dato, per chi
lo accoglie e lo vive, può diventare oggi germe di nuova cultura, in un tempo190 in cui ce n’è
particolarmente bisogno, proprio per essere più autenticamente umani.
Bisogna pensare. Parlarsi (non monologarsi). Leggere pochissime cose che meritano. Riflettere,
contemplare. Sapersene andare da dove si è solo numero. Muoversi senza fretta. Persuadersi che, poiché
si può morire tra cinque minuti, ciò che conta è sempre fuori dalla logica dei calcoli, quali che siano. Non
essere ricattabili dalla paura della solitudine o di morire o di non essere stimati da questo o da quello.
Cercare il bello […]. ‘Patire’ il bello, ovvero purificarsi alla sua luce, al suo fuoco: è difficile trovarlo,
difficile comunicarlo; ma proprio perciò è la strada giusta, impegna tutta la vita.191

Specie quando l’aria culturale che si respira diventa più pesante, quando il mix di banalità-
mediocrità-volgarità diventa quasi insopportabile, allora puntare sulla bellezza, sulla verità, su Dio,
può far respirare a pieni polmoni.
Di fatto già nei testi del Vaticano II era presente e ben delineata la sfida che stiamo vivendo:
«anche ai nostri giorni, non pochi, ponendo un’eccessiva fiducia nel progresso delle scienze naturali
e della tecnica, inclinano verso una specie di idolatria delle cose temporali, fattisi piuttosto schiavi
che padroni di esse»;192 «perfino la civiltà moderna, non per se stessa ma in quanto troppo irretita
nella realtà terrena, può rendere spesso più difficile l’accesso a Dio».193

186
L. LEUZZI, La questione di Dio oggi, cit., pp. 73-97.
187
GREGORIO NAZIANZENO, Poemi dogmatici, V, 53-64: Patrologia Graeca 37, coll. 428-429.
188
BENEDETTO XVI, Spe salvi, cit., n. 5.
189
Il beato Giovanni Paolo II ebbe a dire ai giovani nell’anno del Grande Giubileo: «In realtà è Gesù che cercate
quando sognate la felicità; è lui che vi aspetta quando niente vi soddisfa di quello che trovate; è lui la bellezza che tanto
vi attrae; lui che vi provoca con quella sete di radicalità che non vi permette di adattarvi al compromesso. È Gesù che
suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande, la volontà di seguire un ideale, il rifiuto di
lasciarvi inghiottire dalla mediocrità, il coraggio di impegnarvi con umiltà e perseveranza per migliorare voi stessi e la
società, rendendola più umana e fraterna». GIOVANNI PAOLO II, Discorso in occasione della Veglia di preghiera del 19
agosto 2000 (Giornata Mondiale della Gioventù, Roma Tor Vergata).
190
G. CASOLI, Senza cultura. Chi l’ha uccisa? Indagine su un delitto, in Città Nuova (2011/4), pp. 72-73.
191
Ibid., p. 73.
192
Apostolicam Actuositatem, n. 7c.
193
Gaudium et Spes, n. 19b.
86
Nonostante la coscienza chiara delle difficoltà presenti, e forse anche di quelle future, il
Concilio ha però mostrato uno sguardo positivo, quasi una “simpatia”, verso l’uomo
contemporaneo:
Questi fatti deplorevoli però non scaturiscono necessariamente dalla odierna cultura né debbono indurci
nella tentazione di non riconoscere i suoi valori positivi. Fra questi si annoverano: lo studio delle scienze
e la rigorosa fedeltà al vero nell’indagine scientifica, la necessità di collaborare con altri nei gruppi tecnici
specializzati, il senso della solidarietà internazionale, la coscienza sempre più viva della responsabilità
degli esperti nell’aiutare e proteggere gli uomini, la volontà di rendere più felici le condizioni di vita per
tutti, specialmente per coloro che soffrono per la privazione della responsabilità personale o per la povertà
culturale. Tutto questo può in qualche modo essere una preparazione a ricevere l’annuncio del Vangelo;
preparazione che può essere informata dalla divina carità di Colui che è venuto a salvare il mondo.194

Pur di fronte agli innegabili problemi, e al non sempre facile accordo tra alcuni settori della
cultura umana e l’insegnamento cristiano, è ancora la Gaudium et Spes ad affermare anzitutto che
essi
non necessariamente sono di danno alla fede; possono, anzi, stimolare lo spirito ad una più accurata e
profonda intelligenza della fede. Infatti gli studi recenti e le nuove scoperte delle scienze, della storia e
della filosofia, suscitano nuovi problemi che comportano conseguenze anche per la vita pratica ed esigono
dai teologi anche nuove indagini. I teologi sono inoltre invitati, nel rispetto dei metodi e delle esigenze
proprie della scienza teologica, a ricercare modi sempre più adatti di comunicare la dottrina cristiana agli
uomini della loro epoca, perché altro è il deposito o le verità della fede, altro è il modo con cui vengono
enunziate, rimanendo pur sempre lo stesso il significato e il senso profondo. […] Coloro che si applicano
alle scienze teologiche nei Seminari e nelle Università, si studino di collaborare con gli uomini che
eccellono nelle altre scienze, mettendo in comune le loro forze e opinioni. La ricerca teologica, mentre
persegue la conoscenza profonda della verità rivelata, non trascuri il contatto con il proprio tempo, per
poter aiutare le persone competenti nelle varie branche del sapere ad una più piena conoscenza della
fede.195

Il Concilio Vaticano II affermò anche chiaramente, parlando – al termine della prima parte
della Gaudium et Spes – dell’aiuto che la Chiesa riceve dal mondo contemporaneo, che
l’esperienza dei secoli passati, il progresso della scienza, i tesori nascosti nelle varie forme della cultura
umana, attraverso cui si svela più appieno la natura stessa dell’uomo e si aprono nuove vie verso la
Verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa. […] Oggi, soprattutto, che i cambiamenti sono così
rapidi e tanto vari i modi di pensare, la Chiesa ha bisogno particolare dell’aiuto di coloro che, vivendo nel
mondo, sono esperti nelle varie istituzioni e discipline, e ne capiscono la mentalità, si tratti di credenti o di
non credenti.196

Questo proprio perché, reciprocamente, «è compito di tutta la Chiesa aiutare gli uomini
affinché siano resi capaci di ben indirizzare tutto l’ordine temporale e di ordinarlo a Dio per mezzo
di Cristo»,197 Signore del cosmo e della storia, Sophia tou Theou.

Poco meno di cinquant’anni fa la Gaudium et Spes, parlando di fede e cultura, affermava


infine che l’uomo,
applicandosi allo studio delle varie discipline, quali la filosofia, la storia, la matematica, le scienze
naturali, e occupandosi di arte, può contribuire moltissimo ad elevare l’umana famiglia a più alti concetti
del vero, del bene e del bello e ad un giudizio di universale valore; in tal modo questa sarà più vivamente

194
Ibid., n. 57f.
195
Ibid., n. 62c e 62g
196
Ibid., n. 44b.
197
Apostolicam Actuositatem, 7d. Anche il Decreto Unitatis redintegratio affida a tutti i cristiani, in vista della loro
cooperazione verso il bene e la pace, il compito di «far progredire con spirito cristiano le scienze e le arti». Unitatis
redintegratio, n. 12.
87
illuminata da quella mirabile Sapienza, che dall’eternità era con Dio, disponendo con Lui ogni cosa,
ricreandosi nell’orbe terrestre e trovando le sue delizie nello stare con i figli degli uomini.198

Per questo oggi più che mai c’è bisogno di autentica sapienza, come ricorda ancora la stessa
Costituzione conciliare: «L’epoca nostra, più ancora che i secoli passati, ha bisogno di questa
sapienza, perché diventino più umane tutte le sue nuove scoperte. È in pericolo, di fatto, il futuro
del mondo, a meno che non vengano suscitati uomini più saggi».199
Coltivare il “realismo della fede” e promuovere una nozione “allargata” di razionalità e di
scienza può essere infatti un prezioso contributo culturale alla nuova evangelizzazione. Ed è anche
un vero e proprio programma di vita e di impegno educativo-pastorale:

198
Gaudium et Spes, n. 57c.
199
Ibid., n. 15d. Il corsivo è nostro.
88
4. La “querelle” sull’identità della filosofia cristiana

4.1. Identificazione storica del problema

Negli anni ‘30 alla Sorbona di Parigi, prende avvio la “querelle” sulla filosofia cristiana, e
in generale, sulla filosofia aggettivata. Il problema della filosofia cristiana esplode dando vita a
discussioni tra schieramenti opposti degli stessi cultori cattolici della filosofia. Vi erano coloro che
affermavano la possibilità di una filosofia cristiana, mentre, dall’altra parte, tra gli stessi cultori
cattolici vi erano coloro che non ammettevano la possibilità di una filosofia strettamente legata al
cristianesimo.
Emile Bréhier e Léon Brunschvicg, richiamandosi al concetto moderno di filosofia,
contestarono l’esistenza e la possibilità stessa di una filosofia cristiana. Bréhier pubblicò una opera
in cui negava decisamente l’esistenza e la possibilità di una filosofia cristiana. Costui affermava che
l’apporto del cristianesimo allo sviluppo del pensiero filosofico è nullo, non riconoscendo una
filosofia cristiana in sant’Agostino. Pur attribuendo a Tommaso il “merito” di aver assegnato un
valore autonomo alla filosofia, Bréhier non riconosce neanche in Tommaso una filosofia cristiana:
l’Aquinate cessa di essere filosofo dal momento in cui sottomette la ragione al controllo della fede.
Secondo Bréhier, pur cercando attraverso la storia del pensiero, non si trova una filosofia cristiana.
L’unica filosofia che egli sarebbe disposto ad ammettere sarebbe quella formulata dal magistero
della Chiesa, ma tale filosofia non ha alcun interesse filosofico.
Durante una seduta accademica, nel 1931, Brunschvicg afferma espressamente, in
prospettiva razionalista, che è impossibile una filosofia cristiana, perché non può esistere una
filosofia aggettivata.200 Egli conclude con l’affermazione che “non può esistere una filosofia
cristiana, come non c’è una matematica cristiana” (è quanto sottende la scelta di attuali manuali di
storia della filosofia che passano da Plotino ... a Bacone, e che veniva e viene ancora insegnato).
Brunschvicg riconosce soltanto un’influenza del cristianesimo nella cultura.
M. Heidegger, per esempio, ha spinto poi ancora più a fondo la critica: con la fede cristiana
non si può essere filosofi, giacche è tipico della domanda filosofica essere radicale e senza
pregiudizi. Egli parla espressamente del concetto di filosofia cristiana come equivalente a quello di
un “ferro ligneo”. Se la filosofia si pone nel mondo occidentale come indagine autonoma, che
riceve solo da sè il fondamento e la legge del suo sviluppo, come ricerca in cui la disciplina, punto
di partenza e metodo della ricerca, siano posti e giustificati dalla ricerca stessa, allora non c’è posto
per una filosofia condotta in ambito di fede. Se la fede è adesione ad una rivelazione accolta in base
a una testimonianza, può sembrare che essa tenda ad escludere nel suo stesso principio la ricerca,
accettando un dato proveniente dall’alto.
J. Ratzinger ricorda anche, su questo versante, le posizioni di K. Jaspers e di K. Barth; si è
imposta oggi, secondo il teologo tedesco, una situazione culturale in cui:

la negazione della praticabilità dell’ontologia - o perlomeno la rinuncia ad essa - sembrano oggi a molti
le uniche opzioni ragionevoli. […] A mio giudizio, ciò mostra sufficientemente che non si può scorporare
la domanda metafisica dall’interrogazione filosofica, né degradarla in qualche modo a residuo ellenistico.
La dove non si pone più la domanda circa l’origine e il fine di tutto il reale, si trascura proprio quanto è lo
specifico dell’indagine filosofica.201
200
Scrivono invece G. Deleuze e F. Guattari: «Si può parlare di una ‘filosofia’ cinese, induista, ebraica, islamica? Sì,
nella misura in cui il pensiero si realizza su un piano di immanenza che può essere popolato tanto di figure quanto di
concetti. Tuttavia questo piano di immanenza non è esattamente filosofico ma prefilosofico. Esso è influenzato da ciò
che lo popola e che reagisce su di lui, in modo da diventare filosofico solo sotto l’effetto del concetto: presupposto dalla
filosofia, esso è nondimeno instaurato da quest’ultima e si dispiega in un rapporto filosofico con la non-filosofia. Nel
caso delle figure, al contrario, il prefilosofico mostra che il piano di immanenza non era ineluttabilmente destinato a una
creazione di concetto o a una formazione filosofica, ma poteva manifestarsi in forme di sapienza e religioni secondo una
biforcazione che avrebbe escluso in partenza la possibilità stessa della filosofia». G. DELEUZE - F. GUATTARI, Che cos’è
la filosofia, Einaudi, Torino 1996, pp. 85-86.
201
J. RATZINGER, Natura e compito della teologia, cit., p. 24.
89
4.2. Alcune risposte date da parte cristiana

Alla fine del secolo scorso e in questo sono entrati in scena, esprimendosi anche su questo
problema, un considerevole numero di filosofi, di tendenze dottrinali e correnti di pensiero cristiane
che a loro modo fornirono un contributo importante che non può essere dimenticato e perduto, ma
che deve essere studiato e messo a frutto.
Si presenta un variegato panorama di risposte, esposto da Nicolosi, in Fede cristiana e
riflessione filosofica.202

Régis JOLIVET: “libera subordinazione della filosofia alla fede”.203

Etienne GILSON: “la Rivelazione generatrice di ragione”.204


Egli ha in un primo tempo creduto di poter mostrare l’esistenza storica di una filosofia
cristiana proprio nei secoli del predominio della teologia, e cioè nel Medioevo. L’autore francese,
studiando Descartes e le sue fonti (in vista della sua seconda tesi, la “tesi di aggregazione”, si
impegnò in un “Index scolastico cartesiano”), accostò Tommaso e Bonaventura. Così racconta egli
stesso: “a partire da Cartesio andai alle fonti medievali della sua dottrina. Trovai travasate dai
teologi medievali nella riflessione di Cartesio…”.
Il Medioevo secondo Gilson è popolato di filosofi: egli si persuase che la Scolastica avesse
elaborato una filosofia. Sarebbe quindi possibile estrarre, giocando sulla distinzione tra fede e
ragione, una filosofia dalle opere teologiche. Egli considera la Summa Theologiae e mostra che si
possono scegliere i sillogismi in cui non si trovano premesse di fede. Nel corso della sua carriera si
confrontò con altre posizioni, specie con Thery e Mandonnet.
La tesi di Gilson è che la filosofia cristiana nasce perché si razionalizzano le verità di fede:
una filosofia cristiana c’è di fatto stata, se Descartes l’ha trovata: vanno estratti allora i sillogismi
che non hanno premesse di fede. Il contesto teologico è fatto di tanti sillogismi: essi sono tutti
garantiti dalla Scrittura, per alcuni non serve la fede: i sillogismi non sostenuti dalla fede sono
filosofici.
Per Gilson la verità è sempre la stessa: prima è creduta, perché qualcuno l’attesta, poi è
“sospesa” sul soggetto. Alla fede subentra la conquista intellettuale.

