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Cap.

VI – L’opzione fondamentale

Se per esempio io sono un credente e sono convintamente dentro alla Chiesa


cattolica e avessi un problema a livello di procreazione e dovessi scegliere con la
mia eventuale moglie una tecnica di procreazione assistita, mi chiederei: “Che
pensa la comunità cristiana di questo?”. E chiedendo a qualcuno che mi possa
aiutare posso tener conto che ci sono almeno due documenti che trattano di questo.
Quindi, nel discernimento, di quello che come coppia dobbiamo scegliere, tenere
conto di quello che il Magistero dice diventa una responsabilità. Una coscienza
retta, per principio, se vuole essere veramente retta, è tenuta a confrontarsi con gli
insegnamenti specifici messi a disposizione del Magistero della Chiesa cattolica.
Naturalmente la coscienza retta – quella che cerca sinceramente la verità – nel
discernimento non può trascurare quanto il Magistero ha messo a punto.

Detto questo però, nello stesso Magistero della Chiesa ci sono indicazioni per
questo adeguamento, per questo confronto. Come deve avvenire il confronto tra la
proposta del Magistero e il discernimento di coscienza dei fedeli? Nello stesso
Magistero si dice che questo confronto deve avvenire nella prospettiva della
progressività.
In modo particolare è nella Familiaris consortio al numero 34 che si descrive che
cosa è questa progressività. Per “progressività” si intende il fatto che le coscienze
dei fedeli possono progressivamente adeguarsi a quello che il Magistero dice. Cioè
quello che il Magistero dice non è “prendere o lasciare”. Se così fosse, tutti
staremmo fuori dalle indicazioni magisteriali. Il Magistero morale propone delle
mete educative alle quali i soggetti pian piano possono adeguarsi. Non si tratta
quindi di una “progressività della norma” (come se per Tizio vale la norma A e per
Caio piuttosto vale la norma B), perché le esigenze morali sono universali e valide
per tutti.
Faccio un esempio per capirci. Riguardo alla confessione: se viene uno da me per
confessarsi e mi dice di avere una relazione extraconiugale e io gli dico che, se
vuole essere credente e stare dentro la Chiesa, questo comportamento è
intollerabile e quindi deve cambiare vita. Se costui risponde che “si impegna ad
uscire da questa situazione”, questo è sufficiente a che la persona possa essere
assolta. Se io invece dicessi: “prendere o lasciare! O dentro o fuori! In questo
momento tu mi devi dare la certezza che ne vieni fuori!”, quella persona
probabilmente direbbe che: “Sono venti anni che io sto con questa persona e devo
almeno chiamarla per dirle che ho preso una decisione e per chiudere la nostra
relazione!”. E se io dicessi: “Quella donna per te non deve esistere più!”, mi
potrebbe rispondere che “non è umano fare questo!”. Quindi, quello che è chiesto
alla persona è l’impegno progressivo a venirne fuori. Non è che per quella persona,
in questo cammino graduale, la infedeltà non sia una cosa gravissima. È una cosa
gravissima! Solo che non è “prendere o lasciare!”, ma “mi impegno

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progressivamente a venirne fuori”. L’uomo è una realtà di ordine storico e
progressivamente si adegua alla norma.
Questo vale anche per noi. Obiettivamente nella nostra vita è così. Anche gli
impegni della vita religiosa sono così. Non è che quando tu prendi degli impegni
nella vita religiosa tu hai la certezza matematica di poterli portare avanti. Sai che
progressivamente avrai un tempo di rodaggio per entrare in questa mentalità. Penso
quindi che questo sia importante non solo per il discorso che stiamo facendo ma
più ampiamente: la vita morale è un cammino nella storia e il bene si apprende
progressivamente e si realizza progressivamente. Questa è la progressività di cui vi
parlavo.

È chiaro però che c‘è un atteggiamento che, pur tenendo conto di questa
progressività, facilita la adesione alle indicazioni del Magistero. Qual è questo
atteggiamento’ è proprio una virtù: la docibilitas. Io ho molto piacere del fatto che
il nostro Autore ne parli, perché mi rendo conto che questo è un criterio decisivo
nel discernimento. Alla fine, come si fa a decidere se ammettere o no una persona
alla vita religiosa? Se è docibile, se cioè è uno che si lascia aiutare a camminare.
Mentre se è presuntuoso e non si lascia aiutare a camminare, è meglio che stia a
casa sua. D’altro canto, come si fa ad ammettere una persona al matrimonio, se non
ha questa docilità e questa disponibilità a farsi cambiare dall’altro e ad entrare in
uno stile di vita nuovo?
Questo crterio, secondo me, è molto importante. Quindi, se la coscienza è
veramente retta, essa si pone nei confronti del Magistero della Chiesa in una
condizione di docibilità.
Per docibilità si intende la disponibilità a farsi insegnare le cose. Diciamolo adesso
in negativo: se una coscienza fosse in modo pregiudiziale contraria al Magistero
(dicendo: “No, nel mio discernimento me la devo vedere io, perché sono adulto!
Quello che dice il Magistero della Chiesa non mi interessa!”), non sarebbe retta:
non sarebbe retto, non sarebbe prudente, non tenere conto di quello che la
comunità cristiana ha riflettuto e immaginato per alcune questioni morali
importanti.
Quindi, se uno fosse pure credente ma in modo pregiudiziale dicesse che
l’insegnamento della Chiesa cattolica non gli interessa, sarebbe imprudente e la sua
coscienza, in questa situazione, non sarebbe né docibile, né retta.
Un’ultima considerazione la dobbiamo pensare. Fino ad adesso abbiamo visto
quando le cose vanno bene, quando il soggetto con docibilità si pone nei confronti
del Magistero, ne comprende progressivamente il valore e lo attua nella propria
vita.
Però può accadere un caso di “distonia” tra l’insegnamento del Magistero e la
coscienza retta del fedele. Raramente, ma può accadere. Può accadere che il
soggetto credente, che ama la Chiesa e che ama la verità, dopo studio, riflessione e
discernimento, non è convinto che quell’insegnamento sia corretto e sia applicabile
nella propria vita o riguardi lo specifico della sua vita. Può accadere questo? Sì: di
per sé, la coscienza che facesse questo confronto serio e che giungesse a questo

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non smetterebbe di essere retta. Ma sono casi che possiamo dire “mosche bianche”.
Perché il Magistero in genere espone ragionevolmente le motivazioni. Però non si
esclude che questo possa accadere. Ad esempio, a proposito della contraccezione,
quando la Humanea Vitae fu pubblicata, ci furono diverse coppie di sposi credenti,
persone autorevoli dentro la comunità cristiana, che dissero: “Questa norma non ci
convince. Non riesce a promulgarsi dentro di noi”. Per cui, pur amando il
Magistero e la Chiesa, su questa cosa affermarono: “io e mia moglie abbiamo
deciso di andare in un’altra direzione”. È possibile questo? Non si può escludere
che questo possa avvenire in buon fede. Questa cosa è molto importante, perché
questo discende da tutto quello che abbiamo detto studiando. Anche Paolo dice che
“la coscienza retta è l’ultima norma della situazione”. Newman dice che “la
coscienza retta è il vicario di Cristo”. Newman lo ha detto proprio al Papa:
“Santità, lei è chiamato il Vicario di Cristo, ma il Vicario di Cristo sta qua, ed è la
mia coscienza!”. E il Pontefice ha accolto queste indicazioni.
E quindi, se nell’ascolto, nello studio, nel discernimento, nella fatica si giungesse a
questa cosa, bisogna rispettarla. Bisogna rispettare quello che in buona fede le
persone maturano in sede di coscienza. Naturalmente un maestro, un educatore,
potrebbe dire: “Non sono d’accordo! Ma non mi sento di coartare quello che tu hai
detto in questa situazione”.
Questa cosa è molto importante ed è uno dei punti fermi del morale cattolica, cioè
l’idea che la coscienza sia l’ultima norma nel discernimento della situazione. È il
“vicario di Cristo” che mi indica qui ed ora che cosa devo fare.
Tutto questo diventa più complicato quando il discernimento chiama in causa due
persone e non uno. Per esempio, le decisioni che i coniugi debbono prendere,
sempre due coscienze sono, ma devono prendere decisioni che riguardano per il
loro “noi” coniugale. Quindi lì non c’è una sola coscienza, ma due. E la situazione
si può complicare se, per esempio, uno riesce a trovare comprensibile l’indicazione
del Magistero, che si promulga nella sua coscienza, ma l’altro no. In questo caso è
chiaro che la vita diventa un po’ complicata. Però è così. Ci sono alcune persone
che dicono che non possono essere in sintonia con Humanae vitae perché il
coniuge non ne vuole sapere: “Io so che quella è la strada ma mio marito non ne
vuole sapere e io devo stare dentro il mio matrimonio, perché questa è la mia
vocazione”. Quindi è possibile che una persona, per salvare il suo matrimonio, si
trova nella impossibilità di adeguarsi, almeno in quel momento, a quella
indicazione. Quindi dal punto di vista pastorale bisogna tenere conto di queste
cose.

[Domanda: Che cosa succede quando una delle due coscienze non è retta?]
Questo è possibile. Però, obiettivamente, la coscienza retta che intende seguire
l’indicazione del Magistero porta con sofferenza questa situazione, nella speranza
che l’altro cammini, e offrendo all’altro piccoli input di testimonianza per crescere
nella sua stessa direzione. Se, per esempio, i due hanno due visioni della sessualità
– l’uno con una visione personalistica, ricca, ampia, come linguaggio della
persona, come apertura alla vita e l’altro con una idea “cosistica” della sessualità –

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è chiaro che, per tenere insieme la coppia, il primo coniuge deve aspettare i tempi
di crescita dell’altro. Perché il secondo si trova in quella situazione perché
probabilmente non ha avuto tutte le opportunità formative che il primo ha avuto. E
il primo deve naturalmente stimolare il coniuge ad entrare nella questa sua visione.
Però non può imporre la condizione: “Prendere o lasciare! Se non mi fai adeguare
alla norma, io ti lascio!”. Non penso che sia la volontà di Dio in quella situazione .
Ma portare con sofferenza il proprio itinerario di fedeltà, stimolando l’altro e
sperando che l’altro possa fare questo itinerario. Io ho visto molte donne convertire
i propri mariti! Non di raro accade […]

Abbiamo concluso il capitolo sulla coscienza e adesso dobbiamo aprire un altro


capitolo: la questione della libertà.
Il capitolo VI del nostro testo, che si chiama Opzione fondamentale, potrebbe avere
come sottotitolo: la libertà è la opzione fondamentale. Perché il nostro Autore
trascura il tema della libertà è va direttamente al tema della opzione fondamentale.
Secondo me questo è un po’ scorretto, perché, obiettivamente, quando avete
parlato della libertà? Nell’Etica. Ma non avete fatto una teologia della libertà.
Quindi noi dobbiamo, tra la Teologia Morale e la Antropologia teologica, scrivere
alcuni punti fermi a livello teologico sul tema della libertà.
Su questo tema, quello che manca al nostro testo, lo troverete in questo altro libro
che vi lascerò. Per cui nulla del nostro percorso che non è nel nostro testo cade nel
vuoto. Spero che alla fine, da quello che diremo, capirete perché vi ho fatto fare
questo tipo di percorso.

