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Metafisica II quadrimestre

Anna Maria Tripodi

POTERE ENTIFICANTE DELLA MENTE


La parola rivela il potere entificante della mente: dichiara l’essere, senza il quale la parola non
potrebbe darsi, in quanto parola e in quanto comunicabile.
La parola ha un suo grado d’essere grazie al quale è in grado di comunicare la realtà che
esprime.
La parola ha una valenza oggettiva, che la distingue da ogni accezione in senso nominalistico,
il che equivale a dire convenzionale, svuotato di significato come la parola dello scettico. In
questa situazione la possibilità di un discorso finisce per scomparire.
Le parole sono opera della capacità entificante della mente, non sono convenzioni.

Gorgia è modello di come sia possibile giungere al nichilismo (nientificazione della


consistenza ontologica di tutto ciò che è, e così facendo nega qualsiasi valore). Gorgia
esplicita il percorso che aveva preso avvio da Protagora il quale aveva teorizzato l’incapacità
dell’uomo di cogliere qualcosa di ciò che è, non c’è verità oggettiva ma solo sensazioni
soggettive, alla base del nichilismo sta sempre una qualche forma di scetticismo
gnoseologico la cui matrice empiristica.

L’empirismo è quindi padre dello scetticismo, il quale proclama la riduzione dell’ente


intelligente finito a soggetto solamente sensitivo. Ora teorizzato il riduzionismo
gnoseologico che relega l’uomo alla sola conoscenza del mondo materiale, si approda al
riduzionismo ontologico che relega l’uomo nel mondo.
In tale situazione le domande speculativa sull’esistenza, su origine, senso e fine diventano
impossibili o assurde perché non rientrano nelle capacità investigative dell’uomo, le quali
diventano aprioristicamente e pregiudizialmente relegate alla realtà materiale.
L’uomo concepito empiristicamente vede se stesso delimitato alla sola sensibilità, per cui
vieta a se stesso il discorso filosofico, perché non vede la domanda metafisica, perché la sua
ragione è privata della luce della Verità.

Con l’avvio della modernità si diffondono in Europa alcuni libretti che denunciano
l’atmosfera decadente del tempo. Testimonianze di una decadenza decostruttiva che ha
pensieri devastanti nell’inseguire costumi corrotti. La Filosofia ha compiuto un’opera di
riduzione su se stessa che si è riversata nel mondo. Il processo di impoverimento inizia a
livello delle idee genera una cultura impoverita che permea di sè i costumi e la mentalità
corrente. In questa atmosfera scettica la Metafisica viene considerata una scienza del passato
che fa domande non plausibili anzi illegittime, il percorso di omissione speculativa si è
riproposto con la modernità che è passata in 3 secoli  empirismo (conosco solo il sensibile)
 riduzionismo scetticismo (conosco solo soggettivamente)  nichilismo (non posso
conoscere) vanificando il percorso che l’uomo aveva fatto nei 3 millenni precedenti.
Persona e parola significante
Solamente la creatura umana ha la capacità di porre domande e fornire risposte e da ciò
consegue una serie di corollari, possiamo fare alcune considerazioni.
La parola della creatura umana è significante,cioè é capace di esprimere la verità.
Solamente la creatura umana è in grado di comunicare verbalmente, inoltre può cerare la
verità perché la verità inerisce al suo intelletto, al suo statuto ontologico.

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La creatura possiede per natura il criterio della conoscenza e dell’azione: la Verità è legge per
il pensiero e legge per l’azione.
Se non viene riconosciuta la differenza ontologica tra natura e natura umana è estremamente
difficile sfuggire al criterio mercantile, materiale, nella valutazione dell’uomo e di
conseguenza è impossibile salvaguardare il rispetto della persona umana.
Oggi in una società neopagana, post-cristiana il criterio mercantile riveste forme più subdole
e pericolose (in passato si vendevano gli schiavi a costo di cammelli per esempio)come il
collegamento tra la valutazione della persona e la sua capacità produttiva: oggi se non
produci sei un peso per la società.
Spesso la sociologia accomuna i vari linguaggi dei viventi come se la differenza tra natura e
natura umana (qualitativa e ontologica) fosse di scarso rilievo, in realtà la differenza c’è ed è
insuperabile, certi modi di dire possono essere affascinanti ma sono impropri, noi possiamo
sostenere che “la natura parla all’uomo e l’uomo alla natura” ma non è comunicazione tra
intelligenza e intelligenza, dire qla parola è dell’uomo e va da intelligenza a intelligenza. È lo
stesso nel colloquio interiore che è colloquio con la verità che ci costituisce.
La parola inter-corre tra intelligenze, anche tra intelligenza finita e infinita, e lascia il segno
che l’altra intelligenza saprà leggere. La parola finita (dell’ente intelligente finito) è autrice del
segno che di volta in volta viene espresso, nel senso che con questo segno cattura la realtà che
ha di fronte ma della quale non è principio. Nel momento in cui do il nome alle cose dico,
catturo la realtà che ho di fronte ma catturo qualcosa di cui io non sono il principio.

L’uomo (1)vede con gli occhi della mente, (2)sa di vedere, ma non basta, (3)è orientato a
vedere oltre, al compiuto vedere, non è mai appagato dai singoli segni, cosi come non è mai
appagato dalla pluralità degli enti.
Tutti i discorsi di questo mondo non possono appagare la mia capacità di vedere e di
ricercare, perché voglio andare al principio. I compiuto vedere non è vedere compiuto,
perché quando vedo, vedo da una prospettiva. Il vedere dell’uomo reca con se una sorta di
nostalgia ossia la consapevolezza della lontananza del vedere compiuto che a un tempo lo
allontana e lo attira. Gli esseri non bastano alla creatura, perché aspira all’Essere, e l’essere
ideale non basta alla creatura, perché essa aspira all’Essere reale.

Se la modalità della parola è infinita, la sua azione è realmente entificante (crea dal nulla), è la
parola di Dio: il fiat della creazione è la parola che l’intelligenza infinita dice a se stessa in
quanto intelligenza divina ed è parola che nel momento in cui è pronunciata è già entificante.
Potremmo dire che Dio parla a se stesso e la sua parola è già compiuto e perfetto vedere ciò
che quella parola ha posto in essere. La parola creante (il principio) crea il termine dell’atto
creante (il creato, i molti).
Gn. 1.31: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona”.
Nel momento in cui Dio parla a se stesso crea, nel momento in cui parla all’intelligenza finita
e comunica con essa la coinvolge nell’opera della co-creazione ossia la rende autrice della
propria storia che è scandita da: segni positivi, che sono veritativi e poietici (operativi)
quando l’uomo riconosce il creato per ciò che è

Segni negativi, distruttivi quando l’uomo non riconosce il creato per ciò che è.
Il creato è dialettico (in relazione a) ed è in relazione al creatore come al suo principio ed è in
relazione all’ente intelligente infinito come l’unico in grado di riconoscerlo e riportarlo sul
piano del valore.

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Al n.362 della logica Rosmini scrive:“Ciò che è ma non è persona non può stare senza che ci
sia una persona” (principio di persona).

Il percorso tracciato dalla parola, resta in quanto è pervaso dal logos, è percorso dalla, nella, e
per la verità, è percorso intelligibile che origina ricchezza della tradizione. I nostri discorsi se
veritieri restano e sono quelli che contribuiscono al consolidamento della tradizione,
costituiscono un qualche cosa che può essere compreso dalle altre intelligenze in quanto
significano, ossia manifestano l’Essere che attraverso di esso si rivela.

Seguono alcuni corollari: i segni in cui la parola si esprime possono essere compresi perché la
comprensibilità è il loro carattere intrinseco;
sono segni in quanto comprensibili: l’universo creato dall’Essere nell’essere, anche se nella
sua immensità e complessità può sembrare incomprensibile, pur tuttavia, ha una sua
intrinseca possibilità di essere compreso in quel compiuto vedere cui l’uomo aspira, perché è
generato dal Logos divino che è l’Intelligibilità stessa dell’Essere a se stesso.
La capacità di comprensione finita dell’uomo non misura e quindi non può negare la
intelligibilità del Logos divino, quindi la verità, non misura ma ne è misurata, tanto e vero
che se nega la verità (logos) si autonega.
La ragione è capace di Verità , ma non può catturarla tutta con un unico atto.
La verità ideale (presente alla mente) è quella che ci costituisce tutti esseri umani.
Conoscere il limite della propria capacita di comprendere non significa che ciò che la
oltrepassa non sia intelligibile è semplicemente a-razionale.
L’uomo è finalizzato all’Essere che gli si e comunicato per creazione partecipante e che quindi
non gli può essere muto. Il silenzio è gravido di tutte le parole, nel silenzio interiore incontro
me stesso e Dio.
Il termine muto indica la chiusura alle parole, l’oscuramento dell’intelligenza; nel silenzio
interiore c’è la ricchezza.
Le parole dell’uomo sono frutto di un potere entificante relativo. Conoscere un isola (per
esempio) significa portarla sul piano del valore, significa dichiararla esistente, farla essere
dialetticamente, quindi fino a che l’isola non è scoperta non esiste, esiste in relazione a Dio.
Questo parola (l’isola) dialetticamente in relazione a me è una misura di idealismo che non è
possibile non riconoscere al pensiero umano.
La realtà finita esiste per la persona umana non perché la persona umana ne sia la causa
efficiente o l’origine ma perché quando la persona umana percepisce una realtà e pronuncia
un giudizio su di essa (può essere un giudizio di esistenza, per cui si dice che una cosa esiste,
oppure un giudizio di conoscenza) conferisce a questa realtà l’essere nel senso che la pone sul
piano dell’essere, la riconosce, mentre prima era come se non fosse, non la si conosceva.
Questa misura di idealismo è stata da alcuni pensatori assolutizzata e dal momento che
l’isola c’è per chi la conosce si è arrivati impropriamente a sostenere che l’isola c’è perché ci
sono io (idealismo soggettivo).
Si tratta quindi di un entificazione mentale relativa, ma di un atto indispensabile perché il
discorso umano sul mondo ci sia e abbia un senso.

Tutto ciò per affermare questo concetto: quello della responsabilità anche nell’uso delle
parole, perché le parole hanno un peso, perché le parole hanno una concretezza, dicono
l’essere, sono capaci di comunicare, sono significative, sanno fare il loro mestiere.