Jacques MARITAIN: “stato cristiano della filosofia”.205


Egli ha teorizzato lo statuto della filosofia cristiana: l’aggettivo “cristiana” è motivato dal
fatto che cristiano è l’uomo che la costituisce. La filosofia non è cristiana per sua essenza,
procedendo secondo principi puramente razionali; ma lo è per le condizioni del suo esercizio: verità
di per sè accessibili alla sola ragione le vengono di fatto proposte dalla rivelazione cristiana; d’altra
parte il lume della fede infusa corrobora la ragione umana ad operare proprio come ragione.

Maurice BLONDEL: “filosofia cattolica”.206


Egli propone una filosofia cattolica: una filosofia strettamente rispettosa dei propri metodi
razionali, la quale giunge a postulare non solo il cristianesimo, ma anche il cattolicesimo in base ad
un’analisi della realtà, soprattutto dell’azione umana, come risposta alle richieste che da essa
emergono. Per poter cogliere il significato “cattolico” della filosofia, che si sviluppa con mezzi

202
C. NICOLOSI, Fede cristiana e riflessione filosofica. Il problema della filosofia cristiana. Teoria e storia di un
dibattito, Roma 1973.
203
Cf. ib., pp. 51-68.
204
Cf. ib., pp. 69-86.
205
Cf. ib., pp. 97-118.
206
Cf. C. NICOLOSI, Fede cristiana, cit., pp. 119-140. Cf. anche G. COFFELE, “Fides et ratio” e la filosofia della
religione contemporanea. L’esempio di Maurice Blondel (1861-1949), in M. MANTOVANI - S. THURUTHIYIL - M. TOSO
(a cura), Fede e ragione, cit., pp. 227-235.
90
propri al di là della fede, non bisogna intenderla soltanto come storia, ma come vita che si svolge
nel’intimo di ogni coscienza.

Henri GOUHIER: “rivelazione come emozione creatrice per una filosofia della realtà”.207

André Dalmace SERTILLANGES: “autonomia tecnica della filosofia e sua continuità con la
teologia”.208

Maurice NÉDONCELLE: “la filosofia cristiana come appello della ragione ad una realtà
assoluta”.209

Henri DE LUBAC: “la Rivelazione come ingrandimento della ragione e rinnovamento


dell’oggetto”.210

Michele Federico SCIACCA: “la Rivelazione come pienezza dell’uomo, nella filosofia
dell’integralità”.211

Fernand VAN STEENBERGHEN: “teologia come Grenzbegriff della filosofia”.212


Secondo L. Bogliolo, la grande preoccupazione di Van Steenberghen è di salvare
l’autonomia della filosofia, distinguendola nettamente dalla teologia, divenendo così decisivo
avversario della espressione “filosofia cristiana”. Il Van Steenberghen, in nome dell’esattezza del
linguaggio, respinge la filosofia cristiana. Filosofia e cristianesimo, secondo l’autore, non
potrebbero stare uniti senza confondersi e snaturarsi reciprocamente: “nella elaborazione di una
filosofia propriamente detta il cristianesimo non interviene mai se non in maniera indiretta ed
accidentale. L’influenza diretta del cristianesimo è di ordine puramente psicologico e si limita a
mettere il filosofo cristiano nelle condizioni migliori per elaborare - non una filosofia cristiana -,
che non ha senso), ma una filosofia vera”.213

Alexandre RENARD: “ambiguità della filosofia cristiana, nel duplice significato materiale e
formale”.214

G.M. MANSER: “tomismo essenzialistico”.215

Bruno DE SOLAGES: “eccletismo conciliante”.216

Réginald GARRIGOU-LAGRANGE: “filosofia cristiana come filosofia nello stato più


perfetto”.217

Pierre GUÉRIN: “filosofia come possesso dell’oggetto, e religione come dono di sé”.218

207
Cf. C. NICOLOSI, Fede cristiana, cit., pp. 181-192.
208
Cf. ib., pp. 193-206.
209
Cf. ib., pp. 207-218.
210
Cf. ib., pp. 219-230.
211
Cf. ib., pp. 231-238.
212
Cf. ib., pp. 239-256.
213
L. BOGLIOLO, La Filosofia cristiana, cit., p. 145.
214
Cf. C. NICOLOSI, Fede cristiana, cit., pp. 257-272.
215
Cf. ib., pp. 273-282.
216
Cf. ib., pp. 283-290.
217
Cf. ib., pp. 291-300.
218
Cf. ib., pp. 307-313.
91
Arnold REYMOND: “esperienza della fede come superamento delle opposizioni”.219

Roger MEHL: “discontinuità fondamentale tra ricerca metafisica e rivelazione


scritturistica”.220

Paul RICOEUR: “tensione tra comprensione filosofica e comprensione teologica”.221

Carmelo NICOLOSI.
Così scrive l’autore:

Per decidere sulla legittimità dell’espressione ‘filosofia cristiana’, occorre esaminare i concetti espressi
dai due termini, tra i quali dovrà, nel caso, essere stabilita una convenienza o una opposizione.
‘Cristianesimo’, nel nostro caso, significa soprattutto dottrina cristiana […], un complesso di verità
storicamente determinate e dogmaticamente definite dalla Chiesa, autorizzata a custodirle e ad insegnarle.
Dal punto di vista formale, l’aggettivo ‘cristiano’ appartiene a Cristo e al suo insegnamento. Deve essere
quindi escluso che l’aggettivo ‘cristiana’, dato alla filosofia, sia tale da esprimerne la differenza specifica,
così da far parte della definizione di essa. Se ci deve essere, cioè, ‘filosofia cristiana’, ciò non dovrà né
potrà toccare l’ordine delle essenze, le quali perciò resteranno rigorosamente distinte. Considerata, quindi,
nell’ordine delle essenze, la filosofia non è più tomista che kantiana, non è più maomettana che tedesca,
ma è filosofia sic et simpliciter, semplice conoscenza razionale della realtà, filosofia fuori di ogni
condizione di tempo, spazio, soggetto. Considerato da questo punto di vista il concetto di ‘filosofia
cristiana’ non è ammissibile.222

Quando diciamo di considerare la filosofia dal punto di vista formale, intendiamo cogliere ciò che essa ha
di essenzialmente caratteristico, per cui viene a distinguersi da ogni altra specie di conoscenza, in quanto
ha un oggetto formale proprio. E giacché ciò che lo specifica è l’oggetto formale filosofico-cristiano, non
può, evidentemente, darsi una filosofia specificatamente cristiana, nel senso tecnico della parola. La
filosofia, formalmente, nella sua «essenza» e nella sua «tecnica» è indipendente dal cristianesimo.223

Ma allora è giustificabile la nozione di filosofia cristiana? Premessa fondamentale è che l’espressione


‘filosofia cristiana’ non vuole opporsi a filosofia razionale o filosofia vera. Essa è vera e razionale. Essa
non è ‘essenzialmente cristiana’, in quanto scoprirebbe e dimostrerebbe i misteri cristiani, o accetterebbe
le verità razionali per l’autorità della fede e non per ragione. In altri termini, la Rivelazione, venendo a
contatto con la filosofia, non ne cambia la natura.224

Per stabilire la legittimità dell’espressione filosofia cristiana non bisogna considerare la nozione di
filosofia in se stessa, ma in concreto, e perciò badare al contenuto oggettivo di verità, per cui un sistema
filosofico si viene a distinguere positivamente ed oggettivamente da un altro: occorre, cioè, passare dal
piano dell’essenza a quello dell’esistenza. Ora è indubitabile che il cristianesimo storicamente ha
apportato delle nozioni razionali prima sconosciute, altre ne ha perfezionate, giacche ha insegnato delle
verità, come la creazione, la provvidenza, l’immortalità personale, che possono essere dimostrate dalla
ragione, ma che prima del cristianesimo erano ancora sconosciute o ancora confuse.225

Una filosofia cristiana in senso formale non è possibile. […]. In un senso più largo, nell’accezione
materiale, questa terminologia può essere considerata una delle più appropriate per mettere in evidenza
l’unità vitale, nell’unità dell’uomo e del suo destino, di ragione e fede, di ricerca e di Rivelazione.226

219
Cf. ib., pp. 317-328.
220
Cf. ib., pp. 329-340.
221
Cf. ib., pp. 341-358.
222
Ib., p. 431.
223
Ib., pp. 431-432.
224
Ib., p. 432.
225
Ib., pp. 432-433.
226
Ib., pp. 433-434.
92
Luigi BOGLIOLO: “i capisaldi costitutivi della filosofia cristiana”.
Così scrive l’autore:

1. La filosofia cristiana ha una grande storia. Cristianesimo e filosofia sono convissuti insieme, con
reciproco vantaggio, nei Padri della Chiesa, primo fa tutti in S. Agostino, nei grandi dottori medievali: S.
Anselmo, S. Alberto Magno, S. Bonaventura, S. Tommaso d’Aquino, in molti filosofi autenticamente
cristiani dell’epoca moderna e contemporanea.
2. Filosofia e rivelazione cristiana procedono dalla medesima fonte. La filosofia si basa sulla realtà
parlante delle creature (si potrebbe dire che il cosmo intero è la rivelazione naturale di Dio); la fede dalla
comunicazione diretta della Parola di Dio. Unica è la sorgente dell’una e dell’altra: Dio creante e
rivelante.
3. Il rapporto filosofia e cristianesimo è un riflesso del rapporto tra natura umana e natura divina in Cristo
[…]. Il divino non nuoce all’umano: ne è la fonte sempre viva, da cui riceve realizzazione, sviluppo e
arricchimento in tutte le direzioni a cui si protende la natura umana. Analogamente a ciò che avviene in
Cristo, avviene per ogni cristiano, fatto partecipe della vita di Cristo e in Cristo. Ne avvantaggia l’attività
dell’intelligenza, della volontà, della libertà. Tra queste opere vi è anche la filosofia che diviene, perciò
stesso, più autonoma, proprio come filosofia. Lo slargamento d’orizzonte offerto dalla fede, lancia la
mente umana verso più alte e più limpide mete […].
4. Il soprannaturale esercita un influsso positivo, dona qualche cosa che grandemente espande le capacità
della ragione. […] È necessario rifarsi a un influsso d’essere (ontologico e gnoseologico insieme), cioè a
un influsso causale.227

4.3. I paragrafi di FR sui “differenti stati della filosofia” rispetto alla teologia

FR al n. 75 parla anzitutto della differenza tra una filosofia “autonoma” e una filosofia
“separata”.

Si possono distinguere diversi stati della filosofia rispetto alla fede cristiana. Un primo è quello della
filosofia totalmente indipendente dalla Rivelazione evangelica: è lo stato della filosofia quale si è
storicamente concretizzata nelle epoche che hanno preceduto la nascita del Redentore e, dopo di essa,
nelle regioni non ancora raggiunte dal Vangelo. In questa situazione, la filosofia manifesta la legittima
aspirazione ad essere un’impresa autonoma, che procede cioè secondo le leggi sue proprie, avvalendosi
delle sole forze della ragione. Pur nella consapevolezza dei gravi limiti dovuti alla congenita debolezza
dell’umana ragione, questa aspirazione va sostenuta e rafforzata. L’impegno filosofico, infatti, quale
ricerca della verità nell’ambito naturale, rimane almeno implicitamente aperto al soprannaturale.
Di più: anche quando è lo stesso discorso teologico ad avvalersi di concetti e argomenti filosofici,
l’esigenza di corretta autonomia del pensiero va rispettata. L’argomentazione sviluppata secondo rigorosi
criteri razionali, infatti, è garanzia del raggiungimento di risultati universalmente validi. Si verifica anche
qui il principio secondo cui la grazia non distrugge, ma perfeziona la natura: l’assenso di fede, che
impegna l’intelletto e la volontà, non distrugge ma perfeziona il libero arbitrio di ogni credente che
accoglie in sé il dato rivelato.
Da questa corretta istanza si allontana in modo netto la teoria della cosiddetta filosofia «separata»,
perseguita da parecchi filosofi moderni. Più che l’affermazione della giusta autonomia del filosofare, essa
costituisce la rivendicazione di una autosufficienza del pensiero che si rivela chiaramente illegittima:
rifiutare gli apporti di verità derivanti dalla rivelazione divina significa infatti precludersi l’accesso a una
più profonda conoscenza della verità, a danno della stessa filosofia.228

FR al n. 76 distingue, rispetto alla “filosofia cristiana”, un aspetto soggettivo e uno


oggettivo.