Introduciamo il tema della libertà dicendo che tra gli elementi fondamentali della
morale sicuramente va riconosciuto un posto al tema della libertà. Perché la libertà
è la condizione imprescindibile dell’etica. Se non si desse libertà, non ci sarebbe
etica e quindi non ci sarebbe responsabilità.
Posiamo dire che la libertà è lo spazio dell’etica e che lo spazio dell’etica è lo
spazio della libertà. Se infatti, come alcuni ritengono, ci fossero dei meccanismi
biologici che determinassero le nostre scelte in modo biologico, meccanico,
materialistico, non ci sarebbe libertà e se non essendoci libertà non ci sarebbe etica,
non ci sarebbe responsabilità. Se le cose che noi decidiamo, le decidiamo sotto la
scorta di alcune sinapsi celebrali, allora l’etica non c’è. Sarebbe una terribile verità
dal punto di vista antropologico, perché saremmo degli automi che realizzano
necessariamente.
Mentre diciamo queste cose, però, sia filosoficamente che teologicamente non
possiamo Non possiamo non prendere sul serio l’esistenza di condizionamenti.
Mentre diciamo che la libertà esiste, per cui l’uomo è padrone e responsabile delle
sue azioni, non possiamo far finta che non esistano dei condizionamenti: a livello
biologico e neurologico, a livello sociale, a livello culturale.
Pur tenendo conto di questo, pur essendo la nostra una libertà “condizionata”,
esiste uno spazio di autodeterminazione. Nessuno mai ha provato il contrario.

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Quindi la libertà esiste pur essendo sottoposta a condizionamenti, anche
importanti. La libertà si dà. Per cui ognuno di noi, per quello spazio di
autodeterminazione che ha, è padrone delle sue azioni e quindi, quando saremo di
fronte a Dio, renderemo conto. Non possiamo dire: “Siccome mi hai dato un
cervello così, io ho agito così. Ma siccome mi hai fatto nascere in quella famiglia o
in quella cultura, io ho agito così”. Non basta questo. Perché la storia della Chiesa
è segnata da persone che, pur essendo nate in famiglie di malfattori, sono diventate
santi, o pur essendo nate in contesti culturali ostili alla fede e alla verità, sono
diventate santi. Quindi noi, nella nostra antropologia, riteniamo che la verità esiste,
anche se sottoposta a vari condizionamenti.
Anche se gli studi di carattere neurologico, soprattutto nell’abito delle ricerche
delle neuroscienze, ingenerano una certa preoccupazione per il futuro della
umanità. Proprio negli ultimi mesi sono stati pubblicati gli atti di una ricerca nella
quale, sottoponendo alcune aree del cervello dei topi ad una luce particolare, si
induce un comportamento. E dunque, se questa cosa dovesse essere pensata in
lungo e in largo, obiettivamente oggi abbiamo quasi la possibilità di comandare le
persone, e questo non può non far sorgere interrogativi morali enormi per il futuro.
Se ci sarà un contesto umano in cui qualcuno, con degli strumenti tecnologici ci
indurrà a compiere alcune azioni, questo sarà una grave diminuzione dell’umano.
Guardiamo con stupore a queste cose, ma anche con grande preoccupazione per il
futuro dell’umanità.

Tenendo conto di questa introduzione, entriamo nel vivo di questa discussione,


provando a trovare alcuni significati fondamentali che il termine “libertà” ha nel
contesto della teologia morale.
Quale significato questa parola “libertà” ha nella riflessione della Antropologia
teologica e della Teologia Morale?
Pur nella pluriformità delle impostazioni, sostanzialmente il termine “libertà” ha
tre significati fondamentali. Utilizziamo alcuni termini anche tradizionali che ci
possono servire da riferimento.

Il primo significato è la “libertà da coazione”.


Per cui essere liberi significa che esternamente non c’è nessuna realtà che mi
induce ad agire in un determinato modo. Non c’è qualcosa che coattivamente
dall’esterno mi costringe. Quindi io sono libero se niente esternamente da me mi
comanda a fare delle cose. Questa affermazione sottolinea la libertà come “ libertà
da”: essere liberi significa che non c’è niente fuori di me che in modo coattivo mi
costringe a decidere. Se infatti io decidessi con un’arma alla testa, non sarei libero
e sicuramente quella azione non sarebbe pienamente responsabile né eticamente
imputabile alla persona stessa. Quindi la libertà da coazione indica quello che non
deve esserci nella libertà per essere liberi.

Un secondo significato è la libertà come “capacità di autodeterminazione”.

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Mentre la prima dice quello che non deve esserci per essere liberi, questo secondo
significato dice quello che deve esserci. Per essere liberi è necessario essere nella
condizione di poter dare un indirizzo alle proprie scelte, alla propria vita. Cioè
essere capaci di dare un orientamento alla propria vita, alle proprie scelte. Il poter
scegliere A, B, C. Essere capaci di dare un orientamento alla propria vita, alle
proprie scelte.
San Tommaso d’Aquino, nostro compagno di viaggio per tante cose, anche su
questo concetto di libertà ha introdotto una distinzione che è preziosa. Perché lui
dice che siamo capaci di autodeterminazione ed essere capaci di decidere e di dare
un orientamento alla propria vita. Ma questa libertà si divide almeno in due aspetti:
una libertà di esercizio e una libertà di specificazione
Per libertà di esercizio di intende la possibilità e capacità di “decidere di decidere”
e di “decidere di non decidere”. Questa è la prima determinazione. Infatti, prima
ancora di decidere tra A e B, io posso decidere di decidere, ma anche decidere di
non decidere, di non autodeterminarmi. E san Tommaso dice che questo primo
movimento della libertà non è priva di responsabilità morale, cioè, io non sono
responsabile solo di aver deciso A o B, ma sono, prima ancora, responsabile di
aver deciso di decidere o deciso di non decidere. Facciamo un esempio banale, con
il discernimento vocazionale e l’elezione del propri ostato di vita. Non è
semplicemente decidere una vita laicale o una vita di consacrazione o una vita nel
ministero sacerdotale, ma se uno decidesse di non fare un passo vocazionale, di
rimanere in un limbo di decisione, porterebbe la responsabilità di non essere stato
capace di decidere il proprio stato di vita. Ha deciso di non decidere la sua
vocazione. Ha deciso tante altre cose nella sua vita, ma non ha dato una forma alla
sua vita. Questo porta alla responsabilità. Cioè, chi nel discernimento non volesse
passare attraverso la graticola del discernimento (perché quando si sceglie lo stato
di vita non si dorme la notte e, se fatto come si deve, ci sono notti insonni e anche
lacrime da versare). Siccome è faticoso, uno potrebbe dire: “Io vivacchio e non
scelgo la vita nuziale, non scelgo la vita d consacrazione, ma decido di non
spendere la mia vita vocazionalmente”. Questo significa “decidere di non
decidere!”. Si può sbagliare già qui. Perché decidere di non decidere lo stato di vita
significa precludersi la possibilità di un progetto, di una realizzazione, di un
investimento della propria vita.
Quindi la libertà è anzitutto una questione di esercizio: io decido di decidere o
decido di non decidere.
Ma poi san Tommaso dice che esiste anche una “libertà di specificazione”:
quando io ho deciso di decidere, posso decidere A o B. una o l’altra possibilità.
Chiaro che le due cose sono collegate.
Quindi nella libertà intesa come capacità di autodeterminazione c’è un esercizio e
una libertà di specificazione. Sono tutte e due molto importanti. Chiaro che questo
secondo significato di libertà è molto importante ed è alla base del discorso etico.

C’è un terzo significato di libertà che nella Teologia Morale si chiama “libertà
morale”.

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Essa è il frutto della libertà morale. E con essa si intende la capacità di decidersi
spontaneamente per il bene. In Teologia Morale e in Antropologia teologica è la
capacità di aderire spontaneamente al bene. Per cui una persona, nella educazione
morale, va portata a questo: non a fare il bene perché è comandato o ad evitare il
male perché è proibito, ma perché io spontaneamente capisco che è così. Quindi tu
sei tanto più libero quanto non hai bisogno che il bene ti sia imposto, ma aderisci
spontaneamente al bene. Attenzione perché questa è la libertà più simile a Dio,
perché Dio non ha nessuna responsabilità morale o deve dar conto, se non a se
stesso. Dio non ha nessun Signore al di sopra di lui. Ha semplicemente la coerenza
con se stesso. Quindi Dio fa il bene non perché c’è una agenzia etica che glielo
impone, ma in modo spontaneo, perché il bene è bene.
E quindi quando le persone sono veramente libere, sono capaci di aderire
spontaneamente al bene. Questa è la vera libertà morale, il vertice del significato di
libertà.
Nella tradizione cristiana si dice che questo si realizza massimamente nell’amore.
Non c’è libertà più grande di quella che si realizza nell’amore, perché nell’amore
io voglio il bene. E quando uno liberamente ama, liberamente aderisce al bene
della vita.

Questi sono i significati tradizionali del termine libertà.

A partire dagli anni ‘60, nella teologia, prima, e nella catechesi, poi, si è imposto
un quarto significato di libertà. Più che un significato a parte, è una nuova
terminologia. Perché, a partire dagli anni ’60, accanto alla libertà da coazione, alla
liberta di determinazione e alla libertà morale, si è parlato di una “libertà
fondamentale” e di una “libertà categoriale”.
Quindi, più che un nuovo significato è una nuova distinzione che non c’era nella
tradizione precedente. Non è un significato alternativo, ma una distinzione.
Noi studieremo analiticamente il concetto di libertà fondamentale e di libertà
categoriale. In questa introduzione basti questo. Questa distinzione è base
dell’unico mistero della libertà.
Questa distinzione nasce nell’unico mistero della libertà. Cioè, i sostenitori di
questa nuova distinzione, che si è imposta a partire dagli anni ’60, dicono che
decisioni di libertà che noi poniamo in essere non sono tutte uguali. Ce ne sono
alcune che danno una forma alla propria vita e questi sono atti della libertà che si
chiama “fondamentale”, perché danno una forma e un fondamento alla vita.
Poi ci sono le altre scelte, che non danno una forma alla vita e si possono chiamare
“categoriali” o “scelte intermedie”.
Facciamo un esempio. La scelta di credere o non credere. Perché l’atto di fede è un
atto libero. La fede è l’atto con cui “affidarsi a Dio e accogliere i contenuti
fondamentali della sua rivelazione ritenendoli veri” (Dei verbum). Questo tipo di
scelta è come quella in cui decidi che marca di pelati o il modello di auto da
acquistare? No. È una decisione che dà un indirizzo globale alla tua vita, che dà
una forma e un progetto alla tua vita, e da questa decisione poi promanano tutte le

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altre scelte della vita. Quindi è una decisione fondamentale: che dà un fondamento,
sul quale poi si costruisce la vita morale del credente. Se uno non di fare una
opzione di fede, ma scegliesse di vivere per il denaro e il denaro fosse l’idolo sul
quale vivere la propria vita, pure quella è una scelta fondamentale e, da quella
decisione di vivere per il denaro, promanano una serie di scelte. Certamente
caratterizzate da tirchiaggine e da interesse in ogni situazione: in genere chi decide
di vivere per il denaro non conosce la gratuità e la generosità, che stanno proprio
fuori dal suo universo decisionale.

Questa distinzione introduce nell’unico mistero della libertà. Cioè questa


terminologia di libertà fondamentale e libertà categoriale è nuova, ma, in realtà,
riflette una consapevolezza umana che si è avuta da sempre: quando scegli di
credere o non credere, quando scegli la vocazione, fai un investimento di libertà
che dà la forma alla tua vita. Quando invece decidi le altre cose, ci saranno pure in
gioco beni rilevanti, ma non hanno la stessa capacità di strutturare l’esistenza come
quella scelta.
Attenzione perché questo discorso ha delle conseguenze molto importanti, perché
alla fine la azione educativa punto a questo. Cioè, il vero educatore non lavora
tanto sulle scelte particolari, ma sulla scelta fondamentale. Perché se la fai come si
deve, se l’innesto è fatto bene i frutti verranno buoni.