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Parola significante e multivocità dell’essere.
Abbiamo sostenuto che la parola intercorre tra intelligenze e lascia il segno, il segno della
parola divina espressa dalla Intelligenza infinita è l’ente finito, che viene ad essere dal nulla,
quindi il segno della parola divina è l’atto d’essere.
Atto d’essere: Esse / che significa esistenza , esserci, e che è quel atto che fa passare l’essenza
dalla potenza all’atto, atto d’essere trova la sua traduzione più letterale in Actus essenziae.
Potenza ed atto sono le espressioni dinamica rispettivamente della materia e della forma, le
quali concorrono alla costituzione di ogni ente finito. Potenza ed atto sono anche modalità
universali dell’essere in quanto essere: ogni essere cioè ogni ente finito può essere in potenza
o in atto, dunque potenza ed atto abbracciano tutto l’essere e per la loro universalità non sono
definibili, ma si collocano intuitivamente e si possono illustrare con esempi (seme 
individuo adulto), abbiamo tanti esempi di questa realtà che sfugge la razionalizzazione; S.
Tommaso riprende da Aristotele la dottrina della potenza e dell’atto e la rivisita alla luce del
tema Essenza/Esistenza.
L’essenza di una cosa è ciò per cui la cosa possiede tutte le proprietà che le competono ed ha
la capacità di essere attualizzata nell’esistenza, per cui l’essenza è potenza rispetto
all’esistenza che è atto, l’essenza di una cosa è sintesi di materia e di forma oppure con
termini latinizzati: Suppositum, quiddità. La differenza essenza esistenza e quindi differenza
potenza atto nelle creature è fondata sulla constatazione che nessuna creatura è il proprio
essere, per contro l’atto puro non è composizione, non è sintesi , ma è identità esistenza
essenza: “solus deus est ens per essentiam, quia eius essentia est suum esse” Solo Dio è ente per
essenza poiché la sua essenza è il suo essere.
Actuo Essendi : è l’atto di tutti gli atti. Ogni creatura è composizione, è sintesi di potenza e di
atto in quanto è sintesi di materia e forma, in quanto è sintesi di essenza esistenza: è un Actus
receptus.
Solamente in Dio l’atto di esistenza si pone come essenza e sostanza perché Dio non è una
essenza in sintesi con l’essere, ma è l’essere stesso, lo stesso atto supremo dell’essere.

Nelle creature atto e potenza sono “entia ut quibus” ossia non cose, ma principi, componenti
“come dai quali” che indica un complemento d’agente, di causa efficiente; e non “entia ut quae”
“come i quali”, non più complemento di agente ma soggetto e infatti atto e potenza sono entia
ut quae solo in Dio.
Autonomia = entia ut quibus. Autosufficienza = entia ut quae.

Segno della parola espressa dalla intelligenza finita. Questo segno è la storia che edifica o
distrugge, è il frutto delle mie azione. La parola pronunciata dall’intelligenza infinta è
Principio assoluto (e quindi è archè, fondamento della metafisica) e logos (principio della
conoscenza e della comunicazione e in quanto logos è fondamento della filosofia). La parola
pronunciata dall’intelligenza finita è principio autonomo quindi relativo, chiamato a
esplicitarsi sul duplice piano conoscitivo e operativo, uno origina l’enciclopedia del sapere,
l’altro l’universo del fare. La relatività di questo principio autonomo non significa
relativismo, ma essere “in relazione a” . la relatività del principio permette di vedere la
molteplicità degli enti e di vedere oltre, origine della tensione al compiuto vedere che nasce
da quella nostalgia del principio che è inserito nell’uomo attraverso l’idea dell’essere come
principio.
In sintesi l’uomo è capace di leggere la natura, il cosmo ecc. in quanto è in relazione al
Creatore che lo chiama all’opera di cocreazione riconoscendo rispettando e amando l’essere

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nella completezza delle sue forme, il principio della cocreazione che deve essere libera e
responsabile è dato quindi dall’intelligenza che legge dentro di se l’essere come principio
conoscitivo intuendolo e in base ad esso svela, manifesta, significa il significato degli enti.
Corollari
La capacità di comprensione finita propria dell’uomo non misura (e quindi non può negare,
perché per negarlo dovrebbe essere in Principio) il logos (essere come principio conoscitivo a
carattere ontologico non gnoseologico), anzi ne è misurata, nel momento in cui l’uomo
prende atto di essere misurato dall’essere prende atto del proprio limite, scopre il proprio
Principio, si finalizza al proprio Fine.
L’uomo è finalizzato all’Essere dal quale proviene, è in comunicazione con Lui, tanto è vero
che il Verbo gli parla interiormente, con un Silenzio gravido di tutte le parole.

Il potere entificante della mente finita è relativo, riconosce, dichiara, pone in reazione Ciò che
è. Questo è un sano idealismo oggettivo per cui una realtà esiste in relazione al soggetto non
perché il soggetto la ponga ma perché la riconosce come esistente.

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“AMICI DELL’UNO” e “AMICI DEI MOLTI
Fare oggetto di discorso la realtà circostante (cioè i molti) comporta il chiedersi da parte
dell‘uomo i perché di essi, il che implica e riconduce al problema metafisico origina rapporto
Uno/molti
Nel corso dei secoli sul rapporto uno molti si è venuta deformando e grazie a due pensatori
(Leibniz 1646-716 Heidegger 1889 1976 ) l’hanno formulata così (equivoca): “perché qualche
cosa piuttosto che il niente?”

Actus est prior potentia esprime la necessaria priorità, sia nell’essere sia nel conoscere, dell’atto
sulla potenza, del perfetto sull’imperfetto, del positivo sull’negativo, del vero sul falso, del
bene sul male, dell’essere sul nulla, del teismo sul ateismo. È impossibile pensare il nulla se
non come nulla di essere, il male se non come privazione di bene, il falso se non come
deviazione dal vero, l’imperfetto se non come limitata immagine del perfetto. Ne segue
l’impossibilita dell’esistenza da prima dell’imperfetto e poi del perfetto, del contingente e poi
dell’assoluto, e invece la necessaria dipendenza nell’essere dell’imperfetto dal prefetto e del
contingente dall’assoluto. È impossibile quindi una evoluzione assoluto del perfetto
dall’imperfetto, di un indefinito processo di origine di cause causate, di una ricerca di verità
senza assolute verità iniziali; sono possibili processi dall’imperfetto al perfetto, ma siccome
per promuoverli occorre una causa, dato che nessuno può darsi ciò che non ha, è necessario,
assolutamente parlando, che sia sempre prima il perfetto che l’imperfetto, l’atto che la
potenza,

La molteplicità degli enti fa problema perché esiste l’ente intelligente finito e fa problema per
l’ente intelligente finito, se la persona umana non fosse l’universo sarebbe muto incapace di
comunicazione verbale e di interrogarsi e di sentimenti, se non ci fosse l’ente intelligente
finito mancherebbe la capacita di interrogarsi di avvertire, di appropriarsi dei priori
sentimenti. In questo spirito si può spiegare l’atteggiamento del nichilista il quale togliendo
dimezzo l’essere, si sbarazza dei problemi connessi alla domanda sul perché dell’essere. Tutti
gli enti non sono perché manca l’essere, non ci si può rapportare, manca il rapporto con gli
esseri, e dei quali non si può dire nulla e quindi viene mancare il discorso sull’essere. Gli enti
non sono, non possiamo rapportarci, degli enti non possiamo dire niente.
Ma è sufficiente che uno solo ente intelligente finito si a cosciente di se e la domanda sul
perché risorge dalla meraviglia, “basta che un uomo si liberi dalle catene ed esca dalla caverna”
(Platone)

Perché qualche cosa piuttosto che il niente? questa domanda è ambigua. Porsi questa
domanda, suppone che prima delle cose ci sia il niente, non nel senso del niente di cose cioè
della mancanza dei molti, ma nel senso del niente di essere, ossia del nulla il che è falso, è un
problema fasullo;
In primo luogo, se all’origine ci fosse il niente di essere, verrebbe a mancare il principio che è
capace di spiegare ciò che è, e ciò che è cadrebbe nel nulla. In secondo luogo, se all’origine ci
fosse il niente di essere, niente nascerebbe “poi e nel niente”, quindi ci troveremmo inesistenti
a non dire nulla su nessuna cosa, quindi non ci porremmo neanche domande.
La domanda è posta, c’è sempre qualche d’uno che si è posto la domanda. Come è meglio
porsi la domanda correttamente? Quale la ragione dell’essere degli esseri degli enti?
Questa domanda sul rapporto uno molti configura il problema del finito, dei molti, del tempo
e della storia che misurano l’opera di cocreazione affidata all’uomo. Il problema si pone sul

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piano ontologico metafisico e logico. ricerca dell'arché e ricerca del Principio che ci permette di
dire la verità;
Configura il problema del cominciamento del finito, della molteplicità, dei molti, del tempo e
della storia, sul duplice piano ontologico-metafisico e logico, ricerca dell'arché e ricerca del
Principio che ci permette di dire la verità; di fronte il divenire naturale e il divenire storico
l'uomo si chiede il perché, risposta in chiave immanentista e in chiave trascendentista,
quando risponde in maniera trascendentista e usa il principio di creazione risolve il
problema, l'unica maniera di semantizzare, dire, pronunciare il non essere è in rapporto
all'essere che nega, ossia è l'elenco dei possibili significati che assume come negazione di
altrettanti significati dell'essere, prima il vero poi c'è il falso, prima c'è il teismo poi
l'ateismo...actus est prior potentia.
L’unica maniera di semantizare dire significare il non essere è in rapporto all’essere che nega
ossia è la lista dei possibili significati che assume come negazione di altrettanti significati
dell’essere. Questa è la posizione della metafisica classica.

Opporsi al nulla (Heidegger). Espressione priva di significato (Enrico Berti) o significa non
opporsi a nulla, non opporsi affatto (senza senso) o significa opporsi a qualche cosa, allora il
nulla viene reso significativo,viene considerato come essenziale all’essere.
Noi sappiamo che uno dei termini con cui più anticamente è stato designato il metafisica e
quello di essere (Parmenide e Platone non è quello dell’esperienza sensibile. Per Aristotele
l’essere tutto ciò di cui si può dire tutto ciò che è. Fra i molti significati dell’essere, ce ne sono
due fondamentali, che sono quello di esistenza (atto di essere oppure esse) e questo
significato dell’essere risponde alla domanda “se qualche cosa sia”. Secondo significato,
quello di essenza (suppositum quiddita) sintesi fra materia e forma e l’essenza risponda alla
domanda “che cosa, qualcosa sia”.
Un ente la cui essenza implichi l’esistenza se esiste, esiste necessariamente e quindi
eternamente; un ente, per contro, la cui essenza non implichi l’esistenza, non esiste
necessariamente. Quindi può esistere in un certo momento e non esistere in un altro
momento, è contingente.

A questo punto possiamo enucleare 6 modi fondamentali per l’essere:


 Possibile: qualsiasi ente finito
 Impossibile: il non essere
 Reale: un ente finito in atto
 Irreale: tutto ciò che non è qui e davanti
 Necessario: L’Essere
 Contingente: tutto ciò che è creato.

Quando parliamo di multivocità dell’essere parliamo dei suoi diversi modi di esistere , la
molteplicità di significato , ad un fatto linguistico, fatica della ragione a dire discorsivamente;
essere e ente permettono di esprimere l’unita.

I 4 significati fondamentali dell’essere


 Essere accidentale, rappresentato dalla copula (esempio è simpatico)
 veritativo : quando dico, affermo , sostengo è vero ( riguardano la dottrina della
conoscenza, la gnoseologia) l’essere veritativo riguarda la dottrina gnoseologica e la
metafisica sotto l’aspetto fondativo della conoscenza
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 esistenziale : indica per ciascun soggetto la realizzazione che le cose le sono proprie,
questo aspetto riguarda la metafisica perché rapporto Uno/molti.
 Predicativo: indica un effettivo modo di essere, una categoria.