Un secondo stato della filosofia è quello che molti designano con l’espressione filosofia cristiana. La
denominazione è di per sé legittima, ma non deve essere equivocata: non si intende con essa alludere ad
una filosofia ufficiale della Chiesa, giacché la fede non è come tale una filosofia. Con questo appellativo
si vuole piuttosto indicare un filosofare cristiano, una speculazione filosofica concepita in unione vitale
con la fede. Non ci si riferisce quindi semplicemente ad una filosofia elaborata da filosofi cristiani, i quali

227
L. BOGLIOLO, La Filosofia cristiana, cit., 213-214.
228
FR, n. 75.
93
nella loro ricerca non hanno voluto contraddire la fede. Parlando di filosofia cristiana si intendono
abbracciare tutti quegli importanti sviluppi del pensiero filosofico che non si sarebbero realizzati senza
l’apporto, diretto o indiretto, della fede cristiana.
Due sono, pertanto, gli aspetti della filosofia cristiana: uno soggettivo, che consiste nella purificazione
della ragione da parte della fede. Come virtù teologale, essa libera la ragione dalla presunzione, tipica
tentazione a cui i filosofi sono facilmente soggetti. Già san Paolo e i Padri della Chiesa e, più vicino a noi,
filosofi come Pascal e Kierkegaard l’hanno stigmatizzata. Con l’umiltà, il filosofo acquista anche il
coraggio di affrontare alcune questioni che difficilmente potrebbe risolvere senza prendere in
considerazione i dati ricevuti dalla Rivelazione. Si pensi, ad esempio, ai problemi del male e della
sofferenza, all’identità personale di Dio e alla domanda sul senso della vita o, più direttamente, alla
domanda metafisica radicale: ‘Perché vi è qualcosa?’.
Vi è poi l’aspetto oggettivo, riguardante i contenuti: la Rivelazione propone chiaramente alcune verità
che, pur non essendo naturalmente inaccessibili alla ragione, forse non sarebbero mai state da essa
scoperte, se fosse stata abbandonata a sé stessa. In questo orizzonte si situano questioni come il concetto
di un Dio personale, libero e creatore, che tanto rilievo ha avuto per lo sviluppo del pensiero filosofico e,
in particolare, per la filosofia dell’essere. A quest’ambito appartiene pure la realtà del peccato, così
com’essa appare alla luce della fede, la quale aiuta a impostare filosoficamente in modo adeguato il
problema del male. Anche la concezione della persona come essere spirituale è una peculiare originalità
della fede: l’annuncio cristiano della dignità, dell’uguaglianza e della libertà degli uomini ha certamente
influito sulla riflessione filosofica che i moderni hanno condotto. Più vicino a noi, si può menzionare la
scoperta dell’importanza che ha anche per la filosofia l’evento storico, centro della Rivelazione cristiana.
Non a caso, esso è diventato perno di una filosofia della storia, che si presenta come un nuovo capitolo
della ricerca umana della verità.
Tra gli elementi oggettivi della filosofia cristiana rientra anche la necessità di esplorare la razionalità di
alcune verità espresse dalla Sacra Scrittura, come la possibilità di una vocazione soprannaturale
dell’uomo ed anche lo stesso peccato originale. Sono compiti che provocano la ragione a riconoscere che
vi è del vero e del razionale ben oltre gli stretti confini entro i quali essa sarebbe portata a rinchiudersi.
Queste tematiche allargano di fatto l’ambito del razionale.
Speculando su questi contenuti, i filosofi non sono diventati teologi, in quanto non hanno cercato di
comprendere e di illustrare le verità della fede a partire dalla Rivelazione. Hanno continuato a lavorare sul
loro proprio terreno e con la propria metodologia puramente razionale, ma allargando la loro indagine a
nuovi ambiti del vero. Si può dire che, senza questo influsso stimolante della parola di Dio, buona parte
della filosofia moderna e contemporanea non esisterebbe. Il dato conserva tutta la sua rilevanza, pur di
fronte alla deludente costatazione dell’abbandono dell’ortodossia cristiana da parte di non pochi pensatori
di questi ultimi secoli.229

La filosofia, afferma FR al n. 77, è anche “chiamata in causa dalla stessa teologia”.

Un altro stato significativo della filosofia si ha quando è la stessa teologia a chiamare in causa la filosofia.
In realtà, la teologia ha sempre avuto e continua ad avere bisogno dell’apporto filosofico. Essendo opera
della ragione critica alla luce della fede, il lavoro teologico presuppone ed esige in tutto il suo indagare
una ragione concettualmente e argomentativamente educata e formata. La teologia, inoltre, ha bisogno
della filosofia come interlocutrice per verificare l’intelligibilità e la verità universale dei suoi asserti. Non
a caso furono filosofie non cristiane ad essere assunte dai Padri della Chiesa e dai teologi medievali a tale
funzione esplicativa. Questo fatto storico indica il valore dell’autonomia che la filosofia conserva anche
in questo suo terzo stato, ma insieme mostra le trasformazioni necessarie e profonde che essa deve subire.
E proprio nel senso di un apporto indispensabile e nobile che la filosofia fu chiamata fin dall’età patristica
ancilla theologiae. Il titolo non fu applicato per indicare una servile sottomissione o un ruolo puramente
funzionale della filosofia nei confronti della teologia. Fu utilizzato piuttosto nel senso in cui Aristotele
parlava delle scienze esperienziali quali ‘ancelle’ della ‘filosofia prima’. L’espressione, oggi difficilmente
utilizzabile in forza dei principi di autonomia a cui si è fatto cenno, è servita nel corso della storia per
indicare la necessità del rapporto tra le due scienze e l’impossibilità di una loro separazione.
Se il teologo si rifiutasse di avvalersi della filosofia, rischierebbe di far filosofia a sua insaputa e di
rinchiudersi in strutture di pensiero poco adatte all’intelligenza della fede. Il filosofo, da parte sua, se
escludesse ogni contatto con la teologia, si sentirebbe in dovere di impadronirsi per conto proprio dei
contenuti della fede cristiana, come è avvenuto con alcuni filosofi moderni. In un caso come nell’altro, si
profilerebbe il pericolo della distruzione dei principi basilari di autonomia che ogni scienza giustamente
vuole garantiti.

229
Ib., n. 76.
94
Lo stato della filosofia qui considerato, per le implicanze che comporta nell’intelligenza della
Rivelazione, si colloca insieme alla teologia più direttamente sotto l’autorità del Magistero e del suo
discernimento […]. Dalle verità di fede, infatti, derivano determinate esigenze che la filosofia deve
rispettare nel momento in cui entra in rapporto con la teologia.230

230
Ib., n. 77.
95
5. Considerazioni e proposta teoretica complessiva

5.1. Sul rapporto tra Chiesa e filosofia

Il testo della FR fin dall’inizio afferma, ai nn. 2 e 6, il legame tra la Chiesa e la filosofia. La
Chiesa non è estranea al cammino di ricerca dell’uomo, e proprio nel suo vivere la “diaconia alla
verità” intende riaffermare, soprattutto nell’atttuale contesto, la necessità della riflessione sulla
verità. È questo il motivo fondante dell’Enciclica stessa.

La Chiesa non è estranea, né può esserlo, a questo cammino di ricerca. Da quando, nel Mistero pasquale,
ha ricevuto in dono la verità ultima sulla vita dell’uomo, essa s’è fatta pellegrina per le strade del mondo
per annunciare che Gesù Cristo è ‘la via, la verità e la vita’ (Gv 14, 6). Tra i diversi servizi che essa deve
offrire all’umanità, uno ve n’è che la vede responsabile in modo del tutto peculiare: è la diaconia alla
verità. Questa missione, da una parte, rende la comunità credente partecipe dello sforzo comune che
l’umanità compie per raggiungere la verità; dall’altra, la obbliga a farsi carico dell’annuncio delle
certezze acquisite, pur nella consapevolezza che ogni verità raggiunta è sempre solo una tappa verso
quella piena verità che si manifesterà nella rivelazione ultima di Dio. […]
Forte della competenza che le deriva dall’essere depositaria della Rivelazione di Gesù Cristo, la Chiesa
intende riaffermare la necessità della riflessione sulla verità.231

FR chiarisce subito il fatto che «la Chiesa non propone una propria filosofia, né canonizza
una qualsiasi filosofia particolare a scapito di altre» (FR, n. 49). Ciò ha una ragione profonda.

La ragione profonda di questa riservatezza sta nel fatto che la filosofia, anche quando entra in rapporto
con la teologia, deve procedere secondo i suoi metodi e le sue regole; non vi sarebbe altrimenti garanzia
che essa rimanga orientata verso la verità e ad essa tenda con un processo razionalmente controllabile. Di
poco aiuto sarebbe una filosofia che non procedesse alla luce della ragione secondo propri principi e
specifiche metodologie. In fondo, la radice della autonomia di cui gode la filosofia è da individuare nel
fatto che la ragione è per sua natura orientata alla verità ed è inoltre in se stessa fornita dei mezzi
necessari per raggiungerla. Una filosofia consapevole di questo suo ‘statuto costitutivo’ non può non
rispettare anche le esigenze e le evidenze proprie della verità rivelata.232

Il Magistero ecclesiastico, tuttavia, esercitando alla luce della fede il proprio discernimento
nei confronti delle filosofie, è intervenuto nel corso della storia in riferimento a «deviazioni e […]
errori in cui non di rado il pensiero filosofico, soprattutto moderno, è incorso», indicando «ciò che
in un sistema filosofico può risultare incompatibile con la sua fede».

Non è compito né competenza del Magistero intervenire per colmare le lacune di un discorso filosofico
carente. È suo obbligo, invece, reagire in maniera chiara e forte quando tesi filosofiche discutibili
minacciano la retta comprensione del dato rivelato e quando si diffondono teorie false e di parte che
seminano gravi errori, confondendo la semplicità e la purezza della fede del popolo di Dio.
Il Magistero ecclesiastico, quindi, può e deve esercitare autoritativamente, alla luce della fede, il proprio
discernimento critico nei confronti delle filosofie e delle affermazioni che si scontrano con la dottrina
cristiana. Al Magistero spetta di indicare, anzitutto, quali presupposti e conclusioni filosofiche sarebbero
incompatibili con la verità rivelata, formulando con ciò stesso le esigenze che si impongono alla filosofia
dal punto di vista della fede. Nello sviluppo del sapere filosofico, inoltre, sono sorte diverse scuole di
pensiero. Anche questo pluralismo pone il Magistero di fronte alla responsabilità di esprimere il suo
giudizio circa la compatibilità o meno delle concezioni di fondo, a cui queste scuole si attengono, con le
esigenze proprie della Parola di Dio e della riflessione teologica.
La Chiesa ha il dovere di indicare ciò che in un sistema filosofico può risultare incompatibile con la sua
fede. Molti contenuti filosofici, infatti, quali i temi di Dio, dell’uomo, della sua libertà e del suo agire
etico, la chiamano in causa direttamente, perché toccano la verità rivelata che essa custodisce.233

231
Ib., nn. 2 e 6.
232
Ib., n. 49.
233
Ib., nn. 49-50.
96
Ciò è avvenuto più volte nel corso dei secoli.

Non è solo di recente che il Magistero della Chiesa è intervenuto per manifestare il suo pensiero nei
confronti di determinate dottrine filosofiche. A titolo esemplificativo basti ricordare, nel corso dei secoli, i
pronunciamenti circa le teorie che sostenevano la preesistenza delle anime, come pure circa le diverse
forme di idolatria e di esoterismo superstizioso, contenute in tesi astrologiche; per non dimenticare i testi
più sistematici contro alcune tesi dell’averroismo latino, incompatibili con la fede cristiana.
Se la parola del Magistero si è fatta udire più spesso a partire dalla metà del secolo scorso è perché in quel
periodo non pochi cattolici sentirono il dovere di opporre una loro filosofia alle varie correnti del pensiero
moderno. A questo punto, diventava obbligatorio per il Magistero della Chiesa vegliare perché queste
filosofie non deviassero, a loro volta, in forme erronee e negative.234

L’interesse della Chiesa per la filosofia, richiama la FR, ha avuto un momento


particolarmente fecondo, anche per le conseguenze che se ne sono tratte, con la Lettera enciclica
Aeterni Patris di Papa Leone XIII, sull’incomparabile valore della filosofia di san Tommaso.