Anche da punto di vista della conversione, lavorare sulle scelte categoriali può
essere utile, ma se non si cambia la scelta fondamentale è assolutamente inutile:
puoi fare tutti i fioretti di questo mondo ma se non ti orienti a Dio come scelta
fondamentale è tempo perso e acqua santa perduta. E quindi quando si tratta di
cambiare la nostra vita o di aiutare le persone, a questo bisogna puntare. Poi tutto il
resto viene spontaneamente.
Io ritengo che questa distinzione, che pure ha dei pericoli che vedremo, ha una
grande fecondità pedagogica, teologica e spirituale.

Questo a livello di terminologia.

Cominciamo ora ad usare il temine libertà con questa ricchezza semantica e dentro
il gioco linguistico che la antropologia teologica e che la teologia morale ha.

Proviamo ad elaborare almeno gli elementi essenziali di un discorso biblico sulla


libertà. Se vogliamo approcciarci al tema della libertà correttamente, ci dobbiamo
chiedere innanzitutto che dice la Scrittura della libertà nell’AT e nel NT. È molto
importante!
Lo facciamo con grande sobrietà perché questi temi si incrociano con la
antropologia teologica. Pertanto noi ci diremo solo quello che serve per noi in
questo particolare itinerario.
Qual è la presentazione biblica del tema della libertà? Facciamo prima una
affermazione generale che riguarda tutto l’arco biblico.

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Possiamo dire che nella Sacra Scrittura non esiste una teoria della libertà ma una
descrizione della libertà. Quindi non troverete mai, nella Sacra Scrittura, “Dicesi
libertà: la capacità di…”. La libertà non è definita ma è descritta nella vita
concreata di un popolo e dei protagonisti della storia della salvezza. Quindi la vedi
raccontata. Quando vuoi capire come è la opzione fondamentale nella Sacra
Scrittura, ti leggi la vicenda di Abramo e quando Dio lo ha messo
(apparentemente) tra questi due beni: per un verso, scegliere la fedeltà a Dio e,
dall’altro, la vita del figlio. Quel racconto è interessante perché con il senno di poi
è una pedagogìa della opzione fondamentale. Quando Dio ha voluto chiedere ad
Abramo di voler mettere l’amore per lui sopra di ogni altra cosa. “Sei disposto a
giocare tutto per me?” significa: “Hai fatto la tua opzione fondamentale per me?
Sono veramente la cosa più importante per la tua vita?”.
Quindi il discorso sulla libertà viene raccontato in una storia di salvezza che è per
molti versi drammatica. Perché nell’arco biblico viene raccontato come la libertà si
è fatta disobbediente ed è stata ricostruita nel mistero pasquale di Gesù. In fondo la
redenzione è una liberazione.
Detto questo, è chiaro per che, pur non essendoci una teoria della libertà, esistono
dei passaggi della Scrittura in cui la libertà è intesa come capacità di
autodeterminazione che ingenera la responsabilità morale. Ci sono passi della
Scrittura in cui il tema della capacità di autodeterminazione è descritto con tinte
molto forti.
Nel testo che vi sarà dato, è citato un brano di (Dt 30, 15-19): “Dio parla al suo
popolo e dice: Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male.
Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Scegli
dunque la vita, perché tu viva con la tua discendenza”. È il tema delle due vie. Dio
non ti costringe, ma indica la strada e ti dice che c’è anche un “piano B”, che tu
puoi costruire lontano da lui. È chiaro che questa non è una definizione, ma una
descrizione. Essere liberi significa potere aderire spontaneamente al bene, ma
anche decidere di non farlo. Perché davanti all’uomo ci sono due vie: la via del
bene e del male, le benedizione e la maledizione, la luce e le tenebre. Questo tema
delle due vie sarà uno dei cavalli di battaglia della predicazione dei Padri della
Chiesa. La predicazione morale è proprio il tema delle due vie.
Un brano altrettanto importante sta nel libro del Siracide (Sir 15, 14-17), in cui
l’autore sacro, riflettendo sull’agire di Dio, dice: “Da principio Dio creò l’uomo e
lo lasciò in balia del suo proprio volere. Se tu vuoi, puoi osservare i
comandamenti; l’essere fedele dipende dalla tua buona volontà. Egli ti ha posto
davanti fuoco e acqua: là dove vuoi tendi la tua mano. Davanti agli uomini stanno
la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà”.

Queste parole sono molto importanti, perché dicono tutta la bellezza e il dramma
della libertà. Ma dicono anche che il giudizio è un auto-giudizio: “a ognuno sarà
dato ciò che a lui piacerà”. Cioè, ciò che lui avrà scelto. Noi staremo nella
condizione che abbiamo deciso. La libertà ha, in qualche modo, un esito
escatologico. Cioè, alla fine la decisione sarà un auto-giudizio. Noi staremo nella

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condizione che avremo deciso liberamente. E questo dice ancora di più il dramma
della libertà, dato che sbagliare significa giocarsi il presente ma anche il futuro. Le
nostre scelte hanno una tensione escatologica profonda, perché, mentre scegliamo,
prendiamo una posizione rispetto all’eterno, nel tempo.

Al di là di questi passi, però, sinteticamente si può dire che nella Sacra Scrittura e
nell’AT, quando si dice che l’uomo è libero, si descrive la caratteristica umana più
simile a Dio.
L’uomo è libero perché immagine di un Dio libero. Il Dio biblico non è legato a un
territorio, a un tempio, a un santuario, alle forze della natura: è Signore di tutto: e
quindi è libero. E come Dio, gli uomini possono decidere liberamente e
spontaneamente il bene.
Attenzione a questa idea di libertà che è presente nella Bibbia. Essere liberi
significa “aderire spontaneamente al bene”. Quando si sceglie il male è un
tradimento della libertà. La libertà non è indifferente, come in genere si pensa oggi.
La libertà non è la scelta tra il bene e il male, ma la libertà è orientata piuttosto al
bene. Quando scegliamo il male, è un tradimento della libertà. Quindi, più fai il
bene, più sei libero, come più fai il male e più sei sciavo.
Tutte queste cose stanno raccontate non teoricamente, ma in modo paradigmatico
nella Scrittura. Pensate, ad esempio, la parabola del padre misericordioso, dove il
figlio minore, che sceglie di andare via pensando che il padre è un ostacolo alla
propria libertà, dopo dà da mangiare ai porci e quindi perde la sua libertà.
Allontanandosi dalla verità e dal bene, non si diventa più liberi, ma si diventa
schiavi.

Per quanto riguarda in modo specifico il NT, ci sono tante cose da dire. Molte sono
in linea con questa idea dell’AT: l’uomo immagine di Dio e come lui libero.
Questa è la proprietà più grande dell’uomo. Ma ci sono due autori del NT che
hanno una attenzione peculiare al tema della libertà. E sono Paolo e Giovanni. Non
che nei Sinottici non ci sia attenzione al tema della libertà, perché siamo in linea
con quanto detto nell’AT, ma questi due autori elaborano una “teologia della
libertà”.

Che cosa dice Paolo sul tema della libertà? È chiaro che saremo scarni nel dare
queste notizie. La libertà per Paolo è un dono pasquale. È in Gesù Cristo morto e
risorto che il fedele è liberato dal peccato e dalla morte. Questi sono i freni della
libertà: il peccato e la morte. Certo, Paolo più di ogni altro prende in
considerazione il dramma della libertà: il peccato condiziona la libertà e i credenti
nascono in un ambiente contaminato dal peccato, esiste un “corpo del peccato”. Il
peccato è quasi personificato. Per dire che noi nasciamo in un ambiente di peccato
che è confermato ed approfondito dalle nostre scelte negative. Cioè, non è che noi
nasciamo in un ambiente di peccato, siamo costretti a peccare. Tuttavia, il fatto di
nascere in un contesto contaminato dal peccato ci spinge a peccare. Questa è la
potenza negativa del peccato. Però Paolo, dopo aver detto questo ed aver detto di

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sé: “io so che invece di fare bene, faccio il male”, perché c’è un potere seduttivo e
una costrizione molto forte. Nonostante tutto questo, in Gesù morto e risorto il
credente è libero. Il credente è chiamato alla libertà. La libertà è un dono. È un
effetto fondamentale della grazia. Anzi, è la grazia. Noi siamo liberi per grazia.
Però Paolo descrive anche la responsabilità: noi riceviamo gratuitamente, in virtù
del mistero pasquale, la libertà dal peccato e dalla morte, ma Cristo ci ha liberato
per restare liberi. Il credente liberato deve asceticamente impegnarsi per rimanere
libero. Puoi sciupare tutto se vivi nel peccato, come se la grazia non esistesse,
come se il mistero pasquale non esistesse.
E Paolo descrive tutta la responsabilità. Quando il credente, immerso nel mistero
pasquale di Gesù, ha ricevuto la grazia della libertà e deve combattere fino al
sangue per rimanere libero. Quindi la libertà è un dono, una vocazione, una
responsabilità.
Ma Paolo non descrive solo la pars destruens: la libertà dal peccato e dalla morte,
che riceviamo nel mistero pasquale. Paolo descrive anche la “libertà per”. A che
serve la libertà? Paolo dice che la libertà serve per due cose: per servire e per
amare. A questo serve la libertà. Si è veramente liberi quando si ama e si è
veramente liberi quando si serve. Il servizio e l’amore sono la finalità ultima della
libertà. E sono il compimento di essa.
È strano entrare in questo ordine di idee, però, per esempio nelle nostre comunità, i
più liberi sono quelli che servono. Non c’è libertà più grande di chi si mette a
disposizione. Questo è il top della libertà. Quindi, mentre secondo la mentalità
comune, la libertà è farsi servire, secondo il modello evangelico la vera libertà è
mettersi a servizio. Per Paolo liberi significa essere liberi dal peccato e dalla morte,
ma per investire questa libertà nell’amore e nel servizio. Questa è la tonalità
positiva della libertà.

Accanto a Paolo una riflessione accurata… Naturalmente, anche quella di Paolo


non è una riflessione astratta. Anche quando Paolo ne parla nella Lettera ai
Romani, la sua riflessione è contestuale. Però ci sono dei punti di riferimento che
segneranno tutta la riflessione successiva. La stessa cosa si può dire anche della
riflessione giovannea
Anche la riflessione giovannea ha uno spazio peculiare per il tema della libertà. E
mentre Paolo articola la riflessione della libertà attorno al mistero pasquale, san
Giovanni articola il tema della libertà alla figliolanza: non abbia quella libertà che
è legata all’essere figli, quella libertà che senti e sperimenti quando sei di fronte ad
un Dio che è Padre. E la figliolanza, per Giovanni, non è una condizione
meramente esistenziale, ma è una condizione ontologica: si è libero in quanto “figli
nel Figlio”. È la ontologia filiale il fondamento della ontologia della libertà.
Qualcosa di questo si può capire esistenzialmente quando entriamo a casa, quando
siamo con i nostri genitori: lì non hai da barare, sei libero, perché non hai maschere
da esibire: loro ti hanno fatto e ti conoscono, e davanti a loro sei proprio quello che
sei, senza un ruolo sovraimpresso. È all’interno di questa relazione di figliolanza

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con Dio che si sperimenta la vera libertà. Che è anche drammatica, perché i figli
possono pure abbandonare i padri.
Per san Giovanni, come per Paolo, però, la libertà è un dono legato al dono alla
identità filiale, ma esiste una responsabilità, che consiste nel “camminare nella
verità”. Per rimanere liberi bisogna camminare nella verità. E per Giovanni
“camminare nella verità” significa camminare dietro Gesù, che è la verità.
Quindi per Giovanni la libertà è una realtà ontologica che segna profondamente il
cammino esistenziale delle persone, perché ontologicamente sei libero, ma la
libertà si apprende all’interno di una scuola che è quella della sequela di Gesù.
Camminando dietro Gesù si apprende la libertà, perché Gesù è l’uomo libero. C’è
una bellissima monografia di un grande cristologo Duquoc, intitolata Gesù uomo
libero, che ti mostra come i tratti di Gesù siano paradigmatici di un uomo libero.
[…] Dunque Gesù uomo libero. La sua libertà piena è stata nel servizio e
nell’amore. Questa è stata la differenza tra la mentalità di Gesù e la mentalità di
quelli che lo seguivano, che essi non condividevano perché volevano piuttosto
stare uno a destra e uno a sinistra e regnare, per farsi servire.