Principio di contraddizione: In forma di logica matematica di 2 affermazioni e/o concetti


valori contradditori. È impossibile che una stessa cosa contemporaneamente sia e non sia.
Niente può insieme essere e non essere la stessa cosa, (A non è NonA)

Dal punto di vista logico ci sono 4 formulazioni


 non si può insieme affermare e negare la stessa cosa
 un identico predicato non può insieme appartenere o non appartenere a un identico
soggetto.
 Un’affermazione e una negazione non sono vere insieme
 Una proposizione non può essere vera e falsa insieme

La metafisica creazionistica dice che il principio del creato è la Parola (Fiat), la parola
creatrice, la parola entificante secondo una modalità assoluta, la parola capace di donare
l’essere, in questo senso è possibile sostenere che l’intero universo è una parola del Principio,
altrimenti detto, il Principio del mondo è la Parola. Questa Parola è Parola di Qualcuno che
possiamo identificare con il Principio e chiamare Uno, dal Uno derivano i molti nella loro
totalità spazio temporale, quindi il mondo è creato nella e con la dimensione spazio
temporale (Kant assolutizza questa dimensione, ritenendo che l’esperienza possa essere
ridotta a l’esperienza spazio temporale).
Torna in primo piano il problema metafisico Uno/molti, ciascuno di noi sperimenta, fa
esperienza della molteplicità spazio temporale, ma nello stesso tempo può pensare l’unità,
(es. consapevoli dell’unita del nostro io al di la delle diverse fenomenologie che lo
manifestano). Come è possibile che l’uomo trovi un accordo tra la molteplicità dell’esperienza
e la possibilità di ricondurre l’esperienza a unita, che sembrando contraddirsi. Volendo
approfondire: se l’uno non è i molti e se i molti non sono l’uno, dove c’è unità come posso
pensare alla molteplicità e dove c’è molteplicità come posso pensare l’unità? Contraddizione
insanabile o apparente?
Tentare di risolvere questa difficoltà significa affrontare il problema metafisico, affondare il
problema metafisico per eccellenza,incamminarsi sulla via della speculazione ultima;
abbiamo un problema che comporta l’individuazione di alcune incognite e se noi lo
risolviamo correttamente scopriamo il valore di quelle incognite.
Essere metafisici non significa avere la testa fra le nuvole, significa porsi l’interrogativo più
concreto circa il mondo, l’essere, facendo uso della parola, che è espressione del pensiero, che
è la ragione operante.
Quale sia il fine il Principio e il Fine del l’universo, il problema è antico quanto l’uomo,
l’uomo si chiede si interroga su se stesso, l’uomo unico animale metafisico. La Scienza e
datata, La metafisica è perenne.
Un fisico oggi non può più essere tolemaico, invece un filosofo può essere platonico, tomista,
agostiniano, rosminiano, può muoversi dentro coordinate di pensiero i quei pensatori che
hanno scoperto alcune dimensioni perenni del vero, alcuni principi che il tempo non è in
grado di consumare, la perennità della filosofia è dovuta al suo essere filosofia dell'essere,
ossia perenne ricerca della verità. Per questo motivo non si può fare teologia se non sulla base
della filosofia dell'essere.
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Le due suddette esigenze ne comportano una terza: è necessaria una filosofia di portata autenticamente
metafisica, capace cioè di trascendere i dati empirici per giungere, nella sua ricerca della verità, a
qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante. E un'esigenza, questa, implicita sia nella conoscenza a
carattere sapienziale che in quella a carattere analitico; in particolare, è un'esigenza propria della
conoscenza del bene morale, il cui fondamento ultimo è il Bene sommo, Dio stesso. Non intendo qui
parlare della metafisica come di una scuola specifica o di una particolare corrente storica. Desidero
solo affermare che la realtà e la verità trascendono il fattuale e l'empirico, e voglio rivendicare la
capacità che l'uomo possiede di conoscere questa dimensione trascendente e metafisica in modo vero e
certo, benché imperfetto ed analogico. In questo senso, la metafisica non va vista in alternativa
all'antropologia, giacché è proprio la metafisica che consente di dare fondamento al concetto di dignità
della persona in forza della sua condizione spirituale. La persona, in particolare, costituisce un ambito
privilegiato per l'incontro con l'essere e, dunque, con la riflessione metafisica.
Ovunque l'uomo scopre la presenza di un richiamo all'assoluto e al trascendente, lì gli si apre uno
spiraglio verso la dimensione metafisica del reale: nella verità, nella bellezza, nei valori morali, nella
persona altrui, nell'essere stesso, in Dio. Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio
è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento.
Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta
l'interiorità dell'uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la
sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge. Un pensiero filosofico che rifiutasse ogni apertura
metafisica, pertanto, sarebbe radicalmente inadeguato a svolgere una funzione mediatrice nella
comprensione della Rivelazione.
La parola di Dio fa continui riferimenti a ciò che oltrepassa l'esperienza e persino il pensiero
dell'uomo; ma questo «mistero» non potrebbe essere rivelato, né la teologia potrebbe renderlo in
qualche modo intelligibile, 102 se la conoscenza umana fosse rigorosamente limitata al mondo
dell'esperienza sensibile. La metafisica, pertanto, si pone come mediazione privilegiata nella ricerca
teologica. Una teologia priva dell'orizzonte metafisico non riuscirebbe ad approdare oltre l'analisi
dell'esperienza religiosa e non permetterebbe all'intellectus fidei di esprimere con coerenza il valore
universale e trascendente della verità rivelata.
Se tanto insisto sulla componente metafisica, è perché sono convinto che questa è la strada obbligata
per superare la situazione di crisi che pervade oggi grandi settori della filosofia e per correggere così
alcuni comportamenti erronei diffusi nella nostra società. (cfr. Fides et Ratio, n. 83)

Nostro scopo e far fruttare i principi scoperti dai pensatori ai fini dare rispose adeguate ai
problemi di oggi e quest’operazione, la capacita di far fruttare questi principi, in termine
tecnico Rosmini li chiama mutazione di forme dialettiche. Limite del pensiero è legato
fondamentalmente alla sua forma, l'uomo ha capacità entificante, il pensiero ha capacità
entificante ma non assoluta, si muove sul piano ideale, anche fino all'infinito, è questo il
limite ontologico delle nostre capacità conoscitive.

Il tentativo di risolvere il problema metafisico fondamentale comporta l’utilizzo di una


dialettica integrante correlatrice che faccia tesoro la dottrina platonica della partecipazione,
che viene espressa nel “Parmenide” e che noi possiamo sintetizzare con 4 frasi
 il reale è Uno (posizione monisti)
 l’Uno non è reale (posizione pluralisti)
la soluzione che Platone offre è formulata cosi
 L’uno è reale
 il reale non è uno

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Questo esprime la dottrina platonica della partecipazione.
Storicamente si è molto diviso e poco correlato per questo sono facilmente rinvenibili quelli
che chiameremo gli “amici dei molti”(pluralisti), meno rari “amici dell’Uno”(monisti)
[ROSMINI] : è più facile dividere che cercare di sciogliere i legami.

I filosofi monisti hanno uno spiccato talento filosofico e spesso la loro posizione suscitano
fascino soprattutto perché hanno forti allusioni di carattere mistico, due esempi di filosofi
monisti del mondo classico, Plotino (204-270) e del mondo moderno, Spinoza. Entrambi
finiscono a togliere consistenza ai molti, Plotino li risduce a effimere manifestazione dell’uno
e Spinoza (il teorico di Deus sives Natura) li riduce a modalità della vita divina, Il monismo
diventa panteismo e prelude al nichilismo perché DIO è in tutte le cose è disperso, questa
confusione in luogo di elevare il mondo a Dio vanifica il mondo della pluralità e con ciò
stesso gli toglie la possibilità di orientarsi a Dio, ciò che non è non ha un fine. I monisti sono
certamente metafisici, ma risultano inadeguati in quanto non risolvono un problema, ma
eliminano uno dei termini: i molti, privano l’Uno del principio entificante. Secondo questa
ipotesi il Verbo fatto uomo si incarnerebbe in un ente che non c’è, non è una vera
incarnazione.

Pluralisti, escludono la possibilità di riportare la molteplicità ad unita e di spiegarla, sono


esponenti tutti quelli che si concentrano sul divenire cosmico senza tenere conto
dell’interezza dell’universo (Naturalisti, cosmisti, positivisti, empiristi, soggettivisti ecc. ).
Vengono analizzati senza che questa analisi postuli di ricondurre all’unità, senza lo sforzo di
operare in maniera armonica. Sono antimetafisici non interessati a cogliere l’unità che da là
forma e senso alla molteplicità.

ESSERE ANALOGO E PRINCIPIO DI CREAZIONE


L’essere univoco e essere equivoco
Elementi essenziali alla soluzione del problema metafisico sono il mantenimento della
relazione Uno/molti e la sua chiarificazione. L’accoglimento del principio di creazione
permette di superare rispettivamente le concezioni dell’essere unico propria degli amici
dell’Uno, e dell’essere equivoco propria degli amici dei molti, in prima battuta possiamo
spiegare perché la metafisica creazionista fa propria la concezione dell’essere analogo

dal punto di vista logico


Univoco: è un termine che dice o predica la stessa cosa per tutti i soggetti di cui si predica, ha
lo stesso contenuto ideale, esempio il termine animale vale sia per l’uomo che per il cavallo.
Equivoco: è un termine che si applica a più soggetti con significato diverso, esempio il gallo è
sia un animale che l’abitante dell’antica Gallia.
Analogo: è il termine che si applica a più soggetti con significato in parte identico in parte
diverso, esempio entificare, entificiazione vale sia per la mente umana che per la mente
divina , (mente divina atto del creare, per la mente umana riconoscere.)

Dal punto di vista metafisico, l’univocità dell’essere predicata e proposta dagli amici dell’Uno
comporta una identità sostanziale tra l’Uno e i molti, ossia una consustanzialità, e chiaro che
siamo in una situazione di confusione (manca una differenza metafisica). L’essere dell’uno e
l’essere dei molti finiscono per confondersi non mantenendo una realtà ben definita.

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Sono rinvenibili due aspetti dell’univocità dell’essere : ci sono coloro che sostengono che la
molteplicità viene assorbita nell’unità del Principio, e quindi si inabissano nell’unità del
Principio scomparendovi come molteplicità . Concezione di panteistica.
La sostanza della molteplicità e la stessa sostanza di Dio ai quali i molti ritornano
inabissandosi e nientificandosi come molteplici è quel percorso di via all’in giù all’in su di
Plotino, poi ci sono coloro che considerano il principio immanente al cosmo, per cui la
pluralità degli enti che sono sparsi nel tempo, costituiscono la vita stessa principio dei quali
sono pure apparenze, in questo caso il principio ha una vita naturale (Deus sives Natura)
oppure una vita storica, in questa situazione diventa impossibile pensare all’eternità di Dio in
quanto la vita del principio si racchiude nell’ambito di ciò che è natura, storia, un qualcosa di
limitato, si racchiude in quella storia che scaturiscono in realtà dall’atto creativo.