Il Magistero, comunque, non si è limitato solo a rilevare gli errori e le deviazioni delle dottrine
filosofiche. Con altrettanta attenzione ha voluto ribadire i principi fondamentali per un genuino
rinnovamento del pensiero filosofico, indicando anche concreti percorsi da seguire. In questo senso, il
Papa Leone XIII con la sua Lettera enciclica Æterni Patris compì un passo di autentica portata storica per
la vita della Chiesa. Quel testo è stato, fino ad oggi, l’unico documento pontificio di quel livello dedicato
interamente alla filosofia. Il grande Pontefice riprese e sviluppò l’insegnamento del Concilio Vaticano I
sul rapporto tra fede e ragione, mostrando come il pensare filosofico sia un contributo fondamentale per la
fede e la scienza teologica. A più di un secolo di distanza, molte indicazioni contenute in quel testo non
hanno perduto nulla del loro interesse dal punto di vista sia pratico che pedagogico; primo fra tutti, quello
relativo all’incomparabile valore della filosofia di san Tommaso. La riproposizione del pensiero del
Dottore Angelico appariva a Papa Leone XIII come la strada migliore per ricuperare un uso della filosofia
conforme alle esigenze della fede. San Tommaso, egli scriveva, ‘nel momento stesso in cui, come
conviene, distingue perfettamente la fede dalla ragione, le unisce ambedue con legami di amicizia
reciproca: conserva ad ognuna i propri diritti e ne salvaguarda la dignità’.
Si sa quante felici conseguenze abbia avuto quell’invito pontificio. Gli studi sul pensiero di san Tommaso
e di altri autori scolastici ricevettero nuovo slancio. Fu dato vigoroso impulso agli studi storici, con la
conseguente riscoperta delle ricchezze del pensiero medievale, fino a quel momento largamente
sconosciute, e si costituirono nuove scuole tomistiche. Con l’applicazione della metodologia storica, la
conoscenza dell’opera di san Tommaso fece grandi progressi e numerosi furono gli studiosi che con
coraggio introdussero la tradizione tomista nelle discussioni sui problemi filosofici e teologici di quel
momento. I teologi cattolici più influenti di questo secolo, alla cui riflessione e ricerca molto deve il
Concilio Vaticano II, sono figli di tale rinnovamento della filosofia tomista. La Chiesa ha potuto così
disporre, nel corso del XX secolo, di una vigorosa schiera di pensatori formati alla scuola dell’Angelico
Dottore.235

Non soltanto la tradizione tomista e neotomista rappresentavano, all’interno del pensiero


filosofico di ispirazione cristiana, gli unici segni di ripresa.

Già prima, e in parallelo con l’invito leoniano, erano emersi non pochi filosofi cattolici che,
ricollegandosi a correnti di pensiero più recenti, secondo una propria metodologia, avevano prodotto
opere filosofiche di grande influsso e di valore durevole. Ci fu chi organizzò sintesi di così alto profilo
che nulla hanno da invidiare ai grandi sistemi dell’idealismo; chi, inoltre, pose le basi epistemologiche per
una nuova trattazione della fede alla luce di una rinnovata comprensione della coscienza morale; chi,
ancora, produsse una filosofia che, partendo dall’analisi dell’immanenza, apriva il cammino verso il
trascendente; e chi, infine, tentò di coniugare le esigenze della fede nell’orizzonte della metodologia
fenomenologica. Da diverse prospettive, insomma, si è continuato a produrre forme di speculazione
filosofica che hanno inteso mantenere viva la grande tradizione del pensiero cristiano nell’unità di fede e
ragione.236

234
Ib., n. 52.
235
Ib., nn. 57-58.
236
Ib., n. 59.
97
Raccogliendo questi frutti, così il Vaticano II (e poi l’Enciclica Redemptor hominis), ricorda
FR, ha potuto parlare della filosofia o esprimere contenuti profondamente filosofici.

Il Concilio Ecumenico Vaticano II, per parte sua, presenta un insegnamento molto ricco e fecondo nei
confronti della filosofia. Non posso dimenticare, soprattutto nel contesto di questa Lettera enciclica, che
un intero capitolo della Costituzione Gaudium et spes costituisce quasi un compendio di antropologia
biblica, fonte di ispirazione anche per la filosofia. In quelle pagine si tratta del valore della persona umana
creata a immagine di Dio, si motiva la sua dignità e superiorità sul resto del creato e si mostra la capacità
trascendente della sua ragione. Anche il problema dell’ateismo viene considerato nella Gaudium et spes e
ben si motivano gli errori di quella visione filosofica, soprattutto nei confronti dell’inalienabile dignità
della persona e della sua libertà. Certamente possiede anche un profondo significato filosofico
l’espressione culminante di quelle pagine, che ho ripreso nella mia prima Lettera enciclica Redemptor
hominis e che costituisce uno dei punti di riferimento costante del mio insegnamento: ‘In realtà solamente
nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era
figura di quello futuro e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero
del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima
vocazione’.237

Ciò che, ultimamente, “sta a cuore” ad ogni intervento ecclesiale sulla filosofia, è, come dice
FR, di stimolare un pensiero che non sia in dissonanza con la fede. Scrive Giovanni Paolo II, in
conclusione del cap. V, dedicato a “Gli interventi del Magistero in materia filosofica”.

In forza delle ragioni espresse, mi è sembrato urgente ribadire, con questa Lettera enciclica, il forte
interesse che la Chiesa dedica alla filosofia; anzi, il legame intimo che unisce il lavoro teologico alla
ricerca filosofica della verità. Di qui deriva il dovere che il Magistero ha di discernere e stimolare un
pensiero filosofico che non sia in dissonanza con la fede. Mio compito è di proporre alcuni principi e
punti di riferimento che ritengo necessari per poter instaurare una relazione armoniosa ed efficace tra la
teologia e la filosofia. Alla loro luce sarà possibile discernere con maggior chiarezza se e quale rapporto
la teologia debba intraprendere con i diversi sistemi o asserti filosofici, che il mondo attuale presenta.238

Vi sono stati indubbiamente, nel nostro secolo, interventi magisteriali di chiarimento rispetto
a errori e deviazioni, come ricorda FR.

Anche nel nostro secolo, il Magistero è ritornato più volte sull’argomento mettendo in guardia contro la
tentazione razionalistica. È su questo scenario che si devono collocare gli interventi del Papa san Pio X, il
quale rilevava come alla base del modernismo vi fossero asserti filosofici di indirizzo fenomenista,
agnostico e immanentista. Non si può neppure dimenticare l’importanza che ebbe il rifiuto cattolico della
filosofia marxista e del comunismo ateo.
Successivamente, il Papa Pio XII fece sentire la sua voce quando, nella Lettera enciclica Humani generis,
mise in guardia contro interpretazioni erronee, collegate con le tesi dell’evoluzionismo,
dell’esistenzialismo e dello storicismo. Egli precisava che queste tesi erano state elaborate e venivano
proposte non da teologi, avendo la loro origine ‘fuori dall’ovile di Cristo’; aggiungeva, comunque, che
tali deviazioni non erano semplicemente da rigettare, ma da esaminare criticamente: ‘Ora queste
tendenze, che più o meno deviano dalla retta strada, non possono essere ignorate o trascurate dai filosofi o
dai teologi cattolici, che hanno il grave compito di difendere la verità divina ed umana e di farla penetrare
nelle menti degli uomini. Anzi, essi devono conoscere bene queste opinioni, sia perché le malattie non si
possono curare se prima non sono ben conosciute, sia perché qualche volta nelle stesse false affermazioni
si nasconde un po’ di verità, sia, infine, perché gli stessi errori spingono la mente nostra a investigare e a
scrutare con più diligenza alcune verità sia filosofiche sia teologiche’.
Da ultimo, anche la Congregazione per la Dottrina della Fede, in adempimento del suo specifico compito
a servizio del magistero universale del Romano Pontefice, ha dovuto intervenire per ribadire il pericolo
che comporta l’assunzione acritica, da parte di alcuni teologi della liberazione, di tesi e metodologie
derivanti dal marxismo.

237
Ib., n. 60.
238
Ib., n. 63.
98
Nel passato il Magistero ha dunque esercitato ripetutamente e sotto diverse modalità il discernimento in
materia filosofica. Quanto i miei Venerati Predecessori hanno apportato costituisce un prezioso contributo
che non può essere dimenticato.239

Il discernimento che contraddistingue gli interventi del Magistero in materia filosofica non
deve tuttavia essere considerato soltanto e primariamente in forma negativa, ma anche in vista di
«provocare, promuovere e incoraggiare il pensiero filosofico»,240 e ciò assume un valore particolare
proprio oggi, nell’attuale contesto culturale e filosofico.

I filosofi per primi, d’altronde, comprendono l’esigenza dell’autocritica, della correzione di eventuali
errori e la necessità di oltrepassare i limiti troppo ristretti in cui la loro riflessione è concepita. Si deve
considerare, in modo particolare, che una è la verità, benché le sue espressioni portino l’impronta della
storia e, per di più, siano opera di una ragione umana ferita e indebolita dal peccato. Da ciò risulta che
nessuna forma storica della filosofia può legittimamente pretendere di abbracciare la totalità della verità,
né di essere la spiegazione piena dell’essere umano, del mondo e del rapporto dell’uomo con Dio.
Oggi poi, col moltiplicarsi dei sistemi, dei metodi, dei concetti e argomenti filosofici, spesso
estremamente particolareggiati, un discernimento critico alla luce della fede si impone con maggiore
urgenza. Discernimento non facile, perché se è già laborioso riconoscere le capacità congenite e
inalienabili della ragione, con i suoi limiti costitutivi e storici, ancora più problematico qualche volta può
risultare il discernimento, nelle singole proposte filosofiche, di ciò che, dal punto di vista della fede, esse
offrono di valido e di fecondo rispetto a ciò che, invece, presentano di erroneo o di pericoloso. La Chiesa,
comunque, sa che i ‘tesori della sapienza e della scienza’ sono nascosti in Cristo (Col 2, 3); per questo
interviene stimolando la riflessione filosofica, perché non si precluda la strada che conduce al
riconoscimento del mistero.241

5.2. Sul dialogo tra le culture, alla luce del rapporto tra fede e ragione

Enucleiamo qui alcune riflessioni, sempre alla luce del testo della FR, che scaturiscono
dall’affermazione che la fede religiosa è il tutto dell’uomo nella sua globalità di esistenza e nelle
attese immediate e future, mentre la filosofia è il tutto dell’individuo in quanto esistenza
intelligente, applicandole al rapporto del cristianesimo con altre fedi, filosofie e tradizioni culturali.

Il cammino di fede non può quindi alienare l’individuo in quanto persona intelligente, né
risolvere problemi filosofici in termini di fede; la filosofia non può sconfessare il darsi di nuovi
fondamenti estrinseci del reale, né essere a questi incompatibile; fede e filosofia sono
rispettivamente perfezione esistenziale e razionale che realizzano pienamente la persona umana;
fede cristiana e filosofia sono il concretarsi di questo rapporto di perfezione in una misura
oggettiva suprema; secondo la nostra prospettiva tale affermazione è convalidata in sede filosofica
da una impostazione metafisica di tipo realista ed è suffragata dal deposito della rivelazione.

Nel rapporto tra filosofia-fede cristiana e filosofie-fedi, possiamo affermare che: - la


filosofia-fede cristiana si esplica nella convinzione motivata che la sua possibilità perfettiva in
ordine al kerygma e alla verità creaturale è “in itinere” (il cristianesimo porta ad un cammino di
perfezione nel quale il cristiano cresce nella sua esperienza di fede e cristianamente ha una sua
filosofia della storia che si apre ad un processo esauribile solo metastoricamente: tutto verrà
restaurato in Cristo); - la filosofia-fede cristiana è a disposizione di tutti e raggiungibile da tutti, è
variegata dalle molteplici culture e esperienze storiche (quindi esige confronto attento e mutuo
concorso), è in funzione della crescita globale di tutti, come singoli e come collettività umana, nella
verità e libertà (quindi non può produrre un imperialismo dogmatico filosofico-religioso); - la
filosofia-fede cristiana esige un rapporto di rispetto con le varie fedi cercando attraverso il dialogo
239
Ib., n. 54.
240
Ib., n. 53.
241
Ib., n. 51.
99
di distinguere, nelle fedi, il loro valore di immanenza e trascendenza, enucleando l’eventuale
“trascendizzazione dell’immanenza” (ed allora in sede di principi è possibile che una determinata
visione della realtà possa essere compatibile con il discorso di fede cristiana) o
l’“immanentizzazione della trascendenza” (ed allora è possibile indicare la trascendenza come
anelito irrinunciabile dell’uomo non congruamente riducibile a sistemi immanentistici).

Queste considerazioni sono mosse in sede teoretica dal fatto che l’intelligente può cogliere
con evidenza oggettiva il darsi delle cose nella loro realtà; questo valore di verità del conoscere,
unitamente all’appetito verso il bene dell’agire, è proprio ad ogni creatura intelligente; questa
verità-bontà creaturale non è in contraddizione (nel suo assunto più congruo e meno condizionato)
con le verità rivelate della fede cristiana (il donarsi di Dio in una rivelazione positiva non muta il
donarsi ontologico di Dio nella creazione).242

FR mostra alcuni elementi di novità, valorizzando le diverse tradizioni sapienziali, anche


popolari. Oltre che nel n. 1, si fa cenno a ciò anche nel n. 3 («Ogni popolo, infatti, possiede una sua
indigena e originaria saggezza che, quale autentica ricchezza delle culture, tende a esprimersi e a
maturare anche in forme prettamente filosofiche») e soprattutto al n. 61.

In modo particolare la vita delle giovani Chiese ha permesso di scoprire, accanto ad elevate forme di
pensiero, la presenza di molteplici espressioni di saggezza popolare. Ciò costituisce un reale patrimonio
di cultura e di tradizioni. Lo studio, tuttavia, delle usanze tradizionali deve andare di pari passo con la
ricerca filosofica. Sarà questa a permettere di far emergere i tratti positivi della saggezza popolare,
creando il necessario collegamento con l’annuncio del Vangelo.243

Il tema dell’inculturazione, e dunque del rapporto con altre filosofie-fedi, viene considerato
direttamente da FR ai nn. 70-72. Dopo aver affermato al n. 71 che «una cultura non può mai
diventare criterio ultimo di verità nei confronti della rivelazione», l’Enciclica entra in merito
all’annuncio del Vangelo e ai nuovi compiti dell’inculturazione, riconoscendo l’eredità delle grandi
culture della Cina, del Giappone e degli altri popoli dell’Asia, come pure le ricchezze delle culture
tradizionali dell’Africa e il grande slancio spirituale caratteristico del pensiero indiano.