Globalmente, il messaggio biblico sulla libertà in fondo corrisponde al quella idea


filosofica di libertà intesa come capacitò di autodeterminazione. Anche per la
Scrittura, come per la riflessione umana, per il sentire umano, essere liberi significa
poter dare un orientamento alla propria vita, aderendo spontaneamente al bene.
Cosa c’è in più rispetto alla riflessione puramente antropologica? Il dato della
grazia di Dio. Cioè che, per essere liberi, è necessaria la grazia di Dio. Quindi la
vera libertà si ha nel credente per effetto della vita teologale. La fede, la speranza,
la carità, la santità battesimale, dilatano gli spazi della libertà. Quindi potremmo
dire che il discorso biblico e quindi, più ampiamente, il discorso cristiano… Si può
parlare di una libertà cristiana? Sì. E che cosa è la libertà cristiana? È la libertà
umana, intesa come capacitò di autodeterminazione, assunta nell’orizzonte
teologale della grazia di Dio. È quella libertà che io ho per la fede, per la speranza
e per l’amore. È quella libertà che io ho per la grazia dello Spirito Santo. È quella
libertà che io ho in quanto figlio di Dio, in quanto innestato in Gesù che è il
paradigma di ogni libertà.
Questa è una cosa molto interessante. Alla fine, che cosa dovrebbe portare la vita
battesimale, la vita nuziale, la vita consacrata, la vita sacerdotale? A essere liberi.
Alla fine, se vivessimo il nostro percorso come una schiavitù, qualcosa nella nostra
vita non sta funzionando nella nostra vita. Se le cose che facciamo sono tutte un
peso, sono tutte un dovere e non c’è niente di spontaneo e di gioioso nella nostra
vita, qualcosa non va e bisogna stare attenti quando questo avviene.

Questo diciamo come aggiunta a quello che nel nostro testo non c’è. Per questo vi
rimando alle pagine 117-136 di questo libro: Scelti in Cristo per essere santi, che
io metto a vostra disposizione.

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Fatta questa introduzione sul tema della libertà in teologia, veniamo adesso
all’ultimo significato di libertà, cioè a quel discorso sulla opzione fondamentale. E
qui rientriamo nella carreggiata del nostro libro (da p 233ss).

Partiamo da questa domanda: perché a un certo momento in teologia è comparsa


questa nuova terminologia, questa distinzione che prima non c’era, al meno
terminologicamente? Diciamo per una convergenza di tanti fattori. Siamo più o
meno nella stagione conciliare, negli anni ’60, e in modo convergente in filosofia
(perso al Personalismo ma anche all’Esistenzialismo), in psicologia e globalmente
nelle scienze umane, in modo convergente si riflette sul fatto che esiste nella vita
delle persone un progetto e che questo progetto si realizza attraverso scelte.
Insomma che ci sono delle scelte che danno una forma alla vita. Per avere una idea,
basterebbe leggere un volume di Abbagnano che si chiama appunto Una forma per
l’esistenza. E a partire da una impostazione esistenzialistica Abbagnano dice
proprio che nella esistenza umana ci sono decisioni che danno una forma alla vita,
che esistere è decidersi. Ma non tutte le decisioni sono uguali. Ce ne sono alcune
che danno una forma progettuale alla vita. In modo particolare nella nostra
tradizione che ruolo importante ha avuto il Personalismo che in un certo senso ha
spinto verso la elaborazione di questa teoria della opzione fondamentale, perché il
Personalismo ha sempre insistito sull’esistenza di un rapporto profondo tra persona
e azioni. Capisci perché in questo periodo un certo Karol Woitila scrive un libro
che si chiama Persone e azione. E l’idea di fondo, mettendo insieme Tomismo,
Personalismo, Fenomenologia è investigare che rapporto esiste tra persona e
azione: esiste un rapporto nuziale, per cui noi facciamo le azioni, le decidiamo, ma
le azioni ci generano, danno una forma alla nostra vita. Noi siamo quello che
decidiamo. E quindi le scelte non sono “atomi decisionali”, come dicevano i casisti
No. Esiste un rapporto profondo e iniziale tra quello che io decido e quello che io
sono. Soprattutto perché esistono delle decisioni che danno una forma alla vita. In
questo c’è convergenza. Quindi, la teoria della opzione fondamentale è nata negli
anni ’60 per il convergere di prospettive filosofiche e teologiche.
Ci chiediamo allora, però, se questa teoria, pur essendo nata in quegli anni, abbia
una compatibilità con la tradizione precedente. Se, cioè, la teoria della opzione
fondamentale sia compatibile con la antropologia cristiana tout court, con le
argomentazioni presenti nella teologia morale cattolica. La risposta è sì. Per quale
motivo? Perché in questo tema è presente il concetto di una libertà fondamentale
che porta a una opzione fondamentale. Terminologicamente no, ma
contenutisticamente è presente nella Scrittura. Facciamo un esempio. Il tema della
Alleanza. Il tema della Alleanza è un tema che incrocia due libertà: la libertà di
Dio che opera una elezione e la libertà di un popolo che decide di appartenere a
Dio. La decisione che è alla base dell’Alleanza non è una delle tante decisioni che
Israele ha compiuto ma è la decisione che ha dato una forma a Israele. Israele ha
pure deciso dove costruire le case, che tipo di legislazione avere, che tipo di re
avere... tutto questo è avvenuto e sono decisioni importanti che sono state prese,

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ma la decisione di essere partner di Dio è la decisione fondante per il popolo di
Israele. Questa è una opzione fondamentale.

La prossima volta portate Veritatis Splendor

Nel nostro percorso stiamo parlando del mistero della libertà. Abbiamo introdotto
il tema della libertà provando a delineare alcuni tratti biblici del mistero della
libertà e anche individuando alcuni significati particolari di questo termine
all’interno del discorso propriamente teologico-morale.
Parlando del tema della libertà e dei significati del temine libertà, abbiamo visto
come nella teologia morale postconciliare, e più propriamente a partire dagli anni
’60, si sia sviluppato il concetto di Opzione Fondamentale. L’idea cioè, che,
all’interno dell’unica libertà umana, vi siano due dimensioni: una dimensione che
chiamiamo “libertà fondamentale”, che è quell’aspetto della libertà che è in gioco
nella scelta del fine ultimo della vita o, quanto meno, nella scelta di un valore che
dà forma alla esistenza, e la “libertà categoriale”, che è la libertà con la quale si
fanno le scelte intermedie, cioè tutte le altre scelte che non sono quella del fine
ultimo.
Fin dall’inizio abbiamo detto che tutte queste cose si possono pensare, sono
“distinzioni di ragione”, ma in realtà nella nostra vita non c’è un settore che sia
chiama “libertà fondamentale” e un settore che si chiama “libertà categoriale”: la
libertà è una. Qui, direbbe Maritain, si tratta di “distinguere per unire”. Quindi, per
spiegare l’unico mistero della libertà, si possono individuare dentro di esse… per
cui avendo una impostazione settoriale, cioè un settore... un altro settore… non
funziona così: sarebbe fuorviante fin dall’inizio tutto questo.
Abbiamo visto anche il contesto nel quale questa categoria è stata sviluppata: il
Personalismo, l’Esistenzialismo, gli studi di carattere psicologico hanno mostrato
come le decisioni delle persone non sono tutte uguali ma ci sono delle decisioni
che danno la forma alla esistenza stessa. E questo è stato l’ambiente vitale
all’interno del quale è nata la categoria di Opzione Fondamentale.
Ci chiediamo adesso se questo questa categoria abbia un fondamento biblico.
Perché per una materia teologica questa è un questione fondamentale: se si possa
parlare di Opzione Fondamentale nella luce dell’insegnamento biblico. Possiamo
dire, anche sulla scorta di quello che dice VP, che possiamo dare una risposta
positiva. Nel senso che nella Scrittura non c’è mai il termine... Diciamocelo con
franchezza: non esiste mai il termine “opzione fondamentale” o “scelte
categoriali”... questa terminologia kantiana non appartiene al linguaggio biblico,
ma il concetto che sta dietro al termine sì. L’idea che esistano delle decisioni che
strutturano l’esistenza delle persone e dei popoli nella Scrittura è visibilissimo.
Facciamo alcuni esempi concreti.
La categoria biblica di Alleanza. Questa categoria non prevede un opzione
fondamentale di Dio per un popolo e, più propriamente, una opzione fondamentale
di un popolo per un Dio? È chiaro che questa scelta di appartenere a un Dio, a
JHWH, non è una delle tante scelte di Israele, ma è la scelta costitutiva di Israele.

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Israele nasce attorno alla Alleanza. È una scelta che fa nascere e dà una forma a un
popolo. Certo, Israele farà certo anche altre scelte, che possiamo chiamare
“categoriali”, che saranno influenzate da quella scelta fondamentale, ma che non
sono proprio sullo stesso piano. La scelta di Dio come Signore, la scelta chiara
della signoria di Dio, che è alla base della Alleanza, può definirsi una opzione
fondamentale di un popolo per Dio.
Ma all’interno della Scrittura ci sono altre categorie in linea con il concetto di
opzione fondamentale. Ne prendiamo una dal NT: la categoria di sequela. “Chi
vuol venire dietro a me…”. La sequela chiede una opzione nella quale il Regno di
Dio è il primo valore. Poi viene tutto il resto. È una scelta in grado di gerarchizzare
i valori della vita: il Regno diventa il primo. Nello stesso NT, e in particolare nel
Vangelo, questa scelta prioritaria per il Regno, questa opzione fondamentale per il
Regno, è esplicitata nelle parabole della perla preziosa (“devi vendere tutto per
scegliere quella”), nel tesoro nascosto nel campo, ecc. l’idea di fondo è proprio
questa: per metterti dietro Gesù devi giocarti tutto. Questo giocarsi tutto per
camminare nella sequela può essere legittimamente chiamato “opzione
fondamentale”. E non è una delle tante opzioni, ma è la scelta che ti dà forma alla
vita: sei un seguace di Cristo. Questa è la forma della vita che te ne viene proprio
dal fatto di avere scelto Gesù come Signore della vita.
L’ultimo ma non ultimo esempio di come all’interno della Scrittura ci sia il
concetto di una scelta che ti dà forma alla vita e che noi oggi, con termini
contemporanei, chiameremo Opzione Fondamentale, è lo stesso atto di fede: la
fede di Abramo, la fede di Maria, la fede dei grandi protagonisti della storia della
salvezza altro non è che l’opzione fondamentale di fidarsi di Dio e di affidarsi a
Dio. In fondo, anche dentro il termine Amen, (che è un participio di amman) c‘è
proprio l’idea di trovare stabilità, di appoggiarsi su qualcosa. Chi crede è colui che
pone la propria fiducia fondamentale in Dio. E questa non è una Opzione
Fondamentale? Certamente.
E quindi con chiarezza diciamo che nella Scrittura non esiste il termine, ma
esistono concetti compatibili con la teoria della opzione fondamentale. Perché
nella Scrittura si dice chiaramente che esistono delle scelte che danno un
fondamento alla vita. E quelle che abbiamo menzionate sono di questo tipo.