Equivocità dell’essere predicata dagli amici dei molti comporta un pluralismo di principio
con la conseguenza che non è possibile pensare l’unità formale dei molteplici, non è possibile
pensare il molteplice dentro un unità, un ordine, ricondurre a unità dal punto di vista
metafisico e di conseguenza logico.
La teorizzazione dell’essere equivoco impedisce di predicare tra gli enti qualcosa di analogo,
manca un qualsiasi comune denominatore tra gli enti e a maggior ragione manca il massimo
comune denominatore (l’essere), diventiamo incapaci di riconoscere il grado di essere degli
enti, perché manca la condizione per pronunciare un qualsiasi giudizio.
La stessa molteplicità diventa un caos che rende il mondo inspiegabile e invivibile: se manca
l’essere io non sono in grado di conoscere il mondo , di spiegarlo, di dargli un senso, a questo
punto non posso manco viverci, oppure opero per convenzione, scoordinato, senza un fine.

Il pluralismo di principio quando deve affrontare questioni pratiche nell’ambito morale


inventa una unificazione fittizia (convenzionale), cosi come inventa dei criteri regolativi.
Operazione che fanno i teorici dell’essere equivoco (enciclopedismo, illuminismo), fatto fuori
l’essere non possono operare, inventano criteri astratti che sono puramente convenzionali
(accordo di persone da imporre alle altre).
Riassumendo l’essere equivoco è quella concezione dell’essere che impedisce di trovare un
denominatore comune, un principio metafiscico ecc. fatto fuori il principio ontologico…

I teorici dell’essere equivoco vengono a mancare di regole pratiche che abbiano il carattere
dell’oggettività e dell’universalità oggettiva, nella migliore delle ipotesi ci troviamo di fronte
a universalità soggettiva, ma in genere ci troviamo davanti a una pretesa di universalità
convenzionale che nega l’appartenenza comune a tutti gli enti, che nega il denominatore
comune, la comunione ontologica degli enti, l’essere comune; finisce per porre una frattura
radicale tra i molti e l’Uno e considera superfluo, inconsistente, porsi problemi in proposito,
la metafisica diventa inutile.
La razionalità ristretta non può parlare di qualcosa che vada oltre l’orizzonte visivo, e quindi
finisce per ignorarlo. L’errore filosofico fondamentale, lo scetticismo, conduce all’errore
filosofico fondamentale dell’ateismo. “Io non posso amare un Dio che non conosco”
Giovanni Paolo II

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Essere analogo
Sciacca sostiene che le concezione dell’essere univoco/equivoco = concezione dell’essere
all’ingrosso, concezione improprie inadeguate che non tengono conto e o non riescono a
giustificare il rapporto Uno / molti. L’assunzione del principio di creazione permette di
concepire l’essere analogo, quale correzione della concezione univoca equivoca dell’essere.
La concezione analogica dell’essere esclude ogni dialettica basata sull’ aut aut, ossia ogni
ragionamento che comporti l’esclusione o la compromissione di uno dei due termini.
Volendo esprimere con due brevi preposizioni il contenuto della concezione analoga
dell’essere potremmo esprimerla di questa maniera: l’Uno è l’Essere, i molti hanno l’essere.
In questa maniera Uno e molti convivono legati da una adeguata relazione che salvaguarda
la differenza metafisica da un lato e la consistenza ontologica dall’altro. In altri termini
l’analogia è una specie di relazione che lega i molti all’Uno, che mette di fronte i molti
all’Uno, in una appropriata relazione metafisica che comporta autonomia. “I molti hanno
l’essere perché lo hanno ricevuto, la vita è dono e mistero “G Paolo II.

Ricordiamoci che …
La Metafisica non si occupa solamente del mondo sovra sensibile e immateriale, ma si occupa
dell’essere, cioè ha per oggetto l’essere comune a tutte le cose (ens commune), ciò significa che
non si occupa di una classe particolare di esseri, ma studia tutto ciò che è ed esiste. Da questo
punto di vista l’essere comprende anche le cose materiali non in quanto materiali, ma in
quanto dotate di essere, in quanto esistono.
L’ottetto della metafisica e l’ens commune, lo scopo della metafisica è la conoscenza delle cause
dell’essere. In questo senso, comune è un concetto analogo, perché il termine essere può
essere applicato all’essere assoluto che all’essere contingente, l’ens commune ha un minimo di
realtà perché non è determinato, quello che ha un massimo di realtà è l’ens absolutum, cioè
divino.

L’ente dice la totalità di una cosa e che nel caso dell’ente finito, possiamo tradurre come : ente
è ciò che ha l’essere. Quod habet esse , ciò che partecipa dell’essere: quod partecipat esse
S. Tommaso riprende da Aristotele la distinzione tra ente logico e ente reale e tra ente in
potenza e atto, e da Platone la differenza tra ente per essenza e l’ente per partecipazione (ens
per essentiam ens per partecipationem)
L’ens comune corrisponde al concetto universalissimo di ente, l’ens divino è un concetto
singolarissimo applicabile solamente a Dio.

Due dottrine fondamentali: la dottrina della partecipazione e dell’analogia nate nel mondo
classico.
Dottrina della partecipazione: l’Uno è reale, il reale non uno
Dottrina dell’analogia: l’Uno è l’essere e i molti hanno l’essere.
In questa maniera grazie a questi due dottrine , l’uno e i molti convivono legati da una
correlazione, proprio perché è salvaguardata la differenza metafisica e la consistenza
ontologica di entrambi.
A livello metafisico è fondamentale il tema della identità, perché ci sia un legame un dialogo
l’Uno e i molti devono avere un identità precisa. L’analogia è una specie di relazione che lega
l’Uno e i molti e mette i molti di fronte all’Uno nella loro appropriata posizione che comporta
autonomia e non autosufficienza.

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I molti hanno l’essere perché lo hanno ricevuto in quanto è stato loro partecipato e in questo e
il mistero della creazione e questo essere che è stato loro partecipato è ciò che essi hanno in
comune (il comune denominatore. Una volta stabilito che tutti gli enti intelligenti hanno
l’essere in comune, questi enti si differenziano nelle loro particolarità.
Questo essere che i molti hanno in comune potrebbe chiamarsi essere iniziale, costituisce la
comune matrice partecipata ai molti affinché essi siano nel mondo. Per il fatto che i molti
sono contingenti essi non sono l’Essere ma hanno l’essere (dottrina dell’analogia)
Gia Platone aveva adombrato l’idea della partecipazione del Principio alle cose finite, il che
comportava una differenza tra “essere l’essere”, “avere l’essere”. Fece un ipotesi (la metessi)
per indicare la partecipazione tra il cosmo intelligibile e il cosmo sensibile, ma con la sola
ragione naturale non era riuscito (problemi irrisolti)
Una controprova della differenza metafisica tra le due situazioni l’abbiamo in seguito a
quest’osservazione: il contingente , cioè ciò che ha l’essere si può pensare sia nel caso che
sussista ossia che sia reale, sia nel caso che non sussiste, ciò che sia possibile, e ciò non
comporta contraddizione, invece pensare che l’essere non sussista è impossibile perché
comporta contraddizione. Grazie alla creazione ciò che per se non ha l’essere e per ciò è
ancora un nulla acquista l’essere. Affinché si dia la creazione occorre che
il termine dell’atto creativo resti fuori dell’atto che lo crea, che costituisca un’essenza diversa
da quella dell’atto creante, che abbia una sua autonomia. Quindi occorre che questa creazione
si a una creatio ad extra
l’atto creante, l’actus essendi come actus formalis, non venga modificato dal fatto di avere
partecipato l’essere a un termine a lui estraneo,.

Quando noi parliamo di essere iniziale, comune a tutti gli enti finiti, condizione necessaria
della loro esistenza, del loro esserci, non intendiamo l’Essere assoluto cioè Dio, le creature
infatti partecipano di qualche cosa di divino, ma non dell’essere di Dio diversamente
cadremmo in una forma immanentista, cioè in una concezione dell’essere univoco, è utile
precisare poi che non solo la creazione ma anche la conservazione degli enti richiede un
continuo atto di donazione dell’essere che lega gli enti al creatore.
Conseguenza: quando l’ente intelligente finito percepisce, pensa una ente finito (coocrea) ne
apprende l’atto creativo anche se non apprende, non conosce CHI ha compiuto l’atto creante
di entificazione assoluta, (si instaura quel legame dell’uomo con tutti gli enti, con il contatto
con chi ha messo in atto gli enti)
Proprio perché l’uomo non vede l’essenza divina che gli rimane nascosta, si origina la
nostalgia del principio.
Già Platone aveva intuito che il sapere deve iniziare da un principio indeterminato, la
concezione cristiana illumina e da nuova vita a tale principio indeterminato nella dottrina del
meglio ancora del Verbo. Questa dottrina venne fraintesa (ad esempio) dalla eresia gnostica
che pretende di ridurre tutto l’argomento del creazione ossia dell’acquisizione dell’essere da
parte degli enti finiti in termini di gnosi razionalistica. L’eresia gnostica fece a suo tempo la
conoscenza la condizione della salvezza, e può essere considerata come una setta religiosa
dell’ultimo periodo della filosofia greca. (Marcione teorizza il Dio buono e il dio cattivo;
Basilide teorizza il principio del bene e del male, Valentino teorizza il darsi degli Eoni dati
dal Padre che costituiscono la vita divina) agli gnostici si contrappose Tertuliano che però
proprio allo sforzo finirà per sfociare nella teorizzazione del fideismo con quella forma credo
quia absurdum. La creazione è entificazione assoluta, dono di essere dal nulla, in seguito alla

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creazione gli enti finiti vengono costituiti nell’essere che a loro compete. Di questo essere
proprio e o grado di essere e o limite positivo si può dire che:
è dell’ente finito, appartiene , lo costituisce nella sua autonomia gli è donato in quanto essere
ricevuto gratuitamente e non “essere per sé”, coincide con l’esistenza come actus receptus S.
Tommaso

Addentrandoci nell’atto creativo possiamo sostenere che Dio vede l’essere iniziale nel Verbo
ma poiché il potere entificante di Dio è assoluto, ossia è privo di qualsiasi condizionamento, è
sciolto da ogni legame è totalmente non relativo, il vedere il mondo come oggetto (nella
forma obbiettiva oggettiva essenziale) per Dio significa fargli acquistare esistenza
soggettivata e sostantivata ossia farlo esistere: il vedere di Dio coincide con il farlo esistere,
farlo esistere significa donare al mondo l’esistenza, farlo sussistere al di fuori di Dio. Fino a
quando l’essere degli enti finiti non passa all’esistenza è essenza nel Verbo di Dio

Fino a che l’essere e gli enti finiti non passa all’esistenza è essenza nel verbo di Dio, ma tale
essenza è concepita da Dio come “essenza propria dell’ente finito” e dunque come relativa
solo all’ente finito e non a Dio, infatti in Dio non vi può essere niente di finito. Mediante
l’affermazione divina “fiat” il mondo degli enti finiti acquisisce esistenza fuori di Dio,
l’essenza creante non è coinvolta e non riceve alcun mutamento dal fatto che gli enti finiti
vengano a sussistere di fronte al creatore, perché nessun ente finito e neppure la loro totalità
cosmica temporale può mutare alcun che dell’ente infinito al quale niente può essere
aggiunto ne tolto. L’ente infinito non subisce alcuna mutazione di essenza, ovviamente
questa indipendenza del creatore dalle creature viene conservata anche nella creazione
dell’ente intelligente finito e per le sostanze angeliche. Il mondo è in relazione a/e relativo a
Dio, ma DIO pur essendo in relazione al mondo non è relativo al mondo.
“Che ci sia qualcuno nei miei pensieri o nel mio cuore non comporta confusione tra le due
realtà o e identità”, persino nel rapporto intrapersonale e personale, più è carico di amore
(eros-agape) più salvaguarda le due entità.