Il fatto che la missione evangelizzatrice abbia incontrato sulla sua strada per prima la filosofia greca, non
costituisce indicazione in alcun modo preclusiva per altri approcci. Oggi, via via che il Vangelo entra in
contatto con aree culturali rimaste finora al di fuori dell’ambito di irradiazione del cristianesimo, nuovi
compiti si aprono all’inculturazione. Problemi analoghi a quelli che la Chiesa dovette affrontare nei primi
secoli si pongono alla nostra generazione.
Il mio pensiero va spontaneamente alle terre d’Oriente, così ricche di tradizioni religiose e filosofiche
molto antiche. Tra esse, l’India occupa un posto particolare. Un grande slancio spirituale porta il pensiero
indiano alla ricerca di un’esperienza che, liberando lo spirito dai condizionamenti del tempo e dello
spazio, abbia valore di assoluto. Nel dinamismo di questa ricerca di liberazione si situano grandi sistemi
metafisici.
Spetta ai cristiani di oggi, innanzitutto a quelli dell’India, il compito di estrarre da questo ricco patrimonio
gli elementi compatibili con la loro fede così che ne derivi un arricchimento del pensiero cristiano. Per
questa opera di discernimento, che trova la sua ispirazione nella Dichiarazione conciliare Nostra aetate,
essi terranno conto di un certo numero di criteri.
Il primo è quello dell’universalità dello spirito umano, le cui esigenze fondamentali si ritrovano identiche
nelle culture più diverse. Il secondo, derivante dal primo, consiste in questo: quando la Chiesa entra in
contatto con grandi culture precedentemente non ancora raggiunte, non può lasciarsi alle spalle ciò che ha
acquisito dall’inculturazione nel pensiero greco-latino. Rifiutare una simile eredità sarebbe andare contro
il disegno provvidenziale di Dio, che conduce la sua Chiesa lungo le strade del tempo e della storia.

242
Sul tema del pluralismo culturale e dell’inculturazione, a partire dai contenuti di FR, cf.: M. MONTANI, Cultura e
pluralismo culturale. Rilievi e sollecitazioni, in M. MANTOVANI - S. THURUTHIYIL - M. TOSO (a cura), Fede e ragione,
cit., pp. 237-235; S. THURUTHIYIL, L’inculturazione alla luce dell’Enciclica “Fides e ratio”, in M. MANTOVANI - S.
THURUTHIYIL - M. TOSO (a cura), Fede e ragione, cit., pp. 249-255.
243
FR, n. 61.
100
Questo criterio, del resto, vale per la Chiesa di ogni epoca, anche per quella di domani, che si sentirà
arricchita dalle acquisizioni realizzate nell’odierno approccio con le culture orientali e troverà in questa
eredità nuove indicazioni per entrare fruttuosamente in dialogo con quelle culture che l’umanità saprà far
fiorire nel suo cammino incontro al futuro. In terzo luogo, ci si guarderà dal confondere la legittima
rivendicazione della specificità e dell’originalità del pensiero indiano con l’idea che una tradizione
culturale debba rinchiudersi nella sua differenza ed affermarsi nella sua opposizione alle altre tradizioni,
ciò che sarebbe contrario alla natura stessa dello spirito umano.
Quanto è qui detto per l’India vale anche per l’eredità delle grandi culture della Cina, del Giappone e
degli altri Paesi dell’Asia, come pure delle ricchezze delle culture tradizionali dell’Africa, trasmesse
soprattutto per via orale.244

5.3. Sul rapporto in genere tra filosofia/e e teologia/e

Veniamo al rapporto tra filosofia e teologia.245


La teologia si pone come la riflessione dell’intelligente sul mistero di Dio rivelato; essa
pertanto metodologicamente “usa” (o meglio, “ha in sé”) il filosofare, ma anziché pervenire a
cogliere i fondamenti intrinseci-estrinseci del reale, riflette sul darsi di Dio nella rivelazione positiva
all’intelligente-uomo.
Cos’è la teologia? Nata nel contesto dell’attività pastorale delle comunità cristiane come
riflessione critico-contemplativa sui contenuti della fede per una loro più approfondita comprensione, ha
una lunga storia a partire dall’epoca patristica. Solo verso la fine del XII secolo, nell’Occidente latino,
contemporaneamente alla nascita delle università, la teologia, coi nomi di ‘sacra pagina’ o di ‘sacra
doctrina’, si sviluppò sistematicamente all’interno della scuola, assumendo la struttura caratteristica di un
insegnamento superiore.246

Come sinteticamente segnala G. Groppo, le comunità cristiane, dovendo vivere la loro fede
all’interno di culture diverse e spesso in antitesi coi postulati teorici e pratici del loro Credo, furono
costrette a riflettere sui contenuti della Parola di Dio e della Tradizione, posseduti per fede, e a

244
FR, n. 72.
245
Cf. anche: A. MOLINARO, La metafisica e la fede, in M. MANTOVANI - S. THURUTHIYIL - M. TOSO (a cura), Fede e
ragione, cit., pp. 107-118; A. ALES BELLO, Reciprocità tra pensare e credere. Il pluralismo filosofico, in M.
MANTOVANI - S. THURUTHIYIL - M. TOSO (a cura), Fede e ragione, cit., pp. 145-154; R. FISICHELLA, Rapporti tra
teologia e filosofia alla luce di “Fides et ratio”, in M. MANTOVANI - S. THURUTHIYIL - M. TOSO (a cura), Fede e
ragione, cit., pp. 177-185; F. FRANCO, La filosofia compito della fede. La circolarità di fede e ragione, in M.
MANTOVANI - S. THURUTHIYIL - M. TOSO (a cura), Fede e ragione, cit., pp. 155-175; L. MELINA, “Verità sul bene”.
Razionalità pratica, etica filosofica e teologia morale, in M. MANTOVANI - S. THURUTHIYIL - M. TOSO (a cura), Fede e
ragione, cit., pp. 209-226.
246
G. GROPPO, Teologia e Scienze dell’educazione. Premesse per una collaborazione interdisciplinare finalizzata a
risultati transdisciplinari, in G. COFFELE (a cura), Dilexit Ecclesiam. Studi in onore del prof. Donato Valentini, Las,
Roma 1999, p. 249. La teologia «in occidente, durante il XIII secolo e la prima metà del XIV si trasformò, ormai col
nome specifico di ‘theologia’, in scienza universitaria. All’interno dell’unica Chiesa, nelle molteplici facoltà di teologia
sorte nelle principali città europee, fiorirono diversi tentativi di organizzare in modo sistematico e di spiegare con
coerenza logica e rigore scientifico i contenuti della fede cristiana. Nacquero in questo modo i sistemi teologici dei
grandi maestri medievali, da cui si originarono poi le ‘scuole teologiche’ (agostiniana, tomista, scotista, occamista,
ecc.), le quali continuarono nei secoli successivi a ripensare, in lotta fra loro, le teorie teologiche dei loro maestri,
all’interno di un regime di libera concorrenza. A partire dalla metà del XIV secolo, per un complesso di cause diverse,
non ultima il trionfo del nominalismo occamista, una parte della teologia scolastica si inaridì gradualmente in astratte
diatribe, lontane dalla vita e dai nuovi problemi, che l’affermarsi della cultura umanista e delle scienza empiriche
stavano sollevando. Con la Riforma Protestante si infranse anche [in Occidente] la unità della fede cristiana in una
pluralità di confessioni antitetiche. Accanto alla tradizionale confessione cattolica e in opposizione ad essa, nacquero e
si affermarono le confessioni luterana, calvinista, anglicana. Ciascuna di esse si costruì una sua propria teologia e la
insegnò nelle università. A partire dall’epoca moderna, anche la teologia, da scienza unica, poco alla volta si divise –
analogamente ad altre scienze – in numerose discipline teologiche (dogmatica, morale, pastorale, spirituale, positiva,
speculativa, ecc.) e attraversò gravi crisi. Oggi esiste un pluralismo teologico sempre più ampio all’interno di tutte le
confessioni cristiane». Ib., pp. 249-250.
101
confrontarli con le visioni del mondo, le prassi e le istituzioni del contesto socioculturale in cui
vivevano, allo scopo di risolvere i problemi suscitati dall’impatto della fede con la cultura.

Tali riflessioni sui contenuti della fede, di tipo critico e contemplativo insieme, sono reperibili lungo tutta
la storia cristiana. I contesti e i generi letterari che le contengono sono molto diversi e vanno dall’attività
pastorale all’insegnamento nella scuola, dalle varie forme di predicazione alla scienza teologica. […] La
teologia pertanto va collocata all’interno di queste riflessioni sui contenuti della fede […] come una forma
di filosofia (nel senso etimologico del termine, dove, però, la sophia, amorosamente ricercata, è quella
contenuta nella parola di Dio), esercitata dai credenti.247

Sul rapporto teologia-filosofia, possiamo allora affermare che la filosofia “propriamente


detta”, nel suo momento ontologico, perviene a determinare la matrice ultima dell’esistente nei suoi
predicati essenziali e attraverso l’improrogabile richiesta di causalità chiede un fondamento
estrinseco, dopo la presa di coscienza concernente la “non ragion sufficiente in sé” di tutti gli
esistenti che evoca nell’esperienza contingente.
La teologia dunque si affianca alla riflessione naturale sull’esigenza di un fondamento
estrinseco realissimo, e chiarisce il cammino di fede rendendolo idoneo ad un essere intelligente (la
teologia analizza secondo le possibilità dell’intelligente-uomo l’esperienza di fede cristiana nel Dio
rivelato ultimamente in Cristo).248
Afferma un interessante documento francese, La philosophie dans l’Église:
Il teologo riceve i suoi ‘principi’ da una Sorgente trascendente e da un deposito storico rivelato, ma egli
deve sempre annunciarli in un vocabolario comprensibile da tutti quelli ai quali li destina. Egli non può
allora che beneficiare del confronto con la filosofia, che gli permette di meglio distinguere ciò che rileva
dal ‘dato rivelato’ e ciò che viene dall’intelligenza umana all’opera nella cultura. Se Dio può essere
conosciuto attraverso l’esperienza (che è il privilegio dei mistici), la testimonianza (che è la condizione
del credente), la ragione (che caratterizza il filosofo), è necessario ammettere che né l’esperienza mistica
e la sua eventuale traduzione poetica, né la testimonianza, escludono l’esercizio dello spirito critico
capace di rilevare i possibili errori e illusioni dell’intelletto umano. Che cosa diventerebbe una facoltà di
teologia senza questo confronto con una facoltà di filosofia? Questo dialogo ‘esemplare’ tra il filosofo e il
teologo, all’interno delle università cattoliche, deve proseguire con le diverse scienze: l’attenzione critica
e la creatività del filosofo permettono in effetti a coloro che fanno professione di scienza (sia scienze
umane sia scienze cosiddette ‘rigorose’ di identificare i loro propri presupposti, di evitare le evidenze mal
controllate e di prendere una giusta distanza riguardo a tutte le ideologie di ogni dogmatismo.249

FR, quando affronta il tema dell’interazione tra teologia e filosofia, dopo aver affermato che
la teologia è “elaborazione riflessa e scientifica dell’intelligenza della parola [di Dio] alla luce della
fede, afferma che la teologia non può fare a meno di entrare in contatto con le diverse filosofie.

La parola di Dio si indirizza a ogni uomo, in ogni tempo e in ogni parte della terra; e l’uomo è
naturalmente filosofo. La teologia, da parte sua, in quanto elaborazione riflessa e scientifica
dell’intelligenza di questa parola alla luce della fede, sia per alcuni suoi procedimenti come anche per
adempiere a specifici compiti, non può fare a meno di entrare in rapporto con le filosofie di fatto elaborate
nel corso della storia.250

Giovanni Paolo II può così richiamare alcuni compiti propri della teologia, nei quali il ricorso
al pensiero filosofico si impone in forza della natura stessa della Parola rivelata. Se la teologia si
organizza come scienza della fede alla luce di un duplice principio metodologico, l’auditus fidei
[«con il primo la teologia entra in possesso dei contenuti della rivelazione così come sono stati
247
Ib., p. 251.
248
Sul rapporto tra teologia e fede, cf. G. CANOBBIO, Studi teologici e vocazione al presbiterato, in Rivista del clero
italiano (1996), pp. 174-176. L’autore individua il “credere” come “sapere e comprendere”, e la “teologia” come
“sapere critico della fede” e come “verifica dell’oggettività del credere”.
249
DOYENS DES FACULTES CATHOLIQUES DE PHILOSOPHIE DE FRANCE, La philosophie dans l’Église, in La
documentation catholique (1998) n. 2179, pp. 345-346.
250
FR, n. 64.
102
esplicitati progressivamente nella Sacra tradizione, nella Sacra Scrittura e nel Magistero vivo della
Chiesa»251] e l’intellectus fidei [«con il secondo, la teologia vuole rispondere alle esigenze proprie
del pensiero mediante la riflessione speculativa»252], il rapporto con la filosofia è in entrambi i casi
essenziale.