Chiediamoci adesso se questo concetto esiste nella Tradizione vivente della


Chiesa. Perché queste sono le fonti della morale: la Parola di Dio, la Tradizione
vivente della Chiesa e il Magistero.
Esiste nella Tradizione vivente della Chiesa, considerata come un unico
corpus qualcosa di compatibile con la teoria della opzione fondamentale? La
risposta è sì. Già nei Padri, in continuità con le Scritture, la scelta di ricevere il
battesimo e di diventare Cristiani è definita come la “scelta delle scelte”. è una
scelta che dà un valore e dà una finalità alla esistenza. Era così forte nei Padri
l’idea che diventando cristiano attraverso il catecumenato hai fatto una scelta che ti
impegna totalmente… cioè, il Cristianesimo non è una scelta di un settore della
vita, ma ti sequestra tutta la vita: tutto entra in questa scelta del Signore… era così

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forte questa idea che, secondo i Padri, chi dopo rigettasse il battesimo, i cosiddetti
lapsi, non potevano più rientrare. Poi la comunità cristiana ha dovuto fare tutto un
itinerario per capire che, dopo un errore del genere, con un percorso penitenziale,
si potesse essere ammessi. Ma era una scelta così fondamentale che non c’era altra
tavola di salvezza. Se quando decidi di scegliere il battesimo hai fatto una scelta
definitiva e dopo te la rimangi, non puoi più far niente. Ti sei giocato tutto. Poi
pian piano i lapsi hanno avuto la possibilità di essere riammessi dentro la comunità
cristiana con un percorso penitenziale differenziato. Al di là di tutto questo, dunque
si può dire che il catecumenato e il percorso penitenziale per riappropriarsi del
battesimo attestano, uno positivamente e l’altro negativamente, che la scelta di
diventare cristiani è una opzione fondamentale, è una scelta che dà un fondamento
e una forma alla vita.
Il catecumenato è la strada per diventare cristiani, mentre il percorso penitenziale è
la strada per recuperare la scelta battesimale. Penso che state studiando la
Patrologia…Cipriano, ecc.… la Chiesa africana che era severa e non ne voleva
sapere. Però anche in quella occasione è stata la Chiesa di Roma che ha spinto per
una pastorale misericordiosa. È stato il vescovo di Roma che ha spinto tutta la
chiesa ad una pastorale misericordiosa. Questo sta accadendo anche adesso: non è
un novum. Forse è uno dei carismi dei successori di Pietro è quello di aiutare la
comunità cristiana ad essere rigorosa ma non rigorista nei confronti di chi sbaglia.
Questo è un dato molto importante
L’altro dato importante riguarda la testimonianza di alcuni teologi di rilievo. Tra i
tanti scegliamo Tommaso d’Aquino. Lo facciamo perché, ormai negli anni ’70,
venne pubblicato uno studio di Severino Dianich, teologo oggi noto, uno degli
Ecclesiologi viventi più importanti. Quando ha cominciato questo studio ha scritto
una tesi di dottorato su “l’Opzione Fondamentale in San Tommaso d’Aquino”. In
quello studio si chiedeva Dianich: “Ma la teoria della opzione fondamentale è
compatibile con l’insegnamento di san Tommaso, questo grande maestro della
nostra Tradizione?”. Come abbiamo detto per la Scrittura e la Tradizione, lui dice
che in San Tommaso questo termine non c’è. “Opzione fondamentale” e “scelte
categoriali”: San Tommaso non usa mai questi termini. Tuttavia nella Morale di
san Tommaso ci sono degli indizi di accoglienza del concetto di opzione
fondamentale. Non il termine ma il concetto. Dove lo si vede? Alcuni indizi
vanno in questa direzione:
In primo luogo, il “trattato sul De fine ultimo, che apre la I-II. La questione
numero uno della morale di Tommaso è la scelta del fine ultimo. È importante
questo! Per lui il problema fondamentale della morale fondamentale è scegliere per
chi vivere. E poi dopo tutto il resto. La questione della ricerca della felicità e del
fine ultimo è il primo problema per San Tommaso. Quindi secondo san Tommaso
nella vita morale è decisiva la scelta in cui il soggetto si orienta verso un fine
ultimo, un valore riconosciuto come capace di dare significato alla vita morale.
Questo è in linea con quella che nei secoli successivi sarebbe diventata la “teoria
della opzione fondamentale”.

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Secondo indizio è il tema della carità. San Tommaso nei suoi testi ha più volte
parlato della carità e in tutti i contesti in cui parla della carità, dice sempre una
cosa, cioè che, quando la carità abita nella vita dei fedeli, “tende ad essere
permanente”. Ovvero, la carità, quando è presente nella vita di una persona, tende a
diventare habitus. Quando il fedele pone in essere la scelta di vivere secondo
carità, questa scelta tende a diventare habitus e a orientare le scelte successive.
Quindi per san Tommaso, la scelta della charitas, la scelta dell’amore, è una scelta
che tende a essere stabile e che tende poi a generare altre scelte in linea con questa.
Questa idea di san Tommaso è perfettamente compatibile con il concetto della
opzione fondamentale. La scelta di amare, ovvero di vivere secondo la legge
fondamentale del NT, l’amore, è la opzione fondamentale. Poi le scelte categoriali
saranno in linea o non in linea con questa scelta fondamentale.
San Tommaso dice naturalmente che questa decisione di vivere secondo carità è
una decisione in cui c’è libertà e grazia… la carità è una virtù teologale… è
insieme un dono dall’alto, ma anche un impegno e una responsabilità del credente,
per cui, per un verso è un dono e per un verso è un atto, una scelta, perché io
scelgo di amare.
Nella misura in cui la guardo dal punto di vista del credente, è una scelta, è una
opzione. Quindi opzione fondamentale è la fede, opzione fondamentale è l’amore e
opzione fondamentale è pure la speranza. Che cosa aggiunge la speranza alla carità
e alla fede? La prospettiva del futuro. Cioè la speranza prende la fede e la carità e
le trascina verso il futuro (cfr. Peguy: le virtù teologali sono tre sorelle e la
speranza è la sorella più piccola, che sta in mezzo e però prende le altre due e le
spinge).
Quindi Severino Dianich ha sottolineato questi due passaggi. Però lui segnala un
terzo indizio del fatto che Tommaso sarebbe in linea con la teoria della opzione
fondamentale e riprende un passaggio della I-II (cfr p. 245 del nostro testo), che è
la quaestio 89. L’articolo di questa quaestio è l’articolo 6. In questo passaggio, che
è molto importante ed è stato ripreso e studiato anche da Jacques Maritain, san
Tommaso dice che all’inizio della vita morale, cioè quando comincia l’uso di
ragione (cioè non parliamo dello stato di vita pre-morale), la prima decisione che
l’uomo deve porre è la deliberazione di se stesso rispetto a un fine ultimo. Ciò la
prima cosa che decide è deliberare se stesso rispetto al fine ultimo.
È così importante questa deliberazione perché questo poi diventa il progetto su cui
tutte le altre scelte vengono poste. Per Tommaso questa deliberazione di sé è
decisiva per la salvezza. Lui dice: “Chi non conosce in maniera incolpevole il
Vangelo, il Signore Gesù, ma cominciando la sua vita morale si orienta verso il
bene, riceve la grazia del battesimo”. Cioè, questo ti fa capire come si salvano tutti
gli altri. Non dice: “come se ricevesse la grazia”, ma dice: “è la grazia”. Quindi
esiste un battesimo dell’acqua ed esiste un “battesimo morale”, che è quando le
persone si consacrano al bene.
Quindi lui dice che all’inizio della vita morale c’è una scelta che diventa un
progetto e che è decisiva per la salvezza. Lui dice che se uno, in questa prima
scelta, andasse lontano dal bene, commetterebbe il suo primo peccato moratele, già

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all’inizio. Ma è difficile fare un peccato mortale cose di deve, propri all’inizio della
vita morale. Però non si può escludere che questo accada.
Ma quando il soggetto non dovesse conoscere Dio, ecco che, se questo non è
accaduto per una colpa personale, ma perché la persona non lo ha potuto fare,
accogliendo il bene, questa persona si apre alla possibilità della salvezza. Voglio
leggervi proprio la sintesi che lui ne fa sta in nota alla pagina 244 del nostro testo:
Severino Dianich, L’opzione fondamentale nel pensiero di s. Tommaso. Subito
dopo vedete citato un testo di Domenico Capone, L’uomo è persona in Cristo. Di
questo volume vi ho già parlato: è l’unico testo di Teologia Morale veramente
cristologica che sia stata scritta.
Vediamo alla sintesi che il nostro autore ci fa riguardo la quaestio 89 a. 6: “Si può
dare, per un non battezzato, all’inizio della vita morale, un peccato veniale senza
peccato mortale? Secondo s. Tommaso no, perché prima dell’età di ragione non
c’è peccato mortale e a fortiori nemmeno peccato veniale; con l’inizio dell’età di
ragione, la prima cosa che si deve fare è deliberare su se stessi… ”. Quindi la
prima cosa non è deliberare se mi compro un certo tipo di cellulare. Non è
scegliere cose, ma scegliere di sé. Se questa è la prima scelta, come deliberazione
di sé: scegliere la forma da dare alla propria vita, scegliere il fine ultimo. “…se ci
si orienta al fine dovuto, si ottiene la remissione del peccato originale; se non ci si
ordina al fine dovuto, si pecca mortalmente, per quanto lo si può fare nell’età
della fanciullezza”.
Questa è una cosa veramente interessante. Maritain, commentando questo testo,
descrive questa scelta come il primo atto immanente della libertà. È “immanente”
perché fuori non lo vedi, cioè la scelta del fine ultimo è nascosta dentro il sacrario
della coscienza, da fuori non lo vedi. Da fuori ne vedi solo un sintomo, perché lo
stile di vita della persona, le cose che fa, sono segnali quasi sacramentali di quello
che c’è dentro.
Questo testo è molto importante. Secondo me questo è il vero indizio che secondo
san Tommaso all’inizio della vita morale c’è un progetto e questo progetto è
decisivo: sbagliare volutamente il progetto è la prima grande responsabilità.
Tommaso dice che già qua si può fare un peccato mortale: quando tu ti orienti a
qualcosa di sbagliato. Chiaro quindi che per san Tommaso vivere per il denaro
all’inizio della propria vita morale è un disastro. Già qui lo hai compiuto! Poi
quello che farai perché hai decidi di vivere per il denaro, sarà in linea con questo:
disastri su disastri, perché l’impianto è sbagliato. Se l’albero è buono escono buoni
frutti, mentre se l’albero non è buono buoni frutti non escono.

Il nostro autore, a proposito della Tradizione vivente della Chiesa si ferma qua.
Però noi rapidamente potremmo aggiungere altre cose e diche che tutta la storia
della spiritualità cristiana è attraversata dall’idea che una scelta ti dà forma alla
vita. Ad esempio, la Regola dei Benedettini indica di “nulla anteporre all’amor di
Cristo”. Questo, in negativo, dice che Cristo è il valore fondamentale. Quindi non
puoi anteporre nulla a lui. È chiaro che questa spiritualità è segnata da una opzione
fondamentale. Dentro la Regola di San Benedetto c’è proprio scritto con chiarezza:

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“Questo è il bene valore fondamentale: scegliere Gesù Cristo!”. Quindi davanti a
questo valore tutto è paglia e tutto è secondario. E su questo poi si costruisce tutto
il resto.
Ma senza scomodare San Benedetto, andiamo al nostro Sant’Alfonso Maria De’
Liguori: L’uniformità alla volontà divina. Questo è l’itinerario: scegliere di far
diventare la volontà di Dio e la propria vita uno. Dice lui: “Non conformità, perché
sono due una cose diverse, ma uniformità!”. È lui dice che questa è la santità.
Leggetelo. Non è proprio originale, perché riproduce i canoni di una pubblicazione
francese del tempo, ma ti fa capire proprio qual è l’idea chiave che c’è dietro il suo
pensiero: la vita spirituale e morale del credente è sottesa da questo desiderio, cioè
la scelta di fare della volontà di Dio la mia volontà, di sposare la volontà di Dio.
Questa è una scelta fondamentale. È chiaro che questo poi contiene tutte le altre
cose, perché, se io ho scelto di vivere in un percorso di uniformità alla volontà
divina, è chiaro che il Decalogo e il comandamento dell’amore diventano
normativi per me e quindi mi danno una serie di indicazioni più concrete.