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METAFISICA CREAZIONISTA E CAUSA FORMALE, EFFICIENTE, FINALE.
La speculazione metafisica all’atto in cui giunge a conoscere il proprio limite (il limite formale
del sapere umano) si apre oltre a se lungo la verticale dell’essere, ciò significa e comporta la
scoperta del perché della nostalgia che l’uomo ha di Dio e la naturale apertura all’istanza
religiosa, la filosofia e la metafisica che operano all’altezza di se stessa, conducono per via
naturale in virtù della dimensione teistica conducono all’assoluto a Dio.
L’intelligenza mostra al cuore e/o alla volontà le cose da amare e se lo porta appresso (il
cuore) ne diviene la guida, il criterio regolativo, offre la conoscenza della legge. Se il cuore, la
volontà, il sentimento, l’istinto si fanno unico criterio di giudizio, considerato che sentono ma
non sanno, rischiano di assolutizzare l’aspetto sensibile delle cose e quindi rischiano di avere
una visione parziale della realtà.
Possiamo usare l’espressione cuore, sentimento, volontà come alternativa all’espressione
ente intelligente finito solo se con questi termini intendiamo lo spirito intero che è appunto
un insieme di sentimento, intelligenza, volontà (fondamentale – Rosmini) essere reale morale
ideale.

Punto situazione Sappiamo che :


 La relazione Uno/molti costituisce in nucleo permanente del problema metafisico.
 Il tema della Parola apre al tema della creazione.
 L’atto della creazione è Parola entificante assoluta, Parola che dona l’essere.
 Il mondo è una parola del principio perché il Principio del mondo è la Parola.
 Parlare di prima della creazione costituisce una proprietà scientifica e denuncia il limite
dell’argomentare umano.

A questo punto, La parola entificante assoluta può venire pronunciata:


Continuamente (si è parlato di creazione continua).
Una volta per tutte (il creato inizia con il tempo e il tempo finisce con la fine del creato).
Eternamente: (fuori del tempo , comporta l’eternità del creato)(problematica, di recente
abbandonata).
L’approfondimento di queste tre ipotesi non dipende dal progresso scientifico e tecnologico
enon dipende dal progresso, anche se il corretto cammino delle scienze non può mai essere
contro o in contrasto con la logica che regge le leggi ontologiche.

Perché i molti hanno solo l’uno o meglio perché dall’uno provengono i molti?
Al fine di chiarire ulteriormente la questione del cominciamento ideale dei molti che è la loro
condizione necessaria (i molti per essere devono essere pensati), possiamo distinguere tre
gradi o momenti nella concezione di ogni ente, che potremmo chiamare cosi:
L’essere iniziale che potrà e dovrà essere determinato come una pezza di stoffa (Rosmini)
ancora da tagliare nella forma e nella misura adatte alla realizzazione di un certo abito (un
determinato ente finito).
L’atto con cui viene determinato ossia l’atto determinante, grazie al quale l’essere iniziale
(che in questo senso e virtuale) acquista i “termini” precisi (questi e non altri ) per diventare
quello che è.
L’ente determinate, questo ente qui, che ci permette di pronunciare il giudizio di esistenza. e
poi grazie all’esperienza ci permette di dire “questo ente, questa cosa è, una rosa piuttosto
che una penna,

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Essere iniziale, atto determinate ed ente determinate , si tratta di tre momenti strettamente
connessi secondo un ordine logico preciso, non modificabile. Se noi affermiamo “la rosa è”
noi vediamo che la rosa per essere quello che è, ha bisogno di quel è da cui è stata ritagliata ,
dal quale il suo essere ha tratto inizio. Nessun ente sarebbe quello che è se non avesse
“inizio” nella “possibilità indeterminata e illimitata” ossia nell’essere iniziale, che ne
racchiude la pensabilità e dunque la possibilità.
L’atto per il quale le singole cose vengono determinate ad essere quello che sono, ad esserci,
l’atto determinate è comune a tutti gli enti determinati i quali senza quell’atto non sarebbero,
ne ciascuno ne tutti insieme non sarebbero quello che sono (abbiamo scoperto la causa
efficiente). L’atto determinate diventa la causa efficiente. Inoltre l’atto determinato costituisce
altresì la cause finale. Causa finale perché gli enti contingenti trovano la causa finale in quel
essere non contingente, ma necessario, il mondo sfocia nel suo principio.
Una serie di postulati e conseguenze:
l’essere non è un elemento intrinseco degli enti contingenti, ma li antecede
l’essere è causa creante determinate e finale delle essenze dei contingenti
senza la compresenza di queste cause gli enti non sarebbero nemmeno concepibili.
L’essere iniziale che entra nella determinazione degli enti è concepibile anche senza gli enti
stessi
Ne consegue che gli enti contingenti non sono necessari all’essere iniziale, sono suoi termini
“finiti” ma non sono necessariamente, sono termini dell’essere ma impropri.
La relazione tra gli enti contingenti e l’essere iniziale è una relazione che risponde alla legge
del sintetismo, infatti i contingenti non si possono concepire senza quello e dunque con esso
fanno sintesi per essere quello che sono, cioè enti contingenti.
Questa relazione di sintetismo non è reciproca infatti la relazione dell’essere iniziale con gli
enti contingenti non è di sintetismo, ma di assoluta indipendenza.
Dobbiamo mantenere l’assolutezza del principio che è in relazione a ma non è relativo, e
l’identità del principiato ma non è relativo, postulato che toglie la possibilità
dell’ontologismo, ossia di quella dottrina filosofica per la quale non si pone tra l’essere e gli
esseri una differenza sufficiente a sostenere la differenza metafisica tra gli enti e l’ente
(quando si genera confusione).
Proprietà trascendentali dell’essere
I trascendentali sono cinque per S. Tommaso.
Secondo S. Tommaso l’ente può essere considerato da punti di vista molteplici e
complementari, anzitutto può essere considerato in se stesso (inteso in modo
positivo/negativo) positivamente l’ente si rivela una res (cosa, realta)[1°] negativamente si
manifesta come un unum, indivisum [2°] una realtà che esclude dal suo seno ogni divisione,
l’ente tuttavia può essere considerato no solamente in se stesso, ma anche in rapporto ad
altro, da questo punto di vista essendoci distinzione dall’altro si rivela come un aliquid
(qualcosa di intrinsecamente distinto) [3°]; in quanto dice convenienza con l’altro si manifesta
come verum se è in rapporto all’intelletto [4°] e si manifesta come bonum se dice un rapporto
di convenienza con la volontà [5°]; Cinque proprietà che trascendendo, abbracciando tutti gli
ambiti che l’essere si articola , vengono chiamati trascendentali.

Tra gli autori che non considerano esaustiva l'enumerazione tomista vi è il gruppo consistente di
chi, rifacendosi al ruolo che il bello gioca nella speculazione platonica e neoplatonica,
aggiungono alla serie tradizionale dei trascendentali anche il pulchrum. Di questo avviso è A.
Rosmini che costruisce un'autentica dottrina del bello (callologia) a sfondo metafisico fondata

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sul concetto chiave di «bellezza microscopica», mentre J. Maritain ritiene che il pulchrum non
sia se non «lo splendore di tutti i trascendentali finiti».

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DOTTRINA DELL’ESEMPLARISMO
L’esemplarismo è la dottrina che comporta il darsi di un esemplare del mondo, concezione
metafisica che
interpreta il mondo sensibile in funzione di una realtà ideale, l’archetipo, che ne è modello,
esemplare
subordina la vita, le sue manifestazioni fenomeniche all’Intelligenza e alla sua funzione
unificatrice.
è quindi una visione teleologica (finalistica) della realtà ed è la celebrazione del primato
dell’intelligenza.

La dottrina platonica del demiurgo è nella forma mitico estetica l’espressione di tale analogia,
il mondo è simile a un opera d’arte, come l’artista non crea né l’archetipo ideale né la materia
così il demiurgo plasma una materia che gli è data guardano un modello eterno.
l’esemplarismo mitico estetico di Platone si conserva in Plotino il quale identifica il demiurgo
con l’anima universale e attribuisce a questo l’atto operante,il fare non è dell’uno ma
dell’anima che opera guardando il nouj (intelletto) cioè guardando il suo modello superiore e
ricevendo da esso nel silenzio le immagini della cose da farsi.
L’esemplarismo teologico del pensiero cristiano che si inserisce nella dottrina della creazione
assoluta, (S. Tommaso distingue tra creare (il mondo) e generare (il figlio), creare il mondo è
una processione ad extra, generare il figlio è una processione ad intera, infatti il Verbo procede
dal Padre come principiato dal suo principio rimanendo nell’unita dell’essenza divina.
Platone Plotino e S. Tommaso costituiscono le prime significative tappe di questo percorso
che con la modernità venne progressivamente perdendo mordente causa dell’aprioristico
disinteresse verso i temi della metafisica e quindi verso i temi della creazione, noi possiamo
affermare che rientra nell’esemplarismo ogni posizione teoretica che considera necessario che
l’idea di un ente preceda la sua esistenza e o la sua sussistenza , il suo esserci. Ma questa idea
non e causa efficiente ne causa finale e quindi pur essendo causa formale non è causa
sufficiente all’esistenza di un ente (necessaria, non sufficiente).
Per l’esemplarismo la pensabilità degli enti precede logicamente la loro esistenza e il loro
esserci, la dottrina dell’esemplarismo illumina un duplice problema: il problema dell’origine
della realtà nella sua totalità ontologia metafisica e la conoscenza della realtà nella sua totalità
ontologico metafisica. La dottrina dell’esemplarismo è tesaurizzata dalle gnoseologie che
considerano necessaria la presenza di un elemento universale oggettivo al darsi della
conoscenza (distinguono conoscenza intuitiva e conoscenza discorsiva) e/o ammettono
qualche forma di innatismo ossia riconoscono la preesistenza di un elemento a priori
universale oggettivo di carattere ontologico, quindi trascendentale, elemento che precede
l’esperienza sensibile. La caduta di interesse per l’esemplarismo ha trascinato con se la caduta
di interesse per la creazione e ha fatto dimenticare il fatto, il dato di fatto, che pensare è
pensare la creazione, non a caso le concezioni empiristiche che limitano l’ambito di indagine
al solo campo dell’esperienza sensibile rigettano ogni forma di esemplarismo: l’idea
dell’esemplarismo del mondo nella sua unitotalità non può infatti trarre la sua origine dalla
sensazione, in quanto non può esservi contenuta.
Esemplare del Mondo (cuore del tema Rosminiano)
Gli enti finiti che compongono l’universo sono 2 elementi: l’essere iniziale che è comune a
tutti e che Rosmini assimili al pezzo di stoffa dal quale tutti sono ritagliati, e l’essere reale
ossia il loro esserci, sorgono due interrogativi, Qual è la natura dell’essere iniziale e reale?
Come possono unirsi dando vita all’ente finiti che li i richiede entrambi?