Per quanto concerne la preparazione ad un corretto auditus fidei, la filosofia reca alla teologia il suo
peculiare contributo nel momento in cui considera la struttura della conoscenza e della comunicazione
personale e, in particolare, le varie forme e funzioni del linguaggio. Ugualmente importante è l’apporto
della filosofia per una più coerente comprensione della Tradizione ecclesiale, dei pronunciamenti del
Magistero e delle sentenze dei grandi maestri della teologia: questi infatti si esprimono spesso in concetti
e forme di pensiero mutuati da una determinata tradizione filosofica. In questo caso, è richiesto al teologo
non solo di esporre concetti e termini con i quali la Chiesa riflette ed elabora il suo insegnamento, ma
anche di conoscere a fondo i sistemi filosofici che hanno eventualmente influito sia sulle nozioni che sulla
terminologia, per giungere a interpretazioni corrette e coerenti.
Per quanto riguarda l’intellectus fidei, si deve considerare, anzitutto, che la Verità divina, ‘a noi proposta
nelle Sacre Scritture, interpretate rettamente dalla dottrina della Chiesa’, gode di una propria intelligibilità
così logicamente coerente da proporsi come un autentico sapere. L’intellectus fidei esplicita questa verità,
non solo cogliendo le strutture logiche e concettuali delle proposizioni nelle quali si articola
l’insegnamento della Chiesa, ma anche, e primariamente, nel far emergere il significato di salvezza che
tali proposizioni contengono per il singolo e per l’umanità. E dall’insieme di queste proposizioni che il
credente arriva a conoscere la storia della salvezza, la quale culmina nella persona di Gesù Cristo e nel
suo mistero pasquale. A questo mistero egli partecipa con il suo assenso di fede.253

La teologia dogmatica, con l’apporto della filosofia, articola i contenuti teologici in modo
concettuale e argomentativo.
La teologia dogmatica, per parte sua, deve essere in grado di articolare il senso universale del mistero del
Dio Uno e Trino e dell’economia della salvezza sia in maniera narrativa sia, soprattutto, in forma
argomentativa. Lo deve fare, cioè, mediante espressioni concettuali, formulate in modo critico e
universalmente comunicabile. Senza l’apporto della filosofia, infatti, non si potrebbero illustrare contenuti
teologici quali, ad esempio, il linguaggio su Dio, le relazioni personali all’interno della Trinità, l’azione
creatrice di Dio nel mondo, il rapporto tra Dio e l’uomo, l’identità di Cristo che è vero Dio e vero uomo.
[…] È necessario, dunque, che la ragione del credente abbia una conoscenza naturale, vera e coerente
delle cose create, del mondo e dell’uomo, che sono anche oggetto della rivelazione divina; ancora di più,
essa deve essere in grado di articolare tale conoscenza in modo concettuale e argomentativo. La teologia
dogmatica speculativa, pertanto, presuppone ed implica una filosofia dell’uomo, del mondo e, più
radicalmente, dell’essere, fondata sulla verità oggettiva.254

La teologia fondamentale giustifica ed esplicita la relazione tra fede e riflessione filosofica, sul
versante teologico (sul versante filosofico ciò spetta invece, a nostro avviso, al concorso simultaneo
della filosofia dell’Essere Trascendente e della filosofia della religione).

La teologia fondamentale, per il suo carattere proprio di disciplina che ha il compito di rendere ragione
della fede (cfr 1 Pt 3, 15), dovrà farsi carico di giustificare ed esplicitare la relazione tra la fede e la
riflessione filosofica. Già il Concilio Vaticano I, recuperando l’insegnamento paolino (cfr Rm 1, 19-20),
aveva richiamato l’attenzione sul fatto che esistono verità conoscibili naturalmente, e quindi
filosoficamente. La loro conoscenza costituisce un presupposto necessario per accogliere la rivelazione di
Dio. Nello studiare la Rivelazione e la sua credibilità insieme con il corrispondente atto di fede, la
teologia fondamentale dovrà mostrare come, alla luce della conoscenza per fede, emergano alcune verità
che la ragione già coglie nel suo autonomo cammino di ricerca. A queste la Rivelazione conferisce
pienezza di senso, orientandole verso la ricchezza del mistero rivelato, nel quale trovano il loro ultimo
fine. Si pensi, ad esempio, alla conoscenza naturale di Dio, alla possibilità di discernere la rivelazione
divina da altri fenomeni o al riconoscimento della sua credibilità, all’attitudine del linguaggio umano a
parlare in modo significativo e vero anche di ciò che eccede ogni esperienza umana. Da tutte queste

251
Cf. ib., n. 65.
252
Cf. ib.
253
Ib., nn. 65-66.
254
Ib., n. 66.
103
verità, la mente è condotta a riconoscere l’esistenza di una via realmente propedeutica alla fede, che può
sfociare nell’accoglienza della rivelazione, senza in nulla venire meno ai propri principi e alla propria
autonomia.
Alla stessa stregua, la teologia fondamentale dovrà mostrare l’intima compatibilità tra la fede e la sua
esigenza essenziale di esplicitarsi mediante una ragione in grado di dare in piena libertà il proprio
assenso. La fede saprà così ‘mostrare in pienezza il cammino ad una ragione in ricerca sincera della
verità. In tal modo la fede, dono di Dio, pur non fondandosi sulla ragione, non può certamente fare a
meno di essa; al tempo stesso, appare la necessità per la ragione di farsi forte della fede, per scoprire gli
orizzonti ai quali da sola non potrebbe giungere’.255

La teologia morale ricorrerà, a sua volta, a una visione filosofica corretta della natura umana
e della società. In molti temi della teologia morale è infatti immediato «il ricorso a concetti quali:
legge morale, coscienza, libertà, responsabilità personale, colpa ecc., che ricevono una loro
definizione a livello di etica filosofica».256

La teologia morale ha forse un bisogno ancor maggiore dell’apporto filosofico. Nella Nuova Alleanza,
infatti, la vita umana è molto meno regolamentata da prescrizioni che nell’Antica. La vita nello Spirito
conduce i credenti ad una libertà e responsabilità che vanno oltre la Legge stessa. Il Vangelo e gli scritti
apostolici, comunque, propongono sia principi generali di condotta cristiana sia insegnamenti e precetti
puntuali. Per applicarli alle circostanze particolari della vita individuale e sociale, il cristiano deve essere
in grado di impegnare a fondo la sua coscienza e la forza del suo ragionamento. In altre parole, ciò
significa che la teologia morale deve ricorrere ad una visione filosofica corretta sia della natura umana e
della società che dei principi generali di una decisione etica.257

5.4. Sull’autonomia, distinzione e complementarietà tra filosofia e teologia

La filosofia affronta il problema uomo-cosmo-Dio in tutte le sue implicanze speculative,


tentando di penetrare con tutte le forze nel problema della realtà dell’uomo, della realtà
dell’universo esteso, della realtà di Dio; la filosofia attraverso gli strumenti conoscitivi che pretende
di convalidare, con un linguaggio di frontiera, indaga sulla peculiarità dell’esistente.
La teologia affronta il problema uomo-cosmo-Dio secondo le sue potenzialità speculative,
tentando di penetrare con tutte le forze nella rivelazione accolta per fede; la teologia attraverso gli
strumenti conoscitivi dell’intelligente-uomo, convalidati in sede filosofica, e grazie al dono di fede,
con un linguaggio di frontiera, comprende per vivere e comunicare (testimonianza) la rivelazione
d’esistenza del Dio Uno-Trino reso “evidente” da Gesù di Nazareth. Il “grande ermeneuta” che
permette all’uomo di accogliere e conoscere ciò che era infallibile alla conoscenza umana è lo
Spirito Santo che si rende operante nella Chiesa di Cristo profeticamente e istituzionalmente.
La complementarietà e l’esigenza di completamento emergono nel rapporto tra filosofia e
teologia: - la filosofia arriva all’optimum dell’essere intelligente e dovendo esso stesso cercare
nell’esperienza della sua esistenzialità, sente insoddisfatto l’anelito ad un fondamento estrinseco,
che quindi descrive con incompletezza e con povertà di linguaggio; - la fede aggiunge
quest’esperienza, ed allora la teologia può legittimamente rifletterci sopra completando le
precedenti insufficienze; l’ordine soprannaturale non annulla la ricchezza dell’ordine creaturale
poiché tutto perviene dall’unico e perfetto atto d’amore di Dio.
In prospettiva cristiana, filosofia e fede sono complementari nella scelta d’un esistere
cristianamente ispirato. Si ritiene fondatamente che tale impostazione, attraverso un diuturno sforzo
di deideologizzazione, risulti essere la più dignitosa per l’umanità, per cui le altre filosofie, pur
maturando in loro stesse utili germi di verità e critici apporti, estromettono aspetti essenziali che
mutilano i connotati dell’intelligente-uomo e non gli permettono un incontro con una fede nel
trascendente.

255
Ib., n. 67.
256
Ib., n. 66.
257
Ib., n. 68.
104
La pluralità anche di fedi più o meno trascendenti, incoraggiate da visioni filosofiche della
realtà di varia valenza, è un dato di fatto: data la nostra cristiana convinzione di fede e questo
particolare sistema filosofico diciamo (nella chiarezza della diversità positiva), che è possibile un
confronto, data la trascendentalità della verità creaturale e l’unicità della grazia di Dio, che si
espande per i meriti di Cristo in tutto l’universo con segni di salvezza.
La diversità delle riflessioni teologiche e filosofiche nell’area cristiana può essere spiegata
nel fatto che l’essere limitato non può istituire un compendio conoscitivo e metafisico assoluto, ed il
Regno annunciato è “già e non ancora” poiché l’esperienza d’ogni credente è ancora offuscata dal
peccato che è divisione ed ignoranza, ovvero è falsa sapienza ed orgoglio intellettuale non inteso
alla trasformazione del mondo e quindi alieno da un cammino di conversione personale e collettiva.
Tra filosofia e teologia si pongono quindi delle distinzioni formali.
Oggetto materiale di entrambe è l’uomo, il mondo e Dio, nella più estesa loro accezione:
mentre però per la filosofia si pone come oggetto materiale “la realtà evidente dal basso”, per la
teologia è “la realtà resa evidente dall’alto”, quindi con un campo più vasto aperto dai dati rivelati.
Oggetto formale di entrambe è la ricerca dei fondamenti ultimi: mentre però il fondamento
ultimo della filosofia è comprovato dalla sola forza dell’intelligenza che discorrendo razionalmente
si fonda, riflette su se stessa e sull’intera realtà; il fondamento ultimo della teologia è dato dal
rivelarsi del mistero di Dio in molti modi e ultimamente in Cristo per cui, grazie ad un’assistenza
dello Spirito Santo, è possibile un’esegesi ed una riflessione speculativa sul mistero di Dio (la
filosofia ragiona sull’evidenza del reale, la teologia discorre sui dogmi, ovvero sulle implicanze alla
manifestazione del mistero di Dio).
Metodo: la filosofia procede dai principi logici che convalida criticamente e nella loro
intrinseca evidenza (si instaura una congrua circolarità ermeneutica); in teologia di per sé il metodo
è sproporzionato per il fine, poiché un metodo umano non può “intus-legere” il divino, tuttavia
nella logica della incarnazione questo diventa possibile; si avrà un’intelligenza umana che per
grazia di Dio ritrova intimamente se stessa riflettendo rigorosamente “more analogico”
(esegeticamente, dogmaticamente) sulla rivelazione di Dio.258
È interessante anche la riscoperta e la serie di studi, particolarmente recente, che mette in
luce e cerca di delineare il rapporto tra filosofia e mistica.259
FR, con un’espressione riassuntiva, scrive che «il rapporto che deve opportunamente
instaurarsi tra la teologia e la filosofia sarà all’insegna della circolarità».260

Per la teologia, punto di partenza e fonte originaria dovrà essere sempre la parola di Dio rivelata nella
storia, mentre obiettivo finale non potrà che essere l’intelligenza di essa via via approfondita nel
susseguirsi delle generazioni. Poiché, d’altra parte, la parola di Dio è Verità (cfr. Gv 17, 17), alla sua
migliore comprensione non può non giovare la ricerca umana della verità, ossia il filosofare, sviluppato
nel rispetto delle leggi che gli sono proprie. Non si tratta semplicemente di utilizzare, nel discorso
teologico, l’uno o l’altro concetto o frammento di un impianto filosofico; decisivo è che la ragione del
credente eserciti le sue capacità di riflessione nella ricerca del vero all’interno di un movimento che,
partendo dalla parola di Dio, si sforza di raggiungere una migliore comprensione di essa. È chiaro,
peraltro, che, muovendosi entro questi due poli - parola di Dio e migliore sua conoscenza -, la ragione è
come avvertita, e in qualche modo guidata, ad evitare sentieri che la porterebbero fuori della Verità
rivelata e, in definitiva, fuori della verità pura e semplice; essa viene anzi stimolata ad esplorare vie che
da sola non avrebbe nemmeno sospettato di poter percorrere. Da questo rapporto di circolarità con la
parola di Dio la filosofia esce arricchita, perché la ragione scopre nuovi e insospettati orizzonti.261

258
Cf., a proposito dell’analogia “della Parola di Dio”, BENEDETTO XVI, Esortazione apostolica Verbum Domini, Città
del Vaticano 2010, nn. 6-21, soprattutto n. 7.
259
Cf. A. MOLINARO - E. SALMANN (a cura), Filosofia e mistica. Itinerari di un progetto di ricerca, Roma 1997
(specialmente E. SALMANN, Presenza e critica. Sulle affinità elettive tra filosofia e mistica).
260
FR, n. 73.
261
Ib.
105
La vicenda personale di grandi teologi cristiani di ieri e di oggi, dell’Occidente e
dell’Oriente, che si segnalarono anche come grandi filosofi (che hanno lasciato «scritti di così alto
valore speculativo, da giustificarne l’affiancamento ai maestri della filosofia antica») è, secondo
FR, conferma della fecondità e della sostenibilità di un simile rapporto (subito dopo l’Enciclica
entrerà in merito ai differenti stati della teologia rispetto alla filosofia, e al tema della “filosofia
cristiana”).