[Domanda: Riguardo il punto precedente, quello che dice Tommaso, non potrebbe
essere che l’orientamento della vita, la opzione fondamentale, non venga stabilito
già alla prima scelta all’inizio della vita morale, ma durante il corso della vita,
magari dopo avere fatto delle esperienze?]

Per san Tommaso questo avviene contestualmente alla prima scelta. Cioè, quando
è che questo accade? Quando, per la prima volta, io decido qualcosa eticamente.
Per cui, per san Tommaso, l’uno sta dentro l’altro. Pure Maritain dice: “Il primo
atto immanente della libertà si muove dentro la prima scelta”. Dare o non dare un
bicchiere d’acqua, dare o non dare una caramella, essere generoso o egoista: una
cosa semplice, che fa scattare però un meccanismo grande, che è l’orientamento
della vita. Mentre io ho spiegato per sottolineare con forza l’importanza di questo
progetto, ma questo progetto non sta mai in maniera atematica. Non è che io prima
decido per chi vivere e poi decido se darti una matita o no. Mentre sto decidendo
questo, per la prima volta, con l’uso di ragione, decido da che parte stare. Quindi io
nel tempo mi decido rispetto all’eterno. Quindi le scelte categoriali sono
l’occasione nella quale matura la scelta fondamentale.

[Domanda: Ma non è possibile che nelle prime scelte categoriali io mi muovo in


una direzione, ma poi cambio la mia scelta fondamentale?]

È chiaro che adesso stiamo presentando questa idea di una scelta fondamentale
“sotto vuoto spinto”. Però, come vedremo, è un fatto progressivo. Obiettivamente è
così. Però con una progressività che Maritain dice non per sostituzione, ma per
approfondimento. Per cui dice che quando tu hai deciso di vivere per il bene e poi
cresci moralmente, non cambi quello che hai deciso di fare, ma in maniera sempre
più esigente e sempre più forte. Tant’è che nella nostra tradizione spirituale ci sono
almeno due conversioni: la conversione dal male al bene e poi la conversione dal

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bene al meglio. In questo ultimo caso non è che hai cambiato la opzione
fondamentale, ma sei cresciuto nella opzione fondamentale. La direzione era già
giusta: sempre il bene è! Però ti sei reso conto che in questa adesione al bene una
parte di te non può rimanerne fuori, ma ti devi giocare tutto. Il bene ti sequestra
tutto. Guardini, ad esempio, dice questo parlando della morte di Socrate. Dice nei
suoi scritti che n conto è apprezzare il bene e un conto è morire per esso.
Obiettivamente quello che dice Guardini sta pure nella VS: il vertice della vita
mortale è il martirio. Cioè, il vertice della opzione fondamentale è quando tu non
solo hai scelto di vivere per qualcosa, ma sei disposto a giocarti tutto per essa, fino
alla vita. Questo sta anche nelle parole di Gesù, perché anche Gesù ha compiuto la
sua opzione fondamentale riguardo alla volontà del Padre. Sono cose meravigliose!
È un mistero. Vedremo adesso come le cose si incrociano.
Però, a ben guardare, nella nostra tradizione teologico-morale e più ampiamente
teologico-spirituale questo si vede in maniera forte: l’idea che nel nostro percorso
ci sia un progetto, una linea guida, e poi tutto il resto, è così. D’altro canto vi ho
già detto che quando i muratori quando stendono una parete, prima stendono un
filo, e poi ci mettono i mattoni uno dopo l’altro, ma in linea con il filo. In un certo
senso l’opzione fondamentale è il filo che tu stendi, e poi ci metti le azioni. Quelle
che non metti in linea con il filo ti fanno venire storta la parete. Un esempio
calzante può essere proprio questo. Per cui, dopo che togli il filo, non lo vedi, ma
ci sta, perché il filo ha dato la direzione alla parete, cioè la parete ha la forma che il
filo le ha dato.
Vi dicevo che questo è importante è anche sul piano della conversione, perché
convertirti sul piano delle scelte a livello categoriale è praticamente inutile! Se la
conversione delle azioni non è espressione di una opzione fondamentale è come se
imbancassi una casa umida: la puoi imbiancare tutti gli anni, ma le fondamenta
stanno nell’acqua. Invece, quando il fondamento è fatto bene, l’umidità pian piano
si asciuga e si può imbiancare come si deve.
L’ultima cosa che dobbiamo considerare è se questa categoria è presente nel
Magistero della Chiesa? C’è un discernimento? Sì. C’è un triplice discernimento.
Ci sono almeno tre documenti nella Chiesa, anche di alto livello normativo, che
parlano della opzione fondamentale.
Il primo documento, scritto dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, si
chiama persona Persona Humana (PH) del 1975. Questo documento tratta di
questioni di etica sessuale, ma in un numero affronta in modo particolare la
questione della opzione fondamentale. Poi vi spiegherò perché.
Il secondo documento è un documento post-sinodale e si chiama Reconciliatio et
Poenitentia (1984). Il titolo è “Esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio
et Poenitentia circa la Riconciliazione e la Penitenza nella vita della Chiesa”. Ha il
tema della Riconciliazione. Tra gli altri, nel numero 17 si affronta la questione
della opzione fondamentale
Il terzo documento è Veritatis Splendor (VS) che nel 1993 ritorna ad affrontare il
tema (ai numeri 65-70).

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Dobbiamo dire che mentre nei primi due documenti l’attenzione al tema della
questione fondamentale è occasionale: nel primo documento si sta parlando
dell’etica sessuale mentre nel secondo del tema del peccato mortale e del peccato
veniale e incidentalmente si affronta il tema della opzione fondamentale. Invece i
numeri 65-70 di VS sono gli unici numeri del Magistero della Chiesa dedicati
esplicitamente a questo tema. È un capitolo, una parte di VS totalmente dedicata al
tema della opzione fondamentale.

Il primo dato è che globalmente tutti questi documenti che cosa dicono?
Sostanzialmente tutti e tre i documenti convergono nel ritenere giusta la teoria
della opzione fondamentale. Se prendete il numero 65 di VS trovate ripetuta
l’espressione: “giustamente si dice che“. Si riconosce quindi che questa dottrina ha
una base giusta, che va accolta. C’è una apertura di credito nei confronti di questa
teoria.

Secondo però: in tutti e tre i documenti si mette in guardia da un pericolo insito


non nella teoria, ma nella interpretazione di questa teoria. Quindi non è una teoria
strutturalmente viziata, ma che può essere letta in modo viziato. E qual è la lettura
sbagliata? Soprattutto VS chiarisce che quando si parla del libertà fondamentale e
della libertà categoriali dice che “è legittimo distinguere questi due livelli, ma non
li si può separare: se i due livelli fossero non distinti, ma disgiunti, si cadrebbe in
una morale a due livelli: il livello fondamentale, quello in cui mi oriento verso Dio,
e il livello categoriale, nel quale faccio tutto quello che mi pare. VS dice che una
eventuale interpretazione di questo tipo sarebbe estranea alla tradizione cattolica.
Non sarebbe compatibile con la nostra tradizione. Perché? Perché la persona è una.
Non è che c’è un settore fondamentale e un settore categoriale.
Inoltre, nella nostra tradizione, la scelta del fine ultimo e la scelta delle cose
categoriali sono uno. Cioè il soggetto si orienta verso l’eterno ma nel tempo. Per
cui nel livello categoriale io mi gioco tutto, come sul livello fondamentale. Non è
che a livello fondamentale puoi dire di amare Dio e poi a livello categoriale fai
compi tutti i peccati che quello che vuoi. Non è che a livello fondamentale stai a
posto e poi a livello categoriale hai una seconda vita. Questa sarebbe da un lato una
scelta fondamentale nella quale vuoi stare dentro il Vangelo perché hai scelto il
Regno di Dio e ti sei proposto la Signoria di Dio, ma poi a livello categoriale
bisogna dare conto a queste decisioni. Questo è avere una doppia vita. È
pericoloso. E anche diseducativo. Pensare che uno possa stare a posto con Dio e
fare cose sbagliate. Perché, dice VS, la relazione con Dio non si rovina solo
quando io gli dico no, ma anche quando, a livello categoriale, io faccio cose che
vanno contro la sua volontà. Quindi le due cose sono uno e non possono essere
disgiunte. Questo è lo sviamento nella interpretazione della opzione fondamentale!
Da una categoria che ha una grande importanza a livello pedagogico e formativo,
potrebbe diventare deformante, perché le persone sono scisse. Perché quando tu
scindi il livello fondamentale e il livello categoriale, di fatto tu puoi fare tutto
quello che ti pare. Dici: “Io amo il Signore!”, però poi rubi nel laro, non paghi le

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tasse, a livello affettivo hai qualche scappatella… Quando l’uomo decide di vivere
per il Signore dopo deve cercare di vivere secondo la sua volontà. E le cose che fa:
la giustizia, il bene, la solidarietà, ecc. diventano normative per il bene della
persone.
Questo, a ben guardare, non riguarda solamente per le grandi scelte rispetto a Dio,
ma riguarda anche le grandi scelte rispetto alle persone: se io ho fatto un progetto
di vita con un’altra persone e mi sono impegnato in questo progetto, poi questo
progetto chiede di essere realizzato. Quindi la persona è uno.
Possiamo dire che, a livello di principio, la teoria della opzione fondamentale è
valida. VS dice che questa teoria è compatibile con la Scrittura e con la Tradizione
vivente della Chiesa, ma, aggiunge, se si passasse da una distinzione tra un livello
fondamentale e un livello categoriale auna dissociazione, si andrebbe fuori strada.
E VS dice che questo, “secondo alcuni autori è così”. Alcuni autori sarebbero
incappati in questo. Naturalmente il documento non indica i nomi di questi autori,
ma solo tanto l’errore in cui si può incappare.

La terza affermazione fondamentale che sta nel Magistero in modo globalmente


inteso, e in VS in modo particolare (ma anche in RP, mentre PH non tratta questo
aspetto): si affronta il tema della compatibilità tra la teoria della opzione
fondamentale e la teoria della tripartizione dei peccati. Praticamente, dopo aver
parlato in generale della dottrina della opzione fondamentale VS e RP si i chiedono
se la teoria della opzione fondamentale applicata alla tripartizione dei peccati sia
accettabile.
Vi spiego: dopo il Concilio alcuni hanno detto di cambiare la distinzione tra
peccato mortale e peccato veniale. Anche con una motivazione. Perché questa
distinzione, che ha tutt’ora grandi vantaggi, e che è rimasta valida fino ad oggi, non
è esente da pecche. Ed una delle pecche è la asimmetria, obiettivamente perché
mette dentro lo stesso calderone cose molto diverse. Con uno stesso termine,
infatti, si indicano azioni che conducono alla morte e azioni che ti rallentano nel
cammino. Non è proprio la stessa cosa!
Questa distinzione può funzionare solo se uno ha in mente con chiarezza cosa è
l’uso analogico di un termine. Per cui, quando dici “peccato mortale” dici una
realtà, mentre quando dici “peccato veniale” dici un’altra cosa. Non un gradino di
esso o una parte di esso, ma proprio due cose profondamente diverse, che però
chiamiamo con lo stesso nome. Per cui, se tu hai in mente l’uso analogico, le
chiami pure con lo stesso nome. Ma molti non sono capire di capire questo. Per cui
alcuni dicevano: “Cambiamo!”. E come? Si passerebbe dalla bipartizione classica
ancora in uso a una tripartizione: peccato mortale, peccato grave e peccato veniale.
In sostanza:
 il peccato mortale sarebbe un peccato compiuto a livello della opzione
fondamentale: rispetto al bene, rispetto a Dio, rispetto al fine ultimo io prendo
una posizione negativa (es. una bestemmia con piena avvertenza e perfetto
consenso).