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L’essere iniziale contribuisce a costituire ogni ente finito, ne costituisce l’essenza propria
legata al grado di essere (la determinazione, la misura) che compete all’ente nella sua
configurazione formale. Tutti gli enti finiti passati presenti futuri costituiscono il mondo reale
e trovano la loro possibilità di essere nel mondo ideale, costituito dalla totalità di tutte le
essenze potenzialmente gia contenute nell’essere iniziale (in quel pezzo di stoffa) che
rappresenta quindi il mondo possibile. Il mondo nella sua possibilità intera precede
logicamente il mondo reale, il mondo nella sua esistenza sussistenza spazio temporale e lo
precede come causa necessaria, però l’esemplare del mondo (costituito da questo mondo
possibile che precede il mondo reale come causa necessaria) non contiene l’insieme delle
essenze degli enti finiti così come l’uomo le sperimenta nell’ambito spazio temporale, ma lo
contiene nel modo in cui stanno nella mente di Dio ossia nella mente entificante assoluta. Ne
consegue che l’insieme delle essenze che costituiscono l’oggetto della nostra conoscenza
iniziale, il nostro logos, il principio del nostro cosmo intellettuale (con grande semplicità
chiamavamo essere ideale) non è propriamente l’esemplare del mondo ma è un suo riflesso.
Dio cioè l’ente infinito e l’uomo guardano all’essenza del mondo in modo assolutamente
diverso, bisogna distinguere con attenzione il procedere filosofico e teologico del discorso,
infatti dire che Dio crea mediante il Verbo, oppure dire che Dio rivolge a se Stesso in quanto
Verbo di Dio la Parola con la quale crea o dire che ciò che deriva dalla parla creatrice avviene
per mezzo del verbo non significa che il Verbo in quanto “parola di Dio che è Dio”, è
l’esemplare del mondo. Il Verbo propriamente inteso è l’Essere assoluto nella sua forma
obbiettiva (oggettiva) per se attualmente intesa, appartiene alla sfera dell’Assoluto, è Dio
stesso (2° persona della S. Trinità) l’esemplare del mondo non ha il carattere di assoluto, ma
di derivato è gia opera dell’amore creante e della libertà creatrice di Dio. IL Verbo non è
suscettivo di limitazioni di divisioni, di quantità, di misura, l’esemplare nel mondo è un
complesso di idee divise come gli enti, avente il numero nella misura di questi, queste
limitazioni rimangono enti di ragione (ambito di una forma di entificazione ideale) che hanno
un esistenza vera, ma relativa alla mente che producendole le contempla. Questo mondo di
entità, di pura ragione che sono soltanto nella mente divina, costituisce insieme con l’arte di
usarne, la Sapienza creata, quindi l’esemplare del mondo non è il Verbo di Dio ma è la
sapienza creata ab aeterno relativa all’ente creato.
Ripresa
-Materia e forma che non sono elementi ma principio che concorrono alla costituzione degli
enti finiti, enti mentali, fanno parte della struttura discorsiva che l’uomo usa per parlare della
propria realtà. La materia è principio di individuazione, si distingue tra materia prima che è
materia intesa come principio del tutto indeterminato, e materia seconda contrassegnata dalla
quantità, nelle particolari dimensioni spazio temporali che costituiscono un ente hic et nunc.
La forma è principio di determinazione, distingue le specie fra di loro.
-Potenza e atto sono equivalenti di forma e materia, da un punto di vista dinamico, ove si
considerino non i principi ma le fasi del processo di costituzione di un ente finito
-S. Tommaso accetta la dottrina aristotelica della materia, senza la connessa tesi dell’eternità
della materia, essa è un substrato indeterminato del divenire in questo senso ne costituisce la
potenzialità ma anche il limite perché la rende ininteleggibile
Come principio potenziale la materia non ha un suo essere originariamente essa esiste in
funzione della creazione. Ma strutturalmente il suo esse deriva dalla forma per cui senza la
forma la materia non può esistere, non può esistere perché sarebbe ininteleggibile. La materia
non ha un suo esse, originariamente essa esiste in funzione della creazione, ma

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strutturalmente il suo esse deriva dalla forma, per cui senza la forma la materia non può
esistere perché sarebbe inintelleggibile.
-Matera e forma costituiscono l’essenza degli enti finiti, appartengono alla definizione,
essenza per S. Tommaso chiamasi quiddità (ciò che doveva essere, ciò per cui una cosa è
qualcosa).
-L’essenza a sua volta può essere in potenza e in atto, allorché è in atto abbiamo l’ente finito,
l’ens, l’ens è sintesi di ( essenza più atto di essere, quiddità + esse, suppositum + esistenza,
(essenza =ciò che è) (atto di essere, esse, esistenza = l’atto ciò per cui è) l’essenza diventa
esistenza grazie all’atto di essere.
DOTTRINA ROSMINIANA DELL’ASTRAZIONE, IMMAGINAZIONE SINTESI
DIVINA
Dottrina della rivelazione
Rosmini elabora la dottrina dell’astrazione divina per spiegare logicamente con la forza ed
entro i limiti del pensiero umano come Dio mosso dall’amore dell’essere in tutte le sue forme
abbia potuto pensare il mondo nel Verbo che è Dio stesso in modo tale che questo mondo
pensato da Dio in Dio risultasse anche sussistere come altro da Dio.
Astrarre significa trarre da e per trarre qualcosa da un'altra è necessario concepirla con una
limitazione, Dio opera l’astrazione divina nel Verbo, che è l’essere assoluto e obbiettivo, è
chiaro che in Dio non si da successione di atti perché non vi è tempo, però la mente umana
operando nel tempo argomenta:
con un primo atto dell’Intelligenza Dio distingue ossia limita astraendo l’essere iniziale e
l’essere assoluto obbiettivo ossia il Verbo
con un secondo atto dell’Intelligenza Dio distingue nell’essere assoluto obbiettivo l’inizio dal
termine, si tratta di un operazione mentale non reale, non avviene una reale separazione
nell’essere assoluto,
Anche alla mente umana è possibile una simile operazione, fare astrazione da un unico
oggetto indivisibile per considerare uno solo dei suoi elementi, l’uomo fa questa operazione
per conoscere, Dio è onniscente in lui conoscere è visione, l’astrazione è una perfezione, non è
finalizzata a conoscere qualcosa di più, (la logica dell’uomo la scienza della conoscenza. La
logica di Dio comporta la creazione)
L’astrazione divina comporta che nell’essere iniziale (nella radice comune a tutti gli enti finiti,
condizione necessaria di tutti gli enti finiti, cominciamento ideale di tutti gli enti finiti) Dio
vede in se stesso ab aeterno l’essere finito tutto in esso virtualmente compreso nel suo “inizio”
che è cosa diversa dal cominciamento nel tempo, l’astrazione divina è una visione dell’essere
finito nell’essere infinito con essa la divina intelligenza conosce pensa o meglio sa, l’essere
finito possibile, in questa maniera ritroviamo la ragione necessaria del finito, la sua
condizione che è la sua pensabilità, prima di ricevere l’atto grazie al quale sussiste come ente
determinato.
L’essere iniziale è una sorta di prima creatura che non ha però sussistenza, esistenza
oggettiva ma soltanto oggettiva, esso essere iniziale è relativo alla mente creatrice e in seguito
sarà in relazione alle menti create, ecco perché è ponte tra essere creato e Creatore. L’essere
iniziale esiste per un atto della mente divina: sta davanti ad essa distinguendosi da essa ossia
senza essere la mente divina, [490 filosofia Rosmini precisa che nell’uomo si possono
distinguere tre cose, il soggetto l’oggetto e la potenza di applicare l’oggetto]

490. — L'essere iniziale non è il Verbo divino, ma appartiene alla divina essenza, o alla divina mente
come suo termine. Esistendo soltanto nella divina mente e non sussistendo in se stesso

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personalmente, egli non è punto il Verbo. Ma l'intelligenza divina è diversa dall'umana. Nell'uomo
c'è prima la persona, essenza umana individua e sussistente, la quale ha l'intelligenza essenziale, cioè
l'intuito dell'essere, e poi l'intelligenza come potenza colla quale applica l'essere e conosce l'altre
cose. Dunque, l'oggetto cioè l'essere iniziale è totalmente diverso dal subietto uomo. La potenza del
conoscere è del pari distinta dal soggetto e dall'oggetto. In Dio all'incontro non ci sono potenze, ma
tutto è atto essenziale. Quando dunque la mente del Padre conosce, per astrazione divina, l'essere
iniziale, ella non vede qualche cosa che abbia una natura differente dalla propria, ma la propria
natura sussistente oggettivamente nel suo Verbo; qualche cosa del Verbo, che ella distingue non
realmente, ma secondo la ragione, dal Verbo. Questo distinguere secondo ragione, appartiene a quella
maniera di conoscere che chiamiamo affermare, e che nell'uomo si distingue dall'/'«/«/re. Il
distinguere, secondo ragione, come pure il semplice affermare distinto dall'intuire, non produce un
oggetto novo ma da una nova cognizione dell’oggetto su cui cade la distinzione di ragione e
l'affermazione (Lezz. Filos., 19-22). La distinzione di ragione dunque che la mente divina fa
dell'edere iniziale dall''assoluto oggetto produce [in Dio un oggetto novo] di ragione, non novo in sé
stesso. Quest'oggetto di ragione è dalla cognizione, e dall'atto di distinguere sopradescritto, in Dio
inseparabile. Ma il detto atto del distinguere secondo ragione nel Verbo divino l'inizio dell'essere è
proprio di Dio, perché ogni atto è subiettivo e non può esser comune alle creature. Ma l'oggetto di
ragione, che è il finimento di quell'atto, appunto nella sua cognizione di oggetto e non in quella di
atto, può essere comunicato alle creature, non in questo senso che le creature possano anch'esse essere
quell'oggetto, il che è proprio di Dio solo, ma nel senso che può essere da esse intuito, come cosa da sé
diversa. E questo è possibile, perché la natura dell'oggetto è quella d'essere manifesto, d'essere luce
intellettiva ('). Onde l'ente subiettivo, anche finito, può essere da esso illuminato, non con esso [con-
fuso, per l'opposizione] intrinseca tra la forma subiettiva e l'obiettiva. Essendo dunque l'essere
iniziale in Dio nello stesso tempo un atto che è subietto, e un obietto, e non potendo essere
comunicato nella sua natura di subietto, rimane che sia comunicato solamente come obietto, e però
esiste nella mente umana in un altro modo da quello che esiste Biella mente divina, dalla quale è
indistinto.
Se l'atto della stessa distinzione di ragione, e che è identico col subietto che lo fa, potesse essere
accomunato alla creatura, la creatura sarebbe ella stessa Dio, il che è assurdo.
Se l'obietto assoluto fosse comunicato alla creatura, la creatura vedrebbe il Verbo divino: il che non
può essere, secondo natura, ma solo per grazia, in un ordine soprannaturale.
Essendo dunque comunicato ossia mostrato al subietto umano un obietto di ragione qual è l'essere
iniziale, senza l'atto divino che lo produce e quindi senza il subietto divino con cui quell'atto
s'identifica, ne procede che l'uomo vedendo quell'essere iniziale non vede Dio, sebbene vede in esso
un'appartenenza alla divina essenza (V. Giob. e il Pani., Lezz. 63 sgg., e Difficoltà in Ap.).