Ciò vale sia per i Padri della Chiesa, tra i quali bisogna citare almeno i nomi di san Gregorio Nazianzeno
e sant’Agostino, sia per i Dottori medievali, tra i quali emerge la grande triade di sant’Anselmo, san
Bonaventura e san Tommaso d’Aquino. Il fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio si manifesta
anche nella ricerca coraggiosa condotta da pensatori più recenti, tra i quali mi piace menzionare, per
l’ambito occidentale, personalità come John Henry Newman, Antonio Rosmini, Jacques Maritain, Étienne
Gilson, Edith Stein e, per quello orientale, studiosi della statura di Vladimir S. Solov’ev, Pavel A.
Florenskij, Petr J. Caadaev, Vladimir N. Lossky. Ovviamente, nel fare riferimento a questi autori, accanto
ai quali altri nomi potrebbero essere citati, non intendo avallare ogni aspetto del loro pensiero, ma solo
proporre esempi significativi di un cammino di ricerca filosofica che ha tratto considerevoli vantaggi dal
confronto con i dati della fede. Una cosa è certa: l’attenzione all’itinerario spirituale di questi maestri non
potrà che giovare al progresso nella ricerca della verità e nell’utilizzo a servizio dell’uomo dei risultati
conseguiti. C’è da sperare che questa grande tradizione filosofico-teologica trovi oggi e nel futuro i suoi
continuatori e i suoi cultori per il bene della Chiesa e dell’umanità.262

5.5. Sulla “filosofia cristiana”

Con il contributo della Enciclica Aeterni Patris (1879) di Leone XIII si avviò una
distinzione, tipica della neoscolastica, tra filosofia (concepita come scienza delle cause ultime della
realtà che argomenta esclusivamente in base ai principi della ragione), e teologia (concepita come
scienza che procede alla luce della fede per cercare, nella misura del possibile, una intelligibilità
delle verità di fede).
Si può senz’altro intendere per filosofia una riflessione razionale pura, metodicamente
condotta, che si limita a quelle conoscenze che si possono acquisire esclusivamente mediante la
ragione (e in questo senso è “distinta”), ciò però non corrisponde al modo con cui i filosofi
“esistenzialmente” fanno filosofia, perché ogni filosofia è opera di riflessioni razionali su
conoscenze che sono acquisite anche per via pre- ed extra- filosofiche e che appartengono alla
tradizione culturale dei popoli, e da esse non possono essere “separate”. Se dunque la “filosofia
cristiana” riflette sulla tradizione culturale includendo in essa l’insegnamento cristiano, e
considerandolo proprio così come esso si propone e afferma di essere, cioè rivelazione divina, quale
differenza ci sarebbe tra filosofia cristiana e teologia?
Il tentativo di costruire una filosofia cristiana autonoma dalla fede e distinta dalla teologia
può incorrere in alcune aporie: i sostenitori della filosofia cristiana come distinta dalla teologia
fanno uso infatti del concetto moderno di filosofia, come scienza rigorosamente razionale, che
prescinde dalla rivelazione e dalla fede, per cui, ad esempio, il cristiano può domandarsi con la
ragione se Dio esiste, senza tener conto del fatto che egli per fede crede nell’esistenza di Dio. Anzi,
quando avrà dimostrato l’esistenza di Dio non avrà più bisogno di credere per fede che Dio esiste:
egli non crede più, sa. Va notato invece, proprio come si è visto, che nella sua genesi storica la
“filosofia” dei teologi è nata come riflessione razionale sulle verità della fede e di essa si è nutrita:
questa è la “filosofia cristiana”. Allora che senso ha distinguerla dalla teologia?
Secondo Bogliolo l’irriducibile differenza tra la filosofia e la fede - chiamata da Tommaso
distinzione - sta nel metodo e non nel contenuto, sta nel fatto che mentre la prima ascende, la
seconda discende. Anche percorrendo la stessa strada, per l’acquisto della identica verità, partono
da direzioni opposte e nettamente distinte. La relazione filosofia e cristianesimo, filosofia e fede,
per Bogliolo, non è solo questione di parole e di concetti astratti, ma coinvolge il rapporto uomo-

262
Ib., n. 74.
106
cristiano, per cui il paradigma dell’incarnazione e della distinzione delle due nature nella unica
persona del Cristo, illumina la questione.
Tuttavia filosofia e religione non sono delle realtà totalmente autonome, considerabili
separatamente così da chiedersi solo più tardi come possano combinarsi tra loro. La dimensione
della ricerca razionale suppone comunque delle credenze, e anche la fede che tende a comunicarsi
ha bisogno della ragione non come qualcosa di aggiuntivo ma di fondamentale. Se si tende ad
accentuare il carattere totalmente indipendente e puramente razionale della filosofia, si
concluderebbe che nessuna attività umana è veramente indipendente da influssi di ogni genere.
Ragione e fede sono sempre in gioco nella filosofia, e non solo quando si tratta di cristianesimo.
Non c’è infatti, sostiene Abbà, «alcuna ragione per considerare meno filosofica una filosofia
che volendo rispondere alle domande ultime sul senso della vita e della realtà, riflette proprio su un
insegnamento che si propone come risposta ultima a tali domande».263
In base a quanto detto, possiamo concludere che a nostro avviso la filosofia formalmente
cristiana (distinta dalla teologia) non c’è; il cristiano fa teologia e filosofia, razionalizzando tutti i
dati che ha. Le verità di fede sono soprattutto giudizi di esistenza, più che contenuti quidditativi:
gli articoli di fede enunciano non tanto una verità astratta, quanto dei dati di fatto (Il Verbo si è fatto
carne...), eventi che per molti versi sono molto difficili da spiegarsi e spiegare.
La Rivelazione, le rivelazioni, le culture, allargano l’orizzonte. Ci si chiede “ma è proprio
vero che…?” (ciò corrisponde a fare scienza): l’atteggiamento dell’inquirente è lo stesso, è la stessa
ragione che lavora. Al limite non è necessario credere che le cose siano così come vengono dette,
ma si può tentarne la razionalizzazione (l’esempio, forse, di un ateo o di un credente di un’altra
religione che si impegna nello studio della teologia).
Vi può essere un accoglimento previo per fede, ma la fede rispetto alla scienza può essere
anche ipotetica. Ciò non fa problema, perché tutte le scienze sono ipotetiche, come lo è la stessa
geometria euclidea (grazie a Reeman e Gödel, anzi, possiamo dire che oggi una scienza, per
ritenersi tale, non può pretendere di avere al suo interno il proprio criterio di totale
autocomprensione, di autoreferenzialità).
La filosofia, come scienza delle cause prime ed ultime della realtà, si distingue formalmente
dalle altre scienze (sia positive che teologia). La filosofia cristiana formalmente non esiste, anche se
concretamente si può concepire il senso di espressioni come: “filosofia di ispirazione cristiana”. La
filosofia “cristiana” è la teologia speculativa.
La Rivelazione, accolta per fede, allarga il campo di osservazione di quell’unica ragione
umana che si chiede “come è possibile?”. La tematizzazione razionale della fede (che non esaurisce
l’esperienza di fede e le possibilità di “teologare”) è teologia, che investe tutto il campo aperto
dalla Rivelazione. Su questo campo essa si avvale della scienza filosofica, che è formalmente
protesa alla ricerca della matrice ultima dell’esistente. La sua autonomia viene dalla riflessione sui
fondamenti intrinseci-estrinseci dell’esistente; essa è il tutto dell’individuo come esistenza
intelligente, ed è strumento espressivo ed articolato che svolge e motiva l’assunto extrateoretico
della rivelazione, accolto per fede e realizzato dalla teologia.
Ha affermato J. Ratzinger che oggi, di fronte alla vera e propria aporia della
contrapposizione tra filosofia e teologia, che si è prodotta, il superamento è possibile anzitutto
richiamando gli interrogativi umani fondamentali, che ne mostrano la correlazione: la domanda
sulla morte, l’esistenza di Dio come di Colui che ha il potere sulla realtà.
Scrive l’Autore:
la fede protegge la filosofia, perché ne ha bisogno. Ne ha bisogno perché non può fare a meno di un uomo
che interroghi ed indaghi; non il domandare le è di ostacolo, bensì quell’atteggiamento di chiusura che
non vuol più domandare e considera la verità come qualcosa di irraggiungibile o che non è degno di

263
G. ABBÀ, Felicità, vita buona e virtù. Saggio di filosofia morale, Roma 1989, 25. Cf. anche ID., La costituzione
epistemica della filosofia morale. Ricerche di filosofia morale. Vol. 2, Roma 2009.
107
aspirazione. La fede non distrugge la filosofia, la custodisce. Solo facendo così essa resta fedele a se
stessa.264

Il capitolo (VI) di FR dedicato al tema della “interazione tra teologia e filosofia” si chiude
indicando proprio la “rivelazione cristiana” come il vero punto di aggancio e di confronto tra il
pensare filosofico e quello teologico.

Il filosofo deve procedere secondo le proprie regole e fondarsi sui propri principi; la verità, tuttavia, non
può essere che una sola. La Rivelazione, con i suoi contenuti, non potrà mai umiliare la ragione nelle sue
scoperte e nella sua legittima autonomia; per parte sua, però, la ragione non dovrà mai perdere la sua
capacità d’interrogarsi e di interrogare, nella consapevolezza di non potersi ergere a valore assoluto ed
esclusivo. La verità rivelata, offrendo pienezza di luce sull’essere a partire dallo splendore che proviene
dallo stesso Essere sussistente, illuminerà il cammino della riflessione filosofica. La Rivelazione cristiana,
insomma, diventa il vero punto di aggancio e di confronto tra il pensare filosofico e quello teologico nel
loro reciproco rapportarsi. È auspicabile, quindi, che teologi e filosofi si lascino guidare dall’unica
autorità della verità così che venga elaborata una filosofia in consonanza con la parola di Dio. Questa
filosofia sarà il terreno d’incontro tra le culture e la fede cristiana, il luogo d’intesa tra credenti e non
credenti. Sarà di aiuto perché i credenti si convincano più da vicino che la profondità e genuinità della
fede è favorita quando è unita al pensiero e ad esso non rinuncia. Ancora una volta, è la lezione dei Padri
che ci guida in questa convinzione: ‘Lo stesso credere null’altro è che pensare assentendo [...]. Chiunque
crede pensa, e credendo pensa e pensando crede [...]. La fede se non è pensata è nulla’. Ed ancora: ‘Se si
toglie l’assenso, si toglie la fede, perché senza assenso non si crede affatto’.265

Nella Bibbia, afferma FR, è rinchiusa una “filosofia” secondo la quale “la vita umana e il
mondo hanno un senso e sono diretti verso il loro compimento, che si attua in Gesù Cristo.

Il mistero dell’Incarnazione resterà sempre il centro a cui riferirsi per poter comprendere l’enigma
dell’esistenza umana, del mondo creato e di Dio stesso. In questo mistero le sfide per la filosofia si fanno
estreme, perché la ragione è chiamata a far sua una logica che abbatte le barriere in cui essa stessa rischia
di rinchiudersi. Solo qui, però, il senso dell’esistenza raggiunge il suo culmine. Si rende intelligibile,
infatti, l’intima essenza di Dio e dell’uomo: nel mistero del Verbo incarnato, natura divina e natura
umana, con la rispettiva autonomia, vengono salvaguardate e insieme si manifesta il vincolo unico che le
pone in reciproco rapporto senza confusione.266

5.6. Le attuali esigenze della teologia, alla luce di FR e delle sue considerazioni sulla
filosofia

FR afferma chiaramente che non va dimenticata dal teologo «la necessaria mediazione di
una riflessione tipicamente filosofica»,267 nella convinzione che «non le varie opinioni umane, ma
solamente la verità può essere di aiuto alla teologia».