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 il peccato grave sarebbe il peccato in cui sono in gioco cose umane rilevanti,
ma che non toccano immediatamente la scelta del fine ultimo della vita.
 i peccati veniali sarebbero le azioni in cui non sono in gioco beni rilevanti della
persona, né della sua relazione con Dio, né della sua relazione con se stesso e
con gli altri.

Sostanzialmente VS si chiede se la teoria della opzione fondamentale supposta in


questa tripartizione sia accettabile, e la risposta è negativa, perché die che il
peccato è grave non solo quando tu, a livello della opzione fondamentale ti disponi
negativamente nei confronti di Dio, ma anche quando a livello categoriale,
disobbedisci in modo grave alla sua volontà. Per cui, se bestemmi Dio non piena
avvertenza e perfetto consenso certamente ti cambia la tua opzione fondamentale,
ma anche se uccidi un individuo della specie umana: se uccidi un figlio di Dio, a
livello del peccato grave, cambia la scelta fondamentale, perché disobbedisco
gravemente nella storia alla volontà di Dio. Quindi questi due livelli (Mortale e
Grave) sono uno. Perché tra la libertà fondamentale e la libertà categoriale esiste
una reciprocità.
Per cui la scelta fondamentale cambia quando nella storia io decido qualche cosa di
difforme dalla volontà di Dio. Anche perché, per farvi un esempio di come si può
cambiare l’opzione fondamentale, io vi ho detto un atto. Cioè, non è che io in
maniera atematica sto mai difronte a Dio e gli dico sì o no. Anche per parlarvi del
primo caso, come può cambiare l’opzione fondamentale? Io mi metto di fronte a
Dio e gli dico: “Io so che tu esisti, che hai creato tutto, che hai creato pure me, ma
io voglio vivere senza di te. Questo lo ha fatto il diavolo. Però io vi ho detto questo
in un atto. Ma tu, che lo hai fatto con una bestemmia, lo hai fatto comunque con un
atto categoriale, in cui cambia la scelta fondamentale.
Quindi le nostre decisioni non sono mai a livello atematico, cioè senza storia,
perché, se non ci fosse il filtro della storia, noi non saremmo liberi di dire no a Dio.
Non ci vuole molto per capire questo. Per fare un esempio, anche oggi, nella storia,
quando tu hai di fronte una bella dona, anche se sei un religioso o sei sposato. È
difficile dire no ad una cosa bella. Ma alla Bellezza è praticamente impossibile dire
noi. Se noi senza il filtro della storia stessimo di fronte a Dio non gli potremmo
dire noi. Difatti, quando saremo nella vita eterna, “non avremo più la libertà” di
dirgli di noi, perché non sarà più necessario: avremo consacrato la nostra libertà a
lui.
A noi il livello categoriale serve perché noi esistiamo rispetto all’eterno nel tempo.
Anche l’atto di fede che tu fai ti impegna rispetto all’esterno, ma domani lo puoi
rimangiare. Perché per una creatura umana oggi è oggi e domani e un’altra cosa.
Mentre gli angeli in un istante si sono giocati l’eternità tutto in un istante e non
possono tornare indietro. Mentre noi, per grazia di Dio, possiamo cancellarlo con il
bianchetto finché viviamo, finché avremo il filtro della storia. Ma quando saremo
di fronte a Dio non ci sarà più il filtro della storia, e le posizioni si saranno
determinate.

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Quindi VS si chiede se, applicando la teoria della opzione fondamentale alla
distinzione dei peccati e quindi passando dalla bipartizione alla tripartizione, sia
dentro la tradizione cattolica. La risposta è negativa. Perché dentro la tradizione
cattolica i primi due livelli della tripartizione proposta sono uno: si cambia la
opzione fondamentale quando a livello categoriale si fa qualche cosa contro Dio e
contro la sua volontà. Anche una infedeltà coniugale o una infedeltà vocazionale ti
mette nelle condizioni di perdere la opzione fondamentale della vita.

Quini globalmente possiamo dire che il Magistero ha uno sguardo favorevole ma


non ha paura di dirne i pericoli: i pericoli di una dissociazione per cui “peccato”
sarebbe solo quello che si fa di fronte a Dio. Mentre “peccato” è quello che si fa di
fronte a Dio e di fronte agli uomini. Per cui anche qualcosa fatta a una creatura…
nella storia della morale qualcuno si è chiesto se possa esistere un “peccato
filosofico” e non teologico, cioè un errore, un male, che non chiama in causa Dio.
Cioè, se io ti ho chiamato “stupido”, se è possibile dire: “Che c’entra Dio con
questa cosa? È una cosa tra me e te!”. Sarebbe un “peccato filosofico” perché
riguarderebbe l’umano e non Dio e non avrebbe una rilevanza teologica. La
risposta data dal Magistero (del Sant’Uffizio) a questa questione: “Si può dare un
peccato che non chiami in causa Dio?”. La risposta è no, perché o è contro di lui o
è contro la sua volontà. Non esiste un peccato che, direttamente o indirettamente,
non chiami in causa la Signoria di Dio.

[Intervento: Nel Vangelo Gesù dice: “Chi dice al proprio fratello: stupido, andrà
nella Geenna”]

Proprio per questo motivo, perché io offendo Dio quando gli dico “vai a quel
paese!”, ma anche quando dico “vai a quel paese” a un figlio suo! Ferisci Dio
quando lo offendi, ma l’uomo è immagine di Dio e l’immagine di Dio è ferita ogni
volta che la dignità umana è schiacciata. Questo ci dice una grande responsabilità
per noi. È vero quello che ci diceva Don Tonino Bello che “l’altro è un
tabernacolo”. Cioè l’altro è una presenza reale di Dio. Per cui io lo offendo anche
quando tratto male un individuo della specie umana. È Dio che è in gioco.

Son questioni un po’ complicate però, quando noi avremo finito il percorso le cose
dovrebbero essere più chiare. Io vi ho detto adesso la tripartizione, ma poi, quando
vedremo come è nata, come ci si è giunti, ecc. vi renderete meglio conto. Però
bisogna dire che prima di Agostino non c’era questa distinzione. Chi ha introdotto
questa distinzione tra peccato mortale e peccato veniale con questi termini e in
modo sistematico, è sant’Agostino. Quindi c’è stato un tempo nella comunità
cristiana in cui questa terminologia non c’era.

Voglio dirvi un’ultima cosa. Nei numeri 65-70 troverete queste tre cose che vi ho
detto.
 La accettazione globale della teoria da parte del Magistero
24
 Il pericolo della dissociazione
 La non accoglienza della teoria della opzione applicata nella tripartizione del
peccato.

Perché invece negli anni ’70 PH ha parlato di questa teoria della opzione
fondamentale? Perché, quando negli anni ’70 la teoria della opzione fondamentale
era in a in fasce, nei primi pass che stava compiendo. La domanda che si stava
sviluppando negli ambienti della teologia morale in quegli anni è se è vero quello
che si dice nella teoria tradizionale secondo la quale la materia sessuale è una
materia grave. Si discuteva in teologia morale di questo. Sapete che nella nostra
tradizione è così. “Grave” non significa che è un terreno minato, per cui ogni piede
che metti può esplodere. “Grave” significa semplicemente che nella sessualità sono
in gioco beni valori importanti della persona umana.
Negli anni ‘70 alcuni teologi cominciarono a dire che la materia della sessualità è
una materia particolare perché è una materia nella quale, quando prendono delle
decisioni, si decide sulla scorta di pressioni di ordine psicologico, affettivo, ecc. e
manca una piena e perfetta imputabilità di quello che si compie. Sonno gli anni
della diffusione della psicologia ecc. Per cui alcuni giunsero ad affermare che la
materia della sessualità non cambia la opzione fondamentale.
Quindi, mentre nella tradizione si dice che la materia della sessualità è una materia
grave, nella quale sono in gioco beni valori importanti per la persona umana, negli
anni ’70 alcuni cominciarono a dire che, essendoci tante influenze, questo attenua
il livello della responsabilità, e quindi gli sbagli compiuti in questo settore, pur
essendo rilevanti, non cambiano l’opzione fondamentale. Questa è la tesi. PH al
numero 10 dice esattamente il contrario: “Fatta salva la possibilità le scelte
compiute in ambito sessuale siano più o meno imputabili perché ci sono una serie
di fattori condizionante, ma le scelte compiute in ambito sessuale toccano
l’opzione fondamentale, perché toccano beni valori importanti della vita umana”.
Questo numero 10 è citato nel nostro testo. Si dice sostanzialmente che la opzione
fondamentale non cambia solo quando sto davanti a Dio e prendo delle decisioni,
ma cambia anche quando, in materia categoriale, faccio qualcosa di gravemente
contrario alla sua volontà. Per cui dice, per esempio, PH che l’adulterio cambia la
opzione fondamentale e non è che ti lascia come stai. Perché ‘adulterio, ad
esempio, è un peccato contro il coniuge. Ma anche contro Dio perché la volontà di
Dio sul matrimonio è chiara e ti porta in un’altra direzione. Quindi tu hai
disobbedito gravemente alla sua volontà.
Voglio leggervi questo passaggio, perché molti oggi pensano così. Siamo a pagina
246. Scrive PH al numero 10: “Alcuni arrivano fino ad affermare che il peccato
mortale, che separa l’uomo da Dio, si verificherebbe solo nel rifiuto netto e
formale, con il quale l’uomo si oppone all’appello di Dio o nell’egoismo che,
completamente e deliberatamente, esclude l’amore del prossimo. E allora
soltanto, dicono, che ci sarebbe la opzione fondamentale, cioè la decisione che
impegna totalmente la persona e che sarebbe richiesta per costituire un peccato
mortale…”. Il pericolo, anche qui, è quello di identificare il peccato mortale con
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scelta a livello di opzione fondamentale. “…per mezzo di essa l’uomo, dall’intimo
della sua personalità, assumerebbe o ratificherebbe un atteggiamento
fondamentale nei riguardi di Dio e degli uomini. Al contrario, le azioni chiamate
“periferiche” –sarebbero le scelte categoriali – “…non arriverebbero a modificare
l’opzione fondamentale, tanto più che esse procedono spesso – si osserva –
dall’abitudine. Esse possono, dunque, indebolire l’opzione fondamentale, ma non
modificarla del tutto…”. Second o questi, in materia sessuale, si farebbero delle
scelte che possono indebolire la scelta fondamentale, ma non la cambierebbero
mai. Perché, ripeto, sono scelte “condizionate”. Come si risponde a questi signori?
Dice così: “In realtà è, sì, l’opzione fondamentale che definisce, in ultima analisi,
la disposizione morale dell’uomo; ma essa può essere radicalmente modificata da
atti particolari”. Quel “sì” è molto importante, perché sancisce il riconoscimento:
“è vero che esiste una opzione fondamentale e che essa qualifica la disposizione
morale dell'uomo". “Ma essa può essere radicalmente modificata da atti
particolari”: quello che succede a livello categoriale è decisivo anche sul piano
fondamentale. Questo è molto interessante. “…specialmente se questi sono
preparati – come spesso accade - da atti anteriori più superficiali. In ogni caso
non è vero che uno solo di questi atti particolari non possa essere sufficiente
perché si commetta peccato mortale…”. Il riferimento è per la sessualità, ma, più
ampiamente, si riferisce a tutte le scelte categoriali. “…secondo la dottrina della
Chiesa…” – questo va sottolineato – “…il peccato mortale che si oppone a Dio
non consiste solo nel rifiuto formale e diretto al comandamento della carità; esso
è ugualmente in questa opposizione all’autentico amore, inclusa in ogni
trasgressione deliberata, in materia grave, di ciascuna delle leggi morali. L’uomo
pecca dunque mortalmente non soltanto quando il suo atto procede dal disprezzo
di Dio e del prossimo, ma anche quando, coscientemente e liberamente, per
qualsiasi motivo, egli compie una scelta il cui oggetto è gravemente disordinato”.
Capite? L’uomo mette una grave mancanza a livello morale non solo quando sta di
fonte a Dio some nella bestemmia o nella apostasia, ma anche quando, a livello
categoriale, fa qualcosa di gravemente contrari alla sua volontà. Questo può
avvenire anche nella sessualità. Perché no? Il documento non dice che tutto quello
che si fa nella sessualità è peccato mortale, ma dice che però sono in gioco beni
valori importanti e che dunque è una grave mancanza morale contro la volontà di
Dio in ordine alla sessualità.