La distinzione di ragione che la mente divina fa dell’essere iniziale dall’Essere assoluto


oggettivo non produce in Dio un oggetto in se stesso nuovo, ma produce una nuova
cognizione propria della divina essenza quindi produce un oggetto nuovo di ragione (non
nuovo in se stesso)
L’essere iniziale viene creato dall’operazione con la quale Dio limita nell’Essere assoluto
oggettivo (Il Verbo) e da questo lo distingue, questo essere iniziale conserva qualche cosa del
Verbo, per questo lo si puo considerare una pertinenza del Verbo Divino, Lume in creato.
S.Tommaso diceva che la cognizione dei primi principi fra cui l’essere è innata a similitudine
della increata verità,
Dunque si può parlare di divino nella natura quando ci si riferisce alla presenza alla mente
umana dell’essere iniziale in quanto esso conserva qualche cosa di Quello da cui è stato

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astratto, ossia del Verbo, ciò illumina ulteriormente l’espressione “creato a immagina di Dio”
nasce anche la distinzione tra divino e Dio.
Il Verbo sussiste per se mentre l’essere iniziale in relazione alla mente umana. Questo primo
atto con il quale dio guarda il finito è la cognizione dell’ente finito è lume comunicabile alle
creature intelligenti
Immaginazione e sintesi divina
Il raffronto fra astrazione divina e astrazione umana ha messo in luce come la prima sia una
ulteriore perfezione di Dio e la seconda sia un ulteriore segno della limitazione della mente
umana che può vedere l’intero solo prospetticamente, esiste anche un analogia tra
immaginazione divina e immaginazione umana, con l’astrazione Dio limita mentalmente,
ossia astrae dal verbo divino l’inizio dell’essere che non è ancora termine reale, con
l’immaginazione Dio immagina il termina reale (limitato) che prima non c’era affatto, questo
è la realtà dell’universo. Con la sintesi divina essere iniziale e termine reale si congiungono e
l’universo in questo maniera riceve l’atto di essere, esistere realmente.

La successione logica
 la mente divina non potrebbe amare il finito se esso non fosse
 il finito non potrebbe essere se non fosse creato
 il finito non potrebbe essere creato se non fosse stato pensato
 il finito diventa pensabile quindi possibile e quindi fatto sussistere solo a partire da
l’Essere preesistente.
In questa maniera l’intero universo viene ad esistere relativamente all’Essere (in relazione a)
e non relativamente al nulla, e viene ad esistere in se stesso perché acquisisce una realtà che
prima non c’era, in questo modo viene garantita la differenza ontologica e la consistenza
ontologica.

Si viene cosi delineando una risposta alla domanda metafisica iniziale “qual è il rapporto uno
molti?”, ”perhè i molti e non solo essere?” Il mondo pensato da Dio grazie alla limitazione
che egli pone entro l’infinito Essere assoluto obbiettivo deve necessariamente essere anche
reale altrimenti sarebbe un illusione.
L’unica preposizione che non contiene assurdo può suonare cosi: “la mente divina operante
può fare sussistere in se con il suo sguardo libero il reale che essa stessa immagina limitato”
questa è la risposta…
La ragione umana pur riconoscendo il carattere misterioso della creazione è costretta ad
ammetterlo per vera perché il contrario implicherebbe l’assurdo. Il concetto di mistero non
contiene quello di indimostrabilità inspiegabilità, ma indica il fatto che l’uomo non ne vede la
spiegazione in quanto limitato, la metafisica non pretende di alzare il velo misterioso dell’atto
creativo, ma si impegna a descriverlo fin dove è concepibile all’uomo il che comporta
mostrarlo come non contraddittorio
206. — Le diversità che presenta l'essere a cagione de' diversi modi coi quali noi lo
concepiamo si riducono a tre classi:
1. Quelle diversità che procedono dalla facoltà di astrarre (pensiero parziale), come
quando noi consideriamo l'essere astratto preciso (distinto) da ogni relazione coi suoi
termini, o quando ci formiamo il concetto d'entità.
2. Quelle diversità che nascono dalla facoltà di considerar l'essere in relazione coi suoi
termini, onde ci vengono i concetti, come si dirà, d'essere virtuale, d'essere iniziale e di
ente.

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3. Quelle diversità che nascono dalle due prime cause insieme unite, come quando
noi ci formiamo il concetto di essenza, che suppone da una parte l'astrazione, e dall'altra
la relazione con un subietto o termine.

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SEZIONE I
DEL LINGUAGGIO ONTOLOGICO
capitolo I
DELLA NECESSITA DI DISTINGUERE ACCURATAMENTE IL SIGNIFICATO DI
ALCUNI VOCABOLI CHE S'ADOPERANO NELL'ONTOLOGIA
203. — Quando uscirono dal volgo i primi [ontologi] a speculare, essi non avevano altra
lingua che la volgare (da vulgus linguaggio popolare) e la comune. S'accostavano alle
speculazioni ontologiche mal armati, cioè d'una lingua che non era fatta per la speculazione.
Di che non avvedendosi a principio, si sforzarono invano di formulare delle chiare sentenze,
e il loro pensiero ontologico rimase impacciato nelle parole. Per liberarsene era necessario che
il [pensiero si vestisse] d'una nova lingua proporzionata alla sua grandezza. Su questa via
anche noi ci trovammo necessitati di camminare introducendo qualche novo vocabolo
obbedendo alla sola necessità di fare intendere il pensar nostro e d'evitare gli equivoci (Logic.,
372). A evitare i quali giova anche solamente ricorrere ad accuratissime definizioni, colle
quali si stabilisca e si dichiari il significato preciso di certe parole comuni, senza bisogno di
abbandonare la proprietà della favella, anzi ad essa strettamente attenendosi. Non ogni
scienza esige nella stessa misura questo sottilissimo lavoro della distinzione de' significati.
Ma l'Ontologia è tale scienza, che richiede assolutamente una diligenza ed una sottigliezza
molto maggiore nel distinguere e notare le differenze de' significati d'alcune solenni parole,
che contengono lo stesso oggetto di questa scienza (*).

capitolo II
DELLE CAUSE DIALETTICHE DELLA MOLTIPLICITÀ DEV SIGNIFICATI DEL
VOCABOLO ESSERE, E-D'ALTRI CHE ALL'ESSERE SI RIFERISCONO
204. — La ragione, per la quale l'Ontologia non può far a meno di così sottili distinzioni, si
è che, trattando essa dell'essere in tutta la sua possibilità, comprende nel suo ambito anche
tutti i diversi aspetti, nei quali l'essere si presenta alla mente umana.
205. — Sebbene l'essere stesso sia semplicissimo, tuttavia esso si moltiplica davanti
alla mente non solo per le diverse sue forme categoriche, di cui abbiamo parlato nel libro
precedente, ma anche prescindendo da queste:
1. Per diversi modi del nostro concepire,
2. Per diversi modi, ne' quali si presenta nella nostra mente.
3. Per diverso numero delle riflessioni, che noi facciamo sopra di lui (Logic., 350-402).
206. — Le diversità che presenta l'essere a cagione de' diversi modi coi quali noi lo
concepiamo si riducono a tre classi:
4. Quelle diversità che procedono dalla facoltà di astrarre (pensiero parziale), come
quando noi consideriamo l'essere astratto preciso (distinto) da ogni relazione coi suoi
termini, o quando ci formiamo il concetto d'entità.
5. Quelle diversità che nascono dalla facoltà di considerar l'essere in relazione coi suoi
termini, onde ci vengono i concetti, come si dirà, d'essere virtuale, d'essere iniziale e di
ente.
6. Quelle diversità che nascono dalle due prime cause insieme unite, come quando
noi ci formiamo il concetto di essenza, che suppone da una parte l'astrazione, e dall'altra
la relazione con un subietto o termine.
209— Tutte queste diverse maniere, secondo le quali divariano le concezioni nostre d'una
entità, che ritiene sempre lo stesso vocabolo, si devono aver presenti ne' discorsi ontologici.

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Tali differenze nelle concezioni delle stesse entità si mescolano e s'in volgono per modo,
che in due proposizioni la stessa entità può comparire diversa ad un tempo per tutte quelle
differenze o più di esse, e che una produce o suppone l'altra, e l'analisi deve, al bisogno,
accorrere sceverarle.
Certo che, se si dovesse procedere di continuo con distinzioni cos sottili, l'Ontologia
diverrebbe una scienza difficilissima; ma ella non h; bisogno di tanto: anzi è dovere
dell'Ontologo farne uso con la maggiore sobrietà possibile; e questa è determinata da quel
tanto che si trova; indispensabilmente necessario alla chiarezza. dei pensieri che si devono
esprimere, e alla remozione di tutti gli equivoci.
210. —…Poiché le distinzioni dialettiche si fondano nella forma ideale dell'essere, e nella
relazione di questo col soggetto umano. (dialettico legato alla legge che regola il pensiero)
Dovendo noi dunque qui favellar del puro essere anteriore alle forme, dobbiamo prenderlo
come ci si presenta, e poi, trattando delle forme, dare la ragione per la quale ci si presenta al
pensiero così. Il che è nova prova che la dottrina ontologica apparisce in forma di circolo. Il
qual circolo non è vizioso: e altro non vien a dire, se non che la scienza ontologica è
perfettamente una, e allora si tende, quando con un solo pensiero se n'abbracciano insieme
tutte le parti
capitolo III
DEI SIGNIFICATI DEL VOCABOLO ESSERE, E D'ALTRI, CHE S'ADOPERANO NELL'
ONTOLOGÌA
articolo I
DEFINIZIONI
211. — Definizioni:
1) L'essere è l'atto d'ogni ente e d'ogni entità.
2) L'ente ammette due definizioni:
a) Un subietto avente l'essere;
b) L'essere con qualche suo termine.
3) L'entità è quell'oggetto del pensiero, qualunque sia, che dal pensiero è riguardato come
uno.
4) L'essenza è l'essere avuto da un subietto, astratto dal subietto che lo ha.
5) II subietto in universale è ciò che in un ente, o in un gruppo d'entità si concepisce come
primo contenente e causa dell'unità (Psicol., 836).
212. — [Queste definizioni] dimostrano in primo luogo, che le parole essere, ente, entità,
essenza, hanno un significato largo e indeterminato, e però che esse possono essere applicate
ad oggetti diversi. È dunque necessario, che noi vediamo quali siano questi oggetti, e come
ciascuna di quelle parole, mantenendo il significato indeterminato che ha, possa ricevere
qualche aggiunto, che segni l'oggetto preciso, a significare il quale si adopera. Cominciamo
dall'essere.