Si può forse obiettare che nella situazione attuale il teologo, piuttosto che alla filosofia, dovrebbe ricorrere
all’aiuto di altre forme del sapere umano, quali la storia e soprattutto le scienze, di cui tutti ammirano i
recenti straordinari sviluppi. Altri poi, a seguito di una cresciuta sensibilità nei confronti della relazione
tra fede e culture, sostengono che la teologia dovrebbe rivolgersi, di preferenza, alle saggezze tradizionali,
piuttosto che a una filosofia di origine greca ed eurocentrica. Altri ancora, a partire da una concezione
errata del pluralismo delle culture, negano semplicemente il valore universale del patrimonio filosofico
accolto dalla Chiesa. Queste sottolineature, tra l’altro già presenti nell’insegnamento conciliare,
contengono una parte di verità. Il riferimento alle scienze, utile in molti casi perché permette una
conoscenza più completa dell’oggetto di studio, non deve tuttavia far dimenticare la necessaria

264
J. RATZINGER, Natura e compito, cit., 31.
265
FR, n. 79.
266
Ib., n. 80.
267
Ib., n. 69.
108
mediazione di una riflessione tipicamente filosofica, critica e tesa all’universale, richiesta peraltro da uno
scambio fecondo tra le culture. Ciò che mi preme sottolineare è il dovere di non fermarsi al solo caso
singolo e concreto, tralasciando il compito primario che è quello di manifestare il carattere universale del
contenuto di fede. Non si deve, inoltre, dimenticare che l’apporto peculiare del pensiero filosofico
permette di discernere, sia nelle diverse concezioni di vita che nelle culture, ‘non che cosa gli uomini
pensino, ma quale sia la verità oggettiva’. Non le varie opinioni umane, ma solamente la verità può essere
di aiuto alla teologia.268

Delineando i compiti attuali della teologia, Giovanni Paolo II enumera la necessità di


rinnovare le metodologie per un servizio più efficace all’evangelizzazione (FR, n. 92), per
presentare l’intelligenza della Rivelazione e il contenuto della fede (il mistero del Dio Uno e Trino
e la kenosi di Dio; FR n. 93): è questo il suo scopo fondamentale. Nel realizzare questo suo compito
precipuo, di fronte ad alcuni problemi, «solo parzialmente nuovi», la teologia non potrà trovare una
coerente soluzione, secondo FR, «prescindendo dall’apporto della filosofia».269

La teologia deve puntare gli occhi sulla verità ultima che le viene consegnata con la Rivelazione, senza
accontentarsi di fermarsi a stadi intermedi. E bene per il teologo ricordare che il suo lavoro corrisponde
‘al dinamismo insito nella fede stessa’ e che oggetto proprio della sua ricerca è ‘la Verità, il Dio vivo e il
suo disegno di salvezza rivelato in Gesù Cristo’. Questo compito, che tocca in prima istanza la teologia,
provoca nello stesso tempo la filosofia. La mole dei problemi che oggi si impongono, infatti, richiede un
lavoro comune, anche se condotto con metodologie differenti, perché la verità sia di nuovo conosciuta ed
espressa. La Verità, che è Cristo, si impone come autorità universale che regge, stimola e fa crescere (cfr
Ef 4, 15) sia la teologia che la filosofia.
Credere nella possibilità di conoscere una verità universalmente valida non è minimamente fonte di
intolleranza; al contrario, è condizione necessaria per un sincero e autentico dialogo tra le persone.
Solamente a questa condizione è possibile superare le divisioni e percorrere insieme il cammino verso la
verità tutta intera, seguendo quei sentieri che solo lo Spirito del Signore risorto conosce.270

Poiché le fonti che il teologo interpreta trasmettono un significato che va rilevato ed esposto,
la filosofia è interpellata sul problema del rapporto tra il significato e la verità, tra la storia e la
verità.

Nell’interpretare le fonti della Rivelazione, pertanto, è necessario che il teologo si domandi quale sia la
verità profonda e genuina che i testi vogliono comunicare, pur nei limiti del linguaggio.
Quanto ai testi biblici, e in particolare ai Vangeli, la loro verità non si riduce certo alla narrazione di
semplici avvenimenti storici o alla rilevazione di fatti neutrali, come vorrebbe il positivismo storicista.
Questi testi, al contrario, espongono eventi la cui verità sta oltre il semplice accadere storico: sta nel loro
significato nella e per la storia della salvezza. Questa verità trova piena esplicitazione nella lettura
perenne che la Chiesa compie di tali testi nel corso dei secoli, mantenendone immutato il significato
originario. E urgente, pertanto, che anche filosoficamente ci si interroghi sul rapporto che intercorre tra il
fatto e il suo significato; rapporto che costituisce il senso specifico della storia.
La parola di Dio non si indirizza ad un solo popolo o a una sola epoca. Ugualmente, gli enunciati
dogmatici, pur risentendo a volte della cultura del periodo in cui vengono definiti, formulano una verità
stabile e definitiva. Sorge quindi la domanda di come si possa conciliare l’assolutezza e l’universalità
della verità con l’inevitabile condizionamento storico e culturale delle formule che la esprimono. […]
L’applicazione di un’ermeneutica aperta all’istanza metafisica […] è in grado di mostrare come, dalle
circostanze storiche e contingenti in cui i testi sono maturati, si compia il passaggio alla verità da essi
espressa, che va oltre questi condizionamenti.
Con il suo linguaggio storico e circoscritto l’uomo può esprimere verità che trascendono l’evento
linguistico. La verità, infatti, non può mai essere limitata al tempo e alla cultura; si conosce nella storia,
ma supera la storia stessa.
Questa considerazione permette di intravedere la soluzione di un altro problema: quello della perenne
validità del linguaggio concettuale usato nelle definizioni conciliari. Già il mio venerato Predecessore Pio
XII nella sua Lettera enciclica Humani generis affrontava la questione.

268
Ib.
269
Ib., n. 93.
270
Ib., n. 92.
109
Riflettere su questo argomento non è facile, perché si deve tenere seriamente conto del senso che le parole
acquistano nelle diverse culture e in epoche differenti. La storia del pensiero, comunque, mostra che
attraverso l’evoluzione e la varietà delle culture certi concetti di base mantengono il loro valore
conoscitivo universale e perciò la verità delle proposizioni che li esprimono. Se così non fosse, la filosofia
e le scienze non potrebbero comunicare tra loro né potrebbero essere recepite da culture diverse da quelle
in cui sono state pensate ed elaborate. Il problema ermeneutico, dunque, esiste, ma è risolvibile. Il valore
realistico di molti concetti, d’altronde, non esclude che spesso il loro significato sia imperfetto. La
speculazione filosofica molto potrebbe aiutare in questo campo. È auspicabile, pertanto, un suo
particolare impegno nell’approfondimento del rapporto tra linguaggio concettuale e verità, e nella
proposta di vie adeguate per una sua corretta comprensione.271

Un’affermazione importante di FR è l’indicazione della rinnovata necessità per l’intellectus


fidei, di ricorrere alla filosofia dell’essere, per integrare tutta la ricchezza della tradizione teologica.

L’intellectus fidei richiede l’apporto di una filosofia dell’essere, che consenta innanzitutto alla teologia
dogmatica di svolgere in modo adeguato le sue funzioni. Il pragmatismo dogmatico degli inizi di questo
secolo, secondo cui le verità di fede non sarebbero altro che regole di comportamento, è già stato rifiutato
e rigettato; ciò nonostante, rimane sempre la tentazione di comprendere queste verità in maniera
puramente funzionale. In questo caso, si cadrebbe in uno schema inadeguato, riduttivo, e sprovvisto
dell’incisività speculativa necessaria.
Una cristologia, ad esempio, che procedesse unilateralmente ‘dal basso’, come oggi si suole dire, o una
ecclesiologia, elaborata unicamente sul modello delle società civili, difficilmente potrebbero evitare il
pericolo di tale riduzionismo.
Se l’intellectus fidei vuole integrare tutta la ricchezza della tradizione teologica, deve ricorrere alla
filosofia dell’essere. […] Nella teologia, che riceve i suoi principi dalla Rivelazione quale nuova fonte di
conoscenza, questa prospettiva trova conferma secondo l’intimo rapporto tra fede e razionalità
metafisica.272

Il recupero della filosofia viene indicato da FR come un’urgenza anche nell’ordine della
teologia morale, ossia nella comprensione della fede che riguarda l’agire dei credenti.

Di fronte alle sfide contemporanee nel campo sociale, economico, politico e scientifico la coscienza etica
dell’uomo è disorientata. Nella Lettera enciclica Veritatis splendor ho rilevato che molti problemi
presenti nel mondo contemporaneo derivano da una ‘crisi intorno alla verità. Persa l’idea di una verità
universale sul bene, conoscibile dalla ragione umana, è inevitabilmente cambiata anche la concezione
della coscienza: questa non è più considerata nella sua realtà originaria, ossia un atto dell’intelligenza
della persona, cui spetta di applicare la conoscenza universale del bene in una determinata situazione e di
esprimere così un giudizio sulla condotta giusta da scegliere qui e ora; ci si è orientati a concedere alla
coscienza dell’individuo il privilegio di fissare, in modo autonomo, i criteri del bene e del male e agire di
conseguenza. Tale visione fa tutt’uno con un’etica individualistica, per la quale ciascuno si trova
confrontato con la sua verità, differente dalla verità degli altri’.
Nell’intera Enciclica ho sottolineato chiaramente il fondamentale ruolo spettante alla verità nel campo
della morale. Questa verità, riguardo alla maggior parte dei problemi etici più urgenti, richiede, da parte
della teologia morale, un’attenta riflessione che sappia mettere in evidenza le sue radici nella parola di
Dio. Per poter adempiere a questa sua missione, la teologia morale deve far ricorso a un’etica filosofica
rivolta alla verità del bene; a un’etica, dunque, né soggettivista né utilitarista. L’etica richiesta implica e
presuppone un’antropologia filosofica e una metafisica del bene.
Avvalendosi di questa visione unitaria, che è necessariamente collegata alla santità cristiana e
all’esercizio delle virtù umane e soprannaturali, la teologia morale sarà capace di affrontare i vari
problemi di sua competenza - quali la pace, la giustizia sociale, la famiglia, la difesa della vita e
dell’ambiente naturale - in maniera più adeguata ed efficace.273

271
Ib., nn. 94-96.
272
Ib., n. 93.
273
Ib., n. 98.
110
FR ricorda anche che la riflessione filosofica assume un notevole rilievo anche per la
catechesi.274

Il lavoro teologico nella Chiesa è in primo luogo al servizio dell’annuncio della fede e della catechesi.
L’annuncio o il kerigma chiama alla conversione, proponendo la verità di Cristo che culmina nel suo
Mistero pasquale: solo in Cristo, infatti, è possibile conoscere la pienezza della verità che salva (cfr At 4,
12; 1 Tm 2, 4-6).
In questo contesto, si capisce bene perché, oltre alla teologia, assuma notevole rilievo anche il riferimento
alla catechesi: questa possiede, infatti, delle implicazioni filosofiche che vanno approfondite alla luce
della fede. L’insegnamento impartito nella catechesi ha un effetto formativo per la persona. La catechesi,
che è anche comunicazione linguistica, deve presentare la dottrina della Chiesa nella sua integrità,
mostrandone l’aggancio con la vita dei credenti. Si realizza così una singolare unione tra insegnamento e
vita che è impossibile raggiungere altrimenti. Ciò che si comunica nella catechesi, infatti, non è un corpo
di verità concettuali, ma il mistero del Dio vivente.
La riflessione filosofica molto può contribuire nel chiarificare il rapporto tra verità e vita, tra evento e
verità dottrinale e, soprattutto, la relazione tra verità trascendente e linguaggio umanamente intelligibile.
La reciprocità che si crea tra le discipline teologiche e i risultati raggiunti dalle differenti correnti
filosofiche può esprimere, dunque, una reale fecondità in vista della comunicazione della fede e di una
sua più profonda comprensione.275

274
Cf. C. BISSOLI, Le implicazioni filosofiche della catechesi, in M. MANTOVANI - S. THURUTHIYIL - M. TOSO (a cura),
Fede e ragione. Opposizione, composizione?, cit., pp. 291-306.
275
FR, n. 99.
111
Conclusione

Abbiamo dedicato queste pagine all’analisi della relazione tra fede e ragione, ed al suo
interno, del rapporto tra filosofia e teologia, accogliendo l’indicazione offerta dal Decreto di
riforma degli studi filosofici di filosofia.
Il testo, che rimane aperto alle integrazioni che il suo primo utilizzo nel corso FA0161
(Relazione tra fede e ragione) presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Pontificia Salesiana di
Roma nell’ano accademico 2012/2013 potrà suggerire, potrebbe essere riassunto – almeno nel suo
intento più profondo - nell’invito di Papa Benedetto XVI che qui segue:

«Sappiate allargare gli spazi della razionalità


nel segno di una fede amica dell’intelligenza,
sia nell’ambito di una cultura popolare e diffusa,
sia in quello di una ricerca più elaborata e riflessa»

112
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117
INDICE

Introduzione p. 002

Cap. 1. Requisiti essenziali della fede cristiana


in funzione del rapporto fede/filosofia p. 011

Cap. 2. Lineamenti del rapporto tra filosofia e teologia p. 017


2.1. L’unità di filosofia e teologia nel cristianesimo dei primi secoli p. 017
2.1.A. Paolo di Tarso p. 017
2.1.B. Vangeli, Padri apostolici e apologisti p. 018
2.1.C. Conversioni dotte e reazioni pagane p. 022
2.1.D. Assunzione critica del pensiero filosofico da parte dei
pensatori cristiani p. 024
2.1.E. Le grandi sintesi del pensiero filosofico e teologico,
da Agostino all’alto Medioevo p. 030
2.2. La distinzione e la separazione tra filosofia e teologia p. 039
2.2.A. La “legittima distinzione” p. 039
2.2.B. La “nefasta separazione” p. 065

Cap. 3. Rapporto ragione-fede secondo l’insegnamento ecclesiale p. 067


3.1. Il Concilio Vaticano II sulla Rivelazione e sulla fede p. 067
3.2. La dottrina sul rapporto fede-ragione: il IV capitolo della Dei Filius p. 069
3.3. “Allargare gli orizzonti della razionalità”
ed approfondire il “realismo della fede”: il Magistero di Benedetto XVI p. 074

Cap. 4. La “querelle” sull’identità della filosofia cristiana p. 089


4.1. Identificazione storica del problema p. 089
4.2. Alcune risposte date da parte cristiana p. 090
4.3. I paragrafi di Fides et ratio sui “differenti” stati della filosofia
rispetto alla teologia p. 093

Cap. 5. Considerazioni e proposta teoretica complessiva p. 096


5.1. Sul rapporto tra Chiesa e filosofia p. 096
5.2. Sul dialogo tra le culture, alla luce del rapporto tra fede e ragione p. 098
5.3. Sul rapporto in genere tra filosofia/e e teologia/e p. 101
5.4. Sull’autonomia, distinzione e complementarietà tra filosofia e teologia p. 104
5.5. Sulla “filosofia cristiana” p. 106
5.6. Le attuali esigenze della teologia, alla luce di Fides et ratio e delle
sue considerazioni sulla filosofia p. 108

CONCLUSIONE p. 112

BIBLIOGRAFIA GENERALE p. 113

INDICE p. 118

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