Teologia morale
(Prof. A. Panzetta)
Lezione 22
(03.03.2017)

Ieri stavamo parlano dei numeri 65-70 di VS. Abbiamo visto PH e RP e anche
questi numeri di VS. Ripeto le evidenze chiare che stanno in tutti questi documenti
del Magistero:

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 il concetto di opzione fondamentale si può accettare, è fecondo. Corrisponde
all’insegnamento biblico e alla Tradizione vivente della Chiesa.
 Però deve essere interpretato correttamente. Se infatti si scivolasse dalla
distinzione tra scelta fondamentale e scelte categoriali alla scissione o
separazione dei due livelli, questo sarebbe contrario alla dottrina cristiana.
 A partire da questo sia RP che VS rifiutano anche l’idea della tripartizione dei
peccati, legata al teoria della opzione fondamentale: l’idea che esisterebbe un
peccato mortale, a livello della opzione fondamentale, un peccato grave, a
livello i beni rilevanti per la persona, ma che non toccherebbero l’opzione
fondamentale, e un peccato veniale. Questa distinzione non è accolta. Sia in RP
che VS rifiutano questa tripartizione.

Per chiudere questo discorso su VS voglio che vediamo insieme alcuni passaggi
che mi sembrano importanti.
Anzitutto il n 65 in cui c’è un primo giudizio di accoglienza. Si dice così:
“Giustamente – cioè nel giusto – si rileva che la libertà non è solo la scelta per
questa o per quest’altra azione particolare; ma è anche, dentro una simile scelta,
decisione su di sé e disposizione della propria vita pro o contro il Bene, pro o
contro la Verità, in ultima istanza pro o contro Dio”.
Questa idea tipica della teoria della opzione fondamentale è giusta, è accolta.
Subito dopo, però, si mette in discussione la possibilità della dissociazione.
Nell’ultimo capoverso del numero 65 si dice così: “Si giunge così ad introdurre
una distinzione tra l’opzione fondamentale e le scelte deliberate di un
comportamento concreto, una distinzione che in alcuni autori assume la forma di
una dissociazione…”.
E questa dissociazione viene considerata di segno negativo.
Nel numero 67 c’è una affermazione che dovete conoscere molto bene: “Va
pertanto affermato che la cosiddetta opzione fondamentale, nella misura in cui si
differenzia da una intenzione generica e quindi non ancora determinatasi in una
forma impegnativa della libertà, si attua sempre mediante scelte consapevoli e
libere”.
Quindi l’opzione fondamentale si attua sempre mediante le scelte categoriali. Una
opzione fondamentale in maniera atematica non esiste. Noi saremo di fronte alla
Verità e al Bene in modo atematico quando saremo di fronte a Dio, però oggi c’è
sempre il filtro della storia: noi decidiamo, rispetto all’eterno, nel tempo, mediante
azioni concrete, proprio per questo motivo.
E continua: “Proprio per questo motivo, essa viene revocata quando l’uomo
impegna la sua libertà in scelte consapevoli di senso contrario, relative a materia
morale grave”.
Questa è la motivazione per cui la tripartizione dei peccati non può essere assunta.
Questo è l’insegnamento fondamentale che c’è in VS rispetto alla teoria della
opzione fondamentale.
Nel numero 68, al primo capoverso, si descrivono gli effetti educativi e pastorali
devastanti della dissociazione di uno dei due livelli. Si dice così: “Occorre
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aggiungere una importante considerazione pastorale. Nella logica delle posizioni
sopra accennate (cioè quella della dissociazione), l’uomo potrebbe, in virtù di
un’opzione fondamentale, restare fedele a Dio, indipendentemente dalla
conformità o meno di alcune sue scelte e dei suoi atti determinati alle norme o
regole morali specifiche”.
L’esempio che io vi ho fatto ieri: “Io amo il Signore”, e poi rubo, ho una doppia
vita, ho una relazione extraconiugale. Tutte queste cose. Ma la scelta fondamentale
trova la sua verità a livello categoriale, se no sono chiacchiere. È pericoloso,
questo.
Continua: “(secondo questa dissociazione) in ragione di un’opzione originaria per
la carità, l’uomo potrebbe mantenersi moralmente buono, perseverare nella grazia
di Dio, raggiungere la propria salvezza, anche se alcuni dei suoi comportamenti
concreti fossero deliberatamente e gravemente contrari ai comandamenti di Dio,
riproposti dalla Chiesa”.
Questo non si può fare. Quindi l’idea di una dissociazione dei due livelli
porterebbe alla doppia vita: tu puoi avere un livello fondamentale buonissimo e poi
a livello categoriale ti “arrabbatti” come puoi. Non è possibile così. Per stare in
grazia di Dio bisogna avere una buona scelta fondamentale che poi prova a
incarnarsi a livello categoriale. Queste sono le idee fondamentali qui presenti e a
queste vi dovete rifare, perché questi sono gli insegnamenti fondamentali.
Per chiudere, non si può dire che VS ha bocciato la teoria della opzione
fondamentale? Non si può però dire che l’ha sposata in toto, ma invece la ha
accettata ma con riserva. La ha accettata, ma solo se essa non comporta una
dissociazione dei due livelli. se così fosse, sarebbe fosse dalla grazia di Dio.

Proviamo quindi, allora, a tirare fuori alcune conclusioni sintetiche su questo


discorso che abbiamo fatto sulla opzione fondamentale.
Abbiamo visto come è nata, abbiamo visto se è compatibile con l’insegnamento
biblico, se è compatibile con la Tradizione vivente della Chiesa, abbiamo visto se è
compatibile con il Magistero.
In tutto questo percorso sono evidenti alcune costanti che occorre richiamare quasi
sistematicamente.
 La prima evidenza è la seguente: l’opzione fondamentale non è una magia, non
è una realtà improvvisa, ma improvvisamente si realizza nella vita della
persona. Non è un episodio, ma è un cammino. E poiché la maturazione di una
vera opzione fondamentale richiede un cammino progressivo, qui sta la vera
azione educativa. Cioè, gli educatori dovrebbero essere coloro che ti aiutano a
fare buone scelte fondamentali, perché poi le scelte fondamentali animano il
vissuto concreto delle persone. Penso che queste siano importante in tutti i
livelli, qualunque sia la nostra vocazione. Aiutare le persone a maturare una
buona opzione fondamentale significa aiutare a fare grandi scelte, a sposare
grandi valori e poi provare a trasferirli nella concretezza della vita. Quindi
sposare grandi valori nel “qui e ora” della vita: questo è l’itinerario pedagogico
che dobbiamo proporre.
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 La scelta fondamentale non è mai atematica, cioè non si compie mai senza una
scelta particolare. La scelta fondamentale si realizza sempre attraverso una
scelta particolare. Quindi proprio mentre decidiamo le scelte categoriali,
decidiamo la scelta fondamentali. Questo significa che tra i due livelli esiste
quindi un rapporto sacramentale. La scelta fondamentale si incarna nelle scelte
categoriali. La scelta categoriale è il luogo in cui matura la scelta fondamentale.
C’è un rapporto di reciprocità: dall’alto verso il basso, di incarnazione; dal
basso verso l’alto di esecuzione.
 Questa scelta è una scelta totale e non totale (Non è mai definitiva). Potrebbe
sembrare contraddittorio ma è così. È anzitutto una scelta totale nella quale
tutto l’uomo si gioca. Quando si dice “fondamentale” significa che è una scelta
che diventa il fondamento totale della vita.
Tuttavia è anche “non totale” perché, per la storicità, tutto si arrugginisce,
anche le scelte fondamentali.
Quindi è totale perché ti chiede di giocarti tutto e completamente, però, nello
stesso tempo, noi siamo esseri storici: oggi diciamo al Signore: “Tu sei il re
della mia vita!”, e domani vivi come e lui non ci fosse. Tutto ti puoi rimangiare:
il minuto dopo che lo hai detto, già te lo puoi riprendere. Questo significa che,
una volta posta la scelta fondamentale, è necessaria una “manutenzione” di
questa scelta. Ogni tanto bisognerebbe chiedersi se quella scelta che si è fatta
c’è ancora. Ogni tanto bisognerebbe, in qualche modo, verificare la presenza
attuale delle grandi opzioni che abbiamo fatto. Noi gli esseri storici ogni tanto
le grandi opzioni che facciamo le celebriamo ancora. È uno ogni tanto dovrebbe
chiedersi: "c'è ancora la scelta che ho fatto dieci anni, venti anni, trent'anni fa?".
Infatti, le grandi opzioni si arrugginiscono, come le tutte le cose della vita. È
una scelta totale, ma anche non totale.
 L’ultima cosa particolare: la teoria della opzione fondamentale, quando è
giustamente impostata, valorizza molto le scelte categoriale. Le scelte
categoriali sono il luogo nel quale ci si gioca la vita per sempre. Gli atti
particolari sono il luogo in cui ci si gioca tutto: il tutto è nel frammento di una
decisione.
Potremmo dire, usando una analogia, che la vita morale, segnata dalla opzione
fondamentale, assomiglia a quella di un albero. Il tronco della vita morale è la
opzione fondamentale; i rami della vita morale sono gli atteggiamenti nei quali
questa scelta prende corpo (fede, speranza, carità, fortezza, giustizia,
temperanza, prudenza). I frutti di questo albero sono gli atti. Dovremmo dire
che la scelta fondamentale ti dà un tronco, gli atteggiamenti che nascono dalla
scelta fondamentale sono i rami della vita, gli atti sono i frutti che si producono.
C’è una genesi: scelta, atteggiamenti, atti. Questo è lo schema
Ecco perché vi ho detto tante volte che, se nella conversione lavori sugli atti e
non sulla opzione, è inutile. Se nella conversione aggiusti un po’ gli
atteggiamenti, ma non aggiusti la scelta fondamentale, è inutile. Cambiando il
tronco, cambiano gli atteggiamenti e cambiano i frutti.

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Una corretta impostazione della teoria della opzione fondamentale valorizza
questo: gli atti sono molto importanti ma non sono tutto. Perché, per esempio, la
morale casistica guardava solo gli atti: gli atomi decisionali, cioè le decisioni. Però
dietro le decisioni ci sono gli atteggiamenti. Dietro gli atteggiamenti c'è un
progetto di vita che si chiama opzione fondamentale. Quindi un vero educatore, o
chiunque voglia lavorare su se stesso - perché noi siamo pure educatori di noi
stessi, innanzitutto… Chi è educatore di altri deve lavorare sulla integrità della
persona: atti, atteggiamenti e scelta fondamentale. Questa è l’idea che mi
piacerebbe aveste su tutto il discorso che abbiamo fatto sulla opzione
fondamentale.

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