articolo II
ESSERE DELL'INTUITO, ESSERE VIRTUALE, ESSERE INIZIALE. ASTRATTO,
IDEALE
213. — L'ideologia dimostra che l'essere è presente all'intelligenza umana, e che colla sola
presenza la forma. Quest'essere ammette certamente la definizione: « l'atto d'ogni ente e di
ogni entità ». [Ma niun] ente, niuna entità è distinta e visibile in questo intuito. [L'uomo]
intuisce l'essere senza affermare ancor nulla, e senza negar nulla di esso, senza conoscere

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esplicitamente la relazione di lui co' suoi termini, o con altra cosa qualunque. Questo è l'essere
dell'intuito, essere indeterminato, che informa la facoltà conoscitiva (Logic., 334).
[Ma la riflessione trova] che nell'essere dell'intuito giacciono nascosti tutti i suoi termini,
unito ai quali presenta al pensiero i concetti degli enti. Se dunque si adopera la parola essere a
significare l'oggetto naturale dell'intuito, e la sua virtù scoperta colla riflessione, le parole
ente ed entità che si trovano nella sua definizione, devono intendersi per enti ed entità
virtuali. Volendo noi dunque determinare questo significato dell'essere con un aggiunto, lo
chiameremo l'essere virtuale.
, 214. — Che se noi lo consideriamo in relazione agli enti e alle entità attuali, ammette
ancora la definizione: « l'atto dell'ente e delle entità »; ma la relazione" è diversa; poiché, non
esistendo affatto alcun ente né alcuna entità senz'atto di essere, rimane che l'essere acquisti la
nozione d'inizio d'ogni ente e d'ogni entità. Per significare l'essere in questa relazione si
adopera l'aggiunto di iniziale, chiamandosi essere iniziale.
215. — Ma la mente umana può coll'astrazione precidere l'essere dall'intuito e anche dai
termini dell'essere, siano virtuali, siano attuali, e considerare l'essere in se stesso. Né anche in
questo caso egli perde la sua definizione « l'atto dell'ente e delle entità ». Soltanto, che la
mente col pensiero parziale (Psicol., 1319-1321) si ferma alla prima parola della definizione, atto,
e considera questa precisa dalle seguenti. È ancora l'essere iniziale, ma considerato come
qualche cosa da sé. Quest'è una pura entità di ragione, e la chiameremo: essere astratto
preciso.
216. — L'essere virtuale dunque, l'essere iniziale e l'essere astratto preciso sono tre significati,
che riceve il vocabolo essere, il quale gli abbraccia tutti e tre secondo' che la mente lo riguarda
in varie relazioni.

217. — È dunque a considerarsi che il primo intuito dell'essere nulla distingue in esso e
neanco niuna relazione, benché tutto virtualmente vi si comprenda. Di che procede:
1) Che il solo intuito, non facendo altro che intuire, non possa neppur dare un nome
all'essere che intuisce: onde la stessa denominazione, data a un tale oggetto, di essere, è
l'opera della riflessione.
2) Che molto meno appartiene all'intuito la denominazione di essere virtuale, la quale
distingue la virtualità, che è nel seno dell'essere, dall'essere stesso, onde a escogitare
quella denominazione non solo si richiede la riflessione, ma una riflessione analitica, che
suppone un'astrazione.
3) Che nell'essere virtuale ci sono implicite anche le tre forme dell'essere, ma anche [queste
non] si manifestano che in appresso coll'applicazione, che fa l'anima, dell'essere stesso ai
sentimenti. Ma l'essere virtuale appartiene egli stesso alla forma ideale, nella quale sono
implicite l'altre due; pure la mente non considera quest'idealità, come appunto non
considera la virtualità: queste qualità sono inerenti all'essere intuito senza che la mente le
distingua dall'essere stesso, né dall'altre forme.Opde l'intùito propriamente termina
semplicemente nell'essere; e solamente di "pòi, ^P^unà riflessiónei'già svolta, l'uomo
T'avvede che quell'essere è ideale, e contiene virtualmente l'altre forme (Logic., 304).
Noi abbiamo posta la denominazione d'essere ideale come un quarto signifi0gp» della
parola essere, perché non le appartiene in tutta la sua estensione la definizione: « l'atto
degli enti e delle entità », significando solo l'atto degli enti e delle entità ideali. E ciò per
due ragioni: le forme dell'essere piuttostoché il suo atto sono i primi e prop*rlermini di
quest'atto che si dice essere; l'idealità non è una forma completa, riducendosi alla forma
completa dell'aggettività, ma è questa forma in quella parte limitata che all'uomo si mostra

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per natura. In quanto poi l'essere ideale si considera come inizio di tutti gli enti e di tutte le
entità, è già contenuto nella denominazione di essere iniziale; e tale è veramente l'essere
ideale secondo la maniera del concepire umano (Ideai., n8o, 1181, 1423).
4) Però l'essere non si può considerare dalla mente come inizio di tutti gli enti e di tutte le
entità se non dopo aver queste conosciute e trovato in tutte l'atto dell'esistenza ad esse
comune. Laonde all'essere iniziale conviene la denominazione di essere comunissimo, in
quant'appunto cosi considerato si vede comune a tutti gli oggetti del pensiero.
5) Finalmente l'essere astrailo preciso è di molto posteriore ai precedenti; poiché conviene aver
prima conosciuto, in qualche modo, l'essere come iniziale e come virtuale, acciocché si
possa recidere da esso per astrazione queste due relazioni di virtualità e di inizialità.

articolo III
SIGNIFICATI DEL VOCABOLO: ENTE
218. — Venendo ora all'ente, noi lo abbiamo definito «l'essere col suo termine ».
Attenendoci alla forma della parola ente, se n'ha l'altra definizione: « l'ente e ciò che è »,
ossia « è un subietto avente l'essere ».
Intendo per subietto: « ciò di cui si predica qualche cosa », ovvero: « ciò che si considera
come un che avente un atto », sia poi quest'atto attivo, o passivo, o ricettivo: di maniera che
quest'attualità sia da esso operata, o sostenuta, o, in qualunque sia modo, avuta.
La formula: « l'ente è ciò che è », se si analizza, vediamo, che ha due parti « ciò che » ed « È
». Il « ciò che » è di questo giudizio il subictlo, 1' « È », il predicalo; del subietto « ciò che » si
predica l'atto dell'essere, « È ». 'Di qui si trae un carattere distintivo tra il valore della parola
essere, e quello della parola ente. Poiché essere esprime puramente l'atto, per il quale l'ente e:
laddove l'ente esprime il subietto avente quest'atto (Logic., 334)

articolo .IV
SIGNIFICATI DE' VOCABOLI. ENTITÀ, E COSA
224. — Riserviamo alla parola entità un significato più universale di essere e di ente,
come appare dalla data definizione: « quell'oggetto, qualunque sia, che dal pensiero è
riguardato come uno ».
Una parola cosi universale è indispensabile al linguaggio dell'Ontologia.
225. — Alla parola cosa — dal latino causa — si da parimenti un significato ugualmente
esteso; ma quando cosa si contrappone a idea, allora la parola si restringe a significare
un'entità con la forma della realità, e riceve il significato proprio della parola latina res, della
quale non è rimasto il derivato sostantivo nella nostra lingua.
226. — Ma è necessario osservare, che quantunque le parole entità e cosa abbiano un
senso più universale di essere e di ente, non sono tuttavia a queste anteriori. Non nell'ordine
della loro formazione, perché non si può fare una così estesa- astrazione, se non dopo che la
mente umana è provveduta già de' concetti dell'essere, dell'ente, e di qualche oggetto
dialettico; l’astrazione non potendo mai essere la prima operazione della mente, perché ha
bisogno della materia su cui s'eseguisce.
--(Jdeol., 498-499, 510, 1454 1455»
Non nell'ordine del pensiero, perché una tale astrazione non si fa che col pensiero parziale
(Psicol., 1318-1321), il quale pensiero non può agire se non colla presenza dell'oggetto totale.
Laonde, se si sbandisce dalla mente il concetto espresso dalla parola entità, non scompare
con ciò anche l'essere e l'ente; laddove, viceversa tolti via questi, il concetto d'entità rimane
del pari annientato.

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articolo V
SIGNIFICATO DELLA PAROLA: ESSENZA
227. — Nell’Ideologia (646-648) abbiamo definita l'essenza « ciò che si contiene
nell'idea» (Def. Ii).
228. — E tuttavia questa definizione non basta all'Ontologia, che di più richiede che si
consideri il significato della parola essenza colle sue relazioni dialettiche e si determini il senso
preciso e composto della parola (Logic., * 373 *).
E dunque a considerarsi, che essenza significa « ciò che una cosa è » C).
Confrontiamo questa definizione con quella dell'ente.
L'ente è ciò che è.._
L'essenza è ciò che una cosa è.
Ciò che è, equivale a dire « ciò che ha l'atto d'essere »: ciò che una cosa è, equivale a dire: «
quel tanto di atto d'essere che ha una cosa ». Nella espressione dunque: « ciò che è », il
subietto è del tutto indeterminato e non involge alcun concetto di determinazione, e però
anche il predicato essere, ovvero atto d'essere, rimane del tutto indeterminato. Nell'espressione
all'incontro: « ciò che una cosa è », il subietto « una cosa » è ancora indeterminato, ma involge
il concetto d'una determinazione, senza che punto si dica qual sia questa determinazione,
onde trattasi d'una determinazione generica, ossia indeterminata.
Dunque c'è un concetto di più espresso nella parola essenza, che non sia nella parola ente.
Ma sotto un altro rispetto nella parola essenza c'è un concetto di meno che nella parola ente.
Poiché l'ente esprime un subietto essente. Ma nella parola essenza il subietto è sottinteso come
il fondamento, su cui è operata l'astrazione; poiché definendosi l'essenza: « ciò che una cosa è
», il subietto cosa non è introdotto come subietto della definizione, ma come il fondamento da
cui coll'astrazione si è cavata la definizione, onde l'essenza non è già la cosa, ma « ciò che ella
è », rimanendo la cosa fuor della definizione dell'essenza. L'essenza dunque è ciò, che da
l'astrazione che s'esercita su una cosa, quando, lasciando la cosa, s'estrae da essa ciò che è,
cioè l'atto di essere a lei proprio. Consacrandosi quest'atto di essere proprio della cosa, in
separato dalla cosa, s'ha l'essenza.
229. — Ancora si vede la differenza dialettica, che passa tra il valore della parola essenza e
quello della parola essere. Anche la parola essere non involge in sé alcun concetto di subietto,
ma il puro concetto di atto, e questo senza relazione a un subietto. Ma la parola essenza, seb-
bene non involga in sé il concetto d'un subietto, involge però la relazione con un subietto, da
cui fu cavata per via d'astrazione. La differenza dunque tra essere e essenza è questa, che «
l'essenza è l'essere astratto da un subietto qualunque »: il che conferma e spiega che l'essere
non è un'astrazione, e l'essenza sì (Ideol., 43, 1454, 1455).
Un altro carattere, che distingue il valore della parola essenza dal valore delle parole essere ed
ente [è, che] essere non include una distinzione tra sé e il subietto, perché non implica alcuna
relazione con questo, laddove essenza implica una distinzione di sé dal subietto e però esclude
e caccia da sé questo, da cui fu tratta: ente poi racchiude manifestamente un subietto.

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